Ve r i t à p r i v a t a d e l Mo b y Pr i n c e

A chi agisce per il bisogno di renderci migliori

e

Ad Anita, ad oggi il nostro tentativo più riuscito.

La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del novecento. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fa sì che gli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano più essenziali alla fine del secondo millenio di quanto lo siano mai stati prima. Ma proprio per questo devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione”.

Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli 1995

“Sono rimasto veramente delusa con l’amaro in gola forte… nessuno me l’avrebbe ridato mio figlio… però almeno sapere… le disgrazie, tutte le cose, arrivano a scoprirle… tutte le scoprono. Noi, 140 morti, siamo rimasti qui. 140 famiglie ad aspettare quello che succede”.

Paola

PARTE PRIMA. INTRODUZIONE

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1. PERCHÉ “VENTANNI”

“Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani””. An t o n i o Gr a m s c i , La città futura, 1917

La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 avevo dieci anni, abitavo a e dormivo nel mio letto. Cinque chilometri più in là, nello specchio di mare antistante casa mia, avveniva la più grande tragedia della marina civile italiana1. Centoquaranta persone, passeggeri ed equipaggio del traghetto Moby Prin- ce, morivano, in attesa di soccorso, per cause connesse all’in- cendio scatenato dalla collisione tra la nave e una petroliera, ancorata in rada2 a due miglia e mezzo3 dall’uscita del porto cittadino. Ricordo la mattina dell’11 aprile. Il cielo segnato da lugubri colonne di fumo e la sorpresa di vedere la stampa nazionale interessarsi di Livorno. Ricordo me e mia madre davanti alla

1 La strage del Moby Prince è attualmente la più grande tragedia della ma- rina civile italiana, in tempo di pace. La precisazione è dovuta, poichè i mari italiani hanno conosciuto nel corso della prima guerra mondiale una tragedia più rilevante per numero di vittime. La notte tra il 17 e 18 marzo 1918 – Prima Guerra Mondiale – un sommergibile tedesco provocò infatti l’affondamento della nave postale “Tripoli” a poche miglia dalla costa sarda, causando la morte di trecento persone tra le circa cinquecento presenti a bordo. La storia del Tri- poli fu incredibilmente oggetto di un’opera di rimozione collettiva che interessò stampa e istituzioni repubblicane, persistendo ancora oggi. Ha contribuito a ri- portare questa vicenda all’attenzione dei contemporanei la ricerca del giornalista Enrico Valsecchi. Ad essa si deve una più completa ricostruzione dell’accaduto, dalla quale emersero particolari rilevanti quali il fatto che il Tripoli affondò in circa quattro ore e quindi con-causa della morte dei trecento, oltre al siluro te- desco, furono le pessime condizioni di sicurezza della nave – tra le quali risultò indubbiamente fatale l’avaria della radio di bordo – ed il ritardo nei soccorsi. 2 Con il termine “rada” ci si riferisce allo spazio di mare antistante un porto dove le navi in attesa di accedere alle banchine o semplicemente in sosta posso- no stazionare per un certo lasso di tempo. 3 4.630 metri.

13 carcassa di quel traghetto, così simile ai tanti presi per andare a trovare i parenti in Sardegna. Quell’immenso essere metalli- co arrugginito. Muto e spettrale. Restai distante dalla vicenda per quindici anni. Le manife- stazioni dei familiari delle vittime e l’evolversi dell’iter proces- suale erano solo una delle tante informazioni che circondava- no la mia adolescenza. Durante la vita scolastica a Livorno, sia nel corso delle scuole medie che durante gli anni del liceo, non ricordo mai un accenno a questa storia. Ricordo ore e ore dedicate a una corretta traduzione di un testo greco antico, o alla comprensione precisa degli integrali, ma del Moby Prince niente. Nessun cenno. Poi, durante l’Università, lessi un libro: Moby Prince. Un caso ancora aperto di Enrico Fedrighini (Paoline Editoriale Libri, 2005) e mi si aprì un mondo. Pensai al volume di incredibili meschinità insite nella storia di quella vicenda. Pensai, soprat- tutto: “un’altra tragedia all’italiana, colpa degli Americani”. Ne ero convinto, sicuro per quello che avevo letto. Pur non aven- do partecipato ad alcuna commemorazione, pur non avendo conosciuto alcun familiare delle vittime, io sapevo la verità del Moby Prince. Era tutta colpa degli Americani. La finta nebbia, il traffico d’armi, i servizi segreti deviati, la finta cooperazione allo sviluppo italiana. La verità era quella. Era stata scritta e io la sapevo. Tentai così di fare un programma radiofonico su questa verità. La volevo raccontare al maggior numero di persone, perché nessuno ne parlava, nessuno di quelli che il mio raggio di ascolto riusciva a intercettare la conosceva. Eppure, no- nostante avessi fatto leggere quel libro al maggior numero di persone e avessi sfinito le rimanenti col racconto di quanto esso riportasse, non avevo ancora conosciuto alcun parente delle vittime del Moby Prince. Volevo fare un programma ra- diofonico su quella storia, ormai parte del mio vissuto, per un libro. Per immedesimazione. Sicuramente l’autore, Enrico Fedrighini, me l’aveva spiega- ta bene. Ma c’era dell’altro oltre la curiosità. C’era qualcosa di mio in quella storia e nella sua verità. Sui traghetti avevo viaggiato sin dalla nascita ed ero rimasto profondamente in-

14 dignato per lo sviluppo della vicenda raccontato in quel vo- lume: la gente come me poteva subire quanto avevano subito le vittime del Moby Prince e i familiari di queste. Poteva subi- re lo stesso oblio progressivo, la stessa indifferenza. E allora bisognava fare qualcosa. Bisognava raccontare quella verità. Bisognava stimolare nelle persone le domande giuste. In Italia centoquaranta persone comuni muoiono bruciate vive a due miglia e mezzo dal Porto di Livorno, in attesa dei soccorsi, e a distanza di più di otto anni4 lo Stato identifica come unico re- sponsabile, prescritto, il terzo ufficiale di coperta ventitreenne della petroliera, perché non avrebbe azionato i segnali anti- nebbia? Una nebbia che poi nel processo non tutti i testimo- ni avevano valutato come tale? Perché non furono imputati i responsabili illustri, come per esempio il Comandante della Capitaneria che non coordinò i soccorsi? Davvero si crede- va possibile che un Comandante esperto come Ugo Chessa potesse centrare una petroliera ancorata in rada a causa di un improvviso – ma pur sempre possibile in mare – banco di nebbia? Perché non si era data risposta a tutte le inquietanti domande emerse sulla vicenda? C’entravano in qualche modo le navi militarizzate americane di ritorno dalla prima guerra del golfo, in rada quella notte – che solo nel 2005 si scopriro- no essere cinque: Edfim Junior, Gallant II, Cape Syros, Cape Flattery, Cape Breton – , una delle quali fu vista impegnata in un trasbordo di armi da un testimone oculare, il tenente della Guardia di Finanza Cesare Gentile? Perché quando il traghet- to fu identificato, circa un’ora e mezzo dopo la collisione a seguito del fortuito salvataggio dell’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand, allora al suo primo imbarco, nessuno vi era immediatamente salito in cerca di altri sopravvissuti? Se la dinamica dell’incidente fosse stata così chiara, perché far sparire dal traghetto il registro delle eliche Kamewa, ele- mento che avrebbe consentito di comprendere gli ultimi mo- vimenti del Moby Prince? Come si poteva tollerare l’insulto dell’idea fatta passare nel processo che i tempi di sopravvi- venza a bordo fossero stati di poche decine di minuti, quan-

4 La sentenza di appello fu emessa il 5 febbraio 1999.

15 do il superstite era stato trovato addirittura un’ora e mezzo dopo la collisione, e quando sui corpi più integri, come quello del passeggero austriaco Gernard Baldauf, non era stata fatta autopsia? Evidentemente la magistratura aveva scelto di sal- vare qualcuno, quantomeno i responsabili dei soccorsi, e al- trettanto evidentemente questo dimostrava quanto la vicenda portasse dietro di sé grandi interessi da preservare, interessi superiori a quelli della povera gente comune che viaggiava in quel traghetto. Gente come me. Era il 2005. La demo di quel programma radiofonico fu sentita dall’unico produttore che poteva mettermi in onda il quale mi rispose “bello, ma non molto interessante”. Ero giovane, la presi male e quel programma rimase chiuso nel cassetto. “Ventanni”, questo progetto, nasce probabilmente anche da lì. Dalla sensazione di avere un qualcosa di incompiuto da tirare fuori. Dall’idea che se una vicenda del genere era finita in quel modo, io potevo provare a far qualcosa a riguardo. Nell’estate del 2010, dopo un’esperienza devastante di falli- mento su un evento, proposi così agli altri soci cooperanti di Mediaxion di realizzare un documentario sul Moby Prince. Avevo co-creato Mediaxion con la stessa spinta ideale di quel programma radiofonico e questo esperimento di economia solidale doveva permettermi di realizzare ciò che quel pro- duttore aveva solo rallentato: cambiare il mondo con tutto il tempo e le energie di una attività lavorativa fondata sulla ve- rità. Raccontarla, comunicare su di essa per essa e con questa spingere in una direzione diversa il corso della storia. Di quel- la storia comune che, in determinato momento, aveva unito me al Moby Prince. Nel periodo in cui pensai “Ventanni” era stata da poco ri- chiesta l’archiviazione dell’ultima inchiesta5 – avviata su istan-

5 Tribunale di Livorno, procedimento n. 9726/06, Richiesta di archivia- zione inchiesta bis Moby Prince, 5 maggio 2010 La Richiesta di Archiviazione del Tribunale di Livorno, emessa con atto n° 9726/06 R.G. mod. 44, reca la data 5 maggio 2010. Nelle centocinquantuno pagine del documento i Pubblici Ministeri Carla Bianco, Antonio Giaconi e Massimo Mannucci, con visto del Procuratore della Repubblica Francesco De Leo, compiono un’operazione di

16 za dell’Avvocato Carlo Palermo per conto dei due figli del Comandante Chessa, Angelo e Luchino – e dopo circa quat- tro anni di ulteriori indagini per la Procura di Livorno la ri- costruzione ufficiale restava pressochè immutata: il traghetto era andato a collidere con la petroliera per un banco di nebbia da avvenzione6 improvvisamente calato sulla sola petroliera, i soccorsi erano arrivati in ritardo perché il may day7 del tra- ghetto non fu sentito – essendo troppo basso come potenza – e quando il Moby Prince fu avvistato, e tratto in salvo l’unico superstite, non fu possibile salirvi perché pericoloso per i soc- corritori. Il traffico d’armi era una semi-bufala e veniva fatto cenno ad alcune carenze del traghetto quali la disattivazione dell’impianto sprinklers, il sistema automatico anti-incendio ancora oggi in uso nelle navi e in alcuni luoghi pubblici.

delucidazione sulla vicenda che va oltre le risposte ai precisi quesiti riportati nell’istanza di riapertura depositata dall’Avvocato Carlo Palermo su mandato dei figli del Comandante del Moby Prince, Angelo e Luchino Chessa. Dopo quattro anni di indagini la Procura di Livorno arriva infatti a presentare un tentativo di risposta relativamente a ogni aspetto controverso della vicenda – dalle tesi più ardite sulla dinamica della collisione fino alle segnalazioni inquietanti contenute nella Sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze nel 1999 – e conclude riportando ciò che al momento è agli atti come la ricostruzione storica ufficiale della tragedia del Moby Prince. È interessante notare come i procuratori, in un atto di auto-analisi interessante, abbiano segnalato come la dinamica di quanto, a loro parere, è realmente accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, davanti al Porto di Livorno, sia nei fatti “banale”. La loro ricostruzione è riportata nell’Ap- pendice del volume. 6 La nebbia da avvezione – o advezione – è il risultato dell’arrivo di una massa d’aria con determinate caratteristiche fisico-atmosferiche in una porzio- ne di territorio che ne presenta di opposte. Quando si manifesta in mare ciò è effetto del fatto che una determinata massa d’aria calda e umida passa per movimento orizzontale sopra la superficie marina fredda e viene così “raffred- data”, generando appunto la nebbia. Il fenomeno non è inconsueto in Italia, soprattutto nei mesi primaverili, benchè caratterizzi di più i mari freddi del Nord Europa. 7 “may day” è una locuzione universalmente utilizzata dalle imbarcazioni e dai velivoli per segnalare via radio l’immediata richiesta di aiuto. L’origine di questa parola si deve a un riadattamento anglofono all’espressione francese “ve- nez m’aider”, “venite ad aiutarmi”, proposta per la prima volta da tale Frederick Stanley Mockford presso l’aeroporto di Croydon (Londra) al fine di essere com- preso dai non francofoni.

17 Mi lessi l’opposizione alla richiesta di archiviazione presen- tata da Carlo Palermo. Era l’ultimo passaggio. L’ultimo atto giuridico che poteva in qualche modo tenere viva la speran- za di riaprire il processo. All’interno delle ottantadue pagine del documento si citavano molteplici stranezze relative alla movimentazione di armi nella rada di Livorno la notte del disastro e addirittura venivano riportati a titolo di riferimento articoli di giornale abbastanza confusi e generici, che infittiva- no ulteriormente il mistero sulla vicenda. Uno di questi, trat- to da Panorama.it8, indicava persino l’inquietante aneddoto di una pilotina fantasma, correlabile in qualche modo ad alcu- ne esplosioni avvenute nella plancia del Moby Prince subito dopo le operazioni di salvataggio del superstite. Praticamente un atto terroristico. Avevo trovato il file scaricabile di questo documento nel sito web www.mobyprince.it9, Associazione 10 aprile Fami- liari delle vittime del Moby Prince. Un clic di mouse e dalla ricerca “Moby Prince” su Google comparve un altro sito con dominio www.mobyprince.com. Non riportava alcuna indi- cazione riguardante chi ne fosse l’autore, ma era molto docu- mentato. Apparivano soprattutto foto relative alla lotta civile dei familiari delle vittime e il lungo racconto di ricostruzione di quanto accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991. Tro- vai molto materiale, inclusa la trascrizione della “Repertazio- ne delle vittime e svolgimento delle operazioni peritali”. Lo sguardo mi finì sull’ultima identificazione, “Rizzo Salvatore - 8 giugno 1991”. Praticamente il suo riconoscimento avvenne quasi due mesi dopo l’incidente. In mezzo a questo materiale vidi un link, “Affinchè la me- moria non muoia”, un documento in pdf di dodici pagine che lessi col fiato sospeso. C’era il racconto autobiografico di un familiare delle vittime che aveva perso nel Moby Prin- ce la sorella, Liana, addetta alla boutique di bordo. In dodici

8 Francalacci N., Moby Prince, il testimone Andreotti e la pilotina fantasma, Panorama.it, 8 novembre 2007. 9 Il documento non è più disponibile, come il resto dei contenuti del sito web, dal giugno 2013.

18 pagine raccontava quella storia da un punto di vista che non avevo mai preso in considerazione: quello di chi, come lui, ne era stato un inevitabile protagonista dal giorno dopo, dal momento immediatamente successivo all’aver appreso la no- tizia che un proprio familiare poteva essere rimasto coinvolto nell’incendio di quel traghetto. Mi sentii con Michele, un amico livornese di vecchia data che avevo ritrovato dopo vent’anni tramite Facebook. Era di Livorno, aveva da poco ultimato un’importante scuola di documentari italiana, specializzandosi nel montaggio, e stava facendo il macchinista per una fiction della RAI. Non sapevo quasi nulla di lui, ma questa discrasia mi aveva colpito. Pensai alla conferma di un Paese malato dove i diplomati in una pre- stigiosa scuola dell’audiovisivo fanno i macchinisti nelle leg- gere fiction RAI, pur di campare, e mi tornò alla mente l’im- magine di me, inginocchiato sulla pista che circonda il campo dell’Empoli Calcio, mentre davanti alla matassa di duecento metri di triax10, appena finita, riflettevo sul senso storico del mio essere lì ad arrotolare cavi per settantacinque euro lorde a giornata da dividere con la mia comunità, debole del mio centodieci e lode di laurea magistrale in Scienze della Comu- nicazione in tasca. L’idea di poter provare a fare qualcosa insieme a Michele mi sembrò interessante. Forse anche lui, come me, era un incom- preso. Uno che aveva solo bisogno di fiducia. Uno che cercava la verità per promuoverla attraverso il linguaggio documenta- ristico. Magari, disse lui, avrebbe potuto in seguito confluire in Mediaxion per quelli che sembravano intenti comuni. A tavola, nella casa in affitto dove abitavo con Francesca – mia moglie e socia di Mediaxion – che era stata per anni una sorta di depandance della cooperativa, emerse l’idea di affron- tare il documentario dal punto di vista della memoria di chi ne era un protagonista, in particolare i familiari delle vittime. Michele ne parlò per primo con convinzione: “un film umano sul Moby Prince, poi se nella ricerca venisse fuori qualcos’altro siamo sempre in tempo a rimettere in discussione la cosa”.

10 Cavo triassiale utilizzato in ambito televisivo professionale.

19 Pensammo alla questione internamente e scrissi una prima presentazione del progetto. Gli altri soci approvarono e piac- que anche a lui. Convenimmo sul fatto di tentare. Mediaxion poteva provare a produrre il documentario. L’avremmo dovu- to scrivere insieme. Michele si era proposto come regista. Iniziai così a inviare quella presentazione ad alcuni poten- ziali sponsor. Qualcuno, come l’Unicoop Tirreno, rispose po- sitivamente subito, altri, come l’Autorità Portuale di Livorno e la Porto Livorno 2000, furono corteggiati diversi mesi per poi concedere il loro piccolo contributo. Altri, molti altri, dissero “no grazie”. Tra di questi rimasi piuttosto allibito dai sindaca- ti dei marittimi. Non riuscivo a capacitarmi del loro silenzio sulla vicenda, oltre che del loro non riconoscere in noi un potenziale strumento di rilancio della sua memoria. La storia del Moby Prince poteva essere una sorta di baluardo della battaglia dei lavoratori sul tema “sicurezza” – sessantacinque membri dell’equipaggio perirono all’interno del traghetto nel- lo svolgimento dei loro compiti operativi – e la migliore rispo- sta ricevuta fu un “non possiamo contribuire a questo tipo di iniziative per motivi amministrativi”. Feci una ricerca su Google. Sessantacinque persone morte sul posto di lavoro erano tante. Volevo capire se effettiva- mente fosse la più grande tragedia del lavoro italiana11. Venti minuti dopo capii che era così. Eppure nessun sito web, nessuna pubblicazione dei massimi

11 Come fattomi notare dalla Presidente dell’Associazione Toffolutti di , il Moby Prince è la più grande strage sul lavoro italiana se si calcola una contemporaneità dei decessi. Molto spesso infatti tendiamo a dimenticare che tra i morti sul lavoro si annoverano anche coloro che, per causa dell’eser- cizio delle proprie funzioni, hanno contratto una malattia mortale a lungo de- corso. Un caso emblematico in tal senso è quello dell’Eternit ed in particolare della comunità di Casale Monferrato, dove tutt’oggi si contano in media sessan- ta decessi l’anno dovuti al tristemente celebre “mesotelioma pleurico”: tumore dovuto all’inalazione della polvere di amianto. Per cogliere l’enormità di questa strage basti pensare che nella sola Casale Monferrato gli epidemiologhi hanno indicato il 2020 quale anno con picco di decessi. Questo benchè la fabbrica di Eternit casalese fu chiusa nel 1984. In merito a questa vicenda consiglio agli interessati di visitare il sito web dell’Associazione Voci della Memoria www. vocidellamemoria.org.

20 e minimi sindacati italiani citava il Moby Prince. Perché? Nel frattempo presi alcuni appuntamenti con le istituzio- ni pubbliche che ritenevo più vicine all’iniziativa: Comune di Livorno e Regione Toscana. Dopo qualche settimana mi incontrai con l’assessore del Comune di Livorno con delega alle “Culture”, perché a Livorno dire “cultura” al singolare è settario. Mario Tredici mi accolse nel suo ufficio mettendo subito le mani avanti: “soldi non ce ne sono”. «Non si preoccupi non sono venuto a chiederne». La que- stua alla sua porta lo occupava evidentemente per molto tem- po e quella notizia lo rassicurò. «Allora vediamo un po’ cosa possiamo fare, perché sai, dia- moci del tu che facciamo prima, io ero un giornalista del Tir- reno all’epoca e fui tra i primi a salire sul Moby Prince quando lo portarono in porto, tant’è che il Tirreno uscì con la notizia mentre la Nazione la bucò». Pensai alle coincidenze e all’idea che dietro di esse potesse esserci un qualche disegno. Nel frat- tempo quel ricordo aveva prodotto in lui un’espressione di profondo disagio. «Vedere quel traghetto fu una cosa raggelante. Uno shock per questa città. Poi anche lo svolgersi successivo della vicen- da. Una cosa che a noi livornesi è rimasta dentro, ma vedi, noi siamo così. Quanto tempo è passato?». «Vent’anni» risposi. «Ah ecco, sì dal titolo del documentario vedo... ti dicevo che dopo vent’anni il ricordo si affievolisce, poi Livorno l’ha vissuta male questa vicenda. Si è sentita ferita nel profondo. Oltre ad aver avuto dei concittadini tra i morti, poi è successo qui, davanti a noi...». «Senza contare i misteri intorno alla vicenda che non hanno aiutato» azzardai. «Certo. Io ricordo ancora la storia della manomissione alla timoneria, poi alcune sparizioni di materiali... una brutta sto- ria». Il discorso virò sull’aiuto che ci poteva arrivare dalla sua at- tività di pressione su alcuni potenziali sponsor e dal supporto della Film Commission comunale. Qualche giorno dopo but-

21 tai giù una bozza di accordo con alcune richieste e in breve ne ottenni la firma. Quando si evitano i soldi le amministrazioni sono spesso molto generose. A noi però servivano risorse e scrissi così all’assessore re- gionale Scaletti. Mi rispose tempo dopo il capo gabinetto e organizzammo un incontro insieme a una dirigente legata al sostegno all’audiovisivo. In un elegante palazzo fiorentino mi disse poche semplici parole: «Guardi il progetto ci interessa indubbiamente. Noi come canale di finanziamento abbiamo il bando del Fondo Cinema. Partecipate e vediamo come va. Qualora non rice- veste il contributo risentiamoci e vediamo come strigare la questione per un altro verso. Ma prima provate da lì». Decidemmo così di partecipare al bando del Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo della Regione Toscana e mesi di attesa si prospettavano all’orizzonte. Nel frattempo Mediaxion anticipò le spese di ricerca e io e Michele iniziammo a conoscere alcuni familiari delle vitti- me sparsi per l’Italia. Li trovai soprattutto su Facebook e poi per tramite di Loris Rispoli, il Presidente dell’Associazione 140 che era l’autore di quel racconto straziante contenuto nel sito web www.mobyprince.com. Parlando con lui io e Michele scoprimmo, tra le altre cose, la divisione tra i familiari delle vittime del Moby Prince e la sua contrapposizione con Ange- lo Chessa, Presidente dell’altra associazione, 10 aprile, e figlio del Comandante del traghetto, che di lì a poco avremmo co- nosciuto. A marzo arrivò la notizia della vittoria del bando. Il film si doveva fare, entro tempi precisi. I soldi della Regione Tosca- na, lordi e inclusivi di un tot percento da lasciare ancora allo Stato, potevano arrivare metà subito, ma ci voleva una fidejus- sione bancaria. Avevamo vinto, ma ci voleva una banca. In- debitarsi per produrre era diventato ormai un teorema statale. Andai così da Banca Etica, e cercai un interscambio di servizi. I costi della fidejussione a fronte della sponsorizzazione del prodotto e Ugo Biggeri, il Presidente di Banca Etica che co- noscevo da anni, ritenne l’operazione meritevole, nonostante la nostra cooperativa fosse di relative garanzie.

22 Forti di questa fiducia tradotta in documento sentimmo di avere le spalle un pochino più coperte e considerammo l’ope- razione oramai arrivata al punto di non ritorno, anche se altri soldi sul progetto non ce n’erano, non se ne trovavano e il pia- no finanziario delle entrate di quel budget già risicato recitava: quaranta percento del preventivato. Nel frattempo infatti una grossa parte della ricerca era stata realizzata e da quella mole enorme di riflessioni ed emozioni, derivate dagli incontri con alcuni familiari delle vittime e dallo studio dei documenti raccolti, scrissi in autonomia soggetto e trattamento del documentario. Di un documentario fattibile con le risorse in campo e soprattutto nostro, di Mediaxion, nei termini e modi. In conseguenza di un momento di forte scontro con Michele organizzai una riunione tra noi soci, lui e Andrea – per tutti “il Vito” – amico di vecchia data di Me- diaxion scelto come primo operatore e Direttore della Foto- grafia. Lo scopo della riunione era quello di per far esporre a me e Michele le reciproche idee riguardo il progetto e lasciar valutare a questa assemblea improvvisata la linea da prendere. L’assemblea valutò di realizzare il soggetto da me proposto, ma di restare insieme come squadra di lavoro continuando ad affidare la regia visiva del documentario a Michele. Lui fu molto chiaro a riguardo e nei miei confronti: «Secondo me non ci riesci a fare tutto questo in questi tempi, ma io ti posso aiutare, da tecnico, senza fare miracoli». Andrea rispose a quell’indicazione come nessun altro mio socio in quella stanza: «Tu non hai capito com’è France, lui è così, ti entra dentro e va oltre». La particolarità del progetto che avevo scritto derivava infat- ti da qualcosa che era accaduto nel corso della ricerca e riguar- dava ciò cui si riferiva Andrea in quel discorso. Durante quei mesi di studio e soprattutto incontri e confronti – frontali, te- lefonici, via email, via telefono – avevo sviluppato con alcuni familiari delle vittime incontrati un rapporto molto profondo e questo rapporto stimolò in me l’idea di poter avviare con loro un’evoluzione della storia. Accadde così, spontaneamente. Riconobbi a un certo pun- to che come loro stavano, istintivamente e inevitabilmente,

23 aiutando me a capire molto del senso profondo della verità, nel qui e ora io potevo provare ad aiutarli in tal senso e il documentario sarebbe stato solo il mezzo, lo strumento attra- verso il quale alcuni obiettivi concreti avrebbero potuto essere raggiunti. Questi obiettivi non ponevano al centro il docu- mentario stesso, la carriera di chi vi partecipava o quant’altro potesse arrivare da spettatori più o meno istruiti e cinefili. Questi obiettivi erano basati su una certa idea di relazione e giustizia. Così la domanda iniziale da cui eravamo partiti: “cos’è ri- masto dopo vent’anni del Moby Prince?” cedette il centro di gravità a un’altra più importante: “dopo vent’anni, cosa può fare questo progetto per queste persone?”. Da un lato bisognava raccogliere informazioni sulla vicenda e contribuire a una loro corretta divulgazione; quindi tentare di migliorare la coscienza collettiva sul Moby Prince in modo complementare rispetto al resto delle opere realizzate a riguar- do. I prodotti editoriali sulla vicenda infatti ci sono12 e una buona parte della documentazione principale su cui poggiano è per lo più disponibile on-line o facilmente reperibile tramite le due associazioni familiari delle vittime, 140 e 10 aprile. Però, come accadde per queste stesse opere, il problema di informare sulla vicenda Moby Prince restava quello di poter generare un prodotto di parte. Infatti, in mancanza di una ricostruzione della vicenda condivisa da entrambe le associa- zioni, ogni prodotto editoriale realizzato era stato catalogato come di una o dell’altra, spesso senza alcuna volontà autoriale dei suoi produttori, e io, questo, non lo volevo. Non volevo contribuire alla divisione dei familiari delle vittime del Moby Prince col mio lavoro; e per questo ho voluto raccogliere in- formazioni e conoscere i rappresentanti dell’una e dell’altra parte. Soprattutto ho cercato di capire per entrambe ragioni ed effetti del loro percorso, provando nella relazione con cia- scuna a presentare, argomentandole, le posizioni dell’altra. “Ventanni” è diventato così un lavoro centrato sulla verità privata dei protagonisti della vicenda, quella del loro raccon-

12 Li riporto al termine del volume come “Riferimenti”.

24 tare e raccontarsi attraverso i ricordi ancora presenti e le scelte comportamentali a essi riferibili, per il tramite di qualcuno che stava cercando di raccoglierla e andarvi oltre a livello di conseguenze presenti. La verità del Moby Prince – che sembrava così oggettiva, pur essendolo solo in parte, in un testo come Moby Prince. Un caso ancora aperto – si è rivelata perciò essere la verità della me- moria della vicenda Moby Prince e, nel trattarne, il progetto mi stava aiutando – e nella mia mente poteva aiutare altri – a riflettere problematicamente sul senso di queste due fonda- mentali parole. La memoria è un modo per tenere viva la verità. Ma la me- moria non è la verità. La memoria è quanto della verità ci è concesso e concediamo di conservare. È la sintesi creativa tra l’emozione e l’interpretazione di un’esperienza. Poi noi, vivendo in un mondo fortemente istituzionalizzato, possiamo anche convincerci che la verità sia qualcosa di oggettivo, di confinabile in un racconto chiuso – migliore degli altri – e possiamo continuare a creare meccanismi e strumenti che ci confermino questa tesi. Ma la realtà è ben differente. E la scopriamo quando, nel tentativo di far sopravvivere la verità della memoria, ci troviamo a trasmetterla. In quel momento la memoria diventa racconto e in quel racconto si mostra tutto il peso della nostra presenza. Chi racconta, racconta attraverso la propria memoria una propria, privata, verità. E in una tra- gedia grande come il Moby Prince iniziavo a capire quanto la verità tecnica, tecnico-giuridica, giornalistico-anedottica fos- se solo una piccola, infinitesima componente di un racconto molto più grande e importante. Un racconto che nella sua porzione più emotiva riusciva a mostrare in controluce una verità originaria. Una verità universale in grado di essere com- presa da tutti. La storia privata del Moby Prince che ognuno dei protago- nisti mi raccontava aveva infatti in sé un mix insostenibile per qualsiasi persona: l’essere devastante dal punto di vista emoti- vo – come emerge nel racconto delle drammatiche procedure di riconoscimento dei propri cari attraverso elementi di iden- tificazione come tatuaggi, cicatrici o effetti personali, in grado

25 di distinguerli dagli altri – e in parallelo assai razionalmente incomprensibile. La frase ricorrente: “io ho bisogno di sapere veramente cos’è successo” pronunciata dai familiari delle vittime del Moby Prince mi sembrava così avere in sé una forte carica rivelativa. Per tutti gli altri la verità su quanto accaduto la not- te tra il 10 e l’11 aprile 1991 davanti al porto di Livorno era un fatto di curiosità personale. Un bisogno di sapere, perché infastidisce l’idea di non poter sapere. Per i familiari delle vit- time del Moby Prince quel quesito appariva invece parte di un bisogno più profondo: dare un senso, dare un ordine mentale a qualcosa che evidentemente li aveva sconvolti senza alcun preavviso, senza alcuna relazione diretta tra causa ed effetto. La vicenda del Moby Prince diventò così, ai miei occhi, esemplificativa della vita, oltre che del mondo in cui vivevo. Un “universale”. Certi eventi accadono e noi vi reagiamo; ognuno col suo ba- gaglio di esperienza emotiva e culturale. Ma nel loro destrut- turare la nostra esistenza, senza mezzi termini e, ci sembra, alcun rispetto per il nostro equilibrio interiore, questi eventi ci riportano alla base della nostra condizione di esseri viventi. Illusi dalla nostra testa di poter controllare la vita, organizzar- la al millimetro, pianificarla fino a darci orizzonti di decenni o, addirittura in alcuni casi, andare oltre la nostra stessa esistenza – come quando realizziamo oggetti che per essere degradati ci mettono secoli o millenni – con eventi come questi veniamo riportati al punto zero. Veniamo rimessi davanti alla coscien- za che a volte è tutto un inganno, ci dispiace averci creduto e su quanto è accaduto non possiamo farci più niente. Magari potevamo fare tante cose prima, ma ci è concesso solo il pre- sente e il futuro. E nel cercare di non impazzire, di ritrovare un equilibrio rispetto a questo tipo di verità devastante, abbia- mo bisogno di informazioni. Abbiamo bisogno di capire per imparare e ristrutturare il senso. Trovare un senso era diventato così per me un elemento centrale di relazione con i protagonisti di “Ventanni”. E nel vedere come ognuno di loro aveva trovato il suo senso e ave- va utilizzato la memoria per costruire una propria verità coe-

26 rente con esso, ciascuno di noi – ciascun potenziale fruitore di questo progetto – ho pensato potesse ricevere un piccolo strumento ulteriore per avvicinarsi alla verità. Quella vera e quella propria. Che magari ha ritenuto per vent’anni non c’en- trasse niente con questa vicenda. Che magari ha ritenuto per tutti questi anni fosse da trovare con altri percorsi, lontani da questo. Come me. Come avevo fatto, più o meno, io. Quando tutti questi pensieri, alla luce del conoscere i fami- liari delle vittime protagonisti di questo progetto, hanno ini- ziato a formarsi nella mia testa allora “Ventanni” ha iniziato a prendere una piega precisa. Perché se un progetto si pone l’obiettivo di avvicinare alla verità, c’era una verità della vicen- da Moby Prince che io potevo in qualche modo aiutare. Davanti a me avevo persone che un evento drammatico ave- va unito. Senza mezzi termini, senza stare a guardare la loro provenienza geografica, il loro livello di istruzione, la loro fede politica o le loro disponibilità economiche. La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 la banale caratteristica dell’essere parenti o intimamente legati a qualcuna delle centoquaranta persone che hanno drammaticamente perso la vita nel traghetto Moby Prince, aveva forzatamente unito nel dolore centinaia di per- sone. Intorno a questa cerchia precisa, contraddistinta da un lutto comune, c’erano altrettante centinaia di persone connes- se alla vicenda per motivi di co-presenza o co-responsabilità: equipaggi e passeggeri delle altre navi che sostavano o attra- versavano la rada di Livorno quella notte; quanti presero di- rettamente o indirettamente parte ai soccorsi; quanti ne furo- no testimoni e in esteso tutti coloro che, attraverso la notizia del fatto, vi si avvicinarono13. A distanza di vent’anni questa mole impressionante di persone si era quasi interamente sma- terializzata e i familiari delle vittime ancora attivi sulla vicenda erano rimasti pochi e si presentavano divisi. Quando nel corso del conoscersi ho iniziato a capire che, at-

13 Ci sono numerose storie di solidarietà livornesi e non dietro a questa vi- cenda. Albergatori che misero a disposizione posti letto, cittadini che prestarono assistenza, organizzazioni, come la Pubblica Assistenza, che da subito aiutarono i familiari delle vittime e le autorità competenti nelle difficili giornate immedia- tamente successive all’incidente.

27 traverso me, le due fazioni si stavano parlando, e che le perso- ne più lontane tra di loro, attraverso me, si stavano misurando con le scelte dell’altra, ho sentito di poter forzare la mano. Ho detto loro che l’anteprima del documentario l’avremmo vista insieme e che sarebbe stata un’occasione di confronto diret- to. Per tutto lo svolgersi delle riprese, i protagonisti sapevano di avere l’occhio dell’altro come spettatore e sapevano che all’accendersi delle luci, quel giorno, avrebbero avuto di che discutere. In più ho iniziato a scrivere il diario del progetto, inviando ai protagonisti i testi in anteprima per una verifica e valutazione prima della pubblicazione on-line. Questa atten- zione, unita al controllo su quanto usciva, li ha rassicurati e ha chiarito definitivamente a me e a loro metodi e intenzioni del progetto. Inclusa la più difficile: unirli per un’ultima, possibile, lotta comune. Io ci sarei stato e il progetto avrebbe potuto convogliare intorno a loro una solidarietà maggiore di quella vissuta negli ultimi vent’anni. Perché la verità del Moby Prin- ce aveva in sé, in controluce, una verità universale capace di avvicinare chiunque ne avesse fatto esperienza e io, oltre che riconoscerla, la potevo raccontare. Se i deboli, finora divisi, fossero riusciti a unirsi, allora ci sarebbe stata una speranza. Se nel farlo li avesse aiutati un progetto economico solidale, questo avrebbe potuto rappre- sentare un esempio replicabile. Ai miei occhi avrebbe potu- to addirittura stimolare al racconto chi, dopo vent’anni, era ancora in grado di aiutare la ricerca di verità e giustizia dei familiari delle vittime del Moby Prince, con un’inedita testi- monianza.

Aspirazioni. Sogni. Obiettivi.

Questo volume è la storia di quanto è realmente accaduto, oltre le intenzioni manifestate. Nasce dal diario del progetto “Ventanni”, parzialmente pubblicato on-line nel sito www. mediaxion.it/ventanni, e soprattutto dall’insistenza di uno dei protagonisti, Loris Rispoli, affinché al documentario fosse af- fiancata questa proposta editoriale per ragioni di completezza. Nelle note a piè di pagina sono contenuti gli approfondimenti

28 tecnici legati al caso Moby Prince e correlati ad alcuni passag- gi citati dai protagonisti di “Ventanni” con inevitabile fami- liarità. Considerato il volume di materiale raccolto e analizzato, ho sentito anche il bisogno di riportare nell’Appendice del testo un escursus riguardante la ricostruzione ufficiale di quanto accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 davanti al Porto di Livorno, secondo gli atti processuali, e di affiancarvi una breve trattazione dei dubbi ancora presenti sulla sua attendi- bilità. Dato il citarsi nel racconto di persone vive e vegete mi pre- me segnalare che la premessa di questo libro non può che essere la stessa che eticamente dovremmo anteporre a ogni narrazione della realtà: chi si è espresso lo ha fatto cosciente dei limiti dell’espressione e del suo plasmare in racconto la verità vera, quella lontana dalle parole, quella che, sola, non si può mai dimenticare e impone ad alcuni di noi di andare avanti in una direzione spesso ignota e pericolosa, spinti uni- camente dal riconoscere che sia giusto così.

29 2. PROTAGONISTI DI UNA STORIA

“A ridosso dell’evento fummo convocati in Regione. Volevano sape- re come rendersi utili. Ci dicono: «Avete bisogno di soldi?». Quell’al- tro voleva dirgli di sì, io gli dissi: «No. Dovete fare solo due cose: aiutarci materialmente e dare un lavoro alle vedove»”. Lo r i s , 2011

Chi sono i protagonisti di questa storia? Persone. Italiane. Persone comuni, quali si incontrano per strada ogni giorno. Ti sfiori, “mi scusi”, “no si figuri sono io distratto”. Quel tipo di persone che nel dirti una parola gentile ti guardano per un attimo negli occhi e ti lasciano vedervi oltre. Vedere un mare, infinito. Un mare di ricordi, di emozioni complesse e spesso indescrivibili. Là dove il linguaggio non può arrivare, dove la narrazione si ferma e lascia il posto a quel sistema impalpabile che guida le vite più nobili e meritevoli: l’empatia. Ci sono occhi del genere in giro per strada. Occhi che devi fermarti ad ascoltare. In un mondo frenetico, racchiuso nell’in- dividualismo delle scelte autoreferenziali, delle cerchie, del “io” e “sapessi io”, quegli occhi si perdono in mezzo alla folla. Si per- dono nel rumore. Si perdono nel loro bisogno di essere ascol- tati per un pochino più di cinque minuti, letti per un pochino di più di 140 caratteri. Io ho avuto la fortuna di incontrarli. Di cercarli e di saperli ascoltare. Ho avuto la sorte di conoscerli e andarvi in qualche caso oltre. Diventarvi, addirittura, amico. Nella coscienza che ogni descrizione è parziale, sento però il bisogno di raccontarveli.

30 2.1 Ivanna

“Gli uomini si sono organizzati/ come se fossero immortali;/ sen- za di che sarebbe stolto credere/ che nell’essente viva ciò che fu”. Eu ge n i o Mo n t ale , Diario del ’72

Ho conosciuto Ivanna il 10 febbraio 2011. C’eravamo sen- titi pochi giorni prima e mi aveva colpito la sua gentilezza. La cadenza emiliana forniva alle sue frasi un qualcosa di amiche- vole, fiduciario. «Verremmo in su il 10, poi ripartiamo l’11» le dissi. Lei mi rispose: «Volete fermarvi a dormire qui da me?». «No grazie, ho già prenotato». «Dove?» mi chiese. Le dissi il posto e lei mi rassicurò sulla collocazione centrale e prossima alla sua casa. «Prendete l’au- tobus, nel caso» si premurò di indicarmi. Questo modo materno di interessarsi alle nostre sorti mi apparve subito degno di attenzione. Loris del resto mi aveva raccontato di Ivanna come di una persona di spessore. La sua storia era un simbolo. Un qualcosa di significativo. Persi il marito e l’unica figlia nel Moby Prince, Ivanna aveva portato avanti da sola l’azienda di famiglia. Non si era mai riaccompa- gnata ed era stata in principio parte del Comitato opposto a Loris e vicino ai fratelli Chessa. Ai miei occhi era una sorta di ponte tra le due fazioni. Ivanna accolse me e Michele in casa sua. Sulla parete una composizione di fotografie in bianco e nero ritraevano una giovane ragazza, molto bella. «Quella è la mia Monica» mi disse, «con il suo primo moro- so. Una storia che poi finì, lui morì pochi anni dopo». Ivanna dice la verità così. Come si taglia un pezzo di pane. La maneggia con la sicurezza di chi usa una stoviglia. Ci sedemmo sul divano e mi guardai intorno. C’era un gran- de schermo e una videoteca piena di film in dvd. Il proiettore sospeso in aria rifletteva l’idea di una persona appassionata di cinema. Iniziai a parlare. Lei prese confidenza e iniziò a sua volta il racconto della sua storia. Aprii il taccuino. Monica, la sua Monica, aveva 27 anni. Era stata sposata con

31 un altro uomo, ma si erano separati. Successivamente si era riaccompagnata con un ragazzo. Un’altra storia travagliata. Il padre di Monica, Umberto, aveva in progetto un viaggio in Sardegna, nella casa di famiglia a Palau, con lo scopo di vedere il rally della Costa Smeralda insieme a Giuliano, un amico-cliente. Monica non viaggiava con i genitori da tempo e non era stata nella casa di Palau dopo gli ultimi arredi. Altri interessi, altri circuiti. Pochi giorni prima della partenza però incontra un amico, che festeggiava il compleanno. Le dice: “vieni anche tu”. Lei temporeggia, si sincera della presenza del ragazzo di cui è sempre innamorata. L’amico la informa del fatto che ci sarà. “Ma ci sono già tre che lo puntano”. Ivanna mi guarda dritto negli occhi: «Monica allora gli disse: “No non posso venire, parto in Sardegna con mio padre”». Un brivido mi percorse la schiena. Continuò: «Non avevano mai viaggiato insieme. Perché avevano due caratteri difficili. Si volevano bene ma a distanza. Quindi Umberto era anche contento di questa cosa di fare il viaggio insieme. Io ero stata a Palau poco tempo prima e le dissi di andare. Per la prima volta non sono andata con loro. Io poi mi sento ancora in colpa perché ho dormito tutta la notte». La notte del Moby Prince. I ricordi inseguono un tempo loro. «Mio marito non vole- va partire con Nav.ar.ma., perché diceva che era una pessima compagnia, infatti il biglietto l’ho fatto io per il ritorno con le Ferrovie delle Stato da Civitavecchia. E dovevano partire lo stesso, il giovedì, da Civitavecchia. Giuliano però voleva la cuccetta e non c’era. Poi voleva vedere la partita e decisero di partire il mercoledì. Mio marito, te pensa, mi disse dieci giorni prima: “secondo te è più pericoloso se affonda o se c’è un incendio?”». Ivanna mi osservò con amara consapevolezza. «Gli avevo risposto giusto». Una pausa. Breve. Poi ripartì: «Io ero a lavoro. Avevo Jack, il cocker della Monica, che era rimasto con me. Inizia ad ab- baiare come un pazzo. Mi sono affacciata dal soppalco perché l’ufficio l’avevo su e lui era giù, e il cane ruotava in circolo e abbaiava. Non so perché ma questa cosa mi fece vedere l’orologio. Erano le 22:27». Un altro brivido mi percorse la

32 schiena. Il Moby Prince centrò l’Agip Abruzzo alle 22:25. Pensai al ricordo e alla possibilità che tutto quello fosse sug- gestione, ma le parole di Ivanna si scioglievano nell’aria con l’intensità di una verità inoppugnabile. «La mattina mi sono svegliata e ho detto: “Com’è che non mi hanno chiamato col cellulare?” perché Umberto aveva uno di quei cellulari enor- mi, dei primi che c’erano allora. Alle 7:40 sento la radio vicino al lavoro. Sette e cinquantacinque e dice: “Prima di chiudere ci colleghiamo con Livorno per novità sul disastro… hanno confermato un solo naufrago”». Ivanna fece una piccola pau- sa. «Non respiravo più». Avvertì la cognata, poi sua sorella e infine la moglie di Giu- liano, l’amico di famiglia imbarcatosi con Umberto e Monica. Partirono per Livorno. «Sabato hanno trovato Giuliano. I nostri erano nei corridoi delle cabine vicino a quello che chiamano l’ossario14… avevano bruciato tanto. Brunella, la moglie di Giuliano, aveva due figli e tornò lì il venerdì. Il sabato trovarono il suo marito… mio marito l’hanno trovato la domenica. Tra gli oggetti c’era la ca- tenina della Monica. Io ero terrorizzata dall’idea che non tro- vassero il suo corpo. Quando ho saputo che avevano trovato lui ho avuto un senso di sollievo… anche se non sono andata a vedere le salme. Umberto l’ha riconosciuto mio cognato. Però mancava la Monica. Non si trovava, anche se la catenina c’era». Altra pausa, il tempo di un respiro. «Poi finalmente l’hanno trovata. L’ho riconosciuta dalla cannottiera. Non la trovavano perché l’avevano messa nello stesso sacco di Umberto. La dottoressa ha detto che erano abbracciati e bruciando sono diventati come una cosa sola». Una piccola lacrima, formatasi da qualche minuto nell’angolo sinistro del mio occhio sinistro, cadde sullo zigomo e mi rigò il viso. La lasciai cadere così, senza farci niente. Intorno a me, in quella casa curata, molti televisori. Uno in ogni stanza. «Si diventa cattivi. Volevo quasi che tutti morissero. Mi dava fastidio il fatto che tutti andassero avanti. Poi la gente. Ti senti

14 “Ossario”è il nome gergale dato a un’area del Moby Prince, prossima alle cabine di seconda classe, dove furono rinvenuti numerosi resti di corpi altamente carbonizzati e di difficile identificazione.

33 diversa. Non mi piaceva vedere la curiosità del leggere quanto dolore avevo». Prese fiato. Lo prendemmo tutti. Chiesi cosa le era rimasto dell’esperienza vissuta al Terminal Passeggeri, il luogo dove le autorità avevano fatto sostare i fa- miliari delle vittime, in attesa di effettuare il riconoscimento. «Guarda Francesco, per due tre giorni non c’era l’elen- co delle persone e ogni cultura mostrava il proprio dolore. I napoletani piangevano col loro fare molto… per noi sem- brava teatrale. Poi c’era chi si rifugiava nei bagni. Mi ricordo questi due ragazzi di Gorizia che avevano perso mamma e papà. Qualcuno cercava di condividere i momenti del rico- noscimento. Mi ricordo di Fumagalli che mi portò a vedere l’orologio del figlio». «Dopo cosa accadde?». «Venivo a Livorno per tutte le udienze. Partivo da Reggio in macchina e tornavo a casa finita l’udienza. Di cinquantaquat- tro udienze ne avrò perse tre o quattro per la chiusura della Cisa. Quell’essere lì mi faceva sentire viva, mi faceva sentire che stavo facendo qualcosa per loro». «Un legame, quindi». «Io volevo sapere la verità. Mi mancavano gli ultimi attimi della loro vita. Volevo sapere. Mi portava avanti più il bisogno di verità che di giustizia, perché a chiedere giustizia non ti di- cono la verità, ti negano la verità». Parlare del processo la rilassò. Ci raccontò di quando trovò gli avvocati dell’Agip nei corridoi antistanti l’aula, intenti a indottrinare i marittimi della petroliera sulla deposizione. «La parola d’ordine era: “la nebbia è scesa alle 22:15”. Io poi sono rimasta colpita da Lamberti15. Era così severo, scrupolo-

15 Germano Lamberti fu il Presidente del Collegio Giudicante del primo processo Moby Prince, terminato con una assoluzione di tutti gli imputati con- traddistinta dalla formula “il fatto non sussiste”. Il Dott. Lamberti presiedette tale processo anche in vece del suo ruolo di capo dei GIP di Livorno e, proba- bilmente a seguito di tale suo peso istituzionale, ebbe una parziale responsabilità anche nell’archiviazione dell’inchiesta parallela al processo principale, aperta a carico dell’ex Comandante della Capitaneria di Porto Sergio Albanese – per la non attuazione a Livorno di un regolamento che avrebbe potuto scongiurare

34 so. Li sgridava letteralmente. Poi… ha assolto tutti. Come da copione» sospirò, «tutto per il dio denaro». Tornammo a lei. «Io mi sento in colpa per essere viva. Do- vevo esserci io con loro. E piano piano ho imparato a con- vivere col dolore… mia suocera è stata la persona che mi ha capito di più. Perché per un anno ho nascosto la morte di mia figlia dietro mio marito. Poi un giorno ho parlato conmia suocera, anzi è lei che mi ha parlato e mi ha detto: “guarda, io ho sofferto tanto per la Monica, ma non quanto per Umber- to”. Questa cosa mi ha liberato. Io soffrivo per entrambi ma il dolore da madre era più forte che quello di moglie». Quel lutto, così intenso, proseguiva ancora e le continuava a segnare la vita. Le chiesi a proposito. Lei si toccò leggermente la fragia con la mano destra. «Non mi sono mai riaccompagnata. Non ci sono riuscita. Il pensiero di loro mi ha sempre accompagnato. Prima facevo tutto per loro, come se mi guardassero. Ora ho scoperto di farlo per me. Ma non sono più riuscita a prendere niente sul serio. Nessuna relazione. Sai, io ho avuto la Monica a dicias- sette anni, mio marito ne aveva diciannove. Siamo cresciuti insieme. Poi la ditta, anche quella, insieme. Io ho sentito di

la tragedia – , disposta da un GIP del Tribunale di Livorno, Roberto Urgese, a meno di un anno dalla sentenza di primo grado sulla vicenda. Il 19 novembre 2010, a pochi mesi dalla richiesta di archiviazione definitiva dell’inchiesta bis sul caso Moby Prince, Germano Lamberti, ha visto rinnovata in appello la condanna per corruzione in atti giudiziari – con addirittura aumen- to di pena da tre anni a quattro anni e nove mesi e interdizione dai pubblici uffici per cinque anni – a seguito di una vicenda dove fu coinvolto anche l’ex prefetto di Livorno Vincenzo Gallitto insieme ad alcuni imprenditori ed amministratori dell’Isola d’. Secondo l’accusa l’ex-capo dei GIP di Livorno avrebbe ricevuto appartamenti in un residence di lusso situato all’Isola d’Elba in cambio di agevolazioni per la realizzazione di un centro servizi nel Comune isolano di Marciana. Al momento della condanna di primo grado, sancita in data 21 aprile 2009, Lo- ris, presente nell’aula, dichiarò “ho accolto la sentenza con rabbia. La condanna in atti giudiziari del giudice Lamberti apre scenari anche sulla tragedia del Moby, scenari che la Procura di Livorno non potrà non considerare”. Nonostante ciò a distanza di poco più di un anno la Procura di Livorno disporrà l’archiviazione dell’inchiesta bis.

35 portarla avanti per loro e per gli operai che c’erano e sono rimasti ancora oggi» fece una pausa, si guardò attorno, «e ri- marranno ancora ma con un’altra proprietà. L’ho ceduta per- ché oramai sono in pensione. Anche se ancora ogni tanto ci vado a fargli vedere alcune cose… me ne sto allontanando piano piano». La guardai. C’era un mare dentro quella persona. Era una donna, era una mamma, era un’imprenditrice. Quando tut- to della vita poteva spingerla al baratro, lei era andata avanti e quel percorso, anche solo quello della sua impresa, l’aveva portato a compimento. Mentre pensavo a questo ci raggelò con il suo modo familiare di maneggiare la verità. «Mi ha salvato la possibilità di sapere di poterla fare finita. Penso che l’eutanasia sia un modo corretto di lasciare dignità alla persona. Io sono andata avanti anche pensando a quello. Potevo andarmene quando volevo».

Ci invitò a cenare con lei. I televisori erano in ogni stanza. Mentre preparava con fare materno un’improvvisata, quanto ottima, cena emiliana, pensai al senso della solitudine. Le per- sone riempiono il vuoto, scrissi su un taccuino da adolescente. In quella casa così ben arredata avvertii un profondo senso di solitudine. Quel vuoto freddo e impermeabile che a volte costruiamo intorno a noi, per riconoscerci nella sua tranquil- lizzante familiarità. Ivanna ci chiamò a tavola. Si sedette alla mia destra e ini- ziammo a parlare di noi. Il discorso finì su Mediaxion. L’idea di quella organizzazione giovane, amministrativamente oriz- zontale, mutualistica e solidale le accese lo sguardo: «Ma que- sto è il socialismo!» disse entusiasta. «Sarebbe bello se lo fosse. È un esperimento in tal senso. Speriamo di non fare la sua fine» le risposi con orgoglio im- barazzato. «Speriamo» aggiunse lei, mentre gli occhi mi cadevano sul suo profilo. Aveva sessantacinque anni ed era ancora una don- na affascinante. Non potevo credere, forse accettare, che il Moby Prince le avesse tolto la speranza dell’amore. Non riuscivo a pensare

36 che la vita volesse quel destino per una donna di quello spes- sore. Poco dopo le sue parole sancirono qualcosa che si era cre- ato tra di noi: «Io Francesco mi fido di te. Mi fido, ma te lo voglio dire, io non so se ce la faccio ad aiutarti con questo documentario. Ci posso provare ma… non so se ce la faccio. Per vent’anni io questo dolore l’ho tenuto per me e solo per me, l’idea di metterlo in piazza, di farlo vedere, per me è… è difficile, capisci?». Cercai di rassicurarla: «Intanto ci proviamo. Poi facciamo un patto, io e te. Se, anche il giorno prima di iniziare, mi dici: “Francesco non ce la faccio” io lascio perdere. Ok?». Lei si chinò sul piatto, tenendosi con la mano sinistra i ca- pelli. Nell’assecondare quel movimento annuì. Poi rialzò lo sguardo verso di me: «Io ci voglio provare, lo voglio fare per loro – Monica e Umberto – perché mi sembra quasi di non aver fatto abbastanza… ma è difficile, capisci? Se mi dici così… io ci provo, proviamo». Guardai dentro la cucina. C’era anche lì un piccolo televi- sore. Pensai: se tutto andrà per il meglio, un giorno da quel quadro piatto sospeso forse rivedrà se stessa.

2.2 Mauro

“Forse la fortuna fece sì che ci trovassimo fra le mani un amore eccezionale e io non avessi più bisogno di invertarlo, ma solo di ve- stirlo a festa perché durasse nella memoria, secondo il principio che è possibile costruire la realtà a misura dei nostri desideri”. Is a b el Alle n d e , Eva Luna, Feltrinelli, p. 265

Arzachena. Sardegna. Una luce e un’aria da fine maggio, benchè sia febbraio. Ricordo l’immagine di Mauro che cammina con a fianco Antonella, in direzione di me e Michele, la prima volta che ci siamo incontrati. «È lui» dissi nell’atto di alzarmi dalla pan- china vicina al luogo dell’appuntamento. L’avevo trovato su Facebook. Un primo messaggio e dopo qualche giorno la ri-

37 sposta. Cortese. Disponibile, con discrezione. Qualche altro messaggio e poi la richiesta di conoscerlo. Le immagini su Facebook della sua vita familiare erano un germoglio dopo la terra bruciata. Un segnale di speranza. La storia dei suoi genitori, raccontata da Loris nel libro au- toprodotto e parzialmente pubblicato on-line sul sito www. mobyprince.com, mi aveva colpito. Avevo negli occhi l’im- magine di questa coppia sarda imbarcata su un traghetto per andare in “continente” con l’obiettivo di aiutare il figlio uni- versitario a trovare casa. L’orgoglio di vederlo studiare fuori. La semplicità dei loro gesti. Pensai al senso di colpa. Al peso di sentirsi in qualche modo responsabile per ciò che era accaduto. Quel sentimento che avevo riscontrato in chi, come Ivanna, ancora avvertiva come una colpa persino l’aver comprato il biglietto per i propri cari. L’aspetto divertente fu che dopo le prime parole di Mauro capii che non era lui l’universitario che i genitori andarono ad aiutare nel cambio casa. Quello era Andrea, il fratello mag- giore. Lui, Mauro, all’epoca aveva tredici anni. Doveva partire insieme ai genitori, ma la madre pensò opportuno evitargli di perdere troppi giorni di scuola. Rimase a casa, con i nonni. «Quando sono partiti ero fuori a giocare a pallone. Mia madre mi disse: “non ci vieni a salutare?” e io… “tanto tornate per il mio compleanno no?”». Il suo compleanno è il 12 aprile. «Ho dato loro un bacio veloce e sono tornato a giocare. Poi mentre la macchina si allontanava ho avuto come un istinto, da dentro, di corrergli dietro. Ma non l’ho fatto». Mauro mi parlò subito con grande foga. In quel ristoran- te dove tornammo mesi dopo, mi trovai come un vaso che raccoglie l’acqua di una fontana. Antonella, sua moglie, a un certo punto mi disse: «È la prima volta che lo sento parla- re così di questo argomento». Quel giovane uomo oggi stava tornando alla tragedia che gli aveva cambiato la vita, forte di una nuova famiglia accanto: una moglie, un figlio, la serenità. Aveva perso la sua famiglia nel Moby Prince, aveva subìto da tredicenne il peso di quel dolore, ed era riuscito a ricostruirsi un equilibrio sereno.

38 «Ora però vorrei provare a riavvicinarmi. Ho letto i libri, mi sono informato a livello privato. Però quando mi hai mandato quel messaggio mi è venuto in mente… è stato come se mi avesse risvegliato qualcosa…». Mauro voleva parlare, voleva fare qualcosa per la vicenda e il documentario era, anche per lui, uno strumento in quella direzione. Con il mento alto e lo sguardo che solo a tratti usciva dalla traiettoria dei miei occhi, me lo esplicitò con chiarezza: «Lo faccio principalmente per i miei genitori. Per vent’anni sono stato lontano da questa sto- ria, adesso sono pronto, ho una famiglia accanto, vorrei fare qualcosa per loro». Mentre rielaboravo le informazioni raccolte e lo osservavo con selezione del dettaglio, tutto d’un tratto mi disse: «Però adesso parlami tu di un po’ di cose: questa storia della rico- struzione, che idea ti sei fatto?». Avevo letto qualche libro, un piccolo numero di documenti. Mi chiesi per un secondo se fossi la persona giusta per rispon- dere. Se ne avessi la legittimità. Gli descrissi così quanto sape- vo e quanto pensavo, condendo il racconto di alcuni “almeno a quanto dicono le carte che ho letto”, “secondo me”, “par- rebbe”. Parlammo a lungo della questione dei soccorsi e di quanto fosse quello l’aspetto più intollerabile della vicenda. «Ti dico Mauro che effettivamente è difficile credere all’idea che non abbiano cercato il traghetto e, una volta trovato, fos- sero tutti morti e quindi non ci fosse più niente da fare. Per- ché nel processo di primo grado è venuto fuori quello, anche se ci sono delle perizie di parte che dicono che la vita a bordo durò tanto». Lui mi interruppe: «C’è anche quel tipo che hanno trovato integro sul ponte la mattina. Si vede nel video di Minoli16». «Sì» risposi. «Quello è Antonio Rodi. L’elicottero dei Cara- binieri è passato sopra il Moby Prince la mattina, verso le set- te, e hanno fatto alcune riprese. In una ripresa si vede questo corpo con una maglietta rossa, e la pelle ancora rosea, mentre accanto ci sono corpi carbonizzati». Mauro mi incalzò: «Quindi era vivo la mattina».

16 Il Porto delle Nebbie, da La Storia siamo noi, Rai Educational, 2006

39 Io provai a rispondere: «Io ti direi di sì, ma nel processo sono riusciti a giustificare anche questa cosa. Pochi metri più avanti l’incendio era più distruttivo, lì no». Ricordo ancora la faccia indignata di Antonella, seduta da- vanti a me. «Perché io ho letto il libro di Fedrighini» accennò Mauro, «e in effetti di cose strane ce ne sono parecchie». «Sì, sicuramente sì, anche se il libro di Fedrighini riporta una parte delle questioni e ne trascura altre. Poi sostiene una tesi, quella del ritorno in porto del Moby Prince, che è un po’ azzardata» risposi. «Comunque se verrai a Livorno il 10 aprile potrai parlarne con Loris Rispoli e con Angelo Chessa, non ci sono persone migliori di loro due per conoscere la storia del Moby Prince». «Angelo Chessa sarebbe il figlio del Comandante?» mi chiese. Risposi di sì. Lui proseguì: «Guarda, io Loris l’ho trovato tramite il grup- po di Facebook. Mi sono iscritto, è capitato di scambiarci due parole... per me è molto importante quello che ha fatto in tutti questi anni. Ogni anno arriva questa sua lettera di invi- to alla commemorazione, ma finora non sono mai andato. La traversata l’ho fatta, anche proprio il 10 aprile, perché ho sempre avuto questa cosa dei tabù da superare…» si girò ver- so Antonella, «potrebbe essere la prima volta che andiamo all’anniversario». Prese la mano di Antonella e da lì iniziai a capire quanto fosse importante per Mauro la sua presenza. Lei ascoltava, in silenzio, e ogni tanto dava un piccolo commento. Mi appariva molto materna nel suo atteggiamento: era come se fosse riu- scita a creare un equilibrio con Mauro, cosciente dello spes- sore di quanto gli fosse accaduto, e adesso dovesse preservare quella condizione. Con lo sguardo tipico delle donne sarde, Antonella monitorava cosa stava accadendo nell’intenzione nobile di garantire per sé e la sua famiglia quella condizione di serenità che avevano raggiunto. Mauro non usò giri di parole: «Io adesso sono una persona felice. Ho una bella famiglia, ho mio figlio Federico che è un tesoro. Non so. Ho pensato che la mia storia potesse essere

40 comunque positiva. Io alla fine ho sofferto tanto per la morte dei miei genitori ma ora ho trovato la mia felicità. Mi dispia- ce che Federico non possa conoscere i suoi nonni come mi dispiace che non li abbia potuti conoscere Antonella. Per un caso del destino, anche se anche lei è di Arzachena, non li ha mai incrociati quando erano in vita». Michele chiese ad Antonella se ricordasse comunque qual- cosa del giorno in cui uscì la notizia del Moby Prince. Con discrezione Antonella rispose di sì, “ma non conoscevo di- rettamente la famiglia di Mauro”. Lui guardò per un attimo distante. In quel momento mi accorsi che c’era qualcosa in quella sorta di “notorietà” che gli aveva dato fastidio. L’idea, forse, di essere oggetto di un’attenzione diversa da parte della gente. Sulla scia di quell’emozione Mauro sancì il punto di arrivo del nostro incontrarci: «Comunque ora vediamo. Ci pensiamo un attimo e poi ne riparliamo, di questa cosa dell’anniversa- rio». Una parte di lui ne era forse già convinta. Un’altra però ali- mentava i suoi dubbi. Ricordo ancora le telefonate e i mes- saggi precedenti all’acquisto del biglietto. Per vent’anni aveva ricevuto l’invito da Loris Rispoli e per diciannove era rimasto lontano. Oggi sentiva di doversi riavvicinare. Ricordo le conversazioni telefoniche e quanto ci fosse in ogni parola il peso di un scelta. Non sapeva cosa aspettarsi e mi sembrava sentisse anche una sorta di remora. Lui, lontano dalla vicenda, a rappresentare la figura di un familiare delle vittime in un documentario. La scelta richiedeva un senso di responsabilità tutt’altro che banale. Poi cosa poteva esserci a Livorno? Come sarebbe stato conoscere gli altri familiari? Come sarebbe stato vivere con loro la rievocazione di quanto gli era accaduto? A tavola, in quel primo incontro, Mauro tornò per un attimo alla vicenda. «Prima hai detto che mi potresti far conoscere Loris Rispoli e Angelo Chessa. Tu che li hai conosciuti, come mai c’è questa storia della divisione? Ho visto che ci sono due associazioni…». Cercai di rispondere: «Ci sono idee diverse a livello di rico-

41 struzione, sono poi persone molto differenti tra loro. E co- munque la storia della divisione parte da lontano. C’è stato tutto un percorso sin dall’inizio ma vedrai che saranno loro per primi a spiegartelo». Mauro annuì con l’espressione di un curioso rimasto senza tutte le risposte e l’indicazione di dove andarle a cercare: oltre il mare, a Livorno, il 10 aprile 2011. Il pranzo finì di lì a poco. «Senti Francesco ci risentiamo allora, io adesso devo scappare che devo tornare a lavoro» disse Mauro. «È stato un piacere conoscervi e speriamo di risentirci». Il conto lo pagò lui, nonostante le rimostranze. «Siete nostri ospiti» mi disse Antonella sorridendo e con lo stesso sorriso ci stringemmo la mano sicuri, probabilmente già entrambi, che ci saremmo rivisti presto.

2.3 Loris

″Come ogni notte lavorativa vado al buffet di stazione a prendere un caffè, esco e la vedo: “ciao Liana, cosa ci fate da queste parti, come mai a terra?”. “Stasera non siamo partiti, abbiamo fatto un giro, questo è Ciro, Lei è Tatiana”, fatte le presentazioni, un saluto furtivo, poi al lavoro, era il 9 Aprile del 1991, l’ultima volta che avrei visto lei e le sue amiche. La sera dopo ancora al lavoro, dopo le 23 c’e qualcosa di strano nell’aria il cielo è rossastro, un rosso che sa di fumo l’odore acre col passare delle ore aumenta, ma nessuno sa niente [...] Sono passate le 3 quando arriva la prima edizione del “Tirreno”, ne prendo una copia vado in ufficio senza guardarlo, entro e lo apro, per un attimo, un solo attimo, il terrore ti assale, non è possibile, non può essere vero, “Giovanna, leggi te il Moby Prince, è bruciato? Sono morti? Devo andare a casa” [...] Dove vado, prima telefono a casa, cosa dico, quali parole uso, e a mamma, cosa dico a mamma. “Elena, vesti il bimbo, arrivo subito, il traghetto… fiamme… Liana”, usciamo di corsa, l’aria è pesante, cosa dico? [...] le scale in un attimo, “sei pronta?”, “sì, ma cosa è successo?”, “non lo so, non ho capito, il Moby è bruciato, ci sono i nomi i nomi dei morti sul giornale, ma ho telefonato in questura, forse qualcuno è salvo, andiamo dai dob- biamo dirlo a loro”. Il tragitto verso il porto è irreale, pochi attimi

42 e siamo prima davanti alla questura, chiedo e il poliziotto risponde, “sono tutti morti, una tragedia”, ecco ora devo veramente cercare di non urlare, di trattenere l’angoscia, “andiamo, andiamo” le parole, cercare le parole, un attimo e suono al portone, perché non aprono, non posso svegliare tutto il palazzo “sono io babbo apri il portone”, “cosa ci fate voi qui, sta male il bimbo, cos’è successo”, “no il bimbo sta bene, Liana… il traghetto… andiamo al porto… mamma stai cal- ma, vestiti andiamo al porto a vedere.. mamma per favore svegli tutto il palazzo… andiamo vèstiti” ma i vicini aprono le porte, “Liana… Liana… Lianaaaa” andiamo di corsa, ambulanze, tantissime, l’aria è irrespirabile, ci ripariamo dal freddo nel portone degli uffici del Neri, babbo sale vuole sapere, io non riesco a stare dentro, ma fuori è quasi deserto, il silenzio, il fumo che ti fa quasi tossire, e la volontà di sve- gliarti da un brutto sogno, non ci sono notizie, solo un tizio con la giacca della protezione civile continua a dire “sono tutti morti, bru- ciati” ma chi è quel cretino, chi lo ha fatto venire, che ne sa lui, qui a terra, loro sono in mare, perché non sta zitto, “mamma non uscire, c’è fumo fa freddo, tieni il bimbo in collo, attenta che non si svegli, Elena falla stare dentro, nò, nessuno sa niente [...] la Capitaneria si anima, si vedono alcune divise “no, nessuna notizia” com’è possibile che non si sappia niente, sono quasi le sei, e il tizio con la giacca della protezione civile continua, “guarda che sono tutti morti, io lo so”″. Lo r i s Ri s p o l i , Affinchè la memoria non muoia, p.1-2

Se per trovare gli altri familiari fu necessario un percorso di ricerca, Loris lo trovammo con facilità. Non c’è nessun per- corso a ostacoli. Basta cercarlo, lui c’è. Prima dell’incontro organizzato da Michele guardai il suo profilo Facebook e mi colpì una scritta: “Informazioni su Lo- ris: Uno che ha ancora il coraggio di indignarsi”. Accanto a quella, molte altre annotazioni di profilo. Tante, pensai, per una persona di 55 anni: “Orientamento politico: comunista”; “Situazione sentimentale: separato”; “Lavora presso: Poste Italiane”; “Città natale – aveva scritto evidentemente men- tendo – Stalingrad Volgogradskaya Oblast, Russia”. C’erano numerose fotografie, soprattutto della lunga lotta dei familiari delle vittime del Moby Prince e in quelle con lui come sog- getto si notava una sorta di trasformazione. Vent’anni prima

43 aveva un modo di presentarsi molto impersonale, mentre le immagini più recenti lo ritraevano con abiti e accessori con- notativi: orecchino, tatuaggi, un vestire notevolmente espres- sivo. I baffi, quelli soli, erano rimasti, benchè da neri corvini si fossero tramutati in un moltiplicarsi di tonalità grigie. Arrivai in Piazza Grande, a Livorno, e mi trovai di fronte lui. Un’ora dopo molte delle mie convinzioni sul Moby Prin- ce erano state messe in discussione dalla persona che più di ogni altra aveva lottato per conservare la memoria di questa vicenda. Ci ritrovammo alcuni giorni dopo a casa sua con Michele. Loris viveva da solo e il salotto dove andammo a sederci era pieno di stimoli da osservare: tanti film in dvd, un computer fisso con un’eccentrica tastiera arancione sopra il cui scher- mo campeggiavano due adesivi con scritto “Loris Rispoli”, un tavolo pieno di documenti appoggiati in ordine sparso e, poco più avanti, un grande televisore a schermo piatto, simile a quelli che avevo visto a casa di Ivanna; di fronte al televisore c’era una statua di Santa Barbara – la protettrice dei marittimi – ornata con una sciarpa dell’Inter e là, nell’angolo sovrastan- te lo schermo piatto, spiccava un insieme di fotografie che ri- traevano una ragazza di bell’aspetto: due grandi occhi azzurri tesi a formare uno sguardo velato da una sottile malinconia. Liana, l’unica donna rappresentata in quella casa, era la sorella minore di Loris che il 10 aprile 1991, nell’esercizio del suo lavoro, perse la vita all’interno del Moby Prince. Loris si sedette sul divano e iniziammo a parlare. Ben presto la conversazione diventò a due, dove io ero un semplice cu- rioso interlocutore di qualcuno che mi accorsi avere un mare da raccontare. Nonostante il mio cercare in quella casa dei segni connotati- vi, una volta uscito di lì non riuscii a rappresentarmelo in altro modo che attraverso le sue parole. Loris è infatti una sorta di museo vivente. Loris è il ricordo. Il racconto. Un vulcano di aneddoti e informazioni. Un vulcano di aneddoti e informa- zioni sul Moby Prince. La sua ragione di vita. Una specie di mandato. E alle volte un mandato del genere può sembrare un’ossessione. Una di quelle cose che non riesci a capire se

44 non ce l’hai davanti. E anche quando ce l’hai davanti non rie- sci a vederne i contorni. Riesci solo a farne esperienza. Io non penso che le persone come Loris si possano descri- vere bene. Perché descriverle significa arginarle e arginarle è peccato. Durante quell’incontro pensai che, alla fine, fosse per l’ennesima volta l’espressione di un processo di riequilibrio. Come una molla. Il Moby Prince ha compresso una molla. Ha portato il suo carico di ingiustizia, dolore e sfiducia. Poi, quando il suo peso è diventato più leggero, la molla ha iniziato a ritirarsi su e continua ancora oggi a farlo. E quella molla è Loris. Una volta una persona mi disse “quello che non capisco è che lui nel Moby Prince c’ha perso solo una sorella. Capirei fosse stata una moglie, un figlio…”. E alla fine è il prezzo da pagare. Quando una storia di vita scava troppo dentro i meandri del nostro equilibrio, dobbiamo metterci una pezza. Per quella persona il Moby Prince doveva restare una storia di lutto familiare. Loris ha perso una sorella, ci si piange, si ri- corda, ma così, forse, è troppo. Una deduzione che ho sentito fare anche ad altri. Altri che non hanno capito. Ma questo sta nell’ordine delle cose. Le persone come Loris non si dovreb- bero capire, se ne dovrebbe solo fare esperienza. Perché le persone come Loris sono il disordine del cuore davanti agli schemi della testa. Le persone come Loris dicono sempre più volte “noi” che “io”. Dopo aver guardato il telo bianco con sotto il corpo del proprio familiare, alzano gli occhi e guardano tutti gli al- tri centotrentanove teli, prendono aria e dicono: “lo farò per voi”, anzichè “lo farò per te”. Perché te è dentro voi. E quel voi, vent’anni dopo, può allargarsi oltre le vittime del Moby Prince. Includere, ancora, tutti coloro che rappresentano l’in- giustizia in questo Paese. Tutte le vittime delle stragi d’Italia, come “tutti” potrebbero essere intesi i familiari di quelle vit- time. «Questo è il video del mio discorso a Viareggio quest’anno» disse avvicinando il telefonino. Si vedeva Loris da lontano, su un palco, con le mani dietro la schiena. Indossava una maglietta blu tagliata alta. La posa

45 era da portuale livornese, carica. A memoria ricordo che il discorso partiva dalla solidarietà verso i familiari delle vittime di Viareggio nell’idea di una vicinanza tra le due vicende che avevano visto i cittadini di due città di mare morire bruciati per un mezzo di trasporto. Parlava inoltre dell’insostenibilità del concetto di “prescrizione”, del fatto che come il dolore dei familiari non è in grado di svanire, al pari lo Stato non dovrebbe prescrivere i reati che di quel dolore sono la causa. Applausi. Poi l’indicazione di quelli che riteneva i responsa- bili della strage del Moby Prince: l’armatore, il Comandante della petroliera e il Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno. Quei responsabili erano stati identificati e prescritti, diceva, quindi lo Stato aveva il compito di punirli. In con- clusione Loris chiariva che la conservazione della memoria su queste vicende aveva lo scopo di ricordare alla collettività in che modo evitarne il ripetersi: “perché non accadano più. Perché nessuno più si trovi a vivere il dolore che noi abbiamo vissuto”. Quel discorso fu applaudito da tutti i presenti. Migliaia di persone. E lui ne teneva memoria sul proprio cellulare. Pensai a quanto questo fosse curioso. Per qualcuno poteva essere protagonismo. Io stesso potevo in quel momento prendere quel gesto, il farmi vedere quel video, come una forma di pro- tagonismo. Ma ho imparato a capire che a Loris cosa pensa la gente non interessa. E lui, come mi confidò via chat qualche tempo dopo, aveva capito che ci eravamo intesi. Alle volte ci sono persone che sentono di fare la storia e la storia è il passa- to. È l’attimo dopo che qualcosa accade. Allora per un uomo che ha dedicato la vita a conservare il ricordo, anche quel vi- deo, la traccia di quel momento, di quella standing ovation, è un atto di lotta. Poco importa se a esserci c’è lui. Qualcuno c’è stato. Ha detto le parole giuste. Ha ricordato a chi c’era cosa è giusto e cosa non lo è. E bisogna tenerne traccia. Ancora oggi, quando ci sentiamo, capita a volte che mi dica: «France guarda, mi hanno chiamato gli amici di Casale per un’iniziativa ma non ci posso andare perché devo lavorare…» e io me lo vedo lì alle Poste, con l’aria evidentemente svoglia- ta e la testa altrove dove la sua storia alla fine l’ha collocato.

46 Durante quelle telefonate mi torna sempre il pensiero, emerso in quei primi incontri di conoscenza reciproca, che le per- sone come Loris dovrebbero essere tutelate dalle istituzioni di questo Paese, perché il loro lavoro di conservazione della memoria, evidentemente non retribuito, ha un valore civile immenso. Basta guardare le migliaia di contatti iscritti al grup- po Facebook da lui fondato, “Quelli che esigono la verità del Moby Prince”. Prima della migrazione decisa dal sito di Mar- tin Zuckerberg erano quasi quindicimila e in pochi mesi, a migrazione avvenuta, sono tornati da zero a novemila. Loris è presidente dell’Associazione 140, eletto ai tempi del Comitato 140 nel 1991 e da allora confermato senza biso- gno di alzate di mano. Per molti familiari delle vittime del Moby Prince è una sorta di pilastro inamovibile. Un pilastro cui spesso appoggiarsi completamente. Ogni anno, una ventina di giorni prima dell’anniversario della strage del Moby Prince – giornata che organizza quasi da solo in collaborazione con il Comune di Livorno – scrive una lettera di invito, la imbusta e la spedisce a tutti i familiari delle vittime di cui ha l’indirizzo. Per vent’anni l’ha spedita a Mauro, senza mai avere risposta. E nel 2011, per la prima vol- ta, quel piccolo gesto stava per essere ricompensato dalla sua presenza. Ecco, Loris è quello. È il gesto semplice di scrivere una lettera di invito per la commemorazione e la costanza, indistruttibile, di farlo per vent’anni. Nonostante tutto. No- nostante tutti. «Sai io Loris l’ho conosciuto ai tempi della scuola, lui era nella FIGC17» mi disse un amico, «era già uno tosto». Talmen- te tosto che in quel secondo incontro realizzato a casa sua riu- scì definitivamente a farmi capire quanto leggere un libro non fosse il modo più saggio di cercare la verità su una vicenda. «Te parli del libro di Fedrighini, ma sai che in quel libro non c’è mai scritta una parola contro l’armatore del traghetto, che invece è risultato essere uno dei responsabili, impunito, ma responsabile?». Chiesi chiarimenti e lui mi dette alcuni riferimenti. La sen-

17 Federazione Italiana Giovani Comunisti.

47 tenza di appello di Firenze e, da ultima, l’ultima archiviazio- ne. «Quel traghetto aveva delle carenze, carenze a livello di sicu- rezza: secondo te ha senso che un traghetto viaggi con l’im- pianto antincendio spento perché gocciolando macchiava la moquette? Quell’impianto non avrebbe salvato centoquaran- ta persone ma, se fosse stato acceso, avrebbe allungato i tempi di sopravvivenza a bordo. Poi il Moby aveva un solo radar su tre in funzione, una radio con cali di potenza e viaggiava con il portellone di prua aperto – dal quale entrò il greggio grezzo della petroliera – perché dovevano sbrigarsi con le operazioni per arrivare prima a Olbia e non perdere il pilota, altrimenti arrivava prima una nave con orario di attracco concomitan- te». Ero frastornato. Dov’erano finiti il traffico d’armi, gli ame- ricani, la 21 Oktober II della Shifco? «Questo è quello che pensano loro» mi rispose. «Loro chi?». «Loro gli altri. Quelli dell’altra associazione, i figli del Co- mandante». «Ah» dissi, «quindi è qui il problema. Avete idee diverse sulla ricostruzione». Lui prese aria: «Guarda, la storia di questa vicenda è mol- to lunga. La differenza è che mentre noi ci basiamo sui fatti accertati, loro si basano su quello che dicono loro. In questa vicenda di verità sicure non ce ne sono, come la nebbia che al processo in sessanta dicono esserci e in quaranta dicono non esserci, però anche in quel caso se guardi bene dai verbali delle udienze, e io me le sono viste tutte in diretta, scopri che chi veniva da terra vedeva nebbia, chi veniva da mare non la vedeva». «Perché loro alla nebbia non credono?» chiesi. Mi rispose immediatamente: «Per loro la nebbia non c’era e punto, e sono tutti bugiardi. Bugiardo il superstite, bugiardi i soccorritori, bugiardi i testimoni». L’idea del complotto, tipo quello che sembra venire fuori dal documentario de La Storia Siamo Noi di Minoli” esclamai. Loris fece la sua espressione più tipica: inspirare col naso

48 e guardare in alto. Come un sasso che deve tirare fuori dalla scarpa una volta a settimana. «Guarda, Minoli inizia dicendo che sul traghetto funzionava tutto. Ora siccome non c’è scritto su nessuna sentenza e non è descritto da nessun tecnico che questo è vero, a me pare che ci sia poco da ascoltarlo. Caso strano tutte queste operazioni, il libro di Fedrighini, il video di Minoli, vanno tutte nella dire- zione dell’armatore: sono responsabili tutti tranne lui. Il com- plotto, la bomba… Ora chiunque è di Livorno sa che nel 1991 all’interno del porto si odiavano un po’ tutti. C’era una mezza guerra. Ti pare che fosse possibile metterli tutti d’accordo per coprire non si sa bene quale traffico d’armi? Che poi la Procu- ra di Livorno, per quest’inchiesta-bis fatta da loro – i figli del Comandante – , ha dragato tutto il fondale della rada in cerca di mitra, carri armati, bombe… e non ha trovato nulla. Ora te mi devi dire: dovevano proprio scambiarsi qualcosa di gros- so per aver potuto organizzare un complotto che abbia fatto morire centoquaranta persone, non si sa bene perché, e poi messo a tacere tutto il porto, tutti i soccorritori, tutte le navi intorno, tutti. Tutti poi tranne quelli che secondo loro sono invece sinceri. Quelli che dicono qualcosa che torna alla loro idea, che ancora non si è capito completamente quale sia». «Questa divisione quindi nasce su idee differenti rispetto alla vicenda?» insistetti. Loris inspirò nuovamente tanta aria. Come un nuotatore prima di un tuffo. Mi sembrò quasi che tutta quell’aria avesse la funzione di arrivare nell’angolo della memoria dove è con- servata quella storia, allo scopo di spingerla fuori. «No, questa divisione ha una storia molto lunga. Nasce da un primo incontro che fu fatto tra tutti i familiari alla Casina Rossa di Lucca. In quell’occasione decidemmo di dividerci in coordinamenti territoriali e per la Toscana ne furono scelti due. A capo di uno dei due c’ero io. Dopo qualche giorno ci arriva una lettera a casa con lo Statuto di quella che leggiamo dovesse essere l’Associazione dei familiari delle vittime, fir- mato da uno dei familiari che si definiva “Il Presidente”. Nes- suno lo aveva eletto. Io faccio leggere quello Statuto anche al mio avvocato che mi dice che più che uno Statuto familiari

49 delle vittime sembrava uno Statuto da s.p.a.. Si parlava molto di soldi e poi di percentuali dei risarcimenti che dovevano essere lasciate all’Associazione. Di lì allora mi iniziano a chia- mare in diversi dicendo: “Loris io questa cosa non la firmo”. Poi si citava anche la questione di abbandonare tutti i propri avvocati per rivolgersi a un solo studio legale. Diciamo che alla riunione successiva in Provincia ci furono forti discussio- ni e noi livornesi con altri familiari ci staccammo. Pensa ad- dirittura che una persona della Provincia, che ci dette il locale per la riunione, disse che visto com’era andata non ci avrebbe più dato quello spazio. Volarono parole grosse. E da lì loro erano “quelli che cercavano la verità” e noi, per loro, eravamo il “comitato politico”. Dissero che io facevo tutto questo per visibilità politica... poi mentre noi organizzavamo la manife- stazione ogni dieci del mese, ci adoperavamo sul piano della mobilitazione, loro andavano in giro a cercare la verità, una verità che caso strano faceva sempre il gioco dell’armatore. Che infatti li pagò. Il mio avvocato al processo gli sventolò davanti l’assegno e lui fu costretto ad ammetterlo. Ufficial- mente disse per trovare la verità, quella che andava bene a lui, come nel caso della bomba». «Come della bomba?» chiesi. «Sì. Ad un certo punto venne fuori questa storia della bom- ba. Venne fuori dalla perizia Massari. In livelli molecolari trovò tracce di esplosivo nel garage del traghetto. Uscì fuori la questione sulla stampa e l’armatore, Vincenzo Onorato18,

18 Vincenzo Onorato (Napoli, 15 maggio 1957) è personaggio molto par- ticolare nello scenario imprenditoriale italiano. Conosciuto più per i trascorsi sportivi con l’imbarcazione Mascalzone Latino che per la sua guida della Com- pagnia armatrice della Moby Prince, all’epoca dei fatti: la Nav.ar.ma Spa. Lau- reatosi a Napoli, nel 1980, in Economia Marittima e per questo chiamato dai campani dell’ambiente “‘U dottore”, Vincenzo Onorato era allora co-ammini- stratore della Nav.Ar.Ma s.p.a., insieme al padre Achille Onorato e ne resterà unico co-proprietario della Nav.ar.ma (Navigazione Arcipelago Maddalenino Spa) insieme alla madre Mariagrazia Carminio – nata nel 1924 – fino alla fusione definitiva con MOBY Spa il 29 Marzo 2005. L’articolazione della sua ascesa imprenditoriale è ancora oggi alquanto com- plessa da ricostruire. Una complessità che si ritrova nella struttura proprietaria delle società di cui ha partecipazione diretta e dominante. All’epoca della strage

50 la famiglia Onorato controllava quattro società: Nav.ar.ma. Spa, Fion srl, Moby Invest Spa e Moby Travel srl. La prima di queste, la Nav.ar.ma. nasce nel 1959 con un oggetto sociale dedicato alla navigazione marittima – merci e passeggeri – tra “Sardegna e continente ed altre isole, Corsica compresa”. La società ha capitale sociale iniziale di 1.200.000 Lire e, secondo un rapporto del Centro Sisde di Napoli del 21.02.1992 viene elevato a Lire 150 milioni in “data non potuta accertare”. Negli anni la Nav.ar.ma. ricapitalizza più volte, sempre con importi esponenziali. Arrivano 350 milioni nel 1969, 1 miliardo nel 1982, 1 miliardo e mezzo nel 1988 fino all’ultimo versamento di 3 miliardi nel 1989 che fissa il capitale sociale alla data della strage in 6 miliardi di Lire. Al momento della costituzione la Nav. ar.ma. Spa è detenuta in quote paritarie da sei soci: tre della famiglia Onorato, Achille, Orlando ed Anna, e tre “esterni”. Nel giro di trent’anni – dal 1959 al 1992 – l’articolazione del capitale sociale della Nav.ar.ma. Spa cambia radical- mente. Spariscono dalla scena i tre esterni, anche se uno di questi tornerà seppur per via indiretta dopo, e il capitale sociale si articola in tre figure: una società per azioni e due persone fisiche, Vincenzo Onorato e sua madre: 1. Moby Invest Spa – 73,5% delle azioni per un totale di 4 miliardi e 410 milioni di Lire 2. Vincenzo Onorato – 17,67% delle azioni per un totale di 1 miliardo e sessanta milioni di Lire 3. Maria Grazia Carminio – 8,83% delle azioni per un totale di 530 milioni di Lire. Amministrano la società, con un giro d’affari stimato in circa 50 miliardi annui, due sole persone: Vincenzo Onorato ed Achille Onorato. Cos’è successo nel frattempo? Oltre all’evidente successo commerciale della compagnia, corroborato inevitabilmente dagli aumenti di capitale suddetti, a un certo punto Achille Onorato si fa da parte nella partecipazione azionaria della società. Tant’è che andando a verificare la composizione del capitale sociale del socio di maggioranza di Nav.ar.ma Spa – la Moby Invest Spa – si scopre che nel 1991 due terzi delle sue azioni sono detenute da Vincenzo Onorato ed il restan- te terzo da sua madre, Maria Grazia Carminio. In pratica, per proprietà diretta come persone fisiche e per proprietà indiretta come società, Vincenzo Onorato e sua madre – nel 1991 sessantasettenne – controllano la Nav.Ar.Ma. Spa. Prati- camente una cessione di proprietà di Achille verso Vincenzo e la madre. Il motivo non possiamo saperlo ma forse qualcosa ha a che vedere con un fatto documentato. Il 29 Ottobre 1975 infatti il Comune di Napoli registra il cambio di cognome di un giovane ragazzo che da cinque mesi ha compiuto diciotto anni. Il ragazzo si chiama Vincenzo Carminio, ha portato fino a quella data il cognome materno ma da quel momento in poi ne utilizzerà un altro abbastanza noto in città: Onorato. Vincenzo infatti è figlio legittimato di Achille Onorato, all’epoca del concepimento coniugato. In pratica, senza dedurre nulla e ripor- tando i semplici fatti: dal 1959 al 1991 Achille Onorato prima costruisce un pic- colo impero familiare escludendo progressivamente gli altri azionisti di questo – inclusi familiari diretti – poi affida ogni sua azione al figlio legittimato ed alla di lui madre con cui evidentemente aveva intrattenuto una importante relazione extra-coniugale.

51 A me non interessa, e invito il lettore a non interessarsene a sua volta, la vita privata di un uomo ormai defunto e della sua prole, legittima e non. Raccoglie di più la mia attenzione una serie di fatti curiosi: il P.M. incaricato di indagare sul fatto Moby Prince, Luigi De Franco, iscrive nel registro degli indagati Achille Onorato, quale armatore del traghetto. Questo è quantomeno strano. Da un lato perché Achille Onorato era sì co-amministratore di Nav.ar.ma Spa all’epoca di fatti, ma indubbiamente non ne era il proprietario, né tantomeno colui che aveva firmato la tabella armatoriale del Moby Prince. Tale scelta operata da De Franco, non si sa se stimolata o meno dalla Nav.ar.ma. stessa con la produzione di una documentazione apposita che certificasse in Achille Onorato l’armatore della Moby Prince, ha evidentemente fatto un gran favore a Vincenzo Onorato. Po- tremmo dire “protezione paterna”, ma la domanda vera è “come” e “perché”?. Spulciando ancora la documentazione relativa alla Nav.ar.ma. Spa si scopre poi un altro importante elemento. In data 3.12.1991, quindi otto mesi dopo la col- lisione, Nav.ar.ma Spa conferisce a FION Srl “un complesso aziendale relativo alle attività commerciali, comprendenti beni materiali ed immateriali, attività e passività di esercizio finanziarie, nonchè il personale dipendente, rientrante in un progetto di ristrutturazione delle società controllate dagli Onorato per far fronte a situazioni congiunturali derivanti dalla sciagura del Moby Prince”. Arrivano a Fion srl il marchio della Balena Blu – il celebre simbolo della attuale flotta Moby Lines – due traghetti, 14 automezzi, materiali d’ufficio, partecipazione azionaria in una partecipata, carburanti rimanenti e vari crediti per indennizzi assicurativi – per un totale di 1,7 miliardi -riferentesi tra l’altro all’incaglio della Moby Prince avvenuto il 29.9.1987″. In quel medesimo, propizio, 3.12.1991 questa società, la FION srl, riceve anche un altro conferimento da un’altra società , questa volta da Moby Invest Spa che gestisce il resto dei beni materiali e immateriali ascrivibili alla flotta. In totale il valore di quanto conferito il 3.12.1991 a FION srl si attesta in circa 33 miliardi di lire, portando il capitale sociale dall’iniziale 200 milioni a 34.108.743.000 di Lire. In un giorno quindi Vincenzo Onorato e la madre svuotano di valore Nav.ar.ma. e Moby Invest Spa per farlo confluire in una società terza, la FION srl appunto. Questa società, secondo i documenti presentati in dibattimento dall’Avv. Filastò (Verbale Udienza 12 Febbraio 1996), fu creata quasi in concomitanza con la sottoscrizione di una polizza assicurativa sul Moby Prince, comprendente anche copertura per rischio attentati terroristici, valutata a processo dall’Avvocato stes- so come “particolarmente onerosa” e “che in qualche modo travalica il valore stesso del traghetto”. Non avendo a disposizione questo documento, posso solo dare per buono quanto riporta l’Avv. Filastò che evidentemente ottenne nella sede di quel dibattimento, per bocca di tale Francesco Zonno (Dirigente della Criminalpol del Veneto), la conferma definitiva circa il fatto che nessuno indagò su questa strada operazione finanziaria così prossima all’incidente. La FION srl era stata costituita il 12.09.1990 con un capitale sociale di 200 mi- lioni di Lire, conferito in parti uguali da due soli soci. Indovinate chi? Vincenzo Onorato e sua madre. Quando nel dicembre 1992 arrivano questi 34 miliardi il quadro della proprietà subisce un’inevitabile ridefinizione ponderando le quote sociali all’entità dei conferimenti. I conferimenti, benchè provengano tutti da

52 Nav.ar.ma. Spa sono attribuiti anche in parte alla Moby Invest Spa. Questa mos- sa cambia leggermente lo scenario perché Vincenzo Onorato vede salire il suo pacchetto azionario al 29,9% per un valore pari a 10 miliardi e 200 milioni di Lire, mentre alla madre – cui non è riconosciuto alcun aumento di contribuzio- ne – resterà in conseguenza una percentuale molto bassa dell’azienda (0,29%). Nav.ar.ma si attesterà sul 36,12% e Moby Invest Spa al 33,68%. Ricordate chi è proprietario della Moby Invest Spa? Vincenzo Onorato per due terzi delle azioni e sua madre per il restante terzo. Uno strano gioco di scatole cinesi quindi che fece indubbiamente almeno un favore al fedele notaio che sottoscrisse quasi tutti gli atti: tale Luigi Mauro. Chi dirige, però, la FION srl? Presiede il Consiglio di Amministrazione Vincenzo Onorato coadiuvato da due consiglieri: Eduardo Morace e Luigi Parente. Questi due nomi non sono casuali. Luigi Parente è il commercialista che ha quantome- no assistito Vincenzo Onorato in tutto questo gioco di scatole cinesi societarie ed Eduardo Morace è il suo avvocato nella vicenda Moby Prince. Il rapporto con i Morace deriva indubbiamente dall’avvio della Nav.ar.ma. Spa, se non da prima, poichè Ettore Morace, padre di Eduardo, fu uno dei tre “non Onorato” a detenere quote della società nel suo atto di nascita. Ecco, da questo rapporto fiduciario, o quantomeno dall’evidente riconoscimento di aver svolto qualcosa di buono, deriva il fatto che nel Consiglio di Amministrazione di Moby Invest Spa Vincenzo Onorato e la madre mettono come Presidente lo stesso Luigi Parente cui viene affiancata la stessa signora Maria Grazia Carminio come Am- ministratore Delegato. A questo punto è legittimo chiedere: cosa hanno a che vedere tutti questi pas- saggi realizzati a cavallo tra il 1990 e il 1992 con la strage del Moby Prince? Soprattutto come è possibile che una Compagnia che, per dichiarazione del suo amministratore, aveva subito ripercussioni sul mercato “spaventose” (Vincenzo Onorato, Verbale Udienza 22 Gennaio 1996, Processo Moby Prince) a seguito dell’incidente sia riuscita a ricapitalizzare l’anno stesso per quasi 34 miliardi di Lire? Inoltre, altro quesito correlato, considerato che fu trasferito a FION srl marchio e gran parte di tutti gli asset operativi – materiali e immateriali, incluso il celebre logo della balena blu – di questo piccolo impero – mi si passi il termine – facente per lo più capo, prima alla Nav.ar.ma Spa, qual è stato il motivo di tale opera- zione? Quella che oggi conosciamo come Moby Lines – facente capo a Moby Spa – è rimasta immutata come punti di riferimento commerciale rispetto a Nav. ar.ma. Le navi non sono state ribattezzate con altro nome e la balena è rimasta. Perché quindi realizzare questa operazione? L’ultimo quesito è relativo alle origini finanziarie di questo impero imprendito- riale. Ripetendo una domanda divenuta ormai nota per un altro, ben più noto, imprenditore, viene da chiedere dove Vincenzo Onorato e Maria Grazia Car- minio presero tutti i fondi necessari a tale incredibile scalata. Furono quasi inte- ramente attribuibili a un finanziamento fornito dal padre di Vincenzo, Achille, elargito sia al figlio legittimato che a sua madre? Riporto infine un elemento di curiosità che trovo interessante. La propensione di Vincenzo Onorato, della madre e probabilmente dei suoi consulenti più fidati,

53 venne a processo dicendo che la bomba c’era e gliel’aveva messa la concorrenza, cioè Pascal Lotà della Corsica . Te pensa che Pascal Lotà non l’ha mai querelato per questa cosa assurda, perché “tra cani ‘un si mordono”. La tesi era l’attentato. Poi invece i periti della Mariperman chiamati dal tribunale dissero che l’esplosione era da gas perché, tra le al- tre cose, lo scenario era incompatibile con un’esplosione da solido. C’erano addirittura i neon integri. Ma questa cosa del- la bomba loro l’hanno seguita e difesa. Perché dicendo che c’era la bomba, la dinamica della collisione cambiava comple- tamente. Se l’esplosione era precedente ed era un attentato, allora era quella la causa dell’incidente». Cercai una risposta spontaneamente: «Queste sono comun- que diversità peritali. Cosa c’entra l’associazione 10 aprile?». Loris ripartì senza dover indugiare a riflettere. «A quel tem- po Angelo non c’era e la loro associazione fu fatta dopo, nel ’95 mi pare, con alcuni familiari che erano rimasti del comi- tato da cui noi ci eravamo dissociati inizialmente. Perché nel

verso la creazione di complesse strutture societarie – dove i nomi dei proprietari e degli amministratori restano sempre gli stessi ma cambiano le ragioni sociali – continua ancora oggi. Tutti i nomi qui riportati, a eccezione dei defunti Achille Onorato ed Ettore Morace, li ritroviamo ancora oggi nella articolata galassia delle società afferenti a Vincenzo Onorato. A titolo di esempio la MOBY Spa è società per azioni di proprietà di tre società L 19 Spa, Onorato Partecipazioni srl, Fion srl e due persone: Onorato Vincen- zo e Carminio Mariagrazia [Fonte. Visura camerale agli atti dell’inchiesta-bis, 8 Aprile 2009]. Da una attenta disamina si coglie quindi che la MOBY Spa è società quasi interamente riconducibile a Vincenzo Onorato e sua madre, i quali non solo siedono nel Consiglio di Amministrazione – come Presidente, il primo, e Consigliere, la seconda – ma hanno chiaramente un controllo anche su altre società che compongono il pacchetto azionario. Tra le ventuno (21) società di cui è titolare di cariche, compaiono infatti due delle citate: la Fion srl e la Onorato Partecipazioni srl, per le quali è, in entrambe, l’amministratore unico. Luigi Parente, oltre a essere Amministratore Delegato di Moby Spa dal 1999 e attuale Amministratore Delegato di Compagnia Italiana di Navigazione – la cordata imprenditoriale capitanata da Vincenzo Onorato che ha assorbito la nel 2011 – riveste cariche in altre sei società a quest’ulti- mo riconducibili. Un’ultima questione, semplice. Avete mai sentito parlare di tutto ciò? Alla pa- gina it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Onorato è presente una breve scheda di approfondimento con alcune, ponderate, note biografiche.

54 mentre, quello che mandò quella lettera autodefinendosi “il presidente”, era diventato il reale presidente dell’altro comi- tato, quello da cui ci eravamo dissociati noi, e venne fuori che aveva fatto dei passaggi poco chiari con i soldi…». «Addirittura». «Sì, anche se io queste cose le so dal racconto di chi, come Ivanna, era prima con loro e poi venne con noi, dovresti far- telo spiegare da lei»19. Qualche frase più avanti mi lasciò ancor più frastornato. I familiari delle vittime del Moby Prince si erano divisi sin da subito, ma la divisione non era in due parti ma in tre. Il “Co- mitato 140” – poi Associazione 140 – guidato da Loris, un se- condo Comitato guidato da “Il presidente” che poi, in parte, trovò nell’Associazione 10 aprile il suo sbocco organizzativo, e un terzo gruppo, dell’area sud, coordinato da Giuseppe Ta- gliamonte, poi col tempo dispersosi lungo il cammino. Ma l’obiettivo di Loris era chiaramente chi era rimasto an- cora oggi. «La cosa che a me dà più noia è che a loro l’armatore non ha mai voluto bene, eppure tutte le loro scelte sono andate nella direzione che più faceva il suo gioco. Te pensa che l’armato- re manda il giorno dopo l’incidente, quando il traghetto era sotto sequestro dell’autorità giudiziaria e non era permesso a nessuno avvicinarsi, nemmeno ai fotografi pena il sequestro del rullino… lui ci manda un funzionario Pasquale D’Orsi e il nostromo del Moby Prince, che quella notte non era a bordo per un permesso datogli dal Comandante, a manomettere la timoneria. La manomissione era per spostare il comando del timone da manuale ad automatico, quindi a chi la volevano dare la colpa se non al Comandante? E allora io non capi- sco perché loro in tutti questi anni non hanno fatto altro che compiere scelte a suo favore: negando le carenze del traghetto e non citando mai tra i responsabili l’armatore. Su questa storia delle manomissioni alla timoneria poi fu

19 Ivanna mi spiegò poi l’accaduto cui ritengo opportuno evitare descrizioni per mantenere il riserbo tenuto fino a oggi dai familiari delle vittime del Moby Prince in corrispondenza alla delicatezza della questione.

55 fatto un processo parallelo a quello principale e venne fuori che la manomissione era chiara, ma talmente grossolana che nessun perito ci cascò e quindi non punita. Però il giudice, la Dott.ssa Belsito, lo scrive nella sentenza: chi aveva interesse a manomettere lo stato dei luoghi, aveva interesse a coprire delle responsabilità relative al processo principale. E scrive inoltre che per lei non ha avuto alcun senso scindere quel processo sulle manomissioni alla timoneria dal processo prin- cipale. Ora se te armatore, il giorno dopo una tragedia del genere, anzichè sentire i parenti delle vittime, anzichè operare per cercare la verità, mandi uno a fare una manomissione – questa grossolana accertata, poi chissà quali altre… perché dal Moby Prince è sparito anche il registro delle eliche ka- mewa… sono spariti alcuni orologi, sono state manomesse alcune bussole… l’elenco è lungo…». Un fiume. Loris è un fiume di parole. Anche raccoglierle, ordinarle, diventò da subito un problema. Azzardai: «Sì ma scusa Loris, una cosa: te mi dici che secondo te quindi tutto il complotto, quella storia lì è falsa. Quindi che il problema sono le carenze del traghetto. Ma non capisco un punto. Il traghetto alla fine non l’hanno soccorso. Questo non c’entra con le sue condizioni». Loris mi guardò e iniziò a spiegarmi «Se il traghetto ha una radio con cali di potenza, il segnale del may day, la richiesta di aiuto del Moby si sente male e questo c’entra coi soccorsi. All’inizio tutti vanno sulla petroliera perché Superina20 chiede soccorso e la sua radio funziona. Lui sicuramente ha peccato di egoismo. Ha visto che chi gli era venuto addosso era un traghetto ma ha pensato a sé e al suo equipaggio. Quando nel canale 1621 senti dire: “sembra una bettolina quella che c’è

20 Renato Superina era il Comandante della petroliera Agip Abruzzo con cui il Moby Prince entrò in collisione. 21 Il canale 16 è il nome associato alla frequenza VHF dedicata all’emer- genza in mare: la 156.8MHz. Considerato il fatto che tutti i natanti ne restano all’ascolto veniva però utilizzata con una maggiore ampiezza di motivazioni: dal coordinamento dei soccorsi stessi, al segnalare una possibile rotta di collisione a un natante lontano, fino al richiamare l’attenzione dell’operatore della Compa- gnia Marittima di zona – la Capitaneria di Porto – per le comunicazioni di rito

56 venuta addosso” lui sta deviando i soccorsi. Se diceva: “mi è venuto addosso un traghetto” tra i due mezzi forse avrebbero scelto il traghetto o si sarebbero organizzati per andare alcuni sul traghetto e altri sulla petroliera. È vero che Superina aveva 82 mila tonnellate di Iranian Light, greggio da raffinare, quin- di davanti a un carico del genere e a un incendio forse ha avu- to paura di saltare in aria e se saltava in aria la petroliera questa storia non la racconta nessuno, a Livorno… Resta il fatto che quando i soccorritori, mai coordinati dalla Capitaneria perché, bada bene, la Capitaneria non ha mai dato un’indicazione… il Comandante della Capitaneria, Sergio Albanese, in tutta la notte non ha dato un’indicazione. Lui torna da un party a La Spezia e arriva circa quaranta minuti dopo la collisione. Si va a cambiare per togliersi la divisa da gala e mettersi quella di ordinanza, tiene ferma una pilotina che doveva portare alcuni vigili del fuoco in mare per dare il cambio ai colleghi, tant’è che Pippan22 era incazzato come una mina perché lui voleva andare fuori in mare a fare il suo dovere e questo prima ha tenuto ferma la pilotina e poi è stato a girare in mare per un’ora e mezza senza dare indicazioni a nessuno ed è tornato in Porto con Pippan e la sua squadra… Ora anche solo questo ti dovrebbe far riflettere su in che mani eravamo quella notte: questo torna da un party a La Spezia, con un disastro del ge- nere in corso e si va a cambiare la divisa…». Loris fumava. Fumava tanto. Parlare del Moby Prince con me continuava ad agitarlo e le sigarette si moltiplicavano una dopo l’altra sotto i suoi baffi. Chiesi: «Scusa, su queste cose qui non foste tutti uniti?». Lui lasciò uscire le parole tra gli sfilazzi di tabacco bruciato: «No. Perché il processo parallelo ad Albanese, che si risolse con un nulla di fatto perché nel frattempo Lamberti aveva assolto tutti perché il fatto non sussisteva, lo facemmo solo

relative alla partenza. La registrazione delle comunicazioni effettuate sul Canale 16 la notte dell’incidente del Moby Prince è per questo ancora oggi uno dei documenti più importanti dell’intero caso giudiziario. 22 Roberto Pippan, Vigile del Fuoco in forza al Comando di Livorno la notte dell’incidente.

57 noi… quel processo lo facemmo solo noi». La mole di informazioni iniziava a diventare insostenibile. Non capivo, chiedevo e il racconto prendeva sistematicamen- te un’altra strada. «Il motivo del perché fummo divisi anche in quello era che loro pensavamo al complotto, noi all’incompetenza. Per me se senti bene le registrazioni del canale 16 capisci che abbia- mo avuto a che vedere con delle persone di un’incompetenza incredibile. Nell’aprile del 1991 il Porto di Livorno non aveva nemmeno una norma semplice, fatta propria da altri porti più piccoli, come la differenziazione tra le rotte di entrata e uscita e quelle di stazionamento. In più nessuno quella sera aveva una mappatura delle posizioni delle navi in rada. Praticamen- te ognuno si metteva un po’ dove gli pareva. Tant’è che non capirono che la nave entrata in collisione era il Moby Prince e soprattutto non sapevano dove fosse l’Agip Abruzzo. Sen- za essere coordinati da nessuno i soccorsi sono andati sulla petroliera sulla base delle indicazioni che gli dava Superina via radio… sparò dei razzi di segnalazione… e quando i due ormeggiatori, da soli, vanno sul Moby e salvano Bertrand, nessuno ha dato ordine di salire sul traghetto. Hanno perlu- strato il mare intorno per vedere se qualcuno si era buttato in mare; ma nessuno gli ha ordinato di salire sul traghetto perché, dicevano, era troppo pericoloso...». Spense l’ennesi- ma sigaretta sul posacenere pieno alla sua destra. «Alle tre del mattino è salito un marinaio dei rimorchiatori, Veneruso, per agganciare il Moby. Lui è salito così… senza tute antincendio, maschere…». Loris guardò lontano. Sembrò quasi considerare l’idea che le cose possano andare così. Che quando c’è incompetenza, assenza di comando, irresponsabilità sul piano della sicurezza, allora fatti del genere possano accadere. Poi, però, tenne una porta aperta. «I periti e i documenti a oggi dicono questo. Poi chissà. Però alcune cose sono certe. E su quelle potevamo andare uniti». Il fumo avvolse il suo volto. Il mio sguardo cadde sul tac- cuino. In un processo già evidentemente ridimensionato dalla caratura degli imputati – quattro figure evidentemente mar-

58 ginali nella vicenda23 – dove si era operato preventivamente per escludere i nomi più eccellenti – Renato Superina, Co- mandante della petroliera; Achille Onorato, comproprietario della Nav.ar.ma valutato erroneamente armatore della Moby Prince24, e Sergio Albanese, Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno – le parti civili operarono scelte diametral- mente opposte nel dibattimento e questa, ai miei occhi, era una verità evidentemente privata di questa vicenda, estranea ai più, ma ancora fondamentale nella memoria dei suoi pro- tagonisti. Loris me lo ricordò più e più volte in quel primo incontro a casa sua: “non ci fu un momento in cui riuscimmo ad andare avanti insieme e questo fece inevitabilmente il gioco degli avvocati di SNAM e Capitaneria”. Colpiti dall’assoluzione di tutti gli imputati perché “il fatto non sussiste” i due macrogruppi rimasti non riuscirono ad andare insieme nemmeno al processo d’appello. «Il mio avvocato gli chiese di non venire all’appello, perché loro non credevano alla storia della nebbia e l’unica cosa su cui potevamo riuscire a ottenere qualcosa era la SNAM, quin- di la petroliera, quindi Rolla: il terzo ufficiale che non azionò i segnali acustici e luminosi di indicazione della nebbia. Noi poi ancora non avevamo preso i risarcimenti. E invece vennero lì

23 Gli imputati del Processo Moby Prince furono: Valentino Rolla – terzo ufficiale dell’Agip Abruzzo – per disastro colposo, omicidio plurimo, lesioni per non aver azionato i segnali acustici in coincidenza dell’insorgere del banco di nebbia attorno alla petroliera; Gianluigi Spartano, ex militare di leva – nato a Sorrento – che quella sera era di turno al servizio radio della Capitaneria e non udì il “may day dal Moby”; Lorenzo Checcacci, ufficiali di guardia quindi milita- re della Capitaneria di Porto – per non essersi attivato a dovere per rintracciare identificare e consentire i soccorsi alla nave investitrice ed infine Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di Porto – per non essersi attivato a dovere per rintracciare identificare e consentire i soccorsi alla nave investitrice. Valentino Rolla, Gianluigi Spartano, Lorenzo Checcacci e Angelo Cedro furono tutti assolti in primo grado con la formula “il fatto non sussiste”. 24 La posizione di Achille Onorato fu valutata dalla Procura di Livorno nel corso delle indagini preliminari in relazione alla sua condizione di armatore del Moby Prince. Tuttavia, in sede di dibattimento, una delle parti civili a processo portò agli atti una serie di documenti probanti – tra i quali la tabella armatoriale del Moby Prince – che esplicitavano Vincenzo Onorato, figlio di Achille, il vero armatore del traghetto.

59 comunque. Cercarono di far passare l’idea che la nebbia non ci fosse affatto e quindi automaticamente Rolla non era colpe- vole. Meno male alla fine il giudice non li ascoltò». Uno sguardo verso il tavolino, Loris spense quanto rima- sto della sigaretta e proseguì. A distanza di anni, nel 2006, il percorso processuale della vicenda si arrichì dell’ultimo atto: l’istanza Palermo. Presentata a tutela dei soli figli del Coman- dante, la richiesta di riapertura delle indagini riportava fuo- ri una questione che fu elemento di distanza forte tra i due gruppi, sin dal 1993. La figura seduta al tavolino davanti a me si ritrasse sullo schienale e pronunciò, per parte sua, quattro parole. «La storia di babbo».

2.4 Giacomo Maria Sini

“Tancas serradas a muru,/Fattas a s’afferra afferra, /Si su chelu fit in terra,/che l’aian serradu puru25” Mel c h i o r r e Mu r e n u , Sull’editto delle chiudende, 1820

Durante tutto il lungo racconto di Loris, c’era un ragazzo davanti a me, seduto al lato opposto del tavolo. Annuiva. An- nuiva e sottolineava con alcuni accenni i passaggi principali. Quel ragazzo si chiama Giacomo Maria Sini. Quando ci siamo conosciuti, Giacomo mi fu presentato da Loris come il suo successore designato. Stando ai racconti degli altri familiari, qualche anno prima Loris aveva segnalato al resto dell’Associazione 140 l’intenzione di cedere progressivamente la guida dell’organizzazione a un giovane; e aveva identificato in Giacomo la persona giusta. Col tempo poi, come mi spiegò lui stesso, riconobbe in un passaggio di consegne troppo rapi- do un rischio legato al fatto che la conoscenza della vicenda di Giacomo fosse indiretta – principalmente per tramite dei ri- cordi della madre e di Loris – e pertanto ritenne necessario un affrancamento graduale che continua ancora oggi.

25 25 Terreni chiusi con un muro/Fatti all’arraffa arraffa/Se il cielo fosse stato in terra/avrebbero chiuso anche lui

60 Nel Moby Prince Giacomo ha perso il padre, Antonio, uffi- ciale di marina imbarcatosi sul traghetto all’ultimo momento a causa dell’aggravarsi delle condizioni del padre rimasto da sempre residente a Pattada, un piccolo paesino in provincia di Sassari, nel nord della Sardegna. All’epoca Giacomo aveva due anni e questo evento tragico segnò la sua vita. «Sono cresciuto da solo con due donne» mi disse quando spostai su di lui l’attenzione, «mia madre e mia sorella mag- giore. Mamma ha fatto tanto. Io mi ricordo le riunioni del Co- mitato in Via Solferino e poi le manifestazioni. Ad un certo punto però, vero gli undici-dodici anni, ho sentito il bisogno di staccarmi. Sono tornato alla vicenda solo dopo. Quando comunque avevo già iniziato a fare politica». Giacomo mi si presentò come un anarchico. Un anarchico vero, di quelli che si sono documentati sull’anarchismo e ne hanno una visione alquanto precisa e discriminatoria, “mala- testiana” tenne a precisare. Anarchico ovvero contrario allo Stato come a ogni altro potere verticale. Mi tornò in mente il detto “chi semina vento raccoglie tempesta”. Chi aveva semi- nato il Moby Prince e la risposta statale, “tutti assolti perché il fatto non sussiste”, aveva contribuito al raccogliere questo in conseguenza. In aggiunta alle conseguenze della tragedia, Giacomo era stato oggetto di una vicenda incredibile, relativa alla diffama- zione del padre e riemersa a distanza di anni nell’istanza Pa- lermo; quindi riferibile ai figli del Comandante. L’intera istanza si fondava sull’ipotesi di reato che la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 lo Stato Italiano cedette la rada di Livorno agli Stati Uniti d’America per consentire traffici d’ar- mi e quindi operazioni illecite di carattere militare, cui il Moby Prince si trovò senza colpa in mezzo e per la quale copertura, si può evincere dai quesiti presentati dall’avvocato, i soccorsi evitarono di salvare le centoquaranta persone rimaste a bordo del traghetto26.

26 Sul Moby Prince, al momento del distacco dalla banchina del Porto di Livorno (Calata Carrara), erano imbarcate 141 persone: 66 membri dell’equipag- gio e 75 passeggeri. Di tutti questi il mozzo, Alessio Bertrand, fu salvato circa

61 All’interno di questo scenario fu collocato l’imbarco dell’ul- timo minuto, giudicato per questo strano, di Antonio Sini: uomo della marina militare che un articolo del 1993 pubbli- cato su La Nazione, poi rivelatosi falso, indicava addirittura come depositario del segreto di Ustica ed esperto di guerre elettroniche. A quattordici anni da questa prima diffamazione – cui re- stava memoria nei parenti sardi, nella madre e nella sorella maggiore – Giacomo si trovò quindi a digitare su Google le chiavi di ricerca “Antonio Sini Moby Prince” per trovare quale primo tra i risultati il documento elettronico dell’istanza Pa- lermo, pubblicato sul sito dell’Associazione 10 aprile, dove vi lesse scritto: “si chiede lo svolgimento di approfondite inda- gini sulle funzioni svolte da Sini all’atto dell’imbarco sul Moby Prince, sulle ragioni e le modalità del suo viaggio, sugli incari- chi che stava svolgendo per conto dei servizi, sui suoi contatti lavorativi, operativi e personali”. Naturalmente era una bufala, ma il web è libero, le informa- zioni girano e ben presto la cosa divenne inevitabilmente op- primente. Le persone chiedevano esplicitamente a Giacomo del legame del padre coi Servizi Segreti e, poichè la tesi del maxi-complotto filo-americano dietro alla tragedia del Moby Prince era ben digeribile a molti dell’ambiente politico da lui frequentato, questo chiedere assunse connotati oltremodo in- sostenibili. Giacomo decise così di reagire: «Qualche anno fa sono an- dato con mamma dai Chessa. Erano a Livorno per l’anniver- sario a presentare il libro di Fedrighini. Mamma non voleva, ma io mi sono avvicinato e gli ho detto chi ero. Angelo mi ha guardato come se… non se l’aspettava. Però non ci ha dato molta considerazione. Abbiamo parlato, poco. Più che altro ha ascoltato. Ma senza tanto riguardo». Loris, seduto sul divano, si inserì nel racconto. «Vedi, sono queste le cose che ci dividono: perché se vera- mente vuoi trovare la verità su questa vicenda non vai a cerca- re il su’ babbo che è depositario del segreto di Ustica perché

un’ora e mezzo dopo la collisione.

62 bastava conoscerli per capire che quella era una cazzata. Ora te ragiona su una cosa: in queste volte che ci siamo trovati, mi hai mai sentito dire una parola sul Comandante? Mai. A nessuno di noi ce lo sentirai dire. Eppure il babbo dei Chessa era il Comandante, era lui al comando di quel traghetto. Ora se gli altri familiari, per rispetto di quest’uomo che ha perso la vita nel traghetto, non si azzardano a dargli responsabilità su cui non si potrà mai difendere, perché loro vanno a diffamare il suo, di babbo? Tirando fuori una storia allucinante ed evi- dentemente finta… Perché bada bene iniziò tanti anni fa, fu smentita, e l’hanno ritirata fuori comunque. Come possiamo camminare insieme quando loro fanno scelte del genere?». Giacomo ascoltava e annuiva ammirato. Si capiva che in quel momento il rapporto con Loris si stesse consolidando. Quella difesa della “sua” storia personale era la conferma che Loris pensasse per tutti mentre altri pensavano per sé. Nel 2010 un ragazzo di vent’anni stava trovando in una persona adulta un esempio da seguire. Quale merce rara! Giacomo prese la parola. «Sai la gente alle volte fa cose sen- za capire. Noi ci siamo trovati ad andare in una scuola a par- lare del Moby Prince e sentirci dire dalla Preside che ci voleva il contraddittorio». Rimasi di sale. «Non ci credo». Loris annuì e lui proseguì: «A Livorno alla fine questa storia la vogliono dimenticare. E noi cerchiamo di salvarne il ricordo». Giacomo mi dette immediatamente l’impressione di esse- re una persona molto determinata. Ogni frase la pronuncia- va guardandomi dritto negli occhi. Pensai ancora una volta all’idea di queste persone in mezzo alla strada. Loro cammi- nano. Un mare dentro da raccontare. La difficoltà di essere ascoltati. «Poi te ne capitano di cose strane. Una volta ero alla stazione e davanti a me uno dice: “Devo andare a Civitavec- chia, prendo il traghetto Moby Prince”…». Sorrisi amaramente. Ad un certo punto mi tornò in mente il suo cognome. «Quindi sei di origine sarda come me...». Lui si gonfiò un po’ il petto e disse “sì” con una sorta di fierezza.

63 Parlammo per poco dell’associazione dei miei genitori dove molti iscritti erano sardi. Per poco della comunità sarda li- vornese. Ci soffermammo di più sulla questione del nostro rapporto con la Sardegna. Aveva il volto fiero e deciso. Quella decisione propria di chi ha vent’anni e vede tante rette dove altri vedono pericolose parabole. «In Sardegna ci vado ogni tre mesi. Vado solo a Pattada, nel paese di babbo. Per me è un bisogno, una necessità. Ho stu- diato un po’ il sardo a casa, leggendo dei libri di babbo e poi cerco di fare pratica coi cugini quando vado. Per me Pattada è casa. Io mi sento sardo». Quelle parole scavavano dentro di me. Essere sardo. L’iden- tità. I miei genitori sardi, diventati “continentali” per il lavoro di mio padre, e io, nato in continente ma cresciuto in una casa dove quando si diceva “noi” si intendeva “noi in Sardegna”. «I miei sono di Bonorva» dissi. «Ah, allora mi capisci» replicò lui. Capire. «Sì. Ti capisco» risposi senza pensare troppo alle pa- role. Tempo dopo quell’incontro ci ritrovammo. Passai da Loris e trovai dentro una troupe intenta ad aggiustare un grosso telo nero nel salotto di Loris. Un fondale. Loris si avvicinò. «È la troupe Rai, sono quelli de La Storia Siamo Noi che fanno un’integrazione di quanto avevano già mandato in onda, con noi che parliamo della vicenda. Dice il regista “per rendere più umana la cosa”». Nella piccola stanza vidi seduti sul divano Loris, Giacomo e quella che immediatamente potei identificare nella madre di Giacomo: Stefania. Aveva appena finito di parlare alla teleca- mera e mentre le toglievano il microfono, iniziò a raccontare aneddoti sul figlio. «Quando era piccino lui disegnava solo navi. Navi, navi, navi. C’avevo la casa piena. Poi a un certo punto ha smesso…». Giacomo ascoltava imbarazzato, con la schiena infossata nel divano. Vidi i suoi occhi andare distante. Lontano. Quella memoria indiretta di lui era oramai parte del suo vissuto, ma continuava a imbarazzarlo. «Era un bimbo tanto buono…» Stefania si girò verso di lui,

64 «poi è diventato così, ma cosa ci si può fare». Risate. Il regista uscì dalla stanza, ci presentammo. Era Andrea Bi- gnami. «Stiamo facendo anche noi un documentario sul Moby Prin- ce, come cooperativa, Mediaxion» gli accennai. «Interessante. No, questa è un’integrazione. Parlando con Minoli ci sembrava che la puntata fosse troppo impersonale. Allora siamo andati in giro a intervistare alcuni familiari. Ve- dremo quando mandarlo in onda» mi rispose. Poi aggiunse: «Comunque se trovate Superina e Bertrand ve lo compriamo noi». Sorrisi: «Non è quello lo scopo diretto, ma nel caso ci sen- tiamo». Mentre Loris, Giacomo e Stefania continuavano a parlottare tra di loro e i due tecnici smontavano il set, io e Andrea Bigna- mi iniziammo a parlare della Rai. Lui aveva fatto diversi docu- mentari di inchiesta e ricostruzione per programmi come Blu Notte e La Storia Siamo Noi. Per me doveva essere qualcuno di integrato nell’azienda. Invece no. «Guarda in Rai, come dice Minoli, fino a quarant’anni sei giovane e da cinquanta sei vecchio. Poi non c’è organizza- zione. Te calcola che io dovevo girare questa cosa con una XDCAM loro. È venuto fuori che per montare il video servi- va un lettore che era in un’altra stanza e non potevamo pren- derlo perché ci vuole l’addetto dell’altra stanza che lo toglie dalla stanza e lo porta nella tua per poi riprenderselo quando hai finito. Alla fine farò tutto in autonomia e arrivederci». Italia. 2010. Nel racconto di Loris la strage del Moby Prin- ce era figlia di quella cultura che resisteva ancora in racconti come questo. Uscì dalla sala Stefania e mi presentai. Lei mi strinse la mano. «Ah sì, mi ha detto qualcosa Loris. Piacere». Poi prese la via del portone e rimanemmo in tre. Quella situazione con sua madre mi aveva colpito e chiesi a Giacomo qualcosa sul loro rapporto, partendo dalla fine. Lui sorrise. «Guarda mamma non è molto contenta della mia attività

65 politica. A volte la vedevo alle manifestazioni in bicicletta. Mi seguiva. Ci sono stati alcuni casi in cui avevo paura la prendes- sero per una della Digos». Risate. Chiesi: «È stata una mamma apprensiva per via di quello che è successo?». «Normale. Da mamma» mi rispose. «Sarà stato duro, lavorare e crescere due figli…». Lui capì. «Sì mamma non si è mai riaccompagnata. È stata con noi. Io poi ero anche geloso. Quando vedevo qualcuno che le stava in- torno mi dava fastidio. Ma nella maggior parte dei casi non è che le stavano intorno per interesse. Erano magari amici di babbo. Alcuni venivano anche in divisa. Venivano a trovarci. Però a me la loro presenza dopo un po’ dava noia. E li scacciavo». Loris sorrise e Giacomo rinforzò la cosa: Sì sì, li scacciavo: fuori…». «Guarda» disse Loris, «io ricordo ancora quando la su’ mam- ma lo portava in Via Solferino, la sede del Movimento Federa- tivo Democratico che ci ospitava come comitato. Era un bel bimbo biondo…». Raccolsi un ricordo vago. «Ho visto una foto su Facebo- ok… era lui allora…». Giacomo sorrise. «Sì, Loris ha messo anche quella». Nel gruppo Facebook c’era una foto: un bambino biondo in braccio alla madre, in una piccola stanza a tinte bianche e celesti. Il bambino guarda la fotocamera. Qualcuno scatta. Sembra passato un secolo. E invece sono solo vent’anni.

2.5 Angelo

“Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, pur improbabile che sia, deve essere la verità”. Ar t h u r Co n a n Do y le , Il segno dei quattro, 1890

Angelo è il figlio minore del Comandante del Moby Prince Ugo Chessa e il 10 aprile 1991 aveva venticinque anni. Stu- diava medicina a Milano, giocava a basket e a detta sua “si godeva la vita”. Poi l’immagine del Moby Prince fumante al Tg4, durante il turno di mattina in ospedale. Lo shock e im-

66 mediatamente il pensiero più doloroso: nel traghetto quella sera c’era anche sua madre: Maria Giulia Ghezzani. Ho conosciuto Angelo il 21 dicembre 2010. Ritenevo alta- mente probabile trovarlo quel giorno a Livorno perché sa- rebbe stata discussa in quella sede l’opposizione alla richiesta di archiviazione dell’inchiesta bis sul Moby Prince presentata dall’Avv. Carlo Palermo per conto dei due fratelli Chessa: An- gelo e Luchino. Ottantadue pagine che mi ero studiato con grande interesse, sul filo di quanto avevo letto nel libro di Enrico Fedrighini: la rada di Livorno in mano agli americani, il traffico d’armi con il coinvolgimento della 21 Oktober II della Shifco – effettivamente in porto a Livorno quella notte – e addirittura quell’articolo di Panorama dove si ipotizzavano scenari terroristici. Giorni prima avevo richiesto alla Procura di Livorno la pos- sibilità di riprendere l’udienza. La voce dell’addetto del Tribu- nale era stata pari al contenuto delle parole pronunciate. «Il GIP ha disposto che la stampa stia tassativamente fuori dall’aula». «Ok» risposi, «aspetteremo fuori». Il giorno prima avevo chiamato direttamente l’avvocato Pa- lermo per conoscere l’orario esatto dell’udienza e lui mi aveva liquidato con fretta facendo riferimento all’intenso lavoro da svolgere. Il Tribunale di Livorno e quella situazione dovevano essere qualcosa di simile a un G8 a porte chiuse. Eppure io e Michele salimmo tranquillamente al primo piano e restammo qualche ora in attesa che qualcosa si muovesse. Addirittura salì un addetto pony pizza che, con poca cura del luogo forse frequentato abitualmente, entrò in tutte le stanze alla ricerca di chi avesse ordinato il suo carico. Ad un certo punto vidi arrivare un signore sulla sessantina, con degli occhialetti, e dietro di lui un giovane uomo distinto, alto, col pizzetto. Era Angelo. Quando insieme con l’avvocato Palermo uscirono dopo l’udienza, era chiaro che il risultato non fosse stato a loro favore. Angelo cercava il conforto di una sigaretta prima di parlare con i giornalisti e noi, con un passaggio fortunato in una scala interna, riuscimmo a essergli davanti. Poche battute,

67 il tanto di avere il suo numero di cellulare e l’indirizzo email. Un preliminare. Gli inviai così la prima documentazione sul progetto, cen- trata sull’unica persona fino a quel momento conosciuta, Lo- ris, e mi colpì molto la sua reazione: “Caro Francesco scusa se non ti ho risposto prima, ho letto la ″sceneggiatura″ e credo che sia meglio incontrarci di perso- na, l’idea è molto bella ma non credo che sia corretto – se ho capito bene, spero di sbagliarmi – visto come si è svolto tutto il difficile iter processuale e politico della vicenda, affrontare il documentario parlando solo di Loris Rispoli. In attesa di un vostro riscontro, vi saluto con affetto. Angelo”. A seguito di questo primo contatto organizzai un incontro a Milano, per conoscerci meglio, e Angelo accolse me e Michele in casa sua. Complesso elegante, ultimo piano, un ambiente curato, una colf che sistema la cucina. Angelo era arrabbiato, molto arrabbiato. «Guarda sono contento di aver chiuso con Livorno, perché quando ti trovi davanti un GIP che ti dice: “sì avvocato ma si sbrighi perché mica possiamo stare qui tutto il pomeriggio”… e lì l’avvocato gli ha risposto “ma sono morte centoquaranta persone” e quello fa cenno come per dire “eh va beh…” ca- pisci che non c’è niente da fare». Tirò fuori il cellulare e ci fece sentire la registrazione audio dell’udienza. L’aveva già evidentemente risentita diverse volte, perché ne ricordava a memoria alcuni passaggi. Mi ricordo il particolare di un passaggio dove l’avvocato di Angelo iniziò a parlare della sentenza di appello, in riferimento al primo gra- do. Un semplice errore. Lo segnalai ad Angelo mentre teneva in orizzontale il cellulare per permetterci un migliore ascolto. «Sì, è quella di appello, qui si è confuso» disse con un’espres- sione di disappunto. Quell’imperfezione era un problema. Non insormontabile, ma il magistrato aveva marciato per alcuni minuti su questa inesattezza e Angelo, che sembrava essere un perfezionista, ne era rimasto infastido.

68 «Giaconi27 era partito forte, poi però De Leo28 lo ha strac- ciato… si sono messi a cercare le cozze in mare29 anzichè an- dare dal Ministero della Difesa e dire: “apritemi tutti i volumi riservati su questo caso”». «Perché quindi la questione resterebbe per te sul piano del traffico d’armi…» chiesi. Lui rispose senza farmi finire la frase. «La questione è che la rada è stata lasciata in mano agli Americani ed era risaputo che le navi ENI facevano bunkeraggio30 alle imbarcazioni che gestivano il traffico d’armi fatto da settori deviati dello Stato. Nessuno ha parlato perché lì ci guadagnavano tutti. Tutti i marittimi che lavoravano…». Prendevo appunti, cercavo di tenere nota. Angelo racconta- va tutto questo con naturalezza. Date, dettagli tecnici, aned- doti. Tutti raccolti in un’incredibile narrazione.

27 Antonio Giaconi, il magistrato livornese inizialmente incaricato dell’in- chiesta-bis. Il 5 luglio 2010, a due mesi dalla richiesta di archiviazione dell’in- chiesta bis Moby Prince, il Dott. Giaconi ha lasciato la Procura di Livorno per approdare alla Procura della sua città natale, Pisa. 28 Francesco De Leo è stato Procuratore Capo di Livorno durante l’intero svolgersi dell’inchiesta-bis. 29 Angelo fa riferimento alle indagini sclerocronologiche predisposte dalla Procura di Livorno su alcuni molluschi prelevati dalla chiglia di alcuni relitti presenti sul fondale della rada di Livorno, in corrispondenza del quadrante di mare dove sarebbe avvenuta la collisione tra Moby Prince ed Agip Abruzzo. Scopo della rilevazione era valutare l’anno di affondamento di tali scafi, nell’idea che così si potesse desumere la presenza di altri natanti oltre al Moby Prince e l’Agip Abruzzo in quell’area della rada, imbarcazioni poi inabissatesi e per questo mai ritrovate. Le ricerche realizzate dal Prof. Cesare Corselli e dal Dott. Mauro Negri hanno determinato che l’età dei molluschi non era superiore a sette anni ma, come scrivono gli stessi magistrati “questo dato (come quello in ipotesi ricavabile dall’analisi isotopica dei molluschi morti) non è, come si è già accennato, univoco: ci dice l’epoca in cui l’organismo marino ha iniziato a vivere sul relitto, ma non quando esso è affondato”. Considerata la ragionevolezza della deduzione, realizzabile anche precedentemente l’indagine stessa, viene da chiedersi perché allora tali ricerche siano state fatte. 30 Con il termine “bunkeraggio” si intende il rifornimento dei prodotti pe- troliferi alle navi, utilizzati per lo più come carburante atto alla navigazione. Il termine deriva da una italianizzazione dell’inglese “to bunker” che significa, per l’appunto, “rifornire di carburante”.

69 «Il video D’Alesio lo conosci?» mi chiese. «Sì». «L’hai visto?» rincarò. «No, non tutto». «Ah ecco, dopo andiamo in un posto e magari ve lo fac- cio vedere. Il video D’Alesio è la dimostrazione evidente che il fuoco è dietro la petroliera, perché l’operatore, il figlio di D’Alesio, riprende da casa sua, a terra, e il fuoco si vede dietro la petroliera. Quindi il Moby Prince ha fatto una manovra di inversione della rotta. Infatti le pale del timone prima della collisione erano trenta gradi a dritta, una manovra di inver- sione. Una virata. Loro, quelli della Procura31, sono arrivati a sostenere che non si capisce bene se nel video il fuoco sia davanti o dietro». Ci guardò alla ricerca di una sorta di complicità deduttiva e proseguì. «Poi quel video è tagliato, nel punto in cui Cannavina32 passa

31 di Livorno, ndr 32 Comandante dell’Agip Napoli, altra petroliera SNAM ancora nella rada di Livorno la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, Vito Cannavina depone nel primo processo Moby Prince il 19 febbraio 1996. Dichiara di aver sentito la richiesta di aiuto dell’Agip Abruzzo e successivamente “istintivamente presi il binocolo e guardai in direzione dell’Abruzzo. Notavo solo bagliori di fiamme molto alte, ma la sagoma della nave non l’ho mai vista”. La sentenza commenta il resto della deposizione in tal modo “Poi scompare dalla sua vista la nave rispetto a loro più lontana; credendo fosse fumo comanda l’inversione dell’aspirazione dall’esterno: quando poi anche le luci dell’Agip Na- poli cominciarono a offuscarsi realizzò che trattavasi di nebbia e non di fumo.” [Sentenza primo processo Moby Prince, p. 140]. Resta controverso il fatto che Cannavina, come precisato dalla stessa sentenza (p. 390), è – insieme a Melis, 1° ufficiale di coperta dell’Agip Napoli e Pappa- lardo, capo barca del peschereccio Domenico Emma – l’unico a dichiarare di aver visto nel radar “l’eco di una nave che si allontanava dall’Agip Abruzzo” nel momento del disincaglio – 10-15 minuti dopo la collisione – ; una eco era pari alla “metà dell’Agip Abruzzo” quindi evidentemente una nave e non una “bettolina” quale quella citata da Superina e dal marconista dell’Agip Abruzzo, Recanatini, sul canale 16. L’aspetto per l’appunto controverso è il fatto che uffi- cialmente la presenza della nave investitrice identificata come tale – e non come una bettolina – è stata avvalorata solo alle 23:45 – tramite la chiamata sul canale 16 realizzata dall’ormeggiatore Valli, dopo il recupero del superstite Bertrand – e su questo asse portante si è appoggiata ulteriormente la tesi dell’assenza di

70 sul canale 13 per raccontare cosa sta vedendo: quindi sicura- mente il Moby Prince dentro la petroliera. Il figlio di D’Alesio passa con la radio accesa sul 13 e lì tac! Si chiude il filmato». Scrivo. «Poi il may day del Moby Prince, quello che sentiamo sul 16, non è quello che sentiva la Capitaneria, è quello che sentivano alle Poste. Perché si sono inventati questa storia che in Capi- taneria il may day del Moby Prince non l’hanno sentito… Ma non è vero. L’hanno sentito eccome». Aria. Il volume di informazioni era, al pari di Loris, difficile da gestire. Ad un certo punto riuscimmo a parlare dell’idea di un do- cumentario più centrato sulle figure personali. Raccontare la vicenda attraverso alcuni familiari delle vittime protagonisti. Angelo si sentì in dovere di una precisazione. «Sì guarda ti ho scritto quella cosa di Rispoli perché… non volevo che fraintendessi ma vedi… lui ha un’altra visione del- la cosa… si è appiattito su Del Bene33 e Bassano34 e ha credu- to a delle cose che per noi sono allucinanti. Si è fidato della Procura di Livorno. Questa gente… colletti bianchi… pensa che De Leo venne anche a stringermi la mano un giorno e

soccorso iniziale al traghetto. Cannavina però chiama la Capitaneria di Porto di Livorno sul canale 16 alle 22:31:43 chiedendo immediata assistenza per l’Agip Abruzzo “Compamare Li- vorno Agip Napoli, l’Abbruzzo s’è incendiata probabilmente c’ha ‘na nave in collisione che gli è addosso ed è in rada a Livorno. Bisogna far uscire immedia- tamente i mezzi antincendio”. Pochi minuti dopo dall’Agip Napoli sarà richiesta nuovamente attenzione e l’operatore della Capitaneria di Porto inviterà l’inter- locutore – forse il marconista della petroliera – a proseguire la conversazione sul Canale 13. È ragionevole pensare che in quella conversazione, di cui non fu divulgato il contenuto, il Comandante dell’Agip Napoli spiegò all’operatore della Capitaneria di Porto che a collidere con la petroliera Agip Abruzzo fosse stata esattamente una nave e pertanto potesse trattarsi dell’unica appena uscita dal porto, ovvero il Moby Prince? 33 Giorgio Del Bene, ingegnere nominato Consulente per le parti civili legate all’Associazione 140, presentò in dibattimento una ricostruzione dell’accaduto che, tra i tanti particolari, presupponeva l’assenza del Comandante dalla plancia al momento della collisione. 34 Paolo Bassano fu avvocato di Loris e di altre parti civili a processo.

71 mi disse: “lei dottore si intende di mare?”… gli ho risposto: “io sì, spero anche lei”». Angelo fece una pausa, sembrò qua- si ripescare qualcosa da un angolo nascosto della memoria. «Quando navigava mio padre ci portava spesso con lui… sono nato in mare». Ad un tratto parlammo così dei suoi genitori. Emerse ad- dirittura il particolare struggente della madre di Angelo che aveva sempre avuto paura di morire bruciata. «E poi è suc- cesso così» disse. Lo sguardo andò lontano. Pensò col cuore e sembrò per un attimo inchinarsi a un destino severo e in- comprensibile. Ad un livello superficiale di contatto Angelo appariva e cer- cava di apparire una persona principalmente razionale. Ascol- tandolo si aveva la sensazione che le sue convinzioni sulla ricostruzione della vicenda – centrate inevitabilmente sulla di- namica della collisione e quindi su quanto chiamava o meno in causa le scelte operate dal padre e interpretate dalla magistra- tura come una strana forma di “errore umano” – poggiassero su una conoscenza tecnica avanzata della marineria e del caso specifico. Come se per lui il Moby Prince fosse diventato pri- ma di tutto un fatto da analizzare scientificamente, una sfida intellettiva e civile da combattere sul piano dell’ipotesi, della tesi e della verifica delle stesse. Una sfida però che mi sembra- va solitaria, da lui condivisa unicamente con quanti fossero una sorta di protesi del suo intelletto: periti e avvocati. Nel suo racconto c’erano poche note relative alle sue sen- sazioni più profonde sulla vicenda. Poche situazioni dove si avvertiva dell’emozione che andasse oltre l’evidente rabbia per una sorta di grande complotto contro il quale si trovava ancora a lottare. Tra queste mi rimase impresso il racconto di un suo amico, gestore di un locale molto particolare dove Angelo ci portò a pranzare quel giorno, circa alcune serate organizzate in quel luogo per l’autofinanziamento dell’Associazione 10 aprile. Lì, per un altro attimo, oltre alla stanchezza per aver fatto la notte in ospedale e, senza pause, aver accompagnato la nostra vi- sita, comparve l’espressione di un’imbarazzata riconoscenza. Non era però la citazione di un fatto quello che mi sembrava

72 lo avesse colpito. Era l’evento. In quell’evento qualcuno era stato solidale con lui e la sua causa. E il ricordo di quella soli- darietà sembrava colpirlo ancora. Da lì, da quel momento, iniziò un percorso di confronto e relazione dove ho imparato a capire che nella ricerca os- sessiva di una verità lucida e inoppugnabile, estranea a tutte le ricostruzioni della magistratura, Angelo rivelava qualcosa di profondamente irrazionale. Un bisogno emotivo forte, di pace. Una pace che però continuava a chiedere a quel sistema – periti, avvocati, giudici, documenti e ascolto dei nastri audio del canale 16 – che finora aveva sempre rappresentato per lui un percorso inefficace. Eppure, nonostante questo, per Angelo quello sembrava restare il percorso obbligato: cercare da soli la sentenza giu- sta dal giudice giusto, quello che finalmente avrebbe fatto il suo dovere. Come lui, quando da chirurgo mette a posto le ossa dei suoi pazienti. Come un professionista onesto. Non un eroe, non chissà chi. Un semplice “magistrato onesto che abbia voglia di indagare”. Perché “la verità è lì e la questione è solo riconoscerne le prove”. Al dialogo in quel locale seguì il dialogo nel posto dove in realtà Angelo voleva portarci: il suo attuale studio peritale di riferimento. Per capire realmente la vicenda e il suo ruolo in essa dovevamo andare lì. Angelo scese dalla macchina, aprì il cofano e prese tre fal- doni enormi con scritto sulla costa “Moby Prince”. Michele mi guardò e disse: «Ecco, questa sarebbe stata da riprendere». Angelo sorrise compiaciuto, nell’idea che avevamo colto esat- tamente il senso del personaggio che intendeva trasmetterci. «Sappiamo che la petroliera era evidentemente da un’altra parte» mi disse ancora sulla porta, «quindi se la petroliera era da un’altra parte la rotta del traghetto era diversa da quella che hanno detto loro, la Procura di Livorno. Se la prua della pe- troliera era a sud, come dice Superina sul 1635… più che dirlo

35 Nelle fasi iniziali dell’intervento i soccorritori ebbero difficoltà a indivi- duare l’Agip Abruzzo. In conseguenza richiesero al Comandante della petrolie-

73 lui che era il Comandante della petroliera… e invece si sono inventati che era un errore di concitazione…». Il perito, Gabriele Bardazza, intervenne subito per chiarire il punto: “se la prua è a sud, mentre le sentenze dicono a nord, cambia tutto lo scenario. Come la questione nebbia… noi sia- mo vicini a capire come mai ci fossero quegli sfilazzi che i testimoni dicono vedere sopra il castello di prua…”. «Ma tante testimonianze citano la prua della petroliera a nord» obiettai. «Quelle sono false» rispose Angelo, «quelli dell’Agip testi- moniarono tutti nello stesso modo, come i pescatori sulla nebbia… testimoniarono così e poi caso strano ci fu la pax tra pescatori e Capitaneria di Porto…». In quell’ufficio elegante, pieno di catalogatori con scritto “Moby Prince” dove i nuovi portati da Angelo si sarebbe- ro andati a sommare, accanto alla grande cartina nautica del Porto di Livorno – simile a quella che un amico mi aveva pro- curato per capire qualcosa di più sulle distanze nautiche – lui disse al perito, con tono assertivo, di farci sentire la registra- zione del canale 16. Gabriele Bardazza accese il monitor da cinquanta pollici sulla mia destra e aprì il file con un software che conoscevo. Vidi la traccia stereo e iniziammo ad ascoltare quei file che poi il perito con gentilezza mi fece avere giorni dopo. Era emozionante sentire le voci registrate da Livorno Radio quella notte. Un tuffo nel passato. Si sentivano principalmente per- sone francesi e italiane. Si sentiva il “rumore bianco” tra una comunicazione e l’altra. Fino a quando non udimmo: “Livor- no, Livorno Radio da Moby Prince, Moby Prince”. Era la voce del marconista del traghetto che cercava di co- municare con la Capitaneria per segnalare i dati di navigazio- ne: numero di passeggeri e veicoli imbarcati. Quella persona non c’era più. Di lì a quindici minuti la routine di una sem-

ra, Renato Superina, di avviare delle procedure eccezionali di identificazione, come sparare dei razzi e suonare la sirena. Alle 22:28 il Comandante Superina risponde così a chi gli chiede di “suonare”: “Stiamo suonando, stiamo suonan- do. Solo che abbiamo la prua a sud e quindi difficilmente sentite...”.

