SAGGI

IL LAVORO DI RIORDINO E INVENTARIAZIONE DELLA SEZIONE MODERNA DELL’ARCHIVIO DELLA MISERICORDIA MAGGIORE DI

Il 4 dicembre 2015 Archivio Bergamasco con la collaborazione e il sostegno della Fondazione MÎA ha organizzato nella Sala Locatelli della Domus Magna di via Arena in Bergamo Alta la giornata di studi avente per tema: Alla scoperta degli archivi della beneficenza a Bergamo tra Otto e Novecento. Le “nuove” carte della MÎA e della Congregazione di Carità. L’occasione dell’incontro è stata offerta dal recente lavoro di riordino e di inventariazione e successivo deposito in Archivio di Stato di Bergamo delle carte (registri e faldoni) della Sezione moder- na dell’archivio della Misericordia Maggiore. Queste carte, che sino al 2014 erano conservate presso la sede della MÎA in via Malj Tabajani 4, prima di essere depositate in Archivio di Stato ed essere così disponibili alla pubblica consultazione, per iniziativa della Fondazione sono state inventariate da Gianluca Perondi, Patrizia Talpo, Giulia Todeschini. I tre archivisti sono intervenuti come relatori nell’incontro del 4 dicembre 2015. Gianluca Perondi ha offerto un panorama aggiornato sulla attuale articolazione dell’immenso archivio della Misericordia Maggiore, che si compone di più sezioni, di serie conservate in luoghi diversi, di parti inventariate e di parti ancora in attesa di riordino e inventariazione. Giulia Todeschini e Patrizia Talpo hanno illustrato con alcuni casi esem- plari, tratti dalla documentazione d’archivio recentemente inventariata, le molte e varie possibilità di ricerca che le carte della MÎA, ora dispo- nibili, offrono al progresso della storiografia bergamasca. Nelle pagine che seguono si presentano le relazioni dei tre archivisti precedute da un profilo storico-istituzionale della Misericordia Maggiore, a cura di Giulio Orazio Bravi e Cesare Giampietro Fenili, membri del Comitato di redazione di questa rivista.

13

Giulio Orazio Bravi - Cesare Giampietro Fenili

IL SECOLARE CAMMINO DELLA MISERICORDIA MAGGIORE DI BERGAMO DALL’ANTICA CONFRATERNITA ALL’ATTUALE FONDAZIONE

Manca a tutt’oggi una storia generale del Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo, mentre disponiamo di una ricca bibliografia su aspetti particolari e cronologicamente circoscritti. Qui vengono forniti i lineamenti storici essenziali, che potranno in futuro formare la base per una ricostruzione storica complessiva e criticamente fondata della storia dell’ente.

Tra i secoli XII e XIII si assiste in Italia a un graduale mutamento delle istituzioni politiche, degli ordinamenti giuridici, della società e dei costumi. Esso fu originato e favorito dalla notevole crescita economica e demografica delle città, dovuta ai progressi dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Morì un mondo, quello feudale, legato alla terra e alla rigida subordinazione sociale dei rapporti personali e ne sorse uno nuovo, che ebbe nel Comune, fondato sul patto concorde dei cives, la sua più alta espressione politica e sociale. Sulla base di interessi individuali e collettivi si formarono, a imitazione dell’organismo comunale, corporazioni, compagnie, società, finalizzate al perseguimento di una pluralità di scopi, dalla politica e dalla difesa all’economia, dall’esercizio delle professioni e dei mestieri alla cultura. L’aria della città, infondendo nel corpo sociale dinamismo, senso di appartenenza, autocoscienza individuale, rese gli abitanti più intraprendenti e più liberi. Anche la Chiesa e la vita religiosa, componenti organiche della società del tempo, conobbero profondi mutamenti. Uno dei più palesi e dai più fecondi e imprevedibili sviluppi fu l’atteggiamento nuovo che il laicato, conscio della raggiunta importanza politica e sociale, sviluppò nei riguardi del sentimento religioso e della esperienza cristiana. Tale nuovo atteggiamento maturò in parallelo al rinnovarsi della teologia e al fiorire di movimenti spirituali, penitenziali, pauperistici, evangelici. Nella meditazione e nella pietà, nella letteratura religiosa e nell’arte acquisirono vigore persuasivo e coinvolgente fervore, dopo secoli di distaccata ritualità, il mistero dell’Incarnazione, l’umanità redentrice di Cristo, l’esempio di vita e di carità della primitiva Chiesa degli apostoli, 14 Bravi - Fenili il messaggio evangelico di grazia, misericordia e fratellanza, che per la prima volta i laici cominciarono a conoscere e a leggere nei testi volgarizzati. Lasciata una condizione di passiva marginalità, con consapevolezza e cognizione cui molto giovò la predicazione e l’opera efficace dei nuovi Ordini Mendicanti opportunamente insediati nelle città, il laicato assunse responsabilità e compiti nella vita ecclesiale, nella condotta morale, nell’azione caritativa, nella prassi sacramentale e disciplinare della parrocchia, istituzione uscita rafforzata coi decreti del Concilio Lateranense IV del 1215. In un’età di diffuso e condiviso spirito associativo, uno dei mezzi che il laicato adottò - operando sempre sotto l’occhio vigile dell’autorità ecclesiastica, per dare forma giuridica, stabilità e continuità al proprio rinnovato impegno - fu quello della fondazione di confraternite.

Come in altre città italiane, anche in Bergamo sorse una confraternita laica, composta da uomini e donne, denominata nell’atto di fondazione del 1265, redatto in latino su codice di pergamena (fig. 1), «Consortium seu congregatio sancte misericordie domini nostri Iesu Christi et gloriose Virginis Marie» (Consorzio o congregazione della santa misericordia del nostro Signore Gesù Cristo e della gloriosa Vergine Maria)1. Fondatori furono alcuni laici, esponenti dei nuovi e dinamici gruppi delle professioni, della mercatura e dell’artigianato, favoriti, diretti e autorizzati nell’opera di fondazione dal vescovo di Bergamo Erbordo, domenicano di origine ungherese incardinato nel Convento bergamasco di Santo Stefano; furono inoltre incoraggiati e assistiti dai canonici di San Vincenzo e di Sant’Alessandro e da altri prelati della Chiesa bergamasca, da religiosi dell’Ordine domenicano, tra i quali ebbe un ruolo determinante fra Pinamonte da Brembate, estensore della regola, e infine da religiosi dell’Ordine francescano.

1 Maria Teresa Brolis-Paolo Cavalieri, L’istituzione MÎA. Dalla fondazione ai giorni nostri, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, con aggiornamento bibliografico alle pp. 77-78 (n. 3 della collana di dieci volumetti monografici promossa dalla Fondazione MÎA e pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore da un gruppo di studiosi composto da Maria Teresa Brolis - Paolo Cavalieri, Gianmarco De Angelis, Francesca Magnoni, coordinato da Attilio Bartoli Langeli). Sulle origini e i primi decenni di vita del Consorzio fondamentale il lavoro di Gianmarco Cossandi, Fermenti religiosi e spinte istituzionali a Bergamo tra XIII e XIV secolo. Le pergamene del consorzio della Misericordia, in La Misericordia Maggiore di Bergamo fra passato e presente, Bergamo, Edizioni dell’Ateneo, 2003, pp. 11-84. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 15

1- Prima carta del codice con la regola del Consorzio, 1265 (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai). 16 Bravi - Fenili

La regola2 stabiliva le modalità d’iscrizione e le qualità morali richieste agli iscritti, onestà, rettitudine, generosità, onorabilità; fissava gli organi statutari e le loro funzioni; le forme di rendicontazione delle collette e di erogazione dell’elemosina, della redazione e della conservazione dei documenti; le procedure da seguire nel caso di aggiornamento delle norme. Rispetto alle coeve regole delle corporazioni di arti e mestieri, a cui in gran parte si ispirava nel lessico e nella forma redazionale, la regola della confraternita aveva finalità del tutto diverse, non di natura economica ma essenzialmente spirituale. Precedeva l’elencazione dei doveri, che obbligavano i confratelli e le consorelle a una operosa vita di fede e a una coerente moralità, l’affermazione che la confraternita era fondata «per l’onore del Signore nostro Gesù Cristo, della beata e gloriosa Vergine Maria madre di Dio, e di tutti i santi», per la difesa e l’esaltazione della santa fede cattolica contro gli eretici3. In quegli anni erano presenti in Lombardia, anche se già in fase declinante, movimenti religiosi formati anch’essi da laici di profonde convinzioni, che professavano credenze e forme di vita spirituale, comunitaria ed evangelica alternative a quelle della Chiesa tradizionale. Eretici per le autorità costituite, essi erano da estirpare come meglio conveniva, o con la persuasione o con la forza4. Tra questi movimenti quello dei Catari, il più organizzato, negava i dogmi della Trinità e della divina maternità di Maria, volutamente affermati in tono solenne nell’incipit della regola. Il primo dovere prescritto ai membri della confraternita era l’ascolto della predicazione due volte al mese, la domenica alle tre del pomeriggio, nella Cattedrale di San Vincenzo, dovere che testimonia l’importanza assunta nel XIII secolo, definito «il gran secolo della parola nuova»5, dalla predicazione degli Ordini Mendicanti, che cominciò allora a tenersi in lingua volgare. Seguivano gli altri doveri: l’osservanza del sacramento

2 Edizione critica della regola a cura di Attilio Bartoli Langeli in La Regola del 1265. Il manoscritto, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015 (n. 4 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.). 3 «ad confirmationem et exaltationem sancte fidei catholicae et ad confusionem et depressionem hereticorum» (c. 1r della regola). Nel 1267, due anni dopo la fondazione del Consorzio, su richiesta degli inquisitori domenicani, fu inserita negli statuti comunali di Bergamo la normativa antiereticale, vedi G. Cossandi, Fermenti religiosi…, cit. p. 22.

4 Ad Extirpanda, bolla di papa Innocenzo IV del 15 maggio 1252, promulgata per fronteggiare i movimenti ereticali.

5 Jacques Le Goff-Jean-Claude Schmitt, Nel XIII secolo. Una parola nuova, in Storia vissuta del popolo cristiano, Torino, Società Editrice Internazionale, 1985, pp. 307-330. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 17 della confessione individuale almeno due volte all’anno, la pratica in comune della liturgia, della preghiera, delle devozioni e dei suffragi per i membri defunti, la solidarietà confraternale, la carità. Le confraternite laiche sorte in Italia nel Duecento si definirono fraternitas, congregatio, communitas, societas, consortium. Se fraternitas, communitas e congregatio avevano un’ascendenza chiaramente religiosa, essendo denominazioni già usate da lungo tempo per gli Ordini monastici, societas e consortium, pur essendo anch’esse parole antiche, erano divenute d’uso corrente nella nuova dinamica sociale del XIII secolo, denotando, allora come oggi, un’unione di persone aggregate per il raggiungimento di un obiettivo economico o per la condivisione di un bene materiale. Nella regola della confraternita bergamasca del 1265 prevale il termine congregatio, che ha in Matteo 18, 20 (Volgata di san Girolamo) un fondamento evangelico: «Ubi enim sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (dove due o tre sono riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro). Ma dai primi anni di vita e sino al Settecento, quando iniziò a prevalere la denominazione di Luogo Pio, la confraternita bergamasca preferì sempre definirsi consortium, «Consortium Misericordiae» (Consorzio della Misericordia). Nei documenti bergamaschi tra XIII e XIV secolo consortium indicava per lo più l’unione di proprietari di un bene indiviso, che poteva consistere in un’eredità, un canale d’irrigazione, un mulino, un capitale monetario: era ciò che i latini indicavano con sors, donde consortes e consortium, dei cui redditi o benefici tutti i consorti godevano in proporzione delle rispettive quote di proprietà6.

6 Per societates e consortia in Bergamo nel Duecento, costituite per la gestione di canali d’irrigazione o per lo sfruttamento delle miniere d’argento in Gromo e Ardesio, vedi François Menant, Bergamo comunale: storia, economia e società, in Storia economica e sociale di Bergamo. I Primi millenni. II. Il Comune e la Signoria, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 1999, pp. 116 ss. Nel verbale dell’assemblea della Vicinia di San Pancrazio tenuta il 27 luglio 1292, con sors è indicato l’ammontare del capitale in denaro e in beni che si intende mettere a frutto onde i consortiales possano devolvere i ricavi ai poveri della Vicinia, «in destribuendo eos in usu pauperum» (Lester K. Little, Libertà, carità, fraternità. Confraternite laiche a Bergamo nell’età del Comune, Bergamo, Pierluigi Lubrina Editore, 1988, pp. 69 e 165). Nel 1304 è documentato un consortium per la conduzione di una terra indivisa, ereditata da più consortes, che sono il Monastero di Vall’Alta, i Frati Predicatori, i Frati Minori, i Frati Eremitani e il Consorzio della Misericordia di Bergamo, tutti detti «consortes ipsius pecie terre» (G. Cossandi, Fermenti religiosi…, cit., p. 38, pergamena n. 6686 dell’Archivio della Misericordia in Biblioteca Civica Angelo Mai). Sull’uso del concetto di consortium vedi Pierre Michaud- Quantin, Universitas: expressions du mouvement communautaire dans le moyen âge latin, Paris, Librairie philosophique Vrin, 1970, pp. 133-135. Il termine consortium, con senso 18 Bravi - Fenili

L’adozione del termine consortium per denotare la natura della neonata confraternita si spiega dunque per analogia di forma e di funzione: come nel consorzio di tipo economico i consorti, tra loro uniti e vincolati, godevano dei benefici di un bene indiviso, così nel consorzio confraternale i consorti partecipavano tutti dei beni spirituali che ciascun membro metteva in comune onde ottenere, per la misericordia del Signore, la salvezza delle loro anime7. La confraternita era dunque fondata per la santificazione di chi ne faceva volontariamente parte, che si conseguiva col vicendevole aiuto spirituale dei confratelli e delle consorelle, i cui meriti acquisiti con le loro opere, compiute con l’aiuto divino, «Domino adiuvante», valevano per tutti i consorti, vivi e defunti. Tale concezione si fondava teologicamente sulla dottrina della comunione dei credenti, membra del corpo di Cristo8; e si riallacciava idealmente al legame di fratellanza che da secoli vigeva nelle comunità monastiche, e che i laici cercavano ora di perseguire non con la rinuncia al mondo, dentro i monasteri, ma in pieno contesto urbano e lavorativo. L’articolo V della regola stabiliva che le persone della confraternita, sia uomini che donne, uniti «nella carità di Gesù Cristo» erano «partecipi e consorti» di tutte le preghiere, le devozioni, le opere di carità compiute da ciascun membro singolarmente e da tutti insieme nella congregazione, «tam in vita quam in morte, ita ut etiam post mortem valeant et suffragentur eis» (sia in vita che in morte, così che anche dopo la morte valgano e siano per loro di suffragio)9. Secondo tale dottrina la salvezza era attesa e sperata non teologico, è presente già in Seneca, Naturales quaestiones, I, 6: «Virtus enim ista quam affectamus magnifica est, non quia per se beatum est malo caruisse, sed quia animum laxat et praeparat ad cognitionem caelestium dignumque efficit qui in consortium cum deo veniat» (La virtù cui tendiamo è meravigliosa, non già perché sia di per sé invidiabile essere privo di vizi, ma perché ristora l’anima e la rende pronta alla conoscenza delle cose celesti e degna di entrare in comunione con Dio); e poi in 2 Pietro 1, 4: «per quem maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per haec efficiamini divinae consortes naturae» (affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina). Interessante notare in ambedue i testi, di Seneca e della Volgata, la presenza non solo di consortium, consortes, ma anche del medesimo verbo efficere. 7 Nella regola del Consorzio di Sant’Alessandro della Croce, fondato nel 1272, sette anni dopo il Consorzio della Misericordia, da cui riprende struttura organizzativa e finalità, al cap. III si dice che le messe celebrate in Quaresima per i consorti hanno questo scopo: «ut Deus per suam misericordiam, eos et quemlibet eorum, salvet et custodiat et eos ad vitam aeternam perducat» (L. Little, Libertà …, cit., p. 142). 8 Gv. 15, 1-14; Atti 2, 42; Atti 4, 32; Rom. 12, 1-21; Gal. 3, 28; Ef. 4, 15; Ef. 6, 18-20; 1 Gv. 1, 7; 1 Pt. 1, 22-25; 2 Pt. 1, 4. 9 «Quinto ordinamus quod omnes persone huius congregationis tam viri quam mulieres in caritate Iesu Christi sint participes et consortes omnium missarum, orationum et predicationum ac omnium spiritualium actionum, omnium elimosinarum et visitationum Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 19 come un fatto puramente individuale ma collettivo. I membri della confraternita erano poi tenuti due volte al mese, subito dopo l’ascolto della predicazione (cap. II), a mettere in comune denaro o generi di prima necessità – le registrazioni più antiche indicano denaro, viveri, indumenti – che quattro confratelli, chiamati «canevari» o «massari», uno per ciascuna porta cittadina, Sant’Alessandro, Santo Stefano, Sant’Andrea, San Lorenzo, andando di casa in casa distribuivano in Città e nei Borghi a chi ne aveva necessità, «necessitatem patientes» (fig. 2). L’ascolto della Parola doveva recare frutti di carità (Atti 2, 42-45). Sono noti i nomi dei primi quattro canevari del Consorzio, anno 1267: Alberto Uguzoni di Gazzaniga abitante in Borgo Sant’Andrea; Martino di Pedrengo, abitante nello stesso Borgo, calzolaio; Giovanni di Terno, abitante nella Vicinia di Antescolis, anch’egli calzolaio; Bonnomo detto Carlino di Zogno, abitante nella Vicinia di San Pancrazio, tutti cittadini di Bergamo, le cui originarie famiglie, come si intuisce dalle località che accompagnano i nomi, erano tra quelle che, venute dalle valli e dal piano e inurbatesi tra XI e XIII secolo, avevano contribuito alla crescita demografica ed economica della Città. Le prime offerte che i quattro canevari raccolsero per essere distribuite in elemosina ai poveri consistettero in trentacinque soldi pari a una lira imperiale e 15 soldi, una soma di frumento (circa 120 chilogrammi), una soma di miglio, una pelle morella foderata, un piumino, quattro lenzuola di lino10.

Per cogliere con pienezza di senso la natura e la finalità della infirmorum ac incarceratorum, omnium sepulturarum et omnium misericordiarum ac omnium bonorum que Domino adiuvante fiunt et in posterum fient in ista congregatione tam in vita quam in morte, ita ut etiam post mortem valeant et suffragentur eis». Questo articolo è ripreso alla lettera nei Consorzii che sorgono in alcune parrocchie di Bergamo negli anni immediatamente successivi alla fondazione della Misericordia: Consorzio di San Michele al Pozzo Bianco, 1266, art. VI: «Quilibet quoque de supradicto consorcio tam vivens quam defunctus particeps sit et esse debeat omnium missarum et orationum pariter et bonorum que per sacerdotem supradicte ecclesie seu alium fuerit in ecclesia supradicta» (L. Lester, Libertà…, cit., p. 127); Consorzio di Sant’Alessandro della Croce, 1272, art. 3: «et quod omnes de supradicto consortio sint participes omnium bonorum missarum et orationum et elemosinarum que fient et in futurum fient in illo consortio et per illum consortium, tam in vita quam in morte, ita ut eciam post mortem valeant et suffragantur eis» (Ivi, p. 142); Consorzio di Borgo Santa Caterina, 1279: «Item statuerunt et ordinaverunt quod omnes de isto consortio sint participes omnium elemosinarum et omnium bonorum qui et que fient pro ipso consortio, et per ipsum consortium tam in vita quam in morte, ita quod post mortem sit in sufragio anime eius» (Ivi, p. 153).

10 Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai: Archivio della Misericordia Maggiore, Receptum canevariorum Consortii Misericordiae an. 1267 usque 1308, n. 724, c. 1v. 20 Bravi - Fenili

2 - I quattro canevari del Consorzio distribuiscono generi alimentari ai poveri, affresco, sec. XIV (Bergamo, Museo e Tesoro della Cattedrale). confraternita laica che prese vita in Bergamo nel 1265, è necessario comprendere nel suo duplice significato il termine misericordia che è nella intestazione del sodalizio: Consorzio della Misericordia. Nel primo e più proprio significato è laMisericordia Domini, come è detto nell’incipit della regola: «Consortium seu congregatio sancte misericordie Domini nostri Iesu Christi et gloriose Virginis Marie». È la misericordia santa, celeste, eterna, per la quale il Signore Gesù Cristo vuole che tutti gli uomini si salvino; ed è la misericordia della Vergine Maria, la quale, come madre del Signore, è Mater Misericordiae. È la misericordia che gli iscritti al Consorzio invocano e impetrano gli uni per gli altri, con preghiere e buone azioni, compiute con la grazia divina, messe in comune perché a tutti i consorti possano giovare, vivi e defunti. Nel secondo significato è la misericordia che i confratelli e le consorelle, mettendo in comune denaro, viveri e generi di prima necessità da distribuire a poveri e infermi, operano nei confronti del Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 21 prossimo: sono le opere di misericordia, compiute a imitazione della santa misericordia del Signore11. Il cap. III della regola indica l’elemosina che veniva distribuita ai poveri anche col termine misericordia, come ne fosse sinonimo: «et eis fideliter distribuant dictam elimosinam et misericordiam» (e ai poveri fedelmente elargiscano questa elemosina e misericordia). In nessun’altra regola duecentesca è meglio esplicitato questo duplice significato di misericordia come nella regola della Misericordia di Arezzo, anch’essa compilata come quella di Bergamo da un frate domenicano, nel 1262, tre anni prima di quella bergamasca. Molti passi della regola bergamasca sembrano presi alla lettera da quella di Arezzo, tanto da lasciar pensare che vi sia stata un’influenza diretta. Se così non è avvenuto è comunque evidente che in quei decenni un diffuso comune sentire circa le modalità e le finalità di fondazione delle Misericordie si manifestò anche in un lessico condiviso. Il primo capitolo della regola di Arezzo esprime l’autentico spirito confraternale: «Il Signore misericordioso e pietoso, le cui misericordie sovrastano tutte le sue opere [Salmo 145, 9], della cui misericordia è piena la terra [Salmo 119, 64], non volendo perdere nessuno ma portare tutti sulla via della verità12, con la legge evangelica decretò e inviolabilmente stabilì che quanti vogliono conseguire nel presente e in futuro la sua gloriosa misericordia devono, nel tempo da lui concessoci in questa vita per la salvezza, seguire l’esempio della sua santissima misericordia, amare la misericordia applicandosi a compiere le opere della misericordia. Egli stesso nel Vangelo, mostrando il santissimo esempio della misericordia del Padre, ci ammonisce dicendo: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste” (Luca 6, 36). Egli ancora ci attrae alla misericordia per il prezioso frutto della misericordia, dicendo: “Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia” (Matteo 5, 7)»13. È dunque su questa base evangelica e

11 San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Pars Secunda Secundae, Quaestio XXX, De Misericordia, art. 4: «inter omnes virtutes quae ad proximum pertinent potissima est misericordia»; «per caritatem assimilamur Deo tanquam ei per affectum uniti. Et ideo potior est quam misericordia, per quam assimilamur Deo secundum similitudinem operationis». 12 1 Tim. 2, 4-6; ma anche sant'Agostino, Sermo 352/A: «Dominus Iesus, conditor sancti Evangelii, tamquam lege misericordiae neminem volens perire, quandoquidem ideo venit salvare quod perierat». 13 Cap. I: «Misericors et miserator Dominus, cuius miserationes sunt super opera eius, cuius etiam misericordia plena est terra, neminem volens perire, sed omnes ad viam 22 Bravi - Fenili dogmatica che un gruppo di cittadini aretini, così come un gruppo di cittadini bergamaschi, con il favore e l’autorità dei loro vescovi, stimolati e diretti dai frati domenicani, fondarono una confraternita, offrendosi «spontaneamente a impetrare la divina misericordia per mezzo delle opere di misericordia, con l’aiuto della grazia del Salvatore nostro e della misericordiosissima sua madre»14. Nella fondazione del Consorzio della Misericordia di Bergamo le due finalità associative, l’una il conseguimento della misericordia del Signore, «salvum me fac in misericordia tua» (Salmo 30, 17), l’altra l’esercizio delle opere di misericordia verso i ceti deboli e indifesi finiti ai margini della prima opulenta società urbana, furono pensate inscindibili e correlate: col proposito, almeno nelle intenzioni dei fondatori e dei primi convinti e volenterosi aderenti, di dar vita a una realtà ecclesiale e sociale che fosse, senza soluzione di continuità, luogo di preghiera, di ascolto della parola e di spiritualità laica, organo di mutua assistenza confraternale, scuola di disciplina e di moralizzazione della vita pubblica, strumento per sovvenire a fenomeni di marginalizzazione e veritatis reducere, lege sub vangelica pie decrevit et inviolabiliter stabilivit, quod volentes consequi in presenti et in futuro eius gloriosam misericordiam, oporteat in hoc tempore, ad salutem hominum ab ipso concesso, sequentes exemplum eius sacratissimum erga misericordiam, et diligere misericordiam, et misericordie operibus intendere studiose. Ipse enim in evangelio ad misericordiam exemplo patris sacrosancto, nos admonet dicens: “Estote misericordes, sicut et pater vester celestis misericors est”. Ipse ad misericordiam per misericordie fructm pretiosum nos allicit dicens: “Beati misericordes, quoniam ipsi misericordiam consequentur»; nel cap. X è contenuta la formula con la quale il priore accoglie nella confraternita un nuovo iscritto: «Dicet prior: - Dominus qui dedit tibi velle bonum, det et perficere, meritis Virginis, que dux est fraternitatis istius, et faciat te participem omnium bonorum, que causa huius fraternitatis fieri donaverit per illos de fraternitate et per recipientes beneficia huius fraternitatis, auctor bonorum omnium Dei filius Iesus Christus-. Et sic, priusquam responderit: - Amen -, librum apertum cum devotione et reverentia osculetur» (Gilles Gerard Meersseman, Ordo fraternitatis. Confrayternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con G. P. Pacini, II, Roma, Herder, 1977, pp. 1015-1027, doc. 17, p. 1016-1018, 1021). Anche nel decreto di concessione di indulgenze da parte del vescovo Guiscardo Suardi (13 gennaio 1273) ai consorti della Misericordia di Bergamo che partecipano alla predicazione dei frati domenicani si fa distinzione tra Misericordia Dei, di cui l’autorità ecclesiastica con la concessione di indulgenze si sente e si reputa, secondo l’ecclesiologia del tempo, mediatrice e dispensatrice, «annuentes de Dei misericordia confisi», e le «misericordie operibus erogandis», che sono le opere di misericordia dei fedeli (G. Cossandi, Fermenti religiosi…, cit., p. 32.) 14 Cap. I della regola della Misericordia di Arezzo: «sponte se obtulerint ad divinam misericordiam per opera misericordie impetrandam […], cohoperante Salvatoris nostri gratia et intervenientibus misericordiosissimae matris sue et pretiosi martiris Donati episcopi» (G. G. Meerssemann, Ordo fraternitatis…, cit., p. 1016). Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 23 precarietà di vita, ma anche per prevenire possibili disordini in situazioni di esacerbata conflittualità sociale. In età medievale, per risparmiare tempo e materia scrittoria - la pergamena era assai costosa - per velocizzare l’opera del copista che scriveva spesso sotto dettatura, molti lemmi venivano abbreviati secondo diverse forme. Il lemma ‘misericordia’ veniva abbreviato per contrazione in mîa o nella forma maiuscola MÎA (fig. 3). L’uso di questa abbreviatura divenne consueto nei documenti manoscritti del Consorzio di Bergamo; dai manoscritti passò nei documenti e nei testi a stampa, e finì per imporsi non solo come forma scritta ma anche fonetica, ancora oggi largamente adottata per indicare l’antica istituzione.

3 - La parola misericordia abbreviata nella forma Mîa in un documento del sec. XVI.

