Civitas

Rivista quadrimestrale di ricerca Registrazione storica e cultura politica Tribunale Civile di Roma • Fondata e diretta da Filippo Meda n. 152 dell’8.04.2004 (1919-1925) • Diretta da Guido Gonella (1947) Civitas è una pubblicazione • Diretta da dell’Istituto Luigi Sturzo (1950-1995) Quarta serie Presidente • Diretta da Gabriele De Rosa Roberto Mazzotta (2004-2007) • Diretta da Franco Nobili (2007-2008) «Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà Direttore Responsabile ed il rigore che l’hanno contraddistinta nei momenti Agostino Giovagnoli più travagliati e complessi. Coordinatore Editoriale I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive Amos Ciabattoni della politica internazionale con un particolare riguardo alla vita italiana ed all’unità europea. Comitato Redazione ... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia, Andrea Bixio in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e, Walter E. Crivellin per un certo verso, se non addirittura, da correggere, Mario Giro da meglio interpretare. Flavia Nardelli Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civi- Ernesto Preziosi tas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000] Giuseppe Sangiorgi Segreteria Redazione Costo di un numero 10,00 € Rita Proietti, Serena Torri Abbonamento a tre numeri € 25,00 Abbonamento sostenitore € 250,00 Sede (Equivalente a 10 abbonamenti) Via delle Coppelle, 35 00186 Roma C/c postale Tel. 06.68809223-6840421 15062888 intestato a Rubbettino Editore, Viale Rosario [email protected] Rubbettino, 10 - 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rivistacivitas.it Bonifico bancario Editore Banca Popolare di Crotone - Agenzia di Serrastretta Rubbettino C/C 120418 ABI 05256 CAB 42750 Viale R. Rubbettino, 10 Carte di credito 88049 Soveria Mannelli Visa - Mastercard - Cartasì Tel. 0968/6664275 Fax 0968/662055 Pubblicità [email protected] Pagina b/n € 1.500,00 - Per tre numeri € 3.500,00

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Indice

ÿ ITALIA EUROPA EMERGENZE

5 Presentazione – Roberto Mazzotta

ÿ ITALIA

9 Politiche per il Sud: dopo i troppi fallimenti, una nuova proposta – di Luca Bianchi e Stefano Prezioso

17 Crescita o declino: dietro c’è sempre una scelta politica – di Giuseppe Alvaro

33 Federalismo fiscale e Favor Familiae: un connubio strategico:

35 Il contributo della famiglia al superamento della crisi – di Giorgia Latini

37 Famiglia e federalismo fiscale – di Giulio M. Salerno

43 Valore privato e pubblico della famiglia – di Gaspare Sturzo

49 Cinque opzioni per una cultura di governo – di Giuseppe Sangiorgi

ÿ EUROPA

57 Un processo irreversibile. L’Europa unita verso gli “Stati Uniti d’Europa” – di Amos Ciabattoni

61 Credere nell’Unione europea. Sfida a scetticismo e populismo – di Flavio Mondello Intervista a cura di Amos Ciabattoni

99 Il modello sociale europeo. Un fattore decisivo per superare la crisi – di Marco Ricceri

123 Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura per l’unità europea – di Laura Balestra

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 3 Indice

ÿ FOCUS

143 La dimensione etica della politica – di Joaquín Navarro-Valls

149 Famiglia ed etica della solidarietà. L’obbligo e la promessa – di Franco Riva

ÿ STORIA E MEMORIA

173 De Gasperi visto dal Pci – di Giuseppe Vacca

193 Luigi Sturzo: una lezione attuale – di Card. Mariano Crociata

ÿ APPENDICE

197 Numeri precedenti della IV serie Presentazione

• Quando nel febbraio del 2000 Paolo Emilio Taviani consegnò la testata di Civitas all’Istituto Luigi Sturzo di Roma accompagnò il lascito con un messaggio che si concludeva con un auspicio sul nuovo corso della Rivista: … «Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia, in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e, per un certo verso, se non addirittura, da correggere. Sarà anche questo un importante compito della nuova Civitas». Successivamente la “quarta serie” della pubblicazione, curata dall’Istituto Luigi Sturzo e diretta da Gabriele De Rosa, ha fatto, fin dal primo numero del 2004, di questo auspicio un impegno d’onore e l’ha mantenuto, alimentato e caratterizzato in tutte le trascorse sedici edizioni: e il presente numero ne è la conferma, per argo- menti e attualità. Su questa strada Civitas intende continuare. La rivista occupa un posto di rilie- vo nella storia del movimento cattolico italiano, da Meda e Taviani a De Rosa, ed ha sempre mantenuto i tratti distintivi di una sensibilità civile aperta al confronto e insieme chiara nella propria identità cristiana e liberale. Nel pieno svolgimento di una crisi finanziaria grave che ci colpisce sempre più direttamente, la nostra condizione civile mostra debolezze impressionanti. Crisi determinata dalla gravità dei problemi che non trovano risposta né nella capacità del Governo né nella forza alternativa dell’opposizione. Questo grande vuoto dovrà essere riempito. Occorre intensificare gli sforzi per aggregare le energie positive di un Paese pieno di tanti problemi, ma straordinaria- mente ricco di energie e di opportunità. L’opera non sarà facile dopo una così lunga stagione negativa e richiederà, tra le tante condizioni, l’efficace presenza di nuclei di aggregazione culturale e sociale. La Rivista seguirà con attenzione questi processi, darà conto delle iniziative allo scopo promosse dall’Istituto Luigi Sturzo, essendo a tutti evidente l’indispensabile ed esemplare ruolo che dovrà essere giocato dalla grande tradizione sturziana.

Roberto Mazzotta

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 5

ITALIA

ÿ Politiche per il Sud: dopo i troppi fallimenti, una nuova proposta - di Luca Bianchi e Stefano Prezioso

ÿ Crescita o declino: dietro c’è sempre una scelta politica - di Giuseppe Alvaro

ÿ Federalismo fiscale e Favor Familiae: un connubio strategico: • Il contributo della famiglia al superamento della crisi - di Giorgia Latini •Famiglia e federalismo fiscale - di Giulio M. Salerno • Valore privato e pubblico della famiglia - di Gaspare Sturzo

ÿ Cinque opzioni per una cultura di governo - di Giuseppe Sangiorgi

Politiche per il Sud Dopo i troppi fallimenti, una nuova proposta*

La mancata convergenza del PIL pro-capite meridiona- LUCA BIANCHI le, che staziona da 60 anni intorno al 60% del Centro- Vice Direttore Svimez Nord, contribuisce ad ingenerare un clima di scettici- smo diffuso che investe, oramai, sia le possibilità di in- serimento competitivo nei mercati internazionali delle STEFANO PREZIOSO risorse imprenditoriali private, sia l’efficacia delle poli- Ricercatore Svimez tiche regionali perseguite, quest’ultime, attraverso ri- sorse di origine comunitaria o nazionale. Eppure lo sforzo prodotto dalla c.d. Nuova Programmazione (NP), l’ultimo tentativo di ampia portata per aggredire ≈ la “Questione Meridionale” avviato oltre dieci anni fa, è stato veramente poderoso, sotto il profilo intellettuale «Il divario Nord- che delle risorse messe in campo. Si valuta che in circa Sud non può essere riproposto dieci anni sono state impiegate risorse complessive per nei termini oltre 100 mld. di euro, circa il 40% di quanto global- tradizionali di un mente speso dall’Intervento Straordinario, ma su un riallineamento orizzonte temporale ben più lungo (circa 40 anni). Nel delle strutture economiche e momento in cui si sta faticosamente avviando il nuovo sociali, ma in ciclo di programmazione 2007-2013 appare quindi termini di cruciale capire se gli scarsi successi del precedente siano individuazione di dovuti esclusivamente a fattori esterni (i.e. bassa cresci- percorsi autonomi di sviluppo, ta del Paese nel suo complesso) o se vi fosse, invece, un sostenuti da errore nelle ipotesi sottostanti la NP,che ne hanno limi- politiche nazionali tato l’efficacia. L’analisi da noi sviluppata nel contribu- che ne favoriscano to citato in nota, e qui sinteticamente riportata, sembra il tracciato» confermare, pur tendendo conto dei fattori esterni cita- ≈ ti, quest’ultima idea.

* Le argomentazioni qui presentate sono tratte da un articolo degli autori pubblicato in E.Barucci, C. De Vincenti, M. Grillo (a cura di), Idee per l’Italia. Mercato e Stato, Brioschi, Milano 2010.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 9 Luca Bianchi - Stefano Prezioso

ÿ Gli elementi influenti: ipotesi

Le due ipotesi che hanno maggiormente influenzato il precedente ciclo pro- grammatorio, in larga parte riconducibile alle idee della “Nuova Programmazione” (NP), possono essere così riassunte:

– Prima ipotesi: il Sud non presenta problemi diversi dal resto del Paese, ma ha le stesse difficoltà solo in forma più accentuata. In realtà, i due shock che hanno marca- to l’ultimo quindicennio – euro e globalizzazione – hanno determinato una cre- scente divaricazione dell’intero sistema produttivo tra le due macro-aree. Sebbene nello spazio di questo breve documento non possono, ovviamente, essere riportate le analisi1 alla base di tale giudizio, il seguente dato, tuttavia, è assai esemplificati- vo. A partire dal biennio 1996/’97, ovvero in coincidenza con l’avvio della stabilità valutaria, la progressiva incapacità del sistema produttivo meridionale di adattarsi al nuovo contesto competitivo ha determinato un raddoppio dei flussi migratori netti dal Mezzogiorno verso il resto del Paese: da circa 30.000 unità all’anno ad ol- tre 60.000. Se a questi si aggiungono i circa 150.000 meridionali interessati da fe- nomeni di pendolarismo, si arriva a flussi migratori paragonabili a quelli degli anni ’50/’60. È questo il dato che, nel suo insieme, indica con più forza come lo svilup- po autonomo delle imprese meridionali, in assenza di correttivi robusti indotti dal- la policy, non goda di una sufficiente capacità di trazione. • Il processo di integrazione di mercati, divenuto più manifesto proprio dalla metà dello scorso decennio, ha accentuato le differenze tra i sistemi produttivi del Nord e del Sud. In questa fase, i limiti impliciti nel modello del sistema produttivo italiano sono divenuti più stringenti. • A fronte di essi, nelle regioni centro settentrionali sono emersi alcuni segnali di discontinuità con il modello precedente, passaggio agevolato dal vasto bacino di “imprenditorialità diffusa” ivi accumulatosi nel corso del tempo Le imprese che hanno conseguito i risultati migliori presentano una quota relativamente elevata di investimenti destinati al rafforzamento della componente extra-produttiva dell’or- ganizzazione (design, marketing, ecc.). Tali funzioni, orientate all’elevamento nella qualità dei prodotti (upgrading), hanno permesso di differenziare i prodotti riposi- zionandoli, di conseguenza, nei segmenti più elevati e più aperti all’export. • Ciò non è avvenuto nel Mezzogiorno, dove anche gli elementi di vitalità emersi alla fine degli anni ’90, senza uno specifica politica selettiva di accompagna- mento, si sono in larga misura affievoliti o spenti. L’industria, e più in generale l’intero sistema produttivo meridionale ha seguito in questi anni un pattern diffe-

1 Si veda, in proposito S. Prezioso, Problemi di sviluppo e “diversità” dell’industria italiana: la posi- zione del Mezzogiorno, «QA-Rivista dell’Associazione Rossi-Doria», n.3/4 2008, pp. 105-153.

10 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Luca Bianchi - Stefano Prezioso rente. I dati di export delle imprese meridionali confermano questa ipotesi, evi- denziando un costante e significativo aumento di peso dei settori caratterizzati dal- la presenza di forte economie di scala, macro-branca peraltro quasi prevalentemen- te composta da grandi imprese a proprietà esterna all’area. L’incidenza dell’export delle produzioni di scala sulle vendite all’estero complessive dell’area meridionale è passata dal 49,8% degli anni 2001-2003 al 60,9% registrato nel 2007. Di conver- so, il raggruppamento costituito dalle produzioni tradizionali, in cui sono essen- zialmente ricomprese le attività del made in , ha perso, nello stesso periodo, quasi dieci punti percentuali: dal 29,3% al 19,6%; fenomeno, soprattutto, che non si è verificato nel Centro-Nord. • Egualmente, l’analisi dei processi di trasformazione del settore terziario negli ultimi dieci anni evidenzia andamenti profondamente diversi tra le due aree. Le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione, permettendo collegamenti vir- tuali tra produttori e utilizzatori senza vincoli di contiguità, hanno avuto un im- patto assai rilevante sui processi di localizzazione dei settori terziari che hanno pro- gressivamente favorito le agglomerazioni urbane delle regioni centro settentrionali. • Gli aspetti citati oltre a contribuire a rafforzare la tesi di una diversità tra i due sistemi, sembra indebolire anche la prospettiva di uno sviluppo endogeno del Mez- zogiorno, basato sulla semplice riattivazione delle risorse inutilizzate già disponibili sul territorio. Sul piano della politica economica, negare tale ipotesi significa ridare centralità all’obiettivo, accantonato dalla NP, di ampliare l’accumulazione di capi- tale produttivo attraverso l’attrazione di investimenti esterni all’area.

– Seconda ipotesi: ha fatto da background alla NP ed è relativa alla sfera istituzio- nale. Si è adottata una governance fortemente incentrata sul rilancio della soggetti- vità territoriale quale mezzo per accrescere il capitale sociale dell’area. Un indubbio merito della riflessione teorica avviatasi con la NP è stato di richiamare l’attenzione sulla minore dotazione di capitale sociale che tuttora caratterizza il Meridione qua- le elemento fortemente ostativo ad un più rapido sviluppo dell’area. In particolare, la NP per accrescere quantità e qualità delle relazioni fiduciarie all’interno del Mezzogiorno, ha adottato una governance fortemente incentrata sul rilancio della concertazione territoriale perseguita in maniera capillare (procedurale e premiale) per quanto attiene destinazione e ripartizione delle risorse. Tuttavia, l’insufficiente presenza nel Sud di capitale sociale ha assunto una forma particolare, fortemente pervasiva, in grado di modificare significativamente le relazioni economiche tra gli agenti. È dimostrato in letteratura che affinché un mercato sia efficiente è necessa- rio che le regole informali e/o le norme sociali che definiscono la struttura degli in- centivi di una società renda conveniente lo scambio impersonale, il meccanismo che garantisce costi di transazione relativamente bassi. Nel Mezzogiorno, invece, risultano più diffusi gli scambi fondati su rapporti personali, incentrati su forti re- lazioni reciproche, che danno luogo a fenomeni di “intermediazione impropria”

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 11 Luca Bianchi - Stefano Prezioso

(Barucci P., Mezzogiorno e intermediazione “impropria”, Il Mulino, 2008) cui è col- legata la presenza di esternalità negative, asimmetrie informative, comportamenti opportunistici, ovvero le fonti delle differenze nei costi di transazione.

ÿ Il fallimento della Nuova Programmazione

• In qualche misura, quindi, la scelta della Nuova Programmazione di coinvolge- re nei processi decisionali le classi dirigenti locali a tutti i livelli, sebbene volta ad ac- crescere il capitale sociale dell’area, non ha intaccato le rendite associate al- l’“intermediazione” politica esercitata in ogni ambito istituzionale, finendo per esse- re essa stessa motivo del fallimento delle politiche di sviluppo. La primaria responsa- bilità nella conduzione della politica di coesione assegnata dalla NP alle Regioni ha portato in un contesto in cui i politici locali sono sottoposti all’“assedio di chi do- manda posti e sussidi” (M. Salvati su «Il corriere della Sera», del 26 novembre 2009) a privilegiare, nella preoccupazione di rispondere a tutte le richieste territoriali e set- toriali, una “dispersione” dell’intervento2. Non a caso, un giudizio oramai condiviso individua i principali limiti del precedente impianto programmatorio: a) nell’inca- pacità di coordinamento tra Regioni e tra Regioni e Amministrazioni centrali so- prattutto sui grandi progetti infrastrutturali; b) eccessiva frammentazione degli in- terventi; c) difficoltà nel fare progetti integrati con un conseguente largo uso di pro- getti sponda. Si tratta di criticità relative al precedente ciclo di programmazione 2000-2006 condivise dalla maggioranza degli esperti e, in parte richiamate anche nei documenti di impostazione del nuovo Quadro Comunitario di Sostegno 2007- 2013. Stupisce che l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” non abbia sino ad oggi fatto registrare discontinuità significative. Questo è facilmente ri- scontrabile in molti Programmi Operativi Regionali del Mezzogiorno che tendono a replicare un modello rivelatosi inadatto rispetto alla finalità primaria della program- mazione europea per le aree in ritardo di sviluppo: l’obiettivo della convergenza.

ÿ I cardini delle politiche di sviluppo: proposte

• La proposta da noi avanzata riporta la tematica delle politiche di coesione nell’alveo tradizionale delle politiche di sviluppo. I vincoli per la crescita del Mez- zogiorno riguardano ancora oggi: infrastrutture, scala di attività delle imprese rela- tivamente minore, insufficiente presenza di produzioni innovative. Per intervenire su tali determinanti si ipotizza la costituzione di un centro di programmazione e

2 Si veda, in proposito, L. Bianchi e G. Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?, Castelvecchi edi- tore, Roma 2010.

12 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Luca Bianchi - Stefano Prezioso attuazione finanziaria dei “grandi progetti”, avente caratteristiche di piena indi- pendenza ed elevata professionalità. L’attività dovrebbe svolgersi attraverso due Fondi, per le infrastrutture e per la promozione dell’innovazione delle PMI, in cui convogliare una parte delle risorse aggiuntive (nazionali e regionali). Potrebbero es- sere mutuate alcune modalità operative previste dal progetto Industria 2015: 1) destinare le risorse direttamente ai progetti e non alle Amministrazioni, identifi- cando un responsabile dotato di competenze nel campo e reputazione; 2) privile- giare alcune aree di intervento definite ex ante; 3) identificare un responsabile del progetto; 4) creare un’Agenzia esterna alle Amministrazioni che individui, tramite un meccanismo di “public consultation”, iniziative condivise. Ciò che dovrebbe rappresentare un’importante cesura con il passato è che questa Agenzia dovrebbe poter decidere, in via esclusiva, su almeno una parte (consistente) dei fondi FAS. A tali risorse potrebbero aggiungersi quelle messe a disposizione dalle Regioni che dovrebbero farvi confluire una quota apprezzabile delle risorse del FAS regionale e, su singoli progetti, anche risorse comunitarie. Il modello finanziario potrebbe esse- re quello utilizzato per l’Accordo sul Fondo ammortizzatori sociali nel quale, attra- verso un accordo tra Stato e Regioni, confluiscono risorse FAS nazionali, regionali, e risorse europee. Si insiste, accanto alla costituzione di un “salvadanaio”, sull’esi- genza di una tecno-struttura con elevate competenze progettuali e decisionali al fi- ne di non ripetere gli errori del passato.

ÿ I Fondi e i vincoli

• Il primo Fondo dovrebbe aggredire un primo vincolo: quello della difficoltà a realizzare infrastrutture nel Mezzogiorno. Esiste infatti un problema più generale di incapacità di governance nella gestione di interventi di elevata dimensione che riguarda non solo le amministrazioni ordinarie regionali. Basti pensare che nel Pia- no Operativo Nazionale Trasporti, gestito dal Ministero Infrastrutture, la quota di progetti cosiddetti “coerenti” supera il 70%. Si tratta in sostanza di progetti di fat- to già previsti e che dunque perdono la natura di intervento aggiuntivo volto a ri- durre il gap infrastrutturale. Il modello a cui ispirarsi potrebbe essere quello dei c.d. Fondi Sovrani. Com’è noto, i principali caratteri distintivi che individuano queste organizzazioni sono la possibilità di perseguire obiettivi economici definiti dall’Autorità Pubblica “proprietaria” del Fondo; avere un orizzonte temporale di medio-lungo periodo; assumere rischi maggiori rispetto ai normali investitori. Nel momento in cui le risorse per le infrastrutture fanno capo ad un responsabile unico e chiaramente individuato, e queste non sono più oggetto di una mediazione infi- nita tra i vari livelli istituzionali, sarebbe anche possibile offrire una concreta possi- bilità di partnership sia ad Enti quali la Cassa depositi e Prestiti – che proprio da poco ha mutato il suo assetto giuridico per finanziare, tra l’altro, le opere pubbli-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 13 Luca Bianchi - Stefano Prezioso che – sia a Fondi o banche d’investimento che operano nelle infrastrutture, assicu- rando da parte dello Stato un contributo in termini di integrazione delle tariffe sia- no esse ferroviarie o autostradali per i decenni successivi.

• Il secondo Fondo cui sono attribuite le risorse FAS non opera direttamente, ma investe in fondi private equity cui spetta la selezione del progetto e fornire, sot- to forma di incentivi, una parte delle risorse necessarie all’investimento; mentre un’altra quota è fornita dagli intermediari finanziari tradizionali. Il sistema di valu- tazione in itinere adottato dal “Fondo” potrebbe ispirarsi a quanto fatto dall’agen- zia di promozione svedese NUTEK in casi simili. L’incentivo, erogato in fasi tem- porali distinte, verrebbe condizionato al perseguimento di determinati obiettivi: i.e. incrementi prestabiliti di fatturato e/o vendite (conditional loans). L’accesso al- le risorse del Fondo, e anche questo rappresenterebbe un elemento di novità non da poco, non è soggetto alle graduatorie tipiche delle altre leggi di incentivazione. L’incertezza nei tempi di erogazione e la possibilità che le risorse assegnate siano re- vocate diminuiscono, da un lato, l’interesse per gli incentivi e, dall’altro, ne com- promettono l’efficacia. È l’approvazione del progetto da parte del “Fondo”, conte- stualmente alla presenza di una banca quale co-finanziatore, che dà luogo all’eroga- zione, fermo restando il precedente meccanismo di controllo in itinere. Altro obiettivo del Fondo è quello di aggredire ’ultimo vincolo sul quale si vuole richia- mare l’attenzione: la costruzione di un nucleo di imprese specializzate in produzio- ni innovative con un elevato contenuto tecnologico. Anche in questo campo la po- licy non ha conseguito risultati apprezzabili. L’altra gamba del Fondo dovrebbe avere proprio l’obiettivo di “scovare” progetti potenzialmente interessanti e pro- porli ad aziende che operano in campi affini. Si tratterebbe di un caso di diversifi- cazione correlata (entrata in nuovi settori che presentano sinergie tecnologiche o commerciali con quelli in cui l’impresa era già operante) che ha avuto nella storia recente della nostra industria un’apprezzabile diffusione

• Questo genere di interventi non devono considerarsi alternativi a forme quali lo start-up largamente evocato per l’avvio di nuove imprese. Bisogna però tenere presente che, ad esempio, l’Art 106 della L. 388/2000 prevedeva dei fondi per lo sviluppo di imprese innovative nelle aree svantaggiate; fondi a tutt’oggi largamente inutilizzati. Con il coinvolgimento di imprese già attive si vuole garantire che non vi sia un problema di deal flow, ovvero un insufficiente numero di progetti. In que- sto caso, l’Agenzia potrebbe investire le risorse pubbliche in Fondi di Venture Ca- pital, riservandosi compiti di indirizzo e controllo. Si tenga presente, inoltre, che, analogamente a prima, il coinvolgimento degli intermediari finanziari intorno ad iniziative simili può risultare meno complicato di quanto possa apparire a prima vista, in quanto diversi Istituti si sono già attrezzati per fornire finanziamenti “ta- gliati” su investimenti fortemente innovativi.

14 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Luca Bianchi - Stefano Prezioso

• Le proposte elencate non esauriscono certo il ventaglio degli interventi neces- sari per rilanciare la competitività del Mezzogiorno, ma rappresentano una sorta di ritorno ai fondamentali. Il divario Nord-Sud non può essere riproposto nei termini tradizionali di un riallineamento delle (due) strutture economiche e sociali, ma in termini di individuazione di percorsi autonomi di sviluppo, sostenuti da politiche nazionali che ne favoriscano il tracciato. Le politiche pubbliche di sostegno devono quindi riqualificarsi all’interno di un tale orizzonte, concentrando le risorse a favo- re dei fattori di imprenditorialità pubblica e privata, adottando la trasparenza delle regole che governano i mercati e con piani di intervento di medio lungo periodo in grado di sottrarsi alla logica dell’emergenza. La tesi da noi sviluppata è che l’inter- vento economico e finanziario per quanto necessario non è di per sé sufficiente se non viene accompagnato da modifiche profonde nella “governance istituzionale”.

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Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 15

Crescita o declino: dietro c’è sempre una scelta politica

L’argomento della posizione del nostro sistema econo- GIUSEPPE ALVARO mico in Europa e nell’ambito del processo di globaliz- Facoltà di Statistica zazione appare del tutto irrilevante rispetto alla que- dell’Università stione che da qualche mese imperversa su quotidiani e di Roma settimanali e che coinvolge, guarda caso, le vicende “La Sapienza” personali della vita del Capo del Governo. Non siamo ancora del tutto usciti dalla grave crisi fi- nanziaria che ha investito il mondo, non siamo ancora ≈ riusciti a creare e adottare misure e strumenti per pro- teggerci dalle manifestazioni di altre crisi e tutto ciò «L’aspetto che in questo periodo nei media non assume la durevole rilevanza che questi appare più problemi meritano per le loro implicazioni sul mondo inquietante è che del lavoro e sulla crescita delle imprese. nel Paese si è quasi perduta la Abbiamo un’economia stagnante e nessuno, tranne sensibilità qualche episodico richiamo giornalistico dalla durata culturale nei di un giorno, dibatte in termini puntuali e politica- confronti dei temi etici, economici, mente credibili quali interventi effettuare per uscire sociali dal cui da questa fase di stallo. vivificante Viviamo in un contesto europeo pieno di profondi intreccio dovrebbe derivare la squilibri economici e sociali, di squilibri della produt- definizione della tività, che tendono a mettere a rischio la sopravviven- Politica e, per tal za della stessa Unione Europea e nessuna forza politica via, la crescita della Società nella dimostra la volontà di affrontare con la dovuta pro- prospettiva del fondità conoscitiva tali questioni. futuro». ≈

ÿ Un bivio di portata storica

• Stanno accadendo ai nostri confini sconvolgimenti po- litici, economici, religiosi di natura epocale, che ci riguarda- no e ci investono direttamente e scopriamo di trovarci in as-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 17 Giuseppe Alvaro senza di una strategia politica per il governo di tali mutamenti, come lo dimostra, sul drammatico problema dell’immigrazione, la posizione di chiudersi nel proprio bunker a difesa dello stato di benessere acquisito che, con inusitata prontezza, è emersa a livello europeo. È una risposta, questa, che peraltro, ci fa capire che l’Europa non ha ancora percepito di trovarsi davanti ad un bivio di portata storica. Se lo sbocco della ri- voluzione in corso nei paesi del nord Africa dovesse, infatti, essere dominato dal- le forze islamiche, presto noi europei verremmo a trovarci schiacciati fra la morsa di una globalizzazione guidata dai paesi asiatici e la islamizzazione dei nostri confini meridionali. Invece, se lo sbocco dovesse segnare il sopravvento del desi- derio di libertà di queste terre, saremmo all’inizio di un percorso che potrebbe portare al raggiungimento dell’obiettivo più prestigioso, più ambizioso, più esal- tante di questo secolo: la nascita, la crescita e il consolidamento della democrazia nei paesi del nord Africa e del medio oriente, alimentata dal dialogo tra le varie religioni. Davanti a questo bivio l’Europa deve trovare la forza politica per dimostrare la sua unitaria volontà di aiuti, di sostegni e di interventi nella direzione di promuo- vere, stimolare e consolidare tale processo. Ove tale unità politica non riuscisse a trovarla, e, a mio parere, oggi non appare in grado di trovarla, non è difficile prevedere che per l’Unione Europea inizierebbe un lento, irreversibile declino che porterebbe al suo dissolvimento, come avvenne per l’Unione monetaria latina che, nata nel dicembre del 1866 con Francia, Belgio, Italia e Svizzera, a cui nel tempo aderirono altri Paesi quali Spagna, Grecia, Roma- nia, Austria-Ungheria, si dissolse nel 1927, perché non riuscì a dominare gli eventi politici, monetari e finanziari di quel periodo, per mancanza di unità politica.. Per quanto riguarda il nostro Paese, gli avvenimenti in corso nei paesi del Nord Africa fanno emergere la mancanza di politiche programmatiche di natura struttu- rale, come si evince dal fatto che non solo non siamo riusciti a realizzare, ma nem- meno a definire una politica volta a produrre la riduzione della nostra dipendenza da un’area politicamente instabile, quale quella del nord Africa e del medio orien- te, del bene fondamentale per la crescita di una Società: l’energia. In compenso, però, quando l’instabilità politica si manifesta in tutta la sua por- tata di violenza, assistiamo a un’affollata passerella, costituita da coloro che nel pas- sato, pur avendo potuto, non hanno preso mai le dovute decisioni, per sentir dire, oggi, che loro sono sinceramente preoccupati per le gravi, negative conseguenze che si possono registrare nel Paese a causa del mancato rifornimento delle necessarie fonti energetiche. Quanta ipocrisia politica! Questa loro preoccupazione avrebbero dovuto dimo- strarla nel momento in cui dal Paese erano stati eletti per decidere e non nel mo- mento in cui gli effetti perversi conseguenti alle loro mancate decisioni li sta pa- gando, nella quotidianità della vita, la gente comune.

18 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Alvaro

Ma l’apice dell’ipocrisia politica si raggiunge quando, nel pieno degli eventi perversi, questi stessi uomini continuano a decidere… di non decidere, con l’ag- gravante anche di ostacolare chi decidere vuole!

ÿ I mutamenti e la società del futuro

• Nessuno, a nessun livello, sembra avere voglia di lavorare intorno ad un mo- dello di Società di medio e lungo periodo, di proporre elaborazioni, definizioni di metodi e strumenti d’intervento utili per superare le attuali forme di crisi, in ter- mini coerenti con i mutamenti degli scenari internazionali, oggi prevedibili. Mutamenti che, se leggo bene i segnali che emergono, tendono a marginalizza- re sempre più il nostro Paese. Abbiamo dinanzi a noi problemi immensi sul piano degli assetti produttivi e su quello delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori nella fabbrica e tutto è visto come un problema circoscritto alla trattativa sindacati-Fiat. Nessuna forza politica dibatte nei suoi aspetti più generali la via da seguire, gli strumenti da adottare per realizzare i necessari incrementi di produttività volti ad assicurare al nostro sistema produttivo quelle condizioni di competitività richieste dalle e nelle transazioni internazionali, nel rispetto dei diritti acquisiti dal lavoro in campo sociale. A fine dell’anno scorso sono state pubblicate nel più diffuso quotidiano nazio- nale le tabelle concernenti il rapporto pensione-retribuzione. Nei prossimi 25-30 anni la pensione di un lavoratore dipendente è prevista scendere sotto il 50% della retribuzione e quella di un parasubordinato scendere al 14%. Nessuno si sta po- nendo le domande: cosa fare oggi per evitare che ci s’incammini verso il prossimo futuro caratterizzato dalla prevedibile presenza di un grosso esercito di poveri? È questa la società che vogliamo costruire? Sono questi i problemi che stanno davanti a noi e che occorre oggi affrontare sul piano politico-culturale se vogliamo trovare la giusta soluzione per assicurare un futuro dignitoso per noi e, soprattutto, per i nostri figli. E sono problemi che non possono essere ignorati o, peggio ancora, nascosti sotto il tappeto, con l’illuso- ria speranza che sarà il tempo in qualche modo a risolverli. Ciò che oggi non possiamo, non dobbiamo fare è ignorarli, perché deve essere chiaro a tutti che con l’intensificazione del processo di globalizzazione in atto si è sempre più governati dalla lex mercatoria, la quale tende a divenire con sempre maggiore evidenza e forza una legge sovraordinata rispetto all’assetto normativo di dimensione nazionale. In questa prospettiva sarà sempre più il mercato ad im- porre la tempistica e l’evoluzione dei parametri relativi alla concorrenza e alla pro- duttività. E quando tale processo si manifesta, come oggi si sta manifestando, con una presenza sempre più massiccia e pervasiva di Stati con legislazioni economica,

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 19 Giuseppe Alvaro finanziaria e sociale strutturalmente diverse tra loro, non è difficile prevedere che si viene ad affermare anche nel campo dei diritti sociali la legge che Gresham ave- va scoperto per la moneta: gli stati con deficit di normativa sui diritti sociali dei lavoratori tenderanno a scacciare gli stati con normativa avanzata. Perché, norma- tiva sociale avanzata significa maggiori costi e i maggiori costi giocano un ruolo fondamentale nella determinazione del livello di competitività del sistema econo- mico. Come facciamo, mi domando in qualità di studioso delle società complesse, ad affrontare questi temi quando le forze politiche si trovano ad agire in un perma- nente contesto di contrapposizione frontale? Eppure mai come in questa fase storica, piena di trasformazioni economiche, sociali e finanziarie, che stanno portando a un indebolimento dei progressi rag- giunti nel mondo occidentale, avremmo bisogno di ricordare a noi stessi, nella quotidianità decisionale e comportamentale, l’insegnamento che, con la sintesi propria dei grandi pensatori, Sant’Agostino ci ha trasmesso: «Nelle cose necessarie l’unità, in quelle dubbie libertà, in tutte tolleranza».

ÿ La lente sul nostro Paese

• Se guardiamo a quanto sta accadendo da diversi lustri non possiamo non de- durre che nel nostro Paese pare che non ci siano cose necessarie da fare e da realiz- zare, perché l’unità tra le varie forze politiche mai è ravvisabile. Addirittura anche laddove l’unità esiste, come nel caso dell’Unità d’Italia o, scendendo di livello, co- me nel caso dell’unità sindacale, le nostre forze politiche trovano sempre il modo di introdurre e alimentare motivi di disunità! Se, poi, si passa alle cose dubbie, la libertà non sembra trovare riconoscimento alcuno e la tolleranza non riesce a trovar posto nemmeno tra i vari interlocutori che partecipano ai diversi programmi televisivi. L’aspetto che comunque in questo periodo appare più inquietante è che, a mio parere, nel Paese si è quasi perduta la sensibilità culturale nei confronti dei temi eti- ci, economici, sociali dal cui vivificante intreccio dovrebbe derivare la definizione della Politica e, per tal via, la crescita della Società nella prospettiva del futuro Per un confronto col passato basti qui ricordare il dibattito politico-culturale che si è registrato intorno alla nota aggiuntiva La Malfa, con cui il Paese, nel 1962, prendeva consapevolezza, in una visione d’insieme e di prospettiva, dei complessi problemi da affrontare per superare l’arretratezza sociale e attenuare la profondità degli squilibri territoriali e settoriali in cui si trovava. In presenza dei vistosi sconvolgimenti che si stanno oggi registrando nel pro- cesso di divisione internazionale del lavoro, non dovremmo noi dibattere su una documentazione programmatica in grado di farci capire cosa fare, come farla per

20 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Alvaro superare i problemi attuali in termini e modi tali da non rimanere tagliati fuori dallo sviluppo internazionale? E chi dovrebbe elaborarla questa documentazione se non le forze politiche del- la maggioranza e, a fortiori, dell’opposizione? Come si può agevolmente costatare, tale presenza politica manca perché oggi manca la Politica. Debbo anche dire, e il pessimismo diviene più amaro, che tale cultura manca anche a livello europeo. Dominante è divenuta la politica del galleg- giamento in un permanente, stagnante e asfittico presente. Quale forza politica in Italia e in Europa ha elaborato un’interpolante pro- grammatica per indicarci verso quale tipo di Società, di rapporti umani e sociali, d’integrazione di valori stiamo andando o, meglio ancora, vogliamo andare? Nessuna. E senza alcuna indicazione di un futuro, senza porsi un obiettivo al più si cammina nel tempo; di certo, non ci si incammina verso il futuro. Affermava Goethe: «Non si va mai molto lontano quando non si sa dove si va. Il guaio peggiore è quando non si sa dove si sta.» A me sembra che non abbiamo maturato nemmeno la consapevolezza che oggi ci troviamo in queste condizioni. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, infat- ti, intorno a che cosa abbiamo discusso e stiamo discutendo? Se torniamo indietro con la memoria ci accorgiamo che stiamo sempre discutendo intorno alle donne, ai cucù, alle gaffe, alle vicende giudiziarie di Silvo Berlusconi. Ossia, del nulla poli- tico. E il nulla politico non produce reddito, occupazione, crescita. In cambio, produce abulia, inattività e tanta, tanta disaffezione politica. Invece, a furia di parlare di vicende giudiziarie abbiamo costruito un modello che ha portato alla contrapposizione frontale tra berlusconismo e antiberlusconi- smo, che lentamente ha finito col mettere il cittadino di fronte all’assurdo dilem- ma politico, inaccettabile in una democrazia liberale: o sei con “lui” o sei contro di “lui”. E lungo questa strada non abbiamo capito, ed ancora non vogliamo capire, che dietro una maggioranza che si forma c’è un corpo sociale, costituito da uomini e donne, da operai e impiegati, da studenti e pensionati, da casalinghe, dei quali co- glie le esigenze, le aspirazioni. Queste persone oggi costituiscono la maggioranza, la quale è anche maggioran- za quando è chiamata ad esprimersi nel momento più qualificante e vivificante di una democrazia: la libera espressione del voto. Non possiamo arrogarci il diritto di dequalificare la bontà e il significato di questo voto, di depotenziare la capacità decisionale e d’intendimento di questa maggioranza. Non possiamo farlo perché, in tal caso, siamo noi a perdere il senso, il significato più profondo della democrazia. Siamo noi che, con un atto di presun- zione e di superbia, pensiamo alla democrazia in termini elitari, aspiriamo a vivere in una democrazia elitaria.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 21 Giuseppe Alvaro

ÿ Validità e qualità del voto

• In questa prospettiva, siamo portati a ritenere che il voto risulti valido solo se viene ad esprimere la maggioranza che piace a noi. Non ci accorgiamo o facciamo finta di non accorgerci, invece, che, per tal via, introduciamo una discriminazione di sapore razzistico intorno alla qualità del voto: se la gente vota come vogliamo noi, come votiamo noi è gente che sa votare; altrimenti è gente ignorante, incapace di comprendere quello che fa. In questa subliminale posizione culturale non si può non scorgere il rimpianto, da parte di chi quest’opera di dequalificazione promuove e attua, di quel periodo in cui il diritto di voto era legato al censo e/o al titolo di studio. E, da parte di co- storo, vi è anche la netta presa di distanza da quelle aspre battaglie affrontate e vin- te dai nostri padri per l’introduzione del diritto universale del voto. Da quelle bat- taglie politiche e civili alle quali anche noi, se vuoi in piccolo, abbiamo dato il no- stro contributo partecipativo. E, sempre, in direzione del rafforzamento della democrazia liberale! L’errore che in questi lunghi quindici anni si è commesso ed ancor oggi si com- mette è ritenere il fenomeno politico del Premier una questione riguardante la sua persona, la sua ricchezza, il suo possesso di mezzi di informazione. È lo stesso errore commesso nei confronti della D.C. e del P.S.I. di Craxi negli anni ’90. Anche allora si era convinti che, producendo la caduta di Andreotti, Craxi, Forlani, la battaglia politica sarebbe stata vinta e l’elettorato, il corpo sociale facente capo alla D.C. e al P.S.I. sarebbe stato governato dalle forze politiche di si- nistra. Non è stato così, perché quel corpo sociale visse la sconfitta subita dalla D.C. e dal P.S.I come sconfitta giudiziaria, non come sconfitta politica. La collocazione politica quel blocco sociale l’ha trovata nelle forze partitiche rappresentate dall’attuale maggioranza. Non si può oggi commettere lo stesso erro- re politico di ieri, qual è quello di pensare di poter ereditare e governare quel corpo sociale abbattendo giudiziariamente chi la incarna. Per poter governare quel corpo sociale occorrono proposte politiche puntuali, organiche, alternative e più credibili di quelle offerte da chi al momento governa. È qui, è su questi aspetti che la ricerca, prima, e l’adozione, poi, della soluzione diventa complessa. I margini di manovra per l’elaborazione di un credibile profilo programmatico alternativo sono, nei fatti, molto ristretti: la lex mercatoria, che or- mai regola l’entità e le modalità di partecipazione del sistema economico nazionale nei rapporti con l’estero, impone stringenti vincoli di produttività alle imprese e, quindi, al sistema di partecipazione del lavoro nel processo di produzione dei beni e servizi. Vincoli egualmente stringenti, soprattutto in presenza di un debito pub- blico elevato com’è il nostro, si impongono nell’azione di mediazione dell’operato- re pubblico fra esigenze economiche ed esigenze sociali.

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La difficoltà di definirle e, ancor più, di renderle, in una loro evidente coerenza sostanziale, credibili giustifica il fatto che, malgrado le peripezie, la varietà e la ele- vata numerosità di processi in capo al Premier e malgrado la superiorità illumini- stica, culturale, di integrità e coerenza morale che le forze politiche di opposizione manifestano e ostentano in ogni occasione, il corpo sociale rappresentato dalla maggioranza rimane sempre una maggioranza politica stretta intorno a lui. Solo, e solo, quando nel 1996 e nel 2006 venne presentato al Paese un pro- gramma di proposte credibili, alternativo, la maggioranza dei cittadini lo abban- donò e si affidò a Romano Prodi, vivendo così l’esperienza politica di due governi di centro-sinistra. E ciò, malgrado la persistente ricchezza e i notevoli mezzi di informazione in suo possesso. Di tanto in tanto ricordiamoci che se fossero l’informazione e le leve di potere gli elementi che portano il cittadino ad esprimere la sua volontà politica, le dittatu- re non cadrebbero mai, avendo il dittatore il monopolio di tutti i mezzi informati- vi e di governo. L’ esperienza vissuta nel nostro Paese mostra, dunque, che nelle decisioni di voto il cittadino è attento, molto attento alla qualità e alla credibilità di realizzazione del- le proposte programmatiche avanzate dalle varie forze politiche. E l’indicatore di af- fidabilità che la gente percepisce più nitidamente è dato dal potenziale grado di coe- sione delle forze politiche che, una volta al governo, sono chiamate a realizzarle.

ÿ Perplessità e incertezze

• Quando ci soffermiamo ad analizzare questi aspetti emerge con sferzante ni- tidezza lo stato di incertezza in cui il cittadino si viene a trovare. Il Paese non ha as- sorbito il caso Craxi; ancor meno penso possa assorbire una caduta per via giudi- ziaria del governo, presentando come soluzione alternativa una maggioranza costi- tuita da forze politiche strutturalmente eterogenee, quanto a visione di governo di una società complessa com’è la nostra. Sono intimamente convinto che l’eventuale caduta dell’attuale governo non per via parlamentare tenda a rendere più acuta la contrapposizione fra le varie forze politiche e, quindi, a rendere sempre meno governabile il Paese. In particolare in un periodo, quale quello attuale, in cui la speculazione finanziaria è montante, stante il nostro elevato debito pubblico e gli equilibri politici nel vicino mondo arabo che irreversibilmente si stanno modificando. D’altra parte, non possiamo neppure negare che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, viviamo in una situazione particolare. C’è nel Paese una maggioranza di cittadini che esprime una maggioranza politica. Dal giorno successivo all’insedia- mento parlamentare di questa maggioranza scatta una contrapposizione mediatica frontale, che, direttamente o indirettamente, tende a condizionare le posizioni poli-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 23 Giuseppe Alvaro tiche dell’opposizione e, quindi, ad inceppare l’azione di governo. È avvenuto sia con i governi di centro sinistra sia, con più evidenza, coi governi di centro destra. Si tratta di una strada pericolosa, perché, ricordando le parole pronunciate da Piero Calamandrei ai tempi dell’Assemblea Costituente: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi de- mocratici” Mi permetto di aggiungere, soprattutto quando tale impossibilità è provocata da fatti esterni alle prerogative proprie del Parlamento.

ÿ Giustizia e libertà politica

• A questo punto non posso non aprire una parentesi sul delicato tema al cen- tro di un aspro dibattito: il rapporto tra la giustizia e la politica. Non posso non aprirlo perché per me rappresenta anche un tributo che debbo a Giacomo Manci- ni, che, come si ricorderà, dovette affrontare una dura vicenda giudiziaria durata dal 1993 al 1999, vicenda attivata dalle dichiarazioni di alcuni pentiti che lo accu- sarono di avere avuto contatti con le cosche mafiose. All’indomani della sua assoluzione gli telefonai a Cosenza per rallegrarmi con lui. Ancor oggi nitidamente ricordo il messaggio trasmessomi con voce rotta dall’e- mozione: «Peppino, così mi chiamava, cerca di dedicare qualche ora in meno ai tuoi studi e alle tue ricerche sulla Contabilità Nazionale e di dedicarla, quest’ora, ad osservare ed analizzare quanto sta avvenendo nel Paese. Gli equilibri fra i poteri, equilibri propri di un vivo e partecipato sistema democratico liberale, si sono rotti. La giustizia ha preso il sopravvento sulla politica. Tu, che certamente vivrai più a lungo di me, sarai un testimone dei gravi danni che verranno apportati al tessuto democratico che i no- stri padri e noi abbiamo costruito, se questi equilibri non verranno prontamente ri- composti. Cerca, anche se non fai politica attiva, di dare comunque un tuo contribu- to alla loro ricomposizione. Ricorda nella vita: la democrazia è libertà se a ciascuno è permesso di esercitarla fino a che non contrasti con la libertà degli altri. La libertà non può essere pienamente vissuta se si trasforma in libertà vigilata!» Aveva ragione. Aveva previsto le tensioni e le lacerazioni che l’abolizione del- l’art.68 della Costituzione, relativo all’immunità parlamentare, approvata dallo stesso Parlamento nell’ottobre del 1993, avrebbe prodotto nel tessuto democratico del Paese. Con l’abolizione dell’art. 68 si rompe, infatti, l’equilibrio, il bilanciamento dei poteri previsto e considerato dai padri costituenti come il requisito fondamentale per il corretto funzionamento di una democrazia liberale. Il vecchio art. 68 della Costituzione elaborato e introdotto dai padri costituen- ti imponeva un permanente confronto fra la decisione del Parlamento e quella del

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Giudice. E, con la decisione di concedere o meno l’autorizzazione a procedere, era lo stesso Parlamento a definire il profilo evolutivo del corso della politica. Si potrebbe osservare: nel passato, di tale principio s’è fatto un uso abnorme, tanto da apparire un malcostume. Inoltre, con la sua rielezione, il rischio è che nei fatti il parlamentare viene a sottrarsi alla giustizia. È vero. Ma la vita ci ha insegna- to anche, che un errore non può essere riparato commettendo un errore ancora più grave, quale quello della rottura dell’equilibrio dei poteri, che, nella sua ultima e intima essenza, mina la possibilità della Società di poter vivere con pienezza la li- bertà, propria di una democrazia liberale. Ben altri accorgimenti o ben altri paletti limitativi degli abusi compiuti con il ricorso all’art. 68 si sarebbero potuti attivare, sempre nel rispetto dell’equilibrio dei poteri fra le istituzioni! Ma per comprendere i motivi per cui in quel periodo altri paletti limitativi non sono stati definiti e introdotti, basti ricordare la turbolenta violenza vissuta dal Paese sul piano mediatico e politico, giudiziariamente provocata da “Mani Pulite”.

ÿ Un pericoloso corto circuito

• Le parole di Giacomo Mancini, sopra riportate, le ho ritrovate nell’editoriale apparso sul Corriere della Sera del 16 febbraio scorso: «Non è necessario, scrive Ser- gio Romano, essere berlusconiano o votare per il Pdl per assistere con disagio a certe ini- ziative della magistratura inquirente…Esiste un pericoloso cortocircuito tra politica e magistratura, un nodo che risale alla stagione di Mani pulite e che non siamo riusciti a sciogliere». C’è da chiedersi: perché questo pericoloso corto circuito non si è riusciti a scio- glierlo, pur essendo passati oltre quindici anni dall’esperienza di Mani pulite? Per- ché non si è riusciti a sciogliere quel nodo, pur avendo avuto governi di centro de- stra e governi di centro sinistra, i quali sempre, con continuità temporale, hanno in tutte le loro manifestazioni politiche dichiarato di voler sanare l’anomalia esistente nei rapporti politica-giustizia? E sempre di volerlo e doverlo fare per il rafforza- mento della vita democratica del Paese? Il non essere riusciti a mantenere questi impegni ha avuto come risultato quel- lo di creare un contesto di incertezze in cui è divenuto agevole scambiare lo Stato di diritto con l’amministrazione della Giustizia. Scriveva Piero Ostellino nel gen- naio del 2004: «Lo Stato di diritto non consiste (solo) nel diritto di ciascuno di adire alla giustizia per far valere le proprie ragioni, bensì (soprattutto) nel diritto di ciascuno di noi di non essere chiamato in giudizio con accuse non fondate sulla legge, ma su teo- remi e deduzioni creative». A definire lo Stato di diritto non è, dunque, come ci si vuol far credere, il rico- noscimento del diritto a difendermi, ma il riconoscimento del diritto a non essere accusato infondatamente.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 25 Giuseppe Alvaro

ÿ Il rapporto antico tra politica e giustizia

• Al di là di questi aspetti che sfociano nella filosofia del diritto, su cui ovvia- mente non posso addentrarmi non essendo io un giurista, qui a me preme ricorda- re che la questione relativa al rapporto tra politica e giustizia è sempre esistita nel tempo. Anche nell’antica Sparta il potere degli efori crebbe tanto da sovrastare il potere dei re ed assumere di fatto la sovranità dello Stato. E qui, volutamente trala- scio di ricordare qual è stato l’epilogo di questa prevaricazione di poteri! Tutta la storia del mondo occidentale, del pensiero liberale è, però, lì a testimo- niare e ricordarci che una democrazia si “tiene” solo e solo se a nessun potere è dato di sovrastare l’altro. Sia ben chiaro: a nessuno, neanche al re, deve esser dato di potersi considerare al di sopra della legge. La legge uguale per tutti è una conquista della democrazia libera- le. “Il popolo, osservava Eraclito, deve combattere per la legge, come per le mura del- la città.” E Socrate, quando invitato da Critone, suo discepolo, a scappare dal carcere e così porsi in salvo, perché condannato da una legge ingiusta, non accetta l’invito perché, risponde, non ci sono leggi giuste e leggi ingiuste. C’è la legge, esclama, e, in quanto tale, dev’essere osservata. E sceglie di morire pur di non disubbidire alla legge. Contestualmente, però, siamo anche tenuti a non trascurare una circostanza che nei fatti viene ad assumere un significato di enorme importanza: il cittadino, nella quotidianità della vita, non avverte mai la forza della legge nella sua astrazio- ne, ma nelle sue modalità di applicazione, percepisce la forza della legge solo attra- verso l’oggettività della sua applicazione. Se nei fatti non avverte tale oggettività, interiorizza la sferzante, qualunquistica battuta di Marcello Marchesi: «La legge è uguale per tutti. Basta essere raccomandati». Con tutte le ricadute e le conseguenze di credibilità che si registrano sul rap- porto cittadino- istituzioni. · Coloro i quali traducono l’astrattezza della legge nella quotidianità applicativa sono i magistrati. Quindi, la forza insita nell’oggettività della legge nella sua astrat- tezza viene dal cittadino identificata nell’oggettività che il magistrato dimostra nel- la delicata fase della sua applicazione quotidiana. Per rilevare e definire la posizione centrale che il magistrato assume e deve assu- mere nell’assicurare forza oggettiva alla legge, il grande matematico e filosofo fran- cese D’Alembert, in una lettera inviata a Montesquieu, scriveva: «I magistrati non debbono che essere magistrati, privi di partito e di passione, come le leggi, le quali assol- vono e condannano, senza amare e senza odiare». La questione sta tutta qui. E qui non possiamo non rivolgere, innanzitutto a noi stessi, la domanda: c’è oggi nel cittadino la piena consapevolezza che sia questo il modello al quale il magistrato fa riferimento nella quotidianità della vita quando dall’astrattezza della legge passa a giudicare? E giudicare penso sia, tra tutte le atti- vità svolte, l’unica che possa accomunare l’uomo con Dio!

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Quanto sta accadendo, come ricordava anche Sergio Romano nel citato edito- riale, fa sorgere qualche ragionevole dubbio. Dubbio che viveva anche Sciascia quando, sulla rivista “Il Giudice” nel lontano 1986 scriveva: «L’innegabile crisi in cui versa l’amministrazione della giustizia deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce ad introvertire il potere che le è assegnato, ad assu- merlo come un dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piut- tosto ad estroverterlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirit- tura, attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la Società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente, è costretta a giudicarli».

ÿ Lo scontro istituzionale

• È ciò che sta avvenendo ai giorni nostri con lo scontro in atto tra Parlamento eMagistratura. Con il Parlamento che ritiene che la Magistratura stia sottraendo poteri decisionali propri del Parlamento sovrano e Magistrati che ritengono di do- ver agire nei confronti di governanti e politici in nome e per conto delle leggi vi- genti. Lungo questa strada, si è oramai giunti all’epilogo di un gravissimo scontro istituzionale, non essendo riusciti a porre i necessari paletti per fermarlo in tempo.. Non è difficile prevedere che alla fine di questo scontro niente resterà come prima. Lo insegna l’esperienza. Qui, voglio ricordare quella vissuta nella vicina Francia tra il 1894 e 1906 con il processo Dreyfus, nato per caso: un foglietto di carta, trovato nel cestino, contenente notizie riservate di natura militare. Dall’ana- lisi della grafia, tre su cinque esperti risalirono al capitano di artiglieria, Alfred Dreyfus. Il quale, a conclusione del processo, riconosciuto colpevole, venne degra- dato e deportato nel carcere duro dell’Isola del Diavolo, al largo della Guyana fran- cese. Ma presto sorsero i primi dubbi sull’autenticità della prova d’accusa. Divampò la polemica. Si formarono, contrapponendosi duramente, gli schieramenti dei dreyfusard e degli antidreyfusard. Emile Zola venne condannato ad un anno di carcere e ad un’ammenda di tre mila franchi per avere messo in dubbio l’autenti- cità della prova, scrivendo nella sua famosa lettera “j’accuse”, indirizzata al Presi- dente della Repubblica: «La verità in cammino niente potrà fermarla. Del resto l’ho detto e lo ripeto: quando la verità viene rinchiusa sottoterra, vi si ammassa, acquista una forza di esplosione tale che, quando scoppia, tutto salta in aria». La prova utilizzata per condannare Dreyfus, considerata nel dibattito mediati- co- processuale di evidenza solare, presto si dimostrò insussistente. Dreyfus venne assolto e riabilitato. E lo scontro, nato da una questione circoscritta, il tradimento di un militare di origine ebrea, esplose in tutta la sua virulenta violenza, investendo gli aspetti più generali della società francese, quali il rapporto fra potere militare e

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 27 Giuseppe Alvaro potere civile, il rapporto fra stampa e potere politico, il rapporto fra Stato e Chiesa, la questione ebraica. L’assoluzione di Dreyfus non poteva non produrre una irreversibile modifica di tali rapporti. Ed infatti produsse: la sottomissione del potere militare a quello politi- co; la separazione tra Stato e Chiesa, la quale, peraltro, attraverso una sua rivista catto- lica aveva sostenuto la colpevolezza di Dreyfus; lo sviluppo della corrente di pensiero improntata al relativismo storico; il risentimento della destra politica che portò alla definizione di un modello politico-comportamentale che ha avuto una enorme im- portanza nella produzione e diffusione in Europa della violenta cultura antisemitica. Anche noi oggi siamo all’epilogo di uno scontro duro, senza esclusioni di colpi, tra magistratura e politica. Scontro che ha finito con l’investire i meccanismi più delicati dell’autonomia decisionale e, quindi, del rapporto e delle competenze tra l’azione e la vita del Parlamento e l’attività giurisdizionale del Magistrato. Il risultato finale dello scontro non potrà lasciare tali rapporti come prima. Og- gi, la posta in gioco, è altissima: la primazia della politica rispetto alla giustizia o quella della giustizia rispetto alla politica. Con tutta la valanga di fibrillazioni che la pronuncia dell’una o dell’altra sen- tenza verrà a registrare sul piano politico, sociale, dei comportamenti della colletti- vità e, financo, mi permetto di affermarlo, sui modelli di vita di ciascuno di noi. · Il Paese non ha bisogno di queste fibrillazioni, di questi scontri all’ultimo san- gue tra Parlamento e Magistratura. Scontri senza prigionieri. Il Paese ha bisogno che venga pienamente ripristinato e osservato l’equilibrio dei poteri tra le Istituzio- ni, perché costituisce il pilastro portante della vita politica, economica, sociale, re- ligiosa di una Società. Quell’equilibrio di poteri che i nostri padri costituenti, pur nella loro dura differenziazione polico-ideologica, con l’articolo 68, seppero e vol- lero introdurre nella nostra Costituzione, che ha permesso al nostro Paese di in- camminarsi lungo la strada della democrazia liberale. Occorre riprendere quella logica, quelle motivazioni. Si pensa che al punto in cui è giunto lo scontro tra le Istituzioni sia troppo tardi. Penso di no. In me prevale sempre l’ottimismo della ragione. Basti che l’equilibrio dei poteri nella nostra Co- stituzione sia considerato dalle varie forze politiche “cosa necessaria”, per rifarci a Sant’Agostino, ed in quanto “cosa necessaria” al corretto funzionamento della vita del Parlamento, possa costituire il cemento col quale costruire l’unità decisionale delle varie forze politiche, come fecero i nostri padri costituenti.

ÿ Il ritorno degli equilibri

• Occorre riprenderla la logica della “cosa necessaria”, perché la crescita o il de- clino economico e sociale sono sempre l’effetto, la conseguenza della linea politica e di politica economica che il Paese, attraverso il Parlamento, definisce e attua.

28 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Alvaro

Non si può al bianco proposto da una forza politica contrapporre solo e sempre il nero da parte dell’altra forza politica, in quanto, così operando, non si va più alla ricerca della sintesi delle differenti posizioni e, quindi, della definizione della linea di intervento più idonea per assicurare al Paese le condizioni di crescita. Si va solo alla ricerca di una permanente estremizzazione, radicalizzazione, conflittualità po- litica-istituzionale, contesto nel quale diviene pressoché impossibile trovare la stra- da che conduce alla crescita. E l’esperienza degli ultimi quindici anni ci dice che tale sintesi non si è mai vo- luto trovare, perché sempre si è fatto prevalere la radicalizzazione, adeguatamente mediatizzata, della lotta politica. Il risultato è stato ed è un quindicennio in cui il Paese non ha conosciuto crescita economica, crescita della produttività, crescita dell’occupazione: elementi questi che lo costringe a vivere una grave crisi propria nel contesto di una crisi di portata internazionale. È in base a questa profonda convinzione che ritengo non possa e non debba trovare giustificazione alcuna l’affermazione avanzata recentemente da autorevoli uomini politici secondo cui non è possibile reintrodurre oggi il principio dell’equi- librio dei poteri perché c’è un determinato uomo al potere. Quindi, che errore politico identificare la persona con l’Istituzione! Che errore politico non pensare che l’equilibrio dei poteri istituzionali vada oltre la persona in quanto, nel momento in cui garantisce ad ogni cittadino quella libertà propria di una democrazia liberale, in quel momento stesso garantisce la democrazia liberale alla Società nel suo complesso. Come, d’altra parte, è riconosciuto dallo stesso Par- lamento europeo. Con l’equilibrio dei poteri istituzionali, il Parlamento diviene centro decisiona- le e garanzia politica della crescita e del consolidamento della democrazia liberale! Togliatti alla Costituente mai si pose il problema se l’introduzione o meno del principio dell’immunità parlamentare potesse tornare a vantaggio di De Gasperi, della D.C. o di alcune forze politiche dello schieramento parlamentare. Né si pose mai il problema di attivare al momento della sua approvazione parlamentare atteg- giamenti ostruzionistici o, peggio ancora, “un’opposizione tettaiola”! Per Togliatti, come per tutti gli altri padri costituenti, l’immunità parlamentare sancita dall’art. 68 veniva a rappresentare, nell’architettura della nostra Costituzione, lo strumento che, garantendo il principio dell’equilibrio dei poteri, assicurava al Par- lamento la dovuta autonomia per discutere di politica senza che altri poteri potesse- ro, strumentalmente o meno, frapporre ostacoli di natura diversa dalla politica. Altri tempi quelli, altri uomini, altra cultura, altra esperienza, altra statura poli- tica! • A questo punto non mi rimane che chiedere, sperando in una convincente quanto oggettivante risposta: se, nell’ambito della Commissione dei 75 che predi- spose il progetto della nostra Costituzione, uomini dalla statura e dell’esperienza di vita politica come Aldo Moro, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Lelio Basso,

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 29 Giuseppe Alvaro

Giuseppe Di Vittorio, Giorgio La Pira, Antonio Giolitti e giuristi dallo spessore di Aldo Bozzi, Piero Calamandrei, Giovanni Leone, Costantino Mortati hanno con- siderato l’immunità parlamentare un principio fondamentale per il corretto fun- zionamento della democrazia liberale, perché oggi, dai loro figli (ahi, questi figli!) quel principio dev’essere inteso uno strumento di “favoritismo” per mezzo del qua- le i componenti del Parlamento cessano di essere uguali di fronte alla legge? Perché, questi figli non vogliono capire che senza l’immunità parlamentare è il Parlamento a non occupare più nell’ordinamento istituzionale lo stesso gradino della giustizia? Ed in questa posizione, a non poter più garantire il corretto funzionamento della democrazia liberale?

