Di Daniele Porena
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IL GOVERNO DELLA “NON SFIDUCIA”: LE ELEZIONI DEL 1976 E LA * FORMAZIONE DEL GOVERNO ANDREOTTI III di Daniele Porena (Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Perugia) 10 luglio 2013 Il quadro storico e politico nel contesto del quale nacque nel 1976 il terzo governo Andreotti illustrava delicatissime criticità di raggio quanto mai ampio. Sul piano economico, il Paese continuava a mostrare i segni evidenti lasciati dalla crisi petrolifera. Gli indicatori più significativi mostravano un andamento galoppante dell'inflazione, sempre al di sopra del 11%, ed un prodotto interno lordo in grave decremento, con una riduzione non inferiore al 2%. Le forti tensioni sociali dell'epoca rappresentavano lo sfondo sul quale si collocarono gravi episodi di terrorismo politico che, con gli attacchi alle caserme dei Carabinieri di Milano e Genova, arrivarono ad aggredire alcune tra le istituzioni dello Stato a più alta carica simbolica. Sul piano politico-giudiziario, il clima era reso particolarmente teso dallo scoppio dello scandalo “Lockheed” che arrivò a coinvolgere il Presidente della Repubblica Giovanni Leone causandone, più avanti, le dimissioni. * Il presente articolo rientra tra i lavori inviati in risposta alla Call for papers di federalismi sulla formazione dei governi ed è stato sottoposto ad una previa valutazione del Direttore della Rivista e al referaggio dei Professori Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno. federalismi.it n. 14/2013 Sul versante dell'agone politico, profonde incertezze erano maturate a seguito delle disponibilità mostrate dal Presidente del Consiglio Aldo Moro nei confronti del Partito Comunista italiano. Anche a causa delle aperture favorite da Moro, il Partito socialista arrivò a ritirare il proprio sostegno al Governo, che fu costretto alle dimissioni nel gennaio del 1976. In questo contesto intervenne lo scioglimento anticipato di entrambe le Camere e l'indizione di nuove elezioni fissate per il 20 giugno del 1976. Il clima diffuso nel Paese e la forte affermazione raggiunta dal Partito Comunista in occasione delle elezioni amministrative dell'anno precedente lasciavano presagire il possibile sorpasso ai danni della Democrazia cristiana e, comunque, una vittoria elettorale dei partiti della sinistra. In modo in parte inaspettato la Democrazia Cristiana fu tuttavia confermata quale primo partito italiano. Alla Camera dei Deputati, con 14 milioni e 200 mila voti, pari al 38,7% la Dc mantenne il suo primato sul Pci, fermo a 12 milioni e 600 mila voti, equivalenti al 34,4%. Al Senato della Repubblica la Dc conquistò 12 milioni e 200 mila voti (38,9%) contro i 10 milioni e 600 mila del Pci. Terzo partito rimaneva il Psi con 3 milioni e mezzo di voti alla Camera, pari al 9,6%1. Il risultato del Psi, benché sostanzialmente stabile rispetto a quello della consultazione elettorale precedente (nel 1972 il Psi otteneva alla Camera dei Deputati identica percentuale) veniva tuttavia interpretato come una sconfitta politica, avviava al tramonto la segreteria di De Martino ed apriva le porte all'epoca in cui il Psi fu guidato da Bettino Craxi. Quarto partito italiano, benché sempre escluso dal c.d. arco costituzionale, rimaneva il Movimento Sociale Italiano che, con il 6,1% dei consensi espressi alla Camera dei Deputati segnava, tuttavia, un certo arretramento rispetto all'exploit del 1972 (allorquando raggiunse il proprio massimo storico con l'8,7% dei voti espressi per la Camera dei Deputati). Nella ripartizione dei seggi, toccavano alla Dc 263 deputati e 135 senatori, al Pci andavano 227 deputati e 116 senatori, al Psi 57 deputati e 29 senatori. Nell'area politica tradizionalmente coinvolta nelle coalizioni a guida democristiana, Psdi, Pri e Pli conquistavano in tutto 34 seggi alla Camera dei deputati e 14 seggi al Senato della Repubblica. Fuori dall'arco costituzionale sedevano i 35 deputati ed i 15 senatori missini. Le tensioni emerse tra Dc e Psi a causa della caduta del Governo Moro (come detto determinata dal ritiro del sostegno socialista al Governo) e le criticità politiche sorte all'interno del Partito socialista escludevano quest'ultimo dal novero dei possibili interlocutori per la costituzione di un governo di coalizione. Né peraltro era possibile per la Dc arrivare a 1 Tutti i dati richiamati, anche nel prosieguo del contributo, sono tratti, oltreché dalle cronache dell'epoca, da M. S. PIRETTI, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Bari, 1995, pp. 423 e ss. www.federalismi.it 2 costruire una maggioranza parlamentare appoggiandosi agli altri partiti minori. In altre parole, si era venuta a creare una situazione di stallo che vedeva le due forze politiche maggiori fronteggiarsi a distanza di pochi seggi l'una dall'altra ed