SE IL VIRUS INFETTA L’INTELLETTO di Sandokan

Chi non conosce Sergio Romano? Ambasciatore di lungo corso, quindi storico e giornalista, nonché editorialista del Corriere della Sera. Un liberale che sembra uscito da un esclusivo circolo dell’aristocrazia londinese. Il nostro è come un orologio rotto, che indica l’ora giusta almeno due volte al giorno. Di norma non ne azzecca una. Lo stile che s’è cucito addosso è quello del gentlemen sapiente, dello sparasentenze. L’atteggiamento quello della coscienza critica dell’élite italiana la quale, per l’appunto, sarebbe molto poco liberal e troppo gaglioffa.

Nel novembre 2017 dichiarava a la Repubblica: «Io snob? È il mondo che si è abbassato nella qualità. Parecchio».

Il nostro, sul Corrierone, cura una rubrica quotidiana (L’AGO DELLA BILANCIA) per mezzo della quale dispensa martellanti pillole liberali di saggezza. L’ultima di ieri è degna di nota.

Il nostro esordisce con l’ammettere che “Il coronavirus non ha contagiato soltanto esseri umani ma anche la politica nazionale e internazionale, con risultati che potrebbero essere non meno pericolosi per le sorti del Paese e del continente in cui viviamo” — la scoperta dell’acqua calda, mi direte; vero, non fosse che in giro c’è gente che si ostina a non riconoscere che la dimensione socio-politica della vicenda è enormemente più importante di quella meramente sanitaria.

Dato il condivisibile esordio uno ci aspetterebbe che dall’alto della sua sapienza il Romano mettesse in guardia dallo sfrontato uso politico della pandemia messo in atto soprattutto nei paesi in cui lo Stato d’emergenza sanitaria è stata trasformata in vero e proprio Stato d’eccezione — ove la severa e prolungata quarantena ha drasticamente limitato e calpestato non solo libertà di movimento ma numerosi diritti politici, sociali e civili. Data la premessa, insomma, uno si aspetterebbe che avrebbe parlato dell’Italia e di come il governo, scatenata col decisivo assist dei media una virulenta campagna di terrorismo di massa, ha strumentalizzato la pandemia per sperimentare uno Stato di polizia su larga scala.

Invece no, invece se la prende con Viktor Orban “che ha usato il coronona virus per ottenere i pieni poteri”, quindi va giù pesante con Donald Trump che si sarebbe addirittura permesso di accusare l’Oms e la Cina, in verità pensando alla sua rielezione.

Pur di portare acqua al mulino dell’élite liberale mondialista il Romano accusa Trump e Orban, ovvero proprio due tra coloro che si sono rifiutati si seguire la via del terrorismo di massa e dello Stato d’eccezione. E pur di difendere il suo totale rovesciamento della verità elogia i governi che hanno davvero soppresso diritti democratici e libertà civili poiché lo avrebbero in base al criterio per cui “il diritto alla salute è più importante di qualsiasi considerazione strettamente economica”…

Parafrasando Goebbels “Quando un gentlemen fa la morale viene da portare la mano alla cintola”.

TI CONOSCO MASCHERINA…

La sapete l’ultima? Non ci crederete ma quel “genio” di Zingaretti (alias segretario del Pd) ha affermato oggi (23 maggio): “La mascherina diventi coma una cravatta, un foulard, un piercing”. Dalla cazzata passiamo alle cose serie, con un salto oltre oceano. La pandemia sta impattando negli Stati Uniti d’America. E’ noto come il blocco di potere davvero dominante negli USA — le grandi multinazionali che sono potenze geopolitiche oltre che economiche (i famigerati The Four: Facebook, Amazon, Google, Apple), rappresentate politicamente anzitutto dal blocco obamiano-clintoniano — sta utilizzando la pandemia per impedire la rielezione di Trump. Il virus e le sue conseguenze sono un fondamentale campo di battaglia per decidere chi guiderà l’Impero. In questo contesto ci spieghiamo come diversi Stati americani stiano disubbidendo alle direttive della Casa Bianca che ha decretato il “ritorno alla normalità”. Proprio in diversi di questi stati sono in corso mobilitazioni per porre fine al lockdown (nella foto manifestanti armati nel Michigan). Qui sotto un articolo sul rifiuto di indossare mascherine. La fonte, “politicamente corretta”, grida allo scandalo… * * *

Dopo i No-Vax, in America nascono i No-Mask. “In questo negozio NON si entra in mascherina”

È la nuova crociata degli americani che non tollerano limitazioni alla propria “libertà”. Dal Kentucky alla California, aumentano le attività che chiedono di “abbassare la mascherina” di Giulia Belardelli* «Dopo i No-Vax, i No-Mask. È il nuovo fenomeno comparso nelle ultime settimane negli Stati Uniti, dove in alcuni negozi, dal Kentucky alla California, sono stati affissi cartelli che per crederci davvero bisogna leggerli due volte: “Vietato indossare mascherine”, “Vietato indossare mascherine”. Alla faccia della pandemia. Come riporta il Guardian, il “divieto di mascherina” è il nuovo fronte della protesta di quella parte d’America che fin da subito ha rifiutato il lockdown così come qualsiasi altra misura restrittiva delle libertà personali decisa per contrastare la diffusione del virus.

Dopo le manifestazioni armate contro il lockdown, alcuni commercianti hanno dichiarato guerra all’utilizzo delle mascherine, inteso come segno di obbedienza ai governatori colpevoli di aver messo in ginocchio l’economia a colpi di lockdown. Giovedì Vice ha riferito in un minimarket del Kentucky che ha messo un cartello con la scritta: “NESSUNA mascherina è ammessa nel negozio”. E ancora: “Abbassa la mascherina o vai altrove. Smetti di ascoltarlo, [il governatore del Kentucky Andy] Beshear, è un cretino”. A inizio mese, un costruttore califroniano ha affisso nel suo showroom un cartello per incoraggiare gli abbracci e dismettere le mascherine. In Illinois, il titolare di una stazione di rifornimento ha apposto un avviso simile, per poi difendersi sostenendo che le mascherine rendono difficile distinguere tra adulti e bambini quando si tratta di vendere alcolici e sigarette.