ÿ L’investigazione esorbitante

• Mi permetto un ultimo motivo di riflessione riguardante un altro argomento oggetto di scontro tra le forze politiche al calor bianco: le intercettazioni telefoni- che. Per sgombrare il terreno da ogni dubbio e da ogni equivoco dichiaro subito che considero le intercettazioni un efficace e insostituibile strumento d’investigazione. Dobbiamo utilizzarle e accettarle. Nessuno può credere che lo Stato, alla guida di un trattore, possa inseguire e raggiungere chi, operando contro la legge, può tran- quillamente andarsene a bordo di una Ferrari. Su questo non dovrebbe sussistere dubbio alcuno. Ma, nel momento in cui do- verosamente riconosciamo e dobbiamo riconoscere l’insostituibilità delle intercet- tazioni, altrettanto doverosamente dobbiamo chiederci: la loro diffusione a tappe- to è pure utile all’investigazione? A me sembra di no. Anzi, la loro diffusione dovrebbe costituire un ostacolo alla felice conclusione degli atti investigativi. Di qui l’angosciosa e angosciante doman- da: perché vengono pubblicate e diffuse? È mai possibile che non esista alcun mez- zo per impedire che possano essere diffuse e così garantire il cittadino di non subire due processi: primo, quello mediatico in cui si utilizzano a piene mani, anche in forma brillantemente recitata, gli elementi emersi dalle intercettazioni, peraltro non vagliate nella loro attendibilità e che tante volte nemmeno arrivano in tribu- nale e, secondo, quello nelle aule di legge? Perché negli altri Paesi, il mio riferimento è agli Stati Uniti, dove la libertà del- l’informazione non è messa in dubbio, le intercettazioni non sono mai conosciute prima dell’apertura del processo? Occorre arrestare tale costume, perché lungo questa strada, ciascuno di noi, nell’impiego del telefono, è portato a controllare le parole, evento, questo, che vie- ne a rappresentare un vulnus per la democrazia liberale. E, cosa altrettanto grave, per la libertà individuale.

30 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Alvaro

• E, per arrivare alle estreme conseguenze, a controllarle debbano poi essere due fidanzatini quando, nel loro quotidiano dialogo telefonico, stanno per pro- nunciare parole denotanti uno stato d’animo gioioso e pieno di effusioni d’amore. Sono portati a farlo, perché nella loro mente riaffiora, inconsapevolmente, quel- l’immagine che ci ha accompagnato nella nostra infanzia, con cui venivano tappez- zati i muri delle città, raffigurante la faccia di un uomo dall’espressione dura e dallo sguardo truce che, con l’indice teso e fissandoti negli occhi con paurosa intensità, esclamava: “taci, il nemico ti ascolta”. Non si sa mai, sembrano dirsi i due fidanzatini, se qualcuno, ascoltando la no- stra conversazione, possa anche dedurre che il nostro amore e i nostri baci siano eticamente non corretti! E, sembrano dirsi ancora: per un solo bacio che ha fatto il giro del mondo, su cui si è costruita tutta una leggenda e che nei fatti tale bacio mai è stato dato, An- dreotti ha passato tanti guai. Traducendo in termini politici, i due fidanzatini sembrano l’un l’altro confi- darsi: guarda che per un bacio non dato, ma magistralmente diffuso e mediatizza- to, è cambiata, irreversibilmente, la storia del nostro Paese! Suvvia, il nostro non può essere e tanto meno rimanere un Paese che, per un bacio non dato, cambia e si fa cambiare il corso della sua storia!

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N.d.r.

Lo sviluppo successivo delle vicende politiche italiane, richiamate nell’articolo del prof. Alvaro, ha portato alla formazione di un governo detto di “solidarietà nazionale”, costituito soltanto da tecnici. La politica, i partiti in particolare, hanno lasciato il cam- po al nuovo governo, preferendo soltanto sostenerlo senza diretti coinvolgimenti nel mo- mento della crisi più acuta dell’economia italiana e internazionale. Crisi che rischia addirittura di mettere in forse l’intera costruzione dell’Europa Unita. «Civitas» ne seguirà l’evoluzione, ma ritiene che le valutazioni espresse dal prof. Al- varo sulla maturità politica e complessiva del nostro Paese restano a maggior ragione va- lide, anzi si caricano di ulteriori significati ed eventi, in quanto saranno i partiti, e la politica in generale, a doversi, inevitabilmente e direttamente, riassumere, in tempo non troppo distante, doveri e responsabilità al cospetto di una pubblica opinione (elettorato) che presto sarà chiamata a giudicarli per ieri, l’oggi e il domani. In presenza di un Paese che, nonostante i 150 anni trascorsi, è ancora più “Stato” che “Nazione” (Patria).

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 31

Federalismo fiscale e Favor Familiae Un connubio strategico

Il 9 giugno 2011 si è svolto a Roma, presso l’Istituto Sturzo, un convegno organizzato dall’associazione A.R.I.E.L. (Associazione Relazioni Istituzionali Enti Locali) e dal Centro Internazionale Studi Sturzo, su Federalismo Fiscale e Favor Familiae: un connubio strategico. Un incontro che ha visto la partecipazione di autorevoli esponen- ti in tema di politiche familiari, che ha messo l’istituto Famiglia al centro dei problemi collegati con la crisi che l’Italia attualmente vive.

Il contributo della famiglia al superamento della crisi di Giorgia Latini

Consulente Ministero per la Pubblica Amministrazione e Innovazione

• Nel panorama della crisi globale degli ultimi anni, l’Italia è, a giudizio pressoché unanime, finora è riuscita a reggere rispondendo in maniera efficace alle sfide della glo- balizzazione e mantenendo, tutto sommato, un tasso accettabile di conflittualità grazie al peso sociale ed economico della famiglia, da alcuni definito il «vero Welfare» italia- no. Ma oggi sono apparse evidenti le difficoltà del nostro Paese al punto tale che il Go- verno ha dovuto in estate tamponare l’emergenza con una straordinaria manovra fi- nanziaria. Si è arrivati a questo punto, oltre che alla tardiva applicazione di azioni riforma- trici, anche perché la famiglia che ha fatto tanto per l’Italia, non è stata tutelata ade- guatamente nel momento del bisogno e quindi oggi non riesce autonomamente come in passato a sostenere il peso della crisi economico sociale. • A 150 anni dalla nascita dello Stato italiano, dobbiamo riconoscere come la fa- miglia sia da considerarsi un elemento chiave tanto della nostra identità nazionale quanto della nostra vita pubblica contemporanea. Ogni nucleo familiare genera “capi- tale sociale”, inteso come quella ricchezza immateriale, fatta di memoria e di cultura, che alimenta e sostiene i rapporti e le relazioni tra le persone da quelli professionali, eco- nomici e politici. Una società senza capitale sociale non è solo una società fredda e disu- mana, ma è anche, e soprattutto, una società incapace di innovarsi, di crescere e di ade- guarsi, senza perdere la propria memoria storica, ai cambiamenti del mondo. Infatti è da questo piccolo nucleo di persone che nasce tutto, la famiglia è come un segmento di elica di DNA perché è da essa che poi si specchia e si riproduce l’intera società. • Quindi se la famiglia è portatrice di valori cristiani, così sarà anche tutta la so- cietà, così lo Stato. Oggi più che mai i giovani hanno bisogno di riscoprire i valori cri- stiani che fanno di un individuo una persona completa, capace di vivere in una società costruttiva e al servizio del prossimo. Dobbiamo sempre tenere presente che la famiglia è il nucleo primario e fondamen- tale dove vengono gettate le basi per un nuovo futuro e perciò va messa in primo piano. Sappiamo che la nostra Costituzione all’art. 29 riconosce la famiglia come una società naturale fondata sul matrimonio: una società che si forma in modo spontaneo grazie all’a- more di due persone che decidono di coronare il loro sentimento entrando in comunione d’anime davanti a Dio. Quindi la famiglia si formerebbe anche se lo Stato non esistesse ma dato che in essa si formano gli individui, è importante che lo stato riconosca e tuteli i diritti di questa prima cellula della società. Infatti l’art.31 contiene l’impegno dello Stato a garan-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 35 Giorgia Latini tire, con l’uso di risorse pubbliche, agevolazioni economiche a favore delle famiglie. I più deboli all’interno della famiglia sono i figli minorenni, e a loro favore viene garantito il di- ritto all’educazione e all’istruzione e se i genitori non ne sono capaci, dovrà intervenire lo Stato aiutando i coniugi a rendere meno gravosi i loro doveri attraverso le detrazioni fiscali, gli assegni familiari, la creazione di scuole pubbliche, di consultori familiari, di asili nido. E questo è uno dei modi attraverso i quali lo Stato democratico interviene nel sistema eco- nomico attraverso la spesa pubblica per realizzare le finalità di benessere collettivo. • Finora anche se lo Stato ha manifestato la sua assenza le famiglie grazie ai “rispar- mi dei genitori” sono riuscite a rispondere ai loro bisogni autonomamente contribuendo al benessere dell’intera società senza gravare nelle tasche statali. Ma non si può non rico- noscere come oggi ci si trovi davanti a una profonda crisi della famiglia italiana. Oltre alla moltiplicazione dei divorzi e delle separazioni, la bassa natalità o il numero sempre più basso dei matrimoni stiamo assistendo infatti anche al declino di alcune caratteristi- che sociali fondamentali della famiglia italiana, quale, ad esempio, la tendenza al ri- sparmio: purtroppo, anche nelle famiglie italiane, come accade già da tempo in altri paesi occidentali, si affaccia la tendenza a spendere più di quel che si guadagna, con con- seguente vulnerabilità del sistema-paese. Oggi i risparmi sono esauriti, anche perché il tasso di occupazione, soprattutto a livello giovanile, è ai minimi termini, e quindi ora serve una presenza attiva delle istituzioni per ricambiare il supporto che la famiglia ha dato all’Italia in passato. Solo partendo dalla famiglia la società può rinascere. • È necessario, dunque, individuare le riforme da approvare, in via ordinaria nel breve e medio termine, per valorizzare al meglio il ruolo della famiglia nella società italiana. Le proposte in materia non mancano (dal “quoziente familiare” al “garante della famiglia”) co- sì come non mancano le iniziative già realizzate o in corso (il bonus famiglia o le iniziative a favore della PMI). Ciò che manca è una visione d’insieme, ovvero una gerarchia degli inter- venti da fare ispirata a una coerente visione del ruolo della famiglia nella società italiana. Ciò potrebbe avvenire in occasione dell’attuazione del federalismo fiscale, ambito ben ana- lizzato dal Prof. Giulio Maria Salerno che detta le linee da seguire nel testo che segue. L’incontro quindi è stata l’occasione per ribadire la centralità dell’istituto della fa- miglia nell’ordinamento giuridico italiano, accrescendo la consapevolezza dell’efficacia indiretta delle politiche nazionali di prossima attuazione, quali il federalismo. Sono state approfondite le opportunità e le sinergie che la definitiva attuazione del federalismo fiscale offrirà alle politiche sociali attuate dagli enti territoriali, a favore della famiglia.

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36 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Famiglia e federalismo fiscale

Tra le formazioni sociali protette espressamente dalla GIULIO M. SALERNO Costituzione, rientra come noto la famiglia. Nella Co- stituzione è infatti posto il principio del Favor Familiae, Ordinario di Istituzioni vale a dire è garantita una speciale posizione di tutela di diritto pubblico accordata alla famiglia, quale specifica e peculiare for- dell’Università mazione sociale.. Parimenti è noto che sulla base della di Macerata legge delega sul federalismo fiscale nei prossimi anni si costruirà il nuovo sistema tributario della Repubblica volto ad assicurare i principi del decentramento, dell’ef- fettiva autonomia e della conseguente responsabilità fi- ≈ nanziaria delle autonomie territoriali. Spetta in primo «Deve ritenersi luogo ai decreti legislativi di attuazione della legge dele- corretta ga – e ai successivi provvedimenti che saranno adottati l’impostazione che dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali – dare corpo è stata seguita e sostanza ad una riforma così importante per l’intero nella legge sul federalismo assetto dei nostri poteri pubblici. fiscale […] di assicurare concreta e “piena attuazione” a tutti ÿ La tutela della famiglia nella Costituzione ed in specie il i precetti Favor Familiae nel sistema impositivo costituzionali che impegnano la repubblica ad • La domanda che occorre porsi, è allora la seguente: il operare nel senso principio del Favor Familiae sta incidendo effettivamente del Favor sulla nuova disciplina del sistema impositivo derivante dalla Familiae». riforma del federalismo fiscale, dandosi così finalmente at- ≈ tuazione a quella protezione della famiglia che, prevista dalla Costituzione, non ha sinora trovato applicazione? Questa domanda implica la risposta ad un quesito preliminare: per- ché l’impegno che pure la Costituzione ha promesso a favore della famiglia, non si è sinora tradotto in una politica di van- taggi fiscali? Perché, se la Costituzione statuisce che spetta all’intera Repubblica – e dunque allo Stato, alle Regioni ed

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 37 Giulio M. Salerno agli enti locali - agevolare la famiglia “con misure economiche e altre provvidenze” (come è detto testualmente nell’art. 31 Cost.), tale promessa è stata sinora trascu- rata o addirittura preclusa nei fatti? In breve, questa promessa potrà finalmente es- sere mantenuta dal nuovo sistema tributario della Repubblica o sarà costretta a su- bire troverà i medesimi ostacoli che sinora ha incontrato? In genere, con riferimen- to al presente sistema tributario fortemente centralizzato, si è sostenuto che la pre- disposizione di meccanismi fiscali davvero favorevoli alla famiglia sarebbe stata ostacolata dalla presenza di altri due principi costituzionali che hanno fatto, per così dire, da freno. Secondo la Costituzione stessa, infatti, da un lato le leggi in materia tributaria devono rispettare il canone della “capacità contributiva” di ciascun soggetto che è tenuto all’adempimento del dovere tributario; e dall’altro lato l’intero sistema im- positivo deve essere informato a “criteri di progressività”. Insomma, il canone della capacità contributiva impedirebbe di considerare la famiglia come soggetto – an- che indiretto - dell’obbligo fiscale, così come la presenza di incisive forme di agevo- lazione tributaria collegate al computo complessivo delle ricchezze a livello familia- re, potrebbe comportare la violazione della progressività del sistema tributario tut- to. Tuttavia, l’analisi sia di quanto statuito dalla Corte costituzionale, sia dei risul- tati cui sono pervenute le riflessioni dei giuristi più attenti, consente di affermare che entrambi i predetti principi (capacità contributiva e progressività del sistema tributario) possono senz’altro essere interpretati in senso complementare – e dun- que non preclusivo rispetto alla finalità di perseguire il Favor Familiae anche in materia tributaria.

ÿ La famiglia e il federalismo fiscale

• Ed allora deve ritenersi corretta l’impostazione che è stata seguita nella legge sul federalismo fiscale, ove, tra i principi della delega, sono stati contemporaneamente ri- chiamati sia il rispetto dei canoni costituzionali da ultimo citati (cioè la capacità con- tributivaelaprogressività del sistema tributario), sia la finalità di assicurare concreta e “piena attuazione” a tutti i precetti costituzionali che impegnano la Repubblica ad operare nel senso del Favor Familiae. Infatti, tra i “principi e criteri direttivi generali” che i decreti legislativi devono rispettare, si è posta quello relativo alla: “gg) indivi- duazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29,.30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all’adem- pimento dei relativi compiti” (art. 2, comma 2, l. n. 42 del 2009). In conclusione, questa disposizione della legge delega sul federalismo fiscale che ha previsto, quale principio e criterio direttivo “generale” – e dunque attinente all’intera disciplina del nuovo sistema tributario della Repubblica – l’effettiva at- tuazione del Favor Familiae presente nella Costituzione, deve essere considerata

38 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giulio M. Salerno non soltanto conforme al dettato costituzionale complessivamente inteso, ma an- che necessaria e doverosa attuazione di quest’ultimo.

ÿ Quattro condizioni da rispettare nei decreti legislativi di attuazione

• Possono essere individuate almeno quattro condizioni che devono essere ri- spettate nei decreti legislativi – e nei successivi provvedimenti dello Stato, delle Re- gioni e degli enti locali – per assicurare il Favor Familiae richiamato nella legge di delega in attuazione del disposto costituzionale. – Innanzitutto, poiché il perseguimento di tale obiettivo è posto dalla Costitu- zione come impegno di tutta la “Repubblica”, dato che il nuovo assetto dei tributi sarà improntato su un sistema multilivello, e considerato che il principio e criterio direttiva in questione è prefigurato dalla legge di delega tra quelli “generali”, se ne deduce che gli strumenti approntati in sede di attuazione nei decreti legislativi devo- no essere volti al perseguimento dell’obiettivo in questione con riferimento ad ogni livello di autonomia finanziaria. Si tratta insomma di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e dell’intero sistema tributario della Repub- blica. In altre parole, non si potrà limitare l’inserimento dei meccanismi in oggetto, ad esempio, soltanto nell’ambito della disciplina dei tributi statali, ma tali meccani- smi – certo, nel rispetto degli altri principi posti dalla delega – potranno essere estesi anche alla disciplina che sarà dettata per i tributi delle Regioni e degli enti locali. – In secondo luogo, la legge delega prevede che deve trattarsi di strumenti “idonei”, cioè che si dimostrino nei fatti realmente efficaci ai fini del raggiungi- mento dell’obiettivo costituzionale del Favor Familiae. Vale a dire che le previsioni normative del legislatore delegato – e conseguentemente le leggi regionali ed i provvedimenti degli enti locali che ne seguiranno – in primo luogo non potranno né produrre esiti contrastanti con il predetto obiettivo, né risultare in concreto evi- dentemente e manifestamente insufficienti allo scopo. Pertanto, la discrezionalità sussistente in sede di attuazione della delega, è subordinata al rispetto della neces- saria “idoneità” delle disposizioni dettate in relazione al perseguimento del pre- scritto obiettivo del Favor Familiae. – In terzo luogo, l’introduzione dei meccanismi in questione deve essere rivolta a garantire la piena attuazione del Favor Familiae, ovvero tali strumenti dovranno assicurare la protezione per così dire integrale della famiglia. E ciò sotto un triplice aspetto, in quanto, sulla base dell’esplicito riferimento alle disposizioni costituzio- nali relative alla famiglia, deve trattarsi di strumenti idonei sia a favorire nei fatti la formazione di nuove famiglie rispetto a quelli già esistenti, sia ad assicurare la pos- sibilità che i nuclei familiari adempiano a tutti i compiti che la Costituzione e le leggi assegnano loro, sia a consentire l’effettivo esercizio e la sostanziale tutela dei diritti che l’ordinamento tutto riconosce alla famiglia costituzionalmente protetta.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 39 Giulio M. Salerno

– In quarto luogo, l’espresso richiamo alla famiglia di cui all’art. 29, 30 e 31 della Costituzione implica che i provvedimenti posti in sede di attuazione del fede- ralismo fiscale devono essere rivolti alla garanzia dei diritti della famiglia, alla pro- mozione della formazione della famiglia ed all’adempimento dei compiti spettanti alla famiglia, così come questa è prevista e disciplinata dalla Costituzione. Dunque trattasi, innanzitutto, della “famiglia come società naturale fondata sul matrimo- nio” ai sensi dell’art. 29 della Costituzione, pur senza escludere che, nell’esercizio dell’autonomia normativa propria degli enti territoriali, i vantaggi di ordine fiscale posano essere attribuiti anche ai soggetti appartenenti alle famiglie diversamente costituite, e dunque alle formazioni sociali nel senso più ampio che è fornito in via generale dall’art. 2 della Costituzione. • A ben vedere, il mancato rispetto delle condizioni qui richiamate può com- portare l’eventuale intervento della Corte costituzionale in ordine alle previsioni normative che saranno contenute nei decreti legislativi e conseguentemente nelle leggi regionali. E nulla esclude che siffatto intervento della Corte possa essere an- che molto incisivo, spingendosi pure sul terreno delle valutazioni di carattere effet- tuale, empirico ovvero tecnico-scientifico, circa la complessiva, concreta ed effetti- va efficacia delle strumentazioni introdotte per assicurare davvero il favor indicato dalla Costituzione nei confronti della famiglia.

ÿ I decreti legislativi adottati

• È dunque necessario rivolgere la nostra attenzione ai decreti legislativi già predisposti in sede di attuazione della legge di delega, per verificare se si stia com- piutamente realizzando l’impegno costituzionale per il Favor Familiae. I primi due decreti approvati in via definitiva sono stati il n. 85 del 28 maggio 2010 in tema di “federalismo demaniale”, e il n. 156 del 17 settembre 2010 su Ro- ma Capitale. In entrambi non sono riscontrabili riferimenti alla famiglia. Anche se ciò può essere considerato prevedibile tenuto conto dei temi ivi trattati, si poteva forse fare qualche cenno alle esigenze delle famiglie sia là dove si è disposto in ordi- ne all’“utilizzo ottimale di beni pubblici da parte degli enti territoriali” (v. art. 8 del d.lgs. n. 85 del 2010, ove si fa solo un generico accenno “al fine di assicurare la mi- gliore utilizzazione dei beni pubblici per lo svolgimento delle funzioni pubbliche primarie attribuite”), oppure là dove, per Roma Capitale, si sono previste “forme di monitoraggio e controllo da affidare ad organismi posti in posizione di autono- mia rispetto alla Giunta capitolina, finalizzate a garantire, nell’esercizio delle fun- zioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamen- tali, il rispetto degli standard e degli obiettivi di servizio definiti dai decreti legisla- tivi di cui all’art. 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42, nonché l’efficace tutela dei di- ritti dei cittadini” (v. art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 156 del 2010).

40 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giulio M. Salerno

Dei successivi tre decreti legislativi approvati - rispettivamente sui fabbisogni standard degli enti locali (n. 216 del 26 novembre 2010), sul federalismo fiscale municipale (n. 23 del 14 marzo 2011), e sull’autonomia di entrata delle Regioni edelleProvince (n. 68 del 6 maggio 2011)-, i primi due nulla dicono sul Favor Familiae, mentre il terzo, quello sulle Regioni, appare finalmente più attento al tema. In particolare, nel d.lgs. n. 68 del 2011 relativo alle Regioni si prevede, in pri- mo luogo, che queste ultime “nell’ambito dell’addizionale di cui al presente artico- lo (regionale regionale all’IRPEF, ndR) possono disporre con propria legge detra- zioni in favore della famiglia, maggiorando le detrazioni previste dall’art. 12 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917” (art. 6, comma 5). Va ricordato che tale addizio- nale può essere aumentata o diminuita con legge (art. 6, comma 1); quindi, anche in coerenza con il principio di legalità dell’imposizione tributaria, appare corretta la previsione che tali misure aggiuntive a favore della famiglia debbano essere pre- viste con legge regionale. Si tratta dunque soltanto della possibilità di maggiorare le detrazioni d’imposta, non di consentire deduzioni dall’imponibile, né, ad esem- pio, di incidere sui soggetti destinatari della riduzione. • In secondo luogo, per ovviare correttamente al fatto che le famiglie “inca- pienti”, cioè con basso reddito, non godrebbero di alcun vantaggio, si prevede che “le regioni adottano altresì con propria legge misure di erogazione di misure di so- stegno economico diretto a favore di soggetti IRPEF, il cui livello di reddito e la relativa imposta netta, calcolata anche su base familiare, non consente la fruizione delle detrazioni” sopra richiamate (art. 6, comma 5, secondo capoverso). Due no- vità vanno quindi segnalate: da un lato, è stata introdotta la possibilità – sempre con legge regionale – di misure di sostegno economico diretto per le famiglie a basso reddito non avvantaggiate dalla riduzione dell’addizionale IRPEF; dall’altro lato, il parametro cui sono collegate tali misure, si riferisce all’imposta netta “cal- colata anche su base familiare”, cioè, può ipotizzarsi tenendo conto del reddito fa- miliare. • In terzo luogo, si prevede che le Regioni, sempre nell’ambito della predetta addizionale IRPEF, “possono inoltre disporre, con propria legge, detrazioni dal- l’addizionale stessa in luogo dell’erogazioni di sussidi, voucher, buoni servizio e altre misure di sostegno sociale previste dalla legislazione regionale” (art. 6, com- ma 6). Ciò, dice espressamente il decreto legislativo, “al fine di favorire l’attuazio- ne del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, quarto comma, del- la Costituzione” (sempre art. 6, comma 6). Anche tali detrazioni per ragioni di sussidiarietà possono essere collegate alle famiglie, qualora trattasi di formazioni sociali che esercitano “attività di interesse generale” ai sensi dell’art. 118, comma 4, Cost.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 41 Giulio M. Salerno

ÿ Le limitazioni

• Tuttavia vi sono tre disposizioni che delimitano espressamente l’azione regio- nale nel senso delle detrazioni all’addizionale IRPEF per le famiglie e per l’attua- zione della sussidiarietà orizzontale, oltre ad una disposizione di carattere residuale che sembra applicabile anche alle fattispecie qui in esame. – La prima limitazione è che tutte le predette possibilità agevolative è di ordine in senso temporale, in quanto si prevede che le relative disposizioni del decreto le- gislativo si applicano a decorrere dal 2013 (art. 6, comma 7). – La seconda limitazione è di ordine relazionale, cioè si riferisce ai flussi finan- ziari tra lo Stato e le Regioni: si prevede infatti che tutte le predette facoltà attribui- te alle Regioni e che sono state prima esposte – cioè le misure a favore della fami- glia o al fine di attuare la sussidiarietà orizzontale - siano “esclusivamente a carico del bilancio della Regione che le dispone e non comporta alcuna forma di com- pensazione da parte dello Stato” (art. 6, comma 8, primo capoverso). Per di più, si aggiunge che in ogni caso va tenuta ferma la regola generale che vale in caso di ri- duzioni dell’aliquota dell’addizione regionale all’IRPEF, cioè l’aliquota deve essere sufficiente per garantire ai rispettivi Comuni, insieme agli altri tributi interessati, un gettito che “non sia inferiore all’ammontare dei trasferimenti regionali ai Co- muni” che sono soppressi ai sensi del medesimo decreto legislativo (cfr. art. 6, comma 8, secondo capoverso, che richiamato quanto disposto dall’art. 6, comma 3, ultimo periodo). – La terza limitazione si riferisce stavolta alla pregressa cattiva gestione finan- ziaria elle Regioni in materia sanitaria; in sostanza, l’attivazione delle predette mi- sure agevolative è temporaneamente preclusa, o meglio rimane “sospesa” per quelle Regioni che sono “impegnate nei piani di rientro del deficit sanitario” per le quali si applica la misura prevista dalla legge per il mancato rispetto del piano stesso (art. 8, comma 9). Infine, vi è una disposizione che sembra avere carattere generale e residuale, in quanto si prevede che “restano fermi gli automatismi fiscali previsti dalla vigente legislazione nel settore sanitario nei casi di squilibrio economico nonché le disposi- zioni in materia di applicazione di incrementi delle aliquote fiscali per le regioni sottoposte a piani di rientro dai deficit sanitari” (art. 6, comma 10). Insomma, gli aggravamenti fiscali determinati dalla cattiva gestione sanitaria resteranno validi anche per le famiglie che eventualmente dovessero godere delle predette misure agevolative.

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42 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Valore privato e pubblico della famiglia

Alcune settimane fa è stato presentato a Caltagirone il GASPARE STURZO libro “Amato figlio, frammenti di vita quotidiana della Magistrato famiglia di Felice e Caterina Sturzo” 1. Credo che a par- tire da questo spunto sia possibile sviluppare un discor- so sul valore privato e pubblico della famiglia naturale fondata sul matrimonio. Felice e Caterina Sturzo sono i genitori di Luigi e Mario Sturzo, ma sono soprattutto buoni modelli di vita fami- liare, sono patrimonio di tutti, come ha scritto Mons. Calogero Peri, vescovo di Caltagirone, nell’introduzio- ≈ ne al testo: “È la ricostruzione della storia domestica di «La famiglia – due cristiani che da sposi, attraverso il loro matrimonio, riconosciuta nella nato nell’amore e con amore, hanno dato vita a una fa- nostra Carta miglia modello di Caltagirone. [...] In questa famiglia, Costituzionale – tutti insieme e ciascuno a suo modo, al di là di tutti gli manca del primo grande diritto di ostacoli e dentro ogni cosa, hanno fatto risplendere di poter dire la sua, 2 amore fedele la ferialità dei giorni” . Esempio privato e attraverso il voto, pubblico, dunque, di virtù morali e di amore. nella democrazia italiana».

ÿ Saper costruire una grande storia d’amore familiare ≈

• Possiamo chiederci, come da qualche tempo fanno mol- ti, se questa storia domestica piena di sforzi abbia un senso nella vita privata e pubblica. O meglio, il gioco vale la candela? La risposta è nella capacità di un uomo e di una donna di sa- per scrivere assieme una storia che supera la banalità del quoti- diano e del provvisorio: “Una storia più grande di loro stessi – per i coniugi Sturzo, ci ricorda Monsignor Peri – eunamore

1 L. e P. Busacca, Amato figlio. Frammenti di vita quotidiana della fa- miglia di Felice e Caterina Sturzo. Effatà editrice, Cantalupa 2011. 2 Ivi, p. 3.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 43 Gaspare Sturzo più forte della loro stessa morte. Essi raccontano per quel che possono, in modo più o meno consapevole, quella storia splendente a cui Dio stesso ha dato inizio” 3. Se volete questa storia potrebbe essere uguale a quella di ogni sana famiglia; una grande storia fatta di amore, generosità, abnegazione, sacrifico. Una palestra continua nell’esercizio dell’a- more per il prossimo. Una storia che le nostre nonne ci hanno raccontato, che con papà e mamma abbiamo vissuto, che con i nostri figli stiamo tentando si scrivere.

ÿ Le ragioni della criminalizzazione della famiglia tradizionale

• C’è da segnalare, però, una contraddizione sociale. Se queste storie sono così importanti per la vita della nostra comunità, perché i modelli delle famiglie buone e sane, sono così trascurati nella cultura nazionale? Alla presentazione di Caltagirone ho definito il libro di Lorena e Pino Busacca, un testo rivoluzionario, perché da qualche tempo in Italia parliamo solo della pato- logia della famiglia, quella moralmente malata, quella in crisi, e la propagandiamo come elemento di presunta normalità. Nella lotta cieca contro questa piccola so- cietà naturale e umana della famiglia, le scarichiamo addosso il rischio e il costo del- la crisi della grande comunità nazionale. I conti sono sempre ben fatti: la violenza in famiglia, il nepotismo familiare, la famiglia clientelare e, infine, il vero top di gamma: la famiglia mafiosa e criminale. Non appena si tenta un’operazione di di- stinguo tra cause ed effetti delle patologie familiari i guru della laicità accusano noi cattolici di sognare sempre l’ideale perfetto della famiglia del mulino bianco. È chiaro che quest’accusa relativista è lo strumento necessario per normalizzare con- cetti diversi di famiglia, come – ad esempio – quella reclamizzata da una catena di distribuzione internazionale di mobili a basso costo che ha scelto di promuovere l’amore omosessuale. Ritengo che la criminalizzazione della famiglia tradizionale appartenga a quella Kultura – sì, proprio con la famigerata storica K di matrice so- cial comunista – che ha reinventato per la nostra Nazione un concetto assoluta- mente negativo come il cosiddetto familismo amorale. O meglio, siamo di fronte a delle sub culture che, per fini autonomi ma spesso convergenti, nel tentativo di un modernismo nichilista tentano di imporsi, a suon di milioni di euro, per demolire l’elemento di coesione della nostra comunità nazionale: la famiglia naturale fonda- ta sul matrimonio. Dopo la riuscita azione di distruzione sulla fiducia nelle istitu- zioni pubbliche e di governo democratico, dopo quella contro le istituzioni econo- miche e religiose, dopo l’attacco alle istituzioni culturali, eccoci giunti al primo anello della catena sociale, distruggere il baluardo: l’istituzione familiare. Venuto meno quest’ultimo avamposto, sarà facile per l’impero delle società finanziarie in- ternazionali, lobbistiche e/o massoniche, vivere sull’arte di dominare il prossimo.

3 Ibidem.

44 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Gaspare Sturzo

Quell’uomo che non ha più nessun valore se non quello del consumo, un nulla nelle mani del dio denaro, regola unica del mondo.

ÿ Individualismo sociale, non genitorialità e tradizione familiare

• Svilirne l’allarme, sostenendo che allo stato delle cose possa essere un fenome- no marginale sarebbe un grave errore, significherebbe non aver compreso il proces- so d’individualismo che il male sta percorrendo nella nostra società. Il Rapporto Eurispes Italia 2011 lancia l’allarme sulla “scelta della non genitorialità” come un preciso segnale che sta tentando di passare sui sistemi mass mediatici vecchi e nuovi. Un preciso segnale della tendenza, sempre in crescita, alla decostruzione graduale della maternità e all’abbattimento del concetto di famiglia. Siamo di fronte a som- movimenti continui e aggressivi rispetto al riconoscimento dei valori insiti nella fa- miglia tradizionale, che riescono – a dire del Rapporto – anche a darsi la parvenza di movimenti organizzati ideologicamente, tra questi i childless eichildfree, cioè i senza figli e i liberi dai figli, dove, alla comune libertà di scelta di essere senza figli, nel secondo gruppo s’individuano i figli come un potenziale elemento di disturbo e una limitazione alla propria libertà personale. Ancora, i Dink (Double income no kids) eiGink (green inclination no kids): nel primo gruppo è rivendicato il diritto di godere un doppio lavoro/stipendio per i due potenziali genitori, liberandosi dal- l’impaccio dei figli che lo renderebbe impossibile; o meglio, maggior propensione all’agiatezza e al benessere individuale con un bilancio economico liberato dal peso e dal costo dei figli; il secondo gruppo sostiene la necessità di non far figli per non infierire sulle precarie condizioni ambientali del pianeta. O meglio, non dobbiamo fare figli per non stressare le risorse ambientali. Questi gruppi di persone si organizzano nella forma ideologizzante e, attraver- so ingenti investimenti economici, sono reclamizzati/promossi dai mass media co- me fenomeno moderno di movimentismo sociale. Nessuno di noi può dire oggi che sviluppo avranno questi ordigni nucleari di denatalità sociale nel futuro italia- no, ma prendendo sul serio le loro istanze, e cercando di prevenire le conseguenze delle loro scelte sbagliate, potremmo già intravedere numerosi temi d’intervento per un’agenda dedicata alla famiglia. Allo stato abbiamo le stime sulla bassa natalità nazionale, seppur sostenuta dagli immigrati, che pone in serio dubbio la capacità di ricambio generazionale. Il nostro è paese che invecchia, guidato da vecchi politici, che non riesce neppure ad affrontare la gestione dell’emergenza anziani. Il sinto- mo, comunque, di quel rallentarsi del costume familiare – già denunciato da don Sturzo negli anni cinquanta espresso anche nel rifiuto di ogni concezione religiosa della vita sociale per coloro che vanno perdendo il senso della moralità privata e pubblica: “Sì che i rapporti extrafamiliari sono resi più facili e tolleranti. A parte l’in- troduzione del divorzio e la facilità della sua applicazione presso molti stati, l’educazio-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 45 Gaspare Sturzo ne stessa della gioventù e la diffusione di teorie e abitudini materialistiche ed edonisti- che, contribuiscono alla dissoluzione della vita familiare” 4. Questi temi hanno trova- to risposte nei tempi passati della Prima Repubblica italiana, sotto l’azione trainan- te della Democrazia Cristiana in difesa della famiglia; il processo sì è invertito sotto la vigenza della Seconda Repubblica, per i noti problemi di crisi economica e fi- nanziaria, ma – tout court – di valori, idealità e progettualità sociale.

ÿ Le politiche a favore della famiglia e il federalismo fiscale

• Oggi si tende a riprendere il tema della famiglia e delle politiche a essa connes- sa, in funzione dell’epocale sopravvenire del Federalismo fiscale. Conosciamo le tesi del prof. Luca Antonini sulla valenza positiva del federalismo fiscale nella forma mu- nicipale, soprattutto quando afferma che gran pregio di questa è legato alla possibi- lità di scelta sulla base del trinomio: “voto, pago, vedo”. O meglio, prima della riforma i cittadini pagavano e votavano, ma non vedevano. Non potevano controllare, né sanzionare l’attività dei governi locali. Secondo Antonini, il federalismo municipale sarebbe l’unico modo per avvicinare il potere al cittadino, per incentivare la classe po- litica a spendere e ad agire in favore della comunità. Ci sarebbe un riscontro diretto e immediato dell’efficienza delle attività svolte dai governi locali, proprio grazie al mec- canismo per cui i cittadini finalmente votano secondo ciò che vedono. Mi sia per- messo sostenere che questo trinomio per la famiglia costituzionalmente protetta non funziona. La famiglia manca di un’autonoma capacità di rappresentanza politica, pa- ga le tasse di solito per mezzo dell’indistinta redditualità genitoriale, non ha una sua legittimazione nella fruizione dei servizi. Se volete, potremmo riformulare il noto motto liberista in «Yes taxation without rapresentation». O meglio, alla famiglia sono imposte delle tasse quando alla stessa non è riconosciuto alcun ruolo autonomo e ri- levante nel potere di scegliere i rappresentanti politici. Ciò ci introduce al tema della crisi della famiglia e della sua relazione con il ruolo della rappresentanza politica. Alcune parole di don Luigi Sturzo possono servire a comprendere bene l’inscindibile legame tra l’istituzione familiare e la sua funzione nella vita pubblica: «La famiglia, concepita individualisticamente, ha perduto l’importanza sociale di un tempo, non influisce che indirettamente sulla vita politica del paese; non ha più garanzie di stabilità eco- nomica; nella limitazione della prole cerca un ripiego per contenere le spese, ripiego che deriva da volontà egoistica. I divorzi sono divenuti frequenti man mano che la fa- miglia si è impoverita spiritualmente; onde questa sarebbe del tutto decaduta se la re- ligione non avesse supplito con la sua disciplina alla mancanza di sostegno e di rileva- mento sociale»5. Per un verso la frase del sacerdote calatino spiega perché anche oggi

4 L. Sturzo, La società, sua natura e leggi, Opera Omnia, Serie I, vol. III., Zanichelli, Bologna 1960, p. 55.

46 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Gaspare Sturzo le istituzioni Famiglia e Chiesa Cattolica siedono sullo stesso banco degli imputati. Ci fa comprendere perché il progetto sociale edonistico e individualista, proponga di liberarci da questi impacci rendendoci – a suo dire – finalmente liberi di scegliere e indirizzando il festante popolo dei consumi verso alla fiera della vanità. Papa Giovan- ni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, del 22 novembre 1981, ha affermato che “Il servizio della società alla famiglia si concretizza nel riconoscimento, nel rispetto e nella promozione dei diritti della famiglia”. Tutto ciò, secondo il numero 253 della Dottrina sociale della Chiesa, richiede la realizzazione di autentiche ed effi- caci politiche familiari con interventi precisi in grado di affrontare i bisogni che deri- vano dai diritti della famiglia come tale6.

ÿ Diritti politici della famiglia e politiche familiari

• Infatti, nella DSC si può leggere che «Il riconoscimento, da parte delle istituzio- ni civili e dello Stato, della priorità della famiglia su ogni altra comunità e sulla stessa realtà statuale, comporta il superamento delle concezioni meramente individualistiche el’assunzione della dimensione familiare come prospettiva, culturale e politica, irri- nunciabile nella considerazione delle persone. Ciò non si pone in alternativa, ma piut- tosto a sostegno e tutela degli stessi diritti che le persone hanno singolarmente. Tale pro- spettiva rende possibile elaborare criteri normativi per una soluzione corretta dei diver- si problemi sociali, poiché le persone non devono essere considerate solo singolarmente, ma anche in relazione ai nuclei familiari in cui sono inserite, dei cui valori specifici ed esigenze si deve tenere debito conto»7. Ora possiamo dire che un progetto sociale esiste se c’è una politica pubblica che gli consenta di affermarsi. La politica pubblica non cresce sotto l’albero della cucca- gna, ma è oggetto di programmazione nazionale e locale, secondo un evidente con- fronto d’interessi legati alla rappresentazione legittima degli stessi. Chi ha ricevuto il potere dalle elezioni, in una normale democrazia, è in grado di scegliere e decidere co- me e dove, raccogliere e investire le risorse pubbliche. Ciò può spiegare, a mio avviso, il lento ripiegarsi degli articoli costituzionali sul riconoscimento della famiglia, sulle agevolazioni economiche alla formazione della famiglia, l’adempimento dei suoi compiti e l’effettività della libertà economica nella libera scelta del diritto allo studio. Ciò può farci comprendere le cocenti delusioni del quoziente familiare e le frementi attese sul fattore famiglia. A mio avviso, per cambiare decisamente rotta e per avere delle politiche a favore della famiglia occorre che questa possa avere un peso diretto sul-

5 Ivi, p. 63. 6 Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, p. 142. 7 Ibidem.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 47 Gaspare Sturzo la vita politica nazionale, garantendole una classe dirigente e di governo sensibile a questi temi. Non è un problema di schieramenti, o solo di questi. La riprova è nel va- lore potenziale della breve e significativa esperienza del Family day e del rapido pro- cesso di cooptazione politica dei suoi coordinatori che ne ha stroncato ogni capacità decisionale d’indirizzo sociale e, dunque, ogni velleità di natura politica.

ÿ Conclusioni: diritto di voto, riforma elettorale e norme costituzionali

• Insomma, è forse il tempo di cominciare a riflettere che se pago di più per la tassa sui rifiuti urbani, perché il mio nucleo familiare è più grande, come la superfi- cie dell’alloggio che ci ospita, forse potrebbe essere giusto che il mio voto, come geni- tore, alle elezioni politiche o amministrative possa avere un peso maggiore rispetto al voto del single. Allora e solo allora, il trinomio federalista scelgo la classe politica, pago le tasse e vedo i servizi, sarebbe salvo. Se a causa del mio nucleo familiare pago percentualmente di più nell’uso di pessimi servizi pubblici di cui la mia famiglia usufruisce come asili nido, autobus, scuola, università, sanità, smaltimento dei rifiu- ti e così via, potrò avere riconosciuto il diritto a rappresentare anche quei cittadini minori di età, cioè i miei figli, che sono costretti a doversi accontentare di avere po- co, mentre io pago tanto, rispetto ai single e alle mono famiglie. Sarebbe giusto rico- noscere a questi cittadini, componenti della famiglia e della comunità sociale, un di- ritto di rappresentanza, da esercitare secondo i canoni della democrazia, per poter incidere sul ricambio della classe politica. In questo sta l’elemento di contraddizione costituzionale che riconosce i diritti della famiglia, ma le nega all’articolo 48 della Costituzione ogni capacità di voto. Occorre integrare il tema della riforma elettorale introducendo il diritto della famiglia nell’ambito dei rapporti politici. O meglio, come arricchire le disposizioni di cui all’articolo 48 della Costituzione sui diritti elettorali dei cittadini con la relazione del peso elettorale della famiglia. Non credo che possa essere considerato un problema insuperabile di tecnica legislativa in una Nazione che ha reinventato le liste bloccate, i premi di maggioranza, i listini del pre- sidente, la cooptazione, il voto disgiunto e i quesiti referendari del sì che vuol dire no. Potrà sembrare una provocazione, ma la famiglia - come cellula prima relaziona- le riconosciuta nella nostra Carta Costituzionale - manca del principio di effettività nel primo grande diritto, quello di poter dire la sua, attraverso il peso del voto, nella democrazia italiana. Una situazione risolvibile attraverso il noto meccanismo eletto- rale del voto disgiunto, che romperebbe l’egualitarismo tra due cose che sono diver- se, il voto da singolo cittadino e quello da genitore rappresentante del nucleo fami- liare, di cui all’articolo 29 della Costituzione. Non si toglierebbe nulla ai primi, mentre si aggiungerebbe una nuova dinamica alla democrazia italiana con il ricono- scimento della soggettività politica della famiglia. ÿ

48 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Cinque opzioni per una cultura di governo

Elaborare una nuova cultura di governo del Paese – e GIUSEPPE SANGIORGI una conseguente proposta di governo – che abbiano la Saggista necessaria organicità e coerenza con un’ispirazione cri- stiana laicamente e autonomamente espressa sul terre- no politico, significa affrontare una mole di problemi il cui sviluppo e le cui connessioni formino il quadro d’insieme di ciò che riteniamo essenziale per la società ≈ italiana dei nostri giorni e la sua proiezione nel contesto «Stiamo vivendo internazionale. Per fare questo è necessario un confron- una nuova epoca to preliminare tra le opzioni di fondo che devono carat- di cambiamento terizzare questa visione d’insieme. Qui di seguito ne che chiama in proponiamo cinque perché su di esse possano esserci causa la capacità progettuale di una valutazione comune e un’aggregazione di intenti. ciascuno, sui problemi dello sviluppo e della organizzazione ÿ Modelli in crisi dello Stato […]. L’obiettivo […] è quello di dare vita • La premessa dalla quale partire è che mentre inizia il se- partendo dal condo decennio del secolo, un ciclo e un modello di sviluppo basso a una del Paese sono giunti alla fine del loro corso, sempre più in rinnovata cultura affanno e incapaci di dare le risposte indispensabili alle nuove del governo di ispirazione questioni poste dalla sfera del lavoro e delle imprese, dalle ur- cristiana». genze sociali, dalla condizione giovanile, dall’immigrazione, dalle innovazioni tecnologiche, dalla globalizzazione, dallo ≈ straordinario sviluppo delle comunicazioni che in questi anni ha affiancato un nuovo mondo virtuale a quello reale. Quella che abbiamo di fronte non è una crisi congiuntura- le ma strutturale. È un intero modello degli ultimi decenni, culturale, politico, istituzionale, di relazioni sociali che non regge più all’urto dei cambiamenti in corso. La crisi va affronta- ta dunque con un paradigma nuovo di analisi e di proposte. Perciò, girata la boa dei 150 anni dell’unità del Paese sta a tutti Giuseppe Sangiorgi noi interrogarci su quale idea di futuro la società italiana esprime oggi con le sue dina- miche e le sue stesse contraddizioni. Compiere una tale riflessione significa innanzitut- to chiederci quale è lo stato della democrazia del Paese e quali sono le sue prospettive. Una democrazia che i cattolici hanno contribuito a edificare lungo un percorso complesso, che nel corso del tempo li ha resi partecipi e protagonisti sul terreno civile attraverso i loro valori e i loro riferimenti, a iniziare dagli orientamenti espressi dalla Dottrina Sociale della Chiesa e dal popolarismo sturziano. Questo percorso non può mai dirsi concluso. Esso ha avuto fasi e stagioni diverse, come quelle politiche del cat- tolicesimo democratico, in un continuo intreccio con gli eventi storici del Paese.

ÿ Una nuova epoca

• Oggi stiamo vivendo una nuova epoca di cambiamento che chiama in causa la capacità progettuale di ciascuno sui diversi problemi dello sviluppo e della orga- nizzazione dello Stato. L’enorme livello di evasione fiscale annua – oltre 150 mi- liardi di euro – la burocratizzazione e il costo insopportabile della macchina pub- blica e dei servizi sociali, la perdurante congiuntura economica danno la misura di uno squilibrio strutturale del Paese. Tutto ciò provoca un grande disorientamento, ma deve generare anche un desiderio di rinascita e un ritrovato senso etico e civico. • I conflitti tra i diversi poteri istituzionali, il susseguirsi degli scandali, la cor- ruzione, l’indecenza dei comportamenti personali di uomini pubblici che hanno finito con il compromettere l’immagine dell’intero il Paese, l’autismo di partiti chiusi dentro le loro logiche autoreferenziali, l’oscillazione fra una prospettiva sta- tuale unitaria e una federalista poste in contrapposizione tra loro non aiutano a fa- re la chiarezza necessaria sui tanti aspetti che coinvolgono la vita quotidiana, le spe- ranze e il destino dei cittadini.

ÿ Proposta di un nuovo cammino: la “Carta d’Intesa”

• Per tali motivi un primo gruppo di soggetti sociali cattolici da tempo legati all’appuntamento annuale della “Tre giorni di Toniolo” di Pisa San Miniato, han- no deciso di dare vita a una Carta d’Intesa per un coordinamento della loro presen- za e delle loro iniziative ed hanno condiviso a Prato il 7 maggio 2011, intorno al vescovo Gastone Simoni, un documento in tal senso da portare all’attenzione di al- tri gruppi e di altri soggetti che hanno a cuore anch’essi il bene comune del Paese (vedi Civitas n. 3/2010 - n. 1./2011). Le opzioni che proponiamo muovono dagli impegni presi in questo docu- mento; ne rappresentano un inizio operativo. Esse riguardano cinque aree temati- che – democratica, istituzionale, economica, culturale educativa e politica – affin-

50 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Sangiorgi ché le risposte ai problemi posti, anche attraverso la predisposizione di specifiche schede di analisi e l’apporto di contributi individuali e collettivi, diano vita nel lo- ro insieme a una aggiornata cultura di governo posta al servizio di una nuova fase di sviluppo del Paese. Soltanto da una rinnovata cultura di governo potrà scaturi- re infatti una proposta di governo da portare sul terreno della politica e dei partiti.

• Opzione democratica Perché non resti una enunciazione sempre più formale e retorica la democra- zia – che ha un inscindibile legame con l’essenza stessa del cristianesimo, oggetto di uno specifico approfondimento – va concretamente concepita e sostenuta come il quotidiano riferimento deliberativo del Paese. La democrazia che intendiamo af- fermare è quella rappresentativa delle istituzioni centrali e locali, e insieme quella partecipativa dei corpi sociali ai più diversi livelli. L’incontro e la collaborazione tra questi due soggetti della democrazia avviene attraverso gli anelli di congiunzione della sussidiarietà e della solidarietà: una nuova alleanza in una logica cooperativa e non più antagonista fra i protagonisti istituzionali e quelli sociali. La sussidiarietà è la costruzione dal basso del governo del Paese. Altrettanto lo è la solidarietà se essa è intesa non come mera redistribuzione di risorse ma come virtù produttiva e dinamica. In tale modo e alla luce dei nuovi tempi e delle nuove urgenze – pensiamo alla domanda di cittadinanza posta dagli immigrati divenuti stabilmente in pochi decenni oltre cinque milioni – va reinterpretato il binomio democrazia e giustizia sociale. Lo stesso squilibrio strutturale rappresentato oggi dai costi della previdenza e dell’assistenza sociale non è superabile se non attraverso una logica organizzativa fondata sulla sussidiarietà e sulla solidarietà, con un nuovo protagonismo dei corpi intermedi e una concezione del rilievo pubblico dei biso- gni al quale non debba corrispondere di per sé meccanicamente la statalizzazio- ne/burocratizzazione della risposta ai bisogni.

• Opzione istituzionale Strettamente legato al tema della democrazia c’è quello delle istituzioni. L’a- genda istituzionale è dominata oggi dalla prospettiva del federalismo. Che cosa si intende per federalismo? La risposta chiama in causa i contenuti del nuovo titolo quinto della seconda parte della Costituzione approvato dal Parlamento con legge costituzionale nel 2001. Una legge delega del 2009 relativa al cosiddetto “federali- smo fiscale” ne ha rappresentato una prima fase attuativa attraverso i relativi decre- ti legislativi, ma essa non esaurisce la portata innovativa della riforma del titolo quinto della Costituzione, rispetto alla quale resta aperta la duplice opzione di ap- prodo verso un inedito federalismo o invece verso un più marcato regionalismo, secondo il disegno originario della Costituzione repubblicana. Ciò che nei prossimi anni sarà dunque in gioco è la prospettiva unitaria posta dall’articolo cinque della Costituzione (“La Repubblica, unica e indivisibile, rico-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 51 Giuseppe Sangiorgi nosce e promuove le autonome locali…”): il riconoscimento e lo sviluppo più am- pio, particolarmente sentito dai cattolici, del decentramento e delle autonomie lo- cali dunque, ma lungo un percorso che è insieme e dentro il processo unitario, non fuori e contro il processo unitario del Paese. Il 2011 in particolare si è caratterizza- to per un contrasto sempre più dirompente sull’unità del Paese. Incalzata dal Capo dello Stato su questo tema la Lega Nord ha evocato nel settembre scorso oltre alla secessione, il diritto all’autodeterminazione delle regioni settentrionali. Sarà questo il terreno dello scontro.

• Opzione economica Le delusioni storiche derivanti dal collettivismo e da un liberismo sempre più finanziario e speculativo pongono il tema di un’economia civile di mercato che sappia comporre finalmente il profitto e la solidarietà: è questa la scommessa di una rinnovata cultura di governo che voglia tradursi in una politica economica vol- ta al bene comune e ad un armonico sviluppo rispettoso della dignità umana, così come delle risorse naturali e ambientali di ciascun Paese. La crisi economica italia- na si inserisce con le sue peculiarità in un contesto di crisi internazionale che non a caso vede risparmiata in notevole misura la Germania, la nazione europea che da oltre sessanta anni ha compiuto la scelta dell’economia sociale di mercato. L’enciclica Caritas in Veritate ha fatto di questa forma di economia una indica- zione su scala planetaria: “… Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole…” (punto 46). La carità dun- que, intesa come valore e come mano stavolta non invisibile del mercato; l’etica in- tesa come “fattore intrinseco delle leggi economiche”, secondo quell’affermazione di Giuseppe Toniolo che ha informato nel profondo il magistero della Chiesa del- l’intero Novecento caratterizzando questa istituzione come portatrice di sapienza sociale. Il primo festival della Dottrina Sociale della Chiesa realizzato a Verona a metà settembre 2011 dai circoli Toniolo di don Adriano Vincenzi ha posto l’accen- to sugli aspetti concreti di questa prospettiva. La parola d’ordine era: basta lamen- tarsi. A fine settembre, nella sede di Civiltà Cattolica Stefano Zamagni ha calcolato che se ci fosse il necessario sostegno di politica economica, in Italia potrebbero na- scere in breve tempo 50 mila nuove imprese sociali che una logica puramente capi- talistica è incapace di realizzare.

• Opzione culturale educativa Si parla comunemente oggi di “emergenza educativa”. Lo si fa rispetto ai giova- ni e al loro disorientamento sui modelli da seguire; rispetto a un devastante diffon- dersi di consumo di droghe tra gli stessi giovani; rispetto a comportamenti sociali improntati a forme esasperate di individualismo e di relativismo; rispetto a innova- zioni tecnologiche che vedono fasce intere di popolazione emarginate dai nuovi processi di sviluppo. Gli esempi sono innumerevoli e riguardano i più diversi

52 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Sangiorgi aspetti della vita civile. Un antico patrimonio di legami comportamentali, affettivi, relazionali si è consumato e ad esso non si sa che cosa sostituire nei comportamenti individuali e collettivi: è un problema di identità personale e di identità nazionale anche in rapporto alla dimensione europea nella quale viviamo. Contro le paure che derivano da tutto questo, contro la rassegnazione che spes- so ne consegue l’emergenza educativa va trasformata in una sfida educativa: signifi- ca porre al centro l’innovazione sociale come fattore di sviluppo, per ritrovare un nuovo e condiviso senso della nostra cittadinanza e della nostra appartenenza a una storia comune. I due progetti politici di centro destra e di centro sinistra che si sono confrontati negli ultimi vent’anni nel Paese, nei loro valori di riferimento sono stati sostanzialmente acattolici. Il debito pubblico è continuato a salire, ma insieme con esso sono cresciute le disuguaglianze. Il dato demografico è il riscontro più evidente di un Paese che non crede al proprio futuro e dunque non investe in se stesso.

• Opzione politica La politica è di per sé dimensione internazionale dei problemi europei e mon- diali. Una cultura di governo che non sia permeata integralmente da questa visione è destinata ad arenarsi nelle secche del provincialismo. Tanto più per i cattolici, per i quali la politica è esercizio di carità e la carità, insegna Antonio Rosmini, è per sua natura universale. Dunque una tale visione internazionale dei problemi è la prima riaffermazione da compiere. C’è poi da considerare l’aspetto dei partiti, che della politica sono il principale strumento. Rispetto al modo attuale di elaborazione delle loro proposte, di selezione dei quadri, di democrazia interna e di finanziamento del- la loro esistenza, i partiti rappresentano oggi il lato oscuro della democrazia italiana. Questo essere diventati il lato oscuro della nostra democrazia è il punto nevral- gico della crisi. Occorre ripartire dall’articolo 49 della Costituzione determinando l’aspetto economico e la natura giuridica che ai partiti deriva dal loro ruolo: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Una “operazione verità” su ciò che il Paese non può più permettersi di essere, vivere di rendite e di consumi invece che di lavoro e di investimenti, deve iniziare da ciò che i partiti per primi non possono più essere: gerarchie oligarchiche che vivono di cooptazione invece che di ricambio reale del proprio personale e di maturazione condivisa dei propri progetti. La democrazia è il tempo della decisione, spiegava Aldo Moro: è il tempo necessario perché una proposta guadagni il necessario consenso per diventare ini- ziativa politica. Questo non può non riflettersi sul modo di essere dei partiti. Ecco dunque le cinque opzioni: una concezione della democrazia che sia insie- me rappresentativa e partecipativa; uno sviluppo delle autonomie che si svolga dentro e insieme al processo unitario e non fuori e contro di esso; una riconversio- ne dell’apparato produttivo nella direzione dell’economia civile di mercato; un nuovo e condiviso senso di cittadinanza e di appartenenza come sfida culturale

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 53 Giuseppe Sangiorgi educativa; la politica come dimensione internazionale e partiti che ne siano stru- menti trasparenti, con una legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere e rifondi il “patto parlamentare” del Paese. L’obiettivo posto dalla Carta d’Intesa condivisa a Prato è quello di dare vita partendo dal basso a una rinnovata cultura di governo di ispirazione cristiana. La gerarchia ecclesiastica, anche con le recenti e ripetute sollecitazioni espresse dal ver- tice della CEI è tornata a incoraggiare – dopo anni di atteggiamento diverso, se non ostile rispetto a una tale eventualità – un percorso di assunzione autonoma di responsabilità dei laici impegnati sul piano civile. Le opzioni proposte qui, se con- divise sono al tempo stesso la cornice entro la quale lavorare alle schede di ap- profondimento proposte dalla “Tre giorni di Toniolo” di fine 2011, e un concreto passo di aggregazione nella direzione posta dalla Carta d’Intesa di Prato.

ÿ

54 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 EUROPA

ÿ Un processo irreversibile. L’Europa unita verso gli “Stati Uniti d’Europa” - di Amos Ciabattoni

ÿ Credere nell’Unione europea. Sfida a scetticismo e populismo - di Flavio Mondello Intervista a cura di Amos Ciabattoni

ÿ Il modello sociale europeo. Un fattore decisivo per superare la crisi - di Marco Ricceri

ÿ Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura per l’unità europea - di Laura Balestra

Un processo irreversibile L’Europa unita verso gli “Stati Uniti d’Europa”

• Il problema maggiore con cui si è confrontata l’Unione europea è la crisi fi- nanziaria, economica, occupazionale, innestatasi oltre Atlantico, che vede duri at- tacchi speculativi ai debiti sovrani di Paesi membri dai bilanci in disordine e deter- mina drammatiche psicosi di fallimenti statali, di crollo dell’euro e dell’intero pro- cesso di integrazione europea, con accuse alle istituzioni EU di incapacità di af- frontare correttamente la gravità della situazione e con pesanti ricadute sulla cresci- ta e sull’occupazione. Purtroppo la psicosi è alimentata da potenti forze finanziarie extra Zona euro; da una colpevole insufficiente ricaduta informativa delle decisioni di severi e corag- giosi provvedimenti anti crisi assunti a Bruxelles dai capi di Stato e di Governo dei Paesi membri che adottano l’euro; dalle difficoltà, in alcuni casi, di farle avallare dalla stessa maggioranza governativa in Parlamento; da preoccupazioni elettorali che alimentano dei ritardi decisionali anche se in definitiva non li impediscono; da dichiarazioni sprovvedute di leader politici; dal proliferare di dichiarazioni populi- ste ed euroscettiche. Ci si deve domandare perché non si è affrontata la decisione, impedita per lun- go tempo, a cominciare dalla firma del Trattato di Roma, di instaurare un governo europeo dell’economia affiancato a quello della moneta unica. Governo con ben definite procedure annuali condizionanti le proposte nazionali del bilancio pubbli- co al controllo collettivo comunitario; all’obbligo di rispettare le indicazioni decise in comune per riportare ordine nei conti pubblici; alla imposizione di severe puni- zioni sufficientemente automatiche per gli inadempimenti; alla unanime decisio- ne, anche se sofferta da parte del maggior contributore, la Germania, ma comun- que nel suo interesse, di impedire solidariamente il fallimento di uno Stato mem- bro dal debito sotto violento attacco speculativo; la creazione di appositi meccani- smi intergovernativi dell’Eurozona per un aiuto condizionato, praticamente un Fondo monetario europeo; la salvaguardia ad ogni costo dell’Euro e dell’Unione economica e monetaria. Si imputa d’altra parte il rischio di fallimento dell’Unione soprattutto a una mancanza di un’Europa politica sottovalutando il fatto che con le varie politiche comuni, con il governo europeo della moneta e dell’economia, con la libera circo- lazione dei cittadini, con la carta dei diritti fondamentali, si crea un legame indis- solubile tra i cittadini e gli stati membri nel rispetto delle identità di ciascuna na-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 57 Amos Ciabattoni zione partecipante come in un contesto di Confederazione, e nella prospettiva di un continuo progresso verso una futura costituzione europea: in sostanza verso gli “Stati Uniti d’Europa”.

