QUADERNI DI DIRITTO ECCLESIALE

ANNO 1998

Editoriale

La parte monografica del presente fascicolo è dedicata ai nuovi movimenti che in questi ultimi decenni sono sorti nel la Chiesa, in particolare quei movimenti che raccolgono tutte le categorie di fede- li, si propongono un’intensa vita evangelica e di comunione, e sono spesso fortemente impegnati nell’apostolato. Essi si collocano all’interno delle istanze presenti oggi nella vita della Chiesa, chiamata a una nuova evangelizzazione in un contesto di diffusa secolarizzazione; ma sono anche posti di fronte alla neces- sità di dare una convinta e salda testimonianza di comunione e unità ecclesiale. Come afferma l’Esortazione apostolica postsinodale Christifide- les laici, «se sempre nella storia della Chiesa l’aggregarsi dei fedeli ha rappresentato in qualche modo una linea costante, come testimo- niano sino a oggi le varie confraternite, i terzi ordini e i diversi soda- lizi, esso ha però ricevuto uno speciale impulso nei tempi moderni, che hanno visto il nascere e il diffondersi di molteplici forme ag- gregative: associazioni, gruppi, comunità, movimenti; possiamo par- lare di una nuova stagione aggregativa» (n. 29). Di fronte a queste nuove realtà ecclesiali la normativa canonica vigente non sembra sufficiente e del tutto adeguata, riferendosi a es- se attraverso la previsione normativa delle associazioni (cui i Qua- derni hanno dedicato attenzione soprattutto nella parte monografica del terzo fascicolo del 1990). Così pure gli altri documenti magiste- riali si occupano dei movimenti in genere attraverso la problematica generale delle aggregazioni laicali. I movimenti moderni, accoglien- do in sé le varie vocazioni cristiane e presentando una struttura in parte simile a quella di una Chiesa locale, in parte simile a quella 4 Editoriale delle nuove forme di consacrazione, hanno certamente esigenze an- che giuridiche specifiche. I contributi offerti dagli autori di questo fascicolo vanno appun- to nella direzione di fornire alcune indicazioni teologico-canoniche utili per l’elaborazione di una configurazio ne canonica di questi mo- vimenti ecclesiali moderni. Si sviluppano anzitutto alcune riflessioni sull’avvenire dei movi- menti ecclesiali, cioè sulle attenzioni da mettere in atto affinché questo do no dello Spirito possa strutturarsi in modo adeguato e con- tinuare così a irradiarsi efficacemente nella Chiesa (Beyer). All’interno della grande diversità e pluralità con cui si sono pre- sentate nella Chiesa queste nuove esperienze aggregative, si cerca quindi di elaborare una possibile tipologia e di indicarne le caratteri- stiche (Zadra). In tal modo già vengono fatti emergere i nodi proble- matici legati a queste nuove realtà ecclesiali. L’approfondimento delle problematiche suscitate dai nuovi mo- vimenti ecclesiali è svolto poi a partire dal confronto e dal rapporto che viene a crearsi tra questi e le Chiese locali (Zanetti). All’interno di un unico e comune sforzo di proporre oggi agli uomini una valida mediazione ecclesiale in ordine all’accesso alla fede cristiana, l’Autore cerca qui di focalizzare la peculiarità e circolarità dei diversi carismi e delle diverse funzioni ecclesiali. Vengono infine proposte alcune indicazioni concrete e puntuali per l’elaborazione di una possibile regolazione canonica di tali movi- menti (Recchi), a partire dalla normativa vigente e in particolare dai canoni sulle associazioni dei fedeli e sulla vita consacrata, toccando argomenti come l’autorità ecclesiastica competente per l’approvazione e la composizione degli statuti di questi movimenti. Oltre ai riferimenti già disponibili, questi contributi offrono ne- cessariamente anche apporti originali, in attesa che una disciplina più organica e appropriata sia riservata dalla Chiesa a questi movimenti. La seconda parte del fascicolo si apre con la consueta rubrica di commento a un canone. Viene preso in esame il canone 218 sulla giusta libertà di ricerca teologica riconosciuta ai teologi nella Chiesa (Mosconi). L’articolo affronta le tre diverse affermazioni del canone: esiste nella Chiesa una specifica competenza relativa a chi si dedica alle scienze sacre; coloro che possiedono tale competenza godono di una giusta libertà di ricerca e di manifestazione prudente del proprio pensiero; si deve sempre conservare il dovuto ossequio nei confronti del magistero. Editoriale 5

Viene poi affrontata un’ulteriore questione aperta dell’Esorta- zione apostolica postsinodale Vita consecrata: il rapporto fra vita con- sacrata e movimenti (Kovacˇ). È un tema già più volte esaminato dai Quaderni (cf gli articoli di Zadra nel fascicolo precedente e in questo stesso), ma sempre stimolante per le affinità strutturali fra movimen- ti e vita consacrata e per le reali difficoltà e prospettive in cui si agita. Il canone 220, posto a tutela dell’intimità della persona e della buona fama, già commentato dalla nostra Rivista nel contesto della formazione al ministero ordinato (cf V. Marcozzi, Autorità e interio- rità nell’esame all’ammissione al sacerdozio, in «Quaderni di diritto ec- clesiale» 3 [1990] 42-52) viene qui affrontato, in chiusura di fascicolo, per i profili peculiari inerenti al processo matrimoniale (Sandri). Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 6-13 L’avvenire dei movimenti ecclesiali di Jean Beyer

L’espansione che stanno assumendo i movimenti ecclesiali, il lo- ro crescente influsso apostolico nella Chiesa e nell’impegno ecume- nico possono, dopo un inizio promettente, condurre a disillusioni che, se effettivamente si dovessero verificare, avrebbero certamente una portata negativa sulla vita cristiana.

La necessità di un’adeguata formazione Come si può riassumere oggi il problema? L’estensione conosciu- ta da questi movimenti in diversi continenti comporta, anzitutto, il ri- schio di una formazione troppo generale e di una formazione affidata a persone poco preparate. Questa formazione non può sempre adattar- si ai progressi che fanno le persone nella vita cristiana o nella vita con- sacrata; e non può essere data secondo direttive appropriate per le di- verse età, e soprattutto per l’approfondimento spirituale che comporta una vita fervente che vuole offrirsi interamente a Dio e agli altri. Questo problema è reale. Fin da ora, anche se in molti casi non è avvertito, soprattutto mentre vive il fondatore di un movimento, il problema è spesso latente, e può condurre a una crisi di identità. I movimenti ecclesiali hanno attinto la loro forza concentrando- si su valori essenziali della fede e della vita cristiana: la parola di Dio, l’unità nella carità, la dedizione incondizionata, l’apertura agli altri, la testimonianza diretta e franca. Già l’adattamento di questi valori a persone di tutte le età e condizioni sociali suppone uno sforzo enor- me. Tale sforzo può essere sostenuto soltanto da una forza spirituale poco comune agli inizi. Ciò non significa che questo slancio sarà mantenuto, anche se viene sostenuto e provato da un numero cre- scente di persone. L’avvenire dei movimenti ecclesiali 7

Certi movimenti hanno trovato questo primo slancio in un dono totale a Dio che si è tradotto in una vita evangelica. Quest’ultima ha trovato la sua espressione nella pratica dei consigli evangelici, adat- tati a questo genere di vita e a situazioni spesso differenti. Questo sforzo spirituale è stato considerevole e ha suscitato ammirazione ed entusiasmo; ha attirato nuovi membri e, tra questi, molti hanno volu- to donarsi totalmente a Dio. Ma si è verificata anche un’altra evoluzione. Da un’azione apo- stolica diretta, e in certi casi anche specializzata, è nato il desiderio di dedicarsi totalmente all’attività apostolica, specialmente se questa prende tutta la vita. Tale dedizione ha voluto fondarsi su un dono di sé a Dio più esplicito e più globale. Si è espressa in un celibato con- sacrato o in una consacrazione di vita mediante i consigli evangelici. Nel cuore dei movimenti è sorto così il gruppo di vita consacrata del quale parecchi membri, se non tutti, fanno parte. Certi fondatori si sono meravigliati di questa evoluzione, anche se loro stessi non ave- vano mai considerato la possibilità di un dono di sé totale a Dio isti- tuito nel movimento, per essere in tal modo più donati agli altri. Questi due tipi di evoluzione esistono, e pongono gli stessi pro- blemi circa la formazione e circa la struttura e la comprensione del carisma proprio. Questo fenomeno era prevedibile? Possiamo dire che questa evoluzione era inerente al carisma proprio del fondatore – gruppo o persona – e che essa esplicita ciò di cui il carisma era già portatore fin dagli inizi? Ci si può anche domandare se da un carisma già rice- vuto non possano nascere doni ulteriori, più adatti alla fisionomia particolare che prendono i gruppi di persone che compongono que- sti movimenti. È probabile che i responsabili di un movimento non siano nel- la condizione di definire ciò che hanno ricevuto, né di rispondere a tali questioni. Alcuni sono talmente presi dall’estensione del movi- mento che non possono dare l’attenzione necessaria a una riflessio- ne più approfondita sul loro stesso carisma. I collaboratori più vici- ni al fondatore si trovano necessariamente davanti alla stessa situa- zione. Non resta meno vero che il problema è talvolta meglio avvertito dalle persone più giovani che, donandosi radicalmente, ri- sentono della difficoltà di vivere un carisma che non è ancora ben definito o che è difficile per loro valutare compiutamente. La stessa constatazione può essere fatta dall’esterno da persone che cono- scono e apprezzano l’azione e lo spirito di un movimento e che co- 8 Jean Beyer minciano a discernere tra i suoi membri e le loro attività, nella loro formazione e nella loro spiritualità una crisi di identità possibile e che tuttavia bisogna evitare.

L’identità di un movimento ecclesiale Si pone così la questione essenziale: come conoscere l’identità di un movimento ecclesiale di fondazione recente, esteso o meno, sem- pre attivo e tale da diffondersi in numerosi ambiti della vita ecclesiale? La Chiesa ha una grande tradizione in materia di carismi e di fondazioni. La sola vita consacrata attraverso i consigli evangelici co- stituisce in questo senso un’esperienza ricca e preziosa; ed è porta- trice di una lunga tradizione. Ma ciò non significa che tutto il movi- mento deve tendenzialmente riprendere una simile forma di vita e di azione apostolica. È vero, tuttavia, che in certi movimenti nascono dei gruppi di vita consacrata nella forma tradizionale, e questi vivono ed esprimono l’essenziale del carisma di fondazione; carisma che, a giusto titolo, da questo punto di vista, si definisce ecclesiale. Come si può meglio delineare questa situazione? Un fatto è cer- to: è provvidenziale. Il Concilio ha parlato dei carismi come doni del- lo Spirito; ha segnalato la loro varietà, la loro forza, la loro portata. Sfortunatamente il nuovo diritto della Chiesa sembra ignorare questi doni. Ma non è vero per niente. Il diritto aveva fatto menzione di questa realtà otto volte, in maniera molto appropriata e giustamente in rapporto alla fondazione, all’identità e alla diversità degli istituti e della loro possibile azione nella Chiesa o nella missione della Chiesa. Il termine carisma è sparito nell’ultima revisione del testo del Codice e lo si rimpiange sempre di più. La realtà tuttavia è presente. Il can. 605 a questo proposito conserva una portata ancor più gene- rale, quanto alla ricerca di identità di un carisma di fondazione, alla sua verità, alla sua forza, al suo influsso e alla sua azione. Questo di- scernimento è affidato al vescovo diocesano da cui dipende una fon- dazione. E il discernimento permette così al carisma di essere mes- so a confronto, soprattutto oggi, con i problemi pastorali reali, quelli che probabilmente non sono mai stati fatti oggetto di una formazio- ne intellettuale e perfino spirituale. Anche un vescovo che è religio- so non sempre ha ricevuto una formazione che gli permette di agire di conseguenza. Un fatto è certo: un’ecclesiologia completa dovrà prendere in considerazione il tema dei carismi, sia individuali sia col- lettivi. In questa materia si constatano ancora notevoli lacune. L’avvenire dei movimenti ecclesiali 9

Come evitare e, se possibile, risolvere questi problemi di iden- tità? Ciò che abbiamo enunciato proponendoli fa intravedere la loro complessità. Un vero discernimento può, tuttavia, situare questi pro- blemi concreti in una forma e in una prospettiva migliore rispetto a quanto riuscirebbe a fare una riflessione teologica troppo speculativa. Resta la questione delle strutture proprie dei diversi movimenti. Il diritto ecclesiale non ha potuto prevederle. Si dirà che il diritto esprime la vita; ma è anche vero che la sua ricca esperienza passata può, in qualche maniera, prevenire e aiutare la vita. Il canone già ci- tato – il can. 605 – invita il vescovo diocesano interpellato a vigilare perché il fondatore non solo abbia a discernere e a determinare al meglio il carisma di cui è portatore, ma perché al tempo stesso assi- curi le strutture necessarie per vivere il carisma, per praticarlo ed esprimerlo adeguatamente. Tutte le scienze sacre sono qui interpel- late per offrire il loro specifico contributo. Quale istanza ecclesiale è oggi preparata per fare questo discer- nimento, per seguirlo e sostenerlo? La questione è estremamente importante. I dicasteri romani che poco a poco sono stati interpellati a riguardo di questi carismi sono numerosi e hanno competenze dif- ferenti e, talvolta, sono di recente istituzione. Una collaborazione tra i dicasteri si rivela necessaria; oggi questo coordinamento non è faci- le e non si sa ancora come suscitarlo realmente. Il recente rinnova- mento della Curia romana prevede certamente una norma a questo riguardo; ma sarà applicata giuridicamente e in tempo opportuno? È una prima questione. Resta da vedere se una tale collaborazione po- trà far fronte a questi nuovi problemi. Un movimento ecclesiale che, fin dai suoi inizi, vuole assicurar- si un avvenire serio mediante un’intelligenza progressiva del suo carisma, del suo spirito e delle sue strutture, deve fare un duplice sforzo: definire il suo spirito e determinare le sue strutture perché queste possano essere adattate al meglio allo spirito proprio del mo- vimento. Questo spirito, in un movimento che raggruppa diversi ordini di persone, dovrà essere determinato secondo valori evangelici essen- ziali e applicabili a tutti gli stati di vita. E questi sono certamente il ri- spetto, lo studio e la diffusione della parola di Dio; la ricerca dell’unità vissuta nella Chiesa; un’unità da mantenere, ma anche da realizzare con le altre confessioni cristiane secondo la preghiera del Cristo: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te [...] perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21); e, an- 10 Jean Beyer cora, lo zelo apostolico, la preoccupazione di far conoscere e amare il Cristo in tutti gli ambiti sociali attraverso lo studio, per mezzo di cor- si e conferenze appropriati; attraverso edizioni scientifiche o di divul- gazione, libri, riviste, giornali, trasmissioni radiofoniche o televisi- ve; mediante una presenza attiva nella vita civile; attraverso l’attività scientifica, sociale e politica. Tutte queste diverse finalità possono essere prese come “spe- cializzazioni” di un movimento; così come numerose tra esse, se non tutte, possono essere oggetto dell’attività particolare di un gruppo appartenente allo stesso movimento. Il movimento, d’altronde, si in- serisce mediante gruppi particolari nella vita diocesana, all’interno delle sue opere, delle sue parrocchie, dei suoi organismi di consulta- zione e della sua attività pastorale.

Diversi “ordini di persone” nel movimento Un secondo punto da segnalare riguarda l’importanza dei diver- si ordini di persone che vogliono vivere lo spirito di un certo movi- mento. Talvolta questi ordini di persone – vescovi, presbiteri o diaco- ni – hanno un legame meno stretto con il movimento nel quale molti, se non tutti, hanno trovato il terreno che fa risaltare e determinare la loro vocazione a questi ministeri. Come ordini di persone si possono enumerare le persone sposate, i loro figli, le persone celibi involonta- riamente per motivi di salute o per un minore inserimento nella vita familiare e sociale, le persone celibi che vivono la verginità consacra- ta. Aggiungiamo, infine, tutte le persone che in uno stesso movimen- to formano gruppi di vita consacrata, uomini e donne, presbiteri e diaconi. Questi gruppi saranno più facilmente costituiti secondo stati di vita stabili e, quindi, secondo il loro impegno di vita matrimoniale, di vita celibataria o di vita consacrata. Resta, infine, la presenza dei gio- vani che vogliono vivere una vita cristiana fervente, fortemente apo- stolica nel loro ambiente di vita, di formazione e di azione. Si tratta di alunni di istituti secondari superiori; di studenti universitari e di altri studenti impegnati in corsi di studio superiori; di seminaristi, piccoli o grandi; senza dimenticare che in certi movimenti vi è la presenza di candidati al sacerdozio o alla vita consacrata vissuta nel movimen- to stesso; e che – per quanto riguarda i diaconi e i presbiteri – esso ha il diritto di incardinazione. Questa incardinazione appare oggi co- me un bisogno vitale per la vita e l’avvenire dei movimenti. L’uno o L’avvenire dei movimenti ecclesiali 11 l’altro movimento, poi, raggruppa ragazzi e anche fanciulli, figli dei coniugi che ne sono membri. Una tale varietà di persone mostra, una volta di più, la necessità di superare le distinzioni rigide dei ministeri che si sono formate per semplificazione e per negligenza, come la distinzione tra chierici e laici o come quella tra chierici-religiosi-laici; distinzione superata da diversi punti di vista sia a riguardo dei chierici, sia a riguardo dei lai- ci e delle persone consacrate religiose e secolari. Di queste distinzio- ni troppo poco sfumate i movimenti ecclesiali prendono sempre più coscienza, cercando di oltrepassarle secondo la diversità delle chia- mate, degli stati di vita, dei ministeri e delle responsabilità ecclesiali e civili. E questo elemento ci porta a considerare un terzo punto: la vita consacrata.

La vita consacrata e i movimenti ecclesiali La vita consacrata mediante la pratica dei consigli evangelici è stata all’origine di certi movimenti oppure è nata come frutto del lo- ro donarsi a Dio e agli altri. Taluni mettono in rilievo l’ordine delle due scelte: il dono di sé diretto a Dio e, per lui – nel suo nome – agli altri; oppure il donarsi agli altri che ha voluto consolidarsi o raffor- zarsi attraverso un dono totale di sé a Dio. Questa vita consacrata, giustamente considerata come primo appello o chiamata privilegiata, può essere messa in pericolo volendo fare del movimento un insie- me di membri uguali tra loro. Tutti sono fedeli cristiani – christifide- les – e questa identità è vera e stabilisce un’uguaglianza fondamenta- le; ma ciò non significa che tutti siano laici! I presbiteri non possono vivere come i laici. Si deve, perciò, riconoscere il loro sacerdozio nei termini esatti e nella sua peculiarità. La vita consacrata, ripresa in questo desiderio di uguaglianza, può perdere il suo vigore e il suo significato specifico. Questo pericolo è tanto più grande in quanto spesso questa vita consacrata ha accolto la pratica dei tre consigli senza essere né l’espressione di un istituto religioso né di un istituto secolare. È, tuttavia, falso classificare tutta la vita consacrata sotto queste due sole categorie. Questo pericolo esiste da lungo tempo; fu reale sotto l’influenza del Codice del 1917 e secon- do la prassi che da una parte non ha sempre distinto i carismi propri della vita monastica e della vita apostolica religiosa o secolare, e dall’altra parte ha abolito la consacrazione delle vergini. Quest’ultima forma di consacrazione è stata ripresa e inserita nel Codice del 1983. 12 Jean Beyer

Riflettendo bene, si può pensare che la forza di un movimento ecclesiale è fondata sempre di più sull’unità che in esso trovano tutti gli stati di vita e, tra di loro, una vita consacrata che, religiosa o seco- lare, non si separi dall’insieme, ma dentro al movimento trovi il suo ruolo, la sua azione e il suo inserimento canonico; così come anche i diaconi e i presbiteri si augurano di trovare la loro incardinazione nel movimento dentro al quale dovranno avere una propria struttura, un ministero particolare o la possibilità di essere in aiuto alle diocesi sprovviste di sacerdoti e di seminaristi. In certi movimenti la vita consacrata deve formare i candidati e aiutarli a realizzare la loro vocazione personale. Questa vita è consa- crata attraverso il dono di sé a Dio che riunisce coloro che egli chia- ma perché vivano un’offerta totale a lui, in unione con quella del Figlio suo, animata e sostenuta dallo Spirito Santo, e vissuta nel - l’amore, per la gloria di Dio e per la salvezza del mondo. Una vita consacrata così intesa situa necessariamente, nel cuore di un movi- mento ecclesiale, l’oblazione che lo porta a Dio e lo rende adatto a trasmettere nel mondo l’amore divino, quell’amore che il sacrificio di Cristo ci garantisce. Un movimento è all’altezza della Chiesa e della sua missione, nella misura in cui vive il sacrificio del Cristo nei suoi membri e specialmente in coloro che sono chiamati dal Padre per di- venire offerta, con il Figlio, per la salvezza del mondo. Diminuire la forza della vita consacrata in un movimento costituirà un reale inde- bolimento. Ciò che è la vita consacrata nella Chiesa, è anche il suo ruolo in un movimento che vuole essere Chiesa: Ecclesiola in Eccle- sia Dei. Prendere coscienza della presenza vivificante del Cristo sacer- dote, vittima e altare del sacrificio è una delle esigenze vitali di un movimento ecclesiale. Questa presenza deve essere nutrita dalla pa- rola di Dio, deve essere vissuta nell’amore, ed è vivificante per la for- za dello Spirito Santo. Suppone, inoltre, un’attenzione sostenuta da tutti i suoi membri. Tutti sono invitati a parteciparvi secondo la loro vocazione e il loro stato. Fa parte dell’inserimento completo in un movimento ecclesiale e deve essere messa in evidenza nella sua dot- trina per divenire l’anima della sua vita. Deve, poi, essere vissuta con tutta l’intensità voluta per coloro che il Padre invita. Sarà, in questo caso, una vera vita consacrata, un’unione sacerdotale al Cristo, som- mo sacerdote della nostra fede e pastore della sua Chiesa. Resta da trovare l’espressione propria di queste forme nuove di vita consacrata in un movimento. Questi consacrati non sono tutti re- L’avvenire dei movimenti ecclesiali 13 ligiosi; e non tutti devono formare un istituto secolare. Ciascuno de- ve vivere personalmente e in gruppo ciò che Dio gli affida come mis- sione nell’insieme del movimento e come membro del suo Corpo, come consacrato a Dio per la salvezza di tutti, per progredire nel - l’amore, per rendere la testimonianza che gli è propria e assicurargli il suo influsso nel mondo. Non è senza ragione che questi movimenti ecclesiali oggi ab- biano un’evidente importanza per la vita della Chiesa. La Chiesa gua- dagna in vitalità attraverso ciò che questi movimenti vivono come esperienza ecclesiale rinnovata. Da qui il pericolo di fratturare l’unità di un movimento ecclesiale, riunendo i consacrati in fraternità distinte e i presbiteri in società di vi- ta apostolica, al fine di ottenere, secondo il diritto in vigore, l’incardi - nazione desiderata e l’ordinazione per essere al servizio del movimen- to. Il Codice del 1983 aveva previsto l’incardinazione in un’associazio - ne ecclesiale di diritto pontificio. Questo canone fu soppresso. Si è creduto che la società di vita apostolica o la prelatura personale potes- sero rispondere a questo desiderio. La vita qui supera il diritto. È au- spicabile un diritto nuovo che permetta di rafforzare l’unità dei movi- menti, confermando le vocazioni che nascono e che si realizzano al lo- ro interno: la vita sacerdotale, la vita consacrata e, se è possibile, la vita sacerdotale come vita consacrata mediante i consigli evangelici. Tutto questo ci riporta a una visione globale importante per l’avvenire di questi movimenti: una spiritualità generale, anche se molto marcata, non è sufficiente a favorire un vero progresso spiri- tuale. Ricordando o riprendendo le idee generali non si può rispon- dere ai tratti distintivi delle vocazioni particolari, sia nella Chiesa sia nei movimenti ecclesiali. Bisogna, al contrario, che in ogni movimento ecclesiale ogni sta- to di vita, ogni chiamata alla vita consacrata, possa trovare al meglio ciò che concretizza ed esplicita i doni generali che fondano la spiri- tualità di tutti, ma che sono vissuti in ogni tipo di vocazione particola- re. Soltanto a questo prezzo l’avvenire di questi movimenti sarà assi- curato in piena fedeltà ai carismi propri e ai doni diversi dello Spirito.

JEAN BEYER S.J. Piazza della Pilotta, 4 00187 Roma

(traduzione di Giangiacomo Sarzi Sartori) Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 14-25 Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti di Barbara Zadra

La grande varietà di movimenti che abbellisce la Chiesa è se- gno evidente del bisogno di comunione dei cristiani di oggi: comu- nione che esprime l’essere più profondo della Chiesa, nata dall’amore trinitario. Ma è proprio questa loro grande varietà che rende a volte diffi- cile darne una classificazione adatta, che il Codice non ha tentato di offrire 1. Esso prevede l’esistenza di associazioni pubbliche e private (cann. 301 § 3 e 322). Tale linguaggio, oltre a essere improprio per il diritto canonico e a non riconoscere in tal modo che ogni associazio- ne nella Chiesa, nascendo da un carisma, è sempre un fatto comuni- tario e mai privato 2, non aiuta a distinguere le associazioni. Il Codice distingue inoltre le associazioni in riferimento alle fi- nalità (cann. 298; 301 §§ 1-2; 302; 327), ai membri che vi fanno parte (cann. 299 § 2; 301); le classifica secondo la loro estensione territo- riale (can. 312) e secondo il legame che esse possono avere con altri gruppi ecclesiali (cann. 312; 677 § 2); infine parla di federazioni di as- sociazioni pubbliche o private (can. 313). Tuttavia tali distinzioni non ci permettono una classificazione adeguata. Nonostante i tentativi di trovare un criterio universale per clas- sificare le associazioni, se si guarda ai convegni che hanno trattato dell’argomento oppure ai dibattiti sinodali, ci si accorge che non esi- ste un unico modo per distinguerle, anzi a volte regna una vera con- fusione terminologica al riguardo 3.

1 La Commissione per la revisione del Codice lasciò agli statuti delle singole associazioni definirne la denominazione. Cf «Communicationes» 18 (1986) 386. 2 Cf B. ZADRA, I movimenti ecclesiali e i loro statuti, Roma 1997, pp. 65-70. 3 Cf, per esempio, AA.VV., I Movimenti nella Chiesa negli anni ’80. Atti del X Convegno Internazionale. Roma, 23-27 settembre 1981, a cura di M. Camisasca e M. Vitali, Milano 1982; CEI - COMMISSIONE EPI- Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 15

In Francia, ove esistono molte associazioni nate dal Rinnova- mento carismatico, si distinguono sostanzialmente tre tipi di associa- zione, che vengono chiamate rispettivamente: gruppi di preghiera, comunità di alleanza e comunità di vita. I primi sono gruppi che si riuniscono periodicamente per pregare e possono avere impegni quali l’evangelizzazione, la liturgia o la visita ai malati; nelle comu- nità di alleanza i membri restano inseriti nella società, ma con un im- pegno strutturale nella comunità, con incontri comuni di preghiera, di formazione, di mutuo sostegno, un contributo da versare e l’impegno in vari servizi propri della comunità. Sono previsti vari gradi di appartenenza e spesso alcuni membri, conducendo vita co- mune, formano il cuore della comunità. Le comunità di vita sarebbe- ro più radicali delle altre due e caratterizzate sia dall’assunzione dei consigli evangelici sia dalla vita in comune, sotto lo stesso tetto, di uomini, donne, coppie, laici, religiosi, presbiteri e bambini 4. Bruno Secondin tenta una classificazione di impostazione socio- logica, che vuole abbracciare tutti i possibili fenomeni ag gregativi, distinguendo tra gruppi tendenti alla riforma ecclesiastica, «cioè quei gruppi che accettano le mete culturali codificate dalla Chiesa nella società, ma propongono di usare diversamente i mezzi di cui dispo- ne»; e gruppi tendenti alla riforma religiosa, «nei quali prevale la con - testazione globale del quadro istituzionalizzato, e anche delle norme etico-religiose proprie di questo genere di Chiesa, per prospettare un diverso cosmo simbolico e quindi anche una concezione nuova del ruolo sociale della Chiesa» 5. Guardando ai tentativi fatti da vari autori, mi è sembrato che la distinzione più convincente venga data da J. Beyer 6, il quale indivi- dua tre tipi di associazioni, che chiama movimenti, semplificando la terminologia e chiarendo alcune caratteristiche di fondo, che com- prendono tutte le possibili associazioni nella Chiesa. Egli li distingue in movimenti laicali, spirituali e ecclesiali.

SCOPALE PER L’APOSTOLATO DEI LAICI, Nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associa- zioni, 22 maggio 1981 (ECEI 3, nn. 309-330); CEI - COMMISSIONE PER IL LAICATO, Le aggregazioni laicali nella Chiesa, 29 aprile 1993. Il Sinodo sui laici parla indistintamente di movimenti spirituali ed ecclesia- li, di associazioni e organizzazioni ecc., senza ben chiarire il significato dei singoli termini. Cf J. BO- GARÍN DÍAZ, Los movimientos eclesiales en la VII Asamblea Ge neral Ordinaria del Sinodo de Obispos, in «Revista española de derecho canónico» 47 (1990) 69-135. 4 Cf M. HÉBRARD, Les charismatiques, Paris 1991, p. 39. 5 B. SECONDIN, I nuovi protagonisti. Movimenti, associazioni, gruppi nella Chiesa, Cinisello Balsamo 1991, pp. 135-136. 6 Cf, per esempio, J. BEYER, Istituti secolari e movimenti ecclesiali, in «Aggiornamenti Sociali» 34 (1983) 181-200; ID., I Movimenti ecclesiali, in «Vita Consacrata» 23 (1987) 143-156. 16 Barbara Zadra

Notiamo innanzitutto la scelta del termine movimento, che im- plica un dinamismo, una carica vitale, e quindi esprime bene l’idea di un’associazione viva, feconda. L’attributo che segue ne indica la specificità.

I movimenti laicali Si denominano movimenti laicali quelli composti da soli laici. Tali movimenti possono essere anche stati fondati da un sacerdote, ma la loro componente è esclusivamente laica. Si può trattare di una o più categorie di persone, che si distinguono per età o per sesso o per interessi sociali o altro. Siffatti movimenti offrono in genere ai membri una vita di impegno cristiano nel sociale. Può essere un im- pegno, per esempio, nel campo della sanità – tra gli handicappati, tra i malati di Aids ecc. – o nella scuola, ove essi spendono tutte le pro- prie forze per dare un volto cristiano al proprio ambiente lavorativo. Oppure può trattarsi di un impegno missionario, di dedizione alla parrocchia, di tipo culturale o addirittura politico. Pur se animati – come tutti i movimenti – da una spiritualità che scaturisce dal carisma, i laici che vi appartengono assumono preva- lentemente un impegno attivo, concreto, prodigandosi nelle varie opere, dando con esse testimonianza viva del loro essere cristiani. Qualche volta hanno anche momenti di formazione spirituale, ma sempre prevalentemente in funzione di quest’impegno.

I movimenti spirituali I movimenti spirituali, invece, sono composti non solo da laici, ma da tutte le categorie di persone nella Chiesa, diverse non solo per età e sesso, ma anche per vocazione: vi possono appartenere co- niugati e celibi, giovani, consacrati, sacerdoti ecc. Peculiare di questi movimenti è che i membri che vi fanno parte vogliono approfondire la propria vita spirituale tramite la preghiera e la meditazione, sia co- me singoli sia comunitariamente. Si riuniscono pertanto periodica- mente per pregare insieme, celebrare insieme la liturgia, fare un mo- mento di condivisione di vita. Si suddividono secondo le età, più frequentemente secondo de- terminate categorie di persone (per esempio coniugati, celibi, giova- ni), ma non necessariamente. Ci sono alcuni gruppi del Rinnovamen- Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 17 to nello spirito composti da persone eterogenee quanto a professio- ne, vocazione cristiana, sesso, età, che si radunano anche una volta alla settimana in casa dell’uno o dell’altro, oppure in una chiesa, per un momento di preghiera comunitaria. I movimenti spirituali curano molto questo aspetto, mentre il loro impegno nel sociale non è diret- tamente collegato alle finalità del movimento.

I movimenti ecclesiali I movimenti ecclesiali sono i più diffusi oggi. E direi che è pro- prio la loro caratteristica peculiare ad attrarre le persone. Essi, infat- ti, offrono ai membri la possibilità di vivere ogni aspetto della vita imbevuti del carisma: sia a livello spirituale, sia nell’impegno di vita cristiana, in quello nel campo sociale, di lavoro, nella parrocchia ecc. E questo non solo come singoli, ma insieme a tutti i membri del mo- vimento. Il carisma comunionale di tali movimenti è espresso dal fatto che vi fa parte una rappresentanza di tutto il popolo di Dio: sacerdo- ti, religiosi, laici, famiglie, bambini ecc., che vivono ogni momento della loro vita illuminati da tale carisma, non da soli, ma uniti spiri- tualmente a tutti i membri del movimento. Il termine ecclesiale deri- va proprio dal fatto che costituiscono una piccola Chiesa, a immagi- ne della Trinità, vivendo il medesimo carisma. L’unico carisma si manifesta tramite una particolare spiritualità, una particolare attività apostolica, alcuni fini propri, perseguiti però sia separatamen te dai diversi ordini di persone, radunati secondo il proprio status, sia e soprattutto congiuntamente.

«I movimenti ecclesiali sono oggi i più importanti per la loro azione nella Chiesa, la loro testimonianza pubblica, il loro influsso in tutti gli ambienti e l’impatto della loro spiritualità. Essi vivono il mistero della Chiesa sotto di- versi aspetti, ben armonizzati tra loro nella realtà della vita dei loro membri. Ciò che li contraddistingue meglio è il loro senso ecclesiale: essi vogliono “essere Chiesa”: vivono il suo mistero, intendono attuare la sua missione, at- tingono la loro forza da valori essenziali della vita cristiana. E proprio da questo è possibile valutare la loro forza spirituale, il loro discernimento, l’efficacia della loro testimonianza, e infine la loro possibilità di rispondere alle attese di popoli e di nazioni così differen ti» 7.

7 J. BEYER, I nuovi movimenti nella Chiesa, in «Vita consacrata» 27 (1991) 63. 18 Barbara Zadra

Serafim Fernandes de Araújo, arcivescovo di Belo Horizonte (Brasile), nel suo intervento del 10 ottobre 1994 all’XI Congregazio- ne generale del Sinodo sulla vita consacrata, diceva:

«Le nuove comunità [...] si presentano spesso come “famiglie ecclesiali” per- ché attorno a un carisma fondazionale co mune e ben definito convergono laici e chierici, scapoli e sposati, che, nel rispetto dei diversi stati di vita, si consacrano a uno stesso ideale evangelico, come membri paritari di un solo corpo, con diversi livelli di appartenenza» 8.

Come si può notare, il vescovo usa il termine nuove comunità e non quello di movimenti ecclesiali. Poiché nelle nuove comunità francesi c’è la consuetudine che i membri delle diverse vocazioni convivano sotto lo stesso tetto, si evidenzia una differenza tra comu- nità di vita e movimenti ecclesiali, anche se a mio avviso le caratteri- stiche essenziali si ritrovano in entrambi i modelli. Ritengo comun- que opportuno mantenere il termine movimenti ecclesiali anche per tali comunità, per non creare confusione 9. Il Papa stesso ne delinea la fisionomia:

«L’originalità delle nuove comunità consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e da laici, da coniugati e celi- bi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi. Anche il loro impegno di vita evangelica si esprime in forme diverse, mentre si manifesta, come orientamento generale, un’intensa aspirazione alla vita comunitaria, al- la povertà e alla preghiera. Al governo partecipano chierici e laici, in base al- le loro competenze, e il fine apostolico si apre alle istanze della nuova evan - gelizzazio ne» 10.

I movimenti ecclesiali si possono definire i più attuali appunto perché il loro carisma abbraccia la vita intera dei membri, sia dal punto di vista spirituale, sia coinvolgendo ciò che riguarda la vita concreta. E in questo si differenziano sostanzialmente dagli altri due tipi di movimento, che sottolineano invece solo la cura della vita spi- rituale o solo l’impegno evangelico nel sociale. Nei movimenti eccle- siali la persona è coinvolta nella sua totalità, impegnandosi innanzi- tutto a vivere la carità verso tutti, a pregare quotidianamente, a met-

8 SINODO DEI VESCOVI, Nona Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, in «L’Osservatore Romano» numero speciale, 1994, 84. 9 Per quanto riguarda questa differenza, rimando al mio libro, I movimenti ecclesiali..., cit., pp. 79-80, ove mostro il parere di alcuni autori in proposito. 10 Esortazione apostolica Vita consecrata [=VC], n. 62. Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 19 tere spesso in atto una comunione dei beni in proporzione al grado di appartenenza al movimento stesso, ad avere un superiore al quale deve rendere conto della propria vita. A base di ogni carisma – e quindi anche di quello degli altri due tipi di movimenti – c’è una chiamata di Dio: di Dio Padre, che chia- ma alla sequela Christi, la quale impegna in modo totalitario colui che risponde alla chiamata sotto l’impulso dello Spirito Santo. Essen- doci una chiamata, deve esserci necessariamente un discernimento, sia da parte del chiamato sia da parte del movimento, che nei movi- menti ecclesiali si concretizza spesso, al momento dell’ammissione del membro, in una particolare forma di impegno, sancita da una for- mula di consacrazione prevista dal movimento stesso. La chiamata a vivere del carisma del movimento, tuttavia, non è una chiamata generica, ma si concretizza in una determinata forma di vita, è concreta. Infatti, all’interno dei movimenti ecclesiali ci sono gradi e forme di appartenenza diversi, in conformità ai diversi doni dello Spirito e secondo gli ordini di persone nella Chiesa.

La composizione dei movimenti A questo punto è opportuno analizzare brevemente la composi- zione dei movimenti ecclesiali, per vederne le caratteristiche specifi- che e comprendere alcune difficoltà che sorgono nella Chiesa, nel momento in cui essi chiedono un riconoscimento.

I consacrati Innanzitutto si possono distinguere, all’interno dei movimenti ecclesiali, gruppi di uomini o di donne, che – per vivere radicalmen- te la sequela Christi – si impegnano all’assunzione dei consigli evan- gelici. Tali gruppi costituiscono sovente il cuore del movimento stes- so, dal quale il movimento prende vita e attinge energie, il punto di riferimento di tutti gli altri membri. Si tratta di una vita di con sa - crazio ne che può assumere espressioni monastiche, apostoliche e/o secolari, nello specificarsi e svilupparsi del carisma del movimento. In questi gruppi ci sono nuove forme e nuovi vincoli, rispetto a quelli istituzionali, nell’impegno a vivere i consigli evangelici, anche perché può accadere che attorno a loro si raggruppino coniugati e sacerdoti, desiderosi di una vita altrettanto totalizzante e che in alcu- ni casi aspirano a una consacrazione mediante i consigli evangelici. 20 Barbara Zadra

I coniugi Ci sono alcuni movimenti che sono addirittura nati da coppie di coniugi che hanno cercato insieme una forma di consacrazione a Dio per mezzo dei consigli evangelici. I movimenti, perciò, dovendo trovare una modalità di consacrazione valida per vergini, coniugati e a volte per sacerdoti, assumono i consigli evangelici distaccandosi dalle forme tradizionali. Inoltre la presenza dei coniugati che desiderano consacrarsi a Dio implica una difficoltà di fondo, in quanto non è chiaro come essi possano vivere i consigli evangelici in maniera identica ai vergini consacrati, soprattutto il consiglio di castità. I coniugi, dunque, o si impegnano a vivere tutti e tre i consigli, e quindi anche quello di ca- stità nella continenza perfetta e completa, vivendo come fratello e so- rella e dunque astenendosi dai rapporti coniugali; oppure assumono i consigli evangelici in una prospettiva diversa, cioè più spirituale che concreta. Ciò significa che, oltre al precetto generico di vivere la castità, da osservarsi da parte di tutti i coniugi cristiani, quelli impe- gnati nel movimento assumeranno impegni più radicali, diversi. E a questo punto sorge la difficoltà di riconoscere la loro consacrazione di vita alla stregua di quella dei vergini o dei sacerdoti. Inoltre il problema si complica, nel momento in cui non siano entrambi i coniugi a desiderare la consacrazione di vita – il che sa- rebbe auspicabile – ma solo uno di essi. Alcuni movimenti prevedo- no tale possibilità, ritenendo che la chiamata da parte di Dio sia per- sonale, mentre altri ritengono che i coniugi siano chiamati in quanto coppia, e quindi a vivere insieme il carisma. In quest’ultimo caso può avvenire che il movimento richieda alle famiglie di andare a vivere in case del movimento, ove membri di diverse vocazioni fanno vita co- mune, sottomettendosi a un’autorità, mettendo tutti o quasi tutti i be- ni in comune. Questo significa che anche i figli saranno pienamente coinvolti nella scelta dei genitori e in alcuni casi il movimento si as- sume l’impegno di collaborare con i genitori nell’educazione dei figli. Questo aspetto ha inevitabili conseguenze: da una parte i figli impa- reranno in maniera quasi naturale a vivere il Vangelo, in quanto re- spireranno una vita impregnata del carisma. Dall’altra il movimento dovrà in qualche modo tutelare i figli, sia dal punto di vista economi- co sia dal punto di vista spirituale, dovendo anche i ragazzi, arrivati a una certa età, fare una scelta personale. Anche per quanto riguarda la chiamata personale dei coniugi, si richiede nei movimenti una certa condivisione dei beni e la sottomis- Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 21 sione all’autorità, ma naturalmente ciò viene sempre richiesto tenen- do conto dell’altro coniuge e della famiglia intera. Quando l’altro co- niuge non condivide tale scelta è senz’altro più difficile, per il chia- mato, mantenere un equilibrio fra l’amore per Dio e quello per la fa- miglia, e qualche volta chi non condivide la scelta non capisce e ostacola il proprio partner. Il riconoscimento dunque di una tale consacrazione di vita per i consigli evangelici è in questo caso complessa e lo stesso Sinodo sul- la vita consacrata si è espresso nel modo seguente al riguardo:

«Nella Chiesa di oggi, fecondata da tanti germi di rinnovamento spirituale e apostolico, non mancano, come in altri tempi della sua storia, nuove forme di vita evangelica, suscitate dallo Spirito, fondate sulla pratica dei consigli di ca- stità, povertà e obbedienza, con uno stile proprio di vita spirituale, individua- le o comunitaria, consono alle peculiari aspirazioni delle persone di oggi o ai bisogni della Chiesa e della società. Alcune di esse sono vere e proprie for- me di vita consacrata e sono state approvate dalla Chiesa o si avviano a esse- re riconosciute come tali, con il discernimento dei vescovi, in una delle for- me canoniche della vita consacrata o come una forma del tutto nuova. Il loro riconoscimento canonico è di esclusiva competenza della Sede Apostolica (cf CIC, can. 605). Alcune “comunità nuove” si presentano oggi con pecu- liari tà simili a quelle della vita consacrata, ma in realtà non sono tali, perché prive del dovuto riconoscimento canonico o perché incompatibili con le esi- genze richieste per costituire una forma di vita consacrata riconosciuta dalla Chiesa, come nel caso della presenza degli sposati. Molte di queste espe- rienze, che talvolta si sviluppano con grande dinamismo, meritano di essere seguite con un illuminato discernimento e una guida autorevole affinché possano raggiungere un’organica e chiara collocazione nella compagine del popolo di Dio. Vi sono, però, anche molti fedeli di Cristo che nei nostri tem- pi, individualmente o in forma associata, hanno abbracciato la verginità o il celibato, e anche la povertà volontaria e l’obbedienza, senza che tale impe- gno comporti la professione pubblica dei consigli evangelici. Anche se que- ste forme non sono istituti di vita consacrata o a essi equiparati, arricchisco- no la Chiesa con la prassi della vita evangelica secondo i consigli, manifesta- no la vocazione universale alla santità ed una particolare presenza di nuovi carismi e servizi per il rinnovamento della società» 11.

Il Papa così si è espresso nell’Esortazione apostolica postsino- dale Vita consecrata:

«Principio fondamentale perché si possa parlare di vita consacrata è che i tratti specifici delle nuove comunità e forme di vita risultino fondati sopra gli

11 SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Lineamenta, Città del Vaticano 1992, n. 24. 22 Barbara Zadra

elementi essenziali, teologici e canonici, che sono propri della vita consacra - ta [...]. Non possono essere comprese nella specifica categoria della vita con- sacrata quelle pur lodevoli forme di impegno che alcuni coniugi cristiani as- sumono in associazioni o movimenti ecclesiali, quando, nell’in tento di porta- re alla perfezione della carità il loro amore, già come “consacra to” nel sacramento del matrimonio, confermano con un voto il dovere della castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, pro- fessano la povertà e l’obbedienza. La precisazione doverosa circa la natura di tale esperienza non intende sottovalutare questo particolare cammino di santificazione, a cui non è certo estranea l’azione dello Spirito Santo, infinita - mente ricco nei suoi doni e nelle sue ispirazioni» 12.

Il problema del riconoscimento è dovuto appunto al fatto che i coniugati non possono venire equiparati ai consacrati, anche se ri- tengo che bisognerà necessariamente trovare una forma nuova di ri- conoscimento di tale consacrazione, dal momento che più fondatori di movimenti ecclesiali danno praticamente la stessa importanza sia alla consacrazione degli sposati sia a quella dei vergini. E ciò signifi- ca che – essendo lo Spirito che suscita tali movimenti – la Chiesa non può ignorare ciò.

I sacerdoti Ci sono inoltre sacerdoti che aderiscono ai movimenti ecclesiali, sia con un impegno che implica talvolta la consacrazione di vita per i consigli evangelici, sia con un impegno meno radicale. I primi aspira- no di frequente a una vita comune con altri sacerdoti del movimento, ma proprio per la difficoltà a riconoscere forme di consacrazione co- me quelle dei movimenti, in genere trovano ostacoli, perché i vescovi non sono sempre d’accordo nel concedere loro questa possibilità. Molti di questi sacerdoti vorrebbero essere a completa disposizione del movimento, mediante un’incardinazione fatta direttamente a esso, ma il Codice non prevede tale possibilità, anche se non la proibisce. Le difficoltà al riguardo senz’altro ci sono, in quanto non tutti i movimenti sono già approvati dalla Santa Sede oppure perché hanno

12 VC 62. Il Papa continua richiedendo la creazione di una «Commis sio ne per le questioni riguardanti le nuove forme di vita consacrata, allo scopo di stabilire criteri di autentici tà, che siano di aiuto nel discer- nimento e nelle decisioni. Tra gli altri compiti, tale Commissione dovrà valutare, alla luce dell’esperienza di questi ultimi decenni, quali nuove forme di consacrazione l’autorità ecclesiastica pos- sa, con prudenza pastorale e a comune vantaggio, riconoscere ufficialmente e proporre ai fedeli deside- rosi di una vita cristiana più perfetta». Cf al riguardo S. RECCHI, Vita consecrata: le questioni aperte. Le nuove forme di vita consacrata, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 10 (1997) 98-109. Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 23 a capo una coppia di coniugi o una donna, da cui dovrebbe dipende- re l’incardinazione dei sacerdoti. Per questo al momento si è trovata una scappatoia, per mezzo di quella che viene chiamata incardinazio- ne fittizia, mediante la quale un sacerdote viene incardinato alla pro- pria diocesi, ma poi messo dal vescovo a completa disposizione del movimento, con un accordo scritto. Non avendo però tale accordo un valore giuridico, ovviamente esso dipende dalla benevolenza del vescovo, che potrebbe cambiare con l’arrivo nella diocesi di un nuo- vo pastore, oppure – se impellenti necessità della diocesi richiedes- sero l’aiuto di più sacerdoti – potrebbe venir meno. Talora i sacerdoti del movimento hanno conosciuto il movimen- to da ragazzi o da seminaristi. Molti sono infatti oggi i seminaristi che aderiscono ai movimenti ecclesiali e per i quali sarebbe a volte auspicabile un seminario proprio, ove essi potessero venire formati meglio anche al carisma del movimento 13. Essendoci numerosi sacerdoti appartenenti al movimento, spesso succede che ci siano anche vescovi che vi aderiscono, sia perché prima di essere consacrati vescovi facevano già parte del mo- vimento, magari con un vincolo molto stretto, sia perché a contatto con i membri del movimento alcuni vescovi hanno trovato una fonte di rinnovamento anche personale e vi hanno aderito.

I religiosi Ci sono infine anche appartenenti a famiglie religiose che si avvi- cinano ai movimenti ecclesiali, perché essi li stimolano a vivere me- glio il proprio carisma, perché vi trovano una freschezza che nel pro- prio Istituto è andata perdendosi e anche perché in una realtà di Chie- sa come quella del movimento trovano unità e completezza. Questi religiosi e consacrati hanno sovente difficoltà a conciliare la propria

13 Secondo G. Ghirlanda, poiché i seminaristi provenienti da una associazione o da un movimento «per mantenere viva quella spiritualità che è stata all’origine della vocazione ed è ancora fruttuoso alimento spirituale [...] tendono spontaneamente a co stituire nel seminario un gruppo a sé, con un certo danno del la comunità di vita con gli altri seminaristi», sarebbe op portuno «concedere la facoltà al movimento o associazione di formare i propri membri agli ordini sacri in un seminario pro prio, che sia però sotto la responsa bilità e la vigilanza del l’ordinario del luogo». Ciò permetterebbe da una parte di mantenere vivo il carisma cui sono chiamati i seminaristi, dal l’al tra di evitare tensioni nel seminario, anche se c’è il rischio di trascinare semplicemente un problema che si ripresenterebbe al momento dell’inserimento dei sacerdoti nel presbi terio diocesano. Perciò l’Autore vede come soluzione ottimale quella di permet- tere seminari propri solo alle associazioni o ai movimenti che abbiano l’approvazio ne pontificia come associazioni pubbliche e una finalità missionaria e non strettamente diocesana. Cf G. GHIRLANDA, Que- stioni irrisolte sulle associazioni di fedeli, in «Ephemerides Iuris Canonici» 49 (1993) 91-92. 24 Barbara Zadra scelta primaria di vita con quella del movimento, in quanto i superiori non vedono sempre di buon occhio la loro adesione ai movimenti 14.

Altri membri Per quanto riguarda ancora i membri del movimento, oltre a quelle menzionate ci sono altre categorie di persone: giovani e ra- gazzi, talora anche bambini, che si impegnano spesso in maniera as- sai totalizzante a portare nel proprio ambiente di scuola, di famiglia, sportivo ecc. la loro scelta di vita. Ci sono poi adulti che seguono lo spirito del movimento senza volersi impegnare in maniera esclusiva (senza, per esempio, lasciare tutto per andare a vivere in una casa del movimento stesso). An - ch’essi, tuttavia, in genere assumono un impegno, anche se molto meno vincolante degli altri.

I non cattolici In alcuni movimenti ecclesiali si può constatare inoltre l’adesione di cristiani non cattolici e addirittura di non cristiani e di non credenti. I primi possono perfino arrivare, in taluni casi, a sentir- si chiamati alla consacrazione di vita per i consigli evangelici. Ovvia- mente questo è un aspetto che crea qualche difficoltà nella Chiesa: il Codice è valido per la Chiesa cattolica latina. Esso non tratta dell’appartenenza dei non cattolici alle associazioni, anche se basta guardare ai lavori per la revisione del Codice, per comprendere che il silenzio attuale va interpretato in maniera restrittiva 15. Attualmente qualcuno ha risolto il problema tramite la stipula di un accordo scrit- to tra le singole Chiese, che tutela le minoranze.

14 Cf a questo riguardo il mio articolo Vita consecrata: le questioni aperte. La collaborazione laici-consa- crati, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 10 (1997) 445-455, come pure, in questo stesso fascicolo, l’articolo di Mirjam Kovacˇ, nel quale il tema è ampiamente trattato. 15 Cf H. HEINEMANN, Die Mitgliedschaft nichtkatholischer Christen in kirchlichen Vereinen, in «Archiv für katholisches Kirchenrecht» 153 (1984) 416-426. Il Papa ha richiesto che venissero definite le condizioni di approvazione delle associazioni ecumeniche, che egli ha definito associazioni in cui la maggioranza sia cattolica e una minoranza non cattolica. G. Ghirlanda dice che l’Esorta zione apostolica «sembra rife- rirsi alle as sociazioni che, a norma dei loro statuti, ammettono battezzati non cattolici e chiedono il rico- noscimento o l’approvazione come private, oppure l’erezione a pubbliche nella Chiesa cattolica». E ne de- duce due punti: a) queste associazioni senz’altro non ammettono non battezzati, in quanto per essere membri di un’associazione ecclesiale si dovrebbe essere prima membri della Chiesa di Cristo; b) se i battezzati non cattolici diventassero la maggioran za, l’associazione ecumenica si trasformerebbe in as- sociazione interconfessiona le, con le relative conseguenze giuridiche. Cf. G. GHIRLANDA, Questioni irri- solte..., cit., pp. 97-98. Tipologie ed esemplificazioni dei diversi movimenti 25

Conclusione È chiaro a questo punto che i movimenti ecclesiali, con questa fisionomia così complessa, creano al diritto canonico qualche diffi- coltà, sia nel riconoscimento di certe forme di vita, sia nel riconosci- mento dei movimenti stessi nel loro insieme, i quali ne hanno biso- gno quale attestato di comunione con la Chiesa. I tre tipi di movimento vengono riconosciuti secondo i canoni che trattano delle associazioni, e forse ciò non crea grandi difficoltà per i movimenti laicali e spirituali. Ma quando si tratta di riconoscere come associazione un movimento al quale appartengono consacrati, sacerdoti, famiglie, religiosi e persino vescovi, il problema di dare al movimento un riconoscimento del genere si pone con evidenza, e i canoni del Codice si presentano come una veste stretta e inadeguata a tale forma. Inoltre, poiché per il loro riconoscimento a livello inter- nazionale è competente il Pontificio Consiglio per i laici, più volte è stata auspicata da alcuni canonisti – lo stesso Santo Padre ne ha prevista la possibilità nella Costituzione apostolica Pastor Bonus (cf art. 21 § 2) – la costituzione di una Commissione interdicasteriale, che comprendesse gli organismi preposti alle varie vocazioni eccle- siali 16, in maniera da poterle riconoscere adeguatamente e da ricono- scere il movimento nel suo insieme. J. Beyer è arrivato a chiedere persino un documento pontificio «che approvi questa nuova forma di vita associativa (cf can. 605) e le dia una legge-quadro che permetta non solo la redazione dei loro statuti, ma la loro approvazione da parte di un’istanza competente, visto che non possono dipendere da un solo dicastero» 17. C’è da augurarsi che presto si arrivi a una soluzione, dal mo- mento che tali associazioni continuano a nascere e a diffondersi rapi- damente in tutta la Chiesa.

BARBARA ZADRA Via dei Ceraseti, 12a 00047 Frattocchie-Marino (Roma)

16 Cf, ad esempio, J. BEYER, Il movimento ecclesiale: questioni attuali, in «Vita consacrata» 26 (1990) 484-485; G. GHIRLANDA, I movimenti nella comunione ecclesiale e la loro giusta autonomia, in «I laici og- gi» 32-33 (1989-90) 57. 17 J. BEYER, I nuovi movimenti nella Chiesa..., cit., pp. 74-75. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 26-56 Movimenti ecclesiali e Chiese locali di Eugenio Zanetti

È fuori dubbio che una delle questioni oggi più sentite a riguar- do dei movimenti nella Chiesa è il rapporto con le diocesi e le parrocchie. Tale problematica sorge soprattutto per quei movimenti moderni che hanno una struttura in qualche modo simile a quella delle Chiese particolari o locali 1, poiché comprendono al loro inter- no tutte le categorie di fedeli: laici – adulti, giovani e bambini –, fami- glie, consacrati, sacerdoti, vescovi... In tal modo essi sembrano assu- mere la fisionomia di “famiglie ecclesiali” o “piccole Chiese”. Inoltre, l’impegno dei loro membri è in genere totalizzante, nel senso che prende la persona tutta intera, dal punto di vista spiritua le e materia- le. Al loro interno, attorno al carisma e alla leadership del fon datore, si costituisce spesso una qualche organizzazione strutturale, con se- zioni, incarichi, itinerari formativi, statuti ecc. Così pure forte è l’attività apostolica e missionaria sia nell’ambito della vita prettamen- te cristiana che in quello della vita sociale. Per questa loro particolare configurazione tali movimenti si di- stinguono sia dai cosiddetti Movimenti laicali, come per esempio l’Azione Cattolica, che dai Movimenti spirituali, come l’Apostolato della preghiera, le Équipes Notre Dame o i terz’ordini; e vengono chiamati Movimenti ecclesiali [= ME] 2. In assenza di una normativa specifica per questo tipo di Movi- menti e di indicazioni particolari per il problema del rapporto con le

1 Anche se in senso stretto si deve distinguere fra Chiesa “particolare” e “locale”, noi useremo ge - neralmente il termine “Chiesa locale” per comprendere le varie forme di determinazione locale della Chiesa univer sale. 2 Assumiamo qui la classificazione e la terminologia indicata da diversi autori: cf B. ZADRA, I movimenti ecclesiali e i loro statuti, Roma 1997, p. 75 ss. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 27

Chiese locali, nel presente articolo si vorrebbe, anzitutto, individua- re alcuni elementi di fondo, teologico-canonici, che possano fungere da principio o ragione giustificante e portante dell’elaborazione di ta- le normativa, e poi ana lizzare alcune questioni particolari. Ciò verrà fatto sulla base di una trattazione non tanto di tipo teo logico-dogmatico, quanto di tipo teologico-pratico. Si andranno, cioè, a cogliere in atto le istanze e le problematiche emergenti attor- no a queste nuove real tà ecclesiali, tenendo presente necessariamen- te il quadro più generale delle difficoltà e delle chances che la Chiesa ha oggi nel presentarsi come mediazione storica della salvezza por- tata da Gesù Cristo. Riteniamo, infatti, che solo a partire dal vissuto ecclesiale e sociale si pos sa elaborare una normativa pertinente e utile, che nel contempo custodi sca e promuova in modo dinamico gli elementi og- gettivi della fede cristia na. Per risolvere i problemi di rapporto tra Chiesa locale e movi- mento non basta una semplice esortazione a non intralciarsi e nep- pure una divi sione compromissoria di ambiti o competenze, al fine di non turbare trop po il quieto vivere o i fragili equilibri delle comunità. Se la Chiesa locale (diocesi e parrocchia) ha una sua valenza eccle- siale, sia dal punto di vista dogmatico che pastorale, essa non può es- sere semplicemente emarginata a causa delle particolari congiuntu- re storiche, a favore di nuove configurazioni ecclesiali oggi più appe- tite ed efficaci, come i ME. D’altra parte, se i ME moderni sono un dono dello Spirito per la Chiesa dei nostri tempi, non sarebbe corret- to misconoscerne la funzione provvidenziale e il carisma particolare, cercando di inquadrarli in schemi tradizionali e precostituiti.

Principi di fondo Nel vasto panorama delle riflessioni sui ME moderni ci sembra di aver colto tre principi-guida utili per interpretare e valorizzare adeguatamente questo nuovo fenomeno ecclesiale: l’istanza di comu- nionalità, il criterio di ecclesialità, la funzione di segno pedagogico.

L’istanza di comunionalità È indubbio che il concetto di comunione ha polarizzato la dottri- na conciliare e postconciliare, come principio più rispondente alle istanze moderne. La costituzione dogmatica Lumen gentium l’ha pre- 28 Eugenio Zanetti sentato come un carattere fondamen tale dell’immagine di Chiesa; la Conferenza Episcopale Italiana l’ha fatto oggetto di riflessione dei suoi piani pastorali degli anni Ottanta (Co munione e comunità); lo stesso Codice di diritto canonico l’ha assunto come criterio teologico- canonico di base, in particolare nel libro II dedicato al Popolo di Dio. D’altra parte, sembra proprio questa forte proposta comuniona- le l’al veo di soluzione del problema moderno dell’identificazione cri- stiana e dell’appartenenza ecclesiale. È, infatti, caratteristica delle nuove generazioni la difficoltà nel processo di identificazione personale. Inseriti in una situazione in continuo cambiamen to e sottoposti a un eccesso di stimoli, appelli e pressioni contrastanti, difficilmente unificabili e stabilizzabili, i giova- ni trovano molto impegnativo individuare le scelte fondamentali in cui identificarsi e ancor più arduo il restarvi fedeli. In questo conte- sto la forma del gruppo o della pic cola comunità sembra offrire oggi una chance maggiore rispetto alle gros se istituzioni:

«I caratteri del gruppo (solitamente piccolo) costruito attorno a valori in cui si crede ha in questa situazione una funzione quasi indispensabile di identifi- cazione, poiché riesce a conferire una sufficiente oggettività e stabilità ai va- lori, dando una conferma intersoggettiva alla singola persona e consenten- dole di camminare insieme, rendendole concreto ciò in cui crede nelle situa- zioni continuamente diverse» 3.

È proprio in questo clima di attenzione alle esigenze della sog- gettivi tà e alla dimensione dell’amicizia, che nei nuovi gruppi eccle- siali si attua più facilmente l’approfondimento e l’accoglienza dei va- lori cristiani e dell’appartenenza ecclesiale. L’elemento comunionale, vissuto nella forma del rapporto interpersonale, è l’elemento che permette più facilmente l’adesione ai valori cristiani. Inoltre, l’espe - rienza di gruppo si presenta come alternativa alla difficoltà dell’uo - mo contemporaneo a sentirsi parte di un’entità religiosa regolata isti- tuzionalmente, e cioè a percepire il momento istituzionale come mo- mento significativo per la stessa esperienza religiosa. Essendo i ME essenzialmente una realtà elettiva, lo stesso atto di appartenenza è vissuto generalmente con profondo coinvolgimento personale ed emotivo, e non come formale e automatica ascrizione a un’istituzione generica.

3 G.L. BRENA, Movimenti ecclesiali e chiese locali, in «Aggiornamenti sociali» 35 (1984) 595. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 29

Il fenomeno dei ME moderni è, dunque, istanza che fa emerge- re l’urgenza di una Chiesa-comunione e contemporaneamente si pre- senta come interprete carismatico e realizzatore concreto di essa:

«Le quattro caratteristiche fondamentali della nozione di carisma pro pria ai movimenti ecclesiali [1. una nuova forma di sequela di Cristo; 2. una relazio- ne di paternità o maternità di fede; 3. capacità missionaria; 4. ciò che è per- sonale è ecclesiale e, reciprocamente, ciò che è eccle siale è personale] con- vergono tutte verso la nozione conciliare di communio» 4.

In una Chiesa essenzialmente “comunione e comunità”, i ME presentano, dunque, la propria esperienza come forma di autorealiz- zazione della communio nata dal carisma che ha dato origine al movi- mento stesso. A fronte di questi dati, riportati in modo sintetico e d’altra parte asso dati nella letteratura contemporanea, si impongono però alcune puntualizzazioni. Qual è il vero problema ecclesiale che sottostà al - l’istanza moderna della comunionalità? Come tale istanza deve esse- re correttamente intesa e attuata? In che modo la communio può es- sere principio teologico-canonico fondamentale per l’elaborazione di una normativa canonica? Nel dibattito postconciliare, sottolineando la nozione di comu- nione, non si è fatto altro che sviluppare l’esigenza, sorta già in epoca preconciliare, di superare la concezione giuridicistica della Chiesa. Sotto l’ulteriore spinta di nuove istanze, poc’anzi descritte, si è poi consolidata un’ecclesiologia orientata a privilegiare la dimen- sione comunitaria della Chiesa, generalmente in antitesi o in tensio- ne con quella istituzionale, con la sem plicistica e ambigua tentazione di ridurre tutta la realtà e il mistero della Chiesa ad aspetti spirituali- stici, se non addirittura intimistici. Tale sbilanciamento ha trovato, però, il suo correttivo nel recupero di un’altra categoria conciliare e anche codiciale, quella di Popolo di Dio:

«[L’istanza conciliare], collegando intrinsecamente la nozione di “Po polo di Dio”, che designa la Chiesa nella sua identità di soggetto storico, con quella di “mistero”, che significa l’autocomunicazione di Dio realizzata in Gesù Cristo, intendeva affermare l’inseparabilità dei due aspetti. “Mistero” e “Po-

4 L. GEROSA, Carisma e diritto nella Chiesa. Riflessioni canonistiche sul “carisma originario” dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989, p. 90. 30 Eugenio Zanetti

polo di Dio” significano la stessa realtà che è la Chiesa, rispettivamente nel suo riferimento a Gesù Cristo e nella concretezza del soggetto storico che la realizza» 5.

Poiché la Chiesa consiste nell’attuazione storico-visibile della salvezza, è inconcepibile ogni alternativa o contrapposizione fra i due aspetti costitutivi della sua essenza: la realtà del mistero e la sua visibilità. Alla luce di queste precisazioni, si può allora intendere meglio il sen so dell’istanza moderna di comunionalità. Prima ancora che in un quadro teorico-dogmatico, essa va vista come istanza di un problema ecclesiale pratico, emerso con il processo di secolarizzazione e il ve- nir meno della capacità aggregante della Chiesa: il problema circa l’identità storica del Popolo di Dio e, più radicalmente, circa il senso della Chiesa in ordine alla salvezza, cioè il senso della mediazione ecclesiale della fede. Tale difficoltà concreta della Chiesa non va ridotta a un sem pli - ce proble ma sociologico di aggregazione, che si risolve semplice- mente mettendo in atto tecniche di rapporti più agili e vivaci. Ma va intesa nel suo riferimento teologico più profondo e cioè nell’inse pa - rabilità tra appartenenza ecclesia le e attuazione della Chiesa, vista come il farsi storico della salvezza:

«In questa prospettiva l’appartenenza ecclesiale non si aggiunge alla Chiesa, ma coincide con l’attuarsi storico della Chiesa in quanto tale. Le condizioni dell’appartenenza ecclesiale sono identicamente le condizioni dell’autorealizzazione storica della Chiesa» 6.

Tutte le opposizioni, istituzionale-personale, ministeriale-cari- smatico, soggettivo-comunitario, sono i sintomi di un’urgenza più ra- dicale: la capa cità di elaborare le condizioni di una prassi ecclesiale che consenta agli uomini di oggi l’accesso al senso autentico dell’ap- partenenza alla Chiesa, che non consiste né in un’aggregazione pu- ramente giuridica né semplice mente in una scelta di parte. Solo in questo quadro ecclesiale più ampio, liberato da conce - zioni ambi gue, l’istanza della comunionalità, espressa in modo forte

5 A. BERTULETTI, Introduzione: quale problema?, in AA.VV., Fede e appartenenza ecclesiale: quale proble - ma?, Bergamo 1986, p.10. 6 Ibid., p. 9. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 31 e particolare dai ME, trova il suo autentico significato e la sua effica- ce via di sviluppo, nella quale tutte le realtà ecclesiali, vecchie o nuo- ve, hanno il loro compito ec clesiale specifico.

Il criterio di ecclesialità Un altro aspetto, senz’altro di grande portata per tracciare alcu- ne coordinate fondamentali nel discorso sui ME, riguarda la consa- pevolezza ecclesiale di tali movimenti. Abbiamo detto, infatti, che, proprio per la loro configurazione, essi si presentano di fatto come una piccola Chiesa; e anzi ritengono di essere Chiesa o anche un’au - torealizzazione della Chie sa:

«In forza della fedeltà al “carisma originario” che li fa essere necessa - riamente al servizio della missione della Chiesa, i movimenti eccle siali si manifestano come “forme di autorealizzazione della Chiesa”» 7.

Tali affermazioni, genericamente plausibili, potrebbero prestar- si, però, a interpretazioni ambigue, a fronte delle quali lo stesso do- cumento della CEI su Le aggregazioni laicali nella Chiesa del 1993 pone alcune precisazioni:

«“Ecclesialità” è termine esigente: significa sapere di appartenere alla Chie- sa e, più ancora, sapere di “essere Chiesa” e “avere il senso della Chiesa” [...]. Sapere di “essere Chiesa”, poi, è ben diverso dal rite nere di essere la Chiesa. Il mistero della Chiesa, infatti, è qualcosa di ben più grande dei sin- goli cristiani e di ogni aggregazione» 8.

La crisi delle forme tradizionali di Chiesa, come la parrocchia, e l’affermarsi di forme di vita ecclesiale più duttili e coinvolgenti, come quella dei ME (con la conseguente tendenza a intendere il principio comuniona le in opposizione a quello istituzionale), possono portare alla prospettiva, non solo della lecita presenza nella Chiesa di diverse forme di vita cristia na, ma anche della possibilità di esi- stenza di diverse forme di Chiesa, configurate parallelamente. Non

7 L. GEROSA, Carisma e diritto..., cit., p. 87. L’autore sottolinea come l’ultima sua affermazione sia tratta da un discorso di Karol Wojtyla, quando era arcivescovo di Cracovia, anche se non si danno né la fonte né il contesto preciso. 8 CEI - COMMISSIONE PER IL LAICATO, Le aggregazioni laicali nella Chiesa, 29 aprile 1993, nn. 12-13 (ECEI 5, nn. 1568-1569). Dobbiamo riconoscere che questo documento, come anche altri documenti magiste- riali sulle aggregazioni, di per sé tratta delle aggregazioni laicali, e dunque solo in parte risponde alle esigenze e problematiche dei ME. 32 Eugenio Zanetti intendiamo qui solo stigmatizzare certe si tuazioni pastorali in cui di fatto alcune iniziative di ME vengono a sovrapporsi o scontrarsi con quelle delle diocesi o delle parrocchie, ma vogliamo affrontare il te- ma più radicale del rapporto fra natura e funzione ecclesiale del ME e natura e funzione ecclesiale della Chiesa locale. E ciò non in modo statico o astratto, bensì all’interno di un’ana- lisi teologico-pratica che, come già accennato, si preoccupa di descri- vere le due entità sulla base del problema fondamentale che la Chie- sa si trova oggi ad affrontare e cioè il senso della sua oggettività sto- rica e le forme pertinenti della sua mediazione in ordine alla salvezza cristiana. Da questo punto di vista, i cosiddetti criteri di ecclesialità delle aggregazioni nella Chiesa, più volte richiamati nei documenti magi- steriali 9, non vanno intesi come una semplice patente di ecclesialità data teoricamente una volta per tutte, ma devono funzionare come segnali indicatori di un discernimento circa l’effettiva assunzione di responsabilità da parte di singoli o gruppi di fedeli nel compito di edificazione della Chiesa storica e, quindi, circa un’effettiva apparte- nenza ecclesiale:

«In tal modo il discorso sui criteri è posto al suo livello proprio, che è quello del discernimento pastorale, e si riferisce alle modalità con cui un gruppo, un movimento, un’associazione, che per sé possiede l’ecclesialità in ragione della fede e del carisma, si prende cura non solo della communio ecclesiale, ma anche della sua effettualità storica» 10.

Lo sfondo comune, che aiuta a identificare e relazionare aspetti istituzionali e aspetti carismatici della vita ecclesiale e quindi a co - glierne l’effettiva ecclesialità, è dato dal fatto che la Chiesa, da un punto di vista teologico-pratico, non si dà in modo aprioristico, pre- determinato, ma in re lazione dinamica all’evento di Gesù Cristo e al- l’azione del suo Spirito. Ciò apre lo spazio a considerazioni e sviluppi antropologici ed etici, e anche, dal punto di vista ecclesiologico, alla possibilità di di-

9 Cf CEI - COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’APOSTOLATO DEI LAICI, Nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni, 22 maggio 1981, nn. 8-14 (ECEI 3, nn. 594-600); GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, 30 dicembre 1988, n. 30 (EV 11, nn. 1726-1732); CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., nn. 15-19 (ECEI 5, nn. 1571-1575). Cf pure LG 23; 39-40; AA 19-20; 23-24. 10 F. G . B RAMBILLA, Le aggregazioni ecclesiali nei documenti del Magistero dal Concilio fino a oggi, in «La Scuola Cattolica» 66 (1988) 510. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 33 versi modelli di vita cristiana ed ecclesiale. Non, però, in senso anar- chico, ma sempre entro l’imperativo della fedeltà evangelica (il cui giudizio compete ultimamen te all’ufficio magisteriale e pastorale) e nella convinzione che la Chiesa è sempre, ogni volta, un evento e cioè che la sua determinazione si dà nel momento in cui essa si rea- lizza, in quanto sempre figura storica e viva del la salvezza di Cristo. Dentro questa visione il carattere istituzionale della Chiesa non è qualcosa di meramente societario-amministrativo, ma è il carattere per cui essa è istituita dal suo fondatore, Gesù Cristo. A tale caratte- re sono da riferire tutti quegli aspetti che concorrono a fare della Chiesa un segno storico obiettivo e universalmente accessibile del Vangelo di Gesù Cristo e quindi della salvezza cristiana: il principio scritturistico, sacramentale e magisteriale/pastorale. Nell’azione pastorale della Chiesa locale, strutturata su un prin- cipio territoriale e universale (più che elettivo o selettivo), si dà real- mente e storica mente il mistero della Chiesa; essa è il luogo in cui la comunità edifica ef fettivamente se stessa come Chiesa della Parola, dell’eucaristia e dei carismi; il luogo in cui viene proposta al singolo l’immagine obiettiva del Vangelo affinché egli possa attuare la sua decisione incondizionata davanti a Dio e non semplicemente davanti agli uomini. È il luogo in cui la coscienza credente viene istruita cir- ca la sua appartenenza ecclesiale, cioè il luogo in cui viene istituito un rapporto pratico del singolo con la Chiesa stes sa, non chiudendo- lo entro un gruppo particolare, ma aprendolo alla comunione cattoli- ca nei confronti di tutti i credenti e alla responsabilità testimoniale nei confronti di tutti gli uomini. Questa forma istituita della figura storica della Chiesa non è al - ternati va alla sua dimensione carismatica, ma va compresa e mostra- ta come la forma cristiana della cura dell’oggettività della fede eccle- siale e delle sue manifestazioni particolari:

«Non tutte le forme di autorealizzazione della Chiesa hanno lo stesso titolo ecclesiologico, non perché siano “più” o “meno” ecclesiali delle altre, ma perché la figura esemplare di attuazione della Chiesa, in quanto realtà stori- ca (indubitabilmente la Chiesa locale, nella com munio ecclesiarum), può e deve diventare istruttiva delle altre forme di ecclesialità e del modo della lo- ro appropriazione» 11.

11 Ibid., p.504. 34 Eugenio Zanetti

Pertanto, la relazione alla Chiesa locale, alla sua azione pastora- le, alle forme istituite della sua mediazione non è aspetto secondario per il carisma di un movimento, anzi è proprio il luogo in cui esso si definisce e si eserci ta, poiché non si dà carisma cristiano che per l’e - dificazione della Chiesa e della Chiesa nella sua qualità di soggetto storico. Un vero carisma, anche nella sua forma comunitaria, non è mai dunque in alternativa o in parallelo alla Chiesa locale. Anche quando esso si metta al servizio della Chiesa universale, ciò non può avvenire “saltando” la mediazione storica della Chiesa, poiché tra Chiesa universale e Chiese locali non vi è rapporto di parallelismo o di suddivisione amministrativa sussidiaria, ma di profonda unità «in quanto la Chiesa universale esiste e si manifesta nelle Chiese partico- lari, che a loro volta sono formate a immagine della Chiesa univer sale, nella quale e dalla quale esse nascono e hanno la loro ecclesialità» 12. Ciò è stato ribadito anche da Giovanni Paolo II nel suo discorso al Convegno ecclesiale di Loreto (9-13 aprile 1985), proprio in riferi- mento alla ricchezza dei carismi nella Chiesa:

«Ogni “ambiente” ecclesiale, come ogni problema che in esso può sorgere, trova nella Chiesa particolare e nella concretezza delle sue strutture il “luo- go” provvidenzialmente predisposto, a cui fare riferimento nella ricerca della soluzione adeguata. Il tutto, ovviamente, nel contesto dell’indispensabile co- munione con la Chiesa universale, che ha nel successore di Pietro il perpe- tuo e visibile centro della pro pria unità» 13.

Il fatto che non si dia un’entità astratta e precostituita di Chiesa, ma che essa si realizzi necessariamente nel suo attuarsi concreto e storico (in quanto evento), porta allora alla considerazione che la Chiesa locale (diocesi e parrocchia), non solo è chiamata a essere, attraverso i suoi pastori, strumento di discernimento e di costituzio- ne ecclesiale dei movimen ti, ma essa stessa non può oggi costituirsi ed espletare la sua missione che con l’apporto anche di realtà come i ME, in quanto istanze e forme concrete di vita cristiana ed ecclesiale a forte dimensione comunitaria, emergenti dal farsi storico della sal- vezza cristiana e della libera azione dello Spirito. Ciò esigerà, allora, rispetto della pluralità, peculiarità, creati vità e relativa autonomia dei ME, come nei confronti delle altre forme, individuali o comunitarie, di esperienza cristiana.

12 CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 6 (ECEI 5, n. 1561). 13 In «Il Regno - Documenti» 40 (1995) 491. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 35

«Un movimento o una spiritualità particolare, infatti, non è una strut tura alternativa all’istituzione. È invece sorgente di una presenza che conti- nuamente ne rigenera l’autenticità esistenziale e storica» 14.

In sintesi si può dire che è necessaria un’unità e circolarità, fat- tuale e storica oltre che teorica, tra elementi istituzionali e carismati- ci, nella consa pevolezza che la loro rispettiva identità e funzione ecclesiale si determinano proprio in tale circolarità. E il principio del - l’ecclesialità si presenta come criterio base di tale processo, sia nel - l’opera, per così dire, di eccle sializzazione istituzionale (da non con - fondersi con una tendenza ecclesiasticizzante), che nell’azione cari- smatica verso una comunione autenticamente ecclesiale (da non con fondersi con una tendenza comunionalistica). Solo l’armonicità dinamica di questi elementi permetterà di evi- tare le derive deleterie sia della riduzione della Chiesa a elementi or- ganizzativo-amministrativi sia dell’assolutizzazione e ideologizzazio- ne di qualche parti colare esperienza di vita cristiana ed ecclesiale.

La funzione di segno pedagogico I discorsi fin qui fatti portano alla conclusione che il carisma dei ME non può essere ritenuto come un elemento costitutivo e dunque permanente dell’istituzione ecclesiale; non appartiene cioè all’ambito della fun zione istituzionale della Chiesa, così come abbiamo cercato di descriverla. E tuttavia, in una visione concreta e dinamica della Chiesa, tale carisma acquista “oggi” una certa valenza di necessità e di importanza per la Chiesa. Là dove ne è riconosciuta l’autenticità ecclesiale, esso rappresenta un dono provvidenziale dello Spirito, di cui la Chiesa, anche la Chiesa locale, non può fare a meno. L’importanza odierna dei ME ha tutta la sua ragione nel mo- mento storico che la Chiesa sta vivendo; ma tale particolare contesto socio-ecclesiale, richiamato nel primo paragrafo, può costituire an- che un motivo sviante per i nuovi movimenti. Rimanendo nella scia delle osservazioni fin qui fatte, si tratta al- lora di indi care rischi e chances dei ME, cioè di individuare i tratti della funzione spe cifica di questo carisma all’interno del problema ecclesiale di fondo, più volte richiamato ed emergente in connessio-

14 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 68 (EV 13, n. 1483). 36 Eugenio Zanetti ne con lo stesso fenomeno dei movimenti: la questione dell’obietti- vità storica del cristianesimo, dell’attitu dine della Chiesa nelle sue concrete forme storiche a valere quale segno universalmente acces- sibile del Vangelo. Indichiamo, dapprima, i rischi a cui oggi il fenomeno movi men - tisti co, cattolico e no, è esposto, non intendendo comunque esprime- re un giudizio pratico sui singoli movimenti. Dal punto di vista socio-culturale, come abbiamo accennato, questo feno meno sembra da intendere quale risvolto della secolariz- zazione e dei disa gi che essa comporta per il soggetto individuale:

«Alla perdita di “casa”, di “significato” o di “esperienza”, conseguente all’af- fermarsi di una società complessa e caratterizzata dal privilegio dello scam- bio funzionale rispetto allo scambio simbolico, i movimen ti cercano rimedio attraverso la predisposizione di “nicchie” confortevoli» 15.

Il luogo abitativo che i movimenti sono portati a offrire sembra più quello dell’“appartamento”, cioè di un luogo protetto e gratifican- te, entro il quale difendersi da un mondo percepito come fondamen- talmente estraneo e inospitale. E ciò con la presunzione, forse incon- scia e inconsapevole, di sostituirsi alla “casa”, che in realtà è, invece, luogo abitativo diverso: sua funzione è, infatti, quella di offrire alle persone un punto di vista aperto sul mondo e di offrirsi come pro- spettiva dalla quale produrre una percezione sintetica e significativa della realtà intera. Da un punto di vista più ecclesiologico, ciò significa che i ME possono essere soggetti al rischio di offrire un’esperienza religiosa condizionata dal perdurare dell’elemento della gratificazione. Anche qualora tali “appartamenti” fossero ampi e popolati da molte persone e apparati, il cedere alla tentazione di essere nicchie protettive impe- disce al singolo membro quell’autonomia personale che gli consente di vivere la verità della fede in ogni ambito, nel confronto responsa- bile con ogni altra esperienza cristiana e ri spettivamente con ogni al- tra esperienza umana. In questa linea si avrebbe, dunque, il rischio dell’inettitudine del movimen to a valere quale forma concreta e autentica della Chie- sa, di autorealizza zione della Chiesa.

15 G. ANGELINI, I “movimenti” e l’immagine storica della Chiesa. Istruzione di un problema pastorale, in «La Scuola Cattolica» 66 (1988) 546. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 37

A fronte di tanti pronunciamenti favorevoli e promoventi di Gio- vanni Paolo II nei confronti dei movimenti, ce ne sono però alcuni che mettono in luce tali rischi:

«Non posso tuttavia non attirare l’attenzione delle aggregazioni dei laici su alcuni pericoli, che potrebbero compromettere il senso eccle siale. C’è infatti il pericolo di un certo autocompiacimento, da parte di chi assolutizza la pro- pria esperienza, favorendo in tal modo da una parte una lettura in chiave ri- duttiva del messaggio cristiano e dall’altra il rifiuto di un sano pluralismo di forme associative. Altro pericolo potrebbe essere nello straniamento dalla vi- ta pastorale delle Chiese locali e dei pastori, privilegiando il rapporto con la sola asso ciazione e i suoi dirigenti» 16.

Quest’ultima annotazione del Papa ci dà, in sede più propo siti- va, lo spunto iniziale per individuare la linea lungo la quale superare i rischi e i pe ricoli evidenziati. L’indicazione di evitare lo «strania- mento» dalla vita pasto rale delle Chiese locali non colloca, infatti, il problema al semplice livello operativo o organizzativo; ma più a mon- te intende sottolineare come l’elaborazione della funzione specifica e provvidenziale dei movimenti laicali e a maggior ragione di quelli ec- clesiali si deve collocare proprio nell’ambito pastorale della Chiesa, cioè nello sforzo che oggi la Chiesa tutta sta facendo per proporsi co- me valida e concreta mediazione storica della sal vezza, ponendosi al servizio dell’azione spirituale dell’unico e grande me diatore che è Gesù Cristo.

«Poiché il mistero della Chiesa è presente nelle Chiese particolari, queste sono per tutte le aggregazioni il luogo primo e immediato dove normalmen- te vivere la comunione e assolvere il compito di evangelizzazione con un re- spiro sempre più cattolico. La loro partecipazione alla missione della Chiesa, infatti, è rivelata ed è garantita dal loro essere un “segno” visibile nel più am- pio contesto della co munità cristiana» 17.

È in questa direzione che vogliamo porci e che vogliamo elabo- rare un principio di fondo solido per una normativa canonica, che non si riduca, in modo statico e astratto, alla gestione delle rivendicazioni da parte di ciascu no delle proprie competenze o dei propri meriti e quindi alla regolazione della spartizione degli spazi e dei compiti.

16 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Convegno nazionale per la pastorale sociale e del lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, dal tema Comunità cristiana e associazioni di laici, in «L’Osservato - re Romano», 31 agosto 1984, 5. 17 CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 34 (ECEI 5, n. 1998). 38 Eugenio Zanetti

Come detto, il punto forza, il carisma originario comune che i ME vi vono nella e per la Chiesa è una radicale esperienza evangeli- ca, proposta a tutte le categorie di fedeli, e una forte tensione comu- nionale tra i membri. Ci chiediamo però: questa situazione, invece di produrre isole felici ma ambigue e astoriche, come può favorire effi- cacemente l’azione missionaria della Chiesa e quindi il proces so del- la sua attuazione storica? Nella citazione poc’anzi riportata si sottolinea il ruolo di segno visibi le delle aggregazioni; e tale concetto sembra far parte della co- scienza che i ME hanno del proprio carisma:

«Il carisma, per lo meno nella sua forma più compiuta (“carisma origi- nario”), è un dono speciale dello Spirito Santo che può essere elargi to a fede- li di ogni ordine per renderli, attraverso una particolare forma di sequela Christi, più atti e pronti a costruire la comunione eccle siale fondata sulla Pa- rola di Dio e sui sacramenti, in modo da costi tuire un segno paradigmatico e profetico per la Chiesa tutta» 18.

Ma che cosa significa questa connotazione «paradigmatica e pro fetica» del “segno-ME”? Già abbiamo sottolineato le incongruenze teologiche e alla fin fine anche pastorali in cui si cadrebbe se per paradigma si intendes- se una forma più autentica o ideale di essere Chiesa o di essere cri- stiano, una forma che dunque tende a porsi in sostituzione o in paral- lelo con le forme di comunità cristiana espresse dalle Chiese locali. Non sembra questo, dunque, il senso ecclesialmente plausibile di ta- le connotazione «paradigmatica» del carisma dei ME. Come pure va precisata l’altra connotazione, quella «profetica», la quale induce facilmente al confronto con il carisma della vita con- sacrata. Questo carisma, infatti, è spesso percepito dai movimenti co- me analogo al loro, con la semplice diversità che l’uno è profetico- personale e l’altro comunitario-missionario. Tale distinzione, però, non sembra reggere di fronte alla realtà di tante forme di vita consa- crata profondamente comunitario-missionarie e neppure di fronte al fatto che generalmente all’interno degli stessi ME vi sono molti con- sacrati, che anzi spesso ne costituiscono il nucleo centrale o portan- te. Nella stessa Esortazione apostolica Vita consecrata, al n. 62, si sottolinea la diversa natura delle nuove forme di vita consacrata, che

18 L. GEROSA, Carisma e diritto..., cit., pp. 92-93. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 39 realmente si possono ritenere tali, e delle nuove forme di aggrega- zione ecclesiale. L’analogia sarebbe profondamente ambigua se, a li- vello più profondo, volesse insinuare, ancora una volta, che l’espe- rienza dei ME è esperienza radicale e compiu ta di vita evangelica e quindi “più” cristiana, alla stregua di quella che sarebbe proposta dalla vita consacrata. In tale prospettiva, non solo si ricadrebbe nelle problematiche richia mate a proposito della connotazione paradigmatica, ma si corre - rebbe an che il pericolo di mal interpretare la natura cristiana e la fun- zione ecclesiale del carisma della vita consacrata; carisma, quest’ - mo, che non è certamente quello di essere un “più” o un ideale di vita cristiana, ma quello di essere una sorta di attestazione e provocazio- ne simbolico-profetica rivolta ai cristiani tutti, attorno alla necessità e possibilità che un particolare aspetto della vita cristiana sia vissuto in un determinato momento storico dalla Chiesa nel pro cesso concreto della sua attuazione e nello sviluppo efficace della sua missione. Puntualizzati questi pericoli, rischi o ambiguità, confessiamo che, al di là di una serie di osservazioni a livello fondamentale (cf teologia), o di un generale invito al riconoscimento e alla valorizza- zione dei movimenti, subito contem perata dalla preoccupazione del discernimento attraverso i cosiddetti crite ri di ecclesialità (cf magi- stero), o di una riflessione sul carisma comuniona le così ampia da ri- schiare di diventare generica (cf l’autoriflessione dei ME), è difficile trovare nel dibattito attuale l’elaborazione di alcuni elementi che in- dividuino positivamente e specificatamente la funzione ecclesiale che oggi i ME moderni hanno o possono avere nel processo di evo - luzione del la prassi ecclesiale e dunque della Chiesa nella sua con- cretezza storica. Di fronte alle nuove forme di movimenti, come appunto quelli che abbiamo denominato ecclesiali, non sembra più sufficiente ap- pellarsi ai principi generali della socialità dell’uomo o della dimensio- ne comunitaria della vita e dell’apostolato ecclesiale (come può anco- ra valere per i cosiddetti movimenti laicali). Pertanto, sulla stregua del punto di vista teologico-pratico as - sunto in questo studio, cercheremo di elaborare una prospettiva, che non potrà che avere il carattere di ipotesi, sia pur sorretta dai pre- supposti fin qui delineati. Riprendiamo le fila del discorso dal concetto di segno visibile, poc’anzi menzionato ed espresso anche in alcuni testi conciliari, co- me in AA 18: 40 Eugenio Zanetti

«Quindi l’apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si presenta come segno della comu- nione e dell’unità della Chiesa in Cristo. [...] Perciò i fedeli esercitino il loro apostolato in spirito di unità. Siano apostoli tanto nelle proprie comunità fa- miliari, come nelle parrocchie e nelle diocesi, che già per se stesse esprimo- no l’indole comunitaria dell’a postolato, e nelle libere istituzioni nelle quali si vorranno riunire»; e nella Christifideles laici, al n. 29: «[quello dell’apostolato associato] è un “segno” che deve manifestarsi nei rapporti di “comunione” sia all’interno che all’esterno delle varie forme ag- gregative nel più ampio contesto della comunità cristiana».

A noi sembra che la funzione ecclesiale di segno e quindi di visibi lità ricoperta dai ME trovi oggi la sua specificità nella sua por - tata pedago gica (più che profetica, come nella vita consacrata). Usando un esempio, potremmo dire che, come il segno grafico ha una va lenza diversa in un quadro piuttosto che in uno scritto, così l’essere se gno nella Chiesa potrebbe essere di indole profetica, cioè fortemente sim bolica ed evocativa (come in un quadro), oppure di in- dole pedagogica, cioè esplicativa ed educativa (come in uno scritto). Questa considerazione sembrerebbe emergere già a partire dal l’in terno dell’esperienza dei ME: in essi, infatti, si parla di “scuo- la” della comu nità, “cammino” di fede. Lo stesso termine “movimen- to” dice di un certo itinerario e quello di “comunità” di un ambito ri- stretto e scelto di vita. Senza poter fornire ulteriori approfondimenti, si potrebbe dire che general mente il carisma originario del ME costituisce una sorta di peculiare meto dologia di attivazione della vita cristiana a partire da una particolare intui zione o aspetto della vita cristiana, capace, tuttavia, di raggiungere le diverse vocazioni e categorie di fedeli. A differenza della vita consacrata, tutti i cristiani, di qualsiasi età, stato di vita, ministero, possono far parte dei ME, perché lì tutti possono trovare un forte impulso (“segno”) per la loro fede unitamente a un contesto educativo (“pedagogico”) di rinnovata vita di fede. Tale funzione di segno pedagogico sembra essere imposta, d’al- tra parte, dallo stesso contesto socio-culturale ed ecclesiale soprade- scritto (che naturalmente andrebbe articolato ulteriormente a secon- da delle aree geografiche, sociali e culturali). Come s’è detto, considerata la crisi degli uomini di oggi e soprat- tutto dei giovani nel processo di identificazione personale nei con- Movimenti ecclesiali e Chiese locali 41 fronti dei valori cristiani, i diversi ME, proprio per la loro forte indole esperienziale, possono offrire e di fatto offrono una significativa me- todologia di proposta e di accoglienza del messaggio cristiano. Con ciò i ME sono chiamati, ultimamente, a svolgere un’opera pedagogica non tanto alla vita del movimento, quanto alla vita di fede dei suoi membri, ricordando sempre che tale fede è una fede cristia- na e che questa precisa connotazione non può essere offerta dal mo- vimento stesso, ma dalla funzione istituzionale rivestita dalla Chiesa locale, nel suo peculiare ministero di custode dell’obiettività della fe- de cristiana attraverso l’esercizio del principio scritturistico e sacra- mentale. Così pure abbiamo sottolineato come la crisi di appartenenza ecclesiale, cioè di adesione alle attuali forme istituite della Chiesa, trovi oggi in tanti contesti una più facile soluzione nei ME, in forza della loro forte in dole comunionale. Con ciò i ME sono chiamati ulti- mamente, non tanto a chiudere i loro membri in una struttura angu- sta di gruppo, quanto a costituire una sorta di mediazione pedagogi- ca verso forme concrete di Chiesa e dunque verso un’esperienza di comunione cattolica, ricordando che ta le funzione ecclesializzante e cattolicizzante non può darsi che all’interno della Chiesa locale, la quale nella communio ecclesiarum esercita sul territorio il suo pecu- liare ministero magisteriale e pastorale. In tal modo i ME rispondono alla funzione ecclesiale di essere un segno e una pedagogia, per evidenziare ma anche aiutare a risol- vere il problema comune che oggi Chiesa locale e aggregazioni si trovano ad af frontare, quello cioè della necessità che la Chiesa espri- ma le caratteristiche che la costituiscono come l’attuazione visibile della forma di esistenza secondo Gesù Cristo, ponendo le condizioni di una prassi ecclesiale che consenta agli uomini di oggi l’accesso al senso autentico dell’appartenen za alla Chiesa.

Questioni particolari L’individuazione di alcuni principi di fondo permette ora di ap - pli carci alla considerazione di alcuni problemi specifici, quali: il rap- porto dei ME con il ministero ordinato e, in particolare, la questione dei seminari e dell’incardinazione dei chierici; la partecipazione dei membri dei ME alla celebrazione eucaristica, in particolare quella domenicale; l’opera di formazione ed evangelizzazione vissuta nei ME in rapporto alle iniziative mes se in atto dalle Chiese locali. 42 Eugenio Zanetti

Rapporto con il ministero dell’Ordine sacro e l’incardinazione All’interno delle varie problematiche sopraccennate, certamen- te quella del rapporto tra ME e pastori (vescovi e parroci) ricopre una parti colare importanza, teorica e pratica. Trattando dei ME in rapporto alla Chiesa locale, non ci interes- siamo qui direttamente del ministero del Papa; tuttavia, occorre te- ner presente che, come la Chiesa locale è in realtà espressione e at- tuazione della Chiesa universale, così il vescovo nel suo ministero diocesano realizza l’unico ministero pastorale di cui è stato investito il Collegio dei Vescovi uniti al Papa. Questo significa che il ricono- scimento, anche giuridico, dell’universalità di un ME non comporta poi il “salto” delle autorità ecclesiastiche locali, anche perché l’azione di tali ME non potrà che compiersi sul territorio di qualche Chiesa locale. Nei rapporti col vescovo ricordiamo anzitutto che, da un punto di vista strettamente normativo, il can. 312 § 2 afferma che «per erigere valida mente nella diocesi un’associazione o una sua sezione, anche se ciò avviene in forza di un privilegio apostolico, si richiede il consenso scritto del Vescovo diocesano». Anche se questa norma sembra riguardare pretta mente le associazioni pubbliche 19, tuttavia in un senso più lato resta vero quanto ricordato dai vescovi italiani a riguardo delle associazioni di carat tere nazionale:

«Resta salvo il diritto di ogni Vescovo di dare, di rinviare o di negare il pro- prio assenso alla presenza e all’attività di quella determina ta associazione nella propria Diocesi, in base alle ragioni di opportunità pastorale» 20.

Lo spirito di fondo che, comunque, deve ispirare i rapporti tra ME e pastori è indicato nella Christifideles laici, allorché ricorda che uno dei criteri di ecclesialità delle aggregazioni è

«la testimonianza di una comunione salda e convinta, in relazione filiale con il Papa, perpetuo e visibile centro dell’unità della Chiesa uni versale, e con il Vescovo “principio visibile e fondamento dell’unità” (LG 23) della Chiesa particolare, e nella “stima vicendevole fra tutte le forme di apostolato della Chiesa” (AA 23)» 21.

19 Cf J. BEYER, Movimento ecclesiale, in Dizionario di diritto canonico, Milano 1993, p. 711. 20 CEI, Criteri di ecclesialità..., cit., n. 24 (ECEI 3, n. 610). 21 Christifideles laici, cit., n. 30 (EV 11, n. 1729). Movimenti ecclesiali e Chiese locali 43

Tale sottolineatura non deriva primariamente da ragioni di tipo pastorale-organizzativo, ma anzitutto da una ragione ecclesiologica, cioè «dall’es sere la Chiesa mistero di comunione» 22. Non vogliamo approfondire oltre questo tema generale, d’al - tronde ripreso in diversi documenti conciliari e postconciliari, ma fermare la nostra attenzione su una questione particolare riguardan- te più da vicino i ME. Si tratta della questione della eventualità o me- no di una incardinazione dei sacerdoti nel ME stesso. Nei cann. 265-266 del CIC vigente si afferma che si può dare incardinazio ne o in una Chiesa particolare, cioè innanzitutto nelle diocesi (alle quali vengono assimilate la prelatura e l’abbazia territo- riale, il vicariato e la prefettura apostolica, nonché l’amministrazione apostolica eretta stabilmente: cf can. 368), in una prelatura persona- le, in un istituto di vita consacrata e in una società clericale di vita apostolica, a meno che le Costituzioni, in quest’ultimo caso, non pre - vedano diversamente. Di per sé non si dà incardinazione in un istitu- to secolare, se non in forza di una concessione della Sede Apostolica. Pertanto, nel Codice latino non si dà incardinazione di un chie- rico in un’associazione o movimento ecclesiale. Tuttavia, val la pena di ricordare che, durante i lavori di approntamento del nuovo Codi- ce, nello Schema del 1977 (can. 589) e in quello del 1980 (can. 691), all’interno del capitolo sulle associazioni dei fedeli era stata prevista la possibilità di incardinazio ne anche nelle “consociationes seu socie- tates clericales”, in forza di una fa coltà concessa dalla Sede Apostoli- ca con speciale decreto. Poiché tale possibilità era stata inserita per provvedere alle necessità e ai desideri delle società missionarie del clero secolare, e poiché a tale esigenza aveva risposto la normativa sulle società di vita apostolica, nella redazione finale del Codice fu tolto dal titolo sulle associazioni il canone previsto negli Schemi pre- paratori 23. Nel Codice delle Chiese orientali, invece, si permette che un chierico venga ascritto a un’associazione, ma solo per speciale con- cessione data dalla Sede Apostolica o, se si tratta di un’associazione patriarcale o metro politana, per concessione del Patriarca, col consen- so del Sinodo perma nente (cf cann. 579 e 357 § 1 del CCEO). Nell’ela -

22 Cf CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 18 (ECEI 5, n. 1574). 23 Cf «Communicationes» 12 (1980) 109 e 112; 15 (1983) 86. Il Relatore aggiunse che, se una società missionaria non vuol essere annoverata neppure in una società di vita apostolica, la Santa Sede potreb- be provvedere a norma del diritto particolare, cioè per privilegio. 44 Eugenio Zanetti borazione di questo Codice si è assistito in realtà a un processo inver- so rispetto al Codice latino: mentre nei primi schemi preparatori non si prevedeva la possibilità di incardinazione nelle associazioni, ciò fu ammesso nella redazione finale, senza dare per altro spiegazioni 24. In sede di elaborazione o nella redazione finale, né il CIC vigen- te né il CCEO fanno, comunque, riferimento alla particolare questio- ne dell’in cardinazione nei ME; anzi, sembra che la preoccupazione pastorale dominante riguardi l’ambito mis sionario in senso stretto e dunque il ministero del sacerdote missionario; oppure l’attenzione e la cura pastorale di certe categorie di persone (cf la prelatura perso- nale). È, pertanto, difficile trovare in questi Codici apporti specifici alla nostra questione, come in realtà a tutto l’argomento dei ME. Così pure, su questo specifico problema non ci sembra del tutto adeguato prendere a esempio la normativa prevista per gli istituti di vita consacra ta, a causa della diversità del carisma e della funzione ecclesiale (come abbiamo evidenziato nella prima parte dell’arti - colo), e anche a causa di una storia e di una tradizione diverse. Raccogliamo, pertanto, alcune ipotesi di sviluppo di questa que- stio ne. Stando ai principi generali esposti nella prima parte dell’arti - colo, si de ve dire che, affinché il ME possa assolvere alla sua funzio- ne di segno pe dagogico di comunione ecclesiale, cioè di intensa e globale forma di vita alla sequela del Cristo, esso necessita dell’ali- mento della Parola e dell’eucaristia e di una guida pastorale; necessi- ta pertanto del ministero ordina to, cioè del ministero che nella Chie- sa è chiamato a rappresentare il Cristo che parla, agisce e guida la comunità dei credenti. In quanto, però, segno pedagogico, cioè in quanto realtà che non è un’altra forma di Chiesa o una Chiesa paral- lela alla Chiesa locale, perché non produce in sé un principio oggetti- vo di fede, il ME ha bisogno del riferimento alle forme istituite di Chiesa, così come si danno nella Chiesa universale e particolare. Pertanto, risulta necessario che i ME abbiano al loro interno, anche a tempo pieno, persone che vi esercitino il ministero pastorale e di questo le Chiese locali devono preoccuparsi, se vogliono valoriz- zare tale particolare carisma di vita cristiana ed ecclesiale. Sembre- rebbe, però, opportuno, soprattutto per i ME di carattere locale, che i sacerdoti siano incardinati in una diocesi, per garantire così, nella

24 Cf G. GHIRLANDA, Questioni irrisolte sulle associazioni dei fedeli, in «Ephemerides Iuris Canonici» 49 (1993) 91-96. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 45 chiara distinzione delle funzioni ecclesiali, il legame e la circolarità tra l’apporto recato dalla Chiesa locale e quello dei ME, nell’edifica - zione comune e autentica di forme storiche ed efficaci di Chiesa e di vita cristiana per gli uomini del nostro tempo. A tal proposito così afferma la Congregazione per il Clero:

«I presbiteri incardinati in una Diocesi, ma per il servizio di qualche movi- mento ecclesiale approvato dalla competente Autorità ecclesiastica, siano consapevoli di essere membri del presbiterio della Dio cesi in cui svolgono il loro ministero e di dover sinceramente collabo rare con esso. Il Vescovo di incardinazione, a sua volta, rispetti lo stile di vita richiesto dall’appartenenza al movimento e sia pronto, a norma del diritto, a permettere che il presbite- ro possa prestare il suo servizio in altre Chiese se questo fa parte del cari- sma del movimento stesso (cf can. 271 CIC)» 25.

Per maggior chiarezza e stabilità, il vescovo diocesano potrebbe stipulare accordi con il movimento, in cui determinare le modalità e le condi zioni del servizio reso nel movimento da parte di presbiteri che a tutti gli ef fetti appartengono e devono sentire di appartenere al- la diocesi, pur svol gendo un ministero particolare e condividendo an- che il carisma specifico del movimento 26. A fianco di questi presbiteri, è da collocare e valorizzare la figu- ra dell’assistente ecclesiastico, con il compito specifi co di tenere uno stretto collegamento col vescovo e di armonizzare l’attivi tà del ME con quelle di altre aggregazioni e della Chiesa locale in generale. Ol- tre a ciò, vista la configurazione onnicomprensiva del ME, nulla vieta che presbiteri incardinati e operanti in una diocesi partecipino a un movimento, senza nulla togliere al loro ministero e al rispetto delle altre realtà ecclesiali, anzi corroborando il loro sacerdozio coi benefi- ci derivanti dal carisma del movimento stesso, come riconosciuto an- che nella Pasto res dabo vobis:

«Al cammino verso la perfezione possono contribuire anche altre ispirazioni o riferimenti ad altre tradizioni di vita spirituale, capaci di arricchire la vita sacerdotale dei singoli e di animare il presbiterio di preziosi doni spirituali. È questo il caso di molte aggregazioni ecclesiali antiche e nuove, che accol- gono nel loro ambito anche sacerdo ti: [...] dalle varie forme di comunione e di condivisione ai movimenti ecclesiali» 27.

25 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 31 gennaio 1994, n. 26. 26 Anche da un punto di vista terminologico, riteniamo sia da evitare la dizione: sacerdote “del” movi- mento. Questi, infatti, è un sacerdote “della” diocesi “per” il movimento, vivendo “nel” movimento. 27 Pastores dabo vobis, n. 31 (EV 13, n. 1308). 46 Eugenio Zanetti

Un problema più complesso potrebbe essere posto dai ME di carattere e dimensione nazionale o internazionale, dunque con comunità diffuse in più Chiese locali. A questo livello risulta certo più difficile il manteni mento dell’incardinazione diocesana, a causa della mobilità che potrebbe essere richiesta ai sacerdoti dediti al mo- vimento. In questo caso o si adotta semplicemente la soluzione pro- spettata dal Direttorio della Congregazione per il Clero poc’anzi ri- portata (che in base al can. 271 prevede il mantenimento dell’incar- dinazione nella diocesi di origine e la concessione di trasferimento temporaneo del chierico in un’altra diocesi dove il movimento si tro- va a operare), oppure si possono ipotizzare altre due soluzioni: per- mettere l’incardinazione dei chierici in questi ME 28 o attivare le Con- ferenze episcopali. Nel primo caso si potrebbe agire attraverso una concessione specia le della Sede Apostolica, tuttavia non data in assoluto e una vol - ta per sempre, ma con il mantenimento di uno stretto legame con la Congregazione per il Clero e il Pontificio Consiglio per i Laici, da cui oggi dipendono i movimenti. Questo, non per un mero scopo di con- trollo, ma per garantire la valenza istituzionale del ministero svolto da questi presbiteri nel movi mento. Questa soluzione risponderebbe di più non solo alla diffusione generalizzata del movimento, ma allo stes- so senso universale della Chiesa e del ministero sacerdotale. Nel secondo caso, sarebbero i vescovi di una nazione, magari in collaborazione con altre Conferenze episcopali, a provvedere all’esi - genza di mettere a disposizione presbiteri per un ME. Ciò potrebbe essere svolto attraverso la formazione di un gruppo di ministri ordi- nati che, pur rimanendo incardinati nelle loro diocesi, vengano mes- si a disposizio ne di qualche movimento attraverso opportune con- venzioni. Questa solu zione sottolineerebbe di più sia la connessione del carisma di un ME a un preciso contesto socio-ecclesiale sia la di- mensione locale e concreta della Chiesa; inoltre, garantirebbe una più efficace collaborazione fra ME e Chiese locali. Il problema della formazione di coloro che aspirano a divenire presbiteri per un ME e quindi il problema dei seminari (sul quale la nostra Rivista intende tornare quanto prima in modo approfondito) sono strettamente colle gati alla questione dell’incardinazione.

28 Cf J. BEYER, Motus ecclesiales, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 75 (1986) 632-633; G. GHIRLANDA, Questioni irrisolte..., cit., pp. 95-96. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 47

Stante le osservazioni e le ipotesi poc’anzi formulate, ne verreb- be che per i ME di carattere locale questi aspiranti potrebbero fre- quentare a tutti gli ef fetti il seminario diocesano o interdiocesano, potendo continuare a parteci pare al movimento e a condividerne la spiritualità, sotto la guida dei superiori del seminario e in accordo con i responsabili del movimento stesso; e comunque rimettendosi al discernimento del vescovo per la decisione ultima se essere affi- dati o meno a un ministero sacerdotale nel movimento. Per i seminaristi provenienti da qualche movimento la Pastores dabo vobis afferma in generale che

«non dovranno sentirsi invitati a sradicarsi dal loro passato e a interrompere le relazioni con l’ambiente che ha contribuito al determinarsi della loro voca- zione, né dovranno cancellare i tratti caratteristici della spiritualità che là hanno imparato e vissuto, in tutto ciò che di buono, edificante e arricchente essi contengono. Anche per loro, questo ambiente d’origine continua a esse- re fonte di aiuto e di sostegno nel cammino formativo verso il sacerdozio» 29.

Anche per i ME di dimensione più ampia, per i quali la questio- ne dell’incardinazione fosse stata demandata alle Conferenze episco- pali, potrebbe valere una soluzione simile; in questo caso i vescovi dovrebbero accordarsi sulle modalità con cui non venir meno agli impegni presi con il movimento e con cui permettere un’adeguata preparazione e inserimento dei presbiteri nel movimento stesso. Se, invece, si optasse, su concessione della Sede Apostolica, per un’incardinazione nel ME, allora spetterebbe naturalmente al movi- mento il compito della formazione degli aspiranti presbiteri. Tutta- via, a nostro avviso, ciò dovrebbe essere fatto con l’avvertenza a met- tere in atto una qualche forma stabile di rapporto di questi aspiranti con i seminaristi diocesani, al fine di essere educati anche al senso della Chiesa particolare. Non ci sembra secondario concludere questo argomento sot - toli neando come sarebbe un segno di genuinità ecclesiale di un mo- vimento la nascita e la maturazione in esso di vocazioni al sacerdo- zio diocesano. Tali vocazioni, per natura destinate al ministero ec- clesiale dell’unità e della comunione, sembrerebbero, infatti, i frutti più normali di un carisma parti colare di comunione ecclesiale come sono i ME.

29 Pastores dabo vobis, n. 68 (EV 13, n. 1482). 48 Eugenio Zanetti

Celebrazione dell’eucaristia Un altro punto teologicamente e pastoralmente nevralgico nei rap porti dei ME con la Chiesa locale riguarda la vita sacramentale e in particolare la messa domenicale. Si tratta di una problematica più limitata rispetto alla precedente, ma anche in essa sono in gioco, in modo molto significativo, i principi di fondo della nostra questione. Il tema dell’eucaristia non si limita alle sole questioni organizza- tivo-pastorali; esso rimanda, anzi, a considerazioni che toccano a - spetti fonda mentali della natura della Chiesa e della vita cristiana, che, come ricorda spesso il concilio Vaticano II (e sinteticamente lo stesso CIC vigente al can. 897), trova il suo culmine e la sua fonte proprio nell’eucaristia 30. Così Giovanni Paolo II ben sintetizza la dottrina conciliare al - l’inizio della Lettera Dominicae cenae: «Grazie al Concilio ci siamo resi conto, con forza rinnovata, di questa verità: come la Chiesa “fa l’eucari - stia”, così “l’eucaristia costruisce” la Chiesa» 31, sottolineando poi, nella conclusione come l’eucaristia debba essere fonte di unità della Chiesa:

«Soprattutto mi preme sottolineare che i problemi della liturgia, e in partico- lare della liturgia eucaristica, non possano essere un’occasione per dividere i cattolici e minacciare l’unità della Chiesa. Lo esige l’elementare comprensio- ne di quel sacramento, che Cristo ci ha la sciato come fonte di unità spiritua- le. E come potrebbe proprio l’eu caristia, che è nella Chiesa “sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis”, costituire in questo momento tra di noi un punto di divisione e una fonte di difformità di pensieri e di com- portamenti, invece che essere centro focale e costitutivo, qual è veramente nella sua essenza, dell’unità della Chiesa stessa?» 32.

Il tema dell’eucaristia ha un profondo nesso con il ministero episco pale e quindi con la Chiesa particolare; infatti

«la principale manifestazio ne della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprat- tutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dal suo Presbiterio e dai ministri» (SC 41).

Certamente il ve scovo è il principale “economo” dell’eucaristia, della quale la Chiesa conti nuamente vive e cresce (cf LG 26).

30 Cf SC 10, 47; LG 3, 11, 17, 26; UR 15; CD 30; AG 14; PO 5. 31 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Dominicae cenae, 24 febbraio 1980, n. 4 (EV 7, n. 165). 32 Ibid., n. 13 (EV 7, n. 230). Movimenti ecclesiali e Chiese locali 49

Noi, però, faremo riferimento soprattutto alla parrocchia, luogo dove i fedeli di una Chiesa particolare ordinariamente si radunano per la parteci pazione all’eucaristia domenicale. A questo livello il rap porto delle singole comunità dei ME con la Chiesa locale trova il suo livello più molecolare.

«La comunione ecclesiale, pur avendo sempre una dimensione uni versale, trova la sua espressione più immediata e visibile nella parrocchia: essa è l’ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» 33.

La parrocchia, pur nella sua genesi e contingenza storica, non è tuttavia una semplice suddivisione amministrativo-pastorale della dio cesi, ma ha una sua valenza teologica. Pertanto, «la partecipazio- ne delle aggregazioni alla vita della Parrocchia è motivata dal fatto che questa è una realtà teologica, perché essa è una comunità euca- ristica» 34. Se è vero in generale che la Chiesa fa ed è fatta dall’Eucaristia, ciò si deve applicare anche a questa vera cellula ecclesiale che è la parrocchia:

«Ciò significa che essa è una comunità idonea a celebrare l’eucaristia, nella quale stanno la radice viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la Chiesa. Tale idoneità si radica nel fatto che la Parrocchia è una comunità di fede e una comunità organica, ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il Parro- co – che rappresenta il Vescovo diocesano – è il vincolo gerarchico con tutta la Chiesa particolare» 35.

La celebrazione eucaristica in parrocchia assume, dunque, una valenza originaria e unica, nel senso che essa diviene luogo e stru- mento del darsi oggettivo della fede cristiana e dunque dell’edificarsi reale della comunità ecclesiale. Con ciò non si vuol dire che oggi di fatto le parrocchie assolva no dappertutto a questo compito; ma si vuol solo sottolineare che è pecu liare della parrocchia questa funzio- ne “istituita” di Chiesa, funzione essen ziale anche se non unica nella Chiesa, e anche nella Chiesa particolare.

33 Christifideles laici, n. 26 (EV 11, n. 1709). 34 CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 7 (ECEI 5, n. 1563). 35 Christifideles laici, n. 26 (EV 11, n. 1709). 50 Eugenio Zanetti

Da questo punto di vista, la parrocchia non è una delle tante aggre gazioni ecclesiali, sia pur paradigmatica, che il vescovo può eri- gere per poter presiedere efficacemente la porzione di popolo di Dio che gli è stata affidata. Così pure, non si può dire che la parrocchia è una delle tante forme, sia pur principale, delle “comunità eucaristi- che” presenti in una Chiesa particolare: essa «è un punto di riferi- mento obbligato, perché è una comunità non elettiva, ma territoriale, e rappresenta anche liturgicamente l’uni versalità della Chiesa» 36. Alla luce dei principi di fondo elaborati nella prima parte dell’articolo e anche dei testi magisteriali poc’anzi riportati, risulte- rebbe un po’ ambi guo affermare che «le “comunità eucaristiche” in cui si invera la Chiesa particolare possono assumere forme giuridi- che differenti: quella fissa e istituzionale, della Parrocchia appunto, e quelle variabili delle associazioni o dei movimenti» 37. Infatti, senza escludere che l’Eucaristia possa opportunamente essere celebrata anche in un ambito non parrocchiale, si deve tutta- via riconoscere che si tratta di celebrazioni che si pongono su piani ecclesiologici diversi, non nel senso di “un più” o di “un meno” eccle- siale, ma nel senso di funzioni ecclesiali diverse e peculiari. In questi termini ci sembra vada interpretata l’affermazione conciliare secon- do cui la parrocchia è considerata una forma «eminente» delle as- semblee dei fedeli costituite dal vescovo nella sua diocesi (cf SC 42), anzi «come una cellula» della diocesi (cf AA 10). Pertanto, non sarebbe ecclesiologicamente corretto giungere alla conclusione che, in un contesto odierno di crisi delle forme cele - brative of ferte dalle parrocchie, altre forme celebrative o altre comu- nità eucaristiche (come, per esempio, i ME) vi si possono sostituire con la stessa valenza e funzio ne ecclesiale. Ciò non sarebbe neppure pastoralmente efficace, poiché, come abbiamo notato da un punto di vista teologico-pratico, proprio al fine di superare la crisi di elabora- zione di valide forme storiche di Chiesa, che permettano all’uomo di oggi di accedere oggettivamente e soggettiva mente alla fede cristia- na, sono necessarie sia la funzione istituzionale che quella carismati- ca della Chiesa. E affinché tali funzioni apportino realmente il loro contributo, è necessario che non perdano la loro specificità e che si rispettino e valorizzino reciprocamente. Ora è proprio nell’ambito

36 G. L. BRENA, Movimenti ecclesiali..., cit., pp. 600-601. 37 L. GEROSA, Carisma e diritto..., cit., p. 230. Movimenti ecclesiali e Chiese locali 51 della Chiesa locale, e dunque anche nella parrocchia, comunità della Parola, dell’eucaristia e dei carismi, che tale corretta circolarità di funzioni può essere efficacemente data. Si può anche aggiungere che è vero che un’eucaristia può esse- re celebrata lecitamente e fruttuosamente da qualsiasi ministro vali- damente ordinato e in comunione e sotto l’autorità del proprio vesco- vo, e anche in luoghi diversi, aspetti tutti regolati dal CIC vigente nel capitolo sulla celebrazione eucaristica (cf cann. 899-958). Ma con ciò non si può dedurre che secondo il Codice ogni forma celebrativa eu- caristica ha uguale o analoga valenza e funzione ecclesiale. Da que- sto punto di vista va segnalato come significativamente il tema della parrocchia e del parroco sia inserito nella parte sulla costituzione gerarchica della Chiesa e quello delle as sociazioni dei fedeli nella parte sui christifideles. A riguardo, poi, del parroco, nel can. 528 § 1 si sottolinea come, nell’assol vere alla sua funzione di santificazione, sia suo dovere «fare in modo che la santissima eucaristia sia il centro dell’assemblea par- rocchiale dei fede li». In questa linea va, dunque, raccolto l’invito, espresso in di versi documenti magisteriali, a eliminare il più possibile i frazionamenti celebrativi del popolo di Dio, soprattutto nel giorno del Signore 38, in- vito così ap plicato ai movimenti da Giovanni Paolo II:

«Visti i tanti spunti positivi che i nuovi movimenti e le nuove comunità intro- ducono nella vita ecclesiale, vi prego di fare attenzione affinché questi spunti si ritrovino nella celebrazione domenicale dell’Eucaristia con il Popolo di Dio. La Messa domenicale, in quanto festa del Popolo di Dio, è fondamenta- le per la Chiesa e deve riunire i diversi gruppi che formano il Popolo di Dio. Inoltre, vista la crescente caren za di personale, sarebbe incomprensibile che gruppi o raggruppamenti di qualsiasi genere chiedessero una particolare ce- lebrazione domenicale dell’Eucarestia» 39.

Ciò potrebbe essere giustificato e ulteriormente articolato a par tire dai principi di fondo sopra richiamati. Se nei ME si vuol offri- re un segno pedagogico di vera vita cristiana e di una vera esperien-

38 SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Eucharisticum mysterium, 25 maggio 1967, nn. 26-27 (EV 2, nn. 1326-1327); CEI, Documen to pastorale Eucarestia, comunione e comunità, 22 maggio 1983, nn. 71 e 78 (ECEI 3, nn. 1316 e 1323); CEI, Nota pastorale Il giorno del Signore, 15 luglio 1984, n. 10 (ECEI 3, n. 1943). 39 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi delle Diocesi del sud-ovest della Repubblica Federale di Ger- mania, 19 dicembre 1992 (testo riportato in CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 35 [ECEI 5, n. 1601]). 52 Eugenio Zanetti za di comunione ecclesiale, è perciò necessaria in essi la pre senza dell’eucaristia:

«Non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come ra- dice e come cardine la celebrazione della sacra eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità» (PO 6).

Tale esperienza eucaristica, vissuta in modo soggettivamente forte nei ME, può oggi divenire per i fedeli che vi partecipano luogo e mezzo efficace di educazione allo spirito di comunione ecclesiale, di cui i ME sono appunto interpreti significativi (cioè nella dimensio- ne del segno). E di questo la Chiesa oggi ha bisogno, in un contesto di crisi della comprensione del rito e di mancanza del sostrato di senso di fraternità di cui necessita in partico lare il rito eucaristico. Proprio perché la funzione ecclesiale dei ME si esprime in tale dimensione carismatica di segno pedagogico, occorre, però, evitare che il movimento si pensi come assemblea o comunità eucaristica ecclesiologi camente e pastoralmente autosufficiente. Il ME, al con- trario, ha necessa riamente bisogno di alimentare la sua vita celebra- tiva eucaristica e di aprir la a quelle forme “istituite”, in cui si danno gli elementi costitutivi e oggetti vi dell’accesso alla fede in Gesù Cri- sto, il quale si offre nella memoria della sua Pasqua celebrata la do- menica e lungo tutto l’anno liturgico nelle Chie se locali. Quanto detto potrebbe, allora, giustificare sia l’importanza di conce dere nei giorni feriali celebrazioni eucaristiche all’interno dei ME, sia la necessità che di norma nel giorno del Signore e nei giorni festivi anche i membri del movimento partecipino alle celebrazioni eucaristiche parroc chiali. Inoltre, per favorire la circolarità degli ap- porti, nel primo caso tali celebrazioni potrebbero essere opportuna- mente aperte anche a fedeli non appartenenti al movimento; nel se- condo, i membri dei movimenti potrebbero mettersi a disposizione per una più fruttuosa ed efficace celebrazione parrocchiale, senten- dosi in ciò a tutti gli effetti membri di quella comunità cristiana, an- che se portatori di una testimonianza carismatica particolare. In tutto questo, soprattutto qualora una comunità di un movi- mento non abbia a disposizione un ministro proprio, il ruolo del par- roco e dei suoi collaboratori può assumere un forte valore di valoriz- zazione e di equilibrio. A seconda delle circostanze e dei contesti socio-culturali ed ec- clesiali, e anche a seconda del carisma e della configurazione dei sin- Movimenti ecclesiali e Chiese locali 53 goli ME, dovranno essere poi date indicazioni più particolari e preci- se da parte dei vescovi diocesani o dell’episcopato nazionale o degli organismi pontifici competenti.

Formazione ed evangelizzazione Un ultimo aspetto che vorremmo richiamare riguarda un altro ambito in cui può avvenire un’intersecazione o anche una certa con - flittualità tra le attività svolte dai ME e quelle allestite a livello dioce- sano o parrocchiale: l’ambito dei cammini di formazione e di evange- lizzazione. Dal principio sacramentale passiamo a quello scritturistico, cioè a tutto ciò che ruota attorno alla parola di Dio. Senz’altro si può applicare anche qui, quanto già ampiamente sviluppato a proposito del principio sacramentale (“eucaristico”), del ministero ordina to e, più in generale, della circolarità tra funzione istituzionale e funzione carismatica. Forse è soprattutto questo l’ambito in cui i ME possono eserci- tare più diffusamente il loro carisma di segno pedagogico di vita cri- stiana e di comunione ecclesiale. È qui, cioè, che può trovare mag- gior attuazione la loro valenza pedagogica, formativa, educativa; tut- tavia, tenendo sempre presente che tale valenza è espressa sotto la cifra del segno. Ciò significa che le attività di formazione ed evange- lizzazione espresse dai ME non devono tendere a sostituirsi, come quantità e connotazione, alle iniziative elaborate dalle altre realtà ec- clesiali, in particolare dagli organismi legati alle forme istituite della Chiesa, sia universale che particolare. Ma significa che esse diver- ranno una concreta e fattiva stimolazione nei confronti delle altre ini- ziative, attraverso la visibile attuazione di alcune particolari metodo - logie, cammini, itinerari, legati al loro carisma originario, che oggi sembra no favorire meglio lo sviluppo personale della vita spirituale e apostolica dei fedeli. Contemporaneamente ciò comporta che queste attività dei ME, per non correre il rischio di scadere nel soggettivismo, nella parzialità o nella moda del tempo, non solo rinnovino continuamen- te il carisma originario, ma anche si nutrano a loro volta della parola di Dio, quale annunciata nella Chiesa in modo autentico e fedele dai pastori e in particolare dal vescovo, e nei contesti ecclesiali istituiti, quali quelli diocesani e parrocchiali, o in quelli ufficialmente depu- tati per l’insegnamento, come le scuole cattoliche e le università ec- 54 Eugenio Zanetti clesiastiche, gli istituti di scienze religiose e le scuole di formazione teologica. Dal punto di vista pastorale, l’unità delle iniziative dei ME con la più generale opera di evangelizzazione della Chiesa può trovare un punto proficuo di convergenza nella collaborazione al “piano pastora- le” elaborato dalle Chiese locali 40. In questo orizzonte vanno recepiti e interpretati diversi pronun - cia menti magisteriali in merito, che sottolineano come uno dei frutti genuini di un’aggregazione ecclesiale sia proprio «la capacità peda- gogica nel formare i cristiani» e che dunque invitano le Chiese locali ad aprire a tali aggre gazioni «gli spazi necessari a esprimere i rispet- tivi itinerari educativi e metodologie» 41: «Perché possano vivere il loro slancio missionario, è necessario che le realtà aggregative siano scuole di formazione. Ogni aggregazione deve essere luo- go di annuncio e di proposta della fede, scuola di educazione al suo contenu- to integrale. Lo scopo formativo dell’aggregazione è di condurre i propri membri a “personalizzare” la fede e a viverla coerentemente, giungendo a una sempre più chiara con sapevolezza della propria, esaltante ed esigente dignità cristiana; di sostenere la loro vita di comunione; di aiutarli ad essere fedeli e ge nerosi ministri della “nuova evangelizzazione”» 42.

A sottolineare il fatto che la formazione fornita nelle aggrega - zioni ecclesiali non deve però tendere ad assolutizzarsi, la Christifi- deles laici aggiunge che esse hanno anche «l’opportunità di integra- re, concretizzare e specifi care la formazione che i loro aderenti rice- vono da altre persone o comunità» 43. Il riferimento alle forme istituite dell’annuncio e della formazio- ne cristiana tende a far sì che «nel ministero della Parola, che deve fondarsi sulla sacra Scrittura, la Tradizione, la liturgia, il magistero e la vita della Chiesa, sia in tegralmente e fedelmente proposto il miste- ro di Cristo» (can. 760). A livello pastorale, oltre ai cammini formativi vissuti all’in terno dei ME che, come detto, svolgono già per la Chiesa la funzione di se- gno pedagogico di formazione cristiana ed ecclesiale, vanno sottoli- neati altri aspetti che favoriscono la circolarità tra i frutti pedagogici dei ME e le strutture formative della Chiesa locale.

40 Cf CEI, Le aggregazioni laicali..., cit., n. 34 (ECEI 5, n. 1559). 41 Cf ibid., nn. 21 e 36 (ECEI 5, nn. 1578 e 1602). 42 Ibid., n. 37 (ECEI 5, n. 1603). 43 Christifideles laici, n. 62 (EV 11, n. 1880). Movimenti ecclesiali e Chiese locali 55

Si pensi, per esempio, all’ambito della catechesi degli adulti:

«La catechesi degli adulti si presta a favorire questa unità per due motivi. Esige anzitutto quel tipo di persone con una buona preparazione di fondo e con una disponibilità al servizio che sono numerose nei diversi gruppi e mo- vimenti (e per fortuna non solo in essi). D’altra parte risulta facilitata la col- laborazione perché si chiede a ciascun gruppo di contribuire a svolgere, in- sieme con altri, compiti che non gli sono propri e caratteristici, mentre lo so- no per la Chiesa locale» 44.

Sempre in questo ambito si potrebbe innestare una simile col- laborazione nella preparazione dei fidanzati al matrimonio o nel - l’accompagnamento delle giovani famiglie, coinvolgendo coppie ben formate anche di diversi movimenti o aggregazioni ecclesiali. Si potrebbe, infine, accennare all’iniziativa delle missioni par- rocchiali, momento forte di rinnovamento della vita ecclesiale e di nuova evangelizzazione. In stretta collaborazione coi pastori delle Chiese locali, i ME potrebbero con frutto mettere a disposizione la propria esperienza e testimo nianza. In tutto ciò, occorre richiamare ancora una volta la necessità, non solo di una normativa-quadro, ma soprattutto di indicazioni par- ticolari offerte dai vescovi, come d’altronde già avviene in diverse Chiese locali dove sono presenti i ME.

Conclusione Ciò che abbiamo esposto in questo studio non ha certamente l’indole di una normativa, né ha la pretesa di dare risposte esaustive alle problematiche suscitate dai ME all’interno delle Chiese locali. Esso ha voluto solo delineare alcune linee teologico-canoniche utili (almeno speriamo) per una corretta e fruttuosa impostazione di questo proble ma e di questa ricchezza ecclesiale. Quello dei ME è certamente un carisma particolare, cioè un do - no da to dallo Spirito alla Chiesa per l’oggi, pertanto importante e da tutelare e valorizzare. In quanto dono particolare esso deve, però, ri- conoscere di essere parziale e temporaneo; non è cioè della stessa indole dei doni costitutivi della Chiesa. Con ciò non si vuol sminuir- ne l’importanza, ma sottolineare come questo dono è strettamente

44 G. L. BRENA, Movimenti ecclesiali..., cit., pp. 601-602. 56 Eugenio Zanetti legato al tempo e alle circo stanze. È d’altronde questa sua concretez- za e connotazione storica che lo rende necessario nello sforzo che oggi la Chiesa sta facendo per elaborare e proporre forme attuabili e attuali di vita cristiana. Per queste nuove realtà e problematiche non sembrano bastare le norme codiciali attuali. I ME moderni, infatti, rappresentano un ti - po di ag gregazione del tutto particolare; sono sì associazioni di fede- li, ma nel senso globale e non settoriale del termine. Così pure non si può mutuare la normativa di questi ME semplicemente da quella sulla vita consacrata, benché in assenza di altro vi si possano indivi- duare alcuni elementi utili. Forse proprio dal confronto con la realtà della Chiesa locale, vi- sto in senso teologico-pratico e non solo dogmatico, possono emer- gere ragioni e principi di fondo utili per valorizzare, vagliare e rego- lamentare in modo autentico questo dono provvidenziale dei ME.

EUGENIO ZANETTI Via Arena, 11 24129 Bergamo Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 57-66 Per una configurazione canonica dei movimenti ecclesiali di Silvia Recchi

Prima di cercare i punti di riferimento nel Codice della Chiesa che permettano di delineare una configurazione canonica dei movi- menti ecclesiali, occorre, anche se in maniera generale e sommaria, definire il fenomeno che va sotto il nome di “movimento ecclesiale”. È noto come a questo riguardo esista una letteratura assai abbon- dante 1. Tale abbondanza non permette tuttavia di pervenire a una convergenza di definizioni su di esso, né di raggiungere un certo ri- gore terminologico a cui corrisponda una identità ben precisata del “movimento ecclesiale”. Non è nostro scopo entrare in una ricerca di classificazione dei movimenti. Opteremo piuttosto per alcune classi- ficazioni proposte da altri autori che, a nostro giudizio, ci aiutano a svolgere in maniera più proficua il discorso su una possibile configu- razione canonica dei movimenti. Sono molte e varie le realtà che si definiscono oggi come movi- menti ecclesiali. La prima domanda che possiamo porci è se esse, da un punto di vista canonico, interessino essenzialmente i christifideles laici o la vita consacrata. Se consideriamo le due esortazioni apostoli- che che hanno fatto seguito al Sinodo sui laici e a quello sulla vita consacrata, notiamo che ambedue i documenti fanno riferimento ai movimenti ecclesiali. Nella Christifideles laici [= CfL] Giovanni Pao- lo II afferma che ci si trova di fronte a una nuova stagione aggregati- va di fedeli, in cui accanto all’associazionismo tradizionale «sono ger-

1 Cf AA.VV., I movimenti della Chiesa negli anni ’80, a cura di M. Camisasca e M. Vitali, Milano 1982; AA.VV., Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche, a cu- ra di A. Favale, Roma 1980. Per una trattazione più canonica cf B. ZADRA, I movimenti ecclesiali ed i loro Statuti, Roma 1997, con ampia bibliografia. A quest’ultima autrice ci ispiriamo ampiamente nella reda- zione di questo articolo. 58 Silvia Recchi mogliati movimenti e sodalizi nuovi, con fisionomia e finalità specifi- che». Tale fenomeno vede nei tempi moderni «il nascere e il diffon- dersi di molteplici forme aggregative: associazioni, comunità, movi- menti» (CfL 29). Senza definire né classificare le varie forme, l’Esortazione ne afferma l’esistenza e l’importanza. Ugualmente il documento postsinodale Vita consecrata [= VC] dedica vari passaggi ai movimenti ecclesiali. In particolare laddove l’Esortazione parla delle nuove fondazioni e delle nuove forme di vita evangelica che si presentano oggi con caratteri originali rispetto a quelle tradizionali, soprattutto per la composizione dei membri: uo- mini, donne, chierici e laici, coniugati e celibi che s’impegnano a un particolare stile di vita, ispirata all’una o all’altra forma tradizionale o adattata alle esigenze della società attuale (VC 62). L’Esortazione fa quindi un riferimento esplicito ai movimenti ecclesiali laddove parla della partecipazione a essi di persone consacrate. Se tale partecipa- zione – dice – apporta spesso un beneficio autentico per quanto ri- guarda un personale rinnovamento spirituale, occorre tuttavia ve- gliare che l’adesione a tali movimenti avvenga nel rispetto dell’iden- tità e della disciplina dell’istituto di appartenenza (VC 56). I due documenti citati non ci permettono di delineare una preci- sa configurazione della realtà costituita dai movimenti. Per poter svi- luppare ulteriormente il nostro discorso, assumiamo una distinzione teologica proposta da un autore che differenzia i movimenti in quan- to laicali, spirituali ed ecclesiali 2. I primi – laicali – raggruppano per lo più fedeli laici che deside- rano vivere pienamente la loro vocazione e missione nella Chiesa (è il caso, ad esempio, dell’Azione Cattolica). I secondi – spirituali – ten- dono piuttosto a promuovere una più profonda vita spirituale nei confronti dei fedeli che ne fanno parte (molti dei terzi ordini appar- tengono a questa categoria). Infine ci sono i movimenti propriamen- te “ecclesiali”, i quali si caratterizzano per il fatto che a essi parteci- pano le varie categorie di fedeli e i vari ordini di persone. Questi ulti- mi si distinguono inoltre per un’azione e una testimonianza pubblica, coinvolgendo la vita dei propri membri in una dimensione che non è solo spirituale, ma ingloba precise strutture di vita.

2 Cf J. BEYER, Movimenti ecclesiali, in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo 1993, pp. 707-712; ID., I movimenti ecclesiali, in «Vita consacrata» 23 (1987) 143-156; ID., Motus ecclesiales, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 75 (1986) 613-637. Per una configurazione canonica dei movimenti ecclesiali 59

Il movimento ecclesiale nasce attorno a un carisma specifico che ne rappresenta l’idea-forza attorno a cui si strutturano vari stati di vita. C’è una dimensione unificante che determina, pur se a vari livelli di appartenenza secondo le differenti vocazioni, una certa comunione di beni, una certa sottomissione a una autorità, una par- tecipazione alla missione della Chiesa secondo il carisma del mo- vimento. Questa dimensione unitaria-comunionale vede riuniti nel movimento membri di tutto il popolo di Dio, che partecipano alle va- rie vocazioni e ai vari ministeri. Si può per analogia parlare di una “micro-ecclesia” riunita attorno a un carisma fondazionale che ha una sua fisionomia, una particolare spiritualità, fini propri perseguiti sia congiuntamente che separatamente secondo i vari status delle persone. Le prime due categorie di movimenti (laicali e spirituali) posso- no trovare soluzioni canoniche agevoli nel diritto che il Codice riser- va alle associazioni di fedeli. Invece i movimenti ecclesiali, nell’acce- zione che abbiamo definito, esigono, quanto a una loro configurazio- ne canonica, un discorso più complesso e articolato.