Il primo a non sopportare l’idea di indossare una mascherina, d’altronde, è lo stesso Commander-in-chief, che ha ceduto solo giovedì scorso, durante una visita a una fabbrica Ford in Michigan. L’attorney general dello Stato, Dana Nessel, gli aveva intimato di farlo come “responsabilità legale e morale”, giudicando il suo ostinato rifiuto più adatto a “un bimbo petulante” che non a un presidente in carica. Trump ha indossato un modello blue navy per il tempo della visita allo stabilimento, ma se l’è subito tolta per incontrare i giornalisti: “Non è necessaria, sono stato testato oggi. Ne avevo una prima, nell’area retrostante, ma non volevo dare alla stampa la soddisfazione di vedermi”.

Per gli americani determinati a proteggere a ogni costo la loro “libertà” – anche se questo vuol dire esporre altri al rischio di ammalarsi – la riluttanza di Trump è un chiaro segnale di incoraggiamento. Come lo sono stati i suoi attacchi ai governatori pro lockdown: ammiccamenti neanche troppo velati alle manifestazioni, con tanto di fucili, di chi chiedeva di riaprire tutto e subito, malgrado la galoppata del virus.

Un altro capitolo inquietante è quello di clienti e passeggeri che – sempre in nome della propria “libertà” – tossiscono deliberatamente in faccia agli altri. Su Twitter lo scrittore Anand Giridharadas ha condiviso un video con alcune scene che parlano da sé. “Un’ossessione distorta e contorta per la libertà ci sta uccidendo”, ha commentato l’ex editorialista del New York Times». * Fonte: Huffington Post

ANNULLARE I DEBITI DEI PAESI PIÙ POVERI di Bernie Sanders e altri

La Pandemia ha contribuito a scatenare quella che sembra essere una devastante crisi economica mondiale. Essa colpirà in modo violento anzitutto i pasi più poveri del pianeta, già sotto scacco a causa dei debiti che essi dovrebbero rimborsare. Le Nazioni Unite prevedono che la crisi del coronavirus potrebbe aumentare la povertà globale fino a mezzo miliardo di persone, l’8% della popolazione umana totale. Il Programma alimentare mondiale stima che il numero di persone spinte sull’orlo della fame a causa della crisi economica globale potrebbe raddoppiare, da 135 milioni a 265 milioni, a causa della pandemia. Nel frattempo, i paesi in via di sviluppo detengono circa $ 11 trilioni di debito estero, con $ 3,9 trilioni di interessi dovuti solo quest’anno. Sessantaquattro paesi attualmente pagano di più per gli interessi sul debito che per l’assistenza sanitaria. Per la cancellazione di questi debiti odiosi il 13 marzo scorso 300 parlamentari (primo firmatario Bernie Sanders) hanno sottoscritto una lettera alla banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale che qui sotto pubblichiamo.

Lettera al FMI e alla Banca mondiale

Washington, DC 20433 Kristalina Georgieva The International Monetary Fund 700 19th Street, N.W. Washington, DC 20431

Caro Presidente Malpass e Direttore Generale Georgieva:

13 maggio 2020

Membri dei parlamenti di tutto il mondo vi scrivono per chiedere la totale remissione del debito dei paesi dell’Associazione Internazionale dello Sviluppo (IDA) da tutte le principali istituzioni finanziarie internazionali (IFI) durante questa crisi globale di Covid-19.

Siamo lieti di notare che il Gruppo della Banca mondiale (WBG) e il Fondo monetario internazionale (IMF) hanno già preso provvedimenti per attuare la riduzione del debito e la sua sospensione per i paesi più poveri del mondo. Il recente annuncio del FMI di finanziamenti per la riduzione temporanea del debito per 25 paesi membri è una tendenza incoraggiante, ma un sostegno molto più diffuso e a lungo termine è necessario.

Questo è il motivo per cui chiediamo a tutti i leader del G-20, attraverso queste IFI, di sostenere la cancellazione degli obblighi di debito detenuti da tutti i paesi IDA durante questa pandemia senza precedenti. La sospensione temporanea e il differimento del debito non saranno sufficienti per aiutare questi paesi a dare piena priorità alla gestione rapida e sostenibile dell’attuale crisi. Le comunità vulnerabili che non dispongono delle risorse e dei privilegi per implementare adeguate misure di sanità pubblica saranno infine gravate in modo sproporzionato dal peso del coronavirus. Tale pregiudizio implica che le catene di approvvigionamento globali, i mercati finanziari e altri scambi interconnessi continueranno a essere interrotti e destabilizzati.

Vi chiediamo inoltre di sostenere un’emissione importante relativa ai diritti speciali di prelievo (SDR) al fine di fornire ai paesi in via di sviluppo un sostegno finanziario urgente. La crisi economica innescata dalla pandemia promette di essere molto più devastante della crisi finanziaria globale del 2009, quando i DSP sono stati distribuiti l’ultima volta. Concordiamo con la stima “forchetta bassa” della direttrice generale Georgieva di 2,5 trilioni di dollari per le attuali esigenze finanziarie dei paesi in via di sviluppo. Sarà necessaria un’emissione di DSP diversi miliardi di dollari per prevenire un aumento significativo della povertà, della fame e delle malattie.

Non abbiamo solo un dovere umanitario di aiuto ai paesi bisognosi, abbiamo anche un interesse comune e diretto nel sostenere gli aiuti globali per una ripresa e una resilienza efficaci. Come comunità internazionale collaborativa, possiamo iniziare a superare questa pandemia affincé vi si ponga fine per tutti quanti.

Per questi motivi, esortiamo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale a prendere forti provvedimenti per fornire un ampio programma di riduzione del debito e assistenza finanziaria a tutti i paesi poveri più esposti ai devastanti costi umani ed ai danni economici duraturi da Covid19. Vi chiediamo di collaborare con i partner bilaterali e multilaterali interessati per fornire una risposta entro un massimo di 15 giorni dal ricevimento della presente lettera.

È nel nostro comune interesse in materia di salute pubblica, di sicurezza e d’economia che ci riuniamo e agiamo coraggiosamente per aiutare le nazioni più vulnerabili. Siamo pronti a lavorare con voi e sostenere soluzioni immediate ea lungo termine per garantire che i paesi fragili e indigenti ricevano la flessibilità e la consulenza di cui hanno bisogno per prevenire crisi umanitarie, proteggere la salute pubblica e promuovere la stabilità mondiale durante questa crisi e anche dopo che sia finita per le nazioni ricche.