• È innegabile che lo “stato” del processo di unificazione europea costituisce oggi una emergenza seria e vasta, almeno quanto sono vasti i suoi confini. Ma il suo assetto di fondo e soprattutto i tanti effetti positivi prodotti dalle sue regole, non consentono che si parli di “crisi” demolitoria. Anche perché il processo unifi- catorio ha ormai assunto carattere di irreversibilità che penetra, sebbene con spes- sori diversi, nei destini di tutti i ventisette Paesi aderenti. E nei rapporti tra Paesi e Continenti. E quindi del mondo intero.

• Appare però necessario e urgente rivedere le “Regole fondanti” per aggiornarle all’evoluzione dei tempi e riparare, se così si può dire, ad alcune carenze di partenza. In particolare quelle che ancora non hanno consentito all’Unione Europea di dotar- si di una Costituzione in grado di far progredire l’esigenza di una unione politica anzitutto alla necessità che gli Stati debbano commettere alcune sovranità che alla lunga appariranno sempre meno compatibili con il concetto di “Stati Uniti”.

• In particolare: – l’adesione ad un sistema economico di gestione comune sostenuto da una pa- rallela politica di gestione delle risorse e delle potenzialità finanziarie; – la delega per una politica comune della “diplomazia”, in grado di rendere effi- caci i rapporti con il resto del mondo e far assumere all’Europa il ruolo di po- tenza che conta. Così dicasi per un sistema comune di difesa; – le regole per indirizzi comuni di politica “sociale”, necessarie per l’equità e la giustizia per recuperare i dislivelli che in tale campo esistono e perdurano tra i paesi dell’Unione: – la creazione e diffusione di una “Cultura” che sostenga e alimenti una identità comunitaria dei Paesi aderenti, della ricchezza dei patrimoni e delle tradizioni che la Storia ha consentito di accumulare ad ognuno di essi.

• Chiaramente, dinnanzi a tali auspicati indispensabili sviluppi, si pone il pro- blema di come procedere. Le strade che vengono indicate sono diverse, come di- versi sarebbero gli effetti che produrrebbero. Tra esse: il cambiamento (adeguamento) dei Trattati – una Europa a “doppia velocità” – la rinuncia alla unanimità delle decisioni – e altri orientamenti. La ricerca stessa, comunque, è un’indicazione di volontà a resistere, esistere e dare maggiore forza all’unità del Continente. In sostanza a considerare “irreversibi- le” il processo.

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• «Civitas» offre sull’Europa alcuni aspetti del suo complesso esistenziale, con animo volto all’ottimismo e alla convinzione della irreversibilità del processo che ha per meta gli “Stati Uniti d’Europa”. Il contributo offerto da Flavio Mondello rifà la storia del cammino percorso e ne spiega le luci, le ombre, le prospettive ma soprattutto il lavoro che è stato fatto e che è in cantiere, per dare una identità solida, moderna ed efficace all’Unione. Una ricostruzione nutrita dell’ottimismo di uno studioso che da sempre segue, passo dopo passo e giorno dopo giorno, la vita e i progressi dell’epocale costruzione che la storia impone e asseconda. Il saggio di Marco Ricceri punta sulla necessità di adottare un modello sociale europeo, indicandolo come fattore legante e decisivo per superare la crisi. L’articolo di Laura Balestra ripropone la necessità di una Cultura unificante per l’identità e la forza dell’Unione, nutrita della linfa stessa di cui si nutrono le diffuse radici della millenaria storia del continente. Il tutto, per contribuire a consolidare l’ottimismo e la speranza nei traguardi ai quali mira la grande impresa che la storia commette in modo irreversibile ai popoli della grande Europa. E far conoscere meglio la storia del “sogno” dell’Europa unita, farla diventare concreta realtà, esserne fieri e consapevoli partecipi come italiani. Amos Ciabattoni

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Credere nell’Unione Europea Sfida a scetticismo e populismo

Intervista a Flavio Mondello* acuradiAmos Ciabattoni

«Civitas»: L’ideale dell’unificazione europea ha visto, dall’immediato dopo- guerra, l’Italia tra le nazioni più convinte e decise. L’opera di De Gasperi, a fian- co di Adenauer e di Schuman è stata decisiva per dare vita alle prime istituzioni comunitarie sullo sviluppo delle quali si è innestata l’intera costruzione della unione continentale. Eppure, nonostante questo patrimonio di meriti, il nostro Paese non perce- pisce ancora appieno l’importanza e la vitale necessità dell’Europa unita e appare marginale nella guida delle relative istituzioni. È una realtà questa oppure una sensazione? Nel primo caso è possibile una spiegazione?

Flavio Mondello: Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale sono fal- liti vari tentativi degli Stati Uniti di far decidere da una entità unitaria europea la ripresa economica di una Europa che occorreva far rinascere dalle spaventose di- struzioni belliche in particolare con gli aiuti del Piano Marshall (1947). D’oltre atlantico si voleva anche scongiurare un’avanzata del comunismo sovietico, dato che Mosca aveva rifiutato l’invito a questa coesione politica e mirava a comunistiz- zare l’Europa occidentale come aveva già fatto con l’Europa orientale. I Paesi dell’Europa occidentale, allora, non erano ancora maturi per una tale esperienza unitaria. La Francia, tramite l’ispiratore Jean Monnet e l’uomo di potere Robert Schu- man, Ministro degli Esteri, preoccupati del rischio di un ritorno sulla scena euro- pea di una Germania agguerrita e constatati i limiti della capacità francese di risol- levare da sola le sorti dell’Europa, ha reagito lanciando il 9 maggio 1950 una ini- ziativa più limitata in ampiezza ma più efficace, offrendo ad Adenauer, Cancelliere di un Paese vinto, di sedere allo stesso tavolo dei vincitori per mettere in comune gli elementi base della guerra: il carbone e l’acciaio e quindi per controllare anche i “Baroni” della Rhur, così da rendere impossibili ulteriori tragici conflitti intraeuro- pei e garantire una pace duratura. Ottenuto un immediato consenso dal Cancelliere tedesco, Parigi ha allargato l’invito ai Paesi Europei interessati ed ha subito ottenuto un convinto e deciso so-

* Coordinatore del Gruppo dei 10, Docente al Collegio Europeo di Parma.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 61 Flavio Mondello stegno dell’Italia di De Gasperi insieme a quella dei tre piccoli Paesi del Benelux: Olanda, Belgio e Lussemburgo. È così nata col Trattato di Parigi del 1951, anche superando talune difficoltà, la prima Comunità Europea, quella del Carbone e dell’Acciaio, gestita da una Alta Autorità sopranazionale di contenuto economico e con la prospettiva di una inte- grazione politica europea, da raggiungere per tappe successive che consolidassero sempre più ampie solidarietà tra i partner. Nel centro del potere legislativo della CECA Francia e Germania avevano cia- scuna due Membri dell’Alta Autorità, mentre l’Italia ed i singoli Paesi del Benelux ne avevano uno ciascuno. Il carattere sopranazionale ed autoritario della CECA ha consentito di smantel- lare, per questi 2 prodotti, incrostate barriere commerciali tra i 6 Paesi e di intro- durre la libera concorrenza interna sia tra produttori carbonieri che siderurgici. I 6 Governi avevano allora un ruolo inferiore a quello sopranazionale dell’A.A. e l’Assemblea Parlamentare svolgeva un compito solo consultivo, mentre agiva con pieni poteri la Corte di Giustizia europea.

L’aspirazione di una Europa unita politicamente –Icittadinidei6Paesifondatori,piùchedagliastrusi aspetti tecnici di questa prima Comunità, (che pur prometteva sviluppo e benessere, ma che era abbastanza difficile da seguire nei suoi aspetti operativi), si dimostravano interessati e credeva- no nella possibilità di una evoluzione verso il mito di una Europa politicamente in- tegrata, da costruirsi non certo in una sola volta né tutta insieme, ma con progres- sive realizzazioni di solidarietà e rinunce di sovranità. A livello politico degli Stati membri, tuttavia, non si condivideva completa- mente l’accelerazione di questa aspirazione dei cittadini: infatti non si era ratificato nel 1952, a seguito del determinante no francese e senza neppure più la pronuncia del Parlamento italiano, il completamento dell’iniziativa economica con un imme- diato sostanziale passo avanti sul piano militare attraverso il Trattato istitutivo della Comunità Europea della Difesa (CED). In questo, De Gasperi personalmente, era riuscito ad inserire un esplicito riferimento al futuro traguardo politico europeo. Tale fallimento aveva trascinato subito dopo, nel 1953, la mancata approvazio- ne di un Trattato costitutivo della Comunità Politica Europea che prevedeva la for- mazione di Istituzioni politiche soprannazionali. Fin dagli anni 50 l’aspirazione ad una Europa politica unitaria si urtava contro l’impossibilità di una troppo rapida realizzazione. Anche oggi, a distanza di sole 6 decine di anni e nonostante voci la sollecitino nell’immediato, sembra concreta- mente possibile solo una lenta anche se continua maturazione, attraverso successivi passi avanti dell’integrazione di quella che ora si definisce Unione Europea. Passi che si stanno puntualmente realizzando ad ogni superamento di inevitabili crisi di percorso.

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Tuttavia è il contenuto di questa Unione Europea che sta diventando sempre più politico oltre che economico.

«C.»: Il “Trattato di Roma” sembrò coronare in tutto e per tutto il sogno unita- rio. Poi però lo slancio ha fatto registrare ostacoli che ne hanno modificato il per- corso. Sull’unificazione “politica” come premessa, ha preso via via il sopravvento l’aspetto economico, legato soprattutto all’introduzione della “moneta unica” e il progressivo allargamento che porta l’Unione agli attuali 27 membri non è avvenu- to disponendo di una “Costituzione” con principii, diritti e doveri di ciascuno Sta- to aderente. Quanto ha influito questo aspetto sulla costruzione dell’Unione che di fatto ha lasciato agli Stati quasi totale autonomia, allontanando la prospettiva so- gnata degli “Stati Uniti d’Europa” e rafforzando a volte pervicaci nazionalismi?

F.M.: Il Trattato di Roma del 1951 ha consacrato il successo della prima Co- munità economica limitata al Carbone ed all’Acciaio ed ha allargato il campo d’a- zione creando la Comunità Economica Europea (CEE) con sede a Bruxelles, com- petente di una ampia gamma di attività economiche. L’obiettivo principale è dive- nuto la realizzazione di un “mercato comune”. La CEE ha tuttavia dimostrato una forte reticenza su tre politiche fondamenta- li: quella dei bilanci pubblici nazionali e più in generale delle politiche economiche nazionali, quella monetaria e quella sociale che hanno conservato il ruolo decisio- nale essenzialmente nazionale. La politica sociale era da considerarsi, a livello di ogni Stato membro, solo una conseguenza del processo di integrazione del merca- to. Nulla sulla Politica estera e di difesa e su quelli che si definivano Affari interni. Nessun riferimento ad un traguardo di Europa politicamente unita. In sostanza tutto era ancora concentrato sul mercato. Ma l’aspetto regressivo,rispetto al Trattato CECA, è stato la soppressione della Alta Autorità e quindi della sopranazionalità. I Governi degli Stati membri hanno ripreso il loro primato nel processo decisionale comunitario. Il nuovo metodo decisionale della CEE, che è pur sempre un rilevante e rivolu- zionario passo avanti rispetto a quello degli Stati membri, prevedeva che: la Com- missione ha il diritto dovere di avanzare proposte ed ha, su delega del Consiglio, il potere esecutivo, il Consiglio (composto dai rappresentanti dei Governi) ha il po- tere legislativo ed il Parlamento Europeo esprime solamente Pareri anche se può rovesciare la Commissione.

Crisi e progressi – Di Europa politica non si parla sul piano istituzionale ma solo nelle aspira- zioni di taluni illuminati.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 63 Flavio Mondello

Durante il processo di integrazione europea in corso sono intervenute varie cri- si, anche gravi, che sono state risolte, in gran parte, con sostanziali passi avanti del- la costruzione europea: ampliamento sia delle materie da integrare comunitaria- mente, sia del numero degli Stati che hanno chiesto l’adesione alla Comunità, sia del ruolo delle Istituzioni. Il Parlamento Europeo anziché comprendere Parlamentari nazionali è stato eletto a suffragio diretto, anche se non a livello comunitario, in ciascun Paese membro con procedure elettorali nazionali, rappresentando legittimamente i citta- dini. Inoltre, ed è l’aspetto più rilevante, il Parlamento dopo anni di semplice ruolo consultivo, ha finalmente acquisito un potere legislativo che condivide, anche se ancora non su tutte le materie, con il Consiglio rappresentante i Governi degli Sta- ti membri e che, tuttavia, rimane il principale legislatore comunitario. Per queste evoluzioni sono state necessarie numerose revisioni del Trattato di Roma e la Comunità economica si è trasformata in Unione Europea.

Il ruolo dei Governi e dei Parlamenti nazionali – I Capi di Stato e di Governo si sono responsabilizzati personalmente in una nuova Istituzione comunitaria: il Consiglio Europeo che dal 1983 avanzava, ed oggi incomincia ad imporre dettagliatamente,i propri orientamenti alla Commissione, al Consiglio ed al Parlamento Europeo. Il metodo legislativo detto “comunitario”che assegna alla Commissione il potere-dovere di proporre le leggi UE sta evolvendo: si introduce un ruolo determinante degli Stati membri considerato da molti come “Processo intergovernativo”. Tuttavia il Presidente del Consiglio Europeo sta av- viando questa evoluzione a causa dei problemi cruciali posti dalla grave crisi econo- mico finanziaria internazionale che coinvolge severamente l’intera Unione Europea, ma esercita questo potere tenendosi in stretto contatto con la Commissione. Le decisioni comunitarie riflettono, attraverso compromessi finali, le capacità negoziali e di ricerca del consenso ricercando opportune alleanze, di ciascuno dei massimi esponenti politici degli Stati membri. Non sempre, a differenza di quanto era intervenuto agli inizi dell’Unione Economica Europea, qualcuno dei “grandi” Paesi ha recentemente saputo sviluppare le proprie potenzialità Non dovrebbero però esserci alibi per deresponsabilizzarsi dalle decisioni assunte dal Consiglio Eu- ropeo quando il leader rientra nel proprio Paese. Fatto questo estremamente importante perché ciascun Capo di Stato e di Go- verno deve sentirsi, di fronte al proprio Paese, responsabile di quanto si decide nel Consiglio Europeo, così come ogni Ministro, a seconda della competenza, è re- sponsabile personalmente della decisione collettiva in Consiglio che di norma, at- tualmente, si prende a maggioranza, anche se in pochi casi ancora all’unanimità. Anche i Parlamentari europei, quando esercitano il loro potere colegislativo col Consiglio, devono sentirsi responsabili di fronte ai loro elettori delle decisioni as- sunte nell’Assemblea parlamentare con voto a maggioranza.

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«C.»: Quali sono stati i principali nuovi membri della costruzione Europea dopo 6 Paesi fondatori? L’apertura a Paesi dell’Europa occidentale, soprattutto al Regno Unito, che non avevano accettato di entrare nella prima Comunità Euro- pea ed il massiccio inserimento di Paesi dell’Europa orientale, costretti a diventa- re satelliti di Mosca, poco omogenei per ideali, cultura, origini storiche, sono stati un fattore di debolezza o di forza del processo integrativo europeo?

F.M.: La Gran Bretagna che aveva con sdegno respinto l’invito ad entrare nella CECA, ritenendosi ancora al vertice delle potenze mondiali con il dominio del Commonwealth e che per di più, con l’avvio della CEE, aveva invano tentato di sabotarla lanciando la formula alternativa di una semplice Zona di Libero Scam- bio, ha chiesto con accanimento l’ingresso nella CEE quando si era resa consape- vole della sua perdita di potere internazionale. I ripetuti tentativi britannici di farsi accettare dalla CEE erano falliti per la resi- stenza del Generale De Gaulle che temeva l’ingresso di un cavallo di Troia degli Stati Uniti nella Comunità Europea, soprattutto perché di fronte al bottone nu- cleare francese Londra intendeva, se del caso, coordinare il proprio bottone a quel- lo ben più potente di Washington. Usciti di scena i due principali attori del diverbio franco-britannico, Londra è finalmente entrata nella CEE con l’intenzione tuttavia di orientare il processo eu- ropeo secondo le proprie convinzioni, non certo favorevoli al rafforzamento di ta- lune Istituzioni comunitarie quali Commissione e Parlamento Europeo e convinta di un ruolo sempre più rilevante degli Stati membri nel processo decisionale. Certamente la presenza del Regno Unito nella costruzione europea è stata indi- spensabile per la credibilità internazionale della Comunità. Ha indubbiamente creato difficoltà e rallentato il percorso evolutivo comunitario, ma, almeno sino ad ora, non è riuscita a modificarlo perché, in alcuni casi maggiori quali la moneta unica ed il Trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone, ha ottenuto di potervi non partecipare.

L’ingresso dei Paesi occidentali – Praticamente quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale hanno aderito alla Comunità Europea pur mantenendo le loro caratteristiche storico-culturali. I disa- giati Paesi meridionali hanno saputo rapidamente utilizzare i sostegni comunitari migliorando sostanzialmente il loro tenore di vita e soprattutto Grecia, Spagna e Portogallo, abbandonati i regimi dittatoriali, hanno consolidato la loro gestione democratica. Decisione sicuramente storica e soprattutto politica è stata l’accoglienza nel- l’Unione Europea di paesi dell’Europa orientale che, col crollo dell’impero sovieti-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 65 Flavio Mondello co, avevano ritrovato la loro libertà dopo essere stati satellizzati da Mosca e plasma- ti al comunismo a seguito della determinante partecipazione Russa alla sconfitta della Germania nazista. L’ingresso in blocco di questi Paesi nell’Europa integrata, sia pure con limitati periodi di adattamento, ma con l’obbligo di condividere gli obiettivi comuni e contribuire alla loro realizzazione, è stato un atto dovuto, ma soprattutto un atto strategico che ha delimitato lo spazio occidentale europeo di fronte al ricostituirsi della potenza della Federazione Russa nell’area democratica mondiale. Ha contri- buito a consolidare la condizione di forza dell’Unione Europea nel negoziato di Partenariato strategico con Mosca tuttora in corso. Certamente gli adattamenti di Paesi saldamente europei, ridotti agli estremi dal regime comunista sovieti- co,richiederanno tempo, ma non intralceranno il processo integrativo comunita- rio. Tra loro taluni Paesi stanno compiendo aggiustamenti tali da farli aspirare alla partecipazione del nucleo più avanzato dell’Unione Europea: l’Eurozona. Deve tuttavia essere sottolineato che se non si eserciterà la massima severità nel pretendere dai nuovi membri il rispetto di tutti gli obiettivi dell’Unione si potreb- be rischiare di scivolare verso un doppione del Consiglio d’Europa di Strasburgo privo di effettivi poteri.

«C.»: Sul tavolo staziona da lungo tempo il “caso” Turchia, paese di grande influenza sul Medio-Oriente e sul mondo islamico. Dopo i fatti che hanno scon- volto l’assetto dei Paesi del Nord Africa, la Turchia si prepara ad essere “un” se non “il” Paese guida dei cambiamenti. L’Europa deve rivedere il caso Turchia alla luce di tali fatti e considerare stra- tegica la sua ammissione all’Unione per la maturazione della “primavera araba” e i nuovi rapporti con l’Europa?

F. M . : Un ulteriore allargamento urgente dell’Unione Europea riguarda i Bal- cani Occidentali che costituiscono una “enclave” all’interno stesso dell’UE e quin- di hanno una destinazione naturale nel processo di integrazione europea. Dopo la dissoluzione della Iugoslavia 8 Stati indipendenti della Regione hanno avviato il loro percorso per diventare membri dell’UE nel rispetto di precise condizioni che li rendano compatibili con gli attuali 27 Stati dell’Unione. La Slovenia è già diventa- ta membro dell’U.E. nel 2004, la Croazia dovrebbe entrare nel 2012, ma la caduta del Governo per scandali di corruzione e la dissoluzione del Parlamento, ritarde- ranno l’ingresso. La Serbia si sta avvicinando al traguardo. Rimangono sotto esame le domande di Bosnia-Erzegovina, Albania, Kosovo, e antica Repubblica di Mace- donia perché ancora non rispondono completamente alle sollecitazioni delle Isti- tuzioni comunitarie soprattutto nel campo dello Stato di diritto, dell’anticorruzio-

66 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello ne, della giustizia. A differenza del precedente grande allargamento dell’UE sono queste tre ultime condizioni assolutamente essenziali per l’ingresso nell’Unione. La futura collocazione nell’UE dei Paesi dei Balcani Occidentali è comunque segnata anche se i tempi, proprio per le nuove imperative condizioni, saranno prolungati. Ben diverso è il caso della richiesta di entrare nell’UE da parte della Turchia che con i suoi 81,5 milioni di cittadini, gli 800.000 militari in servizio attivo e la lunga e importante partecipazione alla NATO, oltre alla presenza attiva nel Gruppo dei 20, ha tuttavia il 95% di popolazione e di territorio in un continente diverso dal- l’Europa. La Turchia è passata da membro Associato alla Comunità Economica Europea nel 1963 a Paese candidato all’adesione, ed il negoziato in corso, anche se rallentato, è iniziato nel 2005, sottoposto a tre condizioni principali: riconoscere la Repubblica di Cipro membro UE, abbandonare l’occupazione militare della parte settentriona- le dell’isola, riformare profondamente il campo del diritto e delle libertà civili, della democrazia, e dell’uguaglianza, per mettersi in sintonia con l’Unione.

I Paesi che ostacolano il negoziato – Dopo essersi aperti 13 dei 35 capitoli del negoziato, mentre altri più critici sono stati sospesi dal 2006 ed i rimanenti rimangono ancora chiusi, il negoziato si è rallentato perché Francia, Germania, Austria, Olanda hanno confermato la loro contrarietà ad una adesione preferendo con Ankara una Partnership privilegiata so- prattutto economica, mentre sono rimasti favorevoli Italia, Regno Unito,Svezia, Spagna e Finlandia particolarmente interessati alla più stretta collaborazione con Ankara. La Francia ritiene che la Turchia divenuta membro UE giocherebbe nelle Isti- tuzioni dell’Unione, ed in particolare nel Parlamento Europeo, un ruolo eccessivo a causa della sua alta popolazione, ed inoltre cancellerebbe la coerenza geopolitica dell’UE a causa della sua natura non europea, essendo considerata da Parigi Asia minore. Inoltre, almeno sino ad oggi, la Turchia è criticata per avere il primato del- le condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Per queste ragioni il Parlamento francese ha approvato una legge costituzionale che subordina l’even- tuale accordo di adesione della Turchia ad un referendum popolare.

La specificità della Germania – La Germania, che già comprende 2,5 milioni di persone con passaporto turco, vorrebbe la loro completa integrazione, ma d’altra parte sostiene che i cittadini tur- chi non sono in grado di assimilarsi a quelli tedeschi: quindi respinge l’idea di un aumento della presenza turca sul proprio territorio a seguito di un ingresso della Turchia nell’UE. Condivide inoltre le preoccupazioni francesi sulle Istituzioni UE. I Paesi UE favorevoli all’adesione della Turchia le riconoscono il valore strategi- co di collegamento o di ponte tra Europa ed Asia Occidentale, di controllo dei due

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 67 Flavio Mondello più importanti corsi d’acqua dell’area, di tramite di rifornimento energetico del- l’Europa, di modello sufficientemente democratico e liberale per altre società isla- miche.

L’Aspetto islamico-religioso e il ruolo della Turchia – Il problema islamico religioso posto dall’ingresso della Turchia nell’Unione non è sollevato al livello degli Stati membri UE perché essi stessi hanno voluto evi- tare nel Trattato di Lisbona qualsiasi riferimento a specifiche religioni, in particola- re a quella cristiana: hanno infatti precisato di istituire una Unione Europea ispi- randosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono svi- luppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della li- bertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto. Mentre il negoziato di adesione UE-Turchia è in fase di stanca il Governo tur- co gioca un ruolo sempre più attivo nell’effervescente Medio Oriente: si è distan- ziato dalla Siria di Assad, dall’Iran, e dagli Hezbollah filo siriani; in Egitto ed in Tu- nisia ha promosso il proprio modello democratico-islamico accompagnandolo da dichiarazioni anti Israele, in Libia ha seguito Francia e Gran Bretagna nel sostegno al Consiglio di transizione e nell’avviare rapporti di affari. Entrando nell’Unione Europea Ankara non rinuncerebbe a questo suo nuovo ruolo che si sta conquistando con determinazione ed abilità. Ciò dà l’impressione che il suo slancio iniziale di adesione all’UE si stia convertendo nella ricerca di un partenariato economico privilegiato. Tuttavia non si può sottacere che ancora il 13 ottobre 2011 il Ministro degli Esteri turco,a seguito delle raccomandazioni della Commissione UE per far maggiormente rispettare le condizioni necessarie all’ade- sione, ha reagito dichiarando che La Turchia è fortemente determinata ad entrare nell’UE ed a rispettare i criteri necessari, come del resto ha fatto e sta facendo, per- ché questo è un suo obiettivo strategico. Attualmente Unione Europea e Turchia sono del parere di consolidare gli ac- cordi raggiunti sino ad ora in campo industriale e commerciale così ché al momen- to finale della trattativa, certamente non ravvicinato, non si debba perder tempo su queste materie. Comunque L’Unione Europea non ha modificato la prospettiva ul- tima che rimane l’adesione.

«C.»: Prima di affrontare il tema specifico di particolare drammatica attua- lità: la risposta UE alla crisi economica, finanziaria, occupazionale dell’Europa, è opportuno rilevare che i progressi della costruzione dell’Unione Europea sin qui realizzati non sono particolarmente evidenti ai cittadini europei, forse perché in gran parte dimenticati, o perché sono rimasti nella memoria i momenti critici del processo integrativo.

68 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello

È possibile evidenziare i principali momenti di importante sviluppo del cam- mino comunitario?

F. M . : Purtroppo durante la crisi economica a cavallo degli anni 70 - 80 ogni Paese membro aveva tentato di difendere il proprio mercato ed essendo stati sop- pressi dazi, dogane o contingenti aveva creato intralci di tipo tecnico agli scambi (es. difesa della salute o della sicurezza) con forte effetto protezionistico. Si è ri- schiato il fallimento dell’integrazione di mercato sino allora realizzata ed è crollata la competitività della Comunità Europea perché la protezione aveva annullata la spinta a migliorare prodotto e processo produttivo. In un sussulto di presa di co- scienza e di responsabilità degli stessi produttori fu allora concepito, provocando una riforma del Trattato di Roma, il “Mercato Unico” retto da leggi comunitarie uguali per tutti, sostituendolo all’iniziale “Mercato Comune” ove ciascuno poteva agire nell’area comunitaria rispettando le proprie leggi nazionali. Nel “Mercato Unico” merci, servizi, capitali e persone possono muoversi libe- ramente come in un “Mercato Interno” della Comunità Europea. Attualmente lo si sta perfezionando per renderlo più competitivo attraverso un potenziamento della concorrenza interna.

Il protezionismo monetario degli Stati membri – Per superare gli effetti nefasti del risorgere del protezionismo interno, che nei momenti più difficili si manifestava anche con la rincorsa di ciascun Paese in diffi- coltà alla svalutazione competitiva della propria moneta, prevalse la tesi di coloro che propugnavano una moneta unica, contro l’opinione di coloro che considerava- no la loro moneta come il maggior simbolo dell’identità nazionale. Dopo lunghi e talvolta aspri dibattiti finalmente a Maastricht,nel 1992, si de- cise di introdurre, da parte di chi era disponibile, l’Euro, gestito da una unica Ban- ca Centrale Europea. Il principale compito di questa, nella conduzione della con- seguente unica politica monetaria europea, continua ad essere il mantenimento della stabilità dei prezzi quale condizione essenziale per la stabilità della moneta, anche se incomincia ad essere evidenziato l’obiettivo, sin qui minore, di contribui- re allo sviluppo economico dell’UE. Pur consapevoli che questo straordinario passo avanti del processo integrativo europeo avrebbe aperto al futuro di una Europa politicamente integrata, fu tacita- mente concordato a Maastricht di non farne alcun accenno perché questo avrebbe rischiato di far fallire l’operazione. Ancora non era matura a livello governativo, ed anche del settore imprenditoriale, la prospettiva di un’Europa politicamente unita.

La politica estera e la sicurezza – Altri progressi dell’integrazione di una Comunità che si trasformava in Unio- ne Europea travalicando il proprio limite economico iniziale, hanno riguardato la

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 69 Flavio Mondello possibilità di sviluppare una politica Estera e di Sicurezza Comune solo però nei campi che riscontrassero posizioni unanimi. Ciò con la consapevolezza che molti Paesi membri non avrebbero subito abbandonato le loro priorità nazionali di Poli- tica Estera a favore dell’UE. Sarà ancora un processo lungo e difficile raggiungere in questo campo una voce sempre unica, ma potrà essere la gravità delle sfide mon- diali all’Europa a favorire riposte unitarie. Sarà comunque dalle posizioni unitarie che dipenderà principalmente il ruolo mondiale dell’Unione. Per questo l’opinione pubblica comunitaria e soprattutto quella internazionale, sono sensibili agli atteggiamenti unitari dell’UE sulla scena mondiale: senza il raggiungimento di posizioni comuni si sviluppano scoraggia- menti all’interno degli Stati membri e scarsa considerazione all’esterno. È necessario sottolineare che è stato anche superato il tabù militare creatosi con il fallimento della Comunità Europea della Difesa agli inizi del percorso integrati- vo. Si sono pertanto create le condizioni istituzionali per realizzare una Politica co- mune della Sicurezza e della Difesa basata sul supporto di forze militari degli Stati membri, messe a disposizioni di iniziative militari comunitarie per instaurare o di- fendere la pace in aree di crisi. Merita comunque un particolare approfondimento il tema della Politica co- mune Estera, Sicurezza e Difesa scarsamente conosciuta nelle sue applicazioni e fonte di critiche e di apprensioni.

Energia, Ambiente e Diritti fondamentali – È stata rafforzata nel Trattato la competenza energetica dell’Unione per rea- lizzare un mercato interno dell’energia ed una diversificazione delle fonti energeti- che per assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti, tenuto conto delle scarsità di petrolio e gas nell’UE. Tuttavia sugli accordi comuni con Paesi terzi fornitori di fonti energetiche persistono talune difficoltà derivanti da autonome scelte di poli- tica estera. Si è anche sviluppata un azione comune per la difesa dell’ambiente assumendo un’azione di traino nel contesto internazionale. Un’importante realizzazione qualitativa dell’Unione è stata l’unanime approva- zione di una vincolante Carta dei diritti fondamentali che tende a far passare dalle intenzioni alla concreta applicazione dell’articolo 2 del Trattato che afferma: “L’U- nione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della democrazia, dell’u- guaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Valori comuni in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla soli- darietà e dalla parità tra uomo e donna”. È stato decisamente tracciato il cammino da perseguire. Non rimane che imporlo quando si constatasse un derapaggio. Certamente i notevoli progressi avviati nel corso dell’integrazione europea dal suo limitato inizio ad oggi debbono essere perseguiti con determinazione tenden- do sempre ad un traguardo politico unitario, anche se ancora indefinito. È eviden-

70 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello te che l’Unione Europea non solo non regredisce o si ferma, ma si sta continua- mente attrezzando per svilupparsi compiendo piccoli o grandi passi avanti che rompono schemi incrostati di populismo e di scetticismo e resistenze conservative che tengono più conto degli istinti meno positivi del popolo che non dei suoi reali interessi.

«C.»: È possibile spiegare più in profondità come è organizzata nell’UE la politica comune Estera, Sicurezza, Difesa. Quali le azioni in corso? Prevale la sensazione che il raggiungimento di traguardi significativi incontri difficoltà e ri- tardi che creano scetticismo nella pubblica opinione sulla capacità dell’Unione di svolgere un efficace ruolo internazionale.

F. M . : È corretto affermare che la Politica Comune degli Esteri e della Sicurez- za e la sua componente Politica Comune della Sicurezza e della Difesa, se applicate con decisa volontà unitaria per perseguire risultati originali, validi e senza alternati- ve, sono la condizione principale, non ancora pienamente raggiunta, per il ricono- scimento dell’Unione Europea come uno dei maggiori attori sulla scena mondiale. È tuttavia necessario ricordare che sono stati, agli inizi degli anni 90, i conflitti regionali scoppiati dopo il crollo dell’Unione Sovietica in Europa, e in altre parti del mondo, oltre alla necessità di combattere le crescenti ondate di terrorismo in- ternazionale, ad indurre nel 1992, col Trattato di Maastricht, i leader dell’Unione Europea e le Istituzioni comunitarie a colmare un vuoto istituzionale ed a dotarsi progressivamente degli strumenti diplomatici e di intervento civile e militare nelle vicine aree di crisi per contribuire a risolvere conflitti, portando e mantenendo la pace anche con aiuti umanitari e per partecipare e innescare Partenariati strategici con grandi potenze mondiali ed Organismi internazionali. Questi nuovi strumenti richiedono ancora opportuni perfezionamenti.

Le limitazioni –Due sono tuttavia le principali limitazioni di questa nuova competenza co- munitaria: 1) Le decisioni che comunque possono riguardare tutti i settori di politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza spettano solamente ai Governi riuniti nelle Istituzioni UE, non a Commissione e Parlamento Europeo, e possono rag- giungersi con deliberazioni all’unanimità: la Politica è definita ed attuata dal Consiglio Europeo che riunisce i Capi di Stato e di Governo e dai Consigli dei Ministri degli Affari Esteri e dei Ministri della Difesa; 2) sul piano militare non si è creato un esercito europeo e si utilizzano armi e sol- dati messi a disposizione dell’Unione dagli Stati membri ma gestiti comunitaria-

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mente. Sarà la gravità della crisi economica in atto a spingere i Paesi membri che detengono importanti forze armate a mettere in comune gli elementi più costosi delle loro strutture di difesa per reagire agli inevitabili tagli dei rispettivi bilanci pubblici e sviluppare ricerche e produzioni di armamenti innovativi ristruttu- rando l’industria europea della Difesa. Del resto lo stanno già facendo Francia e Gran Bretagna che uniscono i rispettivi sforzi in campo atomico militare, e più in generale nelle loro forze militari, indicando la via corretta agli altri Paesi UE all’interno della Agenzia Europea di Difesa. A tali fini si stanno infatti realizzan- do, sotto la spinta della Polonia che detiene la Presidenza di turno dell’Unione, coalizioni tra Paesi membri più attrezzati militarmente.

Il freno dell’unanimità nelle decisioni – L’imposizione dell’unanimità, limitata tuttavia dalla possibilità di una asten- sione costruttiva, significa che le posizioni dell’UE esprimibili con una sola voce, attraverso la Politica comune Esteri e Sicurezza e la Politica comune Sicurezza e Di- fesa, riguardano solamente temi di riconosciuto interesse comune. Gli altri temi sono trattati esclusivamente sul piano nazionale. Ciò non toglie che l’Unione cer- chi di aumentare il più possibile la convergenza delle azioni Esteri e Difesa degli Stati membri per consentire un più ampio campo degli interventi comunitari, so- prattutto quando situazioni internazionali che toccano l’Europa si possono discu- tere ed affrontare efficacemente nei grandi consessi internazionali solo con inter- venti unitari. Il Trattato impone agli Stati membri di sostenere attivamente e senza riserve la Politica estera dell’Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca. Pur- troppo non sempre ciò appare ancora evidente.

I progressi lenti – Nonostante questi freni, che certamente rallentano le prese di posizione del- l’UE, sono stati compiuti passi avanti nell’organizzazione della macchina comuni- taria che consente, in questo campo di estrema importanza, taluni risultati non tra- scurabili. È comunque evidente una reazione collettiva ad una ancora insufficiente pre- senza unitaria dell’Europa sullo scacchiere internazionale, nonostante siano stati compiuti interessanti passi avanti, forse non tutti evidenziati dai mezzi di informa- zione. Certamente hanno influito taluni pregiudizi sulla Autorità comunitaria che mette in atto la Politica Estera e di Sicurezza Comune: l’Alto Rappresentante del- l’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, la Sg.ra Catherine Ashton contemporaneamente è Presidente del Consiglio Esteri e Vice Presidente della Commissione: forse troppi incarichi attribuiti ad una sola persona. È l’Alto Rappresentante a condurre, a nome dell’Unione, il dialogo politico con i terzi e ad esprimere la posizione comune nelle Organizzazioni internazionali,

72 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello come per es. il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Tuttavia ai massimi livelli della scena mondiale, per esempio il Presidente Obama prima del G20 dell’ottobre 2011, ha preferito, sul tema dell’Euro, rivolgersi direttamente al Presidente Sarkozy ed alla Sig.ra Merkel, il britannico Cameron non essendo membro del- l’Eurozona.

Il Servizio Diplomatico Comunitario – Una novità di rilievo è la messa a disposizione dell’Alto Rappresentante di un Servizio diplomatico comunitario che lavora in collaborazione con tutti i servizi diplomatici degli Stati membri e può migliorare di molto la conoscenza delle situa- zioni internazionali anche perché questo Servizio è dotato di proprie Delegazioni Permanenti nei Paesi terzi e presso le Organizzazioni Internazionali. Il Parlamento Europeo è regolarmente informato sullo sviluppo della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione e sempre più apporta un notevole contributo ad orientare i Capi di Stato e di Governo.

I progressi nel campo della difesa – Sul piano della Difesa l’UE è molto più attiva di quanto non appaia attraver- so la pubblica informazione: • Ha creato l’Agenzia Europea della Difesa cui è stato riconosciuto il ruolo motore del miglioramento della capacità di difesa europea in collaborazione con la Com- missione Europea in materia di ricerca e tecnologia e col Comando NATO di Norfolk • Ha migliorato, rendendola permanente, la capacità di pianificazione e di condot- ta militare-civile delle Operazioni e delle Missioni UE. • Ha attivato 24 Missioni nell’ambito della Politica Comune Estera,Sicurezza e Di- fesa, dai Balcani all’Africa, al Medio Oriente, all’Afganistan: 14 civili, 6 militari, 3 integrate civili-militari. Sono in corso 3 Operazioni militari in Bosnia-Erzego- vina, in Somalia ed al largo delle coste somale (anti-pirateria). È in atto un soste- gno all’Organismo “Unione Africana”. I Paesi UE membri dell’Alleanza Atlantica partecipano in Afganistan alla Forza multinazionale NATO che opera in 5 Regioni. L’Unione Europea favorisce l’exit strategy iniziata a luglio 2011 e applica una strategia a lungo termine per rafforzare le capacità istituzionali e amministrative dello Stato afgano. • Si è dotata di una disponibilità costante di 2 Gruppi di Battaglia (Raggruppa- menti tattici) costituiti da forze multinazionali di 1500 uomini ciascuno per pre- venire in emergenza l’insorgenza di una crisi o per reagire ad una sua degenera- zione, ed in grado di rimanere operativi da 30 a 120 giorni. • Ha istituito una “Cooperazione Strutturata Permanente”, senza soglia minima di partecipazione di Stati membri, per rendere credibile la capacità militare dell’UE che assicura le unità di combattimento necessarie a garantire al suo esterno il

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mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti ed il rafforzamento della si- curezza internazionale anche attraverso il disarmo e la lotta al terrorismo. Le strutture di vertice istituzionale della Politica di Sicurezza e di Difesa, oltre al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, ai Consigli Esteri e Difesa, al Comita- to permanente degli Ambasciatori, al Comitato Politico ed al Comitato Militare, comprendono lo Stato Maggiore dell’UE (il PE chiede di renderlo permanente) che è composto da 200 esperti militari distaccati dagli Stati membri: suo compito è pianificare strategicamente le Missioni di intervento militare dopo aver valutato le situazioni e dato allarmi tempestivi.

Le relazioni transatlantiche USA e Oriente – Un aspetto rilevante della Politica Estera UE riguarda le relazioni transatlan- tiche USA-UE-Russia, sulle quali non vengono riprese dai masmedia informazioni dettagliate, e che si snodano tra: 3 Partenariati strategici USA-UE, UE-Russia, UE-Cina; partecipazione dei 27 Paesi UE all’Organizzazione di Sicurezza e Coope- razione Europea (OSCE) che comprende anche USA, Canada, i Paesi del Caucaso e la Santa Sede; il Consiglio NATO (21 Paesi UE membri NATO) –Russia, il Consiglio USA-UE per la sicurezza energetica; il Partenariato Economico-Com- merciale Transatlantico USA-UE per superare i punti di frizione. Lo stato di avanzamento dei lavori nelle Relazioni transatlantiche è abbastanza soddisfacente tenuto conto di problemi anche rilevanti che figurano negli ordini del giorno. Nelle relazioni strategiche Trans-Pacifico il Negoziato sul Partenariato UE-Ci- na incontra difficoltà sugli aspetti monetari e di mercato, sul commercio delle ar- mi, e sulle controversie relative a Taiwan e al Tibet. L’auspicio principale manife- stato dall’UE al Vertice politico della Cina è che il forte sviluppo economico della Cina consolidi la coesione sociale delle sue grandi popolazioni: sugli altri problemi si troveranno, anche se lentamente, delle soluzioni.

Rapporti UE-Russia – È importante rilevare l’approccio strategico dell’UE con la confinante Russia. Nel “Consiglio Permanente per il Partenariato UE-Russia”, I rispettivi vertici ostentano amicizia e disponibilità a trovare convergenza e soluzioni su taluni rile- vanti problemi comuni. Mosca sollecita un “Nuovo Accordo” più approfondito ri- spetto a quelli negoziati sino ad ora e riguardanti i 4”Spazi comuni” (Cooperazione sulla sicurezza esterna; economia-libertà-giustizia; ricerca-istruzione,; cultura. Il Presidente Medvedev ha chiesto di approfondire un 5° Spazio comune: il “Partena- riato per la modernizzazione”, perché Mosca ha bisogno dell’aiuto UE per realizza- re le trasformazioni tecnologiche (investire 1 miliardo di $ nella ricerca), le misure per attrarre investimenti, le riforme strutturali economiche. In risposta ad una fer- ma richiesta dell’UE il Presidente russo si è impegnato a coinvolgere la società civi-

74 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello le nella riforma delle Istituzioni politiche per basarle su valori democratici e su riforme giudiziarie (riguardanti per ora il civile, gli affari familiari, economici e, si spera, criminali) che rafforzino lo Stato di diritto, considerando tutto ciò basilare per la modernizzazione. Un sostanziale progresso si sta evidenziando nella possibi- lità dei cittadini russi e comunitari di attraversare le rispettive frontiere per viaggi di non lunga durata senza più necessità di visti.

Il partenariato orientale – Oltre ai rapporti strategici con la Russia l’UE sta sviluppando, sotto la pres- sione della Presidenza di turno della Polonia, un concreto Partenariato Orientale (Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldova, essendosi temporaneamente compro- messi i rapporti con la Bielorussia e incrinati, senza conseguenze maggiori, quelli con l’Ucraina) il cui funzionamento e le prospettive sono largamente positivi in vi- sta di strette relazioni di libero scambio. I rapporti di sicurezza e difesa tra NATO e UE sono stati positivamente condi- zionati dal nuovo concetto strategico della Alleanza Atlantica deciso nel vertice di Lisbona il 20 settembre 2010 alla presenza anche del Presidente russo Medvedev. La NATO, secondo il Trattato UE di Lisbona resta, per gli Stati membri comuni- tari che ne fanno parte, “il fondamento della loro difesa collettiva ed il contesto della sua attuazione”.

Il partenariato UE-USA – Sul piano economico della relazione di partenariato UE-USA nella crisi planeta- ria in corso entrambi i partner debbono affrontare una severa politica di austerità ridu- cendo la spesa, ma mantenendo la sicurezza globale. È evidente che anche gli USA per raggiungere i loro obiettivi hanno bisogno, come ha affermato lo stesso Presidente Obama, di una “Unione Europea forte e capace”. Il modo migliore per esercitare una influenza UE sugli USA è certamente quello di “restare unita e sicura di sé stessa”.

«C.»: C’è un fenomeno, tra i tanti, che dovrebbe produrre massima concen- trazione e prevenzione: è il fenomeno dell’immigrazione, cioè dello spostamento verso l’Europa della pressione di popolazioni che anelano al benessere o, quanto meno, alla condivisione più giusta della ricchezza. Da alcune proiezioni ONU si calcola che oltre più di venti milioni saranno, alla fine del secondo decennio del secolo e all’inizio del terzo, gli emigranti verso aree ricche dell’Europa, soprattut- to dal continente africano, in fuga dalla fame, dalla sete, dal deserto che avanza e dalla voglia di libertà positiva. Questo fenomeno è presente nel contesto dell’U- nione Europea? È compresa appieno la sua gravità per le ripercussioni, sociali, culturali, politiche e finanche sanitarie?

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 75 Flavio Mondello

F. M . : Nell’Unione Europea la politica comune dell’immigrazione è una sfida europea che impone una comune risposta europea, il rispetto di regole stabilite in comune ed in comune adattate all’evolversi della situazione che è differenziata per Paese membro e per aree dell’Unione. Il problema è affrontato sotto 6 aspetti principali: • la libera circolazione degli immigrati regolari e regolarmente soggiornanti nel ter- ritorio comunitario nel rispetto della Convenzione del 1985 che applica l’accor- do di Schengen per la eliminazione delle frontiere interne al passaggio delle per- sone, sino ad oggi sottoscritto da 22 Paesi UE (auto esclusi: Gran Bretagna e Ir- landa; in attesa di partecipazione: Bulgaria e Romania), con 4 Paesi terzi associati (Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein); • il coordinamento comunitario delle politiche nazionali dell’integrazione degli immigrati regolari con possibilità di interventi comunitari di sostegno e con mo- nitoraggio dei comportamenti nazionali utilizzando collaborazioni con Organi- smi specializzati per definire criteri comuni di valutazione dei risultati raggiunti; • le severe azioni di prevenzione e di contrasto con controlli rafforzati nazionali e comunitari della immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani, realiz- zando una equa ripartizione dei costi, qualora insopportabili, di massicci ed im- provvisi afflussi, e con sostegni comunitari per il controllo delle frontiere esterne attraverso il potenziamento dell’Agenzia Frontex, creata come corpo specializzato e indipendente per coordinare l’azione via mare,terra, aria, di gestione integrata della sicurezza frontaliera; • gli accordi bilaterali di riammissione di immigrati negoziati dalla Commissione con i Paesi di origine o di provenienza, con contropartita di partenariati per co- struire il loro futuro in patria, stimolando la crescita economica e la creazione di occupazione in un contesto di sviluppo democratico e di Stato di diritto; • l’elaborazione di uno status uniforme in materia di asilo di profughi in fuga da regimi totalitari, da guerre civili, ecc.; • il controllo costante da parte della Commissione dei crescenti bisogni di manodo- pera immigrata semplice o professionale in un contesto di inarrestabile involuzio- ne demografica che prefigura una incombente penuria di manodopera. La deter- minazione del volume necessario di ingresso di cittadini terzi (“immigrati econo- mici”) che cercano lavoro dipendente o autonomo spetta ai singoli Stati membri.

Le emergenze eccezionali – Dalle Istituzioni UE sono anche prese in considerazione situazioni di emer- genza eccezionali e temporanee per afflussi rilevanti ed improvvisi di immigrati che possono creare difficoltà gravi al loro ingresso ai confini dell’Unione. Sono previste al riguardo misure che, temporaneamente e sotto controllo comunitario, possono consentire deroghe al Trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone nell’Unione. Nei casi di concentrate immigrazioni giudicate nazionalmente inso-

76 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello stenibili hanno già iniziato ad intervenire, sotto varie forme, sostegni comunitari che dovranno ulteriormente svilupparsi. Il fenomeno di una forte futura pressione sull’Unione Europea di immigrati da aree fortemente disagiate del mondo vedrà un suo sviluppo condizionato dal suc- cesso della politica comunitaria dell’immigrazione in corso di consolidamento, dall’approccio UE al multiculturalismo e dell’efficacia della politica di sostegno al mondo in via di sviluppo, e dall’evoluzione delle nuove grandi potenze economi- che sulla scena mondiale.

«C.»: La drammatica realtà del violento tsunami che si abbatte sulla finanza, sull’economia e sull’occupazione dell’Europa ed anche a livello mondiale dopo la grande “depressione” degli anni 30, vede l’Unione Europea, soprattutto quella ampia parte che dispone di una moneta unica, impegnarsi con energia a farvi fronte attraverso una unitaria Governance economica ed a vincere le sfide che le si pongono. Purtroppo il cittadino europeo non riesce a districarsi nella serie di provvedi- menti comunitari che si susseguono e non percepisce le effettive linee di condot- ta decise in comune ma che poi ritiene imposte a ciascuno Stato membro. Quale è il quadro dell’azione comunitaria e quali sono le ragioni di questa difficile percezione del suo svolgimento a livello degli Stati membri?

F. M . : La Governance Economica Europea e i suoi poteri sono due delle que- stioni più attuali. Si deve subito precisare che la possibilità per l’Unione di sottoporre ad una Go- vernance Economica Europea le politiche economiche degli Stati membri, nell’am- bito di una effettiva Unione Economica, non era stata prevista né dal Trattato di Roma, né dal dopo l’istituzione della moneta unica. Anzi, nelle successive modifiche del Trattato di Roma è stato sempre ribadito che la politica economica era di responsabilità dei Governi nazionali e delle relative Parti sociali. Sono stati la crisi finanziaria ed economica, l’accentuarsi del rallentamento del- la crescita sino all’avvio di una leggera recessione con le pesanti implicazioni sul- l’occupazione, il nodo al pettine di cattive gestioni della spesa pubblica che hanno messo pesantemente sotto attacco taluni debiti sovrani dell’Eurozona, a determi- nare, nel giugno 2010 e dopo approfonditi dibattiti, un balzo in avanti del proces- so integrativo con l’instaurazione di una “governance economica europea”. Questa è gestita al massimo livello politico dei Capi di Stato e di Governo riuniti nel Con- siglio Europeo ed in collaborazione con la Commissione Europea, il Parlamento Europeo, il Gruppo Euro e la Banca Centrale Europea. Nella governance assume

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 77 Flavio Mondello un ruolo rilevante la Presidenza Draghi iniziata il 1° novembre 2011 nella fase più critica dei debiti sovrani, nomina che era stata decisa per l’unanime apprezzamento della sua presidenza dello Stability Financial Forum nel tentativo di combattere l’eccesso di credito non regolato, causa della grave instabilità finanziaria a livello mondiale. L’obiettivo della governance economica europea è creare le condizioni che ga- rantiscano il mantenimento della forza della moneta unica e favoriscano un note- vole recupero di competitività dell’Unione con conseguente rilancio di una crescita economica durevole ed equilibrata per vincere le sfide della globalizzazione. È stata una decisione strategica che impegna l’Unione per parecchi anni dovendo affianca- re, ai drastici impegni sollecitati a Governi e cittadini, politiche comunitarie inter- ne ed esterne a sostegno della crescita. In definitiva dipenderà dal suo successo il consolidamento dell’Unione Europea e la costituzione di una solida base per futuri progressi verso il traguardo dell’integrazione politica europea.

Vertice Europeo permanente della Zona Euro – Nel maggio 2011 le Istituzioni comunitarie, e soprattutto quella che riunisce i27CapidiStatoe di Governo – il Consiglio Europeo –, hanno programmato, su proposta fran- co-tedesca, nell’ambito generale della Governance economica, un Vertice europeo permanente dell’Eurozona ove si è concentrata la crisi in atto nell’UE. Vertice composto dai Capi di Stato e di Governo dei 17 Paesi Euro, presieduto da un Pre- sidente stabile per 2,5 anni, (rinnovabile una volta), e che si riunisce due volte l’an- no. Il Presidente sarà designato dai 17 Capi di Stato di Governo in occasione della prossima elezione nel 2013 del Presidente del Consiglio Europeo. In attesa di tale elezione i vertici della zona Euro sono presieduti dal Presidente in carica del Consi- glio Europeo, Herman Van Rompuy (ex Premier belga). L’allora Presidente della BCE Jean Claude Trichet aveva addirittura auspicato la creazione di un “Governo economico confederale”, con un proprio Ministro delle Finanze. Contemporanea è stata la nomina del Commissario Europeo Olli Rehn a Vice Presidente della Commissione Europea con la responsabilità degli Affari economici e dell’Euro. Il Vertice dei 17 leader dell’Eurozona ha subito informato il Consiglio Europeo che, per uscire dalla grave crisi finanziaria ed economica, intende governare l’Euro- zona con poteri centralizzati, eventualmente da iscrivere nel Trattato attraverso una sua modifica, ed inoltre e con decisioni a maggioranza, mettere in atto i mezzi ne- cessari per rafforzare con determinazione la convergenza economica nella Zona Euro e per migliorare la disciplina di bilancio pubblico. Convergenza perduta a causa di una scarsa applicazione del Patto di stabilità concluso al momento dell’in- troduzione dell’Euro. La Germania, grazie certamente alla sua crescente competiti- vità, ma anche alla compressione del suo consumo interno, ha realizzato ingenti at-

78 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello tivi determinando un forte squilibrio macroeconomico nell’Eurozona. Dovrebbe ora contribuire ad eliminarlo. Essenziale è il rafforzamento della disciplina di bi- lancio ed anche della disciplina dei mercati finanziari, così da dare un profondo contenuto all’Unione Economica in parallelo con la compiuta Unione Monetaria. Soprattutto si vuole dimostrare che la governence economica europea attraverso una severa sorveglianza della condotta dei 17 Stati dell’Eurozona rende più solida l’impalcatura su cui poggia l’Euro. Questa decisione ha evidenziato l’autocritica del lassismo nella spesa pubblica, della insufficiente visione finanziaria a livello comunitario e della sottostima della interdipendenza monetaria e finanziaria che hanno portato ad irresponsabili con- dotte di bilancio.

«C.» Numerosi e continui sono i Vertici europei sia dei Paesi che fanno parte della Eurozona, che sono diciassette, sia dei ventisette capi di Stato e di Governo che formano il Consiglio Europeo. I più recenti sono stati il Vertice dell’Eurozona del 23 e 26 ottobre e il G20 del 3 e 4 novembre 2011. Ambedue sono avvenuti nel pieno dell’infierire della crisi globale alla quale ogni Paese sembra non potersi sottrarre. Quali sono stati i risultati da considerare più concreti ed efficaci per frenare subito e riassorbire progressivamente gli effetti della crisi?

F. M . La prova del fuoco del governo dell’Eurozona è avvenuta il 23 e 27 otto- bre 2011 quando, attraverso un preciso piano d’azione, si è avviata la risposta alla crisi sempre più grave che incombe sull’Europa. L’immediata verifica della validità di questa azione è intervenuta nel G20 di Cannes del 3 e 4 novembre che ha accol- to favorevolmente le decisioni UE del 26 ottobre, considerate l’inizio di una ener- gica governance economica dell’Eurozona che dovrà essere ulteriormente sviluppa- ta per dare l’impressione ai mercati che si intende agire con fermezza. Il Presidente Barak Obama ha incitato l’UE a difendere con vigore la moneta unica ed ad ottimizzare il Fondo europeo di salvataggio che dovrebbe avere il so- stegno del Fondo Monetario Internazionale che dal G20 di Cannes ha ottenuto l’accordo di un aumento delle sue risorse per operazioni di emergenza, se necessa- rio, con possibili disponibilità di Cina, Russia e Giappone, anche a favore dell’Eu- rozona.

Le principali prospettive emerse –Tresono state le principali prospettive offerte dall’accordo raggiunto in otto- bre all’unanimità dai 17 Governi dell’Eurozona per avviare una risposta coordinata alla crisi europea:

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 79 Flavio Mondello

– soluzione durevole del debito sovrano greco, per impedire, attraverso meccani- smi di intervento rapido fortemente condizionato; – ripristino della fiducia nel settore bancario con l’imposizione di una disciplina fi- nanziaria che rafforzi le banche; – consolidamento dei bilanci dei Paesi ad alta criticità di deficit e di debito, accom- pagnato da riforme strutturali per rilanciare crescita e occupazione. La parentesi di gravissima preoccupazione per il subbuglio dei mercati a segui- to dell’improvvisa minaccia di un referendum in Grecia sulle misure anticrisi che avrebbe potuto rimettere in questione gli impegni contratti da Atene per risolvere la propria crisi, è stata rapidamente chiusa con la rinuncia del Premier Papandreu di ricorrere al voto popolare, preoccupato di perdere l’aiuto dell’UE, e con l’an- nuncio delle sue dimissioni. Già in diversi Paesi dell’Eurozona si sono prodotte cri- si di governo nella fase di risposta alle ingiunzioni del governo europeo dell’Euro- zona e sono state necessarie le dimissioni per rendere credibile il drastico riordino dei loro conti pubblici: Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia, Italia. Ciò dimostra che la governance europea è seriamente presa in considerazione dai Paesi che han- no adottato l’Euro.

L’accordo del 26 ottobre 2011 – Spiazzati gli eccessivi, se non drammatici, pessimismi della vigilia, l’accordo raggiunto, pur dovendosi ancora definire il follow up tecnico, rappresenta il tenta- tivo di apportare una risposta”europea” ad una crisi mondiale che da finanziaria e poi economica ha contagiato gli Stati dell’Eurozona nel loro debito sovrano. È in causa la politica economica e di bilancio di molti Paesi dell’Eurozona che rischia di compromettere la solidità dell’Euro che in poco più di 10 anni si è rafforzato, a dif- ferenza della sterlina e del dollaro, diventando una moneta alternativa di riserva non intaccata né da deficit e debito complessivi della sua area portati ad un livello nettamente inferiore a quelli degli Stati Uniti o del Giappone, né da un tasso di in- flazione che è stato mantenuto sufficientemente basso e stabile, né da un comples- sivo squilibrio della bilancia dei pagamenti dell’Eurozona.

La strategia UE – La strategia UE per superare la crisi abbattutasi sull’Eurozona si basa su due pilastri: solidarietà comunitaria e riforme strutturali da realizzare in contropartita. Occorre garantire sostenibilità alla disciplina di bilancio ed ad una nuova forma di crescita economica ed occupazionale adattata alla concorrenza globale. Certamente sull’esigenza della “stabilità” si è constatata l’influenzata della Germania perché l’allora Cancelliere Kohl che aveva abbandonato a Maastricht il gioiello tedesco, il Marco, in favore dell’Euro, a condizione tuttavia di applicare alla moneta unica eu- ropea la severa politica di bilancio che aveva reso la divisa tedesca la più forte al mondo col sostegno di una economia sociale di mercato altamente competitiva.

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La solidarietà nei confronti dei Paesi in difficoltà dovrebbe essere resa effettiva sia da un adeguato “Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria” o “Fondo salva Stati” la cui potenzialità di intervento è stata portata a 1000 miliardi di Euro, in grado di scoraggiare le turbolenze finanziarie e salvare la Grecia dal fallimento, ma tuttavia non ancora adeguata nel caso di gravi contagi a grandi Paesi dell’Eurozona, sia da un apporto volontario delle banche che accettano di ridurre del 50% il valore del debito greco in loro possesso, sia ancora dalla imposizione di una ricapitalizzazione delle banche per consentire, in situazione critica, la difesa dei depositanti e l’eroga- zione del credito all’attività economica per il sostegno della ripresa. Non è stato dunque possibile garantire un’ulteriore massiccio contributo co- munitario al Fondo, nel caso di una dirompente aggressività dei mercati finanziari, consentendo il ricorso in ultima istanza alle illimitate disponibilità della Banca Centrale Europea che dirige l’Eurosistema; lo avevano sollecitato Francia e Italia ri- ferendosi alle capacità delle Banche centrali nelle aree del dollaro, della sterlina e dello yen. È prevalsa la duplice esigenza sostenuta dalla Sig.ra Merkel, dalla stessa BCE ed anche dal Prof. Mario Monti: – salvaguardare l’indipendenza della BCE che certamente, in caso di peggioramento della situazione di crisi in grandi paesi dell’Eurozona, avrebbe potuto essere sottoposta a forti pressioni politiche; – evitare che una assoluta garanzia di sostegno comporti rischio di lassismo nella disciplina di bilancio e nelle riforme strutturali. Questo problema maggiore rimane tuttavia in sospeso perché rientra nelle sol- lecitazioni di coloro che auspicano un rafforzamento politico del governo dell’Eu- rozona attraverso un maggior potere della BCE e ricordano il piano Marshal che aveva salvato la Germania anche se ex nazista, impedendole il precedente strango- lamento che aveva innescato il regime hitleriano.

