Prefazione di Bruno Giordano

Il mio ricordo di Giorgio inizia nella stagione 75-76, quando vincemmo il tricolore con la Lazio Primavera, eravamo solo una banda di ragazzini, sui 12-13 anni, amici anche fuori del campo. Questo la dice lunga sullo spirito e le qualità fisiche e tecniche di quel gruppo. Allievi e primavera, anni e campionati straordinari! Mancò la vittoria del torneo di Viareggio, dove arrivammo a disputare due finali perse, purtroppo, contro Fiorentina e Napoli. La sconfitta contro i partenopei, per me, rappresentò una delle più grandi delusioni calcistiche della mia vita: infatti l’arbitro non convalidò una rete perché non si accorse che la palla aveva superato la linea bianca della porta di ben un metro… Dopo questa sconfitta me ne andai per due giorni ad Ostia insieme a Manfredonia e Di Chiara e questa fu la mia prima, grandissima, delusione nel mondo del calcio! In seguito, ci siamo rifatti quando conquistammo il titolo contro la Juventus, di fronte a tante persone presenti sugli spalti. Quando arrivavo a Tor di Quinto per fare gli allenamenti e mi vedevo Giorgio là davanti, specialmente per me, un ragazzino di Trastevere che giocava in attacco, era un sogno, qualcosa di inimmaginabile. Giorgio era un grande conoscitore di calcio e, quando giocavo ancora nella Lazio Allievi, un giorno andò da Lenzini, annunciando che se fosse stato per lui avrebbe comprato tutta la squadra, ma il presidente gli rispose : “ Che sei pazzo ?”. Giorgio, di rimando, disse ancora: “ Allora dammi il cartellino di Giordano!”. Lenzini rifiutò, ma a me fece un immenso piacere sapere che un grande calciatore come Giorgio avesse questo debole per me. In quel periodo, mi allenavo a fianco di quella grande squadra e il nostro campo di allenamento era poco distante dal loro poi, di tanto in tanto, Maestrelli ci invitava a fare delle partitelle di allenamento. Il giovedì, insieme ad altri compagni di squadra, tra i quali Agostinelli e Manfredonia, andavamo a giocare con la formazione delle riserve contro i titolari. Erano partite vere, in cui si davano e si prendevano tante botte! Io non vedevo l’ora che arrivasse il giovedì o il venerdì nella speranza che Maestrelli mi invitasse a disputare questi incontri. Il 5 ottobre del 1975 a Genova, fu il giorno del mio esordio in , contro la Sampdoria, io indossavo la maglia numero undici e al mio fianco c’era Giorgio con la casacca numero nove. L’arbitro Barbaresco al novantesimo, prima di un fallo laterale, disse che ci era andata bene perché eravamo riusciti a pareggiare una gara dominata dalla Sampdoria. Pulici parò tutto, presero pali e traverse. Su quel fallo laterale si sviluppò l’azione che ci portò alla rete della vittoria. Chinaglia tira, un difensore blucerchiato respinge il pallone, la palla arriva a me, chiudo gli occhi e tiro: la mia prima rete nel massimo campionato ! Ancora ricordo la gioia di , negli spogliatoi, che mi venne ad abbracciare, grandi sensazioni per un ragazzo come me appena proiettato in quella grande Lazio che poteva puntare alle prime posizioni. Alla quarta di campionato contro il Bologna, segnai ancora su passaggio di Chinaglia, in una partita terminata sull’ 1-1, nella gara di esordio di Manfredonia. Contro l’Inter, Giorgio segnò mentre io rimediai una bella distorsione, così rimasi fermo per parecchio tempo e rientrai in campo proprio quando Giorgio, di notte, partì per gli Stati Uniti in maniera rocambolesca. Fu un vero balzo in avanti fino a quella partita tra Fiorentina e Lazio del 2 maggio del 1976 che, per me, rappresentò quasi un nuovo esordio. Lo considero tale perché era la prima volta che indossavo la maglia numero nove, una grande responsabilità visto che tra noi giocatori non la voleva nessuno… Maestrelli lasciava le magliette sul tavolo dello spogliatoio, perché ognuno sapeva quella che avrebbe indossato: Wilson la numero quattro, Re Cecconi la numero otto, e quella domenica rimasero la numero dieci e la nove. La prima se la prese Vincenzo D’Amico e