Vedi la lista di tutti i firmatari

Traduzione della Redazione Fonte: CADTM, Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi

CHI SI FIDA È PERDUTO Ier i Mazzei ha spiegato la trappola che si nasconde dietro alla proposta franco-tedesca del “Recovery Fund”, quindi perché l’euforico ottimismo con cui essa è stata accolta a Roma, è pressoché infondato. Non si tratta soltanto della insufficienza delle risorse, né solo del fatto che la resistenza dei falchi potrebbe far saltare l’operazione. Si tratta del fatto che anche ove una quota di “aiuti” dovesse essere caricata sulle spalle del bilancio della Ue, questa implicherebbe comunque che l’Italia sarebbe sottoposta ad un regime di vigilanza strettissima. Detto altrimenti gli “aiuti” sarebbero offerti in cambio di ulteriori “riforme strutturali”, ovvero, dopo una breve tregua, il ritorno a politiche sociali austeritarie e liberiste. Occorre infine tenere conto che i Germania potenti settori capitalisti non sono d’accordo con la Merkel. Ad esempio l’economista tedesco Henkel afferma che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro e creare un nuova lira. La qual cosa è indice di quale sia l’eventuale “Piano B” tedesco. Non come alcuni pensano, l’uscita della Germania dall’euro ma, ben al contrario, sbarazzarsi della bomba italiana per un’Unione a dispiegata supremazia tedesca. Riportiamo le dichiarazioni di un tedesco che conta…

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“Abbandoni l’euro, torni alla propria valuta, una sorta di ‘nuova lira’, e si faccia finanziare dai suoi cittadini ricchi, invece di fare affidamento alla Germania e ad altri paesi dell’Unione europea”. E’ quasi accorato l’appello che l’economista tedesco Hans-Olaf Henkel rivolge all’Italia. Una dichiarazione, quella di Henkel, che arriva nelle stesse ore in cui la Germania viene lodata per aver fatto un passo importante verso i paesi del Sud, proponendo insieme alla Francia un fondo per la ripresa, Recovery Fund, da $500 miliardi: un fondo che prevede aiuti da non restituire, non prestiti.

C’è da dire che l’economista Henkel è ex esponente del partito tedesco di estrema destra AfD. In precedenza dirigente dell’IBM e presidente della Federazione delle industrie tedesche BDI, l’economista è diventato europarlamentare nel 2014 per l’Afd, per poi lasciare il partito euroscettico dopo l’elezione, alla carica di presidenza dello stesso, di Frauke Petry (che si è poi dimessa nel 2017 a causa di tensioni interne).

A quel punto Henkel è diventato membro indipendente dei Conservatori e riformisti europei (CRE), gruppo formato da esponenti di conservatori, di partiti di destra e centrodestra che si dichiarano euroscettici e antifederalisti, di cui fa parte Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Da segnalare che invece la Lega di Matteo Salvini fa parte del gruppo del Parlamento europeo Identità e Democrazia. Henkel non si è fermato qui, visto che ha risposto a tono ai commenti di George Soros, che la scorsa settimana ha detto che l’Ue ha il dovere di aiutare l’Italia, paese europeo tra i più colpiti dalla pandemia del coronavirus-COVID-19. L’ex parlamentare si è così espresso: “Condivido l’opinione di Soros sull’Italia ma non credo che ci sia alcuna ragione per dover mostrare “all’Italia solidarietà finanziaria a causa della crisi del coronavirus”.

Tra l’altro, ha aggiunto, “in media l’italiano è molto più ricco, per esempio, della Germania”. Di conseguenza, “prima che i politici italiani come Salvini o Conte o qualunque altro chiedano soldi ai cittadini di altri paesi per smorzare gli effetti delle loro decisioni, si rivolgano ai propri cittadini ricchi, chiedendo la loro di solidarietà”. E ancora: “Invece di permettere ai politici italiani di finanziarsi a spese e a rischio di altri paesi, la Germania dovrebbe fare un regalo generoso all’Italia in cambio della sua uscita dall’Eurozona e del ritorno a una sua propria valuta (una nuova lira!). In questo modo la banca centrale italiana (ergo Bankitalia) potrebbe svalutare la moneta per fare in modo che torni competitiva, facendo così ripartire l’economia e portando l’Italia a prosperare come fece prima dell’euro“.

C’è da dire che un avvertimento contro l’Italia è arrivato negli ultimi giorni anche da un politico decisamente più moderato, Manfred Weber, leader del partito PPE al parlamento europeo, “controlli severi”; affinché l’Italia e la Spagna non attingano alla liquidità dell’Unione per lanciarsi in spese sfrenate. Weber è lo stesso che, in un colloquio con il quotidiano La Repubblica, ha detto che un’eventuale uscita dell’Italia dall’Unione Europea, dunque il concretizzarsi di una Italexit, sarebbe peggio della Brexit, sancendo la fine dell’Unione europea. Ed è lo stesso che ha auspicato il lancio di controlli rigorosi sull’utilizzo di risorse serie da parte di Italia e Spagna: “Non deve accadere che Paesi come l’Italia o la Spagna utilizzino gli aiuti miliardari del fondo per la ricostruzione per tappare i buchi di bilancio o pagare le pensioni”.

Le dichiarazioni di Henkel e dello stesso Weber non fanno altro che confermare la profonda spaccatura che esiste tra i paesi del Nord e Sud Europa. Con l’annuncio sulla proposta franco-tedesca del Recovery Fund, arrivato in via congiunta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron l’altroieri sera, indubbiamente la Germania ha mostrato inaspettatamente un volto da colomba. Ma nel pomeriggio di ieri in occasione della riunione dell’Ecofin il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire, ha parlato degli ostacoli al piano ambizioso di Francia e Germania a causa delle resistenze di quattro paesi europei: Austria, Danimarca, Svezia e Olanda.

Viste poi le dichiarazioni di cui sopra, l’impressione è che, in ogni caso, l’Italia rimarrà sorvegliata speciale, anche se alle prese con la crisi innescata dal coronavirus COVID-19.

* Fonte: Finanzia on line

LA FINTA SVOLTA EUROPEA di Leonardo Mazzei Che succede in Europa?

Gli euroinomani esultano. M&M (Merkel e Macron) sembrano averli tratti d’impaccio. Strana Europa quella che si risolve nella resurrezione dell’asse a due del Patto di Aquisgrana. Ma la droga è droga, e quando c’è il rischio dell’astinenza non si va tanto per il sottile. Ecco allora il grido di gioia di tutti gli euristi di casa nostra. Uno per tutti il solito Fubini, che sulle pagine del Corriere annuncia l’inversione ad U: quella cancelliera che nel 2010 si accordò con Sarkozy per colpire i Piigs, stavolta i “maiali” li vuole aiutare accordandosi con Macron.