74 plice navigazione sarebbe diventata l’inferno. Eppure in quel- la stanza gli unici a emozionarci sembravamo io e Michele. Angelo ascoltava quel nastro come qualcuno che legge uno spartito suonato centinaia di volte. Lo conosceva a memoria e in effetti poi il perito mi spiegò che quei file audio erano stati convertiti in digitale dalle audiocassette che Angelo riascolta- va continuamente in macchina durante i viaggi più lunghi, alla ricerca di una virgola, un indizio, qualcosa che evidentemente fosse sfuggito sia ai periti del Tribunale che a quelli di parte. Ad un certo punto guardai le due tracce stereo della regi- strazione sull’interfaccia del software che conoscevo e le vidi diverse. La sinistra era evidentemente più piccola, nei picchi alti e bassi dell’onda, rispetto alla destra. Lo feci notare al perito che isolò solo la sinistra e consen- tì l’ascolto di un audio differente da quello del canale 16. Si sentiva la voce concitata di un uomo che, in modo poco di- stinguibile, sembrava dire “scialuppa” e “stiamo aspettando qui”. Bastò quello, quella scoperta poi chiarita – si trattata della frequenza 2182hz riversata dai periti della Fonit Cetra dal bo- binone originale di Livorno Radio insieme al Canale 16 – per risvegliare in Angelo l’idea di una novità importante. Uno dei periti disse: «Può essere Theresa questo qui?» rife- rendosi alla misteriosa nave Theresa che compare nel Canale 16 poco dopo la collisione per segnalare lo strano messaggio, “this is Theresa, this is Theresa to Ship One on Livorno’s an- chorage, i’m moving out, i’m moving out breaking station36”. Era quantomeno un’ipotesi azzardata e Angelo rispose con un cenno negativo, perché conosceva la voce del Comandan- te della misteriosa Theresa a memoria. Ma mi guardò con l’espressione convinta e convincente. «Vedi, la verità sta nei particolari… ora questa traccia la fac- ciamo analizzare tutta e vediamo cosa viene fuori». Ci salutammo con l’idea di aver scoperto qualcosa, ma senza capire bene cosa. Soprattutto lo salutai con l’idea di aver cono-

36 Trad. “Qui Theresa, Qui Theresa per Nave Uno dalla rada di Livorno, mi allontano mi allontano, passo e chiudo”

75 sciuto qualcuno che credeva fermamente nell’esistenza, dopo vent’anni, di una verità, della sua reperibilità con strumenti tecnici deduttivi e del suo valore probatorio in termini giudi- ziali. “Lo dovranno capire”, “lo ammetteranno”, “è evidente” erano le frasi tipo di quel pomeriggio a Milano. Eppure finora quello stesso sistema giudiziario non aveva a quanto pare ca- pito, non l’aveva ammesso, aveva ritenuto evidente altro. E in quel desiderio di verità dalla magistratura, che Angelo richia- mava in ogni frase, mi sembrò esserci il bisogno profondo di una persona che vuole credere nella giustizia giusta, quella che non è lì per rincorrere i cavilli di un sistema legislativo, quella che infondo è tenuta a dire la verità, a dare pace a chi quella pace, per quanto accaduto e oggetto di giudizio, non l’ha più. Durante il viaggio di ritorno, in treno, rimuginai su tutto ciò. Sul convincimento, sul convincere e convincersi. Quando tuo padre è riconosciuto come uno dei migliori comandanti italiani e il suo traghetto, con a bordo altre centoquaranta per- sone, centra una petroliera a due miglia e mezzo dal Porto di Livorno scatenando la più grande tragedia della marina civile italiana, è possibile accettare che nei libri di storia sia scrit- to quanto dicono le sentenze sul caso? È possibile accettare l’idea del suo “errore umano” per “l’imprudenza della perso- na esperta”37 quando la vicenda è segnata da una lista incredi- bile di stranezze, manomissioni e quesiti irrisolti? Qualcuno forse l’avrebbe accettato. O sarebbe stato co- stretto a farlo. Angelo e suo fratello no. Non potevano e non riuscivano ad accettarlo. Inoltre, particolare non secondario, sembrava disponessero di risorse economiche in grado di so-

37 Tutte le sentenze emesse sul caso Moby Prince evidenziano la presenza dell’errore umano della plancia, ma lo fanno con una singolare insistenza giu- stificativa dello stesso – riferendosi in particolare all’eccezionalità del fenomeno nebbia caratterizzata dal suo palesarsi in modo improvviso, fitto e repentino – . A titolo esemplificativo descrive il comportamento del Comandante Chessa come “l’imprudenza della persona esperta” (Sentenza di appello processo Moby Prince, 1998, p.86). Questa “insistenza” deriva evidentemente dalla “dissonanza cognitiva” – la difficoltà di conciliare l’interpretazione di due concetti correlati ma opposti – che contraddistingue il dichiarare da un lato la grande profes- sionalità ed esperienza del comandante Ugo Chessa e dall’altro lato il suo aver centrato la petroliera a causa di un, seppur insolito, banco di nebbia.

76 stenere quel tipo di battaglia per la verità sul Moby Prince. Eppure in tutto questo percorso di ricerca della verità vera avevano tirato fuori anche una questione evidentemente as- surda come quella di Sini. Questa apparente discrasia mi colpì molto. Così quando con Angelo la conoscenza divenne più approfondita, gli girai la sceneggiatura del documentario aggiornata con la sua figu- ra e vi associai un messaggio dove spiegai la mia volontà di affrontare la vicenda Sini in relazione all’istanza e alla difesa della memoria del padre operata da Giacomo. Mi sembrava un percorso chiaro: come Angelo difendeva la memoria del padre, così Giacomo lo faceva a sua volta, in opposizione ad Angelo stesso. Se si fossero parlati, pensai, tutto questo forse non sarebbe avvenuto. Se Giacomo, Stefania38 e Angelo aves- sero avuto una cornice aggregativa comune, una storia di lotta comune, tutto questo non sarebbe mai avvenuto. Invece la divisione produce un solco e le scelte in quel solco non fanno altro che aumentare la distanza tra le sponde. Angelo accettò. C’era qualcosa nel mio modo di relazionar- mi con lui che lo aveva convinto a fidarsi. Forse, pensai, anche lui aveva bisogno del documentario per chiarire quella e altre questioni. Chiarirla agli altri e forse anche a stesso.

38 La madre di Giacomo.

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PARTE SECONDA. DIARIO DI VENTANNI

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1. PRELIMINARI

“I resti carbonizzati ai quali è stato attribuito il n.47, rinvenuti sem- pre nell’atrio compreso fra il Salone de Lux e le cabine di II classe, risultano appartenere a un cane”. Repertazione vittime e svolgimento operazioni peritali Moby Prince, p. 5

«Penso che lunedì mi incazzerò». È sabato 2 aprile 2011. Loris scuote la testa. Siede al posto di co-pilota della mia macchina, un po’ incurvato con la schie- na. Francesca, dietro, ride. «Perché France l’anno scorso lo fecero, ma non era così. Cioè noi così che si deve buttare la rosa in mare praticamente non so da dove pensano si passi…». Ci lasciamo il monumento simbolo della città, i Quattro Mori, sulla sinistra e guardiamo meglio le tensostrutture del TAN, il Trofeo Accademia Navale organizzato anche quest’anno in concomitanza con l’anniversario del Moby Prince. Concomi- tanza temporale e spaziale. La banchina dalla quale i familiari gettano la rosa in mare è infatti interamente occupata dalle tensostrutture della manifestazione. Grossi teli in pvc ripor- tano i marchi di sponsor legati al mondo della vela e non. Il tutto di fronte alla lapide commemorativa con i nomi delle centoquaranta vittime del Moby Prince. Loris scuote la testa: «Perché mi avevano detto mettevano le tende, ma deh così… noi il mare nemmeno si vede… sì sì, penso che lunedì mi incazzerò». «Loris ma il percorso del corteo invece?» chiedo. «Noi di solito si parte dal Comune, si arriva a Piazza della Repubblica, poi si taglia da Via Grande fino all’Andana degli Anelli. Che poi…» sbuffa, «anche lì quest’anno m’è toccato incazzarmi…». «Che è successo?» mi esce spontaneo. «È successo che a un certo punto mi chiama la Bernardo, l’assessore, che mi dice: “Loris scusa ma è venuto fuori un disguido, non so come sia possibile ma è stato messo il mer-

81 catino in Piazza Grande per il 10 aprile”. “Una svista” dice, “non ci siamo ricordati della concomitanza con l’anniversa- rio…”. E io le ho detto: “Allora io mi incazzo due volte”. E lei: “Come due volte?”. “Eh sì: perché se non ve ne siete ricordati, com’è che avete dato il patrocinio allo spettacolo teatrale di loro, sul Moby, che c’è il 9 aprile?”. E lei: “Ma cosa c’entra Loris?” e io: “Come cosa c’entra? Se dai il patrocinio a loro per lo spettacolo allora lo sai che è per la commemo- razione, perché quando pensavi lo facessero lo spettacolo se non per la commemorazione?”. “Eh ma…” …alla fine lei ha fatto rientra’ il tutto… dice: “Comunque stai tranquillo, siste- miamo tutto, è stata una svista”». Ne avevamo già parlato ma questa storia dello “spettacolo di loro” continuava a incuriosirmi. «Perché “di loro”?» chiedo. «Non è stato organizzato dall’Associazione 10 aprile, ma dagli autori dell’Associazione Muse39». «Mah» mi risponde lui col dubbio stampato in volto, «sarà. A me mi hanno contattato qualche giorno fa. Ora con tutto quello che abbiamo fatto sulla vicenda, fai uno spettacolo tea- trale e nemmeno parli… non dico con me, ma nemmeno con Enzo40 o Ivanna o Giacomo… Sarò malfidato ma…». «Pensi che sia uno spettacolo schierato?» lo incalzo. «Io ho parlato con Elena, uno degli autori, e mi è sembrata cordiale». «Sì Francesco, però hai detto anche te che quando gli hai parlato dello spettacolo di Francesco e Marta41 loro hanno detto che il loro è diverso e Angelo ti ha fatto sicuramente capire che a lui quello spettacolo lì non è mai piaciuto, tant’è che a Francesco gli chiese esplicitamente di togliere la parte degli sprinklers…». Azzardo: «Capisco… ma mi sembra una cosa un po’ assur- da questa questione dello spettacolo di una parte o dell’altra.

39 Moby 491, di Elena Lah e Duccio Agresti, Associazione Muse, 2011 40 Enzo Farnesi, padre di Cristina, deceduta sul Moby Prince all’età di 22 anni. 41 M/T Moby Prince, di Francesco Gerardi e Marta Pettinari, La Nave Europa, 2006

82 Non è che quello di Francesco e Marta è uno spettacolo della 140». Loris ci pensa un attimo. «Non racconta le tesi loro e alla fine nella parte dei periti che portarono al processo, quelli che si occupavano di incidenti stradali, li ridicolizza… ma la que- stione è anche un’altra. In questo spettacolo42 ci sono patro- cini delle Regioni, dei Comuni… ora chi l’ha fatto tutto quel lavoro con le istituzioni in vent’anni? Loro no di sicuro. Siamo stati noi a mandare gli inviti alle istituzioni, a fare la parte “po- litica” di relazione, a tenere vivo il ricordo in questo modo… ora esce uno spettacolo di loro e tutti danno il patrocinio… perché? Perché di questa vicenda se ne ricordano… e se ne ricordano perché gliel’abbiamo ri’ordato noi… Ora magari sentirci… magari capirle queste cose qui sarebbe già tanto». Capivo. Quando sei in prima linea su una questione ti aspet- teresti che chi viene a parlarne quantomeno cerchi un approc- cio con te. Per una specie di rispetto inconscio. «Vedi France io penso una cosa: Francesco come te è venu- to, ci siamo conosciuti, si è documentato. Ha sentito tutti e poi ha fatto la sua opera. È una questione di rispetto». Eccolo. «A me per esempio mi dà tremendamente noia che loro facciano iniziative il 10 aprile in concomitanza con le nostre. Come quel ragazzo che ha scritto quel romanzo sul Moby, Aloe. Mi scrive un po’ di giorni fa invitandomi alla presentazione, dove ci sarà anche Angelo, che si terrà alla Gaia Scienza alle 17:30. Ora se sai qualcosa di questa vicenda e di me, sai che io tutti i 10 aprile alle 17:30 sono a leggere i nomi delle vittime e poi a buttare la rosa in mare. E io gliel’ho scritto. Lui ha cercato di riparare, dice “facciamo alle 19:00”, ma il problema non è quello… il problema è che se parti così io non ci vengo alla tua presentazione perché non ho niente a che vedere con quella cosa, capito?». Tento di discutere: «Non lo sapeva e tu dici che doveva sa- perlo… a volte si sbaglia senza capire, non ci vedo premedi- tazione diciamo…». «Lo so Francesco, infatti mica ce l’ho con lui… ce l’ho con

42 Moby 451, ndr

83 chi lo sa che alle 17:30 noi si legge i nomi e non gli ha detto niente». Loro, ancora loro quindi. Loris leggeva in tutti questi com- portamenti un evidente problema con Angelo e suo fratello. Ed era difficile dargli torto. Mentre riflettevo sulle sue parole, Livorno, Via Grande coi suoi portici imbrattati di scritte e la maestosità di Piazza della Repubblica, mi ricordavano quanto fosse difficile tutto quello di cui Loris mi stesse parlando. «Da quello che dicevi prima sembra quasi che Livorno vo- glia dimenticare». Loris coglie e guarda fuori dal finestrino. «Livorno vuole dimenticare… Livorno alla fine sono i livor- nesi e i livornesi sono cambiati molto… poi calcola che questa è una ferita per questa città, è successo lì, una città di porto… è ovvio che la gente preferisce dimenticare. Non lo vedi dalle piccole cose, perché c’è sempre chi ti ferma, chi ti dà un segno di solidarietà… ma dalle grandi, dalle scuole… dal fatto che alla fine se non c’eravamo noi tante cose restavano lì… come la storia del monumento. Noi abbiamo raccolto soldi solo per uno scopo, questo monumento per il Moby Prince. Sono anni che se ne parla, le opere ora ci sono, ma si continua sempre a dire… qui, no là, no anzi di qua… Ci sono opere belle come quelle che hai visto». Giorni prima eravamo andati in un tempio cattolico sconsa- crato davanti a Piazza del Luogo Pio, in prossimità del Porto e per la precisione della Calata Carrara da cui il Moby Prince partì quella tragica notte di vent’anni fa. In quel luogo affa- scinante erano state installate tre opere sul Moby Prince che Loris mi aveva anticipato. Nell’abside del tempio poggiavano due gigantografie dei cantanti “Moby” e “Prince”. Io scossi la testa. «Ma come ti viene in mente una cosa del genere?». Loris mi prese l’avam- braccio come un adulto che spiega le cose a un ragazzo. «Sì France, ma lui è un artista e dice “io sono andato su Google, ho scritto Moby Prince e mi sono apparsi questi due cantanti, quindi li metto per far capire la memoria cosa fa… i tempi che cambiano…” praticamente ora Moby e Prince sono loro,

84 non più il traghetto…». Il ragazzo, cioè io, continuava a essere perplesso. Davanti a quell’abside però, al centro della sala, c’era un grosso cubo metallico arrugginito, con un angolo rivolto ver- so l’entrata. Alcuni bozzi prodotti dall’interno rendevano la figura inquietante. Sembravano tanti cazzotti lasciati da qual- cuno rimasto imprigionato in quella lamiera. Loris mi prese un braccio. «Questo infatti secondo me è quello che più è riu- scito a cogliere il senso… ci sono centoquaranta martellate da dentro… come i centoquaranta che non sono riusciti a uscire dal Moby… a salvarsi… è veramente… da brividi». Sarà stata l’atmosfera di quel luogo, la luce, quell’opera così d’impatto, ma sentii nell’aria un odore di sacralità. E il sacro è in sé vio- lento. Il sacro prende qualcosa di nascosto dentro di noi e lo tira fuori senza alcuna accortezza. Quel cubo di metallo sembrava un’opera sacra. Qualcosa da non toccare per l’energia che amanava. Qualcosa davanti alla quale fermarsi a sentire il respiro della storia. Mentre pensavo a tutto questo Loris mi si riavvicinò. «Ora il Comune lo lascia qui. Lo facciamo vedere la sera del 1043 e poi sarà smontato e le parti le mettono ai Bottini dell’Olio in attesa che si definisca il posto dove collocarlo. L’idea di metterlo qui davanti, secondo me, resta la migliore». Qui davanti ovvero in Piazza del Luogo Pio. Una delle piazze più antiche della città, in prossimità del porto. «Così finalmente anche questa l’avremo fatta, perché a me questa storia dei soldi lì mi dà noia… noi coi soldi non ab- biamo mai voluto niente a che vedere. Io lo dissi subito al Comune: non ci date soldi. Se abbiamo bisogno metteteci a disposizione dei mezzi: se c’ho bisogno di fotocopie, manife- sti, vengo qui. Ma soldi no». Uscimmo quel giorno sulla piazza in rifacimento e ci salu- tammo con l’impiegato del Comune che era venuto ad aprirci. Pochi minuti prima si erano messi a conversare con Loris dei vecchi tempi nel PCI. Quel signore mi guardò con aria emozionata.

43 Aprile, ndr

85 «Io comunque Loris sono sempre stato di quelli che oggi si direbbero socialdemocratici… quando andai a Berlino est e vidi tutti quei casermoni tutti uguali… quelle persone aveva- no un’idea di umanità che non mi piaceva per niente». Loris continuò a camminare. «Alla fine è stato un bene quello che è successo, no Loris?». Lui annuì, non troppo convinto. La storia aveva fatto il suo corso, il mondo nel 1991 era già stato desovietizzato, l’illusio- ne del socialismo reale si era oramai manifestata e qualcuno aveva già ridipinto il simbolo di quella grande organizzazione che era il PCI, e che riuniva in sé persone come Loris e per- sone come quell’impiegato, con i colori più tenui di un partito “democratico”. Eppure Loris dal 1991 a oggi aveva sperimentato quanto quella democrazia, nonostante tutto, non l’avesse aiutato e mi sembrava vivesse tutto quello con l’emozione di un figlio de- luso dal padre. Giorni prima, per farmi capire il perché del suo immediato cercare una relazione politica per la vicenda, mi aveva detto: «L’unica volta che alla manifestazione fummo in diecimila fu quando venne Occhetto. Vedere lì il segretario del partito mi riempì il cuore perché significava che in quel momento ave- vamo intorno tutte le persone che lui rappresentava, e infatti eravamo tantissimi». Fece una pausa e prima di lasciarlo terminare azzardai: «Però poi Loris dove ti hanno lasciato quelle persone? Occhetto è venuto quella volta e poi in Parlamento questa storia è sparita. Tanti tentativi bi-partisan di aprire Commissioni d’Inchiesta, senza poi farne una. E soprattutto quando ci sono andati loro a governare nessuno ha fatto niente per voi». Guardò da una parte. Eravamo in casa sua. E Loris aveva l’espressione di quel figlio tradito dal padre che comunque non riesce a mettere in discussione l’idea della paternità. Perché un padre ci vuole, anche quando si dimentica della tua esistenza.

Da quel giorno erano passate quattro settimane. Il 10 aprile alle porte e, lasciato Loris a studiare le contromosse per il lunedì, io e Francesca torniamo a casa di Michele. Voleva “te-

86 stare” la troupe e “vedere” le attrezzature che avevamo rac- colto per la produzione. Dal primo mattino avevamo trovato modo di soddisfare la richiesta in via domiciliare. La troupe equivaleva a Stefano e Andrea, anche se nei fat- ti questo test avrebbe riguardato solo parzialmente il primo, perché con la stessa scusa del “conoscersi” Stefano aveva già lavorato per Michele in via volontaria, come socio di Media- xion. Il principale indiziato quindi restava Andrea. La prima camera doveva indubbiamente sintonizzarsi con chi doveva decidere il taglio visivo del film. Per l’occasione Michele ci aveva invitato a pranzare insieme, ma dopo quanto accaduto solo poche settimane prima non avevo ritenuto sincero accettare e Francesca mi aveva seguito. Stavamo cercando di ricostruire un rapporto, apprezzavo quel gesto, ma non volevo fingere un idillio. Alcuni degli atteggia- menti che ci avevano già fatto discutere erano risorti anche nel momento mattutino di valutazione delle attrezzature, per noi frutto di uno sforzo economico fuori dalle nostre corde, ma a quanto pare sempre insufficiente per i suoi standard. A Francesca, produttrice esecutiva di Ventanni, non era sfuggi- to: “c’era sempre qualcosa che mancava… sembra sempre di essere sotto esame, quando qui l’unico a dover essere esami- nato sarebbe lui”. Appena entrati vedo Andrea e Stefano contrariati. Pochi minuti e salgono in macchina. Parliamo. «Non so. Non ho capito se mi voleva mettere in difficoltà per farmi tipo capire che non sono in grado oppure se c’era qualcosa di costruttivo» mi dice Andrea con franchezza. Lo conosco. Sta riflettendo. Sta cercando di capire perché ha percepito qualcosa di strano. Forse quell’idea di mettere in- sieme questa troupe, nonostante alcune premesse poco con- fortanti, è stata la mia ennesima sfida sbagliata. Ma Stefano cerca di rassicurarmi. «France’, io te l’ho detto: noi in un mese diventiamo la mi- gliore troupe in giro, ma il problema è essere partiti in ritardo, poi con questa indeterminazione. Comunque non ti preoccu- pare». Il tempo di riaccompagnarlo al treno e io, Francesca e An-

87 drea, imbocchiamo la strada per Massa. Lasciamo i dubbi die- tro le spalle, non c’è tempo per fare altro. Tra quattro giorni infatti inizierà la nostra settimana di fuoco. In serata sento Angelo. Gli spiego cosa ho in mente: l’idea di fargli conoscere Mauro il 10 aprile e di mandare Michele e Andrea, con Francesca, a riprendere lo spettacolo Moby 451 il 9 aprile. «Va bene. Hai parlato con Elena44?». «Sì». «Comunque per Mauro va bene. Per me non ci sono pro- blemi». Mi sento in dovere di riassumergli brevemente la sua storia. «Sai lui per vent’anni è stato lontano da questa vicenda, non vi conosce… prima vedrà Loris che viene la mattina all’arrivo, poi lo porterei lì da voi. Dove vi trovo?». Angelo mi risponde con cortesia che loro, intorno alle 11, saranno nello Studio Taddia, sugli Scali Bettarini a Livorno, per la conferenza stampa. “Scali…”. Realizzo: trecento metri da casa di Loris. Nel frattempo lui continua ad anticiparmi il programma: «Viene giù anche Gabriele, sai il perito che ti ho fatto cono- scere a Milano? Sì, lui. Perché abbiamo delle importanti novi- tà… quella storia degli audio di quando siete venuti… siamo andati avanti. C’è qualcosa». La voce si schiarisce. C’è della soddisfazione nelle sue pa- role. «C’è qualcosa. Poi sai… non è che possiamo dire con cer- tezza cosa sia, ma intanto qualcosa c’è». «Bene». A quanto pare durante la conferenza stampa saranno anche presentate altre iniziative legate al Moby Prince: il romanzo di Francesco Aloe, la cui presentazione è stata alla fine spostata alle 19:30, lo spettacolo Moby 451, il fumetto di Andrea Vival- do, La notte dei fuochi e la canzone “L’ultimo viaggio del Moby Prince” di Pietro Coccioli. «Sai sono tutte iniziative importanti» mi dice.

44 La co-regista dello spettacolo, ndr

88 «Sicuramente». Poi è evidente che c’è in loro qualcosa che sta gli sta a cuore. Il fumetto di Andrea Vivaldo, l’unica di quelle opere su cui avevo in anticipo potuto documentarmi, era infatti una creati- va trasposizione delle tesi sostenute da Enrico Fedrighini nel suo libro. E quelle erano in larga parte le tesi vicine ad Angelo. L’opera inoltre era stata realizzata da un giovane talento, in un linguaggio giovanile come il fumetto. C’erano quindi le ca- ratteristiche portanti per rilevare ancora una volta la capacità della storia del Moby Prince di raccogliere linfa dalle nuove generazioni. Inoltre La notte dei fuochi era riuscito a presenta- re in uno stesso volume due post-fazioni di Loris e Angelo. Per chi non conosceva la loro divisione poteva sembrare una positiva e lodevole ridondanza. A me apparì un confortante tentativo di avvicinamento. Seppure riguardasse la distanza tra pagina 193 e pagina 195. Quel libro riportava anche un altro articolo. Un articolo fir- mato da Luciano De Majo, un giornalista de Il Tirreno, fami- liare delle vittime, che era tragicamente scomparso il 20 feb- braio 2011 durante la nostra ricerca. Loris era rimasto profon- damente colpito da questo evento e ne parlammo al telefono qualche giorno prima. «In Comune ho deciso di leggere quel pezzo di Luciano. Mi è sembrato il modo migliore di ricordarlo». Fece una pausa. «Luciano era un amico oltre a essere un bravo giornalista… era uno di noi, perché sul Moby aveva perso uno zio. Quando hanno condannato Lamberti a Genova era con noi, con me, Ivanna ed Enzo. Ci ha sempre seguiti. Da sempre. E a lui tante cazzate su questa vicenda non gliele potevi raccontare. Lui conosceva l’ambiente portuale, come l’Arrighi45. Quando uscirono le storie sul traffico d’armi mi disse: “ma io queste cose qui non le pubblico nemmeno”». Fece un’altra pausa. «L’ho scritto subito sulla pagina Facebook e mi hanno scritto “Bravo, fai bene”, mi ha scritto poi anche la moglie per rin- graziarmi. Ha due bimbe piccole. M’è sembrato il minimo».

45 Elisabetta Arrighi, firma de Il Tirreno autrice del libro 140: la tragedia del Moby prince, Valenti di Allegranti, 1993.

89 Quando Loris parla della morte lo fa sempre con una sorta di familiarità. Spesso mi era capitato di sentire discorrere della morte con un flusso di parole inutili e per conto terzi. Loris la morte l’aveva conosciuta e ne riusciva a parlare con la misura corretta. Luciano De Majo era morto, lui sapeva del dolore dei suoi familiari e sapeva che davanti alla morte ci possiamo solo preoccupare per chi sopravvive. Nel mio elenco dei “da fare” mancava solo un gesto all’ap- pello: chiamare Mauro per avere conferma del fatto che sa- rebbe venuto con noi il 10 aprile. Che avremmo soprattutto preso la stessa nave da Golfo Aranci la notte del 9 aprile. Quale sventura, sarebbe altrimenti! Il suo primo viaggio per conoscere gli altri familiari delle vittime, dopo vent’anni, e magari sbagliamo nave. No. Non si poteva assolutamente. «Sì te lo confermo Francesco. Abbiamo fatto il biglietto io e Antonella per quella delle 21:00 del 9. Ferries». «Bene. Ottimo». «Senti una cosa, verrebbe con me, se non vi dà fastidio per le riprese, anche un mio cugino. Ci tiene a venire anche lui. Vi scoccia?». «Assolutamente no» rispondo, «ma figurati. Anzi». Mauro incalza: «Poi per quando siete qui come ti ho detto state in questo appartamento che abbiamo a Laconia. Lo af- fittiamo l’estate ma ora è libero. Non è proprio attaccato ad Arzachena, ma comunque siete vicini». La sua gentilezza e generosità sarda mi facevano sentire a casa. Ci avrebbero ospitato e addirittura in un appartamento per vacanze. «Io poi come ti dicevo sono libero dalle 14:00 alle 15:00 e la sera dopo le 19:00». «Certo» risposi. Avevo capito i confini e in Sardegna i confini sono impor- tanti. Dopo i saluti di congedo i miei occhi cadono sul prato di casa con la mente rivolta alla settimana che stava per inizia- re. Il piano di produzione era pronto, affisso sulla lavagnetta dell’ufficio in Via Machiavelli, 32 a San Casciano e replicato su Google documents. Il 6 io, Stefano, Andrea e Michele sa-

90 remmo partiti per la Sardegna, il 7 e l’8 saremmo stati con Mauro. L’8 sera Michele e Andrea sarebbero tornati a Livorno per realizzare il 9 le riprese relative alla visione, da parte di Angelo, Loris, Giacomo e Ivanna, dello spettacolo Moby 451. Io e Stefano saremmo rimasti con Mauro per seguirlo nel suo viaggio verso Livorno, il primo con l’idea di conoscere gli altri familiari delle vittime. «Federico rimarrà a casa dai nonni» mi aveva detto. E la mia mente pensava alla loro. Avranno timore per questo? L’idea di lasciare Federico a casa, mentre loro, da genitori, compivano un viaggio senza di lui. Come i genitori di Mauro. Come vent’anni prima. Osservo Francesca e Chiara preparare la cena. Da poco lei, mio cognato e mio nipote sono venuti a stare da noi durante la ristrutturazione della loro casa. «Secondo me ci pensano» mi dice Francesca, «è un pensiero quasi inevitabile. Soprattutto se è la prima volta che viaggiano senza il bambino». Federico, il figlio di Mauro, ha meno di due anni. Chiara, da madre, compone un’espressione del volto dubitativa. «Io non lo so se ci penserei. Però sono indubbiamente coraggiosi a fare questa cosa del viaggio, soprattutto lui…». Pensieri che corrono. Vibrazioni. Mauro è un mio quasi coetaneo. Il suo coraggio e quello di Antonella, sua moglie, sono una frequenza positiva in un presente italiano surreale: il governo Berlusconi, per voce del suo Ministro della Giu- stizia Angelino Alfano, spinge perché passi quanto prima la riforma del cosiddetto “processo breve”, ribattezzato dalla stampa indipendente “processo morto” per la sua capacità di rendere impossibile la condanna finale degli imputati grazie all’avvicinamento dei tempi di prescrizione. Nel frattempo, il 6 aprile, si aprirà a Milano il “processo Ruby”: il Presidente del Consiglio in carica è imputato per concussione aggravata e favoreggiamento della prostituzione minorile. La prostituta minorenne sarebbe una marocchina che Berlusconi avrebbe ospitato ad Arcore per incontri a luci rosse – favoreggiamen- to – e per il cui rilascio fece pressioni al vice-questore di Mila- no – concussione aggravata – dichiarando che quella giovane ragazza fermata per un furto di tremila euro era in realtà “la

91 nipote di Mubarak”, allora Presidente dell’Egitto. Quell’arre- sto, pare avrebbe detto Berlusconi al vice-questore, avrebbe potuto causare un incidente diplomatico. Mauro e Antonella. Il loro coraggio. Berlusconi. La sua sfrontatezza. L’Italia in mano a lui. Francesca commenta l’ultima: «Ma ti rendi conto che il Par- lamento lunedì vota per dire se effettivamente Berlusconi può o non può essere processato a Milano, perché lui era vera- mente convinto del fatto che Ruby fosse la nipote di Muba- rak? Cioè qui siamo alla follia». Già. Altre vibrazioni. Prima di una settimana difficile.

92 2. L’AQUILA. 5 APRILE 2011

“Gli aquilani si sono ritrovati in piazza con cartelli con scritto ″Io non ridevo″ e ″Riprendiamoci la nostra città″ in segno di protesta alla luce delle intercettazioni divulgate negli ultimi giorni relative all’in- chiesta fiorentina sugli appalti del G8, e hanno forzato un posto di blocco all’altezza dei Quattro Cantoni, nel cuore della zona rossa, per entrare a Piazza Palazzo, considerata inaccessibile”. ANSA, 14 febbraio 2010

4 aprile 2011. Squilla il cellulare. Sul display compare la scrit- ta “Loris Rispoli”. «France domani io e Giacomo andiamo a L’Aquila coi via- reggini». Cazzo. Ok. Domani è martedì 5 aprile. Io sono in giro per lavoro ora. Ce la possiamo fare. Ci sentiamo con la troupe, Andrea, Michele e Stefano. In conseguenza arruolo Mirko, altro socio della cooperativa, con l’incarico di farci da assistente, perché c’è un problema: Ste- fano non può venire con così poco preavviso. Deve tenere la bimba. La moglie lavora in un asilo, Mediaxion assicura a Stefano la flessibilità per stare con la figlia. Il problema è che Stefano è il fonico di “Ventanni”. Lo chiamo e vado da lui. Mi spiega il funzionamento delle attrezzature da poco arrivate. Mi mostra, con il suo modo da paterno formatore, come fare al meglio il tutto e io rispolvero una competenza lasciata da tempo in cantina. «Ok Ste. Noi ci rivediamo a Livorno il 6 aprile. Partiamo la sera per la Sardegna, come hai letto nel piano di produzione». «Va bene» mi risponde lui, «vai tranquillo e se hai bisogno chiamami». Prendo la macchina e torno a Massa. Mirko mi raggiunge con la sua. Domani sarà il nostro angelo custode. Alle 6:45 del 5 aprile mi alzo insieme a lui. Raccolto Andrea arriviamo alla stazione di Viareggio, dove poco dopo vediamo scendere da un regionale affollato Loris e Giacomo, insieme a Michele. Ad accogliere i primi due, alla stazione dei treni, c’è

93 Riccardo Antonini del Comitato per le vittime della strage di Viareggio. Ci portano nel punto esatto dove uno striscione ricorda la loro tragedia. Lì davanti sta raccogliendo i bagagli l’autista di un pulmino da venti posti che porterà quasi tutti a L’Aquila. Alcuni dovranno venire in macchina. Arriva Daniela Rombi, la madre simbolo della lotta per ve- rità e giustizia sulla strage di Viareggio. Loris e Daniela si ab- bracciano e registro un dialogo intenso. In un mondo pieno di fiction, ricostruzione e recitazione, queste due persone re- alizzano spontaneamente una scena che mi emoziona. Non è il dolore. È l’empatia. Daniela e Loris si sono riconosciuti e si abbracciano come fratello e sorella. Loris ci indica: «Stanno facendo un documentario su di noi». «Bene» risponde Daniela, «è una cosa importante. Perché noi siamo persone vere mentre loro no». Anche qui c’è un “loro”. Ma in questo caso è un “loro” op- posto. Imparerò giorni dopo a capire che si tratta del Gruppo Ferrovie dello Stato e in particolare del suo Amministratore Delegato. Partiamo per L’Aquila. Seguiamo il pulmino che l’autista aveva preannunciato lento. Due soste, poi la terza del pranzo. Riccardo e gli altri allestiscono un pranzo popolare molto gra- dito. Noi, avendo già mangiato i panini da produzione, accet- tiamo ben volentieri qualcosa. Michele apprezza formaggio e dolce. Un goccio di vino dal bicchiere di Loris e siamo sopra il pulmino: io, Michele e Andrea. Michele spiega le riprese da fare ad Andrea. Mi pare si stia- no iniziando a trovare e sono felice di questo.Io ascolto col boom46 alcune conversazioni per fare i livelli. Poi spengo. Ad un certo punto una persona molto simpatica del comitato mi guarda e dice: «Ma non starai mica registrando?». Memore di

46 Il boom microphone – in italiano “giraffa” – è un sistema di ascolto audio usato in ambito cinematografico e talora anche televisivo. Di solito è composto da un’asta estendibile e un microfono a fucile posto all’interno di un involucro protettivo tubolare, spesso rivestito da pelo anti-vento. Nell’ambiente video è comune riferirsi a questa attrezzatura come “boom” o “fucile”, anche se usato senza asta,.

94 come erano andate le cose in Sardegna, con Gavina e Angela, avevo tenuto spento47. La memoria infatti ricorda molto, ma le persone hanno un brutto rapporto con la registrazione tec- nica – audio o video che sia – . Mi ricordo dei tempi della mia prima ricerca etnografica. Qualche volta registrai di nascosto, per avere traccia dopo di alcuni dialoghi. Ma questa volta è diverso. A boom spento ascolto così le conversazioni nel pulmino. Sono tutti molto arrabbiati con Iddu. Iddu sta puntando al processo breve per salvarsi e nel solito modo irresponsabile questa cosa si trascina dietro l’amnistia per i processi della stazione di Viareggio e di tante altre tragedie italiane. Loris commenta, ascolta e aggiorna Facebook. È perfet- tamente integrato in questo pulmino. Si è seduto su tanti. Conosce e lo riconoscono per questo. Sa piazzare la battuta livornese al punto giusto. Lui che, come me, Giacomo e Mi- chele, ha imparato a sentirsi livornese crescendoci. Arrivati a L’Aquila partono le riprese. Sfioriamo la città e an- diamo verso Coppito, dove Loris, Giacomo e gli altri dormiran- no stanotte. Noi no. Siamo abusivi nel pulmino e quando arri- viamo nello stabile delle Fiamme Gialle un militare fa l’appello. Io, Michele e Andrea siamo in prima fila e non rispondiamo.

47 Gavina è un familiare delle vittime del Moby Prince ed Angela è sua ma- dre. La sua storia mi aveva convinto della possibilità di includerla tra i protago- nisti di “Ventanni”: Gavina infatti è nata nell’ottobre del 1991, sei mesi dopo la morte del padre sul Moby Prince. Di lui porta il nome ed alcuni evidenti tratti somatici, oltre che una memoria indiretta molto vicina a quella di Giacomo. L’opportunità di condividere anche con lei il percorso del documentario tra- montò però in occasione del nostro primo incontro diretto a Ossi in Sardegna, paese dove vive con la madre. Motivo di questa spiacevole interruzione fu uno spiacevole evento. Michele registrò la nostra conversazione con l’IPhone allo scopo di tenerne traccia, senza tuttavia informarne preliminarmente Gavina ed Angela. Durante il nostro dialogo entrambe ci raccontarono a cuore aperto, e con una fiducia che in Sardegna è difficile vedere riconosciuta a degli sconosciu- ti, alcuni aneddoti importanti della loro vita. Purtroppo inavvertitamente Mi- chele, nell’atto di alzarsi dal tavolo e prendere l’IPhone toccò il tasto play e fece sentire parte della registrazione a Gavina. Il tentativo di cercare di riconquistare la loro fiducia, attraverso la spiegazione dell’inutilizzabilità di quel materiale e del suo maldestro scopo, raggiunse il solo obiettivo di conservare con entrambe un rapporto cordiale.

95 Lui non se ne accorge, o forse fa finta di niente. Per l’ennesima volta deve fare una cosa che limita la sua creatività. Deve fare la macchina validatrice e mi pare che gli piaccia poco. Riprendiamo Loris e Giacomo davanti all’albergo: un caser- mone riadattato a struttura di ospitalità. Parliamo. Giacomo segue Loris nei discorsi ma presenta i suoi punti di vista con forza. Sono belli questi due. Mi piacciono molto. Sembrano – per essere delicati – zio e nipote. Sembrano – essendo più sinceri – padre e figlio o fratello maggiore e minore. Con Giacomo avevamo parlato di politica in una sosta del viaggio. «Mi sono interessato di politica dai tredici anni» mi ha rispo- sto. Ho pensato a questo ragazzo, cresciuto con due donne senza un padre per la più grande tragedia della marina civile italiana, a tredici anni. Cos’è la politica? È il sentirsi parte. Re- clamare un potere. Lui quel potere l’aveva subìto a due anni e a tredici aveva deciso di cominciare a riprenderselo. Loris e Giacomo vanno nelle camere a sistemarsi. Loris ha portato lo striscione in uno zainetto che Michele gli ha ri- cordato aperto. Quello striscione storico, “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole”, sta in uno zainetto. «Mary Poppins ti fa ‘na sega, direbbero a Livorno». Lui ride e va su. Quando torna è arrabbiato. Una persona dell’albergo gli ha detto: «Chiudetevi dentro le stanze anche di notte. Per- ché qui ci sono gli sfollati» e questa cosa è per lui inaccettabile. La incassa ma me la deve dire immediatamente. Da quando l’ho conosciuto ho capito che il suo parlare è una lotta. Parla perché la sua memoria non gli resti dentro. Perché altri pos- sano capire e raccontare, indignarsi come lui, oppure sem- plicemente aver modo di riconoscere che c’è qualcuno che a cinquantacinque anni, dopo aver perso ufficialmente tutte le battaglie, è ancora lì a combattere. Partiamo per il centro dell’Aquila. Nel viaggio vediamo una serie di case prefabbricate orride: ora verdi, ora blu, ora aran- cioni. L’armonia è assente. Chi se l’è dimenticata? Ripenso alle parole di Roberto, il proprietario di una casa vacanze per cui stiamo lavorando: “l’armonia era dei mestieri e delle cor- porazioni”. Le persone del comitato commentano qualcosa di

96 simile. Roberto è di destra, loro di sinistra. Destra e sinistra, un solo commento. Qualcosa forse sta cambiando. Ad un certo punto una piazza, con al centro una fontana. La porta per il centro storico. Scendiamo e iniziamo a cammina- re. L’Aquila è bellissima. Questi rinforzi che reggono le strut- ture, i palazzi feriti, le architravi sostenute col legno appaiono ai miei occhi come bellezza. L’Aquila resiste. Loris e Giacomo passeggiano insieme agli altri familiari di Viareggio che portano legati al collo dei manifesti con la foto dei loro cari defunti, il loro nome e la scritta “Viareggio 29 giugno 2009”. Quanta dignità in questi passi. Quanto com- posto dolore. Mi commuove solo il ricordo di questa scena pubblicata da Loris su Facebook, in foto. Arriviamo a un grande tendone, nella Piazza del Duomo. Vedo i furgoni Rai. Noi passiamo e nessuno riprende. Non è questo quello per cui sono venuti e questo è il motivo della mia idiosincrasia per i giornalisti. Dentro il tendone ci sono sessanta-settanta persone. Tutti familiari di vittime di tragedie italiane: Viareggio48, San Giuliano di Puglia49, Casalecchio di Reno50, Casale Monferrato51, Torino52… Iniziano a parlare e

48 Il 29 giugno 2009 alle 23:48 un treno merci deragliò nei pressi della Stazio- ne di Viareggio. Una cisterna del treno, perforatasi nell’urto, propagò in pochi minuti il suo carico di GPL nella zona circostante ed il gas, altamente infiam- mabile, avviò a seguito dell’innesco un incendio di enormi proporzioni a causa del quale morirono trentadue persone. Per maggiori informazioni rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_ferroviario_di_Viareggio 49 Il 31 ottobre 2002 a San Giuliano di Puglia crollò la scuola elementare “Francesco Jovine”, lasciando sotto le macerie i corpi senza vita di ventiset- te bambini e della loro maestra. Per maggiori informazioni rimando a http:// it.wikipedia.org/wiki/Terremoto_di_San_Giuliano_di_Puglia 50 Il 6 dicembre 1990 un velivolo militare in avaria fu abbandonato dal pilota sopra il cielo del Comune di Casalecchio di Reno e precipitò sull’Istituto Tec- nico Commerciale “Gaetano Salvemini” causando la morte di dodici studenti ed il ferimento di altre ottantotto persone. Il processo finirà senza condanne nel 1998. Per maggiori informazioni rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/ Strage_di_Casalecchio_di_Reno 51 Rimando alla nota n. 7 52 Il 6 dicembre 2007 sette operai dello stabilimento di Torino della Thys- senkgroup morirono a causa di una fuoriuscita di olio bollente in pressione,

97 senti la voce di Dio. Quella rabbia umana, l’assenza di vendet- ta ma il bisogno di giustizia. Mi viene da dirlo così: la voce di Dio. Chi crede capisce. Loris prende la parola dopo Daniela, il cui discorso è stato toccante e di grande forza. Ha raccontato di un incontro con Deborah Serrachiani al Parlamento Europeo. L’astro nascen- te della politica, con lei, ha sbagliato le parole. Non ha inter- cettato il suo dolore e Daniela se l’è presa. L’ho capito all’ini- zio della ricerca che quando parli con un familiare di vittime di tragedie di questa intensità non puoi sbagliare. L’errore, il pressapochismo, il tentativo di inquadrarli/le o limitarli/le, è il più grande dei peccati. Meglio non stare lì con loro che non ascoltarli. Questo penso io. Se è meglio che tu stia zitta, taci. Se vuoi parlare, prima ascolta. Daniela voleva far vedere a Deborah Serracchiani la foto di Emanuela, la figlia deceduta nella strage del 29 giugno 2009. «Una madre tiene sempre la foto della figlia e lei mi ferma e mi dice: “signora non importa, io capisco il suo dolore”. L’ho guardata e le ho detto: no lei non ha capito proprio niente». Era un minuto. Bastava un mi- nuto. Condividere l’immagine di quella sua creatura che non c’era più. Mostrarle com’era bella quella vita per farle capire veramente il peso della sua battaglia. Ma l’astro nascente della politica italiana aveva altro in programma. Loris prende il microfono. Il suo discorso è devastante. So- prattutto nella sua parte conclusiva. Va a braccio e si sente. L’avrebbe potuto costruire in milioni di modi, quel discor- so. Avrebbe potuto marciarci, fare il politico. Invece le parole escono dal cuore. Lui l’ha “giurato” davanti a quei “cento- quaranta lenzuoli bianchi” che avrebbe lottato per verità e giustizia, infatti è qui. E quella giustizia la chiederà “per tutte le stragi di questo Paese”. Per questo ai familiari delle vittime dice: «Dobbiamo stare uniti. L’unità sarà la nostra forza». E aggiunge il senso di questa unione: «Chi come noi ha già com- piuto un cammino processuale può essere di aiuto a chi quel

necessario a raffredare i laminati, che aveva preso drammaticamente fuoco. Per maggiori informazioni rimando a http://www.ilpost.it/2011/04/16/la-storia- del-rogo-della-thyssenkrupp/

98 cammino deve ancora iniziarlo, come Viareggio». Loris c’è, parla al plurale, e si sta mettendo al servizio di chi, per vicende simili alla sua, deve lottare adesso. Giacomo lo ascolta dal fondo della sala. Ha indossato la maglietta con la fotografia che li ritrae mentre portano il loro striscione a Livorno. La schiena è dritta, gli occhiali inforcati per vedere meglio. È fiero di essere qui e di ascoltare Loris. Avrebbe potuto dire tanto altro. Ma ancora è l’ora di Loris. Lui verrà. La sua ora verrà al momento opportuno. Michele guida Andrea nei movimenti. Vederli è come assi- stere a una danza. Chi guida e chi è guidato. Ma chi è guidato sta realizzando ciò per cui qualcuno lo guida. Nel frattempo Mirko scatta fotografie. Documenta le sue impressioni su quel posto e dice “allucinante”. Si sta facendo un mazzo tanto per la produzione e ne sono felice. Ne ero sicuro ma sono felice che sia lui a esserci, in questo primo giorno. Mediaxion è il gruppo, la comunità, e ne sono orgoglioso. Quando vedo lo striscione alto sul tendone “RicostruiamolAQ” penso a Ste- fano. È a casa, domani partiremo insieme per la Sardegna, ma questi tendoni sono il suo mondo. È qui anche lui per esserci stato fino a quando ha potuto starci. Troviamo un posto dove mangiare. Quaranta euro per pri- mo e mezzo secondo con contorno. Acqua, vino e caffè – per tutti tranne me – : Trattoria da Luciano. Dico: «Andiamo a dormire almeno un’ora». Appena seduti mi arriva un messag- gio di Loris: “Stiamo partendo ora”. Non è vero, ci perculano. Ridiamo e ne sono contento. Come direbbe Michele: “siamo entrati”. Ci riaddormentiamo e dopo un’ora la sveglia. Ci carichiamo e partiamo. Mi fa ridere ma penso: “semo la bbanda” come quelli di Romanzo Criminale. Ci sento forti. Oggi servirà qui domani altrove. Arriviamo così nella piazza con la fontana. Loris non c’è an- cora. Andiamo avanti e indietro passando accanto a tantissimi giovani. La scena è surreale. Antica. Ci sono migliaia di torce accese e c’è silenzio. Proteggo il boom, qualcuno fa battute. Chi conosce il dolore sa anche scherzare veramente. Conosce tempi e modalità.

99 Ad un tratto arrivano. Loris cerca il punto dove srotolare lo striscione. Va avanti. In mezzo alla gente c’è lo spazio per lui e per pochi altri. Ma lui va dritto. Lo seguiamo a distanza. Siamo come una carovana. Quelli di Viareggio e noi. Arriva in un punto vicino alla testa. Vede lo spazio e guarda Giacomo. Dice: «Qui». È una scena commovente. Dopo vent’anni, tagliato da una luce gialla e illuminato dalle torce, quest’uomo di cinquanta- cinque anni tira fuori il simbolo della sua lotta e lo porge a Giacomo per srotolarlo. Nel momento in cui lo fa sembra un cristo in croce. C’è tutta la dignità della sua vita in quel mo- mento. C’è un dolore sordo e la dignità della lotta per farlo fi- nire. Una donna legge lo striscione e dice: «Come mai il Moby Prince qui?» e lui risponde: «Perché ancora da vent’anni non abbiamo ottenuto giustizia, signora». La rispetta, nonostante tutto. Partiamo e dopo poco arrivano due ragazzi a intervistare Giacomo. Dall’altra parte dello striscione Giacomo rispon- de. Sento nelle cuffie: “i responsabili Renato Superina, Sergio Albanese, Vincenzo Onorato”. Fa i nomi Giacomo, non ha paura. Li fece anche la magistratura ma il reato era prescritto. Lui li fa adesso. Come mi disse Loris, “il dolore non va in prescrizione”. Il corteo è lungo, lunghissimo. Ad un certo punto Michele è soddisfatto delle riprese e mi consente di fare quello che volevo da prima: aiutare Loris a reggere lo striscione. Pochi minuti prima infatti mi ero sentito in colpa. Avevo pensato: in vent’anni io non ci sono mai stato. Loro avevano bisogno e io non c’ero. Anni di adolescenza, pomeriggi buttati via nel niente. Potevo esserci e vorrei chiedergli scusa, ma lui prima capirebbe e poi mi prenderebbere per il culo per sei mesi. La troupe si accoda, una mano regge le attrezzature, l’altra quel lungo drappo blu. Ora siamo lì insieme, teniamo lo striscione e camminiamo. Siamo dietro quel simbolo della loro lotta per sostenerla. Farli rifiatare. Dico a Loris: «Quante volte l’avete dovuto portare da soli?» e lui mi risponde: «Poche. Alla fine si andava io e Enzo. Altri poi ci aiutavano».

100 Penso ad Angelo e mi viene in mente che anche lui po- trebbe stare dietro quello striscione. Vorrei averlo lì, farglielo toccare. Dirgli che quello striscione è anche lui. Ci sarà tempo per farlo. Arriviamo in piazza. Sono le 3:30. Mirko corre a prendere la macchina con la quale ci guiderà fino a Firenze. Alle 3:31 parte il primo di trecentonove rintocchi. La campana suona i colpi, una coppia di ragazzi si abbraccia davanti a me e a una torcia a terra. Il ragazzo cinge la schiena di lei. Il loro dolore è una spinta per quello che stiamo facendo. La rabbia. Penso alla rabbia. Questa ingiustizia deve finire. Voliamo in macchina, Mirko guida. Noi dormiamo. Cerco di stare sveglio ma svengo. Mi sveglio a un certo punto pen- sando che stia per sbandare per un colpo di sonno. «France, sono a posto». Ero io che avevo sognato un colpo di sonno e un incidente. Ieri Michele mi dice che tornando dalla ma- nifestazione sono morte tre persone per un colpo di sonno. Penso a loro.

Dal post “L’Aquila, 5 aprile 2011” pubblicato il 16 aprile 2011

101 3. ARZACHENA. UNA FAMIGLIA FELICE

Ge r m a n o La m b e r t i 53: “Io volevo sapere se faccio bene a prendere atto, a desumere dalle sue dichiarazioni che nel Porto di Livorno arri- vava [...] una petroliera di 263 metri e si ormeggiava così e la Capita- neria non sapeva non solo quale era il punto di fonda, ma, nel limitarsi a prendere atto alla vista di questo ormeggio, ovviamente non era nemmeno in grado di contestare l’eventuale o rischiosità o improprie- tà dell’ormeggio stesso, diciamo del punto di fonda. È questo che io devo desumere dalle sue dichiarazioni?”. Ra i m o n d o Po l l a s t r i n i 54: “Sì” Processo Moby Prince, Verbale di udienza, 19 dicembre 1995

Partiamo per Golfo Aranci il 6 aprile, notte. Siamo di corsa. Andrea non ha dormito. Io ho dormito un’ora. Michele pure. Stefano è il più riposato anche se oramai dorme da qualche anno poche ore a notte. La causa: i ritmi del suo amore, la pic- cola Caterina. Arriviamo a Golfo Aranci la mattina alle 7:12. Golfo Aranci è un porto antistorico. C’è un’acqua da ormeg- gio greco dell’epoca classica. Siamo in Sardegna e si vede. Scendiamo e cerchiamo un bar dove fare colazione. Michele legge il giornale e sentiamo in parallelo la notizia della morte di duecentocinquanta immigrati – qualcuno li chiama “clan- destini” – a largo di Lampedusa. Michele dice: «Stiamo fa- cendo un documentario su centoquaranta morti e pensiamo che siano stati ignorati dai media. Qui ne sono morti duecen- tocinquanta e al massimo abbiamo un trafiletto». Michele ha ragione. Si è fatto un’idea del perché. Io l’ho studiata ai tempi dell’università. La proporzione della notizia: uno vicino vale quanto cinque più lontani fino a diecimila dall’altro capo del mondo. Quando me lo spiegarono pensai a quante volte l’ave-

53 Presidente del Collegio Giudicante nel Processo Moby Prince, vedi nota n. 17. 54 Coordinatore dell’Inchiesta Sommaria Moby Prince.

102 vo ignorato. Michele ha ragione, ma legge il giornale. Chissà quante volte non gli era capitato di farci caso. Chiamo Mauro appena finita la colazione. Ci troviamo a Cannigione. Mauro e Antonella ci mettono a disposizione un appartamento vicino al mare. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. La forza di questo percorso è importante e ne sono felice. Per due giorni lavoreremo in quattro. Facciamo una riunio- ne di produzione, ragioniamo su quanto realizzato a L’Aquila. Emergono alcuni errori e altre positività. Un errore sostanzia- le non emerge, ma lo farà presto. Raggiungiamo poco dopo Mauro e Antonella nella loro casa. È posta su un poggio nei pressi del centro storico di Arzachena e gode delle piacevoli carezze del vento. La casa è una villetta con giardino e piscina. Mauro mi aveva raccontato che il padre era impresario edile. A quanto pare aveva riposto cura e garbo anche nel costruire la propria abitazione. Appena entrati scorgo sulla sinistra un ritratto di donna a matita. I lineamenti sono delicati, lo sguardo fiero. Riconosco nell’espressione la possibilità che sia Maria, la madre di Mau- ro. Una volta in salotto e salutati i padroni di casa col piccolo Federico, mi cade l’occhio su una serie di vecchi libri comuni- sti: Lenin, Marx, Mao. «Sono di mio padre» mi dice Mauro da dietro, «sai era segre- tario del PCI ad Arzachena». «Ma dai?» rispondo. «E tu sei rimasto di queste idee?». Mauro sorride. «I tempi sono cambiati, ma diciamo più o meno. Io sono il segretario del PD di Arzachena». Di padre in figlio, quindi. Anche se la strada fu senz’altro lunga. Sono passati vent’anni. In questa giornata non mi sento bene. Osservo Mauro e Antonella. Avverto la loro gentilezza sarda. La conosco bene: il tentantivo di fare in modo che tutto sia a posto. Ma c’è qual- cosa che sta incontrando difficoltà a emergere ed è la verità. Vengono scelte delle modalità di documentazione della loro vita troppo impostate. Loro cercano di recitare la loro parte ma non ci riescono. Il bambino, Federico, è l’unica variabile indipendente e le registrazioni migliori lo riguardano. Resta

103 in ogni caso la mia sensazione sgradevole e insostenibile di inopportunità. Un’inopportunità che per me diventa totale quando per esigenze di scena viene spostato il tavolo dove Mauro e Antonella stanno mangiando. Il bambino, abituato a percorrere col triciclo un certo giro intorno al tavolo, passa due volte radente all’angolo sinistro, vicino alla porta. Io, che ero uscito dalla cucina per evitare di caricare ulteriormente la situazione, cerco di tranquillizzarlo con lo sguardo, dal salot- to. Gli sorrido. Ma al terzo giro lui torna a girarsi, mi guarda e si distrae. Gli dico “attento”, ma nel voltarsi di scatto, dando la pedalata, centra con la testa l’angolo sinistro del tavolo. Mauro e Antonella si precipitano per soccorrerlo. Io e Ste- fano a ruota. Federico sta bene, solo una piccola botta. Niente di grave. Ma mi sento terribilmente in colpa. Tutta quella sce- na. Tutto quel costruire una scena è fuori da ogni mia conce- zione di “Ventanni”. Mi avvicino a Michele. Ci fermiamo. Il senso del dovere di Mauro e Antonella li spinge a sentirsi responsabili. «Scusateci, non siamo abituati, poi il bimbo è stanco». Li rassicuro. Ste- fano chiarisce: «Il problema non è vostro». Mentre li lasciamo finire di mangiare in pace, noi ci fermiamo in salotto. Con Stefano e Andrea ci intendiamo sull’accaduto. Ma il tutto deve continuare. C’è da allestire il set dell’intervista che faremo a Mauro quando Federico sarà a letto. Quaranta minuti dopo, l’inter- vista inizia. Mauro ha tante domande. Nell’intervista cerca di darci ri- sposte. Ha sicuramente bisogno di entrambe. Ha bisogno di comunicare ed essere inteso. La presenza di Antonella in questo è qualcosa che emoziona. Ancora una volta, mentre il mondo sembra raccontare solo storie di famiglie finite e finte, vecchi che concupiscono giovani e giovani che svendo- no tempo e passione per qualcosa di diverso dall’amore, noi stiamo assistendo a un’espressione evidente di quest’ultimo. L’abbiamo di fronte. Federico è a letto. Mauro abbraccia An- tonella. Gli chiedo quando è iniziato tutto questo. Quando è iniziato quell’amore. Mauro si distende. Pensava volessi parlare subito

104 dei suoi ricordi sul Moby Prince e l’iniziare con la fine della sua storia sembra rilassarlo. Mauro ama la sua famiglia e se vent’anni fa quest’ultima gli è stata portata via, oggi è riuscito con Antonella e Federico a ricostruirsela. Ha perso la famiglia e ha trovato la comunità, la sua comunità. Questo messaggio ha una forza prorompente. Mauro lo afferma con la lucidità sincera di chi si può permet- tere di dire ciò che sente senza alcuna esitazione. «Sono felice. Non penso di mancare di rispetto a qualcuno nel dirlo. Mi spiace solo che i miei genitori non abbiano po- tuto conoscere direttamente Antonella e Federico. Ma non baratterei la mia famiglia di allora con quella che ho adesso». Mi viene in mente il lutto. La concezione sarda del lutto prevede una serie di precise indicazioni. La morte di un caro prevede il dolore. Per una madre un dolore imperituro segna- to dagli abiti neri. Un figlio invece può uscire dal lutto perché può andare avanti. Mauro ha scelto la vita e l’ha trovata. Tutti dovrebbero. «Ora volevo un attimo capire di più dei tuoi ricordi su quello che è successo» chiedo. Mauro guarda in basso. Poi alza gli occhi e inizia a parlare. È il racconto di un bambino di tredici anni di fronte all’enor- mità di quel disastro. Il racconto di quella che era una famiglia felice. L’emozione. Il senso di confusione per uno scenario imprevedibile. Cambia per un attimo il tono: «Scusate un attimo, ma non è semplice». Beve. Stefano appoggia per pochi secondi il boom. Poi Mauro ricomincia. «All’una, tornato a casa da scuola, chiedo: “Mamma e papà dove sono?”. “Non sono ancora arrivati” qualcuno mi dis- se… “C’è stato un problema, non riescono a farli scende- re…”. “Vabbè” dissi. L’innocenza di un bambino. Vent’anni fa a tredici anni si era bambini ancora. Il mio primo pensiero non è andato a “è successo qualcosa”». Rifletto. Mauro sta cercando persino di giustificare il suo comportamento di bambino. Quell’errore ingenuo. A volte siamo davvero i giudici più severi del nostro passato. Lui continua il racconto.

105 «Il tempo passava e loro non arrivavano. A un certo pun- to le mie domande si fecero più precise e insistenti: “Fatemi parlare con loro” anche se cellulari non ce n’erano. Mi disse- ro: “Non riescono a farli scendere”. “Non è possibile! Una nave non è un aereo” il ragionamento di un bambino… uno salta, c’è l’acqua sotto. Non era neanche immaginabile quello che poi ho realizzato… mi sono documentato col tempo, an- che su altri disastri come l’Andrea Doria, ma prima del Moby Prince penso che nessuno fosse preparato a uno scenario di quel tipo… senza nessuna via di fuga… ero totalmente im- preparato. Passa ancora un po’ di tempo. La sera era quasi l’ora di cena. Mi chiamano: “Vieni, dobbiamo parlarti”. In questa stes- sa stanza. Il prete e una mia zia, sorella di mia madre, che è suora. Lì ho iniziato a piangere. Perché quando uno vede un prete… nessuno dei miei zii ha avuto il coraggio di darmi la notizia: “C’è stato un incidente sulla nave, sono morti tutti, si è salvata una sola persona”. All’inizio c’è un rifiuto. “Non è possibile”. E in realtà questi dubbi erano fondati. Si sperava che fossero partiti con un’al- tra nave e in effetti non erano nella prima lista dei passeggeri perché il biglietto era stato fatto da mio fratello Andrea due giorni prima. Le tecnologie non erano quelle di adesso. Si spe- rava che fossero in un altro traghetto. Però dopo tutte quelle ore non era plausibile. Si sarebbero dovuti far sentire». Mauro rifiata per un attimo. Poi riparte. «Alcuni miei parenti partirono per Pisa per prendere mio fratello e poi per andare a Livorno. Da lì sono partite le ope- razioni di riconoscimento. Mi ricordo che ero da mia madrina quando chiamavano: “Erano loro, non erano loro”. Mi ricor- do che una volta dissero: “No, era un pezzo di legno”. Era difficile a quanto pare distinguere anche una suppellet- tile da una figura umana». Un respiro. «Trovarono prima mia madre e poi mio padre, che era in condizioni peggiori. Non ho mai parlato con gli zii che fecero il riconoscimento. Non ho avuto nemmeno l’occasione di dirgli grazie per quello che hanno fatto. Dire grazie spesso non è semplice. Dovrei arri- varci».

106 Mauro guarda per pochi secondi Antonella. Le loro mani si intrecciano. «E da lì è iniziata la mia altra vita. Dalla famiglia felice siamo passati a “Che ne sarà di Mauro? Che ne sarà di Andrea?”. A mio fratello non rimprovero nulla. Era un ragaz- zo di diciannove anni, gli è crollato il mondo addosso. E io finii da mia zia…». Mauro continua a raccontare per un’ora. Un racconto pri- vato che rimarrà tale e che trova la sua conclusione nel lieto fine: Antonella, Federico, l’amore. Il domani che incombe è quel viaggio nella memoria. Conoscere Loris, conoscere An- gelo. Prendere parte a quella commemorazione dalla quale è rimasto lontano per vent’anni. Poi si vedrà. Si vedrà se il suo futuro sarà o meno a fianco di chi per tutti questi anni ha combattuto una battaglia che sente anche sua. Terminata l’intervista Mauro è stanco. Antonella, da sempre abbracciata a lui, ha cercato di assecondare tutto quel flusso di emozioni. E ne è rimasta esausta. Ci congediamo con un abbraccio. Nel raccogliere tutto quello, per la seconda volta, sento che tra noi si è creato un legame di complicità. Ha ca- pito le mie intenzioni. Da donna sarda mi ha analizzato con discrezione e mi ha permesso di entrare nel suo territorio. Il suo ruolo sarà fondamentale molto presto. L’8 aprile è infatti una giornata di svolta per il progetto. L’ulteriore scelta di finzione mi fa capire l’errore. Se dirigo il progetto a livello autoriale devo chiarire meglio i termini della sua impostazione registica. Devo prendere più in mano quella componente. L’approccio di quella componente. Prima c’è la relazione, poi la documentazione, quindi prima il rapporto con Mauro e Antonella e poi, solo poi, le riprese, perché il film è parte di un percorso con i suoi protagoni- sti. E questo percorso deve basarsi sulla verità. Su ciò che la rappresenta, non su una sorta di idea di come essa debba presentarsi. Mauro del resto l’aveva spiegato chiaramente: l’idea di gira- re per Arzachena con la troupe non lo entusiasmava. Tra le righe, come si usa spiegare in Sardegna, aveva chiarito il tutto. Soprattutto il problema del suo lavoro. Per lui il Moby Prince è sempre stato un fatto intimo. Riprenderlo sul posto di lavo-

107 ro era un’invasione di campo. Nonostante le avvisaglie Michele entra in negozio e la cosa obbliga Mauro a una breve e inevitabile spiegazione al socio del perché della nostra presenza. Vedo gli occhi di Mauro, lui mi guarda. Capisco la sua difficoltà e un’arrabbiatura che sale. Michele gli chiede di far finta di chiudere e andare a piedi a prendere Federico. Mauro guarda nervosamente l’orologio: «Così faccio tardi…». Gli viene risposto che basta un minuto. L’asilo è da una parte, lui ci va con la macchina, ma la “scena” esigerebbe che lui andasse dall’altra. Mauro ci sta, recita. Ma poi sale in fretta sulla sua auto e ci semina. Discutiamo in macchina. Io cerco di far capire con le buone a Michele cos’è successo. Ma la cosa non è chiara né chiarita. Lui insiste: «È normale France. All’inizio è così». Ma la realtà è diversa. Arriviamo infatti davanti a casa di Mauro, lui scende con Federico in braccio, è scuro in volto, si volta, mi guarda e dice: «Scusate ma Federico non si sente bene, scusate eh, ci risentiamo più tardi». Andrea scuote la testa, Stefano è evidentemente arrabbiato. Lascio sbollire un attimo la cosa. Porto la troupe in centro ad Arzachena e chiamo Antonella. Parliamo per un po’. Tornia- mo ancora una volta a capirci. Lei, con saggezza, mi chiede un attimo di confronto prima di rivederci. Un confronto con Mauro. «Ne parliamo un attimo e poi ti richiamo». Quando Mauro riapre la porta di casa è in uno stato di im- barazzo. «Scusate ragazzi ma ve l’avevo spiegato… per me non è semplice… poi qui ad Arzachena… io questa storia l’ho sem- pre vissuta personalmente, senza metterla in piazza…». Lo tranquillizzo. Il suo imbarazzo è figlio di una cultura gen- tile e d’altri tempi. Il suo sentirsi in dovere nei nostri confronti è un ulteriore tassello di quell’educazione sarda a me familiare che ho da sempre riconosciuto in lui. Propongo: «Facciamo una cosa. Andiamo dove volete voi… ma fuori da Arzachena… dove vi sentite a vostro agio». Mauro e Antonella si guardano. Ci pensano. Poco tempo dopo avre- mo un orario e uno scenario: la spiaggia di Laconia. «Dove siete voi ora… facciamo una passeggiata in spiaggia».

108 Destino vuole così che l’8 aprile, dopo questo momento di crisi, la troupe a quattro registra il primo momento inte- ramente spontaneo di vita familiare. All’interno di una scena costruita, quella di una camminata in spiaggia con Federico, ancora una volta lui, la variabile indipendente, coinvolge Mau- ro e Antonella nel suo gioco. Getta sassi in mare e inizia a dispensare baci ai suoi genitori. Chi è il regista di questa sce- na? Federico dirige, noi lo documentiamo. Ancora una volta qualcuno parla ai deboli per confondere i forti. Finite le riprese accompagniamo Michele e Andrea alla nave. L’indomani dovranno riprendere a Livorno la partecipazione di alcuni dei nostri protagonisti alla prima dello spettacolo teatrale Moby 491, che, memore di quanto anticipatomi da Lo- ris e Angelo, si prospetta momento di confronto tra le posi- zioni, a distanza ravvicinata. In macchina segnalo a Michele poche cose importanti che mi aspetto di veder realizzate il giorno dopo nell’atto di documentare quei momenti. Poche perché cosciente del fastidio che provo quando qualcuno mi commissiona un lavora e poi mi tarpa le ali con migliaia di intrusive indicazioni: non voglio fare lo stesso a chi è parte della mia stessa squadra. Siamo all’inizio, dobbiamo trovarci, Stefano aveva ragione nel dire che siamo partiti tardi, ma que- sto “noi”, per me, continua ad aver bisogno di fiducia nelle reciproche capacità. All’arrivo in porto scorgo il traghetto che assomiglia in modo evidente al Moby Prince. Una nave piccola, con una prua a punta molto sporgente. Stefano inizia a prendere pos- sesso della camera. Ha avuto poco tempo per testarla. «È uno strumento molto tecnico» e tante altre metafore per far capire che organizzarsi per tempo è indispensabile anche per i mi- gliori. Gli propongo di riprendere la partenza. «La seguiamo mentre esce dal golfo» e come sempre mi fido ciecamente del suo gusto. La sua umiltà testimonia il suo sen- so della misura. Solo i migliori conoscono l’arte del piacere di mettersi continuamente in discussione. La ripresa del tra- ghetto in partenza è molto bella. Sento che abbiamo iniziato il cammino e lo stiamo facendo con il giusto spirito. Mangiata una pizza a Golfo Aranci torniamo verso casa di

109 Mauro e Antonella. Ci aspettano per vedere insieme la pun- tata de La Storia siamo Noi dedicata al Moby Prince. Mi perdo passando per San Pantaleo e la cosa mi provoca l’etichettatura di “persona che si perde” con la quale Mauro e Antonella mi prenderanno in giro nei giorni a seguire. C’è una bella atmosfera stasera. Parliamo molto. In liber- tà e a camere e registratori spenti. Parlo con entrambi del- le mie idee. È il mio film, fatto alla Mediaxion, mi dispiace averli messi in difficoltà con quel tipo di riprese, è stata la prima e l’ultima volta. D’ora in avanti quando ce la sentiamo riprendiamo. Siamo un “noi”. Quando vogliono sono loro a chiamare lo stop. Sempre che io e Stefano stessimo ancora registrando. Mauro e Antonella sono in ansia per Federico. Il bimbo sta mettendo i denti e ha un po’ di febbre. Sono inevitabilmente preoccupati e questo rafforza la nostra idea di una famiglia felice. Il 9 aprile, così, li lasciamo da soli. Devono stare col bambino. Ci accordiamo unicamente per una ripresa di preparazione dei bagagli. Provano a reimpostarsi come il primo giorno. Ce ne accorgiamo. Li facciamo fare e poi prendiamo altri mo- menti di questa preparazione della partenza. La scena che sta- vano cercando di recitare era quella di una coppia che prepara l’ultimo bagaglio e parte. Mentre loro stanno facendo altro. Loro stanno preparando in fretta l’ultimo bagaglio, aiutando la produzione di questo documentario a documentarli, perché devono andare da Federico. Infatti il bambino è rimasto dalla mamma di Antonella dall’ora di pranzo. Doveva ambientarsi. Tutto è studiato al millimetro. L’affetto vero, quello puro, è sempre chirurgico. Questione di millimetri. Perfetto. Ripren- do così l’audio di Antonella che dice concitata: «Dai andiamo che voglio stare con Federico» e riprendiamo audio e video Mauro che stampa il biglietto del traghetto. Ha aspettato l’ul- timo momento, prima di andare da Federico. Quel biglietto è un simbolo e lui lo stampa nello studio che un tempo fu di suo padre. In questo spazio resta una scrivania che gli appar- teneva dove oggi vedo appoggiata una lettera. Leggo la firma: Loris Rispoli.

110 «Sì, questa è la lettera di Loris. La inviava tutti gli anni a mia zia, quella signora che abita qui davanti. Ogni anno mi arriva- va. Quest’anno ho accettato l’invito». Due giorni prima, nel corso dell’intervista, mi aveva parlato di Loris con l’entusia- smo riguardoso di un ragazzo verso il suo eroe. «Ho tenuto il suo numero per tutti questi anni, senza mai chiamarlo. Poi sai, tramite Facebook… una richiesta di amicizia era più semplice di una telefonata». Poche parole più in là il copione scritto del suo incontro: il bisogno di vedere quella persona, dirle un grazie atteso da vent’anni. Vedo la fotografia del padre nello studio. L’avevo vista il giorno prima e ci aveva spiegato qualcosa di molto bello. Gli chiedo se può ridirmelo con la camera accesa e Mauro cerca di ripetere. Lo distraggo e torna spontaneo. Che la foto del padre fosse in sezione del PCI accanto a quella di Berlinguer ce lo dice con tranquillità. Ieri era orgoglio, oggi tranquillità. La telecamera trasforma e dobbiamo considerarlo. Prima di uscire Mauro ci lascia le S-Vhs di cui mi aveva parlato qualche giorno prima. «Francesco ho trovato queste cassette che contengono filmati dei miei genitori… filmati di famiglia diciamo. Io non ho l’attrezzatura per vederle o con- vertirle… voi potreste farci niente?». «Naturalmente». Io avevo l’attrezzatura a casa, Stefano pure. «Non c’è pro- blema. Te le facciamo e poi te le spediamo». Mauro ne è contento. Questo suo viaggio nella memoria lo aveva spinto a cercare vicino e lontano tracce dei suoi genito- ri. E spesso, nell’epoca della documentazione di massa, alcune di queste tracce materiali le abbiamo infondo al cassetto della sala o nello scatolone posizionato più in alto nello sgabuzzi- no. Salutiamo e usciamo. Stefano fa immagini di copertura da una sorta di Ayers Rock in miniatura sul culmine di Arzache- na. Vediamo Mauro rientrare. Sta diversi minuti in casa e poi riesce. Ci saluta da lontano. Probabilmente sta tornando da Federico. Quando scendiamo da quella roccia panoramica troviamo così la zia di Mauro fuori di casa e ci avviciniamo. Fa una bat-

111 tuta sulla mia macchina. Una battuta simpatica e ben scandita. Quando sento un sardo parlare italiano mi vengono sempre i brividi. C’è una grande dignità nel modo dei sardi di servirsi dell’italiano. “Sa limba” imposta. La lingua dei colonizzatori piemontesi. La signora inizia a parlarci di Mauro, dei suoi genitori, della tragedia e della vita nuova che Mauro è riuscito a costruire con Antonella e Federico. Ad un certo punto, con la luce di taglio, le chiedo se possiamo riprenderla. Lei si volta indietro e dice: «No no, dobbiamo imbiancare». I sardi sono così. La cura di ciò che ti rappresenta è molto importante. Su quello è difficile transigere. Ad un tratto la signora guarda i miei occhi e dice: «Ti chiedo una cosa. Se vedi questa persona, Loris Rispoli, digli che io lo ringrazio. Lo ringrazio tanto di quello che ha fatto e sta facen- do. Ogni anno ci arrivava la sua lettera. A quell’uomo lì vorrei che gli dicessi grazie da parte mia». Ci commuoviamo. Stefano cerca la distrazione della cagnet- ta. Io nel tramonto. Quella signora per vent’anni ha ricevuto quelle lettere. Solo oggi è arrivato il momento in cui a quell’in- vito a venire alla commemorazione del 10 aprile, Mauro ha potuto far seguire un gesto di assenso. Lei lo ringrazia perché Loris è andato avanti. Ogni anno, per vent’anni, ha scritto quelle lettere, ha copiato gli indirizzi su ognuna, le ha imbu- state, affrancate e infine spedite. Loris c’è, c’è sempre stato e la zia di Mauro, per questo, lo ringrazia. Poco dopo partiamo alla volta di Golfo Aranci, ci attende il viaggio in nave. Mauro e Antonella accettano di entrare in macchina con noi. La ripresa è molto bella. Con discrezione registriamo tutta la tensione emotiva di Mauro nel vedersi tra- sportato dentro quel mezzo che dieci ore dopo sbarcherà a Li- vorno, il giorno in cui si commemora il ventennale dell’evento che cambiò per sempre la sua vita. Con noi i due cugini di Mauro: Andrea e Gian Mario. Par- liamo a lungo tutti insieme. Parliamo del Moby Prince e di politica. Andrea era segretario del PD di Arzachena prima di lasciare a Mauro quell’incarico che fu di suo padre: quando ci fu il passaggio di consegne, Andrea disse che in quel mo-

112 mento c’era una persona felice ed era Giovanni Filippeddu, il padre di Mauro. La sezione, diventata in vent’anni da piena a semi vuota, era tornata così il luogo di riconoscimento e ag- gregazione voluto da quell’uomo. Dove il padre, ora il figlio. Li guardo e penso che Mauro Andrea e Gian Mario sono le prime persone tesserate del PD cui riporrei fiducia. Poi ci ripenso. C’è anche Loris. Ma lui la tessera l’ha presa solo per una cosa che ora non ricordo. Lui era comunista e lo è rima- sto. Mauro Andrea e Gian Mario sono figli di comunisti che stanno cercando una strada nuova dentro la cornice che aveva unito i loro genitori ad altri milioni di italiani. Andrea tra l’altro è l’assessore di Arzachena che dette l’ade- sione al partito a Beppe Grillo. Ridiamo molto per il suo rac- conto del caso. «Se siamo un partito democratico io l’adesione gliela raccolgo. Poi siccome da regolamento lui non era resi- dente ad Arzachena non ho potuto fargli la tessera. È scop- piato un casino. Mi ha chiamato addirittura un dirigente sardo del PD e mi ha detto: “Lei è un coglione!” e io gli ho detto: “No. Il coglione sarà lei”». In Sardegna si usa il lei anche per darsi del coglione. L’insul- to rispettoso delle formalità. Dopo la cena parliamo anche di cinema. Mauro tira dritto fino a tardi. Pare quasi che stia così bene a parlare di cinema che si dimentica di andare a dormire. Antonella arriva ancora a rimettere ordine. «Andiamo a letto. Domani ci dobbiamo alzare presto». Tutti condividiamo la scelta ma senza di lei saremmo rimasti lì fino a mattina. La parola di una donna ha messo a letto quattro uomini. Anche oggi una bella lezione.

Dal post “Arzachena”, pubblicato il 16 aprile 2011

113 4. 10 APRILE 2011. VENTANNI

“Non puoi ridare forma al passato, ma puoi creare il presente”. Pa m Br o w n , Ti auguro, 1928

Arriviamo vicino alla diga della Vegliaia, l’imboccatura del porto. Siamo sul ponte e Mauro mi fa domande sulle navi in rada. «Francesco dov’è che è successo?». Gli indico il punto. È vicino alla zona di ancoraggio di una grossa nave mercantile. Siamo a circa due miglia e mezzo. Mi chiede per sicurezza se sto parlando di quel punto lì. Vuole capire. Sapere. «Sì è lì» rispondo e lui volge gli occhi su quella zona di mare, scuotendo leggermente la testa. Il suo volto sembra pronun- ciare poche semplici parole a me familiari: «Erano lì, non è possibile». Antonella segue ogni suo gesto con amore. Sa che oggi è un giorno difficile, ma necessario. Sono belli nel loro essere insieme. Stefano suggerisce di scendere giù ma si ferma. Ha intuito una scena. Mentre Mauro scende gli scalini dal ponte della nave, si staglia sullo sfondo un’enorme scritta, “Moby”. Blu su sfondo bianco svetta dalla fiancata di un grande traghetto della compagnia di Onorato. Mauro la guarda per un attimo. Poi scende. La Moby è già lì. Continua a evitare gli sconti emotivi ai familiari delle vittime. Andrea e Gian Mario ci hanno guardato i bagagli. La loro gentilezza suggerisce un’amicizia che sta nascendo. Ci siamo sentiti dopo i primi sguardi. Loro sono qui per Mauro. Noi siamo qui per Mauro. Entrambi abbiamo colto il senso del suo coraggio e lo ringraziamo. Entrambi lo vogliamo soste- nere. Scendiamo in garage. Mauro vive un’agitazione discreta. Antonella prende la sua mano più volte. Quando entra in macchina è pronto a lasciarsi travolgere da questa giornata.

114 Per vent’anni ha controllato quel dolore e l’ha messo dietro l’assenza di verità. Ora la cerca. La vuole tutta e se la prenderà nel corso della giornata, in un modo totale. Lo ripeto. Mauro ha coraggio. Per l’ennesima volta quest’Ita- lia raccontata dai media come una terra piatta e priva di tut- te quelle caratteristiche che rendono grande l’umanità, rivela un segnale di speranza. La vicenda del Moby Prince ci regala un’altra forza: dopo Loris c’è Mauro. C’è Mauro e c’è Anto- nella. L’amore vince e c’è. In una storia che per qualcuno è morta e parla di morti, Mauro e Antonella sono venuti per trovare la vita. Chi è rimasto e chi non ha alcuna intenzione di andarsene a mani vuote. Quando arriviamo all’Andana degli Anelli sono le 7:30. Lo- ris e Ivanna si sono alzati presto per questo appuntamento. Mi avvicino a uno spazio libero per parcheggiare, perché Mi- chele, Andrea e Alberto sono già lì pronti a documentare que- sto incontro. Avevo chiamato Michele prima, per spiegargli la situazione. Altre poche, semplici indicazioni. Spengo l’auto. Mi defilo. Ora è tutto nelle loro mani. Vedo Francesca, mia moglie, e vado ad abbracciarla. Mi è mancata e la vedo arrivare con tre borse a tracolla. Mi torna in mente quella volta che le dissi: “Lo porto io” e me la vidi arrivare in cucina con un vaso pesante più di lei. Mi guardò tutta in tensione per il peso e mi disse: “Ce la faccio da sola”. Quanta forza e quanta ambizione in quei centosessantasette centimetri per cinquanta chili. Mentre Loris, Ivanna, Mauro e Antonella ci sfilano accanto seguiti dalla troupe, le presento Andrea e Gian Mario. Parlia- mo di Andrea. Un altro Andrea. Il fratello maggiore di Mauro. Non l’abbiamo conosciuto ad Arzachena e Mauro ce ne ha parlato poco. I cugini cercano di spiegarmi. Andrea ha un altro carattere. Ha vissuto la tragedia a dician- nove anni e probabilmente la vive ancora con colpa. I suoi genitori erano in “continente” per lui, per prendergli una casa in affitto e stavano tornando a casa prima del compleanno del figlio più piccolo. Poi la tragedia e il diventare immediata- mente grande in pochi giorni, mesi, anni. Gian Mario mi dice: «Sai, quando poi Andrea è tornato ad Arzachena ha iniziato

115 ad andare per locali. Era estate e la gente parlava. Diceva che stava male perché era ancora in lutto». La Sardegna è così. Quadrato, rettangolo, triangolo. Ti inca- stri, bene. Altrimenti “sta male”. Chiedo ad Andrea se è vero che il fratello di Mauro ha altre idee politiche. Lui dice di sì, ma anche no. In realtà pare più che altro che la politica gli sia lontana. Lui è cresciuto in fretta. Si è sposato presto. La vita l’ha preso e gettato nel mondo degli adulti e si vede che, anche lui, ha cercato di trovare la sua verità fuori dal Moby Prince. Ci riavviciniamo. Anzi, si riavvicinano loro. Loris Ivanna Mauro e Antonella pensano di prendere un caffè. Un respon- sabile del TAN ci indica con molta gentilezza che dobbiamo togliere le auto entro le 9:00. Sono le 8:30. C’è tempo. Ci in- camminiamo verso un bar in cima a Via Grande. Ad un cer- to punto iniziamo a parlare. Io, Mauro, Ivanna e Antonella. Parliamo di famiglia. Ivanna è ancora una madre e capisce lo stato d’animo di Mauro. Iniziano a parlare di lui e di quello che sta affrontando con coraggio. Ivanna ripete spesso “capi- sco” e penso ora a quante volte ho sentito questa parola e l’ho giudicata inappropriata. Tanti dicono “capisco” per smettere di ascoltare. Ivanna dice “capisco” per continuare a farlo. La vita passa in mezzo a questo capannello di anime in em- patia. Mauro tira fuori il cellulare e fa vedere le foto di Fede- rico a Ivanna. È orgoglioso di suo figlio. Antonella altrettanto e Ivanna ne è felice. Pochi secondi prima aveva detto: «A vol- te penso che sia stato giusto così. Non avrei mai voluto che mia figlia vivesse una cosa del genere». Mauro era rimasto in silenzio. Ivanna aveva detto in una frase ciò che tanti in vent’anni non avevano capito. Sopravvivere è un atto naturale ma spesso dimentichiamo che il coraggio è natura. Imparan- do a dimenticare la natura ci disabituiamo al coraggio. Mauro non era pronto vent’anni fa per quello che è successo. Ma è sopravvissuto a tutto ciò e oggi è quel figlio di cui i genitori sarebbero stati orgogliosi. Con Ivanna abbiamo un patto. Riprendiamo quando lei si sente e può chiudere quando vuole. Mentre registro l’audio di quella conversazione capisco che posso riprendere e lo segna- lo a Michele. Non ci capiamo. Arriva Alberto troppo vicino

116 alla scena, con il boom. Io mi innervosisco e lo tiro via con una reazione forte di cui poi gli chiederò scusa. Michele è di- sorientato e mi dice con candidezza: «France io non so cosa vuoi. Spiegamelo altrimenti io non capisco». Quello spazio era in armonia, quelle attrezzature la stavano forzando e non potevo permetterlo. Dobbiamo documentare quindi raccogliere. L’essere in mezzo è un entrare in scena con protagonismo e mi sono adirato per questa presunzione. Prima la relazione, poi il resto. Prima Mauro, Ivanna, Loris, Angelo, Giacomo e poi il film. Finita la scena ne parlo con Michele. Provo a spiegare ma sono agitato. Quando mi arrabbio con gli altri è perché sono adirato con me. Ma il problema sembra rientrato. Mi dico che stiamo ancora creando la squadra. Il volere tutto e subito è peccato di presunzione quanto l’entrare con un boom nell’in- timità che si era creata. Mi scuso comunque con Alberto per la mia reazione. Lui mi guarda e dice: «Io sono qui per voi. Te mi puoi chiedere e dire tutto». Capisco ma non condivido. A un lavoratore non si può dire tutto. Si può dire tanto. Si può essere sinceri. Ma ci vuole rispetto ed empatia. In pochi minuti Loris, Antonella e Mauro sono nella mia macchina. Stefano li riprende dal sedile davanti. Direzione: casa di Loris. Indico a Michele di andare là con Andrea e Al- berto. Di precederci per costruire insieme una buona scena. «Io e Ste riprendiamo l’arrivo». Loro sopra possono cogliere l’ingresso. Andrea direbbe: “Son segate. Ma queste cose ti ri- solvono il film”. È vero. Lo devo considerare. In macchina Mauro chiede a Loris di Livorno. «Mi sembra che la città sia un po’ spenta rispetto alla giorna- ta. C’è voglia di dimenticare?». Loris sospira. Dentro la risposta ci sono vent’anni del suo lottare. «La città vive questa vicenda come una ferita aperta. Si esprime nelle piccole cose. La pacca sulla spalla, quello che si avvicina e ti chiede. Però è un modo distaccato che a me infa- stidisce. Perché da una città rossa come questa uno si aspetta un altro tipo di solidarietà che poi alla fine c’è stata i primi anni. E nelle parti più profonde, nei rapporti più veri è rima- sta fino a oggi. Come nel caso della Pubblica Assistenza. Loro

117 la vicenda l’hanno vissuta. C’erano dall’inizio e sono rimasti. O il Sindaco di Lari che tutti gli anni si fa la maratona per portare le rose a Livorno. Perché noi sai organizziamo tutti gli anni questa maratona in ricordo delle vittime…». Loris racconta. Racconta porzioni della sua vita che diventa- no frasi. Mauro le ascolta. Ma sembra distratto. Sono persone diverse. Mauro è abituato a risposte precise a domande precise. Loris è abituato a dare valore a quello che ritiene importante senza preoccuparsi troppo di chi ha di fronte. «Il nostro corteo poi devi capire che è silenzioso. È un fu- nerale. Anche quando leggo i nomi delle vittime tu vedrai che stanno tutti in silenzio ad ascoltare. Anche perché a me non piace questa cosa dell’applaudire i morti. Ai viareggini gliel’ho detto: “il prossimo anno a leggere i nomi delle vittime vengo io” perché l’anno scorso c’era questo che li leggeva… sembra- vano rock star… i nomi dei morti non si leggono così…». Arriviamo in Piazza della Repubblica e quella lunga risposta ancora non è arrivata al punto che Mauro sembrava aspettarsi. Quel: “sì, Livorno vuole dimenticare”. Hai lottato, lo so, ma alla fine la gente è così. Loris continua: «Guarda oggi io inizio il mio intervento leg- gendo una lettera che ci ha mandato Antonietta Centofanti della Casa dello Studente de L’Aquila, poi leggo una lettera che mi ha scritto un amico iscritto alla nostra pagina di Face- book che hai visto è molto ricca, ci sono quasi quindicimila iscritti… e poi prima di leggere il mio intervento, che mi sono scritto perché quest’anno volevo essere preciso, leggo un pez- zo che ha scritto Luciano De Majo e che è stato pubblicato nel fumetto sul Moby Prince, che dopo ti dò, dove ci abbiamo scritto sia io che Angelo Chessa». Loris sospira. Guarda Mauro accanto a lui e continua. «Luciano era un giornalista del Tirreno e un familiare delle vittime, conosceva molto bene la realtà di Livorno e ha sem- pre seguito la vicenda. Poi due mesi fa un tumore fulminante a quarant’anni se l’è portato via. Ha lasciato due bimbe picco- le e la moglie. Mi è sembrata una cosa doverosa. Anche per- ché Luciano è un giornalista serio che sulla vicenda ha sempre

118 scritto cose documentate, non come altri. Che magari vengo- no a Livorno due giorni e pensano di conoscerla». Parcheggio. Siamo fermi. Mauro ha capito. C’è tanto intor- no alla vicenda perché Loris si è speso. Ma alla fine resta della sua posizione. «Comunque la città sembra voler dimenticare». Loris appoggia la mano sulla maniglia della portiera: «Lo vorranno loro. Io no». Mentre ci avviciniamo al portone di casa Mauro chiede quanto sia rossa Livorno. Loris sorride. «Qui siamo intorno al 67%». Gli dico: «Lo sai che Mauro è segretario del PD di Arzache- na?». Lui torna a sorridere. «Sì ma noi ad Arzachena siamo a mala pena al 25%». La politica, un altro ponte. Fili da tessere. Casa di Loris oramai la conosciamo. È piccola, con una luce di taglio dalla finestra della sala. Quando arriviamo vedo in cucina Fabio. Sta facendo i piatti. Io e Stefano rimaniamo nell’ingresso, vicino a una statuetta di un geco, simile a quel- lo che Loris ha tatuato sulla pancia. Michele, Andrea e Al- berto accompagnano l’ingresso di Loris, Mauro e Antonella nella sala. Alberto ha con sé l’asta e il boom. Mi avvicino e li guardo. Mi sembra una situazione troppo affollata per quello spazio così piccolo. Ma continuo a fidarmi di chi è in quella stanza. Penso allora che riprendere Fabio mentre fa i piatti sarebbe esteticamente molto bello. C’è una tendina a nastri coi colori della pace davanti a noi e tra i nastri che scendono si scorge la sua figura alta, compressa nella maglietta che ha fatto rea- lizzare Loris pochi giorni prima con su scritto “Moby Prin- ce. 140 morti nessun colpevole”. C’è una luce splendida. Ma quella cucina è diversa dalla vicenda. Loris è di là con Mauro e Antonella. Sta mostrando i supporti cartecei e digitali del suo essere museo. Aveva preparato libri e documenti. Mauro si volta verso la troupe, sento qualcosa, poi li vedo comparire. «Ha chiesto di staccare» mi dice Michele perples- so. La mia analisi istintiva è l’eccesso di presenze in quella stanza, rapportato all’intimità che richiedeva quel momento di documentazione. Ma me la tengo per me.

119 Scoprirò dopo dai diretti interessati che Mauro, davanti a quell’insieme di regali preparati, ha detto: «Loris io voglio al- tro da te». Loris, capendo, aveva risposto a suo modo. «Lo so che vuoi altro. Io cerco di darti tutto ma devo trovarlo». Mauro voleva conferme alla sua memoria. Voleva vedere se i genitori erano veramente vicini. E Loris tra le carte appog- giate in ordine sparso ne ha trovata conferma. Erano vicini. Inizialmente la madre di Mauro, Maria, era stata scambiata nel referto per una persona di sesso maschile. Non identificata. Mentre tutto ciò avveniva, entro in cucina e parlo con Fa- bio. «Posso registrare?». Lui mi guarda. «Certo. Se è per solidarietà certo. Ce n’è così poca di solidarietà di questi tempi». Mi racconta dello spettacolo teatrale sul Moby Prince visto la sera prima. La sua impressione a proposito è simile a quella accennatami da Loris e Ivanna. I balletti su una vicenda del genere sono stati fuori luogo. Allo stesso modo altre piccole cose che solo chi conosce i familiari delle vittime del Moby, tutti i familiari, può capire; e questo rende la giornata ancor più carica di contrasti rispetto a quanto già non lo fosse. A un certo punto Mauro esce dalla stanza. Sente di aver raccolto quello che doveva raccogliere e io lo posso portare da Angelo. Lui lo stava aspettando. Sapeva che nell’organiz- zazione generale della giornata gli avevo incastrato alcuni ap- puntamenti. «Andiamo da Angelo?». Lui risponde: «Sì». «Bene. Ora lo chiamo». Poche decine di metri più in là è il ritrovo. Angelo arriva in macchina. Quando vede la camera vacilla: «Ah ma riprendete così su- bito?». Ha bisogno di ambientarsi. Mauro piazza una battuta. «Certo che per essere sardo ti avrei immaginato più basso». Angelo si distende in un sorriso: «Sono mezzo toscano, mia mamma era di vicino Pisa». Iniziano così a camminare. Seguiamo lui, Luchino – il fra- tello maggiore di Angelo – e il giornalista Luigi Grimaldi a prendere i giornali.

120 Mauro parte subito leggero: «Scusa se sono così diretto ma ti volevo chiedere come mai c’è questa divisione tra le due as- sociazioni. Non pensate che indebolisca la ricerca di giustizia e verità?». Come direbbero a Livorno: “boia e ci sei andato morbidino…”. Mi viene da ridere perché Angelo, con grande comprensio- ne – come Ivanna prima – coglie il senso profondo di quella domanda e inizia a rispondere. Vuole far capire che qui si è fatto tutto il possibile. Non è che ci siamo risparmiati. La di- visione è frutto del tanto fare non del poco. Ci sono distanze. Nel racconto appaiono insormontabili. Per ora è stato così. Poi bisogna vedere. Angelo si volta e mi dice: «Registra pure Francesco». Segna- lo a Stefano che possiamo girare. Mauro chiede del processo. «Una farsa» risponde caustico Angelo, «come quest’ultima archiviazione. Hanno fatto di tut- to per cancellare questa vicenda. Per metterci la pietra tomba- le sin da subito». Mauro torna così sulla questione delle due associazioni. Scoprirò nella registrazione dell’incontro con Loris e Ivanna quanto l’argomento sia stato da subito posto sul piatto più evidente. Luchino inizia il suo racconto con chiarezza: «Gli altri fa- miliari hanno sempre pensato che noi facessimo tutto questo solo per difendere gli interessi di nostro padre». Mauro si aggancia: «Quindi c’era un pregiudizio». Luchino annuisce e prosegue: «Poi all’inizio c’era tutta un’al- tra situazione. Noi ci siamo staccati e abbiamo fatto l’associa- zione nel ’95… per me comunque questa cosa della divisione è stata tra le cose più gravi di questa vicenda. Io per primo una volta mi sono alzato in tribunale e ho detto “Vergognatevi, dovremmo essere tutti uniti”». Mauro riprende il discorso. «Sì però ritieni che da quando avete fatto l’associazione avete fatto dei progressi?». Angelo si riavvicina e inizia a spiegare: i progressi sono incoerenze della tesi principale portata avanti dai magistrati e risultanze peritali mai accettate dai giudici: i trenta gradi a dritta pre-collisione, la posizione della petroliera con la prua a

121 sud – quindi una dinamica della collisione esattamente inver- sa a quella della magistratura, con un’inversione di rotta del traghetto – l’assenza della nebbia, i lunghi tempi di sopravvi- venza a bordo. Mauro torna sul centro della questione: «E quindi questa questione delle due associazioni… non c’è modo di…». Angelo lo guarda con determinazione: «Non è un problema quello lì». «Lo è stato…» dissente Mauro. Angelo si ferma per un attimo, lo osserva. Quel punto di vista, di un familiare delle vittime estraneo alla vicenda per vent’anni, lo ha colpito. Luchino abbozza un chiarimento: «Per noi non è un proble- ma… il problema è che…». Angelo completa: «Ognuno la pensa come crede… non è che costringo la gente». Per lui la sua verità è chiara, cristallina. Ma non può costringere altri ad abbracciarla. Anche se conti- nua a non capirne il motivo. «Ieri abbiamo fatto… abbiamo visto questo spettacolo55 che mostrava le prove evidenti di quello che diciamo… se gli altri familiari vedono e capiscono bene…». Mauro ascolta assorto. Ha ancora in mente, come me, le parole di Ivanna e Loris su quello spettacolo. Una valutazione diametralmente opposta. Tanto opposta da apparire partigia- na. Uno spettacolo di parte per una parte, quindi. Soprattutto per un punto, sostanziale. Angelo lo cala con tranciante fran- chezza: «Poteva essere la peggio carretta dei mari quella nave, ma non c’entra niente con quello che è successo. È questo quello che devono capire». Il suo volto è come illuminato da questa affermazione. È di una presuntuosa sicurezza. Di fronte, Mauro abbassa gli occhi e guarda lontano. Quella risposta è stata come il lancio di un missile durante un percorso di pace. Non c’è niente da fare. Queste persone sono troppo distanti. Torniamo lentamente verso la sede dell’Associazione 10 aprile: lo studio degli avvocati livornesi dei fratelli Chessa.

55 Moby 451, ndr

122 Nel dialogo durante il tragitto Angelo torna sulla questione. «Prima eravamo di più. C’era anche Tagliamonte, lo conosci Tagliamonte?». Mauro fa cenno di no con la testa. «Era un altro familiare di un marittimo. Si era dato da fare, poi a un certo punto è sparito. Forse inevitabilmente56. Poi c’era Loris qui a Livorno che era molto attivo, anche coi sindacati. Orga- nizzava le manifestazioni, teneva i rapporti con le istituzioni». Mauro di tanto in tanto annuisce come colpito da alcuni pas- saggi. A volte “eravamo”, a volte “loro” e “noi”. Saliamo dagli avvocati per la conferenza stampa. Ci sono al- cuni giovani, produttori di opere relative al Moby Prince. Tra questi gli autori dello spettacolo Moby 491. C’è anche Gabriele Bardazza, il perito che conoscemmo a Milano su iniziativa di Angelo. Mi salutano tutti ma lui non mi stringe la mano. Forse teme che gli possa togliere un po’ di scena, ma a noi la scena non interessa. Ognuno fa il suo mestiere. Infatti, una volta studiato lo spazio, cerchiamo con Stefano una collocazione ottimale. Le sale sono curate, ma piccole. Nella stanza dove si terrà la conferenza stampa c’è un grande tavolo centrale, molto ingombrante. Tutto ciò rende la situa- zione per noi atipica e complessa da gestire.

56 Giuseppe Tagliamonte, fratello di Giovanni – marinaio trentottenne de- ceduto nel Moby Prince – , l’avevo sentito telefonicamente mesi prima durante la ricerca dei protagonisti. La sua storia, fatta di un grande attivismo civile nei primi anni, seguita da una scomparsa totale dalla scena, aveva attirato la mia attenzione. Michele poi era affascinato dall’idea di trovare un familiare delle vit- time napoletano, magari per giunta lavoratore attuale su navi della Moby Lines. Giuseppe Tagliamonte mi rispose su Facebook dopo circa venti giorni dal mio primo contatto. Riuscii ad avere il suo numero e lo chiamai. In un’ora e mezzo di conversazione mi raccontò del suo senso di impotenza nei confronti di quella vicenda per cui arrivò a incatenarsi davanti al Tribunale di Livorno, nel 1997. “Lo feci anche un po’ in polemica con Loris ed il resto del Comitato. Perché per me ci volevano gesti più forti. Stavano dissequestrando il Moby Prince e noi dovevamo fare qualcosa”. Si era fermato, perché? “Perché non c’era niente da fare…” una pausa, “poi tu devi capire… io sono stato tra gli ultimi ad accettare il risarcimento, all’inizio potevamo essere tanti, ma qui da noi non c’è lavoro…” altra pausa, “qui da noi anche se è brutto dirlo il morto serve anche da morto. Per una famiglia che ha perso il capofamiglia mettersi dentro un processo… anni… tanti soldi… per niente… invece firmata la quietanza, si prendeva qual- cosa che magari ti faceva vivere… qualcosa per vivere…”.

123 Angelo va nella stanza attigua alla sala dove si terrà la confe- renza. Si porta dietro Mauro e Antonella per condividere con loro uno sfoglio dei giornali acquistati. «Ecco: Il Fatto non ha scritto niente. Nemmeno Il Fatto». Poi è il turno de La Stampa. Poi altri ancora fino ai quotidia- ni locali. Chissà quante volte ha fatto la stessa operazione. La vicenda del Moby Prince è riportata ne Il Tirreno e La Nuova Sardegna. Poca roba. Pochissima roba. Angelo è arrabbiato e si vede. Diventa rosso in volto. Di un rosso scuro e intenso. Angelo e la rabbia hanno infatti una re- lazione particolare. Lo vedo lontano un miglio quando gli sale quell’energia da dentro. Muove i muscoli della faccia, si gira, cambia posizione della sedia. Durante la conferenza stampa lo farà una cinquantina di volte. Tutti parlano della vicenda che gli ha portato via il padre e la madre. Lui è contento, ma questi sbagliano. Spesso sbagliano. Persino il perito sbaglia. Sbaglia qualche informazione, data, nome. E lui si arrabbia, nonostante tutto, con grande signorilità. Cerca di contenersi. Ma è più forte di lui. Quando non sottolinea gli errori con le parole lo fa con la mimica facciale. All’inizio della conferenza stampa tutti i giovani presenti par- lano delle loro iniziative. Elena racconta dello spettacolo, Vi- valdi del fumetto, il cantautore Pietro Coccioli della canzone, Francesco Aloe del suo noir. Ciascuno è molto concentrato sul proprio punto di vista. Sulla propria ricerca e produzione. Qualcosa di questo atteggiamento sta evidentemente segnando la nostra generazione. L’io contro. Dall’io con, all’io contro. Ad un certo punto prende la parola Gabriele Bardazza e mi stupiscono le sue parole. Siamo rimasti allo stesso punto di quando ci siamo visti, due mesi e mezzo prima. Avanzamenti non ce ne sono stati e anzi si sente la sottolineatura del fatto che “abbiamo dovuto lavorare con un po’ troppa fretta in questi sei mesi”. Periti e avvocati. Angelo ha intorno molti tecnici. Ha pensa- to la verità come una questione di tecnica. Ingegneria più che filosofia. E siamo a questa conferenza stampa, all’archiviazio- ne dell’inchiesta-bis, alla divisione con Loris e gli altri familiari delle vittime.

124 A un certo punto Angelo prende la parola. Finora tutta questa tecnica si è capita, ma lui è anche cuore. Quell’energia montata da dentro deve uscire. Qui ci sono prove evidenti che qualcosa di molto grave è successo e l’hanno voluto in- sabbiare. Qui c’è dell’altro. Questi “ci hanno preso in giro”. Pensavano di prenderci in giro. «Ma l’avete visto il filmato del povero Rodi57? Quello è vivo la mattina dopo e dicono che non è vero. È questo, è questo che… Questi negano l’evidenza! Dobbiamo andare via da Li- vorno… prima o poi qualcuno…». Mauro prende la parola: «Dipende da cosa stai cercando: verità o giustizia?». «Tutte e due» risponde Angelo. Ma è rimasto colpito. Mauro ha capito in un’ora quello che tanti ancora non hanno colto. Angelo cerca la giustizia perché è troppo forte e inaccettabile per la testa la verità dei vivi. È più importante stare lì tra periti e avvocati che vicino ad altri familiari. Loro si sono adagiati su una ricostruzione non reale. Lui si è messo sul binario dritto dell’attesa di un’informazione rivelativa. Solo sapere cosa è successo può far succedere qualcosa di buono e questa verità dev’essere certificata da un giudice. Mauro insiste: «In un mondo ideale sarebbe così, ma se vuoi

57 Il cadavere di Antonio Rodi fu trovato sul ponte di prua completamente carbonizzato. Un filmato realizzato dall’elicottero dei carabinieri, intenti a sor- volare il relitto del Moby Prince alle 7 del mattino dell’11 aprile 1991 – otto ore e mezzo circa dopo la collisione – , mostrava però il corpo di un uomo sdraiato supino, Antonio Rodi per l’appunto, ancora integro e con i vestiti altrettanto integri ancora indosso. La sentenza di primo grado, forte della perizia realizzata dai Consulenti Tecnici del Pubblico Ministero Prof. Bargagna e Dott. Bassi, valutò che la situazione non avrebbe dovuto “destare meraviglia. Tenuto conto che l’incendio a bordo ebbe fasi alterne dopo che erano iniziate le operazioni di spegnimento e che hanno luogo ordinariamente in casi del genere fenomeni connessi alla combustione tardiva delle parti molli, fenomeni riconducibili alla cosiddetta “autocombustione””. In forza a tale perizia la sentenza definì che il caso Rodi non consentiva di “ri- tenere che una o più persone perite sul Moby Prince abbia avuto un tempo di sopravvivenza maggiore di quello indicato nella consulenza predetta” (Sentenza di primo grado processo Moby Prince, p. 638-639). Un tempo valutato dai con- sulenti come di massimo “30 minuti” (Sentenza di primo grado processo Moby Prince, p. 648).

125 cercare la verità forse ti devi allontanare dal tribunale per- ché… a parte che non sto cercando la pistola fumante… un colpevole non mi cambierebbe nulla…». Angelo incassa. Gabriele Bardazza prova a sostenere una causa che è diventata sua per incarico e forse passione civile. «Non stiamo cercando una verità processuale al momento». Ma Mauro è già distante. Quell’idea di una verità processuale è un richiamo troppo forte di quel discorso per poter essere celato. I fratelli Chessa vogliono una sentenza e la vogliono diversa da quelle finora raggiunte da quel sistema giudiziario di cui tornano ad aver bisogno. La conferenza finisce. Mauro si avvicina e mi dice: «Questi mi sembrano più organizzati». Gli rispondo: «Qui vedi la testa e la testa è ordinata. Oggi al corteo vedrai il cuore». Testa e cuore si trovano solo nella verità. A questo punto però Mauro ha bisogno di staccare e ri- posare. Loris ha organizzato un pranzo comune con tutti gli altri familiari, ma lui non ci vuole andare. Vuole stare con la sua famiglia, almeno per il pranzo. È comprensibile. Lo dico a Michele che lo dica a Loris. Lui capisce. Come Ivanna e gli altri. Gliel’aveva detto la mattina, subito dopo l’abbraccio con cui Mauro aveva accompagnato il suo ringraziamento per vent’anni di lotta senza lui: “questa giornata per te sarà una botta”. Lasciato Mauro con Antonella, Gian Mario e Andrea, io e Stefano raggiungiamo invece gli altri familiari per mangiare insieme a loro. Pranzo di pesce che poi ci costerà un occhio della testa e un po’ di arrabbiature del direttore esecutivo. Durante il pranzo – rapido per me e Stefano – mi siedo da- vanti a due coppie di Lucca sulla sessantina d’anni. Una delle signore è molto presa. Vuole parlare. Ma il marito la frena. È diffidente e mi dimostra più volte che ha perso fiducia nel genere umano. Chi li può biasimare? Questa è la colpa più grande di chi è responsabile della tragedia. Togliere fiducia, fede, in chi l’aveva. La signora mi racconta del figlio carabiniere. Non doveva nemmeno partire. Molte storie che ho sentito iniziano così. Il

126 resto della conversazione non la riporto. Il marito ha chiesto discrezione e voglio rispettare il patto anche nella scrittura. Verso le 15:00 arriviamo al TAN. Francesca e Sara sono lì e ci stanno aspettando. Mi dispiaccio del fatto che mentre noi avevamo mangiato del pesce, loro si erano giustamente riser- vate un pranzo a base di panini. Se ci prendiamo della merita- ta soddisfazione sensoriale allora prendiamocela tutti. Anche in questo la squadra deve migliorare e migliorerà presto. Chi gestisce il Punto Info e Organizzazione del TAN ci con- sente di tenere una postazione di scaricamento delle schede e ricarica delle batterie. Questa solidarietà è una benedizione. Ringraziamo più volte. Io più volte degli altri per deformazio- ne personale. Ad un certo punto sento Angelo. Siamo rimasti per vederci alle 15:00. Lui non va al corteo. Nè in Comune per l’incontro pubblico organizzato da Loris insieme all’Amministrazione cittadina. Gli dico: «Sono all’Andana degli Anelli58». «Ok, vengo lì». Quando arriva gli presento Francesca. Ci tengo a farlo sia per il suo ruolo, che per il fatto che è mia moglie. Ha sentito parlare di lei e sono felice di fargliene fare esperienza diretta. Finite le presentazioni, iniziamo a camminare e parlare. Parliamo della conferenza. Parliamo di Mauro e delle sue intuizioni. Angelo è in confidenza e ne sono felice. Mi sta molto sim- patico. È una persona precisa. Un chirurgo. Gli racconto delle mie impressioni sui presenti alla conferenza e sui suoi accenti quando sbagliavano qualche informazione. Lui coglie che io colgo. Ne è felice. Il patto è essere sinceri e mettere davan- ti i familiari al film. Se sappiamo qualcosa sulla verità, pri- ma andiamo da loro. Non ci interessano scoop o quant’altro. “Ventanni” è un film documentario sui familiari delle vittime. Chi lo guarda si dovrebbe ricordare dei protagonisti e non di

58 Punto del porto turistico di Livorno dov’è collocata la lapide commemo- rativa delle vittime del Moby Prince.

127 come si chiamava il peschereccio raccontato da Ilaria Alpi59. Il peschereccio è morto. I familiari sono vivi. “Lasciate che

59 La notte del disastro era segnalata come presente in porto una nave bal- zata all’attenzione delle cronache a seguito dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miros Hrovatin: la 21 Oktober II della Shifco. La storia di questa imbarcazione e della flotta cui faceva riferimento, ampiamente spiegata nel volume “Moby Prince. Un caso ancora aperto” di Enrico Fedrighini (Paoline, 2006), chiama in causa i rapporti Italo Somali durante il governo Craxi. La flotta Shifco fu infatti ufficialmente donata dalla cooperazione italiana allo sviluppo al governo somalo allora guidato da Siad Barre con lo scopo di favorire la pesca d’altura nel paese. Successivamente si scoprì – anche grazie alle indagini condotte da Ilaria Alpi – che in realtà alcuni pescherecci della flotta, tra i quali la 21 Oktober II, erano coinvolti in traffici di armi e trasporto di rifiuti tossici. L’idea che la cooperazione italiana avesse barattato la concessione di armi a Siad Barre in corrispondenza dell’accettazione da parte di questi del seppellimento di rifiuti tossici italiani in suolo somalo resta ancora oggi il movente più probabile della sentenza di morte emessa verso la giornalista del Corriere delle Sera. Il 10 aprile 1991 questo bianco peschereccio d’altura era in riparazione a Livor- no, dove vi permarrà per alcuni mesi successivi alla tragedia del Moby Prince, e, benchè in riparazione, fu ritenuto in movimento a seguito della testimonianza di una signora residente in prossimità della calata dov’era attraccato. La signo- ra, Susanna Bonomi, dichiarò a tal riguardo che la sera del 10 aprile non vide l’imbarcazione al momento della chiusura delle serrende della sua finestra di sala – affacciata alla banchina Magnale in cui il peschereccio stazionava – per poi ritrovarla nella consueta posizione la mattina seguente. Questo racconto, poi ri- trattato dalla Sig.ra Bonomi nel corso dell’ultimo interrogatorio datato 8 gennaio 2010 – secondo la versione esattamente inversa: “la sera prima” aveva visto il pe- schereccio e “la mattina dopo” non l’aveva ritrovato al suo posto – , fu ritenuto assai rilevante da alcune parti civili – in particolare quelle difese dall’Avv. Filastò – per più motivazioni: in primo luogo alcuni soccorritori – presenti nel rimor- chiatore Tito Neri II – fecero riferimento a una manovra di emergenza, posta in essere poco dopo l’uscita dal Porto, allo scopo per evitare una collisione con un’imbarcazione simile a un peschereccio d’altura lanciato in direzione opposta, inoltre il direttore di macchina dell’Agip Abruzzo Marco Pompilio dichiarò di aver visto un peschereccio bianco d’altura “sfilare” accanto alla petroliera venti minuti dopo la collisione. Tutto ciò poteva far conciliare la tesi secondo la quale questo peschereccio bianco, a metà tra un traghetto e una bettolina per dimen- sione, potesse essere la 21 Oktober II della Shifco e che quindi questa avesse una qualche responsabilità nella dinamica della collisione. Agli atti la testimonianza del direttore di macchina Pompilio fu classificata come erronea. Quello che lui ritenne essere un peschereccio d’altura era in realtà il Moby Prince. Allo stesso tempo i soccorritori del Tito Neri II – l’armatore Tito Neri e l’ufficiale Felice Manganiello – , risentiti durante l’inchiesta bis a riguardo della collisione sfiorata dichiararono che quel natante era un piccolo peschereccio, qualcosa di lontano, per dimensione, alla 21 Oktober II.

128 i morti seppeliscano i morti e pensate ai vivi”. Racconto ad Angelo l’intuizione maturata con Stefano sul- la ricostruzione. Lui annuisce. È molto incuriosito. Mette i tasselli. È un’intuizione. Solo l’ennesimo modo di rimettere a posto il puzzle per capire i tasselli mancanti, ma quest’idea lo vede concorde. Io gli sto regalando gratuitamente questo lavoro e lui mi regala gratuitamente la verità. «Io non sono contro Loris Rispoli. Condivido molte cose che fa. Abbiamo due modi diversi di agire e so che c’è una dif- ferenza sostanziale tra di noi. Io non posso andare al corteo perché non ho ancora elaborato il lutto. Io non riesco a stare in mezzo agli altri. Sarebbe bello andare al corteo, stare con loro. Ma ancora non ci riesco». Le parole, pronunciate basse e ravvicinate, si fermano per un attimo e con una voce strozzata dall’emozione aggiunge: «Quando sarà finito tutto e saprò la verità, allora andrò anche io a buttare le rose in mare». Ripenso a L’Aquila e a quello striscione. Avevo pensato a lui. Ora mi dice che un giorno potrebbe. È una speranza. La speranza è rivoluzionaria. Ora resta solo da trovare l’informa- zione. In attesa che colga la verità. Mentre Angelo si defila in mezzo al caos dei partecipanti del TAN, noi ci incamminiamo per raggiungere la testa del corteo. Michele, Andrea e Alberto lo stanno seguendo dall’inizio. Avvicinarci in mezzo alla Via Grande vuota mi rende un senso di forza. Il corteo è la forza dell’espressione di popo- lo. Lo striscione blu con scritta bianca precede i gonfaloni: “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole!”. Davanti vedo Gavina. Vedo Giacomo e altri con la maglietta fatta fare da Loris. Accanto a loro i familiari delle vittime della strage di Viareggio. Daniela, con l’immagine della sua Ema- nuela portata a tracolla. Il corteo ha una dignità palpabile. Apre Via Grande tra due ali di gente incuriosita. «Ma chi sono?». «Ah sono “velli” della nave…». «Sono quelli del Moby Prince». Il silenzio del corteo è delle prime file. Dietro si parla. I Sindaci parlano.

129 «Ciao Sindaco» dice un uomo a Cosimi. Ancora dietro ci sono i ragazzi dei collettivi. Poi – mi pare – gli anarchici com- pagni di Giacomo. Arrivati all’Andana degli Anelli assisto a una scena. Giaco- mo è dentro la sala dove Loris leggerà i nomi delle vittime. È scocciato dalla presenza di questi grandi gazebo. Sosta vicino alla finestra aperta sulla banchina insieme ad Andrea, il figlio di Loris. Pensa. Quel posto è suo, mi dirà poco dopo. Si avvi- cina una persona della sicurezza: «Non potete stare qua. C’è una manifestazione in corso. Esci». Giacomo si volta. In modo controllato fa capire che lui non si sposta. È un parente delle vittime, vuole stare lì. L’addetto è colpito dalla risposta, ma per ruolo insiste e lui si arrabbia. «Se si prende la sua responsabilità» gli viene risposto a occhi bassi. «Mi prendo la mia responsabilità e resto qui». Lo hanno disturbato per una regola. Le regole non sentono. Lui era lì. Era nel suo posto. La regola crea il vestito a tutti con la stessa taglia e a Giacomo la regola sta stretta come un vestito che non hai scelto di indossare. Entra il corteo nella sala. Loris si avvicina al palco. Una don- na cerca di contenerlo nella scaletta. Loris è la scaletta e va avanti. Sale sul palco. Io e Stefano saliamo con lui. Non ser- ve parlare. Lui si mette dietro Loris. Inquadra. Sullo sfondo una bandiera enorme dell’Italia sovrasta le persone radunate nel padiglione. Loris vuole essere ascoltato da tutto il T.A.N.. Vuole che il brusio di quelle migliaia di persone accorse in fiera si trasformi in silenzio durante la lettura dei nomi delle vittime. Lo dice e raccoglie un po’ di quel silenzio. Il tanto per partire. Due parole. Un altro tentativo di trasmettere il messaggio dei familiari delle vittime, attraverso i watt di tanti altoparlanti. Poi, inizia a leggere i nomi. A un certo punto legge: «Bianco Gavino, Chessa Ugo» poi più avanti: «Filigheddu Maria, Filippeddu Giovanni» e ancora più avanti: «Rispoli Liana, Rizzi Umberto, Rizzi Monica, Sini Antonio». Gli altri nomi scorrono. Quelli invece stanno lì. Mi com- muovo. Lo faccio per i vivi. Non per i morti. Mi commuovo

130 per il dolore dei vivi che ho conosciuto e sento che per andare avanti devo fermarmi con la conoscenza di altri familiari. Solo Loris può dominare l’emozione di tutti quei nomi associati a tutti quei familiari. Solo lui può leggerli e vedere accanto la storia di chi ha conosciuto, di chi magari gli ha detto “comu- nista”, pensando di offenderlo, o semplicemente “grazie”. Sarò stanco. Sarà che ha ragione Stefano e la debolezza ci rende umani, ma mi si forma nell’occhio destro una lacrima anche ora, nel ricordarlo. Nel ricordare Giacomo che alza gli occhi al cielo e si commuove. Lui che potrebbe spostare una montagna con la sua energia, è fragile in questo dolore. In questo momento anche lui può esserlo come tutti gli altri. Verrà il momento di tornare alla forza. Ora no. Ora Loris si dimentica di leggere un nome. Il familiare della persona rappresentata da quel nome chiede che integri, men- tre nel frattempo suonano il silenzio. Il familiare è adirato, ma in modo dignitoso e composto. Lui ha bisogno che legga anche quel nome. Deve leggerlo. Perché li ha letti tutti e tra quei centoquaranta morti c’è anche lui, “Saccaro Ernesto”. Loris prende la parola e dice: «Scusate, scusate ma mi sono di- menticato di citare un nome… mi scuso ancora». Lui. Lui che qualcuno ha additato come “protagonista” come “politico” come “prima donna” chiede scusa con rammarico profondo. Ha sbagliato. Di centoquaranta in una giornata organizzata, in vent’anni organizzati, ha mancato quel nome e affronta la cosa come se avesse sbagliato tutto. Lui capisce. Come Ivan- na, Mauro, Angelo e tutti gli altri che ho conosciuto. Capisce e si scusa. Mai un microfono mi è sembrato così giusto per aiutare un essere umano a mettere le cose a posto. Quel nome è stato letto. “Saccaro Ernesto”. Anche questa volta ci sono tutti. Loris scende dal palco. È il momento delle rose. Ci avvici- niamo alle finestre del gazebo dalle quali i familiari le lance- ranno in mare. Vedo Mauro. Lo riprendiamo per pochi secondi. Poi fermo tutto. Quel momento è suo e basta. Prima i familiari, poi il film. Vedo Antonella dietro di lui. Sta piangendo. Mi torna in mente il viso di mia madre in lacrime. Quando una donna

131 sarda piange lo fa con dignità e rispetto. Mauro getta le rose. Per la prima volta vanno in mare dalla sua mano. Le guarda. Pensa. Penso: “fizzu meu”. Quello che mi dice mia madre. I genitori di Mauro sarebbero orgogliosi di questo coraggio. Orgogliosi di questo suo gesto d’amore arrivato vent’anni dopo. Incrocio Gian Mario, il cugino di Mauro con cui abbiamo condiviso il viaggio di andata. Sta piangendo. Mi dice: «Per me erano padrino e madrina. Come due genitori. Sono cresciuto lì davanti. Mauro è stato molto coraggioso. Noi siamo venuti ma io sono così. Lo so che sono debole. Io lo sapevo». Dopo qualche minuto ritrovo i miei genitori. Sono venuti anche loro dopo qualche anno di pausa. Mi torna alla mente quando li dissi: «Come pensate di meritare un Paese migliore se avete avuto una cosa come il Moby Prince davanti e non vi siete mai mossi per questa?». Ero stato duro. Lo sanno. Mi conoscono. Loro però c’erano stati. In qualche manifestazione, in mezzo al corteo, ed ero io a ricordare il contrario. A volte la memoria ricorda ciò che giustifica il nostro ultimo sentimento. A questo punto voglio far conoscere loro Mauro, Antonel- la, Andrea e Gian Mario. Riesco a farli incontrare. Parlano. I sardi quando si incontrano avviano un rituale: “Sa janna est abbelta”, “la porta è aperta”. Potrebbero bucare una ruota e dormire a casa dei miei per una settimana. Sono parte e io voglio allargare questa parte. Prima, a quel proposito, ave- vo incrociato Gavina e Angela. Ci siamo salutati con affetto. Sono contento di vederle e anche loro. Quanta tenerezza in quella ragazza. Mauro e Antonella mi guardano. «Ora mi sa che ci dobbia- mo salutare». Ci abbracciamo. Ci ringraziamo. Mentre saluto anche i cugini di Mauro, lui mi ricorda dei filmati dei genitori: «Francesco davvero, senza impegno, se non si può fare niente me li fai riavere così». «No» rispondo, «stai tranquillo che te li convertiamo tutti, se Stefano ha detto che si può fare si fa». Ci riabbracciamo. «Poi tornate da noi comunque?». «Certo. Quando faremo il viaggio con Giacomo e Ivanna».

132 «Ah quindi c’è un’idea del genere in ponte?» mi chiede. «Sì. Ma bisogna vedere. Lui viene in Sardegna ogni due mesi, lei d’estate per andare nella casa di Palau». Mauro annuisce. «Sì me ne ha parlato. Mi farebbe piacere che ci rivedessimo tutti insieme da noi. Basta che ce lo fai sa- pere con qualche giorno di anticipo per organizzarci». Anche quel ponte forse è stato costruito. Ivanna e Mauro. Un altro passo atteso. «Bene. Buon viaggio» è l’ultimo commiato. Antonella mi guarda con sincera gratitudine. «A presto». Torno dai ragazzi. Siamo stanchi. Michele, Alberto e Andrea ricompaiono dalla banchina in cui erano andati per riprendere il lancio delle rose da un punto di vista opposto a quello mio e di Stefano. Mi avvicino a Michele, gli stringo un braccio. Lo vedo stan- co, provato. Tanta emozione. Si avvicina Andrea. «Anche lì in Comune è venuta roba molta intensa». Il lavoro è sempre un filtro con cui guarda ogni cosa. Michele aggiunge: «C’era anche un tipo napoletano che ha fatto un discorso…» respira, «inten- so…» inizia a imitarlo. «A Loris gli ha detto: “Portaci a Roma! Non abbiamo paura dei manganelli. Non abbiamo paura!”». Gli racconto del mio dialogo con Angelo. Siamo tutti svuo- tati. Tutta quella energia, quel dolore, quella tensione, devono trovare riposo. Decido così che le riprese sono finite. La squa- dra è troppo stanca. Stefano vuole tornare a casa da Caterina e Letizia. Glielo devo. Caterina, sua figlia, spero mi perdonerà per avergli portato via il babbo. Il babbo è stato un grande. Babbo Ste torna a casa stanco ma felice. La sera, prima di andare a cenare dai miei dove “sa janna abbelta” ospita me, Francesca, Andrea e Sara, passiamo a sa- lutare Loris e Giacomo davanti al Teatro Goldoni. Sono lì perché come ogni anno c’è una rappresentazione dedicata al Moby Prince. Un altro modo per ricordare. Troviamo Gia- como fuori. Dice che Loris deve arrivare, ma lui esce pochi minuti dopo dal portone del teatro. Loris ci continua a sorprendere e Giacomo ha difficoltà a stargli dietro. Appare fresco come una rosa, la stanchezza sarà per altri giorni.

133 C’è anche Francesco Gerardi dello spettacolo teatrale M/T Moby Prince. Ha una presenza scenica naturale molto forte. Una voce molto potente. Penso: “potrebbe essere interessan- te fare qualcosa insieme”. Intanto mi ricordo che qualche ora fa c’era anche lui dietro lo striscione “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole!”. Lui è stato ospite. Lui e Marta sono stati accettati e hanno raccontato. Sono entrati. Per questo sono ancora lì. «Loris ci sentiamo». Lui mi guarda. Ho capito, lo sente. Ora devo solo elaborare e dargliene te- stimonianza.

Dal post “10 aprile 2011. Ventanni”, pubblicato il 16 aprile 2011

134 5. ROMA. PROCESSO BREVE

ROMA – Nato come disegno di legge contenente “misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi” e ri- battezzato processo breve, il testo approvato questa sera dalla Camera esce completamente trasformato rispetto a quello approvato dal Se- nato oltre un anno fa, a partire proprio dal titolo, che diventa “dispo- sizioni in materia di spese di giustizia, danno erariale, prescrizione e durata del processo”. Tg1 on-line, 13 aprile 2011

L’11 aprile dovevamo riposarci. Promesso. L’11 aprile sia- mo a lavorare. Parliamo del 10 con Sara, Mirko e Francesca. Ne parliamo viaggiando verso Sassetta dove ci attendono i proprietari di due strutture agrituristiche per cui stiamo lavorando. Quando torniamo, nel pomeriggio, accendo il portatile e vado su Facebook. Leggo un po’ di messaggi di Loris. Ha scritto tanto, a pezzetti. Ad un certo punto mi cade l’occhio su un messaggio: “domani a Roma con tutte le associazioni a contrastare il processo breve che calpessta le vittime e crea impunita per i carnefici…”. Tempo dieci minuti e mi chiama. Tempo tre ore e allestiamo la troupe. Tempo permettendo la produzione è a posto. Michele, Andrea e me. Stefano, anche in questa occasione, abdica. Troppo poco preavviso. Torno così, ancora, all’audio e in parte ne sono contento. Mi piace ascoltare dai tempi delle ricerche etnografiche. Salterò però l’incontro di domani con Riccardo e Caterina di Lama, per l’organizzazione di “Fabbrichiamo il presente”, l’evento pensato con la loro cooperativa, allo scopo di unire per una prima volta tante giovani realtà attive nel panorama italiano. Poco male, lo gestirà Francesca. Lei vuole sapere come e me lo chiede a letto alle 23:30 circa. La sveglia suona alle 5:00. Alle 6:00 devo fare i biglietti per tutti in stazione. Il bancomat di Mediaxion ha meno del dovu-

135 to. Uso il mio. Poi penso a quanto ci sarà rimasto e soprattutto al fatto che devo ricordare a Sara di fare almeno i rimborsi spese. La signora delle FS è abbastanza lenta. Diciamo più che ab- bastanza. Per fare una procedura da cinque minuti ce ne mette dodici. Taylor si sarebbe incazzato. Pace. La fattura rimane lì, poi la riprenderemo. Saliamo sul treno io e Andrea. Michele salirà con Loris, a Livorno. Andrea si addormenta. Mi viene da scrivere. Prendo il cel- lulare e inizio a segnarmi la sinossi del documentario. È la descrizione migliore che ho fatto finora. Breve. Poche cose ma chiare. Potrebbe servirci per “Raccontare l’avventura”, il workshop organizzato da Zelig Film e Trento Film Festival dove ci siamo iscritti su richiesta di Michele per sviluppare al meglio la presentazione del documentario. A distanza di un giorno dal 10 aprile penso al fatto di preve- dere due film. Uno lungo (70 min) e uno corto (52 min). Nel lungo possono trovare spazio sfumature e un personaggio dei cinque finora previsti. Nel corto tutto deve filare con grande rapidità. Penso alla storia di Mauro, al suo viaggio. Il film po- trebbe ripercorrere la cronologia di questi giorni. Mauro è il protagonista che arriva dopo vent’anni in una storia contorta. Lui solo riesce a leggerla dal migliore dei punti di vista perché è in essa e fuori da essa. È un familiare, quindi parla dal cuore, ma è anche estraneo a tutto quel vissuto di divisioni e piccoli screzi ancora oggi patrimonio sfavorevole di questa storia. In questo tipo di film la figura di Loris risulterebbe meno centrale e verrebbe affrontata sul piano del suo impegno per portare nel futuro una lotta che oggi lo trova accompagnato solo dai suoi figli. Quello naturale, Andrea, e quello arriva- to, Giacomo. Loris e Giacomo sono quindi una storia. Loris conduce una battaglia sua con metodi suoi e raccoglie quel consenso da “vai avanti te che poi noi arriviamo”. Mi racconta in treno di Cirillo, quel signore napoletano le cui parole avevano tanto colpito Michele, durante la cerimo- nia nella Sala Consiliare del Comune. «Tutti gli anni fa lo stesso intervento: “Loris portaci a Roma, portaci a Roma”». Commenta: «Io ti ci porto anche a Roma

136 ma cosa ci si va a fare in tre scemi?». Lui a Roma ci sta andando, adesso. È con il Comitato per la strage di Viareggio: Riccardo, Daniela e tutti gli altri. Era andato anche a L’Aquila e di Cirillo o altri nemmeno l’ombra. L’aveva scritto sul gruppo Facebook: “Quelli che vogliono la verità sul Moby Prince”. Più di 13.000 persone potevano es- serci. A Roma sta andando da solo con Andrea e noi. Mi vie- ne in mente che qualcuno potrebbe dire: “eh ma io mica ho Facebook” e mi viene in mente una risposta semplice: “cosa devo fare, mandarvi un sms a tutti ogni volta che mi muovo con lo striscione?”. La battaglia di Loris è in realtà solitaria come quella di An- gelo. La differenza è che il cuore almeno ogni tanto raccoglie più della testa. Parliamo a lungo di questa divisione. Il film la deve rac- contare perché documenta. Loris lo sa dall’inizio. E alla fine emerge sempre in ogni discorso quell’insuperabile “ora è tardi per”. Quel punto mi colpisce e penso: “comunista”. Lo spiri- to perdona e riparte. La mente invece ricorda. La mente chia- ma vendetta o quantomeno rancore. Che Angelo torni ora, che tornino tutti quelli che la storia alla fine ha messo dove diceva Loris, che alla fine emergano i responsabili e paghino è solo un piccolo tassello di soddisfazione. Alla fine ad aver sofferto c’era lui. Ad essersi sentito dire quello che non voleva sentirsi dire c’era lui. Adesso lui è “incazzato” e chi viene ora deve almeno scusarsi. Ok. Sui miracoli ci stiamo attrezzando. Arriviamo a Roma, Stazione Termini. Dopo la colazione Da- niela e gli altri decidono di andare a piedi. Percorriamo le vie del centro storico, quelle che piacciono molto a Michele. Lui dirige Andrea. Si trovano sulle inquadrature. La squadra inizia a raggiungere un’intesa non verbale. Ogni tanto salta qualche cosa. E ripartiamo. Ma è lontano il tempo di una settimana fa. Mi sembra siano stati fatti progressi e ne sono felice. In realtà li accompagno poco. Mentre fanno riprese di co- pertura, io seguo col microfono il cammino di Loris. È accan- to a un familiare delle vittime di Viareggio e sta rispondendo alle sue domande sulla vicenda Moby Prince. Indico a Michele

137 di riprendere la cosa, ma non capisce. Io continuo a registrare mentre torna dietro Andrea. Quando ripasso accanto a loro, nei pressi del Quirinale, assi- sto a un momento di tensione. Andrea e Michele non si trova- no. Andrea non si trattiene più e gli spiega cosa deve fare per portare a casa il risultato. Per la sua testa tecnica le situazioni impossibili sono scelte sbagliate. Ci sono fatti incontroverti- bili: l’esposizione, le ombre, il raggio di azione di un’ottica. Il suo lavoro dev’essere anche quello. Dire no quando una scelta è sbagliata. Michele incassa. Ma si è rotto qualcosa. Li invito ad accellerare perché il mini-corteo di familiari del- le vittime sta per passare davanti all’ingresso del Quirinale e avviene un altro momento di tensione, ben più importante. Il carabiniere di guardia si avvicina. Vuole capire se quel piccolo gruppo che cammina insieme è una manifestazione autorizza- ta. Persino passare davanti al Quirinale è passibile di un richia- mo all’ordine. Persino queste poche persone pacifiche con tre striscioni sono un problema. Daniela si spazientisce. «Ma guarda questo! Noi dobbiamo andare a parlarci, col Presidente della Repubblica… nemmeno passare davanti adesso…». Il tono della sua voce è alto. Lei non ha paura. Qualcuno del Comitato prova a contenerla ma lei si svincola. Niente passa. Tutto in lei è reazione. Loris, nel frattempo, continua a parlare con quella persona del Comitato. Lui vuole capire e Loris è un museo vivente. Inizia a spiegare: Bertrand. Superina. Albanese. Il processo. L’appello. Il fuoco. La mi’ sorella. Di Liana ne parla poco. Ci siamo dovuti trovare tre volte prima che mi parlasse, indirettamente, di lei. Ne ha accenna- to anche oggi in treno. Prima le vittime e poi la sua vittima. Mi torna in mente quella parola: “comunista”. E mi torna in mente il suo discorso a L’Aquila. Disse: “io l’ho giurato su centoquaranta lenzuoli bianchi che avrei trovato verità e giu- stizia” ma la prima volta che sentii questa frase recitava: “l’ho giurato sul corpo di mia sorella”. Quando me lo disse vidi un’immagine. Vidi Loris vent’anni fa davanti al lenzuolo sotto cui c’era il corpo di Liana. Sollevano il lenzuolo. Scoprono il viso e lui la guarda per un istante. In quell’attimo prende tutta

138 la rabbia che ha accumulato in trentacinque anni. L’enorme mole di ingiustizia già sentita, per conto terzi o vicina, ades- so ha un volto e una vicenda. La società è ingiusta e me l’ha sbattuto in faccia. Arriviamo davanti a Montecitorio e pensavo di trovare più gente. Davanti a noi dei gazebo e rumori. Si sentono cori pro Silvio e contro Silvio. La parte sinistra presenta diversi energumeni con indosso delle pettorine a sfondo blu e scritta bianca: “No alle ruspe”, “Decreto salva casa”. Arrivano Da- niela e Loris con gli striscioni. Altro momento di tensione. Loris punta il più grosso, che aveva parlato troppo. Gli dice: «Abbi rispetto per centosettantadue morti». Li ha sommati. Centoquaranta a Livorno e trentadue a Viareggio. L’energu- meno tace. Poi si gira dai suoi e biascica qualcosa in napole- tano. Ho un senso di fastidio. Ci puntano. Michele mette in guardia. Qui può succedere del casino. Sono tutti grossi e la cosa è poco casuale. Ci vengono vicino e chiedo ad Andrea di alzare la camera. Basta poco e il lavoro di mesi per comprarla sarebbe vanificato. Dopo qualche decina di minuti chiedo lumi a uno di loro senza pettorina. Sembra un rappresentante. Qualche attimo prima l’energumeno più grosso aveva detto a pochi metri da me: «A me che m’importa de… mi basta mangiare la mia piz- za». Alle volte lo stereotipo arrossirebbe davanti alla realtà. «Contro cosa state manifestando?» e lui replica: «Contro la magistratura che ha disposto sessantanove mila demolizioni nella provincia di Napoli. Lì dentro ci sono famiglie, affetti. Berlusconi l’anno scorso ha fatto il decreto per fermare le demolizioni ma ora questi vogliono andare avanti. Siamo qui perché fermi tutto perché poi alla fine sessantanove mila de- molizioni non le possono fare e se la prenderanno col solito centinaio di famiglie…». Finisce di parlare. Lo portano a fare un’altra intervista. Lui parla bene e loro possono stare dietro tipo body guard. Penso a Pagani. Quando lavoravo per un service video, vidi questo Comune composto da una immotivabile distesa di cemento e pensai come fosse stato possibile aver realizzato tutto quello senza averne provato un minimo ribrezzo.

139 La risposta l’avevo davanti agli occhi per pochi minuti. Un bambino guardava un grande che gli somigliava. Era ingenuo. Innocente. Ma l’esempio era lì a educare. Sessantanove mila demolizioni sono sessantanove mila case abusive. Prima di farne sessantanove mila ne fai cento, cinquecento, mille. Arri- vare a sessantanove mila è un percorso fatto di tanta omertà e collusione. Non c’entrano solo quelli che ci abitano. C’entra chi ha con- sentito la costruzione, chi ha evitato di andare al cantiere, chi ci ha lavorato, chi ha dato la D.I.A., chi ha consentito di por- tarla avanti, chi ha preso soldi per fornire materiali, chi ha fatto il progetto, chi ha portato i mattoni, chi ha tirato su solai e tetto, chi ha portato le porte, chi gli accessori e chi, ultimo, ci è finito ad abitare. Alla fine demolire significa colpire l’ulti- ma ruota del carro delle responsabilità. Quando risaliremo la corrente allora cambieremo veramente. Loris aspetta. È davanti allo striscione con Andrea, suo fi- glio. Rilascia qualche intervista ripetendo gli stessi concetti in poco tempo. Ha imparato. Oramai sa cosa i giornalisti vo- gliono sentirsi dire e in quanto tempo. Lui è lì perché è “indi- gnato come cittadino”, è “preoccupato come familiare delle vittime del Moby Prince” ed è “solidale con gli altri comitati i cui processi possono finire nel nulla” grazie a questa legge. Indignato, preoccupato, solidale. Ad un certo punto si organizzano. Loris e Daniela legge- ranno i nomi delle vittime davanti al Parlamento, o meglio, davanti alle transenne dietro le quali le forze dell’ordine ten- gono lontani i cittadini dall’uscita di Montecitorio. Faccio un cenno a Michele: «Andiamo». Loris si avvicina alle transenne. Riccardo, dell’Assemblea 29 giugno, gli avvicina il megafono. Un attimo di silenzio in quel vociare confusionario dove rie- cheggiano slogan e cori da stadio. Loris legge. Legge tutti nomi. Poi chiede giustizia. «Queste sono le centoquaranta vittime del Moby Prince che da vent’anni aspettano giustizia da questo Stato. Centoqua- ranta morti e nessun colpevole». Si defila velocemente. Ho imparato a conoscerlo e si è com- mosso. Si mette dietro lo striscione e lo abbraccio. Mi com-

140 muovo anche io. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Quel palazzo è nostro e noi siamo fuori. Quel palazzo ci ha igno- rato e ha ignorato la lettura dei nomi delle vittime del Moby Prince. Tutti. Dal primo all’ultimo dovrebbero solo tacere. E invece dentro parlano. Qualcuno dice che Franceschini du- rante il suo intervento terrà il cellulare acceso perché sia data a noi la facoltà di sentirlo. Che se ne vada… Qualcuno lì davanti aveva qualcosa di serio da dire. L’ha det- to col megafono. Ha detto i nomi di centosettantadue cittadi- ni. E l’avete lasciato solo. Poteva essere un simbolo. In questo giorno anche solo un parlamentare poteva sentire e prendere Loris per mano. Poteva portarlo dentro insieme a Daniela e dire: “ecco, a loro state facendo tutto questo”. Invece nessuno ha fatto. Tutti hanno detto. Non ascoltare ciò che dico, guarda ciò che faccio. Andiamo a mangiare. Loris resta lì. Lui campa d’aria, d’ac- qua e sigarette. «Fumi troppo Loris». «No, oggi ne ho fumate poche». «Perché ti sei sfogato…». «Stai tranquillo». Qualche giorno prima, a L’Aquila, mi aveva risposto: «Di qualcosa si deve morire». Gli avevo detto: «No Loris, tu hai ancora tante cose da fare» e lui aveva guardato da una parte. A pranzo parlo con Andrea, suo figlio, e scopro che ha fatto il Classico. «Di che anno sei?». «1984». «Allora ci siamo conosciuti». E lui: «Francesco Sanna. Mi ricordo». Parliamo dei tempi del liceo. Gli dico: «Ma scusa perché non mi hai mai detto che eri il figlio di Loris Rispoli? Magari si organizzava qualcosa». E lui: «Ho portato qualcosa alle ma- nifestazioni». Poco da dire. «Ma a scuola nessuno dei profes- sori ti ha mai chiesto di far venire Loris per parlare del Moby Prince?». «No». Figurati. Figurati se al Niccolini e Guerrazzi si parlava di at- tualità. Vuoi mettere quanto è bello parlare di culture e lingue

141 morte? I vivi possono incazzarsi. Possono persino rispondere e dire: “ti stai sbagliando”. Se invece insegni i morti è solo il tuo punto di vista quello che conta. Gli alunni lo devono im- parare. Al massimo ce ne sarà un altro. Nell’altra sezione. Con l’altra docente che si sa, ne sa meno di te. Torniamo da Loris. Rilegge i nomi. Rilascia ancora intervi- ste. Poi andiamo via. Alla stazione torno a parlare con Andrea, suo figlio. Dico: «Essere cresciuti con una situazione così non dev’essere stato semplice». Lui risponde dopo un secondo: «No. Mi ricordo delle riunioni alla sede di Via Solferino. Poi mio padre che doveva rilasciare interviste. La situazione». Un’ora prima mi aveva raccontato di ricordare bene sua zia. Andrea ha un carattere schivo, più da retroscena. Guardo Loris e capisco. Poi mi dice: «Mio fratello invece è diverso. Lui è più protagonista». «Ma è più piccolo o più grande?». «È più piccolo» risponde, «e quando facevamo a botte da piccini era lui che mi veniva addosso. Fa palestra, gioca a rugby. È grosso. Ora mi gonfierebbe». Alla stazione Andrea, il nostro Andrea, ci fa alcuni scatti. Scatti bellissimi, in bianco e nero. In uno di questi, che mi mostra, è come se per la prima volta riconoscessi in una foto- grafia la capacità di avermi raccontato: scompigliato, carico di oggetti funzionali al nostro progetto e con una mano sull’ul- tima copia di Internazionale. Sul treno di ritorno Loris si addormenta davanti al porta- tile aperto. Ogni tanto squilla il cellulare e si sveglia. Oppu- re squilla il cellulare e Andrea lo sveglia. Si sono sentiti con Ivanna. Le ha raccontato un po’ di cose. Come si farebbe con una sorella maggiore. “Ci dovevi essere” soprattutto quando fa riferimento a cose buffe che succedono spesso. Come a L’Aquila anche qui le battute più belle vengono da queste per- sone. Sanno scherzare perché sanno quando è l’ora di farlo. Arriviamo a casa alle 21:29. A prenderci Francesca e Roberto, un amico regista. Andrea mi saluta sarcasticamente: «Ora Fran- cè an te vodje vedere per un po’». Abbiamo parlato il giorno prima di Mediaxion. Lui e Mediaxion. Lasciamo tempo al tem- po, ma allargare la comunità è sempre una bella speranza.

142 Intanto c’è Francesca e a casa Chiara ha preparato la cena. Saverio, mio nipote, è già a letto e lo vedrò domani. «Com’è andata?». «Bene. Te ne devo raccontare almeno una: eravamo a pran- zo e si è avvicinata la Santanchè a Daniela, Riccardo e gli altri del comitato di Viareggio. Daniela parla e lei le dice: “Guardi non serve che continui, io sono una madre e in quanto madre io capisco cosa sta dicendo”. Riccardo la guarda e dice: “E sei sì ma un gran…”». Francesca ride. Anche noi. Anche Loris lo aveva fatto. Almeno fateceli prendere in giro. Un’ora fa hanno iniziato a smantellare lo stato di diritto di questo Paese. Partendo dalla cima.