Punti di riferimento canonici generali È un dato di fatto che molti degli attuali movimenti ecclesiali so- no approvati canonicamente come associazione di fedeli. Senza dub- bio il diritto sulle associazioni nel nuovo Codice della Chiesa offre una struttura canonica di base per tali movimenti, una struttura a - perta che permette di proteggere senza determinare rigidamente una realtà ecclesiale che ha bisogno di sufficiente organizzazione, ma anche di libertà per esprimersi e ricercare una propria identità strutturale. L’attuale diritto associativo previsto dal legislatore cano- nico, malgrado i suoi limiti e le sue insufficienze, si è rivelato di una importanza capitale per la vita di queste realtà ecclesiali. Oltre al diritto sulle associazioni anche il riferimento al diritto sulla vita consacrata è d’obbligo. E ciò per un motivo fondamentale, ancor prima che per il fatto che nei movimenti ecclesiali esistono gruppi di consacrati che spesso rappresentano il motore trainante del movimento stesso. In effetti, il diritto che il Codice riserva alla vi- ta consacrata offre punti analogici importanti per esprimere adegua- tamente il rapporto tra carisma e strutture, per pervenire al discerni- mento di un carisma e suggerire regole canoniche coerenti. Occorre infatti considerare il movimento ecclesiale come una realtà carisma- 60 Silvia Recchi tica nella Chiesa che, come tale, deve essere accolta, protetta e a cui si deve riservare una disciplina adeguata. In questo senso un primo canone da tenere presente è quello che il Codice riserva alle nuove forme di vita consacrata. Il can. 605 può essere un importante punto di riferimento anche se il movimen- to ecclesiale non può essere considerato ipso facto una nuova forma di vita consacrata. Il canone invita i vescovi a discernere i nuovi cari- smi, ad aiutare i promotori di nuovi gruppi e di nuove comunità a esprimere nel miglior modo i propri progetti e a proteggere queste nuove realtà con statuti adeguati. Il can. 605 invita così a effettuare un primo discernimento e offrire una prima protezione ai movimenti ecclesiali. Abbiamo sottolineato come la maggior parte dei movimenti sia oggi riconosciuta come associazione di fedeli. Una associazione di fedeli non è soltanto associazione di fedeli laici, bensì un raggruppa- mento che può comprendere più ordini di persone, secondo quanto costituisce la fisionomia degli attuali movimenti ecclesiali. Tali asso- ciazioni, secondo il Legislatore canonico, possono essere ricono- sciute tacitamente (can. 299 § 1), possono essere lodate o racco- mandate dall’autorità competente (can. 299 § 2), possono avere i loro statuti approvati (can. 299 § 3) e quindi ottenere personalità giuridica (can. 322) o infine possono essere erette quali associazioni pubbliche (cann. 301 e 313). Secondo che l’associazione sia riconosciuta come privata o pub- blica, il Codice prevede una disciplina differente. Gran parte dei mo- vimenti ecclesiali sono oggi riconosciuti come associazione privata. Noi non entriamo nel dibattito suscitato da più autori sull’opportu- nità, all’interno della Chiesa, di una distinzione tra “pubblico” e “pri- vato”, né in merito alla domanda se una realtà come quella dei mo- vimenti ecclesiali, caratterizzata da un’ampia visibilità e pubblicità della propria azione e missione, possa essere relegata a fatto mera- mente privato (tanto più che all’interno dell’associazione ci sono gruppi di fedeli che esercitano il sacro ministero o vivono la pratica effettiva dei consigli evangelici). Da un punto di vista canonico ci limi- tiamo a constatare che il riconoscimento come associazione privata lascia maggiori spazi di libertà, necessari soprattutto all’inizio, quan- do si è alla ricerca di una propria e coerente espressione strutturale. Un movimento ecclesiale approvato come associazione di fedeli dovrebbe prevedere diverse sezioni, ognuna corrispondente a un gruppo di fedeli che hanno in comune una stessa vocazione (sacer- Per una configurazione canonica dei movimenti ecclesiali 61 doti, consacrati, coniugati ecc.). Il Codice fa riferimento a questa possibilità di erigere varie sezioni di una associazione (can. 312 § 2). In effetti è importante che il movimento ecclesiale si presenti come un tutto organico, unito da una struttura di comunione che abbrac- cia raggruppamenti differenziati. Questa prospettiva esige una disci- plina canonica espressa da statuti generali, validi per tutto il movi- mento, e da statuti particolari da applicare alle singole sezioni o rag- gruppamenti dell’associazione. Il Codice fa anche riferimento a un’altra possibilità concernente le associazioni dei fedeli (ma in questo caso solo quelle pubbliche). Il can. 313 parla di una «confederazione di associazioni pubbliche», che con il decreto di erezione della competente autorità riceve la personalità giuridica e la missione per conseguire a nome della Chie- sa gli scopi che si prefigge. Ci sembra che anche la configurazione canonica di un movimento ecclesiale come confederazione di distin- te associazioni debba esser tenuta presente e possa in alcuni casi es- sere più adatta a esprimere l’identità del movimento stesso. Sia nel caso che un movimento ecclesiale si configuri come un’associazione con più sezioni che come una confederazione di as- sociazioni, occorre prevedere statuti generali, che si applicano all’insieme del movimento, e statuti particolari per ogni gruppo che lo costituisce. Ciò che è da escludere, come in maniera appropriata viene sottolineato 3, è il riconoscimento canonico o l’erezione autono- ma dei differenti rami (per esempio, riconoscere il gruppo dei con- sacrati come istituto religioso, quello dei ministri sacri quale prelatu- ra personale, o un altro come Società di vita apostolica ecc). Queste soluzioni non tradurrebbero canonicamente l’unità del progetto del movimento ecclesiale, né esprimerebbero la struttura di comunione che lega i vari gruppi e che è la caratteristica più originale dell’iden - tità del movimento ecclesiale. Ciò che distingue quest’ultimo infatti – e che crea qualche difficoltà per il suo riconoscimento canonico – è proprio la sua unità di ispirazione e di progetto nella differenziazione delle varie categorie di fedeli. Tale unità deve ricevere la massima protezione canonica, se si vuole restare aderenti all’ispirazione cari- smatica del movimento. In coerenza con quanto detto, anche per i movimenti ecclesiali va tenuto presente quello che il Codice prescrive per gli Istituti di vita

3 Cf J. BEYER, I movimenti ecclesiali..., cit., p. 710; G. GHIRLANDA, Questioni irrisolte sulle associazioni dei fedeli, in «Ephemerides Iuris Canonici» 49 (1993) 100 ss. 62 Silvia Recchi consacrata nel can. 586 e cioè che a ogni istituto va riconosciuta una «giusta autonomia» di vita e in particolare di governo, affinché possa godere di una propria disciplina che tuteli il suo patrimonio carismati- co. Se i movimenti ecclesiali sono frutto di un’ispirazione carismatica, a servizio di tutta la Chiesa, la protezione di tale autonomia da parte degli ordinari del luogo (can. 586 § 2) diventa fondamentale, allo stes- so modo di come il progetto evangelico che scaturisce da quella ispi- razione esige il rispetto e la fedeltà di tutti i membri (can. 578).

Gli statuti e l’autorità ecclesiastica competente Quali riferimenti canonici tener presenti nella redazione degli statuti di un movimento ecclesiale? 4 Il Codice di diritto canonico par- la degli statuti nel can. 94 delle norme generali e, in maniera più spe- cifica per le associazioni di fedeli, nel can. 304, in riferimento appun- to alla necessità per queste ultime di avere propri statuti che ne esprimano il fine, la sede e il governo. Un canone da prendere in considerazione è anche il 587, che il Legislatore canonico riserva per la redazione delle Costituzioni negli Istituti di vita consacrata. Ritornando a quanto detto precedentemen- te infatti, gli statuti di un movimento ecclesiale non si devono solo preoccupare di offrire una disciplina giuridica per meglio gestire le finalità e l’organizzazione dell’associazione. Anche la sua identità ca- rismatica dovrà essere espressa contemporaneamente alle sue strut- ture portanti. In questo senso il can. 587 esprime meglio dei cann. 94 e 304 l’importanza di armonizzare gli elementi spirituali e quelli giu- ridici, nonché la necessità di salvaguardare il progetto carismatico che ha dato vita al movimento. Un problema che si pone a riguardo degli statuti è il rapporto tra quelli generali di tutto il movimento e quelli particolari in riferi- mento ai diversi raggruppamenti di fedeli. Ci si può chiedere se sia lecito qui far ricorso anche alla distinzione che il can. 587 fa, per gli Istituti di vita consacrata, tra i codici fondamentali e gli ulteriori re- golamenti. Alcuni autori sembrano suggerire una risposta positiva, riservando agli statuti generali del movimento l’approvazione ec- clesiastica e a quelli particolari l’approvazione da parte dell’autorità

4 Per quanto riguarda la redazione degli statuti dei movimenti ecclesiali rinviamo al libro di Zadra (cf nota 1). Per una configurazione canonica dei movimenti ecclesiali 63 del movimento 5. Ci sembra tuttavia che a questo proposito il discor- so sia più complesso. Gli statuti generali dovrebbero ricevere senza dubbio l’approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica competente, anche se la disciplina canonica per le associazioni private dei fedeli non esi- ge tale approvazione, se non nel caso che l’associazione chieda di avere personalità giuridica nella Chiesa (can. 322). Ci sembra neces- sario nel caso dei movimenti ecclesiali che essi si sottomettano al di- scernimento dell’autorità ecclesiastica (ritorna l’importanza del can. 605). Gli statuti generali devono fissare le strutture portanti del mo- vimento concernenti il suo progetto carismatico, le sue opzioni fon- damentali, la sua spiritualità, i differenti ordini di persone di cui esso si compone, le condizioni generali di ammissione, il governo genera- le del movimento, le strutture di comunione tra i vari raggruppa- menti, una ratio formativa comune che miri a far partecipare tutti i membri alle direttive fondamentali del movimento e necessaria per garantire l’unità dell’insieme. È importante specificare anche la ge- stione dei beni patrimoniali del movimento, la condivisione comune di essi o propria a ogni raggruppamento. Se l’associazione è eretta come pubblica, i suoi beni patrimoniali saranno considerati ecclesia- stici, secondo le norme del V Libro del Codice, norme da tenere dunque presenti. Sempre negli statuti generali occorrerà precisare le condizioni per il passaggio eventuale di un membro da un rag- gruppamento a un altro dell’associazione, e infine i motivi per cui i membri possono essere dimessi dal movimento. Riguardo all’approvazione degli statuti particolari, quelli cioè propri a ogni sezione o a ogni raggruppamento dell’associazione che unisce fedeli attorno a un comune “stato di vita” (sposati, sacerdoti, consacrati ecc.), possono essere semplicemente riconosciuti dall’autorità interna del movimento? Noi vediamo con difficoltà una risposta affermativa, soprattutto in riferimento a statuti che debbono regolare la vita di membri consacrati o quella dei membri che hanno ricevuto il sacro ministero o a esso si preparano. Gli statuti particola- ri devono prevedere le condizioni, le necessità, gli obblighi e i diritti inerenti a ciascuna sezione dell’associazione. Ci sembra perciò che, nel caso di statuti che debbono dare una disciplina per gruppi di consacrati o di sacerdoti, una responsabilità più diretta dell’autorità

5 Cf B. ZADRA, I movimenti ecclesiali..., p. 107. 64 Silvia Recchi ecclesiastica sia chiamata in causa. A nostro avviso è questa anche una delle ragioni per cui il genere di associazione di fedeli più ido- nea per i movimenti ecclesiali appare essere quella pubblica piutto- sto che quella privata. L’autorità ecclesiastica competente a erigere le associazioni pubbliche di fedeli o a riconoscere gli statuti delle associazioni priva- te è il vescovo diocesano per le associazioni diocesane, la Conferen- za episcopale per le associazioni che si estendono sul territorio na- zionale e infine la Santa Sede per le associazioni che hanno una irra- diazione universale (cann. 312 e 322). Quando si dice Santa Sede, occorre fare riferimento al dicaste- ro competente, che non è necessariamente il Pontificio Consiglio per i laici (il quale non potrebbe rivendicare una competenza su una as- sociazione “mista”, che conta cioè al suo interno raggruppamenti non solo di laici). A questo riguardo si può fare riferimento all’art. 21 della Costituzione apostolica Pastor bonus, il quale prevede che pro- blemi di materia mista vengano esaminati da più dicasteri o la costi- tuzione di commissioni interdicasteriali permanenti 6. Tutto ciò fino a quando una disciplina più organica ed esplicita sarà riservata ai mo- vimenti ecclesiali.

Punti di riferimento canonici specifici Gli statuti particolari dell’associazione debbono delineare una disciplina specifica per la categoria di fedeli a cui si riferiscono. Essi permettono anche riferimenti più immediati al diritto che il Codice riserva, nelle sue varie parti, alle diverse categorie di fedeli. Tali riferimenti sono necessari. Deve essere chiarito, per esem- pio, l’impegno con cui i consacrati nel movimento assumono i consi- gli evangelici; devono essere esplicitati i loro diritti e i loro doveri, la loro missione specifica nel movimento, la loro formazione, il loro go- verno, la maniera di vivere la comunione dei beni. A volte nei movi- menti ci sono differenti tipologie nell’ambito della stessa vita consa- crata (monastica, apostolica ecc.) che debbono essere tenute pre- senti con una disciplina corrispondente. Uguale preoccupazione concerne la sezione rappresentata dai sacri ministri, di cui occorre ben delineare gli obblighi e il legame

6 Cf AAS 80 (1988) 865. Per una configurazione canonica dei movimenti ecclesiali 65 con il movimento, il loro rapporto con il vescovo di incardinazione e, in generale, con la diocesi in cui i sacerdoti lavorano. Il legislatore canonico non ha riconosciuto alle associazioni la competenza per in- cardinare ministri sacri. Nella maggior parte dei casi si fa ricorso a incardinazioni “fittizie”, che si fondano sul consenso e la fiducia del vescovo e sugli accordi che questi stringe con il movimento. Anche a riguardo dei laici (coniugati o no) gli statuti particolari dovranno chiarire la loro adesione al movimento in tutte le sue esi- genze (stile di vita, sottomissione a una autorità, gestione dei beni patrimoniali ecc.), in coerenza al loro stato di vita e alla loro missio- ne nel movimento. Un discorso particolare riguarda la partecipazione ai movimenti ecclesiali di religiosi legati a istituti di vita consacrata. Nel caso di una partecipazione a movimenti “spirituali” ciò non sarebbe proble- matico: infatti anche i religiosi potrebbero essere arricchiti e stimo- lati a vivere più profondamente la propria spiritualità, all’interno di questi movimenti. Più delicato invece ci sembra il caso della loro partecipazione a un movimento ecclesiale del tipo che abbiamo descritto. Definendosi il movimento ecclesiale, a differenza di altri tipi di movimenti, sulla base di un progetto carismatico unitario e comunionale – in un certo senso totalizzante in quanto implica non solo l’adesione a una spiri- tualità, ma anche a precise strutture di vita – diventa difficile per i re- ligiosi, già incorporati in altri istituti, conciliare la loro partecipazione al movimento con la vita nel proprio istituto. Il documento della Con- gregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apo- stolica La vita fraterna in comunità ha fatto giustamente notare che, mentre alcuni movimenti sono semplicemente movimenti di anima- zione, altri hanno invece progetti apostolici precisi che possono es- sere incompatibili con quelli della propria comunità religiosa, che ha una coerenza interna proveniente dal suo carisma e dalla sua iden- tità specifica (cf n. 62). La stessa Esortazione apostolica Vita conse- crata – abbiamo visto – mette in guardia dall’appartenenza di religio- si a movimenti quando ciò comporti un conflitto con le esigenze del- la vita comune e della spiritualità del proprio istituto (cf n. 56). Oltre alle categorie di fedeli a cui abbiamo fatto riferimento, so- no presenti a volte nei movimenti ecclesiali anche persone non catto- liche. La loro presenza nel movimento ci sembra porre ulteriori pro- blemi da valutare con prudenza e di cui non trattiamo nel presente articolo. 66 Silvia Recchi

Conclusione Quello dei nuovi movimenti è uno dei fenomeni ecclesiali post- conciliari più significativi, che la Chiesa è invitata ad accogliere e tu- telare a servizio di tutto il popolo di Dio. Il legislatore canonico, dive- nuto più accorto e attento davanti ai nuovi carismi con cui lo Spirito continua a vivificare la Chiesa (come testimonia il can. 605), è oggi chiamato a offrire a questi movimenti protezione e sostegno. Se è ve- ro che il Codice non prevede in modo esplicito una disciplina canoni- ca adeguata, presenta tuttavia sufficienti punti di riferimento per una loro prima configurazione canonica, in attesa che una disciplina più organica e appropriata sia a essi riservata dalla Chiesa.

SILVIA RECCHI Institut Catholique B.P. 11628 Yaoundé Cameroun Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 67-85 Commento a un canone La giusta libertà del teologo (can. 218) di Marino Mosconi

Il can. 747, che apre il libro terzo del Codice (dedicato alla fun- zione di insegnare), afferma il dovere e diritto nativo della Chiesa di predicare il Vangelo a tutte le genti. La Chiesa è pertanto investita di una particolare responsabilità nei confronti del deposito della fede, che si esprime in quattro azioni: custodire quanto ricevuto, scrutarlo più intimamente, annunciarlo, esporlo fedelmente. Si evidenzia in tal modo la necessità di mantenere un giusto equilibrio tra l’attenzione a non discostarsi dal patrimonio ricevuto (custodire, esporre fedelmente) e il desiderio di approfondire la co- noscenza del mistero rivelato (scrutare più intimamente), sapendolo comunicare nelle diverse epoche della storia (annunciare). Il dovere e diritto riconosciuto dal can. 747 riguarda ogni fede- le, che in base al can. 211 è chiamato a «impegnarsi perché l’annun - cio divino della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo» 1. Il compito di tutta la Chiesa verso la parola di Dio viene attuato nella reciproca comunione tra i credenti (can. 209) e nel rispetto dei diversi carismi e ministeri che caratterizzano la comunità ecclesiale, soprattutto nel rispetto dell’autorevolezza specifica di cui è investito il magistero dei pastori (cf cann. 749-754). Per questo si deve ricono- scere a ogni credente un vero e proprio diritto (che in alcuni casi può diventare un dovere) a esprimere la propria opinione sul bene della Chiesa, sia manifestandola ai pastori che rendendola nota agli altri fedeli.

1 Can. 211: «Omnes christifideles officium habent et ius allaborandi ut divinum salutis nuntium ad uni- versos homines omnium temporum ac totius orbis magis magisque perveniat». 68 Marino Mosconi

Questi principi sono stati affermati con chiarezza dal concilio Vaticano II in LG 37 e sono stati assunti nel testo del CIC al can. 212 § 3 (can. 15 § 3 del CCEO): «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui go- dono, essi [= i fedeli] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di mani- festare ai sacri pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chie- sa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona» 2.

Ogni fedele gode della libertà di pensare e di manifestare la pro- pria opinione nella Chiesa, purché rispetti alcune condizioni: la salva- guardia dell’integrità della fede e dei costumi, il rispetto verso i pasto- ri, la considerazione dell’utilità comune e della dignità della per sona. Il cenno «alla scienza e alla competenza» pone un rapporto tra il fatto di essere esperti in un certo ambito e l’offerta del proprio con- tributo ai pastori e a tutti i fratelli e il possesso delle libertà di pensie- ro, di ricerca e di manifestazione delle proprie opinioni è condizione per potere acquisire la competenza di cui possono aver bisogno i fe- deli; così si esprime il concilio Vaticano II in GS 62 (che ha tra le sue fonti il già citato brano di LG 37): «Affinché siano in grado di esercitare il loro compito, sia riconosciuta ai fe- deli sia ecclesiastici che laici la giusta libertà di ricercare, di pensare, di ma- nifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono competenti» 3.

Nel presente contributo vogliamo collocarci nell’ambito di que- sta problematica per puntualizzare un tipo particolare di competen- za, quella riconosciuta dal can. 218 (can. 21 nel CCEO): «Coloro che si dedicano alle scienze sacre godono della giusta libertà di in- vestigare e di manifestare con prudenza il loro pensiero su ciò di cui sono esperti, conservando il dovuto ossequio nei confronti del magistero della Chiesa» 4.

2 Can. 212 § 3: «Pro scientia, competentia et praestantia quibus pollent, ipsis est ius, immo et aliquando officium, ut sententiam suam de his quae ad bonum Ecclesiae pertinent sacris Pastoribus manifestent eamque, salva fidei morumque integritate ac reverentia erga Pastores, attentisque communi utilitate et personarum dignitate, ceteris christifidelibus notam faciant». 3 GS 62: «Ut (vero) munus suum exercere valeant, agnoscatur fidelibus, sive clericis sive laicis, iusta li- bertas inquirendi, cogitandi necnon mentem suam in humilitate et fortitudine aperiendi in iis in quibus peritia gaudent». 4 Can. 218: «Qui disciplinis sacris incumbunt iusta libertate fruuntur inquirendi necnon mentem suam prudenter in iis aperiendi, in quibus peritia gaudent, servato debito erga Ecclesiae magisterium obsequio». La giusta libertà del teologo (can. 218) 69

Il canone si articola in tre parti fondamentali, che corrispondo- no a tre diverse affermazioni: esiste nella Chiesa una specifica com- petenza relativa a chi si dedica alle scienze sacre; coloro che possie- dono tale competenza godono di una giusta libertà di ricerca e di manifestazione prudente del proprio pensiero; si deve sempre con- servare il dovuto ossequio nei confronti del magistero. Ci proponiamo di ripercorrere in sintesi le tre parti sopra citate nei successivi paragrafi del presente contributo, evidenziando gli eventuali punti problematici.

Il soggetto della norma Il can. 218 si colloca nell’ambito del titolo I («Obblighi e diritti di tutti i fedeli»), della parte I («I fedeli») del libro II del Codice («Il po- polo di Dio»). Questo significa che, in accordo con la fonte conciliare di GS 62, il can. 218 non pone alcuna distinzione tra l’attività di studio e ricerca svolta dai laici (can. 229 § 2), dai candidati al sacerdozio (cann. 250 e 1032) e dai chierici (diaconi o presbiteri): tutti possono liberamente dedicarsi all’approfondimento dei contenuti della fede che professano. Il soggetto a cui si rivolge la norma in esame è il fe- dele battezzato, a cui compete il diritto allo studio delle discipline sa- cre in ragione della sua appartenenza ecclesiale. L’espressione iniziale del canone, «coloro che si dedicano alle scienze sacre», può essere compresa chiarendo il senso di due termi- ni: «scienze sacre» e «dedicarsi». «Scienze sacre», secondo il parere del Coriden 5, sono sostan- zialmente le discipline che possono rientrare nella descrizione offer- ta dal can. 252 §§ 2-3: teologia dogmatica (o sistematica), teologia morale e sacramentaria, teologia pastorale, storia della Chiesa, litur- gia, diritto canonico, Sacra Scrittura. Altre discipline, dette «ausilia- rie e speciali» nel can. 252, secondo un’interpretazione stretta sem- brerebbero restare escluse dalla categoria delle vere e proprie scien- ze sacre, anche se ad alcune di esse deve essere riconosciuto un legame particolare con la comprensione e la trasmissione della fede: la catechetica, molte aree dello studio pastorale, le religioni compa- rate, storia e sociologia della religione, eccetera.

5 Cf J.A. CORIDEN, The teaching office of the church, in AA. V.v., The Code of Canon Law. A text and com- mentary, New York-Mahwah 1985, p. 576. 70 Marino Mosconi

«Dedicarsi», nel contesto del canone, significa impegnarsi in uno studio serio e continuativo: l’espressione non esige di per sé il possesso di specifici titoli accademici, ma allude evidentemente a una conoscenza di carattere scientifico e comunque non occasionale, da non confondere con la conoscenza generica delle scienze sacre di cui può disporre un fedele grazie alla formazione catechetica, alla lettura episodica di qualche testo o alla partecipazione occasionale a corsi di formazione. In sostanza il soggetto della norma che stiamo analizzando è il teologo, inteso come il fedele che si prende carico in modo critico, metodico e sistematico della ricerca di comprensione che scaturisce dalla fede cristiana 6. Per precisare ulteriormente il contenuto del canone si deve ag- giungere la condizione successiva: «Su ciò di cui sono esperti». Il di- ritto del can. 218 non riguarda il teologo in qualsiasi campo delle scienze sacre ma, essendo strettamente derivato dalla competenza, deve considerarsi limitato alle conoscenze effettive del soggetto. La condizione riguarda in primo luogo la disciplina a cui riferirsi (per esempio, il canonista è esperto in diritto canonico), ma può com- prendere anche l’argomento in oggetto. Una particolare condizione, tra i teologi a cui si indirizza la nor- ma che stiamo considerando, è quella di quanti insegnano in univer- sità ecclesiastiche o cattoliche. Tra le fonti del can. 218 viene infatti indicata anche la dichiarazione Gravissimum educationis, n. 10 7, in cui si tratta delle università e facoltà cattoliche. Il particolare compi- to di chi insegna in tali istituti deve soddisfare però a condizioni ulte- riori rispetto a quanto affermato dal can. 218: il possesso del manda- to (can. 812) o della missione (can. 818 e costituzione apostolica Sa- pientia christiana, art. 27 8).

Il diritto stabilito A coloro che si dedicano alle scienze sacre il can. 218 attribui- sce il diritto alla «giusta libertà di investigare e di manifestare con prudenza il loro pensiero».

6 Per questa definizione del teologo cf F.A. SULLIVAN, Capire e interpretare il Magistero, Bologna 1996, pp. 14-15. 7 Per l’indicazione delle fonti del can. 218 cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Codex Iuris Canonici (fontium annotatione et indice analytico-alphabetico auctus), Città del Vaticano 1989, p. 58. 8 Cf GIOVANNI PAOLO II, Sapientia christiana, 15 aprile 1979, art. 27 (EV 6, n. 1385). La giusta libertà del teologo (can. 218) 71

Il concilio Vaticano II, in GS 62, afferma che la libertà deve es- sere «riconosciuta» ai competenti perché «siano in grado di esercita- re il loro compito». In sostanza la libertà è una condizione necessaria per consentire l’attività del teologo, ma nulla si dice sull’origine di ta- le libertà. La commissione codificatrice, esponendo il can. 19 del vecchio Codice, da cui deriva il nostro canone 9, evidenzia il rapporto tra li- bertà e diritto: «Ai fedeli deve essere riconosciuto questo diritto per- ché il diritto è concreta espressione di libertà» 10. Il can. 218, usando il verbo «godere», indica con chiarezza che la libertà è un diritto, che appartiene alla natura stessa del compito teologico 11. Le parole che esprimono il contenuto del diritto affermato dal can. 218 sono quelle impegnative di «giusta libertà» (iusta libertas). L’e spressione ricorre solo una seconda volta nel Codice, nell’ambi- to del can. 386 § 2, dove viene usata per indicare un limite rispetto al compito del Vescovo di agire per la tutela dell’integrità e unità della fede. Il can. 606 § 1 del CCEO, che è interamente dedicato al compito del teologo (non ha paralleli nel Codice della Chiesa latina), preferi- sce riferirsi alla libertà «che è conveniente» (qua par est), ma l’inten- zione è quella di esprimere lo stesso concetto inteso dall’idea di giu- sta libertà. Così chiarisce la commissione per la codificazione orienta- le rispondendo ad alcuni consultori che chiedevano la soppressione dell’espressione: «Non si accetta, in conformità della costituzione apostolica Sapientia christiana che afferma esplicitamente la iusta li- bertas dei teologi» 12. L’attributo di «giusta» non può essere ridotto al senso ovvio di libertà «non contraria al diritto», come afferma Hervada: «Iusta o giusta serve qui a porre in risalto come questo diritto non sia asso- luto, e a evitare interpretazioni tendenziose, poiché in senso stretto ogni di-

9 Anche lo schema del libro II del 1977 conosceva un canone su questo argomento: cf PONTIFICIA COM- MISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Schema canonum libri II de populo Dei, Città del Vatica- no 1977, p. 28, can. 22 § 2. Il testo venne abbandonato perché ritenuto migliore quello della «Legge fon- damentale della Chiesa», cf «Communicationes» 12 (1980) 83. 10 Cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Schema Legis Ecclesiae Fundamen- talis (textus emendatus cum relatione de ipso schemate deque emendationibus receptis), Città del Vaticano 1971, p. 84: «Christifidelibus agnoscendum est hoc ius, quia ius est concreta expressio libertatis». 11 Alcuni autori giudicano la legislazione codiciale vigente non pienamente coerente con tale principio: cf R. BERTOLINO, Libertà e comunione nel ministero di evangelizzazione, in AA.Vv., Comunione e discipli- na ecclesiale, Città del Vaticano 1991, p. 126. 12 Cf «Nuntia» 9/17 (1983) 24. 72 Marino Mosconi

ritto – o libertà fondamentale – è giusto, ossia si limita a ciò che è giusto; ciò che è ingiusto non è mai un diritto» 13.

In sintesi, la libertà del teologo di cui al can. 218 è un diritto non assoluto ed è limitato a due aspetti ben determinati: la ricerca e la manifestazione del proprio pensiero. Il senso di questa precisazione non è quello di escludere alcune libertà del teologo, ma di precisare il campo proprio di interesse della norma canonica in questione: non si tratta in generale del pro blema del rapporto teologo-libertà, ma della libertà in relazione alla ricerca e alla comunicazione delle proprie opinioni (quest’ultima è un’applica- zione al campo teologico del diritto asserito nel can. 212 § 3).

Libertà di ricerca La libertà di ricerca appartiene alla teologia per la sua natura scientifica; così si esprime il Cottier: «La libertà è una condizione della serietà e dell’oggettività della ricerca [...] come per le altre di- scipline scientifiche» 14. A questo principio generale si aggiunge il significato particola- re che assume la ricerca nell’ambito della teologia. Il sapere teologi- co è scienza rapportata a un oggetto specifico, che si caratterizza per il fatto di essere sempre trascendente rispetto alla comprensione u - mana: il carattere inesauribile della rivelazione esige un continuo ap- profondimento della ricerca. In sostanza la libertà di ricerca trova il suo fondamento nella natura della rivelazione: «La forma e le moda- lità di questa libertà sono misurate dalla natura dell’oggetto: la verità rivelata, forza di salvezza, che Cristo ha affidato alla sua Chiesa» 15. Come studio di una verità già data la scienza teologica si colloca nell’orizzonte dell’obbedienza della fede; così si esprime Giovanni Paolo II nell’udienza del 24 novembre 1995 alla plenaria della Con- gregazione per la dottrina della fede:

«La stessa libertà propria della ricerca teologica non è mai libertà nei con- fronti della verità, ma si giustifica e si realizza nel conformarsi della persona

13 J. HERVADA, Il popolo di Dio - i fedeli cristiani, in AA.VV., Codice di diritto canonico (edizione bilingue commentata), I, Roma 1987, pp. 189-190. 14 G. COTTIER, Prospettive teologiche, in «L’Osservatore Romano», 30 agosto 1997. 15 L. cit. La giusta libertà del teologo (can. 218) 73

all’obbligo morale di obbedire alla verità, proposta dalla rivelazione e accolta nella fede» 16.

Conseguenza della natura particolare della teologia, intesa co- me studio del dato rivelato, è l’esigenza di rispettare nello svolgi- mento della ricerca una metodologia propria che, senza recedere dai requisiti caratteristici della scientificità (altrimenti non potremmo parlare in modo adeguato di teologia), si avvicina al proprio oggetto con modalità del tutto peculiari. In questo senso la libertà di ricerca suppone ed esige la conoscenza e la fedele applicazione del metodo teologico (evidentemente oggetto esso stesso di ricerca). Condizioni perché si possa parlare di una «giusta libertà» del teologo in riferi- mento alla ricerca sono quindi la competenza (can. 218: «su ciò di cui sono esperti») e il rigore metodologico. Non esiste un diritto alla libertà che giustifichi l’impreparazione del ricercatore o l’arbitrarietà del suo pensiero. Così si esprime il Cottier: «La qualità del suo contributo dipende principalmente dalla conoscenza del - l’oggetto della sua ricerca, dall’acutezza della sua percezione delle problema- tiche, dal rigore dei suoi ragionamenti, dalla padronanza dei metodi, dalla sua capacità di cogliere le istanze del nostro tempo, dalla profondità delle sue intuizioni sapienziali» 17.

Libertà di manifestare il proprio pensiero Il secondo diritto affermato nel can. 218, la libertà di manifesta- re le proprie opinioni, è esigenza intrinseca e conseguente alla libertà di ricerca. Non può infatti darsi una vera ricerca senza con- fronto tra le diverse posizioni e quindi senza comunicazione del pen- siero tra diversi autori, almeno sulle riviste specializzate o comun- que negli ambiti propri dello studio teologico. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero teologico non è però limitato al solo ambito della diffusione scientifica: riguarda il rapporto con ogni fedele. Soprattutto in riferimento a questa comuni- cazione non scientifica il can. 218 pone la condizione particolare che la comunicazione delle opinioni teologiche avvenga «con pruden- za» (prudenter); termine questo preferito alle parole di GS 62: «con umiltà e coraggio».

16 GIOVANNI PAOLO II, La libertà propria della ricerca teologica non è mai libertà nei confronti della ve- rità, in «L’Osservatore Romano», 25 novembre 1995. 17 Cf G. COTTIER, Prospettive..., cit. 74 Marino Mosconi

L’espressione «con prudenza» è così intesa da Hervada:

«Prudenter significa che il diritto debba essere esercitato secondo i mezzi peculiari dell’onestà scientifica: non dare come indiscutibili conclusioni che non sono sufficientemente dimostrate, non presentare come tesi ciò che non va oltre l’ipotesi, ecc.; comprende ugualmente il dovere di adoperare soltan- to i mezzi specifici della ricerca scientifica (riviste specializzate, congressi scientifici, ecc.) per esprimere pareri che, diffusi nell’opinione pubblica o manifestati nell’esercizio della funzione docente, possano essere causa di confusione o di scandalo» 18.

Alla base di questo invito alla prudenza troviamo il rapporto tra il teologo e la totalità dei fedeli: da un lato il teologo è tale in quanto chiamato a una vocazione ecclesiale ed è quindi membro del popolo dei credenti, dall’altro la sua opera è un servizio all’edificazione della Chiesa. Così si esprime il CCEO, nel can. 606 § 1:

«È compito dei teologi, secondo la loro più profonda intelligenza del mistero della salvezza e delle scienze sacre e affini, e anche per la loro conoscenza pratica dei nuovi problemi, rispettando fedelmente il magistero autentico della Chiesa e insieme usando una libertà conveniente, spiegare e difendere la fede della Chiesa e contribuire al progresso dottrinale» 19.

Il diritto del popolo di Dio a ricevere il messaggio della salvezza nella sua verità fonda l’esigenza per ogni credente di beneficiare dei frutti della ricerca teologica e il dovere-diritto di ogni fedele a impe- gnarsi per la diffusione del messaggio della salvezza (can. 211) pone un’incessante domanda alla teologia in relazione alla comprensione del messaggio cristiano e alla sua proponibilità nella società attua - le 20. Si realizza in tal modo un significativo incontro tra il diritto dei teologi a manifestare il proprio pensiero e il diritto-dovere di tutti i fedeli (in modo particolare di chi è maggiormente coinvolto nella dif- fusione del messaggio cristiano: predicatori, catechisti, insegnanti di religione) a conoscere i frutti della ricerca teologica. Come afferma Nedungatt, i teologi, «con la loro più profonda perspicacia nel miste-

18 J. HERVADA, Il popolo di Dio - i fedeli cristiani..., cit., p. 189. 19 «Theologorum est pro sua mysterii salutis profundiore intelligentia et scientiarum sacrarum affinium- que necnon novarum quaestionum peritia fideliter magisterio Ecclesiae authentico obsequentes simulque ea, qua par est, libertate utentes fidem Ecclesiae illustrare et defendere progressuique doctrinali consulere». 20 Sul’importanza di questo compito cf CONFÉRÉNCE DES EVÊQUES DE FRANCE, Proposer la foi dans la so- ciété actuelle, in «La Documentation Catholique» 2149 (1996) 1016-1044. La giusta libertà del teologo (can. 218) 75 ro della salvezza, possono aiutare altri a ricercare una fede più rifles- siva; mostrano come una vera fede e una scienza genuina non sono opposte l’una all’altra; contribuiscono allo sviluppo della dottrina» 21. In quanto portatori di un’istanza di ricerca sul sapere della fede, i teologi dovranno talvolta farsi carico della portata critica della teolo- gia rispetto ai limiti della comprensione umana e proporre conclusio- ni che generano stupore rispetto al comune modo di pensare di mol- ti fedeli, ma questo deve avvenire sempre nel rispetto della pedago- gia che accompagna l’annuncio della parola di Dio e nella profonda comunione con le indicazioni date a tutti i fedeli dai pastori. In ogni caso non è accettabile una manifestazione del proprio pensiero che non sia coerente al bene comune della Chiesa (cf can. 223) o contraddica il dovere di conservare la comunione tra i cre- denti (cf can. 209). Come afferma Dalla Torre, si dovrà agire in mo- do tale «che la ricerca e la manifestazione delle proprie opinioni non ledano diritti o anche semplici interessi, giuridicamente tutelati, de- gli altri fedeli e dell’intera istituzione ecclesiastica» 22.

Il rapporto con il magistero La descrizione del diritto stabilito dal can. 218 ha messo in luce l’esistenza di alcune condizioni relative al suo esercizio, come lascia- no trasparire le espressioni «giusta» aggiunta a libertà e «con pru- denza» riferita alla manifestazione del pensiero. Vogliamo ora chiederci quali siano le richieste del can. 218 in ri- ferimento al problema specifico del rapporto fra la libertà del teolo- go (nella ricerca e nella manifestazione del proprio pensiero) e la re- sponsabilità propria dei pastori. Il tema viene evidenziato soprattutto nella condizione posta alla fine del testo del canone: «Conservando il dovuto ossequio nei confronti del magistero della Chiesa» (servato debito erga Ecclesiae magisterium obsequio) 23.

21 G. NEDUNGATT, The teaching function of the Church in Oriental Canon Law, in «Studia Canonica» 23 (1989) 51: «With their more profound insight into the mystery of salvation, they can help others to reach a more reflective faith; they show how true faith and genuine science are not opposed to each other; they con- tribue to the development of doctrine». 22 G. DALLA TORRE, De populo Dei, in AA.VV., Commento al codice di diritto canonico, Roma 1985, pp. 109-138. 23 La frase sostituisce la precedente («servata quidem semper debita reverentia et oboedientia erga Ec- clesiae magisterium») e viene inserita nel testo discusso il 24/29 settembre 1979. La richiesta di inseri- re la precisazione «imprimis Romani Pontificis» venne rifiutata: cf «Communicationes» 12 (1980) 40. 76 Marino Mosconi

La frase deriva dall’art. 39 § 1 della costituzione apostolica Sa- pientia christiana, in cui si chiede di mantenere «un atteggiamento di ossequio verso il magistero della Chiesa» 24. Alcuni autori 25 riten- gono che il canone, esigendo un «dovuto ossequio», irrigidisca la precedente richiesta di un semplice «atteggiamento di ossequio», an- che se la differenza testuale potrebbe essere più semplicemente compresa come un adattamento del testo di Sapientia christiana alla terminologia utilizzata dal Codice nei cann. 752-753. Il Codice orientale riprende la condizione di cui stiamo trattan- do non solo nel parallelo can. 21, ma anche nel can. 606 § 1, in riferi- mento alla funzione di insegnare della Chiesa, con la frase «rispet- tando fedelmente il magistero autentico della Chiesa» (fideliter magi- sterio Ecclesiae authentico obsequentes) 26. Il senso di queste espressioni è quello di richiamare il compito dell’insegnamento autorevole dei pastori come sostegno nella ricer- ca della verità. Così si esprime a questo proposito Manzanares: «Il magistero entra non come mera istanza esterna, ma come strumen- to per la conoscenza della verità rivelata» 27. La libertà del teologo, collocandosi nell’ambito di una corretta metodologia di ricerca, vede in tutti gli strumenti con cui lo Spirito parla alla Chiesa un alleato naturale. In questo ambito si colloca il magistero, come conferma nella verità della fede (cf Lc 22, 32: «E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli») e tutela dalla tenta - zione, sempre presente nella Chiesa, di allontanarsi dalla sana dottri- na del Vangelo (cf 2 Tm 4, 3-4: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, ri- fiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole»). In senso negativo questo significa anche, ma è solo un aspetto del problema, evitare di considerare libero oggetto della discussione teologica le dottrine su cui il magistero autorevole si sia già pronun- ciato. Come osserva Hervada, «l’ambito della libertà è soltanto il

24 GIOVANNI PAOLO II, Sapientia christiana, art. 39 § 1 (EV 6, n. 1397): «Obsequenti sui dispositione erga magisterium Ecclesiae». 25 Cf L. BLYSKAL, The ordinary ecclesiastical Magisterium from the antepreparatory documents of Vatican Council II to canons 752 and 753 in the 1983 Code, Washington 1988, p. 369. 26 L’espressione viene inserita su proposta di un organo di consultazione: cf «Nuntia» 9/17 (1983) 24. 27 J. MANZANARES, Del pueblo de Dios, in AA.VV., Código de derecho canonico (edición bilingüe comenta- da), Madrid 19899, p. 140: «El magisterio entra no come mera instancia externa, sino como instrumento para el conocimiento de la verdad revelada». La giusta libertà del teologo (can. 218) 77 campo dell’opinabile; rispetto alle proposizioni dottrinali stabilite au- torevolmente dal magistero non c’è libertà di opinione» 28. Il tema che viene così evocato è quello del dissenso, cioè del teologo che non acconsente agli insegnamenti del magistero; proble- ma di grande rilievo oggi, particolarmente in ambito morale 29. Secondo alcuni autori, come il Provost, il can. 218 stabilendo il diritto alla «giusta libertà» intende porre fine alle limitazioni del teo- logo in questa materia, così che il canone «non esclude il dissen- so» 30. L’opinione è condivisa dalla Blyskal, che commenta: «Provost, riflettendo l’interpretazione di Coriden e Örsy dei cann. 752 e 753, è il solo canonista ad ammettere, e ritengo rettamente, la possibilità del pubblico disaccordo con l’insegnamento gerarchico ordinario» 31. In particolare la Blyskal, facendo appello al can. 18 – che stabilisce di interpretare strettamente le leggi che limitano il libero esercizio dei diritti – ritiene che il significato del can. 218 sia quello di «restrin- gere il meno possibile il diritto della ricerca teologica e l’espressione dell’opinione, includendo il dissenso pubblico e privato» 32. A nostro avviso, in relazione al tema del dissenso, la prima av- vertenza deve essere quella di evitare accuratamente affermazioni indifferenziate: si devono sempre considerare con cura sia il diverso livello di autorevolezza implicato dal magistero nelle diverse forme dei suoi pronunciamenti che i diversi modi di espressione del dis- senso stesso. In particolare, occorre distinguere tra un magistero straordi- nario o solenne (Papi o concili generali che definiscono una dottri- na: can. 749 §§ 1-2), infallibile, e un magistero ordinario o non so- lenne. Quest’ultimo può a sua volta essere distinto in universale e non universale (cann. 752-753); il magistero ordinario universale può poi essere infallibile (Vescovi dispersi per il mondo che con- vergono su una sentenza da tenersi come definitiva: can. 749 § 2) o

28 J. HERVADA, Il popolo di Dio - i fedeli cristiani..., cit., p. 190. 29 Per una presentazione di questo tema cf F. ARDUSSO, Magistero ecclesiale, Cinisello Balsamo 1997, pp. 122-148. 30 J.H. PROVOST, The people of God, in AA. Vv., The Code of Canon Law. A text and commentary, New York-Mahwah 1985, p. 152: «Not rule out dissent». 31 L. BLYSKAL, The ordinary ecclesiastical Magisterium..., cit., p. 380: «Provost, reflecting Coriden’s and Orsy’s interpretation of canons 752 and 753, is the only canonist to allow, rightly so, for the possibility of public disagreement with the ordinary hierarchical teaching». 32 Ibid., p. 403: «To restrict as little as possible the right of theological research and expression of opinion, including private and public dissent». 78 Marino Mosconi non infallibile (Vescovi dispersi per il mondo o riuniti in concilio generale che propongono una dottrina senza dichiararla definitiva: cann. 752 e 754) 33. La dottrina proposta autorevolmente corrisponde a diversi livel- li di certezza e chiede diversi gradi di assenso ai fedeli, vincolando di conseguenza in diverso modo la ricerca teologica e la manifestazio- ne del proprio pensiero in materia. La recente formula di professio- ne di fede 34 e l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, Donum veritatis 35, consentono di distinguere almeno tre livelli, a cui corrispondono diversi comportamenti da parte del teologo. In estrema sintesi: è impossibile dissentire dai dogmi (pronun- ciamenti infallibili relativi a verità di fede: primo capoverso della pro- fessione di fede), che devono essere creduti (can. 750: credenda sunt); è impossibile dissentire dai pronunciamenti definitivi in mate- ria non formalmente rivelata (secondo capoverso della professione di fede; è discussa tra i teologi l’affermazione della appartenenza a questa categoria della legge naturale 36), che devono essere ferma- mente accolti e ritenuti (professione di fede: firmiter amplector ac re- tineo); è possibile dissentire nei confronti dell’insegnamento autore- vole non infallibile (terzo capoverso della professione di fede), che esige il religioso ossequio della mente e dell’intelletto (can. 752: reli- giosum intellectus et voluntatis obsequium): il disaccordo è ammissi- bile solo quando appare con evidenza, deve rimanere in forma priva- ta (eventualmente comunicata, ma solo in sede scientifica) e restare sempre aperto alla ricerca di dare il proprio assenso all’insegnamen- to autorevole. Consideriamo distintamente i casi sopra descritti distinguendo due problematiche: il rapporto con il magistero infallibile (che riuni- sce le prime due categorie); il rapporto con il magistero non infallibi- le (terza categoria).

33 Per questa catalogazione delle diverse tipologie di magistero, cf F. ARDUSSO, Magistero..., cit., p. 204. 34 Così nei tre capoversi conclusivi del testo: CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Professio fi- dei, 1° luglio 1988: «Firma fide quoque credo ea omnia quae in verbo Dei scripto vel tradito continentur et ab Ecclesia sive sollemni iudicio sive ordinario et universali magisterio tamquam divinitus revelata credenda proponuntur. Firmiter etiam amplector ac retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fi- de vel moribus ab eadem definitive proponuntur. Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctri- nis adhaereo quas sive Romanus Pontifex sive Collegium Episcoporum enuntiant cum magisterium authenticum exercent etsi non definitivo actu easdem proclamare intendant» (EV 11, n. 1192). 35 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Donum veritatis, 24 maggio 1990 (EV 12, nn. 244-305). 36 Per un’esposizione sintetica della questione cf F. ARDUSSO, Magistero..., cit., pp. 292-293. La giusta libertà del teologo (can. 218) 79

Rapporto con il magistero infallibile Gli autori sono sostanzialmente concordi nell’affermare che non si può riconoscere al teologo cattolico il diritto alla libertà di dissenti- re davanti ai pronunciamenti infallibili, altrimenti sarebbe come rico- noscere che essi non sono effettivamente tali. La condizione vale sia per gli insegnamenti del magistero straordinario del Papa e del Colle- gio dei Vescovi che per quelli del magistero ordinario dei Vescovi di- spersi per il mondo (can. 749 §§ 1-2) e sia per le verità rivelate (can. 750: di fede divina e cattolica) che per le verità connesse (la negazio- ne e il dubbio ostinati in questo caso non danno luogo al delitto di eresia: can. 751). L’obbligo di aderire alle dottrine infallibilmente proposte non esclude comunque il costante approfondimento della dottrina cristia- na, in quanto la comprensione che l’uomo ha del mistero di Dio è sempre inadeguata rispetto alla pienezza della verità. In questo sen- so un insegnamento infallibile si qualifica come sottratto alla possibi- lità di inganno rispetto al giudizio di verità di una dottrina, ma «non è sinonimo di massima esattezza, o di comprensione esaustiva della verità» 37. Per quanto concerne l’atteggiamento richiesto nei confronti del linguaggio tradizionale nel quale la Chiesa professa il proprio credo, deve essere riconosciuta al teologo la libertà di esprimere la com- prensione attuale della fede con categorie concettuali e linguistiche moderne, purché questo avvenga nel rispetto del linguaggio tradi- zionale e ricorrendo a un’interpretazione veramente fedele al signifi- cato della dottrina insegnata infallibilmente 38. Il punto maggiormente controverso appare quello relativo al ri- conoscimento del carattere infallibile o non infallibile delle singole dottrine. In particolare la non convergenza dei teologi sulla qualifica- zione del grado di certezza delle dottrine proposte dal magistero, unita alla presunzione stabilita dal can. 749 § 3 (deve apparire mani- festamente dell’infallibilità), porta a concludere per la non infallibilità di molti insegnamenti. Per evitare un’indebita riduzione dell’ambito dell’infallibilità si deve considerare con attenzione il significato della presunzione sta- bilita dal can. 749 § 3, di cui ci siamo recentemente occupati in un

37 Ibid., p. 248. 38 Per questa opinione cf F.A. SULLIVAN, Capire e interpretare..., cit., p. 136. 80 Marino Mosconi contributo apparso su questa rivista 39. Il punto nodale è comprende- re il senso della condizione di «evidenza» (manifeste) che deve ac- compagnare il carattere di infallibilità di una dottrina perché questa possa essere riconosciuta tale. Il can. 749 § 3 non esige un’accoglienza unanime e concorde tra i teologi dell’insegnamento infallibile; chiede piuttosto di verificare la chiarezza con cui una determinata dottrina è insegnata infallibilmen- te. Sovente l’autorità interviene proponendo l’infallibilità di una dot- trina allo scopo di porre fine ad accese controversie teologiche ed è comprensibile che l’accoglienza dell’insegnamento magisteriale tra i teologi non sia del tutto concorde. In questo senso riteniamo scor- retto affermare che il dissenso tra i teologi cattolici sia condizione sufficiente per dimostrare che una dottrina non è stata infallibilmen- te definita. Si tratta piuttosto di un indizio che deve essere confronta- to con altri elementi, tra i quali in particolare: la considerazione del testo dei documenti magisteriali; la verifica delle condizioni che de- vono accompagnare un insegnamento perché questo sia considerato infallibile, particolarmente nel caso del magistero ordinario infallibi- le dei Vescovi dispersi per il mondo. Per quanto riguarda l’attenzione che deve essere accordata al te- sto, un esempio significativo è la recente epistola apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994. Ci sembra infatti che il linguaggio utilizzato qualifichi con sufficiente chiarezza la dottrina proposta:

«In virtù del mio ministero di confermare i fratelli (cf Lc 22, 32), dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» 40.

L’interpretazione di alcuni autori secondo i quali la formula «di- chiariamo [...] deve essere tenuta in modo definitivo» corrisponda a un esercizio di alto grado del magistero non infallibile – nella linea dell’affermazione di Humani generis sugli insegnamenti autorevoli, in seguito ai quali una dottrina «non può più essere oggetto di libere

39 Cf M. MOSCONI, Commento a un canone. La presunzione di non infallibilità (can. 749 §3), in «Qua- derni di Diritto Ecclesiale» 10 (1997) 83-97. 40 GIOVANNI PAOLO II, Ordinatio sacerdotalis, n. 4 (EV 14, n. 1348): «Virtute ministerii Nostri confir- mandi fratres (cf. Lc 22,32), declaramus Ecclesiam facultatem nullatenus habere ordinationem sacer- dotalem mulieribus conferendi, hancque sententiam ab omnibus Ecclesiae fidelibus esse definitive te- nendam». La giusta libertà del teologo (can. 218) 81 discussioni tra i teologi» 41 – appare decisamente azzardata 42. La for- mula «deve essere tenuta in modo definitivo» deriva chiaramente dal linguaggio della infallibilità 43 e così è stata assunta nel can. 749 44; sa- rebbe del resto senza senso e contro una buona teologia esigere che si accolga come definitiva una dottrina su cui non si dà certezza da parte della Chiesa. Il fatto che l’epistola apostolica non si proponga come atto del magistero straordinario del Papa non conclude per la non infallibilità della dottrina proposta (sostenuta con chiarezza dal testo del docu- mento), ma rimanda a un soggetto di tale infallibilità diverso dal solo Romano Pontefice. Come indicato anche nella risposta della Congre- gazione per la dottrina della fede del 28 ottobre 1995, tale soggetto è il magistero ordinario infallibile del Collegio episcopale 45: Ordinatio sacerdotalis è un atto autorevole del magistero pontificio con cui si dichiara che i Vescovi cattolici, in comunione tra loro e con il Papa,

41 PIO XII, Humani generis, in AAS 42 (1950) 568: «Quodsi Summi Pontifices in actis suis de re hactenus con troversa data opera sententiam ferunt, omnibus patet rem illam, secundum mentem ac voluntatem eo- rundem Pontificum, quaestionem liberae inter theologos disceptationis iam haberi non posse». 42 Tra i sostenitori di questa opinione segnaliamo F.A. SULLIVAN, Capire e interpretare..., cit., pp. 31-32. 43 L’espressione «da tenersi» (tenendam) venne utilizzata dal concilio Vaticano I in riferimento all’infallibilità pontificia (cf costituzione Pastor aeternus, cap. 4: «Pro suprema sua apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam definit») e la Professione di fede usa l’espressione «definitivamente» (definitive) in relazione al magistero infallibile in materia non formal- mente rivelata (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Professio fidei [EV 11, n. 1192]: «Firmiter etiam amplector ac retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fide vel moribus ab eadem definitive proponuntur»), terminologia ripresa dall’istruzione Donum veritatis. L’espressione «da tenersi come de- finitiva» è proposta come tale dal concilio Vaticano II in LG 25 per affermare una delle condizioni per l’esercizio del magistero ordinario infallibile dei Vescovi («in unam sententiam tamquam definitive tenen- dam»). La commissione codificatrice del Codice del 1983 ha esplicitamente affermato che l’espressione «deve essere tenuta in modo definitivo» coincide con il proclamare una dottrina con atto definitivo o il proclamarla dogmaticamente definita o dichiarata. Cf «Communicationes» 9 (1977) 107: «Quaerit unus Consultor num idem significent expressiones “definitive tenendam declarant”, “definitivo actu proclamat”, “dogmatice definita seu declarata”. Affirmative respondet relator, qui recolit has omnes expressiones de- sumptas esse ex testibus conciliaribus». 44 Nel primo paragrafo, in riferimento al magistero straordinario del Papa si usa l’espressione «tenen- dam definitivo actu proclamat» mentre per il Concilio ecumenico si usano i termini «definitive tenen- dam declarant» e per il magistero infallibile ordinario dei vescovi «in unam sententiam tamquam defini- tive tenendam conveniunt». Il Papa che ha promulgato il vigente Codice è lo stesso autore di Ordinatio sacerdotalis e il can. 749 è stato da lui personalmente modificato nell’ultima revisione, successiva allo schema del 1982 (per una notizia su tali modificazioni cf R.J. CASTILLO-LARA, Le livre III du CIC de 1983. Histoire et principes, in «L’Anné Canonique» 31 (1988) 38-39). Usare l’espressione «dichiaro [.....] da te- nersi come definitiva» per escluderne poi il carattere di infallibilità sarebbe solo spiegabile come un de- liberato tentativo di creare confusione tra i fedeli, ma la finalità sembra alquanto aliena da quella solle- citudine per tutte le Chiese che anima e sostiene il ministero pontificio! 45 Si noti che è il Papa a dichiarare l’infallibilità che ha come soggetto il Collegio episcopale disperso per il mondo; la successiva risposta a un dubbio della Congregazione per la dottrina della fede si limita a chiarire tale aspetto: cf CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Utrum doctrina, 28 ottobre 1995 (EV 14, n. 3271). 82 Marino Mosconi restando dispersi per il mondo, convergono sulla dottrina dell’esclu- sione delle donne dall’ordinazione sacerdotale e la propongono co- me definitiva. Emerge in questo modo il problema, già accennato in prece- denza, delle condizioni che devono essere soddisfatte per ricono- scere l’infallibilità degli insegnamenti del magistero ordinario dei Vescovi dispersi per il mondo. Si tratta in sintesi, secondo i principi elaborati dalla tradizione teologica in materia, dei seguenti requisi- ti: la sussistenza del vincolo della comunione tra i Vescovi e il suc- cessore di Pietro; il proporsi come maestri autorevoli in materia di fede e di morale; l’accordo universale su una dottrina; l’insegna - mento della dottrina stessa in modo tale che risulti da ritenersi co- me definitiva. Suscita perplessità la proposta di alcuni autori 46 che, basandosi sull’opinione secondo cui il magistero ordinario universale si è più volte contraddetto (anche su dottrine che sembravano proposte co- me definitive) in passato, sostengono si debba aggiungere la condi- zione che il consenso espresso dai vescovi dispersi per il mondo sia costante, cioè ripetuto nel corso della storia e ancora attuale. Un si- mile requisito non è indicato né nella costituzione Dei filius del con- cilio Vaticano I, né nella costituzione Lumen gentium del concilio Va- ticano II (e quindi neppure nel can. 749 § 2, che ne assume la dottri- na) 47 ed è estremamente difficile da verificare. Sembra più corretto sostenere che, se il magistero ordinario dei vescovi converge in una determinata epoca su di una dottrina in modo tale da proporla come definitiva, essa è infallibile e non è am- missibile pensare che epoche successive possano alterarla. Tale opi- nione è espressa dal Bertone nei termini seguenti:

«La concordia dell’episcopato universale in comunione con il successore di Pietro sul carattere dottrinale e vincolante di un’affermazione o di una prassi ecclesiale in epoche trascorse non viene annullata o ridimensionata da alcu- ni dissensi che potrebbero emergere in un’epoca posteriore» 48.

46 Tra i quali segnaliamo F.A. SULLIVAN, Capire e interpretare..., cit., p. 118. 47 L’opinione secondo cui la lettera di Pio IX Tuas libenter del 21 dicembre 1863 esiga una permanenza nel tempo del consenso appare discutibile: l’espressione «universali et constanti consensu» è riferita in quel contesto all’accoglienza da parte dei teologi e non alle modalità di esercizio del magistero ordina- rio dei Vescovi. 48 T. B ERTONE, A proposito della recezione dei Documenti del Magistero e del dissenso pubblico, in «L’Os- servatore Romano», 20 dicembre 1996. La giusta libertà del teologo (can. 218) 83

Rapporto con il magistero non infallibile Gli autori sono concordi nell’affermare che, a determinate con- dizioni, il teologo cattolico può conoscere nei confronti del magiste- ro non infallibile un disaccordo personale, che consente il prosegui- mento della ricerca scientifica, prestando particolare attenzione alle modalità relative alla comunicazione ad altri della propria opinione. Si tratta di una situazione estrema, in quanto il teologo prende le mosse dalla presunzione di verità che accompagna l’insegnamen- to dei pastori. Questa presunzione non si basa principalmente sulla valutazione delle argomentazioni addotte dai documenti ufficiali, ma sul fatto che il magistero non infallibile è espressione dell’autorità che deriva alla Chiesa da Cristo e si presenta quindi ordinariamente come proposta di verità, semplicemente priva di quella clausola di assoluta certezza che compete al magistero infallibile. Per definire in concreto il comportamento da assumere nei con- fronti del magistero non infallibile, si devono considerare con atten- zione i diversi livelli di autorevolezza con cui questo può essere pro- posto. Si tratta di valutare almeno i seguenti elementi (a cui fa riferi- mento LG 25): la natura del documento in oggetto (se universale o locale, se rivolto a tutti o ad alcuni, eccetera), il tenore del linguaggio utilizzato, il rapporto fra la dottrina proposta e precedenti interventi sulla stessa questione 49. Un atteggiamento risulta comunque non accettabile: il pubblico dissenso, definito semplicemente «dissenso» dall’istruzione Donum ve ritatis negli artt. 25-33 50. Tale atteggiamento si qualifica come pro- testa pubblica ed è normalmente caratterizzato dal ricorso ai mass media, utilizzati come strumenti di pressione nei confronti dei fedeli ai quali si propone la propria opinione come “magistero parallelo”. Così si esprime Giovanni Paolo II nell’udienza alla Congregazione per la dottrina della fede del 24 novembre 1995:

«Occorre certamente distinguere l’atteggiamento dei teologi che, in spirito di collaborazione e di comunione ecclesiale, presentano le loro difficoltà e i loro interrogativi, contribuendo così positivamente alla maturazione della ri- flessione sul deposito della fede, e l’atteggiamento pubblico di opposizione al

49 Per una presentazione sintetica della problematica relativa al magistero non infallibile cf F. ARDUSSO, Magistero..., cit., pp. 251-255. 50 Questa interpretazione dell’istruzione è condivisa da F.A. SULLIVAN, The theologian’s ecclesial voca- tion and the 1990 CDF Instruction, in «Theological Studies» 52 (1991) 64-66. 84 Marino Mosconi

magistero, che si qualifica come dissenso; esso tende a istituire una specie di contro-magistero, prospettando ai credenti posizioni e modalità di compor- tamento alternative» 51.

La problematica del magistero non infallibile è di estrema im- portanza in quanto questa è la modalità più consueta dell’esercizio dell’insegnamento autorevole. Il compito del magistero non è prima- riamente quello di definire, ma di trasmettere fedelmente la verità ri- velata nel suo insieme e in questo un ruolo importante appartiene agli insegnamenti non proposti in modo infallibile 52.

Conclusioni Il can. 218 afferma il principio della giusta libertà del teologo (con questo termine intendiamo qui designare tutti coloro si dedica- no alle scienze sacre con costanza e metodo scientifico) nell’ambito della sua competenza. La giusta libertà si concretizza nel diritto alla ricerca e alla ma- nifestazione del proprio pensiero, da perseguire in comunione con la Chiesa e al servizio del bene di tutto il popolo di Dio. Il diritto riconosciuto dal canone è di importanza straordinaria, perché attiene a quel rapporto con la verità della fede che è la base per l’esistenza stessa della Chiesa e deve essere quindi difeso con te- nacia. Questo implica una particolare vigilanza nei confronti dello spirito di menzogna, che sempre cerca di distogliere gli uomini dal cammino verso la salvezza e che opera come il “divisore”, contrappo- nendo una teologia chiusa in se stessa a una visione distorta del compito del magistero. Si comprende in questo modo l’importanza di vivere e appro- fondire quell’armonia profonda che unisce nella Chiesa il carisma autorevole del magistero, la competenza dello studioso e la cono- scenza delle cose di Dio donata ai “piccoli”. Così si è espresso a que- sto proposito Giovanni Paolo II nell’omelia per la proclamazione a dottore della Chiesa di santa Teresa di Lisieux: «Il Concilio ci ha ricordato che, sotto l’assistenza dello Spirito santo, cresce continuamente nella Chiesa la comprensione del depositum fidei, e a tale pro-

51 GIOVANNI PAOLO II, Desidero innanzitutto, 24 febbraio 1995, in «L’Osservatore Romano», 25 febbraio 1995. 52 Cf F. ARDUSSO, Magistero..., cit., p. 199. La giusta libertà del teologo (can. 218) 85

cesso di crescita contribuisce non solo lo studio ricco di contemplazione cui sono chiamati i teologi, né solo il magistero dei pastori, dotati del “carisma certo di verità”, ma anche quella “profonda intelligenza delle cose spirituali” che è data per via di esperienza, con ricchezza e diversità di doni, a quanti si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio (cf Dei verbum, n. 8)» 53.

Se è vero che si deve superare la tradizionale dicotomia fra Chiesa che insegna (magistero) e Chiesa che apprende (fedeli), que- sto non deve avvenire perché tutti si fanno maestri ma perché tutti, nella diversità dei carismi, si riconoscono discepoli del solo Maestro. In questo senso porre correttamente il problema della giusta li- bertà del teologo, collocandola in una corretta relazione con il mini- stero ecclesiale del magistero, è condizione necessaria per garantire la permanenza di tutta la Chiesa nell’oggettività della fede. Così si esprime a questo proposito Giuseppe Colombo:

«Se in superficie il problema emergente è quello del riconoscimento del ma- gistero da parte dei cristiani, e più in generale del rapporto tra i cristiani e i loro pastori; in profondità, il problema soggiacente è quello dell’oggettività del cristianesimo, che in linea di principio non tollera interpretazioni arbitra- rie e la cui oggettività, da custodire e realizzare, compete originariamente e inalienabilmente a tutto il popolo di Dio, non solo al magistero (cf LG, cap. II); ma proprio per questo esclude in quanto inaccettabili tutte le interpreta- zioni non conformi all’insegnamento del magistero» 54.

MARINO MOSCONI Via S. Caboto, 2 20144 Milano

53 GIOVANNI PAOLO II, Omelia per la proclamazione a dottore della Chiesa di S. Teresa del Bambin Gesù e del Volto Santo, in «L’Osservatore Romano», 20-21 ottobre 1997. 54 G. COLOMBO, Il prete. Identità del ministero e oggettività della fede, in AA. VV., Il prete. Identità del mi- nistero e oggettività della fede, Milano 1990, p. 26. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 86-95 Vita consecrata: le questioni aperte I consacrati e i movimenti ecclesiali di Mirjam Kovac˘

Una delle questioni aperte dopo l’Esortazione apostolica postsi- nodale Vita consecrata [= VC] è la partecipazione dei consacrati ai movimenti ecclesiali. Per una maggiore chiarezza dobbiamo subito all’inizio precisare i termini dell’argomento. Un movimento ecclesiale in senso stretto non è qualsiasi movi- mento nato in seno alla Chiesa. Secondo Beyer esso associa «più or- dini di persone che vivono uno stesso carisma e collaborano a un medesimo servizio ecclesiale, che per sé deve essere svolto pubbli- camente» 1. Perché un gruppo di persone nella Chiesa si possa chia- mare “movimento ecclesiale” deve quindi attuare tre caratteristiche essenziali: – i suoi membri devono essere di più ordini di persone, cioè sia laici, sposati o no, che chierici e consacrati; – questi membri devono essere uniti da uno stesso carisma, che si può chiamare anche carisma collettivo; – i membri collaborano a un medesimo servizio. L’altro termine cha va precisato è consacrato. All’interno dei mo - vimenti spesso troviamo un gruppo, o anche più gruppi che attuano il carisma collettivo del movimento consacrandosi a Dio e agli uomini per la pratica dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza. Il presente studio non tratta di essi, ma di altri consacrati, più spesso re- ligiosi, di vari istituti, che in vari modi partecipano a un movimento. Quali sono questi modi? Sono giustificabili? Sono auspicabili? Queste sono le domande a cui cercheremo di rispondere in base all’Esortazio - ne, traendo anche dal tesoro del magistero precedente della Chiesa.

1 J. BEYER, I “Movimenti Ecclesiali”, in «Vita Consacrata» 23 (1987) 144. I consacrati e i movimenti ecclesiali 87

L’Esortazione apostolica Vita consecrata Il Papa parla dei movimenti ecclesiali alla fine del numero 56 del documento postsinodale, il numero che tratta dei laici volontari e associati: «In questi anni, non poche persone consacrate sono entrate in qualcuno dei movimenti ecclesiali sviluppatisi nel nostro tempo. Da tali esperienze gli inte- ressati traggono in genere beneficio, specialmente sul piano del rinnova- mento spirituale. Tuttavia non si può negare che, in alcuni casi, ciò generi di- sagi e disorientamento a livello personale e comunitario, specialmente quan- do queste esperienze entrano in conflitto con le esigenze della vita comune e della spiritualità dell’istituto. Occorrerà pertanto curare che l’adesione ai movimenti ecclesiali avvenga nel rispetto del carisma e della disciplina del proprio istituto, col consenso dei Superiori e delle Superiore e nella piena di- sponibilità ad accoglierne le decisioni» (VC 56).

Secondo il testo, la partecipazione dei consacrati ai movimenti porta frutti buoni, ma non sempre. Da che cosa dipende questo? Dal tipo, dall’intensità della partecipazione del consacrato al movimento? Dalla vicinanza, dalla somiglianza dei due carismi, quello dell’istituto e quello del movimento? Il nostro numero non dà risposte a queste domande. Osserva soltanto che i disagi sono conseguenza del conflitto tra la vita delle due realtà. E indica una soluzione che aiuterà a evitare problemi del genere in futuro: nell’adesione a un movimento ci vuole il rispetto del carisma e della disciplina del proprio istituto, il consenso dei su- periori, la disponibilità ad accoglierne le decisioni 2. Ma che cosa s’intende parlando di «adesione»?

Il Sinodo dei Vescovi Il tema della presenza dei consacrati nei movimenti ecclesiali è stato presente in tutte le fasi della IX Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, anche se non tra gli argomenti più importanti. Già nei Lineamenta [= L], nel numero 41, l’argomento che ci oc- cupa si trova nella cornice teologica della complementarietà delle vo- cazioni e dei carismi nella Chiesa e della comunione fra laici e consa- crati 3. Il testo afferma la specificità dell’appartenenza dei membri di

2 Nella nota 129 sono citate due Istruzioni: La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Chri - sti amor» (n. 62) e Potissimum institutioni (nn. 92- 93). Di questi due documenti parleremo più avanti. 3 Il testo parla dei religiosi, riferendosi il documento a questi ultimi e non a tutti i consacrati. 88 Mirjam Kovac˘ vita consacrata al movimento e la necessaria osservanza della disci- plina del loro istituto, richiamandosi ai numeri 92 e 93 dell’Istruzio- ne Potissimum institutioni, senza approfondire l’argomento. Tuttavia nei Lineamenta l’appartenenza dei consacrati a un movimento non è presentata come un problema. Dall’Instrumentum laboris [= IL] n. 80, invece, risulta che que- sto problema esiste: la questione è menzionata spesso nelle risposte al Questionario (allegato ai Lineamenta), mandate alla Segreteria Generale del Sinodo. Il documento, ancora una volta, mette in evi- denza la necessità di principi di sana reciprocità fra le vocazioni ec- clesiali e dell’apertura alla comunione e aggiunge che la partecipa- zione delle persone consacrate 4 ai movimenti ecclesiali deve essere fondata sulla propria identità ecclesiale di appartenenza al proprio istituto, aperta alla collaborazione in cui non c’è nessuna sovrapposi- zione di autorità. Nella nota 203 si richiama al n. 62 dell’Istruzio- ne La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Christi amor». Questo documento preparatorio quindi dà piuttosto gli spunti per un’approfondimento, senza scendere in particolari. È curioso che nel periodo della celebrazione del Sinodo questo argomento appaia soltanto due volte, non come un problema, ma co- me un’esperienza positiva che dovrebbe aiutare a vincere i pregiudi- zi di coloro che vedono nei movimenti ecclesiali una minaccia per gli istituti di vita consacrata 5.

4 L’Instrumentum laboris, a differenza dei Lineamenta, parla delle persone consacrate e non solo dei religiosi. 5 Il primo contributo è di Florian Pelka, S.J., presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori della Polonia, che ha parlato nella decima Congregazione generale del Sinodo, il giorno 8 ottobre 1994. Nel- la sua relazione ha presentato alcune osservazioni: «1. La nascita di numerosi movimenti ecclesiali do- po il concilio Vaticano II è senza dubbio frutto del soffio dello Spirito Santo nei nostri tempi. 2. I movi- menti ecclesiali sono aperti a tutti e dimostrano un dinamismo particolare, che attira alcuni e lascia perplessi, o addirittura contrari, altri. 3. Molti religiosi e religiose hanno contatti con vari movimenti ec- clesiali. Per la maggior parte di essi è un’esperienza positiva non sempre condivisa con le comunità e i superiori religiosi. 4. Alcune caratteristiche dei movimenti ecclesiali che attirano di più i religiosi, coin- volgendoli in questa nuova esperienza di Dio, sembrano essere: l’apertura all’ascolto della parola di Dio come una luce per la propria vita (questo per molti è un aspetto nuovo che non hanno mai sperimenta- to); la concretezza e la semplicità con cui le persone sono iniziate a sperimentare la presenza di Dio nella loro vita; una vera comunione fraterna tra persone diverse, prima sconosciute, e poi molto vicine grazie non alla “simpatia umana” ma a una comune esperienza religiosa». Dopo le osservazioni Florian Pelka offre alcune domande per una riflessione: «I movimenti ecclesiali costituiscono una minaccia o sono da considerare come una sfida per gli Istituti religiosi a motivo del loro dinamismo e vitalità spiri- tuali? La partecipazione di un religioso a un movimento ecclesiale porta veramente a una perdita d’identità religiosa e crea una “doppia appartenenza”? Molti giovani, ragazzi e ragazze, scoprono la loro vocazione alla vita consacrata facendo un’esperienza di Dio in un movimento ecclesiale. Come iniziarli alla spiritualità di una Congregazione religiosa rispettando questa esperienza, spesso molto profonda? Non dovremmo forse guardare ai movimenti ecclesiali come a un dono di Dio e un campo fertile per le I consacrati e i movimenti ecclesiali 89

Come abbiamo già visto, nell’Esortazione apostolica si menzio- nano brevemente sia i vantaggi (accennati dai due interventi al Sino- do) che i disagi (di cui nelle risposte mandate alla Segreteria Gene- rale del Sinodo) dell’adesione dei consacrati ai movimenti ecclesia- li, accennando alle condizioni da osservare per evitare conflitti. Per comprendere meglio queste disposizioni vediamo di che cosa tratta- no i due documenti citati nella nota 129 dell’Esortazione, le Istruzio- ni Potissimum institutioni e La vita fraterna in comunità. «Congrega- vit nos in unum Christi amor», entrambi della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

Potissimum Institutioni [= PI] Il numero 93 di questo documento indica tre esigenze per la co- munione tra i movimenti e gli istituti religiosi 6. La prima è il necessa- rio mantenimento dell’unità tanto dell’istituto quanto della vita di cia-

vocazioni religiose e sacerdotali?». Il testo si trova nella raccolta di sintesi delle relazioni, pubblicata da «L’Osservatore Romano»: NONA ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita con- sacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, Città del Vaticano 1994, p. 79). L’altro contributo è l’intervento scritto di Valeria Ronchetti, responsabile delle Religiose aderenti al Mo- vimento dei Focolari: «Alle volte le spiritualità che animano le “forme più moderne di consacrazione a Dio”, i Movimenti, sembrano donate dallo Spirito Santo alla Chiesa non solo per i laici e per i sacerdoti, ma anche per i religiosi. È il caso della spiritualità dell’unità del Movimento dei Focolari, al contatto della quale migliaia e migliaia di religiosi e religiose hanno scoperto una luce che ravvivava e aiutava a comprendere meglio, per la luce del carisma dell’unità, il proprio fondatore e sentono nascere un desi- derio forte di rivivere e attualizzare il suo carisma nell’oggi della Chiesa. Riscoprono le loro Regole e avvertono una maggiore spinta a metterle in pratica. Per aver compreso di più il fondatore poi si trova- no a riconoscersi meglio come fratelli della stessa Famiglia religiosa, e da ciò nasce una profonda unità con i superiori. Per questo si assiste a un vero e proprio rinnovamento di comunità, con aumento di vo- cazioni, con nuovi sviluppi delle missioni. I superiori affidano spesso compiti difficili a queste persone così pienamente disponibili. Si osserva ancora il realizzarsi di una reale e profonda comunione fra membri di Ordini diversi: così fra religiosi e sacerdoti diocesani, e fra sacerdoti e laici impegnati. La Chiesa attorno a loro dunque si ravviva. Anzi, questi religiosi, al contatto con una spiritualità moderna, si sentono di abbracciare i nuovi orizzonti indicati dal Vaticano II: il dialogo ecumenico, quello con fe- deli di altre Religioni e con persone di convinzioni diverse» (Ibid., pp. 145-146). 6 «Un istituto, tale quale l’ha voluto il fondatore e tale quale l’ha approvato la Chiesa, ha una coerenza interna che riceve dalla sua natura, dal suo fine, dal suo spirito, dal suo carattere e dalle sue tradizioni. Tutto questo patrimonio costituisce l’asse intorno al quale si mantiene insieme l’identità e l’unità del - l’istituto stesso (cf CIC can. 578) e l’unità di vita di ciascuno dei suoi membri. È un dono dello Spirito al- la Chiesa che non può sopportare interferenze né mescolanze. Il dialogo e la condivisione in seno alla Chiesa suppongono che ciascuno abbia perfetta coscienza di ciò che si è. Un candidato alla vita religiosa proveniente dall’uno o dall’altro di questi movimenti ecclesiali si pone liberamente, quando entra nel noviziato, sotto l’autorità dei superiori e dei formatori legittimamente incaricati di formarlo. Non può, quindi, dipendere nello stesso tempo da un responsabile esterno all’istituto al quale ormai appartiene, anche se prima di entrare apparteneva a tale movimento. Qui si tratta dell’unità dell’istituto e dell’unità di vita dei novizi. Queste esigenze rimangono al di là della professione religiosa, al fine di eliminare ogni fenomeno di pluriappartenenza, sul piano della vita spirituale del religioso e sul piano della sua missio- ne. Se non fossero rispettate, la necessaria comunione tra i religiosi e i laici rischierebbe di degenerare in confusione tra i due piani indicati sopra». 90 Mirjam Kovac˘ scuno dei suoi membri, possibile se sia il singolo che l’istituto nel suo insieme saranno incentrati sul carisma ricevuto da Dio 7, che ispira la loro missione e comunione, sia interna che esterna all’istituto. La seconda esigenza è la dipendenza di un novizio, proveniente da un movimento ecclesiale, solamente dai superiori dell’istituto in cui è entrato. A prima vista in questione potrebbe sembrare soltanto la sottomissione all’autorità, quindi un problema piuttosto giuridico. Ma nella descrizione della terza esigenza il numero 92 indica che l’unità di vita di un membro dell’istituto di vita consacrata può essere conservata solo se la dipendenza «esterna», formale, è l’espressione dell’appartenenza di tutta la persona all’istituto. La terza esigenza, infatti, estende l’esclusività di sottomissione ai superiori dell’istituto anche al periodo dopo la professione religio- sa, cioè a tutta la vita della persona consacrata. È da eliminare quindi una qualsiasi “pluriappartenenza” non solo sul piano della missione, ma anche sul piano della vita spirituale. Le parole dell’Istruzione sembrano chiare: ci vuole la comunione, ci vuole la collaborazione, ma è da evitare ogni “pluriappartenenza”.

La vita fraterna in comunità. «Congregavit nos in unum Christi amor» [= CN] L’Istruzione sulla vita fraterna in comunità sembra essere più flessibile rispetto a Potissimum institutioni. Soprattutto evidenzia che non si può generalizzare, ma si deve distinguere tra «movimen- to e movimento e tra coinvolgimento e coinvolgimento». Già all’ini- zio del numero 62 8, l’Istruzione, offrendo tre punti importanti ri-

7 Il testo usa l’espressione «patrimonio», che equivale al carisma collettivo dell’istituto. Cf G. GHIRLAN- DA, Carisma di un istituto e sua tutela, in «Vita Consacrata» 28 (1992) 474-475. 8 «I movimenti ecclesiali nel senso più ampio della parola, dotati di vivace spiritualità e di vitalità apo- stolica, hanno attirato l’attenzione di alcuni religiosi che vi hanno partecipato, riportandone talvolta frutti di rinnovamento spirituale, di dedizione apostolica e di risveglio vocazionale. Ma qualche volta hanno portato anche divisioni nella comunità religiosa. È opportuno allora osservare quanto segue: a) Alcuni movimenti sono semplicemente movimenti di animazione, altri invece hanno progetti apostolici che possono essere incompatibili con quelli della comunità religiosa. Varia anche il livello di coinvolgi- mento delle persone consacrate: alcune vi partecipano soltanto come assistenti, altre sono partecipanti occasionali, altre sono membri stabili e in piena armonia con la propria comunità e spiritualità. Coloro invece che manifestano una appartenenza principale al movimento con un allontanamento psicologico dal proprio istituto, fanno problema, perché vivono in una divisione interiore: dimorano nella comunità, ma vivono secondo i piani pastorali e le direttive del movimento. C’è da compiere quindi un accurato di- scernimento tra movimento e movimento e tra coinvolgimento e coinvolgimento del religioso. b) I mo- vimenti possono costituire una sfida feconda alla comunità religiosa, alla sua tensione spirituale, alla qualità della sua preghiera, all’incisività delle sua iniziative apostoliche, alla sua fedeltà alla Chiesa, I consacrati e i movimenti ecclesiali 91 guardo al rapporto dei consacrati 9 con i movimenti ecclesiali, avver- te il lettore che si riferisce ai movimenti nel senso più ampio della parola; poco dopo afferma che ci sono movimenti di animazione e altri che hanno progetti apostolici. Possiamo quindi dire che questo concetto di movimento è più largo di quello che abbiamo descritto all’inizio dell’articolo 10. Tra i vari livelli di coinvolgimento, CN 62 distingue assistenti, partecipanti occasionali, membri stabili, tra i quali alcuni in piena ar- monia con la propria comunità e spiritualità e altri che si sono allon- tanati psicologicamente dal proprio istituto. Per questi ultimi viene richiamato il testo di Potissimum institutioni, di cui abbiamo già par- lato. Alla fine CN 62 aggiunge un criterio importante per il discerni- mento sul possibile coinvolgimento di una persona consacrata nel movimento ecclesiale: «La partecipazione a un movimento sarà posi- tiva per il religioso o la religiosa se rafforza la sua specifica identità». L’identità della persona consacrata è trattata anche in PI 93. Co- me abbiamo visto, questa si forma e si nutre dal carisma collettivo dell’istituto a cui appartiene. Quale sia il tipo di partecipazione al mo- vimento che dà anche la possibilità di vivere in piena armonia con la propria comunità e spiritualità non è specificato. Si può lasciare com- pletamente al discernimento in ogni singolo caso? Ci sono alcuni cri- teri che aiutano a questo discernimento?

Un tentativo di risposta alle domande Lo studio dei documenti che recentemente hanno trattato della partecipazione dei consacrati ai movimenti ecclesiali ci ha portato al- la domanda, a nostro parere decisiva, per una comunione costruttiva e feconda non solo tra i movimenti e i singoli consacrati, ma anche

all’intensità della sua vita fraterna. La comunità religiosa dovrebbe essere disponibile all’incontro con i movimenti, con un atteggiamento di reciproca conoscenza, di dialogo e di scambio di doni. La grande tradizione spirituale – ascetica e mistica – della vita religiosa e dell’istituto può essere utile anche ai gio- vani movimenti. c) Il problema fondamentale nel rapporto con i movimenti, resta l’identità della singola persona consacrata: se questa è solida, il rapporto è produttivo per entrambi. Per quei religiosi e reli- giose che sembrano vivere più nel e per il movimento che nella e per la comunità religiosa, è bene ri- cordare quanto afferma il Potissimum institutioni [...]. La partecipazione a un movimento sarà positiva per il religioso o la religiosa se rafforza la sua specifica identità». 9 Il documento è indirizzato ai religiosi, non a tutte le persone consacrate. Tuttavia possiamo applicare il numero 62, che si riferisce ai movimenti ecclesiali, ai membri di tutti gli istituti di vita consacrata, anche se con delle distinzioni. Negli istituti secolari, per esempio, non si pone il problema della vita comune. 10 J. Beyer distingue diversi movimenti: laicali, spirituali, ecclesiali. Cf J. BEYER, Il rinnovamento del di- ritto e del laicato nella Chiesa, Milano 1994, pp. 151-154. 92 Mirjam Kovac˘ tra essi e gli istituti di vita consacrata: quale può essere il modo di partecipazione di un membro di un istituto di vita consacrata alla vita di un movimento? Dobbiamo subito rilevare che la terminologia non è unificata: vengono, infatti, utilizzate diverse espressioni che non hanno la stes- sa valenza e che danno l’idea di legami più o meno intensi con il mo- vimento 11. Inizialmente adopereremo l’espressione più generale, “par tecipazione”, solo in un secondo momento cercheremo di dare un nome al modo di questa partecipazione. D’Angelo distingue la partecipazione di consacrati a due titoli differenti: come assistenti ecclesiastici o come membri effettivi 12. Il primo titolo non causa problemi. Possiamo tranquillamente elencar- lo tra i modi costruttivi di partecipazione al movimento ecclesiale che aiutano a creare la comunione nella Chiesa. Rimane la questione in che modo un consacrato 13 può essere membro effettivo di un movimento. Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima chiarire che cosa significhi essere membro di un movimento ecclesiale. Questo interrogativo, però, necessita di una chiarificazione maggiore del fe- nomeno dei movimenti ecclesiali: in che cosa questo fenomeno si esprime canonicamente? Ha un posto particolare nel diritto canoni- co? Nel Codice? A quest’ultima domanda possiamo rispondere: non ancora. Se- condo le disposizioni dell’attuale legislazione, ogni movimento eccle- siale è un’associazione di fedeli 14. Per la partecipazione dei consacra- ti in essi si deve quindi applicare il can. 307 § 3: «Sodales instituto-

11 Oltre all’espressione «partecipazione» (CN 62, IL 80, il contributo di Pelka al Sinodo sulla vita consa- crata) se ne usano anche altre: neutrali, come «contatti con il movimento» (i contributi di Pelka e della Ronchetti al Sinodo), «presenza» (L 41); quelle che indicano una maggiore intensità di partecipazione, come «coinvolgimento» (CN 62), «adesione» (VC 56, IL 80), «vivere per il movimento» (CN 62); quelle che esprimono anche il legame giuridico, per esempio, «entrata in un movimento» (VC 56) o «dare il nome al movimento» (c. 307 § 2); le espressioni che evidenziano il lato negativo della partecipazione: «doppia appartenenza» (contributo di Pelka al Sinodo), «pluriappartenenza» (PI 93), «appartenenza principale al movimento» (CN 62). 12 Cf L. D’ANGELO, La partecipazione dei religiosi ai movimenti ecclesiali, in «Commentarium pro Reli- giosis et missionariis» 71 (1990) 90. L’argomento della partecipazione al secondo titolo è trattata nelle pagine successive. 13 Il significato di «consacrato» è stato descritto nell’introduzione dell’articolo. 14 Secondo Gerosa questa posizione non corrisponde alla natura vera dei movimenti. Per questo auto- re l’associazione è solo un tipo di aggregazione che nell’organizzazione segue «criteri corporativistici applicando il principio assembleare e quello della maggioranza; i movimenti ecclesiali, invece, postula- no generalmente un sistema cooptativo, similare alla struttura gerarchica stessa della Chiesa» (L. GE- ROSA, Carisma e diritto nella Chiesa, Milano 1989, p. 217). Questa nuova realtà ha quindi bisogno di un posto specifico nel diritto canonico. I consacrati e i movimenti ecclesiali 93 rum religiosorum possunt consociationibus, ad normam iuris proprii, de consensu sui Superioris nomen dare», ossia: «I membri di istituti religiosi possono col consenso del proprio superiore dare il proprio nome ad associazioni». Secondo questa disposizione la partecipazione 15 di un consacra- to al movimento è limitata soltanto dal diritto proprio (dell’istituto) e dal consenso del superiore. Tuttavia possiamo chiederci: sono i mo- vimenti ecclesiali uguali alle altre associazioni dei fedeli? Hanno qualcosa di specifico che li distingue dalle altre? Cercando di delineare il nucleo essenziale di tutti i movimenti ecclesiali all’inizio dell’articolo, abbiamo elencato tre caratteristiche, tra cui anche il carisma. Pur riconoscendo nei carismi dello Spirito l’origine di ogni associazione ecclesiale 16, nel caso dei movimenti non si tratta di un carisma qualsiasi, ma del carisma collettivo 17. Questo è un dono di Dio non a una persona, ma a un gruppo, non solo in un pe- riodo della storia, ma normalmente esteso nel tempo; è un dono orientato alla costruzione della Chiesa, della comunione 18. Tale cari- sma non determina solo lo scopo del gruppo, la sua missione, le sue attività, ma anche lo stile di vita, la spiritualità, cioè «il modo concreto di partecipazione a un aspetto del mistero di Cristo, quindi di essere in rapporto con Dio e di operare per il bene dei fratelli» 19. In questo senso, un singolo che aderisce al gruppo radunato da un carisma col- lettivo riconosce di aver trovato in tale dono non solo la guida delle proprie azioni, ma un ambiente vitale che dà respiro a tutta la sua vi- ta, che gli dà la possibilità di esprimere e vivere ciò che egli è. Non tutte le associazioni dei fedeli hanno un carisma collettivo. Ciò non significa che i loro membri non abbiano in comune lo stesso carisma, che possiamo chiamare anche carisma associativo 20, un do- no dato al gruppo per edificare la Chiesa. Un carisma associativo,

15 L’espressione «nomen dare» fa comprendere che qui si tratta di una partecipazione attiva, piena, an- che nel senso canonico. 16 Cf J. BEYER, Vita associativa e corresponsabilità ecclesiale, in «Vita Consacrata» 26 (1990) 932. 17 Gerosa parla del carisma comunitario, in collegamento con l’elemento associativo in generale (L. GEROSA , Carisma e diritto..., cit., p. 207). Qui, invece si parla del carisma collettivo, normalmente trattato in collegamento con gli istituti di vita consacrata. Secondo noi, si può parlare di esso anche nel caso di movimenti ecclesiali. 18 Cf L. GEROSA, Carisma e diritto..., cit., p. 67. 19 2 G. GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione, Cinisello Balsamo - Roma 1993 , p. 180, nota 168. 20 Alcuni autori chiamano questo dono «carisma comunitario». Così Gerosa che afferma che «nella Chiesa l’elemento associativo è normalmente, o per lo meno molto spesso, l’espressione di un carisma comunitario» (L. GEROSA, Carisma e diritto..., cit., p. 207; il corsivo è nostro). 94 Mirjam Kovac˘ tuttavia, non abbraccia necessariamente tutta la vita del singolo e del gruppo in maniera da creare un proprio stile di vita e una propria spiritualità, una struttura fondamentale di governo del gruppo, del- l’apostolato e delle opere proprie, caratteristiche, queste, del carisma collettivo 21. Un movimento ecclesiale si distingue da altre associazio- ni di fedeli anche per il fatto di avere questo dono. Al termine del percorso sembrerà ovvia la risposta alla do- manda postaci: «Che cosa significa essere membro di un movimen- to?». Significa partecipare al carisma collettivo del movimento. Si- gnifica trovare nello stile di vita del movimento l’attuazione, la rea- lizzazione del proprio stile di vita; riconoscere la spiritualità del movimento come propria, in cui “il mio” si completa con “il no- stro”; unire le forze, le energie in un apostolato che non sarà un’o - pera del singolo, ma un’opera comune. Ciò non esclude la possi- bilità che anche un singolo abbia un carisma specifico. Secondo G. Ghirlanda, infatti, il carisma collettivo contiene oltre al carisma del fondatore, al carisma collettivo di fondazione e alle sane tradi- zioni, anche il carisma dei singoli membri dell’istituto (nel nostro caso del movimento), come partecipazione al carisma collettivo e anche arricchimento di esso 22. Queste osservazioni ci hanno condotto al cuore della nostra do- manda: può essere un membro di un istituto di vita consacrata, nello stesso tempo, membro di un movimento ecclesiale? O – se formulia- mo la domanda diversamente – esiste un carisma personale che dà capacità di partecipare a due diversi carismi collettivi? La risposta sembra ovvia. Se la partecipazione al carisma collettivo significa par- tecipare a uno stile di vita, una spiritualità, ancora di più, una sotto- missione all’autorità che trova le radici in una struttura di governo, ispirata nello stesso carisma, una partecipazione all’apostolato pro- prio del gruppo che non è solo un’attività esterna, ma un’espressio - ne concreta del carisma, allora non è possibile essere membri di due gruppi dotati di carisma collettivo, se non a scapito dell’identità e unità di vita della persona (cf PI 93). Un membro di un istituto di vita consacrata quindi, secondo questa logica, non può essere membro di un movimento ecclesiale.

21 Ghirlanda chiama queste caratteristiche elementi strutturali fondamentali di un carisma collettivo (G. GHIRLANDA Carisma di un istituto..., cit., p. 476). 22 Cf G. GHIRLANDA Carisma di un istituto..., cit., p. 475. Per l’autore l’espressione «carisma collettivo» è equivalente al «patrimonio dell’istituto» del can. 578. I consacrati e i movimenti ecclesiali 95

Quale partecipazione di consacrati quindi, oltre al compito di assistente ecclesiastico, rimane possibile? Tale partecipazione non ha ancora un nome comune. Ma l’esperienza di molti religiosi dimo- stra che è possibile un’amicizia, un legame con il movimento eccle- siale, che aiuta a riscoprire il proprio carisma, a comprendere meglio il fondatore del proprio istituto, a vivere più intensamente e con maggiore fervore il dono dato da Dio al proprio istituto 23. Quale de- ve essere la forma di questa amicizia, di questa partecipazione alla vita del movimento, sarà in ogni singolo caso materia di «un accura- to discernimento», come raccomandato dall’Istruzione La vita fra- terna in comunità, n. 62. In questo compito difficile del consacrato interessato e anche del suo superiore, possono essere di aiuto le pa- role di J. Beyer:

«La partecipazione di membri di Istituti religiosi a un movimento non deve dunque attenuare la loro appartenenza reale al proprio Istituto; essa può ispirare uno sforzo di rinnovamento, ma deve evitare ogni confusione dal punto di vista dottrinale, e ogni allontanamento interiore e anche esteriore dall’Istituto, trascurando o mettendo in dubbio la sua finalità apostolica, i suoi metodi di lavoro e le sue opere proprie» 24.

MIRJAM KOVAC˘ Piazza della Pilotta, 4 00187 Roma

23 Cf il contributo di Valeria Ronchetti al Sinodo dei Vescovi, riportato nella nota 4. 24 J. BEYER, Il rinnovamento del diritto..., cit., p. 164. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 96-105 Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 1 di Sandra Sandri

Collocazione sistematica del can. 220 Il can. 220 dell’attuale Codice sancisce il diritto fondamentale del fedele alla buona fama e quello alla tutela della propria intimità o diritto alla riservatezza (o diritto di privacy, come è stato diversa- mente denominato). Tale previsione normativa è inserita nel Libro II del Codice, più precisamente nel Titolo I De omnium christifidelium obligationibus et iuribus che, per la prima volta nella storia legislativa della Chiesa, ha codificato in forma sistematica i diritti e i doveri dei fedeli. L’esigenza di procedere anche nell’ordinamento canonico alla codificazione dei doveri e dei diritti dei fedeli (e dei fedeli laici) risa- le all’epoca del concilio Vaticano II. Oltre ai nuovi elementi espressi in tale materia proprio dal Vati- cano II, grazie ai quali è stato possibile elaborare teologicamente pri- ma ancora che normativamente la categoria del christifidelis, alla co- dificazione dei diritti e dei doveri dei fedeli si è pervenuti anche per l’influsso della cultura giuridica moderna. Tale cultura ha promosso la recezione dei “diritti fondamentali” o “diritti inviolabili”, elaborati dalla dottrina giuridica secolare e con- cretamente verificati dall’esperienza costituzionalistica statuale; re-

1 Il presente lavoro costituisce una sintesi della tesi elaborata per il conseguimento della laurea in dirit- to canonico presso la Pontificia Università Lateranense. In questa sede, dopo qualche rapido cenno alla collocazione sistematica di tale canone e al contenuto dei diritti ivi previsti, saranno considerati solo i concreti riscontri nell’ambito del sistema processuale matrimoniale. Per una visione della normativa del can. 220 nell’ambito della formazione, cf V. MARCOZZI, Autorità e interiorità nell’esame all’ammissio- ne al sacerdozio, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 3 (1990) 42-52. Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 97 cezione favorita, tra l’altro, da un vivace dibattito dottrinale e dalla mancata promulgazione della Lex Ecclesiae Fundamentalis 2. Questo non significa che sia stata operata una pedissequa e acritica trasposizione nel diritto canonico di categorie già altrove col- laudate. La cultura giuridica della tutela dell’uomo e dei suoi diritti fon- damentali si è configurata, infatti, come la base su cui la canonistica moderna ha poi elaborato sue proprie costruzioni, addivenendo al ri- conoscimento di diritti fondamentali del tutto eterogenei, nei conte- nuti teorici e nelle formulazioni positive, rispetto a quelli che costi- tuiscono patrimonio comune delle moderne costituzioni e dei docu- menti internazionali. Questa eterogeneità dipende dal fatto che, intanto, esistono di- ritti e doveri sanciti dal CIC che non hanno né in alcun modo posso- no avere riscontro negli ordinamenti giuridici secolari 3. Ma questa eterogeneità dipende soprattutto dal fatto che, pure quando si tratti di diritti e doveri rinvenibili con lo stesso nomen juris e magari con gli stessi contenuti 4 in entrambi gli ordinamenti (come sostanzialmente nel caso del diritto alla buona fama), il loro ambito di operatività e le modalità del loro esercizio nella Chiesa sono del tutto peculiari 5.

Contenuto dei diritti previsti dal can. 220 a) È necessario riprendere dalla teologia morale il contenuto dei diritti previsti dal can. 220: il diritto alla buona fama e quello alla tutela della propria intimità, definito corollario del primo.

2 Numerosi sono gli autori che si sono soffermati su questi aspetti. Cf, per esempio, E. CORECCO, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in I diritti fondamentali della persona umana e la liber- tà religiosa. Atti del V Colloquio giuridico (8-10 marzo 1984), a cura di F. Biffi, Roma 1985, p. 101 ss; G. DALLA TORRE, Il Popolo di Dio, in AA.VV., La nuova legislazione canonica, Roma 1983, p. 133 ss; G. DIQUATTRO, Lo statuto giuridico dei christifideles nell’ordinamento canonico, in «Apollinaris» 59 (1986) 77 ss. 3 Cf, per esempio, il can. 210, che stabilisce il dovere dei fedeli di condurre una vita santa e di promuo- vere la crescita della Chiesa e la sua santificazione. 4 Interessanti considerazioni a proposito della relazione fra diritti dell’uomo e diritti del fedele in T. B ERTONE, Persona e struttura nella Chiesa (I diritti fondamentali del fedele), in AA.VV., Problemi e pro- spettive di diritto canonico, Brescia 1977, p. 71 ss. 5 Cf P. BELLINI, Diritti fondamentali dell’uomo - diritti fondamentali del cristiano, in «Ephemerides Iuris Canonici» 34 (1978) 225 ss. 98 Sandra Sandri

«Fama est bona existimatio, qua homo apud alios fruitur [= la fa- ma è la buona considerazione della quale l’uomo gode presso gli al- tri]» 6, differenziandosi dall’onore che in senso lato è «rectam existimationem de alicuius perfectionibus sive moralibus praecipue [...] sive intellectualibus [...] sive etiam physicis [...] sive illis quae mixtae di- ci possunt [= la giusta considerazione in merito alle qualità sia principalmen- te morali di qualcuno, sia intellettuali, sia anche fisiche, sia di quelle che pos- sono chiamarsi miste]» 7, mentre in senso stretto è «externa testificatio aestimationis bonae quam de alicuius qualitatibus habemus [= l’attestazione esterna della buona considerazione circa le qualità di qualcuno]» 8. Tornando al concetto di buona fama, essa ancor più dettagliata- mente si definisce come «communis plurium bona aestimatio de qua- litatibus praesertim moralibus veris vel saltem putativis alicuius perso- nae [= la comune buona considerazione circa le qualità soprattutto di ordine morale vere o quanto meno presunte di qualche persona]» 9. Due sono pertanto gli elementi specifici che qualificano la buona fama: il primo consiste in un giudizio esterno o quantomeno in una prudente opinione sulle buone qualità di una determinata persona. Il secondo concerne la generalità di siffatto giudizio o opinione e quindi richiede che tale giudizio sia comune a una pluralità di sog- getti che abitualmente frequentano quella determinata persona. San Tommaso non esita a considerare la buona fama come uno dei valori più importanti fra quelli propri della persona umana: «Au- ferre alicui famam valde grave est: quia inter res temporales videtur fama esse pretiosior [= togliere a qualcuno la sua fama è assai grave: poiché tra i beni temporali la fama sembra essere il più prezioso]» 10. Anche la giurisprudenza rotale, nelle sentenze che riguardano le offese penalmente perseguibili alla buona fama, ha utilizzato que- sti stessi concetti.

6 P. P ALAZZINI, Dictionarium morale et canonicum, II, Roma 1962, p. 563. Prima ancora che la nozione di buona fama va logicamente considerata quella di fama intesa come «communis existimatio de vita et de moribus alicuius [= il giudizio comune a proposito della vita e della condotta di qualcuno]». Così in I. AERTNYS - C. DAMEN - I. VISSER, Theologia moralis secundum doctrinam S. Alfonsi de Liguorio doctoris Ecclesiae, II, Torino 1968, p. 401. 7 A. PEINADOR, Cursus brevior theologiae moralis ex divi Thomae principiis inconcussis. Pars prior specu- lativa, Madrid 1954, Tomus II, Vol. II, p. 486. 8 Ibid., p. 487. 9 P. P ALAZZINI, Dictionarium…, cit., p. 483. 10 Questa citazione della Summa teologica di san Tommaso d’Aquino è richiamata anche da A. DEL PORTILLO, Fieles y laicos en la iglesia, Pamplona 1989, p. 155. Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 99

Si tratta di decisioni che riguardano l’ingiuria e la diffamazione e che delineano con molta precisione la natura del bene giuridico che costituisce l’oggetto o l’elemento materiale di tali delitti 11. b) Dalla nozione di segreto delineata ancora dalla teologia mo- rale, invece, si è arrivati a riconoscere il diritto all’intimità, attual- mente definita come «una sfera della vita privata nella quale gli altri non possono né devono intervenire» 12. Tale diritto è stato esplicitamente riconosciuto per fronteggiare il concreto pericolo di violazioni particolarmente nell’ambito di semi- nari, istituti religiosi e altre associazioni. Il problema si configura particolarmente grave specialmente a causa di certi abusi nell’applicazione di test per l’ammissione di can- didati al ministero presbiterale e alla vita consacrata. Nella definitiva formulazione del Codice un richiamo esplicito al can. 220 si rinviene nel can. 642, relativo ai requisiti per l’ingresso al noviziato 13.

Il can. 220 nel diritto processuale matrimoniale Numerose sono le disposizioni del nuovo Codice, pur dissemi- nate nei diversi Libri in cui esso si articola, che si riallacciano al te- ma della buona fama e alla tutela della propria intimità. In questa sede, tuttavia, ci limitiamo all’esame di quelle che più direttamente riguardano gli istituti processuali e quello matrimonia- le in particolare. Il Legislatore, dopo la trattazione relativa ai giudizi in genere, ha creduto opportuno disciplinare minuziosamente il processo con- tenzioso ordinario con disposizioni che, mutatis mutandis, sono ap- plicabili anche ai processi speciali (can. 1691) e al processo penale (can. 1728). Consideriamo allora brevemente gli sviluppi applicativi dei prin- cipi espressi nel can. 220 proprio con riferimento al processo penale, per poi affrontare in modo più approfondito quelli propri al processo matrimoniale.

11 Cf, per esempio, una coram Canestri, 26 luglio 1940, nn. 7-8, in «SRRDec.» XXXII, 594. 12 L. CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico - pastorale, I, Napoli 1990, p. 283. Sul diritto all’intimità cf V. MARCOZZI, Il diritto alla propria intimità nel nuovo Codice di Diritto Canoni- co, in «La Civiltà cattolica» 134 (1983) 572-580. 13 Cf D.J. ANDRÈS GUTIERREZ, Il diritto dei religiosi. Commento al Codice, Roma 1984, pp. 199-206. 100 Sandra Sandri

Secondo il disposto del can. 1717 § 1, ogniqualvolta giunge al- l’Ordinario notizia almeno probabile di un delitto, lo stesso deve procedere a indagare con prudenza sui fatti, le circostanze e l’imputabilità. In altre parole, questa indagine preliminare ha lo scopo di veri- ficare se la notizia sulla commissione del delitto è o no fondata per poter in tal modo decidere sulle misure da adottare. Gli elementi raccolti saranno sufficienti quando, dopo averne preso atto, l’Ordinario ritenga di poter decidere, prudentemente e fondatamente, su una delle vie possibili da seguire, vale a dire l’archi - viazione degli atti, l’avvio del processo o la procedura amministrativa. Nell’indicare i principi informatori e tracciando le linee portanti dell’istituto giuridico dell’indagine previa al processo penale 14, è sta- to collocato al primo posto quello del rispetto e della tutela dei diritti del fedele e della dignità della persona umana. In particolar modo si tratta di tutelare adeguatamente i diritti dei presunti autori del delitto nei confronti dei quali si svolge l’indagine. Uno di tali diritti è appunto il diritto alla buona fama, espressa- mente richiamato dal paragrafo secondo del can. 1717: «Si deve prov- vedere che con questa indagine non sia messa in pericolo la buona fa- ma di alcuno». Venendo ora più propriamente al diritto processuale matrimo- niale, giova ricordare, in via preliminare, il particolare significato della pubblicità nel diritto processuale canonico. La pubblicità, nota caratteristica e tipizzante del processo negli ordinamenti statuali, nel diritto canonico invece non è sinonimo di aula giudiziaria aperta normalmente a chiunque voglia assistere a un procedimento, ma consiste nella necessaria presenza del notaio e nella comunicazione degli atti alle parti o ai loro avvocati. Nel discorso del Papa alla Rota Romana del 1989 si ribadisce che

«la pubblicità del giudizio canonico verso le parti in causa non intacca la sua natura riservata verso tutti gli altri [...]. I fedeli, infatti, si rivolgono ordinaria- mente al tribunale ecclesiastico per risolvere il loro problema di coscienza. In tale ordine dicono spesso certe cose che altrimenti non direbbero. Anche i testimoni rendono spesso la loro testimonianza sotto la condizione, almeno tacita, che essa serva solo per il processo ecclesiastico. Il tribunale – per cui

14 Cf J. SANCHIS, L’indagine previa al processo penale, in AA.VV., I procedimenti speciali nel diritto cano- nico, Città del Vaticano 1992, pp. 233-266. Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 101

è essenziale la ricerca della verità oggettiva – non può tradire la loro fiducia, rivelando a estranei ciò che deve rimanere riservato» 15.

Appare interessante notare che anche in uno degli ultimi di- scorsi del Papa alla Rota sono stati ribaditi questi stessi concetti 16. Dopo questa necessaria premessa, vediamo allora come i diritti di cui al can. 220 ricevono tutela concreta nell’attuale legislazione, di- stinguendo fra le norme poste, per così dire, a titolo di presupposti processuali e quelle che riguardano invece il processo nella sua di- namica. a) Nella parte dedicata ai giudizi in genere, si stabilisce in pri- mo luogo che i giudici e gli aiutanti del tribunale sono tenuti a man- tenere il segreto d’ufficio. Questo vale come regola generale nell’ambito del giudizio pe- nale, mentre nel contenzioso ciò vale quando dalla rivelazione di qualche atto può derivare pregiudizio alle parti (can. 1455 § 1). Si prevede poi il caso in cui la causa o le prove siano di tal natu- ra che dalla divulgazione degli atti o delle prove stesse può essere messa in pericolo la buona fama altrui (can. 1455 § 3): a tutela del di- ritto alla buona fama di ogni fedele, il giudice a sua discrezione, lad- dove ne ravvisi la necessità, può vincolare con il giuramento di man- tenere il segreto i testi, i periti, le parti e i loro avvocati o procuratori. Esiste anche il divieto ai notai e al cancelliere di rilasciare copia degli atti giudiziari e dei documenti acquisiti al processo senza il mandato del giudice (can. 1475 § 2) e quest’ultimo può essere punito dalla competente autorità giudiziaria per la violazione della legge del segreto (can. 1457 § 1). Nelle norme dettate per i giudizi contenziosi ordinari, poi, si stabilisce l’esenzione dal dovere di rispondere in giudizio per tutti coloro che sono tenuti al segreto d’ufficio, per quanto riguarda gli af- fari soggetti a questo segreto, e anche per coloro che dalla propria testimonianza temano per sé o per il coniuge o per i consanguinei o gli affini più vicini infamia, pericolosi trattamenti o altri gravi mali (cf can. 1548 § 2). Una norma simile è poi stabilita con esplicito riferimento alla produzione di documenti in giudizio (can. 1546).

15 GIOVANNI PAOLO II, Allocutio ad Rotae Romane auditores, officiales et advocatos coram admissos, 26 gennaio 1989, in AAS 81 (1989) 926. 16 GIOVANNI PAOLO II, Discorso di Giovanni Paolo II alla Rota Romana, 10 febbraio 1995, in AAS 87 (1995) 1016. 102 Sandra Sandri

b) Quelli fin qui evidenziati sono i presupposti previsti dal legi- slatore, in via del tutto generale, come garanzia per la tutela della buona fama e della riservatezza. Concretamente, passando alla fase dinamica del processo, è possibile evidenziare alcuni momenti salienti in cui appare più forte l’esigenza di tutelare la buona fama e la riservatezza. In aderenza alla riconosciuta necessità del contraddittorio, la re- gola che il primo e fondamentale atto del procedimento dovesse su- bito essere portato a conoscenza dell’altra parte non subiva eccezio- ni nella precedente disciplina. Attualmente è invece previsto che il giudice possa per cause gravi, e quindi in via eccezionale, ritardare la comunicazione alla par- te convenuta del libello (che pertanto nel caso non figurerà unito alla citazione), fino a che questa non abbia deposto in giudizio. A giustificazione della prevista deroga è stata allegata, fra le al- tre possibili motivazioni, anche l’esigenza di tutelare la libertà d’espressione dell’attore che potrebbe temere di dover affrontare un processo per diffamazione intentatogli dall’altra parte davanti all’autorità giudiziaria dello Stato. In effetti, a parte la considerazione che la prospettata diffi- coltà viene solo rinviata e comunque non risolta, in Italia la legge dichiara espressamente non punibili le offese contenute negli scrit- ti presentati dalle parti o dai loro difensori «quando concernono l’oggetto della causa o del ricorso» (ai sensi dell’art. 598 del Codice penale). Il problema che si pone, peraltro ancora aperto e non del tutto risolto, è quello di vedere se effettivamente il libello rientra in tale previsione normativa oppure no, con tutte le relative conseguenze del caso. Ma la fase processuale in cui maggiormente entra in gioco la tutela della buona fama e della riservatezza è propriamente quella istruttoria. È possibile tuttavia che tali diritti vengano invocati anche nel- l’ambito dell’ordinamento civile, sia pur con riferimento concreto a una causa di nullità. È quello che succede quando è necessario rivolgersi al presi- dente del tribunale civile e penale per il rilascio dell’autorizzazione a ottenere le cartelle cliniche, evidentemente allo scopo di avere la do- cumentazione da allegare a un libello ex can. 1095, laddove manchi il consenso dell’interessato. Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 103

La domanda viene formulata invocando l’art. 59 del regolamen- to 16/08/1909 n. 615, unico riferimento legislativo esistente, anche se in tale articolo si fa menzione solo del «certificato di degenza». Il presidente del tribunale concretamente adito può legittima- mente ritenere di dare un’interpretazione restrittiva a tale previsione proprio invocando il diritto alla buona fama e alla riservatezza di chi è stato ricoverato e concedendo pertanto l’autorizzazione solo al rila- scio del certificato di degenza, praticamente inutile ai fini di una cau- sa di nullità. Purtroppo, allo stato dei fatti, questa interpretazione è del tutto legittima mancando nel sistema una norma che permetta di supera- re il dato testuale. Anzi, al riguardo, la nuova legge 31 dicembre 1996, n. 675, che vieta, se non in casi eccezionali, la diffusione dei dati relativi alla sa- lute, offre un sicuro aggancio normativo per la reiezione di tali ri- chieste. Tornando all’ordinamento canonico e alla fase istruttoria del processo matrimoniale, decisamente più restrittiva appare la nuova disciplina per quanto riguarda la possibilità di esigere una copia de- gli atti e documenti di causa: a differenza della precedente normativa le parti non hanno il diritto di ottenere actorum exemplar, mentre di tale facoltà godono solo gli avvocati (ex can. 1598 § 1), che tuttavia non possono consegnare l’esemplare al proprio assistito per il peri- colo che quest’ultimo si serva di tali atti per eventuali ricorsi al tribu- nale civile contro l’altra parte o contro i testi o addirittura contro lo stesso tribunale ecclesiastico. Addirittura, durante i lavori preparatori del Codice, alcuni mem- bri della Commissione avevano proposto che le parti fossero infor- mate soltanto del senso generale degli atti di causa, proposta che non fu accettata con lo scopo evidente di salvaguardare il diritto alla difesa 17. Su tale questione particolarmente importante per gli interessi e i diritti che sono in gioco, il regolamento del tribunale ecclesiastico regionale del Triveneto, per esempio, specifica: «Ai Patroni debita- mente costituiti potrà essere consegnata copia degli atti. I Patroni so- no tenuti a non consegnare copia degli atti alla parte assistita, affin-

17 C. ZAGGIA, Iter processuale di una causa matrimoniale secondo il nuovo Codice di Diritto Canonico, in Z. GROCHOLEWSKI-M.F. POMPEDDA-C. ZAGGIA, Il matrimonio nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Pado- va 1984, pp. 226-227. 104 Sandra Sandri ché non sia intaccata la natura riservata del processo canonico verso tutti gli altri» (art. 28). Nel tentativo di tutelare la buona fama delle parti in causa e la lo- ro riservatezza lo stesso can. 1598 stabilisce inoltre che «nelle cause che riguardano il bene pubblico il giudice, per evitare pericoli gravis- simi, può decidere, garantendo tuttavia sempre e integralmente il di- ritto alla difesa, che qualche atto non sia fatto conoscere a nessuno». Si tratta di una vera e propria attribuzione al giudice della fa- coltà insindacabile di non far conoscere un atto o una prova ad alcu- no e quindi non solo alle parti, ma neppure ai loro patroni. È giocoforza ritenere che, fra i motivi che possono spingere il giudice a usare tale facoltà del tutto discrezionale, vi sia la necessità di salvaguardare la buona fama e/o il diritto alla tutela della propria riservatezza di qualche fedele che interviene nel procedimento in qualità di parte o di testimone. È stato detto che si realizza in questo caso una probabile viola- zione del diritto della difesa 18. Tuttavia, nella valutazione insindacabile di pubblicare o meno un atto, il giudice, secondo il dettato normativo, deve trovare il modo di salvaguardare comunque sia le parti che tutte le persone pregiudi- cate dagli effetti riflessi e dalle sue decisioni. Una situazione che si avvicina a quella prospettata dal can. 1598 è l’apposizione della formula sub secreto ad alcuni documenti prodotti in giudizio o ad alcuni interrogatori (o parti di interrogatorio). Il già citato art. 28 del regolamento del tribunale del Triveneto dispone che «in via del tutto eccezionale l’Istruttore può disporre che alcuni atti rimangano sotto segreto e in tal caso verranno dati in visione ai Patroni, che si impegnano a mantenere il segreto anche verso la parte assistita». In questo caso, allora, chi non viene a conoscere dell’esistenza in giudizio di un atto è solo la parte, mentre al suo Patrono è data la facoltà di accedervi. Anche questa previsione si presta, tuttavia, a configurare situa- zioni assai delicate perché, come nell’ipotesi prevista dal can. 1598, non è sempre agevole stabilire quali sono i pericoli gravissimi da evi- tare in relazione ai probabili contenuti, per esempio, di una dichiara- zione testimoniale.

18 A. BLASI, Appunti di diritto processuale canonico, in «Monitor Ecclesiasticus» 112 (1987) 379. Il processo matrimoniale canonico e la tutela della buona fama e della privacy della persona 105

E quindi, per esempio nel caso specifico di un testimone che chiedesse di essere ascoltato sub secreto e solo a queste condizioni fosse disponibile a rendere la sua testimonianza, si impone la massi- ma cautela per il giudice istruttore, che dovrà fare le dovute valuta- zioni al fine di salvaguardare comunque il diritto alla difesa.

Conclusioni In base alle considerazioni fin qui svolte, si deduce che la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza deve intendersi come principio informatore del processo previsto e disciplinato dal nuovo Codice. E se questo vale in termini generali, è evidente che ciò acquista un significato ancora più stringente se si tratta del processo matri- moniale, per l’intrinseca delicatezza delle questioni che in quella se- de sono indagate. Certamente devono ancora essere adeguatamente valutate e ben comprese nel loro complesso le concrete applicazioni pratiche di tale principio alla logica processuale. Di sicuro lo sforzo dovrà essere quello di contemperare la rea- lizzazione dei diritti di cui al can. 220 con il diritto alla difesa, forse non a caso previsto dal canone successivo, il tutto nella prospettiva unificante della salus animarum e del rispetto della dignità umana.

SANDRA SANDRI Via Anfiteatro, 10 37121 Verona Editoriale

«Strada: striscia di terra che si percorre a piedi. Diversa dalla strada è la strada asfaltata, che si distingue non solo perché si percorre con la macchina, ma in quanto è una semplice linea che unisce un punto a un altro. La strada asfaltata non ha senso in se stessa: hanno senso solo i due punti che essa unisce. Prima ancora di scomparire nel paesaggio, le strade sono scomparse dall’animo umano: l’uomo ha smesso di desiderare di camminare con le pro- prie gambe e di gioire per questo. Anche la propria vita ormai non la vede più come una strada, bensì come una strada asfaltata: come una linea che conduce da un punto a un altro, dal gra- do di capitano al grado di generale, dal ruolo di moglie al ruolo di vedova. Il tempo della vita è diventato per lui un semplice ostacolo che è necessario supe- rare a velocità sempre maggiori. La strada e la strada asfaltata sono anche due diversi concetti di bellezza. Nel mondo delle strade asfaltate un bel paesaggio significa: un’isola di bellezza uni- ta da una linea a altre isole di bellezza. Nel mondo delle strade la bellezza è sempre continua e sempre mutevole; a ogni passo ci dice:“Fermati!”» (M. KUN- DERA, L’immortalità).

È la strada che ognuno di noi percorre andando sul luogo di la- voro, oppure a trovare una famiglia o un amico, oppure quella che ci porta a una destinazione programmata. È la strada della vita che va dalla nascita alla morte, la strada degli incontri, della gioia e della sofferenza, del senso della nostra esistenza. È la strada della vita spirituale, dell’incontro con il Signore e del cammino di amicizia vissuto insieme a lui. È la strada che porta a Roma o nei luoghi di pellegrinaggio: è la strada del giubileo. 114 Editoriale

È la strada che ci separa dall’anno 2000, quando celebreremo il giubileo dell’inizio del terzo millennio. I cammini di preparazione so- no già stati indicati da Giovanni Paolo II nella sua lettera apostolica Tertio millennio adveniente [= TMA]. Afferma il Papa che «i duemila anni dalla nascita di Cristo rappresentano un giubileo straordinaria- mente grande non soltanto per i cristiani, ma indirettamente per l’intera umanità» (TMA 15). I cammini di preparazione mettono in gioco le diverse dimen- sioni della vita e soprattutto della fede: progetti di adeguamento del- le strutture romane per l’arrivo dei pellegrini; cammino di catechesi proposto dal Papa alla scoperta di Cristo, dello Spirito Santo e del Padre; preghiera personale di chiunque non vuole vivere, nel 2000, un anno come gli altri. La nostra Rivista vuole offrire un suo specifico contributo, indi- cando un sentiero, un percorso di approfondimento di alcune temati- che giuridico-canoniche riguardanti il tema del giubileo. Il pensiero di Kundera sopra riportato invitava a non perdere la ricchezza della strada percorsa a piedi, gustando ogni attimo e ogni angolo di panorama, di incontro, di esperienza. Anche il nostro cam- mino verso il giubileo del 2000, vissuto in questi tre anni di prepara- zione, vuole essere quasi una strada percorsa a piedi, senza fretta, per preparare il cuore a ricevere la grazia del Signore e per non per- dere nessun particolare che l’occasione del giubileo ci può offrire. Gli articoli riportati in questo fascicolo della Rivista, nella parte monografica, sono come diapositive scattate sulla strada, lungo il suo cammino, dal giurista che si prepara e riflette sul giubileo. Il primo articolo ci presenta la raccolta del cammino fatto finora dalla Chiesa al riguardo (Montini). È l’esito di uno studio meticoloso, alla ricerca dei contenuti presenti nelle Bolle di indizione del giubi- leo, dal 1300 al 1983. Viene offerto l’elenco di tutte le Bolle di indizio- ne, la questione del nome di questo anno (Anno Santo, anno giubila- re, giubileo ecc.), il problema della cadenza di celebrazione, la durata, le modalità di indizione, l’importanza delle opere, l’istituto delle indul- genze, la problematica ecumenica. Viene raccolta in questo articolo la strada percorsa da chi ci ha preceduto, per scoprire la ricchezza ri- cevuta in eredità e che diventa ora anche il nostro cammino. Il giubileo richiama a gran voce la problematica delle indulgenze (Migliavacca). Viene sinteticamente riportata la storia delle indulgen- ze, dall’epoca della celebrazione della penitenza “tariffata” al primo giubileo, dal concilio di Trento al rinnovamento di Paolo VI. Segue lo Editoriale 115 studio della normativa attuale sulle indulgenze, con attenzione par- ticolare al Codice di diritto canonico, all’Indulgentiarum doctrina e all’Enchiridion indulgentiarum. Nella parte conclusiva di questo con- tributo vengono proposte alcune riflessioni riguardanti una rilettura teologica dell’istituto delle indulgenze, lo studio del legame indulgen- ze-giubileo e alcune osservazioni di sintesi sulla normativa vigente. Camminare e raggiungere la meta comporta anche fare sforzi e sacrifici, compiere opere. Anche il giubileo. Il terzo contributo (Per- lasca) vuole offrire una lettura attenta del problema della opere del giubileo, recuperandone soprattutto la tradizione storica: il pellegri- naggio a Roma, la visita alle basiliche romane, la confessione e la co- munione sacramentale, la preghiera secondo le intenzioni del Ponte- fice, il digiuno e l’elemosina. Alla luce delle indicazioni della Tertio millennio adveniente, l’autore cerca di illustrare alcuni dati del tema delle opere per il giubileo del 2000. Sulla strada spesso si affiancano fratelli e sorelle che non condi- vidono le nostre mete o il nostro modo di camminare. Nel cammino della Chiesa si incrociano le diverse confessioni cristiane che, forse più di altre volte, possono nel giubileo del 2000 vivere un’occasione unica di incontro e di condivisione. In questa ottica si propongono due articoli che affrontano il tema del giubileo secondo la prospetti- va cattolica e secondo quella della Chiesa evangelica. Il primo di questi contributi (Ubbiali) spiega il giubileo a partire dall’indulgen - za, mettendo in luce che, se la teologia ha sempre legato l’indulgen- za al sacramento della penitenza, astraendola quasi dall’attuazione della vita cristiana, il magistero più volte collega l’indulgenza al giu- bileo, quasi a dire che il senso dell’indulgenza è richiamare il senso del giubileo che, alla fine, è il senso del tempo. Il secondo contributo (Ricca) presenta una possibile lettura del giubileo fatta dalla comu- nità ecclesiale evangelica, tentando di recuperare il significato pro- fondo dell’Anno Santo e delle opere del giubileo, rileggendo il tutto nella prospettiva della vita spirituale e del cammino di conversione, anche tra comunità ecclesiali che non sono in piena comunione. Il fascicolo si conclude con un articolo che riporta e illustra il testo della recente Intesa fra la Conferenza Episcopale Italiana e il Governo Italiano in materia di beni culturali (Redaelli). Stipulata in attuazione dell’art. 12 del recente Accordo di modificazione del Con- cordato Lateranense, l’Intesa è contemporaneamente anche diritto canonico e, come tale, viene esaminata nella sua parte dispositiva e nella sua impostazione. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 116-158 Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione di G. Paolo Montini

Introduzione Fra i compiti che connotano il canonista e il suo ruolo vi è senz’altro la lettura critica dei documenti normativi emanati dalla le- gittima autorità della Chiesa. È forse la funzione primigenia del cano- nista nella Chiesa e nel concerto delle scienze teologiche, una fun- zione che potrebbe forse descriverne compiutamente l’identità e i compiti. A questa considerazione vorremmo appellarci per giustificare il tentativo del presente articolo di affrontare il tema del giubileo attra- verso la lettura critica dei documenti pontifici con cui i giubilei me- desimi furono indetti attraverso i secoli. Certamente non tutta la storia dei giubilei vi si rispecchia: vi so- no molti aspetti di cronaca, di vita spirituale, ecclesiale e sociale, nonché di folklore, che hanno caratterizzato i giubilei senza merita- re, per la loro natura o per cause contingenti, alcun accenno nei do- cumenti ufficiali. Ciò vale naturalmente anche per la stessa dottrina sulle indulgenze e su alcuni aspetti della funzione del giubileo. Riteniamo nondimeno che il punto prospettico sia originale e assolutamente fruttuoso. Soprattutto per il fatto che vengono presi in esame documenti normativi, ossia che descrivono il giubileo nella sua intenzione ideale, nella sua funzione intesa, nella sua giustifica- zione ufficiale. E la dimensione del dover essere (mai identificabile, neppure per accidens, con quella dell’essere o dell’accadere) permet- te una lettura propria e originale del giubileo. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 117

Le Bolle di indizione Il nostro lavoro prenderà in considerazione esclusivamente le Bolle di indizione 1, ossia i solenni documenti pontifici che annuncia- no ufficialmente, indicandone la data e le modalità principali di svol- gimento, l’anno giubilare 2. Si tratta di documenti pontifici che spaziano dal 1300 al 1983; in genere non sono tradotti e neppure di facile reperimento 3. Di alcuni giubilei non si possiedono le Bolle di indizione o perché è incerta la stessa celebrazione dell’Anno Santo o perché è irreperibile la Bolla pontificia. Forniamo anzitutto l’elenco dei documenti pontifici di indizione dei giubilei universali ordinari: essi saranno citati nel corso dell’arti - colo con il solo riferimento all’anno.

1300 Bonifacio VIII – Antiquorum habet fida relatio – 22 febbraio 1300 (c. 1, de poenitentiis et remissionibus, V, 9 in Extravag. com.)

1350 Clemente VI – Unigenitus Dei Filius – 27 gennaio 1343 (c. 2, de poenitentiis et remissionibus, V, 9 in Extravag. com.)

1 «All’origine la b. [= Bolla] indicava la capsula che conteneva il sigillo, annesso tramite filo a un docu- mento. In seguito passò a designare lo stesso documento. Il termine pertanto non individua un docu- mento, ma quella serie di documenti (pontifici) particolarmente solenni che hanno, o per tradizione avevano, annesso un sigillo. Attualmente indica una pluralità di documenti»([G.P. MONTINI], Bolla, in AA.VV., Piccolo lessico di teologia, a cura di G. Canobbio, Brescia 1989, pp. 60-61). In epoche recenti si tratta spesso per l’indizione del giubileo di Litterae apostolicae sub plumbo datae, «le quali trattano di questioni della massima importanza nella forma più solenne, che o hanno un sigillo di piombo con filo (forma riservata agli atti più solenni) o un equivalente sigillo di color rosso nella parte inferiore sinistra del documento» (ibid., p. 61). 2 Omettiamo di considerare, almeno direttamente, tutti i pur numerosi documenti pontifici che prece- dono, accompagnano o seguono lo svolgimento del giubileo, annunciandolo in maniera informale, sta- bilendo disposizioni concrete per la sua celebrazione, concedendo facoltà e dispense, risolvendo dubbi interpretativi. Sarebbe qui da ricordare almeno la Bolla con cui tradizionalmente (almeno dalla Bolla Benedictus Deus di Benedetto XIV [1750]), al termine dell’anno giubilare (25 dicembre), si disponeva l’estensione del giubileo a tutto il mondo per la durata dell’anno seguente. 3 Per una raccolta molto pratica e maneggevole cf H. SCHMIDT, Bullarium anni sancti [Pontificia Univer- sitas Gregoriana. Textus et documenta in usum exercitationum et praelectionum academicarum. Series theologica, 28], Romae 1949. Salvo indicazione diversa, nel presente lavoro verrà utilizzato il fascicolo ci- tato, che, oltre al testo delle Bolle di indizione, riporta il testo o l’indicazione di altri documenti rilevanti per gli Anni Santi. Le traduzioni delle Bolle e di altri documenti sono a cura dell’Autore, che ha utilizza- to, per alcuni documenti, alcune traduzioni pubblicate, tra le quali Enchiridion delle Encicliche, I-III, Bo- logna 1994-1997; Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, (I) Benedetto XIV; (II) Clemente XIII, Clemente XIV, Pio VI, Pio VII; (III) Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI, a cura di Ugo Bellocchi, Città del Vaticano 1993-1994. 118 G. Paolo Montini

1390 Urbano VI – Salvator noster Unigenitus – 8 aprile 1389 1400 4 1423 5 1450 Nicolò V – Immensa et innumerabilia – 19 gennaio 1449 1475 6 Paolo II – Ineffabilis providentia – 19 aprile 1470 Sisto IV – Quemadmodum operosi – 29 agosto 1473 (c. 4, de poenitentiis et remissionibus, V, 9 in Extravag. com.) 1500 Alessandro VI – Inter curas multiplices - 20 dicembre 1499 1525 Clemente VII – Inter sollicitudines – 17 dicembre 1524 1550 Giulio III – Si pastores ovium – 24 febbraio 1550 1575 Gregorio XIII – Dominus ac Redemptor noster – 10 maggio 1574 1600 Clemente VIII – Annus Domini placabilis – 19 maggio 1599 1625 Urbano VIII – Omnes gentes plaudite manibus – 26 aprile 1624 1650 Innocenzo X – Appropinquat dilectissimi filii – 4 maggio 1649 1675 Clemente X – Ad apostolicae vocis oraculum – 16 aprile 1674 1700 Innocenzo XII – Regi saeculorum – 18 maggio 1699

4 Manca la Bolla di indizione e gli storici dubitano che sia stato celebrato (cf P. BREZZI, Storia degli Anni Santi, Milano 1949, p. 68). 5 Non è stata ritrovata la Bolla di indizione (cf ibid, p. 74). 6 La Bolla di indizione è di Sisto IV, che però confermava la precedente Bolla di Paolo II. Nel corso del- lo studio distingueremo i testi delle due Bolle con l’indicazione del Pontefice. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 119

1725 Benedetto XIII – Redemptor et Dominus noster – 26 giugno 1724

1750 Benedetto XIV – Peregrinantes a Domino – 5 maggio 1749

1775 Clemente XIV – Salutis nostrae auctor – 30 aprile 1774

1800 7

1825 Leone XII – Quod hoc ineunte saeculo – 24 maggio 1824

1850 8

1875 Pio IX – Gravibus Ecclesiae – 24 dicembre 1874

1900 Leone XIII – Properante ad exitum saeculo – 11 maggio 1899

1925 Pio XI – Infinita Dei misericordia – 29 maggio 1924 (AAS 16 [1924] 209-215)

1933 Pio XI – Quod nuper – 6 gennaio 1933 (AAS 25 [1933] 5-10)

1950 Pio XII – Jubilaeum maximum – 26 maggio 1949 (AAS 41 [1949] 257-261)

1975 Paolo VI – Apostolorum limina – 23 maggio 1974 (AAS 66 [1974] 289-307)

1983 Giovanni Paolo II – Aperite portas Redemptori – 6 gennaio 1983 (AAS 75 [1983] I, 89-106)

7 Non venne celebrato per le condizioni sfavorevoli in cui si trovarono sia la Santa Sede sia il Pontefice (cf P. BREZZI, Storia degli Anni Santi, cit., pp. 205-207). 8 Non fu celebrato l’Anno Santo, anche se Pio IX «concedette ai fedeli la possibilità di acquistare l’indul - genza giubilare» (ibid, p. 224). 120 G. Paolo Montini

Denominazione La denominazione con cui si è chiamato il giubileo subisce, co- m’è del tutto naturale, una certa evoluzione. All’inizio ogni denominazione specifica è assente. Bonifacio VIII, elargendo la prima indulgenza giubilare nell’anno 1300, non denomi- na in alcun modo l’anno, se non indirettamente come anno centenario (annus centesimus) 9. La stessa occasione iniziale e la cadenza all’ini - zio prevista (secolare) non potevano direttamente richiamare al giu- bileo anticotestamentario, che correva su un ritmo cinquantenario, anche se la voce “giubileo” all’epoca aveva già ottenuto alcune esten- sioni di significato 10.

La forma aggettivale: annus iubilaeus Fu quindi con l’annuncio dell’indulgenza dell’anno 1350 che per la prima volta apparve la denominazione annus iubilaeus. Il richiamo è evidentemente al ritmo cinquantenario previsto proprio per il giu- bileo dell’Antico Testamento. Si dovrà poi attendere la medesima ricorrenza temporale del 1450 per risentire l’espressione: rifacendosi all’antica legge, Nicolò V nella Bolla di indizione accennerà al iubilaei anni mysterium. Già comunque nelle Bolle di indizione dell’anno 1475 la voce annus iubilaeus si afferma decisamente anche per una cadenza venti- cinquennale, al di fuori dal richiamo diretto all’Antico Testamento.

La forma sostantivata: iubilaeus 11 Tale forma incomincia ad apparire nella Bolla di indizione del - l’anno 1500 sotto la forma al genitivo, sempre cioè accompagnata dal termine annus: si tratta della locuzione iubilaei annus e annus iubilaei.

9 Nel documento con cui Bonifacio VIII chiudeva l’Anno Santo 1300 appare comunque la menzione del giubileo: «Declarat […] Summus Pontifex quod annus iste Iubilaeus trecentesimus hodie sit finitus». 10 Già Isidoro di Siviglia affermava che «Iubileus interpretatur remissionis annus» (Etymologiarum siue Originum libri XX, lib. 5, cap. 38, par. 1). L’accentuazione del significato anticotestamentario apriva la strada a un’applicazione anche simbolica, al di là della stessa indicazione di un numero specifico di anni (cinquanta). Nello stesso passo Isidoro, per esempio, indica che alcuni usano la voce giubileo per indi- care il secolo (che sarebbe così composto di cinquant’anni). Ma anche nel significato di concessione peculiare di indulgenza già il termine giubileo era stato usato qualche volta prima del 1300. 11 Non che la forma sostantivata non fosse prima conosciuta: appare infatti ben diffusa nella letteratura patristica e medievale (cf UNIVERSITAS CATHOLICA LOVANIENSIS LOVANII NOVI, Cetedoc Library of Christian Latin Texts [= CLCLT-3], Base de Donneés pour la Tradition Occidentale Latine, Turnhout 1996). La prassi relativamente nuova dell’anno giubilare può aver indotto ad accentuare la forma aggettivata. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 121

Si apriva così la strada all’uso generalizzato e poi prevalente del sostantivo iubilaeus, che però apparve con sicurezza 12 solo nella Bol- la di indizione dell’anno 1575: «I Romani Pontefici nostri predecesso- ri […] stabilirono che il santo giubileo [sanctum iubilaeum] fosse ce- lebrato a intervalli definiti di anni, prima più lunghi, poi più brevi e infine ogni venticinque anni».

Anno Santo Ancorché molto diffusa e sufficientemente generale per essere attribuita a ogni ricorrenza, l’espressione appare relativamente tardi nelle Bolle di indizione e non godrà mai in esse di particolare rilievo. Sarà Clemente VIII per l’anno 1600 a recepire l’espressione, fa- cendo chiaramente intendere un uso precedente 13, che il Pontefice sanziona: «Un anno unico, che a buon diritto è chiamato “santo” [An- nus unus, sanctus iure optimo nominatus], viene celebrato con devo- zione e solennità» 14. Benedetto XIII confermerà l’origine, spiegando l’attribuzione: «Accogliete la celebrazione, che vi ho annunziato, dell’Anno Santo: lo chiamarono con una tale denominazione di devozione [religiosa eiu- smodi appellatione (…) insignivere] i nostri antenati [maiores], come ben sapete, sia perché è anno dedicato al culto divino, sia perché è dedicato in modo speciale alla pratica delle opere sante» (1725). Sarà solo con Pio XI che la denominazione Anno Santo sarà usa- ta in modo assoluto, senza più alcuna spiegazione 15, ma tale uso nel- le Bolle di indizione scomparirà quasi subito con Pio XII 16. Segno di una dizione comune, volgare, cui non si vuole indulgere. Sarà sostituita, ma con la medesima scarsità nell’uso, dalla de- nominazione Annus Sacer, che appare con la Bolla per il 1900 e avrà

12 Si può forse trovare un’anticipazione di tale uso nella Bolla per l’anno 1500, in cui però ricorre nel - l’espressione, che può essere letta come forma ellittica, «indulgentiis dicti iubilaei consequendis». 13 In occasione del giubileo del 1475 si sarebbe incominciato a usare la denominazione “Anno Santo”: cf M. IMPAGLIAZZO, Gli Anni Santi nella storia (1300-1983), Città del Vaticano 1997, p. 17. 14 Cf pure le seguenti Bolle: 1700 («Ut annum merito sanctum a maioribus appellatum»); 1750 («An- num […] sanctum in Ecclesia merito appellatum»); 1900 («Quem [= iubilaeus] tradita a patribus con- suetudo Annum Sanctum appellat») e 1925 («Quod nostis nuncupari Annum Sanctum consuevisse»). 15 Cf la Bolla per l’anno 1925: «Ex Anni Sancti celebratione» e «Hoc igitur Anni Sancti decursu»; la Bolla per l’anno 1933: «Annum Sanctum extra ordinem scilicet indicendo ac generale maximumque Iubilaeum» e «Hoc […] Anni Sancti decursu». Ancora con Clemente XIV Annus Sanctus era comunque specificato dal genitivo di iubilaeus o viceversa. Cf la Bolla per il 1775, che parla di «Iubilaei Annum Sanctum» e «universalem ac maximum Anni Sancti Iubilaeum». 16 Cf la Bolla per il 1950: «Ad proximum Annum Sanctum». 122 G. Paolo Montini un certo successo per la ricorrenza nelle Bolle per il 1975 e 1983. Forse la maggiore precisione lessicale latina ha portato a optare per quest’ultima dizione.

L’aggettivo iubilaris Solo dopo molta consuetudine e una volta che si è perso il sen- so aggettivale di un sostantivo, che all’origine era un aggettivo o al- meno un’apposizione, può essere tratto da un tale sostantivo un nuo- vo aggettivo. È il caso di iubilaris 17, derivato da iubilaeus. Solo con Pio XI, e precisamente nella Bolla per l’anno 1925, fa la sua appari- zione a qualificare l’indulgenza e la remissione di cui si è fatti parte- cipi nel giubileo. Da questo momento sarà usato universalmente e con una certa frequenza.

Gli aggettivi che qualificano il giubileo Prescindendo da quelli che lo determinano come straordinario (extra ordinem), gli aggettivi che accompagnano il termine giubileo non sono numerosi, sia perché si tratta di voce sufficientemente in- dividuante l’oggetto (e che pertanto non si presta a usi molteplici che possano di conseguenza esigerne la specificazione) sia perché spesso le aggettivazioni accompagnano il sostantivo o l’apposizione che si riferiscono al termine giubileo (cf anno, tempo). Oltre agli ovvi sanctus (1575; 1600), sanctissimus (1600; 1725), sa- crosanctus (1625), sacer (1825; 1875; 1975), nonché noster (1600), il giubileo viene con frequenza specificato come universalis maximusque (1650; 1675; 1825; 1875; 1950) oppure generalis maximus (1933), o an- che, separatamente, universalis (1875; 1975; 1983), maximus (1875; 1925; 1950), magnus (1900; 1925) e generalis (1933) 18. In un caso è de- nominato christianus (1875).

17 Anche nella letteratura latina patristica e medievale è pressoché assente. 18 Un motivo, che potrà sicuramente aver influenzato l’introduzione di questi aggettivi, dev’essere la moltiplicazione nella celebrazione di giubilei particolari e straordinari, legati a Chiese particolari o ad avvenimenti o luoghi specifici. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 123

Cadenza temporale

La cadenza centenaria o secolare È la prima statuizione che si trova circa i giubilei. Bonifacio VIII dispone nella prima Bolla di indizione di concedere per il presente e per il futuro il pieno perdono di tutti i peccati a tutti coloro che «in quest’anno 1300 […] e in tutti gli anni secolari [et in quolibet anno centesimo secuturo], visiteranno le basiliche». Rimarrà, anche dopo la riduzione della cadenza giubilare a pe- riodi più brevi, la memoria della primitiva istituzione e non poche Bolle dei giubilei secolari lo ricorderanno:

«È veramente quell’anno secolare [ille centesimus annus] che fu istituito dal- la stessa primordiale disposizione [ab illius primaeva ordinatione]» (1500); «Dev’essere un anno celebrato con tanto maggiore gaudio e concorso da par- te dei fedeli nella città di Roma, in quanto rappresenta in modo più espressivo ed efficace la sua prima origine [suam primariam originem]» (1600); «La celebrazione secolare si considera giustamente insigne sia perché preva- le per antichità [antiquitatis praestantia] sia perché è maggiormente espres- siva della primitiva origine [expressiori primaevae originis repraesentatione]» (1700).

In alcuni casi le Bolle prendono posizione, almeno indiretta - men te, su un argomento secondario, ma interessante. Il giubileo se- colare si celebra nell’ultimo anno del secolo e non già nel primo del nuovo secolo, in cui non immette:

«All’ultimo anno di ciascun secolo [postremo videlicet cuiusvis saeculi an- no][…] tutti i cristiani in modo alquanto solenne ricordano il beneficio del - l’eterna vita, che durerà per tutti i secoli infiniti, e loro guadagnato da Cri- sto» (1700).