Questa la lieta novella che viene diffusa urbi et orbi. Ma siamo davvero di fronte ad un cambiamento reale? Gli euroinomani pensano di sì. Del resto la loro teoria prevede da sempre l’uso delle crisi per far passare quel che altrimenti non passerebbe. «L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi», scrisse Jean Monnet. Era il 1976, le grandi crisi sono arrivate dal 2008 in avanti e non si può dire che questa profezia abbia avuto successo. Più esattamente, l’Europa (in realtà l’UE) è diventata famosa per la capacità di aggravare le crisi, non certo per quella di risolverle. Difficile che stavolta sia diverso.

Ma ricordare queste cose agli euro-tossici è ovviamente tempo perso. Sta di fatto che il Fubini già immagina la svolta. Secondo lui ci sarà la condivisione del debito, e per finanziarlo avremo nuove tasse europee, naturalmente “verdi” e magari consigliate pure per la cura della pelle. Il tutto unito (non ridete troppo) alla lotta ai paradisi fiscali.

Quale sarà l’approdo finale della proposta di M&M?

Tutta questa euforia si basa sul progetto di M&M sul Recovery Fund, la cosiddetta “quarta gamba” del pacchetto europeo che dovrebbe affrontare la crisi del coronavirus. La novità dell’annuncio del duo di Aquisgrana sta (starebbe) nella possibilità di sovvenzioni a “fondo perduto” per 500 miliardi di euro. Su questa ipotesi, per ora di questo si tratta, vanno dette subito due cose: in primo luogo 500 miliardi sono una cifra del tutto insufficiente; in secondo luogo il “fondo perduto” proprio non c’è.

L’ipotesi di M&M è infatti quella di emettere titoli coperti con il bilancio Ue. Ma a questo bilancio contribuiscono tutti i paesi. Tra questi, ad esempio, l’Italia è oggi un contributore netto, il che significa che versa nelle casse Ue più di ciò che riceve. Le sovvenzioni finanziate con i titoli del Recovery Fund verrebbero quindi ripagate con i contributi di ciascun stato. Niente “fondo perduto” dunque, ma tuttavia – ecco quella che sarebbe la vera novità – una qualche forma di condivisione del debito, finora un’autentica bestemmia per l’ordoliberismo di marca teutonica.

La questione merita perciò grande attenzione. Al di là dei trionfalismi fuori luogo degli euro-dopati, è giusto interrogarsi su ciò che sta avvenendo. La proposta franco- tedesca dovrà passare al vaglio della Commissione e, successivamente, a quello dei 27 stati dell’Ue. Quattro di questi, i cosiddetti “Frugal four” (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia), hanno già espresso il loro no.

«Vogliamo essere solidali con gli stati che sono stati colpiti duramente dalla crisi, ma riteniamo che la strada giusta siano mutui e non contributi», ha detto il premier austriaco Sebastian Kurz. Sulla stessa linea, ma ancora più netto, il capo del governo olandese Mark Rutte, secondo il quale i prestiti ai paesi dovranno essere concessi solo in cambio di un “piano di riforme”: «Se si richiede un aiuto è necessario attuare riforme di vasta portata in modo da poter essere autosufficienti la prossima volta».

Chiaro il concetto? Al massimo avrete dei prestiti, ma solo alle nostre condizioni. Certo, da soli iFrugal four non possono contare troppo. Ma, a parte il fatto che non si tratta comunque di paesi marginali, siamo proprio sicuri che siano soli? Detto più chiaramente, siamo proprio sicuri che la Germania non faccia il doppio gioco, lasciando ai quattro la responsabilità di un no che non vuole assumersi in prima persona?

Chi vivrà vedrà. Di sicuro le parole di un certo signor Dombrovskis, uno che conosciamo bene, rassicuranti non sono. Dombrovskis, che per la cronaca della Commissione europea è il vicepresidente, ha dichiarato che alla fine il Recovery Fund sarà un mix tra prestiti e sovvenzioni (un concetto assai vago, in qualche modo già presente nelle conclusioni del Consiglio europeo di aprile) e che così facendo si arriverà ad una dotazione di mille miliardi.

Ma le affermazioni più importanti dell’ex premier lettone sono state altre:

«Ci sarà un chiaro legame con le riforme. Finanzieremo pacchetti di riforme e investimenti degli Stati membri con il semestre europeo e le raccomandazioni che fungeranno da guida nel preparare i piani nazionali di ripresa»

Insomma, l’uso dei finanziamenti (anche fossero solo prestiti) verrà in generale monitorato, mentre nel caso particolare dei Paesi dell’area mediterranea la minaccia del commissariamento è chiara. Detto che il Patto di Stabilità resta il punto di riferimento, Dombrovskis ha precisato che:

«I paesi membri devono tenere a mente gli obiettivi di stabilità a medio termine».

Se l’idea di fondo è quella di tornare ai santi vecchi non appena sarà terminata l’emergenza, chiaro quale sia il primo destinatario del messaggio che arriva dalle “raccomandazioni” di Bruxelles: senza dubbio, l’Italia.

E se il Recovery fund fosse peggio del Mes?

Prima di arrivare ad un giudizio più definito, ricapitoliamo intanto le molteplici incertezze sul Recovery Fund cui abbiamo già accennato. In primo luogo non conosciamo la sua dotazione effettiva. In secondo luogo non è chiaro quale sarà (se ci sarà) il mix tra prestiti e sovvenzioni. In terzo luogo non è certo quale sarà il suo finanziamento: con un aumento dei contributi nazionali al bilancio Ue, o con l’imposizione di una nuova tassa europea, magari una quota dell’IVA? In quarto luogo non sappiamo fino a che punto si spingerà il no dei Frugal four. In quinto luogo (legato al quarto) non sappiamo cosa voglia davvero la Germania. In sesto luogo, è tutto da scoprire il quadro delle condizionalità per accedere ai finanziamenti del Recovery Fund.

Tante, troppe incertezze, per poter formulare adesso un giudizio definitivo, salvo che per un punto, che è però quello decisivo: questi fondi avranno delle condizioni – sia finanziarie che politiche – da farli somigliare ad un a rilascio lento.

Fiumi di inchiostro sono stati (giustamente) scritti sul Mes, una pistola puntata alla tempia dell’Italia. Ma non c’è solo il Mes. Accanto ad esso i soliti torturatori dell’oligarchia eurista stanno predisponendo altri, non meno micidiali strumenti. Tra di essi, statene certi, vi saranno le condizioni – scritte e non scritte – delRecovery Fund. Condizioni che il governo italiano fingerà di non vedere, affiancato dai media e dagli strilloni professionali del regime.