così a me rimase la nove. Forse, allora, neppure sapevo che grande responsabilità significava mettere una maglia così importante, ma l’incoscienza dei diciannove anni me la fece indossare con una leggerezza che mi aiutò. Forse, ne avrei preferita un’altra ma, poi, quella maglia divenne benedetta: da quel giorno non l’ho più tolta e mi ha accompagnato per tutta la mia carriera. All’epoca pensavo a tutto tranne che a giocare con la numero nove, mi sentivo più un numero dieci. Indossai quella maglia e il segnare una rete così bella alla Fiorentina, dopo pochi minuti, mi ha dato fiducia e da quel momento l’ho portata senza più timore. Il fatto di essere così giovane non mi fece pensare che, quella, era la maglia più pesante della Lazio. Quella stagione si concluse a Como con una delle partite più importanti della storia della Lazio, una gara dimenticata da molti, ma che fu epica con Maestrelli malato in panchina, perché dopo venti minuti eravamo già sotto di due reti ma che riuscimmo a pareggiare grazie a un grande Re Cecconi, a una mia rete e ad una di Badiani che corse sotto la curva occupata da più di 10.000 tifosi laziali. Così la Lazio riuscì ad evitare la retrocessione. Maestrelli era una persona straordinaria, un papà, poi per noi che venivamo dalla primavera, arrivare a contatto con la prima squadra, con persone quasi inavvicinabili costituiva la realizzazione di un sogno! Ricordo che per sdrammatizzare, prima della gara contro la Fiorentina, avevo indossato la maglia numero nove e Maestrelli, che a differenza di me sapeva a cosa andavo incontro, quando mancavano venti minuti all’inizio della partita e stavamo riscaldandoci nei corridoi dello spogliatoio, mi chiamò insieme a Wilson: “Vieni, vieni, un attimo qua? “, c’erano delle cuffie della radio attaccate alla porta e mi dissero di metterle perché Sandro Ciotti voleva farmi un’intervista. Il mister mi diede le cuffie dicendomi: “Vai e parla”, così dissi: “Pronto dottor Ciotti” ma non sentivo niente, loro insistevano dicendomi di parlare più forte, ma dall’altra parte del filo non c’era nessuno... Fu solo un modo per rompere la tensione. La malattia di Tommaso influenzerà non poco il corso della storia della Lazio e di Giorgio, che in Italia senza di lui non aveva più un padre e non poteva contare sulla sua famiglia che già viveva negli Stati Uniti. Da lì a breve, iniziarono subito i paragoni su chi fosse più bravo ma avevo solo diciannove anni e tutto mi scivolava addosso senza conseguenze, forse se avessi avuto già venticinque, ventisei anni sarei stato travolto da un simile confronto. Per me era impensabile che, a distanza di solo qualche mese, si facessero già simili paragoni. Essere giovane e sfrontato mi aiutò tantissimo. Quando facevo il raccattapalle, la prima volta fu in un derby pareggiato con reti di Dolso e di Petrelli, non vedevo l’ora che venisse Giorgio per restituirgli il pallone. Allora era compito dei più giovani portare le borse e le prime volte che, aggregato dalla primavera, andavo con la prima squadra, cercavo sempre di accaparrarmi la borsa di Chinaglia, per portarla dentro gli spogliatoi. Quando tornò, poi, come presidente, chiamò me e per dirci che aveva intenzione di realizzare una grande squadra, nei suoi disegni c’erano Zico e Junior poi, non potendo arrivare a certe cifre, ripiegò su Batista e Laudrup. Il rapporto rimase buonissimo, come quando eravamo compagni di squadra, e mi offrì la fascia di capitano nella stagione 1983-84 ma, di comune accordo, decidemmo di darla a Batista: io non la volli perché mi faceva sentire vecchio… La presi, però, nella stagione successiva. La prima stagione fu abbastanza disgraziata, mi feci male ma riuscimmo a salvarci lo stesso a Pisa nell’ultima giornata. La stagione successiva il rapporto, per incomprensioni create ad arte dalla stampa, si deteriorò un poco. Ricordo, ancora, la rete nel mio ultimo derby sotto la Curva Sud di testa, con la tristezza di chi sapeva che non avrei mai più giocato un altro derby.