Un po’ più ambiguo è Leone XIII, che afferma come le solennità giubilari «consacreranno in certo senso la fine del secolo diciannove- simo e l’inizio del ventesimo secolo» (1900).

La cadenza cinquantenaria La prima riduzione, dai cent’anni ai cinquant’anni, avviene per influsso diretto di un’insistente richiesta popolare, tanto che papa Clemente VI deve menzionare nella Bolla di indizione, data ad Avi- gnone, dove si trovava, «il clamore del nostro popolo romano, che 124 G. Paolo Montini supplica umilmente» il giubileo, anche se subito dopo si affretta a smentire di aver esaudito tale desiderio popolare (solo) per far ces - sare la mormorazione, come invece fece Mosè nel deserto col popo- lo israelitico (cf 1350). Fra le cause principali della riduzione, anche in seguito costan- temente addotte, vi sarà anzitutto la brevità della vita di una persona [propter vitae hominum brevitatem], cosicché solo pochi potrebbero usufruire dell’indulgenza secolare; vi si aggiungeranno poi cause più generiche, quali la speranza che crescano nel popolo la devozione, la fede, la speranza e la carità. La riduzione all’anno cinquantesimo si potrà avvalere del sim- bolismo del numero cinquanta nella Scrittura. E se non poche Bolle faranno riferimento all’anno cinquantesimo del giubileo veterotesta- mentario, la prima Bolla “cinquantenaria” (1350) richiama anche i cinquanta giorni in cui fu data la legge a Mosè e dopo i quali lo Spiri- to Santo scese sui discepoli dopo la risurrezione di Cristo.

La cadenza di trentatré anni Oltre alla considerazione dell’accorciamento della media di vita delle persone e di altri fattori più generali, la pia tradizione secondo cui la vita di Gesù sia stata tutta contenuta entro i trentatré anni [in mysterio huiusmodi trigintatrium annorum qui fuerunt totum tempus vitae ipsius] 19 portò Urbano VI a indire un giubileo nel 1390, in ritardo comunque sulla data presumibile del 1383, e a stabilire che dal 1390 in poi si sarebbe celebrato l’anno giubilare di trentatré anni in trentatré anni. Ciò di fatto non avvenne, ma ne rimane indizio significativo sia negli Anni Santi straordinari della redenzione (1933; 1983) sia nel più stretto riferimento della ricorrenza giubilare ai fatti pasquali, piuttosto che a quelli natalizi. Per quanto infatti la cadenza venga riferita per ra- gioni estrinseche al Natale (computo dell’era volgare dalla nascita di Cristo e computo dell’anno prevalentemente dal Natale) nelle Bolle sarà vivissimo e insistito fin dall’inizio il riferimento alla redenzione (intesa come passione e morte di Gesù), soprattutto per la connessio- ne fra la passione redentrice e la dottrina delle indulgenze 20.

19 Pio XI confesserà che la scelta della data rispecchia la tradizione, poiché «ad historiae fidem in quem- nam annum id incidat non omnino exploratum est»; l’evento tuttavia «tantae est gravitatis tantique mo- menti, ut silentio praetermitti non deceat» (1933). 20 Cf anche solo l’incipit della Bolla per l’anno 1350 (il secondo giubileo), che contiene almeno cinque volte il termine redimo-redemptio. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 125

La cadenza venticinquennale È la cadenza temporale che ha minori fondamenti. È però am- piamente giustificata da Paolo II nella Bolla di indizione del primo giubileo venticinquennale (1475): «Considerando con attenzione la fragile condizione umana, proclive a pecca- re, che va celermente verso il declino; considerando pure la brevissima du- rata della vita umana, le frequenti pestilenze (attirate dai nostri peccati), le varie malattie mortali, le continue e ferocissime persecuzioni dei Turchi e degli infedeli verso i cristiani; le condizioni misere della Cristianità, pur in passato ancor più provata; la violenza di molte altre prove di cui soffre il po- polo di Dio, pochissimi riescono a partecipare alle remissioni e alle indul- genze [giubilari]. Tenendo poi presente che non è né una novità né qualcosa di alieno dalla consuetudine, che quanto stabilito dagli stessi predecessori, per le esigenze dei tempi [pro varietate temporum], sia ridotto a cadenze più brevi, soprattutto in vista della salvezza delle anime [maxime pro salute ani- marum]», il Pontefice decide di ridurre a venticinque anni il periodo fra i giubilei.

La durata La durata del giubileo è chiaramente annuale: si tratta infatti dell’«anno del giubileo». Ma qual è il computo dell’anno da effettua- re per l’anno giubilare? Fin dagli inizi il periodo giubilare appare prendere avvio dalla festa di Natale (25 dicembre); eccetto per gli anni giubilari straordi- nari (1933; 1983)21, sarà sempre così. Per il primo giubileo, che inaugura la tradizione, la ragione sembra provenire dal fatto che nel computo romano l’anno veniva fatto iniziare dal Natale: «[Concediamo l’indulgenza] a tutti coloro che in quest’anno 1300, incomin- ciato dalla appena passata festa del Natale, […] visiteranno le basiliche…» 22.

21 L’anno giubilare straordinario del 1933 si estese dal 2 aprile 1933 al 2 aprile 1934, mentre l’anno giubi- lare 1983 iniziò il 25 marzo 1983 (annunciazione) e si terminò il 22 aprile 1984 (Pasqua di risurrezione). 22 A conferma si può citare il documento con cui Bonifacio VIII intervenne nel Natale del 1300, venen- do incontro a coloro che, ancora numerosi a Roma in quell’ultimo giorno dell’anno, non avevano potuto lucrare l’indulgenza: «Il medesimo signor nostro Sommo Pontefice dichiara inoltre che oggi ha termi- ne questo anno giubilare del 1300 e che esso non si estende, come alcuni affermano, all’anno 1300 del - l’incarnazione [che andava dal 25 marzo (1300) al 25 marzo (1301), secondo alcuni computi locali, an- che se sufficientemente diffusi], ma secondo il computo degli anni della Chiesa di Roma [ad annos Do- mini secundum ritum Romanae Ecclesiae][ossia dal 25 dicembre (1299) al 25 dicembre (1300)]». La scelta del Pontefice non sembra però del tutto in linea con le aspettative del popolo, che comunque si mosse per il giubileo il 1° gennaio 1300 e non prima: «Mirabile cosa: il segreto della nuova remissione 126 G. Paolo Montini

Dal computo dell’anno da Natale a Natale alla considerazione che la festa giubilare fosse anniversaria della nascita di Gesù (da cui prende computo la stessa era volgare) 23 il passaggio fu semplice. Nelle prime Bolle infatti il giubileo è annunciato «nell’anno prossimo 1350° [oppure 1390° e così via] dalla nascita di Nostro Signore». Quando poi l’anno incomincerà a essere computato dal 1° gen- naio, le Bolle continueranno a specificare (e con maggiore cura) l’inizio dell’anno giubilare – «Incomincia dai primi vespri della vigilia di Natale dell’anno precedente» (1475: Paolo II) 24 – e la fine del me- desimo. Dapprima ci si limita a un semplice «di seguito, fino alla fine [et ut sequitur, finiendo]» (1475: Paolo II); poi si specifica che «si giun gerà alla fine per tutto lo stesso anno» (1575; 1600; 1625; 1650; 1675; 1700; 1725; 1750); poi si affermerà che il giubileo durerà «per tutto l’anno seguente [al Natale]»(1775; 1825) 25; finché si specifi- cherà il termine «nei primi vespri della vigilia di Natale dell’anno 1900 [e poi anche 1925]». La promulgazione del Codice porterà a lasciare i riferimenti meticolosi, per l’indicazione dell’anno giubilare da Natale a Natale (1950), in quanto già il canone 923 (espressamente citato nelle Bolle per gli anni 1933 e 1950) estendeva il tempo per lucrare le indulgen- ze in generale dal mezzogiorno del giorno precedente (la vigilia di Natale) alla mezzanotte del giorno stabilito (Natale). L’apertura del giubileo (e la chiusura) ben presto viene signifi- cata attraverso un gesto rituale solenne: l’apertura della Porta santa, anzi delle Porte sante 26. È Alessandro VI che, nella Bolla per l’anno 1500, per primo ne parla, come di una prassi già instaurata: restò celato quasi per tutta la durata del 1° gennaio; ma al declinare del sole, verso sera e fin quasi al si- lenzio della mezzanotte profonda, fattosi esso in breve palese ai romani, questi accorrono in folla alla basilica sacra di San Pietro, si ammassano accalcati presso l’altare […]. Con tale principio, cominciò giorno per giorno ad accrescersi la fede e la frequenza dei cittadini e forestieri, asserendo certuni che nel primo giorno dell’anno secolare si cancellasse la macchia di ogni colpa, nei rimanenti vi fosse indul- genza di cento anni» (I. GAETANI STEFANESCHI, Il libro dell’anno centenario o giubileo, in A. FRUGONI, Il li- bro del giubileo del cardinale Stefaneschi, Brescia 1950, pp. 56-57). 23 Questo slittamento dalla memoria (anniversaria) della nascita di Cristo all’anno centesimo secolare spinse alcuni Pontefici a richiamare che la celebrazione del giubileo si fonda non già sulla «vana genti- lium superstitione», bensì sul «religioso cultu et christianorum concursu Romae celebrandi». Il giubileo perciò «revera divino consilio factum videtur» (1600). 24 Nella Bolla di indizione del 1600 la festa del Natale di inizio viene menzionata come appartenente al - l’anno 1600. 25 Eccezione sarà la Bolla per l’anno 1875, promulgata la stessa vigilia di Natale del 1874, che pertanto dirà del giubileo che dovrà durare «integro anno 1875 proxime insequenti». 26 Delle Porte, chiamate ormai «sante», si troverà menzione nella Bolla per l’anno 1600. Gli accenni poi saranno perlopiù indiretti fino alle Bolle più recenti, in cui si preferisce parlare di «Porta santa»: «La Porta santa, che noi stessi apriremo nella notte della vigilia del santo Natale, sarà segno di questo nuo- Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 127

«Apriremo Noi stessi con le nostre mani, alla presenza del collegio dei vene- rabili fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa e della più grande moltitudi- ne di prelati, chierici e popolo, la Porta [Portam] della basilica di San Pietro, che normalmente [solitam] si apre ogni anno giubilare secolare [centesimo quoque anno Iubilaei] per la maggiore devozione dei fedeli; e faremo aprire le altre Porte delle basiliche di San Paolo e delle chiese romane di San Gio- vanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, che pure è consuetudine [de mo- re (…) consuetas] aprire per l’anno del giubileo».

L’indizione Ancorché il termine ormai affermatosi per indicare l’annuncio dell’anno giubilare sia quello di indizione, esso appare relativamente tardi nelle Bolle: la prima occorrenza è nella Bolla per il 1575. Gre- gorio XIII afferma: «Noi […] indiciamo a tutto il popolo cristiano [universo christiano populo (…) indicimus] con quanto più gaudio interiore possiamo […] la celebrazio- ne del giubileo» 27.

In un primo periodo tale annuncio era dato dai Pontefici sostan- zialmente attraverso la conferma delle precedenti disposizioni con- suetudinarie o scritte, in quest’ultimo caso frequentemente riprodot- te o riassunte. Bonifacio VIII, cui nel febbraio del 1300 viene riferito della con- suetudine per cui a chi accedeva alla basilica di San Pietro erano concesse grandi remissioni e indulgenze per i peccati, nella Bolla di indizione del primo giubileo, «considerando accette e valide [gratas et ratas] tutte e singole le indulgenze, le conferma, le approva e le rinnova con l’autorità apostolica, e infine le mu- nisce della garanzia della Bolla [confirmamus et approbamus, et etiam inno- vamus, et praesentis scripti patrocinio communimus]».

La tradizione secondo cui papa Bonifacio avrebbe deposto so- lennemente la Bolla di indizione sull’altare della confessione in San vo accesso a Cristo, che solo è la Via e insieme la Porta (cf Gv 10, 7.9), e anche della carità paterna con cui apriamo il nostro cuore a tutti, con pensieri di amore e di pace» (1975); «La Porta santa, che io stes- so aprirò nella Basilica Vaticana […], sia segno e simbolo di un nuovo accesso a Cristo, redentore del - l’uomo, che chiama tutti, nessuno escluso, a una considerazione più appropriata del mistero della re- denzione e a partecipare ai suoi frutti, particolarmente mediante il sacramento della penitenza» (1983). 27 Un primo riferimento al termine si può trovare nella Bolla per l’anno 1475. Papa Paolo II, riferendosi alla decisione di Nicolò V di celebrare nel 1450 il giubileo, scrive che quel Pontefice «indixitque […] ut omnes christifideles». Dal 1575 apparirà poi sempre il termine indictio, almeno nelle clausole finali delle singole Bolle (cf H. SCHMIDT, Bullarium Anni Sancti, cit., p. 149). 128 G. Paolo Montini

Pietro confermerebbe la volontà di perpetuare ciò che già era stato, piuttosto che di introdurre una nuova istituzione 28. In un secondo periodo va formandosi un passaggio più solenne e alto della Bolla in cui viene indetto autoritativamente il giubileo, quale atto proprio dell’autorità pontificia. Si possono considerare tre formule di indizione, dalla più semplice e primitiva alla più elaborata.

«Perciò Noi, seguendo l’istituzione pia e apportatrice di salvezza dei predetti nostri predecessori, con l’assenso dei nostri fratelli [cardinali], indiciamo [indicimus] a tutto il popolo cristiano, con quanto più gaudio interiore pos- siamo, la celebrazione del giubileo nell’anno prossimo 1575, con inizio ai pri- mi vespri della prossima festa di Natale e fine per tutto l’anno stesso» (1575).

«Noi dunque, avendo davanti agli occhi e fra i nostri desideri quanto detto sopra, seguendo le orme dei nostri predecessori, Romani Pontefici, mante- nendo la loro istituzione pia e apportatrice di salvezza, con l’assenso dei no- stri venerabili fratelli i cardinali di Santa Romana Chiesa, con l’autorità [auc- toritate] di Dio onnipotente, degli Apostoli Beati Pietro e Paolo e nostra, in- diciamo e promulghiamo [indicimus et promulgamus] con quanto più gaudio interiore possiamo, per la gloria di Dio e per la esaltazione della Chiesa cat- tolica, la celebrazione del giubileo per l’anno prossimo 1625, con inizio dai primi vespri della prossima festa di Natale e fine per tutto lo stesso anno» (1625).

«Perciò alzati gli occhi al cielo; dopo aver vivamente pregato Dio che è ricco di misericordia, perché voglia per la sua bontà favorire benignamente i no- stri desideri e le nostre iniziative, illuminare con la sua forza le menti degli uomini e muovere gli animi; seguendo le orme dei nostri predecessori, Ro- mani Pontefici, con l’assenso dei nostri venerabili fratelli i cardinali di Santa Romana Chiesa, con l’autorità [auctoritate] di Dio onnipotente, degli Aposto- li Beati Pietro e Paolo e nostra, indiciamo con queste Lettere e promulghia- mo [indicimus per has litteras et promulgamus], e vogliamo che sia per indet- to e promulgato [ac pro indicto promulgatoque haberi volumus], il giubileo universale e massimo in questa sacra Città di Roma, con inizio dai primi ve- spri della festa di Natale del 1899 e termine ai primi vespri della festa di Na- tale del 1900, che sia per la gloria di Dio, la salvezza delle anime e l’accresci - mento della Chiesa» (1900).

Nelle ultime Bolle (1975, 1983) manca quasi del tutto l’indizione formale, preferendo lasciare a tutto lo svolgimento del discorso della Bolla la chiara manifestazione della volontà del Pontefice di indire

28 Ci si potrebbe qui richiamare all’iscrizione del Privilegium Gregorii papae primi, che si leggeva sulla basilica di San Pietro: «Vestra vobis reddimus, non nostra largimur»: cf M. MACCARRONE, Il pellegrinaggio a San Pietro e il Giubileo del 1300. I «Limina Apostolorum», in «Rivista di storia della Chiesa in Italia» 34 (1980) 363. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 129 l’anno giubilare, peraltro già ampiamente e autorevolmente annun- ciato in circostanze precedenti e informali 29. La data della Bolla di indizione subisce nel corso della storia va- riazioni notevoli. Si danno casi di retroattività. È il caso di alcuni giubilei indetti mentre erano già in corso. Il primo, essendo stato almeno in parte ri- chiesto dal popolo, che già si era messo in movimento, fu indetto il 22 febbraio 1300, con valore retroattivo al 25 dicembre 1299. Lo stes- so accadde, seppure per motivi diversi, con la Bolla di indizione di Giulio III del 24 febbraio 1550. In altri casi si ha l’indizione nella festa dell’Epifania dello stesso anno. È la prassi più recente circa gli anni giubilari straordinari (1933; 1983). Altre volte l’indizione avviene nella festa dell’Ascensione dell’an - no precedente. La Bolla di indizione era letta solennemente nell’atrio della Basilica Vaticana 30 o, in occasioni più vicine a noi, almeno dal giubileo del 1900, era datata nel giorno dell’Ascensione.

Le opere Le opere richieste per il giubileo sono indicate nelle stesse Bol- le di indizione, seppure con maggiore o minore ampiezza e dettagli. Procedendo non già in ordine cronologico, ma logico, dal cerchio maggiore, più ampio, al minore, più determinato, si possono consi- derare le seguenti opere.

Roma Il giubileo è incentrato su Roma. L’opera principale del giubileo è infatti visitare il luogo che la provvidenza divina ha posto quale centro della Chiesa tutta, attraverso la cattedra e il martirio di Pietro. Bonifacio VIII riconosce che il movimento popolare tradizionale ha come suo centro di attrazione la «honorabilis basilica Principis apostolorum de Urbe». Anche se Paolo VI nella Bolla di indizione del giubileo del 1975 raccoglierà elementi storici precedenti al secolo XIV, che testimonia-

29 Per l’anno 1975 ciò era avvenuto nell’Udienza generale del 9 marzo 1973 (cf AAS 65 [1973] 322-325). 30 Questa prassi, la cui origine sembra risalire a Gregorio XIII per il giubileo dell’anno 1575 (cf M. IM- PAGLIAZZO, Gli Anni Santi…, cit., p. 27), si è data per l’ultima volta nella festa dell’Ascensione del 1949 per l’indizione dell’Anno Santo 1950: cf AAS 41 (1949) 261. 130 G. Paolo Montini no di pellegrinaggi a Gerusalemme e altrove, dovrà riconoscere che Roma è la meta propria del giubileo:

«Le memorie apostoliche, cioè i luoghi sacri di Roma, dove sono custoditi e venerati i sepolcri degli apostoli Pietro e Paolo, i “Padri santi” per i quali l’Urbe divenne non soltanto “l’alunna della verità”, ma anche la maestra della verità e il centro dell’unità cattolica […], appaiono oggi in luce più fulgida, quali nobilissime mete proposte alla spiritualità dei fedeli. Queste memorie hanno sempre suscitato nel popolo cristiano atti di fede e testimonianze di comunione ecclesiale, poiché la Chiesa ritrova se stessa e il motivo della propria unità nel fondamento posto da Gesù Cristo: gli apostoli. Sin dal II se- colo si veniva a Roma per vedere e venerare i “trofei” dei due apostoli Pietro e Paolo nei luoghi in cui erano conservati, e si peregrinava alla Chiesa roma- na per contemplare la “regale maestà”. Nel IV secolo il pellegrinaggio a Ro- ma diventa la principale forma di pellegrinaggio nell’occidente […]. Nell’alto medioevo Roma è la meta di pii pellegrini che vengono dalle diverse parti del l’Europa sentendosi “collegati alla cattedra di Pietro”».

Roma è «la santa Gerusalemme e il santo [monte] Sion spiritua- li [spiritualem], il luogo che Dio ha scelto non secondo la lettera, ma secondo lo spirito» (1600); è «la mistica [mysticam] Gerusalemme, arricchita da Dio di numerosi e grandi benefici […], la città di Dio al- lietata da acque impetuose, le acque cioè delle grazie celesti, che rendono feconde le anime dei fedeli» (1625); è la città verso cui i pel- legrini devono convergere «con lo stesso volto di chi va a Gersulem- me» (1675); è segno della nostra patria che è nei cieli «la Gerusalem- me che è nostra madre, cui aspiriamo nella speranza» (1700); è «il luogo che Dio ha scelto […], la Gerusalemme nuova [novam], da cui già agli inizi della stessa Chiesa si sono diffuse in tutte le nazioni la legge del Signore e la luce del vangelo» (1725); è «la città santa sui cui abitanti discenderà, come dall’Ermon, la rugiada delle bene- dizioni celesti» (1750); è «la santa Gerusalemme, la città sacerdotale e regale, che è stata resa attraverso la sede sacra di san Pietro capo dell’intero mondo» (1825). L’eco dei pellegrinaggi a Gerusalemme nell’antica e nella nuova economia di salvezza rivive nel pellegrinag- gio alla sede e alla tomba di Pietro 31.

31 Alcuni segnali della distinzione reale delle mete giubilari (Roma e Gerusalemme) si ebbe nella Bolla del l’anno 1933, che auspicava una promozione dei pellegrinaggi in Terrasanta in occasione del giubileo straordinario della redenzione: «Rei praeterea consentaneum est ut ad sacra etiam Palaestinae loca piae habeantur frequentioresque peregrinationes per huius anni decursum; ibique fideles sanctissimarum re- rum, quae commemorantur, theatrum summa religione invisant atque venerentur». La ragione dell’invito era strettamente legata alla memoria della redenzione. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 131

È interessante vedere come sia l’intera città a entrare nel giubi- leo: non si tratta solo di visitare devotamente le basiliche designate; si tratta piuttosto di “respirare” Roma in tutte le dimensioni che la città propone. Il giubileo nel suo aspetto spirituale

«è favorito anzitutto, se lo si considera approfonditamente, dal genio natura- le [nativum ingenium] della città di Roma, dalla sua immagine [effigies] im- mutabile, impressale da Dio [impressa divinitus] e che nessuna volontà di mortali può cambiare» (1900).

Già Nicolò V nella Bolla per l’anno 1450 menziona «la visita ai templi dedicati a Santi, dei quali innumerevoli migliaia sono deposti nella città di Roma insieme ai gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo». Nei secoli XVII e XVIII, e poi soprattutto dal secolo XIX si evi- denziano particolarmente i molteplici aspetti della visita alla città di Roma.

«Vi invitano [a Roma] tanti egregi monumenti sparsi per la città a testimo- nianza dell’antica santità e pietà; vi invitano i sepolcri dei santissimi pontefici e dei martiri invitti; vi invitano i famosissimi [toto orbe clarissima] “trofei” de- gli apostoli» (1675);

«È questa la città – diceva san Carlo esortando il suo popolo ad affrontare il viaggio a Roma per l’Anno Santo – ove il suolo, le mura, i monumenti, le chiese, i sepolcri dei martiri e ogni altro aspetto che si offre allo sguardo, ispirano negli animi il sentimento del sacro, come sperimentano e provano [experiuntur, ac sentiunt] coloro che visitano questi luoghi sacri con adegua- ta disposizione di spirito» (1825).

Ma anche le rovine della città romana imperiale trovano un loro spazio nella visita giubilare a Roma.

«Qui potrete vedere l’altezza del secolo umiliata a ossequiare la religione, e quella che fu la Babilonia terrena, mutata nelle forme di una nuova e celeste città […]. Sepolto nell’oblio il ricordo della superstizione che qui ebbe in passato il suo regno […], atterrati i delubri dei falsi numi e consacrati con religiosa pietà i templi del sommo Dio […], abbattuti i monumenti dei tiran- ni, edificati da mani imperiali i sepolcri degli apostoli, trasportati ad abbellire le sacre basiliche i più preziosi ornamenti della superbia romana e le più ec- celse moli che, dopo la conquista delle province furono in passato innalzate a onore degli dei dei pagani, ora, mondate dall’impura superstizione, con maggiore giustizia e felicità sono utilizzate quale sostegno al trofeo dell’invit - ta croce» (1750). 132 G. Paolo Montini

Pellegrinaggio Seppure non sia la nota fondamentale, in quanto il giubileo è previsto pure per coloro che stabilmente o provvisoriamente abitano a Roma, ben presto sono messi in evidenza il pellegrinaggio a Roma e il suo significato. Dei molti aspetti che il pellegrinaggio comporta meritano pecu- liare attenzione nelle Bolle la fatica del viaggio e l’esperienza diretta che esso rende possibile. Entrambi sono aspetti significativi nell’am- bito delle opere indulgenziali.

– La fatica del viaggio È Nicolò V il primo Pontefice che, nella Bolla per l’anno 1450, pone il pellegrinaggio esplicitamente, accanto alle elemosine, come preparazione all’acquisto dell’indulgenza [cooperantibus eleemosynis et peregrinationibus]. Sarà poi giocoforza paragonare la forza d’animo con cui coloro che viaggiano per affari affrontano le difficoltà del cammino, con la forza d’animo (ben maggiore!) che devono dimostrare i pellegrini del giubileo. «Se infatti non esitate talvolta a intraprendere viaggi difficili e lunghi in paesi stranieri oppure a viaggiare d’inverno e a esporre la vostra vita a venti e tem- peste terribili su mari ignoti, dietro la speranza fallace di un guadagno tem- porale e sempre in pericolo, con quanta più alacrità ci si deve incamminare verso le amene e ospitali plaghe del Lazio, con una speranza certa di conse- guire in cielo tesori che non possono venir meno, e che né la ruggine né la tignola possono corrompere?» (1675). «Le stesse fatiche, intraprese per una così eccellente ragione, vi potranno es- sere di grande aiuto per ricavare dalla penitenza i frutti più positivi [ad uber- rimos poenitentiae fructus]. Perciò la Chiesa ha sempre avuto quest’antica consuetudine, a proposito dei pellegrinaggi, di considerare i fastidi e i con- trattempi [molestiae et taedia] incontrati nel cammino come risarcimenti [compensationes] per i peccati precedentemente commessi e come conferma della volontà di pentimento. Se l’ardore del vostro animo o la carità mirante a Dio allevierà o lenirà in voi il disagio per questi fastidi, anche questa ala- crità dello spirito avrà gran forza per procurarvi il perdono e sarà ascritta a sconto dei peccati [in partem satisfactionis pro peccatis debitae], poiché mol- to sarà perdonato a chi molto ama» (1775).

Ma il paragone, significativamente, si applica anche ai turisti: «E poiché fin dai tempi più antichi fu sempre enorme e continuo il concorso di persone di ogni ordine che, incuranti del viaggio lungo e accidentato, arri- Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 133

vano da tutto l’orbe terracqueo, per quanto è grande, per visitare questa so- vrana dimora delle arti che per la magnificenza degli edifici, per la maestà dei luoghi, per la bellezza dei monumenti splende ai loro occhi come un pro- digio, sarebbe davvero una vergogna […] rinunciare al pellegrinaggio a Ro- ma o perché le strade sono insicure o per motivi di economia o per altre si- mili ragioni» (1825).

Alle opere proprie di penitenza atte a far lucrare l’indulgenza si aggiunge, in altre parole, anche il pellegrinaggio inteso nella sua di- mensione penitenziale, in quanto opera normalmente faticosa.

– L’esperienza diretta Le opere giubilari non sono arbitrariamente o estrinsecamente connesse con l’indulgenza che viene concessa. Sono certo connesse a essa in forma misteriosa e soprannaturale. Ma non manca la sotto- lineatura di una connessione esperienziale, che si potrebbe dire for- se anche psicologica. Il primo interesse va per il modo con cui condurre il viaggio: i pellegrini del giubileo dovranno distinguersi da mercanti e turisti:

«Ammonite con peculiari paterne esortazioni i pellegrini verso Roma, indi- cando loro con quale devozione spirituale, con quale modestia e affabilità debbano dovunque comportarsi, perché in ogni luogo siano il buon profumo di Cristo. Non si abbandonino a vani racconti; non seguano le curiosità mon- dane; alimentino piuttosto la loro mente con meditazioni spirituali; siano di reciproco aiuto a portare il peso del viaggio coi colloqui spirituali, gli inni e i cantici spirituali: cantino sulle strade del Signore […]. Allontanino durante il viaggio i loro occhi dalle vanità; non si lascino distrarre dalla loro meta spiri- tuale da desideri illeciti e mondani; facciano buon viaggio e, camminando nel- le vie della giustizia, si rendano degni, con l’aiuto dell’angelo che li accompa- gna [angelo comite], di essere condotti con gioia a questa santa città» (1700).

Il secondo interesse va all’esito del viaggio e al soggiorno roma- no. Ben presto i Papi sentirono la necessità di specificare che la visi- ta alle basiliche dovesse essere effettuata personalmente [personali- ter] 32. La scelta di aggiungere alle opere giubilari la visita della basili- ca lateranense è giustificata anche da ragioni artistiche:

«Alle pareti di questa chiesa apparve [visibiliter apparuit] per la prima volta al popolo romano l’immagine dipinta [imago depicta] del Salvatore»(1350).

32 Cf la Bolla per l’anno 1350. Cf pure la Bolla per l’anno 1475, in cui, parafrasando la prima Bolla giubi- lare, viene aggiunto l’avverbio personaliter. Cf pure la Bolla per l’anno 1500. 134 G. Paolo Montini

Il frutto del giubileo giunge anche attraverso l’esperienza, an- che sensibile, delle opere della cristianità: «Al grande guadagno che ricaverete dal vostro viaggio si aggiungerà quale completamento il piacere della consolazione spirituale. Quale maggiore feli- cità può provare [iucundius accidere] un cristiano [christiano homini] che vedere [conspicere] la gloria della croce di Cristo nel sommo grado di splen- dore in cui riluce sulla terra [in supremo, quo in terris fulget, splendoris lumi- ne], e osservare con i propri occhi [propriis oculis intueri] i monumenti della vittoria trionfale con cui la nostra fede ha superato il mondo?» (1750). «L’aspetto stesso di questa città […], i sepolcri degli apostoli, i monumenti dei martiri vi spingeranno [movebunt] a compiere la penitenza e placare il Si- gnore. Quando percorrerete questa terra bagnata dal loro sangue, quando da ogni parte vi verranno incontro [in vestros oculos undique incurrent] le ve- stigia della loro santità, non potete che pentirvi profondamente» (1775). «Pensate infatti quanto concorra a infiammare la fede e la carità negli animi dei visitatori [spectantium] l’aggirarsi [circumire] per questi luoghi antichi, ai quali è mirabilmente affidata la maestà della religione; far rivivere nell’immaginazione [statuere sibi ante oculos] tante migliaia di martiri che consacrarono questa terra con il loro sangue; entrare [adire] nelle basiliche, osservare [conspicere] i sacri epitaffi, venerare le reliquie […]. Chi mai potrà accostarsi alle loro testimonianze [confessiones accedere], prostrarsi [procum- bere] sul loro sepolcro e baciare [deosculari] quelle catene […] se non per- vaso dalla più intensa devozione? Chi potrà trattenere le lacrime vedendo [cernens] la culla di Cristo, ripensando [recogitet] al bambino Gesù […] o adorando i sacri strumenti della passione del Signore?» (1825).

Leone XIII, nella Bolla per l’anno 1900, potrà concludere signifi- cativamente affermando che «chi saprà adeguatamente cogliere le voci [excipere voces] di tutte queste realtà di Roma, sperimenterà [sentiet] non tanto di essere pellegrino in una città non sua, ma di trovarsi nella propria e, con l’aiuto di Dio, se ne allonta- nerà migliore di quando è arrivato».

Il linguaggio che emerge è qui quello dell’esperienza: le opere richieste per l’acquisto dell’indulgenza da sé sole o in se stesse sono capaci di spingere alla medesima richiesta di indulgenza, la cui gra- zia è indissolubilmente unita all’esperienza spirituale di cui si è stati protagonisti. Nella stessa prima Bolla giubilare (1300), l’indulgenza è riconosciuta dal Pontefice «affinché gli stessi fedeli si sentano maggiormente rinfrancati [magis senserint se refertos] per la visita al- la basilica di San Pietro»: come dire che la visita in se stessa è espe- rienza che rinfranca e ad essa il Pontefice aggiunge un ulteriore do- no (l’indulgenza), che viene ad accrescere l’esperienza precedente. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 135

Il terzo interesse va allo stesso pellegrinaggio, che da mezzo per giungere a Roma a lucrare l’indulgenza diviene come un fine o, forse meglio, un’opera giubilare. Lo stesso pellegrinaggio diventa, da opera penitenziale per il giubileo, opera del giubileo, che conduce all’acquisizione dell’indulgenza.

«Sarà uno spettacolo celeste e gioioso questa vostra moltitudine di popoli che convergono da tutte le parti del mondo nella casa del Signore. Sarà an- che per voi un incremento della propiziazione divina e un cumulo di grazie. Se infatti la preghiera di un giusto vale moltissimo, che cosa non saprà otte- nere la preghiera di tante migliaia di fedeli che inneggiano a una sola voce nell’unico spirito della carità? Sarà anche vergogna e confusione dei nemici della religione (fosse anche l’occasione di conversione!), i quali consuman- dosi vedranno tutte le membra di Cristo aderire al suo capo e capiranno [in- telligentque] di non poter avere Dio per Padre, se non riconoscono come ma- dre la Chiesa romana» (1650).

«Inoltre la vista stessa [Ipse demum conspectus] della moltitudine innumere- vole di fedeli che in questo stesso anno si concentra a Roma da ogni parte, riempirà [cumulabit] di un giusto e santo piacere il vostro cuore. Ricono- scendo ciascuno la propria stessa fede in tanti uomini di così diverse nazioni e lingue, rallegrandosi con tutti questi, con fraterno amore, presso la comu- ne madre Chiesa romana, sentirà piovere più abbondantemente su di sé [uberius in se derivari persentiet] le celesti benedizioni» (1750).

«Anche le lacrime degli altri che piangono i loro peccati e i gemiti di coloro che chiedono a Dio il perdono per sé vi spingeranno [mirifice (…) vos impel- lent] a uguale pietà e senso del dolore. Ma in questo vostro dolore e lutto, vi apparirà segno di massimo piacere la stessa moltitudine di persone e di gen- ti convenute per far penitenza e chiedere giustizia» (1775).

La visita alle quattro basiliche Il giubileo è stato fin dall’inizio legato alla visita alle basiliche principali della Chiesa di Roma, evolvendosi man mano nell’indica- zione specifica della pratica da svolgere.

– Individuazione delle basiliche Al tempo di Bonifacio VIII la consuetudine popolare si presenta- va come rivolta esclusivamente alla venerazione di san Pietro nella basilica omonima. Già però nella sua Bolla, il Pontefice concedeva l’indulgenza «a coloro che sarebbero entrati con devozione [acceden- tibus reverenter] nelle basiliche dei santi Pietro e Paolo», site nella città di Roma. 136 G. Paolo Montini

Già per il secondo giubileo (1350), Clemente VI aggiungeva alle due precedenti basiliche la chiesa di San Giovanni in Laterano 33. Per il terzo giubileo (1390), Gregorio XI aveva già con un’apposita Bolla (Salvator noster Dominus) del 29 aprile 1373 prescritto che per l’ac - quisto dell’indulgenza giubilare si dovesse aggiungere la chiesa di Santa Maria Maggiore 34.

– La visita Le modalità fondamentali della visita furono stabilite già da Bo- nifacio VIII:

«Se si tratta di Romani, la visita avverrà per almeno trenta giorni continui o intercalati [interpolatis], e almeno una volta al giorno; se si tratta di pellegrini o forestieri [forenses], la visita avverrà allo stesso modo per quindici giorni».

Rimane inteso che tali modalità di visita sono istituite e perman- gono nel loro significato di opere minimali, cioè necessarie e suffi- cienti, per l’acquisto dell’indulgenza. Ciò non toglie la possibilità, l’opportunità e anche l’invito a modalità più impegnative. Già Bonifa- cio VIII concludeva la sua Bolla di indizione avvertendo che

«ognuno tuttavia avrà più merito [plus merebitur] e conseguirà l’indulgenza con maggiore efficacia [efficacius] se visiterà più volte e con più devozione [amplius et devotius] le stesse basiliche».

Le modificazioni susseguitesi nel tempo (almeno per quanto at- tiene alle Bolle di indizione) non saranno né frequenti né significative. La visita per trenta giorni verrà richiesta anche a coloro che hanno semplicemente dimora e domicilio [commorantes et residen - tes] in Roma (1500). La Bolla per l’anno 1575 parlerà di «romani o abitanti [incolae] di Roma». Il riferimento alla visita verrà specificato attraverso la menzione anche degli altari maggiori delle basiliche da visitare:

«Sotto gli altari delle basiliche dei santi Pietro e Paolo sono posti i loro corpi gloriosi; nell’altare della chiesa lateranense sono conservate le loro teste» (1500).

33 Solamente a partire dalla Bolla di Clemente X per l’anno 1675 si denominerà «basilica» la chiesa di San Giovanni in Laterano. Nella Bolla di Paolo VI per l’anno 1975 sarà denominata «arcibasilica». 34 Solamente a partire dalla Bolla di Urbano VIII per l’anno 1625 si denominerà «basilica» la chiesa di Santa Maria Maggiore. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 137

Si chiarirà che i giorni di visita possono essere computati o co- me giorni naturali (da mezzanotte a mezzanotte) oppure come giorni ecclesiastici [sive naturales, sive etiam ecclesiasticos], «cioè da com - putarsi dai primi vespri d’un giorno fino a tutto il crepuscolo della se- ra del giorno successivo» (1750). Riguardo al numero dei giorni (e delle visite), esso sarà una prima volta ridotto a quindici giorni da Pio IX per l’anno 1875, in considerazione dei tempi calamitosi; poi Leone XIII interverrà per l’anno 1900, stabilendo venti giorni per i romani e coloro che abitino a Roma, dieci per i pellegrini. Pio XI ri- durrà ulteriormente le visite per l’anno 1933, richiedendone tre (an- che di seguito) per ogni basilica. Con Pio XII la visita sarà una sola per ogni basilica. Con Paolo VI e Giovanni Paolo II sarà sufficiente una visita a una basilica, chiesa o luogo legittimamente designati (Paolo VI nella Bolla di indizione parla di «un’altra chiesa o luogo di Roma, designato dalla competente autorità», oltre alle quattro basili- che; Giovanni Paolo II suggerisce «una delle catacombe e la basilica di Santa Croce in Gerusalemme»). In alcuni casi si prevede la possibilità di acquistare l’indulgen- za giubilare anche nelle proprie diocesi. Normalmente, dal 1750, ta- le possibilità veniva offerta nell’anno seguente a quello in cui si era celebrato il giubileo a Roma. Circostanze peculiari portarono alla ce- lebrazione contemporanea (1875; 1983) o alla celebrazione anticipa- ta (1975). Lentamente si specifica anche lo svolgimento della visita, che al l’inizio è qualificato solo come devoto. Nella Bolla per l’anno 1575 Gregorio XIII prescrive che nella visita i fedeli «preghino [pias ad Deum preces fuderint] devotamente per la salvezza propria e di tutto il popolo cristiano». Un primo accenno alle preghiere secondo le intenzioni del Som- mo Pontefice è presente nella Bolla di Clemente XIV per l’anno 1775:

«Confidiamo infatti che nelle vostre preghiere a Dio vi ricorderete del vostro Padre comune, che vi ama tutti profondamente, e che insieme con Noi, se- condo le nostre intenzioni, pregherete il sommo largitore di beni» 35.

Un accenno più consistente si avrà nella Bolla per l’anno 1875, in cui Pio IX richiede che nella visita

35 Un richiamo insistente a pregare per il Pontefice (Benedetto XIII) apre la Bolla per l’anno 1725, ma in questo caso è originato dalla vicenda personale del Pontefice e della sua elezione. 138 G. Paolo Montini

«si innalzino a Dio preghiere umili per la prosperità e l’esaltazione della Chiesa cattolica e di questa Sede apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la conversione di tutti gli erranti, per la pace e l’unità di tutto il popolo cristiano e secondo la nostra intenzione».

Riappare la richiesta di pregare durante la visita secondo l’intenzione del Sommo Pontefice nella Bolla di Pio XI per l’anno 1925, ma con una duplice peculiarità. Da un lato, è l’unica intenzione appositamente richiesta; dall’altro lato, è il Pontefice stesso che nella Bolla manifesta le sue intenzioni generali e soprattutto la sua inten- zione peculiare nell’indizione del giubileo, per la quale chiede che «voi stessi con Noi preghiate» (cf pure 1950). Un’eccezione, subito rientrata, appare la prescrizione di Paolo VI nella Bolla per l’anno 1975 di pregare nella visita «ad mentem Summi Pontificis et Collegii Episcopalis» 36. Molto dettagliato appare Pio XI nella descrizione della visita: vi dovranno essere almeno

«cinque Pater Ave Gloria davanti al tabernacolo; un Pater Ave Gloria per la nostra intenzione; tre Credo e un Adoramus te, Christe (o altra preghiera si- mile) dinanzi al crocifisso; sette Ave e un Sancta Mater (o altra preghiera si- mile) davanti alla Beata Vergine, meditando sui suoi dolori; un Credo dinanzi all’altare della confessione»( 1933).

La visita appare semplificata nella Bolla di Pio XII per l’anno 1950:

«Tre Pater Ave Gloria; un Pater Ave Gloria secondo la nostra intenzione; un Credo».

Una semplificazione e una più ampia scelta sono date da Paolo VI che prevede o una celebrazione liturgica (una messa o un pio eser- cizio, come la via crucis o il rosario) o una breve meditazione, un Pa- ter Ave Gloria e un Credo. Una scelta ancora più ampia di modalità celebrative è offerta da Giovanni Paolo II per le celebrazioni (messa, liturgia della Parola, li- turgia penitenziale, pio esercizio); per la visita alle basiliche e alle chiese rimangono le modalità previste già da Paolo VI.

36 La successiva Bolla di Giovanni Paolo II per l’anno 1983 omette l’accenno al Collegio episcopale, tor- nando più volte alla semplice e classica indicazione della Summi Pontificis mens. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 139

– Gli impediti Se Bonifacio VIII si trovò ad affrontare solo alla fine dell’anno giubilare con un apposito documento il problema di coloro che non avevano potuto adempiere alle visite prescritte 37, la problematica en- trò subito, dal secondo giubileo (1350), nelle Bolle di indizione, costi- tuendo un passaggio obbligato e tradizionale 38. Anche la soluzione data è rimasta sostanzialmente identica per tutti i giubilei: coloro che, dopo aver intrapreso il viaggio verso Roma (1350) o anche dopo la sola sua preparazione (1500), siano stati legit- timamente impediti (per giusto impedimento, per malattia o per mor- te) di giungere a Roma o, giunti a Roma o comunque residenti in Ro- ma, siano stati legittimamente impediti di incominciare o completare le visite prescritte e nelle forme prescritte, acquisteranno ugualmente l’indulgenza, «come se [perinde ac] avessero compiuto le opere pre- scritte» (1600), purché «vere poenitentes et confessi» (1350) e «sacra Communione refecti» (1750), in considerazione della loro buona vo- lontà (1575). Disposizioni pressoché analoghe prevedono anche le ultime Bolle di indizione (1975 e 1983), dove si richiede che i fedeli, impedi- ti per malattia o per altra grave causa, si uniscano spiritualmente [mente/spiritualiter] a coloro che, come familiari, comunità ecclesia- le (parrocchiale) o sociale, compiono le opere per l’acquisto dell’in - dulgenza giubilare 39.

La giustificazione del giubileo Forse per la sua origine di istituzione fortemente voluta dal po- polo, forse per la diversità degli anni anniversari in cui cade, forse per la natura del principale frutto del giubileo, ossia l’indulgenza, il riferimento dell’istituzione giubilare all’omonima istituzione presen- te nell’Antico Testamento (in particolare, in Lv 25) è relativamente raro e limitato.

37 BONIFACIUS VIII, Forma gratiae non bullatae, quam concessit peregrinis in die Natalis Domini in fine vi- delicet centesimi qui fuit millesimus trecentesimus, in H. SCHMIDT, Bullarium Anni Sanci, cit., pp. 35-36. 38 Dopo la specifica menzione nella Bolla per il 1350, si ritrova la disposizione nelle Bolle dal 1500 in poi. Manca nella Bolla per l’anno 1550. 39 La Bolla per l’anno 1983 prevede un’opera alternativa per coloro che sono impediti: la visita alla pro- pria chiesa parrocchiale; solo nel caso in cui anche quest’opera fosse impossibile si prevede l’associa - zione spirituale a un pellegrinaggio. 140 G. Paolo Montini

L’accenno al giubileo anticotestamentario appare fugacissimo per la prima volta nella Bolla per l’anno 1350 (cf pure 1875); sufficiente- mente elaborato in alcune Bolle (cf 1450; 1600; 1625; 1650; 1675; 1700; 1725; 1825; 1925), ma sempre in netta contrapposizione con la nuova economia, quella spirituale, neotestamentaria 40. Gli aspetti del giubi- leo anticotestamentario sono diversamente individuati nelle Bolle: si tratta del riposo della terra (1450; 1625; 1700; 1725), della libertà ai servi (1450; 1600), della restituzione delle proprietà (1450; 1625; 1675; 1700; 1725; 1825; 1925), della liberazione dei prigionieri (1600; 1675; 1700; 1825; 1925), della remissione dei debiti (1600; 1700; 1925), del ritorno in patria degli esuli (1625; 1675; 1725); della me- moria dell’uscita dall’Egitto (1650; 1675). A essi nella Nuova Legge corrispondono aspetti spirituali (cf 1450; 1600): al riposo della terra corrispondono «i frutti ricchissimi che, senza proprio lavoro e fatica, ciascuno riceve dai meriti di Cristo, della Beata Vergine e dei santi» (1625; cf anche 1725) oppure «il riposo per il Signore nella contem- plazione celeste» (1700); alla restituzione delle proprietà corrispon- dono «ora le virtù, i doni e i meriti, di cui siamo stati giustamente privati per il peccato e che ora ci sono restituiti per la generosa mise- ricordia di Dio» (1625; cf pure 1825; 1925) oppure «l’aggiudicazione dell’eredità eterna, da cui eravamo stati esclusi dalla prevaricazione dei progenitori» (1700; cf pure 1675; 1725); al ritorno in patria degli esuli corrisponde «ora il cammino aperto al cielo, donde siamo stati esuli in questa valle di lacrime» (1625; cf pure 1675; 1725); alla libe- razione dei prigionieri corrisponde «lo spirito di libertà, per il quale siamo chiamati all’adozione a figli di Dio» (1675; cf pure 1700), «do- po essere stato ora finalmente distrutto il giogo onerosissimo del do- minio del diavolo» (1825; 1925); alla remissione dei debiti corrispon- de «la remissione dei peccati» (1700) oppure «la piena remissione per i meriti di Cristo, della Beata Vergine e dei Santi, delle pene, che per le proprie colpe e per i propri vizi [avremmo] dovuto scontare» (1925); alla remissione dei debiti o dalla schiavitù corrisponde ora «l’assoluzione dai vincoli dei peccati e dalle pene» (1725; 1825). Il riferimento veterotestamentario è invece minimizzato dalle Bolle che si riferiscono all’istituzione del giubileo direttamente attra-

40 Il richiamo più forte è probabilmente nella Bolla di Pio XI per l’anno 1925: «Non dubitare licet quin divino Ecclesiae instinctu piacularem hunc annum vertentibus annis, certo quodam intervallo, interiecit; quippe quae, ut alios ritus – multo quidem ampliore significatione atque efficentia – ab Antiquo Foedere est mutuata salubriter, ita hanc quoque, ad Anni Sabbatici exemplum, in christianos mores induxerit». Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 141 verso la proclamazione dell’anno santo da parte di Cristo Gesù, così come riferito nel capitolo quarto del Vangelo di Luca, e non già «ex veteris legis instituto, quae umbram tantum habebat futurorum bono- rum, neque ex Hebraeorum consuetudine» (1600). Il giubileo non va annunciato al suono della tromba sacerdotale «ut in veteri lege […] sed apostolicae vocis oraculo» (1625):

«È piuttosto dalla voce dello stesso Figlio dell’Altissimo che siamo chiamati; lui che per primo annunciò al mondo l’anno del giubileo attraverso il suo sangue; lui che attraverso le voci dei profeti annuncia ai mansueti di essere mandato a sanare i contriti di cuore, a predicare ai prigionieri l’indulgenza, ai reclusi la liberazione e un anno placabile per il Signore» (1650).

Un riferimento del tutto originale e nuovo alla legge veterote- stamentaria del giubileo è presente nella Bolla di Paolo VI per l’an- no 1975:

«Che l’Anno Santo, con le opere di carità che ispira e chiede ai fedeli, sia un tempo propizio anche per un rassodamento della coscienza sociale in tutti i fedeli e nella cerchia più vasta di tutti gli uomini, a cui può essere fatto per- venire il messaggio della Chiesa».

Fondamento di tale auspicio poteva essere la natura del giubi- leo nell’Antico Testamento:

«Le antiche origini del giubileo, nelle leggi e nelle istituzioni di Israele, atte- stano che esso ha per sua stessa natura questa dimensione sociale. Infatti, come leggiamo nel Levitico, l’anno del giubileo […] importava un nuovo trattamento di tutto ciò che si riconosceva come appartenente a Dio: la terra, che era lasciata in riposo e restituita ai suoi antichi possessori; i beni econo- mici, nella sfera dei quali avveniva la remissione dei debiti; e soprattutto l’uo- mo, la cui dignità e libertà veniva riaffermata con la liberazione degli schiavi. L’anno di Dio era, dunque, anche l’anno dell’uomo, l’anno della terra, l’anno dei poveri».

Quando perciò, alla fine del discorso – in cui Paolo VI esorta e in- dica precise mete e modalità per la giustizia e il progresso dei popoli 41 – egli ricorderà l’anno proclamato da Gesù nella Legge Nuova, farà emergere più la continuità che la discontinuità fra le due economie:

41 Il richiamo alle opere di misericordia nelle Bolle giubilari è accentuato e ripetuto, ma non era mai stato visto nella prospettiva della natura sociale del giubileo, quanto piuttosto in connessione con la dot- trina delle indulgenze o come opere previe per l’acquisto o come opere seguenti che manifestano i frut- ti dell’assoluzione conseguita. 142 G. Paolo Montini

«Così dicendo e auspicando, noi abbiamo la coscienza di muoverci sulla li- nea di una mirabile tradizione che comincia con la legge d’Israele e trova la sua massima espressione nel nostro Signore Gesù Cristo, che fin da princi- pio del suo ministero presentò se stesso come il realizzatore [effectorem] delle antiche promesse e figure connesse con l’anno del giubileo: “Lo Spirito del Signore è sopra di me […], mi ha inviato ad annunziare la buona novella ai poveri, […] a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19)».

L’indulgenza L’essenza del giubileo cristiano è senz’altro la concessione da parte del Romano Pontefice dell’indulgenza plenaria. La dottrina del- le indulgenze si era già affermata e formalizzata chiaramente all’av- vento dell’istituzione giubilare nella Chiesa 42. Non si deve perciò richiedere alle Bolle un approfondimento della dottrina delle indul- genze (già avvenuto definitivamente altrove). Si può piuttosto consi- derare in esse l’affermazione universale e ufficiale della dottrina e della prassi conseguente, nonché l’evoluzione della modalità di pro- posizione della medesima dottrina 43. Potremmo raccoglierne alcune formulazioni:

«Non solum plenam et largiorem, immo plenissimam omnium suorum conce- demus et concedimus veniam peccatorum» (1300); «plenissimam omnium suo- rum peccatorum veniam consequantur» (1390); «ut illius [= Pietro] ministerio solutis vinculis peccatorum animabus fidelium in regnum coelorum facilior pa- teret ingressus» (1450); «omnium peccatorum suorum plenissimam indulgen- tiam obtinerent/consequantur» (1450); «cum omnibus et singulis indulgentiis et peccatorum remissionibus» (1475: Paolo II); «omnes et singulas indulgentias et peccatorum remissiones consequerentur, quas idem Pontifex […] concesse rat» (1475: Sisto IV); «cum eisdem indulgentiis et remissionibus plenariis peccato- rum» (1475: Sisto IV); «indulgentias a Romanis Pontificibus […] pro suorum expiatione peccatorum concessas» (1500); «plenissimam omnium peccatorum indulgentiam consequantur» (1500); «plenissimam omnium peccatorum suo- rum indulgentiam et remissionem […] consequerentur» (1575); «amplissimae peccatorum indulgentiae et remissiones propositae erant iis, qui sacra beato- rum apostolorum limina pie ac devote visitarent» (1600); «plenissimam om- nium peccatorum suorum indulgentiam, remissionem, ac veniam misericordi- ter in Domino concedimus et impertimur» (1650); «amplissimas peccatorum indulgentias et remissiones […] propositas» (1700); «certam peccatorum ve- niam et indulgentiam promittit» (1750); «ut plenissimam anni Iubilaei om-

42 Cf, per esempio, H. VORGRIMLER, Buße und Krankensalbung, Freiburg-Basel-Wien 1978, pp. 203-214; G. A. BENRATH, Ablaß, in Theologische Realencyclopädie, I, Berlin-New York 1977, pp. 347-364. 43 È interessante, nel contesto di una reinterpretazione delle indulgenze, l’apparizione già dalla Bolla per l’anno 1775 della dottrina del Corpo mistico. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 143

nium peccatorum suorum indulgentiam, remissionem et veniam […] conse- quantur» (1875); «plenissimam peccatorum suorum indulgentiam, remissio- nem et veniam misericorditer in Domino concedimus et impertimur» (1900).

In queste espressioni, che coprono praticamente l’arco tempo- rale di tutti i secoli in cui si effettuò il giubileo, potrebbero risuonare elementi di ambiguità 44, in quanto in esse si fa menzione, diretta- mente o indirettamente, in modo esplicito o suggestivo, della cancel- lazione dei peccati, quasi fosse un effetto dell’indulgenza. Ciò dipen- de dalla scelta di espressioni brachilogiche, in cui si considera l’ef - fetto globale e finale del giubileo 45: la confessione (sacramentale) dei peccati, preceduta dal sincero pentimento (che è presupposto richie- sto per acquistare l’indulgenza giubilare: vere poenitentes et confessi), cancella i peccati, mentre la concessione giubilare dell’indulgenza (plenaria) cancella le pene (temporali) che sopravvivono alla cancel- lazione dei peccati. Che questo sia il senso delle espressioni usate emerge da alcu- ni testi delle Bolle, anche in questo caso per tutto l’arco dei secoli, in cui con chiarezza si fa riferimento alle pene cancellate dall’indulgen - za. Ciò avviene in modo particolare dopo il concilio di Trento, dopo il quale non poche Bolle insisteranno perché i vescovi ammaestrino i fedeli circa la vera natura delle indulgenze. Ecco alcuni esempi:

«Il tesoro [spirituale, affidato alla Chiesa] è stato affidato perché fosse distri- buito per la salvezza ai fedeli e applicato con misericordia ai fedeli veramen- te pentiti e confessati, ora per la totale ora per la parziale remissione della pena temporale, dovuta per i peccati [nunc pro totali, nunc pro partiali re- missione poenae temporalibus (!) pro peccatis debitae]» (1350).

«Il Signore e Redentore nostro Gesù Cristo […] ha arricchito la Chiesa, tra l’altro, con l’immenso tesoro dei meriti della sua passione […] e lo ha affida- to da distribuire a san Pietro e ai suoi successori, cosicché i fedeli, aiutati a

44 Bonifacio VIII avrebbe indetto il giubileo «ohne daß er, wie es den Theologen geläufig war, unterschie- den hätte zwischen der zeitlichen Sündenstrafe (poena), deren volle Aufhebung nunmehr so gut wie unbe- stritten als päpstliches vorrecht galt, und der Sündenschuld (culpa), deren Vergebung Gott allein vorbehal- ten war»(G. A. BENRATH, Ablaß, cit., p. 350). Si deve però osservare che nelle Bolle di indizione dei giu- bilei l’equivoco è da un lato condiviso con numerosi testi (pontifici, conciliari ed episcopali) precedenti (cf in specie la cost. 71 del concilio ecumenico Lateranense IV [1215]: «plenam suorum concedimus ve- niam peccatorum»), dall’altro non ha mai assunto forme estreme, come l’indicazione dell’assoluzione «tam a culpa quam a poena» (cf H. SMOLINSKY, Jubeljahr, in Theologische Realencyclopädie, XVII, Berlin- New York 1988, p. 282). 45 Cf É. JOMBART, Indulgences, in Dictionnaire de droit canonique, V, Paris 1950, col. 1336. 144 G. Paolo Montini

soddisfare per le pene temporali che spesso rimangono dopo la remissione delle colpe [ut eo ceteri fideles pro temporalibus poenis ex remissis culpis sae- pius remanentibus ad satisfaciendum adiuti], fossero resi più pronti a riceve- re i frutti della grazia celeste» (1575).

«Sia compito vostro [= patriarchi, primati, arcivescovi e vescovi] chiarire esattamente quali siano la forza e gli effetti delle indulgenze, quale beneficio se ne ritragga con la remissione, dovuta alla grazia divina, non solo della pe- na canonica, ma anche di quella temporale dovuta alla giustizia divina per i nostri peccati; e infine quale aiuto pervenga dal tesoro celeste, formato dai meriti di Cristo e dei santi, a coloro che morirono veramente pentiti nella ca- rità di Dio, prima di poter soddisfare, con adeguati frutti di penitenza, i pec- cati compiuti in opere e omissioni» (1825).

«Concediamo l’indulgenza piena di tutta la pena, che per i peccati dovrebbe- ro scontare, dopo che abbiano in precedenza ricevuto il perdono di tutti i lo- ro peccati [plenissimam totius poenae, quam pro peccatis luere debent, indul- gentiam (…) concedimus (…) obtenta prius ab iisdem admissorum cuiusque suorum remissione ac venia]» (1933).

Paolo VI, nella Bolla per il 1975, riproduce un breve riassunto [breviter commemorare] della dottrina dell’indulgenza, che egli stesso aveva proposto nella Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina. Giovanni Paolo II nella Bolla per il 1983 insiste talmente sul sa- cramento della riconciliazione, da porre in questo contesto l’essenza stessa del giubileo, e cioè l’indulgenza [intra hunc vero gratiae pro- spectum donum etiam invenitur indulgentiae], «che non può essere separata dalla virtù e dal sacramento della penitenza».

Dal giubileo richiesto dal popolo al giubileo sollecitato dall’autorità In questo contesto si potrebbe avvertire come un climax ben evi- dente nel testo delle Bolle di indizione. Mentre i primi testi giubilari pontifici si limitano a rispondere a una pressione popolare 46 in ordine all’ottenimento (quasi alla ratifica ufficiale) delle indulgenze, cui la gente tende attraverso la visita della basilica di San Pietro in Roma, lentamente con lo scorrere dei giubilei si allenta questo movimento “dal basso” e si evidenzia un progressivo incitamento dei fedeli sem- pre più intenso da parte del Romano Pontefice (anche attraverso la

46 Più volte si trova tale espressione (popularis) nella Bolla di Paolo VI per l’anno 1975: «Magno illo mo- tu populari et paenitentiali anno 1300 a Bonifatio VIII, item Decessore Nostro, confirmato». Bonfacio VIII sarà chiamato perciò o institutor o instaurator del giubileo (Bolla per l’anno 1650). Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 145 collaborazione dei vescovi e dei prìncipi) a intraprendere il cammino e la peregrinazione giubilare, spiegandone lo scopo e il significato nonché l’essenza (l’indulgenza), oramai poco noti presso molti fedeli. Già verso la fine del secolo XV si manifestano alcuni segni di questo cambiamento. Si vedano al riguardo gli accenni alla necessa- ria preparazione al giubileo (1450); alle indicazioni di opere concrete e specifiche da compiere (1450); all’obbligo di celebrare il giubileo (1475) 47; alla sospensione delle altre indulgenze e di altre grazie du- rante il giubileo, per favorire la partecipazione (1475: Sisto IV), to- gliendo ai fedeli la possibile attrattiva o concorrenza costituita da al- tre possibilità di accesso all’indulgenza, magari più facili 48. Accenti nuovi appaiono con Alessandro VI, che, nella Bolla per l’anno 1500, annovera fra le molteplici preoccupazioni del proprio uf- ficio primaziale quella di indurre più prontamente [promptius indu- cantur] tutti i fedeli a usufruire [promereri], per la salvezza della pro- pria anima, dell’indulgenza giubilare, e di fatto manifesta il forte desiderio [cupiamusque toto cordis affectu] che le anime siano guada- gnate a Cristo e che i fedeli partecipino con dovuta e particolare de- vozione al detto anno giubilare e accedano personalmente alle basili- che romane. Con la Bolla di Gregorio XIII per l’anno 1575 incominciano ad apparire nelle Bolle pontificie di indizione esortazioni ai fedeli [mo- nemus atque hortamur], che possono essere presenti, a partecipare veramente a tanta grazia; ammonizioni ai vescovi [mandamus] per- ché curino la preparazione dei fedeli; inviti ai prìncipi [rogamus] per- ché promuovano il pellegrinaggio anche attraverso opere concrete in favore dei pellegrini. Alcuni accenti di questi inviti meritano di essere ricordati. Ri- guardo ai fedeli:

47 «Statuimus et ordinamus quod […] Iubilaeus […] debeat ab omnibus christifidelibus […] celebrari» (Paolo II). 48 La sospensione (totale o parziale) delle (altre) indulgenze durante l’anno Santo è un provvedimento tradizionale, che normalmente è menzionato nella stessa Bolla di indizione. La prima menzione si ha nel 1475 ed è motivata dalla stessa Bolla: «Per il fatto che Noi e il nostro predecessore […] abbiamo ri- tenuto di dover concedere, per il fine della salvezza delle anime e su richiesta di molti prìncipi, fedeli e altre persone, diverse indulgenze plenarie [indulgentias et peccatorum remissiones plenarias] a molte chiese, monasteri e luoghi pii…» (Sisto IV). L’ultimo provvedimento preso in tal senso risale all’Anno Santo 1950 (cf PIO XII, costituzione apostolica Fore confidimus, 10 luglio 1949, in AAS 41 [1949] 337- 339). Paolo VI per l’anno 1975 e Giovanni Paolo II per l’anno 1983 non disposero alcuna sospensione, anzi nelle rispettive Bolle menzionarono ufficialmente che le altre concessioni di indulgenze rimaneva- no in vigore, ferma restando la norma secondo la quale l’indulgenza plenaria si può lucrare soltanto una volta al giorno. 146 G. Paolo Montini

«Con grande gioia chiamiamo e invitiamo [vocamus atque invitamus] tutti i fedeli, dovunque abitanti, anche nelle regioni più lontane, alla santa e lietissi- ma nel Signore celebrazione di questo giubileo» (1600). «Orsù, fedeli carissimi, intraprendete lieti questo sacro pellegrinaggio, ascoltando la voce della Chiesa di Roma che mostra l’abbondante seno ma- terno e chiama a sé tutti coloro che sono affaticati e oppressi per ristorarli. […] Eccitatevi a questo e venite con ogni alacrità, o figli della promessa, al grembo materno, o pecore del gregge del Signore, all’abbraccio del pasto- re» (1675). «Noi vi spingiamo [Vos compellamus] a partecipare a questa ricchezza del - l’indulgenza e a questi tesori della Chiesa» (1775). «Tali disposizioni, o figli, vi annunciamo con paterno affetto, in modo che voi, che siete affaticati e oppressi, accorriate [convoletis] dove sapete di tro- vare conforto» (1825). «Dovunque voi siate, o figli diletti, ai quali sia dato agio di essere presenti [quibus commodum est adesse], Roma vi invita amorevolmente nel suo seno [ad sinum Roma suum vos amanter invitat]» (1900). «Non mi rimane, diletti figli, che di chiamarvi e invitarvi [devocemus invite- musque] tutti con molto amore a Roma»(1925) 49.

Riguardo ai vescovi:

«Per ricevere a Roma, durante l’anno giubilare, le sacre indulgenze e i loro frutti di salvezza, convocate un’assemblea, chiamate il popolo, […] insegna- te alle pecore affidate alla vostra fede che siamo stranieri e pellegrini su que- sta terra…» (1600). «Voi stessi, Venerabili Fratelli, se qualcuno di voi vorrà aggiungere agli altri impegni pastorali anche questo, di accompagnare [deducatis] una parte del vostro gregge a questa cittadella della religione, a queste fonti dell’indulgen - za, a noi, che con animo paterno vi riceveremo e vi abbracceremo...» (1775). «Riteniamo per certo che nel vostro pellegrinaggio non vi mancherà la cura e la diligenza dei vostri vescovi: infatti o precederanno e guideranno [praei- bunt praeeruntque] loro stessi i vostri gruppi o metteranno a capo sacerdoti e laici [laicos viros] molto affidabili» (1925).

Riguardo ai prìncipi:

«Voi re e prìncipi, figli carissimi nel Signore, […] se le circostanze odierne non permettono che voi stessi intraprendiate questo santo pellegrinaggio,

49 Un’espressione simile, ma più blanda, ha la Bolla di Pio XII per l’anno 1950: «Non ci rimane, diletti fi- gli, che invitarvi con paterna volontà a venire a Roma numerosissimi durante l’Anno Santo». Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 147

sulle orme della diligente cura dei vostri antenati, preparate la via del Signore ai vostri sudditi e a tutti gli altri che marciano verso Roma, predisponete stra- de sicure e pacate e ogni genere di accesso, perché le vie di Sion altrimenti non piangano, perché non c’è nessuno che venga alla solennità» (1675). «Desidereremmo assolutamente che anche i nostri carissimi figli in Cristo, l’imperatore e tutti i re e prìncipi cattolici, divengano emulatori dei loro ante- nati […] e li abbracceremmo con tanto amore con grande sollievo della no- stra vecchiaia che avanza, prima che il Signore lasci che il suo servo vada in pace […]. Li esortiamo comunque e li preghiamo…» (1700). «Vorremmo […] esprimere umilmente e schiettamente il voto che […] le competenti autorità dei vari paesi considerino la possibilità di concedere, se- guendo i suggerimenti della loro saggezza, un indulto ispirato a clemenza ed equità, specialmente in favore di prigionieri che abbiano dato sufficiente pro- va di riabilitazione morale e civile, o che siano vittime di situazioni di disordi- ne politico e sociale troppo più grandi di loro, perché se ne possano ritenere pienamente responsabili» (1975).

Le condizioni per l’acquisto dell’indulgenza La condizione fondamentale per l’acquisto dell’indulgenza (giu- bilare) rimane il distacco dal peccato, espresso attraverso la formula (costantemente ripetuta dalla prima Bolla per l’anno 1300) secondo cui i fedeli devono essere «vere poenitentes et confessi», ossia vera- mente pentiti e confessati. Tale condizione si estende anche a coloro ai quali, per ragione di legittimo impedimento, è concesso di lucrare dell’indulgenza anche senza compiere o aver compiuto tutte le opere richieste. Normalmente le Bolle di indizione non entrano in particolari circa l’attuazione di tale condizione. Si possono trovare solo alcune puntualizzazioni. Nella Bolla di Bonifacio VIII la condizione del pentimento e del- la confessione si trova sotto due forme, al presente e al futuro; forse si potrebbe pensare che, secondo le disposizioni di questo Pontefice, il pentimento e la confessione avrebbero potuto anche seguire l’opera penitenziale: «A coloro che accedono con riverenza alle basiliche, veramente penitenti e confessati [vere poenitentibus et confessis], o che veramente si pentiranno e si confesseranno [vel qui vere poenitebunt et confitebuntur], concederemo e concediamo…» 50.

50 È possibile però che tale precisazione si riferisca al fatto che nella medesima Bolla si prevedono an- che i successivi anni giubilari secolari. 148 G. Paolo Montini

Nelle Bolle più recenti si preferisce svolgere il termine «confes - si» attraverso locuzioni che, senza ambiguità alcuna, indichino l’ac- cesso al sacramento della confessione:

«Ut inde ad veram poenitentiam incensi et per reconciliationis sacramentum a peccatorum maculis expiati, ad thronum gratiae fidentius accederent» (1875; il corsivo è nostro).

Benedetto XIV, oltre a specificare che la confessione (giubilare) è rivolta anche all’assoluzione dei (soli) peccati veniali 51, introdurrà un’altra condizione per chi intenda acquistare l’indulgenza giubilare: che sia comunicato (Bolla per l’anno 1750). Tale condizione per- marrà fino alla normativa attualmente in vigore.

Indole ecumenica Il legame fra Pietro, la sua cattedra e la sua tomba, i suoi suc- cessori e il giubileo fa in modo che il giubileo abbia come destinatari i cristiani cattolici in piena comunione con la Chiesa. Nondimeno molto spesso il giubileo è occasione per richiamare alla mente i fedeli che vivono la propria fede al di fuori della Chiesa cattolica. L’affermazione della romanità della Chiesa, insita nel giubi- leo, va di pari passo con l’amara constatazione della divisione che si è prodotta tra i cristiani nel XVI secolo. In ogni Bolla di indizione del giubileo a partire dal 1600 52 si inserisce un accorato appello al ritor- no nella Chiesa cattolica di coloro che si sono separati dalla Chiesa:

«Ancora nell’ultimo giubileo secolare [= 1500] celebrarono quell’Anno Santo giubilare con molta letizia e con esultanza spirituale, nella stessa Chiesa una cattolica apostolica romana, camminando nella casa del Signore unanimi e consenzienti con Noi. Per la loro salvezza daremmo volentieri la nostra stes- sa vita se fosse necessario» (1600).

Si direbbe che la gioia dell’Anno Santo sia turbata da questa macchia, che cioè non tutti possano più partecipare di questa gioia:

«Il ricordo stesso però dei felici tempi passati ci riempie il cuore di grande dolore, se guardiamo […] alle molte province e nazioni separate dall’eresia

51 Cf BENEDETTO XIV, costituzione Convocatis, 25 novembre 1749, n. 46; ID., enciclica Inter praeteritos, 3 dicembre 1749, nn. 3-7; 77-78. 52 Manca un accenno esplicito nelle seguenti Bolle: 1625; 1875; 1900; 1933. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 149

dal consorzio della Chiesa cattolica e dalla letizia di questo giubileo e dalla comunione spirituale» (1650).

Lo stesso pellegrinaggio spinge a desiderare che gli stessi acat- tolici si uniscano ai pellegrini verso Roma:

«Oh se compagni di viaggio si aggregassero a voi e insieme con voi prendes- sero il cammino di questo sacro pellegrinaggio, loro che un tempo erano no- stri figli, e ora sono disertori e transfughi, loro i cui progenitori, al tempo dei nostri predecessori, i documenti più antichi testimoniano che numerosissimi da ogni popolo e nazione convenivano per questa sacra celebrazione giubila- re» (1725).

Le stesse opere del giubileo sono chiamate a rendere vigili le coscienze degli acattolici:

«Si sveglino almeno, vedendo gli esempi della vostra fede e della vostra de- vozione, e alfine pensino seriamente che saranno inescusabili presso il divi- no giudice se continueranno a trascurare le ragioni loro offerte per ricono- scere la verità» (1750).

Pio XI porrà, tra i frutti sperati del giubileo e fra le intenzioni personali per le quali i fedeli sono chiamati a pregare per acquistare l’indulgenza, il ritorno, se non di tutti, di molti almeno dalle Chiese separate da Roma all’unico ovile di Cristo (1925). L’invito agli acattolici cambia registro con la Bolla di Paolo VI per il 1975. Qui non vi è più un invito esplicito al ritorno alla Chiesa cattoli- ca, bensì la sottolineatura di una duplice dimensione del giubileo. La prima attiene alla riconciliazione fra i cristiani [christiano- rum reconciliationem], definita «uno degli scopi centrali dell’Anno Santo». Non poteva d’altronde essere diversamente, considerato che gli argumenta di quell’Anno Santo, proposti dal Pontefice, erano il rinnovamento e la riconciliazione. Anche se viene ribadito chiara- mente che il giubileo è un’istituzione cattolica [quem catholica Eccle- sia sibi in consuetudines suas ac mores adscivit] 53, il rinnovamento che in esso si è chiamati a vivere (per parte cattolica), sarà «a servi- zio della causa dell’unità dei cristiani». L’altra sottolineatura attiene all’invito rivolto ai membri (pastori e fedeli) di tutte le Chiese, «anche di quelle che non sono in piena co-

53 Già nella Bolla per l’anno 1600 si faceva riferimento al giubileo con l’espressione «antiquissimo Ro- manae Ecclesiae instituto». 150 G. Paolo Montini munione con la Chiesa cattolica [earum etiam quae cum Romana Ec- clesia non omnino communicant][…] a partecipare, almeno spiritual- mente, a questa mensa della grazia e della redenzione, dove Cristo stesso si offre a noi come maestro di vita». È la prima volta che un si- mile invito è rivolto a coloro che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica. Certo, l’invito è caratterizzato dal fatto che si trova in chiusura di documento ed è limitato alla partecipazione animo [= spi- rituale], senza alcuna specificazione della modalità concreta di parte- cipazione riservata ai fratelli separati. Non si è lontano dal vero rite- nendo che l’ipertrofia di motivazioni, intenzioni, argumenta, frutti del giubileo e la conseguente loro (reale o apparente) separazione dal - l’essenza del giubileo (l’indulgenza), abbia permesso l’invito a una va- sta partecipazione, anche al di là dell’indulgenza giubilare in senso stretto. Per questo probabilmente Paolo VI nello stesso passo potrà estendere l’invito «addirittura anche a coloro che credono in Dio». Più preciso e incisivo appare in quest’ultimo passaggio Giovan- ni Paolo II nella Bolla per l’anno 1983. Pur condividendo con Pao- lo VI l’idea che «la celebrazione dell’anno giubilare concerne princi- palmente [praecipue] i figli della Chiesa che condividono integral- mente la sua fede in Cristo redentore e vivono in piena comunione con lei», individua alcuni punti della dottrina della redenzione (si trattava infatti dell’Anno Santo straordinario della Redenzione) con- divisi da tutti coloro che credono in Cristo. Su questa base può poi «auspicare con trepida speranza un reciproco incontro di intenzio- ni»: è questa una prima partecipazione possibile dei fratelli separati al giubileo; «gioire nel sapere che molti di loro si preparano a cele - brare que st’anno […] augurando successo alle loro iniziative»; «spe- rare che dalla ravvivata esperienza di quest’unica fede [nella reden- zione] anche nell’anno giubilare si affretti il tempo della indicibile gioia dei fratelli che vivono insieme e ascoltano la voce di Cristo nel suo unico gregge, con lui unico e supremo pastore». Nessun accenno più viene fatto a coloro che credono in Dio.

Il significato del giubileo Paolo VI, nella Bolla per il 1975, dopo un breve excursus sulle origini e sulla storia del giubileo, rilevava la continuità e la vitalità della istituzione giubilare. Ciò che il Pontefice intendeva dire era che il giubileo si era bene adattato a ogni epoca della storia della Chiesa [comprobetur eam ad quamvis aetatem salubriter pertinere]. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 151

Questo certo dipende dal fatto che la conversione personale, in- tesa nel senso di richiesta di perdono dei peccati e di remissione di ogni conseguenza degli stessi peccati perdonati, ha un carattere pe- renne e universale, in dipendenza dall’assolutezza della salvezza cui ciascuno in ogni epoca tende. Ma dipende anche dal fatto che il giubileo è strutturalmente le- gato a Roma, attraverso l’opera penitenziale della visita alle basiliche patriarcali, e in modo peculiare alla basilica di San Pietro. Ciò crea un legame strutturale fra l’acquisto dell’indulgenza giubilare e il rife- rimento a Pietro, al primato del Romano Pontefice, al principio (visi- bile) di unità della Chiesa, alla Chiesa intesa come universale e catto- lica, al cuore della Chiesa e dell’appartenenza a essa. Questo significa che l’acquisto dell’indulgenza giubilare porta inevitabilmente e necessariamente a condividere le esigenze eccle- siali universali che la Chiesa in quell’anno giubilare vive come pro- prie. L’identità del giubileo è il legame con Pietro, con la pietra fon- dazionale della Chiesa e pertanto la sua identità sta non già in un da- to perennemente identico e costituito una volta per sempre, quanto piuttosto nella rinnovata unità con la Chiesa, attraverso il legame col suo centro. Ciò significa che le intenzioni del Romano Pontefice, la sua an- sia pastorale, le urgenze pastorali e apostoliche, la sua conduzione universale quotidiana e pastorale della Chiesa entrano a far parte del giubileo. Il giubileo è una manifestazione della Chiesa universale, e della Chiesa universale come Chiesa viva e vivente, con un contenu- to e una storia in cui inserirsi. L’unità della Chiesa è il contenuto sempre identico del giubileo e l’esigenza di sempre mutevoli contenuti del giubileo stesso, secon- do il procedere nella storia della stessa Chiesa. Tale impostazione, necessaria per comprendere il giubileo, e- merge da più elementi presenti nelle Bolle di indizione.

Il richiamo insistente a Pietro Il riferimento giubilare a Pietro si trova anzitutto nella primige- nia indicazione della basilica di San Pietro in Roma come chiesa da visitare per ottenere l’indulgenza 54; ma anche nell’implicito, precoce-

54 Cf M. MACCARRONE, Il pellegrinaggio…, cit., pp. 363-429. 152 G. Paolo Montini mente esplicitato e poi sempre ribadito ruolo dei successori di Pie- tro come custodi e dispensatori delle indulgenze.

«Il tesoro [dei meriti] non è stato riposto nel fazzoletto né nascosto sottoter- ra, ma è stato affidato perché fosse dispensato da San Pietro, che apre e chiude il cielo [coeli clavigerum], e dai suoi successori, suoi vicari qui in ter- ra, per la salvezza dei fedeli» (1350) 55.

Altro elemento è il diretto rapporto fra Pietro e la retta profes- sione di fede su cui si fonda la Chiesa come una:

«[La celebrazione giubilare] sembra davvero nata per ispirazione divina [di- vino consilio], per fare memoria dell’incarnazione […] anche attraverso il convergere unanime di tutti i cristiani alla Sede di Pietro e alla pietra della fede, come i figli al proprio padre, le pecore al sommo pastore; tanto più in tal modo appare l’unità di un solo ovile e di un solo pastore e riluce più am- piamente lo splendore dell’unica fede, che è rimasta immutata nel corso dei secoli e dei tempi, sempre identica a se stessa, ed è professata senza corru- zione o violazione dai popoli cristiani. Il mondo conosca anche l’unione dei membri al loro capo visibile tanto più stretta attraverso il glutine della carità. E infine sia mostrato tanto più chiaramente lo stesso spirito di unità, attra- verso il quale la sola Chiesa cattolica e il suo corpo è mirabilmente compatto e coagmentato» (1600).

«Unica fra tutte le città Roma è stata scelta da Cristo Gesù, Salvatore del ge- nere umano, per compiti eccelsi e altissimi e consacrata per sé. Qui il domi- cilio dell’impero […]. Qui la Sede del suo vicario […]. Qui la luce della dot- trina celeste […]. Da qui la sorgente […], così che da Cristo stesso dissenta chi dissente dalla fede romana [a Christo ipso dissentiat quicumque a fide Ro- mana dissentiat]» (1900).

La menzione di intenzioni generali per l’anno giubilare Leone XIII manifesta esplicitamente le intenzioni del giubileo:

«Dove infatti guardiamo? Che vogliamo? Naturalmente questo solo: fare gli uomini, tentando il tutto possibile, coscienti della salvezza eterna e che per questo usino i rimedi per i mali dell’anima che Cristo Gesù ha voluto porre nelle nostre mani».

E questa finalità non sta solo iscritta nel ministero apostolico, ma pure e soprattutto nell’attualità [ipsa ratio temporis]. Non che il

55 L’accenno più riservato è forse nella Bolla per l’anno 1975: «Nos ut dispensatores verbi et gratiae re- conciliationis largimur, quantum in Nobis est positum, donum indulgentiae sacri Iubilaei». Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 153 secolo sia sterile di fatti meritevoli. Si tratta piuttosto dei molti cri- stiani che, blanditi dal libertinaggio di opinare e di pensare, corrom- pono il grande dono della fede ricevuta.

«Da qui la noia della vita cristiana e il venir meno diffuso dei costumi; da qui la ricerca spasmodica e inesauribile delle cose sensibili, le preoccupazioni e i pensieri tutti lontani da Dio e fissi alla terra. Da questa fonte a mala pena si può dire quanto danno già ne venne ai principi fondamentali della conviven- za civile» (1900).

Paolo VI giungerà ad attribuire all’Anno Santo, fin dal suo pri- mo annuncio, due temi [argumenta]: il rinnovamento e la riconcilia- zione. Sono temi per il cammino personale di conversione, ma anche per la Chiesa intera e per tutti gli uomini:

«Ci sembra che, a dieci anni dalla fine del concilio Vaticano II, l’Anno Santo possa essere la conclusione di un tempo di riflessione e di riforma e l’apertu- ra di una nuova fase di costruzione teologica, spirituale e pastorale che si sviluppi sulle basi faticosamente gettate e consolidate negli scorsi anni. […] Per il mondo intero questo richiamo al rinnovamento e alla riconciliazione s’incontra con le aspirazioni più sincere alla libertà, alla giustizia, all’unità e alla pace, che vediamo presenti ovunque gli uomini prendono coscienza dei loro più gravi problemi e soffrono delle sventure prodotte dalle divisioni e dalle guerre fratricide» (1975).

Altra sottolineatura à data da Giovanni Paolo II:

«Nella riscoperta e nella pratica vissuta dell’economia sacramentale della Chiesa, attraverso cui giunge ai singoli e alla comunità la grazia di Dio in Cristo, è da vedere il profondo significato [significatio] e la bellezza arcana di quest’anno che il Signore ci concede di celebrare» (1983).

E la riscoperta del sacramento della penitenza costituisce nella Bolla di indizione la mens generale del giubileo straordinario della redenzione: «L’indulgenza [giubilare] non è separabile dalla virtù e dal sacramento della penitenza».

La menzione di intenzioni peculiari del Romano Pontefice Già sopra si è accennato all’invito e poi all’obbligo di pregare se- condo le intenzioni del Romano Pontefice, nel contesto della visita al- le basiliche, per l’acquisto dell’indulgenza. Ma l’attribuzione di inten- zioni specifiche al giubileo non si limita a quella fattispecie. 154 G. Paolo Montini

Il primo esempio di proposta di intenzione particolare del Som- mo Pontefice si può avere forse nella concessione dell’applicazione del giubileo in suffragio delle anime purganti attraverso «un’elemosi - na destinata alla (ri)costruzione [reparatione] della basilica di San Pie tro e deposta nell’apposita cassa [capsa] collocata nella medesima basilica» (1500) 56. È possibile rinvenire un altro esempio nell’appello alle nazioni cristiane alla difesa dell’Europa cristiana contro i turchi:

«In primo luogo però, Noi, con ogni mezzo della pastorale sollecitudine e della paterna carità, chiediamo a voi attraverso lettere e nostri legati e a Dio, autore della pace, attraverso una preghiera continua: Deponete alfine i con- flitti, gravosi per i vostri popoli e luttuosi per la cristianità. Unitevi al Dio di Abramo e, combattendo la battaglia di Dio, volgete le armi verso le schiere immani dei barbari, che premono per terra e per mare sul nobile regno po- lacco e su altre province cristiane» (1675).

Benedetto XIV, nella Bolla per l’anno 1750, indicherà per tem- po un’altra battaglia da combattere, dopo la pace esteriore ormai ottenuta:

«Si deve intraprendere ora un nuovo genere di guerra contro i nemici della nostra salvezza. Da parte di tutti si deve reprimere il libertinaggio dell’opina - re e dell’operare [Cohibenda est ab omnibus opinandi, agendique licentia], porre freno alla lussuria e alla superbia, bloccare la cupidigia degli iniqui gua- dagni, eliminare ogni immondezza, riconciliare le inimicizie, abolire gli odi».

Da Pio XI in avanti diverrà poi abituale che il Pontefice riveli nel- la Bolla di indizione la propria intenzione peculiare, cui chiede che i fedeli si uniscano in preghiera nell’acquisto dell’indulgenza giubilare:

«La pace dev’essere ristabilita, non quella dei trattati scritti sulla carta [non tam tabulis inscriptam], ma quella degli animi […]; gli acattolici tutti tornino alla vera Chiesa di Cristo; la situazione palestinese [res Palaestinenses] si evolva e si risolva in modo in cui lo richiedono le sacrosante pretese dei cat- tolici» (1925).

Nel 1950 queste intenzioni riguardano la conversione persona- le; la fedeltà di tutti a Cristo e alla sua Chiesa; il rispetto dei sacro-

56 L’applicabilità delle indulgenze in genere ai defunti era già stata ammessa, seppur non concordemen- te e ufficialmente, dal secolo XIII, con l’avallo anche di grandi teologi (cf H. VORGRIMLER, Buße…, cit, p. 208). La sua introduzione nell’ambito giubilare accrebbe il pericolo di strumentalizzazioni economi- che dell’avvenimento giubilare, come mostra la stessa impostazione della Bolla per l’anno 1500, la pri- ma che preveda esplicitamente tale applicabilità. Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 155 santi diritti della Chiesa; il ritorno all’obbedienza al vangelo di tutti coloro che se ne sono allontanati; la pace, soprattutto in Palestina [in sacris Palaestinae locis]; la pace sociale. «Infine le moltitudini possano conseguire dal proprio lavoro il necessario per vivere e dalla generosità e carità di chi ha maggiori beni ricevano gli aiuti ne- cessari e opportuni» (1950).

Anche Paolo VI non rinuncia a esprimere alcune mete che, nel contesto degli argumenta del giubileo (rinnovamento e riconciliazio- ne) e secondo lo spirito del Concilio, gli stanno particolarmente a cuore [Nobis peculiari ratione cordi sunt]: l’evangelizzazione (legata anche all’argomento affrontato dall’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, tenutasi nell’imminenza dell’Anno Santo); una revisione, a dieci anni dal Concilio, per trovare nella Chiesa un equilibrio fra tradizione e rinnovamento; la promozione dell’apostolato di ambien- te e di gruppo, specialmente nel mondo del lavoro, della cultura e tra i giovani; i metodi della catechesi e della predicazione, anche in rela- zione all’uso dei mezzi di comunicazione (1975). Seppur nell’oltremodo specifico contesto della preghiera giubi- lare secondo le intenzioni del Romano Pontefice, Giovanni Paolo II annota le due sue proprie intenzioni: l’annuncio missionario a tutti i popoli e che «in ogni nazione i credenti in Cristo redentore possano professare liberamente la propria fede».

La raccomandazione di un’adeguata preparazione per il giubileo Già nel costante richiamo al pentimento e alla confessione (sa- cramentale) è contenuto l’avvertimento che il giubileo ha bisogno di un’adeguata preparazione. Ben presto però le Bolle richiedono espli- citamente tale preparazione, che assume poi un carattere di conver- sione più comunitario che strettamente individuale, per l’acquisizione dell’indulgenza per se stessi. «Prepari [Praeparent] ciascuno il suo cuore per il Signore e si sforzi ciascu- no di mutare in meglio i propri atteggiamenti [mores]. Si astenga ciascuno dalle opere cattive [malefactis]; dia soddisfazione al Signore attraverso il do- lore del pentimento, l’umiltà dovuta e il sacrificio di un cuore contrito, attra- verso l’elemosina e il pellegrinaggio [cooperantibus eleemosynis et peregrina- tionibus]» (1450).

Le Bolle dal 1600 al 1725 invitano con espressioni pressoché identiche – ma che variano di giubileo in giubileo per particolarità 156 G. Paolo Montini aggiunte o tolte o modificate (i brani potrebbero essere letti sinotti- camente) – a opere peculiari che risultano preparatorie al giubileo stesso e che sono raccomandate in vista proprio dell’Anno Santo:

«Anche se sempre [si unquam alias], ora in modo particolare [nunc potissi- mum] sono da rigettare per Cristo ire, risse, conflitti e odi inveterati; ora so- prattutto conviene che i servi abbiano misericordia dei loro pari, perché il Si- gnore di ogni clemenza rimetta loro ogni debito; ora sono in modo peculiare da lavare tutte le impurità della carne […]. Infine sono da togliere di mezzo i furti, le rapine, gli omicidi e gli adulteri, insomma ogni peccato» (1600).

La Bolla per l’anno 1875 invita i vescovi a porre rimedio «al gra- vissimo crimine della bestemmia» e alla violazione dei giorni di pre- cetto, nonché dei precetti del digiuno e dell’astinenza; a interessarsi della disciplina del clero, nonché alla sua formazione, come a quella della gioventù.

La descrizione dei frutti del giubileo Certamente al primo posto sta la conversione personale:

«I frutti dell’anno santo e spirituale del nostro giubileo sono anzitutto quelli fecondissimi della liberazione [absolvuntur] delle anime, redente dal sangue di Cristo, dal giogo di ferro della schiavitù del diavolo, dal tetro carcere e dalle catene dei peccati attraverso l’efficacia divina dei sacramenti; l’ammis - sione, dopo la remissione dei debiti e delle pene, alla figliolanza divina, all’e - redità celeste e al possesso del paradiso; e moltissimi altri benefici che rice- vono da Dio» (1600).

Questa conversione non è vista solo nel suo effetto personale, ma anche nelle sue ripercussioni benefiche a livello pubblico. Pio IX trae dagli stessi motivi sociali o pubblici che impedirono la celebrazione del giubileo nel 1850 le ragioni per indire l’Anno Santo del 1875:

«Considerando nel nostro animo i molti mali che affliggono la Chiesa; i nu- merosi tentativi ostili di estirpare dagli animi la sua fede in Cristo, di cor- rompere la sana dottrina e di propagare il virus dell’empietà; i molti scandali cui sono sottoposti coloro che credono in Cristo, la larga corruzione dei co- stumi e la turpe eversione dei diritti umani e divini, talmente diffusa e noci- va, che giunge a sciogliere nelle coscienze degli uomini lo stesso buon sen- so; e considerando che in così grande congerie di mali ancora più grande dev’esserci il dovere per il nostro ministero apostolico di difendere e instau- rare la fede, la religione e la pietà; di far crescere e promuovere lo spirito di preghiera; di spingere chi erra alla penitenza interiore e all’emendazione dei costumi; di liberare dai peccati, che hanno meritato l’ira di Dio, con le opere Il giubileo nelle Bolle pontificie di indizione 157

sante (frutti tutti questi cui principalmente si dirige la celebrazione del giubi- leo massimo), ebbene abbiamo pensato che il popolo cristiano non dovesse essere privato del giubileo» (1875).

Pio XI procede oltre nel definire i rapporti tra la conversione personale che il giubileo promuove e il bene pubblico:

«Che cosa è più adatto [conducibilius] a congiungere tra loro uomini e popo- li dell’ingente numero di pellegrini che confluiscono da ogni dove a Roma, quale seconda patria delle genti; insieme convengono al Padre comune; con- giuntamente professano la medesima fede condivisa; insieme tutti accedono alla santissima eucaristia, fonte di unità; sono intrisi e aumentano lo spirito di carità, che è nota caratteristica dei cristiani?» (1925).

Allo stesso modo Pio XII: «Se infatti gli uomini ascoltassero questa voce della Chiesa, se si convertisse- ro dalle cose terrene che passano a ciò che rimane per sempre, allora si avreb- be senz’altro quel desiderato rinnovamento interiore, da cui sarebbero confor- mati ai precetti cristiani e al cristiano afflato non solo i costumi privati, ma an- che quelli pubblici. Quando così un modo retto di comportarsi muove e dirige sinceramente e effettivamente le menti dei singoli, allora necessariamente ne consegue che una nuova forza e impulso pervadano tutta la compagine socia- le, che è richiamata a un ordine sociale migliore e più felice» (1950).

Paolo VI porrà in modo peculiare tra i frutti dell’Anno Santo «un rassodamento della coscienza sociale in tutti i fedeli e nella cer- chia più vasta di tutti gli uomini» 57, nonché «un nuovo incremento delle vocazioni per i vari ministeri ecclesiali – specialmente per il presbiterato – e per la vita religiosa» (1975).

Conclusione

«Il giubileo romano dell’anno 1300 rappresentò l’inizio e il modello dei giubi- lei che seguirono […], rivelando una continuità e vitalità che han sempre confermato l’attualità della veneranda istituzione» (1975).

L’elemento che emerge come centrale nel giubileo è il riferi- mento petrino: è sulla tomba dell’apostolo che si lucra l’indulgenza,

57 Con accenti insolitamente solenni per lo specifico contesto («Ut beati Petri successor et caput Ecclesiae, quae praeest coetui caritatis»), Paolo VI indica due realizzazioni particolari: fa anzitutto riferimento alle cosiddette microrealizzazioni, «così rispondenti allo spirito della carità evangelica»; quindi incoraggia sforzi più impegnativi per la giustizia e il progresso dei popoli e rinnova l’appello a instaurare nel mondo un ordine migliore di rapporti umani e sociali, riferendosi in modo peculiare ai paesi in via di sviluppo. 158 G. Paolo Montini ossia la piena riconciliazione guadagnata da Cristo sulla croce; è il successore di Pietro che dispensa dal tesoro della Chiesa, Gesù Cri- sto, le grazie necessarie per la salvezza; è dalla pietra fondamentale della Chiesa che viene l’invito al rinnovamento comunitario.

«Roma e il giubileo: due realtà che si richiamano e si illustrano reciproca- mente! Roma si riflette nel giubileo e il giubileo dice riferimento alla realtà di Roma. La celebrazione ripropone la fede in Gesù Cristo annunciata e testi- moniata qui dall’apostolo Pietro» 58.

Il sapiente connubio fra tradizione e innovazione, che l’istituzio - ne giubilare ha dimostrato nel corso dei secoli, è basato sulla saldez- za di quel riferimento.

G. PAOLO MONTINI via Bollani, 20 25123 Brescia

58 GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione durante la visita in Campidoglio, 15 gennaio 1998, in «L’Osservatore Romano», 16 gennaio 1998, 4-5. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 159-177 Le indulgenze di Andrea Migliavacca

Introduzione L’avvicinarsi del giubileo del 2000 e il cammino di preparazione per l’inizio del terzo millennio di storia cristiana offrono l’occasione per studiare le diverse componenti e caratteristiche della celebrazio- ne giubilare. L’istituto delle indulgenze è sicuramente uno degli aspetti tipici del giubileo e, come osserva Giovanni Paolo II nella Bolla Aperite por tas Redemptoris del 6 gennaio 1983, il dono delle indulgenze è «proprio e caratteristico dell’Anno Santo». Il dono dell’indulgenza nel giubileo aiuta a ravvivare la coscienza della redenzione e la rinnovata scoperta dell’amore di Dio e del mistero pasquale di Cristo. La celebrazione del prossimo anno giubilare, dunque, ci offre l’occasione per approfondire questo tema delle indulgenze. Potremmo dire che esso è un tema “scottante”: non occupa grande spazio nella normativa della Chiesa, ma viene spesso presen- tato come terreno di confronto o scontro. Se ne parla all’interno del dialogo ecumenico, o meglio si preferisce non parlarne, ma anche in ambito cattolico è un tema che si preferirebbe relegare al passato, quasi fosse una pratica pericolosa, frutto di una teologia desueta e poco conforme alla rivelazione biblica; un tema sul quale occorre “difendersi”, dimostrandone la bontà e l’efficacia. Accingendoci a studiare questo argomento si provano queste difficoltà, quasi un ti- more a parlare “ancora” di indulgenze. A fronte di queste difficoltà, però, il magistero non manca di sottolineare la bontà e l’utilità di questa prassi, soprattutto in occasio- ne del giubileo. 160 Andrea Migliavacca

Le indulgenze nella storia: alcuni cenni sommari La storia della pratica delle indulgenze nella Chiesa s’accompa - gna alla storia del giubileo. La parola “giubileo”, nonostante le sue origini bibliche prevalentemente sociali, nel cristianesimo occidenta- le viene interpretata come liberazione dai peccati personali. Isidoro di Siviglia, per esempio, ritiene che tale interpretazione cristiana del giubileo, cioè come perdono perfetto delle colpe, sia un superamento della concezione anticotestamentaria. Al tempo del pri- mo giubileo, promulgato da Bonifacio VIII nel 1300, la coscienza dei fedeli lo intende proprio secondo questa interpretazione cioè come occasione per il perdono delle colpe. Da questa visione nasce la con- cessione del Papa, a coloro che pentiti e confessati, per un certo pe- riodo visitino devotamente le basiliche di San Pietro e San Paolo, di un perdono «pienissimo» dei peccati 1. Tale offerta di perdono viene definita e descritta con una diversità di termini, indistintamente uti- lizzati: remissione, perdono, indulgenza. Solo successivamente il ter- mine “indulgenza” verrà riservato a una forma particolare dell’aiuto che la Chiesa offre ai fedeli per ottenere la salvezza, forma la cui im- portanza cresce nella celebrazione dei vari Anni Santi.

Le indulgenze nel medioevo Nell’epoca medioevale la pratica delle indulgenze va compresa nel quadro della disciplina penitenziale, di cui costituisce una modifi- ca, un’attenuazione. All’inizio del medioevo è molto forte la persuasione che il peni- tente debba riparare non solo i danni recati ai fratelli e soddisfare al- l’offesa fatta a Dio, a causa dei propri peccati, ma cancellare, in que- sta vita, tutta la pena dovuta per il peccato, anche dopo il perdono sa- cramentale. Per ogni peccato è già preventivato il castigo che il confessore deve imporre come penitenza, che si concretizza poi in digiuni, pre- ghiere, pellegrinaggi, elemosine ecc. È la cosiddetta e conosciuta prassi della “penitenza tariffata”. Quando i penitenti non possono soddisfare le penitenze impo- ste, anche per ragioni plausibili, i pastori della Chiesa possono com- mutare la soddisfazione imposta con altre opere buone (spesso lega-

1 BONIFACIO VIII, Bolla Antiquorum habet, 22 febbraio 1300 (DS 868). Le indulgenze 161 te al bene comune, come la costruzione di strade o di chiese, la par- tecipazione alla crociata). Tali opere concrete diventano alternative con le quali commutare la soddisfazione imposta dal confessore. Questa prassi dà presto origine ad abusi, contro i quali si pronuncia il concilio ecumenico Lateranense IV (cf DS 819). Gli abusi consisto- no nello sfruttare tali commutazioni per scopi di lucro e per indurre i fedeli a fare opere buone a cui si è interessati; inoltre si omette di ammonire i peccatori che una condizione necessaria per tali commu- tazioni o indulgenze è la sincera conversione del cuore. Tali abusi si moltiplicheranno quando s’aggiungerà anche la prassi delle indul- genze per i defunti. È nell’epoca della Scolastica, però, che la dottrina sulle indul- genze ha il suo sviluppo e la sua sistemazione per opera di grandi dottori della Chiesa come sant’Alberto Magno, san Bonaventura, san Tommaso d’Aquino. L’indulgenza viene presentata come

«una remissione o un alleggerimento della pena temporale, dovuta per i pecca- ti attuali, rimasta dopo l’assoluzione sacramentale, concessa prudentemente dal legittimo prelato della Chiesa per un compenso con la sovrabbondanza delle pene sofferte indebitamente dai giusti, tratta dal tesoro della Chiesa» 2.

Le indulgenze nell’epoca tridentina L’epoca tridentina è preceduta dalla riflessione teologica sul si- stema delle commutazioni delle penitenze e delle indulgenze: la teo- logia si chiede come sia possibile che l’autorità ecclesiastica possa abolire il debito della pena dovuta ai peccati, soprattutto fuori del sa- cramento della penitenza. Tale dottrina si elabora gradualmente a partire dalla fine del XIII secolo e soprattutto in quello successivo, quando viene definita anche in alcuni interventi magisteriali 3; anche la successiva reazione violenta di Lutero, contro la predicazione sulle indulgenze e contro gli abusi ad essa connessi 4, contribusce allo sviluppo della dottrina cattolica. Nel secolo XIV le indulgenze si moltiplicano e vengono facilita- te. Hanno ormai una base dottrinale consolidata nella teologia e pro-

2 ENRICO DI GAND, Quodlibet, 15, q. 14. 3 Bolla di indizione dell’Anno Santo del 1350 (DS 1025-1027); interventi di Sisto IV (DS 1398; 1405- 1407; 1416). Soprattutto con Sisto IV la dottrina venne estesa anche al suffragio dei defunti. 4 LEONE X, Bolla Exsurge Domine, 15 giugno 1520 (DS 1467 s.). 162 Andrea Migliavacca posta dal magistero stesso 5. Soprattutto gli interventi magisteriali mettono in stretta relazione la prassi delle indulgenze alla celebra- zione del giubileo. In questo contesto si chiarifica e si definisce la dottrina cattolica sulle indulgenze 6, recepita e proposta autorevolmente poi al concilio di Trento. Il concilio di Trento condanna e reprime gli abusi, ma difende l’istituzione delle indulgenze 7: viene decretata l’abolizione delle que- stue indulgenziali e si raccomanda la moderazione nella concessione delle indulgenze, per togliere le occasioni di abuso. Successivamente il confronto con i giansenisti sollecita un nuo- vo intervento della Chiesa. Di fronte alle loro obiezioni, il magistero difende non solo la validità e l’utilità di questa istituzione, ma anche la sua spiegazione teologica, così come si era sviluppata nel medioe- vo e come si era fissata al concilio di Trento 8. Questa dottrina sulle indulgenze, da parte del magistero, non presenterà sostanziali modifiche fino al nostro secolo.

Le indulgenze nel secolo XX Dopo il concilio di Trento l’intervento del magistero si preoccu- pa di ordinare, soprattutto giuridicamente, l’istituto delle indulgenze, attraverso le leggi canoniche (punto d’arrivo sarà il Codice del 1917); dopo il concilio Vaticano II l’attenzione è posta a riassumerne e chia- rirne il significato teologico, espresso poi nella riforma di Paolo VI. Nel Codice di diritto canonico del 1917, nella parte sul sacra- mento della penitenza, si dedicano al tema un insieme di canoni (cann. 911-947) che, in modo dettagliato, riportano la dottrina tradi- zionale: le indulgenze consistono nella remissione di fronte a Dio delle pene temporali dovute ai peccati commessi, già rimessi quanto alla colpa, che l’autorità ecclesiastica concede dal tesoro della Chiesa per i vivi come assoluzione e per i defunti come suffragio (can. 911). Segue poi la classificazione delle indulgenze, l’indicazione dell’auto- rità che può concederle e del modo per acquistarle.

5 Cf BONIFACIO VIII, Bolla Antiquorum habet, 22 febbraio 1300; CLEMENTE VI, Bolla Unigenitus, 27 gen- naio 1343; URBANO VI, Bolla Salvator noster Unigenitus, 8 aprile 1389; NICOLÒ V, Bolla Immensa et innu- merabilia, 19 gennaio 1470; ALESSANDRO VI, Bolla Inter curas multiplices, 20 dicembre 1499. 6 Cf LEONE X, Decreto Cum postquam, 9 novembre 1518 (DS 1447-1449). 7 CONCILIO DI TRENTO, Decreto sulle indulgenze, 4 dicembre 1563 (DS 1835). 8 PIO VI, Costituzione Auctorem fidei, 28 agosto 1794 (DS 2640-2643). Le indulgenze 163

Al concilio Vaticano II (9-11 dicembre 1965) si hanno sulla que- stione alcuni interventi molto forti, tra i quali quelli del patriarca Ma - ximos IV e dei cardinali Doepfner e Alfrink, che denunciano gli anti- chi abusi, criticano la terminologia e chiedono una nuova sistematiz- zazione teologica di tutta la materia 9. Non si dedica però uno spazio specifico alla riflessione sulla prassi delle indulgenze, lasciandone l’a nalisi alla Sede Apostolica. Si chiariscono solo alcuni concetti di base, che possiamo presentare secondo la sintesi di Laurentin 10: il Cristo è il solo Salvatore, ma ha affidato alla Chiesa l’esercizio della misericordia verso i peccatori; i cristiani sono solidali, nella comu- nione dei santi; i membri d’uno stesso corpo possono aiutarsi in mil- le modi: con la preghiera, l’intercessione, l’esempio; l’autorità della Chiesa gestisce questo processo vitale di amministrazione della gra- zia di Dio; i segni sensibili (sacramenti e sacramentali) che la Chiesa utilizza, secondo la natura visibile dell’uomo e l’istituzione stessa di Cristo, hanno la funzione di sollecitare, manifestare, incarnare, at- tuare visibilmente l’esercizio della misericordia divina; la missione primaria della Chiesa e dell’autorità stabilita da Cristo è quella di promuovere la conversione reale dei cuori, l’accesso alla vita divina e la comunione con Cristo; l’impegno personale del cristiano penitente è di fondamentale importanza: l’opera dell’indulgenza esprime que- sta conversione del peccatore; la Chiesa prevede l’applicazione delle indulgenze anche per i defunti: l’adempimento del giubileo per i vivi ha un carattere di assoluzione, mentre per i defunti ha carattere di intercessione. La “riforma” conciliare viene raccolta da papa Paolo VI, che pro- mulga il 1° gennaio 1967 la costituzione Indulgentiarum doctrina [= ID] e le successive norme contenute nell’Enchiridion indulgentia- rum, pubblicato il 29 giugno 1968. Con la sua riforma Paolo VI inten- de ri formulare tutta la prassi delle indulgenze, secondo lo spirito e il rinnovamento del concilio Vaticano II, e precisa che «le disposizioni del Codice di diritto canonico [del 1917] e dei Decreti della Santa Se- de riguardanti le indulgenze, che non sono in contrasto con le nuove norme, restano invariate» (ID 12): il testo normativo di riferimento, d’ora in poi, è la costituzione pontificia. L’Enchiridion indulgentiarum verrà successivamente aggiornato al Codice del 1983 e pubblicato di nuovo nel maggio del 1986.

9 Cf Supplemento a «L’Osservatore Romano», 25 settembre 1983, 8-9. 10 R. LAURENTIN, Année Sainte 1983-1984, Paris 1983, pp. 183-184. 164 Andrea Migliavacca

Le indulgenze nel Codice del 1983 11 Dai cenni storici riportati si comprende come l’istituto delle in- dulgenze abbia avuto una sua evoluzione teologica e uno sviluppo graduale negli interventi magisteriali. I documenti a cui fare riferimento per la dottrina attuale sulle indulgenze sono i seguenti: il Codice del 1983 ai canoni 992-997, la costituzione di Paolo VI Indulgentiarum doctrina del 1967 e l’edizio - ne del 1986 dell’Enchiridion indulgentiarum. Nell’esposizione non seguiremo l’ordine cronologico di promul- gazione di questi documenti, in quanto è il Codice del 1983 a riman- dare alle altre leggi peculiari della Chiesa sul tema delle indulgenze (can. 997) e tale rimando si riferisce soprattutto agli altri due docu- menti sopra indicati. Il Codice vigente, come quello del 1917, riporta la normativa sulle indulgenze nella parte riguardante il sacramento della peniten- za (passando però dai trentasette canoni del Codice precedente ai sei del Codice del 1983). Ci troviamo nell’ambito del munus sanctificandi, esercitato da par te della Chiesa, che dispensa e applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. La connessione delle indulgenze con il sacramento della peni- tenza risale all’antica tradizione della Chiesa: le indulgenze si acqui- stano fuori del sacramento della penitenza, ma, come sottolinea la collocazione di questa materia nel Codice, non al di fuori dell’oriz- zonte della penitenza stessa. Le indulgenze dunque esprimono e favoriscono alcune dimen- sioni che sono tipiche della riconciliazione sacramentale. Quest’ulti- ma produce la remissione dei peccati e, almeno in parte, la remissio- ne della pena, mentre le indulgenze producono l’assoluzione dalla pena temporale, rimasta dopo l’assoluzione sacramentale. Il sacra- mento della penitenza sottolinea l’impegno e la cooperazione del pe- nitente (il pentimento, il proposito di non peccare più, la soddisfazio- ne) nel ricevere il perdono di Dio, mentre le indulgenze diventano l’occasione in cui il penitente continua il suo impegno di conversione (le opere per lucrare l’indulgenza). Il perdono sacramentale è offer-

11 Cf V. DE PAOLIS, Il sacramento della penitenza, in AA.VV., I sacramenti della chiesa, Bologna 1989, pp. 223-237; cf anche G. GHIRLANDA, Il diritto nella chiesa, mistero di comunione, Cinisello Balsamo - Roma 1990, p. 299. Le indulgenze 165 to dal ministero della Chiesa e con le indulgenze la Chiesa continua ad aiutare e sollecitare, per i meriti di Cristo e in forza della comu- nione dei santi, il cammino penitenziale dei fedeli, riguardo alla loro purificazione e liberazione dalle conseguenze del peccato. La scelta dunque di mantenere la normativa sulle indulgenze nel contesto di quella riguardante il sacramento della penitenza sem- brerebbe una decisione felice e anche motivata teologicamente. Il Codice si limita, come abbiamo già osservato, a riassumere in soli sei canoni le linee fondamentali della normativa: la definizione di indulgenza (can. 992), alcune distinzioni (can. 993), il modo di lucra- re l’indulgenza (can. 994), l’autorità competente a elargire l’indul- genza (can. 995), il soggetto passivo e le capacità-disposizioni per lu- crare l’indulgenza (can. 996). Nell’ultimo canone riguardante questa materia (can. 997), come si è visto, il Codice rimanda ad altre leggi più specifiche.

La dottrina sulle indulgenze Il canone introduttivo (can. 992) offre i dati teologici utili per comprendere la dottrina sulle indulgenze, autorevolmente ripropo- sta dal magistero, anche attraverso il testo legislativo. L’indulgenza, come già abbiamo osservato, consiste nella «re- missione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimes- si quanto alla colpa». La visione proposta da questo canone presup- pone la dottrina della pena temporale che resta da espiare anche do- po la riconciliazione sacramentale. Secondo questa visione teologica

«il peccato comporta una colpa per l’offesa arrecata a Dio e la pena conse- guente: questa è la pena eterna, la perdita di amicizia di Dio che avviene sol- tanto con il peccato mortale, e la pena temporanea, cioè le scorie che il pec- cato lascia nella persona, come la concupiscenza, il disordine interiore, la tendenza e l’inclinazione al male ecc.» 12.

Il perdono sacramentale rimette il peccato e la colpa, insieme alla pena eterna, ma rimane, almeno in parte, la pena temporale, che si può identificare nell’inclinazione al male e nel bisogno di purifica- zione che rimane nel cuore del peccatore convertito e perdonato. L’indulgenza dunque riguarda questi resti del peccato, chiamati pena

12 V. DE PAOLIS, Il sacramento della penitenza, cit., p. 235. 166 Andrea Migliavacca temporale; in questo senso l’indulgenza aiuta il cammino di conver- sione e di penitenza del cristiano e contribuisce a purificare il cuore da questa realtà chiamata pena temporale. La remissione avviene di- nanzi a Dio, nel senso che ci rende più vicini a lui. La fonte dottrinale immediata di questo canone si trova nel do- cumento papale Indulgentiarum doctrina che esamineremo nel pros- simo punto. Il canone in esame poi indica gli altri elementi che caratterizza- no l’indulgenza. L’indulgenza riguarda un fedele «debitamente disposto e a de- terminate condizioni», precisando nei canoni successivi e nelle leggi a cui rimanda il Codice le caratteristiche del soggetto passivo, qui riassunte in disposizioni e condizioni. A questo proposito il Codice richiama il cammino di conversione e di collaborazione richiesto al fedele che vuole lucrare l’indulgenza. Questa offerta di grazia viene offerta al cristiano tramite il mini- stero della Chiesa che agisce “autoritativamente” e attingendo dal te- soro della Chiesa che è la comunione dei santi e la grazia divina, di- spensata dalla Chiesa stessa. Vedremo che il documento di Paolo VI Indulgentiarum doctrina chiarirà teologicamente il senso della colla- borazione del fedele e che cosa significhi il tesoro della Chiesa da cui si attinge anche la grazia delle indulgenze.

La distinzione tra indulgenze È questo un tema in cui è evidente la riforma operata, dopo il Vaticano II, da papa Paolo VI. Fino alla Indulgentiarum doctrina, così com’era anche nel Codice del 1917, vi erano numerose distinzioni tra le indulgenze. Riportiamo in sintesi la classificazione delle indulgenze se- condo il Codice del 1917, così come viene sistematizzata da padre Cappello 13. Vi è anzitutto un’indulgenza plenaria o totale e una parziale: quella plenaria toglie tutta la pena temporale; quella parziale ne to- glie solo una parte; per l’indulgenza parziale, poi, sono indicati i gior- ni precisi di assoluzione della pena temporale che si sarebbe invece dovuta scontare.

13 Cf F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis. (II) De poenitentia, Roma 1953, pp. 662-666. Le indulgenze 167

Si distinguono poi un’indulgenza personale, immediatamente concessa alla persona fisica o morale; un’indulgenza reale, immedia- tamente connessa a qualche cosa od oggetto; un’indulgenza mista, per cui è richiesta qualche qualità della persona e il possesso o l’uso di qualche cosa; un’indulgenza locale, annessa immediatamente a qualche luogo (per esempio, una chiesa). Esistono poi un’indulgenza perpetua, che dura sempre una volta concessa e una temporanea, concessa solo per un determinato perio- do di tempo (per esempio, un’indulgenza annessa a un altare potreb- be durare sempre oppure solo per un certo periodo di tempo). Altre distinzioni concernono l’indulgenza applicabile ai defunti, cioè solo per i defunti e non per i vivi, o non applicabile ai defunti, cioè solo per i vivi. Infine, un’indulgenza concessa in forma ordina- ria oppure in forma di giubileo; precisa il Cappello che l’indulgenza del giubileo è sempre plenaria. La disciplina vigente semplifica notevolmente la materia, con- servando solo la distinzione tra indulgenza plenaria e parziale e quel- la tra indulgenza per i vivi e per i defunti (cf cann. 993-994). L’indulgenza plenaria, secondo la tradizione, si ha quando la Chiesa offre tanto delle soddisfazioni di Cristo e dei santi quanto ba- sta per supplire tutte le pene temporali dovute ai peccati già perdo- nati di una determinata persona. Ci si potrebbe chiedere per quale ragione, se così è, i fedeli cerchino di acquisire varie indulgenze ple- narie, dato che una di esse è sufficiente a cancellare tutte le pene. Si può trovare una spiegazione sapendo che l’indulgenza cancella vera- mente tutte le pene solamente se il penitente è libero da ogni affetto al peccato, anche veniale. Tale condizione spirituale è difficilmente pensabile nel comune fedele; pertanto l’acquisto di diverse indulgen- ze plenarie si spiega alla luce del cammino di conversione continuo che il cristiano vive, dopo aver constatato di non essere ancora libe- ro da ogni legame con il peccato 14. Circa l’indulgenza parziale notiamo il rinnovamento introdotto nel 1967, quando viene tolta ogni determinazione dei giorni indul- genziati, che ricordavano il legame tra l’istituzione delle indulgenze e una fase sorpassata della disciplina penitenziale, quella della peni- tenza tariffata. Alla luce della riforma, l’indulgenza parziale assume un nuovo significato, stabilendo che con essa si può ottenere una re-

14 Z. ALSZEGHY, Per un ripensamento delle indulgenze, in Supplemento a «L’Osservatore Romano», 25 settembre 1983, 3. 168 Andrea Migliavacca missione di pena temporale, proporzionata al fervore del fedele e al - l’importanza dell’opera compiuta. La distinzione tra indulgenza per i vivi e per i defunti risale ai tempi di Sisto IV: tale distinzione rimane anche nel Codice vigente. L’indulgenza per i vivi viene concessa «a modo di assoluzione»; quel- la per i defunti viene definita «a modo di suffragio». L’indulgenza per i defunti esprime l’intervento della Chiesa che, con la sua autorità, può offrire una soddisfazione oggettivamente degna di essere accet- tata come espiazione ed esprime anche la libertà di Dio nell’esercita- re la sua misericordia verso le anime del purgatorio. Sia le indulgenze per i vivi e sia quelle per i defunti possono es- sere plenarie e parziali.

Autorità competente a concedere le indulgenze A norma del Codice, le indulgenze possono essere concesse soltanto dalla suprema autorità della Chiesa, cioè il Romano Pontefi- ce e il Collegio dei Vescovi unito al Papa (cf cann. 331 e 336). L’auto- rità suprema può concedere tale facoltà mediante un intervento legi- slativo, in forza del diritto, o per speciale concessione da parte del Papa. Il canone specifica che, se non viene indicato diversamente, ta- le facoltà non è delegabile da chi l’ha ricevuta. In concreto l’organo competente a concedere le indulgenze è la Penitenzieria Apostolica, salvo il diritto della Congregazione per la Dottrina della Fede di esaminare quanto riguarda la dottrina dogma- tica circa le indulgenze, come si definisce nell’Enchiridion indulgen- tiarum, al n. 8 delle norme.

Il soggetto passivo delle indulgenze Il canone 996 chiarisce i destinatari delle indulgenze: si può di- stinguere tra capacità a lucrare l’indulgenza e disposizioni per lucrar- le di fatto. La capacità riguarda l’abilità della persona a lucrare l’in- dulgenza; le disposizioni sono gli atti che il fedele deve porre per po- terla di fatto lucrare. La capacità comporta che vi sia una persona battezzata, non scomunicata e in stato di grazia, almeno al compimento delle opere prescritte: persona battezzata perché la Chiesa può esercitare la sua autorità solo su queste persone; non scomunicata perché chi incorre in questa pena viene privato dei mezzi di grazia di cui la Chiesa di- Le indulgenze 169 spone e quindi anche delle indulgenze (cf can. 1331); in stato di gra- zia, perché l’indulgenza non comporta l’assoluzione, ma richiede il pentimento e la conversione del fedele. Quanto alle disposizioni, si richiede l’intenzione di lucrare le in- dulgenze: è sufficiente l’intenzione abituale, quale normalmente è contenuta nella vita cristiana che vuole vivere il vangelo; viene poi ri- chiesto l’adempimento delle opere prescritte. Normalmente le opere richieste sono determinate nella concessione stessa dell’indulgenza e generalmente sono l’adempimento di un’opera spirituale (come la visita di una chiesa, la recita di una preghiera), la confessione, la co- munione e una preghiera secondo le intenzioni del Romano Pontefi- ce. L’Enchiridion indulgentiarum specificherà meglio tutto questo ambito delle opere richieste. Parlando del soggetto passivo delle indulgenze, ci sembra utile sottolineare come il magistero ecclesiastico non solo definisca la ca- pacità e le disposizioni del soggetto che intende lucrare un’indulgen - za, ma indichi, esortando i fedeli, tale esercizio spirituale come rac- comandabile, soprattutto nell’anno del giubileo.

La costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina Il Codice vigente, rimandando alle leggi peculiari in materia di indulgenze (can. 997), allude non solo ai documenti successivi alla promulgazione del testo legislativo, ma anche alle fonti di ispirazione del Codice stesso. In particolare, come abbiamo visto, il documento ultimo e innovativo di riferimento è la costituzione apostolica di Pao- lo VI Indulgentiarum doctrina. Nell’esporre i contenuti di questo documento offriamo, in que- sto articolo, semplicemente una raccolta sintetica dei temi presentati nella costituzione pontificia e della normativa annessa, che completa le disposizioni del Codice. Nella prima parte del documento, Paolo VI presenta la dottrina cattolica riguardo alla pena temporale e alla possibilità dell’assoluzio - ne di quest’ultima tramite l’indulgenza. Si parla del peccato e della pe- na conseguente, della necessità non solo del perdono e della conver- sione, ma anche di reintegrare e riparare i danni arrecati dai nostri peccati. Presentando tale dottrina, il Papa riporta il pensiero tradizio- nale della Chiesa, richiamando, in nota, molti autori patristici e diver- si interventi magisteriali. Si può forse rimanere sorpresi dalle descri- zioni riportate che dipingono le pene dovute al peccato come «pene 170 Andrea Migliavacca inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici» (ID 2). Al di là della terminologia e della modalità di descrizione, dob- biamo, a nostro avviso, cogliere l’affermazione autorevole del magi- stero circa l’esistenza di una pena conseguente il peccato che, per es- sere cancellata, richiede un cammino e un tempo di conversione. Nella seconda parte del documento il Papa descrive la fonte, nella Chiesa, dell’offerta di grazia che viene data anche tramite l’indulgenza: si tratta della «comunione dei santi» e del «tesoro della Chiesa». Afferma il Papa che «il peccato di uno nuoce anche agli al- tri, così come la santità di uno apporta beneficio agli altri» (ID 4). Le indulgenze sono il frutto di una «solidarietà soprannaturale» che le- ga i credenti in Cristo. A questo proposito, vengono ribaditi dal Papa il primato e la centralità di Cristo, da cui ha origine l’offerta di grazia anche delle indulgenze. Riguardo al «tesoro della Chiesa», Paolo VI sottolinea che esso

«non è da immaginarsi come una somma di beni materiali, accumulati nel corso dei secoli, ma come il valore infinito e inesauribile che presso Dio han- no le espiazioni e i meriti di Cristo Signore, offerti perché tutta l’umanità fos- se liberata dal peccato e pervenisse alla comunione con il Padre; è lo stesso Cristo Redentore, in cui sono e vivono le soddisfazioni e i meriti della sua re- denzione» (ID 5).

Nella terza parte il papa presenta il ministero della Chiesa, che è mediatrice di questa grazia di Dio. Delle indulgenze si parla infine nella quarta parte del documen- to pontificio, presentandone il fondamento dottrinale, una sommaria genesi storica, la definizione, la finalità e la possibilità di lucrare le indulgenze in suffragio dei defunti.

«Nell’indulgenza, infatti, la Chiesa, facendo uso del suo potere di ministra del- la redenzione di Cristo Signore, non soltanto prega, ma con intervento autori- tativo dispensa al fedele debitamente disposto il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi, in ordine alla remissione della pena temporale. Il fine che l’autorità ecclesiastica si propone nella elargizione delle indulgenze è non so- lo di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingere gli stessi a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e al bene comune» (ID 8).

In questa parte il Papa ricorda anche che spesso si sono verifi- cati abusi per concessioni non opportune e superflue o a causa di il- Le indulgenze 171 leciti profitti e ribadisce che la Chiesa, biasimando e correggendo ta- li abusi,

«insegna e stabilisce che l’uso delle indulgenze deve essere conservato, per- ché sommamente salutare al popolo cristiano e autorevolmente approvato da sacri Concili, mentre condanna quanti asseriscono la inutilità delle indul- genze e negano il potere esistente nella Chiesa di concederle (CONCILIO DI TRENTO, Decreto sulle indulgenze [DS 1835])» (ID 8).

L’istituto delle indulgenze sottolinea che l’uomo con le sole sue forze non sarebbe capace di riparare il male, mentre mette in luce la misericordia di Dio, che interviene tramite il ministero della Chiesa. Il Papa richiama anche l’importanza delle opere per l’acquisto delle indulgenze: esse esprimono il cammino di conversione e l’impegno a vivere nella carità:

«Le indulgenze, infatti, non possono essere acquistate senza una sincera conversione e senza l’unione con Dio, a cui si aggiunge il compimento delle opere prescritte» (ID 11).

Alla parte fondativa e teologica della costituzione segue quella normativa, nella quale si offrono i criteri della riforma e le norme di riferimento. Dopo aver chiarito che restano invariate le norme del Codice (quello del 1917, allora vigente) e della Santa Sede che non fossero in contrasto con le nuove disposizioni (cf ID 12), si danno i criteri con cui attuare la riforma: stabilire una nuova misura per l’indulgenza par- ziale, apportare una congrua riduzione al numero delle indulgenze plenarie e dare alle indulgenze cosiddette reali e locali una forma più semplice e più dignitosa, abolendone pure il nome (cf ID 12). All’esposizione di questi criteri seguono le norme concrete, di- vise in dodici numeri, ripresi poi dall’Enchiridion indulgentiarum. Per evitare ripetizioni rimandiamo al punto successivo l’esame di queste norme. Dobbiamo rilevare, come osservazione di merito alla presente costituzione, l’abbondanza delle note riportanti i testi biblici, patristi- ci e magisteriali sul tema delle indulgenze, che aiutano a compren- dere la ricchezza dell’istituto in esame. 172 Andrea Migliavacca

L’Enchiridion indulgentiarum L’Enchiridion indulgentiarum vuole dare esecuzione alla norma 13 della costituzione apostolica di Paolo VI, che chiede di rivedere questo strumento alla luce della riforma. Una prima edizione del do- cumento, a cura della Penitenzieria Apostolica, viene fatta nel 1968, rinnovata poi nel 1986, al fine di aggiornarlo con la normativa del nuovo Codice. Dopo alcune note previe, in cui si richiamano alcuni principi fondamentali (che cosa si intenda per «importanti preghiere e ope- re»; il concetto che la messa e i sacramenti non sono «indulgenziati»; la scelta di opere che aiutino il fedele a vivere la carità, lo spirito di penitenza e l’esercizio delle virtù teologali) l’Enchiridion riporta le norme, desunte dalla costituzione Indulgentiarum doctrina e dal Co- dice di diritto canonico. Non ci sembra utile entrare nei contenuti di tutte le norme ri- portate, indichiamo invece semplicemente uno schema della materia esposta: concetto di indulgenza (n. 1); distinzioni (nn. 2-6); soggetto che concede l’indulgenza (nn. 7-15); tempo e luogo di alcune indul- genze (nn. 16-19); soggetto passivo delle indulgenze (n. 20); moda- lità per lucrare l’indulgenza: capacità e disposizioni (nn. 21-29). L’Enchiridion riporta poi tre concessioni generali, che dovreb- bero servire a dare il tono alla vita cristiana di ogni giorno 15. Ognuna delle concessioni generali è accompagnata da alcune annotazioni che ne sottolineano il contesto biblico e magisteriale (in particolare del Vaticano II). Segue un elenco di concessioni riguardanti singole pratiche 16. A queste va aggiunta l’indulgenza parziale annessa all’inno Acathi- stos, inserita nel 1988 (cf AAS 80 [1988] 508-509). Infine l’Enchiridion riporta un breve elenco di invocazioni e il testo della costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina.

15 Prima concessione: si concede l’indulgenza parziale al fedele che, nel compiere i suoi doveri e nel sopportare le avversità della vita, innalza con umile fiducia l’animo a Dio, aggiungendo, anche solo mentalmente una pia invocazione. Seconda concessione: si concede l’indulgenza parziale al fedele che, con spirito di fede e con animo misericordioso, pone se stesso o i suoi beni a servizio dei fratelli che si trovino in necessità. Terza concessione: si concede l’indulgenza parziale al fedele che, in spirito di peni- tenza, si priva spontaneamente e con suo sacrificio di qualche cosa lecita. 16 A titolo di esempio: adorazione della croce, adorazione eucaristica, recita del Credo, culto dei santi, novene, prima messa dei neosacerdoti, recita del rosario mariano, sinodo diocesano, ufficio dei defunti, visita al cimitero, visita delle basiliche patriarcali di Roma, visita pastorale. Le indulgenze 173

Osservazioni conclusive

Una lettura teologica delle indulgenze oggi Per comprendere il significato delle indulgenze, occorre ripren- dere e rileggere la teologia della pena temporale. Alszeghy ritiene 17 che, nella teologia fissatasi a Trento, la difficoltà principale della teo- ria sulle indulgenze sia la netta separazione tra lo stato etico-religio- so della persona e il debito della pena temporale. È certamente un progresso l’aver messo in luce che, finché un uomo si trova in stato di peccato, non può essere liberato dalle pene e che la persona in stato di grazia può essere o non essere ancora rea di pene temporali. È però un limite, secondo il nostro autore, che lo stato di grazia sia identificato come una realtà ontologica, determinata solo dal posses- so di determinate qualità, mentre l’immunità dalle pene temporali è vista solo come uno stato giuridico, determinato dalla soddisfazione data alla “giustizia vendicativa”. La teologia contemporanea raccoglie la tradizione sulla dottrina delle indulgenze, ma in un orizzonte più personalistico che nel pas- sato. Questo significa sottolineare che giustizia e peccato non sono anzitutto realtà ontologiche, ma dipendono dall’orientamento attivo e personale del soggetto (cioè si può essere più o meno induriti nel peccato e più o meno giusti). Anche la pena temporale, secondo Alszeghy, va riletta in questo orizzonte personalistico, per cui il cammino dell’uomo viene letto co- me un itinerario di conversione e di beatitudine nell’incontro con Dio. L’esistenza della pena temporale evidenzia un cammino di con- versione e di avvicinamento a Dio ancora in atto; tale itinerario pro- cede durante l’esistenza terrena e può proseguire dopo la morte nel purgatorio. Il purgatorio dunque, come stato di purificazione, diventa una realtà comprensibile nella fede, in quanto vi sono giusti che hanno un debito di pene temporali e altri che non l’hanno. Questo dipende dal fatto che alcuni hanno sviluppato perfettamente la loro adesione a Dio e altri che, pur amando Dio sopra ogni cosa, non hanno ancora fatto maturare e radicare la loro opzione fondamentale per Dio. Alla luce di questo itinerario personale di conversione compren- diamo il significato delle opere per lucrare l’indulgenza: non un “sa-

17 Z. ALSZEGHY, Per un ripensamento…, cit. 174 Andrea Migliavacca lario” versato per acquistare “automaticamente” un’assoluzione, ma il segno e il mezzo di un cammino di conversione personale. Si deve aggiungere che la necessità di compiere alcune opere per lucrare l’indulgenza va posta insieme all’intervento della Chiesa, che dispensa la grazia aprendo il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi. Tale prospettiva evidenzia che la salvezza, il perdono e la gra- zia sono sempre dono della misericordia e della redenzione operata da Cristo e mai frutto solo dello sforzo personale del penitente. Possiamo rintracciare una sintesi del pensiero teologico e magi- steriale sulle indulgenze in un intervento di Paolo VI per il 750° anni- versario della Porziuncola. Paolo VI spiega il senso delle indulgenze nella prospettiva della tendenza cristiana di riacquistare dopo il pec- cato la santità battesimale. La via verso questa santità è la conversio- ne, la metanoia evangelica. In questa ottica le indulgenze sarebbero un aiuto per procedere nella via della conversione progressiva 18. Sottolinea allora Alszeghy che la prassi delle indulgenze non si sostituisce alla libera e piena conversione del peccatore; ma insieme, aggiungiamo noi, evidenzia anche che questa conversione personale è accompagnata e aiutata dalla grazia stessa di Dio. Questa lettura delle indulgenze, nell’orizzonte di un cammino personale verso la conversione e della misericordia di Dio che ac- compagna tale itinerario, aiuta ad apprezzare e a rivalutare l’istituto delle indulgenze.

Giubileo e indulgenze È di particolare interesse, soprattutto in vista del giubileo del 2000, la relazione che intercorre tra il giubileo e l’indulgenza, anche se va notato che Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Tertio mil- lennio adveniente, del 10 novembre 1994, non accenna alla prassi in esame. Il legame giubileo-indulgenza, comunque, non è in discussio- ne e si può pensare che la mancanza di tale tematica in questo ulti- mo documento pontificio sia dovuta a una particolare attenzione ecu- menica, che il giubileo del 2000 vorrebbe promuovere.

18 PAOLO VI, lettera Sacrosancta Portiuncolae, 14 luglio 1966 (AAS 58 [1966] 631-634): «Le indulgenze non costituiscono un espediente facile per evitare la necessaria penitenza per i peccati, ma offrono piut- tosto un conforto, che i singoli fedeli, umilmente consci della loro debolezza, trovano nel corpo mistico di Cristo, il quale coopera alla loro conversione con la carità, con l’esempio e con la preghiera». Le indulgenze 175

Paolo VI, nella Bolla di indizione dell’Anno Santo 1975, Apostolo- rum limina, del 23 maggio 1974, ripete che la Chiesa

«avvalendosi della sua potestà di ministra della redenzione operata da Cristo Signore, comunica ai fedeli la partecipazione della pienezza di Cristo nella comunione dei santi, fornendo in misura larghissima i mezzi per raggiunge- re la salvezza» 19.

Nella Bolla Aperite portas Redemptori di Giovanni Paolo II, con cui viene indetto l’Anno Santo della Redenzione (1983), è riportato lo stesso testo del predecessore, aggiungendo:

«La Chiesa, dispensatrice di grazia per espressa volontà del suo Fondatore, concede a tutti i fedeli la possibilità di accedere, mediante l’indulgenza, al dono totale della misericordia di Dio, ma richiede che vi sia la piena disponi- bilità e la necessaria purificazione interiore, poiché l’indulgenza non è sepa- rabile dalla virtù e dal sacramento della penitenza. E io confido tanto che con il giubileo possa affinarsi nei fedeli il dono del timore di Dio, dato dallo Spirito Santo che, nella delicatezza dell’amore, li conduca sempre più a evita- re il peccato e a cercare di ripararlo per sé e per altri nell’accettazione delle sofferenze quotidiane come nelle varie pratiche giubilari. Occorre riscoprire il senso del peccato e per giungere a ciò bisogna riscoprire il senso di Dio! Il peccato è, infatti, un’offesa recata a Dio giusto e misericordioso, che richie- de di essere convenientemente espiata in questa o nell’altra vita» 20.

Secondo Giovanni Paolo II il giubileo è

«il tempo particolare in cui la Chiesa, secondo un’antichissima tradizione, rin- nova nell’intera comunità del popolo di Dio la coscienza della redenzione, me- diante una singolare intensità della remissione e del perdono dei peccati» 21.

In questa luce si possono cogliere il senso, la ricchezza della pratica delle indulgenze e anche il suo legame con la celebrazione del giubileo. Questa dottrina conferma quanto la Penitenzieria Apostolica già aveva esposto in un documento del 1973 22, che parlava del «donum in- dulgentiae» elargito ai fedeli in occasione del giubileo, presentato co-

19 AAS 66 (1974) 295. 20 Cf anche GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai sacerdoti in occasione del Giovedì santo 1983, in «L’Osservatore Romano», 28-29 marzo 1983. 21 L. cit. 22 SACRA PENITENZIERIA APOSTOLICA, Documento sull’indulgenza e il giubileo, in «Bollettino dell’Anno San- to» 1973, n. 2, p. 9. 176 Andrea Migliavacca me «ad spiritum confirmandum reconciliationis et renovationis, quae huius Anni Sacri sunt propriae». Si comprende allora che il giubileo è non solo l’invito, ma anche l’occasione per i fedeli di avviare il loro cammino di conversione e di rinnovamento spirituale; in questa luce l’indulgenza è la modalità che la Chiesa offre per vivere tale itinerario di riconciliazione con Dio e con i fratelli. Si potrebbe quasi dire che il giubileo è una indul- genza plenaria: con il giubileo la Chiesa cerca di promuovere e favo- rire opere, preghiere, penitenze che aiutino l’anima a raggiungere una piena disponibilità alla conversione e alla salvezza di Dio. È vero che il giubileo allora è un’indulgenza plenaria come le altre, ma per la solennità dell’annuncio e della celebrazione, così come per il ri- chiamo al pellegrinaggio, alla visita alle chiese e alle catacombe, per la molteplicità di richiami e opere spirituali che offre e domanda, ha quasi una maggiore efficacia. Inoltre il beneficio personale è amplia- to dalla solidarietà di tutta la Chiesa che insieme celebra il giubileo. L’indulgenza che il giubileo ottiene, afferma Laurentin 23, deve essere considerata non come quantità, ma come qualità della vita. In conclusione si può dire che l’indulgenza del giubileo è un’in - dulgenza plenaria che riveste un particolare valore di segno e di mezzo per le speciali condizioni in cui si compiono le pratiche peni- tenziali, che sono pure segni e mezzi per distaccarsi dall’affetto al peccato e raggiungere la purezza di spirito. Il giubileo offre ai fedeli occasioni straordinarie e modi più stimolanti di conversione e di rin- novamento, per raggiungere la piena riconciliazione con Dio e con i fratelli. La Chiesa, anche attraverso l’istituto delle indulgenze, vuole esprimere al massimo la sua volontà di intercedere e di operare tutto ciò che le è concesso dal “potere delle chiavi”, per aiutare i fedeli bi- sognosi di purificazione e di perdono. In questa luce forse è possibile un confronto anche con il mon- do delle Chiese cristiane separate, che con difficoltà comprendono la dottrina sulle indulgenze. Il giubileo del 2000 potrebbe forse di- ventare un’occasione di incontro proprio su questo tema, riscopren- do il significato dell’indulgenza, purificato dagli abusi del passato, compreso nel contesto biblico della conversione e della riconciliazio- ne con Dio, mediante il ministero della Chiesa.

23 Cf R. LAURENTIN, Année Sainte…, cit., p. 186. Le indulgenze 177

La normativa sulle indulgenze È utile sottolineare lo sforzo del magistero di riformare e adat- tare la normativa sulle indulgenze alla prospettiva teologica in meri- to, definita in generale al Vaticano II e in modo più specifico con la costituzione apostolica di Paolo VI Indulgentiarum doctrina. Il Codice di diritto canonico e l’Enchiridion indulgentiarum han- no cercato di tradurre nella normativa l’antica tradizione della Chie- sa sulle indulgenze, cercando di vigilare sugli abusi e precisando le caratteristiche del soggetto attivo e passivo delle indulgenze, insie- me alla modalità per lucrare le stesse. L’accostamento a queste norme, soprattutto l’abbondanza di con cessioni raccolte nell’Enchiridion, mette in luce l’intenzione della Chiesa non solo di riaffermare, ma anche di esortare a riscoprire e vi- vere la prassi delle indulgenze, soprattutto in occasione del giubileo. Sarà proprio l’attenzione alla normativa e la sua fedele osser- vanza che potranno aiutare a evitare gli abusi e a vivere al meglio, cioè in tutta la ricchezza teologica, in conformità al vangelo e alla tra- dizione della Chiesa, la prassi salutare delle indulgenze. Così Giovanni Paolo II si rivolgeva ai vescovi della Baviera, in visita ad limina, nel febbraio del 1983:

«Le indulgenze che furono all’origine della divisione nella cristianità […] nul l’altro vogliono essere che una risposta concreta a questa verità fonda- mentale della fede ricordata dal concilio di Trento con queste parole: ogni vi- ta cristiana è un continuo cammino di penitenza».

La riflessione teologica, gli insegnamenti del magistero e la nor- mativa vigente sulle indulgenze esprimono e offrono al credente una possibilità in più per vivere questo suo cammino di penitenza, di con- versione e di incontro con Dio. Ancora una volta la comprensione più vera di queste norme, all’interno della Chiesa e quindi del diritto canonico, è alla luce di quella salus animarum, che nella Chiesa è sempre suprema lex.

