I LIBRI DEL 2006

Cristina Accornero, La salute come democrazia partecipata. La Cassa Mutua dell’Azienda Elettrica Municipale di Torino 1921-1978, Torino, Celid, 197 pp., Û 16,00

Attraverso fonti documentarie, statuti, contratti di lavoro, analisi di contemporanei e in- terviste ai protagonisti, l’autrice, ricercatrice impegnata sul terreno delle scienze sociali, rico- struisce le vicende di una istituzione, piemontese per collocazione territoriale ma di dimen- sioni sperimentali tali da farne un laboratorio di esperienze e di progettualità di scala nazio- nale, quale è stata, tra il 1921 e il 1978, la Cassa Mutua dell’Azienda Elettrica Municipale (AEM) di Torino. La salute dei lavoratori, un compito ereditato dalle ottocentesche società di mutuo soccorso che se lo erano assunte di fronte alla scarsa efficienza dello Stato in campo di malattie sociali, infortuni sul lavoro, invalidità temporanee o permanenti, fu centrale nell’im- pegno della Cassa Mutua. In questa, come in altre iniziative non dissimili, si registrano le pri- me esperienze di welfare che si qualificano da principio come identità aziendali, fortemente improntate al valore della solidarietà, per divenire identità nazionale con le progressive tra- sformazioni del sistema pubblico della protezione sociale. La storia della Cassa Mutua si svolge temporalmente dall’accordo, detto «Lodo Labrio- la», del settembre 1920, che prevedeva, tra le altre cose, l’istituzione di una cassa di soccorso (in questa parola risulta evidente e diretto il legame con l’assistenzialismo mutualistico), al 1978, data di introduzione del Sistema sanitario nazionale, che pone fine a questi percorsi a carattere territoriale. Tra i due estremi si colloca il ventennio fascista durante il quale questa istituzione, pur ridimensionata rispetto alla sua originaria fisionomia e maggiormente squili- brata sul versante del paternalismo aziendale, sopravvive e riesce a mantenere una precisa rap- presentanza operaia negli organi di gestione. Puntigliosamente l’autrice descrive e analizza le diverse forme d’intervento realizzate dall’istituto: pagamenti di indennità, visite mediche gratuite, sostegni finanziari per spese farmaceutiche, colonie estive per i figli dei dipendenti. Nell’Italia repubblicana, poi, emer- ge la dimensione dell’iniziativa sperimentale messa in atto dalla Cassa Mutua torinese che diviene una sorta di laboratorio non solo di pratiche ma anche, e soprattutto, di concetti quali prevenzione e nocività. Nel 1964, in una stagione in cui cresce la sensibilità politica attorno ai temi della salute, la Cassa torinese dà vita al Centro di medicina preventiva che rivolge l’attenzione al soggetto sano chiamato a farsi personalmente carico della propria sa- lute: una medicina preventiva «partecipata» sostenuta da un progressivo elevamento della coscienza sanitaria dei mutuati: una bella eredità per il nascente Sistema sanitario naziona- le, che viene, come Accornero scrive, a chiudere una storia in cui non può non riconoscere le proprie radici. Fiorenza Tarozzi

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Carmelo Adagio, Alfonso Botti, Storia della Spagna democratica. Da Franco a Zapatero, Milano, Bruno Mondadori, XI-192 pp., Û 18,00

Il merito di questo libro scritto da Carmelo Adagio ed Alfonso Botti è quello di essere riuscito a delineare al meglio il processo di democratizzazione avvenuto in Spagna a seguito della morte di Franco, utilizzando uno stile espositivo ed un’organizzazione delle fonti quan- to mai chiari e puntuali, che facilitano la comprensione della complessa traiettoria politica spagnola negli ultimi trent’anni. La ricostruzione di tale percorso ha tenuto conto di diversi aspetti: sia di quelli strettamente politici, sociali ed economici, sia di quanto attinente alle po- litiche culturali ed urbanistiche approntate dai nuovi governi democratici, poiché «la storia della Spagna democratica è anche la storia della trasformazione del paesaggio, delle città e del volto del paese» (p. XI). L’analisi proposta non tralascia inoltre di delineare i profili biografi- ci dei principali protagonisti di questo processo di acquisizione della democrazia, che seppur solo brevemente accennati, permettono al lettore d’inquadrare con precisione l’importanza di alcuni interpreti della storia spagnola di questo periodo. Il libro si articola in sei capitoli, nei quali s’intrecciano l’andamento cronologico e quello tematico e dove è possibile rilevare una riflessione importante ed equilibrata dei processi che dall’ultimo franchismo, passando per la Transizione avviata dai governi centristi di Adolfo Suá- rez ed il consolidamento della democrazia negli anni Ottanta, giungono ad analizzare l’impul- so di modernizzazione segnato dal socialismo di Felipe González, la sua ascesa ed il suo decli- no. Gli ultimi due capitoli sono dedicati invece all’analisi del periodo contrassegnato dal go- verno di José María Aznar ed a quello attualmente caratterizzato da José Luis Rodríguez Zapa- tero, per i quali la riflessione storiografica si trova spesso a dover fare i conti con alcune diffi- coltà determinate dalla mancanza di un necessario «lasso di tempo, di un diaframma, rispetto al presente» (p. IX). Per sopperire a tale ostacolo, nel testo, gli ultimi dieci anni della storia spa- gnola sono analizzati prevalentemente attraverso la presentazione di dati socioeconomici, rile- vazioni sull’opinione, inchieste e cronache giornalistiche che ben sottolineano il differente ap- proccio socio-politico dei due primi ministri sia in politica interna, sia per quanto riguarda la gestione degli affari esteri. Nel libro sono analizzati con attenzione, inoltre, alcuni dei princi- pali nodi tematici della storia di Spagna, come il difficile processo legato al consolidamento del- l’identità nazionale, diviso tra terrorismo e concertazione politica, ed i rapporti con il mondo ecclesiastico, da sempre fedele alleato della crociata franchista e del regime, ora necessariamen- te chiamato a ridiscutere il suo ruolo all’interno della società. Concludendo, il volume traccia in maniera obiettiva ed estremamente agile il difficile cammino della Spagna verso la democra- zia, rappresentando il primo contributo italiano alla comprensione di quest’ultimo tratto del- la storia del paese iberico dal quale «negli ultimi due secoli sono venute anticipazioni impor- tanti e fughe in avanti, a volte pagate a caro prezzo» (p. 167). Eleonora Zuliani

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Chiara Agostinelli, «Per me sola». Biografia intellettuale e scrittura privata di Costanza Monti Perticari, Roma, Carocci, 321 pp., Û 22,00

A Costanza Monti Perticari sono state dedicate nel ’900 due biografie, a firma di Maria Ro- mano (1903) e di Maria Freschi Borgese (1940). Entrambe muovevano, come il romanzo Diletta Costanza di Fausta Garavini (1996), dall’intenzione di «riabilitare» la protagonista dalle varie ac- cuse che l’avevano colpita. Alla figlia del sommo poeta Monti, che ventenne nel 1812 era andata in sposa al conte marchigiano Giulio Perticari, si erano rimproverati, tra l’altro, la pessima condot- ta di moglie e il rifiuto della maternità. Per altri versi, Costanza fu un esempio di modestia: studiò molto, acquisì notevoli competenze letterarie, ma considerò la scrittura un’attività privata. La col- tivò «per sé sola», pubblicando pochi versi e concentrandosi piuttosto sulle corrispondenze e gli ap- punti autobiografici. È proprio scavando nella messe di carte inedite (soprattutto quelle conserva- te a Forlì e a Pesaro), che l’autrice cerca una nuova chiave di lettura di questa personalità inquieta. Il libro – nato da una tesi di dottorato in Storia delle scritture femminili – è diviso in due parti. La prima, dedicata ad analizzare il Rapporto con il mondo attraverso la letteratura, inda- ga sui rapporti di Costanza col padre (che la volle ben istruita, la inserì nella cerchia degli ami- ci illustri, si preoccupò di concludere una conveniente trattativa matrimoniale) e con la ma- dre Teresa Pikler, il cui temperamento pragmatico fu all’origine di un dissidio che non trovò riparazione neanche quando Costanza ne assistette amorevolmente l’agonia. I rapporti con Perticari cambiarono nel tempo: l’unione sembrò dar vita a un mirabile sodalizio intellettua- le prima che l’apparizione di un figlio naturale del conte, la morte del loro bambino e il dete- rioramento delle relazioni di lei col notabilato pesarese oscurassero gli ultimi anni. Costanza tornò a Milano dopo essere rimasta vedova, e qui si barcamenò in precarie condizioni econo- miche finché non morì per un cancro al seno nel 1840. Nella seconda parte (La costruzione di sé attraverso la scrittura) Agostinelli mostra con gli stru- menti dell’analisi testuale come nella maturità Costanza intraprese consapevolmente un itinera- rio di perfezionamento – ispirato allo stoicismo antico ma anche al personalissimo culto maria- no – per legittimarsi con se stessa e presso i corrispondenti. In quelle carte risuona il disagio di una soggettività imprigionata tra l’antico e il nuovo, che soffriva per non aver soddisfatto le aspet- tative della società e che aveva accettato – pur intuendo la possibilità di un’alternativa – i valori del riserbo, della rinuncia all’autonomia e alla «gloria» prescritti alle donne di famiglia (per quan- to fossero già diverse le scrittrici che conciliavano doveri privati e attività intellettuale pubblica). La ricostruzione biografica e l’analisi delle scritture procedono per lunghi tratti su binari autonomi, dando a volte l’impressione di una eccessiva separazione tra la vita e le opere della protagonista. Dal presente volume potrebbe, operata una più sistematica fusione tra i diversi approcci, nascere un utilissimo lavoro a tutto tondo su una voce femminile sospesa tra invo- lontaria ribellione ed eroica rassegnazione. Maria Pia Casalena

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Giulia Albanese, La Marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, X-293 pp., Û 18,00 Negli ultimi anni, dopo le ricerche sulla «fabbrica del consenso» che hanno costituito la sfera più innovativa degli studi sul fascismo, diversi autori hanno sentito la necessità di torna- re a fare un’analisi più ravvicinata dei meccanismi di sorveglianza, di repressione e di violen- za. In effetti, la storiografia non dovrebbe privilegiare la «forza» o il «consenso», ma piuttosto analizzare la loro simbiosi. La marcia su Roma è un episodio centrale sia della storia politica sia della costruzione dell’immaginario del fascismo. Albanese giustamente lo inquadra all’in- terno del tema più generale della violenza politica.. La tesi centrale, molto ben fondata, è che «la formula “Marcia su Roma” ha oscurato sia la marcia vera e propria degli squadristi e l’entrata nella capitale, che le tante occupazioni di piccole e grandi città, e soprattutto di prefetture, uffici postali e stazioni in ogni angolo del paese», che «hanno determinato una geografia e un impatto della marcia stessa molto diversi da quelli che siamo abituati a immaginare» (pp. IX-X). L’autrice invalida, cioè, l’immagine an- cora comunemente accettata di una «marcia-farsa», mostrando la vastità dell’azione periferi- ca che era concepita come parte integrante della minacciosa pressione sul governo. Dimostra che l’incomprensione della marcia falsa la prospettiva da cui si guarda sia al movimento fasci- sta sia agli inizi del regime, e per valutare le sue conseguenze lo studio si estende fino al 1924. Lo studio sottolinea la continuità dei disegni eversivi della destra nazionalista dall’epoca di Fiume fino alla marcia su Roma. I caratteri originali della strategia fascista, che la distin- guevano dal classico «colpo di stato», erano il primato di un movimento politico per cui l’a- zione paramilitare era essenziale (n.b. il «partito-milizia» di E. Gentile), la conquista del po- tere locale e la strategia del «doppio binario» che combinava la preparazione di una forza in- surrezionale con l’azione parlamentare. Il favore di una parte consistente delle forze «costitu- zionali» e della stampa contribuiva molto a rendere accettabile questa ambiguità. Albanese di- mostra con particolare efficacia l’inadeguatezza delle interpretazioni contemporanee della marcia (riprese poi dalla storiografia) che insistevano sulla continuità delle forme costituzio- nali, mentre in realtà si era determinata una rottura profonda. La marcia su Roma in senso stretto, cioè l’arrivo dei fascisti nella capitale, non era una «conquista», ma nondimeno rap- presentava una coreografia politica molto efficace. Giustamente, l’autrice sottolinea come le giornate della vittoria non furono caratterizzate solo dalla celebrazione rituale ma anche dal- la violenza esercitata contro gli oppositori e la stampa libera. Il volume rappresenta una svolta importante negli studi sulla marcia. È un libro breve, ed è inevitabile che certi problemi – che l’autrice non ignora – avrebbero richiesto ulteriori ap- profondimenti. Tra questi, quello molto complesso dei rapporti tra fascismo e esercito, e quel- lo dell’atteggiamento della polizia e di altri corpi dello Stato. I rapporti tra Mussolini e gli altri capi del fascismo sono un po’ trascurati, forse perché già ampiamente studiati, ma con il rischio di lasciare in ombra un aspetto essenziale della preparazione e delle conseguenze della marcia. Adrian Lyttelton

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Gianluca Albergoni, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato. Vivere e scrivere a Mi- lano nella prima metà dell’Ottocento, Milano, FrancoAngeli, 473 pp., Û 35,00

Il volume viene fuori da una tesi di dottorato e insiste su un terreno che fu già di Marino Be- rengo con il suo Intellettuali e librai. Di quel libro, I mestieri si incaricano di integrare e corregge- re la prospettiva. La Milano post-napoleonica resta, nonostante la grande vivacità intellettuale de- gli anni immediatamente precedenti, un luogo dove il letterato fatica a diventare professionista, e i legami della sua tradizionale dipendenza si rinsaldano, sullo sfondo della crisi del mecenati- smo, nelle forme di una rinnovata fedeltà alle istituzioni, laiche o ecclesiastiche che siano. Di fronte ad un libro come questo non si sa se essere più indulgenti o più esigenti. Troppe discussioni metodologiche, infinite e inconcludenti, tengono il lettore perennemente sulla soglia di un lavoro che sta per cominciare e non comincia mai. Che allude senza mai entrare nel meri- to delle questioni. Abbiamo letto con simpatia, appena all’inizio del libro, il cenno alla fatica del- la tesi scritta in francese e poi tradotta in italiano, abbiamo immaginato quel doppio lavoro men- tale di chi pensa in una lingua e poi deve scrivere in un’altra, ma perché infliggere al lettore, pure così partecipe, la pena di quasi cinquecento pagine di un insopportabile gergo «scientifico» che per essere stato pensato (e scritto) en sociologue (et en français) non risulta meno indigesto? Per spiegare i rapporti tra Domenico Cervelli, uno dei pochissimi casi (tre in tutto) cui Albergoni dedica la terza ed ultima parte della sua ponderosa ricerca, e il lessicografo France- sco Cherubini, l’autore di un Vocabolario milanese-italiano che tanto piacque a Manzoni, ma soprattutto funzionario governativo e direttore generale delle scuole elementari lombarde, il nostro dispiega tutta la sua passione teoretica e quella che era una relazione sospesa tra condi- visione di interessi letterari e clientela, diventa «una struttura di sostegno, egualmente utiliz- zabile nei due ambiti – letterario e professionale» che si scompone «nell’insieme di relazioni che il lessicografo milanese era in grado di garantire al professore toscano, soprattutto con i letterati più vicini al polo istituzionale» (p. 332). Al centro del lavoro di Berengo c’erano i destini personali di una generazione intellettua- le mobilitata dalla rivoluzione e dall’entusiasmo napoleonico, la loro evoluzione negli anni della Restaurazione. Soprattutto c’era un problema, che non era tanto quello del mercato del libro, ma della nascita della cultura liberale. Di che parla Albergoni? Le generazioni del suo li- bro sono un mero criterio aritmetico di classificazione degli «attori» sociali, indicatori alfanu- merici che servono a distribuire in maniera più efficace il materiale documentario. Tralascian- do l’insussistenza delle partizioni cronologiche fissate dall’autore, quello che colpisce è l’indif- ferenza nei confronti del molteplice storico che questa ansia di sistema produce. Gli esiti sono di una genericità tale da smarrire proprio quello che, a stare alle intenzioni del nostro autore, è l’obiettivo del suo lavoro di ricerca: la storicità delle categorie sulla base delle quali si pensa il mondo sociale. Adolfo Scotto di Luzio

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Sabina Anderini, L’Istria e la minoranza italiana nella crisi jugoslava (1974-1994), Civita- vecchia, Prospettivaeditrice, 168 pp., Û 12,00

Se appare in crescita esponenziale l’interesse accordato in questi ultimi anni dalla storio- grafia italiana (e dalla politica!) all’esodo dei giuliano-dalmati dall’Istria e dalla Dalmazia, svol- tosi a «tappe» (Pupo) tra il 1945 e il 1956, altrettanto non può dirsi della comunità italiana che invece «optò» per restare nei territori passati alla Jugoslavia, oggidì sloveni e croati. Questo si- lenzio risulta tanto più rumoroso di fronte ai pregevoli contributi della storiografia, anche con l’ausilio di competenze antropologiche, in Slovenia e in Croazia (Centro di ricerche scientifi- che, Università di Capodistria; Centro di ricerche scientifiche, Rovigno) su questa minoranza nazionale, particolarmente esposta alla pressione assimilatrice (79.575 unità nel 1948; 35.874 nel 1953; 25.615 nel 1961; 21.791 nel 1971, 15.132 nel 1981 e 24.367 nel 1991). Protagonisti del volume di Anderini sono appunto «i rimasti», le cui sorti vengono segui- te nel periodo della crisi jugoslava, iniziata con l’introduzione della Costituzione del 1974, at- to formale che instradò la Jugoslavia verso un percorso di democratizzazione che, stando al- l’autrice, ebbe effetti devastanti sulla minoranza italiana. Forse un po’ discutibile, a nostro av- viso, la scelta di farlo esclusivamente attraverso «La Voce del Popolo», il quotidiano della mi- noranza stampato a Fiume che rappresenta il mezzo di collegamento culturale e ideale di tut- ta la componente italiana in Jugoslavia, ignorando le fonti prodotte dal regime jugoslavo sul- la questione delle minoranze (gli archivi ex jugoslavi sono ormai accessibili) e che probabil- mente potrebbero mettere in luce risvolti diversi. Anche se da una prospettiva di parte, che sembra non lasciar spazio ad altre interpretazioni, e con un linguaggio che rischia di ricalcare in alcuni passaggi quello marcatamente politico della fonte, i quattro capitoli (e l’appendice documentaria) contribuiscono indubbiamente ad illuminare gli attori politici e istituzionali che hanno animato la componente etnica italiana in Istria fino al 1994. Si parte dai bui anni ’70 e dal riemergere della componente italiana alla fine degli anni ’80 dove furono soggetti at- tivi l’Unione degli Italiani dell’Istria e Fiume e il Gruppo 88 (cap. 1); si prosegue con la na- scita del progetto regionalistico che prese forma in Istria sulla scia dello sfaldamento dei rap- porti inter-republicani e che caricò la problematica minoritaria di una nuova dimensione mi- rante a recuperare il carattere plurietnico e plurilingue della regione istriana, su cui la Dieta Democratica Istriana avrebbe innestato le proprie richieste politiche (cap. 2). Il richiamo ad un’identità istriana di tipo regionale (inserimento dell’euroregione Istria nell’ambito della ma- cro-euroregione Alpe Adria) fu una risorsa di sopravvivenza per la minoranza soprattutto do- po la disgregazione dello Stato jugoslavo e la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croa- zia, che di fatto divise nel 1991 la comunità italiana tra due entità statali (cap. 3). La guerra nell’ex Jugoslavia ha avuto tuttavia l’effetto di risvegliare l’interesse dell’opinione pubblica ita- liana nei confronti della minoranza d’oltreconfine, dimenticata fino a quel momento (cap. 4). Monica Rebeschini

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Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, Eppure il vento soffia ancora. Capitale e movimen- ti dei lavoratori in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Jaca Book, 350 pp., Û 22,00

Ho nutrito molti dubbi sull’opportunità di recensire questo volume, ma non senza qual- che esitazione, ho infine ritenuto giusto presentarlo ai lettori de «Il mestiere di storico». Le mie perplessità derivavano dal fatto che il saggio di Donato Antoniello (autore di alcuni sag- gi sul movimento operaio) e Luciano Vasapollo (professore all’Università «La Sapienza» di Ro- ma e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río a Cuba) rappresenta un tangibile esempio di ricostruzione storica parziale, dichiaratamente militante. Ciò fa sì che l’a- nalisi delle vicende del movimento operaio italiano risulti, in più momenti, appannata dall’e- vidente ideologismo che impregna l’intero libro. Tuttavia, Eppure il vento soffia ancora ha il merito di discostarsi dalle tante pubblicazioni mes- se in moto dalle celebrazioni del centenario della CGIL, spesso di modesto impianto scientifico e quasi stucchevoli nella scontata benevolenza verso la principale organizzazione sindacale italiana. Un secondo merito è quello di dedicare ampio spazio all’analisi delle relazioni industria- li nel periodo compreso fra la nascita del sindacalismo di base (ultimo scorcio degli anni ’70) e l’approvazione della cosiddetta «legge Biagi-Maroni» (n. 30 del 14 febbraio 2003). Queste pagine sono dense di interessanti riflessioni sulla precarizzazione del lavoro e le sue conseguen- ze, sul diritto dei lavoratori ad avere un «lavoro decente», sui molti paradossi creati dalla pro- gressiva integrazione dell’economia mondiale. Con il loro libro, Antoniello e Vasapollo ricor- dano alla comunità scientifica – spesso restia a misurarsi su tali argomenti, considerati trop- po calati nell’attualità per poter essere indagati con seria oggettività – che non ci si può esi- mere dal confrontarsi con problemi di così ampia portata. L’analisi diventa debole, però, quando gli autori si cimentano con la disamina delle vicen- de propriamente sindacali che riducono ad una sorta di dualismo fra il modello concertativo di CGIL-CISL-UIL – descritto come affarista, istituzionale e corrotto (p. 234) – e quello in- dipendente delle Rappresentanze sindacali di base (RdB), qui presentate come la sola arma a disposizione dei lavoratori per rispondere alla «mondializzazione neoliberista». È, francamen- te, un’interpretazione assai romantica del sindacalismo di base che non tiene conto di un ele- mento molto importante: la natura estremamente corporativa di queste organizzazioni (soprat- tutto nei settori dei trasporti e del pubblico impiego), le cui piattaforme rivendicative sono affollate di richieste volte ad ottenere o conservare privilegi spacciati per diritti inalienabili. È assai difficile – almeno per l’estensore di queste poche righe – poter concordare con gli autori sul fatto che l’emancipazione del movimento di classe, il superamento del capitalismo e la costruzione del socialismo (ammesso che tali locuzioni abbiano ancora un senso) possa- no inverarsi, ad esempio, attraverso le richieste corporative dei macchinisti o di alcune cate- gorie del pubblico impiego. Federico Paolini

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Maurizio Antonioli, Jorge Torre Santos, Riformisti e rivoluzionari. La Camera del lavoro di Milano dalle origini alla Grande guerra, Milano, FrancoAngeli, 298 pp., Û 23,00

È nelle sale della Camera del lavoro di via Crocifisso, a Milano, che la Confederazione generale del lavoro vedeva la luce nell’autunno del 1906: sembra dunque appropriato che que- sto studio sui primi anni dell’organizzazione sindacale milanese esca proprio durante le cele- brazioni per il centenario della CGIL (non sappiamo peraltro se la coincidenza sia voluta, per- ché la pubblicazione manca di una nota introduttiva, né alcuna notizia viene data al lettore circa il progetto complessivo – cinque volumi, di cui questo è il primo – della Storia della Ca- mera del lavoro di Milano curata da Ivano Granata e Roberto Romano). Gli eventi milanesi, d’altra parte, hanno spesso scandito la vicenda del movimento operaio nazionale: il capoluo- go lombardo fu la prima città italiana a progettare, fin dal 1888, una rappresentanza unitaria dei lavoratori salariati, sul modello delle Bourses du travail francesi; nel settembre 1891 nasce- va così la Camera del lavoro che però, al momento di aprire i battenti, non poteva fregiarsi del titolo di prima in Italia, perché anticipata sul filo di lana da quella di Piacenza; Milano ri- maneva comunque il modello indiscusso per tutte le altre Camere, sorte per la penisola negli anni successivi. E ancora: milanesi furono le cannonate con cui Bava Beccaris annunciava l’on- data repressiva che a fine secolo avrebbe travolto i sodalizi operai, milanese nel 1904 la regia del primo sciopero generale nazionale, milanese il già citato congresso fondativo della CGdL. A cui, peraltro, sono qui dedicate solo poche righe: quanto basta comunque per ricordarci che questa non è storia locale come le altre. Studiosi del movimento sindacale, i due autori (rispettivamente docente e assegnista di Storia contemporanea alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano) scelgono per la loro ricostruzione un taglio classico: le vicende istituzionali, gli aspetti tecni- co-organizzativi, il ruolo delle principali categorie operaie, la cronaca delle vertenze più signi- ficative sono approfonditi con frequente ricorso a citazioni dalla stampa dell’epoca e dagli ar- chivi sindacali. L’attenzione è, in particolare, concentrata sul dibattito politico-teorico e sui contrasti interni all’organizzazione, dalle divisioni ottocentesche tra anarchici, socialisti e ope- raisti fino alla grande polemica tra le due tendenze socialiste d’età giolittiana, che dà il titolo al volume. In ombra rimane semmai, in queste pagine, il ruolo sociale, culturale e simbolico che – al di là delle semplici funzioni sindacali o del confronto con le dirigenze politiche – le Camere del lavoro giocarono nell’Italia urbana di inizio Novecento come luoghi fondamen- tali della sociabilità operaia e della costruzione di identità collettive, insomma porta d’acces- so alla vita pubblica per le classi popolari. Ma è, forse, proprio l’ampia bibliografia già esisten- te sul caso milanese a permettere agli autori di scegliere liberamente la propria prospettiva, senza quell’esigenza enciclopedica che assilla i «biografi» di cento altre Camere del lavoro ita- liane, meno centrali e meno studiate. Giovanni Sbordone

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Barbara Armani, Il confine invisibile. L’élite ebraica di Firenze 1840-1914, Milano, Fran- coAngeli, 354 pp., Û 28,00

Lo studio di Armani su di una componente importante dell’ebraismo fiorentino ottocen- tesco è il risultato di una lunga e complessa ricerca documentaria e di una paziente e ampia ana- lisi storiografica, nel corso della quale l’autrice si interroga da più prospettive in merito al peso delle pratiche economiche e sociali sull’identità del nucleo comunitario ebraico fiorentino. Fra i molti obiettivi dichiarati nell’articolata introduzione, vi è infatti quello di verificare su di un campo così cruciale come quello delle strategie economiche, delle reti di relazioni e dei legami familiari le conseguenze delle trasformazioni dell’identità collettiva ebraica avviate dal processo di emancipazione, facendone emergere gli elementi di innovazione rispetto al passato, ma an- che le persistenze e le eredità rispetto al passato. Articolato in sette capitoli, il volume si incen- tra sulla ricostruzione dell’agire economico e sociale di un nutrito gruppo di famiglie ebraiche fiorentine, tutte appartenenti all’élite economica locale, anche se non tutte originarie di Firen- ze. Fin dal primo capitolo Armani introduce il lettore nell’indispensabile contesto locale, nazio- nale e internazionale entro il quale si mossero le famiglie di banchieri e commercianti indivi- duate fra la prima metà dell’800 e la vigilia della Grande guerra. Il primo capitolo è infatti de- dicato ad un’analisi approfondita del concetto stesso di identità ebraica, declinata sia come iden- tità di gruppo che come identità etnica, condotta sulla scorta del dibattito sociologico e antro- pologico con particolare attenzione al controverso nesso modernità-tradizione. Il secondo inve- ce è incentrato sulle tappe fondamentali dell’emancipazione ebraica europea fra ’700 e ’800, con una particolare attenzione ai differenti percorsi vissuti dall’ebraismo italiano. Gli altri capitoli affrontano il cuore del problema e analizzano progressivamente e la presenza economica degli ebrei in Italia e gli stereotipi sedimentati nel lungo periodo in merito al rapporto ebrei-denaro, per poi soffermarsi su di un gruppo di famiglie fiorentine, i cui percorsi economici, sociali, re- lazionali e matrimoniali vengono esaminati alla luce dei quesiti posti dall’autrice, in uno stimo- lante e serrato confronto con la storiografia più recente. Ne emerge un quadro estremamente articolato dell’élite ebraica fiorentina, caratterizzato da un rapporto non sempre lineare con la tradizione nonostante la salda endogamia e la consuetudine ad intessere reti di relazione ed eco- nomiche all’interno del gruppo, rimanendo ancorati a professioni tradizionali come il commer- cio e l’attività finanziaria. Nonostante Armani non abbia avuto la possibilità durante la sua lun- ga ricerca di consultare l’Archivio della Comunità ebraica di Firenze, l’apparato documentario usato è ricchissimo e il risultato convincente e solidamente suffragato dalle fonti. L’autrice ha scandagliato con pazienza una documentazione vasta, ma frammentata come sono tutte le fon- ti notarili, gli atti di successione, i tribunali, dimostrando ancora una volta – come altri storici di recente hanno fatto – che la storia dell’ebraismo italiano ottocentesco può essere condotta anche su fonti alternative rispetto a quelle prodotte dalle comunità. Tullia Catalan

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Marco Armiero (a cura di), Views from the South. Environmental Stories from the Mediter- ranean World (19th-20th Centuries), Napoli, Centro Studi per la Storia delle Società Rurali in Età Moderna e Contemporanea-CNR-ISSM, 237 pp., Û 25,00

Il libro – curato da Marco Armiero, ricercatore dell’Istituto di studi sulle Società del Medi- terraneo (ISSM-CNR) – raccoglie gli atti di un convegno, svoltosi a Napoli nel settembre 2003, il cui duplice scopo era quello di promuovere lo studio della storia ambientale nel bacino del Mediterraneo e di creare un network fra gli storici ambientali dei paesi dell’Europa del Sud. Nei quindici saggi che compongono il volume – sostanzialmente eterogenei fra loro, ma uniti dal comune intento di dimostrare la necessità di una storia ambientale analizzata, come si legge nella quarta di copertina, da una «prospettiva meridionale» – trovano spazio alcuni ar- gomenti che contraddistinguono il campo d’indagine proprio della storia ambientale: l’im- piego delle risorse (ben sette interventi sono dedicati, esclusivamente o in parte, alla gestione delle acque), il paesaggio (particolare attenzione è riservata alle montagne), l’energia, il rap- porto fra attitudini culturali e politiche ambientali (quest’ultimo assai poco frequentato dal- la storiografia italiana). Il senso di questo libro è ben esplicato dal saggio di Donald Worster – professore all’Uni- versità del Kansas (Lawrence) e autore di importanti volumi quali Nature’s economy: a history of ecological ideas (1977), Dust bowl: the southern plains in the 1930s (1982), Rivers of empire: water, aridity and the growth of the american west (1992) – intitolato significativamente Why we need environmental history. Worster individua quattro motivi per cui, a suo dire, la storia ambientale è una materia necessaria: perché può aiutarci a comprendere assai più profonda- mente le ragioni che hanno guidato la costante e progressiva crescita dei movimenti conserva- zionisti e ambientalisti; perché può favorire l’incontro fra l’ecologia e le altre scienze ambien- tali; perché può contribuire ad un’analisi maggiormente puntuale delle interazioni fra i siste- mi economici e i diversi ecosistemi terrestri; perché può migliorare la cognizione che abbiamo dei luoghi in cui viviamo e, conseguentemente, esserci d’aiuto ad individuare nuovi stili di vi- ta portatori di minori conseguenze per l’ambiente naturale. Allo stesso tempo, però, Worster è consapevole del fatto che la storia dell’ambiente attende, in larga parte, di essere scritta. Ormai dieci anni fa, in un intervento ad un convegno organizzato dalla Fondazione Feltri- nelli (Per una definizione di storia dell’ambiente, riportato in Storia ambientale, una nuova fron- tiera storiografia, Milano, 2001), Giorgio Nebbia indicava quattordici possibili «storie ambien- tali»: da quella dell’ecologia a quella dell’economia ecologica passando per quelle della conser- vazione della natura, delle associazioni ambientaliste, delle lotte operaie per la salute, delle tec- niche ecologiche, dei rapporti fra ambiente e governi. Molte di queste storie, in Italia come al- trove, continuano a non essere scritte. Ben vengano, quindi, volumi come questo che provano a colmare una lacuna non secondaria nella storiografia contemporanea. Federico Paolini

56 I LIBRI DEL 2006

Davide Artico, Terre riconquistate. De-germanizzazione e polonizzazione della Bassa Slesia dopo la II Guerra Mondiale, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 236 pp., Û 17,00

L’espulsione dei tedeschi e la polonizzazione dei territori ceduti dalla Germania alla Po- lonia alla fine della seconda guerra mondiale sono oggetto di un ampio dibattito storiogra- fico. Il pregio di questo libro è di concentrarsi sulla Bassa Slesia, la regione che, prima della seconda guerra mondiale, era abitata da una maggioranza di germanofoni (95 per cento) e da una piccola minoranza polonofona. L’autore descrive le espulsioni dei tedeschi, le istitu- zioni che le gestirono, le violenze e il nazionalismo a cui si richiamarono i comunisti per giu- stificare il ritorno «all’alveo materno delle antiche terre dei Piast». Un capitolo del libro è de- dicato al caso di Wa¬brzych, la cittadina alle pendici dei Sudeti nella quale le autorità locali riuscirono a impedire l’espulsione della maggior parte dei tedeschi, per lo più operai quali- ficati, dichiarandoli «popolazione polacca autoctona delle Terre Riconquistate». Sullo sfon- do della guerra civile tra lo Stato e i gruppi della resistenza anticomunista, Artico ricostrui- sce i conflitti e i meccanismi d’integrazione che si svilupparono tra i tedeschi e i nuovi arri- vati dalle regioni orientali polacche annesse all’URSS. Nella lunga introduzione, l’autore in- serisce l’esperienza della Bassa Slesia nel più ampio contesto delle pulizie etniche, evidenzia le specificità di questa regione e individua le cause storiche, politiche che portarono alla cac- ciata dei tedeschi. In questa parte del libro, il lettore cercherà invano un accenno alla secon- da guerra mondiale e all’occupazione nazista. Il comportamento dei nazisti in Polonia fu de- terminante nella decisione presa dalle potenze occidentali, e sostenuta dalle forze della resi- stenza, di espellere i tedeschi alla fine della guerra. Il terrore e le divisioni su base razziale pro- dussero un imbarbarimento generale della società e un sentimento di vendetta verso i tede- schi, di cui sono testimonianza le memorie del tempo, sia tedesche sia polacche. I tedeschi che vivevano in prossimità dei fiumi Odra e Neisse furono espulsi in massa perché la Polo- nia voleva assicurarsi il futuro confine occidentale e creare spazio per i rifugiati dall’Est pri- ma dello svolgimento della conferenza di Potsdam. Stalin costrinse la Polonia ad accettare la cessione delle regioni orientali e ad espandersi molto più a Occidente di quanto auspicasse- ro le forze politiche della resistenza. I cosiddetti «rimpatriati» dall’Ucraina e dalla Bielorus- sia non ritornarono in patria spontaneamente, ma furono espulsi e reinsediati a forza in re- gioni precedentemente appartenute a un altro stato. Il motivo per cui Artico ha tralasciato questi ed altri fatti importanti è che la sua ricerca vuole dimostrare una tesi prestabilita, se- condo la quale il «sedicente» regime marxista polacco era in realtà la reincarnazione della de- stra nazionalista di prima della guerra, responsabile della «diffusione di stereotipi antitede- schi» dai quali derivano «i conflitti e dunque anche gli spostamenti forzati dell’etnia “altra” da quella dominante» (p. 19). Carla Tonini

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Asfa-Wossen Asserate, Aram Mattioli (a cura di), Der erste faschistische Vernichtungskrieg. Die italienische Aggression gegen Äthiopien 1935-1941, Köln, SH-Verlag, 197 pp., Û 29,80

Il volume raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Lucerna nel 2005 da Aram Mat- tioli, autore di una recente e apprezzata monografia sulla guerra italo-etiopica (v. Annale VII/2006). Il pregio maggiore del volume consiste nel presentare in modo agile e compatto quanto di nuovo – e di meglio – la ricerca ha prodotto sul tema, a lungo colpevolmente ne- gletto in particolare dalla storiografia italiana con la significativa eccezione degli studi di Del Boca e Rochat e più recentemente di Dominioni. Sempre a questo proposito è significativo il fatto che la grande maggioranza dei contributi si deve a giovani ricercatori dell’area svizzera e tedesca, segno di un’attenzione vigile e meritevole. La tesi fondamentale del libro, sintetizzata nel primo dei tre articoli redatti da Mattioli, è l’interpretazione del conflitto italo-etiopico come prodromo della moderna guerra totale, dispiegatasi appieno pochi anni dopo nella seconda guerra mondiale. Ben oltre la dimensio- ne dell’ultima, anacronistica guerra coloniale, l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia si configura quindi come campo di prova di una nuova strategia bellica caratterizzata dall’uso massiccio e spregiudicato dell’aviazione anche contro obiettivi civili, dal coinvolgimento in- tenzionale della popolazione colpita durante il conflitto e poi oggetto di pesanti rappresaglie durante l’occupazione, dalla mobilitazione tendenzialmente totale del paese aggressore, con l’impiego di nuove formule di propaganda e ricerca del consenso. Queste tematiche sono puntualmente approfondite nei vari contributi, che spaziano dagli elementi di novità nella preparazione e conduzione della guerra alle violazioni di trattati e del diritto internazionale (l’impiego dei gas, gli attacchi contro la Croce Rossa), dalla mobilitazione della società ita- liana alla resistenza etiopica, ai percorsi e strategie della memoria e, nel caso italiano, della rimozione. Nella scia della più recente storiografia l’arco temporale del conflitto viene esteso fino al- la liberazione del paese nel 1941. Con ciò viene posto l’accento non soltanto sulla prima fase della campagna militare, ma anche sugli aspetti molto meno noti, non solo perché censurati dalla macchina di propaganda fascista, della brutale pax romana imposta all’Etiopia, come la repressione della resistenza. Particolare interesse nell’ottica della politica d’occupazione fasci- sta riveste il saggio di Gabriele Schneider sulle peculiarità della politica razziale italiana nelle colonie africane, che trova dei parallelismi non tanto nelle legislazioni coloniali coeve quanto in quella sudafricana dell’apartheid. Se un appunto si può muovere al volume, che combina egregiamente approcci molto di- versi, dalla storia militare alla storia culturale e alle tematiche di genere, è la mancanza di una vera introduzione che li colleghi tra loro in un quadro complessivo ed espliciti le coordinate entro le quali quest’opera va collocata. Francesco Marin

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Pier Francesco Asso, Sebastiano Nerozzi, Storia dell’ABI: l’Associazione Bancaria Italiana, 1944-1972, Roma, Bancaria, X-599 pp., Û 40,00 Le storie di istituzioni sono – malgrado la fortuna piuttosto recente della teoria istituzio- nalista – diventate un po’ fuori moda tra economisti, storici e storici economici. La storia del- l’ABI dal 1944 al 1972, presentataci in questo corposo volume, dimostra invece che uno stu- dio come questo ci può insegnare molto di più sulle relazioni tra il settore bancario e lo Sta- to, tra banche e banca centrale, sui rapporti interbancari e sulle strategie di singoli banchieri di tante storie già scritte o da scrivere su banche grandi e piccole. Per la loro ricerca gli autori hanno avuto a disposizione l’archivio dell’ABI ma hanno consultato anche fonti dell’archivio storico della Banca d’Italia e della Banca Commerciale Ita- liana. Il volume si chiude poi con un’appendice di 27 lettere scambiate tra i rappresentanti dell’ABI e il mondo bancario e politico. Il libro racconta in modo molto efficace gli inizi molto provvisori dell’ABI nel 1944-45 quando si chiamava Ufficio Interbancario. Seguono la descrizione delle lotte e delle discussioni dei primi anni del dopoguerra quando le due più im- portanti banche di interesse nazionale, Comit e Credit, rifiutarono di far parte dell’Associa- zione e quando un personaggio di primissimo piano come Raffaele Mattioli litigava col pre- sidente dell’ABI Stefano Siglienti, pure suo amico di lunga data. Molto istruttivo per il ruo- lo dell’ABI come pressure group fu la posizione assunta all’interno della Commissione econo- mica della Costituente, posizione che illustra bene la continuità del «pensiero bancario» dagli anni Trenta, e più precisamente dalla legge del 1936, a quelli della nascente Repubblica. Que- sta continuità doveva poi caratterizzare anche i decenni seguenti praticamente fino all’inizio degli anni ’90. La storia dei vari tentativi per introdurre uno strumento fondamentale di po- litica monetaria come la riserva obbligatoria e l’opposizione dell’ABI a quest’innovazione ci dicono molto sull’adattamento molto lento della politica monetaria statale e sul conservato- rismo innato della maggioranza della «classe bancaria». Molto lento fu anche l’allontanamen- to dalle forme tradizionali di cartello interbancario che fissava condizioni e prezzi per la clien- tela. A questo proposito ci sembra particolarmente istruttivo il capitolo che parla del sistema bancario italiano fra razionalizzazione e modernizzazione, soprattutto durante gli anni ’50. Arrivato alla fine di questo importante volume, il lettore noterà il giudizio pienamente condivisibile sul ruolo stabilizzatore e perciò piuttosto conservatore giocato dall’ABI durante gli anni ’50 e ’60, e questo malgrado le dichiarazioni – spesso in perfetta sintonia con quelle della Banca d’Italia – sulla necessità di aprire agli sviluppi internazionali e, prima di tutto, eu- ropei. Siccome tutto il ritardo in questa materia doveva poi essere recuperato dal settore ban- cario italiano durante i decenni seguenti, e soprattutto dopo il 1990, il giudizio dei due au- tori, che tendono a spiegare e anche a «perdonare» gli operatori dell’ABI, della banca centra- le e delle singole banche, mi sembra a volte troppo mite, ma questa è quasi l’unica osserva- zione critica che si può avanzare nei confronti di questo bel volume. Peter Hertner

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Associazione Biondi-Bartolini, Fondazione Giuseppe Di Vittorio, I due bienni rossi del No- vecento 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, Roma, Ediesse, 502 pp., Û 25,00 Sono gli atti del convegno promosso a Firenze dall’Associazione Biondi-Bartolini e dal- la Fondazione Di Vittorio, che vide la partecipazione di numerosi studiosi, storici e socio- logi, con un’ampia presenza di giovani ricercatori. La lettura dei contributi lascia una stra- na sensazione, come se gli autori avessero presente la difficoltà di applicare l’arduo metodo della comparazione ai due «bienni rossi»: fin dal suo intervento introduttivo (e, più sfuma- tamente, nelle conclusioni), Paul Ginsborg richiama quindi alla prudenza, sottolineando la necessità del «contrasto di contesti», in cui la comparazione serva a chiarire gli aspetti di un’esperienza storica ponendola in contrasto con un’altra (pp. 14-15). Ginsborg giunge quindi sostanzialmente a concludere che l’unica reale analogia tra i movimenti sviluppatisi nei due bienni (così diversi per cause e contesti, ma privi entrambi, a suo parere, di una teo- ria della democrazia) vada ricercata nella comune sconfitta nel tentativo «di dar vita a per- corsi basati sul controllo, sulla democrazia diretta e sull’equità sociale» (p. 35): l’essenza del capitalismo è restata tale, piegando l’individualismo romantico del ’68 ai riti del familismo e del consumismo. Una conclusione amara, criticata da altri autori, soprattutto da parte di chi (il sociologo Paolo Giovannini) si attendeva dal convegno indicazioni su «come rende- re vitali e feconde le relazioni tra i movimenti sociali di questi ultimi anni, con i loro carat- teri di spontaneità e di forte partecipazione dal basso, e le grandi forze organizzate della si- nistra» (p. 38), nella convinzione che nei due bienni esaminati (intesi come tentativi di ri- sposta, attraverso lo sviluppo di movimenti sociali, ad una crisi diffusa) le somiglianze ab- biano fatto aggio sulle differenze. In quest’ottica, il movimento del ’68 e le sue culture han- no contribuito al processo di modernizzazione del paese (un processo, nell’analisi di Gian- ni Silei sulle politiche sociali, restato però «a metà del guado», p. 210), al punto da esserne integrato e, per certi versi, istituzionalizzato. Ci si potrebbe interrogare se questo possa es- sere definito un successo e se le due interpretazioni, quella di Ginsborg e quella di Giovan- nini, non siano così distanti, ma in ogni caso questo appare il nodo centrale del volume. Marco Revelli riprende perciò, sia pure con alcuni distinguo, il metodo utilizzato da Gin- sborg, sottolineando come nel primo biennio nascano in Italia le forme organizzative del Novecento, laddove invece il ’68 ne segna la crisi; per Gian Primo Cella lo Statuto dei la- voratori, frutto delle lotte dell’autunno caldo, ha contribuito in modo decisivo all’avvento di una compiuta democrazia pluralista anche nel nostro paese; Alberto De Bernardi indivi- dua un tratto comune nel mito rivoluzionario e nella dicotomia giovani-vecchi; Donatella Della Porta, infine, riprende il filo del discorso di Revelli, valutando positivamente le inno- vazioni che i bienni hanno portato, con la loro spinta dal basso, al modo di fare politica. «Il fine è nulla, il movimento è tutto», la storia della sinistra, in fondo, sembra sempre girare intorno a questo chiasmo. Giovanni Scirocco

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Claudio Auria, I provveditori agli studi dal fascismo alla democrazia, Introduzione di Gui- do Melis, Roma, Biblioteca Scientifica Fondazione Ugo Spirito, 2 tomi, 282 e 315 pp., Û 25,00 Ampio repertorio biografico che illustra le carriere burocratiche dei provveditori agli stu- di dal 1922 al 1947. Il lavoro rappresenta una rilevante eccezione nel panorama della ricerca storica in Italia, tradizionalmente caratterizzato – come l’autorevole introduzione di Guido Melis ricorda – da una scarsa attenzione verso il genere prosopografico e, in particolare, della biografia amministrativa. Il I tomo contiene una ricostruzione analitica delle politiche del personale sviluppatesi sotto l’egida dei ministri della Pubblica Istruzione, poi dell’Educazione nazionale: sono ana- lizzati in dettaglio i movimenti dei funzionari effettuati durante i mandati ministeriali di Gen- tile, Casati, Fedele, Belluzzo, Giuliano, Ercole, De Vecchi, Bottai e Biggini. Il quadro che emerge è composito: l’autore prova a decifrare gli elementi di continuità tra immediato pre-fascismo, fascismo e post-fascismo e soprattutto il ruolo avuto da personalità di spicco quali Gentile, De Vecchi e Bottai. Se è indubbio che la galleria di personaggi qui tratteggiata vale a portare alla luce, in modo evidente, due generazioni di funzionari, la prima legata alla cultura di matrice idealistica gentiliana, la seconda, anagraficamente più giovane, influenzata dalle suggestioni del regime nonché dal dinamismo politico e intellettuale di Bot- tai, altrettanto evidenti appaiono gli intrecci che valgono a confondere appartenenze e orien- tamenti, e a influenzare il cursus burocratico di molti provveditori. Emerge altresì come la re- te di appartenenze politiche, familiari, massoniche abbia dispiegato un indubbio condiziona- mento della politica ministeriale delle nomine e delle progressioni di carriera, facendo talvol- ta sorgere evidenti malumori: a riguardo, significative sono le tracce, rinvenute dall’autore, del malcontento del ministro Gentile che, scrivendo a Mussolini nell’agosto del 1927, segnalò «l’ingerenza continua, minuta, arbitraria, irresponsabile delle autorità del Partito nell’ammi- nistrazione, per sua natura delicatissima, della scuola, col pretesto di una fascistizzazione che in realtà troppo spesso si risolve in un modo di favorire i peggiori fascisti» (I, pp. 46-47). Al- tro elemento di interesse è rappresentato da un fenomeno di parziale osmosi tra funzionari della scuola e funzionari delle «belle arti»: vi sono significative tracce dei percorsi ministeriali di personalità di spicco (Argan, Brandi, Molajoli, Rosi) che, in alcuni segmenti della propria carriera, fecero delle «incursioni» tra le fila dei provveditori, sulla base della sola appartenen- za ai ranghi amministrativi della «Pubblica Istruzione» (che, com’è noto, ha trattenuto nel pro- prio ambito fino al 1975 entrambe le competenze). Il I tomo offre infine alcuni grafici che aggregano in modo conveniente i dati emersi dalle ricerche. Il II tomo dà spazio invece ai profili biografici relativi ai 181 provveditori nominati dal governo fascista tra il 1923 e il 1943 e ai 20 funzionari nominati dalla RSI tra il 1943 e il 1945. Un’opera che, c’è da auspicarlo, sarà di sicuro supporto nella ricerca storica sull’istru- zione italiana nel XXI secolo. Francesco Verrastro

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Mario Avagliano (a cura di), Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, Intro- duzione di Alessandro Portelli, Torino, Einaudi, XXXIII-448 pp., Û 24,00 Le tradizioni invecchiano e su di esse incombe la museificazione. Ogni esperienza porta iscritte le ragioni della propria obsolescenza e queste obbediscono sempre ad una legge tanto semplice quanto inappellabile: la vecchiaia e la morte dei sopravvissuti. Lo sa Ada Prospero Gobetti che nel 1956 paventa una Resistenza come una reliquia, buona a «impacchettarla con un bel cartellino per mandarla al museo». Parte da qui l’autore, ma in quel lontano passaggio del Diario partigiano coglie solo l’ammonimento del memorialista e non il segno di una dif- ficoltà interna alla scrittura della memoria (p. XVII). Costantemente sospesa tra l’esortazione a non dimenticare e il timore inconfessato di un’esperienza che diventa passato. Il libro prende forma all’interno di questa tensione senza tuttavia che l’autore ne assuma consapevolmente la portata. A rigore la gran parte delle pagine raccolte in questo volume non sono memoria nel vero senso della parola. A parte i brani dei diari, si tratta per lo più di lette- re a persone care. Nascono dal bisogno di tenere in vita i fili tenui della comunicazione degli affetti, spesso dalla semplice premura di dare notizia di sé in una situazione eccezionale e di mi- naccia fisica incombente. Diventano memoria nelle pubblicazioni ufficiali, postume (agli even- ti e spesso alla vita stessa degli autori), che le incorporano come documenti, testi referenziali di un discorso celebrativo. Rispetto a queste pubblicazioni, l’antologia è una celebrazione delle ce- lebrazioni. Non della Resistenza racconta dunque. Più precisamente dell’apparato istituziona- le preposto alla conservazione e alla divulgazione della sua memoria: Generazione ribelle riflet- te il processo di costruzione di questo apparato e la sua pubblicazione è il tentativo di difender- ne le ragioni in una fase in cui la storiografia sollecita una revisione radicale delle retoriche uf- ficiali del secondo dopoguerra e delle istituzioni in cui esse si sono incarnate. Per rispondervi Avagliano sceglie la via della pedagogia della Resistenza: la Resistenza si studia per non dimenticare, facendo così della «moralità nella Resistenza» il problema della morale della Resistenza. Sistemarne la memoria è, ancora una volta, non tanto comprender- ne la vicenda storica ma approntare il suo lascito per le generazioni future. «Ai giovani» (no global e vagamente guevaristi) il libro occhieggia fin dalla copertina, con la fotografia e soprat- tutto con il titolo carico di ambiguità. Vale la pena segnalare a questo proposito che nelle let- tere e nei brani di diario, «ribelle» compare spesso come appropriazione polemica di una de- finizione denigratoria. È l’ uso metalinguistico di un insulto più che l’elogio della disobbe- dienza. Va anzi sottolineato come al centro di questi scritti vi siano salde virtù ottocentesche: il dovere, l’onore, la patria, il valore della testimonianza religiosa. Soprattutto la guerra, da combattere e da patire. Giusta anche quando fa strage dal cielo di cittadini inermi (p. 138). È questo scarto incolmabile tra noi e il nostro passato allora a fare della Resistenza un tempo lontanissimo. Un passato morto, oggetto di studio certo. Non di riesumazioni celebra- tive. Adolfo Scotto di Luzio

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Rodolfo Badarello, Storia particolare delle officine Scarpa&Magnano e delle loro maestran- ze, Milano, Pantarei, 153 pp., Û 10,00

L’autore, fin dagli anni Cinquanta, si è occupato in più occasioni della storia di Savona e delle sue istituzioni, studiando in dettaglio le vicende riguardanti il movimento operaio e la Resistenza. In questo volume, ennesimo tassello di una ricostruzione particolare – ma mai localisti- ca – della storia cittadina, affronta le vicende di una fabbrica, le Officine elettromeccaniche Scarpa&Magnano, fondata nel 1919 con appena 20 operai. Il libro ripercorre le vicende in- dustriali, legate alla produzione di interruttori e trasformatori per tensioni sempre più alte, che portarono le Officine a diventare una delle aziende più vivaci e attive della città, ma so- prattutto mette al centro le vicende e le lotte degli operai e delle maestranze che vi hanno la- vorato. La formazione di una coscienza operaia nel turbine politico del primo dopoguerra, le restrizioni poste dal fascismo locale, gli anni della Resistenza – alla quale parteciparono, sacri- ficando la vita, molti degli operai della fabbrica –, i licenziamenti dei primi anni Cinquanta, sono i temi che scandiscono la narrazione di Badarello, la quale si arricchisce di eventi, date e nomi che restituiscono alla memoria – ancora viva tra gli ex lavoratori – la dignità di una sto- ria complessa e contraddittoria. Infatti, a emergere è la continua conflittualità tra maestranze e direzione, mai sopita neppure nei momenti di maggiore accordo, che rappresenta, quasi in maniera paradigmatica, la parabola del movimento operaio stesso. Le lotte, le contraddizioni e le incertezze degli operai e dei loro rappresentanti – sindacati e partiti – rivivono a partire dal coinvolgimento delle persone, delle loro aspettative e delle loro esigenze, dando luogo ad una storia sociale che si allarga dalla fabbrica per coinvolgere il quartiere in cui è situata fino ad arrivare a tutta la città. Unico limite del lavoro è forse quello di aver scelto in maniera preponderante di rico- struire la storia della fabbrica e dei suoi operai attraverso lo spoglio dei giornali locali, a cui l’autore aggiunge la conoscenza personale dei fatti e delle persone, essendo stato anch’egli alla Scarpa&Magnano dal 1941 al 1953. Ciò non di meno, la cura e la passione con cui è stato svolto il lavoro, ma anche la capacità di legare le vicende della fabbrica al contesto più generale in cui sono coinvolte rendono la ricerca di particolare interesse, soprattutto nella parte dedicata alla Resistenza e ai primi anni Cinquanta, dove emerge in tutta la sua durez- za la crisi postbellica e la relativa deindustrializzazione, alla quale si associarono politiche antioperaie e anticomuniste attuate senza mezze misure. Di questa stagione l’autore è stato testimone e ora ne è storico, senza però che il coinvolgimento nei fatti predomini sulla ri- costruzione degli stessi. Davide Montino

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Bruna Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale, Fi- renze, Le Monnier, 274 pp., Û 19,40

Il titolo ben rende i contenuti del volume, che si propone come strumento manualistico sui temi del colonialismo e la decolonizzazione. In pagine dense, ma redatte con una prosa ac- cessibile e un linguaggio piano, si dà conto del formarsi dei possedimenti coloniali tra Sette e Ottocento e del loro progressivo smantellamento nel ventesimo secolo. Aperta da un capitolo introduttivo, un po’ appesantito da un eccessivo sforzo classificatorio, la narrazione segue un taglio cronologico, dapprima ripercorrendo il sorgere o consolidarsi dei grandi imperi colonia- li nella cosiddetta «età dell’imperialismo» e poi esponendo in un capitolo distinto le interpre- tazioni classiche e le grandi linee del dibattito storiografico sul tema, tra le quali paiono privi- legiarsi quelle multicausali, pur insistendo sulla superiorità tecnologica e industriale europea. Più distesa e informata è la parte novecentesca, che in quattro capitoli esamina l’apogeo assieme ai primi segni di crisi dell’espansione coloniale tra le due guerre mondiali e, poi, sul- l’onda dei mutati equilibri internazionali e della nascita di organismi sovranazionali, lo sgre- tolarsi degli imperi europei nel contesto della guerra fredda e il progredire della decolonizza- zione tra gli anni Sessanta e Ottanta, fino al generalizzato accesso all’indipendenza da parte dei territori assoggettati al dominio europeo e ai nuovi rapporti tra centro e periferia dello svi- luppo planetario. La prospettiva analitica e interpretativa è intenzionalmente interna alla storia delle relazioni internazionali e spiega la particolare attenzione prestata sia al ruolo dei mutevoli equilibri tra le potenze planetarie sia al profilo diplomatico delle relazioni coloniali, in specie con l’introduzio- ne del sistema dei mandati, sia alle politiche e le iniziative dei movimenti e delle organizzazioni sovranazionali, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Tuttavia, quella prospettiva nutre anche un approccio francamente eurocentrico – evidente fin dal titolo del volume – e dunque tutto focalizzato sugli attori europei, di solito analizzati parallelamente e solo talvolta comparati- vamente, che tra l’altro porta a trascurare le effettive modalità di imposizione del dominio colo- niale sulle società extra-europee, non a caso troppo indistintamente raffigurate, e il significato complessivo della penetrazione imperiale, sovente conflittuale, nelle diverse aree del pianeta. Imperialismo e colonialismo furono certamente manifestazioni dell’espansione economi- ca e politica europea, ma – come una vasta letteratura internazionale da tempo va dimostran- do – il loro rilievo per i rapporti tra Europa e «resto del mondo» non si limitò ad una gravo- sa formalizzazione politico-militare del primato dei paesi più «sviluppati». Investì, in realtà, il complesso delle relazioni tra società «centrali» e «periferiche», intrecciandone profondamen- te tanto le culture quanto lo sviluppo sociale ed economico, nella fase di impianto del domi- nio formalizzato come nel suo successivo disgregarsi. Una prospettiva non più trascurabile per comprenderne la centralità nella storia contemporanea. Simone Neri Serneri

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Massimo Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Roma, Carocci, 290 pp., Û 32,60 Confluiscono in questo volume vari filoni di ricerca coltivati da Baioni nell’arco di un ventennio, a partire dalla tesi di laurea sulla fortuna di Oriani durante il fascismo: il «mito del precursore», appunto, la musealizzazione del passato, la memoria e le interpretazioni del Ri- sorgimento, la costruzione di identità locali anche in rapporto all’identità nazionale, la me- moria di guerra. La materia è organizzata secondo una scansione più tematica che cronologica, anche se nei quattro capitoli del volume il baricentro della narrazione si sposta via via in avanti, dalla prima alla seconda guerra mondiale. Nel primo capitolo si seguono le linee di continuità con il passato risorgimentale, tracciate dal fascismo attraverso l’irrendentismo e la guerra. Nel se- condo, fatto cenno ai richiami al Risorgimento nella costruzione di una identità fascista, il di- scorso si incentra sul rapporto del fascismo con gli intellettuali, che si definisce anche attra- verso la creazione, o la ristrutturazione, della rete di associazioni e istituzioni preposte alla pro- mozione e al controllo della storia nazionale. Poi il punto di osservazione si sposta all’interno dell’Istituto per la storia del Risorgimento. Il terzo capitolo è dedicato alle attitudini della sto- riografia risorgimentista a modellare i paradigmi interpretativi in armonia, di volta in volta, con la tradizione sabauda, con i rinnovati rapporti con la Chiesa, con la nuova realtà imperia- le. Nel quarto, la vita dell’Istituto è ricostruita, oltre che in relazione al riallestimento del Mu- seo di Torino, nei rapporti con i comitati locali: rapporti ambigui, in cui alla trasmissione dal centro delle riletture fasciste del passato nazionale faceva spesso riscontro una resistenza pas- siva opposta in periferia dalla tradizione delle «piccole patrie» (p. 238), che si esprimeva ripro- ponendo la centralità delle glorie locali nella ricerca e nei percorsi museali. Personaggio chiave di questo itinerario nella cultura dell’Italia fascista è Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, regista dal 1933 della riorganizzazione degli istituti storici e garante fi- no al crollo del regime, come presidente, delle attività dell’Istituto per la storia del Risorgi- mento. La personalità del quadrumviro, ricostruita soprattutto attraverso il carteggio con Ghi- salberti, emerge come ben più autorevole e propositiva rispetto a quella del gerarca-burocra- te rude e sbrigativo, tratteggiata nel dopoguerra per rimarcare come l’Istituto, malgrado quel- la «presenza abbastanza ingombrante» (così la Morelli, a p. 142), avesse mantenuto una so- stanziale autonomia, che legittimava la continuità del gruppo dirigente. Il tema stesso del volume e il ventaglio di situazioni e di personaggi di cui dà conto por- tano Baioni a confrontarsi continuamente con la vasta bibliografia sulla cultura italiana du- rante il fascismo: quella scientificamente avvertita e ben consolidata nei risultati, e quella, re- cente, volta principalmente a creare o rinfocolar diatribe sulle terze pagine dei giornali. L’es- ser riuscito a non cadere nella pania di quelle polemiche, pur senza rinunciare mai a prender posizione, talvolta anche in modo assai netto, va a suo grande merito. Alfio Signorelli

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Anna Baldinetti, Armando Pitassio (a cura di), Dopo l’Impero Ottomano. Stati-nazione e comunità religiose, Soveria Mannelli, Rubbettino, 245 pp., Û 15,00 È una storia di innamoramenti e disamoramenti, di opportunismi e convergenze tempo- ranee, quella tra Stato-nazione e religione raccontata in questo volume, dedicato ai paesi po- st-ottomani. Si tratta di affrontare ciò che dalle storiografie chiamate in causa è in genere tra- scurato o, ancor peggio, risolto semplicisticamente, soprattutto per quanto riguarda l’inter- pretazione «cesaropapistica» del rapporto tra Stato e Chiese ortodosse. Al contrario, i contri- buti di questo volume hanno il pregio di spiegare tutta la complessità della tematica, con uti- li inquadramenti generali (Islam e Stato, D. Bredi) e di più lungo periodo (caso bulgaro, A. Pitassio; caso libico, A. Baldinetti; caso romeno, E. Costantini), o attraverso efficaci approfon- dimenti (nascita Stato greco e autocefalia, F. Guida; Bulgaria interbellica, G. Brucciani). È giocoforza intrecciare fra di loro le vicende di istituzioni statuali, ecclesiastiche e culturali, le- gando a tratti la riflessione più alla questione nazionale (Serbia, R. Schoenfeld; Egitto, I. Ger- shoni), a figure intellettuali specifiche (gli ulama tra Siria e Libano, A. Pellitteri), o alla que- stione delle minoranze (e delle fondazione pie: Turchia, P. Dumont). Meglio non dare per scontato che l’islam stia al cuore della genesi delle moderne identità na- zionali nello spazio tra Algeria e Turchia, perché così si trascurerebbe il centralissimo ruolo avu- to non solo dal laicizzante kemalismo – tuttavia disponibile anch’esso a scendere a compromes- si con la tradizione religiosa –, ma anche dalla crescente turchizzazione dell’Impero Ottomano e, soprattutto, dalle esperienze coloniali. Similmente, meglio accantonare quegli approcci che in- tendono gli Stati balcanici e le rispettive Chiese ortodosse o amici per la pelle o nemici sostan- ziali. Piuttosto, nella tensione tra politico e religioso, tra laico liberalismo e tradizionali «sinfonie dei poteri» in ambito ortodosso, tra ideologia nazionale e classiche categorie di pensiero dell’um- ma, ha luogo una serie di «matrimoni di interesse» (Pitassio, p. 145) che si alternano a divorzi, coppie di fatto a separazioni, convivenze a liti. Una coperta sempre troppo corta quella della na- zione, tanto più se a contendersela sono in due, lo Stato e la Chiesa. Ma al di là della dialettica tra questi due soggetti, emerge di frequente la loro reciproca, benché parziale, compenetrazione. Così che ci si potrebbe avvalere ora di queste ricerche per proseguire la riflessione e spingersi ol- tre sul terreno delle «religioni politiche» e della sacralizzazione della nazione. È comunque un bas- so continuo già presente e che si avverte, più o meno implicitamente, un po’ in tutti i saggi. Dev’essere stato un bel convegno, quello da cui è derivato questo bel libro. Che permet- te un viaggio di ampio respiro attraverso quella famiglia allargata qual era l’Impero Ottoma- no e di osservarne la dissoluzione, in famiglie non proprio nucleari, caratterizzate, eccetto qualche momento felice, non proprio dalla quiete domestica. Stefano Petrungaro

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Luca Baldissara (a cura di), Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cin- quanta (Italia, Emilia-Romagna), Milano, FrancoAngeli, 344 pp., Û 24,00

Come una cenerentola, la storia del movimento sindacale resta ai margini della storia con- temporanea, affidata, di volta in volta, a studi di nicchia, a sociologi, a politologi, a storici del- l’economia, a protagonisti. Merita, invece, un riconoscimento più alto, se non altro per il grande legame con il presente. Così, ad esempio, è per le questioni contrattuali, per le relazio- ni industriali, per i modelli di sviluppo che implicano il lavoro, per l’intreccio tra indirizzi di sistema e condizione dei lavoratori intorno alle diverse possibilità del neoliberismo e del con- solidamento dei diritti. È dunque bene che si cimenti con la storia del sindacato un gruppo qualificato di giova- ni studiosi che si dedica a un tema rilevante: l’antinomia tra la cornice costituzionale che si costruì tra il 1946 e il 1948 e il forte ritardo nella sua applicazione alla vita dei lavoratori nel loro ambiente produttivo. Se l’attuazione «costituzionale» all’interno dei cancelli aziendali, con i fondamentali diritti di associazione, di rappresentanza, di difesa dai licenziamenti arbi- trari, si raggiunse soltanto nel 1970, con lo Statuto dei lavoratori, all’indomani di una fecon- da stagione di lotte, tutto il periodo precedente fu segnato dalla repressione più dura di spazi collettivi e individuali. La chiave di lettura del volume di una dialettica tra due principi appare così corretta, ri- levando l’irrisolta questione di una classe partecipe dei sacrifici vissuti nel ventennio e nel pe- riodo bellico, della difesa dal nazifascismo, della spinta verso la democrazia repubblicana ma- tura, emarginata dai processi decisionali condotti da altri gruppi sociali più legati a concezio- ni autoritarie e illiberali. Luca Baldissara fa un quadro storiografico della «storia dei vinti», e discute le categorie della democrazia legate al lavoro e al conflitto sociale. Laura Cerasi ana- lizza la teoria del «corporatismo» e del «corporatismo imperfetto», andando alle origini delle relazioni industriali e della contrattazione. Andrea Rapini esamina il «caso Piaggio» tra il 1943 e il 1947, verificando il rilevante problema dei Consigli di gestione e il tema della produtti- vità intensiva. Sandro Bellassai si occupa della classe e dell’identità operaia, tra il 1947 e le sto- riche elezioni per le Commissioni interne del 1955, in chiave di cultura operaia e di consape- volezza democratica nel conflitto generale e aziendale. Marica Tolomelli apre i contributi de- dicati all’Emilia Romagna, individuando modalità e dinamiche del conflitto e caratteri della costruzione organizzativa operaia in quel contesto. Simone Selva studia le politiche e le con- cezioni della controparte industriale in quel territorio. Claudia Finetti riporta casi concreti di discriminazione legata all’appartenenza politica e religiosa. Si tratta di un insieme interessan- te e utile al proseguimento del lavoro, che potrebbe arricchirsi allargando il periodo di studio anche alla dialettica del lavoro nel periodo fascista, questione alla quale si è cominciato a guar- dare, da qualche anno, con risultati non trascurabili. Fabio Bertini

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Pier Luigi Ballini (a cura di), Mario Scelba, contributi per una biografia, Soveria Mannel- li, Rubbettino, 331 pp., Û 28,50

Il volume si inscrive nella recente stagione di studi biografici dedicata ad esponenti politici democristiani. I dieci saggi qui raccolti (Sindoni, D’Angelo, Craveri, Malgeri, Taverni, Tassani, Ballini, Canavero, Guasconi e Boiardi), tutti basati su fonti edite ed inedite, ricostruiscono la bio- grafia di un democristiano scomodo, il «ministro di polizia» Mario Scelba: il legame con don Stur- zo e la militanza nel Partito popolare, l’antifascismo, il posto di primo piano occupato a fianco di De Gasperi nella costruzione della DC e nella fondazione della Repubblica. Poi, gli incarichi isti- tuzionali (ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, ministro dell’Interno, capo del gover- no) e quindi l’impegno contro banditismo e mafia, le leggi elettorali amministrativa e regionale, la messa a punto di una efficiente organizzazione di controllo dell’ordine pubblico, la soluzione della questione di Trieste, lo sforzo di rendere l’Italia un alleato ascoltato dagli Stati Uniti. Infine, l’ultima parte del libro è dedicata all’impegno di Scelba in ambito europeo, come membro e poi presidente del Parlamento, per la definizione di un’identità politica della Comunità Europea. Il volume si segnala per l’originalità dell’indagine e offre una chiave di lettura diversa da quella che vuole Scelba «braccio armato» del «regime democristiano», mostrando come la sua azione fu sempre volta a tutelare la legalità repubblicana, con eguale fermezza verso le sinistre e verso le destre. I saggi offrono diversi spunti per riflettere su alcuni passaggi cruciali della sto- ria repubblicana nella fase del centrismo. Fra questi, decisivo, quello sull’ordine pubblico all’in- domani della seconda guerra mondiale.. La sua gestione, dopo l’esclusione delle sinistre nel 1947, sembrò coincidere con la questione comunista e sindacale, ma, in realtà, Scelba compre- se quanto fosse insidioso il tentativo di destabilizzazione operato dalla destra missina e monar- chica, dato il favore di cui godeva in parte del mondo cattolico ed ecclesiastico, tra i ceti bor- ghesi e in seno alla stessa Democrazia cristiana. Come ministro degli Interni, affrontò gli anni decisivi per la stabilizzazione della democrazia in Italia con una fermezza che fu all’origine di quel (pre)giudizio che identifica lo «scelbismo» con il tentativo della DC di mantenersi al go- verno grazie ad un uso reazionario del potere (e della forza). Gli autori non mancano di sotto- lineare come il sistema repressivo instaurato dal ministro degli Interni fosse fortemente limita- tivo delle libertà costituzionali. Ma la tesi del volume è che proprio questa fermezza consentì all’Italia di superare una fase critica per la tenuta delle istituzioni democratiche. Come uomo di partito Scelba già negli anni Settanta denuncia l’immobilismo della DC e lo strapotere del- le correnti. E anche se saranno proprio le correnti a decretare la sconfitta elettorale di questo padre nobile della Democrazia cristiana sembrano un po’ affrettate le conclusioni del saggio fi- nale: «Era stato, per giudizio comune, un uomo forte e leale; non era illogico che, a rimuover- lo dai suoi incarichi, fosse stata una congiura di uomini deboli e sleali, uomini di cui resterà, a differenza di lui, alcuna memoria, se non da accantonare» (pp. 429). Monica Campagnoli

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Pier Luigi Ballini, Sandro Guerrieri, Antonio Varsori (a cura di), Le istituzioni repubbli- cane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), Roma, Carocci, 397 pp., Û 29,20

Volume a molte mani, frutto di una ricerca collettiva che ha coinvolto venti autori, il li- bro è diviso in quattro sezioni intitolate: Il boom economico e il governo dello sviluppo, Le isti- tuzioni, La dimensione internazionale e Partiti e società, anche se molti saggi, per la ricchezza di contenuti, escono dai limiti della sezione in cui si trovano incasellati. Come tutti i lavori collettivi il rischio di frammentazione risulta estremamente elevato, compensato in questo ca- so dall’aver esplorato territori poco noti, come la presenza e la politica italiana nelle istituzio- ni internazionali, dalla CECA all’ONU, fino ad un saggio di Calandri sugli aiuti allo svilup- po, e aver aperto alcuni interessanti squarci di storia istituzionale (Melis, che studia la quan- tità del lavoro dei parlamenti, Simoncini, sulla Corte costituzionale, Alvazzi del Frate sulla istituzione del CSM) nonché di storia economica (Segreto, con un saggio sulla geopolitica del- l’approvvigionamento energetico dell’Italia). La maggiore originalità del lavoro risiede nella scelta temporale, per cui l’evento politico principe, i primi governi di centro sinistra, è inseri- to all’interno di una visuale di più lungo periodo, che relativizza le novità della svolta a sini- stra, evidenziando spesso sostanziali continuità di natura istituzionale e pesanti condiziona- menti derivanti dalla collocazione internazionale del nostro paese. È possibile distinguere un filo comune di fondo che emerge da gran parte dei saggi, ed è la valutazione sostanzialmente critica del passaggio dai governi centristi al centrosinistra. In particolare molti contributi (Bini, Le grandi scelte di politica economica; Taviani, Le riforme del centro-sinistra) sottolineano le velleità della prima programmazione, i suoi insuccessi, gli ob- biettivi irrealistici, la parzialità, a volte la vera e propria contraddittorietà delle riforme socia- li e del welfare inaugurate nei primi anni ’60, mentre Orsina, Il sistema politico, si cimenta in una suggestiva ipotesi controfattuale sulle conseguenze di una continuità di governi centristi, alternativa alla svolta del centrosinistra. Un pericolo che si avverte, soprattutto nei saggi della prima parte, è la tentazione di con- trapporre gli anni del boom economico alla «congiuntura» degli anni ’60, esprimendo un giu- dizio negativo a volte aprioristico. Non bisogna dimenticare che il miracolo economico, più che frutto di politiche mirate, fu facilitato soprattutto da una fortunata congiuntura interna- zionale che trovò il nostro paese in condizioni particolarmente favorevoli (abbondanza di ma- nodopera inoccupata o sottoccupata, bilancio statale in pareggio, bilancia dei pagamenti in equilibrio), risultato di politiche prudenti e tradizionali da parte dei governi centristi, non più riproducibili negli anni ’60. Detto questo è innegabile che il volume, per il livello degli studiosi coinvolti, rappresen- ta un vero e proprio stato dell’arte della ricerca storica sulla classe politica del dopoguerra, la politica estera e la politica economica fino alle soglie del ’68. Alessandro Polsi

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Matteo Baragli, Tracce di un popolo dimenticato. Famiglie di pigionali e braccianti agricoli nella Toscana fascista (1922-1939), Prefazione di Paul Ginsborg, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 398 pp., Û 20,00

Rielaborazione di una tesi di laurea, questo volume presenta i risultati di un’accurata ri- cerca e offre così un utile contributo alla storia dell’agricoltura italiana che, dopo l’intensa pro- duzione dei primi anni Novanta, sembra essere passata ad una fase di minore vivacità. L’inda- gine compiuta da Baragli si fonda su un insieme di fonti di diversa natura: le pubblicazioni dell’Istituto nazionale di Economia Agraria e dell’Accademia dei Georgofili, i censimenti e i resoconti delle visite pastorali, gli articoli apparsi su giornali e riviste, la memorialistica e le fonti orali. La composizione critica di questa variegata documentazione – supportata dall’e- saustiva conoscenza della storiografia – consente all’autore di restituire un’immagine a tutto tondo dei pigionali toscani, e di mettere nello stesso tempo in evidenza l’eterogeneità di que- sta categoria. Il termine «pigionale», infatti, sta a indicare semplicemente colui che non possiede la ca- sa nella quale vive ed è dunque costretto a pagare la pigione, ma tende ad essere utilizzato per riferirsi a tutti coloro che non sono mezzadri, poiché questi ricevono l’abitazione insieme al- le terre che coltivano, senza versare una quota di affitto. I pigionali vengono così a definirsi per differenza rispetto ai lavoratori agricoli considerati tipici della campagna toscana, e corri- spondono concretamente a profili assai diversi fra loro: obbligati a lavorare come avventizi per mantenere la famiglia, talvolta possiedono un piccolo campicello, a volte lo affittano, in altri casi ancora si dedicano saltuariamente anche a mestieri extra-agricoli. Figure ibride di quella «popolazione marginale costituita in agricoltura dai contadini senza terra» (p. 43), i pigiona- li finiscono per essere associati non soltanto alla miseria, ma anche al degrado morale. Baragli conduce quindi la sua indagine su due fronti. Da un lato ricostruisce le attività di uomini e donne di questo «popolo dimenticato», segue le tracce delle migrazioni locali, esa- mina i bilanci familiari, ricollega le singole dinamiche al contesto socio-economico che carat- terizza il mondo rurale negli anni tra le due guerre. Dall’altro decostruisce l’immagine stereo- tipata dei pigionali fannulloni e dissoluti, ripercorrendola peraltro nelle sue declinazioni di ge- nere: gli uomini ubriaconi e teste calde, le donne poco devote e inclini ai facili costumi. Di particolare interesse, in questa prospettiva, anche le pagine dedicate all’infanzia, nelle quali si offre un’analisi articolata dei lavori domestici, agricoli ed extra-agricoli a cui sono chiamati bambini e bambine, per esempio in qualità di garzoni. Ma nello stesso tempo l’autore sotto- linea gli spazi di libertà di un’infanzia che non è così rigidamente piegata alle gerarchie pa- triarcali o all’ossequio nei confronti del padrone, come nel caso delle famiglie mezzadrili, e dunque può godere di piccole trasgressioni, per esempio le scorribande in giro per le campa- gne. Silvia Salvatici

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Andrea Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci, 231 pp., Û 18,10

Frutto della rielaborazione della tesi di dottorato e di indagini condotte tra Italia e Fran- cia, il volume offre un’importante rilettura del primo dopoguerra in Italia, sullo sfondo di una crisi europea che nei diversi Stati trovò soluzioni diverse a problemi politici e processi sociali per vari aspetti simili. Il caso particolare di un paese uscito vittorioso dalla Grande guerra e che in un tempo re- lativamente breve avrebbe visto crollare il proprio sistema politico è stato oggetto di innume- revoli ricerche e dibattiti che, a più riprese e in stagioni diverse, hanno cercato di comprende- re le ragioni della fine dell’Italia liberale e dell’ascesa fascista, di capire il rapporto di conti- nuità e fratture tra guerra e dopoguerra. Un rapporto complesso, che qui si analizza con stru- menti nuovi e chiavi interpretative originali, centrando l’attenzione sulla retorica politica, i linguaggi, le diverse capacità di appropriazione e uso pubblico di quello che allora era un pas- sato assai prossimo, ineludibile per ogni progetto rivolto al futuro. Partendo dal presupposto che per governare era necessario acquisire una legittimità politica basata sulla celebrazione del- la guerra e sulle lezioni da trarre dal conflitto, l’autore centra l’attenzione sui motivi che im- pedirono alle vecchie élite l’uso di una risorsa retorica e politica tanto importante che poteva stabilizzare il sistema, a differenza di ciò che invece avvenne in Francia e Regno Unito. Orlando, il «presidente della Vittoria» che aveva guidato il paese dopo la rotta di Capo- retto, era l’unico uomo politico – più che Salandra – che avrebbe potuto indossare le vesti di «un Clemenceau italiano» (p. 116). Ma Orlando «era stanco», e il suo «suicidio politico» – cui fece seguito la formazione del primo governo Nitti –, sembra quasi simboleggiare l’incapacità della classe dirigente di capitalizzare le risorse retoriche della «guerra vittoriosa» ai fini della propria legittimazione. La prima parte del volume è dedicata all’analisi delle campagne elettorali legislative del 1919, 1921 e 1924, all’uso politico della guerra nei discorsi, nei programmi e nei simboli dei candida- ti. Nella seconda l’attenzione si concentra sulla «guerra in Parlamento», attraverso lo studio del- le frequenze con cui alcuni termini ricorrono nei discorsi della Corona e in quelli programmati- ci dei nuovi governi, oltre all’analisi dell’attività degli ex combattenti e del loro ruolo in un Par- lamento che fallì nel tentativo di ergersi a centro simbolico della nazione uscita dal conflitto. Così come nel 1915 solo dopo una sorta di colpo di Stato si era riusciti a far vincere le ra- gioni del fronte interventista e trascinare il paese in guerra, all’indomani della pace vittoriosa fu solo dopo la marcia su Roma e le elezioni del 1924 che nel Parlamento e sulla scena pubblica si riuscì a imporre una liturgia unitaria e una retorica dominante capaci di celebrare la vittoria. Ma la solennità delle cerimonie, «che sembrava aver restituito il perduto decoro al Parlamento», non ne ripristinava il prestigio ma «era funzionale a un suo ulteriore asservimento» (p. 109). Roberto Bianchi

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Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 558 pp., Û 18,50

Il Berlinguer raccontato da Francesco Barbagallo è una figura complessa e tormentata, fi- glia delle molte contraddizioni della sinistra, in un paese difficile e di frontiera come l’Italia. Il suo profilo è tratteggiato attraverso il vaglio di una ricchissima riflessione storiografica e di una dettagliata analisi documentale di prevalente carattere politico. La trama biografica, inol- tre, finisce con il sovrapporsi immediatamente alla più generale storia collettiva del comuni- smo italiano, al cui interno Berlinguer sembra rappresentare una sorta di estremo e irrisolto tentativo di compiere il destino del «partito nuovo» togliattiano. Lo testimonia la centralità narrativa che l’autore affida al tema del compromesso storico, il grande incontro tra quelle masse popolari escluse dal processo risorgimentale che, tuttavia, erano divenute il perno del- la nuova Costituzione repubblicana e antifascista. Un Berlinguer pienamente togliattiano, insomma, che aggiornava la lezione del maestro sviluppandone le principali intuizioni, ma ereditandone anche una lettura assai problematica della democrazia italiana, segnata dalla persistente forza di interessi retrivi e pericolosamente ostili alle sinistre, annidati nei meandri del potere economico, negli apparati burocratici non elettivi, in un fascismo alimentato dai veleni della guerra fredda. Di fronte a ciò, i soci fonda- tori della Repubblica democratica erano costretti a difendersi, unendosi in una coalizione quanto più larga possibile, rifiutando una logica bipolare del sistema politico e, a maggior ra- gione, l’ipotesi di un’alternativa di sinistra. La democrazia italiana, in altri termini, era anco- ra troppo fragile per sopportare un governo progressista forte, appena, di un 51 per cento dei consensi. Soprattutto, evidenzia a più riprese Barbagallo, se il protagonista doveva esserne un partito come il PCI, drammaticamente combattuto tra l’orgogliosa appartenenza internazio- nalista e la concreta pratica riformista. Era proprio su questo terreno che Berlinguer incontra- va alcune convergenti preoccupazioni di Aldo Moro e la sua riflessione sulla cosiddetta «terza fase» della Repubblica. La morte del leader DC non troncava di netto soltanto il dialogo tra i due leader, ma bloc- cava definitivamente la democrazia italiana, ingessandola nella formula di un pentapartito che l’autore legge come la miope auto-condanna di un sistema politico, crollato — poi — nel giro di poco più di un decennio. Un destino probabilmente non ineluttabile, soprattutto se Craxi e Berlinguer avessero saputo «intendersi» e costruire un asse non conflittuale tra le rispettive for- ze, nonostante le invalicabili differenze che segnavano le rispettive personalità e i modi di inten- dere la vita e la politica. Ma anche, aggiungerei, se il PCI avesse scelto di adeguare la forma alla sostanza, l’identità alla concreta pratica riformatrice, dispiegando conseguenti strumenti anali- tici per leggere in maniera corretta la crisi degli anni Settanta: un errore che non fu un inciden- te di percorso, ma il prodotto della distorta ottica catastrofista, tipica di una cultura economica nata in seno all’esperienza della Terza Internazionale. Giovanni Cerchia

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Francesco Bartolini, Rivali d’Italia. Roma e Milano dal Settecento a oggi, Roma-Bari, La- terza, VIII-327 pp., Û 18,00 Oggetto dello studio è «la retorica antagonista che ha caratterizzato il discorso pubblico su Roma e Milano dall’Unità fino ai nostri giorni» (p. V). Bartolini ricostruisce questa dialet- tica da varie angolazioni e attraverso diverse tipologie di fonti. Il confronto parte dall’età dei Lumi e si snoda lungo 15 capitoli. La Milano illuminista si contrappone alla Roma dei papi nel carteggio tra i fratelli Verri: nell’ottica di Pietro, Roma è condannata ad identificarsi con l’esiziale alleanza Trono-Altare e col malgoverno di età spa- gnola. Nemmeno la nascita della Repubblica «giacobina» estirpa le diffidenze ambrosiane ver- so la città eterna. In seguito, Roma spreca le occasioni di riscatto offertele da Gioberti e Maz- zini, cosicché all’indomani di Porta Pia le perplessità sopravanzano di gran lunga gli entusia- smi. In effetti, l’Urbe laica e scientifica sognata da Sella fatica ad affermarsi sulle connotazio- ni negative di una città che ora è anche simbolo del dissidio tra nazione e religione. Nel 1881 l’Esposizione industriale, auto-finanziata, consacra la vocazione milanese al lavo- ro, all’innovazione, ad un pragmatismo alieno alle regole e ai riti della politica romana. Nello stes- so anno è varata la prima delle leggi speciali che alimentano le polemiche sul parassitismo di Ro- ma, il cui destino dipende sempre più dalle decisioni e dalle casse dello Stato. Il dualismo tra «ca- pitale morale» e «capitale politica» confluisce tra i due secoli nell’ampio discorso che contrappo- ne il Nord intraprendente al Sud immobile e fatalista. Tuttavia, negli anni Trenta la sede del «fa- scio primogenito» deve contemplare, riottosa e defilata, l’incoronazione della rivale a capitale del- l’Impero. Nel 1946 a Milano vince la repubblica e i socialisti tornano alla guida del municipio; a Roma, invece, vincono la monarchia, la DC e le destre. Negli anni ’50 a Milano si ricostruisce e si produce; a Roma, la parabola del centrismo si intreccia con gli scandali. A Milano arrivano il boom e i grattacieli, mentre le Olimpiadi del 1960 non bastano a migliorare l’immagine della «capitale mediocre» degli impiegatucci e degli affaristi. Nel decennio successivo l’ottimismo am- brosiano è messo in crisi dagli ambientalisti e dalla stagione della violenza, proprio quando l’ar- rivo di Argan al Campidoglio pare annunciare l’imminente successo del compromesso storico e l’avvio – da Roma – di un profondo rinnovamento della politica nazionale. Sta iniziando un len- to processo da cui emergono, nella Seconda Repubblica, una Roma «milanesizzata» che si affida all’amministrazione per conciliare tradizione e modernità, e una Milano «romanizzata» che, col PSI prima e con Forza Italia e Lega poi, si installa nelle stanze del potere centrale. Bartolini racconta questa storia in modo avvincente, ricostruendo in ogni capitolo un momento del confronto e le produzioni discorsive (quasi sempre di matrice milanese) che en- fatizzano le alterità e le traducono in stereotipi. La sua accurata indagine coglie però pure i li- miti di quei discorsi, mettendoli a confronto con la realtà di pratiche – politiche, amministra- tive, urbanistiche – che testimoniano piuttosto di due approcci quasi sempre differenti, ma non «contrapposti», alle sfide della modernità. Maria Pia Casalena

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Stefano Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di «bonifica etnica» al confine nord-orien- tale, Pistoia, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Pistoia, 151 pp., Û 10,00

Il silenzio che la colpevole storiografia italiana ha calato su esodo e foibe non è stato invoca- to per le persecuzioni del fascismo nei confronti delle minoranze croata e slovena nella Venezia Giulia. Di fascismo in Italia si è scritto e letto molto e pubblicazioni non mancano anche sul «fa- scismo di frontiera». Gli scritti di Salvemini sulle minoranze, risalenti agli anni Trenta, hanno poi avuto ampia diffusione e negli anni Sessanta i libri di Pacor e Apih sono stati pubblicati da editori nazionali come Feltrinelli e Laterza. Tuttavia, i contributi in italiano di Cermelj,ˇ Kacin- Wohinz, Parovel e Vinci, il volume L’Istria tra le due guerre (Roma, Ediesse, 1985) e le numero- se pubblicazioni degli Istituti della Resistenza di Udine e Trieste sono rimasti ai margini di una consapevolezza storiografica a livello nazionale. Il tema, proprio come per esodo e foibe, non ha avuto un suo spazio nella manualistica contemporanea, venendo letto e spiegato come fenome- no minore all’interno della più generale politica fascista, mentre maggiore risonanza ha avuto la politica imperialista italiana nei Balcani. Partendo dagli spunti di Collotti sul «razzismo antisla- vo» e lavorando su una bibliografia già esistente (ma appunto poco nota e digerita in ambito na- zionale), il lavoro di Stefano Bartolini intende proprio mettere in relazione l’antislavismo («par- te integrante della generale ideologia fascista», p. 10) e l’italianizzazione forzata (seppure fallita) di sloveni e croati in Venezia Giulia, con le mire balcaniche del nazionalismo italiano e, al tem- po stesso, con il razzismo italiano nei confronti di africani ed ebrei. Oltre a ricapitolare e rende- re chiari i passaggi della chiusura di ogni segno o presenza pubblica delle minoranze slovena e croata, il pregio del testo di Bartolini è di affrontare questioni quali la continuità sul lungo pe- riodo del razzismo fascista e del trattamento persecutorio delle minoranze all’interno dello Sta- to (a partire dal 1918), e soprattutto l’apparente contraddizione nell’atteggiamento nei confron- ti di sloveni e croati tra assimilazione e rifiuto razzistico. Secondo Bartolini, la «bonifica etnica» viene «declinata alle volte nel senso di un’integrazione, una purificazione che libera il terreno da- gli slavi trasformandoli in italiani, ma altre volte è un’espulsione, un programma di colonizza- zione italiana che espelle gli allogeni» (p. 40). A cavallo degli anni Trenta maturano, infatti, pro- getti di espropri terrieri e colonizzazione in favore di elementi di «chiara razza italiana» (p. 123). La scelta di una colonizzazione lenta e attraverso «cellule di bonifica nazionale, sparse in tutta la superficie della zona abitata da allogeni» (p. 124) [corsivi miei], invece di espropri rapidi e per fa- sce compatte, e soprattutto la sproporzione «fra i mezzi a disposizione e i grandi progetti fasci- sti» (p. 124), ostacolano il successo del progetto, anche se un’accelerazione rapida della politica antislava si ha con la politica di espansione in Adriatico orientale, in una sovrapposizione cre- scente in Venezia Giulia tra «antislavismo e antisemitismo» (p. 125). Vanni D’Alessio

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Duccio Basosi, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Polistampa, 250 pp., Û 16,00

La scelta effettuata nell’agosto 1971 dall’amministrazione statunitense di sospendere la convertibilità del dollaro in oro «fu un ingrediente primario del processo che Richard Nixon mise in opera tra il 1969 e il 1973, di superamento di una drammatica fase di declino degli Stati Uniti» (p. 21). È questo l’assunto centrale del volume. L’autore sottolinea con forza il ca- rattere strategico della politica economica internazionale seguita dall’amministrazione Nixon, prendendo le distanze sia dalle analisi che mettono l’accento su un presunto disinteresse del presidente nei confronti delle questioni economiche, sia dalle interpretazioni fondate sul ca- rattere necessitato e contingente di decisioni che si vorrebbero compiute nella morsa di una crisi esogena, rilevando invece come esse fossero state concepite nel quadro di una politica te- sa alla ricerca del maggior grado di «autonomia nell’interdipendenza» (p. 194), che mirava a rompere i vincoli che gli impegni assunti a Bretton Woods imponevano alla superpotenza, in vista di un recupero della leadership, se non dell’egemonia, sul campo occidentale. L’analisi si sviluppa lungo l’arco dei cinque anni compresi tra l’insediamento dell’ammi- nistrazione repubblicana e il 1973, anno che vide l’accantonamento definitivo del sistema dei cambi fissi. La solidità della base documentaria del volume, frutto di una ricerca pluriennale condotta principalmente presso archivi statunitensi, consente a Basosi, oltre che di sostanzia- re in modo convincente la sua ipotesi principale, di far emergere alcune tematiche di grande interesse. Ad esempio, si evidenzia come il superamento del sistema dei cambi fissi non fosse da ascrivere solo ad una logica di pura politica di potenza, ma rispondesse anche a pressioni provenienti dalla business community interna che mal sopportava i controlli sui flussi di capi- tale istituiti dall’amministrazione Johnson nel tentativo di porre un freno alla crisi della bilan- cia dei pagamenti. Inoltre, emerge con grande forza dal libro la profonda crisi delle relazioni transatlantiche, con un’amministrazione statunitense sempre più irritata, quando non ostile, soprattutto nei Dipartimenti economici, nei confronti di una Comunità Europea vista sem- pre più come un pericoloso concorrente economico e un ostacolo, data la sua difesa del siste- ma dei cambi fissi a protezione del Mercato comune e della PAC, sulla via della rescissione dei lacci che tenevano avvinto il Gulliver statunitense ad un sistema monetario ritenuto ormai dannoso per gli interessi del paese. Al fondo si trattava per Nixon di risolvere la dialettica tra le esigenze derivanti dal ruolo di leader del blocco occidentale, che richiedevano di ricercare una soluzione concertata con i partner, e la difesa dell’interesse nazionale o, meglio, di inte- ressi nazionali. In quale senso fu risolto il dilemma è ben evidenziato dalle parole di John Con- nally, segretario al Tesoro, figura chiave nel far prevalere all’interno dell’amministrazione l’op- zione unilaterale: «I nostri amici ci vogliono fregare; il nostro compito è quello di fregarli pri- ma» (p. 145). Francesco Petrini

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Rainer Baudendistel, Between Bombs and Good Intentions: the Red Cross and the Italo- Ethiopian War, 1935-1936, New York, Berghahn Books, XVII-342 pp. s.i.p.

Questo non è un volume di storia italiana, o di storia dell’espansione coloniale italiana, ma dice a noi cose assai importanti sul fascismo e sul colonialismo nostrano. È un volume sulla storia del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) e delle trasformazioni dell’intervento umanitario in genere, una della quali l’autore collega in manie- ra convincente proprio alla Guerra d’Etiopia. Con una approfondita ricerca negli archivi del- la Croce Rossa l’autore segue il formarsi della decisione di intervenire in Etiopia da parte del CICR, le contraddizioni che tale decisione apre in seno ai decisori e agli operatori (europei) della Croce Rossa, la loro attività concreta, le difficoltà innescate dall’azione politica e milita- re dell’Italia fascista e dai suoi scopi e metodi di guerra (uno solo dei quali fu il ricorso ai gas), le riflessioni e le polemiche (rimaste sino ad oggi quasi impercettibili) che tale operato inne- scò dentro il CICR. L’impostazione del volume risente assai beneficamente della personale esperienza maturata dall’autore i cui contributi non erano passati ignorati (a partire da un sag- gio su Force versus law apparso una decina di anni fa sulla «International Review of the Red Cross») in più di un quarto di secolo in organismi umanitari e in contesti diversi, dal Corno d’Africa all’Estremo oriente: la sua sensibilità e la sua esperienza sono alla base di un’analisi così articolata, e così impietosa, dell’operato del CICR nel 1935-36. Ma il volume è assai rilevante anche per i cultori di storia italiana ed europea. Conferma cosa il fascismo abbia rappresentato per molti versanti nella storia degli anni Venti e Trenta: in questo caso sia per il versante della storia della guerra sia della storia dell’espansione euro- pea. È infatti la decisione fascista – e non in un anno astratto, ma proprio nella età degli anni Trenta – di adottare una specifica condotta di guerra, di usare fra l’altro i gas, di non curarsi dei prigionieri di guerra etiopici, di bombardare i centri e gli ospedali della Croce Rossa, di non riconoscere la liceità del suo intervento a fianco dell’Etiopia (anzi di gettarvi sopra e at- torno sospetti e veleni) a fare la differenza rispetto ad altri governi liberali e democratici del tempo, per non dire rispetto all’opinione pubblica internazionale (che, come sappiamo e co- me ci aveva confermato con due volumi circa trenta anni fa Giuliano Procacci, si mobilitò in genere contro l’azione fascista). Altre potenze coloniali di quegli anni, dalla Francia alla Gran Bretagna, operarono assai duramente in campagne circoscritte geograficamente e politica- mente nelle proprie colonie: ma nessuna, come invece l’Italia fascista, sfidò sia l’opinione pub- blica internazionale, sia la Lega delle nazioni (e su questo la bibliografia era vasta), sia – sap- piamo oggi grazie a Baudendistel – la Croce Rossa, cioè l’emblema dell’umanitarismo inter- nazionale. Nicola Labanca

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Arnd Bauerkämper, Der Faschismus in Europa 1918-1945, Stuttgart, Philipp Reclam Jr., 210 pp., Û 5,40 L’esile, ma denso, volumetto pubblicato nella classica collana gialla dell’antica casa editrice tedesca, rappresenta un utile ed interessante tentativo di fare il punto sul più recente dibattito internazionale sulla categoria di «fascismo», intesa in senso sovranazionale e tipologico. Il dibat- tito, ripreso nell’ultimo decennio ad opera di storici angloamericani, ha trovato scarsa risonan- za sia in Italia che in Germania. L’autore, specialista in storia comparata, si propone di offrire un quadro articolato e problematico – nonostante il ridotto spazio disponibile – sia della più recen- te discussione storiografica, che delle evidenze fattuali, che a suo avviso consentono di parlare di una categoria generale di «fascismo». Secondo Bauerkämper ciò è possibile con alcune limitazio- ni temporali (l’Europa fra le due guerre) e spaziali: il continente europeo, appunto. Tuttavia, in brevi ma dense pagine egli si sofferma anche su fenomeni extra-europei: dal Giappone all’Ame- rica Latina, in cui gli pare di cogliere più le differenze che le analogie con i movimenti ed i regi- mi emersi nel continente europeo nel periodo inter-bellico. Ed in un capitolo finale prende in considerazione anche il fenomeno dell’estremismo di destra nell’Europa postbellica. Bauerkämper fa propria un’impostazione genetica del fascismo e concentra perciò la sua attenzione sugli specifici contesti storici, che hanno profondamente influenzato l’esito dei sin- goli movimenti fascisti o para-fascisti. Al di là delle differenze, gli pare però che vi siano al fon- do alcune comunanze, sia di natura ideologica, che relative alle caratteristiche sociali del con- senso che i movimenti fascisti riuscirono a conquistare. Più in generale, egli definisce il fasci- smo come una risposta, un tentativo di risposta (determinato da uno specifico contesto stori- co), alle questioni poste dalla modernità, che dopo il primo conflitto mondiale avevano as- sunto una particolare rilevanza. Non solo comunanze di natura strutturale, ma anche i rap- porti fra i diversi movimenti e partiti fascisti – pur ostacolati dalla loro ideologia radicalmen- te nazionalistica – gli paiono atte a giustificare l’utilizzo in chiave ermeneutica della categoria generale di «fascismo». Bauerkämper affronta i singoli casi (non tutti, ma concentrandosi sul- le principali aree geografiche, dal Nord, ad Occidente, al Sud-est europeo) commisurandoli ad una serie di criteri: dalla genesi (in particolare egli analizza il rapporto fra movimenti fasci- sti ed élite conservatrici), all’ideologia, dalla struttura organizzativa e di potere, alle caratteri- stiche del consenso, allo stile politico. Ne scaturisce un quadro molto ricco e denso, con brevi ma efficaci analisi dedicate ai sin- goli casi, partendo dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma focalizzando anche casi assai meno noti, come quello finlandese o quello britannico. Il lavoro qui recensito mi sembra perciò esse- re un’opera estremamente utile, che dovrebbe venire tradotta in Italia. Non da ultimo per il fat- to che, pur con caratteristiche ben diverse rispetto ai decenni fra le due guerre mondiali, all’au- tore sembra di concludere che nel mondo odierno vi siano alcune condizioni per favorire l’affer- mazione di movimenti d’estrema destra, xenofobi e nemici della democrazia. Gustavo Corni

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Lorenzo Bedeschi, L’idea del partito nazionale fra i cattolici italiani (da Murri a Sturzo), Urbino, Quattroventi, 85 pp., Û 10,00 Don Bedeschi è morto nella notte tra il 15 e il 16 novembre 2006. Nel suo lungo cammi- no (iniziato a Bagnacavallo il 17 agosto 1915) la ricerca storica si è intrecciata con la riflessione teologica e un vigoroso e generoso impegno civile. Legato alla Università di Urbino, dove ha in- segnato a partire dal 1966, e alla città medesima, dalla quale ha ricevuto la cittadinanza onora- ria. Fondatore e animatore del Centro studi per la storia del modernismo che dalla fine degli an- ni Settanta ha motivato una stagione di ricerche e riflessioni dai risultati rilevanti ben al di là dei confini della disciplina e degli ambiti nazionali di riferimento. La raccolta della documentazione – a partire dall’archivio del pastore protestante Paul Sabatier – ha dato risultati insperati fornen- do una base unica: archivi privati ricchi di corrispondenze e documentazione da cui è passata più di una generazione di studiosi del riformismo religioso di fine Ottocento e inizio Novecento. Ba- sti in questa sede il richiamo agli annali «Fonti e Documenti», all’attività della Fondazione Ro- molo Murri e al Dottorato in Storia dei partiti e dei movimenti politici fondato nel 1983. Il volume è un piccolo distillato di alcune delle posizioni più significative e controverse di Bedeschi. Poche pagine accompagnate da un’appendice documentaria preziosa. Quattro documenti «di difficile reperimento» (p. 55) e di facile lettura: una sintesi dei discorsi di Mur- ri di fine Ottocento relativi alla auspicata organizzazione dei cattolici in politica; la recensio- ne di Sturzo dedicata al murriano «Battaglie d’oggi» non presente nell’opera omnia del prete di Caltagirone; un articolo di Murri successivo alla soppressione dell’Opera dei Congressi, esplicitamente finalizzato alla promozione di un’organizzazione dei cattolici; la Conferenza di Bologna (11 dicembre 1906) nella quale Murri tratteggia una possibile funzione per un «par- tito nostro, giovane, nuovo separato dalla borghesia liberale» (p. 56). Nella prima parte del volume l’autore fa riferimento all’appendice documentaria puntua- lizzando alcuni snodi interpretativi. Su due questioni torna con insistenza. In primo luogo, sul tema delle origini del confronto sul partito cattolico. Il 2006 è stato l’anno del centenario del celebre discorso di Caltagirone; tuttavia sono spesso ignorati gli antecedenti, vale a dire le premesse su cui Sturzo poggia la propria proposta politica. In questo quadro è centrale la ri- flessione di Murri che, secondo l’autore, rimane il punto di partenza per comprendere a pie- no la portata del fenomeno. «Stranamente, ma non inspiegabilmente, si è verificato che il di- scorso di Caltagirone anziché essere considerato una naturale e riuscita ramificazione dell’al- bero murriano (come realmente pare doversi considerare) sia entrato trionfalmente nell’opi- nione pubblica e nei manuali scolastici come annuncio originale…» (p. 29). Il secondo ele- mento di giudizio investe la continuità tra la prima Democrazia cristiana e il Partito popola- re, sottolineando così la fecondità della riflessione murriana. Pagine dense dove scivolano in secondo piano le diverse idee di partito cattolico che pu- re hanno attraversato protagonisti e comprimari di una dialettica di lungo periodo. Umberto Gentiloni Silveri

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Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Roma, Carocci, 189 pp, Û 16,50

«Questo non è un libro sulla legge Merlin, ma sui discorsi che essa produce» (p. 8). In quest’affermazione è racchiuso il tema e l’approccio metodologico della nuova ricerca di Bel- lassai che con questo libro ci regala uno spaccato interessante, e indagato con acutezza, della storia della mentalità in un paese in tumultuosa trasformazione. Con notevole sensibilità so- ciologica, Bellassai racconta l’Italia degli anni ’50 ponendo alle sue fonti – i discorsi parlamen- tari, gli articoli dei quotidiani e della stampa periodica, le lettere ai giornali, la letteratura me- dica e giuridica, i testi cinematografici e teatrali – e ai suoi ideali interlocutori – parlamenta- ri, medici, giuristi, scrittori e uomini comuni – domande e questioni che raramente gli stu- diosi pongono alla storia italiana del secondo Novecento. Il libro è anche sulla legge Merlin, diversamente da quanto Bellassai con un certo under- statement afferma. E di questa legge si segue, nel primo capitolo, il faticoso e tortuoso iter legi- slativo. E però, la legge Merlin protagonista di questo volume è analizzata da un punto di vista originale, quello delle «dinamiche della mascolinità» (p. 8). È il punto di vista maschile, o me- glio sono i diversi punti di vista maschili sulla sessualità e sulla morale femminile, anche e so- prattutto quelli «perdenti», a costituire l’oggetto dell’analisi di Bellassai. La chiusura dei bor- delli o più precisamente la proposta della loro chiusura scatena un dibattito in cui si scontrano cifre, ipotesi apocalittiche (orde di prostitute si sarebbero riversate per le strade provocando la diffusione di terribili malattie), scenari inquietanti e fantasie che non hanno alcun rapporto con la realtà ma che sono rivelatori di mentalità, dello stato del rapporto tra i sessi nella società ita- liana, di quanto il femminismo abbia cominciato a informare di sé alcuni discorsi, della tena- ce resistenza e diffusione di certi modelli femminili in un immaginario maschile che ragiona secondo una «logica binaria» per cui la donna è o «angelo del focolare» o «viziosa» (p. 9). I li- velli dei discorsi che sono analizzati nel volume sono numerosi e diversi, si sovrappongono e si intrecciano: c’è quello asettico e scientifico, e quindi apparentemente neutro, della questione medica e igienico-sanitaria che rimette in circolazione temi positivisti, terminologie lombro- siane e concezioni organiciste con l’obiettivo di mantenere saldo il controllo sanitario sulle don- ne nella convinzione di difendere per questa strada l’ordine morale della società intera; c’è quel- lo della questione morale che ispira molti favorevoli alla legge, ma anche molti antiabolizioni- sti che attingono al medesimo serbatoio di argomentazioni dei favorevoli per opporsi; c’è quel- lo, minoritario, che auspica maggiore libertà per le donne e un di più di uguaglianza tra i due sessi. Misoginia, virilismo, moralismo, liberalismo, atteggiamenti molto diversi tra loro che il dibattito sulla legge Merlin rivela, facendo emergere una società in cui in mezzo ai timori di un mondo maschile che fa fatica a fare i conti con trasformazioni rapide e impressionanti si fa stra- da «un senso comune più “moderno” e “civile”» (p. 163). Daniela Luigia Caglioti

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Luca Bellocchio, L’eterna alleanza. La «special relationship» angloamericana tra continuità e mutamento, Milano, FrancoAngeli, 235 pp., Û 18,00

Cosa qualifica come «speciale» la relazione tra Gran Bretagna e Stati Uniti? Quali sono i fattori alla base di questa unicità? Come si possono equilibrare dimensione sistemica e con- tingenza storica nello spiegare sia la tenuta sia la profondità del rapporto angloamericano? So- no questi gli interrogativi cui cerca di dare risposta Luca Bellocchio in un volume originale e sofisticato, anche se non sempre sistematico e preciso. Il libro è diviso in tre parti. Nella prima – la migliore – Bellocchio definisce un framework teorico per esaminare le peculiarità della relazione tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Nella se- conda parte si cerca, non sempre con successo, di applicare tale framework all’epoca storica, la guerra fredda, quando l’alleanza angloamericana non solo conobbe una profonda istituziona- lizzazione, ma maturò quella dimensione peculiare che ha finito per distinguerla e qualificar- la. Nella terza parte, infine, ci si sofferma sul dopo guerra fredda e su come l’alterazione siste- mica successiva al 1989 abbia inciso anche sulla special relationship. Un capitolo conclusivo è dedicato all’11 settembre e al suo impatto sul rapporto tra Washington e Londra. Nella parte sulla teoria, Bellocchio opta proficuamente per un approccio eclettico, muo- vendosi tra le riflessioni delle diverse scuole di relazioni internazionali ed evitando le rigidità che spesso conseguono all’adozione di paradigmi esclusivi, siano essi di matrice realista, libe- rale o costruttivista. Questa «irriverenza teorica» (p. 13) permette all’autore di adattare e in- trecciare efficacemente le riflessioni realiste e neo-realiste sul potere e la struttura, quelle libe- rali e neo-liberali sul ruolo delle istituzioni, quelle costruttiviste sul peso di elementi identita- ri, in particolare il cemento anglosassone e «anglo-sassonista». Nel farlo, Bellocchio offre al lettore una rassegna critica ed esaustiva delle principali riflessioni politologiche sul tema del- le alleanze, notando peraltro come proprio la «natura assiomatica» (p. 15) della relazione an- gloamericana abbia finito paradossalmente per inibire la riflessione teorica su di essa e sulle sue cause. Più debole è invece la parte strettamente storica. La decisione di limitarla al post-1945 ridu- ce grandemente la possibilità di fare pieno utilizzo delle intuizione di molte riflessioni costrutti- viste. Qua e là, vi sono semplificazioni eccessive e interpretazioni discutibili. Per quanto rilevan- te, la valenza periodizzante della crisi di Suez è assai esagerata: appare francamente riduzionistica l’affermazione secondo la quale «con Suez la Gran Bretagna cesserà di essere una grande potenza perché non potrà più prendere decisioni in contrasto con la volontà del governo americano» (p. 134). Così come molte perplessità desta la parte finale sul dopo guerra fredda, in particolare lad- dove si sostiene che gli USA intendevano utilizzare la Gran Bretagna come leva «attraverso cui impedire il prevalere sia di un egemone regionale, che il formarsi di un superstato europeo che avrebbe potuto insidiare il ruolo egemonico globale statunitense» (p. 189). Mario Del Pero

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Luca Bellocchio, Irlanda del Nord. Un conflitto etnico nel cuore dell’Europa, Roma, Melte- mi, 208 pp., Û 18,50

Il volume presenta una rapida sintesi delle vicende politiche che hanno stravolto il desti- no delle sei contee settentrionali dell’isola d’Irlanda dalla partizione del 1921 fino ai giorni nostri. Si tratta di uno strumento concepito per un uso prevalentemente didattico, basato su un resoconto descrittivo degli avvenimenti più significativi, che però non manca di un con- ciso ed esauriente richiamo alla storiografia e di un’ampia riflessione conclusiva sulle questio- ni interpretative. Queste vengono peraltro affrontate implicitamente già nel corso della nar- razione della prima sezione, Una lacerazione europea: dalla partition al post-11 settembre, che ripercorre schematicamente la complessa trama politico-istituzionale dell’Irlanda del Nord, sullo sfondo del più ampio contesto della storia europea e di quella delle relazioni internazio- nali tra Gran Bretagna, Repubblica d’Irlanda e Stati Uniti. La narrazione prende le mosse dalla fine della prima guerra mondiale, soffermandosi sul- la mancata applicazione del principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli alla com- plessa realtà dell’Impero britannico. Il non aver definito la contraddizione tra le aspirazioni nazionali della provincia nord-irlandese e il principio dell’integrità territoriale dell’isola ha condannato due comunità, segnate da un profondo antagonismo etnico, alla convivenza for- zata in una entità politica priva di ogni legittimità. Una sorta di «quasi-Stato», forma politi- co-territoriale assolutamente indecifrabile e segnata dalla macchinosità dei molti meccanismi istituzionali progettati a tavolino dai governi di Westminster prima e dall’azione congiunta di Londra e Dublino poi. A questo scenario politico alquanto confuso e variegato segue quel clima di feroce violen- za che imperversa nelle strade da oltre trent’anni. Un conflitto etnico-nazionale che è ora so- lo apparentemente congelato, sostiene l’autore, nell’attuale clima di «lotta al terrorismo», ma che è lungi dall’aver definitivamente accantonato la possibilità di ripresa della guerra civile. Ecco che l’importanza dell’irrisolta «questione» nord-irlandese, «ci ricorda ogni giorno, com’e- ra l’Europa, non molto tempo fa» (p. 150), e soprattutto ci mette in guardia dalla facilità con cui la dimensione statuale viene dichiarata oltrepassata, così come dai fatui entusiasmi per l’e- sportazione aprioristica della democrazia. Nella seconda parte del libro, Natura del conflitto e strategie di accomodamento, l’autore prende in esame alcuni dei principali contesti interpretativi del conflitto nord-irlandese, en- trando nelle tante sfaccettature e contraddittorietà delle posizioni nazionaliste ed unioniste, per poi offrire una panoramica delle teorie interpretative marxiste e di quelle confessionali. Bellocchio assolve in questo modo un importante compito: quello di sgomberare il campo da tutta una serie di argomentazioni fallaci, facendo chiarezza tra i vari miti, stereotipi e cliché che ancora persistono nella «disconoscenza» tutta italiana del conflitto. Flavia Cumoli

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Stefano Bellucci, Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale, Roma, Carocci, 157 pp., Û 14,30

L’agile volumetto di Bellucci costituisce un’utile guida a un tema, quello dei conflitti ar- mati e delle guerre civili nell’Africa subsahariana, che ha segnato le cronache politiche del con- tinente. Adottando un’ampia prospettiva storica, l’autore articola il suo lavoro in cinque ca- pitoli dedicati rispettivamente allo Stato postcoloniale, alla definizione delle guerre africane, ai due casi maggiori del Congo (ex Zaire) e del Corno d’Africa, e infine alle conseguenze e agli impatti della globalizzazione sulla natura dei conflitti armati. Il volume è completato da una cronologia e da una bibliografia che include la più rilevante letteratura internazionale (ormai vastissima). Fin dall’introduzione l’autore rileva che l’Africa costituisce il continente che ha conosciu- to in epoca contemporanea il maggior numero di conflitti; più tardi (p. 42) mette in eviden- za la relativa minore incidenza (rispetto ad altre aree, come l’Asia, il Medio Oriente e la stes- sa Europa) delle guerre legate a rivendicazioni secessioniste, contrariamente al luogo comune che vede l’Africa come continuamente sull’orlo della disintegrazione e della frammentazione. Queste due constatazioni costituiscono le domande centrali attorno alle quali ruota gran par- te dell’analisi condotta nel volume, che si potrebbe riassumere nel tentativo di delineare le re- lazioni tra la produzione di conflitto armato (nella tipologia principale di guerra civile) e la difficile dialettica tra la «persistenza» dello Stato-nazione postcoloniale e la sua crisi. Da que- sto punto di vista, il lavoro riesce a fornire un quadro abbastanza completo, sia pure sinteti- co, delle maggiori componenti attuali (ossia dell’epoca post-bipolare e della globalizzazione) della conflittualità armata e della sua natura in evoluzione, trattando temi che sono stati al centro del dibattito (e delle controversie interpretative) nell’ultimo decennio, quali la questio- ne delle risorse (le cosiddette resource wars), i processi di «criminalizzazione» dei conflitti, il fenomeno della «privatizzazione» della guerra e della sicurezza. In questa trattazione risulta tuttavia non del tutto convincente l’analisi delle relazioni tra conflittualità ed esclusione so- ciale, qui ricondotta soprattutto alla tematica dell’etnicismo, mentre poca attenzione è rivol- ta, se non nei termini un po’ troppo generici del sottosviluppo e della povertà, a cruciali con- flitti e tensioni sociali (ad esempio quello sulla terra) o segmenti sociali strategici come i gio- vani o le donne. Un’ultima annotazione riguarda il poco spazio riservato alle politiche di prevenzione e ge- stione dei conflitti elaborate dai paesi africani (su scala continentale o attraverso gli organismi regionali). Sull’efficacia di tali politiche si potrebbe ovviamente discutere a lungo, ma esse han- no comunque conosciuto un’interessante evoluzione dopo la fine della guerra fredda e, anche da un punto di vista metodologico, il nuovo «protagonismo» africano su questo terreno avreb- be certamente meritato un maggiore approfondimento. M. Cristina Ercolessi

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Bartolomé Bennassar, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale, Torino, Einaudi, XV- 520 pp., Û 28,00 (ed. or. Paris, 2004) Noto in Italia per i suoi studi sull’Inquisizione e sul Secolo d’Oro, l’ispanista francese ha fatto frequenti incursioni nella storia della Spagna contemporanea ed è divenuto sempre più prolifico. Così nell’ultimo quinquennio ha scritto, tra l’altro, una monografia sul conquista- tore Hernán Cortés, un excursus su l’«uomo spagnolo» tra XVI e XIX secolo, un romanzo am- bientato in Colombia, una panoramica su regine e principesse europee in età moderna, e in- fine questo libro sulla guerra civile spagnola, apparso in Francia nel 2004, che non solo ab- braccia gli anni della Repubblica anteguerra e del conflitto, ma dedica anche una cospicua par- te al dopoguerra. Malgrado lo sforzo tuttavia, l’opera risulta per molti aspetti imprecisa e ap- prossimativa, spesso incomprensibile nella sua sequenza espositiva, povera di fonti e alquan- to infondata sul piano interpretativo. Quanto ad esattezza, per esempio, l’autore presenta Azaña come capo della coalizione re- pubblicana già nel giugno del 1931, quando bastava leggere la biografia di Juliá per sapere che egli occupò quel ruolo solo nell’ottobre successivo come «homo novus» per un gioco di veti in- crociati; oppure la caduta del governo Caballero nel maggio 1937 è presentata come complotto comunista, quando si sa che fu unanimemente voluta anche dai partiti «borghesi» del Fronte po- polare. La capricciosità dell’impianto narrativo – martoriato peraltro da un traduttore ignaro del- l’argomento – rende poi il libro spesso incomprensibile. Ci si chiede, ad esempio, quali nozioni possa ricavare il lettore all’oscuro della materia, da una trattazione del contesto internazionale della guerra esposta secondo questa successione di paragrafi: come la Repubblica ha pagato le ar- mi sovietiche, la Repubblica chiede aiuto alla Francia, i ribelli ricevono aiuti da Hitler e Musso- lini, traffico di armi e aviatori stranieri per l’una e l’altra parte, le Brigate internazionali, il corpo di spedizione italiano, e, trattata in fine, la questione del «non intervento». Fonti insufficienti e invecchiate: per lo più il poco esistente in lingua francese, il libro di Ramón Tamames, econo- mista improvvisatosi storico negli anni Settanta, o quello di Burnett Bolloten, vera miniera di citazioni ma da leggere criticamente per la sua aperta militanza anticomunista. Dalla povertà del- le fonti e dalla loro lettura acritica discende la povertà interpretativa. Se si giudica, ad esempio, Gil Robles solo sulla base della sua tarda autobiografia, egli diventa quel perfetto democratico che non fu affatto. Se ci si basa solo su letture marginali si può ritenere che Caballero abbia fat- to entrare gli anarchici nel suo governo per impressionare favorevolmente, con un esempio di grande unità, i governi di Parigi e Londra, ma è noto, e persino ovvio, che questi non lo apprez- zarono affatto. Se si dipende da Bolloten, Negrín è senza chiaroscuri un servo di Mosca; o si la- sciano lì interrogativi – «Dobbiamo credere che le sue aspirazioni profonde concordassero per- fettamente con la strategia dell’URSS negli anni 1936-39?» (p. 296) – insulsi e senza risposta. La guerra civile spagnola è troppo complicata per essere interpretata con rapidi giudizi, ambiziosi quanto inconsistenti. Gabriele Ranzato

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Oliviero Bergamini, La democrazia della stampa. Storia del giornalismo, Roma-Bari, La- terza, IX-488 pp., Û 20,00 Bergamini ci offre un excursus di quasi cinquecento anni di storia del giornalismo che muove dal principio che «il giornalismo è un fenomeno caratteristico della modernità» (p. V). Questa affermazione, che a prima vista potrebbe sembrare quasi banale, in realtà nasconde al- meno due determinanti implicazioni di metodo e di contenuto. La prima è l’approccio net- tamente eurocentrico (o, per meglio dire, «occidente-centrico») alla materia. Giornalisti non europei o nordamericani fanno timidamente capolino solo alla p. 451 e quindi verso la fine, quando si parla di Al Jazeera. È questo un limite non solo di Bergamini ma di molti suoi pre- decessori: negli Stati Uniti, per fare un esempio, è complicatissimo trovare manuali di storia del giornalismo che non parlino solo degli Stati Uniti. La seconda implicazione riguarda un impianto metodico del manuale accentuatamente idiografico piuttosto che nomotetico. Bergamini infatti (anche qui in buona compagnia, for- se non negli Stati Uniti ma sicuramente in Italia) dialoga poco con le scienze sociali: il nome di McLuhan ricorre di sfuggita (p. 327), Innis (il vero autore delle tesi di McLuhan), Lasswell, Lazarsfeld non compaiono proprio. Il risultato è un libro sicuramente leggibilissimo, dove però ci sono dentro tantissime storie di uomini, donne, giornali, fino a faticare nel tenere in mano un filo interpretativo coerente. Una delle cose che quei sociologi dei media ci dicono è che nella storia dei mezzi di comunicazione molto difficilmente (almeno finora) il nuovo sop- prime il vecchio: lo obbliga semmai a riposizionarsi e rifondarsi ma non necessariamente com- porta la sua estinzione. Vedasi quanto avviene alla radio, ad esempio. Su questo punto il giu- dizio di Bergamini è invece assai più oscillante. Ad esempio, rispetto al nuovo fenomeno della free press distribuita gratis ai semafori, si parla di «ulteriore calo dei quotidiani, che perdono copie sotto i colpi della concorrenza di In- ternet e della nuova stampa gratuita» (p. 391) ma poi si dice che i quotidiani gratuiti «non hanno eroso in modo rilevante il mercato dei quotidiani a pagamento» (p. 447). Per quello che se ne sa i lettori della free press sono diversi da quelli dei quotidiani, sono studenti, pen- sionati, casalinghe che ampliano la circolazione della carta stampata in ragione di un terzo del totale ma non producono nessun nuovo lettore per la stampa tradizionale. Il mercato cambia, si articola e si segmenta in relazione alla complessità sociale. Mi pare invece che la chiave di lettura prediletta da Bergamini sia essenzialmente politica: le vicende italiane e statunitensi – ad esempio le pagine molto efficaci sul Sessantotto e dintor- ni – sono analizzate soprattutto in questa luce. Il che, se si seguono le tesi di Sorrentino, corri- sponde a un carattere originale di lungo periodo del giornalismo italiano: la sua vicinanza al Pa- lazzo e la sua corrispettiva distanza dal pubblico dei lettori. Bergamini quindi ripercorre la sto- ria del giornalismo in termini di spostamento «geometrico» lungo il continuum destra-sinistra. È una parte della realtà, ovviamente, ma non tutta. E forse nemmeno quella più significativa. Giovanni Gozzini

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Emanuele Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo degasperiano, Prefazione di Paul Ginsborg, Bologna, il Mulino, 397 pp., Û 28,00

La generale rivalutazione della politica degasperiana non si era ancora estesa alla riforma agraria. Bernardi sostiene che la proposta di Segni aveva un carattere progressista, che sareb- be stato colpevolmente trascurato dalla storiografia. Il saggio, frutto di una tesi dottorale, ha il merito di inquadrare la valenza anticomunista della riforma dall’angolo originale del Piano Marshall. Le carte di Segni costituiscono la fonte principale, ben integrata da archivi statuni- tensi e italiani e da interviste a esponenti della DC e a due funzionari americani. L’autore trac- cia uno scontro fra tre «modelli»: quello di Segni, favorevole a una media e piccola proprietà produttiva e all’esproprio del latifondo; quello di Serpieri e dei suoi allievi, che vedeva nel coinvolgimento dei proprietari la leva per le bonifiche e rifiutava l’esproprio; e quello «califor- niano» di Zellerbach, responsabile a Roma della missione dell’ECA. Si conferma anche in que- sto settore l’importanza degli Stati Uniti nella formulazione della politica italiana e si colma così una lacuna storiografica sul negoziato bilaterale per gli anni 1948-50. Condotti con pe- rizia sono l’analisi delle divergenze tra Segni, Sturzo e De Gasperi in tema di latifondo e bo- nifiche, la rivalutazione della legge sui contratti agrari come parte integrale della riforma e lo studio della sua prima attuazione in Puglia e Calabria. Alla fine emerge una riforma ibrida, che non corrisponde a nessuna delle visioni iniziali. Circoscrivere la ricerca alla riforma della proprietà fondiaria è stata una scelta condivisi- bile e fruttuosa; meno è ricavarne una generale rivalutazione della politica agraria democri- stiana. Il limite è nell’isolamento della riforma agraria, quasi essa fosse separata dalla politica generale del governo degasperiano e dalla strategia internazionale del Piano Marshall. Così il confronto con la storiografia finisce per essere parziale. Della Coldiretti e della Federconsor- zi, dei prezzi agricoli, dei sussidi e delle differenti idee di sviluppo tra un Rossi Doria e un Fan- fani poco si parla, quasi la proposta di Segni dovesse combattere solo contro il PCI. Si perdo- no di vista così le ragioni per cui la riforma agraria generale venne accantonata non nel 1949 ma già dall’estate del 1948, per la scelta italiana di privilegiare lo sviluppo industriale e rinun- ciare ad un’agricoltura intensiva ed esportatrice, che era il vero presupposto della proposta di Segni. I decisivi negoziati a Parigi in sede OECE e il Piano a lungo termine non vengono men- zionati. Anche l’avvio della riforma e la nascita della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 ven- gono attribuiti esclusivamente alla reazione della DC all’eccidio di Melissa dell’ottobre 1949, mentre si sorvola sull’accelerazione imposta dalla «politica della produttività» statunitense. Si auspica che l’autore prosegua la meritevole ricerca su un tema essenziale per la storia della grande trasformazione italiana, contribuendo ad affrancarci da precostituite difese «di partito». Carlo Spagnolo

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Daniela Bernardini, Paolo Pezzino, Luigi Puccini, «Ma la ragione non dette risposta». Pia- vola 1944. La strage, la memoria, la comunità, Pisa, Edizioni Plus, 262 pp., Û 16,00

Questo libro costituisce un interessante contributo al filone di studi che affronta il tema della violenza ai civili nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Le vicende dell’eccidio di Pia- vola, frazione del comune di Buti in provincia di Pisa, sono ricostruite nella loro complessità dal lavoro di ricerca di Daniela Bernardini e Luigi Piccini. I due hanno saputo utilizzare le nu- merose, sebbene frammentarie ed eterogenee fonti a disposizione, per determinare la comples- sa ed articolata serie di eventi che determinarono, il 23 luglio 1944, l’uccisione di 18 uomini nei territori boscosi di Piavola, da parte di una unità dell’esercito tedesco. Il confronto fra fon- ti scritte e fonti orali (costituite da numerose interviste a protagonisti, testimoni e parenti del- le vittime, raccolte in vari momenti dal dopoguerra ad oggi) ha consentito di tracciare un qua- dro sufficientemente esaustivo delle complesse dinamiche entro le quali si determinarono gli eventi che portarono alla strage. Gli attori di queste vicende sono molteplici, così come sono numerosi i comportamenti che tali attori realizzano nel difficile periodo che precedette l’arrivo degli Alleati. Il sostegno che molti abitanti di Buti offrono ai soldati alleati scappati dai campi di prigionia, il rappor- to della comunità butese con la piccola banda partigiana che operava nel territorio circostan- te il paese – rapporto che si realizzava soprattutto all’interno di dinamiche comunitarie, a vol- te familiari, legate solo in parte a precise scelte politiche – sono elementi che alimentano un crescendo di difficoltà nella relazione con l’esercito occupante. La presenza di militari tede- schi aumenta mano a mano che il fronte dei combattimenti si avvicina, così come crescono le esigenze di controllo del territorio e delle risorse, che creano elementi di difficoltà nella rela- zione quotidiana con i civili, ai quali si aggiungono anche alcune centinaia di sfollati da Pisa. Nel luglio del 1944 nella zona di Buti i partigiani uccidono alcuni soldati tedeschi, la cui cat- tura era stata piuttosto casuale. La strage che ne seguirà, a partire dall’immediato dopoguer- ra, ha costituito uno dei cardini attorno al quale si è sviluppato il dibattito politico di Buti. Bernardini e Puccini hanno attentamente studiato questa battaglia che si è svolta sul terreno della memoria e delle responsabilità, e che per lungo tempo ha imposto distorsioni, omissio- ni e spaccature di cui ancora oggi è possibile ritrovare traccia. Il saggio di Paolo Pezzino ha il merito di collocare questa interessante esperienza di ricer- ca locale all’interno del recente dibattito storiografico sulla guerra ai civili. Le caratteristiche dell’occupazione tedesca, il rapporto tra combattenti e popolazioni – realizzatosi in moltepli- ci strategie di convivenza, mediazione, resistenza e opposizione –, il ruolo dei collaborazioni- sti, la dimensione etica delle scelte dei protagonisti, sono le componenti di una riflessione in- terpretativa di più ampio respiro, alla quale questa ricerca fornisce ulteriori elementi di valu- tazione. Andrea De Santo

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Giuseppe Berta, La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi. 2000-2005, Milano, Mondado- ri, 207 pp., Û 17,00

Uscita all’inizio del 2006, questa storia della crisi Fiat non poteva prevedere la inattesa quanto pronta ripresa avviata sin dall’autunno. Tuttavia, il libro non è invecchiato: nonostan- te il titolo possa far pensare a un instant book, il lavoro di Berta rappresenta una robusta rico- struzione delle radici storiche delle difficoltà della più grande impresa privata italiana. La nar- razione puntuale prende le mosse dall’accordo del 2000 con la General Motors (GM), ma l’a- nalisi di Berta risale agli anni Settanta, all’indomani del ritorno degli Agnelli alla guida del- l’impresa dopo la lunga parentesi manageriale di Valletta. La ricostruzione lungo un trenten- nio dei successivi assetti dei vertici aziendali serve a dimostrare la tesi di fondo: che la crisi Fiat, o meglio il suo scoppio anticipato rispetto agli altri grandi produttori occidentali nel ribalta- mento dei rapporti di forza mondiali a favore delle case orientali, sia stata accelerata da fatto- ri interni, che alla base degli errori di strategia stia in ultima istanza un modello inadeguato di governance dell’impresa, caratterizzato dalla insufficiente distinzione dei ruoli e delle prero- gative della proprietà e del management. Se la put option dell’accordo con GM, giunto a ri- dosso dei festeggiamenti per il centenario Fiat, sembrava sottolineare la chiusura di un’epoca all’incerto aprirsi di un nuovo secolo, la scomparsa in breve arco di tempo dei due nipoti del fondatore ha reso caotica la ricerca di nuovi assetti di vertice, aggravando anziché rimuovere la principale causa delle oscillazioni delle strategie e delle carenze delle politiche aziendali, fi- no alla messa in campo di controverse strategie finanziarie per il mantenimento del controllo familiare, cui l’autore non risparmia critiche. Da questo punto di vista, neppure l’ultimo, vin- cente assetto del vertice aziendale ha risolto la questione del rapporto tra il management e una rafforzata proprietà familiare, a meno che la lezione dell’esperienza storica, assai ben ricostrui- ta dal libro, non induca la compagine azionaria di riferimento a evitare gli errori del passato, compendiati dall’autore in un «controllo strettissimo», «non sempre chiaro nelle intenzioni e coerente» o, in alternativa, un’eccessiva fiducia nel top management «anche quando mancava uno dopo l’altro i traguardi che aveva annunciato» (p. 181). La vicenda Fiat, eccezionale per dimensioni nel panorama italiano (tanto che – sostiene l’autore – senza la storia di una sola impresa non si può fare la storia dell’industria italiana né delle relazioni industriali e dei rap- porti tra potere economico e potere politico), rientra invece appieno, sotto il profilo della struttura proprietaria, nell’esperienza tipica del capitalismo familiare italiano. Nonostante la ripresa in atto, restano validi una previsione e un auspicio di Berta: la previsione dell’inevita- bile ridimensionamento del ruolo della Fiat nell’economia nazionale ormai incamminata sul- la via della terziarizzazione, e l’auspicio che la fine dell’epoca della Fiat possa aprire spazi a un maggiore pluralismo economico. Stefano Musso

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Federica Bertagna, La patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina, Prefazione di Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 297 pp., Û 24,90

L’autrice affronta un argomento che in passato è stato per lo più ignorato o trattato con sufficienza dalla storiografia, oppure enfatizzato e mitizzato nelle nicchie del neofascismo o sui rotocalchi, mai invece esaminato con serietà e adeguata considerazione critica: la fuga di criminali e di esponenti della élite politica ed imprenditoriale fascista nell’Argentina di Perón, una fuga da intendere come una forma di emigrazione politica, con caratteri ideologici diffor- mi e opposti rispetto agli esilî che dal Risorgimento all’Italia liberale avevano condotto in Su- damerica prima garibaldini e mazziniani, poi socialisti e anarchici. La prima parte del libro è dedicata all’analisi delle iniziative politiche che nel dopoguer- ra consentono di nascondersi e poi di abbandonare l’Italia a personaggi di primo piano del re- gime fascista. Particolarmente interessante è la ricostruzione dell’attivismo spericolato della fa- scistissima e fascinosa Maria Pignatelli di Cerchiara, già moglie di un nobile calabrese e inti- ma del quadrunviro Michele Bianchi, la quale, dopo aver sposato in seconde nozze il princi- pe Valerio Pignatelli, si lancia nell’attività del Movimento Italiano Femminile (MIF) «Fede e Famiglia», il cui scopo principale (e clandestino) è l’assistenza dei fascisti che abbandonano l’Italia e cercano rifugio in Argentina. Tra questi, l’autrice del libro dedica particolare atten- zione a Carlo Scorza, ultimo segretario del PNF, che giungerà clandestinamente a Buenos Ai- res nel 1949 e si farà promotore di una sorta di neofascismo argentino attraverso la rivista «Dinámica Social», stemperando poi la sua attività su posizioni più concilianti, dopo il rove- sciamento militare del regime peronista (1955), fino ad organizzare più tardi l’accoglienza del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, in visita ufficiale in Argentina nel 1961. Bertagna non ignora naturalmente la lunga storia dell’immigrazione italiana in Argenti- na, ma si concentra sull’ultimo flusso migratorio del secondo dopoguerra, che ella ritiene a ra- gione essere la parte meno studiata, cercando di cogliere i nessi tra emigrazione economica ed emigrazione politica. Sicché, assume particolare rilievo nel libro la figura dell’industriale Vit- torio Valdani, in Argentina dal 1908, fondatore del Fascio di Buenos Aires nel 1925 e poi «re- pubblichino» (non è certo un caso che Carlo Scorza diventi negli anni Cinquanta a Buenos Aires il biografo ufficiale di Valdani). In complesso, l’interesse della pubblicazione è almeno duplice, giacché riguarda certa- mente la storia della comunità italiana in Argentina tra gli anni Quaranta e Cinquanta, non- ché il ruolo politico considerevole che vi svolsero i fascisti, ma offre anche un contributo ap- prezzabile alla conoscenza del peronismo argentino, colto attraverso lo sguardo nostalgico dei fascisti italiani, che vi ritrovarono per un decennio una sorta di riedizione del fascismo perduto. Vittorio Cappelli

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Teresa Bertilotti, Maestre a Lucca. Comuni e scuola pubblica nell’Italia liberale, Prefazione di Raffaele Romanelli, Brescia, Editrice La Scuola, 279 pp., Û 32,00

Questo lavoro, ampio, complesso e ben articolato, mostra in che misura le ricerche e le in- dagini di ambito storico-educativo siano cresciute di spessore negli ultimi anni e quanto abbiano sviluppato un carattere sempre più aperto e sofisticato, basato su un uso plurale e consapevole del- le fonti. In questo libro, si avanza di parecchio rispetto ad una tradizione di studi che, schemati- camente, collocava i propri interessi scientifici dapprima al crocevia fra analisi del pensiero peda- gogico e storia dei sistemi scolastici, poi si concentrava sul rapporto fra alfabetizzazione, istruzio- ne formale e sviluppo economico e civile e infine sulle rappresentazioni sociali (dominanti, mar- ginali o emergenti) presenti nei modelli, nelle pratiche e negli stili educativi. Qui si approfondi- scono tematiche che solo negli ultimi anni stanno cominciando a diffondersi in questo campo di studi. In particolare, in che modo le istituzioni educative, i processi formativi, in quanto siano an- che definiti da strutture organizzative e amministrative, contribuiscono a circoscrivere, insieme agli attori protagonisti, quello spazio pubblico in cui la società locale si proietta verso una dimen- sione nazionale, con tutte le resistenze, le contraddizioni, ma anche le aperture possibili. In que- sto caso, attraverso le tematiche educative, quelle più sensibili alla distinzione fra pubblico e pri- vato durante il lungo ’800, si evidenzia tutta la potenzialità fruttuosa dell’incontro fra storia so- ciale e storia istituzionale: cioè, nella ricerca concreta, «si sperimentano i problemi analitici di una storia sociale degli istituti», come dice Raffaele Romanelli nella sua prefazione (p. 6). Il libro, con una struttura «a cannocchiale» rilevata proprio da Romanelli, presenta un dop- pio registro di lettura di una realtà locale come quella di Lucca. Da una parte, mostra la stratifi- cata complessità del processo di nazionalizzazione, che vede sopravvivere nei territori appartenen- ti al vecchio Granducato di Toscana la legislazione pre-unitaria nel campo del governo locale (fi- no al 1865) e della pubblica istruzione (fino al 1877), segnando così pesantemente i percorsi del- l’unificazione amministrativa e la diffusione dei suoi modelli organizzativi, incidenti sulla tradi- zionale dimensione comunitaria e notabilare dell’educazione e vissuti quasi come un «incubo tor- mentoso». Tanto più a Lucca che già presentava una sua specialità sociale, politica e culturale, ol- tre che istituzionale, derivante dal fatto di essere rimasta fino alla metà dell’800 un’entità statale autonoma rispetto alla Toscana, con un’identità netta (la «società cristiana» lucchese). Dall’altra parte, come si evince dal titolo, la prospettiva di genere è centrale in questo studio, ma in un sen- so suo proprio, perché non solo considera la costruzione di una figura professionale, la maestra, che si viene caratterizzando fin dall’inizio, pur con ambiguità, come sempre più femminile; ma anche perché ne affronta – su un piano quasi di micro-storia – le vicende personali, professiona- li e pubbliche, e il reticolo di rapporti istituzionali; ma soprattutto perché ne ricostruisce il ruolo e le aspirazioni sociali, le reti private, le dimensioni emotive e culturali (ma anche gli aspetti ma- teriali), che circoscrivono il «mestiere» della maestra nell’800. Pietro Causarano

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Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi culture lavoro, Roma, manifestolibri, 159 pp., Û 15,00

La raccolta di saggi riunisce gli interventi presentati al convegno della Società italiana del- le Storiche Nuovi femminismi, nuove ricerche svoltosi nell’aprile del 2005. Un volume impor- tante che propone una prima ricognizione delle sfide poste al paradigma storico e politico del «femminismo storico» dall’incontro con nuove soggettività e movimenti politici. Una delle questioni centrali affrontate dal volume riguarda la frontiera mobile tra genere, sessualità e po- litica, con cui si misurano Liana Borghi e Porpora Marcasciano. La prima affronta l’«acciden- tato rapporto tra femministe e lesbiche» a partire dall’orizzonte segnato per un verso dall’e- mergere del «terzo femminismo» e dall’altro dal lesbo-queer. La seconda considera alcuni dei passaggi cruciali del movimento transessuale nei rapporti sia con il femminismo sia con il mo- vimento gay e lesbico. Il tema dei soggetti e delle soggettività politiche è ripreso dai saggi che si confrontano con le pratiche femministe postcoloniali. Il controverso dibattito sul rapporto tra femminismo e Islam è al centro dell’intervento di Ruba Salih che evidenzia forme di pre- sa di parola, in Medio Oriente così come nella diaspora, che sfidano le pretese universalisti- che del femminismo occidentale. La dimensione transnazionale delle reti di attiviste è ripresa inoltre da Elena Laurenzi che propone una lettura critica e problematica della tensione tra di- ritti individuali e diritti culturali che sottende la questione delle mutilazioni genitali femmi- nili. Una terza pista di indagine si sviluppa attorno al collegamento tra postfordismo, proces- si migratori e femminilizzazione del lavoro. Adriana Nannicini e Francesca Decimo tematiz- zano sia le rotture delle pratiche femministe più recenti e legate al lavoro precario sia nuovi approcci interpretativi che scardinano l’assunzione della centralità del lavoro nell’analisi del- le migrazioni femminili. Riprendendo un’intuizione già presente nelle analisi sul lavoro do- mestico dei primi anni Settanta, Beatrice Busi indaga il nesso tra lavoro sessuale e lavoro di ri- produzione. Una prospettiva che libera l’esperienza e le forme di mobilitazione politica delle sex workers dalla falsa dicotomia autoderminazione/vittimizzazione, per leggervi al contrario il paradigma stesso di un «patriarcato diffuso» che nell’epoca postfordista spostandosi dal pri- vato al pubblico mette al lavoro il corpo, la sessualità e l’affettività di tutte. Il volume disegna un quadro complesso e articolato che le curatrici riprendono nell’in- troduzione evidenziando intersezioni e rimandi tra chiavi di lettura e approcci differenti. Nel loro insieme questi contributi sollecitano una riflessione sulle implicazioni del dibattito teo- rico sulle soggettività femministe nella ridefinizione stessa del campo di indagine della storia dei movimenti politici delle donne. Uno sforzo che implica non solo nuove direzioni di ricer- ca, ma anche una critica delle gerarchie e dei rapporti di potere inscritti nelle categorie inter- pretative che hanno reso invisibili «altri femminismi» nel passato come nel presente. Liliana Ellena

90 I LIBRI DEL 2006

Lorenzo Bertucelli, Valerio Romitelli (a cura di), Cominciare con la Resistenza. Saggi di sto- rici esordienti, Roma, Carocci, 251 pp., Û 22,00

È possibile contrastare una rilettura dell’antifascismo e della Resistenza che, anziché por- si in forma del tutto antagonista e conflittuale, cerca al contrario di normalizzare quei feno- meni all’interno di una storia pacificata e che ne indebolisce valori e tensioni? Come fare in- teragire la passione politica dei giovani con una storia, come quella della Resistenza, che ri- schia di rinviare unicamente alla dimensione razionale e universale dei sistemi, dei valori e dei partiti anziché alla passionalità come condizione della razionalità politica? Questi due inter- rogativi, di carattere generale – espressi non a caso nell’introduzione di Bertucelli e nella po- stfazione di Romitelli – costituiscono la cornice nella quale si inscrivono i saggi presentati nel volume, sintesi o rielaborazioni di parti di tesi di laurea discusse negli ultimi anni. In questi lavori si legge senza dubbio l’interesse e la genuina passione dei giovani storici, persino stupo- re di fronte alla scoperta di temi negletti (come la rappresentazione dei partigiani sulla scena teatrale o il ritorno dei sovietici in patria dopo essere stati partigiani in Italia) o che semplice- mente possono essere riletti con uno spostamento interpretativo del punto di vista (è il caso della questione della politica partigiana o dell’intreccio di rapporti tra Alleati, partiti e parti- giani nella «Repubblica di Montefiorino»). I curatori hanno scelto di dare conto di tre livelli di interessi: le questioni di governo, in particolare la svolta di Salerno e il governo Parri, ana- lizzate soprattutto attraverso i percorsi storiografici; il peso della politica nella guerra, privile- giando però la prospettiva dei singoli e dei gruppi anziché quella dei partiti; la rappresenta- zione della Resistenza attraverso lo specchio della letteratura, del teatro e dei musei. Sono scel- te del tutto congruenti con le tesi dei curatori e che probabilmente sono legate anche alla di- versa qualità dei materiali da cui hanno dovuto selezionare i testi. Tuttavia, si risente della mancanza di un’introduzione capace di tenere insieme i diversi fili dei discorsi, delle analisi e delle interpretazioni, tanto più se si pensa che altri giovani potrebbero costituire una parte dei lettori del volume. Nello stesso tempo, se appare del tutto legittima la scelta di lavori quasi esclusivamente basati sulla letteratura riguardante i diversi argomenti, colpiscono i rarissimi riferimenti archivistici. Non mi pare secondario, proprio a sostegno delle preoccupazioni dei curatori, un ritorno critico, certo faticoso, alla ricca documentazione prodotta dagli uomini, dai gruppi e dai partiti che operarono nei venti mesi. Bruno Maida

91 I LIBRI DEL 2006

Maria Luisa Betri (a cura di), Contadini, Torino, Rosenberg & Sellier, 358 pp., Û 28,00

Questo volume fa parte delle iniziative promosse dal Centro di ricerca e documentazio- ne per la storia del lavoro in Italia in età contemporanea, istituito dalla Cassa di Risparmio di Imola, come illustra nell’introduzione Angelo Varni. Si compone di dodici saggi, opera di sto- rici e di geografi; quattro sono dedicati ad altrettante tipologie fondamentali: l’operaio-con- tadino, di Gianluigi Della Valentina, i braccianti, di Aldino Monti, i mezzadri, di Amilcare Mantegazza, i piccoli proprietari coltivatori, di Gino Massullo. Degli altri saggi, due, rispet- tivamente di Antonino Blando e Sandro Ruju, trattano delle grandi realtà insulari della Sici- lia e della Sardegna; i restanti, di Guglielmo Scaramellini, di Alice Giulia Del Borgo, di Ste- fano Allovio, di Valerio Bini, di Luca Bonardi, sono dedicati alla montagna, in prospettiva ge- nerale e in alcune esemplificazioni specifiche. Apre la raccolta uno scritto della curatrice Ma- ria Luisa Betri che mette subito in luce la chiave principale del volume: il rinnovarsi di forme storiche di pluriattività e flessibilità del lavoro agricolo nei contesti mutati del Novecento e nelle differenze territoriali. Il maggior interesse del libro è che nei saggi, ben ponderati, si ha uno sguardo sull’intero secolo da poco concluso. Si tratta cioè di affrontare anche, e forse soprattutto, cosa è succes- so nella seconda metà del Novecento, ossia dalla grande trasformazione in poi. Dunque cosa è avvenuto dopo quel fenomeno cataclismatico dal quale hanno preso avvio i lineamenti del- l’oggi. I mutamenti sono continuati. E il fatto che abbiano perso centralità nel discorso poli- tico e ideologico non ha diminuito la loro importanza agli occhi degli storici che vogliano ri- comporre un quadro unitario della realtà. Nell’Ottocento i contadini, o molti di essi, quan- do hanno potuto, sono stati contadini-operai. Nel Novecento, con ritmo diseguale, sono di- ventati, in modo diffuso, operai-contadini, ma dagli anni Ottanta, poiché il terziario è diven- tato lo sbocco prevalente dell’attività extra-aziendale, si possono definire «impiegati-contadi- ni» oppure «piccolo commercianti-contadini» (p. 15 e p. 194). Allo stesso tempo non tutte le aree montane che sembravano a un tratto destinate all’abbandono e al degrado hanno subito fino in fondo questa sorte, ritrovando alcune di esse ragioni di nuova vitalità territoriale in chiave agraria, agro-industriale o turistica. Negli anni Sessanta l’agricoltura aveva una prospet- tiva esclusivamente produttivistica. Successivamente altre prospettive si sono affiancate. Il li- bro le racconta con efficacia, e forse un’ombra di speranza, dalla parte degli uomini in vario modo e misura legati alla terra. Giacomina Nenci

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Emmanuel Betta, Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale nell’Otto- cento, Bologna, il Mulino, 367 pp., Û 28,00

Questa importante e innovativa ricerca porta luce sul contesto di origine della crociata an- tiabortista della Chiesa cattolica, che tanto peso ha nel nostro presente. Se posizioni più o me- no lassiste o rigoriste sull’aborto si erano alternate nella storia della Chiesa, la svolta decisiva av- venne a fine ’800, con la decisione del S. Uffizio di vietare l’aborto terapeutico. Fra 1884 e 1901 il S. Uffizio emanò sei sentenze vietanti ogni intervento medico che mettesse in pericolo la vita del concepito. Betta ricostruisce il contesto di queste sentenze, interpretandole come reazione della Chiesa alla nuova egemonia morale della medicina. L’aborto terapeutico si era sviluppato nell’800 in alternativa al parto cesareo, che comportava un’altissima mortalità tanto della madre che del feto. Nel ’700 il cesareo era stato praticato nei paesi cattolici al fine di battezzare il bam- bino. La vita terrena della donna veniva sacrificata al valore superiore della vita eterna del feto. Ma nell’800 il battesimo intrauterino era considerato valido, e i medici potevano salvare la don- na attraverso l’interruzione di gravidanza. Ora la scelta era fra due vite terrene. Per i medici, che cominciano a usare statistica e calcolo delle probabilità nella decisione terapeutica, l’opzione è per chi dei due ha più possibilità di sopravvivere autonomamente, cioè la donna. Betta sfata la tesi avanzata da certa storiografia femminista, secondo cui l’ostetricia fra ’700 e ’800 avrebbe privilegiato la sopravvivenza del feto. Al contrario, ampia parte degli ostetrici si schierò a favore della donna, anche nei paesi cattolici. Ma anche vari teologi interpellati dal S. Uffizio propendevano per la donna, per ragioni avanzate nella tradizione casuistica già nel ’600 (in particolare, la teoria della legittima difesa: il feto poteva essere considerato un aggressore mi- nacciante la vita della donna). Nonostante questo, il S. Uffizio decise in senso opposto, condan- nando l’applicabilità della teoria della legittima difesa, anche nel caso della gravidanza extraute- rina. L’autore sottolinea che questa intransigenza non rifletteva affatto una unanimità di vedute dei teologi cattolici, ma piuttosto l’egemonia assunta in questo periodo dalle posizioni neo-to- miste. Allargando lo sguardo oltre la puntuale ricostruzione di Betta, altri fattori di questa svol- ta rigorista possono essere visti nella rigidità di un’istituzione che si arroccava sempre più su po- sizioni di legittimazione autoreferenziale (il dogma dell’infallibilità pontificia) sentendosi minac- ciata dall’affermarsi di una nuova biologia, l’evoluzionismo darwiniano, radicalmente incompa- tibile con la concezione della natura come disegno di Dio. Questa rigidità era destinata a dura- re nel tempo. Una vicenda simile a quella descritta da Betta si è ripetuta nel caso della contrac- cezione con l’enciclica Humanae Vitae (1968). Nonostante la commissione consultoria, forma- ta di laici e religiosi, avesse votato a larga maggioranza perché la Chiesa rivedesse la sua condan- na della contraccezione, Paolo VI ribadì il divieto, includendovi la pillola anticoncezionale. Ogni futura ricerca sulla storia della bioetica, e del complesso rapporto fra medicina e religione dall’800 al presente, dovrà tenere conto del libro di Betta. Gianna Pomata

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Fabio Bettanin, La formazione dell’impero esterno sovietico (1941-1953), Roma, Carocci, 351 pp., Û 25,00