I primi passi di vita del Consorzio furono piuttosto incerti. Del 1266 non possediamo alcuna documentazione di riunioni, elezioni di cariche, elemosine: indizio di un avvio dell’attività confraternale sicuramente stentato. Anche le offerte raccolte negli anni 1267-1268 furono modeste. L’attività si intensificò notevolmente a partire dal 1269, fatto che trova conferma nel numero impressionante di quanti nel volgere di pochi anni aderirono alla MÎA. Possediamo gli elenchi delle donne che si iscrissero: tra il 1265 e il 1330 furono 1730; già erano 1004 nel 1274, a soli nove anni dalla fondazione15. Gli elenchi degli uomini non ci sono conservati,

15 Maria Teresa Brolis-Giovanni Brembilla-Micaela Corato, La matricola femminile della Misericordia di Bergamo (1265-1339), Roma, École Française de Rome, 2001. 24 Bravi - Fenili ma dobbiamo credere che gli uomini iscritti non fossero meno delle donne. Il Consorzio esercitò dunque in Città una straordinaria capacità di attrazione e di influenza morale. Per l’innovativa proposta di natura religiosa di cui era portatore, esso appagava interiori esigenze di vita spirituale, acquietava ansie di salvezza e aneliti di rinnovamento; soddisfaceva alle aspettative di laici emancipati, offrendo loro il modo di acquisire una desiderata cultura religiosa; era infine uno strumento che tentava di rimediare a gravi problemi posti dalle nuove emergenze sociali. Nel 1272 è documentata una «domus misericordiae» nelle pertinenze della Chiesa di Santa Maria Maggiore: altro non era che un locale in legno, forse addossato alle sacrestie, che serviva da cantina, granaio e dispensa. Nel 1284 il Comune, riconoscendo l’importanza del ruolo civico della Misericordia, assegnò al Consorzio a uso di magazzino, in sostituzione della primitiva struttura in legno nel frattempo demolita, un locale in muratura di sua proprietà, ubicato nelle pertinenze del Palazzo comunale. È questo il primo intervento noto del Comune a favore della MÎA, il primo di una lunga serie di privilegi legali e di aiuti finanziari e logistici che contrassegnerà nei secoli lo stretto e necessario legame dei pubblici poteri col sodalizio confraternale. Cresciuta l’attività del Consorzio, i reggenti nel 1301 acquistarono da un pellicciaio per 382 lire imperiali una casa nella Vicinia di Santa Eufemia, sulla via che conduce alla Rocca. Vi si adattarono vani per le sedute del Consiglio, che sino ad allora si erano tenute nel coro della Cattedrale di San Vincenzo, per gli uffici, per la conservazione delle carte d’archivio, e scantinati e rimesse per il deposito di grani, sale e vino, qui trasportati dal magazzino comunale e dal granaio che si trovava presso la cattedrale di San Vincenzo16. Il Consiglio preposto al governo del Consorzio, come stabiliva la regola del 1265 non era eletto direttamente dall’assemblea dei soci. Il cambio di ministro e dei dodici consiglieri, tutti laici, si deliberava ogni anno la prima domenica di Quaresima; e il rinnovo delle cariche avveniva per cooptazione. Ministro e consiglieri uscenti eleggevano il nuovo ministro e i nuovi consiglieri scegliendoli tra confratelli capaci e stimati «utiles et bonos, providos et discretos» (cap. IV). Ministro,

16 Giuseppe Locatelli, La casa della Misericordia, in «Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca», n. 2, 1931, pp. 124-148; sul granaio in San Vincenzo, trafugato durante gli scontri civili del 1296, vedi G. Cossandi, Fermentri religiosi…, cit., p. 51. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 25 consiglieri e canevari eleggevano poi un membro del Capitolo della Cattedrale, confermato nel suo incarico dal vescovo, con funzione di patrono, protettore e difensore del Consorzio (cap. VIII). L’adozione del sistema della cooptazione e non dell’elezione diretta da parte dell’assemblea può spiegarsi con la preoccupazione di tenere fuori la Confraternita dalla «politica di schieramenti e fazioni che dominava la scena di Bergamo nel Duecento»17. Se il sistema adottato fu veramente motivato da tale preoccupazione si deve dire che lo scopo fu pienamente raggiunto. L’assemblea generale degli iscritti, stando a quanto stabiliva il medesimo cap. IV, doveva essere comunque convocata tre volte all’anno: la prima domenica di Quaresima per informarla dell’elezione del nuovo ministro e dei nuovi dodici consiglieri, il lunedì di Pasqua e il 27 dicembre, festa di san Giovanni Evangelista. In queste due assemblee il ministro poteva rivolgere ai confratelli alcuni buoni ammonimenti «aliquas bonas ammonitiones», interessante testimonianza, in un’età di monopolio clericale della parola, di libertà sermonale concessa ai laici, se pure circoscritta alle ammonizioni morali18. Il primo nome certo di un ministro del Consorzio è quello di Giovanni di Terno, calzolaio, della Vicinia di Antescolis, rione a sud della Chiesa di Santa Maria Maggiore, eletto nel 1269, e che nel 1267 era stato canevaro. Nelle assemblee era poi data possibilità agli iscritti di intervenire sulla vita della confraternita «et fratres omnes poterunt tractare et videre de factis et utilitatibus congregationis» (cap. IV). Nell’archivio antico della MÎA, custodito presso la Biblioteca Civica Angelo Mai, si conserva la testimonianza di assemblee plenarie solo per i primi anni di vita del Consorzio, poi non abbiamo più alcuna notizia documentaria circa lo svolgimento di tali assemblee, il cui obbligo rimase solo sulla pergamena della regola, al momento della cui redazione non fu forse prevista l’adesione di massa che si sarebbe avuta nel volgere di pochi anni. Anche se il cap. IV raccomandava ai reggenti di tenere queste assemblee in luogo idoneo e capace perché tutti vi potessero intervenire, riunire un’assemblea di centinaia di iscritti

17 G. Cossandi, I fermenti religiosi…, cit., p. 59. 18 Sui predicatori laici G. Meersseman, Ordo fraternitatis…, cit., III, pp. 1273-1289, in particolare le pp. 1278-1287 sui sermoni del laico Albertano da Brescia della prima metà del Duecento, colmi di una fervorosa teologia biblica della carità; sono editi da Mirella Ferrari in Albertanus Brixiensis, Sermones quatuor, Lonato, Fondazione Ugo da Como, 1955. Vedi anche, sui sermoni di Albertano, Claudia Villa, La tradizione delle “Ad Lucilium” e la cultura di Brescia dall’età carolingia ad Albertano, in «Italia medievale e umanistica», XII, 1969, pp. 9-51. 26 Bravi - Fenili dovette presto sembrare pressoché impossibile. Nella regola riformata del 1498 scomparirà ogni riferimento ad assemblee plenarie. Il fatto poi che si conservi nell’archivio del Consorzio solo la matricola delle donne iscritte, che va dal 1265 al 1330, e che, eccetto questa, non si conservi nessun’altra documentazione di iscrizioni alla MÎA, né di uomini né di donne, lascia credere con buona certezza che a partire dalla metà del Trecento il Consorzio abbia perso il suo carattere di aperta e libera associazione, finendo per identificarsi col gruppo di persone, circa una settantina, appartenenti alle famiglie del ceto dirigente cittadino, che grazie al sistema della cooptazione si alternavano alle cariche di ministro, consigliere e canevaro. Una seduta del Consiglio della MÎA del 16 gennaio 1396, convocata per prendere importanti decisioni su nuove modalità di elezione dei consiglieri, fu allargata alla partecipazione di «boni homines civitatis Pergami», vale a dire di autorevoli cittadini. Se scorriamo i nomi dei 41 «boni homines» intervenuti, che si espressero nel merito e che votarono, notiamo che si tratta di cittadini che negli ultimi anni avevano ricoperto la carica o di ministro o di consigliere o di canevaro19. La lenta e ineluttabile identificazione della MÎA con questo ristretto gruppo di cittadini, sempre più impegnati nella gestione di un patrimonio sociale cresciuto in modo considerevole grazie a cospicui lasciti e donazioni, si accompagna al venir meno dell’originario concetto di misericordia inteso nella duplice accezione che abbiamo vista, riducendosi e limitandosi al solo significato di misericordia come opera caritativa. Tale svolgimento dell’originaria ispirazione avrà un riflesso, perdurante ancora ai nostri giorni, anche sulla storiografia, che vedrà nella MÎA principalmente, se non esclusivamente, un sodalizio sin dalle sue origini deputato alla gestione della carità. Lo storico dei movimenti confraternali Gilles Gerad Meerssemann ha parlato, a tale proposito, di “laicizzazione” delle confraternite della Misericordia, che sarebbe avvenuta intorno alla metà del Trecento. La grande peste del 1348-1350 avrebbe segnato uno spartiacque tra una prima fase di vita confraternale contrassegnata dalla prevalente

19 Verbale della seduta del Consiglio allargato, 16 gennaio 1396, in Biblioteca Civica Angelo Mai: Archivio della Misericordia Maggiore, Regola antica del Consorzio, nr. 937; i nomi dei ministri, consiglieri e canevari per gli anni 1386-1392 , ivi, Terminazioni, nr. 1245. È assai probabile che la procedura di sedute consiliari allargate sia stata osservata anche in altre occasioni, quando si dovettero discutere questioni fondamentali riguardanti la vita e l’attività del Consorzio. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 27 ispirazione spirituale e da una intensa e collettiva pratica devozionale, e quella successiva, che vide la confraternita ridursi a un gruppo di persone sempre più ristretto, impegnato nell’amministrazione del patrimonio e nell’organizzazione dell’attività caritativa20. Nel valutare tale trasformazione occorrerà tenere conto di almeno due fattori. Grazie all’iniziativa delle Misericordie duecentesche e al sempre più diffuso e capillare apostolato degli Ordini Mendicanti, quelle che nel Duecento erano prescrizioni ecclesiastiche, concezioni e pratiche devozionali da infondere e da consolidare nelle popolazioni urbane e rurali, nei cui confronti le confraternite, per usare un’immagine cara a fra Pinamonte da Brembate, erano state di esempio «come lucerna posta sopra il candelabro» (Matteo 5, 15)21, divennero nei successivi decenni pratiche condivise e osservate su larga scala da tutta la cristianità laica medievale. Parallelo a questo fenomeno si ebbe l’altro, quello di una sempre più marcata propensione delle Misericordie, sia in virtù degli accresciuti patrimoni sociali sia per l’ampliarsi del loro raggio d’azione, a concentrarsi per obbligata necessità nell’opera caritativa, divenendo di fatto l’organismo cittadino cui era istituzionalmente demandato dalle pubbliche autorità il rilevante e irrinunciabile compito del sostegno di poveri e infermi. Mentre le Misericordie presero quasi tutte questa strada, le istanze più profondamente religiose e spirituali dei laici continuarono a trovare ascolto e seguito nelle confraternite penitenziali, in particolare dei Disciplini Bianchi, che conobbero tra Tre e Quattrocento rinnovata vitalità; mentre più avanti, tra Cinque e Seicento, saranno le nuove confraternite della Santa Croce, del Corpo di Cristo, del Santissimo Sacramento, del Santo Rosario, del Suffragio a coinvolgere attivamente i fedeli laici con nuove forme di pietà e nuove devozioni consone alle mutate esigenze dei tempi, della Chiesa e della dottrina.

La mutazione dello statuto delle Misericordie che lo storico Meerssemann ha notato essere avvenuta verso la metà del Trecento si verificò, nello stesso torno di tempo, anche a Bergamo. Il governo della MÎA passò saldamente nelle mani delle famiglie più influenti della Città, legate al Comune e alle altre magistrature locali. Il patrimonio

20 G. G. Meerssemann, Ordo fraternitatis…, cit., II, pp. 996-999. 21 Fra Pinamonte ricorre a questa immagine evangelica sia nella regola al cap. II sia nella Vita di santa Grata: Il Legendario di santa Grata tra scrittura agiografica e arte: con riproduzione in facsimile della Vita, a cura di Mariarosa Cortesi, Bergamo, Litostampa, 2002, p. 84. 28 Bravi - Fenili immobiliare e fondiario che si era notevolmente accresciuto richiese necessariamente un’amministrazione sempre più accorta e specializzata, che poteva essere garantita solo da persone moralmente apprezzate e giuridicamente preparate: questo uno dei motivi per cui alcuni ministri di grande levatura intellettuale e morale, quale ad esempio Alberico da Rosciate (ca.1290-1360), giurista di fama europea, furono prorogati nella carica anche per molti anni, Alberico addirittura per diciotto anni. Il moltiplicarsi dei bisogni cui la MÎA doveva far fronte, specialmente nel caso di epidemie, carestie, catastrofi naturali, guerre, che erano nel Trecento all’ordine del giorno, come lo saranno ancora per molto tempo, e che creavano sacche di emarginazione sociale in Città e nel contado, costrinse i reggenti a ricorrere a metodi di intervento funzionali ed efficienti, con l’assunzione di personale stipendiato dal Consorzio non bastando più l’entusiasmo dei volontari. Le innovazioni trovarono espressione e sistemazione negli aggiornamenti della regola tra il 1394 e il 1396. Molti di questi aggiornamenti erano dettati dalle nuove condizioni in cui la MÎA operava e dalla necessità di adeguarvi la struttura organizzativa. Altri aggiornamenti, non meno importanti, puntavano a ottenere due obiettivi: la regolare, equa distribuzione delle elemosine, senza favoritismi e interessi personali dei reggenti; l’eliminazione, nel ricambio delle cariche, di possibili interessi d’ufficio, personali e familiari, con conseguenti abusi di potere. Tale preoccupazione, spesso richiamata nelle deliberazioni consiliari, non impedì comunque che alcune famiglie continuassero ad esercitare, e per molto tempo, un peso preponderante nel governo del Consorzio. La stessa cosa avvenne nel governo cittadino, il cui Consiglio, soprattutto dopo l’avvento delle dominazioni signorili, rimase nelle mani di un ristretto gruppo di famiglie dell’aristocrazia, delle professioni e del commercio. A metà del Trecento, il fronte dell’impegno caritativo e assistenziale si dilatò a comprendere un nuovo compito in campo scolastico. Ciò avvenne grazie ai lasciti del maestro di scuola Lorenzo de Apibus e di suo figlio Jacopo, rispettivamente del 1337 e del 1361, coi quali si istituirono redditi destinati al sostegno economico di studenti poveri, una sorta di borse di studio che furono erogate sino all’inizio del Cinquecento, e di cui godettero molti studenti bergamaschi, alcuni dei quali poterono frequentare anche l’Università di Parigi22.

22 Sull’impegno della MÎA nel campo dell’istruzione vedi Giuseppe Locatelli, L’istruzione in Bergamo e la Misericordia Maggiore, in «Bollettino della Civica Biblioteca di Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 29

Nel 1449 il Consiglio comunale, riconoscendo la buona gestione del Consorzio, affidò in perpetuo ai reggenti della MÎA l’amministrazione della Chiesa di Santa Maria Maggiore, eretta nel XII secolo, per iniziativa del vescovo Gregorio, come Cattedrale gemina per l’officiatura invernale, accanto alla Cattedrale di San Vincenzo in cui si svolgeva l’officiatura estiva. A questa data, 1449, la Chiesa era ormai da tempo di proprietà comunale, amministrata da una Fabbriceria con a capo due Presidenti 23. La decisione comunale, ratificata da papa Nicolò V con bolla del 145424, non fu solo dettata dalla fondata prospettiva di una buona amministrazione. Sin dalle sue origini la MÎA era stata legata in modo particolare sia al culto di Maria come Mater Misericordiae, sia alla Chiesa che ne portava la dedicazione, Santa Maria Maggiore. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento si affermò nei documenti il titolo di «Consortium Misericordiae Sanctae Mariae». Nella Chiesa di Santa Maria Maggiore era stato collocato nel 1272 il primo deposito di granaglie di proprietà del Consorzio. Dopo che in un primo periodo la predicazione rivolta a confratelli e consorelle si era tenuta nella Cattedrale di San Vincenzo e nella Chiesa conventuale di Santo Stefano dei domenicani, si trasferì nella Chiesa di Santa Maria Maggiore, per cui, a partire dal terzo decennio del Trecento, il Consorzio cominciò a chiamarsi «Consortium Misericordiae Sancte Mariae Maioris». E tra XIV e XV secolo il Consorzio, destinatario di legati specificamente eretti per la celebrazione di messe di suffragio nella Chiesa di Santa Maria, divenne con la Fabbriceria uno dei due soggetti che aveva il compito di promuovere e mantenere nella stessa Chiesa celebrazioni liturgiche e devozioni. La decisione del Comune pare quindi essere stata dettata anche dalla volontà, assegnando l’amministrazione della Chiesa a un solo soggetto,

Bergamo», ottobre-dicembre 1910, pp. 57-169; e Francesca Magnoni, Le opere della MÎA. L’istruzione, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, con aggiornamento bibliografico alle pp. 75-77 (n. 7 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.); vedi anche Maria Teresa Brolis-Francesca Magnoni, Le opere della MÎA. Arte musica liturgia, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, con aggiornamento bibliografico alle pp. 75-78 (n. 8 della medesima collana). 23 Santa Maria Maggiore. Un profilo storico, a cura di Francesca Magnoni, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, aggiornamento bibliografico alle pp. 76-78 (n. 2 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.) 24 Per la descrizione, l’edizione e la traduzione in italiano della Bolla, a cura di Attilio Bartoli Langeli, vedi Attilio Bartoli Langeli-Sandro Buzzetti-Giuseppe Mascherpa, Frammenti d’archivio. La MÎA per la storia della città, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015 (n. 10 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.), pp. 63-78. 30 Bravi - Fenili il Consorzio della Misericordia, di superare una inopportuna diarchia, che non poteva che recare confusione ed essere motivo di contrasti. Nel passaggio dell’amministrazione della Chiesa dalla Fabbriceria alla MÎA, a questa passarono anche le carte d’archivio, che documentano la storia della Chiesa, con i fondi e i legati di cui era beneficiaria, dalla metà del Trecento al 144925. La Chiesa di Santa Maria, che dalla seconda metà dell’Ottocento sarà nominata col titolo canonico di Basilica, era detta Maggiore per distinguerla da un’altra chiesa dedicata a Santa Maria più antica e di assai minori dimensioni. Due anni prima del prestigioso compito assegnatogli dalla Città, il Consorzio, lasciata la casa nella Vicinia di Santa Eufemia, aveva acquistato all’incanto dal Comune la cosiddetta Domus Magna nell’attuale via Arena, un palazzo con corte, orto, brolo e fonte, successivamente ampliato e abbellito. L’edificio rimase per circa cinque secoli sede della MÎA e delle istituzioni culturali da essa fondate26. L’amministrazione della Chiesa di Santa Maria Maggiore comportò infatti la creazione nella seconda metà del Quattrocento di una Cappella musicale per la formazione di musici e coristi incaricati dell’accompagnamento musicale e corale delle funzioni liturgiche; e nel 1506 l’istituzione di una Scuola, poi chiamata Pia Accademia, per la formazione dei chierici impegnati nell’officiatura della Chiesa. Col tempo l’Accademia accolse anche studenti esterni, trasformandosi di fatto in una scuola di grado superiore; mentre la Cappella musicale conoscerà una straordinaria fioritura sotto la direzione di insigni maestri come il bavarese Giovanni Simone Mayr (1763-1845), cui si dovrà l’istituzione nel 1805, col favore e il sostegno economico della MÎA, delle Lezioni caritatevoli di musica, una scuola

25 Il cancelliere della MÎA, Marcantonio Benaglio, nel 1613 raccoglierà e ordinerà tutta la documentazione relativa alla Chiesa, anche quella precedente al 1449 (Biblioteca Civica Angelo Mai: Archivio della Misericordia, nn. 845-876, 883).

26 Presso la Domus Magna viveva la “famiglia” della MÎA, ossia alcuni fattori con i loro famigliari incaricati della sorveglianza dei contadini e della gestione dei poderi di proprietà dell’ente; vi ebbe sede anche l’Accademia fondata all’inizio del XVI secolo per l’istruzione dei chierici incaricati dell’officiatura presso Santa Maria Maggiore, accademia che nel XVIII secolo si trasformò nel Collegio Mariano. Dall’Ottocento fu anche sede della Scuola di Musica e successivamente del Pio Istituto musicale Gaetano Donizetti, della Cappella Musicale della Basilica di Santa Maria Maggiore e del Museo Donizettiano. Vedi Paolo Mazzariol, Il Palazzo della Misericordia nella vicinia di S. Salvatore a Bergamo: dall’Hospitium magnum al Collegio Mariano, tesi di laurea, Politecnico di Milano-Facoltà di Architettura, anno acc. 1992-1993, una copia in Biblioteca Civica Angelo Mai, Tesi 264.1-2; sulle sedi del Consorzio e sulla Domus Magna vedi anche Giuseppe Locatelli, La Casa della Misericordia, cit., pp. 124-148. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 31 che offrirà la frequenza gratuita ai fanciulli di estrazione sociale povera, tra i quali sarà Gaetano Donizetti (1797-1848)27. Il Consorzio destinò molte risorse al decoro e all’abbellimento della Chiesa di Santa Maria Maggiore, commissionando a rinomati artisti, tra cui spicca il nome di (1480-1557), opere la cui bellezza fanno di questo venerabile Tempio un prezioso scrigno d’arte di fama mondiale (fig. 4).

4 - Interno della Basilica di Santa Maria Maggiore.

Per quanto riguarda l’attività principale del Consorzio, l’aiuto a poveri e infermi, dalla metà del Trecento venne superata la consegna di generi alimentari casa per casa e si adottò il sistema dei “signa”, una sorta di tessere consegnate a persone indigenti iscritte dai canevari in apposite liste28. Con queste tessere ci si recava presso i magazzini e il forno della

27 Su queste istituzioni culturali della MÎA vedi Maria Teresa Brolis-Francesca Magnoni, Le opere della MÎA. Arte…, cit.; vedi anche Francesca Magnoni, Le opere della MÎA. L’istruzione, cit.

28 Maria Teresa Brolis-Paolo Cavalieri, Le opere della MÎA. L’assistenza, Bergamo, Bolis 32 Bravi - Fenili

MÎA a ritirare alimenti, elemosine in denaro, il pane. Dalla metà del Cinquecento i “signa” furono sostituiti dai “bollettini”, sottoscritti e consegnati sempre dai canevari dopo aver verificato, con sopralluoghi presso le abitazioni degli assistiti, l’effettivo stato di necessità di persone e famiglie29. L’attività caritativa e assistenziale del Consorzio si esplicò lungo i secoli anche con altre forme, volte a far fronte a una variegata tipologia di bisogni: elargizioni in denaro a giovani donne povere nubenti e a povere partorienti in occasione del parto; assistenza garantita tutti i mesi ai «miserabili, come sono li decrepiti, i stroppiati, ed altri simili oppressi da infermità lunghe, ovvero incurabili»30; visita e assistenza ai carcerati, almeno sino a quando non venne istituito nel 1320 uno specifico «Consortium carceratorum Comunis Pergami»; una elemosina annuale ai poveri cosiddetti «vergognosi, cioè quelli, che essendo vissuti in istato di buona fortuna, per qualche sinistro accidente sono caduti in povertà, e miseria, e tuttavia ritenuti da onesta vergogna non ardiscono domandar elemosina»31. La MÎA gestì anche due piccoli ospedali, l’Ospedale di San Vincenzo nella Vicinia di San Cassiano, posto nelle pertinenze del Capitolo della Cattedrale e, per soli pochi anni, dal 1449 al 1457, l’Ospedale di Santa Maria Maggiore nella Vicinia di Antescolis, in un complesso di edifici dell’attuale via Arena, oggi Casa Angelini. Gli hospitalia nel tardo Medioevo svolgevano una triplice funzione, di ricovero per bisognosi, di luogo di cura medica, di ente erogatore di elemosine. Nel 1457, per iniziativa del vescovo Giovanni Barozzi fu presa in accordo col Comune la decisione di erigere l’Ospedale Grande di San Marco, con lo scopo di accorpare in un unico ed efficiente organismo tutti i modesti e precari ospedali allora sparsi in Città, tra i quali i due ospedali amministrati dalla MÎA, gli unici ad essere all’interno dell’alta Città, che passarono quindi sotto la reggenza dell’Ospedale Grande di San Marco, la cui costruzione

Edizioni, 2015, con aggiornamento bibliografico alle pp. 75-77 (n. 6 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.), p. 34 e p. 64 e ss.

29 Vedi il cap. XXI Officio delli Signori Deputati a sottoscriver le Polizze delle Elemosine, che si fanno per mano delli Canevari de’ poveri, e il cap. XXII Officio de Deputato alla Cassa de’ Bollettini in Institutione, et Ordini della Misericordia Maggiore di Bergamo, Bergamo, Valerio Ventura, 1620, opera riprodotta in stampa anastatica nel volume di Daniele Rota, Cultura e carità a Bergamo. Mario Lupo, il suo tempo e la Misericordia Maggiore, Bergamo, MÎA, 2003. 30 Ivi, p. 18.

31 Ibidem. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 33 iniziò nel 1474 nel Prato di Sant’Alessandro. I reggenti dell’Ospedale Grande mantennero tuttavia nell’alta Città, presso gli edifici che erano stati occupati dall’Ospedale di Santa Maria Maggiore, la loro sede e l’ufficio del cancelliere32. In occasione delle innumerevoli carestie, pandemie, gravi crisi economiche, la MÎA corse in aiuto delle popolazioni non solo della Città, ma anche del contado, con massicce distribuzioni di farina, sale e altri generi alimentari. Le relazioni presentate al Senato dai Rettori veneti, rappresentanti in Città del governo della Serenissima dal 1428 al 1797, testimoniano l’efficacia dell’indispensabile opera della MÎA nel far fronte a situazioni di gravi emergenze; in alcuni momenti il Consorzio fu costretto a indebitarsi per garantire tempestività e continuità dei soccorsi.

Nei primi anni del Seicento si cominciò a introdurre nella intestazione del Consorzio l’aggettivo Maggiore: Consorzio della Misericordia Maggiore. Già nella nuova regola del 1498 si vedeva scritto: «Regula Consortii magni Misericordiae Civitatis Pergami» (regola del grande Consorzio della Misericordia della Città di Bergamo). L’introduzione dell’aggettivo Maggiore si deve al notaio cancelliere del Consorzio, Marcantonio Benaglio, che nei verbali delle sedute consiliari, a partire

32 L’Ospedale di Santa Maria Maggiore dai primi anni del Quattrocento era stato di proprietà della Fabbriceria della Chiesa di Santa Maria Maggiore, a cui Antoniolo Priacino aveva lasciato con testamento del 20 ottobre 1399 un complesso di edifici nell’attuale via Arena (oggi Casa Angelini) con lo scopo di destinarlo a ospedale per poveri e infermi: «pauperibus et egenis et infirmis qui per tempora aderunt in ipso hospitali». Soppressa nel 1449, come abbiamo visto, la Fabbriceria di Santa Maria Maggiore, alla MÎA passò con l’amministrazione della Chiesa anche tutto il patrimonio immobiliare di questa, compreso l’Ospedale. Il Consiglio Comunale deliberò il 21 febbraio 1461 di ubicare presso l’Ospedale di Santa Maria Maggiore, ampliandolo e migliorandolo, il nuovo Ospedale Grande di San Marco, la cui fondazione era stata deliberata nel 1457, proposta che venne poi abbandonata con la decisione di erigere l’Ospedale nuovo nel Prato di Sant’Alessandro, fuori delle mura dell’alta Città. I lavori iniziarono solo a partire dal 1474 e si conclusero negli anni trenta del Cinquecento. Nel frattempo, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, a mano a mano che i locali venivano pronti, l’Ospedale Grande cominciò ad accogliere infermi. All’Ospedale di Santa Maria Maggiore i reggenti dell’Ospedale Grande affidarono nel frattempo l’assistenza di esposti, lattanti e bambini sino al quinto anno d’età indigenti o orfani. Più avanti, nel XVI secolo, gli edifici della Vicinia di Antescolis furono destinati a ricovero di persone indigenti e come sede dei reggenti, del cancelliere e dell’archivio dell’Ospedale Grande. Ricca documentazione, criticamente studiata, sulla fondazione dell’Ospedale di Santa Maria Maggiore e dell’Ospedale Grande di San Marco in Stefania Locatelli, Storia di una “casa dipinta” in Bergamo. Dalla domus di Lucina alla casa Angelini, Tesi di laurea, anno acc. 1997-1998, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura. 34 Bravi - Fenili dal 1610, se pure all’inizio solo sporadicamente, iniziò a scrivere «Misericordia Maggiore», espressione che nel 1612 appose nel titolo del suo manoscritto Descritione delle proprietà del Venerando Consortio della Misericordia Maggiore di Bergamo33, intestazione formalmente definita nel 1620 quando, curata dallo stesso Benaglio, uscì a stampa presso Valerio Ventura Institutione, et Ordini della Misericordia Maggiore di Bergamo. A carta IV Benaglio scrive: «[Il Consorzio] et per li buoni fondamenti, i quali hebbe sin da principio, et per la copia delle facoltà lasciategli, et per la varietà dell’opre misericordiose, che fa, et per la prudenza, et integrità singolare di quelli, che l’hanno governato, è giunto a segno tale, che si ha ragionevolmente acquistato il nome di Consortio della Misericordia Maggiore». Dobbiamo credere a tutte le parole di Benaglio? Può sorgere qualche dubbio, considerando che esse smentirebbero, in parte, ciò che finora, non senza fondamento, si è sempre creduto: che l’aggettivo Maggiore per designare la Misericordia di Bergamo si sia impoto per sottolinearne la preminenza e l’importanza acquisite nei confronti delle molte Misericordie sorte in quasi tutte le parrocchie della Città e della diocesi. Comunque sia, il nuovo aggettivo è figlio, come tanti altri ampollosi aggettivi, dell’enfasi barocca seicentesca: esso, non è un caso, si impone nello stesso periodo in cui il Consiglio della MÎA diventa Magnifico e i Consiglieri Illustrissimi ed Eccellentissimi e Magnifici Signori. La Descritione del cancelliere Benaglio redatta nel 1612 rappresenta una preziosa fonte per la conoscenza del numero e della tipologia delle proprietà della MÎA in Città e nei comuni del contado. Nel corso dei secoli i reggenti, perseguendo l’obiettivo di concentrare e di accorpare le proprietà fondiarie dell’ente, alienarono molti terreni e immobili rurali ubicati in disperse località del Bergamasco, e ampliarono di conseguenza, per ottenerne una migliore redditività, quelli di tre paesi della media e bassa pianura bergamasca, Comun Nuovo, Spirano e Fara Olivana, riconoscibili a pieno titolo come “terre della Misericordia”34.