ANDREA MIGLIAVACCA via Menocchio, 26 27100 Pavia Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 178-195 Le opere del giubileo di Alberto Perlasca

Fin dalla sua istituzione, l’evento giubilare è collegato con la pra tica di determinate opere. Il giubileo, di fatto, prende origine dal- la pratica di venerare l’antica icona romana della “Veronica” (“vera icona”) come condizione per conseguire una “pienissima remissione dei peccati”, cioè l’indulgenza plenaria dei peccati. In occasione dell’indizione di ogni giubileo, sia ordinario sia straordinario, sono state date indicazioni in ordine alle pratiche ne- cessarie per beneficiare (lucrare) dell’indulgenza. Ciò avverrà, certa- mente, anche per il grande giubileo del 2000. Finora, tuttavia, non sono state date indicazioni in proposito. Lo scopo di queste brevi no- te è semplicemente quello di evidenziare il significato teologico e giuridico che, nel corso dei secoli, hanno assunto le opere tradizio- nalmente legate all’evento giubilare. Da ultimo, si cercherà di lancia- re uno sguardo sul prossimo giubileo.

Pellegrinaggio a Roma Il pellegrinaggio è una delle principali manifestazioni dell’homo religiosus. Nella Bibbia il profilo antropologico per eccellenza è infat- ti quello dell’homo viator 1. Questa pratica comporta uno spostamen- to e una “rottura” con il quotidiano per favorire, in un luogo e in un tempo determinato, l’incontro con Dio, nella convinzione che ciò possa positivamente influire sulle vicende della vita 2. La pratica del

1 Cf G. RAVASI, Abramo e il popolo di Dio pellegrino, in «Communio» 25/3 (1997) 18. 2 Cf E. GUERRIERO, Editoriale, ibid., p. 5. Le opere del giubileo 179 pellegrinaggio è una costante che si ritrova pressoché in tutte le tra- dizioni religiose 3. Per la cristianità medioevale il pellegrinaggio a Roma rivestiva un significato particolare. Lì, infatti, risiedeva il Papa, dispensatore dell’assoluzione dei peccati più gravi. Questa prassi prese consisten- za soprattutto dopo il 640, quando Gerusalemme, conquistata dai musulmani, divenne difficilmente raggiungibile. L’indizione nel 1300 del primo “anno centenario” (annus centesimus), per opera di Bonifa- cio VIII, accrebbe il rilievo del pellegrinaggio a Roma, facendogli as- sumere una dimensione e un significato più spirituali 4. Nel 1343 la celebrazione dell’anno centenario, che inizialmente doveva cadere ogni cento anni, fu portata da Clemente VI a cinquan- ta, per dare a tutti la possibilità di lucrare l’indulgenza giubilare al- meno una volta in vita. Con la Bolla Unigenitus Dei Filius il Papa in- disse il Giubileo del 1350, concedendo l’indulgenza plenaria a tutti coloro che si fossero recati presso le basiliche degli apostoli Pietro e Paolo nonché presso la basilica di San Giovanni in Laterano. Que- st’ultima fu una novità rispetto al giubileo del 1300. Nel 1390, Urbano VI introdusse una nuova cadenza giubilare: ogni trentatré anni, in ricordo della vita di Gesù. La Bolla di indizio- ne, Salvator noster Unigenitus, includeva, tra le basiliche da visitare, anche quella di Santa Maria Maggiore. L’anno santo del 1450, promulgato da Niccolò V con la Bolla Im- mensa et innumerabilia, vide la presenza a Roma di un numero straordinario di pellegrini, tanto che si registrarono nella città diversi incidenti dovuti al sovraffollamento. Tra i provvedimenti adottati per garantire una permanenza dignitosa e sicura dei viaggiatori, ci fu una riduzione dei giorni prescritti per la visita ai luoghi sacri della città al fine di ottenere “tutta la perdonanza”: da quindici a cinque. Paolo II, con la Bolla Ineffabilis providentia, ridusse la cadenza giubilare da trentatré a venticinque anni, lasciando immutate le ope- re da compiersi per lucrare l’indulgenza. Nel 1472, con la Bolla Salvator noster, papa Sisto IV confermò la cadenza giubilare ogni venticinque anni. Con la Bolla di indizione

3 Sul punto, si veda E. SAUSER, Pellegrinaggi, in Mysterium salutis, VI, Brescia 1976, pp. 272-279. 4 Cf A. VERMEERSCH, Adnotationes, in «Periodica de re morali canonica et liturgica» 22 (1933) 98*, 108*- 113*, 6-13. Per la parte storica si possono utilmente consultare: M. IMPAGLIAZZO, Gli anni santi nella sto- ria, Città del Vaticano 1997; A. GALUZZI, Gli anni santi nella storia della Chiesa, in AA.VV., Tertio Millen- nio Adveniente, a cura del Consiglio di Presidenza del Grande Giubileo del 2000, Milano 1996; M. MAR- ROCCHI, I Giubilei. Origini e prospettive, Milano 1997. 180 Alberto Perlasca del Giubileo del 1475 Quemadmodum operosi il Pontefice, inoltre, dichiarò la sospensione, durante il periodo giubilare, di tutte le indul- genze plenarie fuori Roma, al fine di favorire il concorso dei pellegri- ni a Roma. Non pare, tuttavia, che il provvedimento del Papa abbia sortito il risultato desiderato 5. Alessandro VI indisse il giubileo con la Bolla Inter curas multi- plices. Egli inaugurò solennemente l’Anno Santo aprendo una Porta Santa nella basilica di San Pietro. Il passaggio attraverso la Porta Santa divenne, da allora, il centro della pietà giubilare e il culmine del pellegrinaggio a Roma. Il giubileo del 1550, indetto da Giulio III con la Bolla Si pastores ovium, vide una netta ripresa del pellegrinaggio a Roma. A partire da questo Anno Santo, l’ospitalità dei romani verso i pellegrini trovò modo di esprimersi nell’attività della Confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini e dei Convalescenti. Gregorio XIII, con la Bolla Dominus ac Redemptor noster, indis- se il giubileo del 1575. La Bolla di indizione dispose l’indulgenza ple- naria a tutti coloro che, pentiti e confessati, avessero visitato le quat- tro basiliche maggiori per trenta giorni se romani, per quindici se fo- restieri. Urbano VIII, con la Bolla Omnes gentes, indisse il giubileo che si sarebbe celebrato l’anno successivo (1625). L’afflusso dei pellegrini, soprattutto dal sud dell’Italia, fu reso difficile dalla peste scoppiata a Palermo nei primi mesi dell’Anno Santo. Il Papa, per impedire che l’epidemia si diffondesse all’interno della città, stabilì di sostituire la visita alla basilica di San Paolo fuori le Mura con quella di Santa Ma- ria in Trastevere, dove presiedette personalmente il rito dell’apertu- ra della Porta Santa. Urbano VIII, inoltre, emanò la Bolla Pontificia sollicitudo in favore di tutti coloro che, trattenuti da gravi impedi- menti, non potevano compiere il pellegrinaggio oppure non erano in condizione di visitare i luoghi sacri. Per la prima volta nella storia de- gli Anni Santi, agli anziani, ai malati, ai monaci e alle monache di clausura e anche ai prigionieri furono estesi gli effetti spirituali del giubileo. Divenne in tal modo sufficiente il desiderio del giubileo e la disposizione alla penitenza per lucrare le indulgenze con la preghie-

5 Galuzzi, di fatto, afferma che «questa precauzione del Papa non favorì l’afflusso dei pellegrini: le con- dizioni politiche delle grandi potenze si ripercuotevano sullo Stato pontificio e su Roma, rendendo con ciò assai difficile il pellegrinaggio. Il giubileo perde il suo significato di movimento popolare legato alle pratiche penitenziali, per assurgere a pratica indulgenziata» (Gli anni santi…, cit., p. 87). Le opere del giubileo 181 ra e il sacrificio. Si noti che, da allora, tutti i Romani Pontefici ripre- sero questa disposizione. Non per questo l’Anno Santo vide una mi- nore partecipazione attiva dei fedeli nei luoghi santi. Il Giubileo del 1700 fu indetto da Innocenzo XII con la Bolla Regi saeculorum. Il Pontefice esortò, con frequenti richiami alla Sacra Scrittura, i fedeli di tutto il mondo a compiere il pellegrinaggio a Ro- ma come simbolo di quello verso la Gerusalemme celeste. Nel corso del giubileo, il Papa emise altri due documenti che regolavano la par- tecipazione dei religiosi e dei fedeli. Il primo, Pontificia sollicitudo, stabilì in che condizioni le monache, gli anacoreti, gli eremiti, gli in- fermi, i carcerati potessero lucrare le indulgenze giubilari. Il secondo, Pastoris aeterni, dispose che durante l’Anno Santo quei religiosi che avevano abbandonato il loro ordine potevano rientrarvi senza punizio- ne. A causa, poi, dell’esondazione del Tevere, Clemente XI, succedu- to nel frattempo a Innocenzo XII, a imitazione di quanto nel 1625 ave- va fatto il suo predecessore, sostituì, agli effetti della visita giubilare, la basilica di San Paolo con quella di Santa Maria in Trastevere. A partire dal giubileo del 1750, diventarono sempre più fre- quenti e accorati gli inviti dei Pontefici, affinché il giubileo fosse un evento di penitenza e di conversione, sottolineandone, in tal modo, la portata spirituale. In occasione del Giubileo del 1775, fu creata, per favorire il soggiorno dei pellegrini, anche una fitta rete di norme che regolava l’ospitalità degli albergatori e vietava l’arbitrario aumento degli affitti. Gli albergatori, in particolare, erano obbligati a chiama- re il confessore o il parroco della zona, perché amministrasse i sa- cramenti ai pellegrini ammalati da oltre due giorni. Il giubileo del 1800 non venne celebrato a causa dei profondi ri- volgimenti che attraversavano l’Europa a seguito della Rivoluzione francese. Ciononostante papa Pio VII, da Venezia, il 24 maggio 1800, emanò l’enciclica Ex quo Ecclesiam con la quale concesse l’indulgen - za plenaria e la remissione dei peccati per due settimane a coloro che avessero compiuto determinate pratiche di pietà nella loro diocesi. Anche nel 1850 la Porta Santa della basilica di San Pietro rima- se chiusa. Pio IX fece comunque iscrivere il giubileo di quell’anno nella serie ufficiale degli Anni Santi, come ventunesimo. L’Anno San- to successivo venne indetto con la Bolla Gravibus Ecclesiae, alla qua- le il Papa fece allegare l’enciclica di Leone XII, Caritate Christi (25 dicembre 1825), con la quale estendeva subito il giubileo del 1875 a tutto il mondo cattolico. Il giubileo, seppure in forma ridotta, venne celebrato anche a Roma, senza l’apertura della Porta Santa. Vennero 182 Alberto Perlasca meglio precisate le condizioni per l’acquisizione dell’indulgenza: la confessione e la comunione sacramentale, la visita alle quattro basili- che – venti giorni per i romani e dieci per i pellegrini – e la preghiera secondo la mente del Romano Pontefice. Proprio da questo anno ini- ziò la tradizione dei pellegrinaggi nazionali e diocesani. La serie dei pellegrinaggi diocesani fu inaugurata, nel gennaio del 1876, dalla Gioventù Cattolica maschile di Bologna, a cui il Papa concesse una speciale proroga nell’acquisizione dell’indulgenza giubilare. Pio XI, in occasione del giubileo straordinario del 1933, introdus- se la possibilità di fare successivamente anche tre visite al giorno 6. Pio XII, in seguito, abrogò l’obbligo dei venti giorni per i roma- ni e dei dieci per i pellegrini. Nella Bolla di indizione del giubileo del 1950, Iubilaeum maximum, il Pontefice sottolineava che

«pellegrinaggi di questo tipo non devono essere intrapresi secondo lo stile di coloro che sono soliti viaggiare per diletto, ma con quell’animo assai devo- to [pietosissimo animo] con cui, già nei tempi più antichi i cristiani di qualsia- si classe sociale e popolo, superando frequentemente duri ostacoli dei tra- sporti, o a piedi, raggiungevano Roma, per lavare con le lacrime della peni- tenza i propri peccati e per impetrare da Dio la pace» 7.

Il giubileo del 1975 fu indetto da Paolo VI il 23 maggio 1974 con la Bolla Apostolorum limina. In essa, il pontefice indicò come primo significato e scopo dell’Anno Santo «il rinnovamento spirituale in Cri- sto e la riconciliazione con Dio». Quello che era in passato il pellegri- naggio romano per lucrare le indulgenze divenne, nell’intenzione di Paolo VI, una chiamata alla conversione personale e collettiva, sotto- lineando il carattere penitenziale che anche il pellegrinaggio doveva assumere:

«Il pellegrinaggio a Roma da parte dei rappresentanti di tutte le Chiese locali – pastori e fedeli – sarà, dunque, segno di un nuovo processo di conversione e di riconciliazione fraterna».

Si noti inoltre che, nel documento di indizione, si stabilì che «vertente Iubilari Anno, praeterea, vigent ceterae indulgentiarum con- cessiones» 8.

6 Cf Bolla Quod nuper, in AAS 24 (1933) 8. 7 AAS 31 (1949) 261. 8 Si leggano anche le nobili parole espresse da Paolo VI sulla gioia del pellegrinaggio in occasione del- l’Anno Santo in De christiano gaudio (EV 5, nn. 1243-1313; in particolare, nn. 1301-1307). Non si tratta, Le opere del giubileo 183

Giovanni Paolo II, nella Bolla d’indizione del giubileo straordi- nario del 1983, Aperite portas Redemptori, ha affermato che

«non può darsi rinnovamento spirituale che non passi attraverso la penitenza- conversione, sia come atteggiamento interiore e permanente del credente e come esercizio della virtù che risponde all’invito dell’apostolo di farsi riconci- liare con Dio. […] Il senso del pellegrinaggio, nel suo simbolismo, esprime il bisogno, la ricerca, a volte la sana inquietudine dell’anima che brama stabilire o ristabilire il vincolo dell’amore con Dio Padre, con Dio Figlio, redentore dell’uomo, e con Dio Spirito santo che opera nei cuori la salvezza».

Può essere interessante notare che il giubileo del 1983, come ri- sulta dalla Bolla di indizione, doveva essere celebrato «contempora- neamente a Roma e in tutte le diocesi del mondo». Giovanni Paolo II, inoltre, stabilì che

«per il conseguimento dei benefici spirituali connessi con la ricorrenza giu- bilare [fosse lasciato] alle conferenze episcopali e ai vescovi delle singole diocesi il compito di stabilire indicazioni e suggerimenti pastorali più concre- ti [rispetto a quelli dati in forma del tutto generale nel documento di indizio- ne], in rapporto sia alla mentalità e alle costumanze dei luoghi, sia alle fina- lità del 1950° anniversario della morte e risurrezione di Cristo».

Anche il grande giubileo del 2000 già preannuncia una novità di rilievo. Per la prima volta nella storia dei giubilei, infatti, l’Anno San- to avrà due grandi poli, Roma e la Terra Santa, e abbraccerà simulta- neamente tutte le Chiese locali 9. Quale sia il significato da attribuire a ciò, non è ancora chiaro. Ci limitiamo, quindi, per il momento, a se- gnalare quest’aspetto, certamente non privo di interesse.

Visita alle basiliche romane Uno dei momenti più significativi e importanti del pellegrinag- gio a Roma è costituito dalla visita alle basiliche romane: San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore. Poiché, al fine di lucrare l’indulgenza, più che l’opera materiale in sé stessa conta l’animus con cui l’opera viene compiuta, diventa fa-

peraltro, di una novità: di fatto, nella Bolla Auspicantibus nobis, con la quale si indisse il giubileo straor- dinario del 1929, si stabilì espressamente che: «Vertente Iubilaei anno, nullatenus cessant indulgentiae alias concessae pro operibus distinctis ab operibus Iubilaeo lucrando præscriptis»(AAS 21 [1929] 10). 9 Cf lettera apostolica Tertio millennio adveniente [= TMA], n. 55. 184 Alberto Perlasca cilmente comprensibile il fatto che non ha nessuna importanza l’ordine con cui queste Basiliche vengono visitate né la circostanza che questi luoghi siano visitati nello stesso giorno oppure in giorni differenti. Non è neppure necessario che i pellegrini passino mate- rialmente, entrando o uscendo, attraverso la Porta Santa delle rispet- tive basiliche. Anzi, nel caso in cui le basiliche fossero chiuse o, per qualche causa, ne fosse impedito l’accesso, è sufficiente sostare sul- la porta o sui gradini di accesso, recitando con fede le preghiere pre- scritte. Neppure si richiede che la confessione e la comunione sacra- mentali, delle quali parleremo in seguito, siano effettuate prima della visita alle basiliche. Di fatto, è del tutto irrilevante che i sacramenti siano celebrati prima, dopo o in occasione della visita 10. Si tratta di disposizioni che, forse, possono apparire un poco strane se prese in assoluto, ma che diventano del tutto necessarie non solo al fine di evitare che si ingenerino superstizioni o concezio- ni magiche dell’Anno Santo, quasi che “meccanicisticamente” l’indul - genza venga lucrata solo per il fatto di aver compiuto in un modo piuttosto che in un altro una determinata opera 11, ma anche per di- fendere persone particolarmente scrupolose o insicure. La visita alle basiliche romane, come, d’altro canto, anche lo stesso pellegrinaggio a Roma, è un’opera dispensabile o commutabi- le in altra opera da parte dei confessori muniti delle apposite facoltà concesse, in occasione del giubileo, in favore di persone malate, avanzate negli anni o, in altro legittimo modo, impedite. Per quanto riguarda la dispensa, si deve notare che, non solo per la liceità, ma per la stessa validità, essa deve essere concessa esclusivamente per il bene spirituale del fedele (can. 87). Nel dubbio circa la sufficienza della causa, la dispensa è lecitamente e valida- mente concessa. Pertanto

«i confessori privilegati siano caldamente ammoniti [enixe monentur] che graveranno la loro stessa coscienza se imprudentemente e senza una giusta causa esimeranno i fedeli in qualsiasi modo da questo tipo di visita» 12.

10 Cf M. FABREGAS, Adnotationes, in «Periodica de re morali canonica et liturgica» 38 (1949) 377. 11 Una certa tendenza in senso contrario, può apparire dal seguente commento di Fabregas alla Bolla Quod nuper con la quale Pio XI indisse l’Anno Santo. A proposito della visita alle basiliche, che in quella Bolla erano richieste nel numero di tre per ogni basilica, l’Autore scrive: «Animadvertendum est, posse fideles vixdum e basilica post actam sacram visitationem egressos iterum atque illico in eam ingredi ad al- teram ac tertiam perficiendam visitationem» (Dissertatio, in «Periodica de re morali canonica et liturgi- ca» 22 [1933] 74). 12 M. FABREGAS, Adnotationes, cit., p. 379. Le opere del giubileo 185

Per quanto riguarda la commutazione, essa può riguardare o il luogo, cioè la visita a una o più chiese diverse dalle quattro basiliche patriarcali, oppure il numero delle basiliche. In ogni caso, deve rima- nere fermo, in quanto non dispensabile, il numero delle preghiere «quae in Basilica vel Basilicis recitandae erant», a meno che si tratti di persone malate «in quorum favorem has etiam preces imminuere queunt». Nel caso in cui una malattia o altra giusta causa, durante la permanenza a Roma o durante il viaggio, oppure la morte, interven- gano prima che sia stato completato il prescritto numero di visite, oppure non sia stato per nulla iniziato, costoro, debitamente assolti dalle colpe e comunicati, conseguono l’indulgenza plenaria giubilare, come se avessero visitato le quattro basiliche 13. Per il giubileo del 1975, a differenza dei precedenti, si disse chiaramente che, per lu- crare l’indulgenza plenaria era sufficiente la visita «ad unam ex Basi- licis Patriarchalibus» 14. Quest’ultima precisazione venne poi ripresa in occasione del giubileo del 1983, per il quale, tra l’altro, si sottoli- nea che è del tutto desiderabile [uti est omnino optandum] che la vi- sita avvenga insieme alla propria famiglia [una cum familia propria]. In questo stesso giubileo, alle quattro basiliche patriarcali fu aggiun- ta, in alternativa, la visita alla basilica di Santa Croce in Gerusalem- me o a una delle catacombe.

Confessione e comunione sacramentali Poiché la remissione dei peccati e la restaurazione dell’ordine spirituale non possono aversi senza la conversione e la penitenza, tra le opere del giubileo acquistano un ruolo peculiare la confessione e la comunione sacramentali. È quindi del tutto logico e opportuno che, nel tempo giubilare, l’accesso a questi sacramenti non solo sia caldamente raccomandato, ma anche sia reso possibile e favorito. La comunione annuale prescritta dal can. 920 § 1 non può, di re- gola, sostituire quella da ricevere nel tempo giubilare 15. In questo senso il can. 932 del CIC 1917 stabiliva:

13 L. cit. Si noti che, in occasione del Giubileo del 1933, la Bolla Quod nuper richiedeva che le preghiere da recitarsi in occasione della visita alle basiliche fossero elevate «quinquies ante Augusti Sacramenti aram preces “Pater, Ave et Gloria” recitari debent [...] omnes dein ante Iesu Christi crucifixi imaginem». A questo proposito, così commentava Fabregas: «Quare negaremus visitationes ad valvas vel gradus fie- ri posse, nisi nunc liberalis Pontificis manus, per Monita S. Pœnitentiariæ (Monit. V) permisisset ut pre- ces ad fores vel gradus basilicae clausae recitarentur»(Dissertatio, cit., p. 74). 14 Lettera apostolica Apostolorum limina (EV 5, nn. 504-505). 15 Concorda U. NAVARRETE, Iubilaeum extraordinarium indicitur, in «Periodica de re morali canonica et liturgica» 40 (1951) 104. 186 Alberto Perlasca

«Opere, cui praestando quis lege aut praecepto obligatur, nequit indulgentia lucrifieri, nisi in eiusdem concessione aliud expresse dicatur; qui tamen prae- stat opus sibi in sacramentalem pœnitentiam iniunctum et indulgentiis forte ditatum, potest simul et pœnitentiae satisfacere et indulgentias lucrari».

La norma della codificazione piano-benedettina, per la verità, non è stata ripresa nell’attuale Codice. Tuttavia essa viene ripresa adamussim al n. 24 delle Norme sulle indulgenze riportate nell’Enchi - ridion indulgentiarum 16. Infine, va detto che la comunione, ricevuta a modo di viatico, è sufficiente in ordine all’indulgenza giubilare. Nel CIC 1917, nel can. 931 § 3, si stabiliva che i fedeli soliti, fuorché legittimamente impediti, ad accedere al sacramento della penitenza almeno due volte al mese o a ricevere in stato di grazia e con retta e devota coscienza ogni giorno la santa comunione, anche se una o due volte la settimana si astengano da essa, possono conse- guire tutte le indulgenze, anche senza specifica confessione che, per il resto, sarebbe necessaria per lucrarle, eccezion fatta per le indul- genze del giubileo, sia ordinario che straordinario, o date a modo di giubileo. La norma non è riprodotta nel Codice vigente, ma sembra del tutto conseguente al rilievo che, nell’economia giubilare, assu- mono il sacramento della penitenza e dell’eucaristia 17. D’altro canto non si comprende perché mai un fedele che regolarmente si accosta al sacramento della penitenza e dell’eucaristia debba interrompere questa lodevole prassi proprio nel periodo giubilare. Forse, la norma intende tranquillizzare la coscienza di chi, per malattia o altra legitti- ma causa è impedito, proprio nel periodo del giubileo, ad accostarsi al sacramento della penitenza e della comunione eucaristica. Anche la comunione può essere commutata, ma solo se si tratta di malati oppure di persone realmente impedite ad assumerla. In ogni caso, essa deve essere commutata in altra opera. A differenza della comunione eucaristica, la confessione sacra- mentale non è mai dispensabile, neppure in caso di sola colpa venia-

16 Manuale delle Indulgenze, Città del Vaticano 19873, p. 31. Si veda anche la Risposta della Penitenzeria Apostolica del 1° luglio 1992 nella quale, di fatto, non si tratta della confessione sacramentale ma solo di «preghiere e pie opere che uomini e donne, membri degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica, sono tenuti a offrire o a fare in forza delle loro regole o costituzioni oppure altrimen- ti per precetto»(AAS 84 [1992] 935). 17 In occasione del giubileo del 1983, così si esprimeva Giovanni Paolo II: «Desidero, anzitutto, che si dia una fondamentale importanza alle due principali condizioni richieste per l’acquisto di ogni indul- genza plenaria, cioè la confessione sacramentale personale e integra, nella quale avviene l’incontro tra la miseria dell’uomo con la misericordia di Dio, e la comunione eucaristica, degnamente ricevuta» (EV 8, n. 520). Le opere del giubileo 187 le 18. In questo secondo caso, tuttavia, non si richiede l’assoluzione. Pertanto, si fa notare,

«confundenda non est confessio cum absolutione. Illa omnino requiritur, hæc necessaria non est quando pœnitens aut nullum peccatum accuset aut leve tan- tum, seu nonnisi materiam liberam afferat» 19.

Al fine di lucrare l’indulgenza giubilare, la confessione deve es- sere valida, non sacrilega, distinta dalla confessione annuale obbliga- toria e deve essere fatta «ex intentione saltem generali indulgentiam lucrandi» (can. 925 § 2 CIC 1917; can. 996 § 2 CIC 1983). Per contro non si richiede che essa «fiat expresse cum intentione satisfaciendi conditioni confessionis praescriptae aut lucrandi Iubilaeum» 20. Se ta- luno, avendo celebrato la confessione giubilare, ma non avendo an- cora portato a compimento le opere del giubileo, nuovamente incor- re in peccato grave, costui deve ripetere la confessione sacramentale per poter accedere alla comunione eucaristica. Nel caso di peccato veniale, sarà sufficiente un atto di contrizione perfetta. Giovanni Paolo II, in occasione del Giubileo del 1983, ha richia- mato la fondamentale importanza della confessione e della comunio- ne sacramentale sottolineando che si tratta «delle due principali con- dizioni richieste per l’acquisto di ogni indulgenza plenaria» 21.

Le preghiere secondo la mente del Romano Pontefice Tra le opere prescritte per l’indulgenza giubilare, non è mai mancata la preghiera. Una preghiera non generica, ma “qualificata”, cioè fatta “secondo la mente del pontefice”. Tale mens, di regola, vie- ne indicata nella Bolla di indizione. Ciò comporta «ut fideles norint quaenam sit mens Romani Pontificis: satis est ut confuse, secundum eiusdem mentem orare velint, seu ut preces fundant prout requiritur

18 Pio XI, Bolla Quod superiore, in AAS 26 (1934) 137 ss. Il fatto che la confessione sacramentale non sia dispensabile – neppure nel caso di sola colpa veniale – è una disposizione costante in tutti i giubilei, concordemente ritenuta dagli Autori. L’unica eccezione che abbiamo trovato in questa materia, è conte- nuta nel commento alle disposizioni del giubileo del 1929 (Bolla Auspicantibus nobis): «Dispensatio a confessione, uti ab aliis iniunctis operibus, potest iusta de causa concedi, ex. gr. Pœnitenti scrupulis vel anxietate nimia laboranti, qui ex confessione gravissime perturbaretur» (F.M. CAPPELLO, Adnotationes, in «Periodica de re morali canonica et liturgica» 18 [1929] 16). 19 Cf SACRA CONGREGAZIONE PER LE INDULGENZE, Decreto autentico n. 295 del 15 dicembre 1841, in Codi- cis Iuris Canonicis Fontes, VII, pp. 606-607. 20 Cf F. M. CAPPELLO, Adnotationes, cit., p. 16. 21 EV 8, n. 520. 188 Alberto Perlasca ad indulgentiam re vera lucrandam» 22. Di regola, si tratta delle e - spressioni più elementari – ma, non per questo, meno impegnative – della fede cristiana: il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria, il Credo. In genere si stabilisce anche il numero: da tre a cinque volte il Pater Ave Gloria; una volta la professione di fede. Talvolta si precisa anche il luogo e le modalità con cui tali preghiere devono essere recitate 23. Con il giubileo del 1950 questa pratica viene semplificata e pre- cisata:

«Tre Pater Ave Gloria; un Pater Ave Gloria secondo la nostra [= Pontefice] intenzione; un Credo» 24.

Con il giubileo del 1975 si ampliò il numero delle possibilità:

«Una celebrazione liturgica, specialmente il sacrificio della messa o altro esercizio di pietà [per esempio, la via crucis, il rosario mariano] […]. Se visi- teranno [...] una delle quattro basiliche patriarcali, e ivi attenderanno per un congruo periodo di tempo a pie meditazioni, concludendole col Padre nostro, con la professione di fede in qualsiasi legittima forma, e con l’invocazione della B.V. Maria» 25.

Una gamma ancora più ampia di modalità celebrative fu concessa in occasione del giubileo del 1983, in occasione del quale furono sug- gerite, organizzate

«sul piano diocesano o, se conforme alle indicazioni del vescovo, anche nelle singole parrocchie, [...] una santa messa [...], una celebrazione della parola di Dio [...], un’amministrazione solenne del battesimo o di altri sacramenti [...] oppure il pio esercizio della via crucis» 26.

Di regola, si prescrive che queste preghiere siano recitate du- rante la visita alle basiliche. Nel giubileo del 1975, per esempio, si stabilì che l’elargizione del dono dell’indulgenza plenaria fosse con- cessa ai pellegrini se «compiranno un pio pellegrinaggio a una delle basiliche patriarcali [...] e ivi parteciperanno devotamente a una ce-

22 SACRA PENITENZIERIA APOSTOLICA, Monita del 31 luglio 1924, in AAS 16 (1924) 342. 23 Si noti il curioso commento di Fabregas circa le preghiere da recitarsi per lucrare l’indulgenza del - l’Anno Santo straordinario del 1933: «Ante Iesu Christi crucifixi imaginem (non sufficeret nuda crux) [...] Quae ad validitatem quolibet ordine, quolibet idiomate (can. 934 § 1) recitari possunt; immo sufficit ut alternis vocibus recitentur» (Dissertatio, cit., p. 74). 24 AAS 41 (1949) 259. 25 EV 5, n. 504. 26 EV 8, n. 524. Le opere del giubileo 189 lebrazione liturgica» 27. Ciò, molto opportunamente: non si trat ta, di fatto, di visite turistiche o di carattere culturale. La preghiera, quindi, è un ottimo mezzo per mantenere quel clima di raccoglimento e di elevazione spirituale che la circostanza richiede. È interessante notare che, a differenza dei precedenti giubilei, in quello del 1975, si stabilì espressamente che le preghiere doveva- no essere «ad mentem Summi Pontificis et Collegii Episcopalis» 28.

Digiuno, astinenza e elemosina

«Il digiuno e l’astinenza – insieme alla preghiera, all’elemosina e alle altre opere di carità – appartengono, da sempre, alla vita e alla prassi penitenziale della Chiesa: rispondono, infatti, al bisogno permanente del cristiano di con- versione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di implorazio- ne dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al Padre» 29.

Il digiuno, l’astinenza e l’elemosina, come mezzi penitenziali di purificazione e di distacco dalle cose materiali 30, si inseriscono, per- tanto, a pieno titolo tra le opere del giubileo. In riferimento al digiuno e all’astinenza, si deve, anzitutto, preci- sare che queste opere devono essere riguardate nel loro più genuino spessore cristiano. La precisazione non è inutile, laddove si conside- ri che «oggi, il digiuno viene praticato per i più svariati motivi e tal- volta assume espressioni per così dire laiche, come quando diventa segno di protesta, di contestazione, di partecipazione alle aspirazioni e alle lotte degli uomini ingiustamente trattati» 31. Circa l’astinenza da determinati cibi, poi, «oggi si stanno diffondendo tradizioni ascetico- religiose che si presentano non poco diverse da quella cristiana» 32. In realtà,

«qualsiasi pratica di rinuncia trova il suo pieno valore, secondo il pensiero e l’esperienza della Chiesa, solo se compiuta in comunione viva con Cristo, e

27 EV 5, n. 504. 28 Cf lettera apostolica Apostolorum limina (EV 5, n. 504). Nel Giubileo del 1983, si ritorna alla prece- dente formula: «Patet quidem deesse non posse precationem secundum Summi Pontificis mentem» (EV 8, n. 525). 29 Cf CEI, nota pastorale Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, 4 ottobre 1994 (ECEI 5, n. 2338). 30 I riferimenti biblici ed evangelici sono sovrabbondanti. Per il digiuno, si veda, a titolo di esempio, 1 Sam 31, 13; 2 Sam 3, 35; Esd 10, 6; Est 4, 3; Sal 35, 13; Is 58, 5; Mt 17, 21; Lc 2, 37. Per l’elemosina, si ve- da Tb 4, 10; 12, 8-9; Prv 19, 17; 28, 27; Sir 3, 29; 12, 3; 29, 12; 35, 2; At 10, 4; 10, 31. 31 CEI, Il senso cristiano..., cit. (ECEI 5, n. 2350). 32 Ibid., nn. 2350-2351. 190 Alberto Perlasca

quindi se è animata dalla preghiera ed è orientata alla crescita della libertà cri- stiana, mediante il dono di sé nell’esercizio concreto della carità fraterna» 33.

Circa le disposizioni sul digiuno come opera giubilare, si può, a titolo di esempio, fare riferimento alla Bolla Auspicantibus nobis, con la quale fu indetto il giubileo straordinario del 1929:

«Duobus diebus, praeter illos in quibus ieiunium et abstinentia ex præcepto obli- gant, ieiunent cum abstinentia ad normam canonum Codicis iuris canonici» 34.

Il digiuno è opera dispensabile. Esso, di fatto, può essere sosti- tuito, in tutto o in parte, con altre forme di penitenza, in special mo- do opere di pietà e di carità. Per quanto riguarda l’elemosina, la Bolla Auspicantibus nobis di Pio XI suggeriva l’elargizione di qualche elemosina, secondo le possi- bilità e la pietà di ciascuno, sentito il consiglio del confessore, a favore di qualche opera pia, soprattutto le opere per la propagazione e la pre- servazione della fede. Anche se non viene determinata la quantità del - l’elemosina, il fatto che essa doveva essere «pro cuiusque facultate » fa- ceva ritenere che fosse richiesta una certa proporzione tra le possibi- lità finanziarie dell’offerente e l’elemosina stessa 35. D’altro canto, il riferimento, oltreché alle possibilità finanziarie, alla pietà personale dell’offerente, faceva concludere nel senso che non si poteva urgere una stretta proporzione tra le prime e l’effettiva entità dell’offerta. L’elemosina, comunque, poteva essere commutata in altra opera. L’e- lemosina può essere offerta anche da altra persona purché quest’ulti- ma, informata della cosa, offra secondo questa intenzione. In questo senso, il padre, poteva offrire per la moglie e i figli, il superiore reli- gioso per i propri sudditi, le persone benestanti per quelle indigenti.

Uno sguardo verso il giubileo del 2000 Come già abbiamo avuto modo di dire nella breve introduzione, per il giubileo del 2000 non sono ancora state date indicazioni circa le opere da compiere. Anzi, a ben guardare, il giubileo non è ancora sta- to neppure indetto. Di fatto, la lettera apostolica Tertio millennio ad-

33 L.cit. 34 Cf Bolla Auspicantibus nobis, 1° e 2°, in AAS 21 (1929) 5-11. Il riferimento era ai cann. 1250-1254 CIC 1917. Il Codice vigente regola questa materia nei cann. 1249-1253. 35 Cf F.M. CAPPELLO, Adnotationes, cit., p. 25. Le opere del giubileo 191 veniente di Giovanni Paolo II intende solo indicare il cammino della Chiesa verso il giubileo del 2000 36. È, tuttavia, prevedibile, che la straordinarietà del prossimo giubileo – che non solo festeggia l’anno centesimo, ma apre le porte al 2000 – sarà particolare anche in riferi- mento alla materia che stiamo trattando. Non per niente, è già invalsa la prassi di definirlo come “grande” giubileo del 2000. Crediamo, tut- tavia, che le novità non consisteranno tanto nelle opere in se stesse – si tratta, di fatto, di una consolidata tradizione plurisecolare – quanto, piuttosto, nelle modalità di attuazione. Dalla lettura della Tertio mil- lennio adveniente, forse, si possono ricavare alcune indicazioni. Innanzitutto, si tratterà di un giubileo decisamente cristocentri- co, tendente a sottolineare l’evento dell’incarnazione-redenzione, la logica che l’ha prodotta e che ne consegue, il dispiegarsi dei suoi ef- fetti nel tempo (cf TMA 1-16). Il pensiero, qui, corre subito al discor- so inaugurale che Gesù tenne nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me [...] e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19).

A nostro modo di vedere, accanto alle opere tradizionali del giu- bileo – pellegrinaggio a Roma o in Terra Santa, visita alle basiliche romane, confessione e comunione sacramentali, preghiere secondo la mente del Romano Pontefice – si dovrà dare ampio spazio e rilievo ad altre opere: le opere di misericordia spirituale e corporale, opere di perdono, di condono, di ricomposizione di rapporti interrotti o de- teriorati, di condivisione. Nella Tertio millennio adveniente si fa rife- rimento a due aspetti, particolarmente bisognosi da questo punto di vista: l’aspetto dell’ecumenismo e quello di un’equa distribuzione dei beni materiali. Al n. 34 si legge: «Tra i peccati che esigono un maggior impegno di penitenza devono essere annoverati certamente quelli che hanno pregiudicato l’unità voluta da Dio per il suo popolo».

Al n. 51, poi, si legge: «I cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il giu- bileo come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, a una consistente ri-

36 R. ETCHEGARAY, Introduzione alla lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, in AA.VV., Tertio Mil- lennio Adveniente, cit., p. 7. 192 Alberto Perlasca

duzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pe- sa sul destino di molte nazioni».

È ovvio che qui non si è sul piano delle opere prescritte o pre- scrivibili per lucrare l’indulgenza giubilare quanto, piuttosto, sul pia- no delle opere raccomandate. Si tratta, in altri termini, di opere che si pongono come segno e prosecuzione della conversione avvenuta, come testimonianza concreta dell’impegno assunto con la nuova vita inaugurata con il giubileo. Una seconda sottolineatura prospettica, ricavabile sempre dalla Tertio millennio adveniente, ci pare contenuta nel n. 20, laddove si dice che «la migliore preparazione alla scadenza bimillenaria non potrà che esprimer- si nel rinnovato impegno di applicazione, per quanto possibile fedele, dell’in - segnamento del Vaticano II alla vita di ciascuno e di tutta la Chiesa».

Anzi, il concilio Vaticano II viene esplicitamente definito come «l’immediata preparazione al Grande Giubileo del 2000» (TMA 20). Lo spunto viene ripreso nel successivo n. 21 dove si legge: «Nel cammino di preparazione all’appuntamento del 2000 si inserisce la se- rie dei Sinodi, iniziata dopo il concilio Vaticano II: Sinodi generali e Sinodi continentali, regionali, nazionali e diocesani [...]. La preparazione al Giubileo del l’Anno 2000 si attua così, a livello universale e locale, in tutta la Chiesa».

Da questo punto di vista, il prossimo anno giubilare si preannun- cia decisamente universale. Si dovrà, quindi, essere particolarmente attenti e precisi nel dare disposizioni a livello diocesano sui luoghi e sulle modalità concrete per celebrare l’evento giubilare. Nessuno do- vrà sentirsi escluso dalla possibilità di vivere e di beneficiare del giu- bileo. A questo proposito, è interessante notare che in occasione del giubileo straordinario del 1966 – indetto da Paolo VI con la costituzio- ne apostolica Mirificus eventus (7 dicembre 1965) – l’indulgenza ple- naria fu concessa a «tutti i fedeli di ambo i sessi, che confessati e co- municati, abbiano pregato secondo le nostre [= Papa] intenzioni» e assistano «almeno a tre istruzioni circa i decreti del con cilio ecumeni- co Vaticano II, oppure a tre delle prediche, che saranno tenute duran- te le missioni» 37.

37 EV S1, n. 78. Nella successiva lettera apostolica Summi Dei beneficio (3 maggio 1966) si ribadivano le suddette disposizioni, precisandole ulteriormente: «Ogni volta che assisteranno ad almeno tre istruzio- Le opere del giubileo 193

Un terzo indizio utile in vista della celebrazione del giubileo del 2000 può esserci fornito dal passaggio finale del n. 26 della lettera Tertio millennio adveniente, laddove si legge:

«L’Anno Mariano [1987/1988] è stato quasi una anticipazione del Giubileo, contenendo in sé molto di quanto dovrà esprimersi pienamente nell’Anno 2000».

L’anno mariano, di per sé, non è stato un Anno Santo, anche se, per molti versi, è a esso assimilabile 38. Sono significative, in questo senso, le parole del Pontefice, laddove nell’enciclica Redemptoris ma- ter [= RM], egli afferma che

«in anni recenti si sono levate varie voci per prospettare l’opportunità di far precedere tale ricorrenza [il giubileo bimillenario della nascita di Gesù Cri- sto] da un analogo giubileo dedicato alla celebrazione della nascita di Maria» (RM 3).

Tuttavia, Giovanni Paolo II non usa mai la parola «giubileo» (RM 48). Anzi, parla sempre e solo di «anno mariano». Dalle disposizioni date dalla Penitenzeria Apostolica per beneficiare dell’indulgenza ple- naria dell’anno mariano 39 si ricava una sostanziale continuità con le o - pere tradizionalmente legate al giubileo. Interessante, tuttavia, il pas - saggio in cui si stabilisce, con riferimento al n. 28 dell’Enchiridion in- dulgentiarum, che

«gli ordinari o i gerarchi dei luoghi possono [...] concedere ai fedeli, nei confronti dei quali a norma del diritto esercitano l’autorità – se si trovano in località dove in nessun modo o solo con difficoltà possono accostarsi al- la confessione o alla comunione – di poter acquisire l’indulgenza plenaria senza l’attuale confessione e comunione, purché siano intimamente contriti e propongano di accostarsi, al più presto possibile, ai menzionati sacra - menti» 40.

ni circa i decreti del concilio ecumenico Vaticano II, dettati in chiesa o in altro luogo adatto; ogni volta che assisteranno piamente ad almeno tre prediche che saranno tenute sul modello delle sacre missio- ni» (ibid., n. 83). 38 D’altro canto, neppure l’anno mariano del 1954, indetto da Pio XII con l’enciclica Fulgens corona glo- riae (8 settembre 1953) è da considerarsi Anno Santo, come risulta dalle stesse parole del Pontefice: «Per Encyclicas has Litteras invitamus ut, pro vestro, quo fungimini, munere, clerum populumque vobis creditum adhortemini ad Marianum Annum celebrandum» (AAS 45 [1953] 586). Da taluno, tuttavia, gli anni mariani del 1954 e del 1987 sono considerati «Anno Santo straordinario» (AA.VV., Il Giubileo del- l’Anno 2000. Anno di grazia e di misericordia, a cura di A. Bussoni, Città del Vaticano 1997, p. 48). 39 Cf PENITENZIERIA APOSTOLICA, decreto Mater Dei, 2 maggio 1987 (EV 10, nn. 1751-1761). 40 Ibid., n. 1761. 194 Alberto Perlasca

Un altro aspetto che merita di essere sottolineato, in quanto pe- culiare dell’anno mariano, è la valorizzazione della dimensione fami- liare laddove

«si raccomanda vivamente, come cosa connaturale all’anno mariano, la reci- ta, specialmente in famiglia, del rosario della B.V. Maria [...]; ad essa, quan- do avviene in una chiesa o oratorio, o si compie in forma comunitaria, è an- nessa l’indulgenza plenaria» 41.

In conclusione, abbiamo cercato di ripercorrere, in modo suc- cinto, ma speriamo sufficientemente chiaro, le vicende delle opere legate alla celebrazione del giubileo. Forse è ancora troppo presto per ipotizzare o formulare proposte. Il fare memoria, è già, di per sé, utile. Personalmente auspicheremmo la valorizzazione di alcuni aspetti, non sempre, forse, tenuti nel debito conto. Ci riferiamo, qui, soprattutto, al digiuno, all’astinenza e all’elemosina che nel nostro tempo «caratterizzato da un consumo alimentare che spesso giunge allo spreco e da una corsa sfrenata verso spese voluttuarie, e, insie- me, da diffuse e gravi forme di povertà, o addirittura di miseria ma- teriale, culturale, morale e spirituale» assumono un preciso collega- mento con il problema della giustizia sociale 42. A titolo di esempio, possiamo ricordare alcuni comportamenti che possono facilmente rendere tutti, in qualche modo, schiavi del superfluo e persino com- plici dell’ingiustizia:

«il consumo alimentare senza una giusta regola, accompagnato a volte da un intollerabile spreco di risorse; l’uso eccessivo di bevande alcoliche e di fu- mo; la ricerca incessante di cose superflue, accettando acriticamente ogni moda e ogni sollecitazione della pubblicità commerciale; le spese abnormi che talvolta accompagnano le feste popolari e persino alcune ricorrenze reli- giose; la ricerca smodata di forme di divertimento che non servono al neces- sario recupero psicologico e fisico, ma sono fini a se stesse e conducono a evadere dalla realtà e delle proprie responsabilità; l’occupazione frenetica, che non lascia spazio al silenzio, alla riflessione e alla preghiera; il ricorso esagerato alla televisione e agli altri mezzi di comunicazione, che può creare dipendenza, ostacolare la riflessione personale e il dialogo in famiglia» 43.

Un rilievo particolare, poi, lo vedremmo necessario in riferi- mento all’offerta spirituale delle sofferenze, fisiche e morali: malat-

41 L. cit. 42 CEI, Il senso cristiano, cit., n. 2358. 43 Ibid., n. 2359. Le opere del giubileo 195 tie, disagi e ingiustizie di qualsiasi genere, ecc. Ci sembrano signifi- cative, a questo proposito, le espressioni contenute nella costituzio- ne apostolica Pænitemini di Paolo VI, riprodotte nel documento CEI più volte citato:

«Là dove è maggiore il benessere economico, si dovrà piuttosto dare testi- monianza di ascesi, affinché i figli della Chiesa non siano coinvolti dallo spi- rito del “mondo” e si dovrà dare nello stesso tempo una testimonianza di ca- rità verso i fratelli che soffrono nella povertà e nella fame, oltre ogni barriera di nazioni e di continenti. Nei paesi invece dove il tenore di vita è più disagia- to, sarà più accetto al Padre e più utile alle membra del corpo di Cristo che i cristiani – mentre cercano con ogni mezzo di promuovere una migliore giu- stizia sociale – offrano, nella preghiera, la loro sofferenza al Signore, in in- tima unione con i dolori di Cristo» 44.

L’inciso riportato ci pare interessante anche perché, almeno tra le righe, sembra suggerire la possibilità di valutare l’opportunità di opere, per così dire, differenziate in ragione del contesto nel quale vivono i fedeli e, comunque, il fatto che le indicazioni date per la Chiesa universale dovranno poi essere attentamente adattate alle di- verse circostanze di tempo, luogo, condizione sociale, ecc. Si dovranno, comunque, attendere le disposizioni che la compe- tente autorità ecclesiastica impartirà, contestualmente o successiva- mente alla Bolla di indizione del giubileo. Le opere, con tutta proba- bilità, saranno quelle di sempre; nuovo, tuttavia, sarà lo spirito con il quale saremo chiamati ad attuarle.

ALBERTO PERLASCA piazza Grimoldi, 5 22100 Como

44 PAOLO VI, costituzione apostolica Pænitemini, III, lett. c (EV 2, nn. 641-642). Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 196-206 Penitenza, indulgenza, giubileo La conversione alla radice del tempo dell’uomo di Sergio Ubbiali

La questione La consapevolezza di cui la dottrina della Chiesa a proposito delle indulgenze è attualmente portatrice appare radicata su un o- rientamento che ne colloca i contenuti nell’orizzonte delle precisa- zioni, che hanno il loro punto d’avvio in ciò che Pio XII ha abbozzato sul tema attraverso la Bolla Iubilaeum maximum del 26 maggio 1949. La novità che il documento pontificio mira a mettere in luce ri- guarda il significato ultimo della decisione che si è presa a favore della celebrazione di un giubileo. La peculiarità del significato, che spiega la celebrazione, viene definita mediante un’insistenza del tut- to particolare sulla sua destinazione a rendere possibile a ciascuno dei credenti un autentico e radicale rinnovamento spirituale. A que- sta decisa accentuazione della doverosità del compito rivolto al rin- novamento delle forme e delle ragioni dell’esistenza del cristiano concede un sostegno sempre più ampio e procura una valorizzazione sempre più evidente la serie di enunciazioni espresse dai testi dei documenti con i quali è accompagnato lo svolgimento del giubileo del 1975 come anche di quelli, che lo seguono immediatamente. Dal tracciato perseguito dalle proposizioni ufficiali della Chiesa corri- sponde così la precisazione netta e persistente che il contesto, a cui la riflessione sull’indulgenza è chiamata a riferirsi, è l’attuazione del- la vita cristiana. Se l’accenno da parte dei documenti all’attuazione della vita cri- stiana attende, come è ovvio, d’essere ulteriormente caratterizzato da parte dell’indagine della teologia, l’elemento, che vi è aggiunto in fun- zione di una precisazione più puntuale dell’ideale suggerito alla co- scienza della Chiesa e alla riflessione della teologia, porta l’attenzione Penitenza, indulgenza, giubileo 197 generale su una pista di analisi feconda di nuovi risultati, anche se lontana dalle preoccupazioni che risultano tipiche delle interpretazio- ni di scuola. Dentro la proposta dell’insegnamento ufficiale della Chiesa, rimane in effetti inclusa un’allusione al fatto per cui, nel con- fronto intorno alla nozione di indulgenza e al suo contenuto specifico, un ruolo determinante vada assegnato alla ripresa critica dell’evolu - zione che la concerne. Il cambiamento, con le modalità d’espressione e le motivazioni che le puntualizzano, deve essere considerato un fat- tore intrinseco del ragionamento che la teologia è invitata a formula- re sull’argomento. Il movente dell’evoluzione non è assicurato dal semplice richiamo all’approfondimento di natura concettuale del con- tenuto da ascrivere alla nozione. Per la ricerca delle ragioni dell’e- voluzione il rimando è al cammino storico e concreto che la comunità ecclesiale, in piena fedeltà alla sua natura e alle qualità dalle quali è contrassegnata, ha saputo realizzare nel frattempo. In effetti l’impegno per la coscienza ecclesiale e per la riflessio- ne teologica affinché esse, nel pieno rispetto del proprio specifico livello, promuovano una lettura e interpretazione delle nuove situa- zioni della vicenda della storia come anche dei compiti che ne deri- vano, è lo spunto costantemente ribadito dalle indicazioni dell’inse- gnamento ufficiale in relazione al motivo del giubileo e dell’indul- genza, che vi è connessa. Lo spunto è introdotto dalle enunciazioni formulate negli anni Settanta, ma esso resta ripreso e riesposto con le dichiarazioni più recenti del magistero sul giubileo e l’indulgenza. I diversi pronunciamenti trovano qui un criterio di unità e insieme di reciproco progressivo approfondimento, di modo che diventa possi- bile una chiarificazione appropriata delle finalità alle quali di volta in volta appare orientata la celebrazione del giubileo e l’azione stes- sa dell’indulgenza. Sulla scorta di questa indicazione occorre ripen- sare, secondo una maniera non semplicemente applicativa nei ri- guardi dei nuovi contesti d’esperienza, l’invito al cristiano affinché egli provveda a una rinnovata adesione alla verità ultima dell’uomo. La verità ultima è costituita propriamente dalla vicenda dell’amore divino, che Gesù Cristo ha rivelato in una modalità e secondo una misura definitivi, tramite il comportamento che lo definisce perso- nalmente. L’accettazione e la comprensione di questa vicenda, nella sua peculiare relazione alla storia, dei cui eventi l’umanità è protagonista e vittima, hanno esse stesse una dimensione storica. La fede, in quanto è la dedizione incondizionata a Dio, definisce l’atteggiamen - 198 Sergio Ubbiali to, grazie al quale, unicamente, l’uomo è in grado di riconoscere che Dio è all’opera. La fede rimane integralmente sospesa alla singolarità della rivelazione cristologica, nella misura in cui questa mostra, at- tuandola, l’inseparabilità tra l’intervento del Dio libero e la risposta dell’uomo libero, che gli corrisponde. L’accadimento cristologico si colloca nel punto d’unità dei movimenti delle due libertà e ne custo- disce l’insuperabilità e l’irreversibilità. Il riconoscimento della verità messa in piena evidenza dall’accadimento cristologico è il criterio in grado di far osservare al credente in maniera pertinente la vicenda della storia e rilevarne la consistenza e concretezza. Questo spiega la raccomandazione all’apertura alle questioni del presente dell’uma - nità. Il credente non deve sentirsi dispensato dal contemplare nel proprio progetto un cambiamento sostanziale delle condizioni di vita dell’uomo nell’attuale stagione storica e indirizzarvi le proprie capa- cità. Per il credente non si tratta di un sovrappiù rispetto a quanto nel nome di Dio si fa carico di ricevere e attuare. La verità ultima dell’uomo può essere saputa solo mediante quella particolare modalità d’esistenza, che è la fede. E pertanto la cura inderogabile del discepolo è di testimoniare storicamente la ve- rità nel senso di provvedere, in ragione della luce che la verità di- spensa, a promuovere fattualmente il bene dell’uomo. Il credente è il discepolo responsabile per se stesso e per ciascun altro del dono del- la salvezza procurato da Dio gratuitamente all’umanità. Da un’illu - strazione pertinente dei problemi, che questo genere di sollecitazio- ne impone contro qualsiasi processo d’astrazione per il quale l’acces- so a Dio potrebbe prescindere dall’epoca nella quale il credente vive, dipende un futuro motivato nella sua legittimità della pratica dell’in- dulgenza. La riuscita della comprensione domanda la verifica, ma in- sieme l’approfondimento della linea di spiegazione che viene intra- presa consuetamente dalla riflessione, come anche dalla predicazio- ne e dalla catechesi. La linea diventata prevalente è quella che accosta la tematica a partire dalla logica con cui la normativa del diritto si avvicina alla realtà del cristianesimo e a ciò che lo contraddistingue. La formula- zione raccomandata di solito della nozione d’indulgenza segue da vi- cino l’interesse e il linguaggio che sono del tutto propri della norma- tiva del diritto. Restando all’interno di questo particolare quadro di riferimen- to, si giunge a una presentazione della proprietà dell’indulgenza co- me la remissione, che l’uomo ottiene davanti a Dio, della pena tem- Penitenza, indulgenza, giubileo 199 porale dei peccati. I peccati nella loro dimensione di colpa sono per- donati in particolare attraverso l’azione efficace sviluppata ex opere operato dal sacramento. Ne permane tuttavia ancora viva la pena, per l’appunto quella temporale, che rimane dunque perfettamen- te differenziata da quella eterna. La prospettiva spiega la struttura della presentazione volta alla definizione della potestas di concede- re indulgenze, all’ampiezza della liberazione procurata dalle indul- genze, al soggetto in grado di acquisirle con le condizioni che gli sono richieste. Il registro, secondo cui la definizione si avvicina al- la tematica, caratterizza così il tratto formale del chiarimento deli- neato attorno al complesso di nozioni incluse dentro la spiegazione, compresa quella di tesoro della Chiesa. Di certo il contenuto riferi- to dalle nozioni ha subito variazioni, anche in conseguenza del fat- to che la ricerca più recente tenta una riesposizione teologica e pastorale dell’istanza giuridica nella Chiesa. Per portare a termine la ricerca è però indispensabile che entri in circolo con la fonda- zione della questione e dunque con la competenza della teologia sistematica.

L’indulgenza Nella definizione propugnata tradizionalmente a proposito del- l’indulgenza è conservato in primo piano il richiamo alla connes- sione dell’indulgenza con l’enigma del male. Il legame è posto e - spressamente con quella figura del male, che è il male morale, vale a dire il peccato. La definizione attesta la circostanza incontrover- tibile per la quale l’esplicitazione della nozione di indulgenza è stret- tamente raccordata al processo al quale nel corso dei secoli la forma liturgica del sacramento della penitenza è stato sottoposto mani- festamente. I presupposti per la specificazione della natura dell’in- dulgenza sono rinvenibili nella prima fase dell’esistenza del sacra- mento, denominata con l’appellativo di canonica. Solo nel passaggio dalla seconda alla terza fase della storia del sacramento emerge con chiarezza una pratica dell’indulgenza. Inizialmente l’azione dell’in - dulgenza è mantenuta separata rispetto alla celebrazione del sacra- mento, sebbene sia con l’unificazione al sacramento, e sul piano ri- flessivo l’inclusione all’interno dello svolgimento della teologia dei sacramenti, che si dà avvio a quella chiarificazione della natura ed efficacia dell’indulgenza, che definisce il modo tradizionale di pen- sarla. Ma per il legame che l’indulgenza ha con l’enigma del ma- 200 Sergio Ubbiali le l’importante rinnovamento recente della sacramentaria aiuta a riformularne la questione 1. La pratica sacramentale della penitenza suppone l’assoluta gra- tuità dell’intervento cristologico, per il cui tramite Dio dona all’uomo la conquista della libertà e la correzione che porta l’uomo a lottare contro il rischio di perdersi nel male. Che storicamente Gesù abbia riservato un comportamento e un atteggiamento del tutto particolari verso i peccatori costituisce uno dei tratti più certi ed evidenti della tradizione neotestamentaria. Si tratta per altro di gesti dotati di una rilevanza decisiva per la comprensione dell’originalità della vita di Gesù, di cui essi entrano a fare parte. L’originalità non comporta una disattenzione nei confronti del contenuto dell’Antico Testamento che precede. Mediante il gesto di Gesù è ripreso l’annuncio anticotesta- mentario con la promessa indirizzata all’uomo di entrare “nel” perdo- no dei peccati appositamente realizzato da Dio a beneficio dell’uma- nità. Questo dono ribadisce e specifica la natura della signoria di Dio sull’esistenza dell’uomo e dunque sulle molteplici differenziate situa- zioni in cui l’uomo si trova a vivere. Gesù ribadisce la promessa divi- na per tematizzarne la struttura e insieme le conseguenze mediante la sua azione di condivisione della tavola dei peccatori (Lc 15, 2). L’atto è una concretizzazione simbolica dell’obiettivo della predica- zione che Gesù introduce con una forza del tutto propria. In questa egli dà la conferma esplicita del fatto di rendere pre- sente, attraverso il suo agire, l’agire del fondamento dell’esistenza di tutti. Ne viene che Dio trova un’affermazione nei confronti del pec- cato nella stessa maniera con cui Gesù sta alla tavola dei peccatori (Lc 7, 47). A questa modalità del prodursi dell’intervento di Dio cor- risponde la dialettica tra quanto nel mondo è andato perduto e quan- to invece è stato ritrovato. Il motivo profondo della dialettica ha una spiegazione nell’estrema abbondanza di riferimenti delle parabole. Le narrazioni delle parabole si soffermano sull’inalienabile responsa- bilità dell’uomo e sulla sollecitudine a favore dell’esistenza e della sua riuscita, che egli è invitato a mostrare apertamente (Lc 19, 10). L’asserto non appare in contraddizione con la parola che insiste sul- l’esito della venuta attiva del regno di Dio. Piuttosto pone allo sco-

1 Per un’esplicitazione delle considerazioni svolte qui di seguito ci permettiamo di rimandare a S. UB- BIALI, Il sacramento cristiano, in Celebrare il Mistero di Cristo. Manuale di Liturgia a cura dell’Associa- zione Professori di Liturgia (II). La celebrazione dei sacramenti, Roma 1996, pp. 13-28; ID., Il sacramento della penitenza, ibid., pp. 293-317. Penitenza, indulgenza, giubileo 201 perto le ragioni implicate dal prodigio del perdono, realizzato per ogni uomo da Dio. La sua finalità è un confronto decisamente reali- stico dell’uomo con il presente di grazia, così che egli sia messo di fronte all’unica radice della vicenda temporale che lo definisce. Per l’uomo questo equivale a una decisione a non arrestarsi nella condi- zione entro cui si è venuto a trovare antecedentemente all’incontro con la parola e con il gesto divini del perdono. L’accoglimento dell’invito a concedere un’esclusiva preferenza all’intervento di Dio consente all’uomo di rinvenire la riuscita inte- grale dell’esistenza. La nuova comunione con Dio è il rinnovamento dell’umanità, liberata dai vincoli conformemente alla svolta realizzata da Dio nella morte di croce di Gesù. Nell’annientamento mortale del l’accadimento della croce, Dio dischiude il futuro che nessun pre- sente risulta in grado di lasciare comparire da se stesso. Il futuro non è il frutto di una retribuzione di Dio nei confronti dell’esistenza e dei suoi risultati. Dio riconcilia l’uomo peccatore e gli procura esi- stenza e futuro poiché egli si pone in rapporto con se stesso nell’ac- cadimento della morte di Gesù. La riconciliazione divina non può es- sere ricevuta dall’uomo come una cosa e il modo con cui l’accettazio - ne si rende possibile è la disposizione della libertà che l’accoglie come dono. Il perdono antecede e consente l’accettazione alla quale ciascun uomo viene personalmente chiamato. L’antecedenza costitui- sce la condizione necessaria per la conversione e trasformazione del- l’esistenza. Come detto dall’oracolo del profeta,

«non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31, 34).

Il cristiano è trasformato dal fatto di riconoscere che è già stato perdonato, piuttosto che perdonato perché è diventato diverso da co- me era antecedentemente. Il riconoscimento dell’anteriorità del per- dono sull’azione dell’uomo nel senso della sua condizione intrinseca apre il cuore dell’uomo alla vera conoscenza di sé e del mondo. L’indicazione compare nel corso della narrazione scritturistica come un effetto privilegiato dell’intervento del perdono. Il passaggio dall’o- scurità dell’ignoranza alla luce della conoscenza è la finalità primaria dell’azione divina. Ciò che pure rimane prossimo, come lo è di fatto la propria esistenza e il corso della storia, è impedito dal trovare chia rimento finché non sia accolta l’azione divina. Nel Nuovo Testa- 202 Sergio Ubbiali mento con grande forza è sottolineata la serietà del passaggio da par- te del discepolo alla conoscenza resa disponibile dall’accadimento di Dio e certamente non riducibile alla semplice operazione intellettua- le, in quanto vi è investita la totalità dell’uomo. Il Nuovo Testamento insiste in effetti continuamente sulla necessità di un atteggiamento quale la perseveranza nella vigilanza. Nella spinta allo stare desti è contenuta la dichiarazione dell’impossibilità a permanere nell’oscu - rità del male e della menzogna a riguardo di sé, degli altri e di Dio. Il ritornare a un cuore chiuso, incapace di scorgere con stupore l’inter- vento attivo di Dio, è l’eventualità da non abbandonare. Anche colui che è già stato perdonato deve considerare se stes- so come ancora sempre da salvare, nel senso che dev’essere ancora sempre da guarire. Se il peccato è perdonato e allontanato o anche “morto”, occorre tuttavia che questa morte sia compresa e la com- prensione ha la forma di una lotta contro il male. Ciò che è accaduto si identifica con una possibilità reale del soggetto che vi è implicato. Il soggetto in quanto perdonato riconosce se stesso come colui che di nuovo potrebbe smarrirsi nella contraddizione del male. Quello che risulta accaduto anche soltanto per una volta, potrebbe nuovamente riaccadere. L’accoglimento del dono della salvezza e della sua radica- le gratuità non distrugge il ricordo e quindi lo sviluppo della storia con il suo passato. Piuttosto lo guarisce liberando la memoria dal pe- so del debito costituito dalla colpa. Il credente è messo nella condizio- ne di libertà nel senso che può aprirsi a progetti generati dal l’attesa. È a questo livello che interviene ciò che l’indulgenza rappresenta per il cammino autenticamente cristiano, diretto alla vittoria sul male at- traverso la riconferma della fede come pure attraverso l’edificazione della coscienza morale del cristiano. In ciò si riconosce la lotta, secon- do una universalità nell’estensione e secondo una radicalità nel fine, da parte del cristiano nei riguardi del male e della sua forza.

Il giubileo L’indulgenza indica una particolare azione del cristiano, in quanto legittimamente e autenticamente diretta al superamento del male e della potenza da esso dispiegata nel contesto del mondo del - l’uomo. Questo modo d’interpretare la natura dell’indulgenza dissipa l’equivoco presente nella considerazione tradizionale e nelle sue suc- cessive riformulazioni, incapaci di mettere in chiaro l’intrinseco nes - so del l’indulgenza a un’opera genuinamente cristiana, richiesta in Penitenza, indulgenza, giubileo 203 funzione della condanna del male e della vittoria raggiunta su esso. Il male non costituisce la parola definitiva sull’uomo e la Chiesa testi- monia autorevolmente, impegnandosi nella propria dimensione co- stitutiva di testimone unico della salvezza nella croce di Cristo, quale sia storicamente l’azione da perseguire in funzione della condanna e della vittoria relativamente al male. Con l’indulgenza la Chiesa indica l’aiuto in grado di condurre all’efficace conseguimento da parte del cristiano alla forma vera dell’esistenza radicata sulla fede e sulla prossimità a Dio. L’adesione a Dio nella fede ottiene e comporta il superamento del male, come anche la conferma del bene per cia- scun credente a beneficio dell’umanità. Questo spiega il nesso tra in- dulgenza e giubileo e anche l’accentuazione del giubileo come tem- po propizio per il cristiano, non sull’indulgenza presa isolatamente in sé e per sé 2. Il tempo interiore costituisce lo sfondo dell’interrogazione sulla natura del tempo dell’uomo, sollecitata dall’indagine dell’occidente a partire dalla notissima e sempre citata constatazione formulata da Agostino nel corso del libro XI delle Confessioni (XI, 14):

«Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spie- garlo a chi me lo chiede, non lo so: tuttavia, questo posso affermare con fi- ducia: di sapere che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato, e se nulla venisse, non vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla esistesse, non vi sarebbe un tempo presente».

L’interrogativo sul passaggio dall’esperienza immediata e inte- riore della temporalità alla traduzione concettuale ed esteriore del tempo contrappunta le tappe dell’itinerario perseguito dalla spiega- zione offerta al problema. Il tempo viene identificato nel tempo della coscienza o dell’anima e illustrato prendendo atto della percezione di un trascorrere degli eventi secondo una direzione irreversibile. A questa problematica è stato sovrapposto lo schema di un pensiero radicato su una separazione radicale tra quanto muta e quanto inve- ce resta. Mentre il tempo se ne va, resta soltanto l’eterno e l’eternità

2 Per un confronto tra il contenuto di questa tesi e la vicenda della pratica e della questione teologica del l’indulgenza cf K. RAHNER, Osservazioni sulla teologia delle indulgenze, in ID., La penitenza della Chie- 2 1 sa, Roma, 1968 [1964 ], pp. 195-229; ID., Sulla dottrina ufficiale odierna dell’indulgenza, ibid., pp. 231- 276; ID., Trattatello teologico sull’indulgenza, ibid., pp. 171-193. I tre saggi sono raccolti in K. RAHNER, Sull’indulgenza, Roma 1968. Cf inoltre K. RAHNER, Indulgenza, in Sacramentum Mundi, IV, Brescia 1975, pp. 518-525; a proposito delle precisazioni sollecitate dalla costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina del 1° gennaio 1967, cf p. 531. 204 Sergio Ubbiali subentra allora come la misura fissata a priori dell’esperienza inva- riabilmente mutevole dell’uomo. La riflessione ha decretato allora un’accentuazione della finitez- za nel senso affatto particolare della contingenza che procura di mantenere separato l’uomo da Dio e insieme lo rimanda a lui. La causalità diventa lo strumento concettuale impiegato per esprimere la diversità tra Dio e l’uomo e l’orientamento necessario dell’uomo nei confronti di Dio e delle realtà divine. In questo modo di pensare appare perfettamente riconoscibile il netto condizionamento eserci- tato sulla dottrina tradizionale da un’impostazione segnata dal duali- smo tra Dio e l’uomo, come anche tra l’aldilà e l’aldiquà, tra il cielo e la terra. L’unificazione, senza alcuna confusione, tra il tempo umano e la sua verità ultima attuata con l’accadimento cristologico abilita a una traduzione dell’esperienza umana del tempo piuttosto nella dire- zione indicata dalla coppia di termini continuità-interruzione. Confor- memente alla considerazione antropologica legata all’identificazione della natura essenziale dell’uomo con la libertà come tale, l’atto, in cui l’uomo prende posizione attorno a sé e decide a riguardo di Dio, introduce un’unità inscindibile tra il tempo e l’eternità. L’escatologia non ha inizio soltanto dopo la morte del corpo fisico, ma rappresenta la radice ultima della continuità dell’esistenza dell’uomo in quanto concretamente vivente e fruttifica nella sua singolarità. L’idea di un tempo che non sia semplicemente uno scorrere seppure ordinato degli accadimenti viene conservata nell’uso stesso del linguaggio, perlomeno quello dell’occidente. L’esame articolato da E. Benveniste è giunto a mostrare, diversamente da quanto viene per lo più asserito, come il termine greco corrispondente alla parola latina tempus sia da considerarsi kairós e non chronos. Il termine sug- gerisce il motivo di un accordo opportuno e della mescolanza propi- zia degli elementi. Il termine lo si investe quindi del compito di rap- presentare lo scenario dell’esperienza dell’uomo e dell’irriducibilità di questa alla sola dimensione della possibilità. L’uomo non è libero in effetti perché possiede molte diverse possibilità, tutte egualmente disponibili all’eventuale presa della sua scelta. L’accentazione e sclu- siva del primato assegnato alla possibilità ed eventualità di una scelta contrassegna l’epoca contemporanea, spesso indicata attraverso il tratto della velocizzazione del tempo. Pure la persuasione diffusa del progresso contiene la convinzione del tempo come la linea proiettata sempre inesauribilmente in avanti. Una trama di domande continue e inarrestabili configurerebbe, secondo questo genere di convinzio- Penitenza, indulgenza, giubileo 205 ne, l’ipotesi decisamente esplicativa della complessità dell’esperienza originale dell’uomo 3. In realtà il regime proprio del tempo è quello della temperanza e cioè della sapienza, capace di mescolare in una maniera pertinente gli elementi prossimi dell’esistenza. L’impulso dell’uomo verso la sa- pienza è nell’affermazione scritturistica il marchio stesso dell’uma- nità. La sapienza di cui si tratta è propriamente la stessa vita e dun- que «tutto ciò a cui non si pensa perché ci si è dentro, tutto ciò che, benché incolore, mediocre e universale, si rivela inestimabile quando perderlo significa morire» 4. Avere un tempo d’esistenza e non di mor- te significa osservare il mondo in nome della promessa irriducibile agli elementi capaci di far vivere e pure da lei stessa donati al l’uomo. Il tempo pertanto non è mai un tempo solo dell’uomo, giacché è sem- pre unitamente tempo di Dio. Da qui l’interrogativo attorno alla ragio- ne del ritmo temporale e al motivo della rottura sollevata tramite alcu- ni particolarissimi accadimenti tra il criterio organizzativo e unificati- vo del tempo e l’andamento del tempo. Attraverso la separazione procurata dalla rottura questo momento particolare del tem po assu- me sotto di sé per intero lo svolgersi complessivo del tem po per in- staurarne un’interpretazione perfettamente coerente. L’interpretazio - ne non è semplicemente un’informazione sulle cose contenute dentro l’articolazione, ma la spinta a collocare esattamente se stessi 5. La discontinuità capace di procurare la coerenza orientatrice del tempo è il tratto essenziale e chiarificatore della celebrazione del - l’anno del giubileo. La separazione relativamente e insieme a benefi- cio del normale svolgimento quotidiano del tempo orienta tutto quanto nel tempo da esso occupato e perfettamente circoscritto av- viene e si produce. Lo scambio attuato con il complesso di pensieri e atteggiamenti iscritti nell’esperienza come il tempo comune costitui- sce il criterio e il movente decisivi e insieme impegnativi della cele- brazione giubilare. Il tempo, perfettamente inquadrabile, del giubi- leo subentra a interrompere il tessuto quotidiano della vicenda di

3 Una rapida esposizione dell’indagine di E. Benveniste e del risultato in essa raggiunto è esposta in G. MARRAMAO, Kairòs. Apologia del tempo debito, Bari - Roma 1992. 4 P. B EAUCHAMP, L’uno e l’altro testamento. Saggio di lettura, Brescia 1985, p. 124. 5 Per l’approfondimento cf S. UBBIALI, Il sacro, la religione, la salvezza. L’evento cristologico e le forme del cristianesimo, in «La Scuola Cattolica» 123 (1995) 689-720. A proposito dell’interpretazione della natura del giubileo, un saggio storico di deciso interesse è reperibile in R. FOREVILLE, L’idée de jubilé chez les théologiens et les canonistes (XIIe-XIIIe s.) avant l’institution du jubilé romain (1300), in «Revue d’Histoire Ecclésiastique» 56 (1961) 401-423. 206 Sergio Ubbiali ciascuno affinché ciascuno ne ridefinisca la radice della continuità. Questo tempo tanto straordinario e non consueto assume il suo rilie- vo solo quando diventa capace di modificare, in maniera anche radi- cale e certo sorprendente, il corso assunto ordinariamente dall’insie- me delle vicende dell’uomo. Ma poiché proprio questo identifica una modalità affatto decisiva della lotta e del contrasto da parte del cre- dente contro la presenza del male dentro il cuore di ciascuno e il mondo di tutti, pertinentemente vi è connessa l’indulgenza. La porta- ta di ciò che singolarmente il giubileo al suo interno contiene la orienta a portare indubbiamente ed efficacemente a divenire l’aiuto affinché l’esistenza del cristiano non smarrisca la verità ultima e la dimostri, contro la dimenticanza che è il peccato, che colui che ha salvato in Cristo l’uomo ha dato la sua parola che ne continuerà a sal- vare la vita.

SERGIO UBBIALI via Pio XI, 32 21040 Venegono Inferiore (VA) Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 207-212 Il giubileo del 2000 e il cammino ecumenico di Paolo Ricca

Il giubileo è un appuntamento periodico della cristianità cattoli- ca romana, istituito, com’è noto, dal pontefice Bonifacio VIII nel lon- tano 1300 e da allora celebrato molte volte a intervalli sempre più ravvicinati (uno ogni 25 anni, più alcuni “Anni Santi straordinari”) fi- no a oggi. Il termine “giubileo” è biblico e indica un anno particolare nel quale ogni israelita «tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25, 10). L’autore biblico pensava che all’inizio ogni israelita pos- sedeva un pezzo della “terra promessa” e nessun ebreo era schiavo di un altro. In seguito, per errori compiuti o sventure subite, un cer- to numero di ebrei aveva perso o la terra o la libertà o entrambe. Il giubileo serviva a ripristinare la condizione originaria: ogni cinquan - t’anni ciascuno recuperava la sua proprietà, se era stato costretto ad alienarla, e riacquistava la sua libertà, se era stato costretto a sacrifi- carla. Il giubileo quindi conteneva uno straordinario messaggio di emancipazione, garantendo la partecipazione di tutti ai due grandi doni di Dio: la terra e la libertà. Proprio per questo sembra che non si sia mai celebrato. Si può comprendere perché: attuare il giubileo avrebbe provocato un vero e proprio terremoto sociale. Ma, anche se non sono mai state attuate, le norme del giubileo conservano intatto tutto il loro valore: i figli di Dio non possono essere servi degli uomini (a meno che non sia per amore, non però per necessità); la terra promessa è promessa a tutti e non può essere accaparrata indefinitamente da qualcuno. Purtroppo, il giubileo ecclesiastico, che si celebra ormai da set- tecento anni, non ha mai avuto, finora, sul piano dei contenuti, nul- la in comune con il giubileo biblico. Il giubileo ecclesiastico è infatti 208 Paolo Ricca imperniato su un pellegrinaggio a Roma (ma quello biblico non pre- vedeva un analogo pellegrinaggio a Gerusalemme) e su un “perdo- no generale” collegato al sistema delle indulgenze (anche questa è una tipica istituzione romana), mentre il giubileo biblico aveva un contenuto essenzialmente sociale, sia pure su una solida base reli- giosa. Proprio perché giubileo ecclesiastico e giubileo biblico fino a oggi han no avuto in comune soltanto il nome e nulla più, la celebra- zione di un “anno santo” è stata fino a oggi un’iniziativa esclusiva- mente cattolica romana, del tutto estranea al protestantesimo e al- l’ortodossia. Così è stato fino a oggi. Ma come sarà il giubileo del 2000? Sarà come gli altri o diverso? Ogni previsione è prematura. Alcuni segni promettenti – sulla carta almeno – non mancano. Per esempio, l’assenza, nella Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Tertio mille- nio adveniente [= TMA], della parola “indulgenza”. Si sa: l’assenza di un termine può non significare nulla. Il sistema delle indulgenze può continuare a funzionare, anche se – per uno scrupolo “ecumenico” – si evita di utilizzare la parola. Ma se questo silenzio, come pensiamo, non è fortuito, ma voluto e se esso indica un desiderio reale di pren- dere le distanze da una prassi penitenziale sconosciuta alla Chiesa antica e priva di fondamento evangelico, allora l’omissione del termi- ne può indicare la volontà di trasformare il giubileo in qualcosa di di- verso rispetto al passato. Un altro sintomo positivo è l’idea di decentrare (per così dire), almeno parzialmente, la celebrazione, dislocandola, oltre che a Ro- ma, anche a Gerusalemme e in ogni diocesi del mondo: in questo modo la centralità di Roma (riconosciuta dai cattolici, ma non dagli altri cristiani), pur non essendo superata, si stempera un po’ nel va- sto orizzonte disegnato. È soltanto quando conosceremo le grandi linee del programma delle celebrazioni che si potrà dire se e a quali condizioni il prossimo giubileo potrà essere anche un’occasione ecumenica. Oggi qualsiasi pronostico appare prematuro. Quel che invece si può fare è immagi- nare un giubileo diverso dal solito, rinnovato nei suoi contenuti così da poter essere condiviso anche da altri cristiani. I principali elemen- ti costitutivi del giubileo sono, tradizionalmente, salvo errore, un pel- legrinaggio a Roma, la visita delle sue principali basiliche e un atteg- giamento generale di pentimento, in vista della conversione e della vita nuova. Il giubileo del Duemila potrebbe riprendere questi tre elementi salienti, vivendoli però in modo nuovo. Il giubileo del 2000 e il cammino ecumenico 209

Il pellegrinaggio È un tema biblico ricchissimo di significati, che ricorre sia nel- l’Antico sia nel Nuovo Testamento, che gli conferisce il suo senso ul- timo: il cristiano è un pellegrino sulla terra (come già prima di lui il suo fratello ebreo: «Sono un pellegrino come tutti i miei padri» [Sal 39, 13; cf Eb 11, 13; 1 Pt 2, 11]). Il cristiano non ha bisogno di fare un pellegrinaggio per essere pellegrino. Anche senza muoversi mai da casa, la sua vita è un pellegrinaggio, verso una meta che non si trova su questa terra, non è una città né un santuario, ma è «la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste» (Eb 12, 22). C’è però un pellegrinaggio cristiano, indispensabile e urgente, da compiere qui e ora, su questa terra e che potrebbe, volendo, ca- ratterizzare il giubileo del Duemila: il pellegrinaggio non verso Roma o Gerusalemme o anche (per la regola ecumenica della reci- procità) verso Costantinopoli o Mosca o Ginevra o Wittenberg – non dunque verso le città simbolo delle diverse confessioni cristiane – ma, più concretamente, il pellegrinaggio verso l’altro cristiano (sin- golo e comunità) ancora largamente sconosciuto, anche se è già il nostro (per lo più ignorato) compagno di viaggio verso la «patria mi- gliore» (Eb 11, 16), quella celeste. Se, per esempio, il giubileo diven- tasse un grande pellegrinaggio ecumenico degli uni verso gli altri, nel senso cioè di ogni comunità, di qualunque confessione cristiana, verso le comunità di confessione diversa che le vivono accanto da molto tempo, ma della cui e sistenza non ci si è neppure accorti (e in- contrarle per conoscerle in profondità e imparare ad amarle o quan- to meno a capirle, e non solo per praticare un po’ di galateo ecumeni- co); se dunque il pellegrinaggio giubilare diventasse soprattutto e anzitutto un vero pellegrinaggio verso l’altro cristiano (singolo e co- munità), allora tutte le Chiese potrebbero e dovrebbero parteciparvi e sarebbero liete di farlo. Certo, mettersi in pellegrinaggio verso l’altro cristiano può an- che comportare, almeno in qualche caso, una visita a qualche suo “simbolo” che potrà ovviamente variare: ora sarà una città o una basi- lica, ora un monastero, ora una grotta (come, per esempio, nelle valli valdesi). Ma in questo caso varrà l’aurea regola ecumenica della reci- procità, già menzionata, in virtù della quale anche questo risvolto possibile (ma comunque secondario) del pellegrinaggio giubilare, co- sì come l’abbiamo delineato, non sia unidirezionale, ma circolare, co- me lo è la comunione trinitaria e anche, di riflesso, quella cristiana. 210 Paolo Ricca

La visita Fin dall’origine il giubileo ecclesiastico ha comportato la visita delle principali basiliche romane, collegate, secondo la tradizione, al- la memoria dei martiri e soprattutto degli apostoli Pietro e Paolo. Vi- sitare una basilica in spirito di preghiera può certamente essere rac- comandato come esercizio di pietà e il ricordo della testimonianza dei martiri o degli apostoli può accendere nel cuore o nell’animo dei visitatori una volontà rinnovata di confessare la fede e consacrarsi a Dio e al prossimo, come leggiamo nella Scrittura: «Anche noi dun- que, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimo- ni, […] corriamo con perseveranza la gara che ci è stata proposta, fissando lo sguardo su Gesù» (Eb 12, 1). Detto questo però il tema della visita evoca, in chi conosce la Scrittura e soprattutto il Nuovo Testamento, altre associazioni che po - trebbero utilmente essere abbinate alla celebrazione del giubileo, rin- novandone i contenuti. Pensiamo, in particolare, al grande affresco del giudizio finale disegnato da Gesù stesso, là dove egli dice: «Fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi» (Mt 25, 36). Visitare le basiliche può essere utile a noi stessi, per nutrire la nostra pietà e incrementare il nostro zelo. Visitare i carcerati e gli ammalati è invece utile a loro, è un atto di amore puro, disinteressato, altruista. Ma è anche un modo di servire il Signore nella persona di coloro che egli chiama «i miei minimi fratelli» (Mt 25, 30), cioè ap- punto gli ammalati, i carcerati, gli esuli, gli affamati, gli ignudi. Ecco un modo nuovo di celebrare il giubileo: visitando carceri e ospedali, nei mille modi in cui può avvenire, cioè di persona, ma an- che per lettera (l’accesso alle carceri, per esempio, non è possibile a tutti), o ancora mediante l’intercessione e, in generale, coltivando un interesse fattivo per la questione sanitaria e carceraria. Ma ci sono nelle società odierne molte “prigioni” oltre a quelle ufficialmente ri- conosciute come tali. Ci sono, per esempio, i ghetti suburbani che crescono tumultuosamente ai margini delle metropoli e sono soven- te luoghi di grande solitudine, di degrado sociale e di violenza. Sa- rebbe molto bello se le visite giubilari del Duemila andassero oltre le sontuose e ridondanti basiliche imperiali di Roma e approdassero a qualche oscura e anonima chiesa di periferia e alle «pietre viventi» (1 Pt 2, 5) con cui è costruita, cioè alla comunità che vi si raduna. Tutto questo sarebbe molto bello e molto cristiano, molto evangelico e molto ecumenico. Il giubileo del 2000 e il cammino ecumenico 211

Un serio esame di coscienza È il terzo elemento costitutivo del giubileo (il primo, però, o uno dei primi in ordine di importanza). Nella sua Lettera apostolica sul giubileo Giovanni Paolo II parla ripetutamente (nn. 27, 34, 36 due volte) di un «esame di coscienza» che, non solo le nazioni europee (n. 27), ma anche le Chiese dovrebbero fare, alla scadenza del se- condo millennio di storia cristiana. Certo, non c’è bisogno di aspetta- re il Duemila per questo genere di operazione. Ogni cristiano e ogni Chiesa lo fa ogni giorno e in ogni culto comunitario. Ma sarebbe bel- lo, in occasione di una data fortemente simbolica come il Duemila, tentare di farlo insieme. Ci chiediamo: chi vorrà prendere l’iniziativa di convocare le Chiese, invitandole a un serio esame di coscienza? L’organo idoneo ci sembrerebbe essere il Consiglio ecumenico delle Chiese. Speriamo che ci pensi e che ci pensi in tempo. È infatti una tappa fondamentale del processo ecumenico: non c’è rinnovamento se prima non c’è pentimento. Ma non è facile per nessuno, tanto me- no per una Chiesa, scorgere e riconoscere i propri peccati. È quasi più facile confessare la propria fede che le proprie colpe. In questa operazione, difficile e dolorosa, ci aiuta sicuramente la parola di Dio, con la quale siamo chiamati a confrontarci e vederci, come in uno specchio, quali realmente siamo. Ma ci possono aiutare molto anche altri cristiani e persino – qualche volta – i non credenti, che possono toglierci tante comode illusioni dicendo su di noi quelle verità ama- re, che da soli non avremmo visto, proprio perché è facile ingannare se stessi. L’esame di coscienza dovrebbe essere focalizzato su due punti cruciali: il primo sarebbe costituito dai peccati che le Chiese hanno commesso le une contro le altre, nei lunghi secoli della separazione e degli antagonismi confessionali, comprese le vere e proprie guerre di religione; il secondo – più impegnativo – sarebbe costituito dai peccati, infedeltà e traviamenti commessi da ogni singola Chiesa e da tutte le Chiese insieme nei confronti del comandamento e della parola di Dio e, in particolare, nei confronti di Gesù, di cui ci consi- deriamo seguaci e testimoni, per cui si applica a noi la parola del- l’apostolo Giovanni: «Chi dice di dimorare in lui deve camminare co- m’egli camminò» (1 Gv 2, 6). Dietrich Bonhoeffer, teologo e martire del nostro secolo, ha scritto pagine piene di forza e verità, nella sua Etica, su temi come colpa, giustificazione e rinnovamento. Le Chiese potrebbero e do- 212 Paolo Ricca vrebbero trarne ispirazione, coraggio e orientamento per il loro esa- me di coscienza:

«La conversione è possibile soltanto attraverso il riconoscimento della pro- pria colpa verso Cristo. Ciò che va riconosciuto come colpa non sono le sin- gole mancanze ed errori, o le trasgressioni di una legge astratta, ma la defe- zione da Cristo, dalla figura che voleva prendere forma in noi e condurci al nostro vero essere. Un autentico riconoscimento di colpa non sorge dall’e - sperienza del disfacimento e della rovina, ma sorge soltanto, per noi che l’abbiamo incontrato, dalla figura di Cristo. Presuppone quindi una certa co- munione con lui. Appunto perciò è un miracolo; infatti come può l’uomo che ha rinnegato Cristo avere ancora comunione con lui, se non per mezzo della grazia con la quale Cristo stesso tiene unito a sé il rinnegato e rimane in co- munione con lui? Il riconoscimento della colpa esiste soltanto sulla base del- la grazia di Cristo, sulla base del fatto che egli afferra colui che sta per rinne- garlo. Con questo riconoscimento di colpa ha inizio il processo che conduce alla conformità dell’uomo con Cristo» 1.

Nelle pagine successive Bonhoeffer scende nel dettaglio e, ri- percorrendo i dieci comandamenti, indica di volta in volta, con straor - dinaria perspicacia e pertinenza, i peccati di cui la Chiesa si è mac- chiata e che deve confessare, se davvero vuole rinnovarsi. Se, in occasione del giubileo o della scadenza del Duemila, le Chiese, eventualmente riunite in un «significativo incontro pancri- stiano» (TMA 55), riuscissero davvero a fare un serio esame di co- scienza come – per esempio – quello descritto da Bonhoeffer oltre cinquant’anni orsono, allora il Duemila potrebbe segnare non solo una tappa, ma una svolta nella storia cristiana. Questa svolta potreb- be annunciare, per il terzo millennio, una cristianità un po’ più “cri- stiana” di quella del secondo millennio, cioè della nostra.

PAOLO RICCA via Pietro Cossa, 42 00193 Roma

1 D. BONHOEFFER, Etica, Milano 1969, p. 93. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 213-240 L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI circa la tutela dei beni culturali ecclesiastici. Profili canonistici di Carlo Redaelli

Il 13 settembre 1996 è stata sottoscritta un’Intesa tra il Ministro per i Beni culturali e ambientali e il Presidente della Conferenza epi- scopale italiana in materia di tutela dei beni culturali ecclesiastici, co- me prima attuazione di quanto disposto dall’art. 12 dell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984. Si tratta di un avve- nimento importante per gli effetti pratici auspicabilmente positivi che avrà sull’immenso patrimonio rappresentato dai beni culturali di interesse religioso circa la loro tutela, conservazione e valorizzazio- ne, anche su un piano propriamente pastorale. Rinviando ai contributi di altri studiosi l’approfondimento del senso e dei contenuti dell’Intesa dal punto di vista del diritto ecclesia- stico e di quello italiano 1, si pensa di fare cosa utile per il lettore di Quaderni proponendo integralmente il testo di essa (cf Appendice I) con una breve presentazione, per poi soffermare l’attenzione solo sul- la rilevanza che ha e può avere nell’ordinamento canonico vigente

1 Cf G. SANTI, Le novità dell’Intesa, in «Orientamenti Pastorali» 44/9 (1996) 26-28; P. FERRARI DA PAS- SANO, L’Intesa sui beni culturali ecclesiastici, in «Aggiornamenti sociali » 48 (1997) 211-222 e in «La Ci- viltà Cattolica» 148 (1997) 461-473. Saranno poi interessanti da conoscere gli atti di convegni quale quello tenuto a Sassari il 7 marzo 1997: L’Intesa sui beni culturali di interesse religioso: problemi e pro- spettive, con l’intervento di F. Falchi, A. Paolucci, G. Santi, E. Serrenti, A. Piseddu, M. Dander, G. Zichi, G. Feliciani, F. Margiotta Broglio. Per comprendere l’Intesa nel contesto dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984 e dell’attuale si- tuazione normativa italiana, ci si può riferire a A. NICORA, I beni culturali ecclesiastici e il nuovo concorda- to, in «La Rivista del Clero Italiano» 67 (1986) 292-297; P. FERRARI DA PASSANO, I beni culturali ecclesiasti- ci, in «La Civiltà Cattolica» 144 (1993) III, 116-128; AA.VV., Beni culturali di interesse religioso. Legislazio- ne dello Stato ed esigenze di carattere confessionale, (a cura di G. Feliciani) Bologna 1995. La concreta situazione italiana è descritta sinteticamente in I beni culturali ecclesiastici in Italia, in «Orientamenti Pa- storali» 44/9 (1996) 29-30 e in un recente volume del Touring Club Italiano: AA.VV., I beni culturali eccle- siastici. Punti critici, responsabilità, proposte, (a cura del Centro Studi TCI) Milano 1996. 214 Carlo Redaelli per la Chiesa italiana 2. Si affronteranno a questo proposito cinque questioni: la valenza canonistica dell’Intesa e il suo raccordo con il diritto particolare canonico della Chiesa italiana e delle Chiese parti- colari e relativi raggruppamenti in materia di beni culturali; il concet- to di beni culturali nell’ambito canonistico; il ruolo del vescovo, la sua rappresentanza e la strutturazione della curia diocesana; le auto- rizzazioni canoniche in materia di beni culturali; i beni culturali di appartenenza degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica. A conclusione verranno presentate le prime indicazioni operative date dalle due parti che hanno sottoscritto l’Intesa e si ac- cennerà a qualche problema affiorato nei primi mesi di attuazione.

Presentazione dell’intesa

L’Intesa come applicazione dell’art. 12 dell’Accordo del 1984 Come è noto, l’Accordo di revisione del Concordato Lateranen- se, firmato il 18 febbraio 1984, che regola attualmente i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, è, diversamente dal Concordato del 1929, un accordo quadro: non interviene analiticamente su ogni questione, ma, il più delle volte, ne offre solo le linee generali, stabilendo espli- citamente la necessità di successive Intese per dare attuazione ai principi indicati. Ciò è avvenuto anche per la tematica dei beni cultu- rali affrontata nel n. 1 dell’art. 12 3. Esso afferma:

«La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico ed artistico. Al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di ca- rattere religioso, gli organi competenti delle due Parti concorderanno oppor- tune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d’interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche. La conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche dei medesimi enti e istituzioni saranno favorite e agevolate sulla base di intese tra i competenti organi delle due Parti».

2 Lo stesso articolo di P. Ferrari da Passano invita ad approfondire alcune tematiche canonistiche, tra cui «le procedure amministrative e la natura degli atti aventi per oggetto i BCE» e «il rapporto tra il ve- scovo diocesano e gli istituti religiosi in ordine ai BCE (cfr. can. 648, par. 3) che la nuova Intesa suppo- ne» (P. FERRARI DA PASSANO, L’intesa..., cit., p. 222). 3 Il n. 2 dà alcune disposizioni in materia di catacombe riprendendo, ma anche correggendo, quanto di- sposto dall’art. 33 del Concordato del 1929 (in pratica superando la riserva alla Santa Sede di tutte le catacombe esistenti in Roma anche se non cristiane). L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 215

Al di là di quello che può apparire a prima vista, il testo dell’art. 12 non è per niente lineare né di facile interpretazione 4. In questa se- de, però, interessa cogliere anzitutto il principio, innovativo rispetto al Concordato del 1929, che anche nel campo dei beni culturali ec- clesiastici va attuato quel rapporto di rispetto dell’indipendenza e so- vranità dei due ordinamenti (Stato e Chiesa cattolica), ma anche di reciproca collaborazione, che si ispira ai principi espressi nella Costi- tuzione repubblicana e nei documenti del concilio Vaticano II (cf Proemio e art. 1 dell’Accordo). Secondariamente, occorre osservare il rinvio a «opportune disposizioni» da concordare e a «intese», che devono favorire e agevolare la conservazione e la fruizione dei beni culturali. L’Intesa del settembre 1996 si colloca in questo quadro co- me primo intervento, limitandosi, come viene detto esplicitamente nella premessa, alle indicazioni del comma primo e secondo. Non è azzardato pensare che il comma terzo, relativo agli archivi e alle bi- blioteche, trovi presto attuazione con una specifica intesa. È interessante notare che quanto contenuto nell’Accordo tra Sta to italiano e Chiesa cattolica ha fatto scuola anche per le Intese con altre confessioni religiose. In tutte quelle finora stipulate 5, infat- ti, il tema dei beni culturali è sempre affrontato e, in tre casi (con val- desi, ebrei e luterani), anche con la previsione di commissioni miste per l’attuazione di forme di collaborazione per la tutela e la valorizza- zione dei beni culturali 6.

La promulgazione dell’Intesa L’Intesa, predisposta nell’ambito della Commissione paritetica ita lo-vaticana, istituita il 13 febbraio 1987 per studiare l’attuazione di una serie di questioni previste nell’Accordo del 1984 – a cui si è ag- giunto il lavoro di un’apposita Commissione bilaterale CEI - Ministero per i Beni culturali e ambientali istituita nell’ottobre 1994 – è giunta al- la firma nel settembre 1996. Per diventare legge a tutti gli effetti nel -

4 Per una sintetica, ma puntuale e precisa esegesi del testo, che permette di leggervi al di sotto pre- comprensioni ideologiche, posizioni dottrinali discusse, soluzioni di compromesso, ecc. si veda A. NI- CORA, I beni culturali ecclesiastici..., cit., e G. PASTORI, L’art. 12 dell’Accordo 18 febbraio 1984 nel quadro dell’ordinamento giuridico italiano, in AA.VV., Beni culturali di interesse religioso..., cit., pp. 29-40. 5 Si tratta delle Intese con le seguenti confessioni religiose: la Tavola Valdese, l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno, le Assemblee di Dio in Italia, l’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia e la Chiesa evangelica luterana in Italia. 6 Su questo cf P. FERRARI DA PASSANO, L’intesa..., cit., pp. 216-217, nota 14. 216 Carlo Redaelli l’ordinamento italiano ha dovuto attendere la promulgazione, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 novembre 1996, n. 262 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 settembre 1996, n. 571, con il quale «piena ed intera esecuzione è data all’intesa fra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della Conferenza epi- scopale italiana, firmata il 13 settembre 1996». Per quanto riguarda, invece, l’ordinamento canonico, l’Intesa è stata promulgata con la pubblicazione, disposta dal decreto del Pre- sidente della CEI del 29 ottobre 1996, sul Notiziario della Conferenza episcopale italiana del 20 novembre 1996. In deroga al disposto del can. 8 § 2, ripreso nell’art. 17 § 3 dello Statuto della CEI, che prevede di norma una vacatio legis di un mese, il suddetto decreto ha stabili- to che l’Intesa «divenga immediatamente esecutiva nell’ordinamento canonico». Ma sul problema della promulgazione canonica occor- rerà tornare in seguito.

I contenuti dell’Intesa La lettura degli otto articoli che compongono l’Intesa evidenzia che essa ha principalmente lo scopo di favorire tra Stato e Chiesa ita- liana lo scambio di informazioni ed eventuali interventi comuni nel campo dei beni culturali ecclesiastici. In tale prospettiva vengono in- dividuati con chiarezza i soggetti del dialogo e vengono stabiliti alcu- ni adempimenti obbligatori a cadenza periodica. I soggetti sono, come stabilisce l’art. 1: da parte statale, a livello centrale, il Ministro per i beni culturali e ambientali e i direttori ge- nerali degli Uffici centrali del Ministero da lui designati, mentre a li- vello periferico sono competenti i Soprintendenti; da parte ecclesia- le, a livello centrale, il Presidente della CEI o le persone da lui dele- gate, mentre a livello locale i vescovi diocesani o le persone da loro delegate. Sempre da parte ecclesiale si aggiungono ai due livelli gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica anche con le loro articolazioni, purché civilmente riconosciuti e a livello non infe- riore di provincia religiosa. Viene poi costituito un soggetto misto, cioè l’Osservatorio cen- trale per i beni culturali di interesse religioso di proprietà ecclesiasti- ca, che è composto in modo paritetico da rappresentanti del Ministe- ro e della CEI ed è dotato di una duplice presidenza (cf art. 7). Altri soggetti citati dalla normativa sono: l’Ufficio centrale del Ministero per i beni culturali e ambientali competente per i beni li- L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 217 brari (cf art. 5, c. 3); l’ordinario diocesano, con il quale il competente organo del Ministero deve cercare un’intesa per quel che concerne le esigenze di culto (cf art. 6, che riprende la già vigente norma del- l’art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089); i titolari dei beni eccle- siastici (cf art. 6 e art. 5 per i beni soggetti alla giurisdizione del ve- scovo); i rappresentanti di amministrazioni ed enti pubblici e di enti e istituzioni ecclesiastiche, che possono essere invitati a partecipare alle riunioni dell’Osservatorio (cf art. 7, c. 3); le Regioni e gli altri en- ti autonomi territoriali, possibili soggetti di intese a livello locale con enti ecclesiastici, tenendo come riferimento l’Intesa tra Ministero e Presidenza della CEI (cf art. 8). Gli adempimenti previsti sono di quattro tipi e coinvolgono ai di- versi livelli i soggetti sopra indicati. Un primo tipo di adempimento reciproco è quello informativo e riguarda i programmi di attività e gli specifici interventi che le due parti, statale ed ecclesiale, intendono assumere in riferimento ai beni culturali ecclesiastici. L’informazione va realizzata attraverso apposite riunioni a livello centrale e a livello locale (cf art. 1) e deve riguardare anche l’attuazione e la conclusione degli interventi (cf art. 4). Non si parla in questo caso di cadenze obbligatorie per le riunioni, ma il fatto che ci si riferisca anche ai piani annuali fa presumere che sia necessa- ria almeno una riunione all’anno. Un secondo adempimento, non obbligatorio, concerne la possibi- lità di accordo tra le parti per realizzare con un impegno comune, or- ganizzativo e finanziario, interventi e iniziative (cf art. 3). Anche que- sta forma di collaborazione sarà oggetto di reciproca informazione. Una terza serie di adempimenti è quella che riguarda il rap- porto con i Soprintendenti (e l’Ufficio centrale per i beni librari) in relazione alle richieste di interventi di restauro, di conservazione o a quelle di autorizzazione previste dalle norme vigenti (cf art. 5). In questo caso, unico competente da parte ecclesiastica a presenta- re le istanze è il vescovo diocesano (o le persone da lui delegate). Egli ne deve valutare anche congruità e priorità, se si tratta di beni culturali appartenenti a enti a lui soggetti; mentre deve solo farsi tra- mite della presentazione delle richieste per quelli appartenenti agli Istituti di vita consacrata o a Società di vita apostolica. L’ordinario diocesano, poi, deve essere interpellato, ai fini di una previa intesa per quel che concerne le esigenze di culto, da parte del competen- te organo del Ministero in occasione di provvedimenti amministrati- vi riguardanti beni culturali ecclesiastici (cf art. 6). Lo stesso orga- 218 Carlo Redaelli no deve comunicare i provvedimenti per il tramite dell’ordinario dio- cesano. Un ultimo adempimento è quello della verifica delle forme di collaborazione, per una loro effettiva attuazione e per un loro miglio- ramento, ed è di competenza dell’Osservatorio centrale, che è tenu- to a riunioni con cadenza almeno semestrale (cf art. 7).

La valenza canonistica dell’Intesa e il suo raccordo con il diritto particolare Considerando l’Intesa nel suo insieme, due sono le questioni che interessano sotto il profilo canonistico: la sua valenza nell’ordi - namento canonico e il suo raccordo con il diritto particolare, sia pro- veniente dalla CEI, sia dai singoli vescovi o da gruppi di essi.

La valenza canonistica La questione che ci si deve porre è duplice: l’Intesa vale all’interno dell’ordinamento della Chiesa? In altre parole: è vero e proprio diritto canonico? E se sì, qual è la fonte del suo valere? Alla prima domanda occorre rispondere che, quando la Chiesa sottoscrive convenzioni con gli Stati o con le altre società politiche, una volta che esse siano state regolarmente promulgate da parte della Chiesa, diventano norma a tutti gli effetti nell’ordinamento ca- nonico, sia sotto il profilo del diritto pubblico esterno, sia sotto il pro- filo del diritto ecclesiale interno. Il primo aspetto riguarda i rapporti della Chiesa con la comunità politica ed è ovvio che di esso facciano parte le convenzioni che regolamentano tali rapporti; il secondo, in- vece, riguarda la vita dell’organismo ecclesiale ed è interessato dalle convenzioni con le società politiche se e in quanto in esse siano con- tenute norme che concernono direttamente l’ordinamento interno della Chiesa. Per fare un esempio, si pensi alle norme di origine pat- tizia sul sostentamento del clero in Italia: esse riguardano i rapporti tra Chiesa e Stato italiano regolamentando, tra l’altro, gli impegni fi- nanziari di quest’ultimo nei confronti del clero, ma danno anche at- tuazione all’interno della Chiesa italiana alle disposizioni codiciali circa il sostentamento del clero (cf cann. 222 § 1; 281), circa la rifor- ma e il superamento del sistema beneficiale (cf can. 1272) e circa l’apposito istituto diocesano (cf can. 1274 § 1). Nelle norme di origi- ne pattizia circa il sostentamento del clero sono quindi contenute di- L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 219 sposizioni che entrano a far parte a pieno titolo del diritto particolare canonico per la Chiesa italiana. Con la legittima promulgazione dell’Intesa sui beni culturali nel - l’ordinamento canonico, si è dato quindi valore a essa sia nell’ambito dei rapporti con la comunità politica italiana, sia nella sfera stessa dell’ordinamento della Chiesa con riferimento a quanto nell’Intesa può essere considerato diritto particolare per la Chiesa italiana. Ma da dove trae forza di legge il diritto particolare contenuto nell’Intesa? Come per tutte le leggi canoniche, dal fatto di provenire, sia pure nella modalità pattizia, dal legittimo legislatore canonico e di essere stato promulgato nelle forme previste. È infatti la legittima pro- mulgazione ciò che istituisce la legge 7, anche se nel caso di norme di origine pattizia l’istituzione va vista più propriamente come un dare esecuzione nello specifico ordinamento 8 a una serie di norme a cui il legislatore si è già obbligato con la sottoscrizione della convenzione 9. Si è parlato di legittimo legislatore, intendendo riferirsi a chi nella Chiesa detiene la potestà legislativa per diritto nativo (il Papa e i vescovi) o per disposizione di legge o speciale mandato (per esem- pio, la Conferenza episcopale). Ora, nel caso dell’Intesa, chi è il le- gittimo legislatore? Verrebbe spontaneo rispondere che è la CEI. La cosa, in realtà, è più complessa di quello che può apparire a prima vista e diversi sono i problemi da risolvere per arrivare a una corret- ta risposta. Una prima questione riguarda l’identificazione del soggetto che ha condotto le trattative per l’Intesa giungendo infine a sottoscriver- la. Va tenuto presente anzitutto che il n. 1 dell’art. 12 da cui trae ori- gine l’Intesa – citato sopra per esteso –, diversamente dall’art. 5 del Protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato Late- ranense (riguardante l’insegnamento della religione cattolica), non parla di Conferenza episcopale italiana e di Ministero (in questo caso

7 «La legge è istituita quando è promulgata» (can. 7). Il can. 8 stabilisce le formalità della promulgazione. 8 Il decreto del Presidente della CEI dispone la promulgazione dell’Intesa mediante pubblicazione sul Notiziario ufficiale della CEI e, insieme, che essa «divenga immediatamente esecutiva nell’ordinamento canonico». A sua volta il decreto del Presidente della Repubblica italiana dispone che «piena ed intera esecuzione è data all’Intesa». 9 Se è vero, quindi, che anche le norme di derivazione pattizia diventano leggi con la promulgazione, vengono cioè con questo atto istituite come tali, è però vero che esse già esistono prima della promul- gazione con una forza obbligante non tanto nei confronti dei soggetti interni all’ordinamento, quanto verso i responsabili delle due parti che si sono pattiziamente impegnati a promulgarle. Ecco perché la promulgazione di tali leggi non è una semplice istituzione, ma è piuttosto un dare esecuzione a ciò che già è stato convenuto. Ed è stato convenuto sia il contenuto dell’accordo, sia il fatto che esso diventi parte integrante dei rispettivi ordinamenti con la legittima promulgazione. 220 Carlo Redaelli quello per i beni culturali e ambientali) come soggetti cui spetta sti- pulare ulteriori accordi, ma più genericamente di «organi competen- ti delle due Parti». Che l’organo ecclesiale competente sia la CEI do- vrebbe quindi risultare da altra disposizione normativa o, in mancan- za, da uno specifico intervento della Santa Sede. Salvo errore, però, non risulta che ci siano norme che stabiliscano la competenza della CEI in materia 10. Anche l’art. 13, n. 2 del Concordato del 1984 che in- dividua la CEI, oltre la Santa Sede, come soggetto di nuovi accordi con le autorità competenti dello Stato, non pare pertinente perché ri- guarda il caso di «ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione»: se si parla di «ulteriori materie», significa che non si intende riferirsi a quelle già trattate, tra cui la materia dei beni culturali affrontata nell’art. 12. Non resta che ipotizzare che ci sia stato uno specifico intervento della Santa Sede attraverso il quale si sia individuato il Presidente della CEI come organo competente per la stipula dell’Intesa e questo atto sia stato accettato da parte italiana anche solo implicitamente con la sottoscrizione comune dell’Intesa. Non si è a conoscenza di tale atto: potrebbe però essere la stessa au- torizzazione alla firma concessa con foglio n. 6768/96/RS datato 12 settembre 1996, che il Presidente della CEI cita nel proprio decreto e a cui si fa riferimento nel testo dell’Intesa con la frase «debitamen- te autorizzato dalla Santa Sede». L’iter che ha portato all’Intesa offre ulteriori elementi per chia- rire la questione anche se non del tutto univoci 11. In particolare va ri- levato che nell’ottobre 1994 è stata costituita una Commissione bila- terale CEI - Ministero per i beni culturali e ambientali, che ha di fatto elaborato il testo dell’Intesa. Sembra, quindi, che da tale data si siano individuati rispettivamente la CEI e il suddetto Ministero come orga- ni competenti. Resta, però, il fatto che prima e anche dopo tale data la materia sia stata affrontata da parte di una Commissione paritetica italo-vaticana, cui si deve la definizione finale della bozza, licenziata il 21 novembre 1995. Fino a questa data, pertanto, la competenza sulla materia dell’art. 12 sembra coinvolgere ancora, almeno come super- visione generale, la Santa Sede. In ogni caso, a prescindere dalla pre-

10 Diversamente da quanto disposto dall’art. 75 delle Norme circa gli enti e i beni ecclesiastici in Italia, in riferimento all’attuazione di parte di dette norme nell’ordinamento canonico: «Per le disposizioni di cui al precedente comma relative al titolo II delle presenti norme, l’autorità competente nell’ordinamento canonico è la Conferenza episcopale italiana». 11 L’iter viene descritto nel numero di ottobre 1996 del Notiziario dell’Osservatorio Giuridico Legislativo della CEI («Note e Commenti» 1-2). Il testo è stato ripreso da «L’Amico del Clero» 78 (1996) 514-516. L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 221 disposizione delle bozze e dalla conduzione delle trattative, il sogget- to che sottoscrive da parte ecclesiale, stando alla lettera dell’Intesa, è il Presidente della CEI, «che, debitamente autorizzato dalla Santa Sede, agisce a nome della Conferenza stessa». Il Presidente dei ve- scovi italiani, pertanto, agisce in quanto tale, a nome e per conto del- la CEI, e non come incaricato o mandatario della Santa Sede, che so- lo lo autorizza. Appare, di conseguenza, coerente che la promulgazione dell’In- tesa nell’ordinamento canonico avvenga a opera del Presidente della CEI e sul Notiziario ufficiale della stessa Conferenza e non tramite la pubblicazione su Acta Apostolicae Sedis, come è avvenuto per l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana che apporta modi- fiche al Concordato Lateranense e per le Norme circa gli enti e i beni ecclesiastici in Italia 12. Sembra quindi condotto a soluzione il problema che si stava af- frontando: l’Intesa è stata stipulata da parte ecclesiale a opera del Presidente della CEI a nome di essa e dallo stesso, sempre in quanto Presidente della Conferenza dei vescovi italiani, ha avuto esecuzione nell’ordinamento canonico con la promulgazione: ecco da dove na- sce la sua forza di norma per la Chiesa italiana. Si è scritto sembra perché, in realtà, non lo è. Risolta la questione del soggetto sotto- scrittore dell’Intesa, resta infatti il problema di determinare il ruolo della Conferenza episcopale nello stipulare l’Intesa e nel promulgar- la nell’ordinamento canonico. Si afferma che il Presidente agisce «a nome della Conferenza»; ma, agire a nome di un altro, soprattutto quando questo altro è un organo collegiale, non può significare agire al posto di un altro: il presidente di un organo lo rappresenta e non lo sostituisce nell’esprimerne la volontà, se non per specifica previsio- ne normativa (che fa riferimento di solito ai cosiddetti poteri di ordi- naria amministrazione) o per precisa delega. Nel caso in esame, però, non pare esserci stato alcun atto della Conferenza episcopale con il quale sia stata approvata l’Intesa o sia stato dato mandato al Presidente per stipularla o per promulgarla. Si osservi la premessa all’Intesa: in parallelo all’autorizzazione del Consiglio dei Ministri a favore del Ministro per i beni culturali e ambientali ci si aspettereb- be l’autorizzazione della Conferenza episcopale al suo Presidente, mentre invece c’è l’autorizzazione della Santa Sede: eppure il Presi-

12 Cf AAS 77/6 (1985). 222 Carlo Redaelli dente non agisce a nome della Santa Sede, ma della Conferenza e, si precisa, «ai sensi dell’articolo 5 del suo Statuto e in conformità agli indirizzi contenuti nelle Norme e negli Orientamenti approvati dalla Conferenza episcopale italiana, rispettivamente del 14 giugno 1974 e del 9 dicembre 1992». Il rinvio a questi documenti 13, regolarmente approvati dall’Assemblea della CEI, non aiuta a risolvere la questio- ne: anche se in essi si accenna al rapporto con lo Stato (ai nn. 3 e 4 delle Norme e ai nn. 10 e 42 degli Orientamenti) non si afferma da nessuna parte che l’Assemblea incarica in materia il suo Presidente. Il riferimento all’art. 5 dello Statuto CEI sembra più pertinente. Inti- tolato Rapporti con la società civile, afferma:

«§ 1. La Conferenza episcopale italiana sviluppa gli opportuni rapporti con le realtà culturali, sociali e politiche presenti in Italia, ricercando una costrutti- va collaborazione con esse per la promozione dell’uomo e il bene del Paese. § 2. In vista delle stesse finalità orienta e coordina, all’occorrenza, i rapporti dei Vescovi diocesani e delle Conferenze episcopali regionali con le medesi- me realtà esistenti ai livelli locali. § 3. Nel rispetto delle debite competenze e per il tramite della Presidenza, la Conferenza tratta con le Autorità civili le questioni di carattere nazionale che interessano le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Italia, anche in vista della stipulazione di intese che si rendessero opportune su determinate materie. § 4. Nelle materie a essa eventualmente demandate da accordi concordatari tra la Santa Sede e lo Stato italiano, la Conferenza agisce entro gli ambiti e secondo le procedure previsti dagli specifici mandati ricevuti dalla Sede Apo- stolica» 14.

I paragrafi che interessano sono il terzo e il quarto. Un primo problema riguarda il rapporto tra le due disposizioni. Esso potrebbe essere inteso nel senso che dove c’è una competenza della Conferen- za a seguito di accordi concordatari tra Santa Sede e Stato italiano, le procedure – compresa l’individuazione degli organi incaricati della trattativa e della stipula delle Intese – verrebbero stabilite caso per caso dalla Sede Apostolica; di conseguenza quanto disposto dal para- grafo terzo anche a livello procedurale (compreso il compito proprio della Presidenza) riguarderebbe altre possibili intese e non quelle su materie di origine concordataria. Si potrebbe, però, anche interpreta- re i due paragrafi nel senso che, salvo diversa disposizione della San-

13 Si possono trovare rispettivamente in ECEI 2, nn. 1319-1350 e ECEI 5, nn. 1213-1283, come pure in CESEN, Codice dei beni culturali di interesse religioso. I. Normativa canonica, (a cura di M. Vismara Missiroli) Milano 1993, nn. 65 e 71. 14 ECEI 3, n. 2309. L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 223 ta Sede, anche per Intese in materie concordatarie le procedure sa- rebbero quelle previste dal paragrafo terzo. A parte tale questione, rimane da chiedersi il senso dell’espressione «per il tramite della Presidenza» riferita alle trattative della Conferenza con le autorità statali, anche in vista della stipulazione di Intese. Tale locuzione do- vrebbe significare che l’organo competente a trattare a nome della Conferenza con le autorità dello Stato è la Presidenza e non altri or- gani della Conferenza, per esempio la Segreteria o il Consiglio per- manente; non sembrerebbe, invece, significare che la Presidenza possa impegnare la Conferenza senza bisogno di alcun mandato o per lo meno consultazione della stessa. In realtà il fatto che la firma dell’Intesa da parte del Presidente della CEI venga giustificata, come già era stato fatto per le due Intese in materia di insegnamento della religione cattolica 15, con il rinvio all’art. 5 dello Statuto fa concludere che la procedura prevista dal paragrafo terzo riguarda anche le Inte- se derivanti da accordi concordatari e che l’espressione «per il trami- te della Presidenza» significa a piena discrezione e con i più ampi po- teri della Presidenza. Se quanto affermato vale per la stipula dell’Intesa, ci si può do- mandare che cosa avvenga per la sua promulgazione, problema che alla fine è determinante per stabilirne il valore vincolante nell’ordina - mento canonico. Il decreto di promulgazione (riportato in Appendi- ce II) cita anzitutto l’art. 5 dello Statuto. I problemi sopra esaminati si ripropongono anche a livello di promulgazione: la Presidenza ha potere di dare valore canonico alle disposizioni dell’Intesa, senza che sia posto alcun atto formale da parte della Conferenza? Al l’art. 5 si aggiunge il rinvio all’art. 2 § 3. Non se ne comprende il motivo. Il te- sto infatti afferma: «La Conferenza ha la sua sede in Roma ed è giuri- dicamente rappresentata dal Presidente». Ancora una volta: rappre- sentare giuridicamente non significa immediatamente detenere il po- tere legislativo proprio della Conferenza. Più oltre viene citato l’art. 17 § 3 dello Statuto. Tale articolo afferma:

«Le deliberazioni hanno valore solo a seguito della recognitio della Sede Apo- stolica e, ordinariamente, diventano esecutive con la promulgazione median- te il Notiziario ufficiale della CEI, e dopo la vacatio di cui al can. 8 § 2 del Co- dice di diritto canonico».

15 Si veda il testo rispettivamente in ECEI 3, nn. 2924-2953 e ECEI 4, nn. 2375-2390. 224 Carlo Redaelli

Le deliberazioni a cui si fa riferimento sono quelle vincolanti giuridicamente, che la Conferenza può emettere solo quando è previ- sto dal diritto universale o le viene concesso da un mandato della Santa Sede (cf § 1 del medesimo articolo) e che vanno prese con la maggioranza dei due terzi (cf § 2). Non si parla invece di Intese o di altro. La citazione dell’art. 17 § 3 risulta pure, pertanto, non motiva- ta, salvo ci si voglia riferire alla sola modalità di promulgazione che verrebbe estesa per analogia dalle deliberazioni a carattere vincolan- te alle Intese 16. In conclusione, la forza vincolante nell’ambito del diritto canoni- co particolare italiano dell’Intesa può provenire solo da due fonti: o dalla Conferenza episcopale italiana, che però avrebbe demandato tutti i propri poteri in materia (conduzione della trattativa, sottoscri- zione delle Intese, loro promulgazione agli effetti canonici) alla Pre- sidenza attraverso l’accenno contenuto nell’art. 5 § 3 dello Statuto 17, approvato dalla Sede Apostolica (cf can. 451) presumibilmente con le necessarie deroghe alla normativa del Codice; oppure, da un ap- posito mandato della Santa Sede, forse contenuto nella previa auto- rizzazione alla firma concessa al Presidente della CEI, mandato com- prendente anche il potere di promulgare l’Intesa rendendola esecuti- va per l’ordinamento canonico 18. Dai ragionamenti fin qui svolti pare plausibile la prima ipotesi, che pure suscita più di una perplessità. Comunque, nell’uno o nell’altro caso una maggior chiarezza dei te- sti, in particolare del decreto di promulgazione, avrebbe potuto aiu- tare a non avere dubbi circa il valore delle Intese nell’ambito del di- ritto particolare canonico 19.

16 Le due Intese sull’insegnamento della religione cattolica citano nel decreto di promulgazione gli stes- si canoni seguiti dal can. 804 § 1. Si tratta della disposizione che stabilisce la competenza della Confe- renza episcopale circa l’istruzione e l’educazione religiosa nelle scuole o attraverso gli strumenti di co- municazione sociale: «Spetta alla Conferenza Episcopale emanare norme generali su questo campo d’azione»; spetta alla Conferenza e non alla Presidenza di essa, salvo esplicito mandato della Conferen- za a essa, con relativa recognitio della Santa Sede. Invece le due Intese hanno coinvolto solo la Presi- denza: non si comprende, quindi, il senso della citazione del can. 804 § 1, che è invece giustamente ri- cordato nelle premesse alle delibere in materia di insegnamento della religione prese dall’Assemblea della CEI (cf ECEI 4, nn. 312-314). 17 Ripreso nell’art. 29 dove si tratta dei compiti della Presidenza. 18 Come ricorda M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano. La normativa della CEI, Bolo- gna 1992, pp. 30-32, nota 38, la Santa Sede ha già dato in due casi uno specifico mandato al Presidente della CEI per facilitare l’attuazione delle Norme in materia di sostentamento del clero. Si trattava però di mandati non per la stipula di norme pattizie, ma per la loro rapida ed efficace attuazione nell’ordinamento canonico, attuazione che restava comunque di competenza dell’intera CEI, come di- sposto dal citato art. 75 delle Norme e come di fatto realizzato attraverso molteplici delibere. 19 Purtroppo il volume, molto interessante e competente di Marchesi, citato alla nota precedente, non tratta le problematiche qui affrontate. Anche il recente articolo di M. Calvi non entra nel merito della L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 225

L’Intesa e il diritto particolare canonico in materia di beni culturali La relazione tra l’Intesa e le disposizioni di diritto particolare emanate dalla CEI è affermata esplicitamente negli Orientamenti del 1992, che più volte fanno riferimento all’art. 12 dell’Accordo di revi- sione del Concordato e alle Intese previste da esso (cf nn. 1; 10; 42). Molto interessante è l’ultimo numero del documento (42) che preve- de una triplice apertura di esso in

«tre distinte direzioni: nei riguardi dell’Accordo di revisione concordataria e delle intese attuative dell’art. 12 che sono destinate a completarlo, nei riguar- di degli adattamenti che le conferenze episcopali regionali, con la consulen- za delle consulte regionali per i beni culturali, decideranno di introdurre in relazione alle specifiche necessità locali, nei riguardi, infine, della legislazio- ne sinodale delle diocesi italiane che è chiamata a precisare ulteriormente la responsabilità delle Chiese in ordine ai beni culturali ecclesiali» 20.

Come si può osservare da questo testo, l’Intesa attuale (e quelle che auspicabilmente verranno sottoscritte in futuro) non resta un ele- mento isolato o quasi marginale nel panorama delle disposizioni con- cernenti i beni culturali ecclesiali, ma fa parte a pieno titolo dell’inte- ro quadro normativo che la CEI sta progressivamente completando 21 e con essa anche le conferenze regionali e le singole diocesi. Va osservato che l’Intesa, stabilendo articolati livelli di informa- zione e di collaborazione con i diversi organi dello Stato e ponendosi a modello per intese a livello regionale (cf art. 8), è pienamente coe- rente con lo svilupparsi della normativa canonica su diversi piani 22, in continuità con l’esigenza che i beni culturali ecclesiali vengano

competenza normativa della CEI in materia concordataria (cf M. CALVI, La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 9 [1996] 449-475). 20 Cf ECEI 5, n. 1283. 21 Il n. 1 degli Orientamenti riconosce il superamento delle Norme del 1974 e ne prospetta la sostituzio- ne con disposizioni più complete e aggiornate. 22 Lo sviluppo in Italia della normativa canonica o comunque dell’attenzione ecclesiale ai diversi livelli in tema di beni culturali è ben testimoniato dal Codice del CESEN, che riporta interventi della CEI, di concili particolari, di conferenze regionali, di sinodi diocesani. Interessante è anche l’intesa tra Regione Toscana e Conferenza episcopale toscana, riportata al n. 101, che anticipa il modello di informazione e collaborazione proposto ora a livello statale dall’Intesa che si sta illustrando. Gli accordi a livello regio- nale e anche infraregionale tra diocesi e regioni ecclesiastiche ed enti pubblici hanno trovato recente- mente un’ulteriore spinta dai progetti di intervento legati al Giubileo, che interessa esplicitamente an- che i beni culturali di carattere religioso. Il decreto 17 settembre 1997 del Ministro dei lavori pubblici, relativo ai criteri di selezione delle richieste di inserimento nel piano di interventi per il Giubileo in lo- calità fuori del Lazio, ha indicato come uno degli elementi di priorità da tenere presenti il fatto che le iniziative proposte siano riferite a mete religiose individuate da intese e accordi «che coinvolgano le Conferenze episcopali regionali» (art. 4, c. 2) o siano ricomprese «in progetti funzionalmente integrati oggetto di intese, concerti ed accordi di programma» (art. 4, c. 3). 226 Carlo Redaelli considerati come un fatto unitario italiano e insieme come espressio- ne, da custodire e valorizzare, di una cultura anche religiosa profon- damente legata al territorio.

Quanto poi alle modifiche che l’Intesa introduce nel diritto par- ticolare già esistente in materia, occorrerà riferirsi a quanto verrà il- lustrato nei punti seguenti. Si può però anticipare che si tratta co- munque di indicazioni di carattere procedurale, che non modificano nel merito quanto finora si è prodotto da parte ecclesiale ai vari livel- li in materia di beni culturali, ma solo possono portare a rivedere de- terminate procedure.

Il concetto di beni culturali in ambito canonistico Un effetto indiretto dell’Intesa è quello di rafforzare ulterior- mente l’uso anche in ambito ecclesiale e non solo statale del concet- to di beni culturali. Si tratta di una concettualizzazione che ha una storia recente nella sfera canonistica 23. Basti ricordare che l’attuale Codice di diritto canonico parla una sola volta di beni culturali nel can. 1283, 2° dove si dispone la necessità di fare un inventario, prima che gli amministratori assumano il loro incarico, anche «dei beni mobili sia preziosi sia comunque riguardanti i beni culturali». Per il resto si segue la terminologia tradizionale e soprattutto l’atteggia - mento altrettanto tradizionale di parlare di «oggetti preziosi di valore artistico o storico» (can. 1292 § 2) solo in riferimento al problema della loro alienazione. È vero che nel Codice attuale non manca qual- che segno di atteggiamento diverso, circa gli archivi storici da tutela- re (cf cann. 491 § 2 e 535 § 5), le testimonianze votive dell’arte e del- la pietà popolare da conservare nei santuari (cf can. 1234 § 2) e circa i sistemi di protezione dei beni sacri e preziosi conservati negli edifi- ci di culto (cf can. 1220 § 2), ma purtroppo bisogna prendere atto che nel corso dei lavori di riforma venne rifiutata esplicitamente e con motivazioni poco convincenti la proposta di inserire il concetto di beni culturali, anzi di trattarne in un apposito titolo del Codice 24.

23 Cf G. FELICIANI, Normativa della Conferenza episcopale italiana e beni culturali di interesse religioso, in AA.VV., Beni culturali di interesse religioso..., cit., pp. 135-137; P. FERRARI DA PASSANO, I beni culturali ecclesiastici, cit. 24 Cf «Communicationes» 15 (1984) 27-28. La proposta conteneva anche uno schema dell’ipotetico capi- tolo: «Le ragioni che muovono la Chiesa non solo a prestare tutela ma anche a riconoscere il valore cul- turale di questi beni; l’autonomia della Chiesa in tale sfera; la raccomandazione dell’osservanza delle L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 227

Risulta, quindi, positivo che l’Intesa sia coerente con la normati- va della CEI, che già nelle Norme del 1974 parlava, se non nel titolo (facente riferimento al patrimonio storico artistico), almeno nel con- tenuto del documento, di beni culturali e ancora di più lo ha fatto, questa volta già dal titolo, negli Orientamenti del 1992. Anche la Santa Sede si è mossa decisamente nella stessa linea: con la Lettera apostolica Inde a pontificatus 25 il 25 marzo 1993 Gio- vanni Paolo II non solo ha unito nel nuovo Pontificio Consiglio per la cultura il precedente organismo con lo stesso nome e il Pontificio Consiglio per il dialogo con i non credenti, ma ha anche cambiato il nome alla Pontificia Commissione per la conservazione del patrimo- nio artistico e storico della Chiesa, nata con la Pastor Bonus del 1988, in Pontificia Commissione per i beni culturali, rendendola nel con- tempo autonoma rispetto alla Congregazione per il clero e chiaman- dola a far riferimento al Pontificio Consiglio per la cultura. Resta da ricordare che già da tempo le Chiese particolari italia- ne hanno adottato il concetto di beni culturali e lo hanno trattato am- piamente nella loro legislazione particolare. Basti qui ricordare il Si- nodo 47° della Diocesi di Milano, promulgato tre anni fa, che ha un capitolo intitolato I beni culturali di interesse religioso 26.

Il ruolo del vescovo e la sua rappresentanza Si è visto, presentando sopra i soggetti previsti dall’Intesa come protagonisti del dialogo e della collaborazione in materia di beni cul- turali, che un ruolo fondamentale è dato ai vescovi diocesani e alle «persone delegate dai Vescovi stessi»; un ruolo meno accentuato, ma pur sempre importante, è dato poi all’ordinario diocesano (cf art. 6). Può essere interessante affrontare tali figure da un punto di vista ca- nonistico. Una prima questione riguarda la differenza tra vescovo e ordina- rio diocesano. Il Codice attuale è particolarmente rigoroso nel distin- guere le due figure, anche ai fini della potestà esecutiva. Vescovo dio- norme civili vigenti in questa materia, sia nazionali che internazionali, la promozione di tale osservanza anche tramite convenzioni» e si concludeva con l’invito a rinviare ampiamente al diritto particolare (pare che la proposta provenisse dal cardinale Giovanni Colombo: per questa segnalazione e per lo sviluppo delle questioni annesse rinvio alla tesi di dottorato, diretta dal professor P. Ferrari da Passano, che C. Az- zimonti ha in corso di elaborazione presso la Facoltà di diritto canonico dell’Università Gregoriana). 25 Cf AAS 85 (1993) 549-552 (EV 13, nn. 2157-2168). 26 Cf DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, Milano 1995, pp. 347-351. Altri testi nel citato Codice dei beni cultu- rali di interesse religioso. 228 Carlo Redaelli cesano e ordinario di luogo – questa è la terminologia codiciale – non sono sinonimi. Il can. 134 non solo distingue tra i due concetti (ordi- nario di luogo sono anche, oltre al vescovo diocesano, i vicari ge - nerali ed episcopali), ma precisa al paragrafo terzo che «quanto viene attribuito nominatamente al Vescovo diocesano nell’ambito della po- testà esecutiva, s’intende competere solamente al Vescovo diocesano [...], esclusi il Vicario generale ed episcopale, se non per mandato speciale». Ci si può domandare se il fatto che nell’Intesa si parli di solito di vescovo diocesano e solo nell’art. 6 di ordinario diocesano si fondi su queste distinzioni canonistiche. Non si hanno elementi per risolvere la questione con chiarezza. Tra l’altro, l’art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, le cui disposizioni sono riprese dall’art. 6, non parla di ordinario diocesano, ma di autorità ecclesiastica. In ogni ca- so le funzioni attribuite all’ordinario diocesano nel citato articolo non sembrano particolarmente differenti da quelle affidate al vescovo diocesano negli altri articoli. Inoltre, viene previsto esplicitamente che i compiti del vescovo diocesano possono essere svolti anche da persone da lui delegate: non si tratta quindi di atti di potestà esecuti- va riservati al vescovo diocesano a norma del can. 134. Si può allora concludere che i termini vescovo diocesano e ordinario diocesano so- no utilizzati dall’Intesa come sinonimi e che sarebbe stato auspicabi- le un uso più accorto della terminologia canonica (come avvenuto, per esempio, nelle Norme circa gli enti e il sostentamento del clero) o una rinuncia alla stessa per una terminologia più generica, del tipo autorità ecclesiastica (come avvenuto per l’Accordo di revisione del Concordato). Si è vista la possibilità che il vescovo o ordinario diocesano at- tribuisca le sue funzioni a persone da lui delegate. Ciò non contrasta con la normativa canonica, se vale l’interpretazione sopra indicata. È corretto però distinguere due tipi di delega: la prima relativa a fun- zioni di rappresentanza nel rapporto e dialogo con i competenti orga- ni civili, la seconda riferita a funzioni che in qualche modo implicano una potestà esecutiva, come la valutazione della congruità e della priorità degli interventi, di cui all’art. 5, c. 1. Mentre il primo tipo di delega può essere adoperato con una certa larghezza, il secondo va impiegato con prudenza e con la certezza che venga comunque mantenuto uno stretto rapporto con il vescovo diocesano, che resta il responsabile ultimo anche in materia di beni culturali. Evidente- mente per sostenere tale responsabilità, anche in mancanza di veri e propri delegati, come pure per attribuire le opportune deleghe, il ve- L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 229 scovo si avvarrà solitamente di organi e persone della propria curia diocesana, in particolare di quelle figure già previste dalla normativa vigente in materia di beni culturali: la Commissione per l’arte sacra e i beni culturali e l’Ufficio diocesano per i beni culturali 27. Il responsa- bile del suddetto Ufficio sembra essere la persona più idonea a rap- presentare il vescovo nelle sedi competenti e nell’aiutarlo per le valu- tazioni di sua spettanza. Nella misura in cui gli interventi sui beni culturali rientrino nella fattispecie di atti che superano l’ordinaria amministrazione – tema che verrà affrontato nel punto successivo –, andrà interessato anche il competente organo della curia diocesana che si occupa dell’istruzione delle domande di autorizzazione e tal- volta, per delega dell’ordinario, la rilascia, cioè, nella maggior parte delle diocesi italiane, l’Ufficio amministrativo.

Le autorizzazione canoniche in materia di beni culturali Si è già accennato al fatto che il Codice di diritto canonico tratta di oggetti preziosi di valore artistico o storico solo in occasione della necessità di un’apposita licenza – in questo caso di competenza della Santa Sede – per procedere a un’alienazione. Al di fuori di questa fat- tispecie non sono previste altre autorizzazioni relativamente ai beni culturali. Resta, però, la possibilità che gli statuti degli enti o la deter- minazione presa dal vescovo diocesano per le persone giuridiche a lui soggette in tema di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (cf can. 1281 § 2) ricomprendano una serie di atti concernenti i beni cul- turali tra quelli necessitanti la specifica licenza di cui al can. 1281 § 1. Ci si può però domandare: l’Intesa introduce nell’ordinamento cano- nico italiano nuove fattispecie circa la necessità di autorizzazione in relazione ai beni culturali? Dal momento che l’art. 5 prevede che il vescovo diocesano presenti «le richieste di intervento, di restauro, di conservazione o quelle di autorizzazione», «valutandone congruità e priorità», risulta che gli enti a lui soggetti non possono agire libera- mente e autonomamente, ma devono passare sotto i suoi preventivi controlli e valutazioni e presentare necessariamente per suo tramite le loro richieste. Il vescovo non è quindi un passacarte, ma ha il dirit- to-dovere di valutare la congruità e la priorità. Se un intervento fosse giudicato da lui incongruo potrebbe non essere presentato ai compe-

27 Cf Orientamenti, cit., n. 4. 230 Carlo Redaelli tenti organi dell’amministrazione civile. Non esiste quindi un diritto delle persone giuridiche soggette al vescovo ad avere assicurata co- munque la presentazione delle loro richieste, mentre esiste il diritto del vescovo all’esercizio di una propria discrezionalità. Il che non si- gnifica che gli eventuali dinieghi o differimenti da parte del vescovo non vadano motivati (cf can. 51) o che non sia possibile proporre contro di essi ricorso gerarchico (cf cann. 1732-1739). Tenendo conto di tutti gli elementi, in particolare della non au- tonomia degli enti e del potere discrezionale del vescovo, si può con- cludere che gli interventi relativi ai beni culturali vadano considerati come atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e soggetti se non a una formale autorizzazione canonica, almeno a un’autorizzazione di sostanza che si estrinseca con l’inoltro da parte del vescovo della ri- chiesta presentata. Se poi il vescovo volesse precisare anche da un punto di vista formale la questione, potrebbe introdurre le fattispecie considerate nell’Intesa tra gli atti di straordinaria amministrazione per gli enti a lui soggetti, a norma del can. 1281 § 2.

I beni culturali degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica Il comma 2 dell’art. 5 dell’Intesa dispone che le richieste relati- ve ai beni culturali da presentare da parte di Istituti religiosi e Società di vita apostolica vengano inoltrate ai competenti Soprinten- denti «per il tramite del Vescovo diocesano territorialmente com- petente». Come va compresa questa espressione? La diversità da quella relativa agli enti soggetti alla giurisdizione del vescovo dioce- sano porterebbe a concludere che nel caso degli Istituti e delle So- cietà il ruolo del vescovo sarebbe molto limitato: appunto quello di essere tramite tra Istituti, Società e Soprintendenti. La motivazione della legge consisterebbe non nella necessità di dare una valutazio- ne degli interventi ipotizzati, ma in quella di avere un quadro preci- so e unitario di tutti gli interventi che fanno riferimento territorial- mente a una Chiesa, a prescindere dai soggetti coinvolti. Il vescovo non avrebbe, quindi, una discrezionalità da esercitare né circa la congruità, né circa la priorità degli interventi. Suo compito sareb- be solo quello di prendere coscienza degli interventi al fine di inse- rirli in un contesto più vasto e coordinato. A quest’ultimo proposito va tenuto presente, infatti, che nelle riunioni previste dall’art. 2 del - L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 231 l’Intesa, destinate all’informazione reciproca tra organi ecclesiali e organi statali, possono partecipare da parte ecclesiale oltre ai vesco- vi diocesani anche rappresentanti degli Istituti e delle Società, ma solo per gli enti civilmente riconosciuti e soltanto a partire dal livello di provincia religiosa (cf art. 1). Risulta evidente che sotto tale livel- lo la rappresentanza degli Istituti e delle Società e l’inserimento de- gli interventi relativi ai beni culturali di loro pertinenza in program- mi a carattere generale può essere garantito solo tramite il vescovo diocesano. Se vale quanto fin qui affermato, l’Intesa non avrebbe inserito a carico degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica la neces- sità di un’autorizzazione canonica, anche solo di fatto, come per gli enti soggetti al vescovo 28. Ciò in coerenza con la piena autonomia che l’attuale normativa canonica riconosce agli Istituti di vita consa- crata e alle Società di vita apostolica. Non va, infine, dimenticato che l’art. 1, c. 2 dell’Intesa rinvia a non meglio precisate «disposizioni emanate dalla Santa Sede» al fine di definire l’apporto di Istituti e Società ai tavoli di informazione e confronto tra organi ecclesiali e organi statali. Probabilmente le sud- dette disposizioni potrebbero chiarire ulteriormente anche l’inter - vento in materia dei singoli vescovi diocesani, in modo che non ci siano difficoltà a riguardo: né lesioni dell’autonomia degli Istituti e Società, né ingiustificate chiusure da parte loro. Lo scopo finale – non va dimenticato – è che l’intero complesso dei beni culturali ec- clesiastici, a qualunque ente essi appartengano, sia tutelato e valo- rizzato in uno spirito di collaborazione e nel rispetto delle specifiche competenze da parte degli organi ecclesiali e statali. Tale valoriz- zazione, dal punto di vista ecclesiale non potrà limitarsi al solo aspet- to culturale, ma dovrà dare lo spazio necessario agli aspetti propria- mente religiosi (pastorali, liturgici, apostolici, devozionali ecc.), a - spetti che, in ultima istanza, devono fare riferimento in ciascuna Chiesa particolare al vescovo diocesano 29.