Il volume ricostruisce i processi di formazione e gestazione del peculiare «impero esterno» creato ai confini occidentali dell’URSS a partire dall’inizio della seconda guerra mondiale (capp. 1-2), e successivamente analizza le politiche attuate dalla dirigenza staliniana nell’Euro- pa orientale fra il 1944 e il 1953 (capp. 3-4). Sulla scorta dell’imponente documentazione ar- chivistica resasi disponibile nella prima metà degli anni ’90 e attraverso uno spoglio attento dei contributi della recente storiografia russa e internazionale, l’autore pone al centro della propria disamina critica un problema storico quale l’intenzionalità della costruzione imperiale sovieti- ca. Pur sostenendo la strutturale diversità dell’impero esterno di Mosca dall’impero «su invito» statunitense, dovuta in primo luogo a quelli che definisce «i livelli e i caratteri dell’uso della for- za» (p. 31), utilizzata negli anni ’20-30 contro i propri cittadini ma in seguito anche nei con- fronti degli alleati subalterni (Berlino 1953, Budapest 1956, Praga 1968), Bettanin dissente dall’interpretazione storiografica che ravvisa evidenti caratteri di «intenzionalità», in primo luo- go di carattere ideologico, nella formazione dell’edificio imperiale sovietico post-bellico. Non solo Stalin non arrivò mai a stabilire un filo di continuità organico fra l’Impero zarista e il re- gime sovietico, ma subì sostanzialmente – prima di accettare di combatterla con le armi poli- tiche e militari a propria disposizione – la rottura della coalizione antifascista nel 1946-47 e l’i- nizio della guerra fredda (p. 227). In questa cornice di debolezza socio-economica strutturale, ingenuità diplomatiche e atti unilaterali di forza, causati essenzialmente dal costante timore di annientamento che caratterizzò l’orizzonte politico e anche psicologico dell’ultimo Stalin, an- drebbero dunque collocati i primi insuccessi nella gestione dell’impero esterno: la mancata so- luzione della questione tedesca, il clamoroso scisma jugoslavo e il brutale soffocamento dell’u- nico vero esperimento di «democrazia popolare» fra il 1945 e il 1948, quello cecoslovacco. L’in- capacità del Cremlino di gestire un impero esterno di tali dimensioni, sul breve ma soprattut- to sul lungo periodo, emerge lungo tutta la narrazione e in particolare nell’ampio Epilogo. L’u- nica strada percorribile a Stalin e – nonostante alcune deviazioni – anche ai suoi successori par- ve dunque quella della costruzione di un impero «isolazionista» (p. 330) che, senza pretendere di espandersi ulteriormente (lo avrebbe fatto soltanto fuori d’Europa nell’epoca post-colonia- le), si limitò per decenni a controllare manu militari le periodiche conseguenze – l’effetto spil- lover secondo la fortunata definizione di Mark Kramer – della realtà di un impero destinato al fallimento perché incapace, nella mentalità dei propri vertici e nella struttura socio-economi- ca, di adattarsi ai rapidi mutamenti del mondo contemporaneo. Il mercato editoriale e la storiografia italiana si arricchiscono di un’opera lucida, essenzia- le e aperta ad ulteriori discussioni e apporti: un fatto positivo non solo per gli studiosi dell’U- nione Sovietica, ma anche per gli storici dell’Europa contemporanea. Stefano Bottoni

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Piero Bevilacqua, La terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Roma-Bari, Laterza, 209 pp., Û 14,00

Il libro parte da una considerazione piuttosto pessimistica: «la terra è finita». Viene subi- to da chiedersi in quale senso. Forse è finita perché non c’è più nessuna speranza per questo pianeta, o perché ne abbiamo terminato tutte le risorse disponibili: è finita la terra da coltiva- re, da sfruttare, sulla quale costruire. O forse è un monito per i lettori: ricordatevi che anche la terra può esaurirsi. Subito nella prima pagina Bevilacqua pone la domanda che sta alla ba- se di tutto il volume: quali siano le reali motivazioni che hanno portato a un deterioramento della natura e dell’ambiente tali da metterne in discussione la sopravvivenza. Nell’introduzione fa una breve analisi delle varie ragioni individuate. Per alcuni studiosi la presente crisi ambientale è stata determinata da motivi culturali: sarebbe stato l’atteggia- mento di dominio dell’uomo nei confronti della natura ad aver originato la distruzione attua- le. Per altri è stata la crescita senza precedenti della popolazione ad avere provocato una ecces- siva pressione sulle risorse. Altri studiosi ancora hanno invece messo in risalto spiegazioni di tipo più economico: gli squilibri attuali sarebbero stati causati da uno smisurato sfruttamen- to delle risorse per scopi produttivi. Per l’autore la risposta non è monocausale, ma più articolata. In particolare Bevilacqua collega il degrado del nostro ambiente al «processo storico che si è svolto soprattutto in età contemporanea» affermando che è negli ultimi cinquant’anni che si è evidenziata la «capacità di distruzione globale» (p. 27) del capitalismo. È stato dopo la rivoluzione industriale che lo sfruttamento dell’uomo sulla natura ha raggiunto livelli «globali». Nel libro è poi illustrato in modo assai sintetico lo stato attuale dell’ambiente, con un’at- tenzione particolare all’Italia. Si parla così di disboscamenti, di esplosione delle città, di inqui- namento, di agricoltura biologica e biodiversità. Tutti temi importanti che sono visti nel loro percorso storico, nel tentativo di ricostruire i mutamenti ambientali a livello globale. Sono poi affrontati anche temi legati ai parchi, all’ecologia e ai movimenti politici e ambientalisti nati in questi ultimi anni. Tali movimenti hanno permesso una divulgazione tra la popolazione di conoscenze e informazioni che hanno agevolato la formazione di un’opinione pubblica parti- colarmente sensibile ai problemi ambientali. Lo studioso sottolinea il fatto che «l’ambiente è un sistema complesso» (p. 137) per studiare il quale necessitano competenze diverse e che c’è quindi bisogno di un sapere interdisciplinare. Per questo, a suo avviso, nella seconda metà del XX secolo ha preso avvio quella che definisce «una vera e propria rivoluzione culturale» che «ha significato la nascita di un nuovo punto di vista sul mondo» (p. 137). Questa profonda trasformazione culturale ha dato vita alle varie forme di ambientalismo odierno. Da segnalare che ogni capitolo del libro è corredato da un’ampia bibliografia relativa al- l’argomento trattato, offrendo così indicazioni per eventuali approfondimenti. Alessandra Martinelli

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Antonello Biagini, Storia dell’Ungheria contemporanea, Milano, Bompiani, 177 pp., Û 9,00

Nelle oltre venti pubblicazioni uscite in Italia per il cinquantennale della rivoluzione, que- sta spicca per diversi motivi. Primo, vi è una palese incoerenza tra il titolo e il contenuto: il testo, infatti, copre tutto l’arco storico dalle origini ai nostri giorni. Secondo: contiene errori in numero nettamente superiore alla media, pur assai elevata quando si tratta della trattazio- ne di vicende complesse come quelle ungheresi. Terzo, pur nella brevità, il libro è di valore molto diseguale: le parti che coprono il periodo 1700-1900 e 1921-1948, ad esempio, sono esenti dagli infortuni talvolta madornali che affliggono le altre e sembrano sostenute da mag- giore dimestichezza con la materia. Le prime omissioni e il primo errore sono forse i più sbalorditivi. A p. 28, nel trattare il declino magiaro dei primi del Cinquecento, si omette completamente di menzionare la figura di Dózsa, il capo dell’insurrezione contadina che mise a ferro e fuoco il paese nel 1514, e che bene o male è considerato un eroe nazionale: lo sforzo compiuto dai nobili per sconfiggerlo stremò l’Ungheria e la consegnò ai turchi. Poco dopo, il giurista Werböczy – altro personaggio fondamentale dell’epoca – sancì con il suo Tripartitum l’imposizione del cosiddetto secondo servaggio e il mantenimento della struttura feudale, che rimasero in piedi per certi aspetti fino al 1945: il libro non lo nomina neppure. A p. 30 si omette la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) come episodio cruciale della guerra plurisecolare tra Asburgo e ottomani, che ebbe con- seguenze ovvie sull’Europa centro-orientale e balcanica. A p. 34 si scrive addirittura: «I turchi resistono fino al 1686 a Vienna, da dove vengono cacciati dopo un duro assedio» (sic). Si trat- tava di Buda, a Vienna (per fortuna) i turchi non entrarono mai, furono respinti nel 1683. In tutto il testo e nell’indice dei nomi, il politico István Nagyatádi Szabó viene coerentemen- te italianizzato in «István Nagyatà di Szabó», come Caracciolo di Feroleto o Araldo di Crollalan- za, insomma. A p. 61, la battaglia di Sadowa si combatté a luglio e non a giugno del 1866. A p. 68, si afferma autorevolmente che il ponte Margherita e il ponte della Libertà sono oggi la stessa cosa, mentre un qualunque studente Erasmus da tre giorni a Budapest potrebbe spiegare che non è vero. A p. 77, la battaglia di Kosovo Polje fu nel 1389 e non nel 1386. A p. 99, il trattato di pa- ce del 4 giugno 1920 fu firmato nel Grand Trianon, non nel Petit. A p. 138, Lazar Brankov nel 1949 non era affatto «anziano». A p. 146, Berija fu eliminato nel dicembre 1953, non 1954. Infine, la trattazione del 1956 lascia di stucco per la superficialità e gli approcci a dir po- co datati ad alcuni problemi, come gli episodi di violenza (dove il ruolo delle «forze horthy- ste» o «di destra» fu inesistente) e la dichiarazione di neutralità del 1° novembre, avvenuta do- po e non prima dell’inizio della seconda invasione sovietica, come dimostrato da decine di do- cumenti recenti e non. A proposito, le fonti sono scarsissime e la bibliografia è assente. Una domanda all’editore, che non è di certo secondario: sarebbe opportuno innalzare i requisiti per la pubblicazione di testi del genere, che finiscono in mano a molti studenti. Federigo Argentieri

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Chiara Biagioli, L’«opera d’inchiostro». Storia editoriale della narrativa di Guerrazzi (1827- 1899), Firenze, Società editrice fiorentina, 290 pp., Û 15,00

Ventidue capitoli per altrettante, diverse storie di libri: dal Guerrazzi più noto, quello dei primi romanzi storici, sino al recupero postumo, sui giornali e poi in volume, del Secolo che muore, l’autrice propone una documentata ricognizione, spinta per un venticinquennio oltre la morte, attorno alle vicende editoriali dell’opera guerrazziana. Vengono così presi in consi- derazione modi e tempi di composizione, trattative editoriali, ruolo e impatto di strategie commerciali e delle edizioni non autorizzate, peso della censura e della circolazione clandesti- na; ma anche, da una parte, la produzione libraria nella sua materialità, e, dall’altra, le diver- se tipologie della scrittura di Guerrazzi nel loro rapporto con un proposito etico-politico do- minante, e con le varie opportunità via via offerte dal mercato editoriale. Oltre che su di una indagine molto estesa sul materiale a stampa, questo studio si basa su un largo esame dei carteggi, con significative acquisizioni. Valga, come esempio, una lettera «antimanzoniana» del 1868 – «rimasi contristato che un artista come il Manzoni adoperasse la nobile arte sua a lodare uomini e cose, che a scaraventare giù nello inferno non basterebbe a saldarne il conto. Il Manzoni con tanta ala d’ingegno nocque alla umanità, e si condannava alla sterilità; sì, sembra che Dio del malversato intelletto si sia vendicato col colpirlo di para- lisi: un libro e basta; la sua fecondità sarebbe stata perniciosa» (p. 10) –; ma sono interessan- ti anche vari documenti relativi al progetto ed alla parziale realizzazione delle Vite degli uomi- ni illustri, nel corso degli anni Sessanta. Nell’ambito di una concezione militante della pratica letteraria – «tutta la vita avversai preti, e tedeschi stranieri» (p. 227), Guerrazzi cercò, con una certa duttilità, di «assicurarsi tut- te le possibilità e tutti gli spazi editoriali» (p. 14), ma in modo empirico, senza porsi con una certa sistematicità la questione dei moderni aspetti dell’attività editoriale, salvo che per la net- ta precisazione, affidata, nel 1854, ad una battuta polemica: «gli scritti non sono lavori ma opere» (p. 118). Da un punto di vista storico-letterario, oltre alla valorizzazione di alcuni fram- menti di riflessione guerrazziana, saranno da ritenere le notizie sulla lunga fortuna editoriale dei principali romanzi storici nell’editoria popolare, e sulla più difficoltosa circolazione inizia- le degli scritti satirici, nonostante il rilievo attribuito a questo aspetto dell’attività di Guerraz- zi. In altri ambiti, il volume fornisce vari elementi che concorrono ad illustrare il complesso rapporto intrattenuto con Mazzini – e penso soprattutto, qui, alla composizione dell’Assedio di Roma, dedicato alla Repubblica del 1849 –; da notare anche la trattazione di alcune vite esemplari, nella prospettiva di rappresentare l’«Italia nelle sue molteplici vicende» (p. 217), e le discussioni alle quali questi scritti dettero luogo. Mauro Moretti

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Bruna Bianchi (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella grande guerra. De- portati, profughi, internati, Milano, Unicopli, 482 pp., Û 18,00

Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione di una giornata internazionale di studio sulla violenza contro la popolazione civile, svoltasi nel 2003 presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Venezia. Agli interventi discussi in questa sede sono stati tut- tavia aggiunti alcuni saggi dedicati a questioni di specifico rilievo, come la violenza perpetra- ta contro le donne, esaminata attraverso il caso specifico dell’occupazione austro-germanica in Friuli e in Veneto, all’indomani della battaglia di Caporetto. Inoltre la seconda parte del li- bro consta di una corposa selezione documentaria, dedicata nella quasi totalità a materiali tra- dotti per la prima volta in lingua italiana, come il capitolo sul genocidio degli armeni dell’Am- bassador Morgenthau’s Story pubblicata da Henry Morgenthau nel 1918, o le pagine tratte dal Libro nero degli ebrei russi, redatto nel 1916. Complessivamente l’opera offre dunque un quadro articolato – ricomposto dalla curatri- ce nel suo ampio saggio introduttivo – delle vicende che nel corso della Grande guerra coin- volsero i civili; un quadro che si muove lungo tre traiettorie principali, indagate nella loro spe- cificità ma anche nelle loro interconnessioni: le dinamiche delle invasioni e delle occupazioni territoriali; l’esperienza dei profughi; l’identificazione e la repressione dei nemici interni. I ca- si trattati nell’affrontare queste tematiche (l’internamento dei civili prussiani in Russia, l’oc- cupazione austro-ungarica in Albania, i profughi in Francia e in Italia, lo sterminio armeno in Turchia, per citare solo alcuni esempi) restituiscono uno sguardo allargato allo scenario eu- ropeo e consentono di procedere secondo una prospettiva comparativa, attraverso l’individua- zione di fenomeni che percorrono l’intero teatro bellico, pur declinandosi in rapporto ai sin- goli contesti. Emerge ad esempio come fenomeno trasversale lo spostamento caotico di im- ponenti schiere di uomini e donne in fuga dalla guerra, a cui corrispondono tanto la disorga- nicità e l’improvvisazione degli accordi internazionali sull’assistenza destinata ai profughi, quanto il rapido passaggio – nelle regioni in cui si addensano rifugiati e sfollati – «da un ini- ziale atteggiamento di benevolenza e generosità all’insofferenza e all’avversione» nei confron- ti dei civili costretti ad abbandonare le proprie case (p. 28). E le storie dei profughi, ma anche quelle dei deportati e degli internati, sono ripercorse congiuntamente all’analisi delle motiva- zioni addotte, dai politici e dai militari, per giustificare l’uso massiccio della violenza contro i civili, sul piano sia propagandistico, sia giuridico. I saggi e i documenti contenuti in questo volume, uniti da una coerente prospettiva di analisi, restituiscono dunque la ricchezza e la complessità del cammino percorso dagli studi su un tema che ha assunto un rilievo significativo nel recente dibattito storiografico, in rela- zione non soltanto alla Grande guerra e alla sua specificità, ma anche al divenire delle forme di violenza praticate nei contesti bellici in età contemporanea. Silvia Salvatici

98 I LIBRI DEL 2006

Bruna Bianchi, Fabio Caffarena, Marco Gervasoni, Emilio Gianni, Gianguido Manzelli, Lidia Martin, Giovanni Pastore, Marzio Zanantoni, Militarismo e pacifismo nella sinistra ita- liana. Dalla Grande guerra alla Resistenza, Milano, Unicopli, 177 pp., Û 12,00

Il volume raccoglie gli interventi del convegno – organizzato dal Centro Filippo Buonar- roti con la collaborazione di Marzio Zanantoni – 1915-1945: guerra e pace nelle battaglie po- litiche delle sinistre in Italia (Milano, 12 maggio 2005). Come scritto nella presentazione, gli otto saggi documentano la varietà e la ricchezza dei «contributi che emergono dalle lotte teo- riche, politiche e militari della sinistra» a cavallo tra i due conflitti mondiali sulla questione della guerra e della pace; «questione che ha pesato (e pesa tuttora…) come poche altre nella storia e nelle lotte della sinistra italiana ed europea» (p. 7). Partendo dal 1864 (quindi 50 anni prima del terminus a quo indicato dal titolo del volu- me), il saggio di Bruna Bianchi illustra le principali posizioni politiche all’interno delle prime due Internazionali, centrando l’attenzione sulla Seconda e, in particolare, su alcune figure: En- gels, Bakunin, Bebel, Liebknecht, Jaurès. Pur nella loro stringatezza, le riflessioni di Zanan- toni si concentrano sulla confluenza di nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario nell’alveo «di quel fenomeno politico-culturale che già i protagonisti di allora definirono […] socialismo nazionale» (p. 39). Se il bel saggio di Caffarena si sofferma sulla corrispondenza dei soldati dal fronte, evi- denziando, tra le altre cose, come le lettere di guerra rappresentassero uno «strumento comu- nicativo pericoloso per il potere e l’ordine» (p. 60), quello di Manzelli – muovendosi disin- voltamente tra interpretazione di fatti e di teorie politiche, analisi storiografica e disamina del- l’uso pubblico della storia – delinea, con scarsa aderenza al tema portante del volume, lo svi- luppo delle posizioni che condussero alla formazione dell’area terzinternazionalista e alla na- scita del PCd’I. Pacifismo e interventismo nell’emigrazione antifascista italiana è invece l’ar- gomento analizzato da Gervasoni che, partendo dalla constatazione che una discreta mino- ranza dell’esulato antifascista era stata interventista, traccia le affinità e le divergenze della si- nistra italiana sul tema della guerra tra gli anni Venti e gli anni Quaranta. L’intervento di Gianni affronta, abbondando in citazioni di Lenin e riferendosi ad altri soli tre testi, gli sconvolgimenti provocati dal patto Molotov-Ribbentrop all’interno del movimento comunista italiano. L’accurato studio di Lidia Martin esamina il ruolo delle donne combattenti nella Resistenza, individuando efficacemente i limiti del paradigma della Resistenza civile ed evi- denziando come lo studio delle memorie delle «poche» e «feroci», contribuisca a smentire la rap- presentazione della donna come esclusiva portatrice di nonviolenza. Infine, l’ultimo saggio, di Pastore, porta alla luce alcuni aspetti della storia degli internati militari italiani in Germania. Nonostante i limiti, la raccolta rappresenta un utile strumento per quanti si occupano della storia del movimento operaio italiano in relazione alle questioni di forza. Eros Francescangeli

99 I LIBRI DEL 2006

Roberto Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Roma, Odradek, 237 pp., Û 18,00

Il volume ha l’obiettivo di uscire dalla consueta visione del 1919 come «anno del disordi- ne» o del «massimalismo parolaio». Il Diciannovismo, sinonimo di irrazionalità e di eversione in- concludente, è stato il frutto di una storiografia politica tradizionale poco incline ad analizzare quanto avviene fuori della dimensione strettamente organizzativa dei partiti e dei sindacati, po- co attenta alle culture sociali e alla loro autonomia. Per questo occorre ‘smontare’ il 1919 per in- dividuare le tre grandi questioni – richiamate nel titolo – al centro di mobilitazioni popolari che seguono una loro logica. Così il lavoro segue questa partizione: la prima parte è dedicata alle lot- te contadine, la seconda ai moti annonari, la terza allo sciopero internazionale per la pace. Sono lotte, sostiene l’autore, che non possono essere interpretate esclusivamente sulla ba- se della dicotomia rivoluzione/controrivoluzione o vittoria/sconfitta, ma alla luce di un intrec- cio di fattori politici, ideologici e sociali che compongono una realtà «ibrida» fatta di momen- ti organizzati e rivolte spontanee; di elementi «moderni», come la politicizzazione e la sinda- calizzazione di massa, l’esempio bolscevico e le guardie rosse, e di forme tradizionali di som- mossa, come l’assalto ai forni, le rivendicazioni per il «giusto prezzo» o per il controllo degli usi civici. È una combinazione di mobilitazione sociale – eredità diretta della mobilitazione bellica – e lotta politico-sindacale difficile da governare con gli strumenti dello Stato prebel- lico, con la crisi di idee della vecchia classe dirigente, con l’inadeguatezza culturale di fronte alla trasformazione del rapporto tra Stato e società che manifesta il ceto liberale. Questo convincente impianto interpretativo si dispiega efficacemente in particolare nel- le pagine dedicate alle lotte per la terra e contro il caroviveri: qui la veloce smobilitazione del- le «bardature di guerra», in primo luogo delle politiche alimentari, il risentimento popolare per le promesse non mantenute, l’aspirazione al cambiamento appaiono come elementi deci- sivi per la nascita delle lotte sindacali, dei tumulti annonari e del «risveglio dei contadini» con- tro l’egemonia dei «signori della terra». In queste lotte, anche quelle più «spontanee», ci sono obiettivi ben precisi e proposte politiche, «se diamo alla politica un senso ampio, senza limi- tarla alle iniziative delle élite che controllavano le istituzioni liberali o, per altri versi, che di- rigevano i movimenti operaio e socialista, o quelli anarchici, sindacali, combattentisti» (p. 42). Il 1919 non fu una rivoluzione, ma presentò tratti rivoluzionari, fu un insieme di movi- menti difficile da unificare, molto di più di un insieme di rivolte disordinate. Lo scontro vio- lento che ne seguirà, conclude Bianchi, non è conseguenza del «massimalismo», ma della vo- lontà di riscossa di un variegato fronte conservatore che si contrappone frontalmente al nuo- vo protagonismo del mondo del lavoro. Infatti, l’incontro tra iniziativa popolare e mondo so- cialista e sindacale – pur con limiti e incomprensioni – aveva costituito la peculiarità di quel- l’anno, così come la mobilitazione di massa era stata la vera novità del dopoguerra, eredità del- la guerra mondiale destinata a connotare la successiva storia del ’900. Lorenzo Bertucelli

100 I LIBRI DEL 2006

Jeremy Black, Le guerre nel mondo contemporaneo, Presentazione di Nicola Labanca, Bo- logna, il Mulino, 240 pp., Û 16,50 (ed. or. London, 2004)

Jeremy Black, professore di Storia all’Università di Exeter, con questo suo libro intende affrontare la storia dei conflitti bellici successivi al 1945 nel tentativo di distinguere i diversi tipi di guerra in relazione alle tecniche usate, alle strategie, al modello di conflitto. Black man- tiene due registri. Da una parte scrive da storico militare classico. Troviamo così la descrizio- ne di alcune battaglie significative nella storia del secondo dopoguerra (per esempio l’offensi- va del Tet nel febbraio 1968 che per molti aspetti segnò la parabola della guerra in Vietnam) oppure l’operazione «Chromite» del settembre 1950 che permise alle truppe americane di ri- prendere Seul e dunque di stabilizzare un conflitto altrimenti seriamente compromesso. Que- sti scenari, tuttavia, rappresentano solo sporadicamente l’interesse di Black. Il vero interesse di Black consiste in un secondo registro: individuare le tipologie di con- flitto locale distinguendo quella che è la fisionomia minacciata del conflitto globale nell’epo- ca della guerra fredda (un’epoca in cui il nucleare agiva da deterrente); comprendere come pro- prio in conseguenza di questa condizione si disegnassero anche strategie e tattiche militari spe- cifiche. Per quanto concerne il primo aspetto la preoccupazione principale di Black è quella di dissolvere la categoria di guerra imperialista o di guerra antimperialista a proposito delle guer- re in epoca di guerra fredda e di valutare questi diversi conflitti a seconda dei soggetti che ve- devano schierati di volta in volta. Talora è il caso delle guerre di risposta ai margini delle pro- prie aree di controllo da parte delle due superpotenze (la guerra in Afghanistan, per esempio). Talaltra è il problema del controllo di un’area o della riaffermazione di una politica di poten- za (è il caso della guerra per le Falklands tra Argentina e Regno Unito nel 1982). È il caso del- le varie guerre di controllo di una macroarea come le guerriglie in America Latina e la contro- guerriglia sotto controllo statunitense, oppure lo scenario complessivo mediorientale in tutte le sue guerre: quella «lunga» tra israeliani e palestinesi, ma anche quelle tra Iran e Iraq o quel- le per la questione del Kuwait. Per quanto concerne il secondo problema la questione è quella della «guerra ai civili», ov- vero la caratteristica di guerra tribale, un aspetto che riguarda la dimensione locale dei con- flitti. Una dinamica che abbiamo visto in atto nella ex Jugoslavia e ancor più in Kosovo, e che sembra essere la regola in Africa. Ma anche un modello di guerra che tende a sovrapporsi al- la guerriglia, dove non conta più il confronto diretto tra eserciti nemici, ma l’«intelligence» o la minaccia sulle società civili. Un tipo complessivo di guerra sempre più incontrollata e complicata quanto più non si ristabilisce un ordine che oggi appare particolarmente precario in nome di un interesse comu- ne che non c’è. David Bidussa

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Giorgio Boatti, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Milano, Mondadori, 295 pp., Û 18,00

La Grande guerra vista dalla prospettiva polisemica dell’automobile che conduce l’arcidu- ca d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo nel 1914 verso il «suicidio dell’Euro- pa». Questa è una delle suggestioni più originali ed efficaci del libro, meritevole, forse, di es- sere promossa da intuizione a vero e proprio asse centrale dell’ultima fatica di Giorgio Boatti. Comprese tra l’assassinio di Umberto I e quello dell’erede al trono d’Austria, le pagine edite da Mondadori raccontano l’impatto della diffusione dell’automobile sulla società italia- na, senza omettere gradevoli riferimenti al contesto europeo. Come scrive con puntualità l’au- tore, si tratta di un volume divulgativo che, tuttavia, ha attinto apprezzabilmente ad un buon repertorio di letteratura secondaria e a una serie non trascurabile di fonti a stampa del perio- do tra cui «La Domenica del Corriere», il «Corriere della Sera», «L’Illustrazione italiana», «L’Auto. Rivista dell’automobilismo in Italia e all’estero», «L’Automobile. Rivista della loco- mozione e industrie affini». Tra i materiali più significativi, vale la pena di segnalare, in parti- colare, la «Rivista mensile del Touring Club Ciclistico italiano» (poi «Rivista mensile del Tou- ring Club Italiano») consultata, pare di capire, presso il Centro di documentazione del Tou- ring Club Italiano, che potrebbe rivelarsi come un’importante risorsa per gli studiosi. La scrittura, suddivisa in dodici capitoli cui vanno aggiunti un prologo, un epilogo e un in- serto iconografico di 34 foto reperite, in prevalenza, presso gli archivi Alinari e Touring Club, scorre liscia. Boatti ha due meriti soprattutto il primo consiste nell’aver offerto un testo che in- treccia un registro narrativo, talvolta accostabile al romanzo erudito denso di descrizioni detta- gliate, ad un altro più tipicamente saggistico. Unico neo resta la totale assenza di riferimenti chiari per le citazioni dirette contenute nel libro. Il secondo merito consiste nell’aver affronta- to un tema poco frequentato dalla storiografia. Se il Novecento, infatti, è stato anche il secolo del fordismo e questo è inseparabile dall’automobile, risulta più grave la carenza di studi sul nes- so tra le «quattro ruote» e il cambiamento della società nelle sue molteplici sfaccettature. In que- sta prospettiva, Boatti lascia balenare nitidamente tutte le potenzialità di una storia sociale del- l’auto che tenga insieme lo studio dei contesti in cui si calano la nascita e la vicenda dell’auto, delle rappresentazioni e delle pratiche. Ne uscirebbe così uno scorcio potente sulla parabola del Novecento all’incrocio tra storia industriale e della tecnica, storia dei consumi e dei costumi, storia dei trasporti e dell’urbanistica, geografia economica, storia istituzionale delle associazio- ni degli interessi e del loro impatto sulla legislazione, storia del lavoro. Andrea Rapini

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Francesco Bonini, Le istituzioni sportive italiane: storia e politica, Torino, Giappichelli, XII-179 pp., Û 21,00

Il volume offre un profilo storico delle istituzioni sportive italiane, dalle origini ai nostri giorni, e rappresenta senz’altro una novità nel panorama storiografico italiano. La ricerca sul- le pratiche ginnico-sportive si è infatti largamente concentrata sugli aspetti simbolici e ritua- li, quindi sul ruolo svolto nella costruzione delle identità collettive, nei processi di integrazio- ne sociale e produzione del consenso. Sebbene siano state proposte anche alcune sintesi sulla storia di singole associazioni, mancava sinora un’analisi complessiva del processo di istituzio- nalizzazione dello sport. Bonini si propone dunque di iniziare a colmare questa lacuna, nella consapevolezza che «il processo di produzione istituzionale» abbia in se stesso una valenza po- litica, costituendo il presupposto del progressivo delinearsi, nel corso del Novecento, della no- zione di «ordinamento giuridico sportivo» (p. IX). In questa sede non è possibile dare conto della minuziosa ricostruzione dell’istituzionaliz- zazione degli sport in Italia. Chi voglia, troverà nel volume molte informazioni sullo sviluppo delle federazioni sportive, dalla trasformazione delle prime associazioni d’élite, all’emergere de- gli «sport meccanici» e «atletici», sino al diffondersi di sempre nuove discipline durante il No- vecento. Importa invece sottolineare che il superamento del primo embrionale sistema istitu- zionale italiano, incentrato sulla ginnastica e basato sull’azione integrata delle istituzioni pub- bliche e della prima federazione del paese, sia avvenuto per impulso del movimento olimpico internazionale, quindi di un’istituzione – il Comité International Olympique (CIO) – che nel corso della Grande guerra sancisce definitivamente il proprio carattere di organizzazione inter- nazionale non governativa. Ancora prima del conflitto, è in vista degli appuntamenti olimpici che sorgono molte federazioni sportive, indotte a coordinarsi proprio dal ruolo trainante del CIO. Nel 1914 nasce così il Comitato olimpico nazionale (CONI), singolare organismo de- stinato a controllare e indirizzare l’ordinamento sportivo italiano pur rimanendo vincolato al- la struttura internazionale che lo legittima. Il fascismo ne persegue la piena fascistizzazione, col- locandolo in un primo tempo nell’apparato del PNF; nel 1942 il CONI è infine eretto a ente pubblico, con le federazioni come «organi», e in questa veste transita alla Repubblica, esempio della «continuità delle istituzioni sia pure nella discontinuità politico-costituzionale» (p. XI). Nei decenni seguenti la legislazione sul CONI è oggetto di una sorta di «auto-normazione» del- l’ente stesso (p. 153): la prima vera riforma è del 1999, a seguito della crisi della «prima Repub- blica» e nel quadro del sistema della comunicazione e del consumo globali (cap. 11). Il nesso tra evoluzione delle istituzioni sportive ed equilibri politici è al centro dell’analisi di Bonini, che non manca mai di richiamare le cesure nel sistema politico che hanno ripercussio- ni su quello sportivo. Talvolta però, la natura di questi nessi rimane in ombra, a beneficio di una densa ricostruzione della produzione legislativa e della storia delle tante istituzioni sportive. Catia Papa

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Andrea Bonoldi, Andrea Leonardi (a cura di), La rinascita economica dell’Europa. Il Pia- no Marshall e l’area alpina, Milano, FrancoAngeli, 243 pp., Û 21,00

La collocazione sempre più precaria della storia economica, soffocata tra gli indirizzi quantitativi delle scienze economiche e gli indirizzi culturali delle discipline storiche, impone un ripensamento dei suoi metodi e un allargamento dei suoi orizzonti. Concentrarsi su un’a- rea territoriale come quella alpina, intrecciare la geografia storica con l’analisi quantitativa e affrontare a livello micro un tornante come il Piano Marshall era l’interessante ambizione di un convegno a Trento dell’ottobre 2004, al quale hanno partecipato studiosi italiani, france- si, svizzeri e austriaci, per discutere dei risultati emersi da un programma finanziato dal MIUR nel 2002, sul tema «L’integrazione economica italiana nel sistema occidentale: il ruolo delle istituzioni e dei soggetti sociali (1945-1957)». Nonostante i buoni propositi, il «territorio» alpino è esplorato quasi solo nelle ottiche na- zionali, perdendo di vista l’eventuale unità dei suoi problemi. Manca cioè qualsiasi proposta di metodo. C’è uno iato tra i cinque saggi «generali» sul Piano Marshall, inclusa la rassegna delle sue fonti italiane – inspiegabilmente limitate all’IMI e alla Banca d’Italia (forse perché le più «aziendali»?) – e il resto del volume. Su dodici contributi, solo gli ultimi cinque tratta- no del «territorio». Meritevoli risultano quelli dei due curatori, rispettivamente sul turismo (Leonardi) e sull’u- tilizzo dell’ERP in Alto Adige, basati su fonti di prima mano e su un’analisi degli equilibri regio- nali anche in chiave politica. Originale è anche il contributo di Giacomoni sull’accordo preferen- ziale tra De Gasperi e Gruber e sulle sue successive dinamiche commerciali, che aiutano a spie- gare uno dei passaggi cruciali della sistemazione postbellica dei confini nazionali. Importante è inoltre il saggio di Dalmasso che dimostra il ruolo cruciale degli aiuti americani nell’industria idroelettrica francese. L’espansione dell’industria idroelettrica, il peso dell’agricoltura e il ruolo del turismo emergono come dati unificanti dell’area. Nessun autore mostra però di sapere che nel 1947 si discusse a Parigi un mega progetto italiano di fusione della produzione idroelettrica in tutta l’area alpina, né che l’anno santo del 1950 fu essenziale per la ripresa del turismo. Non può essere casuale che in una bibliografia di dieci pagine e nel saggio introduttivo di Fodor, manchino i contributi storiografici sul Piano Marshall in Italia (D’Attorre, Ellwood, Ra- nieri, Romero, Segreto e, sia consentito, lo scrivente; Vera Zamagni è citata una sola volta). Bi- sognerebbe essere più conseguenti quando ci si lamenta che «nell’ambito di fenomeni come quel- li qui indagati, gli economisti potrebbero imparare molto dagli storici economici. Ma se si guar- da all’attuale collocazione della storia economica nelle università austriache e tedesche, è da te- mersi che in futuro si intenda rinunciare all’apporto interpretativo della disciplina ancor più di quanto sia accaduto finora» (Nussbaumer ed Essenberg, p. 123). Se gli storici economici legges- sero anche la storiografia generale, forse le loro lamentele potrebbero essere meglio giustificate. Carlo Spagnolo

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Paolo Borgna, Un paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, Roma-Bari, Later- za, XI-480 pp., Û 26,00 Vi sono personaggi pubblici la cui grandezza morale e il cui spessore intellettuale appaio- no così esemplari da spingere inevitabilmente i loro biografi sulla strada, nobile sul piano ci- vile, ma difficilmente controllabile sul piano scientifico, dell’agiografia: uno di questi, nel No- vecento italiano, fu senz’altro Alessandro Galante Garrone, magistrato e storico piemontese, editorialista de «La Stampa». Colmando un vuoto effettivo, ma muovendosi su questo terre- no incerto tra biografia e agiografia, il suo amico magistrato, Paolo Borgna, il quale aveva già raccolto il suo testamento politico-intellettuale in Il mite giacobino. Conversazioni su libertà e democrazia, pubblicato da Donzelli nel 1994, ne ha fatto una appassionata ricostruzione, sul- la base di un ricco materiale. Fin dalla prefazione, l’autore fa professione di «imparzialità», ma non di «indifferente neu- tralità» verso la tradizione azionista, prendendo le distanze dal paradigma «anti-azionista» che è stato elaborato negli anni Novanta e che ha trovato espressione compiuta nella critica del «gramsciazionismo» di Dino Cofrancesco (p. X). Infatti, che l’azionismo non costituisca una forza monolitica, che avrebbe monopolizzato la cultura italiana della seconda metà del Nove- cento, in nome dell’antifascismo, prendendosi così la rivincita della sua sconfitta politica nel- l’immediato dopoguerra, è un problema ben chiarito da Borgna. Che, al contrario, il patri- monio culturale e storico dell’azionismo rappresenti una realtà complessa, formata dalle co- muni esperienze dell’antifascismo, ma composta da individualità uniche per formazione e in- teressi, è la prospettiva implicita nel taglio biografico. I personaggi di questa vita di Galante Garrone, che tende talvolta ad assumere una dimensione «corale», Giorgio Agosti, Dante Li- vio Bianco, Vittorio Foa, Franco Venturi, Leone Ginzburg, furono tutti antifascisti allo stes- so modo; tuttavia, ciascuno fu «azionista» a modo suo. Di Galante Garrone (1909-2003) l’autore ripercorre vicende pubbliche e private nel conte- sto italiano del XX secolo, dall’antifascismo alla guerra civile, dalla nascita della Repubblica alla crisi del sistema dei partiti politici. I capitoli centrali del libro sono dedicati all’esperienza dell’an- tifascismo, che coincise con l’età della sua formazione, la scelta degli studi giuridici, l’avvicina- mento a Giustizia e Libertà, l’impegno nel Partito d’Azione. Tuttavia, suscita qualche perplessità la definizione di Borgna, secondo cui «prima ancora di essere un movimento politico, Giustizia e Libertà è uno stato d’animo» (p. 141); in questo modo, l’autore riproduce l’auto-rappresentazio- ne del movimento di Carlo Rosselli, continuata nel Pd’A, collocandosi senza riserve (analitiche, non politiche) all’interno di una tradizione che identifica virtù pubblica e virtù privata, etica e po- litica, pensiero e azione. È indubbio che la Resistenza fu «il momento alto» dell’esistenza di Ga- lante Garrone, come di tutta la generazione «azionista»; essa però, alimentando la prospettiva di un «paese migliore», contribuì a fondare un criterio di valutazione per la vita politica della Repub- blica democratica, dall’alto valore morale, ma talvolta fin troppo severo. Marco Bresciani

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Lando Bortolotti, Storia di un territorio: Sesto Fiorentino (1860-1980), Firenze, Alinea, 240 pp., Û 22,00

In questa storia di Sesto Fiorentino in età contemporanea, Lando Bortolotti fornisce un esempio quasi paradigmatico di applicazione di quel metodo di costruzione di una storia ur- bana e territoriale da lui teorizzato a suo tempo in Storia, città e territorio (1979). Il libro non è che l’ultimo in ordine di tempo di una serie di studi consacrati dall’autore al territorio to- scano, tra i quali conviene ricordare quelli sulla Maremma settentrionale (1976), su Siena (1983) e, più recentemente, sull’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia (2000). Le ragioni della scelta di dedicare un’indagine monografica a Sesto non vengono precisate; nel corso del- la lettura emergeranno, implicitamente, alcuni elementi di possibile interesse del caso, tra i quali la continuità di una presenza industriale (simboleggiata dall’apertura, nel 1737, della manifattura di ceramiche Ginori), la vicinanza di Sesto a Firenze (che permette di osservare l’impatto locale dei processi di trasformazione di un’intera area metropolitana), il dialogo con una tradizione storiografica (in particolare la Storia di un comune socialista di Ernesto Ragio- nieri, del 1953). Il racconto si sviluppa seguendo in parallelo le trasformazioni economiche, il mutamento degli assetti insediativi e infrastrutturali, le discussioni e le scelte intorno alle politiche locali. Il radicamento di questo sguardo nelle fonti archivistiche, in particolare in quelle del Comune postunitario, è evidente ed è in parte all’origine di un taglio cronologico che, pur coprendo l’intero periodo dall’antichità al tardo Novecento, si concentra soprattut- to sugli anni dall’Unità al fascismo. Tra i meriti del libro vi è la capacità di leggere il rapporto tra i processi di cambiamento a scala nazionale e quelli che si svolgono a scala locale: sono in- teressanti soprattutto i materiali raccolti intorno alle relazioni tra il Comune di Sesto e gli ap- parati amministrativi dello Stato unitario, e quelli sulla storia dei piani urbanistici, presenta- ti in un utile contrappunto con l’evoluzione del dibattito e della legislazione sul tema. La sca- la ridotta del caso rende particolarmente vistoso lo scarso peso assegnato alla ricostruzione di una storia sociale dei luoghi, in specie dei notabilati urbani: questo avrebbe forse permesso di impostare in modo più articolato la questione dei rapporti tra Sesto e Firenze o di decifrare con più ricchezza di sfumature quei conflitti che emergono spesso dalle carte. Problematica appare soprattutto la comparabilità dei risultati ottenuti: le affermazioni contenute nell’intro- duzione circa la «crescente importanza [di] definire l’identità dei luoghi» e il fatto che «l’iden- tità può emergere solo dal complesso delle vicende svoltesi nel luogo e nel suo contorno» (p. 9) sembrano piuttosto confermare l’interesse dell’autore per una storia totale del territorio che appare molto vicina a una sorta di local history tecnicamente informata. Filippo De Pieri

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Hamit Bozarslan, La Turchia contemporanea, Bologna, il Mulino, 150 pp., Û 11,00 (ed. or. Paris, 2004)

Questo breve libro si contrappone frontalmente alla «storia sacra» che ancora largamen- te imperversa in Turchia, in particolare nelle scuole; ossia alla lettura agiografica e acritica del processo forzato di modernizzazione e di costruzione dello Stato nazionale che ha contraddi- stinto il regime kemalista. In tale programmatica contrapposizione sta il valore e il limite del- l’opera. Quella della Turchia contemporanea, e soprattutto della Turchia repubblicana, è certa- mente una storia complessa e contraddittoria. Ma quel che manca nel libro di Bozarslan è pro- prio la dialettica, la contraddizione: il quadro dipinto da Bozarslan è compattamente, osses- sivamente, negativo. La preoccupazione dell’autore non è storica ma politica, ed è quella di non fornire il benché minimo alibi storico, politico, culturale all’establishment che tuttora go- verna il paese. Questa sua preoccupazione lo conduce molto spesso al «peccato d’omissione». Egli sottolinea, per esempio, le propensioni filo-tedesche e filo-naziste largamente circolanti all’interno del governo e degli apparati nei primi anni della seconda guerra mondiale (p. 53), e fa bene, ma tace del tutto sugli appetiti manifestati dalla dirigenza sovietica nel 1940 a pro- posito degli Stretti e dei confini transcaucasici, e fa molto male. Oppure: accenna (p. 39) al- le Case del Popolo, ma, negativamente, solo in riferimento alla loro funzione di «indottrina- mento ideologico»; tralasciando di scrivere che esse furono chiuse nel 1951 dal governo Men- deres in quanto centri di cultura laica e (anche sul piano sociale) progressista. Presentati i giovani turchi e il kemalismo come qualcosa di molto simile al male assolu- to, Bozarslan è ovviamente piuttosto benevolo verso qualunque possibile anti-kemalismo. Tutti gli aspetti progressisti del regime kemalista, per esempio quelli relativi alla condizione femminile, sono trattati di malavoglia e messi se possibile in cattiva luce: in tal modo una vi- cenda storica profetica degli attuali giganteschi scontri interculturali, e quindi attualissima, viene relegata al piano assai più contingente degli pseudofascismi interbellici. La Turchia contemporanea è quindi, al contempo, sia un libro che molti turchi dovrebbe- ro leggere (e tanto per cominciare dovrebbero poter leggere), per uscire dal «sonno dogmati- co» a cui li induce la cultura ufficiale; sia un libro troppo unilaterale e «militante» per poter costituire un’introduzione equilibrata e affidabile alla vicenda storica in questione e al suo si- gnificato. Da ultimo, un’annotazione tecnica. In generale l’edizione italiana di quest’opera, arric- chita da una breve postfazione, si segnala per l’esattezza grafica e terminologica, tuttavia il lea- der socialdemocratico-nazionalista Ecevit è citato sistematicamente come Eçevit. Errore non presente nell’originale. Lauro Grassi

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Alessandro Breccia, Fedeli servitori. Le onorate carriere dei Giorgini nella Toscana dell’Ot- tocento, Pisa, ETS, 216 pp., Û 19,00

Questa opera prima è una bella ricerca di prima mano. Spazia dalla fine del Settecento al- l’Unità e oltre, dipanando un filo che coincide con l’ascesa e il consolidamento dei Giorgini, notabili della provinciale Montignoso nella Repubblica aristocratica di Lucca all’inizio della storia, e affermati esponenti della consorteria moderata toscana al chiudersi della parabola ri- costruita nel volume. A passarsi il testimone sono tre figure. La prima è Niccolao, uomo di punta della Repubblica democratica di fine Settecento – durante la quale si segnala per la sua adesione ai principi della rivoluzione –, poi prefetto nel Principato di Elisa Baciocchi e infine gonfaloniere di Lucca durante la Restaurazione, impegnato in prima fila a fiancheggiare il ten- tativo dei regnanti di emanciparsi dall’influenza dell’aristocrazia cittadina nostalgica della Re- pubblica oligarchica. Mentre Niccolao propone in patria, negli anni della Baciocchi, un nuo- vo modo di interpretare la funzione pubblica, il figlio Gaetano studia a Parigi, presso l’École polytechnique, da ingegnere di ponti e strade e quando, dopo la caduta di Napoleone, torna in patria, il vecchio Stato cittadino gli sta stretto. Nel 1821 passa al servizio del granduca di Toscana e sarà figura chiave nel processo di modernizzazione statale – e di parallela erosione della vecchia dimensione municipalistico-locale – promosso dagli Asburgo: prima alla guida dell’amministrazione di acque e strade, poi come provveditore all’Università di Pisa, presso la quale viene inviato dal sovrano con il compito di attuare una radicale riforma, tesa a smantel- larne l’assetto corporativo. Se la dovrà vedere con un corpo docente misoneista, ma anche, na- turalmente, con la montante opposizione liberale. Ma Gaetano è anche figura apprezzata dal notabilato progressista toscano, dal mondo dei Georgofili, e anche grazie a lui sarà possibile per qualche tempo una sinergia tra élite progressiste e amministrazione statale, suggellata da comuni obiettivi di modernizzazione della società. La svolta del ’48-49 segna il declino del ruolo pubblico del provveditore, simbolo di una breve concordia di intenti tra governo e no- tabilato liberale che le vicende del biennio hanno dissipato. Ma il libro propone, a questo pun- to, un «terzo» Giorgini; quel Giovan Battista, figlio di Gaetano, che sposa una figlia di Ales- sandro Manzoni e che durante gli anni ’50, professore all’Università di Siena, matura le com- petenze che ne faranno soprattutto dopo l’unificazione un esponente caratteristico del mon- do dei consorti liberal-moderati toscani. Dunque, da Lucca, alla Toscana, all’Italia: i Giorgi- ni offrono una vicenda esemplare della trasformazione ottocentesca dei ceti dirigenti della pe- nisola. Avvalendosi di una scrittura limpida e elegante, l’autore è in grado di dialogare criti- camente con la ricca messe di studi dedicata alla storia della Toscana ottocentesca negli ulti- mi lustri (tra gli altri, Coppini, Kroll, Mannori, Chiavistelli), proponendo approfondimenti che consentono di arricchirne il quadro di notevoli nuances. Marco Meriggi

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Giulia Brogini Künzi, Italien und der Abessinienkrieg 1935/36. Kolonialkrieg oder Totaler Krieg?, Paderborn, Schöningh, 376 pp., Û 44,90 La conquista dell’Abissinia attraverso le forze armate dell’Italia fascista è stato per decenni nel- l’area di lingua tedesca un tema praticamente dimenticato, ricordato al più solo per spiegare il for- marsi dell’Asse Roma-Berlino. Solo negli ultimi anni, quando dopo annosi e sterili dibattiti teo- rici su portata e contenuto di un concetto generale di fascismo si è tornati a definire in modo nuo- vo, attraverso studi empirici di taglio comparatistico, il luogo storico di fascismo e nazionalsocia- lismo, anche la guerra in Africa orientale è stata posta in modo crescente a nord delle Alpi nel fo- cus della storiografia. Non da ultimo le nuove ricerche su questa guerra hanno fatto vacillare la comoda tesi defeliciana che annientamento e genocidio siano state una peculiarità del nazional- socialismo, e quanto più iniziava a vacillare questa tesi tanto più interessante diventava per la ri- cerca la guerra contro l’Abissinia. Merito di questo, accanto agli studi di Schneider e di Mattioli, è anche di Brogini Künzi con questa pubblicazione della sua tesi di dottorato. Alta appare la pretesa di questo libro: l’autrice offrirebbe nientedimeno, come recita il ri- svolto di copertina, che «la prima descrizione generale della guerra di Abissinia dopo decen- ni». Chi legga il libro sotto queste premesse, lo riporrà deluso, perché è molto lontano dall’es- sere una rappresentazione completa. Per un verso l’autrice si dilunga troppo sugli anteceden- ti della guerra; più della metà dello studio si occupa della storia dell’Italia nel periodo tra le due guerre, dell’imperialismo italiano e degli immediati antefatti dell’aggressione. Per il capi- tolo decisivo Guerra coloniale o guerra totale? rimangono quindi appena 130 pagine. Relativa- mente piccolo è lo spazio riservato ad aspetti fondamentali come la condotta della guerra, l’e- sperienza bellica e le ripercussioni del conflitto sulla madrepatria italiana. In secondo luogo il corpus di atti dello studio si limita ai fondi dell’Archivio Centrale dello Stato e dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Esteri. Mancano sorprendentemente nell’indice del- le fonti gli archivi militari, così come gli archivi in Gran Bretagna o in Etiopia. Quindi, in ter- zo luogo, troppo poca attenzione viene offerta alla prospettiva abissina alla quale una reale rap- presentazione generale può difficilmente rinunciare. A prescindere da questi errori di costruzione si possono trovare dettagli interessanti, che piuttosto completano il quadro della guerra di Abissinia, invece di farlo apparire in una nuo- va luce. Riguardo alla domanda fondamentale, la risposta dell’autrice è univoca. La guerra contro l’impero di Haile Selassie sarebbe stata tutt’altro che una comune guerra coloniale; ta- le tesi sarebbe contraddetta già dall’impiego di automezzi, di armi automatiche, di aerei e di gas in grande stile, così come dalla carica ideologico-propagandistica della guerra da parte del regime di Mussolini. Allo stesso tempo la guerra d’Etiopia non sarebbe stata ancora la prima guerra di quel conflitto passato alla storia come seconda guerra mondiale. Condivisibile è un tale giudizio equilibrato di un libro non sempre ben equilibrato. Thomas Schlemmer (trad. di A. D’Onofrio)

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Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Milano, Mondadori, 457 pp., Û 20,00 La tesi del libro di Buchignani è che sia esistito un gruppo di fascisti rivoluzionari che ha condotto una linea politica autonoma rispetto al regime, perdente, comunque separata da quella del fascismo conservatore, e che questo gruppo abbia mantenuto nel corso del tempo ideologie e pratiche antiborghesi e antiliberali, al punto da traghettarsi alla fine del regime, senza soluzione di continuità, nel Partito comunista. Questa interpretazione è legata all’idea che esista un’identità del «rivoluzionario» come distruttore dell’ordine che prescinde dai risultati e dai contenuti della «rivoluzione» che esso vuole compiere: da questa convinzione proviene un problema classico dell’interpretazione del fascismo, il suo essere o meno rivoluzionario. Il secondo assunto di questa interpretazione è che «rivoluzione» e «sinistra» siano due termini strettamente correlati: una relazione che in parte senz’altro è stata costruita e voluta da una parte della sinistra, ma che a questo punto ap- pare completamente anacronistica. Se si può affermare che le forme del fascismo in alcune fa- si furono «rivoluzionarie», certo non lo furono i contenuti sociali, né essi possono essere iden- tificati con quelli del socialismo o del comunismo. Questo tipo di interpretazione era già pre- sente in De Felice, che in parte Buchignani parafrasa nel suo testo – citandolo spesso come un documento, e dimenticando che si tratta di un’interpretazione – e che è uno dei riferimen- ti chiave nella costruzione di questo libro, assieme ad alcuni altri storici, non tutti defeliciani. I fascisti rivoluzionari di cui Buchignani scrive non hanno contorni ben individuati né sociali né di gruppo, e, oltre a Berto Ricci, che è senz’altro l’eroe di queste pagine, solo i per- sonaggi di punta di questo movimento sono identificabili chiaramente. L’enfasi sul passaggio di questo gruppo dal fascismo al PCI fa dimenticare a Buchignani di analizzare, con la stessa attenzione che riserva al periodo del regime, la Repubblica sociale italiana, un momento che avrebbe potuto essere un interessante punto di verifica dell’inefficacia della sua tesi. Tuttavia, forse anche a causa della morte in guerra di Berto Ricci, l’autore si ferma al colpo di Stato del 25 luglio, che egli considera un momento di rivelazione della correttezza delle tesi anti classe dirigente delle forze rivoluzionarie dentro il regime. Questo libro offre conferma di quanto sia problematico esaminare i testi e le dichiarazio- ni dei protagonisti di cui si parla (qualunque sia la loro parte politica), senza verificarli in rap- porto alle loro azioni, e senza compiere un’analisi critica delle loro autorappresentazioni. Un esempio per tutti. Buchignani afferma che durante il periodo delle leggi razziali Berto Ricci adotta una «strategia «nicodemitica»» ossia «ostentare atteggiamenti antisemiti per continua- re la battaglia, in particolare contro quel razzismo biologico e filonazista da lui fortemente contrastato fin dal 1936» (p. 344). In che modo un atteggiamento antirazzista e rivoluziona- rio si possa sposare con l’ostentazione dell’antisemitismo e con una battaglia «occulta» è tut- to da discutere. Giulia Albanese

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Sergio Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica Sociale Italia- na, Roma, Carocci, 365 pp., Û 28,00

Il volume rispecchia la struttura di un convegno sulla storia, la storiografia e la memoria del- la RSI tenutosi a Fermo nel 2005, per iniziativa del locale Istituto di Storia contemporanea. Se- dici saggi, divisi in quattro parti ciascuna delle quali chiusa dall’intervento di un discussant, ci consegnano una serie di informazioni, dati, percorsi biografici che confermano gli assi interpre- tativi (tra gli altri, il protagonismo di Mussolini e la presenza di un insieme di soggettività che rendono la RSI molto più che un governo fantoccio, e la dimensione del razzismo e della vio- lenza come suoi elementi strutturali) intorno ai quali è ruotata negli ultimi due decenni la rivo- luzione storiografica sull’esperienza salotina. La prima parte del volume fa il punto proprio su questo «stato dell’arte», a partire dall’intervento di Enzo Collotti, e illustra anche il progetto di «censimento delle fonti sulla RSI», avviato nel 2004-2005 dalla Fondazione ISEC. La seconda, mutuando un approccio prevalentemente biografico, restituisce uno spaccato assai diversificato dei «gregari» che, negli ambienti più disparati, scelgono di far decantare all’interno della RSI le proprie scelte politiche e professionali: dall’Amicucci direttore del «Corriere della Sera», ai gio- vani marchigiani protagonisti della fioritura di un’ampia pubblicistica fascista repubblicana; dal Pollastrini leader della «banda di Palazzo Braschi», che opera nella «Roma città aperta», e il cui profilo di squadrista ha contorni che lo differenziano ben poco da un criminale comune, a Car- la Costa e ad alcune altre collaborazioniste, desiderose di imbracciare il fucile in difesa della pa- tria fascista, i cui profili sono ricostruiti da Maura Firmani in quello che è forse il contributo più interessante del volume, proprio perché segnala un terreno d’indagine ancora poco dissodato (e non solo in relazione al caso italiano). Marta Baiardi ricostruisce poi il ruolo di Giovanni Mar- telloni presso l’Ufficio affari ebraici di Firenze. Il saggio costituisce il contributo più interessan- te della terza parte del volume, incentrata sulle pratiche della violenza fascista (con altri due in- terventi che ne evidenziano il ruolo come fattore di radicalizzazione della guerra civile e della «guerra ai civili» nazista, in Italia e nell’area dell’Adriatische Kusterland). Dal caso fiorentino, emerge l’azione di funzionari che, in periferia, radicalizzano le istanze repressive del centro, se- condo una modalità di comportamento simile a quella evidenziata da Browning nei suoi studi sui funzionari dello sterminio in Europa centro-orientale. Infine, l’ultima parte vede una serie di interventi che mettono in luce le dinamiche di continuità delle burocrazie fasciste repubbli- cane (le forze armate, la polizia, la magistratura e il personale civile) negli anni successivi al 1945, valutando – mediante alcuni casi esemplari – l’impatto assai ridotto dei processi di epurazione. Il volume rappresenta un valido contributo storiografico. Unico difetto, la mancanza di qualche intervento in grado di porre maggiormente in rilievo analogie e differenze dell’espe- rienza salotina rispetto al quadro complessivo dei sistemi di collaborazione impiantati dal na- zismo nell’Europa del 1939-1945. Gianluca Fulvetti

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Nicla Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, Bologna, il Mulino, 443 pp., Û 30,00

Il volume tratteggia, in sette capitoli, la biografia di Giuseppe Siri (1906-1989), figura di grande rilievo nell’ambito della Chiesa del Novecento: ne ritrae gli sviluppi dalla formazione al primo ministero presbiterale (relativamente breve, poco più di una decina di pagine, risulta la parte dedicata al primo quindicennio di attività nel clero genovese), e si concentra soprattutto sul lungo periodo in cui Siri operò come arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987 (pp. 58-424). Porporato di spicco all’interno del collegio cardinalizio, nel quale aveva fatto il suo ingres- so nel gennaio 1953, a soli 47 anni di età, grazie alla stima che Pio XII nutriva nei suoi con- fronti (tra l’altro Pacelli lo aveva posto alla direzione delle Settimane Sociali nel 1949, e in se- guito alla presidenza della Commissione episcopale per l’Azione Cattolica nel 1955, mentre la nomina a presidente della Conferenza Episcopale Italiana nel 1959 giunse – come esito «in un certo senso naturale» (p. 149) del percorso precedente – per volontà del nuovo papa Gio- vanni XXIII, dal quale però lo distinguevano alcuni criteri di giudizio e d’intervento sulla Chiesa e la società italiana), in qualche modo Siri ne raccolse l’eredità, al punto di essere ripe- tutamente considerato il candidato più adatto a prolungarne la linea dottrinale e pastorale nei conclavi del 1958, 1963 e ancora, sia pure in un contesto ecclesiale e in un orizzonte cultura- le diversi, del 1978. Come sottolinea l’autrice, elementi qualificanti del suo decennale ministero episcopale furono lo strenuo impegno nella lotta contro il comunismo e il tentativo di ridimensionare la portata innovatrice del Concilio Vaticano II. Il comunismo fu ritenuto da Siri, come già da Pacelli, il principale avversario della Chiesa cattolica sia sul piano politico, sia all’interno del- lo stesso mondo cattolico, che – dalle nuove correnti teologiche, all’Azione Cattolica e alla Democrazia cristiana – parve segnato da ripetute fasi di cedimento nei confronti delle sugge- stioni marxiste: da lì, tra l’altro, derivò la sua formidabile opposizione, nei secondi anni Cin- quanta e nei primi Sessanta, all’allargamento dell’area di governo al PSI. Quanto al Vaticano II, Siri dapprima cercò di limitarne le aperture durante i lavori con- ciliari, e dopo la sua conclusione ne promosse un’interpretazione piuttosto riduttiva, che ne sottolineava la continuità con il precedente insegnamento dottrinale della Chiesa otto-nove- centesca. Proprio la rilevanza non meramente locale della figura dell’arcivescovo di Genova avrebbe meritato che si provvedesse a una maggiore e più puntuale contestualizzazione della presente bio- grafia nell’ambito dell’attuale panorama storiografico. Invece da questo punto di vista i riferi- menti in nota risultano relativamente limitati e spesso non comprendono studi importanti pub- blicati negli ultimi due decenni. Ne patisce, qua e là, una migliore messa a fuoco della ricostru- zione, anche se nell’insieme pare non risentirne la sua struttura complessiva, che, supportata da un’ampia documentazione archivistica, costituisce un primo profilo critico di Siri. Giovanni Vian

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H. James Burgwyn, L’impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia 1941- 1943, Gorizia, LEG, 410 pp., Û 24,00 (ed. or. New York, 2005)

Il libro edito da LEG, una piccola casa editrice molto attenta agli studi sulla ex Jugosla- via, ha il pregio di essere il primo volume pubblicato in Italia che tenti una ricostruzione or- ganica della storia dell’occupazione oltre Adriatico durante la seconda guerra mondiale. Esso si avvale tra l’altro di un bell’apparato iconografico, cui manca forse qualche mappa che faci- liti l’orientamento in un’area geografica sconosciuta ai più. L’autore è uno studioso statuni- tense, specialista di fascismo e guerra, già noto per le sue ricerche sui rapporti fra l’Italia del ventennio e i Balcani. Questa ultima fatica è il risultato di un lungo lavoro compiuto consul- tando archivi storici sia italiani che ex jugoslavi, oltre ad una vasta letteratura in varie lingue. Se da una parte Burgwyn fa largo uso dell’affascinante – e purtroppo ancora inedito – diario del diplomatico Luca Pietromarchi, responsabile dell’ufficio Croazia presso il Ministe- ro degli Esteri, dall’altra sconta l’ignoranza delle lingue slave, e in parte anche del territorio e della cultura jugoslava. Egli d’altronde non fa mistero di aver mantenuto una prospettiva es- senzialmente italiana: la sua vuole essere un’analisi precisa ed esaustiva delle varie opinioni e delle polemiche interne al fronte italiano. In questo ambito le sue tesi di fondo (i contrasti tra le autorità civili fasciste e il comando della Seconda armata; la debolezza militare italiana; la politica sostanzialmente autonoma perseguita dal generale Roatta in contrasto con le diretti- ve provenienti da Roma) risultano convincenti. Per il resto il libro evidenzia grosse lacune, specie quando si tratta di analizzare il fenomeno della resistenza o del collaborazionismo, che in Jugoslavia assunse forme molto complesse e diversificate. Un’attenta disamina del movi- mento partigiano di Tito è del tutto assente e l’analisi si affida alla vasta storiografia filo-etni- ca e anticomunista, da cui si estrapolano notizie e interpretazioni molto di parte, quando non del tutto errate. Decisamente più brillanti sono le considerazioni del capitolo finale, in cui si tenta una sintesi organica di tutta la vicenda alla luce del totale fallimento della politica (e del- la guerra) italiana in Jugoslavia. Ma in definitiva il quadro d’insieme risulta confuso, anche a causa della straordinaria complessità della vicenda; la ricostruzione appare talvolta semplici- stica, venata da imprecisioni e disattenzioni, e svilita da uno stile retorico sarcastico poco op- portuno (forse in parte imputabile ad una cattiva traduzione). Insomma, questo libro delude le aspettative di quanti si attendevano un’opera che colmasse l’enorme vuoto storiografico esi- stente. C’è molta carne al fuoco, ma va ancora cucinata a lungo! Eric Gobetti

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David Burigana, Armi e diplomazia. L’Unione Sovietica e le origini della seconda guerra mondiale (1919-1939), Firenze, Polistampa, 456 pp., Û 25,00 L’avvicinamento franco-sovietico, dall’inverno 1932-1933 al patto di mutuo soccorso del maggio 1935, potrebbe essere stato un’illusione della coterie pro-sovietica in Francia, capeg- giata da Joseph Paul-Boncour e Pierre Cot e costituita da un pugno di ufficiali/diplomatici. Nel corso del 1933-1934, questi uomini potrebbero essersi illusi che gli approcci sovietici ver- so l’esercito, la marina e l’aviazione francesi allo scopo di acquisire conoscenze avanzate in fat- to di armamenti, fossero un preludio allo stabilimento di una vera e propria Coopération po- litico-militare in funzione anti-tedesca. In realtà, l’URSS avrebbe potuto aver teso soltanto a ottenere vantaggiose occasioni di conoscenza e di contratti di acquisto di tecnologia militare avanzata, persistendo nella sua tradizionale politica di isolamento e di mani libere. Il perse- guimento di un rapporto più stretto con le forze armate francesi, allora, dovrebbe essere pon- derato sullo sfondo di precedenti e paralleli rapporti che, dopo il 1929, i bolscevichi intrat- tennero con numerosi altri Stati europei, all’epoca rinomati per l’eccellenza della loro tecno- logia in diversi tipi di armamenti (Spagna, Inghilterra, Stati Uniti, Italia). Il patto franco-so- vietico di mutuo soccorso avrebbe poggiato, così, fin dall’inizio, sull’incerta base del caratte- re essenzialmente strumentale dell’approccio sovietico, interessato soprattutto a sfruttare il po- tenziale tecnico-militare francese: così come, dall’aprile 1922 (trattato di Rapallo) all’ottobre del 1933 (uscita della Germania dalla Società delle Nazioni), l’URSS avrebbe puntato a trar- re profitto dal know-how tedesco, senza una vera devozione alla causa della sicurezza politico- militare della Germania. Ipotesi interessante, invero, sullo sfondo del problema su chi debba ricadere il mancato perfezionamento delle clausole tecnico-militari del patto franco-russo del 1935: a partire dal marzo 1936 (rimilitarizzazione della Renania), i sovietici avrebbero dimo- strato un crescente disinteresse per un sistema di alleanze inteso alla «sicurezza collettiva» in Europa, imperniato necessariamente sulla Francia; e lo Stato maggiore francese, a sua volta, non mostrò mai un soverchio entusiasmo per un’alleanza militare con il bolscevismo. L’idea di partenza è buona, verosimile: ma l’autore non è riuscito a dimostrarla. Troppo poca l’attenzione agli sviluppi politico-diplomatici franco-sovietici nel 1934-1935, quando l’URSS si compromise realmente nella causa dell’anti-revisionismo, entrando nella Società delle Nazioni. Può darsi che l’insuccesso dell’autore dipenda dalla sua difficoltà a maneggiare in modo comprensibile i risultati del suo lavoro di scavo in profondità e della sua innegabile erudizione in materia tecnico-militare; nonché dal suo peculiare stile espositivo, spesso farra- ginoso e rapsodico. Egli affastella notizie tecniche marginali con altre, invece, essenziali (e ben note…); accavallando confusamente date, avvenimenti, personaggi. In questa confusione si lacera la trama logico-cronologica della trattazione e annega il problema dell’alleanza franco- sovietica, così come esso è stato inteso finora da una storiografia che Burigana fa mostra di vo- ler liquidare. Francesco Benvenuti

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Gonzalo Butrón Prida, Nuestra Sagrada Causa. El modelo gaditano en la Revolución Pia- montesa de 1821, Cádiz, Fundación Municipal de Cultura Excmo Ayuntamiento de Cádiz, 247 pp., s.i.p. Con questo libro l’autore ha vinto il quarto Premio di scienze sociali «Cortes de Cádiz», presentando il saggio sotto lo pseudonimo Monte Bianco. Il lavoro descrive l’impatto della Co- stituzione di Cadice del 1812 sul dibattito politico dell’Italia preunitaria, sul processo di mi- tizzazione del modello rivoluzionario spagnolo e sulla applicazione dei suoi principi nel Re- gno di Sardegna. L’itinerario descritto, con un linguaggio chiaro e utilizzando sia la letteratu- ra storiografica che fonti archivistiche, affronta così l’esperienza costituzionale del 1821 inse- rendola nel contesto di cultura politica dell’età della Restaurazione. La domanda da cui parte Butron Prida è come sia stato possibile l’affermarsi di questo mo- dello politico che inizialmente aveva un consenso minoritario: la risposta viene ricercata nella de- bolezza del pensiero moderato che non coglie la forza dell’esempio spagnolo come parola d’or- dine del liberalismo basato su due chiare pietre miliari: la lotta d’indipendenza contro Napoleo- ne e la strategia del pronunciamento, «que fue visto como la estrategia que permitía afrontar un cambio político completo a través de un proceso revolucionario controlado» (p. 71). Lo spazio per un riformismo moderato viene restringendosi dopo le rivoluzioni di Spagna, Portogallo e Na- poli che determinano una polarizzazione del dibattito politico e questo spiega l’evoluzione delle posizioni di personalità come Santorre di Santarosa, preso ad esempio del pragmatismo politico che porterà all’affermazione della Costituzione di Cadice anche nel Piemonte. Questo tema vie- ne anche ripreso nella descrizione dei soggetti sociali che promuovono e appoggiano l’esperien- za costituzionale, e nell’articolazione delle relative opzioni politiche, tema già consolidato dalla storiografia che ha ormai descritto le dinamiche aristocrazia/borghesia e centro/periferia in rela- zione alla preferenza del modello francese o di quello spagnolo. Butron sottolinea invece in ma- niera particolare il ruolo della diplomazia europea, «y en especial de la embajada española» (p. 100), accentuando un elemento di etero-direzione dei moti fino ad oggi proprio della polemica conservatrice che identificava in Eusebio de Bardají, l’ambasciatore spagnolo, e nelle sette segre- te gli artefici della rivoluzione del 1821, fenomeno giudicato così estraneo alla società piemon- tese. A questo elemento originale, che però andrebbe rafforzato e validato con altri documenti archivistici, si accompagna la presa di posizione nella querelle storiografica sulla reale conoscenza del testo gaditano: Butron si schiera con coloro che ne riconoscono un rilevante grado di diffu- sione (da Candido a Mugnaini) contro coloro che ne identificano invece un’adozione superficia- le (da Ferrando Badía a Scotti Douglas). Su altri temi del dibattito storiografico, l’autore sceglie la strada della ricostruzione accurata delle posizioni senza intervenire nel merito. Prologo di Manuel Espadas Burgos. In appendice sette documenti – italiani e spagnoli – del 1820-1821; manca l’indice dei nomi ma è dettagliata l’indicazioni delle fonti e della bi- bliografia. Agostino Bistarelli

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Daniela Luigia Caglioti, Vite parallele. Una minoranza protestante nell’Italia dell’Ottocen- to, Bologna, il Mulino, 376 pp., Û 28,00 Sin dagli anni della dominazione francese, tra 1809 e 1815, nel Regno di Napoli (nella ca- pitale o a Salerno) comincia a formarsi una comunità di imprenditori stranieri, il cui nucleo prin- cipale è costituito dagli svizzeri e dai tedeschi, sebbene ci siano anche francesi e inglesi. È una presenza importante, perché questi imprenditori svolgono – fino alla prima guerra mondiale – un ruolo di primo piano nell’evoluzione dell’economia meridionale. Come hanno vissuto? Che cosa hanno fatto? Che contributo hanno dato al trasferimento di culture e tecnologie? Sono queste le domande a cui dà risposta il libro di Gia Caglioti: ben strutturato e, so- prattutto, poderosamente documentato, con ricerche condotte non solo negli archivi italiani, ma anche in quelli inglesi, o in quelli svizzeri, dove si trova la documentazione relativa a di- verse delle famiglie studiate. La ricerca segue gli imprenditori stranieri dalla loro migrazione originaria, al formarsi di una più ampia comunità insediata a Napoli; ne interroga le scelte economiche e sociali, ne segue le strategie matrimoniali, e ne osserva l’integrazione nel con- testo sociale e istituzionale del Mezzogiorno ottocentesco. Il quadro che emerge dalla ricostruzione è piuttosto netto. Una caratteristica propria di questa comunità di imprenditori è la quasi ermetica chiusura alla società meridionale. Strate- gie matrimoniali endogamiche, creazione di istituzioni proprie, conservazione di tradizioni religiose difformi da quella cattolica e di pratiche culturali autonome (lo studio e l’uso quoti- diano della lingua di origine), la descrivono come una costellazione di famiglie che fanno del- la separatezza la loro cifra identitaria più profonda. Questo aspetto ha due ulteriori importan- ti conseguenze: da un lato, il contributo che questi uomini e queste donne danno al trasferi- mento di tecnologie e culture nella società che li accoglie è molto basso, diversamente da ciò che succede in altri contesti (per esempio nelle omologhe comunità imprenditoriali straniere di Milano, Bergamo o Torino); dall’altro lato, è – in una certa misura – proprio questa difesa di una loro diversità identitaria a stimolarne le energie e le abilità imprenditoriali (un dato questo che va messo accanto alla loro capacità di intrattenere rapporti con le aree di origine, e da lì, con altre comunità di imprenditori della stessa area, lingua, religione, sparse per l’Eu- ropa). La Grande guerra, quando le lealtà patriottiche diventano motivo di discriminazione ag- gressiva, costringe o induce molte famiglie straniere (in primo luogo, ovviamente, quelle te- desche) ad abbandonare il Mezzogiorno e a far ritorno in patria: e quando non tornano le per- sone, torna comunque la loro memoria. Come osserva suggestivamente Gia Caglioti in una notazione conclusiva, «l’ultimo atto di sfiducia nei confronti della patria adottiva, l’estrema resistenza all’integrazione furono affidati agli archivi familiari» (p. 307), che, man mano, tor- nano a San Gallo, a Frauenfeld, a Coira o a Zurigo, concludendo anche simbolicamente un tracciato di chiuse «vite parallele», snodatosi per più di un secolo. Alberto Mario Banti

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Antonella Cagnolati, Tiziana Pironi, Cambiare gli occhi al mondo intero. Donne nuove ed educazione nelle pagine de «L’Alleanza» (1906-1911), Milano, Unicopli, 255 pp., Û 15,00 Segnalato nei lavori pionieristici di Annarita Buttafuoco, richiamati dalle curatrici, come «uno dei periodici emancipazionisti più completi e più interessanti e tra i più longevi dell’età giolittiana» (p. 15), a «L’Alleanza» viene adesso dedicato un utile volume da Antonella Cagno- lati e Tiziana Pironi, studiose di storia dell’educazione. Nato a Pavia, ma diffuso al di là dell’ambito locale, per iniziativa di Carmela Baricelli, socia- lista, insegnante presso la locale Scuola normale, impegnata nell’alfabetizzazione delle lavoratri- ci nelle società operaie di mutuo soccorso, scrittrice di romanzi e manuali scolastici, determina- ta a dar vita ad «una sorta di interpartito individuato sulla base del concetto di differenza femmi- nile» (p. 23), ben presto il settimanale si propone di essere l’organo ufficiale di collegamento fra i diversi comitati pro-suffragio, ma il carattere utopico della «alleanza» di genere perseguita dal- la direttrice mostrerà presto le prime incrinature fino a rivelarsi con chiarezza quando il giornale si spingerà su una linea più vicina alle socialiste e Baricelli sarà affiancata nella direzione da Abi- gaille Zanetta, posta a capo dell’importante redazione milanese e avversa a posizioni trasversali. Come si deduce dal sottotitolo – «Giornale settimanale politico letterario per l’istruzio- ne sociale e politica della donna» – il periodico aveva un forte carattere educativo, finalizzato alla formazione della coscienza politica delle donne e in particolare delle «giovinette», indivi- duate da Baricelli come il referente privilegiato per la diffusione delle istanze del femminismo tese a formare la «donna nuova». Le vicende de «L’Alleanza» vengono ripercorse dalle autrici, che ne mettono in evidenza sia la storia interna, che offre uno spaccato dei fermenti della stampa femminile del periodo, sia i numerosi ambiti di intervento, specchio della complessità della «questione femminista» e dell’eterogeneo mondo dell’emancipazionismo tra gli inizi del ’900 e la Grande guerra. Il periodico, infatti, «registra fedelmente il passaggio da un emancipazionismo teorico e astrat- to verso l’aperto dibattito su problematiche connesse alla tutela delle donne nelle fabbriche, così come contribuisce alla necessità di riformulare l’identità femminile a partire dai temi del lavoro e dei diritti di cui le donne sono titolari in quanto cittadine» (pp. 48-9); partecipa al- la battaglia per la legge sulla ricerca della paternità, si schiera a favore della legge sul divorzio e offre ampi spazi al tema dell’istruzione femminile e alle rivendicazioni delle insegnanti. La seconda parte è costituita da un’antologia di articoli che individuano «un ampio spet- tro delle tematiche affrontate dal giornale, senza fare tuttavia distinzione tra autrici di “chia- ra fama” […] e figure minori, di cui si conosce assai poco sotto il profilo biografico, ma che hanno comunque garantito un apporto essenziale» (p. 14) e fra le quali emerge un numero via via più grande di maestre e insegnanti. Il volume offre infine utili strumenti per ulteriori ricerche: l’indice delle annate, che segue un ordine cronologico e alfabetico per nome delle au- trici degli articoli, un’ampia bibliografia e l’indice dei nomi. Teresa Bertilotti

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Stefano Cammelli, Ombre cinesi. Indagine su una civiltà che volle farsi nazione, Torino, Ei- naudi, XXIII-266 pp., Û 16,50

Il volume si propone – secondo quanto afferma lo stesso autore – di portare avanti una rilettura dei processi storici, complessi quanto tortuosi, della storia cinese, liberandola «dal crogiuolo di contraddizioni, erronee interpretazioni, pericolosi fraintendimenti» (p. XIII) evi- denziati dall’analisi storiografica occidentale dell’Ottocento. Occorre dunque – sottolinea Ste- fano Cammelli – portare avanti una riflessione diversa e più attenta sulla Cina, sul «farsi del- la sua identità» nel millenario processo da «impero» a «nazione» (concetto, questo, che esiste – a differenza di quanto afferma in modo semplificato Cammelli: semmai – mi pare – diver- si sono i contesti significativi in cui esso è nato e viene abitualmente usato, soprattutto nel- l’ambito del discorso politico). In realtà, il volume si presenta come qualcosa di non facilmente definibile: non è infatti una storia della Cina ma non è nemmeno un’analisi sufficientemente dettagliata e articolata del processo di costruzione e di sviluppo di una «identità cinese». L’opera appare infatti segui- re in certe parti una scelta cronologica ma in altre si richiamano aspetti, concetti ed eventi già toccati in precedenza, in un sommarsi di questioni e di riflessioni che si intrecciano ma spes- so senza un ordine e una coerenza precisi e definiti. La mancanza di una «ossatura» storica del volume si nota altresì nei vuoti che sono lasciati – apparentemente in modo casuale – nel cor- so della narrazione cronologica, oppure nell’insufficiente rilievo che viene dato certe volte a eventi di grande significato nell’ambito del processo storico cinese. La discussione è in vari punti colta ed intreccia elementi della civiltà cinese antica, mo- derna e contemporanea (ma soprattutto antica e moderna) con altri inerenti la civiltà europea ed occidentale. Tuttavia, i temi trattati e l’analisi condotta propongono sostanzialmente una ricostruzione di tesi e di valutazioni già avanzate da autori vari nel corso degli anni, senza una vera e propria visione critica dei grandi passaggi epocali che hanno segnato la storia della ci- viltà cinese e che sono stati – e in parte continuano ad essere – oggetto di dibattito storiogra- fico. Infine, la bibliografia: è abbastanza ampia ma non è facile decifrare con quali criteri so- no state incluse certe opere e non altre, non meno fondamentali (ad esempio, per restare so- lo al periodo dell’Ottocento e Novecento, gli studi di Bastide, Bergère, Bianco, Dirlik, Mac- Farquhar, Saich, Schoppa, Schram Zarrow, e altri ancora). Inoltre, si nota la quasi totale as- senza di riferimenti alla notevole pubblicistica in lingua italiana prodotta in particolare nel corso degli ultimi anni (se si fa eccezione per rari casi, inclusi scritti dell’autore stesso), sia nel campo degli studi sulla civiltà cinese antica, sull’evoluzione storica dell’Impero nel corso dei secoli, sia ancora per quanto concerne gli studi sul processo di grandi mutamenti conosciuti dalla Cina tra il XIX e il XX secolo, sino ai giorni nostri. Guido Samarani

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Bruno Campanella, Raffaele Campanella, L’Organizzazione degli Stati Americani dalle ori- gini ai giorni nostri, Prefazione di Ludovico Incisa di Camerana, Bari, Cacucci, 220 pp., Û 25,00

Il cuore narrativo del libro consiste in una cronaca accurata delle vicende dell’Organizza- zione degli Stati Americani (OSA), sorta dopo la seconda guerra mondiale e che oggi racco- glie 35 Stati (o 34, data la sospensione di Cuba). All’inizio i membri erano le repubbliche del- l’America Latina e gli Stati Uniti; a cominciare dagli anni Sessanta si sono aggiunti i nuovi Stati anglofoni dei Caraibi e il Canada. La storia dell’OSA è preceduta da quella del movi- mento panamericano che dalla fine dell’Ottocento in poi portò a una serie di conferenze in- teramericane e alla creazione dell’Unione panamericana; ed è accompagnata dalla storia di al- tri accordi regionali, dalla kennediana Alleanza per il progresso ai progetti di integrazione eco- nomica. Il volume contiene una serie di utili appendici. Manca un indice dei nomi e degli ar- gomenti. Il cuore analitico ruota intorno a tre questioni strutturali, connesse fra loro. La prima è quella della egemonia statunitense, cioè della disparità di potere e interessi strategici fra gli Stati Uniti e il resto del continente, che ha creato continue tensioni, interventi di forza yankee e reazioni nazionaliste a sud del Rio Grande. Ciò ha fatto sì che nei momenti più drammati- ci della storia latino-americana, per esempio quello delle feroci dittature filo-statunitensi de- gli anni Settanta e Ottanta, chiaramente contrarie allo spirito e alla lettera della Carta dell’O- SA, l’OSA stessa si sia trovata paralizzata e impotente, entrando in «un periodo di torpore». La seconda questione riguarda la frattura fra le concezioni statunitense e latino-america- na del panamericanismo. Per gli Stati Uniti esso è stato uno strumento per promuovere la si- curezza continentale contro le minacce esterne, per garantirsi le spalle man mano che il pae- se acquisiva ruoli di potenza mondiale; a Washington l’OSA fu concepita come una alleanza anti-comunista simile ad altre degli anni della guerra fredda. Per l’America Latina, invece, il panamericanismo era uno strumento di sviluppo economico e sociale della regione; e l’OSA doveva essere integrata da una sorta di Piano Marshall, che venne troppo tardi e in maniera insufficiente (con l’Alleanza per il progresso, appunto). Solo in rari momenti le due concezio- ni si sono incontrate. La terza questione è accennata nelle conclusioni ed è quella della collocazione del sub- continente americano nella geografia dei conflitti storico-culturali del mondo. Gli autori ri- tengono che l’America Latina sia «il retroterra naturale tanto dell’Europa quanto degli Stati Uniti», e che con Stati Uniti e Europa debba contribuire, soprattutto ora che vive una rina- scita democratica, alla formazione di un «triangolo occidentale» – che sia «centro di irradia- zione dei valori occidentali». Arnaldo Testi

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Luciano Canfora, 1914, Palermo, Sellerio, 168 pp., Û 10,00

Le centocinquantaquattro pagine che Luciano Canfora dedica all’anno 1914, o meglio al tema della Grande guerra, vogliono offrire «un’immagine sfumata, movimentata, contraddit- toria, realistica» di un evento al quale – da oltre un quarto di secolo, da quando Paul Fussell ne fece il momento fondativo della «memoria moderna» – la storiografia ha opportunamen- te prestato grande attenzione. Ma è bene dire che, di questa letteratura, il lettore non troverà traccia in un volumetto, il quale, con ogni evidenza, privilegia un taglio piuttosto tradiziona- le di storia delle relazioni internazionali e di storia politica. Iniziando con un excursus sulle possibili premesse del 1914 (la guerra tra Russia e Giappo- ne, le guerre balcaniche), Canfora prende in esame, successivamente, il quadro politico interno delle potenze belligeranti, l’imperialismo come pratica coloniale e come ideologia, il dibattuto problema della responsabilità tedesca, la questione della violenza sui civili e – con l’invasione del Belgio – la guerra propagandistica su «terrorismo» e «franchi tiratori». Per finire con alcune pa- gine dedicate alle posizioni che prendono, di fronte al conflitto militare, le diverse anime del so- cialismo europeo – fino a Mussolini e a Lenin – e la Chiesa romana («l’inutile strage»). Come già chiarisce questo rapido sommario, la narrazione seleziona alcuni topoi della Grande guerra, che non configurano una tradizionale storia degli eventi (sebbene l’attentato di Sarajevo del 28 giugno venga molto dettagliato) e che tuttavia, a parere di chi scrive, non riescono pienamente ad affrontare – anche per le dimensioni ridotte dell’opera – il significa- to complessivo di quello che si sarebbe rivelato come l’inizio del «secolo breve». Si nota, ad esempio, un’insistenza forse eccessiva sulla questione tedesca, la quale è indubbiamente cen- trale nell’interpretazione del 1914 ma forse andrebbe soppesata insieme ad altri, non meno decisivi, nodi geopolitici: dalle «piccole nazioni» senza Stato ai problemi della Gran Bretagna imperiale, dalle divisioni dei «fronti interni» (pur nella euforia nevrotica della mobilitazione) a quelle disomogeneità strutturali e culturali, che dividono il vecchio continente secondo li- nee Est-Ovest e Nord-Sud e che talvolta sono trasversali ai due schieramenti bellici. Il volu- metto, del resto, compendia le idee e talvolta le ideologie di Canfora sul tema della guerra ma non ha il tempo per essere una rassegna storiografica, né, alle volte, per costellare di sufficien- ti dati contestuali quelle stesse idee e preferenze dell’autore. Va detto che 1914 è parte di una serie radiofonica dedicata alla storia e dunque ha l’am- bizione, come recita la nota introduttiva di Sergio Valzania, di «colloquiare con platee allar- gate». Un testo da ascoltare, prima che da leggere. Con dichiarato intento divulgativo. Ma la divulgazione è cosa impegnativa, come si sa, e anche uno storico di razza come Luciano Canfo- ra può incorrere nell’equivoco di divulgare riflessioni, ritagli storiografici, selezioni tematiche forse troppo personali e soggettivi. Senza dire che, se una cosa manca in questa pagine peral- tro colte e sincere, è l’impronta dell’antichista. Paolo Macry

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Filippo Cappellano, Basilio Di Martino, La guerra dei gas. Le armi chimiche sui fronti ita- liano e occidentale nella Grande Guerra, Valdagno, Rossato, 335 pp., Û 22,00

L’impiego delle armi chimiche fu una delle novità più rilevanti sul piano operativo du- rante la prima guerra mondiale. Per molti versi, il gas, come l’aviazione da combattimento, il ricorso alle artiglierie pesanti e l’impiego dei primi mezzi blindati, caratterizzò il conflitto mo- derno, staccandolo dalle guerre precedenti e originando una cesura con la pratica bellica oc- cidentale. Le armi chimiche, invisibili, inudibili e anonime, sono una parte decisiva infatti di quella spersonalizzazione della morte che ha fatto parlare molti storici, da Audoin-Rouzeau e Becker a Gibelli, di una «scomparsa della battaglia» tra 1914 e 1918, rottura di un confine ideale che aveva fatto, fino ad allora, del confronto sul campo il laboratorio del valore dell’in- dividuo-guerriero e delle comunità in armi. Nonostante l’importanza degli agenti chimici nel mutamento del paradigma occidentale della guerra, però, il loro studio è rimasto confinato a lungo in una ristretta nicchia di specialisti e appassionati. Un destino comune a quello della maggior parte delle «armi moderne», di cui molti studiosi parlano ma pochi sanno, e di mol- ti aspetti apparentemente tecnici ed eruditi della storia militare, di cui sovente sarebbe bene che coloro che si occupano di guerra si impadronissero prima di scriverne. Il volume di Filippo Cappellano e Basilio Di Martino rappresenta, anche da questo pun- to di vista, un utile strumento per tutti coloro che vogliono avvicinarsi alla conoscenza di questo aspetto della guerra moderna. Sintesi solida e dettagliata, ben documentata a partire da fondi archivistici italiani ma corroborata dall’utilizzo della bibliografia internazionale di- sponibile (scarna a dir la verità), La guerra dei gas è tutto meno che un manuale ad uso e con- sumo di pochi tecnici cultori di militaria. Organizzata cronologicamente per anno, il volu- me ripercorre l’evoluzione dell’arma chimica, il coinvolgimento delle industrie europee nel- la sua progettazione e lo sviluppo dottrinale nel suo impiego (con interessanti notazioni sul- le problematiche legate all’etica militare). Il lettore dovrà, certo, confrontarsi con un’impo- stazione del discorso che sovente scoraggia il non addetto ai lavori. Non mi riferisco soltan- to alla narrazione, talvolta frammentata e difficile a seguirsi per chi non abbia già un retro- terra di conoscenze in proposito, ma anche alla veste grafica che, nella tradizione dell’edito- re Rossato, è fin troppo attenta all’iconografia e scarsamente sensibile al testo. Il risultato so- no oltre trecento pagine di stampa fitta e spesso ingestibili, in cui facilmente ci si perde e che non invogliano alla lettura. Peccato, perché il lavoro di Cappellano e Di Martino, due uffi- ciali in servizio attivo che hanno alle spalle una solida tradizione di studi tecnici assai prezio- si per lo storico militare, meriterebbe un’attenzione sicuramente maggiore a quella che gli verrà probabilmente riservata, alla pari di altri volumi specializzati di scarsa circolazione e di rara consultazione. Marco Mondini

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Paolo Capuzzo, Culture del consumo, Bologna, il Mulino, 332 pp., Û 19,50

Adottando una partizione tematica e una prospettiva di lungo periodo che si snoda tra l’espansione coloniale europea di metà Seicento e la prima guerra mondiale, l’autore costrui- sce uno stimolante percorso di lettura attraverso la complessità dei processi di consumo che si sono venuti delineando nell’Europa urbana centro-settentrionale, con particolare attenzione all’Inghilterra e all’Olanda, anche se non mancano puntuali riferimenti ai paesi di lingua te- desca e alla Francia. La comparazione tra dimensioni geografiche e sociali specifiche – come gli interni dome- stici della borghesia degli affari olandese del Seicento o i quartieri operai dei grandi centri in- dustriali inglesi dell’Ottocento – e l’interazione tra i rapporti di potere (e le retoriche) che strutturano nel tempo gli ambiti della produzione, della commercializzazione e del consumo sono le coordinate di fondo del volume, il cui intento è «di situare la sfera del consumo in un ampio contesto sociale, senza tuttavia considerarla come sfera derivata, ma autonomamente produttrice di senso» (pp. 13-14). Posizionandosi all’incrocio tra caratterizzazione sociale e va- lorizzazione culturale del significato semiotico e simbolico delle pratiche di consumo, il volu- me mira a dare rilievo alla presenza e alla soggettività del consumatore, ma allargando lo sguar- do e l’analisi al campo di forze che ne orienta l’azione. Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui temi in oggetto: dal nesso tra globalizzazio- ne dei traffici mondiali e rinnovamento dei consumi europei (cap. I), all’impatto della com- mercializzazione sulla morfologia urbana e sulle relazioni di genere nello spazio pubblico (cap. V), passando per i dilemmi settecenteschi della «popolarizzazione» e della regolazione etica del lusso (cap. II), e per la riformulazione ottocentesca del rapporto tra pubblico e privato (capp. III-IV). Ma, oltre al ricco apparato di note, il pregio maggiore del volume è di confrontarsi ad ogni passo con le categorie e le teorie del consumo elaborate negli ultimi due secoli dalle scienze sociali per interpretare vertigini e aporie dei processi di modernizzazione (da Georg Simmel ad Arjun Appadurai; da Pierre Bourdieu a Colin Campbell a Michel de Certeau). Di- stanza, conflitto, emulazione, resistenza, distinzione e identità sono alcuni dei termini che de- finiscono le polarità di tensione entro cui prendono forma tra Sette e Ottocento le culture del consumo delle classi medie (cap. III) e operaie (cap. IV), opportunamente declinate al plura- le e in modo da centrare la ricostruzione non tanto sul problema della genealogia o dell’ori- gine sociale di determinati comportamenti e stili di vita, quanto sul peso delle variabili geo- grafiche, sociali e culturali «sui caratteri delle differenziazioni orizzontali» (p. 170), disegnan- do una molteplicità di percorsi individuali, familiari, di gruppo «i cui fili si dipanano e si in- trecciano tra spazi, tempi e culture» (p. 10). Monica Pacini

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Antonio Cardini (a cura di), Il miracolo economico italiano (1958-1963), Bologna, il Mu- lino, 312 pp., Û 24,00

Il volume raccoglie gli atti del convegno dedicato a Il miracolo economico, tenutosi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Siena nel gennaio 2006. All’introduzione di Antonio Cardini seguono brevi saggi firmati da Jacopo Mazzini, Angelo Varni, Valerio Ca- stronovo, Adriana Castagnoli, Stefano Maggi, Enrico Menduni, Barbara Rossi, Paolo Sorci- nelli, Cecilia Dau Novelli, Simona Colarizi, Maurizio Degl’Innocenti, Guido Melis. Nel mirino degli interventi la ricostruzione dei rapidi cambiamenti strutturali del tessu- to economico, sociale e culturale del paese, il ruolo della grande industria e degli imprendito- ri «grandi e piccoli»; i mutamenti nel campo del costume, della morale, della sessualità, dei media e dei consumi: ecco la diffusione della 600 e del telefono, la nascita della televisione, l’arricchimento dietetico, le spesso inconsulte trasformazioni urbanistiche, l’impatto della tra- sformazione sulle donne in termini sociali, professionali, culturali; infine, sguardi ai partiti politici di fronte al cambiamento del costume e alla svolta del centro-sinistra, (dunque volti alle «conseguenze» politiche del boom), e al ruolo di un’amministrazione pubblica rivelatasi inadeguata al compito. Nel complesso, intelligenti considerazioni di sintesi che paiono in sostanza confermare consolidate interpretazioni e periodizzazioni del «miracolo» italiano: la fase preparatoria degli anni Cinquanta, con un rispettabilissimo tasso medio annuo di crescita del pil pari al 5,3 per cento tra 1952 e 1958 (forse qualcosa di più di una semplice «fase preparatoria» o di «segna- li incoraggianti»); la sostenuta espansione del 1958-63, il ruolo trainante della componente estera e degli investimenti in macchinari, infrastrutture e mezzi di trasporto, l’effetto virtuo- so del trattato di Roma, il pieno impiego, la forte stabilità monetaria, il dualismo territoriale e settoriale. In assenza di analisi di più lungo periodo o di non episodiche riflessioni compa- ratistiche sui numerosi – e più prolungati – «miracoli» coevi (penso ad esempio ai lavori di M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, o di H. van Der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere. 1945-1980, Milano, Hoepli, 1989), al centro di molti interventi sembra collocarsi l’idea di una frattura epocale tra un lungo passa- to rurale e un improvviso ingresso nella modernità industriale. In particolare nell’introduzio- ne del curatore, dedicata a La fine dell’Italia rurale e il miracolo economico, la proposta di pe- riodizzazione appare spinta alle sue estreme conseguenze, invitando a leggere gli anni del boom come il traumatico decesso di una millenaria Italia rurale, e dei suoi rapporti città/cam- pagna e contadini/proprietari. Così, un forse eccessivo desiderio di sintesi induce talvolta in- terpretazioni poco condivisibili: «Questo mondo italico frutto di sedimentazioni millenarie giunge sino alla seconda guerra mondiale. Per tenerlo immutato, anzi, la borghesia liberale in- staura il fascismo» (p. 10). Carlo Fumian

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Franco Cardini, Lawrence d’Arabia, Palermo, Sellerio, 158 pp., Û 10,00

Conversazioni radiofoniche, ora venti capitoletti con divagazioni e scorribande nella lun- ga durata attorno ai vari orientalismi (à la Said). Lawrence è un pretesto, un Virgilio in una «sorta di viaggio infernale nella politica coloniale europea del primo Novecento» (p. 134). Vi- sionario, uomo di confine, viaggiatore malato di esotismo, gira la Francia in bicicletta alla ri- cerca di castelli medievali per la sua tesi oxoniense, ed è un primo oriente fatto di gusti neo- gotici. Va poi in Egitto e in Arabia da collezionista, archeologo, agente dei servizi inglesi. In confidenza con le tribù del deserto, ne adotta abbigliamento e costumi, divenendo uomo dal- la doppia personalità, «traduttore-traditore» (Carl Schmitt). La presa di Aquaba da parte di terra – memoria delle crociate? – ne fa un provvisorio eroe arabo. Il 9 dicembre 1917 entra a Gerusalemme col generale Allemby e la sua corte di personaggi strani: Gertrude Bell, amica di Feisal, l’orientalista Louis Massignon, l’emiro Abdelkader, il maharaja Ganga Sing, la Tigre del Gange. Qui il racconto diventa più grande di lui, e lo abbandona. La conquista di Geru- salemme, oltre che un brutto colpo per l’esercito turco è la fine della presenza tedesca nell’a- rea, tappa del Great Game che coinvolge l’intero Oriente caucasico, oltre che l’Arabia. Le av- venture dell’esotismo decadente arabo-mediterraneo (diverso da quello indiano, o cinese) la- sciano il posto alle questioni dure della politica internazionale. Gertrude Bell ridisegna insie- me al giovane Winston Churchill la carta dell’intera zona (ignorando i curdi, peccato). Perso- naggi come Lawrence erano serviti a unire gli arabi contro i turchi; ora si tratta invece di fram- mentarne le forze. Il veleno nazionalista, a fatica inoculato nelle tribù del deserto – che han- no pur sempre a Istanbul il loro califfo e poco capiscono della patria inventata in Europa – serve a ritagliare nuovi Stati (repubbliche nell’area francese, monarchie in quella inglese) da distribuire agli sceriffi, come i figli di Hussein, Abdullah e Feisal. Ecco l’accordo anglo-fran- cese Sykes-Picot (a p. 130 lo si dice «anglo-inglese», ma è un errore di stampa senza metasi- gnificati). Il 1917 è l’anno terribile del fronte occidentale, per i contendenti, e poi per gli storici. Perciò è utile che Cardini sposti lo sguardo su quel fronte secondario segnalando il grumo dei problemi che vi si addensano. Lenin rende noti gli accordi, e con essi il tradimento occiden- tale. Entra in scena il petrolio, e gli europei sono larghi di promesse alle rivendicazioni sioni- ste. Si apre una nuova, tragicissima, pagina di storia. Il lettore non si aspetti alcuna messa a punto o nuova ricerca su Lawrence, sulla politica estera inglese o sulla guerra. Quell’improbabile Virgilio è servito a richiamare la complessità di un tema da noi poco studiato e del suo retroterra culturale. La conoscenza dei testi e dei luoghi da parte di un medievista interessato all’incontro con l’Islam arricchisce il quadro, ma- gari lo sforza un poco, e diletta non solo chi ascolta l’affabulazione radiofonica ma anche chi, studiando da storico, si permette una pausa e si ritrova in testa idee, ipotesi, suggerimenti. Raffaele Romanelli

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Dorena Caroli, Ideali, ideologie e modelli formativi. Il movimento dei Pionieri in URSS (1922-1939), Milano, Unicopli, 238 pp., Û 14,00

L’organizzazione sovietica dei «Pionieri» (bambini e adolescenti) prese vita e forma dietro di- verse ispirazioni: lo scoutismo internazionale e la sua filiazione russo-imperiale, l’impulso genui- namente totalitario all’irreggimentazione della società e un residuo filantropismo socialista pres- so i bolscevichi nei terribili anni della guerra civile. Fin dagli inizi, i dirigenti del movimento (tra i quali Nadezhda Krupskaya, consorte di Lenin, e Anatolii Lunacharskii, commissario del popo- lo all’Istruzione) si divisero sulla natura dell’educazione che l’organizzazione avrebbe dovuto im- partire ai fanciulli. Vi era chi avrebbe voluto che essi fossero cresciuti in un clima di devozione politico-ideologica alla causa del bolscevismo e quelli che, più sensatamente, sostenevano l’im- portanza del giuoco e dello sport e della socializzazione attraverso di essi al fine della formazione di una personalità adulta equilibrata. Tuttavia, nei primi anni della rivoluzione e per tutti gli an- ni ’20 i veri problemi ai fini dello sviluppo e del funzionamento dell’organizzazione dei Pionieri furono prosaicamente altri: la scarsa attrattiva che la loro organizzazione esercitava presso la po- polazione (soprattutto nelle campagne, dove essa era risentito come cavallo di Troia dell’ateismo) e la scarsità dei mezzi che la dittatura proletaria riteneva di poter devolvere alla loro causa. I Pio- nieri divennero un’organizzazione veramente di massa solo nei decenni successivi al 1945. I Pionieri, tuttavia, cominciarono a divenire organizzazione di massa negli anni ’30, al tempo delle drammatiche trasformazioni sociali indotte dalla collettivizzazione forzata e dal- l’industrializzazione accelerata. In quell’epoca, essi finirono con l’assolvere elementari compi- ti di assistenza sociale, compatibilmente con i ridottissimi mezzi residuali decisi dai super-in- dustrializzatori a tale scopo. Finì anche che il movimento andò a concentrarsi sulle attività neutralmente educative e ricreative e, in parte, para-militari. Ma Dorena Caroli è andata ol- tre questa rilevazione. Ella ha messo le mani su di una ricca documentazione d’archivio che include la corrispondenza indirizzata dai Pionieri alla direzione del loro movimento, sopra- tutto alla Krupskaya (chiamata spesso «nonnina»). Queste lettere rivelano uno stato dramma- tico generale di tanta parte degli adolescenti sovietici, le cui famiglie soffrivano, si spezzavano o scomparivano sotto i colpi della «rivoluzione dall’alto». Si ricava, così, una visione «dal bas- so» e per mano delle creature più esposte a queste tremende esperienze, delle conseguenze so- ciali della collettivizzazione e dell’industrializzazione. L’autrice riproduce larghi brani di lette- re dalle quali emerge il conflitto tra tante giovani personalità e un ambiente circostante che sembrava condannarli a un’esistenza di miseria materiale e di frustrazione intellettuale e pro- fessionale. Caroli teme che una gran parte di questa drammatica corrispondenza sia rimasta senza esito. In tal modo ella completa, idealmente, il progetto di ricerca concepito dall’inizio della sua carriera di attenta e partecipe ricercatrice delle condizioni di esistenza dei bambini e degli adolescenti nel primo, durissimo ventennio rivoluzionario russo. Francesco Benvenuti

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Paolo Carusi (a cura di), Roma in transizione. Ceti popolari, lavoro, territorio nella prima età giolittiana, Roma, Viella, 261 pp., Û 23,00

Oggetto di questo libro è la rapida trasformazione di cui fu protagonista la città di Ro- ma tra la fine del XIX secolo e, all’incirca, il primo quindicennio del XX. Il volume racco- glie gli atti della giornata di studio Politica, territorio, società a Roma nella prima età giolittia- na tenutasi il 28 gennaio 2005 presso il Dipartimento di studi storici geografici antropolo- gici dell’Università di Roma Tre. Curato e introdotto da Paolo Carusi, in esso si vogliono ap- profondire alcuni elementi specifici di questa fase concitata della storia di Roma attraverso «un ampio approccio multidisciplinare» (p. 15) che permetta un’analisi di tipo non solo po- litico-amministrativo, ma anche economico, culturale, urbanistico, sociale. Il saggio di Ma- rio Belardinelli, che può essere considerato un’ideale origine di analisi dell’intera materia pre- sentata nel volume, indica in modo efficace la stretta relazione esistente tra la storia locale e quella nazionale, le cui conseguenze furono decisive anche per l’assetto della città negli anni successivi: partendo da un quesito fondamentale («come si configura il rapporto fra autorità politica centrale e società a Roma all’alba del nuovo secolo?», p. 21) – quesito che sembra es- sere alla base di tutti gli altri saggi, anche se resta talvolta eccessivamente celato – l’autore il- lustra il collegamento tra la politica giolittiana su scala nazionale e l’amministrazione citta- dina, durante quel periodo cruciale in cui «i processi di trasformazione tipici dell’età con- temporanea» iniziarono «a coinvolgere la capitale» e il territorio circostante (p. 40). Nei lo- ro interventi, Giuseppe Barbalace e Carusi esaminano il mondo del lavoro, la condizione dei principali gruppi politici della sinistra romana e le prime rivendicazioni dei lavoratori che sfoceranno, nell’aprile 1903, nel primo sciopero generale capitolino. Sulla figura di Gugliel- mina Ronconi è incentrato invece il saggio di Daniela Rossini, dedicato a questa straordina- ria donna che lasciò un segno importante nella rete delle associazioni filantropiche romane. Giorgio Rossi e Catia Papa analizzano il mondo giovanile: il primo con un contributo sulla diffusione delle istituzioni professionali a Roma durante l’età giolittiana, inserendo il tema nel quadro più ampio dei vari interventi legislativi che, a partire dalla Legge Casati del 1859, si occuparono dell’istruzione professionale; la seconda con un bel saggio sulle tensioni che videro protagonisti gli studenti delle scuole secondarie e dell’università. Ma questi furono anche gli anni dei primi progetti tesi a dare un nuovo assetto urbanistico alla città: a questo tema sono dedicati i contributi di Fabio Fabbri – che illustra il suggestivo tentativo di tra- sformare Roma in città «marittima» – e di Paola Falcioni, sullo sviluppo del quartiere Ostien- se. Il volume si chiude con due saggi sui cambiamenti subiti dal territorio circostante la ca- pitale: Lidia Moretti, con un approccio tipico delle discipline geografiche, presenta il caso dell’Agro Romano, mentre Vincenzo G. Pacifici si sofferma sulle tensioni che si diffusero tra i lavoratori della Valle dell’Aniene. Paola S. Salvatori

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Mario Casella, Stato e Chiesa in Italia (1938-1944). Aspetti e problemi nella documenta- zione dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Galatina, Congedo, 548 pp., Û 65,00

Il volume presenta una vasta documentazione, riguardante le relazioni Chiesa-Stato nel- l’ultima fase del fascismo, conservata presso il Ministero degli Affari Esteri italiano e presso gli Archivi dell’Azione Cattolica italiana, alla vigilia dell’apertura presso gli Archivi vaticani delle carte riguardanti il pontificato di Pio XI. La pubblicazione costituisce, in effetti, un’ul- teriore tessera di un mosaico che l’autore contribuisce a ricostruire da alcuni anni, grazie agli studi apparsi presso lo stesso editore sulla Conciliazione (1929-1931), sui rapporti Chiesa e politica nel passaggio dalla dittatura alla democrazia (1942-1948), e sulla mobilitazione cat- tolica per il 18 aprile 1948. È all’interno di una più ampia proposta di ricerca che si colloca- no, dunque, gli eventi sui quali quest’opera concentra l’attenzione: la crisi tra Chiesa e regi- me nel 1938 sulla questione razziale, il permanere delle polemica tra le organizzazioni fasci- ste e l’Azione Cattolica (per l’autore questioni connesse e di pari valore per la Santa Sede), le valutazioni fasciste sui primi anni del pontificato di Pio XII e sull’atteggiamento cattolico sul- la guerra, i passi che diedero vita ad alcune iniziative della diplomazia vaticana e dell’amba- sciata italiana presso la Santa Sede. Con una capacità di penetrazione dei personaggi e una sicurezza nel tratteggiare le situa- zioni che sono il frutto di lunghi anni di lavoro, Casella colloca sotto nuova luce molteplici figure, più o meno note, della classe dirigente dello Stato italiano (un particolare interesse vie- ne riservato ai rapporti dell’ambasciatore presso la Santa Sede Bonifacio Pignatti e, successi- vamente, all’attività dell’incaricato d’affari Francesco Babuscio Rizzo), nonché i protagonisti delle «stanze vaticane» a cavallo dei pontificati di papa Ratti e di papa Pacelli, delle cui perso- nalità vengono individuate non poche differenze nel condurre il governo della Chiesa. L’au- tore affronta, a questo proposito, anche la questione della distinta attitudine tenuta dai due pontefici di fronte a fascismo e nazismo. Assai acutamente, documentazione alla mano, egli riconosce in Pio XII un atteggiamento «più duttile e compromissorio», che tuttavia appare ta- le soltanto nella forma, non nella sostanza; si tratta, a suo avviso, di un mutamento legato per lo più al «carattere del nuovo papa ed al maggior senso politico che egli aveva rispetto al pre- decessore» (p. 9). La miniera di informazioni contenute nel testo, del resto, non distrae dall’individuare il definito impianto interpretativo dell’opera: dopo il 1938 le relazioni tra Chiesa e fascismo si presentarono sempre difficili, come evidenziato nella crisi sulle leggi razziali e ancora sull’A- zione Cattolica, ed alimentate da continue grandi o piccole tensioni. Anzi, nonostante «il mu- tamento di tono» impresso nei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Stato italiano, esse «peg- giorarono sensibilmente rispetto al passato» (p. 10). Andrea Ciampani

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Robert Casillo, The Empire of Stereotypes. Germaine de Staël and the Ideas of Italy, New York, Palgrave MacMillan, X-379 pp., s.i.p. Nel 1907 Camillo von Klenze, in un saggio che voleva essere innanzitutto un contribu- to allo studio dell’Italienische Reise di Goethe, fissava la sua attenzione sul ruolo che l’inter- pretazione dell’Italia aveva svolto nella cultura europea degli ultimi due secoli. Su questa stes- sa linea si muove l’autore: il passaggio da un’immagine ancora settecentesca dell’Italia, razio- nalista, centrata su Roma e sull’ideale classicista di ordine ed armonia, ad una tipicamente ot- tocentesca, che identifica il problema italiano del nuovo secolo con la passione, la sincerità, la spontaneità, il desiderio erotico (p. 42). E che, soprattutto, gravita intorno a nuovi poli urba- ni: Firenze e Venezia (e non Roma, con una predilezione decisamente anti-Chateaubriand e, in anticipo, anti-Stendhal) sono le capitali dell’Italia sognata della cultura romantica. Su que- sto sfondo Casillo legge Corinne ou l’Italie. Il romanzo che M.me de Staël pubblica nel 1807 inaugura un nuovo mito dell’Italia, risolvendo l’imponente mole di giudizi (e di stereotipi) accumulati nei due secoli precedenti da una sconfinata e polemica letteratura di viaggio, in una nuova sintesi culturale: «The importance of Staël as an interpreter of Italy is that her hi- ghly popular novel fuses and synthesizes these sometimes contrary strains in travel writing and in this way bequeaths a new feeling for Italy to the entire nineteenth century» (p. 43). Il pas- saggio «dal declino alla scoperta», dal pregiudizio ad una nuova comprensione dei costumi e della società italiana alle soglie dell’età romantica è al tempo stesso una profonda revisione del- l’iniziale avversione staëliana per la penisola e la sua tradizione storico-culturale, che l’autore identifica senz’altro nelle pagine di De la littérature (1800), con i suoi giudizi generici su Dan- te e Petrarca (nonostante Vincenzo Monti) e il monumento eretto a Shakespeare. Artefici di questa revisione sono, da un lato, gli esuli italiani che l’autrice incontra a Coppet, in partico- lare Francesco Melzi d’Eril; dall’altro la nuova estetica di Winckelmann e dei fratelli Schlegel (August Wilhelm ha un ruolo importante nella scoperta staëliana dell’Italia). L’Italia amata da M.me de Staël è, evidentemente, la nazionalità negata dall’oppressione napoleonica. Un principio dialogico di esplicita derivazione bachtiniana struttura l’argomentazione di Casillo: De la littérature e Corinne e, nel romanzo del 1807, Oswald, il campione della mora- lità protestante e del nuovo spirito nord europeo e la sua sofferta amata italiana, figura di una dignità misconosciuta. Sulla base di questo principio Casillo costruisce i suoi capitoli, che muo- vono sempre da un iniziale disdegno verso una più attenta valutazione della complessità italia- na. Dentro questa struttura dicotomica alla fine, tuttavia, resta imprigionato lo stesso autore che, preoccupato di mostrare innanzitutto come molti degli stereotipi negativi dei viaggiatori stranieri abbiano un fondamento oggettivo, quantomeno parziale, nel declino settecentesco della penisola, riflette in maniera inconsapevole l’autorappresentazione della modernità anglo- sassone e nord europea che lo specchio italiano assicura al passaggio tra diciottesimo e dician- novesimo secolo. Forse non è dell’Italia che parla Corinne. Adolfo Scotto di Luzio

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Francesco Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 397 pp., Û 34,00 L’interessante volume di Cassata, buon ultimo, aggiunge un ulteriore tassello a una recen- te stagione di ricerche capace di colmare il gap della storiografia italiana in materia rispetto al parallelo panorama internazionale. Oggi, dopo le indagini di Maiocchi, Israel-Nastasi e Man- tovani, e gli studi apripista di Pogliano e Guarnieri, i nomi di Sergi, Consiglio, Morselli, Gi- ni, Pende, Boldrini, Landra, Gianferrari e Montalenti, non risuonano più in uno scoraggian- te vuoto d’interesse. La vasta indagine di Cassata restituisce con puntualità l’attivismo di un milieu intellettuale, costituito da antropologi, psichiatri, demografi, sociologi e psicologi, che, se ha attirato carente attenzione tra gli storici, non per questo propone quesiti marginali a chi intenda analizzare le vicende culturali italiane da punti d’osservazione meno frequentati. Oltre i limiti delle tassonomie specialistiche, il volume ha il pregio di concepire l’eugeni- smo come «fenomeno culturale, sociale e politico di ampia portata» (p. 11), inserito in un quadro metodologico comparatistico utile a mostrare la presenza di molteplici national stiles, dall’autore, con acribia, intrecciati attorno al copione principale fornito dal caso italiano, e al- la sua caratterizzazione latina contrapposta ai modelli dell’eugenica anglosassone o tedesco- scandinava. Fondata sopra una copiosa bibliografia, la ricerca opta per una periodizzazione discutibi- le e, non di meno, coerente con la strategia euristica complessiva. Discutibile poiché ritarda- to appare fissare il termine a quo dell’eugenica nazionale al 1912, amputandola dei dibattiti di quello straordinario laboratorio medico-sociale-politico rappresentato dalle scienze dell’uo- mo positiviste di fine ’800 (i cui maggiori esponenti, per altro, sono citati con frequenza nel testo). Coerente col progetto euristico di fondo poiché, ponendo il termine ad quem alla metà degli anni ’70, consente all’autore di abbracciare il compiuto tragitto di quel paradigma eu- genico «razzizzante» dall’affermazione al suo eclissarsi dall’agenda scientifica con la nascita del- la bioetica. È la sezione dedicata alla sorte della «scienza del miglioramento del materiale umano» (p. 8) dopo il crinale del ’45 la parte più innovativa e promettente di futuri approfondimenti. Se i ca- pitoli iniziali articolano dettagliatamente le filosofie eugeniste dei vari autori ma, sostanzialmen- te, non apportano innovazioni interpretative rimarcabili, i capitoli finali si segnalano positiva- mente almeno per due motivi. Primo, poiché colmano con una lettura sistematica un buco ne- ro conoscitivo imbarazzante. Secondo – a tacere della vitalità accademica di molti suoi propu- gnatori collusi col fascismo ed il nazionalsocialismo – perché appurano l’autonomia (sub condi- tione) e solidità di un discorso scientifico, sovente razzista e classista, la cui longevità, tra crisi e metamorfosi semantiche, dopo le sciagure del secondo conflitto mondiale non può non suscita- re interrogazione tra gli studiosi, tanto più quando al presente fa capolino un «utilizzo strumen- tale del concetto di eugenica come arma di battaglia politico-ideologica» (p. 22). Andrea Scartabellati

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Francesco Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Caroc- ci, 225 pp., Û 18,00

L’acuto e documentato libro su Corrado Gini di Francesco Cassata aggiunge certamente un capitolo molto importante al recente ampliamento alle scienze naturali e sociali della sto- riografia sul rapporto tra gli intellettuali e il regime fascista. Considerato, infatti, lo «scienziato del Duce», almeno sino alla sua emarginazione dall’I- STAT nel 1932, Gini contribuì in vari modi alla formazione della koiné fascista con le sue teo- rie demografiche e sociologiche e con il suo ruolo di protagonista nella nascita dell’ISTAT. Cassata, da un lato, individua gli aspetti del pensiero di Gini che più lo avvicinavano al pen- siero e alla politica demografica e imperialista fascista – il biologismo positivista, la teoria ci- clica delle nazioni, il neo-organicismo, il familismo pronatalista di matrice cattolica, la con- cezione biologico-demografica del ricambio sociale –; dall’altro lato, indaga il ruolo attribui- to dallo statistico alla scienza nel suo rapporto con la politica. Se, per quanto concerne le teorie eugenetiche, la posizione di Gini si conciliava con quel- le del regime, più problematico era il rapporto con la politica natalista di Mussolini. Da un lato, infatti, la teoria ciclica delle nazioni di Gini preconizzava l’ineluttabile declino della fer- tilità e, di conseguenza, della nazione italiana; dall’altro, considerava gli incroci etnici, limita- tamente alle «razze» presunte superiori, come il mezzo più efficace per ritardare o anche ov- viare al declino della nazione. Se ciò non impedì a Gini di sostenere comunque la politica na- talista del regime e se la teoria ciclica delle nazioni fu la sua giustificazione «scientifica» e dun- que pretesa come politicamente «neutrale» del colonialismo e del bellicismo fascista, fu la sua concezione dell’autonomia della scienza dalla politica a determinarne l’emarginazione da par- te del regime. Per Gini era la politica del fascismo a doversi conformare alle indicazioni della scienza e non viceversa, ma se ciò lo indusse a difendere l’ISTAT e i colleghi dalle ingerenze del regime, paradossalmente determinò anche la sua concezione «militante» della scienza, di una scienza, cioè, al servizio, sia pure nel ruolo di guida, della politica demografica e imperia- le fascista. Nel secondo dopoguerra l’abbandono della demografia fu la strategia di riabilitazione adottata da Gini. Il prezzo di tale sganciamento fu però il rifiuto della demografia italiana di fare i conti col suo passato e dunque la sua lunga incapacità di rinnovarsi. Vestiti oramai solo i panni del sociologo, la costante fedeltà di Gini ai suoi antichi capisaldi teorici, reazionari e sempre più anacronistici, gli impedì di partecipare al rinnovamento della sociologia italiana e lo rese incapace di comprendere le urgenti problematiche sociali del paese in fase di rapida modernizzazione. Sandro Rinauro

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Renzo Castelli, Fascisti a Pisa, Prefazione di Michele Battini, Pisa, ETS, 142 pp., Û 14,00

Il volume intende ricostruire i fatti della città di provincia attorno alla marcia su Roma. L’autore si sente in dovere di inserirli in un contesto più vasto, seguendo il filo delle vicende nazionali nella fase culminante del fascismo alla conquista del potere. L’equilibrio tra le due componenti torna a svantaggio della situazione locale, da cui l’attenzione è sviata dalle vicen- de più generali, a loro volta intessute più di memorialistica (in genere ben nota) che di riferi- menti documentari in senso proprio. Ciò non toglie al volume, che non ha né impianto né pretese di ricerca scientifica, una gradevolezza narrativa che deriva (come osserva Battini nel- la sua prefazione) sia dalla capacità scrittoria sia dalla ironica curiosità dell’autore, attento a segnalare i particolari significativi delle vicende che affronta. Senza alcuna simpatia, ma anche senza nessun postumo livore, Castelli ci fa scorrere sot- to gli occhi le paradossali vicende delle squadre pisane accampate per tre giorni a Santa Ma- rinella, sotto una pioggia pressoché ininterrotta, mentre a Roma si recita una tragedia dai to- ni paradossali che porta al potere il loro capo. Il quale si affretterà a congedarli il 31 ottobre, la notte stessa del loro arrivo nella capitale. L’autore è guidato soprattutto dal gusto per la descrizione delle atmosfere, per gli episodi co- loriti o significativi, per la rievocazione della vita d’ogni giorno. Lo sfondo quotidiano riceve co- sì da lui una attenzione cordiale, quasi sul modello delle rievocazioni di maniera. Non si può tut- tavia dire che nella scala dei valori Castelli dimentichi il significato cruciale delle tragiche vicen- de di cui raccoglie la memoria e intesse le componenti. Lui stesso sottolinea come tutto ciò diffi- cilmente possa essere colto attraverso le fonti a stampa, in quanto i quotidiani obbedivano a un «modello di informazione» indirizzato a circoscrivere e a sottacere la gravità delle violenze e dei lutti. Gli omicidi – a opera tanto dei rossi quanto dei neri – «erano rimasti circoscritti al dolore, all’ira, infine alla propaganda dei rispettivi movimenti, senza che la stampa quotidiana avesse vo- luto farsi interprete del turbamento più generale dell’opinione pubblica». Dopo le stragi della Grande guerra: «C’è la voglia – commenta – se non di dimenticare, almeno di ricostruire una nor- malità, quella normalità che gli scontri e i delitti della politica rendono meno facile» (p. 63). Su questi sfondo si impianta e si sviluppa il movimento fascista – che Castelli definisce segnato non dalla preminenza degli ex combattenti (come recitava la retorica delle origini), ma caratterizzato «dalla sempre più massiccia adesione di insegnanti, piccoli borghesi, giovani disoccupati ed an- che di una robusta rappresentanza rurale al seguito di importanti personaggi che esercitavano il loro potere nelle aree agricole della provincia pisana» (p. 76). Il volume è corredato dall’elenco completo dei nomi dei 2.063 fascisti che presero parte alla «marcia», dalla composizione nume- rica e dall’organizzazione di comando delle legioni e dei corpi che le componevano. Anche se i dati di analisi della composizione professionale e sociale non vanno oltre quelli più sopra richia- mati, questi sono elementi di grande utilità per ogni riflessione sui caratteri del primo fascismo. Luigi Ganapini

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Valerio Castronovo, Un passato che ritorna. L’Europa e la sfida dell’Asia, Roma-Bari, La- terza, 361 pp., Û 19,00 Il libro di Castronovo mette a fuoco un tema di grande rilevanza attuale: L’Europa e la sfi- da dell’Asia, come recita il sottotitolo. Il tema è svolto in prospettiva storica, nella suggestiva chiave di Un passato che ritorna. Le relazioni tra Asia ed Europa, infatti, non sono una novità, hanno un lungo passato alle spalle, ricostruire il quale è utile anche per capire il presente e, possibilmente, per immaginare il futuro. In questa chiave l’autore rivisita molte vicende, a par- tire dagli scambi commerciali in età moderna e proseguendo con l’offensiva colonialistica – soprattutto in India, Cina e Giappone – delle potenze europee nel XIX secolo. Il volume ri- percorre poi il Novecento asiatico, segnato dall’espansione giapponese, dalla pesantissima sconfitta bellica del Sol Levante, dall’intenso sviluppo economico del Giappone post-bellico (ma anche dai contraccolpi della crisi americana del ’29). Si giunge quindi agli anni più re- centi, fino a quel colosso bicefalo che gli studiosi americani hanno chiamato Cindia. Infine, il libro si chiude con conclusioni audacemente intitolate: quale futuro? (che però riguardano soprattutto le difficoltà attuali dell’Europa, non tutte connesse alla sfida asiatica). Un passato che ritorna non pone soltanto un problema di stringente attualità, ma suscita anche un’importante questione di metodo storico. Come fare storia delle relazioni tra grandi aree del mondo, molto distanti e differenti, ma non prive di contatti e perciò legate tra loro da forme di interdipendenza che si sono accumulate nel tempo, che si sono intensificate re- centemente e che, presumibilmente, cresceranno ancora in futuro? Dai miti della storia uni- versale del genere umano ai miti della storia generale del mondo, passando attraverso i limiti della storia comparativa, si è oggi arrivati al problema di una storia adeguata agli orizzonti del- la globalizzazione. Nonostante i progressi della world history, però, la strada per una storia al- l’altezza di queste sfide appare ancora lunga. È quanto conferma anche il libro di Castronovo, un autore molto attento e sensibile alle nuo- ve sfide culturali e, perciò, più di altri capace di tentare impegnative «storie del tempo presente» (come ha già mostrato ne L’eredità del Novecento: che cosa ci attende in un modo che cambia, Tori- no, Einaudi, 2000). Questo volume, infatti, offre una buona panoramica delle relazioni econo- miche internazionali tra mondo europeo e mondo asiatico, ma complessivamente la storia del- l’Europa e quella dell’Asia compaiono qui come due parallele che si incontrano – o si scontrano – solo limitatamente, come nel caso del colonialismo o delle guerre. Indubbiamente, scrivere una «storia dell’Eurasia» costituisce un’impresa molto difficile, se non impossibile, ma forse si potreb- be tentare di mettere a fuoco quei passaggi della storia dell’Asia contemporanea che sono stati se- gnati in profondità dal rapporto con l’Europa (oltre all’India, anche le storie della Cina e del Giap- pone nel XIX e nel XX secolo offrono più di uno spunto in questo senso). A parti rovesciate, è anche il problema dell’oggi: quanto la concorrenza economica asiatica sta già incidendo in profon- dità nella nostra vita quotidiana? Ogni giorno, abbiamo la sensazione che la Cina sia più vicina… Agostino Giovagnoli

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Antonio Catolfi, Televisione e politica negli anni Sessanta, Urbino, Quattroventi, 206 pp., ? 18,00 Gli anni ’60 introdussero cambiamenti decisivi in Italia: uno di questi fu la definitiva af- fermazione della televisione come pilastro dell’informazione culturale e politica. È per questa ragione che Catolfi ha scelto di focalizzarsi, nella ricostruzione dei complessi rapporti tra TV e politica in Italia, proprio su quel decennio che vide trasformazioni profonde e durature sia nell’azienda radiotelevisiva sia nelle modalità della comunicazione politica. Nel 1961 infatti l’arrivo in RAI di Ettore Bernabei, ex direttore de «Il Popolo», produsse un rinnovamento sul piano della programmazione e insieme un rafforzamento dei vincoli fra l’azienda e i centri del potere politico. Con l’obiettivo di «fare buoni programmi», Bernabei intendeva trasformare «la RAI in una grande azienda culturale» per farne una «fabbrica di consenso per la DC» sen- za scuotere i rapporti con la Chiesa (p. 106). Tra il 1960 e il 1961, poi, con la nascita delle trasmissioni di Tribuna elettorale e Tribuna politica la TV iniziò, non senza forti resistenze, a competere con gli strumenti tradizionali della propaganda politica. Catolfi segue l’intrecciarsi di questi fenomeni. Evidenzia i tratti caratterizzanti di una «te- levisione del governo» che, sia per il ruolo marginale del Parlamento nella sua gestione sia per l’iniziale diffidenza delle sinistre verso i nuovi media, poté essere utilizzata dalla DC nel suo progetto di modernizzazione culturale e di «controllo dello status quo politico e sociale del paese» (p. 74). Ricostruisce inoltre il lungo processo che portò all’ingresso della politica e dei suoi protagonisti nelle case degli italiani attraverso gli schermi televisivi. Regista di questa in- novazione fu l’allora presidente del Consiglio Fanfani che, dietro le pressanti richieste delle opposizioni e una sentenza della Corte costituzionale sulla legittimità del monopolio televisi- vo pubblico, decise di concedere a tutti i partiti l’accesso in TV in vista delle elezioni ammi- nistrative del 1960; scelta da inquadrarsi anche come «chiaro segnale politico verso il centro- sinistra» (p. 69). A fronte di un grande successo di pubblico, l’introduzione della politica in TV non mancò di suscitare diffidenze e difficoltà tra i politici. Mentre la destra DC attaccava violentemente una televisione che aveva portato «le ballerine e Togliatti nel cuore delle famiglie italiane», la stampa comunista non coglieva (o sottovalutava) il carattere innovativo delle «Tribune». Ma soprattutto c’erano le difficoltà dei politici nel misurarsi con le novità imposte dal mezzo: ef- ficacia e velocità di esposizione, equilibrio dei contenuti, telegenia, capacità di rivolgersi ad un pubblico più vasto e differenziato di quello dei propri elettori. Con l’introduzione delle «Tribune» anche in Italia la comunicazione politica si avviava a diventare «spettacolo» e, sebbene sul momento molti politici non se ne resero conto, si trattò di un cambiamento lento ma inesorabile. Peccato quindi che Catolfi non abbia esteso la sua analisi fino al 1968, quando ormai la supremazia propagandistica della televisione era un fat- to assodato, ma era anche entrato in crisi definitivamente il modello di «TV del governo». Giulia Guazzaloca

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Livia Cavaglieri, Tra arte e mercato. Agenti e agenzie teatrali nel XIX secolo, Roma, Bulzo- ni, 422 pp., Û 25,00

L’autrice è una storica del teatro che da un percorso più orientato alle esperienze sceniche contemporanee (si vedano lavori precedenti sul Piccolo Teatro milanese e su Luca Ronconi) ha indirizzato risolutamente la propria ricerca sul teatro ottocentesco e sui suoi meccanismi produttivi, illuminandone una figura centrale come è quella dell’agente teatrale. Il volume si inserisce così in un crescente filone di studi internazionali sullo strutturarsi ottocentesco del- l’industria dello spettacolo che vede per lo più interagire storici, sociologi della cultura, mu- sicologi e storici del teatro. In questo caso il lavoro presenta un impianto rigorosamente sto- rico e si basa sull’indagine di un insieme ricco e articolato di fonti archivistiche e non, per ar- rivare a produrre – importante risultato aggiuntivo in appendice – un accurato dizionario bio- bibliografico degli agenti teatrali attivi a Milano nell’Ottocento (all’incirca 150) che sarà di indubbia utilità per le ricerche successive. L’originalità del volume sta anche nella scelta del- l’oggetto: l’agente teatrale rappresenta infatti uno dei tasselli più trascurati e dileggiati del si- stema teatrale in quanto esplicito anello di congiunzione tra arte e mercato, un sensale tra ar- tisti, impresari e teatri verso cui si indirizza la critica sempre riemergente alla commercializza- zione dell’arte teatrale. La sua nascita come figura professionale via via più autonoma e rico- noscibile si colloca non a caso nell’ambito del teatro in musica, che già nel primo Ottocento sviluppa dinamiche produttive moderne e un volume di affari consistente. Inutile dire che la scelta di uno sguardo congiunto sul mondo della musica e della prosa risulta qui inevitabile, a dispetto delle artificiali partizioni disciplinari. L’autrice segue dapprima il percorso giuridi- co della categoria, dalla più sospettosa ma anche più attenta normativa pre-unitaria, che ne identifica competenze ed attività, fino al più indeterminato quadro legislativo del Regno, che nasconde una certa indifferenza per il mondo teatrale nel suo complesso. Ne analizza poi la professionalizzazione e le pratiche effettive arrivando alla fase del suo pieno sviluppo tra gli anni Settanta e Novanta, quando insieme agli agenti, ormai intermediari consueti tra gli arti- sti e i centri di produzione, si moltiplicano anche le riviste di agenzia, strumento chiave per il funzionamento di una vita teatrale che a fine secolo acquisisce una ben diversa complessità. Qui l’argomentazione cala all’interno del singolo caso di Milano, la piazza più significativa nella geografia teatrale italiana del secondo Ottocento, e si sofferma su alcuni casi particolari come quello dell’«Arte drammatica», la rivista più attesa e più letta dagli addetti ai lavori, e del suo fondatore, il vulcanico Icilio Polese Santarnecchi. Figure centrali nella costruzione del- le carriere degli attori e dei cantanti, ma anche nell’orientare la programmazione corrente at- traverso la traduzione della produzione straniera, gli agenti teatrali ci introducono così ad una percezione più ravvicinata dei momenti di trasformazione dell’offerta spettacolare nell’Italia ottocentesca. Carlotta Sorba

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Stefano Cavazza, Emanuela Scarpellini (a cura di), Il secolo dei consumi. Dinamiche socia- li nell’Europa del Novecento, Roma, Carocci, 246 pp., Û 17,10

Il volume curato da Cavazza e Scarpellini colma una lacuna non più a lungo tollerabile nel panorama italiano: quella di un’opera che facesse il punto sulla riflessione storiografica sui consumi, tema di ricerca che vanta una tradizione oramai consolidata e lavori divenuti già dei classici della storiografia. In Italia la ricerca muove i primi passi, e il lavoro a più voci ne dà una testimonianza ampia e promettente. Il volume è una esplorazione delle molteplici dimen- sioni del consumo come eclettica prospettiva di analisi sulla società contemporanea, base ine- ludibile di una nuova storia sociale che dai consumi parte per rifondarsi, uscendo così dalle secche della crisi poststrutturalista e postmoderna. Come la ricchezza e l’eterogeneità dei sag- gi dimostrano, infatti, il consumo è potenzialmente un terreno di incontro sul quale si eser- citano la storia delle rappresentazioni e delle mentalità, delle istituzioni, della politica e del- l’economia. Un certo iniziale stupore rispetto alle aspettative create dal titolo suscita la lettu- ra dei saggi, nessuno dei quali confina l’analisi realmente al ’900; tutti si spingono indietro, mostrando una tacita condivisione della tesi, diffusa soprattutto dalla storiografia inglese, del- la genesi settecentesca dell’attuale società dei consumi. I temi sono molteplici e non certo riassumibili in poche righe. Il fil rouge sembra essere, tut- tavia, in linea con le tendenze metodologiche più recenti, la centralità del simbolico, pur nell’an- coraggio alle concrete dinamiche sociali e produttive che scandiscono la storia degli ultimi seco- li. Ecco l’esplorazione dei luoghi del consumo, dalle botteghe settecentesche ai contemporanei concept stores, come luoghi produttori di identità sociali, di significati socialmente condivisi (Scar- pellini), e persino di nuove categorie sociali (Salvatici); ecco l’analisi del percorso filosofico che ha condotto alla emancipazione ideologica delle società europee dalla dittatura del bisogno, dal settecentesco dibattito sul lusso alle più recenti teorie sociologiche del consumo (Capuzzo), fino all’affermazione del tempo libero come diritto sociale (Cavazza); ecco ancora, l’irrinunciabile pro- spettiva sulle identità, la questione di genere, di cui vengono ripercorse problematicamente le molteplici implicazioni per la storiografia dei consumi (Sassatelli); non poteva mancare infine, in questo trionfo della dimensione simbolica, l’analisi dei mezzi della produzione immateriale di si- gnificati associati alle merci e relativi desideri, dalla pubblicità (Arvidsson), ai luoghi in cui si con- suma lo spettacolo sociale e si rappresenta la fantasmagoria delle merci (Gundle). Il volume lascia soltanto un dubbio: che l’Europa cui il titolo fa riferimento non sia uno spazio da definire, un elemento problematico, bensì una cornice assunta convenzionalmente per collocare fenomeni di cui occorre forse delimitare la portata ed esplorare le concrete arti- colazioni, rifuggendo dalla tentazione di elevarli a segni universali della progressiva afferma- zione di una omogenea società dei consumi, a meno di non voler produrre una nuova macro- narrazione, che «consuma» l’ennesima reductio ad unum della storia dell’Occidente. Alida Clemente

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Daniele Caviglia, Massimiliano Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterra- nei. La politica mediorientale dell’Italia dalla guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, Rubbettino, 184 pp., Û 10,00, appendice documentaria su CD-Rom

Storici delle relazioni internazionali rispettivamente presso la San Pio V e l’Università di Urbino, i due autori hanno scandagliato gli archivi diplomatici dei National Archives ameri- cani, della Johnson Library, del Ministère des affaires étrangères, della Fondazione Pompidou e del Foreign Office inglese per ripercorrere la storia delle iniziative politico-diplomatiche ita- liane degli anni che portarono dalla terza alla quarta guerra arabo-israeliana. Daniele Caviglia segue nel primo triennio lo sforzo di Fanfani e Nenni di trasformare l’«equidistanza» inaugu- rata nella guerra dei Sei Giorni in capacità di mediazione, nella crescente consapevolezza dei vincoli della dipendenza energetica; Massimiliano Cricco restituisce un Moro mosso dalla preoccupazione per la saldatura fra crisi arabo-israeliana e conflitto Est-Ovest, ne giudica le proposte più mirate e pertinenti pur riconoscendone i limiti intrinseci nel ruolo marginale dell’Italia e nell’irrigidimento del conflitto fra le parti; di Medici rimane impresso soprattut- to un bruciante giudizio di Pompidou. Pur nelle diverse sfumature che i due autori si sforza- no di porre in rilievo, il periodo appare caratterizzato da una sostanziale continuità di obiet- tivi: cogliere le opportunità diplomatiche create dallo stato di crisi in cui l’intero Mediterra- neo precipitava, partecipando allo sforzo a più voci teso a promuovere un compromesso fra Israele e i paesi arabi, nella convinzione che il conflitto fosse il miglior alleato dell’Unione So- vietica nel mondo arabo. Il volume chiarisce le linee – multilaterali e bilaterali, ma sempre in- scritte in un quadro collettivo – della presenza italiana nella diplomazia mediorientale fra an- ni ’60 e anni ’70 e offre un florilegio di interpretazioni e commenti degli alleati con i quali i ministri italiani interagiscono. Se le fonti «terze» impiegate permettono di ricostruire l’epife- nomeno e la maniera in cui esso venne percepito, la mancanza di documentazione italiana fi- nisce per lasciare nell’ombra le intenzioni e le percezioni del soggetto: chiaro nelle sue diver- se formulazioni l’interesse italiano a normalizzare il quadro regionale valorizzando il proprio ruolo diplomatico, rimane oscuro il processo decisionale, la percezione di sé e i postulati/obiettivi che muovono di volta in volta l’iniziativa diplomatica – la volontà di me- diazione, il rapporto privilegiato con Washington, Londra, Israele o i paesi arabi. Né l’inte- ressante intervista a Emilio Colombo riesce a rovesciare la situazione. L’integrazione nel qua- dro della dimensione economica aiuterebbe forse a illuminare l’eterno interrogativo sul senso ultimo di certo «presenzialismo» da sempre rimproverato alla politica estera italiana. Elena Calandri

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Gian Mario Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Torino, Ei- naudi, XXXII-849 pp., Û 85,00

L’opera intende fare il punto sulla storiografia relativa al fenomeno massonico nel nostro paese: una letteratura oscillante fra «religione» e «scienze occulte» prima, «poi fra queste ulti- me e “società segrete”», infine incline a recuperare il versante associazionistico o della storia della sociabilità, «mentre nei cataloghi e nelle bibliografie generali dell’Europa continentale la si vede piuttosto registrata sotto la voce “altre religioni”, insieme a teosofia, new age, ecc.» (p. XV). Il proposito è quello di non sacrificare ad una interpretazione secolarizzata gli aspetti spi- rituali ed esoterici, tendenzialmente riconducibili ad un’interpretazione «dall’interno» della li- bera muratoria. Il risultato positivo è che l’Annale costituisce effettivamente una rassegna rea- listica dello stato degli studi in Italia; quello meno positivo è rappresentato dalla palese dispa- rità di valore dei singoli contributi, alcuni storiograficamente aggiornati, altri limitati da una prospettiva auto-referenziale, o dalla ripetizione di «brani di repertorio» ormai noti. Il settore decisamente più avanzato pare quello della ricerca sulla massoneria delle origini e settecente- sca: interessante il lavoro di Beaurepaire sul Grand Tour e le Républiques des lettres massoniche, ma anche quelli sulla comunicazione letteraria, sulla musica, sui giardini. I contributi di Me- nozzi e Miccoli sui rapporti fra Chiesa e massoneria sono impeccabili, adeguato quello di No- varino (massoni e protestanti) e assai stimolante quello di Sofia sugli «ebrei massoni» risorgi- mentali. Francamente sconcertante, invece, la rivisitazione di Cagliostro di Porset, nella qua- le si rinvengono a stento i «fondamentali» dello storico. La ricostruzione delle varie massone- rie negli Stati d’antico regime è in genere utile e ricca di spunti e di dati nuovi. A questo pun- to, occorre segnalare che alcuni studiosi hanno finito per riassumere nel volume le proprie te- si, specie quelli che alla libera muratoria hanno dedicato lavori di grande respiro o ricerche in- novative in questi ultimi anni – Giarrizzo, Cordova, Fedele, Conti, Padulo –: il che se, da un lato, assicura al lettore dell’Annale un quadro assai aggiornato, dall’altro lascia allo specialista un retrogusto un po’ amaro per l’occasione, non colta fino in fondo, di andare oltre. Cazza- niga ci prova col suo bel lavoro sui «rituali carbonari»; la Catalan, occupandosi dell’irredenti- smo, riapre un tema decisivo dell’età liberale; la De Poli traccia i contorni di una «rete» fra Ita- lia ed Oriente che merita approfondimenti: ma si tratta di frammenti sparsi, non di tessere di un mosaico in via di formazione. Lo testimonia il confronto fra il contributo di Cordova sui «riconoscimenti internazionali» alla massoneria fra il 1943-48, e quello, poco più che crona- chistico, di Martelli sulla massoneria nel periodo repubblicano. Quasi del tutto estranei a un’impostazione storiografica, e inseriti a riequilibrare il volume sul versante del «rito» e del- la «cultura interna», i pur efficaci saggi di Panaino e Vigni. In conclusione: se l’obiettivo era quello di scattare una fotografia dell’esistente, il risultato pare nitido ed efficace; se, invece, es- so mirava ad orientare la ricerca, non si può dire altrettanto. Roberto Balzani

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Paola Ceccotti, Il fascismo a Livorno. Dalla nascita alla prima amministrazione podestari- le, Empoli, Ibiskos editrice, 308 pp., Û 15,00

Questo libro, nato da una tesi di laurea, si inserisce in un filone di studi rilevante nella storiografia italiana come quello della storia locale del fascismo, e in particolare del periodo delle origini. L’autrice però compie la scelta particolare, e non completamente convincente, di studiare le vicende politico amministrative di Livorno dal dopoguerra fino ai primi anni ’30. Il testo si divide in due parti: la prima rintraccia la storia delle origini, la seconda quella dell’amministrazione podestarile di Livorno negli anni iniziali del fascismo, un periodo cro- nologico che coincide con l’amministrazione di Marco Tonci Ottieri della Ciaja e che defini- sce il termine finale della ricerca. Il comune di Livorno si caratterizza negli anni del primo dopoguerra per una forte con- flittualità sociale e per l’ampio credito di cui gode il partito socialista in questa, che è una del- le principali città industriali e portuali della Toscana. In questo contesto l’autrice, attraverso una ricerca compiuta negli archivi locali, ricostruisce i principali passaggi politici e gli scontri che animano la zona all’indomani della nascita del fascio di combattimento locale. La conflit- tualità raggiunge il punto di svolta nell’estate del 1922, prima ancora dello sciopero legalita- rio, quando l’amministrazione locale è costretta alle dimissioni, cosa che non evita il dilagare di una violenza che non conosce precedenti al principio di agosto. La parte più interessante e originale del volume però riguarda il primo anno del regime e il disordine che ne segue, oltre che la costruzione di poli di potere fascista – in particolare la cooperativa portuale «Benito Mussolini» presieduta da Ciano – in relazione con l’avvenuta conquista del comune. L’autri- ce fa i conti con gli effetti dell’ordinamento repressivo realizzato a livello nazionale da De Bo- no, che trova espressione nel primo voto dopo la marcia su Roma, quando più di 800 perso- ne vengono escluse dal voto per motivi politici e la grande maggioranza evita di votare per ti- more di violenze. La violenza del primo anno viene letta, in parallelo con l’interpretazione di De Felice, dentro la crisi del fascio locale, e come una espressione di questa crisi, quando in- vece sembra che – anche da quanto emerge in questo studio – le cose potrebbero anche esse- re interpretate in maniera diversa e facendo i conti maggiormente con gli effetti di repressio- ne di molte di queste pratiche. La seconda parte però è complessivamente la meno convin- cente del volume perché, in parallelo con i documenti conservati, l’autrice passa da un’atten- zione alla politica cittadina, ad un’attenzione all’intervento edilizio sulla città. In questo mo- do il lettore rimane in qualche modo sospeso dentro un racconto che non ha continuità e che non fornisce spiegazioni delle trasformazioni né di come i gruppi politici perdenti si riorga- nizzino o riescano a sopravvivere al regime. Non si può non segnalare inoltre che la bibliogra- fia di riferimento è piuttosto debole, e che questo è un ostacolo non solo per il lettore, ma so- prattutto per lo spessore interpretativo del testo. Giulia Albanese

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Lucia Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903- 1924), Roma, Carocci, 171 pp., Û 24,00

Seguendo l’esempio francese (l’anticléricalisme n’est pas un article d’exportation) i governi italiani favorirono l’attività delle missioni cattoliche nelle colonie. Il volume ne illustra un aspetto minore, la presenza dei padri trinitari nel Benadir, poi Somalia italiana, dal 1903 al 1924, con una buona documentazione (manca però una descrizione degli archivi missionari utilizzati). Si tratta davvero di un caso minore, sia per la precarietà del dominio italiano, sia perché l’Ordine dei trinitari non aveva una tradizione missionaria, che doveva affrontare per sopravvivere dopo l’esaurimento della sua vocazione secolare, la liberazione dei cristiani pri- gionieri o schiavi degli Stati musulmani del Mediterraneo. Quindi i padri trinitari nelle sta- zioni di Chisimaio (allora inglese), Gebid, Brava e poi Mogadiscio furono sempre pochi (una diecina nel momento migliore), impreparati, sprovvisti di mezzi e lacerati da contrasti inter- ni (il prefetto apostolico loro superiore scriveva nel 1908 che erano il «rifiuto di tutti i nostri conventi, mandati qui a pervertire maggiormente e non già a convertire questi poveri neri», p. 171). Lucia Ceci ripercorre con attenzione e precisione le vicende della missione, che, superati i contrasti iniziali con le autorità civili e militari della colonia, non seppe trovare una via di sviluppo. Un’opera di evangelizzazione dei somali era proibita dalle autorità e ritenuta impos- sibile dagli stessi padri per l’impermeabilità dell’ambiente musulmano. Un’attività nel campo sanitario era impedita dalla mancanza di preparazione dei padri, nessuno dei quali aveva qual- che infarinatura di infermieristica, tanto meno di medicina. Le autorità coloniali indicavano come scopo prioritario della missione l’apertura di scuole volte non alla cristianizzazione o al- fabetizzazione dei somali, ma alla loro «educazione al lavoro» per la creazione di una mano- dopera necessaria allo sviluppo della colonia. Anche in questo campo i padri trinitari non eb- bero alcun successo. La loro sostituzione con i padri della Consolata fu decretata dal governa- tore De Vecchi nel 1924, ma era già decisa prima del suo arrivo, anche il Vaticano aveva ri- nunciato a difendere i padri trinitari. La ricostruzione delle loro vicende in Somalia e del lo- ro pieno fallimento vale a dimostrare che, se il colonialismo italiano era improvvisato, senza una cultura specifica, lo era altrettanto e peggio la penetrazione cattolica in Africa gestita dal Vaticano, almeno in questo caso. Ceci documenta con rigore impietoso come la prima preoc- cupazione dei padri trinitari mandati allo sbando in Somalia, senza preparazione, né diretti- ve, né mezzi, fosse necessariamente la loro sopravvivenza. E infatti chiedevano a Roma vive- ri, pecorino e vino, non libri, ma soprattutto il rimpatrio. Giorgio Rochat

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Sabina Cerato, Vita privata della nobiltà piemontese. Gli Alfieri e gli Azeglio. 1730-1897, Roma, Carocci, 304 pp., Û 35,30

In una lettera del novembre 1876 indirizzata alla suocera Giuseppina Cavour Alfieri, Emilio Visconti Venosta, scrivendo del suo matrimonio, ne parlava come di una condizione, di una «felicità domestica» nella quale trovava «calma», «forza», «fiducia anche per la vita po- litica» (p. 5). Espressioni significative quelle dell’ex ministro degli Esteri del periodo della De- stra, nelle quali è possibile cogliere entrando nella sfera più personale, il rapporto tra pubbli- co e privato nei nessi difficilmente scindibili, ma anche il superamento di quella soglia che in- troduce all’«approccio dei sentimenti», all’universo intimo, alle relazioni familiari e amicali. L’autore di questo interessante volume lo fa entrando nella quotidianità di due prestigio- si casati della nobiltà piemontese, in quelli degli Alfieri e degli Azeglio, imparentati tra loro nel 1814 con le nozze di Costanza Alfieri di Sostegno con l’erede al titolo marchionale Ro- berto d’Azeglio. Le fonti privilegiate sono i carteggi familiari, le carte contabili, gli inventari, gli atti notarili, le annotazioni personali, i resoconti dei viaggi, la ricca precettistica nella ver- sione dei manuali per i più giovani rampolli. Una documentazione notevole che sostiene il racconto storico nella cornice e nell’ambito di un dibattito storiografico che si è andato svi- luppando su queste tematiche soprattutto dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il risultato è quello di uno studio comparato di pratiche e costumi, dal momento della na- scita a quello della morte, per il periodo che va dai primi decenni del Settecento a fine Ottocen- to, con l’obiettivo dichiarato di dare voce al vissuto di uomini e donne di quattro generazioni, re- gistrando persistenze e innovazioni nei comportamenti, con uno sguardo particolarmente atten- to alle modificazioni del rapporto tra famiglia «estesa» e famiglia «nucleare», alla circolazione di sentimenti, esperienze, propensioni, volontà che nel contesto di un parentado allargato sembra- no acquisire nell’Ottocento maggiore immediatezza ed ascolto, anche quando sono coniugate al femminile, come nel caso di Giuseppina Cavour che rivendica la dignità di donna nel rapporto matrimoniale e di Luisa Alfieri, contessa di Favria, rispetto alla sua scelta di rimanere nubile. La monografia è articolata in quattro parti che ripercorrono la nascita e l’infanzia; gli an- ni dell’educazione, degli studi, dell’impatto con la vita in società; la stagione delle scelte sen- timentali e matrimoniali. La sua lettura stimola e sollecita più riflessioni: intanto rinvia ad al- cune costanti presenti nei percorsi formativi, nelle consuetudini, nelle strategie matrimoniali di esponenti dell’aristocrazia italiana ed europea; dall’altra rimanda alla trasmissione a casca- ta di tali modelli alla nobiltà di nuova formazione nell’Ottocento, ai gruppi borghesi (con tut- te le implicazioni nel passaggio dal ceto dominante alle classi dirigenti), ma anche agli strati più umili che con i casati vengono in contatto attraverso le committenze e la prestazione di specifici servizi: di amministratore di beni, di precettore, di istitutrice, di domestico, come pu- re l’indagine della Cerato mette in evidenza in alcuni casi. Maria Marcella Rizzo