Di cosa si tratti è a capirsi. Accettare un pacchetto – Mes, Sure, Bei, Recovery Fund – basato essenzialmente (se non esclusivamente) su prestiti significa cacciare l’Italia in un vicolo cieco. Significa rinunciare all’unica soluzione degna di questo nome, la monetizzazione integrale del debito da parte della Bce. Significa ricaricare alla massima potenza l’arma del debito, che ci verrà rivolta contro non appena possibile. Significa prepararsi a nuove sanguinose stagioni di austerità. Significa gettare via ogni residuo di sovranità. In una parola, significa il disastro.

Dice, ma perché te la prendi tanto col Recovery Fund proprio nel momento in cui sembra aprirsi la strada alla condivisione del debito? Intanto perché questa condivisione è tutta da vedersi. Poi perché (qui il diavolo è nei dettagli) resta da capire come quel debito verrà eventualmente coperto. Ma bisogna essere contro soprattutto per altri due motivi: sul piano economico, perché ci verrà chiesto un rovinoso rientro sulla strada dei famosi parametri europei; su quello politico, perché l’Italia sarà ancora più dipendente dalla Commissione europea, che deciderà chi e cosa finanziare in base alle sue priorità, non certo alle nostre.

Del resto la linea tedesca sull’Italia è sempre la stessa. Tenerci a galla solo quanto basta per impedire quell’uscita dall’euro che tanto preoccupa a Berlino. Ogni piccola apertura tedesca ha in ciò la sua unica motivazione, ricordiamocelo sempre. Vedremo quel che accadrà nelle prossime settimane, a partire dalle decisioni della Commissione annunciate per il 27 maggio. Il Recovery Fund, lo abbiamo già ricordato, fa parte di un “pacchetto” che è nel suo insieme insufficiente oltre che negativo per il Paese. Al suo interno spicca il Mes, che i dirigenti piddini – come sempre i peggiori di tutti – non vedon l’ora di attivare per legarci ancor più all’amata (da loro) Europa.

Ma alla fine le regole, le condizionalità del Recovery Fund, potrebbero rivelarsi perfino peggio del Mes. Una ragione in più per ribadire la via dell’Italexit, l’unica via d’uscita degna di questo nome. L’unica alternativa al disastro alle porte.

SALVINI: AL PEGGIO NON C’È LIMITE di Sandokan Matteo Salvini dopo il Papeete passa da una bestialità ad un’altra, quella successiva più grande delle precedenti. Ci si chiedeva perché mai fece cadere il governo giallo-verde. La risposta venne presto, quando dichiarò che l’euro era irreversibile, infine quando invocò l’arrivo di Draghi. Erano ulteriori prove non solo che in Lega chi comanda davvero è l’ala di Giorgetti, ma che la Lega tenta di candidarsi, al posto del PD, a partito dell’élite e della grande borghesia italiana.

Ahimé al peggio non c’è limite.

Il nostro ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera di oggi che vale la pena segnalare ai nostri lettori.

Una vera chicca. Salvini, annunciando che il prossimo 2 giugno Lega e centro- destra svolgeranno una grande manifestazione afferma:

«Conte chiede il contributo dell’opposizione? Il nostro c’è, abbiamo 30 proposte già impacchettate. Il problema è se lui si permetterà di disobbedire a chi comanda in questo governo e in questo Paese, la Cgil».

Al che, sbigottito il giornalista chiede, “Perché mai la CGIL”?

Ecco la surrealista risposta di Salvini:

«I sindacati delle costruzioni hanno appena fatto sapere che se si tocca il codice degli appalti, loro lotteranno con ogni mezzo. E allora, altro che ammodernamento e semplificazione: questa è una scelta di campo. Da una parte burocrazia, centralismo e Cgil. Dall’altra, la libertà d’impresa. Anzi, colgo l’occasione per fare i miei migliori auguri al neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Il Paese per ora è ostaggio dei privilegi di qualcuno, vedremo se Conte lo consentirà ancora. Vedremo, comunque: io porterò al premier la flat tax che costa solo 13 miliardi, la pace fiscale ed edilizia, lo stop ad Equitalia…».

Saremo gli ultimi a fare i difensori d’ufficio della Cgil, che di schifezze ne ha collezionate tante e che in effetti è un pilastro del regime. Un pilastro tuttavia, non il regime in quanto tale, che resta in mano all’élite che avendo in mano grandi banche e grandi industrie ha l’ultima parola e orienta le scelte dei governi.

In poche parole Salvini non solo riconferma il consueto viscerale antistatalismo, non solo ribadisce la solita invocazione della “libertà d’Impresa”. Facendo i “migliori auguri al neo presidente di Confindustria” — che appena eletto ha confessato il suo radicale neoliberismo — il leader della Lega conferma e sacramenta da che parte sta e che Paese ha in mente. ABOLIRE LA PRATICA DELL’UTERO IN AFFITTO

Ci occupammo della questione della maternità surrogata tempo addietro, quando criticammo duramente la scelta di Nichi Vendola e la sua sconcia autodifesa. Alcuni ci presero per “bigotti” a “antiprogressisti”. Volentieri pubblichiamo questo contributo, che condividiano completamente.

L’abolizione universale dell’utero in affitto è questione di civiltà La maternità surrogata è una pratica in sé disumana nel senso preciso che distrugge un elemento costitutivo della nostra comune umanitàdi Francesca Izzo*La vicenda orribile dei neonati a Kiev, parcheggiati in una stanza d’albergo, privati delle cure e dell’amore materni e senza nessuna protezione giuridica, ha sollevato il velo, per la grande opinione pubblica, sulla realtà della pratica dell’utero in affitto. Dinanzi alla crudezza di quelle immagini e di quelle parole pronunziate da impiegate di un’azienda che “produce” bambini non è più possibile imbastire la narrazione che per anni è stata diffusa dalle pagine di giornali, dai talk show televisivi, dalle riviste patinate per collocare la gestazione per altri (così viene chiamata per ripulirla dal marchio della pratica commerciale) sotto i capitoli della generosità e della libertà.