28 Resta la stranezza che l’espressione «per il tramite del Vescovo diocesano» venga utilizzata dall’art. 5, c. 3 per i beni librari. In questo caso, salvo – come non sembra – si voglia trattare in modo diverso que- sta fattispecie rispetto agli altri beni culturali, l’espressione «per il tramite ...» va interpretata come rife- rentesi alla presentazione delle richieste dopo valutazione della congruità e priorità, secondo quanto previsto dal comma 1 dello stesso articolo per i beni culturali nella loro generalità. 29 Cf i cann. 673 ss sull’apostolato degli Istituti religiosi e sul suo riferimento al vescovo diocesano. 232 Carlo Redaelli

Prime indicazioni operative e problemi di attuazione dell’Intesa

Due circolari applicative Per favorire la conoscenza e l’attuazione dell’Intesa, le due parti interessate (CEI e Ministero per i beni culturali) hanno provveduto nel corso del 1997 a emanare, ciascuna per quanto di competenza, una circolare applicativa. Con lettera del Segretario generale della CEI datata 10 giugno 1997, è stata inviata a tutti i membri della Conferenza episcopale e ai presidenti della CISM e dell’USMI (superiori e superiore maggiori) la Circolare n. 1 predisposta dalla Consulta nazionale per i beni cultu- rali ecclesiastici. Essa contiene una sintetica presentazione dell’Inte- sa, alcune indicazioni e suggerimenti destinati a facilitarne l’attuazio - ne. In particolare, dopo aver ricordato che l’Osservatorio centrale, previsto dall’art. 7 dell’Intesa, è stato costituito in data 28 maggio 1997, si precisa che, in accordo col Ministero, le disposizioni degli artt. 5 e 6 entrano in vigore a partire dal 1° luglio 1997 e si invita a informare della cosa i responsabili degli enti ecclesiastici (compresi quelli degli istituti religiosi, coinvolti nelle nuove procedure). Per ren- derle operative si richiamano i Vescovi a due adempimenti immediati: la nomina di un delegato che li rappresenti presso i Soprintendenti e l’avvio delle diverse forme di collaborazione previste dall’Intesa. Il delegato deve avere particolari competenze nel campo dei be- ni culturali (e non soltanto amministrative) e di norma dovrebbe es- sere il responsabile dell’Ufficio per i beni culturali e l’arte sacra, di cui la circolare offre in allegato un regolamento. Non è escluso che la stessa persona rappresenti più diocesi. Si suggerisce poi che ven- ga istituita o rinnovata la Commissione diocesana per l’arte sacra e i beni culturali (e se ne offre in allegato uno schema di statuto), che pure potrebbe avere natura interdiocesana. Essa dovrebbe valutare le richieste pervenute al vescovo (o ai vescovi interessati) e presen- tare una relazione in cui siano evidenziate congruità e priorità degli interventi. Quanto all’avvio delle diverse forme di collaborazione, la circo- lare CEI, dopo aver invitato a cogliere ogni possibilità per un primo contatto e un primo scambio di informazioni, suggerisce di promuo- vere un incontro tra vescovo e Soprintendenti competenti per territo- rio, anche allo scopo di presentare ufficialmente ai funzionari pubbli- ci il delegato. L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 233

Interessanti anche i suggerimenti circa un coordinamento so- vradiocesano. In allegato viene offerto uno schema di statuto della Consulta regionale per i beni culturali ecclesiastici, a cui sono chia- mati a partecipare i delegati delle diocesi della stessa regione: la Consulta deve essere luogo di coordinamento e di monitoraggio del - l’attuazione dell’Intesa in regione. Viene poi saggiamente fatta pre- sente l’opportunità (se non la necessità) che i delegati delle diocesi il cui territorio ricade sotto la stessa Soprintendenza mantengano co- stanti rapporti tra loro. La Circolare n. 139 del Ministero per i beni culturali e ambientali del 19 giugno 1997, indirizzata ai Soprintendenti e ai Direttori degli Istituti dipendenti, si propone di riassumere il contenuto dell’Intesa e di evidenziarne gli aspetti più rilevanti. Viene, in particolare, sottoli- neato il ruolo di raccordo che il vescovo diocesano assume tra gli enti ecclesiastici nel loro complesso e le Soprintendenze e, in maniera for- se un po’ rigida, si precisa non solo che le richieste degli enti dovran- no pervenire solo tramite il vescovo, ma anche che «è evidente (pur se non esplicitamente statuito) che le Soprintendenze si rivolgeranno agli enti ecclesiastici solo per il tramite dei Vescovi diocesani». Non si danno, invece, suggerimenti per attuare le forme e gli strumenti di collaborazione di cui parlano gli artt. 2-4 dell’Intesa. Come si può ricavare da queste sintetiche note, le due circolari hanno l’ovvio intento di portare a conoscenza dei soggetti interessati i contenuti dell’Intesa più che di delineare con precisione procedure e strumentazioni. Va però osservato, nel caso della circolare della CEI, l’enfasi posta sulla necessità che le singole diocesi e le regioni ecclesiastiche si dotino di organismi specificamente competenti cir- ca i beni culturali. Si tratta di strutture che per sé dovrebbero già esi- stere, perché non legate alla presenza o meno di un’Intesa con lo Stato italiano, ma alla necessità, già richiesta da documenti ecclesia- li, di una puntuale attenzione ai beni culturali. Sembra evidente che la CEI voglia cogliere l’occasione dell’Intesa per ovviare a delle lacu- ne in questo campo, che devono essere particolarmente diffuse. Il fatto stesso di offrire in allegato schemi di statuto per questi organi- smi denota che si presume un’impreparazione delle diocesi italiane, persino nel descrivere compiti e strutture di uffici, commissioni e consulte destinati a operare in questo campo. 234 Carlo Redaelli

Alcuni problemi applicativi Senza pretesa di alcuna completezza, può essere utile accenna- re ad alcuni problemi di carattere applicativo emersi in questi primi mesi di attuazione dell’Intesa. Un primo gruppo di problematiche, come è intuibile stante quanto si è osservato in conclusione del precedente paragrafo, ri- guarda la strutturazione interna delle curie diocesane e degli organi- smi regionali, l’individuazione di persone realmente competenti (che non si improvvisano ...), il coordinamento tra i diversi soggetti inte- ressati. A questo proposito non va dimenticato che la materia dei be- ni culturali investe più aspetti e più competenze: oltre quello specifi- camente artistico-culturale, quello liturgico, quello amministrativo, quello pastorale. È necessario che si studino procedure e modalità, commisurate ovviamente alle dimensioni della diocesi, alla presenza più o meno rilevante in essa di beni culturali e al numero degli inter- venti, affinché la materia dei beni culturali veda la presenza compe- tente e coordinata di tutti gli interessati. Sempre sul versante ecclesiale, sembra far difficoltà la non chiarezza circa la figura del delegato, di cui si è sopra trattato. Il fatto che la circolare della CEI suggerisca, correttamente, che sia scelto come delegato il responsabile dell’Ufficio per i beni culturali, può aver spinto a credere che tutta la procedura relativa alle autorizzazio- ni concernenti tali beni si esaurisca con riferimento alla stessa perso- na. Questo può succedere, ma solo se il vescovo abbia ritenuto di af- fidare allo stesso soggetto il compito di rappresentarlo presso le So- printendenze e quello di autorizzare con potestà delegata gli atti di straordinaria amministrazione concernente i beni culturali. La legitti- mità di tale scelta non toglie il dubbio circa l’opportunità che, anche nelle realtà più piccole, una materia così delicata come quella dei be- ni culturali veda il concorso di più persone competenti. Un altro problema molto sentito in questi primi mesi è quello relativo a una presunta deresponsabilizzazione degli amministratori degli enti ecclesiastici per un accentramento di tutto sul vescovo e sul suo delegato. L’intento dell’Intesa non è certamente questo. I sin- goli amministratori e legali rappresentanti degli enti – a cominciare dai parroci – non perdono alcuna responsabilità in riferimento ai be- ni culturali di pertinenza dell’ente. Per stare al caso più diffuso, spet- ta ancora al parroco e alla sua comunità parrocchiale custodire, mantenere, valorizzare, ecc. i beni di valore culturale, storico e arti- L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 235 stico della parrocchia e decidere e valutare, nonché sostenere eco- nomicamente, eventuali interventi. Il vescovo, con i competenti orga- nismi di curia, deve intervenire formalmente solo per eventuali au- torizzazioni, oltre che nel dare anche in questo campo direttive e so- stegno agli enti da lui dipendenti. Nonostante quanto sembra af- fermato dalla circolare ministeriale 30, non è precluso il rapporto di- retto tra parroci e Soprintendenze, non però per le richieste formali di autorizzazione – che sono firmate dal parroco interessato e solo presentate dal delegato –, ma per consulenze, per istruttorie delle pratiche e per verifiche, controlli, solleciti, ecc. nel corso della realiz- zazione degli interventi 31. Un’ulteriore questione è quella concernente la valutazione della priorità. È chiaro che tale valutazione ha senso qualora vengano pre- sentate più richieste che esigano un particolare impegno da parte delle Soprintendenze o a livello istruttorio o a livello di finanziamen- to: essendo le risorse limitate, è corretto che sia la parte ecclesiale a segnalare le priorità. Al fine di evitare disagi e antipatici confronti tra enti, occorrerà progressivamente elaborare, anche sulla base dell’e - sperienza, criteri oggettivi di priorità. Una serie di questioni in materia di autorizzazioni da rilasciarsi da parte delle Soprintendenze non sono nate con l’Intesa, ma risalgo- no alle disposizioni della vigente legge n. 1089 del 1° giugno 1939. Due sono i problemi più rilevanti: l’individuazione dei beni assogget- tati e la competenza dell’autorità ecclesiastica prevista dall’art. 8. Il combinato disposto tra l’art. 4 della legge e l’art. 1 portano a far com- prendere tra i beni soggetti alle disposizioni della legge praticamen- te quasi la totalità dei beni di proprietà degli enti ecclesiastici con più di 50 anni e di cui non è più vivente l’autore, con tutte le questioni

30 Un altro piccolo problema dovuto alla circolare ministeriale è quello di legare la competenza del ve- scovo ai beni presenti sul territorio della sua diocesi e non a quelli di proprietà degli enti da lui dipen- denti, che possono trovarsi anche in altre diocesi. Mentre correttamente il comma 2 dell’art. 5 dell’Intesa evidenzia la competenza territoriale del vescovo per i beni degli istituti religiosi (cioè si fa ri- ferimento al vescovo della diocesi nel cui territorio è posto il bene soggetto a intervento e non del terri- torio dove ha sede legalmente l’istituto religioso), il comma 1 parla di competenza del vescovo per beni di proprietà di enti soggetti alla sua giurisdizione. Sembra quindi coerente con l’Intesa che, per esempio, il vescovo di Milano presenti domanda alla Soprintendenza di Genova per un intervento relativo alla ca- sa di vacanza posta in Liguria, ma di proprietà del seminario della sua diocesi, ente che, ovviamente, è soggetto alla sua giurisdizione. 31 In tal senso può essere opportuno che nelle domande presentate dal delegato del Vescovo alle So- printendenze, oltre alla denominazione dell’ente e al nome del legale rappresentante (che sottoscrive la richiesta), sia indicato anche il nominativo dell’eventuale tecnico incaricato di seguire per conto dell’en - te l’intervento, tecnico che potrà essere direttamente interpellato dalla Soprintendenza nella fase istrut- toria o di realizzazione. 236 Carlo Redaelli che si possono immaginare. Quanto all’art. 8, ripreso dall’art. 6 del- l’Intesa, sembrerebbe corretto interpretare «esigenze di culto» non con riferimento unicamente liturgico, ma come «esigenze di caratte- re religioso» (cf art. 2, comma 2 dell’Intesa), cioè con riferimento a tutti gli aspetti tipici dell’ente ecclesiastico (quindi anche i profili sto- rici, pastorali, catechetici, ecc.) 32. Infine, va rilevata una certa difficoltà, in assenza di concrete in- dicazioni da parte dell’Intesa e delle circolari, circa l’attuazione dei “tavoli” di confronto, di scambio di informazioni e di coordinamento delle iniziative tra delegati e Soprintendenti; ma anche, più in gene- rale, circa la realizzazione di un regolare flusso di richieste e autoriz- zazioni da una parte all’altra. Un suggerimento pratico potrebbe es- sere quello di stabilire una periodicità di incontro tra delegati e fun- zionari delle Soprintendenze sia per il più ordinario scambio di documenti, informazioni e valutazioni previsti dagli artt. 5 e 6, sia per la più impegnativa attività di programmazione di cui agli artt. 2-4.

CARLO REDAELLI piazza Fontana, 2 20122 Milano

32 Questi e altri problemi interpretativi connessi alla legge vigente potranno forse trovare una soluzione in sede di elaborazione del testo unico delle norme in materia di beni culturali, che il governo italiano deve emanare in attuazione dell’art. 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352. L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 237

Appendice I

Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della Conferenza episcopale italiana relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche

IL MINISTRO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI quale autorità statale che sovraintende alla tutela, alla valorizzazione e alla conservazio- ne del patrimonio culturale, previa autorizzazione del Consiglio dei Ministri del 12 luglio 1996, e

IL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA che, debitamente autorizzato dalla Santa Sede, agisce a nome della Conferenza stessa, ai sensi dell’articolo 5 del suo statuto e in conformità agli indirizzi contenuti nelle Norme e negli Orientamenti approvati dalla Conferenza episcopale italiana, rispettivamente del 14 giugno 1974 e del 9 dicembre 1992, ai fini della collaborazione per la tutela del patrimonio storico e artistico di cui all’articolo 12, n. 1, commi 1 e 2, dell’Accordo Italia-Santa Sede del 18 febbraio 1984, concordano sulle modalità previste, in prima attuazione, dalle seguenti disposizioni.

Art. 1 1. Sono competenti per l’attuazione delle forme di collaborazione previste dalle presenti disposizioni: a) a livello centrale, il Ministro per i beni culturali e ambientali e i Direttori gene- rali degli Uffici centrali del Ministero da lui designati; il Presidente della Conferenza episcopale italiana e le persone da lui eventualmente delegate; b) a livello locale, i Soprintendenti e i Vescovi diocesani o le persone delegate dai Vescovi stessi. 2. Per quanto concerne i beni culturali di interesse religioso, gli archivi e le bi- blioteche ad essi appartenenti, gli istituti di vita consacrata, le società di vita apostolica e le loro articolazioni, che siano civilmente riconosciuti, concorrono, a livello non infe- riore alla provincia religiosa, con i soggetti ecclesiastici indicati nel comma preceden- te, secondo le disposizioni emanate dalla Santa Sede, nella collaborazione con gli orga- ni statali di cui al medesimo comma.

Art. 2 1. Ai fini di cui alla premessa della presente intesa, i competenti organi centrali e periferici del Ministero per i beni culturali e ambientali, allo scopo della definizione dei programmi o delle proposte di programmi pluriennali e annuali di interventi per i beni culturali e i relativi piani di spesa, invitano ad apposite riunioni i corrispondenti organi ecclesiastici. 2. In tali riunioni gli organi del Ministero informano gli organi ecclesiastici degli interventi che intendono intraprendere per i beni culturali di interesse religioso appar- tenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche e acquisiscono da loro le eventuali proposte di interventi, nonché le valutazioni in ordine alle esigenze di carattere religioso. 238 Carlo Redaelli

3. Nelle medesime riunioni gli organi ecclesiastici informano gli organi ministe- riali circa gli interventi che a loro volta intendono intraprendere.

Art. 3 1. Gli organi del Ministero per i beni culturali e ambientali e gli organi ecclesia- stici competenti possono accordarsi per realizzare interventi ed iniziative che prevedo- no, in base alla normativa vigente, la partecipazione organizzativa e finanziaria rispetti- vamente dello Stato e di enti e istituzioni ecclesiastici, oltre che, eventualmente, di altri soggetti.

Art. 4 1. Fra gli organi ministeriali e quelli ecclesiastici competenti ai sensi del l’art. 1 è in ogni caso assicurata la più ampia informazione in ordine alle determinazioni finali e all’attuazione dei programmi pluriennali e annuali e dei piani di spesa, nonché allo svol- gimento e alla conclusione degli interventi e delle iniziative di cui agli articoli 2 e 3.

Art. 5 1. Il Vescovo diocesano presenta ai Soprintendenti, valutandone congruità e prio- rità, le richieste di intervento di restauro, di conservazione o quelle di autorizzazione, concernenti beni culturali di proprietà di enti soggetti alla sua giurisdizione, in partico- lare per quanto previsto dal precedente art. 2. 2. Le richieste di cui al comma 1, presentate dagli enti ecclesiastici di cui all’art. 1, comma 2, sono inoltrate ai Soprintendenti per il tramite del Vescovo diocesano terri- torialmente competente. 3. Le richieste di intervento riguardanti i beni librari vengono presentate, per il tramite del Vescovo diocesano, all’Ufficio centrale competente del Ministero per i beni culturali e ambientali.

Art. 6 1. A norma dell’art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, i provvedimenti ammi- nistrativi concernenti i beni culturali appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche so- no assunti dal competente organo del Ministero per i beni culturali e ambientali previa intesa, per quel che concerne le esigenze di culto, con l’Ordinario diocesano competen- te per territorio e sono comunicati ai titolari dei beni per il tramite dell’Ordinario stesso.

Art. 7 1. Al fine di verificare con continuità l’attuazione delle forme di collaborazione previste dalle presenti disposizioni, di esaminare i problemi di comune interesse e di suggerire orientamenti per il migliore sviluppo della reciproca collaborazione fra le parti, è istituito l’«Osservatorio centrale per i beni culturali di interesse religioso di proprietà ecclesiastica». 2. L’Osservatorio è composto in modo paritetico da rappresentanti del Ministero per i beni culturali e ambientali e della Conferenza episcopale italiana ed è presieduto, congiuntamente, da un rappresentante del Ministero e da un Vescovo rappresentante della Conferenza episcopale italiana. Le riunioni sono tenute alternativamente presso le sedi del Ministero e della Conferenza episcopale italiana e sono convocate almeno una volta ogni semestre, nonché ogni volta che i presidenti lo ritengano opportuno. 3. Alle riunioni possono essere invitati a partecipare rappresentanti di ammini- strazioni ed enti pubblici e di enti e istituzioni ecclesiastiche in relazione alle questioni poste all’ordine del giorno. L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI... 239

Art. 8 1. Le presenti disposizioni possono costituire base di riferimento per le eventuali intese stipulate, nell’esercizio delle rispettive competenze, tra le regioni e gli altri enti autonomi territoriali e gli enti ecclesiastici.

Roma, 13 settembre 1996 Il Ministro per i beni culturali e ambientali VELTRONI

Il Presidente della Conferenza episcopale italiana RUINI

Appendice II

Decreto del Presidente della CEI di promulgazione dell’Intesa

IL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

CONSIDERATO che il 13 settembre 1996, in Roma, presso il Ministero per i Beni culturali e ambientali, tra Autorità statale e Conferenza episcopale italiana, è stata firmata l’Inte- sa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e isti- tuzioni ecclesiastiche, in prima attua zione dell’art. 12, n. 1, commi 1 e 2 dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana del 18 febbraio 1984, che apporta modificazio- ni al Concordato Lateranense;

VISTI gli artt. 5 e 2, par. 3 dello Statuto della Conferenza episcopale italiana;

PRESO ATTO che la Santa Sede, debitamente informata, con foglio n. 6768/96/RS del 12 settembre 1996, ha autorizzato il Presidente della Conferenza episcopale italiana alla firma dell’Intesa;

DECRETA che, ai sensi dell’art. 17, par. 3 dello Statuto della Conferenza episcopale italiana, l’Inte- sa tra Autorità statale e Conferenza episcopale italiana relativa alla tutela dei beni cultu- rali di interesse religioso, appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche, sia promul- gata mediante pubblicazione sul «Notiziario» ufficiale della Conferenza episcopale ita- liana stessa e che divenga immediatamente esecutiva nell’ordinamento canonico. Dispone inoltre che, dell’avvenuta promulgazione dell’Intesa sopra citata, sia da- ta tempestiva comunicazione al Ministero per i Beni culturali e ambientali.

Roma, 29 ottobre 1996 CAMILLO card. RUINI

† Ennio Antonelli Segretario generale Editoriale

La libertà religiosa ha sempre rappresentato per la Chiesa un tema di vitale importanza. Si può anzi dire che l’idea stessa di libertà religiosa si è affermata a partire dalla concezione cristiana dell’uo - mo: il dualismo introdotto dal messaggio cristiano tra l’obbedienza a Dio e l’obbedienza al potere politico è stato lo stimolo fecondo che ha fatto maturare la coscienza del diritto di ogni essere umano a non subire coercizione nelle proprie scelte religiose. Come afferma Ter- tulliano «religio sola est in qua libertas domicilium conlocavit» (Epito- me Divinarum Institutionum, 54). Le vicende dell’età moderna, con l’affermarsi di un’idea di libertà autonoma da ogni fondamento tra- scendente e, in ultima analisi, autolegislatrice, spingono la Chiesa a denunciare la profonda ambivalenza dei processi di libertà che si vanno affermando nelle società occidentali. È un’opposizione che, nonostante le apparenze, si pone a difesa di un’idea più profonda di libertà: nella visione cristiana la libertà non è soltanto emancipazio- ne da ogni riferimento trascendente e da ogni istanza di verità, ma è sempre una libertà “dall’alto”: la verità presuppone la libertà e la li- bertà presuppone il suo compimento nella verità. Il concilio Vatica- no II con la dichiarazione Dignitatis humanae [= DH] ha segnato un profondo cambiamento di atteggiamento: pur nella continuità con il magistero precedente la Chiesa ha riconosciuto il valore dei processi moderni di libertà, il valore dei diritti di libertà propri degli ordina- menti giuridici contemporanei. Affermando il valore universale della libertà religiosa, fondata «sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata, sia trami- te la stessa ragione» (DH 2), il Concilio ha aperto la strada a una nuova impostazione dei rapporti tra la Chiesa e la comunità politica e 242 Editoriale ha creato le condizioni per una valorizzazione della libertà anche all’interno della comunità ecclesiale. A più di trent’anni dalla conclu- sione del Concilio, la tematica della libertà religiosa conserva tutto il suo interesse per la vita della Chiesa: sia in ordine ai suoi rapporti con il mondo, sia in relazione ai rapporti interni alla comunità eccle- siale; essa, infatti, non può prescindere dal principio di libertà, anzi la sua missione nel mondo di oggi sembra chiamarla a «porre le fon- damenta per un futuro umanesimo caratterizzato dalla libertà cristia- na» (W. Kasper). Dedicando la parte monografica del presente fasci- colo a questa complessa tematica non si pretende di presentare una rassegna esaustiva, anche solamente dal punto di vista giuridico, ma ci si propone più semplicemente di richiamare l’attenzione su una problematica che gli operatori pastorali, in particolare gli operatori del diritto ecclesiale, devono tenere continuamente presente. Il pri- mo contributo offre una presentazione del tema della libertà religio- sa seguendo lo sviluppo della riflessione ecclesiale sulla medesima dal Concilio ai giorni nostri (Siviero). Dopo aver richiamato il conte- sto culturale degli anni del Concilio, espone i principi fondamentali della Dignitatis humanae e illustra la loro ripresa nel magistero suc- cessivo. Presenta infine alcuni rilievi teorici e alcune riflessioni pasto- rali che il principio della libertà religiosa suggerisce nella situazione attuale. Sul versante più propriamente canonistico il secondo articolo, che analizza come il CIC 1983 abbia cercato di recepire il principio conciliare della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico (Pavanello). Vengono studiati in particolare il can. 748 § 2 (sulla li- bertà dell’atto di fede da ogni forma di coercizione) e il can. 11 (per quanto riguarda la soggezione alle leggi positive della Chiesa da par- te di chi ha abbandonato la Chiesa cattolica). Ci si chiede poi se si possa parlare di un «diritto alla libertà religiosa» come diritto intraec- clesiale proprio non soltanto della persona umana, ma anche del chri - stifidelis. Lo studio successivo affronta una tematica particolare atti- nente alla libertà religiosa: la tutela civile e penale delle «notizie» ap- prese per ragione del proprio ministero (Perlasca). Viene esaminata la modalità concreta con cui l’ordinamento italiano rispetta il princi- pio della libertà religiosa tutelando il segreto per i ministri delle con- fessioni religiose. Dopo aver presentato la nozione di segreto (con particolare riguardo al segreto professionale), vengono illustrati i li- miti del dovere di mantenere il segreto stesso e la situazione giuridi- ca specifica del ministro della religione. Vengono quindi prese in considerazioni alcune situazioni tipiche in cui il ministro può essere Editoriale 243 chiamato a opporre il segreto e le possibili soluzioni ad alcuni casi concreti. Da ultimo si presenta uno studio sulla recente legge italiana sul- la privacy (Redaelli). L’autore affronta tre problematiche particolari inerenti alla libertà religiosa: come vengono tutelati i dati di persone e altri soggetti che abbiano attinenza alla sfera della religiosità; se e in che modo sono interessati dalla normativa gli organismi a caratte- re religioso e come venga garantita la loro autonomia e libertà di azione, organizzazione ed espressione; se e in che modo è soggetta a queste norme la Chiesa cattolica in tutte le sue articolazioni e in re- lazione all’ampio spettro delle sue attività. Il riferimento alla Chiesa cattolica porterà a valutare la necessità che la normativa che la con- cerne, sia fondata sulla sua posizione costituzionale (cf art. 7 cost.), nonché l’opportunità, anche a prescindere dall’esistenza di disposi- zioni civili in materia, che l’ordinamento canonico, in particolare quello vigente per la Chiesa italiana, sia più attento al tema della sal- vaguardia della riservatezza dei propri aderenti. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 244-265 La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni di Giuseppe M. Siviero

Per introdurre il discorso sulla libertà religiosa [= LR], autore- volmente illustrata da uno degli ultimi e più importanti documenti del concilio Vaticano II, la dichiarazione Dignitatis humanae [= DH], pro- mulgata il 7 dicembre 1965 1, si richiamerà anzitutto alla memoria il contesto di quegli anni. Si passerà poi all’esposizione dei principi con- tenuti nel documento e si accennerà ad alcune riprese del tema nella Chiesa postconciliare. Infine si concluderà con l’evidenziazione di ri- lievi teorici e riflessioni pastorali che gravitano intorno a questo tema.

La svolta storica della Chiesa sui diritti di libertà Lo scenario internazionale che sempre più precisamente si con- figurava dal secondo dopoguerra in poi era quello di una marcata po- larizzazione ideologica, ridondante nella polarizzazione dei sistemi po- litici, economici e militari. Nel complesso veniva consolidandosi una situazione che, a dispetto di ogni parvenza di equilibrio, era quanto mai logorante per la pace e lo sviluppo. La divisione del mondo in due blocchi contrapposti, il cui discrimine radicava nelle profondità di di- verse e pressoché inconciliabili concezioni di uomo e di società, esi- geva in qualche modo che la Chiesa prendesse posizione mediante un pronunciamento che aiutasse le coscienze a discernere una via possibile verso un futuro migliore per l’intera umanità. La questione era: come farlo senza creare equivoci circa lo stile pastorale che il Va-

1 AAS 58 (1966) 929-946. Una traduzione italiana del testo si può trovare in Enchiridion Vaticanum 1, Bologna 1979, pp. 579-605. In verità anche in altri testi del Concilio si accenna più volte alla LR, ad esem- pio in LG 36; GS 21 e 73; NA 5; AG 13. Durante il Concilio hanno fatto esplicitamente cenno alla LR an- che i pontefici Giovanni XXIII (Radiomessaggio, 11.9.1962) e Paolo VI (Discorso di apertura del secondo periodo, 29.9.1963; Discorso di chiusura del terzo periodo, 21.11.1964; Discorso all’O.N.U., 4.10.1965). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 245 ticano II aveva riscoperto e che comportava da una parte l’annun- cio/testimonianza non reticente della verità religiosa sull’uomo, e dal - l’altra la rinuncia a innalzare barriere pregiudiziali tra sé e l’umanità contemporanea? L’occasione opportuna per pronunciare un giudizio sufficiente- mente articolato si offrì alla Chiesa su un campo che appariva non di- rettamente ideologico o politico e nemmeno strettamente teologico, ma etico-giuridico. Cioè proprio lì dove il discorso sul vero, sul buono e sul giusto avviene in uno sforzo di tendenziale superamento dell’interesse particolare e del pregiudizio dei convincimenti soggetti- vi. Così, sullo sfondo della moderna sensibilità circa i diritti umani e dei principi generali della rivelazione cristiana, il concilio Vaticano II concepì e formulò un intervento dottrinale semplice e universale sulla LR, cioè su un diritto che si trova alla radice e al crocevia di tante que- stioni che riguardano, oggi, non soltanto la religione, ma la dignità della persona e la struttura fondamentale della convivenza umana. D’altra parte il tema della LR era urgente non solo per l’organiz- zazione degli Stati ma anche per lo stesso rinnovamento dell’azione della Chiesa nel mondo, dal momento che i diritti e le libertà dell’uo - mo stavano diventando con sempre maggiore chiarezza un punto no- dale dell’incontro/scontro con le società moderne più avanzate e una questione cruciale per la credibilità del-l’evangelizzazione nelle società a cultura più tradizionale o economicamente svantaggiate. Il Concilio intuì che i diritti umani, in quanto implicavano anche corri- spondenti doveri e responsabilità, si avviavano a diventare la nuova declinazione di quella legge naturale alla quale per secoli la Chiesa si era richiamata per fondare razionalmente il suo discorso morale. Inoltre capì che ormai gli interlocutori privilegiati della Chiesa non potevano essere più esclusivamente i pubblici poteri, i vertici del po- tere costituito, ma altri fattori vitali, propulsivi e talora decisivi della moderna società democratica, come ad esempio l’opinione pubblica, i gruppi sociali portatori di valori e generatori di nuova cultura e, più radicalmente, ogni coscienza umana. Coerentemente con queste percezioni l’Assemblea conciliare comprese la necessità di aderire senza tentennamenti al campo della libertà, venuto sempre più a identificarsi col mondo occidentale e con gli istituti di tutela della persona sviluppati all’interno di questa civiltà 2.

2 «L’idea di «Occidente», fatta valere in funzione antitotalitaria, cioè originariamente antifascista, rap- presentava l’insieme dei valori e degli istituti costitutivi della civiltà politica dei Paesi europei, in specie 246 Giuseppe M. Siviero

E ciò avvenne a tal punto che nel testo finale della DH si potrebbe leg- gere, come qualcuno ha fatto, una sostanziale canonizzazione del l’e - sperienza politico-costituzionale del l’Oc ci den te 3. Se questa impressio- ne non va certamente enfatizzata, quanto meno si deve dire che la Chiesa prende atto del cammino della cultura filosofica, politica e giu- ridica di quella parte dinamica dell’Occidente che a partire dai secoli XVI e XVII, attraverso successivi atti formali, diede vita a veri e propri nuovi diritti civili, quali quello della libertà di coscienza, di parola, di associazione e di religione, a partire da una conce zione dell’uomo-indi- viduo come soggetto radicale di diritti innati e inalienabili 4. E se perfino questa scelta, a causa delle circostanze politiche, era suscettibile di essere interpretata come non del tutto neutrale, è ancor più vero che nessuno, neppure coloro che si autoconsiderava- no nemici storici della Chiesa, potevano più ignorare il significato universale del progresso contenuto in quegli atti. Anzitutto la rivolu- zione americana e il Virginia Bill of Rights del 12 giugno 1776, dove all’art. 16 si afferma:

«La religione, o devozione, che noi dobbiamo dimostrare nei confronti del nostro Creatore, e il modo in cui la viviamo, possono essere determinati esclusivamente dalla ragione o dalla convinzione, non dalla costrizione o dal potere, per cui tutti gli uomini hanno lo stesso diritto ad esercitare libera- mente la religione secondo i precetti della loro coscienza».

Poi la rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, che all’art. 10 sancisce quanto segue:

«Nessuno deve essere molestato a causa delle sue opinioni, anche se religio - se, se nel l’esprimerle non turba l’ordine pubblico costituito dalla legge». anglosassoni, e dell’America settentrionale, cioè lo spirito razionale e laico (non anticristiano), la tolle- ranza, il rispetto dei diritti dell’uomo, le libertà civili, il sistema parlamentare, la libertà economica, l’equilibrio e il progresso sociale» (A. ACERBI, Pio XII e l’ideologia dell’Occidente, in AA.VV., Pio XII, a cu- ra di A. Riccardi, Bari 1984, p. 149). 3 Il giudizio (compreso l’uso improprio del termine “canonizzazione”) è sempre di A. Acerbi, in La Chiesa nel tempo. Sguardi sui progetti di relazioni tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Milano 1979, p. 303. L’autore ritiene che «Il Concilio continua in ciò la linea, che abbiamo scorto in Pio XII: l’accettazione, cioè, degli istituti giuridico-politici dell’Occidente, una volta che siano depurati da fondamenti ideologici errati» (ibid., p. 304). 4 «Il rapporto tradizionale fra diritti dei governanti e obblighi dei sudditi è perfettamente invertito. An- che nelle cosiddette carte dei diritti che precedettero quelle del 1776 in America e quella del 1789 in Francia, dalla Magna Charta al Bill of Rights del 1689, i diritti o le libertà non erano riconosciute come esistenti anteriormente al potere del sovrano, ma erano concesse o accordate, e dovevano apparire, an- che se erano il risultato di un patto fra sudditi e sovrano, come un atto unilaterale di quest’ultimo […]. Le dichiarazioni dei diritti erano destinate a rovesciare questa immagine» (N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino 1992, pp. 115-116). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 247

Inoltre, tra le costituzioni liberali moderne dei secoli XIX e XX costruite intorno a valori di libertà, di garanzia e di tutela della perso- na, ricordiamo la costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 5. In questa carta fondamentale peraltro, insieme al filone elitario liberale, confluirono anche importanti filoni culturali popolari, di ma- trice cattolica e socialista. Essa stabilisce la pari dignità sociale e l’u - guaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condi- zioni personali e sociali (art. 3). Sancisce inoltre che tutte le confes- sioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8), pur conservando una diversità di regolamentazione dei rapporti con la re- ligione cattolica rispetto alle altre. E infine all’art. 19 afferma:

«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qual- siasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in pri- vato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».

Infine, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 10 dicembre 1948 nell’art. 18 dichiara solennemente:

«Ognuno ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione: que- sto diritto comprende la libertà di cambiare la propria religione o credenza e la libertà, sia individuale che insieme ad altri, sia in pubblico che in privato, di manifestare la propria religione o credenza nell’insegnamento, nella con- dotta della vita, nel culto e nel comportamento» 6.

5 Guardata dal punto di vista della LR la posizione dello stato italiano prima della costituzione del 1948, a motivo delle vicissitudini della sua formazione, potrebbe apparire alquanto altalenante. Lo statuto alber- tino (1848) definiva la religione cattolica religione di stato e tollerati gli altri culti. Valdesi ed ebrei, però, furono ammessi con leggi speciali a godere di uno status analogo a quello dei cattolici. Il clero cattolico nel 1866 si vide riconosciuti pieni diritti civili e politici, ma nello stesso anno le leggi eversive soppresse- ro le corporazioni religiose e devolsero allo Stato il patrimonio ecclesiastico. Nel 1859 fu introdotto l’indirizzo laico nell’insegnamento (legge Casati) e il nuovo codice penale comminò eguali pene a chi vi- lipendiava qualsiasi culto. Nel 1865 il nuovo codice civile istituì il matrimonio civile. La questione roma- na (1870) fu regolata unilateralmente con la legge delle guarentigie. Alla fine del secolo tutte le confes- sioni religiose e i relativi culti erano egualmente liberi. Il fascismo, mediante i Patti lateranensi del 1929, abolì l’eguaglianza fra le confessioni religiose e concesse ampi privilegi alla religione cattolica, tornata a essere giuridicamente religione di stato. Cosicché, ad esempio, nel codice del 1939, le offese alla religio- ne cattolica sono punite più gravemente di quelle alle altre religioni o confessioni. Cf l’ampia illustrazio- ne di queste vicende in P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984, pp. 203-226. 6 A questa storica Dichiarazione seguono altri documenti internazionali che menzionano la LR, ad esempio: Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950); Convenzione contro la discriminazione nell’insegnamento (1960); Convenzione sull’eliminazione delle discriminazioni razziali (1965); Patti internazionali sui diritti economici, sociali, culturali e politici (1966); Atto finale della Conferenza di Helsinki (1975); Dichiarazione dell’O.N.U. sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione o intolleranza religiosa (1981). Per quanto riguarda l’Europa, secondo Ba- rile, i principi su cui attualmente si muovono le politiche costituzionali degli Stati sono la neutralità de- gli stessi e il pluralismo delle confessioni religiose (cf Diritti dell’uomo…, cit., p. 204). 248 Giuseppe M. Siviero

Di fronte a questi atti/fatti molti anche fra i cattolici erano di- ventati consapevoli che l’atteggiamento ufficiale della Chiesa, dopo essere stato segnato negli ultimi tre secoli da notevole diffidenza, so- spetto, incomprensione circa quanto andava accadendo nel cuore di un mondo uscito dal modello chiuso della cristianità medievale e bi- sognoso di ricercare in autonomia le strade della nuova civiltà, sa- rebbe ormai dovuto mutare. Si trattava, in fondo, di riconoscere che a quel lungo e tormentato travaglio culturale e politico attraverso il quale era venuta distillandosi la coscienza moderna come nuovo sen- timento della dignità degli individui e dell’organizzazione democrati- ca delle società, non poteva essere estranea l’anima cristiana. Final- mente, sui valori espressi da questa coscienza la Chiesa conciliare esprime un giudizio sostanzialmente positivo e a essi non manca di apportare un proprio originale contributo 7. Ci si potrebbe anche legittimamente chiedere se sia giocoforza rassegnarsi all’idea che lo straordinario travaglio pastorale e dottrina- le che ha preceduto il Vaticano II non abbia portato in questo campo alcun contributo di novità che possa in qualche modo anticipare l’insegnamento della DH e darne ragione. In verità, se si fa riferimen- to al solo magistero gerarchico si può avere l’impressione deludente che non ci sia molto da centellinare. Anzi, la reazione dei pastori, in parte giustificata dal preoccupante scenario sociologico di scristianiz- zazione, indirettamente favorito dal progresso moderno, fu di allarme per il futuro della fede. I loro interventi ribadivano sicurezze dogmati- che antiche a fronte di problematiche nuove, erano mestamente intri- si di richiami, ammonimenti, perplessità e condanne piuttosto che di pacata riflessione e di un più faticoso e umile, e certo più fruttifero,

7 In ogni caso si deve ammettere che la storia della LR è ben più lunga e complessa di quella che va dal l’illuminismo ai nostri giorni. Il problema esplode in tutta la sua radicalità con il fenomeno “cristia- nesimo” e il suo pensiero teologico politico che, distinguendo le cose di Dio dalle cose di Cesare, viene a costituire uno spazio nuovo di libertà per l’uomo erga omnes. Il Vangelo rivelò l’irriducibilità della realtà umana alla dimensione mondano-politica e, per ciò stesso, indicò a questa dimensione il suo li- mite invalicabile. Il primo documento giuridico sulla LR, in questo senso, può essere considerato pro- prio l’Editto di Costantino del 313, con il quale il cristianesimo è proclamato «religio licita»: con questo si instaura un più vero pluralismo religioso. Mentre il successivo accreditamento del cristianesimo co- me religione di stato (decreto di Teodosio, 380), politicamente vantaggioso, realizzerà invece una con- traddizione del principio di libertà che una coscienza cristiana più vigile avrebbe certo contrastato. Il medioevo e il sacro romano impero identificheranno la comunità ecclesiale con la comunità politica e non potranno che – letteralmente – emarginare gli infedeli, con l’eccezione degli ebrei, che erano ma- lamente tollerati nella società cristiana e spesso discriminati e perseguitati. L’età moderna vedrà sanci- to nella pace di Augusta (1555) il principio politico «cuius regio eius et religio», intollerante nei confron- ti delle scelte religiose personali se in contrasto con le scelte del principe. Cf l’esposizione di G. DALLA TORRE, Libertà religiosa, in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti e G. Campanini, Roma 1993, pp. 477-483. La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 249 sforzo di comprensione 8. La DH costituisce da questo punto di vista una vera novità. L’accento non è più sui nemici della vera religione (idee o persone che fossero), ma sui valori umani da riconoscere, illu- minare e sostenere alla luce della fede. Se tuttavia, precisato questo, non si voglia rinunciare a priori a raccogliere anche i frammenti sparsi di un magistero innovatore, allo- ra si può cercare in qualche modo di dar ragione di un certo cammi- no in relazione al quale la DH non rappresenterebbe più una meteora isolata, ma un’inedita riscoperta di tesori ecclesiali certamente provo- cata e favorita dall’interazione culturale con il mondo moderno. Da un certo punto in poi, infatti, si notano anche nel magistero pontificio sempre più numerosi segnali di una asistematica rivisitazione della dottrina o, per meglio dire, dello stemperarsi della monolitica inter- pretazione tradizionale della dottrina, così com’era uscita da un lungo medioevo, nel quale la Chiesa aveva strenuamente impegnato se stes- sa in dispute e lotte per assicurarsi il predominio politico da una parte e la vittoria ideologica contro variegate frange di dissenso ereticale dall’altra 9. Il magistero di Leone XIII, quello di Pio XI e di Pio XII so- no una testimonianza illuminata di questo sforzo 10, mentre quello di Giovanni XXIII, soprattutto nella Pacem in terris, alla quale la DH at- tinge abbondantemente, segna già la fioritura di uno spirito nuovo 11. Senza dubbio, tralasciando i contributi privati, c’è anche una ri- flessione cristiana comunitaria che era andata sviluppandosi dentro il movimento ecumenico intorno al tema dei diritti dell’uomo. Quan- tunque ancora marginalizzata dall’ufficialità cattolica, questa rifles-

8 «La chiesa del sec. XVII e XVIII, come parte del potere stabilito, si trovò dalla parte opposta a quella dove si elaboravano i diritti dell’uomo: si trovò contrapposta agli ambienti illuministici che peroravano la tolleranza per le minoranze più varie, la necessità di limitare l’assolutismo con lo stato di diritto, l’ascesa del terzo stato dal potere economico al potere politico. Ancora nel sec. XIX la tendenza alla re- staurazione portò molte istanze ecclesiali ufficiali a schierarsi con la conservazione, prima aristocratica e poi grande-borghese» (F. COMPAGNONI, Diritti dell’uomo, in Nuovo dizionario di teologia morale, Cini- sello B. 1990, p. 224). 9 «La Chiesa del XIX secolo rimaneva vincolata a un’idea della società cristiana ereditata dal Medioevo e a una concezione paternalistica dello Stato, in cui il “principe”, come un padre di famiglia, è tenuto a vegliare sul bene morale e religioso dei suoi sudditi: quindi solo la vera religione, il cattolicesimo, può essere ufficialmente riconosciuta» (C. BRESSOLETTE, Libertà religiosa (Dichiarazione Vaticano II), in Grande dizionario delle religioni, a cura di P. Poupard, Assisi-Casale Monf. 1990, p. 1157). 10 Leone XIII, riconoscendo maggiore autonomia allo Stato e alla società civile rispetto alla Chiesa; Pio XI, rivendicando la libertà delle coscienze di fronte ai regimi oppressivi; Pio XII, affermando la neces- sità di costruire un giusto ordine giuridico nella società nazionale ed internazionale, superano di fatto l’angustia della posizione dottrinale di Gregorio XVI (cf le encicliche del 1832 e 1834) e di Pio IX (Silla- bo, 1864), che condannavano la libertà di coscienza, di stampa ecc. 11 Non è certamente un caso che dietro la Pacem in terris e la DH ci siano praticamente gli stessi pen- satori-estensori, tra i quali eminente fu Pietro Pavan. 250 Giuseppe M. Siviero sione per suo conto di fatto contribuiva ben più convintamente alla costruzione di una nuova coscienza giuridica universale 12. Così, nel momento decisivo dell’Assemblea conciliare, solo una minoranza di padri fermò l’attenzione sugli aspetti teologici del pro- blema, vale a dire sull’impostazione teologica tradizionale del proble- ma, peraltro ben supportata dalla dogmatica giuridica elaborata dallo ius publicum ecclesiasticum 13. Quell’impostazione, anche a costo di andare contro il senso della storia e rinunciare a cogliere i vantaggi che si offrivano alla Chiesa da una coraggiosa apertura al dialogo con quel mondo che da essa si era distanziato, si proponeva di sotto- lineare la verità della religione cristiana cattolica in coerenza con una forma mentis consacrata infine dal concilio di Trento e dal Vati- cano I. Sosteneva, cioè, i diritti che scaturivano dalla “vera” religio- ne, i diritti di Dio, i diritti della verità religiosa, come del tutto preva- lenti sui diritti della libertà dell’uomo e in linea di principio del tutto intolleranti della coscienza erronea, nel contesto di una fede che si preoccupava pressoché soltanto dell’aspetto oggettivo 14. La maggio-

12 L’ambiente spirituale creato dall’ecumenismo era nativamente più adatto a cogliere il valore del princi- pio teologico della LR e a considerarlo come la pietra angolare di tutto l’edificio dei diritti umani. Per qual- cuno può essere una scoperta l’affermazione secondo cui il miglioramento del testo dell’ONU sulla LR dalla prima stesura dell’articolo 18 (nella quale si diceva soltanto «vi deve essere libertà di coscienza e di credenza e di culto religioso, privato e pubblico») alla seconda e definitiva è dovuto proprio all’influsso della riflessione ecumenica. «La riformulazione ha tenuto ampiamente conto del lavoro della Commissio- ne delle Chiese per le questioni internazionali del CEC (CCIA), svolto sulla base della dichiarazione sulla libertà religiosa pubblicata dal Consiglio missionario internazionale-Consiglio ecumenico delle Chiese. La prima assemblea del CEC (Amsterdam 1948) presentò la libertà religiosa come un elemento essenziale di ogni buon ordinamento internazionale. “Essa è richiesta dalla fede cristiana e dalla natura universale del cristianesimo”» (N. KOSHY, Libertà religiosa, in Dizionario del movimento ecumenico, ed. it. a cura di G. Cereti, A. Filippi, L. Sartori, Bologna 1994, pp. 683-684. Non dimentichiamo, però, anche l’influsso di pensatori cattolici come Jacques Maritain il quale, oltre a pubblicare nel 1942 uno studio intitolato I diritti dell’uomo e la legge naturale, partecipò al colloquio organizzato dall’UNESCO nell’estate del 1948, insieme a Benedetto Croce, a M.K. Gandhi, a Teilhard de Chardin e altri. 13 L’identificazione cristianesimo e religione è totale. E ciò a discapito dell’irriducibilità dell’esperienza della “fede” cristiana rispetto alle categorie socio-antropologiche della “religione”. Peraltro dello stesso fenomeno religioso, certamente costitutivo della storia della società umana, si mettono in rilievo le sole caratteristiche conservative che ne farebbero un’istituzione ancella del buon ordine sociale costituito più che un’espressione della ricerca umana del divino. Alfredo Ottaviani, alle soglie del Vaticano II, so- steneva ancora che «universalis fuit persuasio societatis legumque omnium fundamentum esse religio- nem»; che la religione è utile ed anzi necessaria «in civitate constituenda et firmanda»; che dalla religio- ne si ricavano vantaggi massimi «in ordinem morum, tranquillitatis et iustitiae socialis», citando a soste- gno di questa tesi apologetica soprattutto autori classici quali Cicerone, Plutarco, Eutropio ed esprimendo una netta condanna delle libertà moderne (libertas cogitandi, loquendi, cultuum) con un giudizio netto e irrevocabile (minime probandum est!), avendole identificate come cause dell’ateismo, del l’indifferentismo e del relativismo morale («Ceterum ipsa libertas cultuum et susceptio officialis om- nium religionum fidem pietatemque ludibrio exponit, indifferentismum iuvat et atheismum denique pro- movet […] Religio deseritur et fundamentum moralitatis periclitatur»: Institutiones iuris publici ecclesia- stici II, Typis polyglottis vaticanis 1960, pp. 46 e 63). 14 L’argomentazione tradizionale di cui ci si avvaleva era duplice: da una parte sostenere la religione cattolica come la vera religione, e in ciò soccorreva la teologia; dall’altra presentare la religione come La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 251 ranza, invece, preferì concentrarsi sulla lettura dei segni del tempo. E l’intuito pastorale dei padri suggerì loro di acquisire fino in fondo, magari mediandoli e reinterpretandoli alla luce della fede, i concetti che hanno determinato il progresso culturale della modernità occi- dentale, e di non precludersi la possibilità di poter continuare a par- lare con questo mondo 15. Alla fine proprio questa urgenza pastorale e questo approccio pratico gettati nel dibattito conciliare provocarono un benefico effetto di ritorno fino a monte delle questioni implicate, cioè fino al rinnova- mento della stessa teologia e fino alla puntuale rilettura del deposi- tum. Si prese coscienza che il Vangelo della verità non poteva essere contro il Vangelo della libertà, e che in attesa che la verità sia ricono- sciuta e accolta dall’uomo, ma perfino quand’anche fosse rifiutata, non si può fare altro che proteggere la libertà in una visione fiducio- sa della persona e dell’azione dello Spirito in essa e nella storia.

Lo spirito e la lettera della Dichiarazione sulla LR La Dichiarazione conciliare sulla LR si presenta anzitutto come un documento di agevole approccio per la sua brevità e il suo lin- guaggio semplice e quasi familiare. Un bel documento, insomma, del quale non si può che consigliare la lettura diretta, salvo rendere avvertito di quando in quando il lettore contemporaneo della portata

fondamento essenziale della società, ricorrendo ad argomentazioni di tipo filosofico, come è stato più so- pra evidenziato. Gli altri culti, di conseguenza, erano definiti falsi sul piano teorico e tollerati sul piano pratico. Ma proprio questa tolleranza costituisce un problema. Infatti, la LR è «da distinguersi rispetto alla tolleranza religiosa. Quest’ultima, infatti, nell’accezione più propria evoca il mero non perseguire, per ragioni di opportunità, un fenomeno religioso che invece si vorrebbe represso» (G. DALLA TORRE, Libertà religiosa, cit., p. 478). Il limite intollerabile, per la sensibilità cristiana della Chiesa medioevale, rimasto a lungo anche nel subconscio cristiano postmedioevale, è la defezione dalla vera fede, l’aposta - sia, sentita come scelta antisociale, come defezione tout court dalla società, e come tale da punirsi con la massima pena. Nessuna meraviglia se lo stesso Tommaso d’Aquino, in ciò figlio del suo tempo, per un crimine analogo, quello di eresia, sostiene che coloro i quali falsificavano la fede, recando in tal mo- do un danno gravissimo alla comunità, dovevano essere puniti con la morte (cf Summa theologica, II-II, q 10, a; q 11, a 3). In questa concezione nella quale la fede religiosa è vista come sostegno della società, anche contro l’individuo, abbiamo la misura della lontananza culturale di quel passato dai nostri giorni. 15 «È evidente che le condizioni della vita odierna postulano imperiosamente una generale libertà reli- giosa» (Mons. E. Cekada, in Acta synodalia III/II, p. 378). La questione della LR «è ai nostri giorni la questione pratica di maggiore importanza, sia per la vita della Chiesa sia per la vita sociale e civile. È anche una questione dottrinale [...]. Una chiara dichiarazione in materia è dovuta a tutto il mondo, cat- tolico e non cattolico, che la aspetta. Compiendo questa dichiarazione, questo Concilio Ecumenico di- mostrerà (per usare delle parole famose nella nostra storia americana ) “a decent respect to the opi- nion of mankind” [...]. Una cosa è di importanza somma. Attraverso questa dichiarazione la Chiesa cat- tolica deve mostrarsi a tutto il mondo d’oggi come una protagonista della libertà, e umana e civile, specialmente in materia religiosa» (Card. R.J. Cushing, in Acta synodalia III/II, p. 361). 252 Giuseppe M. Siviero delle questioni ivi considerate, per quanto gli possano sembrare al- l’apparenza scontate. Entrando più direttamente nel testo notiamo che esso consta di una breve introduzione e di due parti. La prima parte considera la ra- tio generalis della LR, ovvero i principi filosofici universali che fonda- no il diritto di LR, cioè la LR in quanto diritto naturale e civile, diritto dell’uomo che si vuole finalmente sancito dall’ordinamento giuridico dello Stato. La seconda parte, invece, considera la LR alla luce della rivelazione cristiana, cioè come diritto rivelato, diritto di cui si può da- re ragione a partire dal messaggio evangelico, genuina parola di cui la Chiesa ha coscienza d’essere portatrice riguardo alle realtà umane («genuina verità» è espressione che si ritrova in un altro documento conciliare: AG 8). Ma al di là delle intenzioni manifestate dai titoli, es- sendo tipico della visione cattolica leggere la rivelazione soprannatu- rale all’interno e non al di sopra o al di fuori della vicenda naturale che in essa è assunta e risignificata, nel testo conciliare le due pro- spettive (antropologica e teologica) s’intersecano e si fondono. Così la distinzione tra le due parti non appare più nettamente e dal punto di vista dello stile, dell’argomentazione e dei contenuti esse si avvi- cendano quasi senza soluzione di continuità, anzi con numerose ripe- tizioni e riprese tematiche che possono magari deludere i puristi, ma che manifestano ancor più l’indole pastorale e pratica del documento. Il proemio della Dichiarazione annuncia il tema della LR con un doveroso tributo alla sensibilità odierna circa la dignità della persona umana. Nel testo sono nominati concetti tipici della cultura moder- na, quali «iniziativa», «libertà», «coscienza», «delimitazione giuridica del pubblico potere», «beni dello spirito umano», «libero esercizio della religione nella società». La Chiesa conciliare dichiara fin da su- bito di accogliere positivamente questi fermenti nuovi e si sente spinta da essi a rivisitare la propria tradizione e la propria dottrina. Quindi, pur riaffermando senza ambiguità la convinzione della pro- pria verità religiosa 16, essa si propone specificamente di apportare sviluppi in particolare alla dottrina dei Sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della società (DH 1).

16 Si ribadisce che «l’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica» e che in quanto la LR «riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cri- sto» (DH 1). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 253

Osserviamo che il riconoscimento della sensibilità moderna, nel campo dei diritti dell’uomo, può apparire agli occhi di un lettore di fine millennio un po’ troppo vago e attenuato. In realtà l’attenua- zione, per così dire, fu dovuta alla dura fatica di elaborare una formu- lazione capace di incontrare l’accordo del maggior numero possibile di padri, i quali si erano trovati ad affrontare il tema della LR da pun- ti di vista diversi e non sempre facilmente conciliabili. La convinzio- ne che la Chiesa non potesse affrontare disunita la sfida del rilancio della sua missione nel mondo contemporaneo ebbe la meglio e sug- gerì, forse, di ricorrere a talune reticenze. Alla fine, com’era già av- venuto in quasi tutti gli altri documenti del Vaticano II, solo un evi- dente e abile compromesso stilistico ha potuto stemperare le diver- sità latenti in vista di un risultato apprezzabile da tutti. In realtà non si trattava di cogliere soltanto una generica sensibi- lità moderna, quanto di riconoscere alcuni fatti, alcune storiche con- quiste della civiltà, come la nascita formale di nuovi diritti civili, tra i quali preminente e archetipo è quello della LR. Questi fatti hanno si- glato un progresso giuridico e politico che tutt’oggi segna profonda- mente l’orizzonte ideale (se non proprio quello reale) dell’intera con- vivenza umana mondiale. E ciò particolarmente in quelle nazioni che erano nate da una gestazione storica cui non era culturalmente estra- neo lo spirito cristiano, come abbiamo sopra accennato, ma cui di fat- to si era tenacemente opposta la Chiesa ufficiale 17. In questo senso può apparire incomprensibile, ad esempio, che la DH non nomini esplicitamente, neanche in nota, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU. Eccesso di pudore o di imbarazzo per essere ar- rivati in ritardo su un terreno così delicato e cruciale come quello del riconoscimento concreto della dignità umana? Rifiuto di avallare un testo che rinuncia ad accreditarsi teisticamente? Difficile rispondere schematicamente 18.

17 Solo verso la fine del testo della DH si riconosce che «il fermento evangelico ha pure operato a lun- go nell’animo degli uomini e ha molto contribuito a che gli uomini nel corso dei secoli riconoscessero più ampiamente la dignità della propria persona e maturasse la persuasione che essa nella società deve essere conservata immune da ogni coercizione umana in materia religiosa» (n. 12). 18 Il sistema delle fonti della DH, tutte rigorosamente intraecclesiastiche, oltre che frutto di un costu- me consolidato di redazione dei documenti più autorevoli, è in qualche modo anche sintomatico di que- sta faticosa ricezione. Solo nella conclusione l’accenno del proemio alla sensibilità contemporanea si fa appena un po’ più concreto, ma senza uscire dal generico. Si dice essere «noto che gli uomini dell’età presente aspirino a poter professare liberamente la religione sia in forma privata che pubblica; anzi che la libertà religiosa nella maggior parte delle costituzioni è già dichiarata diritto civile ed è solennemen- te riconosciuta con documenti internazionali» (n. 15). 254 Giuseppe M. Siviero

La prima parte del documento considera alcuni aspetti generali della LR, ne traccia un profilo descrittivo sulla scorta del più tradizio- nale e raffinato giusnaturalismo cattolico. E, anzitutto, ne pone in evidenza gli elementi essenziali che fanno di questa particolare li- bertà un vero e proprio diritto fondamentale. Al n. 2 si afferma quan- to segue:

«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in mate- ria religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impe- dito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza privatamen- te o pubblicamente, in forma individuale o associata […]. Il diritto alla li- bertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio rivelata sia tramite la stes- sa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve es- sere riconosciuto nell’ordinamento giuridico della società così che divenga diritto civile» 19.

Come si vede, se il punto di partenza del discorso che la DH fa sulla LR è il suo riconoscimento come esigenza intrinseca della di- gnità della persona umana, l’obiettivo cui tende tutta l’argomentazione del documento conciliare è il suo inquadramento costituzionale come diritto civile e la sua effettiva protezione entro l’ordinamento giuridico dello Stato 20. La LR in quanto diritto civile, poi, anche per la Chiesa non riguarda solo i cattolici o i credenti o coloro che, in ogni caso, so- no coerenti con la propria coscienza ma, trattandosi di un vero diritto fondamentale, riguarda tutti gli uomini in quanto tali e in ogni circo-

19 Si precisa ulteriormente che non si può cercare la verità né aderirvi senza godere oltreché dell’im - munità dalla coercizione esterna anche della libertà psicologica. Si aggiunge che «la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca li- bera, con l’aiuto del magistero o dell’insegnamento, della comunicazione e del dialogo […] e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale. L’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza [...] non lo si deve costringere ad agire contro la sua co- scienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo reli- gioso» (n. 3). 20 Nella dogmatica giuridica il diritto di LR è configurato come un diritto pubblico soggettivo, individua- le e collettivo. «Un diritto soggettivo anzitutto, consistente nella pretesa giuridicamente protetta a esse- re immune da coercizioni esterne in materia religiosa e di coscienza e, positivamente, a esercitare tutte quelle manifestazioni esteriori della vita religiosa che possono cadere sotto la regolamentazione dell’ordinamento giuridico dello Stato. Poi un diritto soggettivo pubblico, vale a dire che tale pretesa si pone anche nei confronti dello Stato, per cui il titolare del diritto in questione può agire contro le pub- bliche autorità che lo abbiano leso. Titolari del diritto infine, sono non solo tutte le persone fisiche ma anche i soggetti collettivi, in particolare le confessioni religiose e i gruppi minori in cui esse posso- no articolarsi» (G. DALLA TORRE, Libertà religiosa, cit., pp. 479-480; cf anche la sintetica esposizione di C. CORRAL, Libertà religiosa, in Nuovo dizionario di diritto canonico, a cura di C. Corral, V. De Paolis, G. Ghirlanda, Cinisello B. 1993, p. 650). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 255 stanza. Così che il diritto all’immunità perdura perfino in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderirvi 21. Se si comprende la religione innanzitutto come un evento inter- no all’uomo, di modo che la sua essenza consista primariamente in atti interni volontari e liberi, si deve tuttavia riconoscere che la stes- sa natura sociale dell’uomo esige che egli possa dare espressione esterna a quegli atti interni di religione, che cioè possa comunicare con gli altri in materia religiosa e professare la propria religione in modo comunitario (DH 3). Sicché la libertà o immunità da coercizio- ne in materia religiosa che compete alle singole persone deve essere loro riconosciuta anche quando agiscono comunitariamente (DH 4). Quindi, oltre alla LR dell’individuo v’è anche la libertà delle comu- nità religiose. I principali contenuti di tale libertà delle comunità reli- giose nella società sono essenzialmente riconducibili alla libertà di autogovernarsi, cioè di confezionare proprie norme, fatti salvi i diritti altrui ed escludendo ogni abuso 22. Una comunità del tutto peculiare è la famiglia, alla quale pure spetta libertà in materia religiosa. Que- sto comporta che a ogni famiglia

«in quanto è società che gode di un diritto proprio e primordiale, compete il diritto di ordinare liberamente la propria vita religiosa domestica sotto la di- rezione dei genitori. A questi spetta pure il diritto di determinare la forma di educazione religiosa da impartirsi ai propri figli secondo la propria persua- sione religiosa. Quindi dal potere civile deve essere riconosciuto ai genitori il diritto di scegliere, con vera libertà, le scuole e gli altri mezzi di educazio-

21 Cf DH 2. È del tutto evidente quanto questa affermazione muti in modo inequivocabile l’impostazio - ne tradizionale; basti accennare alla tradizionale quanto veterotestamentaria interpretazione del com- pelle intrare di Lc 14, 23. Il diritto di LR, benché per sé orientato positivamente alla libera ricerca della verità religiosa, riguarda, quindi, anche gli atei preconcetti, gli indifferenti e coloro che rifiutano in co- scienza ogni religione. Diviene in tal modo tipico del diritto di LR ricomprendere in sé anche altri diritti e interpretare fenomeni nuovi quali l’obiezione di coscienza (militare, sanitaria, fiscale, ecologica...) e l’ateismo, per cui da diritto di libertà del credente esso tende a divenire diritto di libertà di chiunque in materia religiosa e di coscienza. Per quanto riguarda la costituzione italiana «la giurisprudenza della Corte costituzionale ha ritenuto che il diritto di LR legittimi il rifiuto di giurare da parte dell’ateo chia- mato a testimoniare nel processo, civile o penale (sent. n. 117 del 1979); che la LR è anche libertà di istituire scuole e università confessionali (sent. n. 195 del 1972); che il rifiuto a compiere il servizio mi- litare armato è una concreta estrinsecazione della libertà di coscienza, e quindi, della LR (sent. n. 164 del 1985)» (G. DALLA TORRE, Libertà religiosa, cit., p. 481). 22 Queste norme servono «per onorare la divinità suprema con culto pubblico, per aiutare i propri membri ad esercitare la vita religiosa e alimentarli con la dottrina, come pure per promuovere quelle istituzioni nelle quali i membri cooperino per ordinare la propria vita secondo i loro principi religiosi» (n. 4). La LR delle comunità è anche libertà di «scegliere, educare, nominare e trasferire i propri mini- stri, di comunicare con le autorità e comunità religiose che vivono in altre regioni della terra, di co- struire edifici religiosi, di acquistare e godere di beni adeguati [...] di insegnare e di testimoniare pub- blicamente la propria fede a voce e per iscritto» senza abusare del proprio diritto o ledere il diritto al- trui; diritto di manifestare l’aspetto sociale della propria dottrina e «liberamente riunirsi e dar vita ad associazioni educative, culturali, caritative, sociali» (L. cit.). 256 Giuseppe M. Siviero

ne, e per questa libertà di scelta non devono essere loro imposti, né diretta- mente né indirettamente, oneri ingiusti» 23.

Però ogni diritto civile, quindi anche il diritto di LR, ha dei limi- ti che devono poter essere chiaramente individuati. Questi limiti ri- guardano non il diritto in sé ma il suo esercizio 24. Il principio orienta- tivo generale che la DH propone è che nella società sia rispettata la consuetudine di una completa libertà, secondo la quale all’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, che non dev’essere limita- ta se non quando e in quanto è necessario (cf DH 7). In pratica, il li- mite alla libertà della persona, nell’ordinamento dello Stato, dev’es- sere segnato solo dal bene comune individuabile, nel caso della LR, secondo la cifra del giusto ordine pubblico 25. Nella prima parte si accenna anche alla regolamentazione patti- zia delle relazioni tra Chiesa e Stato, cioè in concreto allo strumento del concordato, che se richiesto dalle circostanze può sempre essere legittimamente utilizzato. Tuttavia se, considerate queste circostanze peculiari dei popoli, nell’ordinamento giuridico di una società civile viene attribuito a una comunità religiosa «uno speciale riconoscimen- to civile» è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e co-

23 DH 5. Ciò comporta anche che i figli non siano costretti a frequentare lezioni che non corrisponda- no alla convinzione religiosa dei genitori e una forma di educazione da cui la formazione religiosa sia completamente esclusa. 24 «Il diritto alla libertà in materia religiosa viene esercitato nella società umana, e di conseguenza il suo esercizio è soggetto ad alcune norme che lo regolano» (n. 7). 25 Cf DH 4. Il concetto è ribadito più volte: «il suo esercizio, qualora sia rispettato il giusto ordine pub- blico, non può essere impedito [...] una volta rispettato il giusto ordine pubblico» (n. 3). I contenuti di questa formula non sono così chiari come sembra a una prima lettura. Certamente essa è volta a legitti- mare non un intervento qualsiasi della pubblica autorità, ma solo un intervento informato a giustizia, cioè alla protezione dei diritti umani fondamentali. «Così, ad esempio, non sarebbe illegittimo l’ordine dell’autorità che, volto a salvare una vita umana, concretasse peraltro una limitazione della LR (si pensi al caso di trasfusioni di sangue fatte per sottrarre a morte sicura un minore, in contrasto con le convin- zioni religiose dei suoi genitori); così pure non sarebbe illegittimo l’ordine dell’autorità che per garanti- re il bene individuale e collettivo della salute, proibisse determinate esplicitazioni del diritto di LR (si pensi al caso del temporaneo divieto di atti di culto pubblico, posto dall’autorità civile non in odio reli- gioso, ma per garantire la salute della collettività nel caso di epidemie)» (G. DALLA TORRE, Libertà reli- giosa, cit., p. 482). Questa interpretazione è giustificata anche dal fatto che «tutelare e promuovere gli inviolabili diritti dell’uomo compete essenzialmente ad ogni autorità civile [...] il bene comune della so- cietà consiste soprattutto nel rispetto dei diritti e dei doveri della persona umana» (DH 6). Altre espres- sioni possono chiarire ulteriormente il concetto di ordine pubblico: «onesta pace pubblica, che è un’ordinata convivenza nella vera giustizia», «doverosa custodia della pubblica moralità» (n. 7). La co- stituzione italiana parla del limite di buon costume: «Il limite del buon costume [...] investe soltanto il profilo della libertà di culto, ed è apposto in costituzione con una formula diversa da quella che figura nel l’art. 21 VI co. in tema di libertà di pensiero. Il limite è lo stesso, e attiene […] alle manifestazioni contrarie non alla morale, ma solo al pudore e alla decenza. [...] In tema di culto non sono ammissibili misure preventive, ma solo repressive [...] la norma costituzionale [...] estende a tutti i culti il divieto, ma lo limita ai riti e rifiuta il limite di ordine pubblico» (P. BARILE, Diritti dell’uomo…, cit., p. 209). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 257 munità religiose venga riconosciuto e rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa. La parte si chiude con un richiamo per tutti al grave dovere di educare alla libertà e alla responsabilità (DH 8). Nella seconda parte troviamo altri contributi per una teologia della LR. Emergono qui alcune questioni interessanti e nello stesso tempo spinose, quali quella del rapporto tra LR e verità religiosa, e tra LR e libertà della Chiesa. In realtà il guadagno teologico più im- portante operato in questa parte del documento è di tipo generale e metodologico: la Chiesa, sollecitata dall’esterno dalla questione dei diritti umani, cioè dalla domanda sull’uomo, riscopre all’interno la parola di Dio, e quindi è rinviata alla domanda su Dio e su se stessa. Nondimeno, in primo piano continua a rimanere visibile anche la preoccupazione di difendere e far quadrare la propria posizione nella vicenda storica. La convinzione della DH è che le radici della dottrina sulla li- bertà sono nella stessa rivelazione e, perciò, ancor più essa va rispet- tata santamente dai cristiani. La ragione teologica è il rispetto di Cri- sto per la libertà dell’uomo. Da essa consegue per i discepoli il dovere di riconoscere e seguire lo spirito del maestro. Sicché la LR inscritta nella società è in piena rispondenza con la libertà dell’atto di fede cri- stiana, poiché l’uomo deve rispondere a Dio credendo volontariamen- te e nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. La LR, quindi, lungi dal nuocere, può addirittura facilitare l’a - desione alla fede cristiana e la sua attiva e convinta testimonianza 26. Tuttavia si deve constatare che la stessa prassi ecclesiale ha tal- volta contraddetto questi principi. Denunciando questo comporta- mento come «meno conforme allo spirito evangelico, anzi contrario», la DH ribadisce però che «ha sempre perdurato la dottrina della Chiesa che nessuno sia costretto ad abbracciare la fede» (DH 12). Non si tratta, quindi, di una richiesta di perdono per comportamenti che hanno causato a volte discriminazioni e sofferenze, ma nemme- no solo di un’ammissione a denti stretti di incoerenze pratiche a fronte di una rettitudine nei principi. Si tratta, a nostro avviso, di una sincera e addolorata constatazione che anche in un punto così delica- to e decisivo i cristiani possono sbagliare e di fatto hanno sbagliato. In verità bisogna forse riconoscere che probabilmente l’elaborazione degli stessi principi dottrinali non era avvenuta all’interno di una più

26 Cf nn. 9 e 10. L’atto di fede è volontario «per sua stessa natura» e l’ossequio che la fede presta a Dio dev’essere «ragionevole e libero». 258 Giuseppe M. Siviero serena e profonda visione del precetto evangelico il quale, di per sé, insieme alla profetica affermazione della verità, contiene sufficienti antidoti contro i pericoli dell’integrismo religioso. Questa constata- zione, però, ha aperto la strada a successivi e più coraggiosi pronun- ciamenti autocritici e a sempre più esplicite richieste di perdono 27. Infine ci imbattiamo in un tema nel tema, per così dire: quello della libertà della Chiesa considerata dal Vaticano II come un princi- pio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici e l’ordinamento civile. La sostanza di questo principio è che la Chiesa goda di tanta libertà d’azione quanta ne richiede la cura della salvez- za degli uomini. Ciò è giustificato per il fatto che essa è autorità spiri- tuale fondata da Cristo cui necessitano indipendenza e autonomia per adempiere la sua divina missione, e nello stesso tempo è anche una libera società di uomini.

«Vi è quindi concordia fra la libertà della Chiesa e quella libertà religiosa che deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli uomini e a tutte le co- munità e sancita nell’ordinamento giuridico» 28.

Nella conclusione della seconda parte, che è un po’ la conclu- sione generale dell’intero documento, si sottolinea la necessità di non limitarsi a mere dichiarazioni formali sulla LR, ma di instaurare una prassi di tutela coerente e si denunciano le ambiguità dei pubbli-

27 Questi pronunciamenti sembrerebbero procedere nella linea di un superamento dell’inadeguata di- stinzione tra ecclesia (santa) e populus christianus (peccatore), in vista di una visione globale della realtà umana ecclesiale come tutta simul santa e peccatrice. Ma di fatto la linea non si supera mai nean- che nelle recenti più coraggiose richieste di perdono di Giovanni Paolo II. Il linguaggio si fa sempre più sfumato (gli errori sono errori dei «figli della Chiesa») pur di non arrivare alla difficile ammissione di responsabilità anche istituzionali. Non ci pare sia qui in gioco l’idea teologica di una santità della Chie- sa intesa come opera dello spirito di Dio o del peccato come realtà personale, ma di una fallibilità delle sue istituzioni umane anche le più prestigiose. In questa linea non possiamo non apprezzare la maggio- re schiettezza di un ormai “antico” testo di COMMISSIONE PONTIFICIA GIUSTIZIA E PACE, La Chiesa e i di- ritti dell’uomo. Documento di lavoro n. 1 (10.12.1974): «L’iter storico dell’affermazione dei diritti del- l’uomo nell’ambito della società civile ed anche ecclesiale appare durante alcuni secoli offuscato ed ostacolato da posizioni e strutture istituzionali che ne hanno reso difficile il processo» (n. 17). Può ri- sultare utile anche l’illustrazione concreta di mentalità, costumi, norme ecclesiastiche discriminatorie nei confronti degli ebrei fatta da A. DALL’OSTO, Mai più un’altra Shoah, in «Testimoni» 7 (1998) 22-29. 28 DH 13. La libertas ecclesiae è stata a lungo la modalità teologico-giuridica con la quale la Chiesa ave- va inteso difendere efficacemente la propria LR. Di per sé, adottando un nuovo principio, quello del di- ritto universale di LR, il ricorso alla libertas ecclesiae rimane deputato alla giustificazione di una prassi concordataria cui la Chiesa conciliare (e ancor più la Santa Sede) non vuole rinunciare del tutto. La prassi concordataria e il principio di libertà della Chiesa, nonostante le opinioni contrarie, sembrano in qualche maniera mantenere più salda la specificità della Chiesa cattolica – tra le altre comunità religio- se – in quanto ordinamento giuridico primario ed ente di diritto internazionale. A patto che si rinunci sinceramente a ricercare per questa via privilegi o ad intendere la relazione con il mondo come una questione di meri accordi di vertice. La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 259 ci poteri a questo riguardo. Concretamente si richiede che ovunque la libertà religiosa sia difesa da un’efficace tutela giuridica e che sia- no osservati i doveri e i diritti fondamentali degli uomini. Dietro que- sta denuncia si intravede l’ombra pesante dei regimi statalisti, collet- tivisti e delle dittature di stampo rivoluzionario, sia di destra che di sinistra, che hanno oscurato pesantemente il progresso civile del no- stro secolo. Passati quei regimi rimane ancora attualissimo il richia- mo all’effettività del servizio che i pubblici poteri, in qualsivoglia ca- so, sono chiamati a rendere alla persona umana.

La ripresa del tema dopo il Vaticano II Dopo il Vaticano II il tema della dignità inalienabile della perso- na umana, della sua libertà e dei suoi diritti imprescrittibili penetra in maniera tanto graduale quanto irresistibile in tutte le espressioni del magistero ecclesiale ordinario e straordinario. Non è il caso di fa- re qui una raccolta completa né un excursus sistematico di questi rife- rimenti, ma può essere utile ricordare, sia pure un po’ disordinata- mente, alcune riprese del tema della LR a testimonianza del partico- lare significato che esso ha ormai per la vita e per l’azione della Chiesa dei nostri giorni, tenendo in conto che su questioni così fon- damentali il discorso non può essere considerato mai veramente chiuso. Infatti, per quanto riguarda il consolidarsi di una cultura di reciproco riconoscimento e di mutua collaborazione tra soggetti in- dividuali e comunitari è necessario impegnarsi costantemente per fa- vorire un’effettiva crescita delle coscienze personali, delle strutture democratiche degli Stati e dell’apertura ecumenica delle organizza- zioni religiose. L’area toccata dalla LR appare oggi allargarsi sempre più e non riguardare più solo la collocazione dell’individuo nello Stato, ma an- che la relazione tra Stato e comunità religiose e le relazioni fra istitu- zioni religiose diverse dentro lo Stato e nella comunità internaziona- le. Invano cercheremmo nel postconcilio un testo sulla LR così com- pleto come la DH, ma ritroviamo piuttosto la ricerca continua di una applicazione di quei principi e la loro ulteriore esplicitazione in occa- sione di concrete circostanze emergenti dall’azione pastorale della Chiesa e dalla sua vita di relazione con altre comunità civili e religio- se. La Chiesa postconciliare ha fatto propria la convinzione che la LR ha un riferimento costitutivo con l’evangelizzazione, gode di un for- tissimo aggancio con il cuore del messaggio cristiano e diviene con- 260 Giuseppe M. Siviero dizione urgente per un corretto svolgimento dell’azione pastorale nel mondo moderno 29. Paolo VI ha modo di ricordare l’importanza della LR in varie oc- casioni commemorative 30, ma, soprattutto, ha modo di estendere la dottrina del Vaticano II sulla libertà e dignità dell’uomo attraverso importanti encicliche 31 e nell’esortazione apostolica Evangelii nun- tiandi, pubblicata alla fine del 1975 a seguito di un’Assemblea gene- rale del Sinodo dei vescovi tenuta l’anno prima 32. Per Paolo VI lo sco- po del diritto di LR è quello di

«assicurare l’indipendenza della religione dalla incompetente ingerenza di ogni potestà profana ed esterna alla religione, ed anche da ogni abusivo esclusivismo sociale, o politico, in campo religioso; essa non snerva il dove- re apostolico, ma costituisce piuttosto la condizione civile per l’esercizio della attività missionaria, mentre questa stessa ci obbliga al rispetto delle co- scienze nell’annuncio dell’unico vero messaggio della salvezza derivante dal- la religione» 33.

Giovanni Paolo II accenna alla LR già nell’enciclica programma- tica del suo pontificato, la Redemptor hominis [= RH] del 1979 (cf RH 12 e 17) e nel discorso pronunciato davanti all’assemblea generale dell’ONUil 2 ottobre dello stesso anno. In questo intervento egli af- ferma, tra l’altro, che

«lo stesso confronto tra la concezione religiosa del mondo e quella agnostica o anche ateistica, che è uno dei “segni dei tempi” della nostra epoca, potrebbe conservare leali e rispettose dimensioni umane senza violare gli essenziali di- ritti della coscienza di nessun uomo o donna che vivono sulla terra» (RH 20).

Allo stesso tempo il Papa rivendica il coinvolgimento delle isti- tuzioni che per loro natura servono la vita religiosa, reclamando il ri- conoscimento del diritto delle stesse a partecipare a una sorta di

29 Ciò è testimoniato, tra l’altro, dall’inserzione del tema della LR nei Codici di diritto canonico (CIC e CCEO) e nel Catechismo della Chiesa cattolica che, ciascuno per la sua parte, sono espressioni autore- voli di una sistematica dell’organizzazione e dell’annuncio ecclesiali. 30 Cf, ad esempio, l’esortazione Quinque iam anni, a cinque anni dalla chiusura del Concilio (8.12. 1970) e il messaggio in occasione del XXV anniversario dell’ONU (4.10.1970). 31 Cf la Populorum progressio (26.3.1967) e l’Octogesima adveniens (14.5.1971); non si può dimenticare l’Ecclesiam suam (6.8.1964), che aveva addirittura inteso anticipare e in parte indirizzare la stessa rifles- sione conciliare. 32 «Da questa giusta liberazione legata all’evangelizzazione, che mira ad ottenere strutture salvaguar- danti le libertà umane, non può essere separata l’assicurazione di tutti i fondamentali diritti dell’uomo, fra i quali la libertà religiosa occupa un posto di primaria importanza» (EN 39). 33 Cf Messaggio per la giornata missionaria mondiale (25.5.1969). Il corsivo è nostro. La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 261 concertazione con la comunità civile al fine di stabilire il giusto teno- re dell’esercizio della LR. Ma, tra i moltissimi altri interventi, ci pare importante ricordare il messaggio L’église catholique sulla libertà di coscienza e di religio- ne che Giovanni Paolo II inviò il 1° settembre 1980 alle autorità dei Paesi firmatari dell’Atto finale di Helsinki. In questa occasione il Pa- pa insiste nel rivendicare il coinvolgimento delle istituzioni religiose laddove si tratti di definire concretamente i contenuti del diritto di LR nelle legislazioni nazionali e/o nelle convenzioni internazionali. Il testo risulta particolarmente interessante proprio perché propone un elenco di elementi specifici che dal punto di vista della Santa Se- de, ente che rappresenta anche in diritto internazionale la Chiesa cattolica, precisano il concetto del diritto di LR e ne sono l’applicazio- ne, sia sul piano personale che sul piano comunitario 34. Si ricava l’im -

34 «Sul piano personale, si deve tenere conto: - della libertà di aderire o no a una fede determinata e al- la comunità confessionale corrispondente; - della libertà di compiere, individualmente e collettivamen- te, in privato e in pubblico, atti di preghiera e di culto, e di avere chiese o luoghi di culto, secondo i bi- sogni dei credenti; - della libertà, per i genitori, di educare i loro figli nelle convinzioni religiose che ispirano la loro vita, e la possibilità di fare frequentare l’insegnamento catechistico e religioso dato dal- la comunità; - della libertà, per le famiglie, di scegliere le scuole o altri mezzi che assicurino ai loro figli questa educazione, senza dover subire, direttamente o indirettamente, pesi supplementari così gravosi da impedire nei fatti l’esercizio di questa libertà; - della libertà, per le persone, di beneficiare dell’assi - stenza religiosa dove si trovano, specialmente nei luoghi pubblici di cura (cliniche, ospedali), nelle ca- serme e nei servizi obbligatori dello stato, come nei luoghi di detenzione; - della libertà di non essere costretto, sul piano personale, civico o sociale, a compiere atti contrari alla propria fede, né a ricevere un tipo di educazione, o ad aderire a gruppi o associazioni, che hanno principi in contrasto con le pro- prie convinzioni religiose; - della libertà di non subire, per ragioni di fede religiosa, limitazioni e discri- minazioni, in rapporto ad altri cittadini, nelle diverse manifestazioni della vita (in tutto ciò che riguarda la carriera, sia negli studi, sia nel lavoro, sia nelle professioni; partecipazione alle responsabilità civiche e sociali, ecc.). Sul piano comunitario, è necessario considerare che le confessioni religiose, che riuni- scono i credenti d’una fede determinata, esistono e agiscono come corpi sociali, che si organizzano se- condo i principi dottrinali e i fini istituzionali propri di ogni confessione. La Chiesa in quanto tale, e le comunità confessionali hanno bisogno, per la loro vita e per l’esercizio dei loro scopi particolari, di go- dere di libertà determinate, fra le quali bisogna citare in particolare: - la libertà di avere la propria ge- rarchia interna o i suoi ministri corrispondenti, liberamente scelti dalla gerarchia, secondo le loro nor- me costituzionali; - la libertà, per i responsabili delle comunità religiose - specialmente, nella Chiesa cattolica, per i vescovi e gli altri superiori ecclesiastici - di esercitare liberamente il proprio ministero, di conferire le ordinazioni sacre ai preti o ai ministri, di nominare alle cariche ecclesiastiche, di comuni- care e di avere contatti con quanti aderiscono alla loro confessione religiosa; - la libertà di avere i pro- pri istituti di formazione religiosa e di studi teologici, nei quali possano essere liberamente accolti i candidati al sacerdozio e alla consacrazione religiosa; - la libertà di ricevere e di pubblicare libri religio- si sulla fede e il culto, e di farne uso liberamente; - la libertà di annunciare e di comunicare l’insegna - mento della fede, con la parola e con gli scritti, anche al di fuori dei luoghi di culto, e di far conoscere la dottrina morale riguardante le attività umane e l’organizzazione sociale: questo, in conformità con l’im - pegno, contenuto nell’Atto finale di Helsinki, di facilitare la diffusione dell’informazione, della cultura e degli scambi di conoscenze e di esperienze nel settore dell’educazione, e in corrispondenza, inoltre, nel settore religioso, con la missione evangelizzatrice della Chiesa; - la libertà di utilizzare allo stesso scopo gli strumenti di comunicazione sociale (stampa, radio, televisione); - la libertà di svolgere attività edu- cative, caritative e assistenziali che permettono di mettere in pratica il precetto religioso del l’amore ver- so i propri fratelli, specialmente quelli che ne hanno più bisogno. Inoltre: - per tutto ciò che riguarda le comunità religiose che, come la Chiesa cattolica, hanno un’autorità suprema, responsabile, su piano 262 Giuseppe M. Siviero pressione che la strategia della Chiesa sia da una parte quella di da- re sempre maggior certezza e concretezza contenutistica al diritto di LR e dall’altra di recuperare il protagonismo delle organizzazioni re- ligiose e la loro azione critico-profetica o, se si vuole, rivendicativa nei confronti dei poteri pubblici. In questa linea anche le riunioni del Sinodo dei vescovi denun- ciano più volte attentati alla LR 35. Trattandosi di consultazioni pasto- rali (intendendo per pastorale la cura della comunità ecclesiale) non deve stupire il fatto che vi sia una certa caduta, almeno quantitativa, dell’accento universalistico della DH a favore di una difesa della sola LR della Chiesa. In realtà, forse, si dovrebbe meglio dire che la Chie- sa difende se stessa e la propria azione facendo appello a principi giuridicamente nuovi e diversi da quelli del passato e ormai salda- mente acquisiti nell’attuale diritto internazionale. Ma, ciò che più conta, lo fa non sentendo più come un pericolo la libertà dei singoli, ma, anzi, considerando la maggiore libertà di cui tutti potenzialmen- te possono e devono godere nella società moderna, ivi compresa la LR, un’opportunità da costruire e da proteggere, anche al fine di co- municare una genuina esperienza religiosa 36. Merita menzione anche un documento dell’allora Commissione Pontificia Giustizia e Pace, La Chiesa e i diritti dell’uomo (10 dicem- bre 1974), notevole perché, oltre a operare un bilancio storico dottri- nale straordinariamente lucido, intende promuovere una moderna pastorale di sviluppo e difesa dei diritti degli uomini e dei popoli. Es-

universale, secondo le prescrizioni della loro fede, la libertà di assicurare, mediante il magistero e la giurisdizione, l’unità della comunione che lega tutti i pastori e i credenti in una stessa confessione; la li- bertà di avere rapporti scambievoli di comunicazione fra questa autorità e i pastori e le comunità reli- giose locali; la libertà di diffondere gli atti e i testi del magistero (encicliche, istruzioni...); - sul piano in- ternazionale: la libertà di scambi di comunicazione, di cooperazione, di solidarietà di carattere religio- so, con la possibilità, in particolare, di incontri e di riunioni di carattere multinazionale o universale; - anche sul piano internazionale, la libertà di scambiare, fra le comunità religiose, informazioni e contri- buti di carattere teologico o religioso» (n. 4). 35 Cf, ad esempio, i Sinodi del 1971 (la giustizia nel mondo), del 1974 (diritti dell’uomo e riconcilia- zione) e del 1977 (la catechesi). Il problema riemerge acutamente anche nel Sinodo del 1987 (vocazione e missione dei laici). 36 «La Chiesa ha allargato la sua azione di difesa dal campo della christianitas – e della protezione dei suoi diritti e di quelli dei suoi membri – al campo della societas hominum, per tutelare i diritti di tutti gli uomini sulla base della comune natura umana e del diritto naturale» (COMMISSIONE PONTIFICIA GIUSTIZIA E PACE, La Chiesa e i diritti dell’uomo, cit., n. 32). Vale a dire che la Chiesa di per sé rinuncia a difende- re i propri diritti, senza allo stesso tempo difendere i diritti di tutti, anzi solo difendendo i diritti di tutti sa di poter difendere i propri. «È da auspicare che l’autentica libertà religiosa sia concessa a tutti in ogni luogo, ed a questo scopo la Chiesa si adopera nei vari Paesi, specie in quelli a maggioranza cattoli- ca, dove essa ha un maggiore influsso. Ma non si tratta di un problema della religione di maggioranza o di minoranza, bensì di un diritto inalienabile di ogni persona umana» (GIOVANNI PAOLO II, enciclica Redemptoris missio, n. 39). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 263 so considera il diritto di LR come la base di tutte le libertà umane e sostiene l’idea di un’istanza suprema, una corte o un tribunale uni- versale dei diritti dell’uomo, di natura non politica ma giuridica, ca- pace di giudicare autonomamente le violazioni. Il testo si impone an- che per la convinzione con cui richiama l’importanza, in questo cam- po, di un’azione comune con i fratelli separati 37. Anche la Commissione Teologica Internazionale ebbe modo, nel 1984, di elaborare una Tesi sulla dignità e i diritti della persona umana. In essa si approfondisce la teologia della dignità e dei diritti dell’uomo e si fanno pertinenti osservazioni anche sulla problemati- ca filosofico-giuridica connessa. Inoltre si plaude alla ricezione, sia pur limitata, del tema nel nuovo Codice di diritto canonico, allora ap- pena promulgato. Si sostiene una gerarchia dei diritti umani e si nota che esistono di fatto diverse concezioni della dignità della persona. In particolare si riconosce che la LR sotto certi aspetti può essere considerata come il fondamento d’ogni altro diritto, ma si nota altresì che esistono anche altre opinioni che attribuiscono tale priorità al di- ritto di eguaglianza di tutti gli uomini. Anche la Conferenza Episcopale Italiana non ha certo ignorato il tema della LR dentro un cammino pastorale che si è fatto sempre at- tento all’evoluzione delle condizioni socio-politiche del nostro Paese 38. Per quanto riguarda la riflessione portata avanti all’interno del movimento ecumenico e nei molteplici contatti tra rappresentanti del- le diverse comunità cristiane, notiamo che esso si costituisce sempre più come il luogo ideale in cui individuare e affrontare sfumature e aspetti peculiari della LR. Tra questi emerge il problema del proseliti- smo 39, la distinzione tra LR negativa (libertà dalla religione) e LR po -

37 Di questo spirito ecumenico furono testimonianze concrete il SODEPAX (Comitato per lo sviluppo, la giustizia e la pace, con sede a Ginevra) creato da Giustizia e Pace e dal CEC, e le iniziative da esso promosse, come la conferenza di Beirut (1968), la conferenza mondiale di Montreal (1969) e il collo- quio di Baden - Austria (1970). 38 Citiamo, a titolo puramente esemplificativo, i documenti Evangelizzazione del mondo contemporaneo (28.2.1974); La Chiesa e il mondo rurale italiano (11.11.1973); I cristiani e la vita pubblica (16.1.1968); Dichiarazione sull’impegno per l’unità europea (16.3.1989). Registriamo anche un intervento dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali su Il senso e la finalità degli interventi dell’episcopato in materia sociale e politica (22.7.1987), che si richiama alla LR per giustificare la libera manifestazione da parte delle comunità religiose delle proprie convinzioni circa l’organizzazione della società umana, menzio- nando al proposito due rilevanti documenti dei vescovi italiani: I cristiani e la vita pubblica, del 1968 e La chiesa italiana e le prospettive del Paese, del 1981. Anche i vescovi europei, tra l’altro, toccano il tema della LR nella dichiarazione di Subiaco, dedicata alla Responsabilità dei cristiani di fronte all’Europa di oggi e di domani (28.9.1980), nella quale, oltre a constatare che anche in Europa non tutti godono pie- namente della LR, operano una distinzione netta tra questa e la mera libertà di culto. 39 Cf GRUPPO MISTO DI LAVORO TRA LA CHIESA CATTOLICA E IL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE, Secondo rapporto ufficiale (1967): «Mentre la discussione sulla libertà religiosa riguarda la libertà della testimo- 264 Giuseppe M. Siviero sitiva (libertà di praticare la religione), e la sottolineatura che la di- mensione individualistica del diritto di LR non basta a garantirne la comprensione e il pieno rispetto 40.

Una riflessione conclusiva Viene spontaneo chiedersi se e in che modo l’azione odierna della Chiesa sia toccata da questa Dichiarazione di oltre trent’anni fa. E vien facile rispondere che, per le condizioni multiculturali nelle quali opera, l’azione ecclesiale può oggi recepire, utilizzare e valoriz- zare ancor meglio di ieri l’insegnamento della DH. È probabile, anzi, che in buona parte la forza di penetrazione del messaggio ecclesiale nella cultura contemporanea dipenda proprio dallo spirito e dai punti fermi di questo breve testo. Insieme ad altri documenti, forse più teologici e articolati, esso ha per la sua parte notevolmente contri- buito a modificare la coscienza e lo stile dell’agire cristiano. Le titubanze che ancora si notano qua e là, dovute forse a fonda- ti timori e al duro impatto con la realtà contemporanea, non bastano a oscurare l’impressione che la Chiesa postconciliare abbia scelto – sulla sicura scorta del Vaticano II – di prendere più sul serio l’avven - tura della libertà umana, fidando che il senso di questo cammino non possa non essere che quello di portare l’uomo più vicino a se stesso, agli altri e a Dio. In questo cammino la Chiesa sente di avere titolo per potersi e doversi fare compagna e alleata dell’uomo, offren- dogli la propria esperienza di libertà cristiana e la testimonianza esi- gente del proprio incontro con la verità rivelata 41. Se la libertà cristiana presuppone la libertà umana e se la verità rivelata presuppone l’umana ricerca della verità, allora possiamo dire

nianza nello Stato e nella società, lo studio del proselitismo richiede un esame della natura della testi- monianza cristiana in genere e soprattutto della relazione tra le Chiese separate. Come dobbiamo com- prendere l’obbligo che ha ogni Chiesa di testimoniare la verità e la responsabilità ecumenica che cia- scuna ha verso le altre?» (n. 5); COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA CATTOLICA ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA, documento di Balamand L’uniatismo, metodo di unio- ne del passato, e la ricerca attuale della piena comunione, 23 giugno 1993: «L’azione pastorale della Chiesa cattolica sia latina che orientale non tende più a far passare i fedeli di una Chiesa all’altra; cioè non mira più al proselitismo tra gli ortodossi» (n. 22). 40 Cf GRUPPO DI LAVORO FRA LUTERANI E ORTODOSSI FINLANDESI, Quarta sintesi dei dibattiti teologici uffi- ciali, 21 settembre 1993. 41 La questione teologica permanentemente sottesa è la relazione libertà/verità, ma anche, aggiunge- remmo, la relazione libertà/amore. Secondo Walter Kasper questa questione teologica, specie se con- siderata all’interno dei processi moderni di libertà, risulta fatale circa il futuro della fede del cristianesi- mo nella nostra società (cf Chiesa e libertà, in «Il regno documenti» 40 (1995) 39-45: trattasi della prolu- sione che ha aperto l’anno accademico allo STAB di Bologna il 23 novembre 1994). La libertà religiosa dalla Dignitatis humanae ai nostri giorni 265 che la DH ha visto giusto. E una Chiesa che si pone sul terreno degli ordinamenti di libertà e si impegna per la sua parte a rimettere la di- gnità di ogni uomo al centro non può non essere e sentirsi oggi col- locata sintonicamente rispetto ai segni del tempo. Tutto ciò è stato certamente favorito anche da una visione me- no ingenua delle istituzioni civili: lo Stato non è la società, ma è una struttura d’ordine e di servizio della società, di garanzia del cittadino e di organizzazione sociale; lo Stato è l’istituzione sociale più impor- tante per la sua alta funzione di sintesi del bene comune, a servizio della giustizia, del buon ordine pubblico e, in definitiva, della perso- na umana. Al contempo è stato favorito anche da una visione meno rigida e schematica delle istituzioni ecclesiali: la Chiesa è mistero che sussiste nell’umano, ma che non può essere identificato indiscri- minatamente con le forme storiche da esso assunte. La vita di comu- nione/missione che costituisce il senso profondo anche delle sue espressioni istituzionali, fa sì che queste non possano cessare di rin- novarsi e di adeguarsi, e perfino di arretrare laddove avviene il pro- digio della crescita nella libertà dello Spirito, la crescita umana inte- grale di ciascuna persona che, chiamata alla fede, alla speranza e al- l’amore, si scopre erede del regno di Dio. I germi di novità della DH non si riferiscono, quindi, soltanto al- la posizione della Chiesa nell’ordinamento internazionale o alle sue relazioni interreligiose 42, cioè a problemi che potrebbero essere per- cepiti come esterni a essa, ma perfino al suo stile pastorale e alla sua organizzazione interna. Non c’è dubbio, infatti, che l’affermazione della dignità umana, dei diritti e doveri di ogni persona e della LR ab- bia imposto alla pastorale non soltanto una nuova coscienza dello sce- nario e delle circostanze, ma anche della natura della sua azione. E se oggi il fondamento della convivenza sociale è visto e posto diversa- mente dal passato (non in modo estrinseco, nell’autorità sovrana, nel- la difesa degli interessi comuni o per il perseguimento di un fine co- mune, ma in modo intrinseco, cioè nella dignità dell’uomo, della per- sona, del cittadino di cui si rivendica e si afferma ogni dimensione di

42 L’aspetto interreligioso della problematica della LR oggi emerge con maggiori urgenze e implicazio- ni, anche giuridico-canoniche, soprattutto nel confronto con l’Islam. Su questo cf il saggio di J. SCHWAR- TLANDER - H. BIENLEFELDT, Christen und Muslime vor der Herausforderung der Menschenrechte, Bonn 1992, prodotto su mandato del gruppo di lavoro scientifico per i problemi socio-religiosi della Confe- renza episcopale tedesca (trad. it.: Cristianesimo e islam di fronte ai diritti umani, in «Il Regno docu- menti» 38 (1993) 494-511; soprattutto la terza parte: Un “problema scottante”: la libertà religiosa, pp. 501-506; e la quarta parte: Nozione moderna dei diritti dell’uomo e fede religiosa, pp. 506-507). 266 Giuseppe M. Siviero libertà, quindi anche quella religiosa), ciò non può essere meno vero per la convivenza ecclesiale e costituirne quasi la verifica. Questo potrebbe consigliare ma, perfino, anche imporre un cammino ulteriormente progrediente, un’accelerazione nel discerni- mento e nella recezione all’interno dell’ordinamento canonico e del- l’organizzazione pastorale di questi eminenti valori antropogeni, an- dando senza timore, quando se ne creeranno le condizioni, anche oltre l’attuale codificazione verso un diritto ecclesiale centrato sulla persona in relazione comunionale con Dio e i fratelli e non solo fina- lizzato – com’è già – al suo bene spirituale, gestito protagonistica- mente dall’istituzione religiosa43. GIUSEPPE M. SIVIERO via Vescovi, 7 35038 Torreglia (Padova)

43 «Se si comprende la chiesa come «istituzione della libertà cristiana», questo comporta evidentemen- te delle conseguenze anche sull’odierna immagine storica di chiesa, sul dovere di prendere sul serio lo stato di soggetto dei credenti e sulle strutture di partecipazione della chiesa [...] Anche sotto questo aspetto, in ciò che attiene la recezione del Vaticano II, siamo ancora solo agli inizi» (W. KASPER, Chiesa e libertà, cit., p. 45). Lo stesso Kasper ricorda che già la lettera di Giacomo chiama il cristianesimo «la legge perfetta della libertà» (1, 25; cf pure 2, 12, ibid., p. 43). È ipotizzabile un ordinamento che ricono- sca esplicitamente come limite-scopo della libertà personale del cristiano solo il comandamento nuovo del Signore? Cosa ciò significhi in riferimento a temi quali la ricerca teologica, il consenso/dissenso, la partecipazione democratica; o a prassi ecclesiastiche che alla sensibilità moderna sembrano emargina- re il pieno sviluppo della responsabilità personale, quali l’obbedienza gerarchica, il pedobattesimo, la condanna di situazioni irregolari dettate da scelte di coscienza, è cosa che certamente stimolerà il desi- derio di investigazione e di approfondimento di tutti. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 267-283 Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico di Pierantonio Pavanello

La solenne affermazione del diritto di ogni persona umana alla libertà religiosa a opera della dichiarazione conciliare Dignitatis hu- manae [= DH] porta con sé l’interrogativo circa la rilevanza di tale diritto all’interno dell’ordinamento canonico. Si cercherà di darvi ri- sposta a partire da alcune disposizioni normative del Codice di dirit- to canonico vigente, che sembrano implicare la problematica della li- bertà religiosa. Tale problematica, infatti, non può non toccare la vita interna della Chiesa: lo dimostra tra l’altro lo sforzo dei padri conciliari nella seconda parte della Dignitatis humanae, di dimostrare come la dottri- na relativa alla libertà religiosa non si fondi solo su argomenti di ca- rattere razionale, ma anche affondi le sue radici nella rivelazione e, in particolare, nel modo di agire della Chiesa, seguace in questo di Cri- sto e degli Apostoli. Pur mancando una trattazione esplicita circa la li- bertà religiosa dentro la Chiesa, possiamo trovarne quantomeno un accenno quando il Concilio afferma che nonostante alcuni comporta- menti non coerenti, la Chiesa ha sempre perseverato nel l’affermare la libertà religiosa: «Quantunque nella vita del popolo di Dio pellegrinante attraverso le vicissi- tudini della storia umana, di quando in quando si sia avuto un comportamen- to meno conforme allo spirito evangelico, anzi contrario, tuttavia ha sempre perdurato la dottrina della Chiesa che nessuno sia costretto ad abbracciare la fede» (DH 12).

All’interno dell’ordinamento canonico il principio della libertà re- ligiosa può assumere rilevanza in una duplice direzione. Innanzitutto in relazione ai soggetti esterni alla comunità ecclesiale, in quanto ob- bliga la Chiesa nell’esercizio della sua missione a rispettare il fonda- 268 Pierantonio Pavanello mentale principio per cui l’atto di fede deve essere libero. In secondo luogo all’interno dell’ordinamento stesso: ci si chiede se il principio di libertà religiosa valga anche per chi decide di uscire dalla Chiesa do- po il battesimo. Si tratta in altri termini del conflitto che può crearsi tra il diritto naturale alla libertà religiosa e i doveri che nascono dal - l’appartenenza alla comunità ecclesiale attraverso il battesimo, ad e - sempio, nel caso in cui un fedele abbandoni la fede cattolica. Ci si chiede infine se si possa parlare di un diritto alla libertà re- ligiosa all’interno della Chiesa, cioè se dal principio della libertà reli- giosa nasca non soltanto un diritto “dell’uomo”, ma anche un diritto “del christifidelis”, cioè un vero e proprio diritto ecclesiale.

Il diritto all’immunità da ogni coercizione nella professione della fede (can. 748 § 2) Prendiamo l’avvio per una ricognizione del nostro tema all’in - terno del CIC dal can. 748 § 2:

«Non è mai lecito ad alcuno indurre gli uomini con la costrizione ad abbrac- ciare la fede cattolica contro la loro coscienza».

A una prima lettura sembra di trovarsi di fronte a una semplice ri- presa, con alcune modifiche marginali, di un principio tradizionale pre- sente anche nel can. 1351 del CIC 1917. Un esame più approfondito ri- vela però che il contesto in cui questa norma viene collocata dal CIC 1983 è notevolmente diverso. Il principio tradizionale per cui «ad am- plexandam fidem catholicam nemo invitus cogatur» (can. 1351 CIC 1917) riceve dall’insegnamento conciliare nuovo vigore e più ampia ap- plicazione nella vita e nella missione della comunità ecclesiale. In que- sto senso è significativo il riferimento nelle fonti del canone, oltre ap- punto al corrispondente can. 1351 del CIC 1917, a DH 2 1, 4 2 e AG 13 3.

1 «Il sacro Concilio professa pure che questi doveri toccano e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insie- me con vigore. E poiché la libertà religiosa che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di onorare Dio, riguarda l’immunità della coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tra- dizionale sul dovere morale dei singoli e della società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo». 2 «La libertà o immunità da coercizione in materia religiosa, che compete alle singole persone, deve essere riconosciuta ad esse anche quando agiscono comunitariamente. Le comunità religiose infatti so- no postulate dalla natura sociale tanto dell’uomo come della religione stessa». 3 «La Chiesa proibisce severamente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggi- ri ad abbracciare la fede, allo stesso modo che rivendica energicamente il diritto che nessuno con in- giuste vessazioni dalla fede stessa sia distolto». Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 269

Rispetto al can. 1351 del Codice precedente, va segnalata per- tanto più che la nuova formulazione letterale (le variazioni non sem- brano significative) la mutata collocazione sistematica, che ne amplia il significato e la portata. Mentre nel CIC 1917 questa norma era col- locata all’interno del capitolo dedicato alle missioni, ora invece viene a trovarsi nei canoni introduttivi del libro III sul munus docendi. Essa inoltre non viene più proposta isolata (nel CIC del 1917 formava un canone a sé), ma insieme con l’obbligo per tutti gli uomini di cercare la verità e di aderire a essa. Il § 1 del can. 748 infatti afferma:

«Tutti gli uomini sono tenuti a ricercare la verità nelle cose che riguardano Dio e la sua Chiesa e, conosciutala, sono vincolati in forza della legge divina e godono del diritto di abbracciarla e di osservarla».

Viene così a riprodursi in questo canone quella sorta di “con- trappunto” che caratterizza l’intera Dichiarazione conciliare, la quale ripetutamente accosta al diritto alla libertà religiosa sul piano giuridi- co l’obbligo morale di ogni uomo di cercare la verità religiosa e di aderirvi 4. La collocazione sistematica può fornirci una prima chiave di let- tura della norma che si sta esaminando 5. Il can. 747 parla del compi- to della Chiesa di annunciare il Vangelo a tutte le genti, compito che viene a incontrarsi con l’obbligo morale di ogni uomo di cercare la verità religiosa (can. 748 § 1). Nello svolgere la sua missione la Chie- sa dovrà evitare ogni forma di coercizione, affinché sia garantita la li- bertà dell’atto di fede 6. In altri termini ciò che interessa qui in primo luogo è il rispetto della libertà di ogni uomo nell’aderire alla fede cat- tolica. Il tenore del testo, che fa esplicito riferimento non a una qual- siasi scelta religiosa, ma all’adesione alla fede cattolica, conferma questa interpretazione. Trattandosi poi di un canone introduttivo es-

4 La relazione tra doveri e diritti soggettivi nell’ordinamento canonico non è un fatto puramente estrin- seco, ma va ricondotta alla natura profonda della condizione giuridica del christifidelis: «Per il fedele cri- stiano gli obblighi sono antecedenti ai diritti, considerato che la sua condizione deriva dalla libera ini- ziativa di Dio e dalla sua partecipazione alla communio ecclesiastica» (A. LONGHITANO, Il popolo di Dio, 2 in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, II, Roma 1990 , p. 33). 5 Sottolinea questo aspetto G. LUF, Glaubensfreiheit und Glaubensbekenntnis, in AA.VV., Handbuch des Katholischen Kirchenrechts, Regensburg 1983, p. 565. 6 «L’atto di fede è volontario per sua stessa natura, giacché l’uomo redento da Cristo salvatore e chia- mato in Cristo Gesù ad essere suo figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se attratto dal Pa- dre non si presta a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero. È quindi pienamente rispondente alla natura della fede che in materia religiosa si escluda ogni forma di coercizione da parte degli uomini» (DH 10). 270 Pierantonio Pavanello so ha un carattere di enunciazione generale, destinata a ispirare le singole prescrizioni relative ai vari ambiti del munus docendi 7. I commentatori per lo più sembrano aver trascurato questo le- game tra la prescrizione del can. 748 § 2 e il munus docendi della Chiesa, limitandosi a rilevare che l’affermazione del dovere morale di cercare la verità religiosa (§ 1) è accompagnata dalla proibizione giuridica di esercitare qualsiasi forma di coercizione 8. Qualcuno sot- tolinea come il principio della libertà religiosa venga qui applicato anche alla fede cattolica, affermando il primato della coscienza, in quanto l’atto di fede per essere salvifico deve essere libero 9. Maggiore interesse sembra invece aver suscitato la domanda se nel § 2 del can. 748 si possa vedere l’affermazione di un diritto soggettivo del fedele. Vi è chi nega decisamente questa ipotesi, e - scludendo che la norma si riferisca alle relazioni giuridiche intraec- clesiali, ma riguardi invece chi ancora non ha abbracciato la fede e quindi non appartiene ancora alla comunità ecclesiale 10. Altri invece sostengono che ci si trova di fronte a un vero e proprio diritto fonda- mentale del fedele: esso riguarderebbe pertanto non solo i non bat- tezzati e i battezzati non cattolici, ma anche i battezzati nella Chiesa cattolica, che non sono ancora arrivati a un’adesione personale alla fede o che hanno abbandonato la fede stessa 11. Rimandando alla parte conclusiva di questo articolo per una ri- flessione più approfondita su questo punto, ci si limita qui a osserva- re come entrambe queste posizioni non sembrino soddisfacenti. Alla prima infatti si può rimproverare di non tenere sufficiente- mente conto che, se è vero che il diritto alla libertà religiosa è un dirit- to “umano”, esso non cessa quando la persona entra liberamente nel- la Chiesa. Inoltre la stessa collocazione sistematica del can. 748 § 2 dovrebbe suggerire una certa prudenza nell’affermare che la norma contiene un diritto fondamentale dei fedeli. Il fatto che non sia stata inserita nel titolo I della parte I del libro II sugli obblighi e diritti di

7 Una specificazione del principio enunciato nel can. 748 § 2 si può trovare ad esempio nel can. 787 § 2, in cui, a proposito dell’attività missionaria, si sottolinea che il battesimo deve essere chiesto liberamen- te. Sulla necessità del consenso del candidato adulto e dei genitori nel caso del bambino cf cann. 865 § 1 e 868 § 1, 1°. 8 Cf ad esempio D. COMPOSTA, in AA.VV., Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma 1985, p. 471; L. DE ECHEVARRIA, in AA.VV., Código de Derecho Canónico, Madrid 1988, p. 392; E. TEJERO, in AA.VV., Coméntario Exegético al Código de Derecho Canónico, III, Pamplona 1996, p. 43. 9 Cf J. CORIDEN, sub can. 748, in AA.VV., The Code of Canon Law. A Text and Commentary, New York 1985, p. 547. 10 Cf E. TEJERO, in Coméntario..., cit., p. 43. 11 Cf H. MUSSINGHOFF, sub can. 748, in AA.VV., Münsterischer Kommentar, Essen 1987. Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 271 tutti i fedeli, ma tra i canoni introduttivi del libro III non può essere at- tribuito solo alla storia della redazione. È vero infatti che di questa norma si è occupato il coetus sul magistero, dato che riprendeva un canone che nel CIC del 1917 si trovava nella parte dedicata al magi- stero. Il fatto però che tale norma non sia stata inserita nell’elenco dei diritti fondamentali non può essere semplicemente casuale, ma va fat- to risalire a una precisa scelta del legislatore. Per quanto riguarda la seconda posizione bisogna osservare che il diritto alla libertà religiosa assume un significato nuovo nelle rela- zioni intraeccclesiali, in quanto il fedele dovrà esercitarlo in accordo con il primo e fondamentale valore costituito dal dovere di vivere nel- la piena comunione, di cui fa parte l’adesione alla fede della Chiesa. Tenendo conto di questi rilievi, la portata del principio afferma- to dal can. 748 § 2 nell’ambito intraecclesiale sembra doversi inten- dere nel senso che la Chiesa non può esercitare alcuna coercizione su un fedele, qualora non professi più la fede nella sua integrità e/o voglia passare a un’altra religione. Egli però non potrà esigere di ri- manere nella piena comunione ecclesiale, dalla quale si autoesclude. Da parte sua la Chiesa ha non solo il diritto, ma anche il dovere di prendere atto di tale autoesclusione e di dichiararla 12.

Il rispetto della libertà religiosa e la liceità del battesimo in pericolo di morte «contro la volontà dei genitori» (can. 868 § 2) Il valore del principio affermato dal can. 748 § 2 può essere me- glio compreso alla luce della norma del can. 868 § 2, che dichiara le-

12 «Homo redemptus, qui nempe redemptionem accipit et in Ecclesia vivit, Regnum Dei in se adimplet, quod Regnum est quidem Regnum hominis, in quantum plene exprimit id quod homo est et esse debet tam ratione creationis quam et redemptionis. Propter hoc novum natale in Ecclesia nonnulla iura et officia ho- minis qua talis obiectum proprium habent vel eorum exercitium suspenditur, ut, ex. g. ius fundamentalissi- mum hominis ad libertatem conscientiae ac religionis. Hoc est ius humanum maximi momenti pro vita Ec- clesiae (DH 10; 12a), quia tantum si hoc ius observatur et ab omnibus colitur, etiam ab Ecclesia (c. 748, § 2), homo adimplere potest officium suum veram fidem in Christum cognoscendi et libere amplectendi, et in Ec- clesiam unam sanctam catholicam apostolicam ingrediendi (c. 748, § 1). Sed semel ac homo, plena libertate conscientiae, in Ecclesiam ingressus sit, una et unica professione fidei tenetur. Libere in Ecclesia ingressus, homo semper homo est, sed ad spheram superiorem accedit, quia adhaesio fidei Ecclesiae primus et summus valor pro eo fit (DH 14). Homo in Ecclesia ius ad libertatem conscientiae et religionis servat etiam eo sensu quod si integram fidem non confitetur vel ad aliam religionem transire vult, eum Ecclesia coercere nequit, sed in ea manere non potest et ab ea exire debet. Qui ab Ecclesia se libere excludit, quia valori primo et sum- mo pro unoquoque homine renuntiat, nec se tamquam hominem iam quidem plene realisat. Ecclesia vero, ex parte sua, non tantum ius sed et obligationem habet huiusmodi autoexclusionem confirmandi et simplici- ter illam declarandi» (G. GHIRLANDA, De obligationibus et iuribus christifidelium in communione ecclesiali deque eorum adimpletione et exercitio, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 73 [1984] 333-334). 272 Pierantonio Pavanello cito il battesimo conferito in pericolo di morte al bambino figlio di cattolici o di non cattolici, anche «contro la volontà dei genitori». I commentatori non hanno mancato di rilevare il carattere pro- blematico di questa norma 13, soprattutto perché sembra contraddire proprio il principio della libertà religiosa affermato dal Concilio, che comprende anche il diritto dei genitori di determinare l’educazione religiosa da impartire ai figli 14. La perplessità è giustificata anche dal fatto che una prima reda- zione del canone, proposta dal coetus che lavorava alla revisione del diritto dei sacramenti, prevedeva una soluzione normativa molto di- versa da quella poi recepita nel testo promulgato. Innovando rispetto al can. 750 § 1 del CIC 1917 15 e a tutta la tradizione precedente, lo Schema de Sacramentis del 1975 proponeva la seguente formulazione:

«Il bambino, sia di genitori cattolici, sia anche non cattolici, che versi in peri- colo di vita, così da ritenere prudentemente che morirà prima di giungere all’uso di ragione, è battezzato lecitamente, purché non siano espressamente contrari i genitori» 16.

Il cambiamento di prospettiva rispetto alla legislazione prece- dente viene motivato dalla Commissione con il riferimento alla li- bertà religiosa, in particolare al carattere volontario dell’atto di fede, posto dal battezzando stesso, se adulto, oppure dai genitori che lo rappresentano 17. Nello Schema del 1980 la nuova impostazione risulta abbando- nata e il testo del canone si presenta già nella redazione definitiva, che ritorna all’opinione tradizionale ammettendo la liceità del batte-

13 «Non è avventato affermare che questa norma costituisce uno dei punti più controversi della rinno- vata legislazione canonica, dal momento che è parsa a molti commentatori in contrasto con i principi della libertà religiosa affermati dal concilio Vaticano II e con il diritto naturale dei genitori a curare l’educazione dei figli» (M. RIVELLA, Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2), in «Quaderni di diritto ecclesiale» 9 [1996] 66). Cf anche K. LÜDICKE, sub can. 868, in AA.VV., Münsterischer Kommentar, Essen 1985; A. MONTAN, I sacramenti dell’iniziazione cristia- 2 na, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, III, Roma 1990 , p. 79. 14 «A questi [i genitori] spetta pure il diritto di determinare la forma di educazione religiosa da impar- tirsi ai propri figli secondo la propria persuasione religiosa» (DH 5). 15 «Infans infidelium, etiam invitis parentibus, licite baptizatur, cum in eo versatur vitae discrimine, ut pru denter praevideatur moriturus antequam usum rationis attingat». 16 «Communicationes» 7 (1975) 30. 17 «La ragione del mutamento proposto sta nel fatto che l’atto di fede per sua stessa natura è volontario e richiede che l’uomo presti a Dio una ragionevole e libera adesione di fede (cf DH 10), e nel fatto che tale atto volontario lo può porre o il battezzando stesso, se è adulto, o al suo posto i genitori, che lo rap- presentano in forza della legge naturale, esercitandone i doveri e i diritti, se questi non è ancora in gra- do di agire» (L. cit.). Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 273 simo conferito in pericolo di morte anche contro la volontà dei geni- tori, sia pure con alcune significative modifiche. Infatti, rispetto al CIC 1917, che parlava in generale dei figli degli infedeli, il nuovo ca- none limita la sua previsione ai figli dei cattolici e degli acattolici, cioè ai figli di cristiani non in piena comunione con la Chiesa cattoli- ca. L’espressione «in pericolo di vita» è stata poi sostituita con «in pe- ricolo di morte», limitando, a nostro avviso, l’ampiezza dei casi presi in considerazione. Particolarmente interessante sembra essere la limitazione della norma ai soli figli dei battezzati (sia cattolici che acattolici): ciò signi- fica che non è lecito battezzare contro la volontà dei genitori i figli dei non battezzati. Questa modifica rispetto al CIC del 1917, che con- siderava lecito il battesimo dei figli degli «infedeli» conferito «invitis parentibus», sembra avere un certo rilievo in ordine al riconoscimen- to del diritto dei genitori non battezzati. I commentatori per lo più non hanno sottolineato questo punto 18, che rappresenta invece in- dubbiamente un mutamento significativo nella direzione della rece- zione del principio della libertà religiosa. Resta però non chiarito il motivo per cui tale principio non venga riconosciuto anche ai genito- ri cattolici o acattolici che sono contrari al battesimo dei figli. Tentando di formulare un’interpretazione, si potrebbe sostene- re che la condizione di battezzati dei genitori rende la loro opposizio- ne non legittima, cosicché la Chiesa ritiene di poter prescindere da tale volontà contraria e in pericolo di morte di dover lecitamente conferire il battesimo ai loro figli. In altri termini, per i figli di genito- ri battezzati (cattolici e acattolici) nella specifica situazione del peri- colo di morte il diritto al battesimo prevale sulla necessità dell’assen- so dei genitori 19. Dalla condizione di battezzati dei genitori, quindi,

18 Fa eccezione Rivella, che nell’articolo citato parla di «una importante limitazione», che comporta «una differenza sostanziale» rispetto al CIC 1917 (Battezzare i bambini in pericolo di morte..., cit., p. 73). Lo stesso autore fa notare che il corrispondente can. 681 § 4 del CCEO omette la previsione di un battesimo contro la volontà dei genitori. 19 Su questo punto insiste particolarmente Lo Castro, per il quale la norma che stiamo esaminando tocca la questione del fondamento dei diritti nell’ordinamento canonico, che non può mai essere fatto risalire solo al rispetto assoluto di una volontà libera, ma anche a un ordine oggettivo. La formulazione del cano- ne proposta nello Schema de Sacramentis del 1975 si rifarebbe a una concezione che attribuisce alla vo- lontà umana «una funzione genetica dello stesso ius ad fidem»: «Una delle ragioni (e non l’ultima a nostro giudizio) della anzidetta concezione stava nel riporre il fondamento del diritto soggettivo, e di questo spe- cifico diritto, non nella Lex (nel volere di Dio), ma nella volontà umana, e non in una volontà che ha rela- zione con la Lex, con un ordine oggettivo che la trascende, la fonda, l’indirizza e la limita (e dal quale di- scende nel caso specifico l’esigenza che siano tutelati gli interessi spirituali dell’infante in pericolo di morte), ma in una volontà concepita come assoluta, appesa a se stessa, del tutto autosufficiente, libera ma arbitraria» (G. LO CASTRO, Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, Milano 1985, p. 298). 274 Pierantonio Pavanello la norma codiciale sembra far derivare la legittimità di conferire il battesimo ai figli anche contro la volontà dei genitori, cosa che inve- ce, stando alla norma del can. 868 § 2, non accade per i figli dei non battezzati. Riassumendo sembra sia possibile affermare che senz’altro la previsione normativa del can. 868 § 2 tiene conto del principio della libertà religiosa dei non cristiani, limitando ai figli di genitori cattoli- ci o non cattolici la liceità del battesimo conferito in pericolo di mor- te «contro la volontà dei genitori».

Il principio della libertà religiosa e i cattolici che abbandonano la Chiesa: la questione della soggezione alle leggi «puramente ecclesiastiche» (can. 11) 20 Il can. 11, definendo i soggetti tenuti alle leggi «puramente ec- clesiastiche», non esclude da tale soggezione quei battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti, che l’abbiano abbandonata. Sebbe- ne il testo promulgato non contenga più il § 3 previsto dallo Schema del 1980, in cui si diceva esplicitamente che chi abbandona la Chiesa cattolica è tenuto alle leggi «puramente ecclesiastiche» 21, non vi è dubbio che il can. 11 consideri anche questa categoria di fedeli tra coloro che sono soggetti non solo alle leggi che promanano dal dirit- to divino, ma anche alle norme positive della Chiesa. Questa posizio- ne, del resto, trova conferma in tutta la tradizione precedente (cf l’as- sioma «semel catholicus, semper catholicus») e si appoggia su autore- voli pronunciamenti del magistero 22. Il fatto che il testo promulgato abbia evitato di affermare esplici- tamente che anche i battezzati che abbandonano la Chiesa cattolica sono tenuti alle leggi «puramente ecclesiastiche» è stato interpretato come una conferma dell’obbligo giuridico, senza tuttavia attribuirvi un valore dottrinale, anzi lasciando aperta la possibilità di eccezioni in ambiti particolari (cf, per esempio, in campo matrimoniale i cann.

20 E. ZANETTI, Commento al can. 11: «Chi deve osservare le leggi della Chiesa», in «Quaderni di diritto ecclesiale» 1 (1988) 188-190. 21 Cf «Communicationes» 23 (1991) 154. 22 Cf soprattutto il can. 8 della sessione VII del Concilio di Trento: «Si quis dixerit, baptizatos liberos es- se ab omnibus sanctae Ecclesiae praeceptis, quae vel scripta vel tradita sunt, ita ut ea observare non te- neantur, nisi sua sponte illis summittere voluerint: a.s.» (DS 1621). Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 275

1086 § 1, 1117, 1124) 23. Si tratterebbe pertanto di una soluzione in qualche modo di compromesso, che tende da un lato a evitare una concezione equivoca della libertà religiosa, per cui sarebbe possibile entrare e uscire dalla Chiesa a proprio arbitrio, dall’altra una visione pseudo-giuridica, che pretenderebbe di imporre tutte le leggi della Chiesa (non solo le norme di diritto divino) anche a chi l’ha abban- donata formalmente. Già durante i lavori di revisione fu sottolineato il rapporto tra questa norma e il principio di libertà religiosa: esigere che anche chi abbandona la Chiesa cattolica, dopo esservi entrato con il batte- simo, sia soggetto alle leggi «puramente ecclesiastiche», appariva infatti ad alcuni come una forma di coercizione, contraria a quanto affermato dal can. 748 § 2. Osservazioni in tal senso erano emerse durante la consultazione che precedette la Plenaria del 1981 e trova- no risposta nella Relatio predisposta dalla Commissione per la revi- sione del Codice. La Commissione respinge le osservazioni fatte al testo propo- sto, affermando innanzitutto che esse si ispirano al concetto di una Chiesa «di libera scelta». Se tali osservazioni venissero accolte, la di- chiarazione formale di abbandonare la Chiesa sarebbe sufficiente per liberarsi dall’obbligo delle sue leggi e tale obbligo verrebbe così a dipendere dalle scelte individuali. Inoltre l’apostasia cesserebbe di essere un delitto passibile di punizione 24. Infine non vi è contraddi - zione con l’attuale can. 748 § 2, in quanto esso riguarda l’entrata nel- la Chiesa cattolica, non il suo abbandono. Tra i commentatori del CIC non è mancato chi è tornato sulle difficoltà sollevate durante i lavori di revisione. È stato osservato che questo canone non sembra rispettare la diversa situazione di alcune categorie di battezzati, che non sono nella piena comunione (anzi ta- lora non lo sono mai stati). Ad esempio non viene affrontato il proble- ma di chi è stato battezzato nella Chiesa cattolica, ma poi, senza sua colpa, non è stato educato nella fede così da arrivare a un’adesione personale a essa 25. Il fatto che anche questa categoria di fedeli sia

23 Cf J.M. PIÑERO CARION, La ley de la Iglesia, Madrid 1985, p. 108; P. LOMBARDIA, sub can. 11, in AA.VV., Codice di Diritto Canonico. Edizione bilingue annotata, Roma 1986, p. 60. Va osservato che la nuova col- locazione dell’inciso «nisi aliud iure expresse caveatur» non si riferisce più, come nel can. 12 del CIC 1917, a tutte e tre le condizioni previste per essere soggetti alle leggi «puramente ecclesiastiche», ma solo alla condizione relativa all’età. 24 Cf «Communicationes» 14 (1982) 132-133. 25 L. ÖRSY, sub can. 11, in AA.VV., The Code of Canon Law, cit., p. 31. 276 Pierantonio Pavanello soggetta alle leggi «puramente ecclesiastiche» rappresenterebbe una certa qual coercizione. Più grave è il problema di chi ha abbandonato formalmente la Chiesa cattolica, in quanto la norma del can. 11 sembra del tutto ignorare una volontà liberamente espressa, mantenendo soggetto al- le leggi ecclesiastiche chi invece ha voluto intenzionalmente staccar- si da essa. È stato sottolineato come l’obbligo che deriva dalla legge cano- nica sia soprattutto di carattere morale e spirituale e pertanto la sua efficacia dipenda dalla adesione personale, cosicché non deve mera- vigliare l’affermazione di principio per cui il semplice fatto di aver abbandonato la fede e di essersi separati dalla comunità ecclesiale non esime dall’osservanza della legge 26. Sul piano dottrinale c’è stato chi ha contestato il fondamento del- la norma, rispondendo alle motivazioni addotte dalla Commissione e proponendo anche delle motivazioni positive per una diversa discipli - na 27. Si fa notare innanzitutto che il canone tratta solo dell’obbligo re- lativo alle leggi «puramente ecclesiastiche», quelle cioè che riguarda- no la vita della comunità ecclesiale nel suo aspetto di società visibile. Le risposte date dalla Segreteria della Commissione alle osservazioni proposte dagli organi di consultazione non sembrano aver tenuto suf- ficientemente conto di questo aspetto. Non si tratta tanto della libertà di abbandonare la Chiesa, ma del problema di coloro che non ricono- scono più l’obbligo che nasce dall’appartenenza a essa come comu- nità visibile. Certamente l’obbligo non dipende dalla volontà indivi- duale, ma dall’autorità legittima: bisogna però anche chiedersi come una persona possa sentirsi obbligata dalle leggi date da un’autorità che più non riconosce. Pertanto quale valore potrà avere un obbligo solo “oggettivo” alle leggi «puramente ecclesiastiche»? L’apostasia poi non verrebbe meno esimendo chi ha abbando- nato la Chiesa dalla soggezione alle leggi «puramente ecclesiasti- che», perché tale delitto è più ampio dell’abbandono della Chiesa (l’abbandono come tale formalmente non è punito dal Codice). Le

26 «[Il canone] non esclude in linea di massima da tale sottomissione coloro che, una volta cattolici, avessero subito abbandonato la Chiesa, indipendentemente dalle conseguenze dell’eventuale loro buo- na fede: si tenga presente che la coazione canonica si basa su fattori d’indole spirituale (non sul ricorso alla violenza fisica), la cui efficacia dipende in buona parte dalla fede e dalle disposizioni personali: è perciò ragionevole stabilire in linea di massima un obbligo oggettivo di osservare le leggi, che non sia abolito dal semplice fatto d’aver abbandonato la fede o rotto la comunione gerarchica» (P. LOMBARDIA, sub can. 11, cit., p. 61 nota 11). 27 F. X . U RRUTIA, Les normes generales, Parigi 1994, pp. 53-54. Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 277 pene che sono previste (cf can. 1364) sembrano avere un carattere dichiarativo, più che coercitivo. A risolvere la contraddizione tra il can. 11 e il can. 748 § 2 non sembra bastare la precisazione che in quest’ultimo si parla dell’ingres - so nella Chiesa cattolica, perché, una volta negata la coercizione per entrare, non si può ammettere che qualcuno sia costretto a restarvi. L’autore, a cui facciamo riferimento, ritiene invece che il rispet- to della libertà religiosa avrebbe dovuto essere applicato anche a proposito delle leggi «puramente ecclesiastiche». Il rispetto dovuto alla coscienza, anche quando essa sia erronea o difettosa, sembra in- fatti esigere che non sia soggetto alle leggi «puramente ecclesiasti- che» chi ha abbandonato la Chiesa e quindi non riconosce più l’auto - rità ecclesiale. A maggior ragione tale argomento varrà per chi, dopo aver ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica, non è stato educato in essa e pertanto non ne ha mai riconosciuto l’autorità. Il concetto stesso di legge «puramente ecclesiastica» dovrebbe portare a concludere che non vi sono soggetti coloro che si sono po- sti fuori della comunità: si tratta, infatti, di leggi che regolano in mo- do solamente positivo i rapporti all’interno della comunità e pertanto avrebbero un significato coercitivo per chi non riconosce più l’auto - rità ecclesiale. Occorre poi distinguere la soggezione alle leggi «puramente ec- clesiastiche» dalla sottomissione “oggettiva” alla Chiesa come effetto del battesimo. La non sottomissione a esse non dipende da una per- cezione soggettiva, ma da un cambiamento che, pur essendo deter- minato dal soggetto, cambia il dato oggettivo. L’abbandono della Chiesa cattolica non influisce sugli effetti teologici del battesimo, ma sulla comunione ecclesiale 28. Di conseguenza l’insistenza sull’obbli - go «oggettivo» delle leggi ecclesiastiche non appare giustificato e as- sume un significato coercitivo.

Le eccezioni al can. 11: cann. 1086 § 1, 1117, 1124 Tre significative eccezioni al principio contenuto nel can. 11, per cui anche chi abbandona la Chiesa cattolica è soggetto alle leggi

28 Per le implicazioni teologiche del can. 11 e la necessità di distinguere vari livelli di appartenenza alla Chiesa, come comunità visibile cf. K. LÜDICKE, Die Kirchengliedschaft und die plena communio, in Recht im Dienste des Menschen. Eine Festgabe Hugo Schwedenwein im 60. Geburtstag, Graz - Wien - Köln 1986, pp. 377 - 391. 278 Pierantonio Pavanello

«puramente ecclesiastiche», si trovano nel diritto matrimoniale nei cann. 1086 § 1, 1117 e 1124. Innanzitutto si deve rilevare che si tratta di una novità assoluta, sia rispetto al CIC 1917 che alla legislazione postconciliare (cf l’istru - zione Matrimonii Sacramentum del 1966 e il motu proprio di Pao- lo VI Matrimonia Mixta del 1970) 29. Per quanto riguarda l’impedimento di disparità di culto (can. 1086 § 1) la Commissione per la revisione del Codice spiega l’innova- zione rispetto alla legislazione precedente affermando che non vi è ragione di far sottostare a una norma diretta a proteggere la fede chi si è già allontanato dalla Chiesa 30. Considerazioni analoghe stanno alla base anche dell’eccezione prevista dal can. 1124, in cui viene da- ta una definizione di matrimonio misto. Venendo al can. 1117 31, l’esenzione dall’obbligo della forma ca- nonica di chi ha abbandonato con atto formale la Chiesa cattolica sembra pure rispondere a un criterio di realismo pastorale 32, volto a evitare il divario che potrebbe venire a crearsi tra una norma eccle- siastica e la realtà umana che intende disciplinare 33.

29 Solo in un Responso della Pontificia Commissione per l’interpretazione dei decreti del Concilio si trova un accenno al caso di chi abbandona la fede: si dava infatti riposta positiva circa la possibilità di dispensare dalla forma canonica nel caso di un matrimonio in cui la parte cattolica «fidem defecerit» (cf AAS 64[1972] 397). 30 «Deest ratio cur apostatae illo ligentur impedimento, quod ad fidem tuendam ordinatur» (PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens sinthesim animadversionum ab E.mis ac Exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum schema CIC adhibitarum, cum responsionibus a secretaria et consultoribus datis, Città del Vaticano 1981, p. 252). 31 I verbali dei lavori per la revisione del CIC non ci danno il motivo per cui fu introdotta la formula «nec actu formali ab ea defecerit». Nella seduta del 19 ottobre 1977 fu proposto da un consultore che ve- nisse soppressa, ma gli altri membri del coetus si espressero per conservarla, con la motivazione che lo schema della Lex Ecclesiae Fundamentalis stabiliva che gli acattolici non fossero direttamente soggetti alle norme puramente ecclesiastiche (cf «Communicationes» 10 [1978] 97). Il riferimento agli acattolici però non sembra del tutto pertinente. 32 «Questo atteggiamento favorevole del legislatore verso colui che ha abbandonato la Chiesa cattoli- ca, la sua Chiesa, con atto formale assume ancora un significato del tutto particolare, cioè significato di realismo, se si pensa che il cattolico rinnegato ha commesso un delitto grave (alcuni direbbero che è un delinquente) e quindi, secondo lo stesso ordinamento canonico, deve essere punito. Ebbene il legi- slatore, consapevole della responsabilità e della imputabilità di questo cattolico, non vuole perseguitar- lo con l’obbligo di una legge di grande portata sociale, come è l’obbligo della forma canonica. In defini- tiva chi abbandona la Chiesa cattolica con atto formale, non si curerà di celebrare il proprio matrimonio “secundum formam ab Ecclesia stabilita”, e quindi, se non esistesse il dettato del can. 1117, il suo matri- monio sarebbe nullo, con tutte le conseguenze che deriverebbero da tale nullità. Ecco il realismo del nostro legislatore nel sopprimere l’obbligo della forma canonica per quanto riguarda il caso che stiamo analizzando. Davanti ad un figlio che ha rinnegato la Chiesa, ma che è sempre figlio, anche se deve es- sere punito, il legislatore lo lascia libero di celebrare validamente un matrimonio senza l’obbligo della 2 forma canonica» (J.F. CASTAÑO, Il Sacramento del matrimonio, Roma 1992 , p. 451). L’autore fa notare la diversa disciplina prevista per i fedeli di rito orientale dal can. 834 § 1 CCEO, che omette la clausola «neque actu formali ab ea defecerit» (ibid., nota 69). 33 2 P. M ONETA, Il matrimonio, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, III, Roma 1992 , p. 267. Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 279

In tutti e tre i canoni presi in considerazione si ravvisa la preoc- cupazione di salvaguardare il diritto naturale al matrimonio, che ver- rebbe negato se si applicasse la legge positiva della Chiesa (legge «puramente ecclesiastica» per usare la terminologia del can. 11). Im- plicitamente pertanto si viene a riconoscere un certo rilievo all’inter - no dell’ordinamento canonico a una scelta compiuta dal fedele dopo il battesimo, quale è l’atto formale di abbandono della Chiesa cattoli- ca. Come è stato giustamente osservato, in ordine all’applicazione dell’impedimento di disparità di culto e dell’obbligo della forma ca- nonica 34 il legislatore ha voluto dare rilievo, oltre alla valida recezio- ne del battesimo, anche a un minimo di appartenenza effettiva alla Chiesa, perché il fedele sia soggetto alla legge ecclesiastica 35. Nell’ambito matrimoniale pertanto, a differenza di quanto sem- bra fare il can. 11, l’ordinamento canonico rinuncia a qualsiasi forma di coercizione e prende atto della scelta di abbandonare la Chiesa cattolica, espressa con un atto formale, riconoscendo la validità del matrimonio contratto senza osservare le leggi ecclesiastiche sull’im- pedimento di disparità di culto e sull’obbligo della forma canonica. Viene così a configurarsi una nuova forma di matrimonio, diversa sia dal matrimonio tra due cattolici fedeli alla Chiesa, sia dal matrimonio contratto da due persone nessuna delle quali è soggetta alla legisla- zione canonica 36. A una prima considerazione la portata di queste eccezioni po- trebbe sembrare di scarso significato: a nostro avviso, invece, appare di grande rilievo la decisione del legislatore di derogare, sia pure in casi ben delimitati, dalla norma generale contenuta nel can. 11, pren- dendo atto di una scelta di coscienza compiuta dal fedele dopo il bat-

34 Meno importante sembra essere l’eccezione prevista dal can. 1124, in quanto la norma riguarda solo la liceità e non la validità del matrimonio. 35 «Qui il Codice, come in un altro punto importante della disciplina sul matrimonio, in tema di forma di celebrazione, ha voluto dare rilievo, per l’applicabilità delle proprie prescrizioni, ad un minimo di ef- fettiva appartenenza alla Chiesa, non accontentandosi, come avveniva nella precedente legislazione del- la semplice ricezione del Battesimo, che rischia in certi casi di costituire un semplice dato “anagrafico”, completamente avulso da ogni realtà di fede. In effetti non aveva molto senso mantenere un impedi- mento che trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di tutelare l’integrità della fede, quando vi è un ra- dicale abbandono di essa» (P. MONETA, Il matrimonio, cit., p. 210). 36 «Perciò il matrimonio di un cattolico che ha abbandonato la Chiesa con atto formale costituisce in ogni caso una categoria nuova: se viene contratto con un cattolico fedele alla Chiesa, si differenzia sia dal matrimonio tra due cattolici fedeli alla Chiesa, sia dal matrimonio contratto fra un cattolico fedele al- la Chiesa e un battezzato fuori dalla Chiesa; se invece viene contratto con un battezzato o battezzato fuori della Chiesa, pur non essendo sottomesso alla forma canonica, si differenzia profondamente dal matrimonio contratto fra due persone, nessuna delle quali è soggetta alla legislazione canonica» (U. NAVARRETE, Matrimoni misti: conflitto tra diritto naturale e teologia, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 5 [1992] 275). 280 Pierantonio Pavanello tesimo. Rinunciando ad applicare le leggi positive di natura ecclesia- stica, implicitamente l’ordinamento canonico riconosce il diritto del fedele a non essere soggetto a coercizione (sia pure coercizione di carattere morale e spirituale, quale quella propria della legge canoni- ca). In altri termini, di fronte al diritto naturale al matrimonio il Codi- ce rinuncia a far valere l’obbligo di assoggettare alle leggi «puramen- te ecclesiastiche» il fedele che con atto formale si è allontanato dalla Chiesa cattolica, analogamente a quanto prevede in via generale (cf can. 11) per i battezzati non cattolici. L’esistenza di queste eccezioni ci permette di comprendere me- glio la portata della norma del can. 11: il principio per cui anche chi ha abbandonato la Chiesa è soggetto alle leggi ecclesiastiche non ha un valore assoluto. Di fronte a diritti che si radicano nella dignità stessa della persona umana anche i doveri che nascono dal battesimo e dalla conseguente incorporazione nella Chiesa possono passare in secondo piano, per tutelare un bene più grande. Pertanto l’introduzio- ne delle eccezioni previste ai cann. 1086 § 1, 1117 e 1124 rappresenta un cambiamento notevole rispetto alla legislazione precedente e rive- la una prima, sia pure cauta, apertura a un più ampio riconoscimento della rilevanza del principio della libertà religiosa anche all’interno dell’ordinamento canonico. La disposizione del can. 11, pertanto, non avrebbe una portata dottrinale 37, ma eminentemente pratica. L’esistenza di queste eccezioni ci spinge a ipotizzare che, nell’e - voluzione futura della legislazione canonica, si possano individuare altri ambiti in cui tener conto della scelta del fedele di abbandonare la Chiesa cattolica, esimendolo dall’obbligo di sottostare alle leggi «puramente ecclesiastiche». Una evoluzione di questo tipo sembra, anzi, auspicabile, in un tempo in cui la Chiesa pone l’efficacia della sua azione pastorale nella maturazione libera e consapevole delle co- scienze, più che su mezzi umani di pressione 38. Prendere atto di scelte religiose diverse da parte dei fedeli non significa infatti cadere nell’indifferentismo ma, in una prospettiva di «realismo pastorale», porre le premesse di un nuovo e più profondo rapporto. Solo nel ri- spetto profondo della coscienza e della sua dignità, infatti, è possibile un dialogo che porti alla riscoperta della fede e al ritorno alla piena comunione con la comunità ecclesiale.