Dal post “Roma 11 aprile 2011. Processo breve”, pubblicato il 16 aprile 2011

143 6. MI HAI FATTO PIANGERE

“Poi ci pensi dopo a certe cose, ma noi familiari fummo messi tutti al Terminal Passeggeri, che nel ’91 era in una zona del porto inacces- sibile dall’esterno. Dovevi passare la finanza, poi i carabinieri… con quel gesto ci hanno praticamente isolati dalla popolazione. Persino un amico che voleva passare a darti solidarietà non poteva”. Lo r i s , maggio 2011

Il 15 aprile giro ai protagonisti i post del diario. L’Aquila, il racconto del viaggio di Mauro, il 10 aprile, il viaggio a Roma. Mi arriva un messaggio: Loris Rispoli: “geco, non lucertola”. Rispondo: “Ok correggo”. Avevo scritto che aveva tatuata una lucertola, mentre era un geco. Passano venti minuti, altro messaggio, questa volta più lungo. “Mi hai fatto piangere. Hai un modo di raccontare da voce narrante. Continuo a leggere ma è veramente bellissimo. Sono alla fine di quello dell’Aquila”. Passano altri trenta minuti e mi chiama. «Mi hai fatto piangere France. Io… non so cosa dire… mi hai commosso in un modo che non so cosa… c’hai questo modo di scrivere… sembra una voce narrante. Il modo in cui ti sono arrivate alcune cose… io… non le aveva mai scritte nessuno finora. Io ti ringrazio. Ho sentito anche Ivanna. Era commossa anche lei». Ringrazio. Parliamo. Il giorno dopo ci risentiamo. Anche Mauro mi ha risposto contento, sottolineando un unico punto da cambiare per un mio errore di interpretazione. Loris è emozionato. «Hai raccontato la verità. Su tutti. Così com’è. Io… sai ne abbiamo lette tante, hanno scritto in tanti sulla vicenda, ma così… devi assolutamente pubblicarlo». Aspetto l’ok anche degli altri protagonisti e i post vanno on-line. «Li ho fatti leggere anche ai miei figli».

144 «Cos’hanno detto?» chiedo. «Che sono bellissimi». Ringrazio ancora. In quel gesto c’era tanto di quanto stavo cercando con questo progetto: Loris che trova in quel testo un modo per raccontare ai figli la sua storia. Una corda in più per la sua voce. Un riconoscimento per essere riconosciu- to da chi è più importante. Da chi infondo poteva non aver pienamente colto alcune scelte. Da chi per natura, come me nel mio essere figlio, conosce inevitabilmente il lato chiaro e il lato scuro di chi gli è stato genitore. E per tanti motivi può aver bisogno di qualcuno che gli illumini il primo. Passano pochi giorni e mi chiama. «Vorremmo che venissi con Michele a mangiare qui da me. Ci saranno i miei figli, An- drea l’hai già conosciuto e viene anche il piccolo… poi Fabio e Giacomo». «Ok. Grazie». «Grazie a te». Quando arriviamo con Michele, Loris è emozionato. È la prima volta che ci rivediamo dopo la lettura di quei post. È come se la conferma finale di un legame profondo nato tra di noi avesse trovato un’inattesa, per forma e intensità, conferma. Mi siedo sul divano. Arriva Dario, un ragazzo ben messo, con gli occhi di Liana. Mi stringe la mano con educa- ta gentilezza. Per lui sono qualcuno. Qualcuno che ha fatto qualcosa. Loris borbotta per il ritardo di Andrea. Lui arriva dopo poco, col suo solito cappellino basso e gli occhiali scuri. Ci salutiamo come due amici. Pochi giorni prima eravamo insie- me a Roma a condividere quelle emozioni. Giacomo aveva un impegno e ce l’ha anche oggi. Non verrà ma saluta. Ci sediamo a tavola. Fabio spiega il menù. Una ricetta par- ticolare. Una pasta particolare. C’è un’atmosfera piacevole, ma Loris ha qualcosa in serbo. Lo vedo. C’è qualcosa che deve fare. Ad un certo punto si allontana e prende due sca- toline. «Queste sono per voi, per quello che state facendo». Una a me e una a Michele. Le apriamo. Sono due orologi, con taglio molto appariscente. Ringrazio.

145 «Non dovevate». Loris: «Sono da parte di tutta l’Associazio- ne, è il minimo». Sorridiamo. Michele invita Loris ad accendere la tv sul primo, perché daranno la prima puntata della fiction per la quale ha fatto il macchinista. La visione di quel prodotto diventa un piccolo argomento di conversazione. Qualche risata. Verso le dieci e un quarto Michele si alza. «Scusate ma c’è uno spettacolo di Bobo Rondelli…». Lo guardo. «Ok. Figurati. Ci si vede» dice Loris, mentre si alza per fargli strada verso la porta. Nella mia macchina reste- rà l’hard disk con le immagini realizzate nella prima sessione di riprese. L’hard disk che avevo portato da casa a Massa, per fargli vedere il materiale. La cosa non mi piace. Penso che non sia giusto vederlo an- dar via a metà serata. Tra l’altro, dopo cena e tra di noi, avrem- mo potuto parlare di quanto avevo visto in quelle clip. Errori e non. Ma mi sembra che si sia sentito a disagio in questo posto. In ogni caso la serata va avanti. Parliamo. Ad un certo punto torniamo al Moby Prince. Loris ne ha un bisogno fisico. Ora che io sono quello giusto, ora che ci si può fidare, il racconto deve continuare. «Ho letto la parte su Angelo. Tu devi capire, Francesco. Io non è che ce l’ho con lui come lui dice che non ce l’ha con me. Però ci sono vent’anni di scelte e le scelte restano. Come fac- cio a dire alla famiglia Sini di avvicinarci a loro quando hanno tirato fuori la storia del padre anche nell’ultima inchiesta? Tu devi capire… perché bada bene quella storia la tirarono fuori nel ’93 e fu una cosa pesante. Gli dissero che era una cazzata e loro l’hanno ritirata fuori anche a questo giro…». «Capisco Loris» provo a rispondere, «è stato un errore». «Un errore grosso» mi interrompe. «Certo. Però davvero ci sono alcune cose che conoscendovi secondo me sono venute fuori per via del fatto che non vi parlate. Sentendo te e sentendo Angelo, io… mi sembra che ci siano molte cose in comune. Due lati della stessa meda- glia».

146 Loris inspira. «Sì però vedi, quando dici questa cosa che lui è la testa, io il cuore. Io capisco. Ma quella testa lì di cose assur- de ne ha dette parecchie e poi mai contro l’armatore». Ribatto: «Adesso lui dell’armatore ne parla come te» e lui sbotta: «Eh no Francesco. Ora è facile fare le interviste dove dici che è colpa dell’armatore. Ma tu per vent’anni l’hai difeso, hai fatto il suo gioco. Ora è tardi. Ora è troppo tardi. Non serve a nulla. Perché per vent’anni era colpa di tutti tranne che dell’armatore». Cerco di spiegarmi: «Tu sei sicuro di questa cosa?». «Francesco il mio avvocato gliel’ha sventagliato davanti a Onorato l’assegno, e lui» lo imita, « “ah sì è vero, ho dato quei soldi al L. perché volevo contribuire alla ricerca della verità”. Sì, una verità che faceva comodo a lui». Ne parliamo. I tempi di L., del Presidente dell’altro Comita- to, sono lontani. Angelo, a quello che ne ho capito, era distan- te. «Sì ma suo fratello era lì con lui». Loris insiste. Loris ha vissuto tutto quello sulla sua pelle. L’idea brucia: c’era una battaglia da combattere, contro il pa- drone che mandava i lavoratori e i passeggeri su un mezzo non perfetto fregandosene delle implicazioni in caso di inci- dente, e qualcuno ci si alleava. Io sono arrivato ora. Io sono lo specchio di un’immagine attuale, Loris lo sta considerando. Ma quell’immagine viene da lontano. E il passato, per Loris, è il presente di ieri. Poi c’è un’evidente differenza di approccio. Angelo è chiuso nel suo mondo di ricostruzione tecnica. Angelo è chiuso al Moby Prince come evento. Chiuso in una battaglia privata. Intellettuale. Una sfida tecnica. Loris è invece aperto nel suo mondo di relazioni con le altre associazioni familiari delle vit- time. Aperto all’idea del Moby Prince come un caso di un fenomeno, comune ad altri. L’idea della sicurezza negata dai proprietari sui posti di lavoro, l’idea di un porre davanti l’ef- ficienza economica – il guadagno – rispetto alla vita umana. L’idea politica, sembrerebbe, di quella che un tempo si sa- rebbe chiamata “lotta di classe”. Tutto questo però lo porta lontano dalla vicenda in sé. Perché per lui il Moby Prince è una sorta di caso chiuso. Il “caso”, la parte processuale, la

147 battaglia dei tribunali è già finita. «Francesco, il reato di omicidio colposo è prescritto. O tro- viamo il dolo, cioè la colpa voluta, oppure questo processo ‘un lo riapri. Allora io anche quest’anno in Comune ho detto che vogliamo che la magistratura cambi il capo di imputazione e faccia diventare il caso “strage dolosa” per mettere sul banco degli imputati l’armatore, il Comandante della petroliera e il Comandante della Capitaneria». «E se la magistratura non fa niente?». Loris sospira. «Noi chiediamo a livello politico che i reati di questo tipo non vadano in prescrizione, come non va in prescrizione il nostro dolore». Andrea e Dario ascoltano. Le espressioni del primo mi ri- cordano quanto tutto questo, che per me è novità avvincen- te, possa diventare routine. Loris pronuncia queste frasi da tempo. Con continuità e insistenza. E chi gli è accanto riceve questa continuità e insistenza. Condividere quel tipo di lotta totale, condividere quel percorso, non dev’essere stato facile. Nel mio parlare di Angelo vedo in loro una tensione diversa. Loris gioca l’asso: «Poi vedi Francesco, tu loro, i Chessa, li conosci poco. Non ci divide solo la storia di questa vicenda. Ci divide anche un modo di essere familiari delle vittime. Loro per esempio non si sono mai interessati delle commemorazio- ni, che abbiamo sempre fatto noi, né del ricordo, della memo- ria. Loro cercavano la verità. Per poi trovarne sempre una di- versa che ora era una bomba, ora gli Americani, ora il traffico d’armi…» sospira, «è ovvio poi che se quello che t’interessa è sempre trovare un’altra verità sulla memoria fai poco, perché non sapresti cosa raccontare… ma successe una cosa. Venne fuori la storia che volevano fare un museo del Moby Prince. Una cosa tutta tecnologica, da fare al Porto… iniziarono a parlarne con l’Amministrazione comunale e parlammo anche insieme della questione. Ad un certo punto venne fuori che volevano mettere una sala dove la gente avrebbe fatto esperienza di cosa significas- se morire bruciati…» si ferma facendo la faccia sgomenta. «Dice: “una sala dove si sente il calore, il fuoco…”. Io, deh, lì per lì ci rimasi di sasso. Ma come? Vuoi fare un museo sul

148 Moby Prince e ti preoccupi di metterci una sala dove la gente sente cosa significa morire bruciata? Cioè ma per un familiare che ha fatto il riconoscimento cosa pensi possa essere entrare in una sala così? Poi come fai? Come fai a fare una cosa del genere? Metti un forno crematorio? Cioè sono queste le cose che… a me una cosa del genere ‘un mi verrebbe mai in mente. Perché conosco quelli come noi che hanno avuto un trauma con quel riconoscimento… è un fatto di sensibilità, capisci?». Annuisco. Pochi minuti dopo ci salutiamo. Prendo la mac- china e mi avvio verso casa. Rifletto. Tra pochi giorni andrò da Angelo. Con tante domande e il bisogno di continuare un discorso iniziato il 10 aprile, vicino all’Andana degli Anelli. Scoprire l’Angelo privato. Quello che “vorrebbe” dialogare con Loris ma non ci riesce. Per il peso della verità assente o per l’angoscia della verità presente.

149 7. MILANO 26 APRILE. FRAMMENTI DI MEMORIA E LOTTA

“Mi pare fosse Vauro. Fece una vignetta pochi giorni dopo la tra- gedia: ″140 persone in mano a un comandante ubriaco… e l’Italia? Puntini, puntini…″ [...] Non gli ho fatto niente. Magari se lo incontro per strada qualcosa glielo dico. Ma lo so che è così. È il prezzo da pagare”. An gel o , aprile 2011

Il treno per Milano si riempie a Genova. Escono con me dalla carrozza due ragazzi americani. Ci eravamo seduti co- modi in posti vuoti. A Genova si sono riempiti e siamo finiti sui seggiolini del corridoio. Loro hanno una specie di Kindle con cui leggono libri. Li guardo. Penso alla sostenibilità di quegli aggeggi. I pro e i contro. Ci vogliono alcune sostanze e combinazioni di queste per realizzarli in serie. Si scaricano e quindi ci vogliono pile, energia elettrica, fonti di energia, reti di distribuzione. Quell’oggettino piccolo spesso un quinto del Corano pare l’invenzione sostenibile del secolo. Però c’è qual- cosa di strano. Mi torna poco. Secondo me c’è la fregatura classica degli esseri umani. Ci crediamo tanto furbi mentre lo stiamo mettendo in tasca a tutti quelli fuori dal nostro oriz- zonte di pensiero. Arrivo a Milano con venti minuti di ritardo. Ho avvisato Angelo. Quando esco dalla metro prima di mangiare lo ri- chiamo. «Ciao Angelo, ti disturbo?». «Francesco, non ti preoccupare». Gli ho detto “ti disturbo” tre volte in tre telefonate diverse. Fosse stato un livornese mi avrebbe detto: “deh vedrai” tanto per prendermi in giro. Invece lui ha capito e mi dice “non ti preoccupare”. Ha capito lo sforzo. Sono qui per lui. Dopo venti minuti di cammino con due zaini e il boom a

150 tracolla fermo un ragazzo in macchina. A senso sono vicino ma ho bisogno di capire da che parte andare. Lui mi dice con cadenza milanese: «Sei vicino. Vai là e poi giri a sinistra». Ci sarà sì e no un chilometro. Viva l’Italia, penso. Mi trovi con due zaini e un gatto peloso sperso a un chilometro dall’arrivo, sei da solo in macchina e non mi dici: “vieni ti ci porto io. Un minuto e ci siamo”. Poi penso: viva l’Italia. Magari un altro non si sarebbe fermato. Arrivo a casa di Angelo. C’eravamo già stati con Miche- le qualche mese addietro e la ricordavo. Ha un campanello particolare. Devi digitare il codice dell’abitazione richiesta. Dall’abitazione ti guardano, “sì sei te”, ok passi. La cancellata grande esterna e questo sistema mi fanno pensare a qualcosa di militare. Ma oramai quasi tutti hanno cancelli e recinzioni inespugnabili. Penso: “più farete recinzioni e più avrete ladri e maleintenzionati” perché se prendi quello che è di tutti e lo dividi tra pochi, capita di educare le persone al riprendersi qualcosa che hanno imparato a sentir loro sottratto. Mentre ragiono salgo le scale. Angelo mi ha già aperto. Ci salutiamo. Continuo a pensare al fatto che mi stia simpatico. È un ragazzo adulto di quarantasei anni. Se lo guardi con una certa angolazione lo vedi a vent’anni. Se lo guardi con un’altra sembra già una persona di mezza età. In effetti lo è quasi. Mi accoglie in casa e la vedo vuota. Pensavo di trovarci la moglie e i figli ma sono da un’altra parte. Mi chiedo se Angelo abbia preferito così o sia stata una scelta condivisa. Parlare del Moby Prince e di questi vent’anni, un’altra volta. Effettiva- mente dev’essere troppo anche per chi ti ama. «Vuoi bere, mangiare?». «No, ho già mangiato». «Da bere allora». «Sì ok dai». «Birra?». «Ok». «Ti piace l’Ichnusa?». «Sì certo». Sono a Milano. La porta verso l’Europa dove esistono cen- tinaia di birre. Stout. Doppio malto. Weiss. E in questa casa

151 una persona nata e cresciuta fuori dalla Sardegna mi offre un’Ichnusa. Penso all’appartenenza. È qualcosa dentro. Provi a toglierla ma l’hai dentro e torna sempre fuori nei modi più semplici e incompresi. Mi dice a bruciapelo: «Hai visto è morto Superina?». No. Mi viene da sorridere. «Sì è morto ieri. Me l’ha detto Andrea Fri- cano che è di Genova». Era malato da tanti anni di tumore. «Non l’avevate intervistato quindi». «No, ma avevo trovato un gancio giusto pochi giorni fa». La vita è così. Avevo pensato potesse parlare. Da malato terminale togliersi il peso di vent’anni dopo quel “mi avval- go della facoltà di non rispondere”. Invece Renato Superina doveva morire senza concedermi la sua verità. Sempre me l’avesse voluta accordare. Penso alle aspettative e all’inganno. E torno a sorridere. Alle volte sei così vicino da avere la presunzione di aspettarti qual- cosa. Poi tutto cambia e hai l’opportunità di imparare la vita. Non sei tu che comandi il mondo. Tu puoi solo sintonizzarti ed essere te stesso in libertà. Angelo mi dice: «Se vuoi lo scoop andate al funerale». Non lo vogliamo lo scoop, noi stiamo facendo un’altra cosa, ma capisco dove vuole arrivare e gli dico: «Dovremmo dirlo ad Andrea Bignami. Lui cercava Superina». Angelo non si sa frenare: «Lo chiamo subito». Poi manda un sms. Poi sente un’altra persona – avvocato – e gli presenta la sua ultima in- tuizione: «Hai visto il processo della Thyssen a Torino? Han- no condannato il Presidente per responsabilità dolosa, dolo eventuale. Cosa dici, possiamo farlo anche noi? Alla fine è un buon appiglio». Dopo Loris ecco un’altra persona di cui si dovrebbe parlare in questo Paese di lamentosi immobili. «Perché lo scoop?» chiedo. «Perché stai sicuro che qualcuno andrà a ringraziarlo». Mi guardo attorno, attendo che si sieda. «Se vuoi iniziamo». Lui mi guarda, con una voce punta dall’emozione. «Ok ma andiamo su così mi fumo una sigaretta». Saliamo in veranda e c’è solo una luce dietro Angelo. La scena è lontana da qualsiasi buona ripresa. Infatti io sto regi-

152 strando solo l’audio. Per le riprese verranno domani Michele e Andrea. Oggi dobbiamo fare qualcosa di diverso. Iniziamo a parlare. Io ho alcuni temi di cui vorrei trattare. Gli dico l’impostazione. Fare registrazioni audio per metterle in off – fuori campo – mentre i protagonisti sono mostrati nel loro quotidiano. L’idea è mostrare il ricordo come una costante del loro vivere, una riflessione silenziosa. Il ricordo muto, mentre la loro voce in sync racconterà il loro presente. La motivazione è descrivere il loro dialogo privato, continuo, tra presente e passato e il passato è quella parte di noi esclusa a chi ci conosce per la prima volta. Mentre gli spiego tutto questo penso a Milano. Milioni di persone. Ogni giorno incrociano Angelo per le strade e nes- suno sa chi sia. Nessuno sa che lui è Angelo Chessa. Il figlio minore del Comandante del Moby Prince. Quello che dopo vent’anni è ancora lì a cercare la verità. Quello che si affida ai periti, agli avvocati, ai giornalisti veri e improvvisati, pur di raccogliere quelle informazioni che personalmente controlla e assembla nella ricerca di una ricostruzione altra. Quello che la verità la pretende ed è certo di raggiungerla. Lui sospira. Non sarà la solita intervista basata sui docu- menti. Ma bisogna andare avanti. Mi viene così in mente quella frase rivelativa: “Non potete fermare il vento. Gli avete solo fatto perdere tempo”. E inizio la storia dalla fine. Da quella richiesta di archiviazione deposi- tata il 5 maggio 2010, dove i magistrati livornesi sono andati oltre il loro semplice ruolo. Non solo la ridicolizzazione, nemmeno troppo velata, dell’istanza Palermo ma la punizione morale di quell’ultima fra- se, che trovai di una violenza emotiva quantomeno insolita: “La morte prematura e improvvisa è umanamente inaccet- tabile quando la causa appare banale e assurda, ma individua- re a ogni costo e senza sufficienti elementi probatori proces- sualmente spendibili, determinismi e nessi causali eclatanti, clamorosi e di ″alto livello″, oltre a dissipare preziose risorse, avrebbe il solo effetto di riaprire ferite peraltro mai rimargi- nate, di creare illusioni nei vivi, uccidere una seconda volta i morti, fare molte altre vittime innocenti e costituirebbe un

153 pessimo esercizio del servizio Giustizia60”.

Angelo mischia rabbia e amarezza. «È il sistema. Tutta questa storia è il sistema. Si proteggo- no gli uni con gli altri. Inefficienza. Negligenza. Connivenza. Omertà. È l’Italia». «Anche tu sei l’Italia». «Certo, infatti io lo faccio anche per questo. Perché loro non possono vincere. Non possono sempre averla vinta». Penso sia curioso. Finora quando sentivo parlare di Ange- lo tornava sempre quella frase, “sta facendo tutto questo per onorare la memoria del padre”. Lo dice solo chi non lo ha conosciuto veramente. Angelo lo sta facendo per sé e per chi ha a cuore. Perché se hai una testa intelligente e ti capita una storia come il Moby Prince, devi andare avanti. Me lo dice quasi con candore. «Gli avvocati fanno il loro mestiere. Ti dicono tutti di met- terci una pietra sopra. Ancora ricordo lo Studio Vincenzini61 a ridosso dell’evento: “metteteci una pietra sopra”. Ma come? Come faccio a metterci una pietra sopra?». C’è qualcosa di profondamente razionale nella sua analisi. L’inaccettabilità di una tesi di cui vede le falle. «Se tu parli con chiunque ha navigato… del mondo marittimo… te lo dice: neanche al nostromo da solo in plancia poteva succe- dere una cosa del genere». La cosa del genere è un traghetto dritto contro una petroliera larga quanto tre campi da calcio. Suo padre era un ottimo Comandante e nemmeno un sem- plice nostromo avrebbe potuto sbagliare quella manovra. La testa rincorre. Valuta le possibilità e determina un risultato negativo. Angelo però sospira. Per un attimo sembra tornare ragazzo. Sembra tornare alla sensazione pura di allora: “è in- credibile che sia successo a papà”. Gli chiedo se possiamo parlare dei suoi ricordi. Lui rispon-

60 Richiesta di archiviazione inchiesta bis Moby Prince, p. 150 61 Studio legale di Livorno, specializzato in ambito marittimo, cui per primo si appoggiarono Angelo e Luchino Chessa, insieme ad altri familiari delle vittime tra le quali lo stesso Loris.

154 de: «Allora vado a prendere un’altra birra». Angelo era a Milano. Si trovava per caso davanti a un tele- visore sintonizzato su Rete4. Vede “Moby Prince bruciato”. “Ma come?”. È scosso. Vedo i ricordi riaffiorare a fatica. Era- no laggiù dove gli aveva stoccati e io sto cercando di tirarli fuori con calma. «Chiamo un amico fraterno. Gli dico: portami a Livorno e partiamo. Poi non ricordo niente. Di quei giorni non ricordo niente». Si ferma. «Ho solo dei flash. Luchino arriva a Pisa in aereo. Lui era sbarcato dal Moby a settembre e incrociamo Ciro Di Lauro il nostromo che era sceso dal Moby proprio il 10 aprile e si era portato dietro il libretto di navigazione, cosa molto strana. Luchino dice: “Lui è Ciro Di Lauro, il nostro- mo” e lui abbassa lo sguardo». Si ferma ancora. Accende una sigaretta. Chiedo se è stato a Livorno tutti quei giorni. «Sì. Ci appoggiavamo da mia zia vicino Pisa». Perché poi pochi lo ricordano ma Angelo e Luchino hanno perso nel Moby Prince anche la madre. Penso a tutta quella marea di persone in questo Paese che anche solo per un attimo hanno sorriso alle vignette del Vernacoliere e di Vauro dove nel 1991 si parlava di un comandante ubriaco. Penso a quanto a volte basta veramente poco per stuzzicare la miseria umana. «Al Vernacoliere tolsi anche la querela. A che serviva? Vauro lo stesso. Che senso aveva? Alla fine se lo incontro per strada magari qualcosina gliela dico, altrimenti non ci faccio niente… è il prezzo da pagare». Sorride amaramente. Lo seguo. Il peso di queste situazioni ha bisogno di sorrisi. La testa deve dare un senso. Deve trovare qualcosa di piacevole, come un sorri- so, per riequilibrare la sua sconfitta. Questo mondo l’abbiamo costruito noi e l’abbiamo costruito così. È ora di cambiarlo. «Appena siamo arrivati ci siamo resi conto che qualcosa non tornava. I medici legali erano concentrati esclusivamente sul riconoscimento dei cadaveri e non sulle cause dei decessi. Poi ci mettevamo in fila. Siamo stati gli ultimi a fare i riconosci- menti perché arrivava uno con un tesserino, “dai passa tu” poi un altro “passa tu”. All’italiana. E noi in fila, come coglioni». Coglioni. Te pensa. Uno rispetta la regola in una situazione

155 così delicata e il coglione è lui. «Ci mettono davanti i resti» prosegue. «Hai fatto tu quindi il riconoscimento?». «Sì. Ma ho riconosciuto poco. Papà era nel locale sotto la plancia62». Annuisco. «Te lo ricordi?». Sì. Penso a quanto Angelo tenga alla precisione delle informa- zioni e alla professionalità. Ne discussi con Michele tempo addietro. Con Angelo non puoi sbagliare. Io devo sapere che Ugo Chessa è stato trovato vicino alla plancia. Che la squadra antincendio di sette persone è stata trovata carbonizzata sul ponte. Che l’uomo ripreso a prua la mattina del 11 aprile si chiamava Antonio Rodi e via di seguito. L’esattezza come for- ma di riconoscimento e rispetto. Ci sarebbe tanto da dire. «Di papà abbiamo riconosciuto solo un orologio e una me- daglietta» fa una piccola pausa, respira. «Di mamma non c’era niente. Se era lei… mi han dato un troncone con dei jeans ma mia mamma non li aveva, non li portava». «Quindi non sei sicuro fosse tua madre quella che vi è stata data?». «No. Ma sai. Vista la fila e le procedure, arrivammo per ul- timi63 e ci prendemmo quel che c’era. Tante persone pur di riconoscere qualcosa riconobbero anche resti animali. Tra l’al- tro considera che io ho contato almeno una vertebra in più tra i corpi». Ancora la cospirazione. L’intrigo. Davvero aveva contato tutte le vertebre di quei resti? In alcuni casi non erano rimasti nemmeno i busti.

62 Il cadavere di Ugo Chessa fu trovato nell’atrio abbandono nave di prora, nel Ponte n° 2 – Ponte imbarcazioni – prossimo al Ponte di Comando. 63 La memoria emotiva di Angelo ricorda probabilmente la sensazione del sentirsi “ultimi”, quindi pochi rispetto ai tanti precedenti, impegnati nella dram- matica procedura di riconoscimento dei propri cari attraverso i resti repertati. Questo perché in realtà i fratelli Chessa non furono temporalmente gli ultimi a effettuare tale operazione, benchè il riconoscimento della madre arrivò dician- nove giorni dopo l’incidente. Nella relazione Bargagna sulla repertazione delle vittime si riportano come ultime due vittime riconosciute il cuoco del Moby Prince, Angelo Massa (in data 30 maggio 1991), ed il passeggero Salvatore Rizzo (in data 8 giugno 1991).

156 «Non ricordo più niente. Io per due anni ero in uno stato difficile. Capivo poco. Poi ho iniziato a capire. Chi diceva di metterci una pietra sopra. Ma come fai?». Chiedo: «E l’armatore? Ugo Chessa era conosciuto e stima- to. Vi è stato vicino?». Lui prende in mano la bottiglia. «Nien- te. Magari avrà scritto un telegramma ma io non lo ricordo. Nessuno di Nav.ar.ma con me si è fatto vivo». «Che ne pensi…». «È l’Italia». Non avevo finito. «Dell’indifferenza delle persone e del continuare a menarla con questa storia della partita?». «È l’Italia Francesco. Le persone si muovono se gli tocchi il mangiare. Gli affetti. Si muovono per necessità. Non ti di- menticare che la Nav.ar.ma l’anno del Moby Prince ha ricapi- talizzato di 24 miliardi di lire64. Chi glieli ha dati? È il sistema. Stato. Magistratura. Economia. Tutti si sono protetti e si pro- teggono. Intanto ognuno continua a pensare a sé». Ma qualcuno si muove. Qualcuno si è mosso Angelo. «Hai saputo del coordinamento tra i comitati delle tragedie italiane? Quello dove è andato Loris». «Bene. Sarebbe bello se questa cosa funzionasse. Andare tutti insieme a reclamare». Lui non c’era però. Ma so già il perché. Me l’aveva detto a Livorno. “Finchè io non ho la verità non riesco a elaborare il lutto e non posso stare insieme a loro”. Torniamo a noi e loro. La vita è tutta un tracciare quel confine. Riappare un ricordo. «… l’armatore si fece vivo durante il processo. Quando venne fuori la storia della bomba. Voleva darci dei soldi per aiutarci nel cercare la verità. Noi non li ac- cettammo. Già eravamo i figli del Comandante e gli altri fami- liari ci guardavano con l’idea che tutelassimo solo la memoria di nostro padre. Ci mancava solo l’armatore… lo andammo a dire anche al processo. Pensando che potesse avere un qual- che valore…». Lo guardo. Ho capito. Ne avevamo parlato già a Livorno, il 10 aprile. Il problema per Angelo sono i magistrati.

64 Vedi nota n. 18.

157 Me lo dice con chiarezza. «L’Italia è un paese con tremila chilometri di costa, porti e megaporti… c’è un settore della magistratura che si occupa di questo? No… il magistrato fa dall’aggressione per percosse alle stragi… come se fosse onniscente… invece ci dovrebbe essere la specializzazione… in Inghilterra è così». E quindi tu davanti a questo, «dopo due anni inizi ad avere più possesso della situazione. Le carte arrivavano… leggevo tutto… le in- dagini le abbiamo fatte prima del processo. Se vai a contare le istanze che abbiamo presentato a De Franco65… senza alcuna risposta. La Procura di Livorno non era assolutamente prepa- rata per una cosa come questa, ma allora affidati ad altri no? Senti la DIA di Firenze». La ferita dell’ultima inchiesta archiviata brucia ancora. Lui prosegue: «Per questo ti dico che De Leo è peggio del primo. Poteva andare a fondo sulla cosa… non l’ha voluto fare… doveva andare dal Capo di Stato Maggiore della difesa e dirgli “bellino… io sono Procuratore Capo per 140 morti, ora mi apri tutti gli archivi del Ministero della Difesa”… questo do- veva fare… invece di interrogare Bertrand o le conchiglie… siamo in mano a degli…». Si scalda e cerca di accendersi un’altra sigaretta. Mentre l’accendino gli illumina il volto riprende a parlare. Porta altre prove a sostegno. «Quando il GIP Rinaldo Merani si mette a ridere e l’avvocato Palermo dice: “guardi che non c’è niente da ridere, sono morte 140 persone” e lui: “è tutto prescritto è tutto prescritto…”». Mi inserisco: «Come mai allora ci credi? Perché chiedi a loro?». Uno sguardo e risponde. «Perché sono fatto così… non è il posto… potrebbe essere anche Canicattì… a Livorno ce l’hanno mandato… non di- pende da Livorno in quanto Livorno… dipende dal fatto che

65 Luigi De Franco, il Pubblico Ministero cui fu affidata tutta la fase di istrut- toria e indagine sul Moby Prince, non partecipò al processo perché trasferito alla Pretura del Lavoro. Al suo posto il ruolo di P.M. fu ricoperto da Angelo Cardi, noto per la parte dell’arringa finale in cui, nel chiedere l’assoluzione di tutti gli imputati, accusò dell’accaduto “il destino cinico e baro”.

158 in quel posto ci mandano la gente che vogliono mandare lì. Ad alcuni livelli però non ci arrivano… io spero almeno. Spe- ro nella D.I.A. di Firenze o il Pool di Milano. Qualcuno che sia al di sopra di certi circuiti». Ancora il complotto, quindi. C’è qualcosa di talmente gran- de dietro questa vicenda da giustificare tutte le incongruenze, inefficienze dei vari sistemi che ha attraversato: economico, giudiziario, politico, persino assistenziale nel tema della si- curezza. Eppure in lui resta l’esigenza di una risposta. Una risposta data dalla magistratura. Quindi da quel potere depu- tato costituzionalmente al consegnarci la giustizia legale. Provo: «Metti che riuscite a trovare il tassello del puzzle, cosa succede dopo?». Angelo mi risponde con lo sguardo di chi non ha colto. «In che senso?». Chiarisco. «I responsabili vengono messi alla sbarra, cosa ti immagini quando hai la verità?». Angelo sospira. Si distende. «Potrebbe essere d’esempio per tutti, chi fa questi traffici è conscio della sua impunità, se fosse conscio della punibilità si fermerebbe…». Replico: «Questo è politico… per te invece?». Sorride: «Pensare nei libri di Storia il Moby Prince causato da Tizio Caio e Sempronio mi toglierebbe un bel peso». Il peso di quell’onta, quindi. Il peso di dover comunque andare avanti, nonostante tutto, per difendere la memoria di suo padre. Lo lascio rifiatare. È grande, quel peso. Grande quanto la responsabilità della sicurezza di una nave capace di contenere migliaia di persone, affidata a un uomo solo. È forse giusto? Ma non lo chiedo ad alta voce. Conosco già la sua risposta. Per Angelo la responsabilità è un dato di fatto: una volta presa non puoi sfuggire a essa. Nonostante io continui a leggere la storia di suo padre come un esempio dei limiti di questo modo di pensare. «In relazione alla tua famiglia attuale, ha pesato questo tuo approccio alla vicenda?» chiedo. Angelo guarda verso la scala. Forse i figli sono sotto a dor- mire. «Direi di sì… questi poveracci» sorride, «è anche un modo

159 per insegnare ai miei figli come va realmente la vita… adesso sono piccoli e tutto è bello: castello dorato. Poi però sono contento che mio figlio più grande è molto partecipe… nove anni… sa di chi è il nipote… sa come vanno le cose… sa che nella vita bisogna prepararsi un po’ a tutto… è un inse- gnamento importante, secondo me… essere pronti a reagire». Certo. «E cosa sa tuo figlio Ugo del suo nonno omonimo? Com’era?». «Un po’ mi assomigliava» risponde, «con gli amici era una persona gioviale, generosa… ma sul lavoro era molto severo. Non vedeva l’ora di andare in pensione per tirare su la casa che abbiamo a Chia. Il suo orto… non c’è riuscito». Quest’immagine. Ugo Chessa, l’uomo. Oltre il Comandante del Moby Prince. Oltre il ruolo. Il traguardo della pensione, l’orto. Lo svolgersi della vita nella pace di una casa costruita negli anni. «E tua madre com’era?». Angelo sospira. «Una toscana vera… allegra, gioviale… dovere e libertà, “le tue cose falle, basta che ti comporti bene” era il messaggio di educazione». «E perché era lì?». «Il caso. Tornava in Sardegna perché aveva un negozio a . Si è imbarcata…». Angelo guarda lontano. Freme. Controllo il taccuino. La stanchezza inizia ad affiorare. Mi resta solo una curiosità. Quella squadra di basket chiamata “Mobyprince.it” il nome del sito web dell’Associazione 10 aprile. Angelo torna a sorridere. «Io ho sempre giocato. Quando sono venuto a Milano ave- vo smesso… poi mi hanno convinto a riprendere in questa squadra… ho fatto Promozione, Serie B, Serie C… siamo rimasti amici, abbiamo smesso definitivamente continuando a giocare insieme così a livello più tranquillo e sono quasi vent’anni che giochiamo insieme. Tre quattro anni fa, siccome sanno tutti della mia storia… i primi anni non mi allenavo mai, appena ero libero andavo a Livorno, e quindi giocavo e basta… mi hanno detto “dai facciamo uno sponsor dell’as- sociazione… le magliette. Così tutti sanno del Moby Prince”.

160 Un fatto carino, per ricordare». Può essere anche un peso, azzardo, portare la maglietta con quella scritta. «No. Ha il suo orgoglio… un amico mi ha detto quando ero a Livorno che hanno vinto dedicandomi la vittoria». Torno a guardare il taccuino. Il dialogo va avanti. Parliamo fino alle 23:40 circa. Poi penso a Stefania, mia cugina, Dario, il suo compagno, e ai miei zii. Mi ospitano e domani i miei zii devono ripartire presto per la Sardegna. Saluto Angelo. Lui mi dice: «Se vuoi andiamo avanti». No, non è per te. Ora sono io che ho bisogno di staccare e andare dai miei. Lui capisce. Ci salutiamo e rimaniamo di vederci l’indomani per la partita. Chiamo Stefania. Posso prendere i mezzi. Ma lei insiste. Viene Dario a prenderti. Domani sveglia alle 7:30 ma “sono tutti ancora in piedi ad aspettarti”. Sono i miei. E mi stanno aspettando.

Dal post “Milano 26 aprile 2011”, pubblicato il 5 maggio 2011

161 8. 27 APRILE. UNA PALESTRA IN PERIFERIA

Avv . Ne r i : “Le è mai accaduto in occasione di qualche viaggio che ha fatto con suo padre di vedere suo padre lasciare la plancia per an- dare a vedere una partita?”. An g e l o Ch e s s a : “Posso raccontare un episodio molto specifico. Era nell’82, durante i mondiali di Spagna. [...] Eravamo nel canale di Sicilia. Era il giorno della finale Italia-Germania e mio padre non diede permesso a nessuno di uscire dal servizio e lui stesso, pur non essendo di turno, era in plancia a seguire la navigazione”. Processo Moby Prince, Verbale di udienza, 13 dicembre 1995

«Lo dobbiamo riprendere a casa e dobbiamo riprendere la casa. Poi quando usciamo lo riprendiamo in macchina mentre andiamo alla partita e durante la partita. Dopo vediamo». Con Andrea e Michele siamo pronti e operativi. Arriviamo sotto casa di Angelo quando lui vi si avvicina con la macchina. Spie- ghiamo cosa vorremmo fare e lo seguiamo in casa. Dentro troviamo i due figli intenti a guardare la televisione e la tata impegnata a rigovernare. Ci offre da bere. Acqua perché sia- mo in servizio. Come i carabinieri. Andrea si mette dietro i figli e li inquadra mentre guardano la televisione. Poi fa alcune immagini di copertura. Sappiamo che Angelo deve preparare la borsa per la partita di basket. Michele vorrebbe riprenderlo mentre infila la maglietta con scritto “Mobyprince.it” dentro la borsa. Lo dico ad Angelo. Angelo annuisce e si va a cambiare. Noi restiamo però in sa- lotto. Quando esce la borsa è fatta. Michele mi guarda. Cerco di sorridere. «Non ti preoccupare». Riprendiamo così l’uscita di casa. Michele dà qualche indica- zione ma Angelo non si sente a suo agio nell’essere guidato. Arriviamo finalmente in macchina. Andrea si siede davanti. Io e Michele dietro. Inizio a parlare: Milano, la sua squadra di basket, il Moby. Gira e rigira finiamo sempre lì. Ad un certo punto avanzo: «Poi ieri non ti ho chiesto del museo del Moby

162 Prince». Sospira e lascia andare la voce dall’alto verso il bas- so, come se si dovesse togliere un peso dallo stomaco: «Sì, è un’idea che era venuta. C’era questo spazio in porto che dove- va essere lasciato per farci un museo. Poi è rimasto tutto così perché non c’erano i soldi». «Ma il progetto l’hai curato tu?» chiedo. «Ci abbiamo lavorato. L’idea era fare non un posto morto dove vedi solo foto. Volevamo fare qualcosa per le scuole. Un posto dove facevi esperienza di quello che è successo». Mi dà il la. «Ma questo progetto l’hai condiviso con gli altri familiari?». «Sì, ne ho parlato con Rispoli. Ma ognuno ha le sue idee in proposito». Già. Quando condividi ognuno ha le sue idee e c’è da ne- goziare. Insisto e sbaglio: «Ricordo che c’era quella questione controversa dell’esperienza del fuoco e del calore». «Perché controversa?» mi chiede. «Perché mi diceva Loris che è una soluzione forte. Stai di- cendo che vuoi far rivivere alle persone l’esperienza di qualcu- no che è morto bruciato». Angelo si innervosisce. «No. Non è così. Se vuoi fare una cosa sul Moby Prince devi far capire cos’è successo. Devi far- glielo sentire. Perché altrimenti…». Lo incalzo: «Sì Angelo ma se vai ad Auschwitz mica ti fanno rivivere l’esperienza dei forni crematori». Lui replica stizzito: «Questa è una cazzata. Sono due pa- ragoni che non c’entrano niente. Due cose completamente diverse». La chiudiamo lì. Il giorno dopo, quando l’ho visto in ospedale, ho capito. Angelo è un medico. È un uomo di scienza. La scienza crede nel fatto che l’informazione riveli la verità. Quindi il problema del Moby Prince non è l’empatia ma l’assenza di informazio- ne e di responsabilità. La sera prima mi aveva detto: «Perché io me la prendo con i PM… l’unico buono è stato Giaconi. Almeno ci ha provato. Perché se non sei in grado lasci. Se a me arriva uno da operare per una tracheotomia e io non sono in grado, io non lo opero. È una questione di senso della responsabilità».

163 Ha ragione. Ha la ragione. Come avevo suggerito a Mauro, Angelo è la testa, Loris il cuore. Testa e cuore si incontrano solo nella verità. «Noi la verità non l’abbiamo». Rispondo: «Io penso siate vicini». Gli si è illuminato un po’ il volto. «Sappia- mo che quello che ci hanno detto finora è sbagliato. Abbiamo provato in ogni modo a farlo capire. Ci sono cose talmente evidenti. Perché sparisce il registro delle eliche del Moby Prin- ce? Perché proprio un incidente in plancia distrugge le infor- mazioni sulla posizione registrata dell’Agip Abruzzo? Perché si dissequestra il Moby Prince? Perché…». Ce ne sono centinaia. In una storia così. Centinaia. E tutti perché legittimi. Angelo è intelligente e quella è una domanda intelligente. «Perché nessuno finora ha parlato? Perché Ono- rato ricapitalizza in quell’anno 24 miliardi66? Perché l’Agip fa stare zitto Cannavina67 e di quelli che erano in mare intorno alla scena non ha parlato nessuno? Nè gli Americani, né gli Italiani né qualcuno a Livorno che sa tutto perché magari ha sentito la radio. Perché poi nemmeno il bobinone del canale 16 ci hanno dato… per fare delle perizie noi stiamo lavorando su registrazioni che avevo io – quelle che teneva in macchina e riascoltava ossessivamente in viaggio verso Livorno – ma che ne sai se il nastro è tagliato? Pensa al video D’Alesio… l’hai visto tutto no?». No. «Ah. Beh guardalo, quello è molto importante». Cerchere- mo. «Nel video D’Alesio c’è un taglio netto. Un taglio quando si sente il figlio che cambia stazione radio e va sul canale 13 dove Cannavina sta raccontando cosa vede. Poi lui dice: “Bettolina? Non sarà una delle nostre?”. Quando si sa che le bettoline non girano a quell’ora e dovevano essere in porto. Infatti cosa dicono poi sul 16: “Giglio è – mi pare – in Mare Sereno”68. Tac. Stacco. Quindi ci tengono a far capire questa cosa».

66 Vedi nota n.17. 67 Vedi nota n. 29. 68 La registrazione dice “Il Giglio è al Mare Sereno” dove per “Mare Sereno” si intende un’imbarcazione ormeggiata in porto a Livorno.

164 Penso: Angelo, puoi aver ragione. Senti il marcio. Lo capisci. Ma da solo sei lì. Cogli i sintomi ma ti manca la diagnosi fina- le. Per questo ti affidi ai periti e agli avvocati senza però fidarti di loro completamente e ti rimetti a rianalizzare tutto da solo. La verità non la può trovare uno solo. La verità è di tutti e la rivelano almeno pochi. Uno è difficile. Uno può sempre essere quello che lo fa per il padre. Dimenticando la madre. Dimenticando di sentire che infondo lo sta facendo per tutti. Arriviamo alla palestra. Riprendiamo. La sua squadra gio- ca con la maglia bianca e la scritta MobyPrince.it, sottotitolo “Associazione 10 aprile – familiari delle vittime”. La squadra avversaria è blu e gialla. Nessuno si avvicina a chiedere perché Moby Prince. Forse lo sanno già. Uno mi chiede: «Chi è il famoso?». Rispondo: «Nessuno. Stiamo facendo un video per lui». Poche storie. Giocate. Angelo indossa la maglia numero 13. Si arrabbia con l’ar- bitro. Poi con i compagni. Poi li incita. Poi li coordina. Poi fa un canestro importante. Alla fine la squadra vince. Vince fuori casa con polemiche per un fallo non visto dall’arbitro. «Abbiamo avuto fortuna oggi» mi dice con la fronte ancora madida di sudore. Quel ragazzo della squadra avversaria che aveva subito il fallo va negli spogliatoi sbattendo platealmente la porta. Nel post partita vuole far sentire il suo dissenso. L’in- giustizia subita. Angelo lo guarda. Quel ragazzo non sa chi sia. Lui lo guarda e lo lascia fare. Lo capisce. Ogni più piccolo errore è ingiustizia. Lui lo sa bene. Ci porta a cena in un locale pieno di foto di calciatori. Penso: la produzione non se lo può permettere. Ma Angelo mi aveva già accennato di volerci pagare la cena. Con questa siamo a due pasti pagati. Lo ringrazio. Ma un po’ mi scoccia. Siamo stanchi. Mi addormento due o tre volte sul tavolo. Angelo ci ha portato con sé in un posto lontano da noi. Vor- rei sdebitarmi e so di non poterlo fare in un ristorante di egual misura. La sua naturalezza marca le differenze. E così ripenso a Loris, Giacomo, Ivanna e Mauro. Questa storia ha unito persone di differente estrazione so- ciale, cultura e provenienza. Ha forzato un processo di divi- sione deciso dagli esseri umani: tu sei questo, io quest’altro.

165 Ognuno nel suo recinto. Il mio più grosso del tuo. E via di seguito. Ma la vita ti butta con violenza davanti a una realtà di vicinanza. Sono tutti familiari. Che facciamo? Quando si condivide bisogna accettare il fatto di ascoltare e mettere in discussione le proprie convinzioni. Perché uniti si vince. Di- visi si perde. Infatti nella storia del Moby Prince le divisioni hanno portato sconfitta. Quella dei tribunali e ancor più im- portante quella della comunità. Centoquaranta famiglie sono una forza. Venti, meno. Uno, poco più di niente. Ripenso a Loris a Roma con Andrea. Quello striscione lungo quanto almeno venti persone. L’hanno dovuto legare a due paletti per tenerlo su. Ripenso allora ad Angelo e alla sua battaglia. Quanti avvocati ha cambiato? Quanti periti? Quanti giornali- sti ha ascoltato? Insieme a Loris avrebbe potuto risparmiare tanta fatica. Lui era a Livorno. Sapeva. Ma non capiva. Lui si fidava degli intermediari. Degli avvocati, dei periti, dei giudici. Quindi “partiva già perdente”. Ma da soli si è soli e deboli. “Ciascuno di noi da solo non vale niente” diceva un uomo la cui immagine è ritratta in una birra a casa di Loris. E allora penso che è stato ancora una volta giusto così: Angelo ha dovuto fare la sua battaglia con la sua famiglia, con suo fra- tello lontano da Loris e dagli altri. Questa divisione è un’op- portunità per cogliere la forza dell’unione e la sconfitta delle divisioni. Mentre lo guardavo giocare pensavo: gioca di squadra. Di- rige. Dice: “vai qua, passa là”. Ha esperienza. E allora forse la regia di come si fa a ottenere un canestro e una vittoria la sa fare lui. Ma la regia di come si condivide una battaglia e la si rende grande la sanno fare altri. Siamo in una palestra di periferia. Il MobyPrince.it è davanti a poche persone. Nessun pagante. Tre ragazze amiche di atleti della squadra avversaria. Nessuna di loro ha chiesto del Moby Prince.

Il giorno dopo siamo in ospedale. Angelo ha dormito poco. Saliamo in reparto e ci dicono del suo turno in pronto soccor- so. Andiamo a mangiare e intanto studiamo soluzioni. Provo a chiamarlo. Ma è occupato. Ci penso più volte. Lui è al pron- to soccorso, sta facendo un lavoro importante. Non posso

166 disturbarlo. Poi penso alle parole di Michele. «France siamo d’accordo. Lui lo sa. Se ci ha detto va bene allora va bene». Ha ragione. Mi preoccupo troppo. Angelo mi ha detto: «France- sco non ti preoccupare». Mirko, dall’ufficio, trova la soluzione per ritardare la parten- za di Andrea e alle 14:00 riusciamo a fare un po’ di inquadra- ture discrete. Angelo non vuole pubblicità. Ma vuole fare que- sto film. Si presta a una serie di scene ricostruite: lui entra in studio e guarda le lastre. È vero ma l’ha fatto prima. Non mi piace. Questo modo di far recitare le persone non mi piace. Sarà l’ultima volta, mi dico. Lui chiede se abbiamo finito. Io rispondo di sì. Perché tutto quello ha poco senso con quanto mi interessa. Ci dice: «Ho da fare l’operazione a un magistrato». Scherzia- mo sulla cosa. «Sai quanti…». C’è sempre una speranza. Me l’ha detto il 26 aprile: «Devi avere speranza. C’è sempre una speranza. Tutti i poteri hanno un contrappeso. Dobbia- mo solo trovare la via giusta». L’ho guardato e gli ho detto: «Angelo ma dopo vent’anni di porte in faccia tu ancora oggi credi in questo Paese?». E lui: «Ci devo credere. Ci vivo. Dal momento che ci vivo io sono così. Io combatto. Lo faccio anche per i miei figli. Ugo sta iniziando ora a capire». Quanti anni ha? «Dieci». Penso: è presto. Anch’io però a dieci anni ho visto e vissuto cose per cui era presto. Angelo ne aveva venticinque. «Lo faccio anche per loro. Perché devono vivere in un mon- do migliore». Mentre La Russa dichiara che i tornado sono pronti a lancia- re bombe sul Paese dell’ex alleato fraterno Gheddafi e penso alla vergognosa meschinità della politica italiana, davanti a me c’è un italiano di cui posso non vergognarmi. Angelo ci saluta. Deve andare a mettere a posto le ossa di un magistrato. Lui, il suo dovere, lo farà. Speriamo lo stesso anche dall’operando.

Dal post “Milano 26 aprile 2011”, pubblicato il 5 maggio 2011

167 9. TRENTO. RACCONTA L(A FINE DI UN)’AVVENTURA

“L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica”. An t o n i o Gr a m s c i , La città futura, 11 febbraio 1917

Il treno per Trento parte alle 6:55 da Milano Centrale. Sia- mo a Rozzano. Il 15 delle 5:25 è quello buono. Io e Michele ci svegliamo alle 5. Dobbiamo arrivare a Trento entro le 10:00 per la fase finale del workshop “Raccontare l’avventura”. Sono un po’ assonnato. Ieri sera sono rimasto fino a tardi a parlare con Stefania di Mediaxion, Ventanni e di soldi. Me- diaxion è un progetto, i soldi sono un accessorio necessario. Ma se qualcuno mette davanti i soldi al progetto, di solito salta lui o salta il progetto. Le avevo letto un sms di una cliente che non ci poteva pagare. Lei mi aveva guardato con severità, da cugina maggiore: «Franci però un cliente non può parlarti così. Tu non sei un suo amico». «Lo so» avevo risposto, «ma stiamo cercando di creare un sistema, una comunità economica solidale allargata». Abbiamo parlato a lungo della cosa e di noi. Del passato e del presente. Anche lei è sarda, più sarda di me e capisce Ventanni dal di dentro. Sa cosa significa prendere una nave. Venire in continente. Lavorare in continente e avere la voglia di tornare a casa. Lei e Dario hanno ospitato “Ventanni” nella loro casa a Rozzano. La loro isola in periferia. Una piccola Sardegna in mezzo al cemento e al verde di questa periferia milanese. Senza queste persone Ventanni sarebbe solo un do- cumento cartaceo. Quel documento cartaceo da difendere a Trento per i prossimi quattro giorni.

168 Arriviamo a Verona per il cambio treno. Andiamo a fare colazione. Un ragazzo davanti a me indossa gli auricolari e parla al telefono mentre chiede al barista la colazione. Ad un certo punto si allontana. Il barista mi guarda. Poi prova a dir- gli qualcosa della sua colazione. Senza successo. Allora mi ri- guarda e dice: «Bella educazione, eh?». Il ragazzo continua la sua telefonata e quando si avvicinerà al bancone scoprirà il qui pro quo. È a Verona. Bar. Ma la testa è altrove. Vicino a chi lo sta chiamando. A servire anche dei ragazzi di colore. Michele mi dice esse- re cosa comune. A Verona ci sono molti immigrati regolari con lavoro regolare. Penso sia curioso. Il sindaco Tosi lo vedo sempre parlare di immigrazione clandestina. Dell’immigrazio- ne regolare in questo bar, mai. Una volta risaliti sul treno, ho l’occasione di riflettere. Tan- te questioni in questo viaggio. Tante questioni affrontate nei giorni precedenti con Angelo. Questa storia ha bisogno di più verità. C’è una verità esclusa ai protagonisti per distanze ge- ografiche e relazionali e il documentario la può mostrare, per offrire loro la possibilità di colmare queste distanze. Ma per raggiungere lo scopo ha bisogno di registrarla, questa verità, e di farlo per quel che essa è, non per quello che dovrebbe esse- re. Quando in un documentario chiedi a qualcuno di recitare, stai chiedendo di interpretare a quella persona una tua idea di cosa sia la sua verità. In questo modo assecondi la tua idea di perfezione e io questo non riesco a condividerlo. Io questo lo chiamo ingannare e ingannarsi. Per me la verità è giusta in quanto tale, siamo noi a dover- ci porre con umiltà all’ascolto e un documentario ha il solo scopo di raccoglierla e assemblarla per darvi un senso vicino alle finalità di chi lo sta producendo. A me non interessa Lo- ris in quanto portatore della memoria, Angelo che lotta nei tribunali, la madre afflitta e il giovane futuro della lotta. A me interessa la verità e la capacità della verità di sfuggire a tutte le caratterizzazioni, a tutti gli stereotipi. Angelo è un razionalista e punto? Siamo certi? Loris è solo il ricordo? Io non credo ai racconti. Non credo alla parola che mette il punto, come al film di finzione che pretende di darti delle

169 certezze assecondando unicamente la testa di chi lo ha idea- to. Io credo nella capacità della verità di avvicinarci al senso profondo della nostra esistenza. Di prendere il nostro ordi- ne mentale e costringerlo a continui rimodellamenti e questa differenza sta producendo l’ennesima frattura con Michele. Oltre al non trovarci sui modi, i tempi, le aspettative tecniche ed economiche, ci sta dividendo la verità di Ventanni. A me non interessa vincere i Festival con un prodotto esteti- co. A me interessa la verità. Inclusa quella del mio sentire che è possibile e doveroso avvicinare i familiari del Moby Prince per aiutarli a trovare una via comune. Per riportare definiti- vamente l’equilibrio giusto in questa storia. La mia vittoria sarebbe la fine di quella commemorazione. Di quel funerale della giustizia. Io trovo intollerabile tutto questo e non posso accettare l’idea che questa gente sia ancora lì tra trent’anni, senza verità, a dover fare un corteo per essere ascoltata; alme- no un giorno l’anno. La verità potrebbe liberare quel dolore. Unirli. E dare loro la forza di trovare insieme le risposte man- canti. Finalmente mi libero. Io sono stanco. Sono enormemente stanco di tutto questo dolore. Lo sento sulle spalle e dentro di me. Lo sento a ogni angolo delle strade. Nelle case. Trop- po spesso per potervi andare oltre. Io voglio aiutare Loris, Angelo, Giacomo, Ivanna, Mauro e tutti gli altri a chiudere questa lunga storia di infelicità e costruire un domani miglio- re. Lo pretendo. Per me e per queste persone. Sono stanco di riconoscere la grandezza umana della condivisione del dolo- re. L’eroismo di Loris e Angelo nell’andare avanti: affinché la memoria non muoia, affinché il giusto processo arrivi. Io voglio aiutarli a vincere la loro battaglia perché una battaglia persa può essere persa con eroismo ma sempre persa resterà. E tutto questo lo trovo inaccettabile. Io ritengo inaccettabile il Moby Prince e i suoi vent’anni. E quella che sto tracciando è la strada per superare questo equilibrio intollerabile. Michele mi guarda e medita. Ho pensato a voce alta e la sua espressione sembra dirmi che tutto questo è forse lodevole ma assurdo. Infondo dovevamo fare solo un documentario e nella sua mente io avrei dovuto occuparmi esclusivamente

170 di garantire la realizzazione di un prodotto commercialmente importante. Il primo di una serie. Trovare uno spazio per noi e, forse, anche lui, all’interno del sistema del documentario: produrre altro, produrre ancora. Queste idee, queste moti- vazioni, possono essere interessanti, ma non c’entrano con quello che sembra essere il suo scopo. Uno scopo forse ine- vitabile. Cinque giorni dopo quel momento di consapevolezza ri- penso a ciò che è successo. La parte finale del workshop “Raccontare l’avventura” poteva servire per lo sviluppo del progetto. Ma soprattutto secondo Michele sarebbe servita a me per capire di più il suo mondo, il mondo della produzione filmica di documentari. Così è stato. L’ho capito di più. E per questo scelgo di distanziarmene. Sono stati quattro giorni intensi. Ciascuno dei dieci progetti di documentario proposti è stato sviscerato e rivoltato. Sono stato attaccato, corretto, sorretto dai compagni di viaggio. Il primo giorno presento il documentario e mi dicono “non ci siamo”, “non c’è la storia”, “io non capisco”. Sbagliano i nomi dei protagonisti. Sbagliano le date. Del Moby Prince infondo interessa veramente a pochi. Pochissimi. Mi dicono: «Vediamo se riusciamo a sgretolare il granito». Io rispondo: «Impossibile». Michele è una presenza assente. Uno dei suoi ex tutor a un certo punto mi punta e dice: «Noi avremmo voluto sentir parlare il regista». Il “regista” non saprebbe di cosa parlare, mancano contenuti e capacità d’esposizione ed è qui solo perché ho messo davanti il noi allargato ad altro, ma catalogare l’anomalia come un errore per molti è sempre la corsia preferenziale. A Trento ritrovo Vitti e Mario e con loro Stefano, il fratello di Mario. Hanno una grande storia cui sono legato. Parlano di privatizzazione dell’acqua in Patagonia. Nella Patagonia Cile- na. Gabriel è là in questi giorni e da sempre mi ha detto: «Il Cile è il paese più neoliberista del mondo». Dopo il colpo di Stato contro Allende e l’Unidad Popular, Pinochet chiamò o fu chiamato dai Chicago Boys. I Chicago Boys sono “quelli della scuola di Chicago”, economisti neoliberisti in necessità assoluta di passare dalla teoria alla pratica. Quale caso mi-

171 gliore di un Paese appena liberato dal pericolo socialista? Su loro indicazione Pinochet firmò decreti di privatizzazione di tutto: acqua, strade, beni, servizi. In pochi anni tutto diventò di qualcuno e nel 90% dei casi “qualcuno” era più o meno “non cileno”. Tra questi l’ENEL. L’ENEL che, con una par- tecipata, ha l’acqua della Patagonia e vuole farci delle dighe per portare l’energia a 2.000 km di distanza: nelle miniere di rame più grandi del mondo. L’acqua della Patagonia Cilena è di un’impresa italiana che la vuole utilizzare per produrre energia da portare nelle miniere cilene dove si estrae il rame cileno con cui si fanno prodotti – tra cui le monete – richiesti dai paesi di tutto il mondo. Quando conobbi Vitti e Mario durante il primo incontro di “Raccontare l’avventura” nel novembre 2011, dissi loro: «Il Cile è il Paese migliore del mondo per capire il neoliberismo. Il mio amico Gabriel è cileno, me l’ha spiegato e la cosa incre- dibile è che pochissimi lo sanno». Oggi li vedo arrivare carichi di entusiasmo perché due giorni fa sono stati a Roma, all’assemblea dell’ENEL e si è presenta- to un indio mapuche per parlare e chiedere agli azionisti pro- prietari di quote della società di riflettere sulla capacità delle “loro” scelte di destabilizzare il “suo” territorio. Vitti, Mario e Stefano lo hanno ripreso dai monitor della sala stampa. Loro c’erano e stavano provando a fare qualcosa. Del loro progetto, all’interno del workshop, ho sentito dire di tutto. Troppa Enel, poca Enel. Troppa acqua, poca acqua. Poi manca la storia. Poi troppa storia. La storia è legata a tre donne: una ha subito già le conseguenze delle dighe, una lot- ta in radio per diffondere il pensiero di un mondo migliore senza dighe e l’altra sta per subire quanto la prima ha subìto. La radio le collega. La diga le collega. L’essere donne in lotta le collega. Ma “la storia non c’è”. Così dicono gli esperti. Mi incazzo. E abbastanza. Un giorno dico: «Non penso sia cosa giusta guardare il mon- do dal buco della serratura di 52 minuti di documentario» e vedo Edoardo Fracchia – uno dei maggiori produttori italiani di documentari e qui tutor – guardarmi e buttare giù la testa. Lui, forse, questo lo sa. Ma si deve dire altro. C’è dell’altro.

172 La vita, le televisioni, il mercato. C’è altro. Ti capisco ma. Ti capisco però. Però basta. È venuto anche Pierluca Ditano. Ha un bel progetto sulla Puglia. La sua Fasano. Un imprenditore vicino a D’Alema ha magicamente comprato tratti di territorio vicini al mare e, in un caso, di interesse archeologico: ci ha fatto resort, campi da golf. Vuole fare altro ancora. Lui, Pierluca, ha diciannove anni. Ha diciannove anni e non ci sta. Si incazza. Lui lì andava a farci il bagno e gli stanno portando via il suo mare. Porta un video di 7 minuti. Non va bene. «È lungo. Poi manca la storia». Dentro di me penso: “andate a cagare tut- ti”. Michele è sulla loro stessa lunghezza d’onda. «Luca non ci sento la storia. Perché dovrei venire a vedere il tuo film?». Gli dico: «Si chiama Pierluca». Cazzo, almeno i nomi potreste fare lo sforzo di ricordarli. Come mai io li ricordo tutti? Berta, Marisol, Claudia, Francesca, Eloise, Gianfranco, Alan, Loreto, Arianna, Carmine, Alessandro, Dennis, Sonia, Stefano, Edo- ardo, Boris, Francesco, Roberto, Nicola, Fabio, Valentina… A me interessa. Questo è il problema. A me interessa. Queste “storie” mi interessano. Altre no. A Trento ho visto tre film e conosciuto quindici persone. È un fatto di priorità. La vita è fatta di priorità. Poi parliamo di produzione e viene fuori “l’Italia è pessima. L’Italia è indietro. L’Italia manca”. Bene. Il lamento. Come mai, al di là della cultura? “No. È la cultura il problema. Poi la politica. Poi i grandi maestri del cinema che non hanno fatto scuola. Poi le televisioni non comprano. Poi…”. Oh, “io” mai. “Io sono il problema” mai. È una cosa per cui mi arrabbio sempre. Il problema è sempre fuori. Il problema “sono”… mai “siamo”. Invece il problema era lì, in quella stanza. Dico: «Ma non è che il pubblico italiano va un attimo asse- condato a livello di gusto visivo? Gli vanno magari presentati dei prodotti più accattivanti?». Sia mai. Il pubblico italiano ci serve come mercato ma lo riteniamo una massa di pecoroni lobotomizzati. «Però Vieni via con me – lo show condotto da Fabio Fazio con Roberto Sa- viano – ha fatto più spettatori di una partita dell’Italia» obietta Carmine. «Sì ma quello è altro». No cazzo. Quello è proposta.

173 Quando dai al pubblico proposta, il pubblico raccoglie. Certo. C’è un problema politico da risolvere. C’è una Rai da conqui- stare. Ma ci arriviamo cambiando per primi noi. L’accessibile. Il mutabile. Oramai è abbastanza tardi. Abbiamo iniziato a lavorare al teaser. Tre minuti da estrapolare di tutto il materiale registrato nelle settimane passate. Prendo le clip di presentazione dei personaggi. Avendo visto tutte le clip e avendole schedate in un file.ods è una roba di pochi minuti. Ne parlo con Michele. È un montatore, ma non ha con sé il portatile e io non ho con me un programma di montaggio. Avevo capito che avremmo potuto montare lì, presso il centro Format di Trento e in ef- fetti possiamo. Ma c’è Avid. Io non so usarlo, Michele non si fida, non lo ricorda bene. Sarah, che nel Format di Trento ci lavora, conosce Avid e ci aiuterà. Io farò l’audio la sera. Sa- rah risulterà molto disponibile e simpatica. Quel teaser deve molto a lei. Un giorno avviene il miracolo. Lo devo ricordare. Ognu- no deve pitchare il progetto di un altro, ovvero raccontarlo in sette minuti, di cui tre di filmato. Edoardo dice: «Mario e Vitti pitchano Ventanni». Si alzano. Vitti mi guarda e inizia a parlare. Racconta Ventanni in sette minuti. Mi commuovo. Lei ha sentito e ha raccontato. Lei ha capito. Lei ricorda tutti i nomi. Lei c’è. Applausi. Tanti applausi. I primi applausi rac- colti da Ventanni. Li ringrazio. Loro sono con me. Anche altri lo sono. Mi dicono: «Sono con te. Io ho capito» e quel giorno è cambiato qualcosa. La sera nella stanza condivisa con altri cinque – un tuni- sino, tedeschi e qualche italiano – cerco di rielaborare. Ho montato l’audio fino alle 21:30 con accanto Dennis e Sonia. Lavoravano al loro progetto: Primo. La storia di una persona di novantanni, patrimonio trentino e italiano. Un uomo di grande spessore. Reduce di Grecia, racconta anche le bar- barie degli italiani. Cacciatore, racconta di una lepre sfuggita tra le gambe. Agricoltore e allevatore, racconta della colti- vazione e del burro in quelle zone. Basterebbe vedere il suo volto per capire. Anche qui “manca la storia”. Ma è diverso. Primo è arrivato. Primo piace e meno male. Almeno gli an-

174 ziani li avete salvati. Vi sono rimasti nel cuore. Il tunisino rientra prima. Mi chiede se può pregare Allah e io naturalmente glielo concedo. Sto male. Ho febbre e mal di pancia; probabilmente qualcosa di andato a male ci ha intos- sicati, nove di noi partecipanti al workshop hanno mangiato nella mensa del Festival e stanno male. Finita la preghiera il tunisino si mette a letto. Lo vedo scegliere un altro letto. Pen- so: “vedrai, ora arriva il legittimo depositario”. Dopo poco sento entrare una persona. Si ferma davanti a quel letto. Leg- ge il numero e lo sveglia. «Sorry». Il tunisino chiede di parlare in un’altra lingua. Il tedesco no. Meglio il francese. Davanti a lui un tedesco vuole dormire nel “suo” letto. Il tunisino dice: «Prendi il mio». Lo capisco dal francese. Poi si mettono a par- lare. Parlano delle loro vite, per circa mezz’ora. In francese. La vita andrebbe documentata così. Senza commenti. Un tu- nisino si addormenta nel letto sbagliato. Arriva un tedesco e gli chiede di farlo dormire nel “suo” letto. Il tunisino gli dice “prendi il mio” e si raccontano la vita in francese. 2011. Forse c’è speranza. Il 2 maggio dobbiamo consegnare la presentazione. “Dob- biamo” diventa per l’ennesima volta “devo”. Michele si sente una sorta di consulente a chiamata. «Se vuoi provare il pitch con me dimmelo». Tutto il pregresso negativo inizia a emer- gere, ma arriva una produttrice straniera, finlandese, a spie- garci qualcosa della distribuzione. Ascolto. Poi Stefano Teal- di, l’altro tutor, si misura con i nostri dubbi sul mondo della produzione. Arriva una domanda: «Ma alla fine un regista di documen- tario come fa a controllare l’operatore? A dargli le indicazioni durante la ripresa? Gli sta dietro?». L’orecchio mi si tende. «No. Assolutamente no» risponde Stefano, «sarebbe lesivo verso l’operatore un atteggiamento del genere. Cosa fai? Gli stai dietro a dire cosa deve fare?». Sorrido amaramente. Questo aspetto era da sempre stato un problema con il modo di Michele di dirigere la camera di Andrea. Pongono un’altra domanda: «Ma come funziona nelle pro- duzioni il rapporto con gli autori, il regista?».

175 Stefano inizia a spiegare. «Beh quando viene qualcuno da noi, noi leggiamo il soggetto. Se quel che ha in mente sono solo idee allora affianchiamo un autore. Perché le idee, impa- ratelo, non valgono niente. Di idee ce ne sono continuamente. Le idee, come le chiamo io, mentre siamo seduti sulla tazza oppure siamo sotto la doccia, non valgono niente fino a quan- do non diventano un soggetto. Qualcosa di effettivo. Poi si passa alla sceneggiatura e ogni fase viene regolarizzata con un contratto apposito». Chiedono: «E la ricerca quindi chi se la paga?». Stefano sorride. «La ricerca se la paga il film-maker». Mi torna il sangue alla testa. Alzo la mano. «Scusa Stefano, ma se una persona ha un’idea, ma non sa scriverla, non sa arrivare a un qualsiasi punto e gli affianchi quell’autore per scrivere soggetto e sceneggiatura, la parte autoriale a chi si riferisce?». «A chi ha scritto» mi risponde. Michele mi dice: «France, usciamo un attimo a parlare». Devo consegnare l’elaborato entro un’ora, ma lui, nonostante tutto, viene ancora prima. «No, perché nelle domande che hai fatto ho sentito che par- lavi di me…» inizia lui. «Certo. Perché sto capendo la fregatura che ho preso» ri- spondo stizzito, «scusa siamo venuti qui perché dovevo capire il tuo mondo… ecco, il tuo mondo sta dicendo questo. Che non ci siamo proprio». È colpito ma vuole spiegarsi e trovare risposte. «Sì ma France l’idea era la mia». «Certo che l’idea era tua, ti ho chiamato per partecipare a un documentario sul Moby Prince vent’anni dopo, a tavola abbiamo parlato e hai detto che sarebbe stato interessante fare un film umano sui familiari delle vittime. Bello. Bene. Ma come ha detto lui, questa cosa qui non ha nessun valore se non la concretizzi. Perché cosa vuol dire? Allora io voglio fare un film umano su Saviano. Ad una produzione può bastare? “Che film su Saviano?” mi direbbe, “come?”, “chi riprendia- mo?”… noi non siamo assolutamente soddisfatti, non siamo assolutamente soddisfatti». Ci guardiamo, lui ribatte: «Io France ve l’avevo spiegato che

176 il film l’avevo in testa, non lo so scrivere, raccontare, va bene, ma siete voi che non vi siete fidati e avete voluto fare il tuo film». Tuo, mio, siamo a questi livelli. Resto allibito: «Ti ho messo davanti tutti i lavoratori di questo progetto perché tu spiegassi cosa avevi in testa e nessuno l’ha capito, io un’idea di cosa fare ce l’avevo e per questo stiamo seguendo quella. Cosa doveva- mo fare?». Lui sospira. «France questo è un film lungo, la ricerca… io ho bisogno di stare un mese accanto a uno, vivere lì, per ca- pire cosa fare… questi film si realizzano in tre anni. Poi io te l’ho detto che ci siamo fermati troppo presto con la ricerca. Ci siamo fermati a Loris. Non siamo andati a Torre del Greco. Magari lì si trovavano delle storie più interessanti. Te l’avevo detto. Magari si trovava il marittimo che ha perso il familiare sul Moby e ora lavora per loro». La testa insegue i ragionamenti. Sono disorientato. Abbia- mo partecipato a un bando, dobbiamo consegnare il lavoro entro un anno e lui parla di tre anni di realizzazione. Poi “ci siamo fermati a Loris”. Ma come è possibile dire delle cose del genere? Il marittimo che ora lavora per loro? Sono tutte fantasie. «Michele io ho chiamato a Torre del Greco Tagliamonte, c’eri anche te quando sono stato due ore al telefono. Poi l’ho risentito. Non è uscito nulla da lì. Come fai a dire che avrem- mo trovato un marittimo che ha perso qualcuno sul Moby e ora lavora per loro? Non esiste. Lo pensi tu, ma non l’hai né cercato, né trovato». L’incrocio largo di Via Rosmini continua a brulicare di or- dinati passanti e automobilisti. Michele è spazientito, con un misto di rassegnazione e garbo. Per lui io sono quantomeno uno che non se ne intende. Avrà anche dei difetti, ma resta il professionista. Conosce quel mondo. Anche se è al momento solo un ex-studente di una scuola di documentario prestigio- sa. «Ma se avevi tutte queste idee su Torre del Greco, perché non ci sei andato da solo? Come ha detto Tealdi andavi, ti facevi la tua ricerca e venivi con qualcosa di concreto».

177 Lui alza gli occhi. Devo essere apparso proprio un ingenuo a non capire. «Sì ma te mi devi pagare France. Te sei la produzione, io sono un esterno. Mi devi pensare come Abi – il fonico che aveva partecipato alle riprese del 10 aprile – . Un tecnico che ti aiuta. Invece finora non mi hai pagato». La mia testa inizia a pulsare: i conti, un’organizzazione a terra che si sacrifica per pagargli tutte le spese di spostamento, vitto e alloggio, farlo venire qui su sua richiesta, in più che gli anticipa cinquecento euro, quando nessuno ne aveva preso sul progetto, per rimborsi spese che sapevamo forzati allo scopo di saldargli esentasse la voce “ricerca, soggetto e sceneggiatu- ra”, senza vedergli scrivere niente di tutto quello. «Cosa? Michele sei l’unico di noi che abbiamo pagato, l’uni- co che da quando sono iniziate le riprese non è una partita iva ed è stato assicurato, gli sono stati versati i contributi… cioè sei l’unico che c’ha preso qualcosa… poi abbiamo fatto dei lavori per te a ufo…». La riprende: «Sì ma France i rimborsi erano duemila e quat- trocento euro, me ne hai date solo cinquecento, e te l’ho spie- gato queste cifre sono una miseria. Nel circuito un regista non lo paghi mica così. Te non devi considerarmi come voi… voi ci guadagnerete dopo sul documentario… vendendolo… io invece sono un esterno… te li puoi anche fare i sacrifici come investimento… stai investendo… io no». Cerco il suo sguardo. «Per me se vuoi co-produrre il docu- mentario e investirci non ci sono problemi. Dividiamo oneri e tutto il resto, inclusa la direzione». «No. Lo sai che non è possibile». Un dipendente e basta quindi. Pochi obblighi e il quasi il sacrificio di starci accanto. C’è, però, qualcosina di buono nel mio comportamento: «Poi io volevo che tu vedessi tutto questo perché come produttore sei stato bravo. Ti muovi di- versamente da questi. Questi alla fine caricano tutto sui film- maker». Ecco. Il pensiero vero era quello. Io dovevo fare il produt- tore e punto. Il mio essere autore non era gradito. Perché “di film-maker è pieno, i produttori invece sono pochissimi”.

178 Certo. Perché il produttore si assume il rischio. Cerco di chiudere: «Io ti ho chiamato perché pensavo di poter condividere qualcosa e di aver a che fare con un profes- sionista, ma se questo è il modo di intendere la condivisione e la professionalità allora noi non ci siamo». Venti minuti dopo torno al mio posto a sedere, per finire la presentazione di Ventanni, cosciente che qualcosa si è irre- parabilmente rotto, ma incosciente rispetto alle conseguenze di questa rottura. Avevo sbagliato ancora. Avevo dato anco- ra una volta un’opportunità a qualcuno per non darla a me, convinto che fosse la strada da seguire. La massima libertà e la massima fiducia, per ottenere alla fine quello. Avevo spe- rato di poter trovare un compagno di viaggio. Avevo sperato in partecipazione, coscienza. Ero stato ancora una volta un cretino. «Io Michele non sono qui per vincere Festival o fare carrie- ra. A me non me ne frega niente di cosa succederà. Io sono qui per cambiare le cose e per farlo nel modo di Mediaxion. Ventanni è un film di Mediaxion, fatto alla Mediaxion. Io vo- glio raggiungere obiettivi concreti. Obiettivi veri. Far incon- trare i familiari è qualcosa di concreto. A me di farli sembrare qualcosa perché così vende di più non me ne frega niente». «Secondo me non ci riesci a farli incontrare France» mi ave- va risposto, «io però se vuoi posso aiutarti a fare il film, ma mi devi pagare». Ancora una volta i soldi. «Abbiamo un accordo, io rispetto quello, ora appena tornia- mo ti verrà data la prima trance». Lui aveva sospirato sollevato. «Bene, dai, ci dovevamo chia- rire per ripartire ancora più forti». Mancavano venti minuti alla consegna. Poco tempo. Poche energie e la testa altrove. Scrivo. Poi correggo. Premo “salva” e si inchioda il computer. Sorrido. Il destino, penso. Allo sca- dere del tempo avevo salvata la versione del giorno prima. Il 4 maggio arriva finalmente la giornata del pitch. Ho ripo- sato tutte le ore arretrate. Sono abbastanza fresco. Mi rado. Mi cambio. Perdo l’aria da barbudo intellettuale del menga e tor- no me. Presidente di Mediaxion, penso. Vado bene così come Presidente di Mediaxion? Ci rappresento? Me lo chiedo spes-

179 so in questi giorni. Sono lì e mi manca la mia comunità. Mi sento come quel mapuche con meno chilometri di distanza da casa. Se ci fossero i miei qui mi darebbero forza. Lo fanno al telefono o via email o semplicemente lavorando per coprire la mia assenza. Sento Mediaxion in me. Devo fare bene il pitch. Devo farlo per noi. La mattina provo. Provo con Edoardo. Poi correggo. Pro- vo infine con Francesca. Al telefono. Lei mi segnala alcune correzioni. Come sempre la sua voce è salvifica. Ora ci sono. Il teaser corretto ha dei piccoli errori ma è pronto e masteriz- zato. Ci siamo. Sono le 14:30 e si entra. Leggo la lista dei pro- getti e vedo: “7. Ventanni”. Bene. Il 7 è un buon numero per questo giorno. 7 minuti. Settimo progetto. Poi vedo i nomi dei relatori. Stefano Tealdi ce li ha introdotti. Ci ha invitato a puntare chi ci interessa. Capire chi vogliamo raggiungere. Tra i nomi Luca Franco, Commissioning Editor di Doc3 (Rai) e Lucio Mollica di GA&A mi sembrano gli interessabili. Ma voglio parlare a tutti. Tutti devono poter ascoltare Ventanni. Quando tocca a me il direttore di Rai Trento è via. Altri impegni. Poco prima aveva spiegato a Vitti e Mario che “le dighe alla fine vanno fatte altrimenti ci riempiamo di centrali nucleari”. Il problema sono sempre gli altri. Poi aveva spiega- to di essere rimasto colpito dal teaser di Pierluca. Perché lui è golfista. Pierluca lo ha fatto sentire un pochino sporco. Ma- gari in quel campo pugliese costruito a un passo dal mare in barba ai piani regolatori ci avrebbe potuto fare una giocatina. Porca miseria. Mannaggia. Ce ne faremo una ragione. Vado sul podio e inizio a parlare. Vitti mi ha testimoniato dopo di essersi emozionata. Ci sono due momenti toccanti nel teaser presentato. Uno è quello di Ivanna. Mauro le dice: «Io ora la felicità l’ho ritrovata e non voglio perdere tempo con altre cose» e mentre Ivanna risponde: «Bene. è giusto. Hai fatto la scelta giusta…» Mauro abbraccia spontaneamente Antonella in lacrime; Ivanna li guarda e dice: «È bellissimo, è bellissimo tutto questo. Questo dimostra che la vita deve per forza continuare in un modo o nell’altro». L’altro momento è l’abbinamento tra l’indicazione di Ange- lo seduto durante la conferenza stampa del 10 aprile che dice:

180 «Dobbiamo andare via da Livorno» e Loris in viaggio verso L’Aquila, il suo discorso dentro il capannone Ricostruiamo- lAQ: «Io vi ringrazio per l’occasione che mi è stata data. Vi ringrazio e vi dico andiamo avanti. Perché solo stando uniti. Solo stando tutti insieme troveremo le verità. Io non dispero di trovare la verità sul Moby Prince. Io l’ho giurato. Io l’ho giurato davanti a quella distesa di lenzuoli bianchi che copri- va le vittime del Moby quando ho fatto il riconoscimento di mia sorella. Finchè avrò fiato chiederò giustizia per questo e la chiederò per tutte le stragi di questo paese. Ecco perché dobbiamo stare uniti». Il teaser si conclude con l’immagine di Loris in piazza a L’Aquila. È quasi scocciato. Un’immagine buffa. La camera segue lo striscione fino alla voce che sta parlando. È quella di un giovane che sta dicendo: «In vista del processo noi spe- riamo non si concluda come il nostro o come altri. Speriamo che almeno le vittime del terremoto dell’Aquila abbiano una giustizia diversa dalla nostra. Siamo qua per solidarizzare con i morti e con le vittime di quella tragedia di quella notte». Lo ringraziano, lui dice educatamente “prego” e guarda in came- ra. È Giacomo, accanto a Loris nel tenere lo striscione. Il filma- to mostra una fiumana di fiaccole incamminarsi verso il do- mani. Compare la scritta “Ventanni”. Arriva l’applauso della sala. Sentito. Racconto il film. Quello da raccontare qui. Raccolgo qual- che consenso. Lucio Mollica dice sia in preparazione un loro film sul Moby Prince, come inchiesta. Vede questo come film storico. Luca Franco dissente. Per lui è esattamente l’opposto. È un film su come le persone vanno oltre una tragedia del genere. Gli piace. Più tardi ne parleremo e avrò il suo biglietto da visita. Michele si avvicina. Mi fa un testa testa rugbistico. Si è emozionato. Non so. È il suo modo per dirmi ok. Finalmente è finita. La sera andiamo a cena tutti insieme. Parlo a lungo con il commissioning editor tedesco – che sco- pro avere una figlia sposata in Italia – e con Valerio Moser di Miramonte. Accanto a me però c’è Gianfranco. Parliamo tanto di noi. Della nostra vita. Gianfranco mi ricorda un omo-

181 nimo amico. Stessi occhi e stessa passione per la montagna. Mi racconta della figlia diciassettenne e della bellezza di avere figli. «Guarda se mai avrai una figlia, quando la guarderai negli occhi capirai cos’è veramente importante in questa vita». «Speriamo» rispondo a mezza voce. Quella frase ha colto nel segno. Infatti, ora che la comunità, che Mediaxion, sembra incanalarsi verso una maggiore stabi- lità, io e Francesca abbiamo iniziato a provarci. Figlia, figlio. Qualsiasi genere. Magari addirittura entrambi, considerati al- cuni gemelli nell’albero genealogico. Mentre questo pensiero attraversa la mia mente nel tempo di quel “speriamo”, iniziamo a parlare del progetto dove Gian- franco è stato coinvolto da Carmine: Los Involantes. Una storia di speranza e solidarietà in Spagna. Poco prima avevo dato a Carmine il numero di Daniele de La Cerreta di Sassetta, una struttura per cui stavamo lavorando. «È come uno degli Invo- lantes ma lui ha scelto l’agricoltura biodinamica». Sono tutte storie di speranza. La speranza c’è. È fuori dai palazzi del potere istituzionale. Fuori dai cinema e dalle televisioni. Ma c’è. Passa dai pertugi. È come l’acqua. Se le metti davanti una diga scava. Piano piano. Si prende il tempo di farti capire chi comanda. Pochi giorni prima avevo usato la stessa metafora per far capire me e Mediaxion. Per far capire come vogliamo cambia- re il mondo. Come l’acqua. Ci metti un muro davanti e piano piano scaviamo. Facciamo un buchino. Poi diventa più grande e alla fine c’è talmente tanta acqua da chiedersi come possa essere rimasta tutto questo tempo in un posto sconosciuto. Dietro un muro che appariva indistruttibile. A mente fredda poi ripenso a “Raccontare l’avventura”. Vado sul forum gestito da Lorenzo (ZeLIG) e vedo le foto. Vedo il percorso. Penso di essere stato oggetto di un per- corso. Una sorta di psicanalisi del film-maker. Gli analisti mi hanno ribaltato come un polpo. Dovevano farlo per farmi uscire da dov’ero e mostrarmi il cammino per andare avanti. Nella loro direzione. Parlavano da parte del mondo e il mon- do ignora. Dev’essere coinvolto. L’attenzione non va pretesa. Va conquistata.

182 Capisco tutto questo. Il mondo può essere diverso da noi. Può essere diverso e questa diversità va intesa. La possiamo combattere o includere. Possiamo averci a che fare o ignorar- la. È una bella lezione. Una bella lezione formativa costata cinquecento euro a Mediaxion per me e Michele. L’italia è anche questo. Una scuola di documentario (ZeLIG) insie- me a una Film Commission (Trentino film commission) or- ganizza un workshop con momento conclusivo durante un Festival (Trento Film Festival). Come docenti due produttori della maggiore casa di produzione di documentari in Italia (Ste FILM) aiutano in una struttura professionale (FORMAT di Trento) dei rappresentanti dell’attuale migliore Italia a farli arrivare dove ritengono opportuno. Il percorso finisce. Ne iniziano altri. Pierluca mi manda il progetto. Ha bisogno di una produzione per farlo e vorrebbe Mediaxion. Dopo Ventanni, vedremo. Ventanni il documentario.

Dal post “Trento”, pubblicato il 10 maggio 2011

183 10. “SIETE DEGLI STALINISTI”

“Se vuoi l’arcobaleno devi prima sorbirti la pioggia”. Do l l y Pa r t o n , 1946

Il treno di ritorno parte all’1:20. Ho lasciato Michele la sera dopo la cena. Non poteva tornare con me. Doveva andare da altre parti. Prendo il portafoglio: «Ti lascio allora cinquanta euro per il viaggio di ritorno. Mi raccomando fatti fare fattura per la rendicontazione». Ok. Da quel giorno non l’ho più rivisto. Tornato a Mediaxion raccontai cos’era successo durante il viaggio a Milano e Trento. Parlammo a lungo in Consiglio di Amministrazione. Di solito tendere verso l’unanimità decisio- nale, un principio che ci aveva sempre caratterizzato, ci faceva spendere molte energie e tempo in negoziazione. Quel caso poi era complesso. Io restavo molto dubbioso sul da farsi. Infondo c’erano tra di noi persone a cui erano stati perdo- nati molti errori, ma la situazione era differente: qui stavamo parlando di un lavoratore esterno, portato da me e accettato senza troppo entusiasmo dagli altri. Il nostro conto corrente diceva 175 euro e la voce di bilan- cio “crediti da esigere” riportava il numero 13.339. Un passo ed eravamo in fido di cassa perché i clienti non ci pagavano, la Regione tardava a darci la metà del contributo vinto per il bando di Ventanni e il resto dei fondi era stato investito per questa prima fase del progetto. Mi tornavano in mente le parole di mia cugina a Milano. “Non puoi mettere sempre davanti la relazione”. Ero confuso. Iniziavo a essere stanco e confuso. Nel frattempo era arrivata a compimento la scrittura del progetto di riforma di Mediaxion. Lo stress era tanto. Gli impegni pure. Dissi: «Io non so cosa dobbiamo fare, ma c’è un problema». Parlammo a lungo. La situazione era insostenibile. Fu de- ciso di chiedere a Michele il recesso del rapporto, sulla base

184 dell’accordo esistente. Per raccogliere i soldi da dargli avrem- mo dato tutto l’incasso da produrre durante le giornate di Terra Futura. Al momento di ricevere i soldi della Regione Toscana per Ventanni avrei restituito ai lavoratori di quel pro- getto l’anticipo fornito. Francesca, da Direttore di produzione di Ventanni, chia- mò Michele mentre io e Mirko mangiavamo con i lavoratori dello studio commercialista presso il quale avevamo spostato temporaneamente la nostra sede. Sentivo vagamente alcuni passaggi della telefonata, con agitazione. Forse avrei dovuto fare io quella chiamata. Forse sarebbe stato più opportuno. Ma infondo Francesca era il Direttore di produzione. Non potevo credere nell’affidare un ruolo per poi evitare agli altri i contro di quel ruolo. La voce di Francesca si interruppe per qualche minuto. Poi il commiato e i passi verso la cucina dove stavamo mangiando. Era leggermente rossa in volto e dette un commento preciso ai presenti che potevano capire. «Ad un certo punto mi ha detto che siamo degli stalinisti, che lo mandiamo via perché ha criticato il capo, che suppon- go sia te» disse rivolgendosi a me. Gli altri risero. Io non ci riuscii. Infondo quella era l’ulterio- re dimostrazione di un mio fallimento. Francesca mi si avvicinò, prese il suo panino con lo strac- chino e mi disse: «Guarda è meglio così. Te ne ho detta solo una… ora dice che ci scriverà le sue richieste». Risposi che un accordo c’era già. «Sì ma lui dice che quell’ac- cordo non l’ha mai firmato». Gli altri partecipanti al pranzo mi guardarono. Io abbassai gli occhi. Era vero. Ci eravamo stretti la mano e quel documento l’avevo firmato io e dato a lui perché stesse tranquillo. Mi ero preoccupato per lui e non per me, per noi. Francesca mi disse: «In qualche modo si farà. Certo in questo abbiamo fatto una bella cazzata». Buttai giù gli ultimi bocconi in silenzio. Avevo fatto una bel- la cazzata, ma Francesca, com’era tipico in Mediaxion, la met- teva alla prima persona plurale. «Chiamo Irene – la consulente del lavoro – e vediamo cosa ci dice». Ok. Qualche giorno dopo Francesca convocò Michele presso

185 lo studio della consulente del lavoro. Fu deciso che io non partecipassi alla riunione. Venivamo da dieci giorni di fuoco. Tre giorni intensivi a Terra Futura, la Fiera dell’economia re- sponsabile, per fare la cassa con cui saldare quanto ritenuto dovuto a Michele e in parallelo l’organizzazione con un’altra cooperativa di “Fabbrichiamo il presente”: un evento di gio- vani per quella che speravamo potesse essere l’inizio di una grande rete solidale tra imprese. Dialogare, raccontarsi espe- rienze e soluzioni, per unire, aggregare. Nella stanza della consulente del lavoro accadeva il contra- rio. Alla luce di differenti interpretazioni dei fatti, cercare un accordo. Non fu possibile. Irene, la consulente del lavoro, mi disse che valutava l’inter- locutore irragionevole. Lo sapevo, scossi la testa. «Addirittura all’inizio ha detto che voleva denunciarci per mobbing. Poi gli ho spiegato che cosa significasse. Ma co- munque è irremovibile. Si è preso i soldi ma ne vuole di più». «Di più quanti?». «A detta sua per uscire senza fare casini vuole cinquemila euro». «Cinquemila euro oltre quelli già dati?». «Sì. Praticamente vuole essere pagato come se continuasse a svolgere il lavoro, perché l’idea era sua». «Scusate, e non c’è stato modo di discutere? Avevamo detto di provarci». «No. Io gli ho proposto allora il reintegro a lavoro in un ruolo differente, per esempio al montaggio. Ma lui ha detto che non se ne parla per niente, con le produzioni litiga sempre e… lasciamo perdere». «Ma i soldi per quel che in buona parte non ha fatto gli sono stati dati?». «Sì». Italia, 2011. Il conto corrente mio e di Francesca recitava seicento euro. Tanto lavoro, ma nessun incasso. Chi aveva dato poco, chi aveva fatto un’esperienza, chi si era comporta- to alla stregua di uno stagista ed era in quel momento la figura più retribuita del progetto ci chiedeva di essere retribuito per

186 un non lavoro. In breve voleva molto di più. Gli era stato dato e voleva ancora di più. Quel dato non era abbastanza. Nulla era stato abbastanza. I nostri sforzi, il mio tenerlo dentro no- nostante la crisi iniziale, l’opportunità accordata, i soldi anti- cipati, lo stipendio, il lavoro fatto per lui senza alcuna retribu- zione. Ventanni era un lavoro, solo un lavoro. Mediaxion era un datore di lavoro, solo un datore di lavoro. Non era stato possibile dialogare. Non era stato possibile veder riconosciu- to tutto quanto era stato fatto. Mi sfogai con Francesca. «Gli esseri umani sono così, non si accontentano di colpirti, ti mangiano l’anima». L’anima. Quell’immaterialità per la quale Ventanni era diventato uno strumento per avvicinare persone divise, per dare un’oppor- tunità, per dare pace. Quell’immaterialità che mi aveva portato a includere, mettere davanti la relazione ai risultati economici, provare nel seguirla ciecamente a cambiare così equilibri e si- stemi che sentivo sbagliati, la sentivo divorata. Mi era capitato altre volte. Mi era capitato di vederlo ricono- sciuto anche in tanti aneddoti raccontatimi da Loris, Angelo, Giacomo e Ivanna. «Una volta» mi disse lei, «mi chiamò il mio avvocato: “Guarda c’è uno che è disposto a parlare, sa qualcosa sulla vicenda del Moby Prince, potrebbe essere at- tendibile ma vuole un miliardo di lire». Lo sguardo di Ivanna nel racconto si fece tristemente consapevole. Quella smorfia di chi ha avuto l’anima divorata almeno una decina di volte. «Gli dissi: senta, io non ho un miliardo e se poi questa perso- na davanti alle famiglie di centoquaranta morti si sente di fare di queste richieste allora che se la tenga la sua verità». Qualche giorno dopo ci trovammo con Loris e Giacomo a casa di Loris. Gianfranco Dusmet mi aveva mandato via email il video del mio pitch a Trento e con l’occasione volevo farglielo vedere. Parlammo brevemente della questione che aveva tenuto ferma la produzione per l’ultimo mese, e Loris mi disse di aver intuito ben prima quella situazione. Un secondo dopo aver avviato il video pensai al fatto che per la prima volta avrebbero visto come avevo scelto di rac- contarli. Nell’introduzione del pitch avevo infatti chiarito la scelta

187 dei personaggi in funzione dell’incontro tra questi e avevo ribadito l’idea di organizzare una proiezione riservata per i protagonisti durante la quale sarebbero stati tutti nella stessa stanza per la prima volta dopo vent’anni. Loris e Giacomo guardarono il filmato e si emozionarono con discrezione. «Le immagini sono molto belle» aprì Loris. Giacomo si accese una sigaretta. «Francesco l’unica cosa che vorrei chiarire con te è che io a questo incontro con Chessa ci vengo, ma la mano non gliela stringo». «Capisco. È solo un’occasione, poi ognuno di voi faccia quello che crede». «Poi per il viaggio in Sardegna non ci sono problemi. Pos- siamo farlo quando volete, magari se riusciamo a farlo in con- comitanza con una partita della Torres – squadra di calcio rappresentativa di Sassari e militante nel campionato di ec- cellenza – per me è meglio. Perché siamo ai play off e voglio andare a vederla». «Cioè tu tifi la Torres?» chiesi. «Certo» mi rispose, «non a caso, se guardi, i tifosi della Tor- res sono stati gli unici ad aver esposto uno striscione sul Moby Prince per il ventennale». Sorrisi. Giacomo aveva tessuto in autonomia dei fili con la Sardegna. Dei fili che nella condizione assoluta della sua età erano indistruttibili ed eterni, benchè potessero risultare agli occhi di qualsiasi altra persona adulta un romantico tentativo di costruire un’identità desiderata. «Io sono sardo. I miei amici mi sfottono per questo, ma io sono sardo. E tra le squadre sarde tifo Torres» aggiunse. Loris condivideva il sorriso con l’espressione di chi è abituato a co- noscere, con familiarità, le eccezionali risultanze di vita umana che definiscono il ricostruirsi e andare avanti dopo aver vissu- to un’esperienza drammatica come il Moby Prince. Giacomo era un “uomo in costruzione” – come nella can- zone di Stefano Barotti – cresciuto dalle ceneri di un processo distruttivo: quello della perdita di un padre, a due anni, nelle vergognose modalità del Moby Prince. Ricostruire il rapporto con suo padre attraverso la costruzione di un’identità altra era una specie di dovere profondo. Nel parlare di Giacomo, nei

188 suoi gesti, io vedevo sempre il peso di questo dovere profon- do. Ma lui doveva essere sardo oppure non poteva far altri- menti che esserlo? Qual è il confine tra la scelta e l’inevitabilità dei processi? Loris sapeva che quando riparti dal punto zero tutto può accadere. Prese la parola. «Però Francesco, permettimi una cosa. Tan- to per ridere, dico. Nel filmato si vede Angelo che dice pra- ticamente che è sicuro che c’è qualcosa di strano nel Moby Prince perché hanno fatto morire tutti e la prova lui dice… “se ne avessero fatto trovare anche solo uno vivo…”. Ora… cioè uno vivo c’era, solo che lui a quello non gli crede!». Gia- como annuì. Confermai. «Sì, l’ho messo anche per quello. Mi aveva colpito che Angelo dicesse con certezza una verità re- lativa, basata sull’idea che qualcuno – il superstite – avesse mentito». Loris si inarcò verso di me. «Ora vedi France, io credo che una persona per mentire dev’essere anche piuttosto furba e Bertrand furbo non è». «Certo» risposi, «però resta il fatto che all’inizio lui della nebbia non dice niente, poi dopo mesi si ricorda di aver in- crociato Padula, il timoniere, che gli dice: “c’era la nebbia” e siamo andati addosso per questo». «È vero Francesco ma non dimenticarti che lui era al suo primo imbarco e ha visto la morte in faccia. Io non ci metto la mano sul fuoco, ma nemmeno posso pensare che si sia inventato tutto. Quest’uomo ha visto morire lì anche lo zio, Guida… ora ci sta che quando lui dice di aver fatto la rianima- zione bocca a bocca allo zio e ad altri lì esageri…». Giacomo annuì ancora. Ma c’era qualcosa che lo turbava, fino a renderlo un po’ assente. Tornammo un attimo sul viag- gio in Sardegna e sull’esigenza poi di riprenderlo anche nel contesto anarchico. «Eh, su questo Francesco volevo parlarti un attimo». Ecco il problema, pensai. «Nel frattempo è successa una cosa che ridefinisce un atti- mo la questione. Mi sono lasciato con la mia ragazza». «Quella che ho visto il 10 aprile?» chiesi. «Sì, lei» mi rispose puntando a suo solito i miei occhi, «sto

189 soffrendo molto per questo e siccome condividevo con lei l’impegno del Collettivo, in questo periodo preferisco non an- dare in sede, perché la vedo e ancora oggi ci sto male». Ok. Pensai alla franchezza di Giacomo nel suo modo di presen- tare questo stato d’animo. Lineare. Senza alcun giro di paro- le. «Mi spiace Giacomo». «Eh lo so» mi rispose, «sono cose che possono capitare ma è stato un rapporto per me importante e io in questo momento ci sto soffrendo troppo. Quindi davvero se vuoi facciamo una specie di riunione in una libreria o dove vuoi te con altri com- pagni, Dario e altri, ma in sede preferirei non andare». Lo rassicurai. Non si doveva sentire in dovere anche se quel dovere lo faceva “molto sardo”. Giacomo rise. Loris stappò una birra e mi riempì il bicchiere. Aveva ascoltato tutto quel dialogo con discrezione. In quel momento mi sentii di aver trovato degli amici. Avevo perso Michele ma Ventanni era stato lo strumento attraverso il quale avevo conosciuto quelle due persone e instaurato con loro un rapporto di amicizia. Giorni dopo mi sentii al telefono con Giacomo e tornam- mo a parlare della questione. Continuava a essere inquieto per questa separazione, ma lo palesava con una signorilità espres- siva veramente particolare. L’uso delle parole, associato a un timbro e a un’intonazione vocale da retore classico, rende- vano il racconto di quella condizione qualcosa di universale. L’amore, i ricordi, il futuro. Tutto diventava serio, profondo. Mi scappò: «Ma come hai fatto tu a crescere a Livorno? T’avranno preso per il culo anche i muri…». Giacomo si mise a ridere. «Sì in effetti gli amici livornesi mi prendono parecchio per il culo, per la Sardegna, per la poesia…». Quindi la Livorno che avevo conosciuto conser- vava il suo rapporto strano con la sensibilità delle persone: la quarantena della sofferenza nel tentantivo continuo di sdram- matizzare. Ripresi il tema della poesia: «Ho letto il tuo libro. Alcune mi sono piaciute. L’ultima strofa di quella sul Moby particolarmente». «Sono contento che ti sia piaciuto» replicò, «mi sono cimen-

190 tato anche in qualche azzardo in sardo ma “calchi errore l’ap- po fattu”69». Giacomo iniziava a parlarmi in sardo. L’amicizia ha sempre bisogno di ponti comuni.

69 Qualche errore l’ho fatto

191 11. “NON CI SONO NAVI PERFETTE”

“Dove vien meno l’interesse, vien meno anche la memoria”. Jo h a n n W. Go e t h e , Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Date: 26 maggio 2011 19:47 Oggetto: Per appuntamento Nello D’Alesio – da autore “Ventanni. Storia privata del Moby Prince” A:…

Gen.le Nello D’Alesio

le scrivo per chiederle la cortesia di un appuntamento. Vorrei incon- trarla e parlarle. Sono autore di un progetto dal titolo “Ventanni. Storia privata del Moby Prince”. Lo scopo del progetto è riunire delle persone familiari delle vittime divisi dall’assenza di verità. Questo progetto è oggetto di un documentario centrato sulle figure di questi cinque familiari delle vittime del Moby Prince: Loris Rispoli, Ivanna Porta, Giacomo Sini, Angelo Chessa e Mauro Filippeddu. Sono lontano da motivazioni di scoop o di lucro. È mio interesse dare pace a queste persone da me conosciute e con cui ho instaurato un rapporto di empatia familiare. Dopo vent’anni hanno bisogno della verità. In questo momento è di poco interesse parlare di giustizia. La giustizia sarà dare pace a queste persone con quella ve- rità senza la quale sono impossibilitate a chiudere questa storia e vivere pienamente. Considerato il suo coinvolgimento nella vicenda le chiederei la cortesia di aiutarmi ad aiutarle. Le lascio i miei recapiti e resto a sua disposizione.

Cordiali saluti Francesco Sanna

Sono passati vent’anni. Tutto è archiviato. Prescritto. Una volta persa anche la motivazione banale del volersi evitare possibili imputazioni giudiziarie, chi sa deve parlare. Dovreb-

192 be farlo. Deve farlo. Perdo i condizionali. Perdo la mediazione. Perché la verità lenisce il dolore. Prende quella massa informe che sta dentro di noi, tra lo stomaco e il cuore, e le mostra la via d’uscita, togliendole l’approdo del presente. Fino a quan- do non hai la verità, hai il dolore di non averla. E il dolore, come ha detto Giacomo il 10 aprile, “non conosce il tempo”. Si può murare dietro centinaia di distrazioni. Di impegni. Di responsabilità. Ma vi permane costante e pulsante. Cos’è allora la solidarietà? Riconoscersi nell’altro e lenire quel dolore. È fare di tutto, perché svanisca, si riduca, si con- segni. Due giorni fa attraversavo in macchina il tratto del lungo- mare di Livorno da Antignano ai Tre Ponti. Da quelle terrazze centinaia di occhi, il 10 aprile 1991, avevano visto qualcosa. Decine, forse, l’avevano fotografato e qualcuno l’aveva addi- rittura filmato. Tra questi, tra tutti questi, il P.M. De Franco acquisì agli atti un solo filmato: il video D’Alesio. Nello D’Alesio è uno dei più noti armatori livornesi. Erede, insieme al fratello Antonio, del prestigioso Gruppo D’Alesio fondato dal padre Gaetano nel 1930. La casa dei D’Alesio gode di un’ottima vista sulla rada e la notte del 10 aprile 1991 il figlio di Nello, Antonio, prese la sua videocamera vhs e ini- ziò a registrare ciò che vide 5 minuti e 28 secondi dopo il may day del Moby Prince. La ripresa fu oggetto di numerose peri- zie e mostra la sagoma di quella che il processo di appello ha accertato essere l’Agip Abruzzo con due punti di fuoco nella parte posteriore a quella offerta alla telecamera – quindi verso il mare aperto – . La sagoma, nonostante la bassa qualità del filmato, appare come una massa scura distinguibile con una certa chiarezza e soprattutto sono ben visibili i riflessi delle fiamme nel tratto di mare dalla petroliera all’operatore. In conseguenza di queste semplici deduzioni il filmato fu mostrato a milioni di italiani il 13 aprile 1991, nel corso del Tg1 serale condotto da Paolo Fra- jese, come riprova della tesi dell’assenza di nebbia al momen- to dell’incidente. Al termine della messa in onda del filmato, il giornalista guardò in camera e dichiarò: “Intanto una cosa è ben chiara, non c’era nebbia al momento dell’incidente”.

193 Ciononostante i Giudici che promulgarono la sentenza di primo grado arrivarono a sostenere addirittura l’esatto con- trario, forti di alcune analisi peritali sul filmato: la massa scura non era la petroliera bensì “un grosso banco di fumo70”. Al di là di questo aspetto contestato, poi ribaltato nella Sen- tenza di Appello, Angelo mi aveva ricordato più volte un se- condo elemento di stranezza nel video D’Alesio, mai fino in fondo investigato: i tagli audio. I D’Alesio, essendo armatori e avendo tra l’altro in porto alcune bettoline, si preoccuparono sin da subito per l’accaduto e accesero la propria radio porta- tile per ascoltare le conversazioni in mare. A loro disposizione quindi tutti i canali VHF, non solo il Canale 16 e la 2182 della quale Angelo era riuscito ad aver copia. Il filmato D’Alesio dura circa tre minuti e presenta due in- terruzioni audio in esatta corrispondenza col momento in cui Nello D’Alesio passò sul canale 1371 per seguire lo svolgersi di una conversazione iniziata sul canale 16 tra il Comandante dell’Agip Napoli, Vito Cannavina, e l’operatore della Capita- neria di Porto di Livorno, Spartano. Quella conversazione era nata dalla concitata richiesta di Cannavina per una maggiore attenzione della Capitaneria sull’evento appena accaduto. La Capitaneria chiese a Cannavina di passare sul 13 e D’Alesio seguì la conversazione spostando la frequenza di ricezione della sua radio. In quell’esatto momento c’è un taglio audio, le cui cause sono ignote al perito Giagnorio – Consulente Foni- co del P.M. – : “esiste un canale 13 che non si poteva ascoltare e nient’altro”72. Angelo mi aveva detto di essere convinto che quel taglio servisse a mascherare qualcosa. Forse il racconto di Cannavina. Forse la risposta della Capitaneria. A prescinde- re dall’idea di un taglio voluto o meno, restava la memoria dei presenti. Nello D’Alesio e il figlio Antonio avevano sentito il racconto di Cannavina e avrebbero potuto ascoltare anche il

70 Valutazione indicata nella Sentenza di primo grado Processo Moby Prin- ce, p. 241 in riferimento alla deposizione dell’Ingegner Prosperi, perito del Tri- bunale, rilasciata nell’udienza del 25/09/1997 (p. 29 e seguenti). 71 Idem p. 479. 72 Sentenza di primo grado, p. 479

194 resto delle conversazioni intercorse sul canale 13 tra i prota- gonisti di quella notte. Conversazioni che la stazione IPL di Livorno Radio non registrava alla stregua del canale 16 e della 2182 e quindi che Angelo non aveva mai potuto ascoltare. Sono passati vent’anni, mi sono detto. Questa risposta po- trebbe arrivare dal diretto interessato. Non c’è oramai nulla di civilmente o penalmente rilevante. Resta solo la verità e la possibilità di consegnarla a chi ne ha bisogno. Ho scritto così al responsabile marketing del D’Alesio Group quella mail. Volevo un incontro. Senza telecamere, microfoni o quant’al- tro. Mi bastava parlare. Avevo tentato qualcosa di simile con Vincenzo Onorato e altri protagonisti diretti della vicenda, senza aver tuttavia otte- nuto alcuna risposta. D’Alesio era quindi, per certi versi, una delle ultime piccole speranze di ottenere dopo vent’anni la verità da qualcuno che a causa di essa non avrebbe avuto oggi conseguenze. Mi squilla il cellulare. Sento un signore con un eloquio mol- to singhiozzato chiedere di me. «Sono Nello D’Alesio, signor Sanna». Iniziamo a parlare. «Io la incontro anche molto volen- tieri, ma mi premeva dirle da subito che noi non c’entriamo niente con quello che è successo… siccome lei ha scritto “il suo coinvolgimento nella vicenda” ecco io, io non ho nessun coinvolgimento». Mi spiego. Il video, la storia del “Giglio73”. Inizia a spiegarmi. Poi si interrompe. «Però se vuole venire, guardi le passo la mia segretaria, vi organizzate e ci vedia- mo». Mercoledì 1 giugno 2011 sono in Via Castelli, a Livorno. Varco il civico 6 e mi trovo nel grande atrio di un palazzo sto-

73 Nel porto di Livorno vi erano alcune bettoline addette al bunkeraggio, attività di rifornimento carburante degli scafi ancorati in rada o attraccati in porto. Tra di esse vi era la Giglio, di proprietà dei D’Alesio, ed al momento in cui il Comandante dell’Agip Abruzzo Superina comunicò sul canale 16 di essere stato speronato da una bettolina fu immediata cura dell’armatore valutare l’in- formazione. La Giglio però non poteva essere in prossimità dell’Agip Abruzzo poichè, almeno secondo i registri dell’Avvisatore Marittimo, era impegnata a fare bunkeraggio a un’altra nave, la Mare Sereno, ormeggiata in porto.

195 rico. Colonne. Stampe d’epoca. Un tavolo grande sulla destra fa da reception. Mi presento, la persona mi invita a entrare in un’altra sala. Intorno a me altre splendide stampe d’epoca, un modellino in scala di una grande tank e qualche foto. Al centro della stanza un grande tavolo. Ho appena il tempo di avvicinarmi a una teca in vetro, sovrastata dall’immagine di Gaetano D’Alesio, che la porta si apre e compare il figlio: Nello D’Alesio. Ci presentiamo. Dal vivo il suo eloquio è ancora più sincopato. «Vede signor Sanna, come le dicevo al telefono in questa storia ci siamo finiti per via del video che fece mio figlio An- tonio. Abbiamo dato tutto alla magistratura, poi uscì anche al Tg… non mi ricordo quale… andammo anche a deporre… ma comunque tutto finì lì». Vado subito al sodo. «Nel filmato, stando alla sentenza, c’è un’interruzione…». Lui sgrana gli occhi. «Interruzione? No, io non ricordo as- solutamente… noi abbiamo dato tutto ai magistrati come le ho detto e non so. Quella ripresa poi l’ha fatta mio figlio ca- sualmente. Giravano le prime telecamere VHS, lui la usava e quando abbiamo sentito il boato… un boato fuori… e ci siamo rinvenuti… lui ha preso la telecamera e ha iniziato a filmare». Provo a riprendere le fila: «Sì ma nel momento in cui Can- navina, il Comandante dell’Agip Napoli, va sul 13 per raccon- tare meglio cosa vede o, non so, per parlare di qualcosa… lei va sul 13 e lì c’è lo stacco». Nello D’Alesio sinceramente non ricorda. Dico: «A parte lo stacco, lei si ricorda mica cosa sentì? Per- ché vede, come le dicevo, io ho conosciuto questi familiari e in loro c’è ancora un bisogno profondo di verità. Se tante volte lei si ricordasse qualcosa, può essere anche un dettaglio banale, ma potrebbe servire ad aiutarli». Lui parte rapidamente: «Capisco il suo discorso, è stata una tragedia enorme, io stesso lì c’ho perso degli amici… ma dav- vero io non ricordo niente di più di quello che le ho detto. Anzi, mi ricordo anche meno di quanto dissi ai magistrati per- ché sa, sono passati…».

196 «Vent’anni». «Sì, vent’anni. E quindi tante cose si dimenticano. E comun- que io capisco i familiari delle vittime, ma lì, anche se non ricordo come andò proprio il processo diciamo, secondo me fu un errore umano. Sa quante volte passavano a cinquanta, sessanta metri dalle navi… e purtroppo, l’ha presa ed è andata così». Accenno: «Il processo ha parlato anche di carenze del tra- ghetto, a livello di sistemi di sicurezza». Lui scuote la testa: «Guardi signor Sanna, non esistono navi perfette. Un paio di giorni fa è capitato a noi, di una nave che ha avuto un problema, ci ha chiamato… che poi noi abbiamo oramai il rilevatore e seguiamo le rotte col satellite. C’ha chia- mato con questo problema e siamo intervenuti». Quel Comandante l’aveva chiamato, benchè fosse a migliaia di miglia di distanza. Perché lui? «Appena hai un problema il primo che chiami è l’armato- re». «Ah» rispondo, «e questo anche nel 1991?». «Certo, anche se le tecnologie erano diverse». Azzardo: «E lei Onorato lo conosce?». «Sì». «Visto che è stato così disponibile potrebbe mica farmelo conoscere? Perché sono mesi che lo inseguo ma non lo riesco a trovare…». Nello D’Alesio abbassa gli occhi in un sorriso: «No. Vincen- zo è così. No, meglio di no. Guardi se vuole la faccio parlare con mio figlio Antonio, ma lui le direbbe le stesse cose. Alla fine è andata proprio così». Capisco di non poter ricavare nient’altro da quella conver- sazione. Quell’uomo cordiale e curioso nel modo di parlare aveva troppa storia alle spalle per poter allungare una vera mano a una persona come me. «Una sola cosa, signor D’Alesio. Perché non so se lo ricorda ma il Moby Prince rimase per anni in porto, sotto sequestro e poi ebbe uno strano incidente che ne provocò il quasi af- fondamento a margine del quale fu deciso il dissequestro e l’armatore, in modo altrettanto strano, fece tamponare la falla

197 dello scafo e lo fece portare fino in Turchia per una rottama- zione lontana dall’Italia. Secondo lei perché lo fece? Alla fine era un’enorme massa di metallo arrugginito. Poteva rimanere a memoria». Filtra un’emozione. D’Alesio prende fiato. «Sì ma vede si- gnor Sanna, per Onorato tenere quel traghetto lì in porto era un problema commerciale. A livello d’immagine non ci faceva bella figura, così come non ce la facevamo noi. Infatti guar- di, ora che mi ci fa pensare, devo dire una cosa agli amici di Granducato Tv. Gli devo dire di togliere dalla sigla l’immagine del Moby Prince perché sono passati tanti anni e… crea anco- ra disagio. Quando la vedo… mi crea ancora disagio. Bisogna che li chiami, sì». Nello D’Alesio guarda la porta. Chissà quante altre volte ha chiuso così una conversazione professionale. «Ora se è tutto io… poi se ha altre cose di cui ha bisogno mi faccia sapere, siamo a disposizione». Con cordialità mi accompagna alla porta e mi saluta. Esco sugli scali, in Via Castelli. Davanti a me uno dei celebri “fossi” di Livorno, nel quartiere Venezia. Una città di porto, che vive di porto, ha bisogno di rimuovere il Moby Prince per andare avanti? Perché? Perché se non hai niente a che vedere con quella vicenda senti la necessità di rimuovere ciò che la ricorda? Tante domande. Una risposta semplice. Più risposte, ignote e complesse. “Sono i soldi Francesco” mi aveva detto Ivanna, “i soldi che decidono tutto”. E quanti soldi si possono fare con la memoria del Moby Prince? Pochi. Quanti con l’oblio? Parecchi. Parecchi punti di PIL.

198 12. VOLPAGO DEL MONTELLO. UN REGALO NECESSARIO

“L’altra situazione che ci aveva fatto pensare è stata quella del cara- biniere [...] viene trovato nel bagno con la sua pistola calibro 9... ora in un momento di uno che avverte magari un senso di soffocamento, posso capire il rispetto delle regole da parte di un Carabiniere, ma con un oblò vicino e una pistola calibro 9 e si sente affogare la prima cosa che faceva sparava all’oblò per aprire e invece anche in questo caso la pistola era intatta con tutte le munizioni ed era carica”. Gi o v a n n i Da v e t i 74, 18 dicembre 2006

Parto presto per arrivare a Bologna. Lì mi aspetta Ivanna. Inutile arrivare a Reggio quando poi dobbiamo risalire sulla A14 fino in Veneto. Dall’inizio del documentario, e di questo progetto oltre il documentario, me l’aveva sempre ripetuto: «Chiama Maurita. La sua storia è importante ed è una persona squisita. Quando l’ho conosciuta ho pensato: meno male, è andata così, perché se ci fosse stata la mia Monica a vivere una cosa così non l’avrei sopportato». Al ritorno Ivanna mi dirà: «Comunque se ci fossi stata io sul Moby sono sicura sarebbero diventate amiche». Maurita e Monica. Quando per il documentario ho dovuto dire “stop alla ricer- ca - soldi finiti - iniziamo a girare”, sapevo di essere arrivato dove dovevo. Ventanni doveva arrivare a un parte delle storie private del Moby Prince. Perché centoquaranta vittime sono almeno centoquaranta famiglie, cui aggiungere i parenti di primo e secondo grado, le compagne e i compagni, gli amici, i conoscenti, i colleghi. Da centoquaranta con meno di sei

74 All’epoca dei fatti Capo di Gabinetto e responsabile provinciale della Pro- tezione Civile, allora servizio della Prefettura. La citazione è relativa al Verbale delle dichiarazioni rese il 18 Dicembre 2006 ai Magistrati inquirenti (p. 1) rispet- to all’Inchiesta-bis Moby Prince.

199 gradi di separazione saremmo arrivati a tutta l’Italia. Non a tutti gli italiani però. Altrimenti gli italiani si sarebbero dovuti muovere. E di più. Continuo a pensare. Questo viaggio verso Maurita nasce da una finalità im- portante. Una finalità strettamente connessa con Ventanni. Qualche giorno fa, infatti, Ivanna mi ha chiamato con felice concitazione: «Ho trovato il video Canu75 per Mauro, ce l’ha

75 Con il nome di “Video Canu” si fa riferimento comunemente a un nastro audiovisivo di proprietà della famiglia di Angelo Canu, ritrovato in una borsa repertata nel corso dell’esame del cadavere di Alessandra Giglio, la moglie del primo. I Canu, marito moglie e due figlie piccole – Sara e Ilenia, quest’ultima di solo un anno – stavano andando in Sardegna per far conoscere la nuova arrivata ai nonni paterni. Il nastro recuperato mostra alcune immagini girate prima della partenza del Moby Prince e successivamente a essa. Un particolare da sempre oggetto d’inquietudine è l’ultima sequenza del filmato che mostra i Canu dentro la propria cabina intenti a preparsi per la notte, fino all’insorgere di un rumore cupo e sinistro cui segue l’interruzione repentina delle immagini. Il reperto, valorizzato nel corso dell’istruttoria dibattimentale per confermare la tesi dell’esplosione nel garage del traghetto – per la precisione nel locale bow- thruster – , fu oggetto di un grande dibattito tra i magistrati e gli avvocati di alcune parti civili a processo. Ragione di tale dibattere il fatto che in una anno- tazione datata 24 gennaio 1992, l’ispettore della Polizia Scientifica, Gianpiero Grosselle, dichiarò che “la videocassetta aveva parte del nastro adeso, e tale dott. Calcinai avrebbe “tagliato e sfilato” il nastro presente nella videocamera [...] così “procurando la perdita del pezzo mancante”. Il nastro fu quindi successivamen- te riunito in modo artigianale per consentirne la visualizzazione” ” (Richiesta di archiviazione, p.125). Questa ricostruzione dei fatti fu smentita sia dal dott. Calcinai che successiva- mente dallo stesso Grosselle, il quale, interpellato a riguardo, dichiarò di non es- sere stato testimone diretto del fatto ma di esserne venuto a conoscenza tramite un collega presente, tale Bozzoni, al tempo della deposizione deceduto. Nei fatti il caso della manomissione di tale reperto si esaurì al momento della valutazione di quale porzione del filmato fosse stata realmente compromessa dal ritrovamento. Scrivono a tal proposito i magistrati incaricati dell’inchiesta bis: “Se c’è stata una parte mancante, si è trattato di un piccolo frammento com- pletamente attaccato al congegno di ripresa definito “finestrella”, deformato dal calore e versimilmente non separabile né utilizzabile, la cui visione era probabil- mente impossibile e che non avrebbe potuto apportare alcun ulteriore elemento di conoscenza” (Richiesta di archiviazione, p. 127). A prescindere da questo aspetto relativamente controverso, i due elementi chiave del “Video Canu”, oltre alla sua portata emotiva quale straziante documento che attesta gli ultimi istanti di vita della famiglia e di altri passeggeri e membri dell’equipaggio ripresi nel fil- mato, sono indubbiamente: il rumore finale, che i periti del Tribunale di Livorno

200 Maurita e prima del viaggio in Sardegna bisogna andarlo a prendere così ne facciamo una copia e glielo portiamo». La storia era iniziata a Livorno, il 10 aprile. Nell’incontro con Loris e Ivanna, Mauro aveva chiesto di poter avere copia del video Canu perché gli sembrava di avervi visto i genitori. Ivanna ha rinverdito la mia memoria aggiungendo particolari: «Ci ha detto: “quella coppia che si incammina verso le cabine”… ma io non sono sicura che fos- sero i suoi genitori. Anche Loris era incerto. Comunque nel dubbio intanto andiamo a prenderlo». «Ok, chiamo Maurita così intanto ci parliamo un attimo pri- ma di vedermi arrivare». «Bene» mi ha risposto lei, poi una pausa: «Francesco se per te è un costo inatteso vado da sola». Ivanna, da imprenditrice, si preoccupava delle variazioni di budget. Ci abbiamo riso su. «No stai tranquilla, poi è l’occasione per parlare un po’ del tutto e organizzare il viaggio. Volevo venire io a Reggio con l’operatore in treno il giorno prima, fare qualche ripresa che poi ti spiego e poi scendere verso Livorno insieme». Ivanna era rimasta educatamente in silenzio ad ascoltare. Un’altra piccola pausa e poi un equilibristico: «Dai Francesco ora vediamo, non ti prometto niente, ne parliamo quando ci vediamo». Nel viaggio verso Bologna passo da Viareggio. Il giorno prima è iniziato l’incidente probatorio per la strage. Sabato 7 Daniela l’ha ricordato: “venite in tanti”. Francesca mi ha

dichiarano essere lo “stridio delle lamiere delle due navi che si intersecavano tra loro”, e soprattutto il luogo di ritrovamento. La famiglia Canu fu infatti trovata nel Salone De Luxe, luogo preposto alla riunione dei passeggeri in caso di pericolo, con vestiti differenti da quelli di preparazione per la notte visibili dal filmato e soprattutto con i giubbotti di sal- vataggio al collo. La cabina della famiglia Canu non era in prossimità del Salone e pertanto è difficile riuscire a conciliare la tesi di una morte quasi immediata di tutti i passeggeri del Moby Prince quando Angelo Canu e la moglie ebbero il tempo di indossare gli abiti appoggiati per la notte, togliere il pigiama alla figlie, vestirle a loro volta, indossare e far loro indossare i giubbotti di salvataggio e infine raggiungere, con tanto di borse contenenti telecamera, panini e bicchie- ri, il Salone preposto alla salvaguardia dei passeggeri in caso di incidente. La sequenza di tutte queste azioni ci impone infatti l’idea di un processo lungo e soprattutto compiuto in condizioni di relativa emergenza.

201 raccontato di come Daniela abbia mostrato tutta la sua rab- bia, quando i periti di Trenitalia hanno cercato di lavorare a difesa del loro datore di retribuzione attraverso dei sotterfugi. L’hanno fatto con astuzia e Daniela, l’astuzia, la ritiene ancora una mancanza di rispetto. Perché il nome dell’associazione di cui è parte, “Il mondo che vorrei”, esclude cose di questo tipo: un’impresa di Stato responsabile per una strage difende se stessa e non i cittadini deceduti in quella strage. Paradossi della vita contemporanea. Verso le 10:00 arrivo a Prato per cambiare. Salgo sul treno ed entro in uno scompartimento parlando al telefono. Mi sie- do e mi giro sulla destra. Vedo una persona conosciuta. Lei non mi conosce. «Scusami. Tu sei Marta, vero?». «Sì». «Marta Pettinari76». «Sì». «Piacere, io sono Francesco, l’autore di Ventanni, il docu- mentario sul Moby Prince. Ti ho vista nel video dello spetta- colo e poi il 10 aprile ma non ci siamo presentati». Parliamo così con Marta della situazione della produzione. Lei aveva conosciuto Michele e cerca qualche coordinata per capire il motivo del suo allontanamento. Marta mi ascolta con l’atteggiamento di chi identifica il punto di vista nella verità del racconto. Io dicevo così, lui avrebbe detto probabilmente altro. La discussione finisce inevitabilmente sul Moby Prince. «Sai, noi» ovvero lei e Francesco Gerardi, «sentimmo un av- vocato di Torino che ci disse che loro – i familiari delle vittime del Moby Prince – sono stati assistiti malissimo a livello lega- le. Se la causa fosse stata improntata dal punto di vista civile avrebbero costretto Nav.ar.ma, Agip e Capitaneria a scannarsi tra di loro, invece così li hanno messi nelle condizioni di ac- cordarsi». Questa visione mi colpiva. La sconfitta dei familiari delle vittime del Moby Prince era figlia anche di quello. Non solo

76 Attrice teatrale presente nello spettacolo M/T Moby Prince (La Nave Euro- pa, 2006).

202 il gioco della giustizia in quanto tale, ma anche la scelta degli allenatori. Il discorso finisce su di noi. La nostra condizione di ancora- giovani nell’Italia del 2011. Marta sta andando a Bologna per un appuntamento di lavoro. Come La Nave Europa hanno fatto anche un altro spettacolo oltre a quello sul Moby Prince e si chiama “Contratti”. Parla di precariato. Un tema autobio- grafico per la nostra generazione. Come il Moby Prince. Un tema autobiografico per l’Italia e gli Italiani. Con la sensazione di ritrovarci, ci salutiamo all’uscita della Stazione di Bologna. «Salutami Ivanna». Non mancherò. Prendo il 36 per Chiesa Certosa. Ci vediamo lì con Ivanna. Al telefono mi aveva detto: «Quando arrivi in Stazione prendi un taxi». Ok, prendo l’autobus. «Non lo so mica se c’è l’autobus». «Prendo l’autobus, non ti preoccupare» perché la produzio- ne si può permettere l’autobus. Il taxi è fuori ogni budget. In questo momento pure l’autobus e il treno, ma tanto il viaggio si rimborsa a fine trimestre. Almeno quando si parla dei pro- pri conti, ci si può permettere di gettare sempre il cuore oltre l’ostacolo. Ci salutiamo. Mi indica la sua macchina col cambio auto- matico e la decisione che sia io a guidarla. Pianto tre inchio- date alla ricerca della frizione e non c’è verso di farla partire quando faccio io il primo passaggio da P a D+. «Ci vuole il padrone» dico a Ivanna. Lei mi sostituisce alla posto di guida – fa il gesto in modo naturale – l’auto parte, io monto e andia- mo avanti. Andiamo avanti fino a dopo Treviso. Avevo capito Treviso. Invece il nostro obiettivo era Volpago del Montel- lo. Praticamente tutti mi avevano detto “Treviso è bellissima. Devi vedere questa piazza centrale”. Ecco noi andiamo a Vol- pago del Montello. Questa produzione va dove va il cuore. Arriviamo così a casa di Maurita. Ci accoglie un ragazzo con un sorriso molto intenso. Si chiama Vincent ed è suo figlio. Maurita appare varcato il cancello. È piccola, con un fisico molto deciso e lo sguardo profondo. Parla con una cadenza veneta forte e mi ricorda in questo Albino. Albino Bizzotto dei Beati Costruttori di Pace, una delle persone più straordi-

203 narie conosciute in questa vita. La cosa mi mette a mio agio. Mentre ero in autostrada avevo letto “Fratelli d’Italia. Gnanca Parenti”. Invece io con Albino e con altri amici padovani mi sono sempre sentito bene. Ci salutiamo. Maurita mi mostra dove lasciare lo zaino e poi saliamo su. Vedo i quadri e le foto. Vedo la foto dei genitori di Maurita e Fanny, sua sorella. Mangiamo e iniziamo così a parlare. Maurita racconta la sua storia in libertà. I suoi genitori erano parte della comitiva di- retta a quel matrimonio tra una trevigiana e un sardo, in Sar- degna, “perché i matrimoni in Sardegna sono molto belli…”. Quel matrimonio poi non fu celebrato. Sul Moby Prince mo- rirono padrino e madrina – i genitori di Maurita e Fanny – pa- dre, madre e nonna della sposa. «Dovevamo andare anche noi ma lavoravamo» è il suo com- mento fatalista. Lei fa l’infermiera e lo faceva già nel 1991. «Mia mamma mi scaldava anche la macchina la mattina quan- do mi alzavo per il turno delle 5. Facevano tutto loro» prende fiato con una punta di nostalgia. «Quando sono morti ci sia- mo ritrovate io e mia sorella a dover gestire tutto noi da sole: le bollette, le dichiarazioni dei redditi, la caldaia, la casa, tutto». Qualcuno ha aiutato, qualcuno meno delle attese. «Io oggi non mi fido. Io oggi non mi fido della gente. Ci vuole un po’ perché mi fidi». Penso al peccato. Alla colpa. Glielo dico: «Questa è la colpa del Moby Prince e la colpa collettiva. Questa vicenda. La fine della fiducia. La divisione. L’aver lasciato persone sole. L’aver- le lasciate senza verità a diffidare di tutto e tutti». Conveniamo su questi punti e Ivanna racconta il suo punto di vista. Spiega quanto il senso di sfiducia verso le istituzioni fondamentali di una comunità basata sul diritto, porti poi alla sfiducia verso le persone. Le azioni generano reazioni. Se per vent’anni mi lasci sola senza la verità, io poi diffido. Se per vent’anni fai una certa lotta per la tua verità, io diffido. E qui si entra a parlare della divisione tra l’Associazione 140, di cui fa parte anche Maurita, e la 10 Aprile di Angelo e Luchino. Tutto in poche frasi. Maurita dice: «Io quando vado a Livor- no dico: “vado a casa”. Perché anche se i miei li ho riportati

204 poi qui per seppellirli, qualcosa è rimasto là e quando vado ritrovo queste persone con cui mi sono sentita bene. Quando vedo Loris, Paola, Ivanna e gli altri, io mi sento bene. Loro mi hanno capito perché conoscono il mio dolore e io il loro. Ci capiamo e ci vogliamo bene. Con alcuni di loro si è creato un rapporto profondo di amicizia e il 10 aprile è la giornata in cui riusciamo a trovarci tutti insieme». Eccola. La verità del Moby Prince eccola qui. Da una parte ci sono vent’anni da leggere con il filtro nero dell’essere stati lasciati soli, dell’aver perso dei cari, dell’aver dovuto faticare per ricostruire la propria vita senza o con qualche aiuto, dell’aver perso fiducia nelle isti- tuzioni e nelle persone. Dall’altra ci sono vent’anni col filtro bianco. Dall’altra c’è noi. La lotta. Il trovarsi. Il riconoscersi. L’aiutarsi. Andare avanti insieme. Ivanna mette gli accenti: «Loro hanno diviso, Francesco. Dall’inizio. Hanno tutta la ragione del mondo per cercare quella verità utile a dire che il padre non ha responsabilità e nessuno dei familiari ha mai detto qualcosa contro il padre. Però loro hanno diviso. All’inizio è vero. Eravamo in tanti a essere divisi. Però tanti passaggi del processo gestiti insieme sarebbero stati differenti. Avremmo raccolto di più. Soprat- tutto avremmo vissuto meglio tutti questi processi, tutto que- sto». Poi, però, Maurita inizia a parlare delle sue teorie sul Moby Prince. Dietro di lei sulla piccola libreria ho notato il libro di Fedrighini, Moby Prince. Un caso ancora aperto. C’è in tutte le case dei familiari. «Per me comunque c’entra il traffico d’armi. C’entrano que- ste bettoline. Sicuramente c’entra qualcuno, gli Americani con tutte quelle armi. Se era tutto a posto perché non hanno dato i tracciati radar?». «Hanno detto di non averli» replico e Maurita fa una faccia molto eloquente: «Ecco perché non mi fido». Ivanna resta perplessa. Maurita è della 140 ma sostiene alcune tesi vicine a quelle di Angelo. Sostiene i dubbi di Angelo. Questa è un’al- tra verità. Le associazioni sono fatte di opinioni. Accanto alle opinioni sono fatte di azioni comuni. Sono fatte dello stare insieme. A questo tavolo si discute di due posizioni diverse

205 come due parenti sulla gestione della mamma malata. La pos- siamo anche pensare diversamente ma alla mamma vogliamo entrambi bene e ci muoveremo insieme. Ivanna cerca di spiegare e raccontare: «Può essere ci sia di mezzo qualcuno. Restano comunque le condizioni del traghet- to come scritto nella sentenza di Firenze. Quel traghetto non poteva viaggiare su quella tratta, aveva il sistema antincendio spento, viaggiava con un portellone non chiuso77 per fare pri- ma a Olbia, su tre radar ne funzionava uno, gli mancava il nostromo, cioè la persona responsabile in caso di incendio, aveva un equipaggio inferiore al necessario. Tutte queste cose sono scritte e verificate. Qui la sicurezza è un problema evidente. Onorato se ne è disinteressato e la responsabilità per alcune di queste cose è anche del Comandante. Poi però noi sappiamo che se il Co- mandante di una nave si mette contro l’armatore, il Coman- dante viene lasciato a casa. Quindi… poi le responsabilità sono molte. Il pilota del porto perché è sceso prima78. Perché dice “oramai la prassi era così” anche se la regola dice altro. Se ci sono delle regole queste regole vanno rispettate. Perché ci sono per un motivo».

77 Il portellone di prora del Moby Prince fu trovato leggermente aperto. L’Ing. Prosperi (pag. 61 e seguenti del verbale del 25/09/1997) dichiarò nel corso del processo di primo grado che “(nel Moby Prince ndr) c’era la porta stagna di prora aperta [...] A bordo sapevano che c’era la porta stagna aperta e a prora non si poteva andare perché c’era l’incendio; lasciare il portellone aperto “è tassativamente, assolutamente proibito da tutte le normative internazionali. [...] Il portellone, tutte le strutture prodiere delle navi traghetto, sono elemento essenziale, perché la nave traghetto, avendo un ponte tutto aperto, è suscettibile a perdite di stabilità per effetto di specchi liquidi”. La sentenza di primo grado del processo Moby Prince riferisce come plausibili motivazioni di tale erronea condotta da parte dell’equipaggio la volontà di “di- sperdere il fumo dalla zona dei veicoli (il garage è prossimo ndr)” o “perché ci vuole tempo per chiudere e tempo per aprire e le navi che devono fare molti viaggi con poche soste devono risparmiare tempo, 10, 15 minuti” (Sentenza di primo grado processo Moby Prince, grado, p. 614) 78 Stando a quanto riportato nelle sentenze il pilota del Porto Sgherri non accompagnò – come da norma – il Moby Prince per un miglio oltre la diga della Vegliaia ma scese, secondo una prassi consolidata a quel tempo, prima che il traghetto attraversasse questo spartiacque.

206 Maurita annuisce. È d’accordo. Per lei, infermiera professio- nale, veneta, uno dei problemi dell’Italia è proprio quello. «Guarda questa cosa c’è. Poi qui c’è questa cosa del fregare. Del non dire la verità. Io per esempio da infermiera ho molti dubbi sul superstite. Su Bertrand. Hai centoquaranta persone carbonizzate e lui era a posto. Come mai? Io ho dubbi sul fatto lui fosse lì». Penso: addirittura. Questo dubbio è molto forte. I familiari delle vittime del Moby Prince riescono a dubitare degli esseri umani con un taglio chirurgico. Come Angelo, “il problema è che loro si sono fidati dei periti e degli avvocati. Mai fidarsi. Rileggere tutto. Ripensare a tutto”. Mamma mia. A tanto è arrivata questa esperienza. Vi ha devastato così tanto da cono- scere il lato più oscuro del genere umano. Il lato più meschino e basso. Come in quella storia di cui non posso parlare. Quella storia di chi per i soldi è andato oltre. Oltre i limiti. «Sai, Bertrand è un uomo devastato» prova Ivanna. «Sì ma non l’hanno poi più trovato» ribatte Maurita. Cerco di spiegare: «Sì, l’hanno intervistato quest’anno due giornalisti del Tirreno. C’erano anche le foto. È un pensionato giovane sotto molti psicofarmaci, almeno così dice lui». Lei guarda il tavolo: «Sai… fare la parte del matto è () la cosa più semplice di tutti. La fai fino a quando la vuoi fare, poi ti comporti normale. Sai quanti ne vedo al pronto soccorso? Guarda io di ustionati e intossicati ne ho visti tanti. Possibile lui non avesse niente? Dentro c’erano 800 gradi e lui era a posto. Io non so. Però…». Ci fermiamo. Gli faccio vedere un po’ di girato. Ivanna lo voleva vedere necessariamente. A Maurita fa piacere. Lo sco- po primario per cui siamo qui è prendere la copia del video Canu per portarla a Mauro. Ma lo scopo profondo resta in- contrarci e, per Ivanna, poi, vedere se stessa e gli altri in que- sto video. Lo specchio. L’occhio diverso dal nostro. Vediamo la conferenza stampa di Angelo e Luchino. Per la prima volta dopo anni Ivanna può vedere cosa fanno gli “al- tri” il 10 aprile. Penso a quando lo vedrà Angelo. Continuo a pensare a questo scambio di retroscena. Poi mostro a Ivanna le clip con lei. Le guarda.

207 Le clip sono tutte con Mauro. Volevo farvi incontrare. Lei si stacca dal monitor con lentezza risoluta. C’è qualcosa in quel video che le è rimasto dentro. La sera dormiamo a casa di Maurita. Prima però conoscia- mo Fanny e le sue due figlie. Guardo queste due donne: Fan- ny e Maurita. Diverse, sorelle. Fanny parla meno del Moby Prince. Maurita ha più rabbia. Fanny mi appare più rassegna- ta. In modo onorevole. Ha lo sguardo dei vecchi saggi. Come se avesse imparato una legge del mondo ingiusta e oramai la tenesse lì. C’è. Pensavamo il mondo fosse diverso. È così. Arriva la cena. Ottima. E ci distraiamo nel dialogo. Conclusa la prima e ancora attivo il secondo, avverto la stan- chezza e vado a letto. Dormo dieci ore come i bimbi al ritorno dalle gite scolastiche. A Volpago un silenzio e una pace discre- ta. La mattina dopo durante la colazione vedo un calendario: “Consorzio Priula”. «Cavolo è vero. Voi siete nel Consorzio Priula. Ma lo sai che siete una delle realtà più studiate sulla gestione dei rifiuti?». Maurita annuisce: «Sì. Facciamo la differenziata porta a por- ta. Nel calendario c’è scritto quando». E il mio barlume conti- nua: «Qui vicino avete anche l’impianto di Carla Poli». «Questo non lo sapevo» replica lei. «Guarda è studiato da tanti. Te pensa che abbiamo fatto un evento su questi temi l’anno scorso dove un consigliere di Follonica parlava proprio del loro tentativo di replicare il modello del Consorzio Priula e di Carla Poli». Riguardo quel calendario. Una cosa semplice. Geniale. Ti re- galo il calendario così sai sempre cosa devi buttare e quando. Poi puoi usarlo anche per segnarci i turni del lavoro. Come fa Maurita. Anche questa è Italia. C’è il Moby Prince e il Consorzio Priula. C’è Loris e c’è Onorato. C’è Daniela e c’è Moretti. C’è Angelo e c’è il GIP che dice “sì ma facciamo presto che è qua- si l’una e c’è da andare a pranzo”. C’è Ruby e c’è Francesca. C’è Capezzone e c’è Giacomo. Ci sono io e c’è Berlusconi. Manca solo di tracciare una linea. Poi chiamare, come a ruba bandiera. “Numeri uno”. Chi porta la bandiera dietro la sua linea vince e cambia questo Paese.

208 Ivanna freme. Il suo modus operandi da imprenditrice non dimentica gli impegni e rifugge le divagazioni: siamo qui per il video Canu, vediamo questo materiale. Maurita tira fuori delle vecchie VHS. La prima è un filmato relativo a una commemorazione del 10 aprile. Dall’abito di Loris la classifico a metà anni Novanta. Quando ancora por- tava la tenuta da delegato del Partito, con la “P” maiuscola. «Andiamo avanti» chiede Ivanna. Il tasto forward del video- registratore ci aiuta, ma la cassetta finisce così. Prendiamo la seconda. Le immagini sono rovinate dal tempo. I VHS, per lo più tenuti in orizzontale, hanno un’usura molto rapida. «È il filmato dei Vigili del Fuoco dentro il Moby, questo» ci spiega Maurita mentre vediamo un vigile aprire allo spettatore la vista di ciò che rimaneva del Salone de Luxe, il luogo dove furono trovati molti dei passeggeri e dei membri dell’equi- paggio, alcuni con i giubbotti di salvataggio indosso. L’area “più sicura” di tutta la nave, grazie alla chiusura ermetica delle porte tagliafuoco, purtroppo non poteva resistere più di ses- santa minuti79. Ivanna e Maurita guardano quelle immagini con il distacco di chi ne ha familiarità. Quando emersero questi documenti loro avevano già finito di piangere i loro cari e restava solo la voglia di capire il come e perché di tutta quella sofferenza. Ivanna interrompe i miei pensieri: «Francesco manda avanti». Torno a premere il tasto forward, ma il filmato finisce così. «Prova questa» mi dice Maurita allungandomi un’altra cas- setta. Inserisco il tutto e parte un film. Le grafiche anni No- vanta mi fanno fare un tuffo nel passato e rendono quella situazione ancor più carica di distacco. Quelle immagini col- locano il Moby Prince lontano dall’oggi ansiogeno cui siamo abituati. Qualcosa di antico. Da raccogliere in soffitta, ben- chè siano passati solo vent’anni. La rapidità di evoluzione del mondo dell’informazione riesce a rendere tutto estremamente

79 Le porte tagliafuoco presenti nel Salone De Luxe erano del tipo A60 ov- vero capaci di resistere per 60 minuti ad alte temperature (Tribunale di Livorno, procedimento n. 541/91, Sentenza di primo grado processo Moby Prince, p. 517).