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Enrico Cernigoi, Scelte politiche e identità nazionale. Ai confini orientali d’Italia dalla re- sistenza alla guerra fredda, Presentazione di Martin Evans e Stuart Hood, Prefazione di Mar- co Puppini, Udine, Gaspari, 325 pp., Û 14,50

Come ben sottolinea Puppini nella prefazione, le vicende del confine orientale sono sta- te interpretate dalla storiografia per lo più in un’ottica di scontro nazionale, in primo luogo tra la componente italiana da una parte e quella slovena e croata dall’altra, quando invece la complessità di questi territori avrebbe dovuto invitare gli studiosi a non adagiarsi su soluzio- ni facili e scontate. Il volume di Cernigoi rappresenta un pregevole tentativo di superare tale ottica, tuttavia ci sembra doveroso ricordare che numerosi sono i contributi che da tempo (es. Cattaruzza, Verginella) hanno privilegiato nell’indagine del confine orientale e dell’identità di frontiera la dimensione relazionale. Lo studio di Cernigoi nasce come tesi di dottorato all’Università di Portsmouth, dove egli è ricercatore al Centre for European Studies. I quattro densi capitoli ripercorrono le varie fa- si della storia giuliana (anche se l’occhio è puntato esclusivamente sulla zona dell’Isontino): l’epoca fascista e la sua politica snazionalizzatrice nei confronti della popolazione di lingua slo- vena (I); le vicende della seconda guerra mondiale (II) e le scelte di campo che essa ha com- portato in queste dilaniate zone di confine (III); le ripercussioni e le lacerazioni che l’espul- sione della Jugoslavia dal Cominform nel 1948 ha generato tra la popolazione civile (IV). L’autore si è servito di un’ampia messe di fonti, attingendo per lo più alla storiografia locale edita dagli ISML di Udine e Trieste, a vari archivi italiani (ANPI, archivi di Stato, Ufficio Stori- co dello Stato maggiore Difesa di Roma), sloveni (Archivi di Stato di Lubiana e Nova Gorica), in- glesi (National Archives di Londra) e statunitensi (NARA). L’aspetto più originale della lettura qui offerta alla realtà giuliana risiede nel generoso utilizzo delle fonti orali, grazie alle quali ci vie- ne restituita la complessità delle passioni politiche che animarono le popolazioni di quest’area multietnica (interessanti le ragioni di coloro, italiani compresi, che attuarono nel dopoguerra la scelta a favore dell’annessione alla Jugoslavia), privilegiando la prospettiva dal basso piuttosto che quella della «grande politica» nazionale ed internazionale. Si tratta di un’angolatura che restitui- sce finalmente maggiore complessità alla popolazione giuliana solitamente descritta come un’en- tità monolitica e omologata alle caratteristiche e alle fobie nazionali(ste) della realtà triestina. In ultima analisi, nonostante i numerosi meriti, il volume si segnala tuttavia come una ri- costruzione (di storia sociale) a carattere più descrittivo che interpretativo, talvolta eccessiva- mente vincolato all’elemento soggettivo. A nostro avviso ripropone per l’ennesima volta, forse rimanendo imbrigliato proprio tra le maglie della storiografia utilizzata, una lettura basata su ormai vecchi cliché storiografici che si approcciano alla storia del confine orientale dalla prospet- tiva del movimento resistenziale e di quello operaio, invece di intraprendere nuovi percorsi di lettura maggiormente ricettivi a categorie quali ad esempio il rapporto tra centro e periferia. Monica Rebeschini

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Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Ro- ma-Bari, Laterza, XIV-313 pp., Û 18,00

Al quadro delle conoscenze – vastissimo ma ancora ricco di novità – sulla Grande guer- ra, il volume di Daniele Ceschin offre un tassello molto importante. Lavorando su documen- ti in larghissima parte inediti, l’autore fornisce una ricostruzione precisa ed esaustiva di una storia inspiegabilmente (forse ancora legata ai modelli interpretativi patriottici, ipotizza l’au- tore) poco o nulla esplorata dalla storiografia: l’ondata di profughi (termine che Ceschin adot- tata pur tra mille e giuste cautele metodologiche) che, dopo la rotta di Caporetto, dal Friuli e dal Veneto si riversò «in patria». Un fenomeno di assoluta imponenza che segna non a caso l’inizio del «secolo dei profughi». Oltre 630.000 persone fuggirono dalle terre occupate o minacciate da vicino dal nemi- co, con tutti i mezzi possibili, per raggiungere prima le più vicine regioni italiane e poi via via altre località anche molto lontane dai luoghi di origine. Insomma un altro esercito fuggì dai luoghi della rotta alla ricerca di un posto sicuro. Di questa storia, che inizia alla fine del 1917 e finisce – ma fino a un certo punto – nel 1920, Ceschin tratteggia diversi piani di ricostru- zione e di lettura. Il primo, e fondamentale in una vicenda così poco nota, è quello di ordine «cronachistico»: quanti, da dove, per dove, quali ambienti sociali sono solo alcuni dei punti essenziali toccati da questa ricostruzione. Come evidente è l’obbligo che l’autore si è imposto di mettere in luce il ruolo delle istituzioni locali e centrali nel gestire l’emergenza. Ma lo stu- dio di Ceschin va oltre ponendosi quesiti e cercando risposte su questioni più complesse e dif- ficili. L’immagine, in primo luogo, di questa massa di disperati o per meglio dire le immagi- ni. Quella veicolata dalla propaganda patriottica, tesa a raffigurare uomini e donne consape- volmente decisi a sottrarsi alla «barbarie teutonica» (e spesso adottata dai profughi borghesi permeati dalla retorica bellicista) trova infatti in queste pagine il suo contraltare nella raffigu- razioni e nei vissuti individuali. Da questo punto di vista tutto il percorso degli uomini e del- le donne in fuga – dalla ricerca del mezzo per sfollare a quella dell’alloggio, il sussidio, le con- dizioni sanitarie, la vicenda spesso penosissima dei bambini – viene sempre seguito dall’auto- re anche (ma non solo) in un’ottica soggettiva, cioè attraverso le emozioni riversate nella cor- rispondenza privata e soprattutto nelle lettere indirizzate alle autorità alla ricerca di un aiuto. Esemplare è il quadro delle memorie e contromemorie, potremmo dire, costruito da Ceschin attorno al tema dell’inserimento dei profughi nelle regioni italiane: difficili adattamenti, ri- fiuti, stereotipi, rimostranze di ogni genere da una parte come dall’altra ci dicono ancora una volta che la Grande guerra fu non solo per i militari ma anche per i civili la prima e dramma- tica esperienza di conoscenza tra italiani. Barbara Bracco

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Jung Chang, Jon Halliday, Mao: la storia sconosciuta, Milano, Longanesi, pp. 960, Û 22,60 (ed. or. New York, 2005)

È difficile recensire in maniera sintetica un’opera così imponente, frutto di un grande la- voro decennale, che ha l’ambizione di consegnare alla storia la più stupefacente delle biografie di Mao, raffigurato come un tiranno sanguinario, vendicativo, dalla smisurata brama di pote- re. Ma non è questa cruda immagine del Grande Timoniere a colpirmi, auspicando invece che si continui a denunciare gli enormi costi in vite umane delle sue errate direttive; a lasciarmi perplessa è piuttosto la deliberata costruzione da parte di Chang e Halliday di una sorta di teo- ria del mostro che sembra paradossalmente seguire la tradizione del genere biografico cinese, spesso palesemente agiografico. In una agiografia questa volta al rovescio, gli autori sembrano aver ridotto un personaggio complesso, sfaccettato, contraddittorio, quasi nella parodia uni- dimensionale di un esecrabile mostro. Ogni singolo episodio della vita di Mao pare utilizzato come un tassello nel mosaico della sua inconfutabile malvagità, in un ritratto monocromati- co, con assenza di ogni chiaroscuro. Dalla Chang, che ha vissuto in prima persona l’esperien- za della rivoluzione culturale, ci si sarebbe forse aspettata maggiore sottigliezza psicologica nel cogliere le molteplici sfaccettature del personaggio e nel rendere le luci e ombre che avvolgo- no il periodo storico considerato. Molto più umanamente credibile è invece il Mao che appa- re dalle pagine della famosa dissacrante biografia del suo medico personale, Li Zhisui. Nondi- meno particolarmente apprezzabile è la smisurata mole di materiali consultati e citati nella co- spicua bibliografia: in prevalenza opere in cinese, documenti provenienti dagli archivi sovieti- ci e taiwanesi, interviste a personaggi vicini al presidente. Tuttavia nel testo manca completa- mente un’analisi critica di tali materiali e una discussione della gerarchia delle fonti utilizzate. In esse Chang e Halliday sembrerebbero a tratti essere andati quasi a cercare esattamente ciò che avevano già in mente di trovare. Come è stato sostenuto da illustri studiosi, quali Jonathan Spence e Andrew Nathan, molte delle affermazioni degli autori sono difficili da verificare e in molti casi le fonti appaiono quasi manipolate. Alcune delle sorprendenti rivelazioni, presenta- te come dissepolte per la prima volta dagli archivi, erano invece già note, come, ad esempio, la coltivazione dell’oppio nella base rossa di Yan’an. Data l’esiguità dello spazio a disposizione, non è qui possibile addurre altri casi e discutere alcune delle tesi interpretative avanzate dagli autori; per lo stesso motivo è impossibile confutare le inesattezze storiche presenti nel testo. In esso sono inoltre palesi non poche forzature, come quella di aver accesso alla coscienza più in- tima di Mao, ai suoi pensieri più reconditi, persino sul letto di morte. La preoccupazione principale di Chang e Halliday sembrerebbe quella di stupire il letto- re a un ritmo incalzante, con esempi eccessivi e sempre più strabilianti, nell’ansia di riempire tutti i vuoti, senza lasciargli il tempo di trarre da solo le proprie conclusioni. Tanta foga di sen- sazionalismo rende il risultato forse poco commisurato all’enorme impegno profuso. Marina Miranda

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Daniel Cherubini, I prigionieri italiani in Unione Sovietica. Tra storiografia e fonti d’archi- vio, Civitavecchia, Prospettivaeditrice, 176 pp., Û 12,00

Il testo si propone di analizzare la vicenda dei prigionieri italiani dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia) in Unione Sovietica attraverso l’esame della storiografia esistente e di alcu- ne fonti d’archivio accessibili. Lo scopo dichiarato di Cherubini è quello di «aggiungere un ulteriore contributo alla comprensione della vicenda attraverso l’apporto delle carte diploma- tiche – per larga parte inedite – dell’Archivio storico-diplomatico italiano del Ministero degli Esteri, dal marzo 1944 (ripresa rapporti diplomatici italo-sovietici) al febbraio 1954 (rimpa- trio dall’URSS degli ultimi prigionieri ARMIR) e attraverso il contributo storiografico e me- morialistico sull’argomento» (p. 8). Il libro si divide in quattro capitoli che intendono essere l’esposizione dei seguenti argo- menti e la dimostrazione di altrettante tesi: 1) la ricostruzione dell’operazione Barbarossa, del- l’intervento italiano in URSS, della situazione dell’Unione Sovietica dopo la guerra e dei rap- porti italo-sovietici dal marzo 1944 all’aprile 1946; la tesi della conoscenza, da parte del go- verno italiano, del numero ristretto di prigionieri presenti in URSS e l’esposizione delle ragio- ni del mantenimento della segretezza su queste informazioni; 2) l’analisi dell’azione diploma- tica italiana a Mosca relativamente ai dispersi e prigionieri dell’ARMIR dal 1944 al 1954, con l’indicazione dei limiti dell’intervento diplomatico nelle condizioni politiche e storiche del- l’Unione Sovietica e dell’Italia dell’epoca; 3) l’esame delle testimonianze relative all’intera pri- gionia, il lungo processo di rimpatrio dei prigionieri, la «conoscenza del PCI sulla sorte dei dispersi e la scelta di mantenere il silenzio su di essi» (p. 9); 4) le ragioni che resero impossi- bile all’URSS la preservazione della vita di gran parte dei prigionieri italiani e il conseguente silenzio sulla loro sorte. Il lavoro di Cherubini, non esente da alcune inesattezze, presenta e riassume risultati già raggiunti o comunque ricavabili dalla storiografia precedente, anche attraverso l’utilizzo del- le carte dell’archivio del Ministero degli Affari esteri italiano. In alcuni casi risente di giudizi in parte basati su argomentazioni non fondate o su fonti di memorialistica, in particolare a proposito del comportamento dei militari italiani in URSS, della loro mancata conoscenza sia dei crimini commessi dagli alleati tedeschi, sia delle finalità della guerra e della campagna di Russia. Va inoltre rilevata l’impressione, in alcuni luoghi, di un’eccessiva aderenza ai lavori sto- riografici pubblicati fino a oggi, assieme a un apparato di note spesso carente, che avrebbe ri- chiesto ben più di una citazione, e alla mancanza di un indice dei nomi. Quanto alle fonti, infine, non si può tacere della totale assenza di documenti provenienti dagli archivi russi (che vengono ricavati dalla storiografia sul tema e quindi di seconda mano). Tommaso Dell’Era

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Gloria Chianese (a cura di), Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifasci- smo popolare (1930-1945), Roma, Ediesse, 405 pp., Û 20,00

Il volume curato da Gloria Chianese è dedicato alla storia del Sindacato fascista e dell’an- tifascismo popolare a Napoli. Gli autori hanno posto al centro della loro attenzione «la realtà e il vissuto dei ceti popolari» napoletani, documentando «l’ampiezza e la profondità di un di- sagio che attraversò la società italiana per l’intero ventennio fascista» (p. 15). Sulla caratterizzazione in senso antifascista del malessere popolare i ricercatori esprimo- no però giudizi in parte diversi, dovuti anche alle differenti fonti utilizzate (le relazioni della Prefettura di Napoli, i fondi di polizia del Ministero dell’Interno e il Casellario politico cen- trale). Nel saggio di Andrea De Santo, dedicato al Sindacato fascista a Napoli a cavallo degli anni Venti e Trenta, pur ricordandosi il carattere violento dell’affermazione del sindacalismo in camicia nera, si segnalano i tentativi di quell’organizzazione, investita dalla pressione dei lavoratori, di difenderne in qualche modo le istanze. Tali sforzi furono però sempre frustrati dall’azione della locale Associazione degli industriali, pronta a premere sulla Prefettura e gli altri organi del regime per reprimere la conflittualità sociale del mondo operaio. Quest’ulti- mo, stretto tra l’incudine dei licenziamenti dalle aziende in crisi e il martello delle decurtazio- ni salariali, produsse spontaneamente forme estreme di lotta, come lo sciopero, vietatissime dalla dittatura. Diverso invece il giudizio di Alexander Höbel, il cui contributo è dedicato al- l’antifascismo, di cui il movimento comunista fu la forza quantitativamente più significativa. Secondo l’autore, nonostante i frequenti arresti operati dalla polizia del regime, il PCd’I sep- pe mantenere una presenza costante tra le masse popolari della città, formando una nuova ge- nerazione di militanti, capace di orientare in senso classista il ciclo di agitazioni operaie ricor- dato da De Santo. Le agitazioni delle fabbriche napoletane sarebbero quindi dovute anche al- lo sforzo dei militanti comunisti, in grado di trasformare in dissenso politico i malumori del- le maestranze operaie. L’ultimo saggio, scritto da Giuseppe Aragno, si muove invece lungo una direttrice diver- sa, anche se collegata alle precedenti, ricostruendo i percorsi biografici di uomini e donne del- l’antifascismo napoletano. Aragno privilegia la dimensione soggettiva della scelta di opporsi alla dittatura, pagata non soltanto con il confino e il carcere, ma anche con l’emarginazione e l’isolamento, sfociati a volte in tragiche scelte autodistruttive e sottolinea la molteplicità del- le ispirazioni ideali che portarono alla militanza antifascista, rilevando una significativa pre- senza di militanti anarchici, socialisti o comunque di figure eterodosse, difficilmente ascrivi- bili ad una specifica cultura politica. Il risultato finale è una ricostruzione della realtà popola- re napoletana durante il regime assai ricca e variegata, che consente, anche grazie al dialogo critico tra i diversi contributi, di individuare nuovi nodi storiografici, superando ogni lettura schematica. Tommaso Baris

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Antonio Chiavistelli, Dallo Stato alla nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al 1849, Roma, Carocci, 368 pp., Û 26,10

Il volume, focalizzato sulle vicende amministrative e politiche toscane dalla Restaurazione all’indomani della rivoluzione quarantottesca, si articola, attingendo a un vasto corpus di fonti archivistiche e a stampa, su un triplice campo di analisi: la ricostruzione dei profili istituziona- li del Granducato di Toscana e la configurazione della sua classe dirigente nel decisivo tornan- te della prima metà dell’Ottocento; la formazione di un’opinione pubblica regionale e la diffu- sione di modelli politici alternativi all’assetto statuale della Restaurazione; la dinamica politico- costituzionale del biennio 1848-1849. L’autore, già allievo del dottorato di Storia costituziona- le e amministrativa dell’età contemporanea dell’Università di Pavia e attualmente assegnista di ricerca presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, dove collabora altresì con la cattedra di Storia delle istituzioni politiche tenuta da Luca Mannori, dedica larga parte della sua ricerca alla confutazione della tesi illustrata dallo studioso tedesco Thomas Kroll nel suo li- bro del 1999 sul liberalismo aristocratico toscano – tradotto in italiano di recente (La rivolta del patriziato. Il liberalismo della nobiltà nella Toscana del Risorgimento, Firenze, L.S. Olschki, 2005) – secondo cui a condurre la rivoluzione costituzionale e poi nazional-patriottica nel Granduca- to di Toscana sarebbe stato un gruppo di patrizi dallo straordinario potere economico-sociale che, declinando – secondo l’ipotesi interpretativa di Marco Meriggi – la libertà in senso corpo- rato-cetuale e non individualistico-liberale, ha trovato nelle nuove idee progressiste della prima metà dell’Ottocento uno strumento per ribadire la propria centralità politica messa in discus- sione dallo sviluppo dello Stato amministrativo post-napoleonico. Chiavistelli segue una dupli- ce pista, sia quella che concerne la dimensione istituzionale e amministrativa, sia quella «relati- va alla sfera pubblica e connessa allo strutturarsi di una sorta di capitalismo a stampa» (p. 353), per mostrare in primo luogo come il conflitto in atto fra il Principato granducale e le comunità coinvolga l’intera società civile e non soltanto un suo segmento seppure ricco e dotato di un va- sto capitale economico, sociale e culturale; in secondo luogo come questo scontro sia originato non tanto da un «eccesso di Stato», laddove il modello perseguito permane quello dello Stato- famiglia e dell’«amministrazione sentimentale», in particolare dopo l’ascesa al trono di Leopol- do II, quanto da un «bisogno di appartenenza», non necessariamente ed esclusivamente nazio- nal-patriottico, alternativo a quello burocratico offerto dalle istituzioni granducali, e avvertito come sempre più forte a partire dagli eventi europei del 1830. In breve, secondo l’interpreta- zione dell’autore, che ripropone in forme più sofisticate un’ipotesi classica della storiografia ri- sorgimentista liberale, la rivoluzione del 1848-1849 è il prodotto del corto-circuito fra un mo- dello di Stato «senza costituzione» e «senza pubblico» proposto dal regime restaurato e le aspet- tative crescenti di rinnovamento e di riforma di una società civile che costruisce progressivamen- te una sfera pubblica e politica autonoma. Gian Luca Fruci

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Pavel Chinsky, La fabbrica della colpa. Microstoria del potere staliniano, Milano, Bruno Mondadori, XVII-172 pp., Û 13,00 (ed. or. Paris, 2005)

Nel corso del 1937 e del 1938 furono condannate in URSS, per casi istruiti dagli organi dell’NKVD, 1.344.923 persone, circa metà alla fucilazione, mentre il resto fu avviato verso il gulag. Uno di questi fu Izrail’ Savel’eviˇc Vizel’skij. Ebreo; membro del partito dal 1921; fratel- lo dic ˇekisti, uno dei quali arrestato nell’agosto 1937; vice direttore della direzione per la fibra artificiale del Commissariato all’industria pesante, bersaglio centrale del terrore staliniano; fra i pochi sovietici che avevano visitato, per ragioni professionali, Germania e Cecoslovacchia, Vi- zel’skij era una vittima predestinata delle purghe. Fu arrestato il 4 febbraio 1938, e condanna- to, il 14 maggio 1938, dal Collegio militare della Corte suprema a una pena di 12 anni per «ap- partenenza a una organizzazione antisovietica trozkista ». Morì nel gulag il 7 ottobre 1941 e fu riabilitato il 26 marzo 1956 da una sentenza della Corte suprema dell’URSS, che giudicò il suo caso «falsificato dagli ex agenti dell’NKVD». La vicenda è narrata da Chinsky, che ha usato il dossier Vizel’skij conservato negli archivi dell’ex KGB per ricostruire le varie fasi dell’istrutto- ria, che una traduzione approssimativa definisce lungo tutto il testo «istruzione». In effetti, una vera istruttoria non vi fu mai, e l’unico capo di accusa prodotto nel corso degli interrogatori fu- rono le testimonianze di altri condannati e indagati. La condanna, in un «processo» durato ap- pena qualche minuto, e la morte di stenti e malattia nel gulag conclusero una vicenda triste- mente nota, che accomuna la sorte di Vizel’skij a quella di centinaia di migliaia di cittadini so- vietici. Non si vede bene che cosa sostanzi il giudizio di Chinsky, secondo il quale la sua rico- struzione apre uno «squarcio […] illuminante» sull’«universo della grandi purghe staliniane» (p. IX), e offre materia per una «microstoria del terrore staliniano». Per poter essere considera- ta una microstoria, manca alla ricerca la capacità di ricostruire nella sua completezza la perso- nalità del principale protagonista della tragedia narrata. Consapevole di questo, Chinsky tenta di crearla a posteriori, spiegando il rifiuto di Vizel’skij di riconoscersi colpevole. In effetti, un verbale di interrogatorio Vizel’skij lo firmò, fidandosi «della parola d’onore di comunista ceki-ˇ sta» dell’inquirente, e una volta nel gulag terminò la sua vita inviando «tre plichi a Stalin» (pp. 130-45) per chiedere la revisione del processo. Questa era la legge della «fabbrica della colpa», alla quale nessuno poteva sottrarsi: solo chi aveva tolto la libertà poteva restituirla. Per com- prendere il funzionamento della «fabbrica» nel suo complesso restano da sciogliere altri inter- rogativi. Perché i vertici del regime furono ossessionati dalla prova scritta della «colpevolezza», anche quando, come nel caso di Vizel’skij, non intendevano celebrare processi pubblici? Per- ché l’istruttoria fu affidata a un funzionario di basso livello, il sottotenente Listengort, che la condusse in modo sciatto e svogliato? La temporanea revisione della sentenza da parte della Corte suprema dimostra che esistevano margini di opposizione personali? Purtroppo, la «mi- crostoria» di Chinsky non ha risposte convincenti per queste domande. Fabio Bettanin

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Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al grande terrore, Torino, Ei- naudi, XVIII-398 pp., Û 44,00 (ed. or. Moskva, 2004)

Il lavoro – che comprende anche 106 documenti riportati pressoché per intero – è il mi- gliore oggi esistente sulla nascita e lo sviluppo del Gulag staliniano nell’anteguerra, dopo che la deportazione di milioni di contadini durante la collettivizzazione dell’agricoltura a partire dal 1930 segnò un salto qualitativo e quantitativo della rete del lavoro forzato gestita dalla polizia politica. Nel sistema sovietico il Gulag si ritrovò al vertice di due piramidi rovesciate: la pirami- de del lavoro (che già nelle fattorie collettive con le loro corvée e nelle fabbriche militarizzate po- teva considerarsi semi-forzato) e quella dei dispositivi di reclusione, che dalle carceri si sviluppa- vano nel Gulag, diviso tra la rete di insediamenti di «colonizzazione» in cui erano costretti i con- tadini e poi le nazionalità esiliate nelle regioni asiatiche e subpolari, e i lager veri e propri. Ch- levnjuk mostra che le caratteristiche che il Gulag acquisì non furono preordinate. Nel 1930 i ca- pi dell’OGPU erano scettici sui lager per la scarsa produttività dei forzati, il cui mantenimento gravava sullo Stato. Tra la prospettiva di sviluppare il Gulag intorno a grandi opere e impianti minerari basati su lavoro schiavo (si potrebbe chiamarlo il «Gulag-cantiere»), o intorno a inse- diamenti, soprattutto agricoli, nelle regioni spopolate del paese che si sarebbero col tempo tra- sformati in normali centri produttivi abitati da coloni semiliberi con le loro famiglie (il «Gulag- colonizzazione»), l’OGPU propendeva decisamente per la seconda ipotesi. Per i dirigenti politi- ci però l’utilità del lavoro forzato era un assioma. I piani prebellici di sviluppo di industrie e in- frastrutture resero il Gulag funzionale a un’economia che si basava su progetti prioritari da com- pletare in tempi strettissimi e su cui erano concentrate le risorse – ma molte di queste «grandi opere» erano sbagliate e irrazionali: negli anni Trenta la lunghezza delle ferrovie iniziate dai for- zati e poi abbandonate perché inutili era pari a quella delle linee portate a termine. Chlevnjuk ci spiega del resto con chiarezza che furono gli imperativi politici (le repressioni di intere cate- gorie sociali) e non quelli economici a plasmare il Gulag. Le necessità economiche del Gulag non determinarono nessuna delle grandi ondate di arresti. Nel complesso la produzione del Gu- lag non era fondamentale per l’economia sovietica, di cui portava all’estremo i difetti: l’esisten- za di un così vasto settore basato sul lavoro forzato incoraggiava l’inutile dissipazione di enormi risorse e disincentivava il progresso tecnologico, caratteristiche dell’intero sistema economico. Grazie a Chlevnjuk, la cui conoscenza delle carte degli archivi centrali sovietici non ha pari al mondo, ora abbiamo un’idea chiara dei modi e delle finalità degli stermini del 1937- 38 e dello sviluppo del Gulag. Conosciamo meno l’effetto che sui sopravvissuti dei gruppi so- ciali presi di mira o su quelli creati dal Gulag stesso (sulla loro cultura, sui legami sociali e sul- le identità collettive) ebbero gli eccidi e il sistema dei campi. Chlevnjuk stesso indica la via: «il modo in cui il Gulag dilagò oltre i recinti di filo spinato è un problema ancora inesplora- to, ma reale» (p. 372). Niccolò Pianciola

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Cristina Ciancio, Fiere, mercati e vie di comunicazione. La legislazione napoleonica nel Re- gno di Napoli (1806-1815), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 414 pp., Û 38,00

Tema nevralgico, al centro di importanti analisi (A. Grohmann, B. Salvemini-M.A. Vi- sceglia), quello della istituzione di fiere e mercati ha una sua specificità in un periodo di «bloc- co» commerciale nei confronti della Gran Bretagna. Nel riformismo napoleonico è soggetto ad uniformità grazie all’abolizione dei diritti baronali in merito alla giurisdizione speciale eser- citata nelle fiere, all’abolizione delle dogane e dei dazi interni. A partire dalla Legge 11 no- vembre 1813 G. Murat decide la libertà di commercio per liberarsi del controllo da parte di Napoleone. La promozione del commercio interno evidenzia tuttavia il persistere di ambi- guità, che ostacolano l’applicazione uniforme del sistema, le attività collaterali riflettono la complessità delle motivazioni e delle scelte, in un rapporto di antitesi più che di filiazione tra i due tipi di commercio. La collezione di leggi e decreti illumina gli aspetti giuridico-istituzionali dei «raduni com- merciali», 181 fiere e 93 mercati, stabiliti nel Decennio. Integrata con quella presente in archivi pubblici e privati, italiani e francesi, e con i calendari di corte del 1855, per verificare la tenuta dell’innovazione su lungo periodo, segue vari filoni: articolazione e distribuzione sul territorio, percorsi stradali, costruzione e manutenzione di vie di comunicazione, costituzione di un capi- tale sociale fisso. Le motivazioni che spingono i Comuni a chiedere fiere o mercati prospettano vantaggi e privilegi, contese, esigenze finanziarie, economiche, fiscali, spese, procedure di appal- to, modalità di finanziamento, con ricorso anche a privati e alla vendita dei beni demaniali. L’incremento, registrato soprattutto in Principato Ultra, Terra di lavoro e Capitanata, vie- ne precisato in rapporto al commercio interno del Regno e alle forme di promozione attuate dal governo, mentre la nuova normativa fa decadere alcuni centri, tipo la fiera di Salerno. Le requisizioni delle truppe generano spostamenti delle fiere e ne condizionano i ritmi. I mercati napoletani per generi alimentari e animali vaccini difficilmente decollano, co- me nel caso di Montecalvario e Monteoliveto. La soppressione del maestro di fiera e dei vec- chi mercati alimentari, sostituiti con i nuovi, diviene ben presto un problema di conflittualità fra sindaco e corpo municipale, favorevoli a mantenere usi e consuetudini locali, e l’intenden- te e il prefetto di polizia, interessati a mercati regolati che garantiscano la loro autorità sui pro- blemi annonari. Alla specificità dei mercati napoletani corrisponde una articolazione perife- rica soprattutto per aggregati di province in Abruzzo, Calabria e Puglia. L’autore offre sintetici quadri dei vari percorsi seguiti, per i quali sarebbe stato utile un più ampio apparato cartografico, in merito soprattutto alle opere pubbliche (ponti, bonifiche, acquedotti). Il volume tuttavia fornisce dati che arricchiscono soprattutto la realtà provincia- le e va al di là del quadro normativo prospettato dal titolo, ponendo interrogativi che richie- dono un esame comparativo con la storiografia nazionale e internazionale. Renata De Lorenzo

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Marco Ciardi, Amedeo Avogadro. Una politica per la scienza, Roma, Carocci, 136 pp., Û 14,60

Una biografia agile, scritta «in una forma che non risult[a] esclusivamente dedicata al mon- do accademico» (p. 9), rievoca nel centocinquantenario della morte la figura di Amedeo Avo- gadro di Quaregna (1776-1856). Una figura che ha patito scarsa considerazione da parte degli storici della scienza a dispetto dei molti servigi resi alla fisica e alla chimica ottocentesche. Ciardi, docente di Storia della scienza e della tecnica a Bologna, ha dedicato ad Avogadro e alla scienza della sua epoca diversi lavori (tra i quali L’atomo fantasma, Firenze, L.S. Olschki, 1995); mentre con altre ricerche ha fatto luce sul contesto delle istituzioni scientifiche nel Piemonte ri- sorgimentale (La fine dei privilegi, Firenze, L.S. Olschki, 1999). In questa biografia la vicenda del protagonista si intreccia sia alla puntuale ricostruzione del dibattito scientifico internazionale, che a una sintetica ma chiara descrizione del clima culturale che accompagnò la transizione dall’età francese alla restaurazione sabauda prima, alla stagione del riformismo albertino poi. Avogadro, figlio di un aristocratico giurista che fu uomo di punta dell’establishment napo- leonico, si laureò in legge e, come tanti scienziati di quella generazione, coltivò la sua vocazione al di fuori delle filiere formalizzate. Le prime memorie di elettrologia gli valsero l’attenzione di Prospero Balbo, uno dei più lungimiranti patron del tempo, che nel 1806 gli procurò un inca- rico presso il Collegio delle Provincie e nel 1809 gli fece avere la cattedra di fisica nel Liceo di Vercelli. Avogadro rientrò nella capitale nel 1819, quando l’Accademia delle scienze – roccafor- te della ricerca sperimentale e dell’innovazione contrapposta ad un’Università misoneista – lo chiamò a dirigere il suo laboratorio fisico. Dei contatti neppure troppo stretti con alcuni prota- gonisti del Ventuno, però, gli costarono qualche anno dopo la rimozione e il trasferimento pres- so gli uffici legali. Avogadro tornò all’insegnamento superiore solo nel 1834. Ad una carriera tanto accidentata facevano contrasto la brillante reputazione acquisita in campo internazionale, e il continuo impegno a pro del connubio tra scienza e industria e per la riforma universitaria. Ciardi si sofferma sui fattori che ritardavano la professionalizzazione della ricerca e il consolidamento delle comunità specialistiche. Le pregiudiziali di ordine po- litico che avevano ispirato la cancellazione dell’eredità francese perdurarono fino al Quaran- totto; ma erano notevoli pure una mentalità ostile alla diffusione della cultura scientifica, e l’incapacità delle istituzioni – nonostante la presenza di alcuni intraprendenti novatori – di imboccare con sicurezza la strada della modernità. La biografia si chiude sulla questione dell’Eredità di Avogadro, delineando un bilancio cri- tico di lungo periodo. Nel Risorgimento i portavoce della fisica, della chimica e delle scienze naturali avevano reclamato una riforma profonda della cultura nazionale. Dopo l’Unità, le fi- liere scientifiche furono oggetto di attenzione da parte del legislatore, ma in una angusta pro- spettiva utilitaristica che non contribuiva a valorizzare «[l’] immagine globale della scienza, [il] suo significato e [le] sue possibilità conoscitive rispetto ad altri campi del sapere» (p. 130). Maria Pia Casalena

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Floriana Colao, Avvocati del Risorgimento nella Toscana della Restaurazione, Bologna, il Mulino, 410 pp., Û 33,00

Dopo essersi occupata di progetti di codificazione civile nella Toscana della Restaurazio- ne e di formazione giuridica in età liberale, l’autrice, che insegna Storia del diritto all’Univer- sità di Siena, ci propone – nella «Collana di storia dell’avvocatura in Italia» – un florilegio di scritti professionali e non, provenienti dal composito universo forense toscano nell’arco di ses- sant’anni: dagli interventi sull’«Antologia» e poi sulla «Temi», alle cause celebri del post ’48, agli interventi di Carrara sulla legge professionale del ’74. La periodizzazione riflette la scelta tematica: indagare il ruolo civile/politico del «corpo eloquente» dall’attivismo risorgimentale alla delusione per le incompiutezze dello Stato di diritto liberale. La messe di scritti ed auto- ri citati e la molteplicità dei temi sono tali da disorientare, talvolta, il lettore: è il limite di un’o- perazione di per sé meritoria, dal momento che l’autorappresentazione degli avvocati, già ri- percorsa per l’età liberale (Beneduce, Tacchi), è stata meno indagata per l’età preunitaria. Sul tema la scrittura forense, vera protagonista del volume, è una fonte preziosa. Il rap- porto con la parola scritta e quello con la professione sono infatti speculari, nell’età aperta dal- la foscoliana rivendicazione dell’«ufficio civile» della letteratura: e così c’è chi (come il colla- boratore dell’«Antologia» Francesco Forti, figura controversa di «avvocato liberale») comincia a scindere la scrittura professionale, venale e interessata, da quella giornalistica, «utile al pub- blico», e perciò gratuita. La controversia si ripropone nella diversa nozione della «pubblica opi- nione» con cui si confronta l’attività intellettuale dell’avvocato: se la si intende composta dai «giureconsulti di Stato» consulenti del sovrano (ancora Forti, p. 146), la drammatizzazione del dibattimento, che pubblicizza una materia tecnica come il penale, produrrebbe (è il pare- re di Carmignani) la decadenza morale della professione; posizioni opposte a queste insisto- no invece sul valore del dibattimento pubblico come freno all’arbitrio giudiziario e luogo di confronto con la «pubblica generale ragionata, e perciò prepotente opinione» (Valeri, p. 120). Visioni contrastanti dividono il «garantismo» (p. 11) toscano anche in materia di riforma del processo penale, topos frequentatissimo cui l’autrice dedica ampio spazio, poiché mette in ri- salto il contrasto tra una concezione tutta tecnica ed una politico-costituzionale del diritto. L’interesse per l’intreccio tra giustizia e politica viene infine confermato dall’incursione, a chiusura del volume, nelle cause celebri, oggetto di un risveglio di interesse per il genere giu- diziario, favorito anche dalla relativa facilità di circolazione di una materia parzialmente sot- tratta alla censura preventiva. Molti gli spunti che il volume offre all’indagine sulla cultura e sull’attività intellettuale fo- rense, in vista di una più compiuta definizione degli «avvocati del Risorgimento», categoria storiografica ancora controversa. Carolina Castellano

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Andrea Colli, Capitalismo famigliare, Bologna, il Mulino, 155 pp., Û 13,00

Per impresa famigliare – scrive Andrea Colli – si può intendere quel sistema di gestione in cui «una famiglia mantiene il controllo di una porzione di capitale sufficiente ad influen- zare in maniera significativa le strategie dell’impresa, anche tramite la nomina (o l’allontana- mento) del top management» (p. 108). Un gruppo parentale, dunque, detiene nell’impresa fa- migliare sia la proprietà che il controllo della gestione. È stato spesso ritenuto, e alcuni continuano a ritenere, che l’impresa famigliare corrispon- da a una fase arcaica nello sviluppo del capitalismo moderno. In origine – si potrebbe dire – era la famiglia. Era essa a investire il capitale nell’impresa e a svolgere gran parte dell’attività. Impresa e famiglia coincidevano sia nelle numerosissime piccole aziende contadine che anche nelle modeste attività che nelle città operavano nei settori secondario e terziario. Poi comin- ciò la crescita moderna. Specialmente dall’epoca della seconda rivoluzione industriale – dalla fine dell’Ottocento, cioè –, quando il capitale necessario per adottare le nuove tecnologie di- ventò sempre più ingente e la scala delle operazioni si estese rapidamente, a questa fase arcai- ca nella vita dell’impresa fece seguito la fase moderna. Da allora in poi – sempre ragionando in una prospettiva evoluzionistica – si fecero avanti «le organizzazioni complesse basate sul- l’efficienza dell’apparato amministrativo-burocratico» (p. 61). Si passò dal capitalismo fami- gliare al capitalismo manageriale. L’interesse del volume di Andrea Colli consiste proprio nella reazione a questa visione evo- luzionistica della vita dell’impresa. In gran parte del mondo economico di oggi – ci dice Col- li – l’impresa famigliare continua ad esistere e a prosperare. In alcuni paesi avanzati, il 10 per cento del pil è prodotto da imprese famigliari; in quelli arretrati ancora di più. All’esistenza di questa forma organizzativa contribuiscono, nelle diverse economie, la struttura del sistema fi- nanziario, il quadro istituzionale (i diritti di successione ereditaria ad esempio), il mercato del- la produzione in cui l’impresa opera, il settore di attività (industria pesante o industria legge- ra), la cultura d’impresa, il sistema politico. Colli esamina, nel suo volume, vari casi naziona- li e vari esempi di capitalismo famigliare. Dedica, infine, un capitolo (il IV) al caso Italia, in cui l’impresa famigliare ha svolto e continua a svolgere un ruolo centrale. Secondo una stima di larga massima, in Italia le imprese famigliari, costituiscono il 90 per cento di tutte le im- prese (p. 80); sono ben 40 fra le prime 100 imprese del paese (p. 39). La ricchezza attuale del- l’Italia è stata, in larga misura, generata all’interno di queste imprese famigliari. Il titolo del volume denota, in sostanza, un carattere distintivo della nostra storia economica. Assai utile la bibliografia ragionata (pp. 117-127), che chiude un volume chiaro, effica- ce, ordinato su un tema sul quale storici economici, storici dell’impresa ed economisti conti- nuano ad interrogarsi. Paolo Malanima

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Dario Consiglio, Il PCI e la costruzione di una cultura di massa. Letteratura, cinema e musi- ca in Italia (1956-1964), con un’intervista a G.C. Ferretti, Milano, Unicopli, 313 pp., Û 15,00 Raramente gli studi sul rapporto tra PCI e cultura sfuggono al rischio di restare prigionie- ri delle categorie analitiche proprie dello stesso Partito comunista. Tipico di questo atteggiamen- to il considerare come intellettuali solo quelli tradizionali (scrittori, pittori, musicisti). Il libro di Consiglio ha il merito di andare oltre questo schema inserendosi nel solco delle ricerche av- viate da S. Gundle e da altri autori negli ultimi anni. Analizza con rigore l’impatto della cultu- ra di massa sul PCI nel quadro di quel tentativo di rinnovamento avviato dopo il drammatico biennio 1955-1956 e del dibattito che il miracolo economico suscitò nel suo gruppo dirigente. Utilizzando documentazione in parte inedita, l’autore mostra come la linea culturale del parti- to fu messa in crisi da questi processi che investivano non solo l’Italia ma tutto l’Occidente ca- pitalistico. In discussione era un’impostazione del lavoro culturale fondata sulla distinzione tra cultura alta e cultura bassa, e un rapporto con i militanti e con la società basato sull’azione pe- dagogica. Quest’ultima, se aveva contribuito a educare alla democrazia le masse uscite dal fasci- smo, non reggeva più nell’epoca segnata, tra l’altro, dall’avvento della televisione. Viene messo bene in luce come la presa di coscienza che la cultura di massa non fosse so- lo un fenomeno deteriore fu tortuosa e incompiuta fino al 1964. Permase una certa confusio- ne, emersero vari orientamenti: un rifiuto della cultura di massa, che univa significativamen- te quadri conservatori del partito e intellettuali timorosi di perdere la propria centralità; l’idea di un uso strumentale della stessa; un atteggiamento aperto verso la definizione di un quadro analitico nuovo, che però fu patrimonio di un ristretto gruppo di dirigenti e intellettuali più coraggiosi e curiosi. Un altro merito del libro è quello di verificare il dibattito politico svolto nel partito alla luce del modo di operare delle strutture culturali e organizzative del PCI. Sono molto interes- santi, ad esempio, le parti relative al «Calendario del popolo» e a «Vie Nuove» o il capitolo de- dicato al rapporto dei comunisti con la musica leggera. Poco spazio viene invece dedicato al- la riflessione dell’ultima fase della vita di Togliatti, che su alcuni di questi nodi si interrogò, e ad alcuni passaggi come quello del luglio 1960. Questo lavoro rappresenta uno stimolo ad approfondire alcuni nodi relativi al rapporto del PCI con la società italiana. Si tratta di capire in che modo, malgrado i suoi ritardi e con- servatorismi, esso intercettò, almeno in parte, la spinta di rinnovamento che questa espresse negli anni Sessanta. Occorre verificare più a fondo l’impatto della modernizzazione sul corpo del partito. Si tratta in sostanza di assumere, rispetto al mondo della cultura, il nodo del pas- saggio – come affermò Rossanda in un articolo degli anni Sessanta citato nel libro – «da un egemonia diretta a un’influenza profonda» (p. 134). Per fare questo occorre però allargare lo sguardo al modo in cui il PCI è stato parte della cultura di massa, ne ha mutuato i linguaggi, ne ha usato più o meno consapevolmente gli strumenti. Ermanno Taviani

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Fulvio Conti (a cura di), La massoneria a Livorno. Dal Settecento alla Repubblica, Bolo- gna, il Mulino, 570 pp., Û 38,00 Le vicende della massoneria labronica rappresentano un caso storiografico particolar- mente interessante perché Livorno, oltre a essere stata una città caratterizzata da una mas- siccia presenza massonica, in molte occasioni seguì percorsi differenti rispetto alle dinami- che interne alla libera muratoria registrabili a livello nazionale. Come ha puntualizzato Fi- lippo Sani, le logge livornesi – influenzate dalla presenza inglese – si caratterizzarono fin dai loro primi anni di attività non solo per un marcato cosmopolitismo, ma anche per la capa- cità di interagire e coinvolgere personaggi di rilievo delle minoranze religiose, in particolar modo della storica comunità ebraica (rapporto descritto con efficacia da Liana Elda Funa- ro). Tuttavia, se nel corso del Settecento l’evoluzione della massoneria livornese non si di- scostò da analoghe esperienze che si svilupparono nella penisola, è nel periodo della Restau- razione che va individuata la prima, vera differenziazione in tal senso. Solo a proposito del- la città toscana si può infatti parlare di una continuità effettiva e organizzata con le logge del periodo settecentesco e napoleonico, tanto che, come sostiene Fabio Bertini, all’indomani dell’Unità Livorno rappresentò un punto di forza per la ricostruzione della libera muratoria in Italia: basti ricordare che qui tra il 1860 e il 1900 operavano ben 32 logge del Grande Oriente d’Italia, un numero del tutto significativo se si tiene conto di una popolazione com- posta da meno di centomila abitanti. Non sempre le officine di Livorno, come emerge dal- la ricerca di Alessandro Volpi, furono in linea e in sintonia con la dirigenza nazionale, an- che se di origini livornesi fu uno dei Gran Maestri più importanti, Adriano Lemmi. Nono- stante lo spiccato orientamento democratico della maggioranza delle logge livornesi, a par- tire dal periodo crispino la sociabilità massonica riuscì ad attrarre settori politici moderati e, come evidenzia nel suo saggio Donatella Cherubini, a sviluppare un ruolo di mediazio- ne, una sorta di «camera di compensazione» all’interno della quale le diverse tendenze poli- tiche, pur mantenendo la propria autonomia d’azione e di giudizio, agivano nel contesto di un impegno laico e anticlericale. Tale impegno, come evidenzia Angelo Gaudio, produsse una vivace reazione da parte del cattolicesimo locale, che utilizzò gli stessi strumenti, satiri- ci e polemici. Durante il periodo bellico e nel primo dopoguerra, come spiega Marco Di Giovanni, la massoneria livornese condivise le scelte interventiste delle grandi obbedienze e la successiva iniziale adesione al fascismo, anche se molti massoni livornesi assunsero in se- guito una netta posizione antifascista. Non a caso la repressione antimassonica fu partico- larmente dura in questa città, dove però si mantennero vivi alcuni luoghi di sociabilità di tradizione liberomuratoria. In conclusione, quest’opera rappresenta un ottimo esempio di come debba essere affrontata la storia della sociabilità liberomuratoria a livello locale, allo scopo di comprendere come si coniugarono i percorsi dell’agire massonico in realtà sociali e politiche complesse e in costante evoluzione. Marco Novarino

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Alessandro Coppola, Dalla fabbrica alla banlieue. Missione cattolica, Islam e nuova que- stione sociale nella Francia contemporanea, Postfazione di Pino Ferraris, Roma, Ediesse, 246 pp., Û 12,00

Questo sintetico ma interessante lavoro mostra tutti i problemi dell’histoire du temps pre- sent, che coinvolge eventi e fatti dei quali lo storico, come ricordava Madeleine Rebérioux, è anche protagonista; ma anche le risorse offerte dall’applicazione di strumenti sociologici alla storia. Infatti è uno studioso al confine fra le due discipline, Pino Ferraris, a fornirne, nella sua postfazione, una possibile chiave di lettura. Il testo non parla delle banlieux come luogo topico di una geografia della rivolta, quale è en- trato negli ultimi due anni nella discussione pubblica francese ed europea, ma di un aspetto as- sai peculiare della storia politica e sociale francese, l’esperienza delle missioni cattoliche operaie, i «preti operai». La loro esperienza – di condivisione sacrificale che rievoca quella del 1934-35 di Simone Weil alla Alsthom e alla Renault, non a caso allieva di Alain, e che si è riprodotta anche nel volontariato operaio di molti militanti usciti dal ’68 francese in rotta di collisione con il Par- tito comunista – viene qui presentata in tutta la sua ricchezza. Forse avrebbe potuto essere sotto- posta a un’analisi critica più rigorosa se la ricostruzione storica – delle vicende della Chiesa fran- cese nel collaborazionismo petainista e delle diverse componenti che hanno consentito la forte redistribuzione di reddito e anche di potere nei luoghi di lavoro nei cosiddetti «Trenta Gloriosi» – non fosse stata schiacciata in uno spazio davvero esiguo. Anche la definizione dei «Trenta Glo- riosi» come puro effetto di una congiuntura economica internazionale e la scarsa problematizza- zione della crisi del consenso operaio che la sinistra francese incontra da due decenni sono da at- tribuire a una semplificazione dovuta all’estrema sintesi. Ma il testo trova il suo interesse nella ri- costruzione dall’interno del ruolo delle missioni in un paese la cui secolarizzazione è profonda e di lunga data, e ha il merito di affrontare la questione dell’Islam francese – di solito per così dire «di ritorno» – come risposta e sintomo insieme di una seria crisi sociale. Non indulge a nessuna forma di interpretazione della presenza dell’Islam in Occidente in termini di «scontro di civiltà», nemmeno nelle forme relativamente raffinate di una pubblicistica anglosassone che in Italia ha una circolazione più giornalistica che scientifico-universitaria. Cerca invece nuovi linguaggi per leggere la crisi che ha reso difficile in tante situazioni europee la traduzione politica dei movimen- ti sociali. «Che cosa significhi perdere ogni speranza di futuro “per chi conosce la miseria”», scri- ve Pino Ferraris nella sua postfazione, «non trova voce dentro le narrazioni colte e laiche di sto- ria e di biografia di coloro che pure hanno vissuto il crollo del comunismo, la fine del protago- nismo operaio [...] il declino sindacale» (p. 229). Ognuno di questi assunti meriterebbe proba- bilmente un’analisi più problematica, ma essi costituiscono certamente un’agenda preziosa per la ricerca sociale e agli storici del XIX secolo rievocano la mai del tutto risolta questione aperta dal consenso operaio a Louis Napoléon dalla sconfitta del giugno 1848 in poi. Maria Grazia Meriggi

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Gustavo Corni, Christof Dipper (a cura di), Italiani in Germania tra Ottocento e Nove- cento. Spostamenti, rapporti, immagini, influenze, Bologna, il Mulino, 731 pp., Û 43,00

Ventotto saggi distribuiti in cinque diverse sezioni, introdotti da una nota dei curatori e ac- compagnati da una bibliografia ragionata: è questa la struttura del Quaderno 67 degli «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento» che è parte di un progetto dal titolo «Italia Ger- mania. Storia delle relazioni tra due paesi dell’Unione Europea». Il volume segue la pubblicazio- ne di Italia e Germania 1945- 2000. La costruzione dell’Europa, a cura di G. Rusconi e H. Wol- ler, Bologna, il Mulino, 2005 (vedi Annale VII, 2006) tradotto in tedesco con un significativo titolo (Parallele Geschichte? Italien und Deutschland, 1945-2000, Berlin, 2006) che pone l’accen- to non tanto sulla comparazione tra i due casi nazionali quanto sulla loro storia parallela e croi- sée e si affianca ad un altro curato da C. Dipper dal titolo Deutschland und Italien 1860-1960 (München, Oldenburg, 2005) a testimonianza della fecondità dello scambio e delle interrela- zioni tra le due storiografie (un’interessante discussione su questi volumi si trova nel saggio di C. Liermann, Italia e Germania storiografie in dialogo, in «Contemporanea», 2007, n. 2). Come sottolineano Corni e Dipper il volume, alla cui stesura hanno partecipato sia sto- rici italiani che tedeschi, nasce dalla convinzione che i rapporti tra i due popoli e i due paesi «si trovino in una fase di profondo cambiamento» (p. 13) e che quindi sia giunto il momen- to di passare da una storia delle relazioni ad una «storia culturale dei contatti» (p. 12). I cura- tori non usano la categoria di trasferimento culturale così come elaborata nei lavori di M. Espagne o di M. Werner ma è più o meno questo quello che sembrano avere in mente nel mettere insieme una raccolta di scritti (alcuni dei quali riprendono in verità noti lavori di al- cuni anni fa come nel caso dei contributi di B. Mantelli, di G. Procacci o di G. Hammerman per fare qualche esempio) che talvolta fanno il punto dello stato delle nostre conoscenze sul- l’argomento, talaltra offrono primi materiali di ricerca per una storia delle influenze, dei la- sciti, dei trasferimenti materiali e culturali e dei flussi di uomini, merci, idee e modelli. Gli italiani in Germania raccontati in questo volume non sono solo, come ci si potrebbe aspettare, i lavoratori manuali (stagionali, lavoratori forzati, Gastarbeiter) e gli artigiani (gela- tai, pizzaioli, ristoratori, sarti, ecc.), cui pure sono dedicati i saggi della seconda parte, ma an- che i prigionieri di guerra, i giornalisti, gli studenti universitari, i medici e i biologi, gli stori- ci, gli scrittori, i designer e gli architetti, gli artisti, gli investitori economici, i turisti. La Ger- mania degli italiani, negli anni che vanno dall’unificazione alla riunificazione e che emerge da questo volume, i cui saggi come spesso nei volumi collettanei sono di valore e interesse assai disuguale, è soprattutto luogo di lavoro, ma anche partner scientifico, culturale ed economi- co in una visione che tende a ribaltare un rapporto di dipendenza in uno di reciprocità, a va- lorizzare le sfaccettature più diverse della presenza italiana in Germania prestando attenzione più alle immagini positive che a quelle negative e stereotipate. Daniela Luigia Caglioti

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Giandomenico Crapis, Televisione e politica negli anni Novanta, cronaca e storia 1990- 2000, Roma, Meltemi, 287 pp., Û 21,50 Il volume di Crapis analizza i dieci anni, dal 1990 al 2000, che hanno cambiato il rap- porto tra la politica italiana e la sua rappresentazione televisiva. L’autore, sulla scorta di pre- cedenti lavori, come La parola imprevista. Intellettuali, industria culturale e società all’avvento della tv in Italia (Roma, Ed. Lavoro, 1999) e Il frigorifero del cervello. Il PCI e la tv da «Lascia o raddoppia» alla battaglia contro gli spot (Roma, Editori Riuniti, 2002), prosegue la sua ana- lisi della lunga relazione tra il mondo politico e la televisione. Il passaggio tra prima e seconda Repubblica modifica strutturalmente il modo di appari- re dei politici in televisione e il fatidico «vuoto politico» del 1992 crea nuove formule di pro- paganda ed evidenzia il fatto che i partiti non possono fare più a meno dell’uso della televi- sione. Nuove figure di politico vengono proposte dalla televisione e nel volume si sottolinea «la supplenza del tubo catodico nei confronti di un sistema politico in crisi» (p. 16). Vengo- no così descritti fenomeni come Il partito dei media (cap. 1), la discesa in campo di Silvio Ber- lusconi e il conflitto d’interessi ma soprattutto si prende in esame come «l’azienda» diventa realmente partito e come modifica le regole delle politica imponendo una forte accelerazione alla trasformazione della sfera televisiva. Si alternano programmi d’informazione rivoluziona- ri come Samarcanda, Profondo Nord ma anche le trasgressioni di Funari (p. 67) o il Maurizio Costanzo Show, programmi dove i politici si trovano sempre più a loro agio. Si intravede chia- ramente la necessità di nuove regole per una definizione certa del rapporto tra media e poli- tica che tardano a venire e quando vengono approvate sono inadeguate o già invecchiate (pp. 212 e ss.). Molti studiosi come Grasso, Mazzoleni, Mancini, Menduni, Ortoleva hanno analizzato passaggi e fenomeni del periodo in questione che hanno si cambiato il rapporto tra politica e mezzo televisivo ma anche generato permanenti «anomalie» strutturali del sistema. Crapis raccoglie tutte queste esplorazioni in una rivisitazione ordinata degli avvenimenti con gran- de dovizia di particolari e attenzione soprattutto alle fonti giornalistiche. In Italia dopo il ter- remoto elettorale del 1992, le inchieste di Tangentopoli e la scomparsa dei partiti politici ten- ta di affermarsi un tipo di giornalismo televisivo da «cane da guardia» nei confronti del mon- do politico. Giornalismo che però ripiega lentamente, prima verso ruoli di competizione – e spesso tenta di sostituire la stessa politica come figura rappresentativa – poi flette verso il «vassallaggio» ed «effetto vetrina» dell’uomo politico che continua fino ad oggi senza inter- ruzione. Il percorso di ricostruzione del decennio effettuato da Crapis, in modo chiaro, ric- co e soprattutto appassionato, risulta però poco rivelatore dal punto di vista della storia del mezzo televisivo e ci regala una visione più puntuale della ricostruzione politica come era già accaduto nel suo precedente volume Il frigorifero del cervello sul rapporto tra comunisti e mezzo televisivo. Antonio Catolfi

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Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino, 656 pp., Û 29,00 Craveri sceglie, come incipit al suo lavoro su De Gasperi, la risposta che, sul finire del 1950, lo statista invia al vecchio liberale Mario Vinciguerra, che gli aveva proposto di scrive- re una sua biografia. Nella lettera, nel mettere in dubbio che la sua biografia possa essere oc- casione «di una sintesi di un qualche settore della storia politica», De Gasperi si definisce co- me «un cattolico ortodosso e credente [che] attraverso l’illuminazione dell’esperienza altrui e quella propria, divenne politicamente umanista e ricettivo di ogni cosa buona e di ogni fede nella libertà e tolleranza civile» (p. 11). Con queste parole di viatico ci si avvia a leggere la sto- ria di un uomo politico che ha avuto nelle sue mani le sorti di una nazione nella fase più de- licata: quella del passaggio dalla dittatura alla democrazia giocato in quella guerra che Clau- dio Pavone ha definito patriottica, civile e di classe. Craveri ricostruisce la lunga vita di De Gasperi, dagli anni in cui matura, nel Trentino asburgico, la sua vocazione politica fino alla fine della prima legislatura quando, in quel «re- ferendum popolare» sulla legge maggioritaria che furono le elezioni del ’53, si chiude la sua parabola politica usando come chiave di lettura proprio queste caratteristiche: l’uomo profon- damente credente, ma anche il credente che quando agisce in politica sceglie come strada quel- la dell’umanesimo capace di confrontarsi con ogni altro che abbia fede nella libertà e nella tol- leranza civile. È qui che matura l’antifascismo di De Gasperi e che all’indomani della guerra non può che essere anche anticomunismo in forza di un’opposizione a quel sistema totalita- rio che è l’unica costruzione storica che il comunismo ha prodotto nel sistema sovietico. La democrazia condivisa è il suo progetto politico, su questo si fonda il suo disegno centri- sta che mirava ad aggregare al centro quelle forze politiche che le urne non avevano premiato, ma che rappresentavano le tanti fedi compatibili con un disegno che voleva ancorare fortemen- te al centro la giovane democrazia italiana. In forza di questo disegno, come ben ricostruisce Craveri in quella che è la parte centrale della sua opera, De Gasperi ha la forza di tenere fermo il timone della barca anche quando le pressioni esterne spingono in direzioni diverse. Emble- matica è la sua contrapposizione al partito romano e allo stesso Vaticano nei giorni dell’opera- zione Sturzo; ma non meno significativa è la sua capacità di riconoscere, senza diventarne sud- dito, l’importanza dell’alleato americano che gli farà tener testa alle pressioni per la messa fuo- ri legge di quel Partito comunista che era legittimato da circa un quarto dell’elettorato italiano. Questo studio che utilizza la storiografia prodotta sul leader democristiano, ma che al tempo stesso è frutto di un profondo scavo archivistico, compreso quello delle carte private di De Gasperi, se non si può definire, come qualcuno ha scritto, biografia definitiva (A. Ric- cardi, Una grande biografia che interpella l’odierna cultura politica, «L’Osservatore Romano», 27-28 novembre 2006), è certamente un’opera che apre, dopo gli importanti studi di Scop- pola degli anni Settanta, un nuovo capitolo non solo sullo statista trentino, ma anche sulla storia politica dei primi anni della Repubblica. Maria Serena Piretti

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Piero Craveri, Gaetano Quagliariello (a cura di), La seconda guerra mondiale e la sua me- moria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 619 pp., Û 30,00

Il libro raccoglie gli interventi presentati al convegno su La seconda guerra mondiale e la sua memoria svoltosi a Napoli nel settembre del 2004 nell’ambito di una ricerca Miur-Cofin. I venti saggi pubblicati nel volume e introdotti da una prefazione di Piero Craveri sono rag- gruppati in due sezioni – La guerra: tra propaganda e memoria e L’utilizzo della memoria della se- conda guerra mondiale –, hanno come fuoco prevalente l’Italia e il caso italiano (fanno eccezio- ne i due saggi sulla Russia di Gudkov e Dubin e uno sul caso francese di Quagliariello) e si pro- pongono, come scrive lo stesso Craveri nella prefazione, di «fornire chiarimenti» e di approfon- dire «punti sensibili» di una storia che si presenta con le sue memorie «frantumate, tasselli di un non componibile mosaico» (p. 10). Il volume si accomoda a questa frantumazione presentando diverse esperienze e differenti punti di vista, attraverso l’uso di un variegato ventaglio di fonti, senza la pretesa «di dare una sistemazione complessiva al tema della memoria» (p. 10). Quella della memoria, e soprattutto della memoria della guerra, è stata negli ultimi anni una delle materie più battute dalla storiografia, italiana e non. Ma se gran parte della ricerca re- cente si è occupata di luoghi della memoria o delle memorie individuali – dei civili che la guer- ra l’hanno subita – o di quelle collettive, ancorché divise, delle comunità travolte dai massacri nazisti, delle città ferite dai bombardamenti alleati prima e tedeschi poi, le ricerche raccolte in questo collettaneo ci restituiscono altri tipi di memorie. Quelle di alcuni protagonisti (uomini politici come W. Churchill e militari internati o esuli antifascisti), di istituzioni (la Costituente), di partiti e aree politiche (i comunisti, l’azionismo, il partito liberale, i socialisti, la destra), me- morie per certi aspetti «ufficiali» e collettive in alcuni casi veicolate attraverso immagini, riviste e mezzi di comunicazioni di massa (il cinema, la radio). E ancora, più che di memoria della guer- ra questi saggi ci parlano di «guerra della memoria» e degli effetti che questa guerra ha avuto nel modellare le istituzioni postbelliche, la dinamica politica, lo scontro tra culture politiche (quel- la cattolica, quella comunista, quella liberale), e si inscrivono in quel dibattito, che appassiona ormai dall’inizio degli anni ’90 la storiografia novecentista italiana, sull’opportunità e la possi- bilità di costruire, o meno, una memoria condivisa della recente storia nazionale. È, quella ricostruita nei venti saggi di questo volume, una «guerra della memoria» che si svolge nel tempo breve che va dal 1943 alla metà degli anni ’60 (con la sola eccezione del sag- gio di Dubin sulla Russia), ma, considerato che il fulcro delle ricerche è costituito dal caso ita- liano, questa scelta periodizzante si spiega bene. Compito del volume infatti, come con effi- cacia scrive Craveri, è quello di mostrare come «la vulgata corrente, tanto più nella sua versio- ne di sinistra, che è quella che ha finito culturalmente per imporsi, centrata sul presupposto che la sua solidità [della Repubblica e della sua Costituzione] derivi dall’unità delle forze an- tifasciste [sia] intrinsecamente falsa» (p. 15). Daniela Luigia Caglioti

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Antonino Criscione, Web e storia contemporanea, a cura di Paolo Ferrari e Leonardo Ros- si, Roma, Carocci, 334 pp., Û 17,80

Contravvenendo alla regola dell’Annale di non recensire libri che raccolgono saggi già edi- ti, la scelta di considerare la pubblicazione postuma di Criscione intende rendere omaggio a uno studioso che ha dato un importante contributo, troppo presto interrotto, all’ambito de- gli studi sul rapporto tra la storia e le nuove tecnologie della comunicazione. Tenendo inoltre conto che l’insieme dei saggi qui pubblicati, a cura di P. Ferrari e L. Rossi, propone un qua- dro unitario dei suoi interventi, altrimenti dispersi tra i nodi della Rete, le riviste e i volumi collettanei. Si tratta di sedici suoi scritti, pubblicati negli ultimi anni di vita, fra il 1999 e il 2004, e raggruppati in tre sezioni: Clio nella rete: metodologie e processi comunicativi; La storia contemporanea nel web; Ricerca e comunicazione nell’insegnamento della storia. Una quarta e ul- tima parte del volume, Percorsi di storia, raccoglie le sue recensioni dal 1987 al 2001, più una postuma apparsa nel 2005, quasi tutte pubblicate sulla rivista «I Viaggi di Erodoto», che per- mettono di allargare lo sguardo ad altri temi trattati nella sua esperienza di studioso e di in- tellettuale impegnato, in primo luogo al fenomeno mafioso. Il volume è aperto dall’intervento di S. Noiret che rileva le principali componenti della sua riflessione sull’uso della rete Internet nel «fare storia» e, in particolare, la capacità di spie- gare la complessità della Galassiafrage, il neologismo scherzoso proposto dallo stesso Criscio- ne per rappresentare lo spazio virtuale e i suoi linguaggi. M. Gusso e L. Rossi ne ricostruisco- no, invece, il percorso di vita e di ricerca sottolineandone l’impegno nella didattica della sto- ria, mai disgiunto da una sistematica ricerca metodologica e dall’apertura all’uso delle tecno- logie della comunicazione. Infine Concetta Brigateci, vedova di Criscione, ne offre un ricor- do più intimo. Attento alla rappresentazione della storia nei nuovi media, Criscione prendeva le mosse da punti di osservazione delicati e importanti per la riflessione sull’uso pubblico della storia e per l’elaborazione e la trasmissione della memoria, quali la scuola e gli istituti di storia della Resi- stenza. Da qui la continua tensione nell’intrecciare una competenza tecnica e una riflessione di carattere epistemologico e filosofico – derivate da un ampio orizzonte di studi attento alle teo- rie sulla società della tecnologia e della informazione – con una ricerca empirica in grado di ren- dere concreto l’impegno pedagogico. Come ricorda Noiret, egli si identificava «con un media- tore dei nuovi linguaggi comunicativi, un “docente-ricercatore di storia” […] capace di spaziare in tre ambiti distinti: le conoscenze dell’insegnante di storia, le acquisizioni e i concetti prodot- ti dalla storiografia e infine la necessità di conoscenza e di formazione degli studenti» (pp. 10- 11). La sua riflessione sulle innovazioni culturali e sociali introdotte dai nuovi media è stata co- stantemente sostenuta dai riferimenti a una solida tradizione storiografica che guarda, in parti- colare, alla declinazione dei concetti di tempo e di spazio storici. Giancarlo Monina

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Adriana Dadà, La Merica. Bagnone, Toscana – California, USA. Donne e uomini che van- no e che restano, Firenze, Morgana Edizioni, 80 pp., Û 12,50

Un assetto agricolo insufficiente alla sopravvivenza ha reso la popolazione di Bagnone, come dell’intera Lunigiana, avvezza alla mobilità e alle sue mutazioni determinate dalle gran- di trasformazioni degli ultimi due secoli. Il lavoro agricolo stagionale di fine Settecento – ver- so le Maremme toscane, il Bresciano e la Corsica, alternata alla pianura padana –, viene più tardi abbandonato per il commercio ambulante di libri e maglierie, cui subentra, un secolo dopo, l’imbarco per le Americhe. Salvo qualche significativa eccezione, si spostano soprattut- to i maschi, ma l’autrice è attenta alla ridefinizione dei ruoli innescata dalla loro assenza, con la ricaduta, come è noto, di un maggior carico di lavoro sulle donne e anche della loro acqui- sizione di nuove capacità decisionali. Questo lungo «apprendistato migratorio» culmina nell’emigrazione transoceanica, a New York negli insediamenti californiani come Weed sorti tra le boscaglie attorno all’industria del legname. Vi confluiscono molti bagnonesi, per lo più giovani maschi celibi; le donne sono una sparuta minoranza e però un punto di riferimento insostituibile, in quanto tocca a loro la ge- stione delle boarding houses, dove gli uomini soli possono ottenere un’ospitalità a poco prezzo fatta anche di familiarità e di «aria di casa». Un’ambientazione così peculiare è stata resa acces- sibile dal materiale conservato in un archivio familiare, raccolto da tal Giuseppe Barbieri, e de- positato nel Museo-Archivio della memoria del Comune di Bagnone. Vi si trovano lettere, car- toline, ecc. e una ricca, inedita, documentazione fotografica, parte integrante di questa ricerca. Tutto quanto, insomma, ha consentito di ricostruire le storie di vita di due bagnonesi, un uo- mo e una donna, imparentati tra loro, che hanno vissuto negli USA esperienze diverse. Infat- ti, l’una ha raggiunto il fidanzato nel 1907 a Weed, dove è stata a lungo bordante, ha cresciuto i suoi sette figli e ha terminato lì i suoi giorni ultracentenaria, mentre l’altro, il «custode della memoria», partito l’anno dopo per la stessa destinazione, è dovuto rimpatriare per sempre nel 1921, per motivi non chiariti, forse di natura giudiziaria, serbando una struggente nostalgia sottesa a fitte corrispondenze e una quantità di fotografie dell’albergo dove era stato cameriere negli ultimi anni precedenti il rimpatrio, fatte spedire da San Francisco. La vicenda dell’emigrazione bagnonese in California e la vita della stessa Carmela si di- scostano da una consuetudine storiografica esclusivamente votata ai contesti urbani, anche se non va dimenticato il precedente della celebre autobiografia di Rosa Cavalleri, pubblicata da Rudolf Vecoli, che trascorse nel Missouri, in condizioni affatto analoghe, i primi anni del suo soggiorno americano. La biografia di Carmela è affidata ad una documentazione fotografica che la ritrae in età diverse e ne attesta l’approdo a un discreto benessere e alla corrispondenza con i parenti italiani, dove il ricordo mai spento delle sofferenze patite si riveste della amara metafora del «pane dalle sette croste». Andreina De Clementi

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Giovanna D’Amico, Quando l’eccezione diventa norma. La reintegrazione degli ebrei nell’I- talia postfascista, Torino, Bollati Boringhieri, 390 pp., Û 39,00

Merito del volume di Giovanna D’Amico è quello di aver posto al centro dell’attenzione storiografica un tema – quello della reintegrazione delle molte vittime del fascismo nell’Italia del dopoguerra – per lungo tempo trascurato. A dispetto del sottotitolo, la ricerca non è fo- calizzata sulla sola questione del travagliato reinserimento degli ebrei nella società repubblica- na, ma tenta di far luce su un panorama ben più ampio, in cui l’atteggiamento del legislatore nei confronti degli ex perseguitati razziali viene posto a confronto con quello riservato dai go- verni postbellici ai perseguitati politici e, più in generale, a quella nebulosa e complessa cate- goria composta dai reduci di guerra. In tal senso, il termine ad quem proposto dall’autrice – il 1950 – avrebbe dovuto essere forse più utilmente posposto al 1955, anno della cosiddetta «Legge Terracini», che introduceva nuove provvidenze a favore dei perseguitati politici e raz- ziali e segnava, in buona misura, la conclusione delle politiche risarcitorie nei confronti delle vittime del fascismo. Frutto di uno scavo documentario ampio ed estremamente dettagliato, il volume mette in luce il duplice livello normativo adottato dai governi postbellici nel risarcire, in modo difforme, le vittime di Salò e quelle del precedente regime monarchico-fascista. Il doppio bi- nario adottato rivela infatti una maggiore incisività legislativa – e con essa una differente vo- lontà politica – nella resa dei conti con la RSI (i cui atti giuridici furono nel dopoguerra rite- nuti nulli ab origine) rispetto al regime monarchico-fascista. Ciò si tradusse, fattualmente, in maggiori agevolazioni a combattenti, prigionieri di guerra, partigiani, deportati e internati ri- spetto a coloro che furono perseguitati dal fascismo negli anni 1922-43. Una concessione elar- gita solamente ai perseguitati dopo il luglio 1943 fu, ad esempio, la riassunzione nelle impre- se private, che per le vittime del periodo precedente rimase un desiderio non realizzato, no- nostante le esplicite pressioni degli Alleati. I reduci ottennero inoltre una riserva di posti (il 50 per cento) nei concorsi ordinari, nonché ulteriori concorsi a loro espressamente destinati, «ventura che non toccò alle vittime del periodo precedente» (p. 368). Un’annotazione redazionale: data la complessità e la tortuosità – propria anche del lin- guaggio giuridico – della normativa emanata a partire dal 1944 in merito ai temi trattati dal- l’autrice, un’appendice con l’elenco cronologico e tematico dei numerosi testi legislativi cita- ti avrebbe reso più agevole la lettura. Ilaria Pavan

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Giovanna D’Amico, I siciliani deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti 1943-1945, Presentazione di Bruno Vasari, Palermo, Sellerio, 405 pp., Û 20,00

Gli studi sulle deportazioni – politica, razziale, militare, per il lavoro – hanno conosciu- to un considerevole aumento nel corso degli ultimi decenni. Il tema è stato affrontato sotto molteplici aspetti, che vanno dalle dinamiche dell’internamento e della deportazione alle rea- zioni delle vittime, allo strutturarsi della memoria pubblica della guerra ed al suo rapporto con i tanti vissuti individuali. Con questa varietà di questioni, opportunamente intrecciate tra lo- ro, si confronta lo studio della D’Amico che affronta la questione attraverso un’ottica regio- nale. L’interrogativo di partenza riguarda la natura e i numeri della deportazione dei siciliani e – contestualmente – i motivi che hanno determinato una generale disattenzione per il feno- meno; come se la questione avesse riguardato solo ed esclusivamente le popolazioni del Nord e del Centro. Un totale di almeno 761 «siciliani», ovvero di cittadini italiani nati in Sicilia, fi- nirono a vario titolo nelle maglie del sistema concentrazionario nazionalsocialista: una depor- tazione «atipica», con pochissimi individui che la subiscono per motivi razziali (appena 4) e poche donne. L’autrice identifica innanzitutto le diverse tipologie di soggetti coinvolti, nonché i mute- voli contesti in cui si articolò il vissuto dei deportati. Passa poi a ricostruire le vicende del ri- torno e della reintegrazione psico-sociale, politica e culturale. Infine un ultimo capitolo è de- dicato al tema della memoria, o meglio delle censure e dei condizionamenti che contrassegna- rono il modo in cui i ricordi individuali potevano inserirsi in un quadro socio-culturale più ampio. Seguono due lunghe appendici, di quasi duecento pagine: la prima è composta da ta- belle, grafici ed elenchi nominativi, la seconda da dieci interviste. Il volume è completato ed arricchito da una vasta bibliografia. La mole di dati prodotta è notevole e da questo punto di vista il lavoro ha certo un suo valore. C’è da chiedersi però quanto abbia senso questo tipo di ricerca, quanto cioè sia utile aggregare i dati sulla deportazione in base alla provenienza regionale e non in base al luogo di arresto. Lascia inoltre perplessi l’insistito riferimento alla categoria della «rimozione». Il ter- mine, di evidente derivazione psicoanalitica, è stato spesso usato per descrive le dinamiche del- la memoria della guerra, e della deportazione, sia in Italia che altrove. Tuttavia storici avvedu- ti – come per esempio Peter Novick (The Holocaust in American Life, Boston, Houghton Mif- flin, 1999) – non hanno mancato di metterne in discussione la valenza euristica ai fini di una vera e propria storia della memoria. Il concetto freudiano di rimozione implica infatti l’idea della riemersione: il trauma subito sarebbe in una prima fase occultato per poi riemergere pre- potentemente. Siamo sicuri che sia questo procedimento psicologico, e non altri meccanismi storici e politico-culturali, a determinare i tanti e lunghi vuoti di memoria del dopoguerra cui sono poi seguite le tracimanti piene di commemorazione odierna? Guri Schwarz

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Maria D’Amuri, Le case per il popolo a Torino. Dibattiti e realizzazioni. 1849-1915, Ro- ma, Carocci, 288 pp., Û 30,00

Il volume – edito grazie all’attribuzione all’autrice del Premio per gli studi storici sul Pie- monte dell’Ottocento e nel Novecento 2001-02 del Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e dell’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte – è ba- sato su ricerche svolte in archivi in primo luogo torinesi e, quindi, nazionali, come l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e l’Archivio Luigi Luzzatti di Venezia. Il primo capitolo, Le case per gli operai a Torino fra Risorgimento e unità d’Italia, narra del periodo fino agli anni Sessanta dell’Ottocento soggetto ad uno sviluppo urbanistico contenu- to e con problemi abitativi limitati. Il secondo, L’igiene dell’abitato e la politica del risanamen- to, descrive la vicenda dell’abbattimento del Borgo del Moschino, del 1872, che avvia il pro- gramma di demolizione risanatoria conclusosi negli anni ’20 e ’30 del ’900 ispirato al legame tra «il sollievo del povero» e «la preservazione del ricco» (p. 53). A due capitoli sulla ricostru- zione del dibattito ideologico e il confronto politico, locale e nazionale, ne succedono altri de- dicati alle iniziative locali. Ne La Società torinese per abitazioni popolari si descrive la storia del- la Società, costituita nel 1902 con l’appoggio dell’amministrazione comunale, che costruì ca- se per gli impiegati, attraverso cui si cercò, con esito fallimentare, di dare una risposta antiso- cialista, anticlericale e massonica alla carenza di alloggi. In Iniziative edilizie nei primi anni del Novecento: assistenzialismo e cooperazione, si narra dell’attività dell’Istituto opere pie di San Paolo in ambito edilizio, ispirata al filantropismo, e della Società cooperativa per abitazioni civili, nata a seguito della legge voluta da Luigi Luzzatti nel 1903. Alla stessa legge sono lega- ti i capitoli su La costituzione e l’opera dell’Istituto per le case popolari di Torino, nato nel 1907 per volontà della giunta liberale appoggiata dall’Istituto opere pie di San Paolo e dalla Cassa di Risparmio di Torino e l’ultimo sugli effetti locali della normativa nazionale. La narrazione, che si dipana lungo nove capitoli, è fitta ed accurata, i protagonisti sono giunta e consiglio comunale, politici locali, opinione pubblica e realtà torinese, cui fanno da sfondo la realtà nazionale e, più lontana, quella internazionale. Interessante è la ricostruzione di figure locali, come quella di Tommaso Villa, massone, avvocato, deputato dal 1875 al 1909, consigliere comunale dal 1868 al 1915; della giovane «socialista» Gina Lombroso, figlia del più noto Cesare; oltre che del ruolo locale di personalità torinesi di rilievo nazionale, come l’i- gienista Luigi Pagliani ed il riformista Giulio Casalini. È reso bene il passaggio da una percezione igienista della questione abitativa, da risolve- re con soluzioni episodiche inizialmente ispirate al filantropismo e al principio del piccone ri- sanatore, ad una percezione più complessa, che suggerì diverse soluzioni – destinate anche a limitare i risvolti politici della questione – dagli esiti però sempre piuttosto limitati. Oscar Gaspari

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Mirella D’Ascenzo, Tra centro e periferia. La scuola elementare a Bologna dalla Daneo-Cre- daro all’avocazione statale (1911-1933), Bologna, Clueb, 439 pp., Û 32,00 Nel panorama degli studi sulla storia della scuola italiana, il volume di Mirella D’Ascen- zo si presenta come uno studio di caso: l’amministrazione e il mondo della scuola primaria nella città di Bologna all’impatto, della definizione prima e dell’applicazione poi, della legge Daneo-Credaro. La scelta ha una sua intrinseca ragion d’essere. Nota per essere la legge che ha «statizzato» il primo grado del sistema scolastico del Regno d’Italia, affidato nei primi cinquanta anni po- stunitari alla gestione dei municipi, la Daneo-Credaro è, non di meno, la legge che ha rico- nosciuto l’autonomia scolastica ad un congruo numero di comuni: i capoluoghi di provincia e di circondario innanzitutto. Il volume ci induce a guardare a questo snodo normativo e storico – è il primo provvedi- mento organico e sfaccettato di lotta all’analfabetismo in Italia – da questa seconda prospet- tiva, con l’intento, in ragione della dimensione di scala scelta (ovvero un singolo comune), di cogliere le implicazioni ampie, stratificate, reticolari che esso è stato in grado di indurre nella società locale. Bologna si rivela un osservatorio fecondo; e non solo perché è capoluogo di provincia. Bo- logna è città di media grandezza, con una articolazione sociale complessa che, in quanto tale, alimenta una domanda d’istruzione diversificata e composita. È città di solida tradizione uni- versitaria tale da aver influenzato positivamente la qualità della classe magistrale cittadina e di aver favorito l’incubazione di iniziative scolastiche e parascolastiche originali e innovative (scuole all’aperto, esperimenti di differenziazione didattica, biblioteche scolastiche, corsi inte- grativi, ecc.). È città che si trova a vivere, in quello scorcio di secolo, fermenti culturali e poli- tici nuovi (la conquista del Municipio da parte dei socialisti alle prime elezioni a suffragio uni- versale maschile, ma anche l’aspra impetuosità del primo fascismo), che prova a scardinare equilibri consolidati, e che si trova a rivisitare, nel tempo, l’esigenza di autonomia amministra- tiva. Bologna è, insomma, riprendendo la dialettica entro cui l’autrice ha inteso sin dal titolo situare la «questione scolastica», periferia che irrequietamente (attraverso le parole e l’azione dei liberali moderati, dei cattolici, dei socialisti, dei fascisti, delle associazioni magistrali, della stampa) ha difeso la propria autonomia amministrativa e scolastica dall’intervento accentrato- re dello Stato, rendendosi coartefice, nella fase di definizione della legge, durante il travaglia- to iter legislativo, della soluzione di compromesso a cui, auspice Credaro, si è poi pervenuti, e divenendo, nella fase applicativa, interprete attiva, nella diversità delle scelte compiute dalle giunte che si sono via via avvicendate, delle disposizioni in essa contenute (organizzazione sco- lastica, edilizia, patronato, corsi per adulti, ecc.). Con l’avvento del fascismo e il consolidamen- to del regime, cadranno i presupposti per il mantenimento delle «autarchie» locali. La legge avocativa del 1933 non farà che notificarne lo smantellamento. Rosanna Basso

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John A. Davis, Naples and Napoleon. Southern Italy and the European Revolution 1780- 1860, Oxford, Oxford University Press, 372 pp., s.i.p. Nella ricorrenza del bicentenario del Decennio francese nel Regno di Napoli (1806-1815) capita a proposito questo libro di J.A. Davis, che, basato su una cospicua documentazione ar- chivistica e su una aggiornata bibliografia, intende offrire non soltanto un quadro storico del Re- gno in quel decennio cruciale che vide sul trono partenopeo Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, ma anche un excursus della sua storia a partire dagli anni in cui si interruppe la fase rifor- mista del governo di Ferdinando IV di Borbone fino al 1820-1821 quando la rivoluzione costi- tuzionale pose termine alle speranze dei murattiani, sopravvissuti al cambio di regime, di influen- zare l’azione politica di Ferdinando IV, ormai Ferdinando I, re delle Due Sicilie. Il capitolo con- clusivo poi tratta succintamente delle vicende del Regno fino alla sua dissoluzione nel 1860. L’ottica del lungo periodo con la quale Davis osserva il Decennio gli consente di dare spes- sore a eventi che, se indagati nel contesto dei pochi anni in cui durò il regime dei Napoleoni- di, non riescono a fornire risposte soddisfacenti ai quesiti che molti storici si sono posti sulla sua natura, sull’impatto che ebbe sulle condizioni di vita delle popolazioni meridionali, sul successo o sul fallimento di alcune delle riforme radicali introdotte nel Regno. Altro pregio del libro è la continua comparazione con le vicende dell’intera Italia e con altre parti d’Euro- pa che vissero, per un numero minore o maggiore di anni, l’esperienza del governo napoleo- nico. Il tutto, secondo la tradizione anglosassone, è esposto con stile piano e divulgativo, pre- sentando suggestive e affascinanti ricostruzioni di alcuni aspetti della vita meridionale, anche se queste – in alcuni momenti – occhieggiano temi che possono attirare l’attenzione di letto- ri non insensibili al fascino di fenomeni come il brigantaggio o la mafia, considerati come il paradigma delle elementari e diffuse relazioni politiche e sociali vigenti nel Sud d’Italia. Molte sono le domande che si pone Davis, a partire dalla considerazione che le riforme che il Regno conobbe negli anni di Carlo di Borbone e nella prima fase di governo del figlio Fer- dinando non furono complessivamente diverse da quelle che riguardarono altri Stati europei, pur se inficiate da una serie di contraddizioni che, nei fatti, le resero in gran parte inoperanti. Perché la Repubblica napoletana conobbe una reazione così forte e crudele come quella sanfe- dista, perché a Napoli i Napoleonidi introdussero riforme così radicali, perché fallì il tentativo di modernizzare lo Stato e la sua economia, in sostanza, perché – nonostante tutto – le due Ita- lie non si riavvicinarono, anche se per una decina di anni o poco più furono rette da sovrani che si ispiravano agli stessi principi di governo? È difficile dare conto in poche righe delle ri- sposte che Davis dà a queste domande. Qui si può dire, con l’autore, che il Mezzogiorno scontò la sua posizione coloniale in economia, che la crisi dell’Antico Regime aveva esacerbato la con- flittualità sociale, che il caos nelle finanze e la pesante tassazione non riuscirono a procurare al governo un ampio consenso delle popolazioni, che non si era formata una classe dirigente che riuscisse a distinguere l’interesse pubblico da quello privato. Angelantonio Spagnoletti

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Michel de Certeau, Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Prefazione di Michele Ran- chetti, con un saggio introduttivo di Luce Giard, Torino, Bollati Boringhieri, 238 pp., Û 32,00 (ed. or. Paris, 1987)

Pubblicato una prima volta nel 1987, e poi in edizione accresciuta nel 2002, il volume riunisce saggi composti tra il 1967 e il 1983 su temi centrali della riflessione storiografica: l’in- treccio tra storia e altre discipline, la questione della narrazione e della soggettività. Tre capi- toli analizzano l’opera di Foucault; gli ultimi due problemi di storia della psicanalisi. La rac- colta costituisce un esercizio virtuosistico di lavoro ai margini tra saperi diversi; quando Cer- teau scrive di storia è come leggere un testo di psicanalisi, quando scrive di psicanalisi, ecco un saggio su Freud, la letteratura e la storia. Tale agilità, visibile fin dal primo capitolo, offre spazi inediti a una annosa questione. Certeau dimostra infatti come il discorso storico stia a metà strada tra scienza e letteratura, né verità dimostrata né finzione, né pura retorica né scien- za sul modello fisico-matematico. Questa identità entre-deux consente di affrontare con largo anticipo temi attualissimi della storiografia: accanto alla questione della differenza sessuale e della pluralità dei soggetti storici, l’impatto dei media e dell’informatica. Attento al funzionamento delle istituzioni e dei saperi che le rappresentano, anziché in- terrogarsi sui modi di introdurre categorie psicanalitiche in storia, Certeau sottolinea la natu- ra squisitamente storica della psicanalisi, e spiega: «Là dove la psicanalisi “dimentica” la pro- pria storicità – vale a dire il proprio rapporto interno con dei conflitti di potere e di posto –, essa tende irrimediabilmente a divenire un meccanismo pulsionale, una forma di dogmatismo discorsivo, oppure una gnosi simbolica» (p. 88). Dopo il ’68, la psicanalisi francese si diffonderà come una mina vagante tra le scienze uma- ne, introducendovi la questione del soggetto nell’accezione data da Lacan nel seminario del 1959-60 sull’etica, «il più importante (e il più storiografico) dei suoi seminari» (p. 94). In La- can: un’etica della parola, scritto in occasione della morte del grande psicanalista, Certeau de- scrive un uomo che abbandona successivamente le diverse istituzioni di cui diviene protagoni- sta, fondatore, maestro. Lacan lascia infatti nel ’53 la Société psychanalytique de Paris; in segui- to l’Associazione psicanalitica internazionale nel ’63; e infine, nell’80, l’École freudienne. Egli lavora instancabilmente sulla parola, valorizza il suono, esalta la funzione poetica del linguag- gio; nel liberare i significanti dai loro significati, l’analista diventa soprattutto orecchio attento a cogliere la poesia presente in ogni suono emesso dall’altro. Così, sottraendosi alla rigidità isti- tuzionale, si mantiene fedele a Freud e alla storia. Si ritrae, scrive Certeau, per lasciare soltanto il suo nome, «come i sandali di Empedocle sul ciglio dell’Etna» (p. 210). Paola Di Cori

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Valerio De Cesaris, Pro Judaeis. Il filogiudaismo cattolico in Italia (1789-1938), Milano, Guerini e Associati, 201 pp., Û 20,00

Il libro propone un percorso storico-tematico con l’intento di analizzare un fenomeno spes- so trascurato, o comunque scarsamente dibattuto, dalla storiografia contemporanea: qual è sta- to il ruolo assunto dal «filogiudaismo» all’interno della cultura cattolica italiana? La cornice cro- nologica entro cui l’opera si colloca prende avvio dalla Rivoluzione francese, ovvero dal momen- to in cui la questione legata all’emancipazione degli ebrei ha conosciuto una sua visibilità nel dibattito politico dell’epoca, e termina nell’«anno della razza», il 1938, allorché il processo ini- ziato un secolo e mezzo prima è venuto a esaurirsi con l’emanazione della normativa discrimi- natoria varata dal fascismo. Lungo questo asse temporale si dipana l’esplorazione condotta dal- l’autore che, con linguaggio asciutto e conoscenza dell’argomento trattato, investiga atteggia- menti e figure del mondo cattolico, di maggiore e minore notorietà, disponibili a leggere posi- tivamente le vicende storico-religiose degli ebrei, per patrocinarne un’equiparazione giuridico- politica alla società di maggioranza. Alternata ed intrecciata a tale discorso, si propone l’esposi- zione di culture, mentalità, produzioni intellettuali di segno antiebraico che, germogliate all’in- terno dell’alveo cristiano, hanno continuato a definire l’ebraismo secondo esegesi negative e op- positive almeno fino alla seconda metà del Novecento. L’aspetto più convincente del libro sta nella capacità di connettere snodi centrali della storia dell’Italia otto-novecentesca a eventi «pe- riferici», su cui il volume richiama l’attenzione invitando il lettore a riflettere, in un’ottica glo- bale, sui complessi rapporti istituitisi nel corso dei secoli XIX-XX fra la comunità cattolica e quella ebraica. Ciò che tuttavia non persuade nella trama del libro riguarda le premesse teori- che e metodologiche Il «filogiudaismo» è difficilmente assimilabile a categoria storiografia defi- nita perché, se non viene contestualmente determinato, rischia di contenere elementi valutati- vi: l’autore inscrive infatti in questa categoria alcuni personaggi che mai si sono identificati con quella definizione, priva del resto di una precisa cultura di riferimento. Se il libro ha il merito di cercare di dar voce a esperienze minoritarie che non hanno avuto un ruolo egemone nelle «macronarrazioni» storiche, guardando anche ad una versione della storia «altra», antagonista e portatrice di istanze diverse da quelle patrocinate dai vertici o dalle maggioranze, resta un dub- bio che riguarda proprio questo aspetto: se il filogiudaismo di cui tratta l’autore sia da compren- dere all’interno di queste anime minoritarie del cattolicesimo. O se sia stato piuttosto un feno- meno che ha interessato singole personalità che, in fasi temporali diverse, hanno posto come re- quisito preliminare di ogni libertà, individuale, sociale e politica, l’emancipazione dei soggetti storici fino a quel momento esclusi da tali diritti. Sulla base di queste considerazioni è coraggio- so parlare di «filogiudaismo», ma non pare, leggendo l’opera, che questo termine abbia mai fon- dato un sistema culturale di segni e simboli volti a stabilire un’idea di alterità recepita non co- me antitesi irriducibile ma come diversità dialettica. Elena Mazzini

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Daria De Donno, Memorie familiari e storie di comunità. Il «Libro di casa» dei Pellegrino di Melpignano (secc. XVIII-XIX), Galatina, Congedo, 265 pp., Û 18,00 Il principale pregio del volume è esplicitato dalla scelta di intitolarlo al plurale. Sebbene, infatti, tutta la seconda parte (pp. 109-253, compreso un utile Glossario) sia dedicata alla tra- scrizione integrale del Libro di casa – scelta forse discutibile, vista anche la persistente durez- za ed essenzialità della lingua adoperata pur nel variare della cultura degli scriventi – l’ampia e informata introduzione (pp. 11-88, più tavole genealogiche e tabelle sull’andamento patri- moniale) traccia un quadro metodologico e storiografico ampio, valorizzando la fonte anche al di là di ciò che essa dice. L’autrice mostra come l’intreccio tra storia familiare (e individua- le) e storia di comunità oltrepassi i limiti di quella che con qualche diffidenza si definisce tra- dizionalmente «storia locale», tratteggiando i caratteri di una «periferia» (p. 35), nello specifi- co una piccola località in Terra d’Otranto, che ne riecheggia molte altre quanto a dinamiche sociali e patrimoniali. Il lasso di tempo entro il quale i capifamiglia redigono le memorie, dal 1761 al 1840 circa, è significativo per l’innescarsi di meccanismi di articolazione sociale vali- di quanto meno a dimensione nazionale. I libri di casa e di famiglia posseggono potenzialità interpretative notevoli se collegati al- la formazione di un ceto borghese che, come la realtà italiana dà ampio agio di verificare, pre- senta a lungo i «i tratti tipici del rentier» (p. 52). I Pellegrino ascendono dalla condizione di agricoltori esemplarmente attenti alla costruzione di reti di relazione (classiche le strategie ma- trimoniali) introducendo alcuni componenti della famiglia nella Chiesa e poi nelle professio- ni liberali: dapprima la medicina, poi il diritto. Sarà l’affermazione in quest’ultimo, prestigio- so settore professionale a sancire l’uscita dal microcosmo provinciale per trasferirsi a Lecce e a Napoli, non senza un impegno politico nella nuova Italia i cui contorni si situano però al di fuori dei limiti del Libro di casa. In età rivoluzionario-napoleonica il Libro moltiplica le annotazioni di carattere pubbli- co, documentando un’affannosa ricerca di sopravvivenza, anche individuale. Si può così leg- gere lo schizzo di una vicenda individuale diversa dalle anodine note relative a nascite, mor- ti e appannaggi dotali mutuate dal linguaggio notarile, e invero generalmente inadeguate ad introdurci a quella «sfera affettiva ed emozionale» cui pure l’autrice allude a p. 25; e cioè il «salvataggio» di Giuseppe Nicola Pellegrino dall’arruolamento nel corpo dei Veliti, per il quale il padre spende un piccolo patrimonio (p. 215). Sarà proprio questo esborso, al mo- mento assai penoso, a determinare il definitivo passaggio del giovane a Napoli e la sua car- riera legale: un gesto apparentemente dettato dal semplice affetto paterno finisce per appa- rire strategico nel dispiegarsi dell’ascesa familiare al di fuori degli stretti limiti della località e del ceto di origine. «Grande» e «piccola» storia – peraltro mai disgiunte – si fondono co- sì in modo evidente, mostrando l’avvio di tempi nuovi che i redattori del Libro possono so- lo intuire. Paola Magnarelli

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Antonino De Francesco, Mito e storiografia della «grande rivoluzione». La Rivoluzione fran- cese nella cultura politica italiana del ’900, Napoli, Guida, 385 pp., Û 26,80 Nel suo pamphlet su L’incomprensione italiana della Rivoluzione francese dagli inizi ai pri- mi del Novecento (Torino, Bollati Boringhieri, 1989) Furio Diaz, che intendeva occuparsi pre- valentemente o quasi esclusivamente dell’Ottocento, era costretto a varcare le soglie di quel secolo per trovare finalmente in Gaetano Salvemini uno studioso italiano, ma era un demo- cratico e un socialista, che comprendesse qualcosa della Rivoluzione francese. Tuttavia Salve- mini, nonostante il suo desiderio e le varie edizioni che la sua opera conobbe (ben sette fino all’ultima del 1954) non riuscì a superare il limite del 1792. Non dirò delle perplessità che la- sciano alcuni giudizi sommari di Diaz, ma del resto si tratta di un pamphlet ed è difficile so- stenere che nel clima prevalentemente conservatore e nazionalista dell’Ottocento italiano la Rivoluzione fosse generalmente apprezzata e veramente studiata. Proprio dall’opera di Gaetano Salvemini muove Antonino De Francesco in questo volu- me che raccoglie alcuni saggi già pubblicati in questi ultimi anni (1999-2005) e «posti in equi- librio» con altri saggi che erano invece inediti. Ne risulta un volume organico che costruisce con ricchezza di articolazione la ricezione e le interpretazioni della Rivoluzione in vari mo- menti della cultura politica italiana del ’900. Il carattere essenzialmente informativo di questa rubrica mi induce a riferire sulla artico- lazione interna data al volume, che dà un’idea dell’ampiezza della ricostruzione e degli argo- menti e degli autori esaminati. Dalla Rivoluzione francese di Gaetano Salvemini, passando per i Discorsi interrotti. Guglielmo Ferrero, Corrado Barbagallo e la critica della rivoluzione francese si passa alla Rivoluzione francese nella cultura politica e nelle linee storiografiche dell’Italia tra le due guerre, alle letture della Rivoluzione negli ambienti del fascismo sociale e poi negli anni della guerra d’Etiopia e del secondo conflitto mondiale. Si chiude con la ricerca della tradi- zione politica e storiografica dopo la guerra e con L’ombra di Buonarroti. Giacobinismo e Rivo- luzione francese nella storiografia italiana del secondo dopoguerra. La parte più nuova e la più ampia è tra il capitolo secondo e il sesto. La si legge con gran- de interesse perché tenta di far uscire dalla oscurità o dalla penombra alcuni aspetti della cul- tura italiana, talora anche alleata e partecipe del potere politico, tuttavia nella sostanza oscu- rata o emarginata dalla egemonia crociana, che pur insidiata e contestata, ha spesso trionfato per la forza e il realismo dei contenuti e la lucidità dei ragionamenti di contro alla frammen- tarietà e alla fragilità delle posizioni avverse o contrastanti. A me pare che il lavoro di De Fran- cesco sia molto utile e che vada superata la conclusione pessimistica, che sembra provenire dal- lo stesso autore nel risvolto di copertina, che la tradizione storiografica italiana «quasi nulla avrebbe trattenuto della tradizione repubblicana d’inizio secolo e non poco conservato, inve- ce di quel pregiudizio antiliberale e antidemocratico largamente presente, anche a sinistra, nel- la cultura politica italiana del secolo XX». Pasquale Villani

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Alcide De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. I, Alcide De Gasperi nel Trentino asbugico, Bologna, il Mulino, 2 tomi, 2112 pp., Û 100,00 Il primo volume in due tomi degli Scritti e discorsi politici di Alcide De Gasperi costitui- sce l’avvio di un’opera importante: l’edizione critica della produzione politica degasperiana, coordinata, sotto il profilo scientifico, da Paolo Pombeni e, sotto quello editoriale, da Giulia- na Nobili Schiera. Questo primo volume, curato da Elena Tonezzer, Mariapia Bigaran e Mad- dalena Guiotto, reca come sottotitolo Alcide De Gasperi nel Trentino asburgico. I due tomi so- no suddivisi in tre sezioni dedicate al De Gasperi leader studentesco e giornalista (1901-1915), a De Gasperi consigliere comunale a Trento (1909-1914) e a De Gasperi a Vienna, Innsbruck e durante la guerra (1902-1918). Convenzionalmente, gli anni fino al primo dopoguerra sono stati in genere indicati co- me anni della «formazione» degasperiana: ma si tratta di un lungo quarantennio, in cui egli è stato pienamente attivo come giornalista e come politico. Recentemente, Pietro Scoppola ha utilizzato l’espressione «l’altro De Gasperi» per indicare la figura del leader trentino in questo periodo. Si tratta, infatti, di un De Gasperi meno noto e diverso di quello del periodo succes- sivo, quando egli è stato protagonista della politica italiana nel PPI o perseguitato dal fasci- smo e, nel dopoguerra, quando ha fondato la DC e impresso una forte impronta alla politica italiana. Recentemente, a questo periodo della parabola degasperiana è stata dedicata maggio- re attenzione, come attesta il saggio di Stefano Trinchese, intitolato appunto L’altro De Gaspe- ri. Un italiano nell’impero asburgico 1881-1918. Il titolo del saggio introduttivo di questo volume, Formazione ed esordi di un politico di pro- fessione, opera di Pombeni, è indicativo del taglio scelto, che privilegia l’attività politica. L’autore illumina efficacemente un percorso ancora poco noto, anche se Piero Craveri ha recentemente dedicato a questa fase alcune acute osservazioni nella sua biografia politica dello statista trentino, altra espressione dell’attuale ritorno di interesse per questa figura. Dopo aver messo bene a fuoco i tratti principali del «giovane» De Gasperi, Pombeni indica come «più caduco» quello dell’insi- stenza sul cattolicesimo quale «bussola» per giudicare la cultura del tempo. Indubbiamente, ci so- no molti aspetti caduchi – e, talvolta, anche peggio – negli orientamenti degasperiani di quegli anni, a cominciare dall’antisemitismo, peraltro tipico non solo dei cattolici ma anche di altri nel- la Vienna del tempo. Diverso è invece il discorso sulle radici di quell’impegno: reintrodurre i cat- tolici nella vita pubblica, sul piano prima culturale e poi politico ha sorretto anche tutto il suo percorso successivo, sia nella militanza popolare sia nell’impegno post-bellico, con risultati di in- discutibile rilievo storico. Le premesse di tutto ciò si trovano nel suo primo denso quarantennio, come mostrano molti dei testi pubblicati in questo volume, rilevatori di una non comune fre- quentazione della tradizione cristiana europea unita ad un’ampia conoscenza della cultura laica del tempo: esemplari appaiono in questo senso le pagine sulla guerra, ispirate da una visione cri- stiana intrecciata ad una attenta valutazione storico-politica delle circostanze. Agostino Giovagnoli

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Roberta De Giorgi, I quieti della terra. Gli stundisti: un movimento evangelico-battista nel- la Russia del XIX secolo, Torino, Claudiana, 168 pp., Û 15,00 Lo stundismo è una corrente evangelica nata all’inizio degli anni ’60 dell’800 nella Rus- sia meridionale, l’attuale Ucraina, il cui sviluppo s’intersecò con la penetrazione del prote- stantesimo tedesco e ricevette impulso da alcuni processi di riforma in atto nel paese. La sua denominazione, di origine controversistica, fu mutuata dal tedesco Stunde – l’ora consacra- ta alla preghiera, al canto degli inni e alla lettura delle Scritture – a segnalare la contiguità con una pratica pietista già diffusa tra i coloni di origine germanica, insediati in alcune pro- vince dell’Impero zarista. Il lavoro di De Giorgi è una ricostruzione intelligente, meticolo- sa e sempre filologicamente fondata della storia del movimento, a partire dalle sue origini fino all’ukaz del 1894, che condannò alla deportazione i dissidenti. L’autrice ha preso in esame un ventaglio di fonti molto ampio: rapporti di polizia e resoconti di processi, rela- zioni dei diversi gradi ecclesiastici e del missionariato, denunce sottoscritte da fedeli orto- dossi, inchieste ministeriali e disposizioni legislative, suppliche ufficiali, corrispondenze pri- vate (in particolare, quella inedita tra alcuni stundisti e il noto evangelico russo Vasilij Paˇskov), verbali di conferenze dei dissidenti, testimonianze di osservatori diretti e memo- rie di populisti. Rievoca con maestria il complesso dibattito sulle origini dello stundismo, che vide affrontarsi, già alla fine del XIX secolo, ipotesi contrastanti e contraddittorie (pro- selitismo protestante e «germanizzazione» dell’ortodossia; natura autoctona della dissiden- za e modernità del razionalismo religioso popolare). De Giorgi assume una posizione inter- media, valutando sia influenze esterne che fattori interni. Può così tracciare la storia di un risveglio spirituale e di un ritorno al cristianesimo autentico, che si tradusse prima nell’a- desione al pietismo e nella vita in fratellanza, nella libera interpretazione delle Scritture e negli esercizi di edificazione; poi, con sempre maggiore determinazione, nella negazione pubblica della dottrina e tradizione ortodossa, nel rifiuto dell’ordine ecclesiastico e del for- malismo religioso (di particolare interesse le pagine sull’arretratezza culturale e morale del clero russo, e quelle sull’iconoclastia stundista). Con la diffusione del «battesimo delle ani- me risvegliate», lo stundismo si allontanava in modo irreversibile dalla Chiesa ufficiale, pre- parandosi a confluire nel battismo di cui ereditò gradualmente sia l’impianto dottrinale (sa- cerdozio universale, giustificazione per sola fede, centralità della Parola e conferma del bat- tesimo degli adulti) che quello organizzativo (congregazionalista). L’acquisita autonomia re- ligiosa, ma anche gli eventi politici degli anni ’80, porteranno le istituzioni a passare dai primi tentativi di repressione – ricordati con preciso riferimento agli articoli del Codice che vietavano la libera adunanza o la sepoltura eterodossa, punivano il vilipendio della religio- ne o l’eresia, ecc. – alla vera e propria persecuzione, ricostruita nell’ultimo fondamentale ca- pitolo, allorché si affermerà l’immagine dello stundista-nichilista e affiorerà persino il tema poetico ortodosso dello «stundista maledetto». Antonella Salomoni

172 I LIBRI DEL 2006

Massimo De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Bologna, EMI, 318 pp., Û 15,00

Tra denunce-inchiesta appassionate come L’arcivescovo deve morire di Ettore Masina e ri- gorose analisi documentarie, vedi il recente Primero Dios di Roberto Morozzo della Rocca, dal 1980 – anno della tragica morte sull’altare – la figura di monsignor Oscar Arnulfo Romero continua ad avere, per gli studiosi italiani, un posto di particolare rilevanza tra le figure che hanno segnato in profondità il profilo dell’America Latina contemporanea. Non poteva dun- que mancare, a venticinque anni dalla scomparsa, un momento di riflessione complessiva sul- la produzione storiografica e memorialistica a riguardo. Questo volume collettaneo prende ap- punto le mosse dal convegno Oscar Romero e il Centroamerica, venticinque anni dopo del no- vembre 2005. Il curatore, Massimo De Giuseppe (dottore di ricerca in Popoli culture e con- fessioni religiose e docente di Storia contemporanea presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano), introduce con competenza il lettore nella struttura tripartita del testo e nella sua logica, fortemente improntata all’interdisciplinarietà. La prima parte, El Sal- vador e il contesto centroamericano, tratteggia attraverso molteplici contributi il contesto na- zionale da cui trae origine la profonda crisi politica salvadoregna, culminante a pochi mesi dall’uccisione dell’arcivescovo in una sanguinosa guerra civile. Particolarmente incisivi sono i saggi di Daniele Pompeiano e Loris Zanatta, rispettivamente centrati sui fattori di lungo pe- riodo che conducono alla spirale di violenza nel paese – lungo filo rosso che riemerge perio- dicamente nella trama della sua storia dalla fine del XIX secolo – e sul controverso rapporto tra Chiesa e forze armate durante la guerra fredda. Da segnalare nella sezione centrale, La vi- cenda di Romero, il saggio di Morozzo della Rocca che ripercorre minuziosamente lo stato del- le fonti edite e inedite, proponendo inoltre una riflessione sugli «usi pubblici», le numerose e contese appropriazioni, talvolta le palesi distorsioni che di questo personaggio hanno fatto, a seconda dei momenti e dei contesti, un eroe, un martire, un rivoluzionario. La terza parte, La memoria, conclude il volume presentando considerazioni che spaziano dall’impatto della vi- cenda di Romero sulla società civile italiana, al ruolo dei mass media, a quello della letteratu- ra salvadoregna agli albori del conflitto, curata da Dante Liano. Per quest’ultimo insieme di contributi può forse risultare un po’ faticoso rintracciare un filo conduttore, lasciando a chi legge la responsabilità di stabilire nessi logici e percepire omogeneità nei registri linguistici. Eppure l’indubbio valore del volume risiede proprio nell’ambiziosa scommessa data dall’ete- rogeneità degli approcci presentati, «alla ricerca di diverse chiavi di lettura che potessero costrui- re un terreno di confronto, non sempre necessariamente lineare ma, forse anche per questo, più vitale e problematizzante» (p. 14.).Un libro denso di contenuti, potenzialmente molto utile, cre- do, anche in ambito didattico, che nella sua polisemia contribuisce di certo a coniugare, per dir- la con Wieviorka, la temperatura di fuoco della testimonianza con quella gelata della Storia. Benedetta Calandra

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Victoria de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino, Einaudi, XXX-534 pp., Û 30,00 (ed. or. Cambridge, MA, 2005)

Un libro ponderoso, ricco di suggestioni e di materiali, scritto brillantemente attorno ad una tesi forte: nel corso del XX secolo, si sarebbe verificato «un vero e proprio scontro di civiltà fra le due opposte sponde dell’Atlantico» (p. XXIV) dal quale l’America uscì vittoriosa. Il libro di Victoria de Grazia, studiosa del fascismo italiano, sull’americanizzazione dell’Europa si apre durante la prima guerra mondiale con l’ispirato discorso di Woodrow Wilson di fronte ad una platea di venditori che parla di «conquista del mondo con mezzi pacifici» e con la fondazione del Rotary club a Dresda e si conclude, in maniera circolare, con il crollo del blocco sovietico e la rifondazione del Rotary club nella stessa Dresda postcomunista. Dentro questa cronologia, il cui fulcro centrale è costituito dagli anni ’20-60, si consuma l’irresistibile ascesa del «soft power» americano e l’affermazione dell’«American way of life»; e cioè di un modo di consumare, di un universo di beni, ma anche di un insieme di valori e pratiche. De Grazia li delinea in nove capi- toli che prendono in considerazione le diverse componenti della strategia di conquista: l’associa- zionismo filantropico e volontaristico e l’etica del servizio del Rotary club, il fordismo e l’elabo- razione del concetto di standard di vita, le catene commerciali e i negozi a prezzo fisso, le gran- di marche e la costruzione della loro immagine, il marketing e la moderna comunicazione pub- blicitaria, il cinema hollywoodiano, i grandi magazzini e i supermercati, la costruzione del citta- dino e della cittadina consumatrice. Il libro pullula di attori e comparse tra cui spiccano due pro- tagonisti principali: l’imprenditoria ebraica con la sua straordinaria abitudine e capacità di fare network, di costruire un ponte tra le due sponde dell’Atlantico, e le donne, da un certo momen- to in poi di questa storia, fondamentali testimonials e «vettori» del modello americano. La storia raccontata da de Grazia è quella di una penetrazione culturale, che procede per diffusione, in un’Europa che è essenzialmente composta da Germania, Italia e Francia, anche se non mancano incursioni in altri paesi; ed è una storia di avanzate e vittorie non lineare. Le resistenze all’affermazione dell’«Impero del Mercato», più forti negli anni ’20 e ’30, si fanno sempre più deboli dopo il ’45 quando, grazie al Piano Marshall e al boom economico, l’avan- zata diventa non solo irresistibile, ma anche inarrestabile; per arrivare negli anni ’80 ad un’Eu- ropa per certi aspetti più americanizzata della stessa America. Non è quella di de Grazia una storia di scambi e adattamenti, ma di transfert a senso uni- co, in cui forse si tende a sottovalutare, ed è una critica già da altri avanzata (si vedano le re- censioni di John Brewer in «NYRB», 30.11.2006 e di Charles Maier, in «JMIS», 1, 2007), non solo l’esistenza di una società dei consumi di origine settecentesca ed europea, ma anche la pluralità delle forme assunte dall’americanizzazione in un’Europa, un po’ meno indistinta e compatta di quanto talvolta sembra emergere da questa affascinante ricerca, che non rinun- cia ai propri valori, al proprio welfare e alla propria concezione della cittadinanza. Daniela Luigia Caglioti

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Nunzio Dell’Erba, Socialismo e questione contadina in Romania (1821-1921), Milano, Unicopli, 121 pp., Û 10,00

L’autore studia la storia romena da molti anni, pur dedicando prioritariamente la sua at- tività di ricerca ad altri ambiti scientifici, attinenti in genere il pensiero politico. Qui presen- ta un saggio di 90 pagine – ispirato a un precedente scritto apparso in «Slavia» – e un’appen- dice documentaria di circa 30. Vi si tratta il movimento socialista romeno in relazione alla questione agraria dalle timide origini proto-ottocentesche, alla formazione del Partito social- democratico dei lavoratori (1893-99), alla sua ricostituzione (1907, 1910), alla scissione del 1921. Da questa nacque il Partito socialista-comunista, poi semplicemente comunista, affilia- to al Komintern, mentre le correnti socialiste moderate o riformiste (la destra e il centro del vecchio partito) formarono la Federazione dei partiti socialisti delle province che costituiva- no la Grande Romania sorta dalla prima guerra mondiale, quindi Partito socialista democra- tico. Fatte salve le opere di Bianca Valota dedicate alla questione contadina in Romania e al- la lotta politica nel primo Novecento, il tema è stato obliato dalla storiografia italiana: al ri- guardo anni fa furono pubblicate in traduzione soltanto alcune raccolte documentarie e ope- re collettanee, che Dell’Erba bene utilizza, insieme con altri testi letti in lingua romena. Per alcuni aspetti generali riscontrabili nelle vicende dei movimenti socialisti di altri paesi, soprat- tutto del Sud-est europeo, la storia del socialismo romeno non è avulsa dal contesto continen- tale. Anche in esso tesi riformiste e radicali si confrontarono a lungo. Caratteristica è la scelta di un nucleo di militanti di entrare nel Partito liberale per attuare concretamente alcune rifor- me che il debolissimo Partito socialista non avrebbe mai potuto ottenere. Soprattutto fu gran- de l’attenzione dei socialisti romeni per la classe contadina e la questione agraria. Non pote- va essere diversamente – a costo di allontanarsi da Marx – in un paese in cui la classe operaia era esigua e la gran maggioranza della popolazione viveva e lavorava in campagna. Da qui la profonda motivazione di un’opera come questa. L’autore parla talora (pp. 12-13, 69) di ma- nifestazioni ascrivibili al movimento socialista o sindacale, avvenute in territori dell’Impero austro-ungarico, popolati in parte da romeni ed annessi allo Stato romeno dopo il 1918. Non è facile classificare quelle manifestazioni come appartenenti alla storia del socialismo romeno, sebbene in alcuni casi vi sia stato qualche tenue legame (p. 55) con altri fatti avvenuti nel Re- gno di Romania. Sembra severo il giudizio («ingannevole», p. 86) sulla riforma agraria attua- ta dopo la guerra mondiale. Se la condizione dei contadini continuò a essere pesante, per man- canza di credito agrario, di inventario agricolo e di servizi, è innegabile che – per dirla con V. Georgescu – le campagne romene furono caratterizzate da allora dalla schiacciante prevalen- za della piccola proprietà, che purtroppo non era capace di produrre secondo le potenzialità e di «stare sul mercato». Ciò nulla toglie a uno studio che contribuisce in modo puntuale a fa- re conoscere al pubblico italiano un aspetto fondamentale della storia romena. Francesco Guida

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Mario Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica este- ra americana, Roma-Bari, Laterza, VII-198 pp., Û 18,00

Lo snodo storico analizzato dall’autore, con originalità, vasta competenza e una buona dose di ricerca d’archivio, è cruciale per la politica estera degli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo. Tre temi vi si intrecciano. Il primo fa da background necessario ed è la crisi del Viet- nam che, negli anni Sessanta del Novecento, riassunse e fece esplodere la crisi della politica del contenimento, del bipolarismo fondato sui paradigmi internazionalisti, idealisti e ideolo- gici del Cold war liberalism – paradigmi che implicavano la superiorità militare americana, la sconfitta del nemico comunista, e la convinzione universalista che tutto il mondo sarebbe di- ventato America. Il secondo tema è il tentativo, fra anni Sessanta e Settanta, di Nixon e Kissinger di rispon- dere alla crisi continuando politiche già avviate (negoziati con i nordvietnamiti, disgelo con i sovietici, attenzione per i cinesi) ma inquadrandole in un discorso nuovo. Era la strategia kis- singeriana della détente: l’accettazione realista e realistica dell’URSS come grande potenza, per- manente e (quasi) alla pari, de-ideologizzata e gestibile con la diplomazia, con negoziati com- merciali e sul disarmo. Tale strategia, percepita come «europea» (su La formazione di Heinz/Henry Kissinger l’autore ha pagine illuminanti), aveva in comune con quella preceden- te una dimensione «maniacalmente bipolare». E questo fu uno dei suoi limiti: vedeva l’ordi- ne mondiale centrato sul rapporto con Mosca come mezzo e fine di ogni cosa, e ignorava le complessità emergenti. Gli eventi più drammatici, l’apertura alla Cina, la distruzione del Ci- le di Allende, furono concepiti in questa prospettiva. Il terzo tema è il fallimento del kissingerismo. Kissinger rimase prigioniero dei suoi sche- mi. Soprattutto, e su questo insiste molto Del Pero, non riuscì a creare un consenso interno alla sua azione internazionale anti-ideologica, anti-idealista e anti-universalista. Negli anni Settanta l’egemonia del discorso pubblico fu ripresa dai critici per i quali il negoziato con l’URSS era un cedimento, la riduzione degli armamenti un tradimento, la distensione una forma di appeasement; e che di nuovo rivendicarono il valore universale dell’esperienza ame- ricana. I critici più radicali erano democratici ex-liberal che divennero poi noti come «neo- conservatori», e che nel 1980 incontrarono la destra repubblicana nel nome di Ronald Rea- gan. Un contributo fondamentale a fare del kissingerismo «una parentesi, importante ma ec- centrica», e del neoconservatorismo uno dei protagonisti della scena politica, venne natural- mente dai dirigenti sovietici: consapevolmente o meno, essi presentarono allora il volto peg- giore, perseguitando i dissidenti interni, mostrandosi aggressivi in Africa e Afghanistan. Arnaldo Testi

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Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, XXVIII-302 pp., Û 25,00

Un libro intensissimo e complicato, come lo sono i libri che parlano di cose che vorrem- mo il più possibile tenere astratte per non vederle con i nostri occhi, e in cui l’analisi e la ri- flessione sulla violenza novecentesca non suonano come condanna tout court del Novecento e della politica di questo secolo, ma come sforzo di analisi e di considerazione di questi feno- meni. Obiettivo centrale della ricerca di Giovanni de Luna è la storicizzazione del corpo ucciso in guerra e i diversi modi, in relazione ai diversi tipi di guerra, ma anche ai differenti momen- ti della guerra, in cui i nemici vengono uccisi. Per studiare i corpi dei «nemici», le fonti prin- cipali utilizzate sono le fotografie, fotografie che – direi fortunatamente – sono presenti in pic- cola quantità nel libro, ma che sono descritte dettagliatamente dall’autore che riesce in que- sto modo a moltiplicare le immagini, nella scrittura, e la consapevolezza della corporeità e del- la fisicità estrema della morte e, in questo modo, a mettere al centro della riflessione sulla guer- ra la morte. Un libro sulla violenza e sulla morte violenta che mostra quanto il modo di ucci- dere e il trattamento dei corpi morti ci dicano sull’uccisore e sulla guerra. Costruito in tre parti, una prima metodologica e sulle fonti, una seconda sulle guerre no- vecentesche e una terza sulle guerre più recenti, quelle che l’autore definisce della «contempo- raneità post-novecentesca», e cioè i conflitti avvenuti all’indomani del crollo del muro di Ber- lino fino all’11 settembre e un po’ oltre, il libro è importante perché nel tentativo di storiciz- zare la morte, e quindi le forme della violenza, contribuisce fortemente a rinforzare l’impor- tanza di questo tema e a rinnovarne l’attenzione nella ricerca storica. Parallelo a questo per- corso è l’analisi delle foto, fonte principale della ricerca, e dei modi e delle forme della com- mittenza di queste immagini, che molto dicono anche su chi compie violenze oltre che su chi le subisce. La dimensione di massa della violenza e della morte nel Novecento diviene in questo la- voro anche un’occasione per riflettere più complessivamente sulle istituzioni e sul loro rappor- to con la guerra, con la violenza e con i corpi. L’ultima parte è per certi versi la più fragile, per- ché in essa la pregnanza dello studio sulla morte svanisce per dare spazio ad uno sguardo più generale (e talvolta generico) dei conflitti degli ultimi anni, ma è anche quella all’interno del- la quale si dimostra che anche nella differenza delle morti, delle tecniche di combattimento e del tipo di persone che combattono si può osservare un cambio di paradigma della contem- poraneità sul quale anche lo storico deve riflettere: la perdita del monopolio della violenza da parte dello Stato, che si manifesta attraverso i kamikaze, m anche attraverso l’uso di soldati mercenari in misura altissima rispetto a precedenti fasi del ’900. Giulia Albanese

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Ennio De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione infor- matica, Milano, FrancoAngeli, 277 pp., Û 17,00

Il ridisegno dei curricula universitari ha portato anche nel campo della storia economica ad una rinnovata fioritura in campo manualistico. Quasi dappertutto sono stati riorganizzati i pro- grammi, modulandoli sulle nuove esigenze dei vari corsi. Questo ha portato con sé anche il bi- sogno di proporre agli studenti – in gran parte dei primi anni in facoltà di Economia – saggi nuovi, maggiormente rispondenti ai nuovi obiettivi e ai mutati contesti di studio. Di qui il nu- mero elevato – come non era mai stato in anni passati – di libri nuovi di sintesi e di introduzio- ne alla storia economica. L’altra novità, non di poco conto, consiste nel fatto che gli autori sono soprattutto italiani, quando viceversa a lungo ovunque aveva prevalso l’adozione di testi di stu- diosi stranieri debitamente tradotti. Il volume di Ennio De Simone, docente presso l’Università del Sannio, si inserisce in que- sta tendenza, che va consolidandosi e che fondamentalmente rispetta una mainstream inter- pretativa in ambito storico-economico largamente accettata. Da questo punto di vista gli sto- rici economici, più attaccati alla tradizione storiografica di derivazione britannica, appaiono più impermeabili rispetto al bisogno di rilettura e di sottolineatura del secolo ventesimo sen- tito dagli storici contemporanei a partire dalla celebre definizione di Hobsbawm di «secolo breve». Suddividere gli ultimi tre secoli sulla base delle altrettante rivoluzioni che si sono succe- dute rappresenta tuttora un modo convincente per insegnare la storia economica. Un simile schema tripartito, che si snoda per scansioni ormai assodate, permette il rispetto e la compren- sione delle grandi svolte sia in termini di eventi sia di processi e soddisfa alle aspettative di completezza, che un manuale ingenera. Calcare la mano poi sul momento del cambiamento profondo, della trasformazione radicale, che il termine «rivoluzione» esprime, rafforza l’im- postazione prescelta. Il volume di De Simone in questo senso non tradisce le attese, affidando alla rivoluzione industriale sette-ottocentesca la paternità di spartiacque fra la storia moderna e quella con- temporanea. Costruito con intenti didattici, coglie nel segno in quanto a chiarezza ed esau- stività, ma riproduce una caratteristica, discutibile per chi scrive queste brevi note, già presen- te in molti altri testi di questo genere. Quella cioè di destinare all’ultimo sessantennio uno spazio decisamente sottostimato rispetto alle epoche precedenti. Se è condivisibile l’opinione che il restringersi della sedimentazione della riflessione storica spinge a considerare differen- temente i fatti più vicini a noi, secondo molti addirittura sottraendoli alla lente d’ingrandi- mento dello storico, appare altrettanto fondato il timore che far coprire l’intera seconda metà del Novecento da un sesto soltanto delle pagine del libro rischi di non dare a chi legge un’i- dea adeguatamente ponderata dei tre secoli studiati. Andrea Giuntini

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Giuseppe Di Candido, Calciatori in camicia nera. Lo sport più amato dagli italiani duran- te il fascismo, Roma, Edizioni Associate, 147 pp., Û 12,00

Giuseppe Di Candido, un giovane studioso di storia sportiva, affronta con garbo un te- ma su cui, nonostante una tradizione di studi bene avviata, che ne hanno mostrato la com- plessità, circolano non pochi luoghi comuni. Il sottotitolo del libro ci dice che si intende rac- contare la storia non del calcio fascista, ma del calcio durante il fascismo. Non è un gioco di parole, né una sottigliezza accademica. Il fascismo provò a mettere in camicia nera ogni aspet- to della vita civile e culturale, ma con risultati non sempre felici. Certo l’intrinseca disciplina del corpo propria delle attività sportive lasciava immaginare una naturale predisposizione a farsi oggetto di conquista culturale da parte del fascismo. Ma attenzione a non confondere le attività ginniche o di destrezza con l’agonismo sportivo di derivazione britannica. Esemplare è proprio il caso del calcio, ampiamente sfruttato dal regime e, tuttavia, estraneo, per sua na- tura, all’integralismo ideologico fascista. È tempo di riassumere le linee generali del lavoro di Di Candido. Sono individuate cinque ragioni che spinsero il regime a interessarsi di calcio. Esso rientrava nei progetti ideologici per la formazione dell’uomo nuovo. Lo spettacolo del rettangolo verde e l’attività sportiva in generale costituivano anche una delle strade del con- trollo sociale e dei processi di nazionalizzazione. Ma il calcio finì per essere soprattutto una vetrina dell’efficienza dello Stato e un modo per esaltare il prestigio nazionale. La storia del calcio tra le due guerre ci narra di grandi imprese, dovute all’emergere di alcuni fuoriclasse e alla razionalizzazione del sistema sportivo. Infatti, se da una parte la retorica del salutismo e della vigoria del corpo esaltava la pratica di massa, nello stesso tempo le grandi federazioni, come quella del calcio, proponevano una rigida selezione meritocratica per l’accesso alle atti- vità agonistiche superiori. L’importante era, come in ogni angolo del mondo sportivo inter- nazionale, vincere. L’Italia ci riuscì per la soddisfazione degli appassionati e per la gioia del re- gime, che vi colse un’occasione per la propaganda. Esemplare la vicenda dei campionati del mondo disputati in Italia nel 1934. Mussolini ebbe qualche titubanza nell’assegnare i finan- ziamenti richiesti per la loro organizzazione. Se ne convinse solo pensando, al di là dell’esito sportivo, al ritorno di immagine in campo internazionale. Naturalmente la vittoria fu carica- ta di significati politici e nazionalistici. Da quel momento il calcio, uno sport negli anni ’20 già popolare, ma estraneo agli interessi ideologici del fascismo, accrebbe enormemente la sua rilevanza politica. Le pagine dedicate da Di Candido ai trionfi della seconda metà degli anni ’30 ripercorrono questa accresciuta e strumentale importanza. Ciò nonostante il mondo del pallone, come dello sport in generale, tese a conservare, e non certamente per spirito di resi- stenza politica, la sua autonomia culturale. Basti pensare al rispetto che tutti gli uomini del calcio conservarono sempre per i maestri d’oltre Manica. Guido Panico

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Giovanni Di Capua, Il biennio compromissorio (maggio 1945/aprile 1947). L’Italia del «Don Basilio», Prefazione di Giancarlo Galli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 498 pp., Û 25,00

È il secondo volume di una trilogia dedicata alla ricostruzione degli anni fondativi del no- stro attuale sistema politico-costituzionale. È la storia di un paese reduce dalla fine rovinosa di una guerra e della dittatura che su di essa aveva scommesso il proprio futuro. Il popolo ita- liano ne pagò l’azzardo. Di Capua esamina il periodo immediatamente successivo alla Libe- razione, la ricucitura di una società spaccata letteralmente in due dal fronte di guerra, la fati- cosa ripresa di un sistema politico che vide protagonista assoluto un soggetto fino ad allora marginale nella nostra storia costituzionale, ovvero più soggetti tra loro parzialmente omolo- ghi per struttura ma spesso alternativi per ideologia e obiettivi: quei partiti politici di cui il fa- scismo aveva sperimentato la versione monistica e totalitaria. Il volume merita di essere consultato da chiunque intenda ripensare a quel fondamenta- le biennio in cui furono poste le basi della Repubblica. È proprio nell’ottica del ripensamen- to che l’autore utilizza una cospicua messe di documenti, in particolare articoli di quotidiani e verbali ministeriali, ricordando una verità metodologica che la storiografia rischia di oblia- re quando si accanisce nella ricerca del documento d’archivio inedito quasi fosse garanzia as- soluta di innovazione nella ricostruzione di una vicenda, e la novità fosse sinonimo di verità storica. Una valida e ampia documentazione è premessa necessaria per una buona storiogra- fia, ma il suo carattere inedito non garantisce alcunché. Quel che innova è sempre l’occhio dello storico e la scelta dei luoghi e dei personaggi su cui concentrare l’attenzione. Nell’incro- ciare i punti di vista dei vari organi di partito, nella lettura meticolosa della memorialistica di protagonisti dell’epoca, l’autore restituisce bene il clima del biennio 1945-47. Trovano così conferma alcuni dati. Anzitutto, la fragilità dell’unità resistenziale già messa a dura prova pri- ma del 25 aprile; quindi la diversa natura tra il PCI del Sud e quello cresciuto oltre la Linea Gotica e il conseguente tatticismo della politica togliattiana tra piazza e palazzo. Evidente poi la sostanziale refrattarietà di ampi strati della società italiana post-bellica all’avventurismo in- sito nei proclami rivoluzionari lanciati dalle sinistre. Le numerose stragi post-25 aprile incise- ro in tal senso. Inoltre l’anticlericalismo rappresentato da riviste satiriche come «Don Basilio» seminò di più tra gli ancor ristretti ceti borghesi colti che tra le masse rurali semianalfabete. Una propaganda, la sua, che raccoglierà frutti qualche decennio dopo in una società ormai se- colarizzata. Da segnalare infine la rilettura della vicenda costituente, processo a più fasi tutt’al- tro che riducibile al grande compromesso «catto-comunista», e piuttosto figlia di estempora- nee convergenze maturate di volta in volta tra diversi partiti su singoli articoli della Costitu- zione. Di qui il carattere contingente di alcune sue parti e la complessiva natura di documen- to programmatico e di indirizzo, da attuare nel futuro anche attraverso una sua riforma dive- nuta oggi urgente ma certo non risolutiva delle molte anomalie italiane. Danilo Breschi

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Eldo Di Gregorio, Le relazioni tra il Regno di Napoli e l’Impero di Russia tra il 1850 e il 1860 nelle carte dell’Archivio dei Borbone, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 187 pp., Û 19,00

Il contributo di Eldo Di Gregorio, docente di materie letterarie nella scuola media distac- cato all’IRRE Molise, prende in esame i rapporti diplomatici tra il Regno delle Due Sicilie e l’Impero zarista nell’ultimo decennio preunitario. Il volume si apre con un breve capitolo introduttivo nel quale l’autore traccia le linee gui- da della politica interna ed estera degli zar Nicola I e Alessandro II in Russia, e di Ferdinan- do II a Napoli all’indomani del ’48 e descrive, servendosi quasi esclusivamente di una lettera- tura secondaria ben nota, ma ormai datata (Croce, Guardione, Renouvin), l’atmosfera politi- ca carica di tensione e agitazione nella quale si colloca il fitto carteggio oggetto dello studio. Solo a partire dal capitolo successivo, il discorso entra in medias res proponendo una lettu- ra delle relazioni diplomatiche russo-napoletane che individua nel comune carattere assolutisti- co e nella ritrosia a qualsivoglia apertura in senso liberale dei due regimi l’elemento d’intesa ca- pace di fare dell’uno il modello politico di riferimento per l’altro e di orientare in senso filo-rus- so la neutralità borbonica in occasione della guerra di Crimea. Una fedeltà all’amico russo, dun- que, «non dettata solo da un sentimento di riconoscenza per gli aiuti ricevuti, ma anche perché […] per Napoli la Russia rappresentava un punto fermo, la garanzia non solo di stabilità, ma an- che di sopravvivenza» (p. 99), sebbene l’avvicinamento dell’Impero zarista al Piemonte a parti- re dai tardi anni Cinquanta suggerisca già prima dell’epopea garibaldina la fine dell’idillio tra i Borbone e i Romanov. Di Gregorio insiste infatti sull’incapacità dei Borbone di leggere il nuo- vo quadro politico internazionale dettato dal mutare delle alleanze in Europa dopo il conflitto in Crimea, sull’«irresolutezza» (p. 97) di Francesco II rispetto allo sbarco dei garibaldini in Sici- lia, e soprattutto sulla coerente lealtà della politica estera borbonica nei confronti di quello che, nei fatti, non è più l’alleato fedele di un tempo, bensì una potenza in declino «tutta dedita alla ricerca di qualcosa che le permetta di restare com’è e di aumentare la sua potenza» (p. 100). Purtroppo, la scelta di ricostruire i legami diplomatici del Regno con San Pietroburgo esclu- sivamente attraverso i dispacci della Legazione napoletana in Russia conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli (trascritti, in parte, in un’appendice documentaria che costituisce più della metà del volume) priva il discorso del punto di vista dell’interlocutore e non consente di capire quanta parte di questa miopia sia da imputarsi proprio al governo borbonico, e quanta non sia invece da attribuirsi all’ambiguo atteggiamento degli zar. Ne deriva un quadro parziale, in cui la complessità delle relazioni tra il Regno borbonico e l’Impero russo risulta appiattita, non solo dalla tipologia di fonti utilizzate, ma anche dall’unilateralità della prospettiva. Un quadro, dun- que, capace in fondo, per stessa ammissione dell’autore, soltanto di smentire la vecchia tesi di Giuseppe Berti secondo cui il governo napoletano avrebbe mantenuto costantemente un atteg- giamento servile nei confronti di quello di San Pietroburgo (p. 99). Marco Rovinello

181 I LIBRI DEL 2006

Pinella Di Gregorio, Oro nero d’Oriente, Roma, Donzelli, 267 pp., Û 26,00

Molto studiata all’estero, dove è già da tempo divenuta «scienza» con propria specifica metodologia, la oil history ha trovato limitato spazio in Italia. A parte il pionieristico volume L’avventura del petrolio, scritto più di quarant’anni fa da Gabriele De Rosa, nel nostro paese si è fatto ben poco. Certo, nel corso degli anni, sono apparsi numerosi lavori, (alcuni dei quali di buona fattura basati su esplorazioni archivistiche), ma si è trattato di lavori in larga parte incentrati sulla storia di Mattei o sulla «diplomazia parallela» dell’AGIP e delle sue ripercus- sioni sulla politica estera italiana, sempre alla ricerca di rapporti diretti con i paesi produttori di petrolio nel tentativo di risolvere, in maniera autonoma, il complesso problema degli ap- provvigionamenti energetici nazionali. In buona sostanza è mancata finora un’adeguata rifles- sione storica a livello scientifico, uno studio di largo respiro utile a comprendere meglio il ruo- lo complessivo giocato dal petrolio nella costruzione dei delicati equilibri internazionali del Novecento. Ora, finalmente, questa lacuna comincia ad essere colmata grazie all’interessante e ben documentato lavoro di Pinella Di Gregorio che con sicurezza analizza gli scenari geo- politici dell’area mediorientale fra le due guerre mondiali, nonché i mutamenti di quegli sce- nari in larga parte provocati dalla accesa conflittualità fra trusts inglesi e americani che, soste- nuti dai rispettivi governi, si contendevano il controllo esclusivo delle riserve di petrolio. L’o- ro nero, appunto. E designare il petrolio con questo nome, come scriveva nella Histoire du pé- trole René Sédillot: «è evocare con una formula figurata una ricchezza e un colore; è anche, in- sieme, magnificare il petrolio nei riguardi dell’oro-metallo e drammatizzare il suo destino, ren- dendolo deliberatamente oscuro; è sommare lo splendore e il lutto, il giorno e la notte». Dal suo canto Pinella Di Gregorio nella prima parte di questo libro, imperniato su una robusta ri- cerca, ricostruisce le origini delle più grandi società petrolifere che, col passare degli anni (in parte trascorsi a farsi una feroce concorrenza), si sarebbero finalmente accordate sulla base di vantaggiose spartizioni, diventando le «Sette sorelle» del cartello in grado di dominare, sia pu- re in un quadro di coesistenza competitiva, il commercio del petrolio regolato da leggi che es- se stesse fissavano con autorità sovrana. Quindi l’autrice sposta la sua attenzione sui governi delle grandi potenze, per analizzarne le strategie messe in campo nel periodo studiato per im- padronirsi o comunque assumere il controllo degli spettacolari giacimenti mediorientali, al- l’epoca in larga parte ancora incontaminati. Infine si sofferma sui due più importanti paesi dell’area, l’Iraq e l’Arabia Saudita, ancora oggi al centro degli interessi non sempre confessa- bili della comunità internazionale. Ora, come allora quando, come ci documenta questo li- bro innovativo per la nostra storiografia, si ponevano le basi dei nuovi equilibri geoeconomi- ci destinati ad incidere sulla storia dei popoli e dei paesi. Matteo Pizzigallo

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Irene Di Jorio, Tecniche di propaganda politica. Vichy e la Légion Française des Combattants (1940-1944), Roma, Carocci, 182 pp., Û 16,30

Il volume intende analizzare un aspetto puntuale della propaganda messa in atto dal go- verno formatosi in Francia all’indomani della débâcle del 1940 e diretto per quattro anni dal vecchio maresciallo Pétain. Al centro dell’indagine si trova il dispiegamento delle tecniche di propaganda utilizzate dalla Légion Française des Combattants, un movimento istituito nell’a- gosto del 1940, in cui sono chiamati a riunirsi gli ex combattenti d’Oltralpe, al fine di colla- borare con il nuovo Etat français. Il lavoro si inserisce all’interno di un filone di studi avviato già da tempo, volto a rico- struire sia gli aspetti istituzionali del sistema propagandistico (in particolare con l’ampio stu- dio sul Ministère de l’Information di Philippe Amaury), sia il controllo dei singoli mezzi di comunicazione (cinema, teatro, radio e stampa), mentre il lavoro di Pierre Laborie sull’opi- nione dei francesi durante il regime di Vichy – che utilizza una periodizzazione che parte dal- la metà degli anni Trenta – rimane ancora oggi insuperato e costituisce un modello per gli stu- di sull’opinione pubblica non solo francese. Merito della ricerca di Di Jorio è quello di foca- lizzare l’attenzione su un tema meno indagato, ossia quello delle «tecniche argomentative e persuasive che avevano sorretto l’Etat français nel difficile lancio della propria immagine» (p. 13), a partire dal case study della Légion, oggetto dello studio di Jean-Paul Cointet. Sulla base di opuscoli, di bollettini e di una varia documentazione rivolta ai quadri e agli attivisti dell’organizzazione (dei quali in appendice al volume si pubblicano tre esempi), l’au- trice si propone di mostrare l’esigenza di elaborare «nuovi metodi, più discreti e meno intru- sivi, rispetto a una propaganda che si presenti, solo ed unicamente, come ufficiale e massiva» (p. 8), come risulta dall’attenzione che si presta in questi opuscoli non solo ai temi e ai moti- vi della propaganda, quanto alle tecniche da utilizzare, attraverso numerosi consigli pratici de- stinati ad un’applicazione immediata; fra questi si rivolge l’invito al militante di diffondere una propaganda detta de bouche à oreille, stabilendo personalmente contatti nella cerchia del- le proprie conoscenze. Parte di un lavoro più ampio condotto dall’autrice sulle tecniche di propaganda politica durante il regime di Vichy, l’esame di questo case study offre interessanti spunti di riflessione, sui quali non è possibile diffondersi in questa sede. Converrebbe, ad esempio, provare a rin- tracciare le linee di continuità fra la comunicazione politica di Vichy e quella degli anni Tren- ta, al centro di una profonda trasformazione anche riguardo alle tecniche e alle strategie di- scorsive, come mostra la disamina dell’ampia produzione di opuscoli e manuali prodotti se- gnatamente per le elezioni politiche, nonché la permanenza di uomini, è il caso di George Riond, attivista nel decennio precedente nel Centre de propagande des Républicains Natio- naux di Henri de Kerillis, che ritroviamo come leader di primo piano nella Légion. Valeria Galimi

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Andrea Dilemmi, Il naso rotto di Paolo Veronese. Anarchismo e conflittualità sociale a Vero- na (1867-1928), Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 288 pp., Û 20,00 Attraverso l’analisi delle biografie dei circa 200 anarchici nati o residenti a Verona sche- dati nel Casellario politico centrale – circa il 10 per cento di tutti i veronesi, di ogni colore politico nel periodo esaminato –, come del reticolo di contatti e scambi tra queste persone, nate tra il 1881 e il 1920, l’autore ricostruisce la parabola dell’anarchismo veronese tra ’800 e ’900. Una traiettoria iniziata nel 1891, quando forse per la prima volta nei documenti di po- lizia fu lasciata una traccia significativa dell’esistenza di un gruppo anarchico attivo nella città («I Figli dell’Avvenire», coinvolti nell’inchiesta sul danneggiamento del monumento al pitto- re Paolo Caliari, detto il Veronese) – ma il cui retroterra radica nella fondazione della Società generale di mutuo soccorso tra gli operai (1867) –, che si sarebbe conclusa a metà degli anni Venti, con l’imposizione dello scioglimento all’Unione sindacale italiana (USI), i processi ce- lebrati nel 1928 dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato contro alcuni dei più impor- tanti anarchici veronesi e l’esecuzione delle condanne. Al centro del lavoro, e all’apice della parabola, c’è il primo dopoguerra. Nella primavera del 1919, gli anarcosindacalisti aderenti all’USI controllavano la Camera del lavoro di Vero- na, rappresentavano la più importante sezione veneta dell’Unione e una delle maggiori a li- vello nazionale. Il dato non stupisce, se pensiamo alle caratteristiche di quella fase, al grado di mobilitazione e protagonismo popolare che segnò l’Italia del 1919 e, con forme e geografie diverse, del 1920. Stride piuttosto con l’immagine di una provincia di Verona generalmente «situata ai margini della cartografia della sovversione», con «una nota prevalente di staticità e pacificazione». Le storie di questi uomini non fanno però pensare a un anarchismo provincia- le e isolato, ma a una realtà strettamente intrecciata con riflessioni, dibattiti e iniziative spes- so di ampio respiro e di ambizione internazionale, oltre che internazionalista, con una capa- cità di iniziativa politica più significativa di quanto spesso non si sia ritenuto. Che si tratti di una storia da cui emergono essenzialmente figure maschili è dimostrato dalla presenza di appena tre donne (per di più tutte parenti, o consorti, di anarchici) sul tota- le degli schedati qui presi in esame, come ricorda l’autore (p. 247); un dato che viene confer- mato osservando l’indice dei nomi, dove solo 19 su 396 sono nomi di donne: uno ogni ven- ti. Eppure sappiamo del ruolo protagonista svolto da donne anche di diversa collocazione so- ciale nelle mobilitazioni e nei tumulti tra guerra e dopoguerra. Anche per questo, forse, sareb- be stato utile mettere ancor più in relazione le vicende locali e quelle specifiche dei militanti anarchici con gli ampi movimenti che a più riprese – e in particolare nel primo dopoguerra – segnarono la società e la politica, in modo da dare maggior rilievo all’attento lavoro di ricer- ca condotto da un autore che mostra di saper padroneggiare fonti edite e inedite. Il volume è arricchito da un’appendice con dati sulla presenza e la diffusione di organizzazioni sindacali, statistiche degli scioperi e 46 schede biografiche. Roberto Bianchi

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Ennio Di Nolfo, Prima lezione di storia delle relazioni internazionali, Roma-Bari, Later- za, VII-150 pp., Û 10,00

La collana laterziana delle «Prime lezioni» si arricchisce con questo lavoro di uno dei de- cani e dei punti di riferimento indiscussi della storia delle relazioni internazionali in Italia. Di Nolfo dedica il libro ad una indagine sui fondamenti metodologici della disciplina, iniziando con l’auspicio di un rapporto più integrato e fecondo tra storia e teoria delle relazioni inter- nazionali e con un excursus sui problemi della spiegazione storica. Prosegue poi utilizzando un metodo storicistico, cioè tratteggiando l’evoluzione nel tempo della disciplina e presentan- do in questa trama i principali nodi teorici dell’approccio storico ai problemi internazionali. Descrive così la nascita di una «storia diplomatica» strettamente connessa con il definirsi di una «sfera internazionale» e con l’evoluzione tecnica della diplomazia moderna a partire dal XV secolo: la sua produzione di un particolare tipo di documentazione divenne fonte privi- legiata per una serie di ricostruzioni storiche. I frutti maturi di questo periodo sono difesi da ogni detrattore, distinguendoli da un approccio ripetitivo, acritico e futile che ancora oggi è possibile («chi sceglie un tema, inconsistente nei fatti ma lungamente discusso nelle carte», a loro volta «ammonticchiate e, talora, messe in ordine cronologico», p. 45). Viene poi descrit- to l’allargamento del campo nel passaggio alla «storia delle relazioni internazionali», a partire dalla nota sollecitazione di Pierre Renouvin a guardare alle «forze profonde» che condiziona- no anche l’azione di statisti e diplomatici: Di Nolfo in realtà critica una certa schematicità pos- sibile nell’approccio del grande storico francese, ma ne segue la sostanza, tracciando un am- pio orizzonte dei problemi che hanno portato ad allargare il quadro degli interessi storico-in- ternazionali, in parallelo a una evoluzione della percezione del «sistema internazionale» stes- so da parte dei suoi attori. Ecco allora emergere le questioni della rivoluzione industriale, del- l’internazionalismo e in seguito del crescente ruolo del capitale finanziario, della demografia, della geopolitica, del mutamento di percezione del tempo, dell’opinione pubblica, della de- terrenza. Pur considerando tutti questi aspetti, comunque, il problema dell’autore è rivendi- care una specificità, che riesca a non farsi scappare di mano il bandolo della matassa, che è la relazione «tra soggetti che non si trovano all’interno del proprio confine» (p. 124). Di qui an- che la polemica contro la dizione «storia internazionale», che sta prendendo piede soprattut- to nel mondo di lingua inglese. L’ultima parte del volumetto tratta della sfida della contem- poranea «globalizzazione» a questo approccio storiografico, per sostenere che in fondo, nono- stante le novità indubbie del quadro, i problemi restano i soliti: la discussione su forme e li- miti dell’egemonia americana, ad esempio. Forse in questo passaggio una problematizzazione del ruolo dello Stato come soggetto centrale del sistema internazionale non sarebbe stata però inutile. La chiusura è affidata all’acuto paradosso di Lewis B. Namier: compito dello storico resta sempre «immaginare il passato e ricordare il futuro». Guido Formigoni

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Gigliola Dinucci (a cura di), La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un ca- so, Pisa, ETS, 625 pp., Û 35,00

Negli studi sulla formazione del lavoro salariato e sulla storia del movimento sindacale pre- vale oggi un approccio teso a evidenziare la complessità della struttura territoriale del paese e la disomogeneità tra le diverse aree. Conseguentemente, la recente storiografia sul sindacato si è ve- nuta caratterizzando per l’attenzione verso le articolazioni locali delle organizzazioni dei lavora- tori, come testimonia il significativo numero di ricerche dedicate alle Camere del lavoro, solo in parte riconducibili a intenti e finalità celebrative. Il ponderoso volume sul caso pisano, curato da Gigliola Dinucci, si inscrive al meglio in questa tendenza. Otto lunghi saggi lo compongo- no, tutti basati su originali ricerche d’archivio e dedicati ad altrettanti temi o momenti: della cu- ratrice sulle specificità del caso pisano, di Umberto Sereni sul periodo a cavallo tra Otto e No- vecento, di Cristiana Torti sull’immediato secondo dopoguerra, di Alessandra Martinelli sul con- flitto sociale nelle campagne dopo la Liberazione, di Elena Casarosa su donne e sindacato negli anni della ricostruzione, di Fulvio Conti sulle attività non rivendicative dalla ricostruzione al- l’autunno caldo, di Giovanni Contini sulla sconfitta sindacale degli anni Cinquanta e di Catia Sonetti su lavoro e società nella provincia di Pisa negli anni Sessanta e Settanta. Le analisi pongono l’accento sui tratti distintivi e sulle specificità territoriali e dunque sul- l’irriducibilità della vicenda pisana a schemi interpretativi generali. Peculiari furono infatti le dinamiche dell’industrializzazione e l’iniziale sviluppo delle strutture associative, caratterizza- te dalla rilevanza delle società di artigiani e della cooperazione di produzione e consumo, dal forte radicamento repubblicano e anarchico (la componente anarco-sindacalista fu, dal 1902, egemone nella Camera del lavoro pisana) e dalla scarsa presenza socialista nel mondo del la- voro urbano. Tratti di forte specificità conservò il sindacalismo pisano anche nel secondo do- poguerra, soprattutto in relazione al forte legame tra città e campagna e al peso dei lavorato- ri della terra, al radicale ricambio della dirigenza politico-sindacale, che portò a una profon- da discontinuità con la fisionomia del movimento operaio del periodo precedente il fascismo, e allo stretto legame tra PCI e sindacato, di cui un sintomo è costituito dal debole scarto tra gli iscritti al Partito e i lavoratori sindacalizzati. Nell’insieme, il volume propone un quadro assai articolato, in virtù anche dei diversi ta- gli metodologici e tematici proposti dai saggi: sui temi più tradizionali della storia sindacale si innestano approcci e questioni diverse, come la storia di genere, il ruolo della memoria e l’attenzione verso i comportamenti dal basso o verso soggetti sociali meno studiati, in primo luogo i mezzadri. Non manca comunque una ispirazione comune, ravvisabile soprattutto nel- l’obiettivo di ricomporre in un quadro d’insieme, ma non monolitico, la realtà della classe la- voratrice (agricola e industriale), a partire dalla funzione unificante svolta dalle strutture sin- dacali. Alessio Gagliardi

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Eugenio Di Rienzo, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repub- blica, Firenze, Le Lettere, 264 pp., Û 19,50

Nel volume di Eugenio Di Rienzo sfila una parte importante della storia della storiogra- fia e della cultura italiane. Facendo perno sulla figura di Gioacchino Volpe, l’autore ripercor- re i progetti, le idee, gli spunti e le tensioni di almeno tre generazioni di storici italiani alle prese con il tema della nazione italiana. All’interno di un quadro di riferimento che parte dal- la Grande guerra e arriva al secondo dopoguerra (con qualche incursione nel dibattito attua- le), Di Rienzo dedica ampio spazio al progetto di una storia italiana in collaborazione, cioè una collana a più voci, che l’editore Zanichelli commissionò allo storico di Paganica nel 1921. Ispirato alle ricerche svolte presso l’Ufficio storiografico della mobilitazione negli anni della guerra, il programma di lettura «totale» della nostra storia fu compromesso nel corso degli an- ni successivi dalla sempre più accesa battaglia politica. Da questo punto di vista la rottura tra Volpe e Guido de Ruggero nel 1925 è davvero esemplificativa della saldatura drammatica e inevitabile tra storia e politica, tra l’impegno dello scienziato e la passione civile. Dopo Mat- teotti e i manifesti di Croce e Gentile una buona parte della comunità degli storici si trovò a decidere, a scegliere. Da quel momento in poi ostinati furono i tentativi di Volpe di tenere in vita il suo progetto di storia nazionale, chiamando a raccolta intellettuali allineati e non al re- gime. Fin qui la «cronaca» – certamente brutale nella sua estrema sintesi – del saggio di Di Rien- zo che almeno su due punti non convince. Salutato dalla stampa come lavoro storiografico elaborato su inediti (Dino Messina sul «Corriere della Sera» del 31 ottobre 2006), il saggio si avvale in realtà di documenti e ricostruzioni già noti ma qui appena sfiorati dalle note biblio- grafiche. Nulla di grave: il risicato spazio concesso dagli editori costringe spesso gli autori a ci- tare – quasi distrattamente – autori e opere che spesso andrebbero richiamati – per un estre- mo scrupolo filologico – quasi a ogni nota. Il punto semmai più importante e critico del la- voro è un altro. Aleggia infatti anche in questa ultima fatica di Di Rienzo la costante tenta- zione di «giudicare» ora questo ora quello. La critica si abbatte impietosamente sugli intellet- tuali che avrebbero «tradito» precedenti amicizie, posizioni, percorsi, addirittura ideali. Signi- ficativo è il giudizio sul Croce, prima allevatore di umori anti-giolittiani e poi fermo sosteni- tore dell’uomo di Dronero. Anche di fronte a storici notoriamente anti-fascisti, come Salve- mini e Salvatorelli, l’autore trova il modo di mostrarne ombrose ambiguità. Al di là delle evi- denti forzature nella lettura di una vicenda complessa e delle legittime interpretazioni, rima- ne sempre il quesito di fondo: perché giudicare e non accogliere empaticamente l’accidenta- to e drammatico dibattito sulla nazione italiana? Barbara Bracco

