VERITÀ PRI V ATA DEL MOBY PRINCE A chi agisce per il bisogno di renderci migliori e Ad Anita, ad oggi il nostro tentativo più riuscito. La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del novecento. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fa sì che gli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano più essenziali alla fine del secondo millenio di quanto lo siano mai stati prima. Ma proprio per questo devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione”. Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli 1995 “Sono rimasto veramente delusa con l’amaro in gola forte… nessuno me l’avrebbe ridato mio figlio… però almeno sapere… le disgrazie, tutte le cose, arrivano a scoprirle… tutte le scoprono. Noi, 140 morti, siamo rimasti qui. 140 famiglie ad aspettare quello che succede”. Paola PARTE PRIMA. INTRODUZIONE 11 1. PERCHÉ “VENTANNI” “Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani””. ANTONIO GR A MSCI , La città futura, 1917 La notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 avevo dieci anni, abitavo a Livorno e dormivo nel mio letto. Cinque chilometri più in là, nello specchio di mare antistante casa mia, avveniva la più grande tragedia della marina civile italiana1. Centoquaranta persone, passeggeri ed equipaggio del traghetto Moby Prin- ce, morivano, in attesa di soccorso, per cause connesse all’in- cendio scatenato dalla collisione tra la nave e una petroliera, ancorata in rada2 a due miglia e mezzo3 dall’uscita del porto cittadino. Ricordo la mattina dell’11 aprile. Il cielo segnato da lugubri colonne di fumo e la sorpresa di vedere la stampa nazionale interessarsi di Livorno. Ricordo me e mia madre davanti alla 1 La strage del Moby Prince è attualmente la più grande tragedia della ma- rina civile italiana, in tempo di pace. La precisazione è dovuta, poichè i mari italiani hanno conosciuto nel corso della prima guerra mondiale una tragedia più rilevante per numero di vittime. La notte tra il 17 e 18 marzo 1918 – Prima Guerra Mondiale – un sommergibile tedesco provocò infatti l’affondamento della nave postale “Tripoli” a poche miglia dalla costa sarda, causando la morte di trecento persone tra le circa cinquecento presenti a bordo. La storia del Tri- poli fu incredibilmente oggetto di un’opera di rimozione collettiva che interessò stampa e istituzioni repubblicane, persistendo ancora oggi. Ha contribuito a ri- portare questa vicenda all’attenzione dei contemporanei la ricerca del giornalista Enrico Valsecchi. Ad essa si deve una più completa ricostruzione dell’accaduto, dalla quale emersero particolari rilevanti quali il fatto che il Tripoli affondò in circa quattro ore e quindi con-causa della morte dei trecento, oltre al siluro te- desco, furono le pessime condizioni di sicurezza della nave – tra le quali risultò indubbiamente fatale l’avaria della radio di bordo – ed il ritardo nei soccorsi. 2 Con il termine “rada” ci si riferisce allo spazio di mare antistante un porto dove le navi in attesa di accedere alle banchine o semplicemente in sosta posso- no stazionare per un certo lasso di tempo. 3 4.630 metri. 13 carcassa di quel traghetto, così simile ai tanti presi per andare a trovare i parenti in Sardegna. Quell’immenso essere metalli- co arrugginito. Muto e spettrale. Restai distante dalla vicenda per quindici anni. Le manife- stazioni dei familiari delle vittime e l’evolversi dell’iter proces- suale erano solo una delle tante informazioni che circondava- no la mia adolescenza. Durante la vita scolastica a Livorno, sia nel corso delle scuole medie che durante gli anni del liceo, non ricordo mai un accenno a questa storia. Ricordo ore e ore dedicate a una corretta traduzione di un testo greco antico, o alla comprensione precisa degli integrali, ma del Moby Prince niente. Nessun cenno. Poi, durante l’Università, lessi un libro: Moby Prince. Un caso ancora aperto di Enrico Fedrighini (Paoline Editoriale Libri, 2005) e mi si aprì un mondo. Pensai al volume di incredibili meschinità insite nella storia di quella vicenda. Pensai, soprat- tutto: “un’altra tragedia all’italiana, colpa degli Americani”. Ne ero convinto, sicuro per quello che avevo letto. Pur non aven- do partecipato ad alcuna commemorazione, pur non avendo conosciuto alcun familiare delle vittime, io sapevo la verità del Moby Prince. Era tutta colpa degli Americani. La finta nebbia, il traffico d’armi, i servizi segreti deviati, la finta cooperazione allo sviluppo italiana. La verità era quella. Era stata scritta e io la sapevo. Tentai così di fare un programma radiofonico su questa verità. La volevo raccontare al maggior numero di persone, perché nessuno ne parlava, nessuno di quelli che il mio raggio di ascolto riusciva a intercettare la conosceva. Eppure, no- nostante