33 Il volume manoscritto conservato presso la sede della Fondazione MÎA è stato edito nel 2003 dall’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo a cura di Simona Gavanelli: Marcantonio Benaglio, Descrittione delle proprietà del Venerando Consortio della Misericordia Maggiore di Bergamo, cominciando l’anno 1612, Bergamo, Edizioni dell’Ateneo, 2003. 34 Per le proprietà fondiarie della MÎA in generale e in particolare nei tre comuni citati vedi La Misericordia Maggiore di Bergamo fra passato e presente, Bergamo, Edizioni dell’Ateneo, 2003; vedi anche Paolo Cavalieri-Gianmarco De Angelis, Le terre della MÎA. Le proprietà urbane e rurali, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, con aggiornamento Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 35

Alla fine degli antichi regimi, che coincise in Bergamo nel 1797 con la fine della dominazione veneta, la MÎA era dunque il massimo e più importante organismo bergamasco impegnato nell’opera di carità; amministrava la Chiesa di Santa Maria Maggiore con gli annessi compiti riguardanti l’officiatura, il decoro, la manutenzione; curava la Cappella musicale chiamando a dirigerla rinomati maestri e a costituirla cantanti e strumentisti di fama; gestiva una pubblica scuola di grado superiore, il Collegio Mariano, in cui si formava la classe dirigente cittadina prima di passare all’università. Già nel 1620 alle sue dipendenze erano circa 180 «salariati», di cui ben 115 tra sacerdoti, chierici, inservienti, musici, coristi, sacristi al servizio della Chiesa35. È assai probabile che lo stesso numero di «salariati», se non maggiore, fosse alle dipendenze della MÎA nel 1797. Le nuove idee filosofiche e politiche sviluppate e diffuse nel Secolo dei Lumi, in cui erano ampiamente dibattuti i temi della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia, della legge, della pubblica utilità, del progresso civile, intesi quali fondamento e finalità dello Stato, assegnavano alle autorità di governo nuovi e inediti compiti nel campo educativo, scolastico, culturale e sociale. Con la Rivoluzione francese, che di quei fondamenti e di quelle finalità intese essere interprete e a suo modo propugnatrice, si affermò anche in Italia una nuova concezione dell’aiuto a poveri e infermi, compiti che furono ora ritenuti di competenza dello Stato. Alla carità si sostituì l’assistenza pubblica; e gli enti caritatevoli di origine medievale, per i quali le opere di misericordia, considerate opere meritorie, avevano un fondamento teologico oltre che solidaristico, vennero trasformati in istituti di beneficenza con motivazione politica e civile. Il sistema dell’assistenza e della beneficenza del regime napoleonico, che finì per influenzare e per imporsi anche nei regimi successivi, aveva i suoi capisaldi nella prioritaria funzione assegnata in materia assistenziale allo Stato, nella razionalizzazione delle risorse, nell’efficacia degli interventi. A garantire l’efficacia del nuovo sistema concorse la soppressione di monasteri e conventi, i cui beni furono in gran parte bibliografico alle pp. 75-77 (n. 9 della collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore). 35 Institutione, ed Ordini della Misericordia Maggiore di Bergamo, Bergamo, per Valerio Ventura, 1620, ristampata per li Fratelli Rossi Stampatori Publici, 1766, e in copia anastatica in Daniele Rota, Cultura e Carità a Bergamo. Mario Lupo, il suo tempo e la Misericordia Maggiore, con Manoscritto inedito e Regola Antica, Bergamo, MÎA, 2003. 36 Bravi - Fenili devoluti all’istituzione o al miglioramento di ospedali, ospizi, case di ricovero, manicomi. Fu data grande importanza, per meglio indirizzare le risorse economiche, alla esatta conoscenza dei bisogni sociali mediante inchieste, elaborazione di dati statistici, relazioni di ispettori sulla qualità di strutture, locali, mezzi. Si introdusse negli uffici la modulistica a stampa per una più oggettiva rilevazione di dati personali, condizioni sanitarie, inventariazione di beni, strumenti, addetti ai servizi di assistenza. Anche gli archivi passarono dal registro e dal volume al fascicolo, con carte ordinate per titoli corrispondenti alla varie funzioni dell’ente assistenziale. Il nuovo sistema, anche se non più strettamente legato come nel passato a istanze religiose36, continuò comunque a beneficiare, con legati e donazioni anche molto cospicue, per tutto l’Ottocento e ancora nel Novecento, della generosità e della liberalità di privati cittadini, mossi da spirito civico, solidarietà umana, amor di patria. La nuova organizzazione assistenziale si attuò in Bergamo con l’istituzione il 23 dicembre 1807 della Congregazione di Carità, articolata in tre commissioni o sezioni: I. Ospedali, II. Ospizi e Orfanotrofi, III. Elemosine e Monti di Pietà37. Nel 1808, a seguito di questa nuova organizzazione, alla MÎA, che era l’ente assistenziale più antico e organizzato, nonché proprietario del più ricco patrimonio, vennero uniti nella terza sezione i seguenti enti e legati: Misericordia del Monte di San Vigilio, Pio Luogo eredità Ghislandi, Monte dell’Abbondanza, Consorzio

36 Non si deve dimenticare tuttavia che nel corso dell’Ottocento e all'inizio del Novecento a Bergamo continuarono le fondazioni di importanti istituzioni di ricovero o assistenziali ad opera di sacerdoti; tra queste ricordiamo quelle create da don Carlo Botta (1770-1849) e da don Luigi Palazzolo (1827-1886). Don Carlo Botta nel 1836 istituì nel quartiere di Sant’Alessandro in Colonna il Ricovero di San Carlo per la gioventù abbandonata con annesse le scuole d’arti e mestieri, l’Asilo Infantile Santa Chiara, l’Istituto di Santa Chiara per donne e fanciulle abbandonate e il Ricovero di Sant’Antonino per il ritiro di sacerdoti vecchi ed infermi, mentre don Luigi Palazzolo istituì nel 1864 la Pia Opera di Santa Dorotea, a favore delle giovani pericolanti o traviate, e nel 1869 la Congregazione delle suore Poverelle a cui si deve nel 1898 la fondazione nel quartiere di San Bernardino del “Ricovero per la vecchiaia”, e nel 1910 il nuovo Reparto delle Derelitte, destinato ad accogliere le orfane maggiori di 21 anni ed inabili al lavoro. 37 Biblioteca Civica Angelo Mai: Archivio storico comunale, Sezione Ottocento: Beneficenza, faldone 23, fascicoletto 1/1: Istruzioni generali per l’organizzazione delle Congregazioni di Carità, istituite dal R. Decreto 23 dicembre1807; per Milano si veda La generosità e la memoria. I luoghi pii elemosinieri di Milano e i loro benefattori attraverso i secoli, a cura di Ivanoe Riboli-Marco G. Bascapè-Sergio Rebora, Milano, Amministrazione delle II.PP.A.B., 1995, p. 29. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 37 post Murgulam38, legati Montichiari, Piatti, Mazzoleni-Campino, Pio Luogo del Sovvegno39. In Città, un’altra conseguenza della riforma collegata al Bando della mendicità del 1807, fu la fondazione nel 1811 della Casa di ricovero destinata ad accogliere i «poveri invalidi» e della Casa d’industria istituita per offrire opportunità di lavoro ai «poveri validi»40. Durante il periodo della dominazione francese e nei primi anni di quella austriaca la Congregazione di Carità funse da organo di coordinamento dei vari enti assistenziali di ricovero ed elemosinieri, mantenendone però distinti i patrimoni e le sedi, ciascuno coi rispettivi uffici e propri impiegati e, di conseguenza, nella maggior parte dei casi, mantenendone distinte anche le carte. Serve inoltre annotare che la legislazione del 1807 prevedeva per la prima volta anche il parziale concorso dei comuni a sostegno di ospedali, orfanotrofi, brefotrofi e istituti assistenziali41. Nel primo decennio della Restaurazione il governo austriaco non modificò l’efficiente organizzazione napoleonica. Il governo soppresse

38 Il Consorzio deve il nome alla Cappella di Sant’Alessandro nei pressi della (post Murgulam) in Borgo Palazzo. 39 Alle pagine 2 e 3 del Processo verbale della seduta della Congregazione di Carità del 12 settembre 1865 riunita per deliberare sul Progetto di statuto organico della Misericordia Maggiore e Luoghi Pii riuniti si legge: «veduti i Reali Decreti 5 settembre e 21 dicembre 1807 e 25 novembre 1808 in base ai quali tutti i suindicati legati aventi ciascuna una separata amministrazione ed una propria rappresentanza concentravansi sotto la Congregazione di Carità assegnandoli alla sezione elemosiniera. Osservato che sebbene li detti Legati venissero fin qui amministrati separatamente, i redditi di li medesimi, depurati dai pesi fissi, erano poi versati nella Cassa del principale Istituto detto della Misericordia per erogarli in elemosine»; il documento si trova presso la sede della Fondazione MÎA; sulla riunificazione degli enti elemosinieri e dei legati nella MÎA avvenuta nel 1808 si veda Angelo Giuseppe Roncalli, La Misericordia Maggiore di Bergamo e le altre istituzioni di beneficenza amministrate dalla Congregazione di Carità, Bergamo, Tipografia S. Alessandro, 1912, p. 90. Alla stessa pagina, l’autore scrive che più tardi si aggiungerà l’Eredità Scarpacci, Ostani e Volpi, e il legato Delle Sedie, a proposito del quale si rimanda al saggio di Giulia Todeschini, qui alle pp. 68-75. 40 A. Roncalli, La Misericordia…, cit., pp. 91-95, e il più recente studio di Juanita Schiavini Trezzi, Archivi per la storia dell’assistenza a Bergamo: Casa di Ricovero – Casa d’Industria – Ricovero di Mendicità. Inventario 1811-1959, Bergamo, Università degli Studi di Bergamo - Dipartimento di Lettere e Filosofia e Fondazione Casa di Ricovero S. Maria Ausiliatrice, 2013, in particolare l’Introduzione alle pp. I-III. 41 Per la ricostruzione dell’organizzazione assistenziale a Bergamo nel corso dell’Otto e del Novecento si fa riferimento anche al power point, reperibile on line, realizzato da Antonia Vernieri dell’equipe dell’Officina dello storico-Fondazione MÎA di Bergamo per la lezione tenuta martedì 15 marzo 2016 in occasione del corso “Con quanta carità et amore…”. La MÎA e la sua opera di assistenza organizzato da Itinerari di “Molte fedi sotto lo stesso cielo”, iniziativa culturale del Patronato ACLI di Bergamo. 38 Bravi - Fenili le Congregazioni di Carità solo nel 1825. L’anno prima la gestione della Misericordia Maggiore e degli enti ad essa aggregati nel 1808 era passata ad un nuovo organo, denominato Luoghi Pii Elemosinieri, che faceva capo ad un Amministratore dipendente direttamente dal Governo per la gestione economica e ad un Direttorio, sempre di nomina governativa, per l’erogazione della beneficenza42. Al Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri competeva, trovandosi la MÎA tra i Luoghi Pii da esso dipendenti, anche l’amministrazione della Basilica di Santa Maria Maggiore, con i connessi gravosi compiti della manutenzione e del decoro dell’edificio, del restauro delle opere d’arte43, dell’officiatura e della Cappella musicale. Si deve al Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri l’erezione in Basilica del monumento funebre di Giovanni Simone Mayr, commissionato a Innocenzo Fraccaroli nel 1852; e di aver propiziato la commissione del monumento funebre di Gaetano Donizetti a Vincenzo Vela nel 1855. Con l’avvento dell’Unità d’Italia, nel 1862 vennero ricostituite le Congregazioni di Carità, la cui organizzazione fu regolata dalle leggi del 20 novembre 1859 e del 3 agosto 1862 n. 753. Con la nuova legge il ruolo dei Comuni, appena adombrato nel 1807, crebbe notevolmente. Le nuove Congregazioni di Carità erano infatti rette da un Consiglio di nomina municipale, composto da otto membri più il presidente. Loro compito era di amministrare i patrimoni degli enti assistenziali, di assumerne la rappresentanza e di coordinarne l’attività44. Per disposizione dell’art. 33 della legge 20 novembre 1859 la Congregazione di Carità di Bergamo assunse quindi l’amministrazione e la rappresentanza della MÎA e degli enti e legati a questa aggregati; per Regio decreto del 6 marzo 1864 la Congregazione di Carità assumeva anche l’amministrazione del Monte di Pietà; e per Regio decreto dell’11 settembre 1864 anche

42 Oltre alla MÎA e agli altri enti ad essa aggregati nel 1808 dipendevano dal Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri anche il Monte di Pietà o dei Pegni, le commissarie Verdura e Ronzoni; mentre risultavano autonomi dal Direttorio gli altri istituti di ricovero ospedalieri e gli orfanotrofi compresa la Casa di Ricovero, la quale, con l’Unità d’Italia tornerà ad essere amministrata dalla ricostituita Congregazione di Carità: cfr. «Bergamo o sia Notizie Patrie», 1830, pp. 115-117. 43 Sui restauri operati dal Direttorio vedi Francesca Cortesi Bosco, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo, Bergamo, Credito Bergamasco, 1987, in particolare le pp. 63-77. 44 Cfr. Verbale dell’adunanza straordinaria tenuta dal Consiglio Comunale martedì 24 febbraio 1863 autorizzata dalla Prefettura di Bergamo con ordinanza 13.2.1863 n. 2497, in Biblioteca Civica Angelo Mai: Archivio Storico Comunale, Sezione Ottocento, Fald. 24 Beneficenza III, Congregazione di Carità fascicolo 1/3 Nomine della Congregazione di Carità istituita col decreto 3 agosto 1862, c. 10. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 39 l’amministrazione della Pia Casa di Ricovero e della Pia Casa d’Industria45. Nel 1872 fu approvato lo Statuto organico della Congregazione di Carità e delle Opere Pie dipendenti: la MÎA con le istituzioni minori ad essa aggregate, la Pia Casa di Ricovero e la Pia Casa d’Industria46. In base all’articolo 3 dello statuto, ciascuna delle tre opere pie «conservando la sua speciale natura è regolata da proprio e speciale statuto organico, e tiene distinte e separate le attività e le passività dei rispettivi patrimoni»47. La Congregazione di Carità disponeva di proprio personale che si occupava delle incombenze amministrative e organizzative. Tra il 1873 e il 1893 vennero eretti in Bergamo tre nuovi istituti di beneficenza: per far fronte al dilagare della povertà e dell’indigenza, il primo ottobre 1873 venne aperto il Ricovero di Mendicità nei locali di Santa Maria delle Grazie di ragione della Pia Casa di Ricovero; nel 1878, anno della morte del re, fu fondata l’Opera pia Vittorio Emanuele II per gli epilettici, sovvenzionata in parte con risorse della MÎA, per dar ricovero presso un reparto speciale della Casa di Ricovero a questi malati, giovani ed adulti, che non venivano ammessi né all’ospedale né al manicomio; infine nel 1893 la signora Carolina Engel fondava l’Opera pia Engel per soccorrere le famiglie dei carcerati48. Tutti e tre questi enti entrarono a far parte dell’amministrazione della Congregazione di Carità49. Nel 1890 la legge n. 6972 del 17 luglio, nota come Legge Crispi, razionalizzò il sistema assistenziale italiano e i Luoghi Pii assunsero la denominazione di Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficenza (IPAB). Il governo fascista, con legge del 3 giugno 1937 n. 847, istituì in ogni comune l’Ente Comunale di Assistenza (ECA). Art. 1: «È istituito in ogni Comune del Regno l’Ente Comunale di Assistenza. Esso ha lo

45 In base al Regio decreto dell’11 settembre 1864 l’Ospitale laico delle Orfane, il Pio Luogo dei Mendicanti, l’Albergo laicale dei Poveri detto il Conventino, il Pio Luogo del Soccorso, l’Orfanotrofio maschile dei Poveri di San Martino, l’Ospizio delle Donne in Ritiro o Convertite, furono riuniti nel “Consiglio degli Orfanotrofi”, confluendo poi tutti nel 1971 nell’unico organo amministrativo degli Istituti Educativi. Sulla fondazione, sulle vicende di questi Luoghi Pii e sulla conservazione delle loro carte in Archivio di Stato di Bergamo vedi Gianfranco Alessandretti, Il fondo degli Istituti Educativi nell’Archivio di Stato di Bergamo, in «Archivio Storico Bergamasco», n. 12 (1, 1987), pp. 125-156. 46 Statuto organico della Congregazione di Carità e delle Opere pie dipendenti cioè la Misericordia Maggiore, la Pia casa di Ricovero pei poveri e la Pia casa d’industria, Bergamo, Tipografia Fratelli Bolis, 1872. 47 Ibidem. 48 A. Roncalli, La Misericordia…, cit., pp. 95-96. 49 Ivi, pp. 100 -101. 40 Bravi - Fenili scopo di assistere gli individui e le famiglie che si trovino in condizioni di particolari necessità»; art. 4: «L’Ente Comunale di Assistenza provvede al raggiungimento dei suoi fini con le rendite del suo patrimonio e di quello delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza che esso amministra e che non siano destinate a particolari fini istituzionali». Le IPAB furono lasciate libere di aggregarsi all’ECA o di rendersi autonome. La Pia Casa di Ricovero e la Pia Casa d’Industria insieme al Ricovero di Mendicità scelsero di proseguire la loro attività autonomamente, decisione che venne ratificata dal Regio decreto dell’11 ottobre 1938, in base al quale queste tre istituzioni furono amministrate da un unico Consiglio di amministrazione50. La MÎA rimase invece unita all’ECA, mantenendo tuttavia separata la gestione del proprio patrimonio sia da quello dell’ECA sia da quello degli altri istituti. L’organo di governo dell’ECA era costituito da un Comitato formato dal podestà, da un rappresentante del fascio di combattimento, dalla segretaria del fascio femminile e dai rappresentanti delle associazioni corporative il cui numero variava in base agli abitanti di ciascun Comune. Di fatto gli ECA assunsero le funzioni amministrative e di coordinamento svolte in precedenza dalle Congregazioni di Carità. Nel frattempo la MÎA aveva cambiato sede. Quando tutte le principali istituzioni pubbliche, compreso il Comune, lasciarono Città Alta per trasferirsi in Città Bassa, in cui nel volgere di pochi anni si formò il centro direzionale cittadino, anche la MÎA nel 1866 lasciò la Domus Magna di via Arena per trasferirsi nel palazzo della Casa di Ricovero, nel quale erano anche gli uffici della Congregazione di Carità51. Qui rimase fino al 1915, anno in cui con la Congregazione di Carità si trasferì nell’edificio del Monte di Pietà in viale Vittorio Emanuele 10. Con l’avvento della Repubblica nel 1946 gli ECA furono mantenuti in vita, ma cambiò la rappresentanza all’interno dell’organo deliberativo. La nomina del Consiglo di amministrazione, che restava in carica quattro anni, fu assegnata al Consiglio Comunale. Il Consiglio dell’ECA di Bergamo nel 1956 era composto da dodici membri più il presidente e il segretario52. Col trasloco dell’ECA nel 1975 dall’edificio del Monte di Pietà in via Malj Tabajani 4, anche la MÎA trovò qui nuova sede. Non sorprende che per parecchio tempo la sede della MÎA sia coincisa prima con quella della

50 J. Schiavini Trezzi, Archivi per la storia dell’assistenza a Bergamo…cit., p. VI. 51 Attuale sede del Banco BPM Spa in Largo Porta Nuova 2, Bergamo. 52 L’ Ente Comunale Assistenza (E.C.A.) di Bergamo nel quadriennio 1956-60, Bergamo, Industrie Grafiche Cattaneo, 1961, p. 15. Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 41

Congregazione di Carità poi dell’ECA. Non va infatti dimenticato che in tutti i cambiamenti istituzionali e organizzativi che si sono succeduti nella gestione dell’assistenza e della beneficenza a Bergamo dal 1807 a questa data, la MÎA ha rappresentato, a motivo dell’ammontare del suo notevole patrimonio, del vasto campo d’attività assistenziale, della pluralità di compiti ad essa assegnati, compreso quello della gestione della Basilica di Santa Maria Maggiore, almeno l’80% del volume di incombenze, affari e deliberazioni del Consiglio della Congregazione di Carità (1808-1824), del Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri (1824- 1862), nuovamente del Consiglio della ricostituita Congregazione di Carità (1862-1937), infine del Consiglio dell’ECA (1937-1978): per cui non si è lontani dal vero quando si dice che i vari Consigli di questi organismi succedutisi tra Otto e Novecento sono continuati ad essere in realtà Consigli della Misericordia Maggiore con competenze allargate a comprendere quelle di altri enti assistenziali, assai minori per importanza e rilevanza economica. Nel 1978, con il passaggio dell’assistenza sanitaria alle Regioni di recente istituzione, gli ECA furono aboliti; i beni residui e il personale delle IPAB furono trasferiti ai Comuni53. Il Consiglio di amministrazione dell’ECA il 30 marzo 1978 inoltrò al Presidente del Consiglio dei Ministri la richiesta di escludere la MÎA dall’elenco delle IPAB destinate ad essere trasferite al Comune, adducendo come motivazione il fatto che una delle attività precipue dell’ente riguardava la sfera educativo-religiosa. La richiesta fu accolta, per cui si può dire che la sopravvivenza della MÎA sia stata garantita dalla Basilica di Santa Maria Maggiore. Nel gennaio 2014, dopo trentasei anni in cui l’ente ha continuato ad operare come IPAB autonoma, si è trasformato in Fondazione, ai sensi dell’art. 12 del Codice Civile, con personalità giuridica di diritto privato acquisita ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica del 10 febbraio 2000 n. 361. La Fondazione Congregazione Misericordia Maggiore di Bergamo, questa è la nuova denominazione assunta dall’ente, non ha scopo di lucro, riconferma il rispetto degli interessi e delle finalità espressi nelle tavole fondative e negli statuti originari e partecipa, sulla scorta della legislazione vigente ed in aderenza alla propria ispirazione cristiana alla realizzazione del sistema sociale, nell’ambito caritativo assistenziale,

53 Legge Regionale n. 23 del 9 marzo 1978. 42 Bravi - Fenili educativo e formativo. Come recita l’articolo 4, la Fondazione, perseguendo le finalità che furono e sono proprie della MÎA, ha i seguenti scopi primari e fondamentali:

- Promuove attività inerenti la sfera educativo-religiosa, nel rispetto dell’originaria connotazione cristiana cattolica. - Provvede a soddisfare le esigenze di tutte le antiche e nuove povertà. - Sostiene l’attività di istruzione e cultura nei più ampi aspetti e manifestazioni tendenti sia alla conservazione dei beni strumentali che delle tradizioni, nonché alla promozione di nuove attività ed opere nell’ambito prioritariamente bergamasco ed eventualmente lombardo. - Garantisce l’officiatura, il governo e l’amministrazione della Basilica di Santa Maria Maggiore, Cappella della Città, con gli inerenti servizi religiosi, culturali ed educativi, prevedendo apposita convenzione con la Diocesi di Bergamo. - Mantiene, valorizza ed incrementa l’intero patrimonio mobiliare ed immobiliare e gestisce al meglio i beni in affidamento.

Nel 2007 la Fondazione, guidata dall’allora presidente Giuseppe Pezzoni, ha acquistato dalla Società Valle d’Astino l’ex Monastero vallombrosano e i circa 60 ettari di terreni adiacenti di cui 30 a bosco54. Negli anni successivi, viste le condizioni di grave degrado ed abbandono, ha finanziato e avviato l’intervento di messa in sicurezza dell’edificio e il restauro conservativo della chiesa, del chiostro e degli ambienti del piano terra. La Chiesa del Santo Sepolcro è stata riconsacrata il 14 settembre 2014 e ogni domenica, alle ore 16, il rettore della Basilica di Santa Maria Maggiore, don Gilberto Sessantini, vi celebra la messa (fig. 5). Da maggio a ottobre 2015, in occasione dell’Esposizione Universale di Milano, la Fondazione ha restituito il complesso monastico alla Città, garantendone l’apertura e la fruizione pubblica, e la valorizzazione con l’organizzazione di visite guidate, conferenze e mostre Sulla base di una convenzione, la Fondazione ha concesso all’Orto Botanico di Bergamo circa un ettaro di terreno nei pressi del Monastero, su

54 Gianmarco De Angelis, Astino. Monastero della città, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, con aggiornamento bibliografico alle pp. 76-78 (n. 1 della Collana pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, cit.). Il secolare cammino della Misericordia Maggiore 43 cui l’Istituto comunale ha insediato l’Orto della biodiversità. Nei restanti terreni è stato avviato un “progetto di valorizzazione agro-ambientale”; gli appezzamenti agricoli sono stati concessi in affitto ad imprenditori che hanno sottoscritto una carta etica e si impegnano a praticare un’agricoltura biologica e sostenibile coltivando ortaggi, luppolo, piccoli frutti, frutta d’albero, uva, piante aromatiche, olivi e seminativi. All’interno del progetto particolarmente importante è l'attenzione posta alla naturalità dei contesti con destinazione non produttiva, che devono essere oggetto di manutenzione secondo modalità e tempi ecologicamente compatibili, nel rispetto dei cicli biologici delle componenti floristiche e faunistiche.

L’organizzazione della Fondazione prevede un Consiglio di Amministrazione composto da nove membri, presidente compreso, nominati dal Sindaco di Bergamo; tra i nove membri è anche un presbitero della Chiesa bergamasca indicato dal Vescovo. Il Consiglio di amministrazione resta in carica cinque anni. L’attività è affidata al lavoro di commissioni formate dai consiglieri. Il Consiglio di Amministrazione in carica è composto da Fabio Bombardieri presidente, Luciana Gattinoni vice-presidente, consiglieri: Corrado Benigni, Maurizio Bergamini, Paolo Bertoldini, monsignor Lucio Carminati, Federico Elzi, Roberto Magri e Claudio Pelis. I revisori dei conti sono Carlo Bergamo, Lauro Montanelli e Romina Rossi.

5 - L’ex Monastero San Sepolcro di Astino.

45

Gianluca Perondi

A CARTE SCOPERTE. LA MÎA E GLI «ALTRI». GLI ARCHIVI DELLA MISERICORDIA MAGGIORE E DELLA CONGREGAZIONE DI CARITÀ

Non sono molte le istituzioni assistenziali che possono vantare 750 anni di storia. E sono ancora meno quelle che questa storia la possono documentare per larghissima parte con i propri archivi, dalla fondazio- ne ad oggi. Nel caso della MÎA questa “fortuna” si collega direttamente all’assunzione progressiva di un ruolo fondamentale per l’assistenza nel territorio bergamasco, con un forte prestigio derivato dalla capacità di mobilitare e gestire risorse notevolissime insieme ad una tradizione di buona amministrazione e costante fedeltà agli ideali originari. Sono queste caratteristiche a far sì che anche quando in epoca napo- leonica la MÎA perde la propria autonomia, nelle diverse istituzioni (Con- gregazione di Carità: 1808-1824, Luoghi Pii Elemosinieri: 1824-1862, Congregazione di Carità: 1862-1937, ECA: 1937-1978) che per oltre 170 anni ne hanno gestito il patrimonio1 si sia mantenuta viva una fortissima consapevolezza della natura complessa e particolare di questo ente e delle ragioni della sua identità. E quando nel 1978 si paventa il rischio della sua definitiva scomparsa in ragione di un generale passaggio di competenze dai Comuni alle neonate Regioni, si creano invece le con- dizioni per uscire dal sistema dell’assistenza pubblica e ritornare in una condizione di rinnovata autonomia. I mutamenti storici, le vicissitudini istituzionali, la crescita nel tempo dei compiti assegnati all’ente, i vari cambiamenti di sede: sono tutte circostanze che si riflettono nella storia dell’archivio della MÎA e che ne hanno determinato l’attuale condizione. Compito di questo intervento è di offrire ai lettori e ai ricercatori, che si spera siano sempre molti, una mappa per orientarsi nella complessa arti- colazione dell’archivio e nei luoghi della sua conservazione.

1 Con il decreto 21 dicembre 1807 del Regno d’Italia che affidava alla nuova Congregazione di Carità di Bergamo l’amministrazione di tutte le opere pie cittadine, anche la MÎA passava sotto la diretta amministrazione del nuovo ente e delle sue successive trasformazioni ovvero Luoghi Pii Elemosinieri (1824), ancora Congregazione di Carità (1862), Ente comunale di assistenza (1937). 46 Gianluca Perondi

I luoghi degli archivi2 Per quasi sei secoli e mezzo l’archivio della MÎA è stato conservato presso le diverse sedi del Consorzio o degli enti che nel tempo ne hanno assunto l’amministrazione. Oggi l’inestimabile documentazione prodot- ta dalla MÎA nei suoi 750 anni di vita la troviamo invece conservata in tre luoghi chiave della memoria cittadina: - nella Biblioteca Civica Angelo Mai è depositata la parte più an- tica dell’archivio, a seguito del deposito del 19123, resa disponibile agli studiosi dalla metà degli anni sessanta del Novecento in occa- sione del 700° anno di fondazione della MÎA. Oltre alla parte antica dell’archivio della MÎA, la Biblioteca attualmente custodisce anche i Processi verbali della Congregazione di Carità (283 registri, anni 1807-1890) e 297 unità archivistiche della Congregazione di Carità poi ECA (buste e registri, anni 1807-1978)4, nonché alcuni fascicoli del Pio Istituto musicale; - nell’Archivio di Stato di Bergamo, dove dal 2014 sono stati tra- sferiti dalla Fondazione MÎA i numerosi registri e faldoni che vanno dall’età napoleonica alla metà del secolo scorso, in larga parte una fonte inedita per la storia della MÎA e della vita sociale ed economica del nostro territorio; - nell’Archivio del Comune di Bergamo, dove dalla fine del 2014 è collocata la cospicua documentazione (oltre 800 faldoni e 1000 re- gistri) che nel 1961 dall’ECA era stata trasferita alla Biblioteca Civica Angelo Mai, documentazione all’interno della quale sono presenti numerosi faldoni di pertinenza della MÎA relativi alla Basilica di San- ta Maria Maggiore, all’Istituto Musicale e alla beneficenza.