Il 1 aprile del 2012, arriva inaspettata la brutta notizia della sua morte, all'inizio pensavo quasi fosse uno scherzo, vista la data... Io l’avevo sentito al telefono solo un mese prima quando, in macchina con Oddi, Giorgio, di buon umore, mi disse: “Ti è andata male a Terni eh?”, ma sapevo che Giorgio scherzava perché mi ha sempre voluto bene. Ancora oggi non ci credo, quando mi incontro con Giancarlo Oddi, parliamo di come sia incredibile che un uomo, così grande e così forte, possa essersene andato via troppo presto, ma questa è la vita e non posso far altro che portarlo nel cuore, per sempre.

Bruno Giordano

Bruno Giordano foto di Valentino Prestano Prefazione di Antonio Grinta

Giorgio Chinaglia - scrivere di Chinaglia non è semplice, soprattutto per una generazione, come la nostra, che ha vissuto questo grande calciatore fin da ragazzini. Giorgio, Giorgione, Long John, Giorgio goal, Giorgio il presidente, praticamente ha segnato la storia della mia Lazio, dalla fine degli anni sessanta fino ad oggi. I miei ricordi sono tanti, dal ritorno in serie A del 1972, con Giorgione che segna a Genova contro i rossoblù e corre verso i tifosi biancocelesti saliti in quel di Marassi, alle partite della nazionale che vedevo solo quando giocava lui, e se veniva sostituito uscivo e spengevo la tv. Chinaglia ha rappresentato la mia gioventù, i miei primi anni in curva, i primi gruppi dei tifosi organizzati, “Giorgio Goal”…era lo slogan più diffuso, lo ripetevo allo stadio, lo scrivevo sui muri. Ricordo il suo rigore contro il Foggia che ci faceva guadagnare il primo scudetto della nostra lunga storia e le reti nei derby, il suo sfidare la parte “nemica” correndo verso il settore ospite senza paura. Giorgio ha dato forza e coraggio alla tifoseria biancoceleste: nei primi anni settanta si deve solo a lui la forza di aver fatto innamorare i tifosi verso i colori sociali e, soprattutto, verso quella maglia celeste con un numero cucito dietro, il numero nove. La sua partenza per gli Stati Uniti, verso un nuovo calcio, resta una ferita profonda per chi lo aveva amato e, nonostante tutto, continua ad amarlo. Nei suoi “ritorni” nell’Urbe, veniva sempre accolto con “nostalgia” e con la speranza di un suo possibile ritorno sul campo di calcio, quello di Giorgio Goal. Quando nel 1983, arrivò la “voce” che Giorgio voleva diventare presidente della nostra Lazio, ricreò quell’entusiasmo spontaneo in tutti i tifosi Laziali. In molti diranno che fu un “fallimento”, ma le quattro stagioni passate con Chinaglia presidente, non ci hanno dato emozioni sul campo, ma lui ha valorizzato la tifoseria dandogli la massima fiducia e aiuto. Penso al suo “ritorno” e all’accoglienza all’aeroporto di Fiumicino: tornava Giorgione ! Era una mattinata di giugno e migliaia di tifosi Laziali erano ad aspettarlo. Ricordo il suo arrivo, l’albergo “Grand Hotel Via Veneto” dove intorno a mezzogiorno, si erano radunati molti tifosi di “ritorno” da Fiumicino. Tifosi di tutte le età. Persone in giacca e cravatta e con la tuta da lavoro: era un lunedì lavorativo, ma tutti avevano trovato una scusa per salutare Giorgione. Ci salutò dal balcone di quell’albergo, noi lo acclamammo come un imperatore, o meglio, come un invincibile guerriero. Giorgio… era questo, una persona che ti dava entusiasmo solo nel vederlo. La sua “uscita” da presidente, i suoi errori, ma nel tifoso Laziale di quella generazione c’era sempre un cuore che batteva per lui. Anno 2006, ritorna la voce che Giorgio vuole “riprovarci”, molti erano scettici ma per me, come tanti altri, era come una “chiamata alle armi”, non potevi non seguirlo. L’ultima volta che ho visto Giorgio, in un albergo sulla via Cristoforo Colombo a Roma, il suo sguardo le sue parole, come al solito, mi avevano catturato. Quella storia non finì bene, ancora molti ne portano i segni ma, nonostante tutto, Giorgio sarà sempre ricordato e pensato. Spero che un giorno esca fuori la verità su quei “tristi” giorni. Una storia che ha “toccato” molti tifosi, fino alla triste notizia della sua scomparsa. Quel primo aprile… una notizia terribile, passai quel giorno a ricordare Giorgio goal, le sue reti, la sua voglia di vittoria, il suo orgoglio, il suo coraggio. Difficile raccontare Giorgio, Giorgione, Long John, Giorgio goal, Giorgio il presidente, spero e ne sono certo che questo libro farà conoscere la sua storia, quella di un grande calciatore che ha dato tanto alla Lazio ed ai suoi tifosi. Antonio Grinta

Lazio vs Foggia 1974, il giorno del primo scudetto della SS Lazio foto di Gino Ceccarelli Quando tutto ebbe inizio

Swansea, Galles, 1966.