I sostenitori della sua legalizzazione in Italia, dove è vietata, ci hanno raccontato per anni che si tratta di una pratica cosiddetta solidale cioè del dono del proprio ventre che una donna liberamente fa per realizzare il desiderio di altri. Vietarla, opporsi sarebbe il segno di un’intollerabile cultura repressiva delle libertà individuali, chiusa alle conquiste del progresso in campo tecnico-scientifico e dei diritti, insomma come si è espresso Nichi Vendola, indice di una cultura “clericale”. Ma da Kiev ci arriva ora l’immagine vera del business della riproduzione industriale della vita umana ed è difficile fare appello al dono e alla libertà. Piuttosto, con uno spiccato gusto per le acrobazie logiche, si pensa di ridurre l’orrore, che percorrono le coscienze di fronte a quei bambini trattati come pacchi in deposito, proponendo la legalizzazione dell’utero in affitto in Italia con l’idea di ridurne i tratti disumani.

No, è la pratica in sé che è disumana nel senso preciso che distrugge un elemento costitutivo della nostra comune umanità.

Nella pratica della surrogazione, viene spezzata l’unitarietà del processo procreativo umano che è tale (e non riproduttivo o peggio produttivo) per l’assoluta peculiarità che lo distingue nel suo principio e nel suo fine: quella singola donna e quel singolo bambino, assolutamente non replicabili o riproducibili, come invece accade nella riproduzione animale, per non parlare della produzione di beni. Il processo viene segmentato in “pezzi”, comprati e venduti sul mercato (ovociti, utero e neonato) così da ridurlo a un assemblaggio per “fabbricare” bambini, secondo le peggiore regole del mercato. Alla gravidanza si toglie ogni “pregnanza” fisica, emotiva, relazionale e simbolica e alla donna che “affitta” il suo ventre è sottratta la personalità così che il processo da procreativo diventa riproduttivo e il bambino è la merce finale. Qui si raggiunge la vetta della svalorizzazione della maternità: ridotta alla sola gravidanza, prende le sembianze di un “lavoro” da far svolgere alle operaie della riproduzione.

Possiamo pensare a tutte le garanzie, tutele, limitazioni che si vuole, ma se si accetta di legalizzare la pratica dell’utero in affitto si colpisce un pilastro della civiltà umana. Proprio perché la questione è questa, non valgono schieramenti ideologici e politici, non servono casacche indossate a destra o a sinistra. La campagna per l’abolizione universale dell’utero in affitto coinvolge donne e uomini di convincimenti religiosi politici, culturali molto diversi tra loro uniti però dalla volontà di salvaguardare un principio fondativo della nostra comune umanità.

Storica del pensiero moderno e contemporaneo *Fonte Huffington Post

CHI CI GUADAGNA di Leonardo Mazzei Pur differenziata da paese a paese, la crisi del coronavirus ha prodotto un disastro economico globale. Globale la caduta del Pil, come pure il tracollo borsistico. Globale sarà l’aumento della disoccupazione e della povertà. Ma se per le classi popolari e per la piccola imprenditoria il disastro sarà generalizzato, per i grandi gruppi capitalistici il discorso è assai diverso.

A dire il vero le differenze ci sono anche all’interno del popolo lavoratore. Differenze magari non sostanziali nel lungo periodo, ma decisive in questa critica fase della difficile ripartenza economica. E la faglia fondamentale – quella su cui lavora il blocco dominante per impedire, tamponare, e se necessario, reprimere la temuta rivolta – è quella tra “garantiti” (o che comunque si sentono tali) e “non garantiti”. Una fratturazione di cui si cominciò a discutere in Occidente oltre quarant’anni fa, alle prime avvisaglie della poderosa ristrutturazione capitalistica che si svilupperà poi nella svolta neoliberista degli anni ’80. Una crepa che si ripresenta oggi in forme più acute, esaltate alla massima potenza dalle dinamiche della crisi in corso. Non è questo tuttavia il tema del presente articolo. Qui vogliamo invece concentrarci su un’altra fratturazione, quella che attraversa il blocco dei dominanti. Che l’epidemia venga strumentalizzata al fine di perseguire precisi obiettivi politici e culturali è ormai chiaro a tante persone. Resta però una domanda: ma chi glielo fa fare ai dominanti di correre un rischio economico così elevato, “solo” per ridisegnare il modello sociale, allo scopo di perfezionare i propri meccanismi di controllo?

Ecco, ribadito che quel “solo” obiettivo davvero non è poca cosa, la domanda resta comunque: perché il sistema ha sostanzialmente accettato di pagare un prezzo economico così alto? Una risposta a questo interrogativo, oltre ai fondamentali aspetti politici e culturali, deve tenere conto anche della profonda diversificazione degli stessi interessi immediati all’interno della cupola capitalistica mondiale.

Per capire quanto profonda sia la fratturazione in quel mondo ci viene in soccorso un recente studio di Mediobanca sugli effetti del Covid 19 sui conti delle grandi multinazionali nel primo trimestre 2020.

Ovviamente il primo trimestre ha risentito solo in parte degli effetti dell’epidemia, ma proprio per questo le divaricazioni rilevate tra i vari settori – destinate ad esplodere ancor più pesantemente nei mesi successivi – sono estremamente significative. Mentre tra le piccole aziende sono in pochi a salvarsi, tra le grandi multinazionali analizzate da Mediobanca la spaccatura è clamorosa.

Tra gli undici settori in cui lo studio le ha suddivise, ben sei hanno fatto registrare un aumento del fatturato nel periodo considerato. Due settori riportano un calo modesto, mentre soltanto tre hanno un vero tracollo. Questi ultimi sono quelli dei mezzi di trasporto (-10,8%), della moda (-14,1%), dell’energia (-15,9%). I due settori che perdono, ma non in maniera drammatica, sono quello dei media (-0,5%), penalizzato dal forte calo della pubblicità, e quello delle telecomunicazioni (-2,6%). Questi modesti cali del fatturato determinano però una più forte diminuzione degli utili (-20,4% per le telecomunicazioni, -28,3% per i media). Nulla, tuttavia, rispetto al -92,0% della moda e al -92,4% del comparto automobilistico.

Fin qui i settori in sofferenza. Quali sono invece quelli che hanno beneficiato del Covid? In termini di fatturato, la graduatoria è questa: alimentari (+2,0%), elettronica (+4,5%), pagamenti elettronici (+4,7%), farmaceutico-elettromedicale (+6,1%), grande distribuzione (+9,1%), websoft (+17,4%). Da notare come ben 4 di questi 6 settori hanno così realizzato un aumento degli utili a due cifre: elettronica (+10,0%), websoft (+14,9%), farmaceutico-elettromedicale (+20,5%), grande distribuzione (+34,8%).