2 Non si fa in questa sede riferimento a quanto conservato dalla Fondazione della Casa di Ricovero perché non ci risulta avere documentazione di diretta pertinenza della MÎA, mentre conserva spezzoni d’archivio della Congregazione di Carità, sezione Affari Generali, della Casa d’Industria e del Ricovero di Mendicità. 3 Per inciso ricordiamo che presso la Sezione musicale della Biblioteca Mai sono di proprietà della MÎA, e ivi depositati, il fondo della Cappella di Santa Maria Maggiore, il fondo Piatti-Lochis e il fondo Giulio Dentella. 4 In questa domunentazione otto-novecentesca custodita presso la Biblioteca si trovano dunque i registri delle deliberazioni della Congregazione di Carità dal 1807 al 1900 (denominati Processi verbali) e dal 1919 al 1978 (denominati Registri delle deliberazioni) Gli archivi della Misericordia Maggiore 47

La Sezione antica presso la Biblioteca Civica Angelo Mai Il Consiglio della Congregazione di Carità di Bergamo nel 1911 «dopo animata discussione alla quale prendono parte tutti i suoi componenti»5, deliberava di acconsentire «al trasporto dell’Archivio Vecchio della Con- gregazione di Carità – per la parte che si trova nei matronei della Basili- ca e quella che è rimasta in questi uffici – a titolo di semplice deposito presso la Biblioteca del Comune di Bergamo». L’11 e 12 luglio dell’anno seguente si procedeva ad un primo trasferimento dalla sede della Con- gregazione alla Biblioteca, allora ubicata presso il Palazzo della Ragione, utilizzando alcune accortezze per mantenere per quanto possibile l’ordi- ne iniziale6. Nel settembre del 1913 dai matronei della Basilica venivano invece prelevate e trasferite «pergamene, corrispondenze e mastri tutti anteriori al 1800», insieme alle nove grandi casse di legno che conte- nevano le pergamene. La documentazione della MÎA oggetto di questo deposito troverà poi una prima descrizione nell’inventario di monsignor Luigi Chiodi7 pubblicato nel 1965, che a tutt’oggi è ancora lo strumento in uso per la consultazione dell’archivio. Ciò ha permesso l’avvio di una intensa fase di ricerche e studi su tutto il periodo che va dalla fondazione del Consorzio nel 1265 fino all’età napoleonica e relativi ai diversi ambi- ti, religioso, economico, culturale, artistico, musicale, con una produzio- ne straordinaria di studi ad opera di ricercatori italiani e stranieri. La Sezione moderna, otto-novecentesca, presso l’Archivio di Stato di Bergamo Dopo quasi un cinquantennio dalla pubblicazione dell’inventario dell’archivio antico della MÎA – e ancora in un periodo di ricorrenze, il 750° di fondazione dell’ente – una seconda fase si realizza con il depo- sito della documentazione ottocentesca e novecentesca presso la nuova sede dell’Archivio di Stato di Bergamo.

5 Congregazione di Carità, Delibera n. 2380 dell’8 novembre 1911, in Biblioteca Civica Angelo Mai, Congregazione di Carità (poi ECA), Busta.136, Fascicolo 3, c.2. 6 «I Volumi, le filze e le pergamene di ogni palchetto degli armadi della […] Congregazione di Carità, vennero dall’archivista estratti e collocati in altrettante casse, oppure in sacchi appositi con numeri rispondenti a quelli dei palchetti». «L’archivista dell’Onorevole Congregazione trattenne le tabelle cogli indici di ogni palchetto e consegnò l’indice generale che servirà di base per il riordinamento e la catalogazione di detto archivio». Cfr. Verbale del trasferimento dell’archivio, 11-12 luglio 1912, in Biblioteca Mai, Congregazione di Carità (poi E.C.A.) Busta.136, Fascicolo 3, c.2. 7 Luigi Chiodi, Nel 7° centenario di fondazione della Misericordia Maggiore di Bergamo, in «Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai», n. 3-4, 1965, p. 3-96. 48 Gianluca Perondi

Si tratta di un importante nucleo di carte che aveva seguito i vari trasferimenti della Congregazione di Carità e poi dell’ECA8 nella attua- le sede della fondazione MÎA in via Malj Tabajani. Oggetto di un pri- mo intervento di riordino tra il 1959 e il 1962, rimasto incompiuto per la scomparsa dell’archivista incaricato, queste carte ci restituiscono la complessità della gestione dell’assistenza, dall’ingresso sulla scena ber- gamasca della Congregazione di Carità nel 1808 fino al recente passato. Anche qui è sempre la MÎA ad essere il soggetto largamente più signi- ficativo della documentazione con oltre 2.700 fascicoli e 600 registri, affiancata dalla Congregazione stessa con oltre 1.300 fascicoli e 500 registri. Ma abbiamo anche la presenza di altri 27 soggetti con nuclei documentari a volte minimi a volte più consistenti, che nel complesso arrivano a oltre un migliaio di unità. Tutta questa documentazione depositata dalla Fondazione MÎA nell’Archivio di Stato è stata oggetto negli ultimi anni di un lavoro di inventariazione analitico che può essere consultato on line sul sito web dell’Archivio di Stato di Bergamo (http://www.asbergamo.beniculturali. it/Patrimonio/Inventari digitali/Fondazione Mia-Inventario dell’Archivio Storico- Sezione Moderna). Qui sotto, invece, per offrire un’idea della complessità e della ric- chezza della documentazione si riporta l’elenco degli archivi degli enti soggetti all’amministrazione della Congregazione di Carità, esclusa la MÎA di cui si è già detto sopra. La ricchezza e la varietà di queste carte permettono infatti di ampliare le informazioni sulla gestione della pub- blica beneficenza in Bergamo, potendo oggi consultare le carte anche di enti minori ma non per questo meno significativi.

8 Nel 1808 la prima Congregazione di Carità ha sede presso i locali della MÎA, in via Arena 9. Nel 1866 la sede della Congregazione si sposta da Città Alta in Città Bassa, all’interno dell’edificio della Casa di Ricovero, dove resterà fino al 1915, quando si trasferirà in via Vittorio Emanuele 10, all’interno del nuovo palazzo del Monte di Pietà. Nel 1975 L’ECA si trasferisce nei locali di via Malj Tabaiani 4, attuale sede della Fondazione MÎA. Gli archivi della Misericordia Maggiore 49

Tabella 1. Archivi di enti soggetti alla Congregazione di Carità

Estremi Estremi Enti soggetti Unità Enti soggetti Unità cronologici cronologici

Pia Casa di Ricovero 172 (1854 - 1972) Consorzio dei Carcerati 23 (1720 - 1818)

Congregazione di Carità Opera Pia Engel 109 (1891 - 1964) 21 (1916 - 1927) di

Compagnia Roggia Morla 97 (1457 - 1934) Ricovero di Mendicità 17 (1890 - 1958) di Comun Nuovo

Monte dell’Abbondanza 74 (1635 - 1867) EAF – EPFA 14 (1943 - 1944)

Monte di Pietà 72 (1798 - 1939) Monte di San Vigilio 11 (1769 - 1835)

Pio Luogo Eredità Ghislandi 57 (1804 - 1898) Legato Pio Facchinetti 6 (1927 - 1933)

Congregazione di Carità Pio Luogo del Sovvegno 55 (1705 - 1867) 4 (1927 - 1930) di

Compagnia degli Utenti della 51 (1816 - 1941) Carte Locatelli 3 (1930 - 1950) Roggia Morla di Campagnola

Legato Montichiari 48 (1820 - 1867) Stabilimento dei Mendicanti 3 (1807 - 1809)

Legato Mazzoleni Campini 46 (1809 - 1867) Consorzio Post Murgulam 2 (1819 - 1932)

Congregazione di Carità di Congregazione di Carità 40 (1840 - 1926) 1 (1738 - 1909) di

Opera Pia Vittorio Emanuele II 31 (1876 - 1950) Maria Caleppio Ricotti 1 (1926)

Pane quotidiano ai poveri 26 (1951 - 1964) Ospedale della Maddalena 1 (1811)

Pia Casa di Industria 25 (1811 - 1965)

Per i fondi maggiori, come quello della MÎA, della Pia Casa di Rico- vero e dell’Opera Pia Engel siamo in presenza di archivi strutturati, col- legati a titolari che hanno consentito di procedere con un riordino che in larga parte ha potuto rispettare l’organizzazione originaria delle carte. 50 Gianluca Perondi

Nella tabella seguente vengono elencati i titoli con i quali sono stati riordinati gli archivi nel recente inventario.

Tabella 2. I titolari della MÎA, della Congregazione di Carità (Affari Generali) e della Pia Casa di Ricovero.

Congregazione di Carità MÎA Pia Casa di Ricovero (Affari generali) A.G.I. Leggi, regolamenti, I. Beni e case I. Affittanze disposizioni

II. Aggravi pubblici A.G.II. Aggravi pubblici II. Aggravi pubblici

A.G.II. 1/2 assegni e III. Acque canali e roggie III. Acque canali e roggie prestazioni attive IV. Taglio boschi - vendita piante e legna – permu- IV. Basilica Santa Maria Mag- A.G.III. Bilanci e conti te – vendite - acquisti e giore cessioni gratuite – precari attivi, passivi, cessati

V. Precari - vendite - permute - acquisti - taglio A.G.IV. Cassa V. Bilanci e conti boschi - vendita piante

VI. Bilanci e conti A.G.V. Impiegati e uffici VI. Capitali

VII. Capitali A.G.VI. Materie diverse VII. Eredità e legati

A.G.VII. Operazioni VIII. Livelli e prestazioni VIII. Istituto Musicale periodiche attive e passive

IX. Eredità e legati A.G.VIII. Patrimonio IX. Oggetti vari

X. Livelli e prestazioni A.G.IX. Affari promiscui X. Operazioni periodiche

XI. Oggetti vari XI. Pio Stabilimento

XII. Operazioni periodiche XII. Ricoverati

XIII. Sussidi e doti Gli archivi della Misericordia Maggiore 51

Inoltre la cura e l’attenzione nella tenuta dei propri libri e registri, che da sempre avevano contraddistinto i reggenti della MÎA, con il passaggio della gestione del Consorzio nel 1808 alla Congregazione di Carità si rinforzano ulteriormente, soprattutto per l’introduzione di procedure e strumenti innovativi che daranno di fatto una nuova forma alla conserva- zione e alla produzione documentale sia della MÎA che degli altri enti aggregati. Documento cardine in questa 'rivoluzione' è il Piano organico della Congregazione della Carità di Bergamo e Regolamento disciplinare in esecuzione del piano medesimo approvato dal Ministro dell’Interno il 27 dicembre 18119. Fra le raccomandazioni ritroviamo le indicazioni per il protocollo, molto puntuali e il cui impianto resterà costantemente applicato. In particolare si stabiliva che:

33. Vi è un protocollo generale ed è unico. 34. Gli Esibiti tutti d’ogni provenienza, e d’ogni natura, qualora non siano riservati, saranno registrati nel giorno stesso in cui pervengono al Proto- collo, indicando a tergo de' medesimi, e nel Protocollo stesso l’annota- zione – Congregazione di Carità – e la Sezione o Segretaria Generale cui appartengono, e il loro oggetto. 35. Così registrati si dovranno pure nel giorno stesso rimettere alla Segretaria Generale per la diramazione, come all’art. 20. Il processo verbale di cia- scuna Seduta dalla Segretaria sarà consegnato al Protocollista. 36. Sarà incumbenza dello stesso il riportare sul Protocollo le deliberazioni corrispondenti agl’esibiti notati sul protocollo medesimo, col loro nume- ro e annotarvi in estratto anche le mozioni ex officio come viene prescrit- to all’articolo 27. 37. Dovrà tenere un indice di Protocollo per Cognome, e località, il quale per maggiore semplicità di operazioni servirà per indice d’archivio. Anche l’archivio trovava una sua regolamentazione interna. Innanzi- tutto si prevedeva la figura dell’ “Archivista Generale”, precisando che: 49. Nell’Archivio Generale saranno raccolte tutte le Carte degli Stabilimenti di pubblica Beneficenza, e degl’Uffici della Congregazione, tenendosi sempre separate le carte che appartengono a ciascuno dei Pii Instituti, e colla corrispondente classificazione delle materie. 50. Non si dovrà affidare dall’archivista alcuna Carta se non ai membri della Congregazione, al Consulente legale, alli Segretario e Ragionato generali e alli Segretari, e Ragionati aggiunti, sempre contro ricevuta e con l’ob-

9 Biblioteca Civica Angelo Mai, Congregazione di Carità (poi ECA) Busta 52, Vol. I Fasc. 1-2, 6- 7 Leggi – Regolamenti-Disposizioni (1811-1978). 52 Gianluca Perondi

bligo alli medesimi di usarne solo in Ufficio. Quando poi i documenti vengono ricercati da persone estranee, non devono essere mai date se non in copia, e sopra ordine per iscritto della Congregazione o della Commissione. 51. L’Archivista avrà la sorveglianza e direzione tanto delle Carte della Con- gregazione quanto di tutti gli Archivj delle cessate Amministrazioni de’ Pii Luoghi concentrati.

Si tratta di indicazioni estremamente moderne (e per larga parte va- lide anche oggi) e che ad onor del vero in buona parte trovano effettivo riscontro nei contenuti e nelle modalità di gestione dell’archivio10. Si attiva un preciso flusso documentale tra il protocollo e gli uffici e sulle carte sono costantemente presenti le annotazioni della classi- ficazione, della registrazione, sunti e rimandi che rendono evidente il costante lavoro di organizzazione delle carte. L’organizzazione prevalente diventa il fascicolo, spesso nella sua for- ma 'a cipolla' ovvero i documenti materialmente non si posano l’uno sull’altro, ma i precedenti sono man mano collocati all’interno dei susse- guenti. Anche le registrazioni contabili si vanno man mano uniformando e spesso ritroviamo serie parallele per i diversi Stabilimenti amministrati.

Altra documentazione della Congregazione di Carità, della MÎA e di altri enti assistenziali presso l’Archivio del Comune di Bergamo.

Nel 1937 fu istituito l’ECA (Ente Comunale di Assistenza), che suben- trò alla Congregazione di Carità nella gestione delle opere pie tra le quali la principale rimase sempre la MÎA. L’ECA rimase attiva sino al 1978, quando la politica assistenziale verrà demandata alle Regioni di recen- te istituzione. L’ECA acquisì la documentazione della Congregazione di Carità e nel periodo in cui fu operante ne produsse di nuova. Arriviamo quindi al terzo nucleo documentario, che ha avuto vicende più movi- mentate e che oggi è per la maggior parte approdato nell’Archivio del Comune, mentre una buona parte è conservata nella Biblioteca Civica Angelo Mai.

10 In diversi casi queste prassi a due secoli di distanza sono state saggiamente mantenute attive anche nell’attuale organizzazione dell’archivio corrente gestito dagli uffici della Fondazione MÎA. Oltre all’uso del titolario e del protocollo (oggi ovviamente informatico) è rimasta in uso anche la gestione centralizzata presso l’archivio delle pratiche correnti, che quindi vengono 'prestate' dall’archivio agli uffici per il loro disbrigo, ma che sono costantemente sotto il controllo e la custodia dell’archivio stesso. Gli archivi della Misericordia Maggiore 53

Nel 1957 si avviava un intervento sull’archivio 'di deposito' presente nei Matronei della Basilica che portava allo spostamento della documen- tazione contabile presso un locale sotterraneo della Pia Casa di Riposo alla Clementina e all’ulteriore trasferimento nell’estate del 1958 di tutta la documentazione storica (o non contabile) in una sala al piano rialzato del Palazzo di via Arena 9. Ma l’esigenza di disporre di quella sala per la Scuola di Canto Corale faceva sì che nell’ottobre del 1961 – e quindi nello stesso periodo in cui si stava predisponendo l’inventario del primo deposito (archivio antico) presso la Biblioteca Civica Angelo Mai – il di- rettore della Biblioteca monsignor Luigi Chiodi fosse interpellato dall’E- CA per accogliere nuovamente presso la Biblioteca un ulteriore lotto di carte. Anche questa volta si tratta di una notevole mole di documenta- zione (il verbale redatto parla di 1.096 faldoni, 997 registri, 282 volumi, 50 tabelle, 10 opuscoli, 1 libro ricevute, a cui si aggiungeranno altri 95 faldoni prelevati in seguito dalla sede dell’ECA)11. Come si può vedere nella tabella 5, per la Congregazione di Carità è presente la documen- tazione dei primi anni, seguita da quella dei Pii luoghi Elemosinieri (as- sente invece nelle carte in Archivio di Stato), l’istituzione che, subentrata alla Congregazione di Carità, gestì la MÎA e le altre opere pie dal 1824 al 1862.

11 Cfr. Verbale di constatazione del trasferimento presso la Biblioteca Civica di tutti gli atti d’ufficio già sistemati nell’archivio di deposito del fabbricato di via Arena ,9 22 dicembre 1961, e Trasferimento materiale d’archivio di deposito dalla sede dell’Ente alla Civica Biblioteca di Bergamo. Relazione dell’Ufficio Archivio.25 gennaio 1962. Entrambi in Biblioteca Civica Angelo Mai, Congregazione di Carità (poi ECA) Busta 136, Fascicolo 3, c.2. 54 Gianluca Perondi

Tabella 3. Registri e faldoni trasferiti dall’Archivio di deposito di via Arena 9 alla Biblioteca Civica Angelo Mai effettuato nei giorni 13-14-15 dicembre 1961 (2.436 pezzi)

Doppio castello in posizione sud-nord, Parete nord staccato dalle pareti 332 faldoni LL.PP. Elemosinieri a) visto di fronte entrando 444 registri rubriche e protocolli 248 faldoni dell’O.P. Misericordia 16 registri registri di deliberazioni Maggiore e della Parete est Congregazione di Carità 267 faldoni dell’ O.P. Casa di Ricovero 6 registri rilegati in pelle 454 registri protocolli e rubriche con maniglie di ottone dell’Istituto Musicale Parete sud 1 registri come sopra della 20 faldoni Gazzette ufficiali Cappella musicale della Basilica Mezza parete ovest - sinistra entrando 10 opuscoli “Appunti sulla vecchia 282 volumi abbozzi verbali di Basilica di Santa Maria deliberazioni Maggiore - Ing. Elia Fornoni” Mezza parete ovest - destra entrando 50 tabelle tabelle in cartoncino elenchi testamenti 117 faldoni Pia Casa d’Industria “Armarium” 4 registri rubriche, mastro, due 1 libro ricevute fatte dai sigg. go- casse particolari ricevute vernatori per somme prestate sopra pegni dal 1767 al 1774 2 registri registri verbali 3 registri registri di cassa 1 registri emissione mandati b) retro del castello 112 faldoni della Congregazione di Carità 41 registri protocolli 25 registri libri registri vari Gli archivi della Misericordia Maggiore 55

Tabella 4. Faldoni trasferiti dalla sede dell’ECA alla Biblioteca Civica Angelo Mai il 29 gennaio 1962

Misericordia Maggiore 23 faldoni (di cui 13 class. XIII) Basilica 24 faldoni (class. IV MÎA) Pia Scuola Musicale G. Donizetti 34 faldoni (class. VIII MÎA) Congregazione di Carità 4 faldoni Congregazione di Carità AAGG 7 faldoni Casa di Industria 1 faldone Casa di Ricovero 1 faldone Eca 1 faldone Totale 95 faldoni

Purtroppo va detto che - ad eccezione dei registri delle deliberazioni della Congregazione di Carità (Processi verbali, 283 registri, anni 1807- 1890) che sono attualmente ancora conservati in Biblioteca Mai - que- sto secondo deposito in Biblioteca è stato meno 'fortunato' del primo. Nonostante le sollecitazioni dell’autorità di vigilanza archivistica e vari progetti di riordino e inventariazione presentati a più riprese dalla stessa Biblioteca, negli anni ha subito vari spostamenti all’interno dei depositi comunali, con esiti non sempre felici per lo stato di conservazione delle carte. Finalmente con l’ultimo trasferimento della fine del 2014 presso i locali dell’Archivio del Comune di Bergamo, in via Torquato Tasso 4, si sono create le condizioni logistiche per poter realizzare un primo e es- senziale ma comunque significativo censimento delle buste e dei registri presenti.

Un archivio da riscoprire

La possibilità di svolgere nel 2015 un primo censimento di quanto presente presso l’Archivio del Comune ha fatto emergere innanzitutto la complementarità tra questa parte di documentazione e quella ora con- servata presso l’ Archivio di Stato12. Va tenuto presente che la rilevazio- ne, avendo lo scopo essenziale di individuare la presenza di eventuale documentazione della MÎA, è stata necessariamente sommaria, limitan-

12 Il censimento è stata svolto dal sottoscritto, da Giulia Todeschini e da Patrizia Talpo. 56 Gianluca Perondi dosi ad annotare, oltre alla collocazione topografica, per i faldoni le informazioni essenziali riportate sulle note dorsali e per i registri i titoli sui piatti con alcuni ulteriori riscontri sulle numerazioni interne. Si tratta quindi di dati indicativi che potranno trovare conferma in occasione di futuri interventi sul fondo archivistico, ma che in ogni caso, come si può vedere dalle tabelle di sintesi sotto riportate, già ora ci restituiscono un quadro di notevole interesse sulla composizione e articolazione di que- sto nucleo documentario.

Tabella 5. Elenco dei registri censiti per singolo ente

Ente Registri Estremi cronologici

1 Congregazione di Carità di Bergamo 105 1807 - 1808 2 Luoghi Pii Elemosinieri 195 1827 - 1897 3 Congregazione di Carità di Bergamo 197 1863 - 1916 4 Casa di Ricovero 172 1818 - 1916 5 Casa d’Industria 118 1812 - 1942 6 (Casa di Ricovero-Casa d’Industria) 1 1854 - 1856 7 Ricovero di Mendicità 31 1853 - 1902 8 Misericordia Maggiore 61 1752 - 1939 9 Monte di Pietà 33 1866 - 1902 10 Consorzio Carcerati 1 1797 - 1804 11 Engel 1 1893 - 1903 12 Eredità Ghislandi 1 1775 - 1800 13 Opera Pia Vittorio Emanuele 1 1888 - 1916 14 Congregazione di Carità di Colognola 2 1897 - 1914 15 Congregazione di Carità di Redona 1 1914 - 1927 16 Congregazione di Carità di Valtesse 1 1914 - 1927 17 Comune di Calcio 1 1864 - 1864 18 Comune di Redona 1 1871 - 1884 19 (Comune di Bergamo) 9 1708 - 1897 20 (Provincia di Bergamo) 1 (’800) 21 Società Industriale Bergamasca 1 1914 - 1916 22 Enti al momento non individuati 135 1603 - 1933

Totale registri 1.069 Gli archivi della Misericordia Maggiore 57

Tabella 6. Elenco dei faldoni censiti per singolo ente

Ente Faldoni Ente Faldoni Misericordia Maggiore 144 Ricovero di Mendicità 6 Luoghi Pii Elemosinieri / MÎA 94 Altri da verificare 31 Congregazione di Carità / MÎA 35 Luoghi Pii Elemosinieri 124 Consorzio Carcerati 11 Congregazione di Carità 138 Pio Luogo del Sovvegno 6 di Bergamo Misericordia di San Vigilio 5 Miscellanea 11 Altri da verificare 31 Altri da verificare 12 Casa di Ricovero 231 Enti diversi 12 Casa di Industria 104 Comune di Bergamo 128 Gazzette Ufficiali 15 Non identificati 3 Totale faldoni 1.141

Per avere un’idea concreta di cosa rappresenti questa parte di docu- mentazione ancora da inventariare rispetto a quella conservata in Ar- chivio di Stato, ordinata e inventariata, e quindi disponibile, possiamo provare a fare alcuni raffronti quantitativi sui singoli fondi. La Congregazione di Carità detiene il nucleo più rilevante sia per i registri che per i faldoni. E qui sono presenti anche i primi protocolli introdotti dalla nuova amministrazione a cui si è fatto cenno; e la grande quantità di registrazioni (spesso fino a seimila ma in qualche caso anche diecimila per singolo anno) testimonia la fervente attività e vivacità di queste istituzioni. Per la MÎA, che era l’oggetto primario della rilevazione, possiamo dire che, sebbene in molti casi non si possa stabilire con certezza l’attribuzio- ne delle carte senza esaminarne il contenuto, i numeri sono davvero im- portanti. In sintesi quasi il 60% del carteggio ottocentesco è nell’archivio della Congregazione di Carità che si trova presso l’archivio del Comune di Bergamo: carteggio che comunque, sulla base del censimento operato nel 2015, è disponibile alla pubblica consultazione. 58 Gianluca Perondi

Tabella 7. Archivio MÎA. Raffronto sezioni ottocentesche inventariate (ASBg) e da inventariare (ACBg) ripartite per voce di titolario.

Archivio MÎA ASBg ACBg ASBg ACBg Totale

Classificazione Faldoni %

I. Beni e case 72 87 45% 55% 159

II. Aggravi pubblici

III. Acque canali e roggie 6 6

IV. Basilica Santa Maria 22 40 35% 65% 62

V. Precari - Vendite – Permute 13 13

VI. Bilanci e conti 43 43

VII. Capitali 5 5

VIII. Istituto Musicale 2 49 4% 96% 51

IX. Eredità e legati 18 18

X. Livelli e prestazioni 8 8

XI. Oggetti vari

XII. Operazioni periodiche

XIII. Sussidi e doti 4 25 14% 86% 29

Altro da valutare 71

TOTALE 193 272 42% 58% 465

Anche per la documentazione della Casa di Ricovero e degli altri due enti aggregati, se confrontiamo la documentazione dell’archivio stori- co recentemente riordinato e inventariato dalla Fondazione della Casa di Ricovero Maria Ausiliatrice (FCR)13, la documentazione riordinata e

13 Juanita Schiavini Trezzi, Archivi per la storia dell’assistenza a Bergamo Casa Gli archivi della Misericordia Maggiore 59 inventariata conservata in Archivio di Stato (ASBg) con quanto invece resta ancora da inventariare presso l’Archivio del Comune, abbiamo dei numeri molto significativi, che anche qui quasi ribaltano la proporzione tra cose fatte e da fare. Tabella 8. Raffronto sezioni inventariate (FCR e ASBg) e da inventariare (ACBg). Casa di Ricovero, Casa d’industria, Ricovero di Mendicità

ENTE FCR ASBg ACBg Totale

bb. regg. bb. regg. bb. regg. bb. regg.

Casa 239 290 9 15 231 172 479 477 di Ricovero Casa 17 36 2 6 104 118 123 160 d’Industria Ricovero 7 68 17 6 31 13 116 di Mendicità

% % % % % % % %

Casa 50% 61% 2% 3% 48% 36% 100% 100% di Ricovero Casa 14% 23% 2% 4% 85% 74% 100% 100% d’Industria Ricovero 54% 59% 0% 15% 46% 27% 100% 100% di Mendicità

Considerata l’assoluta rilevanza che emerge anche solo da questa pri- ma ricognizione diventa evidente che intervenire su questa sezione 'so- spesa' a distanza di oltre cinquant’anni dal suo trasferimento debba esse- re considerata una priorità per quegli enti che istituzionalmente 'hanno a cuore' un archivio ricolmo della storia del territorio e della comunità bergamasca degli ultimi duecento anni.

di Ricovero - Casa d’Industria - Ricovero di Mendicità Inventario 1811-1959, Bergamo, Università degli Studi di Bergamo – Dipartimento di Lettere e Filosofia, Fondazione Casa di Ricovero S. Maria Ausiliatrice Onlus, G&G – Industrie grafiche sorelle Rossi, Castelleone (CR), 2013. 60 Gianluca Perondi

Gli 'archivi federati' della beneficenza bergamasca Nel complesso come si è visto emerge un quadro dove molto chiaramente pezzi d’archivio prodotti dalla Congregazione di Carità e dall’ECA hanno preso strade diverse e oggi si trovano distribuiti nei luoghi che abbiamo ricordati. Di fatto diverse istituzioni conservano un pezzo del 'proprio' archivio e una parte di archivi 'altrui', con un complicato scambio di ruoli a seconda del singolo spezzone di carte che si prende in esame. Certamente l’elemento più rassicurante in questo scenario ci viene dalla solida collaborazione che come abbiamo visto in passato e ancora di più oggi le varie istituzioni coinvolte hanno saputo realizzare, elimi- nando alla radice i rischi di 'competizione' interna, operando soprattutto in vista dell’obiettivo comune di salvaguardare il patrimonio di carte e storie condivise. Fondazione MÎA, Archivio del Comune di Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivio di Stato di Bergamo ognuno per la propria parte hanno operato in raccordo costante nel comune interesse di salvaguarda- re questi archivi. Una collaborazione che necessariamente dovrà trovare nuove forme per valorizzare appieno questo patrimonio comune. In que- sta direzione piuttosto che ipotizzare improbabili ricomposizioni fisiche o centralizzazioni che rischierebbero di infrangersi contro gli scogli della mancanza di spazi e risorse o della complessità delle procedure, varreb- be la pena avviare una comune riflessione sulla possibilità di costituire una più agile rete degli archivi della beneficenza bergamasca, dando vita ad un polo archivistico virtuale, ma non per questo meno efficace. Questa 'federazione di archivi' potrebbe condividere strumenti, me- todi e iniziative di promozione e valorizzazione che vedrebbero coinvol- ti contemporaneamente tutti i nodi/luoghi/enti e sviluppare una logica di sistema archivistico distribuito. Lo spazio comune può essere virtuale e un portale web degli Archi- vi della Beneficenza Bergamascain questo senso rappresenterebbe uno strumento certamente efficace per dare visibilità alle diverse realtà e al tempo stesso costituire il canale principale per accedere a tutte le risorse del sistema. Per il futuro dobbiamo quindi augurarci che il lavoro sulle polvero- se carte dell’archivio sospeso e quello sugli immateriali bit del portale possano procedere insieme per ricomporre finalmente gli archivi della carità bergamasca. 61

Giulia Todeschini

IL SALE E LE SPOSE. I LEGATI DI BENEFICENZA NELL’ARCHIVIO DELLA MÎA

Nella prima metà dell’Ottocento anche a Bergamo, come nel resto del nord Italia, si verificò il passaggio da un sistema caritativo-assistenziale legato alle logiche di Antico Regime a un sistema di beneficenza pubblica gestito direttamente dallo Stato1. Le riforme introdotte dai governi succe- dutisi nella prima metà del XIX secolo mirarono ad un’organizzazione più funzionale degli istituti assistenziali, cercando di superare la loro estrema frammentazione, ma, di fatto, ne ridussero l’autonomia, assumendo il con- trollo degli ingenti patrimoni da essi posseduti. Vediamole velocemente. La Congregazione di Carità, istituita dal Regno d’Italia nel dicembre 1807, aveva il compito di amministrare tutte le opere pie cittadine, orga- nizzate in base alle aree di competenza: ospedali, ricoveri e istituti elemo- sinieri. Gli enti che vi confluivano continuavano a mantenere «titolarità e patrimoni distinti» ma perdevano la propria autonomia gestionale2. Il Regno Lombardo Veneto nel 1824 sostituì la Congregazione di Ca- rità con i Luoghi Pii Elemosinieri, ma mantenne la precedente struttura incentrata sui diversi ambiti di intervento (ospedali, ricoveri, luoghi pii e, in aggiunta, orfanotrofi) «con amministrazioni distinte per la gestione del patrimonio e un apposito ‘direttorio’ per la concreta erogazione della beneficenza»3. Il Regno di Sardegna nel 1859 e poi il nuovo Stato unitario nel 1862 soppressero l’Amministrazione e il Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri

1 Per inquadrare l’argomento: Edoardo Bressan, Le istituzioni del sociale, in Storia Economica e Sociale di Bergamo. Dalla fine del Settecento all’avvio dello stato unitario, Bergamo, Fondazione per la Storia Economica e Sociale, 1994, pp. 109-135; Dalla carità all’assistenza. Orfani, vecchi e poveri a Milano tra Settecento e Ottocento, Atti del convegno che si è tenuto presso il Centro Congressi CARIPLO, Milano, il 20 e 21 ottobre 1992, a cura di Cristina Cenedella, Milano, Electa, 1993. 2 Maria Teresa Brolis-Paolo Cavalieri, L’istituzione MÎA. Dalla fondazione ai giorni nostri n. 3 della collana di dieci volumetti monografici promossa dalla Fondazione MÎA e pubblicata in occasione dei 750 anni di fondazione della Misericordia Maggiore, p. 72. 3 Ibidem 62 Giulia Todeschini affidando nuovamente alla Congregazione di Carità l’amministrazione di tutti gli enti caritativi bergamaschi4. Queste trasformazioni istituzionali sono ben evidenti nelle carte della MÎA: le pratiche risultano intitolate alla Congregazione di Carità o ai Luo- ghi Pii Elemosinieri e i referenti cambiano, sebbene dalla classificazione dei documenti sia evidente l’intenzione di mantenere distinta l’ammini- strazione della MÎA da quella degli altri istituti amministrati. Quello che però non cambia nel corso del XIX secolo è la missione di «fungere da grande ammortizzatore sociale per Bergamo e provincia attraverso il sostegno ai meno abbienti»5, come non cambiano, in linea di massima, le modalità mediante le quali questa missione veniva compiuta: la distribuzione di elemosine mirate, sotto forma di generi alimentari, di doti e sussidi, attraverso le segnalazioni dei promotori delle elemosine, discendenti moderni dei canevari medievali, «ripartiti ancora una volta tra i diversi quartieri cittadini […] chiamati a vagliare le istanze di soccorso e proporre al consiglio i nomi dei cittadini maggiormente bisognosi»6. Lo Statuto organico del Pio Luogo della Misericordia Maggiore e LL.PP. Elemosinieri riuniti in Bergamo compreso nello Statuto organico della Con- gregazione di Carità di Bergamo e delle Opere pie dipendenti del 1872 stabiliva che «i sussidi da erogarsi con i redditi liberi della Misericordia e dei luoghi pii annessi consistevano in assegni periodici ed in sussidi straor- dinari per una volta tanto a poveri ordinari, poveri cronici e poveri amma- lati, in assegni sia mensili che straordinari a persone civili decadute (poveri vergognosi) appartenenti alla città e alla provincia, nel sussidio di baliatico a beneficio di bambini legittimi, le cui madri sono impotenti al loro man- tenimento, in assegni alla Pia Casa d’Industria e alla Pia Casa di ricovero, e nel mantenimento interinale della scuola caritatevole di musica»7. Accanto alla «beneficenza libera» erano a carico dell’ente «alcune be- neficenze condizionate, vincolate cioè per volontà di benefattori a deter- minati scopi, luoghi e persone e consistenti in doti a fanciulle povere della

4 Si veda Angelo Giuseppe Roncalli, La Misericordia Maggiore di Bergamo e le altre istituzioni di beneficenza amministrate dalla Congregazione di Carità,Bergamo, Tipografia S. Alessandro, 1912, p. 91. 5 Maria Teresa Brolis - Paolo Cavalieri, Le opere della MÎA. L’assistenza, volume n. 6 della Collana pubblicata in occasione del 750° anno di fondazione della Congregazione della Misericordia Maggiore, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, p. 72.