Swansea, o meglio, Abertawe, come dicono i gallesi, quel giorno era particolarmente plumbea. Come tutte le città costiere, quando il tempo è brutto e uggioso come solo in Gran Bretagna sa essere, quel mare grigio e gelido che ti sbatte sugli scogli sembra acuire ancor di più la malinconia latente che ogni uomo sotto sotto possiede. E quel ragazzo che cammina curvo verso il campo da gioco dello Swansea, sembra portare tutto il peso di una famiglia strappata per miseria dalla terra natìa e trapiantata a forza in questo promontorio davanti al mare. Cammina piano, non ha fretta, qui è tutto rallentato. Il campo d'allenamento non è distante, e poi s'è già messo la tuta a casa, è uscito così, in uno dei pochi posti al mondo in cui te lo lasciano fare senza neanche guardarti, senza neanche sapere chi sei Al campo intanto lo aspettano, lui quest'anno è l'uomo di punta da quando ha realizzato quell'unico gol contro gli odiati cugini , adesso la città gli sorride dopo un avvio incompreso e quel maledetto complesso verso Cardiff, la capitale, non c'è più, demolito dai colpi potenti verso la porta di questo strano ragazzo taciturno. L'allenamento è finito, i compagni lasciano quel campo ghiacciato e duro per andare a fare la doccia, ma lui no. Lui prende la palla, guarda la porta completamente sguarnita e inizia a tirare con forza, che diventa potenza, che diventa rabbia, che finisce in rancore. Dietro a lui appare un'ombra, una sagoma alta, imponente, capelli brizzolati e sguardo azzurro cielo...Si chiama Ivor, Ivor Allchurch, la leggenda vivente del calcio gallese; guarda questo ragazzone dalle spalle infossate, gli si avvicina e gli dice: “Un giorno, Giorgio, tu sarai famoso come Bobby Charlton”. “Tu cerchi solo di essere gentile” rispose lui. “No, ne sono convinto. Tu hai la preparazione e, quello che più conta, hai la mentalità del fuoriclasse, parola di Ivor.” la pacca sulla spalla a suggellare la profezia. Sorride fra sé e sé, Giorgio, le parole di Allchurch vanno a compensare quelle più odiose e meno affascinanti del presidente: “Non ce la farai mai nel calcio professionistico” Lui ingoia il boccone, è abituato oramai ma non gli interessa, continua a tirare bordate alla porta vuota e ogni tiro sembra indirizzato verso la vita, quella che oggi gli appare ancor più ingiusta, anche se non è la prima volta che accade. Ma stavolta il bicchiere è colmo, specie per uno come lui. Lui deve sentire calore intorno, deve sentire fiducia, quella che il padre non gli ha mai dato o non ha saputo farlo, troppo preso dallo sbarcare il lunario, troppo impegnato a inventarsi un lavoro giorno dopo giorno. E poi quel presidente non gli è mai andato a genio, troppo sprezzante verso gli italiani, troppo drastico nei suoi giudizi. “President, I should want to go” è entrato nella stanza del boss senza neanche bussare “Mmhhh...And where would you go?” con i soliti occhi inespressivi...“I want to came back in !” sguardo fermo, pugni sulla scrivania.“Ok...disappear now! Vai...go, sparisci maccaroni!” in un misto di gallese e italiano stentato. “Go fuck yourself, vai a farti fottere, bastardo di un gallese!” e la porta tracolla mentre se la sbatte alle spalle. Questo era Giorgio, questo il suo carattere. Esce da quella stanza col sorriso sulle labbra, finalmente felice di aver detto cosa pensava di lui e soprattutto felice di tornare nel suo paese, perchè lui è certo che farà fortuna, lui è nato per il calcio e il calcio lo renderà grande. E l'Italia, il Paese della miseria, dell'infanzia da fame, diventa un Bengodi per il redivivo Giorgio: stipendio da favola, una macchina sportiva e tutto questo giocando in ! Lui annusa l'aria, percepisce che qualcosa di più grande possa accadere e non perde occasione per mettersi in mostra... E' il 14 settembre del 1966. Una squadra di