209 settario. Esiste l’oggi. Il passato prossimo. E tutto quello che usa linguaggi, tecniche, supporti oramai desueti. La distanza tra noi dell’oggi e quello che vedo nella grossa televisione a tubo catodico del salotto di Maurita mi appare infinitamente superiore a quella tra quel filmato e “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” dei fratelli Lumiere. Ad un certo punto compare il telegiornale di Rete4. «Ecco» esclama Maurita, «è qui». Le immagini mostrano il Moby Prin- ce in porto. Poi una piccola parte del video Canu. Lo stacco dove si vede il bar di prua con le persone intente a guardare la partita Barcellona-Juventus, poi il rapido passaggio davanti alla boutique dove si scorge Liana, la sorella di Loris, e infine la sequenza finale di Angelo Canu che inquadra lo specchio in cabina, per poi deviare l’immagine verso l’alto. Ivanna rimane immobile. «È tutto quello che hai, Maurita?». Sì. «Allora no. Questo è il pezzo che si vede anche nella pun- tata de La Storia Siamo Noi. Io pensavo avessi tutto il filmato integrale». Maurita spiega. Lei ricordava di averlo, ma forse intendeva quello. Ivanna è delusa. Aveva sperato di arrivare da Mauro con quel regalo. C’era, nella sua perseveranza, uno sfondo di transfert. Quel gesto per Mauro era forse un gesto da madre, per un figlio al- tro. Un gesto per fargli ricordare i genitori, come lui e Maurita le avevano rievocato l’immagine, o se non altro la condizione, della sua Monica: l’esserle figlia. Durante il viaggio di ritorno Ivanna è ancora amareggiata. La sua attenzione all’efficienza mi colpisce. «Francesco, ab- biamo fatto il viaggio a vuoto… siamo venuti fin qua e non abbiamo il video». «Non ti preoccupare» rispondo, «io sono contento lo stesso. Ho conosciuto Maurita, Vincent e Fanny, anche se non penso di includerle nel documentario perché oramai è tardi per nuo- vi personaggi, incontrarle è stato importante». «Certo» replica mantenendo il suo pensiero costante, «però questa cosa qui è un nostro problema. Io ho tanto materiale che mi ha dato l’avvocato però alcune cose ci mancano. Loris

210 poi è così: lui dà le cose ai giornalisti e non se ne fa la copia oppure si scorda, come in questo caso, di digitalizzare il ma- teriale…». Dietro il suo sfogo c’è qualcosa che vorrei capire da tempo: il modo di Loris di rappresentare i familiari delle vittime è stato veramente condiviso dal resto dell’Associazione? Men- tre ho in mente il modo migliore di esplicitare la domanda, Ivanna mi precede, col suo metodo familiare di maneggiare la verità. «Perché vedi noi, con Loris, siamo stati fortunati da un lato e sfortunati dall’altro. Lui si è impegnato tantissimo, ha dedi- cato la vita a questa vicenda e tutti glielo riconosciamo. Poi quando parla in Comune, tutte le volte le sue parole ci tocca- no profondamente, dice le cose che tutti pensiamo. Tutti noi intendo» fa una piccola pausa. «Ma poi Loris è anche così, lo devi prendere per com’è. Bisognerebbe magari essere più or- ganizzati. A Mauro gli ha spiegato che lui l’aveva il video ma col tempo si è usurato e non ne aveva fatto la copia» Ivanna sospira. «Poi magari vedi Francesco, col tempo, Loris si era un attimo demoralizzato. Sono passati tanti anni. C’è stato un periodo che aveva perso entusiasmo, diciamo. Poi, tramite il rapporto con quelli di Viareggio, è tornato quello di un tem- po. Questo fatto che si è risentito forse utile a loro, di poter fare qualcosa». Il discorso va oltre, per poco. Ivanna raccoglie in parte il senso della mia curiosità. Loris è una sorta di eroe anti-eroe, una geniale e disorientante espressione vitale. In quella frase di Ivanna: “Loris è così, lo devi prendere com’è” c’era tutto il senso di una proposta indubbiamente complessa da com- prendere e concatenare: la sua vita, le sue scelte, la sua estetica. Quando sentii Mauro parlare di Loris, prima di averlo visto, mi venne in mente l’aneddoto autobiografico dell’anarchico ultraindividualista citato da Antonio Gramsci in una sua let- tera dal carcere. Questa persona si trovò nella sua stessa cella e non sapendo con chi stesse conversando a un certo pun- to provò a superare quell’ignoranza. Quando gli fu risposto: “sono Antonio Gramsci” quello ebbe una sorta di tracollo: “non può essere, perché Antonio Gramsci deve essere un gi-

211 gante e non un uomo così piccolo!”. Ecco, questo carattere ordinante della nostra testa mi aveva da sempre affascinato e Loris ne era un esempio esplicativo. Come doveva essere il rappresentante dei familiari del Moby Prince? Come dove- va essere un familiare delle vittime? Come dobbiamo essere secondo i canoni di chi ci guarda? L’identità di Loris, oltre ad affascinarmi sul piano della ricostruzione, mi piaceva sul piano della provocazione disordinante. Lui è così, tatuaggi, orecchini e disordine annessi, e il buono che gli viene inevita- bilmente riconosciuto, il suo impegno enorme per la vicenda Moby Prince, costringe chi lo conosce a ridefinire i canoni stessi di ciò che riteniamo moralmente accettabile. La discussione torna però sulla questione del video Canu perché l’amarezza di Ivanna per la questione è ancora pul- sante. Siamo partiti dal “disordine” di Loris nel conservare il materiale e siamo finiti alla sua immagine. Un bel salto con qualche filo conduttore. La butto là: «In questo te lo dico ma la divisione tra voi familiari non aiuta. Dovreste avere tutto doppio, quando con un pochino di collaborazione si potrebbe quantomeno conservare un archivio unico». Ivanna si illumina. «Ecco, lo puoi chiedere ad Angelo di dar- ti il video per Mauro. Magari lui ce l’ha». «È sicuro» le dico. L’efficienza potrebbe essere salva. Ma intendevo altro. Lei prende fiato e prosegue. «Io capisco Francesco quello che stai cercando di fare e ti giuro che ti apprezzo moltissi- mo. Però riunire noi e i Chessa è una cosa difficile. C’è una lunga storia dietro. Loro si ostinano a sostenere delle tesi che per noi sono incomprensibili. Io ho bisogno di sapere vera- mente cos’è successo, ho bisogno di sapere tutto, sono pronta per questo. Ma non voglio più sentire storie impossibili. Loro partono sempre dal negare una cosa che noi non possiamo escludere, cioè che realmente lì si sia sbagliato qualcosa. Sono encomiabili per quello che stanno facendo per loro padre, ma resta che alcune cose fatte su quel traghetto sono state fatte male. Se tu viaggi con il portellone aperto, poi da lì entra il combustibile che ha fatto bruciare l’interno. Se era chiuso non entrava così. Quantomeno così tanto. E questa è una respon-

212 sabilità dell’equipaggio. Poi tu non sai quanto l’hanno portata avanti questa cosa della bomba. Che poi se c’era la bomba cambiava tutto lo scenario, diventava una strage, e la bomba non c’era. Siamo stanchi, capito? Stanchi anche di questo con- tinuo sensazionalismo. Ogni volta trovavano la verità ed era sempre qualcosa di più» sospira «enorme, forte… capito? E ogni volta te stai lì col cuore in gola: sarà la bomba… allora perché hanno fatto una cosa del genere? Ti fai mille domande. Poi il traffico d’armi… e allora cerchi di capire». «Se poi ogni volta la magistratura ti rimbalza» mi inserisco. «Certo» continua, «se poi i periti ti spiegano, facendoti capi- re Francesco, perché io mi sono sempre voluta far dire tutto. Io volevo sapere tutto. Perché ne avevo un bisogno fisico, non c’ero e volevo sapere cosa avevano fatto la mia Monica e Um- berto. Volevo tutto. Tant’è che quell’avvocato che mi disse che avevano sofferto, per le esalazioni non erano morti subito ma avevano vomitato, avevano avuto delle convulsioni… io quell’avvocato all’inizio l’ho odiato, ma lo volevo sapere co- munque». Guardo quel tanto di Ivanna che riesco a scorgere senza perdere di vista l’autostrada. È una donna ancora in cammi- no. Una donna che avrebbe tanto da dare a chiunque, con la forza del suo messaggio. Una dolcezza enorme del muoversi e interloquire. L’educata gentilezza emiliana unita a quella nobi- litazione del fare laborioso che avevo conosciuto abitando per poco in quella terra. Mentre continuo ad ascoltarla ripenso all’importanza della sua figura per il documentario. La donna, la madre, l’imprenditrice che dopo la morte del marito Um- berto e della figlia Monica porta avanti da sola per vent’anni l’azienda di famiglia e oggi è “costretta” dalla pensione a un nuovo riordino della propria vita. Riordinare. Trovare il senso. Ripartire, ancora. Come quando, finito il processo, disse a Lo- ris con una punta di angosciosa indeterminazione: “e adesso cosa facciamo?”. Quell’essere lì, il partire da Reggio da sola per seguire le udienze a Livorno, l’attivismo con la 140 erano “un modo di sentirmi viva” come “il lavorare”. Gli psicologi direbbero un metodo per “elaborare il lutto”. Ma quel lutto non era fatto di commiserazione. Me lo aveva detto chiara-

213 mente la prima volta che ci vedemmo, seduta sul divano di casa sua. Vent’anni dopo Ivanna volevo documentarla così: lei che cammina per le strade di Reggio Emilia. È una persona in mezzo a tante altre, con una storia così immensa dentro gli occhi. La gente la sfiora, lei con gentilezza risponde e nel frat- tempo la sua vita, il suo racconto, restano lì. In attesa che qualcuno, senza il pietismo che tanto la infastidisce, possa ascoltarlo e andarvi oltre. Mentre penso a tutto questo arriva il fulmine a ciel sereno. «Francesco guarda io non so se ce la faccio. Quando ho vi- sto quelle immagini. Si vede troppo. Si vede il mio dolore. Io non voglio far vedere il mio dolore. Per vent’anni l’ho sempre controllato all’esterno. Però rivedermi così. Cioè si vede. Si vede tutto. Io non so se voglio andare avanti. Scusami ma io ci devo pensare». Cerco di tranquilizzarla. Parliamo di Monica, di suo marito, di questo dolore e di questo Paese; della mia idea di come dovrebbe essere. «Io Francesco ti farei Presidente del Consiglio. Per quel che dici, come lo dici. Quel che sei. Guarda sono felice. Ma esisto- no altri giovani come te?». Ecco questa stima però va lontano. Va verso la Presiden- za del Consiglio. Questa stima trova difficoltà quando parla direttamente, quando parla guardando negli occhi. Provo a tornare al possibile. «Per me Ivanna tu sei molto importante. Questo documen- tario e questo progetto ha in te una figura importante. Se solo avessi ripreso tutto quello che mi hai detto oggi, su te, su Loris, su Angelo e la vicenda. Sono parole vere e bellissime. Raccontano una verità per me importante. Vorrei che le per- sone le potessero sentire. D’altronde lo scopo di questo do- cumentario è quello di andare avanti e oltre il documentario stesso. Portare la gente a conoscervi direttamente. Perché la curiosità di sapere cos’è successo può arrivare dopo il bisogno di conoscervi e starvi accanto. Imparare da voi. Aiutarvi. E così aiutarsi. Perché vedi Ivanna è conoscendo la gente come voi, come te, come Loris… pensa alla tv…».

214 I discorsi proseguono. L’idea di Ivanna rimane. Quando abbiamo salutato Maurita e il figlio mi sono sentito un po’ a casa. Ci siamo sentiti. Io sono ospite. Resto ospi- te. Ma queste persone mi hanno fatto entrare. Si sono fidate. Ecco quindi un piccolo miracolo. La fiducia. Maurita mi ha regalato una scatola di Cohiba. Le ho chiesto: «Chi è che fuma i sigari?». Lei mi aveva raccontato di un bellissimo viaggio a Cuba. «Tieni». Eccolo un altro piccolo miracolo. Il dono. Ho dato qualcosa e ho ricevuto qualcosa. «Sai, io sulla Sardegna avevo messo una pietra sopra. Dopo il Moby Prince» sorride, «poi è finita che mi sono innamorata di un sardo». Eccolo il miracolo più bello. Eccolo qua. Ivanna mi ha voluto riportare fino a Massa. Entra in casa, ne sono felice. Le chiedo se si vuole fermare a cena ma lei prefe- risce tornare a casa prima di sera. Guarda Francesca e le dice: «Che marito che hai». Lei mi guarda, con uno sguardo d’amo- re. «Lo so». Il giardino ha l’erba alta. Ivanna mi ammonisce: «La devi tagliare Francesco, guarda com’è alta». Ha ragione. Annuisco. C’è solo il tempo per riaccompagnarla alla mac- china. Poi si accorge di aver dimenticato l’ombrello in cucina. Torno indietro mentre lei parlotta con Francesca. Quando sono di nuovo davanti a loro Francesca ha lo sguardo dub- bioso. Abbraccio Ivanna. Lei risale in macchina e imbocca la strada verso casa. Francesca mi abbraccia. «Com’è andata?». Io rispondo: «Tutto bene». Sul vialetto sterrato che porta a casa le chiedo: «Cosa ti ha detto?». Francesca guarda avanti: «Che non sa se ce la fa. Se va avanti lo fa per te, per tutto quello che stai facendo». Basterà? I pensieri si rincorrono. Il percorso di Ivanna dove- va arrivare al secondo incontro con Mauro. Nella mia direzio- ne questo doveva accadere. E ancora resta possibile. Benchè il dubbio, della sua irrealizzabilità, sia un’insidia assolutamente non irrilevante.

215 13. FIRENZE. MOLLARE, ANDARSENE ED ALTRE SCELTE

“Non esiste scelta che non comporti una perdita”. Jea n e t t e Wi n t e r s o n , Non ci sono solo le arance, 1985

Geraldina Fiecther mi chiamò in relazione a “Fabbrichiamo il presente”. «Salve sono Geraldina Fiecther scrivo per La Nazione, Quo- tidiano Nazionale… volevo farti alcune domande sull’evento che avete fatto». Dialogammo sul senso di essere dei giovani imprenditori in Italia, nel 2011. Le spiegai il senso che per me doveva avere quell’incontro appena concluso. L’inizio di un percorso, di so- lidarietà, tra qualcuno che, condivise le stesse problematiche, avrebbe potuto trovare insieme la soluzione. L’inizio di un movimento. «Voi di cosa vi occupate?» mi chiese. La discussione finì su Ventanni. Dopo una ventina di minuti mi chiese la possibilità di conoscermi personalmente. Andai a casa sua, le raccontai il progetto e le lasciai l’indirizzo web dove leggere i post del diario scritti fino a quel momento. Qualche giorno dopo mi mandò l’anteprima testuale del pezzo che aveva scritto, per- ché la potessi leggere e far leggere ai protagonisti. L’avevo chiesto esplicitamente. In linea con l’accordo per la pubblica- zione dei post sul nostro sito web, stretto con Loris, Angelo e tutti gli altri. Ho aperto l’email di Geraldina, con l’articolo in allegato, l’8 giugno, a casa di Maurita. Il computer appoggiato sul ta- volo del salotto, mentre lei e Ivanna parlavano poco distante. Letto l’articolo, mi appuntai poche correzioni. Aveva scritto un testo estremamente efficace e sincero. Ai miei occhi aveva capito, sentito, il senso di quel progetto e del mio ruolo in esso. Nell’articolo però c’era troppo “Francesco” e mancava “Mediaxion”. “Da soli” e “io” sono balle di cui riempiamo la

216 testa. Poi mancavano i lavoratori esterni che fino a quel mo- mento avevano partecipato: Andrea, Michele, Alberto. Alzai gli occhi dal monitor e chiamai Ivanna. «Questo è l’articolo di cui ti dicevo. A me è piaciuto. L’ho già inoltrato a Loris, Angelo, Mauro e Giacomo. Tu lo puoi leggere da qui». Si era seduta al mio posto e aveva letto il testo. Il viso tra- smetteva un senso di riservata accettazione. C’era anche lei, c’erano loro, c’era la loro storia in un modo che probabilmen- te fino ad allora non aveva mai pensato potesse essere rac- contata in un articolo. Da sempre era stato il Moby Prince, il fatto, il processo. Oggi, dopo vent’anni, c’erano Ivanna, Loris, Angelo, Giacomo e Mauro. E soprattutto c’era la storia di una divisione che mai prima d’ora era stata esplicitata e discussa. Addirittura c’era quell’idea folle: tramite il documentario riu- nire i familiari. Maurita si sedette al posto di Ivanna. Le aveva ceduto il posto appena terminata la lettura: «Per me va bene, quando dovrebbe uscire?». «Mi pare abbia detto questo fine settimana» avevo risposto. «E dove?». «Dovrebbe uscire sul nazionale. Quindi La Nazione, Il Re- sto del Carlino, Il Giorno». «Bène». Il giorno dopo mi chiama. «Francesco non vorrei comparire in quell’articolo, siamo sempre in tempo?». Le rispondo di sì. Ma ne parliamo un attimo. Ho un picco- lo brivido premonitore. Vuole mollare. Troppo chiaro quel suo dolore, anche in quell’articolo. Sento Loris per altro. Gli racconto. Lui dice “la chiamo io” e lui ci riesce. Nell’articolo non vuole comparire ma partiremo insieme il 18 per andare da Mauro. Poi si vedrà. Respiro di sollievo. Loris prosegue: «Sai, abbiamo anche parlato di quell’artico- lo. Dico a Ivanna: “Lo so. Quando dice ″Loris è il cuore e An- gelo la testa″ puoi anche pensare io sia scemo e Angelo furbo ma Francesco lo intende in modo diverso. Io lo so che lo intende in modo diverso. Il tuo dolore è il tuo ruolo in questo documentario. Tu sei quello. Che ci possiamo fare? Sei così.

217 Io ho un ruolo, Giacomo un altro Mauro un altro e Angelo pure. Tu hai quello. Sei una madre e rappresenti le madri. Una madre è così. Quelle mamme del sud il 10 aprile piangono sempre. Dopo vent’anni loro piangono sempre. Una madre piange. È così. E lo devono vedere. Perché quelli lo devono vedere cosa hanno fatto”». Praticamente Loris sei più regista di me. Sei già ai ruoli. Meno male. Perché io mi perdo. Un regista d’esperienza ma- gari no. «Loris grazie, e su questa storia della testa e del cuore voglio essere chiaro. Se in questo documentario ci siete te, Giacomo, Ivanna, Mauro e Angelo significa qualcosa. Il cuore riunisce. Tu metti la testa al servizio del cuore, Angelo il cuore al ser- vizio della testa. Io come vedi metto il cuore al servizio della testa. Ma qui non ci sono due partiti da scegliere. Qui ci sono persone da far avvicinare. Chi divide poi resta solo con la propria testa. Come su quello che ha scritto Geraldina che voglio riunire le due associazioni. Io non posso far riunire due associazioni. Io posso riuscire a farvi incontrare. Posso farvi vedere in anteprima il documentario e raccogliere le vostre reazioni. Posso mettere una ricostruzione concorde basata su quanto già è chiaro ovvero sulla verità conosciuta. Questo lo posso fare. Poi mi fermo lì. Riunire le due associazioni lo po- tete fare solo voi, che ne siete parte. Per me poi non ci sono nemmeno due associazioni. Ce n’è una. L’altra è diversa da un’associazione. Ragiona in modo diverso. Però è il mio pun- to di vista sull’associazionismo. Io voglio togliere i filtri tra questi punti di vista. Mio incluso. E davanti a quello voglio farvi confrontare». Togliere i media. Togliere il pregiudizio e mettere cinque persone a un tavolo, per vedere ciò che fino a oggi è stato loro precluso delle reciproche storie e commen- tarlo. Dopo averlo letto in questi post. Avendo partecipato a tutto questo percorso da me diretto. Voglio provarci. Perché vedo uno dove altri vedono due. Sento una verità oltre le ve- rità. Poi questo è un progetto di Mediaxion sul Moby Prince. Siamo qui per cambiare le cose. A tenerle come sono ci si stanno impegnando già in tanti. «Loris io verrei da te con Andrea il 13. Poi la notte ti seguia-

218 mo quando vai a lavoro». «Ok» mi risponde, «chiedo anche al Direttore ma non ci dovrebbero essere problemi. Gliel’avevo già accennato». Ci salutiamo. C’è ancora da chiudere la parte organizzativa del viaggio a Reggio Emilia e di lì in Sardegna. Ma domani sarà una giornata difficile, dopo un mese di discussioni Me- diaxion sarà riunita la mattina in Consiglio di Amministra- zione e il pomeriggio in Assemblea per decidere del piano di riorganizzazione che ho preparato. Stavo lavorando a quel piano da febbraio. Dal giorno in cui fu deciso che diventassi il presidente di Mediaxion. Francesca si era dimessa e io ero stato l’inevitabile designato nel Con- siglio di Amministrazione che vedeva allo stesso tavolo tutti i soci di Mediaxion. Carrara, un consulente di Legacoop, ce l’aveva detto chiaramente al momento in cui decidemmo l’in- gresso nella centrale cooperativa “questo modello organizza- tivo dove tutti i soci sono anche amministratori non va bene: il C.d.A. è una cosa, l’Assemblea dei Soci è un’altra”. Natu- ralmente avevo obiettato con forza. Mediaxion era nata per dimostrare la possibilità di creare la figura dell’imprenditore- lavoratore, il superamento di quel dualismo conflittuale tra chi presta lavoro e chi gestisce e dirige quel lavoro, e tanto altro annesso e connesso. Ci siamo addirittura inventati un sistema amministrativamente orizzontale, con l’inserimento della clausola dell’unanimità decisionale in C.d.A., che si ver- ticalizza solo nella gestione dei progetti. Il cuore di Mediaxion era proprio quello: l’idea di poter superare con la relazione e la solidarietà la conflittualità tra padroni e lavoratori. Per farlo i lavoratori dovevano diventare più padroni, e imparare a dirigere, e in parallelo gli imprenditori dovevano diventare più operai, e imparare a essere diretti. Questo esperimento or- ganizzativo doveva portare ciascuno a valicare i propri limiti nell’idea di un miglioramento personale, comunitario – per- ché a quello tendevamo, all’essere una comunità economica solidale – e così sociale. Mediaxion è una storia complessa, dovuta per lo più alla complessità dello scopo che si è proposta alla sua nascita. L’idea di poter cambiare il mondo col lavoro è infatti una fi-

219 nalità dalle articolazioni complicate. Il lavoro impegna la mag- gioranza del tempo che non spendiamo a dormire, quindi, ci dicemmo, “se vuoi cambiare il mondo non puoi che farlo partendo da questa attività”. Poi l’Italia, da sempre anticipa- trice delle derive sociali, stava oramai palesando l’assoluta po- chezza della proposta politica, diventata patrimonio di pochi cosiddetti “professionisti” del settore e altrettanti pochi ap- passionati a tempo perso e il tempo è una variabile impor- tante. Quando vivi in Italia, nel 2006, e da laureato ti chiedi cosa fare dopo la prima esperienza con partita iva imposta dal tuo datore di lavoro, allora il tempo non è una questione tra- scurabile. Devi sopravvivere, molti vorrebbero farti fare uno stage non retribuito e i pochi che ti vogliono bene ti consi- gliano vivamente di andare all’estero. L’idea di poter investire il proprio tempo lavorativo in qualcosa che contribuisse al cambiamento di quella società decadente dalla quale eravamo accerchiati ci sembrava altamente stimolante. Poi c’era tutto il piano della relazione. Molti amici avevano sviluppato una vita a compartimenti stagni per il solo fatto di lavorare in luoghi e settori differenti, e a me e a Francesca questo non piaceva af- fatto. L’arroganza di un mondo mercantile che non solo non ci dava un futuro ma pretendeva da noi un presente castrante della nostra vita comunitaria era qualcosa da combattere. Da tutto questo e molto più nacque l’idea di tentare la strada dell’auto-organizzazione insieme ad altri giovani neo-laureati come noi. Da tutto questo io, Francesca e Gabriel, insieme a una quarta socia, costruimmo Mediaxion. Il modello gestio- nale era stato da sempre un aspetto su cui alcuni di noi aveva- no lavorato molto. Tra questi alcuni, io in particolare. Ci aveva guidato l’idea di poter tracciare su carta quelle poche regole certe dalle quali derivare il risultato migliore. Una concezione indubbiamente troppo illuminista. La prima carta costituzio- nale di Mediaxion cadde sotto il colpo netto di una delle socie fondatrici. Il suo comportamento sentitamente individualista aveva svelato quanto di troppo libertario fosse stato elaborato in sede di scrittura. Speravamo di essere una comunità, di non aver bisogno di imporci determinate regole, ma tanto dovette cambiare quando lei, dopo mesi di elaborazione congiunta

220 degli atti che dovevano regolare la nostra organizzazione nel passaggio a cooperativa, si presentò il giorno della firma nota- rile per dire “io non entro nella cooperativa, ho sentito G. – la sua ed ex nostra commercialista – e mi ha detto che posso farlo”, portandosi poi via una rivalutazione del suo capitale versato e dei sostanziosi clienti in barba al principio di non concorrenza presente nello Statuto e all’amicizia con France- sca e me che di Mediaxion sola campavamo. Dopo questo primo trauma la comunità scricchiolò, ma andò avanti. La mia spinta auto-ideologica classificò l’evento come un’esperienza da risolvere sul modello e lì intervenim- mo. Arrivarono altri tre soci, in due anni, e anche in questo caso mettemmo la relazione davanti alla performance della cooperativa. Non erano funzionali a un processo produtti- vo, li avevamo incontrati lungo la strada e non credendo alle coincidenze, avevamo pensato che potessero essere parte di quel noi. Nel frattempo io continuavo a limare il modello e a discutere le variazioni nei C.d.A., vedendole quasi sempre ap- provate. La situazione però restava precaria. Francesca viveva con insofferenza la nostra incapacità di disciplinarci attraverso meccanismi sanzionatori. Nel solco di voler a tutti i costi pre- servare i rapporti interpersonali, tutto o quasi veniva conces- so. Al di là di poche regole, da taluni spesso disattese, restava solo una sorta di armonia etica che faticosamente ci legava. Un’armonia per lo più giocata su pratiche cui tenevo molto e che in realtà erano troppo mie per essere nostre. Tra queste il mangiare a pranzo tutti insieme, nella casa che io e Francesca avevamo davanti all’ufficio. Una casa diventata a tutti gli ef- fetti una sorta di depandance di Mediaxion. Francesca me lo disse con chiarezza: “tu pensi a Mediaxion come un qualcosa che non esiste. La comunità c’è se un giorno si mangia a casa tua, un giorno a casa mia, un giorno a casa sua… se invece si mangia sempre da noi non c’è niente di comunitario”. Litiga- vamo. Mediaxion era il mio orgoglio, come un figlio per chi non ne ha avuti. E la difendevo sistematicamente. Come ne difendevo internamente ed esternamente i soci. Anche a co- sto di perdere dei clienti. Nella mia testa infatti chi non capiva Mediaxion non era degno di tutto quello. Chi non abbracciava

221 il senso profondo, non solo professionale, del nostro operare, poteva tranquillamente fare a meno di noi. E quando Ivanna mi disse, con tono entusiasta: “ma questo è il socialismo”, al- lora pensai di essere riuscito, dopo anni, a ritrovare quel rico- noscimento che rende sensata la vita. Riconoscimento. Essere riconosciuti. Io avevo riconosciuto lei. Lei stava riconoscendo noi. Quel noi che io rappresentavo. Lo stesso era accaduto con Loris e Giacomo. Lo stesso era accaduto con Geraldina e il suo pezzo di tre pagine finito sulla stampa nazionale. Ven- tanni era quindi finalmente il progetto del riconoscimento. Da quando però io e Francesca lasciammo quella casa da- vanti all’ufficio per spostarci da San Casciano a Massa, una serie di situazioni spiacevoli si erano venute a creare. Senza quella casa, senza la mia presenza costante, per via dei viaggi di Ventanni oltre che il resto dei progetti da seguire in giro per la Toscana, Mediaxion ha iniziato ad assumere dei con- notati nuovi e inattesi. Lo spostamento della sede operativa a Firenze – dovuta anche al fatto che senza la nostra casa alcuni bisogni non erano espletabili nel bagno “a norma” messoci a disposizione nell’ufficio dallo stesso affittuario di casa – ci aveva portato a ridefinire la nostra condizione. Si era parlato di una sede comune con un’altra cooperativa, poi di una casa per consentire ai fuori sede di appoggiarvisi per evitare il pendolarismo, eravamo arrivati alla fine a due grosse stanze nell’ufficio del nostro commercialista. Di ritorno dai dieci giorni di viaggio tra Milano e Trento, avevo trovato una situazione che mi aveva fatto molto arrabbiare. I momenti di valutazione comune dello stato dei progetti erano stati saltati a piè pari, con la giustificazione della mia assenza, in sede c’era una confusione notevole e soprattutto c’era un clima da sbaracco. Aprii il conto corrente e lo trovai in fido di cassa. Chiesi come fosse possibile e non mi fu data risposta. Pochi minuti dopo la trovai da solo. Avevamo un terzo del fatturato di cre- diti non riscossi e nel frattempo ci stavamo impelagando in alcuni progetti di dubbia redditività. Avevo convocato in conseguenza un C.d.A. di emergenza, usando dei toni forti che rimasero anche nella riunione. Non

222 potevo credere all’idea che stessimo lasciando andare tutto così. Il problema è capire bene cosa le persone vogliono fare della loro vita. “Se continuiamo a disperderci su tanti fronti senza priorità e senza coordinamento qui si rischia di fini- re in liquidazione”. In quella riunione qualcuno di noi aveva dichiarato l’intenzione di dimettersi dal proprio ruolo ammi- nistrativo. La cosa mi aveva lasciato sconcertato. Siamo una comunità è possibile discutere, ma poi andiamo avanti insie- me. Per questo dovevo capire. Risolvere. E quel piano di ri- organizzazione, mi sono detto, è la strada. Quando tutti ci si infileranno, anche se anche a questo giro m’è toccato farlo a me, poi tutto inizierà a filare. È solo il modello il problema. Solo come organizzarci. La mattina del 10 giugno 2012 a Firenze fa un caldo boia. La finestra è aperta e io preparo il verbale. Come al solito nessuno vorrebbe fare il segretario. Finisce per “sacrificarsi” Francesca. Stefano mi guarda. «Iniziamo?». Io accenno di sì e lui si alza, mi dà una lettera e posa le chiavi dell’ufficio sul tavolo. «Se la vuoi leggere ora è meglio altrimenti si fa anche dopo». Apro la lettera e inizio a leggere. Stefano vuole recedere da Mediaxion. Propone di diventare sovventore nel caso. Mi restano poche parole di una lettera scritta al computer. Una pagina e poche righe. Sara prende la parola. «Anche io mi dimetto da vice-presidente ed esco dal C.d.A., poi mi prendo un po’ di tempo per decidere se uscire o meno dalla cooperativa». Guardai Francesca e Dimitra, una socia appena entrata che partecipava al C.d.A. al solo scopo di prendere confidenza con la nostra organizzazione. Erano allibite. Mi voltai verso Mirko «Via, mi dimetto anche io, resto socio lavoratore per- ché ho dei progetti ma dal C.d.A… sì esco anch’io». Avevo chiesto di presentare delle proposte alternative alla mia per organizzarci. Proposte per tenerci insieme. Nessuno ne ha preparata una. Nonostante l’intro shock, come una specie di automa, spiego il mio piano. Ne discutiamo in un clima surreale. Cosa dovrei fare, farli uscire? Rispondo alle loro domande, discutiamo di

223 possibili variazioni, come se niente fosse successo tra le 10:05 e le 10:20 in quella stanza. Il C.d.A. approva all’unanimità il nuovo modello. «Null’altro essendovi da deliberare la seduta viene tolta alle ore 13.30 previa stesura, lettura e approvazione del presente verbale». Mi alzo. Vado in bagno e mi guardo allo specchio. Cosa sta succedendo? Le emozioni si rincorrono. Gabriel, collegato dal Cile con cinque ore di fuso orario, aveva sentito bene? Cosa stava succedendo? Avevo cercato di mediare nelle settimane precedenti. Avevamo parlato. Ero stato duro nei toni, ma io rappresentavo civilmente e penalmente quell’organizzazione. Avevo dei compiti, delle responsabilità. Non potevo lasciare che tutto andasse a gambe all’aria. Poi c’era il bando. Aveva- mo vinto il bando della Regione: Ventanni. Ci eravamo dati quell’imperativo della riorganizzazione a febbraio: “la teste- remo per almeno due anni”. Non si poteva chiudere, mollare così, lasciare. Eravamo una comunità. L’assemblea inizia alle 14:50. Viene richiesta la votazione sul nuovo C.d.A.. I soci all’unanimità approvano la composizio- ne. Dovremmo approvare anche il modello organizzativo e il bilancio previsionale, ma non me la sento. Chiedo che quelle decisioni siano rinviate. La proposta passa. Null’altro essen- dovi da deliberare ce ne andiamo a casa. Cos’era successo? Cosa stava succedendo? Prima la fine con Michele, poi adesso tre soci in uscita. Senza Ste, Ventanni si poteva fare? Lui chiedeva di continuare a lavorarvi ma finora il suo lavoro si era visto poco. Da esterno, come sarebbe sta- to? Non potevo crederci. Tutto doveva tornare. Doveva tor- nare com’era. Ora che eravamo lì. Ad un passo. Non poteva crollare ogni cosa. Mi squilla il cellulare. Clicco sul microfono dell’auricolare. «Pronto». «Francesco, Ivanna». «Ciao, dimmi tutto». «Francesco scusa, ma io davvero non ce la faccio. Per me è troppo. Davvero. C’ho pensato. Ho parlato anche con Loris. Mi devi scusare, ma quella scena, quell’immagine con Mau- ro… si vede troppo il mio dolore. Ho pensato di averlo na-

224 scosto per tutti questi anni, ma si vede, si vede chiaramente. Io non ce la faccio. Per la Sardegna non vengo con voi. Poi sentirò magari Mauro, ci incontreremo quando rivado a Pa- lau, ma per il documentario, scusami, ma non posso andare avanti». Le chiedo di poter tenere almeno il materiale girato. «Ci penso, Francesco, dammi un attimo di tempo». «Ok». «Ciao, scusa ancora». «Ciao». L’auto va, sono in quinta, quarta, non ne ho idea. Tutto è una capacità irriflettuta. «Ivanna non viene in Sardegna. Vuo- le mollare. Questa volta non la convince nemmeno Loris». Francesca resta un attimo in silenzio. «Me l’aveva detto al parcheggio. Era difficile tornasse veramente indietro. Pecca- to». Un camionista mette la freccia. Vuole sorpassare. Dietro, sul parafango, ha segnati due cerchi di divieto che riportano i numeri “70” e “80”. «Ma guarda ‘sto stronzo» penso a voce alta. Lui passa. Io mi accodo, si forma una piccola fila. Con quel bestione non può andare a più di 100 km/h. 70 e 80 sarebbero il miraggio. Frasi mi si formano nella testa. In rapi- da successione. Io potevo, ero in grado. Posso. Posso aiutare tante persone ma se queste non vogliono, cosa ci faccio? Cosa posso farci?

225 14. LORIS NON DIMENTICA

Avv . An d r e i n i : “Signor Spartano voi siete accusato, e questo pro- cesso è anche contro di voi, per non aver sentito il may day del Moby Prince quella sera. Vi ritenete colpevole o innocente di non aver sen- tito il may day del Moby Prince?”. Gi a n l u i g i Sp a r t a n o , militare di leva: “Innocente, perché, insomma, non l’ha sentito nessuno questo segnale… perché lo doveva sentire la Capitaneria?”. Processo Moby Prince, Verbale di udienza, 5 giugno 1996

13 giugno 2011. Una grossa fetta d’Italia festeggia il risulta- to dei referendum. Io e Andrea arriviamo a casa di Loris nel pomeriggio. Lui è parte di quella fetta d’Italia e quando ci apre gli squilla il telefono. Sembra fatto apposta. «Me la sono vissuta sì, da compagno. Sì certo. Vuoi che non l’abbia visto? O comunque ci vediamo sabato. Sì vengo anch’io. Ti facevo una sorpresa. Dai ci vediamo sabato…». Riattacca col sorriso sulle labbra. «Era Mauro». L’avevo sen- tito. «Voleva sapere un commento, se avevo visto il risultato in Sardegna. Vuoi che mi perda il referendum sul nucleare in Sardegna?». Ride. È felice. Gli ha fatto piacere quella telefo- nata. La casa di Loris non è un museo. C’è tanto, ma non è un museo. Ci sono tanti film, alcuni libri e nella credenza in sa- lotto, sulla sinistra, fascicoli sul Moby Prince in ordine sparso. Sopra, a lato, copie del libro autoprodotto con le udienze del processo, alcune pubblicazioni recenti sulla vicenda e il resto della documentazione processuale a lui rimasta. «Una parte se l’è tenuta Fedrighini e non c’è stato verso di riaverla». Gli scatoloni con gli atti del processo sparirono invece durante un trasloco di sede del Comitato 140, a cura del Comune. Mi aveva spiegato tempo prima: «Ne nacque una polemica per- ché io denunciai la cosa sui giornali e qualcuno del Comune se n’ebbe a male. Addirittura uno quasi mi minacciò dicendo che

226 ero di f ’ori a credere che l’avevano persi apposta… fatto sta che effettivamente quegli scatoloni sono spariti e non ci sono più. Che poi questa cosa del materiale è veramente incredibile perché al momento attuale noi non abbiamo più niente. Poi per l’amor di Dio ce le riporteranno ma per ora non abbiamo più niente. Perché anche quello che aveva Bassano80 è finito a quella giornalista di Repubblica che poi non ci ha scritto mai niente. Giornalista che prima è stata vicina a De Franco81 e poi a Giaconi82. Altre stranezze». Tante storie parallele. Molte mai finite su carta. Su quelle carte tenute così alla rinfusa, in una sorta di equilibrio comu- nicativo con lui. Perché alla fine il vero museo è in carne e ossa. Il modo per conoscere è lui. Poco dai documenti. Tanto dall’ascolto. E Loris di parlare del Moby Prince non si stanca mai. Si siede sul divano e mi segnala la seconda notizia del giorno. Uno dei membri del gruppo Facebook “Quelli che vogliono la verità sul Moby Prince” ha scritto anche oggi sulla bacheca di “loro”. Loro chi? Moby, Onorato. «Gli ha chiesto come mai hanno sempre taciuto sull’argo- mento. E ha risposto solo uno dicendo che non era quello il posto dove discutere di queste cose. E quello a ruota: se non è questo quale altro?». Il gruppo Facebook e Onorato. Il nuovo strumento di lot- ta e il bersaglio. Perché alla fine, anche se Loris continua a portare avanti lo slogan “Moby Prince. 140 morti nessun col- pevole” lui i colpevoli ce li ha e il primo si chiama Onorato. L’armatore. Ci torniamo sempre. «Ora che ha vinto anche la gara per Toremar io a Enrico Rossi83 ho scritto… mi auguro che la sicurezza non sia un optional». Quando uscì la notizia arrivò addirittura a pubblicare sul gruppo Facebook un’immagine di Vincenzo Onorato con le

80 Avvocato di Loris ed altre parti civili a processo. 81 Vedi nota n. 39. 82 Vedi nota n. 17. 83 Presidente della Regione Toscana.

227 mani segnate da linee rosse a simboleggiare il sangue delle vittime della tragedia. Fu un’immagine che mi colpì molto. Pensai che potesse essere querelato per quel gesto. Pensai che quando la giustizia ufficiale dice che sei innocente, la demo- crazia smette di autorizzarti a credere il contrario. Anche in caso di errore. Anche in caso di prescrizione. Ma Loris questo non lo considera. Ha una sorta di attitudine al martirio. Sono certo che una querela da Onorato gli farebbe l’effetto inverso a quello atteso dal querelante: gli darebbe l’ennesimo pretesto per spingere più forte sull’accelleratore. Loris, la molla. Quella molla compressa l’11 aprile 1991, davanti a tutto quel dolore, ancora si sta muovendo. Ogni gesto, ogni più piccolo segnale di vento contrario la ricarica. Vincenzo Onorato vince la gara per Toremar e la molla va giù, si riempie di energia cinetica e la esplode. Succeda quel che succeda. Lo guardo fumare mentre parla con Fabio al telefono: «C’è Francesco che mi sta facendo l’intervista, ti chiamo dopo». A lato del divano, su un piccolo mobiletto, campeggia an- cora quella strana statua di Santa Barbara – protettrice dei marittimi – addobbata a tifosa dell’Inter. Intorno, tanto di lui: un computer sempre acceso, carte sparse sul tavolo, sigarette, bottigliette con l’effige di Che Guevara. Loris chiude il telefo- no. Una conversazione sbrigativa. Il Moby è sempre il primo pensiero. Apre così il discorso, d’improvviso: «Stamani ho detto al Di- rettore, quello di Pisa, perché all’altro di Grosseto gliel’avevo già detto, che sareste venuti a fare le riprese per il documenta- rio… e lui era contento: “bene fammi sapere poi quando esce il film…”. Poi» sorride, «mi fa: “Rispoli scusa, già che siamo in confidenza, ti volevo chiedere una cosa: ma te sul Moby c’hai perso qualcuno?” e io deh, gli ho detto: “certo che sei proprio pisano! Voglio di’ basta leggere un pochino i giornali… guar- dà un po’ di televisione locale”». Ridiamo. Me lo vedo davanti, quel Direttore, con l’espressione tra il mortificato per la gaffe e l’imbarazzato per la presa in giro. «Poi gliel’ho spiegato» Lo- ris torna serio, «sì, ho perso mia sorella…». Loris è così. Prendere o lasciare. Lo osservo. Come nasce tutto questo? Il Loris che vedo

228 oggi? E lui racconta. All’inizio c’era solo il dolore. Lo shock di quella prima pagina del Tirreno, l’11 aprile 1991 letta sul posto di lavoro, alle Poste, mentre il sole albeggiava. La corsa a prendere la moglie e Andrea, il primo figlio. Poi i genito- ri. Così, come interpreta Francesco Gerardi nello spettacolo M/T Moby Prince. E infine l’arrivo in porto. «Babbo lavorava sui rimorchiatori e siamo andati agli uf- fici del Neri… informazioni non ce n’erano tranne Cignet- ti che diceva “son tutti morti”… infatti mi ha fatto anche leggermente incazzare…mi domandavo “a questo chi glielo dice che sono tutti morti”… qualcuno dà speranza… questo invece… poi ci dissero di andare al Terminal Passeggeri e lì è stato fatto questo centro di raccolta. Ci ha colpito che al di là dei livornesi i primi ad arrivare erano i familiari del sud… poi abbiamo capito il perché… Bertrand aveva avvisato a casa e da lì si era sparsa la voce tra gli altri familiari dei marittimi… nel momento iniziale non ce lo siamo mai posto il problema delle responsabilità… non riuscivi a far mente locale su come era successo… eri troppo preso dal dolore… le menti di tutti erano inizialmente concentrate dal riconoscimento». Quando Loris racconta del Terminal parla spesso al plurale. Racconta di una famiglia distrutta dal terrore di essere parte di quella tragedia. Poi quella famiglia diventano tutti quelli che erano dentro quello spazio. Tutti quelli che hanno condiviso con lui quel dolore. Come oggi, quando parla dei viareggini. Vede un noi, nella condivisione. Loris poi ricorda tutto. Racconta con la sicurezza di chi ha già parlato tante volte dello stesso argomento. A un tratto accade qualcosa. Esce dal piano del racconto noto e lo fa con la tenerezza di un figlio che si riconosce diverso da suo padre. «Non avrei mai permesso ai miei genitori di venire con me perché volevo che se la ricordassero da viva… vuoi perché babbo era legatissimo a Liana, sai la femmina. Io babbo l’ho vissuto poco, era sempre a lavoro, mentre quando è nata Lia- na… sai il babbo per la femmina parteggia sempre. Al Ter- minal io ho visto babbo di pietra… mentre la mi’ mamma riusciva a sfogare con le lacrime… babbo no… babbo era di pietra… non aveva sfoghi… perché la mentalità dell’uomo,

229 del marittimo… e soprattutto penso che proprio perché era un marittimo era difficile per lui accettare una cosa del gene- re… un uomo che ha sempre lavorato per mare, una vita sui rimorchiatori che hanno sempre prestato soccorso e che si è visto portare via la figlia così senza poter far niente…». Loris è così. Legge nei silenzi. Negli sguardi. Legge nelle sfumature di chi ha vissuto questa vicenda e per questa non si ferma a intendere “il Moby Prince”. Lui vede oltre. La vicen- da di chi ha sofferto per una tragedia ingiusta, come Daniela e i viareggini, come gli amici di Casale Monferrato. In alcuni momenti sembra addirittura prendere come orizzonte l’intera vicenda della vita. Mentre lo ascolto si compone in me la convinzione che, per questo tipo di atteggiamento, a qualcuno Loris possa sta- re sulle scatole. Lo stesso qualcuno che può interpretare la sua azione sul Moby Prince come qualcosa di guidato da una specie di protagonismo. Chiunque, giornalista o meno, lo co- nosca per il tempo di un incontro, il tempo di carpire qualche informazione, può arrivare a pensare tutto questo. Ma quel chiunque è lo stesso che può prendere questa vicenda, inva- ghirsi dei suoi risvolti più misteriosi, proporre ricostruzioni di grande forza e richiamo, per poi, poco dopo, sparire. E in quel momento, Loris ci sarà ancora. Quando altri se ne saranno andati, avranno smesso di ricordare, avranno smesso di chiedere le domande più semplici, di rivendicare i diritti più elementari, Loris sarà sempre lì. E questo è il grande messag- gio di quest’uomo. Partire da noi. Dal nostro cuore. E da lì costruire ogni gesto. Questo Loris per me è partito da lì. E lo riconobbi la prima volta che mi raccontò l’aneddoto del Dottor Ermini. Volevo che fosse l’incipit della sua presentazione nel documentario e gli chiedo di ricordarlo davanti al microfono. Come sempre prova a farsi capire prendendola larga: «Nel Terminal c’era un microfono e un altoparlante...». Da quel microfono i familiari delle vittime aspettavano notizie, quindi era un catalizzatore dell’attenzione per centinaia di persone soggette a un profon- do stress emotivo: erano lì, il traghetto era appena passato e avevano visto quell’enorme bara galleggiante completamen-

230 te bruciata. Loris parla con me ma assume spontaneamente l’idea di avere il protagonista di quella scena come interlocu- tore: «Ad un certo punto te – il dottore – sali su quella pedana e dici: “voi ci dovete scusare, ma quelli che voi pensate siano corpi sono come pezzi d’arrosto, fate conto dei pezzi d’arro- sto bruciati sulla griglia…” e ti vedi cinque, sei donne che ti svengono davanti e io allora salii su una sedia e dissi: “dot- tore ma lei dove pensa d’essere? A parlare coi familiari delle vittime o a un congresso di macellai?”. Cioè non puoi star zitto davanti a una cosa del genere. Fa parte della sensibilità umana…». Magari Loris. Magari tutti lo pensassero. Quell’im- magine, quella scena mi rimase impressa nella mente. Di tutte quelle persone lui si alzò, lui prese quella sedia, lui parlò. È protagonismo essere un protagonista? Spesso ci rincorriamo sul niente, mentre ci portano via il mondo sotto i piedi. Come il centro della sua lotta. Il bersaglio. È tale perché nella semplicità di un gesto c’è spesso la chiarezza di un mes- saggio. «La compagnia armatrice non ha avuto nemmeno la sensibilità di avvisare dell’incidente i familiari dei membri dell’equipaggio. Io capisco i passeggeri, c’erano delle difficol- tà a risalire ai nominativi per via del fatto che il biglietto te lo poteva aver fatto un’altra persona, ma l’equipaggio lo sapeva- no da chi era composto…». È un principio semplice, umano. Sai che un tuo traghetto con 140 persone dentro ha avuto un terribile incidente. Co- nosci per certo almeno la lista dell’equipaggio. Perché non hai chiamato i familiari? Loris non costruisce teoremi. Si basa sui fatti e vi associa domande. «Un giorno mi chiama Marcucci, che allora era il Presidente dell’Autorità Portuale. Mi dice: “Sai Loris c’è stato questo problema al Moby, è affondato, ora la falla è stata aggiustata ma probabilmente sarà dissequestrato. Allora io ti volevo dire che se mi dici cosa ti serve del relitto, la timoneria… io lo faccio sezionare a La Spezia e ci teniamo qualcosa prima della dismissione”. E io gli dissi: “Grazie, ma secondo me non ce la farete?”. “Come Loris? Perché dici non ce la faremo?”. E io: “Perché secondo me l’armatore se lo ri- prende”. E lui» agita il braccio destro, «“figurati se Onorato si riprende il relitto”. Una settimana dopo mi chiama: “Guarda

231 Loris non so come dirtelo. Avevi ragione. Onorato si ripren- de il traghetto”. E bada bene Francesco quel traghetto che in porto non poteva più stare perché aveva delle falle, era “un pericolo”, lui l’ha fatto accendere e portare fino in Turchia. Così lo fai sparire fuori dagli occhi italiani. Perché te l’imma- gini che dismissione fanno in Turchia?». C’è la foto. La foto del Moby Prince su una banchina ster- rata di Aliaga. Il traghetto è come un vecchio cane maltratta- to. Col tempo il ponte di comando e tutta la parte superiore hanno raggiunto un colore bruno scuro. La prua è contorta. E una grossa catena arrugginita lo tiene legato, come un cane abbandonato accanto alla sua cuccia. Lui prosegue: «Francesco quel traghetto è arrivato fino in Turchia. Se era così malmesso come ce l’hanno portato? Non poteva stare a Livorno? Ne avremmo fatto un luogo di me- moria. Poteva essere un monito per tutti i marittimi. Invece, chissà come mai, se l’è portato via. E bada bene, io non mi scordo che la plancia del Moby era integra. Così come altre parti. Quindi, dico io, prima si apre dal nulla una falla che lo fa affondare in porto a Livorno, poi si ripara la falla e arriva fino in Turchia. C’è qualcosa che non torna o no? E questo chi l’ha voluto secondo te? Gli Americani? Il traffico d’armi?». Loris è un fiume in piena. Un fiume che si auto-alimenta. L’armatore. L’uomo che alla fine è responsabile delle carenze del Moby Prince. Il padrone. Di questi gesti ne ha fatti tanti. «Non ci scordiamo poi un’altra cosa. L’11 aprile 1991 mentre si recuperavano le salme da una parte Pasquale D’Orsi, fun- zionario della Nav.ar.ma e Ciro Di Lauro, nostromo del Moby Prince quella notte non a bordo per un permesso, hanno dato una martellata alla timoneria per mettere da manuale ad auto- matico per dare responsabilità all’equipaggio». La vicenda si risolse con un’assoluzione in conseguenza della linea assolu- toria della Sentenza nel processo principale e soprattutto del fatto che quella manomissione non ingannò i periti del tribu- nale per il suo carattere grossolano. Ma a Loris sono rimaste scolpite in testa le parole di quella sentenza dove il giudice Belsito scrive che quel procedimento non doveva essere scis- so dal principale perché “capire chi aveva interessa a mutare

232 lo stato dei luoghi è capire chi aveva interesse a nascondere la verità”. Si accende una sigaretta. I suoi baffi testimoniano una lunga esperienza in tal senso: «Onorato non era imputato ma a lui vanno imputate una serie di carenze presenti nel traghetto. Credo sia impensabile per esempio che un traghetto possa e potesse viaggiare senza l’impianto anti-incendio in funzio- ne… gocciolava acqua sulla moquette e quando non era acqua dolce era acqua di mare, pertanto veniva tenuto spento. Nella sentenza si cita questa “dimenticanza” rispetto all’equipaggio ma che si sciupi la moquette all’equipaggio penso interessasse poco… comunque quell’impianto veniva acceso all’occorren- za da chi sapeva come farlo e questo ruolo, il capo drappel- lo anti-incendio era del nostromo, Ciro Di Lauro, che quella notte non era a bordo per un permesso del Comandante». Il permesso quindi gliel’ha dato il Comandante, perché do- vrebbe essere colpa di Onorato? «Perché Francesco non è il Comandante che decide quanto personale hai a disposizione. Anche se sulle navi i sindacati contano quanto il due a brisco- la, comunque un certo numero di giornate di riposo le devi dare e se te non hai il cambio per chi lasci a terra, ti capita di viaggiare con carenza di personale». Durante il primo viaggio in Sardegna per incontrare Mauro, capitò di scambiare due chiacchere con un’addetta alla bou- tique della Moby. Anche lei, come Liana, era dipendente Li- gabue affiliata al traghetto. La nave era semi-vuota, nessuno nello spazio vendita oltre noi e iniziammo a parlare. Ci con- fidò che i turni di lavoro erano folli. «Qui dormi quattro ore, poi riparti. Funziona così. La vita del marittimo sui traghetti è questa. Poi ci sono compagnie e compagnie. Qui è partico- larmente così». La memoria mi tornò alla resistenza del mondo sindacale verso il sostegno al nostro progetto e, nella mia testa, le cose iniziarono ad assumere un altro significato. Forse era quello il compromesso del sistema marittimo. Migliori retribuzioni a fronte di ritmi e condizioni di lavoro ad alto stress, con il volente o nolente silenzio dei sindacati. Loris è d’accordo. «Era così allora ed è così adesso perché

233 il 10 aprile viene sempre con noi una ragazza che fa l’ufficiale di coperta. Lei ci ha conosciuto tramite Facebook e si è ap- passionata…» lo dice con una punta d’orgoglio, «e quando parliamo mi dice sempre: “Loris in vent’anni non è cambiato niente. È ancora tutto come allora. Ci sono le scialuppe di salvataggio che dalle mani di tinta sulle catene non verrebbero giù nemmeno con le bombe” «. Tento di riordinare. Loris ti prende per mano nel suo rac- conto e spesso finisci come in Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Vai avanti per forza di inerzia. Non comandi più tu, la tua comprensione. Comanda la narrazione. E alla fine il punto su cui mi è già capitato di dissentire con Loris è quest’idea totalitaria della sicurezza, rispetto alla vicenda. La sicurezza conta, ma non è che se centri una petroliera il problema è che le scialuppe di salvataggio non vengono giù per la tinta. Loris guarda in alto, inspira. Te l’avranno fatta altre centina- ia di volte questa considerazione, penso. «Vedi France la questione io la vedo così. Sulla sicurezza si risparmia sempre. Ma se tu risparmi sulla sicurezza rischi sulla pelle di chi sta nel mezzo, no?». Lineare. «Allora a te, datore di lavoro, di risparmiare sulla sicurezza ti conviene, perché spen- di meno, tanto mica ci viaggi te… ma se, per milioni di motivi, succede un incidente, tu dovresti pagarne le conseguenze. Io quello che ti dico Francesco, te lo dico da quando ci siamo co- nosciuti, è che ci possono essere centinaia di motivi per cui il Moby è andato contro l’Agip. Ma a noi cosa ci interessa? Può essere stato un errore della plancia, può essere stata un’avaria – e tant’è che io ero d’accordo con l’avaria al timone, scarta- ta poi dal tribunale, come diceva Mignogna84 perché sarebbe stata un’aggravante verso l’armatore, visto che l’avaria poteva riferirsi a un difetto del mezzo di sua responsabilità… – ma» viene in avanti verso me, «alla fine quello che conta è che tu la petroliera l’hai centrata, e allora lì contano i problemi del mezzo. Perché se hai una radio con cali di potenza, ci sta che

84 Giovanni Mignogna era Consulente Tecnico (C.T.) della FILT CIGL, co- stituitasi come parte civile nel processo di primo grado.

234 tu il may day lo lanci in un modo che si sente poco e quindi che non ti sentano… se viaggi col portellone di prora aperto, perché c’è da arrivare in fretta a Olbia e non perdere il pilota altrimenti passa la concorrenza, allora ci sta che ti ci entri il petrolio» si infervora, «oh via… se no… come il radar. Se te sulla carta hai tre radar, ma te ne funziona solo uno, capisci che è un problema. Il R.I.NA. gliel’aveva dato il consenso per la navigazione ma i giudizi non erano mai “ottimo”, sempre il minimo85. E sappiamo come il R.I.NA. dà agli armatori le

85 Come si può leggere dal sito web del gruppo, Il R.I.NA. è “una delle più antiche società di classificazione e di certificazione al mondo”. Ente delegato dal Ministero della Marina per la verifica dell’affidabilità e sicurez- za delle navi italiane, il R.I.N.A. può emettere o meno certificati di conformità atti a consentire la navigazione benchè, come ricordato da Francesco Gerardi nello spettacolo M/T Moby Prince lo Statuto del R.I.N.A. lo classifica come “ente morale di natura giuridica privata e nell’articolo 1.1.5 precisa che il R.I.N.A. in quanto ente morale non si può assumersi responsabilità pubbliche per i certi- ficati che rilascia. In pratica l’ente preposto a vigilare sulla sicurezza in mare in realtà non ha alcuna responsabilità se questo controllo non viene fatto o viene fatto male”. Nel 1990 il Moby Prince viaggiava ancora con i due radar montati in Inghil- terrra nel 1968, data in cui la nave fu varata da armatori olandesi col nome di Koninging Juliana – per devozione verso la Regina omonima – prima di essere acquistata e riarredata da Nav.ar.ma. nel 1985. Nel luglio 1990, come ricorda sempre Francesco Gerardi nel suo spettacolo, il radar ebbe un guasto: ruotava l’immagine di 180°. Vista l’alta stagione qualcuno decise di andare comunque avanti con un radar solo. Oltre a ciò, a causa di una vecchia saldatura realizzata con il metallock, il motore produceva delle vibrazioni che creavano falsi contatti agli apparati radio i quali, stando ad alcune testimonianze a processo, causavano cali di potenza durante le comunicazioni. Anche a questo problema fu posta la toppa di una saldatura riparatoria. Finita la stagione, il Moby Prince fu però condotto a Portoferraio per le consuete operazioni di manutenzione. Il radar guasto non venne riparato e a fronte di ciò fu invece decisa l’installazione di un nuovo radar – il terzo quindi – di ultima generazione. Questo apparecchio però non fu collegato all’antenna e pertanto sulla plancia del traghetto resterà attivo un unico radar, quel per l’appunto montato a bordo nel 1968. Il Moby Prince fu oggetto di verifiche da parte del R.I.NA. dal 14 al 18 marzo 1991, un mese prima dell’incidente, ed in tale occasione, con documento datato 15 Marzo 1991, ricevette la conferma della classe di navigazione ed il rinnovo dei certificati. Gli impianti di spegnimento incendi del M/T Moby Prince risultarono funzio- nanti ed “in normale stato di efficienza”. Eppure il documento conclusivo re- datto al termine dell’ispezione indicherà queste valutazioni in una scala a quattro livelli “insufficiente – sufficiente – buono – ottimo”:

235 “Mezzi di salvataggio – sufficiente Mezzi antincendio – sufficiente Dotazioni di sicurezza – sufficiente Preparazione dell’equipaggio – sufficiente” (Registro Italiano Navale (R.I.N.A.) Ispettorato di Livorno, Dichiarazione n.156 ai fini del certificato di idoneità della M/N “Moby Prince”, 15 Marzo 1991, 117 Nelle conclusioni del documento, entro il paragrafo “Deroghe” il R.I.N.A. indi- ca la necessità di aumentare il personale a bordo del traghetto ed il conformarsi entro il 1 Luglio 1991 agli emendamenti 83 Solas tra i quali la riduzione della temperatura di taratura delle ampolle dell’impianto anti-incendio sprinklers da 73° a 57°. Al momento della strage il Moby Prince non aveva ancora risposto positivamen- te a questi richiami. Oltre a essi vale la pena annotare che gli ispettori avevano già segnalato all’arma- tore la necessaria sostituzione del mozzo delle eliche: “A seguito dell’avvenimento del 29/08/1987, eseguita rettifica degli alloggi della zona pale del mozzo elica di dritta oltre i limiti previsti dalla casa costruttrice. Entro la prossima visita di carena sostituire lo stesso con altro collaudato” (Tri- bunale di Livorno, procedimento n. 541/91, sentenza di primo grado processo Moby Prince, p. 350). La sostituzione doveva avvenire entro Novembre 1991 benchè nel mese di Apri- le ancora non era stato prenotato alcun bacino per realizzare questo intervento complicato che richiedeva un fermo tecnico piuttosto lungo per il traghetto. Pur tuttavia il Tribunale di Livorno giudicherà questa segnalazione ininfluente ai fini della dinamica dell’incidente, poichè il mozzo elica di dritta produceva una minima ed irrilevante alterazione alla navigazione. A tutto ciò è inoltre necessario associare il fatto che l’ufficio tecnico Nav.Ar.Ma. – rappresentato dal funzionario Pasquale D’Orsi poi imputato nel processo per la manomissione alla timoneria – rilevò il fatto che il Moby Prince, dopo la cer- tificazione rilasciata dal R.I.N.A., presentava comunque l’impianto anti-incendio sprinklers disabilitato. La disabilitazione era relativa alla chiusura della presa a mare automatica dell’im- pianto di raccolta dell’acqua. Motivo di questa disabilitazione, sempre stando alla testimonianza di un addetto interrogato nel corso dell’iter processuale, re- stava il fatto che l’acqua di mare raccolta, essendo salata, perdeva piccole gocce che macchiavano la moquette del traghetto ed in conseguenza di ciò fu deciso di tenere tale presa a mare in “manuale” per consentire la sua conversione in “automatico” solo all’occorrenza. In linea con questa affermazione resta la te- stimonianza del Comandante Romano Paoli – all’epoca dei fatti ispettore di armamento SNAM e poi perito per la compagnia armatoriale italiana nel cor- so del Processo di Primo Grado, risentito il 22 settembre 2009 in occasione dell’inchiesta-bis – . Paoli ha dichiarato di aver avuto un colloquio con Roberto Santini, direttore di macchina della Moby Prince, poche settimane prima della collisione. Nel corso di questo incontro Santini, compagno di scuola di Pao- li, gli avrebbe confidato che l’impianto sprinkler era disattivato poichè spesso

236 valutazioni… con tanto di soldi che passano di mano…». Alla fine dell’elenco le carenze sembrano davvero troppe. «Ecco perché si parla di rabbia che non può scemare dopo vent’anni, rabbia per chi si è frapposto alla verità da una parte, facendosi forte delle nostre debolezze». «Tra queste debolezze Loris, il centro è l’essere divisi. La divisione è un problema» ribatto. «Ma io lo so che la divisione è un problema Francesco. La questione è che questa divisione ‘un l’ho mi’a voluta io. C’è qualcuno che all’inizio c’ha fatto i soldi su questa vicenda e noi l’avevamo capito subito e ci siamo allontanati. Allora noi eravamo il “comitato politico”, io quello che lo faceva per fa’ carriera politica… che poi guardami» ride, «carriera politica n’ho fatta proprio po’ina». Ridiamo. Ma la molla torna a vibrare e si tira fuori i sasso- lini. «Per questo France quando dici della divisione io ti dico, va bene, ma stai attento a non dimenticarti di quello che hanno fatto loro. Prima il L. che… cioè non so se ti ho mai raccon- tato del video Canu». «Qualcosa sì». «Il video Canu De Franco lo dette a me e al L. – l’allora Pre- sidente dell’altro Comitato Familiari delle Vittime del Moby Prince – dicendo: “mi raccomando non vada alla stampa per- ché si vedono le bimbe” che in Sardegna non l’avevano an- cora viste, perché la famiglia Canu stava andando in Sardegna per far conoscere Ilenia ai nonni. Ilenia che aveva un anno». Un brivido mi percorre la schiena. Roma, il momento in cui Loris legge quel nome davanti al Parlamento: “Canu Ilenia,

capitava che qualche passeggero giocasse con l’automatismo e facesse partire volontariamente l’idrante con conseguente perdita di acqua sulla moquette e sui tappetini di bordo che andava a generare un deterioramento precoce inviso alla compagnia. Un corretto funzionamento dell’impianto anti-incendio sprinklers avrebbe allungato i tempi di sopravvivenza a bordo, anche se è sbagliato pensare che avrebbe potuto domare l’incendio di cui fu oggetto il Moby Prince. Vale la pena annotare il fatto che secondo alcuni periti di parte civile, smentiti dai magistrati, questa ricostruzione circa l’impianto sprinklers è in realtà da ritenersi falsa, poichè, a detta loro, la presa a mare in “manuale” si deve all’azione dei Vigili del Fuoco durante le operazioni di spegnimento.

237 anni 1” e per un secondo, un coincidente secondo, intorno l’aria diventa muta davanti a quel luogo di tante parole vuote. «Io ho preso quel video, l’ho visto e l’ho fatto vedere agli altri familiari. Cinque giorni dopo, edizione straordinaria del Tg4, il Video Canu era in televisione. Io non gliel’ho dato. Quindi chi gliel’ha dato?». «Ok Loris ma cosa c’entra L. con Angelo? Quella è una sto- ria passata» azzardo. «Ho capito Francesco ma c’erano loro con lui, mica io. Poi dopo Angelo e suo fratello hai visto cosa hanno fatto a Gia- como e alla sua famiglia. Ora ti sembra una cosa normale che te non pensi alla sofferenza di questa donna, che ha avuto anche difficoltà a riconoscere il marito, e vai a ritirare fuori questa storia allucinante? Perché poi ti fa comodo per il tuo castello del traffico d’armi, perché Sini era uno della marina militare, si imbarca all’ultimo e allora automaticamente: pri- ma era il depositario del segreto di Ustica e non era morto sul Moby ma ce l’avevano portato dopo, poi sì era morto sul Moby… dai…». «Hai ragione Loris. Io però penso che Angelo l’abbia capito questo. Penso che abbia capito cos’ha fatto insieme a suo fra- tello rispetto alla famiglia Sini». «Sì ma Francesco ‘un’è solo questo. Sono vent’anni che ogni volta c’è sempre una verità diversa e mai, mai, una parola con- tro l’armatore. Mai. Che l’armatore poi a loro ‘un gli ha mica voluto bene! Perché se mandi i tuoi uomini a manomettere la timoneria da manuale ad automatico a chi la vuoi dare la col- pa? Al tu’ babbo. E allora perché quando noi abbiamo fatto il processo parallelo a Di Lauro e D’Orsi per la manomissio- ne alla timoneria sono venuti addirittura in aula a cercare di dimostrare che Di Lauro in realtà non era a Torre del Greco ma a Carrara con l’amante e hanno portato una lì per dire che era la ganza di Di Lauro che non era assolutamente vero ed è stata smascherata subito? Cioè sono cose… capisci che sono queste le questioni che ti dividono: questo – Di Lauro – ci sono tutti i familiari di Torre del Greco ed Ercolano che han- no detto “sì lui era con noi” e loro continuavano a dire che erano bugiardi. Ora uno, dieci, venti li potrai anche comprare

238 per una cospirazione globale, ma che mentano tutti non è possibile! Perché per loro sono tutti bugiardi: Bertrand è bu- giardo, Rolla è bugiardo, i soccorritori sono bugiardi…». Respiriamo. Beviamo qualcosa. Usciamo da questo. Perché l’armadio è pieno di abiti del passato e ogni volta che lo apri fidarsi del sarto diventa dura. Ma io continuo a vedere in al- cune di queste situazioni una motivazione caratteriale. Angelo è così. È diverso. «Continuo a pensare che siate due persone complementari su questa vicenda». Loris si è già calmato, anche se questa mia insistenza sulla divisione ogni volta gli aziona dei riflessi simili alle scariche elettriche su una rana morta. C’è qualcosa di assolutamente fi- sico, spontaneo, inevitabile. E la questione è proprio lì. Vorrei affrontare il perché per arrivare a un nuovo scenario. Guardo Andrea, gli ho detto di andare sempre in rec, ben- chè l’attrezzatura scelta per questo video non lo consenta ol- tre i 13 minuti. 13 minuti poi uno stop. Si deve raffreddare il sensore. Una buona metafora della situazione attuale. Poi a me quest’intervista interessa più per l’audio. Il video ci po- trebbe servire per i contenuti extra dell’eventuale dvd. Andrea mi fa cenno che ci siamo. Cambia anche la scheda, così non abbiamo più problemi. Osservo Loris. Giocherella con i suoi tanti bracciali. È una specie di tic. Quando è leggermente irre- quieto, si sfoga su questi arredi identitari. Li fa ruotare su loro stessi. Due, tre, dieci volte. «Venti famiglie» riparte, «già eravamo contro dei giganti, perché SNAM, Nav.ar.ma e Capitaneria erano dei giganti… ma un conto è affrontarli con centoquaranta famiglie agguer- rite… un conto è arrivarci in venti e divisi». La rabbia è sempre lì. È quella. E ci sento tanto dell’idea po- litica di Loris. Per lui il Moby Prince è una vicenda di classe. Ci sono i padroni, i potenti, e le vittime. Vive e morte. Persone comuni schiacciate da un’ingiustizia che non sono riuscite a riunirsi. Anche se riunendosi avrebbero potuto vincere la bat- taglia. Almeno quella della memoria e del monito. Per Loris questo è oramai quasi l’unico punto fermo. In cammino per le strade de L’Aquila, dietro lo striscione, mi aveva parlato col

239 cuore in mano della sua idea di lotta. Riunire tutti i comitati di familiari delle vittime di stragi italiane per fare fronte comu- ne sul tema della sicurezza. La semplicità del messaggio era inversamente proporzionale alla profondità dell’obiettivo. In- fondo nessun familiare di una vittima potrà ottenere indietro il proprio caro. Però quell’evento, secondo Loris, ti portava su una dimensione di rivendicazione differente. Una dimensione civile, potremmo dire. «Ti scatta qualcosa dentro, Francesco. Quando hai sentito dire anche a Daniela – Rombi – o a quelli della scuola di San Giuliano di Puglia o agli stessi aquilani che facciamo tutto questo perché non accadano mai più fatti del genere, alla fine diciamo una cosa semplice: “noi l’abbiamo vissuta, non vogliamo che altri la vivano, quindi ascoltateci”. Perché noi parliamo di sicurezza per evitare che altri subiscano quanto abbiamo subito». «La sicurezza però Loris è una specie di utopia. Ci possiamo tendere verso, ma non possiamo averne il controllo assoluto. Il sistema antincendio delle navi è costruito per focolai che si sviluppano a bordo, nel caso del Moby il fuoco è venuto da fuori». «Lo so France e infatti è un caso eccezionale quello, ma i nostri periti ce l’hanno detto: se l’impianto sprinkler fosse stato in funzione avrebbe allungato i tempi di sopravvivenza. Non avrebbe spento quell’incendio ma avrebbe portato più ossigeno nell’aria. Anche qui, bada, il principio resta: iniziamo da quello che si può fare, poi se ne riparla. Come per L’Aquila: intanto se nella Casa dello Studente de L’Aquila non ci met- tevano la sabbia di mare, vedrai i muri portanti non crollava- no… cosa costa controllare e far rispettare queste regole?». Lo guardo. L’idea che questa ingiustizia possa coinvolgere re- sponsabilità di persone, che in altri tempi si sarebbero dette() della sua “stessa classe” per lui resta marginale. «Francesco non posso prendermela con Spartano che a diciotto anni non sente il may day del Moby Prince mentre fa l’operatore radio in Capitaneria come militare di leva, ma me la prendo con chi ce l’ha messo e con chi per risparmiare non metteva a posto le apparecchiature radio del Moby. Così come non posso pren-

240 dermela con Rolla che fa il servizio di guardia alla petroliera e si dimentica di segnalare la nebbia in tempo. Ma me la prendo col Comandante che quando vede che a speronarlo è stato un traghetto dice “è una bettolina non scambiate lei per noi” per evitare che i soccorsi vadano sul Moby anzichè su di loro». I veri responsabili sono sempre i più alti in grado. Della clas- se successiva, delle classi successive. Armatore, Comandante della petroliera e Comandante della Capitaneria: Onorato, Su- perina, Albanese. Anche se due dei tre sono già morti. Riprendo il filo: «Comunque il processo era già di per sé una farsa, dal momento in cui sul banco degli imputati hanno messo quattro figure minori». Loris guarda in alto: «Certo… però comunque era l’occasio- ne di far emergere qualcosa. Quantomeno una ricostruzione seria… invece siamo arrivati al processo con periti opposti, facendo esattamente il gioco degli avvocati della SNAM e del- la Capitaneria». È vero. Indubbiamente vero. «Però tu ci credevi veramente nella capacità di quel processo di accertare la verità?». «Completamente no, ma è quello il posto dove si cerca di ottenere giustizia. La si può chiedere anche fuori, in piazza, ma poi è lì che dovevamo andare. Comunque capisco cosa intendi, ma sì, tutto avrei pensato tranne a quel finale». La memoria torna meno indietro. Alla fine del processo. Al giorno delle sentenza. «Il giorno della lettura della sentenza ci siamo ritrovati la mattina le nove in camera di consiglio… quello del bar dice: “l’ho portato da mangiare”… due ore tre ore… pomeriggio… sera… Bassano dice: “strano conoscendo Lamberti la senten- za l’ha già scritta”… alle dieci e qualcosa comincia a entra’ un finanziere… carabiniere, tre poliziotti… ci siamo ritrovati circondati dalle forze dell’ordine… venti familiari, tre livorne- si tra cui il Segretario di rifondazione e quello della Pubblica assistenza… nessun altro sennochè avessi chiesto alla città e all’amministrazione di essere presenti. Esce Lamberti e “in nome del popolo italiano...”. Mi è crol- lato il mondo addosso… dentro di me lo sapevo, Spartano

241 non poteva esse responsabile… però sentirsi dire “tutti gli imputati sono innocenti… il fatto non sussiste...”. Gli altri si sono congelati… la mia reazione è stata quella di applaudire e ho rischiato grosso, Bassano mi ha detto: “conoscendo Lam- berti hai rischiato l’arresto in aula”». C’è un filmato di Gradu- cato Tv: Lamberti ha appena emesso la sentenza e si scorge un uomo coi baffi applaudirlo con plateale sarcasmo. Sono passati anni, Loris è davanti a me e nel suo volto leggo la stes- sa espressione di indignazione, invecchiata dal tempo come una statua lasciata all’aperto senza cura. «In più mi ha morti- ficato la sentenza… non è una sentenza che va a spiegare le motivazioni per cui ha assolto gli imputati… ma scrive più volte “non ci sono responsabilità dell’armatore”… e io dico: scusate ma perché se non è imputato, Lamberti si affanna a dire più volte non ci sono responsabilità dell’armatore? Dopo quello che era il tuo sospetto che ci fosse qualcosa diventa una certezza, perché nella misura in cui sai che Lamberti è inquisito e incriminato per concussione per un appartamento all’Elba e sulla vicenda Moby quanti soldi avrebbero potuto girare: SNAM, Stato, armatore… chi mi garantisce che la mia sentenza è giusta se il giudice è corruttibile? Sono queste le cose che dovrebbero far pensare… non le bombe. Non c’è stata giustizia perché il giudice ha fatto questo… le perizie mediche… s’è fatto terra bruciata intorno alle responsabilità dell’armatore… se non… non aveva bisogno di nessuno che lo coprisse eppure l’hai anche coperto». La questione torna sempre lì. Provi a girarci intorno ma cade sempre lì. Parlare a me quando vuole parlare a lui. Ad Angelo. «Eppure l’hai anche coperto». Loris ne è convinto. Continua a essere convinto che Angelo e Luchino, nella loro ricerca di verità alternative, abbiano fatto il gioco dell’armatore. E io continuo a non essere convinto che sia vero. La rabbia di Loris resta sicuramente quella. Concentrati su un obiettivo comune, “forse avremmo ottenuto più giustizia”. E quell’obiettivo dovevano essere le carenze del Moby Prince, il ritardo dei soccorsi. «Ma Loris se quello che cerchi è capire come sia possibile

242 prendere una petroliera a due miglia e mezzo dall’uscita del Porto di Livorno, il tuo interesse non può che andare lì, sulle cause della collisione». Allarga le braccia: «Francesco è vero. Ma è diventata un’os- sessione. Non può tutto ruotare attorno all’idea di discolpare quest’uomo – il Comandante del Moby Prince – che lo sai, nessuno di noi ha mai accusato. Quest’uomo ha perso la vita, ha perso la moglie. Avrà fatto il possibile, non c’è dubbio. Ma noi sono vent’anni che ci sentiamo fare ricostruzioni sempre e comunque con quella premessa: non è possibile che lui ab- bia sbagliato. Può essere, ma se lasciamo da parte quello e ci concentriamo su altro, non è meglio? Non possiamo… vedi» rallenta e riparte, «è questo anche il motivo per cui io dico che loro non sono un’associazione. Perché non puoi fare un’as- sociazione che difende solo la memoria di uno. La devi fare per difendere la memoria di tutti. C’è anche questo peso… questa cosa che hanno loro di sentirsi tutto sulle spalle, ma non è così. È ovvio, sulla carta a guidare il Moby c’era lui, col timoniere e il secondo ufficiale. Ma noi non abbiamo risenti- mento per questo. Ce l’abbiamo per tutto il resto, perché…». Loris stacca la schiena incollata dal caldo sul divano e protrae il busto verso di me. «Ti faccio un altro esempio, ad Albanese il processo parallelo l’abbiamo fatto noi, noi da soli. Per poi finire in un nulla di fatto vista la sentenza di primo grado. Ma perché siamo finiti anche lì da soli? Il ritardo dei soccorsi era chiaro che fosse una colpa, come anche il fatto che il porto di Livorno non adottava un regolamento per dividere le rotte di stazionamento da quelle di entrata e uscita. Un regolamento che avevano porti molto più piccoli in Italia e, caso strano, Li- vorno lo attiva dal maggio del 1991. Un mese dopo l’inciden- te. Sarebbe bastato quello, dicevamo ad Albanese, e il Moby non sarebbe successo. Ma loro – Angelo e gli altri – questo non l’accettano mica. Non glielo sentirai mai dire di questo regolamento». Tento per l’ennesima volta una spiegazione: «È comprensi- bile Loris. Per loro non può essere stato un problema di rotta. Il Moby quella tratta l’aveva fatta centinaia di volte, senza quel regolamento. Perché quella sera ha centrato la petroliera?».

243 Lui non cede: «Francesco però non puoi lasciare da parte tutte queste cose, per inseguire solo l’idea di una congiura globale che dovrebbe aver coinvolto centinaia di persone in mare quella notte. Persone che tra l’altro appartenevano a or- ganizzazioni che all’epoca erano in concorrenza tra di loro. L’ambiente portuale non era unito, non c’era questa unione che dicono loro. Allora io ti dico: ma se la Capitaneria è inef- ficiente, perché non abbiamo insistito su queste cose qui? Se l’armatore si disinteressa della sicurezza dei marittimi e dei passeggeri, perché non abbiamo insistito su quello invece di andare a cerca’ il traffi’o d’armi… che per l’amor di Dio ci sarà anche stato ma che armi si dovevano scambiare per giu- stificare la morte di 140 persone?». Stacchiamo. Basta. Non puoi convincere Loris Rispoli. Puoi solo aiutarlo a cambiare idea. Mentre rimetto a posto il registratore audio, accenno all’ap- puntamento notturno. «Ci rivediamo stanotte allora, alle quat- tro va bene?». Loris alza le spalle e porta il collo in avanti. «Sì. Io mi sveglio a quell’ora». Lo guardo con una punta di imbarazzo. Per l’ennesima volta è stato disponibile con me. La sera andiamo a fare riprese al porto. L’immensità delle navi in uscita. Il rumore di quella mole enorme di metallo che si sgancia dalla banchina e va verso il mare aperto. Oggetti di incredibile fattura. E quella domanda che torna inesorabi- le: com’è possibile che questo oggetto enorme non sia stato visto dai soccorsi? Un ragazzo si avvicina: «Cosa state facen- do?». Riprese per un documentario sul Moby Prince. «Ah». Lui lo ricorda. Se non altro per il nome. Torniamo da Loris a notte fonda. È solo. La sua solitudine mi fa riflettere, ancora una volta. Lo riprendiamo mentre si prepara e per l’occasione indossa una maglietta con il volto di Che Guevara sulla schiena. Sono le cinque del mattino, Fa- cebook è aperto e c’è il tempo per dare un’occhiata ai com- menti. La rotella del mouse scorre nel silenzio del salotto. Loris, come forse ogni mattina, trova in quel monitor un interlocu-

244 tore con cui condividere la propria esistenza. Ha cinquantadue anni e lungo il cammino della sua vita l’oggi lo mostra così: solo, nel suo piccolo salotto di casa, alle cinque del mattino; davanti a lui la home di Facebook e la scritta su uno striscione che attira la sua attenzione. Loris lo legge: “legittimo un caz- zo”. Vuole farlo arrivare alle due persone dietro la sua schie- na, intente a riprenderlo in silenzio. Oppure no. Forse gli è venuto da dentro e, come al solito, non è riuscito a fermarlo. Scendiamo in strada, dobbiamo aspettare una collega che porti Loris a lavoro. Perché Loris non ha la patente. «In tutte le manifestazioni dove siamo andati mi portava sempre Enzo. Oggi, quando lo trovo al cellulare ed è disponibile, ci vado con Giacomo». Piazza della Repubblica lo ospita nella sua attesa, alle prime luci dell’alba: coi sui portici imbrattati di scritte e il suo pavimento smaltato dallo sporco, sembra una donna sudata piena di tatuaggi. Arriva la collega di Loris. Una livornese verace. Molto chiac- cherona. Vedo Loris seduto sul sedile anteriore ascoltarla e riflettere. Nei suoi silenzi immagino il suo racconto. Ilsuo continuo rivivere la vicenda che gli ha trasformato la vita. Ri- penso così a quell’idea. Il ricordo di Loris e degli altri protago- nisti mentre li vediamo impegnati in scene di vita quotidiana. Come se quel pensiero fosse una presenza. Un richiamo con- tinuo della memoria. Un piccolo anticorpo per farli andare avanti o una piccola croce dalla quale non riescono a staccar- si. Arrivati alle Poste una signora chiarisce: «Loris di là no eh!». Lui guarda in alto: «Tanto io l’ho chiesto al Direttore». Qui è un semplice impiegato. Qualcuno che guarda lettere e pac- chi in arrivo e mette in ordine. Ad un tratto accende il pc e compare sul desktop una testimonianza del 10 aprile 2011: il fermo immagine di una nostra ripresa dove si vede Loris, alla testa del corteo, nell’atto di inspirare con vigore una siga- retta. Intorno a lui, scatoloni gialli, mobili bianchi da lavoro e le luci di un’industria. Anche qui, in questo spazio dove il Moby Prince non c’entra, ha sentito il bisogno di mettere un richiamo a quella porzione di identità che continua a difende- re. Un piccolo specchio di se stesso, in un luogo dove il senso

245 di ognuno è circoscritto al ruolo che ricopre entro una filiera decisa da altri, in altre stanze. «Noi andiamo Loris, siamo a posto». «Ok». Ci salutiamo. E mentre si riavvicina ad altri buffi sca- toloni gialli, immerso in quel lavoro ripetitivo e meccanico, torno a immaginare la sua mente, impegnata in un esercizio dicotico. Da un lato coordinare quei gesti alienanti compiuti migliaia di volte e dall’altro lato recuperare e rielaborare i suoi ricordi, in un continuo rimuginare su quella vicenda che è di- ventata il centro di gravità permanente della sua vita. Con An- drea imbocchiamo l’uscita, direzione Stazione Centrale. Una breve colazione prima di tornare a casa e guardo il cellulare. Sono le 7 del mattino del 14 giugno 2011.

246 15. PATTADA. SULLA ROTTA DEL MOBY PRINCE

“Patàda./Io qua,/il passato che rapisce in un pensiero il presente/ anche lui solcò quelle strade/ s’ubriacò della tua gente,/voleva rag- giungerti/addormentandosi poi per sempre/sul letto del mare pen- sandoti. Patàda fu mio padre/Patàda lo è ora in me”. Gi a c o m o Ma r i a Si n i , Patàda, 2006

«Loris avrei bisogno di ricaricare l’mp3». «Deh ma proprio qui va fatto? Si rischia cada in mare». «Sì ne ho bisogno. Devo sentire almeno una canzone men- tre parto». «Ok». Loris tira fuori il portatile, mi guarda e sorride. È un babbo. Il suo figlio di questo momento si chiama Giacomo Sini ed è figlio di Antonio e Stefania. Antonio è morto nel Moby Prin- ce quando Giacomo aveva due anni. È morto perché era una persona per bene e così lo ricordano quanti ho conosciuto e lo conoscevano. Tornava a Pattada, nel suo paese di origine, perché il padre stava male. Lo aveva deciso il giorno prima. Una delle sue sorelle gliel’aveva detto, “babbo è peggiorato”. Lui ha preso ed è partito all’ultimo momento. Babbo era anziano ed era vedovo, dal 1960. Aveva cresciuto sette figli aiutato da una zia della moglie. Sette figli. Quando gli hanno detto del Moby Prince gliel’hanno detto alla sar- da: “è successo un incidente, forse qualcuno si è salvato”. Gliel’hanno detto così per preservare il dolore, perché il dolo- re in Sardegna entra come una lama e ferisce a morte. Mario, il figlio più grande, mi guarda e mi dice: «Babbo ha detto: “sono morti tutti” e mentre lo diceva gli è scesa una lacrima, qui». Poi ha girato lo sguardo. Il dolore era già mortale. Dopo poco l’avrebbe preso e portato via. Da vedovo e pastore aveva cresciuto sette figli. Tra questi alcune donne. Tra queste Francesca. Conosco Francesca pri- ma per nome, mentre Giacomo prepara lo zaino per andare

247 in Sardegna. Poi la conosco dal vivo a Pattada, in Sardegna. È una donna distinta. Una donna sarda distinta. Lei non vuole riprese. Ma vuole incontrarci e capire. Parla con calma. Scan- disce bene le parole. Tutte le parole. Ha lo sguardo di chi quel dolore l’ha sentito e l’ha tenuto lì. «Tonino era una persona per bene. Era una brava persona e lo dicono tutti quelli che lo hanno conosciuto e lo ricordano. Lui come noi aveva studia- to. Nostro padre ci ha fatto studiare tutti anche dopo la morte di mamma. Tutti tranne Mario. Perché Mario voleva stare in campagna. Mario e babbo hanno lavorato in campagna per farci studiare». Loris accompagna. Io rispondo. Francesca vuole parlare del Moby Prince e di questo documentario. Vuole capire. C’è qualcosa da capire. Perché di cose su Tonino, su Antonio Sini, ne hanno dette tante. Ne hanno dette e ridette. E in paese se ne è parlato. E in queste case se ne è parlato con dolore. Perché Tonino era una persona per bene e qualcuno ha par- lato male. Prima nel 1993. Per invidia, per mitomania, questo docente dell’Accademia navale, questo sardo emigrato per continuare il suo percorso di studio, quel percorso per cui babbo e Mario erano rimasti in campagna, era diventato una specie di James Bond. Sapeva di Ustica, di guerre elettroni- che e bisognava “indagare su di lui”. Immagino queste per- sone: Stefania, Francesca, Mario. Immagino loro quando tut- to questo venne fuori. Stefania, la madre di Giacomo, me lo aveva raccontato col suo modo straordinario di condividere i ricordi: un fiume in piena: «Mio marito era una persona per bene, al suo funerale vennere tutti i suoi allievi e per l’ambien- te dell’Accademia Navale è strano avere questa ammirazione, un rapporto così con un docente. Quando arrivarono queste notizie io sono rimasta… io ho reagito. Alla fine non ho que- relato solo l’Unità perché ero stanca. Avevo vinto su tutti ma quella è rimasta. Perché poi anche dal processo hanno chiarito tutto. E tu cosa fai me lo ammazzi due volte? A loro, ai miei figli. Poi immaginati anche in Sardegna. Sentire infangato il nome di un fratello». Antonio Sini era una persona per bene e io sono felice di aver conosciuto chi è rimasto a raccontarmelo. Sono grato

248 delle emozioni. Di aver partecipato al momento in cui Fran- cesca ha guardato Giacomo, da zia distante per idee politi- che, carattere, ma identica per postura, camminata, e ha detto: «Tonino era una persona per bene e Giacomo lo deve sapere e dovrebbe continuare a riferirsi a suo padre. Anche perché suo padre c’è. Suo padre lo protegge anche se lui può non crederci ma io ci credo. Perché anche Tonino aveva una fede vera. Credeva e Giacomo ci dovrebbe credere». In Sardegna i nipoti dovrebbero credere. Si dovrebbero fare tante cose. Si conserva. E adesso vicino a una donna distinta c’è un giovane uomo anarchico. Lo guarda. Lo accarezza con lo sguardo e io penso ci stia dicendo: «È una persona per bene come mio fratello e io ne sono orgogliosa». Zio Mario abita alcune salite più in là. Dovremmo andare via. Dovremmo andare ad Arzachena ma l’ora è tarda e il de- stino mi tiene lì. «Giacomo senti. Resteremmo qui. Andiamo in albergo. Mi farebbe piacere conoscere tuo zio Mario anche se non pos- siamo fare riprese». Giacomo è felice. Da quando mi ha par- lato di questo viaggio ha cercato di anticiparmi tutto e tutti. Un copione. Lui deve fare tante cose quando va in Sarde- gna. Deve preparare lo zaino con la musica dei Kenzenecche in sottofondo. Deve stare sul ponte della nave alla partenza, ascoltando altra musica. Deve andare a salutare gli zii. Deve andare al boschetto. Deve tornare alla sua terra. La sua sardità la vedo qui. Da queste cose. Un sardo deve e Giacomo l’anarchico conserva tutto questo. Posiamo i bagagli all’Hotel Liberty. «Poi andiamo da mio Zio Mario» dice Giacomo al titolare. «Allora vi lascio le chiavi perché farete tardi» risponde lui ridendo. Si conoscono. Sono amici. Il giorno dopo la moglie mi dirà: «Tonino era una per- sona per bene. Un amico. Mia mamma era una delle sette che in paese partorì in età avanzata. Si conoscevano bene. Era una brava persona». Salutiamo e prendiamo la macchina. Siamo in cinque. La macchina è strapiena e tutti tranne me, alla guida, tengono uno zaino sulle ginocchia. Per Zio Mario io, Loris e Andrea, siamo inattesi. Giacomo e Ibra, il suo amico partito con noi,

249 no. Porto il registratore e Andrea la camera. Entriamo. Ci tro- viamo davanti a una tavolata molto grande con dodici piatti. Ci troviamo davanti a una famiglia numerosa, a un signore coi capelli bianchi e un sorriso aperto. Mi sento a casa. Vedo Giacomo. Lui è a casa. Lo Zio Mario ci fa sedere. Mario ci fa sedere. «Giacomo tu qui sei di casa. Sposta quella sedia. Fai sedere i tuoi amici». Entrano le donne. La moglie di Mario ha le stampelle. «Alluce valgo. Sono da un mese così». «Lo so signora, l’ha fatto anche mio padre». «Ah ecco». «È doloroso». «Eh sì. Davvero. Non pensavo». Tanto signora ci sono le figlie. In pochi secondi persone attese e persone inattese hanno davanti un bicchiere di vino o di qualcos’altro. «Quello che volete». Giacomo mi guarda più volte. Starò capendo? Lui è sicuro di sì ma devo capire bene. Devo capire. Perché altri no. Altri non hanno capito. Ma io sono sardo. Parlo il sardo. E capisco. Capisco cosa dice Mario in sardo e mi piace molto quel che dice a Giacomo e agli altri componenti della famiglia. Ad un certo punto chiedono del documentario. Io spiego. Uso le pa- role pronunciate da Loris a Francesca. È diventato il miglior raccontatore e difensore di questo progetto. Mi aveva com- mosso perché quando ti riconoscono questo libera il dolore di tanti fraintendimenti. Il dolore dell’incomprensione, la fatica di essere se stessi in mezzo agli altri. «Questo progetto… noi siamo felici perché Francesco si è relazionato con tutti noi con molto rispetto. Diversamente da altri, a lui non interes- sano gli scoop. A lui interessiamo noi. E glielo dico signora, se avesse potuto riprendere quello che lei ha detto prima a Giacomo… è stato bellissimo». Avevamo tutti le lacrime agli occhi. «Bene» aveva risposto Francesca. Perché altri hanno parlato di Tonino e non dovevano. Voi invece “dovete andare avanti”. Rivolto a noi. Rivolto a Giacomo. Era un grazie sar- do. Quei grazie detti tra le righe. Guardo Giacomo. I dodici a tavola devono mangiare. Sono

250 arrivati anche Gianmario, Pietro e altri. I convitati ci sono tutti. Guardo Giacomo: «Noi andiamo…». Sabina, la moglie di Mario, vede la nostra conversazione e sorride. Avanzo: «Noi andremmo». Sabina sorride e Mario chiosa: «Cosa? Voi rimanete qui». Una tavola da dodici diventa da quindici. C’è anche Mario, il piccolo Mario, nipote di Mario e Sabina. È un protagonista che duetta con Loris al centro della stanza. «Voi restate qui. Abbiamo preparato per tutti. Già ci stiamo» è la conclusione del discorso. Giacomo è felice. È a casa. A casa arrivano in cinque, dovevano essere in due, alla fine restano in cinque. Mangiamo tutti insieme. A Pattada, in Sardegna, c’è una tavolata grande e si scherza. Ci si prende in giro. In sardo e in italiano. «Vabbè Giacomi’ non me lo dire in gallurese però!». Ridono tutti. Gianmario ha ripreso Giacomo, per scherzo. Lui prova a parlare in sardo. L’ha studiato nei libri. Ha imparato la grammatica. Ma pratica poco. Perché vive lontano e nessuno a casa parla il sardo. Al- lora ogni tanto sbaglia. E qui gli sbagli fanno ridere. “Abbia- da”. Meno male. Grazie a Dio. «Scusate» chiedo, «vi vorrei chiedere un piacere. Questa ta- volata è troppo bella. Possiamo riprendervi?». Mario mi guar- da: «Certo! Fai, fai». Qualcuno si dilegua. Altri si rimettono in ordine. Si ride e sorride. Tre ore fa non dovevamo esserci e ora stiamo riprendendo in casa di zio Mario. Abbiamo pas- sato il filtro. Bisognava prima capire se questi erano diversi. Se avrebbero parlato bene. Se erano gente per bene. Perché Tonino era così e Giacomo è suo figlio e va protetto. Magari può fidarsi perché è giovane ma la gente è cattiva. La gente sa essere cattiva. Sa fare male. Sa mentire. Giacomo invece ha fatto bene: siamo gente per bene. «Faeddas puru su saldu86». «Sì, i miei sono di Bonorva» rispondo. «Berritti curzos87…» ride zio Mario riferendosi a un sopran- nome dato agli abitanti di quel territorio, «lo sai?».

86 Parli pure il sardo? 87 Berretti corti

251 «Sì». L’indomani parleremo anche di poesia estemporanea. L’arte divorata da questa globalizzazione dove i giovani sardi emi- grano, fisicamente o virtualmente, e pochi, solo troppo pochi, preservano. In Sardegna gareggiavano poeti estemporanei su temi. Erano in grado di improvvisare in rima citando episo- di biblici, storia passata, mitologia, storia contemporanea e persino complessi calcoli numerici. Oggi i giovani poeti sardi vanno a X Factor o Amici. Mio nonno a novantaquattro anni declama ancora quelle poesie e ne compone. Colgo l’occasio- ne e faccio sentire a Giacomo quella per la mia laurea di cui tengo registrazione nel cellulare. Giacomo sorride. Ha capito quasi tutto. Ha sentito un altro filo forte e sottile tessere il nostro rapporto. Zio Mario è un pastore. Tre figli maschi pastori. Due fi- glie femmine universitarie. Le figlie femmine portano i piatti e sparecchiano. Sembra una danza. Mario indica i figli maschi: «Sono loro a non aver voluto studiare. Gianmario quando ha visto il trattore… ha detto: “babbo voglio andare a campa- gna”. Io volevo studiassero ma cosa ci fai? E allora venite a campagna». Mario era rimasto in campagna col babbo per far studiare gli altri, oggi alcuni dei suoi figli avevano fatto lo stesso, per scelta, contribuendo agli studi delle sorelle. «È bella questa cosa che state facendo. Dovete andare avanti Giacomi’. Capito?». Giacomo annuisce, Loris ne è contento. Per l’ennesima volta lui c’è e le cose vanno in una direzione inattesa e migliore. Io sono contento. Per l’ennesima volta ci sono, e le cose vanno in una direzione migliore. Allora Mario, lo zio Mario, vuole farmi capire Tonino. Vuole raccontarmi anche lui. Usa le parole di Francesca. In altra forma. Il giorno dopo mi ripeterà camminando nel centro del paese: «Tonino aveva fede. Ma fede vera mi. Non bigotto» poi chiarisce in sardo: «Fede vera non su macchìne88». Ripenso alle parole di Mauro del giorno prima: «Mi sono reso conto che non sono solo morti mio padre e mia madre. Sono morti anche il fratel-

88 La dabbenaggine

252 lo per i miei zii e le mie zie, la sorella per le altre zie, l’amico e l’amica per chi conosceva i miei genitori, i suoceri per mia moglie che non li ha mai conosciuti, i nonni per mio figlio». La rabbia di Giacomo di cui sono ospite è la mia. Avrei voluto conoscerlo questo Antonio Sini perché doveva essere davvero una brava persona. Magari si sarebbe iscritto all’as- sociazione dei miei genitori per la sua propensione verso la cultura sarda. Magari se si fosse salvato sarebbe stato tra i protagonisti di questo documentario. Ma coi “se” non si fa la storia. Coi “se” e coi “ma”. La storia è questa e dobbiamo smetterla di pensare ad altro. I vivi ricordano. I vivi lo ricorda- no, la sorella Francesca: «Che poi per com’era, io ero sicura si fosse messo al servizio degli altri». Me l’aveva detto anche Ste- fania: «Mio marito l’hanno trovato con un gruppo. Andavano verso il garage. Lui era addestrato. Di sicuro si è qualificato e messo a disposizione. Li stava portando in salvo. Non ha pensato a sé e basta. Ha pensato agli altri. Era così». Giacomo ascolta. Ascolta tutto. È una cosa veramente enorme. La sua forza. Vivere senza un padre. Lontani dalla famiglia del padre. Immersi in una vicenda come il Moby Prince. Sapendo che quell’uomo si poteva salvare. Che era tra i tre, quattro. Ave- vano l’addestramento per salvarsi. E invece li hanno trovati insieme agli altri. Poi sopportare il 1993 e la diffamazione. Poi risopportarla e combattere quando ci fu la riapertura voluta da Angelo e Luchino Chessa. L’avvocato Palermo aveva riscrit- to anche quello. Aveva scritto “accurate indagini parrebbe si impongano anche sulla persona di Antonio Sini, deceduto sul Moby Prince, in ordine al ruolo svolto nella sua attività lavo- rativa, sulle ragioni del suo viaggio, sui suoi rapporti di lavoro e personali, sui suoi contatti anteriori al viaggio, sulle modalità della sua prenotazione; sulla verifica se si trovasse o meno in servizio, con specifica acquisizione di ogni documentazione lavorativa, personale e operativa” (Istanza Palermo, p.95). Incoscienti. Penso questo. Mi torna a mente la telefonata con Angelo. «Senti Francesco su quella storia di Sini che mi hai scritto volevo dirti che noi ci siamo poi sentiti con la fa- miglia. Fu un’idea di Palermo e l’ha scritta lui. A me spiace ma fu un’idea sua peraltro assolutamente marginale». Loris lo

253 spiegava a Mauro il giorno prima. «Sono queste le cose che ci dividono. Perché se tu dopo quasi vent’anni ritiri fuori questa storia che già la magistratura aveva affossato allora io come posso accettarlo? Nei confronti loro, di Giacomo, Stefania, Francesca». Loris è stata un’iniziativa di Palermo. È vero, hai ragione. Alla fine l’avvocato è l’avvocato di qualcuno e quel qualcuno ci poteva pensare prima di autorizzare certe mosse. È vero, hai ragione. Ma sono certo gli dispiaccia. Se Angelo fosse qui e avesse conosciuto Francesca, Mario se avesse conosciuto bene Stefania, Giacomo, Francesca – la sorella di Giacomo – se avesse conosciuto meglio tutti sono certo avrebbe scelto una strada diversa. Purtroppo la testa asseconda se stessa. In- segue piste d’informazione. Cade nell’inganno del “potrebbe essere”. E invece qui no. Qui non potrebbe essere. Non do- veva poter essere. Perché questa cosa ha fatto molto male. E un male non per bene. Un male per male. E per questo male bisogna scusarsi e chiedere sinceramente perdono. Il mio au- gurio di quando si incontreranno. Che chi deve scusarsi lo faccia. Che chi deve andare oltre ci vada. Che camminino in- sieme in una direzione finalmente di tutti. Il giorno dopo la serata a casa di Mario e Sabina faccia- mo coperture con Andrea. Il dedalo di vie di Pattada, la co- presenza di antiche dimore ed edifici moderni. Loris prende la Nuova Sardegna. C’è un grosso pezzo su questo viaggio a firma del giornalista conosciuto ad Arzachena. Aveva chiama- to Mauro. Voleva incontrare Loris e Giacomo. Poi anche me. Mauro ha preferito restarne fuori. Perché ha un ruolo politico nel territorio. Per lui questa vicenda deve restare un’isola. C’è la sua vita e c’è quest’isola. Sceglie quando prendere il traghet- to e quando restare dove è riuscito a vivere. Il giorno prima, quando eravamo arrivati in Sardegna, gli avevo chiesto di poter andare alla sede del PD di Arzachena. Gliel’avevo chiesto perché lì un tempo c’era la foto di suo pa- dre e accanto quella di Berlinguer. Oggi accanto a lui in quella sede c’è Loris. Quando il padre di Mauro era segretario del PCI di Arzachena Loris era segretario giovanile di una sezione del PCI di Livorno. Un altro filo. Un altro modo di incontrarsi. Ma

254 Mauro non vorrebbe mischiare la sua vita politica con il Moby Prince. Non vorrebbe qualcuno pensasse quello. Pensasse a quella parola “strumentalizzare”. Ho idee diverse, ma lo rispet- to. La politica fuori da tutto questo per me è sterilità. È testa. È solo testa. E tante teste senza cuore sono tanti computer divisi. Per me la passione politica di Mauro viene anche da lì. Viene dal bisogno di giustizia per un mondo dove gli è capitato il Moby Prince. Ma ogni cosa deve avere il suo tempo. Parlo con Loris di questo durante il viaggio di ritorno. Gli chiedo: «Loris qual è la cosa che ti ha più ferito in questi anni?» convinto di sentirmi riferire di quando gli imputarono di stru- mentalizzare la vicenda per fini di ascesa politica. E invece eccola la forza di quest’uomo. La grandezza di questo cuore. «La cosa che più mi ferisce e l’idea di non aver fatto abbastan- za. Sento la responsabilità di non aver fatto abbastanza. Non nel senso che potevo fare di più. Nel senso che si poteva fare di più. Perché nel processo abbiamo perso. Tra di noi ci sono state divisioni forti. A livello culturale per tanti ancora è colpa della partita. Questa è la cosa che ancora mi ferisce di più». «Cavolo Loris ma quando ti hanno detto della politica? Quando ti hanno detto: “comunista di merda tu lo fai solo per fare carriera”?». Lui sorride: «Quello mi ha fatto male ma sapevo da dove veniva. Davvero è una critica così stupida… se guardi io non ho fatto nessuna carriera. Sono qui. Mi pare la risposta migliore. Anche se in una cosa aveva ragione. Sono comunista. Per me da questa vicenda è importante uscire insieme. Dovremmo uscire insieme ad altri. A Viareggio. A L’Aquila. Per cambiare veramente le cose. Perché non ci sia- no altre Moby Prince, altre Viareggio, altre L’Aquila». Allora penso: io mi fido di quest’uomo. Mi fiderei di essere rappre- sentato da quest’uomo. Come da Daniela di Viareggio. Come da Giacomo. Mi fido e non riesco a vederne una colpa. Non riesco a leggere la loro azione come un problema perché al- trimenti “si strumentalizza il dolore”. Che il dolore risvegli la legge della giustizia. Il dolore risveglia la legge della giustizia. E allora seguiamoli quelli che dal dolore chiedono giustizia. Senza averne paura. Nella sede del PD di Arzachena, una sala introdotta da un

255 piccolo corridoio, Mauro aveva iniziato a parlare del 10 aprile 2011 a Loris Giacomo e me. Giorni di shock dopo quell’espe- rienza. Per lui e per Antonella. Quella marea di emozioni tutta insieme. Non erano riusciti a metabolizzarla. A raccontarla. Troppa emozione. Troppa tutta insieme. Poi erano tornarti alla loro vita. In questo secondo viaggio in Sardegna, con Mauro ci siamo visti poco. Impegni di lavoro e familiari. Forse troppa quella emozione. Troppo fuori dal binario dove alla fine si è trovata una serenità. Quando entriamo in quella casa che oramai rico- nosco Federico, il figlio di Mauro e Antonella, sorride davanti a “gnamme”, il nome con cui ha battezzato il boom ricoperto dal pelo antivento. Sono felice di rivederlo. Come sono felice di rivedere Mauro e Antonella nel loro ambiente naturale. Sia- mo diventati amici. Le opinioni possono dividere, ma l’affetto unisce e Mauro è venuto a prendere Loris e Giacomo a Golfo Aranci, perché in sei in macchina era difficile. Nel salotto di casa, con Loris seduto di fronte, Mauro aveva ricominciato a parlare del 10 aprile. «Sai Loris ha contribuito a dare drammaticità alla situazione la presenza di quelli di Via- reggio. Quando quella signora – Daniela Rombi – ha parlato nell’aula consigliare, io sono rimasto impietrito. Perché lei ha detto: “i vostri cari erano su di un traghetto ma i nostri erano a casa” e la casa è il luogo della protezione, dici “torno a casa” proprio per intendere l’essere al sicuro… è stato veramente… poi il vedere il loro dolore così… fresco, passatemi questo brutto aggettivo, è stato come rivivere il nostro, di dolore. Io spero che il tempo lenisca le loro sofferenze…». Loris aveva raccolto il messaggio e ribattuto partendo dal punto più accessibile. «Sai è difficile per una madre che il do- lore si lenisca». Mauro ne aveva ripreso i termini: «Assoluta- mente. Io ho sofferto molto per la morte dei miei genitori ma il pensiero di perdere Federico adesso no. Non lo riesco nem- meno a pensare…». Antonella era comparsa con chiarezza risolutiva: «Una madre non può accettare, non può accettare la morte di un figlio. È un fatto così innaturale. Non ti puoi riprendere da una cosa del genere». Da quello no, da altro sì. Riflessioni, domande e risposte sulle radici della nostra espe-

256 rienza del mondo, in un salotto di Arzachena, nel nord della Sardegna. Però Mauro voleva chiarire anche altro e a un tratto aveva ripreso la parola. «Scusa Loris, per quanto ho potuto parlare con te e con Chessa, tu dici non funzionava l’impianto antincendio tutte queste cose qua… il traghetto aveva delle carenze… sono tut- te cause che comunque per la maggior parte ti creano proble- mi post collisione, loro invece magari si sono semplicemente più concentrati sul perché il traghetto è andato a collidere. La divisione si ha tra voi dalla collisione in poi. Perché loro si sono talmente concentrati… perché io con Chessa ci ho parlato… effettivamente ce l’ha anche lui con l’armatore non credere che…». Loris aveva reagito da molla. L’energia cinetica è più forte del controllo. «Non è vero. Non mi puoi dire oggi che ce l’hai con l’ar- matore. Sono passati vent’anni, Mauro. Oggi lo dici che ce l’hai con l’armatore. Il problema è che per anni loro hanno fatto tutto quello che salvava l’armatore. Persino quando la Navarma ha mandato D’Orsi e Ciro Di Lauro a manomettere la timoneria per mettere da manuale ad automatico. Persino lì. Ma se la Navarma manda due a mettere il timone su automa- tico, secondo te a chi la vuole dare la colpa? La dà al tu’ bab- bo. Allora perché in quel processo c’eravamo noi e loro no? Perché era contro l’armatore. Allora ora dopo vent’anni non mi puoi venire a dire “è anche colpa dell’armatore” quando per vent’anni lo hai protetto. Guarda Minoli, guarda il libro di Fedrighini. Io non me li scordo mica. Delle carenze della nave non parla mai nessuno. E invece viaggiava con l’impian- to antincendio spento, col portellone aperto, senza il nostro- mo, senza due radar su tre, con la radio con cali di segnale e soprattutto per il tipo di traghetto non poteva nemmeno viaggiare su quella rotta, doveva stare sotto costa...». Mauro era rimasto in silenzioso ascolto, ma mi aveva dato l’idea di dissentire. È vero. Ha ragione. Ma trentanni fa i mu- ratori lavoravano in infradito e senza caschetto. Le navi sono così, si sa. L’Italia è così, si sa. È una posizione politica questa e questa posizione li divide. Fino a qualche mese fa Loris era

257 l’eroe che portava avanti la battaglia per la verità. Oggi è an- cora l’eroe, conserva la memoria, ma la verità forse la cercano anche gli altri. Forse anche gli eroi possono sbagliare per ec- cesso di eroismo. Però poi Loris aveva tirato fuori il jolly: «Il loro percorso è lineare cercare delle cose estranee… traffico d’armi, bomba, le hanno vagliate tutte compreso storie che non ci combinano niente. Perché l’esempio lampante è la storia del suo babbo». Giacomo aveva annuito. Mauro non sapeva. Poco dopo ne avrebbe preso coscienza dalle parole di Loris. «Io ti pongo un problema: se vuoi difendere la memoria di tuo babbo, e fai benissimo, perché» aveva levato l’indice verso Giacomo, «devi andare a infangare la sua di memoria? Perché prima nel ’93 dis- sero che era il depositario del segreto di Uscita e allora non era morto sul Moby ma ce l’avevano portato dopo, poi sì era morto sul Moby ma era un agente dei Servizi Segreti in missione…». «Fantascienza pura» era stato il commento di Mauro, ma Giacomo di quella fantascienza aveva subito le conseguenze. «Sì ma sono cose scritte dall’avvocato dei Chessa nell’ultima inchiesta. Ci sono scritte queste cose qua. Allora se vuoi ri- spetto lo devi dare. Io a loro non porto più rispetto». Le parole conclusive di Giacomo lasciavano poco spazio all’immaginazione e Mauro mi aveva guardato disorientato. Con un sorriso amaro sulle labbra mi aveva detto: «Francesco, quest’incontro allora è utopia pura». «Diciamo difficile» per non chiudere tutti gli spiragli. Prima di ripartire Mauro mi vuole parlare da solo di tutto questo. Il suo punto di vista. La sua analisi. Faccio i salti mor- tali e riesco a essere ad Arzachena alle 18:00. Chiamo. Lui può dopo le 19. Ok. Loris Giacomo e Ibra fanno i turisti ad Arza- chena. Io e Andrea aspettiamo un’ora sulla roccia di granito sopra casa di Mauro dalla quale con Stefano, qualche mese prima, avevamo ammirato la valle di Arzachena. Dopo cinque minuti arriva Antonella con Federico. Entriamo e chiacchie- riamo. Dopo qualche minuto e scherzo con Federico, entra Mauro. Vuole vedere un po’ di materiale e raccontarmi il suo punto di vista. Vediamo il materiale. Il salvato dal primo viaggio. Da pri-

258 ma dell’assetto attuale del progetto. Guardo l’orologio. Sono le 19:38. La nave parte alle 21. Mauro si siede davanti a me mentre spengo il computer. Vuole raccontarmi il suo punto di vista. «È stata un’esperienza forte. Molto forte. Mi sono reso conto di tre cose: quella che ti dicevo, che non sono morti solo il babbo e la mamma di Mauro e Andrea ma anche gli amici, il fratello, la sorella, il padrino, la madrina di altre persone. Poi che la divisione tra le due associazioni che prima non capivo assolutamente ora la capisco e penso sia immutabile. Non ce la puoi fare a farli incontrare. Perché sono troppo diversi. Come dici, tu Loris è troppo cuore e Angelo è troppa testa. Forse è quello il problema. Mi sembra oramai sia diventata per tanti un’ossessione questa vicenda e qui arriva il terzo punto: io ne sono uscito. Nel senso che faccio questo documentario per il ricordo dei miei genitori e mi vorrei impegnare sulla vicenda. Ci rivedremo con altri familiari, incontrerò Ivanna e ci parlerò quando viene in Sardegna. Ma io mi sento diverso. Ivanna mi ha detto: “sei alla fase uno”. No, io non voglio essere alla fase uno. Io voglio non rimanere al Moby Prince. Ho una famiglia e mi pare che altri siano rimasti troppo a vent’anni fa». Sapevo me lo volesse dire. Me l’aveva accennato al telefono. L’avevo capito quando la prima cosa che abbiamo fatto ad Arzachena è stata andare in casa. Loris aveva piacere di cono- scere la zia di Mauro, la signora che ci aveva chiesto di ringra- ziarlo per suo conto. Aveva preso un traghetto. Era lì. Poteva ringraziarlo di persona. Invece non si sono incontrati. Non questa volta. Per Mauro il Moby Prince è un’isola. Decide lui quando, come e con chi andarci. Ad un tratto vedo che ha qualcos’altro da dirmi, ma ne ha una piccola remora. «Francesco poi ti volevo tornare a ringraziare dei video che avete convertito». «Li ha fatti Stefano, glielo dirò». «Sì, ma mi sono accorto che non erano quello che volevo re- cuperare. Perché quello lì l’ho trovato dopo e ce l’ho qui. Ora io non voglio abusare della vostra gentilezza ma se poteste convertirlo… mi fareste un grande piacere». «Ma certo. Non ci sono problemi, ho l’attrezzatura a casa».

259 «Tu e Stefano non li avete guardati gli altri?». «No. Stefano mi ha solo detto che riguardavano una ceri- monia, una comunione o una cresima. Ma ne ha dovuto, per ragioni tecniche, vedere almeno qualche secondo» rispondo. «Francesco questo è sicuramente il video dell’ultimo viaggio che ho fatto con i miei genitori. Se vuoi vederlo mi fa piace- re». «Ok». Guardo l’ora. È tardissimo. Antonella e Mauro mi dicono di far venire per un saluto Giacomo, Loris e Ibra. Dico: «Siamo in ritardo, venite voi in piazza a salutarli così poi partiamo di- retti». Mauro e Antonella si guardano: «Ok, andiamo; però poi dobbiamo () passare a prendere Federico». La vita è quella, Loris e Giacomo sono appena entrati e bisogna () procedere con cautela. Mauro non è rimasto nel vortice e avendone fatto esperienza vuole controllare la situazione. Quel black out di tre giorni dopo il ritorno ad Arzachena, dal 10 aprile, è qual- cosa su cui riflettere. Qualcosa di troppo forte. Bisogna stare attenti. Altrimenti si rischia di rimanerci. Come altri hanno fatto. In piazza ci salutiamo. Per la liberatoria delle immagini regi- strate con Mauro e Antonella vale la parola. Quando vedran- no il documentario in anteprima vogliono poter dire “questo no” perché magari ci sono delle imprecisioni. Questo valeva anche prima. Varrebbe, per me, anche con una liberatoria fir- mata. Ma il controllo è ancora importante. E io devo dare tempo al tempo. Ci siamo stretti la mano. Mi fido. Antonella mi ha detto di stare tranquillo. Mauro pure. La parola qui ha un peso. Partiamo così a tutta velocità. Faccio Arzachena-Golfo Aranci in quaranta minuti. Saliamo dopo l’ultimo camion a cinque secondi dalla chiusura del portellone. Ultimi. Mai suc- cesso. “Gli ultimi saranno i primi” diceva qualcuno e l’indo- mani, almeno scendendo dalla nave, sarà così. C’è un’immagine di questo viaggio scolpita nella mia memo- ria. Giacomo è sul ponte a poppa appoggiato al corrimano. Guarda la scia della nave e la sua terra allontanarsi. Prende il lettore mp3 per chiudere il rito del suo viaggio. È scarico.

260 Io e Loris siamo in mezzo alla H dove dovrebbe atterrare un elicottero di emergenza in caso di necessità. Parliamo di questo viaggio. Di Mauro, di Mario, di Giacomo e Francesca. Con Mario abbiamo parlato del M.P.S, il Movimento Pastori Sardi, e della loro condizione di pastori. La lotta, le botte a Ci- vitavecchia89, i due oligopolisti cui si deve un prezzo del latte insostenibile – 0,60 cent al litro – . Avevo accennato a Loris la volontà di fare della distribuzione di Ventanni un’occasione di incontro tra spettatori e protagonisti. E ci si incontra se si parla di qualcosa di comune. Allora fare una proiezione a Pat- tada poteva significare parlare anche del M.P.S.. Perché alcuni sardi probabilmente potranno immedesimarsi nelle immagini e nelle parole di Mario e quindi aver piacere di parlare del fatto che in un documentario ha parlato anche un pastore e che questo pastore ha fatto il pastore anche perché Tonino studiasse e che se Tonino è morto nel Moby Prince è anche perché il mondo è ingiusto e questa ingiustizia non è solo una nave di una compagnia scalcagnata con cui Tonino non vole- va mai viaggiare, non è solo un porto dove la Capitaneria crea la differenziazione tra rotte di entrata e rotte di stazionamento un mese dopo il 10 aprile 1991, non è solo i soccorsi in ritar- do e non coordinati, non è solo la storia del Moby Prince. È anche la storia della lotta contemporanea dei pastori sardi. È anche la storia di Mauro e Antonella in nave vent’anni dopo per ringraziare Loris e conoscere Angelo e dirgli che anche se a tredici anni la colpa era di suo padre, oggi non lo crede più e non debbono pensare il contrario. È anche la storia del coraggio di Giacomo. È anche il suo imparare nei libri illu- minati di sera da una lampada la lingua di suo padre e tenere un legame con le persone e i luoghi dove è diventato ed è ri- cordato persona per bene. È anche Loris. A cinquantacinque anni. Non laureato in Psicologia per pochi esami perché c’era da lavorare. Sulla rotta del Moby Prince con quattro giovani.

89 Il 28 dicembre 2010 duecento pastori che desideravano arrivare a Roma per manifestare sotto il Ministero dell’Agricoltura furono fermati da Polizia e Carabinieri al porto di Civitavecchia con un’operazione repressiva piuttosto vio- lenta.

261 Perché a Giacomo potrebbe servire di caricare un lettore mp3 sul ponte di un traghetto e bisogna qualcuno ci sia con un portatile disposto a darglielo, lì, a un metro dal mare. Perché è bello fare una sorpresa a Mauro e magari incontrare la sua zia. Perché è importante gettare le rose in mare nel punto esatto dove vent’anni prima è morta Liana, in rappresentanza di tutti i familiari rimasti a casa. Perché è importante rispondere a dei giornalisti e raccontare il Moby Prince. Perché è importante aiutare Giacomo a ricevere un abbraccio da sua zia. Perché è importante questo documentario. Perché Francesco se lo merita. Perché bisogna. Perché lo si è giurato. O forse sem- plicemente perché è giusto così. E lo si fa e basta. Da fratelli. Più o meno ascoltati.

Dal post “Pattada”, pubblicato il 22 giugno 2011

262 16. PAOLA

“Per la madre i figli sono ancore della vita”. So f o c le , Fedra

Cornetta verde del telefono, sotto la scritta “Loris Rispoli”. Un primo “tuu” poi “Well Well Well” di Duffy, la canzone della pubblicità TIM. Loris ha un contratto particolare con il suo gestore di telefonia per il quale al posto del “tuu tuu” del telefono che squilla si aziona una canzone; e in questo perio- do è “Well Well Well” di Duffy. Rido. Ad ogni telefonata, pur serio sia il motivo della conversazione, questo incipit mi fa iniziare sempre con una risata. Loris risponde. «Dimmelo». «Scusa, ridevo sempre per la canzone». «Eh lo so» mi risponde lui, «che poi io non so che canzone mettono. Mettono cosa gli pare. Dimmi». «Loris questa cosa di Ivanna mi ha creato un po’ di proble- mi, al di là del girato già fatto su cui non ho la liberatoria… ma su questo secondo me non ci dovrebbero essere problemi… mi manca la figura…». Ventanni deve avere una madre. Una madre come simbolo delle madri. «È troppo importante». Loris rimugina. «Con Paola te ci hai già parlato?». «No». «Ha una storia molto forte. Nel Moby ha perso il figlio ed era vedova da poco. Le è rimasta la figlia. La chiamo subito e poi ti richiamo». Pochi minuti dopo ci sentiamo. Ho un numero di telefono. Chiamo. Ho il giorno del nostro appuntamento. Il 26 giugno 2011 imbocco il tratto di Aurelia che da Li- vorno porta verso sud. Una lingua di asfalto esce dal litorale e trova lo sbocco della quattro corsie là dove qualcuno da vent’anni cerca di mettere un casello autostradale. Cielo ter-

263 so, calura estiva, il mare leggermente increspato. Arrivo dopo una ventina di minuti all’uscita Rosignano Marittimo e punto verso Vada. Mi perdo. Chiedo indicazioni. Sotto i platani della Piazza intitolata all’eroe dei due mondi capisco di essere vici- no. La casa di Paola, mi dice lei al telefono, è solo due vie più in là. Con lo smartphone eviterei queste figure, ma () non farei le tante conversazioni cui sono costretto quando mi perdo. È una riflessione di un attimo, mentre inizio a camminare. Il navigatore è una protesi, sei sempre tu che interagisci con una macchina, mentre senza quella macchina devi coinvolge- re qualcun altro nella tua storia. “Scusi per via…”. Incroci le storie, storie inattese. Questi attrezzi ci stanno togliendo la bellezza dell’imprevedibilità e dell’errore. Arrivo davanti a un condominio popolare. Suono il cam- panello giusto e mi aprono. Davanti alla porta di casa c’è una giovane donna che con una gentilezza timida mi invita a en- trare. Il guanto indossato nella mano sinistra testimonia un momento di rigoverno domestico. Ci salutiamo mentre sento una voce roca e tagliente provenire da due stanze più il là. Una vibrazione dell’aria, spigolosa come i sassi limati dal vento. «Vieni pure. Sono qui». Nel salotto c’è una donna, sulla sessantina d’anni, con delle stampelle. «Ciao, io sono Paola». «Piacere, Francesco». «Siediti, vuoi qualcosa? Marisa porta un pochino d’acqua». Marisa, la figlia impegnata nel rigoverno, obbedisce. Lei, Pa- ola, mi chiarisce subito il suo stato di malessere. «C’ho questa cosa qui della gamba, devo restare ferma fino a settembre, ed è un impedimento che guarda, non ti dico». Le sue mani nodose e i solchi nel volto raccontano di una donna plasmata da tanti anni di lavoro. Un lavoro di necessità e fatica. Prendo il registratore mentre iniziamo a parlare. «Se vuole…». «Dammi del tu perché se no mi sento vecchia». «Ok. Se vuoi Paola parliamo e basta, senza registrare». «No, non ti preoccupare. Tanto… se può servire a qualco- sa… Loris mi ha spiegato».

264 La sua cadenza tradisce un’origine siciliana e una lunga ado- zione nel livornese. Prendo il bicchiere e bevo l’acqua fresca portatami da Marisa. Le finestre sono aperte. Lei esce dal sa- lotto. C’è qualcosa in quello che sta per succedere che Marisa non riesce a sopportare. «Io continuo a fare di là» dice. «Sì sì, vai…» le risponde Paola; ma la sua espressione faccia- le mi introduce il racconto di un equilibrio difficile, quando in quella casa si parla del Moby Prince. Premo il rec, Paola ha già iniziato: un fiume in piena e le sue parole sono come tante scariche elettriche. «Noi con 140 morti siamo rimasti così… a guardare… e presi in giro… “tanto il figlio l’ha perso”» dice imitando una cinica immaginaria voce dell’istituzione, «però un po’ino di diritto di sapere cos’è successo… All’inizio l’hanno data la colpa a mio figlio, perché guidava quel camion: “attentato bomba!90”. Ho chiamato gli amici del mi’ figliolo e ho detto:

90 Nei giorni immediatamente successivi all’attracco del Moby Prince in por- to, dopo la conclusione delle operazioni di spegnimento di tutti i focolai presenti nel traghetto, la polizia scientifica avviò i primi sopralluoghi all’interno dello scafo. Nel corso di uno di questi, all’interno del garage di prua, fu notata “una grossa lastra metallica totalmente divelta dal pavimento e bombata verso l’alto” (Verbale relazione Polizia Scientifica, p.13). Sopra alla lastra fu trovato “un auto- carro” con “la cabina e il cassone, con resti di barca, completamente schiacciati. La cabina è addirittura appiattita tanto da risultare pressochè inidentificabile. Sul soffitto sovrastante la cabina dell’autocarro, corrispondente al ponte di prua, si osserva uno squarcio presumibilmente prodotto dal violento impatto dello stesso autocarro proiettato verso l’alto. Il soffitto è posto a un’altezza di circa 5 metri” (idem). La grossa lastra metallica si trovava a copertura del locale Bow-thruster, dove risiede il motore elettrico che aziona le eliche di prua e, fu annotato dalla Polizia scientifica “tale lastra, presumibilmente, era imbullonata al pavimento”. A se- guito di tali rilievi fu dedotto che quello scenario fosse l’effetto di un’esplosione e l’autocarro, che era stato portato sul Moby Prince dal figlio di Paola, poteva essere una potenziale sorgente di scoppio. Il P.M. Luigi De Franco, in sede di indagini preliminari, ritenne così di verificare le tesi riguardanti l’esplosione attraverso la perizia di un Consulente Tecnico specializzato: il dottor Alessandro Massari, allora in forze al Servizio Polizia Scientifica della Direzione Centrale di Polizia Criminale e responsabile a livello nazionale della parte chimica della Polizia Scientifica. Nella sua relazione depositata in sede di inchiesta formale – e quindi relazione ministeriale – il 26 febbraio 1992, Massari riferiva di aver effettuato “il prelievo di 20 reperti, di averli “lavati” con acetone in modo da solubilizzare i residui di

265 eventuale sostanze di natura organica; di aver filtrato le soluzioni acetoniche così’ ottenute, di averle concentrate sottovuoto a temperatura ambiente e quindi analizzate sia singolarmente sia in miscela”. Tali soluzioni furono sottoposte a quattro tipologie di analisi. Le prime tre – reazioni colorimetriche del tipo qualitativo, cromatografia su strato sottile (TLC) e microscopia elettronica a scansione automatica abbinata a micro sonda a dispersione di energia – non rilevarono “la presenza di elementi significativi rispetto alla presenza di tracce di esplosivo”, mentre l’ultima, “la gascromatografia/spettrometria di massa (SC/MS) mediante analisi con acqui- sizione globale e mirata” individuò la presenza di TNT(trinitrotoluene), DNT (dinitrotoluene) e di NG (nitroglicerina)”. Alla luce di tale risultato Massari ef- fettuò un approfondimento di indagine mediante varianti della gascromatogra- fia e pervenne alle seguenti conclusioni riportate a pagine 26 della sua relazione “I dati analitici ottenuti con le diverse tecniche hanno permesso di identificare i seguenti composti: NH4NO3 = Nitrato di Ammonio; EGDN = Etilenglicole- dinitrato; NG = Nitroglicerina; DNT = Dinitrotoluene; TNT = 2,4,6, Trinitro- toluene; PETN = Pentrite; T4 = 1,3,5,trimetilene 2,4,6 esaciclotrinitrammina. I primi cinque sono tipici di composizioni esplosive a uso “civile”, denomina- te come Gelatine-Dinamiti, mentre gli ultimi due sono presenti soprattutto in esplosivi militari e in plastici da demolizione (SEMTEX H). Questa prima ipo- tesi però non è la sola possibile, anche se certamente la più probabile, in quanto i 7 componenti identificati potrebbero anche provenire da più di due miscele esplosive”. Questi composti furono trovati in quantità “inferiori ai limiti strumentali”, quin- di in minima porzione, ma Massari chiarì che ciò poteva riferirsi al fatto che il locale era stato lavato dai Vigili del Fuoco il 12 aprile 1991. La medesima giusti- ficazione fu data da Massari quando, sollecitato da alcune domande precise pro- venienti dai C.T. di parte, precisò di non aver trovato alcun resto di detonatore o altro sistema di innesco. L’ipotesi bomba divenne così un elemento centrale dell’inchiesta formale ed a seguito dei risultati presentati da Massari fu richiesta una duplice consulenza per rispondere a due quesiti centrali: l’esplosione avvenuta nei pressi o all’interno del locale eliche di prua poteva aver causato direttamente la collisione andando ad alterare gli organi di governo della nave? E infine, quanto rilevato dalla Polizia Scientifica era, sulla linea di Massari, l’effetto di una detonazione da esplosivo solido oppure uno scenario conseguente a una deflagrazione da gas? Il primo quesito fu posto al R.I.NA. (Registro Italiano Navale), il quale dichiarò l’esplosione estranea ai danni riscontrati agli organi di governo, perché attribu- ibili all’incendio, e soprattutto sottolineò come qualora lo scoppio fosse avve- nuto prima della collisione avrebbe avuto unicamente un effetto “psicologico”, poichè il salto del camion aveva provocato uno squarcio sul ponte e pertanto dalla plancia potevano aver osservato una fuoriuscita di fumo. Il secondo quesito, quello atto a confermare o confutare la tesi Massari sull’esplo- sione da solido, fu invece posto a MARIPERMAN, la Commissione Permanen- te per lo studio dei Materiali da Guerra della Marina Militare. Con la relazione 7895 dell’Istituto di Chimica degli esplosivi di MARIPERMAN arrivarono le

266 “ma cosa avete messo in quel camion?”. “Paola nulla, quattro motori e una barca”. All’inizio le famiglie si dovevano pre- cipitare, perché se era un attentato bomba non prendevano il risarcimento e allora hanno tirato fuori anche quello… lì» indica il registratore, «non te lo dovrei dire ma siamo cornuti e abbandonati. Poi è stato chiarito, ma all’inizio anche quello ho subito… conoscendo mio figlio nemmeno se gli mettevano miliardi in mano poteva fare una cosa del genere». Il camion. Quel camion. Quello parcheggiato nel garage di prua che era riuscito ad aprire uno squarcio sul ponte, dopo cinque metri di salto ascensionale. Un salto effetto di un’esplo-

prime risposte convergenti su una sola tesi: i danni erano dovuti a deflagrazione, da gas, e non a detonazione da solido, come ipotizzato invece da Massari. Quest’ultimo fu sentito dai giudici il 23 febbraio 1996, a quattro anni dalla prima relazione, e in tale occasione tornò a sostenere la sua ricostruzione. L’esplosione da solido avrebbe avuto come scopo “non una strage” ma l’arrecare “danni alla nave”, poichè sia il quantitativo supposto della carica, sia la collocazione non avrebbero in alcun modo inficiato la navigazione. Infatti, oltrepassati i 4 nodi di velocità l’elica di prua non viene più azionata dal governo della nave. Per Massari tuttavia questo scoppio avrebbe portato la plancia del Moby Prince al valutare un ritorno in porto e quindi una virata di 180°. A conclusione di questo lungo scontro peritale i giudici valuteranno la perizia Massari come viziata da una suggestione del suo autore, “probabilmente affa- scinato dalla prospettiva di uno scoop investigativo” (Sentenza di primo grado, p. 224). Sul piano dell’esplosione furono portati a sostegno di questa idea le perizie MARIPERMAN e R.I.NA., mentre sul piano della ricostruzione segnata dallo scoppio di solido pre-collisione, furono elencate numerose incongruenze: l’assenza di ricordo del superstite Bertrand rispetto quantomeno a un annuncio della plancia circa il rientro in porto, se non anche la memoria dell’esplosione stessa da parte del testimone oculare, e soprattutto l’assenza di comunicazioni radio da parte della plancia del traghetto sulla volontà di tornare verso il porto a seguito dell’esplosione. Unico mistero ancora inesplorato la presenza di quelle sostanze esplosive nel locale eliche di prua, sulla quale i giudici di primo grado segnaleranno unicamente di “non avere una risposta”. Unico ad averla tentata il CT di parte Del Bene, che in dibattimento segnalò di riferire la provenienza di tali residui riferibili a esplosivi illegali per la pesca precedentemente trasportati sul traghetto. I magistrati livornesi che si sono occupati dell’inchiesta-bis hanno richiesto nuo- vamente a Massari un commento circa questa deduzione conclusiva – quella sugli esplosivi illegali per la pesca – ottenendo come risposta che quel tipo di esplosivo non è riferibile alla “categoria” del tipo di esplosivo che contiene le sostanze chimiche da lui rilevate (Dichiarazioni rese da Massari Alessandro ai Magistrati inquirenti dell’Inchiesta-bis Moby Prince, 30 Novembre 2006).

267 sione sulla cui natura si aprì un grosso scrontro peritale, nel corso della prima inchiesta Moby Prince. Quel camion lo gui- dava Alberto, il figlio di Paola e per un attimo il mio punto di vista su quella questione cambiò repentinamente. Il fascino della tesi del perito Massari, quella sulla detonazione da solido – addirittura da SEMTEX, quindi esplosivo militare – e tutte le congetture conseguenti di cui mi aveva parlato ampiamente Angelo, passarono in secondo piano. Come nei software di grafica, quando cambi la disposizione degli oggetti e ciò che era dietro improvvisamente appare davanti e sovrasta quanto in precedenza era visibile, quel camion aveva una storia. Ma non era quella. Era la storia di Alberto, operaio, che stava portando quel mezzo in Sardegna, insieme al suo datore di lavoro. Non un bombarolo. Non un attentatore. Eppure, per un certo periodo, quel camion “avrebbe potuto portare una bomba”. Titoli di giornale, notiziari radio, Tg con “l’ultima sul caso Moby Prince”. Poi i periti iniziarono a dire il contrario e si scontrarono su altro: gas o solido? Prima o dopo la collisio- ne? E l’attenzione era finita su quello. Altra congettura, altri materiale, ma sempre un’altra storia. Paola, la sua telefonata agli amici del figlio per capire cos’era successo, l’onta subita, non erano stati nemmeno l’oggetto di una riflessione. Lei prosegue: «Una sera sono venuta a casa… credimi… dopo due anni vivi nel tunnel, poi ti vivi tutto questo con 56 udienze nel tribunale… tutto pensavo... che il processo finisse male… sono rimasto veramente delusa con l’amaro in gola forte… nessuno me l’avrebbe ridato mio figlio per carità di Dio… ho perso un pezzo della mia vita… però almeno sape- re… le disgrazie tutte le cose… arrivano a scoprirle… tutte le scoprono. Noi 140 morti siamo rimasti qui, 140 famiglie ad aspettare quello che succede…». Paola batte sul tavolo. Ogni frase, ogni periodo, un colpo. Come delle scariche elettriche che liberano quell’energia trat- tenuta dentro. Tra lo stomaco e i polmoni. «Tuo figlio quanti anni aveva?» chiedo. Lei si volta verso la sua destra. «Vent’anni. Ventuno da com- piere». Giro gli occhi verso l’oggetto indicato: una fotografia incor-

268 niciata. Lei continua: «Guardalo lì… che gigante… un figlio che tutte le mamme vorrebbero avere… c’erano stati dei pro- blemi da giovanetto per l’obesità… poi è morto il padre, ave- va 16 anni… lui l’avevo sempre con me… era marito, amante, figlio, tutto per me. Lei» si rivolge a Marisa entrata nella stan- za, «contava uguale, però lui, era maschio, da quando è morto il padre ha preso possesso nei confronti della madre che era una cosa morbosa… la figura sua… ma tutti gli affetti che esistono tra madre e figlio… io sono rimasta sprovveduta… non lo auguro a nessuno mancarti un figlio a quarantacinque anni e quattro anni prima mio marito… ti trovi la famiglia distrutta… certo c’è la figlia, le è nato il bimbo e gli ha messo il nome del fratello… me lo sono cresciuto questo bimbo… però questo figlio dopo vent’anni mi manca ancora. Ma mi manca… ve lo giuro… forse più in là che si va col tempo, più mi manca… quando li vedi, io faccio la bidella, quando li vedi passare… un istinto di gelosia… quelli che hanno giocato in- sieme al mio figliolo, me li ritrovo lì davanti a scuola… ma è una sofferenza… non per odio o per cattiveria… ma…». Poche lacrime dignitose le rigano il volto. Vorrebbe asciu- garle. Vorrebbe non averle fatte nemmeno partire. Ma è qual- cosa che proviene da dentro e deve uscire. Chiedo: «Come mai era sul Moby Prince?» e Paola inizia a raccontare. «Mio figlio era in ferie. Ma in ditta c’erano problemi e dice “non c’è nessuno va in Sardegna, vado io con Erminio – il suo principale – parto da Piombino”. Giovedì mattina ho accom- pagnato a Livorno un ragazzo, un vicino di casa che doveva fare l’esame dell’ACI. Tutti erano col giornale in mano, tutto un nerume su questo giornale. “Cos’è successo?”. “Eh” dice, “sai… ha preso fuoco una nave…”. Sai la gente… voci così, la mattina alle sette e mezzo. E io… c’era qualcosa che non mi tornava. Io sapevo che il mi’ figliolo mi doveva partire la sera alle otto da Piombino. Così mi ha detto lui e io sono rimasta a quello che m’ha detto lui. “Mamma domani mattina alle otto ti chiamo… se la stagione è bella mi fermo due tre giorni… se è brutta vengo via la sera”. Io non lo so se l’istinto di ma- dre… io mi son trovata al Terminal Passeggeri senza sapere

269 di dove son passata. Non lo so. Io mi ricordo una cosa sola: dove c’erano ambulanze, io mi accodavo con le ambulanze che c’era un caos a Livorno. E mi son trovata al Terminal Passeggeri che te lo giuro non c’ero mai stata. E quando sono arrivata agli scalini, prima di entrare nello stabile, ho trovato gli amici di mio figlio lì davanti. E loro m’hanno detto: “Paola cosa stai a fare qui?”. “E voi altri perché siete qui? Alberto di dove è partito?”. E loro zitti. Nessuno dei suoi amici mi ha detto niente. Io ero subito andata a cercare qualcuno che mi desse notizie. Nessuno sapeva se era partito un camion. Nessuno sapeva se c’era Bisboccia Alberto su un camion. Nulla, nessuno. Nes- suno sapeva nulla. Io ho ritrovato a Enzo, il Farnesi che era lì disperato. Non ti dico la sua disperazione che aveva quanto era grande. Enzo Farnesi mi ha detto: “Paola tranquilla, tran- quilla c’è anche la mi’ bimba, guarda l’hanno attraccato e lo stanno portando qui il traghetto”. Quando mi sono affacciata a guardare ‘sto traghetto sono svenuta, sono andata a fini- re al pronto soccorso in ospedale a Livorno, sono scappata alle quattro del pomeriggio, ho chiesto lì fuori se qualcuno mi chiamava un taxi e sono ritornata al Terminal Passeggeri. Non sono più ritornata a casa fino a che non mi hanno ridato mio figlio. Tutti chiamavano, venivano, mi facevano l’elenco se aveva tatuaggi, se aveva denti rimessi, se aveva denti casso- lati. Tutti chiedevano. Ogni tanto chiamavano qualche fami- glia ma a me non mi chiamavano. Poi mi è venuto il suocero di Erminio: “Cosa ci stai qui non c’è più nemmeno la cenere, hanno lavato tutto per spegnere l’incendio”. Ritonfa al pronto soccorso… mi è partito l’impianto elettrico del cuore… sono cose che succedono nei dispiaceri grossi». Una breve pausa. Prende aria come se finora avesse parlato senza respirare. «Poi l’hanno trovato. Era il numero 83… gli occhiali li ho ritrovati poi… la lente ho riconosciuto. Me lo son riconosciu- to. Nel viso no… mio fratello ci si è buttato sopra, ha detto: “Guarda… guarda se è lui”… c’era la borsa, con la telecame- ra, la felpa che gli avevo dato la sera, perché lui sarebbe andato via come un ragazzo di vent’anni, mezze maniche… “Portati

270 la felpa”… la felpa che gli avevo dato l’aveva attaccata alla gamba». Un’espressione sdegnata e consapevole si intaglia sul suo volto rigato. «Tutto sciupato… era tutto sciupato… la gamba… l’ho sco- perto, la pancia… mio fratello mi ha detto: “Tu nel viso non lo guardi”… ma io l’ho riconosciuto che era il mi’ bimbo… dalla roba addosso. E invece mio fratello quando mi hanno portato via l’ha guardato… Alberto era senza capelli aveva l’orecchino col brillantino, mio fratello gliel’ha lasciato. C’era il mi’ nipote che era in servizio come infermiere… gli ho det- to: “Alberto l’ho riconosciuto, mi dovete assicurare che mi date lui”, perché con quel caos() mi danno una bara e me la portano a Vada. E mio nipote mi ha detto: “Zia te lo assicu- ro non lo mollo finchè non ci ho messo la targhetta del suo nome”. Il giorno dopo me l’hanno portato… ma io vent’an- ni… è vent’anni che non s’è mai fatto buio senza arrivare al cimitero, vent’anni». Cede. Ha ceduto. E oramai non riesco più a fermarle. Tante piccole lacrime salate mi percorrono le guance. Ho prova- to con la prima. La seconda. Mi sono arreso. Quella donna davanti a me. Tutto quel dolore. Quel modo di raccontare, quei pensieri di mamma. Le lacrime di mia madre davanti agli occhi. Prosegue. «Andando là – al cimitero – ho fatto una cosa che a lui gli serve e a me pure… “Cosa ci vai a fare, là c’è quattro mura”» imita una sorta di voce popolana, «… non mi interessa… sistemo i fiori… oggi gli ho detto a mia figlia “portamici”. Questa è la vita nostra… lei non ne vuole nemmeno sentire parlare più… mia figlia… perché lei dice: “io soffro già per conto mio… cosa racconto del mi’ fratello che mi manca?”. Anche quando c’erano le difficoltà diceva: “se c’avevo il mi’ fratello magari non mi succedeva”… siamo rimaste due a farci compagnia l’una con l’altra… ma lui… a me mi manca». Paola mi guarda e si compone nel suo volto un’espressione di tenero rincrescimento: «A me mi dispiace far soffrire le al- tre persone quando racconto queste cose… ma è così…». Le dispiace per me. Perché mi ha visto piangere. Quanta anima

271 pura. Nessun rancore sconclusionato. Empatia, persino per quest’uomo che davanti a lei si commuoveva per il racconto della sua vita. E allora parliamo dell’assenza. Del senso dell’assenza. «Prima lo sognavo spesso… una notte mi sono alzata, c’era Alberto in casa… “è venuto a prendere il libretto del Monte dei Paschi… doveva andare in Sardegna per qualche mese”… era vero… ho trovato lo sportello aperto… era vero… una delusione quando mi sono svegliata… m’è preso uno scon- forto… e per quel periodo per molto tempo sentivo il rumore della tazza, lo sportello della cucina e siamo andati avanti per un paio d’anni così… poi mia figlia mi dice: “Mamma ma te li senti questi rumori?”… Alberto era in casa con me… il suo spirito c’era… e Marisa ha detto: “Sai mamma ho il sospetto che quello è il mi’ fratello”. Da quel momento non li abbiamo più sentiti… finchè ognuno ci siamo tenuti dentro di noi quei rumori… e m’aiutava a vivere… la sua anima era attaccata ancora a noi… al momento che ci siamo confessate questo fatto qui non l’abbiamo più sentito. L’ho sognato due volte in quindici anni… c’era l’odore dei suoi panni… c’era tutto, la su’ felpa, il su’ accendino e quando aprivo mi si riempiva il cuore, c’era l’odore suo… poi piano piano sono svaniti… aprivo l’armadio e mi prendeva la delusione perché ‘un c’era più… le su’ ciabatte era una cosa come se lui non mancas- se…». Suonano alla porta: «Vai a vedere chi è». Marisa si alza. Pa- ola annuisce. Ha riconosciuto il passo. «È mia sorella, non c’è quasi più con la testa, interrompiamo un attimo». «Sì, certo». Entra nella stanza una signora anziana, guardata a vista da una robusta badante che si lamenta ironicamente per questa imprevista scorribanda. Paola incalza la sorella, qualche do- manda per tenerle in azione la memoria. La signora in parte risponde, in parte no. Nella stanza infatti c’è una novità, ci sono io, e mi guarda continuamente. Paola spiega a grandi linee, la porzione di memoria che ospitava il Moby Prince è già stata cancellata da sua sorella. Venti minuti dopo la signora ricomincia il suo tour quotidiano insieme alla badante. La sa-

272 luto e lei risponde con una cordialità antica. Appena la signora valica la porta del salotto, Paola riprende il suo racconto con- tinuando a guardare nella sua direzione. «Lo devo a lei se sono qui. Dopo che rimase vedova si risposò col principale del mi’ marito… persone eccezionali. Come gli Innesti al mondo ce ne sono pochi. E mio marito guidava i camion che venivano in Sicilia… prima si è innamorato lui… poi io e sono venuta in Toscana». L’amore mischia le carte dell’appartenenza. «Primi anni in Toscana ero una suora di clausura… mio marito viaggiava… ero una sposina sola… poi dopo due anni e mezzo ho fatto mia figlia… almeno quello, ti confronti con altre mamme… un po’ino di giro d’amicizia lo fai… dopo quattr’anni ho fatto Alberto… ho tribolato a fallo, ma avevo un figlio che a du mesi era sette chili… l’ho fatto di quattro chili e quattro». Sorride. L’orgoglio materno continua a testimoniare piacere per l’impresa. «Alberto è stato tosto… però a me mi stava bene… il mi’ marito ‘un lo voleva… se c’era una pozzanghera era sua… poi ce ne ha fatte nere… era tosto tosto tosto… da 13 a 15 anni faceva dei cambiamenti giorno per giorno… mi faceva confonde con la scuola… non prendeva mai una direttiva… poi ha preso la passione delle moto… si è discus- so e io gliel’ho comprata… “signore aiutami”… il mi’ marito disse: “se succede qualcosa al tu’ figliolo sparisci subito dalla faccia della terra!” così me lo sentivo a coscienza… la dome- nica mattina era indispensabile andare a cavallo, due ore… lui l’ha fatte tutte. Si vede dentro di sé pensava “c’ho poco tempo”…». Era rimasto l’uomo di casa. Vent’anni. «Avrà dato una mano anche a livello economico. Dopo il Moby Prince come hai fatto?» chiedo. «Ho avuto l’aiuto dalla Provincia… ho preso lavoro a Por- toferraio… ho lavorato là… poi Marisa si è separata… faceva le ore… c’era il bambino… sono andata subito al Liceo Fer- mi… diretta a Portoferraio, loro sì che mi hanno aiutata… ho avuto delle colleghe che erano oro… entravo a casa e mi crol- lava il tetto addosso. A me il lavoro mi ha aiutata… le colleghe sono state più che sorelle… la mi’ famiglia, tutti… tu stavi

273 otto ore sul lavoro, dal preside al vice-preside alle colleghe mi sono rimasti nel cuore… purtroppo sono venuta a Vada per motivi miei, la casa, il mutuo la macchina vecchia… ma non c’è niente a che vedere con gli anni che mi sono passata con loro… nov’anni con loro… il Liceo Fermi era la mia seconda casa e le colleghe erano una buona parte di famiglia. Mi hanno aiutato perché io di testa avevo il mondo mio… avevo voglia di bere, di ammazzarmi… e sola non mi hanno mai lasciata nemmeno un minuto… sono stata quattro anni che nemme- no se andavo in bagno ero sola… gli amici, i parenti… poi all’Elba quando non c’era la mia figlia c’era la mi’ sorella che è morta poverina l’anno scorso di luglio. Le mi sorelle mi dice- vano “non si può lasciare sola”… sono andata a quattro anni a psicofarmaci. A Cecina mi hanno messo paura… “C’hai un bambino piccolo a casa… non sei in grado di accudire il bam- bino” e piano piano ho cominciato a levarmi una bella busta di pasticche. Non accettavo più quella vita lì… il vuoto che avevo in casa mia. Sì c’avevo mia figlia, ma non ha mai preso il posto di suo fratello. Lei era lei ma lui era lui… tutti i fi- gli… ma come il mio tutte le madri lo vorrebbero avere… era amante, marito, ero la madre, l’amica, ero tutto… non mi ha mai contraddetto se dicevo… “Alberto stasera esco, vado…” mi diceva: “Cosa ti metti?” Mi gestiva anche nel vestire e mi diceva: “Le mamme dei miei amici non sono così”. Ero gio- vane. Sono rimasta vedova a 41 anni. La vita che ho fatto non la voglio nemmeno ricordare… ma ho fatto bene quel che ho fatto… non gli è mancato niente nemmeno a lui. Lavora- vo venti ore il giorno. Poi Alberto dava una mano. All’inizio non trovava il lavoro, poi… era stato prima da questi ma gli avevano visto i capelli lunghi e si vede hanno pensato non avesse voglia di lavorare. Me lo disse il suo principale. Proprio così. Tempo dopo ci è tornato… “Facciamo una prova”. Ho ritrovato il suo capo, un ragazzo giovane anche lui, e mi dice: “Complimenti signora ha un figlio che vale oro e dire che mi era venuto e non l’avevo preso, per via dei capelli… dove lo metto metto sa fa’ tutto”. Sai a una madre gli si apre il cuore. Era cresciuto in una famiglia dove s’era sempre lavorato e gli avevi dato il buon esempio».

