Storia, Storie 88
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storia, storie 88 destino e finitezza su valerio zurlini a cura di Enzo Di Mauro Giancarlo Mancini © Copyright 2011 by affinità elettive vicolo Stelluto, 3 - 60121 Ancona www.edizioniae.it e-mail: [email protected] Tel. e fax: 071 9941852 333 7778153 366 4073128 Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-7326-162-9 In copertina: Claudia Cardinale e Jacques Perrin in una scena del film “La ragazza con la valigia” affinità elettive Indice Una Premessa 7 Cinque inverni. Il cinema di Valerio Zurlini da Le Ragazze di Sanfrediano a Estate Violenta di Giancarlo Mancini 13 La luce e il lutto. Intorno alla Trilogia adriatica di Enzo Di Mauro 45 Delicato come una confessione. Le soldatesse di Silvia Tarquini 53 «Due torti non fanno una ragione»: disappunti per un vangelo africano di Anton Giulio Mancino 65 L’occhio privato del disamore: La prima notte di quiete di Franco Cordelli 91 Il gioco delle piste di sabbia. Dentro il paesaggio di Zurlini di Alessandro Borri 95 L’amour fou di Zurlini di Massimo Raffaeli 107 Ciò che si perde inaridisce il mondo. Film e progetti irrealizzati di Edoardo Zaccagnini 111 Bibliografia 137 Filmografia 143 5 Una premessa Questo libro è stato scritto per colmare un vuoto, per trasformare un’as- senza in acuta presenza. Valerio Zurlini è stato un maestro del cinema ita- liano e, insieme, un cavaliere solitario, mite e combattivo. Pure, rare, anzi rarissime sono state le occasioni a lui votate e dovute. Ugualmente difficile appare l’impresa di trovare da qualche parte un discorso critico sull’opera sua e sul posto che gli spetta là dove egli impegnò, con passione e dolore e disillusione, il proprio non comune talento. Il perché di una “scomparsa” così fragorosa non è facile da comprendere e, ovviamente, da accettare. Spes- so, tra le ragioni, si è indicata la presunta intrattabilità caratteriale del regista emiliano. A seguire l’incapacità di addivenire a compromessi, anzitutto con i produttori, ai quali fino all’ultimo non smise di dedicare una notevole dose di risentimento. Valga anche solo il titolo della sua ultima intervista, rila- sciata alla rivista «Cinema 60», Produttori italiani=Hiroshima. Cose in parte vere, ma che non bastano a spiegare il senso di una vertigine di solitudine già consapevole nell’autoritratto stilato sul finire della vita: Pagine di un dia- rio veneziano. Ma una simile dinamica avrebbe dovuto semmai riguardare lo Zurlini in attività, con la sua indole complessa e urticante. E, invece, lo schianto d’ascolto e di visione pare essersi accresciuto dopo la scomparsa, mediante una durezza e una testardaggine addirittura superiori al pessimo carattere di questo artista altero e colto. L’impegno di chi è rimasto pare essersi indirizzato nella direzione di ulteriormente radicarlo nell’oblio. Nel 2000, in occasione del restauro curato dal progetto Cinema della Philip Morris, esce un corposo volume su La prima notte di quiete, curato da Lino Miccichè. Curioso per molti aspetti, il volume ha già nell’introdu- zione diversi spunti di riflessione utili. Zurlini non è nell’olimpo del cine- ma italiano, afferma subito Miccichè, vale a dire non è Rossellini, Visconti, De Sica o Fellini. Ma non sarebbero importanti le graduatorie o le classi- fiche, quanto piuttosto quel cappotto di cammello, «l’ultimo cappotto di cammello del cinema», indossato non dal Daniele Dominici interpretato 7 da Delon, bensì dallo stesso regista. Egli era, volendo decifrare l’immagine, deve domandare – hanno saputo e voluto raccontare una guerra disgrazia- «un maledetto aristocratico». ta, allargandone ulteriormente confini e punti di vista, come accade neLe Pure, va detto, Zurlini non merita un’immagine purificata. Sarebbe far- soldatesse (1965)? Mentre veterani del mito della razza diventavano chierici gli ugualmente torto. Qui interessa piuttosto misurarne il grado di presenza organici, Zurlini si spendeva per un cinema antiretorico che aveva come nel cinema italiano coevo ed in quello delle generazioni a venire dove appa- unico referente l’umano ferito e umiliato. L’autobiografia è la malattia re l’evidenza di un lascito non occasionale, sebbene esiguo e tuttavia magi- infantile di ogni forma d’arte, disse una volta. Eppure gran parte della cri- stralmente rifinito, ricco di temperature storiche e cognitive. Ora, si prenda tica proprio in chiave autobiografica lesse molti dei suoi film, soprattutto l’esordio di Florestano Vancini con La lunga notte del ’43 (1960), realizzato Estate violenta, La ragazza con la valigia, La prima notte di quiete. Gli altri, subito dopo l’esperienza di aiuto-regista sul set di Estate violenta. Si prenda invece, attenevano al letterato: Cronaca familiare, Il deserto dei tartari. Le l’epilogo del film tratto, com’è noto, da uno dei libri più belli di Giorgio soldatesse e Seduto alla sua destra. Bassani, laddove il presepe umano di Ferrara viene colto quindici anni dopo Il suo cinema consegna tracce rilevanti a