avessi fatto leggere quel libro al maggior numero di persone e avessi sfinito le rimanenti col racconto di quanto esso riportasse, non avevo ancora conosciuto alcun parente delle vittime del Moby Prince. Volevo fare un programma ra- diofonico su quella storia, ormai parte del mio vissuto, per un libro. Per immedesimazione. Sicuramente l’autore, Enrico Fedrighini, me l’aveva spiega- ta bene. Ma c’era dell’altro oltre la curiosità. C’era qualcosa di mio in quella storia e nella sua verità. Sui traghetti avevo viaggiato sin dalla nascita ed ero rimasto profondamente in- 14 dignato per lo sviluppo della vicenda raccontato in quel vo- lume: la gente come me poteva subire quanto avevano subito le vittime del Moby Prince e i familiari di queste. Poteva subi- re lo stesso oblio progressivo, la stessa indifferenza. E allora bisognava fare qualcosa. Bisognava raccontare quella verità. Bisognava stimolare nelle persone le domande giuste. In Italia centoquaranta persone comuni muoiono bruciate vive a due miglia e mezzo dal Porto di Livorno, in attesa dei soccorsi, e a distanza di più di otto anni4 lo Stato identifica come unico re- sponsabile, prescritto, il terzo ufficiale di coperta ventitreenne della petroliera, perché non avrebbe azionato i segnali anti- nebbia? Una nebbia che poi nel processo non tutti i testimo- ni avevano valutato come tale? Perché non furono imputati i responsabili illustri, come per esempio il Comandante della Capitaneria che non coordinò i soccorsi? Davvero si crede- va possibile che un Comandante esperto come Ugo Chessa potesse centrare una petroliera ancorata in rada a causa di un improvviso – ma pur sempre possibile in mare – banco di nebbia? Perché non si era data risposta a tutte le inquietanti domande emerse sulla vicenda? C’entravano in qualche modo le navi militarizzate americane di ritorno dalla prima guerra del golfo, in rada quella notte – che solo nel 2005 si scopriro- no essere cinque: Edfim Junior, Gallant II, Cape Syros, Cape Flattery, Cape Breton – , una delle quali fu vista impegnata in un trasbordo di armi da un testimone oculare, il tenente della Guardia di Finanza Cesare Gentile? Perché quando il traghet- to fu identificato, circa un’ora e mezzo dopo la collisione a seguito del fortuito salvataggio dell’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand, allora al suo primo imbarco, nessuno vi era immediatamente salito in cerca di altri sopravvissuti? Se la dinamica dell’incidente fosse stata così chiara, perché far sparire dal traghetto il registro delle eliche Kamewa, ele- mento che avrebbe consentito di comprendere gli ultimi mo- vimenti del Moby Prince? Come si poteva tollerare l’insulto dell’idea fatta passare nel processo che i tempi di sopravvi- venza a bordo fossero stati di poche decine di minuti, quan- 4 La sentenza di appello fu emessa il 5 febbraio 1999. 15 do il superstite era stato trovato addirittura un’ora e mezzo dopo la collisione, e quando sui corpi più integri, come quello del passeggero austriaco Gernard Baldauf, non era stata fatta autopsia? Evidentemente la magistratura aveva scelto di sal- vare qualcuno, quantomeno i responsabili dei soccorsi, e al- trettanto evidentemente questo dimostrava quanto la vicenda portasse dietro di sé grandi interessi da preservare, interessi superiori a quelli della povera gente comune che viaggiava in quel traghetto. Gente come me. Era il 2005. La demo di quel programma radiofonico fu sentita dall’unico produttore che poteva mettermi in onda il quale mi rispose “bello, ma non molto interessante”. Ero giovane, la presi male e quel programma rimase chiuso nel cassetto. “Ventanni”, questo progetto, nasce probabilmente anche da lì. Dalla sensazione di avere un qualcosa di incompiuto da tirare fuori. Dall’idea che se una vicenda del genere era finita in quel modo, io potevo provare a far qualcosa a riguardo. Nell’estate del 2010, dopo un’esperienza devastante di falli- mento su un evento, proposi così agli altri soci cooperanti di Mediaxion di realizzare un documentario sul Moby Prince. Avevo co-creato Mediaxion con la stessa spinta ideale di quel programma radiofonico e questo esperimento di economia solidale doveva permettermi di realizzare ciò che quel pro- duttore aveva solo rallentato: cambiare il mondo con tutto il tempo e le energie di una attività lavorativa fondata sulla ve- rità. Raccontarla, comunicare su di essa per essa e con questa spingere in una direzione diversa il corso della storia. Di quel- la storia comune che, in determinato momento, aveva unito me al Moby Prince. Nel periodo in cui pensai “Ventanni” era stata da poco ri- chiesta l’archiviazione dell’ultima inchiesta5 – avviata su istan- 5 Tribunale di Livorno, procedimento n.
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