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Patrizia Dogliani (a cura di), Romagna tra fascismo e antifascismo 1919-1945. Il Forlivese- Cesenate e il Riminese, Bologna, Clueb, 242 pp., Û 20,00

Il volume collettaneo curato da Patrizia Dogliani analizza le vicende delle province di Forlì-Cesena e di Rimini, in linea con un orientamento storiografico affermatosi già da alcu- ni anni, che individua in questa dimensione l’ambito privilegiato per cogliere la strutturazio- ne del regime fascista a livello locale. Diviso in due parti, il libro si apre con un saggio di Matteo Pasetti, che sfata la rappre- sentazione fatta dal regime della Romagna come culla del fascismo. Schiacciato dalla contrap- posizione tra socialisti e repubblicani, acuitasi con la diverse scelta del 1915, il fascismo a Forlì e a Cesena resta a lungo debole, riuscendo ad affermarsi soltanto grazie alle squadre emiliane di Balbo e Arpinati. Stabilizzatosi il regime, Forlì è proiettata sullo scenario nazionale come luogo-culto della figura del duce. Ciò garantisce alla città e alla sua provincia – come dimo- stra il saggio di Mario Proli – un’attenzione del tutto particolare da parte del centro. La mo- numentalizzazione di Forlì e di altri centri-chiave della biografia mussoliniana, (Predappio su tutti), accompagna un’opera di «invenzione della tradizione» tesa a collegare Mussolini con le grandi personalità del passato legate alla Romagna, da Giulio Cesare a Pascoli. Tale situazio- ne di privilegio svanisce nel corso del secondo conflitto mondiale, come documentato da Ele- na Cortesi che sottolinea il progressivo disincanto verso il regime della popolazione civile, sconvolta dai bombardamenti che si abbattono sulla provincia già nel 1942, preludio delle violenze più ampie che si verificano lungo la Linea Gotica. La seconda parte del volume è dedicata a Rimini e alla sua provincia, con un contributo di Maurizio Casadei e un altro di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni. Nel lungo saggio di Mau- rizio Casadei, dedicato alla parabola del fascismo, sono confermate la debolezza del fascio ri- minese nonché il ruolo decisivo giocato dalle autorità centrali per conquistare al regime la città. Il risanamento, nel 1924, del bilancio dell’amministrazione comunale al pari, nel 1931-32, del progetto di sviluppo turistico per la città sono dovuti all’interessamento diretto di Mussolini, mentre la debolezza della dirigenza fascista, lacerata dai propri contrasti interni, sembra garan- tire, anche qui come a Forlì e a Cesena, il predomino delle vecchie élite economiche e politi- che. Ciò non significa che le sollecitazioni del regime non pervadano la società locale. Lo stu- dio di Maggioli e Mazzoni sugli ebrei riminesi tra il 1938 e il 1944 dimostra la pronta ricezio- ne delle strutture periferiche delle direttive razziste emanate della dittatura, svelandoci il lato oscuro della realtà provinciale, anche se non mancano episodi di salvataggio degli ebrei dai ra- strellamenti tedeschi e fascisti nel periodo della RSI. Una breve appendice di Carlo De Maria chiude il volume, illustrando i fondi archivistici presenti sul territorio e i principali testi di ri- ferimento per il periodo in questione e i temi analizzati. Tommaso Baris

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Angelo Dreosti, Aldo Durì, La Grande Guerra in Carnia. Nei diari parrocchiali e nei pro- cessi del Tribunale militare, Udine, Gaspari, 180 pp., Û 12,00

Sentenze dei tribunali militari e diari storici parrocchiali sono le fonti utilizzate per esplo- rare l’esperienza di soldati e civili sul fronte montano della Carnia durante il primo conflitto mondiale. Nella prima parte del volume vengono opportunamente ripubblicati due articoli di Aldo Durì, editi nel 1986, per le riviste «Qualestoria» e «Almanacco Culturale della Car- nia» incentrati sulla «caccia alle spie» attuata dalle autorità militari italiane all’inizio del con- flitto e sull’attività del Tribunale militare di Tolmezzo. I due saggi, anche alla luce della recen- ti ricerche di Bianchi, Ellero, Milocco e Malni, mantengono la loro validità: l’analisi delle sen- tenze illustra la preconcetta ostilità dei comandi nei confronti delle popolazione carnica, la psicosi delle spie, la scarsa conoscenza delle caratteristiche socio-economiche della zona di confine: plurilinguismo ed emigrazione divennero per molti civili accuse di «collusione con il nemico». L’azione repressiva militare, specularmente, si rivolse anche contro i soldati: attra- verso lo spoglio di 560 sentenze emesse nel 1916 viene dimostrato come, nonostante la rela- tiva «tranquillità» del fronte carnico, i comandi dovettero reprimere duramente diserzioni (ben 31 per cento dei casi), insubordinazioni, autolesionismo e discorsi «disfattisti»; emergo- no dunque la mancanza di consenso e le divisioni tra ufficiali e reparti; l’episodio della «deci- mazione di Cercivento» viene inquadrato nella grave crisi che si verificò nell’estate del 1916, quando le violente azioni sul Pal Piccolo esasperarono i combattenti e la protesta si manifestò in forma collettiva. Il saggio inedito di Angelo Dreosti, seguendo le indicazioni di Viola e di Fabi, analizza invece i diari parrocchiali di alcuni paesi della Carnia. La narrazione procede in ordine cro- nologico e tematico: l’autore mette in luce la mobilitazione dei civili nei lavori logistici e la «decadenza morale» derivante dalla presenza militare. Fu l’occupazione austro-tedesca a de- cretare il ruolo cruciale dei parroci come mediatori tra occupanti e civili; spettatori e nel con- tempo protagonisti, i parroci descrivono la violenza e la durezza dell’occupazione, il clima di paura e di incertezza, le malattie e la morte; protagonista dei diari, segnala Dreosti, fu la «fa- me»: sin dal febbraio del 1918, infatti, la zona montana subì un blocco economico ed alimen- tare, tanto che la mortalità aumentò vertiginosamente e ricomparve la pellagra. In questo con- testo drammatico, tra speranze e delusioni, i parroci si ersero a difensori delle comunità alpi- ne, si attivarono per ricercare risorse alimentari o guidarono, come avvenne nel pese di Illeg- gio, la popolazione oltre le linee del Piave. Il lavoro di esplorazione, utile ma eccessivamente descrittivo, privo di annotazioni conclusive e di comparazioni con altri casi studiati, si confi- gura come un buon punto di partenza per ulteriori indagini sull’occupazione austro-tedesca, in particolare il ruolo delle amministrazioni provvisorie, la condizione femminile, lo spirito pubblico e i rapporti tra civili ed occupanti. Matteo Ermacora

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Barbara Duden, I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, To- rino, Bollati Boringhieri, pp. 242, Û 28,00 (ed. or. Hannover, 2002)

Storica femminista, studiosa di storia della medicina tedesca del ’700, Barbara Duden ha raccolto in questo libro 18 brevi articoli e interventi degli ultimi 15 anni. In essi si trovano ri- presi e accresciuti argomenti già presentati in Il corpo della donna come spazio pubblico (pub- blicato da Bollati Boringhieri nel 1994). In entrambi i testi Duden rivolge la propria critica al processo con cui, nel volgere di pochi decenni, la genetica, le nuove tecniche riproduttive e gli sviluppi della professione medica hanno espropriato le donne della esperienza del proprio corpo. L’autrice descrive i modi con cui l’invasione di tecniche diagnostiche preventive, i test di gravidanza, le ecografie, e l’onnipresenza di schermi dove l’interno del corpo è visualizzato perché il medico possa esercitare la sua autorità onnisciente, hanno di fatto ridotto le donne a strumento passivo della scienza, negando l’autopercezione delle proprie sensazioni ed espe- rienze, e riducendole a mero strumento di verifica e quantificazione astratta. Mentre nei se- coli precedenti le donne erano protagoniste attente a quanto avveniva nei propri corpi, e in quanto tali si ponevano come interlocutrici dei medici, ora sono ridotte a oggetti passivi in perenne attesa di un referto esterno. Il confronto costante tra la situazione esistente nella Germania del ’700 e quella odierna di fine ’900 è il nodo centrale dell’argomentazione di Duden: se per il medico d’ancien régi- me contavano i fatti di «sangue» e di «natura», per il medico odierno fondamentali sono so- prattutto le statistiche («è raro che ascolti la narrazione di una sofferenza», p. 114). Diviso in tre parti, percorso da una scrittura intensa e partecipe, accanto a contributi re- lativi a mostre, sentenze giuridiche, neologismi, nel libro si individuano con estrema coeren- za diversi contesti ed esempi che illustrano l’inarrestabile processo di de-umanizzazione e per- dita della percezione sensibile da parte delle donne: dalla crescente visualizzazione dell’inter- no del corpo, alla valorizzazione del ruolo fondamentale svolto nei secoli da levatrici e oste- triche; dall’opera di cancerizzazione e l’oncofobia, alla polemica aspra contro Judith Butler, fi- no a un acme costituito dal capitolo sull’introduzione della pillola. Quest’ultima è considera- ta un evento spartiacque, vero e proprio emblema del mutamento epocale attraverso il quale la donna «interiorizza un comando chimico» (p. 141) e si afferma il trionfo della decorporeiz- zazione. Ricco di intuizioni acute, attraversato da echi luddisti e da un tono generale che sembra riecheggiare gli appelli appassionati delle predicatrici di altri secoli, il libro è provocatorio e assai stimolante, anche se le sue tesi non sempre sono condivisibili, e talvolta alcuni saggi ri- sultano un po’ datati (le statistiche di riferimento sul cancro risalgono ai primi anni ’90). Da lamentare che l’editore italiano non abbia voluto includere un indice dei nomi. Paola Di Cori

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Elena Dundovich, Francesca Gori, Italiani nei lager di Stalin, Roma-Bari, Laterza, XVII- 211 pp., Û 16,00 Le autrici ricostruiscono le storie di vita e le vicende di morte di alcune decine di italiani che subirono nel corpo e nell’anima la repressione nella terra del socialismo e del comunismo, all’interno di un universo di 1.020 italiani fucilati, internati in campi di concentramento, con- finati, deportati o privati dei diritti civili nell’URSS fra il 1919 e il 1951. La ricerca è basata sulla memorialistica e sulle informazioni provenienti da diversi archivi, fra i quali i più impor- tanti sono quello della Federazione russa (GARF) che contiene le carte processuali e una par- te dei fascicoli del KGB, e quello russo di storia sociale e politica (RGASPI) che contiene do- cumenti legati al movimento comunista internazionale. Il libro fa parte di un’ampia campa- gna di studio e di raccolta di documenti cui le autrici sono da anni impegnate. Nei destini di ragazzi figli di «nemici del popolo», nelle tragedie di lavoratori che non ca- pirono mai perché furono condannati a morte, nei dolori fisici e nelle ferite che colpirono la vita privata, i sentimenti e i legami familiari di comunisti e di anarchici in cerca di un’utopia, nei panorami desolanti dei campi di lavoro e di sterminio, nella prassi della tortura del KGB è contenuto il grande problema dei motivi dell’esercizio della violenza e del terrore e della eli- minazione fisica dell’avversario nell’URSS. È questo il filo rosso che lega tutta la narrazione ma alla fine la domanda rimane senza ri- sposta. Le autrici sottolineano più volte, e giustamente, il carattere assurdo, la dimensione bu- rocratica e poliziesca delle persecuzioni, il loro collegamento con le più vaste campagne di re- pressione politica ma il fatto che la loro narrazione sia prevalentemente orientata verso la sal- vaguardia di memorie individuali finisce col lasciare nello sfondo gli attori criminali e i loro complici. Delle responsabilità e dei silenzi del PCI e di Togliatti già molto si sa, anche grazie alla Dundovich: quello che pare necessario è riflettere sull’uso politico del terrore e studiare i caratteri distintivi della repressione comunista se è vero che solo lo studio delle forme specifi- che della violenza consente di articolare l’«equivalenza morale» dei crimini comunisti e di quelli nazisti e fascisti nel XX secolo. Ne ha parlato di recente in un saggio magistrale Paul Hollander (From the Gulag to the Killing Fields. Personal Accounts of Political Violence and Re- pression in Communist States, Wilmington, ISI Books, 2006) che, oltre a discutere in termini comparativi della repressione comunista e di quella nazista, sottolinea le differenze nell’atten- zione e la selettività della reazione morale verso le atrocità del XX secolo. Il rischio da non cor- rere è quello più volte denunciato da Tzvetan Todorov, di condividere l’«asimmetria» della rea- zione pubblica verso i crimini comunisti e i crimini nazisti e fascisti accettando un clima cul- turale nel quale l’antifascismo è un valore, mentre l’anticomunismo è sospetto. Anche per que- sto vorremmo sapere di più sui perpetratori, oltre che sulle vittime. Il libro ha un notevole im- pianto narrativo e, nonostante qualche eccesso di immaginazione combinatoria, fa piacere leg- gere pagine ben scritte segnate da una passione intellettuale intensa ma equilibrata. Franco Andreucci

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Attilio Esposto (a cura di), Democrazia e contadini in Italia nel secolo XX. Il ruolo dei con- tadini nella formazione dell’Italia contemporanea, Prefazione di Piero Bevilacqua, Roma, Ro- bin editore, 2 voll., 662 pp., Û 30,00

Si tratta di un ampio lavoro al quale hanno collaborato diciassette autori, con saggi di va- ria lunghezza. L’opera è divisa in tre parti. La prima è dedicata al lungo Ottocento con saggi di Franco della Peruta, Giovanni Contini, Giovanna Canciullo. La seconda è intitolata al se- colo breve, con saggi di Attilio Esposto, Angelo Compagnoni, Luciana Caminiti, Maria Con- cetta Dentoni, Oddino Bo, Emanuele Bernardi, Alfonso Pascale, Gennaro Onesti, Francesco Serra Caracciolo, Corrado Barberis. La terza si riferisce ai «contadini in idea» e mette insieme un saggio di Luigi Lombardi Satriani sul meridione degli anni Settanta e saggi di Fabio Fon- tana e Elio Testoni sul mondo contadino nel cinema. Chiudono due interviste, a Carlo Liz- zani e a Francesco Rosi, a cura di Elio Testoni e Marina Marcellini. È difficile ravvisare nell’insieme una realizzazione ben delineata e organica rispetto all’am- bizioso tema generale. Le ragioni di questo risultato sono illustrate con chiarezza e onestà dal- lo stesso prefatore Piero Bevilacqua: non è stato possibile concretizzare l’indice previsto, per- ché la stagione degli studi non è propizia a obiettivi che chiedono un robusto intreccio di eco- nomico, sociale e politico, e tanto più se dalla parte del rurale. È venuto così a mancare ciò che forse sembrerebbe più ovvio, come un saggio sulla geografia elettorale, oppure una rifles- sione sul rapporto tra la radicalità di tanta dirigenza della sinistra e mondo contadino, spesso considerato profondo e forse invece da discutere. Ma anche attraverso un carattere frammentario e diseguale, il fascino e l’importanza del tema si trasmettono. Non si tratta solo di ritrovare sempre l’eco toccante di una vita dura, di una fatica fisica per troppi senza compenso, di un’oppressione sociale schiacciante che riaffio- ra per qualunque verso e luogo si tocchi l’argomento della società rurale prima della grande trasformazione – ed è soprattutto la realtà meridionale quella evocata nell’insieme, in partico- lare nel primo volume. Ci sono anche suggerimenti interessanti su questioni quasi intonse, come il rapporto tra la riforma agraria e il Piano Marshall, o scarsamente ripensate, come le rigidezze e sordità della sinistra comunista di fronte alle tante innovazioni degli anni Sessan- ta. Certamente il lungo saggio di Attilio Esposto, dedicato soprattutto all’Alleanza nazionale dei contadini e alle sue successive trasformazioni, dà conto di un cambio di sguardo politico significativo al di là del settoriale, ma è una tessera di un vasto mosaico ancora da completa- re, il cui disegno potrebbe fornire qualche sorpresa. Giacomina Nenci

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Osvaldo Failla, Giampiero Fumi (a cura di), Gli agronomi in Lombardia: dalle Cattedre ambulanti ad oggi, Milano, FrancoAngeli, 431 pp., Û 38,00 Il volume, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno (S. Angelo Lodigiano 2003), si inserisce in un clima di rinnovato, ma ancora latente, interesse storiografico per la produzio- ne e la diffusione dei saperi agronomici e per il ruolo svolto da agronomi ed economisti agra- ri nei processi di modernizzazione dell’agricoltura italiana. Raccoglie gli interventi di storici, economisti e agronomi sulla storia delle Cattedre ambulanti in Lombardia dalla fase di fon- dazione otto-novecentesca, caratterizzata da una forte impronta autonomistica, privatistica e localistica, fino alla loro trasformazione, negli anni Trenta, in strutture burocratiche periferi- che dell’amministrazione statale. I saggi hanno due tagli diversi: il primo per aree geografiche provinciali (Milano, Cremona, Pavia, Mantova, Brescia, Bergamo, Piacenza), il secondo per ambiti produttivi, territoriali o tematici (la zootecnia, la frutticoltura, l’alpicoltura, la lotta an- tigrandine). Il volume è chiuso da alcuni interventi sulla figura dell’agronomo. Un’omogenea impostazione dei contributi privilegia la ricostruzione delle modalità con cui le Cattedre si sono rapportate agli assetti produttivi dei territori in cui operavano attraver- so l’attività di assistenza tecnica, la diffusione delle conoscenze agrarie, la sperimentazione del- l’innovazione, la creazioni di enti di ricerca e la promozione dell’associazionismo e della coo- perazione. Complessivamente emerge che l’azione dei tecnici si mosse nella direzione di su- perare in una logica razionale e moderna i vincoli economici (dotazioni di risorse materiali e finanziarie), umani (carenze di conoscenze e di istruzione) e strutturali (dimensione delle aziende e precarietà del lavoro) dei diversi sistemi agricoli locali. L’attività propulsiva svolta della Cattedre risulta così anche una tappa importante della legittimazione del ruolo dell’a- gronomo che per tutto l’Ottocento aveva manifestato difficoltà a trovare una propria identità professionale. Se tutti i saggi sono molto attenti all’organizzazione interna delle Cattedre e agli aspet- ti tecnici e operativi della loro azione, altri temi risultano invece affrontati in modo spora- dico. Se ne segnalano due che sembrano cruciali. Il primo riguarda il ruolo dei tecnici non solo come portatori di saperi ma anche come produttori di quell’ideologia ruralista, assai diffusa nella Padania, che coniugava il produttivismo e il tecnicismo con una visione orga- nica della società rurale, ora declinata su scala democratica e cooperativistica ora su scala gerarchica e autoritaria. Il secondo, strettamente connesso al primo, riguarda il rapporto con i soggetti sociali e il ruolo di mediazione svolto nei conflitti che attraversavano la so- cietà rurale: quelli aspri e violenti, legati alla lotta di classe, ma anche quelli interni al fron- te padronale tra produttori e trasformatori. Appare dunque molto equilibrata la valutazio- ne dei curatori che, evidenziando gli apporti innovativi del volume, sostengono, altresì, la necessità di ulteriori studi per pervenire a una matura e completa conoscenza della storia delle Cattedre ambulanti. Salvatore Adorno

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Stefania Falasca, Un vescovo contro Hitler: Von Galen, Pio XII e la resistenza al nazismo, Ci- nisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 280 pp., Û 16,00 L’estenuante diatriba sui presunti silenzi di Pio XII verso il nazismo ha risucchiato come in un vortice obnubilante l’intricata vicenda dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i totalitari- smi. Una sensibilità tutta proiettiva delle nostre attuali inquietudini ha finito così con il ri- produrre a cicli costanti condanne o assoluzioni che si sono alimentate a vicenda offuscando le distinzioni interne alla S. Sede e all’episcopato tedesco. Questo libro vuole riequilibrare il giudizio a favore di Pio XII, con un intento anche troppo esplicito che rischia di ricadere in questa spirale, dalla parte della difesa. Ma resta comunque una buona e ricca ricostruzione. L’autrice, una giornalista curiosa che si è appassionata alla figura del vescovo August von Galen, un nobile e aristocratico conservatore della Westfalia, detto il Leone di Münster per il coraggio con cui seppe battersi contro Hitler, ne ricostruisce, sulla base di un intenso carteg- gio, i rapporti con Pio XII, per dimostrare la piena sintonia tra i due. Falasca ristabilisce un equilibrio rispetto ai giudizi sommari che vedono la Chiesa come un corpo compatto anche se la questione è davvero più intricata di come, a tratti, sembra emergere dalla ricerca. L’episcopato tedesco esprime una complessità e una varietà di posizio- ni che rivelano un profondo tormento delle coscienze: Konrad von Preysing, vescovo di Ber- lino, cugino di von Galen e altrettanto ostile al regime, fin dall’ottobre del 1937 aveva chie- sto un cambiamento radicale di comportamento, propugnando l’abbandono della trattativa segreta e diplomatica con le gerarchie naziste in favore di una dura denuncia pubblica, schie- rando così la Chiesa cattolica come punto di riferimento di quella indignazione e mobilita- zione popolare tanto temuta dal regime. Von Preysing e von Galen non condividevano l’idea che nel nazismo si potesse ancora operare una distinzione tra elementi fanatici e minoritari da isolare. I risultati ottenuti dalla Mit brennender Sorge erano incoraggianti in questo senso, no- nostante le persecuzioni che ne erano seguite, e i due vescovi avrebbero voluto che proseguis- se la campagna costruita anche a livello internazionale intorno all’enciclica. Von Galen, nel- l’aprile del 1937, cercò di indurre l’episcopato alla stesura di una lettera pastorale in conti- nuità con l’enciclica. La lettera non vide però la luce. Del resto, nell’incontro con il neoelet- to Pio XII, nel marzo del 1939, Faulhaber sosterrà ancora che, di fronte ai tanti attacchi alla Chiesa, i vescovi avrebbero fatto bene ad agire come se non vedessero. Nelle argomentazioni utilizzate da von Galen nelle tre famose prediche dell’estate del 1941 non è la difesa della Chiesa e della comunità cattolica a spronare la denuncia, ma quella del di- ritto di tutti e della persona. Sono prediche coinvolgenti che desteranno una vera emozione e una tale partecipazione popolare da allarmare Hitler che minaccerà di morte il vescovo; a ripro- va che ciò che temeva di più era la sollevazione popolare dei cattolici. Ma l’attaccamento alla na- zione, il lealismo patriottico, il radicamento alla propria terra rende insicuri e davvero tormen- tati i vescovi tedeschi che così si dibattono tra fedeltà nazionale e opposizione al nazismo. Emma Fattorini

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Ugo Falcone, Gli archivi e l’archivistica nell’Italia fascista. Storia, teoria e legislazione, Udi- ne, Forum, 278 pp., Û 24,00

È un libro di indubbia utilità per ripercorrere la vicenda degli archivi italiani durante il regime fascista. L’autore passa in minuziosa rassegna la bibliografia, le riviste specializzate, le inchieste, le relazioni ministeriali e di commissioni varie, la pubblicistica, la legislazione. Il re- gime fascista viene considerato un momento culminante della storia degli archivi italiani, sia dal punto di vista dottrinario che da quello legislativo. Non sono presi in esame i risultati del lavoro d’archivio. Sotto il profilo dottrinario il periodo fascista non mostra peraltro una grande originalità ma piuttosto il venire a compimento e a migliore sistemazione di principi e concetti che risa- livano all’Italia liberale. Ad esempio, in una prolusione di Giovanni Vittani, soprintendente all’Archivio di Stato di Milano, La concezione fascista e gli archivi, non emergono novità di ri- lievo di ispirazione fascista, se non l’invito a introdurre anche in quelli una maggiore dose di autoritarismo. L’autore dà il giusto rilievo alle figure di Eugenio Casanova e di Giorgio Cen- cetti; e traccia profili biografici anche di altri protagonisti, raggruppandoli nelle tre scuole ro- mana, toscana, milanese. È invece nella legislazione che il fascismo ha lasciato una traccia profonda. La legge del 22 dicembre 1938, n. 2006, è la prima organica sistemazione dell’intera materia archivistica. Benché gli archivi dipendessero allora dal Ministero dell’Interno, la legge è coeva a quella sul- le cose d’arte. L’accostamento può essere considerato un’indicazione, forse preterintenziona- le, dell’unità dei beni culturali, che verrà poi realizzata su iniziativa del ministro Spadolini con la creazione, appunto, del Ministero dei Beni culturali. L’autore si sofferma a illustrare pregi, difetti ed eredità della legge. In appendice è pubblicata la circolare del Ministero dell’Interno, 10 marzo 1940, sul «Di- vieto ai cittadini di razza ebraica di frequentare le sale di studio». È altresì pubblicata una in- teressante, disinvolta e poco nota inchiesta sugli archivi, apparsa in una serie di articoli a fir- ma di Mario Ferrigni sul «Corriere della Sera» dal 26 febbraio al 3 marzo 1927. Il sottotitolo Splendore e decadenza degli Archivi d’Italia può applicarsi, con il dovuto sconforto, alla situa- zione che si è venuta negli ultimi anni creando negli archivi italiani. Claudio Pavone

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Gabriella Fanello Marcucci, Sorvegliato speciale. Sturzo a Londra nel mirino dell’OVRA, Soveria Mannelli, Rubbettino, 308 pp., Û 19,00

Don Sturzo lasciò l’Italia nell’ottobre del 1924 in seguito a «ordini superiori», gli stessi che poco prima gli avevano imposto di abbandonare la direzione del PPI. Lo studio di Gabriella Fa- nello Marcucci si apre suscitando un interrogativo: il titolo lascia intendere che gli anni dell’esi- lio siano riesaminati alla luce della vasta e inedita documentazione raccolta dall’OVRA. Ma non è così. L’autrice sembra considerare la Questura di Roma, la Divisione Polizia politica e la stessa OVRA come affilati strumenti repressivi nelle mani di Mussolini già nel 1923, quando alcune note informative, ella scrive, «raggiungono la Polizia politica». Ma l’organismo investigativo de- nominato Polizia politica, braccio armato del regime, nacque più tardi; fino al 1927, ai vertici de- gli apparati investigativi dello Stato erano ancora molti funzionari di estrazione liberale, tra i qua- li quel questore Bertini incaricato di proteggere Sturzo nei suoi spostamenti in Italia. Non si trat- ta di un dettaglio di poco conto, considerando che, anche a causa dell’orientamento dei vertici della Pubblica sicurezza, Mussolini si risolse a dare vita a una (autonoma) Divisione Polizia poli- tica. Il titolo del libro lascia anche intendere che Sturzo a Londra fu sottoposto all’occhiuto con- trollo dell’OVRA. Ma l’OVRA non predispose alcuna rete di informatori nel Regno Unito. So- lo la Polizia politica agì, con discrezione e cautele, inviando isolati «fiduciari» per brevi missioni. Sorprende che anche su questi informatori il volume non fornisca notizie per valutarne le capacità investigative, l’orientamento, l’attendibilità. Eppure gli studi condotti già da Mauro Ca- nali, Mimmo Franzinelli e Romano Canosa, non citati nel libro, avrebbero permesso all’autrice di spiegare, per esempio, che Montuschi (Alfredo, identificato però nel libro solo come «un ban- chiere») era in realtà un ex dirigente del PPI passato al fascismo. Nessuna notizia appare anche delle informative inoltrate a Roma a partire dal 1928 da Leonardo Conchin, anch’egli ex diri- gente del PPI reclutato dalla Polizia politica (non dall’OVRA). E nessuna notizia infine è forni- ta su un altro abile informatore, Johan Glass, penetrato nel gruppo di amici più vicini a Sturzo. In realtà Fanello Marcucci ha consultato solo un fascicolo della Polizia politica e le carte del Ca- sellario politico centrale intestate a Sturzo; ha quindi condotto la sua ricerca su una vasta e inte- ressante documentazione che tuttavia non riguarda l’OVRA ma, quasi esclusivamente, la biogra- fia intellettuale di Sturzo, i suoi scritti, il suo pensiero, le sue intense e lunghe corrispondenze. Proprio all’evoluzione del pensiero di Sturzo sul Vaticano e l’Italia negli anni Trenta, i rap- porti con De Gasperi, Donati e Ferrari, la lucida analisi del fascismo (e dell’antifascismo), in- fine le ragioni personali e politiche della partenza per gli Stati Uniti nel 1940, sono dedicate le pagine migliori del libro. Esse intrecciano l’attento studio dei carteggi a un giudizio solido e documentato, già offerto in altre opere della studiosa, sulla figura del fondatore del Partito popolare, anticipando anche, con accortezza, le ragioni del suo difficile reinserimento nella vi- ta politica italiana nel dopoguerra. Dario Biocca

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Fiammetta Fanizza, Breve storia della concertazione in Italia, Bari, Cacucci, 111 pp., Û 13,00

Il tema della concertazione come fondamento delle relazioni sindacali, intrecciato con il concetto di dialogo sociale, è abbastanza recente. Andrebbe, forse, inquadrato nella tendenza dei sistemi europei a ritrovarsi su modalità comuni prodotte dagli anni ’80 anche in funzio- ne di una coesione dell’Unione necessaria per affrontare la sfida mondiale. L’autrice lo rico- struisce qui con stretto riferimento al quadro italiano, in relazione ai tratti specifici di una for- te presenza dei sindacati e di un’altrettanto robusta presenza imprenditoriale storicamente contrapposte. L’intento è quello di sostenere storicamente un principio e incoraggiarlo come modalità fondamentale del confronto. Molto accuratamente, il libro scandisce le tappe fondamentali del confronto triangolare tra impresa, lavoro e parti pubbliche, specialmente intorno al mercato del lavoro, per una contrat- tazione meno dispersiva economicamente e meno aspra di quella che si era sviluppata in Italia a partire dall’autunno caldo. Inevitabilmente, sono protagoniste le grandi confederazioni sindaca- li, indotte a verificare i processi dialettici interni e la tenuta dei rapporti unitari davanti a passag- gi difficili e complessi, a cominciare dal protocollo Spadolini del 1981 che, per quanto non riu- scito, apriva la strada ai tentativi successivi, e dal progetto Tarantelli sulla predeterminazione de- gli scatti di contingenza. Da lì, il protocollo Scotti e, a seguire, l’accordo di San Valentino, su cui dovevano misurarsi profonde differenze tra le centrali sindacali e verificarsi i dissensi tra le «due sinistre» orientate rispettivamente al confronto e alla lotta, che si affrontarono fino allo svolger- si di un referendum che finiva per avviare il definitivo tramonto della scala mobile. Era quello, infatti, il punto centrale, discusso alla luce di due parametri fondamentali, la competitività del sistema e la responsabilità dei salari nell’inflazione. Se, in termini politici, la questione si poneva nell’accoglimento o meno della politica dei redditi, lo sfondo delle rela- zioni industriali si definiva anche come prova di forza, con i sindacati stretti tra i due fuochi della responsabilità e della pressione di una base tentata dal sindacalismo autonomo. Il libro segue tutti i passaggi di quella dialettica a tre, con puntuale ricostruzione degli avvenimenti e con messa in evidenza degli strumenti via via costruiti, dai contratti d’area ai patti territoria- li, alle diverse forme in cui la concertazione si è articolata anche secondo il crescente compi- to delle Regioni. Emerge bene come il principio sia ormai condiviso sul piano generale da tut- ti i contraenti, ma, contemporaneamente, sottoposto a crisi ricorrenti e a continue verifiche. Si tratta di materia importante e ancora in parte da verificare negli esiti storici, che varreb- be la pena di inquadrare anche nelle diverse sperimentazioni di tipo corporativo che il sistema italiano ha conosciuto, senza mai riuscire a risolvere davvero, neppure nel tempo presente, le an- tinomie degli interessi sociali sottintese dal confronto sul salario e sulla sicurezza dell’occupazio- ne che il confronto concertativo non ha adeguatamente risolto e che, sotto certi aspetti, ha fini- to per approfondire a partire da definizioni incerte di categorie come la flessibilità. Fabio Bertini

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Roberto Favario, Muratori in Francia operai e contadini in valle. I flussi migratori e l’eco- nomia di tre comunità biellesi durante la «grande emigrazione» (1881-1921), Vercelli, Edizioni Mercurio, 143 pp., Û 16,00

L’area biellese rappresenta da molti anni non solo un esempio ben noto dell’esodo italia- no, ma anche un caso che ha contribuito a smantellare alcuni sedimentati luoghi comuni sul- l’emigrazione. Fra questi uno riguarda la motivazione della partenza, di solito indicata nella mancanza di opportunità di lavoro in patria, non applicabile agli emigranti di Biella, che è al centro del più antico e noto distretto dell’industria tessile italiana. Un secondo luogo comu- ne consiste nell’interpretazione dell’emigrazione come sospinta solo da circostanze espulsive, mentre il caso biellese ha mostrato l’importanza di quei fattori propulsivi, definibili come cul- tura della mobilità. Non casualmente, Roberto Favario apre il libro avvertendo argutamente del doppio rischio in cui incorre con la sua ricerca: quello di suscitare stupore nel lettore con- sapevole della fama nazionale e internazionale dell’industria tessile biellese, che si chiedereb- be se e quando ci sia stata emigrazione e, al contrario, quello di indurre il lettore a conoscen- za dell’ultraventennale ricerca varata dalla Fondazione Sella, «Biellesi nel mondo», a chieder- si cosa ancora sia possibile dire sull’argomento. Con la sua ricerca, originata come tesi di laurea presso l’Università del Piemonte orienta- le, Favario mostra non solo che è ancora possibile approfondire la conoscenza dell’esodo da questa zona, ma che anche la Valle dell’Elvo, da lui indagata, presenta al suo interno differen- ziazioni socio-economiche e confini invisibili, tratteggiati anche dalle scelte migratorie adot- tate. In effetti questa ricerca, condotta nell’ambito di un più vasto e ambizioso progetto pa- trocinato dall’Ecomuseo Valle Elvo e Serra, e condotta sui tre comuni di Graglia, Muzzano e Occhieppo Superiore, si presenta come un utile approfondimento su questa porzione di ter- ritorio biellese, sulla pluriattività caratteristica dalla sua società e sulle specializzazioni artigia- nali nell’edilizia che sorreggono le pratiche migratorie. Sulla base dei censimenti dal 1871 al 1931 e dei registri dei passaporti, si dimostra come l’equilibrio fra agricoltura, manifattura e emigrazione variasse da un comune all’altro: in particolare, mentre i due comuni di Muzzano e di Occhieppo Superiore contarono di più sulle prime due risorse, Graglia mantenne la sua specializzazione nell’esportazione di muratori, riaffermando, come opportunamente ricorda l’autore, che il rapporto occupazione di fabbrica-emigrazione non va dato per scontato, in quanto per gli edili l’opzione del lavoro industriale non era considerata né allettante né pre- feribili agli abituali spostamenti sul territorio. Inoltre, addentrandosi nell’identikit degli emi- granti, Favario delinea l’idealitpo come prevalentemente di sesso maschile e giovane, per il 76 per cento figlio ancora celibe e non capofamiglia, anche se le donne costituirono il 17 per cen- to, concentrando le loro partenze negli anni successivi alla prima guerra mondiale, e dirigen- dosi prevalentemente in Francia, come i loro uomini. Patrizia Audenino

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Paolo Favilli, Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia (1945-1970), Milano, FrancoAngeli, 325 pp., Û 25,00

Due lunghe introduzioni presentano il tentativo dell’autore di ricostruire una «mappa concettuale “marxista” secondo distinzioni “storicamente determinate”, trattando idee, stru- menti analitici “come fatti”» (p. 7). Tale tentativo è situato, con ulteriore discussione di pun- ti particolari, nel contesto storiografico generale attuale, che sarebbe dominato da studi sulle rappresentazioni culturali (gli storici parlano in continuazione di cultura, insomma – come scrive Jürgen Kocka – «mentre l’economia plasma la nostra vita»). Negli otto capitoli succes- sivi – dedicati alle origini del materialismo storico in Italia, a Cantimori, all’impegno degli studiosi, al rapporto con crocianesimo, storicismo, scienze sociali, infine al capitalismo come problema storico e al destino degli studi economico-sociali negli anni ’70 – si troveranno dun- que gli elementi per tracciare una «mappa concettuale» marxista del campo storico (ma non la mappa stessa, disegnata con nettezza). E cioè si troveranno discussioni a non finire intorno ai problemi della storia economica, del materialismo storico, della storia sociale; citazioni, di- gressioni, puntualizzazioni sulle ricerche ispirate all’esempio e al pensiero di Marx e dei suoi commentatori e critici, o che suggerivano o proclamavano di esserlo; e poi le ricostruzioni, rievocazioni, controversie agitate da coloro che si appassionarono a questi problemi e temi, tra il 1945 e il 1970. Con un’immagine, si potrebbe dire che il libro di Favilli è una ideale prose- cuzione delle discussioni e delle polemiche che intorno al pirotecnico, effervescente, lucidis- simo e appassionato Antonio Labriola si svolgevano al caffè Aragno a Roma. Ma non rispon- de (non si propone di rispondere) alla domanda, forse non irrilevante, se è vero che nel dopo- guerra i giovani storici marxisti ebbero un approccio al marxismo «di tipo politico, non euri- stico, insomma si erano fatti marxisti in quanto quella era la scelta ideologica che discendeva dalla militanza comunista» – domanda che si può porre invece, mettendo il punto interroga- tivo all’affermazione, ora citata, di Roberto Pertici (attribuita ad altri da Favilli a p. 51n). Ne deriva che l’autore non mette al centro dell’esame le opere storiche degli storici materialisti e marxisti (non si propone di esaminarle in dettaglio). Due esempi: discute di Labriola, ma non prende in esame gli studi sulla Rivoluzione francese (che era l’unico argomento storico che Labriola si sentisse di conoscere a fondo), né l’incompiuto Da un secolo all’altro (un bel pro- getto di «storia immediata»); rievoca la polemica di Cantimori con Antoni su Marx, ma non ci dice se la severità del primo nei confronti del secondo era o meno fondata. È quindi un li- bro utile per chi si appassiona alle discussioni, polemiche, controversie e rievocazioni su marxi- smo e storia e certo non mancano le osservazioni acute (per esempio a p. 69, sulla compati- bilità di storia «strutturale» e delle rappresentazioni). Lo stile di Favilli, però, non è scorrevo- le, ci sono molte ripetizioni degli stessi concetti e numerosissime citazioni, nelle note c’è qual- che errore di troppo: è mancata una robusta revisione editoriale del testo. Massimo Mastrogregori

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Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario contro il bolscevismo e il fascismo, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 89 pp., Û 12,00

In questo agile volume Santi Fedele riprende il profilo biografico di Luigi Fabbri già pub- blicato nel Dizionario biografico degli anarchici italiani (vol. I, Pisa, BFS, 2003) approfonden- do la parte relativa alla critica sviluppata da Fabbri negli anni ’20 e ’30 contro gli opposti to- talitarismi, bolscevismo e fascismo. Il risultato editoriale è quello di un utile instant-book che si colloca all’interno di una fertile stagione di studi dedicata all’anarchico marchigiano in oc- casione del settantesimo anniversario della morte. Nel 2005, per le edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, Roberto Giulianelli ha curato la pubblicazione dell’Epistolario ai cor- rispondenti italiani ed esteri (1900-1935) attingendo a numerosi archivi pubblici e privati, a partire dall’archivio personale di Fabbri, affidato non molto tempo prima all’Istituto interna- zionale di storia sociale di Amsterdam dalla figlia Luce, già autrice di una bella biografia del padre. Sempre nel 2005, una raccolta di studi e documenti su Luigi Fabbri ha occupato inte- ramente il primo volume dei «Quaderni della Rivista storica dell’anarchismo», nuova collana varata da BFS come prosecuzione dell’omonima rivista semestrale. Un tale fermento editoria- le ha contribuito a dare sostanza al convegno internazionale svoltosi a Fabriano nel novembre dello stesso anno: Luigi Fabbri. Vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista (Fabriano 1877 – Montevideo 1935). In quella occasione, Fedele ricostruì la critica di Fabbri alla Russia sovietica, partendo dagli articoli dei primissimi anni ’20 contro la dittatura leninista, fino ad arrivare alla denuncia del potere assoluto di Stalin e alla lucida previsione del destino impe- rialistico dell’URSS. L’interpretazione del fascismo toccò, invece, a Marco Palla che individuò ne La contro-rivoluzione preventiva di Fabbri, volume edito nel 1922 nella «Biblioteca di stu- di sociali» diretta da Rodolfo Mondolfo per le edizioni Cappelli di Bologna, uno dei tentati- vi più approfonditi di analisi del fenomeno fascista, passibile ancora oggi di recupero sul pia- no della ricostruzione storiografica. Gli atti del convegno, curati da Maurizio Antonioli e Ro- berto Giulianelli, sono stati pubblicati tempestivamente nel corso del 2006 dalla BFS, quasi in contemporanea alla breve monografia di Fedele. Lo storico siciliano affronta con dimestichezza l’attività giornalistica e la critica sociale svolte da Fabbri negli anni tra le due guerre mondiali, in Italia, Francia e Uruguay. Del resto, siamo di fronte a uno studioso che ha al suo attivo una lunga e approfondita esperienza di ri- cerca sui partiti e sui movimenti politici dell’esilio antifascista, ai quali ha dedicato nel corso del tempo lavori spesso fondamentali. Quello che, però, manca totalmente nel suo Luigi Fab- bri è l’utilizzo dei documenti di natura autobiografica (carteggi, appunti personali, note spar- se), essenziali per la ricostruzione di un percorso di vita. Questa lacuna nella scelta delle fon- ti fa sì che il libro non riesca ad avere le caratteristiche di un compiuto saggio biografico, an- corché sintetico, e si presenti unicamente come una valida tappa in questa direzione. Carlo De Maria

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Santi Fedele, Pasquale Fornaro (a cura di), Lo stalinismo: parabola di un mito, Soveria Mannelli, Rubbettino, 102 pp., e 12,00

Il volume raccoglie gli atti di due giornate di studi (11-12 novembre 2004), organizzate dall’Università di Messina e dalla locale Fondazione Bonino-Pulejo, e si compone di quattro sezioni. La prima, L’età di Stalin, è dedicata all’analisi del sistema di potere instaurato dal dit- tatore georgiano, ma anche a una riflessione di carattere complessivo (soprattutto nel saggio di apertura, di Vittorio Strada) sull’esperienza comunista, nel quadro delle vicende storiche novecentesche. La seconda, Stalinismo e destalinizzazione nell’Est europeo, analizza invece il processo di sovietizzazione dei paesi «satelliti» dell’URSS, avvenuto nel secondo dopoguerra, e le figure di alcuni tra i maggiori esponenti di quei regimi (Novotny´ in Cecoslovacchia, Zˇivkov in Bulgaria, Gomu¬ka in Polonia, Rákosi in Ungheria, Ulbricht in Germania). La ter- za sezione è dedicata alla realtà italiana, con un saggio di Santi Fedele sulle posizioni che le di- verse forze della sinistra italiana (dai comunisti ai socialisti, dai repubblicani a Giustizia e Li- bertà, sino agli anarchici) assunsero negli anni Trenta verso la Russia staliniana, e un saggio di Maurizio Degl’Innocenti sul mito dell’URSS nel secondo dopoguerra. La quarta, infine, in- titolata Stalin: memoria e cultura, affronta sia alcuni aspetti delle vicende culturali dell’epoca (il cinema e il rapporto fra arte e propaganda), sia il problema di come, nella Russia post-so- vietica, attorno alla figura del «piccolo padre» continui ad aleggiare un’aura quasi leggendaria, fortemente alimentata dalla mancanza di una seria rilettura del passato da parte delle nuove élite al potere. Nel complesso l’opera è senza dubbio di grande interesse e, sotto molti aspet- ti, decisamente stimolante, sia pure entro i limiti di una raccolta di saggi brevi. Alcune gran- di questioni interpretative, tuttavia, restano un po’ sullo sfondo, a partire dalla stessa defini- zione di «stalinismo»: una categoria – come argomenta Strada nel suo intervento – che può essere applicata tanto al periodo storico caratterizzato in senso stretto dalla dittatura persona- le di Stalin, quanto all’intera parabola storica del comunismo, sino agli inizi degli anni No- vanta. Il che, evidentemente, pone una serie di questioni e di interrogativi (in particolare sul- la continuità o meno tra le forme del potere sovietico nell’epoca immediatamente post-rivo- luzionaria e quelle consolidatesi a partire dalla seconda metà degli anni Venti), su cui il dibat- tito storiografico è tutt’altro che concluso e che avrebbero meritato forse una trattazione più ampia e approfondita. Tra i contributi più rilevanti va segnalato comunque quello di France- sco Benvenuti su Stalin dopo la «rivoluzione degli archivi», che mette in luce come la docu- mentazione resa disponibile dal crollo del regime sovietico abbia confermato in larga parte i giudizi pregressi sulla natura e sulle caratteristiche della dittatura post-rivoluzionaria (e stali- niana in specifico), ma abbia anche aperto nuovi filoni di ricerca e di riflessione, non del tut- to aderenti all’immagine che dell’URSS si aveva durante la guerra fredda (in particolare per quanto riguarda la politica estera). Marco Scavino

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Stefano Fenoaltea, L’economia italiana dall’unità alla Grande Guerra, Roma-Bari, Later- za, VIII-339 pp., Û 38,00

Stefano Fenoaltea, formatosi negli Stati Uniti, dove ha insegnato per parecchi anni, è uno dei rarissimi esponenti italiani della «nuova» storia economica, un indirizzo di studi ormai no- to come «cliometria». Da tempo dominante oltre Atlantico, essa ha trovato ben poco spazio nella nostra storia economica «ufficiale»: non a caso la collocazione accademica di Fenoaltea è sulla cattedra di Economia applicata presso l’Università di Roma Tre. Il volume rappresenta il coronamento di un progetto di ricerca portato avanti con caparbietà per circa quaranta anni, volto a mostrare l’infondatezza delle interpretazioni «discontinuiste» del- lo sviluppo economico italiano nel primo cinquantennio post-unitario: generate dall’ormai clas- sico lavoro di Alexander Gerschenkron del 1962 (trad. it. Il problema storico dell’arretratezza eco- nomica, Torino, 1965) – che individuava nel big spurt dell’industria in età giolittiana le origini dello sviluppo italiano – esse hanno dato vita a un intenso dibattito, che ha visto coinvolti tutti i maggiori storici economici del nostro paese. Ad esso Fenoaltea ha contribuito con i numerosi saggi che ora confluiscono nel presente volume: essenzialmente quantitativi, essi si propongono di fornire una solida base empirica alla discussione, nonché di offrire un nuovo modello inter- pretativo della dinamica economica del periodo. La ricostruzione delle principali serie macroe- conomiche, spesso frutto di ingegnose stime, consente all’autore di rivalutare la crescita degli an- ni Ottanta e di ridimensionare quella dell’età giolittiana, evidenziando così una dinamica spic- catamente ciclica della nostra economia: questa non solo si sarebbe inserita appieno nelle fluttua- zioni dell’«economia atlantica» del periodo, meglio conosciute come «cicli Kuznets» – originati da flussi migratori che stimolavano ondate di investimenti, a partire dal settore edilizio, nel pae- se di approdo – ma esclusivamente da questi sarebbe stata condizionata. Alla luce di questo mo- dello, il volume ridiscute tutte le principali tematiche del periodo, dal protezionismo ai divari re- gionali, dal contributo delle ferrovie all’emigrazione, al ruolo dello Stato e così via. Un lavoro, in estrema sintesi, molto innovativo e stimolante e che tuttavia, forse, non convincerà appieno lo storico. Egli non troverà, ad esempio, alcuno spazio dedicato alla di- scussione delle fonti, per la quale si preferisce rinviare agli articoli originali; rimarrà magari perplesso di fronte alle stime dell’agricoltura – in particolare di quelle relative ai salari agrico- li – che paiono rispondere più alle esigenze del modello interpretativo che non alle problema- tiche sollevate dal dibattito coevo (non v’è cenno alcuno, ad esempio, all’Inchiesta Jacini) e dalla storiografia successiva. Leggerà, ancora, che «i tempi della storia sono quelli dell’econo- mia, dei mercati, è nel presente storico che vanno ricercate le cause dei fatti» (p. 222). Ne con- segue che, dopo il 1861, con l’inserimento dell’economia italiana nei flussi internazionali di lavoro e capitale, svaniscono per Fenoaltea le valenze esplicative dei processi storici di accu- mulazione di risorse e capitale. Pierangelo M. Toninelli

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Valdo Ferretti, La questione della sicurezza nell’evoluzione della politica estera della Repub- blica Popolare Cinese, Soveria Mannelli, Rubbettino, 170 pp., Û 9,50

Valdo Ferretti è da anni studioso attento delle dinamiche storiche della politica diploma- tica estremo-orientale, con particolare riferimento al Giappone, nonché, più recentemente, delle dinamiche internazionali in Asia Orientale. In questo suo contributo, che si basa su di una ampia bibliografia in lingue occidentali ed alcune limitate fonti in lingua cinese, Ferretti affronta il nodo cruciale della centralità del problema della sicurezza nazionale nella visione cinese contemporanea, analizzandone le origini e gli sviluppi dalla fondazione della Repub- blica Popolare Cinese (RPC) nel 1949 sino ai giorni nostri. L’opera offre dapprima una essen- ziale ricostruzione storica delle vicende della RPC dalla nascita ad oggi nonché un quadro del- le radici interne ed internazionali che furono alla base della politica estera durante il «periodo maoista» (1949-1976). Il secondo capitolo affronta invece il tema del riallineamento della po- litica estera cinese dopo la fine della guerra fredda, giungendo sino ai primi anni del XXI se- colo. Il terzo capitolo discute il ruolo delle forze armate cinesi nell’ambito della politica di si- curezza nazionale. Il quarto capitolo, infine, al quale fa seguito un’appendice che include al- cuni documenti scelti, presenta un tentativo di bilancio finale e di identificazione delle pro- spettive future per la Cina popolare. In realtà, il tema della sicurezza in Cina viene affrontato specificamente – anche se non interamente – nei capitoli centrali e finali, lasciando l’impres- sione che numerosi aspetti anche interessanti che vengono affrontati avrebbero avuto bisogno di ben più consistenti approfondimenti. Manca ad esempio quasi del tutto un’analisi accura- ta della nuova «visione del mondo» che la RPC è andata sviluppando nel corso degli ultimi decenni e in particolare degli ultimi anni, così come risulta carente la discussione sui notevo- li cambiamenti intervenuti nei criteri e nei processi di selezione e di formazione dei nuovi qua- dri dirigenti militari, tema centrale al fine di meglio comprendere i radicali cambiamenti in- trodotti da Deng Xiaoping e successivamente sviluppati da Jiang Zemin e Hu Jintao. Nello stesso capitolo quarto, in cui pure l’analisi risulta essere assai documentata e aggiornata per quanto concerne le principali teorie e tesi avanzate al riguardo da studiosi e teorici occidenta- li, pesa negativamente l’assenza di riferimenti al dibattito «all’interno della Cina» sulla sicu- rezza e sulla strategia internazionale, un dibattito che pure è diventato in questi anni costan- te e sempre più sofisticato, evidenziando nuovi approcci ai temi internazionali e allo stesso concetto di sicurezza. In conclusione, il volume di Ferretti può essere in alcune parti un utile strumento di analisi e di informazione sul tema della sicurezza nell’ambito più generale delle nuove strategie internazionali della RPC. Esso tuttavia affronta temi così delicati e complessi in modo incompleto e non sufficientemente approfondito, lasciando per vari aspetti al letto- re più informato ed esigente la sensazione della necessità, anche in Italia, di studi più comple- ti e meglio documentati sui temi della sicurezza e della strategia della RPC. Guido Samarani

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Roberto Festorazzi, Mussolini e l’Inghilterra, 1914-1940, Roma, Datanews, 238 pp., Û 13,50

Utilizzando un numero esiguo di fonti e ignorando quasi del tutto la ricerca esistente, Fe- storazzi descrive una politica estera anglo-italiana fatta di corrispondenze non ufficiali, di strette di mano e promesse a voce. Per esempio, quella fatta da Chamberlain a Mussolini a Ra- pallo nel 1925, quando gli inglesi, informalmente, avrebbero dato il via libera a Mussolini in Etiopia: dieci anni dopo, dice l’autore, Mussolini si rese conto che gli inglesi non intendeva- no onorare la «diplomazia informale»; e aggiunge: «un bel raggiro» (p. 20). Idea cardine del volume è che questa diplomazia avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi; gli storici però l’hanno ignorata. Il tramite fra Mussolini e gli inglesi era l’ambasciatore a Londra Grandi: ma le carte Grandi, depositate nell’Archivio Storico del Ministero degli Affari esteri, non sono state consultate da Festorazzi; altrimenti avrebbe notato come il compito di Grandi non fosse reso difficile solo da Eden, ma anche e principalmente da Mussolini e Ciano, le cui intenzioni erano tutt’altro che favorevoli alle potenze democratiche. Il libro è costruito su opinioni personali supportate da poche note. Uno dei tanti esempi di come vengono usate le fonti, a p. 135 (ripreso poi alle pp. 151-2), riguarda l’interpretazione dei colloqui di Roma del 1939: si discreditano i «massimi studiosi del periodo» e si afferma che «alla luce di una lettura accurata dei verbali» del Public Record Office (PRO), «in quel gennaio 1939 furono poste le pre- messe per una importante collaborazione anglo-italiana»: i massimi studiosi non sono mai no- minati nel libro (né compaiono nelle due pagine di bibliografia), mentre si cita un solo docu- mento d’archivio. Un altro documento, citato a p. 173, è preso dal fondo FO371 del PRO, un fondo vastissimo e consultato da diversi storici: qui si utilizza un unico esempio in cui gli ingle- si si dimostrano preoccupati dalle condizioni di salute di Mussolini. L’ignoranza della storiografia su questo periodo è ancora più evidente nel caso degli studi inglesi e tedeschi (i quali, visto il tema del libro, non possono essere trascurati). Chiunque abbia letto la storiografia e le fonti coeve tedesche, per esempio, non può che sorridere della convin- zione che fu Mussolini a reggere i fili della politica europea: convinzione qui sostenuta princi- palmente da qualche affermazione di Chamberlain e Churchill favorevole a Mussolini. Altro esempio di disinformazione riguarda il partito fascista inglese (BUF), del quale si immagina una storia segreta di relazioni con l’Italia, e si dice manchi ricerca sull’argomento. Esiste invece un’e- norme quantità di documenti consultabili (nel fondo Home Office al PRO, nell’archivio del BUF a Sheffield, alla British Library) ed esistono numerosi libri ed articoli in inglese ben docu- mentati sul BUF: se si decide di fare un libro su Italia e Inghilterra durante il fascismo, va da sé che bisogna conoscere le pubblicazioni inglesi. Sconosciute sono qui anche le numerose pubbli- cazioni sulla politica estera britannica negli anni dell’appeasement, per non parlare di studi spe- cifici sulla guerra di Spagna e sulla storia militare e diplomatica della guerra d’Etiopia. Claudia Baldoli

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Nadia Maria Filippini (a cura di), Donne sulla scena pubblica. Società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, Prefazione di Simonetta Soldani, Milano, FrancoAngeli, 334 pp., Û 22,00

Le autrici dei saggi che compongono il volume (Nadia Maria Filippini, Tiziana Plebani, Liviana Gazzetta, Maria Teresa Sega, Nicoletta Pannocchia) da alcuni anni svolgono, nella prospettiva di genere, una vasta esplorazione di fonti inedite, nonché la rilettura critica di te- sti e fonti noti: ricordo tra l’altro i convegni organizzati a Venezia nel 2003 e nel 2006 e il vo- lume a cura della Società Italiana delle Storiche Le donne nella storia del Veneto (Padova, 2005). Il libro inizia con il rinnovamento culturale che investe le città venete nel secondo Sette- cento, mettendo in discussione aspetti basilari dell’antico regime, tra cui la gerarchia tra i ses- si, mentre tra i giovani si diffonde una «ricerca della felicità» che travolge gli usi matrimonia- li. Lo testimoniano i personaggi di Goldoni e Pietro Chiari, così come gli scritti lasciati da donne che animarono luoghi di formazione dell’opinione pubblica come salotti, casini, acca- demie, caffè, redazioni di giornali, nonché la cultura musicale e teatrale. Le giacobine del 1797 (tra cui l’autrice de La causa delle donne) introducono l’austero modello femminile-patriotti- co, che, se censura la sessualità, riconosce però la libertà delle giovani di scegliere il proprio destino, condannando nozze e monacazioni forzate: un modello che si consolida nel Risorgi- mento, in cui la militanza femminile include la partecipazione alle guerre di vivandiere, infer- miere, combattenti travestite da uomo, alle quali viene negato, tuttavia, quel ruolo militare ufficiale che avrebbe aperto la prospettiva della piena cittadinanza. Con l’annessione all’Italia le venete vedono arretrare i loro diritti e già a fine 1866 danno vita ad un movimento eman- cipazionista, che trova uno spazio di dibattito nel periodico «La donna». Ma più imponente, in età liberale, è la mobilitazione antimoderna delle cattoliche: campagne moralizzatrici dei costumi, organizzazioni volte a controllare la moralità delle lavoratrici, allontanandole dalla lotta di classe. L’esigenza di riformismo religioso, espressa da «femministe cristiane» come Eli- sa Salerno, Luisa Anzoletti, Antonietta Giacomelli, si scontra con le gerarchie ecclesiastiche, che imporranno alle cattoliche di spezzare ogni collaborazione con le laiche. L’ultimo saggio, pur denunciando la lacunosità delle fonti, raccoglie articolate informazioni sulle lavoratrici di età liberale, tra le quali spicca una massa di salariate giovani o addirittura bambine, retribui- te con paghe misere, soggette a orari di 10-12 ore e a una disciplina vessatoria, destinate ad ammalarsi di anemia, tubercolosi, pellagra. Solo il 20 per cento di loro nel primo Novecento è organizzato, per lo più nel mutualismo cattolico: si spiega così il prevalente fallimento degli scioperi. Sono le maestre a entrare per prime nelle fila socialiste, ed è soprattutto grazie a lo- ro – e a isolate figure maschili – che vengono affrontati per la prima volta temi spinosi come le molestie sessuali e la cultura maschilista diffusa tra gli operai. Laura Guidi

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Sergio Fiorini, Il potere a Milano. Prove generali di centrosinistra (1959-1961), Milano, Bruno Mondadori, XVI-253 pp., Û 20,00

Sfondo del libro è Milano tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del nuovo decennio, in un periodo di trasformazione della città, della politica e dell’economia. La municipalizzazione del servizio di produzione e distribuzione del gas (sottraendone il controllo al monopolista Edi- son, uno dei «salotti buoni» dell’epoca) e l’istituzione della giunta di centro-sinistra guidata dall’ex Rettore del Politecnico, il socialdemocratico Gino Cassinis (dopo le elezioni ammini- strative del novembre 1960, seguita a breve da Genova e Firenze) diventeranno gli epifeno- meni di una partita complessa e ricca di attori, tra i quali non vanno dimenticati, marginali ma presenti, il PCI e la Chiesa, rispettivamente guidati, a livello locale, da Cossutta (a quel tempo espressione dei «rinnovatori» togliattiani che avevano scalzato dal potere gli operaisti seguaci di Alberganti e Secchia) e dall’arcivescovo Montini. Anche se dovettero trascorrere al- tri venti anni per giungere al compimento del processo di municipalizzazione del gas, quello descritto è, secondo l’autore, un caso tipico di «circolazione paretiana» delle classi dirigenti, tanto più importante perché avvenuta a Milano, che di questi «ricambi» è stata spesso la pre- corritrice (dal riformismo socialista al fascismo, dal centro-sinistra a Craxi, alla Lega, a Berlu- sconi). Fiorini ricostruisce con attenzione e passione questa vicenda (che forse poteva essere studiata anche collegandola maggiormente alla contemporanea nazionalizzazione dell’energia elettrica), attraverso le fonti giornalistiche, ma anche utilizzando documenti provenienti dal- l’Archivio comunale di Milano e le preziose testimonianze di due protagonisti, Piero Bassetti (che firma anche la postfazione) e (senza dimenticare gli strumenti della scienze sociali, a partire dal rapporto centro-periferia). Individua in questi eventi il passaggio perio- dizzante dalla fase di ricostruzione del dopoguerra al tentativo programmatore della politica di sottrarsi, con tutte le sue lentezze, all’autogoverno dei poteri forti, attraverso l’incontro tra due tradizioni culturali radicate nel tessuto ambrosiano, il riformismo socialista e il solidari- smo cattolico. Una fase durata trent’anni, di cambiamenti e di degenerazioni partitocratiche (delle quali Fiorini individua e analizza l’avvio), dal piano Bassetti (presentato nel 1962 con l’ambizione, per usare recenti parole dello stesso Bassetti di «dare un disegno agli accadimen- ti del capitalismo perché il capitalismo non sa dove va», ma destinato a rimanere nel cassetto, travolto dalla recessione economica e dalla contestazione) a Tangentopoli e che comunque sembra improponibile oggi, quando è l’economia a determinare la cultura politica, a tutti i li- velli. Come scrisse allora «Il Giorno» (un altro dei protagonisti di quella stagione, spesso con- traltare del «Corriere della Sera» di Missiroli) «il mito, tutto milanese, del buon regiùr che am- ministra i bilanci cittadini come quello famigliare, non incanta più nessuno»: non a caso un mito, quello del buon amministratore di condominio, destinato ad essere rinverdito, in tem- pi recenti, di crisi della politica, dal sindaco Albertini. Giovanni Scirocco

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Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, Bologna, il Mulino, 295 pp., Û 22,00

In questo volumetto Marcello Flores affronta, in maniera equilibrata e tutto sommato completa, uno degli argomenti più spinosi della storia del XX secolo europeo – lo sterminio degli armeni verificatosi nel corso della prima guerra mondiale e tuttora negato dallo Stato turco succeduto all’Impero Ottomano. Facendo riferimento alla più aggiornata storiografia internazionale sull’argomento, Flores affronta i nodi principali di un problema storiografico di difficile soluzione (almeno fino a quando gli archivi ex ottomani non potranno essere esplo- rati) presentando una ricostruzione dei fatti credibile anche se, data la brevità del libro, per forza di cose non particolarmente dettagliata. L’esposizione ha inizio con capitoli sulla questione armena nell’Impero Ottomano, la rivo- luzione dei Giovani turchi e le guerre balcaniche: come in una lunga introduzione, essi tratteg- giano lo sfondo del dramma che ha inizio con l’ingresso dell’Impero Ottomano nella prima guer- ra mondiale. Flores respinge infatti le interpretazioni (perlopiù armene) che vedono nello ster- minio del 1915-1916 il culmine di un processo genocida iniziato con i massacri del 1894-96 e, quindi, ampiamente premeditato. Al contrario, contestualizza gli eventi dell’epoca nel quadro della «guerra totale», tale da spingere per una soluzione violenta dell’intrico di conflitti naziona- li e sociali caratteristici delle regioni mistilingui (com’erano appunto, e come sono tuttora sia pu- re in minor misura, l’Anatolia orientale e il Caucaso), e individua le circostanze storiche (tra cui l’insurrezione armena a Van e lo sbarco alleato a Gallipoli) che radicalizzarono progressivamen- te l’atteggiamento della dirigenza ottomana nei confronti delle minoranze residenti nell’Impero, fino al punto di non ritorno (che è difficile da situare con precisione, in questo come in altri ca- si) della decisione di genocidio degli armeni. La dinamica degli eventi, le responsabilità per essi, e i loro postumi immediati nell’ambito del processo che portò alla «morte dell’Impero» Ottoma- no e quindi alla «nascita di una nazione» turca, sono quindi ricostruiti facendo in parte ricorso anche all’abbondante memorialistica e alla vasta documentazione esistenti sull’argomento. Chiudono il libro due capitoli dedicati alle ragioni della mancata punizione dei respon- sabili e al dibattito storiografico sul genocidio. Flores mostra come, nell’uno e nell’altro caso, considerazioni di ordine politico abbiano influenzato pesantemente lo svolgersi degli eventi, ostacolando la ricerca della verità, sia giudiziaria che storica. Egli conclude che per fortuna la ricerca storica «si sta rapidamente emancipando – anche se non potrà mai farlo del tutto – dal- l’influenza del dibattito pubblico e delle strumentazioni politiche destinate a sopravvivere» ma anche che «ancora per il prossimo futuro, ogni narrazione del genocidio […] avrà una rile- vanza che fuoriesce dal semplice contributo storiografico» (p. 224). A chiusura del volume ci sono un’appendice fotografica e un saggio esplicativo, scritto da Benedetta Guerzoni, del va- lore documentario e dell’«uso pubblico» delle 48 immagini in questione – tratte da fonti ar- chivistiche (alcune delle quali americane e tedesche) e non. Antonio Ferrara

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Pasquale Fornaro, Ungheria, Milano, Unicopli, 276 pp., Û 15,00

Il volume si inserisce in un progetto editoriale di largo respiro avviato dalle edizioni Uni- copli sulla storia dei paesi europei nell’età contemporanea, e abbraccia un arco cronologico ormai classico della storiografia sull’Europa centrale che, partendo dal 1867, data di nascita della Monarchia dualista, ripercorre le vicende ungheresi individuandone le principali frattu- re periodizzanti nei cambi di regime politico e assetto socio-economico intervenuti negli an- ni 1918/19, 1944/45 e 1989/90. Nei quattro ampi capitoli l’autore privilegia l’approccio po- litico-istituzionale di impianto prettamente manualistico, sebbene non manchino riferimen- ti all’evoluzione della società e della vita culturale ungheresi (da segnalare per la sua comple- tezza quello relativo al periodo interbellico, pp. 128-41). In generale, una maggiore solidità d’impianto e finezza interpretativa contraddistingue la trattazione del periodo ante-1941. Pur senza avanzare ipotesi interpretative originali, Fornaro mette qui a frutto i risultati consegui- ti negli ultimi 30-40 anni dai principali esponenti della storiografia ungherese contempora- nea (Hanák, Berend, Ránki, Ormos, Romsics). Meno aggiornato metodologicamente appare invece l’approccio a nodi interpretativi come la partecipazione ungherese alla seconda guerra mondiale, l’instaurazione del regime comunista e il cambio di sistema successivo al 1989. Gli ultimi due capitoli scontano lacune documentarie dovute al mancato accesso alla storiografia ungherese più recente, sempre più indirizzata verso la storia delle mentalità collettive, dei cam- biamenti sociali e culturali. Tali limiti appaiono evidenti nella sintetica trattazione dell’Olo- causto (pp. 124-26), con l’assenza di un’analisi sui livelli di responsabilità individuali e collet- tivi per lo sterminio degli ebrei ungheresi, e della rivoluzione del 1956 (pp. 172-81). Nel se- condo caso, si rileva che alle pp. 176-177 il secondo intervento sovietico del 4 novembre vie- ne motivato con la dichiarazione di neutralità annunciata dal governo di Imre Nagy, e non dalla decisione presa il 31 ottobre dal Politburo, come emerge non solo dalla documentazio- ne archivistica disponibile, ma anche dalle più recenti sintesi manualistiche (ad esempio il te- sto di Ben Fowkes sulla storia dell’Europa orientale dal 1945 al 1970, adottato in diverse uni- versità). Problematico risulta l’utilizzo del termine «nazionalismo», contrariamente alla tradi- zione anglosassone declinato in un’accezione negativa e chiamato, nel caso delle vicende del- l’Ungheria del ’900, a spiegare fenomeni storici assai distanti tra loro quali la politica di assi- milazione condotta dallo Stato ungherese negli ultimi decenni dell’800 e il rapporto, spesso conflittuale, fra l’Ungheria e gli stati successori della Monarchia asburgica dal 1920 ai giorni nostri. Nel capitolo III, dedicato all’Ungheria comunista, si rileva infine una certa sottovalu- tazione del fattore sovietico (presenza militare ininterrotta dal 1945 al 1991, ruolo dei consi- glieri politici e delle reti e filiere poste in essere dai servizi di sicurezza), la cui disamina risul- ta oggi imprescindibile – anche all’interno di un’opera di sintesi – per una piena comprensio- ne delle vicende di un paese est-europeo nella seconda metà del ’900. Stefano Bottoni

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Silvia Franchini, Diventare grandi con il «Pioniere» (1950-1962). Politica, progetti di vita e identità di genere nella piccola posta di un giornalino di sinistra, Firenze, Firenze University Press, 295 pp., Û 16,90

Le organizzazioni di massa del PCI togliattiano hanno rappresentato a un tempo un mezzo rilevantissimo del radicamento del partito nella società civile, e un ambito di elaborazione e spe- rimentazione di pratiche anche piuttosto originali nei settori specifici in cui operavano. L’educa- zione dell’infanzia, affidata con entusiasmo non certo eccessivo all’Associazione Pionieri d’Italia, concretizzava bene la natura «di confine» del cosiddetto lavoro di massa: fra strumento di repe- rimento del consenso, insomma, e laboratorio di forme e linguaggi genuinamente ispirati alle più aperte esperienze pedagogiche. Ma è questa una storia ancora poco conosciuta, come il ruolo che vi ebbero figure quali Gianni Rodari (più famoso per le straordinarie e più tarde opere letterarie) e Dina Rinaldi, fino al 1950 direttrice di «Noi donne» e in seguito del «Pioniere». In una ricer- ca più propriamente pedagogica era negli stessi anni impegnata Ada Gobetti con la rivista «Edu- cazione democratica». I Convitti della Rinascita e altre notevoli esperienze educative per bambi- ni di famiglie disagiate si muovevano intanto su percorsi molto differenti da quelli seguiti nelle scuole statali, sorvegliate da politici di stretta osservanza democristiana. Non solo i contenuti, ma anche le forme di tali esperienze educative erano spesso innovative: il coinvolgimento attivo dei bambini e delle bambine, non meno che delle loro famiglie, prefigurava ad esempio una sorta di comunità pedagogica dai tratti decisamente anticonformisti nell’Italia dell’epoca. Tenendo ben presenti questi elementi, la ricca indagine di Franchini si rivolge alla vicenda del giornalino dell’API e alla figura di Rinaldi. Il volume comprende varie parti: un saggio sulla storia del «Pioniere» (con ampie aperture verso il più vasto contesto politico e culturale, e con molti utili rimandi bibliografici), una nutrita selezione dalla sua rubrica della posta, un profilo di Dina Rinaldi efficacemente correlato con le tendenze pedagogiche più interessanti del tem- po, documenti epistolari relativi a una bella iniziativa editoriale del 1960 (una raccolta di rac- conti per ragazzi commissionati a importanti scrittori). La corrispondenza tenuta con i giovani lettori da Rinaldi, evidenzia in particolare l’autrice, non è un mero catalogo di raccomandazio- ni per «piccoli missionari di sinistra» (p. 42), ma un dialogo «a basso tasso ideologico» (p. 46) che restituisce – soprattutto negli anni del boom e nel caso delle ragazze – «una testimonianza rara su quella matassa di sogni e progetti che, nell’età dello sviluppo, proietta l’adolescente nel futuro con speranze ancora intatte» (p. 52). Nel complesso, il volume si offre anche come docu- mentata ricostruzione di un pezzo non trascurabile della storia politica e culturale del dopoguer- ra: un racconto che attraversa l’«educazione dei sentimenti», la letteratura per l’infanzia, la sto- ria del giornalinismo italiano, la ricerca di una via pedagogica laica, progressista e «civile» che certamente guardava ai supremi modelli sovietici, ma anche alla sofferta conquista dell’indipen- denza nazionale e dei diritti di cittadinanza culminata nella Costituzione repubblicana. Sandro Bellassai

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Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fa- scisti, Milano, Mondadori, 381 pp., Û 19,00 Scrittore prolifico, esperto di storia italiana tra fascismo e dopoguerra, Franzinelli presen- ta in questo volume gli esiti di un’indagine ben documentata su un tema, quello dell’amnistia di Togliatti, di cui si era già in altre occasioni interessato. Con accenti che ricordano ben altre stagioni storiografiche, l’autore intreccia temi che solo recentemente hanno trovato in Italia una certa attenzione (epurazione e punizione dei criminali di guerra) con altri più consolida- ti (il ruolo di Togliatti e le sue relazioni con la base comunista). Centrale appare nel libro il ruolo della magistratura e in particolare di quella impegnata nelle Corti di cassazione. Il «col- po di spugna» del titolo del volume esplicitamente rimanda alla inefficacia delle misure giu- ridiche attuate per voltare pagina dopo il conflitto bellico, il crollo del fascismo, la guerra ci- vile. L’incapacità di trovare un equilibrio tra il risentimento popolare, le ragioni di una neces- saria pacificazione e le colpe di criminali e collaborazionisti sono ascrivibili, secondo l’autore, alle resistenze di magistrati che, maturati professionalmente durante il ventennio, e di cui nel libro si tracciano le carriere, si impegnano per liberare l’altissimo numero di fascisti detenuti. Certo questo fu possibile grazie ad una legge, quella dell’amnistia del 22 giugno 1946, piena di ambiguità e veri e propri errori di formulazione che consentirono alle corti una impruden- te discrezionalità. Si mostra chiaramente come l’esclusione dai benefici della legge per gli au- tori di «sevizie particolarmente efferate» consentì la liberazione di autori di crimini gravissi- mi. Le responsabilità sono da attribuire interamente a Togliatti e non a una trappola posta da un personale burocratico sopravvissuto ai tiepidi procedimenti epurativi. Se Togliatti sia sta- to semplicemente malaccorto o avesse agito secondo un progetto, Franzinelli non lo dice; i ri- ferimenti al dialogo aperto da Togliatti con ex mussoliniani sembrano però suggerire una ri- sposta. Interessante è quella sorta di prosopografia degli amnistiati che occupa la parte centrale del libro. Hanno il merito queste pagine di superare la territorialità di gran parte dei lavori su questi temi; l’autore riesce a costruire un contesto più ampio e a liberare la ricostruzione da una dimensione rapsodica, in cui di rado è chiaro quanto contino tensioni e rancori locali. L’ultimo capitolo, prima di una raccolta documentaria e una cronologia, è dedicato a una comparazione tra le misure adottate in vari paesi per punire criminali di guerra e collabora- zionisti e liberare le amministrazioni pubbliche da personaggi particolarmente compromessi. I casi di Francia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Austria mostrano co- me solo in Italia fu concessa piena impunità alla classe dirigente fascista. Se si fosse fatto rife- rimento anche alla Germania, dove i problemi della denazificazione e dell’epurazione si po- nevano esattamente negli stessi termini, le somiglianze con il caso italiano sarebbero state cer- to maggiori, e il numero dei criminali reinseriti, come dimostra Norbert Frei nel suo Carrie- re (Torino, Bollati Boringhieri, 2003), non molto dissimile. Giovanni Montroni

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Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra. La Certosa di Farneta tra resistenza civile e vio- lenza nazista, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 283 pp., Û 25,00 La ricerca sulle stragi compiute dalla Wehrmacht nell’Italia centrale ha individuato una casistica assai variata per le loro cause. Ma sembrano sempre comparire due elementi: le stra- gi si compiono per lo più in isolate località di alta collina o di montagna, gli uccisi sono pre- valentemente contadini. I tedeschi, spesso aiutati da fascisti repubblicani, uccidono in modo «astratto» e impersonale: muore chiunque si trovi in una determinata area; oppure tutti colo- ro che sono arrestati fino a quando i massacratori hanno raggiunto il numero di vittime pre- fissato. La strage non è preceduta da indagini volte a separare partigiani e antifascisti dal resto della popolazione. Così spesso sono uccisi i fiduciari fascisti locali (segretari del fascio, pode- stà) ma anche soldati repubblicani in licenza. Nel massacro della Certosa di Farneta preso in esame da Fulvetti con il bel libro Una comu- nità in guerra entrambi questi caratteri sembrano assenti. La Certosa è infatti un convento di clausura ma è tutt’altro che isolata, visto che si trova a pochi chilometri da Lucca. Nei mesi con- vulsi del passaggio del fronte ospita antifascisti, partigiani, ebrei, semplici sfollati e persino po- tenti funzionari della RSI che erano fuggiti all’ultimo momento, attirando su di sé un odio par- ticolarmente vivace. Tedeschi e fascisti sono insospettiti dalle visite di parenti ai congiunti na- scosti. Un sergente della XVI Divisione SS, Eduard Florin, inizia a frequentare la Certosa spac- ciandosi per devoto cattolico. Frequenta anche il paese di Farneta, e pone mille domande agli abitanti. La sua attività di intelligence gli fa capire chi si nasconda nel convento e quali siano i monaci più impegnati nell’assistenza ai fuggitivi. Dopo l’irruzione nella Certosa i tedeschi arre- stano tutti i rifugiati e tutti i monaci. Nei giorni seguenti alcuni riusciranno a salvarsi, ma gli an- tifascisti riconosciuti e i monaci direttamente coinvolti nell’assistenza saranno uccisi. In questa strage, quindi, non si muore per caso: gli uccisi sono stati prima riconosciuti at- traverso indagini raffinate e prolungate. Tuttavia anche in questo caso compare la banalizza- zione della morte tipica dei nazisti, che uccidono anche alcuni monaci non «colpevoli», ma anziani e quindi, ai loro occhi, inutili. Se i monaci sono arrivati ad aprire ai fuggitivi un con- vento di clausura, e se forse hanno anche stretti contatti con la Resistenza questo si spiega con la storia della Chiesa lucchese negli anni precedenti, che Fulvetti ripercorre in dettaglio nella prima parte del libro. Sotto la guida di un arcivescovo molto coraggioso, monsignor Antonio Torrini, la diocesi esprime infatti una rete di parroci capaci di un’opposizione al fascismo ne- gli anni del regime, e di una vera «resistenza civile» nel periodo dell’emergenza. Nonostante l’unicità di questa strage, anche in questo caso compare la tendenza a trova- re, oltre i veri colpevoli, un capro espiatorio nel monaco più impegnato e, forse, direttamen- te coinvolto nella Resistenza, il padre procuratore Gabriele Costa, (sommessamente) accusa- to di ingenuità, leggerezza e irresponsabilità per aver aperto ai profughi il convento, metten- do a repentaglio la sicurezza dei suoi confratelli. Giovanni Contini

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Gianluca Fulvetti, Francesca Pelini (a cura di), La politica del massacro. Per un atlante del- le stragi naziste in Toscana, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 460 pp., Û 30,00

Il volume esce a quasi dieci anni dalla pubblicazione del fondamentale Guerra ai civili di Michele Battini e Paolo Pezzino che iniziò ad indagare in una nuova prospettiva il tema, an- cora inesplorato e quasi sconosciuto, della repressione nazista nei confronti della popolazione civile, imprimendo una decisiva svolta nello studio del complesso fenomeno delle stragi e de- gli eccidi dei civili nell’Italia occupata dalle truppe tedesche. Da allora un crescente numero di ricerche e pubblicazioni, in particolare concentrate sul- l’area toscana, hanno restituito al grande pubblico una pagina di storia pressoché esclusa dal- la narrazione dominante delle vicende italiane del 1943-1945. La politica del massacro curato da Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini, alla quale è dedicato per la prematura scomparsa, si inserisce nel solco di questo consolidato filone ricordando giu- stamente al lettore che «per rispondere appieno al “perché” della guerra ai civili, c’era bisogno di ragionare non solo sul “come” ma anche sul “quando” e sul “dove” essa aveva colpito» (p. 24). Introdotto da un ampio e documentato saggio di Gianluca Fulvetti, il volume, che illu- stra anche i risultati di un accurato censimento dello stragismo nazista che causò in Toscana la morte di 3.824 persone (e la cifra è ancora da considerarsi per difetto), presenta un interes- sante percorso di carattere tematico e geografico proponendo nuove chiavi interpretative per rileggere criticamente quella drammatica stagione; una ricerca che, ricorda ancora Fulvetti, of- fre «una riflessione plurale e diversificata sulla storia e la memoria delle stragi di civili che han- no avuto luogo in Toscana» (p. 17). Spetta a Luca Baldissara il non facile compito di delineare il quadro di riferimento politico e militare entro cui maturarono le stragi soprattutto in rapporto all’evoluzione della guerra par- tigiana, alla quale, in più di un caso, furono imputate le responsabilità, dirette e indirette, dei massacri. Paolo Pezzino e Michele Battini concentrano invece la loro attenzione sulle dinamiche stragiste in alcune aree specifiche del territorio (il settore occidentale della Linea Gotica e l’area pisana), mentre Gianluca Fulvetti e Riccardo Maffei ricostruiscono due situazioni locali (la stra- ge della Certosa della Farneta e l’occupazione tedesca di Pescia). Il ruolo esercitato dalla Divisio- ne Göring viene esaminato, con il consueto rigore documentario, da Carlo Gentile; infine Clau- dio Manfroni, Giovanni Contini e Toni Rovatti ritornano sul delicato tema dell’elaborazione del ricordo della violenza subita e la sua ricaduta nella sfera pubblica e privata. L’auspicio è che questo riuscito lavoro possa stimolare analoghe ricerche in altre realtà ter- ritoriali italiane anch’esse investite, sebbene con tempi e modalità diverse, dalla violenza tede- sca e fascista, che consentirebbero di avere un quadro generale più puntuale e circostanziato della «politica del massacro» perpetrata dalle truppe naziste nel territorio della Repubblica so- ciale italiana. Marco Borghi

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Daria Gabusi, Liviana Rocchi, Le feste della Repubblica. 25 aprile e 2 giugno, Brescia, Mor- celliana, 545 pp., Û 38,00

Studiose di storia dei processi educativi, della cultura e dell’educazione, le autrici collocano il loro lavoro «all’incrocio degli studi sull’identità nazionale, da una parte, e delle ricerche sull’e- ducazione politico-civile, dall’altra» (p. 17), muovendosi «in una prospettiva di studio incentra- ta sulla rilevanza simbolico-educativa delle due feste» (p. 19) prese in considerazione. La scelta di concentrarsi solo sul 25 aprile e sul 2 giugno, però, ha indebolito il ragionamento sul recupe- ro della memoria della Grande guerra, che avrebbe richiesto una riflessione sul 4 novembre, e la ricostruzione della vicenda del monumento a Mazzini, nella quale lo studio dell’anniversario del- la Repubblica romana avrebbe dato maggiore prospettiva – restituendogli anche la giusta inten- sità – alla contrapposizione tra l’universo laico e una parte del mondo cattolico. Come ha sostenuto Fulvio De Giorgi nell’esaustiva presentazione, Gabusi e Rocchi riesco- no a sciogliere il nodo gordiano «del rapporto tra fascismo e post-fascismo, tra liturgia del culto del littorio e ritualità civile repubblicana» (p. 10) mostrando le diverse polarità che si produsse- ro nelle feste repubblicane, ma confutando al contempo l’idea che le stesse potessero minare l’ef- ficacia della religione civile repubblicana. Anzi, proprio la «debolezza» della ritualità repubblica- na la distingueva dal culto del littorio e la rendeva adatta a quella difficile opera di formazione alla cittadinanza democratica che costituiva l’obiettivo prioritario della classe dirigente tutta. Ragionata appare la scelta delle fonti archivistiche e giornalistiche tra le quali, tuttavia, spicca l’assenza delle testate facenti riferimento all’area laica (PLI, PRI, PSDI e Pd’A). Nei ca- pitoli dedicati al 25 aprile, inoltre, sembra mancare una sufficiente interazione tra le fonti. Molto accurata è invece la compilazione delle note. L’arco cronologico del lavoro si estende dal 1946 al 1953 nella «convinzione che gli anni più vicini all’avvenimento celebrato siano stati decisivi per la costruzione dei miti di fondazione della nuova Italia e per la realizzazione di ciò che poi è stato commemorato nei riti civili» (p. 21). Il testo, troppo lungo nelle descri- zioni e con citazioni eccessivamente prolisse, contiene anche un breve, ma significativo, inser- to iconografico. L’introduzione, ben strutturata e di ampio respiro, dedica ampio spazio alle vicende successive al 1953, anche se appare un po’ troppo sbrigativa nella ricostruzione del- l’iter che portò alla legge del 27 maggio 1949. Particolarmente ben fatti sono i capitoli dedi- cati al 2 giugno, opportunamente calati nel lungo periodo, con una puntuale attenzione ri- servata agli elementi strutturali, rituali e coreografici e con un appropriato spazio per quelli più ludici della festa popolare. Infine, gli aspetti maggiormente originali del lavoro si trovano nella terza parte rivolta all’analisi dei simboli della patria, mettendo in risalto l’idea «di un pro- cesso di rinnovamento nella continuità» (p. 420), del culto dei caduti, distinguendo sottil- mente tra l’eroismo esaltato il 2 giugno e il martirio commemorato il 25 aprile, e della trasfor- mazione dell’identità di genere e dell’educazione della gioventù. Yuri Guaiana

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Enrico Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna, il Mulino, 250 pp., Û 18,50 Man mano che diventano accessibili nuove documentazioni, si è in grado di fare progressi significativi nelle ricerche sulla storia politica, religiosa ed intellettuale italiana del Novecento. Non si pensi però che l’accessibilità dei documenti significhi una loro facile invenzione o con- sultazione. L’accuratissimo studio che Enrico Galavotti ha dedicato agli anni formativi di Giu- seppe Dossetti è un ottimo esempio di quanto la fatica della ricerca storica sia ancora notevole. Con grande acribia questo studioso si è dovuto infatti confrontare con una vicenda nien- te affatto semplice, perché spaziava dalla formazione del futuro leader della sinistra cattolica nel suo ambiente di nascita, la Reggio Emilia dei primi del Novecento, al suo approdo all’U- niversità Cattolica a Milano con tutto ciò che questo ha significato. La ricostruzione della parte reggiana è veramente un’opera rilevante, non solo per l’infi- nita pazienza con cui Galavotti ha ricostruito anche gli aspetti più minuti (la scuola elemen- tare e la prima esperienza nella parrocchia di Cavriago, paese di residenza dell’infanzia dosset- tiana), ma per il notevole acume con cui ha indagato la fase adolescenziale e post-adolescian- ziale, gli anni del liceo a Reggio e dell’università a Bologna. Il compito era tutt’altro che faci- le, poiché si intrecciavano elementi in parte noti (il suo rapporto con la spiritualità comples- sa di don Dino Torreggiani, un prete carismatico che lo porta a contatto tanto con i poveri quanto con l’ascesi personale) ed altri sui quali o non si sapeva nulla o si sapeva molto poco. Ai primi appartiene il percorso dentro il Liceo, con le sue inevitabili tangenzialità con il con- testo del fascismo al potere. Qui Galavotti ha con rigore portato alla luce un percorso che que- ste tangenzialità non ha potuto evitare (coinvolgimenti marginali nelle organizzazioni giova- nili fasciste e qualche suggestione per i miti dell’epoca) ad onta della rimozione totale di que- sta parentesi nella memoria dello stesso protagonista. Naturalmente una parte molto interessante riguarda la ricostruzione della esperienza di Dossetti in Cattolica, dove entra in contatto con Lazzati, La Pira, Fanfani ed altri, ma soprat- tutto con la controversa personalità del «Magnifico Terrore», come veniva neanche tanto scherzosamente chiamato il padre Agostino Gemelli. È anche questo un rapporto complesso, in cui il vulcanico francescano sente il fascino di quel giovane abbastanza anomalo (per esempio non molto produttivo quanto ad opere scien- tifiche, nonostante una applicazione di studio notevole e costante), ma in cui anche il giova- ne intellettuale specifica un percorso da cui trarrà una serie di elementi e di giudizi sul catto- licesimo, sulla spiritualità, sul rapporto fra la fede e le opere che influenzeranno in maniera notevole il suo più noto percorso successivo. L’analisi è un po’ troncata alla data del 1939, che non è compiutamente periodizzante, ma ciò è dovuto più che a scelte dell’autore a circostanze esterne (la necessità di far uscire que- sto lavoro per il decennale della scomparsa di Dossetti). Paolo Pombeni

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Giulia Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, Roma, Biblink, 317 pp., Û 24,00 Il libro affronta il tema del suffragio femminile in Italia attraversando due fasi: gli anni che vanno dall’Unità al fascismo e il biennio 1945-1946. Pur affermando che il percorso del- le donne italiane verso la conquista dei diritti politici si presenta sostanzialmente univoco a quello compiuto in tutto l’Occidente, l’autrice fin dall’introduzione avanza nello stesso tem- po l’ipotesi che esista una differenza tra i paesi che hanno ammesso gradualmente le donne al voto (ad esempio riconoscendo prima il diritto al voto amministrativo) e quelli dove invece esso è stato concesso tardi e tutto in una volta. Quest’ultimo com’è noto è il caso dell’Italia. La mancanza di gradualità avrebbe ostaco- lato, nel nostro paese, la formazione di una classe politica «in cui agli uomini si affiancasse- ro le donne, allargata progressivamente fino a comprendere tutti e due» (p. 304). Il volume nella prima parte ripercorre le vicende della battaglia per il voto alle donne nell’Italia libera- le, tematizzando, di seguito, i tentativi, mai riusciti, di concedere il voto amministrativo; il dibattito interno ai movimenti emancipazionisti e suffragisti e gli argomenti che stavano al- la base della richiesta del voto; le «risposte degli uomini», di quelli (molti) contrari e dei po- chi favorevoli. Nella seconda parte vengono illustrate testimonianze di donne che hanno par- tecipato alla Resistenza e ai Gruppi di difesa della donna, la rinascita della campagna per il suffragio femminile e l’approdo della questione in sede di governo, fino al decreto legislati- vo che introduce per le italiane il diritto di voto. Ci si sofferma sull’esclusione stabilita per le prostitute che esercitavano fuori dai locali autorizzati, ricollegandola al tema, di molto ri- salente, delle qualità richieste alle donne per meritarsi il voto; tra queste la prima era la ma- ternità, categoria dalle quale, si dice, «le prostitute andavano escluse». Per completare la pie- nezza della cittadinanza mancava tuttavia la definizione del diritto elettorale passivo, che av- viene infatti con tredici mesi di ritardo rispetto al primo decreto. I preparativi e la mobilita- zione per le elezioni amministrative del 1946, la campagna elettorale per le elezioni dell’As- semblea costituente e un esame dei risultati completano la trattazione, che intreccia dati elet- torali, brevi quadri biografici delle elette, testimonianze e citazioni, ai fini di ricostruire il cli- ma che complessivamente caratterizza l’entrata delle italiane nella politica. Nelle brevi con- clusioni si accenna al problema delle quote rosa, introdotte nel 1993 nelle liste per la quota proporzionale. L’intreccio tra la ricostruzione storica degli eventi e i problemi «teorici» inevitabilmente sollevati da questo tema appare spesso confuso; si fa sentire inoltre la mancanza di un bilan- cio sulla letteratura esistente, che poteva forse aiutare nell’elaborare le pur interessanti sugge- stioni proposte da questo volume. Mariapia Bigaran

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Valeria Galimi, L’antisemitismo in azione. Pratiche antiebraiche nella Francia degli anni Trenta, Milano, Unicopli, 335 pp., Û 15,00

Questo importante studio sull’«antisemitismo in azione» in Francia, nell’ultimo decen- nio di esistenza della Terza Repubblica, non solo colma una lacuna storiografica, ma segnala anche originali percorsi di ricerca e offre preziose indicazioni di metodo a chiunque voglia og- gi interessarsi alle pratiche messe in opera da formazioni, gruppi, circoli, leghe, che si sono serviti (e ancora si servono) del pregiudizio antiebraico come fondamento o parte sostanziale del loro agire politico. Galimi – a partire soprattutto da carte depositate presso l’Archivio di Prefettura di polizia di Parigi, incrociate con fondi del Ministero dell’Interno – ne coglie la presenza, i caratteri e le trasformazioni, così come l’impatto sull’opinione pubblica e sui po- teri costituiti, ben consapevole di quanto sia importante «non circoscrivere l’attenzione alla sola produzione ideologica e al “discorso antisemita”» (p. 17). Analizza dunque scritti o di- chiarazioni che hanno esplicita funzione d’intervento nello spazio pubblico, in quanto fina- lizzati ad attaccare il sistema democratico e le istituzioni repubblicane, perché favorevoli ad una riforma dello Stato in senso antiparlamentare e corporativo. L’autrice ricostruisce brillan- temente i tratti costitutivi dei «professionisti» dell’antisemitismo, risale alla loro estrazione so- ciale e culturale, riesuma stime sul loro numero e la loro presenza, studia con perspicacia il lo- ro lessico sottolineandone la valenza identitaria. Individua inoltre – in una ricca mappatura della stampa quotidiana e delle riviste d’opinione, dell’editoria e della pubblicistica – alcuni «luoghi di produzione» – laboratorio; e propone alcuni «momenti» esemplificativi (il «nuovo» affaire Dreyfus; la recrudescenza della violenza con l’arrivo di esuli dal Terzo Reich; l’affaire Stavisky; le sommosse antiebraiche in Algeria). L’esame delle pratiche antisemite, che non tra- lascia manifestazioni di piazza, riunioni interne e comizi dei movimenti, porta a evidenziare elementi di permanenza, ricorrenza, ristrutturazione e adattamento di motivi antichi (la vi- cenda Dreyfus, l’eredità Drumont, il mito della cospirazione ebraica internazionale) in con- testi nuovi (segnati, per esempio, dall’ondata migratoria dall’Europa orientale o dalla vittoria del Fronte popolare e dalla formazione del governo di Léon Blum), così come il ricorso a te- matiche sempre più legate all’attualità (il «giudeo-bolscevismo», il sionismo, la «scienza» del- la razza). La diffusione e penetrazione del pregiudizio, la sua capillarità e persistenza, risiedo- no proprio nella capacità di «trasposizione di materiali preesistenti, già familiari all’opinione pubblica», in un contesto evenemenziale rinnovato (p. 21). Le pagine finali propongono una equilibrata riflessione, più che mai attuale, sulla debole reazione degli apparati dello Stato di fronte al diffondersi delle pratiche antiebraiche, e la conseguente assuefazione della colletti- vità, con la breve parentesi del decreto-legge Marchandeau (21 aprile 1939), che stabilì il di- vieto di pubblicare «scritti diffamatori» che mirassero «a colpire sia una collettività razziale, che una collettività religiosa, allo scopo di incitare all’odio i cittadini» (p. 316). Antonella Salomoni

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Mirella Galletti, Storia della Siria contemporanea. Popoli, istituzioni e cultura, Milano, Bompiani, 175 pp., Û 9,50

L’agile volume di Mirella Galletti offre una sintesi della storia della Siria contemporanea, paese chiave nell’incrocio geopolitico mediorientale. Dopo alcuni rapidi accenni al suo passa- to millenario, la studiosa presenta in maniera più approfondita le vicende del paese dalla dis- soluzione dell’Impero Ottomano fino ai giorni nostri. La sensibilità della studiosa, attenta co- noscitrice del dossier curdo, le permette di alternare alla narrazione storica importanti messe a punto sul quadro sociale ed etnico-religioso che compone il mosaico siriano. Tali approfon- dimenti arricchiscono il saggio che, per questo, non è soltanto una felice sintesi della storio- grafia sull’argomento, ma assume i tratti della ricerca originale, grazie all’utilizzo di alcuni do- cumenti d’archivio di cui la Galletti si serve per delineare la complessa situazione delle mino- ranze, in particolare di quella curda, ma non solo. Dopo uno schematico profilo storico-geografico del paese, la narrazione riprende più det- tagliata a partire dal mandato francese (1920-1946). La studiosa dedica un ulteriore capitolo alle tormentate vicende del paese dopo il raggiungimento dell’indipendenza, orientando il let- tore nelle complesse fasi che si conclusero con l’avvento al potere di Hafiz al-Asad e il raggiun- gimento di una certa «stabilità». L’interesse del volume risiede anche nel fatto che esso copre la storia siriana fino al 2005, rendendo conto del delicato momento del passaggio di potere da Hafiz a Bashar, nonché degli sviluppi più recenti della situazione mediorientale, fino a pro- porre alcune considerazioni sulla situazione attuale dell’Iraq. La parte finale del volume è riservata alla disamina delle relazioni internazionali della Si- ria nel quadro del conflitto israelo-palestinese, non solo con i paesi arabi limitrofi (Iraq, pale- stinesi, Libano, Giordania), con l’Iran e la Turchia, ma anche con le potenze dei due blocchi statunitense e sovietico. Questa panoramica permette alla studiosa di proporre alcune conclu- sioni: anzitutto emerge un giudizio articolato e non superficiale sulla figura di Hafiz al-Asad. Dopo gli anni dei continui colpi di Stato, egli emerse come il leader che riuscì a dare al pae- se stabilità e continuità. Il carattere oppressivo del regime da lui incarnato per trent’anni non è negato, né nascosto, ma la Galletti riconosce la sua abilità di politico pragmatico e cauto che ebbe il merito di innalzare la Siria al livello di una delle principali potenze regionali, paese de- cisivo per gli equilibri mediorientali e per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Completano il volume alcune note sulla produzione letteraria nel paese, nonché alcune informazioni sulle modalità di gestione dei mezzi di comunicazione di massa. Paola Pizzo

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Oscar Gaspari, Dalla Lega dei comuni socialisti a Legautonomie. Novant’anni di riformismo per la democrazia e lo sviluppo delle comunità locali, Prefazione di Linda Lanzillotta, Postfazio- ne di Oriano Giovanelli, Roma, Edizioni Alisei, 237 pp., ed. fuori commercio

L’intento dichiarato dall’autore nella premessa al volume è quello di una ricostruzione completa della storia della Lega delle autonomie (inizialmente Lega dei comuni socialisti poi Lega dei comuni democratici), che tenga conto sia delle vicende politico-istituzionali che di quelle tecnico-amministrative, senza scivolare nell’ottica esclusiva della storia dei movimenti e dei partiti politici. L’obiettivo è raggiunto, anche e soprattutto per la capacità di Gaspari di ben rappresentare la sostanziale unitarietà tematica del movimento autonomistico e insieme la rivalità e concorrenzialità delle organizzazioni maggiori, l’ANCI, l’UPI e la Lega stessa, evi- tando di considerare quest’ultima come «mera appendice del PSI nel periodo liberale e fasci- sta, e del Partito socialista e di quello comunista nel periodo repubblicano» (p. 11). L’autore individua nel riformismo socialista quel filone comune all’indirizzo prevalente nella fondazio- ne della Lega nel 1916 ma anche nelle esperienze degli anni d’età repubblicana, quando si af- ferma il principio della compatibilità delle amministrazioni di sinistra con l’adesione all’AN- CI, come aveva teorizzato M.S. Giannini, a differenza della posizione massimalista vincente verso la fine dell’età liberale e che Gaspari ritiene corresponsabile dell’indebolimento oltre che della Lega dell’intero movimento socialista di fronte all’avanzata del fascismo. Del resto lo stes- so PCI è ben attento nel secondo dopoguerra a far sì che la risorta Lega dei comuni democra- tici serva a far valere le ragioni di Province e Comuni socialisti e comunisti piuttosto che a iso- lare gli enti locali di sinistra dal movimento per le autonomie locali. Senza negare lo stretto legame con la dimensione politica e di parte, rafforzato per altro dalla situazione di oggettiva maggiore debolezza delle amministrazioni locali di sinistra nei confronti dell’intervento stata- le e prefettizio in età liberale ma anche negli anni Cinquanta, il volume ripercorre così l’evo- luzione della stessa Lega, che tende a svincolarsi progressivamente dalla dipendenza eccessiva nei confronti dei partiti. Impegnata contro il permanere di diffidenze e tendenze stataliste e centraliste trasversali alla maggioranza e alla stessa opposizione, contribuendo ad un rappor- to migliore tra istituzioni e cittadini, l’organizzazione approda negli ultimi anni ad una rin- novata vocazione unitaria, per un raccordo tra autonomie locali, Regioni e Stato, che subisce però negli anni ’90 la concorrenza rappresentata dall’inedito protagonismo dell’ANCI e, al suo interno, dei sindaci delle grandi città. Nelle sfide che si pongono oggi alla Lega, dalla crea- zione di una nuova classe dirigente locale alla capacità di coordinare in forma sistemica le co- munità locali, come suggeriscono Lanzillotta nella premessa e Giovanelli nella postfazione, si condensano le esigenze e le aspettative di un movimento secolare per le autonomie di cui il volume rappresenta un utile e lodevole strumento conoscitivo. Giovanni Schininà

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Robert Gellately, Ben Kiernan (a cura di), Il secolo del genocidio, Milano, Longanesi, 509 pp., Û 24,00 (ed. or. Cambridge, 2003)

Questo volume composto da diciassette contributi, di autori diversi, sui genocidi del No- vecento è, più che un vero libro di storia, un’opera di genocide studies: i saggi proposti cerca- no infatti di mettere in relazione l’oggetto della propria indagine con il concetto di genocidio (come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite in materia), anche se questa regola non è priva di significative eccezioni. Il tentativo di applicare quest’ultimo a una varietà di situa- zioni tra loro molto differenti, tuttavia, non sempre riesce bene e in definitiva finisce piutto- sto col sollevare qualche dubbio circa l’effettiva utilità scientifica del termine (almeno nell’ac- cezione in cui viene impiegata dagli autori). In effetti, il punto debole del volume sembra essere proprio di natura interpretativa: non solo non sembra esservi un’adeguata riflessione sulla categoria di genocidio – la cui incerta de- limitazione fa sì che si possa ragionevolmente obiettare alla mancata inclusione di eventi che potrebbero sicuramente rientrarvi, almeno alla luce dell’uso che del termine si fa nel volume (come nel caso dell’Holodomor ucraino del 1932-33, menzionato solo di sfuggita, e delle per- secuzioni anti-curde nell’Iraq di Saddam – ma gli esempi potrebbero continuare) – ma alcu- ni autori fanno addirittura riferimento a categorie ancora diverse (è il caso di Nicolas Werth e Jacques Semelin che usano il termine «crimine di massa» in riferimento rispettivamente al Terrore staliniano e alla pulizia etnica nell’ex-Jugoslavia). Il punto di forza sta invece nel fatto che viene affrontata una varietà di casi inerenti non so- lo alla storia europea ma anche a quella di altri continenti, e riguardanti eventi abbastanza noti così come altri meno conosciuti (quali quelli indonesiani, etiopici e guatemaltechi). L’attenzio- ne rivolta a questi ultimi è un indubbio merito di questo volume, nonché uno dei principali mo- tivi d’interesse dello stesso (soprattutto dal punto di vista del lettore italiano); la lettura dei ca- pitoli in questione, inoltre, conferma ulteriormente (se mai ce ne fosse bisogno) l’impossibilità di scrivere una storia eurocentrica del XX secolo, perfino nel campo della violenza politica. Come spesso accade con le opere miscellanee (il volume è il risultato di una conferenza tenuta a Barcellona nel 2000 – particolare questo omesso nell’edizione italiana, dove i ringra- ziamenti sembrano essere saltati), tuttavia, la qualità dei saggi è in qualche modo disuguale. Solo alcuni di essi si basano su ricerche originali – più di tutti forse quello di Isabel Hull sul- la violenza coloniale nella Germania guglielmina. Meritano senz’altro una segnalazione parti- colare quelli di Omer Bartov ed Edward Kissi, che uniscono felicemente ricerche originali (ri- spettivamente sulla Shoah e sull’Etiopia del Derg) e ipotesi comparative. Molto interessanti sono anche poi anche quelli di Ben Kiernan (che identifica e discute alcuni temi ideologici ri- correnti nei regimi genocidari) e Robert Gellately (quest’ultimo sul Terzo Reich e le visioni di «genocidio seriale» implicite nella pianificazione per il dopoguerra della Germania nazista). Antonio Ferrara

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Emilio Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del ter- rore, Roma-Bari, Laterza, X-266 pp., Û 16,00

«Questo libro non si occupa della storia dell’11 settembre né di complotti, ma del modo in cui gli americani credenti in dio hanno reagito all’attacco terroristico». Così l’autore intro- duce un lavoro che è il punto di arrivo di una riflessione di lungo periodo, intrapresa indiret- tamente, ricorda lo studioso, sin dai suoi primi «soggiorni per vacanza, studio o insegnamen- to» al di là dell’Atlantico, «essendo [gli Stati Uniti] una delle prime e più durature esperienze di sacralizzazione della politica in una democrazia occidentale» (p. IX). Forte delle esperienze di ricerca in altri ambiti e dell’elaborazione teorica sulla tensione fra religioni civili e politiche sviluppata ne Le religioni della politica. Fra democrazie e totalita- rismi (Roma-Bari, Laterza, 2001), Gentile segue la profonda rinascita della religione civile – cioè della ricerca, da parte degli americani, «nella religione e nel patriottismo [del]la forza mo- rale per reagire al trauma del terrore» (p. 182) – che ha caratterizzato il dopo-11 settembre e l’interpretazione in senso forte datane da George W. Bush. Quest’ultimo, sostiene l’autore, ha piegato in una «teologia di guerra» la lunga tradizione religiosa a più riprese succedutasi alla Casa Bianca, soprattutto dalla guerra fredda e da Eisenhower in poi. Per questa via, però, os- serva Gentile, il presidente «ha posto seri problemi teologici e morali, oltre che politici, alla coscienza religiosa degli americani cristiani che hanno deplorato il continuo appello di Bush e di molti membri della sua amministrazione alla loro religiosità per legittimare la loro poli- tica, rimproverandoli di trasformare in questo modo una religione universale di amore e di pace in una religione nazionale per giustificare azioni di guerra» (p. 208). Di qui l’ipotesi, avanzata da Gentile nel nono e conclusivo capitolo, che, nell’ombra dell’11 settembre, si sia consumato lo sforzo dell’establishment repubblicano di «compiere un esperimento di trasformazione della religione civile americana in una religione politica “all’a- mericana”, nel tentativo di acquisire il monopolio della definizione del “buon americano”» (p. 219). Il che, conclude Gentile, «è un’esperienza grave, che lascia una traccia» (p. 228). Se non si può che concordare con queste osservazioni finali e con molte acute annotazio- ni singole sparse nel volume, neppure si può tacere, però, come nuoccia al libro la mancata considerazione di una letteratura americanistica, statunitense e non, che ne avrebbe rafforza- to il radicamento nelle onde, lunghe e brevi, della storia statunitense e arricchito la forza in- terpretativa. Pensiamo, ad esempio, al lavoro di Anders Stephanson sulla controversa e pecu- liare vocazione imperiale e sul tema del «destino manifesto», o al contributo di Laurence Moo- re sul delicato rapporto fra religione, religiosità, cultura politica e cultura del mercato e del mondo corporate, tanto importante per capire i neocon e lo stesso Bush, o, ancora, a quello di Arnaldo Testi sulla simbologia della bandiera. Ferdinando Fasce

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Paolo Gheda, I cristiani d’Irlanda e la guerra civile (1968-1998), Milano, Guerini e Asso- ciati, 293 pp., Û 25,00

Per trent’anni i troubles nell’Irlanda del Nord hanno segnato uno scenario di violenza, set- tarismo, odio, discriminazioni, di storie separate e identità collettive cristallizzate attraverso la rielaborazione della memoria storica a proprio uso e consumo. Si sono così trasportati i signi- ficati, simbolicamente e materialmente, nei vessilli e nei culti del passato: da un lato William d’Orange, la battaglia di Boyne (luglio 1690) e le conseguenti marce celebrative, proprie di una società di frontiera e figlie della «mentalità di assedio». Dall’altro i culti per la S. Vergine, per il papa, l’ecumenismo di S. Patrizio e il mito gaelico. Eppure la questione nordirlandese non può essere liquidata come una regressione verso uno scontro etnico e tribale. Entrambe le parti dell’isola appartengono infatti all’UE. Entrambe sono nominalmente delle democra- zie politiche. Entrambe rivendicano apertamente il fatto di essere cristiane. Soprattutto la co- mune appartenenza cristiana delle due comunità viene affrontata da Paolo Gheda in I cristia- ni d’Irlanda e la guerra civile. Attraverso una meticolosa analisi dei documenti prodotti dalle Chiese irlandesi, Gheda ricostruisce il ruolo svolto da queste sul fronte del reciproco dialogo e del riconoscimento; dall’iniziale distacco della Chiesa cattolica d’Irlanda rispetto alla cam- pagna per i civil rights e l’insorgere dei troubles, Gheda dipana via via i fili della dimensione religiosa delle comunità d’Irlanda, slegandoli dall’indistinta matassa di violenze e settarismi. Ne viene fuori un quadro spesso di incomprensione e confusione fra gerarchie e rispetti- ve comunità d’appartenenza, dell’unanime, ma infruttuosa, condanna della violenza e della successiva presa di coscienza nei confronti del conflitto. Ma Gheda ricostruisce anche gli sfor- zi attuati per spostare il confronto interecclesiale dal piano teologico a quello aperto alla com- prensione delle ragioni settarie del conflitto, la condanna delle condizioni di detenzione dei paramilitari di entrambi i fronti e le esperienze di percorsi condivisi di dialogo e rispetto reci- proco. Le Chiese cristiane d’Irlanda hanno iniziato, prima ancora dei leader politici, il diffi- coltoso camminino del dialogo, seppure in un paese dilaniato dalla guerra; da un lato i nuo- vi indirizzi pastorali e dall’altro lo strenuo impegno di alcuni uomini di chiesa borderline, nel protestante quartiere di Shenkill così come nel cattolico Falls Road di Belfast, hanno inaugu- rato un nuovo dialogo ecumenico incentrato sul tema della giustizia contro quello della vio- lenza, della tolleranza contro il settarismo. Appaiono indicativi, proprio agli inizi degli anni ’90, i progetti formulati dalle Chiese cristiane verso la difficile strada della pacificazione; essi contribuiscono a far maturare nelle Sei Contee la consapevolezza di avviare, specie dopo il cea- sefire del ’94, un reale processo di pace in grado di pacificare entrambe le comunità. Gheda, nel complesso, ha affrontato l’annosa questione dei troubles dal punto di vista delle confessio- ni, e ne ha restituito una ricostruzione dettagliata certamente nuova rispetto alla storiografia e agli studi precedenti sulla guerra civile irlandese. Roberto Bruno

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Emilio Gianni, Liberali e democratici alle origini del movimento operaio italiano. I congres- si delle società operaie (1853-1893), Milano, Pantarei, 352 pp., Û 15,00

L’autore di questo volume ha pubblicato in tempi recenti e sempre per l’editore Pantarei due libri (L’editore Mongini e la diffusione del marxismo in Italia (catalogo storico 1899-1911), 2001; Diffusione popolarizzazione e volgarizzazione del marxismo in Italia. Scritti di Marx ed Engels pubblicati in italiano dal 1848 al 1926, 2004) il cui pregio maggiore consiste nella ric- chezza documentaria sorretta da particolare cura e acribia filologica. Per molti aspetti l’opera in questione si pone sulla stessa linea, ma il volume rovescia gli equilibri tra parte filologico- documentaria e saggio introduttivo. In questo caso il saggio introduttivo assume una rilevan- za quantitativa che era assente nei precedenti lavori. Il libro si propone come una coniugazione del genere «dizionario» con quello «prosopo- grafico» e si propone altresì come primo di una serie di lavori analoghi su esperienze omoge- nee. Non quindi movimento operaio in generale bensì analisi (dizionario-prosopografia) sui singoli settori con forte connettivo comune. In questo caso su liberali e democratici. Le voci biografiche censite sono 203. Praticamente la quasi totalità dei dirigenti delle so- cietà mutualistiche ed operaie dalle loro origini fino alla crisi del mazziniano Patto di fratel- lanza. Tale ampiezza permette un’analisi relativamente precisa della stratificazione sociale di quel quadro dirigente. Nel periodo dell’egemonia liberale la prevalenza borghese era nettissi- ma. Gli avvocati rappresentavano quasi il 40 per cento del totale. Molto più mossa la situa- zione nell’ultima stagione repubblicana delle società operaie italiane quando circa un terzo del gruppo dirigente aveva un’origine piccolissimo borghese ed anche popolare. Completano la parte filologico-documentaria del volume accurate tabelle sinottiche tanto dei congressi che dei dirigenti, accompagnate da cartine indicanti la distribuzione geografica delle società ope- raie presenti ai singoli congressi nazionali. Come si è detto nel lavoro le dimensioni della parte introduttiva sono tali da configurar- si come elemento essenziale del libro. È certamente interessante il tentativo di delineare una lunga continuità di una «ideologia italiana» che proprio a partire da queste origini liberali e mazziniane avrebbe condizionato a lungo, in maniera non positiva, lo sviluppo del movimen- to operaio. Nello stesso tempo molti giudizi sembrano risentire fortemente di una battaglia ideologica che si ritiene ancora in corso. Paolo Favilli

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Aldo Giannuli, Dalla Russia a Mussolini, 1939-1943. Hitler, Stalin e la disfatta all’est nei rapporti delle spie del regime, Prefazione di Mauro Canali, Roma, Editori Riuniti, 324 pp., Û 18,00

Poche fonti quanto le carte della Polizia politica fascista hanno consentito in questi anni di ridisegnare profili dettagliati, pur se e a volte contraddittori, di avvenimenti, biografie e fat- ti prima considerati in larga parte già accertati. Sulla scorta di una documentazione rinvenu- ta presso gli archivi del Ministero dell’Interno, Aldo Giannuli ha esaminato l’intelligence che l’OVRA raccolse durante la guerra concentrandosi sulla gigantesca operazione che condusse la Germania nazista a muovere contro l’URSS la sua potente macchina bellica. Dopo un’accorta e persino troppo dettagliata introduzione sulle fonti, in cui l’autore in- dividua (quando possibile) gli estensori delle informative e il ruolo ricoperto da ciascuno nel servizio informativo fascista, Giannuli ripercorre le fasi della guerra anticipando quelle che con il trascorrere dei mesi divennero anche le «voci» che l’opinione pubblica italiana apprese di quella guerra lontana e straordinaria. Era dunque vero che la macchina bellica tedesca era invincibile? Conveniva (e per quale ragione) negare l’evidenza di un conflitto sanguinoso e dall’esito incerto? Possibile che Stalin, prima del giugno del 1941, si apprestasse a lanciare per primo una offensiva contro la Germania, ritenendo ormai inevitabile lo scontro? I soldati so- vietici erano così impreparati e inetti come la stampa li descriveva? E le loro armi erano real- mente antiquate e inadatte alla difesa della Russia bolscevica? Gl informatori appresero e riferirono dal fronte di guerra e da fonti diplomatiche ciò che la stampa del regime non poteva e non doveva rivelare, cioè che l’URSS fu presto in grado di attutire l’urto delle divisioni tedesche con una «difesa flessibile» e dispiegando nuove armi, tra cui il formidabile carro armato T32, veloce sia su ruote sia su cingoli e capace di operare a temperature estreme. Persino infastiditi dalle trionfali dichiarazioni della stampa italiana, i fi- duciari dell’OVRA ricordarono che Berlino non rendeva neppure noto il numero delle vitti- me tedesche; le perdite erano in realtà ingenti, forse «milioni». Per ciascuna fase della guerra gli informatori dunque furono lo specchio fedele di un drammatico scontro di cui il regime di Mussolini si adoperò in pubblico per negare la reale natura e svolgimento. Al contrario di ciò che radio e giornali dichiaravano, gli informatori am- misero che lo sforzo titanico intrapreso dalla Germania era destinato inesorabilmente a infran- gersi. Se Mussolini avesse consegnato ai tedeschi un milione di soldati italiani, come tutto al- lora lasciava presagire, questi sarebbero andati incontro a una sorte tragica e del tutto preve- dibile. Dario Biocca

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Alfredo Gigliobianco, Via Nazionale. Banca d’Italia e classe dirigente. Cento anni di storia, Roma, Donzelli, 404 pp., Û 27,50

Non saprei se, specie negli ultimi anni, qualcuno abbia paragonato la Banca d’Italia ad una sorta di (impropria) École Nationale d’Administration. Non lo ricordo, ma mi sorpren- derei se fossi il primo a scriverlo. Il travaso, dapprima di un direttore generale (Lamberto Di- ni) e poi di un governatore (Carlo Azeglio Ciampi), da via Nazionale ai vertici istituzionali del potere politico ha solo rappresentato la conferma (si pensi a Einaudi, Menichella e Carli, nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale) della straordinaria qualità del personale che ha svolto mansioni di rilievo nella banca centrale. E non si parla di qualità tec- niche, professionali, da banchiere centrale: si intendono le doti di grands commis d’État che dapprima sono al servizio dello Stato e poi si fanno addirittura Stato. A lungo si è discusso, in questi anni, se questa sorta di «riserva della Repubblica» abbia assunto il ruolo di supplenza nei confronti del mondo politico per insipienza di quest’ultimo o se, al contrario, per una in- sospettabile – e machiavellica – lungimiranza della classe politica. D’altra parte, questa fun- zione di supplenza è stata anche attribuita al potere giudiziario, all’incirca negli stessi tempi e per gli stessi fini (accompagnare il paese nella difficile fase di transizione del dopo guerra fred- da) e resta il dubbio che tale disponibilità a «cedere» per qualche tempo alcune funzioni e re- sponsabilità non sia stata in qualche modo funzionale proprio alle esigenze delle élite politi- che di conservare le principali prerogative in una fase turbolenta se non drammatica della sto- ria del paese. Queste considerazioni si intrecciano con il volume di Gigliobianco. L’autore, pur con tanti distinguo e con tutte le cautele del caso, traccia una solida linea di continuità, lun- ga oltre un secolo, attraverso la quale i vertici dell’istituto centrale di emissione hanno posi- zionato le loro «truppe» (le loro idee, il loro modo di lavorare, i loro vincoli, solo all’apparen- za tecnici) in partibus infidelium, nei territori della politica. Tecnocrati non avulsi dalla società, i banchieri centrali e i loro più immediati collaboratori, «hanno fatto l’Italia» non meno di al- tri interpreti di rilievo della storia di questo paese dell’ultimo secolo, contribuendo in manie- ra spesso decisiva alla determinazione delle scelte salienti in campo politico-economico e mo- netario e delle politiche industriali, quasi sempre ben al di là delle legittime prerogative fun- zionali ed istituzionali dei loro incarichi. L’autore è studioso puntiglioso e dimostra instanca- bile dedizione alla ricerca, ma riconosce, quasi per definizione, i limiti del proprio lavoro, do- te ben più rara in certi ambienti. La virtù della modestia si intreccia con la civettuola sfida in- tellettuale, tutta figlia dello Zeitgeist che Gigliobianco ha respirato nel suo ambiente lavorati- vo, che lancia al lettore in un inusuale «consiglio per la lettura» che precede l’indice, quasi a garantirsi i dieci lettori che ciascuno merita. Non li perderà, avendoli invitati implicitamente ad attenersi ai diritti imprescindibili del lettore, così come li ha scanditi Daniel Pennac, tra i quali mi atterrò ora all’ultimo, quello di tacermi. Luciano Segreto

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Robert Gildea, Olivier Wieviorka, Annette Warring (a cura di), Surviving Hitler and Mus- solini: Daily Life in Occupied Europe, Oxford-New York, Berg, 244 pp., £ 50,00

Quale vita quotidiana è possibile in un contesto di guerra totale, occupazione e soggezio- ne a un ordine politico nazi-fascista? Questa la domanda chiave del volume che raccoglie i ri- sultati di una ricerca su «Occupazione in Europa: l’impatto del dominio nazionalsocialista e fascista» sponsorizzata dalla European Science Foundation. Il libro presenta uno studio comparato sulla reazione dei civili ai trasferimenti in massa, al lavoro forzato, alle politiche di occupazione, alla carestia e al comportamento delle truppe occupanti, in quasi tutta l’Europa e per l’intero periodo della guerra. In due contributi, quelli di Warring su Relazioni intime e sessuali e di Voˇsahlíková, Ro- chet e Weiss su Sistema scolastico e incontro culturale, si trovano esempi di ricerca originale, ma nel resto del volume la comparazione è troppo vasta e gli autori sono costretti a riflettere so- prattutto su lavori già esistenti. Per il caso italiano, non vi è ricerca diretta e, se si escludono pochi casi (Portelli e Pavone, per esempio), i suggerimenti bibliografici si limitano a qualche testo inglese, tanto che la ricchezza della ricerca fatta in Italia è largamente perduta: un fatto inevitabile in un volume di tale ambizione geografica. Nei capitoli di Voglis (Sopravvivere alla fame) e di Gildea, Luyten e Fürst (Lavorare o non lavorare?) l’interesse principale rimane, malgrado gli intenti, quello delle politiche degli occu- panti. Le osservazioni sul mondo del lavoro, che partono da questioni importanti (come l’e- sistenza di forme di autonomia nella scelta di collaborare, o il rapporto fra scelte politiche e di sopravvivenza), presentano una sintesi di altre ricerche, nel tentativo di comparare la situa- zione in quasi tutti i paesi occupati dell’Est e dell’Ovest. Nel caso dell’esempio italiano, si fa riferimento al noto destino dei lavoratori italiani nel Reich dopo l’armistizio, ma della loro vi- ta quotidiana, che dovrebbe costituire la novità del volume, non si viene a sapere nulla. Nei due contributi migliori sopra citati, sulle donne e sul sistema scolastico, gli autori so- no invece riusciti a proporre ricerche originali, geograficamente più limitate, e a rispondere a domande innovative, spesso centrate sulla questione della relazione fra storia pubblica e pri- vata. Nel primo caso, Warring esplora i modi in cui le donne che fraternizzarono con i tede- schi nei paesi scandinavi cercarono una legittimazione all’interno di un campo emotivo libe- ro dalla guerra. L’intreccio fra personale e politico è scandagliato anche nell’altro contributo, che analizza, nel contesto cecoslovacco e francese, il rapporto fra vita familiare e identità cul- turali di fronte al tentativo nazista di controllo dell’educazione. Gli ultimi due capitoli, di Wieviorka e Tebinka sulla Resistenza e di von Frijtag Drabbe Kün- zel sulle reazioni dei civili alle rappresaglie, affrontano il legame fra resistenza e vita quotidiana e quello fra popolazioni locali, partigiani e tedeschi; entrambi pongono domande stimolanti, ma il tentativo di comparare aree troppo vaste e diverse permette solo risposte molto parziali. Claudia Baldoli

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Paul Gilroy, Dopo l’impero, Roma, Meltemi, 236 pp., Û 19,50 (ed. or. London, 2004)

Paul Gilroy, sociologo e studioso afro-britannico è una figura di primo piano dei Black British Cultural Studies. In questo lavoro del 2004 prosegue l’analisi inaugurata con There ain’t no Black in the Union Jack (1987) dell’intreccio tra discorso della razza e cultura nazio- nale inglese allargandola a nuovi campi. Uno tra gli aspetti più interessante del volume è co- stituito infatti dalla tematizzazione del rapporto tra dimensione globale e dimensione nazio- nale dei processi che riguardano per un verso l’emergere di forme di attivismo transnazionale e di pratiche di «convivialità transculturale», e per un altro l’affermarsi di nuove forme di as- solutismo etnico e nazionalista nel post 11 settembre. Una delle tesi principali del libro, arti- colata nella prima parte, è che l’interpretazione dell’eredità del colonialismo costituisca oggi uno dei principali terreni di scontro politico come mostra il consenso sul fallimento del mul- ticulturalismo ridotto ad uno degli aspetti dello scontro di civiltà, in cui il vocabolario del raz- zismo coloniale ricompare nella versione culturalista. Gilroy interpreta i tentativi politici di costruire un nuovo ordine imperiale, tanto a livello globale quanto dentro i confini dell’Oc- cidente, come espressioni di una «melanconia postcoloniale» che si alimenta di fantasie no- stalgiche. Una tesi che nella seconda parte del volume si misura con le specificità del discorso pubblico inglese attingendo sia ai dibattiti culturali e politici sia alle rappresentazioni disse- minate nella cultura di massa. Particolarmente convincente è l’analisi della funzione svolta nell’autorappresentazione nazionale della memoria della vittoria antinazista come antidoto al- l’elaborazione del lutto per la perdita di un’identità culturale fondata sulla missione imperia- le della Gran Bretagna, a cui viene ricondotta la rappresentazione dei migranti come figure destoricizzate, responsabili principali del disorientamento culturale e della perdita dell’egemo- nia politica ed economica della nazione. Gilroy collega «il complesso culturale della melanco- nia postcoloniale» con lo sviluppo del «fondamentalismo diasporico», in cui le ferite provoca- te dalla gerarchia razziale nei giovani «neri europei» e trasformate nell’impegno a favore della rivoluzione islamica portano in primo piano i legami tra la guerra al terrorismo e la storia del- l’immigrazione e delle politiche razziali. In questo scenario la sfida per il pensiero critico diventa quella di inventare un nuovo co- smopolitismo di cui viene tracciata una possibile genealogia che fa dialogare i riferimenti del- la tradizione «classica» con un filone di pensiero diasporico in cui l’utopia di un nuovo uni- versalismo planetario è stata immaginata e articolata a partire dalle esperienze di dominazio- ne razziale e coloniale. Il volume offre indicazioni preziose per una storia del presente in cui il «discorso razziale» possa essere riconosciuto come una componente centrale dei rapporti e dei conflitti politici postcoloniali. Una sollecitazione al dibattito storiografico a riconoscere il nesso tra colonialismo e immigrazione, cioè tra storia e potere, intrappolato nella falsa dialet- tica tra «cultura» ed «economia politica», tra memoria reificata ed eterno presente. Liliana Ellena

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Marco Girardo, Sopravvissuti e dimenticati. Il dramma delle foibe e l’esodo dei giuliano-dal- mati, Prefazione di Walter Veltroni, Paoline Editoriale, 156 pp., Û 11,00 Il volume di Girardo ha lo scopo di rinvigorire la memoria delle foibe e dell’esodo e di co- municare e analizzare la tragicità di questo doppio evento. Il registro quasi neutrale ed ester- no dell’autore, come un lettore che si avvicina a una questione resa difficile da interpretazio- ni opposte ed inconciliabili calate politicamente sull’opinione pubblica, è alternato a parole forti per mettere in risalto un passaggio evidentemente drammatico di storia italiana. Ciò so- prattutto quando ripercorre le tre esperienze dirette, racchiuse nei tre capitoli principali del testo in un’architettura non casuale: lo scampato agli infoibamenti Graziano Udovisi, il pitto- re e scrittore nell’esodo Piero Tarticchio e la studiosa slovena Nataˇsa Nemec sulle tracce degli scomparsi negli eccidi nel Goriziano. Il lavoro di ricerca di Nemec è stato di identificare i di- spersi e di seguirne le tracce, indipendentemente dalla loro nazionalità, e avrà per titolo Arre- sti, deportazioni, uccisioni e dispersi nella provincia di Gorizia nel secondo dopoguerra (p. 86). Evi- tare il termine foibe e concentrarsi in partenza sugli italiani come vittime privilegiate è anche un modo di evitare attacchi strumentali in Slovenia, paese in cui d’altra parte, rispetto alla Croazia, c’è stato un discreto impegno di ricerca su queste questioni. Impegno evidente già nel 1993 quando fu creata (con gli auspici dei rispettivi Ministeri degli Esteri) la Commissione storico-culturale italo-slovena, composta da personalità di meritata autorevolezza sulle questio- ni alto-adriatiche (Tomizza, Ara, Apih, Cattaruzza, Pupo, Salimbeni, Conetti, Pagnini e Toth, Gombaˇc, Dolinar, Maruˇsiˇc, Troha, Vovko, Vuga e Mlakar), i cui risultati non hanno avuto la diffusione che meritano e sono giustamente inseriti come appendice, assieme al testo della legge sull’istituzione del Giorno del ricordo. Girardo avrebbe potuto utilizzarli anche nel pri- mo capitolo (Le terre contese), che purtroppo denota una conoscenza approssimativa delle questioni di cui scrive. Girardo evita proprio il confronto tra voci diverse su questioni dibat- tute (come il numero di infoibati e degli esuli o la loro non sempre chiara appartenenza etni- ca e nazionale), e sembra ignorare i fenomeni europei di violenza e di trasferimento indotto o forzato di popolazioni, come anche quelli di stratificazione nazionale in aree plurilingui (ma banalizza anche il discorso locale, con riferimenti alla colonizzazione mercantile di Venezia o alla politica preventivamente anti-italiana degli «insediamenti austro-ungarici», come se Ve- nezia non avesse contribuito alla colonizzazione slava e gli Asburgo a quella italiana). Altri passaggi (alle pp. 13-14 e 18-19) indeboliscono il testo, ad esempio le presunte violenze tra italiani e slavi al tempo dell’Impero (quali?), la «persecuzione fascista»» delle minoranze che sembra essere stata fatta solo di atti legislativi (e senza il ricorso alla violenza e al Tribunale speciale), il non accenno alle migliaia di morti croati e sloveni nelle rappresaglie sui civili dal 1943, nei campi («di internamento») e nel campo di San Sabba («campo di detenzione», in cui però ammette che vennero uccisi migliaia di ebrei). Meglio Gianni Oliva (Milano, Mon- dadori, 2002). Vanni D’Alessio

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Angela Maria Girelli Bocci (a cura di), L’industria dell’ospitalità a Roma. Secoli XIX-XX, Padova, Cedam, 577 pp., Û 47,00 Il volume, facendo ricorso a una pluralità di fonti (la guida Monaci, le rilevazioni ISTAT, le statistiche tributarie, i piani regolatori cittadini), ricostruisce l’evoluzione del sistema ricet- tivo romano dall’epoca liberale agli anni Settanta del Novecento, rompendo un silenzio vera- mente inspiegabile sulla storia di un importante settore economico, quale quello alberghiero. Il volume, come sottolinea nell’introduzione la stessa curatrice, si pone l’obiettivo di col- mare un vuoto, aprendo un nuovo percorso di ricerca, perché nonostante «la vocazione turisti- ca abbia caratterizzato da sempre la città di Roma, fino ad oggi è mancato uno studio che […] affrontasse i nessi che collegano l’arrivo del viaggiatore con l’economia della città». Proprio per questa ragione i numerosi saggi che ripercorrono l’evoluzione del settore alberghiero nelle di- verse epoche storiche (scritti dalla stessa Angela Maria Girelli, da Donatella Strangio, da Mar- co Teodori, da Francesco Colzi, da Adriana Conti Puorger e da Lidia Scarpelli) non mancano mai di proporre collegamenti con l’andamento generale dell’economia della città e con lo svi- luppo urbanistico. Per la stessa ragione il volume accoglie il saggio di Cinzia Capalbo sul mer- cato dell’abbigliamento e i suoi molteplici legami con il turismo sia in termini di indotto eco- nomico sia di proiezione di una nuova immagine cittadina incentrata su glamour e fashion. La realizzazione di un sistema ricettivo di qualità procedette parallelamente alla costru- zione di una nuova identità urbana: processo lungo e complesso che portò Roma a ricono- scersi come capitale politica, nonché culturale e religiosa, in opposizione a Milano che, inve- ce, stava affermandosi come il cuore economico del nuovo Stato italiano: non a caso le due città si contesero a lungo il primato relativo alla capacità di attirare visitatori, affiancate dap- prima da Napoli e nella seconda metà del Novecento da Firenze. Nel complesso emerge l’immagine di una hotellerie che non si pone mai alla guida del pro- cesso di rinnovamento e di espansione urbana, ma che tuttavia riesce a seguirlo e ad accom- pagnarlo. Gli investimenti nel settore alberghiero sono strettamente legati alla pianificazione e allo sviluppo urbanistico della capitale: il periodo più importante è l’epoca che va dalla pro- clamazione di Roma capitale alla prima guerra mondiale, quando si registra un continuo au- mento del numero degli alberghi e quando con l’inaugurazione del Quirinale nel 1874, fa la comparsa la grande hotellerie di lusso, che però non raggiungerà mai i livelli e i fasti di quella parigina. Infine, la seconda e ultima parte del volume offre un’interessante prospettiva sul ver- sante della domanda, con tre saggi dedicati ai viaggiatori stranieri: Rosa Vaccaro analizza la presenza spagnola a Roma nel lungo periodo, Silvia Strippoli ricostruisce quella tedesca nel 1400 e, infine, Rita Salvi, Alessandra Pontesilli e Judith Turnbull propongono un’analisi so- ciolinguistica di quella inglese. Interessante è anche la cartografia che accompagna il volume, ricca di 19 piantine che ri- costruiscono la mappa delle strutture alberghiere cittadine nei diversi decenni. Patrizia Battilani

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Alessandra Gissi, Le segrete manovre delle donne. Levatrici in Italia dall’Unità al fascismo, Roma, Biblink, 157 pp., Û 18,00

Da alcuni decenni la scena del parto è diventata un oggetto di interesse per la ricerca sto- rica, grazie allo stimolo della riflessione della storia delle donne e di genere, della storia socia- le francese e degli spunti dell’antropologia e della sociologia di ambito anglofono. È stata ana- lizzata nei suoi aspetti culturali e simbolici che riguardano la procreazione, la gravidanza, la nascita, così come sono stati indagati in profondità i soggetti e gli equilibri di potere che l’han- no governata: dal ruolo delle levatrici all’ingresso della medicina e dei medici, al rapporto con la religione cattolica, per arrivare ai caratteri di quel processo di medicalizzazione che, a par- tire dall’epoca moderna, ha cercato di disciplinare e controllare i soggetti e le relazioni che go- vernavano quell’evento biopolitico strategico che era ed è la nascita. Guardando a un soggetto peculiare – la levatrice –, a un momento e a un luogo specifici – l’Italia nel periodo che va dall’Unità agli anni ’40 del fascismo pronatalista – il libro di Gis- si (prodotto della tesi di dottorato in Storia delle donne e identità di genere) si interroga sui risultati di questo processo di disciplinamento. Lo fa con l’intento di problematizzare una di- cotomia radicata e diffusa, sia nelle rappresentazioni del passato sia, non di rado, in quelle contemporanee, secondo la quale nella figura della levatrice vi sarebbe la compresenza di due universi contrapposti: quello della mammana, radicato nell’esperienza, nella tradizione, e co- me tale in un ambito di senso pre-moderno, e quello della levatrice professionista, prodotto diretto di una modernità che l’ha formata e disciplinata alle conoscenze scientifiche e alle ne- cessità biopolitiche delle istituzioni statali e religiose. L’autrice, al contrario, intende «dimo- strare la frequente e consapevole coesistenza immaginabile più come un continuum che come una polarizzazione – di aspetti e stratificazioni di lungo periodo con le nuove acquisizioni pro- fessionali» (p. 12). Servendosi di fonti a stampa – giornali specializzati, pubblicazioni dedica- te specificamente alle levatrici – e d’archivio – Ministero dell’Interno, questura, prefettura – Gissi guarda all’esperienza delle levatrici principalmente attraverso il prisma dell’aborto e pri- vilegiando uno sguardo nutrito degli spunti della riflessione antropologica e sociologica ingle- se e americana. In quest’ottica, descrive un complesso e sostanzialmente fallimentare tentati- vo di disciplinare le levatrici, dove i regolamenti sanitari di età crispina come le misure di po- lizia di epoca fascista trovavano un punto in comune nel tentativo non riuscito di riportare all’ordine quella figura che rimaneva riferimento per le donne nel governo della gravidanza, sia voluta sia indesiderata. È una storia ricca di episodi e di voci significative quella che l’au- trice racconta, ma l’aver scelto un approccio che non travalica di molto i limiti cronologici de- finiti, impedisce talvolta di afferrare pienamente i caratteri delle novità e delle persistenza in quelle complesse ramificazioni che, come giustamente è osservato, stanno alla base dell’inte- resse di questa vicenda. Emmanuel Betta

229 I LIBRI DEL 2006

Andrea Giuntini, Cinquant’anni puliti puliti. I rifiuti a Firenze dall’Ottocento alla Società Quadrifoglio, Milano, FrancoAngeli, 314 pp., Û 29,00

Si tratta di una lunga cavalcata storica attorno ai modi con i quali il capoluogo toscano ha affrontato l’arduo problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti urbani. Il volume – che mette a frutto un filone di studi italiano ed internazionale accumulatosi in circa tre de- cenni – è ricco di quadri sinottici e di statistiche, ma è tutt’altro che un’analisi asettica ad uso degli addetti ai lavori. Giuntini dipana infatti la storia di questo servizio dai tempi in cui, an- cor prima dell’Unità, veniva svolto da società private che, nei mucchi di immondizie accata- stati lungo le vie, selezionavano solo ciò che consentiva, attraverso primitive forme di riciclag- gio, una possibile nuova utilizzazione, fino all’inizio del Novecento e all’avvento della muni- cipalizzazione e poi all’ASNU per approdare, infine, al consorzio «il Quadrifoglio» che rag- gruppa più comuni dell’hinterland. Via via che descrive lo sviluppo in quantità e qualità del servizio, egli ci mostra in parallelo i ritmi di crescita della città, il suo progredire urbanistico, demografico, igienico e, infine, «ambientale». Un libro di agevole lettura, un excursus quasi avventuroso di una vicenda tormentata ma an- che ricca di ipotesi, tra le quali – di volta in volta – i pubblici amministratori sono stati chiamati a scegliere, proponendo novità anche audaci: si pensi ai problemi relativi allo smaltimento e alla scelta della costruzione dell’inceneritore di San Donnino e alle questioni che ne sono derivate, non ultima delle quali l’atteggiamento ostile delle popolazioni interessate. L’idea, fin dal 1994, della nascita di un consorzio destinato ad interessare più comuni limitrofi ha posto il problema di una gestione unitaria per un bacino di utenza che va oltre la singola popolazione urbana e che rappre- senta la forma gestionale ormai impostasi. Il processo di accorpamento delle nuove aziende «mul- tiservizio» tramite processi di fusione costituisce forse la sfida di maggior interesse per le infrastrut- ture a rete, ma sconta ancora problemi di residuo campanilismo e di orgoglio provinciale. Un ulteriore pregio del lavoro risiede nella capacità dell’autore di evitare il rischio di una trattazione unilaterale del sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti, allargando il pro- prio orizzonte alla dimensione regionale e nazionale, analizzando le ripercussioni economiche e di legislazione verificatesi a tale scala e contribuendo, quindi, a colmare un vuoto di analisi. Basti ricordare qui la Legge 142/1990, che ha rappresentato per il settore una vera e propria rivoluzione, tendente a indirizzare i servizi pubblici verso uno sviluppo di natura imprendito- riale al quale la «vecchia» municipalizzata rispondeva ormai solo in parte. In particolare, l’e- mergere della questione ambientale ha imposto un nuovo tipo di programmazione del setto- re, profilando un sistema coordinato tra varie tipologie e metodi tecnici d’intervento, nessu- no dei quali pare avere tuttavia la preferenza degli amministratori. È semmai nell’integrazio- ne che viene individuata la strada per dare risposte adeguate alle crescenti emergenze ambien- tali in condizioni di diminuzione delle risorse economiche disponibili. Federico Lucarini

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Luigi Goglia, Renato Moro, Leopoldo Nuti (a cura di), Guerra e pace nell’Italia del Nove- cento. Politica estera, cultura politica e correnti dell’opinione pubblica, Bologna, il Mulino, 645 pp., Û 36,00 Il volume, ricco di spunti e suggestioni, raccoglie i risultati conclusivi del progetto di ri- cerca su «Guerra e pace dall’Italia giolittiana all’Italia repubblicana: politica estera, cultura po- litica e correnti dell’opinione pubblica», coordinato da Renato Moro. Tra i suoi pregi vi sono l’ampio arco cronologico esaminato e l’incontro tra filoni della ricerca storiografica che spes- so rimangono separati. Inoltre, è degno di nota l’emergere di un’interpretazione della storia militare nelle sue più vaste implicazioni politiche, sociali, culturali. I numerosi contributi sono ordinati in quattro parti: La cultura della guerra nell’Italia del- la prima metà del ’900; L’eredità della guerra (dopo il 1945); Il mondo cattolico tra guerra e pa- ce; L’Italia dalla «non guerra» al peacekeeping. La «spina dorsale» del volume è rappresentata da alcuni saggi che prendono in esame l’evoluzione dei legami fra Stato, nazione e ricorso alle ar- mi. P. Melograni riflette sul diverso impatto delle due guerre mondiali, evidenziando il carat- tere contraddittorio della vittoria del 1918 – da un lato collaudo riuscito della modernizza- zione promossa dallo Stato nazionale unitario, dall’altro punto di avvio della crisi che con- durrà al fascismo. E. Di Nolfo si concentra sul secondo dopoguerra, offrendo una particola- re interpretazione del discusso concetto di «morte della patria», che a suo giudizio non va tan- to legata all’8 settembre ma piuttosto alle caratteristiche fondative del sistema politico repub- blicano nel contesto della guerra fredda: i partiti, portatori di interessi particolari, avrebbero soffocato l’idea di patria, tradendo le aspettative createsi nel tumultuoso biennio 1943-1945. L. Nuti si sofferma sulle politiche di difesa seguite dall’Italia in tutto l’arco della guerra fred- da, ricostruendone con finezza le diverse fasi e sottolineando lo spartiacque delle missioni in Libano degli anni Ottanta, battistrada dell’emergere di quella nuova figura del soldato come portatore di pace nelle operazioni internazionali che ha in qualche modo ricomposto la «frat- tura tra società e militari apertasi con la seconda guerra mondiale» (p. 503). Come avvertono gli stessi curatori, «sarebbe azzardato cercare di trarre dai contributi rac- colti [...] una prima ipotesi interpretativa globale. È innegabile tuttavia che alcuni elementi, alcuni nodi e momenti chiave emergono con chiarezza» (p. 21). Si pensi alla contrapposizio- ne fra età delle guerre mondiali e periodo repubblicano in termini di visione della guerra, po- sizione delle forze armate nella società, percezione della classe dirigente e dell’opinione pub- blica del concetto di interesse nazionale. Da questo punto di vista il fascismo non appare una parentesi infausta nel processo di nazionalizzazione e modernizzazione democratica del pae- se, bensì come una particolare forma culminante di una lunga stagione nazionalista che asso- ciava i destini del paese alla grandezza militare. Il volume offre un prezioso contributo alla ri- flessione sui grandi cicli della storia nazionale, unendo il piano delle ideologie a quello della loro concreta applicazione nei campi della politica estera e di sicurezza. Gianluca Fiocco

231 I LIBRI DEL 2006

Gianfranco Goretti, Tommaso Giartosio, La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Ita- lia fascista, Roma, Donzelli, 275 pp., Û 13,50

Il libro ricostruisce nel dettaglio la vicenda degli omosessuali siciliani mandati al confino sulle isole Tremiti sul finire degli anni Trenta perché ritenuti pericolosi per «l’integrità della stirpe». La struttura del lavoro, una sorta di romanzo collettivo di una cinquantina di malca- pitati finiti sotto l’occhio inquisitore dello zelante questore di Catania, non permette di segui- re attraverso note e citazioni l’iter della loro analisi, ma la lettura è estremamente scorrevole e avvincente. L’impianto storico è del resto facilmente desumibile dalla gran mole di notizie e particolari forniti, dalla rigorosa appendice documentaria e dalla ragionata bibliografia fina- le. La ricchezza e la profondità dell’indagine è un pregio indiscutibile del libro, a cui si può muovere, come unico appunto critico, quello di aver costruito una trama talmente fitta di av- venimenti, luoghi e persone da non rendere sempre facile collocare i diversi percorsi indivi- duali in un quadro generale più ampio. Gli autori, legando in maniera assai convincente testimonianze orali e fonti d’archivio, guar- dano alla storia delle vittime omosessuali della repressione fascista con gli occhi degli stessi pro- tagonisti, ricostruendone stili di vita, mentalità, comportamenti, immagine di sé, valori, relazio- ni di coppia, complicità, rivalità e strategie. Senza cadere in facili rivisitazione commiserative, Giartosio e Goretti colgono anche le conseguenze positive che la vita in comune ha su questi omosessuali, spesso incapaci di percepire l’ingiustizia subita, perché abituati a interiorizzare la condanna espressa nei loro confronti dalla società. Proprio il retroterra culturale della Sicilia de- gli anni Trenta emerge in maniera evidente dalle pagine del libro, fotografando un’Italia in cui l’omosessuale è schernito di giorno e cercato di notte da uomini che si ritengono «normali» ete- rosessuali solo perché nella relazione assumono un ruolo attivo. Non a caso nelle retate della po- lizia sono coinvolti quasi esclusivamente gli «arrusi»: prostituti, travestiti e effeminati, facilmen- te identificabili dalle forze dell’ordine, pronte a stigmatizzare la loro «femminilità simbolica». Nella città, Catania, e nell’isola, le Tremiti, si sviluppa un mondo a parte, visibile e invisi- bile, fatto di luoghi di incontro dove vivere in semiclandestinità amicizie e rapporti sentimen- tali. Nascondere l’omosessualità, evitando un’azione pubblica contro di essa, ma allo stesso tem- po togliendole ogni minima forma di visibilità, è del resto la strategia adottata dal regime per debellare un comportamento considerato nocivo per la crescita demografica del paese. Il libro fornisce un utile contributo alla storia del razzismo fascista, proprio perché, no- nostante il numero esiguo di condanne per «pederastia passiva», mostra come pregiudizi e ste- reotipi fossero così diffusi da condizionare in profondità la vita degli omosessuali. Lo studio aggiunge dunque un importante tassello al complesso mosaico della storia dell’omosessualità, sulla quale purtroppo manca ancora un’indagine relativa all’esistenza e alle relazioni di coppia di tutti quelli che non ebbero a che fare con la legge o con l’attività repressiva. Lorenzo Benadusi

232 I LIBRI DEL 2006

Ivano Granata, Crisi della democrazia. La Camera del lavoro di Milano dal biennio rosso al regime fascista, Milano, FrancoAngeli, 306 pp., Û 24,00

Riproporre, vent’anni dopo la sua uscita, una storia della Camera del lavoro di Milano nel primo dopoguerra può apparire temerario, ma non lo è. Lo dimostra Ivano Granata ristampan- do, ampiamente riveduto, un lavoro del 1986 che aggiorna e ridefinisce con fine equilibrio la vicenda di un organismo di classe di cui Gnocchi Viani rivendicò lo «spirito di indipendenza e di dignità operaia» rispetto a quelle inglesi e francesi e che Stefano Merli ritenne un «modello autoctono» di organizzazione camerale. Nella storia del movimento operaio Milano non è realtà marginale e centrali sono gli eventi della sua Camera del lavoro, che Granata coglie al guado cru- ciale e doloroso – crisi della democrazia è la calzante definizione – che, dallo «splendore» del biennio rosso, conduce al travaglio del 1922, al disastro del 1923-24 e allo scioglimento del 1925; un epilogo cui si giunge, qui l’autore colpisce davvero nel segno, senza che il fascismo pos- sa poi chiudere i conti con una classe lavoratrice per la quale decenni di vita sindacale non sono trascorsi invano. Un percorso disegnato abilmente, di cui Granata indaga le tappe decisive: l’e- spansione del 1919, il dilemma irrisolto della reale natura dei «Consigli di fabbrica» – organi- smi politici o sindacali? – le utopie rivoluzionarie, le incongruenze massimaliste, la fragilità po- litica e la forza sindacale dei riformisti, il nodo intricato del rapporto tra le organizzazioni poli- tiche e quelle economiche dei lavoratori. La «lettura» ha «misura» e chiarezza e il filo rosso è quel- lo, fortemente attuale, dei conflitti ideologici tra riformisti e massimalisti, comunisti e socialisti, di fronte al fascismo che trova la sua forza anzitutto nelle divisioni del fronte operaio e porta l’at- tacco là dove il terreno è reso agevole da avversari incapaci di costruire una linea comune. La visione d’assieme del quadro sindacale e politico, il complesso di attività – lotte e di- battito – che segna la vita della Camera, le peculiarità della classe operaia e i suoi orientamen- ti – più interesse meritavano forse i libertari – e l’ampia documentazione, fanno del saggio un riuscito «ritorno» a temi purtroppo desueti e non c’è dubbio: la ricostruzione convince, so- prattutto quando registra un forte legame tra avanzata della reazione fascista – e più in gene- rale, direi, tra l’affermazione dell’autoritarismo nelle società industrialmente avanzate – e il grado di coesione delle organizzazioni dei lavoratori. Le difficoltà di affermazione del corpo- rativismo fascista dimostrano che, nelle pieghe della repressione, sopravvive una coscienza sin- dacale che, riaffiorata durante la guerra e nel secondo dopoguerra non è solo figlia del rifor- mismo, come sembra ritenere Granata, ma della vicenda complessiva del movimento operaio. Per capirlo basta seguire le tracce di tanti dei lavoratori incontrati nel saggio che, al di là del- l’orientamento politico, finiscono al confino o prendono la via dell’esilio. Una nota margina- le, che nulla toglie a un lavoro esemplare. Ed è vero, ha ragione Granata: «Sconfitta sul piano concreto, la Camera del lavoro lasciava, nonostante tutto, ai lavoratori un’eredità destinata a durare» (p. 286). Eredità che nel saggio rivive. Giuseppe Aragno

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Aldo Grasso (a cura di), Fare storia con la televisione. L’immagine come fonte, evento, me- moria, Prefazione di Paolo Mieli, Milano, Vita e Pensiero, 295 pp., Û 20,00

