FOTO Di RICHARD HAUGHTON 51 Se Fosse
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Insalata ghiacciata e ostricheDOWN Piccione all’ortolana UP& FOTO di RICHARD HAUGHTON 51 Se fosse... Se fosse un’altra persona, sarebbe suo nonno Cesare, il papà di suo papà, che lui aveva visto forse solo una volta e che da come lo racconta era un casinista: faceva il calzolaio, ma non un calzolaio qualsiasi. Lui era specializzato in scarpe da ballo: “Immagina quanto cazzo lavorava, cioè, zero.” Quando si trasferì a Rivoli da Bolzano iniziò la sua fortuna. Prima che per merito, per quei casi della vita che anche se sei bravissimo, se non ti capitano rimani al palo. Gli capitò di fare le scarpe a una ballerina della Scala di Milano; da lei, anche le altre cominciarono a rivolgersi a lui, e insomma, “anche io le voglio, anche io le voglio, anche io le voglio” alla fine un giorno dalla Scala andarono a Rivoli e misero in piedi un laboratorio alta- mente specializzato per fare le scarpe per tutto il corpo di ballo. “Mio nonno raggiunse così una posizione economica tale che iniziò a vivere in un modo… facendo feste… baffo arrotolato, cappotti con revers… per fare le feste si vendeva anche i macchinari del calzaturi- ficio, e poi è morto in un prato rientrando a casa da una festa, s’era messo lì, probabilmente ubriaco, a dormire, a dicembre e ecco… il nonno Cesare, negli anni ’70, ma quanto si era divertito…” Se fosse un piatto, sarebbe la Zuppa nascosta di quaglia e trippa, spinaci e salsa di champagne. Tipo sarcofago. (così, sì, con gli spi- naci e non con la seconda variante al tartufo che poi ne è seguita). Una composizione di ingredienti che è una partitura di sensazioni acustiche, olfattive, gustative, tattili e visive nel quale si “sprofon- da” quasi che la ciotola fosse il cratere dello Jokull di Sneffels da cui si può arrivare al centro della Terra; come dire, attraverso mille peri- pezie di vita, al cuore di una incandescente finezza, eleganza e stile. Se fosse un luogo, sarebbe nient’altro che la collina morenica sulla quale non tutti quelli che vanno al Combal.0 si rendono conto di sedere: sedimentazioni, stratificazioni, depositi di glaciazioni, tem- po che ha costruito 335.000 anni fa l’anfiteatro morenico di Rivoli- Avigliana. Un capolavoro naturale che nasce da forti eterogeneità, spesso detriti trasportati da chissà dove. Se fosse un essere mitologico, una miniatura da bestiario medievale o un fumetto, sarebbe un’aquila col culo da tacchino. Ipse dixit, ma vorrei averlo detto io. O avete capito di chi parlo, o cambiamo gioco e passiamo a quello dei mimi. Serena Guidobaldi Peperone e acciuga “Louboutin” 53 Rigore fantascientifico La cucina di Davide Scabin è un film di fantascienza, un reportage vista che ci sono mesi e mesi di prove, tentativi, misurazioni, calco- del National Geographic, un quadro simbolista. Seduti a un suo ta- li. Perché per lui non avrebbe senso la creatività senza una possibile volo si è paracadutati nel futuro, in paesi lontani, in un’altra dimen- applicazione. Infatti dietro ogni invenzione c’è tanto rigore. “Forse sione interpretativa. Ogni volta al suo ristorante mi tornano in mente mi prenderanno in giro per la mia mania di codificare ma la penso le parole di Emilio Salgari, uno dei più grandi autori di romanzi e così” ha detto quando ha annunciato durante Identità Expo la sua novelle d’avventura, tra i narratori di viaggi per eccellenza, che però Formula della creatività (o avanguardia o futuro in cucina) che si non aveva mai viaggiato: lui diceva che “scrivere è viaggiare senza esprime con C = Tr2 su tec+Tec cioè tradizione al quadrato sulla som- la seccatura dei bagagli”. Vien da pensare che mangiare al Combal. ma di tecnica più tecnologia. Come dire che solo Leonardo Da Vinci Zero è esplorare altri mondi comodamente seduti a tavola. Perché poteva mettere in pratica il sogno di Icaro. la sua cucina è un pass aperto sull’altrove: su piatti che anticipano le tendenze di venti anni (sarà banale ma come non citare il Cyber eggs, la Fusione a freddo, l’Ostrica virtuale, l’Hambook), che si pro- Eleonora Cozzella nunciano con l’accento di idiomi lontani (il Tataki di melanzana, il Merluzzo al nero con latte di mozzarella e ceviche di daikon, la Capasanta 5 punti “Sassoon Vidal”), che sintetizzano in un boccone mille idee-tecniche e suggestioni (la Zuppizza, il Rognone al gin, la Rognone al gin Fassona al camino). Pochissimi come lui sanno portare a galla netti e assoluti i sa- pori nascosti della memoria palatale, rifuggendo dal rappresenta- re realisticamente il mondo, puntando piuttosto a ri-crearlo grazie ad allusioni simboliche. Pochi sanno giocare con la tradizione fino all’iconoclastia: basti pensare alla sua rivoluzione nel mondo della pasta, che ha sconvolto fino a