274 Aveva ragione Antonella, la moglie di Mauro. La morte di un figlio non la puoi superare. Puoi viverci accanto. Riempire il vuoto di ricordi e lavoro. Andare avanti. Ma c’è qualcosa che rimane. Una sorta di monito profondo verso chi ti cir- conda e la vita stessa: se una madre non dimentica, nessuno è immune. Anche dopo vent’anni. Anche dopo quaranta. C’è qualcosa che non può essere cancellato. Mi si forma in bocca un’ultima domanda, di tutti questi anni con gli altri familiari delle vittime, le è rimasto qualcosa di positivo? Come il pescatore di De André, Paola produce una specie di sorriso: «Sono rimaste tante cose. Il rapporto con Loris, che ha dato tutto per questa vicenda. Poi le bimbe: Maurita, Fan- ny, la Samantha Sciacca, la figlia del primo ufficiale. Ogni die- ci aprile vengono qui, ci ritroviamo insieme. Sono di casa… come delle figliole. Ci si fa un po’ forza tutte insieme e si va avanti. Questo è rimasto sì. Questo sì». Sorrido. Un piccolo germoglio risorge sul terreno segnato dalla devastazione. «Io andrei, Paola. Se vuoi allora ci rivediamo a settembre, verrei con l’operatore a fare delle riprese qui da te… a lavo- ro…». «Non c’è problema». La sua disponibilità è chiara come la decisione delle sue pa- role. Mi abbraccia. «Grazie». «Sono io Paola che ti ringrazio per tutte queste emozioni». Pochi minuti dopo salgo in macchina. I pensieri si rincor- rono. Arriva lucido l’aneddoto di quando Loris si trovò a un Convegno a Cagliari, dove erano presenti i Comandanti di tutte le Capitanerie di Porto d’Italia. Albanese, il Comandan- te della Capitaneria di Livorno che durante tutta la notte del Moby Prince non dette alcuna indicazioni di coordinamento ai soccorsi perché era “d’accordo con quanto sentivo dalla ra- dio – quindi dagli ufficiali suoi sottoposti – indicare”, prende la parola prima di Loris e si dichiara la centoquarantunesima vittima del Moby Prince. Il martirio morale dev’essere sta- to straziante. Totale. Loris sale sul palco e pronuncia delle semplici parole: «Se lei è qui si vede che non è la centoqua-

275 rantunesima vittima. Magari se lei avesse fatto quello che era necessario fare, a quest’ora non saremmo nemmeno a parlare di vittime». Ecco è questo. Il problema è questo. Una madre non dimen- tica. Loris non dimentica. Allora davanti a tutto ciò perché Al- banese, come gli altri protagonisti discussi di questa vicenda, ancora non parlano? Perché? La verità lenisce il dolore. La verità può lenire quel dolore. Perché non lo sentite? Arriva una sensazione di inopportunità. C’è qualcosa in quello che ho detto a Paola che non mi soddisfa. Quell’idea di tornare con l’operatore a riprenderla. Mi sembra sbaglia- to. Sento di aver vissuto un atto unico e irripetibile. Al di là dei suoni di quel quotidiano, della lavatrice con la centrifuga azionata da Marisa e del cane del vicino. La sua vita poi, la sua storia, sono un patrimonio corposo da descrivere e il Moby Prince è il taglio nella linea che abbraccia la base del pollice. All’altezza di Quercianella la strada si restringe, c’è un po’ di coda. Paola è visivamente una presenza intensa. Molto forte. Varrebbe un film a sé. Mentre l’ingorgo si dirada, inizio ad avvertire la stanchezza. A tutto questo forse è meglio pensarci più avanti.

276 17. 29 GIUGNO 2011. VIAREGGIO

Nel pomeriggio, al Centro grandi ustionati dell’Ospedale Cisanello di Pisa, è morta la 21enne Emanuela Menichetti, di Torre del Lago. Salgono così a ventinove le vittime dell’esplosione del 29 giugno scor- so. La Menichetti era tra i feriti critici e a breve doveva essere sottopo- sta a un ulteriore intervento chirurgico. Ieri mattina, le sue condizioni si sono però aggravate e la giovane è entrata in coma; il decesso è avvenuto questo pomeriggio. Emanuela Menichetti, la sera della tra- gedia, era andata a trovare l’amica Sara Orsi nella sua casa di via Pon- chielli. La più devastata dall’esplosione del treno carico di gpl. Adnkronos, 10 agosto 2009

20:16 del 30 giugno 2011. In treno. Verso casa. Alle volte scrivere è l’unica via di comunicazione con le persone. Perché parlare con le persone, confrontarsi verbalmente, può dare un senso di inquietudine. Incomprensione ed empatia. Se si fidano. Se le hanno provate. Se così allora. Alcuni ci mettono vent’anni per raccontarsi la verità. Altri possono passare la vita soffocandone il bisogno. Vedo Loris, ieri su quel palchetto davanti alla Stazione di Viareggio, con le gocce di sudore. Gli occhialetti per leggere quel discorso. Gli applausi di diecimila persone. Quanti hanno capito, quanti hanno inteso perché l’hanno sentito? Usiamo lo stesso ver- bo: sentire dal senso e sentire dall’ascolto. Hai sentito o hai semplicemente ascoltato? Loris molti l’hanno sentito. Mi scri- ve di un messaggio ricevuto su Facebook, “un grazie sentito e caloroso a tutti i comitati intervenuti… e in particolare a Loris che alla stazione ha detto quello che nessuno mai ha avuto il coraggio di dire… mi riferisco alle nostre istituzioni locali… con la forza del cuore e della ragione…”. Questa per- sona lo ha sentito. Perché ha provato quel dolore e ha colto quel bisogno di giustizia. Quello. Quello lì. Quello più puro di tutti. Non quello di chi ha perso un televisore e protesta per l’eccessiva attenzione verso chi ha perso delle persone. Non

277 quello di un operaio che in cassa integrazione protesta con il Sindaco della città per avere i suoi diritti e poi fa il secondo e terzo lavoro al nero. Non quello di un politico che si strac- cia le vesti in televisione per difendere la libertà dei cittadini quando a lui o lei interessa esclusivamente di averne per sé e il massimo possibile. Chi ha provato quel dolore, quel dolo- re rivelativo, lo sente. Sente. Si riconosce. Tutti gli altri forse sono massa orientabile. Dipendenti morali da sistemare con poco: uno stipendio dignitoso, qualche musicista in grado di emozionarli, una casa, alle volte un animale da compagnia, una compagna o un compagno di vita e qualcosa per cui sen- tirsi giusti e corretti. Stamani, a Mediaxion, riunione. Dico: «Siamo stati ieri a Viareggio. Stavo pensando di andare domenica in Val di Susa. Porterei l’attrezzatura e un operatore. Anche solo per ripren- dere Giacomo laggiù coi suoi compagni. Poi l’operatore può tornare con l’attrezzatura e io posso rimanere con una camera piccola». Non si alzano nemmeno le spalle. Un ok tacito e in- differente. A pranzo Francesca lo sottolinea: «Vedi, io penso siano importanti le piccole cose. Stamani abbiamo detto che ieri eravamo a Viareggio. Nessuno ha chiesto niente». Media- xion. La mia Mediaxion si sta disgregando. Ognuno rincorre la paura del domani, senza pensare al dopodomani che ci ha guidato finora. Ci ha. Forse no. Forse “ci” è una mia proiezio- ne. Forse davvero ha ragione Francesca. Daniela91 è salita sul palco senza preparazione. Era colpita. Era ferita anche da quello che è successo in passeggiata du- rante il corteo. Ero lì. Lì davanti. Era straziata. Per qualcuno dietro è “quella tipa lì coi capelli biondi” in segno di isterico scherno. Per qualcuno è la prima-donna protagonista. Quel- la che strumentalizza. Quella appariscente. Che vuole, chissà perché, farsi strada. Magari far carriera politica. E Daniela sale su quel palchetto con la foto di Emanuela davanti. Sale e par- la. Dopo Loris. È arrabbiata. Ringrazia. Spiega la solidarietà di andare a Torino per il processo Thyssenkrupp a supporto

91 Daniela Rombi è la madre di Emanuela Menichetti, la giovane cui fa rife- rimento il passaggio riportato a introduzione di questo capitolo.

278 delle madri delle vittime. Spiega l’essere stati a Roma contro il processo breve. Spiega la solidarietà. Qualcuno sente. Qual- cuno capisce. Non tutti. Poi dice una frase rivolta a Moretti e al resto di quanti vorrebbero stesse sola in casa nel suo dolore, in quei bei lutti di un tempo, dove le donne si vestivano di nero e si rassegnavano all’ingiustizia: «Noi non ci fermeremo mai. Questo è diventato il nostro lavoro. Questo. Cos’altro possiamo fare? Noi facciamo questo». C’è un attimo di stu- pore. Poi un applauso. Cercano di chiudere. Penso: Daniela non ti hanno capito. Il linguaggio. Le parole. Non ti hanno capito. Io ho capito cosa volevi dire. Loro no. Per questo non ti hanno applaudito a scena aperta. Per questo oggi l’Italia si risveglia con la sua solita routine. Le ventiduemila persone in piazza a Viareggio tornano alle loro case. Riflettono. Dormo- no. Poi domani c’è il lavoro. C’è la sveglia. C’è la bolletta. C’è Berlusconi, speriamo cada. C’è quella normalità. “Questo è il nostro lavoro”. Lavoro. Fatica. L’Italia è una Repubblica fondata sulla fatica, per arrivare a uno scopo. Da- niela sta faticando. Riccardo, il ferroviere diventato consulente dei familiari delle vittime di Viareggio e per questo licenziato da RFI, sta faticando. Ciascuno dei presenti ieri al palazzetto dello sport di Viareggio, riunitisi per creare un grande coor- dinamento tra tutti i familiari delle vittime di stragi italiane, stanno faticando. Stanno lavorando. Però lavoro non si può dire. Lavoro è se ti pagano. Lavoro così cosa significa? “Allora lo fate per soldi”. Come qualcuno ha detto anche a me, “lo fai per soldi”. L’inganno in tutta la sua forza stupida. La banalità del male, come diceva Anna Harendt. Faticare per guadagna- re è diventato faticare per avere soldi. Quindi soldi. Quindi solo soldi. E invece qui c’è gente che lavora per guadagnare. Guadagnare un mondo migliore. Guadagnare più sicurezza. Qualche diritto. Un po’ di libertà. La verità. Addirittura la giu- stizia. «Giacomo poi bisogna fare qualche ripresa di te che stu- di altrimenti pare tu non faccia un cazzo». Ride. «Eh già. In effetti… ho visto a Bologna la specialistica di Sociologia, è interessante». «Se vuoi ti faccio parlare con un professore bravo, un mio

279 amico. Se ti interessa la sociologia ti può indirizzare». «Bene. Ho visto, c’è la selezione. Poi… ti volevo dire che il post di Pattada mi è piaciuto veramente molto. Ti ringrazio anche di quella modifica: “Pattada. Sardegna”. È piaciuta an- che a mio cugino». «Bene». “Pattada. Italia” suonava male. Per Giacomo ci sono delle motivazioni perché debba essere “Pattada. Sardegna”. Le ho condivise, ma lui ha riconosciuto lo spunto: «È comunque un discorso interessante da fare quello che mi hai scritto: italia- nizzare è avvicinare genti divise o dividere genti unite». Già. «Sabato partiamo per andare in Val di Susa. C’è stata la chia- mata nazionale. Bisogna andare ad aiutarli. È l’ultima spiaggia per fermare il cantiere». «Provo a venire» rispondo. Giacomo fa un sorriso imbarazzato: «Sì però solo all’inizio. Dopo ci sono sicuramente alcuni compagni che preferirebbe- ro non essere ripresi». Capisco. «Ma tua mamma cosa dice?». «Dice che sono di fuori. Poi dice “se ti vedesse tuo padre”». Sorridiamo. Nel palazzetto in cui le Associazioni Familiari delle Vittime di molte stragi italiane si stanno riunendo, a un certo pun- to arriva una donna. È una delle mamme delle vittime della Thyssenkrup. Con Daniela hanno un rapporto da sorelle. Da- niela di Viareggio e lei di Torino. La signora è emozionata. Parla con la voce tremolante. È contenta della sentenza di primo grado ma ha paura tolgano il P.M. Guariniello e il suo pool. È spaventata, quasi terrorizzata. In questo paese si è terrorizzati per lo Stato. Perché lo Stato può sempre tornare a essere quella cosa crudelmente ingiusta e dalla parte di pochi anche quando per una volta ha fatto qualcosa di giusto. Ad un certo punto la signora pronuncia una frase: «Anche quando andiamo al cimitero ci dicono: “Sì, la tomba di quel- li della Thyssen”. Anche da morti quel posto se li è tenuti». È una frase enorme. Una specie di lampada enorme accesa sul nostro cervello per dirgli “renditi conto”. Hai capito? Hai sentito? In questo mondo, in questo paese, qualcuno muore

280 e resta quello di chi l’ha fatto morire. Non “quelli della fab- brica”. “Quei lavoratori della fabbrica di Torino”. No. “Quelli della Thyssen”. Della. Di loro. Proprio loro. Proprietà loro. E qualcuno tutto questo lo ha accettato. E a qualcuno tutto questo continua ad andare bene. Basta poco. Uno stipendio accettabile. Un musicista o un film che emozioni. Una casa. Una partita. Uno shopping ogni tanto. Basta poco. Loris è salito sul palchetto davanti alla stazione. Prende la parola il Sindaco di Viareggio. Passano alcuni treni. Fischiano in segno di solidarietà verso la tragedia di Viareggio. Danie- la guarda in cielo. Alza le braccia. Manda un bacio. Parte un applauso. Quel fischio. Quel fischio del treno è un piccolo gesto. Ma cambia il mondo. Quel capo treno con un piccolo gesto ha cambiato il mondo. E lo ha fatto per il bene. Ha dato un po’ di serenità. Di solidarietà. Di riconoscimento a tutte quelle persone. A Daniela. A tutti gli altri familiari. A tutti coloro che in questa sera d’estate hanno scelto di esserci. Loris ha preso la parola per tutti: «Ci continuano a ripetere: “datevi pace, metteteci una pietra sopra”. Mi spiace: ma non esiste una montagna che possa coprire il dolore che tutti noi abbiamo provato, quindi rassegnatevi voi!». Applausi. «Bravo Loris!» grida un viareggino sotto il palco. Lui prosegue: «Oggi per Viareggio non è stata solo la giornata del ricordo, della memoria. Oggi Viareggio ha visto nascere un’associazione che ci riunisce… nessuno sarà più solo nella sua battaglia di verità». È il suo messaggio. La sua presen- za. Nessuno più resterà solo. Lo guardo e la mente torna al viaggio in Sardegna. Loris è lì sul ponte, insieme a Giacomo. L’ufficiale della Corsica Ferries segnala: «Ci siamo» e loro si avvicinano alla paratia. Hanno tra le mani una ventina di rose rosse. Giacomo ha avuto questa idea commemorativa, Loris c’è. Nessuno resterà solo. Giacomo non lo è, quando, lanciata l’ultima rosa dalla paratia con sulla sinistra le luci di Livorno ancora ben visibili, torna vicino alle vetrate del ponte e trova nell’abbraccio di Loris la spalla su cui commuoversi. I suoi occhi sembrano dire “erano lì, erano lì”. Come disse Mauro a Loris il 10 aprile 2011: “Erano lì, potevo buttarmi e arrivarci a nuoto”. Eppure il destino è così. Eppure qualcosa non ha

281 funzionato e su quel qualcosa bisogna lavorare. Perché non accada mai più. Perché “nessuno più resti solo” nella sua ri- cerca di un mondo diverso. Loris ripete la parola “solidarietà”. Solidarietà ai viareggi- ni. Solidarietà a chiunque abbia sofferto e per questo è lì: gli amici di Casale Monferrato per le vittime dell’amianto, quel- li della scuola di San Giuliano di Puglia, quelli, ancora, della Casa dello Studente de L’Aquila. «A lungo ci siamo chiesti se è un Paese normale quello in cui una madre è costretta a camminare con la foto del proprio figlio davanti per ottenere giustizia. No, non lo è. Ma questa è l’Italia che abbiamo». Re- spira. Loris non ha niente da perdere e raccoglie tutto. «Come si può chiedere a Daniela, a Paola, a Ivanna di dimenticare o peggio ancora di chiudersi in un dolore intimo?». Le ha unite. Le madri delle vittime del Moby Prince e le madri delle vitti- me della strage di Viareggio. «Certo, io capisco coloro che vogliono rimuovere. Questa continua ostentazione del dolore o delle immagini disturba» passa un treno e inizia a fischiare, «è come quell’armatore li- vornese che dice: “chiederò a Granducato di togliere quelle immagini del Moby Prince che fa da sigla al telegiornale, per- ché sono passati vent’anni, a che serve?”. A che serve? Serve a far sì che i 140 morti che ci sono stati quella notte su quel maledetto traghetto, come i morti di Viareggio, come quelli de L’Aquila, siano veramente gli ultimi. Affinchè non ce ne siano più. Affinchè nessuno più muoia sul lavoro o in casa propria. A questo servono la memoria e il ricordo!». Un lungo applauso segue queste frasi, sullo sfondo il fischio lungo di un altro treno che decellera nella sua corsa. A Giacomo il discorso di Loris è arrivato. Anche a Fran- cesca. Si è commossa. Loris gli ha chiesto se voleva tenere lo striscione. Francesca si è detta onorata. Quando l’ho vista dietro lo striscione ho pensato alla bellezza dell’amore. Mez- zora prima ne parlavamo con Paolo, l’amico-operatore venuto da Ferrara per queste riprese. Voleva sapere com’è lavorare con chi si ama. Bello. Difficile. Ma se ami qualcuno lo stimi anche per le sue qualità. E allora è bello lavorare per far espri- me quelle qualità e ritrovarsi a condividerne insieme i frutti.

282 Ma bisogna stare attenti. Il lavoro oramai è diventato routine. Canone. E spesso ti mangia. Tre giornalisti in fila. Tre sceneg- giature già viste. Tre passaggi di quell’attenzione disattenta di chi lavora per raccontare notizie. «Chi sei te?». «Loris Rispoli». «Ah, e come mai sei qui?». «Sono il rappresentante dei familiari delle vittime del Moby Prince». «Ah. Capito. Posso farti due domande allora?». «Certo». Tre volte Loris ieri davanti agli occhi miei e della nostra ca- mera ha dovuto ripetere: “Sono Loris Rispoli. Sì sono qui in rappresentanza dei familiari delle vittime del Moby Prince. Sì siamo qui per sancire l’inizio di questa associazione tra tutti i comitati della vittime delle tragedie italiane, per solidarietà reciproca”. Chiede una lei col microfono puntato: «Ci puoi dire due parole sul Moby Prince? Cioè questa vicenda che alla fine dopo tanti anni è ancora irrisolta». Loris non si scompone, le parole escono da sole: «Non sono stati puniti i colpevoli, ma non è irrisolta. Nella sentenza di appello di Firenze ci sono scritti i responsabili: l’armatore Onorato, il Comandante della petroliera contro cui è andato il Moby Prince, Superina, e il Comandante della Capitaneria di porto, Sergio Albanese. Il problema è che nessuno di questi è stato punito perché il rea- to era prescritto. Quindi dovremmo cambiare il capo di impu- tazione da omicidio colposo a strage colposa. Così potremmo riaprire il processo». “Cazzo” penso io. “Questa sì che è una notizia”. Potrebbe riaprirsi il processo Moby Prince. Il rappresentante dei fami- liari delle vittime vi sta dicendo che si potrebbe riaprire il pro- cesso della più grande tragedia della marina civile di questo paese, della più grande strage sul lavoro di questo paese. Due telefonate in redazione, pezzo in prima pagina. “Clamorosa riapertura possibile”. Poi potreste studiare e capire che nessun giornale italiano o tg italiano o radio italiana nazionale ha mai parlato esplicitamente della sentenza di appello di Firenze sul

283 Moby Prince, né tantomeno dell’archiviazione dell’inchiesta bis. Nessuno ha mai fatto una puntata in prime time per dire: “ecco: la tragedia del Moby Prince secondo lo Stato Italiano è dovuta all’armatore della Moby Prince, Onorato, per le con- dizioni del traghetto, al Comandante della petroliera statale Agip Abruzzo, Renato Superina, perché stava a radar spento in una zona di divieto d’ancoraggio, al Comandante della Ca- pitaneria di Porto, altro ente statale, Sergio Albanese, per non aver coordinato i soccorsi e secondariamente al terzo ufficiale dell’Agip Abruzzo, l’allora ventitrenne Valentino Rolla per non aver indicato la presenza di nebbia”. Ecco qua. Ave- te già tutto. Invece niente. O poco più di niente. O molto meno del tutto cui dovremmo tendere. Alle 17 al Palasport di Viareggio c’erano tante persone. Per quella giornalista, poche. «Non c’è tutta la città». Loris risponde pacato: «Non deve vedere ora, deve vedere stasera. Ora è il momento dei familiari delle vittime per questo coordinamento tra tutti i comitati». A quella ragazza non bastavano. Ne voleva di più. Baude- laire diceva: “il piacere della moltiplicazione del numero”. Una massa amorfa intellettualmente ma presente fisicamen- te fa più di duecento persone partecipi e unite. Siamo ancora a questo livello. C’è rabbia nelle mie parole. Sono arrabbiato. Sono molto arrabbiato. Alla fine le parole se le porta via il vento. Le parole sono base dell’inganno. L’esperienza rivela. Le parole inseguono l’esperienza e mettono tutto in ordine. Allora ieri ho pensato: qui si misura lo spessore delle perso- ne. Da chi c’è oggi qui a Viareggio si misura quanto Ventan- ni riuscirà nel suo scopo di cambiare, cambiandoci. Perché bisogna farlo un progetto così per capire. Ma se quel dolore non lo si è mai provato. Se c’è poco di noi in Ventanni, da Ventanni si sta lontani. Come da Loris. Come da Daniela. Come da Giacomo. Come da tutti loro. Come da tutti noi. Davanti a ventiduemila persone e interrotto più volte da- gli applausi Loris ha spiegato: «Chi perde un familiare ha un dolore non paragonabile a chi perde una casa, un televisore, un telefono e nessuno si deve permettere di equipararli». Io non ho perso un familiare sul Moby Prince. Anche se un altro

284 giornalista disattento ha scritto anche questo. Ho vissuto al- tro. Forse proprio per quel dolore riesco a intendermi con chi invece è un familiare delle vittime del Moby Prince, come di Viareggio, come delle White House di Milano. Ma da quel do- lore bisogna trarre la forza per cambiare. Quel dolore è il mo- tore del cambiamento. Di quel cambiamento vero. Quello di due signore anziane. In passeggiata a Viareggio. La sera del 29 giugno 2011. Si vedono sfilare dei giovani dietro uno stri- scione “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole”. Li guar- dano si commuovono e iniziano a battere le mani. “Bravi! Dai”. Vicino al loro un uomo grida: “la Verità!”. E Giacomo si commuove a sua volta. Quel sostegno, quell’enorme so- stegno di Viareggio, quelle ventiduemila persone in piazza, la gente per le strade a incitare con compostezza, le migliaia di bottigliette d’acqua donate dalla Coop alla protezione ci- vile per darle alla gente, le luci dei locali – anche di Burger King – spente, la sentita solidarietà di tutta quelle gente lo ha commosso. E mi ha commosso. Nel ricordarla ora. Mi con- tinua a commuovere. Perché Giacomo se lo merita. Perché tutte quelle persone se lo meritano. Perché hanno fatto una cosa grande. Hanno dato speranza a un ragazzo che se la merita. A tanti ragazzi che se lo meritano. A tanti uomini che se lo meritano. A tante donne che se lo meritano. A Daniela. A questa donna sconvolta che, come dice Loris, ha dovuto mettere in piazza il suo dolore per essere ascoltata. Come le madri delle vittime del Moby Prince. Come Giacomo. Come Loris. Come tutti loro. Livorno però è diversa. La Livorno solidale si è fermata alla pacca sulla spalla e al “deh mi piglia un’angoscia quando vedo Rispoli”. Livorno è un bambino viziato. Quando la realtà è troppo forte, scappa. Pensa di essere qui solo per essere ser- vito. A servire ci penserà qualcun altro, di cui sicuramente è la colpa per tutti i mali del mondo. Ma Livorno è anche Andrea, l’amico di Giacomo. Uno degli amici di Giacomo venuto a tenere lo striscione. Chiede del documentario. Chiede dove finiranno queste immagini e lo chiede in modo sinceramente partecipe. È di Livorno, lo dice alla livornese, con grande sin- cerità: «Secondo me se fai uscire questa cosa al cinema è roba

285 da seghe». Si ferma, mi guarda quasi imbarazzato. «Scusa… sai a Livorno si dice così». Lo so. Ho capito. Se Livorno vorrà, forse “seghe” no, ma almeno un po’ di ossigeno a chi ne ha bisogno, quello lo spero.

286 18. IL PICCOLO MAURO E L’ALTO PATRONATO

“Prima pagina venti notizie/ventun’ ingiustizie e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna/poi getta la spugna con gran dignità”. Fa b r i z i o De An d r é , Don Raffaé

Per acquisire un S-VHS ci vuole un lettore VHS, una sorta di cassetta apribile dove inserire il supporto originale e un registratore DV. Ho tutto tranne l’ultimo. Chiamo Andrea, il Vito, e chiedo se lui ce l’ha. «Lo trovo. Per quando ti serve?». «Prima possibile». «Va bene, dammi un pomeriggio». Il giorno dopo me lo vedo arrivare con questo registratori- no DV, qualche cavo indispensabile e una VHS con l’imma- gine di due sposi. «Francè l’ho trovato ma è di uno che me lo ha dato così, a ufo, se gli convertiamo in DVD il VHS del matrimonio». «Va bene. Grazie. Ringrazialo». Mezz’ora dopo attacco tutti i cavi, acquisisco prima il fil- mato del generoso prestatore, poi la S-VHS di Mauro. Me l’aveva detto con una splendida luce negli occhi: “Francesco sono sicuro che questo è il filmato giusto. È quello dell’ultima vacanza con i miei genitori”. L’idea di quel patrimonio fami- liare tra le mani mi rendeva felice. Stavo facendo qualcosa per Mauro, stavo restituendogli un po’ di felicità con un po’ di lavoro. Volevo chiudere il tutto in fretta per spedirglielo. Come quando hai un regalo sotto mano e non vedi l’ora di farlo scartare al destinatario. Il pop-up di acquisizione si chiude: 2 ore e 47 minuti. C’è tutto. Metto sulla timeline e premo la barra della tastiera con l’indice: play. Una cascatella e la data in sovraimpressione “10.8.’90″. Stacco. Le immagini di una piazzetta del Trentino sul cui lato corto svetta una baita battezzata da una grande scritta a caratteri cassonati: “Terme di Pejo”. La camera balla

287 un po’ e l’operatore amatoriale si è innamorato dello zoom. Inquadra una coppia matura, di bell’aspetto, a circa venti me- tri da lui. L’uomo sorride, scuote la testa divertito, mentre la donna saluta nella direzione della camera, voltandosi. L’ope- ratore torna a sondare la potenza dello zoom e inquadra un musicista da piano bar sopra un piccolo palco nell’angolo alto e destro della piazza. È a lui che si deve la musichetta di sot- tofondo. Qualche secondo di ripresa, poi l’operatore torna a cercare la coppia oramai lontana e in cammino: «Vediamo mamma e papà solitari, cosa staranno andando a fare? Li se- guiremo noi…». La voce dell’operatore è quella di un ragaz- zino che simula una cronaca giornalistica rivolta a spettatori immaginari. Intuisco chi sia. Sorrido. È Mauro a tredici anni. Quella coppia sono Giovanni Filippeddu e Maria Filigheddu, i suoi genitori. Li vedo per la prima volta in video. Per la prima volta muover- si. E la cosa mi fa pensare. Il ricordo di Mauro, accompagnato dalle foto che ci aveva mostrato, rendevano comunque l’idea di un qualcosa di compiuto e drammaticamente concluso. Un passato statico opposto a un presente dinamico. Vedere quelle persone muoversi sullo schermo era invece uno scampolo di vita. La vita dinamica. Quella vera. Provo una sensazione stra- na. Quel filmato era come ridare un presente illusorio a una vita nei fatti conclusa. È giusto farlo? Altro stacco di ripresa. Le immagini del bosco che cinge la piazza fanno da sfondo al commento ironico del piccolo Mauro: «Chissà se vedremo degli animali nei boschi…» cambia il tono, diventa concita- to, «ecco! Ho intravisto papà, è sull’albero!». Torna con un registro cautelativo: «Ah, era un abbaglio… era un orso bru- no… con il pelo non si scherza… mi sono confuso». Sorrido. Quindi la battuta pronta Mauro l’ha sempre avuta. Un attimo dopo la camera torna sulla piazza. I suoi genitori sono seduti su una panchina. Mauro li inquadra con lo zoom ed esplode in un dolcissimo: «Ba-cino!». La coppia sorride. Lei volge la guancia destra a lui. Il signor Giovanni si avvicina, dalla posizione parrebbe gli sia sembrato di doverlo ricevere il bacio, mentre la signora Maria gli stava semplicemente dando la direzione. Lui la bacia così, castamente, e l’operatore ragaz-

288 zino esulta di imbarazzata felicità: «Uuuhhh!». Qualche ora dopo ci sentiamo su Skype. Il filmato è pron- to. «Te lo mando via posta». Mauro mi chiede notizie su quel girato e rinnova la sua fama di persona ironica: «Sono molto grasso? Vedi se riesci a farmi perdere qualche chilo con la tec- nologia di ora!». In effetti le immagini del filmato mostravano un Mauro tredicenne tendente al largo. Ma niente di esagera- to. Qualcosa di più vicino alla testimonianza di una sovente concessione di sfizi alimentari. Nel vederlo il mio pensiero era andato a quando mi raccontò, con la solita lucida capacità au- to-riflessiva, della trasformazione cui fu sottoposto dallo zio presso il quale trovò destinazione dopo la morte dei genitori: «Devo molto a quello zio, il fratello di mio padre, perché è ri- uscito a trasformare il Mauro viziato in quello che sono ades- so. Ero cresciuto in un ambiente ovattato dove non dovevo fare niente, non mi mancava niente. Lui ha avuto il merito di mettermi davanti al mondo vero. Quello delle responsabilità. Quello del lavorare per ottenere le cose». Azzardo: “Mauro potrei usare per caso qualche immagine del filmato? Sarebbe la cornice perfetta per il tuo racconto”. La sua disponibilità si rivela totale. Avevo una remora ecces- siva a riguardo. Infondo Mauro mi ha sempre detto che la sua partecipazione era centrata sull’idea di ricordare i genitori e quello era un documento molto valido in tal senso. Poi Ven- tanni era riuscito a porgli davanti anche altre piccole sfide: quella del tentare di interpretare al meglio il confronto tra An- gelo e Loris, e soprattutto quella del dialogo comparativo con Ivanna. La conversazione su Skype finisce inevitabilmente su entrambi. Mauro ha riconosciuto le ragioni di Angelo e Loris, e capisce le mie. Condivide anche la ricostruzione metaforica: Angelo, la testa, Loris, il cuore. Però quell’incontro, per lui, resta veramente complesso. Se si fossero messi insieme avreb- bero ottenuto altri risultati. Ma è andata così. Mauro mi chiede di Ivanna. Vuole capire se la sua decisio- ne di mollare Ventanni sia realmente definitiva. Rispondo di sì. È una donna () determinata. Abbiamo parlato a lungo e devo dare la scelta come conclusiva. Quanto alla liberatoria

289 sul girato sono possibilista. “È un vero peccato” commenta Mauro via chat e mi sottopone un punto di vista cui non ave- vo pensato: “Quando non ci sarà più lei, che ne sarà del suo ricordo?”. Come al solito un familiare delle vittime del Moby Prince mi portava ad aggiungere un’inquadratura nel modo di leggere la loro vicenda. Per Mauro il tema del “cosa resta” non è una variabile secondaria. E mi segnala una notizia mol- to bella: “Sai mi è venuto in mente di scrivere un libro sulla mia storia. Un racconto dei miei ricordi, penso possa servire a me come a tanti altri. Mi era venuto in mente da quella fra- se di Stefano sulla memoria. Quella cosa che aveva detto sul fatto che quando poi moriamo i nostri figli non sanno tanto di noi. Allora mi è venuto in mente di scriverlo per Federico e per chi lo leggerà”. Mauro aveva letto in Ventanni, e stava leggendo nella sua ipotetica avventura autoriale, un modo per amplificare il segnale della memoria dei genitori. Un segnale inevitabilmente indebolito dal passare degli anni, tra la gente che li aveva conosciuti direttamente e tra quella che ne aveva avuto solo notizia indiretta. La portante era quindi quel con- cetto del “affinché la memoria non muoia” che era tanto caro a Loris. La memoria come qualcosa da difendere e rinnovare contro l’usura del tempo, contro l’incedere di nuove informa- zioni cui si doveva l’oblio sempre in agguato. “Tu Ivanna l’hai sentita?” chiedo. “No. Non ce l’ho fatta ancora. Sono stato preso tra lavoro e politica. Guarda ho una riunione anche oggi. Ma comunque la chiamo. Magari se ci parlo io ci può ripensare”. La mia tastiera emette un “bene”. Non servirà. So che Ivanna ha deciso e non tornerà sui suoi passi. Per lei quella memoria è un dolore ancora oggi troppo vivo. Soprattutto lei non ha quell’idea altruistica del raccon- tare e raccontarsi. Non ha un figlio, una ragione vicina, cui sentire il bisogno di trasmettere la sua storia. Lo avrebbe fatto solo per la gente. Solo per il pubblico generico che doveva sa- pere. Ma a Ivanna interessava controllare il cosa. Il cosa quel pubblico dovrebbe sapere. E nell’elenco c’erano le carenze del traghetto, c’erano i suoi dubbi sulla vicenda, c’era il suo disagio verso il comportamento di Angelo e Luchino Chessa, ma non trovava spazio l’immagine del suo volto. Non poteva

290 starci, per lei, quell’immagine di dolore sordo, dignitoso ma presente, che per tanti anni aveva pensato di mascherare. La giornata è quasi finita. Ci salutiamo con Mauro, perché devo chiamare Angelo e Giacomo per le ultime conferme relative a questa sessione di riprese. L’ultima sessione pre- montaggio. Manca da rifare qualcosa, qualcosa di ri-fattibile. Sull’evento unico e irripetibile, sul 10 aprile come L’Aquila, mi mangio le mani per le tante occasioni perse. Eppure la le- zione è lì sotto gli occhi. Me l’ha data Andrea, il Vito, ieri: «Tu France’ lasci troppo fare. Poi tutto insieme: bam, arrivi e fai piazza pulita. Secondo me dovresti dare meno libertà prima e lasciarla poi». Avevo risposto che io credo nella libertà e nella capacità degli equilibri di generarsi da soli, spontaneamente, con poche pochissime direttrici. Andrea mi aveva guardato col suo realismo poco magico: «France’ queste sono segate. La gente si fa i cazzi propri, non ha voglia di lavorare e vuole guadagnare. Tutti sono così. Te sei una specie di alieno e in- fatti non so bene come fai. Ma a livello generale oguno si fa i cazzi propri e se vuoi ottenere qualcosa da qualcuno lo devi comandare. Non ci ho mai creduto a questa storia delle or- ganizzazioni senza comando e ti dirò voi – Mediaxion – siete stati un piccolo dubbio alla mia teoria. Ma ora direi che in- somma… di prove ne hai avute a sufficienza». L’obiezione era stata debole: «Andre’, ma a te essere comandato in tutto ti dà fastidio no? E allora c’è solo da capire il limite in cui mi posso fidare di quel che fai…». Il Vito aveva chiuso col jolly: «Sì ma se tu non mi dici cosa vuoi quella fiducia è un po’ troppa». Fidarsi, affidarsi. Libertà e sottomissione. Sto perdendo il cervello dietro a tutto questo. Mentre sono lì a pensare, mi squilla il cellulare. Una voce di donna, con tono da impiegata statale cui tocca addirittura fare quella telefonata, mi chiede se io sono io. Rispondo di sì. «Allora senta, lei quindi è un familiare delle vittime di questo Moby…?». «Prince». «Sì, Prince» lo legge com’è scritto. «Allora senta io chiamo dalla Prefettura di Firenze, ci è arrivata questa cosa qua della richiesta per l’Alto Patronato della Presidenza della Repubbli-

291 ca per questo progetto… Ventanni…». La interrompo: «Io non sono un familiare delle vittime della Moby Prince, sto dirigendo un progetto sulla vicenda con al- cuni familiari come protagonisti ma…». «Ah, quindi non è un familiare? Comunque se lei rimanda un attimo due righe sulla richiesta potremmo vedere di valu- tarla…». «Ok». Ringrazio e chiedo come mai è arrivata alla Prefettura di Firenze, visto che l’ho inoltrata alla Presidenza della Re- pubblica tramite il sito web relativo. «Guardi a dire il vero non so darle una risposta» cambia ar- gomento, « ma scusi ma lei cos’è poi che sta facendo?». Chiedo in che senso. Lei risponde candidamente: «Cioè cos’è questa cosa che sta facendo?». Cerco di spiegare e la signora mi interrompe bruscamente, come quando allo sportello, mentre tenti di farti capire usan- do alcune parole chiave fuori dalla pratica in oggetto, l’opera- tore ti sottopone una faccia annoiata e assente del tipo: “non sono obbligato ad ascoltare questi discorsi”. E soprattutto mi dice: «Guardi io non ne so niente di questo Moby Prince, se mi vuole reinoltrare quanto ha già scritto alla Presidenza ana- lizziamo la cosa e poi le facciamo sapere». Ringrazio e saluto. La Prefettura di Firenze non riceverà da me quei documenti. L’Alto Patronato finirà a qualcun’altro. Sento così Giacomo. Gli è arrivata un’altra denuncia sempre per questioni di attivismo politico. Lo Stato ritorna anche qui a far sentire la sua voce. Martedì Giacomo dovrà andare a Firenze per l’udienza. «Se volete potete venire» mi accenna. «Ok» rispondo, «ma se possiamo venire lunedì per parlare con tua mamma sarebbe meglio. Così se te sei a studiare ti faccia- mo qualche ripresa, poi facciamo a lei l’intervista e l’indomani si andrà a Firenze». «Chiedo a mamma e ti faccio sapere». Poco dopo uno squillo. Lo devo richiamare. «Scusa non ave- vo soldi nel cellulare. Dice mamma che va bene. Vi aspettia- mo lunedì pomeriggio». Lunedì Livorno. Giovedì Milano. Ho già fissato, ma chiamo

292 Angelo per conferma. «Angelo ciao. Allora, è tutto a posto: veniamo il 14 e andia- mo insieme nello studio Bardazza e poi con te in ospedale». Angelo è titubante. «Francesco ma avete chiamato l’ospeda- le per questa cosa? Perché mi hanno chiamato…». «Certo» rispondo, «a questo giro ho il permesso di ripren- derti anche in pronto soccorso, sono stati molto gentili». Angelo resta titubante: «Francesco ma io mi vergogno… non è che mi fate recitare come l’altra volta?». Il sangue sale al cervello. «No Angelo, stai tranquillo. Qui nessuno deve recitare». Condivide. È più tranquillo. Ma comunque non vorrebbe riprese mentre opera. Sono cose “delicate”. «Va bene» rispondo, «ti riprendiamo quando arrivi e qualco- sa in momenti di pausa, ok?». «Va bene» mi risponde con un filo di voce. Altra concessione, altro piccolo favore. Lo sapeva che que- sta storia sarebbe stata difficile, ma non pensava fino a questo punto.

293 19. MEMORIA DI MADRE PER FIGLIO

“Guarda io ci sono salito nel garage del Moby. Una settimana dopo. C’erano i bagagliai delle auto aperti, forzati, e si vedeva che qualcuno aveva frugato nelle valigie e portato via roba. Uno schifo. Una cosa vergognosa. Chiunque poteva salire su quel traghetto”. Fa m i l i a r e d elle v i t t i m e , San Benedetto del Tronto

11 luglio 2011. «Siamo qui da mia sorella… stiamo rifacendo il parquet». Stefania è uguale a mia madre. «Stefania devo farti conosce- re mia madre. Secondo me potreste diventare amiche». «Bene». «Siete uguali. Fai le stesse occhiate e non sei sarda». «Sì, ma i sardi li conosco». Giacomo ascolta. Quando Stefania parla, Giacomo ascolta. Poi lei mi guarda e, mentre lui ha gli occhi bassi, mi fa la stes- sa occhiata di mia madre quando intende: “io l’ho buttata lì vediamo come reagisce”. La stessa. Dura la vita di madre per chi ha un figlio diverso dalle attese. Dura la vita di madre per chi ha un figlio diverso dalle attese, orfano da vent’anni per il Moby Prince. «Dopo andiamo dall’avvocato». Lei mi guarda. Quella frase di Giacomo si poteva dire? «Ma questo nel documentario non ce lo metti vero?». «Stefania, Giacomo è anche questo quindi il suo impegno politico ci deve finire». «Oh mamma mia» come mia madre. La stessa espressione. «Questo preferirei di no». «Mamma sono grande e vaccinato» rivendica Giacomo. Ma quel dubbio lo colpisce. Come mi colpivano i dubbi di mia madre. Quando cresci da solo con una donna, con tua madre, il suo parere è importante anche quando è contro. Anche quando è sistematicamente contro. Perché è quel contro a fin di suo bene. Quel bene che comunque lo sai.

294 C’è. E ci devi avere a che fare. Giacomo è un viaggiatore, gira per il mondo: «Guarda mam- ma che quando io parto e faccio i miei giri le tue parole sono sempre importanti. Io ne tengo di conto». «Sì Giacomo, ma poi fai come ti pare». «Certo, ma io ne tengo di conto anche quando faccio come mi pare. Sei stata una figura autorevole. Le tue parole sono autorevoli». «Bene. Sono contenta. Ma se ogni tanto a questa autorevo- lezza tu c’avessi messo anche dell’altro…».. «Un po’ di autorità» azzardo io. «Ecco. Come dice Francesco. L’autorevolezza è bella. Ma se poi fai come ti pare alle volte è poco». Ridiamo. Giacomo studia. Studia i principi della società liberale. Sot- tolinea. Si appunta impressioni. Tra poco dobbiamo andare dall’avvocato. Lo aspetta perché ci sono state delle denunce. Delle denunce per la sua attività politica anti-liberale. Pare gli abbiano preso le impronte su adesivi che secondo le forze dell’ordine inneggiavano a intenti bellicosi. «C’era il simbolo di Windows “Arresta il sistema” e dietro una manifestazione» mi spiega. «Ma com’erano i manifestanti?” domando. «Beh sì, era una manifestazione forte. Ma di qui a dire che “inneggia alla violenza”. Oramai ci hanno mirato. Ci hanno preso di mira. Vogliono fermarci così e io sono stufo. Anche agli altri compagni alla prossima riunione lo voglio dire. Se continua così non va bene. Io mi sono preso già otto denunce. Tutte per cosette così». «Eh no Giacomo» ribatte Stefania, «‘un sono cosette così… tu sei andato a disturbare una processione!». Giacomo reagisce: «Io sono andato a contestare i fasci- sti… quelli della processione ci avrebbero dovuto ringra- ziare per aver denunciato una uscita politica di fascisti; del contesto religioso non ce ne importava minimamente quel giorno, nonostante si potesse accusare anche la stessa curia che sapeva della loro presenza; i tradizionalisti dovrebbero arrabbiarsi perché erano stati utilizzati strumentalmente dal-

295 la destra fascista che noi abbiamo contestato!». Stefania giustifica: «Ma tu lo sai come sono quelli della processione… cosa ti aspettavi? Non si va a contestare una processione, poi a Livorno, che dicono tutti d’essere dell’altra parte ma guai a toccargli certe cose…». Giacomo guarda in basso mentre sistema i libri: «Allora si guardassero da chi va a queste cose… io ero lì solo a conte- stare i fascisti. Come mai se la prendono con noi e non con loro?». In macchina, verso l’avvocato, parliamo. Giacomo ha vo- glia di sfogarsi. Ha vent’anni. Ha già sentito le conseguenze dell’ordine. «Una denuncia me l’hanno fatta perché ho acceso un lamperogeno in una manifestazione… te dimmi quanti ne vedono… ecco, a me subito… dicendo poi cose palesemente false come che l’avevo tirato, mentre l’ho acceso e poi tenuto basso fino a buttarlo per terra quando esaurito. Oramai ce l’hanno con noi… con i miei compagni. Non va bene. Ora- mai a Livorno qualsiasi attività politica non istituzionale è un problema. C’è l’intento politico di rompere le cerniere di so- lidarietà che si sono costruite negli anni. Prendono di mira le cerniere ma non sanno che dietro ci sono fili già tessuti da anni… non li bloccheranno perché con la paura non ce la fanno, ma io sono stufo. Domani dovevo andare – altra ma- nifestazione – invece non ci posso andare perché devo andare dal giudice a Firenze. Queste poi sono cose che ti rovinano. Anche per dopo». Te lo dico, Giacomo, pensa bene. Pensaci bene. Dove vuoi arrivare e i mezzi per arrivarci. Intanto arriviamo dall’avvocato. Come promesso a Stefania non saliamo a riprendere Giacomo. Facciamo coperture di Livorno. La Livorno vicino a Piazza Attias. Quella che dall’11 aprile al 9 aprile dell’anno dopo si dimentica del Moby Prince e una parte di quella che se ne dimentica anche il 10 aprile. Mi chiama e lo raggiungiamo. «Com’è andata?» chiedo. «Tutto bene. Dice di stare tranquillo, fa tutto lei». «Parliamone, di questa storia...». Lui prosegue oltre: «... poi Francesco io penso anche all’as-

296 sociazione dei familiari. Sai non tutti hanno l’apertura mentale di Loris. Se queste cose in qualche modo minassero la mia immagine di familiare che combatte per ricevere giustizia, non lo vorrei perché si deve capire che le battaglie che perseguo sul fronte ingiustizia sono anche quelle che perseguo nel per- sonale… mio personale come la Moby Prince purtroppo… e le due cose non sono da separare. Quello che faccio nella vita di tutti i giorni, battaglia politica contro l’ingiustizia, è quello che faccio anche per la Moby Prince, ma essere denunciato per una battaglia colpisce la libertà di espressione e fornisce alla popolazione un’immagine pseudocriminale di chi lotta e delle battaglie stesse. Come in Val di Susa». È chiaro. «Io sono un anarchico che si muove in un contesto istituzionale. Per la questione Moby devo per obbligo, perché la nostra storia dagli inizi a Livorno così si è mossa… quindi so relazionarmi con le istituzioni». Comprensibile, ma ti ripeto: «Dove vuoi arrivare? Io non capisco i movimenti di base come il tuo. Dove volete arrivare? Se siete in un’istituzione come lo Stato di diritto, per cambiar- lo o si fa la guerra, e la perdereste, o si entra politicamente nel palazzo e lo si cambia dall’interno». Giacomo non è d’accordo: «No. Assolutamente no. La de- mocrazia rappresentativa è fallimentare. Se vai lì diventi come loro. Nelle lotte e battaglie per la comunità il contesto istitu- zionale è come un bavaglio o un guinzaglio per poterti tenere sotto controllo nel migliore dei modi». Ribatto: «Quindi preferisci starne fuori così? Cosa pensavi di trovare anche in Val di Susa? In uno Stato di Diritto il mo- nopolio della forza è delle forze dell’ordine». Lui insiste: «Quella è resistenza. C’è una valle che resiste e io sono solidale con la loro resistenza». Capisco ma non condivido: «Se sei in uno stato di diritto ti prendi buono e meno buono. Tra il meno buono c’è che decidono di te a distanza di migliaia di chilometri dei rappre- sentanti, spesso di una maggioranza diversa da quella cui tu riponi fiducia. È la democrazia». «La democrazia è anche altro» ribatte, «potrebbe essere al- tro. Ci sono esperienze come prima della vittoria delle milizie

297 franchiste e l’ascesa al potere di Franco». «Le hanno abbattute, Giacomo. Stalinisti da una parte e fa- scisti dall’altra. Belle. Bellissime. Ma la storia le ha abbattute. Ora siamo qui. In un Paese nato dopo la resistenza. Quel- le persone morte sui monti sono morte anche per darci la possibilità di vedere realizzate regole di convivenza tramite il voto, anzichè puntando un fucile alla testa di qualcuno. La democrazia è anche questo, dirti cosa devi fare senza doverti puntare un fucile alla testa, perché io e te accettiamo che se vinci te me lo dici te, se vinco io te lo dico io. Cosa c’è di sba- gliato in questo?». Lui scuote la testa: «Ci sono altri sistemi. Altri modi. Io non credo alla poltrona. Se vai lì, vai per la poltrona. Noi anarchici crediamo in un sistema internazionale federalista. Contesti fe- derativi di collettività su base locale e antiautoritari, comunità locali autogestite e indipendenti da poteri coercitivi sia esterni che interni, forme di aggregazione che non si basano sulla contrapposizione tra individui e collettività attraverso armi, eserciti, false patrie e confini, ma che si basano sulla reciproca collaborazione d’intenti, con metodi di sintesi in assemblee popolari, senza nessuna logica di autorità dell’uomo sull’uo- mo». «E come lo realizzi, Giacomo?». «Di sistemi ce ne sono tanti». «In uno Stato di Diritto come lo realizzi?». «Io non credo allo Stato di diritto. Quindi non di certo con l’elezione in un parlamento». «Per cambiare, Giacomo, o ti costringo con le armi – e ti assicuro che perderesti per le forze in campo e perché i mili- tari sono gente addestrata per farti fuori nel minor tempo e al minor costo possibile – oppure conviviamo in pace e ti ci porto con la democrazia. Non ci sono altre vie. Io l’ho creata un’organizzazione libertaria. Mediaxion è questo. Per espe- rienza ti dico: non funziona senza gerarchie. Senza gerarchie di responsabilità, senza elezioni, senza incarichi. Te lo dico per esperienza...». Lui annuisce ma con garbo e la schiena sempre rigidamente dritta ribatte: «Lo so, lo vedo, hai creato un’esperienza diver-

298 sa… ma il punto è un altro. Noi crediamo comunque alla lot- ta di classe, alla negoziazione di ogni autorità imposta. Tutto questo con cui entrambi ce la prendiamo si verifica perché storicamente c’è una classe predominante e una classe op- pressa. Poi si vedrà se questo cambierà con dittatura del pro- letariato o altro». Stavolta la testa la scuoto io: «Questo tu lo dici perché sei un materialista. Ma cosa significa? Chi sono i proletari, Giaco- mo? Io sono un proletario, lui» indico Andrea, «è un proleta- rio perché lavoriamo dalla mattina alla sera? Cos’è la dittatura del proletariato? Parole. La sostanza è altro!». Succede anche questo. Succede anche questo nel 2011 a Li- vorno. Succede di parlare con Giacomo. Di volergli bene. Di pensare: capirai. E di sorridere dentro perché ti rivedi a teleca- mera invertita quando lo dicevano a te e non lo sopportavi. E va bene così. Va bene così. Perché chi diceva “capirai” non te lo diceva avendo provato la tua vita. Ma avendo provato la sua. Torniamo poco dopo a casa. Da Stefania. Volevo intervi- starla per chiudere il quadro di Giacomo. Lui doveva andare a suonare. Resta. Prima per dieci minuti poi per un’ora e qua- ranta. Lo guardo e penso di volergli bene. Da subito mi fece questa impressione. Giacomo è una brava persona. Uno di quelli che difenderesti a prescindere, perché sai che se ha fatto una cazzata l’ha fatta in buona fede. Uno di quelli che si colpi- scono perché se rendi conformi lui hai vinto. Gli altri lo sono già. Però è giovane, Giacomo. La testa intelligente. Di cultura. Molta cultura. Ma troppo ideologizzata. Troppe verità scritte ancora da verificare sul campo. La società è ingiusta. È vero. Te ne accorgi presto. Lui se n’è dovuto accorgere a due anni, per il Moby Prince. Però la società ha generato anticorpi. Il virus e l’antivirus. Basta non cadere nel tranello. Non fare il gioco dell’ordine. Del muro contro muro. Del “vedrete”. Stanno già vedendo. E i tuoi anni passano. Fagliela vedere. Ma davvero. Col lavoro. Con quello su cui nessuno ti potrà contestare. Con le proposte. Con la rappresentanza. Con i ruoli di responsabilità. Lì verificherai se gli uomini e le donne riescono a vivere senza potere. Per fiducia. Per riconoscenza. Per solidarietà.

299 L’indice di Stefania disegna un volo di mosca sulla tovaglia: «Quando era piccolo, dopo poco del Moby, appena vedeva uno vestito con la divisa della Marina lo chiamava “babbo” oppure gli diceva “quando torna babbo?”... A scuola fino a undici anni disegnava solo navi. Solo solo navi. Poi basta. Ha smesso tutto d’un colpo. La psicologa mi disse che aveva completamente accettato l’idea che suo padre non sarebbe più tornato». Giacomo guarda la tovaglia. Chissà quante volte Stefania ha parlato di lui. Di lui e dell’altro lui. Quello cui già a due anni voleva immensamente bene. Suo padre, Antonio Sini. Il docente militare. Quell’uomo grande che quando tor- nava a casa lo prendeva in braccio e gli metteva subito il ber- retto da militare in testa. «Li hai educati da te Stefania e mi sembra tu abbia sempre cercato di tenere viva la memoria del padre» accenno. «Sì» mi risponde, «anche la presenza. Ho sempre cercato. Gli dicevo quando ero arrabbiata e non mi davano retta: “se ci fosse stato tuo padre!”. Oggi me ne pento. Forse era una cosa forte da dirgli. Ma sai, quando sei sola, cerchi ogni appiglio. Poi era vero. Io li educavo cercando di pensare anche a cosa voleva Antonio. Lui era una persona libera, come Giacomo, però le regole sì e vanno rispettate. Ci teneva molto. Ero sem- mai più io a lasciar fare. Lui no». Giacomo ascolta. Ascolta e ha lo sguardo lontano. Nel suo libro di poesie che mi ha regalato si definisce un “viandante”. Forse ora lo è. È in viaggio. Cerca domande e risposte. Radici condivise e un po’ di pace. Ecco. Giacomo è questo. Un gio- vane uomo inquieto in cerca di pace. La sua sensibilità gli ha già spiegato come la giustizia è l’unica strada per la pace. E la giustizia è un fatto poco materiale. Ma questo lo dico io. Mi ri- torna quel pensiero. Gli voglio bene. Chi fa del male a questo giovane uomo lo fa a me. Poi torna quella storia. Quella storia lì. Di cui mi mancava la voce di Stefania, testimone e protago- nista. «Nel 1993 mi torna Francesca – la sorella di Giacomo – a casa in lacrime. Lei era molto affezionata al babbo. L’ha conosciuto. Aveva otto anni quando è morto. Arriva e mi dice piangendo: “Mamma c’è il nome di babbo sul giornale”. Io vado a prenderlo. C’avevo già l’agitazione. E viene fuori que-

300 sta storia. Lì per lì non sai che fare. Cosa fai? Tuo marito è una persona. La raccontano in modo completamente opposto. Poi ho capito che quel giornalista de La Nazione fa di queste cose. L’ha fatto anche con altri. Ma qualcuno c’ha creduto. Pochi mesi prima mi avevano chiamato i Chessa. Mi dicono come mai mio marito era in viaggio... “Ci sarebbe da capire. Suo marito si è imbarcato all’ultimo. La veniamo a prendere per parlare”. Io mi sono inalberata. Quando ho capito il mes- saggio mi sono arrabbiata e gli ho detto che non si permettes- sero. Quando poi qualcuno ha indagato e non è uscito niente ho tenuto a freno anche l’avvocato. Mi diceva di querelare. Ma io per evitare sofferenze a loro» indica Giacomo, «ho evitato. Poi nel 2006, quando hanno fatto la riapertura92 ho detto a lui: speriamo non ritirino fuori la storia di babbo. Era assurdo ma avevo un sentore. Poi Giacomo era a scuola. Sai. I ragazzi su internet. Quando è uscita l’istanza la gente andava da lui e chiedeva». Stefania batte le mani aperte sul tavolino, sfioran- dolo appena. «L’hanno ritirata fuori! Lì mi sono… ci sono rimasta veramente male. Perché ho pensato: allora ti potevo scusare perché eri giovane. Ma oggi. Siete adulti. E mi ritirate fuori ancora questa storia. Di nuovo la gente che legge su internet il nome di mio marito? Allora ci siamo andati. Siamo andati alla conferenza stampa mi pare il 2007. C’era anche Enzo, il Farnesi. Mi ha detto: “vado avanti io”. Lui sai, è di Livorno. Si vede gli ha detto: “c’è una signora che vi vuole conoscere” e loro – Angelo e il fratello – si sono approcciati a me pensando gli facessi i complimenti. Invece gli ho detto: “io sono la moglie di Antonio Sini e lui è mio figlio Giacomo”. Sono sbiancati. Gli ho detto cosa pensavo. Che per difendere la memoria del padre non devono andare a gettare fango sulla memoria dei padri e mariti altrui. Loro si sono scusati dicendo che era un’idea di Palermo, dell’avvocato. Ma l’istanza la firmi te. Lo paghi te l’avvocato. Se non volevi che la scrivesse gliela facevi togliere. Invece siccome con le idee di Palermo ci stava

92 Stefania si riferisce all’Istanza Palermo, su iniziativa di Angelo e Luchino Chessa, cui si deve l’Inchiesta-bis Moby Prince avviata dalla Procura di Livor- no.

301 benissimo questa storia di mio marito. Allora l’hanno messa lì. Senza pensare alle conseguenze». «Mi immagino poi in Sardegna» aggiungo. Lei sospira. «In Sardegna è stato pesante. Sai. Tu la conosci la mentalità sarda. Questa storia li feriva. Pattada è un paese piccolo. Meno male tutti quelli che l’avevano conosciuto da vivo lo hanno difeso dopo. Sapevano che erano falsità. Ma comunque la storia è uscita da un pattadese. Un mezzo pa- rente. Uno di Marina che ha già fatto di questi numeri. Te pensa che quando me l’hanno detto… io ho pensato… ora va bene, di un marito si può non sapere tutto e mio marito era un militare, un uomo riservato, ma dire che era il depo- sitario del segreto di Ustica! Come ti viene in mente? Hanno addirittura guardato, che non lo potevano fare, dei documenti riservati sugli imbarchi nel periodo di Ustica per una nave a Genova. Quando mio marito c’era stato giorni prima per una questione di lavoro. Cioè capito? Questi hanno preso due o tre pezzi della sua vita: è un militare di marina, è un docente di elettronica, è sul Moby Prince e ci hanno creato una storia incredibile. Ma intanto l’hanno scritta, pubblicata sui giornali e persino su un’istanza da un giudice». Penso: la testa ordina. In tutti i sensi. E se ci pensiamo bene usiamo il verbo “ordinare” anche per definire il comando. La testa ordina, quindi comanda. E a chi? A quella parte di noi che non vuole vedere il mondo bianco o nero. Ma questa è un’altra storia. Parliamo d’altro. Finiamo. Giacomo dice la sua. La conosco. Poi Stefania mi guarda, indicando la telecamera. «Francesco non vorrei essere stata troppo pesante con i Chessa oggi…». «No, capisco. Lo sanno e se ti vedessero ora con i miei occhi sono certo capirebbero anche loro e al loro rincrescimento ci assocerebbero parole di scuse». Lei prosegue: «Perché sai, io li capisco. Hanno vissuto una cosa tremenda. Poi perdere anche la mamma. Il padre è il Comandante. Una cosa immensa. Però devono pensare an- che agli altri. Qui nessuno, avrai visto, ha mai speso parole contro il padre. Tutti abbiamo pensato subito che quest’uo- mo come il resto dell’equipaggio abbia fatto il possibile. Sarà

302 sicuramente successo qualcosa e avranno sicuramente fatto il possibile. Poi, comunque sia, ha pagato con la vita. Cosa dovremmo mai dire a un uomo che ha pagato un prezzo così alto? Però quando hanno fatto questo a me e a loro, ai miei fi- gli… perché sai io sono adulta. La mia preoccupazione erano i bimbi. La bimba a otto anni che si vede il nome del padre, che ha conosciuto, buttato così in prima pagina, senza ritegno. E poi Giacomo. Questa cosa dell’istanza lo ha preso molto. Quando è uscita. C’è rimasto molto male si è arrabbiato mol- to. È voluto andare lui alla conferenza dei Chessa. Per parlare. Io gli dicevo di lasciar perdere ma poi alla fine siamo andati e ci ho parlato… capito? Non vorrei essere stata troppo dura… ma ci vuole un po’ di sensibilità». «Guarda Stefania uno degli scopi di questo documentario è quello di farvi incontrare. Far incontrare persone che per di- stanza, per migliaia di motivi, hanno fatto scelte che poi han- no nuociuto a tutti. Io non pretendo chissà che cosa. Voglio solo farvi trovare insieme. Poi succeda quel che succeda». Giacomo la guarda. «Io l’ho già detto a Francesco. Io al Chessa non stringo alcuna mano». Stefania raccoglie: «Questo non va bene Giacomo. Se parti così non va bene». Lui replica deciso: «Ognuno fa quello che sente. Io non mi sento di stringere la mano a loro dopo quello che hanno fat- to». Hanno sbagliato. Lo sapevo che diceva così. Me l’aveva già detto. Ma finora tante parole di racconto non sono basta- te. La ferita grande si rimargina in tanto tempo e con un po’ di aiuto. La fiducia, quando la perdi, è difficile recuperarla. Però proviamoci e glielo dico: «Per me che ci provi, Giacomo, è già un bel segno. È già un’opportunità». Guardo Andrea. Noi ci siamo. Andremmo via. Giacomo annuncia ai presenti: «Io andrei a suonare» e Stefania ci invita a restare. «Si prendono le pizze...». Un’altra volta volentieri. «Ma tu Giacomo vai ora a suonare?» chiedo. «Sì». Mezz’ora dopo Giacomo si posiziona. Anche questo per lui è un posto speciale. Ci teneva a farmelo vedere e siamo al tra- monto. Suona il suo strumento a percussione. Mi ha detto il nome, non lo ricordo. È una specie di Hang ma più morbido

303 e piccolo. Sta in uno zaino. Lui si mette lì e inizia a suonare. Il sole cala. Sfila un traghetto all’orizzonte e passa dietro una petroliera. Ora non c’è più pericolo, le rotte di stazionamento sono diverse dalle rotte di uscita ed entrata dal Porto di Livor- no. Dal maggio 1991. Ci sono voluti 140 morti. Per qualcuno. Per gente come Loris invece “servivano 140 morti per rece- pire una direttiva applicata in porti più piccoli e con meno traffico? Serviva questo dolore?”. Impariamo dal dolore dav- vero? Oppure impariamo solo a mascherare meglio la verità? Ieri le navi passavano e stazionavano molto vicine, oggi più lontane. Ma era solo questo il problema? È solo davvero que- sto il problema? Perché nessuno ha soccorso il Moby Prince? Questo non c’entra niente con rotte di stazionamento e rotte di uscita. Questa domanda ha un’altra verità e calato il sole riaccompagnamo Giacomo a casa. «Ci sentiamo per domani». Per sapere di domani. «Ok. A presto». Si incammina. Torna a casa dove parleranno. Stefania chiederà, lui risponderà. Una madre e un figlio. Come dalla notte dei tempi, dalla scoperta del verbo.

304 20. A MILANO LA VERITÀ È SCRITTA

“Per Angelo Chessa – uno dei figli del Comandante della Moby Prince Ugo Chessa – la Procura di Livorno ha chiesto l’archiviazione “con motivazioni pretestuose; si nota un’esagerazione nel voler spie- gare, confermare, a tutti i costi che le cose siano andate in un determi- nato modo, per altro improponibili dal punto di vista logico”. Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2010

Tre giorni dopo aver lasciato Giacomo a casa, siamo a Mila- no. È l’ultimo giorno di riprese previsto prima di realizzare il montaggio del film che i protagonisti vedranno in anteprima. Arriviamo in Stazione Centrale, scendiamo e prendiamo la metro fino a Duomo. Usciamo e con il nuovo cellulare re- galato da Francesca riesco a orientarmi per arrivare in Corso Porta Vittoria, allo Studio Bardazza. «Quanto ci vuole?» chiede Andrea preoccupato dal peso delle attrezzature. «Poco» rispondo. «Sci ma “poco poco” o “poco chilometri”?». Sorrido: «Diciamo poco e basta, non ti lamentare così di- magrisci...». Passiamo da Piazza Fontana. Dico ad Andrea: «Questa po- trebbe essere una copertura93». «Perché?» mi chiede lui. «Perché qui c’è stato l’attentato di Piazza Fontana, vedi la lapide?». Resta dubbioso, mentre getta uno sguardo: «Ah. E cosa c’entra col Moby Prince?». «C’entra» rispondo io, «perché è un’altra strage irrisolta di questo Paese. C’entra perché come la gente passa indifferente davanti a questa lapide, così la gente passa indifferente davanti

93 In linguaggio audiovisivo si definiscono “di copertura” quelle immagini registrate che sono utilizzabili in montaggio per completare o arricchire di senso e richiami una sequenza di girato continua e narrativamente lineare.

305 alla lapide del Moby Prince». Centoquaranta nomi ed età non valgono più di qualche sguardo. I dubbi di Andrea perman- gono. Questo può non essere un problema. Per me le lapidi servono a poco. Bisognerebbe scolpire nel cuore. Il marmo è freddo. Le parole sono fredde. L’emozione è calda e rimane. «Comunque non importa farla, questa ripresa, è anche al buio» concludo. «Quello non è un problema» mi risponde lui, «era peggio se era mezza all’ombra e mezza al sole». Arriviamo davanti al Palazzo di Giustizia. A pochi passi da Piazza Fontana. Riprendiamo un barbone con una piccola fi- sarmonica intento a suonare “Bella Ciao” e imprecare con i passanti quando non gli danno l’attesa moneta. Sulla facciata del Palazzo di Giustizia di Milano pendono due grandi teloni con tre volti. In una trasmissione, mi pare Annozero, dissero a chi appartenevano. Ambrosoli. Poi altri due. Non ricordo. Tre uomini e una bandiera. Un barbone a cantare “Bella Ciao”, passanti e un edificio enorme, veramente brutto, grigio. Palaz- zo di Giustizia. La giustizia grigia, diciamo. Poco più avanti c’è un passaggio e sotto questo passaggio c’è lo Studio Bardazza. Angelo è lì. Mi viene a prendere fuori, perché ho mancato il passaggio. Gabriele Bardazza io non l’ho sentito. Nemmeno Angelo. Gabriele arriva. «Scusami Gabriele non avevo capito che ti dovevo chiamare». «Lascia perdere» alza gli occhi al cielo, «è Angelo». Ridiamo. Spiego ad Andrea cosa girare e lui inizia a fare coperture nella sala dedicata al Moby Prince. Ci sono cartine, una lunga libreria piena di catalogatori con tutta la documentazione sul- la vicenda e un grande tavolo bianco. Un monitor a cinquanta pollici domina la stanza dalla parete a nord. Angelo fuma, fuori. Gabriele Bardazza mi spiega le ultime evoluzioni della ricerca, dentro. Stanno ricostruendo in 3D tutto lo scenario della collisione. Hanno fatto una copia veramente impressio- nante del Moby Prince con tutte le caratteristiche distintive. Con questo software possono anche far variare le condizioni metereologiche e riproporre esattamente la volta celeste del 10 aprile 1991. «Appurato tutto questo, cosa emerge?» chiedo.

306 «Emergono una serie di punti. Si confermano le tesi secon- do cui le ricostruzioni giudiziarie fatte finora sono sbagliate tecnicamente. Ci sono proprio delle incongruenze logiche». «Ok». «Poi è chiaro come finora ci sia stato un problema centrale legato alla rotta del Moby Prince. La rotta utilizzata durante il processo è evidentemente diversa da quella reale, perché se solo ti metti oggi con Google Earth e tracci una linea dal pun- to di uscita dalla Vegliaia e segui quella rotta, vai a sbattere su Punta Polveraia». Gabriele Bardazza si produce in un’espres- sione di sarcastico biasimo. «Semplicemente quella rotta è quantomeno poco plausibile. Poi c’è tutta la parte relativa alla posizione dell’Agip Abruzzo. Ti faccio vedere un documento, andiamo di là». Arriva Angelo. Ascolta e ci segue. Lui tutte queste cose le ricorda a menadito. È una specie di enciclopedia del Moby Prince, lato giudiziario. Se Loris è il museo vivente della vicenda Moby Prince, lui è una enciclopedia tecnica del caso Moby Prince. È come se avesse azzerato tutti i ricordi emotivi e si fosse concentrato esclusivamente su quelli tecni- ci. Quando ti parla chiede sempre se “ti ricordi” se “capisci” se “hai capito” perché sa che parla di dettagli talmente sottili da essere quasi incomprensibili per chi non si intende di ma- rineria. Mentre Gabriele cerca ancora il documento, Angelo parte: «Fagli sentire gli audio». Gabriele asseconda. Avrebbe preferito una spiegazione lineare ma “è Angelo”. Nel mentre gli racconto del viaggio in Sardegna e del lancio delle rose fatto da Giacomo e Loris nel punto dove vent’anni prima avvenne la collisione. Lui guarda dall’altra parte. «Sai, io su queste cose non ci sono… per me quelle sono cose da fare quando è finito tutto… quando si ha la verità…». Tento una via. «Intanto è stato importante. Sai c’era un uf- ficiale che ci ha raccontato di essere una sorta di superstite perché fino a quindici giorni prima si doveva imbarcare con la Moby Prince». «Dai. Come si chiama?». «Non lo so». «Ah». È bastato questo. Una semplice notizia ed era già scattato.

307 Magari quell’ufficiale poteva sapere. Magari poteva fornire in- formazioni. «Ma perché siete andati con la Corsica Ferries?» mi chiede. «Perché Loris e Giacomo non prendono la Moby» rispon- do. «Ecco queste sono cretinate…». Mi colpisce e replico: «Come cretinate? Non vogliono dare soldi a Onorato». Lui si tranquillizza. «Ah ecco per questo sì… pensavo…». Pensava per le carenze della Moby Lines. Quella storia che per lui è semplicemente un’ossessione di Loris. In questo caso sbaglia- va. Capita. Poi però mi chiede: «Ma Loris cosa fa?». Strana questa domanda, penso, ma lui prosegue: «Nel senso… con- tinua a essere appiattito sulle posizioni della magistratura?». Sorrido: «Guarda Angelo te lo spiego. Se c’è una cosa che spero faccia questo documentario è farvi vedere quanto in re- altà su tanti aspetti dite le stesse cose, ma da due punti di vista diversi. Loris non è assolutamente appiattito sulle posizioni della magistratura». «Ah» dice lui cercando lo sguardo di Gabriele, «davvero? Perché sembrerebbe…». «Sembrerebbe da cosa?» chiedo. «Non so. Sai anche sulla riapertura…». Mi sembra una buo- na occasione per chiarire alcuni punti e inizio: «Loris ha sem- plicemente detto che la magistratura ha fatto quanto ha sen- tito di fare ma le è mancato più coraggio. Direttamente a De Leo ha precisato come si sarebbe aspettato più coraggio, per esempio nel verificare bene le perizie sui corpi circa il tempo di vita a bordo, che tutti sanno essere stato ben superiore a quanto finora dichiarato dalla magistratura. E De Leo gli ha risposto: “Loris hai ragione. Ma quando io ti ho detto che tua sorella ha vissuto due ore in più, a te cosa ti ho fatto se non dare altro dolore? Il reato è prescritto”». Una vampata invade i capillari del viso di Angelo. Queste sono quelle cose che rimettono carburante nel suo motore a scoppio, non facen- dolo mai arrestare, ed esplode: «De Leo ha detto questo? Ma ti rendi conto? Ti rendi conto di cosa ha detto?! Guarda non vado oltre perché mi stai registrando… ma ti rendi conto? Ma secondo te è possibile che un Procuratore Capo dica una

308 cosa simile? Ecco perché è bene essere andati via da Livorno. Quando abbiamo riaperto, anzichè andare a cercare le cozze nel fondale94 se avessero fatto quanto chiedevamo noi… vai a vedere cose concrete… cose concrete dico io: guarda, le pale del timone sono state trovate a 30 gradi a dritta mentre il timone in plancia è stato trovato a sinistra. Quindi è evidente che c’è un’avaria. C’è stata un’avaria. Torna a vedere il mate- riale così…». Interviene Gabriele, con la calma degli studiosi: «Guarda, di una cosa sono sicuro. Tu vedi queste carte? Ecco non è che la verità sia da un’altra parte. C’è già tutto scritto, o quasi. Biso- gna soltanto leggerle e studiarle con attenzione. Concentrarsi sugli aspetti più evidenti e meno evidenti. Per esempio questo è il foglio di cui ti parlavo. Come saprai la posizione ufficiale dell’Agip Abruzzo è stata tirata fuori nel 1997 nel processo per capire se era in zona lecita o illecita. Ora noi siamo a fare questo lavoro non per parlare di lecito o illecito ma per rico- struire cosa è successo. E ci siamo accorti che la posizione è nelle immagini e riprese video. Alla fine sono oltre un centina- io le posizioni dell’Agip Abruzzo citate, poi la Commissione ne dà sei che poi diventano quattordici-quindici. Con banali operazioni di trigonometria capisci dov’era effettivamente la nave. È vero, si è spostata, ma certamente anche se si fos- se spostata senza salpare l’ancora si sarebbe trovata in una posizione che, quando ripresa dalla telecamera alle sette del mattino, certamente era diversa da dove poi è stata dichiara- ta essere. Ora la discriminante era dentro o fuori dall’area di divieto di ancoraggio e pesca… la posizione ufficiale data nel processo dell’Agip Abruzzo è data dalla famosa nave Lybra, una nave militare italiana arrivata in zona il giorno dopo. Ecco questo è il foglio con cui la nave Lybra dà la posizione ufficia- le dell’Agip Abruzzo. Come vedi non c’è scritto un nome di un Comandante, niente…». Vedo il foglio: c’è scritto a mano qualcosa. Manca la firma. Manca tutto. Praticamente lo po- trebbe aver fatto chiunque un foglio così. Effettivamente il sospetto è legittimo. Gabriele prosegue: «Poi guarda, uno de-

94 Vedi nota n. 27.

309 gli argomenti molto dibattuti è la nebbia…». Angelo irrom- pe: «…che non c’era». Gabriele lo corregge: «Non è che non c’era… c’era qualcosa che sembrava nebbia e ha avvolto la petroliera… ma non era nebbia nel senso meteorologico del termine. Noi abbiamo testimoni che parlano di fumo, dopo la collisione. Poi testimoni che parlano di una nuvola biancastra prima, a quindici minuti dalla collisione. Non io, ma questi due Ammiragli che sono stati sentiti dalla Procura di Livorno hanno presentato questa relazione, guarda… qui si legge…». I due Ammiragli, con tanto di fogli excel di calcolo, avevano presentato la loro versione dei fatti alla luce delle loro dedu- zioni: la nebbia vista da molti testimoni prima della collisione era vapore acqueo sprigionato dall’Agip Abruzzo a causa di un’avaria nell’impianto caldaie della petroliera95. Gabriele leg-

95 Giuliano Rosati e Giuseppe Borsa consegnano la loro relazione tecnica presso la cancelleria del Tribunale di Livorno il 17 giugno 2009. Sollecitati dai PM livornesi circa alcuni quesiti fondamentali sulla collisione, a margine della loro relazione i due Ammiragli hanno ritenuto di redigere un ultimo capitolo definito “Ipotesi di una possibile concausa” (Relazione Tecnica Rosati e Borsa, p. 35-41). Nella premessa di tale capitolo spiegano che “ci riesce difficile portare a conoscenza una ulteriore ipotesi priva di fatti documentari certi, ma per one- stà intellettuale riteniamo corretto farlo essendo sufficientemente convinti della correttezza tecnica dell’ipotesi stessa”. L’ipotesi Rosati e Borsa descrive lo scenario di una rottura di uno o più tubi vaporizzatori all’interno della camera di combustione dell’impianto caldaie dell’Agip Abruzzo. L’impianto era composto di due caldaie a tubi d’acqua che dovevano alimen- tare alcune utenze e servizi tra i quali un turbo alternatore per la produzione di energia elettrica. Le caldaie a tubi d’acqua erano composte da una camera di combustione, entro la quale veniva bruciato il combustibile. Il calore così pro- dotto faceva vaporizzare l’acqua all’interno delle tubolature che aderivano alla superficie esterna della camera di cambustione creando così vapore acqueo che veniva raccolto nel collettore superiore e così inviato alle utenze. Scrivono Rosa- ti e Borsa che “i gas combusti dopo aver trasmesso calore, passando attraverso tubolature di scarico venivano espulsi dal fumaiolo” (idem, p.35). L’ipotesi degli Ammiragli è che a seguito della rottura di uno o più tubi vapo- rizzatori, all’interno della camera di combustione, sia entrato del vapore acqueo entro la camera di combustione. Questo ha prodotto un’alterazione della com- bustione canonica, che prevede un corretto miscelamento del combustibile con l’aria – comburente – . A questo punto “l’incombusto seguiva le condotte di scarico mescolandosi con il vapore e completava la sua combustione all’uscita dal fumaiolo ritrovando l’ossigeno necesssario, producendo modeste ed inter- mittenti lingue di fuoco” (idem).

310 ge: i due Ammiragli hanno calcolato che quel banale tipo di guasto avrebbe generato in pochi minuti un volume di vapore acqueo tale da coprire l’intera petroliera e ometterla alla vista. «Ora guarda» mi dice indicando la pagina di un faldone, «que- sti Ammiragli, Rosati e Borsa, depositano in Procura a Livor- no questa relazione e la Procura richiede a un altro consulente delucidazioni su un’altra questione legata all’Agip Abruzzo. Non c’entra niente con questo problema. Ma il consulente cosa fa? Scrive palesemente: “l’impianto elettrico della petro- liera era in perfetto funzionamento”. Come se mi chiedesse- ro: “come va a casa” e io rispondessi: “a lavoro tutto bene”». Gabriele alza lo sguardo dal foglio nella direzione di Angelo. «È evidente che c’è qualcosa che non va. Perché o il consulen- te non ha capito la domanda, oppure l’ha capita bene ma sa di dover dire altro. Se poi vediamo chi lo finanzia questo con- sulente scopriamo su internet che fra i finanziatori c’è l’ENI, quindi la SNAM, quindi la compagnia dell’Agip Abruzzo». Angelo interviene: «Francesco hai capito?». Annuisco. Ga-

In conseguenza di un banale incidente di questo tipo, con un tubo vaporizzato- re rotto per soli 10 minuti, il vapore all’uscita del fumaiolo dell’Agip Abruzzo avrebbe saturato l’aria esterna producendo una quantità di “nebbia” valutata in circa 74000 metri cubi. Concludono Rosati e Borsa “in breve tempo tutto il lato destro della nave – sottovento – veniva completamente avvolto da una fitta cortina di condensa riducendo drasticamente la visibilità a un osservatore posizionato a destra della nave” (idem). Questa ipotesi trova riscontro, secondo i due consulenti, nelle testimonianze di Thermes, Olivieri, Bergonzi, Parente, Bagnoli, Teodori, De Luca, Ricci Stefano e Fazzari che “osservavano prima del disastro, da varie po- sizioni sul lungomare prospiciente, un alone biancastro sopra alla nave, bagliori rosso arancioni o fiammelle o tipo un lanciafiamme con variazioni di intensità, prima e dopo che la nave sparisse alla loro vista” (idem). Aggiungono Rosati e Borsa “si ritiene utile sottolineare che il fenomeno ripor- tato avrebbe potuto rendere difficile l’individuazione dell’Agip Abruzzo anche al radar del Moby Prince a causa della possibile formazione di luminosità dif- fuse sullo schermo (PPI) (idem, p. 36). Nelle considerazioni finali i due tecnici concludono “l’avvenimento proposto, non materialmente dimostrato in quanto non sono stati reperiti negli atti processuali esiti di ispezioni tecniche effettuate sull’Agip Abruzzo dopo il disastro, accompagnato dalla possibile simultaneità dell’arrivo della nebbia da avvezione, avvalorerebbe la non visione da parte della plancia del Moby Prince dell’ostacolo che stava sulla sua rotta” (Relazione Rosati e Borsa, p. 37).

311 briele chiarisce: «A distanza di vent’anni ancora basta una relazione che segnala un dato del genere e immediatamente si attivano per affossare quella linea di verifica della verità». Secondo sospetto legittimo. Allora riprendo il mio filo: «Alla fine però Angelo si parlava di te e Loris e delle diverse rico- struzioni. Appurato che Loris non è appiattito sulla Procura, ma pensa che i responsabili citati dalla sentenza di appello, Onorato, Albanese e Superina, debbano finire sul banco degli imputati e processati in modo corretto perché questo tipo di reato non è prescrivibile, tu su questo sei d’accordo?». Lui non lascia scadere un secondo: «Certo, hanno delle responsabilità, la questione è però capire con precisione il perché i soccorsi non sono arrivati, perché l’Agip era lì e perché il Moby Prince gli è andato addosso». «Certo» raccolgo, ma è evidente che c’è altro da dirmi. Ten- to di arrivarci direttamente chiedendolo: «E tu che idea ti sei fatto? Cioè voi che idea vi siete fatti alla luce di queste analisi e quant’altro? Tu hai sempre quell’idea del Moby Prince che tornava indietro in porto?». Angelo allarga le braccia. «Ma no. Quella non è un’idea mia. Quella è un’idea di Fedrighini…». «Perché se il Moby tornava in porto» aggiungo, «e il Coman- dante non l’ha segnalato, sarebbe un problema». Lui dissente: «A parte che non è tenuto a segnalarlo subito… il punto è un altro: il Moby Prince è stato trovato con il mozzo delle eliche a 30 gradi a dritta mentre il timone era a sinistra. Questo signi- fica secondo noi che c’è stata un’avaria al timone. Siccome la nave… guarda…» Angelo prende un oggetto per riprodurre la dinamica dell’incidente, «se la petroliera è stata colpita a dritta e io il timone l’ho a 30° a dritta, significa che il Moby Prince passa la petroliera, poi ha un’avaria e poi si infila così sulla dritta, sulla destra». «Quindi questa è la tua teoria…». «Certo» mi risponde deciso. «Scusa ma al processo non ti avevano detto che non poteva essere che il Moby Prince tornasse indietro perché mancava il tempo materiale per fare la virata?». Angelo si scalda: «Non è

312 vero. Ma se abbiamo dimostrato con i periti di Southampton96 che la curva di evoluzione del Moby Prince è di centoqua- ranta secondi, quindi per fare quello che ha fatto ci vogliono settanta secondi! Perciò l’avaria è avvenuta prima, i passeg- geri sono stati messi in sicurezza prima della collisione e il punto fondamentale è la famosa telefonata del pane… quel- la a Livorno Radio… quella è una bufala inventata di sana pianta per dire che nel traghetto era tutto a posto… per que- sto chiediamo la perizia sul bobinone del canale 16…» An- gelo mi guarda con un’espressione analitica. «Il Moby Prince chiama Livorno Radio due minuti prima della collisione… loro registrano tutto… vanno sul 61… e parlano. Poi dopo quello che è successo hanno detto che il Moby Prince ha fat- to una chiamata per sentire un fornitore del pane e secondo me questo è un falso. Lì stava succedendo qualcosa… c’era qualcosa che non andava bene… quella telefonata lì non era per il pane… io credo che o era un ufficiale che chiamava… qualcosa o qualcuno per dire “sta succedendo questo”… era una telefonata non so per cosa ma non per il pane ci metto

96 Nel corso del dibattimento relativo al Processo Moby Prince, per il trami- te di un CT di parte legato all’Avv. Filastò, fu portata all’attenzione della corte l’analisi elaborata dal Dott. Malek Pourzajani del Southampton Institute riguar- dante alcune ipotesi di scenario relative alla collisione tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo. I risultati di questa disamina furono oggetto di pesanti critiche da parte di alcuni CT di altre parti civili a processo, in particolare l’Ing. Del Bene, dalle quali la corte derivò materiale sufficiente per giudicare questi alla stregua di materiale non affidabile. Tra i punti maggiormente precari dell’analisi del Dott. Pourzajani vi fu pro- prio l’inconciliabilità tra lo scenario presentato e le testimonianze del superstite Alessio Bertrand e del terzo ufficiale dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla, con preciso riguardo per i passaggi inerenti velocità e rotta del traghetto, punto di ancoraggio e orientamento della prua della petroliera che avrebbero giustificato la realisticità di tale ipotesi. L’ipotesi sostenuta dal CT Brandimarte, portavoce in aula delle risultanze prodotte dal Southampton Institute, prevedeva infatti: una velocità del Moby Prince ritenuta irraggiungibile – considerate le condizioni del traghetto – dagli altri Consulenti Tecnici – Del Bene, Fabbricotti, Mignogna, Prosperi, Gristina, Puleo – ; una virata tale da “non poter non essere avvertita” dal superstite Bertrand (Sentenza di primo grado, p. 295); un punto di ancorag- gio più vicino di quasi mezzo miglio alla diga della Vegliaia rispetto a quello rite- nuto maggiormente plausibile; l’orientamento a sud della prua della petroliera.

313 la mano sul fuoco… lì cosa succede…». Mi intriga come sempre nel racconto e gli chiedo di prose- guire. Angelo si piega verso il tavolino cadenzando le frasi, ora rivolto a me, ora a Gabriele: «Lì c’è stata l’avaria… il timo- niere la cremagliera del timone è a sinistra… ma l’elica era a 30 gradi a dritta… quindi in settanta secondi dopo l’avaria tu sei contro la petroliera… in settanta secondi…». «Ma perché secondo te l’hanno… perché non soccorrerli?» chiedo. «Proprio per quello: cos’è successo? Stiamo facendo traffici, il Moby è coinvolto, hanno visto, non hanno visto, facciamo bruciare tutto…». Gabriele subentra con taglio più peritale: «Hai sentito il canale 16? Non è vero che nessuno chiama il Moby Prince… quando l’avvisatore chiama la Capitaneria… poi dopo l’operatore di Livorno Radio, la prima cosa che fa è chiamare il Moby Prince… non so se hai presente il passag- gio…». Angelo interviene: «Fagli sentire il passaggio...». Resta di profilo, dietro di lui un monitor da cinquanta pollici mostra una traccia audio. Angelo conosce quella traccia audio, quasi a memoria. Da tredici anni ha in macchina dodici audiocassette con quanto la Procura gli ha dato del “bobinone”: il supporto magnetico in cui sono rimaste incise le comunicazioni radio effettuate tra il 10 e l’11 aprile 1991 sui canali di emergenza in mare 16 e 2182. Angelo ascolta queste registrazioni durante ogni viaggio verso Livorno. Gabriele mi dice che le ascolta anche quando vanno a giocare a basket, insieme. Me lo dice quasi sottovoce, con il rispetto dovuto a un amico intento in un’attività rituale divenuta oramai, per lui, sacra. Parte l’au- dio e Angelo mi dice: «Senti: questa è la motonave Nervi che chiama questo qui… che è il Theresa97… ha la stessa voce…

97 Alle 22:49:30 del 10 aprile 1991 un natante, autodefinitosi “Theresa”, ir- rompe sul canale 16 per un’oscura comunicazione: “This is Theresa, this is The- resa for Ship One on Livorno’s anchorage… i’m moving out i’m moving out, breaking station” (Qui Theresa, qui Theresa a Nave Uno, in rada a Livorno… me ne vado, me ne vado… passo e chiudo). Questa criptica segnalazione effet- tuata dall’imbarcazione “Theresa” è stata oggetto di numerose indagini operate da alcune parti civili a processo – in particolare quelle vicine alle ragioni di An- gelo e Luchino Chessa – fino a presupporre che tale nave potesse essere in rada

314 e la chiama per dire che “cazzo stai facendo che mi vieni ad- dosso?”… “Questa nave che gira intorno a Gorgona” e que- sto senti “What do you want?” e poi senti… “I’m turning around”... “sto’ girando in tondo”… noi gliel’abbiamo detto ai magistrati: ti rendi conto che mezz’ora prima della collisio- ne c’è questo che sta andando in cerchio vicino alla Gorgona

a Livorno per un possibile traffico illecito e, innanzi a un disastro come quello occorso al Moby Prince, abbia dovuto interrompere le operazioni ed allontanar- si in tutta fretta. Da un’analisi comparativa vocale è emerso in passato che la persona che ha ef- fettuato questa comunicazione – giudicato dal perito Brandimarte “un greco che parla un inglese strano, masticato” – potrebbe essere la medesima che, circa due ore prima, si trovava a girare in tondo nei pressi dell’Isola di Gorgona. Il perito Brandimarte riferirà in tribunale la sua convinzione che possa essere Theresa anche la nave che, a quindici miglia a sud del porto di Livorno (21:20 c.a. del 10 aprile 1991), obbligò la nave Margaret Lykes a un’improvvisa accostata per evitare la collisione. Se questa tesi, ritenuta “immaginaria” dai giudici livornesi del processo di primo grado, ha avuto in effetti un difficile riscontro probato- rio, ancora più ardita è stata la ricostruzione di Enrico Fedrighini, il quale, nel suo volume “Moby Prince un caso ancora aperto”, riporta i risultati di una sua personale indagine tesa a comprendere chi fosse la misteriosa nave Theresa (p. 184-185). Ebbene da un’analisi relativa ai registri marittimi Fedrighini avrebbe scoperto la presenza di tre navi chiamate Theresa (Theresa, Theresa II e Theresa III). Le ultime due di queste (Theresa II e Theresa III) ebbero per un breve periodo al comando un ucraino: Yuriy Vitaliy Senkevych, il quale, proprio nella primavera del 1991 era a bordo di una motonave ancorata in rada a Livorno: la Cape Syros. Scrive Fedrighini “si tratta di una delle numersoe navi militarizzate statunitensi di ritorno dalla prima guerra del Golfo [...] di queste navi militarizzate il coman- do del Leghorn Terminal di Camp Darby aveva fornito alle autorità portuali livornesi una lista al momento del loro arrivo in rada, nel marzo 1991. Abbiamo scoperto che questo elenco non era completo: mancavano i nomi di due im- barcazioni militarizzate anch’esse presenti, rimaste escluse – per qualche ignota ragione di natura militare, forse a causa del carico trasportato – , dall’elenco uffi- ciale. Una di queste due imbarcazioni militarizzate fantasma presenti con il loro carico di materiale bellico era proprio la Cape Syros. Una traccia, soltanto una piccola traccia emersa a distanza di tanto, troppo tempo. Theresa e Cape Syros. Theresa e Nave Uno?” (idem, p. 185). Nella Richiesta di archiviazione dell’in- chiesta bis, i procuratori livornesi segnaleranno che la ricerca sia di Theresa che del comandante ucraino ha dato esito negativo. Il 10 aprile 2013, su alcuni quotidiani italiani, è comparsa la notizia che dalle comparazioni vocali effettuate dallo Studio Bardazza il messaggio della miste- riosa nave Theresa si deve attribuire al Comandante Theodossiou, a capo della nave militarizzata americana “Gallant II”.

315 e la motonave Nervi gli dice “cosa stai facendo?”. Quello è il Theresa, la stessa voce, quel pezzo di merda là… faceva traffico… si stava avvicinando a Livorno… immagina che giri c’erano in porto quella sera…». Respiro: «Quindi l’idea che ti sei fatto è che la Capitaneria sapesse…». Lui non attende. «La Capitaneria sapeva tutto… chiaramen- te le altre navi non sapevano niente». «Quindi per te ci sono degli omissis». Angelo poggia entrambe le mani sul tavolo, quasi a disegna- re un teorema: «Noi il bobinone non sappiamo com’è… sul bobinone nonostante abbiamo richiesto non so quante volte la perizia…». Gabriele si inserisce: «Cosa c’è nelle altre dodici piste non lo sappiamo, in una c’è il timing, sulle altre non c’è registrato niente? Nessuno ha mai scritto: sulle altre piste non c’è scritto niente… è sempre stato detto: trasferiamo la 2182 e il canale 16». Nell’aria si respira clima di cospirazione. La tensione della deduzione più estrema, sedata dalla chiarezza del convincimento. È assurdo sì, ma le prove sono lì, dico- no questo. Sentiamo così la registrazione delle comunicazioni radio tra le 22:00 e le 22:25 del 10 aprile 1991. Dalla calata degli ormeggi del Moby Prince fino alla collisione. Si sentono benissimo registrazioni di francesi. «Costa Azzurra» certifica Angelo. «Si sentono benissimo solo qui» accenno. «Lo capisci perché vogliamo analizzare questo bobinone?» replica Angelo. «Certo». «Nessuno ci vieta di pensare» chiosa, «che sia un audio messo sopra… questo bobinone… non sappiamo se è stato manomesso o meno… ». Oramai non si fida di nessuno. Gabriele interviene: «Però ci dobbiamo attenere a quello che abbiamo, Angelo». Lui indietreggia sullo schienale: «Sì ma io mi ricordo: quelli di Livorno Radio si erano fatti le cassette per loro e giravano… poi hanno dato il bobinone». Dalle casse della saletta dello Studio Bardazza si propaga “the Pas- senger Ship. The Passenger Ship98”. Angelo torna a certificare:

98 Alle 22:20:26 sul canale 16 compare una comunicazione di difficile com- prensione “the passenger ship, the passen…” (la nave passeggeri, la nave pas-

316 «Ecco questo è il Moby che sta chiamando». «Quindi per te è il Moby Prince che chiama…» domando. «Sì in inglese quando chiami: “the passenger ship”… “la nave passeggeri”». Tutto questo la magistratura l’ha sempre escluso e quando ascolti la tesi di un cospirazionista, nonostante l’as- soluta coerenza del suo legare i tasselli, senti il bisogno ogni tanto di problematizzare. Ma Angelo mi precede. Non ha solo risposte. Ha anche tante domande. «Perché poi la rada si sente così bassa? Se sei schermato senti basso altrimenti senti alto». Mi cade un: «Sì, poi Superina lo senti bene». «Neanche tanto…» replica Angelo. «Lo senti meglio del Moby» azzardo, «che aveva un proble- ma alla radio». «Certo» raccoglie lui, «anche se io non sono sicuro che le comunicazioni che abbiamo sentito noi siano uguali a quelle che ha sentito la Capitaneria. Secondo me in Capitaneria il may day del Moby l’hanno sentito e come…». Altra tesi. Altra necessità di verifica. Gabriele annuisce. Ci sta lavorando. Arriva la chiamata: “Livorno Livorno Radio, Moby Prince Moby Prince”. Angelo mi guarda: «Ecco senti: questa non è la voce di uno che chiede il pane. Ora senti, si sente debolissimo… gli dice “6… 1 vado”… e qui siamo a due minuti prima… due minuti e venticinque prima…». Silenzio. Stiamo in silen- zio. La traccia audio scorre. Un minuto ed entrano i fran- cesi: “Ship…”. Angelo sottolinea: «È troppo troppo chiaro» le casse diffondono la chiamata di Genova Radio, «senti, si sente persino Genova Radio» cambia espressione: lui ne è

seggeri…). Secondo la ricostruzione del Consulente Brandimarte questa segna- lazione tronca si può riferire al Moby Prince che tenta di chiamare una nave, probabilmente riconosciuta in un’azione potenzialmente pericolosa. Nella sen- tenza di primo grado tale tesi viene rapidamente smontata indicando il fatto che è “singolare” ipotizzare che la Moby Prince si sia identificata in questo caso con la dizione “nave passeggeri” anzichè “Moby Prince”, dizione utilizzata “in tutte le altre chiamate” (Sentenza di primo grado Processo Moby Prince, p. 293). Pur tuttavia appare alquanto improbabile la trascrizione del passaggio portata avanti dalla Procura di Livorno nella Richiesta di archiviazione. A fronte del chiaro “the passenger ship, the passen…”, la procura arriva a trascrivere un assai strano: “blue passenger ship, blue passen [parola interrotta], blue, blue pass [parola interrotta]“.

317 quasi certo, il dubbio precedente, quello sull’alterazione delle registrazioni, non è da scartare. «Prima della Procura si sen- tivano queste cassette… giravano… le avevano fatte quelli di Livorno Radio. Sentivi anche le sedie che si muovevano… se l’erano fatte loro per loro…». Arriva il momento del passag- gio audio: “chi è quella nave?99” e Angelo lo ripete con la stessa intonazione. Poi guarda Gabriele e aggiunge in tono interro- gativo: «Questo chi è? Rolla? Chi è?». Le casse propagano il may day del Moby Prince. Le parti- celle dell’aria lo diffondono in tutta la stanza dov’è calato un rigoroso silenzio. “Moby Prince Moby Prince May day may day… siamo in collisione… siamo entrati in collisione… prendiamo fuoco, may day may day”. Angelo lo ascolta con l’espressione di chi ne ha una tale padronanza da parlarne con distacco chirurgico. «Questo non è quello pulito» commenta nella mia direzione. Attendo un istante: «Perché dice: “siamo in collisione pren- diamo fuoco?”, nel momento esatto della collisione non han- no preso fuoco, almeno così dicono i magistrati». Angelo mi guarda con una sorta di sorriso beffardo: «Perché ce l’avevano prima, si vede… si vede l’avevano prima il fuoco». Quindi il fuoco sul Moby c’era prima? Altri dubbi. La sua attenzione va oltre e vuole dirigere la mia. «Senti ora. Ecco l’avvisatore…». Avvisatore: “Compamare Avvisatore”. Compamare - Militare di leva Gianluigi Spartano: “Canale 13”. Avvisatore: “E… mhm 13, 13…”. «L’avesse detto qui cos’è successo l’avrebbero cancellato» chiosa Angelo sarcastico. La traccia audio va avanti. Qualche secondo e arriva la co- municazione di Imperio Recanatini, il marconista dell’Agip Abruzzo: “siamo incendiati… siamo incendiati… una nave probabil- mente c’è venuta addosso… Livorno ci vede e ci vede con gli occhi”. An- gelo ride. «Alla faccia della nebbia». Il sorriso amaro diventa

99 Alle 22:25:33 del 10 aprile 1991 una voce misteriosa pronuncia una cripti- ca domanda sul Canale 16: “Chi è quella nave?”. L’intonazione non è perentoria, parrebbe quasi la segnalazione di una domanda tra radioamatori sul medesimo canale a onde corte. Dieci secondi dopo dalla plancia del Moby Prince arriverà il primo tragico “may day”.

318 una sorta di ghigno, un modo di esorcizzare la rabbia: «…Ma ti rendi conto quanto ci hanno preso per il culo?». Gli chiedo: «Tu hai capito come mai il Moby Prince non ri- esce a comunicare? Perché la radio già prima non funzionava bene». Aveva problemi sì, però poi vai a sapere cos’è successo… hanno trovato le antenne tranciate… poi il marconista100 ha dovuto abbandonare la postazione perché la plancia è stata investita subito dal petrolio in fiamme… quindi ha preso il portatile…». Arriva la voce di Cannavina, il Comandante della petroliera Agip Napoli, ormeggiata a un miglio dal luogo dell’incidente. La sua voce è concitata e si rivolge alla Capitaneria: “Compa- mare Agip Napoli. L’Abbruzzo s’è incendiata probabilmente c’ha ‘na nave in collisione che gli è addosso ed è in rada a Livorno. Bisogna far uscire immediatamente i mezzi antincendio!”. Angelo raccoglie: «Ma ti sembra normale che da cinque minuti nessuno in Capitane- ria risponde?». Gabriele chiosa: «L’ultimo segnale del Moby Prince è debo- le e lo senti dieci, venti minuti dopo. Più ci sono quei possibili segnali in morse101». Tento di riordinare le idee: «Praticamente Angelo tu ti sei fatto questa idea: c’è stato un problema sulla petroliera, si sono spente tutte le luci, è uscito il vapore e si vedevano gli sfilazzi dal castello di prua. Lì sotto facevano dei traffici…».

100 Il marconista è l’operatore addetto alle comunicazioni radio sulle navi. 101 Il 12 aprile 1996 l’udienza giornaliera del processo Moby Prince vede sul banco dei testi Dino Ceccantini ed Enzo Della Mese. I due periti del Pub- blico Ministero hanno analizzato le tracce audio del Canale 16 e della 2182Hz registrate dalle 9 del 10 aprile 1991 alle 9 del giorno seguente. In particolare hanno rivolto l’attenzione sulla fascia temporale post collisione nella ricerca di eventuali comunicazioni radio – eventualmente ignorate dai soccorritori e dagli altri natanti in zona – provenienti dal Moby Prince. Ceccantini e Della Mese riconoscono un primo may day – il cui ascolto fu disconosciuto da tutti gli uditori contattati dal Tribunale – lanciato alle 22:25:27; un secondo may day alle 22:44:25 – di cui è rimasta impressa nel nastro, molto bassa, la sola chiamata “Moby Prince” – ed infine un probabile terzo tentativo di richiesta di soccorso, alle 22:52:07, riconoscibile nei “monosillabi: dei, de, mo” attribuiti, con un eser- cizio di astrazione deduttiva, al traghetto.

319 «Non dimenticare anche la manichetta innestata102» si inse-

102 Il 14 aprile 1991, tre giorni dopo l’incidente, i Vigili del Fuoco di Li- vorno salirono sulla petroliera Agip Abruzzo per un sopralluogo. Nel corso di quest’ultimo ritrovarono una manichetta carbonizzata accanto al portellino butterworth della tank 6, insolitamente lasciato aperto. Il portellino butterworth è un ingresso di 31 cm dal quale si immettevano idroventilatori o per l’appunto macchinette butterworth – marchio per impianti di pulizia delle cisterne – con lo scopo di svolgere lavaggi addizionali della cisterma o rendere l’atmosfera idonea alla presenza di persone. Secondo quanto testimoniato dall’equipaggio dell’Agip Abruzzo la tank 6 era normalmente utilizzata per il carico del greggio da raf- finare, mentre la tank n° 7 – quella nella quale andò a infilarsi il Moby Prince – era comunemente utilizzata come “slop”, ovvero come cisterna destinata alla raccolta delle acque di sentina. In quel periodo purtroppo fu realizzata un’inversione di destinazione e la tank n° 7 fu utilizzata come cisterna da carico del crude oil – petrolio da raffinare mantenuto per il lavaggio delle cisterne stesse – , mentre la tank n° 6 fu de- stinata a slop e, stando a quanto riportato nei documenti di carico, conteneva unicamente “residui di carichi precedenti e alcune decine di metri cubi di acqua di sentina” (Tribunale di Livorno, Richiesta di archiviazione inchiesta bis Moby Prince, p. 65). In relazione alla presenza della manichetta bruciata e del portellino butterworth aperto scrivono i procuratori livornesi: “dal momento che la slop 7 era piena di crude oil per il lavaggio, non vi potevano essere immesse nell’occasione le acque oleose di sentina, per lo scarico delle quali, accumulatesi durante la navigazione dall’Egitto, il porto di Livonro si era reso disponibile [...]. Poichè la tank 6 non era istituzionalmente adibita a tale tipo di operazioni, non c’era un collegamento diretto con le pompe della sentina della sala macchine: dunque fu escogitato il sistema di collegare, stendendo una manichetta, la sala macchine alla suddetta cisterna in modo da scaricarvi le acque oleose di sentina; e il giorno dell’inciden- te la cisterna 6 centrale era stata avviata per il travaso delle acque della sentina di macchine, che avrebbero dovuto essere poi scaricate [...] si tratta di procedure non disciplinate né previste ufficialmente, ma riferite come usuali da tutte le persone interpellate: e, secondo queste ultime e la valutazione espressa dall’Ing. Andrea Gennaro – consulente del P.M. nel presente procedimento – assoluta- mente non pericolose. [...] Secondo quanto si apprende dalle dichiarazioni del tankista (Sergio Mezzina ndr), costui si ricordò pochi minuti dopo lo scoppio dell’incendio di non aver chiuso il portellino butterworth della tank 6 centrale. Si recò, quindi subito a cercare di chiuderlo dopo aver sfilato la manichetta che vi era stata inserita, ma senza riuscirci a causa dell’elevata temperatura” (idem p. 65). Questa ricostruzione vanificò una delle tesi iniziali sul ritrovamento della mani- chetta bruciata, tesi che si poggiava sull’idea che tale reperto testimoniasse delle operazioni di contrabbando di greggio operate da una bettolina. L’insostenibilità di questa tesi si deve anche al fatto che la manichetta, per la sua conformazione, avrebbe reso impossibile operazioni inverse a quelle di scarico e soprattutto il contenuto della tank n°6 rappresentava evidentemente un carico – residui di

320 risce lui, ma io proseguo: «…ecco e quindi siccome c’erano, ipoteticamente, dei traffici, passa il Moby Prince e gli sfila ac- canto e quindi chi è sopra il traghetto vede qualcosa. Poi, per un’avaria fa un’evoluzione e centra la petroliera. Le sfere alte sapevano e non hanno fatto niente per soccorrerli quindi il concetto per cui potresti riaprire il processo è dimostrare in qualche modo il dolo di questo comportamento. E il dolo starebbe nel fatto: siccome sapevo che c’erano dei traffici e avevo dei testimoni potenziali li ho lasciati morire, bruciati, perché avrebbero potuto testimoniare quello che accadeva in mare; è questa l’idea». Angelo ci pensa un attimo e quasi di- messo dice: «Sembra assurdo ma…». «No» rispondo. «Non sono quel tipo di persona, Angelo. Non penso che sia tutto assurdo. Non penso nemmeno che i familiari non siano riunibili sulla parte finale di un’ipotesi del genere, cioè che ci sia stata una copertura, perché la critica ai soccorsi è una cosa che vi unisce». Lui si rianima: «I soccorsi non ci sono stati. Anche quando hanno trovato il Moby Prince l’hanno lasciato bruciare… se tu mi dici prima sono stati incapaci di trovarlo… cazzo ma quando lo trovi! Che ne sai che sono tutti morti, ricordati che Bertrand dice: “c’è gente da salvare”, poi ritratta… per- ché non metti venti rimorchiatori sul traghetto? Dall’Abruzzo erano già scesi, di là c’erano tutti i passeggeri». «La spiegazione» replico, «è stata data in relazione alle con- dizioni del traghetto. I Vigili del Fuoco dicevano che non po- tevano salire». Angelo scuote la testa e si allunga sul tavolo aprendo le braccia nel segno di descrivere un’evidenza: «Ma poi non buttavano acqua… se tu vedi le immagini… il rimor- chiatore… lo scrive il Comandante… mica è scemo dice… “io vado verso il Moby Prince ma l’ufficio mi manda verso la

greggio, acque oleose di sentina, colaggi di pompe – inappetibile su qualsiasi mercato nero. Vale la pena segnalare che, a prescindere dalla motivazioni segnalate da Mezzi- na, la presenza di una tank non inertizzata su una petroliera è fenomeno quasi impossibile a causa della altissima pericolosità della situazione.

321 petroliera”… lo scrive sul brogliaccio103». Ho bisogno di dare una soluzione: «Chi dovrebbe parlare Angelo sul Moby Prince? Al di là di questo lavoro enorme che state facendo di ricostruzione, chi potrebbe risolvere questa cosa qua secondo te? Chi è la figura che secondo te potreb- be parlare oggi?». Lui torna ad appoggiarsi sullo schienale. «Mi fai una domanda… Albanese, il Comandante dei Vigi- li del Fuoco Ceccherini… quelli che dovevano organizzare i soccorsi hanno fatto in modo che non ci fossero i soccorsi al traghetto». Indietreggio anch’io. Stavolta sono io a cercare l’appoggio. Angelo vede la possibilità di una cospirazione che abbia coinvolto dalla Capitaneria ai Vigili del Fuoco. Lui si corregge: «Però non farmi dire cose che…». «Potrebbero cre- are problemi» completo io. «Io dico che i soccorsi non ci sono stati e così è stato, dev’essere la magistratura a dirci il perché. Però non possono chiederci di credere né alla storia falsa che sono morti tutti in venti minuti, né alla balla che non sapeva- no che il traghetto era coinvolto. Che poi anche se sono fos- sero morti tutti in venti minuti, e non è così, tu soccorritore prima sali e tenti di salvare qualcuno, poi semmai verifichi che sono tutti morti…». Per Loris è incompetenza. Per Angelo l’incompetenza non può arrivare a questi punti. Eppure entrambi scorgono lo stesso sintomo e concordano sulla sua centralità a livello ac- cusatorio: i soccorsi non ci sono stati. Allora perché perder- si nel sentiero tortuoso delle motivazioni? Non basterebbe questo? Evidentemente no. Il dolo qui è la chiave per riapri- re il tutto. Ma l’incompetenza non c’entra col dolo. Se per incompetenza o assenza di coordinamento tu lasci morire 140 persone a due miglia e mezzo dal porto, lo Stato Italia- no riesce ad assolverti. Perché quel “tu” possono diventare il militare che doveva sentire il may day alla radio e non l’ha fatto, il Comandante in seconda e un altro ufficiale. Come se il Comandante della Capitaneria non fosse stato in porto, in quei momenti. Mi volto rapidamente verso i catalogatori. Ci

103 Il brogliaccio è un registro dove l’equipaggio riporta le principali operazio- ni compiute durante la navigazione.

322 saranno migliaia di pagine. Gabriele ne prende uno e mi dice: «Guarda, ti faccio vedere solo un’ultima cosa, perché io capi- sco che certi discorsi possano apparire forti, ma noi li dobbia- mo affrontare con occhio profondamente analitico e scientifi- co. Ora guarda. Nell’inchiesta sommaria, secondo volume, c’è la rassegna stampa. Te la leggi. Poi vai, come abbiamo fatto noi, in un’emeroteca con i quotidiani dell’epoca. E scopri che tutti gli articoli che parlano della posizione dell’Agip Abruzzo, non ci sono. Come mai? Questa è un’omissione di che tipo?». L’espressione del suo viso richiama il senso di umile appaga- mento dato dal risultato di una ricerca. I tasselli compongono qualcosa di chiaro, di condivisibile e per questo divulgabile. La memoria torna a quando pensai che lui potesse essere un altro dei tanti che mi è subito parso circondassero Angelo per estorcere denaro dal suo stato di necessità profondo: avvoca- ti, periti, giornalisti. Oggi lo vedo in un’altra veste. Anche lui è entrato, la sua ricerca sul Moby Prince non è solo una voce di curriculum, l’oggetto di un interessante lavoro. È diventata un modo onesto per aiutare un nuovo amico. Un amico che an- cora oggi riesce con difficoltà a pronunciare il nome “Moby Prince”; preferendogli, per riserbo e forse inquietudine, “il traghetto”. Angelo torna a casa. Ha solo mezz’ora. Poi andremo insie- me in ospedale. Ho preso i permessi per riprenderlo. Lui però è in imbarazzo. Da Gabriele mi ha ripetuto la richiesta di non seguirlo dentro, in Pronto Soccorso, per risparmiargli even- tuali commenti dei colleghi. È giusto. Facciamo solo il neces- sario e poi andiamo via. Ma dobbiamo farlo bene. Salutiamo Gabriele. Prendiamo un taxi con direzione casa di Angelo. A destinazione il tassista rilascia regolare ricevuta: 10 euro. Poco, penso. È andata bene visti i tempi. A casa conosco Bet- tina, la moglie di Angelo, e rivedo i figli. Stanno guardando la televisione. Domani partono tutti per un po’ di vacanza, sono anche loro una famiglia felice. Due medici, due bambini. Una bella casa. Un equilibrio. Come disse Ivanna a Mauro: “è bel- lissimo tutto questo. Questo dimostra che la vita, la vita deve andare avanti in un modo o nell’altro”. Eccola la verità del Moby Prince. La vita è andata avanti. Uno dei figli di Angelo

323 si chiama Ugo. Come il padre. In casa vedo un targa. Data 1946. Leggo il nome, Angelo Chessa. Penso forse fosse suo nonno. I nomi dei figli sono i nomi dei nonni. Questa cosa mi ricorda la Sardegna. La vita è andata avanti. Senza dimenticare da dove proviene. Saliamo sull’auto di Angelo. «In macchina le riprese le avete già fatte, no?» mi chiede. «Sì, rilassati». Ridiamo. È stata dura. Per Angelo questo do- cumentario finora è stato abbastanza duro. Lui non è come Loris. Lui è più simile a Mauro. Ci sono cose che lo imbaraz- zano. Cose che preferirebbe la telecamera non riprendesse. Diversamente da tutti gli altri, una di queste è proprio lui. L’idea di essere ripreso non è propriamente una sua () aspi- razione. Ora però inizia a esserci entrato in relazione. Arri- viamo in ospedale e lo capiamo. Facciamo dei piani sequen- za molto validi e lui non guarda in camera. «Hai imparato!» dico in una pausa, e ci ridiamo su. Dopo lunghi corridoi e un montacarichi arriviamo nello studio dell’altra volta. Questa volta siamo autorizzati e lui è a suo agio. Facciamo il nostro lavoro in libertà. L’Ospedale San Paolo è stato molto cortese. Anzi. L’Ospedale San Paolo non può essere cortese perché è una cosa. I responsabili dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico dell’Ospedale San Paolo sono stati molto cortesi e meritano un riconoscimento. Angelo imbocca l’ultimo tratto di tunnel. Manca una decina di metri. Si ferma. Un attore sarebbe anda- to avanti senza salutare. Lui si ferma e ci saluta. Poi torna un passo indietro e rifà la scena. È stato disponibile e ancora una volta questa disponibilità la voglio riconoscere. Perché è stato difficile e non era scontato. Perché fa piacere vedere quanto queste persone, segnate da una tragedia così grande, non ab- biano perso la disponibilità verso chi la merita. Addirittura la fiducia incondizionata. Come quando venti minuti prima mi ha detto: «Ora come ci vai a Rozzano da tua cugina?». «Prendiamo il quindici». «Ma come il quindici?». «Angelo li so più io i mezzi di Milano di te, metro fino ad Abbiate Grasso e poi quindici». Lui resta dubbioso: «Ma scusa facciamo una cosa, ti lascio

324 la macchina e poi me la riporti domani mattina alla fine del turno». «Grazie ma meglio di no, sai qualche mese fa alla macchina di mio cognato gli hanno dato fuoco sotto casa, sinceramente mi scoccerebbe un po’ rischiare». «Ma dai! Ma figurati… è così pericoloso?». Sì lo è o forse no. Mi esce un: «Preferisco non rischiare. Grazie ma preferisco di no. Se poi la prendessi saresti il secondo familiare del Moby Prince a farmi guidare la propria macchina dopo Ivanna». Ri- diamo ancora una volta. Ci rivedremo a ottobre per vedere l’anteprima tutti insieme. «Ok» mi risponde in un ultimo ab- braccio. «Ma dove vai in vacanza?» chiedo. «Prima andiamo all’Elba, con amici poi in barca…». «Dai… sai che all’Elba, a Marciana Marina, la sorella di Francesca ha un negozio?». «Ma dai… e qual è?» mi risponde felicemente stupito. «Vedrai lo conosci, è un negozio di artigianato orafo molto particolare… è fatto a grotta…». Lui prosegue: «…Con la sabbia in terra… ma dai… bello… ci siamo stati con Bettina l’anno scorso… allora glielo dico se ci vado che ci conosciamo… ma pensa…». Sorrido. È anche questa un bella coincidenza. Torno serio: «Se poi ci sono novità, ti chiamo e te le dico». «Ok grazie Francesco, ci sentiamo». «Grazie a te». Grazie a voi, penso. Mi avete permesso di entrare nelle vo- stre case, di ascoltare le vostre storie, di parlarne, di illuminare zone di conflitto tra di voi e discuterne, di conoscervi e co- noscere le persone a voi care. Non era scontato. Vi ringrazio. Spero di avervi reso qualcosa. E soprattutto di rendervelo nel prossimo futuro.

Dal post “Milano. Ultima giornata di riprese”, pubblicato il 15 luglio 2011

325 21. LA VERITÀ DI LORIS

“La storia ci insegna che quando le stragi restano impunite e i re- sponsabili sono al loro posto di comando allora essi sono pronti a ripetere stragi e a minacciare la sicurezza e la democrazia del nostro paese”. Fe r d i n a n d o Im p o s i m a t o , 10 gennaio 2013

Loris Rispoli, accanto alla foto che gli abbiamo fatto a Roma il 13 aprile: “Leggendolo si comprende quanto il solco sia profondo e quante sono più le cose che dividono che quelle che uniscono”. Rispondo: “speravo il contrario, almeno qual- che punto di convergenza sembrava esserci. Comunque gra- zie per la pubblicazione”. Sul gruppo Facebook “Quelli che vogliono la verità sul Moby Prince” il giorno 26 luglio 2011 si può leggere questo. Oggetto del dibattere il post “Milano: ultima giornata di riprese”. Oggetto vero del dibattere le di- chiarazioni di Angelo contenute nel post. Naturalmente ci sentiamo. Provo a chiamare. È occupato. Penso: “è con Ivanna a commentare”. Gli scrivo da Facebo- ok, a pallino verde, e mi risponde “ci sono”. Lo chiamo. «Ero con Ivanna a commentare il post». Il tono è quello del Loris indignato, quindi diciamo che se pensavo al post, e soprattutto a ciò che il post semplicemen- te riporta, come un modo per avvicinarli, mi sono sbagliato. Parte: «Prima di tutto questa cosa che lui non condivide il lan- cio delle rose nel viaggio in Sardegna è… è… cioè dico io… ma la memoria la vogliamo rimuovere? Cioè dico io… ma a Ustica, a Piazza Fontana, cosa hanno fatto? Come si può dire una cosa come: “fino a quando non avremo la verità io queste cose non le farei”? Allora se la verità nei tribunali non te la danno mai tu cosa fai? Stai zitto in casa?». Provo a mediare: «Angelo è diverso da te Loris. Due caratte- ri complementari. Lui quelle corde lì non ce le ha. Nemmeno in questo senso l’accortezza politica di evitare certe riflessioni.

326 Ma è il suo pensiero e lo dice senza secondi fini. Lui senza la verità non riesce a fare altro». «Ho capito Francesco» risponde di getto, «ma vedi certe cose le può dire a te, non a me. Nemmeno a Francesco104 perché si era letto tutte le sentenze e il processo». «Beh qualcosa l’ho letto anche io…» tento a difesa. Ma lui va dritto: «Sì certo. Ma senti una cosa: quando oggi mi vieni a dire che la tua ricostruzione è l’avaria al timone io… deh… c’è da diventà matti perché bada bene quella era la tesi Mignogna, perito della CGIL, che venne in aula e disse “c’è stata questa avaria…”. Io ero, te lo immaginerai, anche contento perché è una tesi che va ulteriormente a sottolineare le responsabi- lità dell’armatore; perché se dici che il Moby Prince è andato contro la petroliera perché c’è stato un guasto al traghetto, stai dando la colpa all’armatore… ma la tesi Mignogna è stata smontata dai loro periti! Cioè dai periti dei Chessa e poi anche dall’Ingegner Del Bene. Per tutta una serie di motivi tecnici gli dicevano che era impossibile. Ora te mi devi dire una cosa: qui ogni anno parte un treno… questi sono vent’anni che hanno sempre la verità loro e poi la cambiano. Il problema è che, nel mentre, la verità hai contribuito a non farla emergere. Capi- to?». «Mi spiace Loris» rispondo, «sai io non ho tutto il processo in mente. Infatti continuo a pensare che la cosa migliore sia un confronto tra di voi. Io non sono e non voglio fare l’avvo- cato di Angelo. Mi pareva però che ci fossero degli elementi di convergenza rispetto al passato e soprattutto mi pareva che da parte di Angelo ci fosse ancora una sorta di presunzione su cosa tu pensi, che nei fatti è smontabile con poche spiega- zioni. Come la questione del tuo appiattimento sulle posizioni della magistratura. È chiaro che è bastato poco per farglielo capire. Poi ovviamente se vi confrontaste sarebbe ancora più cristallino». Loris raccoglie, ma oltre: «Francesco vedi, noi si parla ora- mai come fratelli, allora ti dico a me non può che far molto incazzare questo comportamento. Perché ora a dire certe cose

104 Gerardi, autore dello spettacolo M/T Moby Prince

327 è tardi. Il processo ad Albanese per i soccorsi mai coordina- ti l’abbiamo fatto noi mentre loro era ancora dietro alla tesi bomba che non ti scordare era la tesi cara all’armatore. Cioè l’armatore, Onorato, è venuto in aula e ha detto: “mi hanno messo una bomba e so anche chi l’ha messa: Pascal Lotà105”… ecco mentre loro andavano dietro a queste cose qui, che sono state smentite dalla magistratura, intanto noi eravamo soli a fare altro. Come per Ciro Di Lauro e il processo per le ma- nomissioni alla timoneria. Non ti scordare che Ciro Di Lauro, nostromo del Moby Prince quella sera in permesso, va dal giudice e dichiara di essere andato dentro il traghetto fumante l’11 aprile, il giorno dopo, con il funzionario della Nav.ar.ma Pasquale D’Orsi e che questo gli ha detto di manomettere la timoneria dandogli una botta per portare il timone da manua- le ad automatico. La dottoressa Belsito, il giudice, ha fatto una sentenza su questo… una sentenza splendida… perché dentro dice tutto: come mai quel processo è stato separato da quello principale, che chi aveva interesse a manomettere il giorno dopo l’evento il corpo del reato è sicuramente qualcuno che ha interesse ad allontanare la verità, che hanno mentito i testimoni di par- te portati – anche da loro – che dicevano che Di Lauro era dalla ganza a Carrara e poi… te pensa cosa hanno detto… che aveva preso un treno superveloce per arrivare a Torre del Greco nella notte e risalire in treno con i familiari… perché in qualche modo dovevano giustificare che questo è salito con i familiari da Ercolano e Torre del Greco, chiamati da Bertrand quando è sceso a terra. Ora te lo ridico… a fare il processo a Di Lauro e D’Orsi c’eravamo noi. Loro – i Chessa – erano lì a pensare a tutt’altro. Ora poi se mi dici che ci sono le respon- sabilità dell’armatore, della Capitaneria, ti dico è tardi. È tardi perché è tutto prescritto. Allora serviva. Ora serve a poco». Chiaro. Capisco. Ma c’è ancora altro. Quel racconto di An- gelo e Gabriele, le prove emerse, il tentativo di legarle in un

105 Creatore e proprietario di Corsica Ferries e marchi annessi quali Sardinia Ferries ed Elba Ferries, principale concorrente della Nav.Ar.Ma prima e Moby Lines poi.

328 quadro logico: «Loris se senti la sua ricostruzione fila al punto tale da poter essere accettata da chi, come me, non conosce questa storia dal 1991. Cerca in qualche modo di dare un sen- so a quel che non torna. Perché di cose che non tornano ce ne sono tante...». Lo sento accendersi una sigaretta dal telefono: «Certo. Ce ne sono tante. Ma spiegami una cosa… la sua ricostruzione dice che il Moby passa vicino all’Agip, ha un’avaria, la centra e poi li lasciano morire bruciati». «Sì». «I traffici sono spariti?». «No». «In che senso? Il traffico d’armi dico». «No, cioè il concetto che dice Angelo è ci sono traffici, die- tro la petroliera, il Moby vede e per questo non salvano i pas- seggeri e l’equipaggio». «Ecco ora… prima c’era il traffico d’armi. Era abbastanza plausibile e hanno scandagliato l’intera rada, con un costo di centinaia di milioni d’euro, per vedere se c’era un carro arma- to, un razzo, qualcosa che potesse in qualche modo confer- mare questa tesi. Poi questi traffici sono diventati la bettolina che puppava petrolio da raffinare, perché, ti ricordo, che era da raffinare… dicevo... prendeva abusivamente all’Agip que- sto petrolio e succede il Moby Prince e non lo vanno a salvare perché hanno visto. Ora se’ondo te in un porto come quello di Livorno dove ci gira cocaina, eroina, roba grossa… uno fa morire centoquaranta persone bruciate vive perché sono testimoni di una bettolina che puppa petrolio da raffinare all’Agip? Allora dovrebbero ammazzare mezzo porto, perché sai quanti traffici ci sono… davvero si può credere che la Ca- pitaneria di Porto lascia morire bruciate vive centoquaranta persone solo perché si presume abbiano visto una bettolina che prendeva petrolio da raffinare dall’Agip?». Loris hai ragione. È una cosa molto strana. Provo a repli- care: «Comunque quando Angelo dice “traffici” intende tutta una serie di traffici di cui non sa la provenienza e l’entità». E lì esplode: «Ecco vedi… lui che sarebbe, a quello che scri- vi, “l’enciclopedia” mentre io sono “il museo” poi non sa…

329 dice tante parole tecniche… le hanno sempre dette… ma poi nella sostanza ‘un c’hanno mai nulla. Io non me lo scordo quando sono venuti al processo con questa simulazione del- la collisione. Pareva… una roba… Sono arrivati: conferenze stampa, giornalisti... “c’abbiamo la verità” poi in du’ balletti gliel’hanno smontata: gli hanno detto “ma vi rendete conto che una nave è un corpo solido immerso in un liquido e che non può andare a quella velocità?”». Loris è una questione semplice: da un lato Angelo ha bi- sogno della giustizia quindi della magistratura, dall’altro lato nega ogni verità giudiziaria emersa finora. Lui non la fa passa- re: «Eh ma così è semplice… così è molto semplice… è come quell’altro, è simile in questo a Giacomo quando ti dice: “sono un anarchico che si muove in contesto istituzionale perché è necessario”… vedi quando ti serve l’istituzione va bene, per- ché è necessaria, quando ‘un ti piace allora sei anarchico… però vedi lui è un bimbo, ha vent’anni, c’ha le sue ragioni… ma te che c’hai quarantasette anni non mi puoi venire a fare certi discorsi. Io sono il primo a dubitare della magistratura e l’ho sempre detto con chiarezza, ma mica per le perizie o cose del genere… perché la magistratura sapeva benissimo e c’è anche scritto chi sono i responsabili ma è stato fatto di tutto per non metterli sul banco degli imputati e mettere pesci piccoli… io l’ho sempre detto, non posso accusare del Moby Prince Spartano, che a diciotto anni non sente il may day, ma accuso Albanese che non ha coordinato i soccorsi come da sua responsabilità, che tiene la CP106 in porto fino a quando non arriva, finisce di cambiarsi dal vestito con cui era a un party a La Spezia, e sale. Nel mentre i vigili del fuoco che era- no sopra la CP erano incazzati neri perché dovevano andare a dare il cambio in mare ai colleghi, invece erano lì per uno che poi non ha dato un comando per tutta la notte. Come la questione delle carenze del Moby Prince. Che il Moby dove- va cambiare il mozzo delle eliche perché faceva sbandare la nave è scritto. Che non l’avevano fatto è scritto. Che viaggiava con l’apparato antincendio staccato è scritto. È tutto scritto.

106 Motovedetta della Capitaneria di Porto.

330 Come la questione di Superina. Io non me la posso prende- re con Rolla perché a ventitre anni questo dichiara di veder arrivare la Moby Prince nel radar ma ha pensato, come tutte le navi, che alla fine prendesse una rotta diversa. Il problema è che Superina, il Comandante, quando ha visto il traghetto non lo ha detto che era un traghetto per salvare sé, per evitare l’abbandono nave, per…». «Loris ok. Mi è chiaro. Mi torna anche. Ma penso che quan- do succede una cosa come questa, legata a quanto dici, a tut- ti i classici difetti degli italiani – noncuranza, incompetenza, inefficienza, indisciplina, egoismo, irresponsabilità – è diffici- le accettarlo e magari si è portati a cercare tutte le spiegazioni probabili e possibili per giustificare il contrario. È difficile cre- dere che centoquaranta persone possano morire carbonizzate a due miglia e mezzo dal porto di Livorno perché quello è incompetente e non sente il may day, quello faceva viaggiare i suoi traghetti in condizioni non idonee, quello non segnala la sua presenza a un traghetto in collisione perché pensava cam- biasse rotta alla fine, quello non coordinava i soccorsi perché non ci ha capito niente, quelli non sono saliti sul Moby Prince quando l’hanno trovato perché nessuno gli ha detto di sali- re...». «Però è così Francesco» sento espirare il fumo della siga- retta, «e poi non ti sbagliare. Albanese arriva a Livorno da un party a La Spezia… probabilmente aveva bevuto… non troveremo mai qualcuno che ci dica ufficialmente “aveva be- vuto”, perché gli tolgono il posto di lavoro, ma si comporta come se fosse così… perché c’è una collisione del genere, ne vieni informato, arrivi a Livorno alle 23 e la prima cosa che vai a fare è andarti a cambiare? Capito? Albanese arriva a Livorno alle undici e anzichè andare a prendere il comando, coordinare, farsi spiegare, va a cambiarsi l’abito di gala per mettersi la divisa. Poi scende, con calma, e sale sulla moto- vedetta. Sta tutta la notte lì senza dire niente poi alle tre del mattino ritorna e rilascia delle dichiarazioni. Questo è tutto documentato… allora noi avevamo bisogno di andare a par- lare del traffico d’armi? Non ti scordare una cosa importante Francesco: noi siamo andati al processo con una ventina di

331 parti civili, divise. Io non ho mercanteggiato con i familiari per fargli accettare il risarcimento e poi arrivare al processo indebolito. Qualcun altro sì. Non erano i Chessa, ma era qual- cuno che stava dall’altra parte. Quando arrivi a un processo dove le parti civili dovevano fare quadrato e andare unite per far scannare gli imputati, far andare contro la SNAM con la Navarma e la Capitaneria, e invece ti fai la guerra te mentre loro vanno a braccetto… capisci? Quello che ho detto subito a Viareggio. “Non fatevi manomettere il corpo del reato e state uniti”. Gliel’ho detto subito. “Perché se state uniti allora qualcosa viene fuori se vi divedete è finita”. Ecco noi ci siamo divisi e continuiamo a dividerci. Ma bada bene non ci dividia- mo perché ci va bene a noi. Ci dividiamo perché… oramai dopo vent’anni certe cose non puoi ancora dirle! Non puoi ancora una volta cambiare le carte in tavola per convenien- za. Perché se prima, quando serviva, dovevi puntare il dito sulla Capitaneria ora è tardi, ora è tutto prescritto ed è inutile tu ti incazzi con De Leo perché se capissi di giurisprudenza capiresti che De Leo può dirtelo che non ha senso con quel capo di imputazione verificare la durata della vita a bordo107. È come quando siamo andati a Firenze108. Il mio avvocato gliel’aveva detto: non venite a Firenze perché non credete alla nebbia e l’unica cosa su cui abbiamo ottenuto l’appello è la nebbia e la SNAM, l’Agip Abruzzo che era lì e non doveva starci e non l’ha segnalato all’insorgere della nebbia. Gliel’ha chiesto. Cos’hanno fatto loro? Sono venuti uguale. Sono ve- nuti lì a far di tutto per non far andare bene nemmeno quel processo lì. Ora di’o… con il tuo comportamento la verità l’hai sempre allontanata perché ‘un ti andava bene… ne hai sempre presa una e poi la mollavi: ora la bomba, ora – il Moby Prince – tornava in porto, che ora è facile dire lo dice solo

107 Loris si riferisce all’aneddoto del dialogo tra il Procuratore Francesco De Leo e Loris, citato nel capitolo precedente e relativo alla scelta della Procura di Livorno di non interessarsi nuovamente nel corso dell’Inchiesta-bis Moby Prince dei tempi di sopravvivenza a bordo, poiché questo non era attinente con le domande poste nell’Istanza Palermo, domande centrate sul supposto traffico d’armi in rada la notte della strage. 108 Processo di appello, ndr

332 Fedrighini, Fedrighini in conferenza stampa ‘un ce l’ho mi’a portato io, poi c’è pure nell’istanza Palermo… che anche lì l’istanza Palermo… lui è venuto da me a farmi vedere i fogli e io gli ho detto io non firmo perché io non condivido. Per me se presenti un’istanza dove ancora scrivi di Antonio Sini io non posso condividere. Che condivido? Penso sempre che hai fatto un casino, hai messo dentro quell’istanza tutto e i magistrati te l’hanno smontato in tre balletti… spendendoci anche soldi e tempo. Soldi e tempo degli italiani. Se invece si andava su un’altra direzione anzichè pensà al traffi’o d’armi… a quello che si intende di guerre elettroniche e a…». Basta. Conosco il resto. «Ho capito Loris. Senti devo passare da te per vedere la sen- tenza Belsito». «Non c’è sul sito?» mi chiede. «No». «Si vede che Francesco non l’ha caricata. Vieni e la guardia- mo». «Magari poi la fotocopio». «Ok. Dai ci sentiamo». Dopo circa un’ora e mezzo di conversazione stacco. Nel frattempo altri casini da risolvere su altri fronti e la testa con- fusa. Ho sbagliato? Forse ho sbagliato nello scrivere che su quella tesi di Angelo si potevano riunire dei familiari perché infondo puntava sui soccorsi? Sto sbagliando a voler unire persone così distanti con lo scopo di aiutarle? Li aiuto di più accettando la divisione o provando a riunirli? Dopo cinque minuti mi squilla in cellulare: Loris. «France senti l’ho trovata, te la fotocopio in Comune così non stai a spendere e mi faceva piacere vederla insieme così ti sottolineo alcuni passaggi…». «Ok Grazie. Ti chiamo io». Respiro. In parallelo la responsabile amministrativa di Ven- tanni e Mirko si stanno allontanando da Mediaxion, lasciando gli impegni presi con una semplicità disarmante. Stefano l’ha già fatto senza troppe remore manifeste. Ci inseguiamo da giorni via email perché “gradisco solo comunicazioni scritte” e si moltiplicano incomprensioni, divisioni, cambi di direzio-

333 ne. Sembra un incredibile scherzo del destino. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Mentre cercavo di unire Angelo e Loris, dall’altro lato emergevano divisioni in quella che per me è la mia famiglia allargata. Penso all’essere umano. Continuo a pensarci. Penso al nostro fondamentale ingannare e ingannarci. Crediamo alla nostra testa, alle nostre deduzioni e ci comportiamo in conseguenza di queste. Poi ce la prendiamo con chi se ne ha a male di questi compor- tamenti, perché ci facciamo forti delle nostre deduzioni. Ci salviamo sempre, con la testa. Persino quando ho conosciuto degli ergastolani, in carcere per omicidio volontario, ho ri- conosciuto la necessità della testa di dirsi: “Brava. C’era un motivo. Infondo hai fatto bene. Se lo meritava”. Poi magari ci unisce frasi di pentimento, ma si pente perché gli dispiace di aver buttato via anni della propria vita e del proprio problem solving dietro delle sbarre e dei muri. Non si pente di se stes- sa. Si pente, forse, di quel che è stata. Del non aver pensato che magari sarebbe finita così. Mai del pensare e basta. Mai dell’aver asservito il cuore a se stessa. La testa rincorre la notte del Moby Prince. Qualsiasi docu- mento giornalistico creato finora fila. Persino il libro di Fedri- ghini. Quando lo lessi pensai: ecco, gli Americani, lo sapevo che c’entravano loro. Poi conosci Loris, conosci Giacomo, conosci Angelo, Ivanna e le cose cambiano. Poi leggi meglio, ti documenti, e le cose cambiano ancora. Poi a un certo punto diventa quasi una storia di parti: noi e loro. Quelli che credo- no a x e quelli che credono a x e y. Oppure quelli che credono un po’ a x ma anche y ci sta solo che ti dovevi svegliare prima. Tutto diventa intricato e nel frattempo il Moby Prince come oggetto non esiste più e Loris porta avanti la sua battaglia per la sua memoria; Angelo resta nelle stanze dei suoi periti e aspetta di trovare quella verità che un magistrato non potrà negare; Giacomo va avanti nella sua linea politica pagando- ne le conseguenze; Mauro mette su Facebook delle bellissi- me foto di Federico in piscina, a giocare; Onorato compra insieme ad altri imprenditori la Toremar – impresa pubblica – assicurando di mantenere lavoratori e standard di presta- zione; Sergio Albanese è in pensione; Renato Superina non

334 esiste più da qualche mese; Valentino Rolla forse non è quel Valentino Rolla che ho contattato da Facebook o forse sì, e adesso fa il fotografo; e tutti gli altri continuano comunque a vivere la loro vita. È questa la verità del Moby Prince? La verità dell’Italia? Che tutto accada e cambi perché tutto resti uguale. I ricchi, ricchi e uniti, i poveri, poveri e divisi. Soprat- tutto i poveri e i ricchi, ingannati. Tutti continuiamo a vivere rincorrendo convenzioni e accordi eterei, rimanendo devasta- ti dagli eventi veri della vita ed essendo incapaci di scongiu- rarne le conseguenze più dolorose. Un traghetto passeggeri nel 1991 centra una petroliera in uscita dal porto di Livorno. Scoppia un incendio. Centoquaranta persone, passeggeri ed equipaggio di quel traghetto, muoiono per cause connesse all’incendio. Solo uno si salva. Il mozzo. Imbarcato da meno di un mese. Prima, muratore. Dopo vent’anni lo Stato Ita- liano archivia e prescrive, quindi dice tra le righe ai familiari delle vittime e ai cittadini che lo legittimano: “mettiamoci una pietra sopra e anche i responsabili riconosciuti – armatore, Comandante della Capitaneria, Comandante della petroliera, terzo ufficiale della petroliera – continuino pure a fare la loro vita tranquilli, per noi non serve che scontino alcuna pena”. Nel frattempo i familiari delle vittime si continuano a divi- dere sulla vicenda. Sui modi di conservarne la memoria, sui modi di ottenere giustizia, sul ricordo. Sempre nel frattempo i familiari delle vittime stessi continuano una vita segnata da questo evento: qualcuno si è fatto una famiglia, qualcun altro ne ha trovata un’altra, qualcuno ha scelto la vedovanza perpe- tua, qualcun altro ha scelto di vivere sempre con gli altri e per gli altri. Qualcuno potrebbe dire: è la vita, che vuoi? Vorrei fosse migliore. Vorrei fosse più vera. Sapere che per l’enne- sima volta in questo Paese le divisioni delle vittime fanno la forza dei carnefici mi fa male. Riconoscere che per l’ennesima volta in questo paese lo Stato, eccezion fatta per i convene- voli nella giornata commemorativa, se ne frega del dolore di queste persone, mi fa male. Mi fa male riconoscere gli effetti di un sistema che siamo incapaci di comprendere e cambiare. Un sistema dove le vere vittime, ovvero chi vive nel dolore, soffre e continua a soffrire, è lasciato in una condizione di ab-

335 bandono e ripulitiva commiserazione, mentre i veri carnefici, ovvero quanti vivono nonostante l’aver causato il dolore dei primi, se la godono e si giustificano pure i propri comporta- menti immersi nell’ignavia e nell’accidia dei più. Che faccio? Cosa posso fare? Riempiamo Livorno di manifesti con scritto “chi sa parli” e i volti delle vittime? Costa duemila euro, più altro lavoro. Non li ho. Li cerco. Potrebbe servire. Poi cosa faccio? Scrivo questi post. Parlo con i familiari, cerco, aspetto le foto di una signora che dopo vent’anni si è ricordata di aver fatto degli scatti dalla sua terrazza l’11 aprile 1991 alle sei del mattino; scatti in cui si vede chiaramente la posizione della petroliera. Le sollecito. Ma di più non si può. Lei non le trova e forse ha anche altro da fare. Poi cosa faccio? Continuo tutti i giorni a dedicare ore e ore per vedere il materiale registrato, archiviarlo per il montaggio e costruire la miglior storia visiva possibile per far arrivare il messaggio prima ai familiari stessi e poi a tutti coloro che possono fare qualcosa. Tutti possono fare qualcosa. Potete fare qualcosa. Chiunque legga queste ri- ghe, chiunque dei pochi a oggi che legge questi post lunghi, a volte veramente lunghissimi, che è difficile leggere fino in fondo perché la verità è difficile raccontarla in tre righe o cen- toquaranta caratteri su Facebook o twitter, può fare qualcosa. Fate qualcosa. Fate qualcosa. Aiutate me a fare qualcosa o fate qualcosa voi. Fate qualcosa. Se non capite che lo fate per voi, fatelo per me. Se non mi conoscete o non sentite il mio dolore, fatelo per Loris. Se non lo conoscete e non sentite il suo dolore, fatelo per Mauro, per Giacomo, per Stefania, per Ivanna, per ogni singolo essere vivente di questo pianeta che ci sta comunicando: aiutatemi. Ascoltatelo. Se non ba- sta un computer, andate lì. Fate qualcosa. Facciamo qualcosa. E non perdiamoci in milioni di cazzate morali. Non perdia- moci su “io pensavo che avessi pensato che lui pensava che lei altrimenti avrebbe pensato”. Non perdiamoci nella testa. Chiudiamola un attimo questa testa. Ascoltiamo il dolore del mondo per un attimo. Ascoltate il dolore del mondo per un attimo. Poi agite. Lasciatevi educare da quell’azione di cam- biamento. Da quell’azione che se ne sbatte delle convenzioni, delle certezze di carta e cartone, e va al sodo della questione.

336 L’equilibrio. Trovare equilibri di pace. Dare pace a chi la cerca trovando la propria. Questo sto facendo con Angelo, Loris, Mauro, Giacomo e tutti gli altri: cerco la mia pace provando a dare pace a chi la cerca.

Dal post “La verità di Loris”, pubblicato il 27 luglio 2011

337 22. “INCLUSO BLOCCARE L’USCITA DEL FILM”

“La vida te da sorpresas/Sorpresas te da la vida”. Trad. “La vita ti dà sorprese/Sorprese ti dà la vita”. Ru b e n Bla d e s , Pedro Navaja

Gabriel è arrivato dal Cile il 12 settembre. Senza casa e senza sapere dove andare. Resterà da me e Francesca per un mese. Speravo arrivasse con una fase avanzata del montaggio. Speranza vana. Speravo avesse parlato con Stefano per tutto il casino a Mediaxion, e invece anche questa è speranza vana. «Ho guardato il materiale» mi dice, «non so se riusciamo a montarlo con le nostre attrezzature, perché sai in Cile ho un Mac ultra potente, Quad Core, 8 Giga di RAM, una bestia… col nostro non so se ce la facciamo». Lo guardo nella sua sem- plice e schietta franchezza. «Ma come?» chiedo, «e se non possiamo montarlo come facciamo?». Lui alza le spalle e aggiunge serafico: «Comunque intanto sento Robbè, magari lui ci può aiutare». Mi iniziano le palpitazioni. Vampate alla testa. Ma come? Non riesco a crederci. Abbiamo un progetto in mano come Ventanni e ci arriviamo così? Sono disorientato. Ripenso alle parole di Michele, “poi bisogna vedere se Gabriel lo sa mon- tare” e vacillo. Io ero quello delle mani sul fuoco, per tutti. Quello che uno dei nostri era sempre e comunque da difende- re. Ma adesso inizio a vacillare. Abbiamo trent’anni, non sia- mo più dei ragazzi. Non possiamo prendere gli impegni così. Qui tutti si sottraggono alle responsabilità con una tranquillità disarmante. Se ti prendi una responsabilità con che faccia, con che senso della dignità dopo poco, perché te ne chiedo conto, dici: “non ci riesco”? Come quando mi sono sentito dire da chi doveva cercare altri fondi per Ventanni: “a me vengono le palpitazioni solo a sentire queste cifre”; dopo tre mesi che nella mia testa questo era lì a cercare di dare il massimo, di ottenere risultati, di fare il suo lavoro. Come stavo facendo io.