Nel 1991 P. Ortoleva, in un testo considerato ormai un classico (Cinema e storia, Torino), constatava come gli storici più che «produrre concreti e misurabili risultati conoscitivi» si occu- passero allora di problemi metodologici in una «discussione preliminare su come il film possa essere usato e interpretato dallo storico» (cit. Carini, p. 47). A distanza di circa quindici anni, ed estendendo l’orizzonte dal film al programma televisivo, non si registrano cambiamenti signifi- cativi e il dibattito ha mantenuto, sia pure affinandosi, quel carattere preliminare. Anche da qui il rischio di ripetere cose già dette, sulla base di una sorta di «matrice» definitasi in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta sull’onda della ricezione delle opere, in primo luogo, di Marc Ferro e Pierre Sorlin. Il volume curato da Grasso è anch’esso debitore di quel dibattito e non è esente da ripetizioni – che non sempre giovano –, tuttavia può considerarsi non a torto «la prima pubbli- cazione italiana che prende sistematicamente in considerazione la questione dei rapporti fra la storia e il mezzo di comunicazione oggi più diffuso e popolare» (risvolto di copertina). Trae origine dal convegno internazionale Fare storia con la televisione. L’immagine come fon- te, come evento, come memoria, svoltosi all’Università Cattolica di Milano il 20 e 21 aprile 2004, in occasione del cinquantenario della televisione italiana e raccoglie sedici saggi organizzati in due parti, a cui si aggiungono la trascrizione della tavola rotonda conclusiva del convegno e una appendice contenente una ricostruzione di sintesi dei cinquant’anni di storia della televisione italiana di M. Bianchi e una bibliografia di riferimento; manca l’indice dei nomi. La prima parte, Televisione e storia, è introdotta dal curatore ed è composta soltanto da al- tri due contributi: quello di M. Scaglioni, che traccia un quadro generale delle problemati- che, e quello di S. Carini, che ripercorre utilmente i principali temi che hanno attraversato nel tempo il dibattito sul rapporto fra storia e media. La maggior parte dei saggi è concentra- ta nella seconda parte, Fonte, evento, memoria, in un caleidoscopio di approcci «professiona- li» che vanno dagli studiosi dei media e della comunicazione (J. Bourdon, J. Ellis, P. Scannel), ai responsabili degli archivi audiovisivi (J.M. Rodes, S. Bryant, B. Scaramucci), agli operato- ri del settore (C. Whittaker, M.G. Bonazzetti Pelli, C. Sartori), fino agli storici (A. Melloni, A. Chauveau, G. De Luna, P.M. Taylor). I diversi saggi si mantengono saldi sul filo condut- tore del rapporto tra storia e televisione offrendo, insieme ad analisi, spunti e suggestioni in- teressanti, anche importanti testimonianze sulle pratiche archivistiche e sulle produzioni tele- visive in Europa. Oltre alla molteplicità dei punti di vista racchiusi in un disegno coerente, ciò che rende interessante il volume è anche la consapevolezza preliminare, che attraversa nu- merosi saggi, di «quanto feticismo permei le considerazioni sugli archivi audiovisivi» (Bour- don, p. 93) e di come la peculiarità della fonte televisiva non risieda tanto nella sua natura, piuttosto nella percezione di chi ne riceve le immagini e i suoni (Melloni). Giancarlo Monina

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Laura Grazi, L’Europa e le città. La questione urbana nel processo di integrazione europea (1957-1999), Bologna, il Mulino, 400 pp., Û 27,00

Col supporto di una vasta documentazione archivistica, Laura Grazi ricostruisce le tappe principali che hanno scandito la progressiva affermazione della «dimensione urbana» nel pro- cesso d’integrazione europea. Una dimensione che emerge già nelle prime analisi della Com- missione sugli squilibri regionali, e che si rafforza sul finire degli anni Sessanta in concomi- tanza con i primi progetti di unione monetaria, nella cui ottica il potenziale inflattivo delle aree ad elevata concentrazione economica e demografica rappresenta un ostacolo non secon- dario. Poco dopo, l’adesione della Gran Bretagna alla CEE catalizza l’attenzione sui problemi dei centri urbani in declino industriale, mentre la diffusione di nuove sensibilità sociali e am- bientali favorisce, a livello comunitario, l’affermarsi di posizioni attente non più solo alla di- mensione economica, ma anche alle condizioni di vita dei cittadini. A metà degli anni Settanta i problemi urbani rappresentano insomma una questione «tra- sversale», legata cioè a politiche comunitarie diverse, e in quanto tali cominciano a porsi all’at- tenzione delle istituzioni. Non a caso, poco dopo sono avviati i primi studi specifici e nascono le prime, limitate, azioni comunitarie, sulle quali giocano un ruolo di rilievo anche le pressioni del Parlamento Europeo. La grande accelerazione si ha comunque a metà degli anni ’80 con la Commissione Delors che, nel quadro delle politiche di coesione legate all’obiettivo del comple- tamento del mercato interno, attiva i primi Progetti pilota urbani. Come sottolinea l’autrice, questi, incentrati sul partenariato Comunità-Stati membri-enti locali e su un «approccio inte- grato», con elementi cioè di politiche comunitarie diverse (regionale, sociale, ambientale), segna- no «l’inizio di una strategia comunitaria per le città» (p. 276). Negli anni successivi l’aumento delle risorse dei fondi strutturali rende possibile l’ampliamento di tali esperienze, col varo nel 1994 del programma URBAN, volto a combattere l’esclusione sociale nei centri urbani con azio- ni di natura eterogenea, che vanno dal risanamento di vecchie industrie, alla creazione diretta di posti di lavoro, all’agevolazione dell’accesso all’istruzione per gli abitanti dei quartieri in crisi. Sono queste le vicende ripercorse, con dovizia di dettagli, da Laura Grazi, vicende che configurano la progressiva «comunitarizzazione» della questione urbana, e che l’autrice non manca mai di contestualizzare nel quadro degli orientamenti prevalenti nelle politiche nazio- nali e dei cambiamenti strutturali dell’economia europea, contribuendo così a rendere di gra- devole lettura un testo di carattere relativamente tecnico. L’attenzione riservata anche all’articolazione organizzativa delle istituzioni comunitarie, al ruolo di alcune personalità (da Marjolin a Spinelli a Delors) nell’attivazione delle principa- li politiche descritte, o a quello di attori esterni alla Comunità, come le reti di cooperazione interurbana, contribuiscono a offrire un quadro particolarmente interessante e completo su un tema decisamente innovativo nell’ambito degli studi sulla storia dell’integrazione europea. Lorenzo Mechi

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Andrea Graziosi, L’Unione sovietica in 209 citazioni, Bologna, il Mulino, 201 pp., Û 17,00

Nella stesura di questo «strano libretto» Andrea Graziosi ha utilizzato una formula origina- lissima e inedita: la storia dell’Unione Sovietica vi viene infatti ricostruita attraverso una serie di citazioni esemplari, che l’autore ha attinto dalla propria vastissima conoscenza dell’argomento. Il «libretto» è nato come prodotto collaterale di una storia complessiva dell’Unione Sovietica a cui Graziosi sta attendendo. L’autore si sarebbe accinto alla sua stesura per prendersi una pausa di ripensamento prima di affrontare la rielaborazione definitiva dell’impegnativo manoscritto e per ripercorrere a volo d’uccello le vicende tragiche trattate più esaurientemente nell’opera mag- giore. Si tratterebbe quindi, al tempo stesso, di una digressione e di uno strumento di lavoro. L’esito è quanto mai suggestivo. Anche il lettore non specialista rimane preso dal ritmo della narrazione che si snoda attraverso la documentazione di vicende via via tragiche, para- dossali, eroiche, velleitarie o manifestamente criminali. Il volume dà ragione, pur nella sua struttura frammentaria, di alcuni nodi centrali della storia sovietica, illuminandone le cesure principali, comprese quelle meno note al lettore italiano (la destalinizzazione degli anni ’50, l’era Breznev, il collasso finale sotto la presidenza di Gorbaˇcev, l’ascesa di El’cin). Le sezioni sul comunismo di guerra e sulla collettivizzazione dell’agricoltura danno testimonianza del terribile costo in vite umane dell’esperimento sovietico. La complessità del problema nazio- nale e delle minoranze etniche emerge, nei suoi diversi aspetti, quasi in ogni sezione del volu- me, soprattutto per il periodo tra il 1917 e il 1945. Meno scontati sono altri aspetti come le diverse testimonianze sulla valenza positiva del- la «grande guerra patriottica», nonostante le feroci misure disciplinari adottate contro i solda- ti, la resistenza sorda dei contadini e di diverse minoranze nazionali contro il potere sovieti- co, la devastazione indotta su diverse biografie individuali concluse con il suicidio, la relativa stabilizzazione e deradicalizzazione del regime tra la morte di Stalin e la metà degli anni Set- tanta. I capitoli finali mostrano una potenza mondiale al collasso, in cui la maggior parte del- le risorse è inghiottita dal complesso militare-industriale, mentre l’intera società affonda nel degrado, nella corruzione e nella stagnazione di ogni ambito della vita civile. Nell’insieme, il volume rappresenta una panoramica aggiornata, competente ed avvincen- te sulla storia dell’Unione Sovietica e offre un’introduzione ideale per quel «pubblico colto e interessato» desideroso di accostarsi alla problematica a cui Graziosi si è rivolto nella stesura del volume. Le citazioni, inserite in ordine cronologico, sono integrate da ampie ed esaurien- ti note di contestualizzazione, i rimandi bibliografici sono ricchissimi e pertinenti, le note bio- grafiche forniscono vivacità e spessore alla narrazione, mentre le ammissioni dell’autore sulle proprie preferenze storiografiche (soprattutto Jakob Burckhardt e Lewis Namier) forniscono una chiave di lettura ulteriore ad un’opera solo apparentemente minore di uno dei nostri mas- simi storici dell’Unione Sovietica. Marina Cattaruzza

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Massimiliano Griner, I ragazzi del ’36. L’avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola, Milano, Rizzoli, 389 pp., Û 23,00

Una persistente tradizione antifascista nega che i «legionari» di Mussolini andati in Spa- gna a sostenere la guerra di Franco fossero prevalentemente animati da idealità politiche. Ri- monta a Carlo Rosselli che, esaminando le lettere dei prigionieri di Guadalajara, scriveva che per «l’immensa maggioranza» si trattava di «lavoratori poveri» spinti dalla miseria. Una sug- gestione che si è poi travasata nella storiografia più preoccupata di contestare che il duce aves- se mai avuto grandi consensi. Il libro di Griner si propone di rovesciare quel giudizio per mo- strare che una parte, se non immensa, rilevante, partì per entusiastica adesione ai moventi an- tibolscevichi e nazionalisti ispirati dal regime, e che comunque «la maggior parte del persona- le, tanto dell’esercito che della Milizia, era in Spagna unicamente per scelta» (p. 177). Ma in realtà l’opera non contribuisce a darci alcuna delle certezze che ostenta. In primo luogo perché, sebbene sia intitolato ai «ragazzi del ’36», il volume dedica al tema dei volontari poco più di un capitolo, mentre il resto ripercorre, in modo più o meno informa- to, tutta la vicenda della guerra civile spagnola e della partecipazione italiana, con abbondanza di giudizi – esempio: «è ormai certo che l’URSS aveva da lungo tempo preordinato la bolsce- vizzazione della Spagna» (p. 121) – la cui sicurezza è pari all’infondatezza. Non è peraltro che, aggiungendo qualche citazione dalle memorie di quattro o cinque camicie nere appassionate al poco che già sappiamo su quei «ragazzi», si possa pretendere, come fa l’autore, di avere scoper- to la vera verità sui moventi prevalenti dei circa 72.000 loro compagni d’arme. E d’altro canto Griner non offre alcuna documentazione in appoggio alla sua affermazione che il numero di domande di arruolamento fu «esorbitante», «sproporzionato alle richieste», perché non la offre neppure il libro dei generali Rovighi e Stefani da cui ha ricavato l’informazione. È evidente comunque che nell’Italia ancora tripudiante per la vittoria sul Negus i giova- ni entusiasti disposti a partire per la Spagna non dovettero mancare. Ma non furono poi tan- ti se John Coverdale, autore nel 1971 di uno studio molto documentato sul primo contingen- te di volontari, ne ricavava che «solo una minoranza degli italiani che si offrirono volontaria- mente, nei primi mesi della guerra civile spagnola, per combattere nell’esercito di Franco ave- va dei motivi essenzialmente ideologici». Le ragioni economiche, come peraltro Griner rico- nosce, ebbero un gran peso. Ma la verità più probabile è che il grosso dei combattenti italia- ni fu costituito da volontari «per definizione», gli appartenenti cioè alla Milizia volontaria per la difesa nazionale. Molti di essi erano appena tornati dall’Etiopia, erano già addestrati al com- battimento, e i tempi molto brevi tra la decisione di Mussolini e la prima offensiva dei suoi «legionari» – meno di due mesi – indicano che si dovette principalmente contare su quelli. Perciò probabilmente non gli si stette a chiedere se riconfermavano la loro scelta. Il che non ci dice affatto che andassero in Spagna contro voglia. Ma neppure il contrario. Gabriele Ranzato

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Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Ro- ma, Carocci, 301 pp., Û 23,50

La chiave interpretativa di Gualtieri è esplicitata subito. Leggere l’Italia non come eccezio- ne o anomalia ma come uno degli n casi dell’Europa occidentale; con specificità e peculiarità, ovviamente, ma in linea con quanto si muoveva nell’economia e nella politica internazionale. Vale a dire, un paese non isolato e marginale che, in linea con la sua collocazione internaziona- le e la sua adesione all’integrazione economica europea, si sviluppa lungo le linee dell’econo- mia di mercato temperata dal keynesismo e dall’ideologia della programmazione e della demo- crazia rappresentativa parlamentare. In questo sviluppo virtuoso campeggiano i due maggiori partiti, DC e PCI, cui l’autore attribuisce un ruolo assai positivo. Su questa valutazione credo ci sia spazio per dissentire. A nostro avviso, è proprio la loro egemonia a produrre quel tasso di eccentricità che ha comunque connotato il sistema italiano. Le ragioni sono arcinote: dalla lo- ro legittimazione esterna alle loro culture politiche, estranee ai valori fondanti del sistema po- litico liberal-democratico, dalla predilezione-vagheggiamento, l’uno apertamente (il PCI) l’al- tro a mezza bocca (la DC), per collocazioni internazionali diverse alla diffidenza per la moder- nità e i suoi by-products. Gualtieri tende a smorzare queste peculiarità insistendo in particolare sulle iniziative sistemiche del PCI, come la sconfitta delle pulsioni insurrezionaliste di Secchia o l’atteggiamento di fermezza contro il terrorismo rosso o ancora la promozione della politica di austerità: ma sono solo un versante della medaglia. Inoltre appare francamente un po’ for- zata l’immagine di una Chiesa usbergo dell’antifascismo (basti ricordare come venne umiliato De Gasperi nei suoi anni di rifugio vaticano) o addirittura vantare per l’URSS e il Comintern un ruolo di fecondo retroterra per i quadri della Resistenza. Certamente de Gasperi e Togliat- ti furono in grado di «rielaborare autonomamente il vincolo esterno» (p. 21), ma ridurre il per- corso della democrazia italiana a questi due grandi attori e alle loro organizzazioni è fuorvian- te. Soprattutto riesce difficile comprendere quale sia stato il ruolo modernizzante del PCI. Per non dire della rigidità ideologica con cui il gruppo dirigente del Partito ha difeso fino all’ulti- mo la superiorità, e poi la diversità, comunista rispetto alla socialdemocrazia, sprezzantemente criticata fino alla vigilia del 1989. Stupisce poi non trovare traccia, nel testo, della crisi cultu- rale verticale in cui precipita il PCI sotto l’attacco di Norberto Bobbio, quando il filosofo nel 1975-76, con i suoi celebri saggi su «Mondoperaio» affonda il coltello della critica nel dogma- tismo marxista; e, dall’altra parte, riservare così poco spazio all’impatto del Concilio Vaticano II e del dissenso cattolico. Infine, una focalizzazione sulle vicende dei due maggiori partiti ha messo un po’ troppo in ombra la società. Se la si tenesse in conto, allora si potrebbe leggere la vicenda dei due grandi partiti in maniera speculare rispetto a quanto ci propone l’autore e cioè come un elemento di chiusura, di conformismo e di arretratezza rispetto alle domande e alle energie espresse a partire dagli anni Sessanta. Ma sarebbe stato un altro libro. Piero Ignazi

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Mario Guarino, Fedora Raugei, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della Loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Bari, Dedalo, 405 pp., e 17,00

«Un libro-inchiesta che – attraverso dati, riferimenti, documenti anche inediti – ricostrui- sce la vita e l’operato di Licio Gelli considerato il “Burattinaio d’Italia”, ovvero il capo della potente e segreta Loggia P2, nonché uno dei personaggi più influenti del dopoguerra». Nella quarta di copertina così viene descritto il volume in questione, i cui autori, per l’appunto, so- no un giornalista, Guarino, già autore di opere analoghe su Berlusconi, su Versace, sui rap- porti fra poteri segreti e criminalità, e una consulente di due commissioni parlamentari d’in- chiesta della passata legislatura (quella sul Dossier Mitrokhin e quella sull’occultamento dei fascicoli sui crimini nazifascisti), la Raugei, che già si era segnalata per un libro sulla strage di Bologna del 1980. E del libro-inchiesta di taglio giornalistico il volume ha tutte le caratteri- stiche, con correlati pregi e difetti. Lo stile è brillante, i giudizi sono taglienti e asseverativi, le citazioni sono scelte e monta- te con abilità. Il problema è che la principale, se non l’unica, fonte documentaria è rappresen- tata per l’ennesima volta dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, cui si affiancano articoli di giornale e testimonianze d’incerta provenienza e di dubbia attendibi- lità. Non ci sono ricerche nuove, ove si escluda qualche sporadico documento attinto al fon- do donato un paio di anni fa da Gelli all’Archivio di Stato di Pistoia, e soprattutto non c’è un adeguato vaglio critico del materiale reperito e nemmeno il necessario distacco che ogni ope- ra di ricostruzione storiografica richiede. La stessa storiografia su quell’importante periodo della vita sociale e politica italiana del secondo dopoguerra, che in anni recenti si è arricchita di contributi significativi (a cominciare dagli studi sul caso Moro e dintorni), è pressoché to- talmente ignorata. Il risultato, inevitabilmente, è un libro a tesi, con un Gelli rappresentato fin da piccolo co- me un perfido Franti che nasconde la merenda ai compagni di scuola (p. 8), fosco presagio di una lunga carriera criminosa. Un Gelli che poi conosce una precoce e intensa militanza fasci- sta, prima di saltare, con uno spregiudicato doppio giuoco, sul fronte opposto e accreditarsi co- me amico dei partigiani e artefice della Liberazione. Gli autori ne ripercorrono le tumultuose vicende biografiche, molte delle quali ancora avvolte nel mistero e nell’oscurità, fino quasi ai nostri giorni, maturando appieno il convincimento che a lui e ai suoi intrighi siano direttamen- te riconducibili alcune delle pagine più drammatiche e inquietanti della storia italiana degli ul- timi decenni. E arrivando tout court alla conclusione «che l’ex adepto Berlusconi – con il secon- do governo nato nel giugno 2001 – sta realizzando il progetto della Loggia P2» (p. 338). Il libro è corredato di una breve appendice fotografica e dell’elenco completo degli affi- liati alla P2 che fu trovato nell’archivio di Castiglion Fibocchi, desunto dagli atti della Com- missione parlamentare d’inchiesta sulla loggia segreta. Fulvio Conti

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Jennifer Guglielmo, Salvatore Salerno (a cura di), Gli italiani sono bianchi? Come l’Ame- rica ha costruito la razza, Prefazione di Gian Antonio Stella, Milano, Il Saggiatore, 384 pp., Û 19,50 (ed. or. New York, 2003)

Il libro affronta la complessa e contraddittoria esperienza vissuta dagli italiani rispetto al- la costruzione della razza negli Stati Uniti analizzando, con strumenti interdisciplinari, come gli immigrati hanno imparato, riprodotto e messo in discussione la supremazia dei bianchi nella società americana. Si tratta di un tema portante della ricerca americana poiché, sin da- gli albori della Repubblica, la «razza» ha costituito, assieme al genere e al censo, il canale per l’acquisizione della cittadinanza e la chiave per l’ingresso nel paese. L’importante studio di Mae M. Ngai (2003) affronta proprio la storia della cittadinanza americana leggendola come un’i- stituzione che produce differenze razziali e mostrando come le leggi sull’immigrazione, utiliz- zando di volta in volta i diversi concetti di straniero illegale, origini nazionali e ineleggibilità razziale alla cittadinanza, siano state strumento per plasmare la politica razziale in particolare nei confronti di asiatici e messicani. Dalla razzializzazione della legge non furono esclusi gli italiani, basti pensare ai National Quota Acts degli anni ’20, che ne limitarono drasticamente l’ingresso nel paese. L’assunto che il melting pot e l’integrazione siano riusciti per gli euroame- ricani, i discendenti di quei trenta milioni di immigrati europei della grande immigrazione, ha fatto spesso dimenticare i difficili momenti degli inizi anche se, come ben esposto qui da Thomas Guglielmo, non fu mai sostanzialmente messa in discussione l’appartenenza degli ita- liani alla razza bianca. Il libro, attraverso contributi interdisciplinari di storici, sociologi, cineasti, musicisti, at- tivisti, tratta l’argomento da noi poco noto di questa complessa e controversa esperienza vis- suta dagli italiani in America. Da un lato, per quasi un secolo vittime di discriminazione, in- consapevoli delle barriere razziali all’arrivo, nel divenire americani o forse per divenire ameri- cani, gli immigrati italiani adottarono la stessa visione, costruita sulla linea del colore, della società di insediamento. Non a caso la prima parte è intitolata Imparare la linea del colore ne- gli Stati Uniti (con saggi di L. De Salvo, T. Guglielmo, D. Gabaccia, V. Scarpaci). Dall’altro, come ha dimostrato Vecoli, non presente nella raccolta ma spesso citato, gli italiani hanno avuto una lunga storia di militanza in organizzazioni contro il razzismo che qui viene riper- corsa nella seconda parte Radicalismo e razza (C. Waldron Merithew, M. Miller Topp, S. Sa- lerno, F. Rosemont, Manifest) e nella terza Bianchezza, violenza e crisi urbana (G. Meyer, S. Luconi, J. Sciorra). L’ultima sezione Verso un immaginario nero italiano va oltre la dicotomia razzismo-antirazzismo. K. Ragusa, E. Giunta, J. Gennai, R.M. Painter e R. Capotorto esplo- rano le vite di confine di discendenti di coppie miste di italoamericani e afroamericani. Ren- de perplessi la scelta di tradurre «Italian Americans» e «Afro Americans» con «italiani ameri- cani» e «africani americani», scelta che, oltre ad appesantire la lettura, risulta errata. Maddalena Tirabassi

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Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, a cura di Miguel Mellino, Roma, Meltemi, 335 pp., Û 24,00 Id., Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, a cura di Giovanni Leghis- sa, Milano, Il Saggiatore, 256 pp., Û 25,00

È particolarmente benvenuta in Italia la pubblicazione di due volumi di scritti di Stuart Hall, una figura cruciale per gli studi culturali e postcoloniali. È però un peccato che i volumi raccolgano in larga misura gli stessi saggi, mentre sarebbe stato auspicabile un coordinamento e quindi una differenziazione tra di essi. Nato in Giamaica nel 1932, attivo nella nuova sinistra britannica, Hall è stato per molti anni al centro di Cultural Studies di Birmingham e poi alla Open University. La rilevanza di queste traduzioni è legata non solo all’ancora parziale diffu- sione degli studi e della storia culturale nel nostro paese, ma anche ad altri fattori: ad esempio l’importanza che attribuisce Hall al pensiero di Gramsci per la comprensione del «popolare» e della «cultura». Lo stile piano e la chiarezza dell’esposizione rendono questi scritti utili per tut- ti, ma soprattutto per gli studenti di vari ordini di scuole. Tra i filoni che trovo più interessan- ti stanno quelli della genesi degli studi culturali dalla crisi delle discipline umanistiche, e del lo- ro situarsi nella zona di tensione tra lo spazio separato proprio della cultura e il contatto con la vita reale, che non è affatto solo materiale, ma fortemente costituita da simboli. C’è una carat- teristica centrale della storia culturale che la situa tra le discipline e non nell’ambito della poli- tica: si tratta di quello «spostamento» che è implicito nel concetto di cultura (Politiche, p. 295), cioè il riconoscimento della testualità e del potere culturale, la consapevolezza che la cultura è oggi una componente importante del consumo, nonché la certezza del rapporto tra potere e cultura. Hall ci invita, citando Edward Said – un altro «padre» della storia culturale – a convi- vere con la tensione tra il testo e le sue connessioni con le istituzioni, il che rinvia all’incomple- tezza intrinseca degli studi culturali e alla consapevolezza di questo da parte della storia cultu- rale: «Là fuori la gente sta morendo» è la frase che esprime in modo pregnante tale consapevo- lezza. La riflessione di Hall, sebbene si appunti rigorosamente sull’ambito culturale, tiene con- to degli sviluppi economici e politici a livello globale. Individua i cambiamenti che tali svilup- pi stanno provocando a livello soggettivo e oggettivo, dall’atteggiarsi dei soggetti politici alle mutazioni del discorso mediatico. Si articola intorno al nodo delle identità e chiarisce fino in fondo le ambiguità connesse con quelle cosiddette «etniche», decostruendo il processo che ha separato significanti come «nero» dai loro contesti storici, culturali e politici, per impiantarli in categorie razziali costituite biologicamente, offrendo così al razzismo un rafforzamento del ter- reno su cui può allignare (Il soggetto, p. 275). Hall conclude che «esiste, certamente, un insie- me profondo di esperienze nere peculiari e storicamente definite», ma che esse devono essere trattate con attenzione alla diversità e non all’omogeneità dell’esperienza nera. Un avvertimen- to che possiamo far nostro in tutti gli studi di storia culturale. Luisa Passerini

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Jill Hamilton, Il Dio in armi. La Gran Bretagna e la nascita dello Stato d’Israele, Milano, Corbaccio, 436 pp., Û 24,00 (ed. or. Stroud, 2004)

L’individuazione dei caratteri fondamentali della questione arabo-israeliana-palestinese – conflitto conficcato nel nodo Terra/Religione – è possibile solo procedendo ad una rinunzia di principio: quella di leggerla in una unica dimensione. L’argomentato testo della giornalista e storica Jill Hamilton, che tra l’altro vanta una frequenza diretta dei paesi e degli archivi me- diorientali, parte proprio da tale consapevolezza metodologica. Non a caso, introduce un par- ticolare criterio ermeneutico di lettura riguardante la nascita dello Stato di Israele nonché le relazioni tra esso e la Gran Bretagna, focalizzandolo sul primo vero atto della questione ara- boisraeliana: la Dichiarazione di Lord Balfour del 1917. La chiave di lettura, dichiarata e sostenuta con una ricca serie di fonti (si controllino, ad esempio, le appendici finali pp. 407-430), fuori dalla metodologia formalizzata della geopo- litica e/o degli studi di storia politica che caratterizzano ampiamente questi argomenti, ruota intorno alla cultura «personale dei politici che realmente aprirono le porte al ritorno degli ebrei», cultura iscritta, secondo l’autrice, nell’orizzonte spirituale del cristianesimo non conformista. La Dichiarazione di Balfour, che dovrebbe essere chiamata più propriamente di- chiarazione di David Lloyd George per la convinzione con la quale l’allora primo ministro li- berale inglese tenacemente la perseguì, è frutto proprio dell’approccio spirituale di Lloyd George, un cristiano nonconformista, o meglio un sionista cristiano, profondamente convin- to che l’aliàh fosse consustanziale alle Sacre Scritture e fosse un avvenimento decisivo per la seconda venuta del Messia. Se poi si analizza al di là della linea geopolitica, la nascita dello Stato di Israele nel 1948 non si può non notare, secondo la Hamilton, il nesso tra questo even- to e la presenza alla Casa Bianca di un presidente – Harry Truman – con la stessa formazione e il medesimo approccio culturale di Lloyd Gorge. Quando gli fece visita qualche giorno do- po la nascita dello Stato israeliano, Chaim Weizmann, neo presidente di Israele, gli donò un rotolo della Torah. La conferma dell’incidenza del cristianesimo nonconformista sulla scelta inglese nei confronti dell’Yushuv ebraico è poi esplicitata dal fatto che dieci su diciannove pri- mi ministri del Regno Unito in carica nel Novecento (p. 405) vennero educati in famiglie ap- partenenti a Chiese non conformiste o libere, vale a dire congregazionaliste piuttosto che uni- tariane, metodiste, battiste. Lo stesso Lord Balfour, presbiteriano, divenne uno spiritualista praticante. L’assunto del testo è in sé certamente originale, tuttavia l’architettura generale del saggio pecca di riduzionismo. La stessa autrice, del resto, ne ha consapevolezza, quando dichiara che il testo non ha alcuna pretesa di completezza storica, ma rimangono non spiegate le aspre con- troversie e i continui conflitti tra l’Agenzia ebraica e la Gran Bretagna che non poco hanno pesato sui rapporti tra arabi ed ebrei. Giovanni Codovini

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Edgar Hösch, Storia dei Balcani, Bologna, il Mulino, 126 pp., Û 10,00 (ed. or. München, 2004)

Nel ricco panorama della storiografia tedesca sull’Europa Orientale Edgar Hösch ha da tempo acquisito un posto rilevante. Studioso dei processi di formazione culturale e di quelli identitari etnici, si è cimentato in grandi opere di sintesi sulla storia della Russia e dei paesi balcanici, così come in opere di carattere didattico e in quelle funzionali alla conoscenza del- la realtà attuale dell’Europa postcomunista. Meglio tardi che mai dunque l’editoria italiana ha scoperto sia con Einaudi che con il Mulino questo autore. La Storia dei Balcani è la tradu- zione di un’operetta di sintesi pubblicata da Hösch nel 2004. La data è indicativa, perché se- gna l’ingresso nell’UE di Ungheria e Slovenia, due paesi del Sud-est europeo (categoria geo- storica elaborata dalla cultura germanica in alternativa a quella di Balcani), avanguardia del- l’entrata quest’anno di Bulgaria e Romania, per non parlare di quella prevista in seguito di al- tri Stati della regione. In questo contesto si pone il lavoro di Hösch teso ad esaltare gli aspet- ti che dimostrano il carattere europeo della regione e al tempo stesso la specificità della stes- sa in quanto «regione di confluenza e fusione di elementi provenienti dalla cultura occiden- tale, bizantina, europea e orientale» (p. 22), già a suo tempo sottolineati con forza da Maria Todorova. Il tema dell’europeità e della particolare europeità della regione è sì oggetto speci- fico del primo capitolo, ma percorre come un fil rouge gli altri tre capitoli dedicati al Medioe- vo e al dominio ottomano, alla nascita e allo sviluppo dello Stato nazionale, al periodo co- munista e post-comunista della regione. Hösch osserva che i cinque secoli di dominazione ottomana non hanno mai interrotto del tutto la comunicazione tra i Balcani e l’Occidente cristiano (p. 24) e i mille anni di separazione tra cattolici e ortodossi «hanno lasciato tracce che non si possono cancellare», ma subito dopo ricorda l’importanza per la Chiesa ortodos- sa del pensiero teologico cristiano occidentale (pp. 34-35); rifiuta quindi la teoria di Huntig- ton dello «scontro di culture» funzionale all’emarginazione dei Balcani ortodossi e alla Tur- chia musulmana (p. 90). Il largo spazio dedicato a nascita e sviluppo degli Stati nazionali nei Balcani desta qualche perplessità poiché sembra che Hösch rimanga incerto tra una teoria pe- rennista (da qui la sua parziale accettazione dell’idea di «risveglio» della nazionalità) ed una di costruzione della nazione; altrettanto perplessi si può rimanere nel suo fare risalire i limiti della modernizzazione dei paesi balcanici prima del 1940 solo alla politica delle grandi po- tenze, trascurando quanto scriveva Rotschild sul ruolo dell’irredentismo nazionalista nella vi- ta politica e del privilegio sociale nell’uso del debito pubblico. La traduzione spesso lascia a desiderare (es. i pomaci o pomai, cioè i musulmani di lingua bulgara diventano «polacchi di lingua bulgara»!, p. 84; le azioni militari della NATO sono state «crude», p. 86). Utili crono- logia e lista di letture consigliate. Armando Pitassio

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Michelangelo Ingrassia, La rivolta della Gancia, Palermo, L’Epos, 102 pp., Û 9,00

Il 4 aprile del 1860 alcune decine di uomini con a capo il mastro fontaniere Francesco Ri- so, muovendo da un magazzino del convento della Gancia, diedero inizio all’insurrezione paler- mitana che avrebbe convinto definitivamente Garibaldi a organizzare una spedizione in Sicilia. Furono artigiani e popolani, membri della minoranza democratica del Comitato rivoluzio- nario palermitano, ad agire senza tentennamenti contro l’opinione della maggioranza modera- ta, titubante sul successo dell’impresa e timorosa di un sbocco insurrezionale difficilmente pi- lotabile. Da un punto di vista militare l’insurrezione fu un fallimento: cinque insorti furono uc- cisi in combattimento, e altre centinaia furono catturati nei giorni seguenti durante i combat- timenti fuori Palermo. Tredici degli insorti, tra cui il padre di Riso furono fucilati il 14 aprile mentre Francesco morì alla fine del mese per le ferite riportate. Ma il 4 aprile sarebbe diventa- to subito una data importante. Il 29 settembre 1860, infatti, il prodittatore Mordini decretò che il 4 aprile e il 27 maggio fossero compresi tra le feste nazionali in Sicilia e dal 1861 la rivolta della Gancia divenne protagonista di celebrazioni ufficiali nelle scuole e in città con distribuzio- ni di medaglie ai superstiti, inaugurazioni di monumenti e di lapidi, pubblicazioni, orazioni, cortei studenteschi in pellegrinaggio nei luoghi dell’insurrezione, della fucilazione dei tredici. In un libretto dalle dimensioni di un pamphlet, Michelangelo Ingrassia racconta con pi- glio giornalistico e con una certa dose di entusiasmo, che a tratti fa velo a una più lucida ri- costruzione dei fatti e delle interpretazioni storiografiche sul Risorgimento (la bibliografia ci- tata ad esempio non tiene conto delle ultime acquisizioni della ricerca come il fondamentale saggio di Lucy Riall), i luoghi, i protagonisti, le conseguenze, la fortuna giornalistica e narra- tiva della rivolta. Più che un saggio storico è quindi un racconto le cui parti migliori sono appunto quelle che «narrano» degli «uomini che fecero l’impresa», della «buca della salvezza» che consentì ad alcuni rivoltosi di nascondersi per alcuni giorni e di fuggire, dei «veleni e segreti». Da un punto di vista storiografico, invece, il capitolo più interessante è quello sul mito del 4 aprile. Nei primi decenni dello Stato unitario il 4 aprile divenne uno dei tasselli di quel- la religione civile attraverso la quale l’Italia creava i propri eroi, miti, monumenti, tradizioni. Nel 1924 le autorità scolastiche palermitane soppressero la vacanza del 4 aprile e l’ultima vol- ta che questa data è stata degnamente celebrata è stato nel 1960, in occasione del centenario, con un discorso del presidente della Regione siciliana Majorana e una solenne cerimonia fu- nebre rievocativa dei martiri celebrata proprio nella chiesa della Gancia. Forse anche senza la rivolta della Gancia Garibaldi sarebbe entrato lo stesso a Palermo ma indubbiamente gli avvenimenti di quel 4 aprile impressero una accelerazione straordinaria agli eventi e, retrospettivamente, possiamo dire con l’autore che le campane della Gancia annun- ciarono la morte del Regno delle Due Sicilie e la nascita dell’Italia unita. Giancarlo Poidomani

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Michela Innocenti, Storie di donne e di guerra in Toscana 1943-1945, Pistoia, Istituto sto- rico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Pistoia, 152 pp., Û 10,00

Il rapporto tra donne e violenza, sia subita che agita, è il filo conduttore del saggio, e la guerra il luogo paradigmatico della violenza in cui l’autrice misura e dipana la questione del- la partecipazione o dell’estraneità delle donne ad essa. La riflessione prende le mosse dalla pri- ma guerra mondiale, in cui le donne, attraverso l’adesione all’interventismo, il lavoro e l’assi- stenzialismo a sostegno dei soldati al fronte e delle loro famiglie, posero le premesse di una lo- ro partecipazione di diritto alla vita istituzionale e civile del paese; salvo poi nel dopoguerra dover ripiegare nei ruoli tradizionali di una società patriarcale, in nome di un ritorno all’or- dine, voluto da tutte le forze politiche, laiche e cattoliche, cavalcato ed enfatizzato poi dal fa- scismo. Ma è la seconda guerra mondiale, in quanto «guerra totale», a catapultare di nuovo le donne nello spazio pubblico del conflitto, dove eserciteranno, nella crisi dello Stato, un fon- damentale ruolo assistenziale di supplenza nelle comunità abbandonate dagli uomini, e di ma- ternage di massa nei confronti di soldati sbandati, partigiani, ebrei in fuga, rastrellati e quant’altro. Un protagonismo pagato a un prezzo pesante in termini di violenza e di manca- ta protezione. Le donne diventano infatti vittime predestinate della violenza diffusa che dal ’43 al ’45 percorre l’intero territorio nazionale, oggetto di stupri, di violenze efferate sui cor- pi e sulle anime, di stragi causate dai bombardamenti, dal passaggio del fronte, dalle rappre- saglie sui civili di tedeschi e fascisti. Di questa larga casistica di violenza materiale e morale su- bita l’autrice traccia un vivido resoconto relativo all’area del Pistoiese, ricostruendo il quadro delle devastazioni e la memoria degli eccidi con l’uso di diverse fonti, dalle testimonianze di donne superstiti, ai documenti degli archivi comunali, delle associazioni femminili e degli en- ti assistenziali preposti nel dopoguerra a provvedere ai bisogni della popolazione indigente, fra cui appunto numerosissime le donne rimaste sole o con figli a carico, con i familiari uccisi o deportati. Attraverso le carte di archivio relative alla epurazione, Innocenti tratteggia inoltre il tema della violenza agita, di cui si resero responsabili le «repubblichine» e le collaborazioni- ste; di esse nel dopoguerra vengono perlopiù denunciati l’opera di delazione, le relazioni ses- suali coi tedeschi, gli atteggiamenti di sopraffazione verso le altre donne, ricondotti spesso, con sottovalutazione implicita, dentro le categorie di comportamenti immorali, di «capricci da donne» e di vanità di potere, e come tali poi, salvo pochi casi di acclarata partecipazione a rappresaglie o eccidi, in larga parte condonati. Un’ampia appendice di documenti completa il volume, che avrebbe tratto beneficio da un più accurato montaggio delle sequenze crono- logiche, dei temi enunciati e dei diversi materiali documentali esposti. Brunella Dalla Casa

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Carl Ipsen, Italy in the Age of Pinocchio. Children and Danger in the Liberal Era, New York, Palgrave Macmillan, 261 pp., s.i.p.

A partire dalla fine degli anni Settanta dell’Ottocento fino alla vigilia della prima guerra mondiale, il fenomeno dell’infanzia abbandonata, e del suo impiego in una serie di pratiche non solo illegali ma solitamente dannose all’integrità fisica e morale di una moltitudine di mi- nori, rappresentò, in tutte le aree della penisola italiana, una questione di proporzioni intol- lerabili, tale da suscitare non solo indignazione pubblica ma anche una serie di iniziative legi- slative e di specifiche politiche sociali a riguardo. Utilizzando la metafora di Pinocchio, il bu- rattino/bambino, simbolo della fuga e della sovversione sociale, sempre in bilico tra la perdi- zione e il ritorno nell’ordine sociale convenuto, Ipsen ci offre un esauriente quadro delle con- dizioni dell’infanzia italiana in una fase storica cruciale per la formazione dell’identità nazio- nale. Come l’autore sottolinea in partenza, tale fenomeno, nelle stesse drammatiche propor- zioni, non fu un’esclusiva italiana. Le ricerche di Hugh Cunningham in ambito europeo, o di Michael Grossberg per l’America lo hanno ampiamente dimostrato. Non solo, uno studio co- me quello di John Zucchi ha illustrato le dinamiche di un vero e proprio «mercato» transna- zionale nel quale i bambini venivano ceduti a padroni tramite il vincolo di un contratto a tem- po e impiegati come apprendisti nei più diversi settori lavorativi, passando per le principali città europee o, come nel caso dei piccoli suonatori ambulanti, inseriti nel grande fenomeno migratorio transoceanico. È però solo nell’Italia giolittiana, all’indomani di una fase di forte instabilità sociale, che la preoccupazione per gli sfortunati infanti diventa un’istanza sociale ineludibile, soprattutto in un paese aspirante alla modernità. Ipsen ricostruisce con cura i va- ri aspetti che hanno caratterizzato il fenomeno dell’abbandono infantile – dei trovatelli e dei figli illegittimi abbandonati – analizzandolo su scala nazionale o in dettaglio in città partico- larmente vocate come Napoli; lo sfruttamento del lavoro minorile ne rappresenta una sorta di naturale e fatale conseguenza. Un altro fattore strettamente connesso a tale fenomeno è poi quello della delinquenza giovanile la cui recrudescenza, sul finire dell’Ottocento, spinse ad una più severa politica repressiva che condusse un gran numero di delinquenti, vagabondi e disco- li dietro le sbarre di riformatori, carceri, o istituti di correzione per minori. Un discorso a par- te meritano poi i bambini massicciamente coinvolti nei fenomeni migratori. Infatti, secondo Ipsen, se da un lato nell’Italia liberale sembrava prevalere una «demographic mentality» secon- do la quale il paese non aveva sufficienti risorse per far fronte ad un incremento della popo- lazione percepito come esorbitante cosicché l’emigrazione infantile non poteva che essere sa- lutare, dall’altro la partenza di minori non accompagnati da genitori per le destinazioni più disparate costituiva una pericolosa pratica da limitare. Come, in conclusione, sottolinea Ipsen, più che Pinocchio, sarà forse Cuore, il romanzo scritto da De Amicis nel 1886, a definire il ruo- lo dell’infanzia nella costruzione della moderna società italiana. Pierangelo Castagneto

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Anna Maria Isastia, Guido Laj, L’eredità di Nathan. Guido Laj (1880-1948) prosindaco di Roma e Gran Maestro, Roma, Carocci, 225 pp., Û 18,60

Il volume di Anna Maria Isastia, già autrice di diversi lavori sulla storia della massoneria, e di Guido Laj, discendente ed omonimo del protagonista del libro, rappresenta un contributo in- novativo per fare luce sul ruolo rivestito dall’ordine liberomuratorio nella storia politica italiana contemporanea. Infatti, ripercorrendo l’attività politica e le funzioni assunte nella storia del Gran Oriente d’Italia da Guido Laj, uno dei principali artefici della ricostituzione della massoneria do- po il fascismo, gli autori apportano nuove conoscenze sull’incidenza dalla cultura laica e demo- cratica di matrice massonica in alcuni passaggi decisivi della storia nazionale novecentesca. A partire da questa prospettiva, la ricerca – basata su un’accurata indagine archivistica – si articola in cinque capitoli attraverso i quali, in un efficace montaggio alternato tra dimen- sione pubblica e quella privata, viene ricostruito il fitto intreccio tra impegno politico e atti- vità massonica che caratterizza il percorso biografico di Guido Laj: l’adesione al socialriformi- smo e la partecipazione come volontario alla Grande guerra, l’impegno politico-amministra- tivo nelle giunte capitoline del travagliato primo dopoguerra, l’opposizione al fascismo dalle pagine de «Il Mondo», l’emarginazione politica e professionale durante il ventennio fascista ed infine l’attività politico-amministrativa tra il 1944 e il 1946 nelle vesti di prosindaco di Ro- ma costituiscono le tappe principali di un profilo biografico che, fino alla caduta del fascismo, si intreccia prevalentemente con le vicende municipali romane. Tale prospettiva nell’ultimo capitolo dischiude un orizzonte di più ampio respiro allorché lo stesso Laj partecipò da pro- tagonista alla ricostruzione del sistema politico italiano ed alle alleanze internazionali del pae- se, promuovendo idealità laiche e progressiste. All’interno di un panorama storiografico che negli ultimi anni si è arricchito di impor- tanti contributi sulla massoneria, il volume di Isastia e Laj ha essenzialmente un duplice pre- gio: oltre a ricostruire per la prima volta la vicenda della rinascita della massoneria italiana do- po il fascismo, lo studio recupera pienamente le potenzialità del genere biografico offrendo interessanti spunti di riflessione sulla metamorfosi della classe dirigente italiana nella fase «co- stituente» dell’Italia postbellica; proponendo la figura di Guido Laj come uno degli ultimi epi- goni di quella cultura laica e democratica dell’Italia liberale dei primi decenni del Novecento che «pur minoritaria, ha attraversato indenne il fascismo riemergendo nel 1943 e facilitando il passaggio dell’Italia nel novero delle nazioni democratiche ancorate al mondo occidentale» (p. 13), gli autori riescono in modo convincente ad aprire uno squarcio su quel notabilato massonico di matrice democratica-progressista-anticlericale destinato ad eclissarsi nell’Italia del secondo dopoguerra. Da segnalare, infine, l’interessante appendice documentaria, comprendente, tra l’altro, il discorso d’insediamento del Gran Maestro Guido Laj tenuto nel novembre del 1945. Alberto Ferraboschi

247 I LIBRI DEL 2006

Diomede Ivone, Marco Santillo, Alcide De Gasperi e la ricostruzione (1943-1948), Roma, Edizioni Studium, 331 pp., Û 28,50

L’assunto del libro è l’indiscussa centralità del leader democristiano Alcide De Gasperi quale principale «artefice dei cambiamenti epocali della società e dell’economia italiana del se- condo dopoguerra». Gli autori affrontano quello che definiscono il «decennio degasperiano» (1944-1954), privilegiando l’analisi delle scelte di politica economica e ricostruiscono, attra- verso un largo uso di fonti documentarie (con una selezione di documenti riportata in appen- dice ai capitoli), ed un’ampia sia pur un po’ datata bibliografia, le più urgenti ed importanti questioni economiche affrontate e risolte dai governi De Gasperi lasciando sullo sfondo le vi- cende più politiche, che pure entrano nelle pagine del libro. Gli autori sottolineano come, con la formazione del suo primo governo, il 10 dicembre 1945, lo statista trentino si sia adoperato non solo per riattivare il ciclo produttivo e stabiliz- zare la moneta, ma anche per tracciare le linee guide di uno sviluppo economico e politico de- stinato a portare l’Italia verso il ‘miracolo economico’ e a farla entrare in un sistema di allean- ze che la collocherà in modo stabile all’interno del blocco occidentale. Il volume è diviso in due parti. La prima è curata da Marco Santillo e concerne il periodo compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti (1947). Emerge come la situazione italiana sia caratterizzata da una forte spirale inflazionisti- ca, una rilevante svalutazione e dalla conta dei danni provocati direttamente dalla guerra. L’a- zione di De Gasperi è sempre strettamente intrecciata sui due piani interno ed internazionale: da un lato deve fronteggiare i gravissimi problemi legati soprattutto alla mancanza di derrate alimentari, materie prime e fonti energetiche, dall’altro è costantemente chiamato a mediare le necessità del paese con le difficoltà derivanti dal suo status di paese sconfitto. Progressivamen- te, mentre l’Italia esce dalla fase dell’emergenza, il governo abbandona gli interventi di tipo as- sistenziale ed utilizza i prestiti internazionali per investimenti di medio e lungo periodo. La seconda parte, curata da Diomede Ivone, si concentra sul periodo successivo al 1947 e analizza le novità economiche introdotte dopo la costituzione del quarto esecutivo a guida De Gasperi, con il varo della cosiddetta «linea Einaudi» e la gestione degli aiuti internaziona- li che, nel frattempo, da piani di «primo aiuto» (United Nations Relief and Rehabilitation Agency, Aids United Staes of America e Interim Aid), si strutturano nell’articolato Piano Mar- shall. In questa fase, De Gasperi si rivela un abile mediatore fra i desiderata americani e quel- li della grande industria che, di fatto, beneficerà in larga parte degli aiuti internazionali. Il li- bro fa emergere la statura politica del leader democristiano sulla base della sua lungimiranza che gli fece presto comprendere quanto sviluppo economico e politico fossero strettamente intrecciati e come il progresso complessivo del paese, sia dal punto di vista delle istituzioni de- mocratiche sia della crescita economica, fosse legato alle scelte di politica internazionale. Monica Campagnoli

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Susan Jacobs, Combattendo con il nemico. I prigionieri di guerra neozelandesi e la Resisten- za italiana, Venezia, Mazzanti, 288 p., Û 13,00 (ed. or. Auckland, 2003) Susan Jacobs, docente di Lingua e letteratura italiana all’Università di Auckland, in Nuo- va Zelanda, ricostruisce nel suo volume le vicende di alcune migliaia di soldati del suo paese, caduti prigionieri degli italiani nel corso dei primi anni del secondo conflitto mondiale. I com- battenti neozelandesi furono internati prevalentemente in Veneto e Friuli Venezia Giulia, in particolar modo nel campo di Torviscosa, in provincia di Udine. Lì rimasero rinchiusi fino al- la crisi dello Stato italiano, culminata nell’armistizio dell’8 settembre del 1943. A quel punto numerosi combattenti alleati, tra cui circa 1.400 neozelandesi, approfitta- rono del caos dell’esercito e delle organizzazioni di polizia, trovando spesso l’appoggio della popolazione locale. Qualche tempo dopo, numerosi ex-prigionieri ripresero le armi, confluen- do nelle schiere dei raggruppamenti partigiani della zona. Queste ultime vicende sono quelle meglio esplorate dal saggio della Jacobs, costruito quasi esclusivamente sulla memorialistica e sulle fonti orali, tanto italiane che neozelandesi. All’autrice preme infatti ricostruire la dimen- sione umana di quella straordinaria esperienza che fu l’aiuto dei contadini, in questo caso spe- cifico del Nord-est, agli ex soldati nemici. In tale scelta contava parimenti l’ostilità per i fasci- sti e i tedeschi, ma anche la volontà di protezione ricordata qualche anno addietro da Anna Bravo, richiamata esplicitamente da numerose testimonianze. Per questa via, ricorda la Jacobs, si costruirono forti relazioni umane, cruciali nel rendere accettabile per i contadini italiani la minaccia di rappresaglie che comportava l’aiuto offerto ai soldati alleati. Ines Martin, la cui famiglia ospitava il soldato neozelandese John Senior, nella sua testimonianza sottolinea pro- prio la dimensione pre-politica, di aiuto al più debole, della loro scelta: «Anche se conosceva- mo i rischi come facevamo a non prenderci cura di loro se non volevano andarsene, perché loro volevano molto bene alla nostra famiglia così come noi volevamo molto bene a loro. John, in particolar modo era come un fratello ed io mi sentivo sua sorella, una della sua famiglia. Avevo continuamente paura ma non avrei mai potuto trovare il coraggio di mandarlo via» (p. 90). Se il volume fornisce quindi utili spunti alla comprensione dei rapporti istauratisi tra ex prigionieri alleati e italiani, (contadini prima ma poi anche partigiani), grazie alla dimensio- ne soggettiva delle fonti utilizzati, la scelta di privilegiare alcune singole vicende in modo ec- cessivamente frammentario e privo di collegamenti, finisce però per non permettere di valu- tare l’effettivo valore esemplare delle storie analizzate, incapaci, in assenza di un inquadramen- to generale, di far comprendere il contributo offerto dai soldati neozelandesi alla Resistenza italiana. Tommaso Baris

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Andreas Kappeler, La Russia. Storia di un impero multietnico, a cura di Aldo Ferrari, Ro- ma, Edizioni Lavoro, 485 pp., Û 28,00 (ed. or. München, 1992) Dobbiamo ringraziare Aldo Ferrari e le Edizioni Lavoro per aver tradotto questo libro im- portante, pubblicato in Germania nel 1992 e già apparso in francese e in inglese. Con esso Kappeler, professore all’Università di Vienna e il più importante specialista della questione na- zionale nell’Impero russo, ha fornito agli studiosi della storia europea, del nazionalismo e dei movimenti nazionali, degli imperi, del colonialismo e delle sue forme un’opera di cui non è possibile fare a meno. Essa è aperta da una rapida ma interessante cavalcata che porta il lettore dalla conquista delle terre dell’orda d’oro alle spartizioni della Polonia, che segnano, più della conquista della poco popolata Siberia, la vera trasformazione imperiale dello Stato fondato da Pietro che gra- zie ad esse conquistò territori abitati da polacchi, bielorussi, ucraini, ebrei, baltici, tedeschi, ecc. Con le spartizioni si apre il cuore del libro dedicato a un lungo XIX secolo, scandito dalle rivolte polacche oltre che dall’espansione verso il Caucaso, l’Asia Centrale e l’Oriente. In que- sto lungo XIX secolo, chiuso da un 1905 presentato giustamente prima che come rivoluzione «russa», che pure vi fu, come scoppio ritardato della «primavera dei popoli», Kappeler mette in luce la straordinaria elasticità, molteplicità e evoluzione delle politiche «nazionali» zariste e or- todosse, che andarono da un’estrema tolleranza a politiche di esplicita pulizia etnica nei terri- tori del Caucaso. In pagine ricchissime di riferimenti e conoscenze vengono messe in risalto le differenze tra campagne russe e ucraine, tra nobili di origine tedesca, tatara, russa o polacca – la nobiltà polacca rappresentava allora la maggioranza di quella imperiale –, le conseguenze del- la presa di coscienza della necessità di modernizzare e quindi omogeneizzare, introducendo per esempio la leva obbligatoria, un paese con più decine di popoli, lingue e religioni, ecc. La breve carrellata finale, forse inserita per ragioni editoriali, che ci porta dal 1917 fin quasi ai giorni nostri è l’unica nota stonata del libro. Per fortuna con An Affirmative Action Empire: Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Cornell University Press, 2001 T. Martin ci ha dato un classico anche sulla questione nazionale in epoca sovietica, che forse qualcuno vorrà presto tradurre seguendo l’esempio di Ferrari. Di recente, altri bei libri – da F. Hirsch, Empire of Nations: Ethnographic Knowledge and the Making of the Soviet Union, Cornell UP, 2005 a J. Cadiot, Le laboratoire impérial, Russie-Urss 1860-1940, Cnrs, 2007 o M.R. Beissinger, Nationalist Mobilization and the Collapse of the Soviet State, Cambridge UP, 2002 – hanno arricchito la nostra conoscenza del fenomeno nazionale e imperiale in quella parte del mondo, fornendo materiali nuovi che anche gli studiosi del nazionalismo e della sto- ria europea devono ancora assimilare. Quando ciò avverrà potrò forse smettere di pregare in- vano i miei studenti e i miei amici di non chiamare «Russia» l’Impero russo o l’URSS, in cui l’aggettivo «russo» era stato e pour cause espunto anche nel nome, negandosi la possibilità di capire tanto il passato quanto cosa sia la Russia odierna. Andrea Graziosi

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Gilles Kepel, Il Profeta e il Faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islami- sta, Roma-Bari, Laterza, XX-244 pp., Û 14,40 (ed. or. Paris, 1984)

L’assassinio di Anwar Sadat nel 1981 da parte di un militante di al-Jihâd rivelò all’improv- viso al mondo occidentale l’esistenza, in Egitto, di un movimento rivoluzionario vasto e molte- plice, che traeva il suo programma da un’interpretazione letterale e integralista dell’islam, spin- ta al punto da autorizzare il tirannicidio – atto contrario all’etica politica del sunnismo tradizio- nale. L’indagine sui gruppi che componevano all’epoca la galassia dell’islamismo radicale egizia- no è oggetto della tesi dottorale di Gilles Kepel proposta in Italia a oltre venti anni dalla sua pubblicazione in Francia. Kepel rintraccia le origini ideologiche dell’islamismo egiziano nella radicalizzazione del riformismo dei Fratelli musulmani sotto il regime nasserista, attraverso gli scritti di Sayyid Qutb, leader dei Fratelli e impiccato da Nasser nel 1966. Dalla teoria di Qutb l’islamismo egiziano degli anni Ottanta deriva la convinzione che l’islam indichi non solo il mo- dello ideale della perfetta società musulmana, ma una teoria politica applicabile alla società con- temporanea, attraverso il riconoscimento della jâhiliyya, ossia dell’estraneità dei regimi politici arabi degli anni ’50 e ’60 alla tradizione islamica (da cui la possibilità di denunziarli e abbatter- li come «miscredenti»); la necessità per i credenti di praticare l’esilio e la separazione dalla so- cietà egiziana (la hijra, l’egira); infine, il ritorno violento all’azione, per imporre la perfetta so- cietà islamica con la guerra e l’uccisione dei tiranni empi (l’assassino di Sadat, Islambuli, dichia- rerà subito dopo l’attentato: «Ho ucciso Faraone e non temo la morte», frase che sarà il grido di battaglia del movimento e dei suoi futuri martiri). Di questo pensiero si nutrono gruppi come Jamâ’at al-muslimîn, della cui ala più radicale è leader Shukri Mustafa, che, in coincidenza con gli accordi di Camp David, rapisce e uccide un esponente di spicco di Al-Azhar. È difficile riassumere in poche righe la ricchezza d’idee e di dati di un testo come quello di Kepel, ancora fondamentale nonostante il tempo passato e la mole di studi accumulata sul- lo stesso tema. Senza aderire ritualmente a schemi esegetici o sociologici – il che avverrà più spesso nel più noto e fortunato Jihâd – l’autore indica, per esempio, l’interpretazione alterna- tiva, «legalista suo malgrado», che di Qutb porterà avanti il movimento dei Fratelli musulma- ni, spinti dall’apertura mostrata da Sadat nel corso degli anni Settanta a un processo d’inte- grazione politica ed economica alle istituzioni statali, i cui esiti sono oggi incontrovertibili. D’altro canto, la stessa apertura – tesa a contenere l’opposizione di sinistra alle politiche di li- berismo economico e accompagnata da spettacolari misure di re-islamizzazione della società egiziana – consente la radicalizzazione del movimento studentesco islamico, la Jamâ‘at islâ- miyya, che canalizza il dissenso giovanile e diventa una delle forze di opposizione più rilevan- ti al regime; mentre la lettura in chiave di scontro di religioni dei conflitti con la popolazione copta, attuata dalle organizzazioni islamiste, indica una volontà radicale di pressione sullo Sta- to e di denunzia delle sue politiche di mediazione fra maggioranza e minoranza religiosa. Bruna Soravia

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Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia 1943-44, Roma, Donzelli, XIV-209 pp., Û 13,50

A quasi dieci anni dalla prima uscita, Stragi naziste in Italia torna con una nuova edizio- ne che ripropone fedelmente i contenuti della prima (ormai esaurita) impreziositi da una bi- bliografia aggiornata e da un saggio sulla recente storiografia sulla «guerra contro i civili», co- sì come indicato in copertina. Il saggio aggiuntivo non si esaurisce tuttavia in una panorami- ca sugli esiti delle nuove ricerche, ma offre spunti interessanti in merito alle spinte che hanno favorito tale fioritura di studi. Ritorna così un fattore centrale già emerso nella prima edizio- ne, ovvero l’emergere di distorsioni nella memoria e nelle interpretazioni delle responsabilità tedesche e italiane in tempo di guerra a stimolare un nuovo filone di ricerca. Fra le tesi di fondo vi è la combinazione mortale, che contribuisce all’eccidio, fra crimi- nalità del sistema nazista e criminalità individuale; si spiega anche così l’attenzione posta nel nuovo saggio (Il ritorno del volto degli assassini) sulla questione già presente nella prima edi- zione delle responsabilità individuali nei crimini commessi contro la popolazione. Tale ritor- no si riferisce anche alla tardiva stagione dei processi istruiti contro i criminali nazisti operan- ti in Italia e alla ripercussione positiva di tale stagione nell’alimentare la storiografia sul tema. Già nella prima edizione l’autore spiega la scelta di affrontare un tema non ancora in au- ge a metà degli anni Novanta con la necessità di contrastare i tentativi di abbellimento della realtà, in atto in Germania e in Italia; compito dello storico è opporsi a tale orientamento, contrastando falsificazioni con la produzione di ricostruzioni fedeli ai fatti. Klinkhammer si scaglia dunque contro i falsi miti e le rimozioni esistenti nei due paesi, rivendicando analisi serie e attendibili al fine di contrastarli e di sopperire a quei vuoti di memoria che sempre me- no paiono casuali. Trascurando per scelta la questione della punizione dei colpevoli (la tarda stagione di processi contro criminali nazisti, su cui l’autore torna anche nelle nuove pagine, è trattata per il ruolo decisivo che ha nell’orientare la storiografia), ma tenendo alta l’attenzio- ne sulle politiche di rimozione della colpa, l’autore è in grado di ricostruire quanto di quelle vicende sia filtrato nella società civile, evidenziando falsi miti, amnesie eloquenti e interpreta- zioni ormai superate. Nonostante nell’ultimo decennio siano state colmate alcune lacune lu- cidamente segnalate nel 1997 da Klinkhammer, il testo originale oggi riproposto rimane di stringente attualità anche alla luce del persistere delle stesse distorsioni della memoria. A metà fra ricostruzione storica e rassegna storiografica, il libro prende spunto da alcuni eccidi commessi in Italia da tedeschi contro la popolazione civile; l’autore procede seguendo un apparato di categorie e utilizzando l’analisi di vicende drammatiche per un resoconto tut- tora attuale sulla politica della memoria che le ha avvolte. Dall’analisi dettagliata di questi ca- si esemplari e paradigmatici, con continui rimandi a lavori di altri studiosi ad affrescare più compiutamente le tematiche affrontate, si creano le premesse per una riflessione più ampia sul carattere della violenza nazista e sulla sua specificità. Elena Carano

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Nicola Labanca (a cura di), I Gruppi di combattimento. Studi, fonti, memorie (1944-1945), Roma, Carocci, 237 pp., Û 21,00

Nel 1944 gli Alleati autorizzarono la costituzione di sei divisioni «leggere», chiamate Gruppi di combattimento, perché accompagnassero l’avanzata anglo-americana lungo la pe- nisola. Per la prima volta un numero significativo di italiani combatteva fianco a fianco con gli Alleati nella campagna d’Italia e non era più impegnato soltanto nelle retrovie in compiti logistici e di fatica. Questi quasi 50.000 uomini rappresentarono una novità sotto vari aspet- ti: per la qualifica di combattenti, per la loro entità e anche perché tra essi vi furono numero- si volontari. La presenza dei volontari è stata spesso trascurata dalla storiografia, perché nel cli- ma della guerra fredda era difficile raccontare la storia dei rapporti tra reparti partigiani e re- parti regolari del 1944-1945. L’adesione di giovani partigiani, spinti ad arruolarsi volontaria- mente per combattere agli ordini degli ufficiali «badogliani» dagli ambienti e da tutti i parti- ti della Resistenza, rappresenta «una delle più singolari e al tempo stesso più significative chia- vi per comprendere quale unione di forze diverse fu la Resistenza al nazifascismo in Italia» (pp. 59-60) e dimostra che «la volontà di liberare il Paese e di cacciare i nazifascisti era forte nella popolazione, che la patria non era morta né la volontà di combattere per essa, nonostante il crollo di un regime militaristico e nonostante anni di guerra e privazioni» (p. 49). Il volume è diviso in una prima parte di Studi, aperta da un lungo e articolato saggio di Nicola Labanca sulla storiografia relativa a militari e Resistenza; seguita dall’analisi compiuta da Hubert Heyriès sull’atteggiamento dei francesi verso i Gruppi, un atteggiamento contra- stante tra «diffidenza, disprezzo e rifiuto del nemico, pragmatismo e contingenza» (p. 82); conclusa infine da Mario Montanari con la descrizione delle operazioni cui hanno partecipa- to i reparti regolari italiani. La seconda parte è dedicata alle fonti bibliografiche e a quelle ar- chivistiche, per opera di Gian Luca Balestra e di Arianna Franceschini, che curano anche le ricche appendici documentarie al volume: la bibliografia e le fonti dell’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito. La terza parte del volume, relativa alla Memoria, inizia con la storia del comune di Alfonsine, liberato dal Gruppo «Cremona» (di Giuseppe Masetti), cui seguono i ricordi dei volontari senesi (Vittorio Meoni) e dei romagnoli partigia- ni del Bianconcini-Folgore (Giuliano Lenci); la presentazione di un’associazione di reduci da parte di Luigi Poli anticipa una nota di Giovanni Bucciol. Inquadrando le questioni storiografiche più significative, presentando le carte archivisti- che e la letteratura specifica, infine raccogliendo testimonianze di reduci, l’opera permette di indirizzarsi alle fonti con una prospettiva di analisi rinnovata e critica, scevra dalla retorica che solitamente abbonda intorno a questo tema. Gian Luigi Gatti

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Nicola Labanca, Giorgio Rochat (a cura di), Il soldato, la guerra e il rischio di morire, Mi- lano, Unicopli, 407 pp., Û 20,00

Perché i soldati si lasciano uccidere e perché accettano di uccidere? Sono queste le doman- de radicali che, come sottolineano i due curatori, «stanno alla base o dovrebbero stare alla ba- se di ogni storia delle guerre o delle forze armate che nelle guerre si combattono» (p. 7). Do- mande che possono apparire banali, ma non lo sono, tanto è vero che la ricerca storica inter- nazionale non è ancora riuscita a dare a esse risposte soddisfacenti. Non sono nemmeno do- mande nuove, ma sono state per lo più trascurate – o forse procrastinate perché troppo ango- sciose e complesse – dalla tradizionale storia militare. Solo dagli anni ’90 (soprattutto dalla se- conda metà) hanno attratto l’attenzione di storici italiani e stranieri e sono divenute impre- scindibili e urgenti, specialmente rispetto alle guerre del XX secolo. Coloro che finora hanno affrontato tali quesiti si sono concentrati e divisi su due risposte di certo vere, ma non suffi- cienti: da un lato il potere della coercizione, dall’altro il progressivo affermarsi, soprattutto nel ’900, di nuove «culture della guerra» che hanno condizionato non solo gli ambienti militari ma, prioritariamente, le società nel loro complesso. L’obiettivo del volume che presentiamo è quello di superare tali «due opposte trincee» (p. 10) sia sottolineando e articolando la compresenza di entrambe le «forze» (coercizione e cul- tura di guerra) in ogni conflitto e in ogni esercito armato, sia cercando di formulare un «mo- dello» che da un lato possa servire a un confronto/dialogo tra la storia e altre scienze sociali (in particolare psicologia e sociologia) e dall’altro, contemporaneamente, risulti sufficiente- mente elastico da essere in grado di tener conto della varietà dei casi storici, sia, inoltre, acco- gliendo gli stimoli offerti dai più maturi studi stranieri. Rispetto a questi ultimi e dinanzi al fatto che la ricerca storica italiana è indubbiamente indietro nello studio delle esperienze dei militari al fronte (a eccezione, ritengo, di quella relativa alla prima guerra mondiale, ma in modo grave rispetto ai conflitti successivi), il volume di Labanca e Rochat rappresenta un im- portante momento di coagulo e di confronto tra tensioni, interessi e progetti di ricerca che, ancora in scarso numero e in ordine sparso, stavano emergendo anche nella nostra penisola. Un momento quindi fondamentale di passaggio/partenza per la ricerca storico-militare italia- na. Gli interventi raccolti spaziano dal Risorgimento alla Resistenza italiani, da alcuni «vo- lontarismi» alle storie di singoli corpi o divisioni, da elementi motivazionali patriottici e/o mi- litari alle influenze della religione e della superstizione. Nessuno dei singoli contributi giunge a soluzioni definitive, ma tutti presi assieme offrono possibili nuove risposte alle domande ini- ziali mettendone in luce complessità, articolazioni e il loro incrociarsi e/o sovrapporsi con pe- si e modalità diversi a seconda del conflitto e delle culture di guerra che condizionano società civili e militari. Elena Cortesi

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Cesare La Mantia, Polonia, Milano, Unicopli, 343 pp., Û 16,00

Questo volume è uscito nella collana dedicata alla storia d’Europa nel XX secolo dalla casa editrice Unicopli di Milano e, come apprendiamo dalla quarta di copertina, è destinato a un «pubblico di esperti e non». Purtroppo l’autore non possiede i requisiti necessari a scrivere una sintesi di storia della Polonia nel ’900: la conoscenza di una lingua slava e solidi studi sull’area est europea. Il testo è il risultato dell’assemblaggio di alcuni libri in lingua francese e inglese sulla Po- lonia, ormai superati su molte questioni dibattute dalla storiografia più recente. Alla mancanza di coesione La Mantia ha cercato di porre rimedio con un eccesso di dettagli, citando nome e co- gnome di personaggi di secondo piano e dilungandosi su episodi marginali come il funerale del maresciallo Pi¬sudski. I nomi sono storpiati al limite del ridicolo: Po¬ska (leggi Pouska) al posto di Polska, Sanaja invece di Sanacja, Koscia¬kowski-Zyndram anziché Zyndram-Koscia¬kowski; Klub Krzywego Ko¬a, tradotto come Club della ruota deformata e subito dopo come Circolo tor- to, il Partito contadino Liberazione si sdoppia in Wyzwolenie (liberazione) e Liberation (libera- zione), e via di questo passo per trecento pagine. Nonostante l’intento dichiarato di voler dedi- care ampio spazio alla cultura, La Mantia ha scritto una storia politica, nella quale la società non è mai attore: c’è una questione agraria ma non sappiamo niente dei contadini, c’è la questione ucraina ma non ci sono gli ucraini; nella parte dedicata al «totalitarismo», poi, la società è rap- presentata solo dagli intellettuali e dalla Chiesa. Partendo da questo presupposto, La Mantia la- menta la perdita dell’indipendenza della Polonia, secondo una interpretazione obsoleta che im- pedisce di leggere l’800 come un secolo segnato non solo dalla cultura nobiliare ma anche dal- l’approfondirsi delle differenze regionali e dei vari nazionalismi. Allo stesso modo la nuova Polo- nia del 1918 non è una parentesi, o un «lungo armistizio» come è definito nel libro il periodo tra le due guerre mondiali, durante il quale «forze profonde» hanno minato l’operato dei fondatori dell’indipendenza, ma anche caos interno dovuto al fallimento di riconciliare versioni diversi del- lo Stato e della nazione. Infine, il comunismo non è un buco nero, nel quale i polacchi sono sprofondati a causa di un regime «alieno» che ha tentato di imbrigliarli ed è stato da essi «tritu- rato» (p. 244). Questa visione dicotomica della storia risalta maggiormente nelle sezioni dedica- te alla Chiesa cattolica, dipinta come la rappresentante dell’unità della nazione polacca. In realtà, durante il XIX secolo, sia il Vaticano sia l’episcopato polacco condannarono le insurrezioni con- tro lo zar e l’anticlericalismo popolare e intellettuale fu una corrente in crescita fino alla prima guerra mondiale. Tra le due guerre mondiali, continua l’autore, la Chiesa cattolica rimase «im- permeabile alle lusinghe dell’ideologia nazionalista» (p. 114), un’affermazione non suffragata da fatti o documenti e contraddetta due pagine più avanti dalla notizia che, nel 1938, non ben de- finiti «partiti cattolici» chiesero l’applicazione delle leggi di Norimberga in Polonia (p. 116). La favola narrata da La Mantia di una «nazione» polacca sempre eguale a sé stessa impedisce di com- prendere la complessità, la varietà e la vivacità di una «società» in continuo cambiamento. Carla Tonini

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Carmelo Mario Lanzafame, Socialismo a passo di valzer. Storia dei violinisti braccianti di Santa Vittoria, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 275 pp., Û 30,00

Il cartello stradale all’entrata di Santa Vittoria, frazione di Gualtieri, dice «Santa Vittoria paese dei cento violini». Da queste zone del Reggiano e del vicino Modenese provengono mu- sicisti come Luciano Ligabue, Zucchero Fornaciari e i Nomadi. Zone di braccianti, di socia- lismo e di cooperative, di balere e di liscio. Partendo da questi elementi di senso comune, ri- visitati sulla scorta di una buona storiografia, l’autore delinea le vicende del liscio a Santa Vit- toria dalla seconda metà dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale, ricostruendo una tra- dizione e spiegando i motivi di un fenomeno di massa. Malgrado una leggenda tuttora viva spieghi la passione per il violino con una lontana origine zigana, l’autore individua le condi- zioni che hanno favorito la nascita del liscio nella struttura sociale in età preunitaria, e preci- samente nell’esistenza di manodopera salariata, nella pluriattività e nella mobilità tipica dei braccianti, nel minor controllo sociale da parte dei parroci, nella presenza di bande di reggi- mento, nell’incrocio di vie di comunicazioni e quindi nel passaggio di suonatori girovaghi. Negli ultimi decenni del XIX secolo operano quintetti d’archi chiamati «concerti» (tre violi- ni, una viola e un contrabbasso), composti di braccianti e artigiani spesso legati da parentela. La struttura riflette la squadra di braccianti, anch’essa di cinque uomini, su base famigliare, sulla quale si fondava il lavoro dei terrazzieri e degli scariolanti. Anche per emigrare, si emi- grava a squadre. Luogo principale della socialità maschile è l’osteria, che si contrappone sia al caffè borghese sia alla chiesa. Sono osti e commercianti – in grado di pagare bolli, suonatori e carabinieri incaricati di mantenere l’ordine – a organizzare le feste da ballo che diffondono la novità del liscio. La bonifica, costituendo una «novità» e un «progresso», diffonde «un’atti- tudine collettiva proclive alla novità» e quindi anche ai nuovi balli (p. 156). Nascono scuole di musica e bande musicali, le cui vicende (scissioni, repertori e ritualità) sono un elemento importante dei conflitti politici. Sarà uno dei componenti della banda di Gualtieri, Gugliel- mo Vecchi, a musicare la Marsigliese dei Lavoratori di Carlo Monticelli. Negli anni Venti del Novecento vengono introdotti nuovi strumenti (batteria, saxofono e clarino), e si fanno stra- da i balli di origine americana (fox trot, one step e tango). Le feste da ballo sono organizzate dal Dopolavoro fascista. Con la nascita della SIAE il suonatore diventa professionista (impara a leggere la musica e a comporre), mentre i figli vanno a scuola da un maestro o nei conserva- tori; finisce l’epoca delle bande e delle scuole di musica. Il libro si basa su buone letture e su buone fonti. La struttura argomentativa tuttavia ten- de alla ripetizione: la tesi, spiegata all’inizio, viene ribadita più volte, nel testo e nelle note. Inoltre l’oggetto messo a fuoco varia: a volte sono i quintetti d’archi, altre volte il contesto so- ciale. Una scelta più esplicita dell’oggetto in primo piano e dello sfondo avrebbe consentito un migliore andamento narrativo. Piero Brunello

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Frédéric Le Moal, La France et l’Italie dans les Balkans 1914-1919. Le contentieux adriati- que, Prefazione di Georges-Henri Soutou, Paris, L’Harmattan, 407 pp., Û 32,00

Questo denso volume affronta la storia dei rapporti franco-italiani dall’inizio della Grande guerra alla Conferenza della Pace del 1919. Utilizzando una mole cospicua di documenti, in par- te inediti, provenienti da archivi francesi e italiani, l’autore si propone di gettare nuova luce sul- l’evoluzione delle relazioni fra due paesi che, benché alleati nella coalizione dell’Intesa, avevano nutrito sospetti reciproci fin dall’inizio delle ostilità, trovandosi poi alla Conferenza della Pace su posizioni divergenti. La tesi di fondo di Le Moal è che il contrasto aveva radici profonde, col- legandosi strettamente alle diverse visioni che le diplomazie italiana e francese avevano sviluppa- to nei confronti dei Balcani. L’Italia stava portando avanti da alcuni anni dei progetti di pene- trazione economica e politica verso la sponda orientale dell’Adriatico: un passo deciso in questo senso era stato compiuto nel 1912-13, quando Roma si era fatta garante dell’indipendenza al- banese. La Grande guerra poneva però di fronte alla diplomazia italiana la prospettiva di una Serbia che, avvalendosi prima del movimento panserbo, poi di quello jugoslavo, avrebbe potu- to insidiare le posizioni italiane in Istria, Dalmazia, Montenegro ed Albania. D’altra parte, la Francia, convertitasi nel corso della guerra alla politica delle nazionalità, vedeva nella Serbia un potente antemurale difensivo alla penetrazione del germanismo nei Balcani e tendeva quindi ad assecondarne le esigenze, pur nel continuo tentativo di mediare fra i due paesi alleati. L’autore segue parallelamente, nel corso della sua articolata disamina, le vicende belliche e l’evolversi delle posizioni diplomatiche. Com’è noto, la politica estera italiana, guidata da Sonnino, ancorata ad una visione tradizionale della diplomazia, non aveva recepito l’evoluzio- ne della situazione geopolitica determinata da ciò che era allora definito il movimento delle «nazionalità oppresse». Le Moal ripercorre quindi gli eventi bellici e le occasioni di frizione con la Serbia da un lato e con la Francia dall’altro, per l’egemonia nelle posizioni-chiave del- l’Adriatico orientale: Valona, Cattaro, Spalato, Fiume. Interessante l’attenzione che l’autore ha prestato anche a figure estranee alla diplomazia tradizionale, quali giornalisti e pubblicisti, nel loro ruolo di propagandisti politici. È il caso di Giovanni Baldacci, fratello del più conosciuto Antonio, insigne geografo e naturalista, anima- tore di una serie di iniziative propagandistiche a sostegno dell’indipendenza del Montenegro dalla Serbia. Fu infatti a partire da quegli anni che le potenze europee iniziarono ad avvalersi della collaborazione di uomini di cultura allo scopo di rendere più efficace la loro penetrazio- ne politica in particolare presso le nuove nazioni balcaniche. In ultima analisi, l’impianto del volume, indubbiamente solido e convincente, avrebbe for- se potuto giovarsi di qualche maggiore incursione al di fuori dello stretto ambito politico-milita- re, in direzione ad esempio del mondo della cultura, ma anche di quello dell’economia, permet- tendo di offrire in tal modo uno sguardo d’insieme più ampio sulle vicende storiche affrontate. Stefano Santoro

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Vito Antonio Leuzzi, Giulio Esposito (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, ri- fugiati e rimpatriati nel Novecento, Bari, Progedit, XI-348 pp., Û 20,00

Il volume raccoglie una serie di saggi – alcuni dei quali già editi in una precedente opera curata ancora da Leuzzi ed Esposito – che ripercorrono le vicende legate all’approdo sul ter- ritorio pugliese di profughi e rimpatriati, lungo un arco di tempo compreso tra gli inizi del XX secolo e il secondo dopoguerra. In particolare i singoli contributi intendono mettere a fuo- co le modalità con cui sono state accolte le successive ondate di uomini e donne in fuga, mo- dalità che naturalmente hanno trovato declinazioni specifiche in rapporto sia ai diversi mo- menti storici presi in considerazione, sia al profilo delle popolazioni a cui l’accoglienza è sta- ta rivolta. Da un lato vengono dunque ricostruiti i diversi percorsi degli italiani espulsi dal- l’Egitto e da Smirne, degli armeni sfuggiti al genocidio, della moltitudine di persone depor- tate o costrette ad allontanarsi durante il secondo conflitto mondiale, ma destinate a rimane- re profughe ben oltre la sua conclusione: fra di esse, un’attenzione particolare è dedicata agli ebrei. Dall’altro sono indicate nel dettaglio le attività promosse dalle istituzioni pugliesi, dal- l’associazionismo locale, dagli organi di governo, dagli Alleati e dalle organizzazioni interna- zionali, ovvero da tutti i soggetti che con l’arrivo dei profughi sono di volta in volta chiamati a provvedere alla prima assistenza, a mantenere l’ordine pubblico e ad affrontare la questione degli alloggi, che dal 1943 in poi assumono principalmente la forma di campi affollati, non di rado allestiti nelle precedenti strutture di internamento. Ad emergere dall’insieme dei contributi – che presentano i risultati di accurate ricerche archivistiche, utilizzando nello stesso tempo memorialistica e fonti orali – non è tanto «lo spi- rito di accoglienza delle popolazioni pugliesi» (p. V), identificato dai curatori come oggetto del proprio lavoro nelle pagine introduttive del volume. Il quadro complessivamente traccia- to dai singoli autori riesce piuttosto a mettere in evidenza la peculiarità di una regione che, al- lungandosi nelle inquiete acque del Mediterraneo, diventa suo malgrado «terra di rifugio» e dunque area di confluenza di popolazioni diverse, ma anche luogo di elaborazione di quei provvedimenti – spesso destinati a rivelarsi inadeguati – con i quali le istituzioni rispondono ai problemi sollevati dall’arrivo dei profughi. La specificità e la rilevanza dell’esperienza pu- gliese avrebbero potuto emergere con maggior forza se, nel delineare l’impianto stesso dell’o- pera, si fosse riservata una maggiore attenzione tanto all’impatto che la questione dei profu- ghi ha avuto sulla storia della regione, quanto alla collocazione delle strategie di accoglienza delle popolazioni in fuga nel più generale contesto politico locale, nazionale e internazionale. Silvia Salvatici

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Guenter Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Torino, Einaudi, XV- 394 pp., Û 25,00 (ed. or. Salt Lake City, 2005)

Il titolo di questo volume di Lewy riassume quasi esattamente il contenuto del testo che, di fatto, dedica alla ricostruzione dei massacri armeni quasi lo stesso spazio che alle controver- sie storiografiche sorte in seguito sull’argomento. L’autore ritiene che, in proposito, «il punto centrale… non è l’entità delle sofferenze degli armeni, quanto la premeditazione; ossia […] se il regime dei Giovani Turchi […] abbia organizzato intenzionalmente i massacri» (p. XII). Oc- corre notare subito come quest’affermazione rappresenti già un serio punto debole della linea interpretativa di Lewy, in quanto viene fatta confusione fra intenzionalità e premeditazione. Ovviamente, infatti, la prima non implica la seconda, per cui respingere (come fanno anche molti altri) la tesi che il massacro degli armeni sia stato concepito anni o decenni prima della sua attuazione non porta necessariamente ad affermare che non sia esistito un piano centra- lizzato di sterminio a partire dal 1915 (come invece fa Lewy). Purtroppo questa è solo la prima di diverse pecche che caratterizzano il volume, danneg- giandolo in maniera quasi irreparabile, anche nelle parti a prima vista maggiormente convin- centi. Ad esempio, la critica delle fonti fatta da Lewy – che rientra nei doveri di qualunque storico – è talmente esasperata da apparire a tratti pretestuosa. Paradossalmente, le pagine me- glio riuscite sono quelle in cui ne fa a meno e considera più serenamente le prove a disposi- zione – suggerendo, in maniera tutto sommato convincente, che alla combinazione tra la di- sorganizzazione e l’inefficienza dell’apparato statale ottomano da un lato, e il verificarsi nel corso della guerra di una carestia di dimensioni non trascurabili dall’altro, siano da addebita- re non pochi decessi non solo di armeni e altri cristiani, ma anche di musulmani turchi, cur- di e arabi. Va detto però che, poiché una simile contestualizzazione getta di per sé stessa luce sulle manchevolezze (indubbiamente esistenti) della storiografia armena, sembrerebbe super- fluo polemizzare con quest’ultima – comprensibilmente concentrata sulla tragedia dei propri connazionali e inevitabilmente soggetta alle distorsioni implicate da un simile approccio – co- sa che invece Lewy fa quasi ad ogni piè sospinto. Lewy conclude che il massacro di centinaia di migliaia di armeni ottomani, verificatosi nel corso della prima guerra mondiale, non possa qualificarsi come genocidio; tuttavia, non solo molte prove (perlopiù circostanziali, va detto) in contrario vengono ignorate o sminuite, ma perfino alcune di quelle che egli presenta possono essere più credibilmente interpretate in senso contrario (emblematico è il dispaccio di Talaat citato a p. 141). La sua ricostruzione, pertanto, nonostante presenti alcuni punti d’interesse (peraltro in genere non particolarmen- te originali) non può considerarsi, nell’insieme, accettabile e credibile. Rimane solo da chie- dersi perché Einaudi abbia preferito tradurre in italiano questo testo anziché uno fra i ben più validi studi sull’argomento (come quelli di Bloxham e Akçam) apparsi di recente. Antonio Ferrara

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Pier Francesco Listri, Firenze. La storia e le imprese, Firenze, Leo S. Olschki, X-147 pp., Û 65,00

I volumi che enti e istituzioni pubblicano regolarmente, corredandoli di immagini spes- so di alto livello iconografico, come in questo caso, raramente riportano nel titolo il riferimen- to all’impresa. Prevalgono arti, territorio e altri aspetti più accattivanti. Assai meno attraenti, le componenti della grigia scienza economica si preferisce di solito sostituirle con temi di mag- giore appeal per il pubblico destinatario di questi lavori. Nel caso di Firenze poi, che nell’im- maginario collettivo troppo spesso viene associata in modo esclusivo ai tesori artistici che in effetti detiene, l’accentuazione artistica appare ancora più forte. La parola impresa, in questo tipo di marketing, non tira. Dunque appare in definitiva anomalo il titolo di questo volume, dovuto alla collabora- zione fra l’Associazione imprese storiche fiorentine, nata nel 2000, con l’Ente Cassa di Rispar- mio di Firenze e con Fondiaria-Sai. Si tratta in effetti di una carrellata a volo d’uccello su di- versi secoli di storia fiorentina, della quale si pongono in risalto le più rilevanti attività econo- miche con un occhio di riguardo proprio ad alcune di quelle imprese che compaiono fra i membri dell’associazione. Privo evidentemente di intenti di ricerca, il volume è riccamente illustrato e si sfoglia con piacere. Contribuisce poi a smantellare il mito di una città troppo spesso percepita in termi- ni di Atene d’Italia, nella quale invece hanno giocato un ruolo di assoluta preminenza anche il commercio e l’industria. Trascurare la cultura dell’utile nel caso di Firenze, significa rasse- gnarsi ad una visione parziale e insufficiente. Ma è anche vero, purtroppo, che una vera sto- ria economica di Firenze, di ben altro spessore naturalmente, ancora non è stata scritta. Pier Francesco Listri, che ha lavorato a lungo alle pagine culturali del principale quoti- diano cittadino, è una delle penne più felici e brillanti del giornalismo fiorentino e si è più volte cimentato con opere di taglio storico locale. Uomo di cultura raffinata, Listri rappresen- ta anche un pezzo considerevole di memoria della città, nei confronti della quale nel volume dichiara a più riprese il proprio amore. Il volume si snoda in un arco di tempo assai ampio, prendendo le mosse dall’epoca d’o- ro dell’economia fiorentina, passando attraverso imprese di varia natura e dimensioni che han- no determinato l’ascesa e il declino della città. Si tratta di una lunga digressione sulla storia economica fiorentina senza pretese di esaustività scientifica, ma che si fa leggere con piacere per la gradevolezza dell’impianto e per la serietà, con cui il lavoro viene organizzato. Andrea Giuntini

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Carlo Maria Lomartire, Insurrezione. 14 luglio 1948: l’attentato a Togliatti e la tentazione rivoluzionaria, Milano, Mondadori, 261 pp., Û 18,00

Il 14 luglio 1948 e dintorni rappresentano un topos classico della storiografia rivolta alla divulgazione, un topos che insieme alla vicende della violenza del dopoguerra, del piano K per la conquista del potere da parte comunista e le vere o presunte responsabilità di Togliatti ne- gli anni del terrore staliniano, periodicamente ritorna alla ribalta della comunicazione mas- smediologica. Anzi, in qualche modo, l’attentato a Togliatti e la (mancata) insurrezione sono il punto di saldatura di tutti questi (ed altri) elementi problematici legati al nodo politico e storiogra- fico del comunismo italiano e del suo leader indiscusso: c’è la violenza agita spontaneamente e non, c’è l’attesa del momento della conquista del potere dopo la sconfitta del 18 aprile, c’è il rapporto ineludibile fra URSS e PCI, c’è infine, e soprattutto, il rapporto a distanza Togliat- ti-Scelba, la vittima e il protagonista di giornate cruciali di potenziale svolta in senso dram- matico della storia repubblicana. In questa prospettiva il volume di Lomartire mantiene le promesse al vasto pubblico cui è indirizzato, ripercorrendo in stile giornalistico e narrativo quei tre giorni che costarono trenta morti e oltre ottocento feriti e che costituirono, comunque, un punto di svolta nel consolida- mento della giovane democrazia. Per la sinistra comunista la inevitabile insurrezione mancata fu una sconfitta sia sul versante politico che su quello sindacale (con la rottura dell’unità della CGIL e la nascita della CISL) e segnò l’inizio di una faticosa e dolorosa marcia di avvicinamen- to alle istituzioni che si sarebbe conclusa quasi un trentennio dopo. Per il governo De Gasperi (e Scelba) fu, al contrario, superata la fase nevralgica e iniziò un percorso di «normalizzazione» dei rapporti con l’opposizione che ebbe proprio in quello che fu chiamato «processo alla Resi- stenza» uno dei suoi strumenti più spregiudicati ed efficaci: una strategia di «attacco al nemi- co in fuga» che, all’avvio della guerra fredda, riuscì a mettere il PCI per anni nella condizione di difesa utilizzando con ampiezza le istituzioni dello Stato (nelle settimane successive le forze dell’ordine procedettero all’arresto di oltre 7.000 militanti, 1.800 solo in Toscana dove nella zona dell’Amiata l’insurrezione aveva avuto i suoi momenti più duri e sanguinosi). Lomartire rimane sul terreno divulgativo, non solo rinunciando ad un apparato critico (compensato parzialmente da una bibliografia finale) ma anche riproponendo alcuni degli schemi ormai consolidati legati alle vicende del luglio 1948, primo fra tutti Gino Bartali e la sua «provvidenziale» vittoria al Tour de France. Non sarebbe però né giusto né generoso rele- gare questo volume (come altri del medesimo taglio) in quella schiera di prodotti che spesso la cerchia degli storici professionisti sottovalutano snobisticamente e che invece possono co- stituire un utile momento di ingresso per un pubblico più ampio al quale proprio gli storici professionali mostrano tanta difficoltà a correlarsi in termini efficaci. Massimo Storchi

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Ursula Lüfter, Martha Verdorfer, Adelina Wallnöfer, Wie die Schwalben fliegen sie aus. Suedtirolerinnen als Dienstmädchen in italienischen Städten 1920-1960, Bolzano, Raetia, 453 pp., Û 35,00 Uno studio sulle domestiche sudtirolesi che emigrano – «come le rondini» – verso le gran- di città italiane per cercare lavoro durante i primi decenni del Novecento. Un fenomeno mi- gratorio importante che non è possibile quantificare con esattezza e che si esaurisce di fatto subito dopo la seconda guerra mondiale. Con l’annessione del Sudtirolo all’Italia, nel 1918, si intensificano gli scambi con le fa- miglia italiane. Informazioni e nuove conoscenze diventano gli strumenti principali per tro- vare lavoro di servizio domestico per giovani donne sudtirolesi in cerca di occupazione. Que- sto libro colma un lacuna nella storia del lavoro delle donne, ma soprattutto nella storia del- le migrazioni. Trovare lavoro presso famiglie italiane significa attraversare confini «stranieri» e fare i conti con contesti politici e culturali conflittuali e con il problema della lingua. I dato- ri di lavoro italiani in questi anni cercano intenzionalmente «ragazze tedesche» che parlino te- desco – soprattutto con i bambini – in un periodo in cui questa lingua diventa importante in Italia, mentre viene considerata un idioma nemico nel luogo di origine delle domestiche. La ricerca si basa fondamentalmente su interviste. In appendice le brevi biografie delle ot- tanta donne intervistate permettono di osservare il diverso impatto del lavoro di servizio at- traverso il ciclo di un’intera vita. Il periodo studiato – quello degli anni del fascismo – coglie alcuni aspetti nuovi nella storia del servizio domestico e della mobilità geografica femminile. Come viene percepito il clima politico italiano da chi emigra da un contesto reso conflittua- le proprio dal fascismo. E come viene vissuta la drammatica scelta imposta dal patto tra Mus- solini e Hitler del 1939, quando i sudtirolesi devono scegliere tra conservare la cittadinanza italiana e restare nelle proprie case oppure decidere di appartenere al Terzo Reich e andare via. Si tratta indubbiamente delle parti più interessanti del libro. «Mi sono sempre infuriata per il fatto che gli italiani si siano impadroniti del Sudtirolo, noi non siamo italiani, siamo austria- ci» ripete Maria Wunderer ai suoi datori di lavoro milanesi (p. 327). E Sofia Hoechenberger spiega apertamente al suo padrone fascista che «a noi Mussolini non piace». Ma molte considerazioni sul mestiere di servire in casa altrui e soprattutto sulla vicenda delle migrazioni avrebbero richiesto la comparazione con un contesto più ampio della storia del lavoro delle donne. Si sarebbe forse evitato di introdurre la ricerca attraverso il discutibile concetto di un «processo di modernizzazione» per spiegare la mobilità femminile del Nove- cento (p. 11). Come è ormai noto è stato proprio lo studio del mestiere di servizio a indivi- duare una storia di lungo periodo nella mobilità geografica delle donne. Le migrazioni inter- ne agli Stati italiani preunitari sono state caratterizzate dalla forte presenza delle domestiche e hanno segnato importanti trasformazioni e conflitti nelle strategie individuali e familiari, nel- le scelte matrimoniali e anche nell’amministrazione del denaro da parte delle donne. Angiolina Arru

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Paola Lupo, Eros e potere. Miti sessuali dell’uomo moderno, Venezia, Marsilio, 265 pp., Û 19,50 Il volume ripercorre alcune importanti interrelazioni, nella cultura occidentale dalla fine del ’700 ai primi del ’900, fra la sfera discorsiva della sessualità e la costruzione delle gerarchie di genere e di orientamento sessuale. Non si tratta invero di un approccio inedito; ma nel ri- percorrere i filoni di tale universo simbolico l’autrice delinea una cornice narrativa efficace, molto utile anche come sintesi storiografica. Lo scenario è descritto con precisione, ricchezza di dettagli, stile piacevole. Le citazioni, pur abbondanti, sono puntuali e legano bene fra loro le varie parti dell’argomentazione. Il quadro tematico è ben organizzato; i singoli spunti di ri- flessione punteggiano efficacemente la trama interpretativa. Lupo ricorre a fonti primarie di svariata natura, spaziando da testi giuridici e politici a opere letterarie, mediche, filosofiche, sociologiche, ecc. La ricognizione ha inizio nel momento fondativo della moderna cittadinanza, la Rivolu- zione francese, ricostruendo un quadro articolato delle argomentazioni a favore dell’esclusio- ne delle donne; nei successivi capitoli, si sviluppa più in dettaglio un’analisi parallela di gerar- chie di genere e scenari ideologici più ampi. Sin dal ’700, così, la masturbazione è stigmatiz- zata perché costituisce dissipazione, ma anche perché l’onanista manca di «esprimere quelle volontà e capacità di imporsi, di vincere e di dominare che sono dimensioni essenziali della mascolinità dell’Ottocento, il secolo in cui il ruolo che per natura spetta al maschio non è più indicato semplicemente come attivo, ma è diventato attivo e aggressivo, e si trasformerà infi- ne in sadico» (p. 65). Particolarmente interessante è poi il quadro degli atteggiamenti maschi- li nei confronti del lesbismo (una questione trascurata in Italia, se si eccettuano gli studi di N. Milletti e pochi altri), che per l’autrice si indirizzano non tanto sul desiderio delle donne, quanto sui ruoli non ortodossi che spesso esse assumono mediante l’omosessualità. Lo stesso capitolo descrive un variegato scenario della cultura lesbica europea fra ’800 e ’900. La passi- vità della donna si trasforma infine da «fatto» sessuale in «categoria esaustiva del femminile», e la retorica politica stessa attinge sempre più a un immaginario di stampo sadomasochistico. Impossibile dar conto dei molti temi che il libro attraversa e incrocia: antifemminismo, anti- semitismo, «filosofie della crisi», elogio della forza e legittimazione della violenza, bellicismo, dispotismo; laddove si scorge, nel privato e nel pubblico, «il fondamento dell’agire maschile in un primordiale nucleo istintivo refrattario a ogni istanza etica o evoluzione sociale» (p. 222). L’unica perplessità riguarda un paio di parallelismi con la misoginia dei fondamentalismi islamici odierni. Non tanto nel merito dei contenuti – è difficile non considerare aberrante tale misoginia –, quanto nel metodo sotteso: istituendo analogie puramente morfologiche al di sopra dei periodi storici, il rischio è quello di rimanere entro una «storia delle idee» come galleria di voci avulse dai contesti concreti, di rendere insomma meno netto l’impianto inter- pretativo. E quindi anche meno salda sul piano metodologico la stessa tensione politica che è alla base, giustamente, di questa operazione storiografica. Sandro Bellassai

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Pietro Macchione, Il sangue e la memoria. La punizione dei fascisti in provincia di Varese, Varese, Macchione Editore, 159 pp., Û 16,00

Il tema della violenza post-Liberazione è stato (e rimane) uno dei temi di scontro media- tico più praticato nel corso degli ultimi anni. Uno scontro che esula, nella maggior parte dei casi, da un confronto con quanto la storiografia è riuscita ad elaborare e che rientra in quella sorta di nuovo processo alla Resistenza che ha in prodotti editoriali di grandissima diffusione gli strumenti più efficaci di comunicazione. In realtà oltre a quanto di già consolidato esiste sull’argomento (cito fra gli altri le ricerche di Crainz, Dondi, Onori, Franzinelli, Woller e del sottoscritto) sarebbe di grande utilità riprendere un esame preciso e puntuale delle realtà ter- ritoriali, dove è possibile verificare le dinamiche dell’impiego della violenza, in stretto collega- mento con le singole, articolate, vicende della lotta di Resistenza nelle differenti comunità. Re- stituire, ad esempio, la complessità della fase insurrezionale e della transizione verso la pace at- traverso l’azione giudiziaria delle Corti di assise straordinarie, mezzo di passaggio dalla giusti- zia sommaria alla epurazione come ripresa di controllo dello Stato sul territorio liberato. Il saggio di Macchione non riesce a cogliere le potenzialità di queste piste di ricerca sia per motivi cronologici (si tratta in sostanza della riedizione de La punizione dei delitti fascisti in provincia di Varese già pubblicato nel volume Momenti di storia varesina tra Unità e seconda guerra mondiale curato ed edito dall’Istituto varesino per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea nel 1991), sia perché proponendo una riedizione senza aggiornamenti si pre- clude approfondimenti su una realtà interessante come quella varesina, segnata da una forte intensificazione della violenza fascista dalla tarda estate del 1944, con l’arrivo del capo della provincia Savorgnan (proveniente da Reggio Emilia dove si era reso responsabile della ucci- sione dei fratelli Cervi e di don Pasquino Borghi) sia di elementi della Brigata Nera di Arez- zo, guidati dal tenente Abatecola. Un approfondimento su queste due figure, il primo ucciso nei giorni della Liberazione, il secondo su sentenza della CAS nella primavera 1946, avrebbe consentito una verifica più puntuale di come la «resa dei conti» si sostanziasse in una realtà come quella varesina, di immediata periferia rispetto alla metropoli ma coinvolta nelle dina- miche di un territorio di frontiera. La stessa analisi dell’azione della Corte di assise straordinaria rimane lacunosa, utilizzan- do come fonte non le carte processuali ma la stampa locale senza proporre una visione com- plessiva dell’intero iter processuale che ebbe, a Varese, come quasi ovunque, una serie di pro- cedimenti progressivamente smantellati nelle fasi successive di giudizio fino all’applicazione finale dell’amnistia. Il saggio di Macchione recupera materiali diversi su diversi episodi (com- presa la uccisione del maggiore Visconti, di cui però non recepisce le ricerche uscite nel frat- tempo) senza tentare una rilettura critica e organica. Da segnalare, infine, come ulteriore ele- mento di debolezza, la mancanza di un indispensabile indice dei nomi e dei luoghi. Massimo Storchi

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Claudia Magnanini, Autunno caldo e «anni di piombo». Il sindacato milanese dinanzi alla crisi economica e istituzionale, Milano, FrancoAngeli, 184 pp., Û 18,00

Secondo volume di una storia della Camera del lavoro di Milano, il libro si inserisce in una recente ripresa delle ricerche sul sindacato e sul movimento operaio (cui ha contribuito anche il centenario della CGIL). L’autrice, che in uno studio precedente si era occupata della storia della CdL milanese dal dopoguerra agli anni Sessanta, analizza il periodo 1965-1980 dividendolo in quattro fasi. La prima va dal 1965, data del VII congresso della CdL provin- ciale, al 1969, quando – dopo aver subito l’esplosione sessantottesca – il sindacato riesce a «ca- valcare la tigre» della contestazione. La seconda abbraccia il periodo 1970-73, in cui «l’orga- nizzazione dei lavoratori […] doveva concretizzare nei fatti il ruolo nazionale della classe ope- raia» (p. 97), cosa che non sempre seppe fare con efficacia, come dimostrano le alterne fortu- ne dei Consigli Unitari di Zona. La terza abbraccia il periodo centrale degli anni Settanta, in cui la CdL deve fare i conti con le conseguenze dello shock petrolifero, con i cambiamenti nel mondo del lavoro e con il terrorismo, mentre si manifestano segnali preoccupanti di involu- zione burocratica delle strutture. L’ultima, infine, è quella che va dalla «svolta dell’Eur» al 1980, quando la CdL perde progressivamente la sua «leadership all’interno del mondo del la- voro» (p. 9) subendone le trasformazioni: nell’80, data simbolica per il sindacato in Italia, la CdL si trasformerà da provinciale a territoriale aprendo così una nuova fase della sua storia. Il pregio maggiore del libro è sicuramente l’ampio lavoro di scavo condotto nell’archivio di Sesto San Giovanni. Tuttavia l’uso predominante delle carte della Segreteria, della Direzio- ne e dei congressi costituisce anche, in un certo senso, uno dei limiti della ricerca (o quanto- meno un’occasione persa). Nell’introduzione Magnanini sottolinea la centralità della Camera del lavoro come uno dei «soggetti politici fondamentali del capoluogo milanese» (p. 7) men- tre, allo stesso tempo, rileva che «la produzione [storiografica] relativa alle vicende milanesi ap- pare […] pressoché inesistente» (p. 10). Come ci si aspetta da una storia della Camera del la- voro, l’autrice si sofferma giustamente sulle sue vicende interne e sui suoi rapporti con la Fede- razione nazionale ma, ponendosi quasi esclusivamente nella prospettiva dei suoi vertici, finisce per lasciare in ombra sia i rapporti con la base sindacale, spesso conflittuali e difficili, sia l’im- patto delle scelte camerali sulle vicende politiche e sociali della provincia. I rapidi cenni che vengono fatti, tanto per fare alcuni esempi, alla mancata comprensione delle esplosioni operaie del ’68 e ’69, al progressivo irrigidimento burocratico del sindacato dopo il protagonismo dei primi anni Settanta oppure alle difficoltà di adattare la politica sindacale alle trasformazioni del lavoro (che a Milano si sono rivelate prima che altrove), permettono di intuire che gli archivi sindacali sono un’importante riserva di informazioni attraverso cui rendere più puntuale l’ana- lisi di anni ancora non del tutto esplorati: però il taglio più tradizionale della storia sindacale, quello politico, che viene qui utilizzato, non sembra essere il più efficace per farlo. Andrea Sangiovanni

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Paolo Malanima, Energy consumption in Italy in the 19th and 20th centuries. A statistical outline, Napoli, Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto di Studi sulle Società del Medi- terraneo, 140 pp., Û 20,00

Il tema del rapporto fra energia e sviluppo economico in una prospettiva di lungo perio- do è stato finora ampiamente trascurato dalla nostra storiografia. Una felice eccezione è rap- presentata da Paolo Malanima, che già in passato ci ha offerto importanti contributi relativi all’Europa preindustriale, caratterizzati da un approccio globale teso ad evidenziare le interre- lazioni fra offerta energetica, crescita e ambiente. Questo nuovo saggio, sintetico ma estrema- mente incisivo, scaturisce da un meritorio progetto internazionale che ha come obbiettivo l’a- nalisi dei consumi energetici e del loro impatto sullo sviluppo dell’Europa contemporanea. Nel volume Malanima ricostruisce l’andamento dei consumi di energia in Italia dall’uni- ficazione alle soglie del nuovo millennio. Esso ha quindi carattere fortemente quantitativo. Le nuove stime, contenute nelle appendici statistiche, occupano in effetti circa un terzo del vo- lume: la prima appendice riporta le serie aggregate dei consumi energetici in Italia, la struttu- ra di tali consumi e il consumo di energia pro-capite; la seconda presenta una disaggregazio- ne dei contributi offerti da ciascuna fonte energetica primaria al consumo energetico com- plessivo; la terza, infine, le serie relative all’intensità e alla produttività energetica del nostro sistema economico. Il testo è invece diviso in quattro capitoli di taglio essenzialmente meto- dologico che, oltre a spiegare le ingegnose modalità con cui sono state costruite le serie, risul- tano indispensabili anche per chiarire al lettore alcuni nodi semantici e concettuali: la scelta, ad esempio, di considerare nel computo soltanto gli input di energia – cioè le fonti primarie – che abbiano un costo per il sistema economico; la decisione, davvero innovativa, di stima- re ed inserire nel calcolo anche consumi di energia tradizionalmente trascurati, quali gli ali- menti di uomini ed animali e la legna da ardere, oltre naturalmente a quelle usualmente con- siderate in letteratura, ovvero l’energia idraulica, quella eolica, quella idroelettrica e i combu- stibili fossili. Ne è conseguita una rilettura per certi versi sorprendente della dinamica energia/sviluppo del paese, brevemente discussa nel quarto capitolo: l’intensità energetica (il rapporto cioè fra energia consumata e pil) anziché presentare la tradizionale curva ascenden- te durante la fase più intensa della crescita, seguita da una naturale fase di assestamento, mo- stra nel lungo periodo un andamento calante, inframmezzato soltanto da una ripresa di poco più di un decennio in concomitanza della fase di maggior caduta dei prezzi del petrolio, dal- la fine degli anni Cinquanta fino alla primi crisi energetica. Inversamente, la produttività ener- getica del paese mostra una quasi costante tendenza al rialzo. Come ricorda lo stesso Malanima, questo contributo rappresenta soltanto un primo pas- so verso la comprensione della complessa interrelazione fra energia e crescita in Italia, ma è certamente un passo importante. Pierangelo M. Toninelli

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Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini. Storia delle professioni nell’Europa contempo- ranea, Torino, Einaudi, XVI-399 pp., Û 25,00

Al tema delle professioni Maria Malatesta ha dedicato già in passato ricerche importan- ti. Basti pensare alla sua cura dell’Annale della Storia d’Italia Einaudi – I professionisti –, usci- to giusto dieci anni fa e al volume Society and the Professions in Italy 1860-1914, pure da lei curato, un anno prima, per Cambridge University Press e ristampato nel 2002. Ora la sua attenzione si allarga al di là del caso italiano e quella che l’autrice propone è una sintesi comparata che prende sistematicamente in considerazione la storia delle professio- ni (legali, mediche, contabili, e, ancora, gli ingegneri) anche in Gran Bretagna, in Francia e in Germania e che talvolta offre anche qualche significativo affondo sulle vicende di altri paesi occidentali. È un lavoro imponente, del quale le quasi quaranta pagine di aggiornatissima appendice restituiscono tutto lo spessore e la serietà, mostrando come l’autrice abbia saputo muoversi ef- ficacemente tra storia e sociologia, per tracciare un profilo di lungo periodo che muove dalla caduta degli antichi regimi e arriva ai giorni nostri. Fortemente protesi verso pretese pubblicistiche – motivate da una autoraffigurazione che poneva particolare enfasi su una «identità di servizio nei confronti della comunità» (p. 350) e che si cristallizzava volentieri nell’immagine del professionista gentiluomo, «capace di mante- nere quel giusto equilibrio tra onore e utile, tipico del canone della prudenza di antico regi- me» (p. 351) –, nell’inoltrarsi lungo il tragitto della modernità ottocentesca i professionisti (di per sé una delle metonimie canoniche della borghesia contemporanea) fruirono a lungo – pur in un quadro di varianti nazionali le cui caratteristiche i capitoli centrali del volume illustra- no con minuziosa accuratezza – di una legittimazione costituzionale ben emblematizzata dal- le condizioni di monopolio garantite loro dalla vigenza di istituzioni come gli Ordini. Furo- no parti del pubblico, e di un pubblico che si declinava esclusivamente al maschile. Ma le se- quenze finali della ricerca ci raccontano un’altra storia, tematizzando con efficacia le princi- pali trasformazioni prodottesi nel Novecento e oltre, fino a quella che è cronaca dei giorni no- stri: da un lato (capitolo VI) la cessazione del monopolio maschile sulle professioni, dall’altro la nuova dipendenza di queste dalla dimensione del mercato e dell’impresa, sempre più inten- sa in seguito alla «crescita del numero dei professionisti caratteristica della società post-indu- striale» (p. 354) e della conseguente intensificazione di una concorrenza a lungo tenuta a ba- da dalla governance degli Ordini. Ed ecco emergere, sullo sfondo dell’appannamento, se non proprio della fine, del tradi- zionale umanesimo professionale, l’immagine del professionista-mercante, al posto di quella del gentiluomo, che il professionismo borghese ottocentesco aveva a suo tempo fatto propria, rielaborando e riaggiornando materiali culturali offertigli dalla tradizione dell’antico regime. Marco Meriggi

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Giuseppe Mammarella, Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, VII-332 pp., Û 20,00

Da una coppia ormai consolidata di divulgatori di storia, arriva questo tentativo di fare il punto sulla vicenda della politica estera italiana lungo tutto l’arco della storia unitaria. Mam- marella e Cacace hanno mandato in libreria da poco una sintesi di storia dell’integrazione eu- ropea, mentre il primo è noto per un fortunato e frequentemente riaggiornato profilo sull’I- talia repubblicana e il secondo ha scritto già vent’anni or sono una prima sintesi sulla politi- ca estera postbellica dell’Italia. Il libro ha una impostazione molto precisa e lineare: si basa su una visione strettamente storico-diplomatica dell’argomento «politica estera», che viene rigo- rosamente separato da qualsiasi ragionamento sulla storia generale e sulle questioni economi- che, politiche o culturali che influiscono sul ruolo internazionale di un paese. La scelta è evi- dente anche solo da uno sguardo generale alle caratteristiche della – pur necessaria – selezio- ne della bibliografia effettivamente utilizzata e citata, a prescindere da quella elencata alla fi- ne del volume. I recenti sviluppi di un dibattito su categorie come «interdipendenza» e «inte- grazione» sono abbastanza marginali nell’ottica degli autori. Il rapporto con la politica inter- na fa capolino solo in alcuni momenti canonici (il dibattito sull’intervento del 1914-15), op- pure come limite e contraddizione per l’autonomia della politica estera. In questa linea, si se- guono gli avvenimenti in modo cronologicamente lineare, con una certa attenzione al dibat- tito storiografico. A parte ogni valutazione di singoli passaggi, le sezioni sull’Italia liberale e sul fascismo appaiono informate e scorrevoli, ancorché sintetiche. La parte preponderante, an- che quantitativamente, è quella dedicata alla prima fase della storia postbellica, dal 1943 al 1955 (circa un quarto del volume): approccio che è debitore del dibattito scientifico, certa- mente più avanzato rispetto ad altri periodi, con una conseguente maggior mole bibliografi- ca. La volontà di estremo aggiornamento, invece, fa apparire i due capitoli conclusivi, dedi- cati rispettivamente al 1989-2006 e alla stretta attualità, un discorso intrecciato tra narrazio- ne cronachistica e tentazioni prescrittive. Gli autori non trascurano di fare emergere un giu- dizio complessivo che attraversa e caratterizza tutto il volume: la politica estera italiana sareb- be stata molto spesso inadeguata rispetto alla stessa storia di relativi successi dello Stato italia- no nella sua parabola non lunga ma ormai consolidata (la debolezza di uno strumento mili- tare, i limiti di competenza della classe dirigente e l’assenza di una forte identità e convergen- za sugli interessi nazionali sono le motivazioni citate, anche se non sempre discusse). E non si trattengono nemmeno dal far emergere le loro valutazioni molto personali (a volte un po’ ri- duttive) su alcuni passaggi di questa vicenda: spiccano in questa linea ad esempio alcune ri- ghe critiche dedicate al neoatlantismo o al cosiddetto «consociativismo». Guido Formigoni

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Maria Elena Mancini, Promuovere movimenti di idee. Ada Gobetti, Croce e Laterza, Bari, Cacucci, 183 pp., Û 18,00

Il volume di Maria Elena Mancini è diviso in due sezioni: nella prima parte l’autrice ana- lizza il valore delle traduzioni durante il ventennio fascista in Italia, il ruolo di Ada Prospero Gobetti Marchesini in questo ambito e il suo rapporto con la casa editrice Laterza mediato anche da Benedetto Croce. La seconda parte del libro è invece costituita dall’edizione critica del carteggio tra Giovanni Laterza e Ada Gobetti sviluppatosi tra il 1935 e il 1955. L’autrice, che è iscritta al terzo anno del Dottorato in Popolazione, Famiglia e Territorio dell’Università di Bari, ha approfondito la storia della presenza femminile nella cultura del Novecento e, più in generale, si è occupata di storia dell’editoria. Il volume ricostruisce attraverso l’attività di Ada Gobetti la resistenza culturale all’interno della dittatura attuata dalla casa editrice Later- za grazie anche alle traduzioni. Partendo dall’analisi del carteggio tra Ada Gobetti e l’importante editore, costituito da 122 lettere, Mancini mette in luce sia il forte legame di amicizia che li legò, sia l’importanza che ebbe il protagonismo, spesso sottovalutato, di Ada nella vita culturale italiana. Attraverso la ricostruzione della sua attività lavorativa emerge la figura di una donna forte che seppe ren- dersi autonoma dalla figura del marito, sviluppando da sola anche il progetto culturale de «Il Baretti», la rivista fondata insieme, in cui si auspicava un’indipendenza del giudizio e un con- fronto con le culture europee utile ad una profonda sprovincializzazione della cultura italia- na. Con le sue traduzioni, spesso accompagnate da sobrie e documentate prefazioni, Ada con- tribuì a portare avanti l’ambizioso programma politico. Negli anni del regime, non bisogna scordare, firmare la traduzione di un’opera non gradita significava esporsi ad un maggior con- trollo e a diversi rischi. Mancini ricostruisce nel dettaglio, ad esempio, la funzione politica del- le traduzione dell’opera di Herbert Albert Laurens Fisher La storia d’Europa, conclusa con non pochi problemi per Gobetti e per la casa editrice stessa. Il volume di Mancini costituisce un interessante tassello per ricostruire la storia culturale ed editoriale dell’Italia tra fascismo, guer- ra e immediato secondo dopoguerra. La cura nell’edizione delle lettere rende molto agevole la loro lettura, il saggio introduttivo permette di poter efficacemente e sinteticamente inquadra- re il valore molto alto che ebbe la vita e il lavoro di Ada Prospero Gobetti Marchesini per la cultura italiana novecentesca. Il libro costituisce così un’indubbia fonte per poter approfon- dire il valore della presenza femminile nella cultura della penisola, inserendosi felicemente nel panorama degli studi su questo argomento. Margherita Angelini

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Brunello Mantelli, Da Ottone di Sassonia ad Angela Merkel. Società, istituzioni, poteri nel- lo spazio germanofono dall’anno Mille a oggi, Torino, UTET, XVIII-301 pp., Û 22,50

Quella di Mantelli è la prima storia critica della Germania dal Medioevo fino a oggi scrit- ta da uno studioso italiano. Come indica il sottotitolo, più precisamente si tratta della storia di uno spazio geopolitico dai confini altamente variabili, ma dotato di tratti linguistici comu- ni piuttosto che della storia di una «nazione» o di uno «Stato» in senso moderno, visto che i tedeschi per molti secoli non hanno costituito né l’una né l’altro. Articolato in 26 capitoli, più cartine e bibliografia essenziale, il libro privilegia la dimensione politico-istituzionale, senza però trascurare cesure e momenti di svolta né il ruolo di singole figure leader nella storia te- desca. Grazie anche ad un ricco apparato di note, l’opera offre al lettore un quadro tanto am- pio quanto dettagliato di costellazioni e sviluppi illuminati da un’interpretazione puntuale e in molta parte innovativa, basata sulla recentissima letteratura specialistica, come ad esempio nella trattazione delle libertà civili frühbürgerlich, conquistate nelle rivoluzioni della prima età moderna, origine di una tradizione liberale degli Stati sud-occidentali. Questa rilettura in chiave antiautoritaria rappresenta l’aspetto più originale di un lavoro che si propone di con- futare le idee stereotipate di una storia culminata nella dittatura nazionalsocialista. Ad una ta- le visione, che secondo l’autore si sposa ad una concezione etnico-essenzialista del popolo ger- manico, si contrappone un concetto di storia aperta, non determinata se non per la sua col- locazione in un contesto europeo con cui, nel bene e nel male, è destinata ad interagire. La Germania, in questa minuziosa ricostruzione, non percorre un Sonderweg, una via particola- re, come hanno sostenuto numerosi studiosi da Ralf Dahrendorf a Jürgen Kocka e Hans-Ul- rich Wehler. Per loro, il paradigma della mancata modernizzazione tedesca in senso liberal-de- mocratico-capitalistico di tipo anglosassone non solo spiegava in ultima analisi l’avvento del regime di Hitler, ma rappresentava anche, dopo il 1945, una colonna portante «della consa- pevolezza di una nuova politica necessariamente orientata a far rientrare la Germania nel cir- colo delle nazioni civili, liberali e pacifiche» (Kurt Sontheimer). Questa master-narrative po- stbellica si è andata attenuando, e parallelamente si è rafforzata la tendenza, condivisa anche da Mantelli, alla «storicizzazione» del passato tedesco insieme all’abbandono di interpretazio- ni lineari in favore di una più accentuata messa in risalto di possibili storie «alternative», per esempio nel caso della rivoluzione del 1918 e della democrazia di Weimar, giudicata il primo esperimento repubblicano tentato in terra tedesca «dall’esito tutt’altro che obbligato» (p. 159). In effetti, il peso dato alle questioni costituzionali e alle forze sociali fa emergere i tanti snodi conflittuali e contrasti interni di una società multiforme la cui storia secondo l’autore va rico- struita non come compimento di un destino (neanche nei termini di un necessario sbocco eu- ropeo nel secondo dopoguerra), ma come un susseguirsi di decisioni e sviluppi dotati di una loro logica storico-contingente, e non di natura quasi metafisica. Christiane Liermann

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Angelina Marcelli, Sviluppo economico nella Cosenza ottocentesca attraverso gli atti della So- cietà Economica di Calabria Citra, Roma, Aracne, 199 pp., Û 12,00

Il volume, frutto della tesi di laurea dell’autrice, si inserisce negli studi più recenti sull’as- sociazionismo economico e analizza il ruolo che, dal Decennio all’Unità, la Società Economi- ca di Calabria Citra, una delle Società di agricoltura istituite da Murat nel 1810 e divenute Società economiche nel 1812, rivestì per lo sviluppo dell’attuale provincia di Cosenza. Partendo da una visione differenziata del Mezzogiorno e dalla «necessità di valorizzare le pe- culiarità quali itinerari obbligati e privilegiati per lo sviluppo» (p. 15), Marcelli recupera la capa- cità dell’ente di rapportarsi al territorio. Così, rispetto alla lettura tradizionale che ha in genere criticato tali istituzioni perché non in grado d’innescare processi di crescita al passo con l’indu- strializzazione inglese, l’autrice riconosce alla Società il merito sia di radiografare i problemi del territorio, sia di proporre progetti coerenti con le vocazioni spaziali e con le effettive possibilità del contesto, avviando varie iniziative a favore dell’agricoltura e delle manifatture del Cosentino. Le fonti principali sono gli atti (verbali, memorie e progetti) della Società, integrati da carte di tipo prevalentemente economico e statistico conservate soprattutto negli Archivi di Stato di Cosenza e di Napoli. L’opera, corredata di tre appendici documentarie e informati- ve, si divide in cinque capitoli. Nel primo, oltre alle principali linee storiografiche sull’asso- ciazionismo formalizzato ed istituzionalizzato, si tracciano storia e struttura delle Società eco- nomiche meridionali dalle origini al 1861, quando ormai, alle loro funzioni, subentreranno quelle di Camere di commercio e Comizi agrari. Nel secondo si privilegiano i membri della Società, élite borghesi che, riflesso dei mutamenti istituzionali coevi, sono esaminate rispetto a livelli culturali, esperienze politico-economiche e capacità di lettura dei bisogni locali. Un’at- tenzione particolare è rivolta ai segretari perpetui, figure poliedriche di cui si indicano percor- si ed orientamenti. Nel terzo si illustrano i compiti dei soci, chiamati a rendicontare attività economiche e metodi agricoli impiegati nella provincia e a formulare progetti di valorizzazio- ne della sua economia. Nel quarto si ricostruiscono le condizioni agricole e manifatturiere lo- cali, studiate in rapporto sia alle diverse fasi temporali sia alle differenziazioni spaziali. Nel quinto, dedicato al commercio, Marcelli si sofferma sui limiti infrastrutturali, evidenziando l’importanza, per gli scambi, di fiere e mercati settimanali. Il volume, che fornisce spie interessanti su istruzione agraria, assetti del paesaggio ed evo- luzione della statistica in Italia, contribuisce a chiarire aspetti dibattuti del Mezzogiorno, co- me l’associazionismo, il ruolo delle borghesie, i caratteri della modernizzazione, le relazioni col mercato internazionale e tra il centro e la periferia. Si segnala, in particolare, per l’atten- zione ai processi di trasformazione dell’economia e alle specificità dell’area indagata (grazie anche a carte tematiche), che restituiscono un’immagine più dinamica e meno indistinta del Sud d’Italia. Elisabetta Caroppo

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Daniele Marchesini, Carnera, Bologna, il Mulino, 312 pp., Û 22,00 In Italia il panorama della ricerca storica sullo sport appare piuttosto deludente. In libre- ria abbondano i titoli sul tema, i quali tuttavia non si discostano – nei casi migliori – da un buon giornalismo di genere, attratto più da suggestioni letterarie che da intenti di approfon- dimento. Nel mondo accademico, la ricerca sullo sport sembra confinata negli spazi, già an- gusti, che le sono concessi nelle facoltà di Scienze motorie, confermando la marginalità a cui sembrano destinati gli studi attorno un fenomeno pure così fortemente caratterizzante della cultura di massa, come sottolineato da più parti (Mosse, Hobsbawm, Barthes). Le ricerche condotte da Marchesini rappresentano una delle eccezioni più significative. Dopo Coppi e Bartali (1998) e Cuori e motori. Storia della Mille Miglia (2001), arriva Carne- ra, in coincidenza non casuale con il centenario della nascita del boxeur friulano. Non si trat- ta di una biografia. Lo studio è indirizzato invece al suo tempo, alla cultura e alla mentalità che hanno costituito il terreno per la nascita, sulla base di risultati sportivi tutto sommato ef- fimeri, di un mito straordinariamente popolare, e capace di resistere a lungo, e di un model- lo virile che fanno da sfondo all’ascesa del fascismo, e che dal fascismo saranno alimentati an- che attraverso ciò che è stato definito «atletismo politico». Scrive Marchesini: «lo sport può essere considerato una delle versioni più rappresentative del tentativo di creare una cultura fa- scista, intesa come modo di essere o come insieme di valori e idee condivisi che si fanno sen- so comune […]. In questo senso, con il fascismo siamo già, negli anni Trenta, all’estensione dello sport fuori dello sport» (p. 98). Se Mussolini si presenta come il primo sportivo d’Italia, Carnera è per il fascismo l’italiano nuovo, l’immagine di eccellenza di una «razza» che si rinfor- za e si prepara alla guerra attraverso l’esercizio fisico. Operazione di propaganda, questa, che Marchesini esplora anche attraverso il buon apparato iconografico del libro, ma di cui forse non evidenzia abbastanza le contraddizioni. L’affermazione del singolo, infatti, non rientrava in modo immediato nell’ideologia fascista sullo sport, mirante invece, secondo la parole di uno dei suoi principali teorici, Lando Ferretti, a «riflettere, penetrare ed elevare le masse», in quanto «la massa è il suo obiettivo, non l’individuo» (S. Martin, Calcio e fascismo. Lo sport na- zionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 2006, p. 29). Utile con i suoi successi a esaltare la nazione, il campionismo incarnato dal pugile friu- lano – per di più ex emigrante, e già sul punto di naturalizzarsi francese – è allo stesso tem- po scomodo per il regime, che infatti se ne disfa presto. Quando il 25 giugno 1935, alla vi- gilia della guerra d’Etiopia, Carnera viene messo al tappeto dal nero Joe Louis, è Mussolini in persona a firmare la velina ai giornali («Non pubblicare fotografie di Carnera a terra»), fa- cendo scattare l’inevitabile damnatio memoriae. Il mito del boxeur sopravvivrà tuttavia al fa- scismo, in Italia e all’estero. Come spiega Marchesini infatti: «l’eroe sportivo incarna [...] un altro tratto tipico della civiltà di massa: la mobilità sociale, il suo desiderio, la sua eventua- lità» (p. 181). Elvis Lucchese

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Mario Mariani, La Croce Rossa Italiana. L’epopea di una grande istituzione, Milano, Mon- dadori, 434 pp., Û 20,00 Il dettagliato lavoro di Mariani, critico letterario e studioso di storia contemporanea, ri- percorre l’intera storia della Croce Rossa italiana, comprendendo anche le vicende relative al- la recente elezione del presidente, che ha posto fine a un lungo periodo di commissariamen- to. Il volume, strutturato in 21 capitoli, segue un filo rigidamente cronologico. La scelta di non corredare l’opera di una introduzione o di una conclusione rivela l’intenzione dell’auto- re di non inseguire tentativi di interpretazione o bilanci, e meno ancora di dare giudizi sull’u- na o l’altra fase storica dell’ente. Tra le parti più interessanti vi è senz’altro quella riguardante le vicende della Croce Rossa durante il ventennio. Analogamente a quanto sarebbe accaduto negli anni successivi alla con- sorella tedesca, la CRI subì un processo di asservimento al regime, specie sotto la presidenza di Filippo Cremonesi che, nel giorno dell’insediamento, dichiarò di volersi occupare di «tre gran- di problemi: la natalità, la maternità e il miglioramento della razza» (p. 146). La Croce Rossa fascistizzata fu al fianco delle truppe italiane in Etiopia. Le sue infermiere «non potevano non sapere» del ricorso alle armi chimiche; l’istituzione tuttavia «scelse il silenzio, piuttosto che la denuncia: la censura sui gas, sul genocidio chimico in Etiopia fu totale», scrive Mariani citan- do Del Boca (p. 179). Le critiche giunte da più parti, e soprattutto dal Comitato internaziona- le della Croce Rossa di Ginevra, spinsero Cremonesi a difendere con veemenza il duce e la con- dotta italiana, disprezzando i rilievi della Croce Rossa etiopica «barbara e schiavista» (p. 181). Per scrivere questa storia Mariani si è basato su fonti edite e ufficiali. In primo luogo, le pubblicazioni periodiche che hanno accompagnato il cammino dell’istituzione, assumendo negli anni varie denominazioni. Queste riviste contengono notizie a uso interno dell’associa- zione, resoconti dei discorsi ufficiali, articoli sulla vita e le realizzazioni. Non vi compaiono, invece, i dibattiti interni, i processi decisionali e la genesi delle strategie, l’andamento dei rap- porti con le istituzioni, le cui tracce possono essere ricercate nell’Archivio centrale della CRI di Roma. Dall’apparato delle note non è chiaro se l’autore, che pure ne ringrazia i responsa- bili, abbia avuto accesso a questa fonte, tanto ricca di documenti importanti quanto ancora lontana dall’essere organizzata e fruibile, nonostante gli sforzi profusi in questi ultimi anni. La bibliografia utilizzata comprende alcuni titoli disponibili sul tema, le raccolte di me- morie e diari, e gli scritti dei responsabili dell’ente che ne descrivono le realizzazioni. Più vol- te si fa riferimento al libro di Antenore Frezza, del 1956, Storia della Croce Rossa italiana, e al volume di Chiara Staderini, La Croce Rossa italiana tra dimensione associativa e riconoscimento istituzionale. Manca invece qualsiasi riferimento ai lavori di ricerca condotti su fonti prima- rie, in particolare quelli di Stefania Bartoloni. Nonostante questi limiti, il contributo di Ma- riani rappresenta uno strumento utile per la conoscenza di un’istituzione la cui storia necessi- ta di un ulteriore approfondimento. Stefano Picciaredda

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Giuseppe Carlo Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica, Milano, Bom- piani, 875 pp., Û 13,00

È estremamente difficile presentare un libro così denso di analisi e soprattutto di fatti e di personaggi, alcuni noti, altri tratti dalle cronache di un secolo di storia italiana. Lo stesso Marino chiede ai lettori, nella sua introduzione, di essere «pazienti e benevoli verso i funam- bolismi di un autore che talvolta induce a un certo gusto barocco. […]. In questo caso le com- plicazioni sarebbero comunque inevitabili. Trattandosi, infatti, di affrontare l’impresa di rico- struire, nel tragitto del XX secolo, la dinamica delle variazioni di mentalità e di valori inter- venute nelle generazioni italiane» (p. 14). L’avvicendarsi delle generazioni nella storia del pae- se è rappresentato da un ipotetico signor Giuseppe Rossi, nato e rinato a partire dall’anno 1900. Tralasciando questo simbolico riferimento anagrafico, l’autore di fatto parla di «gene- razioni storiche», anche se così non le identifica, ancorandosi piuttosto alla «natura fondamen- talmente culturale» del termine, cioè ad una generazione atta a rappresentare «un’intera fase storica: per esempio il Risorgimento, l’età dell’imperialismo, la grande guerra, il fascismo» (p. 15). Potremmo quindi riconoscere a questo volume la dignità di storia degli italiani, dall’U- nità, e quindi prima del fatidico capodanno 1900, all’immediato secondo dopoguerra; e di storia, più che di generazioni, dei rapporti tra generazioni, tra padri e figli e tra figli che di- vengono padri e figli-nipoti. Se dubbi quindi permangono sull’uso troppo libero che l’autore fa del termine «genera- zione», quando avrebbe dovuto attenersi ad un dibattito oramai articolato ed approfondito a livello italiano e soprattutto internazionale su questa categoria storica (ma l’attenersi non gli avrebbe consentito forse tale ampia e diversificata narrazione), non si può che apprezzare il tentativo compiuto di racchiudere tutta la storia italiana nell’avvicendarsi dei rapporti tra «pa- dri e figli», e con un po’ più di timidezza, ma senza trascurarlo, tra «madri e figlie». Essendo però essenzialmente una lettura della storia politica del paese, il genere maschile prevale, co- me prevale un signor Rossi borghese, e poi ceto medio, piuttosto che un Rossi proletario del- la terra e della fabbrica (anche se persino in questo caso l’autore è conscio di alcuni suoi limi- ti, supplendoli a volte con interessanti ed esemplari divagazioni sugli alterni destini anche fa- miliari delle generazioni Marino). Come sempre accade in tali ambiziose sintesi, alcune parti risultano più ricche, convincenti, leggibili perché legate agli studi e agli interessi specifici del- l’autore. Abbiamo infatti apprezzato maggiormente i temi culturali ed educativi di formazio- ne degli italiani, e la ricchezza di osservazioni, di citazioni, di personaggi dal periodo post-uni- tario al primo fascismo. Resta ora a Marino l’impegno di colmare il periodo che va dalla na- scita di una nuova «patria» repubblicana al 1968, del quale si era occupato pochi anni or so- no e che appare chiaramente all’origine ma anche l’approdo di questo lungo viaggio tra gene- razioni. Patrizia Dogliani

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Alessandro Marra, La Società Economica di Terra di Lavoro. Le condizioni economiche e so- ciali nell’Ottocento borbonico. La conversione unitaria, Milano, FrancoAngeli, 227 pp., Û 22,00

Diversamente da altre analoghe istituzioni italiane, le Società economiche meridionali fu- rono create solo nel decennio francese nell’ambito del progetto di riforma dello Stato attuato dai Napoleonidi e confermato dai Borboni. Si trattava di veri e propri organi amministrativi periferici con compiti di stimolo all’economia. Nonostante l’ormai corposa letteratura in ma- teria, però, non tutte le Società hanno ricevuto la stessa attenzione. Quella di Terra di Lavo- ro, in particolare, non è mai stata oggetto di uno specifico studio e, a colmare questa lacuna, è ora disponibile il volume in questione. Frutto di un’approfondita ricerca compiuta su docu- menti archivistici e sulla pubblicistica edita dalla stessa Società, il libro abbraccia l’intero arco di vita dell’istituzione con ampi – e forse talora eccessivi – spazi dedicati agli eventi politici entro cui essa si mosse. I primi decenni sono contraddistinti da difficoltà comuni a tutte le Società del Regno e da problemi locali. È la fase che l’autore chiama «inevitabile declino»; definizione che, al di là della scelta terminologica (singolare l’idea di un esordio declinante), è interessante perché smentisce in parte l’idea, comune a molti studi, che nel decennio francese queste istituzioni fossero particolarmente attive. Sotto questo profilo, anzi, è un peccato che in questa occasio- ne, e più in generale in tutta la sua ricerca, Marra scelga di non confrontarsi con la storiogra- fia esistente: un suo maggior utilizzo, oltre a consentire di cogliere similitudini e differenze con gli omologhi istituti meridionali, avrebbe anche permesso al lettore di conoscere l’evolu- zione del giudizio storiografico su queste istituzioni e, inoltre, reso possibile un più diretto confronto con i numerosi studi sull’associazionismo e la sociabilità nell’Ottocento. Dopo il periodo della «decisa rinascita», tra la fine degli anni Trenta e la rivoluzione del 1848, il secondo capitolo analizza la provincia preunitaria sotto il profilo economico e sociale. L’istituto casertano torna invece alla ribalta nel capitolo seguente dove vengono studiati gli an- ni che vanno dalla rivoluzione del 1848 all’Unità, durante i quali la Società si impegna su mol- ti fronti, ma è costretta a fare i conti con «una silenziosa e ferma opposizione del governo asso- luto, diffidente verso quelle istituzioni» (p. 141). E così, con la sola eccezione dell’orto agrario – la cui concessione governativa, nel 1855, è letta come un tentativo politico di riavvicinamen- to delle autorità con quella borghesia liberale che costituiva la componente principale dell’isti- tuto – gran parte delle iniziative fallirono. Nel capitolo conclusivo il fuoco è sul progressivo di- stacco dei membri dell’istituto dalla monarchia e quindi sulla loro conversione unitaria: «pren- deva forma in provincia un vero e proprio ‘partito’ dei liberali unitari della Società economica» (p. 167), destinato ad avere un ruolo politico di primo piano negli anni successivi al 1860. L’au- tore insomma, riprendendo un giudizio storiografico di stampo risorgimentale, sceglie di con- centrare l’attenzione prevalentemente sulla dimensione politica dell’istituzione. Walter Palmieri

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Luigi Marrella, I diari della gioventù italianissima, Taranto, Barbieri, 397 pp., Û 30,00

L’autore, docente di storia e filosofia nella scuola secondaria, ha già pubblicato un inte- ressante lavoro sui quaderni scolastici del ventennio fascista, studiati soprattutto dal punto di vista iconografico, e ora propone, in un denso volume, alcune riflessioni su un aspetto inedi- to della propaganda fascista messa in atto nelle scuole. La prima parte del libro, infatti, è de- dicata allo studio dei diari scolastici del periodo fascista, dalle copertine alle frasi riportate al- l’interno, non trascurando le dinamiche editoriali e le normative che hanno interessato que- sto particolare supporto. La ricerca, difficile in quanto pochi sono i diari conservati e scarsa è la documentazione d’archivio che li riguarda, conferma la pervasività del regime e la forza con cui intendeva plasmare le giovani coscienze, ma mostra anche l’allineamento autonomo di tanti editori, che avevano intuito come un diario che incarnasse i valori e gli ideali del fasci- smo avesse più possibilità di trovare accoglienza tra gli insegnanti e i genitori. L’analisi dei ma- teriali, che Marrella ha recuperato con certosina pazienza nel corso degli anni, evidenzia, poi, quali erano i temi che andavano a definire l’immaginario del «nuovo italiano»: le narrazioni presenti in questo tipo di testi erano piene di retorica risorgimentale e guerriera, delle parole del duce e di esempi edificanti per la gioventù, come l’onnipresente Balilla, fino a giungere – in un diario del 1940 – a toni razzisti e antisemiti. Nella seconda parte del volume sono riportati altri tipi di diario. Si tratta dei componi- menti che gli alunni erano tenuti a svolgere, fin dai programmi elementari di Lombardo Ra- dice del 1923, sulla vita scolastica. Marrella ne riporta tre (di cui uno è un componimento il- lustrato), fedelmente trascritti e introdotti da alcune considerazioni, ai quali aggiunge un dia- rio-memoria scritto da un giovane volontario fascista della guerra di Spagna. Se il pregio del volume sta nell’aver introdotto un tema nuovo e interessante come quel- lo dei diari scolastici all’attenzione degli studiosi, e nel contenere una vasta sezione antologi- ca ed iconografica di indubbio valore documentario ad essi riferita, fornendo così un elemen- to prezioso agli studi del settore, si deve però notare come forse sarebbe valsa la pena approfon- dire maggiormente proprio questa parte, tentando magari qualche interpretazione più ampia e meno descrittiva del fenomeno editoriale dei diari. Davide Montino

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Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Nove- cento, Roma, Donzelli, 226 pp., Û 24,50 Nonviolenza, disobbedienza civile e obiezione di coscienza sono state a lungo considera- te correnti di pensiero minoritarie e marginali, tanto da non meritare di essere oggetto di una ricostruzione di vasto respiro. Con lo studio di Amoreno Martellini, basato sulla ricchissima documentazione dell’Archivio di Edmondo Marcucci, la storiografia italiana si avvia a colma- re questa lacuna. Benché il volume si soffermi in particolare sul secondo dopoguerra, un ampio Prologo sui primi decenni del secolo allarga il quadro della trattazione. L’autore ricostruisce la lunga lot- ta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza fino all’approvazione della legge nel 1972, le battaglie per sottrarre al potere militare la competenza sui reati di opinione, per contrastar- ne le ingerenze nella società, le azioni di disobbedienza civile promosse da Danilo Dolci, le vi- cende del pacifismo e i contrasti tra le sue varie componenti. Il filo conduttore del volume, tuttavia, deve essere individuato non solo e non tanto nella ricostruzione di movimenti e idee, ma nel modo in cui la parola dei «profeti disarmati» fu accolta, diffusa e commentata. In que- sto percorso molti sono gli elementi di novità, in primo luogo l’influenza di Tolstoj nel perio- do successivo alla morte dello scrittore che Martellini ricostruisce attraverso il carteggio tra Tatiana Tolstoj ed Edmondo Marcucci, l’attività e i convincimenti del «femminismo pratico», il profilo di alcuni obiettori e la figura di Giovanni Pioli. Ma i temi centrali della ricerca ri- guardano la progressiva separazione tra nonviolenza e pacifismo e l’incontro mancato tra mo- vimenti pacifisti e partiti. Nonviolenza e obiezione di coscienza si rivelarono inconciliabili con la politica e rappresentarono un terreno di scontro all’interno del pacifismo, un pacifismo che non rappresentò un ostacolo per le istituzioni militari e che non incise sulle scelte politiche. Il tema delle spese militari e quello dell’educazione alla pace ricevettero un’attenzione molto vasta sulla stampa di partito, ma non uscirono dalla sfera della propaganda. E mentre i parti- giani della pace non contemplavano nelle loro proposte la nonviolenza e l’antimilitarismo, l’o- biezione di coscienza fu sempre considerata un agire estraneo alla tradizione comunista. La marcia della pace del 24 settembre 1961, la vasta mobilitazione dei partiti e la successiva for- mazione della Consulta della pace sono i momenti di svolta decisivi che, paradossalmente, condussero a quello che Martellini definisce «il suicidio di una leadership». Il clima della guer- ra fredda lacerò la Consulta e la politica fece il suo ingresso «con i piedi di piombo nel delica- to mondo dello spiritualismo nonviolento, stravolgendone le logiche» (p. 143). Marcucci, Pioli e Capitini uscirono di scena, la disobbedienza civile venne abbandonata e con essa la cen- tralità del nesso tra mezzi e fini. Tra le cause di questi esiti l’autore individua il peso dell’ere- dità della Resistenza armata e della politicizzazione delle bande e del mito della Resistenza co- me guerra giusta che ne seguì. Una consapevolezza che, grazie anche al volume di Martellini, ha iniziato a farsi strada nella storiografia italiana. Bruna Bianchi

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Simon Martin, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 339 pp., Û 10,40 (ed. or. Oxford, 2004)

Le diffidenze e lo scarso interesse riservati allo sport e all’educazione fisica dalle classi di- rigenti liberali e dalle organizzazioni cattoliche e socialiste lasciarono ampi e in gran parte ine- splorati spazi alla politica sportiva fascista. A partire dal 1926 – con una serie di importanti interventi strutturali ed organizzativi – il fascismo puntò in particolare sul calcio, visto come una ghiotta opportunità per ottenere legittimazione e consenso, ridisegnando i confini tra pubblico e privato ed «occupando» il leisure time di crescenti schiere di appassionati. Simon Martin analizza con abbondanza di riferimenti il consapevole utilizzo dello sport e dunque dei suoi miti, simboli, rituali e ambiti di rappresentazione – in primis quelli calcistici – come strumento di integrazione e nazionalizzazione delle masse. I successi della Nazionale, vincitri- ce delle Olimpiadi del 1936 (con la squadra universitaria) e dei Campionati mondiali del 1934 e del 1938, furono esaltati dalla propaganda del regime, che li presentò come risultati del pro- prio investimento nell’educazione fisica della prima generazione fascista. L’unità e la compat- tezza della squadra italiana offrirono inoltre la rappresentazione plastica di quella società orga- nica in cui l’apporto dei singoli si armonizzava e si sacralizzava nel successo dell’insieme, do- tando l’immaginario collettivo di leggendari eroi popolari. Al contempo, la crescente milita- rizzazione del lessico sportivo sembrava preludere al pieno dispiegamento dei «destini della patria», dei quali le folgoranti affermazioni degli «azzurri» divenivano presagi e conferme. I limiti e le contraddizioni del processo di «creazione di un senso di comunità naziona- le», come lo definisce l’autore, sono acutamente posti in evidenza attraverso due specifici pun- ti di osservazione: quello relativo all’architettura sportiva del regime – sempre oscillante tra l’intento di recuperare i fasti della romanità e la tensione verso il razionalismo modernista – che finì per tradursi in un pragmatico eclettismo nel quale convissero suggestioni e identità molto diverse; l’altro, riguardante l’organizzazione su scala nazionale dei campionati calcisti- ci delle serie superiori, che in realtà parve rinfocolare appartenenze regionalistiche e campani- listiche, drammatizzate nel corso di molte infuocate partite, costellate da violenti scontri tra le opposte tifoserie e da furenti polemiche tra gli organi di informazione locali, assai di rado capaci di sganciarsi dall’aperto e aprioristico sostegno alle compagini delle rispettive città in nome dell’unità della nazione. Per contro, l’analisi di Simon Martin, che nel complesso contestualizza efficacemente lo «sport nazionale» durante il ventennio fascista in un quadro disegnato intorno ai temi centra- li dell’identità, del consenso, del rapporto tradizione/modernità e della rigenerazione nazio- nale e razziale, pare in qualche misura sottovalutare proprio quest’ultimo aspetto, che pure ri- corre di frequente e con grande rilevanza nelle fonti citate dallo stesso autore lungo tutto il corso della trattazione. Sebastiano M. Finocchiaro

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Francesco Masciari, La codificazione civile napoletana. Elaborazione e revisione delle leggi civili borboniche (1815-1850), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 398 pp., Û 30,00 Il libro di Masciari sulla codificazione civile napoletana giunge a riempire un vuoto sto- riografico molto evidente sia dal punto di vista della storia del diritto che da quello della sto- ria politico-istituzionale. La ricerca si articola essenzialmente in due parti. Nella prima vie- ne esaminato il processo di elaborazione del Codice civile borbonico, che si stende lungo gli anni compresi tra il 1815 e il 1819. Giovandosi di nuovi, importanti ritrovamenti archivi- stici, l’autore ricostruisce il processo che conduce la monarchia napoletana alla scelta «mo- derna» di adottare un sistema codicistico di schietto impianto francese, in parallelo alla ana- loga opzione che la porta, nel 1816, a mantenere tutta l’impalcatura delle leggi amministra- tive già adottate nel corso del periodo murattiano. Nel giro di quattro anni viene dunque messo a punto e promulgato un codice civile assai simile a quello napoleonico, cui spetta an- zitutto la funzione di legittimare un assolutismo che ambisce ad assumere una forte conno- tazione efficientistica e progressiva. La cesura del 1820, tuttavia, apre una nuova pagina in questa storia che sembrava aver già raggiunto un suo sostanziale equilibrio. Nel clima suc- cessivo alla drammatica fine della rivoluzione costituzionale, caratterizzato da forti pulsioni conservatrici e insieme dalla necessità, imposta a Lubiana, di una qualche trasformazione del sistema costituzionale in senso consultivo, la riforma del Codice diventa il terreno privilegia- to per un confronto continuo tra i vari spezzoni dell’establishment circa le linee fondamen- tali del sistema sociale destinato a sorreggere la monarchia borbonica. A partire dal 1822 fi- no agli anni ’40, è tutto un susseguirsi di commissioni, di progetti individuali e di gruppi di lavoro aventi ad oggetto la ridefinizione dei contenuti del Codice, soprattutto in corrispon- denza dei suoi snodi politicamente più nevralgici, costituiti dal diritto di famiglia e dai mec- canismi successori. In sostanza, siamo di fronte ad un ininterrotto dibattito (anche se ovvia- mente tutto interno alle sedi istituzionali e al mondo degli specialisti) che la Corona man- tiene vivo non tanto in vista di una qualche modifica complessiva del sistema codicistico, ma al fine di monitorarne continuamente il funzionamento e di misurare il grado di soddisfa- zione sociale che esso produce nell’ambito delle élite. La gran quantità di progetti e di pare- ri, infatti, prodotti dai vari soggetti ufficiali preposti alla riforma del Codice nel corso del pe- riodo considerato dal nostro volume non ebbe quasi nessuna conseguenza sul piano legisla- tivo, ma permise tuttavia al monarca di intervenire sulla materia civilistica con una serie di micro-riassestamenti continui, realizzati tramite rescritti, decreti o semplici «ministeriali», grazie ai quali il Codice del ’19 venne riadattato alle esigenze di una base sociale di cui il so- vrano si considerava l’unico interprete. La «riforma» fu così utilizzata come strumento per conservare l’esistente e adeguarlo ad una domanda sociale di cui il sovrano, in assenza di ca- nali di tipo rappresentativo o anche solo mediatico, cercò di cogliere gli umori tramite la vo- ce dei tecnici del diritto. Luca Mannori

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Gino Massullo (a cura di), Storia del Molise in età contemporanea, Roma, Donzelli, 715 pp., Û 38,00 Il poderoso volume curato da Massullo affronta questioni storiografiche e metodologiche di notevole interesse, che attengono al significato di territorio, regionalizzazione, identità lo- cali. Attraverso il caso di studio del Molise, una delle regioni più piccole, meno densamente abitate e di più recente istituzione, si dimostra come sia difficile imbrigliare lo spazio sociale in confini nettamente fissati e come sia necessario ricostruire la variabilità delle reti di relazio- ni verticali e orizzontali di carattere economico, sociale, culturale e politico riferibili a un ter- ritorio, tenendo presente sia i suoi rapporti pluricentrici e pluriferici, sia la rielaborazione dia- lettica delle spinte provenienti dall’esterno. I diciotto autori, storici e scienziati sociali, ricostruiscono i tempi e i caratteri del debole sviluppo economico della regione (I. Zilli, M. Iarossi, G. Massullo, A. Mariani), le trasforma- zioni del paesaggio agrario (S. Russo), gli squilibri sul piano ambientale (W. Palmieri), le dina- miche socio-economiche e i problemi ecologici legati all’uso delle risorse naturali (M. Armie- ro), le difficoltà di governo del territorio e di infrastrutturazione (R. Parisi, F. Mercurio), che chiamano in causa il ruolo delle classi dirigenti locali e le forze politiche (R. Colapietra, M. Marzillo) e si riconnettono in qualche modo al difficile e tortuoso processo di costruzione di un’autonomia amministrativa (E. Petrocelli). Un’autonomia che dapprima è provinciale, otte- nuta nell’ambito della monarchia amministrativa francese, e poi, attraverso varie fasi, diventa regionale soltanto nel 1963. Un processo di regionalizzazione, che non nasce su presunti fatto- ri identitari, fatti risalire ora ai sanniti, ora ai normanni, ora alla transumanza (come efficace- mente argomenta Massullo), ma dall’intreccio complesso di fattori economico-sociali, di rior- ganizzazione delle gerarchie territoriali, di conflittualità interna, di ascesa di nuovi soggetti so- ciali e classi dirigenti, che durante i secoli XIX-XX, in un continuo processo di negoziazione e di contrattazione con i «centri» del potere politico, impongono e/o ottengono l’autonomia. Nel ricostruire il contraddittorio e ambiguo processo di trasformazione di un’area periferica, ma non isolata, che apre anche spazi di sociabilità (V. Lombardi), di grande interesse è l’analisi svol- ta in molti saggi (in particolare N. Lombardi) sul ruolo dell’emigrazione transoceanica. Essa è considerata il principale «motore» di quel dinamismo, che caratterizzò il Molise tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1920. Il rilevante fenomeno, fatto di espatri, ritorni, ripartenze, rien- tri definitivi, che mise in moto processi significativi di ascesa sociale, di nuove culture politi- che, di protagonismo economico, confermando in qualche modo l’analisi nittiana, che ritene- va l’emigrazione «la vera causa modificatrice del Mezzogiorno», può essere considerato uno dei caratteri distintivi della via molisana alla trasformazione. Alle dinamiche demografiche e al rap- porto immigrazione/emigrazione del Molise odierno è dedicato il contributo di O. Casacchia e M. Crisci. Completa infine il volume il saggio di G. Palmieri, che ripercorre utilmente le tap- pe e i caratteri della ricerca storica contemporanea nel Molise. Anna Lucia Denitto

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Aldo Mazzacane (a cura di), Oltremare. Diritto e istituzioni dal colonialismo all’età postco- loniale, Napoli, Cuen, 282 pp., Û 21,00

Il libro raccoglie i contributi del convegno organizzato a Napoli nel dicembre 2002 dalla So- cietà per gli studi di storia delle istituzioni, e rappresenta uno dei migliori «strumenti» per la com- prensione delle questioni cruciali che ruotano attorno alla storia del colonialismo, ai suoi proget- ti, esiti e organizzazione strutturale. In questo senso offre spunti importanti in grado di operare un riorientamento della storiografia italiana in questo campo. Oltremare infatti non soltanto met- te insieme ricerche, ampiamente documentate e basate su materiale d’archivio inedito concer- nenti le istituzioni e il sistema coloniale dell’Italia e di altri paesi (imperi), ma affronta la questio- ne con un approccio multidisciplinare (contiene saggi di carattere storico, antropologico, istitu- zionale e filosofico), coprendo così una grave lacuna presente nella storiografia italiana. La prima parte del libro si concentra sull’esperienza degli imperi coloniali non italiani: in particolare quello spagnolo, portoghese, inglese e francese. Si va dall’analisi dell’idea di «indio» presente nel diritto e nell’immaginario coloniale dell’America spagnola (T. Herzog, Indiani e cowboys: il ruolo dell’indigeno nel diritto e nell’immaginario ispano-coloniale), all’individuazione dei processi di definizione dell’assetto spaziale americano (L. Nuzzo, Lo spazio del diritto. Di- scorso giuridico e percezione del territorio nelle Indie spagnole). Significativi spunti offrono poi i saggi dedicati all’esame delle carriere coloniali: le modalità di accesso all’Indian Civil Service e lo statuto dei magistrati francesi d’Oltremare sono al centro dei contributi di M. Griffo e B. Durand, i quali consentono altresì una ricca comparazione con il caso italiano. Le indicazioni che oggi ci provengono dall’ambito degli studi postcoloniali, sempre più preziosi ai fini dell’a- nalisi del fenomeno coloniale e delle sue eredità, costituiscono l’orizzonte teorico entro cui si muove il saggio di S. Mezzadra e E. Rigo (Diritti d’Europa. Una prospettiva postcoloniale sul di- ritto coloniale). In particolare questi ultimi mettono bene in evidenza le dinamiche complesse e contraddittorie che segnano la definizione del potere e del diritto coloniale, delle quali è esem- plificativo il rapporto tra il cittadino metropolitano e il suddito coloniale. Nella seconda parte del libro il tema è l’espansione coloniale italiana, con le sue istituzio- ni, i suoi uomini e i suoi codici. A un nutrito e assai utile saggio di N. Labanca relativo allo stato della storiografia sulle istituzioni coloniali italiane (dal quale emerge l’urgenza di colma- re le lacune esistenti e rimediare a un ingiustificabile silenzio e/o rimozione) seguono gli ulte- riori appassionanti scritti di B. Sorgoni sull’immaginario di genere in colonia e sulla condi- zione delle donne colonizzate, di G. Melis e G. Tosatti su Luigi Pintor, importante funziona- rio coloniale dell’Italia liberale, e di L. Martone sull’organizzazione della giustizia (penale) in Eritrea agli inizi del Novecento. Ne emerge un quadro assai articolato del «nostro» colonialismo, e al contempo se ne trae un incoraggiamento per ulteriori ricerche e approfondimenti. Chiara Giorgi

281 I LIBRI DEL 2006

Giuliana Mazzi, Guido Zucconi (a cura di), Daniele Donghi. I molti aspetti di un ingegne- re totale, Venezia, Marsilio, 415 pp., s.i.p.