6 Ivi, p. 73. 7 Edoardo Bressan, Le istituzioni del sociale dall’Unità agli anni Trenta, in Storia Economica e Sociale di Bergamo fra Ottocento e Novecento. Tradizione e modernizzazione, Bergamo, Fondazione per la Storia Economica e Sociale, 1994, p. 156. I legati di beneficenza 63 città e provincia, doti mirate a facilitare il matrimonio di fanciulle e donne pericolanti e pericolate, sussidi in generi e denaro a favore di determinate contrade della città e di alcuni comuni della provincia, sacerdoti poveri impotenti a celebrare messa per impedimenti civili o canonici»8. Nell’archivio della MÎA recentemente depositato presso l’Archivio di Stato troviamo la documentazione attestante queste diverse forme di as- sistenza in due titoli specifici: “Eredità e legati” e “Sussidi e doti”. Il titolo “Eredità e Legati” raggruppa tutti i fascicoli relativi alle disposizioni te- stamentarie in favore della Misericordia Maggiore di Bergamo, ordinati alfabeticamente per nome del benefattore. In ogni fascicolo si trova documentazione relativa alla comunicazione delle disposizioni testamentarie, all’accettazione del legato da parte della Misericordia Maggiore e l’eventuale gestione del legato o dei legati dispo- sti nel testamento9. Il titolo “Sussidi e doti” raggruppa la poca documentazione rinvenu- ta in archivio relativa all’amministrazione di alcune doti - che potevano essere istituite mediante testamento ma anche con donazioni in vita -, e l’elargizione di sussidi particolari, in favore di istituti assistenziali cittadini o categorie sociali particolari. Consultando le due versioni del titolario d’archivio della MÎA in nostro possesso, la prima serie risulta pressoché completa, mentre la seconda è decisamente lacunosa. Dal censimento dell’archivio della Congregazione di Carità depositato presso l’archivio del Comune di Bergamo risultano circa una trentina di faldoni riconducibili al titolo XIII “Sussidi e doti”, a fronte dei soli quattro presenti nella sezione d’archivio depositata in Archivio di Stato. La poca documentazione in nostro possesso riguarda l’arco cronologico compreso tra il 1741 e il 1958. Per il titolo “IX Eredità e legati” abbiamo invece diciotto faldoni con documentazione dal 1829 al 1960, con alcuni atti antecedenti, del 1630 e 1718. Il nucleo principale delle carte copre gli anni dalla metà dell’Otto- cento alla Seconda guerra mondiale e riguarda 42 benefattori10. Di questi

8 Ibidem. 9 Da alcune annotazioni presenti sulle camicie dei fascicoli si è appreso che i testamenti venivano estratti e collocati in quello che veniva chiamato “Archivio Documenti”, una serie particolare di cui non si conosce esattamente l’epoca di creazione, ma che raggruppava tutti quei documenti che venivano considerati di particolare rilevanza per l’ente. In fase di schedatura, si è deciso di ricondurre i testamenti ai fascicoli originali, segnalando lo spostamento.

10 A questi se ne potrebbero aggiungere altri dodici di cui si è trovato solo un estratto o 64 Giulia Todeschini

42 benefattori, nessuno dei quali nomina erede universale la MÎA, ven- totto erano uomini e quattordici donne. Di molti non viene specificata l’estrazione sociale, né la professione, però sappiamo per certo che vi erano: nove sacerdoti, tra cui un vescovo (Giovanni Battista Milani) e un monsignore (Angelo Serughetti), mentre i restanti sette vengono definiti genericamente sacerdoti; poi vi erano un avvocato, un dottore fisico, un musicista, cinque contesse, una cantante lirica e una domestica. Le parrocchie e i borghi più “ricordati” sono Sant'Alessandro in Co- lonna - con il Borgo San Leonardo e la Contrada di San Bernardino - e Sant'Alessandro della Croce - con Borgo Pignolo -, seguite dalle vicinie dipendenti dalla parrocchia di Santa Grata inter Vites - Borgo Canale, San Martino della Pigrizia, Sudorno, San Vigilio e Longuelo.

Tabella 1. Parrocchie o borghi destinatari delle eredità e dei legati

Sant'Alessandro in Colonna 5 San Bernardino 3 Borgo San Leonardo 2 San Tomaso de’ Calvi 1 Sant'Alessandro della Croce 4 Pignolo 1 Borgo Palazzo 2 Sant'Agata del Carmine 2 Borgo San Lorenzo 1 Sant'Andrea 1 San Michele all’Arco 2 Cattedrale di Bergamo 1 Astino 1 Santa Grata inter vites 1 San Martino della Pigrizia 1 una trascrizione del testamento nella sezione “Archivio Documenti” di cui si è accennato prima, senza documentazione relativa all’amministrazione del legato. Per questo motivo, tali benefattori non sono stati presi in considerazione per l’analisi che andiamo a presentare. I legati di beneficenza 65

Sudorno 1 Borgo Canale 1 San Vigilio 1 Longuelo 1 Santa Maria di Loreto 1

Nella tabella sottostante sono state riassunte le diverse tipologie di legato11:

Tabella 2. Finalità dei legati

Distribuzione di denaro ai poveri 23

Distribuzione di generi alimentari 6 (farina, sale, carne, pane) Istituto Musicale Donizetti 5 (borse di studio o sussidi per alunni poveri)

Distribuzione di farmaci 2

Ricovero gratuito di donne presso la Casa Madre 2 della Suore della carità in via don Luigi Palazzolo

Distribuzione vestiti e biancheria (camicie e lenzuola) 2

Elargizioni in favore di Istituti pii della città 1

Elargizioni in favore della Fabbrica della Cattedrale 1

Sussidio per sacerdoti poveri 1

Sussidio per vedove con figli 1

Locali per ospitare donne povere 1

Costruzione manicomio per pazzi agiati 1

Elargizione di doti per giovani nubende 1

11 La somma totale delle disposizioni non corrisponde al totale dei benefattori perché alcuni hanno stabilito più legati. 66 Giulia Todeschini

Come si evince dalla tabella sopra riportata prevale la distribuzione generica di denaro ai poveri - la cui definizione nelle disposizioni te- stamentarie variava tra poveri 'generici', oppure poveri infermi, poveri vergognosi, poveri vergognosi e infermi, o addirittura 'i più poveri' di una determinata parrocchia -, ritenendola probabilmente più funzionale della distribuzione di generi alimentari che aveva caratterizzato le epo- che precedenti. La MÎA, nei secoli precedenti, aveva sempre preferito distribuire generi alimentari piuttosto che denaro perché in questo modo era certa che «il sussidio elargito andasse effettivamente a rispondere all’esigenza di chi lo aveva richiesto e non venisse invece speso all’oste- ria o perso al gioco»12. I promotori delle elemosine, che «non erano più membri del ceto medio della città, ma nella maggior parte dei casi […] sacerdoti in cura d’anime delle rispettive parrocchie cittadine»13, com- pilavano a cadenza regolare, bimestrale o trimestrale, gli elenchi con i nominativi delle famiglie indigenti di ogni quartiere (parrocchia, vicinia, contrada o borgo) e li consegnavano alla Congregazione di Carità, che predisponeva le bollette o bollettini per la dispensa dei generi alimentari. Alcuni esempi di queste distribuzioni li troviamo ancora tra le carte dei testatori della MÎA, in particolare nei legati disposti dai benefattori Antonio Piatti (1866-1943) e Giuseppe Piglia (1878-1919), che si pre- occuparono nello specifico dei poveri di San Martino della Pigrizia, Su- dorno e San Vigilio. Nel suo testamento del 4 agosto 1715 Carlo Antonio Piatti stabilì un legato per la distribuzione di sale ai poveri delle Contrade di San Martino della Pigrizia e Sudorno, da effettuarsi la vigilia di Natale ad opera del parroco della Chiesa di Santa Grata inter vites 14. Giuseppe Piglia, con testamento olografo 4 ottobre 1878, dispose un lascito di 500 lire da distribuire ai poveri della contrada di San Vigilio. In questo caso fu la Congregazione di Carità a decidere di usare i proventi del denaro donato per l’acquisto e la distribuzione di sale ai poveri, unendo di fatto il legato Piglia al legato Piatti. Nella documentazione di entrambi i benefattori si trovano, oltre alle disposizioni testamentarie ed alla pratica relativa all’accettazione del le- gato da parte della MÎA, gli elenchi dei poveri compilati dal parroco di

12 M. T. Brolis - P. Cavalieri, Le opere della MÎA. L’assistenza…, cit., p. 71. 13 Ivi, p. 73. 14 ASBg, Fondazione MÎA, Congregazione della Misericordia Maggiore, Archivio storico, Sezione moderna (d’ora in poi Archivio MÎA), Eredità e Legati, Piatti Antonio, b. 8, class. 9.25, fasc. 1. I legati di beneficenza 67

Santa Grata inter vites e dal promotore di Borgo Canale, gli ordini alla Ragioneria della Congregazione di Carità per l’emissione dei mandati per l’acquisto del sale, la consegna, da parte dell’addetto alla distribu- zione, delle bollette del sale dispensato e le bollette vere e proprie, indi- canti il nome dell’assegnatario e la quantità di sale consegnata. Le distribuzioni avvenivano nella Rivendita di Sale e Tabacchi di via Borgo Canale, gestita prima da Luigi Taramelli e poi da Pietro Leidi, il giorno della vigilia di Natale o dell’antivigilia, come stabilito da Antonio Piatti. Le cose non andavano sempre per il verso giusto. Tra le carte del Le- gato Piglia si trova infatti una lettera datata 28 dicembre 1911 dell’impie- gato Giovanni Ghilardi, incaricato dalla Congregazione di Carità di con- trollare la distribuzione del sale per i suddetti legati, che si lamenta della poca onestà del tabaccaio Leidi: «la pesatura del sale fu tutt’altro che regolare e ben due volte ebbi a richiamare all’ordine il tabaccaio perché vi mettesse tutti i pesi voluti e non fingere di metterli sulla bilancia depo- nendoli invece dietro questa»15. Riferisce inoltre che il sale distribuito era umido, nonostante la giornata di vento, tanto che la cassetta in cui era riposto «perdeva acqua in moltissima quantità, destando la meraviglia e la lamentela da tutti i poveri»16. Anche il parroco non si comportava correttamente in quanto consegnava le bollette a persone che non erano annotate nella lista dei poveri approvata dalla Congregazione di Carità, persone che erano «se non facoltose ma neppure però bisognevoli del beneficio di questo sale»17. La funzionalità delle distribuzioni di generi alimentari viene messa in discussione proprio da coloro che hanno stretti contatti con gli strati più deboli della società e che ne conoscono le necessità e i bisogni. Il promotore di Borgo Canale, in una relazione del 31 dicembre 1912, sottolinea il fatto che alcuni poveri a cui era stato assegnato il sale non si presentavano a ritirarlo e chiede di riflettere «sulla opportunità di dare a questa forma di beneficenza un diverso indirizzo, più rispondente ai bisogni della classe povera»18. La Congregazione decide quindi, in data 22 gennaio 1913, di mettere a disposizione del parroco di Borgo Canale la rendita annua del legato, «per l’assegnazione di sussidi in natura o in denaro ai poveri della Contrada di S. Vigilio nei casi di urgente bisogno,

15 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e Legati, Piglia Giuseppe, b. 10, class. 9.26, fasc. 1.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 Ibidem. 68 Giulia Todeschini d’accordo con il reverendo cappellano del luogo, con preferenza a quel- li degenti in letto per malattia»19. Un’altra benefattrice che dispone la distribuzione di generi alimentari ai poveri è Margherita Tizzoni Delle Sedie, che nel codicillo 12 luglio 1887 al testamento olografo del 10 luglio 1886 scrive: «Essendo aumen- tate le mie sostanze, penso di lasciare un titolo della Rendita Italiana alla Misericordia di Bergamo L. 1000 perché queste siano distribuite tutte le settimane il sabato ai poveri della Parrocchia di S. Andrea in Città ove nacqui, affine che queste povere famiglie abbino a mangiare la domeni- ca un pezzo di buona carne»20 (foto 1).

Foto 1

Gli atti di questo legato sono organizzati in cinque fascicoli con do- cumentazione dal 1890 al 1927 relativa alla trasmissione degli elenchi dei sussidiati (elenchi dei sussidiati, corrispondenza, buoni di riscossio-

19 Ibidem. 20 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Disposizioni testamentarie, b. 13, class. 9.39.1, fasc. 1. I legati di beneficenza 69 ne della carne), alle relazioni con i fornitori della carne (trasmissioni bimestrali dei conti per fornitura della carne, corrispondenza), ai rapporti con le suore dell’Istituto del Buon Pastore (rimborsi spese, corrisponden- za)21. I buoni per la riscossione della carne, documentati dal 1912, sono intestati “Congregazione di Carità di Bergamo - Legato Tizzoni Delle Se- die” ed indicano il nome della persona intestataria del buono, la quantità di carne di manzo da ritirare presso l’Istituto del Buon Pastore e la data del ritiro (foto 2).

Foto 2

Inizialmente la carne veniva distribuita presso alcuni locali della Pia Casa d’Industria in Città Alta, via del Vàgine, alle ore 11 della dome- nica mattina; nel 1890 se ne consegnavano 250 grammi per persona, facendola cucinare a tre inservienti appositamente assunti22. Purtroppo anche in questa circostanza le cose non andarono come desiderato dalla benefattrice. Già nel 1891 si hanno le prime lamentele e il Promotore di Sant'Andrea denuncia la «qualità difettosa [della carne] tanto da riuscire immangiabile non solo ma da rendere inservibile anche il brodo, perché

21 Ivi b. 16, class. 9.39.3, fasc. 1. 22 Venivano distribuiti dagli 8 ai 12 kg di carne a settimana. 70 Giulia Todeschini fatto con soli muscoli ed ossa e d’odore non sempre tollerabile»23. Dal 1894 il compito di cucinare la carne venne assegnato alle suore dell’I- stituto del Buon Pastore, le quali misero a disposizione alcuni locali del convento in prossimità della Chiesa di San Michele al Pozzo Bianco, nonché una cucina con pentole e fornelli. Ma le lamentele sulla pessima qualità della carne non cessarono. Margherita Tizzoni nel suo testamento olografo del 10 luglio 1886 lasciò inoltre «a titolo di legato al Pio luogo elemosiniere della Miseri- cordia Maggiore di Bergamo, mia città natia, amministrato dalla Congre- gazione di Carità, due titoli del consolidato italiano 5% […] della rendita complessiva di Lire 1.500 […] onde sia con detta Rendita istituita una somma perpetua da chiamarsi “La Riconoscenza” e da essere pagata ad una vedova povera di civile condizione che abbia figli legittimi da alle- vare»24 (foto 3). Tale legato, secondo quanto riportato nel regolamento del 14 settem- bre 1901, venne attivato il 1° luglio 1890: esso prevedeva un sussidio annuo di circa 1.030 lire assegnato tramite concorso e pagato in rate tri- mestrali posticipate. Le concorrenti dovevano presentare una domanda di partecipazione in carta semplice al protocollo della Congregazione di Carità, allegando lo stato di famiglia ed eventuali altri certificati utili a valutarne le condizioni economiche e morali25. Il legato aveva durata annuale, da ottobre a settembre e la scelta della vincitrice spettava alla Congregazione, la quale poteva decidere di rinnovare il legato all’asse- gnataria dell’anno precedente senza bandire nuovamente il concorso. In base alla disponibilità economica, si potevano concedere degli ulteriori sussidi alle vedove che non avevano vinto il concorso o ad altre che ne facevano richiesta ed avevano i requisiti morali ed economici necessari. Tali sussidi potevano avere uno scopo specifico, quale ad esempio pagare

23 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Legato per la distribuzione della carne, b. 16, class. 9.39.3, fasc. 1. 24 Ivi, b. 13, class. 9.39.1, fasc. 1. 25 Questi potevano essere il certificato di battesimo, il certificato di vedovanza, il certificato di miserabilità, eventuali fedi di buona condotta scritte dal parroco o dal sindaco, le pagelle dei figli, le lettere di raccomandazione, ecc… I legati di beneficenza 71

Foto 3

gli studi ai figli delle assegnatarie, ma il più delle volte servivano ad alleviare delle situazioni economiche precarie, spesso aggravate dalla mancanza di un reddito fisso26. La documentazione pertinente a questo legato è molto ricca, con 18 fascicoli dal 1890 al 1945. Ogni fascicolo contiene la documentazione relativa all’indizione annuale del legato: le copie del bando di concorso; il regolamento del legato; le domande di partecipazione delle concor- renti contenenti, oltre alla documentazione richiesta e tutto quanto era ritenuto utile ad evidenziarne le precarie condizioni economiche e la buona condotta morale, il prospetto riassuntivo delle domande presenta-

26 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Legato La Riconoscenza, b. 14, class. 9.39.2, fasc. 6. 72 Giulia Todeschini te, le eventuali richieste di rinnovo del legato e la corrispondenza varia. Dal 1936 compare, allegata alle domande di partecipazione al con- corso, una scheda rossa intestata “Congregazione di Carità - Informazio- ni riservate” in cui viene fatto un rapporto dettagliato sulla candidata, la sua famiglia, i figli, le sue condizioni economiche e di salute, la sua moralità (foto 4).

Foto 4

Le domande di partecipazione al legato sono in molti casi stringate e formali, ma talvolta vi si trovano raccontati piccoli episodi che fanno luce su quella che era la condizione di queste vedove “civili”, un tempo benestanti e poi decadute per colpa di una sorte avversa. Le famiglie d’origine non erano in grado di aiutarle economicamente, i figli piccoli o comunque in età scolare non potevano contribuire al mantenimento della famiglia e la loro origine agiata le rendeva spesso inabili al lavoro, dal momento che non ne avevano mai appreso uno. Vi si trova chi ave- I legati di beneficenza 73 va cercato di proseguire l’attività imprenditoriale del marito, ma aveva fallito in quanto priva delle capacità necessarie. Chi invece aveva figli troppo piccoli e cagionevoli di salute da poterli lasciare a casa da soli per andare a lavorare. Chi aveva perso la vista e non era più in grado di stirare e ricamare - ossia di svolgere due “mansioni femminili” che anche le donne di una certa levatura sociale erano in grado di compiere -, chi aveva subito il “taglio dell’utero” che le impediva di girare per la città alla ricerca di un lavoro e di stare in piedi per stirare. Luigia Bosisio vedova Terzi, scrive che «non avendo alcun mezzo di sostentare la famiglia, dovette vendere molti mobili e quasi consumare quel poco che le era residuato sul premio di assicurazione sulla vita [del marito] dopo pagati i creditori»27; mentre Ernesta Colombi vedova Dolci annota che «sforzandomi a lottare contro sì gravi emergenze ten- go aperto un negozio per rivendita di pane e paste, ma sola, senz’aiuto senza mezzi colla salute scossa dalla grave disgrazia sofferta, il guada- gno anziché sopperire ai bisogni riesce quasi illusorio»28. Le due donne sottolineano nelle loro lettere i meriti e la bravura dei figli, allegandone i certificati di iscrizione e le pagelle scolastiche, chiedendo aiuto per poterne mantenere gli studi. Molte richiedenti sottolineano legami di parentela con dipendenti della Congregazione di Carità o della Misericordia Maggiore, come Ca- rolina Beretta, vedova di Donino Milesi «che per più di vent’anni cantò in S. Maria» e Teresa Bontempi vedova di Girolamo Colleoni «professore di Musica della Basilica di S. Maria Maggiore»; c’era chi, come Santina Brena vedova Manzini, sostiene di avere un qualche legame di parentela con la stessa fondatrice del legato, in quanto Margherita Tizzoni Delle Sedie, a suo dire, chiamava zio suo padre, il quale ai tempi possedeva fondi e case in Valle d’Astino, una filanda propria a Brignano e un ne- gozio di cambio valuta in via XX settembre. Ed aggiunge «Il detto padre della ricorrente era d’un cuore e d’una generosità tanto spinta da rovina- re se stesso per beneficiare gli altri»29. Come si è accennato, in base alla disponibilità del legato, la Con- gregazione concedeva degli ulteriori sussidi a coloro che ne facevano richiesta ed avevano i requisiti morali ed economici necessari. Nina Maironi Faino, ad esempio, ha il marito in America e non ha i soldi per

27 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Legato La Riconoscenza, b. 14, class. 9.39.2, fasc. 4. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 74 Giulia Todeschini pagare l’affitto e mantenere i figli; scrive: «Io mi esercito a fare le frangie sulle coperte allo Stabilimento Olicher30, e quando ò ben lavorato tutto il giorno ci arrivo a prendere 46 centesimi, motivo che occuparmi di più mi fa male»31. Anna Provenzi frequenta la terza classe normale e vive con la madre vedova: chiede «un sussidio col quale essa potesse sopperire alla spesa delle tasse scolastiche, spese che la povera madre non può sostenere riuscendo con fatica a provvedere al sostentamento d’entrambe collo scarso frutto del suo lavoro»32. Ma chi era Margherita Tizzoni? Nativa di Bergamo, della parrocchia di Sant'Andrea in Città Alta, figlia di Andrea e Cecilia, era stata allieva del Conservatorio di Milano, dove aveva studiato canto – come mezzo soprano – e pianoforte. Amica e collega di Giuseppina Strepponi, mo- glie di Giuseppe Verdi, aveva sposato il baritono livornese Enrico Delle Sedie, con il quale si era trasferita a Parigi e aveva aperto una scuola di canto, l’École Delle Sedie, presso Rue de St. Petersbourg al n. 3033. Poco dopo la sua morte, avvenuta a Parigi il 23 marzo 1888, la Congregazione di Carità, nella deliberazione del 2 maggio 1888 in cui viene forma- lizzata l’accettazione del legato, «delibera che – a perenne memoria e ricordo della Testatrice – sia provveduto al collocamento, nella sala delle adunanze della Congregazione, del ritratto della Defunta»34. Viene quindi commissionato il ritratto al pittore bergamasco Ponziano Loverini che lo avrebbe dipinto nel 1884. Enrico Delle Sedie aveva inviato delle fotografie della defunta moglie, che probabilmente sono rimaste al pitto- re o sono state restituite al legittimo proprietario, in quanto non presenti tra le carte d’archivio. Il ritratto, costato 325 lire, venne consegnato il 29 gennaio 1889 e presumibilmente appeso nella sala delle adunanze della Congregazione di Carità. Nel volume di Angelo Pinetti dedicato a Pon- ziano Loverini35 si legge che il ritratto di Margherita Tizzoni Delle Sedie

30 Lo stabilimento in questione molto probabilmente erano i Cotonifici Riuniti Oeticker di Brembate. 31 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Legato La Riconoscenza, b. 14, class. 9.39.2, fasc. 8. 32 Ibidem. 33 Http://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/enrico_delle_sedie.pdf. 34 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Tizzoni Delle Sedie Margherita, Legato La Riconoscenza, b. 14, class. 9.39.2, fasc. 1. 35 Angelo Pinetti, Ponziano Loverini con 80 illustrazioni, Bergamo, Istituto d’Arti Grafiche, 1930, p. 40. In questo volume l’opera di Loverini è datata 1884, ma dalle carte d’archivio risulta chiaramente commissionata nel 1888 e consegnata nel 1889. I legati di beneficenza 75

è un ritratto a figura intera, in cui la benefattrice è vestita di nero, con una mano appoggiata alla tastiera del pianoforte presso cui sta seduta: nel 1930 risultava collocato nel Palazzo Uffici della Congregazione di Carità. Purtroppo sembra che se ne siano perse le tracce.

* * *

Il sacerdote Prospero Arrigoni, nel suo testamento del 3 marzo 1873, dispose che la sua casa in via Rocca al n. 833 venisse venduta tramite asta pubblica e il ricavato devoluto in beneficenza in favore dei poveri del circondario di San Lazzaro, ma solo dopo la morte della sua domesti- ca Marietta Invernizzi maritata a Luigi Luisetti, usufruttuaria dello stabile. Nominò esecutore testamentario il parroco pro tempore della Parrocchia di Sant’Alessandro in Colonna36 (foto 5).

Foto 5

Il testatore non specificò se il ricavato dalla vendita della casa dovesse essere distribuito in un’unica soluzione. La Congregazione di Carità, se-

36 ASBg, Archivio MÎA, Eredità e legati, Arrigoni Prospero, b. 1, class. 9.1, fasc. 1. 76 Giulia Todeschini condo una prassi consolidata, investì il capitale e ne distribuì le rendite ai poveri di San Lazzaro, di anno in anno, almeno fino al 1898. L’aspetto più curioso delle carte di Prospero Arrigoni è che dal 1907 al 1910 si trova documentazione che testimonia l’esistenza di una Far- macia Arrigoni alle Cinque vie in Bergamo gestita dal farmacista France- sco Dolci, presso la quale venivano distribuiti gratuitamente farmaci ai poveri di San Lazzaro a carico del legato (foto 6).