all'esito di una campagna elettorale condotta su toni dello scontro e dell'emergenza democratica. Fu quella la campagna elettorale nel corso della quale Indro Montanelli, in un celebre editoriale de Il Giornale, invitò a «turarsi il naso e votare Dc». Il quadro politico consegnato dalle elezioni del 1976 era dunque quello di un bipartitismo “anomalo”, voluto dagli elettori, ancorché scoraggiato dalla legge elettorale. Nonostante il sistema proporzionale puro vigente all'epoca favorisse un'espressione di voto “identitaria”, e dunque anche a beneficio delle forze minori, più del 73% dei voti finivano per concentrarsi sui due partiti maggiori. La circostanza assume particolare interesse se solo si riflette sul fatto che di recente, nel nostro Paese, formule elettorali maggioritarie o, comunque, caratterizzate dal riconoscimento di un significativo premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di liste vincente, non hanno impedito la proliferazione di partiti e formazioni politiche in Parlamento all'indomani delle elezioni o già prima, al momento del voto. Viceversa allora, una formula elettorale dichiaratamente funzionalizzata a dar voce anche a micro-formazioni determinò il risultato di cui si è detto. Ancora una dimostrazione, dunque, che bipartitismo, bipolarismo o pluripartitismo siano essenzialmente fatti legati al clima ed al sistema politico: la legge elettorale può favorire una soluzione piuttosto che un'altra ma, alla fine, sono sempre i partiti e gli elettori che “danno forma” al sistema politico. Tornando alla cronaca costituzionale dell'epoca, le complicazioni politiche che il quadro descritto frapponeva alla formazione del governo erano peraltro acuite dalla necessità di dar corso a tutta la lunga lista di incombenze istituzionali parlamentari del dopo elezioni. In particolare, i tempi per la soluzione della crisi erano necessariamente accresciuti dalla necessità di provvedere all'elezione dei Presidenti di Camera e Senato e degli Uffici di presidenza, composti da vice Presidenti, Questori e Segretari. Ancora, solo dopo la costituzione dei gruppi parlamentari e la designazione dei rispettivi capi gruppo, il Presidente della Repubblica Leone avrebbe potuto avviare le consultazioni per la nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri. In realtà la necessità esposta, se da un lato portò inevitabilmente ad un allungamento dei tempi per la formazione del governo, favorì dall'altro il primo campo sul quale sperimentare il dialogo istituzionale tra le forze politiche. L'idea che via via prese margine fu quella di favorire il massimo coinvolgimento del PCI nella determinazione dell'agenda parlamentare in www.federalismi.it 3 modo tale da assicurargli un ruolo decisivo nella complessiva dinamica istituzionale, senza tuttavia che DC e PCI si “compromettessero” condividendo la guida del Governo. Fu così che le prime intese tra le forze politiche condussero ad una ripartizione degli organi parlamentari tale per cui alla Camera si concordò un presidente comunista mentre al Senato un democristiano; un socialista, due democristiani ed un repubblicano erano i vice presidenti della Camera mentre un socialista, un democristiano, un comunista ed un senatore della sinistra indipendente furono designati al Senato. La stessa logica animò poi le designazioni degli otto segretari e dei tre questori di Camera e Senato. Con 270 voti su 314 (27 in meno in base all'accordo concluso fra i sei partiti dell'arco costituzionale che teneva fuori i missini) Amintore Fanfani fu così eletto Presidente del Senato mentre, con 488 voti su 613 (anche in questo caso, dunque, con non pochi “franchi tiratori”), Pietro Ingrao arrivava alla Presidenza della Camera dei deputati. La necessità di svolgere le consultazioni con il coinvolgimento anche dei gruppi minori, ossia quelli al disotto del numero minimo di parlamentari previsto dai regolamenti, rese indispensabile attendere anche la costituzione degli Uffici di Presidenza incaricati di rilasciare l'autorizzazione necessaria per la costituzione di tali gruppi parlamentari. Fu così che dalle elezioni del 20 giugno la fissazione dell'inizio delle consultazioni presidenziali arrivò al 12 di luglio. Prima di consultare le rappresentanze dei partiti politici, il Presidente Leone incontrò il 6 luglio i nuovi Presidenti di Camera e Senato eletti il giorno prima e, nella giornata del 9 luglio, il Presidente del Consiglio Aldo Moro, già dimissionario prima dello scioglimento delle Camere, che confermò le dimissioni del Governo2. L'avvio delle consultazioni dei partiti fu preceduto da una riunione della Direzione della Democrazia cristiana nella mattina del 12 luglio. Per consuetudine, e come atto di riguardo, la Direzione democristiana deliberò di proporre la persona di Aldo Moro quale Presidente del Consiglio uscente,