Il volume è il risultato di una ricerca collettiva dedicata alla figura di Daniele Donghi, «ingegnere polivalente e architetto del manuale» (1861-1938), conclusasi con la realizzazione di un convegno nel febbraio 2005. A monte di questo lavoro, coordinato da Guido Zucconi, va segnalato il programma di ricerca, avviato nel 2002 dalle Università di Padova e di Napo- li, dai Politecnici di Milano e di Torino e dallo IUAV di Venezia, il cui tema riguarda il rap- porto tra architettura e arti applicate (1850-1914). I numerosi contributi del libro tracciano il profilo di «tecnico onnicomprensivo» dell’ingegnere Donghi: l’attività di progettista e di funzionario a Torino e a Padova (F. Ceccarelli, F. De Pieri, E. Dellapiana, S. Pace, G. Monti, M. Maffei, M. Carraro, C. Rebeschini), il ruolo di divulgatore e di fruitore del «metodo Hen- nebique» (M. Scimeni, P.L. Ciapparelli, D. Ferrero, M. Rosso), l’impegno nell’insegnamento (G. Mazzi, A. Buccaro), l’opera manualistica e di divulgazione tecnica (M. Savorra, A. Bruc- culeri, C. Barucci, O. Selvafolta). Due capitoli di carattere generale, che contestualizzano l’o- pera di Donghi, offrono una serie di contributi sul confronto tra la letteratura tecnica italia- na e quella dei paesi di lingua tedesca (F. Mangone, M. Frank, M. Pogacnik, E. Godoli) e sul- la cultura edilizia e sulle innovazioni tecnologiche in ambito italiano nel primo Novecento (A. Castellano, E. Godoli). Un insieme di apparati (cenni biografici, progetti, realizzazioni, scrit- ti dell’ingegnere) chiude il denso volume degli atti (M. Savorra). Il pregio della pubblicazione è quello di offrire spunti interpretativi nuovi. Grazie ai me- todi di rilevazione e all’ampiezza di indagine, dovuti alla documentazione originale e inedita del fondo Donghi, conservato presso lo IUAV di Venezia, questo volume colma una lacuna nell’ambito della storiografia architettonica e della cultura edilizia. Dalla maggior parte dei contributi emerge il ruolo di Donghi come protagonista di una fase di rinnovamento dell’ar- chitettura italiana tra Otto e Novecento, anche per merito dell’introduzione di nuovi mate- riali e di nuovi procedimenti costruttivi che influenzano l’opera teorica e pratica dell’ingegne- re. Tuttavia l’attività polivalente di Donghi (ingegnere civile, tecnico comunale, docente, pub- blicista) non deve essere letta unicamente dal punto di vista dell’innovazione del linguaggio. Come giustamente osserva Zucconi, le riviste e i manuali hanno un valore propulsivo per la diffusione dei metodi costruttivi, ma «dobbiamo chiederci se il mondo della costruzione for- nisca elementi fondativi all’architettura, intensa in senso lato e non ridotta a solo problema di linguaggio» (pp. 25-26). A ciò bisogna aggiungere un’ulteriore riflessione sul ruolo fondamen- tale svolto dall’innovazione tecnologica e dallo sviluppo industriale che obbliga a un ripensa- mento della professione dell’ingegnere, dell’industria edilizia e dell’estetica architettonica in Italia tra Otto e Novecento. A questo proposito il volume offre un’interessante occasione di approfondimento critico. Cristina Accornero

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Brian L. Mc Laren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya. An Ambivalent Mo- dernism, Seattle-London, University of Washington Press, 286 pp., s.i.p.

È azzurro il cielo che fa da sfondo alla silhouette di una donna in costume da bagno, ri- tratta nella pubblicità delle navi da crociera Cosulich che negli anni Trenta lasciavano l’Italia alla volta della Libia. Azzurro è anche l’orizzonte di Tripoli, che l’Associazione nazionale del- le industrie turistiche ritraeva bianca di luce e costellata di palme in una delle numerose bro- chure messe a disposizione dei turisti. Stellato e distante dalle imponenti rovine è invece il cie- lo degli sticker adesivi dell’Albergo degli Scavi, aperto a Leptis Magna a seguito dei ritrova- menti e dei restauri effettuati dalla fine degli anni Venti. In ogni caso, la vastità dell’orizzon- te è motivo ricorrente dell’immagine di un paese ritratto da angolazioni e vedute «turistiche», che il notevole apparato iconografico del volume restituisce in tutta la loro luminosità. Docente di Architettura alla University of Washington, Mc Laren ripercorre le vicende dello sviluppo del sistema turistico in Libia, concepito e realizzato durante il fascismo come strada importante per modernizzare il paese e per divulgare lo status specifico di un’Italia po- tente e efficiente nazione colonizzatrice. L’autore analizza il duplice processo di modernizza- zione del territorio e di «cristallizzazione» della cultura locale ricostruendo, da un lato, la de- finizione di una nuova rete stradale e portuale, la creazione di enti e strutture volti a favorire la ricezione turistica, lo sviluppo della propaganda e del sistema pubblicitario; dall’altro, l’og- gettivazione della cultura locale, ridotta a soggetto nativo, premoderno e primitivo di cui go- dere in piena libertà. Riprendendo il concetto di «spectacle of difference» usato da Griselda Pollock per descrivere la tensione insita nello sguardo occidentale che fissa e naturalizza i ca- ratteri di mondi «altri», Mc Laren mostra come il turismo abbia costituito una «third wave of colonization» (p. 5) in grado di far propri e restituire alcuni elementi della cultura del territo- rio. L’autore impiega i concetti di negoziazione e ambivalenza impliciti nel rapporto metro- poli/colonia in una prospettiva legata però esclusivamente al punto di vista metropolitano. In- teressanti sono in questo senso le pagine dedicate allo sviluppo di un’architettura «mediterra- nea» volta a coniugare razionalismo italico e tradizione locale, reinventando la cultura archi- tettonica del luogo in chiave «latina». O le pagine dedicate al tentativo di rintracciare una li- nea di continuità storica e artistica tra l’antica Roma e la colonia attuale, capace di legittima- re la presenza italiana e favorire i processi e i meccanismi di rinegoziazione culturale. Suddiviso in sei capitoli, a tratti disomogenei, il libro affronta vari temi che vanno dalla costruzione della lunga e fondamentale strada litoranea alle attività del Touring Club, dalle brochure pubblicitarie alla letteratura esotica coloniale, dagli scavi di Sabratha alla creazione di nuovi teatri, dalla produzione di architetti come Rava, Di Fausto e Limogelli alla definizio- ne di un discorso razziale implicito nelle trasformazioni del tessuto urbano. Ricco e stimolan- te, il volume introduce un tema importante e affascinante, certo denso di sviluppi. Simona Troilo

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Roj A. Medvedev, Zores A. Medvedev, Stalin sconosciuto. Alla luce degli archivi segreti so- vietici, Postfazione di Andrea Panaccione, Milano, Feltrinelli, 395 pp., Û 19,00 (ed. or. Lon- don-New York, 2003)

La scelta del titolo è sempre un momento delicato, ma poche volte come in questo caso essa risulta inappropriata. Il volume si propone, almeno così il titolo lascia intendere, di sve- lare aspetti inediti della vita di Stalin alla luce della documentazione emersa in seguito alla co- siddetta «rivoluzione degli archivi», ovvero l’apertura degli archivi ex sovietici che ha cono- sciuto la sua stagione più felice negli anni compresi tra il 1992 e il 1996. Tuttavia, i due au- tori non riportano nelle peraltro ricche note neppure una fonte archivistica diretta. Stalin sconosciuto è inoltre un libro disarticolato, la cui struttura e divisione fra i capitoli lascia piuttosto interdetti. L’ordine logico-cronologico con cui i vari temi sono proposti rima- ne alquanto misterioso. La prima parte è dedicata ai classici noir» della morte e della succes- sione (sui quali peraltro i due autori non dicono niente di nuovo) a cui si accompagna un in- teressante articolo (scritto a quattro mani) sulle ipotetiche sorti dell’archivio privato di Stalin. La seconda sezione, la più organica e rilevante di tutto il volume benché anch’essa priva di do- cumentazione di prima mano, comprende tre saggi di Zˇores Medvedev sulla questione del nu- cleare sovietico dalla costruzione della bomba atomica alla creazione di un articolato «gulag atomico». Segue poi una terza parte incentrata sul rapporto tra Stalin e la scienza che ripro- pone i temi noti del rapporto tra Stalin e Lysenko da un lato, e tra il dittatore e la linguistica dall’altro. La sezione successiva, dedicata agli anni della seconda guerra mondiale, compren- de un primo articolo scritto da entrambi il cui titolo è Stalin e il Blitzkrieg che attinge a pie- ne mani dal materiale pubblicato già nel 1998 a cura di V.P. Naumov, e un secondo pezzo di Roj Medvedev sul generale Apanasenko e il fronte estremo orientale completamente basato su fonti anteriori alla fine dell’Unione Sovietica e quindi difficilmente spacciabile come no- vità storiografica. Infine, il quinto capitolo, lo Stalin sconosciuto, i cui tre articoli sono del tut- to scoordinati tra di loro sia per tematiche che per cronologia degli eventi: si passa dallo Sta- lin nazionalista russo, e qui i luoghi comuni abbondano, all’assassinio di Bucharin (unico dei tre articoli di questa parte che faccia uso di una bibliografia più recente) sino a un’irrazionale ultimo brano dedicato alla madre di Stalin, Ekaterina Georgievna Dˇzugaˇsvili, morta anch’el- la, come Bucharin, nella seconda metà degli anni Trenta. Peccato, un’occasione sprecata perché il libro, senza le pretese di novità che si è arrogato, avrebbe potuto proporsi molto più semplicemente, soprattutto per i lettori non usi alla lin- gua russa, come un’occasione per fare il punto (grazie anche alla ricca bibliografia citata da Andrea Panaccione nella sua postfazione) su parte della storiografia soprattutto russa degli an- ni Novanta sullo stalinismo. Elena Dundovich

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Alberto Melloni (a cura di), Il filo sottile. L’Ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli, Bolo- gna, il Mulino, 435 pp., Û 36,00

Il volume si inserisce in un clima di crescente interesse storiografico per il ruolo politico as- sunto dal Vaticano nei decenni della guerra fredda, e mira a ricostruire le coordinate dell’azione svolta nei confronti del blocco sovietico negli anni ’60 e ’70, nota come Ostpolitik e guidata dal cardinale Agostino Casaroli. Il saggio di maggiore respiro è indubbiamente l’ampia introduzio- ne nella quale il curatore, sulla scorta di un’ampia letteratura internazionale e italiana, traccia uno stimolante affresco del periodo della distensione e del dialogo in un «secolo lungo» vatica- no che si estende dal 1870 al 2000 (p. 3). Con la graduale dismissione dell’eredità pacelliana av- viata da Giovanni XXIII e proseguita con maggiore decisione dal suo successore Paolo VI, la San- ta Sede assume un nuovo ruolo nel panorama internazionale con l’apertura a Est, concretizzata- si con l’accordo parziale con lo Stato ungherese nel 1964, la mediazione sul Vietnam, le prese di posizione sullo status di Gerusalemme, e soprattutto la partecipazione attiva alla Conferenza di Helsinki e la diplomazia parallela condotta nei confronti delle due Germanie (come emerge in dettaglio dagli ottimi studi di Faggioli e Kunter). Interessante, corroborato da fonti sovietiche di prima mano è il contributo di Roccucci sulle reazioni della dirigenza sovietica all’approfondi- mento della Ostpolitik e, un decennio più tardi, all’inattesa elezione di Giovanni Paolo II. In fon- do al volume si trova un’utile appendice documentaria contenente l’inventario del fondo Casa- roli depositato presso l’Archivio di Stato di Parma. Nonostante i meriti evidenziati, il volume presenta alcuni limiti di fondo, dovuti anche a un certo squilibrio tematico. Grande attenzione viene dedicata alla Germania e a un caso periferico, quello della Bulgaria, mentre un cono d’om- bra avvolge i casi più rilevanti (la turbolenta Polonia, fonte di gravi dissidi tra Giovanni Paolo II e Casaroli sin dal 1979-80, la Cecoslovacchia e la Romania, insensibili a qualunque apertura va- ticana, e la stessa Ungheria, nella quale l’accordo del 1964 favorì la promozione di una gerarchia non solo «leale», ma addirittura organica agli apparati repressivi dello Stato comunista) ai fini di una trattazione finalmente storicizzata – ovvero problematica – di un fenomeno complesso co- me la Ostpolitik, non privo di contraddizioni interne e portatore di dilemmi morali oltre che di- plomatici. Di conseguenza, restano inesplorati anche i profili biografici dei diplomatici vaticani che giocarono un ruolo-chiave nelle trattative con i paesi del blocco sovietico (Dell’Acqua, Bon- gianino, Cheli, Poggi, Bukovsky). Anche dai contributi più significativi sembra infine mancare qualunque apertura di credito alle correnti storiografiche oggi prevalenti nell’ex blocco sovieti- co. Al di là delle «volgarizzazioni» storiografiche così diffuse nel nostro paese (p. 21), è proprio lo spoglio critico degli strumenti primari dello storico, i documenti d’archivio, che sta portan- do una nuova leva di storici est-europei a esprimere forti riserve sui risultati concreti raggiunti dalla Santa Sede – soprattutto sino all’elezione di Giovanni Paolo II – nel «dialogo» con i regi- mi comunisti dell’Europa orientale. Stefano Bottoni

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Alberto Melloni, Silvia Scatena (a cura di), L’America Latina fra Pio XII e Paolo VI. Il Car- dinale Casaroli e le politiche vaticane in una Chiesa che cambia, Bologna, il Mulino, XVIII-328 pp., Û 27,80

Del cardinale Agostino Casaroli si ricorda soprattutto l’attività diplomatica nel quadro della Ostpolitik vaticana e la sua partecipazione alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Meno noto è che il futuro porporato avesse cominciato la sua carrie- ra diplomatica, in qualità di minutante presso la Segreteria di Stato, con il compito specifico di occuparsi dell’America Latina. Il volume curato da Melloni e Scatena, che raccoglie gli at- ti di un convegno tenuto nell’estate 2004 al Seminario di Bedonia, colma quindi una lacuna, approfondendo non soltanto l’attività di Casaroli a partire dal 1950, ma inquadrandola nel- l’ambito della politica della Chiesa cattolica nei confronti del continente sudamericano, un continente in cui, come scrive Alberto Melloni, «violenza anticlericale e disegni di autoritari- smo cattolico si scontrano senza posa» (p. XIII). Marco Mugnaini analizza con finezza l’Ame- rica Latina nel periodo della guerra fredda, e in particolare l’azione dei pontefici per organiz- zare al meglio l’episcopato latino-americano, con la costituzione del Consiglio Episcopale La- tino Americano (CELAM) e in seguito con la Conferenza di Medellin del 1968. Il CELAM è in particolare oggetto dell’ampio studio di Silvia Scatena, basato su interessante documen- tazione inedita, che permette di approfondire il ruolo del cileno Manuel Larraìn, vescovo di Talca, che lo presiedette dal 1963 al 1966. Lucia Ceci si è occupata della teologia della libe- razione nell’ambito latino-americano, e in particolare del pensiero di Gustavo Gutiérrez Me- rino, di cui aveva in precedenza scritto la biografia. Più strettamente legati all’esperienza di Casaroli sono invece i saggi di monsignor Leo- nardo Sandri, Gianni La Bella, Riccardo Cannelli e Massimo De Giuseppe. Gianni La Bella delinea i rapporti tra Santa Sede e America Latina, giudicando fondamentale l’attività di Ca- saroli per ripensare il ruolo del continente: «Non più lontana periferia, ma riserva e chance del cattolicesimo del terzo millennio» (p. 191). Cannelli ricostruisce il viaggio a Cuba di Casaro- li nel 1974, viaggio che comprese anche un incontro con Fidel Castro e fu giustamente con- siderato come un tassello della complessiva Ostpolitik vaticana. Massimo De Giuseppe studia invece il rapporto di Casaroli con l’America indigena e la spiritualità guadalupana., approfon- dendo in particolare il triennio che va dal viaggio di Giovanni Paolo II a Puebla per la terza assemblea del CELAM (gennaio 1979) e si chiude con le celebrazioni per il 450° anniversa- rio dell’apparizione della Vergine di Guadalupe. Nel complesso si tratta di un volume impor- tante, con molti saggi basati su documentazione inedita, che ci permette di scoprire un aspet- to dell’attività diplomatica di Casaroli meno nota, ma certo non meno importante di quella dedicata al dialogo coi paesi dell’Est comunista. Alfredo Canavero

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Antonella Meniconi, La «maschia avvocatura». Istituzioni e professione forense in epoca fa- scista (1922-1943), Bologna, il Mulino, 376 pp., Û 30,00 Si tratta del nono volume della collana di «Storia dell’avvocatura in Italia», promossa dal Consiglio nazionale forense, che molto ha contribuito a studiare le principali questioni ine- renti la professione, al punto che ogni nuovo contributo incentrato non su casi di studio par- ticolari (di cui si patisce ancora la scarsità), ma su questioni generali e nazionali, sconta neces- sariamente una certa ripetitività di informazioni e argomentazioni. Non ne è immune neppu- re il presente volume (specie i capitoli I e V), nel quale tuttavia l’autrice, storica delle istitu- zioni e della pubblica amministrazione, conduce anche una indagine originale, e documenta- ta archivisticamente, sull’attività del Sindacato nazionale fascista e del Consiglio forense (con diverse denominazioni e composizioni l’organo disciplinare superiore dell’avvocatura a segui- to della riforma professionale del 1926). La chiave di lettura privilegiata è quella del tentativo fascista di governare il cambiamen- to della professione avvocatizia maturato a partire dagli anni Venti, e caratterizzato da un la- to dalla iperspecializzazione e d’altro canto dalla diffusione di rapporti di impiego subordina- to per molti avvocati nell’amministrazione pubblica o parapubblica, nei comparti finanziario e previdenziale, nelle aziende. Per far questo si segue il quadro normativo (leggi professionali del 1926 e del 1933, introduzione dell’esame di Stato per l’accesso alla professione) e il dibat- tito relativo in ambito sindacale. Particolare attenzione è posta a delineare le figure dei prota- gonisti degli organi professionali fascisti, tra i quali si riscontra dapprima una sostanziale con- tinuità con i membri dell’élite togata liberale, ai quali progressivamente si affianca la genera- zione dei quarantenni, meno legati a esperienze libero professionali classiche quanto piutto- sto a profili nei quali i rapporti di dipendenza da aziende, enti economici o corporativi si in- trecciano con l’attività politica e sindacale. Sul piano istituzionale emerge la persistenza di uno stile in qualche modo garantista nel- la conduzione del controllo disciplinare sulla avvocatura, esercitata dal Sindacato e, in secon- da istanza, del Consiglio forense, che in qualche caso temperava le più sommarie decisioni de- gli organi sindacali. Nella pratica, però, l’organo superiore non andava oltre un’attenzione pi- gnola per la veste formale dei procedimenti, facendo dell’asserito garantismo una ulteriore ves- sazione. Fu il caso, per esempio, dell’espulsione degli ebrei dagli albi; per molti di loro – tito- lari di meriti nazionali o fascisti – i tempi ristretti e i vizi di forma nella documentazione re- sero impossibile anche l’inclusione negli elenchi dei «discriminati», abilitati alla tutela legale almeno dei correligionari. Dopo la Liberazione (termine ad quem della trattazione è il 1947), la persistente tradi- zione formalistica agì invece in senso esasperatamente garantista, riducendo a pochi casi le sanzioni disciplinari per gli esponenti più in vista delle gerarchie corporative in ambito av- vocatizio. Marco Soresina

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Daniele Menozzi, Giovanni Paolo II Una transizione incompiuta? Per una storicizzazione del pontificato, Brescia, Morcelliana, 171 pp., Û 15,00 L’autore compie un primo tentativo di lettura storica del lungo pontificato di Giovanni Pao- lo II (1978-2005), colto nel suo sforzo principale di ripensare il rapporto con la modernità per restituire alla Chiesa cattolica «quell’efficacia, quella forza di penetrazione, quello slancio proseli- tistico che il riorientamento [del Vaticano II] non sembrava aver pienamente conseguito» (p. 13). Nel primo dei quattro capitoli, alcuni dei quali rielaborazioni di precedenti saggi, l’autore affronta il rapporto di Wojtyla con la modernità, esaminato soprattutto attraverso un’analisi degli interventi relativi ai fondamenti della democrazia e ai diritti umani, entrambi ricondotti indispensabilmente a un orizzonte di principi cattolici (sia pure attraverso articolazioni signi- ficative), la cui definizione è saldamente rivendicata all’episcopato e in primo luogo al papa: una linea che dimostra l’atteggiamento ancora problematico del Papato verso la modernità. Nel secondo capitolo è ricostruito il nodo pace/guerra, caratterizzato da un insegnamen- to che si sviluppa nel tempo, approdando, senza rinunciare al mantenimento del concetto di «guerra giusta» (reso tuttavia sempre meno facilmente plausibile), alla denuncia del naziona- lismo in quanto tale come potenziale causa di eventi bellici (con un superamento della posi- zione del papato del primo ’900 sull’esistenza di un nazionalismo esagerato, inaccettabile, ac- canto a un apprezzabile nazionalismo più misurato), al rifiuto di qualsiasi legittimazione reli- giosa dei conflitti bellici, allo sforzo di presentare la concordia tra le Chiese cristiane e fra le religioni come un fattore di pacificazione. In questo ambito d’impegno, la «politica del per- dono» promossa da Wojtyla nella seconda parte del suo pontificato, secondo l’autore tende- rebbe a reintrodurre un ruolo paradigmatico della Chiesa cattolica di fronte agli Stati e sulla scena internazionale, come il soggetto più adatto a promuovere un’azione capace di modifi- care gli assetti del pianeta. Il terzo capitolo verte sulla nuova professio fidei introdotta da Giovanni Paolo II nel mag- gio 1998, all’interno di un’opera di disciplinamento promossa con intensità e che si è tradot- ta in un netto ridimensionamento del dibattito interno alla Chiesa. L’ultimo capitolo affronta la «purificazione della memoria», avviata con franchezza da Giovanni Paolo II anche contro resistenze curiali. Sua cifra peculiare risulta il tentativo di fa- vorire un superamento dell’atteggiamento conflittuale del cattolicesimo verso aspetti emble- matici della modernità. L’autore ne evidenzia puntualmente i limiti principali: la storiografia è considerata indipendente dagli insegnamenti della Chiesa, ma al giudizio etico e teologico si attribuisce un fondamento oggettivo e trascendente e gli si riserva un’«efficacia performati- va» sul presente; l’intera operazione della purificazione della memoria pare non mettere dav- vero in discussione gli assunti fondamentali dell’opposizione della Chiesa alla modernità, «in particolare l’affermazione del monopolio della verità in materia politica e sociale espressa nel- la storia dal magistero ecclesiastico» (p. 163). Giovanni Vian

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Marco Meriggi, L’Europa dall’Otto al Novecento, Roma, Carocci, 165 pp., Û 15,50

Nonostante l’autore dichiari che il volume «è pensato per la didattica universitaria» (p. 11), l’impressione è quella di un tentativo più ambizioso visto che affronta in chiave compa- rata una grande questione, il passaggio tra XIX e XX secolo, che, per quanto ormai classica, gli storici italiani stentano a inquadrare su un versante di riflessione extra-nazionale preferen- do semmai limitarsi alle consuete suggestioni periodizzanti o profetizzanti. Ormai si nutrono pochi dubbi sul fatto che gli ultimi venticinque anni del XIX secolo (e relativo corollario dei tre lustri successivi) abbiano rappresentato un vero e proprio big bang per le strutture socio- politiche dei paesi europei (e non solo), una cesura causata dalla profondità delle innumere- voli mutazioni prodottesi in quegli anni, a tutti i livelli, dalla cultura alla politica, dall’econo- mia alla scienza. L’aspetto rilevante, tuttavia, non sta nelle trasformazioni in sé, ma nel fatto che per la prima volta queste furono il consapevole prodotto di una incontrollabile dinamica causa-effetto innescata dall’irruzione delle masse sulla scena pubblica. Fu quell’innesco fata- le, sintetizzato dal nuovo rapporto tra intervento statale e masse, a far tramutare le ultime po- tenzialità «politiche» post-’89 (tra cui quella di nazione) in esteso e soprattutto irreversibile impianto pubblico-amministrativo con quel che ne derivò in termini di accelerazione del pro- cesso d’integrazione – simbiotica e sinergica – tra azione repressiva del «politico» e sviluppo socio-economico. È la forza lenta ma virtualmente capillare di tale fenomeno a fare di quel blocco di anni un momento cruciale nella storia dell’Occidente, una sorta di seconda fase del- la Rivoluzione francese. In poche pagine Meriggi, muovendosi con eleganza tra letteratura e fonti e confrontan- dosi con un ricco universo multidisciplinare (dalle dottrine, al diritto e alla sociologia, solo per fare qualche esempio), ci mette di fronte alla realtà storica le cui peculiarità vanno ben ol- tre i classici temi della transizione e della trasformazione. I numerosi nodi affrontati nel volu- me rientrano tutti in un modo o nell’altro in quel percorso di «politicizzazione» della social politics che può rappresentare la chiave interpretativa generale delle vicende legate alla demo- cratizzazione e alla parlamentarizzazione dei sistemi politici europei di quegli anni e alle vio- lente resistenze incontrate da tali complessi e variegati fenomeni. Se Meriggi si rivolge a Po- lanyi e Landes per la comprensione delle epocali trasformazioni in atto certo non meno effi- cace risulta la più prosaica ma puntualissima descrizione comparata delle concrete vicende po- litico-istituzionali che in quei decenni incarnano tali trasformazioni. Così passando in rasse- gna politica, società ed economia Meriggi mette in mostra come molti nodi storici dell’epo- ca non sono altro che capitoli di un’unica esigenza, quella del disciplinamento della democra- zia che, proprio in quei decenni, si trasformò ovunque in una empirica ma sempre più raffi- nata «scienza» di governo. Fulvio Cammarano

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Angelo Moioli (a cura di), Con la vanga e col moschetto. Ruralità, ruralismo e vita quoti- diana nella RSI, Venezia, Marsilio, XVIII-246 pp., Û 20,00

Raccogliendo le riflessioni emerse dal Convegno di studi Agricoltura e vita quotidiana du- rante la RSI tenutosi a Salò nel 2004, questo volume affronta un tema relativamente poco esplorato; quasi tutti gli studi sull’agricoltura fascista si fermano infatti al 1939, mentre i tre- dici contributi raccolti in questo lavoro hanno l’indubbio merito di proseguire l’indagine ol- tre quella cesura storica, analizzando un periodo trascurato dalla storiografia. Di questi anni in cui «la questione agraria è divenuta principalmente questione alimentare» (p. X), vengono analizzati in primo luogo gli aspetti che riguardano l’economia di guerra e le sue ripercussioni sulla politica rurale e sulla vita nelle campagne. Su questi temi sono focalizzati i pri- mi saggi, attenti a ricostruire i problemi del razionamento alimentare, le difficoltà dell’approv- vigionamento e della distribuzione. Mentre la questione dei prezzi si fa sempre più delicata, in- crementando un mercato nero spesso tacitamente tollerato, diventano più complessi i rapporti fra città e campagna, aggravati dalla presenza tedesca e da requisizioni e ammassi forzati. Al di là della contingenza bellica, pur senza prescinderne, l’analisi della politica agraria della RSI permette di individuare nelle strutture amministrative e nei tentativi di program- mazione agricola non solo finalità economiche, ma anche intenti di riordino sociale. Sempre con un occhio rivolto a ciò che si era realizzato o teorizzato durante il regime, gli autori nota- no come durante la RSI il rifiuto del liberismo puro e la programmazione agricola trovassero i loro ispiratori non solo nella sinistra fascista che si rifaceva al primo squadrismo anti-pro- prietario, ma anche fra tecnocrati di formazione serpieriana del calibro di Tassinari e Alberta- rio. Meglio si comprendono così le strutture politico-amministrative e le linee di riforma abor- tite tanto dall’ultimo fascismo, come il caso del progetto di riforma del latifondo siciliano, quanto dalla RSI, come i provvedimenti del ministro Moroni, volti a garantire un riequilibrio – mai effettivamente realizzato – fra offerta e domanda. Mentre perdono forza alcuni temi di- venuti parole d’ordine negli anni Trenta – primo fra tutti la bonifica integrale – altri si im- pongono all’attenzione della dirigenza politica, come la socializzazione, peraltro fortemente ridimensionata nella sua portata ideologica dallo stesso Pavolini. Di particolare interesse l’ultima sezione, dedicata alle condizioni delle campagne durante la Resistenza. Sia per la focalizzazione su significative realtà locali, come il milanese e il ferrarese, sia per l’indagine critica dell’antifascismo contadino, definito un «antifascismo senza resistenza» (p. 197), questi saggi propongono una problematizzazione del rapporto fra fascismo, campagne e Resistenza, evidenziando il ruolo delle donne e la forza dell’organizzazione corporativa in pe- riferia. Da rimarcare è infine la ricchezza della documentazione utilizzata: fonti d’archivio, atti, relazioni e verbali ufficiali, ma anche cronache di parroci e carteggi inediti che danno voce a un universo contadino la cui resistenza si interseca con la secolare lotta per la sopravvivenza. Matteo Baragli

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Debora Migliucci, Per il voto alle donne. Dieci anni di battaglie suffragiste in Italia (1903- 1913), Presentazione di Arianna Censi, Francesca Corso e Maria Teresa Sillano, Prefazione di Marilisa D’Amico, Milano, Bruno Mondadori, XV-142 pp., Û 15,00

Il sessantesimo anniversario del riconoscimento dei diritti politici alle donne in Italia ha offerto lo spunto per alcune pubblicazioni sul tema. Tra queste, il contributo di Debora Mi- gliucci si caratterizza per aver incentrato la ricerca sugli anni cruciali del suffragismo italiano, per averne ricostruito le dinamiche di formazione, radicamento e declino, e per aver analizza- to il sistema di relazioni politiche messe in campo dal movimento stesso. La stampa prodotta dai vari gruppi attivi per la causa suffragista, i fondi conservati pres- so gli archivi dell’Unione Femminile Nazionale e gli atti parlamentari costituiscono le fonti principali su cui è basata la ricostruzione storica. I temi analizzati sono quelli in un certo senso divenuti «classici» nella storiografia sull’ar- gomento: le difficoltà incontrate in sede legislativa per promuovere non solo il riconoscimen- to dei diritti politici, ma anche per introdurre alcuni diritti civili, quali la ricerca della pater- nità e la fine dell’autorizzazione maritale, e per avviare timide misure di protezione del lavo- ro femminile e poi ancora le relazioni con taluni parlamentari più sensibili alla causa dell’e- guaglianza tra i sessi, l’attenzione ad alcune figure significative del movimento italiano (si ve- da al riguardo l’apposita appendice). Se per un verso, vengono quindi ricostruite le tante attività promosse per ottenere l’allar- gamento dei diritti politici (la formazione di specifici comitati, le petizioni popolari, l’attività propagandistica e giornalistica), per un altro non mancano alcuni spunti di riflessione riferi- ti sia alle radicate obiezioni poste al riconoscimento di un ruolo pubblico per le donne, sia al- le posizioni di (molte) donne che espressero una netta resistenza verso le battaglie suffragiste e che comunque non si sottrassero al confronto con le suffragiste stesse. Naturalmente, l’esclusione delle donne dalla riforma elettorale Giolitti del 1912 e il diffondersi della cultura nazionalista e interventista resero il contesto culturale radicalmente nuovo, tale da incidere sensibilmente sulle domande e sui connotati di fondo del movimento femminista. Il testo offre lo spunto per un interrogativo più generale, che va ben oltre il saggio in que- stione: decenni di interessanti riflessioni critiche sull’uso della categoria di gender, sulle sue possibilità euristiche, sul modo di ripensare la storia politica delle donne sembrano essersi as- sopite (o forse aver preso una strada autonoma rispetto alla ricerca storiografica) per lasciare spazio a ricostruzioni evenemenziali dei dibattiti parlamentari, delle varie articolazioni che il movimento delle suffragiste ha conosciuto e così via. Tutto ciò non può che lasciare qualche perplessità. Vinzia Fiorino

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Aldo A. Mola, Declino e crollo della Monarchia in Italia. I Savoia dall’Unità al referendum del 2 giugno 1946, Milano, Mondadori, 406 pp., Û 18,50

Libro composito, mal assortito e dalle tesi discutibili questo di Aldo A. Mola. Intanto co- mincia dalla fine. Cioè dal referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, che segnò la vitto- ria della Repubblica, per poi risalire dal IV capitolo in poi alla storia precedente della monar- chia italiana. Ora mentre i capitoli dal IV al IX sono una difesa d’ufficio retrospettiva dei Sa- voia, i primi tre permettono almeno di fare il punto su vecchie polemiche. Notoriamente chi contestò la vittoria repubblicana usò fondamentalmente due argomen- ti: 1) massicci brogli a favore della Repubblica e inattendibilità dei riscontri operati dalla Cas- sazione; 2) illegittimità dell’assunzione provvisoria dei poteri di capo dello Stato da De Ga- speri (dopo la prima proclamazione non definitiva dei risultati da parte della Cassazione). Mola ha il merito di smontare il primo argomento, su cui ha insistito la peggiore pubbli- cistica filomonarchica (Malnati, Perfetti, Bottone, ecc.): brogli ci furono e furono molti, ma nulla dimostra che li fecero solo i repubblicani; «la documentazione non conduce a negare che la repubblica abbia ottenuto più voti della monarchia» (p. 31). La «grande frode» di Malnati è una «grande frottola». Quanto al ruolo della Corte di Cassazione, essa fra il 10 e il 18 giu- gno, svolse un lavoro improbo. Mola riconosce «la correttezza formale della condotta seguita dalla Corte, senza intralci da parte del governo» (p. 120), eppure, a suo dire, «il referendum fu nullo, sicché avrebbe dovuto essere ripetuto» (p. 120), perché «alla Corte suprema non fu- rono forniti dati attendibili». Mola ha controllato molti verbali, in cui ha riscontrato difetti di tutti i tipi, ma a nostro avviso niente che dimostri irregolarità maggiori di qualsiasi altra consultazione elettorale. Quanto al secondo problema Mola definisce «colpo di stato» (p. 128) l’assunzione dei po- teri di capo dello Stato da parte di De Gasperi prima della dichiarazione definitiva della Cas- sazione (decisione che spinse Umberto all’esilio); ma dice così perché da una parte minimiz- za il fatto che «il comando alleato accettava il trasferimento provvisorio dei poteri» (p. 87), dall’altra ignora completamente gli argomenti di parte repubblicana (suffragati dai pareri di giuristi come Bracci, Petrilli, Sorrentino, Ruini, ascoltato anche da Umberto, insieme a Or- lando e Visconti Venosta), per cui il trasferimento era «provvisorio»; se la Cassazione in secon- da adunanza avesse rovesciato i dati, la monarchia (più che Umberto) riavrebbe avuto tutti i suoi diritti. De Gasperi ricordò con forza a Umberto che non poteva far finta che il 10 giu- gno non fosse accaduto nulla; il passaggio di poteri era «automatico», anche se provvisorio. La sesquipedalica accusa di «colpo di stato» è corriva con gli argomenti di sempre degli sconfitti, senza offrire argomenti nuovi davvero convincenti. Fabio Vander

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Marco Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Ro- ma-Bari, Laterza, XVI-244 pp., Û 20,00 L’autore appartiene a una generazione di giovani studiosi che negli ultimi anni sono tor- nati a interrogarsi su un tema cruciale della storia italiana, vale a dire sulle dinamiche che con- dussero alla disgregazione dello Stato liberale e alla presa del potere da parte del fascismo. Qui il punto in osservazione concerne il ruolo dell’esercito nella crisi, oggetto a suo tempo di un saggio di Giorgio Rochat recentemente ripubblicato. Mondini rivisita allo scopo tutta la gam- ma delle fonti disponibili, senza trascurare alcune significative esplorazioni archivistiche (so- prattutto carte di alti gradi dell’esercito e del ministro della Guerra generale Albricci, conser- vate presso diversi archivi pubblici). L’analisi prende le mosse dalle aspettative innescate nel corpo militare dagli effetti di ac- crescimento di ruolo prodotti dalla guerra, e dalle frustrazioni generate dal clima postbellico, quando le lacerazioni che avevano segnato l’entrata nel conflitto e la sua conduzione inibiro- no una gestione unitaria della sua eredità e un’adeguata celebrazione della vittoria. Pur essen- do generalmente immune da velleità golpiste dirette, l’esercito manifestò simpatie e conniven- ze molto estese nei confronti del fascismo, visto come la «parte sana della nazione» grazie alla quale era stata rintuzzata l’ondata antimilitarista, di denigrazione e di attacco contro le forze armate sviluppatasi soprattutto nel biennio rosso. Tali connivenze ebbero grande importanza nel consentire l’espansione del movimento fascista, nel favorire le azioni dello squadrismo, nell’esasperare le titubanze dei governi rispetto all’ipotesi di una repressione frontale del sov- versivismo fascista fino alla sua manifestazione più clamorosa, la marcia su Roma. All’interno di una ricostruzione molto puntuale e generalmente molto convincente, Mondini dà a tratti l’impressione di sopravvalutare la portata effettiva delle «aggressioni anti- nazionali», non sempre tenendo ferma con nettezza la distinzione enunciata tra le realtà dei fatti e la loro percezione soggettiva. «Benché il clima di violenza esasperata che agitava il pae- se non fosse tutto riconducibile alla predicazione massimalista, è però un fatto innegabile che il socialismo italiano abbia cavalcato l’onda delle proteste e dei moti che attraversarono la pe- nisola a partire dall’estate 1919, e che la virulenza di questi era, in parte non piccola, alimen- tata dal fascino quasi messianico, tanto efficace nei confronti delle masse popolari, della rivo- luzione come rimedio di tutti i mali» (p. 53). In verità, non sembrano emergere elementi ta- li da correggere il giudizio sulla sostanziale inconsistenza della minaccia rivoluzionaria, sul ca- rattere sporadico, episodico delle forme di violenza armata espresse dal movimento operaio o da configurare la pur aspra polemica contro i militari e il militarismo nei termini di una ge- neralizzata aggressione. Il saggio si inserisce così nel solco di una classica interpretazione che accentua le responsabilità della sinistra massimalista come causa scatenante del fenomeno fa- scista, o più precisamente dell’alto grado di approvazione e di appoggio da esso incontrato al- l’interno di ampi settori della società e delle istituzioni. Antonio Gibelli

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Roger Moorhouse, Uccidere Hitler. La storia di tutti gli attentati al Führer, Milano, Cor- baccio, 409 pp., Û 22,60 (ed. or. London, 2006) Apparso nella collana storica a cura di Sergio Romano, il volume cerca di riscattare dal- l’oblio coloro che non si lasciarono dissuadere dalle innumerevoli difficoltà e dai non pochi scrupoli di principio e di coscienza nell’attentare e cospirare contro la vita di Hitler. Non me- no di quarantadue falliti attentati contro il Führer furono organizzati da personaggi oggi spes- so dimenticati se non del tutto sconosciuti. Pur non apportando grandi novità nella ricerca storica, anche in lingua italiana, sull’ar- gomento, ampiamente trattato dai volumi di Hoffmann (Tedeschi contro il nazismo, Bologna, il Mulino, 1994), di Fest (Obiettivo Hitler, Milano, Garzanti, 1996), e di quello curato da Na- toli (La Resistenza tedesca 1933-1945, Milano, FrancoAngeli, 1989), il testo di Moorhouse ha l’utilità di ripercorrere alcuni momenti fondamentali di quel fenomeno estremamente varie- gato che furono le cospirazioni anti-hitleriane, confrontandolo con gli esiti più recenti della ricerca e includendo anche azioni di guerriglia contro gerarchi nazisti nell’Europa occupata organizzate dalla Resistenza polacca, dallo Special Operations Executive (SOE) britannico e dall’NKVD sovietico. Le motivazioni personali e più generali delle cospirazioni, spesso mol- to diversificate e contraddittorie tra di loro, sono ben inserite nello specifico ambito in cui maturarono, un contesto quale quello del Terzo Reich dominato da un elevato grado di ter- rore poliziesco e di plagio psicologico sulle masse attraverso l’incessante propaganda. Merito di Moorhouse è quello di cercare di dare un giusto peso alle cospirazioni contro Hitler attraverso una valutazione storiografica equilibrata libera da falsi miti e leggende e so- prattutto da distorsioni interpretative a carattere apologetico o specialmente di dura critica, che interpreta tale fenomeno in genere principalmente come tardivo, isolato, improvvisato e quindi per lo più inutile. In tal senso fa riflettere che la cospirazione che più si avvicinò ad un successo sia provenuta da quella casta militare che pure rappresentò inizialmente uno dei pi- lastri del regime nazista ed era profondamente legata dal duplice vincolo di obbedienza e fe- deltà allo Stato, incarnato formalmente tout court da Hitler. Proprio da questa casta, pure con- nivente – se non a volte direttamente implicata – nelle atrocità commesse dalle Einsatzgrup- pen delle SS contro civili ed ebrei nei paesi occupati, si generò, proprio come reazione a que- ste stragi, un sentimento di profonda ripulsa contro il nazismo provocando un rinsaldarsi di quella resistenza militare iniziata già nel 1938 e non a guerra inoltrata. Troppo lunghe e slegate dal resto della trattazione risultano alcune parti, come quelle sul- la violenza interna al regime staliniano o su Breslavia negli ultimi giorni della guerra, e caren- ti sono i riferimenti ad altre realtà «resistenziali» o di opposizione interne alla Germania nazi- sta, non legate direttamente ad attentati al Führer. Nonostante l’incredibile assenza di qual- siasi riferimento bibliografico ad importanti studi come quelli di Broszat, H. Mommsen e Steinbach, l’autore riesce ad offrire un quadro avvincente e storiograficamente equilibrato. Andrea D’Onofrio

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Dario Morfini, Parrocchia e laicato cattolico nel Novecento meridionale. L’episcopato barese di Giulio Vaccaro (1898-1924), Bari, Edipuglia, 599 pp., Û 30,00

Il volume esce nella collana «Per la storia della Chiesa di Bari. Studi e materiali», promos- sa dal Centro di studi storici della Chiesa di Bari che in tal modo intende continuare a far lu- ce, come per il passato, sulla vicenda istituzionale e pastorale dell’arcidiocesi tra Otto e Nove- cento. Precedenti iniziative hanno delineato la serie degli episcopati baresi; questa ricerca sul- l’episcopato di Giulio Vaccaro, ecclesiastico napoletano posto alla guida della diocesi tra la fi- ne dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, colma dunque una lacuna e contribui- sce ad accrescere la conoscenza di un periodo denso di trasformazioni culturali e socio-religio- se anche nell’Arcidiocesi pugliese. Le problematiche del governo di Giulio Vaccaro sono col- locate nel quadro della Chiesa meridionale e delle sue esigenze di rinnovamento in un mo- mento di cambiamento della compagine ecclesiale e nel contesto della società barese, delle va- riazioni demografiche e del processo di evoluzione socio-economica subito dal territorio. L’autore fa riferimento a un quadro storiografico consolidato, che ritiene peraltro non sempre adeguato alla realtà pugliese, a partire dalla convinzione che occorre verificare local- mente, in un’ottica di analitiche indagini regionali, ipotesi interpretative e generalizzazioni storiografiche spesso adottate a proposito del Mezzogiorno italiano. Inoltre si avvale di fonti reperite negli archivi periferici e centrali, sia ecclesiastici sia civili. Attraverso tali strumenti, si pone l’obiettivo di indagare le strade e le modalità attraverso le quali l’arcivescovo Vaccaro ha inteso rispondere al bisogno di una prassi pastorale adeguata ai tempi nuovi, che sapesse af- frontare questioni irrisolte del passato, superando resistenze e lasciti vincolanti. Il potenzia- mento dell’istruzione religiosa, la preparazione del clero e la formazione del laicato appaiono i cardini del rilancio della cura delle anime perseguito dall’arcivescovo. Il volume si prefigge di indagare come tali intendimenti abbiano coinvolto il clero e la parrocchia, modificandone la vecchia struttura di luogo di sopravvivenza per la chiesa ricettizia, e come il disegno colti- vato da Vaccaro sia stato accolto ed anche condizionato dai vescovi pugliesi. Inoltre ricostrui- sce il lento lavoro di organizzazione regionale del movimento cattolico in seguito al fallimen- to dell’Opera dei Congressi nel Mezzogiorno d’Italia e si sofferma sullo sviluppo dell’Azione Cattolica dopo la prima guerra mondiale, e specialmente sulla Gioventù femminile, metten- do in rilievo la scelta di Vaccaro a favore di una pastorale legata alla parrocchia contempora- nea e alle associazioni di Azione Cattolica. In chiusura del volume compaiono alcune cartine delle diocesi pugliesi ai primi del No- vecento, due appendici documentarie e un elenco che riporta le fonti edite e inedite cui l’au- tore ha fatto riferimento. Maria Bocci

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Michela Morgante, Il Canale e la Città. Il Consorzio Canale Camuzzoni nel primo Nove- cento, Verona, Cierre, 187 pp., Û 12,50

«Sono mancati sinora, in Italia – avverte l’autrice –, studi e ricognizioni sistematiche in ma- teria di moderni canali industriali» (p. 16). È questa la scommessa che affronta Michela Morgan- te, studiosa di storia urbana contemporanea, con un volume sul canale idrico Camuzzoni, uno dei pochi realizzati ex novo, non sovrapposti, cioè, a tracce lasciate da precedenti antichi canali. Il volume è diviso in due parti. La prima si intitola Il Consorzio Camuzzoni, un agente di trasformazione territoriale nella Verona del primo Novecento. L’arco di tempo considerato nello studio è compreso tra il 1898, data di creazione del Consorzio, e l’inizio della seconda guer- ra mondiale, anni strategici per il sistema economico veronese che scopriva la potenzialità del- lo sfruttamento economico delle acque dell’Adige e una significativa vocazione industriale. Morgante avverte subito, specificando in questo anche il «taglio» del libro, che il Canale non fu solo un’opera idraulica, «un oggetto fisico inerte, depositato come puro segno sul territo- rio» (p. 25), ma elemento di forte impatto nello sviluppo urbano di Verona, con cui intrecciò un dialogo complesso fino al definitivo suo inglobamento nella città, diventandone, anzi, ele- mento costitutivo del paesaggio. Nonostante la compiuta analisi sulle fasi di progettazione, sugli ampliamenti successivi, sul dialogo tra tecnici e ingegneri, il lavoro scongiura il pericolo dell’arida scheda tecnica e lo fa intrecciando le vicende complesse dell’opera con temi di portata generale relativi al dibat- tito d’inizio secolo sulle municipalizzazioni, sul rapporto centro-periferia nella politica ener- getica nazionale, sulla tutela delle acque e sulla nascente cultura di difesa dell’ambiente, infi- ne sulle scelte politiche sottese alla bonifica integrale. Questo fitto dialogo trova punto di con- vergenza negli uffici del Consorzio di gestione del Canale, costituitosi nel 1898. Con tale at- to il Comune di Verona fu affiancato nelle decisioni sull’esercizio del Canale da grossi impren- ditori. Morgante segue così le convergenze e divergenze fra gli interessi, spesso in conflitto, tra componente privata e componente pubblica. La prima intenderà il Canale come erogatore di servizi collettivi, come propiziatore di occasionali investimenti edilizi, mentre la seconda, il Comune di Verona, appare «stretta fra la logica del servizio pubblico e interessi comuni di svi- luppo economico, le fughe in avanti dei singoli imprenditori e il ruolo naturale di garante as- sunto vero gli utenti del canale» (p. 60). La parte giocata dal terzo attore, ovvero le autorità di controllo statali, – dato significativo – rimarrà, pure in epoca fascista, marginale. «L’appoggio di politici nazionali – sottolinea Morgante – è risorsa importante come l’acqua; ciò nonostan- te le mosse conclusive si fanno localmente, sul territorio, alla periferia del sistema» (p. 23). La seconda parte del volume, intitolata L’Archivio storico del Consorzio canale industriale Camuz- zoni, riporta i criteri di riordino e l’inventario dell’Archivio del Consorzio di gestione del Ca- nale curato dalla stessa ricercatrice. Alessandro Baù

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Diego Mormorio, La regina nuda. Delazioni e congiure dell’ultimo papa re, Milano, Il Sag- giatore, 160 pp., Û 17,00 La regina della quale si parla è Maria Sofia di Wittelsbach, esule a Roma con il marito Francesco II dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie nel 1861. Il suo nudo è fotografico ed è notoriamente il risultato di un fotomontaggio, probabilmente il più pruriginoso del Ri- sorgimento italiano. Mormorio, noto storico e critico della fotografia, ne ricostruisce la vicenda, dimostrando come il fotomontaggio che ci è pervenuto sia in realtà successivo di almeno un trentennio ri- spetto alle prime voci sulla sua esistenza, circolate nel 1862. All’origine di queste voci, infat- ti, ci sarebbe stata una impostura orchestrata dalla polizia pontificia: le false dichiarazioni re- se da una tale Costanza Vaccari, romana, moglie di un ex tenente dell’esercito pontificio, rin- chiusa nelle carceri di via Giulia. Attraverso le carte del Tribunale della Sagra Consulta, l’au- tore si propone di delineare il contesto nel quale fu possibile l’uso politico di immagini (an- cora) inesistenti. Il deus ex machina è De Merode, il belga ministro delle Armi fautore di una politica vio- lentemente antipiemontese e avversario della linea diplomatica del cardinale Antonelli. De Merode della giovane Costanza fa per dieci mesi un’infiltrata tra le file dei liberali romani, per concederle quindi l’impunità e una pensione vitalizia in cambio di delazioni che dovrebbero infliggere un duro colpo sia al Comitato Nazionale Romano sia ai propri nemici politici. La giovane viene in questo utilizzata come «un foglio bianco, sul quale si poteva scrivere di tut- to» (p. 45). Oltre a inventare la storia dei fotomontaggi osceni e a far arrestare molti sospetti, infatti, dovrà confermare che è stata giustamente motivata l’esecuzione capitale di Cesare Lu- catelli, accusato dell’omicidio di un gendarme nel corso di una manifestazione antipapalina, esecuzione che aveva suscitato grande scalpore anche fuori dai confini cittadini; e, ancora, do- vrà imputare a Ludovico Fausti, uno spedizioniere apostolico vicino al cardinal Antonelli, di essere un esponente di spicco del partito antigovernativo. È un quadro a tinte fosche – a tratti di maniera – quello che Mormorio tratteggia, al cen- tro del quale si staglia la spregiudicatezza di De Merode e l’iniquità della giustizia pontificia e sul quale incombe la fine imminente di un regime sotto assedio. Si tratta di una lettura resa in ogni caso molto piacevole dallo stile narrativo e dall’empatia con la quale l’autore delinea i caratteri dei protagonisti della vicenda. Fondamentali e molto belli i ritratti pubblicati a cor- redo del testo, in particolare quello della regina Maria Sofia e quello di Costanza Vaccari, fi- nora inedito. Domenico Rizzo

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Laura Moschini, Charlotte Perkins Gilman. La straordinaria vita di una femminista vitto- riana, Roma, Aracne, 179 pp., Û 11,00 In questo agile volume si propone una ricostruzione della biografia privata di Carlotte Perkins Gilman, figura di spicco del femminismo americano tra ’800 e ’900, rinviando a stu- di successivi la «descrizione delle sue idee, dei collegamenti con le altre correnti di pensiero, dell’analisi delle sue opere e delle sue proposte» (p. 35). Il lavoro si basa sostanzialmente su due opere non ancora tradotte in Italia: The Living of Charlotte Perkins Gilman. An Autobio- graphy (pubblicata nel 1935, poco dopo la morte per eutanasia della suffragista) e The Diaries of Charlotte Perkins Gilman (1875-1935), a cura di D.D. Knight, editi nel 1994. Nata in Connecticut nel 1860, la giovane Charlotte, nonostante l’indigenza causata dal- l’abbandono della famiglia da parte del padre, riuscì a coltivare i propri interessi artistici e let- terari. Un momento di svolta, a 25 anni, fu la nascita della figlia Katarine, che le innescò una crisi esistenziale durante la quale rasentò la follia. Ne guarì riconoscendo la propria avversione nei confronti delle cure domestiche e dei legami familiari e l’incoercibile vocazione all’impe- gno sociale e politico. La decisione, nel 1891, di divorziare, affidando la figlia al marito e alla nuova moglie, coincise con l’inizio della sua «seconda vita». Da quel momento la Perkins si de- dicò totalmente alla scrittura e all’impegno intellettuale e politico. Acclamata conferenziera, di- venne nota negli ambienti femministi americani ed europei. Si avvicinò al socialismo: non en- trò nel partito, ma nel 1896 fu delegata all’International Socialist and Labor Congress di Lon- dra. All’intensa attività di scrittrice e giornalista è dedicata la seconda parte del libro di Moschi- ni, che però si limita a menzionare fatti e aneddoti senza alcuna riflessione critica d’insieme, neppure quando tratta di un’opera quale Women and Economics (1898), da lei giudicata la pie- tra miliare di una visione economico-politica femminista anticipatrice e di persistente attualità. Non è questo tuttavia il principale limite della ricerca, che riguarda invece l’impianto sul qua- le è costruita. Purtroppo l’entusiasmo dell’autrice nei confronti della «straordinaria» figura non è sufficiente a produrre risultati convincenti sul piano storiografico. Lo impediscono l’esiguità della base documentaria, l’assenza di una chiave interpretativa, le numerose ingenuità e appros- simazioni. Ne sono esempi, tra gli altri, la discutibile interpretazione della categoria di gender (p. 7) e l’uso disinvolto del termine «vittoriana» per definire un’esperienza che si protrasse ol- tre il primo trentennio del ’900 e fu simbolo di trasgressione privata e pubblica: per il privile- gio accordato alla propria vocazione e alla propria carriera, per la relazione amorosa con un’al- tra donna, prima di risposarsi con un cugino più giovane di lei, e infine per aver dimostrato in Women and economics che per le donne non esisteva libertà senza l’indipendenza finanziaria. Questo libro è un’occasione mancata, che tuttavia invita ad approfondire le ricerche su una figura di grande spessore, meritevole di una biografia complessiva che ne integri esperien- za pubblica e privata, vita affettiva e vita politica, inserendole nel contesto sociale e politico nel quale si manifestarono. Emma Scaramuzza

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Giuseppe Motta, Le minoranze nel XX secolo. Dallo Stato nazionale all’integrazione euro- pea, Milano, FrancoAngeli, 223 pp., Û 20,00

«Coraggiosi, molto coraggiosi!», esclamava sarcastico Zola davanti al primo sorgere del caso Dreyfus. Le maggioranze, politiche o religiose, linguistiche o culturali, hanno sempre ali- mentato un’avversione sproporzionata verso le minoranze, cercando di trasformare in perico- lo di massa la presenza, talora numericamente esigua, di una alterità. Eppure la categoria di «minoranza» è per definizione relativa: si è sempre in minoranza rispetto ad altri. Come dice- va Isaac B. Singer bene farebbero le nazioni, anche le più potenti, a rendersi conto, in tempi rapidi, che esse stesse sono in esilio. L’autore di questo interessante saggio parte da un assunto universalistico, che paradossal- mente non perde di vista una concreta prospettiva relativistica. Infatti non esiste una defini- zione di minoranza da tutti accettata: «Si distingue fra gruppi etnici o nazionali, minoranze senza madrepatria o invece legate a un altro Stato, etnia ed etnicità» (p. 10). Vi sono minori- ties of force e minorities of will, secondo la nota distinzione di Francesco Capotorti. I primi esempi di tutela delle minoranze si possono fare risalire ai trattati di Westfalia (1648), ma la situazione odierna si è assai modificata: il processo di unificazione europea, comunque proce- da, offre agli studiosi l’opportunità di ripensare alle origini di ciascuna nazione e di riflettere sulla loro complessa composizione. Se da un lato il problema delle minoranze sembra passa- re in secondo piano – la tutela minoritaria dei trattati di Versailles potrebbe essere sostituita da un’impostazione dei diritti umani concepiti su base individuale –, d’altra parte è altrettan- to innegabile che in talune parti d’Europa, per esempio in Irlanda o in Tirolo, le vecchie feri- te del Novecento non sembrano cicatrizzarsi rapidamente davanti all’allargarsi della comunità europea, né la nascita dello Stato d’Israele sembra aver semplificato i problemi per la diaspo- ra ebraica. A partire da questa constatazione generale il libro offre al lettore una efficace sintesi sto- riografica; due secoli di storia europea attraversati in un cammino a ritroso: come mai alcu- ne entità si sono trasformate in nazione e altre sono state relegate in una posizione di mar- ginalità pur avendo partecipato attivamente ai singoli processi di riunificazione? La prospet- tiva è molto affascinante e l’autore non si lascia prendere la mano da tecnicismi giuridici o concettuali: si può dire che la sua sia una storia dell’Europa minoritaria narrata con gusto di divulgazione e non perdendo mai di vista le questioni generali. Sei in tutto le problematiche affrontate: gli Stati plurinazionali (Cecoslovacchia, Jugoslavia); le minoranze nelle nazioni centro-europee (in specie Romania e Polonia), l’Unione Sovietica, dalla Rivoluzione d’otto- bre al disgregarsi e al nascere di nuove nazioni; la questione ebraica dai decreti di emancipa- zione alla dichiarazione Balfour; la vicenda del popolo rom; il Sud Tirolo e le altre minoran- ze linguistiche. Alberto Cavaglion

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Giuseppe Motta, Un rapporto difficile: Romania e Stati Uniti nel periodo interbellico, Mi- lano, FrancoAngeli, 192 pp., Û 18,00

Un progetto apprezzabile, ma non realizzato come sarebbe stato opportuno. La scelta del- l’oggetto di studio e la partizione degli argomenti sembrano giuste o possono suscitare un ra- gionevole dibattito, tenendo conto che i rapporti tra USA e Romania non solo sono ignoti al- la nostra storiografia, ma sono poco studiati dalla storiografia in genere. Dunque, si offriva a G. Motta un’ottima occasione. La realizzazione di questa non facile impresa, però, pare esse- re ancora un po’ in divenire, nonostante gli sforzi del giovane studioso il quale non convince quando entra nel merito. Avendo a disposizione una quantità notevole di interessante mate- riale documentario (in primo luogo documenti statunitensi in copia microfilmata conservata a Bucarest), infatti, egli non riesce a dominarlo, fermandosi a un suo uso descrittivo. Sinto- matica è perciò la brevità delle conclusioni e inevitabili sono le ripetizioni. Vi è poi da rileva- re un certo disordine espositivo: nel racconto storico si procede con sbalzi cronologici senza serio motivo e spesso senza avvertire il lettore il quale – se non è più che esperto – può per- dersi o, peggio, confondere gli eventi e le relazioni causali che tra essi esistono. In alcuni casi, inoltre, non si può condividere quanto afferma l’autore: ad esempio, in riferimento al defini- tivo orientarsi di Bucarest verso la Germania nel 1940, egli scrive che tale scelta viene fatta «nel vano tentativo di mantenere intatti i confini della România Mare e rafforzare la democra- zia guidata di re Carol II» (p. 166). In realtà da due anni nel paese vigeva la dittatura del mo- narca, sancita da una nuova costituzione e dalla fine del pluralismo politico, mentre di demo- crazia guidata si può parlare per gli anni precedenti le elezioni del 1937. Né mancano altre inesattezze di carattere storico sostanziale. A volte si forniscono informazioni in modo da ge- nerare confusione: a p. 128 l’uccisione di Codreanu è presentata nella versione (falsa) del go- verno e solo un po’ più avanti è messa in dubbio, in nota (p. 129, n. 62), senza citare gli esi- ti certi cui è pervenuta la storiografia. Ambiguità si riscontra anche nella forma espressiva, a partire dal costante ricorso al presente storico, uso difficile da gestire. Infine, va ricordato che la cifra stilistica – di là dai refusi – non è accettabile per un’opera che vuole rivolgersi a un pubblico colto. Si possono trovare nella stessa pagina (p. 138) addirittura cinque esempi di uso improprio dei termini italiani. Purtroppo si ha l’impressione che Motta – che potrà for- nire migliori prove – abbia avuto fretta di trasformare in monografia una potenzialmente in- teressante ricerca documentaria e un numero non disprezzabile di letture. Queste ultime so- no impropriamente selezionate: su temi come il pensiero della destra radicale romena o la que- stione della Bessarabia oppure il progetto di indurre gli ebrei romeni ad emigrare in Madaga- scar, si preferisce citare (pp. 100, 127, 130) brevi e poco noti contributi italiani – o anche niente – piuttosto che gli unici libri (E. Costantini, A. Basciani, C. Tonini) pubblicati in Ita- lia sull’argomento. Francesco Guida

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Lucia Motti (a cura di), Donne nella CGIL: una storia lunga un secolo, 100 anni di lotte per la dignità, i diritti e la libertà femminile, Roma, Ediesse, 564 pp., Û 35,00 Il volume, che esce in occasione del centenario della fondazione della CGIL, intende ri- costruire modi e forme della presenza femminile nel sindacato, fin dalle prime organizzazio- ni delle lavoratrici, con l’intento di darci «una storia esaustiva dell’attività sindacale delle la- voratrici» e del contributo dato dalle loro lotte alla crescita dei diritti e della libertà femmi- nile. L’opera presenta un ricco repertorio fotografico, commentato da Lucia Motti, una se- rie di schede biografiche di donne impegnate nel movimento sindacale, e cinque saggi, che intendono ricostruire la presenza femminile nel movimento sindacale organizzato dalla CGIL. I saggi, pur costretti da un andamento cronologico fin troppo tradizionale, tentano un approfondimento critico che consente al volume di superare il carattere meramente di- vulgativo. Il percorso delle immagini si snoda attraverso due itinerari: uno cronologico (dalla nasci- ta delle prime forme d’organizzazione delle lavoratrici all’autunno caldo e alla lotta per i nuo- vi diritti) e uno tematico, relativo al secondo dopoguerra. Particolarmente ricco il percorso te- matico, che ci rimanda le immagini di singole e di gruppi di donne, impegnate nell’organiz- zazione così come nelle lotte per il lavoro, la parità salariale, la pace, per nuovi rapporti di cop- pia e per una maternità responsabile. Anche nei saggi il secondo dopoguerra occupa lo spazio maggiore, con i contributi di Righi, Caiti e Ruggerini, e Koch. È proprio in questi contribu- ti che meglio è messo in luce il ruolo fondamentale svolto dalle lavoratrici nell’affermazione di diritti sociali ed economici per le donne, e nella democratizzazione della società italiana. Qui si evidenziano i «fili rossi» che percorrono le loro lotte: crescita della rappresentanza, pa- rità salariale, riconoscimento dei diritti delle madri e del valore sociale della maternità, costru- zione del welfare e piena cittadinanza femminile. Fili che potevano forse essere meglio espli- citati nei saggi precedenti, anche se di Lunadei si apprezza la ricostruzione a due voci: sinda- caliste fasciste e oppositrici antifasciste, accomunate da una linea di difesa degli elementari di- ritti al lavoro, ad un salario decente, alla protezione della salute. Il saggio di Imbergamo e Scat- tigno (dalle prime leghe al biennio rosso) ripercorre le vicende di categorie studiate e di note sindacaliste, insistendo sulle difficoltà delle lavoratrici in un mondo sindacale dominato da- gli interessi maschili, senza metterne in sufficiente rilievo i pochi successi come quell’assegno di maternità che nel 1907 le italiane ottennero prime in Europa. Più vivace la ricostruzione degli anni bellici e postbellici, dell’esplosione di protagonismo che coinvolge tutte le catego- rie di lavoratrici, non solo delle industrie e delle campagne ma anche del terziario, assente nel- le pagine precedenti. Per quanto l’intento di esaustività non possa dirsi soddisfatto, il volume offre importanti puntualizzazioni e numerosi stimoli per i futuri e si spera numerosi studi sul- le lavoratrici italiane e sul loro contributo alla costruzione di un nuovo modo di essere per le donne. Laura Savelli

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Giovanni Murru, Fascismo, autarchia e propaganda rurale in Sardegna, Oristano, Editrice S’Alvure, Introduzione di Lorenzo Del Piano, 191 pp., Û 18,00 L’impatto delle bonificazioni contemporanee sul territorio e sulla struttura sociale dell’a- gricoltura italiana, nei contesti regionali e sub regionali è tema ancora largamente inesplora- to nella storiografia, e questo anche se la valutazione dei risultati degli interventi di bonifica e di riassetto territoriale, e degli effetti in termini di consenso e di cambiamento della strut- tura sociale medesima, trova la sua misura proprio in relazione a questi contesti, ciascuno, co- me noto, con una propria specificità. Basando la propria ricerca soprattutto su un largo utilizzo dei periodici diffusi da organiz- zazioni sindacali, camere di commercio, cattedre ambulanti in epoca fascista Murru ricostrui- sce aspetti dell’agricoltura sarda con una particolare attenzione all’aspetto propagandistico del regime. Nel primo capitolo passa in rassegna la letteratura sullo sviluppo dell’istruzione agra- ria in Italia e sulla formazione di un ceto di tecnici agrari, evidenziando come esso fosse stato mirato tanto allo sviluppo economico quanto al controllo sociale dell’agricoltura medesima. In Sardegna, come si evidenzia nel secondo capitolo, il processo di urbanizzazione che caratteriz- za il ’900 modifica uno schema di insediamento della popolazione che risaliva, nella sua stabi- lità, al Medioevo, e viene affrontato dal fascismo con politiche che riflettono anch’esse la con- traddizione intrinseca nella politica del regime che da una parte intenderebbe «ruralizzare l’I- talia» e dall’altra introduce con le bonifiche, laddove esse raggiungono risultati, un’agricoltura ad alto investimento di capitale. Così le «città nuove», che con Mussolinia, Fertilia e Carbonia avranno una versione isolana, sono definite dall’autore come «vettori simbolici, ecologici e tea- trali di quella sorta di ossimoro (urbanesimo rurale)» veicolato dalla propaganda e come inse- diamenti che «si conformano [...] sul palinsesto geografico e abitativo diventando, tra neo, ismi e decò, l’involucro e il laboratorio talora municipalizzato delle bonificande campagne ovvero la sintesi delle implicazioni industriali connesse a borgate operaie preesistenti» (p. 34). Nel terzo capitolo l’analisi, dopo aver preso in esame i temi della politica nazionale nel campo della co- struzione della cultura del corporativismo e delle sue istituzioni, si focalizza sui risultati, per la verità non particolarmente brillanti, dell’insediamento, a Fertilia, di rurali provenienti dal Fer- rarese. Nel quarto, sulla base di un contributo già pubblicato, si tracciano le sorti del Consor- zio provinciale tra produttori agricoli di Sassari, «uno dei primi istituti consortili corporativi» (p. 117) in Italia, creato con l’intento di «dare unità sostanziale a tutto il movimento agricolo» (p. 118). Il quinto capitolo analizza invece le forme organizzative dell’indirizzo autarchico, in quello che viene definito «un lungo e mesto autunno del regime» (p. 171). Il testo, che avrebbe guadagnato da sintetiche conclusioni, si caratterizza per la capacità di rendere con dovizia di documenti e minuzia di dettagli le tematiche circolanti nel mondo organizzato dell’agricoltura sarda in epoca fascista; e in particolare le sue istanze produttive, rimaste peraltro largamente frustrate. Mauro Stampacchia

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Stefano Musso (a cura di), Operai, Torino, Rosenberg & Sellier, 276 pp., Û 23,00

Il volume si colloca, da una parte, nell’ambito di quella riflessione storiografica sulla na- tura dell’industrializzazione italiana, che oltre a metterne in luce le fragilità strutturali si in- terroga anche sulle sue dinamiche specifiche, come, in questo caso, la sovrabbondanza di for- za lavoro non qualificata. Dall’altra, esso costituisce una sintesi della storiografia disponibile sul lavoro operaio nello sviluppo economico italiano. Come tutte le buone sintesi, anche que- sta, oltre a fare il punto sulla ricerca esistente, contribuisce a evidenziarne le lacune. Tra quel- le più vistose, il fatto che gli studi sul fascismo e sullo snodo seconda guerra mondiale-dopo- guerra siano sostanzialmente fermi alle ricerche degli anni Settanta-Ottanta sulla questione della «gestione politica» della manodopera, mentre si avverte quanto manchi una storia socia- le dell’impresa negli anni del miracolo economico. Dal lungo saggio iniziale del curatore (Gli operai, tra centro e periferia) emerge che gli stori- ci caratteri di pluriattività, legami città-campagna, instabilità lavorativa, tradizioni artigianali, che descrivono una classe operaia «anomala» rispetto ad altri «modelli» nazionali, non vadano letti tanto in senso cronologico (di tenaci permanenze pre-industriali), ma come strutturali alle tipologie dell’industrializzazione italiana e alla variabile natura politica della costruzione del con- senso in diversi momenti storici. Ciò vale a maggior ragione per il lavoro operaio delle donne, argomento particolarmente trascurato dalla storiografia italiana al quale in questo volume è in- vece dedicato ampio spazio, dimostrando che una maggiore sensibilità alla dimensione di gene- re consentirebbe di cominciare a colmare molte di quelle lacune di cui si diceva sopra. Gloria Nemec (Lavorare sotto tutela. Operaie nelle fabbriche della prima metà del Novecento) sottolinea ad esempio come è in epoca fascista che si apre la grande stagione «demografica» del lavoro delle donne sposate, che caratterizzerà il secondo dopoguerra; mentre l’attenzione al ruo- lo della famiglia nelle dinamiche del lavoro industriale e nella formazione di culture del lavoro e di identità lavorative e sociali consente a Anna Di Gianantonio (Calze di seta o scarpe spaiate? Condizioni di vita delle operaie in fabbrica dal secondo dopoguerra a oggi) di formulare interessan- ti osservazioni sulla stessa natura strutturale della trasformazione degli anni Settanta. La storiografia sul lavoro nell’Italia repubblicana ha prestato quasi esclusivamente inte- resse alla classe operaia maschile «fordista» e alla conflittualità sociale, mentre il lavoro a do- micilio (Fiorenza Tarozzi, Lavoratori e lavoratrici a domicilio) è stato visto come residuo di ar- retratezza produttiva e tecnologica, piuttosto che come complementare al sistema di produ- zione di fabbrica e ai percorsi di costruzione di capacità lavorative maschili e femminili negli anni del boom. Infine, il rapporto tra lavoro e infanzia (Maddalena Rusconi e Chiara Sarace- no, Il lavoro dei bambini) è un tema statisticamente assai sfuggente, continuamente ridefini- to nel corso degli ultimi cento anni di storia italiana e che va al cuore di alcuni grandi temi dello sviluppo economico e sociale, come la scolarità e i modelli famigliari. Barbara Curli

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Michele Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Ro- ma, Carocci, 257 pp., Û 18,50

Il volume di Nani è un interessante saggio di storia culturale che getta luce sulle tenden- ze repulsive piuttosto che coesive che si sprigionano all’indomani dell’unificazione. Il focus dell’indagine è posto sulla stampa subalpina, in particolare in relazione ai sudditi coloniali, al Mezzogiorno e agli ebrei. I punti di partenza sono essenzialmente due: l’analisi dell’importan- za fondamentale della stampa e del print capitalism, che prende le mosse dalle conclusioni di Benedict Anderson, per la costruzione dei nazionalismi (non a caso il titolo di un paragrafo è Il Meridione immaginato), laddove il giornalismo è inteso non come mera rappresentazione, ma come spazio di mediazione culturale e di sintesi. L’ottica è, quindi, quella di analizzare co- me si costruisce culturalmente la nazione italiana. E tale costruzione si sviluppa come una «na- zionalizzazione per contrasto» (e questo appare il secondo punto di partenza), in sintonia con il discorso di Gaetano Mosca sull’identità come elemento relazionale. In questa direzione l’autore svolge un’attenta analisi sugli articoli dei principali giornali piemontesi del tempo: la «Gazzetta di Torino», il «Corriere di Torino», «La Gazzetta Piemon- tese», «La Stampa» e altri. Per potersi affermare politicamente in un’epoca in cui forte era l’accento sul principio di autodeterminazione dei popoli, il discorso colonialista aveva necessità di enfatizzare l’inesi- stenza di una civiltà dei colonizzati: si esaltava, così, l’alterità e l’inferiorità africana, dando luogo ad un razzismo marcatamente eurocentrico. A questa impostazione razzista faceva ri- scontro la costruzione come «razza» degli stessi meridionali, abitanti delle regioni da poco an- nesse ma anche della Sardegna, di cui si sottolineavano l’irriducibilità caratteriale e l’atavismo. Il razzismo antiebraico passò, invece, attraverso un pensiero cattolico che si sentiva avversato dalla modernità e che in essa identificava il nemico principale: gli ebrei e il pensiero liberale divenivano, così, il segno di una società nazionale secolarizzata a cui si contrapponeva un’i- dentità nazionale a sfondo religioso. Dalla ricerca, che è ampia e approfondita, emerge un’interpretazione del razzismo come categoria di lungo periodo nella storia italiana, in sintonia del resto con un’ormai affermata corrente storiografica (si pensi ai lavori di Alberto Burgio). Ma sono presenti anche conside- razioni di ordine metodologico che sembrano far tesoro delle lezioni degli studiosi francesi (a partire da Pierre Bourdieu), che hanno sottolineato il nesso tra linguaggio e potere nei pro- cessi di costruzione identitaria e hanno individuato filosoficamente la radice del razzismo nel- l’oggettivazione dei caratteri, non visti nel loro formarsi relazionale; da qui un’analisi degli ste- reotipi visti come «giudizi essenzialisti». Olindo De Napoli

304 I LIBRI DEL 2006

Marco Natalizi, Il caso Cernyˇˇ sevskij, Milano, Bruno Mondadori, 104 pp., Û 12,00

Natalizi fa iniziare il proprio racconto dall’epilogo della vita pubblica di Nikolaj Gavrilo- viˇc Cernyˇˇ sevskij, descrivendo la scena dell’«esecuzione civile» (si trattava di una sorta di umi- liante cerimonia pubblica nella quale il condannato era esposto alla gogna e identificato co- me criminale di Stato), svoltasi il 19 maggio 1864, alla quale Cernyˇˇ sevskij era stato sottopo- sto dopo essere stato condannato per l’attività pubblicistica svolta durante i dibattiti che ave- vano accompagnato l’abolizione del servaggio, e prima di essere inviato in Siberia per sconta- re la condanna a sette anni di lavori forzati e all’esilio a vita. Segue la ricostruzione delle fasi giovanili della vita diCernyˇˇ sevskij a Saratov, del suo trasferimento a San Pietroburgo per com- piere gli studi universitari, della maturazione intellettuale, nella quale importanti punti di ri- ferimento furono gli scritti del critico letterario Vissarion Belinskij e la filosofia materialistica di Feuerbach, e del crescente coinvolgimento nell’attività pubblicistica di due tra le riviste di maggior spicco dell’epoca, «Gli Annali della patria» e «Il Contemporaneo». Della linea edito- riale di quest’ultimo egli riuscì ad assumere il controllo: l’orientamento radicale e socialista ebbe la meglio sul liberalismo moderato di collaboratori come Nikolaj Turgenev. Il ben noto percorso di Cernyˇˇ sevskij consente di posare lo sguardo su alcuni temi «classi- ci» della storia intellettuale e politica russa: l’immissione nei ruoli dell’intelligencija di perso- nalità di estrazione non nobiliare, che dal lavoro intellettuale e pubblicistico dovevano ricava- re i mezzi per il proprio sostentamento; l’influenza degli orientamenti del socialismo europeo sulla formazione degli intellettuali russi e i contrasti e le divergenze nel variegato campo po- pulista; la tormentata relazione tra liberali e radicali; le caratteristiche dell’apparato repressivo e censorio del sistema autocratico, pervasivo e vessatorio anche nelle fasi politicamente «rifor- matrici»; il significato storico ambivalente e contraddittorio della riforma del 1861, e la com- plessità delle posizioni che si manifestarono negli ambienti politici e intellettuali russi duran- te il varo di uno dei provvedimenti più rilevanti e ricchi di implicazioni della storia dello za- rismo; il fervore dei dibattiti che vengono sviluppandosi, nei decenni centrali del XIX secolo, attorno ai temi delle caratteristiche economiche e sociali, degli elementi positivi e negativi, delle prospettive di sopravvivenza e sviluppo della comunità contadina in Russia. Giovanna Cigliano

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John Julius Norwich, Venezia. Nascita di un mito romantico, Milano, Il Saggiatore, 285 pp., Û 19,50 (ed. or. London-New York, 2003)

Inizio preoccupante, il lettore e magari anche scrittore di cose veneziane paventa di ritro- varsi di fronte alla sempiterna lamentazione sulla «morte di Venezia», coi vecchi patrizi del 1797 tremebondi, quattro giovinastri di giacobini e i fedeli Schiavoni in riva che salutano mestamen- te la fine della Serenissima. Ma subito il discorso si raddrizza. Si arriva persino (par. 2) a «dir bene» di Napoleone, ancor oggi parametro nefasto non solo per i leghisti, constatando quante cose riesce a fare e avviare a Venezia in così poco tempo. A questo punto l’affresco analitico di Norwich entra nel vivo: gli inglesi a Venezia nell’Ottocento. Quando vi arriva per la prima vol- ta ciascuno di loro, quante volte, per quanto tempo, e se stabilmente o in visita: al Danieli, al- l’Hotel Belle Vue et de Russie o alla Pensione Calcina, in un palazzo sul Canal Grande, com- prato, affittato o aperto agli ospiti. Byron, Ruskin, i Brown, Henry James, Robert Browning, i Layard, Whistler e Sargent, Frederick Rolfe ovverosia il Baron Corvo; e in più Richard Wagner: ognuno titolare di un certo numero di viaggi e soggiorni a Venezia, e di un paragrafo di 15-20 pagine. Ci vengono restituiti dieci sguardi devoti e mitizzanti – qualcuno di più, con le reti sa- lottiere di cui ciascuno entra a far parte, quasi esclusivamente «le colonie di residenti inglesi», e che perciò si ripetono lungo il corso del secolo: Byron scopre Venezia nel 1816, il critico e storico dell’arte Ruskin – con lui il più illustre e influente «inglese a Venezia» – la vede per la prima volta nel 1835, James vi arriva a piedi dalla Svizzera nel 1869, il più stravagante ed ec- centrico di tutti (per la gente, quindi, il «più inglese») nel 1908 Rolfe-‘Baron Corvo’. La scrittura garbata e affabile di Norwich non ha paura dell’aneddotica, anzi, la cerca, ne re- stituisce i fondamenti, ne ricompone i fili. Come nascono gli stereotipi, su che poggiano i luo- ghi comuni? Anche qualcuno dei veneziani sugli inglesi (solitarie avanguardie dei foresti e dei mi- lioni di turisti da passo odierni). I quali in sostanza amano Venezia e ignorano i veneziani, a me- no che non siano gondolieri, giovani e bellocci, scelti e mantenuti per essere adibiti a duplici fun- zioni. Questi partner locali di una disinibita sessualità esotica hanno qui nome e cognome, esco- no dai sussurri. Un altro dei pochi abitanti con nome è Angelo Mengaldo, che nel 1818 compe- te vanamente a nuoto con Byron: 14 camerieri, un serraglio, 200 amanti. Partono dal Lido e quando arrivano alla Salute Byron ha già 400 metri di vantaggio, si fa per conto suo tutto il Ca- nal Grande e in più – assicura – una donna prima e una dopo quella vigorosa nuotata. Del resto, navigava a nuoto verso casa anche al termine delle serate a palazzo Albrizzi. Mengaldo lo si ritro- va nel par. 6 (Rivoluzione, 1848-49) quando l’autore ci ricorda che intanto i veneziani esistevano anche in proprio, non solo come sfondo e folclore. Di queste cose qui – la politica, l’Austria, l’I- talia – poco o nulla interessa ai nostri esteti. E questa idea di Venezia bella e cara, adottata dal mondo innamorato che meglio se ne prenderebbe cura se non ci fossero gli indigeni, è un atteg- giamento di lunga durata che il libro ci aiuta a scorgere come prenda piede, e che incide ancora. Mario Isnenghi

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Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43, Milano, Mondadori, 230 pp., Û 18,00

Il volume si presenta come un’opera di divulgazione di alta qualità che riassume i risulta- ti della storiografia più recente sul tema dei crimini commessi dall’Italia nei Balcani durante la seconda guerra mondiale e sulla mancata punizione dei loro responsabili. Punto di riferi- mento dell’autore sono ad esempio i lavori di Davide Rodogno sul «nuovo ordine mediterra- neo», di Tone Ferenc e di Marco Cuzzi sull’occupazione italiana della Slovenia, di Lidia San- tarelli sull’occupazione della Grecia, di Carlo Spartaco Capogreco sul sistema concentrazio- nario fascista, di Filippo Focardi e di Costantino Di Sante sulla «mancata Norimberga italia- na». L’attenzione alle nuove acquisizioni della storiografia si salda con la conoscenza delle ri- cerche consolidate di storici come Enzo Collotti, Angelo Del Boca, Teodoro Sala o Giorgio Rochat. Non manca infine un’indagine d’archivio svolta dall’autore presso il Ministero degli Esteri italiano per la verifica e l’approfondimento di alcuni aspetti tematici. La parte preponderante del volume (i capitoli II, III, IV e V) è dedicata all’occupazione italiana della Jugoslavia e della Grecia dopo l’aggressione congiunta dell’Asse dell’aprile 1941, alle politiche occupazionali del governo fascista (con un’ampia disamina della precedente po- litica di italianizzazione e fascistizzazione operata dal regime contro le minoranze slave nella Venezia Giulia), alla «guerra contro i civili» intrapresa dalle autorità italiane per reprimere i movimenti di resistenza attraverso il ricorso ad un’ampia gamma di misure repressive come il prelevamento e l’uccisione di ostaggi, i rastrellamenti, l’incendio di villaggi sospettati di con- nivenza coi partigiani, le fucilazioni indiscriminate, le deportazioni dei civili in campi di con- centramento come quelli di Gonars o di Arbe. Tutte misure che trovarono giustificazione nel- la famigerata «Circolare 3C» del generale Mario Roatta, il cui testo è riportato in appendice. Una seconda parte del volume, che occupa il I e il VI capitolo, è invece dedicata alla que- stione della mancata punizione dei circa 1.000 militari e civili italiani che alla fine del conflit- to furono accusati dalla Jugoslavia, dalla Grecia e dall’Albania di aver commesso gravi crimini di guerra. L’autore ripercorre, attraverso una sintesi efficace, l’intera vicenda che vide i governi italiani di «unità nazionale» concordi nel rifiutare l’estradizione degli accusati (sebbene essa fos- se stata prevista prima dagli accordi armistiziali e poi dal trattato di pace) e nel rivendicare il di- ritto dell’Italia a processare i presunti colpevoli presso i propri tribunali. In realtà, non solo nes- suno fu mai portato in giudizio, ma la preoccupazione per il destino dei connazionali indusse le autorità italiane anche a frenare la richiesta della punizione dei criminali di guerra tedeschi. Chiude il volume un capitolo dedicato agli impedimenti che nel tempo hanno ostacola- to l’elaborazione di una memoria nazionale capace di fare i conti con i crimini commessi da parte italiana. L’autore ritiene sia giunto il momento di far cadere, con serenità e coraggio, il comodo mito del «bravo italiano». Filippo Focardi

307 I LIBRI DEL 2006

Gianni Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista. Lanciano 1940-1943, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 252 pp., Û 18,00

La minuziosa ed ampia ricognizione archivistica in cui si articola il volume ci conduce nel solco della memoria di Lanciano, località dell’Abruzzo che si pose al crocevia delle diverse esperienze di prigionia riservate dalle autorità fasciste ai «pericolosi nelle contingenze belli- che», ai cittadini cioè di paesi belligeranti contro l’Italia, agli ebrei, agli oppositori generici del fascismo. La loro sorte fu o quella dell’internamento nei campi di concentramento fascisti sor- ti da una legge del 1938, o quella dell’internamento libero dentro pensioni o appartamenti dai quali i perseguitati potevano allontanarsi nell’ambito del comune, ma con l’obbligo di rientrare al tramonto. Lanciano fu anche luogo di confino, istituto creato nel 1926 per gli op- positori politici al fascismo. L’autore si propone di rimuovere i macigni che incombono sulla memoria di Lanciano, rimozione dovuta a un lungo disinteresse storiografico per i luoghi di internamento istituiti dal regime di Mussolini, ma anche al desiderio dei testimoni oculari, entrati in relazione con gli internati, di dimenticare. Il primo capitolo è centrato sulle espe- rienze di prigionia a Villa Sorge, edificio che dal 27 giugno del 1940 al 12 febbraio del 1942 aveva ospitato un campo di concentramento femminile e dal 13 febbraio al 3 dicembre 1943 un campo di concentramento maschile per nazionalisti e comunisti slavi; a partire dal 3 di- cembre e fino al giugno del 1944, poi, Villa Sorge verrà occupata dagli alleati. Orecchioni at- traversa queste due fasi servendosi delle narrazioni dei testimoni che meglio restituiscono i vis- suti e le condizioni dell’internamento; esemplari sono le memorie di Maria Eisenstein, ebrea di origine polacca arrestata a Catania il 17 giugno del 1940 e poi finita a Lanciano, da cui tra- spare non solo l’abbrutimento degli internati costretti a vivere in condizioni sanitarie depre- cabili, ma anche la desolazione dell’alloggio, le cui camere da letto – dove si mangiava – era- no state ridotte ad immondezzaio dai resti di cibo impossibili da rimuovere integralmente per- ché nonostante «la pulizia più accurata […] sotto le brande [c’erano] valigie, scarpe ammuc- chiate insieme alle più strane suppellettili, non disponendo le internate né di armadi, né di una mensola a muro» (p. 35). Il secondo capitolo è dedicato alle esperienze di internamento libero, contrassegnate da un maggior contatto degli internati con la popolazione, sul cui at- teggiamento l’autore non si sente di trarre conclusioni generali, perché accanto a quanti mo- strarono comprensione per i perseguitati vi furono anche coloro che li maltrattarono. Il terzo capitolo è centrato sul confino ed il quarto, infine, sulle vicende successive all’8 settembre del 1943, tornante in cui le strade degli internati si divaricheranno: per alcuni l’epilogo saranno i campi di sterminio nazisti, per altri la salvezza. Il desiderio dell’autore di sottolineare le asprezze dell’internamento risponde anche all’esigenza di denunciare l’oblio che ha travolto quegli eventi, una denuncia che a volte assume toni retorici, ma che in qualche misura ci coin- volge tutti. Giovanna D’Amico

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Vincenzo G. Pacifici, I prefetti e le norme elettorali politiche del 1921 e del 1925, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 144 pp., Û 28,00

Il volume offre un ulteriore strumento per gli studi volti a ricostruire il rapporto tra pre- fetti e potere politico e il ruolo e la funzione delle istituzioni locali nei periodi liberale e fasci- sta – temi sui quali, da lunga data, sono concentrati gli interessi scientifici dell’autore. Due sono le fasi storiche cui si fa riferimento e che scandiscono la narrazione: la prima è quella del- la preparazione dei provvedimenti del 1921 tesi a completare e a rendere operante la riforma proporzionalista del 1919; la seconda è quella concomitante la presentazione del disegno di legge di ripristino del collegio uninominale nel 1924. Le fonti utilizzate sono le relazioni in- viate dai prefetti al Ministero dell’Interno e oggi conservate, presso l’Archivio Centrale dello Stato, nei fondi di quel dicastero tra le carte dell’Ufficio elettorale della Direzione dell’ammi- nistrazione civile. Riportati integralmente e arricchiti nelle note a piè pagina da una breve ri- costruzione della carriera del funzionario scrivente, i documenti vengono offerti al lettore al- lo stato «grezzo», riducendo all’essenziale le note argomentative e di contestualizzazione. Per quanto riguarda il 1921, le informative prefettizie, trasmesse a Roma in risposta alla circola- re del febbraio, sono dirette a fornire un quadro esaustivo dello «spirito pubblico» e dei rap- porti di forza tra schieramenti politici nelle 36 province interessate alla risistemazione dei col- legi elettorali, da comporre, in base alle norme del 1919, con almeno 10 deputati. Una mo- dificazione alla geografia dei collegi questa, che, dopo i risultati delle amministrative del 1920 e in vista delle elezioni politiche del maggio, nelle intenzioni del presidente del Consiglio Gio- litti dovrà contribuire a produrre una consistente affermazione delle forze liberali all’interno dei blocchi nazionali. Nel significativo silenzio dei consigli provinciali e dei deputati coinvol- ti, l’opinione dei prefetti diventa a tal fine indispensabile, anche se, paradossalmente, la loro voce rimarrà largamente inascoltata, quasi a segnare il definitivo maturare della lenta e irre- versibile agonia dello Stato liberale di fronte al dilagare della violenza fascista in quella cam- pagna elettorale considerata la più cruenta della storia d’Italia. Simile per alcuni aspetti e ra- dicalmente diversa per altri la vicenda del 1924, quando, nei giorni roventi della crisi Mat- teotti, ad appena un anno dal varo della legge Acerbo il ministro dell’Interno Federzoni inter- pella i prefetti sulle «impressioni» suscitate in ciascuna provincia dalla preannunciata, e poi mai sperimentata, reintroduzione del collegio uninominale. Dalle risposte dei funzionari, in molti casi inizialmente disorientati dalla notizia, trapela una lettura generalmente positiva del progetto, ritenuto idoneo a garantire la normalizzazione nel segno dell’espunzione degli estre- mi, e il corpo prefettizio, la cui formazione è pur sempre avvenuta in età liberale, si compat- ta intorno alla linea – «federzoniana» e non «mussoliniana» – della battaglia al «lassismo squa- dristico» per «ripristinare l’ordinamento liberale unitario e [...] salvaguardare l’Italia da una esperienza conclusa con la tragedia della Seconda guerra mondiale» (p. 131). Daniela Adorni

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Grazia Pagnotta, Sindaci a Roma. Il governo della Capitale dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli, 184 pp., Û 12,90

Versione riveduta e ampliata di All’ombra del Campidoglio. Sindaci e giunte di Roma dal dopoguerra al 1993, pubblicato in allegato a «Il Manifesto», questo agile volume rimanda fin dal titolo, ripreso quasi letteralmente, al noto lavoro di Alberto Caracciolo dedicato a I sinda- ci di Roma. La ricostruzione di Pagnotta offre un interessante spaccato di una capitale, che non è so- lo il centro politico del paese, ma anche retaggio e simbolo di altre capitali (dell’Impero e del- la Chiesa). Il libro illustra il ruolo e l’azione della classe dirigente municipale di cui si eviden- ziano i legami con la politica nazionale e con i potentati economico-finanziari, il confronto con gli organi deputati alla difesa della città artistica, in particolare la Soprintendenza per i be- ni archeologici, e i peculiari rapporti coltivati con la Chiesa e il Vaticano. Di grande interesse appaiono gli estremi cronologici prescelti per indagare il governo co- munale. Se, infatti, il termine a quo, il secondo dopoguerra, marca il ritorno del sindaco a ca- po dell’ente locale dopo l’esautorazione del periodo fascista, la scelta di condurre l’indagine sino ad oggi consente di illuminare il ruolo dei primi cittadini dal punto ove la ricostruzione di Caracciolo li aveva lasciati: il 1993. E l’interesse nasce dal carattere periodizzante di tale da- ta, che vede l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco. In realtà l’autrice, solo latamente attenta agli aspetti storico-istituzionali, non si sofferma ad analizzare la portata di un provve- dimento che, a pochi anni dalla riforma delle autonomie del 1990, consente al sindaco di spe- rimentare un inedito protagonismo dovuto al massimo grado di legittimazione popolare e di sganciarsi dalla tradizionale, stringente dipendenza dai partiti, grazie all’introduzione di un si- stema di elezione del Consiglio che favorisce la costituzione di solide maggioranze. Lo sforzo investigativo dell’autrice – al di là del fuorviante sottotitolo del volume: Il go- verno della Capitale – è dedicato in effetti al governo dello spazio urbano e, dunque, alle po- litiche pubbliche che insistono sugli aspetti urbanistici, per mostrare come l’intervento sul- la forma fisica costruita sia tutt’uno con la storia e l’identità della città. Pausate dall’avvicen- darsi dei cicli di governo cittadini, affiorano le idee di città cui hanno guardato le diverse giunte comunali: alla capitale dell’Impero fascista subentra «la città burocratica e non indu- striale» su cui la DC costruisce l’immagine di «capitale religiosa», quindi la moderna «capi- tale industriale» del PCI, la «metropoli democratica» degli anni Sessanta, la «metropoli ri- composta dalla sua contrapposizione centro-periferia» del sindaco comunista Luigi Petrosel- li, la città della modernizzazione dei socialisti, la capitale istituzionale della svolta del 1990 e la «città come comunità» dell’attuale sindaco Walter Veltroni fino a spingere lo sguardo al- la «città del futuro». Elisabetta Colombo

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Stefano Palermo, La Banca Tiberina. Finanza ed edilizia tra Roma, Napoli e Torino 1869- 1895, Napoli, Editoriale scientifica, 324 pp., Û 22,00 Il volume ricostruisce la parabola della Banca Tiberina, uno dei principali istituti di credi- to travolti dal crack edilizio del 1889. Una vicenda le cui radici affondano alla fine degli anni Sessanta, quando i banchieri Geisser e Servadio costruiscono una rete di imprese immobiliari facente capo alla Banca Italo-germanica, vera holding del gruppo. Investita insieme al settore immobiliare dalla crisi del 1873, la Italo-germanica viene assorbita dalla neonata Banca Tibe- rina (1877) che, dopo le iniziali difficoltà, si giova della mutata congiuntura. Nei primi anni Ottanta, infatti, l’aumento della circolazione monetaria (grazie all’abolizione del corso forzoso e alle nuove strategie delle banche d’emissione) e le politiche di spesa a sostegno della riquali- ficazione delle città sbloccano il mercato edilizio-immobiliare. Gli investimenti ereditati nel set- tore dalla Tiberina diventano da immobilizzi strumento per promuovere le tradizionali opera- zioni bancarie, in particolare i crediti ipotecari ai costruttori. Un meccanismo redditizio ma ri- schioso: a fine anni Ottanta la discrepanza tra offerta e domanda abitativa sgonfia la bolla im- mobiliare e la Tiberina si ritrova vittima della propria scarsa liquidità. Il mutuo di 40 milioni concesso dalla Banca Nazionale salverà il Banco Sconto e Sete, istituto torinese di riferimento della Tiberina, ma non la banca capitolina, costretta alla liquidazione (1895). Forte dell’incrocio di fonti diverse e situata al confine tra storia economica e storia della banca, la ricerca offre l’occasione per riflettere su alcune questioni. Innanzitutto il ruolo deci- sivo svolto dalla mano pubblica e da politiche di deficit spending che consentono il salvatag- gio del sistema ma scaricano sulla collettività i costi di scelte avventurose: così le perdite del crack edilizio sono assorbite dalle banche di emissione, e il Comune di Roma interviene solo per ratificare i disordinati interventi edilizi del capitale privato, vero organizzatore dello spa- zio urbano. Un secondo nodo centrale è poi costituito dai limiti di un’economia banking orien- ted, come quella italiana, rispetto ai sistemi market oriented, benché la vicenda della Tiberina sia segnata da una specifica componente speculativa e non consenta troppo disinvolte gene- ralizzazioni. Ben ricostruite sono inoltre le partecipazioni incrociate tra le società immobilia- ri, utili a garantire il controllo dei prezzi dei terreni e l’elusione del mercato, a conferma di un capitalismo nazionale precocemente collusivo. Il volume risulta invece meno convincente come studio delle élite finanziarie, cioè sul ver- sante della storia sociale: profilo e mutamenti degli azionisti forti della Tiberina appaiono sfo- cati, mentre le relazioni (con il governo centrale e locale, con gli istituti di emissione, tra l’a- ristocrazia papalina romana e la componente liberale torinese) si intuiscono decisive ma an- drebbero approfondite. In alcune parti, infine (specie nel IV capitolo), prevale un taglio descrittivo a scapito di una problematizzazione che avrebbe potuto essere ricercata attraverso un più ampio dialogo con la letteratura, soprattutto straniera. Ivan Balbo

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Andrea Panaccione, Il 1956. Una svolta nella storia del secolo, Milano, Unicopli, 162 pp., Û 11,00 Più che un manuale o una sintesi storiografica, è possibile leggere e utilizzare questo la- voro come uno strumento di lavoro, sul modello dei readers accademici di matrice anglosas- sone, destinato agli specialisti della materia ma particolarmente utile per gli studenti che si trovino ad affrontare un esame di Storia contemporanea o dell’Europa orientale. L’autore of- fre nel saggio introduttivo (pp. 9-39) un’introduzione alle molteplici crisi che caratterizzaro- no il 1956, anno spartiacque nella storia del ’900 non soltanto in conseguenza dell’evento più eclatante e denso di implicazioni successive, la rivolta ungherese e, in più in generale, l’evolu- zione dei rapporti fra l’Unione Sovietica e i propri satelliti nel periodo successivo alla morte di Stalin, ma anche nella stabilizzazione dei rapporti Est-Ovest con il congelamento degli equilibri post-bellici e la reciproca accettazione delle sfere d’influenza. In linea con un’inter- pretazione oggi largamente condivisa, l’autore individua nel 1956 non soltanto un momento centrale del secolo trascorso, ma anche il definitivo tramonto del mito dell’URSS, nonostan- te la disillusione e il riflusso ideologico che seguirono il soffocamento della rivolta ungherese non autorizzino a tracciare una linea retta, un filo di continuità che leghi il 1956 al crollo del comunismo mondiale nel 1989 (pp. 35-36). Uno spazio adeguato viene infine riservato al- l’impatto che le vicende polacche ed ungheresi ebbero sugli equilibri politici italiani e sul mo- vimento socialista internazionale. L’introduzione è seguita da un’utile e aggiornata bibliogra- fia (pp. 41-48) e da un’appendice documentaria, che abbraccia di fatto quasi due terzi del vo- lume e ricostruisce il quadro fattuale e le principali interpretazioni storiografiche del 1956 sul- la base di numerosi documenti e saggi critici tradotti dagli originali in lingua russa ed ingle- se. Apprezzabile inoltre la scelta di un arco cronologico decisamente ampio, che spazia dalle reazioni sovietiche e internazionali alla morte di Stalin fino alle «politiche della memoria» ela- borate o tramandatesi spontaneamente in Europa occidentale (e soprattutto dal 1989 nei pae- si dell’ex blocco sovietico) per celebrare un anno straordinario, la cui memoria, polarizzata, ferita, negata, non ha mai smesso di esercitare una propria attualità. Condivisibile infine la molteplicità delle fonti e degli approcci offerti (documenti d’archivio, estratti dalla stampa coeva, saggi di analisi e volumi di sintesi apparsi nei decenni successivi). Qualche perplessità suscita al contrario l’economia interna dell’ampio materiale presentato nella sezione Testi e do- cumenti. Anche per i fini di supporto didattico che l’opera evidentemente si propone, sareb- be stato forse più opportuno separare con maggiore nettezza la ricostruzione fattuale (la cro- nologia degli eventi come la conosciamo attraverso la «rivoluzione degli archivi») dal dibatti- to politico, storico e civile sul 1956. Stefano Bottoni

312 I LIBRI DEL 2006

Claudia Pancino, Jean d’Yvoire, Formato nel segreto. Nascituri e feti fra immagini e imma- ginario dal XVI al XXI secolo, Roma, Carocci, 189 pp., Û 16,50

«Disegnatori e incisori, anatomisti e medici, filosofi e dotti, e poi biologi e studiosi di em- briologia, dall’inizio dell’Età moderna, ma con casi esemplari già nel Medioevo, si sono dedi- cati a rappresentare la vita prima della nascita, a produrre immagini di feti» (p. 11). La storia ripercorsa da Claudia Pancino e Jean d’Yvoire in questo volume è quella della rappresentazio- ne dei feti che dal segreto del ventre materno vengono progressivamente disvelati attraverso la raffigurazione e il disegno, fino a giungere ai sofisticati strumenti della diagnostica medica odierna. La trasformazione delle illustrazioni del nascituro a partire dalla fantasia e dall’ap- prossimazione fino alla «verosimiglianza» e alla riproduzione fedele della realtà è narrata attra- verso un ricchissimo apparato iconografico che va dai «piccoli uomini» dei codici medioeva- li, alle incisioni cinquecentesche in cui «bambini» si librano dentro uteri simili ad ampolle ca- povolte, dai rosei feti in ceroplastica delle scuole di ostetricia settecentesche, ai recenti fumet- ti statunitensi fino alle attuali ecografie. Senza dimenticare di esplicitare la scomparsa progres- siva del contesto materno soprattutto nell’illustrazione scientifica a partire dall’Ottocento. Si- mili fonti iconografiche consentono ai due autori di giungere alla consapevolezza di come la costruzione dell’immagine sociale del feto sia un prodotto storico e culturale. Pancino e d’Y- voire, che lucidamente considerano anche le molteplici denominazioni del feto, si propongo- no (riuscendoci) di offrire «strumenti, informazioni, riflessioni» a supporto dell’attuale dibat- tito. Un dibattito che, di fatto, merita di essere inserito nel lungo ed articolato processo sto- rico durante il quale intorno al feto si sono moltiplicate curiosità scientifiche ed intellettuali mentre la costruzione di un discorso politico, giuridico, medico e religioso intorno all’intera fase prenatale ha espresso interessi diversi e spesso inconciliabili mentre la donna-gestante pas- sava progressivamente in secondo piano. Il volume si colloca nel prolifico solco tracciato da Barbara Duden con l’individuazione del «corpo femminile come luogo pubblico», ciò nondimeno compie passi ulteriori in molte- plici direzioni – alcune semplicemente accennate – fornendo spunti di analisi fra i quali uno dei più stimolanti riguarda la volontà di retrodatare la personalità (anche giuridica), l’indivi- dualità, la vita autonoma dalla madre alla fase prenatale e le relative implicazioni nell’aggior- namento della storia dei complessi intrecci, delle molte e profonde istanze che sottendono ai processi di negoziazione delle identità. Alessandra Gissi

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Giampaolo Pansa, La grande bugia. Le sinistre italiane e il sangue dei vinti, Milano, Sper- ling & Kupfer, 468 pp., Û 18,00

È possibile che l’autore abbia scelto a modello del libro quello in cui Ernesta Bittanti Bat- tisti racconta le tappe del viaggio oratorio di suo marito nella campagna per l’intervento in guerra dell’Italia? Pansa ha fatto buonissimi studi a Torino, con Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, ne ha derivato lavori rigorosi ed è lui stesso prova di come, dall’incontro fra università e istituti storici della Resistenza, potessero già quarant’anni fa uscire fior di ricer- che. Poi ha scelto di abbandonare quel percorso – che ne avrebbe fatto un iscritto alla SIS- SCO – e di diventare un grande cronista e commentatore politico. Il rancore, talvolta il furo- re nei dibattiti che si impennano a ogni sua uscita ha a che fare anche con uno scontro di cor- porazioni, oltre che fra le «due sinistre», antifascisti e anti-antifascisti, comunisti (o eredi) e anti-comunisti. È anche problema di nomenclatura, oltre che di identità lacerate o contuse. Chi legge questo libro, trova un autore ansioso di riaffermare che è sempre stato, è e resta un uomo di sinistra. Con il coraggio, però, e la volontà di affrontare i vuoti di conoscenza, gli imbarazzi, i falsi delle sinistre, ricercatori in cattedra non esclusi, in tema di Resistenza, pri- ma e dopo il 25 aprile: foibe, scontri armati fra bande partigiane, liquidazioni sommarie di fascisti veri o presunti. Pansa come un Pisanò di sinistra? In parte, le tematiche rivendicate so- no le stesse. Ma egli dichiara di volerle assumere come necessaria autocoscienza e tardivo la- vacro collettivo; e a sinistra si recalcitra a quest’approccio autopunitivo e si constata che il suc- cesso dei suoi best-seller viene incontro al progetto politico di sporcare la Resistenza e la Re- pubblica nata dalla Resistenza. Buona dunque l’idea-guida del libro, seguire l’autore che pre- senta i suoi libri – e alla fine l’«uomo contro», se stesso – in varie ‘piazze’ d’Italia: come nella corvée oratoria, nel 1915, del socialista patriota, che continua a sentirsi e a dichiararsi sociali- sta, vorrebbe toccare il cuore e la mente dei neutralisti, ma raduna e esalta gli interventisti. Se Pansa fosse riuscito a essere il cronista di questi suoi itinerari di terapia collettiva, sarebbe un’inchiesta di grande interesse. In realtà, il polemista sopraffà di continuo il cronista. Ogni capitolo è un regolamento di conti nominativo con uno dei suoi detrattori: risse, bastonate verbali, duelli che non hanno proprio nulla di cavalleresco. L’inchiesta scade, si fa viscerale. È anche un problema di approccio e di linguaggio: abbiamo tutti letto il Pansa inventivo crea- tore di nomignoli, ma ciò che funziona in un articolo diventa stucchevole in un volume. Al- tra scelta strutturale che appesantisce l’architettura: non narra in presa diretta, ma a una figu- ra femminile, figlia di un antifascista testimone dei suoi volumi, ora morto. Par di capire che la giovane, che dichiara continuamente di non saperne niente, sia chiamata a rappresentare la cera vergine, l’intelligenza agnostica e ignara di un cittadino – anzi, meglio, di una cittadina – illuminata da chi ne sa di più. Ma con un interesse blando per queste cose da vecchi e con una capacità di interlocuzione vicina allo zero. Se l’è costruita così l’autore, pleonastica. Mario Isnenghi

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Vittorio Paolucci, La democrazia repubblicana nel Pesarese, Urbino, Argalia, 242 pp., s.i.p.

Giuseppe Mazzini e i repubblicani italiani, oltre a proporre un preciso disegno politico di unificazione nazionale (alternativo alla soluzione monarchico-dinastica poi prevalsa), era- no anche sostenitori di un progetto sociale a difesa dei diritti dei lavoratori e dei ceti popola- ri. Non a caso all’interno della Prima Internazionale il dibattito e lo scontro, lungi dall’esau- rirsi nella contrapposizione tra Karl Marx e Michail Bakunin, avevano in Mazzini un prota- gonista di primo piano. Ne seguì un’aperta rivalità tra marxisti e mazziniani. Tanto che, quan- do i primi dirigenti socialisti avviarono la propria opera di proselitismo e organizzazione sul territorio, in alcune zone d’Italia trovarono un temibile rivale proprio nei repubblicani. Il libro di Paolucci ricostruisce con molta precisione la natura dell’insediamento repub- blicano in una di queste aree, le Marche e soprattutto il Pesarese. Grazie a una microanalisi territoriale molto minuziosa, il volume dimostra infatti la profondità del radicamento repub- blicano nella zona e ne spiega le molteplici ragioni. Non si trattava soltanto dell’eco, intrisa di nostalgia, di una radicata tradizione risorgimentale. L’obiettivo della repubblica rispondeva piuttosto a una duplice esigenza: da un lato appariva la forma politica più rispondente agli ideali di libertà propugnati; dall’altro costituiva un progetto di organizzazione sociale eguali- tario ma non collettivista, più vicino alla mentalità e ai bisogni sociali dei lavoratori manuali della zona, prevalentemente piccoli artigiani. L’indagine dell’autore prende le mosse dalle campagne elettorali degli anni Settanta del- l’Ottocento – quando i funzionari di polizia del giovane Stato monarchico guardavano ai mi- litanti repubblicani con molta più preoccupazione che non ai socialisti – e prosegue attraver- so l’analisi della evoluzione e del progressivo consolidamento del Partito repubblicano nella zona, fino alla nascita negli anni Novanta della Unione democratica sociale. È a questo pun- to che i rapporti con l’appena fondato Partito socialista si fanno tesi e ambivalenti: una ten- sione che deriva dal frequente acuirsi di antiche rivalità; una ambivalenza che trae origine dal- la comune minaccia rappresentata dalla politica repressiva del governo. Sicché, per meglio il- lustrare la natura di queste dinamiche, l’autore completa il lavoro con un’analisi della stampa politica pesarese, fornendo così un’immagine esauriente del dibattito che animava la lotta po- litica della zona. Paolo Mattera

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Catia Papa, Intellettuali in guerra. «L’Azione» 1914-1916. Con un’antologia di scritti, Mi- lano, FrancoAngeli, 251 pp., Û 22,00

Utile riproposta di una rivista politica rimasta fuori dai ricuperi delle riviste della «età del- le riviste», avviato con le antologie dei primi anni ’60. «L’Azione» dura poco (dal maggio 1914 al luglio 1916); non esce a Firenze – capitale delle riviste –, ma a Milano; non la fanno degli scrittori e uomini di lettere; e la leggono in pochi, meno ancora delle altre. Felix culpa per un organo risentitamente elitario. Catia Papa ha fatto bene a rimetterla in circolazione, con un argomentato commento critico e una scelta di articoli, che si dividono lo spazio a metà. Pao- lo Arcari e Alberto Caroncini sono i direttori (e i loro archivi la base del lavoro); Giovanni Bo- relli il referente politico più spiccato; si segnala anche la presenza di un Giovanni Amendola lontano ancora dall’icona antifascista; ma Gioacchino Volpe è la mente più robusta e l’espres- sione meno oscillante di una «linea» che fatica a definirsi fra liberalismo e nazionalismo. Uscendo dall’Associazione Nazionalista sembrerebbero considerarla troppo «a destra», incon- sapevole del miracolo della monarchia plebiscitaria del Risorgimento, che andrebbe invece reinverata coinvolgendo e integrando le classi popolari nella Nazione sotto la direzione di una borghesia classisticamente sicura di sé; e però Caroncini, economista liberista vicino a Panta- leoni (c’è anche Pareto nel loro bagaglio), sul «Giornale degli economisti» (1910) scrive di cer- ti scioperanti che «o la polizia li tratterà come meritano, o i borghesi finiranno per avere il co- raggio della paura e per rispondere a revolverate» (p. 32). Di fronte alla Settimana rossa, il gio- vane Dino Grandi, sull’«Azione», renderà omaggio al «santo bastone», la «clava di legno fer- ro» con cui il policeman inglese o statunitense spacca senza complimenti la faccia del sovver- sivo (p. 92). Bando ai piagnistei, sì allo scontro frontale – lo dice anche Widar Cesarini Sfor- za (La lotta politica, 21.6.1914). Oscillanti nel posizionarsi a destra, ma aspri, perentori, nel rivolgersi a sinistra. E anti-giolittiani, essendo il sistema giolittiano il luogo della mediazione e della corruttela, anzi della «lebbra parlamentare» – scrive il Manifesto agli italiani dei Gio- vani liberali nei giorni di Tripoli (1911, p. 37). Libia e guerra europea sono la scossa che ci vuole, il farmaco per ridare volontà di comando alle nuove aristocrazie borghesi e obbligo di ubbidienza alle masse snazionalizzate dai conati eversivi del socialismo. La scelta a favore del- l’intervento rappresenta un valore in sé, pur se non mancano differenti accenti. L’ideologia in- tesofila è lontana per tutti, l’irredentismo e la guerra per Trento e Trieste solo il tramite di una politica di potenza e del pieno controllo dell’Adriatico; ma qualcuno all’«Azione» può lasciar- si risucchiare dall’interventismo, sacrificare troppo alle retoriche movimentiste, contrapporsi al Governo e persino al Sovrano; è Volpe allora a reggere la barra, accettando la forzatura isti- tuzionale ai danni del Parlamento, ma se al centro della forzatura resta il sovrano. Il maggio del ’15 – «radioso» anche per «L’Azione» – sanzionerà appunto la dittatura del Re (23 maggio 1915, p. 132). Mario Isnenghi

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Elena Papadia, Nel nome della nazione. L’Associazione Nazionalista Italiana in età giolittia- na, Roma, Archivio Guido Izzi, 240 pp., Û 30,00 Punto d’approdo finale di un percorso durato alcuni anni, contraddistinto da una serie di articoli comparsi su alcune delle principali riviste nazionali, il volume si presenta come il frutto maturo di un’attenta riflessione attorno a un nodo – quello dell’innovazione delle for- me della politica, tra periodo giolittiano e prima guerra mondiale – che di recente ha godu- to di rinnovata attenzione da parte degli studiosi. Specialmente tra quelli appartenenti alle generazioni più giovani. Certo, l’autrice prende in esame un caso specifico come fu quello dell’Associazione nazionalista italiana. Tuttavia non può sfuggire il respiro più ampio posse- duto dallo studio. Una ricostruzione, cioè, che partendo dall’esame di una vicenda partico- lare contribuisce alla migliore comprensione delle complesse dinamiche della crisi politica vissuta, sul limitare della guerra, dal sistema liberale. Questo non solamente in virtù dell’im- portante ruolo che il movimento nazionalista ebbe, quale catalizzatore degli elementi di ma- lessere, nel processo di maturazione della crisi liberale, ma soprattutto perché, analizzando nel dettaglio tale esperienza, è possibile rintracciare gli elementi costituitivi di una nuova cul- tura politica. Ovvero, quella nuova destra radicale che, passando per la «seduzione totalita- ria» degli anni bellici, finirà per dare corpo e anima all’esperimento fascista. Più ancora che l’originalità dell’elaborazione teorica, fino ad ora oggetto privilegiato degli studi dedicati al nazionalismo, l’autrice mette in evidenza l’importanza decisiva che, ai fini del successo del nazionalismo, ebbero due atouts: da una parte, la capacità di elaborazione di un nuovo lin- guaggio politico (incentrato attorno alla rivisitazione in chiave politica del mito della gio- ventù); dall’altra, la determinazione dimostrata dal movimento nel confrontarsi con le for- me nuove dell’agire politico (in relazione, soprattutto, agli strumenti, inediti a destra, dell’u- so politico della violenza, dell’attivismo nell’organizzazione e della propensione per la con- quista della piazza). Dunque se è vero che i nazionalisti non furono i primi – quanto meno all’interno del campo conservatore – a porsi il problema del rapporto con lo strumento or- ganizzativo del partito di massa (come pure a interrogarsi sulla liceità del ricorso alla piazza e all’esasperata semplificazione di taglio ideologizzante), è altrettanto corretto dire che furo- no indubbiamente i primi a risolvere l’intricato nodo delle contraddizioni che paralizzava il mondo liberale. Si potrebbe rilevare come tale risultato fu alla fine ottenuto attraverso la so- stanziale fuoriuscita dall’originaria cultura politica liberale, ma questo rappresenterebbe un giudizio falsato dalla prospettiva a posteriori. Come dimostra l’autrice per mezzo dei molti esempi riportati, primi fra tutti quelli relativi alle campagne elettorali del 1913, tale percor- so fu tutt’altro che lineare, contraddistinto da molteplici interpretazioni personali e da con- tinui scambi con le altre componenti della galassia conservatrice. Il merito, quindi, è anche quello di aver saputo guardare con lenti nuove a un argomento e a un soggetto politico ben lontano dall’avere esaurito il suo potenziale di ricerca. Andrea Baravelli

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Ivan Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Milano, FrancoAngeli, 517 pp., Û 36,00 Il libro di Ivan Paris è un ottimo contributo alla conoscenza dell’industria dell’abbigliamen- to, o meglio, dell’abito pronto. Evolutosi a partire da una tesi di dottorato discussa alla «Bocco- ni», il libro si presenta come un’ampia e documentata ricerca su fonti di prima mano su quello che si presenta oggi come uno dei settori più dinamici e rappresentativi dell’export italiano. Il volume inizia con uno sguardo sulle origini dell’abbigliamento in serie, legato alle di- vise militari, per poi analizzare le esperienze industriali durante il fascismo, quando prende forma un certo interesse da parte del regime per questo comparto. L’attenzione si sposta quin- di sui decenni successivi alla seconda guerra mondiale. In questo periodo si saldano le poten- zialità del ricostruito settore tessile, le prime esperienze di successo nell’alta moda (che conti- nua a guardare a Parigi come modello) e l’apertura ai mercati internazionali, soprattutto ame- ricani. Il lavoro mette bene in luce come i primi positivi risultati siano il frutto della filiera creatori di moda-produttori tessili-industriali della confezione; ma anche il portato di un pro- cesso di istituzionalizzazione della moda che vide impegnate molte associazioni (Ente italia- no della moda, Camera nazionale, Associazione italiana industriali dell’abbigliamento), oltre che singoli protagonisti (come Giovanni Giorgini, buyer di grandi magazzini statunitensi e or- ganizzatore del Fashion Show a Firenze dal 1951). Le trasformazioni della società italiana incrinano la validità dell’assetto dualistico del set- tore, scisso fra alta moda e abbigliamento di massa. L’autore sottolinea come i cambiamenti sociali siano stati un fattore di cambiamento decisivo per questo comparto; il mutato ruolo femminile, ad esempio, sollecitò lo sviluppo di capi pronti di buona qualità (mentre fino a quel momento le confezioni pronte si erano indirizzate in buona parte verso la moda maschi- le, più standardizzata, cominciando dalle camicie e dagli impermeabili). Dalla fine degli anni Sessanta si assiste perciò alla formazione di un «sistema-moda» che non punta più su un’alta moda esclusiva, ma su una moda pronta di qualità, il prêt-à-porter, frutto della collaborazio- ne degli stilisti con l’industria. Questo mise in crisi la struttura del lusso che aveva i suoi cen- tri a Firenze a Roma, e privilegiò invece Milano che, insieme a Torino, era il principale polo industriale del settore: «Nel capoluogo lombardo, infatti, si poteva beneficiare di tutti quei servizi dei quali la moda industriale abbisognava per lo sviluppo della propria attività e per stabilire con il pubblico un rapporto del tutto diverso da quello gestito in passato dal grande sarto (pubblicità, marketing, infrastrutture, trasporti, ecc.)» (pp. 480-1). Il lavoro si avvale di documentazione varia, da quella delle associazioni istituzionali alle riviste professionali di settore, nonché di interviste ai protagonisti. Il quadro che ne emerge è convincente e ben delineato; particolarmente apprezzabile è l’incrocio di elementi istituzio- nali e socio-politici con quelli prettamente industriali, che permette di valutare le ricadute di un settore economico su molti aspetti della vita dell’Italia contemporanea. Emanuela Scarpellini

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Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Bologna, il Mulino, 438 pp., Û 25,00 Il fenomeno del neofascismo è stato oggetto di qualche interesse di storici e politologici, ma sinora non aveva goduto di una vera e propria ricostruzione storiografica. Il volume di Par- lato colma indubbiamente questa lacuna ripercorrendo, con ricca documentazione e con do- vizia di particolari, la riorganizzazione delle forze fasciste dalla caduta di Mussolini sino alle elezioni del 1948 che portarono in Parlamento la prima piccola pattuglia di eletti nelle fila del nuovo partito del MSI. La narrazione si divide sostanzialmente in tre parti. La prima riguarda l’azione dei super- stiti del fascismo nel Regno del Sud e comunque al di fuori della Repubblica di Salò. In essa si intreccia anche la questione dei rapporti degli Alleati, specialmente degli americani, con questi gruppi. La seconda traccia una mappa degli eventi che intercorrono grosso modo tra la conclusione della guerra e la prima stabilizzazione della nuova vita democratica che si ha con il referendum istituzionale e con l’avvio della Costituente. La terza ed ultima prende in con- siderazione l’ingresso del neofascismo nel nuovo universo della «repubblica dei partiti» con una opzione per la legalità, ma anche per il mantenimento di una scelta «identitaria» rispetto alle origini del movimento. La ricostruzione di questo panorama si fonda in gran parte su documenti interni del neo- fascismo che hanno come contraltare solo valutazioni di polizia che, ovviamente, rispondono a finalità di ordine pubblico più che di valutazione storico-politica. Inevitabilmente dunque si finisce per avere in molte parti una visione come dire «esaltata» di queste imprese, da parte di personalità che si illudono di collocarsi al centro della storia. Non ci pare per esempio particolarmente geniale la scelta «anticomunista» come via per la reinserzione nel gioco politico «occidentale»: ci provarono anche i nazisti. Le incerte ed am- bigue aperture dei servizi di intelligence verso uomini e gruppi del neofascismo non provano gran che: pescare a 360 gradi nel torbido è, in definitiva, il loro mestiere. Offre spunti di riflessione interessanti la ricostruzione delle aspettative escatologiche del neo- fascismo circa lo scoppio della «rivoluzione comunista» che li avrebbe rimessi in gioco. Se Parla- to porta molti documenti per mostrare quanto questo retaggio della cultura politica degli anni Venti e Trenta giocasse per garantire aperture verso i neofascisti in vari ambienti (nelle istituzioni, in ambienti ecclesiastici, ecc.), rimane il fatto che questa era una analisi velleitaria e fuori tempo. Assai più interessante è la ricostruzione della strategia di reingresso nel sistema politico di questa quota di società italiana. Anche qui sarebbe forse da chiedersi se l’intuizione vincente non sia stata tanto quella che si illudeva circa spazi per la ricostruzione di una «grande destra» (Romualdi), quanto quella di chi (Almirante) aveva percepito che nella «repubblica dei parti- ti», organizzata su subculture identitarie, la creazione di un nuovo partito con quelle caratte- ristiche aveva tutte le chance di riuscita. Paolo Pombeni

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Matteo Pasetti (a cura di), Progetti corporativi tra le due guerre mondiali, Roma, Carocci, 254 pp., Û 23,80 A più di sessant’anni dalla fine dell’esperienza fascista in Europa, il corporativismo con- tinua ad essere un oggetto più spesso evocato che studiato e i cui contorni rimangono vaghi, malgrado la larga circolazione del concetto e la non meno larga fascinazione che esso ha pro- dotto, non solo a destra e non solo nel periodo tra le due guerre. In questo senso, il ritorno di interesse su questo tema, confermato da diversi studi apparsi negli ultimi mesi, non può che essere benvenuto. Tanto di più se, come in questo caso, si cerca di riflettere sulla circolazione di idee corporative e in parte anche di pratiche in Europa e non solo. Il volume a cura di Matteo Pasetti, esito di un convegno organizzato un anno e mezzo fa all’Università di Bologna, ha molti meriti, anche se non sfugge ai limiti che spesso hanno que- sto tipo di raccolte: la farraginosità, la scarsa omogeneità degli interventi, tanto nei temi, che nel tipo di interpretazioni del fenomeno. È tuttavia un libro su cui appare opportuno soffer- marsi, per la ricchezza degli spunti e per l’interesse della maggior parte dei saggi in esso con- tenuti. Questo volume, diviso in quattro parti (La Grande guerra e la riscoperta del corporati- vismo; Propaganda e circolazione di soggetti corporativi; Modelli istituzionali e pratiche corpora- tive; Uno sguardo oltreoceano: riflessioni sull’esperienza brasiliana) ha un nucleo forte relativo al- l’esperienza italiana e a quella portoghese, laddove più sfocate appaiono l’esperienza slovacca, evocata in uno dei saggi, e, tutto sommato, anche l’esperienza brasiliana cui è dedicata l’ulti- ma parte e che sembra seguire piste e domande parzialmente dissonanti da quelle del resto del- la raccolta. La riflessione sulle esperienze portoghesi e italiane viene svolta in maniera interes- sante, perché dalla giustapposizione dei saggi si riesce ad evincere non solo il parallelismo – non privo di differenze – tra i due casi, ma anche la natura dell’influenza dell’esperienza ita- liana sul Portogallo e il modo in cui la circolazione del corporativismo si è fatta concreta at- traverso l’analisi di veri e propri «mediatori culturali» tra i due paesi. Non meno forti appaio- no però le differenze tra i due casi: laddove l’esperienza italiana si pone infatti come un cor- porativismo di Stato più complicata appare la questione in Portogallo, dove non esiste nep- pure il tentativo di statalizzare la costituzione di corporazioni. Complessivamente, comunque, la parte più interessante di questo collettaneo, proprio per le potenzialità aperte dalla compa- razione tra i due paesi, è quella in cui si cerca di tracciare le radici ideologiche del corporati- vismo in un’Europa liberale incapace di trovare legittimità di governo. In questo senso, il cor- porativismo di cui si parla in questo libro continua ad apparire maggiormente la risoluzione di un problema politico e giuridico piuttosto che sociale. L’evocazione del caso francese di Vi- chy apre inoltre interrogativi sulle aporie di un pensiero di sinistra che comincia a concepire la possibilità di avvicinarsi al corporativismo. Giulia Albanese

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Stefania Pastorelli, Lottare per la casa. Le donne delle barriadas di Lima, Roma, Aracne, 105 pp., Û 9,00 A partire dalla metà del secolo scorso profonde trasformazioni politiche, economiche, socia- li e culturali hanno investito i paesi latinoamericani. Le aree dove tali trasformazioni emergono con maggiore intensità sono le aree urbane e in particolare le capitali. Anche Lima vive, con le specificità che la contraddistinguono, le tensioni indotte dalla complessità di tali trasformazioni. Diventa luogo di residenza di un terzo della popolazione nazionale proveniente da tutte le regio- ni del Perù e specchio delle contraddizioni, vecchie e nuove, del paese. Tra il 1940 e il 1993, men- tre la popolazione nazionale passa da poco più di 6 milioni a quasi 23 milioni, la popolazione di Lima cresce di dieci volte raggiungendo circa sei milioni di abitanti. Una delle conseguenze di questo processo è la formazione di migliaia di barriadas e con essa l’espansione e l’affermazione di nuovi attori sociali: i settori popolari urbani. Una barriada sorge quando un gruppo di fami- glie legate da vincoli di parentela o di provenienza geografica decide di occupare un terreno sen- za alcuna infrastruttura e di intraprendere il lungo processo di costruzione di un quartiere le cui fortune sono legate alla capacità di organizzazione e di lotta degli occupanti. Pastorelli ha lavorato a lungo sul campo per la sua ricerca di dottorato e ha raccolto sul tema un consistente numero di narrazioni orali oltre a un’ampia documentazione scritta. In questo lavoro ricostruisce le dinamiche che caratterizzano la genesi e l’espansione delle barria- das analizzando sia i soggetti individuali e collettivi protagonisti delle vicende, sia la produ- zione legislativa che, a partire dal 1961, prevede e regolamenta il riconoscimento degli inse- diamenti, dei titoli di proprietà e le funzioni assegnate alle organizzazioni rappresentative del- la popolazione. Lo fa seguendo i fili della narrazione contenuti nella testimonianza di Ana, ri- portata in appendice. Ana è una dirigente della barriada «El Agustino» di Lima e il suo rac- conto offre una molteplicità di prospettive da cui osservare il farsi di un movimento sociale, quello dei pobladores, in cui le donne giocano il ruolo di protagoniste quasi assolute. Se ini- zialmente la partecipazione femminile consiste soprattutto nel garantirsi un lotto di terreno e nel contribuire ai lavori comuni finalizzati all’urbanizzazione del quartiere, ben presto si esten- de e in modo considerevole, nella costruzione di associazioni e reti di solidarietà di cui le don- ne diventano dirigenti e interlocutrici principali di organizzazioni non governative, partiti po- litici, intellettuali e gruppi femministi. Pastorelli nella sua riflessione sottolinea quanto il pro- cesso di costruzione delle barriadas si intreccia con un percorso che porta le donne da una po- sizione subordinata ad una caratterizzata da grande autonomia e consapevolezza. Il volume è costruito con intelligenza, è interessante e di facile lettura. Presenta un solo limite che è quello di una riflessione tutta interna al caso peruviano senza alcun accenno a esperienze molto simili che pure si costruiscono nello stesso arco temporale in quasi tutti i paesi latinoamericani. Un qualche rapido riferimento a un contesto più ampio avrebbe attri- buito altro significato allo studio del caso singolo. Maria Rosaria Stabili

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Ilaria Pavan, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, Post- fazione di Alberto Cavaglion, Roma-Bari, Laterza, VIII-300 pp., Û 18,00

Renzo Ravenna è un podestà di un capoluogo di provincia restato in carica per dodici an- ni, divenuto di interesse nazionale per via delle connessioni tra il suo essere ebreo e il grovi- glio storico Ferrara-Balbo-antisemitismo-fascismo-Mussolini. In questo volume Ilaria Pavan ci narra che Ravenna nasce nel 1893; è interventista nel 1914 in un gruppo del quale fa par- te anche Italo Balbo; non è fascista antemarcia; diviene responsabile del fascio ferrarese dopo l’uccisione di don Minzoni; nel 1926 è nominato commissario e poi podestà di Ferrara; am- ministra la città senza arricchirsi; nel 1934 è praticamente l’unico «amministratore comuna- le» ebreo della penisola che può conservare la carica; nel marzo 1938 è dimesso; nel luglio 1938 restituisce la tessera del fascio; tornato alla professione di avvocato, lavora anche per le famiglie di Balbo e altri fascisti; nel 1943 scappa in Svizzera; dopo la guerra è in buoni rap- porti con antifascisti; muore nel 1961. Una vita complessa, ricca di contrasti di vario tipo, in parte autonoma rispetto all’ambiente e in parte da esso condizionata. Pavan ce la restituisce con completezza, ricchezza documentaria e scorrevolezza. È vero, si percepisce qua e là un in- completo distacco dalle testimonianze famigliari, oppure si resta insoddisfatti dello scarno spa- zio dedicato, ad esempio, al complesso momento del 1923-1924; ma resta che Il podestà ebreo è veramente una bella biografia storica. Tra l’altro, non essendo Renzo Ravenna un esponen- te dell’ebraismo, questa è forse la prima biografia storica vera e propria delle vicende «civili», ebraiche e persecutorie di un «normale» ebreo italiano. È inoltre un libro su come in quegli anni fu amministrata la città (e qui non ho adeguate competenze). Ed è un libro sulla Ferra- ra ebraica nei primi decenni del secolo, su cui l’autrice apre varie finestre e getta nuove luci. Una di queste concerne la percentuale degli ebrei locali con la tessera del PNF nell’ottobre 1938: il 22 per cento (p. 246); un dato che – pur forse scontando già l’uscita di Ravenna e qualche altro – smentisce mezzo secolo di descrizioni improntate alla totalitarietà fascista del- l’ebraismo ferrarese (il dato nazionale degli ultraventunenni da me elaborato è 27 per cento). Infine il volume, essendo una biografia e non un saggio, non soddisfa la domanda-cardine del groviglio storico menzionato all’inizio: vi erano connessioni in Mussolini tra antisemitismo e lotta contro Balbo, e in quest’ultimo tra lotta contro Mussolini e protezione di Ravenna (pro- tezione non estesa né agli ebrei libici né a quelli italiani dissimili da Ravenna)? Ma anche su questo Pavan, con pacatezza, ci fa fare qualche passo avanti. Il libro termina con una postfazione di Alberto Cavaglion, che lancia alcune stilettate al- la ricostruzione di Pavan. Per me, il Podestà non necessita accompagnamenti e la sede per le critiche sono le recensioni. E poi, cosa significa postfazione? E perché anche nel Podestà al- l’autrice toccano le note della gleba a fine volume e al postfatore quelle senatoriali a piè di pagina? Michele Sarfatti

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Claudio Pavone (a cura di), Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e Fonti, 3 voll.: I, Elementi strutturali, II, Istituti, musei e monumenti, bibliografia e periodici, associazioni, fi- nanziamenti per la ricerca, III, Le fonti documentarie, Roma, Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia-Ministero per i Beni e le attività culturali, Dipartimento per i Beni archivistici e librari – Direzione generale degli Archivi, 579, 589 e 890 pp., s.i.p.