Foto 6

Non sappiamo per quale motivo la “destinazione” delle rendite del legato Arrigoni fosse stata modificata, forse per delle considerazioni del I legati di beneficenza 77 promotore delle elemosine che aveva segnalato una simile necessità per gli abitanti di San Lazzaro. Sta di fatto che nella seduta del 17 gennaio 1904 la Congregazione di Carità stabilisce che «dal 1° marzo prossimo verrà ripresa la fornitura dei medicinali ai poveri» e che «i signori medici condotti, riconosciuta la necessità di far fornire la medicina gratuitamen- te, scriveranno le ricette sopra gli appositi moduli»; da tali distribuzioni gratuite, sono escluse le acque minerali, le specialità, i vini «in una pa- rola […] sono ammessi soltanto i prodotti officinali» e «il beneficio dei medicinali gratuiti […] è riservato, a giudizio del medico, a quelli che sono assolutamente poveri e destituiti di ogni mezzo per procurarsi altri- menti le medicine»37. In questo caso non si hanno gli elenchi degli assistiti, come nei casi precedentemente esaminati, bensì le prescrizioni dei farmaci compilate dai medici condotti e gli elenchi trimestrali dei medicinali distribuiti gra- tuitamente da parte del farmacista con la richiesta di rimborso alla Con- gregazione di Carità. Le ricette mediche sono compilate in buona parte dal dottor Giacomo Pezzotta, medico chirurgo, che aveva l’ambulatorio in via San Bernardino n. 52, ma nel mazzo delle prescrizioni si possono trovare anche quelle di specialisti come Silvio Gavazzeni o Felice Lus- sana, figlio del più noto Filippo, oppure di ambulatori medici della città che forniscono brevi scorci sulla storia della medicina bergamasca agli inizi del secolo scorso, con le ambulanze o poli-ambulanze gratuite per i poveri, in cui prestavano servizio molti medici specialisti dell’Ospedale Maggiore Le richieste di rimborso dei farmaci distribuiti gratuitamente sono compilate sulla carta intestata della farmacia Arrigoni, di Francesco Dol- ci, alle Cinque Vie, nella cui immagine si riconosce chiaramente l’attuale Farmacia Rolla. Il farmacista, vedendosi respingere una richiesta di rimborso, scrive il 13 luglio 1909 una lettera accalorata in cui difende il suo operato, so- stenendo che tutte le ricette erano state vistate dal promotore della Con- gregazione, e che se erano compilate da un medico diverso dal medico condotto era solo perché quest’ultimo era stato malato, e conclude dicen- do «cercherò di far tacere il mio rincrescimento col fare ai poveri della beneficenza diretta la quale sarà sicuramente più efficace da quella da me fatta a mezzo di questa Congregazione e mi darà almeno la soddisfa- zione della gratitudine da parte di coloro ai quali avrò prestato soccorso».

37 Ibidem. 78 Giulia Todeschini

* * *

Come già accennato in precedenza, l’altro titolo che contiene docu- mentazione relativa all’erogazione della beneficenza da parte della MÎA è il XIII “Sussidi e Doti”, ma le carte disponibili, che coprono un arco temporale dal 1741 al 1958, sono veramente scarse e lacunose. Le doti a favore di fanciulle povere di cui c’è testimonianza sono quelle istituite dalla contessa Veronica Secco Suardo, da Francesco Carrara, da don An- tonio Milesi e da Giovan Battista Milani. Quelle previste dal testamento della nobildonna Veronica Secco Suardo erano in favore di quattro gio- vani nubende della città di Bergamo, con preferenza per quelle della Vicaria di San Michele all’Arco38 (1829-1909). Le doti di Francesco Carrara vennero istituite con testamento 12 feb- braio 1621, nel quale nominò eredi i figli, ma introdusse la clausola di so- stituzione della Misericordia Maggiore di Bergamo nel caso di estinzione della sua discendenza. Tra le disposizioni testamentarie vi era l’obbligo di dotare ogni anno dieci giovani fanciulle povere del Comune di Stez- zano con una “tanza” di 50 lire ciascuna. Tali fanciulle dovevano essere «vergini, d’età nubile, povere, del Comune di Stezzano, non maritate né promesse». Coloro che avessero ottenuto la dote, avrebbero però dovuto sposarsi entro l’anno, altrimenti ne avrebbero perso il diritto. Sembra che per numerosi anni, però, la Misericordia Maggiore non abbia pa- gato nessuna dote poiché non vi erano in Stezzano delle fanciulle con i requisiti richiesti. L’unico fascicolo che compone questa serie contiene documentazione (1741-1755) circa la vertenza tra la Misericordia ed il Comune di Stezzano sulla possibilità di comprendere nella “Dote Car- rara” anche le fanciulle delle località vicine e con requisiti leggermente diversi da quelli stabiliti nel testamento Carrara. Del legato don Antonio Milesi si conserva solo il testamento datato 12 agosto 1807 nel quale fu disposto che ogni anno venisse consegnata una dote di 13,82 lire a tre fanciulle «oneste, timorate di Dio e che frequen- tano la Dottrina Cristiana», appartenenti alle contrade di San Martino, Longuelo e San Matteo ed indicate dal prevosto pro tempore di quelle contrade; nel caso in cui non vi fossero state delle fanciulle da dotare, lo stesso prevosto avrebbe dovuto distribuire il denaro ai poveri delle medesime contrade.

38 Di cui si conserva documentazione relativa all’ipoteca accesa dagli eredi per garantire il legato ed alla sua affrancazione, ma nulla sulla sua erogazione. I legati di beneficenza 79

Giovan Battista Milani fu vescovo di Bergamo tra il 1592 e il 1611 e assegnò delle doti per estrazione ogni due anni, di cui si conserva solo un registro per gli anni 1855-1919. Leggermente più abbondante, ma sempre lacunosa, è la documenta- zione relativa ai sussidi assegnati a vario titolo dalla Misericordia Mag- giore tra il 1866 e il 1953. Abbiamo solamente quattordici fascicoli rela- tivi a sussidi diversi, e l’impressione generale è che si tendesse ad aiutare soprattutto i bambini abbandonati e non, e le puerpere, sia attraverso la distribuzione diretta di denaro, che indirettamente, sostenendo enti ed istituzioni che si prendevano cura di costoro. Troviamo quindi il Comitato delle spose e madri bergamasche che, in occasione del parto della regina Margherita, raccolse 794,25 lire da di- stribuire alle puerpere povere di Bergamo che avrebbero partorito dalla mattina del 1 giugno 1901 a tutto il giorno 8 dello stesso mese. Il Pio Istituto per bambini lattanti e slattati che annualmente racco- glieva «offerte per il dono di Natale» a beneficio dei bambini poveri assistiti da questo Pio Istituto e delle loro madri. Il Patronato scolastico G. Mazzola che «istituito per assistere i bambi- ni più bisognosi delle pubbliche scuole elementari, continua – tra le con- suete strettezze economiche – la opera benefica diretta particolarmente alla distribuzione di libri di testo e di quaderni ed alla somministrazione delle refezioni scolastiche». Per concludere, nel titolo XIII vi sono anche le numerose richieste di sussidi inoltrate alla Congregazione di Carità da parte di istituti quali l’O- pera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia, l’Associazione Nazionale per la Difesa della Fanciullezza Abbandonata, nonché la Lega femminile per le operaie che chiede aiuto per l’istituzione di una cassa di maternità e l’Istituzione Nazionale Umberto e Margherita di Savoia per orfani di operai italiani morti per infortunio sul lavoro.

81

Patrizia Talpo

DI BENI E DI CASE. STORIE DAL PATRIMONIO DELLA MÎA

La collocazione della serie “Beni e case” al numero 1 dei titolari rin- venuti nella Sezione moderna dell’archivio storico della Misericordia Maggiore di Bergamo (si veda la Tabella n. 1 nel saggio di Gianluca Pe- rondi) e che sono stati adottati dalla MÎA e dai diversi enti di beneficenza succedutisi negli anni nell’amministrazione della stessa, non è casuale ma indicativa della rilevanza del patrimonio immobiliare nella storia se- colare dell’ente, e della sua consistenza. Quest’ultima è proporzionale alla quantità di carte, più o meno inedite e studiate, raccolte nelle 72 buste che costituiscono questo titolo e che sono attualmente depositate presso l’Archivio di Stato di Bergamo. Dall’esito del censimento con- dotto nel 2015 sull’archivio della Congregazione di Carità conservato nell’Archivio del Comune di Bergamo1, risulta peraltro evidente come il materiale rappresenti circa la metà della documentazione complessi- va prodotta indicativamente fra l’ultimo quarto dell’Ottocento e gli anni sessanta del Novecento. Il lavoro di riordino fin qui prodotto non può pertanto che considerarsi parziale, ma rivelatore di quanta ricchezza storica ancora ci riserbino le carte sconosciute della MÎA. Integrando la ricerca con l’esame dei quindici registri di inventari degli stabili e pos- sessioni affittati a partire dal 18042, fra cui l’ultimo datato 31 dicembre 1963 con aggiornamenti al 20 maggio 1975, possiamo comunque rico- struire quasi due secoli di storia dei possedimenti seguendo il succedersi delle pratiche dei contratti d’affitto delle possessioni agrarie in pianura e delle locazioni di immobili in città. All’atto del riordino la documentazione si presentava oltre che molto copiosa, spesso anche relativamente disordinata e conservata con diversi criteri di archiviazione. Taluni fascicoli erano riposti in camicie indivi- duali con titolo e numero di protocollo, altri, particolarmente volumi-

1 Censimento realizzato nel 2015 da Gianluca Perondi, Patrizia Talpo e Giulia Todeschini. 2 ASBg, Fondazione MÎA, Congregazione della Misericordia Maggiore, Archivio storico – Sezione moderna (d’ora in poi Archivio MÎA), Beni e case 1.1.1, registri 1 – 15. 82 Patrizia Talpo nosi, erano formati “a cipolla” con l’inserimento del documento crono- logicamente precedente nel documento successivo, cosicché il primo atto era posto al centro della pratica, altri ancora si trovavano sciolti e sono stati riordinati sulla base del numero di protocollo, ove presente, oppure sulla base del contenuto. In linea di massima però era preservata l’omogeneità delle carte, suddivise in relazione al bene immobile di ri- ferimento principalmente in due titoli: “Affittanze” e “Costruzione nuovi fabbricati e manutenzione immobili”. All’interno del primo titolo, abbiamo conservato separatamente il car- teggio originariamente intitolato “Atti di affittanza” concernente i pro- getti di locazione e di riaffittanza con le procedure per l’assegnazione degli immobili, la corrispondenza con gli affittuali, le trattative in merito all’equo canone ed alla compartecipazione delle spese di manutenzio- ne, dalla documentazione notarile denominata “affittanze” rappresen- tata dai contratti di locazione, capitolati d’affitto, atti di consegna e di cauzione, certificati ipotecari. Sotto il titolo “Costruzione nuovi fabbricati e manutenzione immobi- li” sono state riordinate tutte le pratiche inerenti conservazione, ristrut- turazione e costruzione di edifici, generalmente composte da relazioni dell’ufficio tecnico, preventivi, deliberazioni consiliari in merito all’ese- cuzione delle opere e documentazione accessoria ai progetti di costru- zione. Per quanto concerne le pratiche di immediata trattazione, sempre re- lative all’ordinaria e straordinaria manutenzione di immobili, costituite essenzialmente da un numero esiguo di carte sparpagliate disordinata- mente in buste talvolta intitolate “Fabbriche e riparazioni”, e spesso prive di camicia e titolo ma identificate dal numero di protocollo, si è stabilito di riordinarle in “fascicoli annuali”. Dunque una tipologia documentale molto ampia da cui si evincono prevalentemente storie di beni e di case, di terreni e fabbricati ma che, pur presentandosi piuttosto “tecnica”, di- venta fonte ricchissima di informazioni non solo sul patrimonio agrario della MÎA ottenuto nei secoli perseguendo la politica della concentrazio- ne fondiaria3, ma anche sulla dimensione di ciascun possedimento, sulle tipologie di terreni e sulle colture, sugli edifici colonici ed il loro stato di conservazione e, più o meno esplicitamente, anche sulle modalità di

3 Gianmarco De Angelis-Paolo Cavalieri, Le terre della MÎA. Le proprietà urbane e rurali, n. 9 della Collana di 10 volumi edita in occasione dei 750 anni di fondazione della Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo, Bergamo, Bolis Edizioni, 2015, pp. 41-46. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 83 conduzione di queste terre. Uno squarcio di vita agricola di fine Ottocento ce lo offre la risposta della Congregazione di Carità alla circolare prefettizia dell’agosto 1886 intitolata Condizioni di vita nei poderi delle Opere pie, che sollecita un aiuto all’agricoltura locale e soprattutto il miglioramento delle condizio- ni economiche, igieniche e alimentari dei contadini. Si legge di «fabbri- cati molto vecchi, costruiti senza riguardo ai pozzi, scolo delle pluviali, latrine e distribuzione dei locali; manutenzione insufficiente su fondi e case coloniche, specialmente in pianura ed a fronte dell’aumento della popolazione applicata ad una più intensiva coltura dei fondi; insufficien- za di aie e portici per il collocamento delle granaglie; disinteresse degli affittuali ad un contributo finalizzato al miglioramento delle cascine da cui non ricavano un utile diretto»4. Se, come vedremo, ancora per lungo tempo non verranno compiute opere strutturali significative agli edifici colonici, furono tuttavia intro- dotti cambiamenti significativi dal punto di vista gestionale con il pro- gressivo abbandono dei contratti di mezzadria e l’evoluzione dei con- tratti agrari fino alla nascita dell’istituto giuridico dell’affittanza collettiva delle possessioni con la costituzione delle Società di probi contadini5. Studiando il carteggio dell’affittanza agraria di Comun Nuovo per il periodo dal 1911 al dopoguerra, Fiorenza Cerati ha costruito un percor- so per l’Officina dello storico, laboratorio di ricerca storica e di didatti- ca delle fonti documentarie, artistiche e del territorio patrocinato dalla MÎA6, intitolato La gestione della proprietà fondiaria in Comun Nuovo agli inizi del ’900. L’argomento è stato ripreso ed approfondito anche dagli autori del nono volumetto della collana 750 anni della MÎA citato

4 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.1, b.1/fasc.8. 5 Per inquadrare l’argomento: Paolo Tedeschi, L’attività delle organizzazioni dei lavoratori dalle origini al secondo dopoguerra, in Storia Economica e Sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Tradizione e modernizzazione, Bergamo, Fondazione per la Storia economica e sociale, 1996, pp. 183-224. 6 Il progetto Officina dello storico nasce a Milano nel 2006 per iniziativa dell’ASP Golgi Redaelli al fine di valorizzare il proprio patrimonio culturale attraverso laboratori di ricerca didattica e formazione storica, dedicati alle scuole. Nel 2008 la MÎA sottoscrive un protocollo d’intesa con Milano ed avvia una sede parallela dell’Officina dello storico a Bergamo con l’intento di far conoscere agli studenti delle scuole bergamasche la storia dell’ente e il suo patrimonio archivistico, artistico, architettonico e paesaggistico. Utilizzando le fonti d’archivio gli esperti hanno progettato dei percorsi tematici selezionando dei dossier di fonti provenienti dagli archivi della MÎA e dal suo patrimonio. Il laboratorio è giunto nell’anno scolastico in corso alla decima edizione e ha coinvolto complessivamente oltre settemila studenti. Per maggiori informazioni si consulti il sito web del “laboratorio” all’indirizzo http//www.officinadellostorico.it. 84 Patrizia Talpo in nota7. Non mi soffermo dunque su questo importante capitolo di storia lo- cale, ma mi ricollego a quanto evidenziato dalla Congregazione di Ca- rità in merito alla «insufficiente» manutenzione degli edifici. Può essere interessante ripercorrere le vicende dei fabbricati colonici alla luce per esempio delle pratiche relative alla ricostruzione di immobili frequente- mente distrutti da incendi. I fascicoli, oltre alla documentazione abituale riguardante le procedure per la costruzione di immobili, contengono il carteggio con le società di assicurazione per il risarcimento danni.

«Comun Nuovo, podere La Nuova lunedì 29 luglio 1935 ore 17.15»8

Nel fabbricato colonico denominato “Cascina La Nuova” si sviluppa un forte incendio che ha origine nel corpo numero 5 e nello specifico nell’ammasso di granaglie in covoni depositato sotto il portico. L’incen- dio si propaga rapidamente agli altri corpi del fabbricato facilitato dalle ingenti quantità di granaglie accumulate ovunque nonché dalla presenza di legna da ardere, paglia e fieno depositati in gran quantità nelle logge, nelle travate e sotto i portici. Nel portico in cui ha origine l’incendio si affacciano alcune finestre di locali di civile abitazione fra cui due cucine con sfiatatoi e canna fumaria. Le granaglie si trovano ammassate al muro prospiciente le finestre, pertanto il perito della società assicuratrice ritie- ne che la causa dell’incendio provenga da qualche favilla sfuggita dalle aperture o dalla canna fumaria. Aggravanti per il rapido propagarsi delle fiamme, la presenza di tramezze divisorie in legno, tavolati per la chiu- sura dei fienili, stalle sottostanti le abitazioni, stallette e pollai, sempre in legno, adiacenti i corpi del fabbricato. L’incendio distrugge completa- mente la cascina; restano senza tetto venti famiglie ricoverate parte nelle scuole comunali e parte nelle case di altri contadini (foto 1-2). Nell’ottobre del medesimo anno viene deliberato dalla Congrega- zione di Carità di provvedere alla ricostruzione. La compagnia assicu- ratrice “Le Assicurazioni d’Italia” riconosce un danno a nuovo di Lire 244.638,07 da cui viene dedotto il grado di vetustà con una liquidazione complessiva di Lire 187.148,13, somma che consente esclusivamente la ricostruzione della parte incendiata.

7 G. De Angelis - P. Cavalieri, Le terre della MÎA..., cit, pp. 66-74. 8 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.10.2 , b.40/fasc.15. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 85

Foto 1

Foto 2 86 Patrizia Talpo

A seguito di relazione e progetto dell’Ufficio tecnico, la considera- zione complessiva che viene ad imporsi nel Consiglio congregazionale è che l’edificio di un’importante azienda agricola dopo due secoli di vita non può essere ricostruito secondo l’impianto ed i criteri originari. Si procede pertanto all’assunzione di un mutuo che consenta la copertura del preventivo di Lire 300.000 e si completa la ricostruzione con un nuovo gruppo di stalle ed una maggior quantità di porticati che conten- gano tutto il frumento (foto 3-4), la cui produzione risulta incrementata notevolmente a seguito delle mutate condizioni dell’economia agricola e della campagna di “battaglia del grano” lanciata dal regime fascista9. Sempre nelle carte relative alla possessione di Comun Nuovo leggia- mo del reiterarsi dell’annoso problema di manutenzione di un tetto.

Foto 3

9 Per inquadrare l’argomento: Gianluigi Della Valentina, L’agricoltura (1870-1945), in Storia Economica e Sociale di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Tradizione e modernizzazione, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale, 1996, pp. 13 – 88. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 87

Foto 4

Comun Nuovo, oratorio di San Zeno - 8 novembre 190310

La presenza della chiesetta di San Zeno a Comun Nuovo è riportata nella Descrittione delle proprietà del Venerando Consortio della Miseri- cordia Maggiore di Bergamo, cominciando l’anno 1612 di Marc’Antonio Benaglio: «Una pezza di terra aradora et vidata, giacente come sopra dove si dice S. Zeno quinto e sesto quadro, nella quale è situata la chiesa di S. Zeno»11 (foto 5) Tre secoli dopo il parroco don Angelo Cattaneo sollecita la Congre- gazione di Carità a provvedere alle riparazioni necessarie alla conserva- zione della chiesetta di San Zeno offrendo per contro la fornitura gratuita dei materiali. Necessitano immediati lavori di ricorritura del tetto, re- stauro di tratti di intonaco, riordino della cresta del campanile e ritin- teggiatura delle pareti interne. A fronte dell’anticipo delle spese da parte della Fabbriceria di Comun Nuovo, mai compensate ed in previsione di nuove opere di restauro, viene concordato che le spese di manutenzione

10 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.10.2, b.39/fasc. 2. 11 Marcantonio Benaglio, Descritione delle proprietà del Venerando Consortio della Misericordia Maggiore di Bergamo cominciando l’anno 1612, manoscritto presso la sede della Fondazione MÎA, Registro G, XVII secolo. 88 Patrizia Talpo

Foto 5 del fabbricato siano da attribuirsi alla MÎA, così da ribadire il diritto di proprietà sull’immobile, mentre a carico del parroco e della Fabbriceria, detentrice delle chiavi della chiesetta, siano da intendersi tutte le spese relative agli arredi sacri, paramenti e mobilio, assegnati ufficialmente alla Fabbriceria stessa contestualmente al podere, con regolare atto di consegna. Rimane aperto il problema della consegna dell’edificio, su parere del parroco da non assegnarsi al signor Zoja Zaccaria, attuale fit- tavolo del podere di Comun Nuovo su cui sorge la chiesetta, che non ap- plicherebbe la cura e la sollecitudine necessarie alla manutenzione della stessa, per cui si procede ad affidare alla Fabbriceria anche il fabbricato, dietro equo compenso. A seguito della costituzione della Società di pro- bi contadini12, presieduta dallo stesso don Angelo Cattaneo e dell’avvio dell’affittanza collettiva del podere di Comun Nuovo, la Congregazione di Carità di Bergamo nel 1915 propone alla società agricola di prendere in consegna anche l’edificio della chiesa di San Zeno con relativo pa- scolo. È interessante sottolineare come l’adesione alla proposta venga sollecitata direttamente da Treviglio per mano di monsignor Ambrogio

12 Paolo Tedeschi, L’attività delle organizzazioni dei lavoratori dalle origini al secondo dopoguerra, cit., pp. 193-194. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 89

Portaluppi, promotore delle affittanze collettive13, a patto che il fabbri- cato venga conservato in stato di ordinaria manutenzione da parte della MÎA. E questa risulta essere la nota dolente che rende curiosa la storia di questo oratorio di campagna: le spese annuali di manutenzione e ripa- razione di San Zeno. Se già nel maggio del 1915 veniva concesso al Municipio di Comun Nuovo l’uso della chiesa per eventuali necessità di alloggio di feriti di guerra, a conferma del ricovero di soldati presso l’oratorio sopraggiun- ge alla Congregazione di Carità di Bergamo la lettera del Cattaneo in cui riferisce come «i soldati qui accantonati, per togliere le nidiate dei passerotti, hanno buttato sottosopra tutto il tetto della chiesina di San Zeno, non lasciando smossa nessuna tegola»14. In realtà i danni al tetto prodotti «da quelli che di notte tempo durante l’estate vanno a smuovere le tegole per procurarsi i passerotti che vi depongono il nido»15 costitui- scono il problema che si ripropone a ogni stagione e che spinge l’ammi- nistrazione a cercare una nuova soluzione che preveda il mantenimento del diritto di proprietà della MÎA sull’oratorio senza però far gravare sul bilancio della stessa i costi di manutenzione. Pertanto viene coinvolta nuovamente la Fabbriceria parrocchiale che accetta di concorrere alle spese annuali nonostante non si trovi un accordo che porti alla sistema- zione definitiva della copertura dell’oratorio con la sostituzione delle tegole piane con tegole in ardesia o con gettata in cemento armato, per l’indisponibilità dell’Opera pia a sostenere i costi delle opere. Il crollo del tetto nel novembre del 1926 e la proposta del parroco don Vassalli di cedere la proprietà di San Zeno al Municipio di Comun Nuovo affinché si occupi delle opere di restauro, spinge la Congregazione a deliberare l’esecuzione dei lavori, a fronte peraltro della conferma da parte della Fabbriceria di presa in carico della futura manutenzione ordinaria del tetto e della fornitura dei materiali edilizi. La vicenda si conclude nel mese di giugno del 1927 quando vengono concluse le opere di restauro di tetto ed intonaci «con ottimo risultato e lodevole compartecipazione delle parti»16.

13 Ambrogio Portaluppi, L’affitto collettivo. Concetto e norme pratiche,Treviglio, Messaggi, 1911. 14 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.10.2, cit. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 90 Patrizia Talpo

Fara Olivana, casa detta “della Cappellania” - 10 febbraio 191417

Negli “Atti di affittanza” di Fara Olivana troviamo un’altra storia che coinvolge la Congregazione di Carità, la Fabbriceria locale e la Società agricola dei Probi contadini18, ma non più in relazione alle spese per la manutenzione degli edifici, bensì in ordine ai diritti reali ed alla destina- zione d’uso del fabbricato in mappale n. 21 Nella nota d’ufficio datata 6 luglio 1914 si legge come fin dal 1747 l’arciprete e la popolazione di Fara si erano rivolti alla Misericordia Mag- giore affinché istituisse una cappellania che garantisse la presenza conti- nuativa di un cappellano a favore dei coloni della possessione. Nel 1751 la MÎA assegnava al podere di Fara (foto 6) le messe del legato Agazzi che si sarebbero dovute celebrare in Basilica di Santa Maria Maggiore ed un cappellano obbligato a risiedere in loco nella casa a lui assegnata a titolo gratuito.

Foto 6

17 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.7.1.1 , b.23/fasc.1 - 3. 18 Sulla Società agricola dei Probi contadini di Fara Olivana si veda il saggio di Luigi Trezzi, Terra e contadini nella affittanza collettiva di Fara Olivana (1911-1928), in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», IX, 1976, 1, pp. 122-157. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 91

La concessione rimane invariata sino al 1866 quando la Congregazio- ne decide di sopprimere gli assegni a favore del cappellano ed affrancare il legato con il versamento del capitale corrispondente alla Fabbrice- ria, ma nessun provvedimento viene preso in merito al godimento della casa. Nel 1914 la Congregazione, a seguito dei rilievi dell’ufficio tecnico e delle testimonianze assunte, ritiene di imputare alla Fabbriceria l’abi- tudine di affittare arbitrariamente la casa in questione ai contadini del podere nei periodi di vacanza del posto di cappellano, lucrando inde- bitamente su un bene concesso a titolo gratuito. Conseguenza giuridica di tale situazione sarebbe stato il rischio di pregiudizio del diritto di pro- prietà per la MÎA, contemporaneamente al danno economico derivante dall’iscrizione della casa nel catasto urbano con il relativo obbligo di pa- gamento delle imposte. Viene perciò deliberato di modificare il titolo di destinazione che da «assegnazione personale ad uso gratuito al cappel- lano» si trasforma in «concessione in affitto della casa ad uso abitazione del cappellano»19, con obbligo di corresponsione di un canone annuo a carico della Fabbriceria. Il problema si evolve in modo inaspettato: il cappellano don Angelo Agliardi, ricoprendo dal 1915 anche la carica di direttore della Società agricola dei Probi contadini di Fara, si trasferisce nella casa dominicale (foto 7) del podere, tant’è che a partire dal 1931 la “casa del cappellano” passa a far parte integrante della possessione e viene affittata unitamente ad essa alla Società agricola che la destina alla famiglia del segretario amministrativo della cooperativa (foto 8). Tale nuovo assetto comporta nel 1944 una nuova controversia, nella fattispecie fra la Società di Probi contadini e la Curia vescovile: avendo la chiesa arcipresbiteriale di Fara ottenuto dal Vescovo l’assegnazione di un curato, si impone che questi abbia il diritto di uso per abitazione di quella casetta che per due secoli fu «incontrastatamente»20 destinata al cappellano coadiutore. L’ECA giunge ad una mediazione fra le parti ed ottiene che la Curia accetti di differire l’effettiva presa di possesso dell’a- bitazione a termine della guerra, assecondando la proposta della Società cooperativa. Pochissime e sporadiche sono le informazioni che si possono ricavare dalle carte di questa serie documentale sulle guerre del secolo scorso. Abbiamo detto che San Zeno di Comunuovo fu ricovero per i soldati feriti nelle operazioni belliche della Grande guerra ed un accenno alla

19 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.7.1.1, cit. fasc.1. 20 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.7.1.1, cit. fasc.3. 92 Patrizia Talpo

Foto 7

Foto 8

Seconda guerra mondiale lo troviamo in chiusura di questa pratica rela- tiva alla “casa del cappellano”, ma il conflitto rimane sullo sfondo della vita contadina nella pianura bergamasca, tranne che per gli abitanti della possessione Le Sorti e della cascina Le Basse di Seriate come vediamo nel prossimo paragrafo. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 93

Seriate, possessione Le Sorti – agosto 194321

«Occupazione di un fondo della possessione da parte delle truppe germaniche per decentrare gli apparecchi delle forze alleate dal cam- di volo di Orio e realizzare un grande ricovero per aeroplani». La relazione dell’ufficio tecnico dell’ECA di Bergamo descrive un appez- zamento di terreno che precedentemente si presentava «ben livellato ed irrigabile con un grado di fertilità ottimo. Razionalmente lavorato e con- dotto forniva elevata produzione a cereali e foraggi, fortemente gelsito e piantumato», che a luglio del 1944 si presenta spezzettato in diversi lotti, non più irrigabile ed ampiamente trasformato dalla presenza - di una grande pista per aeroplani parte in calcestruzzo e parte in ghiaia compressa; - di un grande ricovero per aeroplani delimitato da enormi mucchi di terreno su tre lati; - di due vasche cave di ghiaia e terra. Nella relazione del geometra Silvio Chemollo, il perito incaricato dal commissario prefettizio e dall’affittuale Pedrini Francesco, viene de- nunciato il danno economico gravante sulla proprietà per il ripristino del terreno devastato e sul conduttore del fondo in relazione al mancato raccolto di frumento, granoturco e fieno da foraggi. Nello stesso fascicolo, composto di 31 carte, vengono denunciati ulteriori danni di guerra nella medesima possessione a carico di una cascina colonica e dei campi ad essa adiacenti.

Seriate, cascina Le Basse – 21 febbraio 194422

Vengono sganciate tredici bombe da aeroplani germanici «nell’im- mediata adiacenza» della cascina Le Basse. L’esplosione di una di esse provoca danni a fabbricati e terreni in mappale 593 e 594: lo spostamen- to d’aria scoperchia il tetto e manda in frantumi due finestre, vengono abbattuti sette grossi gelsi e distrutte venticinque piante da vite e da frut- to. La richiesta di risarcimento alla Prefettura Repubblicana di Bergamo ammonta ad una somma di 8.314 lire.