37 Cf P. LOMBARDIA, sub can. 11, cit., p. 60. 38 Cf G. LUF, Glaubensfreiheit und Glaubensbekenntnis, cit., p. 566. Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 281

Esiste all’interno dell’ordinamento canonico un diritto alla libertà religiosa? Arrivati alla conclusione della nostra ricognizione all’interno del CIC, viene spontaneo chiederci se si possa parlare all’interno dell’or - dinamento canonico di un «diritto alla libertà religiosa», inteso come «diritto pubblico soggettivo» del fedele all’interno della comunità ec- clesiale. Se ci si limita alla lettura del Codice dobbiamo rispondere senza dubbio negativamente: né nell’elenco degli obblighi e diritti di tutti i fedeli (cann. 208-223) né in altre parti del CIC troviamo una formula- zione esplicita di tale diritto. Tale infatti non ci sembra possa essere considerato il can. 748 § 2, che, come già abbiamo cercato di dimo- strare, riguarda la missione di annunciare il Vangelo a chi ancora non appartiene alla Chiesa. Una risposta puramente negativa sembra però insoddisfacente, in quanto un’analisi delle norme codiciali più discusse sotto questo profilo porta a intravedere alcune significative aperture a una appli- cazione del principio della libertà religiosa anche all’interno dell’or- dinamento canonico. Non ci riferiamo qui tanto agli spazi di libertà che il Codice garantisce al fedele, ad esempio, nell’ambito della ri- cerca teologica (cf can. 218) o al laico nel campo dell’impegno socio- politico (cf can. 227), ma al rispetto di quelle scelte del fedele che in- cidono sulla piena comunione con la Chiesa, quale ad esempio l’ab- bandono con atto formale. Un riconoscimento – o presa d’atto – da parte dell’ordinamento canonico di tali scelte non dovrebbe comunque far venir meno gli obblighi specifici che l’appartenenza alla Chiesa attraverso il battesi- mo comporta. Come giustamente è stato sottolineato 39, l’appartenen- za alla Chiesa non si fonda solo sulla perseveranza di una libera scel- ta individuale, ma anche su un elemento permanente, costituito dal carattere battesimale. Di conseguenza l’esistenza di obblighi giuridi- ci ecclesiali non dipende dalla libera scelta dei fedeli, ma prima di tutto dal legame ontologico nato dal battesimo. Parlare di un diritto intraecclesiale alla libertà religiosa, pertanto, può essere equivoco: «Se con essa semplicemente si vuol dire che il battezzato non può subire pressioni né essere colpito da inadeguate (e dunque ingiuste) sanzioni per l’inosservanza del suo obbligo di conservare la parola, non si può che condi-

39 C.J. ERRÁZURIZ, Il «munus docendi ecclesiale»: diritti e doveri dei fedeli, Milano 1991, p. 115. 282 Pierantonio Pavanello

videre appieno tale difesa della dignità e libertà non già del cristiano, ma dell’uomo in quanto tale. Se invece si pretende contestare l’esistenza di ob- blighi ecclesiali di natura dottrinale e la legittimità delle giuste sanzioni ec- clesiali motivate dalla loro inosservanza, ritengo che vada fermamente re- spinta una simile concezione come incompatibile con i capisaldi della giuri- dicità ecclesiale» 40.

La risposta alla domanda sull’esistenza di un «diritto alla libertà religiosa» comporta pertanto che si tenga conto di un insieme di problemi di non facile soluzione. Dato l’uso che di tale termine si fa nell’ambito del diritto civile (ambito nel quale tale diritto soggettivo non si accompagna a una serie di obblighi morali e giuridici di natu- ra religiosa), bisognerà in ambito canonico precisare sempre come il diritto trovi il suo limite nel dovere morale di cercare la verità re - ligiosa e, una volta trovatala, di aderire a essa. Emerge qui una carat- teristica specifica dell’ordinamento canonico, che fonda i diritti sog- gettivi non soltanto su una legge costitutiva, ma su quel livello fonda- mentale della giuridicità che è costituito dal disegno di Dio:

«In tale piano fondamentale, diritto e dovere non sono esterni l’uno all’altro, ma uniti in una superiore sintesi ed in perfetta simmetria, tanto che non è concepibile il diritto senza il dovere e viceversa. Facendo sempre riferimen- to a tale piano fondamentale, non è contraddittorio far salva la radicale li- bertà dell’uomo per l’opzione religiosa (cf can. 748 § 2: «ad amplectendam fi- dem catholicam contra [...] conscientiam per coactionem adducere nemini un- quam fas est») e nello stesso tempo organizzare la linea della sua responsabilità e dei suoi doveri al riguardo» 41.

Per evitare fraintendimenti, se si vorrà parlare di un «diritto alla libertà religiosa» non si dovrà usare questo termine in senso univo- co rispetto agli ordinamenti civili moderni: non si tratta tanto di due modi diversi di intendere la libertà religiosa (dentro e fuori la Chie- sa), ma di una diversa visione del diritto e del suo fondamento 42.

40 Ibid., p. 119. 41 G. LO CASTRO, Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, cit., p. 286. 42 «Se non si ammette che il discorso intorno alla libertà religiosa può essere condotto univocamente solo a livello fondamentale (a quel livello in cui è stato condotto, ad esempio dalla citata dichiarazione conciliare) o solo all’interno di un ordinamento dato (ad esempio, il secolare), ma sarà necessariamen- te equivoco con riferimento ad ordinamenti che, storicamente, hanno della giustizia e del suo fonda- mento una diversa concezione v’è il rischio che una determinata maniera di intendere la libertà religio- sa e le sue esigenze, correttamente affermata e desunta appunto da un ordinamento, sia assunta come assoluta e proiettata indebitamente in un altro» (Ibid., p. 290 nota 36). Rilevanza del principio della libertà religiosa all’interno dell’ordinamento canonico 283

Il cammino della riflessione dottrinale e della sua traduzione in norme positive appare ancora lungo e impegnativo: il CIC del 1983, fedele alla sua ispirazione conciliare, rappresenta un primo significa- tivo passo; altri siamo chiamati a percorrere perché la Chiesa, anche nella sua struttura giuridica, possa sempre più apparire un popolo che ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio (cf LG 9).

PIERANTONIO PAVANELLO via S. Francesco Vecchio, 18 36110 Vicenza Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 284-309 La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa di Alberto Perlasca

Le presenti note hanno lo scopo di esaminare un aspetto speci- fico in cui realizza l’esercizio della libertà religiosa (artt. 8 e 19 cost. it.). Si tratta, più precisamente, della tutela che la legge dello Stato accorda a quelle notizie di cui «i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano» vengano a conoscenza nell’esercizio del ministero, anche al di fuori di quel particolare atto che è la confessione sacramentale. Siamo sul versan- te ad extra della tutela della libertà di religione.

Nozione di segreto Nel silenzio della legge, sia penale che civile, la dottrina ha du- rato non poca fatica per elaborare una nozione concettualmente sod- disfacente di segreto 1. Non accontentandosi di una nozione generi- ca 2 qualche autore ha evidenziato che quello di segreto è «un tipico concetto di relazione» 3. Segreto non è un «fatto» o una «cosa». Ciò, semmai, ne è l’oggetto. Segreto è «uno stato di fatto, garantito dal di-

1 F. VAN CALKER, Der Landersverrat. Rechtspolitische Bemerkungen zum Entwurf von 1929, in Festgabe für Frank, II, 1930, 259: «Der Begriff «Geheimnis» ist in Strafrechtswissenschaft selbst noch ein Geheim- nis, das von lebhaften Streit umtobt wird und dessen Schleien auch die Beratungsverhandlungen noch ni- cht gelichtet haben». La difficoltà emerge anche da alcune definizioni di segreto: «Nella legge il termine «segreto» viene usato in genere per indicare sinteticamente quei determinati avvenimenti del mondo esteriore (atti o fatti) quali eventi naturali o del mondo economico o confidenziale o documentale ecc. che, per volontà della legge, devono restare «segreti»» (S. KOSTORIS, Il «Segreto» come oggetto della - la penale, Padova 1964, p. 2). 2 Cf F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, Napoli 1935, p. 16; V. MANZINI, Trattato di diritto pe- nale italiano, IV, Torino 1934, p. 173. 3 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, Palermo 1952, p. 6. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 285 ritto, per cui una notizia deve essere conosciuta solo da una persona o da una ristretta cerchia di persone» 4. Requisito strutturale del concetto di segreto, più che la volontà di imprimere a un fatto il carattere della segretezza, è l’interesse al mante- nimento del segreto 5. La volontà del soggetto, per contro, rileva quan- do si tratta di togliere a una determinata notizia il carattere della se- gretezza. Di fatto, l’oggetto del segreto non sempre è noto al soggetto al quale si riferisce. Accogliendo il criterio della volontà, si avrebbe l’incongruenza di volere il segreto su ciò che neppure si conosce 6. Inoltre diventa più chiara anche la distinzione tra segreto e «indiscre- zione», configurandosi quest’ultima come quella sfera della vita priva- ta in cui la volontà del singolo non ha piacere che altri si inseriscano. Pertanto, una notizia deve rimanere segreta se alla sua cono- scenza, per il nocumento che ne deriva o potrebbe derivarne, osti un interesse attuale, giuridicamente apprezzabile, del soggetto alla per- sona del quale quegli eventi o situazioni si riferiscono 7. In tal modo si opera anche la distinzione tra l’oggetto del segreto (atti, circostan- ze, avvenimenti ecc.) e il mezzo materiale o immateriale che lo incor- pora (scritti, documenti, notizie), il quale ha semplicemente lo scopo di trasmettere il segreto senza costituirne, appunto per questo, l’es- senza o rappresentare di esso un elemento costitutivo.

4 P. N UVOLONE, Reati di stampa, Milano 1951, p. 105. Kostoris ritiene che «il termine «notizia» esprime con esatta chiarezza il rapporto di conoscenza che si è – legittimamente o meno – instaurato fra la cosa, il fatto, il documento, l’avvenimento ecc. e uno o più determinati soggetti». Pertanto «una cosa in sé, un certo avvenimento in sé, un rapporto, una confessione, una dichiarazione, una confidenza, ecc. di per sé soli non rappresentano oggetto di segreto, sfuggono ad ogni considerazione della legge penale fino a quando tra essi non si instauri con determinati soggetti un rapporto di conoscenza. Questo fatto co- noscitivo esattamente si designa con il termine di «notizia»» (S. KOSTORIS, Il «Segreto» come oggetto del- la tutela penale, cit., p. 4). 5 Vi è poi il criterio estrinseco o formale secondo il quale il segreto esiste quando vi sia un segno ester- no che lo indichi o una dichiarazione formale dell’avente diritto che lo proclami (De Marsico). «A no- stro avviso – scrive Kostoris – v’è forse il modo di contemperare le opinioni opposte fra il criterio su- biettivo ed obiettivo, ritenendo che il fondamento del segreto risiede in una dichiarazione di volontà del titolare del rispettivo diritto. [...] In ogni caso, tale dichiarazione deve essere considerata dall’ordi - namento come giuridicamente apprezzabile» (S. KOSTORIS, Il «Segreto» come oggetto della tutela penale, cit., p. 10). 6 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 32. L’autore propone a sostegno della sua tesi, che con- dividiamo, l’esempio del medico il quale conosce una malattia della quale un suo paziente è inconsape- volmente affetto. Qualora si accogliesse il criterio psicologico, il medico non sarebbe legato al segreto in quanto il paziente non potrebbe volere «segreto» ciò che non conosce. 7 A CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 41-42: «L’interesse, come tale, non è, dunque, il segreto, bensì, semplicemente, un criterio, per quanto, a nostro giudizio, il più dotato e meglio atto a fornire all’interprete le indicazioni necessarie, seppure insufficienti, per individuare praticamente l’esistenza di quello che può essere oggetto di segretezza e per distinguerlo da tutto quanto potrà costituire una me- ra indiscrezione, penalmente indifferente, o, quanto meno, non punibile sotto il profilo della violazione del segreto altrui» (p. 42). In questo senso si muove anche F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela pena- le, cit., p. 32. 286 Alberto Perlasca

L’interesse alla custodia del segreto, tuttavia, per sé solo, non dà luogo ad alcun segreto: occorre precisare il limite quantitativo di coloro che possono ritenersi autorizzati a conoscere una notizia de- stinata a rimanere segreta oltre a stabilire se, e fino a qual punto, quella notizia segreta possa ancora considerarsi tale in seguito alla avvenuta rivelazione da parte di taluno. In proposito, al criterio della limitazione solo numericamente quantificata delle persone a cono- scenza di una determinata notizia, è da preferirsi quello dell’esclusio - ne di determinate persone dalla conoscenza stessa. Pertanto, non contraddice il concetto di segreto il fatto che mol- ti siano informati circa determinate notizie: il confine tra segreto e fatto notorio non sta nella indeterminatezza, ma nella indeterminabi- lità di coloro che conoscono. Ciò, nella pratica, può esser stabilito solo con riferimento alla situazione concreta attraverso il prudente discernimento del giudice. Opera tanto più importante in quanto, qualora risultasse positiva, dovrebbe escludersi la punibilità dell’e - ventuale successivo propalatore, non potendo essere materia di san- zione ciò che, in origine segreto, sia in seguito divenuto notorio. Sembra quindi da preferirsi «una determinazione del concetto di se- greto attraverso una formulazione negativa, ossia come tutto ciò che non è ancora praticamente di comune dominio» 8. Il che non toglie che vi siano dei segreti il cui contenuto uno soltanto deve conoscere, e segreti il cui contenuto uno soltanto non deve sapere. Dal segreto in senso stretto va distinta la notizia riservata o «quasi-segreto» (art. 262 c.p.), cioè «cose e fatti non occultabili, e quindi non segreti, e perciò lecitamente o necessariamente conosci- bili, almeno in parte, da chiunque, rispetto ai quali può essere vietata una particolare conoscenza da chi ha un potere giuridico sopra di es- si» 9. La distinzione, peraltro, è lecita solo per alcuni tipi di segreti (ad esempio il segreto di Stato), ma è improponibile nei confronti di soggetti privati per i quali il segreto o esiste o non esiste 10. Si può quindi definire segreto «una cosciente e attuale dissimu- lazione di un contenuto d’esperienza, proprio di un determinato sog- getto e corrispondente a quel particolare stato di fatto penalmente ga-

8 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 49. 9 V. MANZINI, Trattato di diritto penale, IV, Torino 1915, p. 141. La nozione di quasi-segreto, tuttavia, non è più stata riprodotta nelle successive edizioni dello stesso Trattato. Kostoris ritiene che «la prete- sa diversità nozionale [...] non ha un solido fondamento, né d’altronde presenta alcuna utilità» (S. KO- STORIS, Il «Segreto» come oggetto della tutela penale, cit., p. 7). 10 F. G RAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 42. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 287 rantito per l’interesse, giuridicamente apprezzabile, vantato da quello stesso soggetto a che quel contenuto di esperienza non venga palesa- to ad altri» 11.

Violazione del segreto professionale La violazione del segreto professionale è un delitto contro la li- bertà della persona, più in particolare contro la libertà individuale 12. Delitto punibile a querela della persona offesa. I rapporti che le persone intrattengono tra di loro possono ave- re carattere di mera simpatia oppure professionale, carattere libero oppure necessitato. Il timore che un proprio segreto possa essere di- vulgato da colui al quale lo si vorrebbe affidare, trattiene dall’affidar - lo menomando la libertà e la sicurezza dei rapporti. La ratio dell’in - criminazione, pertanto, è stata a ragione individuata dalla dottrina nello scopo di tutelare la libertà e la sicurezza dei rapporti professio- nali tanto più se questi sono determinati da necessità o quasi-neces- sità. Tra questi rientrano anche quelli inerenti alla sfera religiosa. Di fatto, la categoria «professionista» comprende anche i ministri della religione anche se, da un punto di vista teologico ed ecclesiologico, il termine «professionista» è il meno adatto a qualificarli. Se la causa del rapporto è la simpatia che intercorre tra due o più persone, è chiaro che si tratta di una causa libera: pertanto, l’in- teresse alla conservazione dell’intimità di tali rapporti trova la sua tu- tela solo nella morale e nel diritto privato (art. 2043 c.c.), non anche nella legge penale, quando non si sia leso altrimenti l’onore o altro bene della persona 13. Nel caso di un rapporto professionale, viceversa, la libertà indi- viduale sarebbe menomata nel suo esercizio se la legge penale non intervenisse a reprimere la violazione del segreto affidato al profes- sionista. Si tratta di un interesse pubblico, e non soltanto individuale, pur concretandosi necessariamente nell’individuo 14. La violazione

11 A CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 50. 12 Il valore classificatorio dell’epigrafe «delitti contro la persona» è ritenuto da Petrone «accettabile so- lo in senso largamente approssimativo», in quanto «le fattispecie cui essa si riferisce non esauriscono tutte le ipotesi di violazione previste dal Codice penale» (M. PETRONE, Segreti (Delitti contro l’inviolabi- lità dei), in Novissimo Digesto italiano, XVI, Torino 1969, pp. 952-977. In particolare, p. 954. Concorda F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 36 ss. 13 Nello stesso senso F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 136 ss. 14 Cf A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 100-101: «Tutelando il segreto professionale, si tu- tela una condizione indispensabile per la libertà e la sicurezza dei rapporti professionali, si mira cioè a 288 Alberto Perlasca del segreto professionale si pone come manifestazione tipica di infe- deltà personale anche se, ovviamente, il rilievo non può essere porta- to al di là del suo effettivo valore 15, in quanto, alla base del rapporto professionale, vi è qualcosa di «meno indistinto e di più penetrante della semplice fiducia» 16. In ogni caso, non deve trattarsi di una rive- lazione fatta a titolo confidenziale, sia pure all’interno di un rapporto professionale: tra la posizione del soggetto e la conoscenza del se- greto deve sussistere un nesso di casualità necessaria e non di mera occasionalità, la quale è un elemento essenzialmente soggettivo che non assurge mai a oggetto del vincolo 17. Due sono le condizioni oggettive di punibilità necessariamente richieste: il nocumento che deriva dalla propalazione della notizia e l’abusività. Si noti che la legge parla di «nocumento» e non di «dan- no», in quanto il nocumento è qualcosa di più comprensivo del dan- no inteso nel senso civilistico connesso al risarcimento (art. 1151 c.c.). La nozione di nocumento, infatti, comprende non solo il danno materiale vero e proprio, ma anche il danno morale che il soggetto passivo del reato deve subire dal fatto della rivelazione del proprio segreto 18. Altra condizione oggettiva di punibilità è l’abusività o il mezzo fraudolento della cognizione del segreto, senza di che la responsabi- lità esula dagli artt. 617, 618 e 621 c.p. «Abusivamente» significa: senza averne diritto o facoltà, senza permesso o autorizzazione. L’a- gente deve avere la coscienza e la volontà di violare l’altrui segreto, ricorrendo agli estremi propri della frode. Diversamente, non ricor- re la condizione obiettiva di punibilità richiesta dall’art. 617 c.p. e non vi è perciò luogo a responsabilità penale 19. La tutela penale del segreto professionale si attua pertanto con l’incriminazione della violazione di quel particolare obbligo di fedeltà imposto a tutte quelle categorie professionali alle quali l’individuo, in determinate circostanze, ricorre per provvedere ai propri bisogni an-

conservare la fiducia nella segretezza del professionista su tutto ciò che concerne la sfera della propria personalità. Se tale fiducia venisse meno, la libertà di ricorrere all’aiuto professionale rimarrebbe inevi- tabilmente sminuita, quando non annullata, dalla previsione della possibile indiscrezione». 15 M. PETRONE, Segreti, cit., p. 974. 16 A CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 101. 17 M. PETRONE, Segreti, cit., p. 975. 18 «Il nocumento si differenzia dal danno come il genus dalla species» (Cassazione, 7 febbraio 1930, in Giustizia Penale 1930, I, col. 1282). Cf anche F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 86 e nota 1. 19 F. G RAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., pp. 88-90. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 289 che di carattere religioso. Queste categorie di professionisti non so- no tassativamente indicate 20: il codice ha «preferito lasciare all’inter - prete di decidere, sulla base di taluni criteri generali, quando ricor- rano le condizioni indicate nell’art. 622 c.p. in ordine al soggetto atti- vo» 21. Alcuni termini meritano tuttavia una chiarificazione: – Professione: va intesa in senso lato come applicazione conti- nuata e caratteristica, sia pure non necessariamente abituale, princi - pale o e sclusiva dell’attività della persona, non necessariamente per uno scopo di guadagno, ma comunque per un fine lecito, diretto a servizi personali o a prestazioni a favore dei richiedenti. Essa, quin- di, include l’idea di una situazione personale particolare nell’ambien - te in cui si verifica l’esercizio professionale 22. – Status: con questo termine si fa riferimento «non soltanto alla titolarità e all’esercizio di una particolare attività professionale, ma anche ad ogni altra speciale condizione giuridica personale, dipen- dente da determinate situazioni personali nell’ambiente in cui un esercizio professionale si svolge o è svolto» 23. – Ufficio: indica l’esercizio, permanente o temporaneo, a titolo oneroso o gratuito, di speciali funzioni che, pur non avendo natura professionale in senso stretto, qualificano ugualmente la persona co- me oggetto di una particolare specie di attività sociale 24. L’ufficio, co- me tale, può essere privato o pubblico: se l’ufficio è privato o pubbli- co ma riguardante un privato sarà applicabile l’art. 622 c.p. Se invece la notizia è destinata a rimanere segreta nell’interesse della pubblica amministrazione, risulta allora applicabile l’art. 326 c.p. Se anziché rivelare fatti o circostanze, del passato o del presen- te, veri, sono divulgati intenzionalmente fatti non veri o solo parzial- mente rispondenti a verità, il reato di violazione del segreto di ufficio

20 Circa la “tassatività” cf però quanto detto da G. UBERTIS, Prova testimoniale (Diritto processuale pe- nale), in Nuovissimo Digesto Italiano, Appendice VI, Torino 1986, p. 90. 21 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 102. 22 Nella previsione dell’art. 622 c.p. non rientrano le prestazioni e i servizi eccezionali rispetto all’atti - vità di chi li porge, qualunque sia il loro carattere, difettando quel particolare obbligo di fedeltà richia- mato invece dall’esercizio professionale, sul quale non può ragionevolmente fare affidamento colui che abbia ritenuto di confidarsi con chi mansioni o obblighi professionali propriamente non ha. Non rientra pure l’esercizio di fatto di una determinata professione come neppure il falso o abusivo professionista, il quale, peraltro, sarà punito per altro titolo, non però per rivelazione di segreto professionale, mancan- do quella destinazione, legale o naturale, alla ricezione o cognizione delle altrui confidenze, che è inve- ce caratteristica dell’attività professionale vera e propria. 23 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 104. Nello stesso senso F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 138. 24 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 108. Cf F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., pp. 140-141. 290 Alberto Perlasca non sussiste. Il comportamento potrà semmai costituire, a seconda dei casi, altre ipotesi delittuose (offesa all’onore ecc.) o un mero ille- cito civile, ma non l’illecito penale previsto dall’art. 622 25. Può anche accadere che siano rivelati fatti erroneamente ritenuti veri. Qui sussiste il convincimento dell’esattezza del risultato, essendo irrilevante il fatto che tale convinzione riposi, o meno, su di un valido fondamento della realtà. Invero, mentre il fatto inventato o intenzio- nalmente alterato nella sua reale sostanza non è un fatto di cui si è avuta notizia per ragione del proprio atto, ufficio o professione, nel ca- so che stiamo considerando il fatto sul quale il professionista si è in- gannato è stato conosciuto a ragione dello svolgimento della propria professione. L’ignoranza professionale – già per se stessa riprovevole – non può diventare giustificazione di un comportamento che, proprio per il suo carattere tipicamente doloso, la legge intende punire 26. Di- verso è il caso in cui siano rivelati fatti erroneamente ritenuti non conformi alla realtà, ma che, in realtà, risultano essere veri. La non punibilità dipende dalla mancanza di dolo, in quanto l’agente voleva sì rivelare il fatto, ma in quanto lo riteneva non conforme alla realtà, non suscettibile, cioè, di ledere un segreto, la tutela del quale presuppone sempre la verità, anche supposta, del fatto oggetto della rivelazione 27.

Limiti al dovere di serbare il segreto L’art. 622 punisce la rivelazione del segreto professionale solo se essa ha luogo «senza giusta causa», cioè senza una giustificazione prevista in una norma giuridica o che trovi il proprio fondamento nel- la legge 28. Tra le «giuste cause» sono da annoverare il consenso alla rivelazione del segreto da parte dell’avente diritto (art. 50 c.p.), lo sta- to di necessità (art. 54 c.p.) 29, le norme imperative (cf, ad esempio, artt. 361-365 c.p.) e quelle permissive (art. 351 c.p.p.).

25 Contra: M. SCHMIDT, Der Arzt im Strafrecht, Berlin 1938, p. 27 26 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 128-129. 27 Ibid., p. 129. 28 Cf F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 78 e bibliografia ivi indicata. Secondo Petrone l’espressione «senza giusta causa» non rappresenta soltanto una formula riassuntiva di richiamo alle cau- se già previste dal Codice in via generale e, più in particolare, alle scriminanti, ma un elemento positivo, sia pur costruito in forma negativa. Secondo l’autore, tuttavia, un più pregnante significato può attribuirsi all’espressione in parola in riferimento al concetto di «ingiustizia» (cf M. PETRONE, Segreti, cit., p. 963). 29 Lo stato di necessità può verificarsi, per esempio, ogniqualvolta il professionista fosse costretto a ri- velare un segreto confidatogli dal suo cliente, allo scopo di evitare un procedimento penale ingiusto in- tentatogli contro dallo stesso oppure nel caso di costrizione morale o fisica. In base agli stessi criteri, si devono richiamare nell’istituto del segreto le disposizioni contemplate dagli artt. 45-49 e 51-52 c.p. Cf, più ampiamente, F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., pp. 81-84. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 291

Il dovere del professionista di serbare il segreto, quindi, non è senza limiti, anche se, per la determinazione delle cause giuste che lo esimono, il codice non offre criteri direttivi. Anche il criterio del bilanciamento dei beni (interesse personale e interesse sociale) è nondimeno ugualmente privo di quel rigore sistematico necessario per una razionale soluzione dei problemi pratici. Di fatto, la mera preponderanza dell’interesse minacciato non basta perché il profes- sionista possa lecitamente esimersi dall’obbligo del segreto. Prima di rivelare il segreto professionale, egli deve valutare con attenzione se ciò sia davvero indispensabile e richiesto dalle circostanze 30. La «necessità» della rivelazione è elemento decisivo 31. Il fatto poi che il professionista, nel rivelare il segreto commessogli, si sia prefisso uno scopo, non significa che questo debba venire in ogni caso rag- giunto o che il bene giuridico minacciato venga effettivamente salva- to dal danno 32. Le principali difficoltà ermeneutiche cominciano però laddove la giusta causa deve essere ricavata da quelli che sono gli obblighi deontologici del professionista, che non possono essere aprioristica- mente identificati con obblighi propriamente giuridici, espressamen- te stabiliti dalla legge. In questi casi non si può prescindere, nella va- lutazione delle singole fattispecie, dall’influsso del concetto di etica professionale a cui il legislatore ha fatto rinvio quando si richiama a quegli obblighi, di indole squisitamente morale, non previsti esplici- tamente dal diritto, ma riconosciuti come utili per la difesa di un di- ritto o di altro interesse legittimo 33. Lo stesso dicasi per la tutela di un diritto proprio del professio- nista, qualora si renda necessario rivelare quanto appreso nell’eser - cizio dell’attività professionale 34. Del pari, agli effetti della giusta cau- sa, rilevano interessi anche meramente morali (per esempio, la dife- sa dell’onore), nonché i giudizi promossi per risarcimento danni o

30 In questo senso anche S. KOSTORIS, Il «Segreto» come oggetto della tutela penale, cit., p. 37: «Altra co- sa è «autorizzare», il che conferisce una facoltà di cui si può o meno fare uso, ed altra imporre un obbli- go al quale non ci si può sottrarre senza conseguenze giuridiche. In questi termini si pone l’interessan - te problematica degli artt. 351 e 352 c.p.p., che è poi un problema di rapporti fra norme di diritto so- stanziale e norme di diritto processuale». 31 Cf A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 131. 32 Nel caso del segreto ufficiale o pubblico, per contro, la tutela è garantita indipendentemente dal dan- no, ma in sé e per sé. Cf F. GRAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 16. 33 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 136. 34 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 137-138. Contra: S. KOSTORIS, Il «Segreto» come oggetto della tutela penale, cit., pp. 38-39. 292 Alberto Perlasca per le difese nelle cause penali, sempre che ricorra il requisito della necessità 35. Tra le «giuste cause» rientra anche il consenso alla rivelazione da parte dell’avente diritto 36. Tale consenso, per essere valido, deve provenire dal titolare del diritto al segreto oppure da un mandatario espressamente autorizzato a sciogliere il professionista dal vincolo del segreto. Deve, inoltre, essere libero, cioè dato senza dolo o vio- lenza. Se il segreto riguarda più persone, l’obbligo della segretezza permane quando esista il divieto anche di uno solo degli interessati, dovendosi applicare il principio generale che, nel conflitto di più vo- lontà cointeressate circa la mutazione di uno stato conforme al dirit- to, melior est conditio prohibentis 37. Si noti, tuttavia, che il consenso alla rivelazione non obbliga il depositario a rivelare il segreto, come meglio vedremo tra poco.

Facoltà di astenersi dal testimoniare Il dovere testimoniale dei terzi in genere, a differenza di quello dell’imputato, è affermato dalla legge con notevole rigore, in quanto nulla conta l’assoluta estraneità di una persona agli interessi, che si agitano in un processo, civile o penale, al fine di permetterle di sot- trarsi agli incomodi e perfino ai pericoli che la testimonianza porta con sé. Il dovere di testimoniare del terzo non è però senza limiti. Uno di questi limiti è l’art. 200 c.p.p.. L’elenco di persone fornito da questo articolo è tassativo e limita la sfera di validità dell’art. 622 c.p. 38. Il legislatore, certamente, avrebbe potuto vietare sic et simplici- ter al professionista di deporre sui fatti dei quali egli ha avuto cono- scenza a motivo della sua attività. Invece ha preferito lasciare al pro-

35 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 139-140. 36 Il consenso dell’avente diritto non sempre è stato pacificamente ricompreso tra le «giuste cause» di rivelazione del segreto. Per una rassegna delle diverse posizioni degli autori, cf A. CRESPI, La tutela pe- nale del segreto, cit., pp. 140-141. 37 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 142. 38 Così A. CRESPI, Segreto di confessione e consenso alla rivelazione. Nota di commento alla sentenza della Corte di Cass. 17 dic. 1953, in «Rivista italiana di diritto penale» 1954, p. 378. Cf anche la nota di com - mento alla medesima sentenza di E. Battaglini, in «Giustizia penale» 1954/III, p. 295 ss.; V. MANZINI, Sa- cerdoti testimoni e «Sigillum confessionis», in «Giurisprudenza completa della Corte di Cassazione» 35 (1954) II, 115-116. Più recentemente, nello stesso senso: A. LICASTRO, Indagini giudiziarie e ministero pa- storale, in «Il diritto ecclesiastico» 100 (1989)/I, 528-530; in particolare, pp. 523-524. Contro, tra gli altri, V. PERCHINUNNO, Limiti soggettivi della testimonianza del processo penale, Milano 1973, p. 180 ss, l’autore sostiene che l’art. 622 c.p. tutela essenzialmente un interesse privato, ossia l’interesse del confidente alla propria riservatezza; l’art. 351 c.p.p., [attuale art. 200 c.p.p.] tutela un interesse pubblico; E. DOSI, La tu- tela del segreto nella prova testimoniale del precetto penale, in «Scuola positiva» 1968, p. 435 ss. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 293 fessionista la libertà di decidere se intende o meno rivestire la qualità di testimone, assumendone la relativa responsabilità. La circostanza che l’avente diritto abbia dato il proprio consenso alla rivelazione del segreto, potrà fornire un elemento in più per indurre il professionista a deporre volontariamente, ma non è mai decisiva per se stessa, per- ché si è in presenza di un rapporto bilaterale, nel quale non si posso- no attribuire facoltà dispositive alla volontà di uno solo dei soggetti. Il professionista, come abbiamo già visto, deve osservare anche norme deontologiche, alle quali la volontà del cliente non può far derogare, così come può avere interessi suoi personali che possono legittima- mente indurlo a non seguire la volontà del cliente 39. Se il professionista si inducesse a deporre ledendo i segreti al- trui, in quanto non assistito da una giusta causa di rivelazione, ciò non ha importanza per quanto attiene al processo nel quale egli è en- trato a far parte in qualità di teste, nel senso che il giudice può ser- virsi di tale deposizione per fondare la propria decisione e motivarla. L’art. 200 nuovo c.p.p., di fatto, ha lasciato cadere l’inciso «a pena di nullità» contenuto nell’art. 351 c.p.p. del 1930. Tuttavia, il professio- nista, pur avendo agito in conformità con l’ordinamento processuale, non ha però agito in modo conforme al diritto materiale e contro di lui può ben essere posta querela ai sensi dell’art. 622 c.p. 40. Sul piano del diritto sostantivo consegue pertanto che il profes- sionista che svela un segreto come testimone non può, a sua giustifi- cazione, addurre senz’altro che si tratta di deposizione innanzi all’auto - rità giudiziaria, perché il dovere testimoniale del professionista cede, sia pure in modo diverso nel processo penale o civile, di fronte al do- vere del segreto sanzionato nel diritto sostanziale. E poiché la norma posta dal diritto processuale lascia ogni decisione allo stesso profes- sionista, toccherà sempre a costui decidere se intende o no deporre, tenuto conto dei suoi obblighi extra-processuali attinenti al segreto.

39 Una conferma di ciò può essere ricavata dai lavori preparatori del Codice di procedura penale del 1913, in cui all’art. 248, era contenuta negli stessi termini di cui all’art. 351 c.p. del 1930, la facoltà di astenersi dal deporre. Era stato proposto nel progetto del Codice del 1913 (art. 234) che le persone comprese nelle categorie indicate, dovessero deporre «se sciolte dal vincolo del segreto da chi vi abbia diritto»; il «dovere fu soppresso e sostituito dalla facoltà di astenersi dal deporre». Fu allora osservato che il consenso di chi vi abbia diritto non poteva bastare per la violazione del segreto, perché le persone di cui si tratta nella ret- titudine della loro coscienza, potevano trovare ragioni che le muovono a mantenere il silenzio, nello stes- so interesse del depositario o di altri a cui la relazione potesse essere di nocumento. Il confessore, poi, non può mai essere da nessuno dispensato dall’osservanza dell’obbligo del segreto. Come per le altre ca- tegorie di professionisti, anche per il ministro del culto cattolico sussiste la facoltà di astenersi dal depor- re (art. 351 c.p.p.), anche nel caso in cui il confidente lo abbia sciolto dal vincolo sacramentale. 40 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 149 ss. 294 Alberto Perlasca

Dal punto di vista oggettivo l’art. 200 c.p.p. richiede un nesso di dipendenza tra la situazione o attività di cui è titolare il professionista e l’apprendimento della notizia sulla quale questi viene interrogato. La legge, almeno nel suo tenore letterale, sembra escludere la fa- coltà di astensione, non solo per quelle notizie apprese fuori dell’e- sercizio professionale, ma anche per quelle che – o per il modo in cui sono conosciute o per il loro contenuto – non sono strettamente attinenti alla prestazione professionale 41.

Situazione giuridica del ministro della religione

Una chiarificazione terminologica Le difficoltà per giungere a un’esatta definizione dell’estensione soggettiva delle norme del c.p. e del c.p.p. – per il c.p.c. il problema è relativo, in quanto esso rimanda al c.p.p. – derivano, fondamental- mente, dalla terminologia utilizzata dai diversi testi legislativi. È quin- di necessario esaminarli nel particolare. L’art. 622 c.p. stabilisce: «Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto [...]». L’art. 200 c.p.p. stabilisce: «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione [...] a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano». L’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Re- visione del Concordato del 1929 stabilisce: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministe- ro». Il CIC, infine, stabilisce l’esistenza nella Chiesa, per istituzione divina, di «ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici» (can. 207 § 1) e che si diventa chierici «con l’ordinazione diaconale» (can. 266 § 1). Nel can. 1008, poi, stabilisce: «Con il sacramento del- l’Ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri». Ora, è chiaro che il dettato dell’art. 622 c.p. deve essere inteso alla luce della normativa canonica e concordataria. Diversamente si giungerebbe a conclusioni inaccettabili. Di fatto, «chiunque» eserci- ta un’arte, una professione o un ministero.

41 L.cit. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 295

L’art. 200 c.p.p., parla di «ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano» 42. Si tratta di una «denominazione convenzionale e non precisa assumen- do a seconda dei vari casi, significati diversi con riferimento a situa- zioni, rapporti ed attività differenti fra loro» 43. Quanto all’art. 4 n. 4 dell’Accordo di revisione del Concordato del 1929, il termine «ecclesiastico» è rimasto invariato nelle diverse bozze di revisione 44. A questo proposito si può notare che la termino- logia utilizzata negli accordi stipulati dalla Santa Sede con le diverse nazioni subisce alcune variazioni 45. Talvolta, poi, ci si limita a un ge- nerico rinvio alla libertà di religione 46. In altri casi non si fa neppure cenno a questo problema 47. Non mancano, peraltro, casi in cui si par- la di «chierici e di religiosi» 48. In alcune recentissime intese stipulate dalla Santa Sede si parla espressamente di «confessione», come di- stinta dalla «cura d’anime», e si nota un tendenziale ampliamento del novero delle persone ricomprese nella categoria «ecclesiastico» 49.

42 L’art. 248 c.p.p. del 1913 parlava invece genericamente di «ministri di un culto ammesso nello Sta- to», espressione, questa, comprensiva dei ministri di qualsiasi confessione. L’art. 351 c.p.p. del 1930 parlava di «ministri della religione cattolica o di altro culto ammesso nello Stato». 43 P. O . M ARAZZATO, Il «sigillum sacramentale» e la giurisdizione penale, in «Archivio penale» 1955/I-II, p. 34 ss. 44 O. FUMAGALLI CARULLI, Società civile e società religiosa di fronte al Concordato, Milano 1980, p. 342 ss. 45 Concordato con il Portogallo, 7 maggio 1940, art. 12 («Os eclesiásticos»), in AAS 32 (1940) 217-233 oppure in Concordatos vigentes, II, a cura di C. Corral Salvador - J. G. Martinez Carvajal, Madrid 1981, pp. 325-353 oppure in I Concordati di Pio XII (1939-1958), a cura di P. Ciprotti - A. Talamanca, Milano 1976, p. 22; Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica di Austria, art 18 («Die Geistlichen»), in AAS 26 (1934) 249-282 oppure in Concordatos vigentes, pp. 447 e 481; Concordato tra la Santa Sede ed il Rei- ch Germanico, art. 9 («Geistliche»), in AAS 25 (1933) 389-413 oppure in Concordatos vigentes, I, cit., pp. 106-149 oppure in I Concordati di Pio XII, cit., p. 112. 46 Concordato tra la Santa Sede e lo Stato della Baviera, art. 1 §§ 1-2, in AAS 17 (1925) 41-56 oppure in Concordatos vigentes, II, cit., pp. 243-244; Accordo tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (artt. 1 § 2; 3 § 1), in AAS 86 (1994) 716-729; Convenzione con il Congo Belga, 8 dicembre 1953, art. 9, in I Concorda- ti di Pio XII, cit., pp. 5-9. Protocollo relativo alle conversazioni intercorse tra i rappresentanti della San- ta Sede e i rappresentanti del Governo della Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia, art. 1.1, in Concordatos vigentes, II, cit., 388; Solenne Convenzione fra la Santa Sede e la Prussia, art. 1, in AAS 21 (1929) 521-543 oppure in Concordatos vigentes, I, cit., pp. 334-335. 47 Santa Sede e la Repubblica del Perù, in AAS 72 (1980); Santa Sede et la Principauté de Monaco, in AAS 73 (1981) 651-653; Santa Sede e la Repubblica di S. Marino, in AAS 85 (1993) 324-334; Santa Sede e la Repubblica Federata Brasiliana, in AAS 82 (1990) 126-129. Concordato tra la Santa Sede e la Repub- blica di Colombia, art. 18 («Los clérigos y religiosos»), in AAS 67 (1975) 421-434 oppure in Concordatos vigentes, II, cit., pp. 446-447; 452-453. 48 Concordato tra la Santa Sede e la Spagna, art. 16, 7° («Los clérigos y los religiosos»), in AAS 45 (1953) 625-656 oppure in Concordatos vigentes, II, cit., pp. 55-83 oppure in I Concordati di Pio XII, cit., p. 58. Nella revisione del Concordato del 1980 non ci sono stati cambiamenti su questo punto: cf AAS 72 (1980) 29-36 oppure in Concordatos vigentes, II, cit., pp. 107-115. Concordato tra la Santa Sede e la Re- pubblica Dominicana, art. 9 2° («Los clérigos y los religiosos»), in AAS 46 (1954) 433-457 oppure in Concordatos vigentes, II, cit., pp. 589-615 oppure in I Concordati di Pio XII, cit., p. 108. 49 Cf Intesa con la Repubblica della Croazia, art. 2: «In ogni caso, il segreto della confessione è inviola- bile» (AAS 89 [1997] 281); Intesa con il libero Stato di Turingia, art. 2: «Restano intatte le disposizioni 296 Alberto Perlasca

Non mancano, peraltro, casi anche molto recenti di intese che nulla prevedono circa la materia oggetto della nostra ricerca 50. Trattandosi di norma pattizia essa è legittimamente modificabile solo attraverso accordi bilaterali 51. In particolare, è da escludere che il rapporto tra questa disposizione e le norme processuali citate possa essere definito attraverso il principio della successione cronologica o del principio di specialità (art. 15 disp. prel. c.c ). Non mancano, tutta- via, differenze, anche sostanziali, tra le norme processuali e la norma- tiva concordataria: ad esempio, l’art. 200 c.p.p. prevede la possibilità di un controllo da parte del giudice sulla fondatezza della dichiarazio- ne di astensione dalla testimonianza, al quale l’art. 4 n. 4 dell’Accor - do, come pure l’art. 7 Concordato 1929, non fa cenno. In ogni caso, l’ambito di applicazione oggettiva dell’art. 4 n. 4 dell’Accordo non può essere ridotto alla sola testimonianza, in quanto si parla genericamen- te di «informazioni», cui possono essere interessati non solo i «magi- strati», ma anche «ogni altra autorità», quali quelli che procedono a inchieste o indagini fuori dell’esercizio della funzione giurisdizionale in senso stretto e quindi anche fuori della sua disciplina 52. Per quanto riguarda, infine, il CIC, è innegabile che i cann. 207 § 1 e 1008, letti alla luce del can. 1009 § 1, limitano il concetto di «mini- stro sacro» a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine 53.

di legge secondo le quali gli ecclesiastici, i loro assistenti e le persone che in preparazione alla profes- sione partecipano all’attività professionale, hanno facoltà di rifiutare la testimonianza su quello che è stato confidato o è diventato noto ad essi in qualità di pastori d’anime. Lo Stato libero di Turingia si adopererà per il mantenimento di questa protezione del segreto relativo alla cura d’anime e alla confes- sione» (AAS 89 [1997] 758); Intesa con il Land Meclemburgo-Pomerania anteriore, art. 9: «Gli ecclesia- stici hanno facoltà, anche in procedimenti che sono soggetti al diritto del Land, di rifiutare la testimo- nianza su questioni loro confidate in qualità di pastori d’anime» (AAS 90 [1998] 103). 50 Cf Intesa con il libero Stato della Sassonia, in AAS 89 (1997) 613-648. Nel preambolo iniziale della Convenzione, tuttavia, si considera «il vigente Concordato fra la Santa Sede e il Reich Germanico del 20 luglio 1933 [...] e la Solenne convenzione tra la Santa Sede e la Prussia del 14 giugno 1929». 51 Essa, quindi, svolge una funzione di garanzia contro ogni eventuale modifica che il legislatore inten- desse unilateralmente operare sulla disciplina fissata. L’ipotesi è tutt’altro che teorica: cf A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., p. 531 nota 35. 52 Per Licastro «l’espressione “informazioni” vale a comprendere anche le fattispecie di cui all’art. 256 1° comma c.p.p. e qualsiasi ipotetico obbligo di rapporto o di denuncia che fosse configurabile in con- creto» (Indagini giudiziarie…, cit., p. 531 nota 35). 53 La recente Istruzione della Congregazione per il clero su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, richiama la necessità di «chiarire e distinguere le varie accezioni che il termine “ministero” ha assunto nel linguaggio teologico e canonico» (n. 1), affermando: «Quan- do, il termine [ministero] viene differenziato nel rapporto e nel confronto tra i diversi munera e officia, allora occorre avvertire con chiarezza che solo in forza della sacra Ordinazione esso ottiene quella pie- nezza e univocità di significato che la tradizione gli ha sempre attribuito. [...] Non è lecito, pertanto, che i fedeli non ordinati assumano, per esempio, la denominazione di “pastore”, di “cappellano”, di “coordinatore”, “moderatore” o altre denominazioni che potrebbero, comunque, confondere il loro ruo- lo con quello del pastore, che è unicamente il Vescovo e il presbitero» (art. 1). La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 297

A partire da questi dati oggettivi, le posizioni degli autori si di- versificano in ordine alle conclusioni. Secondo alcuni, infatti, sembra più affidabile concludere che «la qualifica di “ecclesiastico” può talo- ra corrispondere [...] a quella canonistica di “clericus”», anche se in genere essa indica solo i chierici che abbiano conseguito il presbite- rato o il più alto grado del sacerdozio e che quindi l’art. 4 n. 4 si rife- risca ai soli presbiteri e vescovi 54. Da altri, poi, che, sul punto, assen- tono, si fa notare che i Concordati, in genere, sono testi «caratteriz- zati da notevole imprecisione e da scarso scrupolo linguistico» 55. Altra parte della dottrina, per contro, ritiene che «soggetti facul- tati ad astenersi dal deporre non siano più solo quelli definiti dal can. 207 § 1 CIC, ma anche quelli indicati nel successivo § 2 [...]» 56. Personalmente saremmo propensi ad accogliere quest’ultima po sizione. Di fatto, nulla lascia supporre che la legge statale voglia li- mitare la propria tutela solo alle notizie ricevute durante la confessio- ne sacramentale. Anzi, vi sono precisi argomenti in contrario. Invero non si capisce perché la tutela statale dovrebbe essere limitata a quanto è già ampiamente e severamente tutelato dalla legge canoni- ca. In secondo luogo, la tutela della legge statale si estende anche ai ministri di altri culti religiosi, i quali non prevedono il sacramento del- la confessione. Sia nell’art. 200 c.p.p., sia nell’art. 4 n. 4 dell’Accordo, non si parla di «ministro sacro» (can. 1008 CIC), ma semplicemente di «ministri» o di «ecclesiastici». Ancora: nell’art. 4 n. 4 non si parla di «ministero sacro» (cf art. 7 Concordato del 1929) ma, solo di «mini- stero». Riteniamo, quindi, che il termine «ecclesiastico» contenuto nell’art. 4 n. 4 dell’Accordo sia stato utilizzato a ragion veduta. Circa

54 5 F. F INOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Bologna 1996 , p. 405. Concorda: L. M. RENZONI, Il diritto del ministro del culto cattolico, pp. 95-98, in particolare, p. 98. M. FERRABOSCHI, Ecclesiastici (Diritto Eccle- siastico), in Enciclopedia del Diritto, Milano 1965, p. 251. L’Autore, tuttavia introduce un’interessante precisazione: «Si può ritenere che “ecclesiastico” corrisponda, almeno in linea di massima (salvo cioè la dimostrazione che nella fattispecie concreta il termine è stato usato con significato diverso), a “chie- rico ordinato in sacris”, esclusi quindi coloro che hanno ricevuto i soli ordini inferiori o la sola tonsura [...]. Con ciò restano esclusi dalla nozione di ecclesiastici sia i religiosi non ordinati sia le donne». Co- me esempio l’Autore cita l’art. 3 del Concordato con la Lettonia «Les ecclesiastiques a partir de l’ordre de sous-diacre inclusivement». 55 A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., pp. 534-535. 56 G. UBERTIS, Prova testimoniale, in Novissimo Digesto Italiano, Appendice VI, Torino 1986, p. 90 ss.; V. COVIELLO, Manuale di Diritto ecclesiastico, I, Roma 1922, p. 140; P. O. MARAZZATO, Il «sigillum sacra- mentale»…, cit., p. 31ss. In questo senso anche Cardia: «[...] si fa riferimento più generale agli ecclesia- stici, ponendo all’interprete l’onere di individuare i confini della nozione in relazione al contenuto della norma» (C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna 1996, p. 294). Cf pure ID., Stato e confessio- 2 ni religiose, Bologna 1992 , p. 193. In questo secondo lavoro l’autore rinvia a L.M. DE BERNARDIS, I pri- vilegia clericorum nel diritto italiano, Milano 1937, p. 48 ss. 298 Alberto Perlasca la riferita «imprecisione» dei Concordati facciamo notare che le nor- me concordatarie sono norme bilaterali. La delegazione autorizzata a trattare per la Chiesa cattolica avrebbe potuto/dovuto richiedere una maggiore precisione lessicale in un campo così delicato qualora aves- se voluto restringere il campo al solo segreto legato al sacramento della confessione. Anzi, proprio l’aspetto della «bilateralità» dovrebbe conferire, su punti così specifici, quella precisione e quel rigore ter- minologico che non si può ragionevolmente richiedere a un legislato- re «laico», qual è quello statale. Pertanto, siamo propensi a ritenere che l’art. 622 c.p. e la tute- la dell’art. 200 c.p.p. siano da applicare non solo ai presbiteri e ai ve- scovi, ma anche ai diaconi e ai religiosi (uomini e donne). Qualche problema, tuttavia, potrebbe sorgere per gli istituti secolari e le so- cietà di vita apostolica. A nostro parere, sarebbero da comprendere nella normativa solo i membri chierici (can. 266 § 1), in quanto sia- no incorporati all’istituto e apprendano la notizia a motivo e nel - l’esercizio dell’attività istituzionale 57. Inoltre, mentre nel caso del sa- cerdote, per quanto riguarda la materia che ricade sotto il sigillo sa- cramentale, in forza dell’art. 4 n. 4 dell’Accordo, il giudice non può esercitare nessun tipo di sindacato, ma deve semplicemente pren- dere atto della decisione del sacerdote di non riferire su quegli ar- gomenti, negli altri casi, primo fra tutti quello del religioso (non sa- cerdote) il giudice deve verificare che l’attività svolta dal religioso sia una delle attività istituzionali dell’Ordine, nonché l’esistenza del nesso di causalità tra l’attività svolta e la notizia ricevuta. Cosa, que- st’ultima, che dovrà essere fatta anche nel caso del sacerdote, qua- lora si tratti di materia non coperta dal sigillo sacramentale, ma di notizie confidenziali ricevute, tuttavia, nell’esercizio del ministero. Al di fuori dell’ambito della confessione sacramentale, riteniamo che tanto il sacerdote quanto il religioso si trovino, di fronte alla leg- ge dello Stato, almeno nella stessa condizione di qualsiasi altro pro- fessionista. Infine, tutto quanto detto per il processo penale, vale an- che per quello civile nel quale, tuttavia, i poteri di sindacato del giu- dice sono molto più penetranti 58.

57 D’altro canto, a nostro parere, l’espressione «ministro» non può essere estesa fino a ricomprendervi l’ipotesi del can. 861 § 2 e neppure i nubendi che del matrimonio sono i ministri (can. 1057 §§ 1-2). 58 L’aver limitato il discorso solo al sacerdote, senza aver considerato la posizione dei religiosi, ci pare il limite del pur ottimo studio di Licastro. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 299

Ambito di applicazione della legge Affinché possa trovare applicazione l’art. 622 c.p. e 200 c.p.p., deve trattarsi di un «vero» sacerdote, di un «vero» religioso o di un membro legittimamente e validamente aggregato a un istituto laicale o secolare. Di fatto, anche in questi casi trova applicazione il princi- pio secondo il quale il falso o abusivo professionista è escluso dalla tutela offerta dall’art. 622 c.p. e dall’art. 200 c.p.p. Giustamente si fa rilevare che «ai fini della sussistenza del reato è necessario che lo stato sacerdotale sussista al momento della cono- scenza della notizia; non è invece necessario che sussista anche al mo- mento della rivelazione. L’esercizio delle attività sacerdotali è richiesto dalla norma come elemento determinante dell’apprendimento della notizia e, quindi, la successiva cessazione della qualifica confessionale non esonera l’ex-sacerdote dal dovere di conservare il segreto» 59. Il ministro di culto, comunque tenuto a comparire se legittima- mente citato, ha la possibilità di scegliere se prestare o meno la testi- monianza; qualora egli, pur avendo invocato la facoltà di astensione, sia costretto a deporre e la sua deposizione sia falsa o reticente, non è punibile per il reato di cui all’art. 372 c.p., trovando applicazione la scriminante speciale prevista dal 2° comma dell’art. 384 c.p. che, in riferimento agli artt. 372-373, esclude la punibilità «se il fatto è com- messo da chi per legge non avrebbe dovuto essere assunto come te- stimone» 60. In questa delicata materia non si possono, tuttavia, fissa- re limiti precisi. L’affermazione secondo cui il ministro di culto «quando sia chiamato a riferire su fatti da lui conosciuti in via riser- vata o addirittura a titolo di segreto [...] ha l’obbligo di astenersi» e non già una semplice facoltà, lascia notevolmente perplessi qualora sia riferita all’inammissibilità della prova 61. Al contrario, l’inutilizzabi - lità della prova che sanziona l’inosservanza dell’art. 200 c.p.p., pre- suppone che il testimone abbia dichiarato di volersi astenere e, cio- nonostante, l’autorità procedente lo abbia obbligato a deporre 62. Ov-

59 A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., pp. 520-521 e nota 12. Ovviamente il discorso che l’autore li- mita al caso del sacerdote, secondo l’impostazione da noi data al discorso, deve essere di conseguenza ampliata a tutte le categorie di cui sopra. Inoltre, riteniamo che, anche nel caso previsto dal can. 976, il sacerdote sia tenuto al sigillo sacramentale e, solo per il caso specifico, goda della protezione degli artt. 622 c.p. e 200 c.p.p. 60 A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., p. 518. 61 F. F INOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 415. Tanto più che, nell’art. 200 c.p.p., è caduto l’inciso «a pena di nullità», previsto dal testo dell’art. 351 c.p.p. del 1930. 62 Non ci sono quindi dubbi circa l’ammissibilità della testimonianza del sacerdote che decide di in- frangere il sigillo sacramentale. Egli, tuttavia, incorrerà certamente nelle gravissime sanzioni canoni- 300 Alberto Perlasca vio è, inoltre, che quando il ministro di culto che, potendosi esimere dal rispondere, assume la veste di testimone, ne contrae tutti gli ob- blighi per quanto riguarda la veridicità della deposizione. Va tuttavia osservato che il giudice non ha alcun obbligo pro- cessuale di avvertire il ministro di culto della facoltà che gli compe- te: quest’ultimo deve di sua iniziativa far valere la facoltà di astensio- ne, non potendo, in caso contrario, trovare applicazione l’art. 384, 2° comma ultima parte c.p. 63. È stato bene osservato, a questo proposi- to, che, una cosa è tacere ciò che si sa, dichiarando di non poter di- re, e altra limitarsi a tacere o dire di non sapere. In questo secondo caso, infatti, potrebbe configurarsi il reato di cui all’art. 372 c.p. 64. L’istituto dell’astensione, poiché affida al ministro di culto la valuta- zione e la scelta del deporre o meno, presuppone in questi la capa- cità di testimoniare, quale condizione per l’esercizio della facoltà in questione. Il Codice di diritto canonico, per contro, mentre prevede per i chierici l’esonero dall’obbligo della deposizione testimoniale per quanto da loro appreso ratione sacri ministerii (ma al di fuori della confessione sacramentale) (cf can. 1548 § 2, 1°), prevede per i sacerdoti una vera e propria incapacità a testimoniare limitatamente a quanto appreso durante la confessione sacramentale (can. 1550 § 2, 2°). Il giudice ecclesiastico non solo non può chiedere al sacerdo- te di deporre, ma non può ammettere questi come testimone neppu- re qualora egli intendesse deporre spontaneamente. È quindi del tut- to irrilevante che il penitente abbia sciolto il confessore dall’osser- vanza del rigorosissimo segreto confessionale o gli abbia addirittura chiesto di deporre, non potendo certo il penitente attribuire al con- fessore una capacità di cui la legge canonica lo ha privato. La legge civile, invece, non stabilisce l’incapacità del sacerdote di testimonia- re né impone un divieto di compiere l’atto testimoniale, ma fa salva soltanto la facoltà del ministro di culto di tacere «su quanto ha cono- sciuto per ragione del proprio ministero», senza fare distinzione tra quanto egli ha appreso in ragione del ministero inteso in senso lato oppure di quanto egli ha appreso nell’esercizio dello specifico mini- stero del confessionale 65. Nessun dubbio, quindi, può oggi avanzarsi che (cf can. 1388 §§ 1-2) e, eventualmente, sarà passibile della pena comminata per il reato previsto nell’art. 622 c.p. L’ordinamento canonico, per contro, sancisce una vera e propria incapacità del sacer- dote di deporre nell’ambito del processo (canonico) per tutto quanto egli ha appreso nell’esercizio del ministero del confessionale (cf can. 1550 § 2, 2°). 63 A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., p. 518 nota 5. 64 Cf A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., p. 154. 65 La rubrica dell’art. 351 vecchio c.p.p. parlava impropriamente di «diritto» dall’astenersi dal testimoniare. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 301 sull’ammissibilità e l’utilizzabilità ai fini processuali della testimo- nianza prestata spontaneamente dall’ecclesiastico su fatti conosciuti per ragione del suo ministero. Infatti la sostituzione nell’art. 4 n. 4 della locuzione «non sono tenuti a dare», all’altra di tono più perento- rio «non possono essere richiesti» (art. 7 Concordato 1929), ha fatto cadere il principale argomento contrario 66. Un’altra norma che può venire in considerazione a proposito del segreto professionale del ministro di culto è l’art. 256 c.p.p., 1° comma, che estende alla prova documentale i principi dettati per la prova testimoniale. Essa serve a evitare che il ministro di culto sia costretto a rivelare il segreto di cui è depositario esibendo l’atto o il documento richiesto. Diversa è invece la previsione del 2° comma che, disciplinando il controllo sulla fondatezza della dichiarazione di cui al comma 1°, pone implicitamente un divieto al sequestro degli atti, dei documenti e delle cose esistenti presso i soggetti indicati nel 1° comma (quindi anche presso il ministro di culto), coperti dal se- greto professionale. Quest’ultima norma pone un limite all’ammissi- bilità di un mezzo di prova che, a rigore, non richiederebbe alcuna collaborazione attiva da parte dei soggetti di cui al cit. 1° comma. La cognizione del segreto da parte dell’autorità giudiziaria può avvenire addirittura senza che il ministro di culto se ne renda conto, mediante un’operazione di intercettazione telefonica, i cui risultati il nuovo co- dice dichiara inutilizzabili (art. 271, 2° comma), salvo che egli abbia già deposto sui fatti coperti dal segreto professionale. Gli artt. 200 e 256 c.p.p. sono disposizioni di carattere generale che trovano appli- cazione in ogni fase del processo. Infine, non sembra che il segreto professionale del ministro di culto possa trovare limiti in obblighi concernenti la notizia di reati. La questione si è complicata giacché l’attuale art. 200 c.p.p. esclude la facoltà di astensione dal testimoniare per «tutti i soggetti elencati nella disposizione», in tutti i casi in cui essi hanno l’obbligo di riferi- re all’autorità giudiziaria. Ora, il solo obbligo «di riferire all’autorità giudiziaria» che in teoria dovrebbe gravare sul ministro di culto è quello della denuncia obbligatoria di reato (art. 364 c.p.). La dottrina tuttavia ritiene giustamente che il segreto professionale possa giusti- ficare il fatto contemplato nell’art. 364 (omessa denuncia di reato da parte dei cittadini), perché se esso autorizza l’astensione dalla testi-

66 In passato, simile dubbio era stato avanzato da L. M. DE BERNARDIS, L’art. 7 del Concordato, in «An- nali dell’Università di Ferrara» 1937, p. 12 ss. 302 Alberto Perlasca monianza a fortiori legittima la mancata denuncia 67. Attualmente, si ritiene che la qualità di ministro di culto non importa, in riferimento all’esercizio delle funzioni religiose e spirituali, né l’esercizio di «pub - blica funzione» (cf art. 357 c.p.p.) né l’esercizio di «pubblico servizio» (cf art. 358 c.p.p.), anche se, per esempio, nella celebrazione del ma- trimonio concordatario, c’è l’esercizio una pubblica funzione ai sensi dell’art. 357, 2° comma c.p. D’altro canto, egli non è tenuto a fare rap- porto all’autorità giudiziaria neppure di eventuali «reati» di cui sia ve- nuto a conoscenza in tale occasione, poiché la funzione di pubblico ufficiale da parte del ministro di culto appare in ogni caso collegata al compimento di attività che, pur avendo qualche rilevanza per l’ordina- mento statuale, sono accessorie rispetto all’insieme delle attività mini- steriali delle quali solo il ministro di culto è investito in modo diretto e immediato 68.

Esonero dal segreto da parte del confidente Dall’insieme della normativa che abbiamo esaminato risulta che lo Stato accetta, in ossequio al principio costituzionale della libertà di religione, un limite all’esercizio della funzione giurisdizionale ante- ponendo a esso, in determinate ipotesi, l’esigenza del rispetto della coscienza dell’ecclesiastico per quanto egli ha appreso nell’esercizio del suo ministero. Tale esigenza assume il suo massimo rilievo nel caso del sacerdote per quanto concerne la materia oggetto del sigillo sacramentale 69. La norma concordataria, poi, conferma e corrobora la disciplina statale. Ciò è giustificato dal fatto che, nel caso specifico del sacerdote, per quanto attiene all’oggetto del sigillo sacramentale, egli deve prestare obbedienza non solo alla sua coscienza, ma anche alle gravissime sanzioni previste dall’ordinamento canonico (cf can. 1388). Se per quanto riguarda il medico o l’avvocato è solo la tutela della fiducia concessa dal cliente quella che può venire tenuta in con- siderazione, per quanto riguarda invece il ministro di culto vi è an-

67 F. A NTOLISEI, Manuale di Diritto Penale, II, ed. 1982, 869. Concorda A. LICASTRO, Indagini giudizia- rie…, cit., p. 528: «Né crediamo che si possa configurare a carico del ministro di culto un qualche obbli- go di rapporto ai sensi dell’art. 351 c.p.p.». 68 Ibid., pp. 528-530. 69 Il Concilio Lateranense IV (DS 438) comminava persino l’ergastolo oltre alle altre sanzioni: «Qui peccatum in pœnitentiali iudicio sibi detectum præsumpserit revelare, non solo a sacerdotali officio depo- nendum decernimus, verum etiam ad agendam perpetuam pœnitentiam in arctum monasterium detru- dendum». La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 303 che un ulteriore problema di coscienza – relativamente all’adesione ai precetti confessionali disciplinanti la sua funzione e posizione – che appare meritevole di tutela. In questo senso non è ravvisabile una lesione dell’art. 3, 1° comma cost. it. relativo all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Pertanto, è del tutto irrilevante ai fini processuali, con riferi- mento al ministro di culto, l’autorizzazione del confidente o la ricor- renza di una giusta causa, nel senso che essa non valga a ristabilire per il primo l’obbligo della testimonianza 70. Il sigillo è posto non solo nell’interesse del confidente, ma anche dello stesso sacramento e quindi in vista di un interesse generale che toglie al confidente ogni disponibilità sul contenuto del segreto stesso. Si deve però distin- guere tra segreto confessionale e segreto confidenziale, di cui il sa- cerdote sia venuto a conoscenza per ragione del suo ministero, ma al di fuori del sacramento della confessione. Alla rivelazione di que- st’ultimo non esiste un perentorio divieto da parte dell’ordinamento canonico che prevede peraltro giuste cause di rivelazione del segre- to stesso. Ma la dignità e la delicatezza del ministero sacerdotale im- pongono il massimo riserbo anche per le cose apprese in via confi- denziale 71. La ratio della norma in questione, cioè, anziché avere carattere privilegiato o discriminatorio, costituisce una specificazione concreta della libertà di esercizio del ministero pastorale, costantemente assi- curata, nella disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, a chiunque riveste la qualità di ministro di culto. Dovrebbe quindi e - scludersi che una simile garanzia possa considerarsi applicabile solo

70 Cf D.L. VALENTI, Sigillo sacramentale o segreto della sacramentale confessione, in «Archivio penale» 1955/I, pp. 88-94. Cf, in particolare, p. 93: «Tale licenza libera il confessore dal segreto ma non lo obbli- ga a servirsi direttamente di tale permesso. Quindi, nel caso in cui il confessore venga a conoscenza di un grave danno imminente per sé, o per terzi, o per lo Stato o per la Chiesa deve convincere il peniten- te affinché egli direttamente o indirettamente impedisca, con ogni mezzo, tali gravi danni imminenti e aiutare il penitente, nei limiti del possibile, a compiere il suo dovere». Concorda L. M. RENZONI, Il dirit- to del ministro del culto, cit., pp. 95-97. D. BARILLARO, Astensione del confessore dalla deposizione testimo- niale, p. 99. Cf pure Cassazione penale, I, 17 dicembre 1953: «Solo il depositario ha la possibilità di valu- tare incensurabilmente, in riflesso alla correttezza, nell’esercizio della sua attività, e per la sua partico- lare competenza, la convenienza di mantenere o di violare il segreto di fronte alla giustizia [...] Come il depositante non può impedire le rivelazioni del segreto di fronte ai superiori interessi della giustizia, così il suo consenso non può obbligare alla deposizione. La volontà del depositario è perciò prevalente sull’interesse individuale e su di essa non può influire quella dell’affidante» («Giurisprudenza completa della Suprema Corte di Cassazione. Sezioni penali» 35 (1954)II, 110-116, in particolare pp. 112-113. 71 A questo proposito, avvertiva san Tommaso: «Potest autem confitens facere ut sacerdos illud quod sciebat tantum ut Deus, sciat etiam ut homo, quod facit dum licentiat eum ad dicendum; et ideo, si dicat, non frangit sigillum confessionis; tamen (confessarius) debet cavere scandalum dicendo, ne fractor sigilli reputetur» (Summa theologica q.11, a. 4). 304 Alberto Perlasca ai ministri di quelle confessioni religiose (cattolica e israelitica), cui è oggi espressamente riconosciuta.

La tutela del segreto nell’ambito del processo civile La facoltà accordata dall’art. 200 c.p.c. al professionista di aste- nersi dal deporre in giudizio su quanto conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione è ammessa anche nell’ambi- to del processo civile (art. 249 c.p.c.) 72. La differenza tra la legge penale e quella civile, circa l’esenzione dall’obbligo di deporre, consiste nel fatto che, per la prima, è determi- nata dalla legge e, per la seconda, è lasciata al libero apprezzamento del giudice, il quale, per valutare le ragioni addotte dal testimone, può anche ricorrere ai criteri degli articoli del codice penale e di procedu- ra penale (art. 239 c.p.c.). Dallo stesso articolo risulta, peraltro, che l’esenzione può riferirsi anche soltanto all’obbligo di giurare. Alcune rarissime sentenze asseriscono che se il segreto profes- sionale può essere legittima causa del rifiuto di testimoniare in mate- ria penale, non può essere considerato come tale in materia civile, a motivo dell’art. 14 disp. prel. c.c. 73. In dottrina e in giurisprudenza, però, è larghissimamente accolta la sentenza contraria, fondata 74 sul- le disposizioni che determinano le esenzioni dall’obbligo di deporre in materia penale, le quali si ritengono applicabili, a libera discrezio- ne del giudice, anche rispetto a coloro che sono chiamati a testimo- niare in giudizi civili 75. Ciò non significa che il giudice deve, in ogni caso in cui si trova di fronte a un segreto professionale, esimere il te- stimone dall’obbligo di deporre. In materia civile, il giudice ha la più ampia libertà di apprezzamento nel giudicare se alle ragioni addotte dal testimone per giustificare il suo rifiuto di deporre può attribuirsi o no l’efficacia di dar luogo all’esenzione dall’obbligo di deporre. Né a quest’ampia libertà potrebbe opporsi che il costringere il testimo- ne di rivelare fatti di cui è a conoscenza a causa dell’esercizio della sua professione significa costringerlo a far cosa che la stessa legge penale reprime, perché la legge penale considera come reato soltan-

72 In passato era sembrato che in forza dell’art. 14 disp. prel. c.c. l’esenzione fosse ristretta solo al cam- po penale. La difficoltà, tuttavia, deve ora ritenersi superata precisamente in forza dell’art. 239 c.p.c. (cf F. G RAMATICA, Il segreto e la sua tutela penale, cit., p. 142 nota 1). 73 Cf Corte di Appello di Genova, 16 febbraio 1900, in «Giurisprudenza Italiana» 1900, I, 2, p. 438. 74 Cf L. ROSSI, Testimoni e prova testimoniale, in Il Digesto italiano, XXIII, Torino 1915, p. 1135 nota 5. 75 Ibid., 1135. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 305 to la rivelazione di un segreto professionale che si fa «senza giusta causa» (art. 163 c.p.) ed è pacifico in dottrina e in giurisprudenza che il regolare invito a deporre avanti al giudice e tanto più il disco- noscimento da parte di questo del diritto di essere esentato dal de- porre, costituisca una giusta causa per rivelare il segreto. D’altra parte l’essere stato obbligato a deporre chi doveva serbare il segreto sui fatti a cui il segreto si riferisce, non implica, quando si tratta di materia civile, alcuna nullità, come avviene quando si tratta di mate- ria penale (art. 248 c.p.p.). Con disposizione simmetrica a quella dell’art. 256 c.p.p., la nor- ma procedurale civile pone, inoltre, la necessità che non si costringa il ministro di culto a violare il proprio segreto religioso, come limite al potere di ispezione di cose (art. 118, 1° comma c.p.c.) e a quello di ordinare, su istanza di parte, la esibizione di documenti o altre cose (art. 210 c.p.c. 1° comma), riconosciuti al giudice civile.

Culti acattolici Al pari dell’«ecclesiastico», nel diritto italiano assumono rilevan- za anche talune qualifiche attribuite, dai rispettivi statuti, a determi- nati soggetti appartenenti a confessioni che abbiano stipulato intese con lo Stato. In tal senso, sono rilevanti le qualifiche di «missionario avventista» e di «compultore», di «diacono», di «pastore». «Ministro di culto», di fatto, «è una qualifica civilistica onnicom- prensiva, tipica del periodo liberale, quando l’ordinamento tendeva a sottoporre alla medesima norma tutti i ministri delle varie confessio- ni religiose. Perciò, tale qualifica, ricorre allorché la norma intende- va riferirsi a quanti, in seno a qualsivoglia confessione religiosa, sia- no investiti di una potestà di magistero sui fedeli» 76. Una disposizione identica all’art. 4 n. 4 dell’Accordo del 1984 tra Stato e Chiesa cattolica 77 è contenuta nell’art. 3, 1° comma dell’inte - sa stipulata dallo Stato italiano con l’unione delle Comunità Israeliti- che Italiane del 27 febbraio 1987 78. Disposizione solo analoga – ma

76 Cf F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 406-408. Concordano: C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 293 ss.; P.O. MARAZZATO, Il «sigillo sacramentale»…, cit., p. 34 ss. 77 L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 2. Il testo delle intese è riprodotto anche in Raccolta di fonti normative di Diritto ecclesiastico, a cura di G. Barberini, Torino 19974, p. 60 ss. 78 L. 8 marzo 1989, n. 101: «Ai ministri di culto nominati dalle Comunità e dall’Unione a norma dello Statuto dell’ebraismo italiano è assicurato il libero esercizio del magistero. Essi non sono tenuti a dare a magistrati o altre autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ra- 306 Alberto Perlasca interessante, in quanto comprende tra i ministri di culto anche i laici – è contenuta nell’ art. 4, 3° dell’intesa con la Chiesa Evangelica Lu- terana 79. Nulla di simile, invece, nel testo delle altre intese finora sti- pulate dal Governo, per la disciplina dei rapporti dello Stato con le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese 80, con le «Assemblee di Dio in Italia» 81 e con le Chiese cristiane avventiste del 7° giorno 82. L’espressione «ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano» (art. 200 c.p.p.) 83, che sostituisce «ministri della religione cattolica o di un culto am- messo dallo Stato» del precedente art. 351 c.p.p., appare destinata a far sorgere delicate questioni. Con essa, infatti, il legislatore viene ad ammettere, sia pur implicitamente, che la Chiesa cattolica soggiac- cia al limite (negativo) del non contrasto con l’ordinamento giuridico italiano, al pari di tutte le altre confessioni religiose. Inoltre il legisla- tore sembra aver trascurato che il rispetto del limite dell’ordinamen - to giuridico da parte della confessione religiosa costituisce solo un presupposto per il libero agire della stessa, appunto come ordina- mento, mentre si possono avere confessioni religiose anche prive di un’organizzazione statutaria per le quali il mancato realizzarsi come ordinamenti non può certo significare diminuzione delle garanzie di libertà previste dalla Costituzione 84. Tuttavia, secondo l’interpreta - zione, che sembra senz’altro da accogliere, il limite in questione non ha carattere preventivo, ma diviene operativo solo allorché vengano concretamente assunti dai cittadini comportamenti in violazione di norme cogenti dell’ordinamento 85. Il sindacato di «non contrasto»

gione del loro ministero». Sull’intesa cf R. BERTOLINO, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, in AA.VV., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, Atti del Convegno nazionale di studio, Bari 4-7 luglio 1984, Milano 1987, pp. 555-596. 79 L. 29 novembre 1995, n. 520: «Ai ministri di culto di cui al comma 2 [ministri di culto, pastori e laici] è riconosciuto il diritto di mantenere il segreto d’ufficio su quanto appreso nello svolgimento del pro- prio ministero». 80 L. 11 agosto 1984, n. 449. Si veda anche la L. 5 ott. 1993, n. 409 che ha dato esecuzione a un’intesa in- tegrativa stipulata il 25 gennaio 1993. Sull’intesa cf S. LARICCIA, L’attuazione dell’ art. 8, 3° comma della Costituzione: l’intesa tra lo Stato italiano e le chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, in AA.VV., Il nuo- vo accordo tra Italia e Santa Sede, cit., pp. 527-554; V. PARLATO, Legislazione statale, nuovo concordato e intesa con la Tavola valdese, ibid., pp. 809-821. 81 L. 22 novembre 1988, n. 517. 82 L. 22 novembre 1988, n. 516. 83 L’art. 200 c.p.p. richiama l’art. 8, 2° comma cost. it. 84 A. LICASTRO, Indagini giudiziarie…, cit., p. 536. L’autore solleva dubbi sulla legittimità costituzionale della norma in quanto «non è infatti remoto il rischio di interpretazioni restrittive della norma, interpre- tazioni che probabilmente sarebbero avallate dall’infelice formula della legge ma che sarebbero incom- patibili con il principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose proclamato dalla Costituzione». 85 F. F INOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 85-90. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 307 con l’ordinamento giuridico italiano è attuato nell’ambito della stipu- lazione delle diverse intese. Emblematico, in questo senso, è il caso della proposta di intesa con lo Stato italiano della Congregazione cri- stiana dei Testimoni di Geova a motivo delle divergenze che essa contiene – ambito sanitario, servizio militare di leva, qualifica di mi- nistri di culto per i «pionieri evangelizzatori» – con i principi sui quali si basa l’ordinamento giuridico italiano 86.

«Facoltà di astenersi»: tentativi di soluzione Da ultimo, vogliamo domandarci come, in concreto, possa com- portarsi il sacerdote richiesto di prestare la propria testimonianza su cose o persone delle quali è venuto a conoscenza e che sono coperte dal segreto del sigillo sacramentale. Di fatto, la semplice affermazione di non poter rispondere, perché si tratta di conoscenze assolutamente indisponibili, non sembra tutelare sufficientemente lo strettissimo ri- serbo richiesto al sacerdote per non rendere odioso il sacramento 87. Peraltro, non è una problematica circoscritta al sigillo sacramentale, in quanto un’applicazione particolarmente complessa dell’art. 622 c.p. è precisamente quella del conflitto di interessi tra il cliente del profes- sionista e un terzo. Qui non si tratta di un’iniziativa personale che egli potrebbe prendere in contrasto con l’interesse del suo cliente, ma di una risposta a una domanda diretta proveniente da un estraneo per avere informazioni sul cliente stesso. Valga l’esempio del padre che si rivolge al medico di fiducia del futuro genero per avere informazioni sullo stato di salute di costui. Il diniego del medico potrebbe convin- cere l’interpellante che il futuro sposo sia affetto da malattia grave o irreparabile o che comunque non tornerebbe a suo onore palesare. Con conseguenze pregiudizievoli e dannose per entrambe le parti. Del pari, il sacerdote che manifesta la volontà di non rispondere a mo- tivo del sigillo sacramentale, potrebbe ingenerare il sospetto che egli, comunque, qualcosa sappia. Un primo tentativo di soluzione – valido anche per il sacerdote qualora fosse richiesto di deporre su materia

86 Sul punto cf M. TEDESCHI, I nuovi movimenti religiosi in Italia. Problemi giuridici, in AA.VV., Diritti dell’uomo e libertà dei gruppi religiosi, a cura di S. Ferrari, Padova 1989, pp. 239-252. 87 Non pare proponibile la teoria della «restrizione mentale», condannata come «abuso» da Innocenzo XI nel 1676 (cf DS 1176 s.). Attualmente, anche in campo cattolico, si rileva come tra restrizione menta- le e menzogna, di fatto, non vi sia differenza (cf C.-J. PINTO DE OLIVEIRA, Diritto alla verità e comunica- zione sociale», in AA.VV., Problemi e prospettive di teologia morale, Brescia 1976, pp. 363-390, in partico- lare, p. 373 ss.). Si veda anche M. COZZOLI, Bugia, in Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Milano 1990, pp. 105-112. 308 Alberto Perlasca che ricade sotto il sigillo sacramentale – potrebbe essere quella di prevenire l’interpellante, ancor prima di conoscere il nome della per- sona sul cui conto si intende informarsi, avvertendolo dell’impossibi- lità di fornire informazioni su chicchessia. Diversamente, il mero si- lenzio potrebbe essere interpretato come volontario occultamento di cose gravi o compromettenti: cosa ancor più dannosa, qualora quel sospetto non avesse fondamento 88. Un secondo tentativo di soluzione potrebbe essere quello di ricorrere alla formula «non so», piuttosto che «non posso parlare». Non crediamo che, nel caso, si tratti di una menzogna: di fatto il confessore, nell’atto della confessione sacramen- tale, come sopra è stato ricordato, «non scit ut homo, sed tamquam Dei minister»89, mentre, nell’ambito del processo, gli è richiesta una testimonianza «ut homo». È ovvio che si tratta, semplicemente, di ten- tativi di soluzione che nulla tolgono alla delicatezza e alla complessità del problema.

Conclusioni L’ordinamento giuridico italiano predispone, fondamentalmente, due tipi di tutele nei confronti delle «notizie» conosciute a motivo del proprio ministero. La prima è costituita dall’ art. 622 c.p. e riguarda la tutela di quel particolare stato di fatto, garantito dal diritto, che è il segreto. A motivo del contesto e dello stato di necessità – non riduci- bile al solo «segreto» confessionale – in cui determinati fatti o circo- stanze vengono rivelate a un ministro «per ragione del proprio stato o ufficio» la legge penale sanziona la rivelazione «senza giusta causa» di tale notizia (art. 622 c.p.). Sanzionando penalmente la rivelazione del segreto «professionale», l’ordinamento giuridico attua una forma di tutela della libertà di religione in quanto favorisce il ricorso al sa- cerdote e agli altri ministri, attenuando il timore che quanto loro co- municato, possa essere reso di pubblico dominio «senza giusta cau- sa». L’ordinamento processuale penale italiano, poi, predispone una tutela nei confronti delle categorie di persone tassativamente elenca- te nell’art. 200 c.p.p. (cf art. 249 c.p.c.), tra queste «i ministri di con- fessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuri- dico italiano». In entrambi i casi, il consenso alla rivelazione da parte

88 A. CRESPI, La tutela penale del segreto, cit., pp. 146-147. 89 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologica, II, 2 q LXX, art. 1, n. 3. La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero»... 309 dell’avente diritto, pur costituendo una «giusta causa» di rivelazione, non obbliga, in tal senso, il depositario del segreto. L’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Revisione del Concordato del 1929, a sua volta, stabilisce che «gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». Globalmente sembra di poter affermare che si tratta di un grado accettabile di tutela, certamente nella media di quella assicurata in sede concordataria da parte di altri Paesi 90. Resta da definire meglio la categoria «ecclesiastico». Siamo propensi a ritenere che in questa nozione rientrino anche i religiosi, pur nella consapevolezza dei pro- blemi che si potrebbero creare – primo fra tutti la possibilità di un in- debito o discriminante sindacato da parte del giudice – ma crediamo che, con prudenza, sia proprio questa la strada da percorrere. Da ulti- mo, resta da individuare un modo non ambiguo e sicuro per esercita- re la propria facoltà di astenersi dal deporre senza ingenerare negli altri il sospetto – che potrebbe, peraltro, essere infondato – di cono- scere, ma non voler dire. Tenendo presente che il rispetto che si esi- ge dall’autorità statale è direttamente proporzionale al rispetto con cui i sacerdoti, per primi, «trattano» questa materia così delicata.

ALBERTO PERLASCA piazza Grimoldi, 5 22100 Como

90 Un’ampia panoramica è contenuta in G. ROBBERS (a cura di), Stato e Chiesa nell’Unione Europea, Mi- lano 1996. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 310-329 Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy di Carlo Redaelli

Con la legge 31 dicembre 1996, n. 675 1 ha fatto prepotentemen- te il suo ingresso nell’ordinamento italiano, avendo immediati rifles- si nell’opinione pubblica e nella vita quotidiana dei cittadini (som- mersi da richieste di autorizzazioni, da moduli da firmare e da casel- le da barrare), la tematica della tutela della privacy con riferimento ai cosiddetti dati personali. Si tratta di una questione arrivata tardi in Italia e diventata improvvisamente urgente non tanto per un’accre - sciuta sensibilità al problema della garanzia dei diritti della persona, ma più banalmente per consentire all’Italia di entrare nello «spazio Schengen», costituito dai Paesi dell’Unione europea tra i quali, a fronte di determinate garanzie fornite anche dallo scambio di dati tra le autorità di polizia degli Stati, vige la libertà di circolazione tra le persone. A questa esigenza si è aggiunta anche la necessità di re- cepire una specifica e organica direttiva europea in materia 2. In ogni caso, la nuova legislazione, al di là dell’occasione immediata, ha fatto emergere e sta facendo emergere anche in Italia tutta l’importanza e la delicatezza della tutela della riservatezza della persona in un mon- do dove le potenzialità e la diffusione delle tecnologie permettono, praticamente in ogni momento, di accumulare e confrontare una quantità notevolissima di dati relativi a ciascun cittadino, e di entra- re così agevolmente nella sfera della sua intimità e vita privata (ve-

1 Pubblicata sul Supplemento Ordinario n. 3 alla «Gazzetta Ufficiale», 8 gennaio 1997, n. 5. 2 Si tratta della Direttiva 95/46/CE del 24 ottobre 1995, pubblicata sulla «Gazzetta ufficiale delle Co- munità europee», 23 novembre 1995, n. L. 281/31. Il recepimento della direttiva nell’ordinamento italia- no, non del tutto attuato dalla L. 675, dovrà essere completato entro tre anni. Esistono altre direttive sulla privacy per ambiti specifici (per esempio, la 97/66/CE per il settore delle telecomunicazioni). Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 311 nendo a conoscere i suoi gusti personali, ricostruendo i suoi sposta- menti ecc.) 3. Non è questa la sede per una presentazione, anche solo somma- ria, della normativa italiana 4, che è in corso di progressiva attuazione in questi mesi, attuazione accompagnata da continui interventi di ca- rattere regolamentare e interpretativo dell’apposita autorità garante 5 e dello stesso governo, che, con legge 31 dicembre 1996, n. 676, ha ricevuto una specifica delega in materia 6. Basti ricordare che il legislatore italiano ha inteso tutelare qualunque trattamento 7 (raccol- ta, conservazione, elaborazione, diffusione ecc.) operato su dati per- sonali (informazioni, cioè, relative a persone fisiche e – ed è un am- pliamento rispetto alla direttiva europea – anche a persone giuridi- che, enti o associazioni), tramite la gestione di banche di dati (di qualunque tipo: elettroniche, cartacee ecc.) da parte di soggetti pub- blici e privati, che si configurano come titolari del trattamento 8. La tutela viene garantita tramite una serie di condizioni poste alla ge- stione delle banche dati e al trattamento dei singoli dati, prevedendo, in particolare, diversi adempimenti a carico del titolare 9, alcuni rivol- ti al soggetto interessato 10 (informativa, ottenimento del consenso,

3 Basta, ad esempio, un cellulare acceso per identificare dove si trova in quel momento il suo possesso- re o, se un cittadino è titolare di una carta di credito, è immediato ricostruire quali siano stati i suoi ac- quisti, quali siano quelli più ricorrenti (che manifestano quindi interessi e gusti personali, con la possi- bilità poi di inviargli pubblicità «mirata»), quali siano i suoi spostamenti a partire dai luoghi dove ha uti- lizzato la carta (nota bene: si tratta di esempi tecnologicamente possibili, ma giuridicamente limitati dalla L. 675 e da altre normative esistenti o in via di approvazione). 4 Per una sintetica e puntuale presentazione della legge si può vedere, tra i tanti articoli apparsi, A. NO- VA, La tutela del diritto alla riservatezza nel trattamento dei dati personali, in «Aggiornamenti sociali» 49 (1998) 259-272. Un’esposizione più analitica si può trovare, ad esempio, in G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza. La «privacy» nella Società dell’Informazione, Milano 1997 e in AA.VV., La disci- plina del trattamento dei dati personali, a cura di V. Cuffaro - V. Ricciuto, Torino 1997. 5 Il Garante per la privacy ha un proprio bollettino denominato Cittadini e società dell’informazione, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’informazione e l’editoria (Roma, via Po, 14 - t. 06/85981) e un sito internet (http://www.privacy.it). 6 La delega dovrebbe scadere il 23 luglio 1998. I decreti legislativi di modifica della L. 675/97 finora adottati (giugno 1998) sono: 9 maggio 1997, n. 123; 28 luglio 1997, n. 225; 8 maggio 1998, n. 135; 13 maggio 1998, n. 171. 7 Il termine trattamento e quelli successivamente evidenziati sono definiti dalla stessa legge nel com- ma 2 dell’art. 1. 8 Si intende per titolare «la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità del trattamento di dati personali, ivi compreso il profilo della sicurezza» (art. 1, c. 2, lett. d). Alla figura del titolare si affianca quella del responsabile, «la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica ammi- nistrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo preposti dal titolare al trattamento di dati personali» (lett. e): titolare e responsabile possono coincidere. 9 E dell’eventuale responsabile. 10 Per interessato si intende «la persona fisica, la persona giuridica, l’ente o l’associazione cui si riferi- scono i dati personali» (art. 1, c. 2, lett. f). 312 Carlo Redaelli possibilità di chiedere cancellazione dalla banca dati ecc.) e altri rife- riti all’autorità garante, che è chiamata appunto a «garantire» la cor- retta gestione dei dati, i diritti dei diversi soggetti, l’attuazione della normativa, e così via (da qui, in molti casi, la necessità di notificare al Garante l’apertura di una banca dati, di ottenerne l’autorizzazione per determinati dati ecc.). Intento di questo contributo è quello di affrontare la tematica della tutela delle persone e degli altri soggetti, in riferimento ai dati personali sotto il profilo della libertà religiosa. In particolare tre sono le questioni da approfondire: come vengono tutelati i dati di persone e altri soggetti che abbiano attinenza alla sfera della religiosità; se e in che modo sono interessati dalla normativa gli organismi a caratte- re religioso e come venga garantita la loro autonomia e libertà di azione, organizzazione ed espressione; se e in che modo è soggetta a queste norme la Chiesa cattolica in tutte le sue articolazioni e in rela- zione all’ampio spettro delle sue attività. Il riferimento alla Chiesa cat- tolica porterà, infine, a valutare l’opportunità, anche a prescindere dall’esistenza di disposizioni civili in materia, che l’ordinamento cano- nico, in particolare quello vigente per la Chiesa italiana, sia più atten- to al tema della salvaguardia della riservatezza dei propri aderenti.

La tutela dei dati concernenti le convinzioni religiose dei singoli soggetti Vista l’ampiezza della definizione di dato personale offerta dal legislatore italiano – «qualunque informazione relativa a persona fisi- ca, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabi- li, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra infor- mazione, ivi compreso un numero di identificazione personale» (art. 1, c. 2, lett. c, L. 675/96) – è evidente che tutte le informazioni con- cernenti le convinzioni e le attività di carattere religioso di un sog- getto siano da ritenersi dati personali e, pertanto, da trattarsi secon- do la normativa sulla riservatezza. Le informazioni concernenti la sfera religiosa non possono, però, essere assimilate a qualunque al- tra informazione. Esse, infatti, appartengono a due tipologie di dati che meritano particolare tutela: quella dei dati che toccano gli aspet- ti più intimi della persona, come, ad esempio, quelli concernenti le convinzioni filosofiche o la salute, e quella dei dati che possono offri- re più facilmente occasione per discriminazioni, come quelli relativi all’origine razziale o etnica o alle appartenenze politiche o sindacali. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 313

Il legislatore italiano (ed europeo) ha di conseguenza inserito i dati personali riferiti alle convinzioni religiose tra quelli che vengono de- nominati dati sensibili, categoria che ricomprende le due tipologie indicate. Afferma il comma 1 dell’art. 22 della L. 675/96: «I dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a par- titi, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, possono essere oggetto di trattamento solo con il consen- so scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante» 11.

Come si evince dalle ultime parole citate, il meccanismo di spe- cifica tutela dei dati sensibili, compresi quelli concernenti le convin- zioni religiose, si basa su due strumenti: il consenso scritto da parte dell’interessato e l’ottenimento di una specifica autorizzazione da par - te del Garante. Il primo mezzo affida all’interessato la decisione circa la conoscibilità o meno di aspetti particolari della sua personalità; il secondo, invece, attiva, in modo specifico rispetto al trattamento di al- tri dati, la responsabilità di controllo del Garante, che può stabilire e imporre determinati accorgimenti e misure atti a proteggere i diritti degli interessati (cf art. 22, c. 2). La tutela offerta alla libertà religiosa da parte della normativa che si sta esaminando è, quindi, ben delimi- tata. In pratica consiste nel dare la possibilità agli interessati di non far conoscere le proprie convinzioni religiose e, nel caso in cui deci- dessero diversamente, di offrire loro una particolare garanzia circa l’utilizzo di queste informazioni (oltre alle tutele previste per i dati co- muni, circa la loro esattezza, sicurezza, non diffusione se non dietro consenso ecc.). Non va dimenticata, del resto, la finalità della norma- tiva sulla privacy, ben indicata dall’art. 1 della legge: «La presente legge garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale; garantisce altresì i diritti delle persone giuridiche e di ogni altro ente o associazione» 12.

11 I commi seguenti dello stesso articolo e gli artt. 23-25 offrono ulteriori precisazioni circa il tratta- mento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici, giornalisti, eccetera. 12 Lo scopo della legge, indicato da queste parole, evidenzia il passaggio, avvenuto negli ultimi decenni in sede dottrinale e legislativa, da un concetto di privacy intesa come riservatezza in senso stretto («right to be let alone» dicono gli americani: diritto a essere lasciati soli), a un concetto che tocca la più ampia sfera dei diritti della persona e della sua identità (cf F. MACARIO, La protezione dei dati personali nel dirit- to privato europeo, in AA.VV., La disciplina del trattamento ..., cit., pp. 18-19). 314 Carlo Redaelli

La libertà religiosa ha certamente un contenuto molto più am- pio di ciò che viene preso in considerazione da questa normativa. Es- sa, come ricorda lo stesso Concilio (DH 2), consiste nel non essere forzati ad agire contro coscienza e nel non essere impediti ad agire secondo coscienza, manifestando le proprie convinzioni religiose an- che pubblicamente e in forma associata. In un certo senso, all’ade- rente a una confessione religiosa interessa maggiormente poter ma- nifestare liberamente le proprie convinzioni nel rispetto da parte degli altri e senza che da ciò gli derivino discriminazioni, più che na- sconderle o tenerle comunque riservate, e qualcosa di analogo va det- to per chi professa determinate idee filosofiche o politiche. Se que- sto è certamente vero, resta però il fatto che i motivi ispiratori sog- giacenti alla legge sembrano essere, oltre a quello di garantire un minimo di intimità alla persona 13, anche quello, basato certamente su una considerazione molto realistica delle vicende umane, che per evitare discriminazioni il modo migliore sia quello di tenere riservati i dati che possono esporre maggiormente la persona a difficoltà o, comunque, di tutelare in modo specifico un loro utilizzo. Non per niente il tema delle convinzioni religiose è stato legato, da parte del legislatore, a quello dell’origine razziale ed etnica e a quello dell’ap - partenenza politica 14. Si può quindi concludere che la nuova normativa sulla privacy non ha come scopo la tutela dei dati personali di carattere religioso con riferimento a tutto ciò che definisce la libertà religiosa, ma solo la salvaguardia della riservatezza della persona anche in rapporto al- le sue convinzioni religiose, che possono esporla, più di altri elemen- ti che caratterizzano la personalità di ciascuno (per esempio i gusti estetici o le passioni sportive), a interventi discriminatori.

13 Con il rischio, però, che ciascuno costruisca una propria identità pubblica (o anche più identità a seconda dei soggetti con cui entra in contatto) non necessariamente coincidente con la sua vera iden- tità. La tutela dell’intimità delle persone non deve però cadere nell’estremo di negare o nascondere da- ti, che sono fatti storici e sono ormai, comunque, parte integrante della persona (sul diritto all’oblio come parte del diritto alla privacy, cf G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza..., cit., pp. 261-265). 14 I commentatori sottolineano il paradosso per cui dati tipicamente pubblici, almeno in un contesto democratico, quali quelli concernenti le convinzioni politiche, sindacali, filosofiche, religiose ottengano dal legislatore il massimo di protezione privata venendo considerati dati sensibili al pari delle informa- zioni concernenti la salute o la sfera della sessualità. Si tratta di un paradosso, però, inevitabile, vista la facilità con cui questi dati possono essere utilizzati per fini discriminatori (cf V. RICCIUTO, Comunicazio- ne e diffusione dei dati personali e trattamento di dati particolari, in AA.VV., La disciplina del trattamento ..., cit., pp. 301-303, che cita le riflessioni di S. Rodotà e di G. B. Ferri). Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 315

Gli organismi a carattere religioso e la tutela della privacy

L’attuale quadro normativo italiano In quanto possibili soggetti interessati 15, anche gli organismi a carattere religioso (associazioni religiose, confessioni religiose in senso proprio e loro articolazioni) hanno tutti i diritti, previsti dalla normativa, da far valere nei confronti dei titolari delle banche dati in cui le informazioni che li riguardano fossero inserite. Il problema si pone, invece, quando questi organismi sono titola- ri 16 a loro volta di banche di dati riferiti a loro aderenti (ad esempio una semplice lista di associati) o concernenti persone che comunque entrano in contatto con loro. Nella versione originaria della L. 675/96 non si prevedeva alcuna norma specifica per gli organismi a carattere religioso. La conseguenza era che essi, come qualsiasi altro titolare di banche dati, erano tenuti a tutti gli adempimenti previsti per tali soggetti: notificazione della banca dati al Garante, informativa e ri- chiesta di consenso presso l’interessato, obbligo di gestione corretta e sicura ecc. A cui si aggiungevano inevitabilmente, vista la qualifica- zione tipicamente religiosa, anche le norme previste per i dati sensi- bili: il consenso scritto degli interessati e l’autorizzazione del Garante. Una prima attenuazione degli obblighi è intervenuta con il se- condo decreto legislativo correttivo e integrativo della legge 675 (D. Lgs. 28 luglio 1997, n. 255). Questo provvedimento, infatti, ha intro- dotto nell’art. 7 della legge un nuovo comma 5-ter, che prevede una serie di esenzioni dall’obbligo di notificazione dell’inizio del tratta- mento di dati in riferimento a determinate categorie. Tra l’altro viene esonerato il trattamento «effettuato da associazioni, fondazioni, comitati anche a carattere politico, fi- losofico, religioso o sindacale, ovvero da loro organismi rappresentativi, isti- tuiti per scopi non di lucro e per il perseguimento di finalità lecite, relativa- mente a dati inerenti gli associati e ai soggetti che in relazione a tali finalità hanno contatti regolari con l’associazione, la fondazione, il comitato o l’orga - nismo, fermi restando gli obblighi di informativa degli interessati e di acqui- sizione del consenso, ove necessario» (lett. l).

Con l’espressione «associazioni, fondazioni, comitati» il legisla- tore intende, evidentemente, riferirsi a tutte le persone giuridiche

15 Cf la definizione di questo termine riportata alla nota 10. 16 La definizione di titolare è presentata nella nota 8. 316 Carlo Redaelli private, anche se non rientranti nella classica tipologia del libro I del codice civile, che qui viene ripresa. Sono, quindi, compresi anche gli enti privati a caratterizzazione religiosa, quali gli enti ecclesiastici. Non si nominano, però, le confessioni religiose in quanto tali. Va poi osservato che l’esenzione non riguarda tutti gli obblighi prescritti dalla legge, ma solo quello della notificazione, cioè la segnalazione al Garante dell’esistenza del trattamento di dati personali e delle carat- teristiche di esso. Il legislatore ha comunque ritenuto opportuno ri- cordare che restano in essere gli obblighi di informativa e di acquisi- zione del consenso degli interessati. Non si tratta, quindi, di un’agevolazione particolarmente significativa, anche perché in pre- senza di dati sensibili, quali quelli trattati da un’organizzazione reli- giosa, permane comunque il molto più impegnativo obbligo di otte- nere l’autorizzazione da parte del Garante, a norma dell’art. 22 della legge. Del resto, il comma 5-quater (sempre dell’art. 7), introdotto anch’esso dal D. Lgs. 255/97, condiziona l’avvalersi dell’esonero al rispetto delle disposizioni delle autorizzazioni del Garante, rilasciate con le modalità previste dal comma 7 dell’art. 41 17, cioè a carattere generale per specifiche tipologie. Una seconda agevolazione è intervenuta, appunto, con l’emana - zione dell’autorizzazione generale n. 3, rilasciata con provvedimento del Garante il 28 novembre 1997, con validità dal 30 novembre 1997 al 30 settembre 1998 18. Va osservato che le autorizzazioni previste dal l’art. 41 hanno lo scopo di facilitare l’avvio dell’attuazione della normativa sulla privacy, evitando che il Garante sia sommerso da ri- chieste di autorizzazioni, senza possibilità di rispondervi. Questo ti- po di autorizzazioni vale per tutti i soggetti, titolari di trattamenti di dati, che si trovano nelle condizioni previste. La n. 3, in particolare, autorizza il trattamento di dati sensibili da parte degli organismi di ti- po associativo e delle fondazioni. I titolari sono individuati al punto n. 1: oltre alle fondazioni e altri organismi senza scopo di lucro (com- prese le nuove ONLUS: organizzazioni non lucrative di utilità sociale) e alle cooperative sociali e società di mutuo soccorso, si prendono in considerazione le

«associazioni anche non riconosciute, ivi comprese le confessioni religiose e le comunità religiose, i partiti e i movimenti politici, le associazioni e le orga-

17 Comma sostituito all’originale dall’art. 4 del D. Lgs. 9 maggio 1997, n. 123. 18 Cf «Gazzetta Ufficiale», 29 novembre 1997, n. 279. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 317

nizzazioni sindacali, i patronati, le associazioni di categoria, le organizzazioni assistenziali o di volontariato, nonché le federazioni e confederazioni nelle quali tali soggetti sono riuniti in conformità, ove esistenti, allo statuto, all’at - to costitutivo o ad un contratto collettivo».

Questi soggetti sono autorizzati a trattare i dati sensibili (con l’eccezione di quelli relativi allo stato di salute e alla vita sessuale, per i quali esiste l’autorizzazione generale n. 2), attinenti «a) agli associati, ai soci e, se strettamente indispensabile per il persegui- mento delle finalità di cui al punto 1) [quelle statutarie], ai relativi familiari e conviventi; b) agli aderenti, ai sostenitori o sottoscrittori, nonché ai soggetti che presentano richiesta di ammissione o di adesione o che hanno contatti regolari con l’associazione, la fondazione o il diverso organismo; c) ai sog- getti che ricoprono cariche sociali o onorifiche; d) ai beneficiari, agli assisti- titi e ai fruitori delle attività o dei servizi prestati dall’associazione o dal di- verso organismo, limitatamente ai soggetti individuabili in base allo statuto o all’atto costitutivo, ove esistenti».

Il trattamento dei dati deve limitarsi agli scopi statutari dell’ente e attenersi a tutte le prescrizioni della legge, oltre a quelle stabilite dall’autorizzazione del Garante (per esempio circa la possibilità di avvalersi di società per l’attuazione di alcuni adempimenti, quali la diffusione di riviste e bollettini, o quelle concernenti la stretta perti- nenza e non eccedenza dei dati rispetto agli scopi dell’ente anche ai fini della loro conservazione). Senza entrare in ulteriori particolari, quanto qui evidenziato cir- ca l’autorizzazione n. 3 nel quadro delle disposizioni della L. 675/96, porta a sottolineare in riferimento agli organismi di carattere religioso che essi: – sono compresi nella normativa, non solo come eventuali inte- ressati, ma anche come titolari di trattamenti di dati personali; – sono considerati come organismi di carattere associativo, tra i quali sono esplicitamente comprese le confessioni religiose e le comu- nità religiose; – sono tenuti senza particolari eccezioni (salvo quella circa la no- tificazione) alle disposizioni di legge (sicurezza, informativa agli inte- ressati, ottenimento del loro consenso ecc.), particolarmente onerose nel caso dei dati sensibili, tra cui, come si è ricordato più volte, vanno ricondotte le informazioni relative alle convinzioni religiose. Stando così le cose, la conclusione è che il legislatore italiano e, a maggior ragione, il Garante non sembrano aver colto la peculiarità degli organismi a carattere religioso e, pertanto, paiono non aver te- 318 Carlo Redaelli nuto nel debito conto la libertà religiosa dei cittadini in quanto asso- ciati. Non è possibile, infatti, porre a carico di organismi che per lo- ro natura devono manifestare un carattere religioso e che si basano sulla libera adesione dei cittadini propriamente per questa loro carat- terizzazione, gli stessi obblighi di tutela della privacy in materia reli- giosa previsti per soggetti di natura commerciale o comunque con fi- nalità non religiose, per i quali la conoscenza non autorizzata delle convinzioni di fede dei cittadini potrebbe portare a interventi di sfrut- tamento commerciale di esse, se non a iniziative discriminatorie. In altre parole, quando un cittadino aderisce a una confessione religio- sa, è ovvio che accetta l’organizzazione di essa, la sua attività, le sue iniziative ecc. Per quale motivo i dati personali necessari alla vita del - l’organismo religioso dovrebbero essere sottoposti a consenso, infor- mativa, autorizzazione, eventuale cancellazione? Certamente va ga- rantita l’assoluta libertà di adesione di un cittadino a una confessione religiosa, come pure la possibilità di uscita da essa, ma questo è prin- cipalmente un problema di libertà religiosa – del cittadino e della con- fessione – e solo in riferimento a essa ha riflessi sulla privacy 19.

La libertà religiosa delle organizzazioni religiose e la privacy nella direttiva europea La mancata attenzione del legislatore italiano alla situazione particolare delle organizzazioni religiose in riferimento ai problemi della privacy, in parte colmata in modo discutibile dall’autorizzazione generale del Garante (che però ha valore provvisorio), risulta ancora più evidente in riferimento a quanto stabilito dalla direttiva europea, finora non recepito nell’ordinamento italiano 20. Due sono in essa i

19 In sede di adesione a una confessione religiosa, le conseguenze sulla privacy dovrebbero consistere nell’implicita accettazione del trattamento dei dati personali secondo le regole della stessa confessione. In occasione dell’eventuale uscita dalla confessione religiosa, dovrebbe essere riconosciuta all’interessato non tanto la cancellazione di ogni dato attestante la sua precedente adesione e perma- nenza in essa (nota bene: come già accennato in una precedente nota, un conto è il dato e un conto è il fatto storico), quanto piuttosto il diritto a non essere più considerato appartenente a essa anche sotto il profilo dei dati personali (in concreto: cancellazione da indirizzari correnti, non invio di pubblicazioni o di altro materiale informativo o divulgativo, non sollecitazione a partecipare a iniziative o a campagne di raccolta di offerte ecc.). 20 Per un commento analitico alla direttiva, cf F. MACARIO, La protezione dei dati personali nel diritto privato europeo, in AA.VV., La disciplina del trattamento..., cit., pp. 5-59; G. BUTTARELLI, Banche dati e tu- tela della riservatezza..., cit., pp. 38-71. Agli stessi testi ci si può riferire per un quadro della normativa internazionale ed europea in tema di privacy. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 319 passaggi da tenere presenti 21. Anzitutto la premessa alla direttiva che al «considerando» n. 35 afferma:

«considerando inoltre che il trattamento di dati personali da parte di pubbli- che autorità per la realizzazione degli scopi, previsti dal diritto costituzionale o dal diritto internazionale pubblico, di associazioni religiose ufficialmente riconosciute viene effettuato per motivi di rilevante interesse pubblico».

Il testo, di non facile lettura, pare riconoscere un «rilevante inte- resse pubblico» al trattamento di dati da parte di associazioni religio- se ufficialmente riconosciute, in riferimento al diritto costituzionale di ciascuno Stato e al diritto internazionale pubblico. Ci si trovereb- be di fronte a un particolare trattamento in ambito pubblico, analogo a quelli di cui parla l’art. 4 della legge italiana, che sono esentati dal- le disposizioni in essa contenute con le eccezioni relative alla corret- tezza, sicurezza, vigilanza del Garante ecc. (cf gli articoli elencati nel comma 2 dell’art. 4). Un secondo passaggio che interessa è quanto stabilito all’art. 8, paragrafo 2, lett. d) della Direttiva:

«2. Il paragrafo 1 [«Gli Stati membri vietano il trattamento di dati personali che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, l’appartenenza sindacale, nonché il trattamento di dati relativi alla salute e alla vita sessuale»] non si applica qualora: ... d) il tratta- mento sia effettuato, con garanzie adeguate, da una fondazione, un’associa - zione o qualsiasi altro organismo che non persegua scopo di lucro e rivesta carattere politico, filosofico, religioso o sindacale, nell’ambito del suo scopo lecito e a condizione che riguardi unicamente i suoi membri o le persone che abbiano contatti regolari con la fondazione, l’associazione o l’organismo a motivo del suo oggetto e che i dati non vengano comunicati a terzi senza il consenso delle persone interessate».

Viene stabilito, quindi, che gli organismi a carattere religioso possano trattare i dati, anche di natura sensibile, degli aderenti e di coloro che hanno contatti regolari con essi, con la duplice limitazio- ne delle «garanzie adeguate» e del consenso per la comunicazione a terzi. Non si tratta di sottrarre totalmente tali trattamenti alle disposi- zioni della direttiva 22 – come era previsto per tutti gli enti non-profit

21 Cf A.G. CHIZZONITI, Prime considerazioni sulla legge 675 del 1996 «Tutela delle persone e di altri sog- getti rispetto al trattamento dei dati personali», in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica» 1997/2, 379-383. 22 L’art. 18, c. 4 della direttiva stabilisce la possibilità per gli Stati membri di derogare all’obbligo della notificazione o una semplificazione della stessa in riferimento al trattamento dei dati da parte delle as- 320 Carlo Redaelli nella prima proposta di direttiva 23 –, ma di riconoscere una certa au- tonomia e semplificazione di adempimenti, a determinate condizioni, alle associazioni, fondazioni o altri organismi a carattere religioso, unitamente a quelli di natura politica, filosofica, sindacale. In conclusione si può osservare che anche la normativa euro- pea, seppur più attenta finora di quella italiana, non sembra dedicare il giusto rilievo al tema della libertà religiosa degli organismi a carat- tere religioso. Il punto di vista è sempre quello di tutelare il diritto alla riservatezza delle singole persone anche in relazione alle organiz- zazioni religiose a cui decidano di aderire. Tra l’altro – e l’osservazio - ne vale anche per la normativa italiana – l’adesione a un organismo di natura religiosa è messa sullo stesso piano di quella a un partito, a un sindacato, a un organismo a carattere filosofico. Ora, anche se è vero che per certuni il riferimento a un partito o a un sindacato può diven- tare una «fede», è però facilmente rilevabile la differenza tra una scel- ta di carattere religioso, che tocca gli aspetti più profondi della perso- nalità e che tendenzialmente coinvolge la globalità della vita del sog- getto inserendolo in una comunità confessionale, e una di carattere politico o sindacale, molto meno coinvolgente e spesso temporanea e più soggetta a mutamento 24. Di tale differenza non c’è traccia nella di- rettiva europea, se non nel citato «considerando», e tanto meno nella legislazione italiana. In altre parole, la peculiarità del fenomeno reli- gioso, con tutte le problematiche legate alla specifica libertà che deve caratterizzarlo, non è tenuta presente neppure a livello europeo.

Associazioni a carattere religioso o «confessioni religiose»? Tutela di diritto comune o mediata dal rapporto tra ordinamenti indipendenti e autonomi? Una conseguenza particolarmente delicata e preoccupante del- la mancata considerazione della peculiarità del fenomeno religioso in riferimento alla tutela della privacy in sede europea e italiana con- sociazioni di cui si sta trattando: si presuppone, quindi, che tale tipo di trattamento di dati sarebbe per sé sottoposto a notificazione (nota bene: il legislatore italiano, come si è visto, ha esonerato dall’obbligo della notificazione con il nuovo comma 5-ter dell’art. 7). 23 L’idea «non è stata accolta nella versione finale per la scelta del legislatore europeo di tutelare la pri- vacy indipendentemente dal contesto sociale, dalle modalità del trattamento, dalla natura privata o pub- blica del soggetto responsabile e così via» (F. MACARIO, La protezione dei dati personali..., cit., pp. 24-25). 24 Le scelte di natura filosofica possono essere messe più facilmente in analogia con quelle religiose, ma va tenuto presente che di solito non comportano l’adesione a un’organizzazione con proprie attività, celebrazioni, iniziative. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 321 siste nell’ignorare che, appunto in tale contesto socio-culturale, da secoli l’adesione a un credo religioso non è riducibile a un fatto pura- mente privato, né di semplice natura associativa (assimilabile all’ade - sione ad associazioni politiche, sindacali, culturali o simili). Si tratta, invece, di una realtà che ha riferimento esplicito a più confessioni re- ligiose, che si presentano con caratteri di un vero e proprio ordina- mento giuridico. Non è qui possibile anche solo accennare alle molteplici e diffe- renziate vicende che hanno interessato le confessioni religiose, i lo- ro rapporti con gli Stati e la loro configurazione giuridica nella storia dell’Europa e delle diverse nazioni europee. Ci si può limitare a offri- re qualche sintetico richiamo all’attuale situazione italiana da un pun- to di vista costituzionale. Anzitutto l’art. 7 della Costituzione repub- blicana, che afferma senza ombra di dubbio la natura di ordinamen- to giuridico primario propria della Chiesa cattolica, precisando che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indi- pendenti e sovrani». L’art. 8, poi, si riferisce alle altre Confessioni re- ligiose, riconoscendo la loro autonomia di organizzazione, purché non in contrasto con l’ordinamento italiano, e stabilisce lo strumento delle intese per la regolazione dei loro rapporti con lo Stato. Anche se per esse la natura di ordinamento giuridico primario è più discus- sa in dottrina, non viene però messa in dubbio la loro caratterizzazio- ne di ordinamenti non assimilabili a quelli di semplici associazioni interne all’ordinamento dello Stato, per le quali non avrebbe alcun senso parlare di rapporti con lo Stato sulla base di intese 25. Nel con- testo normativo dato dalla costituzione italiana, dovrebbe risultare pertanto chiaro che un intervento dello Stato in nome di una tutela della privacy dei suoi cittadini, che risultasse particolarmente inva- dente rispetto all’autonomia organizzativa propria di un ordinamento confessionale – a maggior ragione se primario – sarebbe molto di- scutibile anche sotto un profilo di costituzionalità. Ciò non significa che i diritti dei cittadini in riferimento ai dati che li riguardano non debbano essere loro assicurati anche in relazione alla loro adesione a una confessione religiosa, ma un conto è fare in modo che tale pri- vacy sia garantita, un altro è ottenere ciò senza rispettare l’autono- mia propria delle confessioni religiose e, anzi, intervenendo in modo rilevante nella loro organizzazione e nella loro vita quotidiana, come

25 Si veda una presentazione della problematica in un manuale di diritto ecclesiastico, per esempio F. 3 FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Bologna 1990 , p. 52 ss. 322 Carlo Redaelli se esse fossero una qualsiasi associazione interna all’ordinamento dello Stato. Quale può essere la via di uscita da questa situazione? Non tan- to una rinuncia dello Stato a garantire la privacy dei suoi cittadini, ma neppure un suo disimpegno nell’assicurare contemporaneamen- te la libertà religiosa anche delle confessioni religiose. La strada sembra essere piuttosto quella di porre a carico degli ordinamenti interni delle confessioni religiose la responsabilità di tutelare la pri- vacy dei propri aderenti o, comunque, delle persone che vengono in contatto con esse per motivi religiosi, rafforzando eventualmente la garanzia di un effettivo esercizio di tale responsabilità con il farla di- ventare oggetto di accordi pattizi con la Chiesa cattolica e di com- plementi alle intese per le altre Confessioni. In concreto la legisla- zione italiana in materia dovrebbe articolarsi secondo un triplice livello, garantendo la privacy dei cittadini in rapporto: agli organismi religiosi, con specifiche norme che tengano conto della peculiarità degli stessi anche rispetto ad altri fenomeni associativi e del- le normative costituzionali in materia di libertà religiosa anche in forma associata (cf soprattutto l’art. 19); alle Confessioni religio- se, con un sostanziale rinvio al loro diritto di autorganizzazione, garantito dalla Costituzione, prevedendo eventualmente che la tute- la della privacy sia oggetto delle intese con le stesse; alla Chiesa cat- tolica, con il riferimento al suo essere ordinamento indipendente e sovrano e quindi alle tutele previste dall’ordinamento canonico e riprese o, eventualmente, da riprendere in una normativa di caratte- re bilaterale 26.

26 L’ipotesi prospettata riproduce una situazione analoga a quella sviluppatasi in questi anni nella Re- pubblica Federale Tedesca. In quell’ordinamento il diritto alla riservatezza – normato già dal 1977 e ri- preso più compiutamente da una legge del 1990 – è considerato di rango costituzionale, ma le modalità della sua tutela all’interno delle confessioni religiose di diritto pubblico è lasciata alla loro responsabi- lità, sulla base del principio, pure di livello costituzionale, del loro diritto all’autogoverno (cf G. ROBBERS, La tutela giuridica delle informazioni e le Chiesa nella Repubblica Federale Tedesca, in «Qua- derni di diritto e politica ecclesiastica» 1994/1, 7-14, con una serie di critiche alla Direttiva europea dal punto di vista delle Chiese tedesche, e T. HOEREN, Kirchen und Datenschutz, Essen 1986 con una pre- sentazione analitica delle disposizioni delle Diocesi tedesche; sulla diversa situazione e i problemi in un’altra nazione a noi particolarmente vicina, cf A. CARBLANC, La protection des données en France et les Eglises, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica» 1994/1, 15-21; per tutti gli Stati europei ci si può riferire alla rassegna annuale di questione ecclesiastiche, compreso il problema della privacy, presenta- ta nella rivista «European Journal for Church and State Research - Revue européenne des relations Églises-État»). Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 323

La condizione della Chiesa cattolica in riferimento alla nor- mativa italiana concernente la tutela della privacy Prestando ora attenzione alla sola Chiesa cattolica ci si può do- mandare se e come essa sia interessata dalla normativa italiana in materia di tutela dei dati personali. La risposta deve andare nella li- nea che, a prescindere dal fatto che il legislatore italiano abbia af- frontato o no il tema delle confessioni religiose, certamente per tutto ciò che riguarda l’ordinamento interno della Chiesa essa è indipen- dente e sovrana, anche in materia di trattamento di dati personali. Tale affermazione vale se e in quanto resta riferita appunto a ciò che è specifico dell’ordinamento della Chiesa: non riguarda, invece, la Chiesa nel suo insieme e nelle sue articolazioni per tutto quanto non è riconducibile al suo ordinamento, anche se legittimamente posto in essere. Due esempi possono servire a chiarire questa affermazio- ne. Si pensi, da una parte, al registro dei battesimi, obbligatorio in ogni parrocchia: si tratta certamente di una realtà rientrante nella definizione di banca di dati offerta dalla legge 27, ma del tutto tipica dell’ordinamento canonico e, quindi, certamente, non investita dalla normativa italiana. Dall’altra, si può fare riferimento all’elenco dei fornitori o dei clienti di una libreria cattolica: in questo caso, la quali- fica «cattolica» dell’attività non la rende parte specifica dell’ordina - mento canonico, né la sottrae agli obblighi, compresi quelli concer- nenti la privacy, di qualsiasi altra libreria. Su quale testo normativo si basa la non soggezione dell’ordina - mento della Chiesa alle disposizioni della legge? Anzitutto il già cita- to art. 7 della costituzione repubblicana, ripreso dall’art. 1 dell’Accor - do di revisione del Concordato sottoscritto il 18 febbraio 1984: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impe- gnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».

Ma sono molto significativi anche i primi due commi dell’art. 2 dell’Accordo di revisione. Il primo riconosce alla Chiesa cattolica, da parte dello Stato, «la piena libertà di svolgere la sua missione pasto- rale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione» e,

27 «... si intende: a) per «banca di dati», qualsiasi complesso di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti, organizzato secondo una pluralità di criteri determinati tali da facilitar- ne il trattamento» (art. 1, c. 2, lett. a, L. 675/96). 324 Carlo Redaelli quindi, viene «assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministe- ro spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». Il comma secondo assicura «la reciproca libertà di comunicazione e di corrispondenza fra la Santa Sede, la Conferenza Episcopale Italiana, le Conferenze Episcopali regionali, i Ve- scovi, il clero e i fedeli, così come la libertà di pubblicazione e diffusione de- gli atti e documenti relativi alla missione della Chiesa».

Sottoporre la Chiesa a obblighi di notificazione, autorizzazione, controllo esterno da parte del Garante ecc., per i dati connessi ad at- tività che le sono proprie, significherebbe non rispettare la sua piena libertà di azione e organizzazione e anche limitare la sua libertà di comunicazione e di corrispondenza interna, che inevitabilmente ha spesso per contenuto dati personali 28. Se, come dovrebbe risultare chiaro da queste considerazioni, la Chiesa cattolica come ordinamento non è interessata dalla normativa sulla privacy, non va, però, trascurata l’accresciuta attenzione circa questi temi, non solo da parte dei legislatori, ma anche dei comuni cit- tadini e, quindi, dei credenti. È, quindi, opportuno verificare se la vi- gente normativa canonica offra sufficienti tutele alla privacy, alla luce delle nuove acquisizioni e sensibilità e se possa essere utile un even- tuale rafforzamento di essa in materia. In caso di risposta affermativa a quest’ultima questione, si potrà procedere con un atto normativo in- terno all’ordinamento canonico che potrà essere portato semplice- mente a conoscenza dello Stato italiano o, anche, formare oggetto di una qualche forma di normativa pattizia 29, che, da parte dello Stato, ri- badisca il riconoscimento della piena autonomia della Chiesa anche in questo campo, e, da parte di essa, manifesti il suo impegno a massi- mizzare le tutele alla privacy interne all’ordinamento canonico, l’asso- luto rispetto della libertà religiosa e dell’intimità della persona anche in caso di uscita dalla Chiesa e la sua consapevolezza di essere sog- getta alle leggi dello Stato per tutti i trattamenti di dati posti in essere al di fuori di quelli riconducibili all’ordinamento canonico.

28 Si pensi al caso di una nomina o di una dispensa. 29 Potrebbe essere utilizzato il comma 2 dell’art. 13 dell’Accordo di revisione del Concordato («Ulterio- ri materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti, sia con intese tra le competenti autorità dello Sta- to e la Conferenza Episcopale Italiana»); oppure, qualora si ritenesse che il problema della privacy pos- sa essere ricondotto all’interno della questione della libertà di comunicazione e corrispondenza, utiliz- zare la strada della Commissione paritetica di carattere interpretativo prevista dall’art. 14. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 325

La tutela della privacy-intimitas nell’attuale ordinamento canonico. Un’ipotesi di suo rafforzamento normativo per la Chiesa italiana

Le attuali disposizioni canoniche Il tema della privacy non è estraneo all’ordinamento della Chie- sa. Il Codice di diritto canonico tutela, infatti, il diritto alla riservatez- za dei fedeli con alcune disposizioni. Fondamentale è il can. 220, che, all’interno dell’elencazione de- gli obblighi e dei diritti di tutti i fedeli (cann. 208-223), stabilisce: «Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria in- timità» 30. Certamente ciò che più interessa da vicino il tema della ri- servatezza, e del conseguente trattamento dei dati personali che la possono coinvolgere, è la seconda parte del canone, che fa riferi- mento alla intimitas. Non è un caso che questo termine venga reso nella traduzione americana del Codice con privacy 31. Ma anche la prima parte del canone può riguardare la problematica dei dati per- sonali: la buona fama di una persona, infatti, può essere incrinata dal- la diffusione indiscriminata e comunque non legittima di dati e infor- mazioni su di essa. È intuibile, però, che sia il tema della buona fama che quello dell’intimità non siano riducibili solo a una questione di trattamento e diffusione di dati, anche se questo è un aspetto da te- nere presente. Di fatto l’unica volta in cui il Codice rinvia al can. 220 pare fare riferimento alla possibile violazione dell’intimità personale tramite l’utilizzo di tecniche di analisi e la consulenza di esperti, più che tramite il trattamento di dati. È quanto previsto nel can. 642, con- cernente la questione dell’ammissione al noviziato. Si dispone che «la salute, l’indole e la maturità siano anche verificati, all’occorrenza, da esperti, fermo restando il disposto del can. 220» 32.

30 La disposizione del can. 220 è molto simile a quanto affermato dall’art. 12 della Dichiarazione Uni- versale dei Diritti dell’Uomo (cf L. CHIAPPETTA, Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pasto- rale, I, Napoli 1988, p. 283). 31 Cf The Code of Canon Law. A text and Commentary, a cura di J.A. Coriden, T.J. Green, D.E. Heint- schel, New York - Mahwah 1985, pp. 152-153. 32 Il diritto alla buona fama, di cui al can. 220, trova una protezione penale nel can. 1390 § 2 (nota bene: anche il canone successivo merita attenzione in tema di dati personali, perché tratta del delitto di falso circa i documenti ecclesiastici). 326 Carlo Redaelli

Più affini alle disposizioni sui dati, sono i canoni relativi agli ar- chivi, in particolare quelli diocesani e quelli parrocchiali. I cann. 486-491 sono particolarmente preoccupati della conservazione dei documenti anche per motivi storici (cf il can. 491, che prescrive la necessità di un archivio storico diocesano), oltre che per garantire una corretta amministrazione nella Chiesa e una tutela dei suoi di- ritti (cf il can. 486 e il can. 1284 § 2, 9°, che prescrive il deposito dei documenti originali concernenti l’amministrazione dei beni nell’ar - chivio diocesano). Vengono, però, date anche disposizioni chiara- mente ispirate dalla necessità di tutelare le persone coinvolte, oltre che la riservatezza necessaria all’agire della Chiesa. Si stabiliscono pertanto norme circa la chiusura e la custodia dell’archivio, ma nel- lo stesso tempo si riconosce un diritto di accesso – a precise condi- zioni – da parte degli interessati (cf can. 487). Si prescrive anche l’obbligo di esistenza di uno specifico archivio per i documenti che devono essere conservati sotto segreto (cann. 489-490) 33, anche per un motivo di tutela della buona fama (si veda su questa linea, in par- ticolare, la disposizione circa la periodica distruzione dei documenti concernenti cause criminali, contemperata, però, dalla necessità, ispirata in questo caso dal desiderio della verità storica, di conserva- re «un breve sommario del fatto con il testo della sentenza definiti- va»: can. 489 § 2). A livello parrocchiale, il Codice presenta un elenco di libri, da completare eventualmente con una delibera della Conferenza episco- pale 34, che devono essere conservati nell’apposito archivio (can. 535). Si tratta di registri che per la maggior parte hanno un contenuto ri- conducibile a dati personali, in particolare il libro dei battezzati che nell’ordinamento canonico ha la funzione di un vero e proprio regi- stro di anagrafe, contenendo tutti i dati relativi allo stato canonico dei fedeli. Il Codice non si preoccupa di offrire particolari tutele agli inte- ressati, se non prescrivendo che i libri parrocchiali non vadano in ma- no a estranei (cf can. 535 § 4), oltre che dando particolari disposizioni per il matrimonio segreto (che non va annotato nei registri parroc-

33 I casi in cui è prescritta la conservazione di atti e documenti nell’archivio segreto sono indicati dai cann. 1082; 1133; 1339 § 3; 1719. 34 In Italia sono state assunte, da parte della Conferenza episcopale italiana (CEI), la delibera n. 6, con- cernente i libri obbligatori da aggiungere a quelli prescritti dal Codice (registro delle cresime, registri dell’amministrazione dei beni e registro dei legati), e la delibera n. 7, relativa ai libri raccomandati (re- gistro dello status animarum, registro delle prime comunioni, registro della cronaca parrocchiale): cf il testo in ECEI 3, nn. 1594-1595. Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 327 chiali, ma solo in uno speciale registro da conservare nell’archivio se- greto: cf can. 1133) e per le adozioni (cann. 110 e 877 § 3) 35. Le normative codiciali possono essere riprese e «rafforzate» da disposizioni del diritto particolare, a livello di Conferenza episcopale e di singola diocesi. Ad esempio, il Decreto generale della CEI sul matrimonio canonico (5 novembre 1990) offre delle indicazioni a tu- tela della riservatezza circa «le annotazioni rilevanti al fine della vali- da o lecita celebrazione del matrimonio e quelle relative alle adozio- ni», che «devono essere trasmesse d’ufficio e in busta chiusa al par- roco che conduce l’istruttoria» (n. 7) 36.

Una possibile integrazione dell’ordinamento canonico circa la tutela dei dati Da quanto qui esposto si può concludere che l’ordinamento ca- nonico non manca di attenzione al tema della tutela dell’intimità del- la persona. Occorre, però, riconoscere che il punto di vista da cui è considerata non è coincidente con quello delle normative europea e italiana. L’ordinamento canonico, infatti, non ha come attenzione pri- maria in questo campo l’interferire il meno possibile nella sfera del - l’intimità di ciascuna persona. Suo principale interesse è, invece, la verità dello stato canonico dei fedeli nel presente e nella storia, ve- rità che non può essere modificata o annullata anche quando ci siano seri motivi – la buona fama dei fedeli, ma pure il pericolo di scandalo – per mantenerla coperta da riserbo, se non persino da segreto. In queste circostanze, più che intervenire sui dati personali (salvo i casi sopra ricordati), l’ordinamento canonico dispone circa il comporta- mento delle persone: per esempio, dando la possibilità di continuare l’esercizio dell’ordine anche a chi è impedito da irregolarità «se in- comba il pericolo di grave danno o infamia» (can. 1048) o sospen- dendo l’obbligo di osservare una pena latae sententiae non dichiarata né notoria, sempre per analoghi motivi (cf can. 1352, § 2). Per com-

35 In materia è intervenuta anche la delibera della CEI n. 18, che in pratica prescrive, salvo il caso di utilizzo per matrimonio, di rilasciare il certificato di battesimo «omettendo ogni riferimento alla pater- nità e maternità naturale e all’avvenuta adozione» (cf ECEI 3, n. 1978). 36 Inoltre si ricorda nello stesso numero che «il parroco della parrocchia del battesimo e il parroco che conduce l’istruttoria sono tenuti al segreto d’ufficio» (n. 7, ECEI 4, n. 2621). Sempre la CEI ha approva- to uno Schema-tipo di regolamento degli Archivi ecclesiastici italiani che all’art. 38 § 2 precisa: «La con- sultazione di documenti definiti come riservati o relativi a situazioni private di persone può concedersi solo su previa ed esplicita autorizzazione da parte dell’Ordinario, apposta sulla domanda presentata dal richiedente» (cf «Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana» 1997, p. 235). 328 Carlo Redaelli prendere questo punto di vista occorre, naturalmente, riferirsi ai prin- cipi fondamentali su cui si basa il diritto della Chiesa. Se la salus ani- marum è la suprema lex nella Chiesa (cf can. 1752), è spiegabile che tutto l’ordinamento consideri tale salvezza e, quindi, la verità di cia- scuno nei confronti di Dio – per quanto umanamente conoscibile –, non un affare privato dei fedeli, ma il fine dell’intera compagine eccle- siale. Si capisce, quindi, la preoccupazione della Chiesa circa tutto quanto è necessario per tale salvezza, pur nel doveroso rispetto del- l’intimità di ciascuno. Tenuto conto di ciò, può risultare molto utile adottare, almeno nel contesto della Chiesa italiana, seguendo in ciò l’esperienza di al- tre Chiese 37, una normativa particolare che rafforzi il dettato genera- le del can. 220 sotto il profilo della privacy come intesa dalla legisla- zione europea e italiana. L’opportunità di tale intervento è duplice. Anzitutto per aggiornare l’ordinamento della Chiesa alle nuove esi- genze, emerse nel contesto culturale occidentale, di tutela della per- sona in riferimento ai dati che la riguardano. Inoltre, per ribadire la competenza ecclesiale in materia (naturalmente all’interno del pro- prio ambito), in consonanza con il dettato costituzionale e con le di- sposizioni concordatarie, garantendo, però, nel contempo, in collega- mento con l’ordinamento italiano, i basilari diritti dei credenti in quanto cittadini. In concreto, ci si potrebbe avvalere della possibilità prevista dal can. 455 § 1 circa l’emissione di decreti generali da parte della Con- ferenza episcopale per speciale mandato della Sede Apostolica. Con- tenutisticamente il decreto potrebbe disporre su alcuni punti, anche riprendendo indicazioni della normativa europea e italiana. A titolo non esaustivo, le materie da trattare potrebbero essere: la correttez- za e la sicurezza dei dati e, in casi specifici, la loro segretezza; la ge- stione, conservazione e accessibilità degli archivi ecclesiastici, parti- colarmente di quelli su supporto informatico e l’eventuale loro colle- gamento (per esempio tra archivi parrocchiali e archivio diocesano); la limitazione della raccolta di dati personali ai soli casi previsti dal - l’ordinamento (cf i vari registri) e a tutto quanto riferito alle attività propriamente ecclesiali (quindi, ad esempio, non solo il registro del- le prime comunioni, ma anche l’elenco dei frequentanti i corsi di ca- techesi); la possibilità, più o meno condizionata, di conoscibilità di

37 In particolare quella tedesca, che ha adottato già da tempo una specifica normativa (cf sul tema i te- sti citati alla nota 26). Tutela della libertà religiosa e normativa civile sulla privacy 329 dati che li riguardano da parte dei singoli fedeli; le conseguenze in tema di dati personali derivanti dall’abbandono formale della Chiesa cattolica 38; l’esclusione in via generale della diffusione di dati al di fuori dell’ordinamento canonico: qualora ci fossero motivi particolari che richiedessero o giustificassero una diffusione al di fuori dell’or - dinamento, dovrà essere richiamata la scrupolosa osservanza delle disposizioni delle leggi civili in merito, a cominciare dal consenso degli interessati (ad esempio per trasmettere l’elenco sopra citato a case editrici cattoliche è evidentemente necessario il consenso degli interessati e tutto quanto previsto dalla legge italiana); il riconosci- mento della soggezione alle normative civili per tutti i casi in cui gli enti e le organizzazioni della Chiesa agiscono in materie non specifi- che dell’ordinamento canonico o comunque non collegate a esso (si pensi a un ente che svolga un’attività commerciale). L’adozione di un decreto generale di questo tipo dovrebbe esse- re portata a conoscenza dello Stato italiano, se non – qualora se ne rilevasse l’opportunità, alla luce delle considerazioni a cui sopra si accennava – essere oggetto di un rapporto più o meno formalmente pattizio tra di esso e la Chiesa Cattolica (Santa Sede o CEI).

CARLO REDAELLI piazza Fontana, 2 20122 Milano

38 Le conseguenze dovrebbero essere del tipo di quelle indicate alla nota 19. Editoriale

«Il parroco […] curi che i fedeli laici siano istruiti nelle verità della fede, so- prattutto attraverso l’omelia, da tenersi nei giorni di domenica e nelle feste di precetto, come pure attraverso la formazione catechistica da impartire» (can. 528 § 1).