Gli interventi della BCE – È invece fallito l’insistente tentativo della Germania di impedire immediata- mente alla BCE di continuare ad acquistare sul mercato obbligazioni di Stati membri per allentare forti pressioni speculative (sopratutto Buoni del Tesoro italiani e spa- gnoli) e di lasciare questo compito solo al Fondo Europeo di Stabilità finanziaria che è un organismo intergovernativo cui si dovrebbe dare uno statuto bancario per con- sentirgli di appoggiarsi alla BCE per gli interventi sul mercato dei Bonds. È stata la resistenza dell’entrante Presidente Draghi a bloccare la pressione te- desca: Draghi ha così voluto dimostrare la propria indipendenza nell’esercizio dei suoi poteri, anche se ha affermato che gli Stati in difficoltà non possono contare solo sull’intervento della BCE per risolvere i loro problemi. Dal neo Presidente dipenderà se la BCE, oltre al perseguimento dell’obiettivo principale che rimane saldamente il mantenimento della stabilità dei prezzi, e cioè la stabilità dell’Euro in termini di beni e servizi, vorrà anche perseguire, fatto salvo questo obiettivo principale, un altro obiettivo che le è stato assegnato dal Trattato di

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 81 Flavio Mondello

Lisbona e dai precedenti Trattati. Si tratta del sostegno delle politiche economiche nell’UE per rispettare l’obbligo dell’Unione di garantire, tra l’altro, “lo sviluppo so- stenibile dell’Europa basato su una crescita economica equilibrata, su una economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione, al pro- gresso sociale, alla protezione sociale, alla solidarietà tra le generazioni”. Il perseguimento di questo secondo obiettivo, che sino ad ora non era stato preso in seria considerazione dalla BCE, è attualmente oggetto di molte sollecita- zioni. La recente lettera della BCE all’Italia ed alla Spagna alla vigilia dell’insedia- mento di Draghi, ed il primo atto del nuovo Presidente, la riduzione del tasso di interesse delle principali operazioni di rifinanziamento della BCE, sono probabil- mente un segnale dell’avvio di un nuovo corso della governance economica euro- pea. Lo sta giustificando la significativa revisione al ribasso delle previsioni e delle proiezioni della crescita reale del pil nel 2012. D’altra parte non vi sarebbero con- troindicazioni perché il timore della recessione dovrebbe impedire all’inflazione un livello incompatibile con la stabilità dei prezzi.

Banche e bilanci pubblici –Per far mantenere la fiducia dei risparmiatori nelle banche impigliate nella crisi finanziaria, impedendo perdite ai depositanti, e per garantire all’economia (in particolare alle piccole e medie imprese) i crediti necessari per riprendere la cresci- ta, l’UE ha imposto alle banche, sulla base degli stress tests, una capitalizzazione di sicurezza, tenuto conto dei titoli a rischio di insolvenza, come taluni debiti sovrani, in particolare detenuti da banche francesi e tedesche. L’aumento di capitale delle banche dovrà prima di tutto di tutto effettuarsi col ricorso al mercato o la cessione di loro attivi, se necessario col ricorso al sostegno pubblico e solo in ultima istanza al Fondo Europeo salva Stati. L’intervento pubblico, che in definitiva ricade sui cit- tadini già sottoposti a pesanti sacrifici, comporterà la riduzione dei bonus per i ma- nager e degli interessi per gli azionisti. Nell’Eurozona lo spirito fondatore della moneta unica a Maastricht e cioè la “cultura della stabilità”, sarà garantita da una più intensa e preventiva sorveglianza comunitaria dei bilanci pubblici e delle riforme strutturali, affidata alla responsabi- lità della Commissione Europea perché non si ripetano precedenti errori. Si ricor- da al riguardo il lassismo del 2003 nell’applicazione del Patto di stabilità durante la Presidenza Chirac, del Cancelliere Schmit col Ministro Lafontaine e del Presidente Berlusconi col Ministro Tremonti. È stato infatti deciso un severo richiamo all’ordine di quei Governi che, dopo aver partecipato alle decisioni delle Istituzioni UE, non appena rientrati nei rispet- tivi Paesi, si dimostrino incapaci di fronteggiare reazioni politiche interne e non onorino la loro firma sovrana. Non si accetta neppure che i Governi, per dimostra- re di rispettare gli accordi raggiunti in sede comunitaria, sottopongano all’UE pro- grammi d’azione imprecisi nelle modalità e tempi di attuazione.

82 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello

Il programma d’azione dell’Italia – È sintomatico il caso del programma d’azione del Governo italiano, presen- tato per il risanamento del deficit e del troppo elevato debito e per la realizzazione di riforme strutturali necessarie all’innesco di una crescita sostenibile. Alle felicita- zioni del Vertice dell’Eurozona, confermate dal G20 di Cannes, è’ stato associato il monito di applicare“imperativamente” in fretta e con vigore, le misure con le rela- tive modalità di modi e tempi annunciate, così da garantirne la credibilità. L’Italia, grande Paese e nonostante la crisi del suo debito sovrano non sia paragonabile a quella del debito greco, è considerata un problema maggiore per la stabilità del- l’Eurozona. La pressione UE e del FMI aveva indotto l’allora Premier italiano a sollecitare al FMI la certificazione dell’attuazione del Programma d’azione con aggiornamenti su base trimestrale ed a concordare il controllo della Commissione UE per rendere credibile all’Europa ed al Mondo la propria capacità di tradurre gli impegni in pre- cise norme. L’Italia è dunque sotto la vigilanza di una troika FMI,Commissione UE e BCE, come nel caso di Grecia, Irlanda e Portogallo, anche se ha rifiutato un programma di assistenza finanziaria internazionale.

Il Governo Monti – L’Unione Europea, così come i vertici internazionali, hanno appreso con sod- disfazione il varo di un nuovo Governo tecnico presieduto dal Senatore a vita Prof. Mario Monti, molto stimato a livello mondiale anche per i suoi ottimi trascorsi di Vice Presidente della Commissione Europea e di severo commissario alla concor- renza: si ritiene credibile l’impegno assunto a Bruxelles dal nuovo Governo e l’Ita- lia è invitata a fianco del duo franco-tedesco affinché il trio rappresenti le principa- li economie dell’Eurozona che offrono all’Unione Europea una loro proposta per uscire dalla crisi. Il risanamento dell’Italia richiederà comunque tempi non brevi e continuerà il severo controllo dell’UE e del FMI per evitare che rischi di complica- zioni politiche interne compromettano la stabilità dell’intera Eurozona. Con riferimento a talune reazioni dei media e di ambienti politici sulla disci- plina comunitaria imposta ai Governi degli Stati membri si deve comunque affer- mare che non può essere considerato una umiliazione né una coercizione l’obbligo di stare ai patti comunitari precedentemente sottoscritti. La disciplina sollecitata non è una improvvisazione ma il risultato di dibattiti e decisioni concordate nel quadro istituzionale dell’Unione che avrebbero dovuto avere maggiore risonanza a livello nazionale al momento in cui erano state assunte.

«C.» Due aspetti del “Sistema Europa Unita” sollevano perplessità e comun- que dubbi, sia di natura funzionale e di poteri, sia relativi all’efficacia di quel ri-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 83 Flavio Mondello sultato che potremmo, con semplicità di immagine e di parole, definire lo “stare assieme” di tutti i Paesi aderenti. Uno riguarda la legittimazione democratica dei nuovi poteri del Governo dell’Eurozona (diciassette Paesi) e l’“imposizione” del rispetto delle regole; l’al- tro aspetto riguarda il conseguente rapporto Eurozona-Consiglio Europeo (ven- tisette Paesi). Non appare necessaria una revisione del Trattato di Lisbona per rafforzarne le regole, e quindi le ragioni e le volontà, e rendere consapevolmente irreversibile il processo verso la “Grande Europa”?

F.M.: Il Vertice comunitario dell’Eurozona, dopo le decisioni del 26 ottobre 2011, evidenzia la necessita di ampi poteri per far rispettare dai Paesi membri la di- sciplina concordata nell’ambito di una politica comunitaria di bilancio. Nuove regole di disciplina, anche se ancora non sufficientemente rafforzata, già approvate dai Governi di tutti i Paesi dell’Eurozona, sono state messe in atto, a partire dal 1° gennaio 2011, con dettagliate procedure unanimemente approvate. Queste comportano durante il “Semestre Europeo” (il primo semestre di ogni an- no) precisi impegni da parte di ognuno dei 17 Paesi di sottoporre preventivamente a Bruxelles i progetti di bilancio, rispettando le Raccomandazioni UE Paese per Paese precedentemente concordate. Nel 2° semestre viene effettuato “comunitaria- mente” un esame della compatibilità dei progetti di bilancio con tali impegni e vengono richieste le eventuali correzioni. Nel caso di insufficienti risposte seguono successive sollecitazioni che, in man- canza di adeguamenti, possono diventare vere e proprie dettagliate ingiunzioni, si- no a trasformarsi, per gli inadempienti persistenti, nelle sanzioni previste dal Trat- tato e che ora, come già precisato, si vorrebbe rendere più pesanti. La Sig.ra Merkel, invocando l’automatismo delle sanzioni, vorrebbe addirittura trascinare davanti al- la Corte di giustizia UE gli irriducibili inadempienti così da far camminare le san- zioni dalla stessa Corte. Sono addirittura in discussione possibilità di sospensione del diritto di voto o dei Fondi Europei ed interventi sulle procedure nazionali di bilancio. Il Governo tedesco deve comunque sempre ottenere il benestare della Corte costituzionale prima di trasferire nuove competenze e nuovi poteri.

Il rafforzamento del Trattato di Lisbona – I maggiori poteri del governo dell’Eurozona potrebbero anche essere demo- craticamente legittimati da una modifica del Trattato di Lisbona: questa volta, però, le variazioni dovrebbero essere limitate ed elaborate con previste procedure semplificate per non richiedere tempi troppo lunghi e scongiurare tentativi di in- taccare l’attuale architettura istituzionale dell’Unione e di alterare la natura dell’U- nione Europea. Comunque anche se le variazioni dovessero riguardare solo l’Euro- zona per una severissima Governance comunitaria di Bilancio, la riforma deve es-

84 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello sere decisa all’unanimità dei 27 Paesi membri. Per non ritoccare il Trattato non è stata esclusa la possibilità di ricorrere a delle “Cooperazioni rafforzate”, previste dal Trattato, che consentono decisioni solo tra alcuni Stati membri non inferiori a no- ve. Tuttavia anche questa soluzione richiede un accordo a 27 col rischio del no bri- tannico. Non è stato escluso, nell’impossibilità di modificare il Trattato, il ricorso alla formula iniziale intergovernativa di Schengen per la libera circolazione nell’UE, sottoscritta solo dai governi favorevoli. Formula che successivamente è stata comu- nitarizzata con la concessione di opt-out. La legittimazione democratica delle variazioni di un Trattato firmato da Gover- ni deriva dalle libere ratifiche nei 27 Paesi membri da parte di Parlamenti nazionali o di referendum popolari. Non è quindi accettabile la critica di una Unione Europea imposta dalle Can- cellerie ai Parlamenti nazionali ed ai cittadini dalle Cancellerie. La prova della im- possibilità di una simile imposizione è già intervenuta due volte: col rifiuto dei cit- tadini francesi e irlandesi di ratificare nel 2005 il Trattato Costituzionale approvato e firmato dai 27 Governi UE nel 2003 ed in precedenza nel 1954 con la mancata ratifica del Parlamento francese del Trattato della Comunità Europea della Difesa (CED) firmato dai Governi dei 6 Paesi della CECA nel 1952.

La proposta di riforma – Il problema della possibile riforma del Trattato di Lisbona è già stato messo all’ordine del giorno del Consiglio Europeo del prossimo dicembre e sarà discusso sulla base di una proposta del Presidente Van Rompuy e del Presidente della Com- missione Europea Barroso. La proposta riguarderà un programma d’azione che approfondisca ulterior- mente la governance economica, andando oltre il Patto di Stabilità e Crescita ed il Patto Euro plus.

Bilancio economico, controlli – Nel frattempo la Commissione ha presentato al Parlamento ed al Consiglio due proposte di legge che saranno di applicazione diretta ed immediata: la prima per rafforzare la sorveglianza di bilancio ed economica così da realizzare una coe- renza tra i 17 dell’Eurozona e gli altri 10 membri UE, la seconda per imporre ai Paesi con deficit eccessivi controlli molto severi e per sollecitare modifiche ai loro bilanci. È data inoltre ampia diffusione ad un “Libro verde” della Commissione per raccogliere le reazioni di “tutti gli interessati” su tre opzioni per l’emissione di Eu- robonds che sono definiti “Obbligazioni UE per la stabilità finanziaria” (“Stability Bonds”), da realizzare tuttavia non appena sarà raggiunto nell’Eurozona l’obietti- vo del rafforzamento della governance introducendo maggiore disciplina con san-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 85 Flavio Mondello zioni automatiche contro gli inadempimenti, e convergenza dei risultati economi- ci. Si tratterebbe allora di comunitarizzare una parte dei debiti sovrani dell’area Euro, dovendosi quindi decidere il controverso problema della ripartizione delle garanzie. È evidente che ormai è indispensabile dimostrare ai mercati, attraverso credibili meccanismi UE “salvastati”, che la sottoscrizione di debiti sovrani dell’Eurozona non sarà più a rischio e quindi non si potranno pretendere tassi di interesse elevati che creano ulteriori squilibri di bilancio e comprimono ulteriormente le già scarse disponibilità di credito. Attualmente la notevole forza della Germania, rispetto alla debolezza di molti suoi partner dell’Eurozona, fa si che lo Stato tedesco possa inde- bitarsi a tassi particolarmente bassi mentre molto elevati sono i tassi richiesti a Paesi in crisi come Italia e Spagna e anche ad altri Paesi ancora considerati solidi. La sig.ra Merkel sostiene a riguardo che è invece opportuno non intervenire, per es. con gli stability bonds, per livellare gli spreads poichè questi sono indicatori dei necessari aggiustamenti di bilancio. Occorre pertanto ricreare le condizioni prima della crisi quando i tassi erano praticamente uguali. È opportuno precisare che nell’Eurozona, una gran parte dei poteri derivanti da un trasferimento di sovranità nazionale all’UE sono già stati legittimati dal Trat- tato di Maastricht e dal successivo Patto di Stabilità e Sviluppo che è una legge co- munitaria, prevalente sulla legge nazionale e di applicazione diretta ed immediata negli Stati membri, approvata dopo lunghi dibattiti. Il Patto, per quanto riguarda i Paesi dell’Euro, riguarda soprattutto la disciplina per garantire il rispetto dei para- metri ammissibili di deficit e debito del bilancio pubblico inscritti nel Trattato: di- sciplina che, come già detto, deve essere notevolmente rafforzata. Nel frattempo, sempre per meglio legittimare democraticamente la Governan- ce Economica Europea diventa indispensabile, come già osservato, un maggior coinvolgimento del Parlamento Europeo, l’Istituzione eletta dai cittadini dell’U- nione, sia pure senza unica legge elettorale, garantendone il potere colegislativo col Consiglio.

Rapporto Eurozona-Consiglio Europeo – Un problema collegato, sollevato dai Paesi membri non partecipanti all’Euro e in particolare dalla Gran Bretagna che non ha alcuna intenzione di abbandonare la sterlina, è la necessità di evitare condotte separate del Vertice Monetario dei 17 membri dell’Eurozona e del Consiglio Europeo dei 27 Paesi membri, perché la cri- si dell’Eurozona e le sue soluzioni incidono su tutte le economie dell’Unione. L’Eu- rozona non può essere considerata una deroga all’UE. Londra ha chiesto il pieno rispetto dell’integrità dell’EU nel suo insieme, an- che se preferirebbe intendendo evitare la istituzionalizzazione di una Europa due velocità, tra l’altro ha preteso la conservazione dell’unità a 27 Paesi membri del mercato interno, non per nulla definito “mercato unico”, che rappresenta un im-

86 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello portante sbocco dell’export britannico. Il Premier Cameron tuttavia, nonostante abbia dichiarato essenziale per il Regno Unito un Euro stabile e forte, non ha anco- ra ottenuto, per l’opposizione francese, l’accordo politico sul coordinamento isti- tuzionale dei lavori a 27 con quelli a 17, ciò che in gran parte allevierebbe le conse- guenze della attuale non partecipazione britannica all’Euro. La recente intenzione accennata da ambienti governativi tedeschi di spezzare la Zona Euro in due, una forte ed una debole con diversi livelli di cambio dell’Euro per non continuare a sostenere i Paesi membri in difficoltà, sembra non ricordare che durante la fase dello SME (Sistema Monetario Europeo che ha preceduto l’Eu- ro) numerosi settori industriali tedeschi, per mantenere gli acquisti dei loro pro- dotti (es. automobili) da parte dei Paesi della Comunità Europea che avevano sva- lutato la loro divisa rispetto al Marco, avevano dovuto deprezzare privatamente il loro tasso di cambio ufficiale.

«C.»: Come potrebbe essere individuato e descritto il contributo delle politi- che comunitarie agli sforzi degli Stati per vincere la crisi in atto, in carenza di una politica comunitaria di governo dell’economia che lascia troppo esposti i singoli Paesi e mette addirittura a rischio la loro permanenza nell’Unione?

F.M.: È sorprendente constatare che, in taluni Paesi membri, poche notizie so- no filtrate da Bruxelles sulle politiche comunitarie che contribuiscono a sostenere gli onerosi sforzi a livello nazionale per vincere la crisi in atto e favorire crescita ed occupazione. Si sentono infatti avanzare dall’opinione pubblica critiche ed accuse alla Unione Europea ed a sue Istituzioni di non affrontare temi di loro responsabi- lità che, invece, sono ampiamente discussi in avviate fasi decisionali, anche se tal- volta complesse difficili, o addirittura sono già decisi. Il Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011, in preparazione della successiva sessione del 25-26 ottobre sulla crisi dell’Eurozona, ha voluto evidenziare i principali atteggiamenti, le intenzioni e le decisioni delle Istituzioni UE, in particolare con riferimento alla ampiamente di- battuta strategia Europa 2020. Limitandoci ad accennare ai principali capitoli affrontati dai Governi degli Sta- ti membri nelle Istituzioni UE si possono indicare: • le riforme strutturali individuate per la competitività, la crescita e l’occupazione, relative al mercato del lavoro nel rispetto della flexIsecurity (flessibilità legata alla sicurezza sociale) con particolare attenzione ai precari, al sistema pensionistico, ai rapporti di lavoro; • le privatizzazioni dei servizi e delle libere professioni; • l’efficacia del sistema giudiziario civile; • la lotta all’evasione fiscale;

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• il “Patto Euro plus”, da approfondire nel Consiglio Europeo di dicembre 2011, per migliorare il coordinamento delle politiche economiche finalizzate alla stabi- lità dell’Euro; • il pacchetto dei 6 atti legislativi per assicurare un più elevato livello di sorveglian- za e di coordinamento per evitare accumuli di squilibri economici eccessivi e per un affidabile esame annuale della crescita necessario alla migliore preparazione dei “Consigli economici di Primavera”; • i lavori legislativi sulle proposte della Commissione per il coordinamento delle politiche fiscali relativo alla base comune consolidata per l’imposta sulle società ed alla tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie che è rimasta in discussione nel G20; • la effettiva apertura a livello comunitario degli appalti pubblici; • l’integrazione comunitaria dei settori dell’energia e dei trasporti con finanzia- menti UE integrativi per la realizzazione di anelli infrastrutturali transnazionali; • la politica globale degli investimenti nel contesto della mondializzazione. È da sottolineare l’approfondimento in corso delle nuove regole e della loro re- lativa sorveglianza comunitaria, da applicare al sistema finanziario: si intende colla- borare col Consiglio Internazionale di Stabilità Finanziaria, sino ad ora presieduto da Draghi iniziatore di un ambizioso programma di riforma di quel settore che è stato all’origine della crisi globale in atto. In particolare si sta discutendo, nell’am- bito della governance economica, della riforma dei prodotti derivati, del sistema bancario parallelo e dei principi e norme delle remunerazioni nel settore bancario, della lotta ai paradisi fiscali ed anche della lotta alla eccessiva volatilità dei prezzi alimentari nell’ambito della sicurezza alimentare a livello mondiale. È inoltre rilevante l’impegno di rafforzare la dimensione sociale della mondia- lizzazione.

«C.»: Dopo la prima risposta del Consiglio Europeo dell’ottobre 2011 alla crisi dell’Eurozona quale riflessione si può fare sul più decisivo impegno dei Capi di Stato e di Governo dell’Eurozona, assunto il 9 dicembre 2011, per migliorare la governance economica e rispondere alla crisi del debito sovrano?

F.M.: Anche questa volta alla vigilia del Summit si è ripetuta la liturgia della estrema drammatizzazione della situazione. Nelle conclusioni, quasi all’alba, non si è verificata alcuna catastrofe e come ha dichiarato il Presidente Draghi della BCE : “non aveva alcuna probabilità né il crollo dell’Euro col ritorno alle valute nazionali, né la dissoluzione dell’Unione Europea”. Si sono consolidati l’Euro e l’Unione Eu- ropea. Ha inoltre affermato il Presidente Van Rompuy: “il risultato è molto buono anche perché si è imparato dai propri recenti errori”.

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È prevalsa la tesi da molto tempo in atto a Bruxelles, secondo cui il treno del- l’integrazione non può correre alla velocità del vagone più lento. In questo caso il vagone è il Governo di Londra che, sotto la minaccia degli eu- roscettici britannici di convocare un referendum per decidere se rimanere o meno nell’UE, ha opposto il veto a nuove regole UE in campo finanziario, da introdurre attraverso una riforma del Trattato. Il Premier Cameron lo ha fatto ritenendo di difendere ad oltranza l’autonomia dei servizi finanziari della City, ma è rimasto completamente isolato dai 17 del- l’Eurozona e dagli altri 9 Stati membri che ancora non applicano la moneta unica. Cameron rientrato in patria si è trovato contestato non solo dall’opposizione ma addirittura da membri del suo Governo e dal suo stesso Vice. D’altra parte era stata respinta, su pressione di Sarkozy ed a causa della gravità della situazione dell’intera Unione Europea, la richiesta di Londra di fruire ancora una volta di un opting-out, e cioè della possibilità di non applicare le nuove regole da introdurre nel Trattato, come già, per esempio, aveva ottenuto a Maastricht di non adottare l’Euro o, successivamente, di non attivare le regole della libera circo- lazione delle persone.

Nel 2012 un accordo intergovernativo – Mancata l’unanimità, pur di accelerare i tempi di un ambizioso e vincolante “Patto di bilancio” che di fatto instaura regole comuni per una “Unione di stabilità dei bilanci” a fianco della moneta unica, i 17 dell’Eurozona, con la piena adesione a tale processo da parte degli altri 9 membri dell’UE, hanno deciso di firmare entro marzo 2012 un Accordo intergovernativo. Obiettivo: stabilizzare il mercato finan- ziario, avviare a soluzione sistemica la crisi dell’Eurozona, consolidare l’Euro, in un contesto di disciplina di bilancio e di coordinamento notevolmente rafforzato delle politiche economiche nei settori di interesse comune. Si creano così le condizioni necessarie alla ripresa dell’economia. I 17 dell’Eurozona faranno comunque di tutto per incorporare il prima possibile le disposizioni dell’Accordo intergovernativo nei Trattati dell’Unione, così come era avvenuto per l’Accordo intergovernativo sulla libera circolazione delle persone. È stato pertanto deciso di stabilire un nuovo quadro giuridico per realizzare il “Patto sulla condotta dei bilanci pubblici nazionali”: una autentica “Unione di sta- bilità dei Bilanci” a fianco della moneta unica, con regole che impegnino ad una severa disciplina di bilancio, al coordinamento delle politiche economiche oltre ad un approfondimento dell’integrazione nel “Mercato interno”, per perseguire una maggiore crescita, una competitività rafforzata e la coesione sociale. In sintesi l’Accordo tradurrà il forte impegno dei 17 dell’Eurozona di salva- guardare in un nuovo quadro giuridico la stabilità dell’Euro e segnerà un passo avanti nella realizzazione di una architettura rafforzata per l’Unione Economica e Monetaria.

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Occorre ora che il mercato finanziario creda a questa volontà politica e cessi di destabilizzare i debiti sovrani dell’Unione Europea. Deve essere sottolineato che l’Unione Europea continuerà comunque ad appli- care le regole previste dall’attuale Trattato di Lisbona, ratificato da tutti i 27 Stati membri, per le numerose politiche di competenza comunitaria, salvo quelle decise il 9 dicembre 2011 da realizzarsi entro un diverso quadro giuridico. La vita dell’U- nione continua dunque per la concorrenza nel “Mercato interno”, il commercio, l’industria, l’agricoltura, la fiscalità, la giustizia, l’energia, l’ambiente, la politica estera, di sicurezza e di difesa comune, ecc.

Cooperazioni rafforzate – È opportuno rilevare che sarà utilizzata, col benestare dei 27, e quindi anche di Londra, la formula delle “Cooperazioni rafforzate” (politiche decise da più di 9 Stati membri, per es. i 17 dell’Eurozona) riguardanti questioni essenziali per il cor- retto funzionamento della Zona Euro già previste dal Trattato di Lisbona, senza compromettere, tra l’altro, l’unicità del mercato interno essenziale anche per il Re- gno Unito. Gli interventi decisi il 9 dicembre 2011 dai Capi di Stato e di Governo dell’Euro- zona hanno assunto due direzioni: un nuovo “Patto di bilancio” con un rafforzamen- to del coordinamento delle politiche economiche, ed il rafforzamento e sviluppo de- gli strumenti di stabilizzazione già decisi per fronteggiare le sfide a breve termine. Tu tti i dettagli sono stati, questa volta, ampiamente ripresi dai media ed illu- strati dai leader politici partecipanti al Summit di Bruxelles.

Ruoli delle istituzioni europee – È necessario mettere in evidenza che per raggiungere i due fondamentali obiettivi è stato fortemente potenziato il ricorso alla macchina istituzionale comu- nitaria. Alle Istituzioni dell’Unione sono stati attribuiti, sulla base dei principi espressi dai Capi di Stato e di Governo, ruoli fondamentali di proposta, di decisione, di va- lutazione, di controllo e di intervento, per esempio, nei confronti degli inadempi- menti degli impegni collettivamente assunti riguardo al pareggio di bilancio ed al debito dello Stato: – la Commissione, interprete dell’interesse comune, esamina la compatibilità dei progetti di bilancio nazionali ed esprime il proprio parere; – il Consiglio, quale legislatore, espressione degli interessi nazionali, esamina in- sieme al Parlamento Europeo, i progetti dei Regolamenti affinché siano messi rapidamente in vigore; – la Corte di Giustizia è garante dell’applicazione delle regole di bilancio; – la Banca Centrale Europea, nella sua assoluta indipendenza, è principalmente impegnata a mantenere la stabilità dei prezzi e, senza pregiudicarla, contribui-

90 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello

sce a promuovere uno sviluppo armonioso ed equilibrato dell’attività economi- ca, per es. garantendo opportuni flussi di finanziamento delle banche, anche acquistando, tra l’altro, loro attivi in titoli di Stato, ed agendo sui tassi di inte- resse favorisce la disponibilità di credito al mondo produttivo, oggi gravemente compromessa. – il Presidente del Consiglio Europeo è la figura cerniera tra il Patto intergover- nativo di bilancio e l’Unione Europea. La possibilità di comunitarizzare parte del debito sovrano degli Stati dell’Euro- zona attraverso l’emissione di Eurobond o di Stability bond, che sembrava essere stata abbandonata a seguito dell’opposizione tedesca preoccupata di ingenerare las- sismo,verrà discussa nel marzo prossimo in occasione della firma dell’Accordo in- tergovernativo, sulla base della proposta della Commissione. In conclusione si può affermare che il 9 dicembre 2011 sono state create, attra- verso progressive “solidarietà di fatto”, condizioni che dovrebbero portare al futuro traguardo di una Unione politica europea.

«C.»: Nonostante i progressi, anche sostanziali, del processo integrativo euro- peo, la pubblica opinione manifesta preoccupanti segni di euro scetticismo e sten- ta ad assorbire e metabolizzare l’ideale europeo, anche perché non è esattamente al corrente di quanto, come e cosa si decide a Bruxelles per carenza di informazio- ne e soprattutto non intravede una possibilità certa di “unione politica europea”. Considerando l’insufficiente perseguimento di questo obiettivo la causa principa- le di tentennamenti e di troppo lente decisioni comunitarie, quale potrebbe essere una corretta visione del fenomeno di integrazione europea in atto?

F.M.: Il recente Trattato di Lisbona, che è seguito all’infortunato Trattato costi- tuzionale firmato ma non ratificato, precisa che i Governi dei 27 Paesi firmatari istituiscono tra loro una Unione Europea che segna solamente una nuova tappa nel processo di creazione di una unione sempre più stretta tra i “popoli” d’Europa: oc- corrono ancora parecchi ulteriori passi da compiere e solidarietà da verificare per coronare politicamente l’integrazione europea. Il Trattato riconosce dunque per ora la necessità di creare solide basi per l’edifi- cazione dell’Europa futura pur senza definirla. Nella fase attuale si tratta dunque di rafforzare le basi su cui costruire una Europa politica e ciò è abbastanza importante se non essenziale per raggiungere il traguardo politico finale. La mancanza dell’espressione “Europa politica” nel Trattato non significa però che il contenuto della Unione non sia profondamente politico: infatti comporta la realizzazione di una serie di Politiche comuni che rafforzano l’identità dell’Europa e la sua indipendenza nel mondo. D’altra parte la stessa l’Unione è iniziata con un

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 91 Flavio Mondello progetto politico: garantire la pace nell’Europa occidentale. E l’Euro ha creato un legame indissolubile tra i partecipanti ed ha fatto scattare l’esigenza di una Unione più approfondita. Il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy ha messo in eviden- za che, per esempio, la sollecitazione di urgente Europa politica per creare una ef- fettiva Unione Fiscale europea, da affiancare all’Unione Economica e Monetaria, non tiene conto dell’impossibilità attuale del trasferimento di un sostanziale am- montare di tassazione e di spesa pubblica dai livelli nazionali al livello comunitario. Oggi il 98% della spesa pubblica nell’UE è nazionale e solo il 2% passa attra- verso il Bilancio dell’UE. Eirrealistico immaginare che questa situazione possa cambiare, se non subito, anche nel medio periodo, così come è irrealistica la possibilità di fissare livelli co- muni di imposizione fiscale nei Paesi membri. Forse potrebbe esserlo solo per l’I- VA. Ciò che è necessario e possibile è solo un maggior coordinamento nella tassa- zione sulle imprese, come più sopra accennato a proposito dell’impegno bilaterale franco-tedesco, essendo però consapevoli che in questo campo occorre sempre l’u- nanimità per deliberare.

L’utilizzo dei Fondi strutturali UE – Una Unione fiscale dovrebbe anche significare il trasferimento di risorse da- gli Stati più ricchi a quelli disagiati. Ma è bene ricordare che gli Stati membri han- no già dichiarato la loro riluttanza ad un radicale ampliamento dei Fondi struttu- rali UE che, anche se limitati, già esprimono solidarietà tra Stati membri. D’altra parte, secondo un parere che si sta evidenziando, l’ammontare di questi Fondi po- trebbe essere meglio finalizzato, nell’attuale fase critica, a facilitare riforme econo- miche che accelerino una ripresa competitiva. Tuttavia è evidente che la discrepanza tra il debole grado di integrazione della politica fiscale UE e l’alto livello della interdipendenza monetaria-finanziaria (con una moneta unica che richiede una disciplina anche fiscale) rende necessari nel medio termine ulteriori passi avanti in questo campo e su ciò, come sostiene il Consiglio Europeo, è opportuno avviare un serio dibattito pubblico. In definitiva pretendere che l’approccio dinamico per tappe successive di inte- grazione sia di colpo trasformato nella istituzione di una unitaria Europa politica non sembra ancora realista. Sarebbe più opportuno, tra le due tesi degli ossessiona- ti di questo futuro politico e di coloro che lo considerano solo una profonda aspi- razione, un approccio realista: considerare già politica una Unione che realizza le- gami così stretti tra i 27 Stati membri. Quanto alle critiche per i tentennamenti e la lentezza delle decisioni nell’Unio- ne Europea dovuti a carenza di leadership, il Presidente del Consiglio Europeo ha raffermato si debba prendere atto dell’esistenza di un divario oggettivo tra il tempo della democrazia ed il tempo dei mercati, tra le settimane, i mesi e gli anni delle

92 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello procedure in un Parlamento ed i giorni, i minuti od anche i secondi di un click di mouse che determina il ritmo di una Borsa. Non si può tuttavia ignorare che in passato, nella costruzione europea, sono state assunte decisioni da chi ha avuto il coraggio di non temporeggiare e superare forti interessi di potere personale o nazionale per privilegiare il progresso dell’inte- grazione europea.

I freni delle crisi interne agli Stati – Purtroppo la crisi in atto, col seguito di gravi sacrifici della popolazione, fini- sce col sollecitare reazioni, talvolta populiste, contro i trasferimenti di sovranità ad Istituzioni comunitarie accusate di non prendere in sufficiente considerazione le reali esigenze dei cittadini oppure di non saper affrontare con maggiore determina- zione le drammatiche conseguenze della crisi. In realtà sono talvolta i Capi di Stato e di Governo, prigionieri di loro condizionamenti nazionali, a rallentare o comun- que a condizionare il processo decisionale comunitario. D’altra parte si deve tener conto che i trasferimenti di sovranità in campo economico e finanziario ad una en- tità sopranazionale sono ormai imposti dalla sfida della globalizzazione dei mercati e dal progressivo riequilibrio delle leadership mondiali. Per quanto riguarda l’Eu- ropa, la sua leadership nel contesto mondiale non può certamente essere assunta come espressione dell’una o dell’altra leadership nazionale.

«C.»: Quale è l’indirizzo dell’Unione per la conciliazione dell’identità euro- pea e delle identità nazionali ancora solidamente ancorate a comportamenti e re- gole gelosamente difese e sottratte, anche parzialmente, ad una gestione più co- munitaria?

F.M.: L’Unione Europea continua a rispettare l’identità nazionale degli Stati membri senza metterla in contrapposizione con una identità europea. Il Trattato di Lisbona ha ripetuto che l’Unione non intende modificare gli ele- menti identitari di ciascuno degli Stati-Nazione membri relativi alla struttura poli- tica e costituzionale ed alle autonomie locali e regionali. L’unione inoltre non intende interferire nelle tre funzioni che ritiene peculiari dello Stato-Nazione: salvaguardia della integrità territoriale, mantenimento del- l’ordine pubblico, tutela della sicurezza nazionale. Non si deve però dimenticare che per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia Europea, i Trattati UE ed il Diritto da loro derivato prevalgono sempre sul Diritto degli Stati membri. Non si deve ugualmente dimenticare che per onorare l’impegno assunto con la firma del Trattato gli Stati membri devono “giornalmente” adottare ogni misura

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 93 Flavio Mondello necessaria per attuare gli obblighi comunitari che si sono loro stessi assegnati e per raggiungere i traguardi che si sono loro stessi imposti. Si è anche deciso che tutti i Governi degli Stati membri debbono facilitare l’U- nione nell’adempimento dei propri compiti astenendosi da qualsiasi misura che ri- schi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’UE.

Obblighi e ritiri – D’altra parte, secondo lo stesso Trattato di Lisbona, nessuno Stato membro è obbligato a rimanere nell’Unione Europea e, rispettando determinate procedure, ha sem- pre la possibilità, se non ritiene di poter rispettare l’evolversi degli impegni assunti, di ritirarsi dal processo integrativo e tentare di agire da solo o con altri partner nel nuovo contesto mondializzato, però senza più contare sulla solidarietà comunita- ria. Il Trattato non prende invece in considerazione la possibilità di un ritiro dal- l’Eurozona. È inoltre da chiarire che il Trattato UE, evidenziando il “Principio di Attribu- zione”, sottolinea che le Istituzioni dell’Unione non possono assegnarsi compiti che non siano compresi tra le competenze comunitarie loro conferite dagli stessi Stati membri: all’Unione gli Stati membri hanno devoluto il conseguimento di precisi obiettivi comuni in tre campi: “aspetti economici, sociali, monetari”, politi- ca estera di sicurezza e di difesa”, “spazio interno di libertà sicurezza, giustizia”. Sono problemi che, nel contesto della globalizzazione, possono essere risolti non con singole azioni nazionali ma solo con solidi impegni comunitari. L’Unione d’altra parte, in applicazione del “Principio di Sussidiarietà” può in- tervenire con leggi, elaborate ed emanate dalle proprie Istituzioni, soltanto se gli obiettivi comunitari condivisi non possono essere soddisfacentemente raggiunti da leggi nazionali, regionali o locali. Novità comunitaria è il fatto che arbitri di questa situazione sono i Parlamenti nazionali.

Il contributo richiesto ai Parlamenti nazionali – L’Unione sollecita ai Parlamenti nazionali un forte contributo attivo al suo buon funzionamento, che se dato con convinzione porta a rafforzare la legittimità comunitaria e ad avvicinare l’Europa ai cittadini. Purtroppo questo obiettivo non può considerarsi ancora raggiunto. Inoltre le elezioni del Parlamento Europeo, che comunque sta accentuando il suo potere colegislativo col Consiglio, rimangono ancora una sommatoria di ele- zioni nazionali e le campagne elettorali non fanno cogliere ai cittadini le valenze comunitarie delle Politiche UE, perché si limitano a privilegiare il piccolo cabotag- gio delle diatribe partitiche nazionali.

94 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello

«C.»: In molti paesi si accentuano prese di posizioni nazional-populiste con- trarie alla attuale costruzione europea che è accusata di imporre troppi sacrifici ai cittadini per fronteggiare la crisi in atto ed inoltre di trasformare l’identità euro- pea in una minaccia a consolidate identità nazionali. Come è possibile debellare queste derive che per di più incoraggiano l’euroscetticismo?

F.M.: Una dura obiezione nazional-populista al Trattato di Lisbona è l’implici- to sostegno al multiculturalismo e cioè alla coesistenza di molteplici matrici cultu- rali nelle società europee che sta diventando una minaccia alla identità originaria delle nazioni europee. Sono stati strumentalizzati interventi sul multiculturalismo da parte di Nicolas Sarkozy, di David Cameron e di Angela Merkel, preoccupati delle reazioni di lavo- ratori, di un numero sempre maggiore di pensionati in paesi che invecchiano e di cittadini di fronte alle difficoltà economiche in una Europa sottoposta alle pressio- ni di giovani immigrati da paesi in sottosviluppo. L’obiettivo di tali dichiarazioni era certamente quello di marginalizzare movi- menti nazional-populisti di destra e di partiti minori, o precedentemente irrilevan- ti che si sono evidenziati in recenti elezioni politiche ed anche di contrastare recen- ti derive di partiti tradizionalmente europeisti che di fronte all’attuale crisi hanno fatto prevalere, anziché la solidarietà, tendenze egoistiche. È pertanto necessario contrastare eccessive prese di posizione che sfiorano il razzi- smo e risvegliano tentazioni di identità nazionaliste se non separatiste, accusando l’Unione Europea di minacciare le basi etniche della identità nazionale e di non saper contrastare il mondialismo cosmopolita ed il multiculturalismo. In definitiva il na- zional-populismo accusa l’UE di estinguere l’identità del continente europeo.

Le minacce separatiste – L’eccesso di estremismo xenofobo, che inaspettatamente ha raggiunto il pa- rossismo nella recente strage di giovani in Norvegia, ha immediatamente mobilita- to l’UE che, tramite EUROPOL (Agenzia Europea di polizia istituita nel 1992 che si occupa di intelligence in ambito criminale), in collaborazione con INTERPOL, ha creato una task force per fronteggiare in maniera coordinata questa minaccia. Purtroppo il tentativo in atto di valorizzare soprattutto l’identità della Nazione che si eredita e non quella che si può costruire con l’integrazione europea, fa brec- cia negli euro scettici che si credono minacciati nella loro sicurezza e nella loro identità; addirittura talune forze politiche che maggiormente li rappresentano ac- cusano l’UE di “colpi di Stato” per rovesciare taluni Governi imponendo loro in- sopportabili misure anticrisi. Il richiamo populista alle basi etniche dell’UE, che nel contesto dell’evoluzione geopolitica mondiale sarebbe meglio considerare”provincialismo”, ha strumenta- lizzato la politica comunitaria dell’immigrazione.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 95 Flavio Mondello

Lo Spazio di libera circolazione di Schengen è stato giudicato troppo acco- gliente di immigrati provenienti sia dalla confinante Federazione post comunista degli Stati legati a Mosca, sia dalla riva Sud del Mediterraneo in fibrillazione. L’anti multiculturalismo in questo caso è riferito maggiormente al complesso rapporto tra gli occidentali e gli arabi mussulmani. Occorre contrastare la tesi nazional-populista, supportata dall’euroscetticismo, secondo cui l’identità europea perseguita dal Trattato di Lisbona non è in grado di suscitare emozioni e di sollecitare una adesione popolare. In realtà non diminuisce la domanda di Unione Europea di molti Paesi che ambiscono farvi parte non solo alla ricerca di prosperità, ma anche per acquisire i nostri valori, la nostra libertà ed anche il nostro Euro che, in un solo decennio di vita, è diventato la 2° moneta mondiale.

Carenze nella comunicazione – L’insufficiente conoscenza dell’attività delle Istituzioni europee fa molte volte percepire le Autorità di Bruxelles lontane e astratte forse anche perché sono pla- smate essenzialmente dai Governi degli Stati membri che, a loro volta, non sempre sono considerati vicini alle esigenze dei cittadini. Si deve aggiungere che anche di- sinformazioni su talune Politiche comunitarie le fanno sembrare slegate dalle attese popolari perché all’interno degli Stati membri si tende a far attribuire al proprio Governo i meriti di decisioni comunitarie particolarmente positive, mentre si sca- rica sulla UE l’imposizione di provvedimenti che comportano particolare severità anche se questa è indispensabile. Le pur legittime discussioni tra i partner europei in vista di difficili soluzioni si svolgono in pubblico evidenziando così le divergenze con seguito di minacce nego- ziali. Ciò propaga l’inquietudine e dà l’impressione di irreparabili divisioni, anche se poi queste finiscono sempre col comporsi in un accordo. Questa trasparenza dei dibattiti può talvolta creare l’impressione di inadegua- tezza e di incertezza dell’UE di fronte alla gravità della posta in gioco, ma ciò che conta sono le conclusioni cui si giunge. Certamente per non lasciar diffondere le tesi nazional-populiste si devono de- nunciare le disinformazioni a scopi elettorali, ma è anche opportuno rendere più comprensibili e incisivi i comunicati UE oltre a dare completezza al sito informatico ufficiale UE, attualmente scarsamente efficace. Sono inoltre necessari più convincen- ti e motivanti interventi pubblici dei responsabili comunitari delle Politiche UE in ogni campo, se non altro per alimentare un sentimento di fierezza di essere europei.

«C.»: Il “Gruppo dei 10” che, nell’ambito dell’attività dell’Istituto Luigi Sturzo, effettua un periodico monitoraggio dei fenomeni in atto ed in prospetti-

96 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Flavio Mondello va dell’attività dell’Unione Europea e delle sue Istituzioni, come vede nel mo- mento attuale l’evoluzione del processo integrativo europeo?

F.M.: L’Istituto Luigi Sturzo ha voluto offrire ospitalità ad un gruppo di con- vinti assertori dell’idea europea, costituitosi all’inizio del 2000 come “Gruppo dei 10” che ha fatto leva sull’esperienza comunitaria dei suoi membri i quali, per lungo tempo, sono stati attori, con ruoli diversi,del processo integrativo europeo. Come ha rilevato l’allora Presidente dell’Istituto, il compianto Prof Gabriele De Rosa, era opportuno favorire una migliore conoscenza della realtà dell’Unione Europea in continua evoluzione, perché i risultati straordinari conseguiti diventas- sero lo sprone per avere ragione delle difficoltà, talvolta delusioni, spesso delle in- comprensioni o ancor più spesso della carenza di informazione che rallentano ll processo europeo. Il loro superamento evidenzia la convinzione che il fine ultimo dell’unità europea, non solo economica, ma anche politica, sia il destino di noi tut- ti in una Europa quale patrimonio condiviso. È questo un compito che il Gruppo dei 10, in piena adesione al metodo di la- voro comunitario, vuole perseguire per approfondire i problemi attuali formulan- do proposte che siano politicamente attuabili, e considerate indispensabili per ce- mentare i popoli europei in una Unione Europea all’interno del nuovo contesto della mondializzazione. Il Gruppo è confortato dai ricorrenti apprezzamenti della sua attività che si esplicita attraverso periodici Documenti.

La ricchezza delle diversità – Per vincere la sfida lanciata alla identità europea il Gruppo è convinto che le diversità che caratterizzano l’Europa, quando positive, devono essere considerate una autentica e peculiare ricchezza comune, perché non impediscono la possibilità di perseguire la solidarietà tra i popoli e realizzare uno dei principali obiettivi co- munitari: la coesione economica, sociale oltre che territoriale, attraverso equità e rigore, reciproco rispetto, leale cooperazione, reciproca assistenza. A tal fine occor- re suscitare realizzare tra i cittadini europei un forte sentimento di cittadinanza co- mune.

La fierezza di essere europei –IlGruppo ritiene che l’Unione Europea di oggi non è più la Comunità del cuore e della passione degli inizi della Comunità Carbosiderurgica, finalizzata ad eliminare secolari guerre fratricide ed a far sognare una Europa politicamente uni- ta, ma è certamente l’Europa della ragione per affrontare con la fierezza di essere europei la sfida della globalizzazione dei mercati e del progressivo riequilibrio delle leadership mondiali. Leadership che, per quanto ci riguarda, non si addicono a sin- goli Paesi membri dell’UE ma ad una Europa che sa essere economicamente e poli- ticamente integrata e che sa esprimersi con voce unica.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 97 Flavio Mondello

Il processo integrativo europeo, per perseguire questo obiettivo sta compiendo straordinari passi avanti se ci si riferisce al drammatico dopo la seconda guerra mondiale. Occorre ora la determinazione di superare i numerosi inevitabili ostaco- li che ancora si frappongono al suo cammino. Il Gruppo in definitiva apprezza che l’Europa in costruzione dimostri concreto attaccamento ai principi della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza ed al ri- spetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto soprat- tutto quando intende innovare la sua Politica di Vicinato con le confinanti aree evo- lutive dei Paesi all’Est, dei Paesi confluenti sul Mar Nero, del Medio Oriente e del Mediterraneo Sud che aspirano a gravitare intorno all’Unione Europea.

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98 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Il modello sociale europeo Un fattore decisivo per superare la crisi

La crisi economico-finanziaria che sta imperversando MARCO RICCERI sull’Europa finirà per trasformare anche il suo modello Segretario generale sociale di riferimento? Eurispes La questione è obbiettivamente di grande rilievo sia per- Docente di Storia ché il modello sociale è stato – ed è tuttora – uno dei fat- dell’integrazione tori essenziale della grande crescita europea dal dopo- europea Link guerra ad oggi, sia perché è un elemento costitutivo della Campus University coesione dell’intero sistema. Le ipotesi di soluzione sono diverse e del tutto aperte perché il superamento della cri- si, e quindi il mantenimento o meno del modello sociale, sia pur rinnovato e ammodernato, è legato al modo in ≈ cui i decisori politici ed i principali soggetti economici e sociali sapranno affrontare un passaggio inevitabile: «[necessaria la] quello relativo alla Grande correzione da apportare alle costruzione di modalità tradizionali del processo di sviluppo. nuovi equilibri, idonei a La domanda iniziale porta a svolgere alcune considera- ridisegnare i zioni preliminari, utili per individuare alcuni elementi rapporti tra di una plausibile risposta. economia e diritto […] tra capitalismo e democrazia […] in «Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la bona teorica» grado di riattivare Leonardo da Vinci una cittadinanza attiva e responsabile». ÿ Tre considerazioni ≈ • La prima considerazione, di carattere storico, riguarda l’evolversi del processo di unificazione europea che fin dal- l’inizio non è mai stato lineare, ma ha proceduto come per salti, sospinto in avanti dalla necessità di affrontare e supe- rare le gravi difficoltà che si presentavano al momento. Ad un esame attento dei vari passaggi, risulta come un legame consequenziale tra crisi esterne ed avanzamento del processo

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 99 Marco Ricceri di integrazione. Gli stessi trattati di Roma del 1957, ad esempio, con la nascita delle Comunità Europee, (la CEE ed EURATOM che si aggiunsero alla CECA, già operativa dal 1951), furono sbloccati e siglati solo dopo gli avvenimenti del 1956, caratterizzato dalle repressioni delle rivolte popolari in Polonia e Ungheria e dal fallimento dell’ultima vicenda imperialista in occasione della crisi del canale di Suez, la spedizione in Egitto di Francia e Gran Bretagna. Negli anni ’70, gli im- pulsi esterni vennero dalla crisi del dollaro e del petrolio e da quei movimenti di contestazione giovanile che in tutto il mondo occidentale cambiarono mentalità, stili di vita, modo di fare politica. L’avvio di un primo coordinamento tra le mone- te (il famoso “serpente monetario”, poi dello SME – Sistema Monetario Europeo), i prime progetti concreti di unione economica e monetaria (Rapporto Werner) di Unione europea (Rapporto Tindemans) e soprattutto, le prime elezioni dirette del Parlamento europeo (1979) sono legati indubbiamente a quei cambiamenti di scenario. Così è stato anche al termine degli ani ’80, con le risposte date alla cadu- ta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’URSS, risposte segnate dalla nascita dell’Unione Economica e Monetaria, della moneta unica, dell’allargamento a 27 Stati membri e di un nuovo sistema di governance. C’è, insomma, da valutare questo dato storico che ha visto sempre il nostro continente rispondere con “più Europa” alle sollecitazioni esterne. Anche se il progetto attuato finora è ben lonta- no dalle aspettative e sollecitazioni degli europeisti, non vi è dubbio che la consa- pevolezza crescente della grande integrazione di sistema ha finito in ogni occasio- ne per produrre azioni positive di crescita, non di arretramento, del cammino eu- ropeo. • La seconda considerazione, di carattere economico, riguarda la natura della crisi, che stiamo attraversando, la sua origine ed evoluzione attuale. La crisi è ini- ziata come crisi finanziaria, ma si è evoluta successivamente come crisi economica, quindi produttiva, quindi occupazionale e sociale. Siamo, cioè, di fronte ad un processo che ha finito per investire numerosi ambiti della società: l’economia, il li- vello di reddito e dei consumi della gente, le condizioni sociali, lo stile di vita, la fi- ducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e degli attori dello sviluppo, la ba- se del consenso politico. È lettura comune che si tratta di una crisi non congiuntu- rale, ma strutturale, cosa che rende assai difficile fare delle previsioni serie e valide sul futuro. In ogni caso l’esperienza ha dimostrato che quando accadono crisi di ti- po strutturale i vari sistemi entrano in una situazione nuova, piena di variabili im- ponderabili, di cui è praticamente impossibile immaginare lo sbocco finale; ma è certo che ne escono profondamente trasformati rispetto alla situazione iniziale. In queste condizioni, la grande scienza economica fa un passo indietro perché la ri-re- golazione di un sistema investe i rapporti tra interessi ed esigenze complesse, anti- che e nuove, che solo la politica può rappresentare, con i valori di riferimento della convivenza civile. Come il sistema di cui fa parte, il modello sociale europeo è in- vestito in pieno dalle trasformazioni strutturali in atto ed è obbiettivamente diffici-

100 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri le immaginare a quali aggiustamenti sarà soggetto, come esito dei nuovi equilibri economici, sociali e politici che inevitabilmente finiranno per emergere ed affer- marsi. • La terza considerazione è di carattere sociale e si riferisce alla natura stessa del modello sociale europeo. A tale proposito va detto subito che con tale modello sia- mo di fronte ad uno strumento, teorico e pratico, che riguarda, certo, le politiche sociali e l’organizzazione del sistema di welfare; ma per i significati sempre più am- pi che la stessa Unione Europea ha finito per riconoscergli, soprattutto dal 2000 ad oggi, riguarda l’intero processo di sviluppo. In sostanza, con il modello sociale eu- ropeo siamo di fronte ad un vero e proprio modello di sviluppo, incardinato su precisi principi: l’efficienza nell’impiego delle risorse umane e materiali di cui una società dispone, la sostenibilità economica, sociale e ambientale dello sviluppo, la responsabilizzazione e partecipazione di tutti gli attori della crescita alle scelte fon- damentali. In quanto modello economico-culturale-politico, esso esprime quindi la visione di uno sviluppo equilibrato, solidale, democratico. Sul piano pratico il modello sociale europeo promuove iniziative che riguardano, certo, le tutele e le assistenze sociali, ma in termini più ampi riguardano il sistema dei diritti di un cit- tadino e della sua famiglia ad una crescita dignitosa, di un lavoratore a partecipare alle scelte aziendali; interpreta le politiche sociali come politiche produttive pro- muovendo la ricerca di un equilibrio tra produzione e distribuzione della ricchezza per rispondere in tal modo alla duplice esigenza della efficienza economica dell’eti- ca solidaristica, persegue la sostenibilità dello sviluppo sulla base di una scelta di ra- zionalità finalizzata ad evitare che un sistema arrivi a dei punti di rottura causati dall’eccessivo impoverimento delle persone, da fenomeni diffusi di disagio, preca- rietà e insicurezza sociale. Questa interpretazione del modello sociale europeo è sancita nel trattato di Li- sbona del 2007, entrato in vigore nel 2009, che regge attualmente la vita dell’U- nione Europea. Esso è il punto di arrivo di un processo evolutivo, durato decenni, nel corso del quale si è via via riconosciuto un valore sempre più grande alla politi- ca sociale, dalla funzione secondaria e di supporto alla politica economica dei pri- mi anni della vicenda comunitaria, fino alla svolta della strategia di crescita Lisbo- na 2000 che l’ha riconosciuta come un fattore essenziale dello sviluppo. Infine, il suo inserimento nell’ultimo trattato dell’Unione, con l’adozione della cosiddetta “clausola sociale” e l’affermazione, nell’articolato, che quello europeo è un sistema fondato su una “economia sociale di mercato”.

ÿ UE: il Trattato di Lisbona 2007 e la “clausola sociale”

• In Europa, il riferimento generale a cui collegare la costruzione di un equili- brio tra sviluppo economico e sociale è segnato dai principi e dalle azioni che per-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 101 Marco Ricceri seguono due obbiettivi: obbiettivo prosperità (competitività, efficienza, piena occu- pazione) e obbiettivo solidarietà (coesione sociale e territoriale, lotta all’esclusione sociale). L’importanza di politiche efficaci in questi due ambiti precisi è ben presente nei documenti dell’Unione Europea, a cominciare dall’atto fondamentale del Trat- tato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 (Trattato sull’Unione Europea, Trattato sul funzionamento dell’Unione Eu- ropea, Protocolli e Dichiarazioni allegate).. Come è noto, il trattato riforma la struttura dell’Unione e rilancia il processo di integrazione su nuove basi, definendo un diverso sistema di governance, di com- petenze e di impegni che riguardano le istituzioni europee, gli Stati membri ed i cittadini. Esso è il risultato di un faticoso compromesso politico che ha consentito all’Unione di uscire dalla lunga fase di incertezza seguita alla bocciatura referenda- ria del precedente trattato del 2004, “Una costituzione per l’Europa”, il quale si era posto l’ambizioso obbiettivo – il sogno di tanti europeisti – di avviare un processo di integrazione anchepolitico-istituzionale del continente (verso gli Stati Uniti d’Europa). È importante rilevare che nel trattato di Lisbona, la questione sociale assume un rilievo di primo piano, al pari delle altre questioni relative al progresso ed alla crescita dell’Unione. Il riconoscimento della sua importanza si traduce, concreta- mente, nell’affermazione di determinati principi, in un particolare approccio alle politiche di sviluppo, nella tutela di diritti e interessi ritenuti fondamentali, nell’at- tribuzione di specifiche competenze e responsabilità ai principali attori sociali e territoriali. Quest’insieme di elementi, di ordine generale e particolare, caratterizza il nuovo orientamento che viene definito con una espressione precisa: la “clausola sociale”. Con queste parole, l’Unione ha chiarito sia la concezione del tipo di progresso da perseguire, sia la condizionalità che deve sovrintendere alle politiche ed agli atti conseguenti. La “clausola sociale” è, in sintesi, l’espressione di una precisa interpre- tazione e visione della società europea, del suo modello di sviluppo, del valore delle esigenze manifestate dai cittadini. È questa clausola che definisce le caratteristiche peculiari del modello sociale europeo e gli elementi di distinzione da altri modelli, come,ad esempio, il modello sociale americano. Questa profonda innovazione, che ha assunto un grande valore appunto per il suo inserimento nel trattato che regge attualmente l’Unione, può essere considera- ta come uno degli elementi più importanti e positivi emersi dal faticoso compro- messo politico da cui il trattato stesso è scaturito. Non vi è dubbio, che su questo inserimento hanno influito due elementi preci- si: a) la gravità della crisi finanziaria ed economica che ha investito l’Europa pro- prio nel periodo dell’approvazione del trattato; b) la valutazione attenta delle profonde trasformazioni che da tempo sono in atto nella società europea.

102 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri

ÿ La funzione del dialogo sociale

• Si tratta, quindi, di un percorso lungo, di un processo di maturazione e di presa di coscienza con il quale si è messo un punto fermo nel processo della inte- grazione europea. È chiaro che un riconoscimento formale, come quello sancito dal trattato di Lisbona, può rivelarsi insufficiente se non è seguito da una interpre- tazione corretta e, soprattutto, da un’azione politica conseguente da parte dei sog- getti pubblici e privati protagonisti della crescita. A tale riguardo, ad esempio, assai rilevante è la funzione riconosciuta al “dialogo sociale”. In ogni caso, questo punto fermo, questa acquisizione esiste: e ciò è di per sé un fatto importante. In pratica, con l’approvazione della “clausola sociale”, l’Unione ha assunto l’impegno formale e fondamentale a valutare ed organizzare le politiche di svilup- po in modo da promuovere nello stesso tempo anche un reale progresso sociale, di cui riconosce la valenza non solo in termini di giustizia ma anche di apporto alla crescita economica ed alla coesione dell’intero sistema. Questo è l’elemento costi- tutivo della nuova fase del processo di integrazione; un elemento che rappresenta, obbiettivamente, un vero salto di qualità rispetto alle fasi precedenti. È ben vero che questo obbiettivo era presente con uguale chiarezza nei documenti politici e programmatici dell’Unione, come ad esempio nella strategia di sviluppo “Lisbona 2000-2010”, che avevano legato le politiche per la crescita al vincolo della loro complessiva sostenibilità; ma non era stato sancito in modo così esplicito da un at- to fondamentale come un trattato.

ÿ UE: il Trattato di Lisbona e gli articoli della “svolta” sociale.