338 “Sai io non c’ho le palle”, addirittura questa mi sono sentito dire. Ma che cazzo di generazione siamo? Ma come facciamo a essere così? Sono frastornato. In tre mesi quello che doveva essere un percorso finalmente arrivato al compimento si sta rivelando un ritorno all’ignoto. Avevo creato Mediaxion per costruire una comunità in grado di cambiare noi e tutto il resto. Quan- do ce l’avremmo fatta, quando intorno a noi avrebbero visto che si poteva vivere e lavorare così, in modo solidale e allo stesso tempo economicamente efficiente, allora l’onda si sa- rebbe allargata. Avevo accettato quasi tutto per questo sogno: una condizione di reddito sotto la soglia di povertà, dove in due con Francesca facevamo a mala pena lo stipendio di un operaio specializzato; avevo accettato di rinunciare alla mia carriera personale nel campo della ricerca, perché bisogna- va fare qualcosa e quel qualcosa doveva partire da me; avevo accettato lavori non pagati, sottopagati, pagati quando e se è possibile, progettualità avviate e quant’altro a committenti che dopo anni ci avevano dato il benservito. Ora pensavo di essere arrivato vicino alla meta. Vicino alla fine del gran premio della montagna e all’inizio di qualche collina. Tutto quel sacrificio per quella comunità era servito a qualcosa. Avevamo vinto il bando per Ventanni, quel progetto poteva lanciarci, l’articolo di Geraldina ne era la prova, e intorno altri progetti sembra- vano finalmente riconoscerci uno status migliore. E davanti a tutto questo scenario rassicurante, Francesca era rimasta in- cinta. Finalmente avremmo potuto avere anche noi un figlio o una figlia, come per Stefano era successo, e la comunità ci avrebbe sostenuto. Invece in quattro mesi tutto questo si è ribaltato. Tre soci sono andati via così, senza poter dire loro niente e Francesca, nonostante la gravidanza, aveva associa- to allo stress della situazione anche la rabbia dell’impotenza: «Com’è possibile in un Paese normale che tre persone, socie di una cooperativa, possano sparire dalla circolazione e tu non gli possa fare niente?». Avevo cercato di mediare con loro, ricucire, ma sbagliando. Quel tentativo era stato preso come una forma di debolezza: cerchi di ricucire perché ti senti col- pevole, non perché tieni alla comunità più che all’aver ragione.

339 D’un tratto ho iniziato a vedermi solo. Dopo aver letto la mia vita per anni nell’ottica di un “noi”, mi vedevo solo. Solo con- tro i conti da ripianare. Solo contro dei soci che non volevano rispettare le norme concordate. Solo contro addirittura chi doveva far parte della comunità economica intersettoriale che con fatica avevamo provato ad avviare. “Avevamo”, “avevo”. Non capisco più. Erano tutte mie proiezioni? Sono mie pro- iezioni? Persino Francesca mi è contro. Lei vuole sanzioni, regole, rigore. Perché nell’anarchia poi accade tutto questo. E io, che all’anarchia, all’auto-organizzazione, ho sempre cre- duto, cerco di difendermi con lo scudo a tre-quarti, cosciente che infondo ha ragione. Infondo se in un sistema anarchico non esiste alcun potere oltre quello della relazione allora gli opportunisti vincono, l’egoismo vince. Poi gli altri, il Vito me l’aveva sempre detto: la gente è così. Ma io non riesco ad ac- cettarlo. Come puoi vivere nell’idea di un mondo dove ognu- no pensa solo per sé e in quel per sé non contempla gli altri? Non è vero. Non lo accetto. Eppure negli ultimi tre mesi era successo di tutto e sempre nella direzione di confermarmi quella verità. Persone, per me prima che clienti, d’un tratto erano sparite senza retribuire il lavoro di mesi e soprattutto ta- gliando via l’opportunità di tanti ponti creati. Ponti anche con Ventanni. Come quell’agriturismo di Sassetta dove fino a ieri dovevamo realizzare l’incontro tra i protagonisti e oggi, dopo un mese e mezzo di introvabilità dei titolari, ci segnala di voler interrompere il rapporto “al di là degli accordi scritti presi”. Che fai? Che faccio? Ho sempre pensato alla sostituibilità del valore del denaro con il valore dello scambio. Paghi meno ma abbiamo un rapporto e mi ricompensi in altro modo. Quale? Quello che possiamo concordare. Quello che in una comunità non dovrebbe nemmeno essere esplicitato. Lo sai che sei in debito, non serve che te lo ricordi io. Ma la realtà è altra. La realtà è che a prendere si fa in fretta, mentre dare costa molta fatica. Soprattutto a dare si rischiano situazioni che in realtà non si desiderano. Come per un altro agriturismo di Sassetta, cui ho dato in questi mesi oltre il limite della ragionevolezza, che anch’esso avrebbe dovuto ospitare alcuni protagonisti di Ventanni per l’incontro conclusivo del progetto. La risposta

340 alla mia proposta datami da Roberto, titolare insieme alla mo- glie della struttura, lasciò di stucco me e Andrea, seduti al suo tavolo di cucina: «Io quella gente, qui, non ce la voglio. Con quello che gli è successo sai che energia che hanno? Perché quando ti succedono cose del genere magari non te, ma tuo babbo o tuo nonno, beh qualcosa hanno fatto e semplice- mente così si riaggiustano le cose». Ero rimasto basito e in silenzio, mentre Andrea, con la sua aria da razionale cercava persino un’obiezione a quella tesi avvilente. «Quindi te credi che chi c’è rimasto sul quel traghetto e poi anche i familiari sono tipo maledetti o qualcosa del genere…». L’interlocutore aveva scosso la testa: «Tu non capisci niente. Ci sono forze più grandi di noi, forze che non c’entrano con la nostra volontà, e quelle forze decidono la nostra vita, rimettono a posto i cocci. Perché stai sicuro che se… quanti erano?» dice rivolgendosi a me. «Centoquaranta» rispondo. «Ecco» aveva proseguito, «se centoquaranta persone muoiono tutte insieme in un modo così orrendo sai che diavolo devono aver fatto? Una roba così è distruttiva, energia distruttiva… quella gente qui non ce la voglio di sicuro… portali pure da quelli là – l’altro agriturismo – ma qui non ce li voglio». Che fai? Hai sbagliato te. Ho sbagliato io. Ho avuto fidu- cia, ho dato, ho pensato che oltre al denaro potessi essere ricompensato in altro modo, perché tra simili si trova sempre il modo di ricompensarsi, ma qui di simile c’è la specie, homo sapiens sapiens, e forse poco altro. Roberto mi ha guardato, è stata l’ultima volta che ci siamo visti: «Io poi a te te l’avevo detto fin dall’inizio. Ti ricordi? Tu ti stai mettendo contro for- ze che non ne hai un’idea con questa storia di riunire quella gente. E se arriva uno con una valigetta nera e ti dice: “qui ci sono due milioni di euro, te ti fermi qui e questo lavoro non lo fai uscire” dammi retta… prendili e lascia stare». Capita anche questo. Capita anche questo nel 2011. «Una storia surreale» ha detto Giacomo il 10 aprile per in- trodurre il racconto del Moby Prince e quell’aura resiste anco- ra oggi. Resiste nei tanti rivoli che attorniano la storia. Incluso questo progetto. Questo progetto “maledetto” dove tutto di- venta un problema.

341 Sono io che mi circondo di gente fuori di testa o sono io fuori di testa a circondarmi di questa gente? Qual è il senso, l’insegnamento di quanto mi sta succedendo? Francesca è in- cinta e tutto si sta disgregando. Sono stato un irresponsabile a circondarmi di queste persone a credere in loro nonostan- te tutte le avvisaglie. Sono stato un irresponsabile a iniziare Ventanni nella fiducia in chi vi doveva lavorare. Sono stato un irresponsabile a non firmare quell’accordo con Michele e oggi lui, per tramite di un avvocato regista amico suo, mi scrive di essere “co-autore di Ventanni” e quindi di esigere spettan- ze per “i diritti d’autore” e soprattutto di poter intervenire per “bloccare sia il finanziamento della Regione Toscana, raggiunto attraverso il suo credito autoriale, sia l’uscita del film”. Le sue spettanze. I diritti d’autore. Una persona che non ha scritto una riga, che diceva che le sceneggiature non servono, che ha fatto saltare il rapporto con una possibile protagonista e soprattutto ha già preso più di chiunque altro in questo progetto, che si era persino fregato 50 euro, torna- va a bussare. Questo è l’insegnamento. Puoi fare quel che ti pare, ma alla fine il metro del mondo è la tua convinzione. Io sono il cattivo ladro di idee altrui e moroso. Io sono il catti- vo presidente, il cattivo fornitore, il pazzo che si mette con- tro le forze divine cui dobbiamo il destino del Moby Prince. Io sono lo scemo che sperava di veder arrivare Gabriel con un pre-montato, essendosi ammazzato per inviargli ai primi di luglio tutto il materiale video e la trascrizione delle clip in Cile, perché lui pur avendo creato una società in Italia ed essendone amministratore, lì vuole vivere. Io sono il folle che lavora per Mediaxion e per i progetti, ma viene pagato, quando i progetti incassano, solo per questi. Io sto uscendo di testa. Gabriel mi dice: «Ho sentito Robbè, ci aiuta lui in qualche modo ma ci vorranno diversi giorni. Magari se vuoi possia- mo iniziare a lavorare carta e penna». Siamo a fine settem- bre, dovevamo fare l’anteprima a ottobre e questa cosa è un problema, ma ok. Chiedo lumi: «Intendi carta e penna per la struttura del film?». «Sì».

342 «Ma tu un’idea non te la sei già fatta?». Mi guarda perplesso. Io insisto: «...Con le schede di tutte le clip, la riunione su Skype che abbiamo fatto e la visione del materiale… pensavo tu potessi arrivare a un’ipotesi di montaggio». Lui si spiega. Non è così che funziona. Non è come diceva Michele che poi arriva il montatore e fa lui. Bisogna “andare nello specifico”. Raccolgo e rilancio: «Ok io una traccia di come lo vorrei ve- dere montato ce l’ho già. Iniziamo con il racconto di Paola, fa da intro a tutto, poi il VHS di Mauro. Da lì inizia la sua storia. In off lui la racconta mentre vediamo la scena della spiaggia. Poi partono, arrivano a Livorno per vedere Loris. Lo presentiamo, vediamo L’Aquila e poi rifiniamo a Livor- no per l’incontro con Loris e Ivanna. Lì si sono detti tante cose importanti. Dura parecchio e l’inquadratura fissa è un problema...». Parliamo a lungo della bozza. C’è sicuramente qualcosa da verificare. Soprattutto io ho la sensazione di una storia troppo grande per essere contenuta in un formato filmi- co. «Dobbiamo parlare del Moby Prince attraverso questa storia. E soprattutto dobbiamo far vedere a ciascuno il re- troscena dell’altro. Per l’incontro…». Gabriel riflette sulla questione, poi conclude: «Ecco su questa cosa dell’incontro non ho capito… tu vuoi fare un montaggio per loro, per i protagonisti che si rivedono e poi vuoi riprenderli il giorno dell’incontro?». «Sì». «Praticamente sono due film. Perché a seconda di quello che succede in quella giornata cambia il primo montaggio». «Sì». «Ah. E dove lo facciamo questo incontro?» mi chiede. «Dovevamo farlo in quell’agriturismo ma è saltato e dobbia- mo ritrovare una location. Considera che dobbiamo conse- gnare tutta la rendicontazione, con il dvd del film, al massimo a fine febbraio. Perché se no la Regione Toscana non ci dà la seconda trance del finanziamento. Quando possiamo iniziare a montare davvero col MAC?». Lui riflette, poi emette il ver- detto tecnico: «Può essere una settimana come due. Quindi ci vuole parecchio…». Considerati i tempi per stampare, fare

343 la rendicontazione e tutto, visto che quell’altra se n’è andata senza aver fatto niente, concludo: «Dobbiamo finire il mon- taggio per novembre, perché non vorrei arrivare a rischiare di non finire». Gabriel mi getta uno sguardo deciso: «Bene. Mettiamoci a lavorare allora».

344 23. VALENTINO ROLLA E LA SENTENZA D’APPELLO

“’oi de a moby piatevela ‘n gul’”. Trad. “voi della Moby prendetevela in culo”. An o n i m o , dai log del Canale 16, ore 23:45 del 10 aprile 1991

18 settembre 2011. Caldo. Apro gmail e mi trovo una noti- fica di Facebook. “Valentino Rolla ha risposto al tuo messag- gio”. Il cuore ha un piccolo sussulto. Apro la risposta di Rolla: “Sig. Sanna buonasera. Le rispondo con infinito ritardo e me ne scuso, ma solo stasera su FB ho visto il Suo messaggio. Sì, sono io, l’ex Ufficiale dell’ Agip Abruzzo. Buona serata”. Sono passati cinque mesi. Oramai non ci speravo più. Dopo tante ricerche avevo trovato Valentino Rolla. Tento subito un contatto. Vorrei incontrarlo. Dopo poco la sua nuova risposta. “Si può fare, a certe condizioni”. Io sono sincero e azzardo. Vorrei registrare l’incontro. Valentino Rolla si ritrae. Tento al- lora di ridurre la pretesa. Ma ormai il contatto sembra perdu- to: “Tutto questo tempo che è passato ha fatto in modo che la mia vita tornasse alla normalità – quasi assoluta – e che la maggior parte dei ricordi fosse cancellata in maniera assoluta. Rimangono, ovviamente, dei fotogrammi ben impressi nella mia memoria. Ma quelli, naturalmente, sono un patrimonio privato che non intendo assolutamente condividere con nes- suno. Ho l’immensa fortuna di essere vivo dopo un’esperien- za del genere. Ma credo, in questi vent’anni, di aver scontato il credito con la vita. Le auguro solo che il Suo progetto si concluda nel migliore dei modi e che qualche altro ex com- ponente dell’equipaggio dell’“Abruzzo” sia un pochino più loquace del sottoscritto. Buona Fortuna, Valentino”. Mi mordo le mani. Non dovevo mettere davanti la registra- zione. In realtà a me Valentino Rolla interessava oltre il docu- mentario. Volevo parlare con lui come avevo fatto con D’Ale- sio. Parlare con chi evidentemente aveva pagato un prezzo alto per qualcosa che forse, secondo Angelo almeno, non aveva

345 commesso. Un capro espiatorio quindi. La vittima sacrificale da mettere sul banco dei colpevoli. Lui, un ragazzo di allora ventitre anni che da terzo ufficiale dell’Agip Abruzzo avrebbe dovuto segnalare “l’improvviso banco di nebbia” che aveva coperto la petroliera. Se la nuova tesi di Angelo e Gabriele Bardazza fosse vera – il guasto tecnico alle caldaie dell’Agip Abruzzo e la conseguente fuoriuscita di vapore acqueo, simile quindi a nebbia – allora Valentino Rolla sarebbe a tutti gli ef- fetti un capro espiatorio consenziente. Ovvero qualcuno che andò a processo a confermare sia la nebbia, sia il suo errore. Perché? Se per Bertrand, il superstite, valeva nella mente di Angelo e di altri familiari la tesi della ricompensa economica – una cospicua pensione di invalidità109 avuta in cambio di una a oggi ipotetica falsa testimonianza110 – per Rolla que-

109 Alessio Bertrand viene dichiarato “guarito dalle lesioni riportate nell’in- fortunio” del 10/4/1991 il 7 dicembre 1992. Il pagamento delle indennità di temporanea inabilità al lavoro gli sarà quindi sospeso da quella data per essere sostituito da una pensione di invalidità corrispondente a una riduzione del 80% della capacità lavorativa dovuta alla “grave nevrosi ansioso-fobica con turbe dell’umore di tipo psicotico” riscontrata. La pensione proveniente da Cassa Marittima e INPS equivaleva nel 1992 a circa 22 milioni di lire l’anno aumentabile di circa un milione per ogni quota integra- tiva per carico di famiglia. All’epoca dei fatti Alessio Bertrand fu seguito da un legale napoletano che riuscì a ottenere dall’assicurazione dell’armatore Nav.ar.ma. – la “Lloyd’s” secondo la dichiarazione di Bertrand stesso resa Livorno nel 2009 – la cifra di 300.000.000 di lire a titolo di indennizzo per quanto accaduto. Attualmente la sua pensione, composta ancora per metà dalla Cassa Marittima e per metà dall’INPS, equivale a circa 3.000 euro. 110 Alessio Bertrand viene ascoltato per la prima volta l’11 aprile 1991, men- tre è ancora in ospedale. Al P. M. Luigi De Franco racconta quanto segue: “Io mi trovavo nella saletta dell’equipaggio dove si trova un apparecchio televisivo e stavo vedendo la partita Barcellona – Juventus. Ad un certo punto abbiamo av- vertito un terribile urto, quasi come se fosse un terremoto, e improvvisamente i locali sono stati investiti dalle fiamme e dal fumo. Siamo scappati tutti quelli che eravamo nella sala e abbamo attraversato diversi locali della nave, constatando che tutti erano invasi dal fumo e dal fuoco e che sia l’equipaggio che i passeggeri cercavano di scappare [...]. Insieme con due miei amici, D’Antonio Giovanni e Massa Angelo, ci siamo recati nella parte poppiera della nave, all’aperto. Lì ovviamente la situazione era un po’ migliore [...] a un certo punto i miei due amici non sono riusciti a resistere ulteriormente e sono caduti a terra morti. Gli ho fatto la respirazione bocca a bocca, ma non è servita. Io mi sono attaccato

346 al corrimano della passeggiata dalla parte esterna e ci sono rimasto finchè non mi sono arrivati i soccorsi. [...] Non mi sono buttato in mare subito perché il mare era invaso di petrolio e ritenevo che potesse essere pericoloso. [...] Non ho visto dove fosse in quel momento la petroliera perché i fumi oscuravano completamente la zona. Non posso dire se nella zona vi fosse nebbia, perché in un primo momento ero nella saletta, ed in un secondo tempo il fumo oscurava tutto e come ho già detto impediva ogni visibilità”. A prescindere dal fatto che la trascrizione è evidentemente rivista sul piano sin- tattico e lessicale, visto che Bertrand non aveva questa proprietà di linguaggio, l’aspetto importante è che tale racconto manca di alcuni particolari rilevanti emersi nei successivi incontri con la magistratura. Già nel secondo interrogato- rio, datato 15 aprile 1991, Alessio Bertrand espliciterà di aver portato un vassoio di caffè e panini in plancia comandi – dove dichiara di aver trovato il comandan- te Chessa, il primo ufficiale di coperta Sciacca ed il timoniere Aniello Padula – e successivamente di essere andato a vedere la partita. L’incidente, secondo l’integrazione del racconto di Bertrand, si verificò dopo il terzo goal del Barcellona – quindi dopo le 22:15 – e lui con i suoi due amici si rifugiarono prima in garage e solo successivamente all’aperto in zona poppiera. In quella zona, diversamente dal primo racconto, Bertrand dirà che “tutto era in fiamme” e per questo si portò “nei corridoi delle cabine passeggeri dove, an- dando avanti e indietro” si trattenne “per circa venti minuti”. Persi quindi i due amici in precedenza, il mozzo dichiarò di averli ritrovati “nel punto dove si in- terseca la scala che scende in coperta ed il corridoio delle cabine dei passeggeri, all’esterno”. Sollecitato dal P.M. sul ricordo di aver avvertito o meno un allarme o un ordine di concetrarsi nel punto di riunione Bertrand negò categoricamente di aver udito qualcosa del genere. Un ultimo, estremamente importante, partico- lare della ricostruzione emergerà invece solo il 26 aprile 1991, quando Bertrand, ascoltato da Lorenzo Checcacci – poi imputato nel processo di primo grado, ma in tale occasione parte della commissione che espletava l’inchiesta sommaria della Capitaneria di Porto – , dichiarerà qualcosa di molto preciso a proposito della nebbia: “Quando ero nel corridoio delle cabine passeggeri mi sono imbat- tuto anche nel timoniere – quello che avevo lasciato in plancia quando avevo portato i panini – anche lui era in preda al panico, gli ho chieso che cos’era successo e mi ha risposto che c’era nebbia e che avevamo urtato un’altra nave”. Tale fondamentale aneddotto sparisce misteriosamente dai ricordi di Alessio Bertrand quando viene ascoltato nuovamente dal P.M. De Franco il 30 settem- bre 1991, ma ritorna, davanti al medesimo, nell’ultimo interrogatorio realizzato prima del processo e datato 26 febbraio 1992. In tale occasione Alessio Bertrand confermò di aver trovato il timoniere Padula nelle scalette che portavano verso il garage e di aver ascoltato la sua ricostruzione dell’incidente. Bertrand tornerà a riferire del dialogo con il timoniere del Moby Prince nel corso dell’udienza del 31 gennaio 1996 – quindi a processo in corso – ma in tale occasione cambierà il luogo in cui avvenne – il corridoio delle cabine passeggeri – . Sottoposto dall’Avv. Giunti a domanda specifica su tale differenza sostanziale di ricordo del dove avvenne tale importantissimo dialogo, Bertrand rispose un serafico “adesso non mi ricordo”.

347 sta contropartita sembrava non esserci assolutamente. Anzi. Tutt’altro. Infatti “Valentino Rolla” resta nella storia come l’unico nome e cognome associato esplicitamente alla paro- la “responsabilità” rispetto alla vicenda penale Moby Prince. Una responsabilità relativa, prescritta, ma pur sempre tale da consentire alle parti civili rimaste nel processo di appello di ricevere da SNAM il rimborso delle spese sostenute e, in sede del conseguente procedimento civile, il risarcimento conclu- sivo. Questo aspetto. Quest’idea di una magistratura che con- segna alla storia, come causa di una tragedia così enorme, il nome e cognome di un ventitrenne secondo ufficiale di guar- dia, mi aveva colpito. Vedere il proprio nome, il proprio ruolo, associato a tutto quel dolore doveva essere stato devastante per il sig. Valentino. Sia che egli avesse detto la verità, sia che avesse mentito, la storia scritta dai magistrati – quella ufficia- lizzata dallo Stato – lo poneva come un responsabile e nei fatti l’unico meritevole di nome e cognome. Per questo lo volevo conoscere. Volevo capire cosa fu dopo. Cosa successe dopo la notte del Moby Prince. E ora questa possibilità () mi era sfuggita per aver messo davanti il film alla relazione umana. È il 22 settembre 2012. Sono passati un paio di giorni dall’ultima risposta di Valentino Rolla e c’è qualcosa che non mi torna. Non in lui, non nella sua reazione legittima. Inizio ad avere dubbi sulle parole di Loris circa la sentenza di ap- pello, l’unico documento sulla vicenda che, pur cercandolo, ancora non sono riuscito ad avere. Vorrei che Ventanni desse informazioni corrette sulla storia del Moby Prince, attraverso la voce dei suoi protagonisti. E, anche se mi fido ciecamente di Loris, c’è qualcosa nella sua frase canonica sulla sentenza di appello, che non riesco a capire. “Colpevole è Rolla ma ben più colpevoli sono l’armatore per le carenze del traghetto, Su- perina per la posizione in rada e Albanese per il mancato co-

L’ultima apparizione di Bertrand davanti ai P.M. risale al 9 giugno 2009, quando, nel corso dell’inchiesta – bis, fu richiamato a deporre a riguardo di cosa vide e fece la notte del 10 aprile 1991. Nel corso di un interrogatorio che i P.M. stessi dovettero sospendere per l’evidente difficile stato emotivo dell’ormai trenta- seienne testimone oculare, Bertrand confermò il suo ultimo racconto, pilastro fondamentale della ricostruzione ufficiale del disastro.

348 ordinamento dei soccorsi”. Loris lo cita con la sicurezza di chi recita a memoria una poesia scolastica. Non può averla inven- tata. Sicuramente l’ha sentita pronunciare da un avvocato o dai giudici stessi. Però io non sono riuscito ancora a ritrovarla in alcun volume o documento sul Moby Prince. Fedrighini, nel suo testo Moby Prince. Un caso ancora aperto, era stato sicura- mente evasivo sulle responsabilità di Onorato. Ma addirittura omettere una sentenza mi sembrerebbe troppo. Chiamo Loris. Racconto il mio dubbio. «Io la ricordo così, comunque Francesco io la sentenza di appello non ce l’ho. Era parte del materiale che è sparito, ma Ivanna ne ha una co- pia. La chiamo e vediamo se ce la manda. Così magari ne ten- go una copia anche io». Qualche giorno dopo sono a casa sua, con Gabriel. Ci tenevo a che lo conoscesse. «Tieni France» mi dice porgendomi il cd con la copia della sentenza. Ivanna è stata come sempre molto efficiente. Ringrazio. Parlottiamo, con l’occasione, del più e del meno. Qualche battuta, ma vedo un Loris insolitamente poco incline agli scherzi. È insofferen- te per qualcosa. Il discorso cade casualmente sull’oggetto di tale condizione: Loris e Fabio si sono lasciati. «Mi spiace» ac- cenno. Loris inspira: «È così». La foto sopra il computer che li ritraeva sotto un grande cedro, è sempre lì. Ma conoscen- dolo ci rimarrà ancora per poco. Lui inizia a parlottare con Gabriel, lo osservo. Questa parte della sua storia non c’entra col Moby Prince. Ma quanto di ciò che è Loris oggi può dir- si lontano dal Moby Prince? Quest’uomo ha dedicato la vita a questa vicenda e attraverso essa ha cambiato radicalmente molto del suo universo relazionale. Mi piacerebbe trovasse un po’ di pace, una pace oltre la vicenda. Eppure il destino con- tinua a non dargli tregua. Il destino, che in parte lui stesso si è scritto, lo sta rimettendo da solo ad affrontare il futuro della sua battaglia. Quando torno a casa apro immediatamente il computer. Ivanna ha scannerizzato tutte le pagine della sentenza, un la- voro enorme: 9 Mega Byte. Apro. “Repubblica Italiana. In nome del Popolo Italiano”. In alto a destra, a penna, un nu- mero “415”. Reg. Sent.. Registro Sentenze? Andiamo avanti. I giudici della Corte di Appello di Firenze, Terza Sezione Pena-

349 le, riportano la ricostruzione del primo processo criticando- ne profondamente alcune premesse e prese di posizione. Tra queste resto colpito dal seguente passaggio: “In merito al c.d. video D’Alesio, trattasi di documento che, a parere dello stesso perito chiamato a interpretarlo dal Tri- bunale, avrebbe dovuto determinare quest’ultimo a prendere delle conclusioni completamente opposte a quelle recepite nella sentenza. Infatti la relazione peritale è arrivata alla con- clusione che il mare era perfettamente visibile tra l’osserva- tore e il luogo della collisione – identica conclusione cui era pervenuto il collegio peritale, anch’esso nominato dal Tribu- nale, per l’esame delle condizioni climatiche – , che vi era la presenza di un oggetto omogeneo ″allungato e solido″ – la nave Agip Abruzzo – e che ″le fiamme e l’esplosione appaio- no sempre dietro l’oggetto evidenziato″. Secondo il Tribunale di Livorno quell’oggetto solido che non subisce alcuna alterazione nel proprio perimetro altro non è che il banco di nebbia che, a mo’ di murata alta cento metri e lunga trecento, si frappone immobile, per alcuni minuti tra l’osservatore e il teatro della collisione. Questa ricostruzione – uno dei cardini su cui si fonda la sentenza – è inaccettabile per la percezione immediata che si ricava dall’esame visivo. L’unica cosa certa che non è mai stata da nessuno messa in discussione è che la collisione si sia verificata nella parte poppiera destra dell’Agip Abruzzo. Ebbene, combinando questo dato di fatto con la chiara im- magine del video D’alesio, che mostra anche a parere del peri- to del Tribunale la fiancata sinistra della petroliera – perché si dice il fuoco sta dietro – , non si può che concludere che la collisione si sia verificata esattamente dalla parte opposta rispetto alla ricostruzione accolta dal Tribunale”111. La sentenza di primo grado, scrivono quindi i giudici fioren- tini, aveva incredibilmente sbagliato a definire uno dei pilastri dell’evento: l’orientamento dell’Agip Abruzzo e quindi l’esat- ta dinamica della collisione. Ma il collegio giudicante livornese non si era fermato a questo, c’erano altre grossolane falle. Pur di assolvere tutti furono addirittura accreditate “le afferma-

111 Sentenza di appello, p. 17-18 corsivo mio.

350 zioni del C.T. di parte Rolla, Ing. Masoero, secondo cui il fi- schio – segnale acustico di riconoscimento delle imbarcazioni – sarebbe stato udibile a bordo del Moby Prince non oltre una distanza di 500 metri”. Le affermazioni di Masoero sono in- fatti smentite “dal dato normativo, che prescrive che le sirene di una nave delle caratteristiche dell’Agip Abruzzo abbiano un raggio di udibilità di un miglio marino, pari a 1852 metri”. Tra l’altro “Masoero ha presentato calcoli astratti, dichiaran- do di non conoscere le caratteristiche del fischio dell’Agip Abruzzo”112. Addirittura! Praticamente il Tribunale di Livor- no, pur di assolvere Rolla e quindi SNAM, ha avvalorato la ricostruzione del perito di parte che per realizzarla ha portato “calcoli astratti” e persino non conosceva “le caratteristiche del fischio” della nave di cui stava effettuando la perizia. In- credibile. Davvero incredibile. Ed è tutto scritto. Una pagina più avanti e andiamo oltre: “Quanto all’ora di insorgenza della nebbia, il Tribunale ha fatto ful- cro sulle deposizioni testimoniali degli equipaggi dei pescherecci e sulla memoria dell’avvisatore marittimo Romeo Ricci, che colloca l’ultima sua osservazione della rada alle 22:20. Il Tribunale svaluta in- vece le deposizioni Thermes e Olivieri, le dichiarazioni del Rolla e la testimonianza del Lanza, intento a pescare sul ponte della petroliera quando la nebbia sopraggiunge. I pescatori alle cui dichiarazioni il Tribunale fa riferimento sono Luciano Carovano, Michele Vitiello, Salvatore Pappalardo e Antonio Frasca. La deposizione del Carovano è assolutamente impre- cisa sia sui tempi sia sull’oggetto della sua osservazione [...] il teste ha detto che l’avvistamento delle lingue di fuoco sareb- be avvenuto dopo neanche un minuto, ma poi ha precisato che potevano essere anche due o cinque minuti. [...] Del tutto inutilizzabili sono i riferimenti temporali offerti da Salvatore Pappalardo che parla dell’arrivo della nebbia sul peschereccio Domenico Emma – che si trovava a circa tre miglia dall’Agip Abruzzo – attorno alle ore 22:25 [...]. Lo stesso dicasi per le dichiarazioni del Vitiello, capobarca del Delfino, che riferiva di un banco di nebbia sopraggiunto attorno alle 22:15. Poichè

112 Idem, p. 22.

351 il Delfino si trovava a notevole distanza dall’Agip Abruzzo nessuna indicazione può trarsi sul momento in cui la nebbia investì l’Agip Abruzzo. Il Frasca è stato sentito per la prima volta il 19.9.1996, a cinque anni e mezzo dal fatto e non fa mai riferimento al momento in cui la nebbia giunse sull’Agip Abruzzo. [...] Sulla base di queste testimonianze appaiono apodittiche le conclusioni cui il Tribunale dichiara di pervenire”113. Incredibile. Il Tribunale di Livorno era riuscito ad assolvere Rolla e SNAM, prendendo per buone deposizioni false e ge- neriche e andando addirittura a negare validità alla deposizio- ne testimoniale dell’imputato stesso che riferì di aver iniziato a vedere la nebbia alle 22:15. Scorro fino a pag. 82 del documento (76 della sentenza): “Considerazioni conclusive: I. Le responsabilità del Rolla. A. La colpa del Rolla”. Scrive la Corte di Appello di Firen- ze, Terza Sezione Penale: “sono applicabili al caso in esame le norme della convenzione sul regolamento internazionale del 1972 per prevenire gli abbordi in mare [...] e quelle della Convenzione internazionale sugli standard di addestramento, abilitazione e tenuta della guardia per i marittimi 1978 (Stan- dard 1978 o STCW 1978)”. Cosa dicono questi documen- ti? Qualcosa di banale: devono trovare applicazione “tutte le precauzioni richieste dall’ordinaria esperienza dei naviganti e che si devono tenere nel debito conto tutti i pericoli della na- vigazioni, i rischi di abbordaggio” e le particolari circostanze del caso concreto114. Poco più avanti il messaggio si rende più chiaro: “una nave all’ancora deve a intervalli non supe- riori a un minuto suonare la campana rapidamente per circa 5 secondi. Su una nave di lunghezza uguale o superiore a 100 metri la campana dev’essere suonata a prora e immediata- mente dopo il suono della campana deve essere rapidamente suonato il gong per circa 5 secondi nella parte poppiera della nave. Una nave all’ancora può in aggiunta emettere tre suo-

113 Idem, p. 23-24 corsivo mio. 114 Idem p. 76.

352 ni in successione”115. La differenza tra il “dover” suonare la campana o “poter” emettere tre suoni è data dalla pericolosità della situazione in cui la nave si trova a permanere. Quindi in presenza di nebbia la possibilità diventa inevitabilmente do- vere. I giudici passano poi in rassegna i segnali acustici obbliga- tori per le navi di lunghezza pari o superiore a 200 metri – l’Agip Abruzzo era lunga 267,70 metri – sottolineando come in questi casi la sirena debba avere un raggio di udibilità di due miglia nautiche. Valentino Rolla, nella sua deposizione, riconobbe tali responsabilità per chi, come lui, era addetto alla guardia: “Quando si è verificato l’urto mi stavo rendendo conto della necessità per la nebbia per poter poi eventualmen- te provvedere a questa incombenza”. Per i segnali necessari, gong e campana, sarebbe stato però necessario coinvolgere un altro marinaio, poichè dovevano essere emessi anche da prua, mentre Rolla era a poppa. E di qui si doveva forse la sua citazione circa la presenza di D’Aqui, inizialmente omessa nella sua prima deposizione. La procedura è indubbiamen- te complicata, e così, da una prima lettura mi chiedo quante volte sia realmente rispettata dai marittimi. A prescindere dai segnali acustici c’era comunque un’altra omissione importan- te operata da Rolla, come lui stesso riconobbe nel corso del processo di primo grado: il radar della petroliera non era stato posto in stand by all’insorgere della nebbia ma in un periodo sfortunatamente successivo. I giudici, nel citare la somma di tali defezioni, riportano a questo punto la necessità di includere Superina, il Coman- dante della petroliera, tra i co-responsabili insieme a Rolla per tali violazioni delle “buone regole della marineria”. Una co-responsabilità relativa alla scala gerarchica di comando. Se l’ufficiale di guardia non fa qualcosa, il Comandante ha l’obbligo di segnalarglielo e richiedere un comportamento adeguato alle norme. Lo sguardo però mi cade sull’orario di emersione della nebbia: 22:15. Questa è una variazione im- portante rispetto alla sentenza di primo grado, dove il Col-

115 Idem p. 77.

353 legio guidato dal giudice Lamberti dichiarò la nebbia calata dopo le 22:20, quando quindi non era possibile per il perso- nale dell’Agip Abruzzo porre in essere alcun comportamento che evitasse la collisione. In questo caso invece, anticipando l’insorgere della nebbia di cinque minuti, i Giudici fiorentini stavano aggravando la posizione dell’ufficiale di guardia della petroliera: se infatti il radar fosse stato acceso in stand by alle 22:15, alle 22:18 – dopo tre minuti di azionamento – avrebbe potuto individuare il bersaglio del Moby Prince in avvicina- mento e pertanto stimolare l’idea di azionare dei segnali di individuazione. Persino con un ritardo di tre minuti, ponendo come effettivo un attimo di smarrimento da parte di Rolla all’insorgere della nebbia, il radar avrebbe potuto individuare la rotta di collisione del traghetto alle 22:21 quando il Moby Prince era a più di 2400 metri dalla petroliera. Dopo quattro- cento metri il raggio di azione acustica della sirena avrebbe reso udibile la petroliera e quindi permesso alla plancia del Moby Prince l’identificazione e la deviazione finale. Tutto ciò sempre presupponendo sia che la nebbia ci fosse sia che nella plancia del traghetto nessuno stesse guardando il radar. Mi stacco un attimo dal monitor. Penso a Loris. La sua idea di un evento accaduto per motivazioni di banale negligenza è esattamente quanto riportato dai giudici nella sentenza. Infon- do tutto sembra tornare. Se c’era la nebbia, una nebbia fitta e capace di escludere dalla vista della plancia del Moby Prince l’intera petroliera, allora quest’ultima doveva necessariamente rendersi identificabile in qualche modo. Le norme dicevano: gong, sirena, campana. Quindi acusticamente. La nebbia resta pertanto l’elemento centrale per definire le responsabilità, in questo caso quelle di Rolla e di Superina nel non aver reso riconoscibile l’immensa petroliera. Un secondo, due secon- di e penso ad Angelo. Com’è possibile sostenere l’idea che davvero la nebbia non ci fosse? Pensarlo significa non solo identificare come false le testimonianze di quella cinquantina di persone che l’hanno accreditata, ma anche e soprattutto sostenere l’idea che tutto questo processo sia una farsa. Qui

354 ci sono pagine e pagine centrate sull’idea della nebbia116. Se la nebbia non c’era allora è assurda l’intera sentenza di primo grado e assurda pure questa d’appello. È assurdo tutto. Quale potere così enorme può giustificare una tale copertura? Mi cade l’occhio sulla seconda parte della pagina 85. “II. Altre responsabilità. È necessario avere un quadro di insieme delle responsabilità per stabilire l’entità del contributo causale del comportamento colposo del Rolla al verificarsi dell’even- to”. Ecco, penso, ci siamo. Qui dovrei trovare la frase citata da Loris. L’elenco inizia con la “presumibile responsabilità della plancia del traghetto”. Nonostante “le riserve dovute al fatto che i responsabili del Moby Prince non hanno potuto fornire la loro versione dei fatti” e le ipotesi degli altri ex-comandanti del traghetto non sono state confermate dalle risultanze pro- cessuali – Pecchioni “è partito il giropilota117” e D’Ambrosio “qualche ostacolo imprevisto ha impedito al traghetto di an- dare a dritta” – , i giudici segnalano la responsabilità di Ugo Chessa, il padre di Angelo: “Al Chessa si può attribuire la colpa di essersi fidato dell’abi- tudine e anche della propria bravura e di aver tenuto una ve- locità non prudenziale [...] confidando nel proprio diritto di precedenza su eventuali natanti che avrebbe potuto incon- trare. In altri termini, con verosimiglianza si può imputare al Comandante del Moby Prince l’imprudenza della perso- na esperta, non l’inesperienza; la negligenza che può deriva- re dall’abitudine, dalla conoscenza di procedure tante volte ripetute, non il comportamento di chi dimentica un fatto di

116 Scrivono i Giudici della Corte di Appello di Firenze “le deposizioni che parlano della nebbia sono troppe e troppo circostanziate [...] anche solo per affacciare l’ipotesi che i testi possano dire tutti il falso. Tra l’altro, anche a re- stringere il campo solo ai marittimi dell’Agip Abruzzo, alcuni hanno reso anche dichiarazioni contrarie all’interesse della SNAM (V. per esempio, D’Agostino sul riconoscimento del traghetto come tale dopo una decina di minuti dalla colli- sione, ud. cit. ppl 123-125)” (Sentenza di Appello, p. 65). Il fenomeno è tuttavia giudicato “strano” (idem, p. 65) sia per il suo interessare “solo la petroliera” sia per la rapidità con cui esso si è manifestato. 117 Pilota automatico, apparecchio che consente la manovra automatica nelle navi.

355 importanza basilare come la posizione di una petroliera, di cui solo pochi minuti prima ha notato la presenza e apprezzato le dimensioni. [...] Si può anche ritenere che il Comandante non sia stato particolarmente scrupoloso e attento nell’accertare le condizioni metereologiche e nell’osservare il radar. Ma è stato certamente ingannato dalla forma del tutto inusuale in cui si presentava il fenomeno nebbioso che, come più volte è stato ricordato, interessava la petroliera, ma lasciava discretamente visibile il resto della rada. Questa circostanza può spiegare anche il mancato ricorso al radar, che con tutta probabilità era acceso e in funzione: al radar, come ha asserito D’Ambrosio (ud. cit. p. 9) si ricorreva principalmente in caso di nebbia e quella sera la nebbia era difficilmente avvertibile”118. Ovviamente tutta questa spiegazione era quantomeno in- tricata: Ugo Chessa avrebbe quindi mantenuto una condotta consueta, da esperto, restando sorpreso dall’insolito evento metereologico. Un evento manifestatosi in modo talmente inusuale e talmente rapido, da rendere inutili le accortezze che una persona di tale professionalità poteva mettere in atto: per esempio osservare il radar. Il Comandante poi non era solo in plancia. Con lui c’erano il timoniere Antonio Padula e il pri- mo ufficiale Antonio Sciacca. Dalla collocazione dei cadaveri risultava in zona anche il terzo ufficiale di guardia Arcangelo Picone. Sicuramente una nebbia improvvisa può cogliere alla sprovvista qualcuno, ma addirittura tre persone, professioni- ste, è difficile crederlo. Indubbiamente riveste un ruolo im- portante l’elemento sorpresa, ma se la nebbia è calata intorno alle 22:15, in quel momento l’Agip Abruzzo era visibile dalla diga della Vegliaia, l’ultimo spartiacque del porto che le navi in uscita si lasciano a sinistra, appena passata dal traghetto. Lo testimonia il fatto che persino l’avvisatore, circa 800 me- tri indietro dal fanale verde della diga, dichiarò di aver visto dalla sua postazione l’immensa petroliera. Quel che quindi la sentenza stava teorizzando era probabilmente, in linea con la sentenza di primo grado, un colpo d’occhio rapido dato dal Comandante Chessa in rada e successivamente un passaggio

118 Idem p. 86.

356 del Moby Prince lontano dalle prime navi ancorate a sud della rada (Gallant II, Agip Napoli) con una rotta 220°. Raggiunto il Cape Breton, una delle navi militarizzate americane collocata a 1000 metri circa dall’Agip Abruzzo – “la mia nave era anco- rata a poco più di mezzo miglio dall’Agip Abruzzo” dichiarò il Comandante Michael Brown il 6 maggio 1991 – , la plancia del traghetto avrebbe scelto di doppiarlo lasciandoselo sulla sinistra – quindi puntando verso il mare aperto – e avrebbe posto una rotta dritta verso Olbia (191°-193°). A quel punto la nebbia avrebbe reso perfettamente invisibile la petroliera, due minuti prima dell’impatto. Lato traghetto si era ancora in tempo per manovre correttive, ma il radar era stato ignorato a fronte di una “navigazione a vista”. Leggendo questa Sen- tenza di Appello, la differenza con la tesi del Tribunale di Li- vorno stava quindi tutta nell’anticipare la nebbia, ben visibile, in conseguenza, alle 22:15, e pertanto accusare sia Rolla – per non aver azionato né segnali acustici né il radar – sia la plancia del Moby Prince per tale negligente comportamento. L’atteggiamento dei giudici nei confronti del Comandante Chessa mi appare, tuttavia, alquanto strano. Infondo la mag- giore responsabilità dovrebbe ricadere sulla sua condotta, sul fatto di aver centrato una petroliera di quasi 300 metri a causa di una incauta scelta di navigazione a vista, eppure la sentenza riporta un intricato discorso giustificativo nel tentativo mira- bolante di coniugare l’idea che Chessa fosse effettivamente molto bravo ed esperto e contemporaneamente avesse com- piuto un errore del genere. Nella puntata de La Storia Siamo Noi dedicata al Moby Prince fu addirittura interpellato un pro- fessore di logica allo scopo di valutare la coerenza di questo periodo. E il professore obiettò inevitabilmente su metodo e contenuti: era difficile sostenere “l’imprudenza della persona esperta”. Se sei esperto dovresti essere prudente. L’idea di una sorta di sicurezza dell’esperto tale da navigare a vista non utilizzando il radar in una situazione così complessa – tante navi ancorate in rada, molte delle quali piene di esplosivi e so- prattutto, stando alla sentenza, l’insorgere della nebbia – resta ancora oggi seriamente incoerente. Penso ad Angelo e a suo fratello. È evidente che non potes-

357 sero ritrovare pace in una ricostruzione poggiata su tale tesi conclusiva. Come posso accettare una sentenza dove si dice che mio padre era talmente bravo da essere rimasto vittima della sua bravura ingannatrice? La nebbia, l’assenza di visibi- lità, chiama l’uso del radar e se il radar è funzionante – come hanno dichiarato diversi testimoni – allora non è possibile che una persona esperta l’abbia lasciato spento oppure non l’abbia addirittura utilizzato, in un contesto di tal genere. L’assurdo, il paradosso, ci richiama a un’ulteriore interrogazione. Non lo accettiamo, qualsiasi esso sia. Rispondiamo ai paradossi più semplici sorridendo, ma in casi come questi reagiamo con rabbia e atteggiamento scettico. È ovvio. Condivisibile. La po- sizione di Angelo a riguardo non può che essere negazionista. Almeno a livello di principio, fino a prova contraria. Per Loris e gli altri familiari quella negligenza è invece un’ipotesi realisti- ca. Assurda, incredibile, ma non necessariamente impossibile e quindi potenzialmente veritiera. E qui, in questa posizione di partenza, risiede tanto della loro differente ricerca di verità sulla vicenda. Scorro più in basso e arrivo a pagina 86: “B) Altre respon- sabilità”. Dopo Rolla, la nebbia e la plancia del traghetto ci sono dei co-responsabili ed ecco, il primo citato, è l’armato- re. Bene, penso, Loris non si era sbagliato. Ora troverò quel passaggio. Invece il paragrafo sull’armatore è estremamente breve e generico: “All’armatore può forse imputarsi la scarsità dell’equipaggio (Pecchioni, pp. 50-52): una persona in più in plancia avreb- be potuto essere utile, ma in quell’occasione difficilmente avrebbe potuto ovviare al disastro. Anche i tempi piuttosto stretti previsti per la traversata non sembra abbiano avuto un’influenza diretta sul sinistro. Di altri addebiti, a prescinde- re dalle possibili osservazioni al riguardo, non è provato con certezza il ruolo causale”119. Tutto qui? Non è possibile. Dove sono le carenze del tra- ghetto, l’unico radar su tre funzionante, il mozzo delle eliche da cambiare, la radio con cali di potenza? La mente va im-

119 Idem p. 86.

358 mediatamente alle scene del documentario in cui Loris cita la sentenza. Devo toglierle. Qui rischia una denuncia. È vero che l’inchiesta-bis evidenzia alcune di quelle carenze e le im- puta all’armatore, benchè i reati siano prescritti e non oggetto del dibattimento, ma nella sentenza di appello quella centralità dell’armatore non c’è. Esco dalla stanza, scendo le scale e arrivo fuori. Aria. I ca- mion di Carrara scorrono verso sud, davanti al capannone dove è finito il nostro ufficio. Loris ha mentito o ha sbaglia- to? Sono confuso. Penso alla difficoltà di ricordare tutto, in una vicenda di tale complessità, ma nel citare quel passaggio sbagliato della sentenza, con quella convinzione, c’era forse dell’altro? Infondo Loris ha sempre coltivato dentro di sé l’idea di una responsabilità forte di Onorato. Onorato Achille allora e Onorato Vincenzo ora. Pur tuttavia la magistratura aveva discolpato il primo nel corso dell’indagine preliminare, escludendolo insieme al Comandante della petroliera e al Co- mandante della Capitaneria dal registro degli imputati, e poi aveva eliminato ogni attribuzione di pena – per prescrizione del reato – al secondo rispetto alle carenze del traghetto iden- tificate in sede di inchiesta-bis. La verità storica di cui Loris si faceva testimone è quindi anch’essa, come per Angelo, il frut- to di una ricostruzione solo parzialmente conforme a quanto certificato dai Procuratori di Livorno e Firenze. Loris cioè prende parti di quanto ha riconosciuto la magistratura e parti di quanto hanno riconosciuto i suoi avvocati e periti, met- tendole insieme nell’esercizio di creazione di una verità altra e la stessa cosa, con molta più intensità, la fa Angelo. Quindi sono su una barca simile. Loris non è appiattito sulla Procura, ma prende per buone molte più parti delle sentenze rispetto ad Angelo. In ogni caso restano unanimi su un principio: non si sono voluti colpire i veri colpevoli. Eppure Loris mi ha sempre ripetuto di aver ricevuto conforto dalla sentenza di appello, lì infatti “ci sono i nomi dei veri responsabili: Onora- to, Superina, Albanese”. Una verità relativa. Onorato è citato ma in modo assolutamente parziale rispetto a Superina e Al-

359 banese, dichiarati co-responsabili120 alla stregua del “povero” Valentino Rolla – lasciato solo “a rispondere della tragedia, in presenza delle responsabilità di numerosi soggetti, alcune delle quali più gravi della sua”121 – . Un camionista supera un automobilista, invadendo par- zialmente l’altra corsia a senso di marcia invertito. Questa è l’Italia. Ha senso discutere della precisione di Loris davanti a una vicenda come questa? No. Alla magistratura ci crediamo per riflesso. Qualsiasi persona intelligente sottoposta alla giu- risprudenza finisce per cederle il passo: accettare. Perché la giustizia scritta nelle leggi e nelle sentenze non ha niente a che vedere con la giustizia reale. Quantomeno nella sua applica- zione concreta. A tal proposito a pagina 89 della sentenza di appello i giudici scrivono: “Tutti hanno declinato le loro responsabilità: la Capitaneria perché allora non vi erano norme in materia – e le dovevano semplicemente far proprie loro come nel caso della differen- ziazione delle rotte di entrata e di sosta entrata in vigore dal maggio 1991 e allora già presente in porti più piccoli di Livor- no – , i piloti perché spettava ai comandanti delle navi stabilire il punto di fonda – ma a loro spettava uscire oltre un miglio

120 Superina risulta responsabile perché “doveva evitare di porsi all’ancora in modo tale che il cerchio di fonda interferisse con la rotta del traghetto per Olbia [...] inoltre doveva dare disposizioni che il radar fosse tenuto in stand by, stante il concreto pericolo che il fenomeno nebbioso, la cui presenza era già stata consta- tata nel corso del pomeriggio, tornasse a interessare l’Agip Abruzzo” (idem, p. 87). Per Albanese invece vale il principio secondo il quale è a lui che spettava, in qualità di Comandante del Porto “regolare e vigilare, secondo le disposizioni del regolamento, l’entrata e l’uscita, il movimento e gli ancoraggi e gli ormeggi delle navi (Art. 62, 63, 64, 2° comma, 67, 69 Cod. Nav., 59 Regg. Nav. Mar.)” (idem). La sentenza elenca accanto a essi anche i piloti del porto, sia colui che aveva con- certato “insieme a Superina il punto di fonda” sia i suoi colleghi che “avevano il punto di fonda dell’Agip Abruzzo” (idem). Inoltre il pilota del porto Sgherri, colui che accompagnò il traghetto in uscita il 10 aprile 1991, “avrebbe dovuto informare Chessa delle navi che avrebbe incontrato sulla sua rotta e avrebbe dovuto lasciare il Moby Prince non prima di un miglio oltre l’imboccatura del porto” (idem) prassi che invece veniva costantemente disattesa nel Porto di Li- vorno dietro il silenzio delle Autorità Portuali che “avrebbero dovuto invece vigilare” (idem). 121 Idem p. 93.

360 dalla diga della Vegliaia e segnalare alla plancia del natante accompagnato l’esatta collocazione dei natanti ancorati – , l’avvisatore perché non aveva competenza in merito – benchè dalla sua posizione privilegiata, potesse segnalare alla Capita- neria erronee posizioni di ancoraggio da parte dei natanti in rada – , il Comandante dell’Agip Abruzzo perché non vi era un provvedimento delle autorità portuali da osservare – falso, poichè c’era una zona di divieto di pesca e ancoraggio che intersecava il cerchio di fonda dell’Agip Abruzzo – ”122.

Questa è l’Italia. La sentenza di appello Moby Prince la rap- presenta con straordinaria e probabilmente ingenua sincerità: 140 persone muoiono bruciate vive a due miglia e mezzo dal Porto di Livorno e fondamentalmente non è colpa di nessuno. O meglio: la responsabilità è molteplice e si annida tra con- suetudini illegali divenute ormai la norma in barba alle leggi e ai regolamenti approvati, negligenza da parte di chi è prepo- sto al controllo e alla vigilanza, atteggiamento irresponsabile proprio di chi, dal basso del suo semplice ruolo operativo, non si sente in alcun modo responsabile di alcunchè oltre la sua tabella di servizio. E davanti a tutto questo la magistratura cosa ha fatto? Si è integrata. Prima ha fatto di tutto per esclu- dere dal processo i nomi illustri, poi ha salvato anche i capri espiatori e infine dice: le responsabilità sono molte ma tutto è prescritto. Prescritto ovvero, secondo la ratio della norma “a distanza di molto tempo dal fatto viene meno sia l’interesse dello Stato a punire la relativa condotta, sia la necessità di un processo di reinserimento sociale del reo”. Osservo quel viale nel suo incedere lato monte. Le cave di marmo svettano limpide rispetto al panorama circostante. In- teri profili dei monti distrutti e quel camionista, a tutta bir- ra sulla corsia opposta, probabilmente viene da là. Questa è l’Italia penso. Il Paese dove sono nato e che speravo di poter cambiare. Questa è l’Italia. Andatevene tutti affanculo.

122 Idem p. 91.

361 24. UN REGISTA NON C’È MAI STATO

“Senza tante parole/tutte queste parole/che non cambiano niente che non legano il sangue/spero tu mi perdoni”. Vi rg i n i a na Mi lle r , La carezza del papa, 2010

Non mi alzo dal letto. Francesca è al quarto mese di gravi- danza e io non mi alzo dal letto. Non voglio allarmarla, faccio di tutto per evitarlo, ma non ci riesco. Questa sensazione la conosco bene. È dentro di me, è incollata alla mia memoria. Quando tutto perde senso, quando tutto diventa un errore, allora anche le gambe e le braccia smettono di risponderti. Gli occhi si chiudono. La bocca si piega verso il cuscino. «Non riesco ad alzarmi». Francesca mi guarda con aria stralunata: incertezza, stupore, un po’ di paura nascosta die- tro il tentativo di essere lucidamente razionale. Mi chiede: «Cos’hai?». «Niente Franci, niente. Dammi cinque minuti e mi alzo. Cinque minuti e ce la faccio. Non ti preoccupare». Lei esce. Io respiro. Provo a ossigenarmi. Ci vorrebbe un po’ di cioccola- to. Aumentare la serotonina. Forse quelle fialette di litio che mi ha lasciato sul comodino potrebbero veramente aiutarmi. Non sono cazzate. Lei torna: «Ti preparo qualcosa? Una ti- sana…». «No. Cinque minuti e mi alzo». Ce la faccio. I piedi toccano terra. Cinque minuti, venti, non so quanto tempo è passato. Il tempo sta diventando una variabile indi- pendente dalla mia volontà. Il bambino del piano di sopra urla nel giocare coi nonni. Io tremo. Mi ritraggo. I rumori forti mi danno molto fastidio. Tutto deve tenersi su un range di fre- quenze tollerabile. Prossimo al silenzio. Raggiungo il bagno. Mi guardo allo specchio. Ho la barba, Francesca odia la barba, ma non riesco a farmela. È più forte di me. C’è qualcosa che frena le mie braccia, tiene lontano il rasoio, il sapone per ammorbidirla, l’acqua calda per far sci-

362 volare le lame. Quando arrivo in cucina, ha già preparato la colazione. Abbiamo pochi minuti, poi dobbiamo andare in ufficio. Io lo odio quell’ufficio. Eravamo una comunità, cer- cavamo un posto con la cucina per mangiare tutti insieme, avevamo le nostre cose, i nostri manifesti, oggi cosa siamo? Tre persone in una stanza di quindici metri quadri, con An- drea, il Vito, ospitato all’interno. Mediaxion non esiste più, Mediaxion non è questo. Ed è colpa mia. Sono io il distrutto- re. Sono io il responsabile di tutto questo. Lei mi guarda con severità. I suoi occhi, da quando è incinta, sono diventati ancora più concreti. «Cosa c’è?» mi chiede. «Niente». Lei dà un sorso alla sua tisana. Con la schiena dritta e i gomiti appoggiati sul tavolino sembra riflettere su una frase idonea. Intorno a me io vedo bianchi i muri di casa. Vedo tutto bianco, impersonale, amorfo e incompleto. Non siamo riusciti a fare nemmeno questo, penso. Questa casa è vuota. Il pensiero diventa parola, lo pronuncio a un volume troppo alto e lei lo sente. «Francesco ti rendi conto che accanto a te c’è un murales di tre metri e mezzo tutto colorato? Ora va bene tutto ma alme- no questa non dirtela». Incasso come un bambino davanti alla mamma saggia. Giu- ro vendetta. Perché la mia schiena è curva, la sua è dritta. Ora non riesco a stare su, ma se potessi. Se potessi ti risponderei. Perché tu non stai capendo niente, come al solito. Pensi che siano tutte farneticazioni di un pazzo, ma non capisci. È tutto finito. Tutto finito. Abbiamo sbagliato tutto. Tutte le scelte. Abbiamo puntato tutto su questa comunità, io ho puntato tutto su questa comunità, e adesso siamo in queste condizio- ni. La gente non ci paga, quei tre se ne sono andati via così, Ventanni… «Ventanni cosa?» fa lei. L’ho detto a voce alta. Stai zitto. Meglio stare zitto. Tanto non capirebbe e tu non riusciresti a spiegarti. Lei si adira. Non è rabbia. Non è un’espolsione. Si adira. Come chi ha i piedi per terra: «Anche questa cosa deve finire. Noi stiamo facendo il possibile. Passate le giornate te e lui davanti a quel computer, a parlare, a fare… io ti vedo. Allora certo che lui è arrivato senza aver fatto niente. L’altro

363 giorno quando ha detto: “Daniela chi è?” secondo me si è capito il livello con cui ha guardato il materiale e letto i tuoi post. Lo so io, a menadito, chi è Daniela e di clip non ne ho vista una. Bastava leggere. Ma come al solito lui fa come gli pare. Però tu o queste cose le dici oppure state lì a girare sul nulla. Ve l’ho anche detto: volete che guardi io e vi dica io le mie impressioni?». Lo sapevo. Non capisce. Non capisce nessuno. Non capisco niente nemmeno io. Questa cazzo di tisana ha poco miele. Meglio pensare alla tisana. Ma lei non molla l’osso: «Allora?». Vuole una risposta. Ma cosa vuoi che ti risponda? Che ho sopravvalutato tutto? Che ho sbagliato tutto? Sì ho sbagliato. Ma quella non è la cura. Quello è il male. In questa società, dove tutti parlano a prescindere dall’avere qualcosa da dire, non c’è mai una linea retta. Tutto è storto. Tutto oscilla come il vento. Ma è questa società che sta facendo Ventanni. E io volevo che fosse il nostro modo di dimostrare quanto valia- mo. Il modo per uscire dalla palude della minuscola impresa italiana: quella dove non vali niente, ti rubano i progetti come si toglie un ciuccio di mano a un bambino di tre mesi e “a pagare si è sempre in tempo”. Il cielo è grigio. Grigio fumo di Londra. Pioverà tra poco. Meglio. La C3 è sporca. Dentro e fuori. Se la vedesse mia ma- dre me lo farebbe notare, per giorni. Mi farebbe quella faccia, quella che dice “ma non ti vergogni?”. Guardo il tappetino mentre inserisco la chiave. È sporco. È vero. È tutto sporco. Tutto sciupato. In tanti anni cosa ho costruito? Dovevo an- darmene, andarmene via. Appena laureato dovevo andare in Germania, come mi aveva detto Davide, il mio amico relatore della tesi. Invece sono rimasto qui, perché dovevo cambiare le cose. Dovevo mettermi al servizio del cambiamento. Ma che cazzo sto pensando? Quale cambiamento? Sembrava tut- to reale ma era tutto finto. Come un trompe d’oeil. Pensavo di capire l’inganno della vita, di poterlo raccontare agli altri e invece mi stavo ingannando io. A furia di guardare il buono degli altri, ho smesso di guardarne il male. Ma quel male, da dietro, mi stava mangiando. Mangiava i miei anni, mangiava le mie opportunità, mangiava la mia anima, lentamente. Come

364 l’aquila di Zeus a Prometeo. Un tale prende la rotonda dalla corsia sinistra, io da quella destra. Poi mi taglia la strada e mi alza la mano come dire “vai a cagare”. Francesca si sporge: «Oh, coglione!». Reagisce. Io no. Avrei ragione io, nelle roton- de la precedenza si dà a destra e poi devi mettere la freccia, ma non mi interessa. Come l’aquila a Prometeo, ripenso. Ogni tanto mi tornano questi brandelli inutili di cultura con la C maiuscola, da Liceo Classico. Aveva ragione quel professore di latino e greco: «Sanna so io quel che ti serve: una pistola per spararti in bocca». Ave- va ragione. Allora, durante l’esame di maturità, gli dissi: «Può anche andarsene, non mi serve il suo aiuto». Oggi dico che forse aveva ragione. Avevo solo alzato la mano per chiedere di aiutarmi, come faceva con tutti gli altri. Era in mio diritto. Ma lui sapeva quel che in realtà mi servisse: una pistola per spararmi in bocca. E nessuno, nessun commissario in quella stanza o studente, levò una parola a riguardo. Nessuno. Tutte pecore. Tutti per sé. E oggi hanno ragione loro. Io sono qui, in questa macchina, mia moglie è incinta di quattro mesi e io non ho la più pallida idea di come campare la bambina che porta in grembo. Io sono un irresponsabile. Ho dato tutto per un sogno, un’utopia, un’idea che sentivo condivisa e invece era solo mia. E oggi tutto questo si sta mostrando davanti ai miei occhi. Il presente è ora e ora io non so cosa fare. Vorrei solo sparire. Arriviamo in ufficio alle 9:20. Le chiavi della prima porta esterna ce l’ha Gabriel e Gabriel arriva in bicicletta. Lo chia- mo: «Siamo fuori». Lui ha la voce assonnata. «Ieri ho fatto tardi lì in ufficio e stavo ancora dormendo» con la sua soli- ta devozione al primo che gli chiede sacrifici nella giornata, mi dice: «Dammi una mezzoretta e sono lì». Tra dieci minu- ti dovrebbe arrivare il proprietario, gli dico che ci aprirà lui, facciamo prima. «Ok. Meglio». Gli chiedo se devo guardare qualcosa di quel che ha fatto. «Meglio se lo guardiamo quando ci sono io… com’è andata ieri dall’avvocato?». «Normale» rispondo, «dopo ti dico». L’avvocato mi ha accolto nel suo studio di Via Cavour a

365 Firenze. Alcune pubblicazioni corporative facevano da sup- porto agli ospiti della saletta d’attesa. Quando entro l’avvo- cato chiama con sé una collega, perché ascolti, insieme a lui, il mio racconto. Cerco di spiegare, ma a ogni termine tecnico avverto una sensazione di inadeguatezza. So già che quest’uo- mo non sta capendo e sta decodificando il mio discorso nel suo codice giurisprudenziale. A lui di Ventanni, di me, di Me- diaxion e di chi ci vorrebbe citare a riguardo non gliene frega assolutamente niente. Io sono un cliente. Lui deve gestire una transazione e le transazioni non sono giuste o sbagliate, sono transazioni. «Vede signor Sanna in Italia la giustizia è quella che è. Le può capitare di avere ragione e che le diano torto, come che lei abbia torto e le diano ragione. Dipende da chi è il giudice, da cosa ha fatto quella mattina, e solo in parte da come io e l’avvocato della controparte presentiamo la questione. Per questo di solito cosa si fa? Si fa di tutto per evitare di andare in causa. Io signor Sanna glielo dico, e contro il mio interesse: andare in causa in Italia è una follia. C’è da rimanerci. Bisogna avere tanta pazienza e soprattutto sperare, se si ha ragione, che qualcuno se ne accorga». La testa mi pesa. La lista delle cose da fare, incluso l’essere lì a misurarmi con quelle due persone, è troppo grande. Quante cause dovrei fare? Per Francesca almeno una decina. Una de- cina di volte dovrei allora trovarmi in uno studio tipo questo a tentare di spiegarmi davanti a qualcuno che, come questa persona in giacca e cravatta al di là del tavolino, fondamental- mente non crede nel sistema in cui opera ma ha imparato a operarvi ugualmente. Non ce la faccio. L’avvocato ascolta il mio racconto su Ventanni. Ascolta e pone domande precise. Ogni gesto che ho fatto in buona fede è un errore. Lui si allunga sullo schienale della poltrona che lo sostiene e con fare da esperto tecnico guarda la collega e sentenzia: «Mai fidarsi. Io dico sempre ai miei clienti: dovete venire da me prima di fare qualcosa, non dopo che l’avete fatto». In altri tempi avrei argomentato. In altri tempi avrei detto: ma che razza di mondo volete costruire così? Come si può vi-

366 vere nell’idea che tutti ti vogliano fregare? Come si può vivere diffidando di tutti? Invece la testa è pesante. E non riesco a raddrizzare la schiena. Mi appoggio col gomito sinistro sul ginocchio simmetrico e con la mano destra prendo appunti. Raccolgo la verità dell’avvocato. «Questa persona vi ha causato dei danni? Sì, no? È stata un dramma… non faceva, faceva male…». No. Mi sembra esagerato. Non si può dire che tutto è sbagliato o che tutto è giusto. Cerco di smussare quegli angoli di un quadro trop- po negativo. Lui mi guarda stralunato: «Ma signor Sanna mi scusi: lei è qui per difendere la Mediaxion o per difendere la controparte? Alla controparte, mi scusi se mi permetto, non importa un tubo di lei, del suo progetto e della sua società. Altrimenti non avrebbe chiesto quello che chiede. Allora noi dobbiamo essere chiari nel capire la nostra posizione, perché se no, signor Sanna, qui tutti possono venire alla Mediaxion e prendere quello che credono e arrivederci e grazie…». Pochi minuti dopo cammino lungo Via Cavour in direzione della Stazione Santa Maria Novella. C’è un negozio, sulla sini- stra, che vende libri di pregio. Anche lui penserà questo? An- che lui non si fida di nessuno? Il marciapiede è leggermente bagnato, ha piovuto qualche ora prima. Al telefono Francesca mi ha detto che le parole dell’avvocato le sono sembrate giu- ste. Aveva sperato in un mio cenno di soddisfazione. Io non ci riesco. Non riesco a essere soddisfatto di un conflitto tra persone della stessa età. Un conflitto tra chi dovrebbe pensare di essere parte di uno stesso “noi”. Per me lui doveva capire. Doveva capire di aver sbagliato e accettarne le conseguenze. Doveva riconoscere quanto fatto. Doveva riconoscere cosa avevamo fatto. Invece aveva riconosciuto solo il male. Aveva preso tutto il bene e l’aveva chiuso in una scatola con scrit- to “presa in giro”. Come si può accettare una situazione del genere? Siamo milioni, in questo vecchio paese di vecchi, che dal basso della nostra età anagrafica cerchiamo di sopravvive- re contro vento. È mai possibile non riuscire a stare insieme? È mai possibile non riuscire a capire che solo insieme potrem- mo cambiare le nostre vite? Il proprietario del negozio di libri chiude la saracinesca me-

367 tallica. Io penso a Loris. Da soli non valiamo niente. Eppure, da solo, lui sta lottando. E senza quella sua individuale batta- glia, tanti resterebbero smarriti di un esempio. Però Loris è anche quell’uomo solo che scrive fino a notte tarda sulla pagi- na Facebook dedicata al Moby Prince. Loris è solo. Anche se sulla carta sono in tanti a seguirlo. Anche se su Facebook ha migliaia di amici. Persino Giacomo spesso si rende introvabile al cellulare. E Loris prosegue la sua battaglia da solo. In solita- ria. Nel monitor dell’IMAC con cui montiamo Ventanni, Lo- ris è un’immagine in movimento. Per chi non lo conosce e ve- drà questo film, Loris è un personaggio. E io non lo sopporto. Perché nessuna persona è un personaggio. Un personaggio vive nella testa di chi legge un libro, guarda una foto, osserva un film. Ma Loris, come Angelo, Giacomo, Ivanna e Mauro sono persone. Guardo Gabriel come avevo guardato Miche- le: lui pensa il contrario. Per lui quelle persone non esistono, esistono dei personaggi che servono o meno a una storia da raccontare. Nessuno quindi sta capendo cosa sto facendo e tutti mi assecondano come una ciurma che non ammutina il suo comandate perché la nave non vale il sacrificio. Sono solo. E non so discutere con chi è mio amico. Ho un terribile problema a discutere con Gabriel. Perché per me è come un fratello da difendere sempre e comunque. È l’unico amico fraterno che ho. L’unico che mi è sempre parso com- prendere chi sono e cosa valgo. Ma la sua testa è al Cile. Ha fatto una società qui, mi ha seguito quando gliela proposi, ma il suo destino va là. E anche lui non riesce ad ammettere l’er- rore. «Gabriel, L’Aquila – il montaggio della presenza di Loris e Giacomo a L’Aquila – non va bene. Non è montata bene. Manca il cuore, il senso di solitudine di Loris, l’emozione di Giacomo, l’essere lì dopo vent’anni a farsi tutte quelle ore di corteo…». Lui guarda in avanti e allunga il collo: «Riproviamo a lavorarci allora… tu cosa vuoi che io metta?». «No, scusa» ribatto, «fermiamoci un attimo. Qui bisogna ca- pirsi. Bisogna capire lo spirito di questa cosa». Lui osserva il monitor: «Partiamo dall’idea che questo è il materiale, è stato girato così. Tu hai scritto delle cose belle, molto forti, e io te l’avevo detto che ci poteva stare una voce in-off con un testo

368 tuo. Ma non l’hai voluto fare… le immagini sono queste e non possiamo rifarle…». L’ineluttabile. L’espressione di un insolvibile problema di cui non si avverte il peso. Due setti- mane fa aveva sul volto la stessa espressione quando, in una riunione straordinaria, è stata ipotizzata la liquidazione della società. Troppi crediti inesigibili, troppo assurdo il futuro che si prospetta: Francesca e l’altra socia sono incinte, lui vuole tornare in Cile a marzo, nonostante tutto, e io resterei solo a gestire la baracca. «Una cooperativa one man band». Non avevo avuto nemmeno voglia di ridere alla battuta. Oramai non rido da mesi. Come aveva fatto lui, il mio miglior amico, a non capire che così mi stava rovinando? La mia famiglia cam- pa di Mediaxion, non abbiamo secondi, terzi o quarti lavori e Francesca è incinta. Come può un membro di una comuni- tà economica solidale non sentire tutto questo? “Mai fidarsi” aveva detto l’avvocato. Mai fidarsi. Eppure io ci credevo. Ga- briel ci avrebbe aiutato. Noi d’altronde per lui avevamo fatto tanto. L’avevamo campato per un anno a casa nostra, perché era senza soldi, dividendo ogni pasto in tre come nel detto contadino: “dove si mangia in due, si mangia in tre”. L’ave- vamo fatto. E tutto quel dare ci sarebbe dovuto tornare in qualche modo ora, nel momento del bisogno. Invece no. Lui “doveva partire”. Al di là di noi, di Ventanni, di una società ridotta in quel modo. C’era un’altra vita da vivere al di là del mare e si poteva chiudere la nostra porta, come si chiude la pagina di passaporto dov’è timbrata l’uscita dall’U.E.. Eppure la dirigente della Regione Toscana preposta ai bandi ce l’aveva chiarito, solo pochi giorni dopo la nostra decisione: avendo ricevuto il finanziamento avremmo dovuto stare in piedi e dovevamo sforzarci a riguardo. Trovare una nuova strada co- mune. Ma il volto di Gabriel continuava a testimoniare un insolvibile problema di cui non avvertiva il peso. Io resterò da solo a tenere in piedi la cooperativa, con una figlia appena nata, e lui dal Cile cercherà di “far qualcosa”. Non gliene frega niente nemmeno a lui. Angelo me l’avevo detto con chirurgica brutalità: “la gente si muove solo se gli tocchi il pane e gli affetti”. Noi non eravamo più né l’uno né l’altro e la testa torna a pesare. Francesca è incinta e io non

369 so come farò a tenere in piedi questa cooperativa e parallela- mente a trovarmi un lavoro per campare la mia famiglia. Nel frattempo dobbiamo ancora finire il montaggio e sto addirit- tura combattendo per tenere in piedi la parte di Pattada, del viaggio a Pattada. Con candore Gabriel mi aveva detto: vIo taglierei Pattada, a cosa serve?». Lo avevo guardato ancora una volta con delusione: «Ma come? Pattada è la storia di Gia- como, è il modo per mostrare ad Angelo quanto Giacomo sia legato alle sue radici, il rapporto indiretto col padre». Il suo collo si era riallungato: «Va bene». Tanto non è un problema di vita o di morte. L’occhio mi cade sull’inquadratura dove Giacomo osserva Tavolara, l’isolotto davanti a Olbia, mentre il traghetto sta portando lui e noi lontano dalla Sardegna. La colpa è mia, penso, non sono riuscito a trasmettere a tutte queste persone cos’è stato quel viaggio per lui, come non sono riuscito a tra- smettere cosa fosse Mediaxion. La colpa è mia. Mi mancano tutti loro. Mi manca Loris, mi manca Giacomo, mi manca la purezza di quell’emozione che a quanto pare non sono riusci- to a comunicare. L’emozione di vedere Giacomo, con dietro Tavolara, intento a ripensare a quanto era appena avvenuto. L’emozione di aver detto ad Andrea, il Vito, di riprenderlo in quel momento ed essere riuscito a catturare la verità senza al- cun filtro intermedio. Avevo portato l’occhio della telecamera in quel momento spontaneamente magico e nessuno aveva dovuto recitare alcunchè. Eppure sono mesi che intorno a me sento ripetere la stessa litania: “in questo film, un regista non c’è mai stato”. La sera arriviamo a casa. Sin dal pomeriggio c’era sentore di qualcosa d’importante. I “mercati”, questa idiozia d’imperso- nificazione inventata dagli economisti, stanno dando la spal- lata al governo Berlusconi. Napolitano si fa forte della lettera inviata da Draghi e Trichet all’Italia. Una lettera dai contorni ambigui ma che sa molto di commissariamento. Osservo le immagini televisive che mostrano una Piazza del Quirinale invasa da una folla festante. Il nemico è caduto. Spumante e l’orchestrina che suona “Bella Ciao”. Francesca dimostra una moderata soddisfazione: «Almeno questo ce lo siamo tolti

370 dalle palle». Io continuo a guardare le immagini, leggermente curvato in avanti sul piatto di brodo: «Tu dici? Chi l’ha fatto cadere sono gli stessi che ce l’hanno portato». Lei sbuffa con gli occhi: «Tu vedi tutto nero. Almeno questa la potevamo festeggiare».

371 25. MILANO. ULTIME RISPOSTE

Avv . Gi u n t i : “Fu deciso, visto che c’era montato un marinaio di un rimorchiatore, di approntare una squadra per salire a bordo del Moby Prince, per verificare la presenza di altri superstiti?”. Fa b r i z i o Ce c c h e r i n i , Comandante Vigili del Fuoco di Livorno: “Non era tecnicamente possibile pensare in quelle condizioni di man- dare uomini a bordo”. Avv . Gi u n t i : “Lo verificaste?”. Fa b r i z i o Ce c c h e r i n i , Comandante Vigili del Fuoco di Livorno: “Lo verificammo a vista dalle condizioni in cui era il traghetto e dalle fiamme che divampavano”. Processo Moby Prince, Verbale di udienza 15 maggio 1996

Loris fu chiaro. Loris è sempre molto chiaro. “Loro hanno fatto il gioco dell’armatore sin dall’inizio”. Nel montaggio, nel dialogo con Mauro registrato ad Arzachena tutto questo emerge. Come emerge la questione Sini. Riguardo le imma- gini, riascolto. Parliamo a lungo con Gabriel, nell’ennesima nottata passata in montaggio. «Angelo fa troppo la parte del cattivo». Angelo subisce troppo un racconto terzo. Gli impu- tano cose. Raccontano di lui. A me questo, così, non piace. Però ho timore di chiamarlo. Ho timore di chiamare ciascuno dei protagonisti. Mi vergogno del ritardo nella produzione. Mi vergogno dell’idea di non saper creare un prodotto che possa aiutare la loro lotta. Un respiro, due e clicco il verde della cornetta virtuale. Lui mi risponde con la solita cortesia. Chiedo: «Possiamo tornare a Milano per farti qualche domanda? Sai sono venute fuori alcune questioni e vorrei avere il tuo contraddittorio». «Certo» risponde lui, «venite. Quali questioni?». «Angelo vedi, si parla di una sorta di rapporto con l’armato- re e poi volevo chiederti meglio della vicenda Sini». «Con l’armatore? Ma come?». «Lascia stare. Dai. Ne parliamo quando ci vediamo».

372 È il 10 dicembre 2011. Una Milano deserta mi colpisce. Scopriremo più tardi il perché lo sia. Arriviamo in inevitabi- le anticipo e ci fermiamo nel parco vicino a casa di Angelo. Parliamo. Ancora una volta di scelte possibili e impossibili. Del senso di quello che andremo a fare e stiamo facendo. An- drea e Gabriel parlottano tra di loro, io lascio scorrere il tutto. Quando saliremo avremo da fare poche cose e ho spiegato nello specifico quali. Chiedo reattività: «Se io sto parlando con Angelo e non posso dire “registrate” allora fatelo da voi. Se- guite il discorso». Andrea annuisce, Gabriel pure. Mi hanno ascoltato, forse mi hanno sentito. Torniamo così ad avvici- narci al portone principale. Suoniamo. Nessuno ci risponde. Lo chiamo. Mi risponde al quarto squillo: «Francesco stiamo arrivando… ecco ti vedo». Mi giro sulla mia destra e vedo ar- rivare in bicicletta Angelo, la moglie Bettina e i due figli. Sono un’allegra famiglia felice che si gode sulle due ruote la strada insolitamente libera. Guardo Andrea. Andrea capisce. «In due minuti sono pronto, se vuoi». «No. Questo possiamo lasciarlo stare». Che Angelo ha una famiglia felice, che Angelo alla fine ha convissuto con questa vicenda senza rimanervi incollato il documentario ne è già stato testimone. Non serve altro. Siamo qui per andare oltre l’attuale, non semplicemente per raccontarlo. Angelo si avvicina: «Francesco ma come siete venuti?». «In macchina» rispondo e lui alza le sopracciglia: «In mac- china fino a qui? Ma lo sai che c’è il blocco del traffico oggi a Milano?». Mi cadono le braccia: « ‘Azzo. Ecco perché c’erano sì e no venti macchine in giro, di cui noi eravamo la ventesi- ma». Lui sorride: «Meno male che non vi hanno fermato». Mentre prego l’inesistenza di telecamere dei Vigili Urbani lun- go tutto il tratto dall’uscita autostradale a casa sua, Angelo, sua moglie e i bambini posano le biciclette. Saliamo in casa. Da lì saliamo in veranda. Da lì usciamo fuori. Moby Prince uguale fumare. Angelo si accende la si- garetta e iniziamo a parlare. La sua cortesia signorile lo porta sempre a iniziare chiedendo dell’interlocutore. Le domande di rito: “Come va? Tutto bene? Tua moglie…”. Finiamo poi

373 col tornare al nodo: il documentario. «Come sta venendo?» mi chiede. «Ci stiamo lavorando molto» rispondo. Tutto il mare di que- stioni del dietro le quinte che resti dietro le quinte e vado al sodo: «Angelo sono qui perché come ti dicevo volevo chiarire con te alcuni punti. A me non piace quando altri parlano di qualcuno e quel qualcuno non può rispondere. Così volevo chiederti meglio di alcune questioni». Angelo è incuriosito e mi chiede di più, prima di accendere la telecamera, prima di accendere il microfono che sarà l’unico elemento portante per raccogliere ciò di cui ho necessità. Anticipo l’anticipabile: «Prima di tutto volevo chiederti del tuo rapporto con l’ar- matore. Nel documentario emerge come da parte di Loris vi sia la convinzione di una sorta di comunione di intenti tra di voi e l’armatore, soprattutto nel far emergere alcune tesi, poi confutate, come quella della bomba». Angelo strabuzza gli occhi: «Ora tutto ma questa dell’armatore! Noi con l’armato- re non abbiamo avuto nessun tipo di rapporto. La questione dell’esplosione è un’altra… l’ho vista fisicamente io la nave… io ritengo fondata l’idea dell’esplosione… per essere un’esplo- sione da gas da un punto di vista fisico dovrebbe esserci un problema… che il gas vada solo lì e non da altre parti non ha senso… poi l’unica cosa che dice Rolla è che i cappelloni di prua – luci del Moby Prince – erano accesi… questo significa per noi che l’esplosione è stata prima della collisione… ovvio che l’armatore abbia preso la palla al balzo dicendo che l’ave- va messa la concorrenza, questa bomba…». Andrea ci ferma. «Noi ci siamo France’, quando vuoi». «Ok. Spostiamoci e parliamone meglio, di questa storia della bomba». Angelo si siede dove Andrea ha ritenuto di riconoscere la luce migliore e prosegue: «Nessuno di noi aveva all’inizio sen- tore di questa cosa. Noi abbiamo saputo di questo a ottobre- novembre del ’91, quando De Franco diede la consulenza esplosivistica a Massari. A quel tempo eravamo legati a un altro avvocato con altro perito e non ci dicevano niente. Fino a quel momento sai, eravamo distanti dal reperire informa- zioni direttamente… ma tra i familiari si parlava degli effetti

374 di questa esplosione… a quel punto poi ci fu una boutade di tutti i giornali e l’avvocato Galasso parlò di una strage. Da lì cambiò tutto dal punto di vista del procedimento: ci furono interventi esterni e interni a Livorno per sbugiardare questa tesi. Fu richiesta la perizia Mariperman di La Spezia che disse che l’esplosione era da gas e non da solido. Tutto da lì portò a dire: “è stato un incidente… non inven- tate storie”… l’armatore cavalcò l’idea della bomba, disse che l’aveva messa la concorrenza anche se poi non portò niente al processo per dimostrarlo. E da lì noi come ausiliari dei periti iniziammo a salire a bordo. Ho visto gli effetti dell’esplosio- ne… non so se è gas o solido… so solo che è strano, fisica- mente non torna, che il gas sia stato solo lì e non da altre par- ti… è un po’ come la nebbia d’avvenzione… “d’affezione” la chiamiamo noi… che copre solo la petroliera…». Annuisco. La questione importante restava però il prima o dopo dell’esplosione. «Perché voi avete sostenuto che fosse avvenuta prima». Angelo racconta: «Abbiamo provato a far fare una perizia sul camion a dei periti che non erano ingegneri e infatti ci hanno preso in giro al processo e nello spettacolo123… ma la perizia diceva una cosa semplice: il camion è saltato prima della collisione… ce l’hanno massacrata come perizia, però l’esplosione può essere sia una cosa che ci devia completa- mente o una delle cause principali che viene rimossa per evi- tare… perché tu devi pensare questo: se a causare la morte di 140 persone è un’esplosione, cambia lo scenario… non può più indagare il Tribunale di Livorno… è una strage… altri dovrebbero indagare». Certo. Questo è chiaro: «Diciamo che hai trovato una buo- na motivazione per giustificare quello che reputi un insabbia- mento della questione». Angelo si distende sullo schienale del divano: «Sì ma guarda la cosa importante legata all’esplosio- ne, che abbiamo cercato di dimostrare, era anche un’altra: al momento della collisione le pale del timone erano in acqua a trenta gradi a dritta… questo significa o una manovra di

123 M/T Moby Prince, ndr

375 emergenza o qualcosa che… il traghetto è andato completa- mente a dritta, una sterzata diciamo… non tornava col fat- to che il ricevimento dell’ordine del timone, vicino alla sala macchine nel locale addiaccio, era a quindici gradi a dritta, la metà e quello che rimaneva della colonnina del timoniere era orientato a sinistra… quindi non tornava niente di quel- lo che ci dicevano124. Quindi l’ipotesi che c’eravamo fatti era

124 I comandi in plancia del Moby Prince sono stati trovati “avanti tutta” mentre in sala macchine è stato riscontrato il comando “leggermente avanti”, equivalente a una riduzione forte del passo delle eliche che l’Ing. Prosperi, perito del PM nel primo processo, definì quale soluzione operata dagli addetti “per scongiurare il pericolo di ingresso dell’acqua da possibili falle” (Richiesta di ar- chiviazione inchiesta-bis Moby Prince, p. 23). Gli organi di comando vedono tuttavia nell’impianto di timoneria un elemento centrale di valutazione. L’impianto di timoneria del Moby Prince era composto di 4 elementi: • colonnina in plancia con telemotore trasmettitore • telemotore ricevitore • agghiaccio timone • autopilota Dalla colonnina, tramite una ruota a caviglie, si poteva manovrare la barra del timone mediante sistema idraulico. Era presente anche un sistema elettrico di inserimento dell’autopilota, tramite la leva “change over lever” che nel caso del Moby Prince fu trovata su “manuale”. Il sistema idraulico dentro la colonnina era composto da due pistoni calettati alla ruota a caviglie tramite un rocchetto dentato. Tramite movimento della ruota si pompava olio su una linea o sull’altra. Quando la ruota a caviglie è posta al centro, una camma spinge in basso un’asta che realizza il “by pass”, cioè mette in comunicazione entrambe le linee. Appena la ruota a caviglie si sposta leggermente a destra o a sinistra, la camma elimina la pressione sull’asta di by pass e le linee sono pronte ad andare in pressione. Quindi per muovere la barra del timone il timoniere doveva, tramite la rota- zione della ruota a caviglie, chiudere il by pass e così avviare il pompaggio di olio nella linea corrispondente alla rotazione richiesta. Quando il timone era su “manuale” il timoniere poteva correggere continuamente di pochi gradi a dritta o a sinistra la rotta della nave. Il telemotore ricevitore, posto in locale agghiaccio timone, era un dispositivo idraulico che riceveva olio dalla colonnina in plancia e muoveva nella direzione richiesta un’asta flottante. L’asta era collegata da una parte al piatto oscillante della pompa del timone e dall’altra all’asta calettata sulla barra del timone che dava il segnale di feedback tramite il quale la leva flottante azzerava il comando sul piatto oscillante della pompa. Con agghiaccio timone ci si riferisce all’insieme di macchinari che trasformano il segnale di comando del ricevitore in azione meccanica di rotazione del timo- ne. Questo accade tramite due elettropompe idrauliche con portata variabile a

376 che l’esplosione, che è avvenuta proprio dove passano tutti i condotti olio pneumatici di governo dalla plancia al locale addiaccio, avesse leso questi tubi, come infatti è stato perché è tutto distrutto lì, e avesse mandato in banda il timone… e questa ipotesi ci stava tutta». Sinceramente è la prima volta che la sento. «Strano che non fu approfondita125» commento. Angelo raccoglie lo spunto e rilancia: «Io mi chiedo perché la marina militare si è affrettata a dire che l’esplosione è da gas e non da solido». «Gliel’hanno chiesto e loro hanno risposto» avanzo.

piatto oscillante, anche se una sola delle due è effettiva dato che l’altra è consi- derata “di rispetto” – sostitutiva – sulla base delle norme di classe e sicurezza. Il Moby Prince fu trovato con: • colonnina del timone fusa; • leva di commutazione su manuale-idraulico – nonostante la manomissio ne al Change over lever operata da Ciro Di Lauro su indicazione dell’Ispet- tore Nav.Ar.Ma. il 12 Aprile 1991 – ; • pistoni ed altri meccanismi della colonnina grippati ed in posizione corri- spondente a pochi gradi a sinistra; • by pass chiuso; • linee idrauliche forate o occluse da residui di carbonizzazione dell’olio; • inee elettriche entro il locale equipaggio a proravia del locale agghiaccio completamente bruciate; • segni di surriscaldamento sulle murate del locale agghiaccio al di sopra della linea di galleggiamento; • torchi di potenza a 30°, quasi a fine corsa a dritta; • telemotore ricevitore spostato a 15° nel senso del richiamo al centro; • fulcro centrale della leva flottante scontrato nel senso del richiamo al cen- tro; • trasformatore dell’avviatore della pompa di dritta in corto circuito e con segni di surriscaldamento; • trasformatore del ricevitore elettrico disancorato dal quadro ma regolar- mente funzionante;

Scrive il CT Fabbricotti nella sua relazione che nonostante gli accertati tentativi di sabotaggio che, agendo sul volantino del telemotore ricevitore per il coman- do manuale del timone possono aver creato una condizione non realistica [...] la situazione descritta è incompatibile con il regolare funzionamento dell’impianto del timone” (Perizia Tecnica Fabbricotti, p. 29). 125 Nel corso del processo di primo grado il R.I.N.A., chiamato a effettuare una perizia su tale tema, indicò nell’incendio l’unica causa cui si potevano ascri- vere i pochi danni alle condotte idrauliche prossime al locale eliche di prua dove ci fu l’esplosione.

377 «Sì ma è semplicistico dire così» commenta. «La Mariper- man firma quello che deve firmare». Torna quindi l’idea del complotto. Mariperman avrebbe fatto una perizia ad hoc per negare i risultati del dott. Massari e quindi “salvare” qualcu- no. Considerato il suo afferire alla Marina Militare, potrebbe essere qualcuno di legato a quel mondo lì. E riprenderebbe così corpo l’idea del traffico d’armi internazionale sostenu- to dai Servizi Italiani. Ogni deduzione di Angelo ha sempre qualcosa di profondamente circostanziato. Sono ipotesi, ar- dite, ma non necessariamente irrealistiche. Eppure Mariper- man, almeno agli atti del processo, ha portato una documen- tazione mastodontica su ogni singolo aspetto dello scenario dell’esplosione. Un’analisi che ha evidenziato alcune criticità della tesi Massari, quale per esempio il fatto che l’onda d’urto da solido avrebbe provocato danni molto più ingenti e non avrebbe risparmiato materiali fragili quali per esempio “il ve- tro del manometro del sistema idraulico”126. Mi tolgo un dubbio altro: «Voi al processo di primo grado non eravate tra le parti civili. Come mai?». Angelo resta un at- timo interdetto, poi chiarisce: «Una delle prime cose che fece Lamberti fu azzerrare tutte le parti civili per un errore nella compilazione del modulo: accettarono Giardini e D’Antonio della nostra parte… all’udienza preliminare non ammise le parti civili per questo vizio di forma127». «In ogni caso le vostre tesi furono portate avanti dallo stes- so avvocato di D’Antonio: Filastò». «Sì». «Ecco fammi capire su cosa vi siete concentrati». Angelo si riavvicina, accompagnando alcuni passaggi del racconto con le mani: «Nel primo grado c’è stato il grosso sforzo di mettere tutte le cose che non tornavano: posizione

126 Sentenza di primo grado, p. 208. 127 Stando a quanto mi è stato riportato da altri familiari delle vittime Ger- mano Lamberti negò la possibilità di costituirsi parti civili a processo a quanti avevano precedentemente firmato la quietanza proposta da SNAM e Nav.ar.ma. in cui si specificava che, a fronte del risarcimento ricevuto, i firmatari non avreb- bero potuto costituirsi a processo né verso SNAM, né verso Nav.ar.ma. né verso terzi successivamente identificati come responsabili.

378 della petroliera, rotta del Moby Prince, fenomeno nebbia e sopravvivenza. Il grosso del lavoro fu evidenziare il fatto che il P.M. e il Tribunale non considerò alcune cose che esplicita- vano il fatto che la sopravvivenza a bordo fosse maggiore, la rotta fosse diversa e via di seguito…». Lo interrompo: «Tutto questo però l’ultima archiviazione continua a ignorarlo e non è stato oggetto dell’istanza di riapertura che avete presentato» azzardo. Angelo inspira rapidamente e gonfia le spalle: «L’ul- tima archiviazione offende l’intelligenza anche più minima… hanno scritto delle bugie colossali… potendo scrivere cosa volevano perché sono della Procura… in altri paesi sarebbero condannati per calunnia. Ok, calmiamoci, ma mettiamo un altro punto: «Comunque, Angelo, l’ultima archiviazione pog- gia ancora su un pilastro forte: il superstite testimone. Uno dei punti di riferimento è il racconto di Bertrand». Angelo mi guarda con occhio furbo, da smascheratore, e dice con un sor- riso sarcastico: «Non mi far parlare del superstite, non è cari- no. Il superstite è sopravvissuto… buon per lui… basta». Io insisto: «Tu non gli credi». Lui raccoglie: «Voglio dire… Ber- trand, non ci ho mai parlato per l’amor di Dio… l’unico su- perstite che per mesi viene interrogato e poi improvvisamente si ricorda di aver incontrato il timoniere che gli dice “c’era la nebbia, siamo andati a sbattere”… diciamo che chiunque ab- bia un minimo di intelligenza si rende conto che c’è qualcosa che non va…». Bertrand quindi mente, punto e a capo. Per Loris non è così ma questo non basterebbe a giustificare la distanza tra le po- sizioni: «Oltre a questa storia del superstite quali altri punti di divisione ci furono tra le parti civili. Oltre alla bomba, quale altro elemento vi ha visti contro?». Lui non ci pensa più di un secondo: «La divisione delle parti civili è nata e cresciuta per elementi esterni che hanno fatto in modo che le parti civili si dividessero… parlo di avvocati e periti messi apposta per divi- dere le parti civili… ci sono elementi che hanno fatto in modo con le loro perizie, con il loro parlare ai familiari delle vittime, di dividerci… c’è stata una parte delle parti civili che ha detto “seguiamo la Procura”, fidiamoci della Procura. Ogni volta che c’era qualcosa veniva fuori un personaggio nuovo che so-

379 piva il tutto. Non faccio nomi perché non è carino…». «Ora mi hai incuriosito» commento, «magari dopo a teleca- mera spenta vorrei capire…». Angelo non ha finito: «Poi sen- ti… non ho visto tanti familiari che sono saliti sul traghetto. La maggior parte si fidava di chi si occupava delle associazio- ni… e la parte di Tagliamonte, di Napoli, seguiva noi. Non è vero che c’era solo questa divisione tra me e Rispoli. C’erano vari familiari che capivano che ci stavano prendendo in giro. Loris aveva forse troppa fiducia nella Procura di Livorno, nei magistrati e nei periti. Questo, vedendo le cose di persona… non era possibile dargliela questa fiducia». «Sì Angelo, ma quanto ha pesato l’assenza di dialogo?». Lui guarda di lato: «Con Loris ho parlato tante volte, ma non c’è stato niente da fare». «Quando Loris tira fuori questa storia di Sini come elemen- to di discontinuità tra di voi…». Angelo inspira profondamente: «Quello di Sini è stato pro- prio un errore forse dal punto di vista dell’avvocato Paler- mo che ha voluto mettere tutto… se tu poi dai incarico a qualcuno di procedere non è che puoi stare a sindacare… mi dispiace che la famiglia Sini si sia offesa e sia venuto fuori questo equivoco che tu mi dici… ma per me non è una cosa importante…». Angelo si ferma un attimo, riflette sul discor- so. Si è messo al centro, per lui non è importante, ma per loro, la famiglia Sini sì, e colto il senso ritratta imbarazzato. «Cioè io capisco che sia stato importante per la famiglia Sini ma per me, per la mia ricostruzione dei fatti, è una cosa che non ha nessuna importanza». C’è molto di Angelo in questa riflessio- ne. È davvero la sincera rappresentazione dialogica del suo pensiero. Per lui, senza alcun pudore, il tentativo di ricostruire cos’è accaduto, la “guerra di verità” è un imperativo dietro cui deve stare tutto il resto e quanto ha scritto Palermo su Antonio Sini, quel quesito posto ai magistrati, è un particolare estremamente marginale della storia che aveva colto. Una vir- gola dove ci sono pagine e pagine. È vero, quella virgola aveva toccato sentimenti, aveva creato sofferenza e gli dispiace. È evidente che gli dispiaccia. Ma come a un ingegnere civile può dispiacere di abbattere la casa dei ricordi d’una famiglia, posta

380 là dove è stato deciso di far passare un’autostrada. Ci sono “ragioni” più grandi, gerarchie di merito. Prima la verità, poi il resto. Senza porsi troppi problemi accessori. Continuo comunque a non cogliere un passaggio sulla stra- tegia di combattimento scelta per quella guerra di verità: «An- gelo perché la riapertura l’avete fatta solo voi, come un fatto quasi privato?». Mi guarda con realismo: «Perché abbiamo deciso con gli altri familiari – dell’Associazione 10 aprile – di andare avanti noi… sai, più gente metti dentro, più soldi devi mettere… anche dal punto di vista legale se poi si riapre en- trano tutti come parti civili». Rifletto per un attimo su quella parola: tutti. In questo e tanti altri casi, sembra sempre più un concetto relativo. Torno così sul suo pallino: «Per riaprire però ti serve il dolo…». «Serve il dolo eventuale» chiarisce, «non è che crediamo che qualcuno abbia volontariamente preso il Moby Prince e l’ab- bia fatto entrare in collisione con la petroliera. Quello che vogliamo far capire… speriamo di trovare un magistrato se- rio civile o penale. Abbiamo visto l’esempio di Ustica, che il tribunale Civile di Palermo ha dato giustizia… il Tribunale Civile… l’ultimo cui si pensava. Basta trovare un magistrato che abbia veramente voglia di indagare» si scalda, «ma le carte sono lì… è così evidente che non è andata come dicono… ci sono le prove, e le porteremo, che la petroliera era da un’altra parte… quindi se la petroliera era in un’altra posizione la rotta era un’altra. A livello trigonometrico Gabriele128 l’ha ricostrui- to. La petroliera era da un’altra parte. Se poi danno la perizia a uno che lavora per l’Agip… hai capito cos’hanno fatto i gran- di Procuratori di Livorno? Hanno dato la perizia a uno che lavorava per l’Agip, per dire che sulla petroliera funzionava tutto. Basterebbe questo. In un Paese civile chissà cosa succe- derebbe… ma noi siamo in Italia e fanno quello che voglio- no». Quanto è vero Angelo. Quanto è vero che fanno quello che vogliono. Tutti. E per fermarli spesso non si hanno armi. Ma persino tu lo stai facendo: infondo “è diventata una guerra tra la tua verità possibile e la loro”. Lui declina con acume: è

128 Bardazza, ndr

381 una questione di prove, ci sono elementi di oggettività, c’è qualcosa che regola il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato, il legale dall’illegale. Poi conclude: «Magari Francesco non è andata come diciamo noi, ma sicuramente non è andata come dicono loro – i Procuratori di Livorno – ». Finita l’intervista Angelo va a fumare: «Francesco l’ho spie- gata bene questa storia di Sini? Sono riuscito a chiarirla?». «Sì penso di sì. Poi resta il momento di incontrarsi». Lui fa un tiro di sigaretta e gli torna a mente qualcosa: «Nel 2006 que- sta storia venne fuori perché risultava morto in missione… la Marina riconobbe una morte in servizio e allora da lì venne la domanda su quale missione fosse… poi invece la signora Sini ci spiegò, mi sembra, che fu dato questo riconoscimento dalla Marina senza un’attinenza diretta…». Ecco. Ora inizio a capi- re. Ma non basta. Domandare è legittimo. Chiedere accurate indagini fu indubbiamente irresponsabile nei confronti dei fa- miliari. Guardo Angelo. È un ragazzo imprigionato nel corpo di un adulto. Quando ride, quando si arrabbia quel ragazzo risale in superficie. Riemerge da quel posto dove fu costretto a fermarsi, vent’anni fa. «Ci vediamo allora per l’anteprima del documentario» mi dice con espressione curiosa. «Certo. Io penso che sarà un’occasione per tutti i presenti» rispondo, un’occasione per provare ad andare oltre tutto ciò che è stato e tentare di costruire un futuro diverso. Forse, insieme. Ad una decina di chilometri da casa di Angelo, nel nulla del traffico milanese in giornata di stop alla circolazione, ci ferma una pattuglia di Vigili Urbani: «C’è il blocco della circolazio- ne, non lo sapevate?». Effettivamente no. Cerco di spiegare, loro sono comprensivi ma comunque il verbale va fatto. Poi dico la parola magica: «Siamo venuti qui da Massa per lavoro, abbiamo fatto un’intervista». L’agente si illumina. È felice di potermi non multare, ma vuole capire se faccio il furbo: «Ha un documento, qualcosa che comprovi quanto mi sta dicen- do?». Ci penso mezzo secondo: «Ho la liberatoria dell’inter- vistato». «Me la faccia vedere» chiede l’agente. Io sfilo la cartellina rossa dal computer, estraggo la liberatoria di Angelo e gliela mostro. Lui ispeziona. Legge. Il suo sguardo è analitico ma

382 incosciente. Questo Angelo Chessa non sa proprio chi sia. «Stiamo realizzando un documentario sul Moby Prince, lui è il figlio del Comandante». «Ah» risponde, tentando una riparazione alla dimenticanza che ha percepito sbagliata: «Capisco. Ok» mi dice nel restitu- irmi il prezioso documento, «potete andare e se vi tornano a fermare, mostrategli quello, i colleghi capiranno». Bene, gra- zie. Per fortuna i colleghi non li abbiamo trovati.

383 26. “RIUNIRE NOI E I CHESSA È IMPOSSIBILE”

“Sai per me contano i gesti… da quando Renzi è diventato Sindaco il Comune di Firenze ha smesso di mandare il gonfalone da noi, il 10 aprile, benchè abbia avuto vittime. Forse, nella fretta, avrà rottamato anche questa vicenda129…”. Lo r i s , 2012

22 gennaio 2012. L’anteprima riservata ai protagonisti sarà in quella data. Ventanni dev’essere pronto per quella data e il periodo di Natale è tutto dedicato a questo obiettivo: Andrea sta lavorando alla post-produzione audio e video, giorno e notte; io e Francesca siamo concentrati sulla produzione della giornata e sul chiudere altri progetti che ci permetteranno di avere la liquidità per la rendicontazione finale; Gabriel aiuta Andrea quando ne ha necessità e cura parti operative di quelle altre attività necessarie alla nostra razionalità economica. Scrivo a Ivanna. Volevo farle gli auguri per le feste, infor- marla della data dell’anteprima e chiederle della sua liberato- ria. Il montaggio è infatti a un punto di non ritorno e le scene con Mauro sono un elemento per me fondamentale. Senza la liberatoria di Ivanna però quelle sequenze potrebbero dover essere rimosse. Quattro giorni dopo arriva la risposta di Ivan- na. Mi farà avere la liberatoria ma per l’anteprima preferisce non esserci. Nemmeno “la buona volontà riesce a cancellare i segni che ti lasciano certe tragedie”. Lei ci ha provato. Vo- leva partecipare. Ma ora il documentario è qualcosa che la “angoscia” e per il quale “prova un senso di rigetto”. Rivivere quel dolore, anche per conto terzi, è troppo difficile. Ivanna conclude il messaggio ringraziandomi per l’impegno e la sen-

129 La citazione è relativa al 2012. Infatti nel corso delle commemorazioni del 10 aprile 2013 il Gonfalone di Firenze è tornato a mostrare la partecipazione del Comune del capoluogo regionale alla richiesta di verità e giustizia per la vicen- da.

384 sibilità e augurandoci con il cuore un “nuovo anno pieno di soddisfazioni”. Dopo quel messaggio attendo per giorni il do- cumento. So che me lo invierà ma non ho idea del quando. Mi fido, ma tutto sta diventando sempre dannatamente compli- cato. La liberatoria arriverà il 18 gennaio 2012. Quattro giorni prima della proiezione riservata ai protagonisti. Ad accompa- gnarla un messaggio di dolce concretezza e allo stesso tempo franca debolezza. C’è il documento, c’è la segnalazione della sua disponibilità per quant’altro fosse necessario e infine, l’at- testazione della sua presenza possibile: “con il cuore sono con voi”. Ivanna non verrà il 22. Non ci sarà fisicamente. Ma col cuore resterà accanto a tutto quello. Eppure quando ci sentiamo telefonicamente riesce a darmi una rasoiata metaforica con la solita lucida capacità di raccon- tare il reale. «Francesco tu avevi quell’idea nobile di riunire noi con i Chessa. Ma è impossibile. Ci dividono troppe cose. Troppe questioni riportate in troppi anni». Provo ad argo- mentare. Riunirsi è una cosa, riavvicinarsi è un’altra. Fosse anche un dialogo sarebbe un piccolo modo per ricominciare un percorso migliorativo per entrambe le parti. Ivanna parla con il tono di chi trasmette una triste verità universale, ancora sconosciuta al giovane e idealista interlocutore. E io recepisco il tutto con rammarico e un po’ di rabbia. Infondo mi sto giocando tutto per questo, per loro, e questa è la ricompensa. Avrei potuto pensare a me, al vendere questo documentario, al mettere di fronte l’oggetto alle persone, e invece ho scelto questa strada per loro. E loro mi stavano dicendo quello: “ri- unirci è impossibile”. La telefonata di Ivanna si chiude così, con un saluto affettuoso e la mia sensazione di non essere riuscito fino in fondo a fare con lei ciò che desideravo. An- che perché molto di quanto desideravo per lei passava da un filo di contatto con Mauro e Mauro non l’aveva più cercata. Provo a difenderlo per l’ennesima volta: «Strano, mi aveva detto che ti avrebbe chiamato… sai d’estate ha molto lavoro, poi c’è l’attività politica…». Ivanna ha capito e me l’ha detto con chiarezza: «Io penso che non mi chiamerà. Infondo lui ha la sua vita ed è anche giusto così. Non è che ci si debba in- contrare per forza, Francesco». Senza altre argomentazioni e

385 convinto a mia volta della sua “ho abdicato”. Non puoi agire su una persona, per il tramite di un’altra, senza la collabora- zione di entrambi. Senza la motivazione di entrambi. Vole- vo farli incontrare. Speravo di avviare con quell’incontro un percorso positivo per entrambi. Infondo a Ivanna sembrava esser mancata la forza di vedere un futuro oltre la tragedia e a Mauro pareva esser mancata la forza di chiedere risposte sul passato. Due situazioni inversamente proporzionali e simme- triche. Entrambe centrate sul bisogno di rimozione: Mauro aveva dovuto rimuovere il dovere morale di trovare giustizia e verità per i genitori, Ivanna aveva dovuto rimuovere la spe- ranza di un lieto fine alla sua vita. Per me lei poteva aiutare lui e viceversa, rivelandosi l’un l’altro la chiave per quella che io avevo letto come una condizione completa e migliore. Un altro equilibrio. Anche questa era forse solo una mia proiezio- ne. Salutata Ivanna al telefono, in piedi sul ciglio del mio pic- colo giardino di casa, tutti questi pensieri mi sono così apparsi parte della mia presunzione. Chi sono io per arrivare nella vita di queste persone e addirittura cercare di cambiarla? Chi sono io per leggere nei loro equilibri qualcosa di incompleto? Chi sono io per credere di aiutarli così? Qualche giorno prima di Natale, mio cognato mi osserva abulico seduto al tavolo. Stringe il mio braccio destro, mi scuote: «Ci vuole grinta, grinta» dice a voce alta davanti agli altri commensali. È un tedesco rimasto in Italia per amore. Quel gesto è un gesto d’amicizia ma mi getta nell’imbarazzo più totale. Io non ho grinta adesso. Io vorrei solo non esserci. Guardo in basso, mi sento colpevole. Colpevole di tutto. Il film non è quanto volevo. Continuo a essere insoddisfatto e a non po- terci fare niente. Poi penso al senso etico di quanto ho fatto. Infondo io chi sono? Chi sono io per arrivare dopo vent’anni e metterli davanti gli uni agli altri nella speranza che quella verità li faccia camminare insieme? Io non sono riuscito a far camminare insieme nemmeno sette persone socie di una co- operativa, con quale diritto, con quale curriculum, qualifica, storia, posso presentarmi a loro così? Presentarmi ad Angelo, Loris, Giacomo, Mauro, Paola? Mi manca il soffio della vita.

386 Quel soffio che alimentava tutto ciò che era in me. E mi sen- to stanco. Sono stanco. Enormemente stanco. Ogni pensiero problematico trova la sua risposta nell’indeterminazione. Il mio cervello è un tribunale severo dove io sono colpevole di ogni evento. “Potevi fare questo”, “dovevi fare quest’altro”. Tutto è stato un errore. Tutto è errore. Io ho bisogno di aiuto. Ma non riesco a trovarlo in alcuna persona che mi circonda. Non sento vita in nessuno. Vedo ogni comportamento altrui come un modo per perpetuare la loro esistenza, a prescindere dalla mia. Vedo tutto sbagliato. Incompleto. Incompiuto. Guardo Francesca e ammiro i suoi sforzi. Giorni fa per il mio compleanno si è presentata davanti a me con scritto “Au- guri babbo” sulla pancia. Le osservo quello splendido ventre gonfiato come un equilibrato palloncino. Avvicino le mani a quel caldo involucro che custodisce la nostra creaturina. Le canto una canzone di Gino Paoli, “Il cielo in una stanza”. Sorrido. Ma dentro mi sento colpevole. Babbo è sconfitto, bambina mia. Babbo ha perso. Voleva creare per te una co- munità perfetta. Dove crescessi custodita. Lontana da quel mondo di ipocrisia, isterie e violenza che con le spalle coper- te avresti potuto affrontare tranquilla. E invece hanno vinto loro. Babbo ha perso. Qualche tempo dopo sento Loris per Capodanno. Rimarrà a casa con Dago, il suo cane recuperato da poco dopo l’esilio imposto al canile. Aveva fatto anche di quell’evento una riven- dicazione scrivendo sulla bacheca del gruppo Facebook: “Ma come a me mi fanno 1000 euro di multa perché abbaia il cane e Onorato non va nemmeno a processo?”. Mi manca Loris. Mi manca molto. E detesto rivederlo in questo montaggio. Perché ogni suo gesto è oggetto di una possibile deduzione e valutazione, mentre io vorrei che le persone ne facessero esperienza. Casa di Loris è piena di oggetti connotativi. Piena. Eppure io quest’idea della sua connotazione filmica non l’ave- vo accettata. Per me Loris dev’essere come ogni altro essere umano: un insulto all’ordine interpretativo della gente. Come dev’essere l’eroe? Ditelo. Ecco, mi spiace, lui invece è così. La realtà sempre più forte di ogni sua rappresentazione. Invece tutti siamo sempre e comunque giudicati dall’ordine inter-

387 pretativo di chi abbiamo di fronte. E soprattutto tutti siamo sempre e comunque giudicati per assecondare quell’ordine in- terpretativo. Loris indossa la maglia di Che Guevara, perché è il solito “vecchio comunista”. Lotta così per il Moby Prince, perché “se gli togli questa storia non gli rimane niente”. Sono mesi che sento questi discorsi, mesi, e non li sopporto più. Ma se prima mi ci frapponevo con rabbia, oggi me ne lascio so- praffare. Come quando parlano di Giacomo nei termini di un ragazzetto viziato che non ha ancora capito niente della vita. Non lo accetto, non riesco ad accettarlo. Giacomo è il raccol- to di chi ha seminato col Moby Prince. In ogni suo gesto io leggo la spontanea reazione asimmetrica di un ragazzo che ha percepito con chiarezza l’inganno in cui viviamo: una giustizia che dovrebbe essere “per il popolo italiano” mentre è dalla parte di chi si è sempre sentito poco nel “popolo”; una demo- crazia che dovrebbe rappresentare la corretta convivenza so- ciale ed è diventata strumento di discriminazione autoritaria; un potere economico che ci sta distruggendo e non guarda in faccia nemmeno le famiglie di 140 morti bruciati vivi. Mi fermo. Mi lascio sopraffare. La mia idea di Giacomo può non essere quella giusta. Così come la mia idea di Loris, di Ivanna, di Mauro. Forse hanno ragione loro. Forse ha ragione chi mi sta dicendo tutto questo da mesi. Infondo Giacomo l’ho sentito l’ultima volta il 15 ottobre. Ero certo ci fosse an- che lui a Roma, per la versione nazionale della mobilitazione internazionale “United for global change” e quando ho visto gli scontri, ho pensato alla sua sicurezza. Non avevo avuto torto. Gli era arrivata qualche manganellata di troppo, ma al telefono mi aveva assicurato di aver trovato un punto tran- quillo dove aspettare che le botte smettessero di far male. Per- ché era lì? Aveva partecipato forse agli scontri? Io cosa potevo farci? Come lo stavo aiutando, Giacomo? La testa pesa. Il cuore arranca. Sotto Natale mi sono trova- to anche a fare la rendicontazione di Ventanni. Doveva farla prima Sara ed è sparita senza avvertire nemmeno quel peso. Doveva poi farla Dimitra, ma dopo mesi di attesa abbiamo convenuto non fosse nelle sue corde. Allora inizio, con Fran- cesca e utensili a supporto, un lavoro lungo, enorme, fasti-

388 dioso e parallelamente ordinante. Tutta quella mole di ricevu- te fiscali, fatture, scontrini, iniziano a dare un senso, seppur economico, al tutto. Un giorno Gabriel mi sente fare conti sulle nostre retribuzioni finali. Chiede incuriosito di ripetere la cifra che mi spetta: «In totale per tutto il lavoro fatto sono 5400 euro». Gabriel gira lo sguardo. C’è tutta la testimonian- za del nostro fallimento di imprenditori in questi conti. Non c’è alcun equilibrio solidale. C’è solo l’emergenza economica, soprattutto di forniture esterne, che è stata tamponata. «Poi quei soldi vengono da altri progetti sui quali ci retribuiremo quando arriverà il saldo della rendicontazione». Lui mi osser- va. Chiede lumi. Poi capisce. «Se vuoi io posso essere pagato anche dopo» accenna. «No. Non si può. Bisogna rendicontare spese effettive». E poi il punto è un altro. Volevamo non di- ventare un ingranaggio del sistema esistente, per costruirne uno nuovo. Ma eravamo partiti da una premessa sbagliata. Quando nasci l’ingranaggio è lì e ne sei già parte. Comun- que sia devi prenderne atto e soprattutto saperti gestire al suo interno, anche se non lo condividi e soprattutto anche se ti accorgi della sua assurdità. Produrre oggi qualcosa in Italia è semplicemente folle. Forse il pensiero si potrebbe estendere ad altri Stati, ma io mi fermo a quello di cui ho fatto esperien- za. Il principio di partenza, la conflittualità tra imprenditore e lavoratore, ha creato un sistema economico bloccato e un sistema morale semplicemente idiota. Il lavoratore si ferma alla valorizzazione della sua fatica, prescindendo dal risultato, mentre l’imprenditore si ferma alla valorizzazione del suo ca- pitale, prescindendo dalla fatica per incrementarlo. Qui non c’entra niente Marx, non c’entrano i massimi sistemi, è un fatto di organizzazione e modelli di riferimento. È un fatto di condizioni di relazione. L’organizzazione corretta che si è sedimentata nelle nostre menti è una sorta di feudalesimo illuminato e ognuno ne difende assurdamente le reciproche posizioni ricoperte. Produrre è rimasto un atto creativo, un rischio, ma attutito da forme strane di sicurezza, i crediti ban- cari, che illudono le persone, soprattutto i lavoratori, della di- stanza assoluta tra efficacia della prestazione e ricompensa. Se ogni mese, a prescindere da come va l’impresa, io guada-

389 gno la stessa cifra, allora progressivamente smetto di capire il nesso tra quell’attività lavorativa e il movente collettivo della stessa. Divento un automa. Mi affido ciecamente a quel che mi viene chiesto di fare e smetto di guardare oltre, all’insieme organizzativo che mi attornia, alla capacità di quell’insieme di avere una razionalità economica, alla presenza di quell’insie- me nella comunità umana intera di cui è parte attiva. E que- sto già accadeva allora, nel 1991, quando nello scarica barile delle deposizioni post Moby Prince ciascuno rigettava, con paradossale legittimazione contrattuale, le sue responsabilità sulla vicenda. Anche se l’avvisatore marittimo era lì e poteva mappare le navi in rada e comunicare questo alla Capitaneria per favorire la sicurezza della navigazione, non era “suo com- pito” e quindi si limitava a fare quanto contrattualmente sta- bilito. Anche se il funzionario dell’ufficio tecnico di Nav.ar.ma D’Orsi era a conoscenza dei rischi relativi ad alcune pratiche non corrette di gestione degli apparati di sicurezza del Moby Prince – come nel caso della chiusura della valvola di presa a mare dell’impianto anti-incendio sprinklers – , si è astenuto dal farlo rilevare poichè non ne riceveva in conseguenza alcun beneficio. Lo stesso si può dire della parte imprenditoriale. Quando Loris ricorda il fatto che la compagnia armatrice non avvisò nemmeno i parenti dell’equipaggio, rammenta una condizio- ne di sistema che porta a comportamenti legalmente possibi- li benchè inaccettabili. La riflessione di Onorato è sembrata quella di chi si è preoccupato di ciò del sé che era rimasto: la compagnia. I lavoratori si cambiano, i passeggeri si rinnovano. Abominevole no? Eppure realistico. Sistemicamente efficien- te. Oggi Onorato, con quella mentalità e con una cultura di marketing vincente, vince la gara per Tirrenia con la neonata C.I.N., Compagnia Italiana di Navigazione. È il re dei mari italiani e si può permettere anche lo sfizio di partecipare alla Coppa America con Mascalzone Latino, e di creare una be- nefica scuola di vela per i giovani napoletani. L’imprenditore che massimizza i profitti della sua compagnia, che detiene le maggiori quote di mercato, salva lo Stato, dà PIL e che appa- re un simbolo di filantropia è perfettamente nell’ingranaggio.

390 Talmente nell’ingranaggio da riuscire a dargli la velocità spe- rata. L’autocrazia nella democrazia. Con tanti soldi di ricono- scenza. Per i piccoli oggi produrre significa invece indebitarsi perpetuamente. E quando ti indebiti entri in una condizione illusoria della vita. Il credito che ti ha dato una banca non è tuo, e nei fatti non sarebbe nemmeno suo. Però tu con quello tamponi, avanzi, realizzi nell’ipotesi di una resa. Così puoi pa- gare i lavoratori, puoi saldare le forniture esterne. Quelle che in realtà continuano a strozzare le imprese. Perché in questa brodaglia economica attuale, dove non esistono reti di econo- mia solidale tra le organizzazioni, fare impresa non conviene, conviene fornire lavoro a un’impresa altra. Un’impresa di cui te ne frega quanto a un afide della tua foglia di arancio: finchè c’è linfa da prendere. E se, come noi, non accetti tutto questo, non accetti le premesse di questo gioco, allora nei fatti arrivi a colpire te stesso. Perché se fuori funziona così e sei costretto ad assecondare questo sistema, allora ti resta poco, quasi nul- la, per il dentro. «5400 euro?» chiede retoricamente Francesca con una pun- ta di auto-denuncia. Rispondo: «Sì». Lei, con il suo pancione di sei mesi appoggiato sulla costola della scrivania, assume un’espressione di indignazione: «Come siamo ridotti».

391 27. PREPARARE UN GIORNO, VENT’ANNI DOPO

“Su questa cosa della sede… prima ci avevano promesso l’ex-doga- na. Non se ne fece di nulla. Ora ci dovevano assegnare questa stanza di quindici metri quadri, ma sono andato a vederla e nei fatti è il corri- doio del vano ascensore degli spazi dell’ANPI. Ho scritto al Sindaco. Speriamo ci diano almeno un posto dove si possa accendere la luce e mettere qualche foto”. Lo r i s , agosto 2012

Sette giorni. Sette giorni e ci siamo. Hanno confermato la presenza tutti. Mauro ha già il biglietto. Loris verrà con Gia- como, Stefania e Paola. Angelo con Gabriele Bardazza. All’ul- timo momento mi arriva una sua telefonata, a conferma della presenza: Gabriele Bardazza è l’unico non familiare invitato all’anteprima e la scelta per me è fondamentale. Nei fatti è la figura più vicina ad Angelo che ho conosciuto. Più del fratello stesso, residente a Cagliari, Gabriele Bardazza è la spalla cer- cata da Angelo per il suo bisogno di risposte sul Moby Prince. E questo non è casuale. Lui è un perito, non è un familiare delle vittime. Lui è un tecnico. Angelo ritrova in questo un elemento di rinforzo per la sua causa. Poi Gabriele Bardazza non c’era dall’inizio, deve rileggere tutto prima di arrivare a pensare qualcosa di difforme dalle deduzioni di Angelo. È una spalla, legittimante. Se dirà di sì, se troverà qualcosa, allo- ra tutte le idee più complesse sostenute in questi anni avranno una qualche solidità scientifica. Non saranno vaneggiamenti. Non saranno l’ossessione tanto temuta. Quantomeno non lo saranno più. Gabriele Bardazza, mi chiama anche per qualcos’altro: «Vor- rebbe venire anche un altro familiare delle vittime che ci sta dando una mano nella ricostruzione, Andrea Firicano». «No» rispondo, «mi spiace. Sono ammessi solo i protagoni- sti». Non ho creato un’arena dove far dibattere le due asso- ciazioni. Chi ha condiviso il percorso può essere qui, gli altri vedranno Ventanni per l’anteprima pubblica. Con la sua solita

392 educazione Gabriele Bardazza comprende e mi saluta. Ma è evidente che si sta procedendo a una specie di conta. Infatti mi chiama Angelo, con entusiasmo iniziale voleva la confer- ma sul luogo della proiezione. «Sarà qui dove abbiamo la sede operativa: ad Avenza, Car- rara. Abbiamo attrezzato a sala cinema un’aula formativa abbastanza grande per tutti voi». Lui la butta lì: «Ma quanti saremo?». «Tutti i protagonisti principali e secondari che hanno parte- cipato…». L’elusività della risposta non lo fa demordere, ma ci arriva con stile: «Quindi siamo io, Loris, Sini – Giacomo – , quel ragazzo sardo…». «Mauro». «Sì Mauro… e…». «La moglie di Mauro, Antonella, che hai conosciuto il 10 aprile, poi Stefania, la madre di Giacomo». «Ah». «… Gabriele Bardazza e Paola». «Paola…?» chiede dubbioso. «Paola è quella signora che ha perso il figlio sul Moby, quello che stava portando il camion in Sardegna col titolare della dit- ta, sono sicuro che la conosci…». Angelo riflette per qualche secondo, poi cambia tono: «Ma quello del camion dell’esplo- sione?». «Sì» rispondo, «l’intro del film è il suo racconto dell’11 apri- le, un passaggio molto forte». Angelo ha un attimo di tituban- za, ma la conta è finita. Le novità inattese sono state svelate e ci salutiamo. Quando rientro in ufficio osservo la cappa di attrezzature comporre un tetris perfetto in ogni minimo spazio libero di quella stanza. Tutto quanto avverrà il 22 è studiato alla perfe- zione, ma sappiamo che ogni situazione sarà possibile perché gli invitati sono la variabile indipendente. Otto variabili indi- pendenti. Noi sappiamo dove li possiamo far sedere, ma non sappiamo se accetteranno la disposizione. Sappiamo dove collocare le camere, ma non sappiamo se accetteranno di es- sere microfonati. Sappiamo che lo spazio piccolo imporrà un momento di saluto reciproco precedente all’inizio della proie-

393 zione, ma non abbiamo la più pallida idea di come avverà. Nella sala formativa abbiamo issato dal venerdì sera il telo per la retro-proiezione. Prove. Altre prove. Io voglio ripro- durre esattamente lo stesso assetto che ci sarà domenica. An- drea mi asseconda. Alle volte obietta. Spiega. Io colgo, chiedo, alle volte impongo. Non accetto l’idea che domenica qualsiasi problema risolvibile con un minimo di pre-organizzazione possa manifestarsi. Per questo c’è tensione nell’aria. Tutti san- no che ci stiamo giocando molto del film con questa giornata, ma soprattutto tutti sanno che io ho fatto di tutto per arrivare a quel momento e qualunque errore o imprecisione è infondo mia responsabilità. «France’ dobbiamo allestire giù un punto per dove andran- no a fumare» dice Andrea. Io ci rifletto. Vorrei riportarli lì, nell’ambiente controllato della sala della proiezione. Vorrei che qualsiasi discorso avvenisse lì, perché fuori resteremmo lontani dagli apparati di ricezione audio: «Andre’ secondo me io devo cercare di riportarli qui». «Fai come credi» mi risponde lui, «io comunque giù un bel posacenere con la sabbia ce lo metterei». Il sabato lo vedo arrivare con un sacco di sabbia di mare. «Oh cos’è?» chiedo stupito. «È la sabbia per il posacenere» mi risponde e, mentre conti- nua a riempire la vaschetta, liquida il discorso: «Lascia perdere France’, se ti dico che vengono qui a parlare fìdati…». Incas- so. Potrebbe aver ragione lui. Poi ci sono altre questioni da risolvere prima della proiezione. Mancano alcune correzioni al master finale e dobbiamo fare il check delle robe da mangiare e da bere per il buffet post-proiezione. Francesca mi stoppa subito sul nascere: «Di quello non ti devi preoccupare Francesco, ho già preso tutto, abbiamo tutto e domani intorno alle 19:30 viene mia madre che ci porta i tordelli caldi». Bene. Ci tenevo a che l’accoglien- za fosse ottimale, il massimo ottenibile dalla nostra gestione. Niente ristorante, i soldi sono oltre il finito, ma i ravioli fatti in casa, che qui chiamano “tordelli”, sono senz’altro un buon modo di presentarci. «Non faremo brutta figura Francesco, stai tranquillo» mi rassicura lei. La osservo: moglie, socia, uni-

394 co essere sulla faccia della terra in grado di sopportarmi è an- cora lì accanto a me, con una pancia di sette mesi. Sorrido. Le accarezzo la pancia. Lei porta la mano destra sulla parte alta e la sinistra su quella bassa: «Ci abbracciamo». Abbraccia la bambina, attraverso quell’involucro caldo dove sta crescendo. Sorridiamo. Tutto questo le è arrivato. La mia energia, quella di sua madre. Il buono e meno buono. Speriamo bene. Tutto è ormai pronto: il piano di produzione rispettato, le consegne date, l’allestimento fatto. C’è solo da provare a dormire qualche ora. Con Gabriel ci mettiamo davanti a un grosso manifesto dell’impresa locataria del complesso. È in mezzo alla sala di aspetto, risalterebbe in tutte le inquadrature, dobbiamo toglierlo. Ma è fissato al muro. Gabriel ipotizza una copertura con fogli bianchi. Io sono dubbioso. Lui insiste: «Dammi retta, fammi fare, a video nemmeno se ne accorge- ranno che sono fogli bianchi». Pensa agli spettatori, io pensa- vo ai presenti. Quest’idea del mettere al centro il reale rispetto al filmato è proprio uno spartiacque. Ma qui ha ragione lui. Torniamo così a casa. Francesca, in serata, ripassa ad alta voce il programma: «Allora domani, dopo pranzo, io porto Mauro e Antonella a fare un giro a Massa e li riporto da voi verso le cinque meno un quarto». «Meglio le quattro e mezzo» accenno, «così se Angelo arriva prima e si crea un momento di imbarazzo coi presenti, c’è Mauro e può parlare con lui». Francesca è d’accordo, tutto è pronto. Sono le 21:30, dobbiamo ancora cenare e domattina la mia sveglia suonerà alle 5:30. Alle 7, se tutto va bene, vedrò Mauro e Antonella uscire dal corridoio degli arrivi, nell’aero- porto di Pisa.

395 28. 22 GENNAIO 2012

“Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche ricevessero una risposta, i nostri problemi vitali non sa- rebbero nemmeno sfiorati. Certo allora non resta più domanda alcu- na; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso”. Lu d w i n g Wi t t ge n s t e i n , Tractatus logico-philosoficus, 1922

Mattina del 22 gennaio 2012. Alle 6:50 sono al secondo pia- no dell’aeroporto di Pisa, seduto su una poltrona verde in at- tesa di Mauro e Antonella. Dopo una serie di messaggi incro- ciati, a circa un’ora e mezzo dall’arrivo previsto mi arriva l’sms che non ti aspetti: “Volo annullato, mi dispiace”. A Pisa, causa nebbia – ancora lei – non si atterra. Passano poche decine di minuti e la pista è sgombra. Ma oramai Ryanair ha annullato il volo. Ci sentiamo. «Francesco guarda stiamo guardando il volo più vicino a Pisa, forse Roma, se arriviamo a Roma ce la possiamo fare? Guarda un po’ i treni, sai noi in Sardegna non è che coi treni abbiamo dimestichezza…». È incredibile e commovente. Come mi dirà Mauro la sera, erano a un’ora e mezzo da casa. Potevano dire: “ci abbiamo provato, è andata male” e invece eccoli lì a cercare voli e modi di arrivare in tempo per la proiezione di Ventanni riservata ai protagoni- sti. A Francesca lo ribadiranno in serata, dopo la visione del documentario: «L’abbiamo fatto per Francesco». Io davvero non so ancora cosa dire oltre ai ringraziamenti già fatti. Per raggiungerci Mauro e Antonella sbarcheranno addirittura a Treviso e si faranno cinque ore di treno, dopo essersi alzati alle tre di notte per la mattiniera partenza aerea da Alghero. Il loro arrivo ad Avenza, nel luogo della proiezione, è un raggio di sole in un momento di tensione. Mezzora prima erano arrivati Loris, Giacomo, Stefania e Paola. Pochi minuti dopo Angelo e Gabriele Bardazza. Sono nella stessa stanza, succede qualcosa, ma io sto parlando con qualcuno e non lo capisco. Angelo mi chiede dov’è il bagno, è scosso. Esce,

396 guarda Gabriele e gli dice: «Andiamo dai, dai…». È molto agi- tato, affranto. «Cos’è successo?» chiedo. Angelo parlotta, non risponde direttamente a me, mentre scendiamo le scale. «Quel ragazzo lì non mi ha nemmeno stretto la mano… cosa c’entro io se è morto suo padre?». È veramente sconvolto. Si accende una sigaretta. Ripeto la richiesta: «Angelo non ho capito cos’è successo». Guardo Gabriele che sa ma tace. Ha lo sguardo da amico che riconosce un amico in difficoltà. Angelo lo prende come interlocutore ma parla con me: «Fumiamo la sigaretta e andiamo, Francesco mi conosci… mi conosci, qui ho capito la situazione… sono andato a stringere la mano al figlio di Sini e lui l’ha tirata indietro… lascia stare… davvero… lascia stare». Lo sapevo che Giacomo l’avrebbe fatto, me l’aveva detto chiaramente, ma un conto è sentire che danno pioggia, un conto è trovarcisi in mezzo. Mi colpisce, tento di media- re: «No Angelo, mi dispiace cavolo. Sei venuto fin qui, mi dispiace questa cosa… non me ne sono nemmeno accorto». Angelo torna a cercare gli occhi di Gabriele. «Dai, finiamo la sigaretta e andiamo». Lo sento, non è così. In realtà vorrebbe rimanere, ma quel gesto gli ha tirato fuori qualcosa. Quella frase: “cosa c’entro io con il fatto che è morto tuo padre” mi è rimasta impressa. Glielo dico chiaramente: «Angelo tu non c’entri niente con quello che è successo a suo padre. Tu non c’entri niente. Nessuno ti dice o pensa una cosa del genere. Tu non devi assolutamente sentirti responsabile. La questione è quella che sapevi, ne abbiamo parlato. È quello che avete scritto nell’istanza su suo padre». Lui ribatte: «Francesco l’ha scritto Palermo, l’avvocato». «Io lo so Angelo» esplicito, «ma alla fine era il vostro avvo- cato, lui è un ragazzo, è rimasto ferito dalla cosa ed è fatto così. Comunque se devi stare male mi dispiace molto e trovo un modo, non so quale, per evitarlo. Un modo per farti vedere comunque il documentario… non so… ora dovrebbero arri- vare Mauro e Antonella». La notizia lo conforta. Si era sentito una minoranza sotto attacco. Invece quello non era lo scopo. Non è mai stato lo scopo. Tempo un paio d’ore e l’avrebbero capito tutti. Vedo arrivare Francesca con Mauro e Antonella. Ce l’han-

397 no fatta. Mi avvicino per salutarli. Come sempre Mauro è di battuta pronta e scherza su quanto è successo. Nonostante tutto sono più riposati di quanto pensassi. Antonella è riuscita a organizzare tutti gli spostamenti dall’aeroporto di Treviso fino alla stazione di Carrara/Avenza. Sono lusingato da tut- to questo e in parte incredulo. La mia condizione da oramai diversi mesi mi impediva di riconoscere quanto tutto questo fosse possibile. Mauro e Antonella lì, davanti a me, per noi. Loris, Giacomo, Stefania, Paola, Gabriele e Angelo in una stessa stanza, insieme a loro. A vedere il racconto visivo di questo progetto. A sapere di dover discutere dopo. Di poter discutere di quanto sarebbe emerso. Loris me l’aveva detto due giorni prima: «Avevo pensato a un 37 e mezzo strategico per non venire». Era una battuta. Ma scherzando scherzando si dice spesso la verità. Non è stato facile. Non è facile trovarsi di fronte alla possibilità di spiegarsi e dover scegliere. Eppure tutti hanno scelto questa opportunità. Mentre sono nel par- cheggio dello stabile, a parlare con Angelo, accade una scena ripresa, ma non finita nel montaggio del film. Seduta su una poltroncina dell’andito, Stefania racconta a Paola cos’è succes- so, il gesto di Giacomo. Ne parlano con franchezza. Stefania, col suo esprimersi molto spontaneo e simpatico le dice, quasi sussurrando: «È sardo, è sardo» riferendosi a Giacomo. Poi fa un gesto con le braccia come a dire: “sono fatti così, rigidi!” e aggiunge: «Come il su’ babbo, era uguale. Persona affabile, amico di tutti ma se ti comportavi male… stop, basta, chiu- so». Paola guarda lontano e pronuncia poche semplici parole: «Secondo me noi familiari siamo tutti in una stessa pentola, uno stesso pentolino… e dovremmo cercare di pensarci più così… più vicini». Finite le rispettive sigarette, fumatori e non fumatori rag- giungono Stefania e Paola nell’andito e avanzano verso la sala della proiezione. Angelo mi chiede però di non essere micro- fonato. «Ok. Mi conosci. Per me non c’è problema». Magari questo documentario non piacerà a tanti, perché tecnicamente ha difetti, perché Angelo non era microfonato, perché se quel- lo che avrà da dire avesse potuto, l’avrebbe fatto sicuramente in modo diverso. Ma a me non interessa. Qui e ora. Anche

398 se è difficile, anche se andiamo indietro con la memoria o avanti con l’immaginazione, qui e ora è ciò che ci è concesso per capire e capirci. Mauro entra nella saletta del bouffet e gli avvicino il foglio con la liberatoria. Lui si ritrae: «Francesco però così che senso ha avuto non avertela firmata finora? Te la firmo alla fine del film». Cerco di spiegarmi. Finora mi sono fidato io e continuo a farlo, ma adesso ho bisogno che a fidar- si siano lui e Antonella. Io ho aspettato, ma tutto quanto è sta- to preparare quella giornata necessita di un ordine finale. Di un’equiparazione tra i protagonisti. Tutti hanno firmato, per entrare nella sala e lasciarci riprendere quanto avverrà: «Poi Mauro se vedrai qualcosa che non ti piace, o vorresti meglio precisata, il patto rimane. Me lo dici alla fine della proiezione e io la cambio. Ma ora ho bisogno che tu firmi». Antonella entra nella stanza, capisce. Si china per firmare a sua volta. L’aria è frizzante, vibra. Sono tutti piccoli momenti di una tensione difficile da controllare. I protagonisti varcano così la soglia della sala di proiezione. Senza segnali. Spontaneamente. E davanti a loro scorgono un grande telo bianco con due file di sedie da quattro posti, a circa tre metri da esso. Angelo, Mauro, Loris e Giacomo hanno le sedute assegnate. Prima fila. Angelo, Mauro, Loris e Giacomo. Da sinistra verso destra. Mauro la butta lì: «Mi fate sedere lontano da mia moglie?». Angelo cederebbe volentie- ri il posto per defilarsi. Ma io chiarisco: «Mi dovreste fare il piacere di sedervi dove vedete scritto. Serve, solo questo, per le riprese». Alle estremità del telo da proiezione sono infatti posizionati Andrea e Alessio, due operatori. Gabriel si occu- perà delle riprese fronte telo e quindi spalle e fianco destro dei protagonisti. Finora ho diretto questo percorso in punta di piedi, concessioni e richieste. Adesso, come per la liberatoria di Mauro, ho bisogno di vedermi riconosciuta completa fidu- cia dall’insieme di persone riunito in queste piccole stanze. L’energia della sala formativa adattata a cine-forum sembra sgomitare per aprirsi un varco nelle finestre coperte col bri- stol nero. Prima di iniziare la proiezione dico poche parole. La voce trema leggermente. Gli ultimi mesi hanno spinto la mia autostima sotto qualche metro di cemento, ma vedere quelle

399 persone lì davanti, sedute l’una accanto all’altra, mi rimette in circolo un po’ di fiducia. Io per primo in quella stanza ho bisogno di riconoscermi completa fiducia. Ringrazio così di cuore i presenti, spiego, fornisco poche semplici indicazio- ni circa quanto seguirà: «Io nel film non ci sono, non c’è il mio commento che invece avete letto nei post. Ci siete solo voi e la vostra storia, nel modo in cui l’abbiamo ripresa e as- semblata». Angelo si stira sulla sedia. Ciascuno dei quattro protagonisti seduti in prima fila compie piccoli movimenti di nervosismo. Proseguo: «Nella saletta dove prima avete firma- to le liberatorie abbiamo preparato un buffet per dopo. Sono prodotti tipici di qui, fatti apposta per voi». Loris sorride dalla sua posizione, adagiato sulla sedia. «Se poi, dopo la proiezio- ne, vorrete tornare qui per parlare insieme di questo percorso, del film, di ciò che sentirete, noi saremo qua». Un cenno a Gabriel. Si spengono le luci. Parte il filmato. Angelo mi guarda, indicando l’orecchio. Non c’è audio. Che è successo? Vado dietro il telo da proiezione, passo davanti al proiettore e mi accorgo che i jack delle casse non erano stati inseriti: «Scusate. Ora siamo a posto». Avvicino le dita al letto- re dvd: stop, play. Parte il filmato, due schermate introducono la vicenda. Poi il nero e la voce di Paola, irradiata dalle casse audio, riempie la sala. Mi metto dietro Alessio e osservo la prima fila intenta ad ascolto e osservazione, illuminata dalla fila di led che abbiamo incollato al soffitto. Quel racconto di Paola è la loro storia vissuta dal punto di vista di una ma- dre. Loris inspira profondamente. Le casse diffondono una voce: «Mauro, Mauro». Il diretto interessato la riconosce. È la voce di suo padre. Mauro si volta verso Antonella. Sorride. Si emoziona. Davanti alle immagini di quella vacanza in Trenti- no Alto Adige una lacrima gli riga il volto. Per la prima volta lo vedo piangere. Quella sua capacità estrema di misurare le parole, cercare la migliore costruzione della frase, la battu- ta in grado di salvare il ritmo di una conversazione, qui non possono servire. Qualcosa arriva dritto laggiù e tira fuori una goccia di acqua salata dall’occhio destro. Angelo si avvicina al suo orecchio. Chiede qualcosa. Lo farà più volte a commento delle sequenze più private e personali, e del time-lapse quasi a

400 ritrovare con Mauro una complicità auspicata e rasserenante. Settanta minuti dopo si accendono le luci. Le parti più con- flittuali del filmato sono state incassate e inghiottite come un boccone. Ma ora devono venire fuori. La luce a neon della sala acceca solo parzialmente le camere, io mi avvicino al cen- tro del telo. Loris mi segnala un errore, “il cognome di Paola”. Ha ragione. Ho usato quello da sposata e lui guarda tutto fino in fondo, perché tutto può essere giudicabile. Accenno: «Se ora volete prendere qualcosa al buffet…» e Loris rompe il ghiaccio: «Io devo bere». Mi guardano come degli alunni col maestro, in attesa dell’autorizzazione. «Certo. Fate pure. Noi come ho detto siamo qua, se dopo volete commentare qui il filmato». Mauro mi si avvicina insieme ad Antonella. Sorride. È fe- lice. «Bellissimo. Guarda sono veramente contento di essere venuto». Lo ringrazio e nel frattempo vedo Loris avvicinarsi ad Angelo, sembrano quasi abbracciarsi mentre si incammi- nano verso la porta. Mauro continua a commentare: «Non mi aspettavo che avresti usato le immagini della vacanza con i miei genitori» guarda Antonella, «mi hai fatto un bellissimo regalo. Anche per Federico. È un ricordo dei nonni molto bello e importante». Torno a ringraziare e lui prosegue: «Fa così strano poi vedere Federico parlare così un anno fa». An- tonella sorride. «Sì, è stato stranissimo. Perché ora lui parla perfettamente. Davvero Francesco, come ha detto Mauro è stato bellissimo». Con lo sguardo cerco di capire chi sta seguendo Loris e Angelo nel loro tête-à-tête. Sicuramente, come da mandato, Gabriel. Poi Alessio e mi pare ora anche Andrea. Giacomo è uscito dalla stanza in corrispondenza dell’uscita di Loris e Angelo. Mentre parlo con Mauro li vedo tutti e tre uscire dal portone principale seguiti dagli operatori. Mauro però ricattu- ra la mia attenzione: «Una sola cosa: non c’è un’immagine del Moby Prince. Sembra una cosa distante». Spiegarsi è necessa- rio: «Sì hai ragione. Ho scelto così perché il Moby Prince non esiste più. Ve l’hanno portato via e in qualche modo volevo dare l’idea dell’assenza di un oggetto materiale con cui rinno- vare la memoria. Quell’oggetto poi non c’è più, mentre voi ci

401 siete. Il messaggio è anche quello». Lui non è completamente convinto, ma accetta. «Francesco me lo puoi dare il dvd?» sor- ride. «Come ricompensa del viaggio». Gli stringo il braccio: «Ok. Ma non dirlo agli altri e tienilo solo per te. Questo fil- mato cambierà nel montaggio finale con le scene di oggi, do- vremo togliere circa dieci minuti per inserire altri nuovi dieci minuti, quindi rimarrà un pezzo unico. La ricompensa». Mi avvicino così alla saletta del buffet. Stefania mi abbrac- cia. «Hai fatto un lavoro… grazie». Gli occhi fissi sui miei. Capisco ogni sfumatura di tutti i significati che stanno dietro a questa frase. Non è stato semplice. La sua vita, la storia di suo marito, il confronto con Angelo. «Sono andati giù Fran- cesco» mi dice, «forse ci sei riuscito, anche in questo». Vorrei scendere anch’io ma qualcosa mi trattiene. Parlo per un atti- mo con Gabriele, Gabriele Bardazza. Desidera esprimermi il suo apprezzamento: «Bello, bello davvero. Io alla fine volevo anche applaudire ma siccome ho visto tutti concentrati sono rimasto fermo». «Grazie». «Comunque la prossima volta che vieni, dimmelo, così mi faccio meglio la barba». Aveva notato anche questo, l’alta defi- nizione non fa sconti. Mentre sorridiamo lo invito a fruire del buffet. Ma fremo. Chiedo scusa ai presenti e mi incammino giù per le scale. Mi fermo a sette gradini dall’arrivo. La luce piazzata da Andrea davanti al posacenere con la sabbia sta illuminando tre persone intente a parlare tra loro e tre per- sone intente a registrarle. Andrea aveva ragione, il bisogno di nicotina è stato un appiglio comune. Resto pochi secondi a guardarli. Sono bellissimi. Quella sce- na è bellissima. Stanno dialogando, disinteressandosi delle te- lecamere intente a riprenderli. Gli operatori sanno cosa fare. Mi fido. Io qui ora non servo. Quando risalgo su mi avvicina Paola. Ha parlato per un po’ con Francesca, chiedendole della bambina in arrivo e dispensando consigli e aneddoti. Stefa- nia l’aveva seguita a ruota: la solidarietà tra madri è sempre straordinaria da riconoscere. Mauro e Antonella sono seduti insieme nell’angolo alto della sala buffet. Parlottano con Ga- briele. Forse chiedendogli qualcosa sulla vicenda. Forse no.