Il prescritto del Codice sulla funzione di insegnare che il parro- co è chiamato a esercitare nella parrocchia di cui è pastore proprio, richiama in prima battuta l’omelia come strumento di esercizio del magistero parrocchiale. È forse a partire da questo “principio di realtà” che è comprensibile tutta l’ampia problematica che, sotto di- versi profili, ma soprattutto sotto quello canonistico, si è venuta svi- luppando in questi anni. Ci si è interrogati più volte sul contenuto, sulla forma e sul protagonista dell’omelia. Soprattutto nell’ambito ca- nonistico si è ripetutamente ribadita l’esclusività del ministero del- l’omelia da parte del ministro sacro, vescovo, presbitero o diacono. Questo “principio di realtà” comprende una triplice constatazio- ne: anzitutto che l’omelia è per moltissimi fedeli oggi l’unico mezzo per accostarsi al messaggio della Chiesa in un modo sufficientemen- te articolato e argomentato, che espone il vangelo di Cristo in relazio- ne alla vita personale e sociale degli uomini di oggi. È logico e assolu- tamente prevedibile pertanto che la Chiesa punti la propria peculia- rissima attenzione su questo strumento di evangelizzazione. Non era lo stesso nei tempi in cui l’annuncio cristiano conosceva molteplici oc- casioni di divulgazione, e forse non a caso in quei tempi la stessa omelia non era così diffusa di fatto e di diritto. In secondo luogo l’omelia cade in un contesto particolare quale quello della celebrazione eucaristica. Il can. 528 § 1, prescrivendola al parroco nei giorni di domenica e di festa di precetto, lo suppone 338 Editoriale pienamente. Se la presidenza della celebrazione eucaristica è rigoro- samente riservata al sacerdote validamente ordinato, vi è una logica nel riservare l’omelia al medesimo ministro sacro. E ciò è ravvisabile sia nella necessità di rafforzamento della riserva al sacerdote della presidenza della celebrazione eucaristica (contro la progressiva pra- tica di erosione da parte dell’esercizio di ministeri laicali) sia nella necessità di una coerenza nella delineazione della presidenza della celebrazione eucaristica, che non può limitarsi alla mera recita della prece eucaristica, ma deve svolgersi soprattutto in quell’annuncio autorevole e personale del ministro, qual è appunto l’omelia. In terzo luogo l’omelia costituisce un tassello rilevante di quella vita parrocchiale, in cui oggi in modo particolare si costituisce l’e- sperienza cristiana simpliciter. La direzione magisteriale e pastorale della parrocchia passa oggi soprattutto attraverso la predicazione omiletica del parroco, sia per una certa povertà di altre forme di co- municazione del messaggio cristiano sia per la centralità della par- rocchia cui oggi richiamano con una certa forza i pastori. A partire da queste constatazioni è emersa l’opportunità di de- dicare la parte monografica del fascicolo a quella forma peculiare di esercizio della funzione di insegnare della Chiesa che è appunto l’omelia. Non si vuole entrare pertanto nel vastissimo campo in cui i laici sono chiamati e autorizzati a prendere la parola per l’esercizio della funzione di insegnare della Chiesa, anche durante celebrazioni che si tengano in chiese od oratori: già si è avuto modo di affrontare questo ampio e nuovo ambito di azione apostolica dei laici (cf E. ZA- NETTI, I laici possono predicare e insegnare nella Chiesa?, in «Quader- ni di diritto ecclesiale» 2 [1989] 258-286; T. VANZETTO, Predicazione dei Laici nelle chiese e negli oratori. Commento alle delibere CEI, ibid. 3 [1990] 127-137). Nel primo contributo (Miragoli) si cerca di enucleare il concet- to di omelia, considerando i documenti conciliari, postconciliari e il Codice di diritto canonico. La varietà dell’utilizzazione della denomi- nazione homilia conduce alla necessità di distinguere l’ambito del di- scorso per poter concordare sul concetto di omelia. Il secondo contributo (Zanetti) si sofferma a considerare, sem- pre a partire dai documenti normativi, i contenuti dell’omelia, non- ché il suo obbligo. Emerge così che nell’omelia risiede una forte componente legata alle circostanze, al ministro e ai fedeli. Si considera poi, in forma più tecnica, la riserva, che in questi ultimi tempi è stata rafforzata e ribadita, dell’omelia al ministro sacro Editoriale 339

(Rivella). Si cerca di descrivere i precisi contorni e limiti della riser- va, nonché le motivazioni che l’hanno generata. La seconda parte del fascicolo è aperta, come di consueto, dal commento a un canone (Perlasca). Viene preso in considerazione il canone 1284 § 2, 6°. Si evidenzia in esso non solo la complessa pro- blematica che attiene al diritto patrimoniale della Chiesa, ma in parti- colare anche la costante necessità di riferirsi al testo latino, unico vincolante, nella lettura del Codice, poiché le traduzioni nelle lingue volgari possono o tradire il testo autentico o fornirne un’interpreta - zione propria. Viene quindi descritta la competenza e l’attività della Peniten- zieria Apostolica (Miragoli). Si tratta di un dicastero della Curia ro- mana che ha una peculiare attinenza al ministero sacro svolto dai confessori, oltre che alle indulgenze, cui si è specificamente dedica- to il primo fascicolo di quest’anno, nel contesto del giubileo. Il tema del matrimonio è oggetto di attenzione per il rapporto fra tecniche di procreazione assistita e diritto canonico (Malcangi). L’autrice conduce, attraverso la considerazione di concetti recentissi- mi e tecnici, a dedurre la loro qualificazione giuridica, in ordine alla validità del matrimonio, interpretando e intellegendo i principi giuri- dici fondamentali del diritto matrimoniale canonico tradizionale. Il fascicolo si conclude con un articolo – annunciato nell’Edito - riale del fascicolo 1 del 1997, ma rimandato per ragioni di spazio – che si inserisce nel tema monografico di quel fascicolo: l’insegna - mento del diritto canonico. Questo insegnamento in altre culture (lontane dall’area in cui il diritto canonico si è evoluto nei secoli pas- sati) è sottoposto a stimoli e richieste (e pure sfide) che, lungi dal metterne in pericolo l’esistenza, ne reclamano un approfondimento adeguato (Rec chi). L’articolo sviluppa l’argomento a partire dalla con - creta, pro lungata e tuttora presente esperienza di docenza dell’autri - ce, membro della Redazione, in una Università africana (Yaoundé - Cameroun). Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 340-356 Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice di Egidio Miragoli

Il tema dell’omelia è ricorrente e offre sempre spunti interes- santi di riflessione e di dibattito. Appassiona e impegna il sacerdote in cura d’anime che settimanalmente – o quotidianamente – speri- menta la fatica e l’angustia di parlare in modo appropriato alla sua gente, in perenne ricerca del modo migliore di trasmettere un mes- saggio vitale per il singolo e la comunità; fa discutere gli studiosi (teologi, pastoralisti, liturgisti), tesi dapprima a precisare sempre meglio le diverse forme di annuncio della parola di Dio, e poi alla ri- cerca dello specifico di ognuna di esse. Da un po’ di tempo anche gli esperti di scienze del linguaggio e della comunicazione vengono coin volti in tavole rotonde e convegni, per un loro particolare appor- to. Dell’omelia e sull’omelia, infine, discutono i fedeli: bella, brutta, corta, lunga, interessante, noiosa, incomprensibile... L’omelia è anco- ra capace di suscitare interesse o, comunque, di far discutere, in fa- miglia o in gruppo. Sempre da parte dei fedeli, infine, alcuni si chie- dono perché essa sia riservata al solo celebrante. Ma che cos’è “omelia”? È proprio vero che tutti intendono la medesima cosa? E ancora, mi chiedo se in questo dibattito possa tro- vare voce anche il giurista, e come. A un primo sguardo, due cose appaiono evidenti, nel dibattito su che cosa sia l’omelia: l’utilizzo non uniforme del termine “omelia” nei documenti (in senso lato) della Chiesa e – al contrario – la risposta uni- voca e semplice della gente, per la quale l’omelia è la particolare forma di predicazione tenuta dal sacerdote durante la Messa domenicale. Il taglio della nostra riflessione vuole essere giuridico, il che si- gnifica, ahimè, che dovremo innanzitutto ignorare gli aspetti più sti- molanti del dibattito cui abbiamo accennato, per dedicarci a questioni introduttorie. In definitiva, cercheremo di vedere come e quando Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 341 questo termine venga usato nel linguaggio ufficiale. La strada più pro - pria sembra essere quella dell’analisi delle fonti normative, e in parti- colare, per ovvii motivi, di quelle conciliari e postconciliari: un lavoro umile, ma indispensabile in vista di approfondimenti successivi. Il materiale può essere suddiviso in tre gruppi: i documenti del magistero; i testi di introduzione e i praenotanda dei libri liturgici; il Codice di diritto canonico. Come qualcuno noterà, qui viene percorsa una strada già da al- tri battuta: tuttavia se il termine a quo è identico – alludo ai testi ad- dotti, da altri già compulsati 1 – diversa sarà l’ottica, la prospettiva di lettura.

L’omelia nei documenti del magistero L’avvio dal Vaticano II non paia convenzionale. Direi che nel no- stro caso è d’obbligo. Una riflessione sull’omelia va infatti collocata necessariamente entro la riforma liturgica voluta e avviata dal Conci- lio ed entro quel particolare aspetto che è la centralità della parola di Dio e l’attenzione alla predicazione. Due testi – il primo della costitu- zione sulla Sacra Liturgia, il secondo tratto dalla costituzione sulla Di vina Rivelazione – fanno diretto riferimento all’omelia.

«Si raccomanda vivamente l’omelia [homilia], come parte della stessa litur- gia; in essa, nel corso dell’anno liturgico, vengono presentati, dal testo sa- cro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana. Anzi, nelle Messe della domenica e delle feste di precetto celebrate con partecipazione di po - polo, l’omelia non si ometta se non per grave motivo» (Sacrosanctum conci- lium [= SC], n. 52).

«Le sacre scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono ve- ramente parola di Dio; lo studio delle sacre pagine sia dunque come l’anima della sacra teologia. Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pa- storale, la catechesi e tutta l’istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgi- ca [homilia liturgica] deve avere un posto privilegiato, si nutre con profitto e santamente vigoreggia con la parola della scrittura» (Dei verbum [= DV], n. 24).

In stretta connessione con SC 52 è la prossima citazione, tratta da un documento applicativo del Concilio, l’istruzione Inter oecume-

1 Cf L. DELLA TORRE, Omelia, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello Balsamo 1988; oppure ID., L’omelia nei libri liturgici e nei documenti della riforma, in «Rivista di pastorale liturgica» 30/6 (1992) 25-30. 342 Egidio Miragoli nici del 1964, che si propone – tra l’altro – di spiegare con maggiore determinazione alcuni principi espressi in termini generali nella co- stituzione sulla Sacra Liturgia.

«Per omelia, da tenersi dal testo sacro, si intende la spiegazione di qualche aspetto delle letture della sacra scrittura o di altri testi dell’ordinario o del proprio della Messa del giorno, tenendo in debito conto il mistero celebrato e le particolari esigenze degli ascoltatori» (Inter oecumenici, n. 54).

Lo stesso documento, però, si faceva premura di precisare, in un altro passo, che l’omelia è di pertinenza del ministro ordinato. Lo dice chiaramente al numero 37, dedicato alle celebrazioni della Paro- la ove si legge:

«Nei luoghi dove manca il sacerdote, se non vi è alcuna possibilità di cele- brare la Messa, nelle domeniche e nelle feste di precetto, si favorisca, a giu- dizio dell’ordinario del luogo, la celebrazione della parola di Dio, sotto la pre- sidenza di un diacono o anche di un laico a ciò deputato. La struttura di que- sta celebrazione sia modellata su quella della liturgia della Parola della Messa [...]. Colui che presiede, se è diacono, tenga l’omelia, oppure, se non lo è, legga un’omelia scelta dal vescovo o dal parroco».

Più articolato è il testo dell’Evangelii nuntiandi [= EN] di Pao- lo VI, importante esortazione apostolica pubblicata nel dicembre 1975, in occasione di tre avvenimenti: la conclusione dell’anno santo, il decimo anniversario di chiusura del Concilio, a un anno dalla terza assemblea generale del Sinodo dei vescovi dedicata all’evangelizza - zione 2. Il paragrafo IV di tale documento riguarda Le vie dell’evange - lizzazione. Illustrata la prima via – la testimonianza della vita – ci si sofferma sulla predicazione, la proclamazione verbale di un messag- gio. Essa è sempre indispensabile e sempre attuale – dice il Papa – anche nella cosiddetta civiltà dell’immagine, soprattutto quando è portatrice della potenza di Dio (cf EN 42).

«Questa predicazione evangelizzatrice assume parecchie forme, che lo zelo ispirerà a ricreare quasi all’infinito. Sono effettivamente innumerevoli gli av- venimenti della vita e le situazioni umane che offrono l’occasione di un nuo- vo annuncio discreto, ma incisivo, di ciò che il Signore ha da dire in questa circostanza. Basta una vera sensibilità spirituale per saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio. Ma dal momento che la liturgia rinnovata dal Concilio ha

2 Cf Introduzione, n. 2. Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 343

molto valorizzato la “liturgia della Parola”, sarebbe un errore non vedere nel l’omelia uno strumento valido e adattissimo di evangelizzazione. Bisogna certo conoscere e mettere a profitto le esigenze e le possibilità dell’omelia perché essa acquisti tutta la sua efficacia pastorale. Bisogna, però, soprattut- to essere convinti e dedicarvisi con amore. Questa predicazione particolar- mente inserita nella celebrazione eucaristica, da cui riceve forza e vigore particolari, ha certamente un ruolo speciale nell’evangelizzazione, nella mi- sura in cui esprime la fede profonda del ministro sacro che predica, ed è im- pregnata di amore. I fedeli [...] si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta, profonda- mente radicata nell’insegnamento evangelico e fedele al magistero della Chiesa, animata da un ardore apostolico equilibrato che le viene dal suo pro- prio carattere, piena di speranza, nutriente per la fede, generatrice di pace e di unità. Molte comunità parrocchiali o di altro tipo vivono e si consolidano grazie all’omelia di ogni domenica, quando essa ha tali qualità. Aggiungiamo che, grazie al medesimo rinnovamento liturgico, la celebrazio- ne eucaristica non è il solo momento appropriato per l’omelia. Questa trova il suo posto e non deve essere trascurata nella celebrazione di tutti i sacra- menti, o ancora nel corso di para-liturgie, nell’ambito di assemblee di fedeli. Sarà sempre un’occasione privilegiata per comunicare la parola del Signore» (EN 43).

L’esortazione apostolica Catechesi tradendae (ottobre 1979) è di Giovanni Paolo II. Al punto VI, che illustra alcune vie e mezzi della catechesi, il paragrafo 48 è dedicato all’omelia. Dopo aver segnalato i molteplici luoghi e momenti da valorizzare per la catechesi, il Papa dice che lo sforzo catechistico ha tanto migliori possibilità di essere accolto e di portare i suoi frutti, quanto più rispetterà la natura di questi stessi luoghi. E continua: «Questa osservazione vale più ancora per la catechesi che viene fatta nel quadro liturgico e, in particolare, durante l’assemblea eucaristica: rispettan- do la natura specifica e il ritmo proprio di questo quadro, l’omelia riprende l’itinerario di fede, proposto dalla catechesi, e lo porta al suo naturale compi- mento; parimenti, essa spinge i discepoli del Signore a riprendere ogni gior- no il loro itinerario spirituale nella verità, nell’adorazione e nel rendimento di grazie. In questo senso si può dire che la pedagogia catechetica trova essa pure la sua origine e il suo compimento nell’eucaristia, entro l’orizzonte completo dell’anno liturgico. La predicazione, incentrata sui testi biblici, deve permettere allora, a sua vol- ta, di familiarizzare i fedeli con l’insieme dei misteri della fede e delle norme della vita cristiana. Bisogna dedicare grande attenzione all’omelia: né troppo lunga né troppo breve, sempre accuratamente preparata, sostanziosa e ap- propriata, e riservata ai ministri ordinati. Tale omelia deve avere il suo posto in ogni eucaristia domenicale e festiva, ma anche nelle celebrazioni dei bat- tesimi, delle liturgie penitenziali, dei matrimoni, dei funerali. È questo uno dei vantaggi del rinnovamento liturgico». 344 Egidio Miragoli

I testi fin qui proposti sono ormai dei classici, arcinoti. Recente è invece il documento della Congregazione per il Clero Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, pubblicato il 15 agosto 1997. Tale documento è nato dalla volontà di fornire una risposta chiara e autorevole alle numero- se richieste pervenute ai vari dicasteri della Curia romana da parte di vescovi, presbiteri e laici, i quali, «di fronte a nuove forme di atti- vità “pastorale” dei fedeli non ordinati nell’ambito delle parrocchie e delle diocesi, hanno chiesto di essere illuminati» (Premessa). Prima, tuttavia, di analizzare e rispondere ai casi concreti, il do- cumento premette alcuni brevi ed essenziali elementi teologici atti a favorire una motivata comprensione della stessa disciplina ecclesia- stica. I temi toccati sono: il sacerdozio comune dei battezzati e il sa- cerdozio ministeriale; unità e diversificazione dei compiti ministeria- li; l’insostituibilità del ministero ordinato; la collaborazione di fedeli non ordinati al ministero pastorale. Non possiamo commentare né riassumere tali principi, ma la loro enunciazione basta a tracciare l’orizzonte entro il quale si giustificano la norma, in genere, e parti- colarmente l’articolo 3, intitolato L’omelia, che ci riguarda da vicino.

«§ 1. L’omelia, forma eminente di predicazione “qua per anni liturgici cur- sum ex textu sacro fidei mysteria et normae vitae christianae exponuntur” è parte della stessa liturgia. Pertanto l’omelia durante la celebrazione dell’eucaristia deve esser riservata al ministro sacro, sacerdote o diacono. Sono esclusi i fedeli non ordinati, an- che se svolgono il compito detto di “assistenti pastorali” o di catechisti, pres- so qualsiasi tipo di comunità o aggregazione. Non si tratta, infatti, di even- tuale maggiore capacità espositiva o preparazione teologica, ma di funzione riservata a colui che è consacrato con il sacramento dell’ordine sacro, per cui neppure il vescovo diocesano è autorizzato a dispensare dalla norma del canone, dal momento che non si tratta di legge meramente disciplinare, ben- sì di legge che riguarda le funzioni di insegnamento e di santificazione stret- tamente collegate tra di loro. Non si può ammettere perciò la prassi in talune occasioni praticata, per la quale si affida la predicazione omiletica a seminaristi studenti di teologia, non ancora ordinati. L’omelia non può, infatti, essere considerata come un al- lenamento per il futuro ministero. Si deve ritenere abrogata dal can. 767 § 1 qualsiasi norma anteriore che ab- bia ammesso fedeli non ordinati a pronunciare l’omelia durante la celebra- zione della Messa. § 2. È lecita la proposta di una breve didascalia per favorire la maggiore comprensione della liturgia che viene celebrata e anche, eccezionalmente, qualche eventuale testimonianza, sempre adeguata alle norme liturgiche e offerta in occasione di liturgie eucaristiche celebrate in particolari giornate (giornata del seminario o del malato ecc.), se ritenuta oggettivamente conve- Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 345

niente, come illustrativa dell’omelia regolarmente pronunciata dal sacerdote celebrante. Queste didascalie e testimonianze non devono assumere caratte- ristiche tali da poter essere confuse con l’omelia. § 3. La possibilità del “dialogo” nell’omelia può essere, talvolta, prudente- mente usata dal ministro celebrante come mezzo espositivo con il quale non si delega ad altri il dovere della predicazione. § 4. L’omelia al di fuori della Messa può essere pronunciata da fedeli non or- dinati in conformità al diritto o alle norme liturgiche e nell’osservanza delle clausole in essi contenute. § 5. L’omelia non può essere affidata, in alcun caso, a sacerdoti o diaconi che abbiano perso lo stato clericale o che, comunque, abbiano abbandonato l’e - sercizio del sacro ministero».

Letti i testi, proviamo ora a fare una prima sintesi per chiarirci il concetto di omelia che ne emerge. È innanzitutto interessante cogliere – dal punto di vista cronolo- gico – la scansione dei temi entro i quali si parla dell’omelia. Essi so- no: la liturgia, la parola di Dio, l’evangelizzazione, la collaborazione dei fedeli laici. I temi dicono il cammino fatto e le priorità che di vol- ta in volta sono emerse. Ma indicano anche il corretto orizzonte en- tro il quale collocare il nostro argomento. L’omelia è una delle forme della predicazione evangelizzatrice della Chiesa, con caratteristiche sue proprie, «forma eminente» che «deve avere un posto privilegiato». Se nei testi conciliari l’omelia è considerata direttamente e in- direttamente solo in rapporto alla celebrazione eucaristica, già con l’Evangelii nuntiandi il termine viene assunto con significato più am- pio: l’omelia, «inserita nella celebrazione eucaristica da cui riceve forza e vigore particolari, ha certamente un ruolo speciale nell’evan- gelizzazione»; e tuttavia la celebrazione eucaristica «non è il solo mo- mento appropriato per l’omelia», ma essa trova il suo posto nella ce- lebrazione di tutti gli altri sacramenti e – ancora – nel corso delle pa- raliturgie, e nell’ambito di generiche assemblee di fedeli. In breve: via via il concetto di omelia si allarga, e il sostantivo “omelia” trova ampia applicazione. Essa è certamente, nella sua espressione più matura, predicazione all’interno della Messa, ma con il termine ome- lia si designano anche altri interventi del ministro o del semplice fe- dele non ordinato «in conformità al diritto o alle norme liturgiche e nel l’osservanza delle clausole in esse contenute» 3.

3 Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, n. 4 § 5. 346 Egidio Miragoli

Quest’ultima affermazione, dunque, ci spinge ad andare oltre nella nostra analisi, a passare cioè ai libri liturgici, ove i principi sul - l’omelia si incarnano e si adattano alle singole azioni liturgiche e in riferimento a colui che le presiede.

L’omelia nei praenotanda dei libri liturgici e nelle rubriche La riforma liturgica comportava innanzitutto la revisione dei li- bri che contengono i riti e i testi scritti per le celebrazioni (SC 25). All’indomani del Concilio, pertanto, veniva avviato un complesso la- voro di adattamento e di traduzione. Dal punto di vista giuridico, considerato che il Codice il più delle volte non definisce i riti che so- no da osservarsi nel celebrare le azioni liturgiche, ma rimanda ai li- bri liturgici stessi (cf can. 2), assumono grande rilievo le rubriche, che nei libri liturgici del postconcilio hanno fisionomia nuova rispet- to al passato. Oltre alle sintetiche annotazioni che scandiscono i diversi momenti delle celebrazioni, i nuovi libri sono introdotti da praenotanda (premesse) o da institutiones generales (principi e nor- me): testi ampi, ricchi di elementi teologici e pastorali 4. Tutte queste indicazioni sono fonti conoscitive del diritto liturgico e ci consentono di passare in rassegna quanto si dice sull’omelia per le diverse ce- lebrazioni. Raccoglieremo i libri liturgici secondo questo ordine: il Messale romano, il Lezionario, la Liturgia delle Ore, il Rituale roma- no e il Pontificale romano. A seconda della significatività del materiale, proporremo di vol- ta in volta i testi integrali o delle sintesi.

Il Messale romano La seconda edizione del Messale romano è del 1983. Essa com- prende Principi e norme per l’uso del messale, i cui numeri 41 e 42 so- no dedicati all’omelia. Eccoli:

«L’omelia fa parte della liturgia ed è molto raccomandata: è infatti necessaria per alimentare la vita cristiana. Deve essere la spiegazione o di qualche aspetto delle letture della Sacra Scrittura o di un altro testo dell’Ordinario o del Proprio della Messa del giorno, tenuto conto sia del mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta.

4 Cf A. CUVA, Diritto Liturgico, in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo 1993; I. SCI- COLONE, Libri liturgici, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello Balsamo 1988. Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 347

Nelle domeniche e nelle feste di precetto si deve tenere l’omelia in tutte le Messe con partecipazione di popolo; non la si può omettere senza una ragio- ne grave. Negli altri giorni è raccomandata specialmente nelle ferie di Av- vento, di Quaresima e del tempo pasquale; così pure nelle altre feste e circo- stanze nelle quali è più numeroso il concorso del popolo alla chiesa. L’omelia di solito sia tenuta personalmente dal sacerdote celebrante».

Parlando del Messale non possiamo dimenticare altri testi, qua- li le Messe della Beata Vergine Maria, pubblicato nel 1987 (che non contiene però indicazioni a noi utili) e il volume ad experimentum La Messa dei fanciulli, pubblicato dalla CEI nel 1976. A quest’ultimo fan- no da “premesse” due testi: il Direttorio per le Messe dei fanciulli (della Congregazione per il Culto divino) e un’istruzione – La parte- cipazione dei fanciulli alla Messa – della Conferenza episcopale. Dal Direttorio cogliamo il n. 48:

«In tutte le messe per i fanciulli, si deve dare grande importanza all’omelia con cui viene spiegata la parola di Dio. L’omelia destinata ai fanciulli può svolgersi talvolta in forma di dialogo con loro, a meno che non si preferisca che ascoltino in silenzio».

Queste indicazioni vanno integrate con quanto affermato al n. 24 relativo agli uffici e ministeri nella celebrazione. È qui che troviamo l’aspetto più interessante. Richiamata l’importanza della presenza di qualche adulto, non tanto come sorvegliante, ma come persona capa- ce di prestare aiuto ai bambini, si legge:

«Nulla vieta che uno di questi adulti [...], con l’assenso del Parroco o del ret- tore della Chiesa, dopo il Vangelo rivolga ai fanciulli la parola, specialmente se al sacerdote riesce difficile adattarsi alla mentalità dei piccoli ascoltatori».

Il Lezionario Il Lezionario è il libro liturgico che raccoglie i testi biblici per le varie celebrazioni: Messe, sacramenti, sacramentali. Attualmente è diviso in più volumi. La prima stampa in edizione tipica dell’Ordo Lectionum Missae risale al 1969. Nel 1982, con la ristampa del Lezio- nario è stato ampliato il testo dei Principi generali, ove troviamo quattro numeri dedicati all’omelia. Il contesto, in questo caso, è chia- ramente quello della celebrazione eucaristica.

«24. Particolarmente raccomandata come parte della liturgia della Parola, a partire specialmente dalla Costituzione liturgica del concilio Vaticano II, anzi 348 Egidio Miragoli

in alcuni casi espressamente prescritta è l’omelia, con la quale nel corso dell’anno liturgico vengono esposti, in base al testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana. Tenuta, di norma, da colui che presiede, l’ome - lia nella celebrazione della Messa ha lo scopo di far sì che la proclamazione della parola di Dio diventi, insieme con la liturgia eucaristica, “quasi un an- nunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo”. Infatti il mistero pasquale di Cristo, che viene annunziato nelle let- ture e nell’omelia, viene attualizzato per mezzo del sacrificio della Messa. Sempre poi Cristo è presente e agisce nella predicazione della sua Chiesa. Pertanto l’omelia, sia che spieghi la parola di Dio annunziata nella Sacra Scrittura o un altro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a par- tecipare attivamente all’eucaristia, perché “esprimano nella vita ciò che han- no ricevuto mediante la fede”. Con questa viva esposizione la proclamazione della parola di Dio e le celebrazioni della Chiesa possono ottenere una mag- giore efficacia a patto che l’omelia sia davvero frutto di meditazione, ben preparata, non troppo lunga né troppo breve, e che in essa ci si sappia rivol- gere a tutti i presenti, compresi i fanciulli e la gente semplice. Nella concelebrazione, l’omelia è tenuta di norma dal celebrante principale o da uno dei concelebranti. 25. Nei giorni prescritti, e cioè nelle domeniche e feste di precetto, anche nelle Messe vespertine del giorno precedente, l’omelia è obbligatoria in tut- te le Messe che si celebrano con concorso di popolo. Anche nelle Messe con i fanciulli e con gruppi particolari si deve tenere l’omelia. L’omelia è molto raccomandata nelle ferie di Avvento, di Quaresima e del tempo pasquale per i fedeli che regolarmente partecipano alla celebrazione della Messa; così pure in altre feste e circostanze nelle quali il popolo accor- re più numeroso alla chiesa. 26. Il sacerdote celebrante tiene l’omelia alla sede, in piedi o seduto, o anche all’ambone. 27. Dall’omelia si devono naturalmente tenere distinti quegli eventuali brevi avvisi al popolo, il cui posto è al termine dell’orazione dopo la comunione».

Liturgia delle Ore Tutti conoscono la particolare natura della Liturgia delle Ore e le caratteristiche che essa ha assunto con la riforma liturgica. Il tutto è stato disposto e ordinato in modo tale che, essendo preghiera del- l’intero popolo di Dio, possano prendervi parte non solo i chierici, ma anche i consacrati e i laici. Ebbene, benché essa sia soprattutto preghiera di lode e l’ascolto della parola di Dio abbia uno scopo pre- valentemente meditativo – sempre è previsto dopo la sua proclama- zione uno spazio di silenzio –, nei Principi e norme per la Liturgia delle Ore, al n. 47, troviamo ancora un cenno all’omelia: «Nella cele- brazione con il popolo, se si ritiene opportuno, si può aggiungere una breve omelia, per illustrare la predetta lettura». Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 349

Anche per le celebrazioni vigiliari, dopo il vangelo, può seguire, eventualmente, l’omelia (n.73).

Il Rituale romano Nel rito latino il Rituale è il libro liturgico che contiene le nor- me, le formule di preghiera e i testi biblici per la celebrazione dei sa- cramenti e dei sacramentali. Attualmente il Rituale è distribuito in più libri, quali tante parti dello stesso. Le indicazioni sull’omelia sono generalmente sobrie ed essenziali. Come già per il paragrafo prece- dente, prima raccoglieremo tutti i testi ove si fa menzione dell’omelia e, infine, faremo alcune considerazioni di sintesi.

– Rito del battesimo dei bambini (CEI, Roma 1970) «Dopo la lettura il celebrante tiene una breve omelia; in essa, prendendo lo spunto dal brano letto, introdurrà i presenti a una conoscenza più profonda del mistero del battesimo ed esorterà in modo particolare i genitori e i padri- ni ad assumere con impegno i compiti che ne derivano» (Rito per il battesimo di un solo bambino, n. 48; cf pure Rito per il battesimo di più bambini, n. 96).

– Rito della penitenza (CEI, Roma 1974) «L’omelia, impostata sul testo della sacra Scrittura ha lo scopo di portare i penitenti all’esame di coscienza, alla rinunzia al peccato e alla conversione a Dio. Deve quindi far com prendere ai fedeli che il peccato contro Dio si ritor- ce contro la comunità, contro il prossimo, contro il peccatore stesso. Si pon- ga quindi nel debito rilievo: a) l’infinita misericordia di Dio [...], b) la neces- sità della penitenza interna [...], c) l’aspetto sociale della grazia e del peccato [...], d) l’impegno della nostra soddisfazione [...] (Premesse, n. 25)». «L’omelia, prendendo l’avvio dal testo delle letture, deve portare i penitenti all’esame di coscienza e a un rinnovamento di vita» (Rito per la riconciliazio- ne di più penitenti con confessione e assoluzione individuale, n. 52).

– Rito delle esequie (CEI, Roma 1974) All’omelia si allude nel n. 17 delle Premesse: «Ricordino poi tutti, e specialmente i sacerdoti, che quando nella liturgia esequiale raccomandano a Dio i defunti, hanno anche il dovere di rianimare nei presenti la speranza, di ravvivare la fede nel mistero pasquale e nella ri- surrezione dei morti; lo facciano però con delicatezza e con tatto, in modo che nell’esprimere la comprensione materna della Chiesa e nel recare il conforto della fede, le loro parole siano di sollievo al cristiano che crede, senza urtare l’uomo che piange». 350 Egidio Miragoli

Più esplicitamente, al n. 63 del Rito (Celebrazione esequiale con la Messa): «Dopo il vangelo si tenga una breve omelia, evitando però la forma e lo stile dell’elogio funebre», prescrizione ripresa alla lette- ra al n. 69 (Celebrazione esequiale senza la Messa).

– Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti (CEI, Roma 1978) Nel Rito dell’ammissione al catecumenato al n. 91 solo si annota: «Si tiene l’omelia». Più diffusamente: «L’omelia, adatta alle circostanze, faccia riferimento non solo ai catecumeni, ma anche a tutta la comunità dei fedeli, in modo che questi, impegnandosi a dare il buon esempio, intraprendano insieme agli eletti il cammino del miste- ro pasquale»(Rito dell’elezione o dell’iscrizione del nome, n. 142). «Nell’omelia il celebrante, soffermandosi sulle letture della Sacra Scrittura, spiega le ragioni dello scrutinio, tenendo presenti sia la liturgia quaresimale come anche l’itinerario spirituale degli eletti» (Primo, secondo e terzo scruti- nio, nn. 161, 168, 175). «Segue l’omelia nella quale il celebrante, soffermandosi sul testo sacro, spie- ga il significato e l’importanza del Simbolo sia rispetto alla catechesi tra- smessa sia rispetto alla professione di fede da farsi nel battesimo e da mante- nersi per tutta la vita» (Le consegne [del Simbolo, della Preghiera del Signo- re], nn. 185, 191).

– Rito della comunione fuori della Messa e culto eucaristico (CEI, Ro - ma 1979) Nel Rito per la celebrazione comunitaria al n. 31 titolato Omelia si legge: «Secondo l’opportunità, il sacerdote o il diacono può fare una breve spiegazione del brano letto». Nel Rito dell’esposizione e della benedizione eucaristica si prevede:

«Per favorire l’intimità della preghiera, si predispongano letture della Sacra Scrittura con omelia o brevi esortazioni che portino i fedeli a un riverente approfondimento del mistero eucaristico» (n. 112).

– Sacramento del matrimonio (CEI, Roma 1975) «Dopo la proclamazione del vangelo il sacerdote tiene l’omelia sul testo sa- cro illustrando il mistero del matrimonio cristiano, la dignità dell’amore co- niugale, la grazia del sacramento e i doveri degli sposi, tenendo tuttavia con- to della situazione concreta dei partecipanti» (Il matrimonio durante la Mes- sa, Il matrimonio senza la Messa, nn. 25 e 47). «Dopo la proclamazione della parola di Dio, il sacerdote tiene l’omelia sul testo sacro tenendo presenti le diverse condizioni degli sposi ed eventuali altre parti- colari circostanze» (Il matrimonio tra un cattolico e un non battezzato, n. 62). Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 351

– Ordo celebrandi matrimonium. Editio typica altera (Città del Vati- cano 1991) Il nuovo Ordo, non ancora disponibile in lingua italiana, al capi- tolo III prevede l’Ordo celebrandi matrimonium coram assistente lai- co. Ebbene, di tale laico, che ha ricevuto la facoltà per essere assi- stente nella celebrazione del matrimonio, si dice che non solo ha il compito di ricevere il consenso dei contraenti, ma ha la responsabi- lità di tutta la celebrazione 5. Nell’ambito della liturgia della Parola si dice poi: «È opportuno che l’assistente proponga un’esortazione o legga l’omelia preparata dal vescovo o dal parroco» 6.

– Benedizionale (CEI, Roma 1992) È questo l’ultimo frutto di un programma organico, sviluppato a partire dal 1963 secondo le norme e lo spirito del Concilio. Prima di entrare nel merito dei riferimenti all’omelia, è importante ricordare quanto il Concilio aveva stabilito su questa materia, vale a dire, «che le benedizioni riservate fossero pochissime, unicamente in favore dei vescovi o degli ordinari, e che si provvedesse opportunamente che alcuni sa- cramentali, almeno in circostanze particolari e a giudizio dell’ordinario, po- tessero venir amministrati da laici dotati di specifiche qualità» 7.

Tenuto conto di ciò, nelle Premesse generali al n. 18 si parla del ministro della benedizione: vescovo, presbitero, diacono, ministri isti tuiti, laici con particolare incarico. Dice il testo: «Anche altri laici [oltre agli accoliti e ai lettori], uomini e donne, in forza del sacerdozio comune, di cui sono stati insigniti nel battesimo e nella confer- mazione – a condizione che esista un compito specifico (quello, per esem- pio, dei genitori verso i figli), o l’esercizio di un ministero straordinario, o lo svolgimento di altri uffici particolari nella Chiesa, come avviene in alcune re- gioni per i religiosi o i catechisti –, a determinate condizioni e a giudizio del - l’ordinario del luogo e purché sia notoria la loro necessaria preparazione pa- storale e la loro prudenza nel compimento delle mansioni loro affidate, pos- sono celebrare alcune benedizioni con il rito e il formulario per essi previsto, come indicato nel rituale di ogni benedizione. Se però è presente un sacer- dote o un diacono, si deve lasciare a lui il compito di presiedere».

5 «Laicus assistens non solum recipiendi consensum contrahentium munere fungit, sed totam celebratio- nem Matrimonii moderatur» (n. 119). 6 «Convenit ut assistens adhortationem tradat aut homiliam legat ab Episcopo vel parocho significatam» (n. 125). 7 Benedizionale, Decreto della Congregazione per il Culto Divino, p. 17. 352 Egidio Miragoli

Quanto al nostro tema, troviamo un cenno nelle Premesse gene- rali, dove si parla della struttura tipica di ogni benedizione, compo- sta di due parti: la proclamazione della parola di Dio e l’invocazione del suo aiuto. Dice il testo: «Centro quindi di questa prima parte è la proclamazione della parola di Dio, alla quale giustamente si riferiscono la monizione introduttiva e la breve spiegazione, come pure l’esortazione o l’omelia, che secondo l’opportunità si possono aggiungere» (n. 21).

Effettivamente, in ogni rito di benedizione dopo la lettura della parola di Dio è prevista la riflessione del ministro, riflessione che as- sume denominazioni diverse: – quando il rito di benedizione è inserito nella Messa, si parla di omelia (cf i nn. 118, 475, 530, 701); – quando la celebrazione (con o senza Messa) è presieduta dal vescovo o dal sacerdote si parla di omelia (nn. 1233, 1250, 1261); – quando la celebrazione può essere presieduta indistintamente dal sacerdote, dal diacono o dal laico, il Benedizionale, sotto il titolo “Breve esortazione”, preferisce riportare questo testo più generico: «Secondo l’opportunità, il ministro rivolge brevi parole ai presenti, il- lustrando la lettura biblica, perché percepiscano il significato della celebrazione». Anche qui offriamo alcuni riferimenti: n. 55 (per ringraziare Dio dei suoi doni); n. 144 (per un convegno o una riunione di preghiera); n. 416 (benedizione della famiglia). Non è facile capire il criterio usato per prescrivere «la breve esortazione» o «l’omelia». Si potrebbe pensare che dipenda dall’im - portanza della celebrazione, ma è difficile dirlo con certezza. Si ve- dano per esempio la benedizione delle campane (n. 1467: breve esor- tazione) e la benedizione di una nuova croce (n. 1348: omelia).

Il Pontificale romano Con il nome di Pontificale viene indicato il libro nel quale sono raccolti le formule e i riti di solito riservati al vescovo. Attualmente è distribuito in più libri, come tra poco vedremo. Ciò che qui risulta evidente è l’omogeneità della terminologia. Poiché tali celebrazioni sono presiedute dal vescovo, sempre qui si parla di “omelia”. L’ele- mento di novità rispetto ai testi del Rituale è inoltre la proposta – per alcune celebrazioni – di un vero e proprio schema o breve omelia che può essere utilizzato integralmente o da cui prendere spunto. Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 353

– Rito della confermazione (CEI, Roma 1972) «Il vescovo tiene una breve omelia: riferendosi ai brani letti, e spiegandone il significato, egli conduce quasi per mano i cresimandi, i loro padrini e i loro genitori e tutti i fedeli presenti, a una comprensione più profonda del mistero della confermazione: lo può fare con queste parole o con altre simili» (n. 25). (Segue un testo di omelia già predisposto).

– Benedizione degli oli e dedicazione della chiesa e dell’altare (CEI, Roma 1980) «Terminate le letture, si tiene l’omelia, nella quale il celebrante illustra i testi biblici e spiega il significato del rito: Cristo è la pietra angolare della Chiesa, l’edificio sacro, che verrà costruito dalla Chiesa viva dei fedeli, sarà insieme casa di Dio e casa del popolo di Dio» (Posa della prima pietra o inizio dei la- vori per la costruzione di una chiesa, n. 17). «Dopo le letture, il vescovo tiene l’omelia, nella quale illustra sia le letture bi- bliche sia il significato della dedicazione della chiesa» (Dedicazione di una Chiesa, n. 39, cf pure n. 170, Dedicazione dell’altare ).

– Istituzione dei ministeri, consacrazione delle vergini, benedizione abbaziale (CEI, Roma 1980) «Il vescovo tiene l’omelia» (Istituzione dei ministeri, nn. 10, 28, 49). «Quindi il vescovo fa una breve omelia di spiegazione delle letture e di illu- strazione di quello che significa il dono della verginità per la santificazione personale delle consacrande, per il bene della Chiesa e di tutto il mondo. Sul dono della verginità può dire queste parole o altre simili» (Consacrazione delle vergini, n. 29). (Segue un testo di omelia già predisposto). «Il vescovo tiene l’omelia nella quale illustra le letture e parla ai presenti e all’eletto sul ministero del l’abate»(Benedizione abbaziale, n. 23).

– Ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi (CEI, Ro- ma 1992) «Il vescovo ordinante principale tiene l’omelia nella quale illustra le letture e parla ai presenti e al l’eletto sul ministero del vescovo. Su tale argomento può dire le seguenti parole o altre simili, adattandole se viene ordinato un vesco- vo non residenziale» (Ordinazione del vescovo, n. 42). (Segue un testo di ome- lia già predisposto). «Quindi il vescovo tiene l’o melia nella quale illustra le letture e parla ai pre- senti e agli eletti sul ministero del presbitero. Sul ministero del presbitero può dire queste parole o altre simili» (Ordinazione dei presbiteri, n. 136). (Se- gue un testo di omelia già predisposto). «Quindi il vescovo tiene l’omelia, nella quale illustra le letture e parla ai pre- senti e agli eletti del ministero diaconale, tenendo presente la condizione de- gli ordinandi, se sono sposati o non sposati. Sul ministero diaconale può dire 354 Egidio Miragoli

queste parole o altre simili» (Ordinazione dei diaconi, n. 298). (Segue un te- sto di omelia già predisposto). «Nell’omelia illustra le letture bibliche, dando, se lo ritiene opportuno, alcu- ne indicazioni sulla sua azione pastorale e predisponendo l’assemblea a una fruttuosa partecipazione all’eucaristia» (Inizio del ministero pastorale del ve- scovo nella sua diocesi, n. 377). «Dopo la proclamazione del vangelo il vescovo si porta alla sede preparata per lui e tiene l’omelia» (Ammissione tra i candidati all’ordine sacro, n. 397).

Anche per questa sezione, facciamo qualche considerazione. I libri liturgici della riforma conciliare indicano, per qualsiasi ri- to, il momento appropriato per l’omelia. Come fa notare Della Torre, «sembra che ormai un agire rituale privo di parola omiletica sia rite- nuto insufficiente se non fuorviante» 8. I libri liturgici, oltre a indicare ogni volta la collocazione esatta dell’omelia, non omettono di ricordare le due attenzioni che essa de- ve avere: il suo essenziale radicamento nella parola di Dio procla - mata e l’attenzione al mistero celebrato. Sovente, inoltre, si ricorda di avere attenzione alla situazione umana e spirituale dei presenti. Confrontando la terminologia usata nei documenti magisteriali con quella usata nei libri liturgici è facile cogliere uno scarto. Mentre nei documenti si dice espressamente che c’è un’omelia che può esse- re tenuta anche dal laico, nelle rubriche liturgiche si cerca di evitare la parola omelia in riferimento al laico. Il caso più evidente è quello dell’Ordo celebrandi matrimonium dove si dice: «È opportuno che l’assistente laico proponga un’esortazione (adhortationem tradat) o legga l’omelia (aut homiliam legat) preparata dal vescovo o dal parro- co» (n. 125). Questa stessa disposizione era stata inserita, in passato, solo una volta, nel n. 37 dell’istruzione Inter oecumenici (del 1964), a proposito delle celebrazioni della Parola.

L’omelia nel Codice di diritto canonico Per completare la nostra rassegna, secondo lo schema che ci eravamo proposti, non ci manca ora che il testo del Codice, di cui leggiamo subito i canoni:

«can. 386 § 1. Il vescovo diocesano [...] abbia anche cura che si osservino fe- delmente le disposizioni e i canoni che riguardano il ministero della Parola, soprattutto l’omelia [de homilia praesertim] e la formazione catechetica.

8 L. DELLA TORRE, L’omelia nei libri liturgici..., cit., p. 28. Il termine “omelia” nei documenti della Chiesa, nei libri liturgici e nel Codice 355

can. 528 § 1. Il parroco è tenuto a fare in modo che la parola di Dio sia fedel- mente annunciata a coloro che si trovano nella parrocchia; perciò curi che i fedeli laici siano istruiti nelle verità della fede, soprattutto con l’omelia [prae- sertim homilia] delle domeniche e delle feste di precetto e con l’istruzione catechetica. can. 767 § 1. Tra le forme di predicazione è eminente l’omelia [eminet homi- lia], che è parte della stessa liturgia ed è riservata al sacerdote o al diacono; in essa lungo il corso dell’anno liturgico siano esposti dal testo sacro i miste- ri della fede e le norme della vita cristiana. § 2. Nei giorni di domenica e nelle feste di precetto, in tutte le Messe che si celebrano con concorso di popolo, si deve tenere l’omelia [homilia habenda est] né la si può omettere per grave causa. § 3. Si raccomanda caldamente che, se si dà sufficiente concorso di popolo, si tenga l’omelia [homilia habeatur] anche nelle Messe che vengono cele- brate durante la settimana, soprattutto quelle celebrate nel tempo di Avvento e di Quaresima o in occasione di qualche festa o di un evento luttuoso. § 4. Spetta al parroco o al rettore della Chiesa curare che queste disposizioni siano religiosamente osservate».

Per chi ha seguito fin qui il nostro percorso risulterà facile scor- gere nelle espressioni concise del Codice – specialmente del can. 767 – l’ispirazione o, addirittura, la ripresa letterale dei testi concilia- ri: SC 35, 49, 52; DV 24. Altra fonte è il canone 1344 § 1 del CIC 1917 che pure parlava di omelia, dicendo:

«Nei giorni di domenica e nelle altre festività di precetto lungo l’anno è com- pito proprio di ogni parroco annunciare al popolo la parola di Dio nella con- sueta omelia [consueta homilia], soprattutto durante la Messa nella quale suole essere maggiore la presenza della gente» 9.

Pare evidente una cosa: il Codice, quasi tornando all’origine, cioè al Concilio, parla di omelia solo in riferimento alla celebrazione dell’eucaristia e – conseguentemente – solo in riferimento al mini- stro ordinato. È altrettanto evidente, allora, che il linguaggio e la ter- minologia correnti non sono univoci: c’è il linguaggio dei documenti – normalmente assunto anche da teologi, pastoralisti, liturgisti – e c’è il linguaggio più propriamente giuridico. Stante questa non uniformità, sarà importante, di volta in volta, dichiarare il punto di partenza e, entro una prospettiva giuridica, tener conto della scelta codiciale. Già abbiamo detto che essa corrisponde alla scelta conci-

9 «Diebus dominicis ceterisque per annum festis de praecepto proprium cuiusque parochi officium est, con- sueta homilia, praesertim intra Missam in qua maior soleat esse populi frequentia, Verbum Dei populo nuntiare». 356 Egidio Miragoli liare. Ma, possiamo dire, corrisponde anche alla storia più antica del termine. Nell’antichità l’omelia è legata alla celebrazione eucaristi- ca 10. La sua estensione agli altri sacramenti è di derivazione e ne at- tenua il significato. Così, quanto a chi tiene l’omelia, possiamo dire che essa è nata sulla bocca del vescovo, momento della sua voca - zione. Poi l’omelia passò anche sulla bocca del presbitero e, recente- mente, anche sulla bocca dei diaconi, ma fondamentalmente l’omelia è attività magisteriale, è propria del munus docendi del vescovo. Di- ce il direttorio pastorale dei vescovi Ecclesiae imago, riprendendo LG 25: «Tra i principali uffici dei vescovi eccelle la predicazione del vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, ne sono i dottori autentici, cioè rivestiti del - l’autorità di Cristo» (n. 55), e al numero 59 viene dedicato un intero paragrafo al magistero omiletico. Ma ecco, la “nuova evangelizzazio- ne” – problema di sempre –, le nuove urgenze pastorali, la scarsità del clero, che periodicamente si avverte, hanno spinto ad allargare i soggetti dell’omelia e a formulare nuovi generi di predicazione affini all’omelia. Ne deriva un’incoerenza verbale che alla lunga può creare problemi di interpretazione e anche qualche problema pastorale.

EGIDIO MIRAGOLI via Madre Cabrini, 2 26900 Lodi

10 Cf PH. ROUILLARD, Homélie, in Catholicisme, V, Paris 1962, coll. 829-831; A.M. HENRY, Prédication, in ibid., XI, Paris 1988, coll. 781-816; J.A. JUNGMANN, Missarum Sollemnia, I, Torino 1953, pp. 366-370. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 357-369 Contenuti e necessità dell’omelia di Eugenio Zanetti

Creatività... normata Uno dei passaggi obbligati, trattando il tema dell’omelia, è sen - z’altro quello dei suoi contenuti e della sua necessità: che cosa biso- gna dire nell’omelia? Quando bisogna tenere l’omelia? Ponendosi queste domande, il presente articolo non ha certa- mente l’intento di indicare una serie precettistica di argomenti o di modalità che devono essere osservati nell’omelia; né tanto meno di predeterminare in modo analitico lo svolgimento di un atto che non può che essere “creativo”. D’altra parte bisogna riconoscere che l’o - melia non può contenere di tutto, in modo indistinto: essa infatti è un atto “normato”, cioè intrinsecamente determinato dalla sua natura di predicazione liturgica, mistagogica, spirituale; un atto in cui interagi- scono la fede stessa del predicatore e quella degli altri partecipanti alla celebrazione, ognuno nel ruolo a lui assegnato dallo Spirito in forza della grazia battesimale, di un qualche ministero o incarico e dell’ordine sacro in particolare. Analogamente a quanto avvenuto nei primi quattro secoli della Chiesa in cui la liturgia tutta, in assenza di tradizioni sedimentate o di testi elaborati, visse spesso di una libertà e creatività celebrativa, normata però dalla sua particolare natura, così si può dire che l’ome - lia, al di là che sia letta o svolta più liberamente, deve essere sempre un atto creativo, che trova però la sua norma, il suo orientamento, in alcuni punti di riferimento essenziali. Essi riguardano anzitutto l’oggetto dell’omelia: il mistero pasqua - le di Gesù Cristo, annunziato nella parola di Dio e attuato negli altri gesti liturgici, in specie sacramentali; quindi, la finalità: muovere la fede dei partecipanti alla liturgia, cioè produrre in essi l’evidenza che 358 Eugenio Zanetti credere nella parola di Dio equivale ad attuare una rinnovata com- prensione di sé, della storia e delle cose tutte attorno al mistero di Cristo; e, infine, gli attori, cioè i partecipanti alla celebrazione litur- gica: il predicatore e gli uditori. Il compito di toccare la coscienza credente degli uditori implica un’opera di mediazione che necessariamente passa attraverso l’ap - propriazione della Parola fatta dal predicatore; ciò non significa ri- durre l’omelia del celebrante a una semplice testimonianza o a una conversazione familiare, ma vuol dire non misconoscere che l’omelia ha necessariamente anche una dimensione testimoniale e apostolica, in quanto atto autentico e forte di evangelizzazione, come si ricorda nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [= EN]:

«Questa predicazione particolarmente inserita nella celebrazione eucaristi- ca, da cui riceve forza e vigore particolari, ha certamente un ruolo speciale nel l’evangelizzazione, nella misura in cui esprime la fede profonda del mini- stro sacro che predica, ed è impregnata di amore» (EN 43); o anche in Rinnovamento della catechesi della CEI:

«La fede e la speranza di chi si fa ministro della Parola devono trasparire nel momento dell’omelia, di modo che chi ascolta possa cogliere la perenne at- tualità del mistero della salvezza, voglia assumerlo come norma di tutta la vi- ta e perseveri in una convinzione operosa» 1.

Trovano qui giustificazione i numerosi richiami biblici e magi- steriali attorno alla necessità che la vita del predicatore non sia in dissonanza con la parola proclamata e che l’omelia sia ben preparata con un’adeguata meditazione e incarnazione da parte dello stesso predicatore (cf Dei verbum, n. 25). Pertanto, le indicazioni normative in merito ai contenuti e alla necessità dell’omelia vanno lette in quest’ottica generale e colte nella loro valenza teologico-pastorale, a iniziare dai testi del CIC vigente, che al can. 767 § 1 così recita: «Nell’omelia [che è parte della stessa liturgia] lungo il corso dell’anno liturgico siano esposti dal testo sa- cro i misteri della fede e le norme della vita cristiana» 2. Al can. 768 § 1 si aggiunge, poi, in riferimento alla predicazione in generale, di cui l’omelia è però forma eminente: «I predicatori della parola divina

1 CEI, Documento pastorale Rinnovamento della catechesi, n. 29 (ECEI 1, n. 2457). 2 Per una panoramica sul canone si veda J.E. FOX, L’omelia e l’interpretazione autentica del canone 767 § 1, in «Ephemerides liturgicae» 106 (1992) 3-37. Contenuti e necessità dell’omelia 359 propongano in primo luogo ai fedeli ciò che è necessario credere e fare per la gloria di Dio e la salvezza degli uomini». Questi e altri testi magisteriali, che riporteremo, assolvono pre- cisamente lo scopo di evidenziare quella dimensione normativa in- trinseca all’omelia, nei termini teologico-pastorali poc’anzi ricordati. È dunque lasciandoci guidare soprattutto da questi testi che approfon- diremo i punti essenziali di riferimento che devono esser tenuti pre- senti nell’omelia 3, ribadendo che tale normatività, lungi dal penalizza- re e standardizzare l’atto dell’omelia, diventa invece elemento cataliz- zante la sua creatività, cioè l’elaborazione di un’azione sapiente che, come ha detto Agostino, tende a probare, delectare et flectere, cioè a insegnare il vero, a far gustare il bello e a incoraggiare al giusto. Nelle Premesse all’Ordo Lectionum Missae [= POLM] si afferma, infatti:

«Con l’omelia il celebrante guida i fratelli a intendere e gustare la Scrittura, apre il cuore dei fedeli al rendimento di grazie per i fatti mirabili da Dio com- piuti; alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella parola che nel- la celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento, li prepara infine a una fruttuosa comunione e li esorta ad assumersi gli impegni della vita cristiana» (POLM 41).

Nei paragrafi seguenti svilupperemo, dunque, questi elementi essenziali dell’omelia, come ben sintetizzati nel documento del 1964 Inter oecumenici [= IO]:

«Per omelia, da tenersi dal testo sacro, si intende la spiegazione di qualche aspetto delle letture della Scrittura o di altri testi dell’ordinario e del proprio della Messa del giorno, tenendo in debito conto il mistero celebrato e le par- ticolari esigenze degli ascoltatori» (IO 54).

Ex Scriptura et ex Liturgia Quasi tutti i testi magisteriali che trattano dell’omelia indicano come sue essenziali fonti la Scrittura e la liturgia, elementi inscindi- bilmente uniti e indispensabili per illuminare il mistero di Cristo sempre vivo e operante; così si legge per esempio in Sacrosanctum concilium, n. 35:

3 Si terranno comunque presenti alcuni studi di carattere generale, come per esempio, AA.VV., Predica- re oggi, Milano 1982; AA.VV., Il ministero della predicazione, Bergamo 1985; AA.VV., L’omelia: un mes - saggio a rischio, Padova 1996. 360 Eugenio Zanetti

«Il momento più adatto per la predicazione come parte dell’azione liturgica, quando è ammessa dal rito, sia indicato anche nelle rubriche. [...] Essa poi attinga anzitutto alle fonti della Scrittura e della Liturgia, come annunzio del- le mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cri- sto, mistero che è in noi sempre operante, soprattutto nelle celebrazioni li- turgiche».

Si ha un interessante precedente a tale testo conciliare nella di- chiarazione della Commissione Preparatoria contenuta nello sche- ma per i Padri del Concilio, in cui, affermando che l’oggetto della predicazione deve scaturire ex Scriptura et ex Liturgia, fu però mes- so bene in evidenza come ciò non significhi che la predicazione de- ve imperniarsi sempre attorno allo schema: creazione, elevazione, peccato, preparazione della redenzione nell’Antico Testamento, Cri- sto, Chiesa, escatologia, richiamando tutti i dogmi e i precetti della Chiesa. Ma significa attingere dalla Scrittura e dai testi liturgici ciò che è necessario e utile per illustrare e far gustare le opere meravi- gliose di Dio 4. Anche la Nota della CEI La Bibbia nella vita della Chiesa invi- ta i pastori ad aiutare i fedeli a cogliere il nesso indissolubile tra Scrittura e liturgia, cioè «come la Bibbia annunci ciò che nella ce- lebrazione si compie e come la Liturgia realizzi ciò che la Bibbia annuncia, collocandone la proclamazione in seno alla fede e alla vi- ta della comunità dei credenti riuniti intorno a Cristo nella lode del Padre» 5. Lo stretto legame e condizionamento tra queste due fonti è dato anche dal fatto che la parola di Dio proclamata nella liturgia è sempre composta da letture “scelte”, cioè da singoli brani della Scrittura, che proprio a causa di tale scelta acquistano una propria autonomia e, ac- costati l’uno all’altro dentro una stessa celebrazione, indirizzano ver- so una particolare interpretazione. Per questo spesso i termini iniziali delle letture vengono leggermente variati (cf In quel tempo...); oppure nella loro composizione liturgica vengono omessi alcuni versetti. Co- sì pure, a volte nelle Messe di certi periodi dell’anno liturgico si ha una lettura pressoché continua di un libro della Bibbia; in altri mo- menti o periodi, invece, viene scelta una sequenza di letture con la

4 Cf Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano II Apparando: Series II (Praeparatoria) - Volu- men II: Acta Pontificiae Commissionis Centralis Praeparatoriae Concilii Oecumenici Vaticani II, Pars III, Typis polyglottis Vaticanis, 1968, pp. 39.53. 5 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE E LA CATECHESI DELLA CEI, Nota pastorale La Bib- bia nella vita della Chiesa, n. 25 (ECEI 5, n. 2939). Contenuti e necessità dell’omelia 361 chiara intenzione di costituire un itinerario tematico e spirituale, op- pure per sottolineare una certa festa o un’occasione particolare. Ma, al di sopra di tutto, occorre ribadire come ogni brano della Scrittura che viene a comporre la liturgia della parola di Dio, soprat- tutto nell’eucaristia, acquista una sua pregnanza attualizzante pro- prio in connessione col particolare mistero di Cristo che viene cele- brato nell’assemblea cristiana. In tal modo la Parola proclamata nella liturgia diviene un

«nuovo evento e arricchisce la Parola stessa di una nuova efficace interpre- tazione; così la Chiesa segue fedelmente nella liturgia quel modo di leggere e di interpretare le Scritture, a cui ricorse Cristo stesso, che a partire dall’og- gi del suo evento esorta a scrutare tutte le Scritture» (POLM 3; cf pure n. 4).

In tale contesto, che cosa significa dunque che l’omelia deve es- sere una spiegazione della Scrittura? Anzitutto, significa evitare due estremi: fare dell’omelia una stretta esegesi biblica oppure un ge- nerico florilegio di testi biblici a commento di un tema prefissato. È importante che il predicatore, nella fase di preparazione del - l’omelia, si avvalga degli strumenti esegetici oggi numerosi, al fi- ne di cogliere il significato dei brani biblici proclamati, nel testo e nel contesto più generale della Bibbia. Ma l’omelia non può ridursi alla riproposizione degli esiti dell’indagine esegetica, anche se que- sto potrebbe facilmente riempire il tempo dell’omelia e dare l’im - pressione di mettere in primo piano la parola di Dio. Può darsi che a volte alcuni chiarimenti esegetici siano necessari; ma anche in tal caso è opportuno che non siano offerti in forma esplicita e didat- tica, bensì in forma fugace e indiretta, per esempio mediante la parafrasi interpretante. Occorre, cioè, evitare a tutti i costi di parla- re “del” testo, e cercare invece in tutti i modi di parlare “col” testo biblico. Se va evitata la tentazione di legare troppo materialmente l’ome- lia al testo biblico, va ancor più evitata la tentazione di far diventare il testo o i testi biblici un semplice pretesto per giustificare o esemplifi- care un’argomentazione attorno a un tema prefissato che sta a cuore al predicatore o che gli è imposto da qualche circostanza. Questa tendenza può essere riscontrabile, per esempio, in occasioni di cele- brazioni eucaristiche in certe “giornate” dedicate a qualche tema o realtà ecclesiale, oppure in alcune circostanze di festa o di dolore della comunità. Anche in queste circostanze particolari l’omelia deve avere come fonti essenziali la Parola e la liturgia del giorno: 362 Eugenio Zanetti

«Nelle “giornate” indette per una determinata domenica, si celebri, come di regola, la Messa propria del giorno del Signore con le sue letture e con l’omelia relativa alle letture stesse»6.

L’indicazione di evitare queste due deviazioni è contenuta impli- citamente nel testo già citato di IO 54, dove si afferma che l’omelia è da tenersi dal testo sacro, ma come spiegazione di qualche aspetto delle letture. Ciò significa che l’atto creativo dell’omelia consiste nel saper scegliere ex textu sacro una particolare prospettiva di lettura, cioè un particolare messaggio da rivolgere ai fedeli presenti, appog- giandosi alla scelta di un aspetto delle letture e lasciandosi guidare, per così dire, da un leit-motiv, determinato tra l’altro anche da altri fattori, come il particolare mistero celebrato o le specifiche esigenze degli uditori. Solo così il predicatore renderà l’omelia un vero nutri- mento spirituale, che non tocca solo l’intelligenza, ma anche il senti- mento e la volontà. Per usare altre immagini, si potrebbe dire che il predicatore è chiamato a fare un lavoro di levatrice: nei confronti della Scrittura, dalla quale cerca di far nascere la Parola, Gesù Cri- sto; e nei confronti degli ascoltatori, nei quali cerca di far sorgere dei credenti. Così pure egli è chiamato a far da traghettatore tra le paro- le scritturistiche e le parole della fede, attraverso una parola che sul- la sua bocca acquista una dimensione profetica. Per questo l’omelia non può essere una lezione di esegesi o un discorso qualsiasi, ma una riproposizione e un prolungamento della profezia con cui la Chiesa legge le Scritture. Oltre al necessario, ma particolare, riferimento al testo biblico, il testo di IO 54 aggiunge anche che l’omelia potrebbe riprendere e ap- profondire un aspetto di altri testi dell’ordinario o del proprio della Mes- sa del giorno. Si deve, infatti, notare come spesso vi sia circolarità e ri- chiamo tra i testi biblici e quelli eucologici, come si ricorda in SC 24:

«Dalla Scrittura si attingono le letture da spiegare nel l’omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci e i carmi li- turgici; da essa infine prendono significato le azioni e i testi liturgici».

6 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA DELLA CEI, Seconda edizione del Messale romano. Precisazioni. Giornate nazionali o diocesane, n. 2 (ECEI 3, n. 1411). La stessa CEI ha mostrato una certa evoluzione su questo tema, se si pensa per esempio a un’indicazione data nel 1967 a proposito dell’introduzione sperimentale della Giornata per la moralizzazione dell’utenza stradale nella Domenica in Albis: «Ai rev.mi parroci arriverà da parte dell’Automobil Club del materiale di propaganda. Sarebbe infatti utile che, nella giornata culminante di questa campagna [...], si trovasse modo di fare un richiamo ai fedeli in tal senso durante le varie predicazioni omiletiche e catechistiche che si svolgono nella giornata» (CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA CEI, Comunicato Moralizzazione dell’utenza stradale , [ECEI 1, n. 880]). Contenuti e necessità dell’omelia 363

Il riferimento alla possibilità che l’omelia attinga anche dagli al- tri testi liturgici sottolinea ancora una volta l’indissolubile legame di questo tipo di predicazione con la globalità della celebrazione in cui è inserita e della quale è a servizio: l’eucaristia, anzitutto, ma anche le altre celebrazioni sacramentali e non sacramentali:

«Pertanto l’omelia, sia che spieghi la parola di Dio annunziata nella Scrittura o un altro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente all’eucaristia, perché “esprimano nella vita ciò che hanno ricevu- to mediante la fede (SC 10)”» (POLM 24).

Ogni celebrazione, infatti, attualizza il mistero pasquale di Cri- sto; e ciò avviene in modo eminente nell’eucaristia:

«Infatti, il mistero pasquale di Cristo, che viene annunziato nelle letture e nel- l’omelia, viene attualizzato per mezzo del sacrificio della Messa» (POLM 24).

L’omelia della Messa è dunque necessariamente attratta e rivol- ta al mistero eucaristico e ne diventa un’illuminazione, sia pur parzia- le, a partire da qualche aspetto del testo sacro. Ma ciò che avviene per l’eucaristia avviene anche per le altre celebrazioni liturgiche. Nei vari rituali, infatti, si sottolinea come l’o - melia debba illustrare sia le letture sia il sacramento o altro dono conferito, a volte aggiungendo a tal riguardo un testo esemplificativo oppure alcune utili indicazioni. I rituali che propongono dei testi esemplificativi di omelia se- guono uno schema abbastanza simile. Anzitutto, il testo si divide in due parti: nella prima il celebrante si rivolge in generale a tutti i pre- senti, nella seconda invece direttamente agli interessati (candidati vescovi, presbiteri, diaconi, consacrate, cresimandi). Dal punto di vi- sta più contenutistico, nella prima parte si tratta del significato dell’e - vento che si sta celebrando: inizialmente a partire dai dati biblici o tradizionali, poi in modo più sistematico e attualizzante. Nella secon- da parte il celebrante, rivolgendosi ai diretti interessati, li invita, con tono quasi esistenziale e spirituale, a riconoscere la grandezza e la profondità del dono e del compito che stanno per ricevere; quindi li esorta ad assumere un comportamento di vita conseguente, momen- to questo più specificatamente parenetico. Al di là dei singoli contenuti, che non è qui il caso di riportare dettagliatamente, è interessante cogliere gli elementi strutturali di questi testi/omelia, i quali collocano il mistero celebrato nella luce 364 Eugenio Zanetti del disegno salvifico divino, che sempre si realizza nella storia, e lo attualizzano nella vicenda e nelle circostanze particolari vissute oggi dai fedeli in generale e dai candidati in particolare. Parafrasando in- dicazioni simili presenti nei Rituali, si potrebbe dire che il celebrante nell’omelia, riferendosi ai brani letti e spiegandone il significato, con- duce quasi per mano i fedeli a una comprensione più profonda e viva del mistero celebrato.

Quale attualizzazione? Come abbiamo visto, un’altra norma intrinseca all’omelia è il ri- ferimento alle circostanze di vita degli uditori, in vista di una concre- ta e possibile attuazione del messaggio proposto. In Principi e Nor- me per l’uso del Messale romano si afferma che «l’efficacia della paro- la di Dio viene accresciuta da un’esposizione viva e attuale, cioè dal l’omelia»; «essa è necessaria per alimentare la vita cristiana» (nn. 9 e 24). E nell’introduzione al Lezionario si aggiunge che «l’omelia sia davvero frutto di meditazione, ben preparata, non troppo lunga né troppo breve, e che in essa ci si sappia rivolgere a tutti i presenti, compresi i fanciulli e la gente semplice» (POLM, 24). Sia pur trattan- do della dottrina cristiana in generale, nel can. 769 del CIC vigente si afferma che essa «sia proposta in modo conforme alla condizione de- gli uditori e adatta alle necessità dei tempi». L’attenzione alle circostanze, lo sforzo di attualizzazione, la conse- gna di indicazioni per la vita cristiana non possono che essere il frutto, ancora una volta, di una sapiente opera creatrice di colui che tiene l’o - melia. A tal fine egli dovrà articolare armonicamente diversi fattori: le indicazioni contenute nel magistero della Chiesa, gli esempi presenti nella storia della spiritualità, le provocazioni provenienti dai fatti di at- tualità ecc. Questo esito dell’omelia è profondamente atteso dai fedeli riuniti per celebrare il mistero di Cristo e scorgerne la sua attualità; ma questo frutto può maturare a condizione che

«l’omelia sia semplice, chiara, diretta, adatta, profondamente radicata nell’in- segnamento evangelico e fedele al magistero della Chiesa, animata da un ar- dore apostolico equilibrato che le viene dal suo proprio carattere, piena di speranza, nutriente per la fede, generatrice di pace e di unità» (EN 43).

Proviamo a riprendere analiticamente gli elementi elencati in questo testo, iniziando dal riferimento ai contenuti dogmatici e dot- trinali. Per la natura propria dell’omelia, è evidente che essa non pos- Contenuti e necessità dell’omelia 365 sa proporsi come oggetto la spiegazione catechistica del dogma; tut- tavia, è pur vero che il dogma è criterio autentico di interpretazione della tradizione della Chiesa e dunque della stessa Scrittura. Ciò com- porta che l’omelia deve evitare il semplice ricorso a citazioni dogmati- che o a formulazioni teologiche standardizzate. Occorre, invece, im- mettere nel complesso atto creativo dell’omelia un riferimento alla dottrina della Chiesa capace di cogliere e realizzare il senso e la ve- rità delle formule, a servizio del messaggio da comunicare ai fedeli; un senso e una verità che non possono essere individuati e trasmessi se non con un’attenzione antropologica. Ciò significa dire la verità cri- stiana in maniera tale che essa subito appaia per ciò che è in profon- dità, cioè una rinnovata comprensione di sé da parte del l’uomo rag- giunto dalla grazia divina. Tale azione trova proprio nell’o melia il luo- go adatto per prodursi, in quanto essa non è semplice insegnamento o catechesi, ma riproposizione attuale e viva del mistero di Cristo. È quanto espresso nel già citato testo della Commissione prepa- ratoria al Concilio in merito ai contenuti dell’omelia: dopo aver affer- mato che la predicazione non deve essere sempre la ripresa di tutti i trattati di teologia, si aggiunge però che essa, per l’utilità e la neces- sità degli uditori, può e deve toccare tutto ciò che riguarda i dogmi e la teologia morale, al fine di istruire, esortare, raccomandare e difen- dere dagli errori e dai pericoli i fedeli; ma aggiunge che la predica- zione non deve mai dimenticare che tutto questo alla fin fine deve in- durre ad annunziare, ammirare, lodare le opere di Dio nella storia della nostra salvezza, sempre in atto per noi in Cristo, anzitutto nelle stesse celebrazioni liturgiche 7. In merito ai contenuti morali e sociali dell’omelia, se è vero che una certa forma di predicazione del passato insisteva molto su di es- si, è forse altrettanto vero che oggi si tende a non dire più nulla di ciò; al massimo ci si limita a un generico riferimento al comanda- mento dell’amore. Il cammino omiletico, che deve giungere anche al momento attualizzante, non può non fare riferimento anche alle con- seguenze morali, ma ciò deve essere fatto in modo appropriato. Il can. 768 § 2 sancisce che i predicatori

«impartiscano ai fedeli anche la dottrina che il magistero della Chiesa propo- ne sulla dignità e libertà della persona umana, sull’unità e stabilità della fami- glia e sui suoi compiti, sugli obblighi che riguardano gli uomini uniti nella

7 Cf supra nota 7. 366 Eugenio Zanetti

società, come pure sul modo di disporre le cose temporali secondo l’ordine stabilito da Dio».

Nell’omelia non può mancare il riferimento agli insegnamenti morali e sociali della Chiesa; tuttavia ciò deve essere fatto sempre te- nendo presente l’indole propria dell’omelia, come abbiamo visto più in generale a proposito dell’insegnamento dottrinale. Si dovrà, cioè, rifuggire da una generica e astratta riaffermazione dei principi e dei valori morali cristiani e suggerire invece l’intreccio complesso, ma anche accattivante, in cui oggi si dà la possibilità di vivere i coman- damenti cristiani e in particolare il comandamento supremo dell’a - more, non come leggi pesanti e penalizzanti, bensì come buona no- vella che muove positivamente la libertà dell’uomo verso Dio e verso i fratelli. Per esempio, si potrà riproporre, sia pure secondo la sensi- bilità moderna, l’attenzione per le virtù, cioè per quegli atteggiamen- ti sintetici della coscienza morale considerata nella sua profondità spirituale, ma anche nelle sue concrete determinazioni psicologiche e culturali. L’attenzione alle persone concrete a cui il predicatore si rivolge nell’omelia, cioè l’attenzione alle loro attese, problemi, sofferenze, ri- cerche, timori (che sono poi anche del predicatore), non è quindi elemento accessorio per una vera ed efficace attualizzazione, cioè per realizzare lo scopo dell’omelia di provocare la fede degli uditori. In realtà è proprio tale attenzione che deve guidare l’interpretazione sia del testo sacro che delle altre fonti dell’omelia. Infatti, poiché non ci può mai essere una lettura neutra della parola di Dio e dell’inse- gnamento della Chiesa, il predicatore deve essere capace di esplici- tare le domande con le quali gli uomini di oggi si pongono di fronte al testo biblico nel contesto della celebrazione liturgica. Se fin dalla preparazione e lungo l’omelia il predicatore si lasce - rà guidare da tale consapevolezza, il momento attualizzante non si ridurrà alla ricerca di qualche esempio edificante, di qualche frase d’effetto o fatto eclatante di cronaca per far colpo sugli uditori (attua- lizzazione questa che rischia di essere qualcosa di aggiunto artificial- mente o artificiosamente). Ma sarà la logica e attesa conclusione di un itinerario che, nella luce e nel calore della parola di Dio, porterà gli uditori a riconoscere in essa, cioè in Gesù, una parola che sa inter- pretare la loro vita e svelare il senso di ciò che si agita nella loro co- scienza, una parola promettente alla quale è possibile, anzi doveroso affidarsi. Certo dall’omelia e dalla celebrazione liturgica nel suo insie- Contenuti e necessità dell’omelia 367 me non proverranno delle risposte complete ed esaustive; ma il mi- stero proclamato e celebrato potrà mettere in atto un’azione interiore che muoverà la coscienza credente a sapersi orientare nei concreti problemi dell’esistenza. Così l’aspetto parenetico si coniuga stretta- mente con quello mistagogico.

Obbligatorietà od opportunità dell’omelia Se davvero l’omelia è colta come parte integrante della liturgia, soprattutto eucaristica, al fine di condurre l’assemblea a vivere i mi- steri della fede cristiana, si comprende la normativa che tocca la sua obbligatorietà od opportunità in certe circostanze. La norma, dun- que, registra una necessità intrinseca dell’atto dell’omelia e la ingiun- ge proprio per la sua importanza teologica e pastorale. Sul versante dell’obbligatorietà il can. 767 § 2 prevede che «nei giorni di domenica e nelle feste di precetto, in tutte le Messe che si celebrano con concorso di popolo, si deve tenere l’omelia né la si può omettere se non per grave causa». Il testo codiciale ripropone di fatto una norma già presente in SC 52, ripresa anche nei Principi e norme del Messale romano, come pure nell’introduzione al Lezionario al n. 25, dove si precisa: «Nei giorni prescritti, e cioè nelle domeniche e feste di precetto, anche nelle Messe vespertine del giorno precedente, l’omelia è obbligatoria in tutte le Messe che si celebrano con concorso di popolo […]. Anche nelle Messe con i fanciulli e con gruppi particolari si deve tenere l’omelia».

In EN l’argomento viene esplicitamente allargato dalla Messa alle altre celebrazioni sacramentali e paraliturgiche: «Aggiungiamo che, grazie al medesimo rinnovamento liturgico, la celebra- zione eucaristica non è il solo momento appropriato per l’omelia. Questa tro- va il suo posto e non deve essere trascurata nelle celebrazioni di tutti i sacra- menti, o ancora nel corso di paraliturgie, nell’ambito di assemblee di fedeli» (n. 43).

In effetti tale indicazione è ripresa nei vari rituali. In quello del- l’iniziazione cristiana degli adulti si dice che occorre tenere l’omelia nelle diverse tappe previste, dall’ammissione al catecumenato al con- ferimento dei sacramenti 8. Nel rituale per il battesimo dei bambini si

8 CEI, Rito dell’iniziazione cristiana, Roma 1978, nn. 91, 142, 161, 168, 175, 185, 191, 196, 347. 368 Eugenio Zanetti dice che il celebrante dopo la lettura tiene una breve omelia 9; così pu- re nel rituale della confermazione 10, della riconciliazione 11 e del ma- trimonio 12. La stessa cosa avviene nel rituale delle esequie 13 e in quel- lo della comunione fuori dalla Messa e del culto eucaristico 14. Nel ri- tuale dell’unzione degli infermi non si parla precisamente di omelia, ma solo si accenna a una breve spiegazione dopo la lettura biblica 15. Anche nel Pontificale Romano si afferma che il celebrante tiene l’omelia nel rito dell’ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei dia- coni 16; così pure nei riti di conferimento dei ministeri, di professione religiosa, di consacrazione delle vergini, di benedizione abbaziale 17. Anche nel Benedizionale si danno indicazioni per un intervento di ti- po omiletico 18. Oltre a queste circostanze, la normativa prevede altre occasioni in cui l’omelia viene «caldamente raccomandata, se si dà un suffi- ciente concorso di popolo», come indica il can. 767 § 3, «nelle Messe che vengono celebrate durante la settimana, soprattutto quelle che vengono celebrate nel tempo di avvento e di quaresima o in occasio- ne di qualche festa o di un evento luttuoso». A questi tempi partico- lari nell’introduzione al Lezionario si aggiunge il tempo pasquale, tempo centrale nell’anno liturgico; inoltre si allarga il discorso ad «al- tre feste e circostanze nelle quali il popolo accorre più numeroso alla chiesa» (POLM 25). Infine, anche per quanto riguarda la Liturgia delle ore si suggerisce che, se lo richiede l’opportunità, si aggiunga una breve omelia dopo la lettura di Lodi e Vespri, e così pure nelle celebrazioni vigiliari 19. Questi sono, dunque, i momenti e le circostanze in cui tenere l’o melia. Sembrerebbe di dover concludere che ciò deve essere fatto quasi sempre durante un’azione liturgica. Tale constatazione, come pure tutto ciò che abbiamo notato a riguardo dei contenuti (fonti, at- tenzioni, pericoli, difficoltà), potrebbe forse scoraggiare coloro che

9 CEI, Rito per il battesimo dei bambini, n. 48. 10 CEI, Rito della Confermazione, n. 25. 11 CEI, Rito della Penitenza, n. 25. 12 CEI, Rito del Matrimonio, nn. 25, 47. 13 CEI, Rito delle Esequie, nn. 17, 69, 95. 14 CEI, Rito della Comunione fuori dalla Messa e del Culto eucaristico, nn. 31, 112. 15 CEI, Rito dell’Unzione degli infermi, n. 74. 16 CEI, Ordinazione del Vescovo, dei Presbiteri e dei Diaconi, nn. 42, 167, 220. 17 CEI, Istituzione dei ministeri (nn. 10, 28, 49; Consacrazione delle vergini (n. 29); Benedizione abbaziale (n. 23). 18 CEI, Benedizionale, n. 21. 19 CEI, Liturgia delle ore, nn. 47, 73, 165. Contenuti e necessità dell’omelia 369 sono chiamati al compito di preparare e tenere l’omelia, e far pensa- re che sia impossibile in tutte le circostanze ricordate tenere un’o- melia autentica, cioè

«Non la predica moraleggiante, non il fervorino untuoso e vuoto, non il pez- zo più o meno retorico d’occasione, né tanto meno l’elucubrazione erudita, ma la vera omelia ex textu sacro, come si esprime il Concilio: l’esposizione cioè semplice e pertinente, che cala nell’esistenzialità dell’assemblea le mul- tiformi ricchezze del mistero di Cristo e del rito sacro in atto» 20.

Ciò davvero apparirebbe impossibile, se l’atto dell’omelia fosse ritenuto un semplice atto umano. Poiché, invece, questo atto creativo è in realtà eco dell’unica Parola veramente creatrice e spiritualmente efficace, è cioè un evento di grazia suscitato dallo Spirito, allora l’ap - prensione o lo scoraggiamento devono lasciare il posto alla fiducia, sapendo che la Parola di Dio agisce anche e soprattutto attraverso la debolezza della croce, che è l’unica e vera sapienza cristiana.

EUGENIO ZANETTI Via Arena, 11 24129 Bergamo

20 CEI, Evangelizzazione e sacramenti, n. 69 (ECEI 2, n. 459). Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 370-381 La riserva dell’omelia ai ministri ordinati. Senso ed estensione del disposto del can. 767 § 1 di Mauro Rivella

Potrebbe sembrare sproporzionata la scelta di dedicare un inte- ro articolo all’indagine sul senso dell’affermazione contenuta nel can. 767 § 1, dove si dice che «l’omelia è riservata al sacerdote o al dia - cono». In realtà, se le parole ora riportate appaiono in sé chiare, la let- tura degli studi dedicati al tema e degli interventi dell’autorità che hanno dato applicazione alla norma dimostra che è tutt’altro che im- mediata la determinazione della portata effettiva di tale riserva. An- che l’interpretazione autentica del 26 maggio 1987, che stabilisce che il vescovo diocesano non può dispensare da tale disposto, se da una parte ha definito un punto dibattuto in dottrina, dall’altra ha dato adi- to a ulteriori discussioni. Il problema di fondo può essere così rias- sunto: si tratta di stabilire se il termine omelia si applichi in questo pa- ragrafo a tutte le azioni liturgiche che la contemplano o vada riferito esclusivamente alla celebrazione eucaristica. Cercheremo di chiarire come si sia giunti al disposto del can. 767 § 1, analizzando i momenti salienti dell’elaborazione della nor- ma; come essa possa conciliarsi con la normativa liturgica postconci- liare; come sia stata interpretata dalle Conferenze episcopali che hanno deliberato in materia; quale aiuto offrano alla comprensione del testo la già citata interpretazione autentica e alcuni documenti postcodiciali. La questione non è squisitamente accademica, ma ha notevoli applicazioni pastorali, soprattutto in quelle nazioni dove è in- valsa la prassi di ammettere abitualmente i laici a predicare nel cor- so delle celebrazioni liturgiche. Si noti che in alcuni casi, come in Germania, si giunse nel periodo postconciliare a riconoscere loro – con l’approvazione della Santa Sede – la possibilità di tenere l’omelia nella Messa. La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 371

In questo stesso fascicolo è stato già chiarito che cosa debba in- tendersi per omelia. Ci limitiamo qui a riportare una definizione sin- tetica di Luigi Della Torre: «Comunicazione non ritualizzata della pa- rola divina in un contesto celebrativo» 1, e la descrizione più ampia che ne dà l’Ordinamento delle letture della Messa, tenendo ovviamen- te presente che essa si riferisce in recto alla celebrazione eucaristica. Il testo è desunto dal n. 24 della seconda edizione tipica, promulgata il 21 gennaio 1981:

«Tenuta di norma da colui che presiede, l’omelia nella celebrazione della Messa ha lo scopo di far sì che la proclamazione della parola di Dio diventi, insieme con la liturgia eucaristica, “quasi un annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo” (SC 35). Infatti il mistero pasquale di Cristo, che viene annunziato nelle letture e nell’omelia, viene attualizzato per mezzo del Sacrificio della Messa. Sempre poi Cristo è presente e agisce nella predicazione della sua Chiesa. Pertanto l’omelia, sia che spieghi la parola di Dio annunziata nella Sacra Scrittura o un altro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente al - l’Eucaristia, perché “esprimano nella vita ciò che hanno ricevuto mediante la fede” (SC 10)».

A una prima lettura, la risposta alla questione sull’estensione della riserva dell’omelia ai ministri sacri parrebbe ovvia, tanto più se si considera la specificazione contenuta nel testo, che afferma senza limitazioni, citando Sacrosanctum concilium [= SC], n. 52, che essa «è parte della liturgia stessa». Così argomentano infatti alcuni autori, ritenendo che non si dia mai omelia in assenza del ministro ordinato. I più tuttavia propendono per un’interpretazione restrittiva del termi- ne, giudicando che sia qui riferito alla sola omelia nella celebrazione eucaristica. Molti ritengono addirittura evidente tale restrizione, e pertanto non si soffermano a darne spiegazione. Altri invece ne ad- ducono espressamente le ragioni, come fa per esempio il Commenta- rio della Società Canonistica Statunitense:

«L’omelia cui ci si riferisce in questo canone è quella predicata nella celebra- zione eucaristica. Ciò è chiaro dal contesto (i §§ 2-3 fanno esplicito riferi- mento alla Messa), dalle fonti (sia SC 52 sia i paragrafi 53-55 dell’istruzione Inter oecumenici del 1964 appartengono ai capitoli sul mistero eucaristico) e dalla spiegazione data dalla Commissione per la revisione del Codice (Com- municationes 7 [1975] 152 e i praenotanda dello Schema 1977, p. 4). Questo è degno di nota perché ai laici è permesso leggere un’omelia nelle celebra-

1 L. DELLA TORRE, Omelia, in Nuovo dizionario di liturgia, Roma 1984, p. 923. 372 Mauro Rivella

zioni della parola di Dio quando non c’è un prete o un diacono disponibile (Inter oecumenici, n. 37)» 2.

Alle origini del canone La norma è in sé nuova, non avendo diretto corrispondente nel CIC 1917 che, come si sa, escludeva totalmente i laici dalla predica- zione (cf can. 1342 § 2). Intende recepire l’insegnamento del Vatica- no II e dare un’indicazione chiara a livello universale, senza entrare direttamente nel merito delle sperimentazioni postconciliari. Pare dunque evidente che i redattori hanno assunto il termine omelia nel- l’accezione corrente, cioè come «parte della liturgia stessa; in essa, nel corso dell’anno liturgico, vengono presentati dal testo sacro i mi- steri della fede e le norme della vita cristiana» (SC 52), forse senza porre la dovuta attenzione alle problematiche soggiacenti. Sembra corretto affermare che il Gruppo di studio De magisterio ecclesiastico, incaricato di preparare questi canoni, ha oscillato fra l’intendere l’o - melia come predicazione qualificata all’interno di ogni atto liturgico e il riferirla solamente alla celebrazione eucaristica. Se infatti è chiaro che ci può essere omelia in molteplici occasioni liturgiche, non è così perspicuo che la riserva del can. 767 § 1 si riferisca a tutte esse. Abbiamo già visto come il Commentario della Società Canonisti- ca Statunitense sia perentorio nell’affermare che i verbali dei lavori di revisione del Codice portino a intendere la riserva come riferita soltanto all’omelia nella Messa. A dire il vero, la lettura dei testi di- vulgati non sembra così univoca 3. Un’affermazione che farebbe pro- pendere per questa interpretazione è contenuta nel verbale della ses- sione del Gruppo di studio del 13-17 ottobre 1975, dove, discutendo la formulazione di quello che sarebbe diventato il can. 766, si distin- gue fra la predicazione in chiesa e quella nella Messa, rilevando che da quest’ultima, come ribadito da un pronunciamento della Commis- sione per l’interpretazione dei decreti del concilio Vaticano II del 18 dicembre 1970, sono esclusi i laici 4.

2 J.A. CORIDEN, Ad can. 767 § 1, in THE CANON LAW SOCIETY OF AMERICA, The Code of Canon Law. A Text and Commentary, New York – Mahwah 1985, p. 553. 3 Cf «Communicationes» 19 (1987) 256-257; 28 (1996) 242, 263, 269-271; 7 (1975) 152, nonché gli Sche- mata 1977 e 1980. 4 Can. 18 (CIC 1342) «Quaestio exsurgit de laicorum praedicatione eiusque limitibus ita ut distinguen- dum sit inter praedicationem in Ecclesia, quae certis in adiunctis possibilis est etiam laicis, et intra Mis- sam, quae ipsis prohibetur (etsi quibusdam Conferentiis concessa est – ex. gr. Germaniae), quia aequatio aliqua datur inter Missam, quae ad sacerdotem pertinet, et divini Verbi praedicationem. Post disceptatio- La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 373

È probabilmente questa la chiave di lettura più fondata dell’af - fermazione del can. 767 § 1: da un lato i redattori del CIC avevano ben presenti i testi conciliari, in base ai quali era assodato che l’ome- lia fosse compito esclusivo dei ministri ordinati, dall’altro essi non potevano ignorare le sperimentazioni che proprio in quegli anni la Santa Sede aveva autorizzato. Nel primo senso si era espressa la Com- missione per l’interpretazione dei decreti del concilio Vaticano II, nel testo sopra richiamato: si noti che esso fa riferimento al n. 42 dei Prin- cipi e norme del Messale romano, e quindi si riferisce esclusivamente all’omelia nella Messa 5. Nel secondo senso una lettera del prefetto della Congregazione per il Clero, datata 20 novembre 1973, indirizza- ta al presidente della Conferenza episcopale tedesca 6, dopo aver ri- badito le riserve di principio nei confronti di un’indebita estensione del compito di predicazione dei laici, che potesse mettere in ombra lo specifico del sacerdozio ministeriale e la stretta congiunzione esi- stente nella Messa fra il ministero della Parola e la riproposizione del sacrificio eucaristico, concedeva ai vescovi tedeschi ad experi- mentum per quattro anni la facoltà per i laici di predicare anche nella Messa, quando il celebrante fosse fisicamente o moralmente a ciò impedito e non vi fossero altri sacerdoti o diaconi in grado di sosti- tuirlo 7. Si noti come la formulazione del can. 767 § 1 non abbia subi-

nem omnes conveniunt ut textus relinquatur prouti est, quia ad Episcoporum Conferentiae praescripta res remittitur, quae praescripta ab Apostolica Sede probari debent. Tamen, ne in textu etiam homilia includa- tur, in fine adiungitur “salvo can. 19, § 1”, ubi expresse homilia a laicorum praedicatione excluditur, ut- pote actus magisterii qui etiam adspectum cultualem prae se fert, cum pars liturgiae sit. Situationes sunt inter se diversissimae et concessiones pro aliquibus Nationibus non defuerunt ex parte Sanctae Sedis, ta- men adest responsio authentica Commissionis Decretis Concilii Vaticani II interpretandis, in AAS publici iuris facta, quae laicis homiliam omnino interdicit. Et responsio illa vigorem habet legis» («Communica- tiones» 28 [1996] 269-270). 5 Commentando tale pronunciamento su richiesta della stessa Pontificia Commissione, in «Monitor Ec- clesiasticus» 96 (1972) 327, mons. Vincenzo Carbone rilevò che l’autorevole interpretazione lasciava aperta la questione dell’eventualità che un laico potesse tenere l’omelia al di fuori della Messa: «Com- missionis responsum definitur interpretatione verborum Institutionis Missalis Romani, de quibus in pro- posito dubio; ideoque non ingreditur quaestionem, quae ad aliam spectat provinciam, utrum scilicet ali- quando, per modum actus et ob rationabilem causam, homilia liturgica etiam laicis committi possit, ser- vata doctrina catholica de distinctione inter clericos et laicos». Il testo è riportato da J.E. FOX, L’omelia e l’interpretazione autentica del can. 767 § 1, in «Ephemerides Liturgicae» 106 (1992) 26, n. 55 (lo stesso contributo era apparso in lingua inglese in «Apollinaris» 42 [1989] 123-169). 6 Il testo in Leges Ecclesiae, a cura di X. Ochoa, V, Romae 1980, n. 4240, coll. 6685-6686. 7 «a) Intra Missam sermo de more a Celebrante habetur; b) Si Celebrans in suo munere obeundo sive phy- sice sive moraliter sit impeditus et alius presbyter praesto non sit neque diaconus, ita ut fidelibus desit hoc spirituale ex verbo Dei alimentum, Episcopi, necessitate cogente aut suadente, laicis facultatem praedi- candi etiam intra Missam concedere valent; c) Eandem facultatem Episcopi concedere possunt si ratione circumstantiarum particularium (e. gr. in festo ad familiam christianam tuendam, ad charitatis opera fovenda, ad missiones inter Gentes promovendas, aliisque festis iudicio Episcopi), laici praesto sint specia- li competentia praediti atque eorum adhortatio valde opportuna reputetur» (l. cit.). 374 Mauro Rivella to variazioni dallo Schema 1977 sino alla redazione definitiva del 1983. La discussione si è invece aperta sul can. 766, proprio in ordi- ne all’estensione della possibilità dei laici di essere ammessi alla pre- dicazione. Fatta sempre salva la riserva di cui all’attuale can. 767 § 1, si è passati da una formulazione in negativo, contenuta nello Schema 1977 8, all’attuale formulazione in positivo, che è presente già nello Schema 1980. Nelle osservazioni a tale Schema, pubblicate nel 1981, emerge la richiesta, formulata dal card. Ratzinger, di prescrivere la necessità di una vera e propria “facoltà”, cioè di un’autorizzazione, per i laici che si dedicano alla predicazione nelle chiese. Anche se l’istanza sarà respinta, è interessante riportare le motivazioni su cui si basa: il rescritto della Santa Sede del 1973 aveva introdotto in alcu- ne diocesi tedesche la consuetudine di far tenere l’omelia nella Mes- sa festiva dai cosiddetti “assistenti pastorali”. A giudizio del propo- nente, tale prassi abusiva era ormai così dilagata da rendere quasi impossibile estirparla 9. Bisogna notare che questa richiesta, come le altre espresse in tale circostanza, erano dettate dalla sana preoccupa- zione di evitare che un indebito allargamento della possibilità dei lai- ci di predicare oscurasse le prerogative specifiche del ministero or- dinato.

Le determinazioni delle Conferenze episcopali La questione dell’estensione della riserva contenuta nel can. 767 § 1 torna alla ribalta nel momento in cui le Conferenze episco- pali sono chiamate, a norma del can. 766, a dare disposizioni che re- golino la possibilità dei laici di predicare nelle chiese e negli oratori. Alcune, come quella italiana o francese, eludono la questione. Altre affrontano espressamente il rimando al can. 767 § 1, vuoi per inten- derlo come riferito a ogni tipo di omelia (è il caso di Bolivia, Brasile, Filippine, Honduras, Panama, Portorico, Spagna, Venezuela), vuoi

8 «Ad praedicandum in Ecclesia ne admittantur laici, nisi certis in adiunctis necessitas id requirat, aut in casibus particularibus utilitas id suadeat, iuxta Episcoporum Conferentiae praescripta, salvo can. 19, § 1 [= 767 § 1]». 9 «In Germania ex indebita extensione rescripti S. Congregationis pro Religiosis [sic!] d. 20 nov. 1973 in- troducta est aliquibus in dioecesibus consuetudo permittendi laicis (“Pastoralreferentes” ut vocant) ut ho- miliam intra Missam diebus festivis teneant. Etsi, meo iudicio, fere impossibile sit ob oppositionem pa- rochorum, laicorum immo et fidelium hanc consuetudinem extirpare, non credo quod debeat in Codice aliqua exceptio statui. Maneat ergo can. 722 uti est» (PONTIFICIA COMMISSIO CODIS IURIS CANONICI RECO- GNOSCENDO Relatio complectens synthesim animadversionum [...], Città del Vaticano 1981, ad can. 721, p. 173). La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 375 per limitarne l’applicazione al solo caso della celebrazione eucaristi- ca (così argomentano Canada, Colombia, Ecuador, India, Inghilter- ra e Galles, Malta, Nigeria, Portogallo, El Salvador). Si noti che tut- te queste delibere hanno ricevuto la recognitio della Santa Sede, a norma del can. 455 § 2. Particolarmente interessante è la soluzione adottata dalle Conferenze episcopali del Cile e del Perù. Analizzia- mo le disposizioni cilene 10: dopo aver premesso che la possibilità dei laici di predicare non si riferisce all’omelia durante la Messa, che il can. 767 riserva al ministro ordinato, viene offerta un’esem - plificazione che fa riferimento a quei casi in cui la normativa liturgi- ca prevede espressamente che si tenga l’omelia anche in mancanza del ministro sacro:

«Si intende che c’è la necessità quando la comunità cristiana si riunisce per una celebrazione pia o liturgica e non c’è nessun sacerdote o diacono che possa predicare, e nei casi in cui il laico, debitamente autorizzato e in confor- mità alle norme, amministra il battesimo (can. 861 § 2), assiste ai matrimoni (can. 1112), distribuisce la sacra comunione fuori della Messa (can. 910 § 2), celebra le esequie o impartisce benedizioni o compie qualcuna delle funzio- ni segnalate nel can. 230 § 3».

Si tratta infatti di casi eccezionali, in quanto ordinariamente e nei limiti del possibile il rito e anche l’omelia in esso contemplata de- vono essere tenute dal ministro sacro, ma previsti dalla legislazione e comunque tali da non mettere in ombra i compiti specifici del mini- stero ordinato 11. In questa linea va letta la possibilità offerta al n. 26 delle Premesse del Rito del battesimo dei bambini, promulgato il 15 maggio 1969, con riferimento a quei paesi dove il battesimo è ammi- nistrato abitualmente dai catechisti: «Spetta al vescovo, per la sua diocesi, giudicare se i catechisti possano fare l’omelia in modo libero oppure leggendo un testo scritto». A me sembra che questa prospettiva offra una soluzione convin- cente alla questione, evitando il rischio nominalistico di chiamare lo stesso atto nello stesso rito “omelia”, se è tenuto dal ministro sacro, e “predicazione”, quando a tenerlo è un fedele laico, e permettendo di conciliare il prescritto del can. 767 § 1 con il diritto liturgico post- conciliare, senza svilire il ruolo del ministero ordinato. Che vi siano

10 Il testo originale spagnolo in J.T. MARTÍN DE AGAR, Legislazione delle Conferenze episcopali comple- mentare al C.I.C., Milano 1990, p. 161. 11 In questo senso C.J. ERRÁZURIZ M., Il “munus docendi Ecclesiae”: diritti e doveri dei fedeli, Milano 1991, pp. 220-222. 376 Mauro Rivella stati abusi negli anni passati è evidente e che debbano essere riprova- ti è necessario, ma ciò non può avvenire – come già saggiamente osservava la Segreteria della Commissione per la revisione del CIC rispondendo alle osservazioni sullo Schema 1980 – smentendo i prin- cipi di fondo e la conseguente legislazione. Si noti inoltre che la con- cessione di cui al can. 766 non configura in senso tecnico una facoltà, come quella che il can. 764 riconosce ai presbiteri e ai diaconi, cioè una possibilità che si radica in ciò che è costitutivo del ministero ordi- nato e ne rappresenta una delle finalizzazioni principali, bensì un’e - ventualità che mantiene le caratteristiche dell’eccezionalità e realizza una delle funzioni di supplenza previste dal can. 230 § 3.

L’interpretazione autentica del 1987 Il problema dell’estensione del disposto del can. 767 § 1 tor- na in evidenza con l’interpretazione autentica del 26 maggio 1987. A rigore, essa verte su un solo aspetto della questione: «Se il ve- scovo diocesano abbia la capacità di dispensare dal prescritto del can. 767 § 1, in forza del quale l’omelia è riservata al sacerdote o al diacono». Come sappiamo, la risposta fu negativa. Essa diede adito a nu- merosi commenti, non sul significato del pronunciamento, che è chiaro nella sua laconicità, ma sulle motivazioni. È noto infatti che il vescovo diocesano può dispensare validamente dalle leggi meramen- te ecclesiastiche (sono pertanto escluse le leggi che riportano il di- ritto divino naturale o rivelato; cf can. 85), con l’eccezione delle leggi penali o processuali e di quelle la cui dispensa è riservata in modo speciale alla Sede Apostolica o a un’altra autorità (cf can. 87 § 1), nonché di quelle che definiscono gli elementi costitutivi degli istituti e degli atti giuridici (cf can. 86). Nel nostro caso è evidente che l’at- tribuzione dell’omelia ai ministri ordinati non è immediatamente rife- ribile al diritto divino né inerisce alle norme penali o processuali. Re- sta quindi l’alternativa fra una riserva per ragioni di opportunità alla Santa Sede o per suo mandato ad altre autorità superiori al vescovo diocesano (le Conferenze episcopali?), il che costituirebbe evidente- mente una novità inserita nel corpus normativo in forza dell’interpre - tazione autentica, e il ritenere che l’attribuzione dell’omelia al sacer- dote o al diacono sia costitutiva di tale realtà, cosicché l’eventuale de- roga a tale principio ne cambierebbe la natura al punto di farla diventare “qualcosa di diverso” dall’omelia stessa. Nella prima dire- La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 377 zione si è espresso Urrutia12, nella seconda la gran parte degli auto- ri, facendosi anche forti di una risposta privata dell’allora presidente della Commissione, card. Castillo Lara, il quale aveva affermato trat- tarsi di una legge costitutiva. La questione torna così di nuovo alla delimitazione del concetto di omelia: mi sembra difficile poter soste- nere che esistano ragioni teologiche in base alle quali qualunque omelia esiga “costitutivamente” di essere tenuta da un ministro ordi- nato, tenendo anche conto che in più occasioni i rituali liturgici con- templano la possibilità che essa sia svolta, in caso di assenza del sa- cerdote o del diacono, da un laico espressamente deputato. Potreb- be invece difendersi con maggiore fondamento la tesi che la riserva “costitutiva” si applichi alla celebrazione eucaristica, perché in essa la presenza del ministro ordinato è indispensabile, e quindi si inseri- sce come “elemento costitutivo” nell’istituto stesso: non può infatti esistere celebrazione eucaristica senza ministro sacro. Posta la que- stione in questi termini, e cioè limitatamente alla sola celebrazione eucaristica, si capirebbe perché il vescovo diocesano non possa de- rogare al divieto, concedendone la dispensa. Se poi si desse il caso di impossibilità fisica o morale del presidente o di un altro ministro sacro eventualmente presente a tenere l’omelia, essa non avrebbe semplicemente luogo, senza che venga meno la celebrazione eucari- stica. Quest’ultimo argomento finisce però per ritorcersi contro la te- si stessa: se c’è vera eucaristia anche senza l’omelia, allora essa non ne rappresenta un “elemento costitutivo”. La riserva dell’omelia al - l’interno della Messa al ministro sacro sarebbe pertanto una legge disciplinare, la cui dispensa, per ragioni prudenziali, competerebbe al momento presente soltanto alla Santa Sede. In questo modo non si escluderebbe la possibilità che in circostanze particolari l’autorità suprema della Chiesa possa dispensare dalla riserva per il bene dei fedeli. Checché ne sia del fondamento delle affermazioni precedenti, si devono ritenere in ogni caso concluse e riprovate le sperimenta- zioni concesse negli anni Settanta 13.

12 F. J . U RRUTIA, Responsa Pontificiae Commissionis Codici iuris canonici authentice interpretando, I, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 77 (1988) 613-614. 13 Circa la normativa emanata nel 1988 dalla Conferenza episcopale tedesca, cf la presa di posizione cri- tica di W. SCHULZ, Problemi canonistici circa la predicazione dei laici nella normativa della Conferenza episcopale tedesca, in «Apollinaris» 42 (1989) 171-180. 378 Mauro Rivella

Alcuni documenti postcodiciali Dobbiamo ora fare riferimento ad altri due documenti postcodi- ciali: il primo è il Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza del presbitero, pubblicato il 2 giugno 1988 dalla Congregazione per il Culto Divino. A noi interessa il n. 43, che riportiamo: «Perché i partecipanti siano in grado di ricordare la parola di Dio, vi sia o una qualche spiegazione delle letture, o il sacro silenzio per meditare le cose ascoltate. Poiché l’omelia è riservata al sacerdote o al diacono, è auspicabile che il parroco trasmetta l’omelia al moderatore del gruppo, perché la legga. Si osservi tuttavia quanto è stato stabilito dalla Conferenza episcopale».

Bisogna anzitutto osservare che il testo rimanda espressamen- te in nota ai cann. 766-767, interpretando inequivocabilmente la riser- va come riferita a ogni omelia, non soltanto a quella nella celebrazio- ne eucaristica: del resto il Direttorio ha per oggetto proprio quelle celebrazioni della Parola che si tengono nei giorni festivi, quando non è possibile la presenza di un sacerdote. In secondo luogo, va os- servato che non si tratta di una prescrizione rigida, ma di un auspi- cio, che rimanda in ogni caso alle determinazioni della Conferenza episcopale competente. Così per esempio la Conferenza episcopale canadese e quella austriaca hanno stabilito che persone non ordinate possono essere autorizzate dal vescovo a predicare quando si cele- bra la liturgia della Parola senza sacerdote o diacono 14. In questa linea è pure la Guide liturgique pour les assemblées dominicales en l’absence du prêtre preparata dalla Commissione interdiocesana di pastorale liturgica per le diocesi belghe francofone 15. In un altro con- tributo 16 abbiamo già rilevato come la soluzione di far leggere un te- sto preparato da altri ci sembri in ogni caso mortificante per l’effica - cia della predicazione. L’oggettiva assenza del sacerdote è condizio- ne sicura per evitare che si dia in quel tipo di celebrazioni il rischio di confusione nelle funzioni ministeriali. Ci parrebbe pertanto me- glio, quando possibile, che il laico incaricato del commento lo prepa- ri insieme al parroco, o almeno rielabori creativamente un sussidio da predisporre a livello diocesano.

14 Per il Canada, cf J.T. MARTÍN DE AGAR, Legislazione…, cit., p. 132; per l’Austria, cf «Österreichisches Archiv für Kirchenrecht» 41 (1992) 431, n. 7. 15 Cf A. BORRAS, La parrocchia. Diritto canonico e prospettive pastorali, Bologna 1997, p. 274; in partico- lare la nota 33 tratta la questione, anche se da un punto di vista diverso dal nostro. 16 Cf M. RIVELLA, Le celebrazioni domenicali in assenza del presbitero, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 7 (1994) 433-434. La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 379

Il secondo documento è la recente Istruzione su alcune questio- ni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, sot- toscritta il 15 agosto 1977 dai responsabili di otto dicasteri romani e approvata in forma specifica dal Romano Pontefice. L’art. 3 delle “disposizioni pratiche” ha per oggetto l’omelia. Riportiamo i paragrafi 1 e 4, che toccano direttamente la nostra que- stione: «§ 1. L’omelia, forma eminente di predicazione “qua per anni liturgici cur- sum ex textu sacro fidei mysteria et normae vitae christianae exponuntur”, è parte della stessa liturgia. Pertanto l’omelia durante la celebrazione dell’Eucaristia deve essere riserva- ta al ministro sacro, sacerdote o diacono. Sono esclusi i fedeli non ordinati, anche se svolgono il compito di “assistenti pastorali” o di catechisti, presso qualsiasi tipo di comunità o aggregazione. Non si tratta, infatti, di eventuale maggiore capacità espositiva o preparazione teologica, ma di funzione riser- vata a colui che è consacrato con il sacramento dell’Ordine sacro, per cui neppure il Vescovo diocesano è autorizzato a dispensare dalla norma del ca- none, dal momento che non si tratta di legge meramente disciplinare, bensì di legge che riguarda le funzioni di insegnamento e di santificazione stretta- mente collegate tra di loro […]. Si deve ritenere abrogata dal can. 767 § 1 qualsiasi norma anteriore che ab- bia ammesso fedeli non ordinati a pronunciare l’omelia durante la celebra- zione della S. Messa. § 4. L’omelia al di fuori della S. Messa può essere pronunciata dai fedeli non ordinati in conformità al diritto o alle norme liturgiche e nell’osservanza del- le clausole in essi contenute».

L’Istruzione compie alcune chiare opzioni in relazione alla que- stione da noi esaminata. Si noti anzitutto come interpreti il dettato del can. 767 § 1 riferendolo in maniera esclusiva all’omelia durante la celebrazione eucaristica. Ne dà poi una motivazione di tipo teologi - _co, sostanzialmente analoga a quella da noi riportata circa il ruolo costitutivo del ministero ordinato in quella specifica predicazione omiletica: ci troviamo così di fronte – se ci è consentito il gioco di pa- role – all’interpretazione autentica di un’interpretazione autentica. Il § 4 conferma la nostra lettura del can. 767 § 1, affermando espressa- mente che in modis et formis è consentito ai non ordinati tenere l’omelia al di fuori della Messa. L’Istruzione interdicasteriale ha suscitato non poche osservazio- ni critiche, anche sulla presa di posizione in merito alla questione da noi espressamente trattata 17. Checché ne sia di tali osservazioni –

17 Cf in merito J.M. HUELS, Intepreting an Instruction approved in forma specifica, in «Studia canonica» 32 (1998) 38-43. 380 Mauro Rivella ma anche della consapevolezza degli estensori materiali del docu- mento – l’Istruzione dirime in maniera definitiva, allo stato attuale della legislazione, la questione dell’estensione della riserva dell’ome- lia ai ministri ordinati, di cui al can. 767 § 1. Trattandosi infatti di un testo legislativo – nonostante la titolazione di “istruzione” – di porta- ta universale, approvato dal Romano Pontefice in forma specifica, es- so costituisce l’interpretazione vincolante delle norme precedenti e dello stesso Codice di diritto canonico. Risulta pertanto chiaro che la riserva dell’omelia e la conseguente inabilità dei vescovi diocesani di dispensare da essa si riferiscono in maniera esclusiva a quella che ha luogo durante la celebrazione eucaristica. Resta invece aperto il dibattito sul fondamento di tale riserva, se cioè si tratti di una ragio- ne teologica, legata alla connessione fra l’omelia nella Messa e le prerogative specifiche del ministero ordinato, o di una mera disposi- zione disciplinare prudenziale.

Omelia di laici nelle Messe con i fanciulli? Resta da affrontare un’ultima questione, che fa riferimento al di- sposto contenuto nel Direttorio per le Messe con i fanciulli, pubblica- to dalla Congregazione per il Culto Divino il 1° novembre 1973. Al n. 24b esso afferma:

«Nulla vieta che uno di questi adulti che partecipano con i fanciulli alla Mes- sa, con l’assenso del parroco o del rettore della chiesa, dopo il vangelo si ri- volga ai fanciulli, specialmente se al sacerdote riesce difficile adattarsi alla mentalità dei piccoli ascoltatori. Si osservino in proposito le norme che ver- ranno prossimamente date dalla Congregazione per il Clero» 18.

Premesso che le annunciate norme della Congregazione per il Clero non videro mai la luce, gli autori hanno discusso a lungo se la riserva introdotta dal Codice abbia abrogato tale possibilità, in forza del can. 6 § 1, 4°. Alcuni non hanno dubbi in merito 19, ritenendo che – al di là delle parole – si tratti di una vera e propria omelia, che rica-

18 «Nil impedit, quin unus ex adultis, qui cum pueris Missam participant, annuente parocho vel rectore Ecclesiae, post Evangelium verba ad pueros dirigat, praesertim si sacerdos difficulter tantum mentis habi- tui puerorum sese aptat. Qua de re serventur normae proximae edendae a S. Congregatione pro Clericis». Si noti come non compaia qui la parola homilia, che è invece utilizzata in altre parti del documento: cf i nn. 17, 37 e 48. 19 Cf F.J. URRUTIA, Responsa Pontificiae…, cit., p. 616 n. 7; G. GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione, Cinisello Balsamo-Roma 1990, n. 544. La riserva dell’omelia ai ministri ordinati 381 de pienamente nell’ambito della riserva ai ministri ordinati. Altri au- tori argomentano diversamente, osservando che la possibilità offer- ta dal Direttorio non fu mai espressamente riprovata o revocata e in- sistendo sul fatto che le parole dell’adulto non costituiscono una vera e propria omelia, ma sono piuttosto un commento o una monizio - ne 20. Si noti che la Conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Gal- les, nel dettare norme con riferimento al can. 766, ha determinato che continui ad applicarsi quanto stabilito nel Direttorio per le Messe con i fanciulli: tale prescritto ha ottenuto la recognitio dalla Santa Sede 21. Anche su questo punto specifico è forse possibile essere illu- minati dalla recente Istruzione interdicasteriale: come abbiamo visto, all’art. 3 § 1 essa interpreta come abrogata dal can. 767 § 1 ogni nor- ma anteriore che abbia ammesso i laici a pronunciare l’omelia nel corso della Messa. A ciò si aggiunga che la nota 73 contenuta nel § 3 dello stesso articolo, che conferma la possibilità di utilizzare pruden- temente la forma dialogata nell’omelia, rimanda al n. 48 del Diretto- rio. La citazione espressa di questa norma in qualche modo eccezio- nale e il silenzio sulla possibilità contemplata al n. 24b lascerebbero in effetti intendere che l’eventualità dell’intervento omiletico di un laico nella Messa con i fanciulli sia da ritenersi abrogato. Restano ov- viamente possibili didascalie e testimonianze (espressamente previ- ste al § 2 dell’art. 3), che però «non devono assumere caratteristiche tali da poter essere confuse con l’omelia».

MAURO RIVELLA via Lanfranchi, 10 10131 Torino

20 Cf J.E. FOX, L’omelia e l’interpretazione autentica…, cit., p. 34; E. CORECCO - L. GEROSA, Il diritto della Chiesa, Milano 1995, pp. 77-79. 21 Cf. J.T. MARTÍN DE AGAR, Legislazione…, cit., p. 355. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 382-394 Commento al canone 1284 § 2, 6° di Alberto Perlasca

Il can. 1284 fa parte di quei canoni – dal 1283 al 1289 – che il Codice dedica ai compiti degli amministratori dei beni ecclesiastici. In questo breve studio vogliamo concentrarci sul § 2, 6° che stabilisce: «[Gli amministratori] devono impiegare, con il consenso del l’Ordinario, il denaro eccedente le spese e che possa essere collo- cato utilmente, per le finalità della persona giuridica» 1. Dalla lettura di questa norma sorgono alcune perplessità circa la classificazione sistematica tra gli atti di ordinaria o di straordinaria amministrazio- ne, l’ambito di applicazione della norma, nonché la sua traduzione in lingua italiana.

Alcuni aspetti problematici

Amministrazione ordinaria o straordinaria Il Codice, come è noto, non fornisce una definizione di ammini- strazione ordinaria e straordinaria. Nel can. 638 § 1 si dice che gli at- ti di amministrazione straordinaria sono quelli che «eccedono il limi- te e le modalità [fines et modum] dell’amministrazione». Ancora, nel can. 1281 § 1 si dice che gli atti di amministrazione straordinaria so- no quelli che «oltrepassano i limiti e le modalità dell’amministrazio - ne ordinaria» (can. 1281 § 1). Si tratta, tuttavia, di indicazioni di ca- rattere meramente teorico.

1 «Pecuniam, quae de expensis supersit et utiliter collocari possit, de consensu Ordinarii in fines personae iuridicaeoccupare». Commento al canone 1284 § 2, 6° 383

A ben guardare, poi, anche il semplice intervento della compe- tente autorità ecclesiastica non sembra costituire un valido e sicuro criterio in ordine alla classificazione degli atti nell’una o nell’altra ca- tegoria, in quanto «fondandosi esclusivamente sull’intervento del- l’autorità superiore, mostra di far leva su quella che è una mera con- seguenza del l’essere l’atto da compiersi eccedente, o meno, l’ordina - ria amministrazione. Il criterio adottato, in altri termini, anziché fondarsi sulla sostanza degli atti che intende classificare, prende in considerazione un effetto derivante proprio dall’appartenenza degli stessi ad una categoria piuttosto che all’altra» 2. Ciononostante la recente Istruzione in materia amministrativa sembra assumere proprio questo criterio per operare il distinguo tra gli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione, stabilendo che «gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti dal l’amministratore ecclesiastico senza il ricorso preventivo all’auto- rità tutoria» 3. Il problema, comunque, resta quello di capire perché e quando è richiesta la licenza da parte della competente autorità superiore. La dottrina ha cercato di individuare quegli elementi che posso- no dare contenuto all’espressione codiciale «fines modumque ordina- riae administrationis excedunt», per modo che un atto sia o diventi di amministrazione straordinaria: «la quantità, i rischi di perdita; l’incidenza che l’atto può avere sulla sostanza o solamente sui frutti; pericoli sulla stabilità dello stesso patrimonio; la natu- ra della cosa oggetto dell’atto di amministrazione e del servizio che viene prestato; la modalità e la complessità del negozio; il valore della cosa; la dura- ta dei tempi di esecuzione; l’incertezza dei risultati economici; la consistenza patrimoniale, economica e finanziaria della stessa persona giuridica» 4.

Si deve tuttavia rilevare che anche questi criteri, assunti singo- larmente o in modo assoluto, non sono sufficienti a garantire quella rigorosità che la delicatezza e il momento di questa materia richiedo- no: di fatto, può ben essere che ciò che per un determinato ente, at- tesa la sua struttura e situazione patrimoniale, costituisce atto di straordinaria amministrazione, per un altro ente non lo sia. Poste queste difficoltà, il legislatore universale ha rinunciato a stabilire in questo settore della vita della Chiesa una disciplina defi-

2 Cf, per tutti, in questo senso F.X. WERNZ - P. VIDAL, Ius canonicum, IV/II, Romae1935, p. 212. 3 CEI, Istruzione in materia amministrativa, n. 52 (ECEI 5, n. 779). 4 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, Bologna 1995, p. 147. 384 Alberto Perlasca nita in tutti i suoi aspetti, preferendo lasciare alla competente auto- rità ecclesiastica inferiore la determinazione degli atti che rientrano nella straordinaria amministrazione, attuando in tal modo un’applica - zione pratica del quinto principio direttivo della revisione del Codice (De applicando principio subsidiarietatis in Ecclesia):

«Quae modo dicta sunt ad applicationem principii subsidiarietatis in iure canonico indubitanter pertinent. Attamen longe distant a pleniore profundio- reque applicatione principii ad legislationem ecclesiasticam. Principium con- firmat unitatem legislativam quae in fundamentis et maioribus enunciationi- bus iuris cuiuslibet societatis completae et in suo genere compactae servari de- bet. Propugnat vero convenientiam vel necessitatem providendi utilitati praesertim institutionum singularium tum per iura particularia ab iisdem condita tum per sanam autonomiam regiminis potestatis exsecutivae illis re - cognitam...»

Ci pare che proprio in questa direzione si orientino sia il can. 638 § 1, il quale stabilisce che «spetta al diritto proprio determinare, entro l’ambito del diritto universale, quali sono gli atti che eccedono il limite e le modalità dell’amministrazione ordinaria, e stabilire ciò che è necessario per porre validamente un atto di amministrazione straordinaria», sia il can. 1281 § 2, che prevede che «negli statuti si stabiliscano gli atti eccedenti i limiti e le modalità dell’amministrazio - ne ordinaria; se poi gli statuti tacciono in merito, spetta al vescovo diocesano, udito il consiglio per gli affari economici, determinare tali atti per le persone a lui soggette», sia, infine, il can. 1277, che de- manda alla Conferenza episcopale il compito di determinare quali at- ti – da porsi da parte del vescovo diocesano – debbano ritenersi di amministrazione straordinaria. La citata Istruzione in materia amministrativa, circa la distinzio- ne tra amministrazione ordinaria e straordinaria, afferma che

«le nozioni di “amministrazione ordinaria” e di “amministrazione straor- dinaria” non corrispondono soltanto a un criterio tecnico-giuridico, ma si fondano anche sul criterio economico della minore o maggiore importanza patrimoniale degli atti. L’importanza patrimoniale di un atto può nascere dalla sua consistenza quantitativa o dalla sua natura [...]. Per questo moti- vo il legislatore canonico rinvia formalmente agli statuti o al diritto parti- colare la distinzione concreta tra atti di ordinaria e straordinaria ammini- strazione» 5.

5 CEI, Istruzione in materia amministrativa, n. 51 (ECEI 5, n. 779). Commento al canone 1284 § 2, 6° 385

L’Istruzione della CEI, di fatto, non presenta alcun tipo di esem- plificazione né per l’amministrazione ordinaria né per quella straordi- naria. Anzi, la norma oggetto del nostro studio non è neppure citata. Volendo ora guardare più da vicino il can. 1284 § 2, 6°, si deve rilevare che gli autori, in genere, nel commentare questa norma non hanno speso soverchie parole 6. Non mancano, d’altro canto, interessanti sforzi di chiarificazio- ne. Circa la collocazione del denaro, infatti, la dottrina ha utilmente distinto tra collocatio pecuniae stabili ratione e collocatio pecuniae pre- cariae ratione. La collocatio pecuniae stabili ratione consiste in una trasformazione del denaro in beni immobili o in beni mobili che pos- sono essere conservati, quali, ad esempio, titoli bancari o di credito. Si attua, in tal modo, una conversione di capitale circolante in capita- le fisso o patrimonio stabile, giuridicamente destinato a un determi- nato fine. La collocatio pecuniae precariae ratione, invece, esclude le forme succitate e comprende, per esempio, l’operare con depositi bancari non vincolati, a breve termine, aprire e utilizzare conti cor- renti, ottenere prestiti a semplice interesse, l’acquistare beni consu- mabili o di quotidiana utilità 7. Pertanto, oltre a quelli stabiliti espressamente dal Codice 8, de- vono essere considerati atti di straordinaria amministrazione 9 quelli che gli statuti o la competente autorità ecclesiastica hanno qualifica-

6 Anche un recentissimo commento al Libro V del CIC si limita a presentare il testo del can. 1284 § 2 senza aggiungere altro. Curiosamente, la traduzione del n. 6° è ancora formulata sulla base del testo dello Schema novissimum del 1982 e non sul testo contenuto nel Codice promulgato: cf J.-P. SCHOUPPE, Elementi di Diritto Patrimoniale Canonico, Milano 1997, p. 141. Molto riservati sono anche i commenti 2 di F.R. AZNAR GIL, La administración de los bienes temporales de la Iglesia, Salamanca 1984 , p. 366; V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 166. 7 F.E. ADAMI, Ecclesia minoribus aequiparatur, Padova 1970, pp. 71 ss. e bibliografia ivi citata. Quanto esposto da Adami era, peraltro, già propugnato da Wernz - Vidal: «Ex diligentia initio canonis imposita administratoribus infertur eos non esse meros depositarios, cuius munus in sola bonorum conservatione absolvitur. Collocatio pecuniae duplici ratione fieri potest, vel precaria ratione ita ut libera maneat facul- tas eam utiliter impendendi et quaelibet administratio, ut per se patet, aliqua pecunia ad ordinarios actus indiget, vel magis stabili ratione, ita ut pecunia occupata fiat capitale obnoxium normis de bonorum ec- clesiasticorum alienatione: solum pro hac collocatione stabili ac per se definitiva consensus Ordinarii loci est urgendus, non pro illa precaria, quae actus ordinaria administrationis est reputanda» (F. X. WERNZ - P. V IDAL, Ius canonicum, cit., p. 219). Così pure cf A. VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome iuris canonici, II, Mechliniae- Romae19406, p. 590, n. 845. 8 Cf cann. 1277, 1279 § 1, 1291, 1295. 9 Si è tentato – basandosi sul rapporto patrimonio - fini dell’ente ecclesiastico – di dare una definizione di “ordinaria amministrazione”: «Tenuta presente la consistenza patrimoniale del singolo ente o, se si preferisce, il suo stato economico, si può ritenere che rientrino nel concetto canonico di ordinaria am- ministrazione tutti quegli atti e contratti, necessari e ad un tempo sufficienti, mediante i quali le perso- ne giuridiche ecclesiastiche possono perseguire i loro fini istituzionali» (E.F. ADAMI, Ecclesia minoribus aequiparatur, cit., p. 68). A nostro parere, però, riemergono qui le stesse difficoltà che hanno sconsi- gliato di definire in modo preciso gli atti di straordinaria amministrazione. 386 Alberto Perlasca to come tali sulla base delle diverse situazioni concrete. Gli altri so- no atti di ordinaria amministrazione per modo che quest’ultima si in- dividua in modo residuale rispetto a quella straordinaria. In conclusione saremmo del parere di considerare il contenuto del can. 1284 § 2, 6° come riferito a un atto di ordinaria amministra- zione. Abbiamo infatti detto che la necessità dell’intervento dell’i - stanza superiore, di per sé, non è criterio decisivo per qualificare un atto come di straordinaria amministrazione. Per poter configurare la disposizione contenuta nel can. 1284 § 2, 6° come atto di straordinaria amministrazione essa deve essere esplicitamente recepita, nel decreto con il quale il vescovo, o il supe- riore competente (cf cann. 638 § 1, 1281 § 2, 1277), stabilisce per le persone giuridiche soggette alla propria giurisdizione quali atti deb- bano essere considerati di straordinaria amministrazione. Personal- mente riteniamo del tutto conveniente che la norma del can. 1284 § 2, 6°, con le debite precisazioni, venga inclusa tra gli atti di straordi- naria amministrazione che l’Ordinario, a norma del can. 1281 § 2, de- ve stabilire con apposito decreto. D’altro canto, anche considerando il contenuto del can. 1284 § 2, 6° come atto di ordinaria amministrazione, rebus sic stantibus, è ri- chiesto – ad validitatem – il consenso dell’Ordinario. Non ci pare, quindi, corretto affermare che «la licenza del (rispettivo) Ordinario [...] è richiesta solamente se si tratta di convertire tale denaro in un capitale stabile, non per un ordinario deposito di denaro in una banca dal quale si intende conseguire un interesse» 10. È auspicabile. Ma non è quanto dice il Codice. È evidente che quest’ultima considerazione, se da un lato fa perdere spessore, nella prassi, a quanto finora detto, dall’altro deve richiamare l’attenzione della competente autorità sulla necessità di correggere o, almeno, di intervenire per interpretare autenticamen- te questa norma.

10 «The question of the investiment of so-called “surplus money” is addressed (6°): this requires “the con- sent of the (respective) Ordinary”, which however is needed only if there is question of converting such mo- ney into stable capital, not for the ordinary deposit of money into a bank account from which interest would accrue» (The Canon Law - Letter & Spirit, edizione a cura della Canon Law Society of Great Bri- tain and Ireland, London 1995, p. 728). Commento al canone 1284 § 2, 6° 387

«De consensu Ordinarii» Anche a questo proposito il can. 1284 § 2, 6° si rivela essere una norma formulata in modo infelice. Di fatto, l’inciso «de consensu Ordinarii» sembra quasi costituire una categoria di atti di ammini- strazione a sé stante. Atti, cioè, non di straordinaria amministrazione per i quali tuttavia è richiesto il consenso dell’Ordinario. Questo e- quivoco, a nostro modo di vedere, potrebbe essere risolto, togliendo il suddetto inciso o, ancor meglio, riservandolo all’ipotesi di una col- locatio stabili ratione. L’Istruzione in materia amministrativa, a pro- posito del consenso, afferma: «[Il consenso] dato da un organo collegiale al vescovo diocesano o al supe- riore per gli atti che questi compie come amministratore unico di una perso- na giuridica, ovvero che questi autorizza; tale consenso, necessario per la validità dell’atto (cf can. 127), va citato esplicitamente nella delibera che il vescovo diocesano o il superiore firma come amministratore unico ovve- ro nel decreto autorizzativo» 11.

Sembra, quindi, che il consenso – diversamente dalla licenza (denominata anche autorizzazione, permesso o nulla osta) – sia solo un atto collegiale che il vescovo riceve per agire. Il Codice, tuttavia, conosce anche un altro significato di “consenso”, inteso cioè come atto personale del vescovo diocesano o, comunque, di una determi- nata autorità (cf cann. 312 § 2; 320 § 2; 1215 § 1). Riteniamo che l’in- ciso «de consensu Ordinarii» del can. 1284 § 2, 6° debba essere inte- so precisamente in questo secondo significato 12. In ogni caso si tratta di un consenso e non di un mandato: per- tanto chi lo concede non si assume la responsabilità giuridica dell’at - to amministrativo.

«In fines personaeiuridicae» Ci domandiamo ora se la norma si riferisca solo alle persone giuridiche pubbliche oppure anche a quelle private. Com’è noto, il CIC vigente, accanto alle persone giuridiche pubbliche (can. 116 § 1), ha introdotto l’istituto della persona giuridica privata. L’importanza

11 CEI, Istruzione in materia amministrativa, n. 51 (ECEI 5, n. 782). 12 Non ci sembra, quindi, del tutto corretto quanto scrive Périsset: «Pour donner son consentement, l’Ordinaire aura soin de prende l’avis de son prope conseil économique, analogiquement à la norme du canon 1287 § 1. Ou même d’obtenir son accord pour les actes dépassant l’administration ordinaire (can. 1277)» (J.-C. PÉRISSET, Les biens temporels de l’Église, Paris 1996, p. 179). 388 Alberto Perlasca dell’introduzione della persona giuridica privata nell’ordinamento canonico – sconosciuta al CIC 1917 – consiste precisamente nel- l’aver predisposto un ambito giuridico per l’esercizio, da parte dei fedeli, del loro diritto fondamentale a collaborare, come tali, senza integrarsi nell’organizzazione ufficiale della Chiesa, in vista del con- seguimento dei fini propri della Chiesa. Ora, precisamente per il fat- to che le persone giuridiche private non agunt nomine Ecclesiae, non agiscono cioè coinvolgendo – senza tuttavia identificarsi – la respon- sabilità della gerarchia nello svolgimento delle loro attività istituzio- nali, i mezzi materiali che esse possiedono non sono beni ecclesia- stici (can. 1257 § 2) e, quindi, non sono soggetti ai controlli canonici cui, invece, sono assoggettati i beni delle persone giuridiche pubbli- che (can. 1257 § 1). Il can. 325 § 1, dettato in tema di associazioni private dei fedeli – che costituiscono il principale campo di applicazione della persona- lità giuridica privata –, tuttavia, stabilisce che il controllo da parte del l’autorità ecclesiastica competente è proprio rivolto a che «[...] i beni che possiede [...] siano usati per i fini dell’associazione». Riteniamo, pertanto, che la norma che stiamo esaminando pos- sa trovare applicazione anche nei confronti delle persone giuridiche private, almeno quelle di maggior consistenza. In questi casi, tutta- via, saranno gli statuti a dover prevedere questo aspetto specifico.

L’iter di formazione del can. 1284 § 2, 6° La norma che si commenta era già contenuta nel CIC 1917, seb- bene in termini un poco differenti rispetto agli attuali. Stabiliva infat- ti il can. 1523, 4°: «Pecuniam ecclesiae, quae de expensis supersit et uti- liter collocari postest, de consensu Ordinarii, in emolumentum ipsius ecclesiaeoccupare». La stessa norma compare nello Schema del 1977 nei seguenti termini: «Pecuniam, quae de expensis supersit et utiliter collocari poste- st, de consensu Ordinarii, in fines Ecclesiae vel instituti occupare» (can. 28 § 2, 5°). Il testo del canone, senza alcun mutamento, viene recepito nello Schema del 1980 (can. 1235 § 2, 6°) e nel successivo Schema novissi- mum del 1982 (can. 1284 § 2, 6°). Attualmente il testo del canone stabilisce: «Pecuniam, quae de expensis supersit et utiliter collocari postest, de consensu Ordinarii, in fines personaeiuridicaeoccupare». Commento al canone 1284 § 2, 6° 389

La traduzione in lingua italiana Curiosamente, la traduzione dell’attuale can. 1284 § 2, 6° in lin- gua italiana – «impiegare, con il consenso dell’Ordinario, il denaro eccedente le spese e che possa essere collocato utilmente, per le fi- nalità della Chiesa e dell’istituto» – corrisponde al testo del can. 28 § 2, 5° dello Schema 1977 13. Testo che, come detto, non ha subito cam- biamenti fino allo Schema novissimum del 1982. Questa traduzione in lingua italiana, a nostro parere, non è cor- retta. Ciononostante essa viene ancora riproposta nella recentissima edizione a cura della Pontificia Università del Laterano e della Ponti- ficia Università Salesiana del Codice di Diritto Canonico. La medesi- ma traduzione compare anche nell’edizione del Codice approntata con il beneplacito della CEI 14 nonché nella versione italiana del Com- mento dell’Università di Navarra 15. Più letterale e, a nostro parere, preferibile, la traduzione in lin- gua tedesca: «Für Zwecke der juristischen Person anlegen» 16. Lo stes- so dicasi per la traduzione americana: «For the goals of the juridic person» 17; per la traduzione in lingua inglese: «For the purposes of the juridical person» 18; per la traduzione in lingua spagnola: «A los fines de la persona juridica» 19; per la traduzione in lingua francese: «Aux fins de la personne juridique» 20. Riteniamo quindi che la traduzione in lingua italiana più corret- ta sia la seguente: «Impiegare, con il consenso dell’Ordinario, il de- naro eccedente le spese e che possa essere collocato utilmente, per la finalità della persona giuridica» 21.

13 Cf Codice di Diritto Canonico, Roma 19842 e Codice di Diritto Canonico, Roma 19973. 14 Cf Codice di Diritto Canonico, Roma 1990. 15 Cf Codice di Diritto Canonico, edizione commentata a cura dell’Istituto Martin de Azpilcueta dell’Uni - versità di Navarra, tr. it. di L. Castiglione, Roma 1987. Corretta è invece la traduzione del Commento al Codice di Diritto Canonico della Pontificia Università Urbaniana, a cura di P. V. Pinto, Roma 1985. 16 Codex des kanonischen Rechtes, Kevelaert 19944. 17 The Code of Canon Law, edizione commentata a cura della Canon Law Society of America, New York – Mahwah 1985. 18 The Canon Law - Letter & Spirit, edizione a cura della Canon Law Society of Great Britain and Ire- land, cit. 19 Código de Derecho Canónico, edizione commentata a cura della Pontificia Università di Navarra, Ma- drid 1989. Nello stesso senso si vedano Código de Derecho Canónico, edizione a cura di A.M. Rouco Va- 8 rela, Valencia 1994 ; Z. COMBALÍA, Can. 1284, in Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, IV/1, a cura dell’Università di Navarra, Pamplona 1996, pp. 136-137. 20 Code de Droit Canonique, edizione commentata a cura della Société internationale de droit canoni- que, Paris – Bourges 1989. 21 In questo senso L. Chiappetta: «Impiegare, con il consenso dell’Ordinario, per i fini propri della per- sona giuridica il denaro che avanzi dalle spese e che possa essere collocato utilmente» (Il Codice di Di- ritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, a cura di L. Chiappetta, Napoli 1988). 390 Alberto Perlasca

Ne diamo le ragioni. Innanzitutto: con il termine “Chiesa”, so- prattutto se scritto con l’iniziale maiuscola, si intende la Ecclesia qua talis, di cui si parla nel can. 204 § 2. Diversamente, si utilizza l’inizia- le minuscola 22. Non solo: la “Chiesa” non è una persona giuridica. È una persona morale (cf can. 113 § 1). Essa, di fatto, ha esistenza non in forza di un atto posto dalla competente autorità ecclesiastica o dal diritto (cf can. 114 § 1), ma per volontà di Cristo Signore. Sono due cose diverse. Ci domandiamo quindi se rendere con il termine “Chiesa” – cioè la Ecclesia qua talis, la società costituita e ordinata nel mondo, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui – l’espressione latina persona iuridica non sia un’estensione ec- cessiva rispetto al testo del canone, così come risulta nel testo latino. Nel Codice piano-benedettino del 1917 questo problema non si pone- va. Di fatto, nel canone di quel Codice – il can. 1523, 4° – si diceva «ipsius ecclesiae» cioè «della stessa chiesa», intesa come singola en- tità giuridica. Si noti, a questo proposito, l’iniziale minuscola 23. Personalmente siamo del parere che, attenendosi strettamente al testo latino, il termine “Chiesa”, per di più con l’iniziale maiuscola, cioè la Ecclesia qua talis, sia in effetti eccessivo. Questa traduzione, benché a nostro parere errata, è spiegabile. Il concilio Vaticano II, in più passi, sottolinea la sollecitudine che i vescovi devono avere per le necessità di tutta la Chiesa e non sola- mente per quella porzione – la diocesi – affidata alle loro cure 24. La costituzione apostolica Sacraedisciplinaeleges, inoltre, afferma che «se poi è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio canonistico l’im - magine della Chiesa [come viene proposta dal magistero del concilio Vatica- no II in genere], tuttavia a questa immagine il Codice deve sempre riferirsi, come a esempio primario, i cui lineamenti esso deve sempre esprimere in se stesso, per quanto è possibile, per sua natura» 25. In questa prospettiva devo- no essere letti anche i cann. 1271 e 1274 § 3.

22 Cf cann. 765; 766; 859; 934 § 1, 1°; 938 §§ 1, 3 5; 941 § 2; 1189; 382 §§ 2, 4; 389; 436 § 3; 463 § 1, 3°; 491 § 1; 503; 508 § 1; 509 § 1; 510 §§ 2, 4; 934 § 1, 1°; 1011 § 1; 1178; 1217 § 2; 857 § 2; 858 § 1; 859; 934 § 1, 2°; 118 § 1; 1177 §§ 1, 3; 1217 § 2; 1248 § 2. 23 Ciononostante Forchielli scriveva: «Investire il denaro della Chiesa, che sopravanzi alle spese e che possa utilmente collocarsi, col consenso dell’Ordinario, a vantaggio della Chiesa stessa» (G. FORCHIEL - LI, Il Diritto Patrimoniale della Chiesa, Padova 1935, p. 230). 24 Cf, a titolo di esempio, CD 6; LG 13, 23. Sul punto, si vedano, molto ampiamente L. MISTÒ, Chiesa e beni temporali: un rapporto da ridisegnare, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 3 (1991) 291-304; N. GIRA- SOLI, Significato ecclesiale dei beni temporali della Chiesa, Excerpta ex dissertatione ad Doctoratum in Facultate Iuris Canonici PontificiaeUniversitatis Gregorianae, Romae1990. 25 GIOVANNI PAOLO II, Sacraedisciplinaeleges, in AAS 75 (1983) II, XI. Commento al canone 1284 § 2, 6° 391

Ciononostante, resta un rilevante divario tra il testo latino e la traduzione italiana. Certo, il can. 1258 stabilisce che «nei canoni se- guenti con il nome di Chiesa s’intende non soltanto la Chiesa univer- sale o la Sede Apostolica, ma anche qualsiasi persona giuridica pub- blica nella Chiesa, a meno che non risulti diversamente dal contesto o dalla natura delle cose». Ma è proprio questo il punto: il testo lati- no non utilizza il termine Ecclesia (Chiesa). D’altro canto, è pur vero che, fin dal primo Schema di revisione, l’espressione ipsius ecclesiae contenuta nel can. 1523, 4° del CIC 1917 fu abbandonata, quasi a vo- lerne ampliare la portata. Anche su questo punto, quindi, si dovrà fa- re chiarezza. Non si tratta, ovviamente, di una questione meramente teorica. Di fatto, ben diversa è la circostanza che una determinata somma di denaro “eccedente”, sia pure con il consenso dell’Ordinario, possa essere impiegata utilmente a vantaggio della stessa persona giuridi- ca che la possiede, ovvero possa essere stornata per far fronte ad al- tre esigenze della Chiesa. Tanto più, se tale “eccedenza” è frutto di offerte fatte dai fedeli, per le quali vale la “regola d’oro” contenuta nel can. 1267 § 3: «Le offerte fatte dai fedeli per un determinato fine non possono essere impiegate che per quel fine». Ora, il testo latino sembra pregiudicare la seconda possibilità, stornare cioè a favore di altra persona giuridica o istituto eventuali “eccedenze”. La tradu zio- ne italiana, invece, la ammetterebbe. La traduzione in lingua italiana del can. 1028 § 2, 5° del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali è più precisa. Il testo latino stabili- sce: «Pecuniam, quae de expensis forte superest et utiliter collocari po- test, de consensu Hierarchae in fines Ecclesiae vel personae iuridicae col locare». La traduzione italiana recita: «Impiegare, con il consenso del Gerarca, il denaro che eventualmente è avanzato dalle spese e che può utilmente essere investito, per i fini della Chiesa o della per- sona giuridica» 26. Tra le fonti di questo canone si cita il can. 269, 4° del motu proprio Postquam apostolicis litteris (9 febbraio 1952) di Pio XII 27, il quale riproduce, quasi alla lettera, il can. 1523 del CIC 1917.