Roma, quella più antica, fa visita a Massa Carrara, la S.S. Lazio, quella di Carosi e di Marchesi, di Dolso e di Morrone, per una partita pre-campionato prima dell'esordio contro la Fiorentina. E' un'emozione grande per uno come Giorgio, addirittura una squadra della capitale, chissà se questo è il momento giusto per farsi notare e cosa c'è di meglio che farlo a suon di gol? Da Roma sono arrivati quasi 3.000 tifosi, sembrano molto attaccati alla squadra e non fanno altro che incitare i giocatori, chiamandoli e osannandoli uno ad uno... Chinaglia sogna che quei cori un giorno possano essere per lui, la Lazio poi l'ha sempre attratto, con quel suo stile strano e un po' snob che la fa sembrare quasi una squadra inglese... “Giorgio, se oggi non segni almeno un gol non sei degno di quel numero che porti sulle spalle e ti meriti di tornare nel Galles!” e mentre lo dice guardandosi nello specchio dello spogliatoio, si rende conto che ha lo stesso sguardo di quando una sera fece altrettanto nel bagno del ristorante del padre, quando fare il cameriere era l'unica possibilità per lui. Le squadre entrano in campo, quelli della Lazio gli sembrano grandi, quasi smisurati, nelle loro belle magliette colore del cielo. Il sindaco di Massa consegna una targa ricordo a Burlando, per la precedente militanza nella Massese e il piccolo stadio si infiamma, soprattutto i 3000 supporters biancocelesti. Calcio d'inizio, si parte...Bastano 7 minuti alla Lazio per passare in vantaggio con Bagatti, un destro violento su cross di Morrone che si insacca alla destra del portiere. Giorgio non ci sta, sente che stavolta è proprio l'occasione giusta e sbuffa, si arrabbia, sgomita e manca di poco il goal del pareggio in un paio di occasioni. In una addirittura scavalca il portiere e tira ma l'ottimo Castelletti salva sulla linea, scatenando una serie di imprecazioni impressionanti verso tutto e tutti da parte del numero 9 della Massese, quel ragazzone lungo e grosso con un brutto e ispido carattere. Ezio Luzzi scrive nel suo articolo sul Corriere dello Sport “..pessima la prova di Marchesi che non riuscirà mai a contenere il poderoso centravanti di casa, ”.... E sarà ancor più difficile contenerlo quando, dopo un bel dribbling, riuscirà a scodellare in area un bel pallone caldo caldo per la testa di Rolla. Stavolta però è la Lazio che non ci sta, nonostante l'allenatore Mannocci tenti di mascherare le carte, sapendo della presenza degli osservatori viola in tribuna: una traversa di D'Amato è solo l'annuncio del gol del 2 a 1 che verrà grazie a Morrone. La Lazio gioca in scioltezza, ma, grave errore, si era dimenticata di lui e lui non perdona: prende la palla a centrocampo, dribbla un paio di avversari oramai sicuri della vittoria, scambia in velocità con un compagno e, al momento di ricevere la palla, si inventa un gol di tacco sotto al “sette” da far cadere uno stadio molto più grande, chissà, magari uno come l'Olimpico... Ecco, ce l'ha fatta, quel ragazzo goffo e ostinato quando si mette una cosa in testa la ottiene, forse qualcuno della Lazio ora se n'è accorto, magari domani il presidente lo convoca e gli dice: “Complimenti Giorgio, da oggi sei della Lazio!”... E invece no...il presidente lo chiama qualche giorno dopo, ma solo per fargli una ramanzina sul perché del suo atteggiamento. “Possibile che neanche il servizio militare ti renda disciplinato??? Mi hanno detto che ti hanno punito e che hai dormito sul tavolaccio della prigione militare...” “E' vero, presidente...il fatto è che volevo venire prima ad allenarmi ma non mi hanno fatto uscire ed io me la sono presa col maresciallo...” “Te la sei presa??? Mi hanno detto che lo hai preso per il bavero e lo hai sbattuto al muro!...” “E se anche fosse? Io volevo venire qui al campo...” gli occhi bassi a vergognarsi di quel