• Esaminiamo questa innovazione in termini più precisi. In base al trattato di Lisbona, l’Unione dovrà operare secondo i principi della solidarietà, sussidiarietà, coesione economica, sociale, territoriale (artt.3-5) per promuovere uno sviluppo soste- nibile basato…su un’economia sociale di mercato altamente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale (art.3). Lo strumento principale per il rag- giungimento di questo obbiettivo è la organizzazione di un comune mercato unico (art.3), nel quale dovranno essere garantite le quattro libertà fondamentali di libera circolazione delle persone, merci, servizi e capitali. L’approccio metodologico, di alto valore politico, privilegia, insieme alla collaborazione tra gli Stati, anche il ruo- lo delle parti sociali. A rafforzare questa nuova impostazione, di grande attenzione alle questioni so- ciali e del lavoro, contribuisce in modo decisivo, in base al trattato, anche il ricono- scimento e l’inserimento nel sistema del diritto europeo, della Carta dei diritti fon- damentali dell’Unione Europea, con i suoi principi che regolano anche le dinamiche sociali. In questo modo, la Carta assume un valore cogente: «L’Unione riconosce i

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 103 Marco Ricceri diritti, le libertà e i principi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea …Essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati». (art.6). Sono questi gli articoli principali, in base ai quali la “clausola sociale” è entrata di diritto nel patrimonio costitutivo dell’Unione Europea. Riguardo ai possibili in- terventi in materia di promozione sociale, le principali innovazioni introdotte dal trattato si trovano nei seguenti punti: a) il riferimento ad un modello economico definito economia sociale di mercato L’associazione delle due nozioni, “economia di mercato” e “sociale”, impegna la UE a valutare ogni iniziativa a favore del mercato con il criterio degli effetti sociali che tali iniziative possono produrre; e la valutazione non è un fatto limitato al giu- dizio politico ma, come è previsto anche per l’obbiettivo della piena occupazione, è un fatto che deve essere necessariamente monitorato e misurato. In altre parole, il rispetto della “clausola sociale” diventa un vincolo per tutte le politiche della UE, il nuovo riferimento per valutare e misurare anche l’efficienza e l’efficacia delle poli- tiche per il lavoro e la promozione sociale. Tutto ciò vale, indubbiamente, anche se il trattato presenta una indubbia contraddizione nella definizione del sistema eco- nomico di riferimento. In effetti, mentre il Trattato sull’Unione Europea definisce con molta chiarezza che quello europeo è un sistema di “economia sociale di mer- cato”, la seconda parte del trattato, cioè il Trattato sul funzionamento dell’Unione, mantiene la precedente definizione di “economia di mercato aperto”. Sarà la vo- lontà politica degli attori dello sviluppo a superare questo punto di incoerenza. b) Il riferimento esplicito all’obiettivo della piena occupazione Nei trattati precedenti, l’espressione usata al riguardo aveva un significato deci- samente diverso. Si parlava, infatti, di “un livello elevato di occupazione”. In que- sto caso, si tratta di un passaggio di grande portata perché impegna gli Stati mem- bri su un obiettivo ben preciso, misurabile anche sul piano statistico. La UE e gli Stati membri dovranno, in pratica, compiere ogni sforzo possibile per ridurre al minimo la disoccupazione, al limite per portarla a livello zero. Al contrario, con la precedente espressione, “un livello di occupazione elevato”, non si poteva fare rife- rimento ad alcuna nozione precisa; o, meglio, si faceva riferimento ad una nozione che poteva essere interpretata in modi molto diversi tra loro. L’unico limite di que- sta innovazione, un altro punto di incoerenza, è che l’antica designazione è rimasta nella seconda parte del trattato, cioè nel Trattato sul funzionamento della UE. An- che questo fatto potrà essere causa di contrasti interpretativi in futuro. c) Il riferimento al ruolo del dialogo tra le parti sociali Molta rilevanza ha assunto il ruolo del dialogo tra le parti sociali. Esso era già presente nei precedenti trattati, ma ha assunto una funzione molto più importante con il nuovo trattato di Lisbona. L’Unione riconosce e promuove il ruolo delle parti

104 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri sociali … tenendo presente la diversità dei sistemi nazionali. L’Unione facilita il dialo- go tra le parti, nel rispetto della loro autonomia. Il vertice sociale tripartito per la cresci- ta e l’occupazione contribuirà al dialogo sociale. In pratica, in base al trattato di Li- sbona, per il raggiungimento degli obbiettivi della piena occupazione e della co- struzione di un’economia sociale di mercato, l’Unione Europea fa in questo caso, da un lato, come un passo indietro nella sua azione di coordinamento e, dall’altro, affida alle parti sociali un ruolo attivo di rilevanza fondamentale. Questo nuovo ri- ferimento alla funzione delle parti sociali è da ritenere di grande rilievo per l’impo- stazione e l’efficacia delle politiche sociali e del lavoro. Infatti, è dal dialogo tra le parti che potranno emergere – è una possibilità – nuovi, originali elementi per l’a- vanzamento di quest’insieme di politiche. Dal canto suo l’Unione si è resa disponi- bile a riconoscere i risultati degli accordi tra le parti in determinate materie, a rece- pirli e tradurre tali accordi in proprie disposizioni di legge. Importante sarà anche la organizzazione dei vertici sociali tripartiti, che dovranno precedere quelli dei Ca- pi di stato e di governo. d) Il non riferimento al metodo aperto di coordinamento Un’altra novità importante riguarda il fatto che il cosiddetto “metodo aperto di coordinamento” – che stava alla base della strategia di crescita Lisbona 2000-2010 – non è più richiamato in modo esplicito. In pratica è stato come abbandonato, anche se in diversi articoli del trattato, in generale, viene ancora richiamata l’im- portanza della funzione di coordinamento esercitata dalla UE. Ma un riferimento esplicito al metodo aperto di coordinamento è stato cancellato. In realtà, l’Unione risulta sempre più orientata a rafforzare l’azione di coordinamento delle politiche sociali e del lavoro con l’aggiunta di precise indicazioni di percorso, i segnali euro- pei, indispensabili per orientare gli operatori pubblici e privati. Questi “segnali”, quando sono accompagnati da indicatori e misuratori precisi delle perfomances, so- no destinati a diventare degli strumenti essenziali per valutare l’efficacia delle poli- tiche nazionali e regionali e la capacità dei servizi di soddisfare le esigenze delle im- prese, dei lavoratori, delle comunità locali. Va aggiunto che questa linea di impegno sugli indicatori comuni più idonei a misurare lo sviluppo economico e sociale, è coerente con il nuovo indirizzo com- plessivo delle politiche di sviluppo della UE; e, se esteso fino a comprendere la va- lutazione di quella che viene definita la qualità sociale della crescita, è destinato a diventare senza dubbio un’occasione importante per affrontare in termini adeguati le problematiche della promozione sociale. Da tempo, sono già in atto delle inizia- tive della Commissione Europea per elaborare misuratori di progresso che vadano oltre il riferimento tradizionale al PIL (vedi la Comunicazione n.433/2009); e ciò in base all’idea che lo sviluppo non deve essere misurato solo con riferimento al va- lore dei beni e servizi scambiati sul mercato, ma anche in termini di qualità della vita.

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ÿ I precedenti: l’Agenda sociale e la “visione sociale” europea (2007-2010)

• Per comprenderne il valore del salto di qualità compiuto con il trattato di Li- sbona e le possibilità che esso apre agli interventi in materia di promozione sociale, è utile ricordare, come si è già accennato, che già nella strategia di sviluppo appro- vata a Lisbona nel 2000 – il riferimento delle politiche europee del decennio 2000- 2010 – si era riconosciuta l’importanza di perseguire una linea di equilibrio tra tre diverse tipologie di sostenibilità: economica, sociale, ambientale. Solo il rispetto di questo equilibrio, nel quale alle questioni sociali era riconosciuto un ruolo fonda- mentale, avrebbe potuto assicurare all’Europa un reale progresso e il recupero di margini di competitività sulla scena mondiale. Ma è nell’adeguamento dell’Agenda Sociale europea (Agenda sociale rinnovata 2008) e, come vedremo in seguito, nella parallela elaborazione della nuova strate- gia di sviluppo EU 2020, con cui è stata sostituita la precedente strategia di Lisbo- na, che la Commissione ha fatto emergere con chiarezza la propria visione sociale per l’Europa del XXI secolo. Nel 2007, in occasione di una consultazione pubblica, la Commissione ha diffu- so un documento per tracciare un bilancio della realtà sociale in Europa ed adeguare le indicazioni della Agenda sociale 2006-2010 alle nuove esigenze emerse con la crisi. Nello stesso tempo il documento aveva lo scopo di offrire degli elementi di cono- scenza a quanti, nello stesso periodo, erano impegnati nelle complesse trattative che fino all’ultimo momento hanno accompagnato la ratifica del trattato di Lisbona. (Gli obbiettivi e le misure dell’Agenda sociale sono stati successivamente modificati nel 2010, contemporaneamente all’avvio della nuova strategia di sviluppo EU 2020). Come migliorare il benessere, la qualità della vita e i valori comuni dei cittadini nel mondo odierno?. Quando si parla di realtà sociale dell’Europa di quali realtà si tratta? La Commissione muove da queste domande per definire una sua interpreta- zione della situazione europea e disegnare un sua visione per il futuro. Per la Commissione, ciò che sta cambiando sono la struttura sociale, l’organiz- zazione ed il funzionamento dell’economia per effetto della globalizzazione, la stes- sa Unione, come conseguenza dell’allargamento e dell’aumento delle diversità. Nella società valgono, ad esempio, il prolungamento delle aspettative di vita, il calo della natalità, la precarietà economica e l’isolamento sociale delle persone an- ziane, la frattura tra le generazioni, la modifica degli schemi familiari, gli squilibri crescenti di reddito tra i gruppi sociali ed i territori. Oggetto di profondo muta- mento sono anche gli stili di vita ed i valori culturali ed etici che orientano una co- munità, con il prevalere di una cultura individualistica e l’atomizzazione della cul- tura, l’indebolimento dei legami familiari e comunitari, della pratica religiosa, del- la partecipazione politica, la crescita delle inquietudini nei confronti di tutto ciò che appare come diverso e – aggiunge in modo specifico il documento – nella stes- sa “capacità dell’Europa di affermare i suoi valori comuni”.

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Nell’economia i maggiori cambiamenti sono legati alla difficoltà di adattamen- to delle imprese e dei lavoratori alle nuove condizioni della competizione mondia- le, alla disoccupazione, al deficit di competenze professionali adeguate, alla scarsa valorizzazione del capitale umano (a cominciare dalle insufficienze della educazio- ne scolastica) ai diversi modelli che si impongono nella organizzazione dei tempi di vita e di lavoro, nella organizzazione delle carriere. La interpretazione della Commissione in merito alla profonda trasformazione della società europea mette in risalto due elementi fortemente collegati tra loro: grandi opportunità e grandi rischi. Infatti, da un lato, si sono aperte ai cittadini eu- ropei delle grandi opportunità come: “una maggiore libertà di scelta, la possibilità di condurre uno stile di vita più sano e di vivere più a lungo, migliori condizioni di vita e società più innovative e più aperte”. Dall’altro vi sono i nuovi rischi sociali che “potrebbero ridurre le opportunità di successo e generare un senso di insicurez- za e di isolamento, un sentimento di ingiustizia e di disuguaglianza”. “Quando si parla del futuro” – specifica la Commissione – gli europei “si dichiarano inquieti e preoccupati, soprattutto per la prossima generazione”.

ÿ I contenuti di riferimento

• Nella nuova visione sociale che secondo la Commissione “sta prendendo for- ma in tutta l’Europa”, tre sono gli elementi principali di riferimento: “le opportu- nità, l’accesso e la solidarietà”. Opportunità: per avviarsi nella vita con buone premesse, realizzare al meglio il proprio potenziale e sfruttare al meglio le possibilità offerte da un’Europa innovati- va, aperta e moderna; Accesso: metodi nuovi e più efficaci per accedere all’istruzione, avanzare nel mercato dell’occupazione, beneficiare di un’assistenza sanitaria e di una protezione sociale di qualità e partecipare alla vita collettiva e sociale; Solidarietà: promuovere la coesione sociale e la sostenibilità del modello socia- le e garantire che nessuno venga escluso. Questa visione, precisa il documento, “rispecchia un’opinione sempre più diffu- sa secondo la quale la società non può garantire ai suoi cittadini i medesimi risultati ma deve promuovere con sempre maggiore fermezza delle pari opportunità di suc- cesso… per consentire a tutti gli europei di accedere alle risorse ed ai servizi – tra- sformando – le pari opportunità e la cittadinanza attiva, attualmente teoriche, in una realtà concreta”. Limitare lo scarto tra “vincitori e sconfitti” del cambiamento economico e tecnologico e delle relative disuguaglianze è una questione di giustizia e di coesione sociale. Ma è anche un “imperativo economico”, un “investimento fi- nanziario” perché “risolvendo i problemi sociali alla fonte, si riduce il rischio che il sistema di previdenza sociale debba poi accollarsi i costi delle disfunzioni sociali e

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 107 Marco Ricceri della mancanza di opportunità economiche”. Infine, una simile visione risponde anche a precise necessità politiche, perché crea “un clima di fiducia – che – è essen- ziale per il progresso, la modernizzazione e l’apertura al cambiamento”. Nella visione sociale della Commissione, “questo programma di opportunità, accesso e solidarietà richiede un investimento, un rinnovato impegno a sfruttare ap- pieno il potenziale umano dell’Europa e ad ampliare le possibilità di successo per tutti”. Ed ancora: gli “investimenti nel capitale umano e sociale” non sono soltanto “una spesa volta a sovvenzionare le conseguenze di un fallimento sociale, ma …un investimento sociale che dev’essere giustificato ricorrendo alle migliori valutazioni disponibili dell’utile sociale ed economico sotto il profilo dello sviluppo sostenibile”. Nel parere espresso sul documento della Commissione, il Comitato Economi- co e Sociale Europeo – CESE (2007) amplia questo concetto, sottolineando l’im- portanza di passare da una posizione sostanzialmente passiva (gli investimenti nel sociale sono necessari per prevenire i costi delle disfunzioni) ad una posizione atti- va (il sociale come elemento costitutivo della produzione). Infatti, il Comitato chiede espressamente alla Commissione di arrivare a riconoscere apertamente il va- lore economico e produttivo delle politiche sociali, perché esse sono parte inte- grante del processo dello sviluppo, un fattore essenziale della crescita. In un succes- sivo parere (2008) formulato in occasione della decisione di promuovere l’Anno Europeo della lotta alla povertà ed all’esclusione sociale nel 2010, il Comitato arri- va ad affermare esplicitamente che il sostegno alla politica sociale si giustifica per- ché essa è “un autentico fattore produttivo” e che solo “la modernizzazione del mo- dello sociale europeo, nel senso più ampio del termine – potrà consentire all’Euro- pa di continuare ad essere una zona di benessere democratica”.

ÿ Le opportunità individuali

•Secondo la Commissione, il valore la “clausola sociale” orizzontale introdotta dal trattato di Lisbona emerge con chiarezza solo nel collegamento con questa vi- sione di una promozione sociale imperniata sull’incremento delle capacità di un individuo di cogliere le suddette “opportunità di successo”. La clausola “pone in ri- lievo l’impegno dell’Unione Europea nei confronti dell’occupazione e della prote- zione sociale e conferma il ruolo delle regioni e delle parti sociali quale parte inte- grante del tessuto politico, economico e sociale dell’Unione”. Per facilitare il rispet- to e la sua applicazione sarà necessario anche rivedere ed eventualmente modifica- re, alla luce del trattato,.“il quadro giuridico per garantire che esso consegua effica- cemente gli obbiettivi convenuti”. Nell’Agenda sociale rinnovata, presentata nel 2008 a seguito della consultazione pubblica del 2007, si afferma che le politiche sociali devono “stare al passo” con l’e- volversi della situazione europea, “devono essere flessibili” ed in grado di “risponde-

108 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri re ai mutamenti”. Questa esigenza fa sì che la stessa Agenda sociale non può più li- mitarsi alle questioni tradizionali della politica sociale, ma “deve essere trasversale e multidimensionale, estendersi ad una vasta gamma di settori, dalle politiche del mercato del lavoro all’istruzione, alla salute, all’immigrazione e al dialogo intercul- turale. La realtà – secondo la nuova Agenda – è che le politiche economiche e socia- li a livello europeo e nazionale si rafforzano reciprocamente e sono complementari”. I tre obbiettivi già indicati nel documento della consultazione pubblica del 2007 – opportunità, accesso, solidarietà – sono confermati come “obbiettivi tra lo- ro collegati, di uguale importanza”. Tuttavia il loro ambito di riferimento viene meglio precisato e circoscritto. In tal modo, ad esempio, l’obbiettivo dell’opportu- nità viene tradotto in termini di occupazione e mobilità (“opportunità significa produrre maggiore e migliore occupazione e facilitare la mobilità”); l’accesso è col- legato ad “un’istruzione di buona qualità, alla protezione sociale, alla sanità e ai ser- vizi che possono contribuire a compensare le disuguaglianze di partenza”; la solida- rietà è collegata al rapporto “tra generazioni, tra regioni, tra i più agiati ed i meno agiati, tra gli Stati membri più prosperi e quelli meno prosperi”.

ÿ La “visione sociale” della Commissione Europea: un commento

• Un commento su questa “visione sociale” è d’obbligo. Anche perché il docu- mento, da cui sono emersi i piani di sviluppo successivi, compresa la nuova strate- gia di sviluppo EU 2020 approvata dopo all’entrata in vigore del trattato di Lisbo- na, presenta una forte contraddizione. Il documento è certamente apprezzabile per la sua chiarezza ed utilità. Ma non esprime una coerenza tra la valutazione iniziale dei cambiamenti strutturali in atto nella società europea e le indicazioni del percor- so da compiere per affrontarli e viverli in modo positivo. La ricerca dell’“utile economico” combinata con la ricerca dell’“utile sociale”, non può limitarsi alla moltiplicazione delle “opportunità di successo” ed alla possi- bilità dell’“accesso” a servizi qualificati. Quando i cambiamenti investono, come si riconosce espressamente, gli stili di vita delle persone, i fatti identitari, la cancella- zione dei valori aggreganti e delle prospettive future per gli individui e le comu- nità, è chiaro che la realtà europea si è evoluta in modo tale da porre domande sulla qualità del modello di sviluppo perseguito. La risposta a questi nuovi problemi, che sono la vera componente della preca- rietà, insicurezza e disagio sociale, trova senz’altro nella formula “un’economia so- ciale di mercato” inserita nel trattato di Lisbona una indicazione orientativa im- portante. Ma questo principio di grande originalità e portata, non può tradursi soltanto in azioni ispirate a mere logiche efficientistiche e produttivistiche. Queste logiche, per quanto importanti, ineludibili, dovrebbero comunque essere integrate e valutate in base ad altri criteri, riassumibili in termini di qualità della crescita.

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In altre parole, le azioni programmate in base alle valutazioni svolte dalla Com- missione nella sua “visione sociale” sono in grado di assicurare un reale progresso civile, armonico, della società europea? Su questa domanda i dubbi restano aperti, così come sulla reale volontà e capacità di affrontare il gravissimo fenomeno del di- sagio e degli squilibri sociali crescenti.

ÿ I precedenti: il documento per il superamento della crisi (2009)

• Nel marzo 2009, nel pieno di quella che è stata definita come la più grave cri- si economica e finanziaria del dopoguerra, la Commissione Europea ha elaborato il documento per Guidare la ripresa in Europa. In esso riconosce espressamente: «Gli effetti occupazionali e sociali della crisi non si sono ancora manifestati pienamente, ma saranno comunque più gravi di quanto preventivato al momento di adottare le misure iniziali. Occorre quindi intensificare gli sforzi a tutti i livelli per affrontare il problema della disoccupazione, nonché adeguare e modernizzare i sistemi di assi- stenza sociale. Il sostegno al reddito, associato a misure attive, stimolerà la doman- da, agevolerà il ritorno alla vita attiva ed eviterà l’esclusione sociale». Nel documento, la UE definisce il prossimo periodo che l’Europa dovrà af- frontare come un periodo di transizione, nel quale molti posti di lavoro spazzati via dalla crisi non saranno sostituiti. Ma la organizzazione di un’economia più intelli- gente, più verde, più competitiva favorirà la creazione di nuovi posti di lavoro e con- sentirà di compensare gli alti livelli di disoccupazione. Le politiche sociali e le nuo- ve politiche del lavoro dovranno garantire la coesione sociale. In ogni caso, secondo la UE, vale un dato di cambiamento strutturale: tutti de- vono prendere atto che è finito il modello di vita tradizionale dei cittadini suddivi- so in una successione tripartita di periodi di studio-lavoro-pensione e che il nuovo modello sarà caratterizzato da continue interruzioni e riprese dell’attività lavorati- va, più funzionale per cogliere le nuove opportunità e le nuove sfide. Questo nuo- vo modello è collegato direttamente con la situazione in cui gli aspetti positivi della flessibilità e dell’adattamento alle nuove condizioni della crescita si combinano con quelli negativi della precarietà del lavoro e del venir meno di tradizionali tutele so- ciali; le due grandi aree in cui si generano disagio, impoverimento, esclusione e precarietà sociale. L’Unione, dunque, conferma le interpretazioni, già date in precedenza (ad esempio, nella strategia di sviluppo Lisbona 2000-2010), che la società europea è di fronte a cambiamenti di natura strutturale. Ma rafforza questa interpretazione e la rende ancora più esplicita mettendo in risalto la gravità delle conseguenze socia- li. In tal modo, la questione della sostenibilità sociale dello sviluppo assume un va- lore strategico centrale nelle politiche comunitarie. Questo è l’elemento “politico” e” culturale” sopra descritto che caratterizza il nuovo trattato.

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ÿ La nuova strategia di sviluppo EU 2020

• «Le realtà economiche si muovono più velocemente di quelle politiche… dob- biamo accettare il fatto che la maggiore interdipendenza economica richiede anche una risposta più determinata e coerente a livello politico”. È con queste parole che il presidente della Commissione Europea, Josè M. Baroso presenta la nuova strategia di sviluppo destinata a guidare l’Europa nel prossimo decennio 2010-2020. Insieme alla consapevolezza dell’importanza dell’elemento “politica”, che è raro trovare nei documenti europei, nella nuova strategia emerge anche con rinnovata evidenza che la crisi, capace di vanificare i risultati positivi di un decennio di progresso economi- co e sociale, “ha messo in luce le carenze strutturali dell’economia europea». Per conseguire uno sviluppo sostenibile l’Europa, secondo Barroso, dovrà per- seguire l’obbiettivo di creare “più posti di lavoro” e le condizioni per “una vita mi- gliore”. Ciò sarà possibile attraverso il perseguimento di tre priorità precise indivi- duate dalla strategia EU 2020 le quali si rafforzano ed integrano a vicenda. Esse so- no: a) “crescita intelligente: sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sul- l’innovazione”; b) “crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sot- to il profilo delle risorse, più verde e più competitiva”; c) “crescita inclusiva: pro- muovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale”.. Le tre priorità sono successivamente tradotte, con una sequenza logica, in cin- que “obbiettivi principali” e sette “iniziative faro”.

ÿ Gli obiettivi

• Come era nella precedente strategia di Lisbona 2000-2010, gli obbiettivi so- no stati anche quantificati. In modo specifico, dunque, la Commissione si impe- gna a raggiungere i seguenti risultati: a) il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; b) il 3% del PIL della UE deve essere investito in R & S; c) i traguardi “20/20/20” in materia di clima/energia devono essere raggiunti (compresi un incremento del 30% della riduzione delle emissioni, se le condi- zioni lo permettono); d) il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve essere laureato; e) 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà. Come le priorità selezionate in partenza, anche gli obbiettivi sono connessi strettamente tra loro e sono ritenuti “fondamentali” per il successo globale della strategia europea. Da essi dovranno derivare gli obbiettivi ed i programmi dei sin- goli Stati membri.

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Infine, data l’ampiezza della loro portata, gli obbiettivi sono a loro volta tradotti in sette “iniziative faro” su cui viene concentrato lo sforzo programmatico e l’impe- gno finanziario dell’Unione. Riguardo ai problemi sociali, le principali iniziative faro sono: Youth on the move (aumentare l’occupazione giovanile migliorando la qualità dell’istruzione e le condizioni della mobilità); Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro (modernizzare i mercati del lavoro, avviare la seconda fase del program- ma “flessicurezza”, definire un Quadro europeo delle qualifiche); Piattaforma europea contro la povertà (migliorare l’accesso ai servizi pubblici, adeguare i sistemi pensioni- stici, promuovere “l’innovazione sociale” per le categorie più vulnerabili).

ÿ La strategia EU 2020: commento

«Il destino dell’economia di mercato, con il suo mirabile meccanismo dell’offerta e della domanda, si decide al di là dell’offerta e della domanda» W. Roepke. – I limiti di questa impostazione della nuova strategia di sviluppo EU 2020 so- no evidenti e lasciano del tutto aperti i dubbi sulla sua idoneità a dare una risposta positiva in particolare al crescente fenomeno del disagio e degli squilibri sociali. Pe- raltro sono limiti tanto più gravi se si considera che in questa strategia e in questi programmi, come è stato dichiarato, si concentrerà nei prossimi anni il maggior impegno concreto, anche finanziario, dell’Unione.

Mancanza di riferimento allo schema teorico del Modello Sociale Europeo – Nel documento non si trova alcun richiamo esplicito al Modello Sociale Eu- ropeo ed a ciò che questo riferimento teorico rappresenta in termini di crescita equilibrata tra sviluppo economico e produttivo e giustizia sociale, tra produzione e distribuzione della ricchezza, di progresso civile e democratico. Ne consegue, che è difficile, se non impossibile, comprendere quale “economia sociale di mercato” si intende realmente costruire, come si intende attuare la condizionalità sociale previ- sta dal trattato di Lisbona. Tutto ciò per garantire un tipo di sviluppo che sia valu- tabile e misurabile non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi.

Prevalenza delle logica produttivistica e mercantilistica dello sviluppo – Il documento affronta le cause delle carenze strutturali dell’economia euro- pea puntando a colmare lacune e recuperare efficienza negli ambiti dove si registra- no le maggiori disfunzioni, secondo una logica produttivistica e mercantilistica che interviene a tutto campo, dal sistema produttivo al mercato del lavoro, ai servizi sociali, stimolando i cittadini ad essere più attivi e partecipi, cioè in grado di co- gliere le opportunità di successo che possono presentarsi nella nuova fase di svilup- po. Ma non offre una visione in grado di fornire degli elementi di orientamento che consentano di colmare le tante inquietudini e incertezze che minano la fiducia

112 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri dei cittadini europei sul proprio futuro e, fatto ancor più grave, indeboliscono la propria identità e ruolo sociale. Tutte condizioni che riducono sempre più proprio quella partecipazione attiva che dovrebbe assicurare anche un nuovo impulso alle attività economiche.

Mancanza di valutazione delle disuguaglianze economiche e sociali – Inoltre, nell’affrontare le cause strutturali, il documento non tiene conto che i veri limiti dello sviluppo europeo stanno nel progressivo accentuarsi delle disu- guaglianze economiche e sociali, tra le cause principali dell’aumento continuo del disagio e della precarietà sociale. La dimostrazione di questo fatto sta proprio in quanto è avvenuto nel decennio appena concluso, prima del 2008, cioè prima del- l’esplodere della crisi economica e finanziaria. Prima della crisi, la forte e diffusa crescita economica aveva indubbiamente au- mentato il livello di occupazione e di benessere generale. Anche il livello della spesa sociale degli Stati membri era rimasto costante ed elevato, attestato su una media europea del 27% del PIL. Ma tutto ciò non ha impedito che proprio negli anni dell’espansione e della crescita si continuasse a registrare anche un aggravarsi dei fe- nomeni del degrado sociale, un forte incremento della povertà, del rischio di po- vertà, della precarietà sociale. È proprio il parallelismo tra crescita della precarietà sociale e della povertà, da un lato, e crescita economica e produttiva, dall’altro, che dimostra come il tipo di crescita perseguito con la precedente strategia di Lisbona 2000-2010 fosse un fe- nomeno viziato dalla mancanza di correttivi efficaci sia sul fronte di una reale qua- lificazione del lavoro, sia sul fronte della composizione degli squilibri sociali. Le ve- re cause del degrado sociale si trovano, dunque, soprattutto nelle carenze e distor- sioni che caratterizzano i due fattori: l’organizzazione del lavoro (con riferimento al modo in cui è promossa dalle imprese) e le politiche di coesione sociale (con riferi- mento alle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e la scarsa qualità della spesa sociale). Sono i punti che la nuova strategia di sviluppo EU 2020 evita di af- frontare in modo adeguato. Ovviamente questi fenomeni di degrado sociale si sono accentuati negli anni successivi della crisi; e il forte impegno di spesa sociale degli Stati sviluppato in ter- mini aggiuntivi per fronteggiare l’emergenza – un impegno che i sindacati europei hanno definito l’European social revival – non è stato sufficiente a segnare una qualche inversione di tendenza. Anche questo fatto conferma che non è tanto la quantità della spesa sociale ad incidere sui livelli di precarietà, quanto la sua qualità ed il modo in cui sono interpretate e promosse le politiche di coesione sociale.

Contraddizione con le valutazioni di documenti precedenti – Questi limiti nella impostazione della nuova strategia di sviluppo EU 2020 adottata dall’Unione, presentano, anche in modo sorprendente, un forte elemento di

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 113 Marco Ricceri contraddizione con le stesse analisi condotte dalla Commissione negli anni passati. Ad esempio: a) con le analisi dei profondi cambiamenti della società europea svolte nel 2007 per l’aggiornamento della Agenda sociale europea, b) con il riferimento ai possibili scenari futuri indicati nel piano per Guidare la ripresa in Europa, del 2009; c) con il richiamo alla necessità di recuperare il primato della politica negli indirizzi dei programmi di sviluppo – cioè di una visione d’insieme ed un sistema di valori orientativi – contenuto nella stessa presentazione della strategia EU 2020.

ÿ I molteplici aspetti del degrado sociale

• Se l’applicazione del ben noto indice Gini sulle disuguaglianze (indice adotta- to dalle Nazioni Unite) è in grado di mettere in luce un elemento di debolezza strutturale del sistema economico e sociale europeo, le analisi sociologiche metto- no in evidenza la profondità delle trasformazioni dei valori coesivi e identitari, che orientano la vita degli individui e delle comunità, l’influenza ed i limiti della cultu- ra individualista, il timore diffuso delle diversità. In queste condizioni di cambiamento strutturale, gli interventi correttivi so- prattutto dal lato del mercato del lavoro e dal lato dell’efficienza e sostenibilità fi- nanziaria dei servizi sociali, possono senz’altro fornire un valido contributo al recu- pero di determinati aspetti del disagio sociale diffuso e fare in modo che l’adatta- mento del lavoro alla nuove condizioni dello sviluppo (ad esempio in termini di flessibilità e qualificazione) sia vissuta anche positivamente. Ma è proprio quanto accade nel mondo del lavoro – un esempio emblematico – che offre indicazioni utili sul tipo di interventi ben più complesso e di più ampio respiro che bisognerebbe promuovere a livello europeo. Alle migliaia di giovani che in ogni Stato membro vivono quotidianamente gli aspetti negativi della flessibilità, ciò che viene meno, con la fonte di reddito, è qualcosa di ben più alto valore: la certezza della propria identità sociale, la possibi- lità di organizzare al meglio la propria esistenza, di sentirsi partecipe di una comu- ne esperienza positiva, di guardare con fiducia al futuro. Sono tutti elementi colle- gati al patrimonio conoscitivo e culturale della persona, alla validità dei valori etici su cui è basata la sua vita, alla concezione stessa che ha della vita. Questo è il motivo per cui la precarietà sociale, l’aspetto negativo della flessibi- lità lavorativa, viene coniugata nei termini più diversi tra loro: il punto di partenza dell’analisi può essere benissimo la precarietà lavorativa, originata nei luoghi della produzione. Ma il fenomeno assume un significato più preciso quando si conside- ra la sua trasformazione in precarietà professionale (legata all’impoverimento del ba- gaglio conoscitivo), in precarietà economica (collegata, al limite, alle condizioni di povertà), in precarietà sociale (collegata alla caduta della mobilità sociale), in preca- rietà esistenziale (collegata alle difficoltà di formulare un progetto di vita). È su

114 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri questi elementi, in gran parte collegati ad un modello di sviluppo generatore di di- suguaglianze crescenti – ben diverso dal modello sociale europeo prefigurato e san- cito nel trattato di Lisbona – che la società europea finisce per assumere quella struttura gerarchica e piramidale ben descritta dal sociologo Richard Sennet; una struttura che pone molti interrogativi sulla sua effettiva solidità democratica.

ÿ Il rischio di equilibri deboli

È chiaro che quanto più quest’area complessa della precarietà sociale che sta alla base della piramide si allarga e si allontana dall’area dove sono più facilmente raggiun- gibili le opportunità di crescita e di successo, tanto più, come si è già accennato, la so- cietà europea accumula tensioni e rischia di avvicinarsi ad un vero e proprio punto di rottura dei suoi deboli equilibri. In questo processo di deterioramento, gravi effetti negativi si producono anche, in modo particolare, nella vita politica e istituzionale (segnate da crescente assenteismo, disaffezione, qualunquismo,ovvero protesta estre- mistica), nelle solidarietà comunitarie (come l’isolamento, le rotture generazionali, l’indifferenza nei confronti dell’altro, la perdita di senso di ciò che può rappresentare il bene comune), nella cultura (col prevalere della cosiddetta “cultura del presente” che distrugge ogni idea di passato e di futuro. Vale al riguardo, l’osservazione dello studioso italiano Remo Bodei per il quale nella società contemporanea «sta drastica- mente diminuendo la capacità di pensare ad un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private… Siamo alla desertificazione del futuro». Una politica europea finalizzata ad una reale avanzamento non solo economico ma anche civile della società europea, dovrebbe mostrare la capacità di intervenire sulla molteplicità delle cause che sono alla base del diffuso disagio e impoverimen- to sociale, sulla multidimensionalità che caratterizza questo grave fenomeno. Non vi è dubbio che siamo di fronte a cambiamenti di tipo strutturale che incidono nel profondo gli assetti comunitari; e gli scenari che si prospettano indicano che questi cambiamenti saranno sempre più accentuati nel prossimo futuro. È proprio la ri- flessione sugli elementi che collegano la precarietà lavorativa con la precarietà so- ciale ed esistenziale, che può fornirci degli orientamenti utili per promuovere in- terventi correttivi secondo le esigenze della qualità della crescita.

ÿ Il “caos” della globalizzazione e la precarizzazione della società europea

• Tutto il mondo vive gli effetti della globalizzazione, che è un fenomeno ben diverso dall’internazionalizzazione, con cui si individuava soprattutto la dimensio- ne internazionale degli scambi commerciali. La globalizzazione è un processo di ben più ampia portata, che investe gli assetti della società e la vita stessa degli indi-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 115 Marco Ricceri vidui e delle comunità. Al riguardo, la domanda da porsi è la seguente: questo pro- cesso riflette un “ordine” o un “disordine”? Il fatto che anche nei vertici internazio- nali si parli continuamente della necessità di dare un ordine allo sviluppo – la que- stione di una nuova governance – significa che quello che stiamo vivendo è piutto- sto un periodo quantomeno di grande disordine. La globalizzazione, insomma, ri- flette un caos – un caos che può anche essere creativo, non solo distruttivo – per- ché in questo processo è difficile prevedere e controllare le conseguenze dei piani, dei programmi, delle azioni. A questa prima considerazione se ne aggiunge una seconda: in genere è nella debolezza o nell’assenza di un ordine che si sviluppa quella che possiamo definire come la lotta per il potere, cioè il tentativo da parte di alcuni soggetti di abolire l’ordine esistente e di organizzare un nuovo ordine ed un nuovo sistema di regole, più vantaggioso per se stessi e da imporre agli altri. Questo tentativo produce sem- pre dei vincitori e degli sconfitti, come riconosceva anche l’analisi che stava alla base della revisione dell’Agenda sociale del 2007. Chi punta ad affermare un proprio ordine, parte sempre dalla svalutazione del- l’ordine esistente, ne indebolisce le regole, ne sfrutta le contraddizioni e i limiti, ac- centua i fattori di contrasto per imporre le proprie regole. Uno dei fattori principa- li su cui agisce è quello del cambiamento legato ad una mobilità spinta al limite del nomadismo, al superamento di ogni possibile vincolo e sistema di rapporti; ad esempio, i rapporti con una comunità o con un territorio. «Basta con il lungo ter- mine!» afferma Richard Sennet ne L’uomo flessibile – I rapporti occasionali di asso- ciazione sono più utili dei vincoli a lungo termine. Come ha ben spiegato l’ex segretario della CISL, Pierre Carniti, in una nota dell’istituto ISRIL, l’èlite globale, cioè i protagonisti del mercato globale impe- gnati a cogliere le opportunità del “disordine”, non ha confini, non è legata o con- dizionata da determinate situazioni, come le politiche degli stati nazionali o gli accordi sindacali, etc; questi attori dello sviluppo possono, o cercano, di abbando- narle in ogni momento, de-localizzando le attività secondo le opportunità che in- travedono o le situazioni che sono in grado di costruire nelle più diverse aree del mondo. Le èlite globali, insomma, agiscono in una dimensione di spazio e di tem- po che è ben diversa da quella in cui vive la maggioranza dei cittadini ed in cui operano le istituzioni tradizionali (per inserirsi in questa nuova dimensione si ar- riva anche all’assurdo, come ha fatto il ministro della sanità inglese, il conservato- re Andrew Lansley, il quale, per trovare soluzioni alle restrizioni del bilancio, ha proposto di de-localizzare in altre parti del mondo una parte delle prestazioni del Servizio Sanitario Britannico). Per queste élite, ad esempio, la geografia è sempli- cemente finita. Il passato storico non esiste più da tempo. Già Henry Ford, nel se- colo scorso affermava: «La storia è un mucchio di sciocchezze […] non vogliamo la tradizione […] Vogliamo vivere nel presente e la sola storia che valga qualcosa è la sto- ria che facciamo oggi».

116 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri

ÿ Legami capitale-lavoro-politica

• Sta qui la fonte dell’incertezza diffusa nella società contemporanea; nella grande asimmetria tra il capitale che è sempre più globale e il lavoro e la politica che restano legati alla dimensione locale. Un lavoratore dipendente è legato alla sua comunità, la impresa per cui lavora sempre meno; un’amministrazione pubblica è legata per definizione al servizio del suo territorio, ma gli attori economici forti con cui si confronta hanno ben diverse e più ampie possibilità di azione. Per loro, aggiunge Carniti, le realtà locali sono come «campi di aviazione sui quali atterra e decolla la flotta globale». Perciò la capacità di condizionamento degli attori econo- mici sull’attività pubblica è molto più forte oggi che in passato. L’incertezza che si genera, in questo modo, nel sistema dei rapporti tra gli attori dello sviluppo – isti- tuzioni, lavoratori, imprese – finisce per diffondersi e gravare su un intero sistema, sia esso nazionale o locale. Anzi, quanto più questa incertezza è accentuata, quanto più essa si trasforma in precarietà diffusa, tanto più i soggetti del mercato globale hanno la possibilità di trarre vantaggi per la propria azione. La rottura con l’ordine precedente è in questa situazione inedita e imprevista; una situazione, va aggiunto, nella quale la precarietà sociale si presenta sempre più come l’elemento costitutivo del nuovo disordine globale, è decisamente funzionale ad esso. In questa nuova dimensione spazio-temporale, i rapporti diventano occasionali ed effimeri, i vincoli ed i legami a lungo termine perdono di valore, i vantaggi han- no senso se vengono colti nell’immediato, le idee hanno valore solo se producono reddito, tutto diventa transitorio, frammentato, “liquido”. Nel mondo globalizza- to bisogna viaggiare “leggeri”, senza il peso di particolari condizionamenti; bisogna evitare legami duraturi con i propri beni; bisogna essere mobili e flessibili. Ma ciò che per le élite globali rappresenta una situazione positiva di vantaggio, per chi sta alla base della piramide sociale di Sennet, è causa di pesanti effetti negativi, tanto economici quanto esistenziali. Per giunta gli effetti negativi pesano tanto sugli in- dividui quanto sulle strutture aggreganti della società, sulle istituzioni pubbliche e sull’associazionismo, sulla classe politica il cui ruolo finisce per diventare sempre meno influente e sempre più marginale.

ÿ Che fare?

• Che fare? Come intervenire? Alcune indicazioni utili, a nostro avviso, posso- no venire dai seguenti riferimenti.

Qualità dello sviluppo, capacità progettuale e ricerca dell’identità – Un primo riferimento lo si può ricavare da una valutazione attenta delle carat- teristiche ed implicazioni del modello interpretativo della società contemporanea, prima definita come società post-industriale, attualmente come società della cono-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 117 Marco Ricceri scenza. Questo modello interpretativo, proposto dal sociologo Daniel Bell e adottato negli USA fin dagli anni ’70, ha mostrato tutta la sua validità nel corso degli anni. Esso mette in risalto il valore dei punti di cambiamento strutturale che riguardano: a) il principio assiale su cui è imperniata una società (traduzione in codice delle cono- scenze teoriche); b) le nuove gerarchie di valori (competizione ed affermazione tra in- dividui e tra gruppi); c) le prospettive temporali (orientamento al futuro); d) le risor- se strategiche (l’informazione e le conoscenze); e) le modalità di sviluppo (modelli previsionali, programmazione, progetti); f) i modelli di produzione (arricchimento dei beni con servizi multipli); g) le tecnologie (tecnologie intellettuali, programma- zione dei calcolatori, nuove tecniche matematiche ed economiche); h) le principali classi produttive (operai specializzati, tecnici, professionisti, ricercatori, scienziati). L’affermazione di questo tipo di società post-industriale fa emergere una dupli- ce esigenza, essenziale per tutti: a) avere una vera capacità di progettazione del fu- turo (e la forza di imporlo agli altri, come afferma il sociologo italiano De Masi, anche se tale imposizione non fa conto delle vittime che provoca); b) ridisegnare la propria identità personale nel sistema dei rapporti sociali e lavorativi (come co- struire la propria identità lavorativa in un mondo segnato dalla “fine del lavoro”, secondo Rifkin? e da una “modernità liquida”, secondo Bauman?). Quando si richiama l’importanza della qualità sociale dello sviluppo, si vuole intendere proprio questo: che le strategie da applicare nel contesto europeo non dovrebbero limitarsi ad una visione mercantilistica della crescita (il predominio di quella che nel medioevo si chiamava la lex mercatoria) ed al recupero di margini di efficienza nell’impiego delle risorse umane e materiali del sistema. Ma, operando un vero salto di qualità, le strategie della crescita dovrebbero promuovere un insie- me di interventi coordinati e finalizzati: nell’economia, a correggere le distorsioni del consumismo di tipo individualista dando nuovo impulso alla produzione dei beni di consumo pubblici maggiormente legati alla qualità della vita (un ambito in cui le stesse imprese private potrebbero trovare dei nuovi margini di profitto); nel sociale, a stimolare il recupero di valori etici aggreganti ed a qualificare il patrimo- nio culturale e conoscitivo della gente. Tutto ciò per allargare l’area delle persone in grado di esprimere una reale capa- cità di progettare il futuro, di costruire un propria identità forte, in grado di regge- re criticamente, alle sfide del cambiamento; quindi di fare in modo che questa ca- pacità non sia ristretta soltanto alle élite globali, ma sia un’attitudine propria quan- tomeno della maggioranza della gente. È questo tipo di politica che consentirebbe di intervenire sulle vere cause della precarietà, incertezza e insicurezza, e, quanto- meno, di correggerne almeno in parte gli effetti.

Stato sociale – Stato di benessere – Il secondo riferimento importante, per una efficace azione correttiva, riguarda il modo in cui si dovrebbe attuare la modernizzazione delle politiche sociali, anche al fi-

118 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri ne di assicurare la sostenibilità finanziaria dei relativi servizi, in un periodo di crisi che pone precisi vincoli ai bilanci pubblici. In questo caso, giustamente molte autorevoli voci sottolineano il valore della distinzione tra Stato sociale e Stato di benessere. Infatti, con l’espressione Stato sociale si fa riferimento a politiche sociali che, in senso stretto, intervengono a coprire i rischi principali della vita: vecchiaia, malattia, disoccupazione, incidenti, povertà. Mentre, con l’espressione Stato del benessere si fa riferimento a politiche che, in senso ben più ampio, intervengono sulla distribuzione dei redditi, sulla regolazione delle attività di mercato, sulle variabili macroeconomi- che sulle quali incidono, ad esempio, le politiche per l’istruzione, le politiche per la famiglia, etc. Ancor di più: “Stato del benessere” implica il ricorso a pratiche di parte- cipazione attiva alle dinamiche dello sviluppo da parte dei gruppi sociali, attraverso precise procedure e strumentazioni democratiche, nei luoghi di lavoro e nelle comu- nità, l’uso del metodo della programmazione degli interventi, il ricorso al “dialogo sociale” come mezzo di coinvolgimento degli attori dello sviluppo e della società civi- le nella crescita comune. Insomma, se con lo Stato sociale” siamo sul fronte dei servi- zi che aiutano il cittadino a vivere meglio e con maggiore sicurezza e lo sostengono nei processi di inclusione nelle dinamiche della crescita, con lo “Stato del benessere” siamo invece di fronte ad un modo di concepire e costruire il progresso di una comu- nità nei suoi molteplici aspetti di progresso politico, civile, etico, oltre che economi- co e sociale; l’essenza di quel modello di sviluppo che è il modello sociale europeo. Questa è la ragione per cui si afferma che un intervento in materia di disagio sociale, data la natura multidimensionale del fenomeno, per risultare efficace deve agire soprattutto sul sistema dello “Stato di benessere”, più che sull’efficienza dei servizi connessi allo “Stato sociale”.

Spazio politico europeo, spazio culturale europeo, etica di sistema – In sintesi, è richiesto un intervento che operi in prevalenza su quelli che sono definiti come lo spazio politico, lo spazio culturale, il sistema dei valori etici del- l’Europa, più ancora che sullo spazio economico (l’obbiettivo dell’emancipazione culturale era già nel trattato di Maastricht del 1992). Il “deficit di europeismo” con cui la strategia EU 2020 affronta il degrado sociale, sta proprio nelle carenze che si riscontrano a questo riguardo nella sua impostazione. Purtroppo, permane ancora forte il contrasto tra le grandi ambizioni e gli obbiettivi dell’Unione e la mancanza di “modelli e prospettive convincenti” in grado di stimolare un reale coinvolgi- mento dei cittadini su una linea condivisa di progresso.

ÿ Osservazioni conclusive

«Oggi noi dubitiamo che l’imprenditore ci porti in una terra migliore di quella in cui siamo. Come strumento è tollerabile, come fine non risponde alle esigenze […] Se

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 119 Marco Ricceri il progresso economico non contiene un obbiettivo morale, ne consegue che non vale sa- crificare neppure per un momento il vantaggio morale a quello materiale». J.M. Key- nes, 1925

• La riflessione sugli aspetti complessi del disagio e degrado sociale diffuso nel sistema europeo ci porta al centro delle questioni aperte dai cambiamenti struttu- rali causati dai processi della globalizzazione e dell’evolversi della crisi attuale. Fe- nomeni rispetto ai quali le soluzioni prospettate finora dall’Unione risultano debo- li e contraddittorie, se guardiamo al modello sociale europeo codificato nel trattato di Lisbona e la strategia di sviluppo che tenta di realizzarne gli obbiettivi, dandone una interpretazione chiaramente riduttiva. La globalizzazione, come sottolinea l’ISRIL, ha rotto, in Europa, diverse situa- zioni di equilibrio che sono state per decenni alle base delle sue certezze e del suo sviluppo, come, ad esempio, l’equilibrio tra regolazioni economiche e regolazioni sociali; tra valori etici aggreganti, libera iniziativa di mercato, pratiche di partecipa- zione democratica nelle istituzioni rappresentative e nella società civile.

Nuovi equilibri – La costruzione di nuovi equilibri, idonei a garantire il recupero di un auten- tico progresso civile, richiede: a) di affrontare la questione etica nell’economia, per ancorare i processi anonimi della globalizzazione ad un insieme di valori, ob- biettivi e regole a tutela degli interessi generali della collettività; b) di ridisegnare i rapporti tra economia e diritto (a garanzia di comportamenti trasparenti e respon- sabili), tra capitalismo e democrazia (a correzione delle attuali disuguaglianze) per costruire una “governance” in grado di riattivare una cittadinanza attiva e respon- sabile; c) di agire in modo coerente al modello di “economia sociale di mercato”, assunto come riferimento dal trattato europeo, con un progetto che riequilibri il declino del ruolo dello Stato nazionale e delle organizzazioni sociali di massa, con la valorizzazione, anche istituzionale, delle esperienze innovative che stanno emergendo nella società civile, nelle forme dell’”economia associativa” e del “wel- fare associativo”. Nella costruzione di questi nuovi equilibri, che è valutabile in termini non solo teorici ma anche pratici, si possono trovare alcuni correttivi importanti e validi ai fenomeni del degrado e della precarietà sociale; e la salvaguardia di quel modello sociale europeo che ha garantito il grande progresso del continente dall’ultimo do- poguerra ad oggi, è una condizione imprescindibile, anche se la situazione presente impone un profondo aggiustamento dell’insieme.

ÿ

120 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Marco Ricceri

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122 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura per l’unità europea

Trattare nello spazio di un breve articolo l’annosa que- LAURA BALESTRA stione della ricerca di un comune patrimonio culturale Ricercatrice storica per l’Europa e a cui l’Europa possa attingere nel definir- si tale e unitaria è quanto mai arduo e, per certi versi, periglioso per le notevoli implicazioni politiche, sociali ereligiose che essa reca inevitabilmente con sé. Si inten- de qui procedere alla maniera questuante del Socrate er- rante per le vie d’Atene, intento ad indagare il ti esti,il ≈ “che cos’è” delle cose... «[…]I nostri Stati europei sono una realtà storica. ÿ Che cos’è l’Europa Sarebbe impossibile farli sparire. La loro • Nel sito web ufficiale dell’UE, alla sezione “Informa- diversità, poi, è zioni di base sull’Unione Europea” si legge: «L’Unione euro- una fortuna e non pea (UE) è un partenariato economico e politico tra 27 paesi, vogliamo né unico nel suo genere. Da mezzo secolo l’UE è un fattore di pace, livellarli né renderli uguali stabilità e prosperità; ha contribuito ad innalzare il tenore di […]. Tutti i Paesi vita, introdotto una moneta unica europea e sta progressiva- europei sono stati mente realizzando un mercato unico nel quale persone, beni, impregnati dalla servizi e capitali possono circolare liberamente come all’interno civiltà cristiana. E’ 1 questa l’anima di uno stesso paese» . Procedendo, in un click, ai “Simboli dell’Europa che dell’UE”, si trova un elenco, per così dire “anagrafico” delle occorre far generalità d’Europa: la bandiera, in cui «le 12 stelle in cer- rivivere». chio rappresentano gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa»; l’inno, tratto «dalla Nona sinfonia di ≈ Ludwig van Beethoven, composta nel 1823»; la festa,il9 maggio, in memoria di quel 9 maggio 1950 in cui «gli ideali dell’Unione Europea sono stati enunciati per la prima volta […] dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman»; il

1 Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-information/index_it.htm.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 123 Laura Balestra motto “Uniti nella diversità”, che in latino suona In varietate concordia ed è stato scelto «ad indicare come, attraverso l’UE, gli europei siano riusciti ad operare insie- me a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente»2. • Le informazioni di base, in genere, dovrebbero affrescare un quadro d’insie- me esaustivo, eppure lasciano, in questo caso, un eventuale indagatore non del tut- to soddisfatto. Il profilo d’Europa che emerge trae davvero la propria natura nei tratti caratteristici di partenariato, economia, politica, bandiera, inno, festa e mot- to? Si brancola, pare, nell’alveo dell’indistinzione e verrebbe spontaneo ribadire l’interrogativo iniziale: ma cos’è l’Europa? Qual è la sua essenza profonda, unitaria, identitaria che la rende tale e distinguibile da altro? Forse la natura delle istituzioni operanti in nome d’Europa saranno maggiormente illuminanti: «L’Unione euro- pea (UE) non è una federazione come gli Stati Uniti. Non si tratta nemmeno di un’organizzazione per la cooperazione tra i governi, come le Nazioni Unite. È, infatti, un organismo unico nel suo genere. I paesi che costituiscono l’UE (gli “Stati membri”) conservano la propria natura di Stati sovra- ni indipendenti, ma uniscono le loro sovranità per guadagnare una forza e un’in- fluenza mondiale che nessuno di essi potrebbe acquisire da solo. Nella pratica, mettere insieme le sovranità significa che gli Stati membri delegano alcuni dei loro poteri decisionali alle istituzioni comuni da loro stessi create in modo che le deci- sioni su questioni specifiche di interesse comune possano essere prese democratica- mente a livello europeo»3.

ÿ Europa, “tempio senza santuario”

•Unorganismo unico nel suo genere, esteticamente definito, parrebbe, nelle sue direttrici essenziali, sebbene nessuna delle definizioni finora proposte ne defi- nisca l’essenza. L’Europa si staglia sovrana, ma come un «tempio senza santuario»4, privo del quid sacrale che d’ogni templum è essenziale fondamento. Sappiamo che l’Europa accentra in sé un’unione di 27 Paesi, è aperta a nuove candidature di ade- sione a divenire Stati membri, è fondata su un sistema economico e commerciale, la cui stabilità sta ultimamente vacillando, è politicamente democratica, ma non è una federazione di Stati come gli USA né un’organizzazione per la cooperazione tra governi come le Nazioni Unite, ebbene, si è in presenza di un’elencazione piuttosto sterile di ciò che l’Europa è e di una altrettanto inefficace definizione di ciò che essa

2 Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-information/symbols/index_it.htm. 3 Cfr. http://europa.eu/about-eu/institutions-bodies/index_it.htm. 4 Cfr. G.F.W. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni con revisione di C. Cesa, 2 voll., La- terza, Roma-Bari 19743,vol.I,p.4.

124 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra non è. Essere o non essere: questo è, da sempre, stato il problema! Giungere a sta- bilire ciò che si è o non si è mediante la differenza per oppositionem, alteritaria ri- spetto ad un altro Sé identitario, può costituire un buon punto di partenza per comprendersi e comprendere l’Altro, nella cui di-versità iniziale si potrà certo ri- scontrare una primaria av-versità, tuttavia ricomponibile entro l’idea di diversità intesa come essenza positiva e non in-essenza oppositiva, ma in queste definizioni date si assiste ad una sorta di punto d’arrivo senza meta statuita. L’Europa sa ciò che non è, ha una vaga percezione generica di ciò che è e su basi esteriori identifica se stessa, ma in interiore cos’è l’Europa? Qual è la verità che in essa alberga, se esi- ste? Qual è il suo spirito? Quali sono le sue radici culturali? Qual è il senso dell’Eu- ropa? La domanda sul senso ultimo e necessario delle cose emerge e s’impone solo quando le cose in questione paiono perderlo. L’Europa sembra aver raggiunto il proprio tramonto critico prima ancora, forse, di esser nata alle sue origini. Ricercare l’esse proprio dell’Europa, prescinde dal suo agire esteriore, che non la qualifica, né la definisce in quanto tale. La ricerca d’essen- za, la tedesca Wesensforschung, è il metodo che conduce sulla via predicativa delle co- se: il predicato ontologico primo dell’Europa, della sua idea e cultura in quale ele- mento può essere rintracciato? Arrischiare una risposta è tanto complesso quanto af- fascinante e di certo, ciò che di rilevante si ricava dalle definizioni del Trattato di Li- sbona5, non è sufficiente a stabilire il ti esti europeo: «mai in nessun luogo i semplici trattati hanno creato una comunità, al massimo essi la esprimono»6. La concezione che l’Europa attuale ha di se stessa non può essere risolta in e da un trattato ed è paragonabile, in ciò, alla Gesellschaft del sociologo Ferdinand Tön- nies, una società che unisce senz’anima, una panoplia senz’uomo, senza valori né radici e, stando così le cose, appare più che chimerica l’utopia d’unire i popoli d’Europa sotto un unico blasone, in una concorde Gemeinschaft, comunità di valo- ri condivisi, «unità nel differente»7: ideale immagine che l’Europa vorrebbe, dovreb- be avere di sé. Scrive Tönnies: «[…] mentre nella comunità [Gemeinschaft] (gli in- dividui) restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società [Gesellschaft] restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono»8. • Ed è quest’ultima affermazione a rappresentare specificamente, oggi, l’Euro- pa, la Gesellschaft europea, un arcipelago senza mare che unisca isole sorelle, una sovra-nazione associante più nazioni in qualità di sovrano organo collettivo. Ma, se

5 Cfr. http://europa.eu/lisbon_treaty/faq/index_it.htm#19 «[…] il trattato di Lisbona è un tratta- to internazionale approvato e ratificato da Stati membri sovrani che convengono di mettere in comune par- te della loro sovranità in una collaborazione sopranazionale». 6 Cfr. M. Scheler, L’eterno nell’uomo, tr. it. a cura di U. Pellegrino, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1972. 7 F.Tönnies, Comunità e Società, tr. it. G. Giordano, M. Ricciardi (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2011, p. 61. 8 Ibid., passim.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 125 Laura Balestra proprio la sovranazionalità, l’«Übernationalität Europa»9 di Husserl divenisse più di un mero legante economico-politico, edificandosi come trascendentale condi- zione possibilitante la cooperazione attiva fra nazioni culturalmente e valorialmen- te identiche, pur nella loro diversità? Il principio da cui avviare l’indagine, vòlta a definire le linee direttrici di “una cultura armonica per l’Europa unita”, si orienta lungo la via dell’incessante dinamica fra unità e pluralità10,ilmethodos d’Europa, ed è in tale dialettica tensionale che, seppur nell’apparente aposiopesi valoriale, an- che l’Europa in fieri ha stabilito il proprio signum: «in varietate concordia»,illogos del molteplice11.

ÿ Ethos e telos: chi siamo e dove andiamo?

• È possibile comprendere l’Europa a partire dall’Europa stessa? Esiste una na- zione, un evento o momento storico particolare che, solo, ne possa decretare la ca- ratteristica precipua? Atene, Roma, Gerusalemme, Medioevo, Umanesimo, Rina- scimento, Riforma e Controriforma, Poitiers (732 d.C.), Lepanto, Illuminismo, Rivoluzione francese, Cristianesimo, Laicità, Relativismo, Nichilismo? Ogni visio- ne parziale non renderà mai l’idea dell’universale e il tessuto culturale d’Europa è polidentitario, un unicum, ma riconducibile ai molti, non all’uno. L’atto di defini- zione del Sé identitario non può prescindere da tre domande fondamentali: Da do- ve veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Il rimando all’arte pittorica di Gauguin è intuitivo ed immediato, ma non si tratta, in questa sede, di figurare l’allegoria nar- rativa dell’uomo, bensì il tentativo è rivolto a statuire il carattere e il fine del- l’“essere europei”. Esiste un ethos europeo, una comune “coscienza unitaria” fra le nazioni d’Europa? Esiste una mistica culla, una mater trascendente, una natio spiri- tuale che educhi e allevi gli orfani figli d’Europa? Scrisse Husserl che «l’Europa spi- rituale ha un luogo di nascita in una nazione. Questa nazione è l’antica Grecia del VII e del VI secolo a.C.»12. I Greci, inventori della filosofia e signori del logos, che tutti gli uomini affratella in un comune afflato razionale: il pensiero, la «scoperta dello spirito»13. • Nell’afferrare il proprio carattere, l’Europa lo scopre essere di greca natura, fondato sulla Ragione, una ragione critica, che ha come proprio fine l’essere uma-

9 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 56 ss. 10 Cfr. J. Ortega y Grasset, La società europea,inStoria e sociologia, tr. it. a cura di L. Infantino, Li- guori, Napoli 1983, p. 265. 11 Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 18-19. 12 Cfr. E. Husserl, op. cit., pp. 56-57. 13 Cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 20022, passim.

126 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra no. Il nome, il mito stesso di Europa intraprende la via, l’odos che si fa methodos,da Oriente a Occidente, nel rapimento di una fanciulla fenicia sedotta dal padre degli dei, condotta per mezzo del mare al di là del mare stesso e la sua indole, all’appari- re, si mostra già connessa e distinta da Asia, sorella d’essa dalla medesima origine (genos tautos). Nella letteratura e nella storiografia greche, Europa ed Asia sono ka- signèta14, sorelle di sangue dall’unica e identica genesi e memoria, dove l’essere di ciascuna si dà identità nel differire dall’altra. Cavalle oniriche dall’impeto diverso, allegoria dell’ethos proprio di ognuna, che sconvolge i sogni di regine antiche, per- siane, visionarie per simboli delle due potenze reali15. Nell’armonica dissonanza, l’interrogazione sul Sé e sull’Altro aggioga le distinzioni senza escluderle, ma com- prendendole, gettando il pròblema del reciproco-distinto Essere nella superiore unità del Logos, il quale «altro non potrà significare che l’originaria comunanza del differire: l’esser-uno del molteplice proprio in forza delle differenze tra le sue sin- golarità»16. • Così come la Grecia scoprì la sua libertà nel separarsi e opporsi alla douleia orientale, conquistando la fiaccola teoretica alla ragione dell’uomo, così il Cristia- nesimo trovò se stesso, nella sua dimensione universale, nell’innesto e successiva differenziazione dal giudaismo e dalla “follia” pagana, divenendo skandalon esso stesso, confine limitante e limitato, nella pars occidentale, dall’Islam; i Lumi s’acce- sero in contrasto alle tenebre medievali, che pure ebbero ragione e ragioni per esse- re ciò che furono e la francese libertà fraterna dell’uguaglianza capì se stessa assal- tando la roccaforte avversa dei privilegi anti-libertari.