La spiegazione di questi risultati è semplice. In primo luogo è evidente come i grandi gruppi abbiano approfittato del Covid per strappare rilevanti quote di mercato alla concorrenza delle imprese più piccole. Viceversa non si spiegherebbe l’aumento del fatturato a fronte di un tracollo dei consumi pressoché generalizzato. In secondo luogo, l’epidemia ha accentuato la tendenza favorevole alle cosiddetta new economy (elettronica, informatica, ecc) a spese dellaold economy (energia, auto ecc.). Giganteggiano in questo sorpasso le star del web, Amazon innanzitutto. In terzo luogo, è chiaro come la grande distribuzione tenda a fagocitare quella piccola, in ciò favorita dalle draconiane regole sul distanziamento fisico.

Questo fatto non favorirà di certo i consumatori, come qualcuno vorrebbe far credere. Aumentare gli utili di oltre un terzo, a fronte di un incremento del fatturato sotto al 10%, significa infatti soltanto una cosa: che si sono aumentati allegramente i prezzi. Un fenomeno registrato anche in Italia. Ad aprile, secondo l’Istat, ad un’inflazione trascinata quasi a zero (+0,1% per l’esattezza) dal tracollo dei prezzi dei prodotti energetici ha fatto invece riscontro un significativo aumento (+2,7%) dei beni alimentari.

L’analisi di tutti questi dati ci dice fondamentalmente due cose. Primo, la crisi è gravissima ma (come sempre) non è uguale per tutti, anzi! Secondo, nel campo dei dominanti è in atto un processo di profonda ridefinizione delle gerarchie. Dunque l’epidemia è venuta bene non solo per soggiogare al meglio le classi popolari, ma pure per accentuare i processi già in atto all’interno dell’oligarchia al potere.

La divaricazione che abbiamo visto in termini di fatturato e di utili la ritroviamo ovviamente nei valori borsistici. Dall’inizio dell’anno tutte le principali borse sono in calo: Londra -21,4%, Francoforte – 19%, Parigi – 28,5%, Milano -28,2%, Hong Kong -15,6%. Anche a Wall Street il Dow Jones segna un -17%, ma l’indice dei tecnologici (il Nasdaq) registra invece un +1,3%.

In questo quadro di calo generalizzato, i principali titoli energetici hanno subito un autentico tracollo: Exxon Mobil -39,8%, Shell -44,4%, Chevron -26,0%, Bp -34,4%, Gazprom -27,4%. Stessa cosa nel settore automobilistico: Toyota -18,9%, Volkswagen -39,2%, General Motors -38,2%, Fca -44,2%, Ford -48,3%.

Questa situazione si rovescia nei tre comparti che stanno guadagnando sulla crisi del coronavirus. Nel settore farmaceutico, mentre Sanofi, Johnson & Johnson e Abbvie registrano comunque valori moderatamente positivi, spicca il +14,1% di Hoffman La Roche. Più articolata la situazione nella grande distribuzione, dove a fronte di un -15,5% di Carrefour, troviamo il dato positivo dei due giganti americani del settore, Kroger (+12,1%) e WalMart (+5,9%). Più netti, invece, i guadagni borsistici dei padroni del websoft (internet e software): Facebook +2,7%, Alphabet (la società che incorpora Google) +3,0%, Apple +4,8%, Microsoft +16,1%, Amazon +30,4%.

Da notare che, in quanto a capitalizzazione, Apple, Microsoft, Amazon, Alphanet e Facebook – società tutte basate negli Usa – sono (e di gran lunga) ai primi cinque posti della classifica mondiale. Ed ognuna di queste vale più dell’intera borsa italiana.

Chiaro dunque come il coronavirus non sia affatto un disastro per tutti. Anzi, i veri giganti del capitalismo reale del XXI secolo ci stanno guadagnando alla grande. Se questo non deve portarci alla teoria del complotto, che almeno si comprendano quali enormi interessi materiali si nascondono dietro la strategia della strumentalizzazione drammatizzante dell’epidemia. Che tutto è fuorché innocente.

ASSEMBRIAMOCI!

Questa mattina, 18 maggio, mentre stiamo scrivendo, gli operai delle acciaierie Arcelor Mittal di Cornigliano (Genova) sono entrati in sciopero e si sono diretti in corteo verso la Prefettura. Le maestranze hanno risposto compatte. Sono diverse centinaia [vedi foto.] Il motivo della protesta è l’uso illegittimo della cassa integrazione da parte dell’azienda: “gli ordinativi ci sono, perché non ci fanno lavorare e scaricano sulla collettività i costi della Cig”? Lo sciopero in corso è di grande importanza. Non è il primo che si svolge nel regime repressivo emergenziale. Ricordiamo quelli recentissimi e spontanei alla Piaggio di Pontedera e alla Electrolux di Susegana (Treviso) per protestare contro l’obbligo delle mascherine del tipo Ffp2/3: “si soffoca, non si respira, in queste condizioni lavorare è una tortura”. La grande importanza simbolica della protesta sindacale di oggi a Genova dipende dal fatto che allo sciopero è seguito un grande corteo che ha sfidato il famigerato Dpcm che vieta ogni “assembramento”, ovvero ogni manifestazione. Per questo la Rsu dell’ex-ILVA, onde aggirare le prescrizioni emergenziali, l’ha chiamata “Passeggiata civile”. Non è tuttavia solo una sfida allo stato d’emergenza, al criterio del “distanziamento sociale” e al divieto di manifestare. E’ una sfida alla paura indotta, alla psicosi irrazionale generata dalla pandemia, all’accusa per cui chiunque violi le prescrizioni rischia di essere bollato come untore. Mentre il Paese precipita nella catastrofe, il potere si dimentichi che resteremo inermi e chiusi in casa. Un esempio che quindi speriamo verrà seguito. JULIO ANGUITA CI HA LASCIATI. IL DOLORE E LA RABBIA di Manolo Monereo

La morte di Susana López lo ha colpito molto. Mi ha chiamato con un tono per lui alquanto insolito, come fosse disperato. Susana aveva telefonato ai suoi amici in quello che era, consapevolmente o no, un addio. Agustina, la sua compagna, me lo confermò più tardi. In quei giorni, mi chiamò anche per parlarmi del Manifesto che stava preparando. Gli ho detto che l’avrei firmato senza leggerlo, ma non l’ha accettato; voleva la mia analisi critica, i suggerimenti.