Forse solo uno studioso con alle spalle una profonda e sedimentata cultura storica, non- ché molteplici esperienze di lavoro organizzativo quale è Claudio Pavone, poteva progettare una simile opera. Che è a un tempo importante e coraggiosa. Importante perché raramente si realizzano validi supporti funzionali alla ricerca sulla storia d’Italia del XX secolo. Coraggiosa perché è stata costruita secondo i canoni propri, oggi peraltro considerati per lo più desueti, delle opere cosiddette erudite. Credo che nessuno resterà deluso quando prenderà in mano questi tre volumi. Troverà infatti nelle oltre 2.000 pagine dei 58 saggi in essi contenuti puntuali messe a punto su que- sta o quella problematica. Numerose sono le aree tematiche indagate. Come in tutte le opere collettanee scritte da tante mani c’è qualche difformità tra un saggio e l’altro dovuta non so- lo alle differenti dimensioni quantitative (alcuni sono così estesi che potrebbero essere trasfor- mati in veri e propri libri), ma anche alle rispettive articolazioni. Ci sono saggi in cui prevale il tono descrittivo o espositivo, ce ne sono altri, direi la maggioranza, nei quali schede, dati, notizie, informazioni si intrecciano a riflessioni e osservazioni critiche di notevole spessore sto- riografico. Nel primo volume, oltre a un’utile cronologia relativamente agli anni 1900-1999 e, con riferimento allo stesso periodo, a un repertorio dei governi in carica, si trovano interessanti sag- gi di carattere normativo, istituzionale, economico-finanziario, demografico, eccetera. Nel se- condo volume la storia di singole associazioni, istituti, fondazioni, società culturali di vario genere si intreccia con informazioni riguardanti le tante iniziative da essi realizzate al fine di potenziare e migliorare i modi e le possibilità di fare ricerca storica. Il terzo volume, quanti- tativamente il più esteso dei tre, è dedicato alla affollata quanto diversificata presenza sulla sce- na italiana di istituti conservativi laici ed ecclesiastici, pubblici e privati e alla variegata tipo- logia delle fonti che custodiscono. Lungo tutta l’opera non si parla soltanto di fonti d’archi- vio, la cui gamma è diventata lungo il ’900 molto vasta e diversificata, ma anche di fonti bi- bliografiche, fotografiche, cinematografiche, orali, audiovisive, nonché di risorse digitali. Queste ultime (motori di ricerca, siti web, banche dati, biblioteche virtuali, inventari e cata- loghi on line, documenti digitalizzati, ecc.) sono, come è noto, strumenti di cui oramai nes- suno storico può fare a meno. Anche o soprattutto quanti apprezzeranno la grande mole di informazioni che offre un’opera come questa, che è di «impianto […] in notevole misura tra- dizionale», come scrive Pavone nella sua forse troppo sobria introduzione. Isabella Zanni Rosiello

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Francesco Perfetti, Parola di Re. Il diario segreto di Vittorio Emanuele, Firenze, Le Lettere, 156 pp., Û 14,00

Il libro comprende un saggio di Perfetti sul «giallo» dell’esistenza delle memorie di Vitto- rio Emanuele III e un’appendice dove sono ripubblicate le Memorie del re, uscite sul giorna- le monarchico romano «Il Figaro» fra agosto e settembre 1946 e subito definite «apocrife» dal- lo stesso monarca dall’esilio egiziano. La questione dell’esistenza o meno del memoriale è assai vessata, del resto Perfetti con- clude il suo scritto ammettendo che «la soluzione del “giallo” rimane aperta» (p. 94). Dunque il lettore non ha modo di farsi un’idea definitiva, anche se l’insieme di documenti e soprattut- to di testimonianze che Perfetti raccoglie e mette in successione sembrano deporre a favore dell’esistenza dei testi. Va detto che Perfetti riserva a Vittorio Emanuele un atteggiamento simpatetico e giusti- ficazionista del tutto inopportuno, ad esempio spiega la concessione nell’ottobre del ’22 del- la Presidenza del Consiglio a Mussolini con l’esigenza di evitare che «gli italiani si scannasse- ro fra loro» (p. 9), come se l’assunzione legale del capo dei «manipoli» non fosse il premio più inusitato allo «scannamento» non solo degli avversari, ma dello stesso sistema costituzionale; ma anche della conservazione al potere di Mussolini dopo l’omicidio Matteotti è detto che sa- rebbe servita ad «evitare al paese il rischio di una guerra civile» (p. 9), come se il fascismo non fosse la «guerra civile» istituzionalizzata, ecc. Ciò chiarito poi l’insieme di prove e testimonianze sembrerebbe appunto accreditare l’i- potesi che il re effettivamente tenne, da dopo la fuga a Brindisi fino alla morte, tanto un dia- rio quanto un memoriale, se non «un diario che a poco a poco si trasforma in memoriale» (p. 25), come disse il giornalista Alberto Bergamini, intimo del re, che anzi asserì di averlo letto per buona parte. Due problemi: perché se ne negò l’esistenza? Che fine fece il memoriale? Secondo Perfet- ti decisiva fu l’influenza esercitata da Falcone Lucifero, che considerava la propalazione dei giudizi positivi di Vittorio Emanuele III sul fascismo e Mussolini pregiudizievole per la cau- sa monarchica e per le chance di Umberto di tornare un giorno in Italia (cfr. p. 54, ma anche pp. 86-89). Quanto alla fine che fecero le carte, la tesi più accreditata è che, affidate in punto di mor- te dal re alla regina e da questa alla figlia Jolanda (dunque non a Umberto), fossero da questa distrutte (cfr. pp. 56-58, ma anche p. 73). Ma certo non può escludersi nemmeno che una co- pia del dattiloscritto possa ancora esistere da qualche parte. Il «giallo» potrebbe ancora avere sviluppi. Fabio Vander

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Arrigo Petacco, ¡Viva la muerte! Mito e realtà della guerra civile spagnola 1936-39, Mila- no, Mondadori, 217 pp., Û 18,00

Non avevo mai letto nulla di Arrigo Petacco e mi sono accostato al suo libro sulla guerra civile con curiosità e senza pregiudizi. Quelle che seguono sono le annotazioni che è possibi- le contenere nello spazio assegnato a questa scheda. Scrive Petacco che «Se è vero come è ve- ro che alla fine di ogni guerra le bugie degli sconfitti vengono smascherate, mentre quelle dei vincitori diventano Storia, in Spagna si registrò il fenomeno contrario» (p. 6). Falso: in Spa- gna il racconto della vittoria è stato per trentasei anni quello dei vincitori. Scrive che la Con- federación Española de Derechas Autónomas (CEDA) era il Partito democristiano spagnolo (p. 12), quando fu un partito confessionale, a base sociale agraria, privo di tradizioni demo- cratiche. Scrive che alla vittoria della CEDA nelle elezioni del 1933, contribuì la Falange (p. 13), che era stata appena fondata e che anche nelle elezioni successive prese un numero irri- levante di voti. Scrive che più si studiano le origini della guerra civile «e più si è colpiti dal ruolo preponderante e decisivo svolto dall’Unione Sovietica nella preparazione di questa tra- gedia» (p. 13). La smentita giunge più avanti quando si legge che Stalin «fu sulle prime mol- to cauto rispetto al pronunciamento spagnolo» e che nel «1936, dopo i falliti esperimenti in Germania, in Ungheria e in Cina, non pensava più di “esportare la rivoluzione”» poiché si «rendeva conto che un intervento russo in Spagna avrebbe rotto il precario equilibrio europeo e aumentato le possibilità di un conflitto mondiale. [...]». Da cui «la sua tardiva decisione di inviare aiuti alla Spagna» (p. 75). L’autore definisce la nuova politica dei fronti popolari vara- ta dal VII Congresso dell’IC come tesa all’«unione di tutte le sinistre contro il comune nemi- co di classe» (p. 14), quando si trattò di un’alleanza di tutte le sinistre sì, ma con i partiti di democrazia borghese, come si diceva allora, in chiave antifascista. Scrive che quando la cospi- razione prese avvio nel maggio 1936, i cospiratori contattarono Sanjurjo, Mola e Franco (p. 21), e più avanti che, rompendo gli indugi, il generale Mola aderì al pronunciamiento (p. 27), che sarebbe come scrivere che Mussolini, venutone a conoscenza, aderì alla marcia su Roma, dal momento che Mola, come si riconosce solo molte pagine dopo, fu il «principale promo- tore del pronunciamiento» (p. 144). Scrive che a Barcellona, dopo la ribellione dei militari, i miliziani «scesero lungo le ramblas» per assaltare l’albergo Colón (p. 32), quando considerata l’ubicazione dell’albergo (che era e sta nella Plaza de Catalunya) i miliziani non poterono far altro che risalire le ramblas. Scrive che Franco «del tempo aveva una concezione tipicamente spagnola: pensava che quello perduto fosse guadagnato» (p. 42) che fa torto a Franco, che non perse tempo nel condurre le operazioni militari, ma scelse di utilizzarlo per fare pulizia nelle retrovie. Scrive che la guerra civile iniziò con gli eccessi degli ultras della sinistra (p. 66), quan- do cominciò con una sollevazione di militari determinati a seminare il terrore. Il libro ha 207 pagine e le precedenti annotazioni si riferiscono a meno di un terzo. Serve aggiungere altro? Alfonso Botti

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Andrea Petrioli, Fabrizio Petrioli, Vacanze toscane. Un viaggio nei luoghi di villeggiatura at- traverso le cartoline d’epoca, Firenze, Polistampa, 246 pp., Û 16,00

La pratica della villeggiatura è senz’altro un carattere specifico del turismo italiano. Mo- tivazioni, modalità e modelli di consumo diversi, che talora vantano radici nell’età moderna – quando non in quella antica – continuano a tenere impegnati segmenti sociali altrettanto diversi da un capo all’altro della penisola nel corso dell’intera età contemporanea. La domanda sempre più crescente di turismo, vale a dire di trasporti, di strutture ricetti- ve e di divertimento, espressa anche in Italia in particolare nel secondo Ottocento, si intrec- cia, concorre o talora si innesta sull’antica pratica della villeggiatura. Sotto la spinta di nuove mode, quali ad esempio la balneazione o il termalismo da belle époque, alcune località già ama- te dalle popolazioni residenti in prossimità, vivono trasformazioni urbanistiche, sociali, eco- nomiche profonde, mentre altre segnano il passo, trascurate dai nuovi flussi. La ricchezza di ambienti naturali e culturali consente alla regione Toscana di rispondere alla domanda di turismo con la proposta di numerosi territori. Le antiche pratiche di villeg- giatura si mescolano così alle nuove mode di soggiorno e disegnano una gerarchia di località in base alla loro minore o maggiore mondanità. Tra le testimonianze che più efficacemente documentano tali mutamenti territoriali, so- ciali e culturali sono certamente le cartoline illustrate. Andrea e Fabrizio Petrioli presentano in questo volume una raccolta di cartoline relative a diverse località toscane, ripartite per pra- tiche di soggiorno: vacanze al mare, in montagna e in zone termali. Ciascuna località è intro- dotta da un breve cenno di storia, mentre le riproduzioni delle cartoline, purtroppo non sem- pre datate, sono accompagnate da lunghe didascalie. Va detto che i contenuti del volume non rispecchiano fedelmente il titolo, e solo in alcu- ni casi i soggetti fotografici rimandano o illustrano una pratica di villeggiatura o il soggiorno. In molti casi gli autori si servono delle cartoline d’epoca semplicemente per individuare le di- verse località, senza giungere a definirne il grado e la qualità di frequentazione. Com’è natu- rale, maggiore dettaglio e ricchezza di riferimenti hanno le cartoline relative alle stazioni bal- neari emergenti, come Viareggio ad esempio o Livorno. È in queste località che le cartoline illustrano spiagge, stazioni, hotel e stabilimenti balneari animati da figure che testimoniano mirabilmente la qualità sociale dei frequentatori. Un discorso a parte merita la sezione dedicata alle località termali, dove le cartoline scel- te e pubblicate attestano molto bene una varietà di livelli di sviluppo delle diverse sorgenti: da quelle ancora praticamente allo stato naturale a quella raffinate e oggetto di investimenti co- me Montecatini. Annunziata Berrino

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Stefano Petrungaro, Riscrivere la storia. Il caso della manualistica croata (1918-2004), Pre- fazione di Stuart J. Woolf, Aosta, Stylos, 325 pp., Û 25,00

Al più tardi dopo la prima guerra mondiale, allorquando la Società delle Nazioni si profu- se ufficialmente per una revisione antirevanscista dei manuali scolastici a livello internazionale istituzionalizzando diverse commissioni bilaterali di storici, l’importanza politica di questa par- ticolare produzione storiografica avrebbe dovuto attirare l’attenzione della ricerca storica. Nono- stante l’evidente rilevanza di queste pubblicazioni a larghissima diffusione, soltanto recentemen- te sono diventate oggetto di seri studi. Tra questi vanno annoverati i convegni SISSCO sull’in- segnamento della storia contemporanea e la scuola (Perugia 2002, Pisa 2003), come pure i con- tributi sull’«uso pubblico della storia» (Annale II/2001 et seq.). In questo, se non ancora rigo- gliosissimo, certamente sempre più fruttuoso filone di studi si situa anche l’ottima e ispirata ri- cerca di Stefano Petrungaro sulla manualistica croata dal primo dopoguerra a oggi. Il lavoro col- pisce sia per la solidità dell’impianto teorico e metodologico sia per l’ampio raccordo della ma- nualistica croata quale fonte principale, tanto più se si considera che è nato quale tesi di laurea. Lo studio si suddivide sostanzialmente in due parti. La prima presenta uno «sguardo pa- noramico su manuali e dintorni», identificando i «punti caldi» della storia nazionale croata nel- la sua longue durée, partendo dai primordi mitologici della «nazione» sino a giungere alla pro- clamazione d’indipendenza della Repubblica croata nel 1991. In questo saggio iniziale sono discusse le strutture mentali di diversi stereotipi nazionali, i miti ed i topoi storiografici attra- verso i differenti periodi storici. Riguardo all’uso pubblico della storia nella manualistica croa- ta, Petrungaro giunge all’interessante conclusione che al centro del problema «non sta tanto la falsificazione, quanto il silenzio» (p. 42). Effettivamente le riletture del passato sono state rea- lizzate attraverso «una attenta selezione dei dati» e dei «repertori simbolici» ai quali di volta in volta si poteva ricorrere. La seconda parte del lavoro è quella più empirica. Qui Petrungaro presenta la vasta casistica dei percorsi tematici tratti dai manuali consultati: una dozzina per il periodo monarchico (1918-1941), cinque per il periodo ustascia (1941-1945), una ventina sia per il periodo socialista (1945-1990) sia per quello della Repubblica di Croazia (1991-2004). Evidentemente il metodo applicato di una critica delle fonti manualistiche giunge ai suoi limiti laddove andrebbero mostrati concretamente gli interventi censori da parte degli organi dello Stato. Per forza di cose, qui i risultati rimangono piuttosto sul piano speculativo, p. es: «Sembra non ci possano essere dubbi sul fatto che gli interventi di modifica dei testi rispon- dessero a direttive provenienti dall’alto» (p. 45). Proprio qui dovrebbero partire nuove ricer- che che sulla base di fonti d’archivio dei rispettivi ministeri (che perlomeno per i primi perio- di sono accessibili) documenterebbero precisamente dinamiche e intenzioni censorie. Nono- stante questi limiti, non può sussistere dubbio alcuno che con questo studio Petrungaro ha apportato un ragguardevole contributo alla storia della storiografia europea. Sacha Zala

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Aldo Pezzana, Il Senato del Regno dal 1922 al 1946. La Camera alta, il fascismo e il post- fascismo, Introduzione di Aldo A. Mola, Foggia, Bastogi, 222 pp., Û 15,00

Ricco di informazioni e di nozioni questo volume riprende ed allarga la prospettiva di una precedente pubblicazione sull’epurazione del Senato regio, che resta al centro delle preoc- cupazioni dell’autore, già presidente del Consiglio di Stato. Da questo punto di vista non manca di assumere talora i toni della requisitoria, nel senso del puntiglioso esame della coe- renza giuridica dei provvedimenti che si susseguono dopo l’8 settembre 1943, secondo una prospettiva nazional-monarchica. Espressione massima della «diarchia» istituzionale che caratterizza il periodo fascista, «in tutto il ventennio il Senato fu un santuario che il regime rispettò sempre» (p. 40), tanto che «la dignità senatoria non venne colpita dalle leggi razziali, sicché la decina di senatori israeli- ti allora in carica rimase al suo posto». Del ventennio fascista viene sottolineato il dato perio- dizzante della riforma del regolamento approvata il 21 dicembre 1938, entrata in vigore nel 1939, che di fatto comporta il completo controllo della Camera alta, contestualmente alla tra- sformazione della Camera dei Deputati nella non più elettiva Camera dei Fasci e delle Cor- porazioni. Il fascismo repubblicano coerentemente lo soppresse, il 28 settembre 1943 (d.l. 29 set- tembre 1943, n. 263). Sotto l’egida del governo legittimo dopo la «catastrofe dell’8 settembre […] il Senato come corpo politico non poteva costituzionalmente funzionare». Ma la critica di Pezzana si appunta sulle disposizioni che colpiscono il Senato ed in particolare l’epurazio- ne indiscriminata, a partire dal d.l.l. 27 luglio 1944, n. 159 (pp. 166 ss.), che apre la strada ad una serie di ricorsi in Cassazione pressoché tutti accolti, fino al 26 ottobre 1948, salvo quel- li della dozzina di senatori che avevano aderito alla Repubblica sociale. Scopriamo così alcu- ni elementi molto concreti della dignità senatoria, come l’indennità e soprattutto il «perma- nente ferroviario» e le vicende poco note dei tre senatori albanesi in carica nel 1944. Utili da questo punto di vista da ricordare la lista in appendice e le pagine dedicate all’at- tività del Senato come alta corte di giustizia (338 pronunzie in poco meno di un secolo): in questo senso essa continua, sia pure in commissione, anche dopo l’abolizione decretata con d.l. 24 giugno 1946. Retto da un commissario, il consigliere di Stato Montagna, continua di fatto a lavorare fino alla soppressione avvenuta con l.cost. 3 novembre 1947, n. 3. D’altra parte Pezzana ricorda che quello italiano è il primo caso di una monarchia che ri- mette le sue sorti ad un voto popolare: coerentemente peraltro con il dato dei plebisciti e l’o- rigine «rivoluzionaria» dell’Unità, «ripudiata da Vittorio Emanuele II e da Cavour la soluzio- ne confederale prevista dalla pace di Zurigo del 1859» (p. 153). Francesco Bonini

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Marco Philopat, Lumi di punk. La scena italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia X, 235 pp., Û 16,00

Lumi di punk è una collezione di testimonianze e brevi scritti autobiografici di alcuni esponenti delle prime generazioni punk o punkanarchiche (come si definì nei primi ’80 la «sce- na» più politicizzata del punk italiano). Nonostante il paradosso che fece dell’urlo punk «no future!» un emblema politico ed esistenziale, oggi sono sempre più numerose le voci autobio- grafiche disponibili per una storia delle culture e dei movimenti giovanili post-’70. Il volume è frutto del lavoro di raccolta e curatela di Marco Philopat, egli stesso protagonista del punk degli ’80, nonché scrittore, «agitatore culturale» e operatore dell’editoria indipendente. L’oc- casione è stata fornita dalla mostra-evento «Beat Hippy Autonomi Punk», che ha percorso tra il 2005 e il 2006 molte città italiane, dedicata alle controculture e ai loro intrecci con i movi- menti sociali degli ultimi trent’anni. Il testo pubblicato raccoglie trascrizioni e rifacimenti degli interventi svolti durante le pre- sentazioni, insieme a testi autobiografici scritti ad hoc. Viene così in luce un dialogo intersog- gettivo sulla memoria ed il significato di un’esperienza collettiva, vissuta con continuità tra la fine dei ’70 e il decennio successivo. Su questa scia, il curatore presenta il testo come una sor- ta di «seminario creativo itinerante sulle dinamiche culturali, sociali, politiche ed esistenziali che il punk ha innescato a partire dalla metà degli anni Settanta» (p. 6). La tesi presentata è netta: da una parte, il punk avrebbe inscenato una rappresentazione della sconfitta dei movi- menti sociali di fine ’70; mentre dall’altra avrebbe contribuito, in alcuni circuiti dell’attivismo, ad una rielaborazione della crisi, ed in qualche misura ad un suo superamento, nell’itinerario sviluppato negli ’80 attraverso i «centri sociali autogestiti» e l’«autoproduzione» culturale. Gli interventi, nella loro varietà, mostrano posizioni e percorsi personali anche assai di- versi, specie in rapporto alla grande varietà delle forme di politicizzazione del punk italiano (poste in relazione, o meno, alle esperienze militanti di area autonoma, e differenti a seconda della generazione dei protagonisti e dell’importanza attribuita alle pratiche musicali). Nel complesso, il volume mantiene aperta la tensione positiva (e l’ambivalenza) che nel punk si ar- ticolò tra «scena» culturale e «movimento» sociale, tra «attitudine» e «militanza». Al di là della parzialità e non neutralità degli sguardi proposti, questi offrono almeno tre im- portanti chiavi di accesso per lo studio dei movimenti giovanili post-’70: l’apparire di nuove for- me di politicizzazione dei giovani fondate sulle pratiche culturali; il loro rapporto competitivo e antagonista con il mercato della cultura, dei media e del consumo; e fonti inedite per l’«immagi- nazione» e la soggettività dei giovani (dai viaggi di formazione a Londra e Berlino, al rapporto con le «tradizioni» militanti dei ’70, fino al ricco inventario mediale a cui attingere, sia mainstream sia indipendente). Ne emerge il racconto di un’esperienza innovativa rispetto ai movimenti prece- denti, nei confronti dei quali appare una irrisolta, complessa e creativa rete di collegamenti. Beppe De Sario

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Sergio Piane, Ippolito Spadafora, La massoneria a Pisa. Dalle origini ai primi del Novecen- to, Foggia, Bastogi, 263 pp., Û 15,00

Gioca decisamente a sfavore di questo libro l’inevitabile confronto con quello sulla mas- soneria a Livorno, pubblicato pochi mesi più tardi (cfr. la scheda in questo Annale). Per il vo- lume su Livorno si sono messi all’opera diversi specialisti e la presenza come curatore di Ful- vio Conti è di per sé un nesso con la più recente produzione storiografica, cioè con il volume sulla massoneria della Storia d’Italia Einaudi. I due autori del libro su Pisa, invece, non sono degli «addetti ai lavori», come si deduce dal retro di copertina: il che non avrebbe nessuna im- portanza se non influisse visibilmente sul risultato. Disorienta, ad esempio, trovare riprodot- ti nel volume due saggi di altro autore, segnalato semplicemente da un richiamo in nota: si tratta dello studio di Mario Montorzi sui processi contro Filippo Mazzei e i patrioti pisani del 1799 e di quello sulla famiglia Vaccà Berlinghieri (pp. 34-56). Altrove, nelle pagine sulle ma- nifestazioni anticlericali di fine secolo oppure in qualcuna delle schede biografiche, si sfiora la parafrasi di molte pagine dell’ultimo libro del compianto Lorenzo Gestri (Le ceneri di Pisa. Storia della cremazione. L’associazionismo laico nelle lotte per l’igiene e la sanità 1882-1939). Non giovano al testo neppure alcune sviste, come un «Pietro Leopoldo II» (p. 57), del quale tra l’altro è data per certa un’affiliazione massonica su cui nutre molti dubbi, invece, Renato Pasta (pp. 470-75 del saggio nel volume einaudiano sulla massoneria). La parte utile del libro è quella che comprende l’elenco delle logge pisane e dei rispettivi affiliati dal 1861 al 1925 e le osservazioni in merito degli autori (pp. 97-133 e 209-28). Non solo il numero elevato delle logge, tra cinque e otto in media entro i primi del ’900, ma la lo- ro grande diversificazione per «obbedienze» dimostrano «un fermento culturale massonico pi- sano di grande interesse. Tutte le vicende massoniche nazionali trovano eco a Pisa» (p. 104), ad iniziare dal caso famoso della loggia Azione e Fede che nel 1861 si era opposta all’elezione a Gran Maestro del GOI di Costantino Nigra. Nell’elenco degli affiliati compaiono molti pro- tagonisti della vita politica cittadina e la loro appartenenza all’una o all’altra loggia è un’infor- mazione importante per decifrare il gioco intricato degli schieramenti. Alle numerose occa- sioni già note, nelle quali contò la presenza massonica, come il movimento per la cremazio- ne, la fondazione di società di mutuo soccorso o di volontariato, l’erezione dei monumenti a Mazzini e a Garibaldi, restano da aggiungere gli aspri scontri, in sede locale, sul tema dell’i- struzione, specialmente quella infantile e femminile, visto che la «diffusione della popolare coltura» è stata uno dei fondamenti dell’impegno civile della massoneria italiana. Mirella Scardozzi

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Filippo Pigliacelli, Una nuova frontiera per l’Europa. Storia della cooperazione spaziale eu- ropea (1958-2005), Bologna, Clueb, 284 pp., Û 18,00

Il volume rappresenta un’utile sintesi di un soggetto relativamente poco studiato, che si pone all’intersezione tra storia dell’integrazione europea, storia della scienza e storia delle re- lazioni internazionali, e colma una lacuna della storiografia in lingua italiana. L’autore mostra come la cooperazione spaziale europea, che prese le mosse alla fine degli anni Cinquanta nel contesto del clamore suscitato dal lancio dello Sputnik, abbia conseguito notevoli successi, portando l’Europa, grazie soprattutto all’azione di coordinamento svolta dall’ESA, l’Agenzia spaziale europea, ad affermarsi come leader mondiale in materia di ricerca scientifica spaziale e nel campo dei lanci commerciali. Ciò nonostante rimane un gap profondo da colmare con il principale concorrente nel settore, gli Stati Uniti, soprattutto in termini di risorse pubbli- che investite. Il libro si divide in due parti, di lunghezza quasi pari, secondo un criterio cro- nologico: nella prima viene preso in esame il periodo fino a metà anni Ottanta; nella secon- da gli eventi più recenti, a partire dai primi anni Novanta per arrivare allo sviluppo del Pro- gramma Galileo e a una disamina degli articoli dedicati alla cooperazione spaziale all’interno del progetto di costituzione europea. Due sono i motivi conduttori del libro: da un lato la dia- lettica tra i paesi europei, da cui emerge una Francia alla ricerca di un complemento in ambi- to europeo alle proprie ambizioni di sviluppo nazionale, mentre il Regno Unito, corteggiato nella prima fase come paese europeo più avanzato in campo aerospaziale, era ovviamente re- stio ad impegnarsi in progetti che sembravano in definitiva avvantaggiare soprattutto altri. Pa- rallelamente il libro evidenzia il difficile rapporto con gli Stati Uniti, che hanno rappresenta- to per gli europei al contempo un partner indispensabile e un pericoloso concorrente. L’auto- re sottolinea come il passaggio dei primi anni Novanta, con la crisi del Golfo e le guerre bal- caniche, che resero evidente la dipendenza europea dall’alleato di oltreoceano in materia di supporto satellitare alle operazioni militari, abbia condotto i paesi del vecchio continente ad una maggiore consapevolezza della necessità di una più stretta cooperazione in materia spa- ziale. La tesi di fondo sostenuta dall’autore è che, data l’importanza crescente dello spazio, sia in termini economici (soprattutto per lo sviluppo delle telecomunicazioni), che di sicurezza, sia divenuto necessario superare le forme di cooperazione intergovernativa affermatesi nel pas- sato, con risultati peraltro non trascurabili, e procedere alla definizione di priorità ed obietti- vi di una strategia europea complessiva per lo spazio, «comunitarizzando» in qualche modo l’ESA (la cui membership non coincide con quella dell’UE e che opera secondo il principio del juste retour). Il carattere di sintesi del libro ne giustifica una delle debolezze più evidenti, os- sia le relativa esiguità delle fonti primarie utilizzate, consistenti in alcuni dei fondi conservati agli Archivi storici dell’UE di Firenze, mentre sarebbe stato interessante allargare gli orizzon- ti dell’analisi. Francesco Petrini

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Valentina Pisanty, La difesa della razza. Antologia 1938-1943, con un contributo di Luca Bonafé, Milano, Bompiani, 376 pp., Û 9,50

L’autrice pubblica una selezione ragionata e commentata di articoli del quindicinale «La di- fesa della razza» (1938-1943), articolata in sei capitoli: La difesa della razza (ossia la storia della rivista); Ma cos’è questa razza?; Catalogare le razze; Stereotipi razzisti; Pura razza italiana (di Bo- nafé); L’Eterno Ebreo. Il volume pare diretto a un pubblico già in possesso di informazioni sul- l’azione razzista e antiebraica del fascismo e ora interessato a conoscere in particolare il contenu- to del discorso sviluppato dalla principale rivista di divulgazione di quei temi. Il periodico vie- ne come disteso su un tavolo anatomico, disaggregato e riaggregato, con un ottimo intreccio di articoli ed «elementi paratestuali»: le assai curate e «moderne» copertine e illustrazioni interne. L’impostazione narrativa prevede frequenti domande in apertura o nel corso della narra- zione: «Cosa si sapeva del concetto di razza ai tempi in cui Telesio Interlandi lanciava la sua rivista? […] Qual era la rete di immagini e di conoscenze che la parola razza potenzialmente attivava nella mente di un italiano o di un’italiana nel 1938?» (p. 67). Come esempio di ri- sposta si possono riportare brevi passi del paragrafo sugli africani: «L’approccio è sempre quel- lo del naturalista che esamina i suoi esemplari con impassibile superiorità, schedandoli. […]. Il disprezzo trapela abbondantemente nelle scelte lessicali. […] Spetta pertanto a noi di por- tare alla luce le premesse che questi testi lasciano implicite» (pp. 170-1). Quanto agli ebrei, è di interesse il fatto che essi siano oggetto delle foto più repulsive o inquietanti e dei titoli più aggressivi (pp. 261-4). Del saggio di Bonafé in questa sede interessa particolarmente il paragrafo La storia secon- do i razzisti. Come egli nota, gli articoli «storici» della rivista giungono tutti alla conclusione che «fare storia non significa ricercare qualcosa», poiché tanto il passato quanto il presente «hanno già ricevuto una spiegazione nel razzismo» (p. 220) (condivido la scelta di «nel» inve- ce che «dal»). L’ultimo capitolo (quello sull’antisemitismo) contiene un interessante ma a mio parere troppo lungo excursus sui Protocolli dei savi anziani di Sion, da Pisanty motivato col fatto che «la traballante costruzione concettuale dell’antisemitismo fascista» aveva per stampella «il mi- to della cospirazione», fondato innanzitutto sui Protocolli (p. 20). La sua presenza contrasta anche col fatto che il pamphlet ha rarissime menzioni esplicite nella rivista (e mai da parte di Interlandi, Evola, Almirante) (p. 340). Pisanty (ignara dell’imminente impegno pubblico del Mulino per una nuova valutazio- ne delle confessioni rilasciate sotto tortura) segnala negativamente la presenza di articoli sul piccolo Simone, secondo i difesarazzisti «ucciso dagli ebrei […] per fini rituali» (p. 273). Il volume si conclude con la constatazione: «Dello sterminio in corso non si fa accenno» (p. 353). Michele Sarfatti

332 I LIBRI DEL 2006

Stefano Pivato, Il Touring Club Italiano, Bologna, il Mulino, 166 pp., Û 12,00

La storia del turismo, sia pur lentamente, mette radici anche nel nostro paese, e in questo contesto si è subito avvertita la mancanza di una ricostruzione delle vicende della principale isti- tuzione turistica, il Touring Club Italiano. Questa lacuna è ora parzialmente colmata dall’opera di Stefano Pivato, già autore di buoni lavori sulla storia del tempo libero. Il suo lavoro è interes- sante, di piacevole lettura e documentato, nei limiti consentiti a una sintetica opera di alta di- vulgazione, che utilizza solo fonti secondarie (un lavoro più impegnativo, auspicabile, richiede- rebbe approfondite ricerche negli archivi del Touring, comunque largamente lacunosi). Pivato riesce a proporre una prima visione d’insieme della storia del Touring, anche se forse parte da troppo lontano (il Grand Tour!), diluendo così la novità del turismo rispetto al- la lunga tradizione del viaggio. Gli ultimi capitoli sono più svelti ed efficaci rispetto alla pri- ma parte, ma tale distribuzione della materia riflette anche la visione di Pivato, nella quale il Touring nasce già adulto, ma muore giovane... In effetti, pur consapevoli del rischio di tesser- ne l’apologia, è difficile sottrarsi al fascino del primo Touring: profondamente milanese (qui ebbe sempre i suoi organi di governo) nel senso migliore del termine, con una sana diffiden- za per Roma e il Sud; liberale sul modello inglese, assai più dei governi del tempo, ma in for- me aperte e con un largo spirito associativo, educativo e democratico (e anche per questo guar- dato con sospetto da socialisti e cattolici); ben collegato alla nascente industria italiana, nella città del Politecnico; determinato nel perseguire un’idea semplice ed efficace, e cioè che la pra- tica dello sport, l’adozione dei nuovi mezzi di trasporto (bicicletta, auto) e migliori collega- menti avrebbero accelerato la modernizzazione del paese; sorretto da un forte spirito naziona- le, nella convinzione che solo attraverso la conoscenza diretta dell’Italia si poteva completare l’opera del Risorgimento («L’Italia farà gli Italiani!»). Tale ruolo, secondo Pivato, entra tuttavia in crisi quando il fascismo (con cui il Touring, tra alti e bassi, trova comunque un terreno d’intesa) fa propria larga parte del programma del- l’associazione, occupandosi in prima persona del turismo, attraverso le istituzioni pubbliche e iniziative quali i celeberrimi «treni popolari», con il risultato di relegare il Touring in un ruo- lo sussidiario (ma a questo proposito andrebbe approfondito quel divario tra i roboanti pro- grammi e la loro effettiva realizzazione che fu caratteristico del fascismo). Né il Touring, sem- pre secondo Pivato, riesce a recuperare la perduta influenza nel secondo dopoguerra, quando il turismo s’impone definitivamente nella vita del paese, ma in forme ludiche e consumisti- che, poco toccate anche da quella nuova sensibilità ambientale e paesaggistica di cui il Tou- ring andava dotandosi. E così, dopo molti e meritati elogi, Pivato giunge ad una conclusione paradossale, quasi un epitaffio: «dopo oltre un secolo di vita, gli ideali e la cultura del Touring non appartengo- no che in minima parte alla identità del nostro Paese» (p. 153). Ma è davvero così? Claudio Visentin

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Geoffrey J. Pizzorni (a cura di), L’industria chimica italiana nel Novecento, Milano, Fran- coAngeli, 277 pp., Û 20,00

Il libro raccoglie relazioni e interventi presentati a un convegno svoltosi a Milano nel 2004 cui hanno partecipato storici economici e della scienza, tecnici e protagonisti di una vi- cenda che si è dipanata tra successi (alcuni) e crisi (di portata assai rilevante). Esito dunque di un convegno e dell’impegno di un gruppo composito di autori, il volume si rivela utile per fa- re il punto sull’evoluzione dell’industria chimica in Italia tra la fine del XIX secolo e la crisi degli anni Settanta del Novecento, grazie in particolare ad alcuni saggi (dello stesso curatore Pizzorni, di Angelo Moioli, di Vera Zamagni) che basandosi sulla letteratura esistente ne pro- pongono efficaci sintesi. Accanto a interventi di taglio storico il volume ne presenta altri di commento e giudizio sulle dinamiche più recenti e di illustrazione della ampia gamma dei prodotti e dei processi che caratterizzano il comparto. Due contributi consentono di inquadrare le vicende nell’evoluzione del settore a livello internazionale: Peter Hertner tratta del primato della chimica tedesca tra le due guerre mon- diali, mentre Raymond Stokes delinea i cambiamenti intervenuti dopo il 1945 quando la lea- dership è saldamente assunta dalle imprese statunitensi. Osservando la parabola della chimica italiana si colgono taluni momenti cruciali della sto- ria industriale ed economica del paese: la Grande guerra segna la raggiunta maturità del com- parto; negli anni Venti e Trenta si registrano significativi incrementi della produzione, anco- ra più marcati nel secondo dopoguerra allorché l’affermarsi del paradigma del petrolio si tra- duce nella creazione delle grandi raffinerie sulla costa e nel moltiplicarsi degli impianti petrol- chimici. Lo Stato e le grandi imprese, non di rado controllate dalla mano pubblica, emergo- no come principali protagonisti della storia. Rolf Petri e Gino Pagano dedicano i loro contri- buti appunto al ruolo dell’intervento pubblico, di enorme rilevanza almeno a partire dagli an- ni Venti grazie ad aziende quali AGIP, ANIC ed ENI. Accanto ad esse si stagliano poche altre grandi imprese private, prima tra tutte la Montecatini. Nella combinazione tra azione della grande impresa e politiche dello Stato si debbono individuare le cause dei successi dell’indu- stria chimica italiana, in qualche caso assolutamente significativi nel campo della ricerca (in- teressanti sono le annotazioni relative a tecnici e scienziati di grande valore quali Giacomo Fauser e Giulio Natta i cui studi sono stati sostenuti dalla Montecatini). Le grandi imprese e lo Stato, le prime rivelatesi sin dagli anni Sessanta incapaci di man- tenersi al passo dell’innovazione, il secondo responsabile di avere incentivato investimenti fi- nalizzati alle produzioni di base ed intermedie piuttosto che a quelle della chimica fine, ap- paiono poi incapaci di affrontare le nuove sfide che le mutate congiunture e la concorrenza impongono. Oggi, in assenza di grandi imprese e caduta in disgrazia ogni ipotesi di politica industriale, le prospettive appaiono davvero incerte. Marco Doria

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Elena Polidori, Via Nazionale. Splendori e miserie della Banca d’Italia, Milano, Longane- si, 195 pp., Û 13,60

Il volume è una via di mezzo fra l’opera di divulgazione storica e l’instant book, confezio- nato per sfruttare l’interesse che la Banca d’Italia ha recentemente suscitato nell’opinione pub- blica, dopo essere finita sotto i riflettori della cronaca, più che per i meriti di Carlo Azeglio Ciampi, per la rovinosa conclusione della parabola del suo successore Antonio Fazio. L’improvvisa notorietà dell’istituzione e del suo più illustre inquilino servono da sfondo per una serie di brevi biografie dei predecessori di Fazio, a partire non dal governatore Bonal- do Stringher, che per primo ricoprì la nuova carica istituita nel 1928, ma da Vincenzo Azzo- lini, ricordato soprattutto per il processo, la condanna e la successiva assoluzione dall’accusa di aver consegnato le riserve auree della Banca ai nazisti. Il libro per fortuna non indugia sul tono scandalistico, e si propone, con una certa efficacia narrativa, di disegnare il diverso ca- rattere dei governatori che, dopo la forzata notorietà di Azzolini, hanno ricercato una sobrietà di condotta, la lontananza dai riflettori della cronaca e dalla notorietà, pur con la parziale ec- cezione di Guido Carli, accostato per certi tratti al Faust del Mefistofele (opera a lui molto ca- ra), per il gusto profondo di fare politica e influire sui governi anche a rischio di mettere a re- pentaglio la propria indipendenza. Cifra comune a tutti i governatori dell’Italia repubblicana è il profondo rigore intellettuale e morale nello svolgere la propria delicata funzione al servi- zio dell’economia del paese, non sempre confortati dal dovuto appoggio da parte della classe politica. Sobrietà e grande competenza tecnica sono gli elementi che hanno costruito l’aura di rispetto che per alcuni decenni ha circondato l’istituzione. Le vicende del governatore Fazio, testimone poco entusiasta dell’avvento dell’euro e del- la Banca centrale europea, che hanno ridimensionato funzioni e poteri delle banche naziona- li, segnano un momento di grave caduta di prestigio dell’istituzione, coinvolta nelle recenti contese finanziarie nazionali, in cui il governatore si è trovato a giocare non da arbitro, ma da parte interessata. Costruito su aneddoti di natura personale per rendere il carattere dei personaggi, dalla corpulenza di Donato Menichella, al ricordo della madre sartina di Paolo Baffi, il libro man- ca in maniera sconcertante di riferimenti fattuali precisi, anche sulle vicende degli anni più re- centi. C’è da chiedersi cosa ne potrà ricavare un lettore fra vent’anni, quando la memoria del- le recenti lotte politiche e finanziarie si sarà sbiadita. Resta però una certa efficacia descrittiva nel delineare il carattere dei personaggi e nel ren- dere l’atmosfera sacrale di Palazzo Koch, che ogni studioso che abbia avuto accesso al palazzo ha sicuramente avvertito. Alessandro Polsi

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Alessandro Polsi, Storia dell’ONU, Roma-Bari, Laterza, VII-247 pp., Û 20,00

Non è facile scrivere delle Nazioni Unite date le ricorrenti fantasticherie su un governo, un diritto e una pace mondiale o, d’altra parte, le filippiche unilateraliste dei conservatori statuni- tensi contro l’idea stessa d’organizzazione internazionale. Polsi riesce invece a trascendere (pur senza ignorare) queste visioni teleologiche e ci offre un’attenta ed equilibrata ricostruzione del- l’accidentato percorso di un’organizzazione complessa, evidenziandone pregi e limiti nei diver- si momenti della sua vicenda per arrivare a delineare un persuasivo bilancio storico. Il pregio del libro (che include un saggio bibliografico e un’appendice con alcuni dei do- cumenti chiave di questa storia) sta nell’intrecciare le dinamiche delle diverse idee su ciò che l’ONU avrebbe dovuto essere con la descrizione delle sue effettive procedure ed istituzioni, e dei loro mutamenti nel corso del tempo. Soprattutto, le continue interazioni tra quei due pia- ni sono analizzate sullo sfondo mobile delle relazioni internazionali e raffrontate alle tensioni che di volta in volta emergono e alle soluzioni che i numerosi protagonisti – dalle superpo- tenze alle ONG, dai nuovi paesi indipendenti alla stessa tecnocrazia internazionale – esigereb- bero dall’ONU. Costruito in progressione cronologica, il testo evidenzia le fasi che scandiscono l’espan- sione e trasformazione dell’organizzazione, il variare delle egemonie politiche che in essa si ri- flettono, il mutare dell’agenda che le viene affidata e quindi delle funzioni che essa tenta di assolvere. Ne emerge un ritratto assai variegato, in cui è possibile cogliere tanto il positivo im- patto cumulativo di un percorso declaratorio ma anche gestionale in favore dei diritti umani, della cooperazione o del peacekeeping, quanto le debolezze di fronte agli Stati più potenti, i fallimenti operativi o i momenti di più incongrua strumentalità. Benché meno propenso dell’autore ad accreditare le potenzialità iniziali di ridefinizione delle relazioni internazionali, o il valore ideale di una nozione forte di collaborazione mondia- le, trovo che il bilancio delle storia dell’ONU che egli traccia sia persuasivo nei suoi chiaroscu- ri, ben argomentato nei passaggi più difficili o ambigui, e decisamente utile per inserire fatti- vamente il fattore ONU nella storia globale del secondo Novecento o anche solo nella storia delle relazioni internazionali. La conclusione aperta, sui pregi di «una complessa amministra- zione internazionale, dotata di grandi competenze» (p. 182) che ha non sempre, ma spesso, di- mostrato la sua utilità per un’agenda di democratizzazione, pacificazione, riequilibrio econo- mico e rispetto dei diritti umani compendia l’approccio storico e non teleologico di Polsi. Per tutto questo, oltre che per la scorrevole chiarezza del testo, si tratta di un libro molto proficuo per gli studiosi, per la didattica e per la divulgazione colta. L’unico infortunio che tocca segnalare riguarda la guerra di Corea: l’URSS fu colta in contropiede dal ricorso ameri- cano all’ONU, ma l’attacco nordcoreano non può definirsi «inaspettato» (p. 58), visto che era stato autorizzato da Stalin e pianificato con l’aiuto di consiglieri sovietici! Federico Romero

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Silvio Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, XXIV-265 pp., Û 24,00

Il volume è il frutto di un progressivo consolidamento di ricerche e interpretazioni che l’autore aveva anticipato e proposto in precedenti occasioni. Il risultato, nei suoi diversi pun- ti di osservazione, rappresenta «il primo tentativo di ricostruire la politica internazionale di Berlinguer dalla sua elezione a segretario del PCI alla sua morte, basato su documenti di ar- chivio» (p. XXII). Documentazione del PCI e di provenienza sovietica: l’intreccio tra le fon- ti fornisce una trama ricca, completa e di grande interesse. Il contributo appare segnato dalla prevalenza di un percorso interpretativo che costituisce un quadro di riferimento del periodo, il risultato di una stagione di studi e di ricerche tra Roma e Mosca. L’andamento è cronologi- co, legato alla parabola di Berlinguer e alla sua leadership. Il momento iniziale nelle ricadute del ’68 italiano e internazionale, l’epilogo negli interrogativi inevasi sull’eredità difficile e con- troversa del leader comunista. Berlinguer e il suo itinerario sono l’occasione per mettere a fuoco le dinamiche di interazio- ne tra quadro interno e contesto internazionale; un approccio su cui Pons ha già lasciato il se- gno in studi più o meno recenti. In questo caso la trama coinvolge diversi protagonisti e punti di osservazione: il movimento comunista internazionale nelle sue dinamiche, il PCI stretto tra ortodossia ed eresia, il sistema internazionale della guerra fredda con i suoi condizionamenti e, sullo sfondo, i sintomi evidenti e poco ascoltati della crisi della Repubblica ben prima delle ce- lebrazioni in tema dell’inizio degli anni Novanta. Si conferma così la centralità degli anni Set- tanta per comprendere processi che hanno modificato assetti e rapporti di forza consolidati. La parola chiave che compare nei titoli dei capitoli è l’eurocomunismo, prima inventato, poi sconfitto, infine proposto in un paese solo. Una parabola indicativa e un’analisi convin- cente sullo spazio esiguo e sulle debolezze strutturali di una proposta politica che ha attraver- sato parte del movimento comunista in quegli anni senza fare «proseliti e la sua spinta pro- pulsiva si era esaurita senza generare un movimento politico degno di questo nome, identifi- cabile con una tradizione riformatrice interna al comunismo: il suo fallimento significava an- zi la marginalizzazione dell’ultima cultura politica organizzata che si qualificava in Europa oc- cidentale come l’erede della tradizione rivoluzionaria della sinistra» (pp. 257-8). La sconfitta di Berlinguer è tutta dentro il portato di una conclusione così perentoria. Rimangono aperti una serie di quesiti che vanno al di là della stagione berlingueriana. Ne indicherei due, parte della anomalia italiana di quel decennio. Il giudizio sul portato dello strappo da Mosca, rilut- tante e incompleto per l’autore e tuttavia carico di conseguenze e ricadute (basti il riferimen- to al sostegno ricevuto dagli oppositori interni); l’eredità di Berlinguer in quella che viene de- finita «identità debole» (p. 258) che anteporrebbe una ricerca etico-universalistica alle sfide della politica. Con lo sguardo sull’Italia che si profila all’orizzonte nei primi anni Ottanta lo spessore del rapporto tra etica e politica rimane un nodo irrisolto e, per molti versi, attuale. Umberto Gentiloni Silveri

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Silvio Pons, Robert Service (a cura di), Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. I, A- L, Torino, Einaudi, XVII-513 pp., Û 68,00

«È giunto il tempo di fare un bilancio del comunismo nel XX secolo» (p. IX). Così si apre l’introduzione di quest’opera, firmata dai due curatori. Di meglio non si potrebbe scrivere per presentarla. Solo qualche anno fa un lavoro che prendesse in considerazione assieme Gramsci e Ceaus¸escu, Lukács e Pol Pot non sarebbe stato immaginabile. L’italiano e l’ungherese, non solo perché filosofi, non si potevano certo accostare a spietati e sanguinari dittatori. Eppure, oggi è tanto più chiaro che tutti, il filosofo e il despota assassino, si riconoscevano in un unico universo, chiamato «comunismo». Perciò è tanto più apprezzabile la decisione dei curatori di non nascondersi dietro il plurale «comunismi», escamotage retorico che serve in questo caso poco a capire, e di far al contrario emergere l’universale piuttosto che il particolare. Va da sé che trattandosi di un’opera rigorosamente storiografica scritta da esperti, le differenze (di con- testo e di tempo) e le responsabilità sono ben individuate nelle diverse voci. Oltre a quelle bio- grafiche, che riguardano non solo coloro che hanno militato all’interno del comunismo, ma anche chi quel movimento ha combattuto, il dizionario si occupa anche delle istituzioni del co- munismo e infine dei concetti della sua dottrina. Tutto questo sforzo è compiuto da un’équi- pe internazionale: i principali studiosi sono italiani e anglo-americani, ma non mancano fran- cesi, tedeschi, israeliani e va da sé russi, polacchi. I lemmi, di dimensione varia a seconda del- l’importanza del personaggio o dell’istituzione presa in considerazione, sono una soddisfacen- te via di mezzo tra la voce specialistica e quella per un più largo pubblico. Lo studioso troverà in ogni voce più di un elemento di interesse. Grazie all’uso delle fonti archivistiche sovietiche, idee che erano considerate reçu sono ora messe in discussione. Ma l’agilità di linguaggio e di sintesi permette anche a chi è totalmente estraneo all’argomento di seguire il dipanarsi dei pro- cessi. In tal senso, questo Dizionario appartiene in pieno all’ultima generazione dei dizionari storiografici, opere di consultazione, certo, ma composte in modo tale da poter essere proficua- mente lette dalla prima all’ultima pagina. Emerge il ritratto di un movimento politico plane- tario, quello dei comunisti che, come scrivono Pons e Service nell’introduzione «quando non hanno avuto il potere, hanno contribuito a lotte di emancipazione sociale e di liberazione. Quando lo hanno avuto, hanno instaurato regimi oppressivi e liberticidi». E a chi, come Eric Hobsbawm (con cui queste righe implicitamente polemizzano), ritiene che il comunismo ab- bia svolto una funzione positiva e lasciato qualcosa in eredità, gli autori ribattono convincen- temente che «la sua minaccia rivoluzionaria può avere costretto il capitalismo a riformarsi ma il suo obiettivo non era questo. Il suo universalismo non ha lasciato alcuna tangibile eredità cul- turale e istituzionale […]. Il suo esperimento sulle strutture sociali si è rivelato tanto gigante- sco quanto distruttivo […]. La sua memoria è inseparabile da alcune delle peggiori tragedie e dei più infami crimini contro l’umanità compiuti nella storia contemporanea» (p. XVII). Marco Gervasoni

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Elia Ponti, La recezione del diritto privato occidentale in Cina fra il 1840 ed il 1949, Mila- no, Unicopli, 222 pp., Û 14,00

Si vuole che per secoli in Cina le relazioni familiari, l’uso e il possesso della terra, lo scam- bio di prodotti, siano stati regolati dalle consuetudini nell’ambito dei valori confuciani. Che non vi fossero né il principio di legalità, né magistrature, giacché il codice della dinastia Qing, che è rimasto in vigore fino alle riforme del secolo XX, aveva carattere penale-pubblico, non civilistico. Anche per questo nell’esercitare i loro commerci ed estrarre ricchezza gli europei scelsero di creare aree di extraterritorialità sottoposte alle loro leggi. Era la disgregazione del- la sovranità imperiale, già scossa da una lenta crisi interna. Ai cinesi non restò che piegarsi al- l’imposizione oppure rivendicare la propria sovranità impegnandosi ad adottare un sistema giuridico di tipo occidentale, con leggi adeguate nel campo privatistico e commerciale. Nella seconda parte di questo libro, l’autore prima descrive sommariamente la natura e la struttura del codice Qing nel senso che si è detto, quindi le principali consuetudini che risultano, oltre che dai principi dell’etica confuciana, dalle disposizioni generali del codice Qing e dalle più diffuse consuetudini raccolte agli inizi del ’900. Percorre infine la vicenda della codificazione novecentesca, dai primi studi alla più decisa azione intrapresa in età repubblicana sotto Sun Yat Sen prima e Chiang Kai Shek poi, che tra il 1930 e il 1931 portò all’adozione di un codi- ce civile cinese. Conclude peraltro che la difficoltà di applicarlo in un periodo di forte insta- bilità politica e sociale lo resero «lettera morta» (p. 197) fino a che fu abrogato dai comunisti. La prima parte del libro riassume invece le linee principali di una generale storia della Cina ad uso scolastico e senza particolari nessi con la seconda. Difficile collocare il libro in qualche contesto. Intanto per la lingua in cui è scritto. A pri- ma vista in italiano. In realtà in una sorta di pidgin-Italian che inceppa la lettura a ogni pas- so. È una tesi di dottorato discussa presso l’Università di Berna ed è ospitata in una collana diretta da un giurista italiano, Mario G. Losano. Si basa su una nutrita messe di opere ingle- si, tedesche e francesi, dai quali Ponti ricava documenti e dati di fatto (gli editti imperiali so- no riportati in inglese) ma non problemi interpretativi, tanto meno quelli discussi dagli stu- di di storia sociale del diritto, che sono oggi particolarmente attenti proprio alla circolazione dei modelli e agli scambi culturali. Offre quindi una lettura rigida e ben poco aggiornata del- la questione centrale, ovvero del nesso tra diritto scritto e pratiche consuetudinarie, tra la nor- ma scritta e un «diritto che si adagia sui fatti» (Paolo Grossi), tra istituzioni plasmate sui mo- delli occidentali e «valori asiatici». Un nesso che gli studi tendono oggi a complicare, riveden- do proprio l’assunto essenziale del libro, per il quale le materie civilistiche rimangono appan- naggio di pratiche sociali alle quali è estraneo il diritto. Insomma un libro italiano che italia- no non è, e che parla di diritto e di pratiche con scarsa sensibilità per l’uno come le altre. Raffaele Romanelli

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Ilaria Porciani (a cura di), Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano. Modelli, strate- gie, reti di relazioni, Roma, Viella, 294 pp., Û 28,00

La storia della famiglia non è certo una novità nel panorama della storiografia italiana, ep- pure gli studi che si occupano di singole casistiche familiari scendendo nel particolare di una realtà locale, che cambia profondamente nel territorio della penisola, non sono poi tanti. E, dun- que, ben vengano ricerche come questa che fanno luce, scavando negli archivi privati familiari, su casi inediti ancora sconosciuti ai più. Ma il pregio dell’opera non sta solo nel riportare alla lu- ce frammenti di vita più o meno inesplorati, ma anche nel far uscire la famiglia dal suo circo- scritto orto privato e metterla in correlazione con la più ampia vicenda della storia nazionale. Nel suo saggio introduttivo Ilaria Porciani dà ampiamente conto della stretta correlazio- ne creatasi tra la famiglia nucleare e il nuovo Stato nazionale. La curatrice analizza quattro ca- si nazionali – Stati Uniti, Francia, Germania e Italia – nei quali ricostruisce il nesso esistente tra la famiglia, l’educazione dei figli e la formazione dei nuovi Stati. In pratica, la famiglia as- sume, allo stesso modo degli altri elementi fondanti della identità nazionale, una sua valenza non più solo privata ma pubblica. Come l’istruzione elementare pubblica e la leva di massa obbligatoria, anche la funzione educativa familiare diventa strumento essenziale di formazio- ne della nazionalità. Nei successivi saggi vengono invece analizzati dei casi specifici. Ros Pesman si occupa del ri- stretto, ma devoto gruppo di seguaci che assistettero Giuseppe Mazzini nel suo esilio londinese, attraverso il carteggio tra il patriota italiano e un fedele gruppo di sostenitrici inglesi. In preva- lenza donne accolsero l’esule nel calore della loro intimità domestica offrendogli qualcosa di più del semplice sostegno materiale. Si svolge a Napoli, invece, la vicenda della famiglia Ricciardi, ri- costruita da Angela Russo. Giuseppe Ricciardi diventa deputato del nuovo Regno d’Italia dopo aver passato vent’anni in esilio per le sue idee antiborboniche. Durante la fuga in Francia sposa Clorinda Not dalla quale avrà due figlie. La sorella Elisabetta Ricciardi, rimane sempre a Napo- li dove si sposa con il principe di Tricase. L’intenso carteggio tra i due è per Giuseppe l’unico le- game con la famiglia e la patria, mentre per Elisabetta il fratello minore è l’unico superstite del- la famiglia. La famiglia Bevilacqua è un’antica casata nobile veronese, impegnata nel processo di liberazione nazionale. Elena Sodini ne analizza la strategia matrimoniale, la fedeltà patriottica, lo spazio domestico e la celebrazione del mito liberale. Dall’archivio privato della famiglia Tosca- nelli, Silvia Menconi ci riporta le vicende delle due sorelle Elisa ed Emilia, mogli rispettivamen- te di Francesco Finocchietti prefetto e di Ubaldino Peruzzi deputato e ministro. E poi gli scritti di Carolina Bonafede, e la Trieste di fine Ottocento tra scuola e famiglia, nei lavori di Maria Ce- cilia Vignuzzi e Vittorio Caporella. Gli ultimi due saggi tornano invece al carattere generale l’u- no – di Carlotta Ferrara degli Uberti – sul processo di integrazione nazionale degli ebrei, l’altro di Anna Scattigno sulle famiglie religiose cattoliche in particolare il Terz’ordine francescano. Cecilia Dau Novelli

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Alessandro Portelli, Bruno Bonomo, Alice Sotgia, Ulrike Viccaro, Città di parole. Storia orale di una periferia romana. Una ricerca del Circolo Gianni Bosio, Roma, Donzelli, 245 pp., Û 15,00

In questo libro il luogo intermedio tra l’individuo e la società, dove la grande storia si av- vicina alla vita quotidiana degli uomini e traccia i quadri della memoria collettiva, è rappre- sentato dal territorio, o meglio si può dire che in questo libro nel territorio si ricollocano, do- tandosi di ulteriore senso, tutti gli altri luoghi identitari (la famiglia, la fabbrica, la classe, il partito, l’etnia) che fungono da collettori della memoria. Il territorio è quello del quartiere ro- mano di Centocelle, raffigurato in una cartina posta in apertura del libro che conferma visi- vamente gli spazi raccontati da 120 cittadini di diverso genere e di diverse generazioni, di di- versa condizione sociale, culturale ed economica, accomunati dall’appartenenza a quel quar- tiere. Non a caso la loro memoria insiste sul tema del confine, di ciò che è avvenuto dentro e/o fuori da questo limite, e su quello della mobilità: spostarsi tra quartieri limitrofi per lavo- ro, per gioco, per compiere un raid teppistico, per sfollare dopo un bombardamento, ma an- che pendolare tra centro e periferia, oppure immigrare nel quartiere dalla campagna, da altre regioni e nazioni o da altri continenti. I narratori raccontando le loro storie raccontano le sto- rie dei luoghi che cambiano. Si prenda fra tutti come esempio il sottosuolo labirintico del quartiere scavato per estrarre la pozzolana, per coltivarci i funghi, per costruirci la metropoli- tana, per portare alla luce reperti archeologici, per rifugiarsi durante i bombardamenti. Gli spazi divengono così catalizzatori della memoria, su di essi si esercita la produzione dell’im- maginario collettivo e le parole che li descrivono manifestano le diverse proiezioni culturali e simboliche dei narratori. Nella città di parole spazio e società si fondono: operazione che non sempre riesce agli storici di professione. Gli autori, ovvero gli storici, hanno operato un sapiente lavoro di smontaggio e rimontag- gio delle narrazioni, finalizzato ad avvicinare le ricorrenze, ad accorpare le varianti e le incon- gruenze della memoria, a evidenziare lo scarto tra il tempo della memoria e quello della storia, riorganizzando la narrazione in modo polifonico intorno a segmenti cronologici che vanno dal- la memoria remota dei primi insediamenti a quella recentissima della transizione al nuovo mil- lennio, passando per la seconda guerra mondiale, per una golden age periferica e provinciale, per la stagione dei movimenti e della lotta armata degli anni Settanta. Intervengono molto poco nel- la narrazione, inserendo tra un racconto e l’altro brevi notazioni e commenti, utilizzando altre fonti più tradizionali come quelle scritte, ovvero più innovative come quelle prese dal web. È un libro fortemente identitario in cui si può ragionevolmente immaginare che gli abitanti di Cen- tocelle potranno riconoscersi, ma è anche un libro capace di trasferire la storia di questo territo- rio a chi da Centocelle non è mai passato. In questo senso il libro è anche espressione del recen- te interesse verso la storia delle periferie urbane delle grandi metropoli. Salvatore Adorno

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Regina Pozzi, Tocqueville e i dilemmi della democrazia, Pisa, Edizioni Plus-Pisa University Press, 159 pp., Û 14,00

Nel corso degli ultimi decenni, il pensiero di Tocqueville è tornato a godere di una rin- novata centralità nell’ambito della riflessione filosofica sui dilemmi della politica contempo- ranea. La sua Démocratie en Amérique è infatti considerata come la prima grande riflessione sulle patologie della modernità politica e a quelle pagine si è portati inevitabilmente a torna- re in un momento in cui lo spazio di esperienza della liberaldemocrazia occidentale appare profondamente scosso dagli esiti ultimi delle sue ambivalenze fondative. Fare di Tocqueville un pensatore dell’attualità è, tuttavia, un approccio pericoloso, che può sfociare in inaccetta- bili semplificazioni della sua opera. È appunto per questo motivo che nei sette saggi raccolti nel volume Toqueville e i dilemmi della democrazia, Regina Pozzi ha ritenuto opportuno af- frontare il complesso e stimolante itinerario riflessivo tocquevilliano a partire da una più equi- librata cifra interpretativa, centrata proprio sulla rigorosa contestualizzazione storica delle grandi domande da cui quell’itinerario trae impulso. Ciò che ne risulta è un percorso di let- tura che trova il suo filo conduttore nel «tormentato rapporto» di Tocqueville con l’esperien- za della Rivoluzione francese, un passaggio che egli visse come una «rottura traumatica» ma al tempo stesso seppe riconoscere come un punto di non ritorno teorico. Certo, diversi sono i modi in cui questo difficile rapporto può essere declinato nella prospettiva, necessariamen- te orientata, dell’interpretazione storiografica ed è perciò che nello sviluppo del volume esso viene tematizzato attraverso alcune delle questioni-chiave della «costellazione post-rivoluzio- naria»: l’irrisolta dialettica tra i diversi valori-guida della Rivoluzione, il difficile rapporto tra politica e religione, il problema di un «governo della miseria» e, infine, la genesi di nuove for- me di potere personale alimentate proprio dalla dinamica della sovranità popolare – un tema, questo, che in Tocqueville trova il suo più compiuto svolgimento nelle penetranti pagine sul «dispotismo democratico». La riflessione tocquevilliana sulla Rivoluzione assume però anche delle movenze peculiarmente storiografiche ed è a questo specifico aspetto del suo itinerario che è dedicata la seconda parte del volume. Qui, ovviamente, gli interlocutori privilegiati di Tocqueville sono i giganti della storiografia francese dell’Ottocento, da Guizot a Taine; non mancano però interessanti aperture ad un più ampio e composito orizzonte di concettualiz- zazione storico-politica, in grado di restituire anche alla storiografia tocquevilliana il senso più profondo di una intensa interrogazione sul presente. L’obiettivo precipuo di questi saggi si conferma così quello di restituire la sostanza dinamica di un pensiero che, in tutte le sue com- ponenti, viene progressivamente costruendosi in un faticoso corpo a corpo con i problemi e gli stimoli del suo tempo. Perché, come l’autrice non cessa di sottolineare, solo ricollocando l’opera di Tocqueville nel suo specifico contesto genetico potremo trarne «suggestioni ancora valide per il nostro presente». Luca Scuccimarra

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Giulia Prati, Italian Foreign Policy, 1947-1951. Alcide De Gasperi and Carlo Sforza between Atlanticism and Europeanism, Göttingen, V&R Unipress-Bonn University Press, 272 pp., Û 44,90 Il tema di questo studio è la politica estera italiana nel 1947-51, vista attraverso il ruolo di De Gasperi e Sforza e i suoi due elementi fondanti: l’atlantismo e l’europeismo. Vi fu un’organi- ca strategia di politica estera italiana, o solo un processo di aggiustamento e di opportunistica ade- sione alle nuove realtà di fatto? I due protagonisti discussi ebbero o no un ruolo determinante? Il volume riproduce una tesi di dottorato discussa all’Università di Bonn nel 2005. Co- me spesso accade in questi casi, ha una struttura molto rigida (e con molte inesattezze lingui- stiche). L’autrice si muove tra storia e scienza della politica, riconducendo la sua analisi all’in- terpretazione «realista» delle relazioni internazionali, fondata sull’interesse nazionale. Il suo approccio è quello di concettualizzare e discutere, non di interrogare nuove fonti. Il primo capitolo esamina le condizioni esterne in cui si sviluppa la politica italiana del dopoguerra: in particolare il passaggio a un sistema internazionale bipolare, che imponeva l’al- lineamento agli Stati Uniti. Tutt’al più l’Italia poteva trovare una sponda in certi aspetti della politica francese, sia in campo atlantico che in campo europeo. La tesi di fondo è che l’inte- resse nazionale italiano consisteva nel rientro come membro stimato della comunità interna- zionale e come Stato indipendente, con una sua, per quanto limitata, libertà d’azione. Era con- dizionato dalla debolezza economica e dalla divisione interna, per cui l’elemento di alleanza militare atlantica venne visto come aspetto di sicurezza, necessario per consolidare il fronte moderato, anti-comunista, uscito dalle elezioni del 1948. L’Europa agiva come un elemento di ulteriore consenso interno, e anche come controbilanciamento dell’influenza americana. Durante gli anni in questione, argomenta Prati, i fini della politica estera italiana rimase- ro del tutto tradizionali, mentre sia l’atlantismo che l’europeismo furono gli strumenti prin- cipali usati per conseguirli. L’appartenenza italiana alle alleanze va, pertanto, vista come stru- mentale, sia pure in senso alto. Vengono esaminate le convinzioni e le azioni di De Gasperi e di Sforza. Il giudizio finale è positivo: agendo di conserva, pur partendo da formazioni mol- to diverse, essi condussero una politica estera efficace che raggiunse il massimo possibile nel- le condizioni date. De Gasperi venne a proporre una concezione del ruolo dell’Italia molto complessa, in cui esisteva un nocciolo realista, ma all’interno di considerazioni legate all’uni- versalismo cattolico, alla sua esperienza di uomo di frontiera, alla visione popolare di un for- te prevalere di elementi sociali e economici. Tutto ciò lo rendeva flessibile e ricettivo di fron- te alle nuove esigenze multilaterali e di integrazione europea. Più tradizionale la visione di Sforza, legata al ruolo dell’Italia come potenza del concerto europeo, illuminata però, secon- do l’autrice, da un riconoscimento dell’importanza di opportune alleanze internazionali ed europee anche in chiave soprannazionale – una visione non solo strumentale, ma frutto di una rielaborazione pragmatica di visioni mazziniane e wilsoniane. Ruggero Ranieri

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Jean Préposiet, Storia dell’anarchismo, Bari, Dedalo, 503 pp., Û 30,00 (ed. or. Paris, 2002) Negli ultimi anni, la ricerca storiografica sull’anarchismo è andata intensificandosi, sia per quantità che, soprattutto, per qualità, grazie all’apporto di nuovi studi che analizzano non so- lo gli aspetti filosofici, ma anche quelli più propriamente storici, politici e sociali, evidenzian- done l’apporto nell’evoluzione della società occidentale contemporanea. In questo contesto generale, s’inserisce l’opera di Préposiet. Innanzitutto bisogna segnalare l’originalità dell’impostazione dello studio, che si discosta da altre ricerche analoghe (si pensi, tra gli altri, alle ricostruzioni della storia dell’anarchismo propo- ste da Masini, Woodcock, Santarelli, ecc.): l’autore, infatti, non pretende di riscrivere la storia complessiva dell’anarchismo, ma, attraverso la proposta di una serie di «quadri», cerca di rievo- care alcune personalità e gli avvenimenti più significativi per la storia di questa dottrina politica. Tale scelta metodologica si intreccia con la tesi di Préposiet, che, ritenendo l’anarchismo, essenzialmente, come scrive nell’avvertenza, uno «spirito, una maniera di stare al mondo, pri- ma che un atteggiamento politico classificabile e ben definibile», allarga notevolmente, nel tempo e nel «tipo», il fenomeno libertario: di conseguenza, l’autore spazia dai filosofi cinici alle sette eretiche medioevali, fino ad arrivare alla definizione moderna del movimento anar- chico, il quale è posto in relazione con i movimenti di contestazione giovanile, ambientalisti, antimilitaristi. Questa interpretazione dell’anarchismo, suggestiva ed interessante, presenta ovviamente degli inconvenienti, non sempre affrontati compiutamente. Se uno degli obbiettivi dell’ope- ra è di valorizzare la portata e la specificità dell’anarchismo, l’accentuazione del suo carattere idealistico, quasi fosse un’espressione trascendente ed a-storica, rischia di confonderne pro- prio l’importanza reale, sminuendo gli importanti avvenimenti politici e storici di cui esso è stato protagonista (si pensi alla Spagna del 1936, all’Ucraina del 1919-20, o al rilevante con- senso goduto in diverse nazioni fino agli anni ’20), e quindi, indirettamente, contribuisce a confermare diversi degli stereotipi che hanno contribuito alla sua marginalità. In secondo luo- go, se è interessante il tentativo di comparare esperienze eterogenee e distanti tra loro, l’anno- verarle come antecedenti dell’anarchismo, così come esso è andato connotandosi, appare in alcuni casi un po’ forzato. Infine, questo sforzo molto teorico di ricercare analogie ovunque e comunque, arriva in alcuni casi a esiti assai discutibili, come nel caso degli anarco-capitalisti e dei cosiddetti «libertari di destra», che in realtà con l’anarchismo storicamente dato condi- vidono ben poco. Il testo è articolato secondo nuclei tematici: le radici storiche; gli episodi più rilevanti; le varie teorie libertarie; le «contaminazioni»; il rapporto con la violenza. Nonostante alcune forzature, l’opera di Préposiet, contrassegnata da un’impostazione for- temente teoretica, è comunque interessante, documentata, e si rivela un utile strumento d’in- troduzione alla complessità del pensiero libertario. Massimiliano Ilari

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Fabio Pruneri, Oltre l’alfabeto. L’istruzione popolare dall’Unità d’Italia all’età giolittiana: il caso di Brescia, Milano, Vita e Pensiero, 316 pp., Û 20,00 Il libro si presenta come un contributo esemplare per la ricostruzione della storia sociale dell’istruzione nell’Italia postunitaria. L’autore, professore di Storia dell’educazione presso l’U- niversità di Sassari, ha pubblicato altri interessanti approfondimenti su analoghe dinamiche storiche: La politica scolastica del Partito Comunista Italiano dalle origini al 1955 (Brescia, 1999) e Il cerchio e l’ellisse. Centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XX seco- lo (a cura di, Roma, 2005). La trattazione si articola in quattro capitoli, relativi alla transizione dal Lombardo-Vene- to al Regno d’Italia, con l’analisi della sostituzione del sistema regolato dalla legge Casati a quello austriaco; a Maestri, alunni e programmi dall’Unità agli anni Ottanta dell’800; ai pro- gressi dell’istruzione sino alla metà dei successivi anni Novanta, in un contesto di acceso scon- tro tra laici e cattolici; ai cambiamenti tra i due secoli, mentre si verificava una «progressiva avocazione di competenze dai comuni allo Stato» (p. 255). Il testo è arricchito dalla presenza di numerose tabelle, che danno concretezza statistica alle questioni affrontate, si tratti di stipendi degli insegnanti, andamento degli iscritti, ubica- zione delle scuole, etc. L’autore si inserisce esplicitamente nel filone delle «ricerche sulla geografia italiana dell’i- struzione» (p. 15) e ricostruisce, in rapporto con il quadro legislativo e politico-parlamentare già abbastanza definito della storia della scuola italiana, i percorsi dell’istruzione popolare nel- la città di Brescia, con specifico riferimento sia all’evoluzione della didattica dei maestri in rap- porto alla cultura accademica e nella sua concreta pratica, sia alla cultura politica della scuola come risulta dall’intreccio tra le norme e i regolamenti emanati dalle autorità cittadine bre- sciane e le leggi e disposizioni nazionali. La storia della scuola a Brescia si dipana come «sto- ria differenziale che misura lo scarto tra l’evoluzione generale e l’evoluzione particolare della comunità locale» (p. 19). Infatti, nel quadro del centralismo imperante, c’era in realtà spazio per la difesa attiva di ambiti di autonomia a livello locale, che vennero utilizzati con consape- volezza dell’importanza dell’istruzione ai fini della crescita della comunità amministrata. Non a caso a Brescia, già alla fine del XIX secolo, il tasso di alfabetizzazione era superiore al 90 per cento, un risultato che in altre parti d’Italia si sarebbe conseguito parecchio tempo dopo. La ricostruzione è frutto di una scrupolosa ricerca e disanima di numerosi e variegati do- cumenti inediti, reperiti in massima parte nell’Archivio del Comune di Brescia, come relazio- ni ufficiali dei maestri, verbali degli ispettori e delle sedute del Consiglio comunale e del Con- siglio provinciale scolastico. Alla conclusione dell’itinerario alle origini del «carisma pedagogico» di Brescia, emerge con tutta evidenza come maestri, pedagogisti, amministratori pubblici, vedessero nella scuola, oltre l’alfabeto, un’opportunità insostituibile di promozione per le persone, per la città, per la patria. Giuseppe Baldacci

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Domenico Quirico, Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l’Italia, Milano, Mondadori, 411 pp., Û 20,00

«I generali italiani erano grassi». L’incipit dell’ultima fatica di Domenico Quirico si apre con questa constatazione, non entusiasmante per profondità critica, ma rivelatrice di ciò che sarà il volume in seguito: un’ampia rassegna di pettegolezzi, «si dice», qualche frammento di memorie e alcuni giudizi che investono il campo della morale sessuale, dell’onestà contabile e della prestanza fisica tralasciando pressoché completamente discorso sociale, cultura, rap- porti tra potere militare e potere politico. Questa ambiziosa «controstoria» dei vertici milita- ri, sospetta già per via del roboante sottotitolo ma apparentemente di un certo interesse per l’oggetto che si propone di analizzare, è in realtà una grande delusione ancora prima di arri- vare alla lettura della pagina iniziale. La stessa impostazione dell’indice rivela molto delle in- tenzioni dell’autore: chi intitola una premessa Strateghi e pagnottisti, e si premura di ricorrere a fantasiose etichette per i capitoli, quali Un eroe con le cambiali, Le cinque giornate alla rove- scia o Le lacrime facili del maresciallo, è evidentemente più intenzionato a fare cronaca umo- ristica che a percorrere le vie della ricerca storica. Il tentativo di prosopografia dell’élite mili- tare unitaria, in un percorso che va dal Risorgimento all’8 settembre, rivela tutte le approssi- mazioni di una affannosa ricerca dello scoop, o forse del motto di spirito e della battuta lapi- daria. Che di situazioni deprimenti, a volte ridicole e persino grottesche, la storia dei militari e delle guerre dell’Italia unita sia densa, non vi è dubbio. Ma una cosa è ricercarne e raccon- tarne le cause e le dinamiche con la serietà dello storico, tutt’altra è ridurre il rovesciamento delle alleanze dell’Italia nel 1915 ad un Cadorna che «doveva soltanto riscrivere i piani per di- sintegrare l’Austria. Era come chiedere a un impresario pronto a mandare in scena il Barbie- re, all’alzar del sipario, di scodellare l’Aida». Per non parlare dell’ovvietà, e cioè che, come qual- siasi studioso di storia contemporanea italiana sa, l’opzione di una guerra contro l’Austria era ampiamente prevista dall’evolversi delle dottrine strategiche dello Stato maggiore italiano, un riflesso ovvio delle incertezze della politica estera. Ma proprio qui risiede il maggior problema del libro di Quirico: l’aver ignorato una gran parte della letteratura di storia militare italiana degli ultimi (almeno) trent’anni. Nella succinta bibliografia che chiude il volume (pp. 401-4) non appaiono i lavori di Labanca, di Del Negro, di Caforio, di Caciulli, e di Rochat viene an- notato solo L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, lavoro sicuramente importante, ma non l’unico da ricordare. Nessuna meraviglia dunque per la povertà di spunti originali e di capacità critica, messi in evidenza da uno stile pomposo, reso più irritante dalla trasparen- te certezza dell’autore che la narrazione del passato non si fa attraverso ricerche in archivio e buone letture ma ricorrendo al peggior gossip giornalistico. Generali è un’occasione mancata per un tema importante, e un buon esempio di come non si dovrebbe scrivere un libro di sto- ria. Marco Mondini

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Andrea Ragusa, I linguaggi della politica contemporanea. La sfida della società di massa (1850-1950), Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 286 pp., Û 20,00

Il volume esplora le trasformazioni della società di massa attraverso l’analisi delle forme di comunicazione politica. L’autore prende le mosse dall’analisi della comunicazione legata al- la simbologia statale e militare nell’Ottocento. In questo contesto, mette in luce l’importan- za di tali processi comunicativi ai fini di quelli di state-building, corredando l’analisi di nume- rosi esempi e ponendo l’accento in particolare sulla figura del re come elemento simbolico unificante per le comunità politiche ottocentesche. Ragusa applica a questa analisi strumenti metodologici multidisciplinari, giungendo così ad evidenziare la rilevanza del ruolo della fi- gura del sovrano anche per il contesto italiano. Una particolare attenzione è quindi dedicata all’evoluzione dei linguaggi che accompagna la formazione della società contemporanea. Le trasformazioni della comunicazione in questo ambito si intrecciarono strettamente con l’e- mergere di nuovi movimenti sociali che per la loro stessa composizione dovevano utilizzare specifiche forme di comunicazione simbolica: la bandiera, il simbolo, l’inno. L’uso di ritualità e simbologie politiche assunse un rilievo crescente all’interno dei movimenti socialisti che l’au- tore analizza riservando particolare attenzione al caso italiano, ma senza perdere di vista il con- testo europeo. Si può dire che il volume confermi ancora una volta l’importanza che i processi di comu- nicazione rivestirono per i nascenti movimenti di massa. L’avvento della guerra accrebbe l’im- portanza della comunicazione e contemporaneamente introdusse nuovi linguaggi e ne esa- sperò i toni. Così la violenza non fu solo quella fisica messa in atto negli scontri di piazza, ma si espresse nelle stesse forme del linguaggio contribuendo ad inasprire il conflitto politico. Il fascismo utilizzò questi linguaggi per la presa del potere e la costruzione della dittatura, attri- buendo un ruolo fondamentale alla figura del capo che al momento della caduta divenne an- che l’oggetto più diretto di esecrazione. Il dopoguerra appare segnato nell’analisi di Ragusa dal confronto Est-Ovest e da quello tra le culture politiche democristiana e comunista, ma an- che dall’impatto della società dei consumi che progressivamente indusse nei linguaggi di quel- le culture politiche trasformazioni profonde. In questo contesto, l’autore sottolinea la diffe- renza rispetto ad altri paesi europei e il peso giocato dall’eredità simbolica del comunismo nel- l’Italia postbellica. Senza entrare nel dettaglio delle singole analisi e dei numerosi temi tratta- ti, si può concludere che il libro offre una panoramica di lungo periodo fondata su un ampio lavoro di scavo della letteratura italiana e straniera, proponendo al lettore un’interpretazione utile per approfondire la complessa tematica dell’evoluzione dei linguaggi politici. Stefano Cavazza

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Elena Rambaldi, Rotary International, a «Brotherhood of Leadership». Il caso italiano tra fa- scismo e primi passi della Repubblica, Roma, Carocci, 383 pp., Û 37,20

Rielaborazione di una tesi di dottorato discussa all’Università di Roma Tre nel 2003, que- sto volume si presenta come una solida ricerca condotta su una documentazione vasta prove- niente da archivi italiani, ma soprattutto stranieri. Questo di Rambaldi è anche, fatta eccezio- ne per alcuni interventi di Romain Rainero e di Mariuccia Salvati, il primo studio non cele- brativo o autocelebrativo su quest’associazione importata dagli Stati Uniti in Italia all’inizio degli anni ’20 e sopravvissuta, con alterne vicende e caratteristiche, fino ai giorni nostri. Il lavoro di Rambaldi si concentra su due periodi, quello della nascita e dell’affermazione dell’associazionismo rotaryano in Italia (1925-1938), cui è dedicata la prima parte, e quello del- la sua rinascita negli anni della ricostruzione (1948-1958) che occupa la seconda di dimensio- ni più ridotte. Nei cinque capitoli in cui il libro è articolato, Rambaldi racconta innanzitutto le origini dell’associazione in America e le vicende che portarono all’istituzione dei primi club in Italia; tocca poi i nodi del complesso e contraddittorio rapporto tra il Rotary e il fascismo, un rapporto fatto di intese e convergenze ma anche di crescenti diffidenze e contrasti, alimen- tati anche dall’ostilità della Chiesa cattolica, che sfociarono prima nella perdita dell’autonomia e poi, nonostante l’allineamento dell’associazione al regime e la collaborazione tra ceti produt- tivi (quelli principalmente rappresentati nei club sembrerebbe, anche se manca un profilo det- tagliato e socio-professionale degli affiliati) e fascismo, nella sua chiusura, decretata nel 1938; affronta infine i problemi della rinascita dell’associazione e della sua collocazione nel contesto dell’Italia repubblicana e di un rinnovato rapporto tra Italia e Stati Uniti. L’interesse della vicenda sta innanzitutto nel suo essere un pezzo di una storia più ampia, quella dell’americanizzazione della società e della cultura europee nel corso del XX secolo co- me dimostra in un suo recente lavoro Victoria de Grazia. Questo aspetto tuttavia resta ai mar- gini del discorso, mentre la ricerca, spesso sovrastimando il ruolo dell’associazione nell’indi- rizzare le scelte dei suoi soci, rilegge da un punto di vista particolare la complessa vicenda del- le relazioni tra gruppi produttivi, innovazione economica, trasformazioni del mercato e regi- me fascista. In questo senso l’introduzione del Rotary in Italia – e in Europa – è sì il risultato di quello sforzo americano di «proiettare l’immagine della propria potenza all’estero» (p. 74), ma anche un tentativo di istituire un canale di comunicazione tra élite americane ed europee sulla cui riuscita si potrebbero avanzare alcuni dubbi e che sicuramente il fascismo interrom- pe. Resta in verità da dimostrare quanto il Rotary abbia contribuito a fondare e diffondere una nuova etica degli affari e non si sia invece trasformato nell’ennesimo network di relazioni conviviali esclusive. Sicuramente, la sua costituzione ha rappresentato una nuova tappa nel processo di nazionalizzazione delle élite italiane e nella formazione di un associazionismo di interessi che supera la scala cittadina e provinciale delle forme prebelliche di socialità. Daniela Luigia Caglioti

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Gabriele Ranzato, Il passato di bronzo. L’eredità della guerra civile nella Spagna democrati- ca, Roma-Bari, Laterza, 153 pp., Û 15,00

Dopo l’importante L’eclissi della democrazia, Ranzato propone un testo più agile che ripren- de alcuni temi dell’ampio lavoro del 2004. I primi due capitoli del nuovo libro, presentato co- munque come non sistematico né esaustivo (p. 145), criticano l’immagine di una transizione postfranchista «armoniosa e consensuale» (p. 37), che secondo alcuni polemisti viene celebrata come una Inmaculada Transición. È il volume di Víctor Pérez Díaz, La lezione spagnola (Bolo- gna, il Mulino, 2003) con l’introduzione di Michele Salvati a costituire il bersaglio di queste pa- gine che cercano di smontarne la fondatezza rievocando «interdizione e ricatto» (p. 38) dei mi- litari (golpe di Antonio Tejero del 23.2.1981) e le aspettative molto radicali di vari ambienti an- tifranchisti. Il secondo scritto presenta anche il panorama della Spagna degli anni Trenta rico- struito dai mezzi di comunicazione di massa che hanno superato el pacto del silencio accettato nel 1975 da quasi tutte le forze politiche e istituzionali. Il cinema, la letteratura e la stampa quo- tidiana avrebbero esercitato una funzione «riequilibratrice e risarcitoria» (p. 56). Ranzato affer- ma però che, dopo aver condannato Franco, bisognerebbe ricordare che «molte delle sue vitti- me […] non possono considerarsi totalmente innocenti» (p. 78). Egli opera poi un confronto assai discutibile: la strage delle Fosse Ardeatine andrebbe «moltiplicata per sei e prolungata per un mese» (p. 83) per ottenere il numero delle vittime degli eccidi compiuti dai repubblicani a Paracuellos e Torrejón, nei dintorni di Madrid assediata, alla fine del 1936. Tale considerazio- ne, che equipara i contesti e prescinde dal diverso ruolo dei prigionieri, appare di tipo più sta- tistico che storico vero e proprio. Il terzo saggio risente nettamente della scelta dell’autore a fa- vore del «criterio della democrazia liberale, nella prospettiva di una sua maggiore valorizzazio- ne nella Spagna attuale» (p. 140), un’impostazione ideologica che già ispirava le ricerche di qual- che anno fa, comprese quelle sulla «guerra fratricida». Ranzato applica il metro di un «rigoroso esame di democrazia» (p. 109) ai protagonisti e alle correnti politiche della Seconda Repubbli- ca valutando quanto e come essi abbiano operato «per difendere la civiltà della democrazia li- berale nella quale prospera e si sviluppa la Spagna di oggi» (p. 104). Vengono così bocciati sen- za appello, ma con prove parziali e opinabili, due protagonisti collettivi pur molto diversi: il mo- vimento anarchico e il Partito comunista. Nemmeno vari leader socialisti o liberali superano la prova in quanto poco attenti, prima e durante la guerra civile, a non spaventare le classi medie e le masse cattoliche. E il Fronte popolare avrebbe dato «il principale contributo di sinistra alla rovina in cui sarebbe precipitata la democrazia» (p. 124). Questa rilettura, a tratti condiziona- ta da un’esplicita ottica ideologica, chiaramente molto diversa da quella espressa nei lavori de- gli anni Settanta, porta Ranzato a prendere le distanze da certa storiografia ammalata, secondo lui, di «neoconformismo repubblicano» (p. 127) che trova nella Repubblica del 1931 un riferi- mento ideale e un modello politico tuttora validi. Claudio Venza

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Pietro Redondi, Paola Zocchi (a cura di), Milano 1906. L’Esposizione internazionale del Sempione. La scienza, la città, la vita, Milano, Guerini e Associati, 268 pp., Û 22,50

In tempi di mobilitazione No-Tav la lettura di Milano 1906, dedicato alla realizzazione del traforo del Sempione e all’esposizione internazionale che ne celebrò il compimento, non può lasciare indifferenti, ma è proprio la notevole attualità del tema, ben oltre la ricorrenza centenaria, a indurre nel lettore qualche perplessità. Questi dubbi non derivano né dalla qua- lità dei singoli contributi, né dalla struttura del libro, denso e linearmente organizzato in quat- tro sezioni tematiche: la realizzazione delle gallerie del San Gottardo e del Sempione, con par- ticolare riferimento alla diversa attenzione che nei due cantieri si ebbe per la salute degli ope- rai (Martinetti, Fantini, Donzé, Buratti Mazzotta); la nascita e la diffusione in Italia della me- dicina del lavoro (Foà, Nenci, Carnevale e Baldasseroni); l’Esposizione internazionale del 1906, indagata sotto l’aspetto della partecipazione delle aristocrazie operaie e dello sviluppo di dibattiti e realizzazioni che segnarono tappe importanti nella storia delle riforme sociali in Italia (Pellegrino, Forti Messina, Selvafolta, Musso); infine la Milano del riformismo modera- to coraggioso ed efficace, del tumultuoso sviluppo industriale e della grande cultura tecnico- scientifica (Bigatti, Lini, Saibene). Se però fare storia vuol dire anche contribuire al dibattito contemporaneo, si può dire che Milano 1906 è stata in parte un’occasione mancata perché ha saputo trasformare solo parzialmente un argomento di attualità in una riflessione sui proble- mi del presente. Del tutto assenti sono questioni quali l’impatto ambientale che ebbero i can- tieri e la gestione della colossale massa di materiali di scavo, una valutazione complessiva e di lungo periodo sui costi e i benefici economici dell’iniziativa, l’attenzione alle scelte delle co- munità interessate dai lavori – tranne qualche riferimento alla loro esplosione demografica e ai problemi di ordine pubblico indotti dalla forte immigrazione di lavoratori – e le conseguen- ze che il traforo ebbe sulla vita delle popolazioni locali. Viceversa la decisione di dare spazio soprattutto alla modernità del traforo e dell’evento celebrativo – per gli enormi ostacoli natu- rali superati, per la quantità di manodopera impiegata e per la tecnologia d’avanguardia che si applicò, per la bassa morbilità e mortalità dei cantieri a fronte dell’olocausto operaio pro- vocato dal San Gottardo, per la concezione espositiva d’avanguardia, per il respiro internazio- nale della classe dirigente – finisce col porre sotto il segno della ripetizione di un mito identi- tario – Milano città più città d’Italia e capitale morale del Bel Paese – l’intera operazione. Que- sta impressione è confermata dalla postfazione di Redondi, soprattutto quando, con buona pace di Giolitti, sottolinea la distanza dalla Roma di quegli anni, dove «l’avvicendarsi di go- verni sempre effimeri vanifica ogni seria politica nazionale» (p. 256), e quando propone lo stu- dio dell’Esposizione del 1906 come l’occasione per rinnovare «le categorie di una storiografia del Novecento che è stata finora eminentemente politica» (p. 256). Silvano Montaldo

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Anna Grazia Ricca, Corpi d’eccezione. Storie di uomini e donne internati nel manicomio di Aversa (1880-1920), Napoli, Filema, 102 pp., Û 12,00

L’autrice di questo lavoro è una psicoterapeuta che, fin dal 1985, si è confrontata con la storia della propria disciplina e con quella del sapere psichiatrico: appena laureata, infatti, è stata chiamata a riprendere i fili, attraverso le cartelle cliniche, di quelle storie di vita dei ma- lati «cronicizzati» che, in seguito alla cosiddetta legge Basaglia, avrebbero tentato la via di un possibile reinserimento sociale. Qui, naturalmente, Anna Grazia Ricca si è cimentata in uno scavo archivistico di diversa portata e il testo è frutto di una tesi di dottorato in Studi di ge- nere discussa presso l’Università di Napoli «Federico II». Il corpus archivistico consultato riguarda circa un migliaio di cartelle cliniche di donne e di uomini ricoverati presso il manicomio S. Maria Maddalena di Aversa, nel periodo compre- so tra il 1880 ed il 1920; il periodo, cioè, in cui in tutto il paese l’istituzione manicomiale vi- de un incremento notevolissimo dei propri ricoverati e l’autorità medica conquistò un ruolo sociale e politico di primo piano. Attenta a non restare intrappolata nelle difficoltà insite nei meandri delle storie individua- li e sostenuta in ciò dalle riflessioni di storiche quali Arlette Farge (Il piacere dell’archivio, Ve- rona, Essedue, 1991 – ed. or. 1989) e Natalie Zemon Davis (Storie d’archivio. Racconti di omi- cidio e domande di grazia nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992 – ed. or. 1987), l’autrice dipana la sua ricerca privilegiando alcuni argomenti. In primo luogo, l’accertamento della «realtà» della malattia attraverso le stereotipate domande racchiuse nel formulario dello psichiatra; il famoso interrogatorio letto foucaultianamente come luogo in cui le parole dei malati non fanno che legittimare l’ordine del discorso psichiatrico. In secondo luogo, le testi- monianze degli internati, spesso corrispondenze con i parenti, che nell’interpretazione dell’au- trice sostanziano gli schemi culturali proposti dalla psichiatria. L’universo dei segni della ma- lattia (dare scandalo, denudarsi, rifiutare il lavoro), infine, sono letti non solo come luoghi di costruzione della patologia, ma anche come momenti prescrittivi della normalità, dei ruoli di genere e, sulla base della riflessione di George Mosse, della rispettabilità sociale. Constatati, ancora una volta (se mai fosse stato necessario), lo straordinario interesse e la grande ricchezza dei temi contenuti in questa specifica tipologia di fonti che sono, per l’ap- punto, le cartelle cliniche, non possiamo che auspicare una maggiore attenzione verso di es- se da parte dell’intera comunità scientifica e l’augurio che temi come quelli della margina- lità e dell’esclusione sociale ritrovino una rinnovata centralità nel dibattito scientifico e sto- riografico. Vinzia Fiorino

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Luca Riccardi, Il «problema Israele». Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Milano, Guerini e Associati, 478 pp., Û 29,50

Scrivere una storia dei rapporti fra Italia e Israele è compito ambizioso. Si corre il rischio di annaspare nel mare magnum della questione arabo-israeliana e israelo-palestinese, e di per- dere di vista l’eredità del recente passato e il suo peso nelle decisioni della comunità naziona- le e internazionale. Riccardi affronta la sfida con coraggio e equilibrio. Riesce anche ad aggi- rare l’ostacolo cronico della storia diplomatica italiana, cioè il difficile accesso ai documenti del Ministero degli Esteri del secondo dopoguerra. Ricorrendo agli atti parlamentari, alla stampa quotidiana e periodica, ad archivi di partito e personali riesce a produrre una ricerca originale, davvero ricca di informazioni, ben documentata e puntuale. Tema spinoso, quello delle relazioni fra Italia e Israele. L’immagine corrente è quella di un rapporto debole, poco curato da un paese come l’Italia, filoarabo per interesse, strategico e economico. Ma qual è il bilancio che si ricava da questo libro sulle relazioni italo-israeliane viste dall’Italia? C’è da dire, e si tratta della pecca di questo lavoro altrimenti lodevole su un tema tanto nuovo, che un’idea bisogna farsela da sé: l’autore infatti non cede mai alla tenta- zione di dare una chiave di lettura degli eventi. Né dà spazio alla riflessione in forma di con- clusioni. L’impressione che si ricava non è lusinghiera per l’Italia. La scelta dell’«equidistanza» risponde a una scelta programmatica, ma troppo spesso pare vile o opportunista. Nella descrizione di Riccardi, fin da subito i rapporti fra i due paesi si pongono come que- stione regionale, come scelta di quale debba essere la politica mediterranea dell’Italia, in un dopoguerra dominato dalle logiche bipolari della guerra fredda. Il titolo già indica un’impo- stazione, è un omaggio all’idea della «diplomazia parallela» del PCI – della «doppia lealtà» dei comunisti italiani, fedeli al proprio paese ma anche all’Unione Sovietica. Suggerisce anche che la visione politica degli altri partiti, e in particolare quella della Democrazia cristiana, si pos- sa in fondo far coincidere con quella del governo e in fin dei conti della diplomazia. Natural- mente è così solo fino a un certo punto e piacerebbe invece leggere l’articolarsi delle posizio- ni differenziate della classe politica italiana, che filtrano solo occasionalmente fra le valutazio- ni dei tecnici della diplomazia. Sorprende di non trovare un ruolo più significativo delle co- munità ebraiche, né qualche riferimento ulteriore all’opinione pubblica, tante volte evocata nei commenti dei politici e dei diplomatici, ma assente dalla ricostruzione. È un peccato perché un’analisi più articolata a livello di partiti e opinione pubblica avreb- be portato ancor meglio alla luce l’altro lato del «problema Israele», cioè la questione di co- scienza. Non a caso le pagine più coinvolgenti sono quelle che riguardano i dilemmi della si- nistra italiana e in particolare degli ebrei comunisti di fronte alla progressiva ostilità anti-israe- liana venata di sospetti antisemiti che imbeve il discorso politico delle sinistre italiane dopo il 1967 e ancora di più dopo il 1973. Sara Lorenzini

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Gabriele Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e na- zioni, Milano, Guerini Studio, 447 pp., Û 29,50

Il caso Zolli è stato a lungo rimosso dalla storiografia sugli ebrei in Italia: riaprirlo signi- fica renovare dolorem, per le comunità italiane, ma non soltanto per loro. La razzia nel ghetto di Roma (16 ottobre 1943) è di gran lunga l’episodio più tragico della Shoah in Italia, innan- zitutto per il modo come si svolse (la trattativa per la consegna dell’oro, gli arresti casa per ca- sa). Rigano, con pacatezza, ci fornisce il punto di vista di colui che abbandonò la scena il gior- no in cui i tedeschi entrarono in Roma e perciò fu considerato un transfuga. Rigano non si atteggia mai ad avvocato difensore, si limita a riportare la voce di un testimone oculare non ascoltato. A Roma, Zolli era arrivato controvoglia nel 1939 (era nato a Brody in Galizia nel 1881), accettando di lasciare Trieste, dove era stato a lungo ministro di culto. L’autore fa be- ne a ricostruire, con grande scrupolo, la carriera dello studioso, ritornando sui suoi studi mag- giori, segnati dall’esperienza del modernismo e dalla contiguità con altri analoghi itinerari ebraici del primo Novecento (Chajes, Cassuto, lo stesso Dante Lattes). Il libro fornisce una esauriente bibliografia degli scritti. C’è da rilevare l’opportunità, che Rigano non si è lasciato sfuggire, di esaminare per la prima volta le carte di un fascicolo dell’Unione delle Comunità piuttosto incandescente. Risulta un po’ forzata la tesi secondo cui vi sarebbe continuità fra gli interessi giovanili sul profetismo di Gesù e la conversione, che fu invece la tragica conseguenza delle lacerazio- ni determinatesi dopo le giornate dell’autunno 1943. Una conversione «per vendetta», secon- do le parole dello stesso Zolli, ripetute in un’intervista al quotidiano «Maariv» il 9 giugno 1950: uno dei documenti più notevoli da Rigano riprodotti in appendice (pp. 389-397). L’i- gnaro corrispondente del giornale israeliano, con la freschezza e la sincerità del sabra, toglie alla vicenda quell’aura demoniaca che Zolli medesimo contribuì a creare. I documenti con i quali Rigano ha dovuto fare i conti sono pieni di calunniosi insulti, di maldicenze, di veleni sottili e accuse invereconde, da cui non esce bene nessuna delle parti in causa: un ritratto im- pietoso dell’ebraismo italiano pur dopo il 1938 incredulo, anzi cieco di fronte al precipitare degli eventi. Zolli è in realtà un pretesto che ci consente di osservare questioni assai più am- pie. Interessantissime sono le fonti alleate, forse un po’ sottovalutate dall’autore: in specie i rapporti dei rabbini militari inglesi e americani che lodevolmente cercarono di evitare la guer- ra civile entro i vicoli del Portico d’Ottavio. Il progetto degli Alleati di defascistizzare le co- munità italiane rimase sulla carta, come Rigano spiega forse in modo troppo ellittico (p. 269). La questione è invece molto seria, perché in quel progetto non ascoltato si proietta l’ombra di una inquietante continuità fra passato e futuro: l’ebraismo italiano, ancora nel 1946-1947, nonostante tutto quello che era successo, rimaneva prigioniero di se stesso e non coglieva l’op- portunità derivante dalla libertà a caro prezzo riconquistata. Alberto Cavaglion

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Ezio Ritrovato, Alle origini dei corridoi pan-europei. La Ferrovia Transbalcanica Italiana (1890-1940), Bari, Cacucci, 190 pp., Û 16,00

Durante il Risorgimento, per quanto riguarda i collegamenti ferroviari internazionali, le attenzioni furono concentrate sulle gallerie ferroviarie transalpine, a partire dal tunnel del Moncenisio (Fréjus) inaugurato nel 1871, e sulla ferrovia Adriatica tra Bologna e Brindisi, completata nel 1865, che rappresentava un tratto del grande itinerario Occidente-Oriente chiamato «Valigia postale delle Indie», il maggiore traffico commerciale del mondo tra la ma- drepatria Inghilterra e la popolosa colonia delle Indie britanniche. Oltre al traffico della «Valigia» e alle ferrovie transalpine, con l’entrata dell’Italia unita nel novero delle grandi potenze, vennero presentati a più riprese progetti che integravano un ve- ro e proprio «imperialismo ferroviario», cioè il tentativo di espandere l’influenza economica nazionale grazie alla realizzazione di ferrovie in territori stranieri, spesso proposte in compe- tizione con altri Stati europei. Tra questi progetti si possono ricordare i disegni strategici por- tati avanti con la Transetiopica di collegamento fra Eritrea e Somalia e con la Transahariana da Tripoli verso il Lago Ciad. Tutti i casi di imperialismo ferroviario erano rappresentati da progetti sommari, nonché da numerosi articoli scritti su giornali e riviste da ferventi colonia- listi, il tutto rimasto senza alcun seguito a parte qualche tratto di binario realizzato per servi- zi merci e passeggeri di carattere locale. A uno di questi grandiosi progetti è dedicato il libro di Ezio Ritrovato sulla Ferrovia Tran- sbalcanica italiana dal 1890 al 1940, nata nelle idee di promotori come linea concorrente con la Berlino-Bagdad, che rischiava di porre i Balcani sotto l’influenza strategica ed economica tedesca. Nel progetto di Transbalcanica si ritrova peraltro una similitudine con il tracciato di uno dei «corridoi» proposti recentemente a livello di Unione Europea: il corridoio n. 8 fra Du- razzo in Albania e Varna sul Mar Nero, attraverso la Macedonia e la Bulgaria. Condotta sulle pubblicazioni specialistiche e sulla stampa coeva, nonché sugli archivi del- la Banca Commerciale e del Credito Italiano, che all’epoca sovvenzionarono i progetti ferro- viari del Levante europeo e asiatico, la ricerca si divide in due parti: la prima dedicata alle fer- rovie transnazionali nell’Europa orientale e la seconda al caso specifico della Transbalcanica italiana, di cui segue a grandi linee le vicende, dalle prime iniziative, all’avvio temporaneo dei lavori nei primi chilometri, alla crisi e all’abbandono del progetto. Progetto che ebbe il suo massimo paladino nell’ingegnere napoletano Giacomo Buonomo, già impegnato in studi di ferrovie nell’Africa Italiana, il quale dalla Grande guerra al ventennio fascista sostenne in tut- te le sedi l’idea della Ferrovia Transbalcanica Roma-Valona-Costantinopoli, che del resto al momento della prima guerra mondiale vedeva già in parte realizzato il suo itinerario sulla di- rettrice danubiana. Mancava il tratto da Monastir a Valona di circa 260 km, che avrebbe per- messo di collegare direttamente l’Adriatico, l’Egeo e il Mar Nero. Stefano Maggi

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Federico Romero, Antonio Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), vol. II, Roma, Carocci, 270 pp., Û 22,50

Il volume curato da Federico Romero e Antonio Varsori costituisce la seconda tappa (il primo volume è stato pubblicato nel 2005) di una ricerca avviata nell’ambito di un Cofin de- dicato allo studio di alcuni aspetti della politica estera italiana. In questa seconda parte del- l’indagine trovano spazio i temi dell’azione verso le organizzazioni internazionali e nei con- fronti di alcune istituzioni specializzate (saggi di Costa Bona, Medici e Migani), della costan- te attenzione rivolta verso l’area mediterranea (saggi di Bedeschi e Cricco), delle difficoltà con- nesse all’aggiornamento dell’apparato tecnico-militare (saggi di Neri Gualdesi e Burigana), dell’atteggiamento del PCI verso alcuni momenti chiave dell’evoluzione interna al blocco orientale (saggi di Galeazzi e Lomellini). Accomunati da un approccio metodologico basato sull’utilizzazione di fonti archivistiche nazionali e straniere, i vari contributi si concentrano, con un’unica eccezione, sul periodo successivo alla seconda guerra mondiale. La pluralità dei saggi e la diversità delle tematiche prese in considerazione non impediscono di rintracciare al- cuni elementi comuni che vanno dal riconoscimento di taluni elementi di debolezza del pae- se, alla contraddittorietà di alcune scelte, per giungere all’individuazione di un crescente ruo- lo dell’opinione pubblica e di alcuni attori non governativi nel quadro della politica estera. In particolare, il costante sforzo della diplomazia italiana di coniugare la difesa degli interessi na- zionali con l’analisi dei mutamenti globali appare evidente nel passaggio dalla priorità del pie- no inserimento del paese nel circuito internazionale – nel caso dell’atteggiamento verso la So- cietà delle Nazioni o della questione libica perseguito attraverso una concezione tradizionale dei rapporti di forza – all’identificazione di nuovi canali idonei a esprimere politiche multila- terali sempre più convintamente sostenute. La necessità di immettere in una cornice più am- pia le istanze italiane al fine di evitare di misurarsi con i limiti delle proprie risorse, ma anche per aumentare le possibilità di successo delle soluzioni proposte in una realtà bipolare, emer- ge sia a proposito degli sforzi per risolvere il conflitto arabo-israeliano che in occasione dell’a- zione svolta in seno ad alcuni organismi internazionali (UNESCO e DAC). Tuttavia sebbene anche in questi casi le iniziative presentino luci ed ombre, certamente più densa di equivoci risulta la condotta del governo nel momento in cui la mancanza di organi collegiali lo obbli- gava a contatti bilaterali che, nel caso dei progetti di modernizzazione degli armamenti aerei e navali, ne mettevano a nudo la fragilità negoziale. In questo quadro gli studi relativi al PCI evidenziano, sia nel caso dei rapporti con la Lega dei comunisti jugoslavi che verso il proble- ma del dissenso, un’ambiguità dettata da contraddizioni analoghe a quelle di cui soffriva il paese. Daniele Caviglia

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Marco Roncalli, Giovanni XIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia, Milano, Mondadori, 791 pp., Û 26,00 Con un linguaggio piano e quasi giornalistico, ma con un’attenzione scrupolosa alle fon- ti e, dunque, con un approccio scientifico, Marco Roncalli traccia una biografia a tutto ton- do di papa Giovanni XXIII. Privilegiando come fonte le agende e i diari (ancora largamente inediti), l’autore segue un taglio annalistico, in alcuni casi con un piglio più rapido in altri con ricostruzioni ravvicinate e minute: l’attenzione metodologica, condivisibile, è stata quella di strutturare un percorso biografico non teleologicamente teso all’ultima e più importante tap- pa, cioè il pontificato. Si accenna pure alla dimensione generazionale (p. 12), rilevando che Roncalli nacque nello stesso anno (1881) di Picasso e di De Gasperi (ma anche, aggiungia- mo, di Papini, Bevilacqua e Buonaiuti, e in fondo solo poco prima di Mussolini, nato nel 1883): tuttavia questa linea generazionale di lettura non viene sviluppata. Di particolare importanza mi sembrano le pagine (57-63) relative all’interesse del giova- ne Roncalli per l’americanismo (sulla scorta della scoperta di nuovi quaderni di appunti, del 1901), come pure la ripresa della questione dei suoi rapporti con il modernismo, il murrismo e specialmente con Buonaiuti, mentre non si sa nulla delle eventuali relazioni con Semeria, che pure gli vennero imputate (p. 103). L’autore nota che «nonostante Roncalli minimizzi molto il suo rapporto con Buonaiuti» (p. 51), la vicenda è più complessa: questo apre una più vasta questione sulla critica delle fonti e cioè su livelli interpretativi e filtri ermeneutici neces- sari nel trattare con fonti prevalentemente autobiografiche, memorialistiche e anche – sia pu- re differenti – diaristiche (comunque sempre di possibile lettura da parte di superiori). Giustamente l’autore fa notare come una caratteristica costante nella vita di Angelo Ron- calli sia stata quella di evitare di farsi schiacciare dalla «cultura del nemico» e perciò di non ap- piattirsi mai su schemi ecclesiologici aspramente polemici e troppo angustamente antimoderni, ma di mostrare sempre un atteggiamento ottimistico e affabilmente moderato. Emerge però, al- lora, il «mistero Roncalli» (p. 329): l’impossibilità di ridurne la figura e l’opera negli schemi del «conservatore» o del «progressista»; la difficoltà di interpretare la sua ansia sociale e insieme il suo rifiuto di posizioni sociali più ardite in preti e laici cattolici, l’attenzione – quasi conservatrice – per la tradizione tridentina e insieme la richiesta di aggiornamento. Si tratta di un problema sto- riografico, ma anche di una realtà storica, che causò quella «eterogenesi dei fini» tra le motiva- zioni dei cardinali conclavisti che lo elessero e le linee fondamentali del pontificato. Giusto vedere nella spiritualità la chiave ermeneutica per una comprensione unitaria del- la biografia di Roncalli (p. 7). Forse, con uno scavo maggiore in questo senso, sarebbe potu- ta emergere quella che a me pare la linea prevalente – tridentina ma nel senso della Riforma cattolica – e che spiega molti aspetti del mistero Roncalli: la linea oratoriana di Filippo Neri soprattutto, ma pure di Baronio (al quale si ricollega l’importanza, anche pastorale, della cul- tura storica), Faber, Newman (e Rosmini). Fulvio De Giorgi

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Isabella Rosoni, La colonia eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana (1880- 1912), Macerata, EUM-Edizioni dell’Università di Macerata, 318 pp., Û 20,00 Dopo un centinaio di pagine di inquadramento tematico e storiografico, il libro traccia la storia politica degli ordinamenti amministrativi che ressero la colonia Eritrea dal 1880, quando il governo della baia di Assab passò allo Stato italiano, fino alla nascita del Ministero delle Colonie che seguì la conquista della Libia. Fu una graduale gestazione di ordinamenti riguardanti le partizioni territoriali, i rapporti tra militari e civili, gli organi di governo e il per- sonale, le varie amministrazioni di riferimento in patria, la codificazione, l’amministrazione della giustizia (e poiché tutto ciò è radicato nella morfologia territoriale ed etnica, nuoce mol- to l’assenza di mappe). Ordinamenti nati dai fatti dopo il ripiegamento della prima gestione militare – quando con Adua fallì non solo la campagna militare, ma anche l’improvvisato pro- getto di colonizzazione dell’altipiano – e che si assestarono senza visione strategica, né attrez- zatura concettuale, né personale idoneo, sotto i governatorati del militare Oreste Baratieri (1892-1897), del letterato e politico Ferdinando Martini (1897-1907) e del diplomatico Giu- seppe Salvago Raggi (1907-1915). Questa incerta perifericità del fatto coloniale riflette la sua estraneità al farsi delle strutture economiche o politiche italiane di quel periodo (non è così per quelle mentali, se è vero che il mito africano occupa un posto nell’immaginario naziona- le, come conferma il libro di Michele Nani recensito in questo Annale). Da qui forse anche una perifericità storiografica che non deriva solo dal trauma fascista-etiopico, a cui in genere si addebita l’amnesia d’età repubblicana. Oggi gli storici delle istituzioni sono entrati con decisione nel settore (si veda qui la sche- da su Oltremare di Aldo Mazzacane). Ma non sempre vale la regola dei late comers, che dal ri- tardo partono avvantaggiati. Questa puntuale disamina di atti amministrativi, carica di utili rinvii, colma una lacuna, ma non forza i limiti di una storiografia descrittiva e non propone nuove vie. Eppure gli elementi per farlo ci sarebbero, proprio a partire dal profilo istituziona- le. La colonia appartiene allo Stato ma non è parte integrante di esso – così la nota prima si- stemazione di Santi Romano, che peraltro è posteriore a questo ciclo eritreo; non ha rilievo costituzionale né riconosce diritti politici; riguarda i governi e ben poco i parlamenti; è espe- rimento di una legislazione differenziale «semplificata» che frammenta e gerarchizza i sogget- ti di diritto e dà spazio ai «pratici» e alle loro pratiche, e soprattutto enfatizza la natura giudi- ziaria del governo – come è proprio degli ordinamenti statuali premoderni –, con una siste- mazione del diritto indigeno consuetudinario qui giustamente segnalata come «invenzione del processo di codificazione coloniale» (p. 219). È un «modello italiano» che da un lato reclama di essere compreso in un più vasto quadro comparativo degli ordinamenti imperiali-colonia- li, e dall’altro meriterebbe di essere analizzato calando il dato positivo nei terreni difficili del- le pratiche. Raffaele Romanelli

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Murray N. Rothbard, La Grande Depressione, Prefazione di Lorenzo Infantino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 545 pp., Û 29,00 (ed. or. Princeton, 1963) Murray Rothbard è un economista, che sviluppa le teorie liberiste della scuola austriaca di Ludwig von Mises. Questo libro, uscito per la prima volta nel 1963, è poi divenuto un clas- sico: ne sono state pubblicate in America ben cinque edizioni, l’ultima nel 2000. Questa è la prima edizione italiana, elegante e ben curata e filologicamente molto rigorosa. Un’interessan- te prefazione di Lorenzo Infantino traccia una biografia intellettuale dell’autore. Si tratta di un’interpretazione della Grande Depressione. L’equilibrio del libero mercato, secondo Rothbard, si spezza a causa della sovrabbondanza di moneta offerta dalle banche con il sostegno del governo. Aumentano i prezzi dei beni di investimento e poi quelli dei beni di consumo, si creano sperequazioni tra i vari settori dell’economia e quindi la inevitabile crisi recessiva. Il governo, che avrebbe dovuto contenere l’emissione di moneta, è il primo colpe- vole della distorsione inflattiva e la sua colpa aumenta quando tenta, con ulteriori interventi dirigistici, di alleviare la crisi, invece che farne dispiegare a fondo gli effetti. Dal punto di vi- sta della ricerca storica lo studio si basa sul rovesciamento delle interpretazioni più accredita- te: lungi dall’essere responsabile di una politica deflattiva, la presidenza Hoover generò la cri- si con irresponsabili politiche monetarie, che sollecitarono l’inflazione del credito; poi la pro- lungò, drammaticamente, con misure dirigiste nel campo dei lavori pubblici, delle politiche sociali e salariali e sostegni alla produzione. Il dirigismo non venne dunque inventato da Roo- sevelt, ma coniato dai repubblicani stessi, che ripudiarono le sperimentate teorie del laissez fai- re. Roosevelt si limitò ad allargarlo. Il lavoro di Rothbard è molto dettagliato: dopo una lun- ga introduzione teorica in cui si accanisce in particolare contro i keynesiani, egli porta la sua attenzione sugli anni Venti. Divide equanimamente le colpe fra il governo e i banchieri cen- trali, soprattutto Benjamin Strong, potente governatore della Federal Reserve di New York, e Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra, che avrebbe convinto i suoi colle- ghi americani a iniettare liquidità nel sistema internazionale per alleviare i problemi dell’eco- nomia inglese e puntellare la declinante supremazia della sterlina. I capitoli successivi si rivol- gono, invece, alle vicende domestiche dell’economia americana dal 1929 fino al 1932. Cosa concludere su questo interessante lavoro? Alcune delle interpretazioni e delle ricet- te proposte sembrano superate. Chi crede, oggi, nelle virtù taumaturgiche di dure recessioni per disintossicare l’economia e rettificare le ricorrenti crisi cicliche dell’economia? Tutta la ge- stione dell’economia americana degli ultimi anni sembra essere stata un esercizio opposto, mi- rante a puntellare l’economia per evitare lo «hard landing», a cui sembra condannarla l’ecces- sivo indebitamento interno ed estero. La teoria economica, inoltre, ha fatto molti passi in avanti nella valutazione, per esempio, delle condizioni di reale libertà del mercato per quan- to riguarda comportamenti e aspettative, nonché asimmetrie nell’informazione degli attori. Rothbard ci appare, comunque, un controverso e acuto osservatore dei fatti. Ruggero Ranieri

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Angela Russo, «Nel desiderio delle tue care nuove». Scritture private e relazioni di genere nel- l’Ottocento risorgimentale, Milano, FrancoAngeli, 173 pp., Û 16,00

È un capitolo di storia delle relazioni familiari e dei legami d’amicizia nell’Ottocento quello scritto da Angela Russo in questo volume, che attinge principalmente al carteggio di Giuseppe Ricciardi con le figlie, le sorelle e una cerchia di amiche, intellettuali, emancipazio- niste, patriote, conservato insieme a pagine di diario, saggi, opere inedite, nell’omonimo fon- do presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Vi primeggia dunque come fonte il «documento dei sentimenti» per eccellenza: la lettera privata. Per questo democratico napoletano, ribelle con una vena di eccentricità, lo scambio epistolare infatti fu, durante gli anni trascorsi in esi- lio tra Francia e Svizzera dal 1836 al 1860, non solo «l’unico filo che congiunge i lontani» (p. 55), ma anche il vincolo garante della coesione familiare, il tramite di una educazione patriot- tica e, nella sua successiva vicenda politica, un mezzo per diffondere i principi del suo anticle- ricalismo e il progetto di un’emancipazione femminile da conseguire innanzitutto mediante l’istruzione. La fine e sensibile lettura delle carte fa emergere la cifra intima e confidenziale dei lega- mi familiari ormai pienamente «sentimentalizzati» di Ricciardi con le figure femminili della sua famiglia: con le figlie, su cui la sua «mascolinità tenera» riversava un’affettività intensa e continuamente dimostrata, e con le due sorelle, tra loro assai diverse. L’una, Elisabetta, catto- lica e filoborbonica, «tiranna amorosa», come egli la definiva, ed energica curatrice, in una sor- ta di maternage non privo di tensioni conflittuali, del suo dissestato patrimonio; l’altra, la più fragile Irene, liberale, cultrice della musica, della pittura e poetessa, amica della più celebre Giuseppina Guacci Nobile, allieva di Basilio Puoti. Sono tra le più felici del libro le pagine che trattano di questo rapporto, che si profila, intenso ed esclusivo al pari di molte amicizie femminili ottocentesche, in alcune centinaia di lettere inviate a Irene dalla Guacci, nelle qua- li la comunicazione tutta privata, dall’andamento spesso di scrittura diaristica, rivela la sua personalità passionale, «trasgressiva e deviante rispetto al gender» (p. 101) nel rivendicare l’in- dipendenza e l’autonomia femminile. Il finale del libro è dedicato alla rete delle corrispondenti che condividevano con Ricciar- di le sue battaglie anticlericali – fra cui l’iniziativa di un anticoncilio, assemblea di liberi pen- satori, organizzata nel 1869 in opposizione al Concilio ecumenico vaticano – e il suo impe- gno per l’introduzione del divorzio, nella lotta alla prostituzione e per una rinnovata istruzio- ne femminile. Questa bella ricostruzione, in una prosa scorrevole, di un interno di famiglia aristocrati- ca e delle dinamiche dell’amicizia, in particolare negli anni del nascente emancipazionismo, in cui la deferenza andava cedendo a rapporti maggiormente paritari, lascia più in ombra la dimensione della politica, facendo un poco soffrire il volume della mancanza di un contesto. Maria Luisa Betri

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Federica Saini Fasanotti, La gioia violata. Crimini contro gli italiani, Prefazione di Sandro Fontana, Milano, Ares, 302 pp., Û 18,00

Il volume, prefato da Sandro Fontana, storico e politico, è frutto della collaborazione in- staurata dall’autrice, allieva di Giorgio Rumi e dottore di ricerca, con l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito (AUSSME), da cui proviene gran parte della docu- mentazione utilizzata. Introduzione e conclusione a parte, il testo è suddiviso in sette capito- li, di lunghezza assai diseguale, quattro articolati in paragrafi. I temi toccati: Diritto umanita- rio & Crimine di guerra; Violazioni del diritto umanitario ai danni dell’Italia; La raccolta di te- stimonianze da parte italiana; Crimini del governo della Francia Libera; La questione «Iugosla- via»; Illegalità statunitensi & inglesi; La controffensiva greca; Il Corpo d’armata polacco. Il tema appare di sicuro interesse, sia perché – come l’autrice più volte ricorda (ad es. a p. 168) – l’at- tenzione degli studiosi si è focalizzata e sui crimini commessi all’estero dalle regie forze arma- te fino all’8 settembre 1943, e su quelli perpetrati nella penisola dalla Wehrmacht e dall’ap- parato SS, sia perché l’indagine poteva contribuire a rispondere ad una questione cruciale: po- sto che gli eserciti rappresentano una concentrazione di forza armata, e che perciò è lecito aspettarsi che da essi, in circostanze belliche, prorompano quasi fisiologicamente fiotti di vio- lenza fino al crimine, ogni fatto del genere è così spiegabile, oppure occorre andare oltre e ve- rificare l’esistenza di quidditates che abbiano reso questo o quell’esercito (o una sua parte) una macchina singolarmente adatta all’eccidio? Spiace che da questo punto di vista il volume si ri- veli un fallimento, incorrendo in una serie di errori metodologici e contenutistici che vanno dalla carente delimitazione del tema (come si fa ad includere nei «crimini di guerra» anche gli incidenti automobilistici causati da soldati alleati ubriachi [p. 222]?); allo schiacciamento qua- si totale sui documenti (quelli raccolti dall’AUSSME, la cui origine l’autrice stessa precisa va ricercata nel tentativo di «rendere meno dure, in sede di negoziato, le condizioni del trattato di pace» (p. 86); all’adozione di stereotipi tanto diffusi quanto storiograficamente privi di sen- so quale l’attribuzione (in numerosi luoghi, da p. 10 a p. 279) ai «tedeschi» di una propensio- ne quasi innata a macchiarsi di «atti di barbarie» e «crimini contro l’umanità», mentre al con- trario in Jugoslavia ed in Grecia, «i mezzi brutali di repressione [...] furono adottati dagli ita- liani in genere come risposta ad atti di ferocia perpetrati dal nemico nei confronti di prigio- nieri» (!!! pp. 169 e 249); all’abituale rinvio a riferimenti bibliografici assai numerosi ma pri- vi di rimandi puntuali ed eterogenei: accanto ad opere di valore troviamo dubbi scritti divul- gativi nonché pubblicazioni della destra radicale. Per non parlare poi di usi linguistici inaccet- tabili: «cittadini italiani di razza ebraica» (p. 45), «i nazisti [...] organizzarono [...] l’elimina- zione di individui in base alla loro razza» (p. 75), senza che «razza» stia tra le opportune vir- golette; «elementi nazionali» (p. 74) per indicare i fascisti repubblicani, ecc. ecc. ecc. Brunello Mantelli

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Giovanni Sale, Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV (1919-1922), Prefazio- ne di Pietro Scoppola, Milano, Jaca Book, XIX-277 pp., Û 21,00

Il padre gesuita Giovanni Sale, già autore di numerosi studi basati in larga misura su una documentazione tratta dal ricchissimo archivio della «Civiltà Cattolica» e dagli archivi vatica- ni, arriva ora a cimentarsi con una trilogia di storia politico-ecclesiastica italiana tra le due guerre, di cui l’opera in oggetto costituisce il primo tomo (ma all’inizio del 2007 è uscito an- che il secondo). Diviso in una parte narrativa e in una cospicua appendice di documenti ine- diti (che occupano la metà del volume), il lavoro affronta il tema della nascita e dei primi pas- si del Partito popolare osservati dall’angolatura visuale degli ambienti ecclesiastici e laici con i quali la rivista dei gesuiti romani era collegata, a cominciare, naturalmente, dalle sue relazio- ni particolari con la Curia vaticana, e specialmente con la Segreteria di Stato. Sebbene non modifichi nella sostanza un quadro storiografico sufficientemente consolidato, l’opera di p. Sale vi aggiunge tuttavia non pochi particolari e sfumature di notevole interesse, dando peral- tro la sensazione che, in diversi casi, i documenti inediti non siano stati utilizzati in tutta la loro potenzialità. A merito di p. Sale va ascritto il considerevole spirito critico da lui messo in campo nei confronti dei suoi antichi predecessori della «Civiltà Cattolica» come pure (ma con maggiori cautele) nei riguardi degli ambienti ecclesiastici e vaticani che avanzarono non po- che né marginali riserve nei confronti di Luigi Sturzo e del popolarismo di marca sturziana (verso il quale risultano invece orientate le simpatie sin troppo entusiastiche dell’autore). Di fatto il volume conferma che, se il Partito popolare non incontrò alla sua nascita l’ostilità dei vertici ecclesiastici (che l’avrebbe soffocato nella culla), i quali l’accettarono come «meno peg- gio», fu però oggetto di una precoce e assai pesante opera di condizionamento, principalmen- te per mano della sua ala destra a sfondo clericale e conservatore, che non basava la sua forza sul numero degli aderenti, bensì sui ruoli nevralgici dei suoi promotori e sui solidi sostegni esterni, di cui godeva in Vaticano e nella «Civiltà Cattolica» (in particolare nella persona del suo direttore padre Enrico Rosa). In senso generale, il Partito popolare fu visto da questi de- cisivi gangli ecclesiastici come un’«ipotesi» politica che andava messa alla prova dei fatti, ma che non rispondeva affatto e sempre meno rispose alle attese più sostanziali della Chiesa in Italia. Sotto questo profilo, il volume di Sale arriva a porre in piena luce che i tentativi di ero- sione del Partito o, per meglio dire, di scardinamento della sua linea sturziana, incominciaro- no ben prima dell’avvento del fascismo al potere. Per altro verso, il volume offre nuovi spun- ti di riflessione sul fatto che il Partito popolare, con la sua sola apparizione, venne ad aprire significativi spazi di dissenso anche all’interno della compagine ecclesiastica (per esempio a li- vello dell’episcopato), facendovi emergere fermenti che fino allora erano rimasti occultati o latenti. Francesco Traniello

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Paola Salvatori, Il Governatorato di Roma. L’amministrazione della capitale durante il fasci- smo, Milano, FrancoAngeli, 178 pp., Û 16,00

Il volume si inserisce nell’attuale clima di attenzione per la storia di Roma e coglie uno snodo centrale del processo di legittimazione della città come capitale e della sua trasforma- zione in metropoli moderna. Il fascismo, dotando Roma di uno statuto speciale che rompe- va il criterio dell’uniformità amministrativa attraverso un organismo accentrato alle strette di- pendenze del governo, intendeva dirigere il processo di monumentalizzazione e di moderniz- zazione della città facendo della capitale lo specchio della nazione. Il libro affronta il versante amministrativo di questo processo lasciando sullo sfondo sia la dimensione politica che le ri- cadute sociali del governo urbano. Più specificamente mette al centro della ricerca due snodi strategici dell’azione amministrativa: le politiche di bilancio e del personale, la prima caratte- rizzata da un ricorrente indebitamento per mutui, la seconda da ciclici tentativi di razionaliz- zazione. Da questi due cardini discendono poi le politiche urbane: piani regolatori, reti idri- che e illuminotecniche, trasporti pubblici, decentramento amministrativo, istruzione, assi- stenza e beneficenza. Tra questi argomenti particolare spazio è dedicato alle scelte urbanisti- che che appaiono caratterizzate da tre matrici: la monumentalizzazione delle opere pubbliche con funzione simbolica, le politiche abitative mirate alla formazione del consenso del ceto me- dio, il sostegno all’impresa privata rispetto sia a quella cooperativa, sia agli enti che gestivano l’edilizia pubblica. La scansione cronologica, che determina anche la divisione in capitoli del volume, è legata al succedersi dei vari governatori: F. Cremonesi (1925-1926), L. Potenziani (1926-1928), F. Boncompagni (1928-1935), G. Bottai (1935-36), P. Colonna (1936-1939), G.G. Borghese (1939- 1943). L’analisi della gestione amministrativa mostra che le due fasi caratterizzate da politiche innovative, finalizzate a una più razionale gestione delle risorse e alla rivendicazione di una maggiore autonomia dal governo centrale e dagli interessi locali, furono quelle dei governato- rati di Cremonesi e di Bottai, ambedue ispirati dalle strategie di Virgilio Testa, che fu diretto- re dell’Ufficio tecnico con Cremonesi e segretario generale con Bottai. Di Testa emerge l’im- pulso riformatore che si manifestò nella volontà di restituire all’amministrazione il controllo dei processi di urbanizzazione attraverso il riordino degli uffici, l’espropriazione delle aree fab- bricabili e il divieto di lottizzazione delle aree fuori dal piano regolatore. La sconfitta di Testa sancì in qualche modo la subordinazione dell’amministrazione capitolina non solo al gover- no centrale ma anche agli interessi delle imprese private e dei possessori di suoli. Non a caso i capitoli conclusivi evidenziano il rapporto che si era formato tra interessi e Governatorato a sostegno del Progetto E 42. Più in generale tutto il libro ci racconta il lavorio burocratico, fat- to di conflitti e negoziazioni tra centro e periferia, tra amministrazione, politica e interessi, che sta alla base della monumentalizzazione e dell’espansione della capitale. Salvatore Adorno

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Andrea Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Introduzione di Guido Crainz, Roma, Donzelli, XIV-305 pp., Û 24,50

Il libro ricostruisce l’immagine degli operai e delle loro lotte nel trentennio che segna il compimento del processo dell’industrializzazione italiana: compimento nel duplice senso del completamento della trasformazione dell’Italia in paese industriale e della conclusione di un’età, quella industrial-fordista dell’occupazione di massa nel settore secondario, che rag- giunge l’acme negli anni Settanta; l’immagine è quella prodotta sugli operai dalla produzione artistica, letteraria, filmica, fotografica, storica, sociologica, giornalistica e mediatica, messa a confronto con la memorialistica e le testimonianze degli operai stessi. Ne esce un quadro sfac- cettato che rilegge i principali eventi della cronaca di trent’anni di conflitto industriale attra- verso le interpretazioni coeve, facendo rivivere il dibattito nella sua vivacità e immediatezza polemica. La narrazione si dipana a partire dagli ultimi sussulti delle mobilitazioni operaie del- l’immediato dopoguerra, destinati a spegnersi nella repressione fomentata dalla guerra fred- da. Ai duri anni Cinquanta segue il culmine del boom, che ridisegna i rapporti di forza in un mercato del lavoro non più squilibrato a favore della domanda e che produce, nel corso degli anni Sessanta, una crescente sensibilità e consapevolezza dei sacrifici imposti agli operai, che sopportano il peso del miracolo economico. Sotto questa angolazione, ed è una delle letture più interessanti suggerite dal volume, l’autunno caldo del 1969 ha le sue radici in poco me- no di un decennio di riflessioni critiche sui limiti, i costi, gli squilibri e le contraddizioni del- lo sviluppo. Gli anni della conflittualità spontanea e diffusa, in cui gli operai conquistano il primo piano della centralità sociale e politica, appaiono limitati al sessennio 1968-73, presto smorzati nella loro carica dirompente dalla crisi degli equilibri economici interni e internazio- nali: le immagini prodotte negli anni che separano l’alta conflittualità dall’autunno gelato del 1980 si fanno mosse, riflettono contraddizioni e incertezze ideologiche, fino allo smarrimen- to della sconfitta epocale che prelude a quella disaffezione e disattenzione che Giuseppe Ber- ta ha compendiato come «opacità» della fabbrica. In riferimento all’autunno 1980, la perio- dizzazione proposta per la «parabola operaia» appare convincente qualora l’espressione venga intesa come parabola della produzione di immagini, o dell’immaginario collettivo, o forse an- cora della classe operaia «per sé», della classe operaia che esiste in quanto esiste la coscienza di classe. Nella realtà sociale il peso della classe operaia «in sé» era ancora lungi dal rarefarsi. La parabola appare così disegnata sui contorni della capacità di mobilitazione operaia più che sui profili strutturali. Meno capaci di produrre, esprimere e diffondere le proprie immagini, i la- voratori industriali sono stati ridotti all’opacità dal cambiamento del centro di interesse degli intellettuali e dell’industria culturale, non senza effetti negativi sulla capacità di cogliere e re- golare i tratti successivi del cambiamento e delle forme di interazione sociale. Stefano Musso

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Gianpasquale Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Ca- rocci, 316 pp., Û 28,00

Il volume condensa un intenso lavoro di ricerca condotto nel corso di molti anni: sull’argo- mento l’autore ha scritto in passato saggi originali, che sono qui rifusi e reinterpretati in una nuo- va chiave di lettura felicemente riassunta nel titolo e nel sottotitolo. Il sottotitolo intende deli- mitare (ma il termine come vedremo è riduttivo) il terreno al campo culturale, snodandosi tra un primo capitolo, imperniato sulle accezioni italiane di un corporativismo affermatosi ideal- mente nei primi anni ’20 in alternativa a liberismo e collettivismo, e il sesto dedicato alla scom- parsa di quel mito alla vigilia della guerra mondiale, sopraffatto da una nuova realtà dove le cor- porazioni non esistono, ma esiste una economia «mista»; la conciliazione di classe non c’è, ma c’è una dura repressione; l’anticapitalismo delle origini ritorna, ma solo per macchiarsi di anti- semitismo. Il titolo è anch’esso significativo, perché sottolinea «che si deve avere il coraggio di prendere il fenomeno sul serio, cosa che non sempre è accaduta» (p. 12): prendere sul serio non solo il corporativismo come realtà (sul cui fallimento, o liminarità, nell’organizzazione produt- tiva italiana, si espresse già negli anni ’30 Rosenstock-Franck) ma come cultura, campo di in- contro e scontro ideale, mito, appunto, che, grazie alle sue origini antiche, cattoliche e medieva- leggianti, consentiva di aggregare illusioni di conciliazione sociale con la sconfitta dei principi dell’89, sogni di «seconda ondata» fascista con l’idea di una nuova classe dirigente, spazio di li- bero dibattito per i giovani con il dominio totalitario di un ceto politico inamovibile. La cultu- ra del corporativismo acquista quindi una densità di significati in grado di connotare l’intero ci- clo storico del fascismo ed è a questa varietà, pluralismo si potrebbe dire, di interpretazioni che è dedicata la ricostruzione di alcuni momenti cruciali del dibattito, collocabili nel decennio 1924-1934. Le tappe più investigate (capp. 2, 3, 4) sono: il ruolo assunto da Rocco, dopo l’in- put iniziale di Gentile, nella rifondazione giuridica del corporativismo, con la conseguenza di una sostanziale statizzazione del sindacato; la vivace discussione che vede protagonisti uomini come Bottai, Spirito, Quilici, attorno alle numerose riviste sorte nell’arena politica e accademi- ca; ma anche il contributo dei cattolici e degli economisti liberali. I due convegni di Roma del 1930 e di Ferrara del 1932 delineano i tratti di un dibattito tutto interno al fascismo, e soprat- tutto al mussolinismo, al di là delle apparenti e clamorose divisioni. Il quinto capitolo, La terza via, lascia spazio a uno sguardo extra-nazionale e descrive la penetrazione del corporativismo, quale alternativa al liberalismo e al socialismo, in Europa, USA e URSS. Dal confronto si con- ferma che il vero aspetto caratterizzante di tutta la discussione italiana sul corporativismo è il suo tratto ideologico e un livello di progettazione e di dettaglio che non affronta mai le trasforma- zioni reali in corso nell’economia (lasciate al padronato e ai grands commis) ma si confina anco- ra, come già in età liberale, dentro il campo giuridico, il solo, evidentemente, in grado di forni- re un linguaggio unificante anche al nuovo ceto politico del paese. Mariuccia Salvati

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Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 514 pp., Û 20,00

Documentarista della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi dal 1989 al 2001, Satta torna alla vicenda Moro, cui ha dedicato contributi in «Nuova storia contem- poranea» e nel 2003 Odissea nel caso Moro, corposo volume, di cui questo può essere considerato il complemento aggiornato al post 2003. Qui, come allora, il fine è la demolizione puntigliosa di tutte le dietrologie che nel caso Moro leggono interessi e responsabilità di soggetti molto diversi dalle sole BR, agenti in sostanza contro il PCI e il suo ingresso nell’area di governo. Anche qui si tratta di un volume massiccio, di non facile lettura, perché consiste in cinquecento pagine di ri- costruzione puntigliosa di fatti, questioni, discussioni, che presuppongono una conoscenza det- tagliata di tutti i più specifici aspetti fattuali della vicenda Moro. E, di nuovo, l’analisi si basa prin- cipalmente sui volumi della Stragi, messi recentemente a disposizione del pubblico, cui si affian- cano documenti della Commissione Mitrokhin, atti processuali e materiale giornalistico. Rispetto al volume del 2003, che aveva già fornito un denso spettro di spiegazioni di tan- ti dei presunti misteri del caso Moro, questo volume non aggiunge moltissimo, anche perché molte novità e aggiornamenti nel frattempo non sono intercorsi; a parte la messa a disposizio- ne degli atti della Commissione, qualche atto processuale, alcuni libri più o meno cospirazio- nisti, e un film, alquanto modesto e di scarso successo, Piazza delle cinque lune, di Renzo Mar- tinelli. Sono questi i motivi che hanno indotto Satta a ritornare sul caso Moro per chiarire ul- teriormente, diradare vecchi e nuovi misteri. L’argomentazione è dominata da una cifra pole- mica contro la presunta vulgata che ascriverebbe la responsabilità della morte di Moro ad al- tri che alle Brigate Rosse, le quali scadrebbero al rango di comparsa di seconda fila, se non di burattino più o meno inconsapevole in mani altrui. Sergio Flamigni, il giornalista Giovanni Fasanella, l’ex presidente della Stragi Giovanni Pellegrino sono, tra altri, i principali bersagli critici di Satta: li critica in modo serrato, non di rado aspro, contrapponendo in maniera più o meno convincente fatti, nomi, date, ragionamenti logici, argomentazioni controfattuali per dimostrare la totale e assoluta inconsistenza di qualsiasi dubbio sull’intera vicenda Moro. Benché egli stesso noti che non di rado i testimoni auditi hanno cambiato versione nel corso del tempo, Satta attribuisce alle fonti della Stragi un valore di prova ultima e risolutiva. Così privilegia un’analisi per linee interne al caso Moro e alle sue interpretazioni, che va a di- scapito della contestualizzazione storica e che in qualche modo astrae questa vicenda dalla sto- ria italiana, facendone quasi un caso a sé. La critica delle semplificazioni cospirazioniste su questa e altre vicende è un fine del tutto condivisibile, ma rimane la sensazione che farne l’as- sunto programmatico di un approccio considerato come definitivamente risolutivo della que- stione sia quasi il corrispettivo speculare delle dietrologie che vedono un agente dei servizi (americano o sovietico) dietro ogni conflitto del decennio ’70. Emmanuel Betta

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Fabiana Savorgnan di Brazzà (a cura di), Pietro Savorgnan di Brazzà dal Friuli al Congo Brazzaville, Atti del Convegno Internazionale (Udine, 30 settembre – 1 ottobre 2005), Firen- ze, L.S. Olschki, XVIII-242 pp., Û 25,00

Il volume raccoglie gli atti di un convegno celebrativo del centenario della morte di Pietro Savorgnan di Brazzà. Il grande esploratore, nato a Roma nel 1852 da famiglia friulana e natura- lizzato francese nel 1874, morì infatti il 14 settembre 1905 a Dakar al termine di un ultimo de- fatigante viaggio che lo aveva portato ancora una volta a percorrere le regioni dell’Ogouè, del- l’Ubanghi e dell’alto Chari. Organizzato per iniziativa del Comune di Moruzzo (patria d’origi- ne della famiglia Savorgnan) e del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Udine, il con- vegno ha costituito l’occasione per meditare sul significato eccezionale dell’esperienza di Pietro Savorgnan di Brazzà: uno dei pochi esploratori occidentali tuttora oggetto di stima in Africa. Più che ritornare sulla figura dell’esploratore, i convegnisti hanno delineato tematiche che solo indirettamente lo riguardano; emblematico l’intervento di Gianpaolo Romanato (Le mis- sioni fra esplorazioni e colonialismo, pp. 103-119) in cui neppure viene citato il nome di Pie- tro di Savorgnan. Si sono così puntualizzati vari aspetti della cornice storica e culturale in cui si inserì il personaggio celebrato. Bruno Zanettin ha delineato quanto si sapeva dell’Africa al- l’epoca di Savorgnan di Brazzà (Quadro delle conoscenze e sintesi dell’attività esplorativa nell’A- frica subsahariana, pp. 1-16), mentre Fulvio Salimbeni ha rievocato lo scenario in cui si con- cretizzò in Africa l’espansione coloniale (L’Africa di Pietro Savorgnan di Brazzà tra espansione e imperialismo, pp. 91-102). Altri hanno posto in rilievo i rapporti complessi che si ebbero tra l’esploratore friulano e il mondo dei geografi italiani (cfr. Nadia Fusco, La Società geografica italiana e Pietro Savorgnan di Brazzà, pp. 59-77; Francesco Micelli, Pietro Savorgnan di Brazzà e i geografi italiani, pp. 79-90). Di taglio letterario l’intervento di Elvio Guagnini (Su alcuni viaggiatori italiani in Africa tra relazione e «Reportage», pp. 121-136) e anche quello di Renzo Rabboni (Salgari e Pietro Savorgnan di Brazzà, pp. 136-163) dedicato all’influenza che le im- prese dell’esploratore hanno avuto sul romanziere scaligero. Ne emerge che Emilio Salgari, non condividendo la scelta filofrancese del friulano, non travasò – se non in misura minima – l’eco di quelle imprese in altrettante trame di romanzo. Diversa la tesi avanzata da Manlio Pastore Stocchi (Divagazioni letterarie intorno a Pietro Savorgnan di Brazzà, pp. 27-39) secon- do cui la scarsa predilezione che Salgari mostrò per lo scenario africano sarebbe da conside- rarsi un riflesso della limitata attrattiva che l’Africa esercitava sulle «fantasie letterarie dell’Ita- lia giovane» (p. 31). Sul piano archivistico Elisabetta Mori («Hic sunt leones»: il fondo Savor- gnan di Brazzà nell’Archivio Storico Capitolino di Roma, pp. 165-171) ha ricostruito la storia delle carte relative al ramo romano della famiglia Brazzà, il cui studio è stato per altro già in- trapreso dalla curatrice del volume (cfr. Fabiana Savorgnan di Brazzà, Dal carteggio di Pietro Savorgnan di Brazzà, pp. 173-197). Marco Lenci

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Filippo Sbrana, Portare l’Italia nel mondo. L’IMI e il credito all’esportazione 1950-1991, Bologna, il Mulino, 437 pp., Û 33,00 Gli istituti di credito speciale sono stati parte di un lungo e complesso ciclo di econo- mia amministrata, iniziato intorno alla prima guerra mondiale, rafforzatosi con la grande depressione, ampliatosi con la ricostruzione e la golden age, gradualmente esauritosi dopo gli shock petroliferi e tecnologici degli anni settanta del Novecento, sino alla loro estinzio- ne come soggetti autonomi e specifici, avviata con la legge Amato-Carli del 1993. Se ormai abbondano gli studi sul ruolo degli istituti di credito speciale negli anni ’20, per il lungo dopoguerra non era sempre agevole spiegare appieno ascesa e declino di quelle istituzioni finanziarie, ponendole in relazione con le dinamiche di crescita e inserendole in un’esplici- ta dimensione storica dei processi evolutivi che ne hanno modificato nel tempo assetti ope- rativi e funzioni. Il corposo studio di Filippo Sbrana deve essere inserito in quel filone di analisi e rifles- sione storiografica per potere essere convenientemente apprezzato e compreso. Sostenuto dalla ricerca condotta sulle carte dell’Archivio dell’istituto, Sbrana ricostruisce un partico- lare settore di attività dell’Istituto Mobiliare Italiano tra il 1950 e il 1991, il credito alle esportazioni. Il credito alle esportazioni richiedeva una capacità di studio dei mercati e in- terlocuzione con i poteri pubblici nella fase di ripresa dei flussi commerciali verso l’estero. Di tale ripresa delle esportazioni la crescita dell’economia italiana approfittò notevolmente sino ai primi anni Sessanta, accrescendo la propria quota sul totale del commercio mondia- le ben oltre quel periodo. Consapevole della rilevanza dell’azione delle autorità centrali e dei cicli legislativi, Sbrana ricostruisce l’iter delle leggi che regolavano le erogazioni di cre- dito alle esportazioni, le modalità di applicazione della normativa nella dimensione quali- tativa e quantitativa. Il volume considera la distribuzione settoriale e geografica dei crediti alle esportazioni, in un settore in cui l’IMI fu in grado di acquisire, sino ai primi anni Set- tanta, la quota di mercato maggiore in forza del vantaggio del first mover, non mancando di ricostruire le operazioni più importanti che permisero all’istituto di appoggiare le espor- tazioni e gli investimenti diretti all’estero di grandi gruppi industriali, come la Fiat, la Mon- tecatini, la Italcementi, la Innocenti. Si seguono in tal modo le operazioni di finanziamen- to che permisero a quei gruppi di esportare e investire direttamente in America Latina e in Unione Sovietica, sino all’Africa (Congo e Algeria) e alla Cina. La riforma del credito all’e- sportazione introdotta dalla legge Ossola, che lo estendeva al resto del sistema bancario, e le crescenti incertezze determinate, dalla metà degli anni Settanta, dall’alta inflazione e dal- le turbolenze valutarie posero in difficoltà l’IMI, nonostante la sostanziale tenuta dell’isti- tuto su questo mercato sino alla metà del successivo decennio. La crisi debitoria di molti paesi emergenti negli anni Novanta, infine, rafforzò un processo di indebolimento relativo dell’IMI in questo tipo di crediti. Giandomenico Piluso

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Anna Scarantino, Donne per la pace. Maria Bajocco Remiddi e l’Associazione internazionale madri unite per la pace nell’Italia della guerra fredda, Milano, FrancoAngeli, 393 pp., Û 25,00 Solo pochi anni fa Simonetta Soldani (L’incerto profilo degli studi di storia contemporanea, in A che punto è la storia delle donne in Italia, a cura di A. Rossi-Doria, Roma, Viella, 2003) sottolineava quanto poco la storia delle donne italiana si fosse concentrata sul secondo dopo- guerra, così come sull’associazionismo politico femminile. Proprio di questa complessa fase storica e di un gruppo di donne prevalentemente di pic- cola borghesia, modesto in ampiezza ma assai motivato, si occupa Anna Scarantino nel suo volume sull’Associazione internazionale madri unite per la pace (AIMU) dalla sua creazione, nel 1946, al 1957, quando divenne la sezione italiana della Women’s International League for Peace and Freedom. Nella sua narrazione, che si estende a periodi precedenti e successivi, ci sono interessanti tratti biografici – come la figura di Maria Bajocco Remiddi –, il senso profondo dell’importanza dei legami transnazionali e un’idea «ampia» di politica delle donne. Al di là delle appartenenze partitiche, quest’ultima si tradusse non soltanto nella volontà di individuare nuove forme di democrazia interna all’Associazione, ma anche nel tentativo di creare un’azione pacifista «trasversale», capace di incidere sulle scelte dei partiti e dei governi nel periodo in cui la divisione in due blocchi si consolidava, trasformandosi così in un pro- gramma politico. Il nuovo sentimento di piena cittadinanza dato dall’accesso al voto nel 1946, imponeva alle donne italiane nuove responsabilità e doveri, come quello – sosteneva l’AIMU – di partecipare agli affari mondiali. Il suo impegno per la risoluzione pacifica dei conflitti at- traverso l’identificazione e l’eliminazione delle possibili cause di guerra si sarebbe accompa- gnato nel corso del tempo alla battaglia contro l’atomica e la pena di morte. Se, come sottolinea l’autrice, alla base dell’attivismo dell’Associazione era l’idea ottocen- tesca di una superiorità morale delle donne, alcune delle questioni da essa affrontate sono di struggente attualità: la valorizzazione dell’esperienza femminile come risorsa nella risoluzione dei conflitti attraverso la loro partecipazione ai processi decisionali a livello nazionale e inter- nazionale; l’importanza di preparare l’infanzia all’azione per la pace; il rispetto per i diritti umani; il rafforzamento della capacità di mobilitazione delle donne e il contributo allo svi- luppo della cooperazione politica, sociale ed economica tra i popoli. Per questo definire «ingenua» l’attività dell’AIMU – come ha fatto una nota giornalista – rispetto alle battaglie che le donne italiane nel secondo dopoguerra hanno condotto sul terre- no dei diritti civili e sociali e della parità nel mercato del lavoro, non rende merito all’attività di una piccola associazione che, certo con molti limiti, ha posto con forza il problema del rap- porto tra donne e pace. Proprio perché la ricerca mette in luce una quantità di aspetti diversi nel cercar di rispondere alla domanda «esiste un legame speciale tra le donne e la pace?» e pro- prio per l’attualità di questo quesito, la conclusione del libro, che riporta in primo piano il te- ma della maternità, non rende merito ad un lavoro ricco di stimoli. Elisabetta Vezzosi

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Marco Scardigli, Lo scrittoio del generale. La romanzesca epopea risorgimentale del generale Govone, Torino, UTET, XVI-590 pp., Û 27,00

Marco Scardigli, esperto di storia militare e già docente a contratto presso l’Università di Pavia, dopo aver pubblicato diversi saggi, tra cui una storia degli ascari, affronta nell’ultimo suo libro la biografia di Giuseppe Govone. L’opera, strutturata in tre parti, ripercorre la vita e la carriera di uno dei più importanti e atipici generali italiani dell’Ottocento. Dopo essersi sof- fermato sulle origini e sulla formazione, l’autore tratteggia gli esordi di Govone sui campi di battaglia della prima guerra di indipendenza. L’intelligenza, la capacità e la preparazione di- mostrati nell’espletamento di incarichi segreti e nell’organizzazione dello spionaggio portaro- no il giovane ufficiale a meritarsi la fiducia dei vertici militari. Un credito maturato anche gra- zie alle brillanti missioni svolte in Crimea e alla creazione di efficaci reti informative nella se- conda guerra d’indipendenza. Con l’Italia unita, e arriviamo alla seconda parte della ricerca, Govone si trovò a dover affrontare le questioni del brigantaggio nella Val Roveto e della reni- tenza alla leva in Sicilia. Particolare attenzione è riservata alle vicende del 1866 che videro il generale come uno dei massimi protagonisti in veste sia diplomatica sia militare. L’ultima par- te, infine, è incentrata sulla «scomoda» esperienza di Govone come ministro della Guerra, al- le prese con la necessità di ridimensionare i costi dell’esercito. Disaccordi, gelosie e pressioni da parte degli ambienti più conservatori delle regie armate portarono il generale al progressi- vo isolamento, sfociato nella malattia e nel tragico suicidio. All’autore va riconosciuto il me- rito di avere condotto una ricerca originale sulle carte d’archivio conservate presso il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino. Il quadro che emerge è ricco dal punto di vista di sto- ria militare, anche grazie all’incrocio con altre fonti, come i carteggi e le memorie di Lamar- mora, Revel, Della Rocca. Purtroppo non così particolareggiata emerge la figura politica di Govone. Da un lato i complessi quadri diplomatici dell’epoca sono risolti in linea unidirezio- nale. Dall’altro, la parte sul Govone ministro è insoddisfacente per la mancanza di aspetti che ripercorrano le vicende parlamentari del personaggio e dei rapporti con Lanza e Sella. Si ri- mane perplessi di fronte allo stile narrativo scelto, in quanto i presupposti di scientificità, in- siti anche nei poderosi rimandi in nota, a dire il vero a volte dispersivi, sono vanificati da un linguaggio che riduce la ricerca a un’opera più divulgativa che scientifica. L’autore, per forni- re un libro fruibile anche ai soli appassionati, si sofferma in corpose descrizioni di episodi già ampiamente conosciuti, con il risultato di nulla aggiungere di originale allo studio e di spez- zarne il racconto. L’impianto bibliografico è, per quanto riguarda il piano generale, piuttosto debole, basandosi su discutibili opere storiografiche di stampo giornalistico. Non del tutto convincenti appaiono infine, per gli interrogativi di attendibilità che ancora sollevano, i rife- rimenti a siti storici telematici. Pierangelo Gentile

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Andrea Scartabellati, Prometeo inquieto. Trieste 1855-1937. L’economia, la povertà e la mo- dernità oltre l’immagine della città della letteratura, Roma, Aracne, 306 pp., Û 19,00 Dai tavolini di marmo del Caffè San Marco, in attesa di rispondere all’ennesima intervi- sta su Trieste, un annoiato Claudio Magris scrutava – nei Microcosmi – la varia umanità che popolava il luogo: capitani di lungo corso, scacchisti assorti, silenziosi lettori di giornale e tu- risti a caccia di cimeli delle piccole e grandi glorie letterarie, un tempo assidue in quelle sale. Il libro di Andrea Scartabellati ci conduce alla scoperta dell’altra faccia della città, quella della miseria e delle disuguaglianze, sbirciata da una prospettiva differente rispetto al San Mar- co, non contaminata da topoi letterari e lontana dalle suggestioni mitteleuropee che spesso fi- niscono per avvinghiarla. L’autore, collaboratore del periodico «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telemati- ca di studi sulla memoria femminile», si era già segnalato per delle ricerche sulla storia della follia e per un saggio sulle correlazioni tra psichiatria e alienazione durante la Grande guerra. Prometeo inquieto prende le mosse dalla rielaborazione della sua tesi di dottorato e conferma la sensibilità accentuata dello storico di Crema verso i meccanismi di inclusione/esclusione di gruppi marginali nelle strutture d’ordine sociale e intellettuale. Il volume si propone di recuperare la «quotidianità storica dei poveri» (p. 9), analizzan- do le ripercussioni della globalizzazione asimmetrica in un tessuto economico dinamico co- me quello della società triestina, in un arco temporale ampio e mostrando il divario tra indi- genza ufficiale e indigenza percepita e le risposte assistenziali somministrate dall’élite urbana. Appare evidente che il metodo di analisi seguito risente non poco delle influenze archeologi- che di Foucault e dell’impostazione teorica di Wallerstein: «le forze innescate dalle rapide tra- sformazioni del complesso economico locale – il Prometeo liberato all’interno dell’interdipen- denza concorrenziale dell’economia-mondo – giocano la parte preponderante» (p. 11). Filo conduttore della ricerca è la disanima delle carte dell’Istituto Generale dei Poveri – fondato nel 1819 e divenuto poi Istituto Triestino per Interventi Sociali – supportate dal con- sulto di atti amministrativi e di rapporti degli uffici di sanità. Il risultato ha permesso all’autore di scomporre i processi di lunga durata dell’economia e della società giuliana e indi di ricomporli in un grande affresco descrittivo-analitico che ci restituisce una «città altra, misconosciuta, della quale la stessa memoria locale sembra non sempre aver piena coscienza» (pp. 23-4). Il volume di Scartabellati si inserisce, con pieno merito, all’interno della rinnovata attenzio- ne della storiografia italiana per gli argomenti legati alla «pietà e alla forca», per citare Geremek. Le ricerche di Piccialuti Caprioli su Roma, di Tonelli sulla Romagna e quelle di Barone e Poido- mani sulle Opere Pie in Sicilia, dimostrano come da più latitudini si sia ripreso a scrutare il pau- perismo – dopo «anni di ottimistico disinteresse» (p. 1) – nel passaggio da fenomeno medieva- le endemico a conseguenza nefasta del processo di accumulazione del capitale. Giuseppe Caramma

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Francesco Scattolin, Maico Trinca, Amerigo Manesso, Deportati a Treviso. La repressione antislava e il campo di concentramento di Monigo 1942-1943, Treviso, Istituto per la storia del- la Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, 126 pp., Û 10,00 In questi ultimi anni, l’interesse per le vicende dipanatesi al confine orientale d’Italia, ali- mentato anche dall’istituzione della Giornata del ricordo, ha tra l’altro portato vari studiosi a rivolgere la propria attenzione all’intero periodo 1918-1945, nello sforzo di offrire all’opinio- ne pubblica un più ampio ventaglio di problemi sui quali ragionare. Uno spazio particolare è stato così dedicato al tema dell’occupazione italiana della Jugoslavia, premessa indispensabile ma non ragione ultima o, peggio, unica possibile chiave interpretativa dei drammatici avve- nimenti successivi, dotati di proprie caratteristiche e proprie ragioni che si sottraggono all’in- sufficiente e ormai desueta spiegazione basata sul criterio azione-reazione. Una delle conseguenze dell’occupazione della Jugoslavia e dell’istituzione della Provincia di Lubiana fu l’internamento di 30.000 persone – questo il dato proposto da Teodoro Sala – in un sistema concentrazionario, sul quale Carlo Spartaco Capogreco ha scritto pagine di fon- damentale importanza, amministrato a seconda dei casi, da autorità civili o militari. Il più tri- stemente noto di questi campi fu certamente quello di Arbe, sul quale va ricordato il lavoro pionieristico condotto da Tone Ferenc, mentre va segnalata una crescita di interesse e di stu- di anche su altre analoghe realtà sparse sul territorio italiano. Tra queste, appunto Monigo di Treviso, sul quale si sofferma questo volume. Il testo ospita i contributi di Francesco Scatto- lin, La politica antislava al confine orientale, (1918-1945), Maico Trinca, Monigo. Un campo di concentramento per slavi a Treviso, (1942-1943) e Amerigo Manesso, Memorie ritrovate, cia- scuno dei quali seguito da un’appendice di documenti e arricchito di un interessante corredo fotografico, peraltro centrale nell’intervento di Manesso dedicato alle vicende di un gruppo di studenti del Liceo di Novo Mesto deportati nel campo trevigiano. Se il saggio di Scattolin ricostruisce in maniera molto sintetica il percorso dell’atteggia- mento mantenuto dalle autorità italiane (liberali prima, fasciste poi) nei confronti della com- ponente slovena e croata della Venezia Giulia, componente peraltro tutt’altro che minorita- ria della regione, Maico Trinca si concentra appunto sul tema della deportazione degli slove- ni in Italia, frutto dell’istituzione della Provincia di Lubiana, e sul campo di Monigo di Tre- viso, sul quale peraltro ha pubblicato nel 2003, sempre per i tipi di Istresco, un più ampio volume. Il lavoro perciò, nel suo insieme, se non intende proporre i frutti di nuove ricerche sulle tematiche affrontate, si presenta al lettore come un agile strumento informativo e, allo stesso tempo, come un supporto didattico per quanti intendano far conoscere alle generazioni più giovani aspetti problematici della controversa storia italiana del Novecento anche se i due pri- mi contributi avrebbero dovuto presentare ai lettori una più aggiornata ed amplia bibliogra- fia sugli argomenti affrontati. Fabio Todero

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Vincenzo Schirripa, Giovani sulla frontiera. Guide e scout cattolici nell’Italia repubblicana (1943-1974), Roma, Edizioni Studium, 282 pp., Û 22,00 Il volume ripercorre la storia dello scoutismo cattolico italiano nel corso di un trenten- nio. Negli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni Set- tanta il movimento delle guide e degli scout si è progressivamente radicato nel paese. Ma fi- no al 1974 – anno in cui non a caso termina l’excursus – sono state due le associazioni catto- liche che ne hanno garantito lo sviluppo: l’AGI (Associazione guide italiane, per le ragazze, nata nel 1943) e l’ASCI (Associazione scout cattolici italiani, per i ragazzi, nata nel 1916). Le due associazioni, dopo un lungo e travagliato dibattito, si sono di fatto fuse nel 1974, dando vita all’AGESCI e avviando una nuova stagione nella storia dello scoutismo. Questa caratte- ristica è fondamentale per inquadrare il lavoro, che infatti scorre nella prima parte su binari paralleli per poi evidenziare, nel corso del tempo, gli elementi di integrazione. Schirripa ripercorre nei dettagli il profilo originario delle due associazioni, mettendo in luce in modo puntuale le scelte con cui seppero garantirsi uno spazio autonomo sia rispetto alle gerarchie ecclesiali, sia rispetto alle altre associazioni giovanili cattoliche, prima fra tutte l’Azione Cattolica. Allo stesso tempo, vengono messi in luce i caratteri fondamentali della pro- posta educativa dell’AGI e dell’ASCI, a partire dal modo con cui seppero reinterpretare gli in- segnamenti provenienti dai referenti tradizionali degli scout, primo fra tutti l’inglese Baden- Powell, fondatore del movimento nel 1907. I momenti di svolta nell’evoluzione dello scoutismo italiano nel dopoguerra sono due: il periodo del Concilio Vaticano II e la stagione dei movimenti giovanili che inizia alla fine de- gli anni Sessanta. Nel primo caso il mondo scout sembrò accogliere con passione e determi- nazione le nuove istanze poste dal Concilio, fino ad apparire come uno degli spazi di maggio- re sperimentazione e applicazione dello spirito conciliare. Nel secondo caso anticipò e raccol- se le tensioni provenienti dalla scuola, dall’università, dal mondo del lavoro. La ricezione dei «segni dei tempi» non fu però priva di contraccolpi e contraddizioni e l’autore si sofferma sui conflitti tra centro e periferia, sulle tensioni in seno agli organismi direttivi centrali, sulle pro- teste della «base». L’attenzione al dibattito interno alle organizzazioni diventa naturalmente uno dei terreni privilegiati nella parte finale del volume, quando viene analizzato il processo di fusione con cui nacque l’AGESCI e i relativi conflitti che esso ha determinato, insieme al- le profonde novità che la nuova organizzazione «mista» ha portato con sé. Il volume è frutto di un rigoroso lavoro effettuato principalmente sulla documentazione prodotta dalle associazioni – riviste, verbali, documenti – e rappresenta un tentativo prezioso di ricostruzione storica di un’esperienza associativa finora poco frequentata dagli storici. Na- turalmente – il rischio è accennato dallo stesso autore nelle pagine iniziali – la scelta di privi- legiare la documentazione ufficiale «interna» determina a volte un eccessivo schiacciamento sulle dinamiche dei vertici rispetto alle percezioni e all’impatto delle attività delle associazioni. Michele Colucci

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Wolfgang Schivelbusch, La cultura dei vinti, Introduzione all’edizione italiana di Rober- to Vivarelli, Bologna, il Mulino, XXVIII-370 pp., Û 25,00 (ed. or. Berlin, 2001) Schivelbusch è noto al lettore italiano per una Storia dei viaggi in ferrovia (Torino, Ei- naudi, 1988), per una dei generi voluttuari (Bari, De Donato, 1988) e per una dell’illumi- nazione artificiale (Parma, Pratiche, 1994). Il tema di questo suo più recente lavoro, tradot- to dall’edizione americana del 2003 anziché da quella tedesca del 2001, è ben sintetizzato nel sottotitolo inglese (On national trauma, mourning and recovery), per scelta editoriale non tradotto: la sconfitta, e soprattutto il modo in cui i vinti (le nazioni e non gli individui) rie- laborano il trauma e il lutto. Guerra, morte e rinascita, come dice l’autore nell’introduzio- ne, fin dal mito di Troia, sono lemmi «ciclicamente legati tra loro» (p. 7), in tutte le cultu- re. Schivelbusch mette alla prova questa ciclicità e sequenzialità su tre casi di sconfitta e ri- nascita e cioè quello del Sud degli Stati Uniti dopo la fine della guerra civile del 1861-65, quello della Francia dopo la sconfitta nella guerra con la Prussia del 1870-71 e quello del- la Germania dopo la Grande guerra. Ai tre casi, analizzati e rivisitati essenzialmente attra- verso letteratura secondaria, Roberto Vivarelli, che introduce l’edizione italiana, ne aggiun- ge un quarto, quello italiano dopo l’8 settembre del ’43, in un appassionato saggio dal ti- tolo Vinti e vincitori in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale che da solo meritereb- be una recensione. Schivelbusch muove dall’idea che le guerre contemporanee (e le sconfitte), anche quelle ottocentesche che non possiamo ancora considerare compiutamente «totali», nella emergen- te società di massa abbiano comunque assunto «le dimensioni di una lotta darwiniana per la sopravvivenza nazionale» (p. 11). In un certo senso, l’idea di Schivelbusch è che le guerre del- l’Ottocento abbiano cominciato ad essere «totali» quanto meno in termini psicologici per le ripercussioni che vittoria e sconfitta, ma soprattutto quest’ultima, hanno avuto sul fronte in- terno e che, nonostante le reazioni alla sconfitta abbiano assunto caratteri molto diversi da paese a paese, sia comunque possibile individuare «un insieme riconoscibile di modelli o di archetipi che si ripetono nel tempo e superano le barriere nazionali» (p. 15). La sequenza che l’autore illustra nell’ampia introduzione è quella che vede seguire alla sconfitta, la depressio- ne, l’euforia spesso causata dalla rivoluzione che rovescia il vecchio sistema dopo la disfatta con la sua «aura liberatoria e salvifica» (p. 19), il risveglio alla dura realtà del confronto con il nemico esterno (specie se questi non si è dimostrato generoso nei confronti degli sconfitti), la convinzione che il nemico abbia usato mezzi illeciti per assicurarsi la vittoria, che il nemico sia un barbaro e che l’unica consolazione stia nella «fede nella propria superiorità culturale e morale» (p. 24), il desiderio della vendetta e l’elaborazione di piani di rivalsa e rivincita. Applicata ai tre casi studiati questa sequenza si complica e colora di sfumature restituen- doci un libro di piacevole lettura e carico di suggestioni che mescola eventi e comparazione attingendo a piene mani all’armamentario della psicanalisi. Daniela Luigia Caglioti

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Antonio Scornajenghi, L’alleanza difficile. Liberali e popolari tra massimalismo socialista e reazione fascista (1919-1921), Presentazione di Giorgio Vecchio, Roma, Edizioni Studium, 322 pp., Û 28,00

Il tema del mancato incontro politico tra il Partito popolare di Sturzo e i tradizionali par- titi liberali durante gli instabili governi Nitti e Giolitti viene affrontato da Scornajenghi con una piena conoscenza dell’ampia letteratura sul primo dopoguerra ed un rigoroso scavo delle fonti d’archivio. Sono noti i motivi di incomprensione politica e di contrapposizione perso- nale tra le leadership liberali e popolari; il volume, frutto di un lavoro di dottorato di ricerca, sollevandosi dal piano della storiografia organica alle appartenenze culturali delle contrappo- ste famiglie politiche, ne dà una ricostruzione attenta all’articolazione del conflitto politico che segna la crisi dell’Italia liberale. Così, la scelta cronologica di affrontare le vicende connesse alla prima legislatura post- bellica, tra 1919 e il 1921, si rivela una felice intuizione storiografica, destinata a sorreggere l’architettura dello studio: svincolarsi dall’idea, costruita a posteriori, della marcia su Roma come esito obbligato del percorso storico delineato dalle incertezze dello Stato liberale. La lot- ta politica precedente al 1922 si mostra, così, nel ventaglio dei suoi esiti possibili e il libro si sviluppa con l’obiettivo di chiarire le ragioni della debolezza delle maggioranze governative, evidenziando l’incapacità a delineare i contorni di una intesa fra liberali e popolari che, dato l’atteggiamento della maggioranza socialista massimalista e rivoluzionaria, avrebbe dovuto ap- parire senza alternative. Emergono più crudamente, allora, le responsabilità politiche dei gruppi dirigenti del campo liberale e popolare e l’articolazione interna ai due schieramenti; si ripropone il tema della rigidità dell’intransigenza sturziana nelle elezioni amministrative del 1920 (rispetto a Crispolti o Meda) e degli errori di valutazione di Giolitti sui Blocchi nazio- nali del 1921. Per comprendere, comunque, la distanza di strategie tra popolari e liberali occorre uscire dalla quotidiana polemica partitica e richiamare le grandi attese riformistiche e il clima di vio- lenza che attraversavano la vita sociale e civile del paese. Avrebbe forse giovato alla ricostru- zione richiamare, con maggiore declinazione metodologica, la precedente esperienza storica dei cattolici nello Stato liberale, che continuava a orientare i gruppi dirigenti del PPI, un par- tito che sembrava aprire la strada per la prima volta a una piena cittadinanza del movimento cattolico organizzato. In tale contesto si inserivano anche le violenze socialiste volte a indebo- lire l’iniziativa politica dei popolari e rendere ancora più difficile la loro alleanza coi liberali. Peraltro, riprende l’autore, la tolleranza governativa verso le illegalità commesse dai «rossi» contro il PPI mentre favorì una cultura politica antisocialista negli ambienti cattolici italiani, costituì anche una qualche premessa alla più grave e diffusa indifferenza da parte liberale ver- so la violenza fascista. Andrea Ciampani