26 Cf PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Codex Canonum Ecclesiarum Orienta- lium, Fontium annotatione auctus, Typographia Polyglotta Vaticana 1995. Concorda la traduzione pro- posta dal Códego de Cánones de las Iglesias orientales, a cura dei Professori della Pontificia Università di Salamanca, Madrid 1994. 29 Cf AAS 44 (1952) 136. 392 Alberto Perlasca

La ratio legis La norma che stiamo esaminando può essere guardata da due diversi punti prospettici. Da un lato essa si inserisce nel quadro del diritto-dovere di vigilanza che l’Ordinario ha «sull’amministrazione di tutti i beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche a lui sog- gette» (can. 1276 § 1). D’altro lato la norma fa parte dei doveri che in- combono sugli amministratori di beni ecclesiastici (cf cann. 1283- 1289) 28. I Praenotanda allo Schema del 1977 parlano, expressis verbis, di «quaedam [...] circa obligationes administratoris bonorum» 29. Sotto il primo aspetto, non si deve dimenticare che “il diritto na- tivo” della Chiesa cattolica «indipendentemente dal potere civile di acquistare, possedere, amministrare ed alienare i beni temporali», è legittimo nella misura in cui tali beni sono destinati al conseguimen- to dei fini che le sono propri (cf can. 1254 § 1). È ben giusto, quindi, che l’Ordinario, a fronte del pericolo di utilizzare in modo “illegitti- mo” – cioè non in vista del perseguimento dei fini propri della Chie- sa – i beni posseduti in eccesso, verifichi personalmente tale utilizzo, precisamente mediante lo strumento della licenza 30. Si tratta, in ve- ro, di una materia molto delicata, nella quale può essere facile assu- mere atteggiamenti troppo disinvolti che possono tornare di nocu- mento all’immagine della Chiesa, svilendo l’efficacia della sua azio- ne. Non si dimentichi, poi, l’eventualità che amministratori troppo ingenui o senza scrupoli si lascino coinvolgere in operazioni finan- ziarie che, alla fine, si rivelano fallimentari, con il pericolo di perdere somme di denaro magari anche rilevanti. L’attuale instabilità dei mercati finanziari dovrebbe convincere circa l’effettiva possibilità di tali pericoli. Talvolta, poi, investimenti fatti con il miraggio di lauti guadagni possono nascondere o finanziare loschi traffici abilmente camuffati. È ben giusto, quindi, che l’Ordinario vigili e, se del caso, prima di concedere l’autorizzazione, assuma opportune informazioni

28 Sul tema si veda anche C. REDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano nei confronti dei beni ec- clesiastici, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 3 (1991) 315-335. 29 Cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Schema canonum libri V, cit., 5-6. 30 Si tratta, invero di un’esigenza molto avvertita dalla Chiesa. Cf, a titolo di esempio, l’Istruzione invia- ta dalla S. C. de Propaganda Fide al Patriarca Armeno (30 luglio 1867): «In permutationibus praemitta- tur aestimatio fundorum a probis peritis scripto faciendae [...]; constet de evidenti Ecclesiae utilitate [...]. Quod si valor fundi ecclesiastici superet valorem fundi qui ab Ecclesia in permutationem recipitur, ea pe- cuniae vis, quae ad perequationem contractus est necessaria, Ecclesiae persolvatur in actu stipulationis, et collocetur in honesto, tuto ac licito investimento; atque interim deponatur uti supra in cassa publica, vel apud personam spectatae probitatis atque idoneitatis» (Codicis Iuris Canonici Fontes, VII, a cura di P. Ga- sparri, Romae1935, pp. 403-404). Commento al canone 1284 § 2, 6° 393 in proposito. Ma non basta. L’Ordinario deve vigilare e verificare che tali somme “eccedenti” non solo siano investite in modo lecito, ocu- lato e utile, ma anche che siano impiegate per i fini “propri” della per sona giuridica. Tale intervento dell’Ordinario, tuttavia, non deve essere visto solo in termini di “verifica” o di “controllo”, ma anche di aiuto e di collaborazione fraterna. Dal secondo punto di vista, non si deve dimenticare che quello che incombe sugli amministratori è un vero e proprio dovere che si specifica in relazione alla nozione stessa di amministrazione. Que- st’ultima, in particolare, può essere definita come quell’attività che «comprende quegli atti che sono necessari o utili affinché le cose ac- quistate si conservino secondo la loro natura; affinché fruttifichino (producano frutti, questi siano raccolti a tempo debito e applicati ai fini propri naturali o imposti legittimamente); affinché possano mi- gliorare nel loro valore ed efficacia produttiva» 31. Gli amministratori, quindi, devono amministrare i beni della Chiesa, ovviamente sempre nei modi leciti e secondo prudenza, ma in modo che essi rendano (“fruttifichino”) al massimo delle loro potenzialità. Non è quindi que- stione di una “qualsiasi” amministrazione, ma si tratta di porre in es- sere la migliore amministrazione possibile. Ciò acquista un partico- lare rilievo non solo laddove si tratti di gestire grosse somme di de- naro. Anzi, a rigore, l’amministrazione deve essere tanto più accorta quanto minori sono le risorse disponibili: ciò al fine di evitare che la persona giuridica resti senza i mezzi necessari per il conseguimento dei fini suoi propri. Infine, non ci pare fuor di luogo rilevare come l’estensione della portata della norma, operata dalla traduzione in lingua italiana rispet- to al testo latino, potrebbe portare a due effetti “collaterali” indeside- rati. In primo luogo, una disattenzione della norma da parte degli amministratori. Non crediamo di essere molto distanti dal vero nel- l’affermare che, di fatto, molto raramente questa norma ha trovato, trova e troverà applicazione. Ciò dovrebbe anche richiamare la ne- cessità di riferirsi sempre e comunque al testo ufficiale in lingua lati- na, non accontentandosi delle traduzioni nelle lingue volgari, ancor- ché autorizzate. In secondo luogo, il “pericolo” di vedersi distrarre l’eccedenza dell’esercizio a vantaggio di altri soggetti, potrebbe indurre all’occul -

31 A. TABERA, Il diritto dei religiosi, Roma 1961, n. 163. 394 Alberto Perlasca tamento di tale eccedenza, manipolando il bilancio consuntivo che gli amministratori di beni ecclesiastici sono tenuti a presentare an- nualmente all’Ordinario diocesano (cf can. 1284 § 2, 8°).

In conclusione Il can. 1284 § 2, 6° è una norma che, benché infelicemente for- mulata nella versione latina e ancor più infelicemente tradotta in lin- gua italiana, presenta tuttavia una certa utilità. Un ripensamento, in proposito, a nostro modo di vedere, è quindi del tutto auspicabile. Proporremmo, de iure condendo, il seguente testo: «Pecuniam, quae de expensis supersit et utiliter praecaria ratione collocari possit, in fi- nes personae iuridicae occupare. Si de collocatione pecuniae stabili ra- tione agitur, consensus Ordinarii requiritur». Concordiamo con chi ritiene che si abbia a che fare con straor- dinaria amministrazione solo quando si tratti di capitali da investire in modo stabile e non nel caso di semplici depositi bancari. La nor- ma in parola, pertanto, non può essere considerata, sempre e co- munque, un atto di straordinaria amministrazione. Cionondimeno, l’infelice formulazione del canone fa sì che, rebus sic stantibus, di per sé, è richiesta comunque la licenza dell’Ordinario. È del tutto auspi- cabile, quindi, che, con le dovute precisazioni, il can. 1284 § 2, 6° sia inserito esplicitamente nel decreto che l’Ordinario competente deve emanare per le persone giuridiche a lui soggette o negli statuti delle singole persone giuridiche. Condivisibile, per contro, appare la ratio legis, stante il ruolo che, oggigiorno, gioca anche l’elemento finanziario in ordine a offri- re un’immagine corretta e credibile della Chiesa.

ALBERTO PERLASCA piazza Grimoldi, 5 22100 Como Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 395-405 La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti di Egidio Miragoli

Nel comune modo di pensare – e non solo dei fedeli laici, ma anche di coloro che dovrebbero avere maggior dimestichezza e fa- miliarità con questi temi e ambienti – Curia romana e relativi organi- smi vengono sentiti complessivamente come realtà distanti, inacces- sibili, qualcosa di simile ai palazzi governativi e ai ministeri statali, sinonimo di burocrazia e di lungaggini che scoraggiano, già sul na- scere, ogni pur legittimo o motivato desiderio di contatto. Ne conse- gue anche uno scarso interesse a conoscerne da vicino il significato, la struttura e le attività. Premesso che a far le istituzioni sono gli uomini, con il loro carattere, la loro preparazione e la loro più o meno intensa passio- ne per il lavoro che svolgono, in questo intervento vogliamo tratta- re della Penitenzieria Apostolica, un organismo della Curia romana atipico sotto molti punti di vista. Dalla conoscenza di questa realtà tanti confessori potrebbero trovare grande giovamento per il loro ministero 1.

I tratti salienti Le particolari caratteristiche di questo dicastero romano basta- no da sole ad attirargli simpatia e stima da parte di quanti a esso ri- corrono: una struttura interna molto sobria e accessibile, un lavoro celere e a diretto beneficio delle anime, soprattutto la discrezione o

1 Circa la storia di questo tribunale si veda N. DEL RE, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, Roma 1970, pp. 261-274, oppure la breve scheda in Annuario Pontificio, nella sezione Note storiche. 396 Egidio Miragoli la massima riservatezza, a seconda dei casi. Tali peculiarità dipendo- no dalla sua natura e dai suoi compiti 2. Infatti nell’organigramma della Curia romana, la Penitenzieria è uno dei tre tribunali – anzi, il primo – ma un tribunale tutto particola- re. Alla Penitenzieria «non si ricorre per rivendicare un diritto, per chiedere la giustizia, ma per implorare una grazia; in essa non si instaura un vero contraddittorio, non si raccolgono le prove, non si dà la possibilità di difesa con la facoltà di confuta- re le prove avverse ecc.; in altre parole non si riscontrano nell’oggetto della competenza della Penitenzieria Apostolica e nella procedura in essa seguita gli elementi essenziali dei veri processi giudiziari» 3.

Di questo tribunale la costituzione apostolica Pastor bonus dice: «Art. 117. La competenza della Penitenzieria Apostolica si riferisce alle mate- rie che concernono il foro interno e le indulgenze. Art. 118 – Per il foro interno, sia sacramentale che non sacramentale, essa concede le assoluzioni, le dispense, le commutazioni, le sanzioni, i condoni e altre grazie. Art. 119. La stessa provvede a che nelle Basiliche Patriarcali dell’Urbe ci sia un numero sufficiente di Penitenzieri, dotati delle opportune facoltà. Art. 120. Al medesimo Dicastero è demandato quanto concerne la conces- sione e l’uso delle indulgenze, salvo il diritto della Congregazione della Dot-

2 Sia lecito qui evidenziare una difficoltà. La doverosa riservatezza dovuta ai casi trattati dalla Peniten- zieria non dovrebbe estendersi alla realtà della Penitenzieria, fin quasi a impedire la conoscenza delle sue competenze, dei suoi orientamenti, del servizio che può offrire ai sacerdoti. Sembra essere infatti questa l’attuale situazione, con il risultato che i sacerdoti non conoscono il prezioso servizio che questo dicastero offre. Ne è esempio l’istruzione Suprema ecclesia bona (15 luglio 1984), inviata per tre volte consecutive agli ordinari e ancora oggi, par di notare, non conosciuta da molti. Essa fu inviata agli ordi- nari diocesani e religiosi – così recitava l’accompagnatoria – «per loro personale uso nell’adempimento del loro ufficio pastorale, non come tema di studio collegiale». Il 14 marzo 1987 la Penitenzieria ha rite- nuto opportuno reiterare l’invio del testo, motivandolo così: nel corso dei tre anni trascorsi erano giun- te numerose richieste anche da parte di soggetti costituiti in autorità o in posti di notevole responsabi- lità, dalle quali si evinceva che quel documento non era pervenuto «ai vari gradi di autorità e ambienti» interessati o non era stato compiutamente assimilato dai destinatari. Perciò la Penitenzieria riteneva op- portuno reiterare l’invio pregando di farne avere conoscenza ai sacerdoti nel modo ritenuto più conve- niente, «ma sempre escludendo la pubblicazione in bollettini, fogli e simili, che sono destinati a un pub- blico più largo che quello dei sacerdoti». Anche al terzo invio (4 luglio 1991) l’accompagnatoria (questa volta della Segreteria CEI) recita: «Secondo le indicazioni della stessa Nunziatura Apostolica, il testo dovrà essere portato, cautamente, a conoscenza dei sacerdoti confessori, ma non dovrà essere oggetto di alcuna pubblicazione né discussione accademica». A questo punto una considerazione viene sponta- nea: la materia in oggetto è complessa; come è possibile “impossessarsene” da parte dei sacerdoti con tutte queste cautele, se non ne è consentita né la pubblicazione né la discussione? Forse sarebbe op- portuno rivedere questa indicazione. Del resto i casi ivi recensiti sono già tutti contenuti nel Codice! Quanto al testo completo dell’istruzione – con le lettere accompagnatorie dei primi due testi inviati – esso è stato pubblicato in EV S/1, nn. 901-912. In questo articolo, per l’individuazione delle competenze di questo tribunale, terremo presenti i temi in essa trattati. 3 Z. GROCHOLEWSKI, I tribunali apostolici, in AA.VV., Le nouveau Code de Droit Canonique. The new Code of Canon Law. Actes du V Congrès International de Droit Canonique. Proceedings of the 5th Internatio - nal Congress of Canon Law, I, Ottawa 1986, p. 458. La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti 397

trina della Fede di esaminare tutto ciò che riguarda la dottrina dogmatica in- torno ad esse».

Dagli articoli citati, che in sostanza ripresentano la precedente normativa antica di secoli 4, tre sembrano dunque essere gli ambiti di competenza dell’organismo in questione: il foro interno sia sacra- mentale che non sacramentale 5; la concessione e l’uso delle indul- genze; la pastorale penitenziale nelle basiliche patriarcali di Roma 6. Partendo da quest’ultimo aspetto, vediamo da vicino il servizio che la Penitenzieria svolge nella vita della Chiesa.

La pastorale penitenziale nelle basiliche patriarcali di Roma L’aspetto più visibile e conosciuto, anche se probabilmente non da tutti ricondotto alla Penitenzieria Apostolica, è quello relativo ai confessori delle quattro storiche basiliche patriarcali romane, detti “penitenzieri minori”. Questi, benché non facciano parte del perso- nale della Penitenzieria, sono alle sue dirette dipendenze 7. Cosa ciò comporti per la Penitenzieria, si trova descritto nell’annuale rendi- conto delle attività svolte, ove si legge che, come da consuetudine e per istituto, la Penitenzieria

«ha curato la pastorale penitenziale nelle Basiliche Patriarcali di Roma, me- diante cinque Collegi di Padri Penitenzieri, per i quali essa mantiene il rap- porto amministrativo con la Santa Sede, e per la cui regolare funzionalità provvede alla sostituzione dei soggetti, quando essi, o per limiti di età o per altre ragioni, hanno dovuto lasciare l’ufficio. La sostituzione avviene dopo che i candidati sono stati seriamente vagliati mediante un particolare esame sulla loro preparazione dottrinale e un prudente accertamento circa le attitu-

4 La Penitenzieria è stata oggetto di diverse riforme, per opera di Pio V (1569), Benedetto XIV (costitu- zione Pastor bonus, 1744), Pio X (costituzione Sapienti consilio, 1908). Le normative più recenti sono quelle del CIC 1917 (can. 258) e della costituzione apostolica di Paolo VI Regimini ecclesiae universae del 1967 (artt. 111-113). 5 «La ragione della stabilità delle norme circa la Penitenzieria, per quanto attiene al foro interno, è da individuarsi nella speciale natura del Dicastero, la quale, a sua volta, è determinata dall’oggetto della sua competenza, cioè gli affari di coscienza, trattati come tali, in foro interno appunto, o, se vogliamo, in foro Dei. Il rapporto della coscienza col Signore e la mediazione della Chiesa per questo rapporto salvifico sono realtà che non risentono se non accidentalmente, e solo per aspetti strumentali, delle va- riazioni storiche e culturali» (L. DE MAGISTRIS - U.M. TODESCHINI, La Penitenzieria Apostolica, in AA.VV., La Curia Romana nella costituzione apostolica Pastor bonus, a cura di P.A. Bonnet e C. Gullo [Studi Giuridici XIX], Città del Vaticano 1990, pp. 419-429). 6 Questo compito non era indicato esplicitamente nei documenti precedenti. 7 Per la storia di questo particolare aspetto, cf F. TAMBURINI, La Sacrée Pénitencerie apostolique et les pé- nitenciers mineurs pontificaux, in «Studia Canonica» 31 (1997) 449-459. 398 Egidio Miragoli

dini personali, in vista del delicato compito che la Chiesa loro affida per il be- ne delle anime» 8.

Al fine poi di rendere più fruttuoso il servizio di questi confessori e di garantire una certa uniformità di indirizzo, la Penitenzieria cura la loro formazione permanente organizzando incontri mensili di studio. I penitenzieri, muniti di speciali facoltà e contemporaneamente esentati «da pratiche consuetudinarie o ex lege delle rispettive famiglie religio- se» 9, dedicano la totalità del loro ministero alle confessioni e sono così distribuiti: i frati minori conventuali prestano servizio nella basilica va- ticana, i frati minori sono nella basilica lateranense, i domenicani a Santa Maria Maggiore, i benedettini cassinesi a San Paolo fuori le Mu- ra. Altre famiglie religiose mettono a disposizione loro membri come penitenzieri straordinari nella basilica vaticana, a motivo della grande richiesta di confessioni che la contraddistingue. I penitenzieri, «per la loro origine dai più svariati paesi del mondo, per la molteplicità delle lingue nelle quali si esprimono, e perché di fatto ad essi si rivolgono con fi- ducia ecclesiastici e fedeli di tutto il mondo, quando vengono videre Petrum, rappresentano in atto il ministero della Riconciliazione, che, per impulso del- lo Spirito Santo, come nella Pentecoste, si esercita sui viri religiosi ex omni natione, quae sub caelo est (Atti 2, 5)» 10.

La concessione e l’uso delle indulgenze La definizione classica di indulgenza è quella contenuta nel Ma- nuale delle Indulgenze (1987): «[Essa è] la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determina- te condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa e applica il tesoro delle soddi- sfazioni di Cristo e dei Santi» (Norme, 1).

Purtroppo non è una definizione semplice da capire, anche per- ché fa sintesi di tanti elementi teologici 11, e tuttavia ci allontanerebbe

8 L’attività della Santa Sede 1996, p. 820. 9 Il sacramento della Penitenza. Sette allocuzioni e una lettera di Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 1996, p. 24. Questo volume, a cura della Penitenzieria, costituisce un importante riferimento magiste- riale per i confessori. 10 Ibid., p.22. 11 Come ebbe a dire Giovanni Paolo II parlando ai penitenzieri, «l’amore, soprannaturalmente inteso, per le indulgenze, connesse come sono queste con le certezze del peccato e del sacramento della Riconcilia- zione, con la fede nell’aldilà, specialmente nel purgatorio, con la reversibilità dei meriti del Corpo Misti- co, cioè la Comunione dei Santi, è una comprensiva tessera di autenticità cattolica» (ibid., p. 23). La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti 399 dall’intento che ci siamo proposti soffermarci a spiegarne il significa- to. Solo aggiungiamo che l’indulgenza può essere plenaria o parziale a seconda che liberi in tutto o solo in parte dalla pena temporale do- vuta per i peccati 12. Ebbene, la Penitenzieria ha il compito di regola- re la concessione e l’uso delle sacre indulgenze in tutta la Chiesa, ed esercita la competenza esclusiva quando si tratta di indulgenza ple- naria. Concretamente, la Penitenzieria viene incontro alle richieste di diocesi, famiglie religiose, parrocchie, santuari, pie associazioni di fedeli, concedendo indulgenze plenarie in circostanze di speciale im- portanza pastorale, come per esempio nelle ricorrenze anniversarie.

Il foro interno, sia sacramentale che non sacramentale La parte maggiore e più importante della sua attività la Penitenzieria la svolge comunque nel campo del foro interno, sia sacramentale che non sacramentale. Ne consegue una grande riservatezza su tale lavoro, poiché i casi trattati hanno frequente connessione con il sacramento della peniten- za. Volendo schematizzare, possiamo semplificare come segue. Anzitutto è ufficio competente per la risoluzione di casi reali indivi- duali, mediante la concessione di assoluzioni, grazie, dispense, sanazioni, condonazioni riservate alla Santa Sede 13; è poi un servizio di consulenza a favore dei confessori bisognosi di chiarificazioni per il loro ministero. Prima di elencare le singole situazioni, è però opportuno spendere qualche istante per comprendere meglio i confini del foro interno attraver- so alcune precisazioni. Le espressioni “foro esterno” e “foro interno” non trovano definizione nella legge canonica. Sono due ambiti nei quali si esercita la potestà di go- verno della Chiesa. Il CIC 1917 (can. 196) identificava il foro interno con il «foro della coscienza». Il Codice vigente (can. 130) non usa più questa espressione. Come ben dimostrato da padre Urrutia14, il criterio di distinzione tra i due fori-ambiti si rivela essere il modo di agire: occulto oppure pubblico. Gli effetti dell’unica potestà di governo, se sono riconoscibili nella comunità, riguardano il foro esterno; altrimenti concernono quello interno. «L’esercizio della giurisdizione, del quale ha legittima conoscenza la comunità per- ché ci sono prove legittime di esso, è esercizio di giurisdizione per il foro esterno o

12 Cf Manuale delle Indulgenze, Norme, 2. 13 Nel volume di F. TAMBURINI, Santi e Peccatori. Confessioni e suppliche dai registri della Penitenzieria dell’Archivio Segreto Vaticano (1451-1586), Milano 1995, è possibile cogliere l’elenco degli innumere- voli argomenti ai quali si estendeva, in passato, la competenza della Penitenzieria. 14 F. J . U RRUTIA, Il criterio di distinzione tra foro interno e foro esterno, in AA.VV., Vaticano II. Bilancio e prospettive, I, a cura di R. Latourelle, Assisi 1987, pp. 544-570. 400 Egidio Miragoli

nel foro esterno. E gli effetti di tale esercizio, pubblicamente conosciuti, appartengo- no al foro esterno. Invece, se l’esercizio della giurisdizione rimane occulto alla comu- nità come tale, e rimangono ugualmente occulti gli effetti prodotti, perché non ci so- no prove legittime, allora si tratta di esercizio per il foro interno o nel foro interno»15.

Per caso occulto possiamo intendere qualcosa che non si può provare; oppure si può provare ma non è conosciuto; oppure una questione che di fatto non è portata davanti al tribunale. Quanto alla distinzione del foro interno in sacramentale e non sacramen- tale, di cui si parla nel Codice (cf cann. 1079 § 3 e 1082), si intende che tutto quanto è conosciuto e risolto nell’atto dell’amministrazione del sacramento della penitenza cade nel foro interno sacramentale; nel secondo ambito ricade invece ciò che è conosciuto e risolto fuori dal sacramento, ma sempre con le caratteristiche della segretezza sia dei contenuti che degli effetti. Già nel Codice del 1917, ma anche nel Codice vigente, si contemplano casi che – per la loro rilevanza e per la gravità degli effetti – sono riservati alla Santa Sede, nel senso che la loro soluzione è riservata a dicasteri che aiutano il Papa nel suo servizio alla Chiesa. Ebbene, quando trattasi di foro interno competente è la Penitenzieria Apostolica. Nel nuovo Codice sono esplicitamente affermati alcuni casi.

Il delitto di profanazione sacrilega del sacramento dell’eucarestia (can. 1367)16 Il Codice recensisce questo delitto tra quelli contro la religione. Tre sono i verbi del testo latino atti a configurare altrettante situazioni delittuo- se che hanno in comune la profanazione: «qui species consacratas abicit aut in sacrilegum finem abducit vel retinet», cioè, alla lettera, «chi getta le spe- cie consacrate, le sottrae o le conserva per scopo sacrilego». Tali gesti pos- sono essere commessi per odio contro Dio o contro la Chiesa; nel nostro tempo, non raramente tali profanazioni sono state addebitate ai membri di sette, specie sataniche.

La violenza fisica contro il Romano Pontefice (can. 1370 § 1)17 Il Codice pone questo delitto tra quelli «contro l’autorità ecclesiasti- ca» (libro VI, parte II, titolo II). Benché nei lavori di revisione del Codice

15 Ibid., pp. 552-553. 16 «Chi profana le specie consacrate, oppure le asporta o le conserva a scopo sacrilego, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica; il chierico inoltre può essere punito con altra pena, non esclusa la dimissione dallo stato clericale» (can. 1367). 17 «Chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice, incorre nella scomunica latae sententiae riserva- ta alla Sede Apostolica, alla quale, se si tratta di un chierico, si può aggiungere a seconda della gravità del delitto, un’altra pena, non esclusa la dimissione dallo stato clericale» (can. 1370 § 1). La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti 401 alcuni chiedessero che questo delitto venisse equiparato, quanto alla pena, a quello commesso contro chi è insignito dell’ordine episcopale (cf 1370 § 2), i consultori ritennero di conservare distinto il caso: la gravità della pena è richiesta dal bene pubblico della Chiesa 18.

Il delitto di assoluzione del proprio complice in peccato contro il sesto comandamento (can. 1378 § 1)19 Nell’intenzione del Codice, in questo caso, si vuole stigmatizzare un delitto tanto più grave perché commesso nell’esercizio del ministero, stru- mentalizzando un sacramento, e quindi contro la santità del sacramento stesso. Affinché si configuri il nostro caso, occorre che vi sia stata reale complicità (adesione formale ed esteriore) in un peccato contro la castità, grave ed esterno, che viene confessato al di fuori del pericolo di morte.

Il delitto per conferimento e recezione, senza mandato apostolico, dell’Ordine episcopale (can. 1382) Il titolo del Codice entro il quale ricade questo delitto recita: Usurpa- zione degli uffici ecclesiastici e delitti nel loro esercizio. Secondo il can. 1013, «a nessun Vescovo è lecito consacrare un altro Vescovo, se prima non con- sta del mandato pontificio». Tale mandato sta a indicare la volontà papale che si esprime nella designazione e nella nomina; concretamente è lo stru- mento, cioè la bolla di nomina, che viene esibita e letta pubblicamente du- rante il rito di ordinazione 20.

Il delitto di violazione diretta del sigillo sacramentale (can. 1388 § 1)21 Questo delitto riguarda l’esercizio del ministero. Sul tema del sigillo sacramentale, così si è espresso Giovanni Paolo II nell’annuale incontro con la Penitenzieria: «Avendo nostro Signore Gesù Cristo stabilito che il fedele accusi i suoi peccati al ministro della Chiesa, con ciò stesso ha sancito l’in -

18 «I consultori all’unanimità rispondono che la speciale gravità della pena è richiesta dal bene pubblico della Chiesa, perché esso verserebbe in grave pericolo se qualcuno usasse violenza fisica contro il Pa- pa; infatti il diritto penale tende a tutelare il bene pubblico» («Communicationes» 9 [1977] 307). 19 Per un approfondimento si veda E. MIRAGOLI, Il confessore e il de sexto. Prospettiva giuridica, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 4 (1991) 238-258. 20 «Il Vescovo che senza mandato pontificio consacra qualcuno Vescovo e chi da esso ricevette la consa- crazione, incorrono nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica» (can. 1382). Un ca- so che ha fatto notizia è quello del vescovo Pierre Martin Ngô-Dinh-Thuc, che nel 1976 e nel 1981 ha ordinato vescovi senza mandato pontificio. Cf documentazione sulla vicenda in EV 9, nn. 157 ss. A tutti, poi, è noto il caso di monsignor M. Lefèbvre. 21 «Il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica» (can. 1388 §1). Su questo argomento cf E. MIRAGOLI, Il sigillo sacramen- tale, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 3 (1990) 411-421. 402 Egidio Miragoli comunicabilità assoluta dei contenuti della confessione rispetto a qualunque altro uomo, a qualunque autorità terrena, in qualunque situazione» 22.

La concessione di dispense Alla Penitenzieria è riservata anche la concessione di dispense, come quella dall’irregolarità derivante dal delitto di omicidio o di a borto, sia per ac- cedere agli Ordini sacri, sia per esercitarli (can. 1041, 4°; can. 1044 § 1, 3°). Il tema delle irregolarità è, in genere, poco trattato e conosciuto. Dia- mo qui gli elementi essenziali per comprendere il problema entro l’ambito di cui ci stiamo occupando. Punto di partenza è la sollecitudine della Chie- sa nel salvaguardare la santità del sacramento dell’Ordine e l’esercizio del ministero sacro. Tra gli strumenti finalizzati ad assicurare tale scopo, il Co- dice prevede norme, che in speciali circostanze, vietano di ricevere l’Ordi - ne nei vari gradi, oppure ne vietano e ne limitano l’esercizio. L’espressione canonica di questa sollecitudine morale e pastorale della Chiesa sono i ca- noni 1040-1049, che recensiscono «irregolarità e impedimenti». Le irrego- larità sono divieti perpetui, che possono quindi cessare solo tramite di- spensa; l’impedimento è temporaneo, e quindi può cessare anche da sé, col venir meno della causa che l’ha prodotto. Chi avesse commesso omicidio o fosse responsabile di procurato aborto è toccato dal l’irregolarità sia per ac- cedere agli Ordini sacri sia per esercitarli. In data 27 luglio 1992, la Con- gregazione per l’Educazione Cattolica ha inviato una lettera ai vescovi e su- periori maggiori religiosi nella quale si stabilisce che sia data ai candidati agli Ordini, «fin dall’inizio del corso teologico, e in ogni caso non meno di un quadriennio prima della data presuntiva degli Ordini», un’illustrazione delle norme contenute nei canoni 1040-1049 23. Anche per le sanazioni, le riduzioni e altri simili provvedimenti relativi agli oneri di messe, se richiesti in foro interno, sacramentale o non sacra- mentale, il ricorso deve essere inviato alla Penitenzieria Apostolica. Ne fac- ciamo cenno qui, come di esempio di particolare provvedimento, ma anche perché situazione purtroppo ricorrente. È vero che in questo campo non è stabilita alcuna censura, ma comunque si tratta di aspetto estremamente im- portante nella vita della Chiesa. Non è inutile ricordare che il sacerdote è te- nuto per grave obbligo di giustizia a soddisfare agli oneri di messe; le offer- te ricevute per la celebrazione di messe comportano l’obbligo di celebrarle, senza che alcuno si senta autorizzato a devolvere per altri fini tali offerte (cann. 954-958). Ebbene, la Penitenzieria, nelle situazioni indicate, provvede a risolvere anche eventuali “disordini” dei sacerdoti in merito.

22 Il sacramento della Penitenza, cit., p.51. 23 Cf lettera prot. n. 1560/90/18 del 27 luglio 1992 con accompagnatoria della Segreteria CEI prot. n. 643/92 del 3 settembre 1992. La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti 403

Per quanto riguarda la richiesta di grazie, sanazioni, dispense, in ge- nere, occorre tener presente che la Penitenzieria Apostolica ha facoltà di concedere nel foro interno quasi tutto ciò che in foro esterno concedono gli altri dicasteri della Santa Sede, sempre, naturalmente, che l’oggetto del- la richiesta sia suscettibile di soluzione in foro interno. Così si può conce- dere in foro interno la sanazione in radice di matrimoni invalidi per impedi- menti occulti; similmente si deve inviare il ricorso alla Penitenzieria in quei casi nei quali v’è un dubbio, fondato su cause occulte, circa la validità dei sacramenti del battesimo, della cresima o dell’Ordine sacro.

Consulenza e aiuto ai confessori per i casi difficili Al di là delle situazioni riservate e per le quali è d’obbligo il ricorso al- la Penitenzieria, questa si pone a disposizione dei confessori bisognosi di chiarimenti per la soluzione corretta di casi di coscienza, complessi o con- troversi. Ciò può avvenire o in forma epistolare o anche con diretti contatti personali. L’aiuto ai confessori nella soluzione dei casi di coscienza, viene dato mediante i cosiddetti responsa. Va osservato che questi hanno valore autoritativo per le circostanze reali e singolari che sono state proposte e non invece per gli altri casi, ma che a questi ultimi quelle risposte possono estendersi come criterio prudenziale; in nessuna evenienza, è permesso di divulgare queste risposte.

In definitiva, a quale porta bussare? Come abbiamo visto, per lo stesso problema possono avere competenza dicasteri diversi. La difficoltà, allora, sta nell’individuare a quale dicastero rivolgersi. I criteri indicati dalla Penitenzieria sono i seguenti: i problemi formulati in termini universali e in forma assolu- tamente astratta debbono essere sottoposti non alla Penitenzieria, ma in rapporto alla loro indole, o alla Congregazione per la Dottrina della Fede (quando si tratta di questioni dottrinali) o agli altri dicasteri del- la Santa Sede. Questo criterio si può illustrare col seguente esempio: la questione, puramente teorica, se sia lecito contrarre matrimonio da parte di una persona portatrice di malattia ereditaria deve essere pre- sentato alla Congregazione per la Dottrina della Fede; la questione circa il caso concreto, se sia lecito contrarre matrimonio alla tal per- sona che è attualmente colpita dalla tale malattia, qualora il caso stes- so sia notorio deve essere sottoposto alla stessa Congregazione, qua- lora invece esso sia occulto, deve essere proposto alla Penitenzieria. 404 Egidio Miragoli

Struttura interna e metodo di lavoro Vediamo ora in che modo la Penitenzieria fa fronte al suo lavo- ro. Ruolo chiave è quello del cardinale Penitenziere Maggiore, nel quale si assommano tutte e singole le facoltà del tribunale.

«Nell’esercizio di queste facoltà, però, egli è vincolato al modo collegiale: vale a dire che non può esercitare i suoi poteri se non trattando i relativi problemi in sede di Segnatura o di Congresso, al cui voto però non è subordinato» 24.

Per analogia, possiamo paragonare questa situazione a quella del superiore che, per agire validamente o lecitamente, deve prima aver sentito (audito) un determinato organismo, anche se non è te- nuto a seguirne le indicazioni (non de consensu). Alla morte del Pa- pa, il Penitenziere Maggiore, a differenza degli altri cardinali prepo- sti ai vari dicasteri che cessano dal loro ufficio, resta in carica 25 e an- che durante lo svolgimento del conclave è a lui permesso, in deroga alle disposizioni, ricevere le lettere d’ufficio chiuse e sigillate, senza che siano soggette ad alcun esame e ispezione 26.

«La spiegazione risiede, ovviamente, nell’oggetto specifico dell’attività della Penitenzieria, e cioè i problemi di foro interno o della coscienza. Qui si im- pone al Legislatore una profondissima e fondamentale ragione ecclesiale, quella, antichissima, scolpita oggi nell’ultimo canone del vigente codex, la sa- lus animarum, «quae in Ecclesia, suprema lex esse debet» (can. 1752). È evi- dente che proprio l’urgenza di questo dovere ecclesiale esige che, ai vertici della Chiesa, non manchi mai una persona investita dell’incarico di provve- dere a regolare e sanare i conflitti di foro interno. Infatti, se anche la Sede Romana è vacante, la Chiesa è viva e non può che vivere secondo lo spirito della sua legge suprema» 27.

Altra figura di rilievo è quella del Reggente, che dirige il lavoro ordinario dell’ufficio. Completano l’organigramma un Teologo, un Canonista e tre Consiglieri. Le questioni vengono trattate o nel Con- gresso giornaliero presieduto dal Reggente, o nella Segnatura, che si

24 L. DE MAGISTRIS - U.M. TODESCHINI, La Penitenzieria Apostolica, cit., p. 424 25 Cf Pastor bonus, art. 6. «Se resta immutato, però, l’elemento soggettivo dell’ufficio, diversamente av- viene per la sua competenza, che si riduce agli affari ordinari, con la ulteriore precisazione che il Peni- tenziere Maggiore è tenuto a proporre al Collegio dei cardinali le questioni di cui avrebbe dovuto riferi- re al Pontefice»(A.M. PUNZI NICOLÒ, La Curia durante la sede vacante, in AA.VV., La Curia Romana, cit., p. 155). 26 Cf GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Universi dominici gregis, 22 febbraio 1997. 27 A.M. PUNZI NICOLÒ, La Curia durante la sede vacante, cit., p. 160. La Penitenzieria Apostolica: un organismo a servizio dei confessori e dei penitenti 405 tiene almeno una volta la mese ed è presieduta dal cardinale Peni- tenziere, o durante l’Udienza con il Sommo Pontefice. È da notare che «i casi deferiti alla Penitenzieria, specialmente quelli di foro interno, vengo- no risolti, per quanto possibile, entro le 24 ore da quando sono presentati, e ciò in ossequio a una disposizione emanata da Benedetto XIV e confermata da Pio XI, alla quale il dicastero si sforza di ottemperare» 28.

Nel caso di problemi complessi, viene inviata subito almeno una risposta interlocutoria, ricordando, se necessario, ai sacerdoti, il prescritto del can. 1357, che permette di riacquistare lo stato di gra- zia in attesa del ricorso al superiore competente, oppure il can. 1048, che permette di esercitare l’Ordine in attesa del ricorso, nei casi più occulti, urgenti, e se incomba il pericolo di grave danno o infamia. Un tribunale tutto speciale, dunque, quello della Penitenzieria. Classificando questo organismo fra i tribunali, e anzi, al primo posto «si è voluto forse dare a ciò un significato particolare, ricordandoci che la nostra vita – terrena e tanto più eterna – non è segnata dalla giustizia, ma dalla misericordia di Dio» 29.

EGIDIO MIRAGOLI Via Madre Cabrini, 2 26900 Lodi

28 L. DE MAGISTRIS - U. M. TODESCHINI, La Penitenzieria Apostolica, cit. p. 426. 29 Z. GROCHOLEWSKI, I tribunali, cit., p. 397. Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 406-432 Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico di Paola Malcangi

Le principali tecniche di procreazione assistita La fecondazione artificiale 1 rappresenta una risposta all’umanis- sima istanza di procreare anche in presenza di cause diverse di steri- lità che la rendano impossibile o altamente improbabile 2. Il desiderio del figlio è in sé legittimo, dato che costituisce il presupposto neces- sario di ogni paternità e maternità responsabile, ma in alcuni casi di- venta un’esigenza assoluta che impone pretese illimitate. La feconda- zione artificiale riesce a soddisfare tali richieste, consentendo di con- cepire un figlio subito e come lo si desidera, «eliminando in tale modo l’ansia dovuta alla propria inefficienza generativa» 3. La genera- zione artificiale tuttavia, realizzandosi in un tempo e in uno spazio extracorporeo, prescinde dalla disfunzione che causa la sterilità: non la cura, ma la compensa e solo teleologicamente è connessa all’uo- mo e alla donna che desiderano avere il bambino. Per questo motivo non si ritiene corretto parlare della stessa come di vera e propria te- rapia della sterilità, in quanto anche nel caso di un completo succes-

1 È necessario precisare che il termine “artificiale” viene usato in senso improprio. Non si tratta di una vera e propria fecondazione artificiale, ma di un modo diverso di provocare l’incontro dei gameti. Detto incontro non avviene a seguito della copula, ma in conseguenza di una serie di atti a tal fine predisposti. Non è dunque la fecondazione in sé considerata, ma la procedura attraverso la quale la stessa si realiz- za che può essere qualificata artificiale. Cf M. CRISCUOLO LIMIDO, Fecondazione artificiale e matrimonio canonico, in «La Scuola Cattolica» 115 (1987) 33. 2 P. G . C ROSIGNANI, Le principali tecniche di procreazione assistita: una visione d’insieme, in AA.VV., La procreazione assistita aspetti scientifici, etici e giuridici. Atti della III giornata europea di Bioetica (Mila- no, 26 Novembre 1988), Torino 1989, pp. 25-30. 3 S. VEGETTI FINZI, Tecnologie del desiderio, logiche dell’immaginario, in AA.VV., Bioetica, a cura di Di Meo - Mancina, Bari 1989. Secondo l’autrice il bambino così concepito “solleva” i genitori da quella che in certi casi è una vera e propria «sofferenza psichica che nasce in rapporto con se stessi (crisi d’iden - tità) o in rapporto con gli altri (difficoltà di tipo relazionale)» (p. 275). Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 407 so dell’intervento, l’organismo rimane sterile. L’ostacolo non è del tutto superato, ma semplicemente aggirato: il bambino nasconde l’in - fertilità dei genitori senza risolverla4. Si ritiene necessario descrivere sinteticamente alcune delle tec- niche attualmente disponibili per la fecondazione artificiale, al fine di consentire un corretto e più completo approccio alla successiva defi- nizione dei problemi etici e giuridici da essa sollevati in ambito cano- nico. Queste procedure differiscono le une dalle altre per contenuto tecnico e distanza dal processo naturale di fecondazione. Tenendo conto della più o meno netta artificiosità che tali tecniche introduco- no nell’atto generativo, occorre innanzi tutto distinguere tra la fecon- dazione intracorporea e la fecondazione extracorporea. Rientrano nell’ambito della fecondazione intracorporea le procedure d’insemi - nazione artificiale e la GIFT (Gamete Intrafallopian Transfer), men- tre la principale procedura di fecondazione extracorporea è la FI- VET, ossia la fecondazione in vitro con successivo trasferimento in utero degli embrioni ottenuti.

L’inseminazione artificiale L’obiettivo terapeutico di questa procedura è quello di facilitare la risalita degli spermatozoi attraverso l’utero e le tube, rendendo possibile il raggiungimento dell’ovulo e quindi la fecondazione. Fase preliminare e indispensabile a tal fine è la raccolta del liquido semi- nale maschile. Si distingue tra l’inseminazione artificiale omologa, se il seme proviene dal partner della donna inseminata, e l’inseminazione artifi- ciale eterologa, nel caso in cui provenga da donatore. Nel primo caso il liquido seminale utilizzato è prevalentemente fresco, mentre nel secondo caso, dopo il prelievo, il seme viene congelato e quindi de- positato presso apposite “banche”». Il ricorso al seme del donatore è necessario in caso di grave oli- gospermia o di azoospermia del partner o per evitare la possibilità di trasmettere geneticamente malattie ereditarie. Si ricorre al seme del donatore anche in seguito alla richiesta di inseminazione da parte di una donna nubile, vedova o omosessuale. Tre sono le modalità attraverso le quali si può effettuare il pre- lievo del seme maschile: al di fuori dell’atto coniugale; durante l’atto

4 ID., Biotecnologie e nuovi scenari familiari, in «Bioetica» 1 (1994). 408 Paola Malcangi coniugale, mediante l’uso di condom intero o perforato; subito dopo l’atto coniugale, a livello della fornice cervicale posteriore della don- na o a livello della vescica nell’uomo. L’inseminazione realizzata tra- mite la prima di queste modalità è definita dai moralisti con il termi- ne di «inseminazione propriamente detta», poiché consente la fecon- dazione sostituendosi completamente all’atto coniugale. Se invece le modalità utilizzate per il prelievo del liquido seminale sono le ultime due descritte, l’inseminazione è detta «impropria», prevalendo in es- sa l’aspetto dell’aiuto all’atto coniugale affinché questo possa rag- giungere il suo fine 5. Allo scopo di aumentare le possibilità di successo dell’interven- to e quindi al fine di ottenere la gravidanza, si effettua un trattamen- to particolare del seme, che consente di selezionare gli spermatozoi con migliore motilità progressiva e di eliminare eventuali contamina- zioni batteriche. Nell’ultima fase il seme maritale o da donatore, debitamente preparato, viene trasferito direttamente nelle vie genitali femminili, in coincidenza con l’evento ovulatorio, spontaneo o indotto mediante la somministrazione di farmaci. Il trasferimento avviene a diversi li- velli dell’apparato genitale femminile a seconda dell’ostacolo che si deve superare per consentire la fecondazione (i casi più frequenti so- no il deposito del seme a livello vaginale, cervicale o intrauterino).

La fecondazione in vitro con “embryotransfer” o FIVET Tale tecnica di fecondazione extracorporea è indicata per far fronte alla sterilità femminile di origine tubarica o alle gravi oligoa- stenospermie maschili 6. Si tratta di una procedura complessa, che permette di controllare ogni tappa del processo di fecondazione, in- cluse le prime divisioni cellulari dell’embrione. Per procedere a tale modalità di fecondazione bisogna disporre in laboratorio non solo dello sperma, ma anche dell’ovulo 7. Dopo il prelievo degli spermatozoi, che avviene secondo le modalità sopra descritte a proposito dell’inseminazione artificiale, si effettua il pre- lievo degli ovociti. A tale fine la donna viene sottoposta a iperstimola-

5 A. ISIDORI, L’inseminazione artificiale omologa ed eterologa nella sterilità maschile: aspetti medici e psi- cologici, in «Medicina e Morale» 43 (1993) 75-96. 6 R. MARANA - G. F. CATALANO - L. MUZII, Trattamento chirurgico della sterilità di origine tubarica, in «Medicina e Morale» 43 (1993) 67-68. 7 G. PERICO, Fecondazione extracorporea ed “embryo transfer”, informazioni tecniche e riflessioni morali, in «Aggiornamenti Sociali» 35 (1984) 258-259. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 409 zione ovarica mediante la somministrazione di farmaci. Tale stimola- zione permette la raccolta di più ovociti, aumentando quindi la possi- bilità di ottenere gli embrioni da reinserire in utero. Quando si con- stata, mediante monitoraggio endocrino ed ecografico, l’avvenuta maturazione di più follicoli ovarici, si procede al prelievo delle cel- lule uovo mediante laparascopia o per via transvaginale. Gli ovociti vengono successivamente incubati in un terreno di coltura particolare; anche gli spermatozoi vengono conservati, debi- tamente preparati (la cosiddetta «capacitazione degli spermatozoi»), e lasciati maturare per alcune ore 8. Trascorso il tempo necessario, gli spermatozoi e gli ovociti vengono messi in contatto in modo da realizzare la fecondazione. Solitamente vengono fecondate in vitro almeno cinque cellule uovo per volta, consentendo la formazione di più embrioni 9. La coltu- ra degli embrioni in vitro si mantiene per due o tre giorni e, per moti- vi di ordine tecnico, non è opportuno prolungarla. Gli embrioni ven- gono quindi trasferiti in utero a uno stadio di sviluppo molto precoce, con la conseguente perdita, dopo il transfer, di un’elevata percentuale degli stessi. Occorre inoltre precisare che non tutti gli embrioni fe- condati vengono trasferiti e impiantati nella cavità uterina della don- na, ma solo tre o al massimo quattro; ciò si spiega con la necessità di evitare probabili gravidanze multiple che si possono accompagnare a disturbi e a patologie rischiose sia per la madre che per il feto. Tra gli embrioni non impiantati in utero (detti «sovrannumerari»), alcuni possono essere congelati per essere utilizzati successivamente sia co- me riserva, in caso di fallimento del primo tentativo, sia come veri e propri “progetti”, in sé perfetti, di figli, per un tempo indeterminato, nell’eventualità che in futuro la coppia decida di ricorrere a un secon- do impianto; altri ancora sono utilizzati per la sperimentazione o per il controllo della normalità genetica; altri sono destinati alla morte. Anche la FIVET si distingue in omologa ed eterologa 10. La FI- VET omologa è indicata per far fronte a una patologia di origine tu-

8 A. BOMPIANI - N. GARCEA, La fecondazione in vitro: passato-presente-futuro, in «Medicina e Morale» 36 (1986) 79-102. 9 Per le tecniche che consentono il controllo e l’esame della qualità genetica degli embrioni ottenuti, cf C.M. GRILLO, Ricerca biologica e fecondazione artificiale, in AA.VV., La procreazione assistita aspetti scientifici, etici e giuridici, Torino 1989, pp. 41-44. 10 Per quanto concerne l’esame degli aspetti medici e delle problematiche di ordine etico e psicologico derivanti dall’applicazione della FIVET, cf GRUPPO VALDOSTANO DI BIOETICA, in AA.VV., Scienza ed etica al servizio della famiglia. Atti del congresso di Aosta (12-14 Dicembre 1991), in particolare il contributo di C. CAMPAGNOLI - C. PERIS - E. PEDRINI - M.M. DISARIO, Le tecniche di riproduzione artificiale, pp. 21-34. 410 Paola Malcangi barica, non risolvibile per mezzo di microchirurgia e/o per ovviare a una grave alterazione seminale maschile. Per procedere, è necessa- rio che le ovaie della donna siano ben funzionanti o comunque su- scettibili di stimolazione e che l’utero sia sano. La FIVET eterologa invece è indicata nei casi in cui o l’utero o gli ovociti o gli spermato- zoi, elementi essenziali per la riproduzione, manchino o presentino anomalie patologiche tali da dover necessariamente essere sostituiti dagli elementi riproduttivi di terze persone estranee alla coppia (do- natori/donatrici) 11. A seconda delle diverse situazioni che possono verificarsi, la fe- condazione extracorporea eterologa potrà realizzarsi 12: – con donazione di seme maschile, qualora il partner sterile pre- senti una patologia seminale non risolvibile (generalmente si tratta di casi di oligospermia o azoospermia) oppure una patologia eredita- ria trasmissibile geneticamente; – con donazione di ovociti, qualora la donna sterile manchi di ovaie; qualora l’induzione dell’ovulazione risulti impossibile; in caso di menopausa precoce, fisiologica (si rende gravida una donna che abbia già superato l’età fertile, la cosiddetta “nonna-mamma”, con gravi rischi per la salute della stessa e per l’equilibrato sviluppo psi- cologico del bambino) o dovuta a precedente intervento chirurgico; qualora vi sia una patologia che impedisca l’accesso alle ovaie; in presenza di patologia genetica trasmissibile attraverso la madre; – con prestito momentaneo di utero, qualora la donna che deside- ra il bambino non abbia l’utero o abbia l’utero malformato o fibroma- toso; qualora essa sia affetta da malattie, generali o locali, che non le permettano di portare a termine la gravidanza. In questi casi, se i membri della coppia sono entrambi fertili, essi si rivolgono a una donna perché porti avanti, per loro conto, la gravidanza: in questo ca- so i gameti propri della coppia saranno fecondati in vitro e l’embrione ottenuto verrà trasferito nell’utero della donna (detta «portatrice»); – con prestito momentaneo di utero e donazione di ovocita, qualo- ra la donna della coppia richiedente, oltre a non poter condurre la gravidanza, sia anche sterile. In questo caso maggiore sarà la “colla- borazione” richiesta alla donna estranea alla coppia. Tale donna in- fatti dovrà essere disposta a donare il proprio ovulo e a farlo feconda-

11 N. GARCEA, Tecniche di procreazione assistita, in «Medicina e Morale» 43 (1993) 59-66. 12 E. SGRECCIA - M.L. DI PIETRO, Manipolazioni genetiche e procreazione artificiale: orientamenti giuridi- ci e considerazioni etiche, in «Il diritto di famiglia e delle persone» 16 (1987) 1403-1411. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 411 re con lo sperma del marito della donna sterile (tramite l’insemina - zione artificiale o la fecondazione in vitro) e quindi a portare in ge- stazione nel proprio utero l’embrione ottenuto fino al momento del parto (è il caso della cosiddetta «madre surrogata»). Per entrambe queste ultime ipotesi la donna si impegna a porta- re a termine la gravidanza e a consegnare il neonato a chi ha com- missionato o pattuito la gestazione. Le donne implicate nel processo procreativo potrebbero essere addirittura tre nell’ipotesi, difficilmente verificabile, in cui l’ovulo uti- lizzato per la fecondazione provenga da una donatrice non coinciden- te con la madre surrogata. Se questa circostanza dovesse verificarsi, il nascituro potrebbe avere una madre «sociale-psicologica», una ma- dre «donatrice» e una madre «incubatrice» 13.

La GIFT o “Gamete Intrafallopian Transfer” È una tecnica di fecondazione intracorporea indicata nel caso di sterilità di origine ideopatica o ovarica, nel caso di sterilità immunita- ria e nel caso di oligoastenospermia. L’obiettivo di tale metodo è garantire l’arrivo nella tuba dei due gameti. Anche per procedere alla GIFT occorre prelevare (con i me- todi sopra descritti) sia le cellule uovo che gli spermatozoi. Avendo a disposizione entrambi i gameti, si procede al loro simultaneo trasfe- rimento nelle tube di Falloppio, tramite un sottile catetere. Nel cate- tere le cellule uovo (una o due) sono separate dagli spermatozoi da una bolla d’aria, al fine di impedire che il concepimento avvenga in provetta invece che nelle tube. Una volta immessi i gameti nelle tube (solitamente vengono introdotte due-tre cellule uovo per tuba), la bolla d’aria si assorbe, determinando l’incontro dei gameti in modo che possa avvenire la fecondazione. Anche la GIFT può essere sia omologa che eterologa. È possi- bile infatti utilizzare le tube di donna estranea alla coppia per consen- tire la fecondazione. L’embrione ottenuto sarà poi asportato, median- te la tecnica del «lavaggio», e trasferito nell’utero della donna richie- dente per la successiva gestazione 14.

13 M. CARBONE, Maternità, paternità e procreazione artificiale, in «Il diritto di famiglia e delle persone» 22 (1993) 857-858. 14 M.L. DI PIETRO - A.G. SPAGNOLO - E. SGRECCIA, Meta-analisi dei dati scientifici sulla GIFT, in «Medici- na e Morale» 40 (1990) 30-40; M. VIGNALI, in AA.VV., La procreazione assistita..., cit., pp. 31-35. 412 Paola Malcangi

Riflessi giuridici della fecondazione artificiale nell’ordinamento canonico Nell’ambito dell’ordinamento canonico la questione relativa al- l’impiego delle tecniche di fecondazione artificiale assume connota- zioni specifiche. Le principali ripercussioni giuridiche riguardano il diritto matrimoniale e in particolare i problemi relativi all’autenticità e alla pienezza del consenso prestato dai nubenti, all’influenza che la generazione artificiale della prole può avere su alcuni impedimenti e quindi all’esistenza e alla validità stessa del vincolo. Nel corso dell’analisi di tali problemi giuridici vedremo quale importanza abbia, ai fini di una corretta soluzione dottrinale degli stessi, il riconoscimento della dignità e del valore della persona ope- rato dal magistero soprattutto dopo il concilio Vaticano II. L’ordina - mento canonico potrà trovare nelle pronunce magisteriali i principi guida che gli consentano di intervenire e di affrontare la questione bioetica 15. A tal fine è estremamente prezioso il giudizio di illiceità morale espresso nell’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Donum Vitae (22 febbraio 1987) su alcune delle principali procedure di fecondazione artificiale. I principi che ne derivano in- fatti, puntualmente riferiti alle questioni attinenti alla responsabilità della procreazione, alla dignità della vita umana e al patto matrimo- niale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunione di vita e di amore, suggeriscono al canonista essenziali motivi di rifles- sione per la sua indagine e gli offrono gli strumenti necessari per la definizione e per la risoluzione dei problemi giuridici che da tali tec- niche derivano nell’applicazione concreta di alcuni istituti di diritto matrimoniale 16.

L’oggetto del consenso matrimoniale e la procreazione artificiale Per definire l’oggetto del consenso matrimoniale, in diritto ca- nonico consideriamo fondamentale il riferimento all’insegnamento del magistero e in particolare alla dottrina elaborata dal Vaticano II sull’unione coniugale. L’unione coniugale è infatti intesa come «inti- ma comunità di vita e di amore [...] fondata dal Creatore e struttura-

15 Cf Sull’autorità dottrinale dell’Istruzione Donum Vitae, in «L’Osservatore Romano», 24 dicembre 1988. 16 S. GHERRO, Considerazioni canonistiche in tema di fecondazione artificiale, in «Il diritto di famiglia e delle persone» 16 (1987) 1205-1212. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 413 ta con leggi proprie, stabilita dal patto coniugale, vale a dire dall’irre - vocabile consenso personale» (GS 48). Sulla base di questo atto di volontà si costituisce il matrimonio. Le affermazioni dottrinali vengo- no tradotte in linguaggio canonistico nei disposti del Codice, che ne facilitano l’interpretazione in prospettiva personalista: è immediato il rimando ai cann. 1055 e 1057. La lettura in chiave personalista di tali canoni è utile e necessa- ria per spiegare la “verità” umana del patto matrimoniale, ovvero la dignità personale dell’uomo e della donna che si coinvolgono reci- procamente nel vincolo coniugale. Ciascun nubente diviene non solo soggetto attivo della manifestazione del consenso matrimoniale, ma anche oggetto e destinatario dello stesso 17. L’uomo e la donna, infat- ti, liberamente s’impegnano a fare «offerta globale di sé» all’altro. Nella concretezza della donazione coniugale ha un rilievo speci- fico la dimensione sessuale. Il dono del corpo, per sua natura irrevo- cabile, attribuisce valore perpetuo e indissolubile al legame che gli sposi intendono creare e diviene fondamento della stessa comunione interpersonale 18. Ciascun nubente impegna dunque globalmente e integralmente la sua persona, «totalità unificata di corpo e anima» (FC 11), al fine di inserirsi nell’orizzonte di vita dell’altro e fare del - l’altro il proprio consorte. L’intima unione delle persone, quale pecu- liare espressione della relazione interpersonale tra marito e moglie, da un lato permette un continuo perfezionamento degli sposi stessi, dall’altro li apre alla trasmissione della vita 19. Lo strettissimo nesso che lega questi due momenti fa sì che la procreazione «sia attratta nella sfera di operatività dell’atto coniugale» 20 e che quindi rientri nel l’oggetto del consenso matrimoniale. La possibilità di scindere, tramite le nuove tecniche di procrea- zione artificiale, il rapporto fisico tra l’uomo e la donna dalla procrea-

17 E. GRAZIANI, Essenza del matrimonio e definizione del consenso, in AA.VV., La nuova legislazione ma- trimoniale canonica, Città del Vaticano 1986, p. 33. Cf inoltre R. BERTOLINO, Matrimonio canonico e bo- num coniugum. Per una lettura personalistica del matrimonio cristiano, Torino 1995, p. 75: «Nella nuo- va concezione personalistica del matrimonio canonico, la persona è realmente insieme soggetto e og- getto del consenso; [...] quest’ultimo è traditio personarum plusquam deditio iurium (donazione di persone più che consegna di diritti ); è impegno di tutta la persona». 18 G. ZANNONI, Matrimonio e antropologia nella giurisprudenza rotale, Roma 1995, pp. 190-193. 19 Cf U. NAVARRETE, Structura iuridica matrimonii secundum Concilium Vaticanum II. Momentum iuri- dicum amoris coniugalis, Roma 1988, pp. 107-154. L’autore sottolinea l’importanza dell’amore coniugale nel realizzare la dimensione vera del consortium totius vitae. L’amore coniugale, infatti, pur non rien- trando nella categoria giuridica dei fini matrimoniali, è lo strumento voluto da Dio attraverso il quale si realizza il bene delle persone che vivono o nascono dal matrimonio stesso. 20 P. M ONETA, Procreazione artificiale e diritto matrimoniale canonico, in «Il diritto di famiglia e delle persone» 16 (1987) 1306. 414 Paola Malcangi zione naturale, ha dato al magistero l’opportunità di riproporre, in modo organico e autorevole, il principio dell’intima connessione esi- stente tra l’amore coniugale e la generazione dei figli e di sottolinea- re, inequivocabilmente, la dignità della vita umana nascente e della procreazione.

La simulazione del consenso Dalla riaffermazione magisteriale del principio della connessione inscindibile tra i due significati dell’atto coniugale, che per sua indole naturale è idoneo alla generazione della prole e insieme unitivo dei co- niugi, assume una più ampia estensione l’oggetto del consenso matri- moniale. La traditio-acceptatio propria del patto coniugale porta, infat- ti, con sé non soltanto il ius in corpus perpetuum et exclusivum in ordi- ne agli atti di per sé idonei alla generazione della prole, ma abbraccia anche il ius-obligationem a non procreare se non dal seme del proprio coniuge e solo mediante la copula compiuta in modo naturale e coa- diuvata, se necessario, con mezzi moralmente leciti, non pericolosi per la vita, né straordinari, atti a rendere più facile la fecondazione 21. Si tratta in concreto di verificare se la riserva dei nubenti di ri- correre alle procedure di fecondazione artificiale possa in qualche modo incidere su tale oggetto del consenso, realizzando (quale ipote- si di simulazione parziale del consenso, cf can. 1101 § 2) 22 l’esclusio- ne, per atto positivo di volontà, di un elemento o proprietà essenziale del matrimonio e determinandone, conseguentemente, la nullità. La dottrina, esaminando in modo specifico la correlazione esi- stente tra il ius in corpus perpetuum et exclusivum, inteso nel senso ampio appena descritto, e le fattispecie attinenti alla fecondazione ar- tificiale, sostiene che queste possono avere influsso invalidante sol- tanto se nel matrimonium in fieri uno dei nubenti (o entrambi con- cordemente): – si riservi il diritto di procedere al concepimento, escludendo il rapporto coniugale e pensando in via assoluta ed esclusiva alla fe- condazione artificiale; – si riservi il diritto di procreare figli dai gameti di una terza persona, uomo o donna;

21 U. NAVARRETE, Novae methodi technicae procreationis humanae et ius canonicum matrimoniale, in «Periodica de re morali, canonica liturgica» 77 (1988) 96-103. 22 O. GIACCHI, Il consenso nel matrimonio canonico, Milano 1973, pp. 83-84. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 415

– si riservi il diritto di concepire, anche utilizzando i propri ga- meti, ma ricorrendo a metodi moralmente illeciti, pericolosi per la vi- ta o straordinari; – si riservi il diritto di prendere in prestito l’utero di altra donna per far sviluppare in esso il feto concepito con i propri gameti 23. Per ciò che concerne la prima delle riserve indicate (ipotesi peraltro difficilmente riscontrabile nella realtà), correttamente si af- ferma che essa determina la nullità del matrimonio, poiché nega la funzione dell’istituto stesso. La progettazione, infatti, di una procrea- zione artificiale, autonoma e indipendente rispetto al compimento dell’atto coniugale, non è compatibile con una valida manifestazione della volontà matrimoniale diretta a realizzare il bene dei coniugi, connesso al dato unitivo della loro vita intima, e alla procreazione 24. Da quanto espressamente ribadito dal magistero, si ritiene che il bene dei coniugi e quello dei figli siano tra loro mutuabili e interdi- pendenti, per cui la realizzazione di quest’ultimo non può essere di- sgiunta dalla realizzazione del primo. Sembra invece eccessivo far derivare la nullità del matrimonio dalla previsione concorde o unilaterale dei nubenti di ricorrere, qua- lora venga accertata la loro sterilità, alla fecondazione omologa 25. Tale procedura (a differenza di quella eterologa di cui ci occu- peremo oltre) non è contraria all’unità del matrimonio, in quanto si realizza con i gameti propri dell’uomo e della donna uniti nel vincolo coniugale né, di per sé, comporta l’esclusione dell’aspetto unitivo, poiché non compromette l’intimità coniugale di fatto esistente 26. La previsione e la realizzazione di un tale comportamento potrà com- portare, previa verifica delle effettive intenzioni soggettive degli spo- si, conseguenze e responsabilità di ordine etico e morale, ma difficil- mente potrà produrre conseguenze di ordine giuridico comportanti la nullità del matrimonio.

23 M. F. POMPEDDA, Nuove metodiche di intervento sulla vita umana e diritto matrimoniale canonico, in AA.VV., Progresso biomedico e diritto matrimoniale canonico, a cura di C. Zaggia, Padova 1992, pp. 155- 158. 24 S. GHERRO, Diritto matrimoniale canonico, Padova 1985, p. 231. 25 Naturalmente ci si riferisce esclusivamente al “caso semplice” di fecondazione omologa, ossia al ca- so in cui vengono utilizzate le cellule germinali dei coniugi con l’intenzione precisa di fecondare solo il numero di embrioni necessario per il trasferimento in utero (nel singolo ciclo di trattamento), in modo tale da escludere l’esistenza di embrioni sovrannumerari, da evitare pericoli per l’integrità fisica del - l’embrione e il rischio di aborti. 26 La scissione tra atto coniugale e procreazione è infatti solo temporanea e non è estesa alla generalità del comportamento matrimoniale. 416 Paola Malcangi

Non comporta invece alcuna conseguenza negativa sulla vali- dità del consenso prestato l’ipotesi in cui gli sposi, dopo aver effetti- vamente accettato i fini e gli obblighi oggetto del consenso stesso, accertata l’impossibilità di procreare, decidano di ricorrere all’inse - minazione artificiale omologa improprie dicta o alla GIFT o ad altri mezzi tecnici di riproduzione moralmente leciti, perché non sostituti- vi dell’atto coniugale, non pericolosi per la vita, né straordinari, ma semplicemente atti a rendere più facile la fecondazione. Contraggono, invece, invalidamente coloro che si riservano, con un atto positivo di volontà, che può avere la forma di condizione, di condizione pattuita o riserva mente retenta, il diritto di procreare ricorrendo al seme di una terza persona o all’utero di una donna di- versa dalla madre genetica del nascituro. Così facendo, infatti, i nu- benti escludono una proprietà essenziale del matrimonio e introdu- cono un elemento contrario alla sua sostanza e natura (in particolare contrario al bonum coniugum e al bonum prolis). Essi non possono determinare arbitrariamente l’oggetto del patto coniugale istituito dal Creatore sin dal principio 27, alla cui realizzazione e perfeziona- mento, con lo scambio del consenso, impegneranno irrevocabilmen- te tutta la loro vita.

L’esclusione del bonum fidei La proprietà dell’unità viene comunemente riferita al carattere monogamico dell’unione coniugale e al vincolo di fedeltà reciproca 28 che impegna i coniugi al dono totale ed esclusivo di se stessi e della propria sessualità 29. La donazione e l’accettazione reciproca non con- sente, se non a pena di nullità del matrimonio stesso, di dividere con altri questo rapporto così intenso e profondo che fa dei due «una so- la carne». Il bonum fidei è quindi escluso sia da chi accetta la poliga- mia simultanea, sia da chi esclude il diritto-obbligo alla fedeltà coniu- gale e si riserva la libertà di avere relazioni extraconiugali.

27 FC 68; V. FAGIOLO, Le proprietà essenziali del matrimonio, in AA.VV., Il matrimonio sacramento nel- l’ordinamento canonico vigente, Città del Vaticano 1993, p. 162; G. LO CASTRO, Il foedus matrimoniale come «consortium totius vitae», in AA.VV., Il matrimonio sacramento..., cit., pp. 83-87. 28 Diversa è l’opinione di Navarrete, secondo il quale «la proprietà dell’unità non coincide con il bonum fidei, in quanto l’unità esclude soltanto la poligamia simultanea, mentre il bonum fidei esclude anche l’adulterio» (I beni del matrimonio: elementi e proprietà essenziali, in AA.VV., La nuova legislazione ma- trimoniale canonica: il consenso, elementi essenziali, difetti, vizi, Città del Vaticano 1986, p. 94. 29 P.A. BONNET, Introduzione al consenso matrimoniale canonico, Milano 1985, p. 125. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 417

Il magistero della Chiesa, pronunciandosi in merito alla feconda- zione artificiale eterologa, dichiara che essa «è contraria all’unità del matrimonio, alla dignità degli sposi e al necessario rispetto della fe- deltà coniugale» 30. Si estende dunque il concetto di unità e fedeltà co- niugale anche alla procreazione. Il vincolo coniugale comprende ne- cessariamente anche la donazione-accettazione perpetua ed esclusiva delle proprie capacità generative. La generazione non può legittima- mente realizzarsi se non tramite la mutua cooperazione con le forze generative dell’altro coniuge. Con il vincolo coniugale infatti ciascuno dei coniugi acquista, «in maniera oggettiva e inalienabile, il diritto esclusivo a diventare padre e madre solo [...] attraverso l’altro» 31. Da tali premesse deriva che il bonum fidei viene escluso, indi- pendentemente dalla violazione dell’obbligo di fedeltà sul piano ses- suale, anche da chi si riserva la facoltà di generare un figlio con i ga- meti prelevati da una persona diversa dal proprio coniuge. La dottri- na canonistica precisa che esclude il bonum fidei sia il coniuge che intende ricorrere ai gameti altrui per soddisfare il proprio desiderio di genitorialità, sia il coniuge che si propone di cedere i propri per consentire a una terza persona di generare 32. In entrambi i casi i co- niugi negano l’unitaria funzionalità procreativa cui devono attendere. Nel primo caso, i coniugi si attribuiscono un diritto alla procrea- zione assoluto, tale da potersi realizzare con qualsiasi mezzo. Il “di- ritto alla procreazione” è però un termine equivoco che dovrebbe es- sere evitato 33: un diritto assoluto al figlio è infatti moralmente inam- missibile, perché contrario alla sua dignità e alla sua natura; il figlio non è qualcosa di dovuto, ma piuttosto creatura donata 34. Esiste, in- vero, un diritto personale dei coniugi alla procreazione, ma nel senso di un diritto al compimento degli atti d’amore di per sé idonei alla ge- nerazione della prole 35. Sono questi gli atti che costituiscono l’ogget-

30 Donum vitae [= DV], II, 5. Secondo Navarrete i termini unità, esclusività, fedeltà non sono utilizzati dalla Congregazione per la dottrina della fede in senso giuridico, ma secondo il significato proprio del linguaggio comune. La riserva di usare le tecniche di procreazione artificiale non sarebbe contraria né alla proprietà dell’unità, né al bonum fidei, ma piuttosto dovrebbe essere intesa come esclusione del matrimonii essentiale aliquod elementum con particolare riferimento al bonum prolis (Novae methodi..., cit., pp. 102-103). 31 DV, II, A-2. 32 P. M ONETA, Procreazione artificiale..., cit., p. 1308. 33 A. STANKIEWICZ, L’esclusione della procreazione ed educazione della prole, in AA.VV., La simulazione del consenso matrimoniale canonico, Città del Vaticano 1990, p. 161. 34 DV, II, A-8. 35 G. PERICO, A difesa della vita, Milano 1964, pp. 61-62. 418 Paola Malcangi to del consenso matrimoniale e dello ius-obligationem perpetuo ed esclusivo, che deriva dal patto coniugale. Nel secondo caso, uno dei coniugi cede, illegittimamente, la propria capacità generativa a una terza persona negando, di fatto, al- l’altro coniuge l’esclusività del diritto a procreare. Ci si può domandare se il bonum fidei resti salvo, e venga quin- di meno la forza invalidante di simili riserve, nel caso di previo ed espresso accordo dei due coniugi circa l’opportunità del ricorso alla fecondazione eterologa. Sembra doversi accogliere la soluzione pro- posta dalla dottrina 36, secondo la quale un simile accordo è ineffica- ce e non produce alcun effetto sulla validità o invalidità del consenso prestato. Il matrimonio, infatti, è privato comunque di un aspetto es- senziale, attinente all’unità del vincolo coniugale, che si può identifi- care con la «donatio-acceptatio perpetua et exclusiva propriae capaci- tatis generativae […] et […] mutua cooperatio ad generandum» 37. Il ricorso alla fecondazione artificiale eterologa può realmente compromettere l’equilibrio esistente all’interno della coppia creando divisioni e tensioni. Il genitore non genetico, anche se ha prestato il suo consenso, può inconsciamente vivere la sua posizione nei con- fronti dell’altro coniuge e del figlio come marginale. Questa insicu- rezza può, col passare del tempo, rendere al coniuge sterile difficol- tosa e problematica l’accettazione del bambino o non più tollerabile la posizione di “supremazia” (apparente o reale che sia) dell’altro co- niuge. Indipendentemente dall’epilogo positivo o negativo che di fat- to può avere la scelta di ricorrere alla fecondazione artificiale nel - l’evolversi delle relazioni parentali, è evidente che con una simile scelta gli sposi vengono meno all’impegno del consortium totius vitae assunto liberamente e reciprocamente al momento dello scambio del consenso, «quale punto fermo e irremovibile rispetto al perenne fluire della vita» 38. In virtù di tale impegno, infatti, gli sposi sono uni- tariamente chiamati a collaborare con la Provvidenza divina per quanto concerne sia l’apertura alla trasmissione della vita, sia l’accet - tazione da parte loro di un’eventuale sterilità procreativa. Si è già osservato che gli elementi costitutivi della fecondazione artificiale eterologa consentono la procreazione del figlio al di fuori del matrimonio con l’ausilio di “forze generatrici” provenienti da per-

36 P. M ONETA, Procreazione artificiale..., cit., pp. 1308-1309. 37 U. NAVARRETE, Novae methodi..., cit., p. 99. 38 E. GRAZIANI, Essenza del matrimonio e definizione del consenso, in AA.VV., La nuova legislazione..., cit., p. 33. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 419 sona diversa dal proprio coniuge. In un certo senso ci si può doman- dare se la commixtio seminum che nella fecondazione eterologa di- viene realtà, prefiguri all’interno della coppia e, più in generale, nel- l’ambito della famiglia, una «realtà adulterata» 39 e se a tale situazione possa o meno estendersi il concetto di adulterio, con le ripercussioni e gli effetti giuridici che a esso connette il diritto canonico. Nono- stante quanto si è appena rilevato circa il più intenso modo d’inten- dere, da parte della dottrina, la proprietà dell’unità coniugale (e circa l’esclusione della stessa da parte di chi si riservi il diritto di ricorrere alle metodiche di fecondazione artificiale), ci sembra opportuno do- ver limitare l’adulterio esclusivamente all’ipotesi in cui uno dei due coniugi (o entrambi concordemente) si riservi il diritto di intrattene- re rapporti sessuali extraconiugali rifiutandosi di accordare all’altra parte l’esclusività del rapporto stesso e non intendendosi vincolato al principio della fedeltà coniugale.

L’esclusione del bonum prolis Il bonum prolis rientra tra gli elementi essenziali del patto co- niugale a motivo della natura e dell’intima struttura del matrimonio canonico 40. Dal combinato disposto dei cann. 1055 § 1, 1057 § 2, 1061 § 1 e 1101 § 2, risulta infatti chiara l’impostazione unitaria della disci- plina matrimoniale del CIC con riferimento al significato unitivo-per- sonalistico e procreativo del consorzio coniugale. Il fondamentale principio dell’indissolubilità del significato procreativo e unitivo del - l’atto coniugale (per cui l’eventuale alterazione o esclusione di uno dei due significati non può rimanere senza effetti sull’esistenza del - l’altro) 41 diventa anche criterio per l’interpretazione giudiziale dei casi di esclusione del bonum prolis. L’atteggiamento dei coniugi per- tanto dovrà essere tale da rispettare questa duplice dimensione pro- pria della loro unione, che in concreto significa: non escludere positi- vamente gli atti coniugali; impostare correttamente gli atti stessi; aprirsi alla generazione di nuove vite; accogliere amorevolmente e proteggere con la massima cura la vita concepita e poi nata 42. Qualo-

39 S. GHERRO, Considerazioni canonistiche..., cit., p. 1208. 40 Z. GROCHOLEWSKI, Fondamenti teologici del matrimonio nel diritto canonico, in «Ephemerides Juris Canonici» 46 (1990) 326. 41 A. STANKIEWICZ, L’esclusione della procreazione..., cit., pp. 157-158. 42 PONTIFICIO CONSIGLIO PER L’INTERPRETAZIONE DEI TESTI LEGISLATIVI, I diritti del nascituro secondo la le- gislazione canonica, in «Medicina e Morale» 45 (1995) 532-542. In tale documento vengono affermati i 420 Paola Malcangi ra i nubenti, procedendo a loro arbitrio, decidano di contraddire e di venir meno a queste loro responsabilità, in particolare verso la gene- razione di nuove vite, si avrà l’esclusione del bene della prole 43. Data la possibilità offerta dalle tecniche di fecondazione artifi- ciale di eliminare le cause ostative della procreazione, rendendo ef- fettivamente (e non solo in astratto) idonei gli atti coniugali alla ge- nerazione della prole, ci si può domandare se esclude il bonum prolis colui che, sin dal momento dello scambio del consenso matrimonia- le, rifiuti di ricorrere alla fecondazione artificiale anche se la stessa, in concreto, costituisca per gli sposi l’unica possibilità di avere figli 44. Ci sembra che riconoscere in tale fattispecie l’esclusione del bonum prolis non sia possibile, in quanto significherebbe includere nell’og- getto del consenso un vero e proprio ius ad prolem indipendente dal- lo ius in corpus e creare, conseguentemente, un capo di nullità matri- moniale a sé stante: presterebbero, infatti, validamente il loro con- senso solo coloro che fossero in grado di porre in essere degli atti coniugali effettivamente fecondi. Una tale eventualità è assolutamen- te smentita dalla dottrina, che nega l’esistenza di un ius ad prolem di- stinto e avulso da ogni considerazione circa il ruolo della copula al- l’interno della comunione coniugale 45. Il fatto in sé della generazione della prole non può costituire oggetto del consenso: la procreazione infatti è un finis operis il cui raggiungimento non dipende dalla vo- lontà umana ma dall’actio naturae, seppur mediata dal compimento degli atti idonei alla procreazione 46. Ciò che invece dipende dalla vo- lontà degli sposi è la realizzazione o meno degli atti coniugali stessi. L’atto simulatorio con il quale si esclude la prole per poter influire sulla validità del consenso matrimoniale deve avere quindi ad ogget- to il ius ad coniugalem actum. diritti del concepito, prezioso riferimento per la soluzione delle questioni relative alle metodiche di pro- creazione artificiale. «Il primo fondamentale diritto è quello a nascere, per il quale c’è anche la tutela penalmente garantita: CIC, can. 1398. Segue il diritto ad avere come padre e madre i genitori che lo hanno concepito: CIC, can. 1055 (cann. 1012 § 1; 1013 § 1) [...] Quindi il diritto a essere educato dagli stessi genitori, non separatamente [...] ma congiuntamente: CIC, can. 226 § 2 (1372 § 2) [...] Il can. 226 § 2 è categorico: «I genitori, poiché hanno dato ai figli la vita, hanno l’obbligo gravissimo e il diritto di educarli» (p. 542). 43 M. CRISCUOLO LIMIDO, Fecondazione artificiale..., cit., pp. 38-39. 44 P. M ONETA, Procreazione artificiale..., cit., p. 1310. 45 O. GIACCHI, Il consenso..., cit., p. 23; P. A. BONNET, L’ordinatio ad bonum prolis quale causa di nullità matrimoniale, in «Il diritto ecclesiastico» 95 (1984) 302; A. STANKIEWICZ, L’esclusione della procreazio- ne..., cit., p. 160. In senso parzialmente diverso cf I. NAPOLEONI, L’esclusione dello jus ad prolem, in AA.VV., Il consenso matrimoniale canonico: dallo jus conditum allo jus condendum, Roma 1988. 46 G. COMOTTI, Ordinatio ad prolem del matrimonio e scelta di non procreare: alcune riflessioni canoni- stiche in tema di procreazione responsabile, in AA.VV., Matrimonio canonico e AIDS, a cura di S. Gherro e G.F. Zuanazzi, Torino 1995, p. 100. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 421

La possibilità di includere il ius ad prolem nell’oggetto del con- senso è inoltre smentita dal dettato del can. 1084 § 3, secondo il qua- le «la sterilità né proibisce né dirime il matrimonio». Essa quindi non ha alcuna influenza né ai fini della validità né ai fini della liceità del matrimonio stesso, purché ci sia la capacità all’atto coniugale. Gli atti naturaliter infecondi non perdono pertanto la caratteristica di atti ve- re coniugales, in sé idonei alla procreazione, poiché gli sposi usufrui- scono legittimamente di una facultas a natura data 47. A sostegno e conferma di tale interpretazione dottrinale ci si riferisce all’insegna - mento magisteriale, conciliare e postconciliare, inerente al matrimo- nio. Il magistero, infatti, pur riconoscendo che il matrimonio è per sua natura ordinato alla procreazione, attribuisce rilevanza in sé al- l’amore e al rapporto interpersonale dei coniugi e considera l’effetti- va nascita del figlio come eventuale conseguenza e proiezione di tale congiunzione d’amore. Anche in mancanza di figli, dunque, il matri- monio, quale peculiare comunione di tutta la vita, conserva il suo va- lore e la sua indissolubilità (cf GS 50). Nell’Istruzione Donum vitae, coerentemente e in conformità con il magistero precedente, si preci- sa che il «matrimonio non conferisce agli sposi il diritto ad avere un figlio, ma soltanto il diritto a porre quegli atti naturali che di per sé sono ordinati alla procreazione» 48. Gli sposi, dunque, non sono titola- ri di un ius ad prolem habendam, bensì di un diritto personalissimo, esclusivo e inalienabile, alla procrezione. Tale diritto si concretizza nella realizzazione, in un contesto di vero amore, dell’atto coniugale, considerato dall’insegnamento della Chiesa come l’unico luogo de- gno della procreazione umana. La generazione della prole, quindi, non potrà mai essere intesa autonomamente, ma solo come «termi- ne e frutto» 49 di uno specifico atto coniugale. Fatte le necessarie precisazioni su ciò che deve intendersi per esclusione del bonum prolis, si procede facendo riferimento all’in - fluenza che sullo stesso può avere la decisione dei nubenti di ricor- rere alle metodiche di procreazione artificiale. L’esclusione dell’ordi - natio ad bonum prolis, tale da determinare l’invalidità del matrimo- nio, può configurarsi a più livelli tra loro distinti. Questa esclusione può effettuarsi con la riserva da parte dei nu- benti di un comportamento direttamente o indirettamente contrario

47 Ibid., p. 103. 48 DV, II, A-8. 49 Ibid., II, B, A. 422 Paola Malcangi alla procreazione. In particolare, si ha esclusione diretta dell’ordina- tio ad bonum prolis nel caso in cui i nubenti, unilateralmente o con- cordemente, rigettino totalmente il diritto-dovere di porre in essere gli atti coniugali naturali; decidano di interrompere il processo pro- creativo (eventualmente iniziato) ricorrendo alle tecniche abortive; decidano di scindere il nesso esistente tra il significato unitivo e pro- creativo dello specifico atto sessuale ricorrendo ai metodi contrac- cettivi 50. L’esclusione avviene invece indirettamente nel caso in cui i nu- benti operino tale scissione, riservandosi un comportamento in sé favorevole alla procreazione, ma oggettivamente autonomo e indi - pendente dal compimento dell’atto coniugale 51. In quest’ultima riser- va rientrano le diverse fattispecie in cui la ordinatio ad bonum prolis viene limitata dall’impiego delle tecniche di fecondazione artificiale, sostitutive all’atto coniugale. Innanzitutto parliamo della fattispecie della fecondazione artificiale asessuata che prescinde totalmente dal compimento degli atti coniugali. Si tratta dell’atteggiamento di colui che, per qualche forma di paura o di distorsione mentale, rifiuti a priori la generazione per via naturale, accettando di avere figli dal proprio coniuge soltanto attraverso una qualche tecnica di procrea- zione artificiale 52. In questo caso la generazione della prole, sebbene sia in sé accettata e voluta dai coniugi, di fatto si realizza prescinden- do dal contesto naturale e personalistico dal quale deve scaturire; non è pertanto ritenuta sufficiente a integrare il bonum prolis e a da- re vera attuazione a questo elemento essenziale e irrinunciabile del matrimonio 53. Più comunemente accade che l’impiego delle tecniche di fecon- dazione artificiale si iscriva in un contesto coniugale di amore e sia preceduto e seguito dal compimento degli atti coniugali naturali. No- nostante ciò, si ritiene che l’inseminazione in vivo propriamente det- ta, la fecondazione in vitro omologa ed eterologa e la maternità sosti-

50 Interamente dedicata all’argomento è l’Enciclica Humanae Vitae di PAOLO VI. Cf inoltre l’art. 3 della Carta dei diritti della famiglia, pubblicata dalla Santa Sede il 24 novembre 1983. 51 A. STANKIEWICZ, L’esclusione della procreazione..., cit., pp. 161-162. 52 E. GRAZIANI, Volontà attuale e volontà precettiva nel negozio matrimoniale canonico, Milano 1956, pp. 178-179. L’autore si serve di questo esempio per dimostrare che «la volontà ad astenersi dall’atto co- niugale non postula né direttamente né necessariamente l’intentio contra bonum prolis». Egli precisa che l’exclusio iuris ad coniugalem actum si risolve in tale intenzione solo se si sostanzia nella volontà di modificare l’atto sessuale nella sua specie naturale. 53 P. M ONETA, Procreazione artificiale..., cit., p. 1309. Per quanto concerne le reservationes iuris relative all’impiego delle tecniche di fecondazione artificiale che possono rendere nullo il matrimonio «ob exclu- sionem alicuius elementi essentialis obiecti consensus», cf U. NAVARRETE, Novae methodi..., cit., pp. 97-98. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 423 tutiva costituiscano altrettanti limiti al ius ad procreationem 54. Tutte queste tecniche, infatti, non si limitano a facilitare l’atto coniugale normalmente compiuto, consentendogli di raggiungere il proprio fi- ne naturale, ma di fatto si sostituiscono all’atto naturale 55. Pertanto il concepimento del figlio non risulta come il frutto dell’atto coniugale specifico dell’amore tra gli sposi 56. La riserva della fecondazione arti- ficiale eterologa, in modo particolare, infrange il ius exclusivum dei coniugi a diventare padre e madre soltanto ex proprio coniuge per ac- tum proprium unionis coniugalis; essa, inoltre, violerebbe la loro stessa dignità personale ponendosi in contrasto con il bonum coniu- gum e con il bonum fidei.

Fecondazione artificiale e impotenza L’impotenza, secondo il can. 1084, per sua stessa natura, rende nullo il matrimonio. L’impotenza, infatti, incide oggettivamente sulla validità del matrimonio in quanto intesa come incapacità personale oggettiva degli sposi alla realizzazione dell’atto coniugale 57. Con riferimento all’impiego dei nuovi metodi di fecondazione artificiale, ci si domanda se gli stessi possano o meno influire nel - l’ambito di applicazione dell’impedimento d’impotenza, restringendo- ne l’applicazione e riducendo, conseguentemente, le ipotesi di invali- dità matrimoniale connesse. In realtà, dal punto di vista tecnico-biologico, le nuove tecniche di fecondazione artificiale prescindono completamente dal compi- mento dell’atto coniugale e, pertanto, non possono avere alcuna in- fluenza giuridica sull’impedimento di cui si tratta. Tali procedure, in- fatti, sono dirette a eliminare gli ostacoli che impediscono all’uomo e alla donna di generare e non sono idonee a correggere l’eventuale incapacità dei coniugi all’unione sessuale. Nella fattispecie di cui si tratta, invece, ciò che incide sulla validità del matrimonio è l’incapa - cità all’atto coniugale e non l’incapacità a generare. Tuttavia la possi- bilità offerta da queste tecniche di avere un figlio, anche in caso di insufficienza personale dei nubenti al compimento degli atti coniuga- li, potrebbe costituire un fondamentale elemento a sostegno della ri-

54 DV, II, A, 2-3. 55 Ibid., II, B, 6. 56 Ibid., II, B, 4. 57 M. POMPEDDA, Studi di diritto matrimoniale canonico, Milano 1993, pp. 341-342. 424 Paola Malcangi considerazione dell’impedimento d’impotenza stesso, auspicata da una parte della dottrina 58. Secondo tali autori, l’intenzione dei nuben- ti di dar vita a un nucleo familiare stabile, aperto all’allevamento e all’educazione dei figli, procreati artificialmente ovvero ottenuti tra- mite l’istituto dell’adozione, è non soltanto pienamente legittima, ma tale da rendere non più giustificato l’impedimento stesso. Secondo questa opinione, l’impedimento d’impotenza dovrebbe quindi essere escluso per lo meno tutte le volte in cui i coniugi, pur essendone a conoscenza, consapevolmente accettino il matrimonio, permanendo tra gli stessi l’attitudine alla generazione, anche se solo mediante l’ausilio di tecniche artificiali. L’impotenza assumerebbe, dunque, importanza ai fini della validità del matrimonio solo come causa di vi- zio del consenso, cioè solo quando vi sia errore o dolo su tale qualità della persona. Queste indicazioni dottrinali, sebbene degne di atten- zione, non sembrano essere, almeno per il momento, suscettibili di applicazioni. Questo perché gli atti idonei alla generazione della pro- le e in senso ampio la sessualità umana costituiscono la componente oggettiva del matrimonium in fieri 59. Se tali atti in concreto non pos- sono realizzarsi, il matrimonio stesso non può perfezionarsi. Pertan- to, anche nel caso di una fecondazione artificiale dalla quale nasca un figlio, il matrimonio resta nullo in quanto privo del suo oggetto e neppure potrebbe essere convalidato. L’approfondimento sul valore e sul peculiare significato del lin- guaggio del corpo, che il magistero pontificio sta conducendo in que- sti anni, costituisce un’ulteriore conferma della specifica essenzialità riconosciuta alla sessualità e ne mette in luce la peculiare funzione nell’ambito della piena ed effettiva realizzazione del totius vitae con- sortium. Costituisce, infatti, elemento essenziale del matrimonio il bo num coniugum che si realizza nell’intima comunione, frutto della donazione personale, con la quale i coniugi si completano reciproca- mente fino a divenire una carne sola 60. In senso contrario all’evolu-

58 P. M ONETA, Diritto al matrimonio e impedimenti matrimoniali, in AA.VV., Gli impedimenti al matri- monio canonico, Città del Vaticano 1989, pp. 23-24. Tra i sostenitori di questo indirizzo dottrinale, cf P.A. D’AVACK, Nuova nozione d’impotenza dell’uomo, Roma 1978, pp. 61-67. 59 E. VITALI - S. BERLINGÒ, Il matrimonio canonico, Milano 1994, pp. 13-18. Sul punto cf E. MONTAGNA, In merito all’esclusione del bonum coniugum, come causa di nullità del matrimonio canonico, in «Il dirit- to ecclesiastico» 104 (1993) II, 53, 56; GS 48; FC 11. 13. 60 S. VILLEGGIANTE, L’amore coniugale e il consenso matrimoniale canonico (Lettera aperta a Pio Fedele), in «Ephemerides Juris Canonici» 46 (1990) 87-109; GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie, 2 febbraio 1994, n. 12; PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Sessualità umana: verità e significato, 8 di- cembre 1995, nn. 10-15. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 425 zione del concetto d’impotenza, cui si è fatto riferimento, occorre ag- giungere la condanna da parte del magistero di ogni forma di fecon- dazione artificiale che si realizzi al di fuori e indipendentemente dal suo naturale contesto.

Fecondazione artificiale e consumazione del matrimonio Gli interventi artificiali, impiegati per rimediare alla infecondità coniugale, possono essere considerati anche in relazione al concetto di consumazione del matrimonio. Se ne parla di seguito all’analisi del concetto di impotenza, per- ché tra quest’ultima e la consumazione del matrimonio vi è un nesso inscindibile. Si pensi in primo luogo al fatto che, qualora fosse dimo- strata l’impotenza coeundi di un soggetto, sarebbe inutile soffermar- si sulla consumazione del matrimonio di per sé già invalidamente contrat to 61. Inoltre, l’importanza riconosciuta a livello giuridico e dottrinale al compimento dell’atto coniugale (che come abbiamo rile- vato sta alla base della costituzione dell’impedimento), viene ulte- riormente ribadita nella definizione che il can. 1061 dà del matrimo- nio consumato. Il Legislatore, facendo proprie le indicazioni della dottrina conciliare, accoglie una nozione di atto sessuale ampia e complessa, non limitata agli aspetti meramente fisiologici 62. Secondo tale dottrina, l’atto coniugale esprime e sviluppa l’amore dei coniugi e, se compiuto in modo veramente umano, riveste significati di dona- zione reciproca, di mutuo e vicendevole arricchimento degli stessi 63. Esso inoltre comporta una peculiare partecipazione degli sposi all’at - tività creatrice di Dio 64. Il matrimonio, quindi, non può dirsi ordinato all’atto coniugale inteso esclusivamente nella sua assoluta e isolata realtà fisica, ma è diretto a stabilire tra gli sposi «una normale, ordi- nata e gioiosa comunicazione di vita anche e specificamente nel cam-

61 M.F. POMPEDDA, Studi di diritto matrimoniale canonico, Milano 1993, pp. 364-366; L. CHIAPPETTA, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica e concordataria, Roma 1990, p. 21. Non si può parlare di matrimonio consumato se il matrimonio celebrato è nullo a causa di un impedimento dirimente quale l’impotenza. 62 GS 49-51. 63 FC 19: «In forza del patto coniugale, l’uomo e la donna “non sono più due ma una carne sola” e sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono». 64 Secondo HV 8 il matrimonio è «una reciproca donazione personale, mediante la quale gli sposi ten- dono alla comunione dei loro esseri in vista di un mutuo perfezionamento, per collaborare con Dio alla generazione e all’educazione della prole». 426 Paola Malcangi po della sessualità» 65. Da queste premesse pertanto non si può pre- scindere se si vuol cogliere, al di là della semplice definizione giuri- dica, il significato profondo e pienamente umano dell’atto coniugale. Anche se la consumazione non appartiene all’essenza del matri- monio, in sé già perfetto in forza del consenso legittimamente pre- stato dai coniugi 66, essa conferisce al matrimonio tra battezzati una stabilità assoluta, in quanto è solo con la consumazione che lo stesso diviene iure divino et positivo assolutamente indissolubile. Il matri- monio si considera consumato se è stato posto in essere dai coniugi in modo umano l’atto «di per sé idoneo alla generazione della prole, al quale il matrimonio è ordinato per sua natura e per il quale i co- niugi divengono una sola carne» (can. 1061 § 1). Presupposto indispensabile per definire il concetto di matrimo- nio consumato è la specificazione della nozione di copula consumati- va. Tale nozione implica innanzi tutto la realizzazione dell’atto coniu- gale secondo le leggi fisiche della natura e la cooperazione persona- le dei coniugi alla realizzazione stessa. La dottrina canonistica ha inoltre stabilito una diretta correlazione tra la consummatio coniugii e l’attitudine alla generatio prolis. Per aversi copula perfetta occore infatti «tanto la volontà soggettiva dei coniugi di porre in essere un’unione sessuale di per sé almeno potenzialmente idonea alla pro- creazione, quanto l’oggettiva capacità fisica di realizzare tale unio - ne» 67. Di fatto, però, ciò che è giuridicamente rilevante ai fini della consumazione è il compimento dell’actio humana idonea a costituire causa generandi, indipendentemente dal verificarsi o meno del con- cepimento e quindi dall’effettiva nascita del figlio. La dottrina e le di- chiarazioni magisteriali si sono infatti espresse nel senso della incon- sumazione del matrimonio pure nelle ipotesi eccezionali in cui sia avvenuta la generazione della prole, senza che sia stata realizzata la copula perfetta richiesta dal legislatore canonico. Analoghe valutazioni devono riferirsi anche all’ipotesi della na- scita del figlio in seguito all’applicazione delle tecniche di fecondazio-

65 AA.VV., Il codice del Vaticano II. Il matrimonio canonico tra tradizione e rinnovamento, Bologna 1990. Cf in particolare J.M. SERRANO RUIZ, L’ispirazione conciliare nei principi generali del matrimonio cano - nico, p. 65. 66 L. CHIAPPETTA, Il matrimonio..., cit., p. 17. «Il matrimonio rato è matrimonio già completo in sé, in tutta la sua realtà giuridica e sacramentale, né è necessaria la sua consumazione per renderlo tale». Si accoglie in tal senso il principio romanistico: «Nuptias non concubitus, sed consensus facit» (Digesto 35, 1, 15). 67 E. VITALI - S. BERLINGÒ, Il matrimonio..., cit., p. 45. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 427 ne artificiale, non preceduta dal compimento degli atti coniugali. Mancando l’unione sessuale dei coniugi, il matrimonio resta inconsu- mato anche in questo caso e pertanto il vincolo coniugale può essere eccezionalmente sciolto mediante dispensa pontificia. Non potrà in- fatti costituire atto idoneo alla consumazione la procedura della fe- condazione in vitro con embryotransfer, la quale si concretizza nella fecondazione extracorporea di spermatozoi e ovociti e nel successivo trasferimento in utero degli embrioni ottenuti. A medesima conclu- sione si arriva per l’inseminazione artificiale proprie dicta la quale, al- lo stesso modo della FIVET, consente la fecondazione sostituendosi completamente all’atto coniugale. Diversa invece è l’ipotesi dell’inse- minazione artificiale improprie dicta, che presuppone la sussistenza di tutti gli elementi della copula perfetta, ponendosi esclusivamente come aiuto esterno all’atto coniugale: tale procedura consente infatti agli spermatozoi di raggiungere più facilmente l’ovulo al fine di otte- nere la gravidanza 68. La mancata consumazione di per sé non attribuisce ai coniugi il diritto di ottenere lo scioglimento del matrimonio. La dispensa ponti- ficia, infatti, non è un atto dovuto, ma ha natura discrezionale e può essere rifiutata anche in caso di inconsumazione accertata. In sede probatoria occorre inoltre dimostrare l’esistenza di una causa giusta e adeguata per lo scioglimento del vincolo e l’assenza del pericolo di scandalo che potrebbe derivare per la comunità dei fedeli, qualora vi siano motivi e circostanze particolari che sconsiglino la concessione della dispensa. Secondo la prassi della Congregazione per la discipli- na dei sacramenti, l’istanza di scioglimento presenta particolari diffi- coltà di ordine morale e giuridico nei casi in cui, nonostante l’asse - rita inconsumazione del matrimonio, sia stato generato un figlio. In concreto le ipotesi possibili sono: il concepimento e la generazione del figlio in seguito all’assorbimento del seme in vagina, avvenuto con un semplice contatto esterno degli organi genitali; il concepi- mento e la generazione del figlio in seguito a un rapporto compiuto in modo “non umano”; il concepimento e la generazione realizzate in seguito all’applicazione delle procedure di fecondazione artificiale. Con riferimento specifico all’impiego delle tecniche di feconda- zione artificiale, ci si domanda se la prole così ottenuta possa in qual- che modo influire sulla valutazione dell’autorità ecclesiastica circa l’op -

68 M. CRISCUOLO LIMIDO, Fecondazione artificiale..., cit., pp. 43-44; DV, B-6; P. FEDELE, La fecondazione artificiale, in «Ephemerides Juris Canonici» 23 (1967) 297-330. 428 Paola Malcangi portunità o meno della concessione della dispensa 69. La risposta sem- bra dover essere affermativa. Nella fattispecie di cui si tratta, infatti, la decisione dei coniugi di ricorrere alla fecondazione artificiale sembre- rebbe dimostrare la loro volontà di consolidare e ratificare, con la na- scita del figlio, l’unione matrimoniale. Remota sembrerebbe quindi, a prima vista, la volontà di sciogliere il vincolo, venendo meno agli impe- gni reciproci assunti al momento dello scambio del consenso. Premesso che il matrimonio resta comunque inconsumato, la Congregazione per i sacramenti e il culto divino dovrà senza dubbio procedere con molta cautela nella valutazione dei singoli casi con- creti e concedere la dispensa solo qualora sussistano delle ragioni particolarmente gravi che ne giustifichino la concessione. Ogni deci- sione dovrà essere motivata in assoluta aderenza al magistero auten- tico della Chiesa. Dal giudizio espresso su tali pratiche dal magistero pontificio dipenderà, infatti, l’atteggiamento dei fedeli e, conseguen- temente, l’opinione che gli stessi si formeranno circa i provvedimen- ti di scioglimento del matrimonio canonico rato e non consumato, ma dal quale si sia avuta generazione di prole tramite fecondazione artificiale 70.

L’impedimento di consanguineità e la fecondazione artificiale La consanguineità è la naturale relazione di sangue che esiste tra persone che abbiano origine l’una dall’altra o ambedue da un co- mune antenato: «vinculum personarum ab eodem stipite descenden- tium carnali propagatione contractum» 71. La relazione oggettiva di consanguineità si fonda sulla communis origo genetica delle persone che intendono contrarre matrimonio. È quindi nullo il matrimonio eventualmente contratto da due consanguinei nei gradi in cui, ai sen- si del can. 1091, vige l’impedimento dirimente di diritto naturale. La «relazione di sangue» a cui si fa riferimento in questa definizione ha come fondamentale presupposto il rapporto sessuale, mentre non è rilevante il contesto legittimo o illegittimo in cui il rapporto stesso si realizza 72. Attualmente tale presupposto non riveste più la stessa es-

69 M. F. POMPEDDA, Nuove metodiche..., cit., pp. 171-172. 70 M. CRISCUOLO LIMIDO, Fecondazione artificiale..., cit., pp. 46-47. 71 HOSTIENSIS, lib. IV, tit. XIV, n. 1. 72 Cf K. BOCCAFOLA, Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra persone: affinitas, consanguini- tas, publica honestas, cognatio legalis, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, Città del Va- ticano 1989, p. 203. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 429 senziale importanza, poiché con l’applicazione delle tecniche di fe- condazione artificiale la generazione della prole avviene anche pre- scindendo dalla copula sessuale. L’attuale possibilità di concepire un figlio non solo al di fuori della copula coniugale, ma altresì utilizzan- do il patrimonio genetico di una terza persona estranea alla coppia, mette in crisi il tradizionale modo di intendere le relazioni familiari. Con le procedure di fecondazione artificiale eterologa si realizza, in- fatti, un’effettiva separazione tra la genitorialità sociale, legalmente riconosciuta, e la genitorialità genetica. Con riferimento a queste metodiche ci si domanda se la comune origine genetica possa anco- ra essere ritenuta sufficiente a impedire l’unione matrimoniale. Si pensi alla fattispecie della donazione anonima di liquido se- minale depositato in appositi centri e utilizzato per fecondare l’ovulo di una donna (o di più donne) che non ha alcun tipo di relazione con il donatore. Realizzato artificialmente il concepimento e generata, in tale modo, una figlia, tra quest’ultima e il donatore vi è, per il princi- pio di cui sopra, un impedimento di consanguineità di primo grado in linea retta. Tale impedimento sarà per lo più ignorato dai due sog- getti interessati e difficile da provare giudizialmente, ma ciò non im- pedisce la produzione degli effetti invalidanti nel matrimonio da co- storo eventualmente celebrato 73. Non sussiste invece impedimento alcuno tra la donna concepita artificialmente mediante l’apporto del patrimonio genetico del dona- tore anonimo e l’uomo che, pur non essendo suo genitore biologico, le fa da padre. Non si tiene per nulla conto, quindi, né dell’essenziale rapporto affettivo esistente tra costoro, né della comunione di vita, materiale e spirituale, realizzatasi nell’ambito familiare, né della concreta ed ef- fettiva assunzione di responsabilità da parte del padre sociale, rico- nosciuto come tale dalla legge e dalla comunità, nei confronti della fi- glia. Pur in assenza di una vera e propria relazione generazionale di carattere biologico, si ritiene che la comunanza di vita e di affetti tra i soggetti interessati potrebbe rendere opportuna l’istituzione di un nuovo impedimento da affiancarsi a quello della consanguineità, at- tualmente vigente 74.

73 J.F. CASTAÑO, Natura e ruolo degli impedimenti matrimoniali, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimo- nio canonico..., cit., p. 36. L’ignoranza del legame di consanguineità potrà dare adito a un matrimonio putativo con le conseguenze giuridiche connesse. 74 P. M ONETA, Il matrimonio nel nuovo diritto canonico, Genova 1991, p. 90. 430 Paola Malcangi

Un’altra fattispecie per molti aspetti simile a quella appena de- scritta si realizza in seguito alla donazione di ovociti. In questo caso la dissociazione della maternità si attua tra la donatrice da cui provie- ne l’ovocita, madre genetica del nascituro, e la donna che consente all’embrione di svilupparsi nel proprio grembo sino al momento del parto e che manifesta la volontà di assumere in pienezza la responsa- bilità della maternità (considerando il bambino partorito come pro- prio figlio, prendendosi cura di lui, allevandolo ed educandolo). L’im- pedimento di consanguineità sorge esclusivamente tra la donatrice e il bambino concepito utilizzando il suo ovulo. Non sussiste, invece, impedimento di consanguineità, né di diritto naturale, né di diritto positivo, tra il bambino e la donna che lo ha partorito, madre ge- stante e sociale. Per il diritto canonico, infatti, è madre la donna che trasmette al nascituro il patrimonio genetico, anche se la feconda- zione stessa si realizza all’esterno del suo corpo e lo sviluppo del - l’embrione, così come la gestazione e il parto, sono portati a termi- ne da un’altra donna 75. Vi è un altro caso particolare che attua la frattura tra maternità genetica e sociale da un lato e maternità uterina dall’altro. È l’ipotesi della madre “portatrice”, ossia della donna che mette a disposizione il proprio utero per accogliere e far crescere l’embrione concepito con i gameti altrui (appartenenti alla coppia che intende assumere la genitorialità del nascituro, ovvero in parte o del tutto estranei alla coppia stessa). L’impedimento di consanguineità sorge unicamente tra il figlio e la madre genetica, mentre sul piano giuridico nessun si- gnificato viene attribuito al fatto in sé della gravidanza e del parto. Alla dottrina canonistica non sfugge la problematica giuridica insita nell’attuazione di queste particolari situazioni, rese possibili dall’impiego delle tecniche di fecondazione eterologa. In particolare, la riflessione condotta in ambito canonistico riguarda il significato e l’importanza da attribuire al periodo della gravidanza e al momento del parto. Ci si domanda se sia opportuno «istituire per diritto positi- vo della Chiesa un impedimento tra la madre sostituta e il figlio ge- stato nel suo utero e ancora tra coloro che sono stati gestiti nello stesso utero, ma non sono legati da impedimento di consanguinei- tà» 76. Sulla base delle nozioni fornite dalla biologia, dalla ginecologia e dalla psicologia, si ritiene necessario riconoscere il valore essenzia-

75 S. GHERRO, Considerazioni canonistiche..., cit., pp. 1215-1216. 76 U. NAVARRETE, Novae methodi..., cit., p. 93. Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico 431 le del rapporto che s’instaura tra la gestante e il nascituro durante la gestazione. Oltre allo scambio di sostanze nutritive, infatti, tra i due distinti soggetti si stabilisce un vero e proprio legame di vita, alla cui base c’è una partecipazione di pensieri e di affettività che si rafforza sul piano dell’inconscio e perdura anche dopo la nascita. A livello giuridico inoltre si può osservare che, se è previsto un impedimento dirimente per coloro che sono uniti per cognazione legale derivante dall’adozione, a maggior ragione un simile impedimento dovrebbe essere costituito tra coloro che sono legati da «cognazione naturale, derivante dalla gestazione nel proprio o nel medesimo utero» 77. Ci sembra che non possa costituire argomento contrario ai fini della costituzione di questo nuovo impedimento la circostanza che ci si trovi di fronte a pratiche contrarie alla morale. Il diritto canonico non può fare a meno di prendere atto di situazioni delicate come queste legate alla genesi della vita umana, anche se le stesse si sono verificate attraverso l’impiego di metodiche di procreazione ritenute illecite dalla dottrina della Chiesa. Anzi, poiché il giudizio etico di illi- ceità è già stato chiaramente espresso dal magistero della Chiesa, spetta all’interprete assumere provvedimenti in merito e affrontare, nell’interesse della comunità dei fedeli, queste nuove fattispecie, re- golamentandone gli effetti. Le difficoltà incontrate dalla dottrina nel tentativo di risolvere questi problemi sono state in parte superate grazie all’attento con- fronto e alla costante integrazione tra il diritto canonico e «le altre scienze che analizzano l’uomo, le sue componenti spirituali, psichi- che [...] e le regole interiori della sua struttura personologica» 78. Ta- le apertura interdisciplinare costituisce per il diritto ecclesiale il fat- tore evolutivo e dinamizzante per eccellenza. Conoscere la persona in tutti i suoi aspetti sostanziali e dinamici e attribuire alla stessa l’importanza che le compete può infatti far assumere al diritto cano- nico un carattere “profetico” nei confronti degli altri ordinamenti giuridici e dell’intera società. Importantissima a tal fine è la funzione dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale dei canoni esisten- ti. Tale interpretazione, se aperta alla dimensione naturale dell´uo - mo, consente all’ordinamento di rinnovarsi ed evolvere 79. Essa per-

77 L. cit. 78 S. GHERRO, Principi di diritto costituzionale canonico, Torino 1992, p. 44. 79 G. LO CASTRO, Interpretazione e diritto naturale nell’ordinamento canonico, in AA.VV., Il problema del diritto naturale nell’esperienza giuridica della Chiesa, a cura di M. Tedeschi, Messina 1993, pp. 68, 72. 432 Paola Malcangi mette infatti di “rivisitare” di continuo gli strumenti e gli istituti di cui l’ordinamento dispone alla luce di ciò che, data la novità delle fat- tispecie in questione, appare più funzionale al bene della persona. Il costante riferimento alla persona (intesa come fondamento e fine dell’ordinamento canonico) consentirà al canonista la traduzione sul piano giuridico di quanto maggiormente assicura la realizzazione della sua autenticità e dignità umana.

PAOLA MALCANGI Via Nizza 237 10126 Torino Quaderni di diritto ecclesiale 11 (1998) 433-445 Diritto canonico e culture di Silvia Recchi

Insegnare il diritto canonico a Roma o a Parigi, non è la stessa cosa che insegnarlo a Yaoundé! La differenza non consiste certamente nell’oggetto di insegna- mento, ma negli interlocutori e nel loro contesto culturale. Se da un lato è vero che la scienza canonica ha una dimensione universale, che ingloba l’insieme di relazioni giuridiche e norme canoniche rela- tive alla vita del popolo di Dio e che dunque non si ferma a nessuna frontiera nazionale, linguistica, razziale, dall’altro lato essa è interpel- lata diversamente secondo i contesti sociali e le esigenze pastorali che dipendono dai luoghi, dalle circostanze e dalle culture.

Fede e culture Non c’è alcun dubbio che la riflessione sull’incontro della fede cri - stiana con le differenti culture costituisce oggi un oggetto di preoccu- pazione per la Chiesa in tutti i continenti e che la parola “inculturazio- ne” rappresenta una delle parole chiavi dell’attuale lessico ecclesiale. Come Paolo VI aveva pubblicamente denunciato nell’esortazio- ne apostolica Evangelii nuntiandi, il dramma della nostra epoca si definisce come rottura tra fede e cultura e l’inculturazione del mes- saggio evangelico rimane un programma prioritario della Chiesa del nostro tempo. Questo programma interessa non solo le terre di pri- ma evangelizzazione, i Paesi di giovane cristianità alla ricerca di una propria identità ecclesiale, ma anche i Paesi di antica cristianità, do- ve la nuova evangelizzazione auspicata dal Santo Padre ha tra i suoi obiettivi quello di ricercare un nuovo e fruttuoso incontro tra vange- lo e cultura del tempo. 434 Silvia Recchi

Dio rivelandosi al suo popolo, fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche. Parimenti la Chiesa si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multifor- me comunità dei fedeli (Gaudium et spes, n. 58). Se Parola e Sacramento, elementi costitutivi della Chiesa, sono gli stessi per tutti i popoli e tutti i Paesi, la loro appropriazione uma- na è diversa, a causa della pluralità culturale che caratterizza la Chie- sa di Cristo. La parola di Dio infatti, pur rimanendo dottrinalmente unica, deve essere comunicata attraverso i molteplici canali delle cul- ture umane. Rendere partecipe l’uomo all’unica parola di Dio signifi- ca ricrearla per lui attraverso le differenti culture che gli sono pro- prie. Analogo discorso deve essere fatto a proposito del Sacramento. Affinché ogni uomo possa appropriarsi in profondità di esso è neces- sario che l’unità sacramentale della Chiesa venga ricreata e sviluppa- ta nella differenza e nella pluralità culturale, facendo posto alle legit- time diversità e ai legittimi adattamenti richiesti dai vari gruppi, re- gioni, popoli (Sacrosanctum concilium, n. 38). Il pluralismo culturale è una delle chiavi indispensabili affinché la Chiesa possa svolgere il suo compito al servizio dell’uomo. La comprensione umana della verità di Dio, come pure la risposta cul- tuale liturgica alla chiamata divina, assumono forme e modalità cul- turali tra loro differenti 1. L’attenzione della Chiesa per le diverse culture è stata, al conci- lio Vaticano II, uno dei segni di apertura al mondo. Emblematica a questo proposito è l’intuizione conciliare della nozione del popolo di Dio in marcia nella storia, immagine di una Chiesa peregrinante che si costruisce nel tempo, immagine che ha dato al Concilio tutta la sua portata pastorale. La Chiesa non può essere concepita fuori dalle culture viventi e queste a loro volta trovano in Gesù Cristo la loro autentica salvezza. La visione teologica ed ecclesiologica del Vaticano II è maturata at- traverso una percezione culturale del mondo contemporaneo e dei suoi problemi. Questo approccio socio-teologico che ne ha guidato i lavori è considerato come uno dei suoi impulsi più dinamici e fecon-

1 Cf P.A. BONNET, La Chiesa particolare nel segno del pluralismo ecclesiale, in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Ius in vita et in missione Ecclesiae, Città del Vaticano 1994, pp. 466 ss. Diritto canonico e culture 435 di: nessun concilio nella storia aveva messo l’uomo e il mondo al cen - tro del suo dibattito 2. Ciò è stato in particolar modo favorito dalla presenza dell’episcopato mondiale, di vescovi provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina che hanno prodotto un impatto nuovo sull’episcopato occidentale. È per questo che le varie tematiche trattate dal Concilio rifletto- no una prospettiva che è contemporaneamente dottrinale e incarnata nel tempo. Lo stesso vocabolario che si ritrova nei suoi testi ne è ri- velatore: la parola “storia” ritorna in essi 63 volte, la parola “cultura” 92 volte, il termine “culturale” 34 volte 3.

Diritto ecclesiale e pluralità di culture Non è raro sentir dire che uno dei più grandi ostacoli all’opera di inculturazione della vita della Chiesa, in particolare nei Paesi e- stranei alla cultura occidentale, è rappresentato dal diritto canonico che non permetterebbe una apertura sufficiente al nuovo contesto culturale che incontra. Se si considera il processo di formazione del diritto della Chiesa, soprattutto riandando alle sue fonti, ci si rende conto che, contraria- mente a quanto si crede, esse mostrano un approccio culturale nei confronti dei problemi concreti di esistenza incontrati dalle diverse comunità ecclesiali, di cui il diritto intendeva disciplinare la vita e la fe- de. Il progressivo formarsi delle regole giuridiche canoniche nei pri- mi dieci secoli di vita della Chiesa è stato caratterizzato da un sapiente discernimento a partire dalle situazioni determinate e da un carattere empirico e concreto. È successivo l’orientamento volto a formulazioni più astratte della legge canonica che lentamente è diventata l’espres - sione di una razionalità tesa a tutelare il bene comune, più lontana dal- le necessità specifiche delle comunità ecclesiali particolari. Il CIC 1917 è stato il coronamento di questa evoluzione, offrendo una unifor- mità giuridica a tutti i Paesi, popoli e culture 4. Uni formità perfetta- mente conforme alla visione della societas perfecta che ha dominato l’ecclesiologia post-tridentina, facendo prevalere nella scienza canoni- stica il metodo giuridico e offuscando la sua dimensione teologica.

2 Cf H. CARRIER, Evangélisation et développement des cultures, Roma 1990, pp. 23-30. 3 Cf ID., Lexique de la culture. Pour l’analyse culturelle et l’inculturation, Tournai-Louvain la Neuve, 1992, pp. 373-377. 4 PH. ANTOINE, Le Code de droit canonique face aux exigences de l’inculturation, in «L’Année canonique» 34 (1991) 177-180. 436 Silvia Recchi

Non si può nascondere il fatto che la Chiesa è rimasta a lungo preoccupata dell’unità, interpretata soprattutto come uniformità di lingua, di stile, di gesti, di strutture e di disciplina. Ciò è durato seco- li e durante tutto questo tempo essa non si è resa conto che aveva dato al Cristo soltanto un volto, quello europeo. È qui che si colloca il problema dell’inculturazione. Un proble- ma complesso e delicato, la cui posta in gioco è la fedeltà della Chie- sa al Vangelo e alla tradizione apostolica in una evoluzione costante delle culture e che impegna il diritto ecclesiale a uno sforzo di di- scernimento per essere attento agli uomini concreti, restando fedele alla sua cattolicità. Indubbiamente con il concilio Vaticano II si è affermata la vo- lontà di invertire l’orientamento uniformizzante che aveva caratteriz- zato per lungo tempo la vita e la disciplina ecclesiali. Ciò è stato pos- sibile soprattutto per il fatto di aver ridato alle Chiese particolari il lo- ro posto nella struttura gerarchica della Chiesa. Il Codice rinnovato, considerato come un grande sforzo per tra- durre in linguaggio canonico la stessa ecclesiologia conciliare, non poteva non registrare questa svolta. Ciò che costituisce la novità es- senziale del concilio Vaticano II, nella continuità legislativa della Chiesa, soprattutto a riguardo dell’ecclesiologia, costituisce la novità del nuovo Codice, dice la Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges. Essa formula con ciò l’augurio che «la nuova legislazione cano- nica divenga un mezzo efficace affinché la Chiesa possa progredire nello spirito del Vaticano II e rendersi essa stessa ogni giorno meglio adattata per svolgere la sua funzione di salvezza in questo mondo» 5.

Fondamenti ecclesiologici per una inculturazione del diritto ecclesiale Il locus ecclesiologico per affrontare il dibattito sull’incontro del diritto ecclesiale con le differenti culture è rappresentato dal “miste- ro” del rapporto tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare. Tale rapporto è espresso dalla Lumen gentium [= LG] con la no- ta espressione secondo cui l’unica Chiesa cattolica esiste nelle Chie- se e a partire dalle Chiese particolari («in quibus et ex quibus») (LG 23, 1). L’unica Chiesa di Cristo ha una duplice dimensione: universa-

5 GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983. Diritto canonico e culture 437 le e particolare. La prima, che si realizza nelle seconde, non è un uni- versale ontologicamente preesistente, ma esiste solo come una real- tà in se stessa già pluralistica, materialmente costituita da tutte le Chiese particolari. La Chiesa universale vive storicamente nella di- versità di tante Chiese particolari. Essa non è da concepire come una confederazione di queste ultime, ma come corpus ecclesiarum, communio ecclesiarum (cf LG 23). Le Chiese particolari a loro volta non esistono che come incarnazione dell’unità, cioè della Chiesa uni- versale che è ontologicamente presente in ognuna di esse. Questo principio di immanenza reciproca della Chiesa universa- le nelle e dalle Chiese particolari, dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale, forma l’essenza stessa della nozione di “communio” dove gli elementi materiali essenziali e costitutivi del- la Chiesa, cioè la Parola e i Sacramenti, sono comuni sia alla sua di- mensione universale che a quella particolare 6. Se da un lato occorre dire che la Chiesa particolare non si defi- nisce a partire dalla sua capacità di inculturazione in un determinato ambiente storico e sociale, ma a partire dal Sacramento e dalla Paro- la che essa celebra e annuncia localmente7, dall’altra parte occorre anche aggiungere che tale capacità di inculturazione non è un fatto- re di importanza marginale. Infatti è grazie alle differenti modalità culturali nel celebrare i Sacramenti e nel comprendere la Parola che la Chiesa universale può formulare in modo significativo per l’uomo le verità di fede, in un determinato luogo e in un determinato tempo e contemporaneamente, grazie all’apporto delle culture umane, può penetrare sempre più profondamente nella comprensione di quella stessa Parola. Il discorso svolto sul rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare permette analogicamente di affrontare il discorso sulla relazione diritto universale-diritto particolare. È proprio quest’ultimo infatti uno dei luoghi di realizzazione dell’incontro del diritto eccle- siale con le diverse culture. In questa direzione il nuovo Codice offre delle aperture scono- sciute al Codice precedente. Tali aperture non possono essere in- terpretate facendo ricorso a modelli sociologici, come quello della centralizzazione e della decentralizzazione, categorie che non sono

6 Cf E. CORECCO, Ius universale - ius particolare, in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTER- PRETANDIS, Ius in vita, cit., pp. 554-555. 7 Cf Ibid., p. 559. 438 Silvia Recchi capaci di manifestare pienamente il rapporto di comunione e di im- manenza reciproca, sacramentale ed ecclesiologica, del diritto uni- versale e particolare. Ugualmente inadeguato è il ricorso al principio di sussidiarie- tà. Esso, come si ricorderà, fu applicato dal I sinodo dei vescovi del 1967 con l’approvazione dei «Principia quae Codicis Iuris Canonici reco gnitionem dirigant», presentati dalla Pontificia Commissione per la revisione del Codice di diritto canonico. Il quinto principio s’intito - lava: «De applicando principio subsidiarietatis in Ecclesia» 8. Non ci soffermiamo sul dibattito che si è sviluppato intorno a tale princi- pio 9. Il problema posto con sempre maggiore chiarezza è stato quel- lo della sua non compatibilità con la natura della Chiesa. Il principio di sussidiarietà, stabilendo una presunzione di competenza in favore degli individui e delle società minori, e una loro priorità operativa in rapporto agli organismi superiori, riduce la competenza e l’interven- to dell’autorità centrale a casi straordinari di necessità in vista del bene comune. Questo principio è stato invocato nella Chiesa nei rap- porti tra governo diocesano e governo centrale, tra Conferenze epi- scopali e Pontefice Romano, in vista di ottenere un dominio di auto- nomia più vasto. Ciò che poteva apparire una applicazione del princi- pio di sussidiarietà era in effetti un principio di decentralizzazione. Ora la decentralizzazione nella Chiesa non ha bisogno di invocare il principio di sussidiarietà, essa è il frutto legittimo dei suoi elementi ecclesiologici 10. La coscienza di una giusta autonomia da riconosce- re ai diversi ordini di persone e alle differenti entità ecclesiali offre infatti un fondamento valido (e che esprime meglio la natura della Chiesa) allo stabilimento delle norme adatte alla realtà vissuta dal popolo di Dio 11.

Diritto particolare: terreno di incontro con le culture La tradizione latina che ha dato maggiore rilievo alla Chiesa u- niversale non poteva non influenzare le codificazioni del diritto. Tut- tavia nel nuovo Codice, come si è detto, trova spazio il progetto di

8 Cf «Communicationes» 1 (1969) 80. 9 Cf J. BEYER, Principe de subsidiarité ou «juste autonomie» dans l’Église, in ID., Renouveau du droit et du laicat dans l’Eglise, Paris 1993, pp. 77-101. 10 Cf R. CASTILLO LARA, La subsidiarité dans l’Eglise, in AA.VV., La subsidiarité. De la théorie à la prati- que, Paris 1995, pp. 155-179. 11 Cf J. BEYER, Principe de subsidiarité, cit., p. 101. Diritto canonico e culture 439 una legislazione particolare che fornisce l’opportunità per un fecon- do incontro del diritto con le diverse culture. Il punto di partenza di questo rinnovamento della legislazione si trova nel riconoscimento che i vescovi diocesani sono per se stessi, non quali rappresentanti del Papa ma di Cristo, titolari di un potere ordinario, proprio e immediato corrispondente all’esercizio della pro - pria funzione pastorale. Ciò significa che le funzioni legislativa, esecu- tiva e giudiziaria appartengono al vescovo ex iure divino, anche se nell’esercizio del potere legislativo i vescovi devono attenersi alle leg- gi della Chiesa. Il canone 381 del Codice definisce in maniera positiva l’autorità, la missione e il potere del vescovo diocesano. Questo potere è stato esteso in maniera da includere la pratica della dispensa di cui il ve- scovo è giudice e autore 12. Fanno eccezione le cause che il diritto o una decisione pontificia riservano all’autorità suprema o ad altra au- torità. Numerosi canoni del Codice confidano al vescovo la determi- nazione di punti disciplinari, cosa che comporta la creazione di un diritto diocesano. In termini operativi si tratta di un riconoscimen- to, assai più significativo che nel Codice precedente, del ruolo del vescovo diocesano a legiferare e a emettere direttive per la propria diocesi e un riconoscimento della sua facoltà di dispensare da leggi (cann. 87-88) 13. Tale riconoscimento non è senza significato per la creazione di un diritto diocesano con una identità più attenta al contesto sociocul- turale che in alcuni casi contribuisce ad arricchire lo stesso Legislato- re universale. Un esempio significativo può essere rappresentato dal- la legislazione sui ministeri laicali nell’arcidiocesi di Kinshasa, dove il cardinale Malula istituiva già nel 1975 otto bakambi 14 la cui missione prefigurava le disposizioni del can. 517 § 2 sulla partecipazione dei laici nell’esercizio della cura pastorale d’una parrocchia. L’istituzione dei bakambi ha espresso la volontà di meglio inculturare il messaggio cristiano e rispondere a bisogni pastorali specifici che con siderano non la parrocchia ma una piccola comunità di fedeli a modello della famiglia come struttura ecclesiale di base 15.

12 Cf can. 87, da confrontare con il can. 81 del CIC 1917. 13 Cf J. BEYER , Principe de subsidiarité, cit., p. 91. 14 Il termine designa dei laici responsabili di parrocchie senza parroco. 15 Cf V. KWANGA NDJIBU, Le ministère de bakambi et ses implications théologico-juridiques, in «Periodica de re canonica» 88 (1994) 399-436. 440 Silvia Recchi

Il Codice attuale ha circa una sessantina di rimandi al diritto particolare. A quest’ultimo non è esatto assimilare immediatamente le circa ottanta competenze attribuite alle Conferenze episcopali, di cui una metà circa sono di natura legislativa. L’unica vera fonte del diritto particolare infatti rimane quella della sacra potestas dei vesco- vi. Secondo il profilo giuridico le competenze attribuite dal Codice al- le Conferenze episcopali sono sia una concessione fatta alle confe- renze dal Legislatore universale, sia una riserva fatta dallo stesso Le- gislatore a favore delle conferenze, a scapito dei vescovi diocesani 16. Tutto ciò senza negare l’importante funzione che esse svolgono e possono svolgere sul piano di un adattamento del diritto canonico al- le differenti culture. Si deve ammettere che da un punto di vista quantitativo e qua- litativo, la sproporzione esistente nell’attuale Codice tra le norme di diritto particolare e quelle del diritto universale rimane ancora grande. Dal profilo qualitativo inoltre i settori legislativi lasciati alla competenza del vescovo possono apparire di importanza seconda- ria anche se non privi di interesse locale. È possibile perciò affer- mare che la preoccupazione di garantire la pluralità culturale e le sue esigenze rimane pur sempre inferiore nel nuovo Codice, mal- grado un’evoluzione innegabile, rispetto alla preoccupazione di tu- telare l’unità nella Chiesa. Lo sviluppo del diritto particolare non è la sola maniera di con- siderare la possibilità di inculturare il diritto ecclesiale. Altre vie pos- sono risultare importanti, come quella fornita dal diritto della vita consacrata. Il diritto proprio degli Istituti ha ricevuto nel nuovo Codice uno spazio notevolmente più ampio rispetto al Codice precedente. La di- sciplina che regola gli istituti di vita consacrata sottolinea il valore del loro carisma e della loro identità, nonché di una loro giusta autono- mia. Tale identità e tale autonomia devono essere protette e manife- state con strutture adattate ai contesti socioculturali dove essi vivono e operano. Il diritto proprio degli istituti può diventare un terreno di incontro con i differenti contesti socioculturali e forse può indicare al- la Chiesa cammini percorribili sul piano dell’apertura alle culture. Sotto questo aspetto gli istituti di vita consacrata a carattere in- ternazionale possono offrire un’esperienza preziosa perché si trova-

16 Cf E. CORECCO, Ius universale - ius particolare, cit., p. 564. Diritto canonico e culture 441 no a vivere in prima linea la problematica posta dalla regionalizzazio- ne della vita consacrata che, nei diversi continenti, conduce ad una differenziazione progressiva della sua fisionomia e dei suoi orienta- menti. L’istituto, grazie al suo carattere internazionale e pluricultura- le, è chiamato a vivere nuovi problemi di comunione che pongono la necessità di una nuova articolazione tra carisma-strutture-culture. Si tratta di problemi inediti, sconosciuti nel passato dove gli istituti vi- vevano di fatto una internazionalità geografica a dimensione mono- culturale, per la scarsa considerazione data alla realtà pluriculturale. La nuova sensibilità in rapporto a quest’ultima fa comprendere sem- pre meglio che non possono essere trapiantate ovunque le stesse modalità di vita e di azione apostolica, con una dipendenza anacroni- stica dal quadro socioculturale di origine dell’istituto. Questa consa- pevolezza deve tradursi nella vita dell’istituto in un’articolazione di- sciplinare e giuridica corrispondente. Anche la liturgia è un’importante arena di incontro del diritto con le differenti culture. La liturgia della Chiesa non deve essere e - stranea a nessun paese, a nessun popolo, a nessuna persona, e nello stesso tempo essa trascende ogni particolarismo di razza o di nazio- ne 17. In questa direzione il can. 838 dell’attuale Codice, capovolgen- do il can. 1257 del Codice precedente, offre delle grandi aperture. Le competenze riconosciute alle Conferenze episcopali in merito posso- no diventare molto significative, anche se limitate dalla necessaria recognitio della Santa Sede per i decreti generali da esse emanati 18. In materia liturgica lo stesso diritto consuetudinario agisce a volte come un adattamento della norma canonica ai luoghi, alle persone e ai tempi 19. Un arricchimento autentico della liturgia da parte delle differenti culture diventa possibile a condizione che il mistero cele- brato conservi la sua natura fondamentale e che il significato del rito cristiano e del suo aspetto universale, sia salvaguardato 20.

17 CONGREGATIO DE CULTU DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, Instructio Varietates legitimae, 25 gennaio 1994, n. 18, in «Notitiae» 30 (1994) 89-90. 18 Cf can. 455. 19 Cf J.M. POMMARES, Le droit en liturgie: un compagnon incommode ou une aide indispensable?, in «Notitiae» 32 (1996) 220. 20 Cf il Messale romano per le diocesi dello Zaire, approvato dalla Congregazione per il Culto Divino e per la Disciplina dei Sacramenti il 30 aprile 1988 (cf «Notitiae» 24 [1988] 457). 442 Silvia Recchi

Il caso dell’Africa Oltre le vie indicate, altre sono percorribili per un più armonico adattamento del diritto ecclesiale ai diversi contesti culturali. Tra es- se c’è la maniera di interpretare alcuni concetti che nel Codice sono, per così dire, “aperti” e a cui può essere attribuito un contenuto adat- tato a delle situazioni sociogiuridiche differenti. Un esempio che vie- ne fatto riguarda la nozione di matrimonio come «comunità di tutta la vita ordinata al bene dei coniugi» (1055 § 1). L’interpretazione di questa nozione ha la sua influenza nella interpretazione in campo giudiziario del can. 1095 che concerne le incapacità a dare un con- senso matrimoniale valido 21. La nozione di «consortium totius vitae» è in qualche modo legata nell’ordine esistenziale ai contesti sociocul- turali, differenti nel tempo e nei vari luoghi 22. Ciò non è senza conse- guenze in situazioni, come per esempio in Africa, in cui la concezio- ne della famiglia e del matrimonio impone delle regole culturali as- sai differenti da quelle occidentali. In questo caso il compito del giudice è ricercare nell’ordine esistenziale gli elementi essenziali in assenza dei quali, in un determinato contesto culturale, non si può parlare di dono e accoglienza reciproci da parte dei coniugi, che sia- no giuridicamente validi per il diritto della Chiesa. Emblematiche a questo proposito sono alcune recenti sentenze della Rota Romana che hanno operato una lettura inculturata di alcu- ne situazioni matrimoniali in Africa, dove, per esempio, la sterilità della donna è stata ammessa nella fattispecie dell’«error in qualita- te», invalidante un determinato matrimonio, vista la considerazione della fecondità nella cultura africana. Senza pervenire a una nullità fondata direttamente sulla sterilità, ciò che sarebbe stato contro le disposizioni del Codice, si è tenuto conto del contesto socio-culturale in cui il matrimonio è stato contratto 23. Certamente non è di oggi il problema che ha la Chiesa di trova- re modi di adattamento del proprio sistema di norme e di leggi nei paesi di missione. Un esempio è rappresentato dalle facoltà missio- narie attraverso cui ha tentato di adattarsi alle condizioni peculiari nelle terre di Africa, Asia, Americhe.

21 Cf PH. ANTOINE, Le Code de droit canonique, cit., p. 191. 22 Cf una coram SERRANO RUIZ, 16 dicembre 1983, cit. in PH. ANTOINE, Le Code de droit canonique, cit., p. 192. 23 Cf una coram GIANNECCHINI, 4 marzo 1994, in «Il Diritto ecclesiastico» 106 (1995/II) 3-11. Tale sen- tenza si rifà ad altre precedenti: coram STANKIEWICZ, 24 febbraio 1983 e 28 aprile 1988. Diritto canonico e culture 443

Rimane tuttavia opinione di molti che la rigidità del diritto cano- nico rappresenti un ostacolo all’opera di inculturazione della Chiesa in queste terre. L’accusa di fondo è che il diritto canonico è incapace di adattarsi a modelli di pensiero, a concetti e immagini basati sui valori, sulla visione del mondo, sulla filosofia di popolazioni il cui re- taggio culturale e le condizioni sociali sono diversi dalla cultura eu- ropea, greco-romana, che storicamente ha avuto un ruolo sostanzia- le nel formare il diritto ecclesiale. Un luogo di contestazione divenuto comune è rappresentato proprio dal consenso matrimoniale come esigito dal Codice di diritto canonico. È noto come la dicotomia tra matrimonio cristiano e matri- monio consuetudinario in Africa sia una questione d’ordine culturale che pone problemi gravi sia sul piano teologico che su quello pasto- rale. Il diritto canonico sul consenso matrimoniale – si contesta – è stato influenzato dalla descrizione che il diritto romano dà del matri- monio come un contratto e dalla conseguente applicazione al matri- monio dell’analisi del consenso contrattuale. Di conseguenza i casi di dichiarazione di nullità del matrimonio giudicati sulla base della mancanza di consenso o di consenso difettoso terrebbero conto uni- camente di una comprensione occidentale del consenso matrimonia - le 24. I problemi sono certamente più complessi. Tuttavia non è ille- gittimo domandarsi se la forma canonica come prevista dal can. 1108 non possa essere rimessa in discussione, non in quanto necessaria per la validità del matrimonio, ma in quanto forma determinata in maniera uniforme per tutta la Chiesa di rito latino. Il matrimonio è solo uno degli aspetti più emergenti a reclama- re la necessità di una maggiore apertura del diritto ecclesiale nei confronti della cultura africana; in verità il problema si pone in termi- ni molto più vasti che concernono la vita sacramentale e pastorale, le strutture di governo e i ministeri ecclesiali, la maniera di vivere le esigenze della vita consacrata o di amministrare le finanze. Non so- no pochi coloro che avanzano la richiesta di un codice canonico afri- cano, come è stato concesso per le Chiese orientali. Non si può certamente domandare a un canonista di inventare un diritto africano. Il diritto nasce dalla fede vissuta da una collettività, dalle sue difficoltà, dai suoi conflitti, dalla preoccupazione di protegge- re le sue verità fondamentali e il suo agire quotidiano. Occorre che le stesse Chiese particolari che reclamano un diritto più rispondente alla

24 Cf R. MWAUNGULU, Inculturazione del diritto romano in Africa, in «Concilium» 32/5 (1996) 123. 444 Silvia Recchi cultura dei popoli africani facciano lo sforzo di creare una organizza- zione giuridica che risponda al loro genio e ai loro bisogni, senza con- tentarsi di ricalcare le orme delle strutture giuridiche delle vecchie Chiese che le hanno evangelizzate. Ma quante di esse hanno già fatto il lavoro che consiste nel completare il nuovo Codice con delle norme particolari? 25 Rimane infine il fatto che creare delle strutture nuove che esprimano una più precisa identità culturale esige, oltre una realtà matura di evangelizzazione, anche una grande capacità di padroneg- giare i meccanismi delle strutture che si vogliono rimpiazzare.

Limiti per una inculturazione del diritto Garantire la cattolicità della Chiesa, preservandone le legittime diversità: questo è il problema dell’inculturazione del diritto canonico. L’unità della fede – si è detto – non implica necessariamente l’unifor - mità dei metodi e della disciplina. Il diritto ecclesiale ingloba del resto un principio di inculturazione nella sua vocazione stessa, cioè nel rife- rimento alla salus animarum come legge suprema della Chiesa. In questo senso esso presenta una elasticità sconosciuta nel diritto civile. L’unità del popolo di Dio deve essere salvaguardata, essa inol- tre non può essere realizzata che in una pluralità di espressioni. Questa pluralità a sua volta deve essere tutelata dalle Chiese partico- lari che hanno il compito di assumere nell’ambito della salvezza tutte le molteplici espressioni socioculturali più autentiche. In questo incontro tra diritto ecclesiale e le culture, occorre te- ner presente alcuni principi che provengono della stessa natura del diritto ecclesiale. Come Parola e Sacramento appartengono in modo uguale alla Chiesa universale e a quella particolare, ugualmente le norme che esprimono il diritto divino positivo non possono essere considerate norme specifiche della Chiesa universale né di quella particolare, ma norme comuni a queste due dimensioni della realtà ecclesiale. A queste norme di diritto divino positivo, alcuni autori ag- giungono anche una serie di norme disciplinari che di fatto nel corso della storia della Chiesa sono diventate patrimonio comune e le fan- no considerare come appartenenti ormai al munus regendi ordinario e comune della Chiesa di Cristo. Tale corpus legislativo comune de-

25 Cf N. MASENGO, L’ordre juridique particulier des Églises africaines selon le droit canonique. Applica- tion du principe de subsidiarité et de décentralisation, in AA.VV., Quelle Église pour l’Afrique du troisième millenaire?, (Semaines Théologiques de Kinshasa), Kinshasa 1991, pp. 247-254. Diritto canonico e culture 445 ve essere tenuto presente nelle varie esigenze di inculturazione an- che se in quanto diritto umano esso è pur sempre riformabile 26. I limiti dell’inculturazione del diritto canonico provengono so- stanzialmente dal suo legame con la teologia, dal fatto che la legge ca- nonica non è da considerare una ordinatio rationis, ma una ordinatio fidei che quindi esige una razionalità non puramente filosofico-giuridi- ca, bensì teologica. Non si possono canonizzare tutti i costumi e tutte le tradizioni, ma solo quelli compatibili con il messaggio evangelico. Occorre sempre un reale confronto tra fondamento teologico dei ca- noni e semplice determinazione di sociologia ecclesiale. Ciò significa che qualunque sia il nostro legittimo desiderio di inculturazione del diritto canonico affinché esso sia in armonia con l’ordine sociale del contesto storico, il canonista si troverà sempre di fronte a delle im- possibilità che non sono puramente di ordine giuridico, ma che han- no la loro giustificazione nella fede e nella esigenza della comunione ecclesiale, le quali domandano uno sforzo continuo di conversione in un terreno dove tutte le culture sono chiamate a morire e a risorgere. Ma proprio in questo senso il legislatore universale dovrà lavo- rare molto per rendere sempre più trasparente la scienza canonica come scienza sacra che ha il suo fondamento nel Cristo, Verbo incar- nato. La scienza canonica ha dunque, come diceva Paolo VI, valore di segno e strumento di salvezza e proprio per questo occorre che esprima la vita dello Spirito, che produca i frutti dello Spirito, che ri- veli l’immagine di Cristo 27. Il lavoro non è poco se si considera che sostanzialmente solo i tre libri centrali dell’attuale Codice (II, III e IV) hanno un impianto intrinseco più chiaramente teologico, mentre gli altri sono rimasti ancora molto legati alla tradizione romanistica. SILVIA RECCHI Institut Catholique B.P. 11628 Yaoundé - Cameroun

26 Cf E. CORECCO, Ius universale - ius particolare, cit., pp. 565-566. L’Autore aggiunge: «Il compito del di- ritto umano universale e quello particolare è perciò quello di garantire, di volta in volta, nel corso della storia, sia l’unità che la pluralità dell’unica Chiesa di Cristo realizzando nel modo umanamente migliore il principio ecclesiologico dell’in quibus e dell’ex quibus. Ciò esige da una parte che il diritto canonico universale umano-positivo deve poter essere applicabile nelle singole Chiese particolari senza forzature, evitando di confondere l’unità con l’uniformità; dall’altro che il diritto canonico particolare u mano, per uno scorretto processo di inculturazione, non deve risultare eterogeneo al diritto delle altre Chiese par- ticolari. Qui emerge il problema della natura della legge canonica e del metodo della legge canonistica. La semplice “rationabilitas” della legge canonica e il metodo giuridico in quanto tale, non sono in grado di garantire la corrispondenza dell’ordinamento canonico con il mistero della Chiesa» (ibid., p. 567). 27 Cf AAS 65 (1973) 98.