ÿ Il cantiere Europa

• L’Europa è un «cantiere tumultuoso e disordinato»17, secondo la definizione di Edgar Morin, la cui cultura sussiste, vitale, in conflitti e opposizioni, crisi e de- cadenze, vortici di interazioni che uniscono e separano, opponendo in tensione co- stante philia ed echtria, capace anche, in virtù del Cristianesimo, di ricomporle in philoxenia o agape ton echtron (Mt 5, 44). La dinamica dei discordi plurali è al cen-

14 Eschilo, Persiani, 185-186. 15 Cfr. Ibid., 176-200. Il riferimento è al noto sogno della regina persiana Atossa, contenuto nella tragedia eschilea, I Persiani. La madre del Gran Re Serse sogna, una notte, mentre il figlio è in spedi- zione contro i Greci, due donne ben vestite, adorne l’una di pepli persiani, l’altra di dorici, belle, sorel- le e appartenenti alla stessa stirpe. Entrambe sorte a contesa, spronano Serse ad aggiogarle, come ca- valle, al proprio cocchio. Asia, simbolo di servitù e dispotismo, pone docile le redini nella bocca, Eu- ropa, allegoria della libertà, si divincola spezzando il giogo nel mezzo. Le due sorelle di sangue si sepa- rano dalla cooriginaria stirpe per divenire ciascuna se stessa nell’esser l’opposto dell’altra. 16 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 20084, p. 25. 17 E. Morin, Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1988, p. 97.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 127 Laura Balestra tro del suo genio logico e dialogico, che la rende incessantemente «produttri- ce/prodotto» di istanze meticce, mutevoli, di-verse/av-verse, ricche e complesse, af- fascinanti quanto ostili, inquietanti e pur tuttavia necessarie nel loro essere ospiti feconde. Il logos che le percorre da una parte all’altra le sublima nell’unicum che è fondamento analogico delle diversità stesse. Il logos-dialogos d’Europa è un logos po- lemikos18, spazio di mediazione mnestico fra istanze opposte che, nella vicendevole differenza, si uniscono fraterne: è questo l’ethos d’Europa, teso ad un intento che, dall’alba ellenica, dall’uomo antico all’uomo nuovo, per mezzo d‘un Impero e d’una croce, approda a fine ultimo. •Iltelos verso cui l’Europa persegue quell’incessante anelito all’essenza di sé transita per il medium del logos. Il fine verso cui tende ed è stata chiamata a tendere l’idea di Europa, la dinamica polisensa dell’Uninone Europea, dopo l’evento stori- co del Cristianesimo, è la bifronte natura dell’essere umano: l’uomo e la donna, la persona. Telos è Persona, nell’idea d’Europa, e nessun tessuto semantico, nella storia d’Oriente e d’Occidente, ha riconosciuto un valore tanto elevato alla persona, co- me l’alveo fecondo di quella fede che, del logos incarnato, del Dio comunicatosi Persona fece emblema dell’esistente e del futuro. •L’entelechia d’Europa si volge in una direzione, de dignitate hominis, ma non intesa solo alla maniera dell’Umanesimo, che nel suo antropocentrismo, tutto in- tento a far dell’uomo il protagoreo metron d’ogni cosa, lo mutò in sapiens, faber sen- za Dio, artefice di se stesso, fondamento d’una nuova religione, tutta umana, del- l’uomo, per l’uomo e sull’uomo. La dignità da recuperare, dopo il crollo dell’Uma- nesimo laico, è la dignitas originaria del Cristianesimo che, a dispetto di Atene o Ro- ma, di Parigi o Philadelphia, riconobbe tutti fratelli senza distinzione alcuna di razza o genere, senza esigenza di recriminazioni o contro-dichiarazioni di diritti19,come proclamò, in tempi lontani eppur sempre vicini, quell’antico persecutore divenuto apostolo delle genti: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti (sono) uno in Cristo»20. Questa fu la grande rivoluzione del Cristianesimo, i cui principi andrebbero ricompresi e recepi- ti ancora oggi, senza timori, dettati da una memoria volontariamente immemore del proprio passato, nell’affaccendarsi a risultare il meno possibile invisa a tutti. De- cidere d’essere nessuno per lasciar che ognuno sia libero di vederci come meglio cre- de equivale a non esistere, a non essere. Negare il proprio passato è negare se stessi.

18 M. Cacciari, Geofilosofia…, cit., passim. 19 Il riferimento è alle culture greco-latine che non riconobbero valore di persona umana alla classe dei servi e, spesso, riservavano alla donna un ruolo subordinato rispetto all’uomo. Così, in tempi mo- derni, nel 1776 in America e nel 1789 a Parigi, il valore della donna fu nuovamente vittima di un silen- zio scarsamente lungimirante, che diede vita a polemiche o contro-dichiarazioni di diritti e valori, come la “Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”, redatta dalla scrittrice francese Olympe de Gou- ges, nel 1791, in risposta alla più nota “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” del 1789. 20 San Paolo, Gal 3, 28.

128 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra

• L’Europa, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, limes fra Est ed Ovest, che ha ridisegnato i confini geografici e storico-spirituali di quest’unione ancora pienamente da raggiungere, necessita di una identità, da far maturare negli anni a venire in frutti sempre nuovi, ma a partire da una salda radice, la quale, tut- tavia, costretta, vive nascosta in rinnegamento costante, sospesa in attesa, al fin di tutti servire senza a nulla, effettivamente, in tale modo, servire.

ÿ Gigante dai piedi d’argilla

• Leggevo recentemente di un’intervista al filosofo Remo Bodei circa il destino dell’Europa in preda all’oblio di se stessa, ebbene, le vie che Bodei ravvisa e suggeri- sce affinché questo «[…] gigante dai piedi d’argilla, formato da ventisette Paesi con storie tutte diverse, in un’estensione che va dalle Azzorre a Cipro, dal Circolo polare ar- tico a Malta» ritrovi se stesso sono: «una costituzione politica omogenea con rappre- sentanti credibili e la precisa volontà di puntare sulla ricerca, investendo in innovazio- ne e tecnologia»21. • Benché condivisibili, le vie prospettate dal filosofo sembrerebbero, a mio mo- desto parere, non primarie alla determinazione del gnothi seauton europeo. Un uo- mo senza memoria della propria identità, seppur amministrato da un buon gover- no e proteso egli stesso individualmente o in dimensione collettiva verso l’innova- zione e la ricerca, sarebbe pur sempre un uomo abissale, precario, incapace di dar voce alla questione fondamentale: chi sono? Avere una buona politica, avere uno sviluppo tecnologico innovativo è ben lungi dall’Essere e l’Europa esige primaria- mente un’onto-logia e, in via susseguente, una tecno-logia, o, se vogliamo, essa ne- cessita di un senso, una dimensione memoriale entro cui disporre attivamente le technai funzionali al mantenimento della propria originaria armonia che è logos e polemos, articolazione dialettico-teoretica questuante l’essenza. • Politica e scienza vi contribuiscono in maniera secondaria, se non come decli- nazioni di ciò che è da principio l’esse proprium d’Europa: il logos. Logos è il luogo del cum-sensus edellegein, il raccogliere il molteplice in unità, esso è parola relazio- nale che, da una parte all’altra (dia), si fa dia-logos,partecipazione, condivisione con l’altro di ciò che propriamente è nostro (unicum), relazione con altre unicità, eccezionali, diverse dalla nostra e da altre ancora, tra loro irripetibili e discordi, im- pareggiabili ed uniche ugualmente. L’Europa è armonia di unica non sopprimibili né riducibili ad Unum, essa non ha profilo storico o geografico teoreticamente li- mitato, cum-prehensibilis, manifesta piuttosto una facies liquida come il Mare di

21 Tratto dall’intervista a Remo Bodei “Europa. Il pericolo ci salverà” (a cura di Rita Sala), in Il Messaggero, 13 agosto 2011, p. 19.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 129 Laura Balestra mezzo dalla «legge rischiosa, vasto e diverso e insieme fisso»22, che intesse le trame delle sue terre e civiltà, dalla terra dell’alba a quella del tramonto, e fonda la propria identità su presupposti spirituali comuni, edificantisi, come cripte vetuste innalza- te in moderne cattedrali, sopra l’antica-attuale dialettica socratica e la visione (theo- ria) ideale platonica, frammiste ad un’evoluzione valoriale di matrice cristiana, di- retta ad un fine supremo e maggiore: l’humanitas, la dignità dell’essere umano. • Idea dialettica, dialettica tragica, visione agonale e polemica, tragedia spiri- tualmente irrisolta, che, nel viaggio dall’antico al nuovo, trova pace nell’estatica commedia dell’Amor dantesco. L’humanitas, in tal senso, diviene il comune oriz- zonte valoriale verso l’acquisizione di una cultura condivisa, obiettivo, peraltro, in principio avocato dai Padri fondatori d’Europa, che fossero stati essi cattolici o agnostici, democratici cristiani o socialisti23, come ricordò Giovanni Paolo II nel discorso all’UNESCO del 2 giugno 1980: «La cultura è un modo specifico del- l’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo. […] La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’“essere”. È qui anche che si fonda la di- stinzione capitale fra ciò che l’uomo è e ciò che egli ha, fra l’essere e l’avere»24.

ÿ Dialettica tragica: le matrici culturali d’Europa

• Husserl identificava la crisi culturale dell’umanità europea nell’allontana- mento dalle proprie radici culturali e dalla propria origine storica, ravvisando un esempio rivoluzionario di rinascita connettiva alle origini, in prospettiva filosofica, nel Rinascimento: «l’umanità europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di esistenza, quelli medie- vali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare.[…]Che cosa considera essenziale nell’uomo antico? […] Nient’altro che la forma “filosofica” dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stesso, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia»25. La filosofia nella sua forma classica, greca, la scienza della totalità delle cose, la cura del sapere evidente ed innegabile, costituisce il sostrato fondativo della cultura oc- cidentale.

22 Cfr. E. Montale, Mediterraneo (II), da Ossi di Seppia. 23 Cfr. Bernard Ardura, Robert Schuman, «Il padre dell’Europa»,inI padri dell’Europa. Alle radici dell’unione europea. Atti della Tavola Rotonda (Città del Vaticano, Domus Sanctae Marthae, 14 mag- gio 2010), LEV, Città del Vaticano 2010, p. 31. 24 Giovanni Paolo II, Allocuzione all’UNESCO – Parigi, 2 giugno 1980, in Pontificio Consiglio della Cultura, Fede e Cultura. Antologia di testi del Magistero Pontificio da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 2003, p. 593. 25 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, p. 37.

130 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra

• L’Europa non ha una cultura che essa possa definire propria, in ragione del fatto che il nome stesso di Europa è sinonimo di cultura, una cultura eclettica, for- matasi in una particolare dimensione di Alterità, nell’incontro con l’Altro, nella consapevolezza del suo irriducibile valore26.L’esse proprium e unicum d’Europa di- pende e comprende la sua radice essere intessuta per aggregazione alteritaria del molteplice e, come tale, appartenente ad Altro: in ciò risiede il paradosso europeo. •«La questione dell’identità culturale d’Europa non può essere posta in modo indi- pendente: è indissolubilmente legata alla questione del rapporto dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne a essa. Per l’Europa, il rapporto con se stessa passa attra- verso il rapporto con l’altro»27. La considerazione qui espressa da Rémi Brague, filo- sofo francese, autore dell’opera “La voie romaine”, tradotta in Italia, in maniera for- se più efficace ed esplicativa del tema trattato, con il titolo “Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa”, induce a riflessioni più ampie e com- plesse circa l’inchiesta sulle matrici culturali d’Europa.

ÿ Le vie identitarie di una cultura

• Se di identità si possa validamente parlare, in sede europea, ma in prospettiva dinamica e alteritaria, sarebbe lecito rinvenire le vie identitarie di una cultura così varia in tre direttrici interpretative: la Secondarietà romano-cristiana, l’Universa- lità, la Stranieritudine? Tema caro a Rémi Brague e al card. Angelo Scola, la “Secondarietà” definisce la capacità propria di Roma e, in via successiva, della Chiesa di riconoscersi seconde, secondarie rispetto ad una cultura precedente ritenuta portatrice di valori non da rinnegare, per rifondarne in toto di nuovi, ma da accogliere, comprendere, mediare e ridiffondere, riversandoli nell’alveo della propria cultura o di una cultura altra con la quale si entri in contatto; essa appare come una via o, nel caso di Roma, come un acquedotto, teso tra ciò che è a monte e ciò che è a valle, una sorta di attitudine al- l’acculturazione in dimensione alteritaria, in una dinamica continua di acquisizione e trasmissione. Tale “atteggiamento secondario” non sarebbe, peraltro, prerogativa esclusiva della Romanità e della Cristianità, ma apparterrebbe anche ad altre com- pagini culturali, quali la cultura araba, ad esempio, la quale ha contribuito a conser- vare il patrimonio intellettuale di tradizioni altre e diverse dalla propria, attraverso l’opera imponente dei suoi traduttori, nella consapevolezza che la Verità sia univer- sale, non confinabile e acquisibile da chiunque essa provenga, benché estraneo.

26 Cfr. A. Scola (card.), Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, p. 54 ss. 27 R. Brague, Europe, la voie romaine, Criterion, Paris 1992, tr. it. a cura di A. Soldati, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi Libri, Milano 1998, p. 149.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 131 Laura Balestra

La Secondarietà, dunque, è apertura all’Universale e all’Altro. L’Universalità o “cattolicità”, infatti, intesa nel suo etimo greco riconducibile al- l’aggettivo katholikos (universale), manifesta la facies propria della Romanità – così come ribadito anche dall’illustre studiosa del mondo greco-romano, Marta Sordi, in più occasioni28 – prima ancora di connettersi ad una visione confessionale cristiana o anche islamica. In fondo così come Roma, da Augusto in poi, aveva considerato se stessa mandataria di una missione provvidenziale e universale nei confronti dell’ecu- mene soggiacente al suo Impero, così anche la Chiesa o l’Islam, quest’ultimo nelle sue pretese universalistiche aspiranti a creare il dār-al-Islām, rientrano in tale specifi- ca idea di universalità29, direttamente legata o dia-logata, alla cosiddetta “stranieri- tudine” o dimensione alteritaria, itinerante dell’umanità europea. Il contatto con lo straniero è un archetipo originario nella storia dell’umanità. Nel mondo antico lo xenos, rappresentava l’Altro nel cui volto riconoscere se stessi o l’Altro inteso in sen- so ostile come hostis, nemico, il cui potenziale eversivo ed av-verso andava stempera- to fino a mutarne l’iniziale hostilitas in hospitalitas, cerimoniale posto sotto gli auspi- ci del divino, atto a rivestire lo straniero di un’aura sacrale, rendendolo hospes o phi- los, amico. Comportarsi da nemico dello straniero, echtroxenos, era considerato dagli antichi una grave colpa, così come si legge nelle tragedie di Eschilo o Euripide. E, allo stesso modo, passando dalla letteratura greca a quella neotestamentaria, si ritro- va il tema dello straniero e dell’ospitalità nelle parole pronunciate da Cristo nel Van- gelo di Matteo 25,35: «ero xenos/hospes e mi avete accolto» o nel paradossale precet- to della montagna che invita ad amare i propri echtroi (nemici). Tale dialettica tragi- ca degli opposti costituisce la base dell’identità europea e il suo paradoxon, il prodi- gio straordinario, il principio contrario all’opinione comune.

ÿ Identità e radici

•IlCristianesimo, a partire dal quale l’Europa è chiamata, da più parti, a ri- pensare le proprie radici, rappresenta forse la novitas di un annuncio che invita a ri- scoprire la propria radice come indefinito s-radicamento di Sé, infinita tensione e apertura verso l’Altro, accogliendolo, ospitandolo in sé come fosse proprio. Optare per una scelta identitaria in senso forte, in Europa, darebbe origine ad un’opposi- zione liminare tra ciò che è europeo e ciò che non lo è, distinguendo nell’Altro il nemico da rifiutare e combattere perché estraneo, diverso, avverso. Solo concepen- do l’identità come non-identità, la radice come s-radicamento o indefinito rinno- vamento della radice stessa, l’Europa potrà dirsi cristiana, nella misura in cui acco- glierà l’Altro e sarà capace di amare il proprio nemico, lasciandolo sussistere come

28 Cfr. Intervista di M. Blondet a Marta Sordi, Avvenire (30 ottobre 2004). 29 M. Cacciari, La città, Pazzini, Rimini 20094, passim.

132 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra tale, tendendogli la mano. L’armonia europea nasce proprio da questa dialettica tra identità-alterità, tra polemos e dialogos. Il dialogo è la dimensione razionale/relazionale propria della cultura europea e, come ha sostenuto il sociologo francese Edgar Morin in Pensare l’Europa: «Il genio europeo non consiste solo nella pluralità e nel cambiamento, ma anche nel dialogo tra le pluralità che produce il cambiamento». Il vero valore d’Europa non risiede nell’uguaglianza ma nella disuguaglianza, nel binomio tragico-dialettico uno-molti, io-tu, nosce te ipsum et alium per alium. In tale contesto, prosegue Morin, «ciò che fa l’unità della cultura europea non è la sintesi giudeo-cristiana-greco-romana, è il gioco non solo complementare ma anche concorrenziale e antagonistico tra queste istanze, ciascuna delle quali ha la sua logica: si tratta, appunto, della loro dialogica»30. L’identità europea passa attra- verso un ripensamento di sé come “non-identità”, attuabile mediante una ricom- prensione delle sue intuizioni ed esperienze originarie, molteplici e plurali, uni-di- stinte. La patria Europa è un’Europa delle patrie e alla sua «laboriosa creazione» at- tesero demiurghi dall’eminente spessore politico, culturale, morale.

ÿ I Patres d’Europa e il Cristianesimo

• È forse anacronistico e singolare designare con l’antico titolo senatorio roma- no di “patres”, gli ispiratori ideali e fattivi dello spirito unitario europeo? Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet, Dante: il “Senato d’Europa”. Senza nulla togliere alle riflessioni e agli sforzi attivi per l’unità d’Europa compiuti da Carlo Sforza e Altiero Spinelli, ciò che qui preme discutere è la relazione tra Europa e Cristianesi- mo a livello storico e politico, verificando la liceità e velleità ecclesiastiche nel tena- ce, riecheggiante richiamo alle radici cristiane e, in tal senso, Schuman, Adenauer, De Gasperi e Monnet, politici e cristiani, considerati, con altri, padri fondatori dell’Europa, rappresentano una “quinta compagnia” ad hoc in merito alla questio- ne da analizzare. Si aggiunge, infatti, quinto, a coronamento ideale dei tempi e d’a- zione dei patres moderni, Dante Alighieri, concittadino, con essi, in spirito, dell’u- niversale patria Europa. Il Cristianesimo e il richiamo ad esso come fulcro radicale della poliforme identità europea, ha sollevato e continua a sollevare polemiche rile- vanti e, il “laicissimo” art. 1-bis del Preambolo dell’UE ne rappresenta l’icastica evidenza: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti uma- ni, compresi i diritti appartenenti ad una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

30 E. Morin, Pensare l’Europa, cit., p. 24.

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• Ad esso va a complemento annotata l’“ispirazione” generale dell’Unione, rati- ficata nel medesimo Trattato di Lisbona: «(Ispirandosi) alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti invio- labili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto». Sfuma, in nient’altro che un’allusione passibile di soggettive interpretazioni, ogni esplicito riferimento alle radici greco-romane e, soprattutto, cristiane dell’Europa, sebbene i principi appena citati siano espressamente esito della evoluzione-rivoluzione che il Cristianesimo operò nel mondo antico, mutan- done il volto in innovative fattezze valoriali, a cui si aggiunsero precedentemente e progressivamente in seguito, nel corso dei secoli, altre rivoluzioni, di cui il trattato ricorda solo gli esiti. Il “rischio” che una cosiddetta “nominatio Dei”, nel Preambo- lo della mai varata Costituzione europea, possa compromettere la dimensione laica della futura UE, pare e parve, probabilmente anche a Giscard d’Estaing, nel 2002 Presidente della “Convenzione sul futuro dell’Europa”, un inconveniente da evita- re, così come similmente, nel 2007, ha ribadito in altri termini anche il Cancelliere tedesco Angela Merkel, favorevole ad un riconoscimento formale della cristianità radicale d’Europa, ma altrettanto fautrice di una sua esclusione da «un documento di Stato»31, all’insegna della separazione e indipendenza della sfera di Cesare da quella di Dio, considerazione, peraltro, evangelicamente già ben chiara secoli or sono. Un eventuale riferimento alle radici greco-romane-giudeo-cristiane-umani- stiche all’interno di un preambolo costituzionale avrebbe e dovrebbe avere caratte- re storico-culturale memoriale non confessionale e, come ha fatto notare Ombretta Fumagalli Carulli, ordinario di Diritto Canonico all’Università Cattolica del Sacro Cuore «il riferimento a Dio è inserito nel Preambolo di specifici testi costituzionali di Stati europei, con maggiore o minore intensità: ad esempio in Germania vi è il generico riferimento a Dio, in Polonia il riferimento ai valori di quanti credono in Dio […], in Irlanda l’invocazione al Nome della Santissima Trinità»32, e dunque quale potenziale eversivo risiederebbe in una dichiarazione super partes, di natura memoriale e storica, espressamente privata di ogni imposizione fideistico-confes- sionale esclusiva ed escludente altre realtà religiose?

ÿ Laicità baluardo ideologico

• Si obietterà che, tuttavia, l’Italia, e chi qui scrive è cittadina italiana, non ha nella propria Costituzione alcun riferimento specificamente confessionale, con-

31 Tratto dall’articolo “Radici cristiane: la UE senza accordo”, a cura di Alberto d’Argento, in La Repubblica (26 marzo 2007), p. 4. 32 O. Fumagalli Carulli, Costituzione europea, radici cristiane e Chiese, in www.olir.it “Osservato- rio delle libertà ed istituzioni religiose”, p. 11.

134 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra figurandosi bensì come Stato laico (artt. 8, 19, 20 Cost., relativi alla questione religiosa), sebbene riconosca una qualche forma di privilegio alla religione catto- lica (art. 7 Cost.), la quale, al di là dell’espresso riferimento costituzionale, costi- tuisce per l’Italia una matrice storico-culturale e religiosa inappellabile. La tanto discussa ed ambita laicità sembra oggi essersi eretta a baluardo ideologico e costi- tutivo dell’identità s-personalizzata europea. Ideologia, peraltro, apparentemente condivisa in maniera unanime e diffusa, da opporre alla religione come qualcosa ad essa estraneo e avverso, benché, come ha recentemente fatto notare il polito- logo francese Olivier Roy, il concetto di laicità, soggetto attualmente a strani fe- nomeni di distorsione interpretativa, non sia anti-religioso, ma sia in realtà una conseguenza delle antiche guerre di religione combattute in Europa, sorto a mo- tivo di un mancato consenso dei vari paesi europei in merito allo spazio da asse- gnare alla religione. Il fanatismo scatena sì la guerra ma anche il compromesso pacifico che ne è conseguenza di libertà, seppur come conquista tradiva e impu- tabile a scontri tra poteri opposti, indipendenti e mal conciliati o difficilmente conciliabili33. • Il problema non risiederebbe tanto nel veto più o meno avvalorato di questo o quell’altro Paese in merito a un trattato, nel far esistere un’Europa etsi Deus non daretur, ma nell’introdurre un cardine memoriale, al pari di altri grandi esclusi, all’interno di una Carta costituzionale, che sia definizione, nel medesimo tempo, del carattere laico e religioso, occidentale ed orientale dell’Europa. E se dalla Francia in primis – e da altri – venne, a suo tempo, l’abiura, dalla Francia poi, si è fatta nuovamente largo l’idea dell’eredità cristiana d’Europa. Il 29 gennaio 2008 Nicolas Sarkozy, al Congresso dell’UMP sull’Europa, s’espresse così: «Dire che in Europa ci sono delle radici cristiane è semplicemente dare prova di buon senso. Rinun- ciare a farlo, significa girare le spalle ad una realtà storica»34. Ed è sempre dalla Francia del secondo dopoguerra, dal progetto maturato da Robert Schuman, in stretta collaborazione con «Monsieur Europe», Jean Monnet, che l’Europa, come auspichiamo intenderla oggi e in futuro, conobbe un inedito processo di unifica- zione35, innaturale, ma ispirato a una visione politica, storica e spirituale lungimi- rante, riconducibile, a detta dello stesso Schuman, «alla legge cristiana di una no- bile ma umile fratellanza. E per un paradosso che ci sorprenderebbe se non fossimo cri- stiani […] tendiamo la mano ai nemici di ieri non semplicemente per perdonare, ma per costruire insieme l’Europa di domani»36. La mano tesa del nemico al nemico che unisce e mantiene distinti Schuman e Adenauer, Francia e Germania, renden- doli parte della stessa grande visione europea, non era contemplata nelle conce-

33 Cfr. Olivier Roy, L’Islam in Europa, in http://www.radioradicale.it/scheda/321363. 34 N. Sarkozy, Discours lors du Congrès de l’UMP sur l’Europe, 29 gennaio 2008. 35 Cfr. Bernard Ardura, op. cit., p. 25. 36 R. Schuman, Pour l’Europe, Genève 1990, p. 44.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 135 Laura Balestra zioni antiche, fino al comandamento nuovo e paradossale di quell’ebreo di Naza- reth che, dall’alto di un monte, insegnò per primo a tendere la mano ai “fratelli- nemici”.

ÿ Riconcialiazione e i segni della civiltà cristiana

• Il 19 marzo 1958, otto anni dopo, la Dichiarazione Schuman, il padre fonda- tore d’Europa, in occasione dell’elezione a presidente del primo Parlamento euro- peo, disse: «Non si tratta di fondere gli Stati associati, di creare un super Stato. […] I nostri Stati europei sono una realtà storica. Sarebbe psicologicamente impossibile farli sparire. La loro diversità, poi, è una fortuna e non vogliamo né livellarli né renderli uguali». La politica europea per noi non è assolutamente in contraddizione con l’i- deale patriottico di ciascuno di noi. Tutti i Paesi europei sono stati impregnati dalla civiltà cristiana. È questa l’anima dell’Europa che occorre far rivivere. Che questa idea di un’Europa riconciliata, unita e forte, sia ormai una parola d’ordine per le nuove generazioni che desiderano servire un’umanità finalmente libera dall’odio e dalla paura e che impari di nuovo, dopo troppe lacerazioni, la fraternità cristiana. L’Europa ha dato all’umanità il suo pieno compimento. È lei che deve mostrare una via nuova, invece della schiavitù. • Accettando una pluralità di civiltà in cui ciascuna sia rispettosa delle altre. Non siamo, non saremo mai negatori della patria, dimentichi dei doveri che abbia- mo nei suoi confronti. Ma al di sopra di ogni patria riusciamo a distinguere sempre più nettamente che esiste un bene comune, superiore all’interesse nazionale, quel bene comune nel quale gli interessi individuali dei nostri Paesi si fondono e si confondono. In un’epoca in cui tutto è in fermento, bisogna saper osare. È meglio provare che rassegnarsi, la ricerca della perfezione è una scusa meschina per non agire37. Il richiamo al Bene comune, alla fratellanza universale, al perdono e all’ac- coglienza del nemico sono temi cristiani di grande attualità che inducono a una ri- flessione più ampia sulla questione dei cattolici in politica, il cui impegno, ieri co- me oggi, anche sul tema dell’Europa non deve indurre ad accelerazioni in senso ne- cessariamente confessionale. In tal direzione va letta l’opera europeistica di Alcide De Gasperi. Ricordare la sua figura, infatti, studiarne l’attività vuol dire – come ha sottolineato Gabriele De Rosa – «confrontarsi con alcuni nodi cruciali della storia del secolo scorso: dalle vicende legate alla dissoluzione dell’Impero asburgico, alla crisi dello Stato liberale e all’avvento del fascismo; dalla tragedia della II guerra mondiale alla difficile opera di ricostruzione e di avvio della modernizzazione economica, politica e istituzionale del nostro paese, fino al progetto di una casa comune europea»38.

37 Ivi,pp.46ss. 38 http://www.degasperi.net/navipage_percorsi.php?id_cat=p1.

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ÿ L’ideale e i promotori

• L’ideale che supremo s’impose nelle menti sognanti di europei ante litteram come De Gasperi, Schuman, Monnet, Adenauer, fu l’edificazione di una comunità internazionale che s’ispirasse ai valori di democrazia, pace, convivenza fra popoli e culture, nell’iniziativa di risollevare a nuova alba l’Europa scossa e devastata da an- tagonismi e guerre, forti della consapevolezza di un «comune retaggio europeo», rin- tracciato da De Gasperi in «quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabi- lità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del di- ritto ereditato dagli antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da una esperienza millenaria»39. • Nelle parole di De Gasperi c’è l’Europa di Atene e Roma, l’Europa della Chiesa e forse anche già del minareto, l’Europa della Rivoluzione Francese e Ame- ricana, l’Europa dei due polmoni di Giovanni Paolo II, l’Europa che i Padri fon- datori avevano visto e progettato, senza che nessuno oggi riesca a sognare di nuo- vo la stessa visione, cercando di realizzarla fattivamente. Non se ne dolgano i “mo- derni” se, tra i patres d’Europa, posto d’onore attribuisco anche a Dante Alighieri, logos e theo-logos dell’humanitas, che in un’Europa, alla sua epoca, forse solo in mente Dei, seppe concepirne, tuttavia, l’idea, la visione, anch’egli, nella descrizio- ne degli spiriti magni del Limbo, nella teoria dei due soli, di spada e pastorale, nella sintesi poetica e profetica d’Occidente e Oriente, nella tensione a cose che «albeggiano nel grembo del futuro», così come ricordato da papa Paolo VI nella lettera apostolica Altissimi cantus: il Poema di Dante è universale: nella sua im- mensa grandezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vi- cende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dal- la Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia, l’età sua e le antichità greco-romane, mentre ben si può dire che del Medioevo è il monumento più rappresentativo. Nel suo contenuto tesoreggia la sapienza orientale, il logos greco, la civiltà romana, e, in sintesi, il dogma e i precetti della legge del Cristianesimo nella elaborazione dei suoi dottori. Aristotelico nella concezione filosofica, platonico nella tendenza al- l’ideale, agostiniano nella concezione della storia, nella teologia è fedele seguace di San Tommaso d’Aquino, tanto che la Divina Commedia è, fra l’altro, in fram- menti, quasi lo specchio poetico della Somma del Dottore Angelico. Che se ciò è ben vero nelle linee generali, è altrettanto vero però che Dante è aperto a profondi influssi di sant’Agostino, di San Bernardo, de’ Vittorini, di San Bonaventura, e non è scevro di qualche influsso apocalittico dell’Abate Gioacchino da Fiore, poi-

39 A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, IV/3, a cura di E. Tonezzer – M. Bigaran – M. Guiotto, il Mulino, Bologna 2006, p. 2746.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 137 Laura Balestra ché suole protendersi a cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono in grem- bo del futuro40. •Dante è stato forse il primo civis d’Europa? Se non nei fatti, lo fu nello spirito e «pur essendo un italiano e un uomo di parte, (fu) prima di tutto un europeo»41, la sua cultura è il patrimonio che stentiamo a riacquisire e a cui è dovere primo at- tingere. Dante non necessita di una ratifica costituzionale per concepire, cum-cape- re, afferrare insieme la sub-stantia d’Europa, la metonimia delle sue tre altezze: Gol- gota, Campidoglio, Acropoli; Grecia, Roma, Cristo o, Atene, Roma, Gerusalem- me, che dir si voglia. Egli non inabita una nazione, è la cultura d’Europa che tro- neggia nei suoi versi, le cui radici nascono e s’impiantano nell’ecumene “cattolica- universale”. Ciò che accomuna le azioni e le idee di quello che ho definito il “Sena- to d’Europa” è un’ideale trascendente, una missione o diaconia a carattere katho- likos-universale, un servizio al servizio del Bene comune: l’Europa politica e spiri- tuale, non confessionale, l’Europa dell’humanitas edeldialogos.

ÿ Conclusione

• L’Europa è un’idea, una visione stentatamente esperibile, faticosamente tan- gibile se non nella misura stessa del ponos, la fatica della visio e della sua concreta realizzazione fattiva. Come conciliare ciò che, discorde, nelle menti albeggia già in concordia? Il fine ultimo di quanti presiedono, con le loro azioni ed intenzioni, al- la creazione dell’Europa unita risiede nel mantenimento della varietas e della con- cordia che la sublima. Il rischio paradossale di un’unitas multiplex che non sia rete interculturale, dialogica e mediante, bensì imposizione riduttiva del molteplice non ad unione ma ad Unum, s’insinua sempre ratto e sotterraneo nelle pieghe con- fuse del costituendo Esse europeo, gettando l’idea d’Europa in scenari babelici. «La fatica di questa theoria […] consisterà, dunque, nell’armonizzare, senza ridurle vio- lentemente a Uno, le diverse figure, le diverse isole, tutte ‘salve’ nell’individualità del proprio carattere, ma tutte colte nella comune ricerca, nel comune amore (phi- lia) per quel Nome o per quella Patria che a tutte manca»42: l’Europa. • Che cos’è l’Europa? La sua dinamica attuale la sospinge ad assumer forma di progetto culturale, non più limitatamente economico-politico, e soltanto com- prendendo che essa è un concetto la cui dynnamis attiva risiede su fondamenti spi- rituali diversi e discordi, necessitanti di un’armonia logica, dia-logica, che tutti li riconosca identici e distinti senza nessuno disconoscerne o annullarne, sarà possi- bile dar ragione della sua richiesta d’identità, strappandola all’oblio di sé, al nichili- smo e al relativismo.

40 Paolo VI, Altissimi Cantus n. 16, traduzione dall’originale latino pubblicata in Annali dell’Isti- tuto di Studi Danteschi. Volume primo, Vita e Pensiero, Milano 1967, vol. I, pp. IX-LIV.

138 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Laura Balestra

• La sua originalità risiede nella molteplicità, «in varietate concordia», essa è continens accogliente civiltà, da Oriente ad Occidente, e chi, meglio di quei Padri fondatori francesi, tedeschi, italiani, uomini di frontiera, capaci di leggere il limes non come confine di separazione ma di unione (cum-finis), poteva concepire e ve- dere, prima ch’esistesse, quell’Europa unita e diversa, che gli occhi europei, oggi, non riescono ancora a contemplare? Atene, Roma, Gerusalemme rappresentano la “patria trinitaria” dell’esse europeo, la madrepatria universale della grande familia humana europea, ed imponendo con volontà immemore, da più parti, la damnatio memoriae dei suoi tre fondamenti spirituali, storici e filosofici, o peggio, tentando di abolire la varietas nell’affannosa mostruosa creazione dell’Unum indistinto, non si otterrà che una Babele confusa e diffusa di nomi e aspetti dati a ciò che, priva della sua consapevole essenza, non avrà forza d’esistere. • In varietate concordia: il motto d’Europa le ha dato nome all’anima, spetta ora ai figli d’Europa sentirsi fratelli di sangue (kasignetoi), divenire coscienti d’essere europei, uniti seppur divisi, radicati nel perenne s-radicamento, dall’identità non- identitaria e, in virtù di ciò, liberi di aprirsi all’Altro, come Roma, come Cristo: è questo l’ethos d’Europa, il suo telos, che le derivano dalla memoria di un passato co- mune. • Il fondamento radicale della nova humanitas europea precede e transita al di là dell’unificazione economico-politica, che ne è solo la veste esteriore. Il Terzo millennio s’appressa ai bastioni d’Europa e la chiama a darsi un’anima. Scrisse T.S. Eliot: «Il mondo occidentale ha la sua unità, in questa eredità, nel Cristianesimo e nel- le antiche civiltà della Grecia, di Roma e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo, noi riconduciamo la nostra origine. […] Se noi disperdiamo o gettia- mo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le organizzazioni e i progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad unirci»43.

ÿ

41 T.S. Eliot, Dante [II] (1929),inOpere 1904-1939, ed. it. a cura di R. Sanesi, Bompiani, Mila- no, pp. 428, 829. 42 M. Cacciari, L’Arcipelago, cit., p. 20 43 T.S. Eliot, Appunti per una definizione della cultura. Appendice: L’unità della cultura europea,in Opere 1939-1962, ed. it. a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1993, pp. 638-640.

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FOCUS

ÿ La dimensione etica della politica - di Joaquín Navarro-Valls

ÿ Famiglia ed etica della solidarietà. L’obbligo e la promessa - di Franco Riva

La dimensione etica della politica

Se c’è un atteggiamento che ha caratterizzato con conti- JOAQUÍN NAVARRO-VALLS nuità la riflessione culturale europea, non solo filosofica, è stata di sicuro la capacità di formulare correttamente le Presidente domande. Già il grande Aristotele, vero maestro della Advisory Board razionalità antica, ha dedicato un intero libro della Me- Università Campus tafisica a impostare rettamente le interpellanze che stan- Bio-Medico di Roma no alla base del sapere. E, recentemente, gli scienziati hanno suggerito allo stesso modo che quasi tutti i pro- blemi inutili derivano unicamente dal non saper formu- ≈ lare i legittimi interrogativi alle giuste questioni. È un tema ricorrente in Europa interrogarsi sui rapporti «La vera soluzione tra etica e politica. Infatti, ci si interroga quale sia il ge- del dualismo tra nere di etica che possa essere applicato correttamente etica e politica sta nel riuscire a alla politica. Ma domandare che tipo di condotta possa trattare la persona valere in genere come ragion di stato è, di fatto, investi- esattamente ed gare i motivi per cui solitamente l’etica e la politica non esclusivamente camminano di pari passo e non trovano facili motivi di come persona […] ancorando concordia. In realtà, a guardare le cose con attenzione, finalmente la l’innegabile distinzione non è solo una situazione mo- pratica politica ad derna dell’Occidente, essendo espressione di una tenta- una dimensione zione che fin dalle origini classiche ha attraversato e mi- autenticamente “vera”, metafisica, nacciato la condotta e i costumi dell’umanità. Con la che sola riesca a globalizzazione, poi, la divaricazione è divenuta fatal- dare contenuti ed mente universale. ideali sicuri e permanenti».

≈ ÿ Politica e potere

• Oggi si considera normale che la politica sia una prati- ca di rapporti di potere che deve fermarsi ai fatti, come avrebbe detto il filosofo Ludwig Wittgenstein, evitando ca- tegoricamente di aprirsi al mistero. E il motivo di quella do-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 143 Joaquín Navarro-Valls manda iniziale, riguardante la disgiunzione tra etica e politica, finisce per essere, in tal modo, una concessione gratuita all’onnipotenza del potere. È piuttosto facile, in fin dei conti, comprendere la mentalità che ha determinato lo scenario attuale, vale a dire l’istinto ad abbandonarsi all’illusione che la politica sia una limitata arte di governo, una scaltra strategia simile a quella tenuta dal Principe di Niccolò Ma- chiavelli, il quale si cingeva solo a gestire gli interessi di tutti, senza voler giudicare, cambiare e giustificare il valore di nessuno. Mi pare che dovremmo dire no a questo insano pessimismo. Opporci all’idea che tutto si risolva unicamente in pragmatismi senza finalità. La politica non è l’amministrazione del possibile, ma l’arte dell’impossibile, ossia l’ingegnosa vo- lontà di cambiare le cose presenti e migliorare nel futuro quanto non va. Ecco per- ché, su questo sfondo, il rapporto tra etica e politica non può più accettare delle squallide soluzioni di continuità, delle contrapposizioni insanabili. L’unione di eti- ca e politica deve divenire, ad ogni buon conto, il segno tangibile di un’opposizio- ne frontale al relativismo, malattia ormai perfino noiosamente insopportabile. Anche nel passato, d’altronde, vi erano coloro che giudicavano la politica un’attività indegna, un modo rapido in cui poter eseguire strategie spregevoli per raggirare efficacemente i più deboli. Vi erano ad Atene perfino dei maestri che in- segnavano, già nel IV secolo a. C., la professione di persuadere e di ingannare le masse: erano i Sofisti. Platone, all’inizio della Repubblica, fa cenno a questa deriva patologica, che non diversamente si trova oggi frequentemente, mettendo in bocca al personaggio Trasimaco la definizione di ‘opportunismo’ più famosa di tutti i tempi: La giustizia è l’interesse del più forte. • D’altronde, se non esistono più riferimenti superiori, cui attribuire, indirizza- re e modellare le azioni, è chiaro che il giusto e il vero diventano espressioni esclusi- ve della prestanza, della abilità comunicativa, della prepotenza. E chi governa fini- sce nel baratro della capziosità. Il potere diviene, insomma, un assoluto e incon- trollato idolo, una specie di nuovo “vitello d’oro”, cui affidare irresponsabilmente il proprio destino. Ecco così avverarsi l’incubo del completo relativismo. L’etica e la politica appaiono definitivamente staccate tra loro poiché, come spiegava bene Anassagora, “solo l’individuo è misura di tutto”.

ÿ Etica e Politica

• Con ciò siamo giunti ad una prima importante conclusione, che rimanda alla domanda iniziale: qual è il genere di etica che può essere applicato correttamente alla politica. Se la sfida, riguardante la distinzione tra etica e politica, deriva princi- palmente da un atteggiamento relativista, secondo cui il bene è il predominio esclusivo del più forte o del più sagace, allora ogni individuo è misura arbitraria di ogni cosa, non vedendo più nulla oltre se stesso. Evidentemente, abbiamo a che fa-

144 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Joaquín Navarro-Valls re con una seduzione originaria che spinge ad impostare il senso della giustizia e della convivenza civile nei termini privilegiati, utilitari e pragmatici, del cinismo e della prepotenza individualista. Nell’Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ha mostrato di avere per- fettamente chiaro il dramma antropologico che questa impostazione segnala, vero nucleo costitutivo di tutte le proposte ideologiche contemporanee, rinvenibile sia nella separazione tra capitale e lavoro che in quella tra bene comune e privato. Il problema è, in ultima istanza, metapolitico, presupponendo ingiustificatamente la pretesa validità di uno scetticismo assoluto. Conviene rileggere con attenzione le sue analisi magistrali: «Se ci si domanda donde nasca quell’errata concezione della natura della persona e della “soggettività” della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo. È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa con- sapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto col- lettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e re- sponsabilità della persona».

ÿ La persona “Persona”.

•Lavera soluzione del dualismo tra etica e politica sta, quindi, nel riuscire a trattare la persona esattamente ed esclusivamente come persona. Questo primo as- se etico fondamentale preme, infatti, a superare il suddetto relativismo della forza e dell’arbitrio, ancorando finalmente la pratica politica ad una dimensione autenti- camente ‘verà, metafisica, che sola riesca a dare contenuti e ideali sicuri e perma- nenti. In questo senso, appare in tutta la sua penetrante forza espressiva e attualità la celebre affermazione, più volte ribadita da Robert Spaemann, che fissa la base an- tropologica fondamentale per una solida etica politica: “Tutti i doveri verso le perso- ne sono riconducibili al dovere di percepire le persone come persone”. Quando, infatti, manca il riferimento alla trascendenza personale, anche l’idea stessa di dovere etico verso se stessi o verso la comunità si sgretola e dissolve come neve al sole. D’altronde, la politica non può restare espressione soddisfacente del- l’unica e incontrollata volontà di dominio e di potenza di chi comanda, incontran- do obbligatoriamente nel proprio cammino l’opposizione popolare della presenza umana, dal cui confronto e dalla cui ‘resistenzà è impossibile sottrarsi. Perciò l’etica non può restare a lungo il monopolio dell’utile, senza fare niente di operativo, non essendo mai una tavola di principi astratti simile ad una serie di cartelli stradali che indicano asetticamente la strada giusta per giungere ad un risultato previsto che

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 145 Joaquín Navarro-Valls nessuno compie. La complessità umana lo impedisce. Le esigenze individuali si ri- bellano. La trascendenza dell’altro vi si oppone con una prestanza imperativa. Una razionale visione del bene comune nasce, all’opposto, obbligatoriamente eviden- ziando la necessaria unità sostanziale di etica e politica in tutte le dimensioni, teori- che e pratiche, che riguardano la vita umana.

ÿ Teoria e pratica

• Qual è, allora, il genere di etica che può applicarsi con successo alla politica? Di certo, l’unica che disponga di un livello soddisfacente di riferimenti antro- pologici e di motivazioni pratiche da soddisfare le aspirazioni profonde presenti nella società. E ciò per due ragioni. Da un lato, perché l’agire pratico non può esi- stere senza una conoscenza speculativa della verità umana come tale. Infatti, se non so chi è la persona, non posso neanche sapere cosa devo fare e quanto occorre esi- gere dagli altri per comportarsi con misura e giustizia, nel rispetto pieno della di- gnità personale di tutti. Dall’altro, perché la politica è fondamentalmente abitudi- ne, vale a dire un ricorrente traboccare dell’intelligenza nell’azione, senza il quale non può esservi alcun tipo di garanzia e dignità per nessuno. Ecco perché la piena saldatura tra teoria e pratica è quanto i maestri della Scolastica chiamavano “pras- si”, vale a dire non la sola trasformazione tecnologica dell’ambiente circostante, ma la materializzazione della verità umana in buoni comportamenti: coerenti, effettivi e concreti. Il risultato è la felicità personale, indipendente dai risultati produttivi ottenuti. Non stupisce, alla fine, che l’unità di etica e politica, modellata sul principio della responsabilità personale, abbia trovato il proprio sbocco normale nella cen- tralità delle virtù umane. Esse sono, per l’appunto, come il grande filosofo tedesco Joseph Pieper ha spiegato, il cuore etico della politica e il perno stesso della pretesa pubblica che definisce l’agire privato di ognuno.

ÿ Le virtù etiche

• Le più importanti virtù etiche in politica sono, non a caso, la prudenza e la giustizia. Un politico, infatti, è all’altezza del suo dovere solo se è misurato e equo, vale a dire solo se compie abitualmente atti razionali che diventino tutt’uno con il suo modo d’essere, di valutare problemi e scegliere soluzioni responsabili. Da tale coe- renza deriva poi non soltanto la credibilità che da politico egli può garantire ai suoi elettori, ma l’aderenza etica della sua autentica personalità alla verità antropologica oggettiva. È fin troppo chiaro che l’indissociabilità tra etica e politica, legata per

146 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Joaquín Navarro-Valls l’appunto alla prassi, è resa possibile solo dalle virtù personalmente esigibili. Se, in- fatti, vi fosse un’etica senza virtù, allora avremmo una tavola di regole morali astratte assolutamente insignificanti e dissociate dai comportamenti. E se ci fossero virtù senza etica, ci troveremmo davanti ad un moralismo ideologico insopportabi- le che trascinerebbe la verità stessa sul piano legale e convenzionale, senza tener conto dei corrispondenti doveri individuali della vita sociale. La prudenza, oltretutto, come virtù principe della razionalità politica, fa risal- tare il legame etico che deve esistere tassativamente tra azione e razionalità, nella ponderazione cauta e risoluta, ben diverso evidentemente dalla paura, dal tattici- smo o dal perfezionismo, che sono esattamente l’opposto. E la stessa cosa può esse- re detta anche a proposito della giustizia. Solo quando la persona è pensata in tutta la sua verità trascendente, è possibile riconoscere equamente una dignità oggettiva- mente corrispondente alla volontà singolare di ognuno. Se chi agisce, invece,èdo- minato dal puro egoismo, allora, pur sapendo esattamente cosa sia teoricamente la giustizia, non riuscirà a mettere in pratica mai, neanche una volta, i valori che so- stiene, vanificando infine ogni sforzo in atti di disumana prevaricazione.

ÿ La verità attorno all’uomo

• D’altra parte, recuperare il senso etico della politica, come Benedetto XVI ha esortato nell’Enciclica Caritas in Veritate, vuol dire riscoprire l’indipendente valore umano della verità, riuscendo così, al contempo, a liberare se stessi dal cattivo rela- tivismo, effetto ultimo dell’individualismo radicale, e a scoprire la buona relatività, causa di un sano pluralismo e di una concreta sensibilità democratica. Sapere che la verità intorno all’uomo ha più valore degli sbagli personali di cia- scuno significa comprendere che esistono molti modi possibili di attuare il nesso inscindibile tra etica e politica. Il risultato definitivo è, in fin dei conti, l’acquisizio- ne di una vigorosa modestia, di una consapevole umiltà, davanti ai modi compositi in cui si consuma l’impegno collettivo e individuale per la comunità. Il bene comune, in ultima istanza, non è altro che la fusione totale e virtuosa di teoria e prassi nella condotta di vita delle persone. Ossia, l’inscindibile si- nergia di essere e dover essere che nella vita sociale fa diventare realmente persone felici e serene, aperte agli altrui destini e libertà.

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Famiglia ed etica della solidarietà L’obbligo e la promessa*

Il linguaggio della famiglia e quello della solidarietà FRANCO RIVA tendono a dissociarsi; e danno vita a tensioni etiche in Filosofo parte sfalsate: tra particolarismo e universalismo, tra Università Cattolica privato e pubblico, tra intimo e collettivo, tra tradizio- Sacro Cuore Milano ne e modernità. Le cause non vanno cercate soltanto nel crollo di un mondo – frantumazione dei legami, l’a- près-devoir, l’individualismo –, ma anche nell’immagi- ne tetra di una solidarietà familiare troppo intrisa di obblighi e di coazioni, di debiti e di desideri sacrificali. ≈ Etica della famiglia ed etica della solidarietà restano co- «Prima munque vicine, a patto di riflettere: la solidarietà emer- dell’obbligo, nella ge in modo esemplare nella famiglia, senza esserne famiglia il dovere esaurita; il legame sociale non viene dopo, e non si spie- mostra la sua origine in una ga nei termini organici di una pura interdipendenza; e, promessa di tra promessa e ospitalità, il dovere deve essere infine ri- radicale consegnato alla responsabilità per l’altro in quanto altro solidarietà. che è pure un modo, umano, della libertà. Nessun obbligo può generare una promessa, mentre nella promessa sorge una ÿ Famiglia e solidarietà responsabilità che rinnova ogni volta • L’etica della solidarietà si propone ormai su scala plane- da capo il proprio taria. I suoi sviluppi e la sua estensione oltrepassano l’identi- dovere». ficazione tra la solidarietà e l’appartenenza ad un gruppo più o meno ristretto, sia questo comunitario o nazionale, di cul- ≈ tura o di lotta. La solidarietà guadagna finalmente il senso dell’altro in quanto altro, e non solo come membro del grup- po di appartenenza, di colui che condivide il mio stesso desti-

* Pubblicato anche in Èthique et Famille, dir. E. Rudge-Antoine, M. Piévic, L’Harmattan, Paris 2011, pp. 225-248: Franco Riva, La famille et l’éthique de la solidarité. L’Obligation et la Promesse.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 149 Franco Riva no ravvicinato, o di un simile troppo simile a me1. L’affacciarsi del senso dell’altro in quanto altro, nella sua differenza differente, risulta d’altro canto per la solidarietà l’unica via di accesso a una vera universalità, che non escluda nessuno. Dire l’univer- sale umano significa per la solidarietà mettersi appunto di fronte all’altro indipen- dentemente dai riconoscimenti di appartenenza, di affinità, di somiglianza. La solidarietà guadagna la propria universalità mettendosi di fronte all’altro in quanto altro. Da questo preciso punto di vista, un’etica della solidarietà incontra direttamente l’etica della famiglia: anche nella famiglia la scelta elettiva non equi- vale a un narcisismo di coppia, ma all’istituzione di un’apertura sull’apertura, al- l’ingresso dell’altro in quanto altro. Nella famiglia si inaugura il tempo dell’altro: femminile e maschile, maternità e paternità, figliolanza e fraternità si intrecciano, si fondono, si ripensano nel faccia a faccia, per scoprire infine che niente della fa- miglia e delle sue dinamiche si spiega nell’ottica di una centratura su di sé, di un’appartenenza esclusiva, di un possesso. Le esperienze fondamentali di eros e del figlio2 stanno lì a documentare come nell’elezione dell’amore, nella famiglia che si costituisce, si inaugura un tempo al- tro in quanto tempo dell’altro: inaugurazione che avviene in una comunità inci- piente, con volti e nomi propri, e che tuttavia deve la sua configurazione, perfino nel suo aspetto normativo, a ciò che, nell’unità, differisce. Elezione della differen- za, quindi, carne altra eletta come propria – ma proprio perché propria non è –, paradosso del figlio che biologicamente deriva dai genitori ma che, nella sua profondità irraggiungibile, è altro. • La famiglia si raccoglie nella casa. Nella casa l’aprirsi delle porte è altrettanto essenziale del loro chiudersi, l’uscita altrettanto fondamentale dell’ingresso, ospita- re è anche un essere accolti nella propria dimora. Ma non si tratta solo di un’imma- gine; semmai, dell’essere dell’uomo su questa terra come un soggiornare aperto3, un abitare presso. Il movimento diventa così decisivo tanto quanto il raccoglimen- to, l’uscire tanto quanto l’entrare, il rischio tanto quanto la protezione. Senza la presenza dell’altro in quanto altro, la dimora dell’umano – il suo stesso esserci – non si può costruire. La famiglia non è solo una prima, elementare forma di solidarietà. Realizza semmai il movimento stesso della solidarietà nel suo perenne incarnarsi e decen-

1 Cfr. J. Cohen, A. Arato, Civil Society and Political Theory,MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992, p. 38. Per un panorama sulla solidarietà, cfr. K. Bayertz, herausg., Solidarität. Begriff und Probleme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998; AA.VV., Solidarity, Kluwer, Boston-London 1999; F. Crespi, S. Moscovici, Solidarietà in questione. Contributi teorici e analisi empiriche, Meltemi, Roma 2001; R. Zoll, La solidarietà. Eguaglianza e differenza, il Mulino, Bologna 2003; F. Riva, a cura di, Ripensare la solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 2009. 2 Cfr. E. Lévinas, Etica e Infinito, a cura di F. Riva, Città Aperta Edizioni, Troina 2008. 3 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995, pp. 92 ss.; J.-L. Nancy, L’«etica ori- ginaria» di Heidegger, Cronopio, Napoli 1996, p. 36.

150 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva trarsi: di fronte all’altro eletto in un vincolo esclusivo di responsabilità e tuttavia, proprio per questo, pur sempre dinnanzi all’altro da sé che domanda, e che ri- manda, al movimento sempre particolare e sempre universale della stessa solida- rietà. Nella famiglia tutte le dimensioni della solidarietà umana sono messe alla prova: nella salute e nella malattia, nella giovinezza e nella vecchiaia, nella buona e nella cattiva sorte, nella felicità e nella disperazione. Nell’affinità e nell’insormon- tabile differenza.

ÿ Un’inversione pericolosa

• La responsabilità per l’altro in quanto altro agisce nel cuore della famiglia e in quello di una solidarietà universale. Nonostante questa vicinanza, e nonostante che fin dall’inizio i loro linguaggi si siano mescolati, tra famiglia e solidarietà sono ma- turate progressivamente tensioni e dissociazioni morali, come se riguardassero infi- ne narrazioni antitetiche dell’umano. Il motivo di questa ingiusta antitesi risiede in una inversione tanto semplice da indicare, quanto articolata e complessa da documentare: il motivo etico della soli- darietà che emerge esemplarmente in riferimento alla famiglia non esaurisce in essa tutte le potenzialità di espressione. Quando si parla dunque di modello familiare per la solidarietà la cosa va intesa per intensità di emergenza, e non per sovrapposi- zione: significa che la famiglia è attraversata dalla socialità nel suo stesso costituirsi; e se questo la indica come paradigma, la trascina al tempo stesso verso una dimen- sione fondamentale dell’umano comune che l’oltrepassa senza oltrepassarla vera- mente, perché in essa già compresa e vissuta. La sorgente non è il fiume. Le fonda- menta non sono l’edificio. Se è vero che senza sorgente e senza fondamenta non ci sono fiumi e case, non è meno vero che senza fiumi e senza case non ci sono sor- genti e fondamenta di nulla. • L’inversione consiste dunque in questo: nel far coincidere il paradigma della solidarietà con il luogo familiare della sua emergenza. Fuori dubbio che nella fami- glia la solidarietà emerge, si esercita, e si educa in un modo tipico e insostituibile. Ma nel modo tipico e insostituibile della famiglia emerge, si esercita, e si educa an- che la solidarietà come tale. Il luogo esemplare della sua emergenza e della sua pra- tica non equivale alla chiusura di significato della solidarietà. Né tanto meno a un abbozzo, una prova, un anticipo. La famiglia è già, nel suo modo tipico e insosti- tuibile, responsabilità per l’altro in quanto altro, già destinazione all’umano comu- ne nella sua stessa elettività, già universale nella sua singolarità, già insuperabile so- cialità. L’inversione strisciante tra il modello familiare e l’esaurimento della solidarietà provoca perciò, così come la netta dissociazione, dei contraccolpi mortali su en- trambi i lati.

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ÿ Tensioni etiche

• L’allargarsi progressivo della solidarietà al di là delle comunità ristrette, parentali, di destino, di cultura, o di lotta, sembra quasi abbandonare la famiglia alla sua configu- razione etica premoderna e arcaica; e in ogni caso a un’etica dei rapporti non più spen- dibile per una solidarietà che si colloca – come deve essere – al di là delle appartenenze esclusive. Cifra, così, di ogni ristrettezza. Dopo secoli di alleanza, gli sviluppi della soli- darietà mettono dunque tra loro in tensione la famiglia e la solidarietà, con esiti per nulla scontati da una parte e dall’altra. A seconda che si accetti o che si rifiuti il modello familiare di solidarietà come paradigma – ipotecato nel senso della chiusura e della ri- strettezza – muta infatti l’immagine di società e cambia l’idea stessa di solidarietà.

ÿ Famiglia modello di legame sociale

• Gli orientamenti teorici che affrontano la tensione sembrano, a prima vista, del tutto contrastanti: se si assume la famiglia come modello per il legame sociale, la solidarietà andrà a significare un’appartenenza stretta, una precisa comunità di vita, la condivisione del medesimo destino; se invece si ritiene che le società con- temporanee non possano essere equiparate a delle famiglie allargate, e si privilegia in alternativa una solidarietà universalistica, che fa perno ad esempio sui diritti umani, allora l’etica della famiglia viene giudicata troppo arretrata per potersi an- cora proporre quale paradigma generale di convivenza. Pur contrapposti tra loro, questi due orientamenti condividono in realtà la stessa idea di famiglia, nonché il concetto di solidarietà che ne deriva: ruotano entrambi, per difesa o per contestazione che sia, intorno all’equivalenza tra famiglia e solidarietà ri- stretta. E a seconda che si conceda, o meno, che la famiglia possa proporsi quale model- lo generale del rapporto sociale varia senz’altro l’idea di solidarietà, mentre l’immagine di famiglia tende a rimanere tutto sommato la stessa. Proprio su questa staticità si deve riflettere, perché i giochi alternati delle parti, a favore o contro, sono possibili fin tanto che si concede senza discuterlo il punto di partenza, ossia che un’etica della famiglia cor- risponda per davvero a quella dei gruppi ristretti e autoprotettivi, dei legami di sangue. • Bisognerebbe anche chiedersi in quale misura le teorie del riconoscimento ri- solvano per davvero la tensione: la famiglia è identificata come la prima forma di riconoscimento reciproco, a cui seguono, per innalzamento progressivo di sfera so- ciale, i diritti e la solidarietà, sulla scia dell’eticità di Hegel. Comprendendo la gamma dei rapporti erotici, amicali e soprattutto parentali, che implicano «forti vincoli affettivi tra poche persone», la famiglia, per quanto dialetticamente correla- ta, resta pur sempre distanziata dalla solidarietà4.

4 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, il Saggiatore, Milano

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La famiglia rimane così in bilico sul crinale che separa e unisce al tempo stesso due tipi di solidarietà – per sintetizzare: particolaristica e universalistica; ristretta e allargata; destinale e libera –; e conseguentemente due impostazioni dell’etica stessa. • Dall’alternativa tra una solidarietà che neppure si pone il problema di artico- larsi rispetto alla famiglia, identificandosi con l’unità di un gruppo compatto e in- terdipendente, e una solidarietà che rifiuta il modello familiare perché si è liberata infine dei propri lacci etnocentrici in virtù della responsabilità per l’altro in quanto altro, si esce solo con un rovesciamento. In forza di questo rovesciamento si è co- stretti a ritornare ancora una volta sulla famiglia e sul tipo di rapporti di solidarietà che mette in atto. Tralasciando la considerazione dei mutamenti epocali e delle tra- sformazioni sociali, si deve contestare che la famiglia sia un luogo etico identitario, in senso ristretto, particolaristico e privato. Comunità precisa, con volti e nomi propri, ma di persone che manifestano già in questo legame elettivo la responsabilità per l’altro in quanto altro – l’altra perso- na, l’altro genere, l’altra generazione, l’altro nella diversità dei tempi e delle avven- ture della vita – che è insieme la radice e la mappa dei percorsi stessi della solida- rietà umana. Prima, però, bisogna arrivare fino al punto dell’attuale implosione tra un’etica della famiglia e un’etica della solidarietà, certo non per narrarne la storia: per de- nunciarne piuttosto le ostinate premesse, che si distribuiscono equamente sui cam- pi avversi; per recuperarne le intime possibilità.