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Vittorio Scotti Douglas (a cura di), Gli Italiani in Spagna nella guerra napoleonica (1807- 1813). I fatti, i testimoni, l’eredità, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 520 pp., Û 40,00

Il volume raccoglie gli atti del IV convegno di «Spagna Contemporanea» tenutosi a No- vi Ligure dal 22 al 24 ottobre 2004. Giornate di studio che hanno unito studiosi di diverse generazioni, di diversi paesi e diversa formazione: difficile dar conto quindi di tutti gli inter- venti (17). Si possono comunque indicare alcuni elementi di riflessione. Le ricerche presen- tate, anche se non tutte completamente originali (l’intervento di Carlo Ghisalberti riprende temi già svolti in altre occasioni sui costituzionalismi dell’epoca, il primo di Ilari – Gli italia- ni in Spagna – è presente anche in un’altra pubblicazione), danno un primo quadro organico della presenza italiana in Spagna nell’epoca della Guerra de la Indipendencia, fornendo così la base per nuovi studi su quel periodo non solo per la storia spagnola, ma anche per il nostro Risorgimento, perché torna in più d’una l’ipotesi che già allora «stava lievitando e preparan- dosi ai futuri cimenti lo spirito nazionale» (Scotti Douglas, p. 447). Si comprende così la pre- senza di più piani di studio: quello descrittivo e analitico, dell’interpretazione, della rappre- sentazione e memoria. Interessante è anche la presenza di punti di vista diversi: accanto alle fonti italiane (i «diari divisionali», le ricostruzioni storiografiche e la pubblicistica, trattati da Arisi Rota, Micone, Aglietti), sono presenti anche lavori che ricostruiscono la presenza italia- na dal punto di vista locale (l’interessante intervento di Antonio Moliner e quello di Arcón Domínguez) e di quello dei francesi (Jean-René Aymes). Dicevamo dell’ipotesi storiografica della prima apparizione di un sentimento nazionale veicolato dall’appartenenza all’esercito na- poleonico e «affascinato» dal binomio spagnolo guerra-costituzione: la tesi non è nuova ma qui, attraverso lavori su specifici personaggi, anche se diversi tra loro, sono presenti argomen- tazioni che possono puntellarne lo svolgimento per anni e luoghi differenti. Vanno segnalati in questo contesto il saggio di Renata De Lorenzo sulla costruzione di un sistema patriottico che a Napoli, almeno nel 1820 e nel 1848, declina linguaggio e valori dell’esperienza spagno- la; l’intervento di Scotti Douglas su Gabriele Pepe, «nemico del fanatismo e dell’ignoranza, napoletano per nascita e bandiera ma italiano per sentimento e ideali» (p. 301); quello di Pao- la Bianchi su Cesare Balbo, che ricostruisce con accuratezza i motivi di fondo del pensiero li- berale nella Restaurazione. A fare quasi da specchio gli interventi di Magrini su Vittorio Ame- deo di Sambuy, di Crociani sugli italiani nelle truppe spagnole e di Del Corno sul pensiero reazionario italiano. In apertura, il saggio di Emilio de Diego García sull’impatto europeo del- la vicenda, in chiusura lavori su come cinema e televisione hanno descritto il tema (Maroto de las Heras) e sul reportage che De Amicis fece sessant’anni dopo gli avvenimenti. Presentazione di Alberto Gil Novales, interventi del curatore per completare i riferimen- ti bibliografici. In appendice Le truppe italiane in Spagna, di Virgilio Ilari con il quadro de- scrittivo e statistico della composizione delle formazioni militari italiane. Agostino Bistarelli

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Victor Sebestyen, Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico, Milano, Riz- zoli, 364 pp., Û 22,00 (ed. or. London, 2006)

L’autore non è uno storico di professione ma un affermato giornalista britannico «cresciu- to con la storia della rivoluzione» (p. 13) fin da quando, bambino, aveva lasciato con la fami- glia l’Ungheria dopo la rivoluzione del 1956. Il libro è quindi anche un modo di fare i conti con una storia familiare, ma ciò non toglie che sia uno dei contributi più importanti apparsi a livello internazionale per il 50° del 1956, costruito su una ricca e aggiornata documentazio- ne sia per gli avvenimenti ungheresi che per il loro contesto mondiale. Dopo un ampio «preludio» sull’Ungheria dalla fine della seconda guerra mondiale all’ot- tobre 1956, i «dodici giorni» del più significativo titolo originale (Twelve Days: Revolution 1956. How the Hungarians Tried to Topple Their Soviet Masters) sono raccontati attraverso un efficace montaggio di scene in contemporanea a Budapest, Mosca, Washington, New York: è un’indicazione di come l’analisi degli sviluppi ungheresi non possa prescindere dal contesto internazionale e dal ruolo delle due grandi potenze mondiali, anche se dalla ricostruzione esce confermata una differenza sostanziale tra il forte coinvolgimento della leadership sovietica, riunita quasi quotidianamente sulla questione, e l’interesse più indiretto di quella americana, concentrata negli stessi giorni prima di tutto sulla crisi di Suez. Le fonti utilizzate vanno dal- la letteratura storiografica e memorialistica alle interviste conservate in diversi archivi o con- dotte dall’autore, ai documenti degli archivi dei paesi interessati, resi accessibili dagli anni ’90 del ’900 e parzialmente pubblicati in riviste e raccolte documentarie. Le testimonianze rac- colte da Sebestyen contribuiscono a schizzare quello che un altro autore (G. Dalos, Ungheria, 1956, Roma, Donzelli, 2006) ha indicato come un «ritratto collettivo» dei protagonisti: un obiettivo importante e difficile, tenendo presenti i caratteri spontanei, improvvisati, impreve- dibili dei comportamenti di massa di quei giorni, la loro «totale confusione», il lungo silenzio che avrebbe avvolto i partecipanti rimasti in patria. La denuncia delle ambiguità della politica americana sull’Ungheria, e dell’isolamento in cui sarebbe stato lasciato il paese dopo gli incitamenti alla rivolta diffusi soprattutto dalle tra- smissioni di Radio Free Europe, sembrano più l’effetto di una identificazione dell’autore con gli stati d’animo di molti ungheresi che di un’analisi delle alternative esistenti, un’analisi oggi pienamente praticabile ma già allora anticipata da uno studioso del livello di Raymond Aron: la priorità della questione di Suez nella politica estera americana e il principio ormai acquisi- to di una coesistenza «obbligata», che rendeva solo propagandistico l’obiettivo della «libera- zione» dell’Europa dell’Est, implicavano la passività dell’Occidente nella fase decisiva della cri- si. Un esito che comunque non toglie nulla alla quantità di questioni aperte e alla varietà di possibili risposte che il 1956 ancora rivelava in tutto il cosiddetto campo socialista. Andrea Panaccione

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Salvatore Sechi, Compagno cittadino. Il PCI tra via parlamentare e lotta armata, Soveria Mannelli, Rubbettino, 509 pp., Û 26,00

Da Bologna con furore. Vita dura quella di un anticomunista nella capitale dell’Italia ros- sa. Soprattutto se non è solo anti, ma addirittura ex. Salvatore Sechi dà sfogo in questo libro a un evidente rancore che sommerge intuizioni storiografiche che avrebbero meritato altro tipo di svolgimento. Il libro raccoglie sei saggi già pubblicati altrove, preceduti da cento pagine di in- troduzione autobiografica, che è la cosa più nuova e interessante, oltre che indispensabile a com- prendere lo spirito che ha mosso l’autore. Racconta la storia di un ragazzo di Sardegna che do- po il liceo, alla fine degli anni ’50, si trasferisce a Torino, fa la vita dello studente fuori sede, at- traversa in poco più di dieci anni tutto lo spettro della sinistra vecchia e nuova (dai radicali al PSI a «Quaderni Rossi») per approdare, nel 1969, al PCI. E qui rimane per un altro decennio abbondante, sentendosi però sin da subito – così almeno ricorda – un «ospite sgradito». Ne uscirà definitivamente nei primi anni ’80 criticando il partito «da sinistra», ma trovando casa nel PSI di Craxi per poi ricollocarsi, alla caduta di quest’ultimo, sotto l’ombrello aperto da Berlusconi. Un percorso politicamente accidentato – ma tutt’altro che raro per la sua generazione – che si intreccia con un curriculum di studioso che parte da una tesi di laurea su Delio Cantimori e la storiografia marxista, con Alessandro Galante Garrone, e si conclude nella Commissione Mi- trokhin, con Paolo Guzzanti. In mezzo ci stanno, ben inteso, una carriera accademica brillante e alcuni passaggi di ego-storia rivelatori: decisivo è l’impatto con Bologna negli anni ’70, la pro- gressiva scoperta della sua natura «sovietica» sotto una parvenza di welfare e democrazia, il dis- senso rispetto alla linea del PCI sul ’77 e la scomunica, a firma di Renzo Imbeni, che si abbatté su di lui dalle pagine dell’«Unità», raccontata con un pathos che, se non lo collocassimo nel cli- ma di quegli anni, potrebbe essere scambiato per paranoia: «Da altri episodi simili nel corso del- la guerra di Liberazione avevo imparato quale messaggio conteneva: Sechi non è più dei nostri, fatene carne da porco. Insomma, un invito larvato ai terroristi a levarmi di torno, se credevano» (p. 88). Visse i giorni che seguirono sospettando «di ogni ombra e passaggio furtivo», sguscian- do per le strade «con timore e tremore» (p. 89). Poi arrivò la «lapidazione», nella forma di un processo staliniano a porte chiuse che lo convinse a uscire dal Partito, cinque anni più tardi. Al di là di questo saggio di memoria – che ha criteri di giudizio tutti suoi – gli assunti sto- riografici della seconda parte del libro, dedicata a indagare «il volto nascosto» del PCI, sono molto suggestivi ma assolutamente non dimostrati. Perché il ricorso alle fonti è minimo, fra- gile, occasionale. Il miglior commento al suo lavoro l’ha scritto lo stesso autore in un docu- mento inoltrato l’anno scorso alla lista SISSCO, Sull’impostura ovvero sul funzionamento del- le commissioni parlamentari di inchiesta: «Dove sono, infatti, almeno fino ad oggi, gli specifi- ci elementi di prova, i riscontri indiscutibili del funzionamento, cioè dell’operatività del brac- cio armato messo su dai comunisti italiani?». In questo libro non ci sono. Alessandro Casellato

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Giovanni Sedita, La «Giovane Italia» di Lelio Basso, Prefazione di Mauro Canali, Roma, Aracne, 110 pp., Û 7,00

In dieci capitoli Sedita ricostruisce la storia della «Giovane Italia», ossia dell’organizzazio- ne clandestina che diede forma, tra il febbraio del 1927 e il maggio del 1928, a un importan- te esperimento di antifascismo democratico, unitario e nazionale, nel quale confluirono socia- listi, liberali e repubblicani. Come sottolinea Mauro Canali nella prefazione, il merito del vo- lume è di incrociare due fonti parallele e complementari, da un lato la documentazione di po- lizia fascista proveniente dall’Archivio Centrale dello Stato (i fondi della Direzione generale di Pubblica sicurezza) e dall’altro le carte dei militanti dell’organizzazione (memoriali, lettere e articoli). In questo senso emerge nitidamente la natura repressiva, autoritaria e totalitaria del regime, evidente proprio da quanto subìto da coloro i quali tentarono in ogni modo di oppor- si al fascismo e di conservare spazi di autonomia politica e intellettuale durante il ventennio. Viene alla luce specialmente l’opera di violenta repressione (lo «Stato di polizia»), tesa a sop- primere qualsiasi progetto di opposizione. Un’attività repressiva che riveste un ruolo di primo piano, accanto a una efficace politica di gestione e strumentalizzazione del consenso. Emergono nella narrazione, che procede a ritmo incalzante seguendo il flusso rapido de- gli avvenimenti, soprattutto due piani: quello dell’impegno, delle iniziative e delle speranze degli antifascisti e quello delle indagini con le quali la polizia riuscì a seguire ogni mossa del- la «Giovane Italia», spiazzata da un fascismo sempre più organizzato e pervasivo. Si possono così leggere i tratti di una generazione nuova di antifascisti e in particolare si delineano le per- sonalità di quanti, tra essi, si impegnarono sul fronte della battaglia democratica e unitaria. Lelio Basso soprattutto lavorò tra il 1927 e il 1928, con viaggi, incontri e contatti, al fine di coagulare le forze antifasciste presenti in Italia: dal gruppo triestino di Ermanno Bertelli a quello veneto di Giovanni Giavi, a singole personalità come Pilo Albertelli, Giorgio Amen- dola, e anche Benedetto Croce. La «Giovane Italia» consente di analizzare, nella sua ricostruzione, in modo omogeneo l’antifascismo democratico italiano, sanando al contempo una lacuna, ossia «il salto nella sto- ria dell’antifascismo dal ’26, l’anno de “Il Quarto Stato”, al ’29, anno della nascita dei primi gruppi di Giustizia e Libertà» (p. 3). Dunque, se sullo sfondo resta un’analisi approfondita dei contributi intellettuali di alcuni tra i principali esponenti dell’antifascismo (a partire dallo stes- so Basso), in primo piano si delineano i momenti che segnarono la formazione della società segreta alla fine degli anni Venti. L’interesse dell’autore è infatti di ripercorrere le tappe attra- verso cui essa si consolidò e di farlo, in modo originale, seguendo l’itinerario percorso da Bas- so tra Milano e Napoli al fine di dar vita a una nuova associazione capace di superare «vecchi clichés», e di «rappresentare un momento nuovo della lotta di classe» (p. 63), in accordo con una analisi articolata del fascismo, non riconducibile alla parentesi crociana. Chiara Giorgi

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Marco Severini, Notabili e funzionari. I deputati delle Marche tra crisi dello Stato liberale e regime fascista (1919-1945), Ancona, Affinità Elettive, 218 pp., Û 20,00

Seconda tappa di una ricerca che l’autore annuncia di voler portare a compimento con un terzo volume dedicato ai parlamentari del periodo repubblicano, questo lavoro di Severi- ni ricalca nella sua struttura il precedente Protagonisti e controfigure (ivi, 2002) relativo all’età liberale, di cui riproduce tutti i pregi e i difetti. Troppi sono infatti i piani di ricerca che l’au- tore vuole tenere assieme: la storia nazionale e la storia locale, la storia elettorale e quella po- litica, l’attenzione alle biografie e la storia dei collegi elettorali. Alla fine a farne le spese sem- bra essere proprio la parte centrale del volume, quella dedicata ai profili dei deputati marchi- giani eletti a partire dalle consultazioni del 1919 fino alle «elezioni» della Camera dei Fasci e delle Corporazioni del 1939, di cui si forniscono le informazioni essenziali che in parte, per scelta dell’autore, vengono esposte anche nella prima parte del volume in una sezione dove si ricostruisce il comportamento dei deputati marchigiani nelle votazioni nominali delle diver- se legislature e l’attività legislativa. Questa frammentazione non giova al risultato complessivo: viene, infatti, a mancare un quadro prosopografico d’insieme, le notizie biografiche contenute nella seconda parte del vo- lume sono di solito esposte con uno stile cronachistico senza cercare di individuare conti- nuità/discontinuità nei singoli percorsi individuali o mettere in rilievo i punti in comune che caratterizzano gli eletti in determinati collegi regionali. Certo, non è facile individuare con i dati che vi sono a disposizione per queste prime ele- zioni del dopoguerra, i bacini elettorali all’interno dei quali si consolidano alcune culture po- litiche che mantengono nel tempo una loro forza elettorale, tuttavia anche in questa direzione forse l’autore poteva compiere qualche ulteriore sforzo interpretativo che invece è mancato. Il declino dei notabili liberali sanzionato dalle elezioni del 1919, movimenta il quadro politico regionale portando alla ribalta nuove figure riconducibili all’area cattolica, a quella socialista e a quella repubblicana. Quest’ultima in particolare sembra dotata di un suo radica- mento territoriale che produce una serie di candidature di notevole spessore, destinate a gio- care un ruolo significativo anche sul piano nazionale. È il caso di Giovanni Conti al quale Se- verini dedica giustamente un rilievo particolare, e che forse avrebbe meritato ulteriore consi- derazione che invece l’autore non ha voluto negare ad un personaggio stravagante come Lui- gi Scarfiotti, «il deputato pilota», o alle figure minori del fascismo marchigiano. La terza parte del volume comprende una storia dei collegi elettorali e una selezione dei discorsi parlamentari. Renato Camurri

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Gianni Silei (a cura di), Alessandro Schiavi. Il socialista riformista, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 206 pp., Û 15,00

Il volume raccoglie gli atti del convegno svoltosi a Forlì nel 2005, Alessandro Schiavi, il politico, l’amministratore, lo studioso e fa parte della collana della Fondazione Filippo Turati che dal 2003 pubblica i documenti del fondo Alessandro Schiavi presso l’Archivio di Stato e la Bi- blioteca comunale di Forlì e studi sul personaggio. Nella premessa Maurizio Degl’Innocenti, dopo aver accennato all’iniziativa della Fondazio- ne Turati e del Comitato per le onoranze ad Alessandro Schiavi, lo qualifica come «“imprendi- tore” politico» (p. 10), per il suo variegato impegno di politico nel PSI, di giornalista nell’«Avan- ti!» e in riviste quali «Critica sociale» e «Riforma sociale», di tecnico nella Società Umanitaria, di amministratore nel Comune di Milano nelle giunte socialiste negli anni a cavallo della prima guerra mondiale. Vi sono quindi i brevi saggi di Carlo G. Lacaita, Alessandro Schiavi, il riformi- smo e la cultura delle riforme, nel quale si descrive l’impegno «che intende essere “scientifico” e “socialista”» (p. 14) di Schiavi nel socialismo italiano ed europeo del primo ’900 e di Dino Men- gozzi, Cultura politica, religiosità e revisionismo in un socialdemocratico, dove si narra della forma- zione di Schiavi nell’Università di Roma con Angelo Messedaglia e Antonio Labriola dai quali apprese la statistica ed il marxismo, personalità e materie che avrebbero caratterizzato tutta la sua feconda attività, compreso l’approccio religioso al socialismo, proprio della sua generazione. La parte centrale del volume comprende tre ampi saggi, di Maurizio Punzo, Schiavi a Mi- lano: politica, giornalismo, amministrazione pubblica, dove è descritto l’impegno nelle giunte dei sindaci e nel quadro del suo complesso rapporto con il PSI; di Ivano Granata, Alessandro Schiavi e la Società Umanitaria, nel quale si narra dell’espe- rienza come direttore dell’Ufficio del Lavoro dell’Umanitaria dal 1903 al 1910; di Silvia Bian- ciardi, La casa e la città in Schiavi, dedicato al lavoro nell’Istituto per le case popolari a Mila- no nel periodo liberale e a Forlì e in Italia durante la Repubblica fino agli anni ’60. Seguono i brevi contributi di Silei, Alessandro Schiavi traduttore ed editore, e di Stefano Caretti, Alessandro Schiavi e l’Archivio Turati, dove è descritto il suo ruolo di custode, insieme alla figlia Lia, delle carte Turati durante il fascismo e la guerra, e di studioso nel periodo libe- rale e repubblicano. Chiude il volume un lungo saggio di Vanni Tesei, Alessandro Schiavi e Forlì, dedicato agli anni della formazione del giovane Schiavi, al periodo dell’esilio nella cam- pagna forlivese durante il fascismo, alle sue rinnovate iniziative di riformista nell’Italia repub- blicana nelle file del Partito socialdemocratico. Il libro, che fornisce una sorta di sintesi delle ricerche sul personaggio, illustra le molte- plici attività di Schiavi di cui si identificano le radici nel socialismo riformista. Manca però il profilo relativo all’impegno nel movimento europeista nell’Italia repubblicana, anch’esso ascri- vibile a quelle stesse radici. Oscar Gaspari

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Claudio Silingardi, Metella Montanari, Storia e memoria della Resistenza modenese 1940- 1999, Roma, Ediesse, 255 pp., Û 15,00

Fondato su un ristretto ma valido supporto bibliografico, il volume rappresenta un’otti- ma opera di divulgazione per gli studi storici sulla Resistenza modenese, in cui la dimensione locale del racconto è costantemente connessa agli eventi nazionali, in un buon equilibrio tra documentazione e sintesi narrativa. Sebbene il testo sia privo di note, probabilmente per una scelta editoriale, il lavoro non tralascia il rigore scientifico-metodologico e la ricercatezza del- le fonti, fornendo uno strumento sia didattico che di ricerca, corredato da inediti inserti fo- tografici. Nella prima parte, curata da Claudio Silingardi, vengono affrontate questioni sto- riografiche come l’esperienza delle guerre fasciste, l’occupazione tedesca e le ricadute della lot- ta antipartigiana sui civili nelle retrovie del fronte. La Resistenza, importante elemento di co- struzione di una nuova identità democratica nel modenese, è qui valutata nella sua comples- sità, non solo come fenomeno militare, ma nelle «varie forme d’impegno e di mobilitazione, non necessariamente armate», quali l’aiuto dato dalle popolazioni locali «ai soldati italiani sbandati, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei e agli antifascisti fuggiti da carceri e confino» (p. 40). Viene così rivisto il giudizio storico per il quale in Emilia Romagna la lotta partigiana sa- rebbe partita in ritardo rispetto ad altre regioni, a causa dell’assenza di quadri militari dispo- nibili per l’organizzazione delle bande e della conformazione geografica del territorio inadat- to alla guerriglia. Ben resa anche la parte relativa alla genesi e all’evoluzione del movimento partigiano mo- denese, al momento della scelta, alla funzione formativa-educativa della brigata, vissuta come microcosmo, ed al processo di maturazione democratica delle popolazioni nelle zone libere. L’autore si sofferma poi sugli aspetti della violenza postinsurrezionale, estrapolando il feno- meno dalla categoria interpretativa della giustizia sommaria e ricollocandolo tra le conseguen- ze dell’odio contro il nemico fascista, accumulatosi durante i venti mesi della guerra di libe- razione. Meno approfondita è invece la seconda parte del libro curata da Metella Montanari. L’autrice affronta, difatti, un po’ di sfuggita temi delicati come la smobilitazione e il disarmo del movimento partigiano da parte delle truppe alleate, lo svuotamento di potere dei CLN, la conflittualità reducistica e i processi intentati dalla magistratura italiana contro ex partigiani, per fatti inerenti alla guerra di Liberazione nazionale, confusi, al di là della loro specificità giu- ridica, con il fenomeno repressivo-poliziesco scatenato contro gli attivisti politici e sindacali negli anni ’50. Ben curata è, al contrario, la parte relativa alla costruzione delle memorie pub- bliche della Resistenza e alle pratiche commemorative-monumentali di tipo locale, in contra- sto con la narrazione agiografica-istituzionale della guerra partigiana, legata alla tradizione pa- triottica del culto del soldato caduto, delle guerre risorgimentali e delle campagne di guerra del 1940-1943, momenti diversi e contrapponibili della storia d’Italia. Michela Ponzani

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Monica Sinatra, La Garbatella a Roma 1920-1940, Milano, FrancoAngeli, 159 pp., Û 18,00

Questo libro è il primo risultato di un programma di ricerca, diretto da Lidia Piccioni, sui quartieri e sui luoghi identitari della Roma novecentesca, con l’obiettivo di individuare e analizzare «le tante specificità territoriali» di una città in rapida espansione per gran parte del secolo. Il progetto, senza dubbio stimolante, prevede una serie di monografie dedicate a sin- gole aree della capitale: dopo questa sulla Garbatella, ne sono già uscite altre due (Tor Pignat- tara e Borgata Gordiani) mentre altre tre risultano prossime alla pubblicazione (Pietralata, Piazza Bologna e Quartiere Delle Valli). Il lavoro di Monica Sinatra, che è una rielaborazione della sua tesi in Storia contempora- nea all’Università di Roma «La Sapienza», esamina uno dei quartieri più conosciuti di Roma, da tempo oggetto di studio da parte di urbanisti e storici dell’architettura, ma mai analizzato approfonditamente dagli storici della città in una prospettiva d’indagine socio-culturale. Tre sono le questioni principali esaminate dall’autrice: la costruzione del paesaggio urbano, a cui sono dedicati i primi due capitoli, la formazione di una «comunità» locale, trattata nei succes- sivi due, e il rapporto del quartiere con il fascismo, per molti aspetti il vero nucleo interpre- tativo della ricerca, ricostruito nella seconda metà del libro. Conclude il volume un breve ca- pitolo sulla Garbatella nella seconda metà del Novecento e un’interessante raccolta di plani- metrie e fotografie. Questo lavoro ha alcuni pregi evidenti. Soprattutto perché è uno dei pochi tentativi seri di scavo di una realtà di quartiere a Roma, in più di un quartiere come la Garbatella, tradizio- nalmente rappresentato come un luogo socialmente e culturalmente omogeneo, sotto la ras- sicurante etichetta di «quartiere operaio». Sinatra, viceversa, ne mostra la complessa costitu- zione e trasformazione riuscendo a far emergere, anche attraverso un uso intelligente di alcu- ne fonti (come, per esempio, i registri parrocchiali), significativi caratteri quantitativi e qua- litativi del tessuto sociale e culturale. Interessanti, inoltre, alcuni spunti di analisi sull’autorap- presentazione del quartiere nel periodo repubblicano, in particolare a partire dagli anni Ses- santa, quando la rivendicazione di un’identità antifascista sembra consolidarsi in un discorso pubblico largamente condiviso. Ma è proprio nell’esame dei processi di costruzione di un’identità collettiva negli anni tra le due guerre che, a mio giudizio, emergono anche alcuni limiti della ricerca. A volte, infatti, l’autrice sembra far propria l’autorappresentazione del quartiere modellata nel periodo post- fascista, enfatizzando aspetti che potrebbero risultare circoscritti. Ovvero se, come sostiene Si- natra, «l’antifascismo alla Garbatella non sembra essersi manifestato se non in casi rarissimi» (p. 113), meriterebbe forse un’argomentazione più articolata la conclusione che «tuttavia l’i- dentità antifascista era presente e manteneva una sua continuità» (p. 114). Francesco Bartolini

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Francesco Sirleto, Quadraro: una storia esemplare. Le vite e le lotte dei lavoratori edili di un quartiere periferico romano, Prefazione di Walter Veltroni, Roma, Ediesse, 196 pp., Û 12,00

Il Quadraro, quartiere di Roma oggetto di questa storia a più voci coordinata da France- sco Sirleto, viene considerato interessante soprattutto da tre punti di vista: in quanto «borga- ta» sorta nei primi decenni del Novecento lungo la via Tuscolana, per ospitare una presenza massiccia di lavoratori dell’edilizia impegnati nei cantieri della capitale; per il ruolo svolto dal quartiere all’interno della Resistenza romana, che culmina nel rastrellamento operato dai na- zisti il 17 aprile 1944; per il ruolo del quartiere nella storia delle «lotte per la casa» della Ro- ma del secondo dopoguerra, fino alla demolizione nel 1974 della «borgata» abusiva dell’ac- quedotto Felice. Queste storie vengono condensate in un saggio compatto (circa 80 pagine) collocato in apertura del volume e accompagnato da materiali che si concentrano sulla storia del Quadra- ro negli anni dell’occupazione tedesca: gli atti di un convegno sul tema organizzato a Roma nel 2005 e un DVD, dal titolo Quadraro 17 aprile 1944: rastrellamento e deportazione, realiz- zato con gli studenti del Liceo classico «Benedetto da Norcia» di Roma, dove lo stesso Sirleto insegna lettere e filosofia. L’identità del Quadraro che queste pagine inseguono è un’identità tutta politica: i punti culminanti del racconto sono quelli in cui l’esperienza degli abitanti del quartiere sembra tra- dursi in una consapevolezza comune e in forme d’azione collettiva, come in occasione delle azioni di resistenza all’occupazione nazista del 1943-44 e delle proteste sulla condizione abi- tativa del 1971-74. La storia del Quadraro come comunità locale sembra così, paradossalmen- te, potersi costruire solo dall’esterno: di volta in volta come capitolo di una storia generale del- l’industria edilizia romana, di una storia delle formazioni partigiane alla periferia della capi- tale, di una storia dell’abusivismo edilizio e del conflitto intorno alle questioni della casa. Rimangono sullo sfondo, anche per la sostanziale mancanza di un lavoro di scavo con- dotto sulle fonti (il saggio di Sirleto deve essere piuttosto considerato un’opera di sintesi co- struita a partire da materiali già pubblicati), questioni che avrebbero permesso di costruire l’oggetto dello studio in modo più complesso. Quali popolazioni hanno abitato il luogo nel corso del Novecento, con quali forme di convivenza, di conflitto, di mediazione? Come sono cambiati i confini e gli equilibri di questa parte di periferia esterna alle mura aureliane, tocca- ta tra l’altro dalla costruzione di importanti quartieri di edilizia pubblica (Tuscolano 2 e 3) e dalla linea A della metropolitana? Colpisce soprattutto una certa disattenzione rispetto alla storia fisica degli insediamenti: in un quartiere che viene presentato come largamente autoco- struito e abitato da operai del settore edile, non dovrebbero essere proprio gli edifici a rappre- sentare una fonte primaria in grado di fornire qualche indizio sulla cultura materiale di colo- ro che questo territorio hanno nel tempo trasformato e fatto proprio? Filippo De Pieri

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Frank M. Snowden, The Conquest of Malaria. Italy, 1900-1962, New Haven-London, Ya- le University Press, VIII-296 pp., $ 40,00

Frank Snowden, dell’Università di Yale, da anni contribuisce con i suoi studi alla cono- scenza della storia italiana contemporanea, prima con i suoi lavori sullo squadrismo agrario e sull’avvento al potere del fascismo in Puglia (1986) e in Toscana (1989), poi su Napoli al tem- po del colera, 1884-1911 (1995). Snowden ha spostato il suo originario impegno dalla storia politica alla storia sociale della medicina, campo di ricerca particolarmente debole nella sto- riografia italiana, a differenza di quelle francese ed anglosassone, almeno dagli Annali 7/1984 della Storia d’Italia Einaudi su Malattia e medicina. Questo studio sulla conquista (o sconfitta) della malaria, anticipato da un saggio apparso in Disastro! Disasters in Italy since 1860: Cultu- re, Politics, Society, curato da Snowden insieme a J. Dickie e J. Foot, (2002), è un’efficace sin- tesi della storia sociale e medica del paese dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Cin- quanta del Novecento, di quel periodo durante il quale la malaria fu considerata la «malattia nazionale italiana» per eccellenza. Il libro è di grande pregio, interesse e respiro, come deve essere una storia sociale atten- ta alle lente trasformazioni del paese e alla transizione da economie e tradizioni rurali a quel- le urbane ed industriali. Un grande affresco che prende in esame con competenze mediche e biologiche l’impatto della malattia nelle zone acquitrinose del paese, le prime inchieste e i pri- mi interventi statali, le ricerche di scienziati impegnati a comprendere l’origine delle periodi- che epidemie che in un primo tempo si credevano dovute a miasmi prodotti da acque ferme (malaria come «paludismo»), sino all’identificazione dei diversi ceppi della malattia diffusa da zanzare (grazie alla scuola medica romana di G.B. Grassi). Di grande interesse sono le os- servazioni sull’impegno di riformatori sociali, socialisti i più ed essenzialmente medici ed in- segnanti, nell’estirparla diffondendo pratiche d’igiene e dosi di chinino; le resistenze dovute all’ignoranza e alle superstizioni delle popolazioni rurali, ma anche all’ostilità dei latifondisti, che vedevano nella sconfitta della malattia un riscatto dallo sfruttamento e dalla povertà. I ca- pitoli dedicati all’epoca liberale e alla Grande guerra sono forse tra i più interessanti e densi; più conosciuto, e dalla ricerca approfondito, è invece l’intervento fascista con la bonifica «in- tegrale». Molti i nessi compiuti dall’autore con altri importanti temi, tra questi: con il feno- meno emigratorio transoceanico, che Snowden considera dovuto anche alla fuga dalla mala- ria, con la lotta delle donne lavoratrici (le mondine in particolare), con le guerre mondiali e con il relativo indebolimento fisico della popolazione. Infine, una tesi ha suscitato reazioni da parte di storici tedeschi: l’autore sostiene che la Wehrmacht nel 1944 inondò le campagne laziali con l’obiettivo non solo d’impedire l’avanzamento alleato, ma anche di realizzare un’ar- ma biologica, deterrente e punitiva per le popolazioni locali, grazie all’aumento di acquitrini malarici. Patrizia Dogliani

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Flavia Solieri, Cina 1948-1950, Milano, FrancoAngeli, 240 pp., Û 19,00 Un vizio oramai radicato fa sì che di un libro prima di tutto si leggano bibliografia e no- te. Nel lavoro di Flavia Solieri una felice scoperta: finalmente l’impiego di fonti cinesi recen- ti da parte di una studiosa italiana. Il volume esamina un passaggio importante nella storia del comunismo cinese, la vittoria nella guerra civile e la conquista del potere. Purtroppo all’autrice, preoccupata di mettere in ri- salto come abbia vinto una «classe dirigente degna di questo nome», capace di «traghettare l’in- tero paese verso la governabilità» (p. 209), sfuggono vicende e caratteristiche di quel comunismo e del regime da esso instaurato. Solieri fatica anche a chiamare le cose con il proprio nome: scri- ve di «uscita di scena» per indicare l’epurazione che porta al suicidio di Gao Gang, oppure defi- nisce «aggiuntivi» (p. 207) i trattati segreti firmati a Mosca nel febbraio 1950. Dal libro non si comprende quanto siano stati spietati Mao e il gruppo dirigente del PCC. Ad esempio, nel 1948 quando fallì la conquista militare di Changchun in Manciuria, Mao ordinò a Lin Biao di pren- derla per fame. Dopo cinque mesi, del mezzo milione di abitanti ne restavano circa un terzo. Per- sino le cifre edulcorate fornite dal PCC indicano in 120.000 i soli morti per fame. La stessa spie- tata tattica fu applicata ad altri centri urbani, come rivela nelle memorie del tempo di guerra il generale Su Yu. Solieri ne tace, ma nel 1989 il tenente colonnello Zhang Zhenglong venne po- sto agli arresti domiciliari per averne scritto e il libro ritirato dalla circolazione (ma per fortuna ristampato a Hong Kong). Kang Sheng non è ricordato da Solieri. Ma proprio a lui, che poco sapeva di agricoltura ma era invece assai esperto nella pianificazione del terrore, venne affidata verso la fine del 1947 la radicalizzazione della riforma agraria nello Shandong. I villaggi, che sto- ricamente avevano diretto la propria ostilità contro esattori delle tasse e funzionari, vennero in- vestiti da una artificiale e deliberatamente esasperata ondata di «lotta di classe», fomentata degli attivisti del PCC che si tradusse in una orgia di disumana pubblica brutalità. Mao ne è bene al corrente (tra l’altro aveva affidato il figlio Mao Anying a Kang Sheng affinché si educasse in que- sta «nuova esperienza»), e si comportò come a Yan’an, lasciando diffondere il terrore fin nel più remoto villaggio. Solo dopo aver raggiunto questo obiettivo «scoprì» gli eccessi e nella primave- ra del 1948 fece di Liu Shaoqi il «capro espiatorio» La riforma agraria fu un regno del terrore, fi- nalizzato a imporre la volontà del PCC sui villaggi e a coinvolgere direttamente il maggior nu- mero di persone in efferate violenze. Il sistema di controllo sociale, forgiato in parte già prima del 1949 attraverso la mobilitazione politica e la violenza, divenne particolarmente pervasivo dopo la presa del potere. In conseguenza di brutali e cruente campagne di terrore, la Cina pagò il più alto costo umano nella storia del comunismo. Tutto questo sfugge all’autrice che, invece, riesce a vedere nel totalitarismo cinese un «progressivo allargamento della partecipazione a forme as- sembleari e rappresentative anche a contadini medi e poi a ceti sociali diversi» (p. 208). Decisamente non bastano una ricca bibliografia e fonti nuove a rendere un libro appeti- bile e credibile. Fernando Orlandi

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Andrea Spiri (a cura di), , il socialismo europeo e il sistema internazionale, Ve- nezia, Marsilio, 226 pp., Û 15,00 Il volume pubblica gli atti del convegno svoltosi a Milano nel gennaio 2005 su iniziativa della Fondazione Craxi. In esso sono analizzati particolarmente i momenti centrali della po- litica estera seguita da Bettino Craxi a partire dalla sua elezione a segretario del PSI nel 1976 fino alla fine del suo secondo governo (1987). Intanto bisogna ricordare che Craxi, nell’ambito della profonda svolta culturale operata all’interno del suo Partito, decise di accettare la logica attiva tra le due superpotenze e di ade- guare, quindi, le proprie scelte a quelle che si presentavano come le condizioni di fatto. A ta- le proposito un primo segno in questa direzione lo diede sugli euromissili. E, così, quando tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, l’Europa si vide costretta ad adeguare il pro- prio arsenale in contrapposizione al rafforzamento sovietico, egli diede il suo appoggio, pur consapevole delle forti contrapposizioni pacifiste presenti all’interno della tradizione sociali- sta e del suo Partito. La sua politica ebbe poi più concreti sviluppi negli anni di governo. Allora egli riuscì a manifestare, al tempo stesso, sia una leale amicizia nei confronti degli Stati Uniti, sia una in- dipendenza di giudizio. Le manifestazioni di questa sua indipendenza furono tante. Si ricor- da spesso la crisi dell’Achille Lauro e l’episodio di Sigonella. Ma in quel caso Craxi seppe so- prattutto imporre una precisa visione della situazione mediorientale ed una strategia critica nei confronti degli interventi americani che già in Libano avevano avuto esiti negativi. Nel ca- so dell’Achille Lauro egli seppe imporre all’amministrazione americana, che avrebbe voluto un intervento militare, una diplomazia che nei fatti permise di salvare gran parte delle vite umane. Il rilascio, infine, di alcuni leader palestinesi rientrò nel contesto dei patti che raggiun- se con il presidente egiziano Mubarak. Il lavoro di Spiri porta molti risultati ad una ricerca che sostanzialmente è ancora in cor- so e, dopo il lavoro di Di Nolfo, aggiunge molte considerazioni rivelatrici. Sembra che alcu- ni punti fermi possano stabilirsi a proposito della politica filopalestinese del presidente socia- lista, che, soprattutto negli anni dei suoi governi, trovò in Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, un prezioso alleato. Un altro dato certo risulta essere quello dello stretto legame in que- gli anni tra politica internazionale e politica interna. «Vi sono fasi – scrive Craveri – in cui l’e- quilibrio internazionale è più o meno dato, altre in cui attraversa rapidi e profondi mutamen- ti, i cui effetti prima o poi non possono non rifrangersi sull’equilibrio interno, quale è appun- to il caso del periodo che abbiamo preso ad analizzare» (pp. 95-96). Allora, e in particolar mo- do tra il 1979 e il 1983, gli equilibri tra i partiti socialisti europei e le ripercussioni sulla De- mocrazia cristiana trovarono una spiegazione proprio nelle scelte che vennero fatte nel cam- po occidentale. Luigi Musella

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Settimio Stallone, Prove di diplomazia adriatica: Italia e Albania, 1944-1949, Torino, Giappichelli, 272 pp., Û 27,00

Esiste oramai una storiografia relativamente ampia sull’Albania anche in Italia, con par- ticolare attenzione all’ambito militare, diplomatico e religioso per il periodo precomunista. Lo studio di Settimio Stallone costituisce un contributo significativo allo studio del periodo comunista, soffermandosi sui rapporti diplomatici italo-albanesi nei primissimi anni del regi- me di Enver Hoxha (1944-1949). Il libro di Stallone si presenta come il primo di due volu- mi dedicati ai rapporti italo-albanesi, giungendo sino agli anni Sessanta del XX secolo. Lo studio si basa su una ampia ricerca di archivio (Roma, Tirana e Londra), su di una scelta delle fonti a stampa e della letteratura secondaria. Il primo capitolo ricostruisce, in mo- do davvero dettagliato, la vicenda degli accordi siglati da Hoxha e dal sottosegretario al Mini- stero della Guerra italiano, Mario Palermo (14 marzo 1945). In questa prima fase si accaval- larono una serie di problemi difficilmente risolvibili dal governo italiano: la questione degli italiani (secondo la UNRRA, United Nations Relief and Rehabilitation Administration 24.000, 18.500 militari e 5.000 civili) rimasti in territorio albanese dopo la fine della guerra; le difficoltà oggettive di Roma ad agire in una situazione soggetta (formalmente e sostanzial- mente) al controllo della Commissione Alleata di Controllo; e infine il desiderio di rivalsa da parte delle autorità comuniste albanesi, intente a ottenere il massimo di compensazioni per i danni materiali ed umani dell’occupazione italiana. In questo contesto, i comunisti italiani (dalle cui fila proveniva Palermo) non erano di grado di modificare molto la situazione di stal- lo nei rapporti italo-albanesi. Gli accordi Hoxha-Palermo avviarono comunque una graduale risoluzione del problema del rimpatrio in Italia. Nei capitoli successivi, Stallone descrive la vicenda del console Ugo Turcato, stazionato a Tirana prima del vero e proprio riconoscimento; la chiusura della rappresentanza italiana nel dicembre 1945; il ruolo giocato dall’Albania nella firma del trattato di pace. Il quinto prende in esame i due anni seguiti all’espulsione di Turcato; e infine la instaurazione di relazioni di- plomatiche tra Italia e Albania (1949). Per quanto riguarda invece la bibliografia, alcune in- tegrazioni sarebbero state utili. Sulla figura di Hoxha (e sui suoi rapporti con le formazioni militari britanniche) sarebbe stata utile l’introduzione di Jon Halliday alla sua edizione delle memorie di Enver Hohxa (1986). L’aspetto più interessante della ricerca di Stallone in una prospettiva di storia europea più generale è l’intreccio tra le vicende italo-albanesi e l’emergere della guerra fredda: dapprima nell’allineamento con la Jugoslavia titoista (1944-1948), successivamente nel distacco da Ti- to e l’allineamento con Mosca, che facilitò un limitato riavvicinamento italo-albanese. Sareb- be stata utile una maggiore e più sistematica attenzione al contesto più generale, anche per rendere lo studio più usufruibile dagli studiosi in campi affini. Guido Franzinetti

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Nicholas Stargardt, La guerra dei bambini. Infanzia e vita quotidiana durante il nazismo, Milano, Mondadori, 544 pp., Û 22,00 (ed. or. London, 2005)

«Per Klaus e gli altri ragazzi della sesta e settima classe della scuola superiore Lichtwarck, diventati Flakhelfer (ausiliari della Flak) nel febbraio 1943, le nuove uniformi dell’aviazione e della marina non erano soltanto la realizzazione di un sogno a lungo accarezzato durante gli anni nello Jungvolk e nella Gioventù hitleriana; l’ardua prova di prestare servizio sotto il fuo- co nemico aveva reso sacre quelle uniformi, distinguendo chi le portava dal mondo dei ragaz- zi della Gioventù hitleriana» (p. 254). Nicholas Stargardt, storico ebreo-tedesco e australiano di Oxford e specializzato in storia sociale della Germania nazista, con uno stile narrativo estremamente soggettivo, tipico del rac- conto più che del saggio storico e con un’attenzione particolare per i risvolti psicologici di uno degli eventi più traumatici del secolo scorso, con questo libro ci presenta le esperienze vissu- te da bambini e adolescenti nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, anche quelle di giovani tedeschi come Klaus e come l’adolescente Günter Grass arruolatosi alla fine della guerra nel- le Waffen-SS. Lo scenario che emerge dal fitto intreccio di racconto indiretto e dalle nume- rose testimonianze offerte da compiti scolastici, diari giovanili, lettere da riformatori e ospe- dali psichiatrici, lettere ai padri al fronte, è quello di una guerra reale vissuta nel quotidiano da bambini tedeschi, polacchi, cechi, ucraini, ebrei di varie nazionalità e che si abbatte, scon- volgendola, sulla vita di tutti i giorni di un vasto universo umano composto da genitori e fi- gli più che da vittime e carnefici. Secondo una cronologia del tutto interiorizzata, la guerra è iniziata per i bambini ebrei tedeschi, austriaci e cechi prima del conflitto con la loro emigra- zione coatta, per i polacchi nel 1939-40 con le fucilazioni di massa, per gli ebrei polacchi con la ghettizzazione, per i bambini tedeschi della Ruhr con l’inizio dei bombardamenti e il pia- no per lo sfollamento centralizzato e per quelli delle province dell’Est con la fuga nel 1945 dai territori occupati. Seguendo un impianto cronologico classico, l’autore racconta la guerra dei bambini a partire da quella sul fronte interno, poi quella razziale combattuta nei ghetti e nei campi di concentramento sui territori occupati, seguita dalla guerra degli scacciati dall’offen- siva sovietica sul fronte orientale, fino ai tristi episodi finali degli sconfitti da un lato e dei li- berati dall’altro. Ognuna di queste guerre ha in comune con le altre l’esperienza quotidiana della sofferenza che mette sullo stesso piano vinti e vincitori, senza togliere, e anzi semmai au- mentando, il peculiare carattere di efferatezza della violenza nazista. Storie di ordinaria soffe- renza che si protraggono oltre la fine della guerra da una parte all’altra dell’Europa, con gli stupri dell’Armata sovietica delle giovani donne tedesche nel 1945 e i pogrom di ebrei perpe- trati dai polacchi ancora nel 1946, sono la conferma di come la memoria del nazismo e la sua rielaborazione abbiano costituito e costituiscano ancora oggi un inevitabile luogo collettivo di riflessione per la costruzione dell’identità europea. Fiammetta Balestracci

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Paolo Tagini, Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945, con un contributo di Antonio Spinelli, Verona, Cierre, 368 pp., Û 12,15

Il volume, esito della rielaborazione di una tesi di laurea, ripercorre le vicende degli inter- nati ebrei nel Vicentino con intelligenza e ricchezza analitica, nonché con un piglio narrativo che ne rende agevole la lettura anche ad un pubblico non specialistico. Il lavoro di Tagini rie- sce ad allontanarsi «da un semplice intento localista» (p. 12) e a caratterizzarsi come utile con- tributo all’interno della rinnovata attenzione storiografica su due temi correlati: da una parte la questione dell’internamento, letta come strumento repressivo adottato dal regime fascista a partire dall’entrata in guerra e utilizzato estensivamente sia sul territorio italiano sia nelle aree occupate, dall’altra la ricostruzione dei dispositivi, delle strutture e delle pratiche che segna- rono la deportazione degli ebrei dalla penisola, favorita sia dalla preesistenza di un complesso impianto persecutorio, sia dalla sinergia fra tedeschi e apparati repubblichini. La ricerca si fon- da su un ampio ricorso a fonti differenziate: carte dell’Archivio Centrale dello Stato e fondi conservati negli archivi locali (da segnalare l’attenta lettura delle circolari e dei rapporti di po- lizia), ma anche memorialistica e testimonianze orali. L’interesse del caso vicentino risiede nel fatto che la provincia fu ritenuta particolarmen- te adatta per l’applicazione della misura dell’internamento libero perché relativamente priva di obiettivi militari e strategici: dall’estate del ’41 all’8 settembre furono 615 gli ebrei stranie- ri confinati in un totale di 26 comuni, provenienti soprattutto dai territori d’occupazione ita- liana in Dalmazia. Tagini si sofferma attentamente sulle condizioni di vita degli internati e sui rapporti con le popolazioni e con le autorità provinciali e comunali, che esercitarono un pun- tuale e vessante controllo. Ben delineato è anche il tornante dell’8 settembre, che non com- portò nell’area vicentina la liberazione dei detenuti ma dette adito alla fuga precipitosa di buo- na parte di essi. Se è affrontato con ricchezza di dettagli il fenomeno della spoliazione dei be- ni sotto la RSI, sono forniti elementi utili anche sulle reti di soccorritori e sulle diverse strate- gie di sopravvivenza adottate dai protagonisti; unico appunto una valutazione forse troppo frettolosa sui caratteri della legislazione antiebraica italiana in materia di requisizione dei be- ni e sulla sua presunta «moderazione» nella fase 1938-43 (p. 167). Antonio Spinelli ricostruisce la vicenda del campo di concentramento provinciale di To- nezza del Cimone dalla sua apertura (20 dicembre ’43) fino alla partenza per Auschwitz di 42 dei 45 reclusi (30 gennaio ’44). Significativo l’episodio segnalato a proposito del capo provin- cia Dinale, che capitolò prontamente di fronte all’ordine di deportazione dopo aver tentato una contrattazione col generale Wolff in nome della priorità della legislazione italiana in ma- teria razziale. Completa il lavoro un dettagliato elenco degli internati, comprensivo di notizie anagra- fiche e informazioni sui luoghi di detenzione. Francesca Cavarocchi

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Giuseppe Tamburrano, Il «caso» Silone, Appendice di Gianna Granati, Torino, UTET, 117 pp., Û 16,00

La controversia sul «caso» Silone ha attraversato un decennio né accenna ad esaurirsi, an- zitutto perché il dibattito storiografico sull’effettiva valenza spionistica, sulla consistenza e du- rata dei rapporti intercorsi tra Ignazio Silone e la polizia fascista, si è intrecciato a un più va- sto e aspro confronto, giocatosi polemicamente sulla stampa d’opinione, dove la vicenda è as- surta a fondamento di una rappresentazione critica dell’opposizione al regime, ridimensiona- ta nel suo valore morale e politico proprio alla luce della casistica dei vacillamenti, delle con- traddizioni, delle ambiguità ascrivibili ai singoli antifascisti. Questi slittamenti sul piano del- la polemica ideologica non hanno giovato all’accertamento della verità e all’elaborazione in- terpretativa, polarizzata a tutt’oggi tra innocentisti e colpevolisti. Tamburrano denuncia in queste pagine lo stravolgimento del «caso» dovuto alla strumen- tale e superficiale mediazione giornalistica e ripercorre i passaggi della querelle, cui ha già pre- so parte con diversi articoli e, in particolare, con Processo a Silone (coautori G. Granati e A. Asi- nelli, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2001), di nuovo contestando analiticamente le conclu- sioni storiografiche di Dario Biocca e Mauro Canali (L’informatore Silone, i comunisti e la po- lizia, Milano, Luni, 2000; M. Canali Le spie del regime, Bologna, il Mulino, 2004; D. Biocca, Silone. La doppia vita di un italiano, Milano, Rizzoli, 2005). Il dissenso verte su quattro pun- ti-chiave: a) l’identificazione di Ignazio Silone con il confidente dell’OVRA n. 73/Silvestri è a suo avviso frutto di deduzioni e congetture non condivisibili; b) la retrodatazione, suggerita da Biocca e Canali, al 1919 del rapporto tra Silone e Guido Bellone, suo interlocutore nella polizia politica, consentirebbe di estendere la frequentazione tra i due a più di un decennio fa- cendone un dato strutturale della doppia vita del marsicano, mentre, secondo Tamburrano, solo il condizionamento legato alla carcerazione del fratello Romolo e il proposito di Silone di giovargli costituiscono la logica motivazionale di quell’ambiguo scambio circoscritto al trien- nio 1928-30; c) la conclusione degli autori citati che Silone sia stato un elemento prezioso del sistema spionistico, tanto che, grazie a lui, la polizia politica mise a segno operazioni mirate con l’arresto di militanti è confutata quale esito dell’erronea attribuzione e datazione di rela- zioni fiduciarie, confermandosi per Silone l’invio di informazioni scevre di intenti delatori, con contenuti di scarsa utilità concreta su dati già noti. Infine d) la collaborazione intrattenuta con l’Office of Strategic Service americano tra il 1942 e il 1944, letta come conferma della voca- zione spionistica di Silone, va invece intesa come «finalizzata alla lotta e alla vittoria contro il fascismo e il nazismo» (p. 44). Nell’appendice Gianna Granati controbatte le scelte interpre- tative degli autori citati esaminandone le «prove» estrapolate dalle carte di polizia. Il volume assume il tono di una puntigliosa requisitoria, convincente in più punti, ma passionalmente ancorata all’assunto dell’integrale difesa di Silone. Elisa Signori

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Marica Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 295 pp., Û 22,00

Il libro ricostruisce la percezione sociale del terrorismo di sinistra nella Germania Fede- rale del 1977 e nell’Italia del 1978. Un’ottima premessa metodologica aiuta il lettore ad orien- tarsi in una tematica così complessa e vasta come quella trattata da questo studio. Un approc- cio interdisciplinare caratterizza questa ricerca. Viene presentato un breve excursus storico nel quale si illustrano le condizioni politiche e sociali che hanno favorito la nascita del terrorismo nei due paesi; un percorso pensato per far esaltare più le differenze che le affinità. Allo stesso modo è messa in rilievo la diversa concezione di opinione pubblica in Italia e nella Germania Federale alla luce dei rispettivi quadri socio-culturali. Stabilite le differenze tra i due casi, l’au- trice spiega come nel dibattito pubblico tedesco e in quello italiano si sia fatta strada l’imma- gine di un terrorismo capace di minare la tenuta del sistema democratico. Il timore nei con- fronti di questo pericolo ha acceso nei due paesi una forte controversia sulla natura e gli sco- pi del terrorismo, una discussione che ha poi coinvolto altri temi: il rapporto Stato-società, la concezione della violenza nelle diverse culture politiche, i sentimenti di appartenenza e di identità collettive. La comparazione mette in risalto la difficoltà di una gestione mediata del conflitto poli- tico e sociale nella crisi italiana degli anni Settanta; una particolarità che Tolomelli fa emerge- re con chiarezza esplorando il caso tedesco, in cui l’intreccio di repressione e blocco del siste- ma politico è meno presente. Queste condizioni, tuttavia, non sono ritenute le sole ad aver determinato la comparsa del fenomeno terroristico. Da questo punto di vista il caso tedesco mostra come la scelta della violenza sia una decisione autonoma presa dai diversi gruppi ar- mati, piuttosto che un meccanico riflesso della conflittualità politica e sociale. Lo studio è basato su una vastissima letteratura – sia italiana che tedesca – che spazia dal- la storiografia alle ricerche delle scienze sociali. La scelta delle fonti è meditata e considerando la difficoltà di una comparazione tra due paesi così diversi ne offre una panoramica davvero esauriente. Un’attenzione maggiore al quadro internazionale avrebbe introdotto un elemento in più di differenziazione tra Italia e Germania Ovest, in particolar modo per quanto riguar- da l’influenza della guerra fredda nella nascita dei gruppi terroristici tedeschi ed italiani. Il libro è particolareggiato e ricco di spunti di riflessione. La conclusione apre un’interes- sante prospettiva di studio che si presenta come il naturale proseguimento di questa ricerca: le dinamiche di interazione tra i diversi attori coinvolti – opinione pubblica, formazioni ter- roristiche, istituzioni e partiti politici – nella crisi provocata dall’azione terroristica. Guido Panvini

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Pier Angelo Toninelli, Storia d’impresa, Bologna, il Mulino, 271 pp., Û 18,00

Da quando, nella prima metà degli anni Ottanta, venne creata l’Associazione di studi e storia sull’impresa (ASSI), cui spetta il merito di aver avviato gli studi di business history di pro- venienza americana anche in Italia, la storia d’impresa ha proceduto con indubbia speditezza. A lungo ha rappresentato una delle novità di maggior rilievo nell’ambito della storia econo- mica, conquistando ben presto il centro della scena dell’innovazione storiografica, e oggi si pone ormai in termini di campo di studi consolidato. Si sono sviluppate scuole e istituiti cor- si in un numero crescente di università, avvicinando alla materia sempre più studenti, è nata l’archivistica d’impresa, hanno visto la luce pubblicazioni periodiche specializzate come gli «Annali di storia d’impresa» e «Imprese e storia», si sono moltiplicati i convegni, gli appunta- menti seminariali e le attività formative in una prospettiva interdisciplinare, infine figure di studiosi di livello assoluto si sono imposte – fra tutti merita un ricordo e un tributo partico- lari Duccio Bigazzi, le cui intuizioni e ricerche hanno contribuito in maniera fondamentale alla crescita della disciplina – e da ultimo ha preso corpo una storiografia che non ha nulla da invidiare in una comparazione con gli altri paesi. Pier Angelo Toninelli è uno dei precursori della disciplina e fra quelli che hanno svolto con maggior impegno e successo una feconda opera di approfondimento e divulgazione al tempo stesso. L’ambito della storia d’impresa, secondo l’autore di questo manuale, deve esse- re tutto quanto resta connesso all’evoluzione dell’impresa stessa e del mondo degli affari in ge- nerale. Coerentemente l’impostazione del volume copre un arco di tematiche estremamente ampio. Costruito con l’obiettivo di farne un manuale agile e di facile lettura, il libro di Toni- nelli risponde ad un’esigenza molto sentita dagli specialisti che insegnano la materia e ne fis- sa in termini metodologici lo statuto scientifico. Il libro raccoglie tutti gli argomenti inerenti alla storia d’impresa e rappresenta una sum- ma ideale di un percorso ormai maturo. Un approccio concettuale della teoria dell’impresa e dell’imprenditore apre il volume, cui fa seguito un’analisi tesa a mettere in luce la rilevanza del contesto socioculturale – leggi soprattutto istituzioni e quadro normativo – in cui l’impresa opera e da cui riceve sollecitazioni e condizionamenti. Il volume affronta poi la questione del- le dimensioni e delle forme di impresa, della gestione e del governo, nel quale confluiscono tematiche che spaziano dalla tecnologia alle pratiche organizzative, dal lavoro al marketing fi- no alla contabilità. Chiude il capitolo sull’impresa pubblica, seguita nella sua lunga parabola declinante. In chiusura una nutrita serie di riferimenti bibliografici offre uno spaccato completo del panorama nazionale ed internazionale della storiografia d’impresa. Andrea Giuntini

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M. Elisabetta Tonizzi (a cura di), «A Wonderful job». Genova aprile 1945: insurrezione e li- berazione, Presentazione di Raimondo Ricci, Roma, Carocci, pp. 207, Û 19,50

È un volume collettaneo realizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e del- l’età contemporanea (ILSREC), che ripercorre il dibattito storiografico sull’insurrezione di Genova. Nei due capitoli iniziali di Tonizzi si riassume il tema principale: la lunga polemica sull’attribuzione del merito della resa tedesca tra le forze della Resistenza e la Curia arcivesco- vile. Negli altri capitoli viene ricostruita la fisionomia dei protagonisti e la vicenda dell’insur- rezione (Guido Levi, La Resistenza; Paolo Battifora, Tedeschi e fascisti; Maurizio Fiorillo, Gli Alleati) infine un capitolo di Giovanni B. Varnier, La Chiesa genovese, che rivisita la posizione della Chiesa locale nel periodo dell’occupazione nazifascista e il ruolo del cardinale Pietro Boetto al momento dell’insurrezione e della resa tedesca. Si tratta di un lavoro molto accura- to in tutte le sue parti che utilizza immagini (a cura di Buttifora e Levi) documenti e lettera- tura prodotta in questi sessant’anni sul filo di una polemica che ha attraversato l’opinione pub- blica cittadina. Il tema è infatti di notevole importanza per la stessa identità democratica del- la città. L’aspetto curioso e storiograficamente intrigante della questione sta nel fatto che si tratta di una polemica postuma. I protagonisti della vicenda sembrano essere stati concordi nell’accogliere una narrazione che attribuiva alle Resistenza il merito di aver sconfitto i tede- schi costringendoli a trattare la resa. Il ruolo della Chiesa e del suo pastore sarebbe stato quel- lo di agevolare la trattativa fornendo la garanzia di una autorevole mediazione. Il cardinale Si- ri, successore di Boetto, avrebbe a più riprese avanzato l’ipotesi di un protagonismo della Cu- ria, tale da far passare in secondo piano l’impegno della Resistenza. Il libro dunque ricostrui- sce sia la polemica storiografica, sia le fasi della liberazione e della trattativa, osservate dai di- versi punti di vista del CLN, degli Alleati, delle forze nazifasciste, della Curia. Merito principale del libro è forse quello di portare nel dibattito storiografico nazionale un aspetto di così grande rilievo locale, che però non aveva mai superato i confini di un ri- stretto ambito. Com’è noto e come viene ricordato, la narrazione della liberazione di Genova è conosciuta attraverso le classiche pagine della Storia della Resistenza di Roberto Battaglia, che così è stata consegnata al mito come «l’esempio dell’insurrezione perfetta». Al di là del mito, gli autori condividono il tema del primato resistenziale, e anzi ritengono di doverlo riafferma- re togliendo quella patina di stantio che le narrazioni ritualizzate depositano sui momenti fon- danti della vita nazionale. Forse avrebbe giovato una indagine più approfondita su quali mo- menti della successiva storia di Genova la memoria dell’insurrezione ha prodotto le narrazio- ni differenziate. Rosario Mangiameli

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Maria Luisa Tornesello, Il sogno di una scuola. Lotte ed esperienze didattiche negli anni Set- tanta: contro scuola, tempo pieno, 150 ore, Pistoia, Petite Plaisance, 414 pp., Û 27,00

Il sogno di una scuola affronta lo studio delle innovazioni didattiche, delle pratiche edu- cative e delle forme dell’azione politica sviluppate nel mondo scolastico nel corso degli anni ’60-70. Questi tre elementi, tra di loro interconnessi, mostrano come le innovazioni didatti- che si sono nutrite degli stimoli provenienti dai movimenti sociali (cap. 3), mentre le prati- che educative hanno messo in discussione i ruoli costituiti sia nella scuola sia nel lavoro o in famiglia (capp. 4-5). Infine, tali esperienze vengono legate alle spinte egualitarie allora ben presenti in altri campi sociali (si pensi ai conflitti industriali degli anni ’69-74) e precipitate in un «rifiuto del ruolo» che ha coinvolto anche altre professioni, specie nei servizi. Lo studio presentato è lo sviluppo di una ricerca per il Dottorato di Storia delle società contemporanee presso l’Università di Torino; l’autrice, inoltre, vanta una lunga esperienza di insegnamento nella scuola e nei corsi delle «150 ore»; ha anche curato la costituzione del fon- do Primo Moroni presso la Fondazione ISEC di Sesto San Giovanni, in cui sono raccolte fon- ti per lo studio della didattica alternativa. Le stesse fonti utilizzate nella ricerca sono vaste e per alcuni aspetti originali (materiali di- dattici, verbali scolastici, ricerche ed elaborati degli studenti, oltre che volantini, riviste e docu- menti sindacali); esse vengono presentate assai ampiamente; cosa che, tuttavia, a volte risulta ri- dondante e non sempre proficua, specie per il livello di attenzione suscitato nel lettore. I sogget- ti dello studio, coerentemente con uno sguardo di ricerca che è anche debitore delle esperienze di insegnamento dell’autrice, illustrano i diversi attori della «relazione educativa»: gli studenti, i «nuovi» insegnanti, i volontari, gli studenti-lavoratori, gli operai e le donne dei corsi «150 ore», i portatori di handicap (cap. 2). Questo approccio, se da una parte consente di includere sog- getti altrimenti ai margini della storiografia, dall’altra non pare adeguatamente articolato con la nozione riepilogativa di «movimento», che pure viene utilizzata dall’autrice per raggruppare i te- mi e i soggetti in esame. Un movimento sociale non convenzionale per i tempi, legato alla spe- rimentazione di nuove pratiche didattiche, emerge senz’altro, specie nelle parti dedicate all’edi- toria indipendente o all’associazionismo radicale nel campo educativo (le esperienze de «L’Erba voglio» o del Movimento di cooperazione educativa). Non sempre tuttavia questo può dirsi per tutti i soggetti affrontati, collocati a volte in una cornice di movimento troppo estensiva, strut- turata intorno a una figura centrale a tratti sfuggente: il «nuovo insegnante». Ciononostante, nella ricerca si tenta di aprire una riflessione intorno a un concetto più complesso di «movimento sociale», e si scorgono i tratti di un problema che interroga tutto- ra la storiografia dei ’70: il rapporto tra l’attivismo diffuso e le organizzazioni politiche, tra pratiche culturali/professionali e azione collettiva, in un contesto di vasti cambiamenti socia- li e di soggettività. Beppe De Sario

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Stefano Trinchese, L’altro De Gasperi. Un italiano nell’impero asburgico, Prefazione di Pie- tro Scoppola, Roma-Bari, Laterza, XXVII-249 pp., Û 18,00

In questo suo solido lavoro di ricerca sul De Gasperi trentino, Trinchese pone uno dei que- siti basilari per dare un giudizio pertinente sull’opera di questo statista. C’è nella sua biografia una visibile frattura nel modo di concepire l’azione politica tra il periodo austriaco e quello italiano? Trinchese prima ricostruisce con cura il profilo «dell’altro De Gasperi», poi ne cerca gli elementi di continuità nel primo dopoguerra con l’occhio volto al terzo De Gasperi, quello che fonda la DC e domina la vita politica italiana fino al 1953. Gli elementi di continuità, incorporati nella sua formazione originaria, sono di natura ideale. Potremmo riassumerli così: innanzitutto il pri- mato dello Stato nella sua forma costituzionale liberale-democratica sui partiti e il sistema politi- co; da qui deriva una concezione netta della separazione del ruolo della Chiesa da quella dello Sta- to nella vita politica; da ultimo una concezione della «nazionalità» che per sua natura trascende lo Stato, non si identifica necessariamente con lo Stato nazionale, ma può convivere in una cor- nice statuale plurinazionale. Sono tutti e tre retaggi dell’Impero asburgico, ma insieme rispondo- no a concettualizzazioni che hanno natura propria. Il terzo, venne storicamente meno con la fi- ne dell’Impero, ed è vero ciò che Trinchese suggerisce che, approfondendo il suo nocciolo fede- ralista, lo ritroviamo poi rinnovato nella concezione europeistica di De Gasperi. Quanto al pri- mo di questi principi, De Gasperi cercò di attenervisi nel secondo dopoguerra, ma la formula cen- trista venne a costituire un primo diaframma. D’altra parte l’anomala osmosi tra sistema costitu- zionale e politico era già una caratteristica dell’Italia liberale, perfezionatasi poi con il fascismo ed ereditata infine dalla Democrazia cristiana postdegasperiana. Al secondo principio, quello della separazione, De Gasperi rimarrà fedele, fronteggiando i diversi impulsi del Vaticano, specie nel ’52, con l’affare Sturzo. A ciò si connette un’altra sostanziale continuità della sua cultura politica di cattolico, segnata dalla stagione della Rerum Novarum. L’impegno sociale-politico che da quel- le premesse i cattolici presero a sviluppare in Europa, partecipando come tali alla vita politica na- zionale, si proponeva di difendere la libertà della Chiesa, ed anche, come in Italia, il suo primato religioso, ma nel quadro delle istituzioni liberal-democratiche, di cui facevano propri i principi. Su un punto solo Trinchese non sembra convincente. Gli anni dell’esilio Vaticano non aggiunsero molto a quanto De Gasperi aveva già maturato. C’era la consapevolezza, comune a tutto l’antifascismo militante, che all’era delle tirannie totalitarie sarebbe subentrata una nuova stagione, in cui la democrazia avrebbe determinato l’ingresso delle grandi masse nel re- cinto delle istituzioni statuali. Ma non può dirsi con ciò che vi sia stata recezione del pensie- ro di Maritain, che De Gasperi considerava sulla linea di Toniolo. Maritain rimase del resto estraneo a tutta la tradizione popolare. Le due tradizioni si soprapposero poi nella DC e da ciò nacque l’ibrido fanfaniano-doroteo, che solo apparentemente era «integralismo cattolico», ma più semplicemente «di potere». Piero Craveri

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Delfina Tromboni, «Donne di sentimenti tendenziosi». Sovversive nelle schedature politiche del Novecento, Ferrara, Edizioni Nuove Carte, 125 pp., Û 12,00

Il volume prende spunto da una fonte di grande interesse: centotrenta fascicoli di donne ferraresi schedate dal 1901 al 1944, conservati presso il Casellario politico centrale dell’ACS e l’Archivio di Stato di Ferrara. Sulla base di tale documentazione sono elaborate sessantuno biografie che, sia pure sinteticamente, ci restituiscono un mondo di vite femminili intense e sofferte. Sono donne, per lo più di estrazione popolare, protagoniste di drastiche cesure che scaturiscono da precise opzioni politiche, ma anche da più profonde istanze di ribellione. Si tratta di braccianti, operaie, sarte, camiciaie, ricamatrici, levatrici, maestre; soltanto una vol- ta troviamo una giornalista. L’autrice annota minuziosamente: «31 di queste donne durante il periodo della schedatura risultano sposate o conviventi, 24 hanno figli, una di loro è defi- nita affetta da l’Esbica, scritto esattamente così» (p. 15). All’interno di questo mondo femminile si avverte con forza l’influenza delle culture sin- dacali e politiche del Novecento: 23 sono antifasciste, 20 comuniste, 134 socialiste, 4 anar- chiche, 1 repubblicana. Importante inoltre la componente generazionale. Le più anziane so- no attive in età giolittiana e rientrano nei diversi filoni della cultura politica socialista, rifor- mista e massimalista, ma anche in quelle repubblicana e anarchica. Questa generazione, e an- cor più quella successiva, vengono coinvolte nei processi storici che segnano la prima metà del Novecento: prima guerra mondiale, fascismo, secondo conflitto mondiale, Resistenza. Fanno da raccordo l’istanza pacifista e l’antifascismo. Ma si incrociano anche altre eventi tragici. Elodia Manservigi, sarta, nel 1922 emigra in URSS con il marito e il fratello, entrambi comunisti. Tutti e tre incappano nelle purghe sta- liniane ed Elodia, nel 1940, viene condannata a cinque anni di lavori forzati. Nel volume, oltre le 61 note biografiche, sono più ampiamente tratteggiate quattro figu- re: Jone Guglielmini, Parisina Bertocchi, Teresa Andretti, Cerere Bignolati. I profili ne rico- struiscono l’attività politica e sindacale, lasciano intravedere i rapporti familiari che sorreggo- no e rafforzano le scelte di vita, mettono in luce il ruolo dirigente svolto, in qualche caso, nel- l’antifascismo clandestino, raccontano una drammatica esperienza di internamento a Raven- sbruck. Il libro risulta uno strumento efficace nel valorizzare la fonte documentaria. È invece po- co approfondita l’analisi dei nodi storici ed esistenziali che le biografie suggeriscono, il che rende difficile cogliere le connessioni tra le diverse biografie. In verità Tromboni prova a sug- gerire un filo conduttore: «una particolare attitudine al ricercare la libertà, sociale, ma anche per sé, che si coniuga, a tratti, con quella che chiamiamo libertà femminile» (p. 23). Si tratta però soltanto di una suggestione o, forse, di una possibile pista di ricerca. Gloria Chianese

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Gabriele Turi, Il nostro mondo. Dalle grandi rivoluzioni all’11 settembre, Roma-Bari, La- terza, VIII-471 pp., Û 24,00

Ecco un manuale di taglia media, una dimensione non certo privilegiata negli ultimi an- ni, ma che alla lunga potrebbe risultare invece particolarmente adatta alle esigenze dell’uni- versità riformata. Turi presenta un testo continuo, senza appendici, tabelle, cronologie o altri apparati di- dattici. In esso uno spazio quasi uguale è dedicato all’Ottocento e al Novecento, mentre di quest’ultimo secolo sembra un po’ sacrificato l’ultimo trentennio che, come fase di transizio- ne al millennio contemporaneo, richiederebbe ormai un’attenzione particolare. Dal punto di vista tematico nella maggior parte dei capitoli sono accostate le vicende di aree diverse del mondo, diluendo così la prospettiva eurocentrica, mentre i temi della storia politico-istituzio- nale, dispersi quasi sempre nel racconto delle vicende nazionali, trovano qui finalmente una esposizione adeguata in alcuni paragrafi lucidi e sintetici. I riferimenti spesso testuali al lavo- ro di altri storici arricchiscono il discorso, delineando una storiografia di riferimento nella bi- bliografia finale. Ciò che forse caratterizza maggiormente il manuale di Turi è la presenza di «paragrafi de- dicati alla riflessione su temi di lungo periodo, collocati nel momento in cui questi assumono uno spessore particolare (che) anticipano talvolta eventi narrati più avanti nel testo» (p. VIII). Non si tratta quindi né di parole chiave, alla maniera per esempio di Sabbatucci e Vidotto, né di isolare la trattazione di fenomeni tipici della lunga durata come la demografia e il suo rap- porto col territorio, il che peraltro avviene nel primo capitolo, secondo una formula già adot- tata da Montroni. Qui troviamo invece paragrafi tematici all’interno dei quali sono delineate periodizzazioni autonome rispetto alla scansione cronologica del testo nel suo insieme. Ad esempio alla fine del II capitolo, che si conclude con l’età napoleonica, si possono trovare alcu- ne pagine dedicate alle rivoluzioni dove si citano Lenin, Mussolini, Zapata e Gandhi. Oppure alla fine del VI capitolo, intitolato alla conquista del mondo fra Ottocento e Novecento, a pro- posito di Chiesa cattolica e secolarizzazione si va dalla Rivoluzione francese allo Statuto alber- tino, dai concordati novecenteschi alla Costituzione repubblicana, da questa poi al Concilio Vaticano II, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Si tratta, mi sembra, di una scelta coraggiosa che, se ha il merito di aiutare a «non perdere di vista la dimensione complessiva, l’articolazione e l’e- voluzione di fenomeni troppo spesso trascurati e trattati in modo episodico» (p. VIII), rischia però di consegnare per cenni al semplice lettore un percorso unilineare, e forzatamente decon- testualizzato.Tutt’altro valore possono assumere tracce del genere se integrate dal confronto con un docente, e ciò forse potrebbe valere anche per i riferimenti di cultura generale tesi a illustra- re situazioni e contesti. Quale familiarità avrà lo studente medio «non frequentante» con Tur- geniev, Beecher Stowe e Conrad, ma anche con Lang o Pontecorvo? Giuseppe Civile

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Giuseppe Vacca, Il riformismo italiano. Dalla fine della guerra fredda alle sfide future, Ro- ma, Fazi, IX-280 pp., Û 18,00

Il volume, composto da sei saggi, quattro dei quali già editi e ora ripresentati in forma più ampia, «tenta una ricostruzione storica della vicenda politica italiana dalla fine della guer- ra fredda ad oggi e, come si sa, fare storia del presente è operazione quanto mai azzardata» (p. VII). Supportato da un ampio apparato di note bibliografiche, il libro a tratti si configura qua- si come una riflessione sull’attualità, opportuna anche per i recenti sviluppi legati alla forma- zione del Partito democratico. In realtà, «la trattazione è incentrata su un attore e su un pro- blema, il riformismo», di cui si cerca di inquadrare il percorso da quando si sono create le con- dizioni «del riconoscimento reciproco, fra gli attori della vita politica, della legittimazione a go- vernare» (p. VII). Nel prologo, Vacca si sofferma su alcuni passaggi della storia del ’900 intor- no ai quali si sarebbe via via ridefinito il concetto di riformismo. Si passa dalla crisi dei primi anni ’30 alla stagione dei fronti popolari, capace di aprire «anche nel movimento comunista [...] un varco alla conciliazione fra classe e nazione» (p. 6); dalla guerra antifascista all’ascesa del «riformismo nazionale» nel secondo dopoguerra; dalla fine del sistema di Bretton Woods al «conflitto economico mondiale»; dalla conclusione della guerra fredda fino alla «asimmetri- ca» globalizzazione, variabile centrale del ciclo politico degli anni ’90. Il secondo saggio af- fronta i primi anni del PDS, con una finestra sugli anni ’80 e le difficoltà del PCI di trovare uno spazio politico dopo la fine della «solidarietà nazionale» e l’ascesa di Craxi che, immagi- nando di vincere «la competizione al centro con la DC» e, contemporaneamente, «esasperan- do la discriminazione verso il PCI [...] non faceva altro che rallentare il percorso terminale del PSI» (p. 20). Il terzo saggio è dedicato alla proposta politica di D’Alema, eletto segretario del PDS dopo la sconfitta del ’94 e impegnato da un lato a inquadrare la crisi della Repubblica dopo la fine della «centralità democristiana» e del «compromesso assistenziale» garantito dai vecchi partiti di governo, dall’altro a ridefinire le basi su cui era sorto il Partito, con l’obietti- vo di costruire un’alleanza con il centro e ricandidare la sinistra alla guida del paese. Il quarto saggio (inedito come il sesto) è dedicato all’Ulivo e, ancor prima della vittoria del ’96 e dei go- verni costituiti dopo la caduta di Prodi, affronta la nascita di un progetto che «si configurava come una proiezione politica di quella alleanza europeistica che [...] aveva sostenuto il risana- mento economico avviato dai governi Amato e Ciampi» (p. 78). Il quinto saggio tratta del II Governo Berlusconi e descrive il fallimento di una coalizione che si rivela presto incapace di esprimere una linea chiara, dimostrandosi attenta più alle scelte di Bush che alla salvaguardia del rapporto con l’Europa. L’ultimo saggio affronta la crisi della destra e la nascita del «secon- do Ulivo», diverso dal precedente sia nelle intenzioni di Prodi sia in quelle dei DS. Proprio dall’esito di questo processo dipenderanno le sorti del riformismo e i più ampi assetti della si- nistra italiana. Andrea Ricciardi

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Luca Vaglica, I prigionieri di guerra italiani in URSS. Tra propaganda e rieducazione poli- tica: «L’Alba» 1943-1946, Roma, Prospettivaeditrice, 374 pp., Û 12,00

Il volume si inserisce nell’ormai ricco filone di studi che hanno come oggetto di studio la prigionia militare nella seconda guerra mondiale; qui ad essere presa in esame è la vicenda dei soldati ed ufficiali prima del CSIR, poi dell’ARMIR caduti in mano sovietica dal luglio 1941 al maggio 1943 (quando ciò che restava dei reparti inviati sul fronte orientale venne rimpa- triato). I quattro capitoli in cui l’opera è suddivisa sono dedicati alla ricostruzione di un qua- dro generale sulla prigionia militare in URSS (pp. 24-80); all’impegno profuso dalle autorità sovietiche nell’opera di «rieducazione» politica e di propaganda nei campi di detenzione (pp. 81-174); all’analisi dettagliata del giornale politico «L’Alba. Per un’Italia libera e indipenden- te», foglio in lingua italiana diffuso a partire dal febbraio 1943 tra i prigionieri e redatto da membri del PCd’I emigrati in precedenza in URSS (pp. 175-253); al rimpatrio dei sopravvis- suti (pp. 254-303). Completa il testo, oltre ad una doppia introduzione (pp. 5-23), un’ampia appendice documentaria (pp. 305-372); mancano invece, lacune di non poco conto, sia una bibliografia degli studi utilizzati, sia un elenco delle fonti archivistiche consultate dall’autore. La ricerca tocca temi importanti, ancora «caldi» non solo dal punto di vista storiografico, co- me la questione dell’altissima mortalità verificatasi tra i militari caduti in mano sovietica ed il ruolo svolto nella vicenda dai quadri comunisti esuli in URSS, tematiche su cui Vaglica mo- stra di conoscere sufficientemente la letteratura pregressa e le differenti tesi interpretative in gioco; tuttavia il volume tradisce a partire dalla stessa impostazione la sua origine di tesi di laurea, per altro dichiarata a p. 10 (dove si parla esplicitamente di «ottica generale della tesi»). Nulla ovviamente vieta che una buona tesi di laurea si trasformi in libro, ma è legittimo do- mandarsi se sia sensato che una casa editrice, quella che pubblica il volume, dedichi program- maticamente una propria collana a tesi di laurea senza che vi sia traccia, almeno apparente, di un filtro scientifico frapposto tra proposte ed edizioni. Un’assenza del genere espone giovani come il Vaglica a figuracce, quali per esempio la ripetuta citazione di una tabella coeva (pp. 5, 372, ed altrove) riferita a dati assoluti e percentuali sui tassi di mortalità nelle diverse prigio- nie vissute dagli italiani nel secondo conflitto mondiale in cui le percentuali sono palesemen- te errate: p. es. 606.306 rappresenta il 94 per cento di 641.954, non il 98 per cento... La trop- pa fiducia in fonti che andrebbero controllate non costituisce l’unica pecca dell’opera, che sof- fre inoltre di un’assai insufficiente bibliografia dove si affrontano questioni generali, come p. es. il rapporto tra fuoriusciti comunisti e potere sovietico negli anni considerati. Nuovamen- te, siamo di fronte ad un tipico «capitolo introduttivo» da tesi, che con ogni probabilità sa- rebbe stato meglio cassare al momento di trasfondere la ricerca in un libro. Insomma, inco- raggiare i giovani studiosi è più che giusto, mandarli allo sbaraglio è un grave errore. Brunello Mantelli

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Valerio Varini, L’opera condivisa. La città delle fabbriche. Sesto San Giovanni 1903-1952. L’industria, Milano, FrancoAngeli, 256 pp., Û 20,00

Nel volume si affronta la genesi e lo sviluppo del polo industriale di Sesto San Giovanni, nel- l’ambito dell’industrializzazione italiana. La ricostruzione di questa vicenda è il risultato di un più ampio approfondimento di temi che l’autore, ricercatore di Storia economica nella Facoltà di Economia dell’Università di Milano-Bicocca, aveva già parzialmente indagato in una prece- dente ricerca sulla città curata da Luigi Trezzi, pubblicata in due volumi nel 1997 e nel 2002. Lo sviluppo industriale di Sesto San Giovanni è collocato all’interno dell’espansione eco- nomica della Lombardia. In questa prospettiva, sono efficacemente colti i tratti che caratte- rizzano la sua industrializzazione: il forte impatto dell’energia elettrica, che si presenta come forza motrice, ma anche come oggetto di produzione nell’ambito dell’elettromeccanica; lo svi- luppo di Sesto come compiuta espressione della crescita economica di Milano che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, diventa il principale luogo di coordinamento e diffu- sione delle trasformazioni economiche. Lo sviluppo di Sesto, infatti, si collega alla necessità di individuare, nelle aree suburbane, nuovi spazi in grado di ospitare gli insediamenti produt- tivi, in particolare quelli dell’industria «pesante», la cui ubicazione, in prossimità dei grandi centri abitati, è resa possibile dalle derivazioni idriche. Il piccolo borgo di Sesto diventa, così, il luogo ideale per ospitare le grandi imprese del settore siderurgico e meccanico, come la Falck, la Breda e la Magneti Marelli, ma anche quelle dell’elettromeccanica e della chimica. Un’altra caratteristica del polo industriale sestese è data dalla forte centralità, accanto agli interventi statali, dell’iniziativa imprenditoriale privata. L’esperienza del centro lombardo è si- mile al caso di Porto Marghera, mentre si allontana in modo rilevante da altre esperienze di sviluppo industriale di questi anni, come Bagnoli e il Ponente genovese. In altre parole, ciò che contraddistingue la realtà di Sesto San Giovanni è il suo eclettismo economico. Pur in considerazione del ruolo svolto dallo Stato, nell’introduzione l’autore confronta il centro lom- bardo con altre company town italiane: grandi città genericamente industriali come Torino, oppure piccoli borghi rurali, che conoscono una rapida crescita grazie all’insediamento di va- sti e rilevanti complessi siderurgici, come Terni e Piombino. In questa prospettiva, la ricerca si sofferma sull’evoluzione del sistema industriale, tra in- novazioni tayloristiche e mantenimento delle diversificazioni e delle complementarietà pro- duttive, dal momento in cui Sesto San Giovanni assume una nuova identità, grazie alla sua trasformazione da borgo agricolo in città industriale, fino ad arrivare al consolidamento del- la crescita economica degli anni Trenta e all’approdo della maturità, nella fase immediatamen- te successiva alla guerra. La descrizione del sistema produttivo non consente all’autore di sof- fermarsi sulle conseguenze urbane e sociali dell’industrializzazione, probabile ed auspicabile oggetto di studio in un’altra fase della ricerca stessa. Augusto Ciuffetti

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Antonio Varsori (a cura di), Sfide del mercato e identità europea. Le politiche di educazione e formazione professionale nell’Europa comunitaria, Milano, FrancoAngeli, 219 pp., Û 18,00

Il volume nasce da un progetto di ricerca sostenuto da un’agenzia decentrata dell’Unio- ne Europea, il Centre européen pour le développement de la formation professionnelle (CE- DEFOP), progetto che dal 2001 ha riunito un gruppo di studiosi i quali, con la collaborazio- ne degli Archivi storici delle Comunità europee, hanno analizzato la nascita e gli sviluppi di una politica europea nell’ambito dell’educazione e della formazione professionale. Gli esiti della prima parte della ricerca, sfociati in un convegno tenutosi a Firenze nel 2002 presso l’A- teneo fiorentino e l’Istituto universitario europeo, sono stati pubblicati dall’Ufficio delle pub- blicazioni ufficiali delle CE in due volumi dal titolo Towards a History of vocational education and training in Europe (Vet) in a comparative perspective. Questo volume raccoglie invece i con- tributi di una seconda fase della ricerca, che arriva a prendere in esame i più recenti sviluppi in tema di istruzione e formazione professionale derivanti dalla strategia di Lisbona approva- ta nel 2000 dal Consiglio europeo. L’obiettivo dei saggi qui raccolti è quello di meglio com- prendere un aspetto finora poco indagato della costruzione europea, che ha acquisito un ruo- lo sempre più importante con lo sviluppo delle politiche comunitarie e la consapevolezza che nelle società avanzate la conoscenza è uno strumento fondamentale per una maggiore coesio- ne sociale. Gli autori dei saggi affrontano questioni diverse legate da un filo comune: il valore «eu- ropeo» delle politiche di educazione e formazione professionale: il loro essere, in un certo sen- so, aspetto essenziale di una costruzione che non vuole limitarsi al mercato ma cerca, come indica lo stesso titolo del volume, di far emergere i tratti essenziali di un’identità europea. Il volume si apre con un saggio di Simone Paoli sul ruolo svolto dal Parlamento europeo nel pe- riodo compreso tra il 1957 e il 1976 a sostegno del varo di una politica comunitaria dell’istru- zione. Fa seguito un contributo di Sara Bianchi sull’attenzione rivolta anche dall’UNESCO verso l’istruzione e la formazione professionale, soprattutto a seguito delle conseguenze della decolonizzazione all’interno delle Nazioni Unite. Un saggio di Marina Cino Pagliariello esa- mina un aspetto specifico dell’azione del CEDEFOP e cioè il programma comunitario di vi- site di studio per specialisti e responsabili della formazione professionale, gestito direttamen- te dal CEDEFOP. Emanuele Torquati ricostruisce passaggi e caratteristiche fondamentali del- l’Azione Jean Monnet, iniziativa della Commissione Europea a sostegno dell’istruzione in am- bito universitario. Gli sviluppi della strategia di Lisbona sono affrontati da Elena Mainardi, che ne evidenzia anche i limiti incontrati a livello politico nell’attuazione concreta nonostan- te gli impulsi provenienti dal Parlamento europeo. Antonio Varsori, sulla base di una nuova documentazione archivistica, ricostruisce il ruolo e l’azione del CEDEFOP dalla sua costitu- zione alla fine degli anni ’90. Marinella Neri Gualdesi

401 I LIBRI DEL 2006

Angelo Ventrone (a cura di), L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Re- pubblica, Roma, Donzelli, XVII-205 pp., Û 24,50

Questo volume ha come ovvio riferimento il libro di Ventrone su Il nemico interno e si colloca entro un ormai cospicuo filone di studi sollecitato dall’avvento di una stagione ten- denzialmente bipolare della politica italiana. Dovuti a storici di orientamenti e generazioni di- verse, oltre che a un uomo politico e a uno studioso della comunicazione, i suoi dieci saggi analizzano la figura del nemico interno nella storia italiana a partire da un contributo di Sal- vadori, per il quale la forza della dialettica amico/nemico in Italia è attribuibile al lungo «mo- nopolio-oligopolio» del potere da parte di alcune forze politiche e al fatto che le maggiori tra quelle di opposizione «si sono presentate esse stesse come nemiche dell’ordine esistente» (p. 11). Nel suo saggio sulle rappresentazioni del nemico interno Ventrone ne riconduce l’inten- sità all’opposizione alla modernità delle sue diverse culture politiche, in nome del «rifiuto del- l’individualismo» e della «enfatizzazione della coesione sociale» (p. 27). Come la sua, anche la lettura della dicotomia amico/nemico nelle celebrazioni delle feste nazionali effettuata da Ri- dolfi è di lungo periodo. Gozzini propone una lettura critica della «narrazione egemonica an- tifascista», che accosta alla visione crociana del fascismo come invasione degli Hyksos (p. 88). A Il nemico in fabbrica è dedicata una ricerca di Sangiovanni sul mutare dell’immagine dell’o- peraio, mentre Scoppola ripercorre Aspetti e momenti dell’anticomunismo e Tarchi ricostruisce la vicenda delle destre nel loro rapporto con l’eredità del fascismo. Gli autori concordano nel collocare negli anni ’70-80 e nella fine della guerra fredda una cesura, segnata dall’attenuarsi delle pratiche di reciproca delegittimazione che avevano fatto la fortuna della figura del nemico interno. Dunque «nemico addio?» (così il titolo del conve- gno da cui è derivato il volume). Vari saggi, specie quelli sulla «seconda Repubblica», appro- dano a una risposta più complessa. Se Novelli, mostrato come le tribune elettorali avessero li- mitato il ricorso all’immagine del nemico, parla dell’avvento di un nemico «virtuale», Campi ne riconduce le metamorfosi alla sostituzione della politica «ideologica» con una politica «mo- rale» e Sabbatucci sottolinea come la sua sopravvivenza strida con la realtà di un quadro poli- tico nel quale la distanza tra gli schieramenti è meno ampia che nel passato. Benché l’originalità di molti contributi riposi più sull’uso di una peculiare chiave di let- tura che sul loro spessore di ricerca, l’opera offre vari spunti di notevole interesse. Altri suoi pregi sono la varietà dei punti di vista e un rapporto passato-presente in complesso distacca- to, fatta eccezione per il saggio di Orsina: riprendendo la propria distinzione tra l’antifasci- smo storico e un antifascismo ideologicamente «assai più ricco e articolato» (p. 167) al quale riconduce l’antiberlusconismo, egli dà infatti l’impressione di essere interessato a polemizza- re con tali fenomeni almeno quanto a studiarli. Tommaso Detti

402 I LIBRI DEL 2006

Guido Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Ba- ri, Laterza, XII-272 pp., Û 38,00 Nel 1934 la Congregazione del Sant’Uffizio inseriva l’opera omnia di Benedetto Cro- ce e Giovanni Gentile nell’Indice dei libri proibiti. Grazie ad una vasta documentazione inedita, comprendente i fascicoli dei processi a Croce e Gentile custoditi nell’Archivio del- l’ex Sant’Uffizio, ora Congregazione della fede, Guido Verucci ricostruisce con maestria quell’episodio. Al centro dell’opera, è «lo scontro fra la neoscolastica da un parte, l’ideali- smo e l’attualismo gentiliano dall’altra» (p. VII): campo di battaglia principale, la politica scolastica. La riforma attuata da Gentile nel 1923, dopo un iniziale plauso da parte catto- lica, ben presto suscitò le critiche della «Civiltà Cattolica». Più sfumata era la posizione di padre Agostino Gemelli, uno dei massimi beneficiari della politica di Gentile che, da mi- nistro, riconobbe ufficialmente l’Università Cattolica di Milano. È solo nel 1929, con la firma del Concordato, che la «Civiltà Cattolica» e Gemelli combattono uniti per togliere alla riforma Gentile ogni ispirazione filosofica in senso attualistico, dandole invece un’im- pronta neoscolastica. Infatti, anche grazie ad un’analisi dei manuali scolastici condotta dal Sant’Uffizio, la Chiesa era giunta alla conclusione che la riforma del 1923 aveva sì consen- tito una «cattolicizzazione» soddisfacente nelle scuole elementari, com’era del resto negli intenti di Gentile, ma tale processo era sostanzialmente fallito nelle secondarie, dove l’in- fluenza idealistica e attualistica rimaneva assai forte. Nel 1932 il Sant’Uffizio condanna la Storia d’Europa di Croce, appena pubblicata, e apre i fascicoli contro tutta l’opera crocia- na e contro quella di Gentile: quest’ultima viene analizzata da Gemelli in un’importante relazione inclusa nell’appendice documentaria posta a fine volume. Si arriva infine alla con- danna del giugno 1934: il sempre maggiore isolamento di Gentile all’interno del fascismo facilita la decisione del Sant’Uffizio. Nonostante il ruolo di Gentile in tutta la vicenda ri- sulti determinante, Verucci dissente dall’interpretazione, sostenuta tra gli altri da Turi e Mangoni, per cui era Gentile il vero obbiettivo del provvedimento ecclesiastico e Croce un espediente «per equilibrare la posizione della Chiesa riguardo al fascismo e all’antifascismo» (p. 198): proprio la nuova documentazione dimostra che l’idealismo, di cui Croce rimane- va fondatore e principale esponente, con la sua pretesa di «superare» il cattolicesimo «tra- ducendolo su un piano immanentistico» (p. 200), era il vero obbiettivo della Chiesa. Chie- sa che, da questa battaglia, uscì, tuttavia, sconfitta: la cattolicizzazione della scuola supe- riore e dell’università fu limitata e continuò a prevalere la cultura idealistica, anche per un preciso interesse del fascismo «disposto al massimo a sostenere un’opera della Chiesa di conformità sociale e pubblica ai principi morali e religiosi cattolici» (p. 225). Verucci chiu- de così un libro che d’ora in poi costituirà un punto di riferimento nella valutazione di una vicenda cardine per la storia dell’Italia fascista e dei rapporti tra cultura laica e Chiesa cat- tolica. Paola Carlucci

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Mario Vianelli, Giovanni Cenacchi, Teatri di guerra sulle Dolomiti. 1915-1917: guida ai campi di battaglia, Milano, Mondadori, 262 pp., Û 12,40 Le prime furono quelle del Touring Club Italiano, date alle stampe fin dagli anni ’20 per uso e consumo dei primi «pellegrini» sui luoghi della Grande guerra e di coloro che iniziava- no proprio in quel periodo a mettere a regime la memoria del conflitto, a cominciare dalle as- sociazioni degli ex combattenti. Negli anni successivi le guide ai campi di battaglia assunsero un carattere prettamente turistico in funzione del recupero in chiave diversa di percorsi, cam- minamenti, gallerie, trincee e siti popolati da un lato dagli appassionati della montagna, dal- l’altro dai recuperanti di oggetti e cimeli di guerra. In questo caso siamo di fronte ad una guida colta ai luoghi delle Dolomiti dove si sono combattute alcune delle fasi più importanti della guerra di montagna italo-austriaca (1915- 1917) che permette di ricostruire «una storia da visitare a passo d’uomo», come giustamente ricordano i due autori, non degli storici ma degli incuriositi segugi lungo le tracce lasciate dai soldati. Esiste, nella loro narrazione, un profondo rispetto nei confronti della fatica dei com- battenti in montagna, degli sforzi umani sopportati da migliaia di soldati – alpini discreti, sen- za retorica – costretti ad una guerra in un ambiente inospitale dove decisiva spesso era la «so- verchiante potenza della natura». Le operazioni belliche in quota erano rese difficoltose dalla precarietà delle postazioni, in gran parte minuscole baracche aggrappate alle pareti rocciose o sospese nel vuoto, e dalla necessità di domare le avversità geologiche e climatiche. A questo si aggiungano i problemi dovuti al trasporto di materiali e di approvvigionamenti che avveniva quasi esclusivamente attraverso teleferiche. Gli otto itinerari proposti si snodano dal Comelico fino alla Marmolada passando attra- verso le Tre Cime di Lavaredo, il Monte Piana, il Monte Cristallo, la zona di Cortina d’Am- pezzo, il Lagazuoi e il Col di Lana. Si tratta di un viaggio attraverso le vie della guerra diven- tate percorsi della memoria, a cominciare dal fronte verticale della Croda Rossa di Sesto do- ve più forte è la resistenza austriaca; «l’archetipo della guerra dolomitica, la quintessenza del- la croda», il trittico del Lavaredo con il vicino Monte Paterno dove nel luglio 1915 trovò la morte Sepp Innerkofler, una figura poi entrata nel mito della guerra in montagna; il decano dei musei all’aperto della Grande guerra, quello del Monte Piana, il cui percorso è dissemina- to di fortificazioni, trincee, camminamenti e buche create dall’artiglieria; le torri squadrate del Monte Cristallo, un «fantastico castello di crode» che costituì uno dei fronti più difficili con i suoi forti dislivelli; Cortina d’Ampezzo austriaca occupata quasi senza colpo ferire dagli ita- liani; il settore del Falzarego, altro enorme museo all’aperto, con il Lagazuoi e la sua guerra di mina e con le Tofane ingigantite nella memoria dalla morte del generale Antonio Cantore; il Col di Lana ribattezzato quasi subito «Col di Sangue», il teatro che registrò il maggior nume- ro di vittime, oltre 8.000; infine la Marmolada, la montagna sovrana il cui ghiacciaio diven- ne per gli austriaci l’unico luogo di rifugio rispetto alla disumanità della guerra. Daniele Ceschin

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David Vincent, Leggere e scrivere nell’Europa contemporanea, Bologna, il Mulino, 274 pp., Û 21,00 (ed. or. Cambridge, 2000)

Dagli studi degli anni ’60 di Stone e Cipolla, attraverso le ampie ricostruzioni di Harvey Graff e Rabb Houston la storia dell’alfabetizzazione ha compiuto grandi progressi, riuscendo a trarre beneficio, forse meglio di altri campi storiografici, da un crescente uso dell’interdisci- plinarietà e della comparazione tra situazioni differenti. Il libro di David Vincent si colloca su questa linea offrendo una sintesi di lungo periodo – tra XVIII e XX secolo – dello sviluppo dell’alfabetizzazione di massa in Europa. Vincent, professore di Storia sociale alla Open University in Inghilterra, è storico dell’e- ducazione e autore di precedenti studi sulla alfabetizzazione e sulla cultura popolare inglese. Partendo da osservazioni ai tradizionali sistemi quantitativi in genere utilizzati per determi- nare lo sviluppo delle capacità di leggere e scrivere, Vincent si sforza di affiancare alle tradi- zionali statistiche proposte dai governi altri indicatori attendibili. Significative a questo riguar- do sono le considerazioni sullo sviluppo delle corrispondenze private (l’Unione postale uni- versale del 1874, con il conseguente trionfo della comunicazione scritta, segna per Vincent «il passaggio all’età adulta dell’alfabetismo»). Si traccia così uno spaccato vivace e denso delle con- dizioni, dei tempi e delle differenti velocità che nelle varie aree europee hanno determinato la crescita di una delle principali competenze dell’uomo contemporaneo, in cui si intrecciano proficuamente considerazioni che dalle discussioni settecentesche sul tema dell’istruzione si allargano alle variabili di carattere economico, sociale, religioso e culturale. Vincent mette inoltre efficacemente a frutto i migliori risultati della storia del libro e della lettura, sofferman- dosi anche sugli effetti e gli esiti della diffusione dei prodotti a stampa di vasta diffusione. Ne risulta un quadro assai problematico e spesso sorprendente in cui le intenzioni dei promotori dell’istruzione non sempre hanno conseguito i risultati politici e sociali che si at- tendevano. Gli europei impararono a leggere essenzialmente più perché iniziarono ad avver- tirne il bisogno che in conseguenza delle azioni di governanti e classi dirigenti perché ciò av- venisse. Anche gli investimenti in questa direzione furono inferiori alle necessità. L’insisten- za di molti studi attorno all’intervento degli Stati nel settore dell’istruzione è poi mitigato da considerazioni circa l’apporto dei religiosi allo sviluppo dell’istruzione. «In termini di dena- ro versato e tempo dedicato – nota Vincent – c’erano cento ecclesiastici per ogni proprieta- rio di fabbrica attivamente impegnato nella creazione di una popolazione europea alfabetiz- zata» (p. 147). L’Italia è prevalentemente ricordata per i livelli negativi e per i ritardi complessivi rispet- to ai paesi del Centro e Nord Europa. Molto limitato del resto è l’uso di bibliografia italiana, ristretta, oltre al classico Cipolla, ai libri di Daniele Marchesini (Il bisogno di scrivere) e di Mar- zio Barbagli (Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia). Mario Infelise

405 I LIBRI DEL 2006

Albertina Vittoria, Storia del PCI 1921-1991, Roma, Carocci, 190 pp., Û 13,50

Se si accetta che una sintesi storica vada giudicata in base alla sua capacità di conciliare il racconto dei fatti salienti con un impianto rigoroso, allora il libro appare ben riuscito e ade- guato al compito divulgativo che si prefigge. Si tratta della prima complessiva e snella sintesi della storia del PCI dalla nascita allo scio- glimento. Su un totale di nove capitoli, un terzo è dedicato alla vicenda del PCd’I, dal Con- gresso di Livorno alla caduta del fascismo. Il secondo terzo affronta il periodo togliattiano, dal «partito nuovo» al centro-sinistra; l’ultimo terzo tratta degli anni Sessanta, del PCI di Berlin- guer, e del passaggio dal PCI al PDS, il cui avvio viene datato alla segreteria di Natta. La bibliografia ragionata è un utile strumento di lavoro e consultazione, ben costruita e aggiornata; apprezzabile soprattutto il ricco elenco dei documenti a stampa e della memoria- listica. Qualche esclusione forse troppo drastica riguarda la letteratura degli anni Sessanta, Set- tanta e primi Ottanta, che aveva allargato i temi di ricerca oltre i confini dei vertici di parti- to. Prevale qui la scelta di identificare il Partito col suo gruppo dirigente e con la linea politi- ca. Il taglio narrativo trova in ciò la sua spiegazione e porta a seguire il filo dei dibattiti con- gressuali. Il progetto culturale di Togliatti emerge come novità del modo di essere del Partito dopo il 1944. L’attenzione alla dimensione organizzativa, alla dinamica delle iscrizioni, alla composizione degli organi dirigenti, ai rapporti generazionali è rimarchevole. Accenni, che in altre sedi meriterebbero sviluppi, alla vicenda giovanile e alla «questione femminile» non man- cano. Il capitolo su Berlinguer appare il più riuscito, perché meglio dispiegata è l’analisi del rapporto tra Partito e società, inquadrando la vicenda nella crisi degli anni Settanta nel terro- rismo, nel contesto internazionale entro cui si formula la strategia del segretario: il compro- messo storico, l’eurocomunismo, l’alternativa democratica, lo scontro con Craxi e la «questio- ne morale». Sul piano didattico, avremmo apprezzato una discussione introduttiva sulle periodizza- zioni interne, sulle scelte di metodo, sui dibattiti aperti e sulle linee di ricerca più innovative. La storia del Partito è presentata sotto il profilo politico-istituzionale. Sebbene puntuali siano i riferimenti internazionali, l’autrice segue un taglio classico alla storia di partito sulla scia di Spriano e non le suggestioni gramsciane di Franco De Felice sul rapporto nazionale-interna- zionale nella guerra fredda. L’ultimo capitolo ripercorre le divisioni del gruppo dirigente sin dalla segreteria di Nat- ta palesatesi poi con la frattura tra le tre mozioni di Occhetto, Ingrao e Cossutta sul cambia- mento del nome. Se tuttavia la transizione apertasi allora trovasse fine nel 1991 o piuttosto con lo scioglimento dei DS al recentissimo Congresso di Firenze nell’aprile del 2007 (anche lì la divisione era fra tre mozioni: Fassino, Mussi, Angius) è questione che occuperà gli sto- rici futuri. Carlo Spagnolo

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Stefania Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968-1976, Roma, Edi- zioni Associate, 398 pp., Û 20,00

Tra i numerosi percorsi politici che hanno caratterizzato il periodo degli anni Settanta, le vicende dei gruppi extraparlamentari da un lato e quelle del femminismo dall’altro rimango- no per molti aspetti ancora sospese tra storia e memoria, in attesa che vengano individuate pi- ste di ricerca che ne mettano in luce gli intrecci e i conflitti. In questo senso il libro di Stefa- nia Voli, dottoranda all’Università di Napoli «L’Orientale», si pone sul punto di incontro tra questi due percorsi, sulla base di un’analisi che ricostruisce «la partecipazione femminile all’e- sperienza di Lotta Continua» (p. 7) e con il proposito di mettere in campo un percorso di sto- ria di genere. La scelta dell’autrice cade dunque su una delle organizzazioni extraparlamentari degli anni Settanta tra le più note, e allora più seguite, ripercorrendo in senso cronologico al- cune delle tappe più significative dell’intreccio che si viene a creare tra la cultura politica del- la quale si fa portatrice l’organizzazione, il modo in cui essa affronta la questione femminile e le reazioni che l’emergere prepotente del femminismo suscita tra le sue militanti. A partire da una raccolta di testimonianze orali, inquadrate all’interno di un’analisi del quotidiano del gruppo e di alcuni documenti e supportate dall’uso della letteratura riguardante Lotta Conti- nua, Voli passa in rassegna alcuni degli elementi che notoriamente hanno caratterizzato la sto- ria del gruppo: le pratiche della militanza a tempo pieno, il carattere non solo operaista del- l’organizzazione, il forte coinvolgimento e la vita in comune, il suo progressivo irrigidimento burocratico e la conferma dei ruoli leaderistici e carismatici nella fase in cui Lotta Continua diviene partito. A questo percorso l’autrice affianca di volta in volta un’analisi più originale del modo in cui l’organizzazione prova a confrontarsi con la questione femminile, mettendone in luce le contraddizioni come le resistenze a riconoscere una specificità politica alle donne e il sostanziale rifiuto e il timore nei confronti della politica femminista, l’adesione a modelli ma- schili di partecipazione ampiamente diffusi tra le stesse militanti e le contraddizioni che riman- gono nel privato nonostante il percorso politico comune tra uomini e donne. In questo senso il lavoro sulla memoria di alcune delle protagoniste si mostra efficace nel mettere a tema le dif- ferenze che hanno attraversato la partecipazione delle donne alla vita di Lotta Continua. Nell’incrociare sguardi maschili e femminili il volume, che si divide tra la ricostruzione storica e una lunga appendice con i testi delle testimonianze autorizzate alla pubblicazione, soffre a tratti della preponderanza di alcuni voci, come quella di Erri De Luca, che pure vie- ne trattata criticamente, sia sul tema generale della violenza che nel caso specifico dell’episo- dio del 6 dicembre 1975, mentre emerge come più riuscita la tensione corale delle voci fem- minili, soprattutto per quanto concerne il periodo conclusivo dell’esperienza di Lotta Conti- nua e il modo deflagrante con il quale il percorso femminista rompe con l’irrigidimento iden- titario del gruppo e ne provoca lo scioglimento. Elena Petricola

407 I LIBRI DEL 2006

Hayden White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di Edoardo Tortaro- lo, Roma, Carocci, 224 pp., Û 18,50

Per White gli storici sono in fondo equiparabili all’attempato erudito vittoriano Mr. Casau- bon di Middlemarch che vaga nel passato cercando di ricostruire idealmente le sue rovine. Non a caso l’immagine impiegata da White per descrivere la vana fatica degli storici, nel suo recente Forme di storia, è proprio quella dell’infaticabile opera di restauro delle rovine e dei relitti del pas- sato, al fine di ricomporne il disegno originario. È una missione votata al fallimento secondo White perché, come sa chi ha studiato le tecniche di restauro dei manufatti artistici o architet- tonici, ogni ricostruzione poggia in maniera cospicua su una costruzione originaria ma al con- tempo richiede una considerevole decostruzione dell’originale. Tra passato e presente si situa, in- fatti, un’incolmabile discontinuità. Per istituire un collegamento tra il tempo passato e quello presente lo storico è costretto a ricorrere a un espediente-feticcio, il racconto, una messa in in- treccio di personaggi, cose, date, frammenti che di per sé non sarebbero in grado di restituirci altro che una cronaca sconnessa del passato. Solo la messa in intreccio dei segmenti avulsi del tempo in rovina consente una qualche forma di rappresentazione. Ma la rappresentazione (co- me tutte le rappresentazioni) è fittizia, infondata sul piano scientifico, perché dotare queste fi- gure di intreccio comporta che la traiettoria della loro parabola segua inevitabilmente il percor- so di un compimento, di una sorte o di un destino. E in che forma? Consideriamo da vicino la «frase» storica. L’effetto di significato del resoconto narrativo di una sequenza storica è raggiun- to, secondo White, mettendo in relazione gli eventi secondo l’ordine del loro accadimento (drammatizzandone alcuni e trascurandone altri), interpretandoli sempre però come indizi di ciò che sarà (o meglio che si sa già che è stato). Fino a configurare lo storico, in fondo, come un «profeta» retrospettivo. È indubbio che la critica narratologica al metodo storico ha prodotto una sorta di storiografia «riflessiva» (in linea, vien da pensare, con la seconda modernità «riflessiva» descritta da U. Beck e A. Giddens) soprattutto con la svolta del linguistic turn. Una concezione testualista (così la definisce White) che si interroga sul rapporto tra linguaggio e realtà. Qualsia- si cosa si intenda per realtà essa è effettivamente sempre costituita da una rappresentazione ma è proprio questa differenza che rende possibile la comparazione critica fra le varie rappresenta- zioni, in questo caso del passato. Si traccia, per questa via, un percorso di autodecodificazione delle diverse rappresentazioni del discorso storico in cui però è opportuno riconoscere, a mio av- viso, un netto discrimine tra chi si propone un’ermeneutica del lavoro storico e presuppone che la materia dello scavo storiografico non sia più ma sia comunque stata (per ricorrere alle imma- gini di Paul Ricoeur) e quelli per cui il passato coincide con la sua mera narrazione, sia cioè un puro atto linguistico. Rischiando una contiguità davvero ravvicinata con quei teorici poststrut- turalisti il cui Manifesto Why History? (1999) recita baldanzosamente, nelle parole di Jenkins, di vivere nel tempo ma senza storia. Un motto davvero sinistro. Antonella Tarpino

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Hubert Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Roma, Donzelli, VI-280 pp., Û 27,00 (ed. or. München, 2006) Hubert Wolf è professore di Storia della Chiesa all’Università di Münster e coordinatore da anni del progetto «Römische Inquisition und Indexkongregation» che, a partire dal 1998, data di apertura degli archivi della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Santo Uffi- cio), ha avviato una serie di accuratissime ricerche su quei fondi che hanno già prodotto una notevole quantità di studi sulle attività della Congregazione dell’Inquisizione e dell’Indice dal XVI al XX secolo. Il presente libro, che tende a presentarsi come una storia generale degli indici dei libri proibiti dalle origine cinquecentesche all’abolizione nel 1966, è in realtà dedicato prevalente- mente alle vicende ottocentesche, all’interno delle quali l’attenzione principale è rivolta alle vicende proibitorie di nove autori, quasi tutti tedeschi: Adolph von Knigge, autore di un trat- tato di buone maniere; i letterati Heinrich Heine e Karl May; i teologi cattolici Johann Seba- stian Drey, Johann Michael Sailer e Augustin Theiner; lo storico protestante Leopold von Ranke, per la sua Storia dei papi e il cattolico Franz Heinrich Reusch per la sua storia degli in- dici, e – unico caso non tedesco – la scrittrice americana Harriet Beecher Stowe per La capan- na dello zio Tom. Di questi solo le vicende di Heine, Ranke e Theiner si conclusero con ver- detto di condanna e con l’inserimento nell’Indice. Il volume è inoltre corredato da una bibliografia delle edizioni romane dell’Indice, da un elenco di alcuni dei libri condannati tra ’700 e ’900 e da una lista di opere processate, ma non condannate. I casi esposti sono certamente di grande interesse poiché consentono di entrare nei mec- canismi interni della Congregazione e di comprendere, seguendo le relazioni dei consultori e le discussioni che si svolsero, le ragioni che portavano alla proibizione o all’assoluzione di de- terminati libri. Particolarmente illuminante ad esempio è la discussione sull’opera di Reusch che costituisce la premessa di un ripensamento in seno alla Congregazione stessa circa il ruolo e la funzione dell’Indice alla fine del XIX secolo e la sua possibile riduzione da strumento con pretese di universalità a repertorio che limitava la propria attenzione all’ambito della fede. L’interesse indiscutibile dei nove casi presi in considerazione lascia tuttavia dubbi attorno a quanto questi possano essere stati significativi in un secolo in cui finì all’Indice buona parte del- la cultura contemporanea, da Rosmini al modernismo, da Leopardi a Flaubert. Si tratta inoltre di una storia interna dell’Indice, vista dal punto di vista della documentazione romana, che se tiene certamente conto delle specifiche implicazioni politiche e culturali legate ad ogni singolo episodio, non sempre consente di comprendere l’effettiva incidenza di questo strumento di con- trollo nelle società del tempo, tanto più che, rispetto ai secoli precedenti, quando in alcuni Stati le proibizioni di Roma avevano effetto normativo, l’Ottocento vide una profonda trasformazio- ne dei sistemi di controlli dei vari Stati e dei rapporti tra istituzioni ecclesiastiche e laiche. Mario Infelise

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David A. Yallop, Habemus papam. Il potere e la gloria: dalla morte di papa Luciani all’asce- sa di Ratzinger, San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 495 pp., Û 26,50 Scrittore d’inchiesta, autore di un precedente volume dal titolo In nome di Dio (oltre die- ci milioni di copie vendute), dedicato al breve pontificato di papa Luciani, David Yallop ri- costruisce in questa sua ultima fatica alcuni aspetti della politica vaticana nel trentennio ap- pena trascorso, soffermandosi in gran parte su quelli legati alle questioni giudiziarie, agli scan- dali economici, ai rapporti diplomatici con alcuni Stati. La narrazione di Yallop, agile e scorrevole, risulta piuttosto convincente quando si fon- da su fonti certe, come ad esempio i documenti ufficiali e pubblici della Santa Sede (le let- tere encicliche, le esortazioni, le lettere e le costituzioni apostoliche, i documenti sinodali e delle congregazioni), oltre naturalmente ai discorsi pronunciati dai pontefici in occasione di particolari avvenimenti o viaggi. Si tratta, d’altra parte, delle uniche fonti di provenien- za vaticana attualmente fruibili dagli studiosi. L’analisi non appare invece sempre persuasi- va quando si basa su testimonianze fornite da personaggi che, per usare le parole di Yallop, «vivono nel cuore della Chiesa cattolica di Roma» (p. 11) e che, per ragioni comprensibili, intendono rimanere rigorosamente anonimi. È pur vero che Yallop visita diversi archivi (per ricostruire, ad esempio, alcuni passaggi della vita di Karol Wojtyla negli anni precedenti al- la sua ascesa al soglio pontificio) e utilizza altra documentazione non priva di interesse sto- rico e giornalistico, come le deposizioni fornite da testimoni in sede processuale o altri do- cumenti legali. Tuttavia, in alcuni passaggi il peso delle «deduzioni logiche» dell’autore e, soprattutto, delle testimonianze interne all’universo vaticano appare preponderante. E gli storici – avvezzi a confrontarsi con fonti in gran parte scritte e a cimentarsi con la loro in- terpretazione critica – sanno quante insidie celino le informazioni non riconducibili a una fonte verificabile, se pure autorevole (insidie di varia natura, legate soprattutto ai delicati equilibri e alle dinamiche interne a centri di potere delle dimensioni e del rilievo di quello vaticano). In questo senso, se ad esempio appaiono non prive di riscontri le ricostruzioni di Yallop sulla politica di Giovanni Paolo II verso alcuni regimi dittatoriali del Sudamerica o quelle sul- le posizioni della Santa Sede rispetto a temi delicati quali la contraccezione o gli abusi sessua- li (che hanno visto coinvolti anche membri autorevoli del clero), risultano poco convincenti – in assenza di una documentazione verificabile, di cui tuttavia, in molti dei casi analizzati, gli storici non potranno forse mai disporre – altre perentorie affermazioni. Come quella in cui Yallop, escludendo ogni altra ipotesi estranea alla teoria del complotto, sostiene senz’altro che nel settembre 1978 papa Luciani fu «assassinato» (p. 14). In conclusione, il volume di Yallop pone lo sguardo su una serie di problemi di indubbio interesse per la storia della Chiesa, ma su molti di questi aspetti gli storici dovranno ancora la- vorare molto, prima di giungere a conclusioni sufficientemente fondate. Mauro Forno

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Guido Zagheni, La croce e il fascio. I cattolici italiani e la dittatura, Cinisello Balsamo, Edi- zioni San Paolo, 383 pp., Û 18,00

Errerebbe chi pensasse di trovarsi di fronte ad uno studio approfondito dei rapporti tra fascismo e Chiesa cattolica. In realtà si tratta di uno scritto divulgativo sulla storia del fasci- smo, che dedica solo un centinaio di pagine al tema specifico dei rapporti di questo con la Chiesa. Stupisce che l’autore, un sacerdote che insegna Storia della Chiesa contemporanea all’I- stituto Superiore di Scienze religiose di Milano, sciupi una diecina di pagine per parlare di «mogli, amanti e figli» di Mussolini, dedichi note per sottolineare l’uso di droghe da parte di D’Annunzio (p. 15, n. 2), riporti aneddoti di dubbio gusto (pp. 122-123) che poco aiutano a capire i fondamenti del fascismo e le ragioni della sua affermazione. Francamente sorpren- dente è poi la conclusione secondo cui «Mussolini contribuì ad aprire gli italiani alla parteci- pazione politica e alla democratizzazione» (p. 357). Lascia perplessi anche l’elenco che Zaghe- ni fa delle «fratture» nella vita dell’Italia, in cui, accanto alla breccia di Porta Pia e all’8 settem- bre 1943 viene collocata la battaglia dell’Aspromonte, definito «episodio importante ma po- co noto» (p. 359, n. 9). Quando l’esercito piemontese (che per la verità nel 1862 era già ita- liano) sparò contro Garibaldi si sarebbe segnato «il distacco del neonato Stato dal Risorgimen- to democratico» (p. 359). Sorvolando sulle conclusioni, che contengono osservazioni superficiali su un paese che per quarant’anni avrebbe vissuto in un «papocchio tutto italiano», che snaturava «sia il siste- ma liberista che quello marxista» (p. 361), si possono fare alcune osservazioni su quanto vie- ne detto nella parte centrale del volume. È sbagliato sostenere che De Gasperi fosse contrario ai Patti Lateranensi. Basta leggere le sue lettere da tempo pubblicate sull’argomento (che pu- re l’autore cita) per comprendere come ben diversamente articolato fosse il suo pensiero (p. 166). Affermare che l’Azione Cattolica fu «una delle poche realtà d’opposizione al regime» (p. 207) e sostenere la tesi di una «irriducibile incompatibilità tra Azione Cattolica e fascismo» (p. 198), vuol dire trascurare gli esiti del dibattito storiografico sull’argomento. L’assenza dal- la bibliografia di ogni riferimento a Scoppola, Rogari, Giovagnoli e dello studio di Renato Moro sulla formazione della classe dirigente cattolica (evidentemente compensati da L’Italia in camicia nera di Montanelli e dai libri di Arrigo Petacco) è un ulteriore motivo di stupore. È infine sperabile che la definizione de «L’Italia», il quotidiano della Curia milanese, come «giornale del regime» (p. 234, n. 48), sia frutto di una mera svista. Alfredo Canavero

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Vera Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Bologna, il Mulino, 101 pp., Û 8,50

L’autrice si cimenta nel compito quasi impossibile di sintetizzare in 100 pagine le princi- pali vicende della storia economica d’Italia, cercando di dare loro un senso e una proiezione dalla fine del Medioevo ai nostri giorni. Il quesito da cui muove è comprendere come un ter- ritorio povero, con poche pianure e quasi privo di risorse del sottosuolo, sia riuscito a diven- tare leader economico mondiale fra i secoli XII e XVI, e come, una volta persa questa premi- nenza, sia riuscito a raggiungere i paesi industriali in una rincorsa durata quasi due secoli. Le spalle dell’autrice sono molto robuste e capaci di guidarci fino alle soglie dei nostri giorni, attraverso una narrazione scandita in quattro capitoli, affiancati da alcuni approfondi- menti. Forse con eccessiva enfasi si sottolinea all’inizio l’unicità del caso italiano di crescita, decadenza e rinascita (e la Cina o l’India, se usciamo dall’ottica europea?) e correttamente si sottolinea la non esistenza di uno spazio economico italiano fino almeno all’Unità d’Italia, per cui l’esposizione segue il dislocarsi delle tre principali macroaree (Nordovest, Nordest-Cen- tro, Sud) su scala secolare, sottolineando la sostanziale divergenza nei trend quantitativi e isti- tuzionali di sviluppo del Meridione rispetto alle altre due aree. Metà del volume è dedicato alla storia dell’Italia unita. Prezioso spazio è riservato ad una precisa descrizione degli incerti e controversi risultati delle stime quantitative dei trend di svi- luppo, su cui da almeno 50 anni si stanno misurando gli storici, con risultati non ancora sod- disfacenti. Il libro si regge sull’assunto di fondo secondo cui il processo di industrializzazione non è un processo unidirezionale e «irreversibile» una volta raggiunto un certo stadio di svi- luppo, ma è invece un processo di continuo adattamento, in cui la capacità dei fattori istitu- zionali (governi, sistemi giuridici, di istruzione, corporazioni e sindacati...) di adattarsi e ri- spondere in maniera adeguata alle sfide è l’elemento cruciale per produrre crescita o stagna- zione. Ed è questa la chiave che, secondo l’autrice, permette di dare una spiegazione delle esal- tanti e poi alterne performance del nostro paese. Il libro è sintetico, ma pieno di riflessioni problematiche. Il lettore mediamente esperto ne può fruire come una introduzione ragionata alla storia economica d’Italia, al profano si pre- senta come un affresco di lungo periodo, che si stempera nei mille problemi che attanagliano il presente del nostro sistema paese. Da segnalare il corposo apparato di note e riferimenti bi- bliografici posto alla fine di ogni capitolo. Scelta controcorrente rispetto ai desideri degli edi- tori, ma a mio avviso giusta e preziosa per offrire al lettore numerose proposte di approfondi- mento. Alessandro Polsi

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Vera Zamagni, Italcementi. Dalla leadership nazionale all’internazionalizzazione, Bologna, il Mulino, 303 pp., Û 25,00

Scritto per il 140° anniversario della fondazione di Italcementi, il libro ripercorre le vi- cende del più grande gruppo cementiero italiano in parallelo con quelle economiche e politi- che che hanno scandito le diverse e contrastate fasi di sviluppo del paese. Organizzato in due parti, nella prima esso rende conto delle strategie imprenditoriali con le quali i Pesenti trasfor- marono la piccola fabbrica bergamasca, sorta nel 1864, nel gruppo leader nazionale del ce- mento e, oggi, fra i protagonisti internazionali del comparto. Nella seconda parte l’autrice pro- pone, invece, un’analisi sistematica del settore cementiero corredata, con dovizia, di dati sta- tistici sull’andamento produttivo, la tecnologia di prodotto e la ricerca, nonché con i bench- marks aziendali. All’inizio degli anni ’50 Italcementi controllava circa il 45 per cento del mercato interno. La società divenne, perciò, uno dei principali bersagli degli strali antimonopolistici tanto del- la sinistra social-comunista quanto, in particolare, di un «liberista radicale» come Ernesto Ros- si, per il quale la libera concorrenza costituiva l’unico antidoto alle concentrazioni di potere basate su privilegi settoriali. Sebbene il settore del cemento non presentasse in Italia una strut- tura dell’offerta sostanzialmente diversa da quelle dei maggiori paesi occidentali, tuttavia i Pe- senti colsero in quelle critiche l’occasione per avviare una politica di diversificazione e finan- ziaria in grado di metterli al riparo da eventuali nazionalizzazioni. Va detto che la società ave- va conseguito la leadership nazionale sin dalla seconda metà degli anni Venti. E ciò, grazie tan- to al gioco di squadra della famiglia, quanto a una precisa strategia di concentrazione. D’al- tro canto, sul lato della domanda la crescita del comparto venne trainata allora, come succes- sivamente, negli anni del «miracolo», dagli imponenti investimenti in opere pubbliche e gran- di infrastrutture che costituirono uno dei principali fattori di sviluppo dell’economia italiana. Basti qui ricordare che dal 1951 al 1961 la produzione del cemento crebbe con un tasso me- dio annuo del 10 per cento e che gli addetti al comparto delle costruzioni raddoppiarono. Questo libro offre perciò un contributo di rilievo alla conoscenza del settore cementiero e di quelli ad esso collegati che sono fra i meno indagati in Italia, quantunque riflettano bene la composita tipologia dell’imprenditoria italiana. Del resto, i Pesenti sono stati al centro di un sistema di relazioni e d’alleanze che ha contrassegnato, in un modo o nell’altro, la storia finan- ziaria e industriale del paese. Come osserva Zamagni, quando sarà possibile ricostruire una storia anche dell’Italmobiliare, la finanziaria del gruppo, si potrà disporre di elementi di giu- dizio più precisi sulle «tormentate vicende dell’economia italiana degli anni ’70-primi anni ’80» (p. 121). Adriana Castagnoli

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Giovanni Zambito, Il 25 aprile 1995. I mass-media e il 50° anniversario di Liberazione, Villanova di Guidonia, Aletti Editore, 175 pp., Û 22,50

Dottorando in Italianistica e docente di lettere e latino, l’autore usa le sue competenze per stilare una dettagliata inchiesta sul contegno tenuto dai vari mezzi di comunicazione di massa nel celebrare il cinquantesimo anniversario della Liberazione. La sua specifica forma- zione risalta immediatamente dalla vivacità della scrittura e dall’interessante analisi linguisti- ca delle fonti. L’apparato bibliografico e documentario non appare tuttavia adeguato alle am- bizioni: nonostante si vogliano prendere in considerazione tutti i media, Zambito ha basato il suo lavoro quasi esclusivamente su quotidiani e periodici. L’assenza di fonti archivistiche non ha inoltre permesso di approfondire le modalità attraverso le quali i vari soggetti interes- sati sono giunti a prendere le decisioni riguardanti la celebrazione dell’evento, privando il la- voro di profondità e dinamicità. Il testo è diviso in due sezioni: una dedicata ai giornali, l’altra ai Materiali Resistenti pro- dotti da televisione, radio, cinema e altre intraprese culturali. La prima sezione è divisa in quat- tro parti che analizzano il dibattito politico e storiografico sviluppatosi sui giornali nei giorni attorno al 25 aprile. La prima parte, anche se concettualmente densa, appare troppo schiac- ciata sulle fonti utilizzate rimanendo intrappolata nelle polemiche politiche. Forse viene qui scontata l’esiguità della bibliografia che non ha permesso un adeguato approfondimento. Ap- pare invece assai appropriata l’analisi delle lettere inviate ai giornali per indagare la reazione di una parte almeno della popolazione all’evento celebrativo, anche se la selezione che le re- dazioni certamente esercitano impone una certa prudenza nell’utilizzare questo strumento. Convincente l’uso, nella seconda parte, delle testimonianze di partigiani e fascisti repubblica- ni per illustrare, oltre alla memoria istituzionale, anche le altre memorie che entrano in gio- co. Si ha tuttavia la sensazione di un’occasione mancata perché le testimonianze sono troppo aneddotiche e non aggiungono molto alla riflessione sul significato della Resistenza e della sua commemorazione. Oltre ai ricordi riportati dai giornali, forse, si sarebbe potuto fare ricorso alla memorialistica vera e propria. Anche la parte dedicata al dibattito storiografico paga la scelta di limitarsi ai giornali senza sviluppare l’analisi dei testi degli storici citati. La seconda sezione è un’utile rassegna della produzione televisiva, radiofonica, cinematografica e, in ge- nere, culturale per l’occasione, anche se sarebbe valsa la pena d’impiegare i media diversi dai giornali come fonti a pieno titolo, utilizzandoli per dare forma al discorso generale. Partico- larmente interessanti sono i dati sulla audience e sullo share delle trasmissioni RAI forniti dal- l’autore «per registrare la reazione del pubblico di fronte a tali programmi, che a dir la verità, per la stragrande maggioranza, sono stati proposti in orari piuttosto infelici» (pp. 120-121). Nel complesso pare mancare una riflessione, che invece sarebbe stata cruciale, sull’uso pub- blico della storia nel 1995. Yuri Guaiana

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Anna Maria Zanetti (a cura di), La senatrice. Lina Merlin, un «pensiero operante», Vene- zia, Marsilio, 142 pp., Û 12,00 «Una vita per la libertà, la giustizia e il socialismo» (p. 15) queste parole – che danno il titolo al primo dei cinque capitoli del volume – racchiudono in una efficace sintesi l’attività politica della senatrice Lina Merlin, una delle massime esponenti del socialismo italiano nel dopoguerra, fino ad oggi ricordata «solo» per la legge sulla chiusura delle case di tolleranza che porta il suo nome. Questa breve biografia, pubblicata in occasione del 120° anniversario del- la nascita, colma, quindi, un vuoto storiografico, restituendo valore alla complessiva opera po- litica di Lina Merlin. La ricostruzione storica si estende dal prezioso contributo dato durante i lavori della Costituente, attraverso la tenace battaglia per inserire tra i principi fondanti l’u- guaglianza senza distinzioni di sesso, alle numerose riforme che la videro tra i protagonisti; espressione di quel suo «pensiero operante», felice autodefinizione che racchiude «la sua capa- cità di incidere politicamente e culturalmente nell’epoca in cui visse» (p. 75) nell’ambito di tematiche ancora oggi attuali quali la laicità, la questione della rappresentanza politica, il rag- giungimento della parità effettiva tra uomini e donne. In quest’ottica appare legittima la scel- ta, rivendicata dalla curatrice del volume, di escludere dall’analisi la già citata Legge Merlin, ben nota ma limitata esperienza, rispetto ad una quarantennale attività spesa per il progresso culturale e sociale dell’Italia. Il libro raccoglie i contributi di più autori portatori di conoscenze e tecniche di indagine differenti; si mescolano fonti orali, articoli di giornale, note e pensieri autobiografici della Merlin, appunti e testimonianze in principio raccolte per farne un documentario per la RAI (Daniela Colombo). I singoli capitoli concentrano l’attenzione sulla personalità della senatri- ce procedendo sul doppio binario della ricostruzione dell’attività politica nazionale (Monica Fioravanzo) e locale (Pier Giorgio Tiozzo Gobetto), da una parte, e dell’analisi del pensiero politico, dall’altra (Anna Maria Zanetti). Il volume è arricchito da una riflessione sull’opera della senatrice attraverso l’intervista, a cura di Anna Maria Zanetti, rilasciata da Elena Mari- nucci, parlamentare a sua volta e curatrice sia dell’autobiografia della Merlin (La mia vita, Fi- renze, Giunti, 1989) sia della pubblicazione dei discorsi parlamentari. Il libro riporta, in ultimo, nell’appendice alcuni significativi estratti dei discorsi pronun- ciati in Parlamento; tra i quali spicca quello del 10 giugno 1948 sulla situazione nel Polesine, che passò alla storia come il primo tenuto da una donna al Senato della Repubblica. Il volume costituisce, quindi, un primo passo verso una ancor più approfondita cono- scenza di Lina Merlin e del suo esemplare percorso politico. Debora Migliucci

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Claudio Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880): «interpretare e comuni- care senza tradurre», Padova, Cleup, 445 pp., s.i.p. È la storia complessa e affascinante di tanti setaioli italiani, disposti a rischiosi viaggi fi- no al Giappone, pur di trovare un seme perduto e sano, non intaccato dalla pebrina, che, co- me una pestilenza, alla metà dell’800 aveva sconvolto le sericolture del Mediterraneo. «Poche attività umane, come quelle legate alla sericoltura – afferma l’autore nella premes- sa – conoscono storie che allacciano […] gli angoli più lontani del globo in una rete di rap- porti commerciali, tecnici, artistici dalle infinite sfaccettature e con le più complesse risonan- ze». È una sintesi efficace di un gigantesco arazzo che si stende tra l’Italia e il Giappone, e cu- ce e interpreta fonti difficili e diverse anche per lingua e grafia, ricomponendole, nell’ultima parte del libro, nelle 148 storie individuali di semai italiani che, tra il 1860 e il 1880, fecero la spola tra i due paesi. Ad originare questa imponente avventura è, si è accennato, la pebrina, malattia che attor- no al 1850 sbaragliò una industria importante e consistente nella quale l’Italia primeggiava, all’epoca seconda solo alla Cina. Per sottrarsi alla falcidia, i setaioli dovettero prima di tutto reinventarsi come semai, e lanciarsi nella rischiosa caccia al seme sano, organizzando spedizio- ni in Cina, in India, e, infine, nell’allora lontanissimo Giappone, che appariva l’ultima chan- ce. La città di Yokohama divenne il centro dei traffici, e lì si installarono le maggiori ditte oc- cidentali. Ma i problemi erano infiniti; e uno dei più consistenti fu la necessità di confrontar- si con una civiltà e una industria totalmente diversa, che, tra l’altro, aveva una propria tecni- ca (per esempio, le uova venivano fatte deporre su cartoni, e i cartoni dovevano essere conser- vati e poi imballati per affrontare lunghissimi viaggi). Uno dei nodi fu la lingua – e la grafia – totalmente sconosciute; impraticabile la traduzione degli ideogrammi, bisognò «interpreta- re senza tradurre» – così si titola il III capitolo – le scritte e i timbri sui cartoni. In una situa- zione in cui le informazioni si rincorrevano e le offerte di seme-bachi (da parte di praticoni o di truffatori) si moltiplicavano, occorreva capire se i cartoni fossero veramente autentici. Ca- pire, farsi capire, fidarsi: una condizione basilare, da costruire sul campo. Il lavoro di Zanier contiene infinite suggestioni. Mi sembra però importante segnalare il tentativo di spiegare il «miracolo serico» giapponese, per cui una produzione assai arretrata di- venne in qualche decennio efficiente e avanzata, non solo attraverso l’applicazione – che cer- to ci fu – di molte innovazioni tecniche e organizzative: Zanier valorizza qui l’impatto con le abilità tecniche dei numerosi semai italiani presenti in Giappone in quel periodo. E, grazie al- la forza dei rapporti industriali e personali da essi costruiti, esperti giapponesi a partire dal 1870 visitarono l’Italia. Arricchito da una iconografia inedita e da tabelle quantitative, e dedicato alla memoria di Alessandro Valota, prematuramente scomparso, il volume è molto più di una «utile piattaforma di partenza», come si esprime l’autore, ma un punto di arrivo su una pista pionieristica. Cristiana Torti

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Pier Francesco Zarcone, La libertà e la terra. Gli anarchici nella Rivoluzione messicana, Bol- sena, Massari, 368 pp., Û 14,00

Scritto con il piglio del militante più che dello storico, il libro di Zarcone descrive l’evolu- zione del pensiero e dell’attività politica di Ricardo Flores Magón (1873-1922), l’iniziatore del- l’anarchismo messicano. La fase più intensa e decisiva di tale evoluzione è costituita dal perio- do compreso tra il 1900 e il 1908: in questi anni si compì il progressivo spostamento dal libe- ralismo al radicalismo e poi all’anarchismo, favorito in certa misura dalla repressione scatenata da Porfirio Díaz contro il nascente Partido Liberal Méxicano (PLM), che nel 1904 portò Flo- res Magón in esilio negli Stati Uniti, a contatto con anarchici spagnoli e nordamericani. Nel 1905 venne creata la Junta Organizadora del PLM, livello pubblico di un’organizzazione cui fa- cevano capo gruppi combattenti clandestini, parte dei quali tra il 1906 e il 1908 si inserì con azioni militari nell’ondata di scioperi che interessò in particolare le aree più industrializzate del paese. La loro azione si rivelò fallimentare, sicché gli anarchici rimasero sostanzialmente estra- nei alle vicende della rivoluzione: l’unica azione fu costituita dal tentativo non riuscito di occu- pare la Bassa California per crearvi l’embrione di un territorio liberato. Dagli Stati Uniti (dove morì in carcere nel 1922) Flores Magón continuò comunque con tenace ottimismo a lanciare le parole d’ordine dell’anarchismo e ad esprimere le sue valutazioni sui capi della rivoluzione dalle pagine di «Regeneración», il settimanale che aveva fondato nel 1900 e che se pur saltua- riamente, a causa delle costanti persecuzioni delle polizie messicana e nordamericana, venne pubblicato fino al 1919. Madero (che nel 1907 si era definitivamente distanziato dal PLM) era un «traditore della causa della libertà» (p. 188), mentre Huerta, Carranza, Villa non erano «la rivoluzione, ma semplici leader militari che cercano di soddisfare i propri desideri personali a spese del movimento popolare» (p. 276). Critico fu il giudizio espresso nei confronti delle scel- te politiche della COM (Casa del Obrero Mundial), mentre una certa affinità di obbiettivi ve- niva ravvisata con Zapata (che aveva mutuato il motto anarchico «Tierra y Libertad»), cui però Flores Magón rimproverava la carenza di un progetto capace di mobilitare tutti gli sfruttati. La scelta di utilizzare solo fonti di matrice magoniana e il ricorso a una bibliografia in par- te datata e in parte ideologicamente schierata conferiscono al libro un tono apologetico, che ne costituisce il limite più vistoso, e peraltro non consentono all’autore di cogliere e approfon- dire talune interessanti peculiarità del magonismo che alcuni studiosi, come François-Xavier Guerra (México: del Antiguo Régimen a la Revolución, México, FCE, 1988, 2 tomi), in tempi neanche troppo recenti hanno cominciato ad esplorare. Penso ad esempio all’intreccio tra mo- dernità ed arcaismo di fondo, a differenze e continuità tra club liberali e cellule del PLM, al- le caratteristiche sociali di molti militanti, che in parte ne spiegano la scarsa capacità di mo- bilitazione e il progressivo isolamento, ai caratteri dell’ambiente nordamericano in cui il ma- gonismo di fatto si sviluppò. Gabriella Chiaramonti

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Victor Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Bologna, il Mulino, 134 pp., Û 11,00 Ancora oggi scarsamente noto e non sempre presente nei manuali di storia, il massacro di Katyn rappresenta uno degli eccidi più significativi del Novecento: non solo perché costituisce un episodio paradigmatico della violenza politica di Stato dell’Unione Sovietica dell’epoca sta- liniana, ma anche perché riassume il lungo percorso di menzogne, rimozioni, censure, giusti- ficazioni che hanno accompagnato il tentativo di fare conoscere i principali crimini del XX se- colo, e in modo particolare quelli del comunismo. Nell’aprile-maggio del 1940 gli uomini del NKVD (eredi della CEKA e fratelli maggiori del KGB) fucilarono venticinquemila cittadini polacchi – in larga parte ufficiali – che erano stati presi prigionieri in seguito all’occupazione sovietica della Polonia orientale, risultato immediato del patto Molotov-Ribbentrop firmato nell’agosto del 1939. I cadaveri vennero gettati in fosse comuni, nella piccola località vicina al- la città di Smolensk, e attorno al massacro le autorità sovietiche costruirono una versione uffi- ciale che attribuiva ai soldati tedeschi, successivamente, la responsabilità dell’eccidio (i sovieti- ci cercarono addirittura, ripetutamente, di fare inserire il massacro di Katyn tra le prove a cari- co dei gerarchi nazisti nel processo di Norimberga). Zaslavsky, che si era già cimentato con que- sto argomento otto anni fa, pubblicando una parte dei documenti resi allora accessibili e po- nendo le basi essenziali per una conoscenza non superficiale di quest’affaire, ritorna adesso con una versione ampliata e aggiornata sulla questione: intrecciando il racconto delle vicende, ri- costruito sulla base della documentazione accessibile, con la narrazione dei silenzi, depistaggi, complicità che accompagnarono il tentativo di falsificazione – a lungo riuscito – di quell’even- to storico. Dopo una fase di approccio aperto alla verità, culminata nella visita di El’cin al mo- numento in memoria delle vittime, la situazione si è andata progressivamente richiudendo in una cupa «atmosfera culturale, prodotta e alimentata dalla deriva autoritaria del regime di Pu- tin» (p. 9), lasciando ancora secretati circa la metà dei 183 volumi di documenti raccolti sul ca- so. Il libro è rigoroso ed esemplare tanto nella ricostruzione storica del massacro quanto nell’a- nalisi del percorso che la memoria e la narrazione di quel fatto hanno subito nei decenni suc- cessivi. Il contesto politico, diplomatico e militare entro cui maturò la violenza sovietica con- tro i prigionieri polacchi, le motivazioni ideologiche e «imperiali» che spinsero a misure al tem- po stesso «normali» (nella logica del sistema) e «eccezionali» (per il rispetto delle leggi interna- zionali cui anche l’URSS aveva aderito), la determinazione, quando si presentò l’occasione, a farne uno strumento di propaganda che si sapeva avrebbe trovato numerosi difensori anche in Occidente, chiariscono in modo esauriente il significato storico, ma anche simbolico, che as- sume a oltre sessantacinque anni di distanza questo episodio di violenza inaudita. Particolarmente interessante è la ricostruzione delle contraddizioni che portarono Gor- bacˇev a impedire che venisse fatta piena luce sull’episodio, come anche l’atteggiamento, so- prattutto britannico, nell’avallare la versione falsificata fino a quando divenne impossibile. Marcello Flores

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Daniel Ziblatt, Structuring the State. The Formation of Italy and Germany and the Puzzle of Federalism, Princeton, Princeton University Press, XIII-220 pp., $ 39,50 Con questo volume l’autore intraprende una delle prime comparazioni sistematiche del processo di unificazione nazionale di Italia e Germania, puntando l’attenzione sulla formazio- ne dell’assetto istituzionale. L’analisi ha inizio dall’osservazione di alcune analogie tra questi due paesi, ancora frammentati in Stati regionali all’inizio dell’Ottocento e nei quali la forma- zione tardiva dello Stato nazionale avvenne pressoché in contemporanea. Oggetto di studio è quindi l’individuazione delle cause che portarono a configurazioni istituzionali diverse (Stato unitario e Stato federale) a partire da presupposti simili. Preliminarmente, Ziblatt, docente di Government and Social Studies, mostra come, limitandosi agli strumenti tradizionali delle teorie sulla formazione degli Stati nazionali, non si riesca a spiegare compiutamente l’origine della scelta federalista/unitaria. La sua analisi si concreta quindi in un metodo storico compa- rativo che procede da tre domande principali (quali sono le cause dell’unificazione naziona- le? quali le cause del federalismo? quali quelle di maggiore o minore accentramento?) e utiliz- za quattro livelli temporali di confronto tra i due casi: le condizioni al momento della forma- zione dello Stato nazionale, la strategia di unificazione, il processo di cambiamento istituzio- nale, l’esito (efficacemente sintetizzati nella tabella 7.1, p. 145). Così impostato il ragionamento, con il supporto di una solida base documentaria, si sviluppa la tesi che fu la debolezza istituzionale preunitaria degli Stati italiani, in particola- re a livello amministrativo, a impedire la formazione, come in Germania, di uno Stato fe- derale e a richiedere un processo di unificazione di «conquista» invece che di «negoziazio- ne» (p. 7). Ziblatt conclude traendo un insegnamento generale da questi esempi storici, evi- denziando come le motivazioni a breve termine, che spingono gli attori politici ad intra- prendere la via federale, devono innestarsi, per avere successo, su una struttura istituziona- le e amministrativa già radicata a livello locale: quando, al contrario, la creazione di un go- verno costituzionale nazionale precede le esperienze di governo regionali, la razionalizzazio- ne e il consolidamento delle strutture dello Stato non possono che cedere a criteri di accen- tramento ed uniformità. L’opera di Ziblatt offre un contributo originale e innovativo alle teorie sulla formazione degli Stati nazionali. Attraverso un uso sapiente del metodo comparativo, il lettore è condot- to agevolmente attraverso una ricostruzione sistematica degli aspetti utili alla dimostrazione della tesi finale. L’approccio metodologico creativo, combinato alla linearità della struttura argomentativa, ne fa un valido strumento di studio per chi si occupa di politica comparata, sia a livello di istituzioni politiche, sia di scienza politica. Anche una sensibilità storica può trarre vantaggio dalla griglia interpretativa fornita dal modello teorico creato da Ziblatt, che può fruttuosamente essere integrato riguardo il concreto funzionamento delle dinamiche istituzionali. Karina Lavagna

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Michael F. Zimmermann, Industrialisierung der Phantasie. Der Aufbau des modernen Ita- lien und das Mediensystem der Künste 1875-1900, München-Berlin, Deutsche Kunst Verlag, 424 pp., Û 98,00

Il libro di Zimmermann è il frutto di una accurata ricerca e mostra le notevoli potenzia- lità di un approccio allo studio delle immagini che superi alcune abituali partizioni nell’ana- lisi dei generi artistici. I mutamenti in ambito pittorico alla fine dell’Ottocento, infatti, ven- gono messi in relazione con la fase di formazione dell’industria culturale in Italia. È la stam- pa illustrata a diventare il principale committente della produzione di immagini alle quali for- nisce una nuova cornice comunicativa. Non sarebbe perciò, come talvolta si ritiene, la nasci- ta della fotografia a costringere la pittura a rincorrere l’oggettività della rappresentazione, quanto il mutamento istituzionale e di mercato nell’industria culturale provocato dall’emer- gere della stampa illustrata. La fotografia, infatti, avrebbe conquistato centralità nella stampa illustrata solo negli anni Trenta. La ricerca, con un’esplicita presa di distanza metodologica da alcune tendenze dei visual studies, non si fissa sulla analisi dei testi grafici, ma ricostruisce le istituzioni, gli attori, le tec- niche che hanno modificato il processo di produzione delle immagini nelle riviste e delle cor- renti artistiche che lo hanno accompagnato. In tal senso risulta centrale l’ampia diffusione del- le mostre che compaiono in molte città italiane e contribuiscono ad irrobustire il mercato del- l’arte, ad aumentare la circolazione di quadri e prodotti grafici e a creare nuove occasioni di sociabilità per il pubblico borghese. La fonte principale del lavoro è la rivista «L’Illustrazione italiana», dalla quale vengono approfondite numerose tematiche, quali Milano simbolo della modernità, le figure femmini- li e materne, i poveri, le rivolte popolari e operaie. Approfondimenti monografici sono poi de- dicati ad alcuni artisti, come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo. Le immagini non ven- gono considerate come illustrazione della realtà, ma come elementi della sua costruzione e in- cardinate in un sistema produttivo indagato nelle sue specificità economiche e tecnologiche, come nel tessuto dei suoi rimandi intertestuali. L’ampia cornice storica che accompagna la let- tura ed interpretazione delle illustrazioni permette di comprenderne la forza di rappresenta- zione e in qualche caso ne segue anche la fortuna novecentesca, quando attraverso complessi processi di ricezione e lettura, alcune immagini vengono reinterpretate in più sofisticati con- testi mediatici. Questa fase aurorale di industrializzazione dell’immagine, insomma, sembra meritare attenzione non solo per la sua peculiare esperienza, ma perché ha elaborato un patri- monio iconografico duraturo, capace di influenzare l’immaginario novecentesco. Sebbene non sia esente da piccole imprecisioni, questo lavoro, riccamente illustrato, è estremamente prezioso per chi sia interessato alla nascita dell’industria culturale italiana e al- la rappresentazione della società dell’Italia liberale di fine Ottocento. Paolo Capuzzo

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Paola Zocchi, Il Comune e la salute. Amministrazione municipale e igiene pubblica a Mila- no (1814-1859), Milano, FrancoAngeli, 317 pp., Û 20,00

Oggetto del volume è la vigilanza operata dal Comune di Milano sull’igiene urbana e sul- la salute pubblica nel periodo compreso tra la Restaurazione e l’Unità. Il tema, fin qui trascu- rato dalla storiografia, è stato indagato attraverso un’attenta lettura delle fonti archivistiche, opportunamente integrate dalla letteratura a stampa coeva per ovviare alle larghe perdite do- cumentarie delle magistrature milanesi ottocentesche dovute ai bombardamenti della secon- da guerra mondiale. Alle due parti in cui si articola il lavoro è premesso un capitolo introduttivo in cui ven- gono delineate le competenze degli organi dell’amministrazione statale lombardo-veneta, cen- trale e periferica, competenti su igiene e sanità, ossia il consigliere di Governo protomedico, in seguito esautorato dal consigliere medico della Luogotenenza, la Commissione sanitaria permanente e il medico provinciale; sono inoltre tratteggiate le biografie degli uomini chia- mati a ricoprire tali incarichi. La prima parte del libro è incentrata sull’amministrazione sani- taria del Municipio. L’autrice ricostruisce, da un lato, la struttura degli uffici comunali, la ri- partizione delle competenze tra le sezioni (assessorati), le attribuzioni e le piante organiche dell’Ufficio di sanità e di quello delle vettovaglie e strade, poi riuniti nell’Ufficio di pubblica sorveglianza, dall’altro lato, le mansioni e le singole biografie del personale burocratico impie- gato: dall’ufficiale sanitario al medico municipale, dai veterinari ai commessi di sanità. Alla concreta attività svolta dalle strutture comunali nei settori dell’approvvigionamento idrico e dello smaltimento dei rifiuti, dell’igiene edilizia, manifatturiera e cimiteriale, dell’igiene an- nonaria e veterinaria, del governo delle emergenze epidemiche è dedicata, invece, la seconda parte del saggio. Rielaborazione di una tesi di dottorato, il libro è sorretto da una consistente e accurata ri- cerca che porta Zocchi a ricostruire con perizia il tema trattato. Si avverte però l’esigenza di una più chiara enucleazione di trame problematiche e di una discussione dei nodi interpreta- tivi sollecitati da una così ricca e documentata ricostruzione. Per limitarsi ad alcuni esempi, il declinarsi del rapporto pubblico-privato tra il Comune, strenuo sostenitore della sussidiarietà del proprio ruolo, e le autorità centrali disposte a caricare sull’ente locale maggiori oneri e competenze in nome di una prioritaria preoccupazione per il mantenimento dell’ordine pub- blico, da un lato, e l’intricato groviglio di interessi privati, dall’altro; oppure una riflessione sull’attività regolamentare del Municipio nel quadro della normativa lombardo-veneta e nel merito delle problematiche affrontate; o, ancora, l’analisi delle dinamiche che, all’interno del- la burocrazia comunale, interessano il rapporto tra personale amministrativo e medico. Elisabetta Colombo

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