cambiarne non solo aspetto e forma ma anche funzione (pasta che diventa sushi, piadina, bombolone, sufflè e addirittura condimento). Ma Scabin – sia merito anche al suo super team – non è “avanti” solo nei piatti. Anche la stessa idea di ristorazione precede tendenze. Nel Piemonte delle piole ha avuto il coraggio di fondare quel .Zero del Combal dal respiro internazionale. Per poi urlare che il futuro è il ritorno alla trattoria. Scommessa vinta col Blupum di Ivrea. Sono tante le sue riflessioni sull’universo cibo. Dosare il sale in modo da incontrare tutte le svariate percezioni di gusto dei commensali? Scabin, da convinto discepolo della cucina sartoriale, ha messo a punto il suo Scabin Salt System. L’obiettivo è offrire a ciascun cliente il massimo del piacere e farlo nei grandi numeri di un ristorante? Eccolo studiare il suo IT, Identity Taste, che prevede una scala di sei gradi di intervallo per ogni gusto (salato, dolce, amaro, acido, piccante) misurabili con apposito IT Kit: flacon- cini spray (sei per ogni gusto, rispondenti ai diversi livelli di perce- zione) da vaporizzare sulla lingua con diverse concentrazioni e così capire il proprio grado di piacere per ciascun gusto. Gli astronauti mangiano male? Scabin ha cercato e trovato la strada di piatti final- mente appetibili per astronauti. Chi è sottoposto a chemioterapia percepisce in modo insopportabilmente aggressivo i sapori prima gradevoli? Via a sperimentare combinazioni di gusto che affievoli- scano le sensazioni di metallico e di amaro. È quasi riduttivo questo elenco di sue imprese. Per dovere di sintesi si rischia di perdere di COMBAL 55 I contorni di un mito Avessimo il genio della lampada, gli chiederemmo di riaprire per una sera il Combal di Almese. In assenza della lampada, chiediamo diret- tamente al genio di rievocare le formidabili stagioni della trattoria. Il decennio che scrisse i larghi contorni del mito Scabin. “Primi mesi del 1992”, comincia a narrare il Rivolese, “Tiziana, la mia fidanzata dell’epoca, aveva aperto un centro estetico. Cercava un rappresentante di prodotti cosmetici. Pensai: perché no? Procurai da subito così tanti clienti che da Torino e provincia mi affidarono subi- to tutte le regioni del Nord Ovest. Vendevo più di Wanna Marchi. L’ho fatto per quasi due anni. Mi divertivo tantissimo”. Un divertimento che però non convinceva Aimaro Celestino, amico di lunga data di Scabin. Celestino non sopportava che uno dei più grandi cuochi del Torinese fosse relegato a fare il rappresentante di creme e ciprie. “Voleva aprire con me una trattoria ma io non avevo nessuna voglia di tornare a cucinare piatti da osteria. Venivo da un’esperienza di alta cucina creativa al Bontan di San Mauro Torinese. Avevo mag- giordomo e giardiniere. Chi me lo faceva fare?”. Non ha neanche il tempo di dire no: si ritrova al tavolo del notaio a firmare per il 50% della trattoria Al Combal, una locanda posizionata da 80 anni su una curva di Almese, borgo anonimo della bassa val di Susa. Per un breve periodo, Scabin continua col doppio lavoro: “Di giorno giravo in macchina e alle 18 entravo al ristorante. Spaccavo quattro conigli, li condivo con olio, rosmarino, aglio e li sbattevo in for- no. Riscoprii il valore della grande cucina povera”. È il giugno del 1992. Chiama a lavorare con sé anche la sorella Barbara in cucina e la fidanzata Milena Pozzi, in sala. Vengono entrambe dalla moda. Nel frattempo Celestino molla per i troppi impegni: “Ti do anche la mia quota, me la ripaghi quando riesci”. Nasce la società Ristoria. E la saga di una delle trattorie più cult dell’Italia degli ultimi 30 anni. “Apriamo con un menu fisso da 27mila lire per 10 portate”, ri- corda il cuoco, “ma cominciamo a fare da subito 65-70 coperti a sera. Nel giro di un anno aumentiamo il prezzo a 45mila”. Non potevi sce- gliere alla carta: “Chi voleva mangiare doveva per forza presentarsi tra le 20.30 e le 20.45. Chi arrivava dopo, partiva dal terzo o quarto piatto del percorso e alla fine pagava uguale”. Comparire nelle varie guide dei ristoranti non era l’obiettivo: “Non mi fregava nulla. Posa- te e cristalli erano tutto fuorché di pregio. Nei giorni di pioggia, tene- vamo anche delle frappeuse sui tavoli per raccogliere le perdite che cadevano dall’alto. Spegnevi la musica ed era come ascoltare una sinfonia new age. Tic toc, tic toc. Quando Milly passava tra i tavoli, il parquet ondulava tutto”. Pagare con le carte di credito non si po- e tequila o la Millefoglie di foie gras ai porcini montata col tuorlo teva: “Ci fu anche una settimana di baratto: i clienti non saldavano d’uovo. Tutte soluzioni di un cuoco che pensava sganciato da ogni il conto classico, ma portavano in cambio bottiglie di vino, forme di riferimento spazio-temporale: “Non compravo e non leggevo.