402 Mauro ha scelto di rimanere distante dal dibattito finale tra Loris, Giacomo e Angelo. Mentre lo osservo abbracciato ad Antonella con la tenerezza di un ragazzo, capisco il motivo. Questa è la sua storia, il suo messaggio. Quella è la loro. Lui ha cercato di capire, di avvicinarsi e avvicinarli. Ma è tornato a casa. E casa è il posto dove si sta bene. I minuti scorrono. Sono giù da quasi un’ora. Stefania mi guarda e fa un cenno di complicità con la testa. Poi, tutto d’un colpo compare Andrea dalla porta, mezzo assiderato. È rima- sto quaranta minuti con il registratore in mano, inginocchiato per non interrompere la discussione. Si avvicina, mi stringe la mano e mi dice quattro parole: «Complimenti. Ci sei riuscito». Mi illumino per un secondo. Andrea c’è stato durante i mesi più difficili. Anche per lui la soddisfazione di aver lavorato per qualcosa che va oltre il produrre un documentario. Entra Gabriel, sta tremando dal freddo, ma è felice: «Li abbiamo lasciati sotto a parlare. Volevano un attimino proseguire senza di noi». Sorrido. Mi si avvicina Alessio, l’altro operatore arri- vato all’ultimo tuffo per varie defezioni. Ha sul volto l’espres- sione di qualcuno a cui è arrivata a coscienza l’esistenza di una speranza: «Grazie, ti volevo dire che a me è piaciuto molto quello che abbiamo fatto qui oggi. Te lo volevo solo dire. Mi è piaciuto davvero molto». «Bene» rispondo, «adesso andate dentro a mangiare qualco- sa di caldo». Ci sono addirittura i tordelli massesi fatti a mano dalla madre di Francesca. Mi avvicino nuovamente a Gabriel: «Ma cosa si sono detti? Dammi due coordinate…». Fremo dalla curiosità. Lui avvia un resoconto parziale: «Senti io ero un attimo più distante del Vito, ma all’inizio Angelo ha proprio chiesto scusa a Giaco- mo. Cioè si sono confrontati proprio direttamente e lui gli ha chiesto scusa. Una cosa bellissima: lì mentre si accendevano le sigarette l’un l’altro». Respiro. Respiro fino all’ultimo bron- chiolo: «E poi?». Gabriel riparte: «Poi hanno parlato tanto, delle tesi, delle responsabilità. Si sono confrontati. In modo molto diretto, forte, ma con grande rispetto. Angelo era pro- prio concentrato sul dialogare con Loris, poi si girava ver- so Giacomo. Insomma hanno parlato». Prende fiato. «Vuoi

403 un bicchiere d’acqua? Di vino?» chiedo. «Dammi l’acqua per adesso dai…» mi risponde con una mano sulla mia spalla, «poi io non so se ho capito bene, ma Angelo ha detto tipo: “dovremmo riunirci”. Non lo so con precisione, senti il Vito o Alessio che era più vicino, ma a me sembra che abbia detto così». Qualcosa da dentro di me arriva oltre l’ultima punta dell’ultimo capello. Sale. Mi giro per cercare Andrea. Lui si avvicina con il bicchiere d’acqua in mano. Gabriel mi precede. «Vito, ho sentito bene? Angelo ha detto “dovremmo riunir- ci?”». Andrea guarda prima in basso. Poi alza gli occhi con sguardo serio: «Sì sì, ora le parole precise non me le ricordo però gli ha proposto di riunirsi». «E Loris cosa ha risposto?» chiedo alla prima finestra di si- lenzio. Andrea cerca la precisione dei particolari: «Sai, Loris ha un attimo tergiversato. Però poi mi pare che abbia detto qualcosa in quella direzione lì». Respiro. Qualcosa nella mia espressione deve rendere il sen- so del mio stato. Ma Andrea cambia faccia, come qualcuno che ha perso le chiavi e se n’è appena accorto: «France’ cazzo. Però come finisce questo documentario? Non abbiamo una ripresa ora di loro che parlano». Raccolgo, in parte: «Ci vor- rebbe un totale largo, magari con un bel movimento finale. Ma lascia stare. Per uscire ora dovresti passare in mezzo a loro». Non coglie: «Ho capito France’ ma allora come faccia- mo? Come finiamo?». «Così, come hanno finito loro» rispondo, «mi hai detto che vi hanno chiesto un attimo per parlare a telecamere spente. Potremmo finire così». Andrea si illumina: «Bello. Mi piace. ‘Sto documentario deve proprio finire così». Venti minuti dopo compaiono loro: Angelo è sollevato, Giacomo sembra ancora in elaborazione, Loris è Loris. Li introduco nella saletta buffet. Mangiamo. Parliamo. Avverto una sensazione di contentezza. C’è stato un confronto. C’è stato un incontrarsi e Angelo continua: chiede a Giacomo cosa studi. Poi iniziano a discutere della Costa Concordia. La tragedia del Giglio ripropone alcuni temi e tra i più cari a Lo- ris restano le responsabilità della compagnia armatrice, di chi sapeva degli inchini e non ha mai fatto niente, di chi tramite

404 il trasponder poteva vedere cosa stava facendo l’enorme nave da crociera, per evitarlo. Angelo, Gabriele, Loris e Giacomo discutono insieme su quanto potesse essere fatto e non è sta- to fatto per salvare quelle vite. Riconoscono, comunque, che si è scampata una tragedia ben maggiore. Poi gli strumenti: sono diversi. Oggi in un minuto c’erano video su Facebook girati dai naufraghi in fuga. Ieri, vent’anni fa, i pochi cellulari presenti nel Moby Prince davano “non raggiungibile”. Mauro commenta, si inserisce. In questa stanza c’è aria di convivia- lità. Ad un tratto ci accorgiamo dell’ora. Mauro e Antonella sono in piedi dalle tre del mattino. L’adrenalina è finita, altri recettori fanno il loro mestiere e arriva la stanchezza. Prima di andare via però Mauro fa un cenno ad Antonella. Hanno portato un pensiero per Loris. Un modo per ricambiare i suoi doni a Federico. Un modo sardo di restituire e riconoscere. Prima di concludere il giro dei saluti Mauro mi si avvicina furtivamente: «Il dvd, il dvd». Entro nella sala di proiezio- ne ormai vuota, che stanotte dovremo in qualche modo ini- ziare a risistemare, e raccolgo l’oggetto del desiderio. «Ecco qua. L’hai solo te e considera che questo è l’unico master». Lo raccoglie con discrezione. Ci abbracciamo. «Tanto domani vi passo a prendere io per portarvi in aeroporto» è l’ultima indicazione. Mauro e Antonella ringraziano. La notte al B&B caratteristico è il mio modo sardo di restituire e riconoscere la loro ospitalità offertaci ad aprile. Prima di salutarci, però, i rimanenti vogliono sapere il dopo. Quando uscirà questo lavoro e come. «Dobbiamo includere quanto girato oggi, poi chiudere il tutto e trovare qualcuno in grado di occuparsi della distribuzione» spiego. Angelo si avvia verso la macchina con Gabriele. Il viaggio di ritorno, nonostante le sue velocità, resta comunque abbastanza lun- go. Poggia il braccio destro sulla mia spalla sinistra: «Grazie Francesco». «Grazie a te». L’abbracciare quelle spalle alte e larghe mi dà un senso di sollievo. Gli ho restituito qualcosa. Lo vedo più sollevato. Angelo si avvicina a Loris, Stefania e Paola. Saluta. Si volta verso Giacomo: «Ciao Giacomo». «Ciao» esce da una gola più rigida del solito. Sta rielaboran-

405 do. Lo sguardo alto. Il pensiero martellante. Un muro dopo il terremoto. Angelo varca la soglia, seguito da Gabriele. Pochi minuti e Stefania chiede qualcosa di più a Giacomo e Loris. Cosa si sono detti. Cosa è venuto fuori. Loris racconta: «Angelo ha chiesto scusa per la vicenda del tuo marito. Si sono spiegati. Giacomo ha chiarito le sue posizioni». Posi- zioni rigide. Colpite ma radicate. Quel confronto, la parole di Angelo, sono state sì un terremoto, ma l’edificio sembra anti- sismico o quantomeno cerca di apparire in tal senso davanti alla madre e al resto dei presenti. Loris prosegue: «Abbiamo parlato anche di altre questioni. Le tesi sulla ricostruzione, il processo… lui tante cose non le ricorda, cose sulla vicenda, ma stava con loro. Non le avrà fatte lui direttamente, ma loro sì». Tento di mediare, esplorando il senso della frase: «Loris te l’ho detto tante volte per certo e stasera l’hai visto di persona. Angelo tante cose che gli imputi non le ha fatte o dette diret- tamente». Loris mi guarda: «Sì Francesco, ho capito. Abbiamo parlato dell’armatore, delle sue responsabilità. Però resta il fatto che in tutti questi anni è la prima volta che gli sento dire una parola a riguardo». Il passato è ancora troppo grande. Ma un primo passo è stato realizzato e le donne del gruppo sem- brano orientate su una soluzione conciliativa. Paola rinnova gli auspici iniziali: «Intanto il fatto che vi siate confrontati è stato importante». Ci abbracciamo. Loris, uscendo, mi guarda dritto negli occhi: «Mi devi solo assicurare una cosa: che il 10 aprile il documentario è pronto. Così lo facciamo vedere agli altri familiari». Raccolgo con ri- conoscenza: «Ok. Non avrei fatto niente il 10 aprile, ma se me lo chiedete voi va bene. Cerchiamo di fare il possibile». Una stretta di mano, l’ultimo abbraccio. «Loris ma il documentario ti è piaciuto?». Lui molla la presa, mi stringe la spalla, inspira. «Certo. È stato toccante. Molto forte. Mi ero portato anche la chiavina usb per vedere se me lo lasciavi ma mi sa che…». «Aspettiamo la versione definitiva». «Ok». Mentre si incammina verso l’uscita, abbraccio Giacomo. Loris si volta per un’ultima parola: «Mi raccomando per il 10 aprile. Ci sentiamo poi per l’organizzazione, il Comune ecce-

406 tera». Mentre i suoi occhi puntano già la scalinata rispondo: «Bene, sarà fatto. Grazie». Nella mezzora successiva sistemiamo il possibile con la troupe. Francesca torna dal viaggio che ha portato Mauro e Antonella al B&B, per il meritato riposo. Dopo lo spettacolo resta nell’aria l’odore dell’adrenalina. Si commenta qualcosa, si verificano le tracce registrate, si provvede al back up per un’ultima fondamentale occasione. Salutati tutti mi metto in macchina con Francesca. Nella borsa l’hard disk con le se- quenze di tutta la serata. Come un allenatore maniacale, at- tendo l’arrivo a casa per poter rivedere il filmato della partita. Mentre Francesca si cambia per la notte, accendo il portatile appoggiato sulle mie gambe sdraiate sul letto. Quart’ultima clip di Alessio. Play. Ancora il buio in sala. Stop. Terz’ultima clip. Si accendono le luci in sala. Eccoci. È questa. Loris si alza, guarda Angelo. «Certo che dobbiamo dirgli con photoshop di toglierci un po’ di pancia perché faccia- mo cacare tutti e due». Angelo sorride. La tensione si scarica. La camera li segue in una sorta di abbraccio. Angelo si lascia scappare un commento: «Che cazzoni che siamo». Una figura passa davanti alla camera. Dalla maglia mi sembra Giacomo. Alessio ha sganciato la camera appena Loris e Angelo sono usciti dall’inquadratura e li ha seguiti. Doveva andare Andrea ma ha fatto bene. Aveva tempi di sgancio più rapidi. Vedo così l’occhio della camera entrare nella sala buffet. Loris sta bevendo. Angelo sta bevendo. Qualcosa gli ribolle dentro. Non riesce a trattenersi. Come un accelleratore tenuto schiac- ciato a tavoletta, col freno a mano tirato, la sua voce esce verso Loris, ma non riesco a capire cosa gli abbia detto. Loris lo guarda. «Come scusa?». Anche lui non ha capito. Angelo riparte, a tono basso, ma accellerato: «L’incidente probatorio l’abbiamo fatto fare noi nel ’93 cazzo…». Poi l’affermazione diventa indecifrabile. Mi esce a voce alta un: «Questo mi ci vorranno tre ore per sottotitolarlo. Non si capisce cosa dice». Francesca si avvicina per ascoltare a sua volta. Le passo la cuf- fia destra. Play. Anche lei non riesce a capire. Mi concentro. Play di nuovo e… eccolo! Gli ha detto: «Perché devi dire che siamo stati con Nav.ar.ma.? Non è vero, lo sai». L’espressione

407 di Angelo è innocente. Quella verità la voleva chiarire subito, senza pensare ad altro. Loris deglutisce l’acqua. Per come lo conosco è solo una parziale ammissione. Angelo getta poi un braccio dietro la schiena di Loris. «An- diamo a fumare, dai». Mi esce un: «Tieni ferma la camera, non seguirli». Alessio sapeva. È un professionista. La camera li la- scia sfilare. Apro la clip di Gabriel. Lui era fuori dalla stanza per riprendere l’uscita. Premo play e vedo una scena avvenu- ta in concomitanza con quella ripresa da Alessio: Giacomo è appena uscito dalla sala della proiezione. Va a prendere il giacchetto e incrocia Loris e Angelo appena usciti dalla saletta del buffet. Angelo getta un rapido sguardo. Lo vede. Sa che è arrivata l’occasione di chiarirsi. Gabriel li lascia chiudere la porta. Poi li segue. Angelo si gira verso Giacomo: «Giacomo scusa, non pensavo…». Lui scende le scale, colgo solo una frase: «Ho un onore da difen- dere». La discussione prosegue davanti al posacenere e Ange- lo è seriamente mortificato. Tenta la carta dell’avvocato. «Era un’idea di Palermo…». Giacomo non lascia cadere la frase: «No, non puoi dire così, è il vostro avvocato». Angelo cerca così un appiglio di riflessione per il suo ragionamento: «Gia- como l’ultima cosa che ho visto era quella lì». Ma il suo inter- locutore non lascia vie di fuga, cerca il suo sguardo: «Non si firmano i fogli a caso, quando il tuo avvocato ti ha detto: “ci voglio mettere quelle cose lì” tu glielo dovevi dire. C’è una memoria dietro. C’è un familiare che viene offeso. E perché non l’hai fatto?». Angelo sussurra qualcosa, gli occhi bassi. Non capisco. Tor- no indietro, alzo il volume: «Gliel’ho anche detto di togliere quelle parti lì ma tanto se te lo dico ora non cambia niente». Giacomo raccoglie. Ha colpito. Angelo ha sentito il peso di quell’azione. Come uno degli spettatori del Thruman Show mi metto a commentare: «Dai Giacomo, dai. Ci sta provando. Allunga la mano». Ma Giacomo non cede: «Può cambiare, certo può cambiare. Io è logico che la mano non te la stringo, continuo a non stringertela». Angelo aspira un piccola porzio- ne della sigaretta, un breve cosciente e sommesso commento: «Pazienza…». Poi qualcosa nella sua testa ritrova una perso-

408 nale visione del senso: «Questa cosa dello stringere la mano non è una tragedia, però se tu capissi che per me questa cosa non c’entra niente, non ha nessuna importanza forse avresti più vicinanza…». Giacomo assume un sorriso sarcastico. Lui ci ha provato, a parlare, ad avvicinarsi, ma era stato ignorato. E lo vuole ricordare: «Noi siamo venuti a parlarvi». Angelo dice di non ricordare. Ma Giacomo lo incalza: «È strano che non te lo ricordi, perché era una giornata un po’ particolare. Era l’anniversario e stavate presentando il libro di Fedrighini». Angelo lascia cadere un “non ricordo niente di quelle gior- nate”, occhi verso Giacomo, poi di nuovo verso terra. La sua debolezza. La sua gerarchia di importanza vacilla nella rela- zione e Loris si introduce così nel discorso: «Avevate fatto un’iniziativa al LEM, a mezzogiorno». Ricorda ogni cosa di questa storia. Angelo aspira ancora la sua sigaretta e soffia via rapidamen- te il fumo. La nuvola si mischia a quella di Giacomo. Lo guar- da: «Comunque più che chiederti scusa e dirti che mi dispiace non so cosa fare». Giacomo si rasserena un attimo: «Questo l’ho capito e sono contento che sei venuto a dirmelo di per- sona. Fa piacere». Sorrido. Un po’ di pace interiore si span- de dentro di me come forse in quel momento è stato dentro di loro. Angelo si distende. Anche dopo l’ultima stoccata di Giacomo, il punto sulla “i”: «È logico che a me rimane una rabbia per questa cosa qua. Bastava che quando siamo venuti a parlarti tu mi dicessi…». Ma Angelo ci tiene a chiarire la questione: «Io non ci pensavo minimamente a questa cosa qua perché per me non aveva nessun valore». Giacomo lo guarda risolutivo con un sorriso sarcastico sulle labbra: «Biso- gna pensarci alle cose». Ha colpito, ancora. Ma Angelo vuole che tutto sia esplicito. Si volta verso Loris: «Ti ho mai parlato di questa cosa qua?» e avuta la conferma torna indietro: «Gia- como nulla capito, nulla di nulla. La verità è questa». Il dialogo va oltre. Giacomo non ha finito: «Per me rimane sempre lo stesso motivo il problema, anche se mi dici non ci posso fare niente: io un foglio non lo firmo». Loris inter- viene. Sciorina la storia. La conosce a menadito: «L’avevate tirata fuori prima, nel 1993, poi è rivenuta fuori dopo con

409 Palermo». Angelo chiede spiegazioni. Ricorda male tutto ciò che ha riguardato la questione, prima dell’Inchiesta-bis. Gli mancano i tasselli della telefonata, della boutade mediatica. Loris e Giacomo li chiariscono con precisione chirurgica. Poi Loris mette il suo punto: «Il fatto di rinvangare una questione chiarita, dopo anni e in questi termini ha dato noia a loro e un po’ a tutti». Angelo raccoglie: «L’ha data anche me. Capisco». Ma Loris vuole arrivare oltre. Al senso che legge nella que- stione. «Perché vedi Angelo io ti ho detto tante volte che se noi fossimo stati uniti a combattere quella che era la realtà di quella nave, cioè l’armatore con tutte le carenze… oggi si parla tanto del Costa Concordia. Dietro il Costa Concordia ci sono tante responsabilità. Io non la metto la colpa su Schet- tino. La metto sulla Concordia, sulla Capitaneria, su Livorno che doveva mettere il VTS130 e non l’aveva ancora. Insomma se vai a vedere il Costa Concordia non è colpa di uno, le re- sponsabilità sono tante». Angelo non condivide e lo dice a mezza voce: «Però lì anche il Comandante…». Ma Loris ha già preso la sua tangenziale: «...Dire questo è che se un gior- nalista scrive che quella nave» intende la Moby Prince, «faceva schifo eccetera eccetera e non voleva secondo me… e voi l’avete denunciato…». Alzo gli occhi al cielo: gli ha tirato fuori anche questa, la storia di Bertone131. Angelo non capisce e chiede. Loris lo

130 Vessel Traffic Service, un sistema di monitoraggio del traffico navale simi- le a quello utilizzato negli aeroporti per verificare le rotte degli aeromobili. 131 Nel secondo numero monografico del periodico “L’Europeo” (Edizioni RCS) del 2006, “Impuniti. Perché le tragedie italiane restano senza colpevole”, uscì un articolo a firma di Roberto Bortone dal titolo “Livorno il porto delle strane nebbie. Capitani poco coraggiosi”. Angelo e Luchino Chessa hanno otte- nuto la condanna del giornalista e dell’editore, attualmente in primo grado, per la supposta diffamazione del padre contenuta in alcuni passaggi dell’articolo. In particolare come si legge dalla sentenza del Tribunale di Roma – emessa dalla dott.ssa Damiana Colla in data 6 ottobre 2011 – “il giornalista ha erroneamente biasimato, screditandone la memoria, il Comandante Chessa per la “mancanza di coraggio” dimostrata nel partire comunque, la notte del 10 aprile 1991, no- nostante il traghetto presentasse numerose carenze a livello di sicurezza che la sentenza di primo grado, richiamata più volte dal giornalista, tuttavia “non ha mai certificato tali”. Affermazione questa difficilmente concorde con quanto è

410 chiarisce: «Sto parlando di Bertone». Angelo ribatte la stocca- ta: «Ma lì cosa c’entra, quello ha scritto che mio padre era un sorta di pazzo scatenato». Loris non l’accetta: «No, non era quella l’intenzione. Nell’articolo non ha scritto quello». An- gelo certifica: «Era quello». Ma Loris vuole esprimere il senso del discorso: «Sì ma la sentenza di quel giudice, quello che vi ha dato ragione sulla diffamazione, è incredibile. Scrive che sul Moby Prince c’erano tre radar funzionanti. Se l’è inventati quel giudice, sai benissimo che ce n’era solo uno». Angelo guarda Giacomo. Lo dice con voce ferma: «A me in- teressava solo la cosa di papà» e lì emerge il ricordo di Ventan- ni. Lo sguardo va verso Loris, qualche decina di centimetri più in basso. «Quando tu dici lì nel film… l’incidente probatorio sulle eliche, dovresti anche ammetterlo, l’abbiamo fatto fare noi. Perché eravamo convinti che ci fosse un’avaria o qualcosa del genere… ti ricordi?». Loris fa un’espressione nervosa di assenso e Angelo lancia la questione: «Allora non puoi dire che noi per vent’anni non abbiamo detto che la Nav.ar.ma.». Loris stringe le spalle: «No vabbè». «No l’hai detto, cazzo» ribatte l’altro. Ma Loris vuole chiarire: «T’ho sentito anche dopo in un’in- tervista parlare male dell’armatore» figurati se non si era guar- dato tutte le interviste, «però inizialmente…». Angelo non raccoglie: «Inizialmente cosa? Io ero convinto, o dal timone o dalle eliche qualcosa doveva essere successo. Te l’ho sempre detto. Dai cazzo…». Loris cala la sua carta più alta: «Sì ma cazzo: “Onorato è responsabile di questa tragedia” lo vuoi di’?». Angelo incassa le spalle, forse ha cognizione del senso di cosa sta per dire: «Sì, ma se l’hanno archiviato e non è nean- che andato a processo cosa ci possiamo fare. Ci possiamo fare qualcosa?». L’ha detto. Anche questo l’ha detto. Francesca già dorme accanto a me, non so con chi condividere la notizia. Play, an- cora.

riportato sia nella Sentenza stessa che nei successivi atti processuali, da ultima la Richiesta di archiviazione della Procura di Livorno (5 maggio 2010)”.

411 Loris insiste, è la sua battaglia: «Intanto diciamolo». Là dove non sono arrivati con gli avvocati e i giudici possono arrivare con la voce e i media. Angelo fuga ogni dubbio: «Di quello ne siamo sempre stati convinti, da sempre». Loris ribatte: «Però devi ammettere che tutto è andato in conversione con quello che diceva l’armatore: l’armatore cercava la bomba e voi cer- cavate la bomba…». Angelo si appella al ragionevole dubbio: «Sì però scusa Loris, lì un’esplosione c’è stata, perché dobbia- mo far finta di niente? Andiamo a vederla bene». «Però io c’ho dei periti che dicono che quell’esplosione è stata da gas» replica l’altro. «E io altri che dicono altro… è possibile che dopo vent’anni non ci sia qualcuno che dica è così perché è così?». Loris ha la sua spiegazione: «Perché in quel processo Ange- lo di certezze non ne abbiamo mai avute. È come la questione c’era la nebbia o non c’era la nebbia...». Lui raccoglie: «È così infatti, è la stessa cosa». Loris prosegue: «...Però ci sono un sacco di testimonianze che dicono, uscendo dal porto via mare, che la nebbia l’hanno trovata, non possono essere tutti briai: “sono tornato in porto perché c’era la nebbia”…». Angelo ha la sua risposta: «Perché mezz’ora dopo è tutto invaso da nebbia e fumo, si sa, lo dicono quelli che partono dopo». Loris non finisce di inspirare la sigaretta: «Non tutti, il pe- schereccio Delfino lo dice prima che c’era la nebbia, avvisa prima». Ma anche in questo Angelo ha la sua risposta: «Però tu devi anche sapere che stranamente sono solo i pescherecci a dire che prima c’era la nebbia e stranamente dopo c’è stata la pax tra pescherecci e Capitaneria». «Certo» ribadisce l’altro, «quello lo dice anche Firenze132 che ci sono testimonianze palesemente false… ma ce ne sono an- che altre, troppe, in quella direzione». Angelo raccoglie e ribatte: «E il video D’Alesio? Basta vede- re quello… sono le basi. Perché non è il lato incendiato quello

132 La Corte di Appello, ndr

412 che si vede? Il lato incendiato è quello a mare. Basterebbe quello. E lo vedi. Non c’è nebbia né fuoco da questa parte». Il suo busto cerca il consenso di Loris. Quella è un’evidenza. Non può negarla. Ma lui ribatte: «Perché tu sei convinto che il Moby tornasse indietro, io no». «No non è quello, ma se è venuto fuori dai processi che la petroliera aveva la prua a nord, il lato col fuoco dovrebbe essere quello davanti a D’Alesio giusto?». Silenzio assenso. Angelo riparte: «...E allora dov’è il fuoco? Perché è dietro? Perché è dall’altra parte!». Matematico. Logico. Ma Loris ha qualche dubbio: «Le immagini non sono molto chiare» e An- gelo allarga le braccia, sembrano due amici al bar che si sfot- tono sul rigore non dato dall’arbitro: «Dai Loris, lo vedrebbe anche un cieco. Quei poveracci della Fonit Cetra133 l’hanno detto e li hanno massacrati. Dai. Le evidenze sono queste. Tutto il resto è opinabile». Loris concorda. Gliela passa. Concordano inevitabilmente anche sulla pochezza del processo di primo grado. Concorda- no addirittura sulla falla nel traghetto fatta apposta per farlo dissequestrare e portare via da Livorno, quindi su quanto ha fatto Onorato a riguardo. Angelo si approccia ancora a Loris come un amico al bar: «...E quella storia che ha detto Saviano è vera o no?». «No» sancisce Loris, «ci sono le foto del Moby Prince in Turchia. Questa di Saviano è un’altra delle fantasie che si sono infilate nell’immaginario di questa vicenda: “la mafia che smal- tisce il Moby Prince nella campagne di Castelvolturno”134».

133 Periti incaricati di verificare i tracciati audio del canale 16 e le porzioni audio del Video D’Alesio. 134 Il dialogo si riferisce all’affermazione di Roberto Saviano presentata du- rante una trasmissione della RAI nel novembre 2007. Lo scrittore aveva ripreso una denuncia di Legambiente fatta qualche mese prima, dove l’organizzazione segnalava che il relitto del traghetto era stato smaltito illegalmente nella discarica So.ge.ri. di Castelvolturno, in provincia di Caserta. La discarica risultava adia- cente a quella di Bortolotto, che le inchieste della magistratura hanno certificato gestita per anni dal clan camorristico dei Casale; di qui l’equazione che vedeva quanto restava del Moby Prince sezionato e interrato dalla criminalità organiz- zata. La notizia si è rivelata poi priva di alcun fondamento.

413 Il dialogo prosegue, una sigaretta dopo l’altra. I tre pacchetti portati da Loris sono serviti e Angelo continua a liberarsi, cerca un confronto sulle sue convinzioni: «Ma poi il fatto che sull’Agip non sia salito nessuno, per fare una perizia… sono cose…» si aiuta con le mani, «se Superina dice “ho la prua a sud” ha la prua a sud. Se dice “Livorno ci vede con gli occhi”, Livorno lo vede con gli occhi, capito?». Giacomo si inserisce: «Però quella non è una frase che puoi prendere precisamente in quel senso. “Livorno ci vede con gli occhi” può voler dire anche altro. Che è vicino…». Angelo non la pensa in questo modo: «No Giacomo, per- ché lui poi dopo, quando gli dicono: “C’è nebbia?” risponde “Non lo so”. Ma come? Come fai a dire una cosa del genere? O c’è nebbia o non c’è». Loris si inserisce a sua volta: «Loro135 avevano tutto l’inte- resse a dire durante il processo che era scesa la nebbia dopo che potessero fare qualsiasi cosa. Ma non scordiamoci… noi, vedi Angelo» alza il tono, «noi abbiamo avuto la sfortuna di avere come primo giudice uno come Lamberti, che poi si è di- mostrato corruttibile, e questa doveva essere la cosa che salta agli occhi di tutti…». Angelo concorda: «Quella doveva essere la base, la base per riaprire il processo». Il freddo sembra iniziare a farsi sentire. L’alito di Loris, Gia- como e Angelo disegna nuvole pari a quelle del fumo liberato dalle loro bocche. Eppure nessuno di loro sembra aver voglia di chiudere questo confronto. Sembrano aver colto l’occasio- ne. Soprattutto Angelo: «Anche l’ultima riapertura, guardate che è stata scandalosa. Che poi tutto l’impianto era l’unica cosa che ci permetteva di riaprire il processo, capito? Perché purtroppo la verità è che il reato di omicidio colposo è pre- scritto. Quindi l’idea del traffico d’armi con la rada data in mano agli Americani era un buon appiglio. Ma Loris è stata scandalosa: hanno dato la perizia sull’Agip a uno che lavora per la SNAM!». «È come dare l’inchiesta sommaria in mano a un imputato,

135 L’equipaggio della petroliera, ndr

414 come hanno fatto all’inizio con Checcacci136» si accoda Loris. «Esatto. È così. È la stessa cosa» Angelo inspira. «Diciamo tutti le stesse cose… o no?». Loris si irrigidisce. Angelo ci riprova un secondo più tardi: «Non diciamo tutti le stesse cose?». Loris guarda in avanti: «Diciamo insieme che c’è qualcosa che non va». Angelo si avvicina: «Diciamo che tu sei stato bravissimo con quella cosa lì della memoria; non so come fai, io non ci sarei mai riuscito. Bisognava mettere insieme le due cose… la me- moria è importante, ma poi devi trovare anche il modo lega- le di riaprire questo processo, altrimenti saremo sempre lì a chiedere la verità e nessuno ce la darà». Sorrido. È il massimo ottenibile da quest’uomo. “Quella cosa lì della memoria...” è veramente il massimo che Angelo poteva partorire. Loris concorda con questa visione. Anche questo muretto è venuto giù. Ma Angelo vuole andare oltre. Vuole confrontarsi anche su altri temi: «Ricordiamoci che noi abbiamo le foto del Salone de Lux dove si vedono le manichette innestate. Questo vuol dire che lì hanno cercato di buttare acqua. Quindi sui tempi di sopravvivenza altro che dieci minuti come hanno detto loro – i giudici – … lì ci sono stati ore. Bastava vede- re Rodi sul ponte, Bertrand che l’hanno salvato dopo più di un’ora o Baldauf che era integro...». Loris si inserisce: «…E non gli hanno fatto l’autopsia». «Perché? Perché?» è la domanda retorica di Angelo. Loris alza le spalle: «Sì Angelo, però oggi su queste cose ti tagliano le gambe. Ora per il Costa Concordia dicono addi- rittura che i tempi di sopravvivenza di un uomo in mare con il giubbotto di salvataggio è di dieci-quindici minuti. Per via dell’acqua fredda. Come è successo a noi, vedi il caso di Espo- sito che si era buttato in mare. Sono riusciti a dire che è morto in dieci minuti anche lui. E ora i periti dicono lo stesso per Costa Concordia». Certi muri di gomma si rinnovano col tem- po. Angelo si volta verso Giacomo, cerca di includerlo nella

136 Vedi il capitolo “La ricostruzione dei magistrati”.

415 discussione: «Però ragioniamo un attimo di questa cosa: cosa c’entrano i tempi di sopravvivenza con le cause della collisio- ne? Nulla, no? E allora perché si sono messi tutti d’accordo? Perché si sono messi tutti d’accordo per dire: son morti tutti è stato un incidente?». «La mia posizione» dice Loris, «è che si sono messi tutti d’accordo perché Capitaneria, Agip e armatore c’hanno mes- so i miliardi e si sono comprati tutti, dal giudice in poi». Lo dice così, davanti alle camere, senza problemi. Quest’uomo non ha paura di niente, sente di non aver niente da perdere. Angelo contrae il volto: «Eh ma non basta». La molla inizia a fare balzi: «‘Un basta? ‘Un basta?». Rido. Francesca si sveglia: «Sei ancora lì?». «Franci non ci puoi credere. Stanno parlando come degli amici in un bar. Questo dialogo è bellissimo. Sarà un proble- ma montarlo. Togliere dei pezzi». Lei accenna un sorriso con gli occhi ancora chiusi: «Sì, sì, ora mi giro, tua figlia qui non ne vuole sapere che io stia girata da questo lato». È vero. La bambina non sostiene che Francesca stia a pancia in su o sul fianco sinistro. Abbiamo già un carattere nella pancia. Come quello di Giacomo che si inserisce nel discorso: «Soprattutto dovevano coprire le inadempienze della Capitaneria. È logico che se dici che son morti tutti in venti minuti loro non pote- vano farci niente». «Sì questo è vero, ma perché hanno messo su tutta questa catena enorme?» chiede Angelo. La verità è l’assenza dell’assurdo. Perché per la nostra testa non esiste una verità non raccontabile. E si può raccontare solo qualcosa che ha un senso. Allora tanti piccoli elementi diventano una prova. Per Angelo la verità diventa chiara: «Poi all’inizio non dimentichiamoci che l’acqua sul traghetto non l’hanno mai buttata. Poi anche quando l’hanno trovato il tra- ghetto non dirottano tutti i rimorchiatori lì. Ma li rimandano dalla petroliera. L’ha scritto Mattera sul brogliaccio, mica è scemo, “mi dirottano sulla petroliera”». Loris ribatte: «Ma chi li doveva mandare lì? Albanese! E lui non ce li ha mandati! Capisci che a tutte queste cose si è som- mata l’incompetenza di questa gente...».

416 Angelo non può accettarlo: «Non è incompetenza Loris. Quando trovi il traghetto in fiamme tu devi mandarci i rimor- chiatori! Non può essere solo inefficienza. Lì erano già d’ac- cordo. I vigili del fuoco perché non sono saliti? Perché “non potevano salire”. Ma dai? Se già dalla notte c’era la copertura, c’è qualcosa di più. È troppo grossa, troppo grossa. Trovi il traghetto in fiamme e non ci mandi tutti i rimorchiatori?». Mi torna a mente il processo, le relazioni degli equipaggi dei rimorchiatori che prestarono soccorso, senza alcun coordina- mento della Capitaneria. Quelle persone hanno sempre testi- moniato di aver buttato acqua sul traghetto e in effetti anche il locale eliche è stato trovato pieno d’acqua, per l’operazione di spegnimento. Allora perché quella memoria è lì? Perché per Angelo sul traghetto non dovrebbero aver buttato acqua? Perché quella è l’ulteriore quadratura del cerchio. Perché quel solco è segnato. E allora le verità dichiarate diventano bugie, l’assenza di coordinamento un complotto. D’altronde il ma- teriale è seriamente adatto e lui lo ribadisce ai presenti: «Non vi dimenticate poi che subito dopo il may day non è vero che non chiamano il Moby Prince. L’operatore di Livorno Radio chiama il Moby Prince: “Moby Prince da Livorno mi ricevi?”. È appena successa la collisione... non gli risponde e “chi se ne frega”? Ma dai? Non ci sta! Non è possibile! C’è per forza il marcio dentro. È impensabile». È un fiume in piena: «Ricor- dati anche che, come tutti i marittimi sanno, in sala macchine ci sono delle vie di fuga per gli incendi. Quindi addirittura qualcuno dei marittimi pensava di trovare qualcuno vivo den- tro la sala macchine. Mi diceva: “Santini vedrai si sarà messo da qualche parte”. Sono saliti due giorni dopo nel traghetto! Dai cazzo. È una cosa incredibile!». Addirittura. Angelo è arrivato fino a questo punto. Il com- plotto di cui parla la sua memoria è talmente grande che i soc- corritori non sono saliti nel traghetto fino al momento in cui erano sicuri di non trovarci più qualcuno vivo. Oramai vuota il sacco fino in fondo: «L’inefficienza è all’inizio. Ma dopo c’è qualcos’altro. Albanese ci deve raccontare…». Loris chiude il discorso, caustico: «Il problema è che per me non è possibile fa’ mori’ 140 persone per un traffico d’armi».

417 «E invece può essere Loris, può essere» ribatte Angelo, «e la Theresa? Cosa cazzo c’entra la Theresa? Guarda che ci sono un sacco di cose allucinanti. Non possiamo far finta di niente. Non possiamo credere che tutto questo casino… a bordo del traghetto siano impazziti e siano andati addosso alla petrolie- ra. Non ha nessun senso!». Loris scuote la testa, Giacomo esplicita il suo punto: «Tu pen- si che qualche portuale non parlava se c’era un reale traffico d’armi nella zona? Ricordati che sei a Livorno, non a Genova». Angelo ha una () spiegazione anche () per questo: «Infatti qualcuno ha parlato: Gentile cos’è? Scemo? Hanno cercato di farlo passar per scemo ma io me lo ricordo quando venne al processo. Mi sono riletto tutti i verbali. Lui ha detto esplicita- mente “traffico d’armi”137».

137 Cesare Pasquale Gentile, all’epoca dei fatti Tenente della Guardia di Fi- nanza, prestò soccorso la notte della strage del Moby Prince, in qualità di Co- mandante della motovedetta 5808. Depose al Processo Moby Prince il 15 maggio 1996 e dopo un mese fu riconvo- cato per chiarimenti. Infatti la prima deposizione di Cesare Gentile aveva destato notevole scalpore per tre passaggi: 1. il primo relativo all’acquisizione degli estratti del giornale di chiesuola e dell’estratto del giornale della sala operativa che Gentile certificò trasmessi in data 12 Aprile alla Procura e però non erano stati inseriti nella documentazione dibattimentale; 2. la descrizione dell’intervento di soccorso operato dalla motovedetta dove il Ten. Gentile segnalava “ho conosciuto il punto di fonda della petroliera alle 22 e 45, perché alle 22 e 40 sono uscito dall’imboccatura sud del porto di Livorno… era una giornata chiarissima ed ho constatato la posizione delle varie navi in rada. Ho visto a nord che c’era una barca che imbarcava le armi [...] mentre a nord c’era una nave grossa, illuminata, che era quella che stava facendo il carico delle armi. Questo lo ricordo con precisione”; 3. la descrizione dell’orientamento della prua dell’Agip Abruzzo: “prua 270° (ovest)”. Nella sua successiva deposizione Cesare Gentile confermò tutto quanto prece- dentemente segnalato. Nel novembre del 2006 il finanziere, ormai collocato a riposo, è stato riascoltato dai procuratori che hanno realizzato l’inchiesta-bis sul Moby Prince. In questa occasione Cesare Gentile ha confermato per lo più tutto quanto precedente- mente dichiarato con una sola, sensibile, differenza relativa alla dichiarazione circa la presenza di “traffico di armi” la notte della strage. In pratica Gentile ha sostenuto che nei giorni precedenti aveva osservato una nave militare americana intenta a raccogliere alcune chiatte con armamenti, in

418 Loris non ci sta: «Gentile è uno che ha cambiato versio- ne parecchie volte, un altro di quelli che si presentava “io so la verità”. Come Roffi138. Abbi pazienza Angelo. Ci sono dei personaggi in questa vicenda… te non mi puoi dire Roffi è il depositario della verità». Angelo non capisce. Io sì. Per Loris tutto può essere giudi- cabile. Come ringraziare persone che a detta sua non c’entra- no con la ricerca di verità. E lo chiarisce: «Spettacolo teatra- le139: si ringrazia Roffi per il contributo dato alla ricerca della verità? Ma via? Roffi?». Angelo continua a non capire il nesso: «Cosa c’entra adesso Roffi?». «Parlo dello spettacolo…». Angelo non capisce, non condivide, sono altri piani: «Ma che te ne frega di quello? Loro hanno parlato con Roffi, rin- graziano Roffi». «Sì Angelo che lo ringrazi va bene, ma che tu mi scrivi che lo si ringrazia per il contributo dato alla ricerca della verità al- lora è diverso». La memoria è una cartina tornasole. Qualcosa emerge e si segnala. Ha lasciato il segno. Loris non accetta segni della storia che con la storia non c’entrano: «Roffi ha fatto passare l’idea di essere un martire di questa vicenda. Che gli avevano dato le note di demerito per via del suo cercare la verità contro Albanese, mentre le note di demerito da Alba- nese le aveva da molto prima».

pieno giorno. La stessa nave battente bandiera americana era presente la notte del disastro nella zona nord – opposta a quella dove ci fu la collisione – e Cesare Gentile riferisce quindi una sorta di qui pro quo nella sua dichiarazione: “Forse siccome il giorno prima ho visto che imbarcavano le chiatte – con le armi, ndr – , però quel giorno lì nel modo più assoluto non stava facendo nessuna operazio- ne, ecco, mi sarò riferito a quel giorno prima che ho visto le chiatte, però quel giorno nessun movimento di armi”. (Verbale delle dichiarazioni rese da Cesare Pasquale Gentile nel novembre 2006, p. 16). 138 Renato Roffi, all’epoca dei fatti era Capo sezione della sicurezza della navigazione per la Capitaneria di Porto di Livorno. Questo ruolo concerneva essenzialmente la verifica degli apparati di sicurezza di bordo, in concorso con il R.I.N.A.. 139 Moby 491, 2011

419 La verità. Cos’è la verità? È il ricordo di un momento? È qualcosa di scritto? È ciò di cui ci convinciamo? Angelo cer- ca di trovare nuovamente del margine di discussione e con- fronto. L’occasione è troppo importante per lasciarla andare dietro alle quisquiglie di questa vicenda: «Dobbiamo trovare qualcuno che mette tutte queste cose insieme e cerca di inda- gare… dove lo troviamo?». Giacomo resta non convinto: «Sì ma se tu cerchi di riaprire un processo sul Moby Prince non puoi basarti su tesi come quelle che sono state presentate». Angelo è rimasto colpito. Chiede lumi: «È innegabile che quella sera a Livorno ci fossero navi cariche di armi». Ma Gia- como si è già dato da tempo la risposta: «Sì ma a Livorno ci sono sempre navi cariche di armi. Quello è un aggrappo». Angelo gli si avvicina: «Ma quello era il modo per riaprire, perché tu devi pensare che non puoi riaprire oggi parlando della posizione dell’Agip… è tutto prescritto. Infatti il GIP, Merani, ce l’ha detto: «Tutti i reati che dite voi sono prescritti. Il traffico d’armi non esiste». L’appiglio era quello: la rada in mano agli Americani, da lì ripartono le indagini. Dovevamo passare per forza da Livorno. Per competenza. L’unica è se un magistrato dichiara che è stata una “strage”. Bastava un input giusto e si riapriva tutto il processo. Adesso abbiamo le mani legate. Se vai a Milano, a Roma… gli porto il faldone: “C’è stata una strage a Livorno nel 1991” con quali competenze operano? Ti prendono le carte e ti mandano a Livorno. Dove abbiamo visto che dopo vent’anni i magistrati sono nuovi ma è rimasto tutto uguale. Come quando c’era Cardi che rideva con gli avvocati della SNAM». Freddo. Quanto freddo. Quanto sono vere queste parole e quanto annichiliscono la democrazia. L’istituzione difen- de l’istituzione. Queste tre persone sono solo dei cittadini. E questo accade a chi è solo cittadino e cittadino solo. Guardo il time code del filmato. Dovrebbero essere state circa le 19:00. Angelo guarda in basso, le parole sfilano via come un bam- bino che si divincola dai genitori per andare verso il mare: «Secondo me quello che dovremmo fare noi tutti familiari, poi ognuno la pensa come crede ci mancherebbe altro… è…

420 riunirsi e trovare il modo di riaprire la cosa». Loris guarda in avanti. Angelo si ferma, lo guarda e aggiun- ge: «Senza fare le divisioni che hanno rotto le palle, no?». Loris si produce in un’espressione unica e si ferma. Lo guar- da per un attimo, poi volge ancora lo sguardo in avanti: «‘Un possiamo nemmeno fa’ le moltiplicazioni per forza». La battuta non riesce a perderla nemmeno qui. Angelo ci riprova, torna a guardarlo: «Tu che hai più il polso della gente cosa ne pensi?». Uno, due, tre secondi. Poi il verdetto: «Sì sì, no… io credo che la verità sia una sola e a quella dovremmo arrivare». Angelo propone di unirsi. È sincero. Loris guarda in avanti. La verità, quella che lui racconta da tanti anni, è una. Mancano dei tasselli. Manca ancora il prima. Quel perché della collisione, quel come si accordarono per salvare tutti in sede processuale, ma il grosso per lui è già tutto lì, davanti agli occhi. Dovranno discuterne, capire. Ma questi sono aspetti successivi. Un anno e mezzo fa, quando conobbi queste persone, solo l’idea di un riavvicinamento era certificabile come un’utopia. Poche ore fa Loris e Angelo erano lì, a venti centimetri l’uno dall’altro, intenti a discorrere del riunirsi per un’ultima battaglia comu- ne. Mi emoziono. Quale persona, informata dei fatti, davanti a tutto questo potrebbe restare in silenzio? Questi due uomini, così lontani per estrazione sociale, idee relazionali, sensibilità sono lì a compiere uno sforzo enorme, nell’atto di superare se stessi, per chiudere finalmente questa lunga e drammatica vicenda. Se la meritano questa verità. Se la meritano. Scorro il filmato. Il dibattito è andato avanti, domani ci sarà il tempo di ascoltarlo con cura e prendere appunti. Ma ora è veramente tardi. La sveglia segna le 5:30. Tra quattro ore dovrò essere sotto il B&B dove alloggiano Mauro e Antonella per portarli all’aeroporto di Pisa. Vado per chiudere tutto, ma mi tornano in mente le parole del Vito: “France’, ma come fini- sce questo documentario?”. A detta sua Loris, Angelo e Giaco- mo avevano chiesto il piacere di un po’ di dibattito a telecamere spente. Quindi gli ultimi secondi dell’ultima clip dovrebbero con- tenere quella scena. La trovo. Clicco l’ultimo play. Angelo, con l’ennesima sigaretta in bocca, guarda Giacomo con lo sguardo

421 sincero: «È pazzesco ci sbatti la testa. Poi, capito? Esci fuori di te- sta davvero...». La nuvola di fumo raccoglie la luce della lampada alle loro spalle: «È dura ragazzi, è durissima». Loris annuisce, fuo- ri campo. Probabilmente è ripreso da Gabriel. Pochi secondi di silenzio poi si torna a sentire la sua voce, con tono ironico chiede: «Ti sei stancato?» al Vito che doveva essere inginocchiato lì, da- vanti a lui, col braccio teso a sostenere il microfono direzionale. Angelo guarda in camera, con un’espressione da ragazzo, pura: «Adesso basta ragazzi, dai… dateci cinque minuti di pausa». Lo chiede sorridendo. Con lo sguardo complice verso Giacomo. Alessio abbassa la camera ai suoi piedi. Il film è finito. La storia continua. Con la troupe lontana Angelo, Loris e Giacomo hanno continuato a parlare, per circa quaranta minuti. Di quanto si sono detti non restano tracce se non nelle loro memorie. Poche ore dopo la visione di quell’ultima scena, sono in mac- china con Antonella e Mauro per portarli all’aeroporto. Parliamo di questo progetto. Dei suoi intenti. Di dove ha portato ognuno dei partecipanti. Parliamo di come effettivamente già in un anno Federico sia cambiato e di quanto questo documentario possa rappresentare per lui un bel ricordo di sé, dei suoi genitori e dei suoi nonni. A distanza di un mese, nello scrivere questo capitolo, ricordo la sensazione di aver avvertito in Mauro e Antonella un senso di contentezza. Di un’avventura finita bene. Durante il viaggio Mauro mi ha fatto poche domande sul dialogo tra Loris e Angelo avvenuto la sera prima; ci vuo- le speranza, ma non bisogna accumulare troppe aspettative. Mauro, infondo, mi ha già mostrato più volte il senso pro- fondo del suo messaggio. Con l’auto già vicina al parcheggio dell’aeroporto mi dice: «Poi vedrai Francesco, quando divente- rai padre ti cambierà il modo di vedere tutto. È un’esperienza incredibile. Sono contento che tu presto inizierai a provarla». Scendiamo. Un abbraccio e la loro figura, unita, si incammina verso il gate: «Quando tornate in Sardegna chiamami. Dove- te per forza passare a trovarci». Grazie. Con la mano alzata per salutare mi escono le prime parole prese dal cassetto: «Lo stesso per voi e un bacio a Federico». Sono le 7:10 di lunedì 23 gennaio 2012. A Pisa c’è quasi il sole. La nebbia di ieri è solo un vago ricordo.

422 29. RITORNO ALLA VITA

“Il nostro più grande vanto non è non cadere mai, ma rialzarci ogni volta che cadiamo”. Co n f u c i o , 551-479 a.C.

Il documentario dev’essere pronto per il 29 febbraio 2012, data limite in cui dobbiamo consegnare alla Regione Tosca- na rendicontazione e copie dell’opera. Oramai ci siamo. Ven- tanni è quello. Le parti integrate con quanto accaduto il 22 gennaio sono lì a raccontare il senso di questo percorso, ma la mia testa è altrove: il sette di marzo Francesca finisce il tempo e siamo in attesa frenetica dell’arrivo di quell’esserino che, soli sette mesi fa, ci aveva mostrato battere con forza il suo piccolo cuore. In queste giornate ricevo spesso le telefonate di Loris. Si sincera dello stato di Francesca. Vuole essere informato. Così Ivanna, che mi scrive via sms. Ci siamo confrontati poco su quanto è accaduto il 22 gennaio: un silenzio di complice ri- spetto verso un percorso che ora deve trovare da solo la forza di andare avanti. Il mio compito rispetto all’avvicinare gli uni verso gli altri è infatti arrivato a termine. Ora, con l’atteg- giamento di un agricoltore che ha prima preparato il terreno e poi seminato, attendo la nascita del germoglio; un evento dove il mio potere è concluso e tutto dipende da altre condi- zioni: la forza della pianta, il clima, la distrazione di qualche animale che potrebbe evitare di mangiarsela appena nata. Manca ormai un mese alla proiezione del 10 aprile, possiamo solo limare sul realizzato. Un tocco qui, qualche altro là. Ma il film, quello che sarà visto, è lì, nel computer di Andrea, pronto per il master finale da affidare al proiezionista. Gabriel, vista la mia impossibilità a muovermi nell’ultima settimana prima della data presunta del parto, va a Livorno per le prove gene- rali. Ha con sé la copia in dvd e mi racconta telefonicamente di una certa emozione quando ha visto le immagini scorrere

423 sul grande schermo del Cinema 4 Mori. Seduti nelle prime file a testare la resa sono rimasti alcuni addetti del Comune, tra cui Antonietta Squillante della Livorno Film Commission e soprattutto Loris. È la prima volta che davanti ai suoi occhi c’è il film compiuto, con le parti registrate il 22 gennaio. Ave- vo chiesto a Gabriel di lasciargliene copia e lo sento in serata per un commento. È rimasto contento, nonostante la parte finale metta molto in gioco la figura sua e di Angelo. Sarà importante verificare come reagiranno il resto dei familiari delle vittime durante la proiezione di quel dialogo conclusivo. Si ipotizza uno scenario di unificazione nella prospettiva di una riapertura comune del processo. Il quadro è tutt’altro che semplice da metabolizzare e il 10 aprile è già una giornata ca- rica di emozioni. Poi ancora siamo nell’universo dei “se” e dei “ma”. Non c’è niente di concreto. Loris e Angelo non si sono ancora risentiti dopo quanto è accaduto il 22 gennaio. Il proiezionista del Cinema 4 Mori suggerisce a Gabriel la possibilità di proiettare il film in Blue Ray. Il formato è gesti- bile con le nostre attrezzature di authoring, ma non abbiamo il masterizzatore. Gabriel mi chiede lumi al telefono. «Lo pren- do io più avanti» rispondo, «tanto manca ancora un mese». Lui resta un attimo in silenzio. Quel giorno non ci sarà. No- nostante il suo tentativo di aiutarmi il più possibile prima della partenza per il Cile, le due condizioni confliggono. Il tempo è una variabile indomabile. Come dice un amico, “non puoi combattere contro l’invisibile”. Venerdì 9 marzo le contrazioni si fanno più forti. Appunto su un post-it tutti gli orari, per capirne la frequenza. La signo- ra Pina, docente del corso pre-parto, ci ha caldamente invitato a rimanere a casa fino a tre minuti tra una contrazione e l’altra, per “vivere al meglio il tutto”. Scrivo 01:12. Ne arriva un’al- tra: 01:15. «A quanto siamo?» mi chiede Francesca ancora in fase di rilascio. «Tre minuti, come quella di prima, ma sono irregolari». Altra serie: 01:17, 01:19, 01:23. Lei va in bagno: «Franci mi sa che mi si sono rotte le acque». Raggiungiamo la macchina con una eccitazione sincera e tonificante. Lungo il breve tragitto per l’ospedale teniamo conto di altre contrazio- ni, sempre irregolari, ma se quelle erano le acque allora forse

424 ci siamo. Con un filo di voce Francesca mi dice: «Speriamo siano le buone, anche perché se queste sono quelle prodromi- che allora non voglio pensare cosa siano quelle del dilatante». Arriviamo in dieci minuti all’O.P.A., l’ospedale d’avanguardia posto in questa città d’area economica depressa, e un’ostetrica gentile ci conduce nella stanza delle visite: «Intanto facciamo il monitoraggio e poi arriva la dottoressa che ti controlla». Pochi gesti e l’eco pulsante del monitoraggio inizia a risuona- re nella stanza: tututun, tututun, tututun. Francesca sorride. Nonostante la fatica forse ci siamo. Dopo qualche minuto entra infatti la dottoressa. La visita col tampone conferma l’ipotesi di rottura delle acque: «Dobbiamo ricoverarla, ancora le contrazioni non sono quelle giuste, ma è possibile che in poco tempo si stabilizzino. Intanto le faremo l’antibiotico». La signora mi guarda oltre le lenti degli occhiali e tenta una mediazione con il regolamento: «Lei può rimanere ancora un po’ qui, ma se la situazione resta questa dovrebbe andare a casa e tornare domani mattina». Domenica 11 marzo, in serata, io e Francesca siamo di nuo- vo soli nella stanza del monitoraggio. Sono passate quasi 48 ore dalla rottura delle acque e la bambina continua a non voler uscire. Si prospetta così l’idea di un cesareo, ma Francesca, nonostante lo sfinimento di questo lungo periodo di pre-par- to, vorrebbe evitarlo. Mentre la compagna di stanza inizia a familiarizzare con la sua nuova arrivata, noi iniziamo a fare tre ore di sollevamenti e accovacciamenti sul letto d’ospedale. Francesca non riesce più a rialzarsi da sola e soprattutto le fa molto male la zona lombare della schiena. Tre ore passano così: massaggi, sol- levamenti, carponi e respirazioni affannate. «Dai amore, dai. Sei bravissima». Lei si sincera dei tempi col volto stremato: «Quanto siamo?». Cinque minuti, poi quattro, poi di nuovo cinque. La variabile è la regolarità: «Sono regolari, stai tran- quilla». Lei fa una smorfia: «Non ce la faccio più». Finalmente, intorno a mezzanotte, la ginecologa dà l’ok per il trasferimento in sala parto. Ci siamo. Le contrazioni sono ancora irregolari ma la dilatazione è iniziata. Si rinnova l’ec- citazione di quando siamo saliti in macchina per arrivare in

425 ospedale. Il tragitto fino alla sala parto ci appare come un’oasi miracolosa dopo un lungo cammino nel deserto. La dottores- sa l’aveva chiarito a Francesca prima di salire: «Noi ci provia- mo, ma devi fare l’epidurale perché sei troppo stanca. Non dormi da quasi quarantotto ore». Lei, con la paura di eventuali reazioni allergiche, aveva chiesto almeno un colloquio esplica- tivo con l’anestesista. Il colloquio avviene con me fuori dalla porta e l’iniezione già nelle mani del giovane anestesista. Dopo cinque minuti Francesca è colta dal sonno. Io mi siedo accanto al macchinario del monitoraggio posto alla destra del suo letto. Osservo i tracciati delle contrazioni disegnare una catena montuosa lunga quanto l’Appennino, mentre lei dorme pacifica su un fianco. Avevamo pensato a tutt’altro per questo parto e invece questa è la vita: non sei tu che decidi, puoi solo cercare di partecipare con accortezza. Con la testa appoggiata agli infissi di alluminio mi addormen- to anch’io. Un sonno cullato dal tutututun del monitoraggio che continua a disegnare ignote catene montuose. Ad un tratto entrano in diversi nella stanza, c’è qualcosa nel monitoraggio che non va: la bambina sta perdendo un po’ di battiti. Decidono di mettere l’ossigeno a Francesca e ac- cellerare il tutto. Pochi interminabili secondi e quel cavolo di numerino dei battiti ricomincia a salire. Sale di cinque, dieci… arriva al punto di stabilità atteso da chi è nella stanza. Guardo così l’ora, sono le quattro e qualcosa. Fuori l’aria della notte è scalfita dalle luci dei lampioni. Restiamo nella sala parto io, Francesca e l’ostetrica. Lei inizia a tirare fuori una lunga serie di utensili e ammennicoli. Una routine per noi inedita. Intorno a noi c’è tanto verde: il verde dei camici, il verde delle traversine, il verde delle coperte. Francesca inizia a spin- gere. Ha recuperato parte delle forze, ma ancora non è suffi- ciente. Le tornano a dare l’ossigeno, tutto diventa concitato. «Dai amore, sei bravissima, sei bravissima, stai tranquilla» le sussurro nell’orecchio tenendole la mascherina. Lei spinge, tende il collo in un atto di sforzo estremo e poi rilascia. Non basta. La ginecologa accenna a una mossa che le praticherà. Nemmeno abbiamo il tempo di capire e lei avvicina la scaletta

426 al lettino: «Come si chiamerà questa bambina?» chiede lan- ciandosi a peso morto sulla parte alta dello stomaco di Fran- cesca. Lei urla. Urla con tutta la forza dell’universo: «Anita! Anita!». Ci siamo quasi, il dolore è stato immenso, ma ancora la bambina non è uscita. La manovra viene compiuta altre due volte, Francesca urla come mai avevo sperato di sentirla ur- lare. Si stringe a me, mi annienta il dito con la pressione della fede. «Bastaaaa! Bastaaaa!» e spinge. «Bastaaaa! Bastaaaa!» e spinge. Fino a quando qualcosa esce da lì sotto. Uno splen- dido folletto bluastro e capelluto viene preso, adagiato su un ripiano accanto al lettino e asciugato con uno dei tanti panni verdi. «La mia bambina» dice Francesca vedendosela portare un metro e mezzo più in là del suo corpo. È sempre stata lì, per nove mesi e ora è a una distanza siderale. L’assistente della sala parto le riporta la bambina. È lì vicino a noi. Esiste. Ed è l’essere, con sua madre, più bello del mondo. Gli occhi sono allungati e il cappellino obbligatorio che su- bito le hanno messo la rende ancor più simile a un folletto dei boschi. «Ciao, amore». Francesca la accarezza. Io le tocco il piedino. Mentre intorno a noi la fabbrica continua a gestire le procedure ordinarie, tutto sembra restituirci un’intimità fami- liare. Lei è lì. Esiste. È nata. E tutto il resto non conta. Conta quest’esserino. Conta il suo respiro. Contano i suoi grandi oc- chi scuri che guardano la sua mamma. Ad un tratto però un attrezzo inizia a suonare. Sono i battiti di Francesca, la pressione è bassissima e i battiti molto alti. Sta collassando. «Non vedo più niente» dice adagiandosi sul letti- no. Un’infermiera le prende la bambina e me la dà in braccio: «Lei tenga la bambina». Mi volto. C’è una sedia. Mi appoggio lì. Mentre una flebo di non so cosa restituisce Francesca al mondo dei vivi, io osservo quell’esserino immerso nel panno verde. «Ciao. Ciao tesoro». Le parlo. Le parlo come se potesse capire ogni frase. Lei si muove, piano, e mi guarda con i suoi grandi occhi scuri. Una vibrazione mi prende da dentro e trascina via quel mantello grigio fumo di Londra con cui avevo coperto tutto e tutti.

427 «Ciao Anita. Ciao. Ciao bambina mia. Che piacere conoscerti. Io sono Francesco, tuo babbo. Quello che ti cantava “Il cielo in una stanza”… te la ricordi?». Anita mi osserva. Mi ascolta. Mi sente. E io le intono la nostra canzone: «Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi in- finiti…». Dopo qualche minuto Francesca rinviene. Io prendo il cel- lulare, faccio una foto, poi un video e infine esco fuori per dare la notizia ai nonni accorsi. Quando loro sono dentro re- cupero la foto e vi associo un breve messaggio: “è nata Anita ed è già bellissima”. Invio l’MMS a cinquanta persone e tra queste Loris, Ivanna, Giacomo, Mauro e Angelo. L’MMS ar- riva senza immagine e senza testo. Misteri delle telecomunica- zioni. E quindi parte l’allarme. Loris si fa vivo, Ivanna a ruota. La condivisione con loro di quella gioia mi rende felice. Ma ancor più lo fa la commozione dei nonni e dei parenti vicini e lontani. È mattina. È la calda mattina del 12 marzo 2012. Torno dentro la sala parto, riguardo la mia famiglia. La vita è tornata, anzi è appena iniziata.

428 30. “DI”

“Il ricordo è un poco di eternità”. An t o n i o Po r c h i a , Voci, 1943

La luce della piccola bajour dell’Ikea illumina solo legger- mente il suo volto, stanco. Francesca tira su la bambina per l’ennesima volta. Anita ha ancora gli occhi chiusi ma sa dove andare a trovare il latte. Le osservo con un occhio solo, sdra- iato al mio posto, supino. Saranno le tre. Sarà la quinta volta che Francesca si sveglia, allunga le braccia, prende Anita, la porta al seno e resta semi-immobile con la schiena appoggiata sui cuscini. È un’immagine meravigliosa: la forza di lei, la na- turalezza della bambina, il senso di qualcosa che deve essere e punto. Guardo il cellulare appoggiato a terra. Sì, sono le tre. Ancora qualche ora distesi a letto, poi mi devo alzare. È il 5 aprile 2012 e alle 11:30 è prevista la conferenza stampa di presentazione di Ventanni. Sento un rumore “sinistro”. «Ecco…» la voce di lei, «Anita, allora? Lo vedi che ti ingozzi e poi vomiti? Franci mi vai a prendere per piacere un body? È zuppa… poi io mi cam- bio in qualche modo». Sorrido. Questa scena mi fa sempre sorridere. Mia figlia mangia con una voracità impressionante. Dieci minuti e secca un seno. Ma nel frattempo entra aria, tutto quel latte non serve e rigetta. Ogni notte partono body, magliette del pigiama di Francesca, spesso qualche lenzuolo o federa; anche se queste ultime attendono il mattino seguente per finire nel cestino della lavatrice. Aveva ragione Mauro. La genitorialità è qualcosa di meraviglioso. La maternità è qual- cosa di commovente. La forza di questa donna, l’assenza del sonno, la cura della bambina. È energia pulita allo stato puro. Una linfa vitale che sta sturando ogni vena del mio corpo. «Che ore sono Franci?» mi chiede lei. «Le tre». «Ok. Dai Anita, cerchiamo di dormire».

429 Anita finisce raggomitolata sull’avambraccio destro di Fran- cesca. Il braccio sinistro rende sicura la presa eretta e inizia la danza: “din dòn, campanòn, quattro vecchie sul balcòn… una che fila, una che taglia, una che fa cappelli di paglia…”. Le guardo. Torno a sorridere. Non avrei mai pensato che esistes- se una ragione tanto pregevole per non dormire. Cionono- stante questo primo quasi-mese con la bambina è stato duro. Capitava a volte di entrare in camera da letto e vedere France- sca piangere. “È normale” suggeriva sua madre. “È normale” ripeteva la mia. Eppure io sapevo che l’origine di quelle lacri- me aveva solo parzialmente a che vedere con quel che oggi si chiama “baby blues”; nonostante tutti gli sforzi non sono riu- scito a stare con lei e la bambina quanto avremmo desiderato. La mia assenza forzata causata dalla condizione della coope- rativa è per Francesca motivo di rabbia profonda e di fronte all’impotenza mia moglie ha uno sfogo a due livelli: implo- sione e pianto: «Qui tutti hanno puppato e ora che abbiamo bisogno noi questa è la risposta». Provo a calmarla: «Ognuno dà quel che ha Francy, sto cercando di fare il possibile». «Lo so infatti non ce l’ho con te, ce l’ho con altri». E via di lì moderate discussioni. Tentativi dialogici di sedare quella sua rabbia e soprattutto programmi giornalieri che provano a ri- muovere i richiami a quella corretta deduzione, senza riuscirci mai pienamente. Una cooperativa “one man band” significa dalla coda alle poste per una raccomandata alla gestione dei progetti, inclusi quelli di chi se n’è andato senza farsi troppe domande e senza garantire neanche le minime risposte. Az- zardo l’ennesima analisi: «Siamo precari Francy, le cose sono andate così, abbiamo commesso tanti errori, ci siamo fidati delle persone sbagliate. Però guarda quanta gente ci sta aiu- tando con la bambina. I miei, i tuoi. Prima forse pensavamo di dover costruire tutto da zero, con altre persone, invece una comunità l’avevamo già intorno». Francesca capisce. Racco- glie. Metabolizza. Ma non dimentica e non perdona. Insieme sentiamo il mondo ingiusto, la gente ingiusta, e lei ha difficol- tà ad accettare che spesso non possiamo farci niente. Come quando le raccontavo della vicenda Moby Prince e lei inor- ridiva. Un giorno mi disse: «Ma come hanno fatto a restare

430 tutti così calmi? Io a quella gente lì li avrei fatto la posta sotto casa». «Beh» replicai, «in realtà qualcuno si è anche incazzato e di brutto. Ricordo che Paola mi disse che un giorno andarono a parlare con Albanese e alla fine salì lei nella sua stanza. Lui si presentò con una faccia da funerale e disse di sentirsi la centoquarantunesima vittima del Moby Prince e lei, in tutta risposta, gli ha sputato in faccia». Il volto le si rilassò: «Ecco almeno quello! Almeno la soddisfazione a questa gente di po- terli fare qualcosa». Io capisco. Raccolgo. Metabolizzo. A volte abbiamo biso- gno di reazioni dirette per riequilibrare il tutto. A volte è suffi- ciente spostare lo sguardo altrove e Anita è l’occhio di bue che illumina solo la parte di palco più bella. Intorno a lei l’amore dei parenti, degli amici più stretti, persino dei vicini di casa. Come scrissi in un verso in inglese, “è più semplice trovare la giusta luce nel buio che distinguerla nel chiarore” e Anita sembra essere quella luce. Lontana da tutto quanto è proprio di questo mondo perverso e cervellotico. Lontana dai recuperi crediti infiniti, dall’estenuante ricerca di non prenderlo in quel posto per mano di fornitori “solidali” e pubblica amministra- zione, distante anni luce dalle tante farneticazioni dei politici nazionali e internazionali trascritte parzialmente nei giornali che stanno iniziando ad abbondare in casa nostra, portati dal nonno Pietro e da lui letti nelle pause tra una sessione di foto e l’altra alla prima, adorata, nipotina. In questi giorni penso spesso a Mauro e al senso del suo messaggio rispetto a Ventanni. L’esperienza diretta, come sempre, scolpisce ciò che la deduzione intellettiva tratteggia soltanto. Una famiglia felice è in grado di cambiare l’ordine delle priorità. Ti dà l’orizzonte principale su cui concentrare i tuoi sforzi per sentirti, in qualche modo, d’aver fatto il dovuto. Di dormire sereno. E oltre rimane solo il resto cui, contraria- mente a quanto pensavo, si può ma forse non si deve. Due giorni fa sono riuscito a ritagliarmi il tempo di andare a Livorno. Con la scusa delle prove per la proiezione del trai- ler lungo del documentario, richiesto da Loris per agevolare i giornalisti presenti in conferenza stampa, ho potuto fare un

431 piccolo tour allo scopo di chiedere ad alcuni gentili esercenti di affiggere le locandine di Ventanni che ho fatto stampare nei giorni scorsi. In giro per Livorno hanno già trovato posto i manifesti del 10 aprile: “Per non dimenticare” è il titolo di quel 70×100 dove ogni anno, sotto una fotografia che ritrae la testa del corteo guidata dallo striscione “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole!”, scorre il programma delle iniziati- ve organizzate dall’Associazione 140. Questa volta, alla terza voce, dopo la “Funzione Religiosa” delle 12, è riportata la se- guente indicazione: “ore 15:30 Teatro 4 Mori – Presentazione in anteprima nazionale del docu-film ″Ventanni″ di Francesco Sanna”. Quando ho letto questo passaggio, nell’immagine an- ticipata da Loris sul gruppo Facebook, diventato “Quelli che esigono la verità sul Moby Prince”, ho avvertito un senso di fastidio. Ventanni non è un film di Francesco Sanna. Ventanni è un film di Mediaxion. Ma ormai Loris aveva già dato la via alle stampe e restava ben poco da fare. Poi Loris è Loris. Se ha in mente qualcosa è difficile ottenere riaggiustamenti. A mente fredda però ho avuto modo di intuire il suo messaggio. Giorni fa infatti ho dovuto togliere la maschera finale all’orga- nizzazione e spiegargli il motivo per cui vedeva solo me () ar- rabattarmi su più fronti per quella proiezione. Il prodotto del mio senso di disagio era diventato così occasione di un ulte- riore riconoscimento reciproco. Infondo anche Loris è spesso solo a gestire il carico dell’attività dell’Associazione 140 e lui, come forse pochi altri, conosce pienamente le implicazioni di una certa tipologia del rappresentare. Ma la sua reazione è riuscita, al pari di altre occasioni, ad andare oltre: «France tanto ci siamo noi a organizzare per il 10 aprile, poi dopo si guarderà come fare per la distribuzione». Ventanni è diventato già loro, dei familiari, dell’associazione, di Loris stesso e per lui quel “di” iniziale era forse, solo, un modo di riconoscere la gerarchia dei ringraziamenti. La memoria ripesca così la scena di un anno fa, quando seduti al tavolo dove fu deciso che fossi io l’autore di Ventanni, Michele ci tenne a un’integrazione tra le clausole di quello che doveva essere il suo contratto di la- voro: «La decisione sulla firma del documentario è solo a mio insindacabile giudizio». Prima ancora di iniziare a lavorare e

432 dopo aver visto dimostrata la propria inefficienza nell’elabo- rare il soggetto di questo film, lui si preoccupava delle- fir me. Del “di”. Dell’immagine. Magari quel che sarebbe venuto fuori avrebbe potuto ledere la sua reputazione o magari no. E c’era da tutelarsi. Continuo a pensare che questo, insieme a tante altre sfumature poco velate di individualismo cronico e indisciplina, fanno della nostra una generazione storicamente fallita. Circa il senso di quel “di” ho comunque ricontattato Michele pochi giorni fa. Dopo mesi di rivendicazione tra av- vocati distanti dall’accaduto era stata tentata addirittura l’in- termediazione tra i nostri padri, conoscenti di vecchia data e colpiti da questa situazione di conflitto poco comprensibile per chi ha una certa maggioranza di capelli grigi in capo. Ave- vo chiarito di essere a disposizione per un confronto diretto, alla sola condizione che ci fosse una o più persone terze in grado di valutare con tranquillità le ragioni di entrambi e mo- derare la discussione. Ma questo incontro non è stato mai realizzato. Ho potuto far misurare civilmente Angelo Chessa, Loris Rispoli e Giacomo Sini. Ma non me e lui. Restava però aperta la questione della sua citazione nei titoli di coda e il suo avvocato aveva dato al nostro una risposta che a me non bastava. Michele aveva partecipato a Ventanni e mi sembrava corretto, come per altri, citarlo nei titoli di coda. Il problema era il come. Nonostante le parole dissuadenti dell’avvocato e di altri intorno, ho cercato così un formula in grado di rendere il giusto senso della sua partecipazione e gliel’ho proposta via email. La sua risposta è stata abbastanza eloquente. Il film era “suo” come “il senso registico”, dovrà essere “un giudice” a stabilire il torto subito, “parliamo due lingue diverse” eccetera eccetera. Fino a qualche mese fa sarebbe stato un problema insormontabile. Avrei cercato di convincerlo con un giro di mail di controrisposta. Avrei cercato di spiegare, appellarmi a una ragione e un linguaggio condivisi. Ma oggi è diverso. Oggi, la gente può essere così. Possiamo non trovarci, scon- trarci, finire davanti a un giudice per cose del genere. La vita è com’è, non come dovrebbe essere per me. Anche se lo leg- go come un ulteriore segno di una generazione storicamente fallita, pace. Tra poche ore c’è la conferenza stampa, Anita e

433 Francesca sono a casa, ognuno ha a disposizione le sue scelte, la sua esistenza, per tentare di dare un suo senso allo stato del tempo in cui vive. Mentre mi avvicino al casello autostradale di Livorno e pen- so a tutte queste cose, mi torna a mente la reazione dei miei parenti e amici più stretti al documentario. Hanno potuto ve- derlo in questi giorni, dopo avervi partecipato dietro le quinte ospitando la produzione nelle loro case, e mi hanno lasciato dei riscontri curiosi. Così come curiosa è stata la mia reazione a essi. Li ho ascoltati parlare di Ventanni, analizzarlo come un film e la cosa mi ha colpito. Ventanni, un film. Ventanni è an- che un film, infili il dvd premi play e guardi, ma loro vi si sono relazionati in diretta conseguenza al prodotto: chi parteggia per quel personaggio, chi per l’altro, chi ci ha dato un “sette, per i problemi di audio” e chi ha sentenziato un “io sono assolutamente dalla parte di Mauro”; qualcuno addirittura è rimasto colpito dal rivedere Loris dopo anni e ha espresso un commento di costume: “me lo ricordo quando successe: è invecchiato e poi non me lo sarei aspettato con tutti quei tatuaggi!”. La bulimia del racconto filmico, televisivo, fiction o docu-fiction, sta probabilmente dietro a questo effetto ane- stetizzante. Quasi il distacco del professionista. Siamo diven- tati consumatori professionisti di storie filmiche e anche se quello è un documentario e quelli là non sono attori, ma per- sone vere, mi è sembrato che quei miei parenti e amici, nono- stante il mio racconto su Ventanni, non stessero cogliendo il senso di questo progetto; non fossero entrate nella relazione empatica che speravo; non fossero arrivate alla reazione atte- sa. Il centro di Ventanni è l’idea di rendere il documentario uno strumento di dialogo tra persone. Averli fatti incontrare per suo tramite e aver messo al centro loro rispetto a tutto il resto, film incluso. Eppure questo, nel racconto di chi aveva visto in anteprima il documentario, arrivava, quando arrivava, solo dopo. Prima c’era il film. Prima era un film. E un film ti fa far due chiacchiere, ti fa passare qualche ora, ti intrattiene, al massimo avvia dell’opinione. E quando finisce c’è sempre tanto altro da vedere. Come nella scena finale di The Truman Show: “Cosa danno adesso?”. “Prendi la guida tv”. Tutta la

434 realtà davanti e dietro la macchina da presa era stata mangiata da quel mezzo così digerito dagli spettatori. Pago al casello. Tra un’ora dovrò presentare questo documentario e sono a pensare a queste cose. Lascia perdere, Francesco. Lascia per- dere. Eppure molta della distanza avuta con Michele forse aveva a che vedere con quello: aspettative diverse, differenti orizzonti. Arrivo nella sala stampa del Comune di Livorno, con una buona mezz’ora di anticipo. Nello spazio attiguo grandi tele d’epoca e un alto soffitto, molto istituzionale. Preparo il tutto, proiettore, computer, ma mancano le casse audio. L’impie- gato preposto all’assistenza suggerisce un “noleggio” da un collega che non c’è. Le casse arrivano e tutto è pronto. Ad un tratto compare Loris. Sotto il suo braccio un quaderno ad anelli con una scheda dedicata a tutte le iniziative: «Quest’an- no ho preparato anche le cartelline». Sorridiamo. Mi sembra relativamente tranquillo fino alla comparsa dei primi giornali- sti. Si sofferma con uno di loro, alto e distinto. Lui mi avvici- na, chiede del documentario e di poter avere copia del trailer lungo. Io inizio spiegando che ne ho solo quella copia ma, mentre il signore si distrae a salutare una collega, Loris mi si avvicina all’orecchio: «Daglielo, è Rai3». Cambio di program- ma: «Le posso dare il dvd che vedremo, finita la conferenza» diventa così la mia risposta e quando il signore si allontana leggermente Loris finisce di fornirmi le coordinate a riguar- do: «È Stefano Vidori, ci ha sempre seguiti, è stato uno dei primi a conoscerci e stai sicuro che se ti ha detto che lo manda in onda, lo manda in onda». Vedo comparire Maria Nudi de La Nazione, la vidi durante la conferenza stampa di Angelo e Luchino Chessa, un anno fa. Poi altri. Una giovane ragazza del Tirreno. Un volto di Gran- ducato Tv. Qualcuno che non conosco. A circa dieci minuti dall’inizio previsto entra nella sala Mario Tredici, l’Assessore alle Culture. Sono passati quasi due anni dal nostro incontro e non ho avuto più occasione di parlargli. La cosa non sembra averlo toccato. Prende possesso della sedia alla sinistra di Loris e introduce l’occasione. Da giornalista e politico sa condurre con tranquillità una situazione cui è chiaro non essersi troppo

435 preparato. Chiede scusa per l’assenza del Sindaco, impegnato a Roma a causa dei “ben noti impegni relativi al suo ruolo come rappresentante dell’Anci Nazionale”, e procede a un breve escursus del sostegno del Comune di Livorno alla causa portata avanti dall’Associazione 140 Familiari delle Vittime del Moby Prince. Tre minuti dopo Loris prende la parola. Il quaderno ad anelli blu è aperto davanti agli occhi, a ricordare le iniziative: «Come vedete e avevamo detto l’anno scorso, per noi il ventennale era un anniversario come tutti gli altri, infatti quest’anno ci sono più iniziative dell’anno scorso». Qualcuno annuisce, la giovane giornalista del Tirreno prende il maggior numero di appunti. Loris elenca, descrive, abbozza qualche riferimento storico al lungo percorso di alcune iniziative com- memorative, come la maratona, ma si vede che punta dritto verso una direzione chiamata Ventanni. «Poi quest’anno, come sapete già tutti, sarà presentato in anteprima nazionale questo documentario che noi abbiamo visto in anteprima. È un film toccante, molto emozionante che racconta le vite di quattro familiari delle vittime, in alcuni momenti vissuti nell’ultimo anno. Erano con noi a Roma, quando protestammo contro il processo breve, sono stati con noi a L’Aquila e a Viareggio». Loris fornisce alcuni riferimenti: chi sono i protagonisti, la sua impressione circa il loro ruolo espresso dal documentario. Ma tace sull’incontro finale e le sue risultanze. I giornalisti lo seguono, annuiscono, ma sembrano particolarmente concen- trati sul trailer. Vogliono vedere qualcosa di questo prodotto. Loris mi guarda, allarga la mano destra: «Ora cederei la parola a Francesco per dire qualcosa». Io ringrazio, faccio i convenevoli, esplicito alcuni punti pri- ma di proiettare il trailer lungo. In particolare due: ringrazio Loris e il resto dell’Associazione 140 per il sostegno organiz- zativo dato all’intero progetto e a questa giornata, ma mi per- metto un unico appunto: «Nel manifesto ha scritto “Ventan- ni, docu-film di Francesco Sanna”. Lì c’è un errore. Ventanni è un film di Mediaxion, un progetto realizzato da un collettivo che io ho diretto. Penso che dovremmo cercare, nel 2012, di andare oltre a certe idee sulla personalizzazione del diritto d’autore». Qualcuno appunta, resto certo che nulla di que-

436 sto sarà domani sui giornali e proseguo: «Lo scopo di questo progetto è stato riuscire a riunire persone divise, avvicinar- le attraverso questo documentario e, per certi versi, parte di questo obiettivo è stato raggiunto». Premo play, il trailer parte. Loris lo segue con sguardo attento. Ad un tratto compaiono le scene del dialogo finale con Angelo e Giacomo. Qualcosa, nella sua espressione, sembra contrarsi. L’ultima domanda di Angelo rivolta a lui, quella sulla riunione dei familiari, è la scena conclusiva. E nel montaggio presentato manca la rispo- sta. Indico all’addetto della sala di riaccendere le luci. Loris si volta, mi guarda quasi imbarazzato e dice: «C’hai messo anche quella…». I giornalisti più vicini alla vicenda hanno recepito il messaggio. Il senso di quel passaggio, quella storia privata del Moby Prince che nessuno, finora, aveva mai trattato in modo così diretto. La conferenza stampa si conclude con poche domande. C’è fretta di uscire vista l’ora e la prossima chiusura dell’edizione del giorno seguente. Il giornalista di Rai3 mi si avvicina, rac- coglie dalle mie mani il dvd e mi segnala, con sincero traspor- to, di aver colto il senso di questo documentario: «Sai è stata una tragedia enorme. Un qualcosa che non si riesce bene a spiegare con le parole, né con le immagini. Ma vedendo quel filmato ho capito che avete lavorato molto sulla relazione con loro – i familiari delle vittime – e avete provato a fare qualcosa di molto difficile: farli dialogare». La sua espressione aggiunge il resto: ci saremo veramente riusciti? Mario Tredici mi si avvi- cina all’orecchio con fare circospetto: «Il trailer dallo anche al Tirreno, perché sai questa vicenda negli anni è diventata solo per i familiari invece così magari si smuove qualcosa…». Il trailer è on-line. Libero e disponibile. Lui annuisce, con relati- vo trasporto. Loris, nel frattempo, ascolta, raccoglie i dettagli e lascia fare. A volte sembra possedere tutte le verità in tasca e chiudere fuori dalla porta chi la pensa diversamente. Altre volte ha un atteggiamento d’apertura difficile da coniugare col primo. E tre giorni fa ho avuto l’ulteriore modo di prenderne atto. Come ormai di prassi, per me onorevole, Loris mi gira in anteprima tutti i testi dei suoi interventi preparati per occa-

437 sioni particolari. Chiede un confronto e una correzione, prin- cipalmente sintattico grammaticale, perché lui scrive di get- to, così come gli viene; io faccio un’operazione da correttore bozze o, come si fanno chiamare ora nell’egemonico inglese, da “copy editor” e, per rispetto, non sono mai entrato nel merito dei concetti espressi. Il 2 aprile mi arriva però il testo dell’intervento che Loris vorrebbe leggere in aula consigliare, il 10 aprile: dopo i ringraziamenti e i passaggi mirati relativi al Costa Concordia e alla difesa della memoria della vicenda, non trovo cenno alla possibilità di riunione tra i familiari delle vittime. Solo un piccolo e polemico riferimento: “Certo chi voleva allontanare la verità ha avuto buon gioco dalla divisione delle parti civili, cercare obiettivi e colpevolezze diverse ha fatto il gioco della controparte, mentre noi discutevamo della nebbia e della bomba altri preconfezionavano una sentenza esemplare. Il giorno in cui supereremo le diverse ottiche sull’evento e punteremo insieme il dito sui veri responsabili sono certo che sapremo perché, sono convinto che la Giustizia riconoscerà le colpe di chi ha permesso per risparmiare sulla sicurezza che 140 persone perdessero la vita. Dovete darmi atto e chi mi ha ascoltato e seguito in questi anni lo sa, che io non ho mai smesso di dire che ci sono tre responsabili dietro e questo tragico evento: Renato Superina per quanto riguarda le responsabilità della petroliera, per la posizione alla fonda, perché in presenza di nebbia ha lasciato solo in plancia l’ufficiale meno esperto, perché pur avendolo visto non ha mai detto ai soccorsi che la nave in collisione era un traghetto; Sergio Albanese per le incom- petenze gli errori o gli orrori di quella notte per non aver mai svolto nemmeno per un attimo il suo ruolo di coordinatore dei soccorsi, per la mancata emulgazione di regolamenti che avrebbero impedito la collisione; Achille Onorato armatore delle moby lines propietaria del traghetto, per aver consentito a un traghetto che aveva un solo radar funzionante e non tre come sulla carta, per aver fatto viaggiare un mezzo con cali di potenza alla radio, con difetti a un motore, con difetti al mozzo dell’eliche che sbandava, con l’impianto antincendio disattivato. Questi per me, per molti di noi familiari sono i responsabili delle tragedia e della morte dei nostri familiari”.

438 Il messaggio era chiaro: qualcuno dall’altra parte ha inse- guito deduzioni sbagliate e quando smetterà di continuare a sostenerle allora sarà possibile guardare in una sola direzio- ne. Una direzione a quanto pare chiara e cristallina. Dietro il Moby Prince ci sono tre responsabili impuniti e Loris l’ha “sempre detto”. La mia risposta al messaggio, per la prima volta, ha unito al testo corretto una piccola nota. Fino alla fine non riesco a non provarci: “Sul merito del messaggio uno dei nodi più difficili da comprendere nel leggere il tutto, te lo dico in sincerità assoluta, è quale Verità manchi quando alla fine parli esplicitamente di responsabili, facendo riferimento diretto alla ricostruzione processuale. Questo è un piccolo suggerimento, fanne l’uso che vuoi. Spiegherei meglio questa verità che manca. Una conferma? Qualcosa per allargare le responsabilità ad altri? Questo perché aiuta anche chi deve scrivere o raccontare a spiegare i nodi ancora da sciogliere”. Loris sapeva dove volevo arrivare e lo scambio di email si è protratto. Se è già tutto chiaro e cristallino perché chiedere ancora la verità? Infondo quello sembrava un bisogno più di Angelo, perché l’unica verità realmente assente era rela- tiva alla corretta dinamica dell’incidente e per Loris quella non è mai stata una priorità. La mia poteva sembrare una provocazione, ma Loris mi conosce e riconosce e ha colto il senso della domanda fino a inserire una parte nuova nel suo intervento: “La verità, quella che vogliamo è di sapere perché di fronte a evi- denti responsabilità non si è voluto punire anzi si è fatto di tutto per minimizzare le responsabilità. Quelle dei soccorsi e di conseguenza del Comandante della Capitaneria falsando i dati sulla sopravviven- za, imponendoci la verità di una massa di persone morte immedia- tamente dopo la collisione; quelle dell’armatore disconoscendo le varie carenze del traghetto, e anche in presenza di queste non imputandole mai a scelte economiche ben precise della Navarma; quelle dell’agip giocando sull’orario di insorgenza della nebbia, 22,10 -22,15 per il personale della petroliera, 22,23 quando niente si poteva piu fare per evitare la collisione nella sentenza assolutiva. Se c’è stato un complotto come in questi anni qualcuno ha voluto far credere è stato fin dal momento in cui il moby prince è entrato in porto messo in

439 atto per salvare coloro che ripeterò fino alla noia mai sono saliti sul banco degli imputati”. Questa integrazione ha avviato un ulteriore dibattito. Scrissi a Loris che capivo. D’altronde nel documentario l’aveva detto chiaramente: secondo lui la non imputazione delle responsa- bilità chiare nella vicenda fu dovuta a un atto di corruzione da parte delle tre grandi realtà coinvolte – Nav.ar.ma, Snam e Ca- pitaneria – verso giudici e quant’altro. Però un tassello grande manca ancora: la dinamica dell’incidente. Loris me lo ha detto tante volte, a lui la dinamica non interessa così tanto, perché le motivazioni per cui il Moby Prince ha centrato l’Agip Abruz- zo non cancellano in alcun modo le responsabilità chiarite di Nav.ar.ma, Snam e Capitaneria. Tutte responsabilità relative a ciò che è accaduto immediatamente dopo la collisione. Ma qui subentra la mano tesa rispetto al punto descritto da Mauro nel documentario. Per Angelo è inevitabilmente importante capi- re la dinamica dell’incidente perché è su quella che si dichiara l’errore umano del padre e d’altronde è difficile dargli torto perché l’evento scatenante è la collisione. La mano tesa verso questo bisogno è il segnale di un riconoscimento. Angelo, il 22 gennaio, ha fatto ammenda per tanti passaggi, ma cercare la verità sulla dinamica della collisione non può essere un er- rore. Forse può apparire un’ossessione per la carenza di quelle informazioni centrali in grado di farla superare, ma non è un errore. Eppure, anche qui, Loris aveva una risposta basata sui fatti. Nella sentenza del processo parallelo per le manomis- sioni alla timoneria del Moby Prince – la manomissione fatta l’11 aprile 1991 dal nostromo del traghetto, quella note non a bordo per una licenza, su ordine di un funzionario della Nav. ar.ma – il giudice Belsito riporta un concetto semplice che co- noscevo bene: chi aveva interesse a manomettere lo stato dei luoghi aveva interesse ad allontanare l’accertamento della ve- rità. E di sicuro non era quella la manomissione più rilevante. Infatti sul Moby Prince fu fatto sparire il registro delle eliche kamewa, un supporto dalla cui lettura sarebbe stato possibile ricavare indicazioni sulla rotta del traghetto e sui movimenti prima e dopo la collisione. Chi aveva interesse a non far ca- pire la rotta e i movimenti del Moby Prince? Se quanto fatto

440 sparire non avesse fatto altro che confermare la “responsabili- tà” della plancia del traghetto, la manomissione è immotivata, perché tutti coloro che erano in plancia sono deceduti a se- guito della strage. Quindi possiamo supporre che sul registro delle eliche kamewa fosse segnalato qualcosa che chiamava in causa qualche vivo. Ma chi? Difficilmente qualcuno della Ca- pitaneria, perché la dinamica dell’incidente la chiama in causa solamente a titolo morale, per il non aver ancora applicato in quel periodo una regolamentazione – introdotta nel maggio del 1991 – che differenziasse le rotte di uscita ed entrata in porto da quelle di stazionamento. Restano quindi due attori: Nav.ar.ma e Snam. La dinamica dell’incidente quindi ha in sé qualcosa che entrambe o una delle due società avevano interesse a non far emergere. Lato Snam, ovvero Agip Abruzzo, cosa si sarebbe potuto ricavare? Che la petroliera era in un’altra posizione rispetto a quella di- chiarata nel processo? Questo è oramai indubbio, anche per- ché lo stesso Comandante segnala una pluralità discordante di posizioni. E comunque la presenza della petroliera in una zona di divieto di ancoraggio non giustificherebbe comunque la collisione. Non è che siccome qualcuno è in sosta vietata un altro natante è autorizzato a centrarla. La responsabilità sareb- be stata comunque ripartita. Inoltre SNAM è, agli atti, l’unico responsabile civilmente riconosciuto per l’accaduto. Difatti, dopo la Sentenza di Appello che chiarì le responsabilità di Va- lentino Rolla e SNAM, i pochi familiari costituitisi parte civile in quel processo fecero causa alla compagnia e ottennero nel 2001, ultimi tra tutti, un risarcimento economico. SNAM ope- rò indubbiamente a livello di avvocati e stampa per limitare i danni, ma era pur sempre l’armatore del soggetto investito, non di certo dell’investitore. Resta allora l’ipotesi Nav.ar.ma. E Loris ne è coscienziosamente convinto: se questa sparizio- ne del registro delle eliche – i cui responsabili non furono mai identificati – fosse servita a evitare di riconoscere all’ar- matore responsabilità sulla dinamica della collisione, queste di che tipo sarebbero? Sicuramente non riconducibili all’ope- rato della plancia, perché l’errore umano è stato da subito il leit motiv di tutte le ricostruzioni, quindi, se quanto segnato

441 nel registro delle eliche fosse stato una conferma, nessuno avrebbe avuto interesse a farlo sparire. Nell’idea di suppor- re altro, e altro diverso, potremmo avvicinarci alle ipotesi di un guasto meccanico del traghetto – quindi un problema del mezzo, non del comando del mezzo – come supposto dal perito Mignogna durante il processo e smontato dai periti del tribunale. Quell’avaria all’organo di governo, probabilmente di rientro da una manovra brusca realizzata per evitare un natante inatteso o qualcosa di simile, che Loris sosteneva con forza: “Io continuo a pensarla come Mignogna140. Di tutte le ricostruzioni che ho sentito in questi ventuno anni è quella che mi convince di più, anche più dei nostri periti. E questa ricostruzione imputerebbe altre responsabilità all’armatore”. Ma c’era un’altra possibile verità ricavabile da questo quadro. Una deduzione. La sparizione poteva essere stata un elemen- to di ricatto verso terzi. Un ricatto operato da chi l’ha ordi- nata ed effettuata a discapito di quanti potevano ricevere un danno penale da quell’informazione sugli ultimi movimenti del Moby Prince. Ma chi sarebbe il ricattatore e chi il ricattato resta un mistero legato al cogliere l’esatta dinamica di quella collisione della quale Loris non sentiva il bisogno di sviscerare ogni aspetto. Non abbiamo parlato vìs a vìs della questione, dopo que- sto scambio email. Come due amici coscienti di una diversità di vedute, ci rispettiamo nel silenzio sull’argomento. Loris sa che io avrei desiderato leggere nel suo intervento qualcosa a riguardo del riavvicinamento tra i familiari e io so che lui avrebbe desiderato una mia maggiore convinzione nel soste- nere le sue idee. Alla fine sembra che io non abbia scelto una parte, ma sia realmente rimasto neutro e la neutralità, a volte, è mancanza di coraggio. Resta però il rispetto e l’affetto che ci ha unito in questi mesi e che porta addirittura quest’uomo a misurarsi con me sull’intervento da realizzare nella giornata per lui più importante dell’anno. Ne sono lusingato. In mac- china verso casa, torno a rivivere quella sensazione. Ho cono-

140 Giovanni Mignogna era Consulente Tecnico (C.T.) della FILT CIGL, co- stituitasi come parte civile nel processo di primo grado.

442 sciuto delle persone in questo cammino e con alcune di loro sento di esservi diventato amico. Questa forse è una scelta, ma del cuore. Eppure, mentre passo il pannello autostradale con su scritto “5 aprile 2012 - 14:30” e non vedo l’ora di varcare la soglia di casa per rivedere la mia famiglia, quel pensiero si forma in te- sta. E se fosse veramente colpa dell’armatore? Se Loris avesse seriamente ragione e non fosse una sua ossessione quasi poli- tica questo attaccare il padrone cattivo, innamorato del profit- to e dimentico della sicurezza dei suoi lavoratori e passeggeri? Alle volte dietro un pensiero costantemente espresso non riu- sciamo a leggerci altro che un’ossessione, quando dovremmo chiamarla “amor di verità”. Così come Angelo, per amor di verità, non riusciva a dimenticare i tanti piccoli particolari in grado di sostenere l’idea di una dinamica della collisione dif- ferente da quanto raccontato in ventuno anni di processi e articoli di giornale, allo stesso modo Loris, per amor di verità, portava avanti la sua deduzione sulla compagnia armatrice, spinto da un principio semplice: mentre gli altri protagonisti di quella notte hanno commesso errori per incompetenza o assenza di coordinamento, lui, Onorato, aveva già creato le condizioni di quel disastro, per profitto. E l’11 aprile la sua preoccupazione andò non ad avvertire i familiari delle vittime, non a un gesto di solidarietà, ma all’unica cosa che forse gli interessava in quel momento: il futuro della sua compagnia. Milioni di persone ogni anno prendono un traghetto della Moby Lines, sostengono con innocenza quella sua linea di azione. A ben vedere, ventuno anni dopo, ha avuto ragione lui: la compagnia è sopravvissuta al Moby Prince facendolo ricco, migliaia di lavoratori continuano a prestare servizio per la felicità dei sindacati di categoria e lo Stato ha incassato la sua quota: tasse e Prodotto Interno Lordo. Onorato sapeva come far girare i soldi, lo sa ancora e a qualcuno, là nei palazzi che contano, questa qualità sembrava allora e sembra ancora un ottimo motivo per laissez-faire.

443 31. 10 APRILE 2012. LA PRIMA

“Non puoi ridare forma al passato ma puoi creare il presente”. Pa m Br o w n , Ti auguro, 1928

C’è una strana aria. Come un anno fa. La mattina del 10 aprile qualche goccia di pioggia e un’aria carica. Quasi immo- bile. Viaggiamo in macchina io e Andrea. Ancora una volta questa macchina che uno spettatore accorto può riconoscere elemento ricorrente del documentario: ha portato Mauro e Antonella a Livorno il 10 aprile 2011, ha portato Loris e Gia- como a Pattada, non ha mai portato Angelo. Andrea è rimasto accanto a Ventanni. Anche il 10 aprile è con me in questa macchina, verso Livorno. Ufficialmente per affiancare tecni- camente il simpatico proiezionista del Cinema Teatro 4 Mori. Ufficiosamente perché ne avevo bisogno e lui lo ha capito. Parliamo, ancora una volta, del documentario. Parliamo di cosa è stato. Dei problemi. Delle persone coinvolte. Del mes- saggio. Il messaggio per chi lo ha prodotto e il messaggio per chi ne è stato protagonista. Infine, solo infine, il messaggio per chi lo vedrà. «Andre’ lo sai chi mi ha chiamato ieri?». «No. Devo indovinare?». «Angelo». «Ah. E che ti ha detto?» mi chiede incuriosito. «Che ci ha messo un bel po’ a metabolizzare la giornata del 22 gennaio, che quest’anno loro hanno scelto di non fare niente e che si aspettava una telefonata di Loris per fare qual- cosa insieme». Andrea scuote la testa: «Io te l’ho già detto France’, sono contento di aver partecipato a un progetto così anche solo per aver visto un uomo con due coglioni come quelli di Angelo. Se l’è sentite dire tante, pesanti, ed è rimasto lì e ha teso una mano. Loris è un comunista France’, non lo smuovi, lui ha bisogno di questa storia. Se finisce cosa gli rimane?».

444 Contesto, ma senza troppo bisogno di convincerlo, infondo ognuno ha diritto a un’opinione: «Questa storia non finirà mai Andre’, non c’entrano i Tribunali. Anche con una sentenza giusta servirebbe comunque qualcuno che ricordi il percorso. Come ci si è arrivati». Lui guarda fuori dal finestrino, armeggia con l’ottica del- la sua fotocamera e lancia il suo verdetto: «Io ho capito una cosa France’ sui comunisti e i fascisti. Sai che a me di politica non me ne frega niente e per me sono tutti dei ladri che non hanno voglia di lavorare, però vedi se chiedi a un fascista se c’è mai stato un buon governo lui ti dice quello di Mussolini. Ce l’ha, diciamo. Se lo chiedi a un comunista non te lo sa dire. C’è sempre stato qualcosa che non andava. Qualcosa su cui incazzarsi, fare, brigare. Ecco io mi sono fatto quest’idea qui. I comunisti non ce la fanno a godersi la vita per quella che è, hanno sempre bisogno di qualcosa su cui incazzarsi». Rido. Mi fa sempre ridere. La vita secondo il Vito. Ognu- no legge la realtà a suo modo e quello di Andrea aiuta a ri- lassarsi anche nei dialoghi più accesi. Vent’anni però non si cancellano. Si possono rileggere. Re-interpretare. Si possono in qualche modo mettere sullo sfondo di una storia che ha ancora un cammino da fare e io questo lo capisco. Dopo un po’ l’ho capito. Ne abbiamo parlato con Loris qualche giorno prima, quando l’ho chiamato appena avevo chiuso la conver- sazione con Angelo: «Bisogna vedere fatti concreti. Andare nel merito. Sicuramente un passo importante è stato fatto. Ma dobbiamo vedere nel concreto cosa fare. Dire a tanti di noi “ci riuniamo” non è semplice. Ci sono stati scontri duri. C’è qualcuno che a Ivanna gli ha quasi messo le mani addosso. Ora ci vuole qualcosa di concreto. Se su quello ci troveremo allora se ne potrà parlare…». Era un “ni”. Un forse. Un: an- che il muro di Berlino non l’hanno tirato giù tutto la notte del 9 novembre 1989. Lascio Andrea al Cinema Teatro 4 Mori per le ultime prove e mi incammino verso il Comune. Da dietro riconosco Stefa- nia, la madre di Giacomo. Facciamo un po’ di strada insieme e insieme arriviamo ai gradini del Comune. Lì troviamo Paola. Dietro di lei Ivanna. La vedo sorridente e un nuovo modo di

445 ripiegare i capelli le illumina il volto. Qualcosa forse è succes- so nel frattempo, qualcosa di bello. Dietro di lei Maurita e gli altri. C’è una strana atmosfera. È una sensazione difficile da spiegare. Entrare in Comune, con loro, dopo questo percorso. Mi sembra passato un secolo. Vado allora incontro a Loris per salutarlo. Lo vedo a pochi metri di distanza con indosso la maglietta di ordinanza sovrastata da una giacca blu. In mano il quaderno ad anelli conosciuto in conferenza stampa: «Ciao, ho qui il discorso ma tanto te l’hai già letto» mi dice dandomi un buffetto. Ridiamo tradendo l’emozione. Loris espliciterà anche un concetto particolare nel suo discorso: «Vorrei che fosse chiaro a tutti che il 10 aprile per noi non è una comme- morazione rituale, ma la riaffermazione del diritto inalienabile per tutte la tragedie di questo Paese, per tutti i familiari delle vittime, per tutte le collettività, alla verità». Penso alla parola rito. I familiari si ritrovano qui tutti gli anni, il 10 aprile. I cre- denti assistono alla Messa celebrata in Duomo, poi si radu- nano con i rimasti fuori, nell’aula consigliare del Municipio, per ascoltare gli interventi di Loris, del Sindaco, di Giacomo e di chi altro chiede la parola. Infine scendono le scale del Comune, prendono lo striscione e raggiungono il porto. Loris legge i nomi delle vittime, due carabinieri appoggiano sotto la lapide la corona di fiori del Presidente della Repubblica e infine si salutano dandosi l’appuntamento all’anno successi- vo. Le iniziative di commemorazione, nonostante quanto ha scritto Loris, sono un rito e Loris ne è diventato una sorta di sacerdote. Però questo lui non lo condivide. E io piano piano sono riuscito a capirlo. Per lui il senso di quelle azioni è più forte della loro forma. La memoria è fatta di rinforzi. È fat- ta di ripetizioni, di costanza, di abitudine. È fondata sull’idea della presenza. Se ogni anno questo programma non fosse lì, la vicenda Moby Prince, la rivendicazione dei familiari delle vittime, il racconto di una storia scomoda e ancora in attesa di verdetti, resterebbero un passato da dimenticare. L’esser- ci è invece un presente da riconoscere. Ci siamo ancora. Ci ritroviamo ancora. Ancora chiediamo la dignità del ricordo di ciò che fu e rivendichiamo il bisogno di una condizione migliore: chi verità, chi giustizia, chi entrambe. Per Loris poi

446 secondo me c’è anche altro. Lui a Livorno ci vive. Lui di que- sta vicenda è il custode. E sa quanto Livorno viva in modo distratto il suo ricordo. Le iniziative del 10 aprile, soprattutto la parte che sta per accadere qui, in aula consigliare, e poi il corteo, diventano così il modo per testimoniare una presenza scomoda. Il modo per allargare i gomiti, reclamare un’atten- zione sopita, come concorda Giacomo. Lo vedo accanto a Loris, col suo discorso in mano. È carico, ma il volto ancora tradisce il bisogno di dimostrarsi più grande. Oggi lui è qui, leggerà il suo intervento al vetriolo, ma questa battaglia, per Loris, è fatta di costanza giornaliera e le giornate di Giacomo sono spesso piene di altro. Un anno e mezzo fa mi parlavano di avvicendamenti, passaggi di consegne, ma evidentemente ci vuole ancora del tempo. Tutti entrano nella sala. Io resto fuori a parlottare con Jaco- po da San Martino, l’autore dell’opera figurativa “Non viag- gio”, dedicata al Moby Prince e posizionata in un’anticamera attigua alla sala consiliare. Ad un certo punto mi giro, poco prima dell’inizio dell’intervento del Sindaco Cosimi, e vedo Angelo parlare con Paola. Qualche minuto prima lei mi si era avvicinata e mi aveva raccontato con grande felicità dell’im- pegno di Angelo per aiutare Marisa, sua figlia, in relazione a un difficile intervento da effettuarsi a Milano: «Guarda ti ringrazio per il numero. Non sapevamo dove sbattere la testa, i dottori non capivano e io ho chiamato Loris e gli ho detto: senti ce l’hai il numero di Angelo Chessa che è dottore lì a Milano e mi può consigliare? E lui mi ha detto che non lo aveva ma lo poteva chiedere a te. Anche se era di Pasqua e ti avrebbe disturbato…». «Ma figurati Paola». Lei prosegue con voce emozionata: «Guarda Angelo è stato squisito. In mezzora era tutto a posto e l’ha messa in mano al meglio che c’è in giro per questi interventi. È stato veramente squisito». Paola aveva visto Angelo in camice nell’anteprima del do- cumentario. Un piccolo elemento. Un input. Poi la solidarie- tà. Guardo Angelo, emozionato a sua volta. Lo saluto: «Sono molto contento di vederti qui». Lui sorride. Gli presento Jaco-

447 po Da San Martino, parlano per un po’. Poi si riavvicina: «Mi fanno piacere queste cose». «Angelo intervieni?» chiedo. Mi guarda imbarazzato: «No Francesco, mi conosci, io non sono per intervenire in queste cose… se ci fosse stato De Leo forse avrei detto qualcosa ma mi hanno detto che non c’è». Gli altoparlanti iniziano a diffondere la voce del Sindaco Alessandro Cosimi, la sala è piena e Angelo si avvicina all’in- gresso di sinistra. Faccio caso solo al passaggio in cui Cosi- mi evidenzia, da rappresentante di una città che nei numeri ha scelto di dimenticare, la necessità di arrivare oggi a verità “anche scomode e difficili”. La mia attenzione era tutta su Andrea, il figlio di Loris, che come me è rimasto fuori dalla sala consiliare. Mentre mi avvicino per salutarlo vedo accanto a lui suo nonno, il padre di Loris. Lo avevo visto in fotografia e incrociato un anno prima. Per la prima volta ho la possibi- lità di stringergli la mano. Somiglia incredibilmente a Liana e ha lo sguardo di un attore di film western ormai lontano dai set. Dalla sua posizione e dal modo con cui guarda ner- vosamente a destra e a sinistra capisco che quella situazione continua a fargli ribollire il sangue dentro. Si congeda da noi e dal raggio uditivo degli altoparlanti. Anni prima, come mi ricordò Loris, ebbe un infarto in occasione di una commemo- razione. Quel dolore chiuso nella pietra aveva scosso la ma- teria dura fino a obbligarlo all’intervento dei medici. Andrea, suo nipote, è persona di poche parole. Come atteggiamento, il contrario di Loris. Per Andrea un elemento indignante della vicenda, a buon diritto, è l’assenza del supporto statale verso le parti civili: «Esiste l’Avvocatura di Stato, dovrebbero usarla per situazioni come queste. Trovare la verità del Moby Prince doveva essere un’obiettivo di responsabilità nazionale. Invece l’avvocatura di Stato entra in causa solo quando si parla dei processi di Berlusconi». Loris ha appena iniziato il suo inter- vento, vedo Angelo avvicinare le orecchie alle casse e allun- garsi sulle punte dei piedi per vedere meglio. Mentre rifletto sulla possibile delusione di Angelo nell’ascoltare il discorso di Loris, Andrea mi suggerisce una sua deduzione: «Secondo me un altro errore che è stato fatto rispetto alla vicenda è

448 stato averla sempre chiamata “tragedia”. Le tragedie alla fine nell’immaginario collettivo sono cose che capitano… colpa del destino… Se l’avessimo chiamata da subito “strage” la gente avrebbe pensato immediatamente che qualcuno ne era responsabile. Sarebbe cambiato il punto di vista». Nel mondo delle comunicazioni 2.0, degli sms, dei 140 caratteri, dei lanci, della sintesi assoluta, quella singola parola avrebbe cambiato qualcosa. Torno così a pensare al “rito”. Il 10 aprile è diventa- ta anche l’occasione delle osservazioni su cosa è stato fatto e, nell’idea di aver perso, dove si è sbagliato. Loris conclude poco dopo il suo intervento. Angelo mi si avvicina: «Hai visto? Ha fatto il solito discorso polemico… tu ci hai provato, ma è così Francesco». Ingoio e sputo fuori un flebile: «Per ora è così, poi vedremo». Mi chiede conferma dell’orario della proiezione. Ci salutiamo e lui sparisce nei cor- ridoi del Palazzo Municipale. Quando finiscono gli interventi e anche noi ci approcciamo verso l’uscita vedo in un angolo Gavina con alcuni operatori della Pubblica Assistenza intor- no. Mi avvicino(). Angela, sua madre mi guarda: «È sempre questa cosa del suo mal di testa. Troppa emozione, troppa emozione». Gavina sorseggia dal bicchiere. Inizia a riprender- si. Io mi avvicino all’uscita. Ho bisogno di allontanarmi. Torno al Cinema 4 Mori a prendere Andrea e andiamo a mangiare. Mentre siamo a tavola Andrea inizia a ridere. Gli è arrivata la notifica di un messaggio postato da Loris nel grup- po Facebook “Moby Prince. Quelli che esigono la verità”. «Aveva detto che oggi non avrebbe scritto niente» commenta, «invece non ce la fa proprio». Sorrido. Andrea ha ragione, è più forte di lui. Mentre ingoio i primi pezzi di pizza, avverto un senso di fastidio. Ho sperato fino alla fine che Loris cam- biasse una piccola parte del suo intervento e facesse cenno alla necessità di riavvicinare tutti i familiari per un’ultima iniziativa comune. E invece no. Vorrei cercare una sponda da Andrea ma so già quale sarebbe la risposta. Allora mi resta solo lo sfogo di disegnare, sul tovagliolo ancora piegato, linee curve con la punta del coltello. Cosa volevo ottenere? Davvero ave- vo sperato che bastasse un anno e mezzo di tutto questo per cancellare vent’anni di incomprensioni? Sì e anche a questo

449 giro avevo lavorato di fantasia. Avevo cercato di rendere la realtà più simile a come per me dovrebbe essere. Un’ora dopo siamo davanti al Cinema Teatro 4 Mori. In- crociamo Giacomo diretto verso il porto per un’intervista. «Mi ha chiamato questo giornalista, dice alle 14:30 ci vediamo all’Andana degli Anelli». «Allora sei in ritardo, Giacomo». «Eh sì, bisogna che mi muova». Mi si avvicina, sorridendo: «Sai, un altro giornalista si è avvicinato, avrà visto il trailer, e mi ha detto: “Allora gliel’hai stretta poi la mano ad Angelo Chessa?” e io gli ho detto: “No, però almeno ora ci salutia- mo”». Raccolgo. Ingoio e lo lasciamo andare. Anche lui è ri- masto nella sua posizione, ma almeno oggi, su tutto questo, ci sorride. Un’ora più tardi l’esterno del Cinema Teatro 4 Mori inizia a riempirsi di gente. Con la sala ancora vuota io, Loris e il proiezionista fissiamo alla base del palco lo striscione: “Moby Prince: 140 morti e nessun colpevole!”. Andrea ci ronza at- torno con la fotocamera e fa qualche scatto. Loris ha già ab- bandonato la giacca e commenta le presenze: «Fuori è pieno. Aspettiamo ancora qualche minuto, poi li facciamo entrare». Poi mi guarda, soffermandosi sull’abbigliamento presentato. Fa la sua classica espressione da perculamento: «Penso sia la prima volta che ti vedo in giacca, la cravatta l’hai dimenticata a casa?». Incasso. Rilancio: «Pensa cosa ho fatto per voi, io la giacca non l’ho messa nemmeno al mio matrimonio». Sorri- diamo. Manca poco. Dà l’input: «Dai, facciamoli entrare». Mentre le persone iniziano ad accomodarsi sulle poltrone del cinema io cammino dentro e fuori dalla struttura e in una delle pellegrinazioni incrocio Angelo. «Vuoi dire due parole con me, Giacomo e Loris prima della proiezione?». Mi guarda spaurito: «No. Non me lo chiedere…». Troppa gente. Trop- pa gente con cui c’è troppa emozione in gioco. Alla fine an- che Giacomo lascia spazio solo a Loris. Lui mi porta davanti al palco e introduce il documentario. Io ringrazio chi devo ringraziare e dico le prime parole che mi vengono in mente. Guardando quelle persone spero di incrociare lo sguardo di chi, vent’anni dopo, può ancora dire qualcosa. Guardando tra quelle persone, i familiari che conosco e riconosco, mi viene

450 da chiudere dicendo che loro “meritino la verità”. Mi è torna- to per un attimo lo spirito di speranza del credere nel merito. Tra quelle poltrone non c’è Mauro, Angelo me ne aveva chie- sto notizia poco prima. Forse anche in questa occasione spe- rava nel suo ruolo riequilibratore. Un giornalista Rai lo chiede informalmente a me e Loris prima di avviare la proiezione. «Non è venuto. Aveva probabilmente altri impegni» rispon- do io, ma Loris ha un’altra considerazione da aggiungere: «È venuto l’anno scorso, quest’anno non c’è… speriamo non sia stata la prima e l’ultima volta». Poi mi guarda, il punto è il pre- sente: «France che dici, iniziamo?». Concordo e salgo su, nella cabina di proiezione. Tre minuti. Si spengono le luci. L’audio introduce l’inizio di Ventanni. Angelo è andato via quindici minuti dopo. Ci siamo ritrovati fuori insieme a Gabriele Bardazza. La motivazione ufficiale è un incontro importante inatteso, alle 21, a Milano. Un incon- tro con la Fandango per l’ipotesi di un film sul Moby Prince. Me lo dice quasi con imbarazzo: «Eh già, a Fandango non ci avevate pensato per la distribuzione del film?». «Sì, ci avevamo pensato, ma non è piaciuto il teaser a un contatto che avevamo all’interno». Un giornalista lo chiama per un’intervista e Angelo deve rispondere subito all’inevita- bile domanda sul documentario: «Questa riunione dei fami- liari delle vittime è possibile?». Resto a qualche metro. Non sento bene. Ma mi dà l’idea che Angelo presenti una realtà possibilista. Quando mi si riavvicina per salutarmi mi viene spontaneo di portargli le braccia intorno alle sue: «Io conti- nuo a cercare comunque, se trovo qualcosa ti faccio sapere, se poi riesci a riaprire questo processo da qualche parte io ci sarò». Angelo si emoziona. Dall’angolo alto con cui mi guar- da, riconosco una sincera gratitudine. Non si ammazzerà per convincere nessuno della Fandango a prenderci il film, sono certo che non gli verrà neppure in mente di organizzare a Milano una serata per proiettarlo, ma qualcosa è rimasto. Ha raggiunto quel cuore messo sotto aceto, come mi disse un anno fa, e lo ha ributtato fuori, in un sincero sorriso. Gabriele Bardazza lo segue. Forse gli avrebbe fatto piacere vedere il film nel grande schermo, incluso la scena col suo primo piano

451 non perfettamente sbarbato, ma “Angelo è Angelo”, lo devi prendere com’è. Ci salutiamo con affetto e spariscono così dietro l’angolo. Pochi minuti dopo vedo uscire dalla sala Angela, la madre di Gavina, insieme ad altri familiari lucchesi. Parlano in modo concitato. Angela li contiene. Si confrontano. Questo docu- mentario ha inevitabilmente per loro un significato forte. Il figlio del Comandante, Loris, la divisione. Poi il loro ricordo. C’è ancora tanto, troppo da dire per restare fermi a vedere tutto il film. Angela me lo dice con cortesia: «Poi me lo fai avere. Ho bisogno di vederlo con calma. Io a loro gliel’ho det- to: il figlio del Comandante ha diritto a credere a quello che i suoi periti gli dicono; se non siamo d’accordo noi dobbiamo provare a parlarne…». Poi, a circa cinquanta minuti dall’ini- zio della proiezione, Gavina, la figlia di Angela, si sente poco bene ed esce di corsa dalla sala tenendosi la testa. Mi avvicino, Angela la segue a ruota. Le prendo un caffè zuccherato e ri- esce a rimettersi. Angela mi guarda mentre la vede riaversi in un batter d’ali e incamminarsi verso l’entrata del cinema. In quello sguardo c’è tutta la complessità di questa storia e dei suoi effetti indiretti. Entro così in sala a tre minuti dalla fine. Scattano applausi a sottolineare alcuni momenti del dibattito tra Angelo, Loris e Giacomo. Durante il penultimo di questi mi emoziono per pochi secondi. In quelle scene conclusive c’è tutta la fatica di quanto è stato fatto per arrivarci, ma non è il suo ricono- scimento ad avermi colpito. È la solitudine. Doveva essere il giorno della nostra soddisfazione. È il giorno in cui, da solo, sono e rappresento la mia cooperativa, e io non credo alle vit- torie personali. Chi è solo ha perso. Ha perso sempre. Finita la proiezione, mi avvicina Stefano Vidori. È colpito, emozionato. Ivanna mi riporterà poco dopo una sua confi- denza: «Ha avuto il coraggio di parlare di qualcosa di cui in tutti questi anni nessuno di noi aveva osato parlare». Loris mi chiama a gran voce, io sono lontano dai posti d’onore: «Ti cerca Granducato». Arriva il giornalista, Salvetti, mi chiede un commento. Pochi secondi e abbiamo finito. Poi altri gior- nalisti. Altri pochi secondi. Qualche battuta. Qualche infor-

452 mazione giornalistica. Intorno a me, nel frattempo, sento dei brusii. C’è chi ha da ridire sul lavoro. Chi anche sulla citazione di Michele nei titoli di coda. Io torno a guardare le persone uscire dalla sala. Incrocio mio padre, con mia cugina, amici di famiglia che sono rimasti lontani per anni dalla vicenda e oggi sono qui, Daniela, Ivanna, Francesco Gerardi, tanti altri. Aspetto la fine. Lui non c’è. E come lui non c’è nessuno de- gli ex-soci di Mediaxion. Evidentemente c’era qualcosa di più importante da fare, anche oggi. Io faccio poco caso al resto. Poco caso ai giornalisti. Poco caso ai complimenti. Qualcosa di più alle critiche. Voglio solo camminare, accanto al corteo. Vedo poca gente e dentro di me sono sentitamente dispiaciu- to. Mancano sicuramente i cinquanta familiari delle vittime di Torre del Greco ed Ercolano. A tre giorni dall’evento si sono visti negare il pulmann dal Comune, dopo vent’anni di sostegno alla causa, e hanno scelto per protesta di non venire. In ogni caso non rappresentano l’assenza numericamente più rilevante. Mancano, infatti e soprattutto, tanti livornesi. La Li- vorno rossa, cui ventuno anni prima è accaduta in casa la più grande strage sul lavoro della storia repubblicana, accompa- gna i familiari delle vittime con un centinaio di presenze. Nel cammino trovo alcune persone. Una di queste è ripresa nel documentario accanto a Loris con una fascia tricolore. È un giovane amministratore, dalla cadenza, del fiorentino- pratese. Mi chiede dove possa prendere il documentario. Gli rispondo che ancora non è in distribuzione ma che, se fos- se per l’amministrazione, potrei fargliene avere copia prima dell’uscita. Mi risponde che è per lui, a titolo personale. Da tanti anni segue la vicenda, con passione e oggi, con gli occhi rassegnati, mi dice che secondo lui la verità non verrà mai a galla. Ad un tratto passa la sorella di Michele. Io la guardo, abbozzo un saluto e lei mi risponde con fare molto aggressi- vo: «Non ti azzardare a salutarmi!». Il giovane amministratore rimane di stucco. Cerco di spiegargli qualcosa, senza entrare nei particolari, ma la sua espressione continua a restare basita. Alle volte bisogna lasciar correre e punto. Nel cammino ritrovo anche Marta Pettinari. Parliamo a lun- go del documentario e della vicenda. Dei retroscena di en-

453 trambi, noti e meno noti. Il discorso vira sulle mie motivazioni rispetto al lavoro e su quella scena finale dove Loris, Angelo e Giacomo dialogano a viso aperto, fino ad arrivare a teorizzare di riunire tutti i familiari delle vittime per un’ultima, comune, battaglia processuale. Nelle parole di Marta non c’è entusia- smo per quelle sequenze, non appaiono così importanti. Mi chiede invece di Michele, che aveva conosciuto all’inizio del progetto. Ne parlammo già durante il nostro ultimo, casuale, incontro, quando la trovai sul treno per Bologna, durante il viaggio verso Volpago del Montello. Cerco di spiegarmi. Arri- viamo a intenderci. Mi resta comunque la strana sensazione di questa attenzione relativa per l’aver avvicinato i familiari delle vittime del Moby Prince, opposta a una curiosità partecipe sulle motivazioni dell’allontanamento di Michele. Arrivati all’Andana degli Anelli, quest’anno non ci sono le tensostrutture del TAN. Quest’anno il porto si mostra nudo, con la sua vita comune. Loris si avvicina al microfono davanti alla lapide, i due carabinieri poggiano la corona di fiori del Presidente della Repubblica e dalle casse iniziano a riecheg- giare i nomi delle vittime, accompagnati come di consueto dal Comune di provenienza e dall’età. Davanti a un Loris intento nella lettura restano, forse, un centinaio di persone. La lettura si conclude, con quel passaggio diventato per me ormai fa- miliare: “Vitiello Ciro, Torre del Greco, anni 31”. Una nave è prossima all’attracco proprio nel momento in cui i familiari delle vittime gettano le rose in mare e tutto assume il senso di un momento intimo e isolato. Non una manifestazione popo- lare, non una protesta civile, ma un funerale quasi clandestino. La carica emotiva dell’anno precedente sembra aver lasciato il posto ad altro. Ma questa è forse solo e soltanto la mia con- dizione. Mi avvicina un giovane. Si presenta: «Ciao, io sono Andrea Fricano». Lo riconosco. «Ti avevo visto nella puntata aggior- nata sul Moby Prince de La Storia siamo Noi». Iniziamo a par- lare, con anche Francesco Gerardi. Parliamo a lungo della questione “impianto antincendio della Moby Prince” e delle dichiarazioni di Loris a riguardo. Andrea sostiene che in realtà nella sentenza non si chiarisce se l’impianto fosse o meno

454 spento. Ricordiamo cose diverse ma il punto è un altro. Que- ste sono le virgole di una vicenda con verità più grandi. Il 10 aprile 1991 centoquaranta persone sono state uccise a poche miglia dal porto di Livorno. I perché e i per come sono solo subordinate di questa principale troppo spesso dimenticata. Stefania, la madre di Giacomo, mi prende da parte. «Que- sto è un pensierino per la bambina da parte mia, di Paola, Giacomo e Loris». Un braccialino con scritto “Anita”. «Non dovevate…» abbozzo. Loris, Giacomo e Paola sono lì accan- to. Una serie di sorrisi e abbracci chiariscono cosa ha fatto questo percorso e resta nel rapporto tra chi vi ha partecipato, un’altra principale che oggi molti hanno dimenticato dietro alle subordinate. Davanti a quel molo, alla fine, rimaniamo in tre. Io, Andrea ed Enzo Farnesi, un altro familiare delle vittime. Rimane il senso di un percorso che non è ancora concluso. Il bisogno di essere ancora lì ad ascoltare. Il film è finito, chi se ne frega. Era solo uno dei tanti mezzi per raggiungere scopi più im- portanti. Enzo racconta: «Mia figlia non era dell’equipaggio del Moby Prince, era imbarcata su un’altra nave. Quella che andava in Corsica. Poi cos’è successo… che una che faceva il suo me- stiere sul Moby Prince ha fatto un po’ la scema con un ufficia- le. La moglie lo scoprì e fece un po’ di casino. Il Comandante allora quando vide l’elenco dei lavoratori stagionali e rico- nobbe il nome di quella lì disse: “Io non ce la voglio, questa ha creato problemi” e fu chiamata mia figlia. Aveva ventidue anni. Mia nonna diceva sempre un detto: “più puttana e più fortuna”. Ed è stato così. Se quella lì non avesse fatto la scema con quell’ufficiale, mia figlia sarebbe ancora viva». C’è tanta amarezza in queste parole. Un’amarezza enorme. Mi tornano in mente le parole di Loris a Viareggio, “quello che abbiamo provato noi è un dolore immenso”. E i dolori immensi non si possono dimenticare. Possono solo ricevere il soffio leggero e lenente della verità e della giustizia. Ma a Enzo, come agli altri familiari delle vittime del Moby Prince, nemmeno questo è stato concesso. Me lo rivela in un aneddoto: «Una volta che andammo a Roma con Loris per una di queste commissioni

455 parlamentari sul Moby ci si avvicinò un politico e ci disse: “Voi siete stati sfortunati, perché se sul traghetto ci fosse stato qualcuno di importante, di famoso, magari qualcosa sarebbe venuto fuori”. Te pensa cosa ci ha detto questo pezzo di mo- ta141, cosa è arrivato a dirci!». Enzo è anziano, stanco e ha pro- blemi alle gambe. Sale in macchina: «Se prima credevo poco da questa vicenda non credo più a nulla. La gente dice: “La Madonna di Montenero fa questo, fa quest’altro…” sarebbe bastato che con la sua mano facesse andare il traghetto un pochino più in là. Un pelino più in là e sarebbero tutti vivi… invece niente». Ci guarda: «Io comunque non ce l’ho con il Comandante… se i figli ci avessero seguito dall’inizio forse le cose sarebbero andate diversamente… invece di cercare la bomba… il traffi’o d’armi. Mia moglie da questa storia non si è mai ripresa… non ne vuole sapere… appena sente qualcosa del Moby… lei se ne va… non ne vuole sapere… io invece no… anche se non s’arriverà mai a niente… io ci sono sem- pre stato e sono sempre andato avanti… a me dei soldi non me ne fregava niente… perché vedi, alla fine a non prendere il risarcimento fino alla fine ci arrivammo in sette famiglie. Oggi tante cose le dimentichiamo, ma si arrivò in sette… noi Loris, la signora Ivanna, pochi altri… io l’ho sempre detto che a me dei soldi ‘un m’interessava… volevo arrivare infondo, anche se abbiamo ottenuto poco». Enzo alza lo sguardo, si ritrae. «Magari vi ho annoiato con questi racconti…». Scuoto la testa: «No Enzo, è un onore po- terti dare del tu, poterli ascoltare e sperare che scrivendoli restino a futura memoria». Lui si rilassa: «Poi lo riguardo il tuo film, ora sai… lo devo rivedere per dirti meglio». Mi escono poche parole conclusive: «Spero che ce ne sia quanto prima l’occasione».

141 “Fango” in livornese.

456 32. LA BUONA FINE È SEMPRE UN INIZIO

“Gli unici tra voi che saranno felici, sono coloro che hanno cercato e trovato il modo di servire”. Al b e r t Sc h w e i t z e r , 1931

25 aprile 2012. Festa di Liberazione. Un’aria bella, fresca, inonda Massa di un’anteprima d’estate. Siamo dai miei suoceri a mangiare. La tavola è imbandita, tutto è pronto. Anita dorme pacifica nel chicchetto. In tasca inizia a vibrarmi il cellulare. Avvicino l’auricolare all’orecchio e premo il bottone di ri- sposta senza guardare chi mi sta chiamando. «France ciao, com’è tutto bene?». «Loris ciao, sì bene dai…». «La bimba?». «È uno spettacolo». Poi, me la gettà lì. La notizia: «L’ho chiamato». Chiedo lumi, non ho capito bene. Lui ribadisce aggiungen- do elementi grammaticali: «Ho chiamato Angelo, abbiamo parlato». Il pergolato dei miei suoceri diventa il teatro del mio andi e rivieni. Voglio sapere tutto. Ogni particolare. Loris la butta subito sul ridere: «Mi fa: “Loris guarda vorremmo fare causa ai soccorsi” e io: “boia, l’armatore mai eh!”». Ride. Io non capisco se mi sta perculando o è la verità. Dove diavolo troverà la voglia di scherzare anche in queste occasioni? È proprio un eroe post-moderno, da fumetto. «Comunque» mi dice, «abbiamo discusso della cosa, io gli ho chiesto se aveva qualcosa di scritto da far vedere a tutti e lui mi ha detto che per ora di scritto non hanno niente, ma lo vogliono butta- re giù». Sussurro un “bene” a ogni descrizione di scelta che hanno preso. Non riesco quasi a crederci. Un anno e mezzo fa, quando li ho conosciuti sembravano divisi da un muro di cemento armato. Oggi parlavano di una causa insieme anche se Loris, a quanto pare, ha messo subito le specifiche: «Gli ho detto: “Sai Angelo noi ai soccorsi un processo parallelo

457 l’abbiamo fatto ed è finito come sai… quindi sarà dura. Resta sempre la questione dei tempi di sopravvivenza…” ma lui mi ha detto che hanno del buon materiale, bisogna solo racco- gliere le firme dei familiari. Alchè io gli ho detto: “no scusa, facciamola come associazione questa causa” e lui ha detto “jai ragione Loris, è un’ottima idea”». Cinque minuti dopo riat- tacco e risalgo i tre scalini che mi riportano verso la cucina dei miei suoceri. Apro la porta finestra, faccio per entrare, ma torno indietro. Apro il cellulare e gli scrivo un sms. “Hai fatto un grande gesto, per l’ennesima volta sei un segnale di speranza e un esempio in un mondo dove gli esempi, per ra- rità, sono sempre più importanti. Grazie”. La sua risposta è il senso della sua vita. “Ho fatto quello che mi sentivo”. Poco prima di riattaccare mi aveva parlato anche di un’iniziativa di Granducato Tv cui aveva immediatamente dato il suo assen- so. Dopo la visione del documentario, infatti, alcuni giorna- listi dell’emittente hanno pensato di dedicare al Moby Prince quindici minuti di trasmissione ogni martedì pomeriggio: Lo- ris sarà presente, racconterà la storia e soprattutto risponderà a quanti vorranno intervenire da casa, nella speranza che tra questi ultimi vi sia anche qualcuno con novità esclusive. Pen- so: è un’altra ripartenza. Ancora una volta lui ci sarà. Dopo Loris voglio sentire il feedback di Angelo. Gli scrivo un sms. “Ciao angelo mi ha detto Loris che vi siete sentiti. Ne sono felice, tutto questo lavoro sia servito a qualcosa. Un caro saluto”. Nella sua immediata risposta si scorge ancora una condizione di meraviglia: “Sembra incredibile! Sembra pro- prio di sì poi tiriamo le somme. Un abbraccio”. I giorni seguenti comunico la notizia a Mauro via Skype, senza raccogliere alcuna sua reazione. Forse lo sapeva già, for- se non se lo aspettava, forse c’era altro quel giorno da leggere e commentare. Manca un mese e mezzo alle elezioni e lui, il 28 marzo, ha rassegnato le dimissioni da Segretario comunale del PD. Una scelta di onestà, pare, rispetto ai sotterfugi della politica dirigenziale. Dalle notizie uscite sui giornali si deduce infatti che il PD, ad Arzachena, sarà in lista col PDL. Nel frat- tempo, per il tramite di Loris, mi arriva la richiesta di Riccardo Antonini, dell’Assemblea 29 giugno, per proiettare Ventanni

458 nel corso della loro prossima iniziativa mensile di commemo- razione della strage di Viareggio. Il 29 maggio 2012. La cosa mi onora e mi stimola ad andare oltre un incompiuto mai perfettamente accettato. Dopo il 10 aprile infatti ci sono state poche proiezioni pubbliche di Ventanni e per lo più ho tenuto il lavoro in un circuito ristretto di potenziali tester. Nonostan- te da mesi mi sia detto che quello è un film di Mediaxion e io lo debbo accettare per quello che siamo riusciti a realizzare nei tempi e nelle risorse date, c’era qualcosa dentro di me che mi imponeva un ripensamento. Al di là dei budget, dell’as- senza di retribuzione, di tutta la travagliata storia di questo lavoro, per me fino a quando c’è possibilità c’è speranza. E la speranza di fare di Ventanni un’opera migliore è più grande di qualsiasi freno inibitorio. Senza particolari aspettative, sen- za obiettivi finali, ma nella sola certezza di dover far quanto opportuno, mi sono messo a sistemare alcuni passaggi di cui non riuscivo a rassegnarmi, insieme ad Andrea. Il 29 maggio 2012 Ventanni è così arrivato alla sua prima proiezione uffi- ciale, quale opera compiuta di cui il suo principale autore e direttore è finalmente soddisfatto. A Viareggio manca Giacomo, impegnato nel suo lungo viaggio attraverso Serbia, Turchia, Libano, Iran, Siria e Pale- stina. Un viaggio per finire di dimenticare la sua Silvia e forse iniziare a comprendere quale strada dare al suo futuro. In con- seguenza di questa defezione annunciata Loris è stato portato, come i vecchi tempi, da Enzo. Perché si sa, Loris non ha la pa- tente. Mentre lo guardo avvicinarsi con Enzo al seguito penso che lui questa storia della patente l’abbia fatta apposta. Così almeno un altro con lui doveva sempre spostarsi. I viareggini ci offrono una cena nel ristorante sotto la Sala Grande della Croce Verde dove sarà proiettato il film. Enzo si siede vicino a me e dà spettacolo. Fa ammattire il cameriere chiedendogli come primo “la torta”: «Ce l’avete la torta?». Il cameriere resta basito. «Scusi vuole la torta subito?». Enzo se la ride. «No è che qui la chiamate in un altro modo. La cecìna. Noi a Livorno si chiama “la torta”». L’interdizione del came- riere alla notizia ne inficerà l’espressione per qualche minuto. Finita la cena saliamo le scale ed entriamo nel salone dove

459 qualche mese prima assistetti a un incontro sulla sicurezza ferroviaria organizzato dalle Associazioni Il Mondo che Vor- rei e Assemblea 29 Giugno. Le persone iniziano ad affollare i sedili. Qualcuno addirrittura si ferma in piedi in prossimità della porta. Daniela ci introduce: «Siamo onorati di avere qui con noi Francesco e Loris» e io mi sento per la prima volta a mio agio davanti a tutto quello. Ora mi presento col vestito che ritengo più giusto. Non quello migliore, ma quello possi- bile. Ora sono felice di poter raccogliere quella sincera grati- tudine e darla a mia volta. Lo dico con tranquillità ai tantissimi presenti, rivolgendomi a Daniela. «L’onore è mio di essere qui e di aver potuto conoscere persone come voi». Pochi secondi prima del mio discorso avevano preso la parola gli avvocati dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. All’interno della loro breve relazione avevano chiarito alcuni aspetti legali dell’iter futuro e tra di essi il capo di imputazione possibile di “omicidio colposo con dolo eventuale”. Quella formula, già sentita a casa di Angelo, richiamava l’idea di un comportamen- to erroneo, non volutamente lesivo, ma tale nei termini di una colpevole e cosciente negligenza. Da un anno il dolo even- tuale è diventato non a caso un simulacro fondamentale per il coordinamento nazionale familiari delle vittime: perché a esso si è richiamata la sentenza di condanna dell’Amministratore Delegato della Thyssen Group, emessa dalla Corte di Appello di Torino. A fronte di questa citazione del capo d’imputazione e dell’analisi tecnicista, inevitabile, degli avvocati, ripenso alla causa possibile avviabile insieme dai familiari delle vittime del Moby Prince. Il dolo eventuale potrebbe seriamente essere la chiave. Infondo a esso è riconducibile il comportamento della Capitaneria nell’assenza di monitoraggio efficiente della rada, a esso è richiamabile la falsa indicazione della plancia dell’Agip Abruzzo circa il natante investitore – che per evita- re distrazioni dei soccorsi fu definito una bettolina – e infine a esso potrebbero riferirsi le carenze del traghetto e, non da ultima, la chiusura della valvola di presa a mare dell’impian- to antincendio sprinklers, qualora si riuscisse a dimostrare l’indicazione in tal senso dell’armatore. Nonostante questo piccolo escursus da semi-ignorante nelle potenzialità di un

460 nuovo processo Moby Prince, mi sono sentito di esprimere un commento a riguardo dell’analisi degli avvocati rivolto ai presenti. C’è una giustizia dei tribunali, che si poggia su rego- le ben precise e spesso molto distanti da quanto attiene alla giustizia che ognuno di noi sente intimamente opportuna: «Io mi auguro che a Viareggio si riesca ad arrivare a una giustizia legale, ma allo stesso tempo spero che questa non smetta mai di fare riferimento alla giustizia del cuore. Perché quella deve restare la più importante». Daniela ha colto il senso di queste parole e prima di avviare la visione del film ha chiosato: «Per richiamarmi a quanto ha detto Francesco, noi sappiamo che in tribunale i nostri avvocati daranno battaglia e sarà tutto molto difficile. Ma anche se qualcuno riuscisse a sfuggirci lì sappia che noi non ci fermeremo. Perché a chi ci ha ammaz- zato figli, nipoti, fratelli, sorelle noi gli si cava anche gli occhi». La sala si è scaldata in un applauso accorato. Bella Daniela, che bellezza, quanta verità, purezza, in quel discorso da madre toscana. Sarebbe da fare un bel film, “Daniela VS Moretti”. Per un attimo su quella sedia ci ho pensato. A chi ha detto che Viareggio è stato solo “uno spiacevole episodio” la madre di Emanuela gli caverebbe gli occhi. Un piccione che ti caga in testa è uno spiacevole episodio. Una strage dove trenta- due persone muoiono bruciate vive, alcune delle quali, come Emanuela, dopo quarantadue giorni di atroci sofferenze, è qualcos’altro. Dev’essere qualcosa di diverso. Deve meritare altre parole. Deve richiamarci il bisogno di altre sensibilità. Finita la proiezione Enzo mi si avvicina: «Guarda a Livorno, quando lo vidi, non mi era piaciuto tanto. Forse l’emozione. Non lo so. Poi vedere il figlio del Comandante che ride… nel pezzo dove dicono “Livorno ci vede con gli occhi”… che ride per la nebbia. Mi fece un effetto strano. Oggi invece, riveden- dolo, ti dico che mi è piaciuto. L’ho capito di più». «Bene. Grazie». È un altro grazie sentito. Loris nel frattempo risponde alle domande dei tanti pre- senti. Spiega, racconta. Per me è il riconoscimento più bello vedere di aver ridato ossigeno al fuoco della sua storia. Ora però Enzo vuole andare oltre. Vuole dirmi di più: «Io un gior- no, e venne da me in ufficio, trovai questo signore che faceva

461 lavori di manutenzione nelle navi e aveva avuto da Onorato una serie di commissioni sulla Moby Prince prima di quello che è successo. Venne da me e mi disse: “Guardi io le faccio nomi e cognomi e le spiego tutte le carenze di quella nave”. Io, deh, gli dissi: “Fermo che prendo un foglio” e scrissi tutto, appuntai tutto. Mi feci lasciare nome, telefono e gli dissi che con quello sarei andato dal giudice. Lui disse che andava bene. Io non aspettai due giorni, portai tutto all’avvocato e poi si andò dal giudice per una convocazione… mi pare dissero così. Quando arrivai me li vidi tutti in fila. Quelli che lui aveva elencato come responsabili erano lì belli seduti e tranquilli. Quando entrai il giudice mi disse: “Guardi non se ne può fare di nulla perché il suo contatto ha ritrattato tutto”. Io uscii e li guardai tutti, uno per uno. Mi facevano schifo. Io sapevo, me l’aveva detto quell’uomo cosa avevano fatto, e invece erano riusciti a ricomprarselo». Enzo fa un’espressione di odio pro- fondo. Lui non perdona. Non conosce il perdono: «Guarda io sono sempre stato così. Bono e caro ma se mi fai del male io prima o poi te la rendo». A quelle persone lui l’ha giurata, prima o poi troverà il modo di chiudere il cerchio. Prendiamo le macchine e ci avviciniamo alla casina di legno in prossimità del luogo della strage di Viareggio. Alcuni tre- ni passano lasciando sulla scia il rumore acuto di un fischio riconoscitivo. Riccardo Antonini mi si avvicina: «Gliel’hanno detto di non farlo più, pena sanzioni disciplinari ma qui ogni 29 del mese chi passa fischia». Lui ha pagato quella solidarietà forte e partecipe ai familiari delle vittime della strage con il licenziamento. «Ma poi com’è andata a finire la tua storia con le ferrovie?» chiedo. Riccardo sorride sotto la barba bianca. «Sto aspettando la prima udienza». Osservo le persone presenti. Visivamente le conosco una per una. I viareggini sono un elemento conduttore del per- corso di Loris nel documentario. Sono il simbolo della sua aderenza solidale al presente. «Ma qualcuno sta raccontando tutto questo? Un film, qualcosa?» domando. Riccardo mi ri- sponde che ci sono due ragazzi di Roma che stanno facendo un lavoro simile al nostro. Li hanno seguiti in alcune manife- stazioni. Stanno operando in quella direzione. Daniela è poco

462 più avanti, osserva il muro che ci divide dalla ferrovia con lo sguardo di chi sa di dover combattere a prescindere dagli esiti. Per necessità. Per istinto. Per quanto di più puro abbiamo al mondo. E tra questi resta l’esserci là dove più serve. Riccardo, per esempio, è qui: «Te pensa che poco prima della strage di Viareggio avevamo fatto una vertenza sindacale, poi vinta, per non eliminare il capo stazione e quella sera lì c’erano due treni passeggeri, uno da sud e uno da nord che se arrivavano in Stazione al momento dello scoppio del gpl qui era un’eca- tombe». «Perché» chiedo ingenuamente, «cosa volevano mettere al posto del capo stazione?». La sua barba bianca compone un sorriso sarcastico: «Un sistema automatico. Di notte c’è in molte stazioni. Ma siccome qui c’è molto traffico noi abbia- mo cercato di tenere la persona e quella notte ha salvato più di duecento persone». Lo osservo. Riccardo è un altro comu- nista. Esistono. Non sono estinti. E soprattutto continuano a far qualcosa nella direzione di sempre. Non c’entra lo statali- smo. Non c’entra nemmeno la teoria. Riccardo è un altro co- munista di pratica. Uno che si sente parte di una ragione più grande della propria singola esistenza, del proprio singolo po- sto di lavoro, della propria singola pelle: «Io Francesco sono un superstite di questa strage. Sono passato sul ponte venti minuti prima. Se ritardavamo di poco la fine della riunione ci rimanevo anch’io. Appena sono andato a letto, tempo cinque minuti mi sveglia mio figlio. Dice: “Babbo è successo qualco- sa alla stazione”. Siamo andati subito. Qui sembrava di essere in guerra». L’occhio mi torna a cadere su Daniela. È sola, a pochi metri da altri, nel momento in cui risuonano le 23:48. Un minuto di silenzio. Il fischio di un altro treno. Loris guarda lontano. Respira. Il minuto finisce ed Enzo si muove nella solita agita- zione; quell’atmosfera l’ha vissuta troppe volte. Sono passati ventuno anni dal Moby Prince e quasi tre anni dalla Strage di Viareggio. Quella che poteva diventare la pietra miliare del- la corretta convivenza civile italiana, il simbolo di un’idea di giustizia finalmente equa e comprensiva, si è rivelato essere il volano per la degenerazione dell’irresponsabilità dirigenziale.

463 Dopo il Moby Prince, dopo aver accettato il Moby Prince, tutto è diventato possibile e, come testimonia la tragicità del- lo sguardo di Daniela, tremendamente intollerabile per chi si trova a subirlo. Tremendamente intollerabile per chi non può smettere di volere un finale diverso.

464 33. CONCLUSIONI

“Dilige et quod vis fac”. Au r el i o Ag o s t i n o D’Ip p o n a , Aprile 407 d.c.

Nel suo capolavoro, L’ombra del vento, Carlos Ruiz Zafón fa dire al suo protagonista questa frase: “un racconto è la lettera che un autore scrive a se stesso per mettere a nudo la propria anima”. Ricordo Loris davanti a me, all’esterno della stazione ferroviaria di Livorno Centrale, una settimana dopo il 10 apri- le 2012: «France non puoi far uscire questo film senza il dia- rio. Il diario è troppo importante per capire il film». Tentai di dissuaderlo. Tanto del diario non l’aveva letto e poi molto di ciò che avevo scritto, di quelle motivazioni, lo ritenevo oramai caduto sotto il peso della storia. Ma Loris alzò i baffi. Rispet- ta le posizioni di tutti conservando quasi sempre la propria: «Secondo me sbagli». Poco tempo dopo non potei far a meno di dargli retta. Tutta quella mia anima nuda, descritta da Ruiz Zafón, mi spaventava. Ma Loris aveva ragione. Quella lettera, che l’autore spagnolo segnalava indirizzata a me, andava spe- dita ad altri. Quanti, non so. Ma sicuramente qualcuno più di me medesimo. Infondo scrivere è uno strano modo astratto per ritagliarsi, nelle menti di un lettore spesso conosciuto, quell’attenzione che non si è riusciti a ottenere con altre forme di comunica- zione. Un ascolto totale, unidirezionale e() quindi utopico, ma pur sempre necessario per chi coltiva la speranza di intendersi attraverso l’esercizio dello spiegarsi, per un bisogno profondo e inarrestabile: forse, per amor di verità. Quando, un anno e mezzo fa, nel corso del primo incontro del workshop Rac- contare l’avventura, Stefano Tealdi mi chiese perché voles- si fare Ventanni, risposi: “per suscitare una reazione”. Nella mia mente l’immobilità di questo Paese poteva essere scossa da un progetto ben congegnato, in grado di far comprendere quanta lezione di vita vi fosse dietro la storia del Moby Prince.