quello successivo. Un capitolo la strage fascista. Franco Villani (Gabriele Ferzetti), tornato a Ferrara per a parte, romanzesco e poetico più che critico e analitico, dovrebbe essere una breve visita, scende dalla macchina con la bella moglie straniera e il incentrato sul destino di quel cappotto di cammello che non fu l’ultimo né figlioletto. Si ferma nella piazza principale della città ed entra nel bar dove del cinema e né del decennio. Esso appare nei tre dei film più importanti un gruppo di persone guarda in televisione una partita della nazionale. Tra e coraggiosi prodotti nel corso di quella stagione, ovvero La prima notte di questi, c’è l’ormai vecchio Scintilla, il ras locale protagonista della retata che quiete (’72), Ultimo tango a Parigi (’73), Gli occhi, la bocca (’82). Zurlini, costò la vita proprio al padre di Franco. I due si riconoscono. Il visitatore Bertolucci, Bellocchio. Delon, Brando, Castel. Daniele Dominici, professo- ne è come intimidito e non riesce a dire nulla, nonostante l’anziano fascista re di storia dell’arte, scappato dal rango e dall’ottusità della famiglia, scettico (rimasto, nel cuore, tale), provocatoriamente, finga un’aria bonaria nei suoi circa le passioni del presente (siano esse politiche o erotiche); Paul, giunto a confronti. Non resta allora che prendere la macchina e fuggirsene via di Parigi in quel ricovero per prostitute e scavezzacollo che è l’hotel gestito da nuovo. Come disgiungere, allora, questa fondamentale sequenza del nostro colei che sarà, fino al suicidio, sua moglie e che ha tante vite quante quelle cinema, così densa di segnali antropologici intorno all’immobilità morale incarnate dal suo attore (è la sua disillusione verso la recitazione a spingerlo di un popolo, impastata di trasformismo e di strafottenza, dall’esperienza alla nudità di fronte alla macchina da presa); infine Giovanni Pallidissimi, cruciale di Estate violenta? Esperienza, va aggiunto, certamente precorritrice cristallino rimando a quel vagare lungo un decennio di tutto un cinema e di un sentimento che avrebbe trovato nelle nuove generazioni di cineasti di una generazione tornata a casa con le occhiaie e il morale a pezzi. Da- ben più risonanza di quanto si sia fatto credere finora. niele, Paul, Giovanni, tre indomiti agonisti contro e dentro il loro tempo, Esteta, aristocratico, individualista: erano marchi pesantissimi da di- i quali assolutizzano una condizione di solitudine al fine di dare alla pro- gerire nell’Italia del dopoguerra. Simili appellativi erano già stati accostati pria vicenda carattere esemplare. Dominici è in qualche modo l’archetipo al suo nome sul finire degli anni Cinquanta, dopo la disastrosa ricezione di questi personaggi che fanno della perdita di memoria la loro più vistosa critica di Le ragazze di Sanfrediano. All’iniziale favore di Guido Aristarco, ed inquietante caratteristica («Ho scordato troppe cose»). Amante risoluto direttore di «Cinema nuovo», come testimonia la pubblicazione sulla ri- a non voler essere padre, figlio perduto di una famiglia ricchissima e di un vista di un lungo reportage fotografico dal set, segue, a film concluso, un eroe di guerra, egli non si sentirà libero finché non avrà reciso completa- deciso cambio di rotta che finisce per squalificare la pellicola assieme al mente i legami con la famiglia, con la società, con ogni forma di struttura suo autore. Fu a partire da lì che ci si adoperò a consolidare un’immagi- sociale organizzata. Daniele non può che attendere la morte come l’unico ne ottocentesca del regista bolognese, intrisa di vacuo decadentismo e di compimento possibile. Fa testo rispetto a questa interpretazione la citazione calligrafismo. Il che, né più né meno, equivaleva a una messa all’indice. Si goethiana posta in esergo: «L’uomo è talmente tormentato che potrà riposa- è voluto poi iscriverlo nel libro nero dei traditori della causa neorealista, re solo quando è morto, e la morte è il punto di arrivo di questo viaggiatore dunque dell’eredità morale e civile della resistenza. Ma quanti altri – ci si solitario». E ancora goethiano è il lapidario pronunciamento: «Finalmente 8 9 si dorme senza quiete». L’amore, come l’amicizia, non devono preesistergli, zione di Antonioni, non da ultimo la preminenza di corpi femminili in non si dà eredità possibile rispetto ai sentimenti. Almeno in questo il cine- contesti borghesi o alto-borghesi da scarnificare con acribia e pazienza, ma di Zurlini è di una radicalità e di una coerenza davvero impressionanti operando come quella vecchia talpa sul lettino operatorio di una critica – e ciò si potrebbe leggere in una chiave cristologica, come portato del suo non semplicemente sociologica ed economica. Tutto questo per dire che cristianesimo anticlericale. l’isolamento e l’individualismo di Zurlini, uomo difficile e deluso, non Da alcuni contributi presenti in questo libro si evince un giudizio ha impedito al suo cinema di camminare accanto a noi, anzi accanto al controverso intorno a La prima notte di quiete.