ÿ Popoli come famiglie

• Il punto di implosione tra un’etica della famiglia e un’etica della solidarietà si prepara lentamente attraverso storie e vicende di linguaggi che sono ogni volta co- muni e distanti, lasciando sullo sfondo immutata l’immagine della famiglia. Nel suo punto contemporaneo di arrivo, questa storia rappresenta per la solidarietà l’attrito teorico tra chi ne ribadisce ad oltranza il modello familiare e chi invece lo incrimina direttamente. Storia stessa dei trapassi epocali, se è vero quanto scrive Jean-Francois Lyotard parlando del «legame sociale» in prospettiva postmoderna, quando i legami tradizionali si sono frantumati e si è guadagnata la consapevolezza della propria irriducibile individualità: anche se per qualcuno «il sé» può apparire troppo «poco» rispetto ai legami del passato, pur tuttavia non è poi così «isolato» perché «coinvolto in un tessuto di relazioni più complesse e mobili che mai»5.

2002, p. 117; cfr. Id., Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993; P.Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, R. Cortina, Milano 2004, pp. 213 ss. 5 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1994, p. 32.

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Quando Hans Jonas distingue tra la responsabilità e una solidarietà di fatto che viene a crearsi tra i membri di un gruppo coinvolto nella stessa impresa, fa an- cora memoria del linguaggio familiare: quei rapporti che si generano tra persone che condividono lo stesso destino e le cui vite sono strettamente unite nella comu- ne impresa, come una scalata in montagna o il cameratismo in guerra, «in cui ognuno deve poter contare sull’altro per la propria sicurezza e tutti diventano quindi reciprocamente “custodi” del loro fratello», appartengono a «un’altra di- mensione dell’etica e del sentimento» rispetto alla responsabilità6. Non perché nel- l’impresa comune non sorgano rapporti di responsabilità reciproca, ma perché la simmetria della solidarietà si contrappone alla disimmetria della responsabilità, che va al di là, per spazio e per tempo, dell’impresa comune. Il rapporto di respon- sabilità non equivale alla solidarietà ristretta in cui ci si fa vicendevolmente custodi del proprio fratello. La solidarietà nell’impresa comune affratella soltanto coloro che per sangue, per cultura, per interesse, vi si riconoscono. • La citazione di Jonas non è a caso. L’intreccio tra solidarietà, impresa comu- ne, e fraternità è sfruttato da Charles Taylor in polemica contro l’individualismo, a cui fa difetto proprio il senso della solidarietà: e questo in un contesto dove si parla di bene comune, di «sacrifici», e di «disciplina» che la società civile deve richiedere ai suoi membri, fatto salvo che vanno espressi nella libertà piuttosto che nella co- strizione come nei regimi dispotici. Sacrifici, disciplina, doveri verso gli altri – sia pure nella libertà, questa volta – intrecciano nuovamente tra loro il linguaggio del- la solidarietà con quello della famiglia. Alla frantumazione individualistica e liberale Taylor contrappone infatti una «solidarietà repubblicana», una specie particolare di «patriottismo», capace di po- sticipare i propri interessi egoistici in vista del bene comune: un patriottismo che si regge proprio «su un’identificazione con altri in una particolare impresa comu- ne», per la quale «non mi dedico semplicemente alla difesa della libertà di uno qualsiasi, ma sento il legame della solidarietà con i miei compatrioti nella nostra impresa comune, l’espressione comune della nostra rispettiva dignità». • La solidarietà ricalca esplicitamente il modello familiare, per quanto esteso a li- vello di una comunità nazionale: un destino condiviso, l’identificazione con gli altri, l’impresa comune, la dignità di sentirsi accomunati. Modello della solidarietà civile rimangono, a chiare lettere, i «legami familiari», o quelli amicali, rispetto ai quali sol- tanto l’impresa comune, l’identificazione, il destino condiviso possono avere senso. Tra una famiglia e la società civile scorrono ovviamente delle differenze, tant’è che la «mia lealtà patriottica non mi lega a persone individuali in questa maniera familiare»; e tuttavia il modello familiare resta il paradigma di una società civile, la cui pertinenza è data dal fatto che il «mio legame con queste persone passa attra- verso la nostra partecipazione a un’entità politica comune. Le repubbliche che

6 H. Jonas, Il principio responsabilità, a cura di P.P.Portinaro, Einaudi, Torino 1993, pp. 119-120.

154 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva funzionano sono come famiglie in questo senso cruciale: nel senso che parte di ciò che lega insieme le persone è la loro storia comune»7. La storia comune rende pertinente il modello familiare per la convivenza civi- le, fatte salve alcune differenze: le persone non stanno in rapporto diretto come nelle famiglie vere e proprie, e il dovere non si può estorcere. Ma proprio queste eccezioni distanziano tra loro la famiglia e la solidarietà civile nello stesso momen- to in cui vengono avvicinate. Questa storia, inoltre, sarà veramente così comune o non prevede piuttosto complessi intrecci di storie molteplici, diverse, e addirittura antagoniste le une alle altre?

ÿ Famiglia o solidarietà?

• Nonostante le buone intenzioni e il fondo di verità della cosa, l’avvicinamen- to tra famiglia e solidarietà rischia di provocare, quando viene inteso nel senso di una comunità ristretta, di destino, di appartenenza, degli effetti sgraditi dove, alla fine, ne va tanto dell’una quanto dell’altra. La famiglia e la solidarietà possono sco- prirsi entrambe invecchiate rispetto a una società moderna e dinamica; oppure, per salvare l’una delle due, si abbandona l’altra al suo inesorabile destino: in gene- re, la famiglia a vantaggio di una solidarietà pubblica rinnovata; ma avviene anche il contrario. Ne va innanzitutto della solidarietà perché, schiacciata sul modello familiare ri- stretto, rischia di seguirne le sorti quando questo va in crisi; e di venire inoltre, per inevitabile contraccolpo, dichiarata a sua volta sorpassata. Rinchiusa nei ghetti delle appartenenze, la solidarietà allude per un verso a coesioni etnocentriche e si presta, per altro verso, a diventare fulcro di costanti rivalità. Il limite estremo di questa im- postazione si ha nel pensiero, reso esplicito da von Hayek, che non vi potrà essere una «società aperta pacifica» fin tanto che non si «rinuncia a creare solidarietà», la quale è invece «estremamente efficace nel piccolo gruppo»8. Ricalcata sul modello familiare, la solidarietà si identifica con la coesione dei gruppi chiusi che alimenta- no la rivalità sociale. Per quanto la sua efficacia sia indiscutibile entro piccole comu- nità, è preferibile rinunciarvi se si vuole costruire una società aperta e pacificata. Ne va soprattutto, e in secondo luogo, della famiglia quando, per difendere il valore più dilatato della solidarietà, si tende a trascurarla come modello di riferi-

7 C. Taylor, Cross-Purposes. The Liberal-Communitarian Debate,inPhilosophical Arguments, Har- vard University Press, Cambridge-Mass. – London 1995, pp. 187 ss. Cfr. J. Chevalier, éd., La solida- rité, un sentiment republicain?, PUF, Paris 1992. Per A. Etzioni (The Spirit of Community. Rights, Re- sponsibilities, and the Communitarian Agenda, Crown, New York 1993) il paradigma familiare va dife- so per legge. 8 F. A . v o n H a y e k , Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e dell’economia politica, il Saggiatore, Milano 1986, p. 361.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 155 Franco Riva mento: finisce così, strumentalmente, per essere consegnata alla sua immagine tra- dizionalistica. A quest’ultimo proposito si consuma un vero e proprio paradosso nel connubio tra il linguaggio della famiglia e quello della solidarietà: nati insie- me, sempre insieme o vengono abbandonati o si rinuncia alla matrice familiare che genera in qualche modo il linguaggio stesso della solidarietà. • La rinuncia alla famiglia quale modello per la solidarietà matura nelle obie- zioni, per depositarsi infine in un vero e proprio rovesciamento: della solidarietà si arriva infine a parlare non più nei termini comunitari della famiglia, ma in quelli, insieme polemici e provocatori, degli «individualismi solidali». Più che il dettaglio, la discussione o la correttezza delle obiezioni che vengono rivolte al concetto di so- lidarietà ricalcato sul modello familiare, sempre inteso tuttavia come comunità di destino e di appartenenza stretta, conviene registrare il movimento di fondo che dissocia la solidarietà moderna dalla famiglia. Le obiezioni che vengono mosse alla sovrapposizione tra linguaggio della famiglia e linguaggio della solidarietà marca- no tutte il percorso di una crisi: crisi delle trasformazioni sociali, e crisi del model- lo familiare. Le stesse obiezioni lasciano inoltre trapelare una logica unitaria, al di là delle loro differenze e delle loro puntualizzazioni; e si presentano inoltre lungo tre linee di forza, più o meno diseguali nell’intensità: la distanza delle società mo- derne dal modello familiare; l’intrasponibilità dei legami parentali; la convergenza tra le comunità di destino e gli stili costrittivi della convivenza. Da tutto questo deriverebbe l’inapplicabilità del modello familiare per le società moderne9. • Habermas non ha incertezze nel concedere che le «idee fondamentali di uguale trattamento, solidarietà e bene comune» sono sempre esistite, anche se spesso «que- sti obblighi normativi di per sé non oltrepassano i confini di un concreto mondo di vita: della famiglia, della tribù, della città o della nazione»10. La vicinanza tra fami- glia e solidarietà rispecchia la situazione di comunità fortemente identitarie che so- no inadatte a cogliere la valenza intersoggettiva e allargata, universale, della solida- rietà: distaccandosi dal modello familiare della comunità di destino è possibile risco- prire, e liberare, i luoghi della forza socio-integrativa dell’agire comunicativo, le «energie produttrici di solidarietà»11. All’idea dominante di una solidarietà (e di una fraternità) tra simili subentra quella di solidarietà (e di una fraternità) tra estranei, che in Habermas privilegia l’universale, i diritti, la giustizia. La solidarietà, che è il «rovescio della giustizia»12, non ha più bisogno di insistere sul rapporto parentale.

9 Cfr. J. Duvignaud, La solidarité. Liens de sang e liens de raison, Fayard, Paris 1986, pp. 155 ss.; K. Bayertz, Il concetto e il problema della solidarietà, in K. Bayertz, M. Baurmann, L’interesse e il dono, Questioni di solidarietà, a cura di P.P.Portinaro, Edizioni di Comunità, Milano 2002, pp. 26 ss. 10 J. Habermas, Giustizia e Solidarietà,inTeoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 71 e p. 72 (cfr. J. Habermas, Solidarietà tra estranei, Guerini e Associati, Milano 1997 e Fatti e norme. Contri- buti a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini, Milano 1996, p. 96). 11 Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. XXX ss. 12 J. Habermas, Giustizia e Solidarietà, cit., p. 74.

156 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva

Anche Avisai Margalit coglie l’intimo rapporto tra il linguaggio della famiglia e quello della solidarietà, con riferimento alla «trinità» rivoluzionaria di libertà, ugua- glianza, fraternità. Tuttavia, il «modello di relazioni fraterne» implica «un’appartenen- za senza condizioni» impraticabile in un’«anonima società di massa», che non può «essere pensata su un simile legame familiare»: l’idea di un modello familiare pervasi- vo rispetto alla società contemporanea produce lo stesso «scetticismo» del sogno che «tutta l’umanità possa essere composta di persone che si amino l’un l’altra»13. • Nelle obiezioni circa l’opportunità di conservare un modello familiare per la solidarietà i linguaggi continuano a intrecciarsi al rovescio, al fine di dissociare le loro prospettive. Matura in questo modo anche il distacco, perché si reputa che la disgregazione dei legami tradizionali, più legati alla famiglia, non comporti neces- sariamente una dismissione di solidarietà. Apre invece a possibilità inedite, dal mo- mento che al di fuori dei gruppi e dei rapporti obbligati la solidarietà può manife- starsi più liberamente, e più creativamente. • Lo scollamento del linguaggio della solidarietà da quello della famiglia an- nuncia l’abbandono delle logiche delle comunità di destino, a favore vuoi di uni- versalismi – se si va nella direzione dei diritti – vuoi di individualismi solidali. In un caso e nell’altro, però, il modello familiare risulta svalutato finché continua a essere interpretato come il fiancheggiatore delle comunità ristrette e autoripiegate, di impronta tradizionalistica. La proposta di un «etnocentrismo moderato» per la solidarietà (R. Rorty), vale a dire l’allargamento progressivo del «noi» di partenza, rispetta acutamente sia l’origine “familiare” del linguaggio, sia l’esigenza del suo sfondamento14. • Non per questo il riferimento alla famiglia è del tutto superato. Nella presa di distacco dall’uso tradizionalistico del modello familiare, nelle stesse obiezioni, trasale infatti anche l’esigenza di un suo ripensamento: soprattutto con l’annuncio di possibili, nuove fraternità, che siano scelte, non escludenti, tra estranei. Per la famiglia e la fraternità si annuncia allora, al di là del dato acquisito, genetico, che sta alle nostre spalle, anche un compito a venire. Il linguaggio della famiglia si ri- trova così, non solo per forza dialettica, ad essere in qualche modo mantenuto, e addirittura reinterpretato, perfino nella dismissione del suo modello.

ÿ Individui solidali

• Per il rapporto tra famiglia e solidarietà il fenomeno moderno dell’individua- lizzazione rappresenta un culmine paradossale. Il processo è «ambivalente»: da un

13 A. Margalit. La società decente, Guerini e Associati, Milano 2002, p. 213; cfr. pp. 213-214. 14 Cfr. R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 227.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 157 Franco Riva lato implica una rottura rispetto ai rapporti sociali tradizionali, costrittivi, da un altro lato pone le premesse «dell’autonomia individuale» in ordine a scelte più re- sponsabili15. Permette inoltre percorsi d’azione inediti e dinamici rispetto ai vin- coli e alle fissità delle solidarietà del passato. Lo sgretolamento dei legami tradizio- nali non coincide per sé con il trionfo dell’egoismo: individualizzazione non equi- vale a individualismo. • Il rifiuto di identificare il successo dell’individuo con il regno dell’egoismo morale si deposita in modo emblematico nella possibilità inedita di un «individua- lismo solidale» dove, anziché essere d’ostacolo, «il pensare a se stessi» diventa addi- rittura il «presupposto di un essere per gli altri»16. Niente di più distante dalle soli- darietà coatte, strette nella morsa di doveri ancestrali e insindacabili. • Questo è il punto: la crisi e l’allentarsi dei legami tradizionali «non è più in contraddizione con la solidarietà, ma costituisce anzi proprio il suo presuppo- sto»17. Ne viene, per contrasto, che l’insistenza ad oltranza sul modello parentale porta al rifiuto della stessa solidarietà. • In discussione non è la famiglia come luogo di solidarietà dato che, come di- ce Max Weber, la «comunità domestica» e il «gruppo parentale» restano forme ti- piche e «tradizionali» di solidarietà18. Il problema riguarda la spendibilità del mo- dello familiare, tradizionale e domestico, per un discorso veramente allargato, creativo, sulla solidarietà. Nella stagione del suo imporsi globale e mediatico la so- lidarietà oltrepassa per suo conto i confini delle appartenenze troppo ristrette, dei rapporti troppo ravvicinati, e pone il problema di una solidarietà tra estranei, per i quali è difficile utilizzare ancora il lessico familiare se non con un’estensione o una riformulazione tali (la famiglia umana; la fraternità tra sconosciuti) che lo rende irriconoscibile nei termini tradizionali dei legami di sangue e di cultura. • L’estendersi globale della solidarietà non smentisce il valore delle solidarietà tradizionali. Pur tuttavia nella solidarietà moderna, che porta al proprio centro la responsabilità per l’altro in quanto altro e non come membro del proprio gruppo di appartenenza, si impone l’apertura verso modi nuovi di comunità che discuto- no e problematizzano il modello familiare, sempre identificato con una comunità di destino, con i legami di sangue. • Il legame di sangue e l’individualismo solidale sono facce della stessa polemi- ca che coinvolge in prima fila la solidarietà e la famiglia, sia pure con sottolineatu-

15 Cfr. R. Zoll, La solidarietà, cit., pp. 180 ss. 16 U. Beck, Solidarischer Individualismus. An sich denken ist die Voraussetzung eines Daseins für Andere, «Süddeutsche Zeitung» 2 marzo 1995. Cfr. U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000; R. Boudon, Declino della morale? Declino dei valori?, il Mulino, Bologna 2003, pp. 25 ss. 17 K.-O. Hondrich, C. Koch-Arzberger, Solidarität in der modernen Gesellschaft, Fischer, Frank- furt am Main 1992, p. 25; cfr. H. Van der Loo, W. Van Reijen, Modernisierung. Project und Paradox, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992. 18 M. Weber, Economia e società, a cura di P.Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1980, vol. I, p. 45.

158 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva re alternative: il legame di sangue richiama all’essere solidali contro l’individuali- smo moderno che attenua, anche nel suo aspetto iper-economicistico, i «legami di fiducia o solidarietà»19; l’individualismo solidale pone invece l’accento, contro le imposizioni del passato, sulla capacità individuale e trasgressiva dell’agire solidale di una persona libera. E in entrambi i casi la famiglia continua ancora a restare schiacciata sul modello premoderno, tradizionalistico e ristretto. Ma la famiglia non è solo, o non è propriamente, questo. • Per reazione alla reazione, difatti, perfino gli individualismi solidali vengono a loro volta rovesciati in vista di un ritorno alla famiglia, sulla scena innegabile del- l’attuale difficoltà della convivenza pubblica: per qualcuno, ormai, soltanto nella vivacità resistente della famiglia, che sopravvive ai trapassi epocali, si può ritrovare il senso di quegli stili di «solidarietà» nei rapporti che altrove si stanno smarrendo, schiacciati dal dominio incontrastato degli imperativi collettivi della concorrenza e della competizione20. Con la sua sorprendente vitalità la famiglia, dunque, resi- ste. Pur nel suo recupero, continua però a venire investita dal linguaggio della frat- tura e dell’opposizione rispetto alla socialità allargata: linguaggio di un «privato» della famiglia che si contrappone al pubblico, di una «intimità» che andrebbe ap- punto riscoperta. Questa famiglia così intima e privata non è forse poi così lonta- na dagli stessi individualismi solidali.

ÿ Fraternità ma come?

• Il punto di implosione tra un’etica della famiglia e un’etica della solidarietà ri- mette di fronte allo stesso paradosso e alla stessa evidenza: al paradosso di linguaggi affini che litigano tra loro senza potersi estirpare fino in fondo l’uno dall’altro; e al- l’evidenza di un concetto di famiglia appiattito in genere su un’immagine tradizio- nalistica, di una parentela chiusa – concetto che rischia di essere tanto noioso quanto artefatto, pronto per ogni uso. • E questo su entrambi i versanti. La critica del modello familiare non riesce a disfarsi del tutto del linguaggio della famiglia, e parla ad esempio di fraternità tra estranei, di appartenenze straniere. L’insistenza sul modello familiare è invece co- stretta a riconfigurarlo e ad eccepire di continuo per poterlo riproporre in riferi- mento a convivenze allargate e complesse. Ecco allora le precisazioni, le avvertenze, le aggettivazioni, le limitazioni attraverso cui mantenere in vita il modello dei lega- mi di sangue in un diverso contesto che li rende improbabili come tali: la fraternità

19 C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni colletti- ve, Bompiani, Milano 1995, p. 88. 20 Cfr. L. Ferry, Famiglie, vi amo! Politica e vita privata nell’era della globalizzazione, Garzanti, Mi- lano 2008, pp. 61-63.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 159 Franco Riva diventa civica, il modello esclude rapporti troppo personali, e la comunità di desti- no si tramuta nella condivisione della medesima storia. • La parola fraternità, così centrale nel lessico della famiglia, è emblematica tanto del paradosso quanto dell’evidenza. • L’estensione della solidarietà ha portato con sé anche l’allargamento della fra- ternità. Prendere in prestito dalla famiglia la parola fraternità si è rivelato subito non facile: è stato fatto, ma con precisazioni e distinzioni, con rifiuti e riscritture del si- gnificato. L’estensione della fraternità in senso civile, in particolare, ha implicato in- fatti tanto una valorizzazione del termine, quanto una doppia rottura di significato: rispetto ai legami di sangue; e all’idea religiosa di fraternità. Rispetto ai legami di sangue perché la fraternità civica ha poco a che vedere con il gruppo parentale, e permette anzi legami in un certo senso “senza legami”: legami cioè differenti che sorgono con il patto civico. E rispetto al significato religioso della fraternità, perché lo sguardo richiesto diventa adesso giocoforza orizzontale anziché verticale. • Quando Rousseau va alla ricerca di una religione adatta per la convivenza tra gli uomini, si imbatte nella «religione dell’uomo» (nel vangelo): religione interiore rivolta al «dio supremo e ai doveri eterni della morale», espressione di un «diritto divino naturale», risulta anche questa inadatta alla convivenza umana, nonostante il fatto che concepisca tutti gli uomini come «fratelli» – ma solo in quanto figli del- lo stesso Dio. Per questo non vi è «nulla di più contrario allo spirito sociale»: reli- gione eccessivamente spirituale, la cui patria «non è di questo mondo», e che incli- na facilmente verso la tirannia dal momento che ama la sottomissione. Meglio pro- pendere allora per una «religione civile» che suggerisce una fraternità orizzontale21. • All’interno dei pensieri sull’unità del sociale rispuntano le parole della fami- glia, e ritornano anche i problemi, perché la fraternità umana sta cercando una via alternativa tra i legami di sangue e i legami religiosi (o metafisici). Un’eco precisa del problema si ritrova, in una diversa ricerca, nelle parole di Luce Irigaray: «indi- spensabili anche nel regno animale», le «funzioni parentali devono forse perdere un po’ della loro importanza per non impedire una cultura della relazione all’altro considerata nella sua dimensione orizzontale»22. Ma anche qui non tutto è così fa- cile. • Lo spostamento di ambito della fraternità dalla famiglia naturale, o da quella metafisica, alla famiglia civile rimette in tensione i termini: nel caso della famiglia naturale o metafisica, la fraternità precede, e si esprime nei termini di una apparte- nenza già data, di una condizione non scelta di partenza, indipendentemente dal modo in cui questa può essere pensata; nel caso della famiglia civile, invece, la fra- ternità non è del tutto già fatta, ma è anche da farsi, e questo la porta verso la storia

21 J.J. Rousseau, Del contratto sociale, l. IV, cap. VIII (Della religione civile). Cfr. M. Gauchet, La révolution des droits de l’homme, Gallimard, Paris 1989. 22 L. Irigaray, La via dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 55-56.

160 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva anziché verso la natura, verso la cultura anziché verso il sangue, verso la libertà an- ziché verso la necessità, verso il futuro anziché verso il passato. La fraternità non naturale si deve costruire, si può scegliere. E così per la solidarietà. • Il doppio avvicinamento tra famiglia e solidarietà provoca perciò tanto una complicità quanto dei contraccolpi: a volte previsti, altre volte del tutto imprevisti.

ÿ Il modello organicistico

• La si prenda sul lato della solidarietà allargata, o su quello di una solidarietà ristretta, l’etica della famiglia continua a rimanere dipendente da un’immagine tra- dizionalistica che non le compete, le fa ingiustizia, e rischia alla fine di significare veramente poco, sia in sé sia in riferimento alle presunte epoche a cui si riferisce. La famiglia è stata infatti nel passato più allargata di quanto non sostenga la sua immagine polemica. • Il carattere ideologico della rappresentazione in chiave tradizionalistica della famiglia va denunciato23. Il problema non si esaurisce tuttavia restituendole la sua forza di matrice per una solidarietà allargata, perché si dovrà anche cercare di com- prendere come mai l’intreccio tra il linguaggio della famiglia e quello della solida- rietà sia giunto fino al punto d’implosione, e allo sfaldamento per sopravvenuta, e reciproca, irriconoscibilità: cosa che avviene, di ritorno, anche quando la solida- rietà, scippata alla famiglia, le viene polemicamente – ma privatamente – riconse- gnata dinnanzi allo smarrimento pubblico dei legami. • All’implosione non si arriva per fraintendimenti unilaterali, consumati in al- ternativa sul lato della solidarietà piuttosto che su quello della famiglia. Su di un versante e sull’altro si ripropongono infatti, solo cambiate di segno, le identiche precomprensioni. Tra queste, due risultano particolarmente sfruttate nelle polemi- che sulla solidarietà: il modello organicistico, e il compiacimento sacrificale del do- vere di solidarietà. • L’immagine della famiglia viene da sempre chiamata in causa in maniera di- retta a proposito dell’idea, e di un’etica, della solidarietà: non solo perché la fami- glia è un luogo umano imprescindibile per la pratica giornaliera della solidarietà, ma soprattutto perché, da Aristotele in poi, essa viene vista come il primo, decisivo snodo del legame sociale – legame che si traduce proprio in termini di solidarietà. Famiglia e solidarietà si ritrovano dunque vicine intorno all’interpretazione del le- game sociale: la solidarietà sociale viene pensata per analogia con l’unità familiare, e l’unità della famiglia viene a sua volta interpretata come un luogo esemplare della solidarietà sociale.

23 Cfr. X. Lacroix, Di carne e di parola. Dare un fondamento alla famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 43 ss.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 161 Franco Riva

• Al di là della genesi storica e culturale di questa vicinanza, le precomprensioni retrostanti si lasciano presto riconoscere, tanto ricorrono nei discorsi pubblici per esortare all’unità del sociale: la famiglia viene per lo più interpretata secondo un modello nucleare, molecolare – di matrice in definitiva biologistica – a cui fa da inevitabile pendant una concezione organicistica della convivenza umana domina- ta, ieri come oggi, dalla nota metafora del corpo sociale: classica e fortunata senz’al- tro, ma per certi aspetti anche stucchevole nella sua bonaria – e a volte sinistra – in- vadenza. • Il presupposto organicistico si ripete, grossomodo intatto, su entrambe le sponde. La famiglia viene allora esaurita nella complementarietà delle differenze sessuali, nell’unità funzionalistica dei sessi, nella generatività meramente biologica (o patrimoniale), nei rapporti inevitabilmente gerarchici tra i suoi componenti. L’unità del sociale sarà interpretata a sua volta sulla scia del modello organicistico, sulla falsariga cioè del “grande animale” di memoria platonica, riesumato da Hob- bes agli esordi della modernità, ma ancora nel positivismo del secondo Ottocento, sulla scia di una fisica (Comte) e, ancor più, di una biologia (Spencer) sociali. • Nel suo stare a mezzo tra la famiglia intesa in modo nucleare e la società con- cepita in modo organicistico, il concetto di solidarietà diventa un sinonimo di pu- ra interdipendenza: la fisiologia sociale la interpreta nei termini meccanicistici del- l’inter-relazione delle parti con il tutto, la biologia sociale la sublima invece nella differenziazione dei ruoli e delle funzioni24.

ÿ Linguaggi scivolosi

• Fisica sociale per un verso, organicismo sociale per un altro, si perpetua co- munque una corrispondenza critica tra la solidarietà e l’interdipendenza che, anzi- ché aprire l’una all’altra la famiglia e la società, tende invece o a rendere strumenta- le la loro connessione, o a provocare l’effetto contrario a quello desiderato: di cen- trare cioè la famiglia e la società ciascuna su se stessa – mettendole di conseguenza in conflitto. • L’etica della famiglia e quella della solidarietà pagano congiuntamente un prezzo al linguaggio mutuato da un’ottica naturalistica o biologistica – linguaggio che, assimilato da tempo e diventato comune, rischia alla fine di scambiare l’im- magine, o la metafora, con la verità dell’una e dell’altra. Hans Jonas ha fatto pre- sente che in riferimento all’umanità e alla sua storia «tutti i paragoni organici sono inadeguati e, in ultima analisi, fuorvianti»25, dal momento che non si può parlare

24 E. Durkheim (La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 144 ss.) usa, per la solidarietà, l’«analogia» dei «corpi viventi». 25 H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 137.

162 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva di un’infanzia dell’umano così come si parla della giovinezza di un corpo. La storia presenta fin dal suo inizio una “compiutezza” umana che la dissocia dalla vicenda biologica. • Tra biologismo familiare e organicismo sociale si produce una vera e propria contaminazione rassicurante, perché sembra confermare sull’uno e sull’altro fronte che la socialità dell’umano consiste esattamente in una interdipendenza di funzio- ni, più o meno articolata, più o meno differenziata che sia, nonché in una comune appartenenza che si pensa pur sempre dall’interno di questa reciproca “strumenta- lità”. L’insieme dell’umano, invece, non è un modo né della pura interdipendenza, né della cruda strumentalità. • Non si è nemmeno tanto sicuri che il perno del linguaggio biologistico si ri- trovi nella famiglia piuttosto che nella società: in fondo, parlare della famiglia co- me di una cellula o di un nucleo può essere tanto un punto di partenza quanto un punto di arrivo che si guadagna, al rovescio, concependo appunto la società umana in termini di corpo sociale. E anche per l’idea di un corpo sociale, al di là dell’im- magine più o meno riuscita e più o meno esplicativa, vi sarebbe non poco da discu- tere sulla sua apparente ovvietà e, ancor più, sul suo ripetuto ed esplicito utilizzo in senso antidemocratico26. •Ilmodello organicistico funziona infatti in entrambi i sensi di marcia: si può andare dalla famiglia intesa come cellula alla società concepita come organismo, ma si può andare anche nella direzione opposta, e totalitaria, con esiti che si capo- volgono di continuo. Nel perenne, possibile rovesciamento, gli esiti tradiscono spesso le intenzioni. Se si comincia con la famiglia quale cellula sociale, si intende difenderne il valore, e la propositività, rispetto all’organismo di cui fa parte. Se si inizia invece con l’organismo sociale, la famiglia si ritrova immediatamente relati- vizzata, strumentalizzata, e addirittura fisiologizzata. • Il linguaggio organicistico per dire della famiglia e della solidarietà è scivolo- so, forse anche inaffidabile. La difesa della famiglia in termini di cellula sociale può darsi non raggiunga lo scopo, e ne prepari dall’interno il superamento: quel che si vuole proporre come esemplare rischia, inevitabilmente, di ritrovarsi in realtà ad essere esemplato. L’analogia del corpo sociale propende così a tramutarsi in un’ana- logia dell’analogia di cui non si comprende il riferimento di partenza. Debole l’or- ganicismo sociale, debole la famiglia. Su entrambi i fronti l’analogia ottiene l’effet- to contrario: in virtù delle sue stesse premesse, se rafforza la famiglia indebolisce la società; e se rafforza la società indebolisce la famiglia. • Il linguaggio organicista, che circola nell’antichità greco-romana, ha un’eco re- ligiosa spesso sfruttata dalla retorica pubblica in una sorta di Santa Alleanza del compattamento sociale: compare anche nei testi cristiani con Paolo di Tarso (1 Co-

26 In merito, cfr. ad es. M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicali- smo politico, Claudiana, Torino 1996, pp. 209-210.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 163 Franco Riva rinzi, cap. 12). Tuttavia, se è vero che «non esiste immagine più trita della rappre- sentazione della società come un corpo» e che, «dal punto di vista sociale e politico, è una metafora intrinsecamente conservatrice», nel cristianesimo non equivale più a un organicismo perché dipende da un’altra metafora dominante, quella della croci- fissione e della risurrezione, che «altera quella politica tradizionale»: i ruoli comuni- tari diventano «doni», e quindi aperti a tutti; entra in crisi la visione gerarchica a fa- vore della «testa» e degli «occhi»; e tra le membra del corpo si introduce un rapporto di «cura le une per le altre», fino a rovesciare l’obbligo dell’unità sociale a beneficio, capovolto, dei «deboli» e degli ultimi27. La solidarietà di una comunità non significa quindi necessariamente né solo interdipendenza, né tanto meno conservazione.

ÿ La spina del dovere

• La vicinanza lessicale con la famiglia si impone fin dall’affacciarsi della solida- rietà sulla scena dell’Occidente. In età moderna la solidarietà ha ricevuto una gene- ralizzazione in senso morale e politico, soprattutto per indicare il dovere di aiuto reciproco tra le persone, o ancora il senso di un’obbligazione reciproca tra gli indi- vidui e la società, come si appartenesse tutti alla stessa “famiglia”. Nella trasmigra- zione delle parole dalla famiglia verso la solidarietà, però, il tema del dovere ha as- sunto spesso un’intonazione sacrificale e soppressiva, dove la responsabilità per l’al- tro si esaurisce nell’obbligazione, più o meno giuridica, o in una rinuncia. • La solidarietà comincia a fissarsi, giuridicamente, con i concetti di debito e di responsabilità in riferimento alla famiglia. Il concetto risale al diritto romano, dove significa l’«obligatio in solidum»: una figura particolare di responsabilità per cui ogni singolo membro di una data comunità, in primo luogo familiare, è tenuto a farsi carico non solo dei debiti personalmente sottoscritti, ma di tutto il complesso dei debiti contratti dalla comunità di appartenenza, così come la comunità si im- pegna a sua volta di ritorno nei confronti dei debiti del singolo. • L’etica della solidarietà porta con sé la memoria di un dovere e di una respon- sabilità che si radicano nel fatto di appartenere ad una stessa comunità, di far parte della stessa famiglia. Amplificando con la solidarietà il concetto del dovere di una reciproca assistenza e di un reciproco debito tra i cittadini, la modernità ha incre- mentato a maggior ragione la vicinanza linguistica con la famiglia che, nello stesso istante in cui si propone come chiarificatrice, genera anche non poche tensioni pratiche e teoriche. La solidarietà parla un linguaggio familiare seguendo due dire- zioni che in parte si compenetrano e in parte si disarticolano: quella dell’unica fa- miglia umana e quella, fissata dalla Rivoluzione francese, della fraternità civile.

27 G. Meek, Le origini della morale cristiana. I primi due secoli, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 171-172.

164 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva

ÿ I paradigmi del sistema famiglia

• Va da sé che un’etica della solidarietà motivata dall’appartenenza all’unica fa- miglia umana, è stata giustificata in modi assai differenti, che ricalcano paradigmi ora naturalistici – la specie umana –, ora culturali – la condivisione della raziona- lità –, ora metafisici – per via della comune discendenza dall’unico principio –, ora, infine, religiosi. Anche per la fraternità si sono avvicendati e incrociati tra loro paradigmi diversi: l’uno verticale e genetico, in definitiva religioso, privilegia la fi- liazione dall’unico Padre, l’altro, orizzontale e civile, vede la genesi della fraternità nell’atto costitutivo della convivenza. Ragionando sul patto che istituisce la città li- bera Max Weber, ad esempio, fa equivalere l’«interesse solidale» (o «comune») con una nuova «fraternità giurata»28. Ma indipendentemente dalla diversità dei modi, si conferma per la solidarietà l’intreccio semantico con la famiglia. • Il codificarsi moderno di un’etica della solidarietà frequenta dunque ripetuta- mente il lessico familiare. Nessuna etica della solidarietà vive senza l’evocazione di un dovere, che giunge talora a parlare di sacrifici come manifestazione eccellente dell’essere solidali: ma intorno al senso del dovere, e al sacrifico come essenza della solidarietà, gli atteggiamenti sembrano nuovamente dividersi in modo irrecupera- bile.. Nell’orizzonte post-moderno l’indisponibilità al sacrificio assume un carattere positivo, perché identifica la nostra epoca come quella dell’après-devoir: stagione di libertà individuale, e quindi della morte del dovere e degli obblighi scontati. Per marcare la tonalità emotiva dell’epoca Gilles Lipovetsky ha potuto dire, in questo senso, che «l’idea di sacrificio di sé è stata delegittimata»29. • Una conferma di contrappunto viene da John Rawls: nega il sacrificio quan- do espone il primo principio di giustizia – l’imparzialità –, ma evoca la famiglia a proposito del secondo – la differenza. Le convivenze moderne si fondano sul prin- cipio di giustizia, che privilegia nella definizione delle regole comuni criteri di im- parzialità: si parte non a caso dal presupposto che il contratto sociale venga stipula- to tra persone che non «desiderano sacrificare i propri interessi a quelli degli al- tri»30. Il principio di differenza corrisponde invece al «significato naturale della fra- ternità; cioè, all’idea di non desiderare vantaggi, a meno che non vadano a benefi- cio di quelli che stanno meno bene» di noi. La perplessità sulla possibilità di estendere i rapporti familiari «ai membri di una società più ampia» spiega il suo «relativo abbandono da parte di una teoria del- la democrazia», per quanto, «interpretato in modo da includere il requisito del prin-

28 M. Weber, La città, Donzelli, Roma 2003, pp. 44-45, 80. 29 G. Lipovetsky, Le crépuscole du devoir, Gallimard, Paris 1992; cfr. Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 8-9. 30 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1991, p. 120.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 165 Franco Riva cipio di differenza», anche il «principio di fraternità», che tiene sullo sfondo il rife- rimento alla «famiglia», diventa uno «standard perfettamente accettabile»31. Rime- ditata in senso democratico, una memoria della famiglia sopravvive pur sempre, anche se il principio di solidarietà non ne ricalca più il modello naturale perché di- scende, ora, da un calcolo razionale degli interessi individuali tra le parti in causa. • Nelle letture critiche del post-moderno si lamenta il contrario, e cioè che la disponibilità al sacrificio è scomparsa, che il legame sociale si è allentato, e che si perde il senso del dovere per una solidarietà reciproca. Mentre nel post-moderno si guarda in avanti, a partire dalle possibilità dischiuse e inedite che offre la liberazio- ne dal dovere coatto dei legami tradizionali, nelle sue critiche ci si volge invece al- l’indietro, in modo più o meno nostalgico, a sognare l’età smarrita dei legami so- ciali, il senso di una comune appartenenza, la capacità di gesti altruistici, la dispo- nibilità a sacrificarsi per gli altri.. • Da un lato troviamo dunque il dovere, il pre-moderno, la comunità, la soli- darietà e il sacrificio, dall’altro lato il post-moderno, l’individuo, la fine del dovere, del sacrificio, della solidarietà. La famiglia è coinvolta frontalmente in questa dia- lettica del dovere dove, tra rifiuto e riproposta, continua a essere equiparata su en- trambi i versanti a forme di socialità di tipo tradizionalistico dove l’obbligo di soli- darietà si traduce, forse con un eccesso di compiacenza, in una logica sacrificale. • Di nuovo, anche a proposito del dovere si ripresenta l’intreccio tenace tra fa- miglia, solidarietà e legame sociale, come pure un’immagine tutto sommato univo- ca dei legami familiari.

ÿ Parentela e sacrificio

• Con l’ampliamento del concetto di solidarietà anche quello di debito tende a dilatarsi, fino ad assumere delle intonazioni permeate di una religiosità laica e an- cestrale. L’estensione del debito dall’ambito familiare a quello sociale impone alla solidarietà un linguaggio sacrificale che mette dinnanzi ad una oscura religiosità soppressiva ripetutamente sfruttata. Per Léon Bourgeois il fondamento giuridico della società civile riposa sul debito contratto dai singoli cittadini nei suoi confron- ti: debito che, per legge positiva, si traduce in obbligo civile di solidarietà. Due co- se sono rilevanti: il fatto di ragionare sul sociale con un linguaggio mutuato ancora dall’ambito parentale; e l’intonazione debitoria, sacrificale, dolorosa, della solida- rietà. Questa intonazione da banca mondiale del debito che rende tutti insolventi, d’altro canto, deflagra quando si affronta la questione di come restituire il debito sociale: siccome non è possibile estinguere il debito di riconoscenza che lega gli uo- mini tra di loro e con i loro antenati all’indietro, verso chi non esiste più, dovrà es-

31 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 101 e p. 102; cfr. pp. 379 ss., 385 ss.

166 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva sere saldato nei confronti dei vivi. La solidarietà diventa così la legge istitutiva della convivenza perché, mentre lo riconosce pubblicamente, prescrive l’estinzione – inestinguibile – del debito sociale32. • Nel fare del concetto di debito il suo punto di forza, l’umore sacrificale della solidarietà traspare di per sé, e con un linguaggio intriso dal riferimento alla fami- glia: il debito reciproco, il culto degli antenati, la parentela, i morti e i vivi, il con- testo sacrificale. A partire da una certa immagine di parentela umana, si trasferisco- no dunque sulla solidarietà, e sulla stessa socialità, concetti come appartenenza, de- bito, vincolo, restituzione, che ingabbiano il discorso sulla solidarietà tra debiti e doveri, tra sacrifici e obblighi. La solidarietà si fa così un immolarsi sublimato e re- golamentato, se è vero che l’agire solidale «per spirito di sacrificio» si differenzia da- gli altri stili, specie da quello contrattualistico, perché non si tratta più di «assu- mersi una parte “equa” nel mettere a disposizione un bene, il cui bilancio fra utili e costi sia positivo per tutti, bensì di fare un sacrificio, vale a dire di porsi in una con- dizione peggiore a vantaggio di altri»33. • Il linguaggio parentale adottato dalla solidarietà la conduce ora verso una de- riva sacrificale, che si riempie via via di debiti e di obblighi, di insolvenze e di resti- tuzioni, come se essere solidali equivalesse a sacrificarsi: a cercare, direttamente, il proprio svantaggio. Dietro a questo linguaggio rispunta ancora una volta l’idea ap- partenenza come risolutiva per la solidarietà. In breve, il sacrificio si motiva nel de- bito e il debito nel legame parentale. Dietro a tutto questo, però, sta di nuovo la re- torica della coesione e dell’appartenenza dell’umano pensate in riferimento a co- munità chiuse; e l’equivalenza scorretta tra famiglia e ristrettezza. Jürgen Habermas ha denunciato il carattere ricattatorio dell’osmosi tra il lin- guaggio della solidarietà e quello parentale, nonché l’insistenza totalitaria sull’unità sociale trovata intorno ai concetti di debito e di sacrificio: infatti, il «carattere di di- sponibilità coatta al sacrificio per un sistema collettivo di autoaffermazione» emer- ge ad «ogni momento nelle forme di solidarietà premoderne». Tanto l’osmosi lin- guistica, quanto la disponibilità forzata al sacrificio è tipico della solidarietà pre- moderna dove prevale l’idea dell’unità dell’umano nel senso di un compattamento. E più che la disponibilità in sé, per il sacrificio risulta ancora più grave il fatto che una solidarietà di questo genere lo richieda in modo coatto. Habermas mette in un certo senso a nudo il fatto che una solidarietà etnocentrica, e una famiglia cellulare, vivono sullo sfondo di un’unità organica del sociale, con tutti i disastri totalitari che ne conseguono: «con la formula “Tutti per uno e uno per tutti” può concorda- re la formula “Führer comanda, noi ti seguiamo” – come durante la mia giovinezza si leggeva sulle colonne destinate alle affissioni della Germania nazista – perché

32 Cfr. L. Bourgeois, Solidarité, cit., pp. 116 ss. 33 M. Baurmann, Solidarietà come norma sociale e costituzionale, in K. Bayertz, M. Baurmann, L’interesse e il dono, cit., p. 62.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 167 Franco Riva l’associazionismo nel senso tradizionalistico di solidarietà è rimasto intrecciato con il comportamento obbediente dei seguaci del Führer»34. • L’equivalenza tra organicismo e totalitarismo non intende in nessun modo soppiantare la solidarietà. Intende piuttosto rendere consapevoli della pericolosità delle analogie “biologistiche” per l’umano e il sociale, e invitare a trasformare la so- lidarietà in senso discorsivo universale: in un senso che l’avvicina alla giustizia. • Resta però il problema di fondo, ossia l’osmosi tra il linguaggio biologistico della famiglia e quello della solidarietà, legati tra loro dalla precomprensione organi- cistica del sociale. Denunciare infatti il carattere premoderno della solidarietà etno- centrica rischia di trascinare con sé, nell’inevitabile svalutazione, anche la famiglia.

ÿ L’obbligo e la promessa

• Le tensioni tra un’etica della famiglia e un’etica della solidarietà mettono din- nanzi a un intreccio linguistico quasi inestricabile, che annoda di continuo le paro- le della famiglia – relazioni verticali e orizzontali, figliolanza e fraternità, responsa- bilità e doveri – e le parole della solidarietà: a ridire e ad amplificare i rapporti strutturali della famiglia, a correggerli nel senso di solidarietà allargate, a tenerli in vita con polemiche e negazioni. L’intreccio tra famiglia e solidarietà non è dunque aggirabile nel suo riproporsi costante come originale generatore di significati. L’etica della famiglia e l’etica della solidarietà sono destinate a incontrarsi: no- nostante le loro ingenue sovrapposizioni, nonostante le loro evidenti implosioni. Da questo inevitabile incontro, più forte del suo stesso rifiuto, derivano tre compi- ti prioritari per una riflessione etica che voglia attraversare la famiglia e la solida- rietà, ma in definitiva la stessa umanità dell’umano: compiti aperti senz’altro, ma altresì punti di orientamento irrinunciabili.

1. L’importanza del linguaggio. Il linguaggio della famiglia e quello della solida- rietà non possono fare a meno di rimanere vicini l’uno all’altro. La forza di questa vicinanza si impone al di là delle loro armonie e dei loro litigi. Sembra quasi im- possibile ragionare intorno alla solidarietà senza evocare i termini caratteristici del- la famiglia: l’ospitalità, la fraternità, la filiazione; e sembra altrettanto impossibile meditare sulla famiglia senza nominare i motivi tipici della solidarietà, quell’acco- glienza che l’umano fa all’umano e che oltrepassa condizioni di vita, di apparte- nenza, di generazione. Nello scambio dei linguaggi tra famiglia e solidarietà affiora il pensiero sul modo, umano, della convivenza. Nella famiglia non emerge (solo) il modello familiare della solidarietà, ma si annuncia la solidarietà in quanto tale come capacità dell’umano di farsi responsa-

34 J. Habermas, Giustizia e Solidarietà, cit., p. 71.

168 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Franco Riva bile dell’altro da sé, decentrandosi. La famiglia si propone come scena originaria, per quanto non esclusiva, della solidarietà. Il rischio è allora duplice: o di non di- stinguere frettolosamente più nulla, e di equiparare tutto, o di mantenere famiglia e solidarietà in un rapporto tutto sommato estrinseco, che abilita a turno tanto le successive aperture, quanto le ovvie contrapposizioni.

2. Socialità dell’umano. Tanto la famiglia quanto la solidarietà sono attraversate dal pensiero dell’unità dell’umano nella sua irriducibilità: pensiero stesso della so- cialità. A dispetto della loro (presunta) forza retorica, andrebbero superati in pro- posito sia i modelli fisicalistici che quelli biologicisti, in definitiva inadatti a dire l’umanità dell’umano nella sua stessa umanità. Socialità e solidarietà non stanno al di là della famiglia né come un valore ag- giunto, né come dimensione ricomprensiva. La collocazione della famiglia sul lato della privatezza e della ristrettezza è frutto di una discutibile rappresentazione, per- ché tra famiglia e socialità non vi è né identificazione né scissione. Nessuna dimen- sione allargata, pubblica, istituzionale potrà dunque inverare, in forza di qualche necessità dialettica, quanto emerge nella famiglia: renderla cioè più vera di quanto non sia per suo conto. Il che non significa approdare ad una astiosa precedenza del- la famiglia rispetto alla socialità e alla solidarietà dell’umano comune, cosa che ap- pare anch’essa falsa: sarebbe riproporre, per puro ribaltamento, la stessa logica tota- lizzante che espropria la famiglia, “organicisticamente” o “dialetticamente” che sia, da se stessa.

3. Il dovere e la promessa. In tutti i discorsi sulla famiglia e sulla solidarietà si im- pone all’attenzione la questione del dovere, frequentato spesso con intonazioni troppo debitorie e sacrificali, probabilmente – e non senza ragioni – a scopo esor- tativo e polemico nella stagione delle difficoltà ad assumersi degli impegni conti- nuativi: come se l’evidenza del dovere nei confronti di altri potesse scaturire esclu- sivamente da una precedente, e mitica, insolvenza; come se la responsabilità per al- tri potesse motivarsi per forza solo lungo i sentieri, dal sapore un po’ ricattatorio, della colpa preventiva. Nell’insistenza su questa intonazione, i rifiuti si alimentano e hanno presto buon gioco. L’esperienza della famiglia come luogo emergente del dovere (di solidarietà) ne contraddice il tono intristito: non sorge solo per un debito pregresso, né unica- mente in virtù dell’altezza della coscienza individuale, ma nella responsabilità per l’altro in quanto altro. Nella famiglia la responsabilità è elettiva, ma fino a un certo punto: eros mi obbliga al di là della mia volontà e di un contratto, la libertà si com- prende come responsabilità per altri, la differenza dell’altro distrae dal mantenersi al centro, il figlio generato è altro da chi lo genera. Non solo dovere “privato”, “in- timo”, per contro a ciò che starebbe fuori, al pubblico, al collettivo. La famiglia inaugura, nel suo modo tipico, il dovere in quanto dovere, nella forma di una re-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 169 Franco Riva sponsabilità per altri, e di una responsabilità per l’alterità stessa: il segreto è oriz- zonte, l’intimità socialità, la presenza trascendenza. Rilevanza pubblica del familiare infine, e rilevanza familiare del pubblico. Poli- ticità della famiglia che l’attraversa prima ancora di “aprirsi” alla società, democra- ticità che la struttura intimamente. Perfino la distinzione rassicurante tra vertica- lità e orizzontalità dei rapporti viene, se non del tutto smentita, resa almeno più fluida e problematica: non solo dall’esterno, in virtù di inesorabili mutamenti epo- cali, o per giuste rivendicazioni, ma per lo spiazzamento della sicurezza separata di sé a cui conduce la vicinanza solidale con l’altro. Prima dell’obbligo, nella famiglia il dovere mostra la sua origine in una promes- sa di radicale solidarietà. Nessun obbligo può generare una promessa, mentre nella promessa sorge una responsabilità che rinnova ogni volta da capo il proprio dovere.

ÿ

170 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 STORIA E MEMORIA

ÿ De Gasperi visto dal Pci - di Giuseppe Vacca

ÿ Luigi Sturzo: una lezione attuale - di Card. Mariano Crociata

De Gasperi visto dal Pci*

Il tema che mi è stato proposto, nella sua apparente GIUSEPPE VACCA semplicità, è invero molto vasto e complicato: la sto- Presidente ria della Dc e buona parte della storia del primo de- Fondazione cennio postbellico ruotano intorno alla figura di Alci- Istituto Gramsci de De Gasperi e per ricostruire, sia pure a grandi li- nee, la sua percezione da parte dei comunisti italiani dovrei ripercorrere quasi cinquant’anni di storia del nostro paese. Nel convegno dedicato a Togliatti nel suo tempo, organizzato dalla Fondazione Istituto ≈ Gramsci e dall’Università Roma Tre nel 2004, Renato «Credo […] al Moro affrontò un tema speculare, Togliatti nel giudi- paradigma.della zio del mondo cattolico, svolgendo un’indagine accu- complementarietà rata sulle fonti a stampa e sui documenti epistolari di- fra Dc e Pci nella sponibili. La sua relazione dimostra che l’idea di rico- storia della repubblica che, struire il profilo di una figura eminente della storia fatto proprio d’Italia attraverso la percezione degli avversari può es- inizialmente da sere una formula felice. Essa consente non solo di far Scoppola, rivivere le mentalità e il clima di un periodo storico caratterizza una parte molto caratterizzato dai più aspri contrasti uniti alle più du- significativa della rature realizzazioni dell’Italia repubblicana, ma anche storiografia di fare emergere, forse meglio che con altri approcci, i politica degli tratti più squisitamente umani dei protagonisti e la ultimi venti anni favorendo nuove discordante coralità dei cittadini che li seguivano. Se ricerche». avessi potuto giovarmi del suo modello, avrei meno incertezze nell’affrontare il tema di questa sera; ma ≈ una ricerca riguardante cinquant’anni di vita del PCI esorbitava e le mie possibilità e il quadro di una trat- tazione sintetica adeguata a un’occasione come que- sta. Prendo spunto, perciò, dal lavoro esemplare di

* Lectio magistralis per l’anniversario della morte di A. De Gasperi (Pieve Tesino,18 agosto 2011).

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 173 Giuseppe Vacca

Renato Moro per auspicare che un’indagine analoga su De Gasperi visto dal PCI prima o poi si faccia e per delimitare preliminarmente il campo della mia trattazione.

• La percezione della figura di De Gasperi da parte dei comunisti italiani risulta molto meno ricca e variegata di quella di Togliatti da parte del mondo cattolico. Se ne possono distinguere fondamentalmente tre dimensioni: il giudizio implicito ne- gli atteggiamenti del PCI rispetto all’opera politica dello statista trentino; lo sforzo di rielaborarlo in un’immagine riflessiva; il persistere di questa immagine nel tem- po senza arrivare a prendere atto, se non molto tardi e in modo inadeguato, delle “dure repliche della storia”. Le prime due dimensioni riguardano il ventennio del PCI togliattiano, la terza rimanda al periodo successivo e vi accennerò alla fine

ÿ Negli anni della “Grande Alleanza” (1944-1947)

• L’immagine di De Gasperi e della DC che ha lungamente dominato la cultu- ra politica del PCI fu elaborata da Togliatti in un ampio scritto pubblicato in sei puntate su “Rinascita” fra il 1955 e il 1956. Lo scritto, del resto assai noto, aveva un titolo quantomai significativo: È possibile un giudizio equanime sull’opera di Al- cide De Gasperi? Ma sarebbe del tutto fuorviante pensare che rispecchi il giudizio che aveva guidato Togliatti negli anni della collaborazione tra i due statisti che po- sero le basi della guerra di liberazione e della Repubblica. Per ricavarlo occorre piuttosto guardare, innanzitutto, alle scelte che caratterizzarono la politica di To- gliatti dal suo rientro in Italia, nel marzo del ’44, alla “rottura politica” del maggio ’47; in secondo luogo alle successive posizioni del PCI sulle scelte fondamentali di De Gasperi fino al termine della prima legislatura. Che con la costituzione del secondo governo Badoglio (22 aprile 1944) To- gliatti si sentisse in posizione di vantaggio rispetto a tutti gli altri protagonisti della scena politica italiana mi pare un dato storiograficamente acquisito: il riconosci- mento sovietico del governo Badoglio e la “svolta di Salerno” avevano non soltanto sbloccato la situazione politica, ma anche fornito a tutte le forze antifasciste le coordinate per impostare efficacemente la resistenza e la guerra di liberazione e porre le premesse di quella fase costituente che, attraverso il referendum istituzio- nale del 2 giugno 1946, l’elezione dell’assemblea costituente, l’elaborazione della Carta e la ratifica del Trattato di pace, avrebbe portato alla nascita della repubblica. Non mi pare dubbio, quindi, che egli si sentisse il protagonista di un nuovo perio- do della storia d’Italia nel quale, con la creazione del “partito nuovo” e la conferma

174 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca del patto di unità d’azione con i socialisti, avrebbe potuto giocare una partita deci- siva per l’egemonia del PCI nella vita politica italiana. • L’egemonia presuppone un calcolo realistico dei rapporti di forza, un sistema di partiti che si influenzino a vicenda, la capacità di imprimere il proprio segno alle loro relazioni, vale a dire ai caratteri e alla funzione degli altri attori. L’egemonia pre- vede, quindi, l’esercizio di una funzione di governo che tuttavia non coincide neces- sariamente con la conquista e la direzione dell’esecutivo. Vorrei provare a sostenere che, negli anni immediatamente successivi al suo rientro in Italia, Togliatti fosse con- sapevole che il ruolo eminente nella politica italiana spettasse alla Democrazia Cri- stiana, che abbia favorito il disegno di De Gasperi di farne il partito dell’“unità poli- tica dei cattolici” e puntato sulla sua figura per garantirne l’ispirazione antifascista e l’impegno ad ancorare la Chiesa alla scelta della democrazia. Non posso addentrarmi nella ricostruzione dei fondamenti della sua strategia; mi limiterò a ricordare il qua- dro internazione della Grande Alleanza che le forniva legittimazione e credibilità, e l’opzione per una formula di governo che, successivamente, una mediocre politolo- gia avrebbe definito “democrazia consociativa”. Mentre nel pensiero di Togliatti ave- va a che fare con la ricerca di nuovi modelli di socialismo, diversi da quello sovietico, a cui aveva già dato una prima configurazione politica e istituzionale, non osteggiata da Stalin, nel noto saggio Sulle particolarità della rivoluzione spagnola del 1936.

ÿ Argomenti e tesi

• Ma veniamo agli argomenti con cui vorrei sostanziare la tesi che ho avanzato. A datare almeno dall’intervento americano, che rendeva la sconfitta nazifasci- sta l’ipotesi più probabile, Togliatti era del tutto consapevole, non meno di De Ga- speri, del ruolo determinante che la Chiesa avrebbe giocato nella successione al fa- scismo. Dopo la conferenza di Casablanca che aveva deciso la resa incondizionata delle potenze dell’Asse e dopo il 25 luglio del ’43, quella previsione divenne una certezza, convalidata dal crollo dello Stato e dell’esercito italiani che seguirono all’8 settembre. Tenendo conto di questo contesto, conviene richiamare l’attenzione sulla politica vaticana di Togliatti in questo periodo. Nel discorso dell’11 aprile 1944 ai quadri dell’organizzazione comunista napoleta- na, nel quale illustrò i cardini della “svolta di Salerno”, Togliatti avanzava una opzione per una repubblica parlamentare in cui venissero garantite tutte le libertà democrati- che, compresa “la libertà di religione e di culto”. La scelta della elezione di un’assem- blea costituente per definire i compiti e l’impalcatura dello Stato (e il successivo acco- glimento della proposta degasperiana di referendum popolare per deciderne la forma), l’esclusione dell’economia di piano e l’adesione alla richiesta degli alleati che si tenesse- ro per prime le elezioni amministrative, facevano di Togliatti l’interlocutore ideale del- la “proposta politica di De Gasperi”. In primo luogo disegnavano un percorso com-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 175 Giuseppe Vacca plementare a quello prospettato nelle Idee ricostruttive. In secondo luogo, rimuovendo la pregiudiziale istituzionale a cui anche la DC nel congresso di Bari (gennaio ’44) ave- va aderito, ma che De Gasperi considerava errata, gli aprivano la prospettiva della par- tecipazione al governo, fondamentale per il suo progetto. Ma soprattutto, tracciando un percorso costituente fondato sul voto popolare, anziché sui CLN, favorivano l’ap- poggio vaticano al suo disegno di fare della DC “il partito dei cattolici”.

Comunisti e cattolici • Che Togliatti considerasse fondamentale l’orientamento politico dei cattolici per la ricostruzione democratica dell’Italia è confermato innanzitutto dall’articolo di Eugenio Reale sul primo numero di Rinascita del maggio 1944. Riferendosi al Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana, l’articolo, intitolato Comunisti e cattolici, ne sottolineava il tema della “libertà religiosa e di culto” e adombrava una revisione dottrinale contenente un evidente messaggio alle gerar- chie ecclesiastiche: “Il rispetto delle convinzioni religiose delle masse, scriveva Rea- le, è per i comunisti una questione di principio che deriva dalla stessa analisi marxista[…] del fondamento sociale di queste convinzioni ed è parte integrante della loro dottrina tutta ispirata ai sensi di una ben intesa libertà e di una larga umanità”. Era l’avvio di una politica religiosa che, come ora sappiamo, passò anche per alcuni contatti diretti con la Santa Sede. Ma, prima di accennarvi, vorrei ri- chiamare l’attenzione sulla giustificazione storica della politica di Togliatti verso il mondo cattolico. Fondata sull’analisi del fascismo svolta tra gli anni Venti e gli an- ni Trenta, essa appare del tutto collimante con l’analisi degasperiana delle trasfor- mazioni intervenute nei rapporti fra i cattolici e la politica italiana tra le due guer- re. Se questa conduceva De Gasperi ad impostare il suo progetto su una nuova vi- sione della laicità della politica, diversa da quella che aveva caratterizzato il Partito Popolare, il progetto del “partito nuovo”, basato sulla eliminazione di qualunque vincolo ideologico e sulla richiesta, per l’adesione al PCI, della sola condivisione del programma, apriva il partito alla collaborazione tra credenti e non credenti. • Il contesto in cui venivano calati i due progetti (dopo la liberazione di Roma e la costituzione del primo governo Bonomi, l’unificazione delle forze antifasciste del Nord e del Sud e l’inquadramento delle formazioni partigiane nell’esercito di liberazione nazionale, la proposta di un patto di unità d’azione tra comunisti e so- cialisti e democristiani,avanzata da Togliatti il luglio del ’44, acquistava forza e le- gittimità) favoriva palesemente il consolidamento della “proposta politica di De Gasperi”. Infatti, fu solo con il rapido sviluppo della guerra partigiana che la Chie- sa cominciò ad appoggiare decisamente tanto la resistenza quanto la DC. In quella congiuntura va inquadrato anche l’atteggiamento di Togliatti di fronte alla con- danna del Partito della Sinistra Cristiana da parte del Vaticano. Egli non solo non la contrastò, ma mostrò di condividerne la motivazione principale: quella per cui la Chiesa poteva sì appoggiare uno o più partiti cattolici, ma non dare una investi-

176 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca tura all’uno o all’altro in base alla sua ideologia. Mi pare quindi evidente che To- gliatti guardasse con favore al progetto degasperiano e, riconoscendone la natura laica, democratica e antifascista, ne favorisse l’aspirazione a realizzare quello che, con espressione impropria, sarebbe stato successivamente definito il partito del- l’“unità politica dei cattolici”.