465 L’idea poi che tutto questo fosse realizzato da un’organizza- zione economicamente solidale avrebbe rappresentato l’esat- to compimento dello scopo. A distanza di un anno e mezzo la motivazione è rimasta ma le premesse sono mutate radi- calmente. Il fine resta, i mezzi hanno dimostrato tanto altro. Volevo suscitare una reazione, ma in chi? Col tempo mi sono accorto che non avevo in realtà la possibilità di suscitarla nel pubblico. Un film è solo una minuscola parentesi di comu- nicazione mediatica nel mare delle nostre esperienze dirette. Soprattuto un film segue le regole del linguaggio cinemato- grafico: tempi, modalità di presentazione dei personaggi, pro e contro dell’immagine sonora in movimento. E ormai siamo anestetizzati da questo linguaggio impacchettato nel ruolo di doverci intrattenere. “La gente Francè si vuole divertire, i documentari come questo rompono le palle” mi ha detto un amico del settore, sincero e caustico. E infondo ha ragio- ne. La gente non vuole imparare da un documentario, forse non vuole imparare e punto, e poi un documentario ti dà solo l’illusione di padroneggiare un argomento. Chiunque sa un minimo di audiovisivo, di montaggio, di narrazione filmica, conosce la pochezza del messaggio informativo cinematogra- fico. Quando ho capito tutto questo, o meglio, quando l’ho accettato, davanti a me avevo l’imbarazzo di pensare a un pro- dotto che in realtà avrebbe addirittura limitato il mio scopo. Le potenzialità del documentario sono state sostituite dai suoi limiti profondi e io, se avessi voluto guadagnarci qualcosa di immediatamente materiale, avrei dovuto sottostare al suo vo- lere. Avrei dovuto accettare di togliere parti importanti che avrebbero favorito l’avvicinamento tra i protagonisti, a fronte di un maggior ritmo del tutto, e soprattutto avrei dovuto inse- rire scene, dialoghi, più forti, ma che avrebbero indubbiamen- te aumentato i mattoni del muro divisorio tra alcuni di loro. Dal momento in cui ho iniziato a comprendere che il mio scopo reale non era quello di fare un documentario per un generico pubblico, ma di aiutare i protagonisti ad avvicinarsi alla verità, allora ho capito in chi veramente stavo cercando di suscitare una reazione. Credo che sia necessario passare dalla logica dell’oppor-

466 tunità alla sensibilità dell’occorrenza. Sono passati due anni dall’inizio di questo progetto. Un tempo relativo. Un decimo dei ventuno anni che separano tutti i familiari delle vittime del Moby Prince dal giorno in cui diventarono tali. Io non sono così presuntuoso dal pensare di aver cambiato le vite di Loris, Angelo, Ivanna, Mauro e Giacomo, ma credo di aver tenta- to, con il mio comportamento, di restituire loro qualcosa che questi ventuno anni avevano loro tolto. Cosa sia non so bene definirlo. Ma comunque si avvicina all’idea di un equilibrio migliorativo. Infondo quel che è successo è semplice da raccontare: co- nosci delle persone e senti di dover fare qualcosa per loro e che facendo qualcosa per loro lo stai facendo a te e forse, se c’è una piccola remota speranza in un mondo migliore, lo stai facendo al tutto in cui viviamo. Vedo così un’immagine di Angelo in un bar. L’ha postata un suo amico di Facebook e tramite il tag compare anche nella mia home. Lo vedo sor- ridente. Ne sono felice. Se tutto va bene ritroverò Mauro in Sardegna, quando arriveranno le tanto agognate ferie. Mentre Giacomo e Loris erano qui, a casa mia, poche settimane fa. Nel pomeriggio siamo saliti fino alla vetta di Fosdinovo, là dove resta appollaiato il Museo della Resistenza, per seguire la rappresentazione dello spettacolo teatrale 1991. Il fatto non sussiste. A causa del forte vento, io Francesca e Anita siamo tornati indietro prima di sera, ma loro non sono voluti manca- re. Mediaxion è stata congelata nell’attesa di recuperare un vo- lume accettabile dei suoi crediti e le strade con alcuni di colo- ro che hanno partecipato alla realizzazione di Ventanni sono rimaste divise. Il documentario, nel frattempo, viaggia da una città e l’altra per proiezioni gratuite organizzate da associa- zioni di familiari delle vittime di stragi vicine al Moby Prince, collettivi di sinistra radicale e Comuni, come San Benedetto del Tronto, che hanno visto morire propri cittadini in quel traghetto, senza dimenticarlo. La vita, come diceva Ivanna, va avanti in un modo o nell’altro e a noi sta il dovere di renderla più vicina a ciò che ci rende felici. A tal proposito Anita cresce a vista d’occhio e ogni tanto, mentre mi sorride con quei suoi grandi occhi da anima anti-

467 ca, le sussurro qualcosa che ora non può capire, ma forse un giorno riconoscerà: “mi hai ridato la vita, bambina mia, gra- zie”. La sua presenza ha trasformato l’ordine delle percezioni e delle priorità. Ora tutto quanto è importante ruota attorno alla nostra serenità e al viverla pienamente. Dopo aver passa- to anni nel tentativo di costruire qualcosa che non esisteva o distruggere l’esistente non tollerato, oggi siamo a evolvere la nostra piccola comunità. I massimi sistemi sono lontani quan- to i problemi che riguardano luoghi non raggiungibili a piedi o con un accessibile mezzo di trasporto. Tutto ha preso una strada e in questo momento questa, e ciò che le è ai lati, rac- coglie molto più interesse di quella che ha tutta l’aria di essere una meta inevitabile ma sconosciuta. Dopo mesi di ricerca di un lavoro con cui sostenerci e per- sino la partecipazione a un concorso pubblico per ausiliari del traffico, ho ricevuto la chiamata di una persona che anni fa ri- conobbe in me qualcosa di valido, quando ancora avevo fatto lavorativamente ben poco. Tre giorni a settimana prendo così la mia bicicletta, la carico sul treno delle 6:56 e, dopo due ore e mezzo e un cambio, arrivo a Siena; una città dove molto del mio percorso di vita ha preso forma. Durante il viaggio riesco a lavorare col portatile e una larga parte di questo volume è stata scritta con questo sulle ginocchia, tra le fermate dei due regionali che da casa mi portano al luogo dove “c’è lavoro”. Appena finite le attività riprendo la bicicletta e forte di una di- scesa con pendenza del 10% arrivo in due minuti al treno, col cuore in gola. Tra due ore e mezzo riaprirò la porta di casa e ritroverò lì la principale soddisfazione delle mie giornate: mia moglie, mia figlia, la mia comunità. Nel frattempo il mio percorso di relazione con la storia del Moby Prince è andato avanti. Oltre alla stesura definitiva di questo volume e ad altre attività relative all’editing del dvd, qualche settimana fa sono riuscito finalmente a conoscere Valentino Rolla. Al termine delle nostre reciproche domande e risposte mi ha manifestato la buona predisposizione verso l’idea di incontrare Angelo, Loris e gli altri. Vorrebbe riuscire ad andare oltre ciò che è stato finora e la sua auto-convinzione che i familiari delle vittime del Moby Prince non perdonino

468 a lui e al resto dell’equipaggio dell’Agip Abruzzo, di essere sopravvissuti. Ho cercato di fargli capire come stanno le cose, per quanto ne ho capito io, ma l’idea di un confronto diretto resta sempre la migliore strada dell’intendersi: Loris si è detto disponibile, Angelo non sono riuscito ancora a trovarlo. A proposito di quest’ultimo Valentino Rolla mi ha raccontato che in un’occasione il fratello non volle stringergli la mano. Incuriosito da questa sorta di bilancia della storia, dalla mano non stretta a Rolla a quella non stretta ad Angelo da Giacomo, ho cercato di spiegare al mio interlocutore le sue ragioni: «Per Angelo tu e il resto dell’equipaggio avete mentito, Valentino. Lui crede che la dinamica dell’incidente sia diversa da come l’avete descritta voi, che la prua fosse a sud come dice Supe- rina sul 16 e poi non crede alla storia della nebbia». Valentino Rolla ha guardato distante dai miei occhi e da quelli della sua compagna, intenta ad ascoltarlo con un sensibile grado di tra- sporto emotivo: «Io non avevo nessun motivo per dire balle allora e non ce l’ho adesso davanti a te. Io all’inizio pensavo fosse fumo, tant’è che ho detto al marinaio di controllare se c’era qualcosa che non andava di sotto. Però poi ho sentito bene, ed era nebbia. Sulla prua poi io Livorno, le luci di Livor- no, le vedevo lì» indica circa 30-40 gradi verso destra davanti a lui, «e questa è la verità. Ad un certo punto ho visto ‘sti due fanali che ci puntavano, mi sono buttato a terra per attutire il colpo e poi, dopo poco, è arrivato il Comandante sul ponte. Io da lì, cos’è successo sul ponte, non lo so e non è mia re- sponsabilità. Quello che ti sto dicendo a te l’ho detto ai nostri avvocati, ai magistrati allora e gliel’ho ridetto qualche anno fa quando mi hanno richiamato, perché è la verità. Io se vuoi posso sedermi a un tavolo come sono ora con te e dirlo anche a loro, a Chessa e a Loris. Non ho problemi. Anche perché è andata davvero così. Il problema è che noi siamo sopravvissu- ti, io e gli altri abbiamo avuto la colpa di restare vivi, di portare a casa la pelle dopo un’esperienza del genere». Non è quello il problema, ho provato a spiegare: «Il proble- ma, quello che, almeno Loris, imputa al Comandante Superi- na e a Recanatini è che avevano visto che era un traghetto e invece, per salvarsi e dirottare su di voi i soccorsi hanno det-

469 to “sembra una bettolina quella che c’è venuta addosso…”, “non scambiate lei per noi…”». Valentino Rolla, in uno dei rari momenti in cui ha soffermato gli occhi sui miei, si è la- sciato andare un doloroso, quanto inedito, ricordo: «Fui io a dire inizialmente al Comandante che era una bettolina, perché così, dall’alto con quei fari accesi, mi era sembrata una betto- lina. Poi però quando sono andato giù io l’ho visto il traghetto e l’ho detto al anche al Comandante che era un traghetto. Si vedevano le fiamme dietro le vetrate, una cosa veramente ter- ribile…». Pochi minuti dopo la mia precisa domanda, Valenti- no Rolla aveva messo delle parole sotto l’espressione del volto con cui aveva concluso il discorso precedente: «Sì, ho avuto paura di morire anch’io». Forse, la stessa di Superina. Scelte. Le scelte decidono chi sei. Prima della motivazione, l’azione. Cosa fai. Cosa scegli di fare. Io continuo a credere in quella frase di Sant’Agostino: “Dilige et quod vis fac”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E l’amore non ha molto a che vedere con la nostra individualità, con i nostri ruoli e doveri relativi. Re- nato Superina è morto. Forse ha creduto veramente che quella fosse una bettolina e pace alla sua anima ferita dalle illazioni. Però, se quelle fossero vere: è stato un buon Comandante, un buon responsabile a bordo per la propria compagnia armatri- ce, magari un ottimo padre e marito, ma a quello, come tanti altri fanno quotidianamente, ha scelto di fermarsi. Così, ven- tuno anni dopo il Moby Prince, c’è un passaggio dell’incontro con Valentino Rolla che mi è rimasto particolarmente impres- so: «La SNAM si è comportata da grande compagnia che era. La notte142 ci hanno portato in albergo, hanno chiamato le famiglie di tutti per tranquillizzarle, avvisare che nessuno di noi era rimasto ferito… e la mattina dopo avevamo già gli av- vocati sotto l’albergo». Spontanea mi è sorta un’informazio- ne: «Lo sai che invece Nav.ar.ma. non avvisò nessuno? Non avvisò né i familiari dell’equipaggio né quelli dei passeggeri, anche se, almeno dei primi, la lista è sicuro che l’avessero». E lì Valentino Rolla mi ha detto questa cosa: «Vedi, io Onorato non lo conosco personalmente, ma conosco qualcuno che ci

142 Dopo l’arrivo in banchina, ndr

470 ha lavorato e mi ha fatto un po’ il quadro della persona. Se- condo me lui in quel momento ha fatto questo ragionamento, da imprenditore: gli equipaggi si cambiano, i passeggeri ogni volta sono diversi, l’unica cosa che rimane è la compagnia» una pausa, «e lui si è preoccupato della compagnia, dell’imma- gine della compagnia» altra pausa, «e alla fine lui è lì, è ricco, ora ha anche la Tirrenia mentre noi siamo qua a parlare di questa storia». Non sono riuscito a conoscere Vincenzo Onorato diret- tamente e quindi non posso confermare o rigettare questa deduzione. Ma le scelte decidono chi sei e mentre con Loris giriamo l’Italia per le proiezioni gratuite di Ventanni, Vincen- zo Onorato inaugura la nuova tratta Cagliari-Civitavecchia, coperta dal traghetto Bonaria della Compagnia Italiana di Navigazione, la nuova creatura societaria di cui è azionista principale e che ha rilevato la statale Tirrenia. «Il Comandante è sardo» ha spiegato Onorato durante la visita all’Amsicora, altro traghetto che coprirà la tratta, «mentre per il futuro biso- gna creare le basi con scuole di formazione e aggiornamento, magari dalle scuole medie. Non ci si inventa marittimo, biso- gna creare le condizioni, e noi intendiamo farlo». L’Ammi- nistratore Delegato Ettore Morace ha chiarito il messaggio: «In autunno è prevista una Fondazione Tirrenia, non profit [...] che opererà, oltre che per la riqualificazione del perso- nale, anche per far conoscere ai giovani il mondo delle navi e offrire nuove opportunità di lavoro in futuro»143. Come da lucida analisi di Valentino Rolla, la compagnia è rimasta, si è ingrandita e oggi il suo proprietario può arrivare a compra- re, in partecipazione maggioritaria, la statale Tirrenia. Questo modello imprenditoriale ha indubbiamente vinto la sua com- petizione: centinaia di lavoratori, equipaggio delle sue imbar- cazioni, e milioni di passeggeri sono lì a dimostrarlo. Ma lo ha fatto scordandosi il primo verbo della frase di Sant’Agostino e concentrandosi sulla seconda parte, con il bene placet delle Istituzioni di questo paese e della maggioranza dei suoi cit- tadini. E se qualcuno, come Loris, gira l’Italia per ricordarlo,

143 Unione Sarda, 30 luglio 2012

471 allora forse un’altra partita si sta ancora giocando e non ri- guarda l’evoluzione di un mercato fiorente come quello della navigazione. Riguarda il futuro di tutti noi. Perché un paese che non è riuscito a risolvere il Moby Prince è un paese che non può trovare equilibri di pace. Con queste motivazioni le uniche mie parole che ho voluto scrivere sul documentario, recitano: “La verità lenisce il dolore. Chi sa parli”. Se questo racconto aiuterà qualcuno dei testimoni diretti e indiretti della vicenda a riconoscere in se stesso o se stessa il bisogno di in- dicare informazioni finora taciute, allora parte del suo scopo sarà raggiunto. Quel piccolo gesto rappresenterà il segnale di speranza per una battaglia che ci restituirà i suoi frutti: la bi- lancia inizierà ad alleggerire un piatto e trovare un equilibrio migliore. Se poi questo racconto aiuterà qualche cittadino di questo paese a sentirsi in dovere di conoscere i familiari delle vittime della tragedia a lei o lui più vicina e supportarli nella loro azione di rivendicazione e ricerca, la bilancia sarà lanciata verso il suo punto di pareggio. Ventanni mi ha cambiato. Penso di dovere molto alla co- noscenza di Loris, di Giacomo, di Angelo, Mauro e del resto dei protagonisti di questa storia. Penso di aver imparato una breve ma radicale serie di lezioni. La memoria può aiutarci, come nelle intenzioni di Loris quando richiama le persone al ricordo delle cause del Moby Prince, affinché “tragedie come queste non accadano mai più”. Purtroppo però fino al giorno in cui questa memoria non sarà completa, l’insegnamento re- sterà difficile da cogliere. Se la memoria collettiva ricorda un incidente accaduto perché l’equipaggio guardava la partita in televisione, il messaggio che resta è “renditi conto che cosa in Italia può succedere per il calcio”. Un messaggio innocuo. Capace di suscitare al massimo un richiamo di una moglie davanti al marito che si fa l’abbonamento a Sky calcio. Se in- vece la memoria collettiva ricordasse l’integralità della storia del Moby Prince, molte più lezioni potrebbero rendere mag- giormente matura la nostra coscienza. Eppure questo popolo ha scelto di dimenticare. È stato ancora una volta incapace del serio spirito del ricordo. E il perché è dentro ognuno di noi. La più grande tragedia sul lavoro e il più grande disastro della

472 marina civile di questo paese sono fuori dai libri di storia per un motivo insito nel senso profondo del messaggio di questa enorme strage: i vivi responsabili hanno vinto, il sistema dei vivi responsabili che ha portato alla morte di quelle 140 per- sone è ancora attivo e ci fornisce quanto ci siamo abituati a ri- tenere soddisfacente – posti di lavoro, beni e servizi – e le per- sone comuni, quelle che su quel traghetto potevano esserci o averci un familiare, non sono riuscite a capire che nella lotta di chi ha cercato verità e giustizia per questa vicenda c’era l’unica delle rivolte possibili. La rivolta di chi ha sofferto e conosce la legge della giustizia. La rivolta di chi, solo, può insegnare agli altri la misura con cui giudicare i responsabili. Questa sto- ria, la storia del Moby Prince, ha dimostrato che per lo Stato Italiano punire se stesso – SNAM, Capitaneria – o un grande imprenditore di un settore dai risvolti normativi quantomeno oscuri, è inopportuno. Per lo Stato Italiano non servono quel tipo di colpevoli e questo tipo di lezioni. Per lo Stato Italia- no non si può far saltare in aria un sistema relazionale, fatto di compromessi economici, pesi e contrappesi diplomatici, al solo scopo di dare pace ai familiari e ai cari di 140 persone così tragicamente scomparse. Quindi se la memoria invocata da persone come Loris è in grado di portarci alla rivolta con- tro questo tipo di sistema, di atteggiamenti personali, persino di Stato, io credo che quel messaggio debba essere ascoltato e diffuso. Perché quella memoria non ci ricorda chi eravamo, ma chi abbiamo imparato a essere. La memoria però può anche diventare un freno all’andare avanti. Se è vero che è impossibile dimenticare eventi del ge- nere per chi in essi ha perso una persona cara, è anche vero che nel rimanere incollati a quell’attimo in cui si prese atto di quell’evento e del suo potere destabilizzante per la propria vita, si rischia di perdere l’opportunità di un domani migliore. E qui sta la lezione imparata da Mauro. Una lezione da ap- prendere senza alcun giudizio. Quando sopravviviamo a qual- siasi evento siamo tenuti ad andare avanti e possiamo sceglie- re come farlo. Mauro ha scelto di ricostruirsi la sua felicità e questo è un messaggio importante. Si può. Credeteci. Anche quando tutto sembra andare nella direzione opposta. Anche

473 quando si riparte dal punto zero, la felicità può tornare a bril- lare e la felicità ridefinisce l’ordine delle priorità. Quando oggi Loris mi dice di essere rimasto deluso dalla mancata presenza di Mauro al 10 aprile 2012 io riconosco in quel dispiacere il richiamo di chi ha creduto nella necessità di un percorso di lotta oltre la propria intima rielaborazione della vicenda, non è stato seguito e per questa solitudine ritiene di averlo visto fallire. Chi è lontano non è presente, a suo diritto, ma a collet- tiva conseguenza. Eppure quel messaggio di Mauro, lasciato sul gruppo Facebook in memoria dei genitori in quella stes- sa giornata, è un atto di testimonianza che va oltre i confini del suo intimo percorso. Lui c’è, così, e nell’ultima frase che chiude il commento dell’immagine dei genitori sta il senso di un insegnamento per tutti: “Mi mancate ogni giorno ma con Antonella e Federico il vostro ricordo non è più triste”. È giusto inseguire con perseveranza il proprio bisogno di verità, soprattutto nell’idea che una menzogna, anche se rela- tiva a qualcuno che non c’è più, colpisce chi resta a difenderne la memoria e chi è portato a incamerarla come un dato di fatto. E quando si ha ragione o quantomeno si ritiene di non aver torto è corretto non mollare mai. Questo l’ho compreso dalla conoscenza di Angelo. Ventuno anni dopo la collisione del Moby Prince c’è ancora un uomo che spende tempo e ri- sorse nella ricerca di quella verità sconosciuta ma riconosciuta dal negativo delle migliaia di carte raccolte nel corso dell’iter processuale. La perseveranza di Angelo, la sua convinzione nella capacità della logica, dell’analisi, dello studio di farci per- venire a una ricostruzione più realistica su quanto accaduto a Livorno la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, è indubbiamente un messaggio di speranza: non mollare, non chinare la testa davanti ad alcuna istituzione che ti fornisce le risposte sbaglia- te. Ma è necessario stare attenti al proprio bisogno di verità. Perché spesso lo confondiamo con la necessità di coerenza informativa, con la logica di una storia. Qualsiasi verità è un racconto e un racconto può basarsi su una concatenazione di deduzioni, potenzialmente sbagliate, e quando abbiamo un bisogno fisico di mettere i tasselli in ordine, rischiamo di con- vincerci di esse per la sola loro coerenza. Questo ci appaga

474 mentalmente, ci fornisce magari la soddisfazione di aver risol- to un problema che abbiamo fatto diventare intellettivo, ma non riesce, inevitabilmente, a rasserenarci. Angelo è sopravvi- suto al Moby Prince ma ne è rimasto profondamente turbato. Ancora oggi risento un brivido nel rievocare il momento in cui, nel leggere la sentenza con cui lui e il fratello venivano risarciti per la diffamazione del padre operata da un giornali- sta de L’Europeo, scoprii che nel risarcimento di Angelo era inclusa una quota relativa al suo recupero successivo a un pe- riodo di depressione, vissuto dopo l’uscita di quell’articolo. Quell’uomo grande e grosso, col suo fare diretto e repentino, aveva, come ero riuscito a sentire, un tallone d’Achille sco- perto. E io, in questo, riesco a capirlo profondamente. Alle volte pensiamo di poter risolvere tutto con la nostra testa o con l’aiuto di persone attorno cui chiediamo di replicarne in- tuizioni e intenti. Ma questo, spesso, ha poco a che vedere con la verità. Infatti, per Angelo, il Moby Prince era rimasta una ferita ancora aperta, alla quale, nonostante tutta la scienza infusa riversatavi, non riusciva a mettere alcun cicatrizzante. Angelo però una vita parallela al Moby Prince l’ha costrui- ta, due figli, una moglie, il basket, un lavoro gratificante; e in quello ho riconosciuto la sua pace, il suo equilibrio. Se per lui questa vicenda è diventata a tutti gli effetti un baule da riaprire ogni tanto, per necessità e amor di verità, Ventanni è riuscito a metterlo di fronte a quella che penso essere la radice della sua condizione emotiva rispetto a questa storia: tutta quella ricerca di risposte documentali, scientifiche e peritali, lo ha tenuto distante dall’unica verità capace a mio parere di dargli, anche qui, un po’ di pace: lui è un familiare delle vittime del Moby Prince, come tutti gli altri. E il modo migliore per esser parte è ascoltare. Anche quando è difficile e anche quando il messaggio ricevuto è diverso dalle proprie convinzioni. Esse- re figli del Comandante, in una tragedia come il Moby Prin- ce, è come essere il fratello dell’addetta alla boutique. Perché ogni volta che il destino ci unisce ad altre persone, abbiamo l’opportunità di riconoscerci parte di uno stesso insieme e quell’insieme può ottenere, unito, quanto da soli mai sareb- be possibile raggiungere. Questo non significa che unirsi sia

475 sempre la scelta più opportuna. A volte è necessario allonta- narsi da qualcosa per capire quanto ne abbiamo bisogno e a volte accade l’esatto contrario. In entrambi i casi non riesco a non pensare a quella frase di De André che in questo periodo riflette molta della mia condizione: “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Loris Angelo e Giacomo si sono avvicinati. Sarà la concretezza di un eventuale percorso comune ad accentuare il rapporto tra loro o segnalarli la ne- cessità di proseguire le loro strade, divisi. E questo meritava di essere sperimentato. Dopo l’esperienza di questo progetto sono ancora più con- vinto che le emozioni forti, in particolare quelle dolorose, scavino l’involucro dell’anima delle persone. Una volta che quell’involucro è stato modellato da queste emozioni, ogni respiro ulteriore entra in un involucro più largo e profondo. Ogni gesto, ogni momento, per chi ha vissuto queste emozio- ni, può trovare una strada più lunga in un’anima che prima non conosceva la possibiltà di limiti più profondi nel proprio essere. La memoria diventa così quel riconoscimento perpe- tuo della propria condizione di “diversi”. Quel sapersi più profondi, scavati là dove altri non hanno cognizione si possa arrivare e tra “diversi” ci si può riconoscere, come è stato tra Loris e Daniela Rombi, che ha visto l’involucro della propria anima scavato dalla morte della figlia nel disastro di Viareggio. Ricordo ancora Loris a Viareggio dire su quel palco: «Credo che non sia un Paese normale quello in cui una madre sia co- stretta a mostrare il proprio dolore, scendendo in piazza con la foto del proprio figlio, per ottenere giustizia, ma questa è l’Italia che abbiamo» e ripenso al concetto di elaborazione del lutto e alla sua relazione con la memoria. Qualche psicologo o neurobiologo potrebbe forse chiedere a Daniela, come a Loris, come a Ivanna o ad Angelo di dimenticare per andare oltre il proprio lutto? No. Sicuramente no. Eppure solo poche settimane fa ho avuto tra le mani uno studio144 che parlava di nuove tecniche neurobiologiche tese a “tagliare le memorie” per fini terapeutici. Con una punta di orrore ho pensato a

144 Scientific American, january 2012

476 cosa resterebbe a tutti noi se le memorie dei familiari delle vittime del Moby Prince fossero state tagliate. La scienza, da- vanti a queste persone, dovrebbe trovare l’umiltà di fermarsi e semplicemente fare una migliore esperienza dei messaggi che ci possono affidare. Perché la profondità dell’involucro delle loro anime è in grado di insegnarci dove quel bisogno di pace che guida chi ha subito ingiustizie così grandi può portare un essere umano. Alle volte sbagliando, per eccesso di aria nei polmoni, per quella rabbia profonda che in qualche modo scova tutto il rancore dentro e lo spinge fuori, come tra i familiari delle vittime del Moby Prince, scegliendo l’obiet- tivo sbagliato con parole sbagliate. Parole che diventano poi l’architrave di una memoria che divide, proprio per l’incapa- cità di andarvi oltre. Lì, forse, le persone estranee alla vicenda possono fare qualcosa. Possono mostrare a chi è in mezzo all’arena che nel frattempo gli spalti sono diventati vuoti e quello che appariva un recinto chiuso è in realtà pieno di vie d’uscita; nell’idea che tutte quelle vie d’uscita non chiedano di dimenticare, ma di ricordare meglio ciò che viene prima di ogni scontro: l’essere di fronte in uno spazio e tempo comu- ne. Come quando Loris, Angelo, Ivanna, Stefania, Paola e tut- ti gli altri furono catapultati dal destino nel Terminal Crociere del Porto di Livorno. Persone lontane, per estrazione sociale, provenienza e storia personale, unite da una tragedia comune, perché i propri cari avevano condiviso, per destino, l’utilizzo di un mezzo di trasporto popolare: un traghetto. I veri ricchi viaggiano in yacht o con barche private. Le persone comu- ni prendono il traghetto. Allora in quel Terminal Crociere, come familiari e in alcuni casi amici o compagni o amanti di centoquaranta persone comuni imbarcate nel Moby Prince e morte poche ore prima in attesa di soccorsi che questo Stato doveva assicurare, c’erano sì persone diverse tra loro ma pur sempre, un attimo prima del confronto, persone. E in questo caso, persone comuni, come me, come te che stai leggendo, come il 99% di questo pianeta. Ricordare loro, chi è rimasto, è un modo per ricordarci chi siamo. Per ricordare quanto l’oriz- zonte del noi, che questo mondo dannatamente individualista restringe sempre di più, possa tornare ad allargarsi.

477 Mostrare come si possa, lavorando sulla memoria e la re- lazione, favorire processi di riavvicinamento, è stato infine il modo per ricordarci cosa, oggi e domani, possiamo essere. Qualcosa di molto lontano dalla lezione che cercò di darmi quel giovane presidente di una cooperativa fiorentina che davanti al mio richiamo rispetto alla necessità di un cambia- mento radicale da parte della nostra generazione mi rispose, con candore: “Vedi io penso questo: questa gente prima o poi morirà e se io sono lì, potrò prendere il loro posto”. In opposizione a lui e a quanti continuano a renderci una genera- zione storicamente fallita resta nella mia mente un’immagine che purtroppo non è nel documentario. Un’immagine che il destino ha voluto non farmi riprendere per uno scherzo della sorte. Quell’immagine è Giacomo, in Val di Susa, a combat- tere con il movimento No Tav. Quella scena mai girata la vo- levo come inizio del documentario, “Chi semina vento racco- glie tempesta”. Quel ragazzo di ventidue anni che ha subito un’ingiustizia così grande, oggi è sul fronte di una battaglia comunitaria per solidarietà alle genti della Val di Susa. Perché, come ha detto il 10 aprile 2011 davanti a una platea genera- zionalmente lontana da lui: «La nostra causa è la stessa causa di chiunque subisce una sopraffazione». Lui non si è messo al tavolo dei vincitori nella speranza di vederli morire e prendere il loro posto. Lui ha scelto di stare dalla parte dell’anarchia, di chi perde sempre e ricorda l’assurdità delle condizioni che ci portano a confliggere. E non ha paura di continuare a insegui- re il sogno di un mondo migliore. Giacomo, il futuro di questa lotta, il giovane uomo che mi ha ricordato quanto amassi le mie radici sarde, è ancora in cammino e questo suo muover- si è un segnale di speranza. Oggi, quando lo osservo felice sorridere con la sua nuova ragazza brasiliana, od organizzare viaggi in terre straniere speranzoso nel poter fare il giornalista free lance, penso che anche in questo caso la vita sia andata avanti, preservando, però, quello che del passato è degno di essere conservato: il bisogno di giustizia, l’amore per la verità e il sostegno a chi, come Loris, ha combattuto prima di noi. E proprio da lui, da Loris, penso di aver ricevuto la lezione più importante che ho raccolto con Ventanni. Io, che ave-

478 vo iniziato questo progetto credendo di conoscere la vicenda per averne letto un libro e qualche documento, ho imparato che la lotta per la verità del Moby Prince deve diventare una lotta per la verità che attraversa la storia Moby Prince. Oltre cosa è accaduto, oltre le perizie e il numero della legge cui appellarsi per avere giustizia, c’è infatti il mare del messaggio profondo insito nelle scelte che gli attori più o meno protago- nisti di questa storia hanno fatto. E al cuore non deve servire un’ipotesi di reato per leggere un’ingiustizia. Non basta un comma, un bravo avvocato, una sentenza favorevole per ri- empire il vuoto di un’esistenza finita per l’equilibrio malsano che la nostra società ha raggiunto. Per il cuore non può essere sufficiente convincere una giuria della propria innocenza. Per il cuore non può bastare anche un più o meno sostanzioso risarcimento. Vent’anni dopo il Moby Prince il cuore di questa lotta prende la sconfitta dei tribunali, dell’oblio progressivo della gente e della stanchezza dei compagni di battaglia e si mette ancora dietro uno spesso striscione blu segnato da una scritta bianca, per marciare accanto a chi quella verità insi- ta nella storia Moby Prince la sta vivendo sulla propria pelle in altre forme e circostanze. Il cuore di questa lotta si met- te accanto ai familiari delle vittime del disastro ferroviario di Viareggio, del crollo della casa dello studente con i muri di sabbia de L’Aquila, dell’amianto di Casale Monferrato, delle white house di Milano, nell’idea di poter insieme ottenere una vittoria comune. Il cuore di questa lotta va di domenica sera a Fosdinovo per uno spettacolo sul Moby Prince e ci resta fino a mezzanotte e mezzo, raccontando ai pochi presenti la storia vera di questa vicenda, benchè l’indomani alle 4 suoni la sveglia del lavoro. Chiama Angelo, dopo vent’anni di rancori, per provare a comprendere se esista ancora una strada di lotta comune. Chiama me, arrivato vent’anni dopo, per dirmi: vedi l’ho fatto, ci sei riuscito, credi in te. Il cuore di questa lotta è un piccolo eroe da fumetto con dei fitti baffi grigi macchiati dal tabacco, pochi denti rimasti, due orecchine d’oro e tanti tatuaggi. Senza giacca né cravatta ha mostrato a un giovane che gli eroi sono spesso seduti accanto a noi, in autobus, in- tenti a guardare lontano, e basta chiedere loro cosa stanno

479 pensando per carpirne la grandezza: combattono le battaglie più vicine per raggiungere gli scopi più lontani. Con le loro parole sono capaci di raccogliere migliaia di applausi in una sola serata, per poi concluderla, soli, in una piccola casa di pe- riferia. Conducono una lotta collettiva con una tale integrità morale da avvicinare a essa decine di migliaia di persone su una pagina Facebook, ma hanno bisogno dell’aiuto di un pa- letto per tendere l’altro capo dello striscione in cui riassumo- no la loro rivendicazione. Accettano tutto questo senza porsi troppe domande e distanti dalla comprensione dei più, perché le scelte che li rendono ciò che sono nascono da qualcosa che ci porta lontano dalle sicurezze della nostra testa e punta drit- to a quello spazio utopico e commovente dove vige, sola, la legge del nostro cuore. Il cuore di questa lotta si chiama Loris Rispoli, mi ha insegnato tutto questo e io sono onorato di essere suo amico. Oddio, come direbbe lui sorridendo sarca- stico “onorato no, tutti gli aggettivi ma Onorato no”. Per que- sto c’è un’immagine conclusiva di questo percorso cui sono particolarmente legato e che vorrei ciascuno di voi vedesse. Resta ancora oggi visibile nel profilo Facebook di Loris ed è stata scattata da Luca Cavallero dell’Associazione Voci della Memoria di Casale Monferrato il 29 giugno 2012, durante il corteo commemorativo della strage di Viareggio. Mostra una bambina piccola in spalla a un giovane uomo riccio, con ac- canto Loris. I tre camminano dietro un lungo striscione che la bambina sembra scrutare con circospezione: “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole!”. La bambina si chiama Anita ed è mia figlia. La vita è andata avanti ed è accanto a una battaglia degna di essere combattuta.

Settembre 2012

480 PARTE TERZA. APPENDICE

481 1. LA RICOSTRUZIONE DEI MAGISTRATI

Articolo 491 – Indennità e compenso per assistenza o salvataggio di nave o di aeromobile. L’assistenza e il salvataggio di nave o di aeromobile, che non siano effettuati contro il rifiuto espresso e ragionevole del Comandante, danno diritto, entro i limiti del valore dei beni assistiti o salvati, al ri- sarcimento dei danni subiti e al rimborso delle spese incontrate, non- chè, ove abbiano conseguito un risultato anche parzialmente utile, a un compenso. Il compenso è stabilito in ragione del successo ottenu- to, dei rischi corsi dalla nave soccorritrice, degli sforzi compiuti e del tempo impiegato, delle spese generali dell’impresa se la nave è armata ed equipaggiata allo scopo di prestare soccorso; nonchè del pericolo in cui versavano i beni assistiti o salvati e del valore dei medesimi.

Articolo 525 – Vizio occulto della nave. L’assicuratore della nave risponde dei danni e delle perdite dovute a vizio occulto della nave, a meno che provi che il vizio poteva essere scoperto dall’assicurato con la normale diligenza.

Regolamento del Codice della Navigazione, Dpr 15.2.1952, n.328 Dpr 28.6 1949 n 631

Scopo di questa appendice è fornire al lettore un approfon- dimento informativo sulla vicenda Moby Prince e in partico- lare sulla ricostruzione di quanto è accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, secondo la documentazione a oggi dispo- nibile. Quale inevitabile premessa è importante indicare come l’iter ricostruttivo di questa vicenda abbia vissuto una serie di incredibili contraddizioni.

«Sono qui per apprendere anche io tutti gli elementi utili, e soprattutto per dire che accerteremo la verità senza guardare in faccia nessuno e che quindi non ci sarà nessun elemento di tutta questa vicenda che non sarà guardato con grandissi- ma attenzione e che non sarà reso noto all’opinione pubblica.

482 Detto questo si tratta di una nave che era appena uscita dal porto per una rotta abituale, la nave con la quale è avvenuta la collisione era una nave alla fonda, quindi va da sé che senza voler anticipare nulla di ciò che dovrà essere accertato pur- troppo l’errore umano sta alla base di questa tragedia».

Queste parole sono state pronunciate dall’allora Ministro per la Marina Mercantile, Carlo Vizzini, l’11 aprile 1991. Al di là della quasi taumaturgica capacità divinatoria, o quantome- no discreta imprudenza, nell’indicare nell’errore umano della plancia del Moby Prince l’unica causa dell’accaduto a meno di 24 ore dall’incidente, Vizzini mise le mani avanti sull’impegno di tutti: “accerteremo la verità senza guardare in faccia nessu- no”. Non sappiamo se fosse o meno a conoscenza del fatto che il giorno dopo avrebbe lasciato il ministero presieduto al suo compagno di partito, Ferdinando Facchiano, per accasarsi al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni; resta tuttavia in- teressante l’apparente paradossalità di questo proclama dove da un lato si dichiara la necessità di cercare la verità senza alcun limite di sorta e dall’altra si ha già in mano, senza alcuna prova a riguardo, l’evidenza di un unico colpevole – il Coman- dante del traghetto deceduto nell’incidente –. Questo incipit malaugurante della ricerca di verità sull’inci- dente accorso tra la Moby Prince e l’Agip Abruzzo, nonchè su quanto a ciò fu successivo, darà purtroppo adito all’inter- pretazione a negativo del proverbio “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Le normative vigenti all’epoca145 stabiliva-

145 L’istituto dei sinistri marittimi era regolato dagli artt. 578 e segg. e 465 e segg. del Codice della Navigazione. Secondo l’art. 578, l’Inchiesta Sommaria è competenza dell’autorità marittima “del luogo di primo approdo della nave o dei naufraghi” ed ha lo scopo di indagare “cause e circostanze del sinistro, nonchè prendere i provvedimenti occorrenti per impedire le dispersioni delle cose e de- gli elementi utili per ulteriori accertamenti”. Qualora l’Inchiesta sommaria aves- se determinato che dietro l’incidente potesse esserci dolo o colpa il Direttore Marittimo era obbligato d’ufficio a disporre il passaggio ulteriore dell’Inchiesta formale (Art. 579). Scopo di quest’ultima era “determinare cause e responsabili- tà del sinistro” ed il Ministro per la Marina Mercantile, a capo delle Capitanerie di Porto, aveva la facoltà di “affidare le inchieste formali a commissioni speciali nonchè di sottoporre a revisione quelle compiute nella forma ordinaria (art. 580

483 no infatti che in caso di sinistro navale coinvolgente navi di quelle dimensioni dovesse essere avviata una prima Inchie- sta Sommaria, a opera del Compartimento Marittimo (Ca- pitaneria di Porto) preposto alla tutela dello spazio marino dove si era svolto l’incidente. Nel caso Moby Prince quindi, le prime indagini ricostruttive, di particolare importanza vi- sta la prossimità dell’evento e quindi anche la difficoltà per eventuali malintenzionati di organizzare testimonianze fitti- zie o quant’altro, vennero affidate all’istituzione direttamente coinvolta nella drammatica conclusione dell’incidente stesso: la Capitaneria di Porto di Livorno, responsabile del soccorso in mare. Emblema di questo paradosso, tra i quattro com- ponenti della Commissione per lo svolgimento dell’inchiesta sommaria istituita il 15 aprile 1991 vi fu anche quel Lorenzo Checcacci che tre anni dopo ricoprirà il ruolo di imputato, nel processo di primo grado, perché accusato della condotta “ne- gligente” tenuta subito dopo la segnalazione della collisione tra il traghetto e la petroliera. Il 29 aprile 1991, undici giorni dopo l’insediamento formale, la Commissione presentò una relazione dal titolo “Ricostru- zione della dinamica del sinistro sulla scorta delle prime testi- monianze146” e la trasmise al Ministero della Marina Mercatile

Codice della Navigazione)”. 146 Il documento è firmato dai quattro ufficiali: Raimondo Pollastrini, Rober- to Canacci, Antonio Ucciardello e Lorenzo Checcacci. Tra questi il solo Polla- strini, Presidente della Commissione, fu estraneo agli accadimenti della notte tra il 10 e l’11 aprile 1991. Infatti oltre al già citato Lorenzo Checcacci, operarono durante le fasi di soccorso: Antonio Ucciardello e Roberto Canacci. Il primo fu il pilota della Motovedetta CP250, la seconda in mare quella notte, partita con a bordo il Comandante Albanese, il vigile del fuoco Roberto Pippan e proprio lo stesso Canacci, che, in qualità di ufficiale addetto alla Centrale Operativa, vi rimase fino all’imbarco. La storia dei movimenti della CP250 è tra i passaggi più strani della vicenda Moby Prince. La CP, mezzo veloce e perfetto per i soccorsi in mare, fu tenuta ferma in porto ad attendere l’arrivo del Comandante Albanese, sopraggiunto a Livorno intorno alle 22:50. La CP250 doveva portare il Vigile del fuoco Roberto Pippan sotto l’Agip Abruzzo per dare il cambio a un collega, con tale finalità, prima dell’arrivo di Albanese, molla gli ormeggi alle 23:05 ma viene richiamata indietro per imbarcare il Comandante e l’Ufficiale Canacci. Alle 23:10 la CP250 inizia la sua navigazione verso il luogo del disastro. Pur tuttavia, stando alle

484 e alla Procura di Livorno, che nel frattempo aveva aperto un fascicolo per omicidio colposo e omissione di soccorso. La relazione riporta una sintetica, quanto specifica, descrizione di quanto avvenuto:

“il personale di guardia in plancia al traghetto non sem- bra aver messo in opera accorgimenti idonei a fronteggiare l’improvviso occultamento dell’Agip Abruzzo causato dalla nebbia, ma ha adottato un provvedimento – accensione dei proiettori cercanaufraghi – che è risultato peggiorativo della situazione. La rotta e la velocità tenuta dalla nave costituisco- no violazione delle regole della Convenzione internazionale per gli abbordi in mare e pertanto possono essere configurate come una delle cause che hanno determinato il sinistro [...]. Non si può escludere che tra le concause del disastro vi sia stata un’avaria improvvisa agli organi di governo del traghet- to”.

Considerato che le testimonianze si possono raccogliere solo dai vivi, la Relazione era figlia soprattutto delle dichiara- zioni rese dal Comandante dell’Agip Abruzzo Superina e dal resto del suo equipaggio. Questa descrizione, opera di quattro ufficiali della Capitane- ria di Porto di Livorno tra i quali un imputato finito a proces- so e due testimoni, forse protagonisti, di una gestione quan- tomeno inefficiente dei soccorsi post-collisione, rappresenta ancora oggi l’architrave di tutte le ricostruzioni ufficiali del fatto Moby Prince prodotte da istituzioni dello Stato.

dichiarazioni dello stesso Ucciardello (udienza del 10 maggio 1996), la CP250 non si avvicinò ad alcun altro soccorritore e quando, udito sul canale 16 il mes- saggio degli ormeggiatori che dichiaravano di aver raccolto un naufrago e che fosse il traghetto Moby Prince la nave investitrice, la motovedetta compì, su comando di Albanese, dei moti circolari normalmente tesi a valutare la presenza di eventuali naufraghi in mare ma in quell’occasione effettuati senza alcun siste- matico motivo di ricerca. Estranea a qualsiasi fase di soccorso e con un vigili del fuoco tenuto lontano dai suoi colleghi cui doveva dare il cambio, la CP250, su ordine di Albanese, torna in porto alle 3 di notte dell’11 aprile per permettere al Comandante della Capitaneria di Livorno di rilasciare le prime dichiarazioni sull’accaduto: tutte concentrate sul problema “nebbia”.

485 Per prima arrivò quella del Ministero della Marina Mercan- tile che, a distanza di due anni dall’inchiesta sommaria, pre- senterà i risultati dell’inchiesta formale. Il documento che la conclude, dal titolo “Relazione della Commissione speciale di inchiesta formale per la collisione e l’incendio delle navi M/T Moby Prince e M/C Agip Abruzzo”, conferma punto per punto quanto descritto nel documento firmato dai quattro ufficiali livornesi, con alcune piccole integrazioni: la collisio- ne fu dovuta alla nebbia, a una pericolosa rotta di collisione seguita dal traghetto, la cui plancia aveva omesso il controllo del radar, e infine, per la prima volta descritto, all’infausto de- stino riassunto nella locuzione “tragica fatalità”. Pertanto la responsabilità, oltre alle forze ultraterrene, continuava a es- sere addossata al comando del traghetto, mentre ai soccorsi, coordinati dalla Capitaneria, veniva fatto un paternalistico e quasi ridicolo richiamo: “potevano fare di più, ma c’era ben poco da fare147”. Il 20 maggio 1993, data di pubblicazione del documento, si conclude quindi così l’iter ricostruttivo di parte Ministeriale, la porzione governativa dell’inchiesta, lasciando al potere giudiziale il compito di rispondere dei tanti dubbi ancora presenti sull’accaduto. La Procura di Livorno era all’epoca guidata da Antonino Costanzo che, a ridosso dell’evento, incaricò il Pubblico Mini- stero Luigi De Franco di condurre le indagini. Il Procuratore Capo aveva sin da subito manifestato una certa insofferenza verso l’attività investigativa dei giornalisti e soprattutto la cita- zione di scenari ricostruttivi non poggiati su solide prove in- diziarie. Benché questo atteggiamento lasciasse intendere una

147 Enrico Fedrighini riporta nel suo volume “Moby Prince. Un caso ancora aperto” il risultato di una sua persola indagine sulla documentazione relativa al lavoro svolto dalla Commissione. Entrato in possesso di un documento di lavo- ro riportante il contenuto della relazione finale prima di una, particolare quanto radicale, revisione definitiva, vi ritrovò accuse pesanti relative alla condotta del Comandante Albanese e del Comandante Superina. Queste parti, omesse nella versione finale e ufficiale, furono lette da Fedrighini grazie al fatto che chi le aveva cancellate, usando all’epoca una telescrivente, aveva ribattuto sopra ogni carattere da censurare un tasto “trattino”, lasciando così leggere quanto doveva essere eliminato. (E. Fedrighini, Moby Prince. Un caso ancora aperto, Ed. Pao- line, p. 93-98)

486 certa rigorosità del Procuratore nel compimento del suo ruolo, destò particolare sorpresa una sua dichiarazione riportata in conferenza stampa, il 15 aprile 1991. Terminata una filippica contro la fuga di notizie allarmistiche non corroborate da suf- ficienti elementi probatori e capaci solo di alimentare “false speranze nei familiari delle vittime”, Antonino Costanzo emi- se a suo modo un verdetto predittivo, a sua volta non suppor- tato in quel momento da alcuna evidenza indiziale: “potrebbe essersi trattato di tragica fatalità”. Considerato l’atteggiamen- to del Procuratore Capo, destò relativo scalpore la notizia che il 10 ottobre 1994 il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Livorno, Roberto Urgese, archiviò su proposta del P.M. De Franco le posizioni di due indagati illustri del caso – Achille Onorato, valutato armatore del traghetto148, e Renato Superina, Comandante dell’Agip Abruzzo – mandan- do a processo quattro figure minori della vicenda: Valentino Rolla, Gianluigi Spartano, Lorenzo Checcacci e Angelo Ce- dro. Perché queste persone? Valentino Rolla era il terzo uffi- ciale di coperta dell’Agip Abruzzo, al momento dell’incidente impegnato nel servizio di guardia e secondo Urgese a questo ventiduenne ligure si doveva la colpa di non aver segnalato la petroliera al momento della comparsa della nebbia. Gianluigi Spartano, all’epoca ventenne, era invece il militare di leva ad- detto all’ascolto della radio nella centrale della Capitaneria di Porto di Livorno. La sua principale responsabilità dichiarata dal GIP risiedeva nel non aver ascoltato, per negligenza, il flebile may day del Moby Prince e in conseguenza aver così omesso di segnalare la richiesta di soccorso a un imputato, in precedenza citato: l’Ufficiale di Guardia Lorenzo Checcacci. A quest’ultimo Urgese contestò il comportamento negligente nel richiamo di un maggior dispiegamento di forze per il soc- corso – indicate negli elicotteri militari presenti nella base di Luni od altro mezzo aereo in grado di verificare rapidamen- te la situazione in mare – , nell’individuazione della nave in- vestitrice inizialmente ipotizzata da Superina nelle sue prime comunicazioni radio, e infine nella valutazione delle bettoline

148 Vedi nota n.17.

487 potenzialmente coinvolte nell’incidente a seguito dell’indica- zione del marconista dell’Agip Abruzzo – Imperio Recanatini – circa l’ipotesi che la nave investitrice fosse per l’appunto una bettolina. A compimento di questo quadro indiziario, la Procura di Livorno, per voce del GIP Urgese citò come po- tenziale responsabile dell’accaduto il Comandante in seconda della Capitaneria di Porto: Angelo Cedro. Quest’ultimo sareb- be stato responsabile delle medesime imperizie e negligenze compiute da Checcacci, con l’aggravante di avere un ruolo gerarchicamente superiore rispetto all’Ufficiale di Guardia. La ricostruzione riportata nel decreto di archiviazione e nel- la definizione dei capi di imputazione per i quattro poten- ziali responsabili, seguiva pedissequamente quanto dichiarato nell’Inchiesta Sommaria prima e Formale poi, benchè presen- tasse in sé un indirizzo contrastante riguardo alla condotta del comando del traghetto. Se infatti da un lato Rolla era giu- dicato potenzialmente responsabile di omicidio colposo “in cooperazione colposa con altre persone, rimaste non esatta- mente identificate e facendi parte dell’equipaggio della M/N Moby Prince” per aver concorso alla “causa del sinistro”, nel decreto di archiviazione Urgese segnalerà che “il personale di governo del Moby Prince non può dirsi che abbia contrav- venuto a regole di prudenza e abbia disatteso le norme del Codice della Navigazione”. Cosa era accaduto quindi? L’in- dagine della Procura aveva evidenziato una difficoltà notevole nel riconoscere l’esatta dinamica dell’incidente e, a scanso di equivoci, la ricostruzione ufficiale iniziava a presentare dei di- stinguo rispetto alle responsabilità della collisione. Quest’ulti- ma, innegabilmente, c’era stata, ma la colpa della stessa inizia- va a essere sempre più ascritta a quella “tragica fatalità” citata prima da Costanzo e poi dai relatori della Commissione che aveva redatto l’Inchiesta Formale. Una tragica fatalità relati- vamente riconducibile a un fattore metereologico inatteso: la nebbia accorsa quella notte. Il 29 novembre 1995, presso il Tribunale di Livorno, inizia quindi con tali premesse il primo processo Moby Prince. A corollario di uno scenario quantomeno ricco di complessità il Pubblico Ministero che aveva seguito le indagini prelimina-

488 ri, Luigi De Franco, viene trasferito alla Procura di Firenze. Compito di ricoprire la “pubblica accusa” ricade così su un altro magistrato: Carlo Cardi. Nel corso del processo la ri- costruzione inizia ad assumere maggiore corpo attraverso le dichiarazioni dei testimoni oculari e dei periti. Cinquantasei udienze più tardi, il 31 ottobre 1997, il Collegio Giudicante presieduto da Germano Lamberti emette la sentenza di as- soluzione per tutti gli imputati poichè il “fatto non sussiste”. Nelle oltre ottocento pagine della sentenza i giudici livornesi riusciranno nell’incredibile prodigio di giustificare quella che fu, dall’inizio, la tesi principale proposta dal Procuratore Capo Antonino Costanzo. Il fatto Moby Prince si doveva riferire a “tragica fatalità”. Del resto lo stesso Pubblico Ministero, Car- lo Cardi, al termine della sua requisitoria aveva chiesto l’as- soluzione di tutti gli imputati nella convinzione di ascrivere l’accaduto al “destino cinico e baro“. Oltre alle già citate forze ultraterrene, la sentenza fece uno sforzo di spasmodica difesa delle risultanze ricostruttive pre- senti nell’Inchiesta Sommaria prima e Formale poi. In estre- ma sintesi Germano Lamberti, Grazia D’Onofrio e Maria Sammarco raccontano quanto segue.

La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 il traghetto Moby Prince molla gli ormeggi dalla Calata Carrara del Porto di Livorno, alle ore 22:03 con a bordo centoquarantuno persone: settan- tacinque passeggeri e sessantasei membri dell’equipaggio. In plancia, secondo la dichiarazione del pilota Sgherri, ci sono il Comandante Ugo Chessa, il timoniere Aniello Padula e il primo ufficiale Antonio Sciacca. Il Moby Prince arriva alla diga della Vegliaia, spartiacque tra il Porto e la rada, alle 22:14, momento in cui avviene un incrocio concordato con una nave che doveva arrivare agli ormeggi sotto le indicazioni del pilota Muzio. Tutto è chiaro e il Comandante lascia un commento al pilota Sgherri circa il numero delle navi ancorate in rada. Lo stesso Sgherri dichiarerà di aver sentito Ugo Chessa indica- re al timoniere una rotta 193°-195°. Le navi ancorate a nord pertanto non interessano il processo, benchè tra queste vi sia quella Cape Flattery che il solo tenente della Guadia di Finan-

489 za Cesare Gentile ha dichiarato impegnata in un trasbordo di armi. Il pilota Sgherri lascia il traghetto appena superata la testata di ponente della Vegliaia e voltatosi indietro vede la sbuffata del F.I.M. (Finito In Macchina), a indicare l’assunzione della velocità di crociera. Sono le 22:15. Il marconista del Moby Prince, Campus, si mette in contatto con l’addetto alla radio della Capitaneria di Porto, Gianluigi Spartano, per fornire i dati di bordo: numero passeggeri e autoveicoli. Nel frattempo il traghetto, con rotta 193°-195°, doppia due natanti ancorati a sud della rada – la nave militarizzata americana Gallant II e la petroliera Agip Napoli – e si trova davanti un’altra nave militarizzata statunitense: la Cape Breton. Più o meno all’al- tezza del Cape Breton, alle ore 22:23:34 la Moby Prince riesce a mettersi in contatto con la stazione IPL Livorno Radio per una chiamata commerciale, che si svolgerà sul canale 61. La potenza del segnale radio della Moby Prince è molto lieve, tant’è che l’operatore di Livorno Radio, Giancarlo Savelli, se ne lamenta149. La chiamata, rivolta a un numero sardo proba- bilmente del Comune di Olbia, non va a buon fine, poichè nessuno, dall’altro capo, risponde al telefono. Giancarlo Sa- velli, l’operatore di Livorno Radio, domanda all’operatore del- la Moby Prince se ha un altro numero e a fronte dell’assenza di questo convengono sull’idea di chiudere lì la questione. Il tutto si risolve alle 22:24:56 c.a.. Nel frattempo la Moby Prin- ce ha doppiato da un minuto il Cape Breton, distante circa un miglio dall’Agip Abruzzo, e prendendo la rotta per Punta Pol- veraia (Isola d’Elba) – 191°-195° – trova davanti a sé un muro di nebbia. La plancia del traghetto ha il tempo di accorgersene e, inspiegabilmente, accende i cappelloni di prua. La manovra, attuata forse per migliorare le condizioni di visibilità, rende ancor più impenetrabile la nebbia per i pochi secondi che se- parano la Moby Prince dalla collisione con l’Agip Abruzzo. In corrispondenza con tutto ciò, sulla petroliera posizionata

149 Alle 22:23:34 l’operatore di Livorno Radio risponde alla richiesta pro- veniente dalla Moby Prince, con queste parole: «Oh Moby Prince da Livorno proviamo canale 61 ma ti sento debolissimo».

490 con prua verso nord, il terzo ufficiale di guardia Valentino Rolla, da soli due minuti accortosi del fenomeno atmosferico, ha appena il tempo di mettere il radar in stand by - e chiede- re al marinaio di guardia di verificare nell’aletta di sinistra le condizioni di visibilità - che la sua attenzione viene rapita da due enormi fari lanciati a tutta velocità verso la parte dritta (destra) della petroliera rivolta a terra. Alle 22:25:27 il Moby Prince, senza porre in essere alcuna manovra di emergenza, lancia per bocca del marconista Giovanni Battista Campus il suo drammatico May day, inascoltato a causa della scarsa qualità del segnale radio e della sovrapposizione di una comu- nicazione proveniente da una nave francese in navigazione probabilmente nei pressi della Corsica. La Moby Prince ha trafitto la tank n°7 dell’Agip Abruzzo, dopo un breve sfre- gamento sulla sua fiancata da prua verso poppa, e una larga parte del carico – tra le 100 e le 200 tonnellate – di crude oil si riversa sul ponte e dentro il garage, anche a causa del porta stagna prodiera lasciata erroneamente aperta – secondo una prassi usuale con mare calmo ma non corretta e dovuta probabilmente ai pochi minuti previsti di attracco e riparten- za – . La penetrazione di tre secondi e mezzo si traduce in “dissipazione di energia cinetica spesa in attrito e calore”; ciò provoca l’immediata accensione del prodotto come per scin- tilla da attrito cui è conseguita l’immediata “esplosione” – che tecnicamente tale non è – del greggio. Tutto ciò si esplicita in una grande palla di fuoco (fire ball) che corrisponde alla prima fase dell’incendio. Dopo circa un minuto, alle 22:26:20, irrompe sul canale 16 il Comandante dell’Agip Abruzzo Renato Superina – salito con l’ascensore dalla saletta ricreativa dove stava guardando la partita di calcio Barcellona – Juventus – che richiede soccorso alla Capitaneria di Porto di Livorno. L’addetto alla radio della Capitaneria, il militare di leva Gianluigi Spartano, non recepi- sce il may day del Moby Prince, ma avverte la chiamata pro- veniente dall’Agip Abruzzo, catalogandola come una comu- nicazione di qualcuno che desidera “Compamare Livorno” e risponde, alle 22:26:26: «Qui Capitaneria di Porto di Livorno, avanti pure… canale 13». Passando su quest’ultimo Gianluigi

491 Spartano interrompe l’ascolto sul 16 e pertanto non sente Su- perina comunicare il fatto di essere “l’Agip Abruzzo”. Accor- tosi dopo pochi secondi del fatto che il Comandante Superina non è andato sul Canale 13, Spartano torna sul Canale 16 e avverte la richiesta di attenzione dell’Avvisatore Marittimo Romeo Ricci, il quale, portato a comunicare sul Canale di ser- vizio 10, segnala la presenza di una “petroliera in fiamme a sud della rada”. Alle 22:27:08 l’operatore di Livorno Radio Giancarlo Savelli, non avendo chiuso la telefonata commerciale chiede: «Moby Prince da Livorno mi ricevi?» nel tentativo di sapere se il mar- conista desidera o meno un nuovo tentativo di telefonata o commerciale; in conseguenza della mancata risposta Savelli provvede a imputare la tassa di preparazione per la chiamata. A seguire, dopo numerose chiamate incrociate di altri natan- ti in zona (Agip Napoli, Cape Breton) e di altre Capitanerie di Porto150, l’Agip Abruzzo riesce finalmente a comunicare di- rettamente alla Capitaneria di Porto di Livorno di essere lei la petroliera con un “incendio a bordo” a causa di una “proba- bile” collisione con un’altra nave. Spartano risponde al plurale “siamo già informati e stiamo provvedendo” prima di lasciare la postazione radio al collega Fuggetti e imbarcarsi, come da disposizioni, nella motovedetta CP232. Nel frattempo il Moby Prince, investito dall’onda di fuoco e gas, è rimasto incastrato nella tank 7 e omette di muoversi. A bordo, mentre il mozzo Alessio Bertrand, insieme a pochi altri, corre in garage cercando riparo, molti dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio si radunano istintivamente nel Sa- lone de Luxe, il luogo più sicuro della nave in caso di incendio grazie alla presenza di porte tagliafuoco A60, capaci di resiste- re per sessanta minuti a fiamme provenienti dall’interno del traghetto. Alcune di queste persone hanno avuto il tempo di

150 Tra le Capitanerie di Porto che rispondono alla richiesta di aiuto per “in- cendio a bordo” operata da Renato Superina: Porto Maurizio, Genova e Viareg- gio. Quest’ultima chiederà esplicitamente al marconista dell’Agip Abruzzo “ma di dove chiamate voi che chiamate incendio a bordo? Qui è compamare Viareg- gio cambio”, ricevendo come risposta il passaggio “in rada, in rada a Livorno, in rada a Livorno. Livorno ci vede e ci vede con gli occhi, incendio a bordo”.

492 portare con sé effetti personali e giubbotti di salvataggio. Cinque minuti e ventotto secondi dopo il may day il figlio di Nello D’Alesio accende la telecamera e riprende per circa tre minuti quanto sta accadendo a sei chilometri dal terrazzo di casa. La ripresa mostra un grande muro di nebbia dietro il qua- le è intuibile che ci sia la scena della collisione. Alle 22:33:35, come mostra il Video D’Alesio, una grande deflagrazione da gas produce una palla di fuoco della durata di 0,4 secondi. Questa deflagrazione è probabilmente quella avvenuta nel lo- cale bow thruster, all’interno del garage del Moby Prince, cui si devono tutte le evidenze riscontrate intorno, tra le quali il salto della cabina di un camion con rimorchio. Nel frattempo il crude oil riversatosi sulla prua creava lingue di fuoco di quaranta metri sul ponte di coperta della prua stes- sa e queste fiammate, investita tutta la murata di prua, hanno ormai distrutto le vetrate della parte frontale del traghetto, bruciando il piano di coperta, il piano imbarcazioni e quello di comando. Il crude oil, innescato e quindi bruciante, penetra per qual- che minuto nel perimetro del Moby Prince, circondando l’uni- ca area con porte stagne – il Salone de Luxe – e scendendo a sua volta nel piano garage. I condotti di ventilazione, con- dizionamento ed estrazione del Moby Prince, rimasti attivi, conducono non più aria ma fumo e gas contenenti sostanze tossiche come l’acido cianidrico, derivanti dalla combustione di alcuni materiali con cui era realizzato il traghetto. In tutto questo l’impianto anti-incendio sprinklers – a cau- sa della collocazione “manuale”, anzichè “automatica”, della presa a mare – non spruzza acqua all’interno dei locali interes- sati dalla combinazione della presenza di questa apparecchia- tura e della temperatura idonea a farli azionare. Alle 22:35 il marconista dell’Agip Abruzzo, Imperio Reca- natini, risponde ai soccorritori in merito a chi sia la nave in- vestitrice, dichiarando: «Sembra una bettolina quella che c’è venuta addosso». Questo devia l’attenzione della Capitaneria sulle bettoline potenzialmente presenti in porto, sulle quali si procede alla conta. La Capitaneria, sprovvista di una mappa con le posizioni delle navi ancorate in rada e incapace di ri-

493 ferire la collisione alla Moby Prince, pensandola già in mare aperto, invia pertanto i primi soccorsi verso la petroliera. Par- tono la motobarca 446 dei Vigili del Fuoco e i rimorchiatori Tito Neri VII e Tito Neri IX. I Vigili del Fuoco chiedono le coordinate LORAN della petroliera in fiamme, poichè, a causa della nebbia erroneamente identificata da alcuni come “fumo”, non riescono a orientarsi. Il Comandante e il marco- nista dell’Agip Abruzzo si confondono nell’indicare le coor- dinate e in effetti non si può avere certezza assoluta circa il punto di fonda della petroliera prima della collisione. A questo punto il fianco destro di poppa dell’Agip Abruzzo è in fiamme e queste iniziano a minacciare il castello dov’è collocata la plancia. Nel frattempo, a quindici minuti dalla col- lisione tutti i ponti superiori del Moby Prince sono interessati da condizioni di invivibilità e chi non vi ha trovato già la mor- te, si è rifugiato nei ponti inferiori. L’incendio però distrugge le cabine laterali e a venti minuti dalla collisione fa collassare le pareti iniziando a penetrare dentro il Salone De Luxe. I so- pravvissuti da un lato cercano rifugio nel vestibolo anteriore perché le scale sono ormai piene di fumo, mentre dall’altro tentanto di uscirvi considerata l’alta temperatura. Bertrand, insieme ad altri, è appena risalito dal garage e incontra casual- mente sulle scalette del ponte di coperta il timoniere Aniello Padula. Chiede cos’è successo e gli viene risposto che a causa della nebbia hanno centrato un’altra nave. Il timoniere come gli altri compagni di Bertrand cadono in pochi minuti ai suoi piedi, per via dei fumi, mentre lui, bagnandosi ripetutamen- te la maglietta con cui si copre la bocca, riesce ad arrivare a poppa e si appende al corrimano. Un marinaio, Francesco Esposito, si getta in mare e muore, pochi minuti dopo, per annegamento. Sono passati venti minuti dalla collisione, mas- simo mezz’ora, e tutti coloro che sono ancora all’interno del traghetto arrivano alla morte, inclusi coloro che sono stati tro- vati in sala macchine – area risparmiata dal fuoco – deceduti a causa dei fumi. L’unico sopravvissuto, Alessio Bertrand, è appeso al parapetto poppiero di dritta e riesce a respirare aria non contaminata grazie al filtro della maglietta bagnata, al suo ottimo stato fisico e alle condizioni particolarmente favorevo-

494 li di quello spazio. Il Moby Prince si stacca dalla petroliera e inizia a girare in cerchio con orientamento orario – verso destra – , ma die- tro l’Agip Abruzzo e a una distanza tale per la quale i primi soccorritori arrivati sotto la petroliera alle 23:06, non riesco- no a vederlo. I rimorchiatori Tito Neri VII e Tito Neri IX coadiuvati dalla motobarca 446 dei Vigili del Fuoco e dalla motovedetta CP 232 concentrano i loro sforzi sul tentativo di estinguere le fiamme che avvolgono la zona poppiera di destra della petroliera, coordinati dall’alto da Superina e ri- spettivamente dai propri Comandanti od Armatori. In con- temporanea il Comandante della Capitaneria Sergio Albanese prende le redini delle operazioni di coordinamento dichiaran- do al suo secondo Angelo Cedro “ci sono io, provvedo io”. Cedro di conseguenza si sente esautorato dal Comando delle operazioni e dedica la sua attenzione ai cosiddetti “Contatti esterni di terra” quali la Labromare per la fuoriuscita di com- bustibile in mare e quindi il rischio inquinamento. In parallelo il Comandante in seconda Angelo Cedro, coadiuvato dall’Uf- ficiale Lorenzo Checcacci, richiede all’Avvisatore Romeo Ric- ci di procedere a una conta delle bettoline e appurare quale di essere è potenzialmente coinvolta nell’incidente. Alle 23:15 il Comandante Sergio Albanese esce dal porto con la motovedetta CP250 e si avvicina al luogo della col- lisione, senza tuttavia mai segnalare alcunchè ai soccorritori poichè, come chiarirà nella deposizione agli atti dell’Inchie- sta Formale: “il suo silenzio doveva essere interpretato come un’approvazione di quanto veniva disposto dai coordinatori a terra e operato dai mezzi impegnati nel soccorso, e che le circostanze non richiedevano un suo intervento diretto”. Alle 23:25 circa Angelo Cedro richiede all’Avvisatore quale fosse l’ultima nave partita da Livorno prima della collisione e, a fronte della risposta richiede che Romeo Ricci tenti un contatto radio, su tutti i canali possibili, con il Moby Prince. A fronte della mancata risposta deducono entrambi che il Moby Prince si trovi fuori dal raggio di azione della radio perché già in mare aperto. Alle 23:35, un’ora e dieci dopo la collisione, gli ormeggia-

495 tori Mauro Valli e Walter Mattei, partiti di propria iniziativa per fornire soccorso, trovano il Moby Prince, senza riuscire nell’immediatezza a comprendere che si tratta di un traghetto. La CP232 li segue in prossimità della nave ed effettua un primo giro di ricognizione non segnalando che si tratta di un’imbar- cazione di grandi dimensioni, differente da una bettolina. Alle 23:40 gli ormeggiatori avvistano il naufrago che si è buttato in mare e lo recuperano in concomitanza con la discesa dell’equi- paggio dell’Agip Abruzzo su una lancia. Tre minuti dopo i due ormeggiatori segnalano via radio di aver raccolto un naufrago e di aver sentito da lui che ci sono “altre persone vive” nel traghetto. Sono passati settantacinque minuti dalla collisione e, massimo, cinquanta minuti dal decesso dell’ultima persona im- barcata nel traghetto: ma Alessio Bertrand è ancora vivo e dice, probabilmente per lo shock, che altri lo sono. Alle 23:45 sul canale 16 gli ormeggiatori chiariscono che la nave investitrice è il Moby Prince. A causa delle condizioni del traghetto la CP232 si limita a seguirne la corsa, con moto circolare, tentando di scorgere altri naufraghi in mare e ben presto viene accompagnata nell’operazione da altre imbarca- zioni di soccorso. In una di queste il Comandante dei Vigili del Fuoco Fabrizio Ceccherini osserva lo stato del traghetto e valuta impossibile salirvi per preservare l’incolumità dei suoi operatori. Alle 3:30 il rimorchiatore Tito Neri II si appoggia alla poppa del Moby Prince e il marinaio, Giovanni Veneruso, sale sul Moby Prince per agganciare un cavo a una bitta, così da trascinare il traghetto verso il porto e fermare la sua corsa. Veneruso sente le lamiere incandescenti ma comunque sale senza guanti né alcun altro protettivo. Fa un giro sul ponte, una rapida occhiata, e poi viene richiamato dal suo equipag- gio. Qualche ora dopo, su iniziativa dalla Capitaneria di Porto, il traghetto è autorizzato all’attracco, scortato dai rimorchia- tori, in una banchina di servizio del porto di Livorno.

Gli stessi giudici definiscono nella lunga sentenza che, no- nostante l’enorme mole di materiale indiziario raccolto, re- stano in questo racconto alcune “obiettive – seppur residuali – incertezze”, senza tuttavia elencarle compiutamente.

496 La IIIa Sezione della Corte d’appello di Firenze, rappre- sentata dai magistrati Scialoja, De Giorgi e Turi, tenterà di superare tali “obiettive” indeterminazioni, pervenendo a una ricostruzione meno contraddittoria. Sono passati due anni dalla sentenza di primo grado e l’incidente è quasi un lontano ricordo. Persino il relitto del Moby Prince, oramai, non è più disponibile; dissequestrato il 24 aprile 1998, è stato portato in Turchia per lo smaltimento, su indicazione e spesa dell’arma- tore. Tuttavia i giudici fiorentini, nonostante il limite di poter unicamente tornare ad analizzare la mole di documenti pro- cessuali posti agli atti, senza quindi poter disporre un nuovo dibattimento, modificano alcuni passaggi radicali del raccon- to presentato nella sentenza di primo grado. In particolare, poichè oggetto dell’appello era nei fatti la sola responsabilità di Valentino Rolla circa il mancato azionamento dei segna- li anti-nebbia, fu proprio l’orario di insorgenza della nebbia l’elemento portante della loro indagine documentale. Dalla lettura della sentenza di appello, datata 5 febbraio 1999, si evince principalmente che:

• la nebbia da avvenzione151 è scesa a coprire la sola Agip Abruzzo alle 22:15, quindi più o meno in concomitanza con il momento in cui il Moby Prince doppiò la diga della Vegliaia. Questa ricostruzione, poggiata su una lettura maggiormente seria delle testimonianze, consente di indicare quindi in Rolla e, più in generale, nel personale dell’Agip Abruzzo, la colpa di non aver azionato per tempo né i segnali di riconoscimento obbligatori in caso di nebbia o scarsa visibilità, né tantomeno il radar di bordo che avrebbe eventualmente consentito allo stesso Rolla di segnalare al Moby Prince la rotta di collisione; • il pilota del porto di Livorno Sgherri, non accompa- gnò il traghetto fino a un miglio dall’uscita della diga – come da regolamento – bensì scese appena arrivati in prossimità di quest’ultima, come da prassi irregolare instaurata nel Porto di Livorno. Questo comportò il fatto che il Comandante Ugo

151 Vedi nota n. 6.

497 Chessa, avendo guidato il Moby Prince all’attracco il giorno prima (alle ore 18:35 del 9 aprile 1991) precedentemente quin- di all’arrivo in rada dell’Agip Abruzzo avvenuto alle 22:25 del giorno stesso, non avesse avuto modo di sapere della presen- za di quella petroliera: da un lato infatti il pilota del porto non la segnalò al Comandante e dall’altra quest’ultimo non potè vederla in uscita per via della nebbia; • il radar di bordo del Moby Prince era acceso, ma co- munemente, in fase di uscita, si navigava a vista; tradito dal fatto che la nebbia era “strana” e non si mostrava in quan- to tale anche a causa dell’assenza della luna – quindi di una corretta illuminazione – il personale di plancia probabilmente non monitorò il radar che comunque era in posizione arretra- ta rispetto alla postazione del Comandante; • non è possibile sancire con esattezza il punto di fonda dell’Agip Abruzzo, ma è assai probabile che questo fosse con orientamento sud-est o nord-est. A conferma vi è il Video D’Alesio che mostra evidentemente, secondo i giudici fioren- tini, non il banco di nebbia sancito dal collegio livornese pre- sieduto da Germano Lamberti, ma il profilo della petroliera con il traghetto dietro; • le navi alla fonda erano state posizionate in modo poco accorto, troppo vicine; • il Comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, segnalò e fece segnalare intenzionalmente quale nave investi- trice “una bettolina”, accentrando così su di sé i soccorsi che altrimenti si sarebbero suddivisi tra le due imbarcazioni; • il Comandate Chessa fu ingannato dal fatto che la nebbia era “strana” quella notte ma è a essa che dev’essere imputabile il comportamento della plancia.

Per le restanti parti il racconto dei giudici fiorentini si man- tenne coerente a quello presentato nella sentenza di primo grado. L’ultimo tassello della ricostruzione storica ufficiale del caso Moby Prince si può ritrovare nella “Richiesta di archiviazio- ne dell’inchiesta bis Moby Prince”. I firmatari del documen- to – Carla Bianco, Antonio Giaconi e Massimo Mannucci –

498 convergeranno su ogni singolo punto del racconto ufficiale, concentrando gli sforzi in un esercizio esattamente inverso: dimostrare l’infondatezza di tutte le tesi alternative riguardan- ti l’accaduto. Tra di esse i magistrati della Procura di Livorno indicheranno con forza:

• l’assenza di riscontri oggettivi circa il movimento del peschereccio 21 Oktober II della Shifco, in riparazione presso la Calata Magnale e da lì mai mossosi la notte del disastro; • l’assenza di riscontri oggettivi che collocherebbero con sicurezza una tale nave Theresa nei pressi della zona in cui si sarebbe verificato l’incidente e in ogni caso la difficoltà di provare un interessamento della stessa nella dinamica della collisione; • l’inattendibilità del Tenente Cesare Gentile, unico te- stimone a indicare la presenza di un traffico d’armi in rada quella notte, comprovata dalla ritrattazione di quest’ultimo operata nel corso delle indagini circa il tempo di rilevazione del “traffico d’armi” dalla Cape Flattery. Gentile infatti dichia- ra di aver segnalato alla Corte del Processo di Primo Grado che quella era una nave “che imbarcava armi” non che “stava” imbarcando armi al momento della sua osservazione; • l’attendibilità della ricostruzione di Alessio Bertrand, risentito a distanza di diciotto anni dall’incidente; • la certificazione di una posizione dell’Agip Abruz- zo152, intesa come baricentro dell’intero complesso catena

152 Sono numerose le posizioni dell’Agip Abruzzo analizzate e verificate da magistrati e periti nel corso del lungo iter giudiziario della vicenda Moby Prin- ce. L’inchiesta formale (pag. 12 paragrafo 10) indica 2,7 miglia nautiche dalla testata di ponente della Vegliaia con rilevamento 0,23° dal faro di Livorno, orientamen- to di 300° – quindi verso Nord. La Sentenza di primo grado indica la non assoluta certezza nel determinare la posizione dell’Agip Abruzzo benchè faccia riferimento alla seguente, in forma ufficiale: 43.29.8 nord 10.15.3 est’ (p. 58) orientamento intorno a 300°. La Sentenza di appello sottolinea l’impossibilità di sostenere con certezza il pun- to nave dell’Agip Abruzzo e soprattutto la necessità di indicare un orientamento nord-est o sud-est. I magistrati cui si deve la Richiesta di Archiviazione dell’Inchiesta-Bis Moby

499 dell’ancora/petroliera, è rimasta pressochè identica dopo la collisione e comunque dev’essere collocabile nel baricentro di un’area rettangolare di 600×300 metri nautici tra i 199° e 207° dal fanale della Diga della Vegliaia (203 F.V. Vegliaia 2,8 M di coordinate 43°29’75N – 10°15’75E) con orientamento della prua verso il largo in un arco compreso tra i 290° e 310°; tale posizione è fuori della zona di interdizione all’ancoraggio e pesca e comunque, anche in questo caso, una condotta colpo- sa richiamerebbe responsabilità per cui il reato è prescritto; • l’impossibilità di ricondurre a motivo della collisione sia l’avaria al timone del Moby Prince sia la potenziale rotta di collisione di un natante che navigava in senso contrario rispetto alla direzione del Moby Prince; • l’inattendibilità delle tesi presentate da tale Fabio Piselli circa la presenza in rada quella notte di commandos israeliani e somali, oltre che l’attestazione dello stesso della presenza di altri sei cadaveri oltre ai centoquaranta noti, mai ufficializzati poichè agenti segreti del Mossad sotto copertura.

Prince prendono per buona la determinazione di un quadrante di 180.000 mq entro il quale, secondo i periti Giuliano Rosati ed Achille Borsa è altamente pro- babile il punto nave della petroliera il 10 aprile 1991 al momento della collisione. Circa l’orientamento, benchè Rosati e Borsa stessi indichino che il vento prove- nisse da sud, resta ferma l’idea di un orientamento della prua dell’Agip Abruzzo di circa 300°. Vale la pena notare che nel corso delle concitate operazioni di soccorso riportate sul Canale 16, queste sono le posizioni segnalate dal Comandante Renato Supe- rina e dal marconista Imperio Recanatini: • “Siamo a due miglia e mezzo fuori…” (ore 22:27:10) • “Siamo a due miglia e mezzo dalla diga…” (ore 22:27:20) • “Noi eravamo all’ancora, all’ancora massimo 1 miglio e mezzo o 2 miglia dall’entrata del Porto di Livorno” (22:48:10) • “A sud, due miglia e mezzo della Vecchiaia (Vegliaia ndr)” (22:50:18) • “Siamo a due miglia e sette per 45° a sud della Vegliaia…” (22:50:45) • “43.29 Nord 10.16 Est” (22:52 c.a.) • “Stiamo suonando, stiamo suonando solo che abbiamo la prua a sud e quindi difficilmente ci sentite… comunque siamo a 2 miglia e mezzo dalla Vegliaia c’è un mare di fuoco… ci dovreste vedere” (22:57:27) • “200-210° 2 miglia e sette e ci trovate” (22:59:13) • “43.29.8 Nord 10.15.3 Est” (23:07:47) • “le coordinate precise sono 43° 28′.94 Nord 10° 14′.93 Est” [CP di socco- ritori non smentita via radio da Superina”

500 A conclusione della loro disamina i magistrati della Procura di Livorno porranno una sorta di pietra tombale sulla vicen- da, indicando in una dinamica “banale” il reale svolgimento dell’incidente – l’insorgere della nebbia, l’assenza di segnali anti-nebbia da parte della petroliera, l’errore della plancia del traghetto, lo speronamento proprio della tank 7 in quell’occa- sione riempita di crude oil – all’interno di un contesto evidente- mente viziato da alcune colpose negligenze: l’assenza di una re- golamentazione di diversificazione delle rotte di entrata e uscita da quelle di stazionamento – fatto proprio dalla Capitaneria di Livorno un mese dopo l’evento – la condizione impostata di “non funzionamento” dell’impianto anti-incendio sprinklers, il mancato bloccaggio del sistema di ventilazione post-collisione e la posizione della paratia esterna di prua lasciata “incautamen- te sollevata” (p.146) per parte del traghetto. Con un non casuale colpo di spugna i magistrati livornesi aggiungono inoltre che nel caso della disattivazione dell’im- pianto sprinklers è sì ipotizzabile il reato di “rimozione dolosa di dispositivi di sicurezza per prevenire disastri o infortuni sul lavoro” per il quale il quadro normativo, nei casi di provata accettazione del rischio dell’evento morte da parte dall’agente (l’armatore), prevede anche lo scenario del dolo eventuale e quindi l’omicidio volontario – non soggetto a prescrizione – ex art. 575 c.p., ma tale ricostruzione – nota alle cronache per essere stato il perno della condanna in primo grado dell’am- ministratore delegato della Thyssenkrupp – non è inquadra- bile in tal senso nel caso Moby Prince. La motivazione resta quantomeno nebulosa:

“Una prospettazione analoga avrebbe forse potuto farsi qualora si fosse parlato di incendio e morte non a bordo di un traghetto passeggeri, ma di una nave cisterna adibita al tra- sporto di sostanze altamente infiammabili (come una petro- liera), con precedenti accertati quanto al verificarsi di incidenti di quel tipo e riscontrata reiterata carenza e/o manipolazione dei sistemi anti-incendio”153.

153 Richiesta di archiviazione inchiesta bis Moby Prince, p. 148

501 Tradotto in altre parole, secondo i magistrati livornesi ben- ché di rimozione “ad alta intensità di dolo” si possa parlare (ibidem) non è corretto ipotizzare l’omicidio volontario per dolo eventuale perché rendere l’impianto automatico anti-in- cendio inattivo – se non con azionamento manuale operabile dal capo drappello anti-incendio (il nostromo in quella tra- versata in permesso accordato) – allo scopo di evitare “danni causati dall’attivazione accidentale degli sprinklers” non signi- fica accettare il rischio morte conseguente all’azione; lo avreb- be significato se quella fosse stata una petroliera. In breve è come dire che chi mi fornisce la macchina a noleggio con l’airbag disabilitato per evitare che accidentalmente si apra in corrispondenza di un banale tamponamento, non accetta il mio rischio morte compiendo questa disattivazione di tale impianto di sicurezza, perché l’auto serviva per un viaggio di piacere, non per fare un rally. La scelta dei magistrati in tal senso è quindi quantomeno ambigua, per non dire poco coraggiosa. Comunque oltre tutto ciò che è stato presentato come storia reale non vi è, a detta dei magistrati, alcun ulteriore scenario possibile di ricostruzione poichè “nessuna delle ipotesi alter- native vagliate è in grado di assumere una qualche parvenza di idoneità concausale né di credibilità”154. Il racconto delle sentenze, centro fondante della creazione di quella storia ufficiale che gli Stati tutelano e insegnano, chiude così la porta ad altre narrazioni, ponendo al titolo Moby Prin- ce un unico sottotitolo definitivo, già emerso poche ore dopo la strage: una “tragica fatalità”.

154 Idem, 150.

502 2. I PRINCIPALI DUBBI RIMASTI

Alla fine di questo lungo percorso ricostruttivo si può no- tare come, quantunque il materiale documentale sia stato svi- scerato a fondo e difficilmente si possa sostenere che aspetti centrali di questa vicenda, come la nebbia, siano indiscutibil- mente falsi, restino ancora oggi molti dubbi in merito a questa storia ufficiale del Moby Prince descritta dalla magistratura italiana. Del resto la stessa Procura di Livorno, in una nota di non casuale brevità, sottolinea come persino la tanto dibat- tuta nebbia possa essere riconducibile alla teoria espressa dai Consulenti Amm. Giuliano Rosati e Amm. Giuseppe Achille Borsa nella relazione consegnata al Tribunale stesso in data 17 giugno 2009. I due ammiragli, dopo aver presentato le proprie deduzioni in merito ad aspetti cardine della collisione – quali l’orientamento della petroliera e la rotta del Moby Prince – , provvedono di loro iniziativa a riportare una tesi alquanto particolare sul tema “nebbia”. Dacchè in tutte le sentenze la nebbia è descritta come “strana”, “simile a fumo” e soprat- tutto riferita alla sola petroliera, l’Ing. Rosati e il Dott. Borsa dichiarano che l’equivalente di un banco di nebbia in grado di coprire l’intera petroliera potrebbe essere il risultato della rottura di uno o più tubi vaporizzatori all’interno della camera di combustione155. L’Agip Abruzzo era infatti dotata di due caldaie a tubi d’ac- qua che dovevano alimentare varie utenze e servizi tra i quali la produzione di energia elettrica. Queste caldaie erano com- poste da una camera di combustione dentro la quale veniva bruciato il combustibile tramite opportuni bruciatori (sistema Hamworthy). Il calore prodotto irraggiato faceva vaporizzare l’acqua all’interno delle tubolature che foderavano la camera di combustione creando vapore che veniva raccolto nel col- lettore superiore e quindi inviato alle utenze. I gas combusti, una volta trasmesso questo calore, veniva espulsi dal fumaiolo

155 Relazione Rosati e Borsa per Inchiesta-Bis Moby Prince, p. 37.

503 dopo un passaggio attraverso alcune tubolature di scarico. I due ammiragli segnalano che in conseguenza della rottura di uno o più tubi vaporizzatori nella camera di combustione – avaria comune in questo tipo di caldaie – una grande e violen- ta mole di vapore si sarebbe introdotta nella camera di com- bustione e avrebbe trovato sfogo nelle tubolature di scarico. “Contemporaneamente” si sarebbe alterata “la combustione all’interno della camera di comustione a causa della presenza massiccia di vapore che riduceva il corretto miscelamento del compustibile con l’aria (comburente). L’incombusto seguiva le condotte di scarico mescolandosi con il vapore e completa- va la sua combustione all’uscita dal fumaiolo ritrovando l’ossi- geno necessario e producendo modeste e intermittenti lingue di fuoco”156. Il vapore uscito dal fumaiolo avrebbe saturato in dieci minuti l’aria esterna producendo una quantità di nebbia valutata in circa 74.000 metri cubi. In breve tempo quindi tut- to il lato destro della nave (sottovento) sarebbe stato avvolto da una fitta cortina di condensa riducendo drasticamente la visibilità a un osservatore posizionato a destra della nave. Questa ipotesi ricostruttiva sarebbe in grado di far collimare molte testimonianze finora contrastanti circa sia le fiammel- le visibili dal fumaiolo dell’Agip Abruzzo – attribuite dalle sentenze proprio alla rifrazione della luce in presenza di neb- bia – sia questo oscuramento repentino e inusuale dell’intera petroliera. Tra le più rilevanti dichiarazioni in tal senso vale la pena annotare quelle rilasciate da Paolo Thermes, ufficiale dell’Accademia Militare di Livorno, confermate dal suo colle- ga Roger Olivieri: “osservavamo che una delle navi alla fonda, esattamente quella posta più a sud, stava progressivamente sparendo alla vista avvolta da una massa nebulosa di colore bianco. Detta nube procedeva da prua verso poppa… giunti alla finestra notavamo che la predetta nave era rimasta avvolta completamente dalla nube, si vedevano in quel punto sola- mente dei bagliori rossi e a intermittenza un altro bagliore che cambiava continuamente intensità” (Pro. Li. 15/04/1991). Aggiungono i due ammiragli che “l’evento ipotizzato sarebbe

156 Ibidem.

504 stato molto difficile da individuare tempestivamente a bordo dell’Agip Abruzzo se non guardando casualmente in direzio- ne del fumaiolo [...] si ritiene utile sottolineare che il fenome- no riportato avrebbe potuto rendere difficile l’individuazione dell’Agip Abruzzo anche al radar del Moby Prince a causa della possibile formazione di luminosità diffuse sullo scher- mo (PPI)”. Questa tesi non riceverà il completo sostegno dei procuratori livornesi impegnati nell’Inchiesta-Bis e difatti essa non compare nemmeno all’interno del capitolo della Richie- sta di Archiviazione dedicato al fenomeno metereologico tan- to dibattuto. Ciononostante anche questo ulteriore sforzo di ricostru- zione porta con sé il bisogno di giustificare con un percorso logicamente coerente quanto oggi è illogicamente descritto come realmente accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991. Tra i punti più controversi vi è, per esempio, l’assurdità della ricostruzione riferita alla condotta della plancia del traghetto che non solo avrebbe omesso di verificare a vista e sul radar la presenza della petroliera, ma addirittura avrebbe scelto di lasciare la sicura rotta 220° una volta doppiato a distanza il Cape Breton per scegliere la pericolosa rotta 192° cui si do- vrebbe la collisione con l’Agip Abruzzo e, dulcis in fundo, trovatosi il traghetto immerso nel banco di nebbia, avrebbe ordinato l’accensione dei cappelloni di prua (cercanaufra- ghi157) ottenendo l’effetto inevitabile di aumentare la perico- losità della navigazione a vista. Considerato ormai come dato certo quantomeno il fatto che il Moby Prince avesse questi fari accesi, è insostenibile ipotizzare che tale accensione sia stata comandata da Ugo Chessa per migliorare la visibilità, una vol- ta colto di sorpresa dalla nebbia. A tal proposito vale la pena ricordare che l’ex Comandante del Moby Prince, D’Ambro- sio, in una memoria158 prodotta poco dopo la pubblicazione

157 Richiesta di archiviazione inchiesta bis Moby Prince p. 145. 158 La memoria è riportata in copia nel sito web www.mobyprince.com. In essa è possibile leggere un passaggio di particolare importanza circa le condi- zioni del traghetto Moby Prince: “gli stessi periti avrebbero dovuto sapere della singolare anomalia del Moby Prince, e cioè quella che vietava a chi era in plancia

505 della sentenza di primo grado, chiederà a gran voce di essere ascoltato circa l’assurdità di questa ricostruzione. Per D’Am- brosio se l’accensione dei cappelloni di prua c’era stata allora “poteva essere stata solo diretta conseguenza dell’esplosione precedente alla collisione”, teorizzata dal perito Alessandro Massari. Secondo l’ex Comandante, a seguito dell’esplosio- ne e della fuoriuscita dal ponte di prua del fumo derivante, Chessa avrebbe probabilmente chiesto di illuminare la zona – come di solito si compiva nelle manovre di partenza e ap- prodo – per verificare l’accaduto. Purtroppo questa ricostru- zione resta viziata dalle risultanze della perizia Mariperman riguardante sia la tipologia di esplosione – deflagrazione da gas – sia il momento in cui si è verificata rispetto alla colli- sione definita successiva. Il dubbio in ogni caso resta. Una condotta così erronea e illogica infatti non può essere plausi- bilmente attribuibile a un Comandante esperto come Chessa, benchè sia il primo collegio giudicante sia il secondo abbiano avuto modo di imputargli anche questo. Vale la pena notare in tal senso che il corpo del Comandante Chessa fu trovato nei pressi della plancia, vicino a quello del terzo ufficiale di co- perta, Arcangelo Picone. Questo farebbe pensare al fatto che il Comandante, al momento della collisione, fosse presente in plancia e avesse al suo fianco anche il terzo ufficiale di guardia e ciò rende ancora meno chiara un’altra evidenza peritale: i comandi degli organi di governo al momento della collisione.

di avere un controllo diretto sulla condotta dei motori. Il personale di guardia sul ponte era impossibilitato sia a fermare sia a mettere indietro tutta, ridurre o al limite, aumentare la velocità della nave in caso di pericolo o ostacolo improvvi- so. Su una nave moderna, sempre ed ovunque, chi sta di guardia sul ponte ha la possibilità di agire immediatamente senza preoccuparsi d’avvisare il personale di macchina. Se c’è pericolo, in una frazione di secondo si può rallentare o persino mettere indietro tutto. Sul Moby Prince invece, in caso di un ostacolo avvistato all’improvviso sotto la prua, v’erano due sole alternative. La prima: precipitarsi su i due telegrafi e smanettare violentemente sul indietro tutta ed aspettare e sperare che chi era in macchina eseguisse l’ordine. Seconda alternativa, precipi- tarsi sulla cicalina, posta a sinistra della consolle, accenderla e urlare al personale di macchina l’indietro tutta, perdendo così in ambedue i casi secondi preziosi” (Comandante Superiore Mario D’Ambrosio, Osservazioni sul primo processo Moby Prince, www.mobyprince.com, 1998, p. 2).

506 Quale fatto accertato e sottoscritto da tutti i consulenti tecnici uditi nel corso dell’iter giudiziario, al momento dell’impatto con la petroliera, il traghetto aveva la posizione del timone in “manuale idraulico” tutta a dritta – barra di pochi gradi a sinistra con by pass chiuso – . Scrivono i procuratori livornesi che a seguito della collisione e dell’abbandono della plancia da parte del personale “almeno una delle pompe è rimasta in funzione con il by pass chiuso e la pompa in moto, il ri- scaldamento differenziale delle linee ha provocato la rotazio- ne del timone. Solo dopo con l’arresto della pompa, l’azione delle molle antagoniste e i danni subiti dalle linee idrauliche hanno portato il telemotore ricevitore nelle condizioni in cui è stato trovato [...] ovvero 30° a dritta”159. Orbene, la stessa Richiesta di archiviazione dell’inchiesta-bis, dove è riportato questo passaggio, riesce a dichiarare nel medesimo periodo due affermazioni contraddittorie: da un lato si cita che la reale posizione accertata è quella di “tutto a dritta” (35°) dall’al- tro lato si esplicita l’assenza di qualsiasi “accostata” – ovve- ro una brusca sterzata a destra – che invece tale comando paleserebbe. Perché i magistrati livornesi si siano inerpicati in questo ossimoro resta curioso solo in parte. Se infatti si ri- tiene corretta l’accertata condizione di un timone 30° a dritta al momento della collisione, questo significa che il 10 aprile 1991 il Moby Prince ha realizzato una virata molto forte verso destra tesa a prendere una rotta che in realtà si è realizzato essere di collisione. Giustificare l’idea di una plancia distratta che, colta di sorpresa dalla nebbia di avvezione, centri una petroliera di quasi trecento metri alta venticinque perché sulla rotta dritta verso Olbia è una cosa. Assurda, per certi versi paradossale, ma comunque in qualche modo difendibile – se non altro come lo hanno fatto i giudici di primo e secondo grado– . Diversamente assume connotati di dubbia logicità ipotizzare che la plancia stessa, senza alcun motivo raziona- le – come un natante che ha tagliato la strada, ipotizzato dal CT Mignogna e smentito dal Tribunale di Livorno – , abbia effettuato una manovra evidentemente particolare – una ster-

159 Idem, p. 20.

507 zata a destra piuttosto stretta – andando a collidere per venti metri a poppavia dell’Agip Abruzzo. Inoltre, aspetto questo fino a oggi inspiegabilmente ignorato nella documentazione ricostruttiva, il senso di una virata a destra è inconciliabile con la rotta del traghetto ipotizzata dai magistrati, il senso di collisione prua-poppa e la collocazione conseguente degli altri natanti ancorati nella zona sud della rada di Livorno al momento della strage. Infatti virare a destra significa tornare verso una rotta più vicina al cono di uscita, quindi più sicura e soprattutto un comando di 30° a dritta produce un moto che si concilia con il senso di collisione accertato nelle sentenze (prua-poppa) solo se l’Agip Abruzzo era orientata a sud e il Moby Prince l’aveva in qualche modo già doppiata. Correlato a questo dubbio centrale relativamente alla dina- mica della collisione è quindi l’insieme di elementi situazionali che riguardano l’Agip Abruzzo. Ancora oggi è possibile ri- levare come restino vaghe tutte le indicazioni finali su pun- to nave – ovvero area di ancoraggio della petroliera inclusiva delle lunghezze di catena a mare – orientamento della prua e condizioni dello scafo prima di essere centrato dal traghetto Moby Prince.

Punto Nave dell’Agip Abruzzo Come specificato in precedenza, al termine del lungo iter giudiziario i magistrati danno per buona l’esistenza di una sor- ta di area in cui molto probabilmente possiamo collocare la petroliera al momento della collisione. Quest’area risulta frut- to di un insieme di valutazioni concernenti le tante posizioni della petroliera segnalate dal Comandante Superina, dal mar- conista Recanatini e da altri soccorritori nel corso delle con- citate comunicazioni registrate sul Canale 16, e la cosiddetta “posizione ufficiale” fornita il giorno dopo l’incidente dalla nave militare italiana Lybra nei modi raccontati all’interno del volume. La questione centrale di cui finora si è spesso dibattuto è la presenza dell’Agip Abruzzo dentro o fuori la zona di divieto ancoraggio e pesca. In realtà non meno rilevante resta l’esat- ta distanza dalla diga della Vegliaia, ovvero dall’ultimo spar-

508 tiacque del Porto di Livorno prima del mare aperto. Questo perché ambedue le variabili determinano la possibilità che il Moby Prince abbia operato una manovra di inversione della rotta entro il tempo esatto tra l’uscita dalla diga e il lancio del may day. Infatti fino a oggi la collocazione dell’Agip Abruzzo a 2,7 miglia nautiche dalla diga della Vegliaia rende impossibi- le lo scenario ricostruttivo che vedrebbe la petroliera orientata a sud e quindi una collisione avvenuta sul lato di dritta a segui- to di una manovra, divenuta inevitabile per un guasto tecnico, operata dal traghetto. Questo perché il Moby Prince era im- possibilitato a superare i 18 nodi di velocità e fisicamente non avrebbe mai potuto superare un ostacolo collocato a 2,7 miglia dalla diga della Vegliaia per superarlo di prua e poi invertire la rotta al punto di trafiggerlo a pochi metri dal castello di prua lato destro. Attualmente è possibile sostenere che questa in- determinazione circa il punto nave non sia superabile se non per il tramite di immagini fotografiche o satellitari in grado di fornire elementi tali da pervenire a un calcolo trigonometrico tra il punto del fuoco e altri punti di riferimento geografici del lungomare livornese. Ad oggi questa documentazione non è presente in alcun archivio di quanti cercano tali risposte. Ma in altri forse sì.

Orientamento della prua dell’Agip Abruzzo Dalla lettura dei verbali delle numerose testimonianze ac- quisite sull’accaduto emerge una sostanziale maggioranza di indicazioni relative all’orientamento a nord della petroliera. Pur tuttavia il video D’Alesio resta un’evidenza piuttosto in- confutabile del contrario: il fuoco è dietro il profilo di uno scafo che molto probabilmente è l’Agip Abruzzo, pertanto, considerato che la collisione è avvenuta indubbiamente sul lato dritto queso dimostrerebbe un orientamento a sud della petroliera. Ciononostante, alla luce della non nitidezza del fil- mato, questa prova resta ancora oggi un punto controverso.

Condizioni dell’Agip Abruzzo precedenti la collisione Alcuni testimoni hanno dichiarato di riconoscere un black out sulla petroliera cinque minuti prima dell’incidente e tale

509 condizione è stata riferita alla nebbia dai magistrati finora in- tervenuti sulla vicenda. Ipotizzando una differente risposta sono molte le deduzioni portate a riguardo, senza tuttavia che alcuna di queste sia stata sostenuta da un efficace impianto probatorio. Indubbiamente resta comprovata la condizione assolutamente anomala della tank n°6 non inertizzata, lasciata con il butterworth aperto. La motivazione fornita dall’equi- paggio dell’Agip Abruzzo a tal proposito – l’aver incautamen- te lasciato una manichetta dentro la tank n°6 servita poche ore prima per portarvi le acque di sentina della sala macchi- ne – desta ancora un certo stupore: in alcuna petroliera si lascia una tank non inertizzata, considerato l’alto rischio di incidenti a elevata pericolosità, e soprattutto qualsiasi opera- zione di carico o scarico realizzata sulle cisterne è conclusa in ogni sua fase. L’idea di un processo incompiuto è pertanto quantomeno poco plausibile. Pur tuttavia non è stato finora possibile verificare il contrario di quanto finora descritto dal personale dell’Agip Abruzzo: nella petroliera tutto procedeva come sempre, prima della collisione. Vale la pena segnalare che il 20 Ottobre 2009 il Comandante Renato Superina, inter- rogato dagli inquirenti dell’inchiesta-bis Moby Prince benchè in assai precarie condizioni di salute, ha fornito un inedito particolare - non considerato dai magistrati nella stesura della Richiesta di archiviazione – circa la questione della manichetta innestata. Superina ha parlato di un “lavaggio della cisterna” antecedente la collisione e non relativo ad acque di sentina che in realtà comunemente venivano buttate “nel carico”. La stranezza della segnalazione è stata rilevata nell’acquisizione della dichiarazione dal perito Ing. Gennaro il quale ha indica- to al Comandante Superina che la cisterna disponeva in auto- nomia di cannoncini per il lavaggio con crude oil. Pur tuttavia Superina, con l’ausilio interpretativo della moglie, ha riaffer- mato che la procedura era di lavaggio della cisterna e non con acque di sentina.

Se tutto ciò non bastasse, a infittire il mistero, resta la que- stione delle comunicazioni radio effettuate dal marconista del Moby Prince Giovanni Battista Campus. Il traghetto era do-

510 tato di due postazioni radio: la stazione RT e l’impianto por- tatile VHF collocato in plancia. Dalla stazione RT fu sicura- mente effettuata la comunicazione commerciale tra Campus e IPL Livorno Radio, secondo gli atti processuali terminata sul canale 16 alle 22:23:27 e proseguita (dichiarazione dell’opera- tore Savelli) per un altro “minuto, minuto e mezzo”160. Du- rante le operazioni di sopralluogo e recupero delle vittime la stazione RT fu trovata completamente riversa sul pavimento, come da conseguenza di un urto frontale molto forte, quale fu la collisione. Il corpo del marconista del Moby Prince fu invece rinvenuto nell’atrio “vestibolo di abbandono nave”, in prossimità del Salone de Lux. Considerato il fatto che la chia- mata del may day arrivò alle 22:25:29 molto probabilmente dall’impianto VHF portatile della plancia e che fu Campus stesso a realizzarlo su indicazione del Comandante, è assai strano definire un quadro ricostruttivo che riesca a dare con- to di tutti questi elementi. Fino alle 22:24:27, massimo 22:25, sulla nave è ancora tutto tranquillo e lo possiamo desume- re dal fatto che Campus sta effettuando una comunicazio- ne radio con IPL Livorno Radio nel tentativo di avviare una chiamata con un fornitore di Olbia. Nessun cenno da parte del marconista del Moby Prince – o del cambusiere di bordo che potrebbe aver partecipato alla conversazione secondo la sentenza di primo grado – circa situazioni strane nel traghetto o chiamate di emergenza. Alle 22:25:29, dalla radio portatile VHF della plancia viene lanciato il may day e da una verifi- ca, la voce dell’operatore che lo ha emesso, parrebbe esse- re quella di Giovanni Battista Campus. Vista la concitazione della comunicazione, la precisione della descrizione “siamo in collisione, siamo entrati in collisione, prendiamo fuoco” e soprattutto l’assenza del corpo del marconista sotto la stazio- ne RT è altamente probabile che Giovanni Battista Campus fosse arrivato in plancia e avesse avuto il tempo materiale di ricevere l’ordine di Ugo Chessa circa il may day e portarlo a coscienza al punto tale da saperlo raccontare nella dramma- tica segnalazione delle 22:25:29. Il problema è stabilire come

160 Sentenza di primo grado, p. 230.

511 siano conciliabili i tempi di spostamento di Campus e l’assen- za di segnalazione di un qualsiasi problema nel corso della comunicazione commerciale con IPL Livorno Radio. Altra evidente contraddizione della ricostruzione ufficiale – non espressa purtroppo né dai giudici fiorentini né dalla Procura di Livorno interessata nel quadriennio 2006-2010 dall’Inchiesta-bis – riguarda i tempi di sopravvivenza a bordo del Moby Prince. Il teorema della morte rapida è l’architrave sulla quale si è potuto procedere all’assoluzione di tutti gli im- putati della Capitaneria, relativamente alla condotta negligen- te circa il soccorso in mare. La semplice tesi sostenuta dalla magistratura è la seguente: essendo morti tutti in massimo mezz’ora, qualsiasi intervento sarebbe stato inutile. Secondo la ricostruzione ufficiale infatti tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio del traghetto, escluso Alessio Bertrand, mori- rono tra i venti e in trenta minuti dopo la collisione. Tuttavia questo pilastro della storia ufficiale resta di difficilissima dife- sa considerati i seguenti punti: • le serrande tagliafuoco del Salone De Lux furono tro- vate aperte dall’interno e avevano una resistenza di 60 minuti (quindi potenzialmente avrebbero potuto far sopravvivere i presenti fino a un’ora dopo la collisione per poi portare questi ultimi a forzarle nella speranza di trovare scampo all’ester- no); • alcuni cadaveri avevano tassi di carbossiemoglobina superiori al 70% con punte del 90% e una media del 32,71%, a indicare una respirazione di ore del monossido di carbonio; • Alessio Bertrand fu salvato un’ora e venti minuti dopo la collisione e, sebbene possano avere una qualche attinenza sia la sua salute fisica sia la sua giovane età, è complesso so- stenere che quelle stesse condizioni che hanno portato a una morte così rapida le restanti centoquaranta persone imbarcate nel traghetto siano risultate per lui sostenibili, per tutto quel tempo; • Antonio Rodi, ripreso alle sette del mattino dall’elicot- tero dei carabinieri, sdraiato supino sul ponte poppiero, con i suoi indumenti, e poco dopo ritrovato completamente carbo- nizzato, resta un’evidenza della lunga sopravvivenza a bordo

512 che ancora oggi non ha trovato smentite accettabili; benchè, visti i suoi livelli di carbossiemoglobina, sia difficile sostenere che sia arrivato sul ponte poppiero poco prima dell’avvicina- mento dell’elicottero, gli stessi periti del tribunale – nel corso del processo di primo grado – dichiararono l’evento “di diffi- cile spiegazione”.

A supporto di questa analisi critica è importante ricordare un documento dal titolo “Perizia medico-legale sulle cause della morte del personale di bordo e dei passeggeri del tra- ghetto Moby Prince”, redatto da due docenti della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – Angelo Fiori e Marcello Chiarotti – per conto di alcune parti civili e presentata alla Procura di Livorno nel corso del Processo di primo grado. Unitamente alla descrizione di una lunga serie di dettagli tecnici relativi alle cause di morte negli incendi di grandi dimensioni, i Prof. Fiori e Chiarotti, ripor- tano le loro deduzioni conclusive in merito ai dati contenuti nella Perizia architrave della sentenza di primo grado, quella Bargagna, Giusiani, Bassi Luciani e Pierotti. Tale perizia si compone di due parti, la relazione collegiale, presentata da Bargagna stesso in dibattimento, e la relazione tossicologica redatta da Mario Giusiani. In larga parte le risultanze del pri- mo documento derivano da una determinata lettura dei dati contenuti nella seconda, e in particolare dalla sottovalutazio- ne delle differenze tra le percentuali di carbossiemoglobina e residui cianuri rilevate tramite i prelievi ematici realizzati su novantacinque delle centoquaranta vittime del Moby Prince. A tal proposito Fiori e Chiarotti ritengono centrale, nella de- duzione relativa ai tempi di sopravvivenza e a quelli di inca- pacitazione161, l’eterogeneità dei dati riscontrati. Ciò, sempre secondo i due docenti universitari, confermerebbe la regola, comune in tali casi, che indica livelli differenti di tolleranza tra le persone sottoposte ad agenti lesivi quali quelli scatenati da un incendio: alta temperatura e gas tossici. In tal senso

161 Si definisce “tempo di incapacitazione” quello compreso tra la perdita della coscienza o comunque della capacità di movimento e la morte.

513 non parrebbe corretta la deduzione dei periti del Pubblico Ministero che protendono invece su una omogeneità di rea- zione da parte di tutte le vittime, estranea al solo Bertrand. In sostegno della loro tesi i due accademici contestano al Prof. Giusiani l’arbitrario cambiamento della formula chiave per la classificazione dei casi di incapacitazione, elaborata dalla ricercatrice americana Barbara Levin. Con tale termine – in- capacitazione – si definisce l’incapacità psicofisica di “com- piere atti normalmente idonei al sottrarsi a una situazione di pericolo, come per esempio la fuga” (Perizia Chiarotti e Fiori, pag.74) e Levin e i suoi collaboratori hanno visto accettare dalla comunità scientifica l’utilizzo di una formula matematica in grado di esprimere con un numero il livello di intossicazio- ne combinata dei due gas principalmente rilevabili in caso di incendio: anidride carbonica e acido cianidrico. Quando il ri- sultato della formula di Levin fornisce un valore finale uguale o superiore a 0,8 ciò equivale al fatto che i due gas possano realmente aver concorso nel produrre uno stato di intossica- zione acuta letale. Per contro se il numero finale è inferiore a 0,8 si ritiene, seguendo tale formula, che i due gas non siano stati causa della morte. La formula di Levin è la seguente: (HbCO%/50) + (CN/500) = X, dove HbCO% equivale alla percentuale di saturazione di carbossiemoglobina trovata in un determinato corpo, CN rappresenta il livello ematico di cianuri nello stesso, 50 e 500 sono valori fissi prescelti da Le- vin e i suoi collaboratori come indici, rispettivamente della soglia letale di carbossiemoglobina (50%) e della concentra- zione sicuramente letale per l’uomo di cianuri nel sangue (500 gamma/cento millilitri). Il Consulente Tecnico del Pubblico Ministero cui si devono le conclusioni tossicologiche, Mario Giusiani, ha utilizzato la formula di Levin con una sensibile quanto arbitraria variazione: ha cambiato il denominatore 500 in 100, pervenendo il tal modo alla conclusione che il 75,79% dei 95 cadaveri di cui furono disposti rilievi ematici presenta- va un risultato della formula di Levin uguale o superiore a 0,8 e quindi dimostrava la letale co-presenza di tali gas tossici nei corpi. Tuttavia, mantenendo inalterata la formula originale i Chiarotti e Fiori dichiarano che le risultanze sarebbero ben

514 diverse: in tal caso infatti solo il 37,8% del campione supera o eguaglia il tetto letale di 0,8. In conclusione di tutto ciò i Prof. Fiori e Chiarotti contrastarono, con la loro relazione e successiva deposizione a processo, le risultanze della Perizia Bargagna, Giusiani, Bassi Luciani e Pierotti, riferendo i tempi di sopravvivenza di alcune delle vittime nell’ordine di “alcune ore” e non, come invece accettato da tutti i Collegi di Giu- dizio che hanno affrontato il caso Moby Prince, di “poche decine di minuti”. Spiace dover constatare ancora una volta quanto, in questa vi- cenda, la documentazione tesa a riaprire il processo in altre più degne forme esista già, ma sia stata sistematicamente ignorata o misconosciuta dalla magistratura e, per una strana coiciden- za figlia probabilmente degli importi forniti alle concessionarie pubblicitarie degli editori relativi, omessa dagli organi di stam- pa all’attenzione della popolazione. Difatti benchè la storia del Moby Prince resti ancora oggi un mistero su alcuni aspetti cen- trali di quanto accaduto – dinamica della collisione, posizione della petroliera, rotta del Moby Prince, condotta pre-collisione della plancia del traghetto – tanto altro che la riguarda ha trova- to da tempo una descrizione, chiara ed evidente, nell’imponente documentazione giudiziaria presente sul caso e, per questo, vale la pena in tal senso un’ultima considerazione: questa vicenda è stata trattata da subito dagli organismi preposti all’accertamen- to della verità e alla determinazione delle responsabilità civili e penali conseguenti, nei termini di un’inversione di mandato. È evidente dalla ricostruzione storica dell’iter processuale che chi ha operato lo ha fatto nell’idea di evitare la pena a alcuni palesi responsabili dell’accaduto. Gli indizi lasciati lungo il cammino sono talmente tanti da non lasciare ombra di dubbio. Persino i giudici della Corte di Appello di Firenze dichiarano nella loro sentenza che il processo di primo grado ha valutato come veri- tiere testimonianze palesemente false e soprattutto ha omesso di mettere a processo gli imputati più chiari: Comandante della Capitaneria, Comandante della Petroliera Agip Abruzzo e ar- matore della Moby Prince. Pur di non accusare Albanese162 si

162 A tal proposito vale la pena aggiungere, a margine della ricostruzione sto-

515 è costruito un castello probatorio teso prima a definire la sua estraneità ai momenti salienti delle fasi di coordinamento dei soccorsi e poi – davanti alla palese contraddittorietà del suo esserci e in parallelo non aver dato alcuna indicazione dopo l’assunzione del comando delle operazioni – a smontare l’ef- ficacia di qualsiasi intervento con il teorema della morte rapida. Addirittura il GIP di Livorno Roberto Urgese archivierà Alba- nese nel processo parallelo a quello principale, portato avanti da alcune parti civili, per affinità con quanto espresso nella sen- tenza di quest’ultimo. Ma non finisce qui, neanche a distanza di quasi vent’anni la Procura di Livorno torna ad affrontare il capitolo tempi di sopravvivenza a bordo del traghetto. Idem quanto è accaduto al Comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, scomparso dopo una lunga malattia il 26 aprile 2011. L’uomo che si avvalse della facoltà di non rispon- dere quando fu chiamato a testimoniare nel corso del proces- so di primo grado, è passato indenne a tutti i procedimenti giudiziari sul caso Moby Prince, benché ciascuna sentenza, oltre a criticarne l’operato, non sia riuscita a determinare con certezza le uniche prove in grado di scagionarlo, ovvero la posizione di fonda della petroliera fuori dalla zona di divie- to ancoraggio e pesca oltre che l’assenza del riconoscimento

rica presentata dai magistrati, che alcuno di essi si è mai interessato dell’assurda indicazione fatta da Sergio Albanese circa i suoi movimenti prima dell’assun- zione del Comando della Capitaneria di Porto di Livorno, la notte della strage. Sergio Albanese ha dichiarato di essere stato avvertito dell’incendio dell’Agip Abruzzo da un suo collaboratore collegato via radio con il canale 16, mentre erano entrambi presenti a una festa a La Spezia. Alle 23:09 sul Canale 16 compa- re il messaggio di un addetto della Capitaneria che invita chi comanda la C.P. 250 ad “accostare in banchina per imbarcare il comandante”, dove per “comandan- te” si intende l’Amm. Sergio Albanese. La collisione tra Moby Prince ed Agip Abruzzo avviene alle 22:25 e la prima risposta al soccorso richiesto dalla petro- liera arriva alle 22:27 (“provvediamo subito”). Anche ipotizzando un tempismo eccezionale del collaboratore – che dovrebbe aver segnalato ad Albanese già alle 22:28 la necessità di abbandonare la festa e recarsi a Livorno – resta impossibile sostenere che il Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno sia riuscito in 41 minuti a colmare la distanza tra la località dov’era, sita in La Spezia, e gli alloggi ufficiali della Compamare di Livorno – dove andrà a togliersi la divisa di gala per indossare quella di ordinanza – fino a poter richiedere all’operatore radio di far “accostare in banchina” la CP 250.

516 del traghetto quale nave investitrice e quindi il non dolo nella segnalazione ai soccorritori che l’unità in collisione era una “bettolina”. Non da ultimo è interessante notare l’atteggiamento tenuto dai giudici nei confronti di Achille Onorato prima e Vincen- zo Onorato poi. L’armatore è escluso dal processo di primo grado e da ogni altro procedimento parallelo, benchè la dina- mica del sinistro – nonostante quanto dichiarato dai periti del Pubblico Ministero – richiami alla mente come causa possi- bile un guasto tecnico del mezzo – difficilmente rilevabile a causa del deterioramento operato dal fuoco su alcune prove indiziarie – e siano risultati nei fatti colpevoli della manomis- sione alla timoneria – operata l’11 aprile 1991 – due uomini della compagnia. Uno dei due, Pasquale D’Orsi, era tra l’altro all’epoca l’addetto dell’ufficio tecnico che seguiva i controlli del R.I.N.A. e che riportò nel corso di un interrogatorio il fatto di aver rilevato che la presa a mare collegata all’impianto sprinkler del Moby Prince fosse incautamente su posizione “manuale” anzichè “automatica”. Questa osservazione non seguì una raccomandazione all’equipaggio e pertanto è poten- zialmente ipotizzabile il fatto che non solo non fu meramente tale, ma anche, e soprattutto, potrebbe desumibilmente essere riferita a lui od a un collega l’indicazione di tale erronea pro- cedura. Sempre in riferimento all’armatore della Moby Prince vi è un ulteriore tassello del puzzle ricostruttivo che ancora oggi risulta mancante: la perizia assicurativa elaborata per la determinazione delle responsabilità e quindi l’esborso dei re- lativi indennizzi concernenti il sinistro. Una serie di articoli del Regolamento del Codice della Navigazione rendono in- fatti quel documento una prova evidente della ricostruzione accettata a ridosso dell’evento dalle parti in causa – SNAM e Nav.ar.ma. – e per tale ragione interessante dal punto di vista storico. A corroborare ulteriormente l’interessamento vi sono, inoltre, due elementi: i periti assicurativi furono gli unici terzi a visitare la petroliera prima dell’esplosione della plancia avvenuta due giorni dopo la collisione, che nei fatti rese im- possibile riferire a riguardo di quanto in quella sede presente; infine nel corso del Processo di primo grado, durante la testi-

517 monianza resa da Francesco Zonno163 – dirigente della Crimi- nalpol del Veneto che indagò sul caso nel corso delle indagini preliminari e in ausilio del Pubblico Ministero. L’Avv. Filastò, per conto di alcune parti civili a processo, chiese conto della polizza assicurativa del Moby Prince, stipulata dalla controlla- ta FION srl che ricapitalizzò di circa trentaquattro miliardi tra il novembre e il dicembre del 1991.

AVV. FILASTÒ: Le risulta che alla data del dicembre ’91, il capitale sociale diventa di 34 miliardi? ZONNO: Sì, mi risulta dallo schema che allegai. Il capitale sociale era al 3.12.91 di 34 miliardi 108 milioni e 743 mila lire. AVV. FILASTÒ: Le risulta che la costituzione di questa so- cietà avviene, da un punto di vista cronologico, in contem- poranea con la stipulazione di una polizza da parte propria di questa società che gestisce anche questo contratto assicu- rativo, che comprende rischi di terrorismo? Polizza fra l’al- tro particolarmente costosa e se volesse dirci anche l’entità di questa polizza. ZONNO: Questo non mi risulta. AVV. FILASTÒ: Quindi non risulta neppure che questa po- lizza sia particolarmente onerosa e in qualche modo travalichi il valore del traghetto? ZONNO: No. Sull’argomento non facemmo indagini spe- cifiche, perché se non ricordo male, c’era già un mandato del Pubblico Ministero che riguardava il problema assicurativo.

Il mandato del Pubblico Ministero non portò ad alcun do- cumento pubblico, pertanto non sappiamo quali risultati ot- tenne questo filone di indagine, se mai fu realizzata. Resta tuttavia l’eccezionalità dei casi citati – da un lato la ricapita- lizzazione della FION srl164 e dall’altra l’entità del contratto assicurativo della Moby Prince – che potrebbero far pensare

163 Verbale udienza Processo Moby Prince, 12 Febbraio 1996 164 Vedi nota n. 12.

518 a un risultato negoziativo favorevole a Nav.ar.ma in sede di valutazione peritale assicurativa. Come tutto ciò sia stato possibile davanti alla ricostruzio- ne ufficiale della sentenza di primo grado, parzialmente con- fermata in appello, resta un mistero. Difatti la dinamica del sinistro riportata dall’inchiesta sommaria, unico riferimento giuridico all’epoca delle indagini peritali assicurative, attestava evidentemente una colpa totale dell’accaduto al Moby Prin- ce, quale soggetto investitore di un natante fermo in posi- zione non vietata – fuori dalla zona di divieto ancoraggio e pesca – . Se dovessimo inseguire Filastò nel ragionamento deduttivo proposto nella domanda a Francesco Zonno, do- vremmo inevitabilmente ritenere che tale tesi sia risultata dif- ferente rispetto a quanto definito dalle parti in sede di pe- rizia assicurativa sul sinistro; una differenza centrata su una de-responsabilizzazione del mezzo investitore a fronte di una responsabilizzazione del mezzo investito. Nelle mie indagini personali non sono riuscito a ottenere le informazioni conte- nute nell’accordo assicurativo trovato nel 1991 tra SNAM e FION srl. Pur tuttavia resta a chi ha realizzato questa ricerca il dubbio, forse solo la curiosità, di capire quanto sia riporta- to in quei documenti, nella speranza probabilmente vana che qualcuna delle parti in causa riesca a soddisfarmela. In conclusione, tra i dubbi legittimi rimasti dopo il lungo iter ricostruttivo realizzato dalla Magistratura italiana, resta pro- prio quello relativo all’organismo deputato all’accertamento della responsabilità penale e civile di un accadimento e quindi, in conseguenza, della sua narrazione storica più verificabile: l’affidabilità dei Giudici che hanno caratterizzato questo per- corso. Tra tutte le ragionevoli perplessità in tal senso, ne re- sta una che difficilmente potrebbe temere smentita e riguarda la figura di Germano Lamberti già affrontata più volte nel volume e approfondita nella nota n.15. Al momento l’uomo che guidò il Collegio Giudicante del Processo Moby Prince è in attesa dell’ultimo grado di giudizio, quello della Cassazio- ne, dopo essersi visto aumentare in appello la condanna per corruzione in atti giudiziari. In conseguenza di una sentenza della Cassazione che rinnovi la condanna a Lamberti risulterà

519 pienamente legittimo sollevare pesanti dubbi su sua buona fede e corretto operato in sede di giudizio del fatto Moby Prince. Non sullo stesso piano possono invece essere collo- cate le tante ulteriori stranezze del procedimento giudiziario che ha riguardato questa vicenda, benché comunque risultino, per quantità e qualità, alquanto incredibili: dalla segnalazione, nella sentenza di primo grado, di una posizione riconosciu- ta dell’Agip Abruzzo entro la zona di divieto d’ancoraggio e pesca, senza che da tale notizia di reato fosse aperto un procedimento apposito, fino ad alcuni passaggi alquanto cu- riosi dell’inchiesta-bis dove indagini molto costose sono state avviate per poi, quando vicine a un eventuale risultato “ecla- tante”, essere abbandonate – come nel caso del monitoraggio della zona della rada dove sarebbe accaduto l’incidente, teso a riscontrare eventuali natanti affondati la notte del disastro; questo evidenziò sommariamente alcune imbarcazioni poten- zialmente riferibili all’ipotesi iniziale senza che questo por- tasse a uno sviluppo della ricerca (come un’analisi subacquea specifica) teso a confermare o meno la prima rilevazione – .

Al termine di questa appendice ricostruttiva è importante tornare a evidenziare che nessuno ha mai subito una condan- na penale per quanto accaduto la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 davanti al porto di Livorno. Secondo una serie di fonti livornesi dietro questa mano invisibile che ha sancito tale ri- sultato c’è un filo conduttore che lega alcuni dei principali indiziati – mai finiti a processo – ad altri co-protagonisti della vicenda e questo filo conduttore si chiama massoneria. Oltre ai tre non imputati illustri delle inchieste Moby Prince, pare infatti che fossero affiliati a una comune loggia massonica an- che altri attori di spicco di questa vicenda come Antonino Costanzo, all’epoca del sinistro a capo della Procura di Livor- no. Qualcuno, con probabile ragionevolezza, catalogherebbe queste come voci, dicerie e mezze verità. Senz’altro sono il tentativo, probabilmente grossolano, di trovare una spiega- zione plausibile al curioso atteggiamento assolutorio che la magistratura italiana ha dimostrato di avere dal 1991 a oggi.

520 3. COME SUPERARE I DUBBI RIMASTI

Al termine di questo lungo percorso di ricerca e documen- tazione resta in me la profonda convinzione che, nonostante i tanti sforzi interpretativi compiuti da analisti di indubbia pro- fessionalità quali alcuni dei periti interessatisi alla ricostruzio- ne del fatto Moby Prince, l’unica strada per superare l’attua- le condizione di dubbio residuale sulla vicenda sia l’ottenere alcune precise e sincere risposte da alcuni specifici e viventi protagonisti di essa. Non essendo riuscito a porre questi quesiti a tali destinata- ri, poichè o si sono sottratti a questo confronto o non sono stato in grado io, con le mie forze e risorse, di incontrarli, ho ritenuto importante tentare quest’ultima via di contatto per il tramite di questo volume. Sempre coltivando la speranza che loro, in prima persona, o qualcuno di a loro vicino, possa fargliele arrivare e stimolarli a una risposta definitivamente chiara e veritiera. Se, come compare al termine del documentario “Ventanni. Storia privata del Moby Prince”, la verità lenisce il dolore allo- ra con questo gesto chiedo a tali interlocutori di andare oltre un passato immutabile e occuparsi di un presente e un futuro ricco di possibilità per il tramite di una strada finora inesplo- rata: quella della verità.

Destinatario. Sergio Albanese • La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 ha mai ricevuto comandi provenienti da autorità militari italiane o estere tese a limitare il soccorso al traghetto Moby Prince? • La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 era nel pieno delle sue facoltà per gestire i soccorsi relativi alla collisione avvenu- ta nella rada di Livorno? • All’epoca dei fatti lei era legato a qualche organizza- zione informale o segreta cui facevano parte anche membri del collegio giudicante del Processo Moby Prince e/o altri protagonisti di questa vicenda?

521 • Chi fu a indicarle nella “fittissima nebbia” l’elemento più connotativo di quanto accaduto poche ore prima, tanto da spingerla a comunicarlo alla stampa una volta tornato in banchina? • Perché non consentì ad alcun Perito o Consulente Tecnico di salire sull’Agip Abruzzo, anche solo per verifica- re l’entità e natura del carico ancora presente sulla petroliera dopo la collisione?

Destinatario. Vincenzo Onorato • La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 lei, o qualcuno preposto della società Nav.ar.ma, ha ricevuto una telefonata dalla plancia del Moby Prince a seguito della collisione? • (Se sì) qual è il contenuto del dialogo avvenuto? • Ha mai dato lei direttamente o per tramite di de- legati l’ordine o l’indicazione di inserire su “manuale” e non “automatico” la valvola di presa a mare del sistema anti-in- cendio sprinklers del Moby Prince? • Come mai, pur avendo ricevuto dal RINA l’indica- zione tassativa di sostituire il mozzo dell’elica del Moby Prince entro novembre 1991, ad aprile 1991 nessun bacino era stato ancora prenotato da Nav.ar.ma S.p.A. per questa operazione? • All’epoca dei fatti lei era legato a qualche organiz- zazione informale o segreta cui facevano parte anche membri del Collegio Giudicante il fatto Moby Prince od altri protago- nisti della vicenda con posizioni archiviate? • Perché l’assicurazione del Moby Prince fu realizza- ta dalla FION srl, facente capo alla famiglia Onorato, per un valore assicurato dello scafo superiore al suo valore reale? • Qual è la natura dell’operazione di ricapitalizzazio- ne di FION srl operata nell’inverno del 1991 a discapito di Nav.ar.ma S.p.A.? • Ha mai ordinato o dato indicazione di effettua- re delle manomissioni sullo scafo sotto sequestro del Moby Prince, tra le quali la certificata manomissione alla timoneria? • Per quale motivo ha disposto lo smaltimento della Moby Prince in Turchia?

522 Destinatario. Germano Lamberti • All’epoca dei fatti lei era legato a qualche organiz- zazione informale o segreta cui facevano parte anche altri protagonisti della vicenda Moby Prince? • Lei è mai stato oggetto di una tentata corruzione per orientare la sentenza del processo Moby Prince verso la conclusione ufficiale presentata? • Lei ebbe cognizione del fatto che nella sentenza emessa dal Collegio da lei presieduto rispetto al procedimento 541/91 la posizione assodata dell’Agip Abruzzo è dentro la zona di divieto ancoraggio e pesca? • (Se sì) perché non intervenne davanti a tale notizia di reato?

Destinatario. Assicuratore Lloyd’s • Cos’è riportato nella perizia assicurativa realizza- ta sull’Agip Abruzzo i giorni seguenti la collisione col Moby Prince? • Quali sono i termini dell’accordo assicurativo tro- vato tra SNAM e Nav.ar.ma. in relazione al sinistro tra Moby Prince e Agip Abruzzo?

Destinatario. Imperio Recanatini • Lei ebbe modo, insieme al Comandante Superi- na, di constatare di persona o per il tramite di altri membri dell’equipaggio dell’Agip Abruzzo che la nave investitrice era un traghetto? • (se sì) in sincerità, quando?

Destinatario. Sergio Mezzina • Realisticamente cosa stava avvenendo sull’Agip Abruzzo di tanto particolare da giustificare una procedura ad altissimo rischio come la non inertizzazione della tank 6?

Massa, 23 dicembre 2012

523 4. CONTINUA…

Questo libro non finisce qui. Nel corso della sua revisio- ne complessiva si è realizzato l’incontro tra Valentino Rolla, Loris e Angelo da me organizzato. Basterebbe quest’evento per meritare un capitolo in più, ma il quadro, oramai, valica ampiamente la cornice. Per questo Verità privata del Moby Prince finisce qui, ma non finisce qui il percorso mio e dei protagonisti di questo volume. Potrete continuare a seguirlo, per mio tramite, negli aggior- namenti di questa storia pubblicati sul sito web della Cam- pagna #IoSono141 http://iosono141.veritaprivatadelmoby- prince.com. Potrete continuare a seguirlo, per il tramite dei suoi prota- gonisti, iscrivendovi al gruppo Facebook “Quelli che esigono la verità sul Moby Prince” – anche se Loris cambia periodi- camente il titolo del gruppo lo potrete rintracciare comunque essendo il più numeroso – . Il 10 aprile di ogni anno a Livorno ricorre la commemora- zione della strage del Moby Prince. In quell’occasione potrete conoscere personalmente quasi tutti i protagonisti di questo volume e vi invito caldamente a farlo.

Chi desidera vedere il documentario “Ventanni. Storia pri- vata del Moby Prince” può scaricare liberamente il file torrent “ventanni.torrent” tramite uno dei tanti client per Bit Torrent disponibili, gratuitamente, su internet. Otterrete sul vostro computer il file.iso del DVD originale dell’opera che Media- xion Società Cooperativa ha scelto di rilasciare con “Licenza Creative Commons 3.0 Italia Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo”, sollevandovi così da qualsiasi onere per tale possesso. Potrete masterizzarvi in autonomia il DVD, guardarlo e farne copia. Inoltre, conservandolo nel vo- stro computer con il client Bit Torrent aperto, diventerete an- che voi un vettore di diffusione del documentario, favorendo un più rapido scaricamento del file originale. Per quanti han- no poca dimestichezza con queste procedure l’invito è quello

524 di seguire le istruzioni presenti nella pagina web http://www. mediaxion.it/ventanni/atto-finale.

Vi lascio con un’ultima comunicazione che dovrebbe farvi piacere:

I FAMILIARI DELLE VITTIME DEL MOBY PRINCE CHIE- DONO AI PARLAMENTARI DI QUALSIASI SCHIERAMEN- TO DI FARSI PROMOTORI DELL’APERTURA DI UNA COM- MISSIONE D’INCHIESTA TESA A

Chiarire

se a bordo della petroliera Agip Abruzzo si siano verificati degli eventi antecedenti alla collisione da collegarsi a questa; l’esatta posizione in cui la petroliera aveva dato ancoraggio (da alcune carte risulta all’interno delle zona vietata all’ancoraggio) e l’esatto orien- tamento della prua; il ruolo del personale Agip nell’immediatezza della collisione e succes- sivamente; le reali motivazioni che hanno indotto la magistratura a indagare e successivamente a prosciogliere l’armatore Onorato, anche alla luce dei deprecabili episodi di manomissione avvenuti a poche ore dall’evento, a opera di personale della Compagnia Nav.ar.ma, e commessi successiva- mente a opera di ignoti; Il ruolo attivo o passivo delle 5 navi militari che riportavano le armi dalla guerra del golfo, a tal proposito il nostro governo e parlamento dovranno farsi portavoce presso il governo USA della nostra richiesta di documentazione video, fotografica, satellitare che riguarda la rada di Livorno quella notte, perché è impensabile che di fronte a ferree norme antiterrorismo che erano applicate nessuno controllasse la rada. Se que- sta documentazione venisse concessa potremmo fare piena luce sull’evento, negando questa si continuerà ad alimentare illazioni circa un coinvol- gimento diretto delle navi americane con la copertura di un eventuale contrabbando di armi.

Attraverso un attento

525 riesame dei tempi di sopravvivenza a bordo alla luce dei dati tossico- logici campionati che smentiscono la tesi dei periti del tribunale e della sentenza di primo grado, che affermano che per la brevità di questi non si può in alcun modo procedere contro il personale della Capitaneria di Porto in merito ai soccorsi e neanche in merito a disposizioni che se ema- nate dal Comandante della Capitaneria all’epoca (e non un mese dopo la tragedia) avrebbero evitato la collisione.

In ultimo

pur non volendo creare un conflitto di poteri tra politica e magistratura vogliamo segnalare le particolarità dei processi che si sono susseguiti sulla vicenda, il PM che ha effettuato le indagini è stato trasferito poco prima che iniziasse il processo di primo grado e chi lo ha sostituto ha mantenuto la fama di “avvocato degli imputati” chiedendone l’assoluzione perché le responsabilità erano del “destino cinico e baro”.

Il capo del collegio giudicante, è stato per una successiva vicenda con- dannato in 1 e 2 grado per corruzione e concussione, che garanzia abbia- mo che il processo non sia stato macchiato da episodi del genere?

Livorno, 10 Aprile 2013

LORIS RISPOLI, Presidente Associazione 140 ANGELO CHESSA, Presidente Associazione 10 Aprile

526 RINGRAZIAMENTI

Questa edizione del volume deve molto: all’insistenza di Loris Rispoli nel difendere le sue convinzio- ni e mettere a disposizione se stesso e la documentazione da lui conservata sulla vicenda Moby Prince, alla disponibilità di Ivanna Porta, Angelo Chessa e Gabriele Bardazza nel rendermi accessibile tutto il restante materiale processuale e peritale rimasto, al sostegno dell’Associazione 140, al paziente confronto e conforto di Francesca, mia moglie, su contenuti e forma, ai sorrisi di mia figlia, Anita Sanna Rivieri.

527 RIFERIMENTI

Bibliografia principale e atti processuali

1. Pollastrini R., Canacci R., Ucciardello A. e Checcacci L., Ri- costruzione della dinamica del sinistro sulla scorta delle prime testi- monianze, 29 aprile 1991 2. Ministero della Marina Mercantile, Relazione della Commis- sione speciale di inchiesta formale per la collisione e l’incendio delle navi M/T Moby Prince e M/C Agip Abruzzo, 20 maggio 1993 3. Prosperi G., Angiuli M. Williams R. Faulkner D., Relazione di perizia disastro Moby Prince, 7 Giugno 1997 4. Tribunale di Livorno, procedimento n. 541/91, Sentenza di primo grado processo Moby Prince, 31 ottobre 1997 5. Corte di Appello di Firenze, procedimento n. 305/98, Sen- tenza di appello processo Moby Prince, 5 febbraio 1998 6. Pretura Circondariale di Livorno, Sentenza n. 892 del 15 No- vembre 1997 n. 4493/91 nei confronti di Di Lauro Ciro e D’Orsi Pasquale 7. Palermo C., “Istanza di riapertura inchiesta bis Moby Prin- ce”, 12 ottobre 2006 8. Tribunale di Livorno, procedimento n. 9726/06, Richiesta di archiviazione inchiesta bis Moby Prince, 5 maggio 2010 9. Palermo C., Procedimento n. 9726/06 – Opposizione alla richiesta di archiviazione, 17 maggio 2010 10. Rosati G. e Borsa G., Relazione Tecnica Collegiale su cause e dinamica del sinistro navale occorso il 10 aprile 1991 tra la M.T. Moby Prince e la M.C. Agip Abruzzo, 17 giugno 2009 11. Tribunale Ordinario di Roma, procedimento n. 47991, Sen- tenza 19334 , 6 ottobre 2011 12. Girletti N,, Opuscolo per la preparazione all’esame di Marit- timo Abilitato ai Mezzi di Salvataggio, febbraio 2009 13. Chiarotti M. e Fiori A., Perizia medico-legale sulle cause della morte del personale di bordo e dei passeggeri del traghetto Moby Prince, da www.mobyprince.com 14. Decreto Legislativo n. 165/2011

528 15. Codice della Navigazione 16. Verbale udienze procedimento n. 541/91: 11 Dicembre 1995, 13 Dicembre 1995, 19 Dicembre 1995, 20 Dicembre 1995, 22 Gen- naio 1996, 24 Gennaio 1996, 26 Gennaio 1996, 29 Gennaio 1996, 31 Gennaio 1996, 12 Febbraio 1996, 21 Febbraio 1996, 23 Febbraio 1996, 12 Aprile 1996, 15 Aprile 1996, 17 Aprile 1996, 19 Aprile 1996, 8 Maggio 1996, 10 Maggio 1996, 15 Maggio 1996, 20 Maggio 1996, 29 Maggio 1996, 30 Maggio 1996, 5 Giugno 1996, 6 Giugno 1996 17. Repertazione delle vittime e svolgimento delle operazioni pe- ritali, trascrizione su www.mobyprince.com 18. Fedrighini E., Moby Prince un caso ancora aperto, Edizioni Paoline, 2006 19. Vivaldo A., Moby Prince. La notte dei fuochi, Becco Giallo, 2010 20. Sini G. M., Diario di un viandante, Albatross, 2006 21. Rispoli L. Fricano A., Affinchè la memoria non muoia, 2001 22. AA. VV., Atti del convegno “Sicurezza…”, Viareggio 2010 23. Brandimarte P., Relazione Tecnica collisione Moby Prince – Agip Abruzzo, 30 Agosto 1994 24. Giagnorio F. Ceccantini D., Supplemento alla relazione tec- nica redatta dalla ditta Eclipse di Giagnorio Francesco inerente le ela- borazioni digitali delle comunicazioni registrate dalla stazione delle PP.TT. Di Livorno Radio nei giorni 10 e 11 aprile 1993 [l’errore di data è nell’originale ndr], e della parte audio della videocassetta con- segnata dal Sig. Nello D’alesio, 10 Settembre 1993 25. Giagnorio F., Note descrittive del CD Audio prodotto dalla ditta Eclipse di Giagnorio Francesco inerenti le comunicazioni Radio della stazione delle PP.TT. Di Livorno Radio in sincronismo con la parte audio della videocassetta consegnata dal Sig. Nello D’Alesio, 31 Gennaio 1994 26. Ceccatto R., Relazione su perizia “Video D’Alesio”, 1997 27. Dalle Mese E., Ceccantini D., Perizia tecnica sulle comunica- zioni radio intercorse fra la motonave Moby Prince con la Capitane- ria del Porto di Livorno e con la stazione radio costiera delle P.T. di Livorno, luglio 1992 28. Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Livorno, Rappor- to generale di intervento relativo agli incendi a bordo della MN/T “Moby Prince” e M/C “Agip Abruzzo” a seguito della collisione ve-

529 rificatasi il giorno 10 aprile 1991 nella rada di Livorno 29. Fabbricotti S., Relazione Tecnica sui tracciati radar di Poggio Lecceta del giorno 10 Aprile 1991 redatta, 20 Aprile 1994 30. Ministero della Marina Mercantile Capitaneria di Porto di Portoferraio, Verbale d’ispezione della stazione radioelettrica instal- lata a bordo della nave Moby Prince in concessione alla Soceità Tele- mar, 11 Marzo 1991 31. Registro Italiano Navale (RINA) Ispettorato di Livorno, Di- chiarazione n.156 ai fini del certificato di idoneità della M/N “Moby Prince”, 15 Marzo 1991 32. Urgese R. (GUP) Tribunale di Livorno, Richiesta di Archivia- zione Achille Onorato e Renato Superina, 22 Aprile 1994

Documenti multimediali

Audio canale 16 e 2182Hz registrazione da ore 9:55 del 10 aprile 1991 alle ore 9:55 del 11 aprile 1991. Video polizia scientifica repertazione vittime del Moby Prince. Video D’Alesio.

Videografia

1. Ventanni. Storia privata del Moby Prince (Mediaxion, 2012) 2. Il Porto delle Nebbie (Rai Educational, 2011) 3. M/C Agip Abruzzo post collisione – M/C Agip Abruzzo after collision (Stefano Menelecco, 2010) 4. All’interno del moby prince – within the Moby Prince (Ste- fano Menelecco, 2010)

Opere teatrali

1. M/T Moby Prince, di Francesco Gerardi e Marta Pettinari, La Nave Europa, 2006 2. Moby 491, di Elena Lah e Duccio Agresti, Associazione Muse, 2011 3. 1991 Il fatto non sussiste, di Francesca Tavolazzi, Effetto Col- laterale, 2011

530 WEB GRAFIA PRINCIPALE www.mobyprince.it www.mobyprince.com www.vesseltracker.com www.aidim.org/pdf/Stefanini.pdf it.wikipedia.org/wiki/Disastro_del_Moby_Prince www.veritaprivatadelmobyprince.com

531 Indice Indice

Ve r i t à p r i v a t a d e l Mo b y Pr i n c e

11 PARTE PRIMA. INTRODUZIONE 13 1. PERCHÉ “VENTANNI” 30 2. PROTAGONISTI DI UNA STORIA 31 2.1 Ivanna 37 2.2 Mauro 42 2.3 Loris 60 2.4 Giacomo Maria Sini 66 2.5 Angelo

79 PARTE SECONDA. DIARIO DI VENTANNI 81 1. PRELIMINARI 93 2. L’AQUILA. 5 APRILE 2011 102 3. ARZACHENA. UNA FAMIGLIA FELICE 114 4. 10 APRILE 2011. VENTANNI 135 5. ROMA. PROCESSO BREVE 144 6. MI HAI FATTO PIANGERE 150 7. MILANO 26 APRILE. FRAMMENTI DI MEMORIA E LOTTA 162 8. 27 APRILE. UNA PALESTRA IN PERIFERIA 168 9. TRENTO. RACCONTA L(A FINE DI UN)’AVVENTURA 184 10. “SIETE DEGLI STALINISTI” 192 11. “NON CI SONO NAVI PERFETTE” 199 12. VOLPAGO DEL MONTELLO. UN REGALO NECESSARIO 216 13. FIRENZE. MOLLARE, ANDARSENE ED ALTRE SCELTE 226 14. LORIS NON DIMENTICA 247 15. PATTADA. SULLA ROTTA DEL MOBY PRINCE 263 16. PAOLA 277 17. 29 GIUGNO 2011. VIAREGGIO 287 18. IL PICCOLO MAURO E L’ALTO PATRONATO 294 19. MEMORIA DI MADRE PER FIGLIO 305 20. A MILANO LA VERITÀ È SCRITTA 326 21. LA VERITÀ DI LORIS 338 22. “INCLUSO BLOCCARE L’USCITA DEL FILM” 345 23. VALENTINO ROLLA E LA SENTENZA D’APPELLO 362 24. UN REGISTA NON C’È MAI STATO 372 25. MILANO. ULTIME RISPOSTE 384 26. “RIUNIRE NOI E I CHESSA È IMPOSSIBILE” 392 27. PREPARARE UN GIORNO, VENT’ANNI DOPO 396 28. 22 GENNAIO 2012 423 29. RITORNO ALLA VITA 429 30. “DI” 444 31. 10 APRILE 2012. LA PRIMA 457 32. LA BUONA FINE È SEMPRE UN INIZIO 465 33. CONCLUSIONI

481 PARTE TERZA. APPENDICE 482 1. LA RICOSTRUZIONE DEI MAGISTRATI 503 2. I PRINCIPALI DUBBI RIMASTI 521 3. COME SUPERARE I DUBBI RIMASTI 524 4. CONTINUA… 527 RINGRAZIAMENTI 528 RIFERIMENTI