21 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case 1.3.2, b. 6/fasc.7. 22 Ibidem. 94 Patrizia Talpo

Storie di beni e di case: la Domus Magna “Storie di beni e di case” per l’appunto, tant’è che se ci soffermia- mo sulle origini di tale storia patrimoniale scopriamo, ancora una volta citando il monumentale inventario del notaio della MÎA Marcantonio Benaglio23, come l’avvio dello sviluppo del patrimonio immobiliare del- la MÎA sia da ricondurre all’acquisto nel 1301 di una casa in città nella Vicinia di Santa Eufemia24. Se integriamo la lettura della fonte appena citata con le disposizioni testamentarie e l’Inventarium proprietatum del 143125, osserviamo come già sul finire del XV secolo il consorzio pos- sedesse alcuni beni in città. Fra questi, uno dei palazzi di cui possia- mo ricostruire il percorso storico dalla sua acquisizione il 14 giugno del 144726 ai giorni nostri, è la Domus Magna27 (foto 9).

Foto 9

23 M. Benaglio, Descritione delle proprietà…cit. 24 Ivi, c.1r. 25 BCBg, Archivio MÎA, Inventarium proprietatum 1431, n.550/4, c.2r. 26 Luigi Chiodi, Nel 7° centenario… cit., p. 7. 27 Per un approfondimento sulla storia dell’edificio si rimanda a Graziella Colmuto Zanella - Paolo Mazzariol, Il palazzo della Misericordia Maggiore a Bergamo. Relazione, Testo dattiloscritto, s.d., pp. 1-187, disponibile presso la Biblioteca della Fondazione MÎA, via Malj Tabaiani 4, Bergamo. Storie dal patrimonio della Misericordia Maggiore 95

La documentazione concernente la locazione del Palazzo della Mi- sericordia in via Arena 9 è conservata in quattro faldoni della Sezione moderna dell’archivio storico28 e quella contenuta nella prima busta fa riferimento alla sistemazione dell’edificio precedente la creazione di di- verse unità abitative e di locali riservati all’Istituto musicale o all’Archi- vio notarile. Da quanto si desume dalle scritture private di locazione, nell’ultimo quarantennio dell’Ottocento l’immobile era in ampia parte riservato alla Pia scuola di musica, ed affittato in parte al Monte dei pegni29, in parte al Pio luogo della Pietà30, entrambi amministrati dalla Congregazione di Carità, mentre la Scuola Magistrale maschile31, gestita dal Comune, occupava 14 aule. Dal 1874 in alcuni ambienti lasciati liberi dal Pio luogo della Pietà e dalla Scuola Magistrale, subentra l’Ar- chivio notarile che occuperà il primo piano del palazzo (foto 10) fino al trasloco al piano terreno, realizzatosi nel corso della locazione triennale del 1905 -1908.

Foto 10

28 ASBg, Archivio MÎA, Beni e case, 1.15.1, buste 65 – 69. 29 Ivi, b.65/fasc.1 30 Ivi, b.65/fasc.2 31 Ivi, b.65/fasc.3 96 Patrizia Talpo

A seguito di tale nuova assegnazione, l’Archivio notarile verrà ad occupare fino al 1953 tre stanze per uso ufficio, sette locali ad uso de- posito e due ambienti di riserva per eventuali necessità di ampliamen- to32. La documentazione novecentesca è relativa all’affitto a privati di tre appartamenti di modeste dimensioni, contrassegnati dalle lettere A B C, posti al secondo, terzo e quarto piano dell’edificio e di un magaz- zino ad uso deposito nei sotterranei dell’Istituto musicale. L’assegnazio- ne della locazione avveniva in base alla discrezione del Consiglio della Congregazione, tenuto conto delle condizioni economiche disagiate e della moralità di coloro che inoltravano la domanda d’affitto. Il contratto veniva raramente redatto con scrittura privata, il più delle volte veniva rinnovato verbalmente di anno in anno con possibilità di reciproca di- sdetta preceduta da preavviso semestrale. In queste carte non compare documentazione concernente l’Istituto musicale33 che, in quanto diretta emanazione della MÎA e da essa amministrato fino al 195834, occupò gli ambienti in questa sede fino al 2007 a titolo gratuito, fatta eccezione per i fascicoli inerenti le opere di manutenzione dei locali ad esso riservati. Medesimo argomento per l’appartamentino di residenza del portinaio, trasformato fra il 2006 ed il 2008 nell’attuale Sala Locatelli nell’ambito delle complessive opere di restauro di questo prestigioso palazzo che rimase sede unica degli uffici della Misericordia Maggiore sino al 1865. Fin qui l’intento di proporre un piccolo saggio esemplificativo della ricchezza che anche le “carte” della sezione moderna dell’archivio della Misericordia Maggiore possono offrire alla conoscenza della storia non solo di questo secolare ente caritatevole, ma anche della città di Ber- gamo e delle campagne circostanti, con la consapevolezza che ancora molto potranno raccontare a tutti coloro che avranno l’interesse e il pia- cere di indagarle.

32 Ivi, b.65/fasc.4 33 Le pratiche relative all’Istituto musicale sono raccolte nella serie VIII dell’inventario di questa sezione d’archivio. 34 L’Istituto fu amministrato dalla Misericordia Maggiore fino al 1958, anno in cui la gestione passò al Comune di Bergamo con la nuova denominazione di Civico Istituto Musicale Gaetano Donizetti. QUADERNI DI ARCHIVIO BERGAMASCO

4 -10/11 2010 2016-2017 QUADERNI DI ARCHIVIO BERGAMASCO Rivista annuale di storia e cultura

Direttore responsabile: Susanna Pesenti Comitato di redazione: Giulio Orazio Bravi, Cesare Giampietro Fenili, Cristina Gioia, Matteo Rabaglio

Sede della redazione: presso Palazzo della Provincia, via Torquato Tasso 8, 24121 Bergamo

Per richieste di acquisto della rivista o di abbonamento scrivere all’indirizzo e-mail: [email protected]. Il pagamento potrà essere effettuato con assegno/bonifico bancario utilizzando le seguenti coordinate: c/o Credito Bergamasco - Gruppo Banco Popolare, IBAN: IT65F0503411109000000010348

I dattiloscritti e i volumi per recensione, omaggio o cambio vanno inviati a Archivio Bergamasco Centro studi e ricerche, presso Palazzo della Provincia, via Torquato Tasso 8, 24121 Bergamo

Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n. 19/08 del 28 aprile 2008

Progetto copertina: Paolo Mazzariol

Copyright © 2018 Archivio Bergamasco Centro studi e ricerche E-mail: [email protected] - Sito web: www.archiviobergamasco.it Facebook: Associazione Archivio Bergamasco

Stampa: Grafica Monti Bergamo

Con il contributo di:

R G A M E O B

C I E T L T à I L D E I M

Sostengono le attività di Archivio Bergamasco: QUADERNI DI ARCHIVIO BERGAMASCO Rivista annuale di storia e cultura

Direttore responsabile: Susanna Pesenti

Coordinatore: Rodolfo Vittori, Cesare Giampiero Fenili Comitato di redazione: Giulio Orazio Bravi, Margherita Cancarini Petroboni, Cesare Giampietro Fenili, Paolo Plebani, Matteo Rabaglio, Andrea Zonca

Sede della redazione: presso Civica Biblioteca ‘A. Mai’, Piazza Vecchia 15, 24129 Bergamo

Per richieste di acquisto della rivista o di abbonamento scrivere all’indirizzo e-mail: [email protected]. Il pagamento potrà essere effettuato tramite il versamento sul conto corrente postale n. 93131647 intestato a Archivio Bergamasco Centro studi e ricerche, oppure con assegno/bonifico bancario utilizzando le seguenti coordinate: c/o Credito Bergamasco - Gruppo Banco Popolare, IBAN: IT36P0333611109000000010348

I dattiloscritti e i volumi per recensione, omaggio o cambio vanno inviati a Archivio Bergamasco Centro studi e ricerche, presso Civica Biblioteca ‘A. Mai’, Piazza Vecchia 15, 24129 Bergamo

Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n. 19/08 del 28.4.2008

Progetto copertina: Paolo Mazzariol

Copyright © 2010 Archivio Bergamasco Centro studi e ricerche E-mail: [email protected] - Sito web:www.archiviobergamasco.it

Stampa: Grafica Monti Bergamo

Le iniziative culturali del Centro studi e ricerche Archivio Bergamasco realizzate nel corso dell'anno 2010 hanno ricevuto il sostegno finanziario della Provincia di Bergamo - Settore Cultura, Sport e Turismo utilizzando i fondi messi a disposizione della legge regionale 26 febbraio 1995 n. 9.

SI RINGRAZIANO:

CREDITO BERGAMASCO -GRUPPO BANCO POPOLARE CAMERA DI COMMERCIO DI BERGAMO, MAGRIS GROUP

Con il sostegno del

PASSIONE E SENSIBILITÀQuestoPER IL T numeroERRITO RèI Ostato realizzato col generoso contributo della società Magris Group INDICE

Saggi

Giulio Orazio Bravi - Cesare Giampietro Fenili, Il secolare cammino 13 della Misericordia Maggiore di Bergamo dall’antica confraternita all’attuale fondazione

Gianluca Perondi, A carte scoperte. La MÎA e gli «altri». Gli archivi 45 della Misericordia Maggiore e della Congregazione di Carità

Giulia Todeschini, Il sale e le spose. I legati di beneficenza nell’archivio MÎA 61

Patrizia Talpo, Di beni e di case. Storie dal patrimonio terriero della MÎA 81

Enrico Zucchi, Pietro Calepio difensore dei classici: l’Apologia di 97 Sofocle e la polemica con Voltaire

Gianluigi Della Valentina, Fonti per la storia del mondo popolare. 109 I musei etnografici

Fonti, archivi e strumenti

Simone Facchinetti, Inediti bergamaschi 147 Giacomo Quarenghi, Il Teatro dell’Ermitage 173 Erika Francia, La vita della comunità di Stezzano nelle carte dell’ar- 187 chivio parrocchiale

Mostre, convegni, eventi

«Di elevato ingegno» e «somma dottrina». Antonio Tadini e la 229 scienza delle acque. Mostra documentaria promossa dal Comune di Romano di Lombardia, La Redazione La Repubblica bergamasca del 1797: nuove prospettive di ricerca, 231 di Fabrizio Costantini Recensioni

Giovanni Michele Alberto Carrara, Armiranda, di Dario Personeni 235 Patrizia Iorio e Mino Scandella, La chiesa dei Santi Defendente e 236 Rocco a Clusone. Dove l’arte diventa preghiera, di Andrea Pilato Tarcisio Bottani, Francesco Tasso e la nascita delle poste d’Europa 238 nel Rinascimento, di Ivano Sonzogni Johann Simon Mayr, L’organo. Dall’organo ellenistico a quello me- 239 dioevale, di Marcello Eynard Dizionario Donizettiano, a cura di Francesco Cento, di Marcello Eynard 240 Non per divertimenti ma per cercar pane e lavoro, di Gianluigi 242 Della Valentina Juanita Schiavini Trezzi, Archivi per la storia dell’assistenza 243 a Bergamo Casa di Ricovero - Casa d’Industria - Ricovero di Mendicità Inventario 1811-1959, di Cesare G. Fenili Matteo Rabaglio – Giosuè Bonetti, O tu che leggi, ricorda. 248 Epitaffi cimiteriali tra l’ e il Brembo, di Gianluigi Della Valentina Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete. Il clero di Bergamo durante 250 l’occupazione tedesca (settembre 1943 – aprile 1945), di Mario Pelliccioli Ivano Sonzogni, Attilio e Gino Rota. Politica, economia e 257 istituzioni negli anni dello sviluppo bergamasco (1856-1963) di Beppe Facchetti 97

Enrico Zucchi

PIETRO CALEPIO DIFENSORE DEI CLASSICI: L’APOLOGIA DI SOFOCLE E LA POLEMICA CON VOLTAIRE

L’Apologia di Sofocle è il primo saggio critico del bergamasco Pietro Calepio (1693-1762)1, composto in forma epistolare diversi anni prima della prova maggiore, il Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia (1732), nel 1725, in risposta alle sollecitazioni del corrispondente svizzero, Caspar von Muralt (1698-1739), il quale aveva chiesto all’amico (ma la lettera non ci è pervenuta)2 di riflettere sulla recente pubblicazione di una tragedia del giovane Voltaire (1694-1778), l’Œdipe, rappresentata per la prima volta nel 1718 e fatta stampare all’interno di un volume prestigioso, ricco di paratesti, grazie al quale l’autore, poco più che diciottenne, aveva conquistato le luci della ribalta internazionale3. Nella sua pièce Voltaire aveva dato vita all’ennesima variazione sul

1 Il testo dell’Apologia di Sofocle è stato edito criticamente in Mario Scotti, L’«Apologia di Sofocle» di P. de’ Conti Calepio, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXIX, 427 (1962), pp. 392-423; a tale edizione critica si farà d’ora in poi riferimento con la dicitura Apologia. Per una introduzione alla figura di Calepio sono ancora utili i contributi di Sergio Romagnoli, Appunti bibliografici e critici su Pietro Calepio, «Bergomum», XLIX (1955/1), pp. 1-7; Introduzione a Pietro Calepio, Descrizione de’ costumi italiani, a cura di Sergio Romagnoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, pp. V-LXX; Calepio, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, vol. 16, pp. 672-675. Sul Paragone di Calepio mi permetto di rimandare all’edizione digitale da me curata, frutto della tesi di dottorato recentemente discussa presso l’Università di Padova: Pietro Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, a cura di Enrico Zucchi, Paris, Université Paris-Sorbonne - LABEX OBVIL, 2017 (http://obvil.paris-sorbonne.fr/corpus/historiographie-theatre/calepio_paragone-poesia- tragica_1732). 2 Presso la Biblioteca Civica Angelo Mai sono conservati i carteggi calepiani e le epistole spedite al conte bergamasco da molti corrispondenti, fra i quali Muralt (Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo, Archivio Calepio, Carteggi e MMB 421. 3 L’edizione originale è la seguente: Œdipe, tragédie par monsieur de Voltaire, Paris, Ribou, 1719. La rappresentazione, antecedente alla stampa, fu allestita per la prima volta nel novembre 1718 alla Comédie Française, ed ebbe un enorme successo, tanto che godette di quasi cinquanta repliche. 98 Enrico Zucchi soggetto sofocleo, mosso non tanto dall’ossequio nei confronti dell’au- tore greco e in generale della tragedia classica: egli, piuttosto, aveva prescelto quell’intreccio, considerato da Aristotele nella Poetica e dai classicisti il prototipo tragico perfetto, per stravolgerne il senso. Ripren- dendo la strada che avevano già percorso nel diciassettesimo secolo Pierre Corneille (1606-1684) ed Emanuele Tesauro (1592-1675), i quali, introducendo una digressione amorosa nella trama principale, avevano significativamente contribuito al processo di «denaturazione del model- lo originario», per usare la definizione di Paolo Bosisio4, anche Voltaire inserisce nell’archetipo dell’Edipo re personaggi ed elementi della ‘favo- la’ del tutto nuovi, spostando l’asse centrale attorno al quale ruotava il tragico nel capolavoro greco. Nel Settecento si trovano diverse reinterpretazioni di orientamento politico della favola edipica, volte talora a ridisegnare il re tebano come l’eroe dell’ambizione, come accade nella versione di Pier Jacopo Mar- tello (1665-1727), in cui Edipo camuffa con menzogne e raggiri le tracce della propria infausta ascesa al trono5, oppure in quella del francese

4 Paolo Bosisio, Il tema di Edipo nella tradizione della tragedia italiana, «Studi di letteratura francese», XV (1989), pp. 78-122: 80. L’Œdipe (1659) di Corneille inserisce nel soggetto principale la vicenda amorosa di Thesée e Dirce per evitare di concentrare l’attenzione dei sensibili spettatori contemporanei sugli atroci e terribili eventi descritti da Sofocle nella sua tragedia. Questo Edipo addomesticato e galante non viene minimamente apprezzato da Calepio, il quale privilegia la pièce sofoclea, in accordo con Aristotele, proprio per il dispositivo catartico che viene messo in scena. Egli ammette infatti nel Paragone che Corneille, avendo evitato di farsi carico di questo nodo profondamente tragico, avrebbe sciupato la bellezza del soggetto («Le due persone più proprie che Pier Cornelio ha preso a rappresentare sono la Sofonisba e l’Edippo, ma ne ha fatto sì mal uso che n’ha formato due delle sue inferiori tragedie. L’azione tratta dall’Edippo di Sofocle gli è sembrata secca: però volendola nobilitare havvi introdotto l’episodio di Dircea e di Teseo, che non solo frastornano l’interesse primario, ma lo fanno diventare accidentale, oltre di che s’occupa talmente Edippo stesso ne’ loro affari che sembra scordarsi della sua disgrazia quando in effetto dovrebbe mostrare trasporti degni d’una disperazione che induce a cavarsi gli occhi»; Calepio, Paragone della poesia tragica..., cit., I, 4). Sulla lettura della tragedia corneilliana offerta da Calepio rimando a Enrico Zucchi, Il «diletto tragico» e l’«ammirazione accessoria». In margine alle critiche della tragedia cornelliana mosse nel Paragone di Pietro Calepio, «Critica letteraria», XLIV (170), 2016, pp. 92-112. Tesauro, rifacendosi dichiaratamente a Seneca più che a Sofocle, introduce invece nel suo Edipo (1661) l’episodio dell’amore fra Antigone e Creonte, che orienta la vicenda in senso politico, come osserva Carlo Ossola, che vede in questa tragedia il dispiegamento di una cupa ragion di Stato, e in Edipo il regicida giustamente punito; cfr. Carlo Ossola, «Edipo e ragion di Stato»: mitologie comparate, «Lettere italiane», XXXIV (1982/4), pp. 482-505. 5 L’Edipo tiranno di Pier Jacopo Martello, pubblicato nel Seguito del teatro italiano di Martello (1723), si può leggere nel secondo tomo dell’edizione del suo Teatro, a cura di Pietro Calepio difensore dei classici 99

Antoine Houdar de la Motte (1672-1731), che fa di Œdipe un pastore accecato dall’improvvisa sete di potere6, mentre Voltaire si rifà alla so- luzione galante di Corneille, a cui apporta tuttavia alcuni cambiamenti significativi. Egli introduce infatti il personaggio di Philoctete, tornato da Tebe, dalla quale era partito molti anni prima per domare la passione che lo spingeva verso la regina Jocaste, sfortunatamente già sposata a Laius, a cui egli era peraltro notoriamente avverso. Il popolo tebano, una volta appreso che le sofferenze in cui versava la città erano dovute all’assassinio del precedente sovrano, sospetta Philoctete e chiede la sua testa a Œdipe, poco disposto ad accusare l’indiziato principale, di cui attesta l’eroismo. A complicare la vicenda interviene l’intercessione di Jocaste, che si scopre segretamente innamorata di Philoctete. Alla fine, come nell’antecedente sofocleo, la scena risolutoria è quella del con- fronto fra Œdipe e il gran sacerdote (III, 4), nella quale si scopre che la responsabilità del delitto va ascritta al sovrano e non a Philoctete. Di questa singolare ripresa del soggetto edipico – contraddistinta dal personaggio di Philoctete, nel quale gli studiosi hanno di volta in volta in- dividuato il fulcro di una proposta religiosa di stampo deista7, il vettore di una condanna alla monarchia assoluta per diritto divino8, oppure la chiave attraverso cui perpetrare una psicolettura di Voltaire9 – Calepio

Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1982. Sulla fortuna del soggetto di Edipo nel Settecento si veda Valeria Merola, Paradigmi edipici. Letture teatrali settecentesche, Viterbo, Sette Città, 2009. 6 Così Houdar de la Motte giustifica la propria scelta nei paratesti con cui accompagna la pubblicazione del suo Théâtre: «Au lieu de suposer, comme Sophocle, qu’Œdipe ait été élevé, au milieu d’une Cour, comme l’héritier de la Courone, ce qui ne donne pas lieu à l’ambition qui seroit déjà satisfaite; j’ai fait élever Œdipe dans l’état de berger, afin que son ambition en fût à la fois plus héroïque et moins pardonnable»; Antoine Houdar de la Motte, Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe, in Les œuvres du théâtre, I, Paris, Dupuis, 1730, p. 189. Diversi i presupposti che muovevano il gesuita Melchior Folard a rendere il proprio Œdipe (1722) assai colpevole, per assolvere gli Dei che lo puniscono. Su questo punto, Jean-Marie Winkler, Destin, liberté, nécessité: réécriture d’Œdipe Roi au temps de Voltaire et Goethe, «Travaux et Documents Hispaniques», IV (2012), pp. 81-90. Sulla tradizione degli Edipi francesi si rimanda, oltre che ai contributi del numero monografico di «Studi di letteratura francese», XV (1989) intitolato Edipo in Francia, a cura di Enea Balmas, al prezioso contributo di Christian Biet, Œdipe en monarchie. Tragédie et théorie juridique à l’âge classique, Paris, Klincksieck, 1994. 7 René Pomeau, La religion de Voltaire (1956), Paris, Nizet, 1995. 8 Ronald S. Ridgway, La propagande philosophique dans les tragédies de Voltaire, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1961, pp. 64-65. 9 José-Michel Moureaux, L’Œdipe de Voltaire. Introduction à une psycholecture, Paris, Archives des lettres modernes, 1973. Moureaux è convinto che i personaggi di Œdipe e di Philoctete rappresentino due alternative possibilità di affrontare il conflitto dei figli con i propri padri. Questa stessa lettura è stata più recentemente ripresa da Georges-L. 100 Enrico Zucchi aveva scritto al Muralt: «Ho letto con piacere, onoratissimo mio signor Gasparo, che sienvi state in grado le osservazioni da me fatte sopra il nuovo Edippo; uso però la confidenza di mandarvi anche l’Apologia di Sofocle, che m’era impegnato d’aggiungere...»10. Del resto si può facilmente immaginare che opinione avesse il ber- gamasco di una riscrittura che tradiva così platealmente i presupposti dell’opera sofoclea, da lui tanto ammirata, introducendo digressioni amorose e personaggi secondari alle cui vicende è dedicato più spazio di quanto non ne venga riservato ai casi del protagonista. Nel tardo Pa- ragone egli si mostra peraltro poco parziale delle soluzioni voltairiane, criticando in particolare il troppo debole dispositivo patetico (IV, 3), che non permette allo spettatore di trarre dalla cupa favola il giusto grado di pietà, ma muovendo osservazioni anche contro la verosimiglianza del personaggio di Philoctete (V, 6) e diverse imprecisioni stilistiche. Ciò che attirò maggiormente l’attenzione di Calepio, muovendolo a una risposta in prima persona, fu però uno dei paratesti all’edizione vol- tairiana, la Lettre contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle, in cui il francese, ancora coinvolto nel clima della celebre Querelle des Anciens et des Modernes, stroncava l’Edipo re di Sofocle, rilevando diversi errori di costruzione dell’intreccio che inficiavano l’elezione di questa tragedia a modello indiscutibile per i poeti tragici contemporanei. Il bergamasco, appassionato lettore dei classici fin dagli studi giovanili presso il collegio per nobili di Sant’Antonio di Brescia retto dai gesuiti, si sentì in dovere di difendere l’autore greco in una lettera-trattatello, appunto l’Apologia di Sofocle, indirizzata a Muralt e più tardi pubblicata da Johann Jakob Bodmer (1698-1783) nel 174211, che era rimasta sostanzialmente sco- nosciuta in Italia fino a quando, nel 1962, Mario Scotti – il quale ne aveva ritrovata una copia nelle carte Pellico dell’archivio romano della Civiltà Cattolica, probabilmente passata per le mani di Foscolo – l’aveva ripubblicata in edizione moderna12. Muralt e i sodali dell’ambiente culturale svizzero13 non sono gli unici

Bérubé, Le personnage de Philoctète dans l’Œdipe de Voltaire: un signe avant-coureur, «Lumen», XIII (1994), pp. 61-69. 10 Apologia, p. 401; l’originale della lettera non è stato conservato. 11 L’opera viene pubblicata nella Sammlung Critischer, Poetischer, und anderer geistvollen Schriften, zur Verbesserung des Urtheiles und des Witzes in den Wercken der Wohlredenheit und der Poesie, Zürich, Orell, 1742, pp. 37-74. 12 Per il testo e le peregrinazioni del manoscritto si veda quanto scrive Mario Scotti in Apologia, pp. 392-423. 13 Sul sodalizio di questo circolo svizzero con i corrispondenti italiani, e in particolare con Pietro Calepio difensore dei classici 101 destinatari di questa Apologia, che Calepio si premura, non casualmen- te, di far pervenire anche al grecista toscano Anton Maria Salvini, erudito di grande vaglia e animatore dell’Accademia degli Apatisti, dal quale il bergamasco attendeva un riscontro14. A documentare la corrispondenza con il letterato fiorentino ci rimane una lettera inedita del Calepio datata 25 maggio 1729, esattamente una settimana dopo la morte del Salvini, in cui egli chiedeva al fratello di Anton Maria, Salvino, la restituzione della copia dell’Apologia, assieme a una lista di voci che aveva inviato affinché servissero da supplemento al Vocabolario della Crusca15.

Calepio è ancora utile la monografia di Rinaldo Boldini, Gian Giacomo Bodmer e Pietro di Calepio. Incontro della «Scuola Svizzera» con il pensiero estetico italiano, Milano, Vita e Pensiero, 1953. Sul rapporto fra Bodmer e Calepio, oltre al carteggio intercorso tra i due e pubblicato in edizioni moderne (Pietro Calepio, Lettere a J. J. Bodmer, a cura di Rinaldo Boldini, con nota al testo e glossario di Sergio Romagnoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964; Valeria Ramacciotti, Lettere di Johan Jacob Bodmer a Pietro Calepio, «Memoria dell’Accademia delle Scienze di Torino», V (1982), pp. 159-291), si rinvia a Daniel O. Dahlstrom, The Taste for Tragedy: The Briefwechsel of Bodmer and Calepio, «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», LIX (1985/2), pp. 206-223. 14 Su Anton Maria Salvini si vedano i contributi di Vincenzo Placella, Il padre dei traduttori omerici settecenteschi: Anton Maria Salvini, «Filologia e letteratura», XV (1969), pp. 379- 409, e Maria Pia Paoli, Anton Maria Salvini (1653-1729). Il ritratto di un «letterato» nella Firenze di fine Seicento, in Naples, Rome, Florence. Une histoire comparée des milieux intellectuels italiens (XVIIe-XVIIIe siècles), a cura di Jean Boutier, Brigitte Marin e Antonella Romano, Roma, École française de Rome, 2005, pp. 501-544. 15 La lettera si trova a Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai, Archivio Calepio, Carteggio dal 7 gennaio 1720, faldone R. 62.2, lettera 10. Lo trascrivo di seguito integralmente. «La morte del Signor Abate Antonmaria degnissimo fratello vostro siccome debbe esser compianta da tutta la repubblica letteraria così riesce doppiamente rammarichevole a me, che oltre l’interesse comune agli amatori delle lettere, godeva la fortuna d’averlo padrone, ed amico. Nel funesto accrescimento di questa perdita due motivi mi spingon a scrivere a Vostra Signoria illustrissima: il primo si è il desiderio di risarcirne il danno con l’acquisto della sua padronanza perocché non poteva egli lasciarci morendo migliore riparatore che fosse egualmente erede delle sue virtù, come delle sue opere e delle altre sostanze. L’altro è che rimanean in sua mano due miei scritti, uno contiene raccolta di molte voci che potean servire di supplemento al vocabolario della Crusca, ed uno ha per titolo Apologia dell’Edipo di Sofocle. Vorrei però che ella gli consegnasse al Signor Conte e Cavalier Pesenti mio cugino quando il primo più non serva a nulla; perciocché già mi scrisse il Signor Abate di felice memoria, che voleva farne uso in occasione che si doveva stampare il medesimo vocabolario. Io non voglio prolungare la lettera con racconsolare il di lui animo che si avrà più d’ogn’altro sentito la presente disgrazia: non lieve conforto ella deve ricevere sì dalla propria virtù che dalla universale partecipazione del cordoglio, e dal nome glorioso in cui detto signore rimarrà […]. Altro perciò non aggiungerò se non che priego lei di mostrare alcun gradimento della osservanza che le protesto, rimanendomi di Vostra Signoria illustrissima affettuosissimo servitore, Pietro Calepio». Sulla pratica epistolare di Calepio cfr. Enrico Zucchi, Da pretesto a sottotesto: sulla 102 Enrico Zucchi

Nella lettera al Muralt – in cui il letterato bergamasco utilizza i mo- duli dell’epistolarità fittizia per veicolare in maniera vivace e familiare la propria lettura – dopo una generica e tradizionale captatio benevolen- tiae Calepio precisa la propria prospettiva: egli non prende le difese di Sofocle in qualità di fanatico delle lettere greche, nella convinzione che gli autori antichi siano privi di difetti. Questa posizione, assunta pregiu- dizialmente da coloro che nel corso del dibattito sulla superiorità degli antichi o dei moderni avevano parteggiato per gli «anciens», ergendosi a tutori irriducibili del prestigio omerico16, viene rifiutata da Calepio, il quale si dice tuttavia mosso dall’eccessiva e ingiustificata acredine di- mostrata da Voltaire nell’attacco al drammaturgo greco, autore – e parti- colarmente nel suo Edipo re – assai meno attaccabile di Omero («Ma M. de Voltaire parmi che siasi oltre modo avanzato mordendo e lacerando in più luoghi fuori d’ogni ragione quell’Edippo, che per tanto tempo è stato il modello della perfetta tragedia»17). Balena inoltre, già in questo scritto, quella sintesi di fiducia nelle auctoritates e vaglio delle opere se- condo un principio puramente razionale che caratterizzerà, fin dal prin- cipio, anche l’impresa del Paragone:

Doverebbe, a dire il vero, questo poeta essere abbastanza difeso da se fortuna della forma epistolare negli scritti critico-letterari di Pietro Calepio, in Le carte false. Epistolarità fittizia nel Settecento italiano, a cura di Fabio Forner, Valentina Gallo, Sabine Schwarze e Corrado Viola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 527- 541. 16 «Io non voglio essere nel numero di coloro che, preoccupati dalla riputazione degli antichi autori, si persuadono che sieno senza difetti, e giungono talora a far legge de’ loro medesimi errori, restando quindi sforzati a fare apologie, in cui mostrano più d’arte che di ragione, come osservo essere avvenuto in questi ultimi anni appunto in Francia d’alcuni partigiani d’Omero, che sono stati tanto appassionati difensori d’ogni sua censura, quanto arditi gli avversarii in condannare più cose degne di loda, non che capaci di giustificazione»; Apologia, p. 401. Sulla famosa polemica, passata alla storia come «Querelle d’Homère», intercorsa tra Anne Dacier e Houdar de la Motte, si vedano due documenti dell’epoca, recentemente ripubblicati: Étienne Forment, Examen pacifique de la querelle de Madame Dacier et de Monsieur de la Motte sur Homère, Genève, Slatkine, 1971; Antoine Houdar de la Motte, L’Iliade, poème avec un discours sur Homère, a cura di Francis Assaf, Toulouse, Société de Littératures classiques, 2006. Si rimanda inoltre, sulla fortuna della poesia omerica nell’Europa tra Cinque e Seicento ai seguenti contributi: Noemi Hepp, Homère en France auXVIIesiècle, Paris, Klincksieck, 1968; Silvia D’Amico, Omero negli Arts Poétiques tra Italia e Francia, in Riflessioni teoriche e trattati di poetica tra Francia e Italia nel Cinquecento, a cura di Elio Mosele, Fasano, Schena, 1999, pp. 69-82; Homère en Europe à la Renaissance. Traductions et réécritures, édité par Silvia D’Amico et Sabine Lardon, Chambéry, Université Savoie Mont Blanc, 2017. 17 Apologia, p. 402. Pietro Calepio difensore dei classici 103

stesso per quel lungo possesso di gloria, che sino ad ora ha goduto presso tutti li più dotti: ma, posciaché siamo in un secolo in cui si contende agli antichi tutto ciò che non appare legittimato coi fondamenti della ragione, e si pretende che gli applausi resi loro dalle passate età abbiano fomenta- to mille pregiudizi ne’ loro ammiratori, traendo questi ad una adorazione superstiziosa, non sarà forse inutile questa mia impresa18.