gesto. “Mi spiace Giorgio...sei un gran bel giocatore, ma hai bisogno di una società che ti dia una regolata, altrimenti non vai lontano...e la Massese è troppo piccola per la tua esuberanza. Ti abbiamo ceduto.” stavolta gli occhi bassi ce li ha lui. “Ma...alla Fiorentina, spero” “No...all'Internapoli, ci hanno offerto 100 milioni e noi abbiamo accettato...” “Ma...ma...mi avevate detto che andavo in serie A, mi avevate assicurato che...” “Giorgio, per noi quei soldi sono importanti, cerca di capire...” Un'altra porta sbattuta, un'altra fuga, un'altra città, Napoli, profondo sud. Un pianto liberatorio, quel giorno, un altro padre che lo allontana, l'eterna ricerca di un dirigente che lo capisca continua, come in un viaggio iniziatico fatto per forza. Napoli, città bella e difficile, forse però adatta ad un carattere come il suo. L'Internapoli, in origine denominata Vomero e poi Cral Cirio, diventa tale solo nel 1964, quando Giovanni Proto e Carlo Del Gaudio la rilevano e la fanno diventare la seconda squadra per importanza della città, rifacendosi a quell'antica squadra che giocava negli anni '10, l'Internazionale Napoli appunto. Ma è vincendo il campionato di serie D nel 66/67 che la squadra approda finalmente in C, portandosi dietro due giovani di belle speranze, un certo Pino Wilson e tale Franco Cordova... Chinaglia arriva nel 1967 e il suo biglietto da visita sarà nella finale “Berretti” quando, grazie a un suo gol, la squadra batte l'Empoli in finale per 1 a 0. Poi, come per magia, ancora la Lazio nel suo destino, ancora un'amichevole pre-campionato per mettersi in vetrina, sperando che stavolta qualcuno si fermi a guardare e compri... E' agosto, domenica 27 per l'esattezza. Il catino del S. Paolo sembra troppo grande per quei 15000 spettatori, molti sono della Lazio, i colori sociali però son gli stessi, anche se oggi l'Internapoli, per ospitalità, indossa una casacca verde. La partita è bella, ricca di colpi di scena, azioni da una parte e dall'altra ma è la squadra di casa a passare in vantaggio al 46°, grazie a un gol di Porro e ad un Chinaglia in condizioni straripanti. Scriveranno di lui:”...il compito più ingrato è toccato sicuramente a Pagni,per controllare il massiccio Chinaglia, appena acquistato dalla Massese, soffiandolo alla Fiorentina...” L'Internapoli torna in campo nel secondo tempo con un gol all'attivo e una maglia bianca a righe blu verticali, che non porterà troppo bene alla squadra partenopea, poiché la Lazio, con un gol di Gioia dopo una sgroppata sulla fascia e cross di Ronzon, riuscirà a strappare un pareggio comunque meritato. E' solo l'inizio: la stagione 1968/69 vede un certo Luis Vinicio prendere in mano la squadra e portarla in alto, sfiorando la promozione in con due magnifici terzi posti... E Giorgio a fare gol a ripetizione, con quel suo modo strano di incedere, con quella grinta da emigrante al contrario, con quel suo destro potente e preciso... Finalmente la Lazio, quella che sarà la squadra della sua vita, si accorge di lui, oltre che di un ottimo difensore centrale nato a Darlington da padre inglese e madre napoletana, . Flamini è l'emissario di Juan Carlos Lorenzo, attuale allenatore della Lazio ed è presente a diverse gare dell'Internapoli. Annota sul suo taccuino questi due nomi e li passa a Lorenzo. “Presidente Lenzini, questi due sono i rinforzi che ci servono, uno in difesa e uno in attacco, per costruire una grande Lazio.” dice il duro allenatore argentino e ci aveva visto giusto. Lenzini è abile e veloce a trattare con Carlo De Gaudio e bloccare sul nascere gli inserimenti di Juventus e Fiorentina, portando i due “gioiellini” a Roma. “Ce l'ho fatta papà, grazie a Dio ce l'ho fatta!” e stavolta le lacrime di Giorgio sono di felicità, di gratitudine. Correva l'anno 1969...E qui inizia un'altra storia.