ÿ Il clima della “Grande Alleanza”

• Vero è che questo accadeva nel clima della Grande Alleanza, nel quale, ha scritto Maria Romana De Gasperi, anche suo padre aveva condiviso “la speranza di una evoluzione democratica del comunismo che per altro corrispondeva […] al- le.‘generose visioni’ di Roosevelt appoggiate dallo stesso Churchill”. Una stagione breve, una parentesi nella storia delle relazioni internazionali che si sarebbe chiusa fra il 1946 e il 1947, ma di cui conviene ricordare il grado di reciproca fiducia e di reciproco riconoscimento raggiunto fra le forze in campo. Di tale clima il discorso di De Gasperi al teatro Brancaccio del 23 luglio 1944, con il quale aveva risposto alla proposta di Togliatti di due settimane prima, appare un documento ecceziona- le. Non mi riferisco tanto alle parti in cui, pur nella ferma ispirazione antitotalita- ria del suo pensiero, condannava radicalmente il nazifascismo, mentre mostrava di credere invece nelle possibilità di un’evoluzione democratica del comunismo, quanto alla fiducia che riponeva nel ruolo di Togliatti nel favorirla. Si può ritenere che la sua fiducia rispecchiasse un atteggiamento analogo del Vaticano. • Un documento dei servizi segreti americani risalente al 13 luglio 1944, declas- sificato di recente, informa che il 10 luglio, attraverso un incontro riservato tra monsignor Montini e Togliatti, era stato stabilito un primo contatto tra il leader co- munista e il Vaticano. Come si vede, l’incontro seguiva immediatamente il discorso del leader comunista al Brancaccio. Inoltre, lo stesso documento dimostra che la ri- sposta di De Gasperi era stata favorita dall’incontro tra Montini e Togliatti. È quin- di da ritenere che il successivo discorso di De Gasperi, oltre ad essere stato discusso lungamente con il leader comunista, come Togliatti ha più volte ricordato in segui- to, fosse stato consigliato o comunque concordato con monsignor Montini. Vorrei ricordare infine la posizione di Togliatti sulla successione a Parri. Quello che la storiografia considera giustamente “l’avvento di De Gasperi”, scaturì da una proposta di Nenni e trovò il consenso degli altri partiti perché, anche grazie all’a- zione svolta come ministro degli Esteri del governo Parri, De Gasperi godeva del sostegno non solo del Vaticano, ma soprattutto degli Stati Uniti che, a differenza della Gran Bretagna, erano interessati alla nascita di un regime democratico e re- pubblicano, e favorevoli a che l’Italia acquistasse un ruolo effettivo nel nuovo ordi- namento internazionale del dopoguerra. Ma vanno sottolineati il favore di Togliat- ti e soprattutto le motivazioni con cui sostenne la successione di De Gasperi. Il

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 177 Giuseppe Vacca punto sostanziale dell’intesa tra loro era l’opzione per una democrazia parlamenta- re fondata sul ruolo preminente dei partiti popolari. Come ha scritto Piero Crave- ri, dopo la liberazione di Roma Togliatti era divenuto “il principale interlocutore” di De Gasperi perché entrambi condividevano i capisaldi della transizione alla re- pubblica. In particolare, l’obiettivo della Costituente e l’impegno a mantenere l’u- nità dei partiti antifascisti fino alla sua conclusione.

ÿ La “democrazia dei partiti”

• Emarginata, con la caduta di Parri, l’ipotesi di una democrazia dei CLN, co- minciava a prendere forma quella “democrazia dei partiti” che era nei voti tanto di De Gasperi quanto di Togliatti. Come notò Pietro Scoppola nella sua pionieristica ricerca degli anni ’70, “l’unica via possibile di crescita della democrazia italiana e di reale superamento della situazione prefascista era quella di una democrazia di mas- sa canalizzata dai grandi partiti popolari”. E Roberto Gualtieri di recente ha dimo- strato come quello fosse non solo il punto della loro principale concordanza, ma anche il fondamento su cui, attraverso una intensa collaborazione e dialettica, fu- rono gettate le basi della europeizzazione del paese. Quello su cui va posta l’attenzione è il commento alla soluzione della crisi del governo Parri che Togliatti scrisse sull’Unità dell’11 dicembre. “Togliatti – ha scritto Craveri – parlò ‘di utilità della crisi’ giacché l’unità antifascista aveva trovato confer- ma e con essa l’indispensabilità dei partiti di sinistra nel governo, nonché l’impegno a rimanere uniti fino alla Costituente”. Ma non erano solo questi gli impegni a cui De Gasperi aveva condizionato l’accettazione della sua candidatura. Egli aveva an- che ribadito la priorità delle elezioni amministrative che avrebbero consentito di misurare la forza di ciascuno dei partiti popolari, ed anche questo punto Togliatti aveva condiviso. Pertanto, scrive ancora Craveri, “l’opzione decisiva del leader co- munista, come del resto dello stesso De Gasperi, era quella di rimettersi al confron- to democratico e ai rapporti di forza che da questo sarebbero conseguiti”.

ÿ Il realismo di Togliatti e l’ascesa di De Gasperi

• Non mi pare dubbio che con tali scelte Togliatti intendesse assecondare l’av- vento di De Gasperi e l’affermazione anche del suo partito. Dopo la conferenza di Yalta e in vista del trattato di pace era del tutto evidente per lui che la guida del go- verno italiano spettasse all’uomo politico più affidabile per l’amministrazione ame- ricana. Inoltre, la controversia con la Jugoslavia sul confine orientale, il futuro del- l’Istria e il destino di Trieste avevano inferto un colpo decisivo alla potenzialità ege- monica della sua politica. Se la forza della “svolta di Salerno” originava dalla con-

178 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca vergenza tra la politica di Stalin e l’interesse nazionale dell’Italia, la “questione di Trieste” aveva evidenziato che, pur nel quadro della Grande Alleanza, potevano ge- nerarsi contraddizioni insanabili tra la prima e il secondo. Né ci si poteva attendere altro dall’URSS, dopo il riconoscimento del governo Badoglio, risultando l’Italia marginale ed ininfluente rispetto agli interessi geostrategici della potenza sovietica. Che Togliatti volesse favorire l’affermazione di De Gasperi era inoltre indicato dal fatto che non poteva non prevedere l’affermazione elettorale del suo partito. E non è detto che credesse davvero alla tenuta dell’alleanza antifascista internaziona- le. Aveva già conosciuto le oscillazioni della politica di Stalin tra isolazionismo e “sicurezza collettiva” negli anni Trenta e non poteva ignorare quanto fosse aleatoria l’eventualità che Stalin accettasse la sfida di reinserire l’URSS nel mercato mondia- le, che era alla base del disegno rooseveltiano per il dopo guerra. Vero è che non aveva altra opzione che quella di radicare il PCI nella società italiana e di farne un attore influente della democrazia antifascista. La Democrazia Cristiana ed Alcide De Gasperi erano i principali interlocutori su cui puntare e la loro affermazione costituiva anche la premessa per vincere la sfida dell’egemonia sulla sinistra italiana e fare del PCI lo stabile deuteragonista della vita della repubblica. • La politica impostata con la svolta di Salerno conteneva dunque un atteggia- mento di favore verso De Gasperi e la sua “proposta politica” che si ricava non solo dalla sintetica rassegna dei passaggi fondamentali della politica italiana tra aprile del ’44 e gennaio del ’46, ma anche dalla valutazione storica che Togliatti ne diede quindici anni dopo. Nella conferenza del ’61 su Il partito comunista e il nuovo stato, concludendo l’esame dei risultati conseguiti con la “svolta di Salerno”, osservava che, senza quella svolta, “ben difficilmente i partiti della sinistra e forse la stessa de- mocrazia cristiana sarebbero riusciti ad avere quello sviluppo impetuoso che hanno avuto e che rimane una delle originalità dell’attuale situazione italiana”. Sulla posi- zione di Togliatti nei confronti di De Gasperi in questo periodo credo, quindi, che si possa condividere il giudizio di Piero Craveri: “Rispetto agli equilibri prefascisti, sia Togliatti che De Gasperi, puntavano decisamente a un ancoraggio centrista del sistema politico che facesse perno sui cattolici”; e che nel quadro dell’unità antifa- scista Togliatti preconizzasse, attraverso la partecipazione al governo, “un centri- smo su cui l’influenza comunista sarebbe stata determinante”.

ÿ Quando cominciò la Guerra Fredda

• Sotto l’aspetto formale la Grande Alleanza durò sino alla conclusione della conferenza di Parigi e alla definizione dei trattati di pace. Ma la fiducia di Stalin nella collaborazione tra le potenze antifasciste si era incrinata sin dall’agosto del ’45, a seguito della distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki. La preparazione dell’URSS a fronteggiare l’asimmetria di potenza evidenziata dal possesso america-

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 179 Giuseppe Vacca no della bomba atomica fu avviata subito e dall’inizio del ’46 Stalin cominciò a promuovere quel riallineamento strategico della politica estera sovietica che avreb- be originato la nascita del Cominform. La nuova storiografia delle relazioni inter- nazionali ha dimostrato che la guerra fredda non cominciò con il discorso di Chur- chill a Fulton, ma con la decisione già maturata da Stalin di tornare alla concezione della “sicurezza totale” precedente lo scoppio della guerra. Era questo il modo di affrontare l’inferiorità dell’URSS, divenuta la seconda potenza mondiale, con l’u- nica risorsa di cui riteneva di poter disporre, quella di consolidare militarmente le conquiste territoriali realizzate nell’Europa centrale e orientale nell’ultima fase del- la guerra. Egli tornava così alla teoria della “guerra inevitabile” e il riorientamento sia della politica sia della propaganda del blocco sovietico allo scontro ideologico frontale con “l’imperialismo americano” venne preparato accuratamente fin dalla primavera-estate del ’46. Se si considera che Togliatti fu tra i primi leader politici del suo tempo a percepire, con un articolo anonimo pubblicato su Rinascita dell’a- gosto ’45, il significato dell’avvento dell’era atomica e si tiene conto dello stretto collegamento che manteneva con l’establishment sovietico, si può fondatamente osservare che, mentre da un lato difendeva strenuamente l’opzione della collabora- zione antifascista tanto sul piano internazionale quanto sul piano interno, dall’al- tro si preparasse ben prima della nascita del Cominform a difendere i capisaldi del- la sua politica in Italia dall’opposizione. • A nostro avviso la decisione di restare fuori dal secondo governo De Gasperi (giugno 1946) potrebbe essere stata motivata dalla necessità di avere le mani libere dinanzi al prevedibile inasprirsi del contrasto tra la politica dell’URSS e l’interesse nazionale dell’Italia. Ad ogni modo, una nuova fase del suo rapporto con De Ga- speri cominciò, come è noto, con l’estromissione delle sinistre dal governo nel maggio del ’47. Togliatti sapeva che con l’avvento della guerra fredda non ci sareb- bero potute tornare. La retorica politica era divenuta aspra e aggressiva da ambo le parti e già all’indomani del primo viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti Togliatti cominciò a tacciarlo di “servilismo”, innalzando la bandiera della sovranità nazio- nale svenduta agli americani. La guerra fredda imponeva la necessità di creare l’im- magine del nemico, esasperando la minaccia di guerra e la percezione del suo peri- colo. Era una narrazione propagandistica, ampiamente enfatizzata da una parte e dall’altra, che nascondeva la realtà di un bipolarismo sempre più interdipendente, orientato alla stabilizzazione internazionale piuttosto che ad una nuova guerra: al- meno fino alla vittoria di Mao in Cina e allo scatenamento della guerra di Corea.

ÿ I campi operativi della Dc e del Pci

• Questo scenario creava una disparità incolmabile tra De Gasperi e Togliatti, tra la DC e il PCI. I primi avevano una straordinaria risorsa nell’integrazione del- l’Italia nel nuovo assetto euroatlantico guidato dagli Stati Uniti; Togliatti e il PCI

180 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca erano vincolati da una lealtà all’URSS che impediva loro di elaborare una combi- nazione di politica interna e di politica internazionale altrettanto credibile e van- taggiosa per l’Italia. Togliatti sapeva quindi che la prospettiva del governo sarebbe stata preclusa per il PCI non solo dalla polarizzazione che si andava creando con la DC, ma dalla stes- sa identità del suo partito. Ad ogni modo è in questo quadro che si collocano gli atti più significativi della collaborazione del PCI alla costruzione della democrazia re- pubblicana: il voto a favore dell’articolo 7 della Costituzione, l’atteggiamento sulla ratifica del trattato di pace e il suo contributo alla stesura della Carta costituzionale quando già era stato estromesso dal governo. Sono passaggi ben noti della storia d’I- talia sui quali conviene tuttavia tornare limitatamente al tema che sto trattando. Sul voto dell’articolo 7 è tuttora diffusa l’opinione che si sia trattato di un’ope- razione abile e strumentale, e c’è persino chi ha scritto che era stata concepita per bloccare l’estromissione dei comunisti dal governo. Ho cercato più volte di argo- mentare in altre sedi come quel voto si inserisse in una visione del rapporto tra reli- gione e politica che costituì uno dei tratti distintivi del PCI togliattiano nel pano- rama del comunismo internazionale. Qui piuttosto vorrei sottolineare che, come Togliatti ricordò nella citata conferenza del ’61, la posizione del PCI sulla “questio- ne cattolica”, innovatrice rispetto alla stessa impostazione gramsciana, era scaturita dalla considerazione che, dopo il fascismo, con l’appoggio della Chiesa, sarebbe nato “un forte partito cattolico”; inoltre, aveva letto le Idee ricostruttive eviaveva riscontrato “un programma molto avanzato nella stessa direzione che era la nostra”. Perciò fin dall’esposizione della politica di unità nazionale dei comunisti, erano state fatte “le più esplicite dichiarazioni di rispetto di tutte le libertà religiose” e nel di- scorso del 9 luglio al Brancaccio, dopo aver discusso con De Gasperi “la questione in lunghe sedute”, aveva proposto il patto di unità d’azione tra le sinistre e la DC di cui abbiamo parlato. •L’inserimento dei cattolici nella vita politica italiana era uno dei cardini anche del “partito nuovo”, un cardine essenziale per l’affermazione della funzione naziona- le della classe operaia. Inoltre giova ricordare che nella Relazione al V Congresso del PCI (26 dicembre 1945) aveva dichiarato di accettare il regime concordatario. Tut- tavia quando l’8 aprile del ’46 scrisse a De Gasperi una lettera di misurata protesta perché in un discorso elettorale tenuto a Viterbo aveva giudicato quelle innovazioni ancora insufficienti, il leader democristiano gli aveva risposto con una lettera lunga e impegnativa che si può considerare uno dei documenti più lucidi sui confini inva- licabili della collaborazione tra DC e PCI. È un documento di grande valore, su cui non possiamo soffermarci in questa sede; ma ne va richiamato almeno un punto: la questione cattolica, sottolineava De Gasperi, non riguardava solo i rapporti tra DC e PCI, ma quelli tra il comunismo sovietico e la Chiesa. Perciò gli lanciava una sfi- da: quella di collaborare alla costituzionalizzazione del regime concordatario come prova definitiva dell’originalità del comunismo italiano.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 181 Giuseppe Vacca

• Nella Conferenza del ’61 Togliatti ricorda che per giungere al voto favorevole all’articolo 7 si era realizzato un “compromesso”, demandando al governo il compi- to di “correggere” i Patti Lateranensi “nei punti in cui sono in contrasto con la Co- stituzione” con una trattativa con il Vaticano. Il voto del PCI rappresentò quindi anche la risposta positiva alla sfida di De Gasperi e, se si tiene conto del fatto che, informandone il giorno prima il cardinale Tardini, Togliatti proseguiva la sua poli- tica vaticana, esso costituì una delle prove più significative del modo in cui pensava di salvaguardare il suo disegno strategico anche con il PCI fuori dal governo.

ÿ Il Trattato di pace (1947)

• Ma il Pci era già all’opposizione quando si presentò il problema della ratifica del Trattato di pace (31 luglio 1947). Come è noto, De Gasperi aveva atteso la conclusione della conferenza di Parigi prima di giungere, dopo molte esitazioni, a estromettere le sinistre dal governo. Inoltre, l’opposizione al Trattato di pace nel paese era molto ampia e avrebbe consentito al PCI, che era già attestato su una po- sizione di anacronistico nazionalismo economico e politico, di lucrare consensi an- che nell’elettorato di destra. Come ha dimostrato Roberto Gualtieri, l’astensione delle sinistre sulla ratifica del trattato di pace fu concordata con De Gasperi per consentirne l’approvazione anche con un eventuale prestito sottobanco dei voti co- munisti necessari: tanto De Gasperi quanto Togliatti erano del tutto consapevoli della condizione di inferiorità internazionale dell’Italia per essere stata corresponsa- bile dello scatenamento della guerra e per averla persa. Inoltre, Togliatti era condi- zionato dal fatto che l’URSS aveva la posizione più punitiva tra gli alleati nei con- fronti dell’Italia e peraltro la considerava giusta.

ÿ Il patto costituzionale

• Poche parole, infine, sul patto costituzionale. Vorrei osservare che la vulgata secondo cui De Gasperi si sarebbe estraniato dai lavori della Commissione dei 75 tranne che per l’approvazione dell’articolo 7 non convince. L’impostazione costitu- zionale della Dc era già tracciata, nelle linee di fondo, nelle Idee ricostruttive e nel lungo articolo pubblicato da De Gasperi, con lo pseudonimo di Demofilo, sul “Popolo” clandestino del 23 gennaio del ’44. D’altro canto, insistere sulla statura di De Gasperi come statista e al tempo stesso far credere che la Costituzione sia scaturita sostanzialmente dalla collaborazione tra il PCI e il gruppo dossettiano è un artificio mediocre che non riesce a scalfire la lealtà di De Gasperi alla Carta co- stituzionale, né può servire a dimostrare che l’adesione del PCI ad essa originasse da una consonanza solo con la sinistra democristiana. Certo, alla fortuna di questo

182 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca tipo di “storiografia” tendenziosa ha contribuito il ventennale congelamento costi- tuzionale e il fatto che d’allora il PCI fece della Costituzione la sua bandiera. Ma conviene ricordare che in Italia, come in Francia, all’approvazione della Costituzio- ne si giunse quando le sinistre erano state estromesse dal governo e la guerra fredda era ormai esplosa. Ma mentre in Francia i comunisti, pur avendo contribuito alla stesura del patto costituzionale, sciaguratamente non la votarono, il PCI non solo la votò ma ne fece anche un vessillo di “patriottismo costituzionale”. Anche in que- sto caso, come nell’approvazione del Trattato di pace, Togliatti dimostrava di saper perseguire il suo disegno strategico anche dall’opposizione e continuava a ricono- scere, se non altro implicitamente, la funzione della leadership degasperiana.

ÿ De Gasperi dopo la morte

• Come abbiamo detto all’inizio, un’immagine riflessiva di De Gasperi fu ela- borata dai comunisti dopo la sua morte e fu anch’essa opera di Togliatti. Il profilo che ne disegnò, nel saggio del ’55-’56, è quello di un nemico piuttosto che di un avversario ed esso si era evidentemente sedimentato negli anni della guerra fredda e dello scontro frontale tra Est e Ovest, tra Dc e Pci. Ai fini del nostro discorso non è necessario documentare come anche tra il ’48 e il ’53 lo scontro fosse temperato dalla ricerca di intese o di punti di equilibrio per evitare lo scardinamento della de- mocrazia repubblicana, conta piuttosto mettere in luce i tratti essenziali di quel- l’immagine delineata da Togliatti. Il saggio ha il respiro di una ricostruzione storica, sia pure per grandi linee, del primo decennio postbellico; ma noi ci limiteremo a prenderne in considerazione le tesi fondamentali. Il primo capitolo è dedicato all’azione economica dei governi De Gasperi dal ’46 al ’53. Malgrado il fuggevole riconoscimento che dal 1950 era co- minciato “un ciclo diverso” in cui avevano preso corpo “scarsissime iniziative ‘rifor- mistiche’”, sulle quali per altro Togliatti manteneva un giudizio “riservato e diffiden- te”, la sua tesi era che De Gasperi avesse voluto “ridar vita alla economia italiana co- me era stata sotto il fascismo” e promuovere “un ritorno al passato senza eccessive modificazioni”. Non è il caso di discutere questi giudizi ormai largamente confutati dalla storiografia più recente. È sufficiente ricordare che in quegli anni l’Italia fu do- tata di una moderna “economia mista” e furono poste le basi del grande balzo nella divisione internazionale del lavoro che Togliatti stesso avrebbe riconosciuto nel 1961. Inoltre si deve a De Gasperi, più che ai ministri della sinistra democristiana che facevano parte del suo governo, la capacità di sfruttare il riorientamento dei fon- di Erp nel quadro della svolta statunitense del 1949-50 per la stabilizzazione produt- tivistica dell’Europa, dando inizio così al ciclo politico del “centrismo riformatore”. • L’attenzione va, invece, fermata sulla definizione che Togliatti dava della poli- tica economica degasperiana: quella di “restaurazione del capitalismo”. In realtà

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 183 Giuseppe Vacca voleva dire che era stato ripristinato il modello di sviluppo tradizionale dell’econo- mia italiana, fondata sui bassi salari e i bassi consumi (quello che egli chiamava “la struttura economica tradizionale”); ma la nozione di “restaurazione capitalistica” era fuorviante e inappropriata poiché, a cominciare dal PCI, nessuna delle forze politiche fondamentali aveva sostenuto nel dopoguerra che l’Italia si potesse rico- struire su basi ‘non capitalistiche’. Al giudizio di “restaurazione capitalistica” Togliatti faceva seguire quello di con- tinuità con lo Stato corporativo. Non sminuiva il valore della distruzione delle im- palcature politiche dello stato totalitario, peraltro voluta anche dagli alleati, ma in- tendeva affermare che, nelle strutture dell’economa mista, si era ripristinata quella fusione tra le oligarchie finanziarie ed industriali e gli apparati di governo che era stata la sostanza del corporativismo fascista. Va richiamata l’attenzione sul punto di arrivo della sua ricostruzione e sulla argomentazione che, seguendo uno schema palesemente teleologico, lo preparava. Respingendo la tesi che “la rottura politica del ’47” fosse stata imposta dagli Stati Uniti, Togliatti si proponeva di dimostrare che essa era scaturita da scelte di politica interna sulle quali aveva influito in misura determinante il pensiero di De Gasperi riguardo alla società e allo Stato. Per dimo- strare la sua tesi si addentrava nell’analisi degli scritti degasperiani degli anni Tren- ta, evidenziandone principalmente tre aspetti. • Mentre la Chiesa aveva avallato l’identificazione tra il corporativismo fascista e quello propugnato dalla dottrina sociale cattolica, De Gasperi non aveva mai ce- duto su questo punto e ciò costituiva il caposaldo del suo antifascismo. Ma nel di- fendere il corporativismo cattolico come variante valida del “corporativismo socie- tario”, inserito cioè nelle strutture dello Stato democratico, De Gasperi aveva ma- nifestato una palese inclinazione a giustificare la possibilità di più di un compro- messo dei cattolici con il fascismo. In estrema sintesi, nell’Europa degli anni Trenta divisa, secondo Togliatti, dall’alternativa tra fascismo e comunismo, De Gasperi era stato “un esecutore obbediente e zelante” dell’orientamento della Chiesa, di- sponibile al compromesso col fascismo ma mai con il comunismo o il socialismo. Il suo atteggiamento non si spiegava con debolezze del carattere ma con la contrad- dittorietà della sua concezione corporativa. Inoltre, Togliatti riteneva determinante il fatto che il cattolicesimo politico fosse rimasto estraneo alla ricerca dell’antifasci- smo europeo degli anni Trenta. Con un’analisi che ricorda la critica delle Lezioni di politica sociale diLuigiEinaudi ad ogni forma di corporativismo, considera il prin- cipio della lotta di classe l’unica prosecuzione progressiva del liberalismo e la sua esplicazione il vero soggetto della modernità. Egli ritiene quindi che il corporativi- smo cattolico di De Gasperi, coniugato alla “mancata rottura originaria” dei catto- lici col fascismo e all’isolamento dall’antifascismo italiano ed europeo, gli avesse precluso la comprensione effettiva del fascismo e lo avesse reso incline al compro- messo con alcuni suoi aspetti.

184 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca

ÿ L’antifascismo “speciale” di De Gasperi

• Togliatti definisce l’antifascismo di De Gasperi “un antifascismo di tipo spe- ciale” e tanto l’analisi, quanto la sua stilizzazione concettuale, rendono necessarie alcune precisazioni. Che l’antifascismo di De Gasperi fosse diverso da quello dei comunisti, dei socialisti e degli azionisti era una constatazione banale ma non priva di valore politico. E, sotto questo profilo, il discorso di Togliatti è palesemente apo- retico: sottolineare la diversità dell’antifascismo degasperiano introduceva una di- scriminante nell’antifascismo, incrinando il postulato della sua unità che aveva co- stituito il cardine della “democrazia progressiva”. Inoltre portava a concludere che l’antifascismo autentico fosse solo quello di ispirazione classista e questo costituiva un’ulteriore contraddizione rispetto al suo stesso antifascismo, che si era caratteriz- zato, nel panorama del comunismo internazionale, per la distinzione tra fascismo e capitalismo. Contraddittoria era infine l’insinuazione che, con “la rottura politica del ’47”, De Gasperi avesse lasciato alle sinistre il monopolio dell’antifascismo poi- ché anche la politica che il PCI aveva sviluppato in seguito e che il saggio su De Gasperi intendeva irrobustire e aggiornare si fondava sull’unità dell’antifascismo. • Ai giudizi sui contenuti economici del centrismo degasperiano segue quello sulle sue caratteristiche politiche, sintetizzato nella formula “una democrazia che scivola verso la reazione”; e, in questa parte, il saggio diviene ancor più ambivalente scoprendo le sue finalità politiche. Per definire il regime politico che aveva preso forma nel periodo compreso tra l’avvento di De Gasperi e la fine della prima legi- slatura, Togliatti prende le mosse dalle Idee ricostruttive e riconosce l’originaria no- vità della Democrazia Cristiana: ne sottolinea il carattere democratico e avanzato giungendo ad affermare che, “se in questi anni il programma formulato da De Ga- speri nel 1944[…] fosse stato applicato anche solo per metà, ci si sarebbe avvicina- ti assai a una trasformazione già in senso socialista o per lo meno conseguentemen- te democratico, del volto del nostro paese”. Ma poi osserva che quel programma non era fondato su una visione approfondita della storia d’Italia e non indicava i dispositivi che ne garantissero l’applicazione. • Perciò, una volta assunta la direzione del paese, aveva potuto essere facilmen- te abbandonato. Come prova della sua strumentalità, Togliatti evocava l’atteggia- mento di De Gasperi nei confronti dell’Assemblea costituente dando credito alla tesi che si fosse astenuto “deliberatamente e costantemente” dai suoi lavori e spie- gava così la disinvoltura con cui, dopo “la rottura politica del ’47”, i governi da lui diretti avevano ibernato la Costituzione. La formula della “democrazia che scivola verso la reazione” oscillava tra l’aspetto politico, esemplificato dal carattere antico- munista e antisindacale del governo, e quello istituzionale, rappresentato dal man- tenimento della legislazione penale fascista, dai disegni di legge del ’52, restrittivi delle libertà di stampa, sindacali e di sciopero, e soprattutto dalla legge elettorale maggioritaria. Riprendeva poi il confronto tra De Gasperi e Giolitti, già avanzato

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 185 Giuseppe Vacca nella conferenza del 1950, per negare ai governi centristi qualsiasi risvolto riforma- tore. Infine contestava l’europeismo di De Gasperi sostenendo, in linea con le po- sizioni sovietiche, che l’integrazione europea fosse irrimediabilmente ipotecata dal disegno egemonico americano sull’Europa e che De Gasperi non avesse mai mo- strato di voler sostenere, sia pure nel quadro della strategia del containement, l’inte- resse nazionale dell’Italia.

ÿ Giudizi visti oggi

• A quasi cinquant’anni da quando questi giudizi furono formulati, non è il ca- so di argomentare l’erroneità di molti di essi e soprattutto della formula che li compendiava. Conviene piuttosto domandarsi il perché del loro carattere così ac- centuatamente unilaterale e liquidatorio. E la spiegazione, a mio avviso, è nelle fi- nalità politiche del saggio, peraltro apertamente dichiarate. Il saggio è scritto nella fase iniziale del “disgelo” internazionale e dell’apertura a sinistra nella quale To- gliatti si accingeva a riformulare la strategia del PCI. Vi è in lui il convincimento non solo che la sconfitta del centrismo avesse dato inizio a un nuovo periodo della storia politica italiana, ma anche che il PCI potesse reinserirsi nel gioco politico. La spia più evidente di ciò mi pare la tesi del carattere fallimentare del centrismo de- gasperiano, fondata interamente sulla “rottura politica del ’47” e sostenuta da un notevole sforzo argomentativo volto a dimostrare che il programma iniziale della DC avrebbe potuto realizzarsi solo con la collaborazione governativa dei partiti po- polari. In questo quadro compaiono anche argomenti ritorsivi come la sottolineatura del fatto che l’investitura di De Gasperi fosse scaturita dal quadro politico origina- to dalla “svolta di Salerno”. E giocano risentimenti personali: rifiuta di riconoscere a De Gasperi la statura dello statista perché non aveva mostrato di comprendere che, in un paese appartenente alla sfera di influenza americana come l’Italia, la “de- mocrazia progressiva” non avrebbe potuto assumere i tratti delle “democrazie po- polari” e non aveva avuto il coraggio di scommettere su di lui. • A me pare che la coloritura liquidatoria del giudizio su De Gasperi e lo sforzo di argomentare storicamente che la Dc avesse un futuro corrispondente alla sua ispirazione originaria solo in un rapporto solidale con il movimento operaio fosse- ro motivati dall’intenzione di parlare alla nuova generazione democristiana che si andava affermando in quegli anni. Togliatti certamente non sottovalutava il fatto che, dopo la sconfitta del ’53 causata principalmente dal successo delle destra mo- narchico-missina, nel confronto interno alla DC era prevalsa la decisione di racco- gliere la sfida delle sinistre, sbarrando la strada a qualunque prospettiva di alleanza con la destra. Sebbene sottacesse che De Gasperi aveva favorito questo orienta- mento e la stessa successione di Fanfani alla segreteria del partito, il riconoscimen-

186 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca to del valore politico della sua relazione al Congresso di Napoli conferma che in- tendeva parlare alle sinistre democristiane, in primo luogo alla “sinistra di base”, privilegiandole come interlocutrici di una nuova stagione politica. Fra i non pochi brani del saggio in cui Togliatti si rivolge ad esse conviene citare quello iniziale: Nel momento che nel campo democristiano e cattolico... ricompaiono… fermenti nuovi e correnti di opposizione diverse dal passato e talora più promettenti, la nostra opinione è che sia da seguire, proprio col pensiero a queste cose nuove e nei giudizi sul passato, il metodo della completa sincerità e chiarezza. Ricorrendo quindi al suo consueto metodo storico, proponeva di avviare il confronto da una valutazione dell’opera di De Gasperi e con tono paternalistico scriveva: L’assenza di una ragionata e approfondita critica dell’opera di De Gasperi non può che impedire a queste correnti di prendere coscienza di se stesse e del loro compito, può ridurre l’azione loro a una serie di recriminazioni contingenti, interessanti sem- pre, ma frammentarie e non troppo feconde. Una feconda azione politica non può ri- sultare che da una visione concreta ed organica della vita italiana degli ultimi dieci anni e delle sue non soddisfatte esigenze, ed è a una visione siffatta che noi ci vorrem- mo riferire. L’ambizione storiografica del saggio era dunque finalizzata a gettare le basi di una nuova stagione politica e di una nuova strategia, e le tendenziosità dell’inter- pretazione e l’asprezza dei giudizi erano funzionali a questo scopo. In altre parole, non si sfugge alla sensazione che con il suo saggio Togliatti mirasse a porre le fon- damenta della strategia di scardinamento della centralità democristiana che avreb- be seguito con crescente determinazione dal ’58 in avanti.

ÿ “Questione vaticana” e “Questione romana”

• L’ultima parte del saggio è quella a cui credo si possa riconoscere un maggior respiro storico e, sebbene il titolo dell’ultimo capitolo, “minaccia di una nuova teocrazia”, appaia il più aggressivo, in verità non lo è perché è rivolto all’azione della Chiesa più che all’opera di De Gasperi. Prendendo spunto dagli scritti del 1928-33 sulla storia del “Centro” germanico, Togliatti evidenzia la nitidezza e fer- mezza dell’orientamento cattolico-liberale di De Gasperi, originate dalla consape- volezza che la crisi del primo dopoguerra era sfociata nell’avvento del fascismo per il mancato accordo tra Popolari e Socialisti. Poi, tracciando il profilo storico del cattolicesimo europeo tra Ottocento e Novecento, individua lucidamente la pe- culiarità della situazione italiana caratterizzata dalla “questione vaticana” e dal fat- to che la Chiesa, nella crisi dello stato liberale, avesse individuato nel fascismo l’interlocutore più affidabile per risolvere la “questione romana”. Con il Concor- dato aveva perciò conquistato un potere di influenza sulla società e sullo Stato che

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 187 Giuseppe Vacca andava ben oltre la salvaguardia della sua “libertà” e si esplicava attraverso l’eserci- zio del suo “magistero”. Con l’inizio della guerra fredda, l’inquadramento della Chiesa nello schieramento atlantico aveva influito in misura determinante sulla situazione italiana e aveva costretto De Gasperi a subire lo snaturamento del suo disegno originario. Il “blocco d’ordine” creato intorno alla DC nel ’48, consen- ziente De Gasperi, aveva favorito la trasformazione della DC in partito di fiducia della grande borghesia e la Chiesa, imponendogli “l’unità politica dei cattolici”, ne aveva fatto il veicolo del suo disegno di “restaurazione teocratica”perseguito in quegli anni in tutta Europa. • La sintesi necessariamente stringata del pensiero di Togliatti non rende giusti- zia alla ricchezza delle sue argomentazioni che, per quanto opinabili, colpiscono se si tiene conto dello stato embrionale degli studi sul cattolicesimo politico tra le due guerre in quegli anni. Ma per concludere la disamina del saggio, vorrei porre l’ac- cento sul suo punto di arrivo: che fosse stata l’incapacità di opporsi alle pressioni vaticane e della grande borghesia ad indurre De Gasperi a compiere il passo falso della “legge truffa”, causandone la sconfitta. A me pare che su questi passaggi – fra cui si colloca “l’operazione Sturzo” – Togliatti ponesse questioni che neppure oggi sono del tutto risolte dalla ricerca storica. Ad ogni modo, quello che non appare persuasivo è sicuramente la definizione della DC. Sottacendo il valore del patto co- stituzionale, comunque salvaguardato, e sottovalutando la portata delle riforme compiute nella prima legislatura che avevano scombussolato il “blocco d’ordine” del 18 aprile, Togliatti rimuoveva le ragioni principali della sconfitta del ’53 e for- mulava quel giudizio, già ricordato, sulla Dc che ha pesato a lungo ed in parte gra- va tuttora sulla comprensione delle sue peculiarità e dell’effettiva dinamica del si- stema politico italiano.

ÿ Epilogo

• Il saggio di Togliatti sull’opera di De Gasperi non solo non è “equanime”, co- me l’autore stesso sapeva avendo posto nel titolo un bel punto interrogativo, ma è anche costellato di giudizi acrimoniosi sulla sua persona. Nella vibrante biografia di suo padre Maria Romana Catti riferisce una confidenza di De Gasperi “a un amico” che potrebbe contribuire a spiegarli: “Dopo il 18 aprile trovatosi battuto non mi ha più salutato, anche quando ci incontravamo alla buvette della Camera si allontanva fingendo di non vedermi. È freddo, metallico. La Russia ne ha fatto un bolscevico perfetto; una centrale di ricezione e di trasmissione davanti alla quale l’entità uomo scompare”. Ma il saggio togliattiano è permeato dalla psicologia del vincitore, non dello sconfitto: il convincimento che lo anima è che la sconfitta del- la “legge truffa” avesse trascinato con sé quella di De Gasperi, della Democrazia Cristiana e quella del centrismo.

188 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca

• Penso, perciò, che l’acrimonia, l’ingenerosità e talvolta il carattere aggressivo dei giudizi sulla persona di De Gasperi, inseriti, peraltro, in uno scritto di grande ambizione storiografica, debbano avere anche altre spiegazioni. Si dovrebbe scava- re a fondo nel risentimento lasciato dall’attentato del 14 luglio nell’animo di To- gliatti.

ÿ I “postumi” dell’attentato del 14 luglio

• Lo suggerisce il giudizio che egli stesso aveva formulato nella sua “biografia autorizzata” del ’53 nella quale, avvalendosi anche delle opinioni di due autorevo- li quotidiani inglesi come il “Times” (liberale) e il “Manchester Guardian” (labu- rista), aveva attribuito la responsabilità politica dell’attentato “al clima creato ad arte dai clericali, e in particolare da De Gasperi, per le elezioni del 18 aprile”. E lo conferma la lettera di accompagnamento della risoluzione del PCI sulla bocciatu- ra della CED, parzialmente inedita, che Togliatti inviò a Edoardo D’Onofrio il 20 agosto 1954. De Gasperi era appena morto e si doveva organizzare la partecipa- zione del PCI ai suoi funerali. Togliatti scrive: “Mi sono posto in contatto con Nenni. Questi mi dice che andrà ai funerali, tanto se saranno a Roma, quanto a Trento. Io invece non ci vado, e do alla cosa un significato. Sono per la reverenza ai morti (anche se i nostri avversari non sempre seguono la stessa condotta, come di- mostrano le dichiarazioni fatte da De Gasperi alla morte di Stalin); sono quindi d’accordo che i nostri commenti in questo momento abbiano un tono moderato, che non possa urtare nessuno. Sono però contrario a qualsiasi forma di embrassons nous presente il cadavere: anzi, la cosa profondamente mi ripugna, come una vol- garità e una ipocrisia. De Gasperi, del resto, combattè contro di noi senza esclu- sione di colpi, rigettando qualsiasi senso di umanità. Dopo il 14 luglio non ebbe né una parola né un gesto di umana comprensione per i lavoratori in cui sponta- neamente era insorta una grande indignazione. Volle che fossero esclusi persino dalla scarna amnistia del ’53 (…). Per tutto questo, mi raccomando! Vada un gruppo di compagni, deputati e senatori, ai funerali. Vacci pure tu, con Scocci- marro, come vicepresidenti; ci vada anche qualcun altro, in modo che ci sia la no- stra presenza. Ma evitare qualsiasi manifestazione che sia al di là della reverente correttezza umana”. • Ma riprendiamo il filo del discorso. I problemi che il saggio ci consegna sono principalmente due: il giudizio su De Gasperi antesignano della guerra fredda in Europa e quello sulla DC partito di fiducia della borghesia. Pur considerando il ri- baltamento del quadro politico generale intervenuto dalla metà del ’47 in poi, non si può fare a meno di osservare che il saggio presenta giudizi opposti a quelli che avevano ispirato l’azione di Togliatti nei confronti di De Gasperi nel triennio della loro collaborazione. E poiché ha l’ambizione di fondarli sulla ricostruzione della

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 189 Giuseppe Vacca biografia politica ed intellettuale dello statista trentino, ci pone dinanzi ad un evi- dente dilemma: o si deve considerarlo un’autocritica radicale della percezione che aveva avuto della sua figura fino alla “rottura politica del ’47”, o si deve ritenere che considerasse quella rottura un errore catastrofico per l’Italia e per la DC, rivelatore della mediocre statura di De Gasperi e dell’effettivo carattere del suo disegno, che prima non aveva compreso.

ÿ L’attenzione di Togliatti alla Sinistra Dc

• Questo convincimento è espresso nel modo più significativo in un brano di Conversando con Togliatti in cui egli afferma: “Un nostro avversario intelligente e capace non ci avrebbe messo fuori del governo. Anzi, prendendo in parola le posi- zioni e le dichiarazioni nostre, ci avrebbe forse sfidato a rimanervi, e avrebbe lavo- rato per far sorgere una situazione nella quale noi potessimo essere stretti senza via d’uscita oppure spezzati”. Per quanto lo stile di pensiero di Togliatti solitamente ri- fuggisse dall’idea di una storiografia controfattuale, un leader politico che fondava la sua azione sul metodo storico non avrebbe potuto rinunciarvi; e il brano citato evidenzia il convincimento che, quando ormai la guerra fredda stava per esplodere, De Gasperi avrebbe potuto attendere il momento in cui il PCI fosse stato costretto dal “legame di ferro” con l’URSS ad uscire dal governo, come presto sarebbe avve- nuto a seguito della costituzione del Cominform. Ma, lasciando alla ricerca storica il compito di approfondire un tema così impegnativo, vorrei tornare ancora per un momento sul nesso tra l’immagine della DC degasperiana e la nuova strategia poli- tica di Togliatti volta a privilegiare come interlocutore la sinistra democristiana. L’obiettivo di scardinare la centralità della DC prevedeva o quanto meno auspicava la possibilità che il partito si spezzasse. Era un obiettivo realistico? • Credo che tra le smentite più severe si possa citare un brano della relazione di Aldo Moro al Consiglio Nazionale della DC del 20 luglio 1961. Quando Togliatti aveva già schierato il PCI su una linea di inserimento nel centrosinisistra volta a di- videre la DC, Moro gli obiettò: “Il giudizio sulla DC è comprensibilmente som- mario e schematico. Ed essa, qualificata per comodità di polemica come forza di destra, viene presa in considerazione non per la realtà delle sue posizioni libere e vi- ve, ma, secondo il rozzo modulo comunista, quale partito dei monopoli a servizio dei grandi interessi capitalistici che sarebbero quindi riusciti a condurre per anni milioni e milioni di italiani ad agire contro i loro interessi, contro se stessi”. La cri- tica di Moro metteva in luce non solo il limite politico della strategia togliattiana, ma anche quello culturale dell’analisi su cui si fondava. Riassunta nello slogan della DC “partito dei padroni” e “partito americano”, quell’analisi non consentiva al suo stesso autore di comprendere che la figura e l’opera di De Gasperi avevano costitui- to un punto di equilibrio, una sintesi e un elemento identitario in cui si riconosce- vano tutte le correnti democristiane e avrebbero continuato a riconoscersi sino alla

190 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Giuseppe Vacca fine della DC. Moro coglieva nel segno denunciandone il determinismo economi- co e il riduzionismo sociologico che sarebbero stati superati, ma solo in parte, negli anni ’70. Infatti in quegli anni anche i comunisti cominciarono a riparlare di De Gasperi e a ripensarne l’opera e la figura.

ÿ Il saggio di Pietro Scoppola

• Nel 1974 Pietro Scoppola pubblicò su “il Mulino” il saggio su De Gasperi e la svolta politica del 1947 che tre anni dopo sarebbe diventato l’ultimo capitolo de La proposta politica di De Gasperi. Da esso prese spunto Giorgio Amendola per avviare una revisione dello schema togliattiano che avrebbe avuto le manifestazioni più si- gnificative nella recensione alla Intervista su De Gasperi di Giulio Andreotti e in quella molto ampia e innovativa al libro di Scoppola pochi mesi dopo. Commen- tando anche lui su “il Mulino” il primo scritto di Scoppola, Amendola aveva rileva- to che si staccava “dal magro bilancio dell’anno degasperiano” per la novità del- l’impostazione e la ricchezza della documentazione. Ma va attirata l’attenzione sul punto saliente del suo scritto: Scoppola aveva affermato che la rottura del ’47 era stata condotta in modo da “non sospingere i comunisti verso una opposizione al governo ma al sistema”; Amendola aggiunse informazioni ed elementi di valutazio- ne che lo confermavano e arricchivano. Egli argomentava che dal giugno ’46 To- gliatti, consapevole dell’imminenza della guerra fredda, aveva inasprito i toni della polemica contro il governo per prepararsi alla rottura e, pur cercando di rallentarne i tempi, aveva però inteso favorirla. Inoltre, accennando vagamente a testimonian- ze personali, suggeriva l’idea che De Gasperi e Togliatti avessero in qualche modo pilotato insieme la rottura. • Nelle due recensioni del ’77 arricchì le analisi e le testimonianze dando im- pulso all’abbandono del paradigma togliattiano: un abbandono inizialmente par- ziale, ma poi sempre più completo, che si fondava sul progressivo superamento del determinismo economico e del riduzionismo sociologico che avevano inficiato il saggio di Togliatti. Il PCI veniva lentamente sviluppando la capacità di fondare l’a- nalisi della politica italiana e delle relazioni internazionali sulle interdipendenze ele interazioni tra gli attori, e questo si riverberava sulle visioni retrospettive e sulla percezione storica della figura di De Gasperi. • Ma vorrei concludere con alcune considerazioni sulla vischiosità di quel nuo- vo percorso. La prima riguarda la cultura politica del PCI post-togliattiano. Il me- todo storico come fondamento dell’azione politica non aveva più l’incidenza e lo spessore che aveva avuto con Togliatti, per cui il contributo di Amendola restò un caso pressoché isolato. La seconda è che, nel concepire la sua revisione, Amendola aveva potuto giovarsi dei contributi significativi della storiografia cattolica, ma ad essi non corrispondeva un impegno minimamente paragonabile della storiografia

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 191 Giuseppe Vacca comunista e “di sinistra”. La terza è che il processo di revisione rimase un fatto d’é- lite, mentre nel senso comune dei militanti e degli elettori comunisti e di sinistra continuò – e forse continua – a prevalere l’immagine della DC “partito americano” e “partito dei padroni”. L’ultima considerazione riguarda la storiografia. Credo di poter dire che con quegli scritti Amendola desse impulso al paradigma della com- plementarità fra DC e PCI nella storia della repubblica che, fatto proprio inizial- mente da Scoppola, caratterizza una parte limitata ma molto significativa della sto- riografia politica degli ultimi venti anni favorendo nuove ricerche e l’acquisizione di risultati sempre più convincenti.

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192 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Luigi Sturzo: una lezione attuale

di Card. Mariano Crociata*

• L’anniversario della morte del Servo di Dio don Luigi Sturzo offre l’occasione a studiosi e collaboratori dell’istituto ‘Sturzo’, nonché estimatori e devoti del gran- de sacerdote di Caltagirone, di sostare ancora una volta a riflettere e pregare a parti- re dal suo messaggio e, nel contesto di una celebrazione, dalla lezione della sua vita. Il sentimento che sgorga spontaneo in questo momento è di gratitudine al Signore per il dono di questo testimone a cui generazioni di credenti e non credenti conti- nuano a guardare attingendo luce, idee e coraggio per la presenza e l’impegno nella cultura, nella società e nella politica. Si rinnova, perciò, anche la preghiera che l’e- semplarità della vita di don Luigi abbia il giusto riconoscimento da parte dell’inte- ra comunità ecclesiale. Viene da pensare come proprio la celebrazione quotidiana della S. Messa abbia scandito il ritmo di vita di don Sturzo: un pensiero che colloca nella giusta dimen- sione tante cose, anche la stessa ricorrenza che celebriamo, poiché è sempre Dio e il suo Cristo a stare al centro della nostra vita e dei nostri pensieri, anche in una gior- nata come questa. Del resto, così facendo, non solo non ci discostiamo, ma diamo se possibile ancora più spazio e attenzione alla figura di don Luigi. • Oggi le letture bibliche ci chiedono un ascolto che non può essere rimosso e nemmeno piegato strumentalmente ad altri fini. In realtà ad ascoltare la Parola proclamata nella liturgia non facciamo altro che prestare attenzione a quel Dio at- torno a cui ruotava anche tutto l’impegno del Servo di Dio, così da verificare che proprio questa apertura a Dio ci mette nella condizione spirituale idonea a com- prendere di più e meglio lo Sturzo credente e sacerdote che in quella apertura ha posto l’anima di ogni sua intrapresa e attività. Raccogliamo soltanto il monito che ci viene dal testo della prima lettura (Gio 4,1-11), la quale ci impressiona per la resistenza che Giona oppone all’idea e alla volontà di Dio di convertire e salvare cattivi e malvagi, i quali invece secondo lui non meriterebbero altro che condanna e perdizione. Viene fuori una immagine di Dio che, al contrario del suo profeta, ha compassione di una moltitudine di perso- ne che «non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra». Non credo sia una forzatura vedere in don Luigi Sturzo un prete che ha fatto propria la compassione di Dio verso folle di persone sempre più smarrite e disorientate. E soprattutto ve-

* Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 193 Mariano Crociata dervi un richiamo nei confronti di chi si ammanta di un senso gretto di giustizia che non lascia nemmeno a Dio il potere di giudicare e di salvare e cerca alibi per sfuggire all’appello della responsabilità e del servizio. • Con l’insegnamento sulla preghiera, il Vangelo (Lc 11,1-4) tocca un punto nevralgico della fede e dell’esperienza cristiana. Innanzitutto ci fa capire che prega- re è pregare come Gesù e con Gesù. Egli ci suggerisce le parole e con esse l’atteggia- mento, il cuore, le intenzioni per dire a Dio ‘Padre’. E il punto cruciale dell’espe- rienza credente, come innanzitutto e in modo unico per Gesù stesso, è sempre quello di guardare a Dio come a un Padre, di aprirsi a Lui come figli e di porsi in relazione come fratelli con coloro che dicono e pregano insieme a noi Dio Padre. Questo senso di figliolanza divina e di fraternità non facciamo fatica a trovarlo in fondo al sentire del Servo di Dio. La sua sensibilità sociale e la sua intelligenza e operosità politica nascono sul terreno di una fede solidamente radicata e di uno spirito sacerdotale vigile e colti- vato con grande cura. Il messaggio essenziale che egli ha lasciato per noi credenti è, senza dubbio, che la dedizione nei confronti del prossimo, nella forma dell’atten- zione responsabile alle dinamiche sociali e della carità politica, è dimensione ineli- minabile della vocazione cristiana. • Di fatto il suo percorso spirituale lo porterà gradualmente sempre di più a evidenziare il discreto ma formidabile legame che ha strutturato la sua coscienza e la sua esistenza tra la fede e l’essere prete e l’impegno sociale e politico, oltre che il senso di responsabilità pastorale1. Mi piace riascoltare con voi alcune citazioni che esprimono tale coscienza. Scrive nel 1926:

È superfluo dire […] che quasi trent’anni di mia attività […] per me è stato ed è ancora esplicazione di apostolato religioso e morale. Non avessi avuto questa convinzione e queste finalità, non avrei potuto conciliare le mie attività con il mio carattere sacerdotale e con la mia aspirazione unica di servire Dio2.

E ancora nel 1928:

Voi non credereste che la mia vocazione politica non fu per niente una vocazione, né un’a- spirazione della mia giovinezza, né un’attrattiva fantastica o sentimentale; fu una conse- guenza non cercata della mia attività religioso-sociale presso operai e contadini3.

1 Cf. M. Naro, Con il Vangelo nascosto in petto: il cammino spirituale di Luigi Sturzo,in...Senza pregiudizi né preconcetti per gli ideali di giustizia e di libertà, nella loro interezza, Memoria del novante- simo anniversario dell’ Appello ai liberi e forti (Caltagirone 27 febbraio 2009), Atti, pp. 13-42. 2 Cit. ivi, p. 24. 3 Cit. ibidem.

194 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Mariano Crociata

E in ultimo un passaggio che apre uno squarcio sulla sua interiorità e sulla sua spiritualità:

L’idea di Dio, se ci diventa abituale nella nostra giornata, in mezzo alla varietà della vita, come un’idea fondamentale, a cui siamo legati e di cui viviamo; se questa idea ci è destata da ogni cosa che ci tocca e ci fa gioire o addolora, di quanto ci alletta o ci respinge, allora il nostro spirito è abituato a sentirlo presente, ed è preparato a entrare in più intima comuni- cazione con lui con la preghiera4.

Parole che si presentano come un commento involontario proprio alle pagine scritturistiche che abbiamo ascoltato, e che soprattutto rivelano un animo profon- damente credente e uno spirito sacerdotale all’origine di un pensiero straordinaria- mente ricco e di un’azione culturale, sociale e politica di imponente fecondità. • In tempi come i nostri la sua lezione risulta singolarmente attuale, innanzi- tutto per noi credenti. In certi ambiti di impegno, come quello sociale e politico, sembriamo mancare di sorgenti vive e di radici, a cui rispettivamente attingere lin- fa e su cui far crescere progetti di largo respiro. Mancano visioni e speranze, perché queste non si inventano sull’onda della cronaca spettacolarizzata, ma si nutrono di interiorità e spiritualità lungamente coltivate e accuratamente custodite. Senza l’al- terità di una fede profonda e amata, difficilmente crescono figure cristiane signifi- cative, e in tutti i campi. E pensieri, visioni, speranze, progetti non sono mai solo prodotti intellettuali, bensì frutti di vita buona, quella vita buona secondo il Van- gelo a cui i Vescovi italiani richiamano per un rinnovato impegno educativo.

Anniversario della morte di Luigi Sturzo. Roma, Chiesa di S. Agostino, 5 ottobre 2011

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4 Cit. ivi, pp. 33-34.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 195

ISTITUTO “LUIGI STURZO” CIVITAS - (IV Serie) NUMERI PRECEDENTI

ANNO I - N. 1/2004

EUROPA SENZA CONFINI Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - Luigi Giraldi - Giorgio Tupini - Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli - Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese

ANNO II

N. 1/2005

LA DEMOCRAZIA MALATA Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mon- gardini - Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia - Nicola Mancino

N. 2/2005

LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci - Agostino Giovagnoli

RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia

N. 3/2005

ECONOMIA E DEMOCRAZIA Piero Barucci - Andrea Bixio - Giampiero Cantoni - Innocenzo Cipoletta - Emmanuele Emanuele - Piero Giarda - Giovanni Marseguerra - Franco Nobili - Giuseppe Sangiorgi - Mario Sarcinelli - - Antonio Zurzolo

ANNO III

N. 1/2006

CHIESA E STATO IN ITALIA - IERI E OGGI Franco Nobili - Andrea Riccardi - Romeo Astorri - Maurizio Punzo - Giuseppe Dalla

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 197 Torre - Francesca Margiotta Broglio - Giovanni Battista Varnier - Carlo Cardia - Camillo Ruini - Pietro Scoppola - Agostino Giovagnoli - Silvio Ferrari - Stefano Semplici - Fran- cesco Totaro - Luciano Eusebi

NUMERO SPECIALE – AFRICA: UN CONTINENTE TRA ABBANDONO E SPERANZA Franco Nobili - Mario Giro - Jean Leonard Touadi - Jean Mbarga - Stefano Picciaredda - Gianpaolo Cadalanu - Leonardo Palombi - Daniela Pompei - Robert Sarah - Boniface Mongo Mboussa - Éloi Messi Metodo - Robert Dussey

N. 2-3/2006

BIPOLARISMO IMPERFETTO Antonio Agosta - Andrea Bixio - Fedele Cuculo - Gianfranco D’Alessio - Giuseppe De Rita - Emmanuele F.M.Emanuele - Marco Follini - Enrico Letta - Franco Nobili - Andrea Riccardi - Mario Rusciano - Giuseppe Sangiorgi - Paolo Segatti - Pietro Scoppola - Bruno Tabacci

ANNO IV

N. 1/2007

OLTRE IL WELFARE: LA SFIDA DELLE NUOVE POVERTÀ Card. Tarcisio Bertone - Stefano Bartolini - Leonardo Becchetti - Corrado Beguinot - Luigino Bruni - Giuseppe De Rita - Franco Nobili - Renato Palma - Pierluigi Porta - Franco Riva - Giuseppe Sangiorgi - Silvio Scanagatta

N. 2/2007

ISLAM Lahouari Addi - Mustapha Cherif - Bahey El-Din Hassan - Mohamed Haddad - Hassan Hanafi - Kone Idriss Koudouss - Ahmad Syafii Maarif - Chandra Muzaffar - Paul Matar Mohammad Sammak - Ghassan Tueni - Mohamed Tozy - Abdul Magid - A. Karim Vakil

N. 3/2007

DOVE VANNO I CATTOLICI

Franco Nobili - Andrea Riccardi - Mauro Magatti - Savino Pezzotta - Pierluigi Castagnet- ti - Gennnaro Acquaviva - Gianni Baget Bozzo - Paolo Corsini - Carlo Giunipero - Paola Bignardi - Lucia Fronza Crepaz

RICORDO DI PIETRO SCOPPOLA

Franco Nobili - Achille Card. Silvestrini - Andrea Riccardi - Eugenio Scalfari - Agostino Giovagnoli - Giuliano Ferrara - Francesco Malgeri - Alberto Melloni - Emma Fattorini

198 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 ANNO V

N. 1/2008

PERSONA E COSTITUZIONALISMO DIRITTI, DOVERI, SPERANZE

Franco Nobili - Ugo De Siervo - Paolo Doni -Vittorio Possenti - Andrea Simoncini - An- tonio Magliulo - Stefano Martelli - Valerio Onida - Franco Riva

N. 2/3-2008

LA CITTÀ URBS, CIVITAS... DIVERSITAS

Franco Nobili - Corrado Beguinot - Gabriella Esposito De Vita - Giuseppe Limone - An- tonella Greco - P. Gianfranco Berbenni - Massimo Clemente - Manuel Ferrer Regales - Vincenzo Scotti - Giuseppe Imbesi - Gianluigi Sartorio - Angela Poletti - Gianluca Gian- nini - Giuliana Quattrone - Franco Montanari - Filippo Barbera - Bianca Petrella - Fran- cesco Alessandria - Franco Maceri - Francesco Forte - Carla Quartarone - Gabriella Pado- vano - Sergio Mattia - Alessandra Pandolfi - Giancarlo Nuti - Maria Venturini - Mirilia Bonnes - Vincenzo Cabianca - Giampiero Vigliano - Franco Riva

ANNO VI

N. 1/2009

L’UNIONE PER IL MEDITERRANEO

Giulio Andreotti - Jean-Dominique Durand - Claire Durand - Jaques Huntzinger - Em- manuel Dupuy - Jean Michel Debrat - Mohamed Bechari - Mostafa Cherif - Jean Claude Petit - Michele Zanzucchi - Bernard Sabella - Enric Olivé Serret - Emmanuele F.M. Ema- nuele - Apostolides Costas - Vincenzo Conso - Peter Seideneck - Arben Xhaferi -Enrico Salza - Giuseppe Cuccurese - Vittorio Ianari

N. 2/3-2009

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA IL VENTO LUNGO DELLE ENCICLICHE

Roberto Mazzotta - Storia: Bartolomeo Sorge - Franco Appi - Giuseppe Sangiorgi - Em- manuele F.M. Emanuele - Vincenzo Paglia- Giorgio Campanini - Angelo Sindoni - Erne- sto Preziosi. Società: Luigi Campiglio - Giuliana Martirani - Sergio Parenti - Francesco Maietta - Franco Riva. Europa: Flavio Mondello. Mondo: Michel Camdessus - Antonio Tomassini. Il personaggio: Mario Giro.

Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 199 ANNO VII

N. 1/2010

LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ Opinioni a Confronto

Roberto Mazzotta - Gian Paolo Brizzi - Andrea Graziosi - Andrea Bixio - Walter Tocci - Agostino Giovagnoli - Gennaro Carotenuto - Stefano Bancaleri - Enrico Decleva - Fulvio Cammarano - Documenti

N.2/2010

IL MONDO NELLA RETE. LIBERTÀ PRESUNTA?

Roberto Mazzotta - Agostino Giovagnoli - Franco Riva - Andrea Granelli - Massimo Rus- so - Giorgio Zanchini-Mario Morcellini - Diana Gianola - Piero Dorfles - Claudio Maria Celli (Mons.) - Vittorio Sabadin - Amos Ciabattoni - Angelo Bagnasco (Card.) - Claudio Giuliodori (Mons.) - Chiara Giaccardi - Patrizia Severi - Opinioni a confronto

ANNO VII-VIII

N. 3/2010-N. 1/2011

I CATTOLICI STORIA E RAGIONI DI UNA PRESENZA

Roberto Mazzotta - Agostino Giovagnoli - Francesco Malgeri - Mario Taccolini - France- sco Bonini - Ernesto Preziosi - Giuseppe Sangiorgi - Attilio Nicora (Card.) - Giuseppe Gervasio - Beppe Del Colle - Maurizio Regosa - - Giuseppe De Rita - Angelo Bagnasco (Card.) - Lorenzo Ornaghi - Andrea Riccardi - Alfredo Canavero - Laura Balestra - Amos Ciabattoni - Jean Mbaga (Mons.) - Jean Dominique Durand - Bartolo Ciaccardini

Richieste e informazioni a: Tel. 06.68809223 E-mail: [email protected] www.rivistacivitas.it

200 Civitas / Anno VIII - n. 2-3 - Maggio-Dicembre 2011 Finito di stampare nel mese di dicembre 2011 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it

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