Si deve partire dalla cosa fondamentale: Julio era una persona a tutto tondo. Coraggio, audacia e orgoglio hanno definito uno stile e con un carattere molto marcato, in parte, costruito da lui stesso. Coraggio, coraggio e orgoglio hanno segnato uno stile che in seguito egli trasformò in politica. Era un insegnante, uno storico e un appassionato del teatro. Conosceva bene le regole del discorso e le chiavi della retorica politica. Il suo arrivo al comunismo, come per molti della sua generazione, fu soprattutto un impegno morale per le classi lavoratrici, per gli umili e le persone ordinarie. Conosceva in dettaglio la storia della Spagna, quella di Cordova e dell’Andalusia e conosceva molto bene le caratteristiche del capitalismo spagnolo. Non ha mai parlato per sentito dire, ha studiato duramente fino alla fine della sua vita e ha imparato a circondarsi di persone che gli hanno fornito conoscenze e informazioni.

E’ stato un eccellente amministratore pubblico. Aveva dei principi ma non fu mai dottrinario. Questo è importante sottolinearlo. Come sindaco, non ha avuto problemi nel gestire la città con l’opposizione, ha cercato il consenso, non dalle astrazioni, ma dal programma inteso come un contratto con la cittadinanza. “Sentiva crescere l’erba sotto i piedi” e aveva una percezione quasi infallibile sull’orientamento del voto. Venne alla politica andalusa e nazionale come rinnovatore; in molti modi, è sempre stato. Comprese prima della caduta del muro, che un ciclo storico stava finendo e che erano necessarie una nuova politica e nuovi modi di esercitarla. Ciò ha portato a errori all’interno e all’esterno del Partito Comunista Spagnolo (PCE). Molti lo hanno considerato di destra e lo hanno sostenuto. Si sbagliavano, hanno sempre avuto torto. Julio fu un rinnovatore della e nella tradizione comunista.

Comprese presto che il tipo di modernizzazione capitalista guidata e organizzata da Felipe González avrebbe avuto conseguenze negative per la struttura produttiva della Spagna, per i diritti del lavoro e dei sindacati; che essa avrebbe ipotecato un futuro che molti invece pensavano avrebe posto fine ad una arretratezza storica e il nostro approdo alla modernità. Il dibattito su Maastricht è stato molto duro per questo. Una parte della direzione de PCE e di Sinistra Unita (IU) gli consigliò di evitare lo scontro cercando un terreno meno paludoso. Anguita non ebbe esitazioni e combatté. Cosa c’era in ballo? Lo stesso di adesso, l’idea di alternativa; cioè, superare davvero il modello neoliberista giungendo alle estreme conseguenze.

Manolo Monereo e Julio Anguita

Ciò che è venuto dopo è noto: una sistematica campagna di demolizione e demolizione contro una persona che era diventata un punto di riferimento per una base sociale complessa e in crescita. Tutto ciò che abbiamo visto contro Unidas Podemos è stato prima praticato in grande stile contro Julio Anguita e contro IU: intervento di apparati statali (cloache comprese), gruppi industriali e media e una corte di intellettuali convertitisi, come ebbe a dire Manolo Sacristan, “letratenientes” [pennivendoli diremmo in italiano, NdT]. Parlare male di Anguita faceva premio, era diventato un segno di rispettabilità sociale. Senza la divisione interna in IU non sarebbero stati possibili l’impantamento politico e la successiva sconfitta elettorale. Anguita ha somatizzato tutto e il suo primo attacco di cuore ebbe a che fare con questo clima.

Molto è stato detto sulla Transizione [ il passaggio dal franchismo al post-franchismo, NdT] e su Julio Anguita. Ciò che venne concordato [col cosiddetto “Patto della Moncloa” dell’Ottobre 1977, che venne sottoscerito anche dal PCE di Carrillo, NdR] lo abbiamo conosciuto più tardi. Il nuovo segretario generale, diversamente dagli altri dirigenti del PCE, non ha mai abbellito la Transizione e le sue conseguenze. Sapeva che era un patto ineguale e che aveva i suoi costi. In un momento complesso, quando Anguita denunciava l’uso improprio della Costituzione e il modo in cui i suoi aspetti più progressisti venivano disattesi o semplicemente ignorati, avvertì pubblicamente che il PCE e l’IU avrebbero dovuto collocare la Monarchia al centro del discussione. Coloro che comandano e non si presentano alle elezioni capirono che si era andati oltre a ciò che era permesso e hanno tirato fuori le immense munizioni a loro disposizione contro un progetto che sfidava le regole non scritte del gioco e che erano al di sopra della Costituzione. La corruzione della casa borbonica stava già diventando un elemento significativo del sistema di potere.

Anguita, che vedeva lungo, si rese conto di non essere in grado di guidare un progetto come IU e il PCE e propose la sua sostituzione in un processo che sarebbe dovuto essere ordinato e democratico. Ma non è stato possibile. Mi riferisco a ciò che Anguita stesso ha detto. L’unica cosa che posso dire al riguardo è che Julio ha avuto un momento estremamente difficile e non si è sentito accompagnato da quelli che considerava compagni e amici. Tornò alle sue lezioni e al suo stipendio come insegnante di scuola superiore. Alcuni mezzi di comunicazione — i nemici non dimenticano né perdonano — hanno trascorso mesi a verificare la professionalità di chi portava l’onore di essere un insegnante di scuola.

Il movimento del 15M [che sorse nel 2011, NdT] considerò Anguita come un interlocutore. Anguita prese parte al dibattito con il suo stile, per dire la verità, per discutere seriamente e non scoraggiare un movimento emergente. Con modestia, ha sottolineato le sue carenze, la necessità di un progetto visibile e di organizzarsi senza perdere la sostanza sociale. Ha difeso l’unità di IU e Podemos andando oltre una semplice coalizione elettorale e parlamentare. Sognava commissioni unitarie nei quartieri, assemblee aperte e partecipative e una mobilitazione sociale oltre i cicli elettorali.

Adesso ci ha lasciati. La sua ultima preoccupazione, quella di sempre: non è sufficiente governare, non è abbastanza amministrare, ci vuole il coinvolgimento degli attori sociali, la creazione di organizzazione e la convocazione del popolo quando si entra in un periodo segnato da una pandemia globale, da una crisi economica di grandi proporzioni e dalla brutale disoccupazione. Il suo ultimo documento, il Manifesto, è diventato la sua volontà e noi diventiamo suoi eredi.

Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE ** Fonte: Cuarto Poder