La struttura del saggio è peraltro tradizionale, dal momento che l’au- tore esamina una per una le censure avanzate da Voltaire19 al fine di confutarne la validità, giudicandole talora capziose, talaltra infondate, in quanto frutto dello studio di una cattiva traduzione in francese – quella offerta da André Dacier – della tragedia sofoclea. Risulta esemplare dell’atteggiamento critico di Calepio la prima ri- sposta alle accuse di Voltaire, che si mostrava perplesso di fronte alla battuta con cui Edipo si presenta in mezzo al dolente popolo tebano: «Je suis Œdipe, si vanté par tout le monde», così aveva tradotto Dacier in- terpretando questa frase come la manifestazione del carattere orgoglioso del protagonista20. Voltaire commentava ironicamente: «Il y a quelque

18 Ivi. 19 Le puntuali critiche che Voltaire avanza riguardano l’introduzione del personaggio di Edipo in scena, l’impropria risposta del sacerdote al re nella prima scena, l’inverosimile ignoranza di Edipo circa la morte di Laio, le improbabili condizioni in cui è avvenuta la morte del vecchio re tebano, l’ingiustificato ritardo con cui Edipo fa chiamare l’unico pastore che è stato testimone dell’aggressione, l’eccessiva chiarezza dell’oracolo pronunciato da Tiresia, la natura inverosimile del sospetto che Edipo nutre nei confronti di Creonte, il fatto che l’agnizione reciproca di Edipo e Giocasta avrebbe dovuto aver luogo molto prima sulla base dei segni che i due avevano già ravvisato, e infine che la vicenda sia di fatto conclusa al quarto atto e che il quinto costituisca soltanto un’inutile appendice della tragedia: cfr. Voltaire, Lettre III contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle, in Œdipe, tragédie..., cit., pp. 93-107. Le poco originali critiche di Voltaire sono in parte frutto della tradizione esegetica dell’Edipo re – come quella dell’ignoranza di Edipo circa la morte di Laio – in parte della postura critica primo-settecentesca che andava a ricercare nelle tragedie esaminate ogni possibile contravvenzione rispetto al verosimile. La condanna circa il differimento immotivato dell’agnizione è, ad esempio, il fulcro attorno al quale si costituiscono le Osservazioni sopra la Merope di Domenico Lazzarini, il quale rimprovera alla tragedia del Maffei il fatto che Merope riconosca il figlio molto più tardi di quanto avrebbe dovuto dal momento che «i lumi, o i segni, che ne aveva, erano e per sé, e per le circostanze così chiari e certi che doveva per senso comune necessariamente riconoscerlo»; Domenico Lazzarini, Osservazioni sopra la Merope, in Teatro di Domenico Lazzarini, a cura di Nicola Francesco Cimmino, Roma, Abete, 1970, p. 259. 20 Così traduceva in effetti Dacier questa sezione della prima battuta di Edipo: «Je n’ai envoyé personne vous demander le sujet de vôtre affliction, je suis venu l’apprendre moy-même, moy Œdipe, si celebre par tout le monde» (L’Œdipe et l’Electre de Sophocle. Tragédies grecques traduites en François avec des Remarques, Paris, Barbin, 1692, p. 4). 104 Enrico Zucchi apparence que les Thébains n’ignoraient pas qu’il s’appellait Œdipe»21. Tuttavia, replica Calepio, Voltaire avrebbe «preso motivo di qui credere difetto d’arte dalla traduzione francese, che assai s’allontana dal senso dell’originale greco»22. Egli propone a sua volta una traduzione più corretta di questi primi versi («Ecco che vengo io stesso, / cui tutti voi chiamate inclito Edippo») che scagiona Sofocle dalle accuse di aver introdotto malamente il pro- tagonista e di averlo gravato di un carattere eccessivamente orgoglioso. Calepio, nel gesto del sovrano che si reca di persona dai sudditi soffe- renti, non vede che un’azione pietosa e benevola, e in Edipo un re che mostra la sua umanità, piuttosto che un borioso «che viene in scena a gloriarsi fuori di proposito»23. Chiaramente il bersaglio polemico è in questo caso, attraverso il transfert del giovane Voltaire, il grecista fran- cese André Dacier (1651-1722) e la sua cattiva traduzione, indice di una conoscenza imperfetta del greco che inficia il suo classicismo. Ma la risposta di Calepio non si limita a questo; egli, da giovane erudito, puntiglioso e pedante, rifacendosi al trattato Della lode di sé medesimo di Plutarco, si profonde anche in una lunga discussione sulla casistica delle circostanze in cui «non solo si può scusare il lodare se stesso, ma merita approvazione». L’orientamento dotto non viene mai meno in questa Apologia, isti- tuendo di fatto un solco profondo che separa quest’opera dalle succes- sive prove critiche di Calepio, tutte improntate a una maggior vivacità e naturalezza. In effetti poco originale è pure l’interpretazione dell’intento critico voltairiano, che secondo Calepio si dovrebbe imputare all’invidia di un drammaturgo alle prime armi nei confronti di un maestro assai più stimato24. Nonostante la sua generale aridità e l’impostazione scarsamente ori- ginale, questa Apologia presenta alcuni spunti utili a ricostruire un altro

Nel commento egli aveva poi sostenuto che questa frase fosse necessaria a Sofocle tanto a presentare il personaggio al pubblico, quanto a svelarne la natura superba: «Sophocle fait ici deux choses; il satisfait à l’impatience du spectateur qui souhaite de savoir le nome de celui qui parle, et il commence à découvrir une partie du caractère d’Œdipe, qui est son orgueil»; ivi, p. 153. 21 Voltaire, Lettre III…, cit., p. 93.

22 Apologia, p. 403. 23 Ivi. 24 «Il fondamento, si può dire unico, di questa censura è la disapprovazione ch’ebbe la prima volta la tragedia di M. de Voltaire: e da questo egli ha preso motivo di sofisticare sopra l’asserzione di M. Dacier»; Pietro Calepio, Apologia, p. 418. Pietro Calepio difensore dei classici 105 tassello della formazione intellettuale dell’autore25: in primo luogo essa ci permette di definire almeno parzialmente l’orizzonte dei riferimenti culturali dell’autore, che a quest’altezza si confrontava tanto con gli an- tichi – egli fa infatti sfoggio di una vasta conoscenza degli autori classi- ci, citando nel corso dell’argomentazione fra gli altri Omero, Plutarco, Diodoro Siculo, Virgilio, Orazio, Cicerone e Curzio, nonché il Tasso del- la Liberata – quanto con i moderni, mostrandosi edotto delle maggiori questioni che la critica contemporanea stava dibattendo: palesa infatti di conoscere approfonditamente la Poétique di Dacier e di non condivi- derne integralmente la prospettiva, ma ostenta anche una discreta cono- scenza della tragedia francese, da Corneille al giovane Voltaire, nonché una qualche nozione dei documenti che avevano dato vita alla Querelle des Anciens et des Modernes. L’immagine di Calepio che questo scritto ci restituisce è quella di un giovane versato negli studi classici, incline a esibire la propria cono- scenza linguistica del greco – di qui le molte annotazioni alle traduzioni dell’Edipo re proposte da Orsatto Giustiniani e da Dacier, e l’altezzosa denigrazione della versione dell’Iliade di Madame Dacier, a cui preferi- sce ovviamente quella di Salvini26 – e propenso a guardare al panorama letterario coevo attraverso gli occhi di un classicista: non a caso egli, fra le tragedie del Settecento, celebra – e sarà un dato molto importante – l’Ulisse il giovane (1720) di Domenico Lazzarini, rifacimento grecheg- giante e funesto dell’Edipo re che contendeva alla Merope di Scipione Maffei il titolo di miglior tragedia italiana. L’Ulisse il giovane, che sarà giudicato positivamente anche nel Paragone27, viene infatti descritto,

25 In generale, sulla formazione di Calepio e sulla sua attività di critico, mi permetto di rimandare al mio Il «tiranno» e il «dilettante». La dissertazione epistolare di Pietro Calepio sopra la Merope di Scipione Maffei e la critica teatrale del primo Settecento, Verona, QuiEdit, 2017. 26 Iliade d’Omero tradotta dall’originale in versi sciolti da Anton Maria Salvini, Firenze, Tartini - Franchi, 1723. 27 Nel Paragone viene elogiata in prima battuta l’elezione del soggetto dell’Ulisse, considerato molto appropriato in quanto capace di dar luogo al processo catartico (Calepio, Paragone della poesia tragica..., cit., I, 3). In un successivo passaggio, laddove Calepio condanna l’introduzione dei cori nelle tragedie moderne, prendendosela con autori che passavano per ultraclassicisti, come il Gravina e il Salìo, al solo Lazzarini viene riservato un complimento, che per quanto non cancelli la generale disapprovazione del bergamasco nei confronti dell’impiego della figura corale, è rilevante in quanto assegna all’Ulisse il giovane una posizione preminente all’interno del panorama drammaturgico settecentesco («Alcuni Italiani a nostri giorni l’hanno seguito, ma più altri hanno amato meglio di conservare il rito antico, tra quali hanno eletto il coro diviso il Caracci, il Gravina, il Marchesi ed il Conti, che più degli altri hallo introdotto con giudizio; al Lazzarini ed al 106 Enrico Zucchi con toni trionfali, come l’Edipo re italiano, e ammirato per l’uso bilancia- to e meraviglioso di agnizioni e peripezia:

L’attenzione di vedere quando ed in qual guisa debbesi fare il riccono- scimento ne fa gustare ogni circostanza, massimamente ove questo segua per vie verisimili insieme e maravigliose: quindi avviene che si dà luogo a fare spiccare certi tratti che chiamansi commotivi del teatro, di cui mol- tissimi ne sono stati osservati in questa favola dagli uomini dotti. Sotto tal titolo si posson ridurre tutti quelli ove si vede ch’Edippo incorre nella sua disavventura per que’ mezzi stessi onde credeva evitarla: e quegli altri, ove dicendo egli alcune cose per un fine diverso, coglie fatalmente nel vero della sua disgrazia. L’ab. Lazzarini, autore dell’Ulisse che tra le moderne tragedie occupa quel loco ch’ha sempre avuto l’Edippo di Sofo- cle fra le antiche, avvedutosi giudiziosamente del bell’effetto che questi fanno in tal genere di favole, avvene qua e là sparso28.

L’Apologia offre inoltre un’ulteriore testimonianza della duratura riflessione calepiana in merito al rapporto fra impressioni e passione; in questa occasione Calepio cita direttamente il Traité des passions de l’âme di Cartesio, testo fondamentale per la riflessione del bergamasco che apparirà in filigrana anche nel più tardo Paragone. Egli fa riferimento non senza polemiche al filosofo francese, reo a suo dire di aver definito passioni quelle che in realtà sono semplici emozioni. Sarà importante notare che tali considerazioni vengono fatte ancora in margine a una proposta tragica che si struttura attorno al vitale nodo della compassione, di cui l’Edipo re sofocleo si farebbe veicolo. Se Voltaire aveva infatti ri- tenuto superflua la descrizione della calamità con cui il sacerdote intrat- tiene il sovrano nella prima scena («de là le grand Prêtre prend occasion de faire une description de la peste, dont Œdipe étoit aussi bien informé

Salio è piacciuto il fermo. E certo come che sia venuto fatto particolarmente al Lazzarini di fare una tragedia assai bella e conforme al gusto di Sofocle, non sarebbe forse strano che ad alcuno paresse troppo servile attaccamento il seguire i greci in ogni circostanza», IV, 6). Le opere teatrali del Lazzarini sono state ripubblicate in edizione moderna in Lazzarini, Teatro..., cit. Per la fortuna settecentesca della tragedia lazzariniana, lodata da personaggi di spicco della cultura teatrale italiana, quali Antonio Conti, Anton Maria Salvini, Cornelio Bentivoglio, Giuseppe Baretti e Francesco Algarotti – ma anche aspramente criticata, oltre che dal Maffei, da Giovanni Antonio Bianchi e da Francesco Saverio Quadrio – rimando al mio L’«irragionevolezza» della Merope nelle Osservazioni di Domenico Lazzarini, in «Mai non mi diero i Dei senza un ugual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), atti del convegno, a cura di Enrico Zucchi, Milano, Mimesis, 2015, pp. 215-234. 28 Apologia, 411. Pietro Calepio difensore dei classici 107 que du nom et de la qualité du grand Prêtre de Jupiter»29), a Calepio questa scena sembra al contrario imprescindibile, dal momento che per- mette al sacerdote e al coro di muovere a compassione il re, riflettendo sulla scena quel meccanismo catartico che il poeta doveva innescare nel pubblico:

Ma il fine per cui eransi congregate tutte quelle persone era di muo- vere la compassione del re loro; perché, avendo questi concetto d’uomo quasi divino, pareva loro che per essere liberate dalla peste non mancas- se che la sua accurata sollecitudine: quindi ne segue che il sacerdote, che pare essere il loro oratore, dovesse servirsi di tutti que’ mezzi che potevano essere efficaci per la sua commozione30.

Per questo motivo il sacerdote descrive con toni accorati e con colori vivissimi la miseria di Tebe e dei suoi cittadini, per stimolare, attraverso le impressioni sensibili che il discorso naturalmente muove, la facoltà immaginativa di Edipo – si intravede in controluce l’archetipo del De anima di Aristotele31 – eccitandone la commozione:

Io qui non voglio entrare in altro ragionamento dimostrando come per muovere la nostra volontà sieno il più idoneo mezzo le impressioni della nostra imaginativa: perché avendo questa come materiale una par- ticolar comunione colle nostre passioni, il di cui moto agevolmente trae seco la nostra elezione, queste tanto più s’eccitano facilmente, quanto più quella è agitata. Basta per comprendere ciò la quotidiana esperienza.

29 Voltaire, Lettre III…, cit., p. 94. 30 Apologia, p. 405 31 Sulla riflessione aristotelica in merito alla facoltà immaginativa si rimanda ai seguenti contributi: Malcolm Schofield, Aristotle on the Imagination, in Essays on Aristotle’s De Anima, a cura di Martha C. Nussbaum e Amélie Oksenberg Rorty, Oxford, Oxford University Press, 1992, pp. 249-277, e Alessandro Linguiti, Immagine e concetto in Aristotele e Plotino, «Incontri triestini di filologia classica», IV (2004-2005), pp. 69- 80. Sul rapporto fra passioni e impressioni, nonché sulla nozione di immaginazione nella filosofia cartesiana si vedano invece: Dennis L. Sepper, Descartes’s Imagination: Proportion, Images, and the Activity of Thinking, Berkeley - Los Angeles - London, University of California Press, 1996; Carole Talon-Hugon, Descartes ou les Passions rêvées par la raison. Essai sur la théorie des passions de Descartes et de quelques-uns de ses contemporains, Paris, Vrin, 2002; Deborah J. Brown, Descartes and the Passionate Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, in part. pp. 12-28; Roland Breeur, Passion à volonté, «Bulletin d’Analyse Phénoménologique», II (2006/3), pp. 3-21. Sul discorso in merito alle passioni in epoca moderna si rinvia inoltre a Giovanna Gronda, Le passioni della ragione. Studi sul Settecento, Pisa, Pacini, 1984, e Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 1991. 108 Enrico Zucchi

Da questa prese motivo Cartesio di racchiudere sotto nome di passioni le sue impressioni e di confonderle in tal guisa col timore, colla compas- sione ed altre simili commozioni dell’anima. Da ciò derivasi che tutte le cose opportune per imprimere maggiormente nella fantasia nostra oggetti eccitatori d’alcun affetto sieno altresì più valevoli a persuadere. Or chi non sa che le cose ancorché note non mai sì notabile effetto producono, come allorché se ne ravviva l’impressione?32

L’Apologia costituisce in definitiva un altro importante documento della formazione di Calepio, che permette di far venire alla luce il gio- vane classicista compiaciuto della propria erudizione che ritroveremo soltanto più tardi, nelle Giunte al Paragone, pubblicate postume nell’e- dizione del 1770, in cui il bergamasco, raffreddatosi quel fervore critico che Johann Jakob Bodmer aveva molti anni prima alimentato, preferirà puntellare con annotazioni dotte un’opera che aveva composto seguen- do altri principi. Più consona alla sensibilità che animerà il Paragone è invece l’attenzione allo stile poetico che il Calepio riserva, nelle ultime battute dell’Apologia, alla traduzione dell’Edipo re di Orsatto Giustinia- ni, giudicata «generalmente non dispregevole», ma appesantita dall’uso di endiadi stucchevoli inserite soltanto a scopo riempitivo: di ben altra fatta erano i versi di Petrarca, di Bembo, di Della Casa, di Ariosto o di Tasso che egli – ben prima di Vittorio Alfieri – doveva aver annotato dili- gentemente all’interno di fitti quaderni di appunti33.

32 Apologia, p. 405 33 La traduzione del Giustiniani peccherebbe, secondo Calepio, negli stessi punti di quella di Dacier sotto il profilo del significato. Per quanto riguarda lo stile egli invece chiosa: «In questa traduzione [...] s’aggiunge una repetizione noiosa che certamente non si trova nell’originale e che serve di puro empimento del verso: però Sofocle non ci puote se non perdere. Né qui varrebbe il dire che nella nostra lingua si veggono sovente con grazia congiunti sinonimi simili, o poco differenti, avendo a cagion d’esempio il Petrarca detto tardo e lento, canuto e bianco, manifesto e conto; e poscia il Bembo scignere e slegare; il Casa partire e scompagnare, struggersi e sfarsi; l’Ariosto ermo ed inabitato; il Tasso calcato e folto»; Apologia, p. 422. 109

Gianluigi Della Valentina

FONTI PER LA STORIA DEL MONDO POPOLARE. I MUSEI ETNOGRAFICI

«Arrivati all’ultima sala, per uscire si torna indietro, si rifà il cammino percorso ritro- vando tutto ciò chesi credeva di essersi la- sciati alle spalle e si esce alla stessa porta dalla quale si è entrati»1.

Alla scoperta del popolo

Compito dell’etnografia è lo studio delle manifestazioni culturali dei popoli. Parrebbe una definizione chiara, ma alla prova dei fatti essa si rivela sfuggente e per quanto riguarda i musei che se ne dovrebbero occupare manca tuttora la condivisione dei criteri in base ai quali farli rientrare, o meno, entro i confini delle discipline etnografiche; un campo che, nel corso del tempo, ha alternativamente abbracciato o escluso il folclore, la demologia, la cultura materiale. Occorre distinguere i musei che parlano del mondo popolare italiano da quelli, qui trascurati, che si propongono di descrivere popolazioni lontane, organizzate non su base nazionale, ma tribale, e a un livello di sviluppo economico prein- dustriale a lungo considerato sinonimo di primitività2. Per quanto ri- guarda i primi, si è affermato un consenso di massima intorno ai loro obiettivi: rappresentare la vita, il lavoro, di un aggruppamento umano locale attraverso l’esposizione dei materiali raccolti. Per conseguire lo scopo bisogna ricorrere a una prospettiva diversa e cogliere la storia dal basso, prescindendo, dunque, dalle istituzioni, dal potere, dalla cultu- ra ufficiale espressa dalleélite s aristocratiche o borghesi, collocando al centro le cosiddette classi subalterne, portatrici di una propria cultura. Termine, quest’ultimo, con il quale si intende un «sistema di significa-

1 Claudio Magris, Non luogo a procedere, Milano, Garzanti, 2015, p. 345. 2 In provincia di Bergamo, un esempio è costituito dal Museo e Villaggio africano con sede a Urgnano. 110 Gianluigi Dalla Valentina ti, atteggiamenti e valori condivisi, unitamente alle forme simboliche (azioni, manufatti) in cui essi si esprimono e si traducono»3; sistema nel quale si rispecchia la concezione della realtà la quale affonda le sue radici nell’inconscio e nell’immaginario collettivo di una comunità sto- ricamente sviluppatasi. Le culture popolari, non diversamente da quelle egemoni, includono elementi che sono il frutto di energie sia materiali, sia spirituali. Fra le prime rientrano gli attrezzi, gli utensili e gli arredi domestici, i giocattoli, la preparazione del cibo e il vestiario, le costruzioni civili individuali e collettive, quelle religiose, prodotti e impiegati da ciascuna comunità, che hanno accompagnato e condizionato la vita familiare e sociale; in una parola, quella che usiamo definire come cultura materiale. Gli ele- menti psichici, intellettuali, affettivi, si riassumono nella lingua, ossia nei dialetti locali, e nel folclore; concetto la cui elaborazione rappresenta uno degli approdi delle ricerche demologiche del primo Ottocento, in particolare ad opera dell’antiquario inglese John Thoms4. Il folclore si occupa degli uomini senza storia e a costituirlo sono l’insieme delle tra- dizioni di un luogo, le manifestazioni della religiosità, i riti e le supersti- zioni, i proverbi e gli indovinelli, le credenze, i racconti e le leggende, le fiabe e le ninne-nanne, le danze e le canzoni, le feste e le cerimonie, i giochi e i passatempi, le consuetudini, le espressioni artistiche che ven- nero consolidandosi all’interno di ciascun contesto spaziale. Da dietro le quinte di ogni cultura materiale e di ogni folclore, fa capolino il territorio, un altro soggetto che non si lascia confinare fra le comparse. Secondo i fratelli Grimm la poesia popolare era sinonimo di Naturpoesie: poesia naturale di una regione che cresce come gli alberi di quella stessa terra. Essi sostenevano che, poiché le culture popolari affondano le loro radici nel peculiare rapporto stretto da ciascuna co- munità con il proprio ambiente, la loro comprensione non possa pre- scindere dallo studio del rapporto fra l’uomo e la natura, all’interno del quale entrambi fungono, a un tempo, da agenti-agiti. Ogni paesaggio rurale è il prodotto dell’interazione fra il lavoro umano, da un lato e, dall’altro, i fattori biotici e abiotici dei corrispettivi ecosistemi, ognuno dei quali presenta suoi caratteri distintivi. La cultura popolare è sempre stata locale, radicata in uno spazio di vita piuttosto circoscritto, uno spa-

3 Peter Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori, 1980, p. 1. 4 Donald Sassoon, La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi, Milano, Rizzoli, 2008, p. 104. I musei etnografici 111 zio-tempo e uno spazio-movimento sociale e individuale5, nel quale si confonde la storia di una comunità il cui orizzonte, prima del trionfo dell’industrialismo, non si dilatava fino ai confini nazionali, come ac- cadeva invece alle culture delle élites, spazialmente connotate in senso persino sovranazionale. Nelle culture e nelle Weltanschauungen tede- sche o russe la natura ha svolto un ruolo pervasivo che non ritroviamo in altre esperienze storiche, compresa quella italiana, e pur tuttavia resta il fatto che, poiché nei musei etnografici alberga l’anima popolare, questi singolari contenitori di cultura materiale non possano esonerarsi dal get- tare lo sguardo sull’ambiente e dall’assumere una valenza che potremmo definire ecologica, pena lo svilimento della loro funzione. Se, quindi, l’etnos rimanda allo specifico contesto spaziale vissuto da una comunità che essa, con il suo stesso insediamento, ha costruito trasformandone la naturalità originaria, ne discende una necessaria relazione fra il singolo museo etnografico e il territorio circostante. La prima riscoperta del mondo popolare avvenne a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo per merito del romanticismo, che alle valenze culturali delle classi rurali guardò con simpatia in concomitanza con i fermenti nazionalisti europei del tempo e con le trasformazioni in atto nel vec- chio continente. Johann Herder era convinto che la letteratura di ogni nazione traesse origine dal folclore e in tutta Europa la letteratura, insie- me alla musica e alla pittura, andò frugando nell’anima popolare delle rispettive entità nazionali in fieri. Nel corso del primo Ottocento, il po- pulismo degli scrittori romantici svolse una funzione progressiva, della quale si fece sgabello il processo di formazione di alcuni stati nazionali che avevano bisogno di andare alla ricerca delle proprie origini. Fu il caso delle regioni balcaniche e scandinave, ungheresi e della stessa Ita- lia, dove l’aspirazione alla unità nazionale e le vicende risorgimentali comportarono una diversa sensibilità nei confronti delle classi popolari, la valorizzazione delle loro culture e la riscoperta, quindi, del rispettivo passato. Nella nostra penisola, l’attenzione cadde quasi esclusivamente sul mondo delle campagne; lo sguardo e l’empatia degli intellettuali ven- nero catturati assai raramente dalle classi popolari urbane, diversamente da quanto accadde in Francia o in Inghilterra dove, fra i molti, Honoré de Balzac, Victor Hugo, Eugène Sue, Charles Dickens si fecero interpreti dei fenomeni emergenti che stavano mutando il volto dei loro paesi: l’indu-

5 Armand Fremont, La regione. Uno spazio per vivere, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 33. 112 Gianluigi Dalla Valentina strialismo, la formazione della classe operaia, l’urbanesimo. La cultura risorgimentale interpretò l’idea di tradizione «fin dall’inizio del processo unitario come inscindibile dal concetto di rinnovamento»6 politico-sociale e una positiva riscoperta del passato della gente itali- ca apparve funzionale a questo bisogno di rinnovamento, che avrebbe dovuto invertire il declino anche culturale del paese. A lungo, però lo studio degli usi e costumi popolari, ossia la demologia, si esaurì «quasi interamente nelle pubblicazioni di poesia popolare»7. A occuparsi del popolo delle campagne furono soprattutto letterati per i quali il proble- ma linguistico assumeva un’importanza primaria giacché alla necessità che si affermasse la lingua nazionale, parlata da una esigua minoranza di estrazione urbana, si opponeva la molteplicità dei dialetti locali in uso fra la popolazione rurale, in maggioranza analfabeta, mentre quello di una lingua capace di accomunare l’intero paese appariva come conditio sine qua non per l’inclusione delle masse popolari nello Stato nascente. Al momento dell’Unità il tasso di analfabetismo fra la popolazione con oltre sei anni di età superava di poco il 50% nel Nord-Ovest e si colloca- va fra l’80 e il 90% nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. Le prime ricerche di glottologia e di demologia pubblicate su “Il Cre- puscolo”, diretto da Carlo Tenca e che vide la luce nel decennio preu- nitario, traevano dunque spunto da istanze civili alle quali non furono estranei, in ambito bergamasco, Antonio Tiraboschi e Gabriele Rosa. Nel 1864, il primo diede alle stampe un breve saggio su Parre ed il gergo de’ suoi pastori, nel quale lo studio del folclore accompagnava la dialettolo- gia; tre anni dopo pubblicò il Vocabolario dei dialetti bergamaschi. Ga- briele Rosa, in sintonia con lo spirito romantico europeo, collocò «lo stu- dio di dialetti, tradizioni, canti, proverbi», non solo bergamaschi, «nella prospettiva della storia dei popoli»8. Il duplice osservatorio, italiano e dalmata, dal quale Niccolò Tommaseo allungò lo sguardo, lo aiutò nello scandagliare le anime di tanti popoli europei e la raccolta di Canti popo- lari toscani, corsi, illirici e greci conferma l’ampiezza dei suoi orizzonti. Più tardi, fra il 1877 e il 1878, apparvero alcuni saggi di Ermolao Rubieri e di Alessandro D’Ancona sulla poesia popolare e sulla sua storia, men- tre nel 1888 Costantino Nigra raccolse i canti popolari del Piemonte;

6 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1972, p. 26. 7 Alberto Mario Cirese, Gli studi demologici italiani negli anni di Antonio Tiraboschi (1838-1883), in Lingue e culture locali. Le ricerche di Antonio Tiraboschi, a cura di Gabrio Vitali e Giulio Orazio Bravi, Bergamo, Pierluigi Lubrina Editore, 1985, p. 24. 8 «Gazzetta di Bergamo», 22 febbraio 1859. I musei etnografici 113 lavoro attraverso il quale egli si pose l’obiettivo di capire il popolo. Il positivismo aprì «la strada ad un nuovo modo di descrivere la realtà, non più legato ad una visione idealizzata e romantica del popolo, ma basato sull’analisi concreta di fatti da trasporre opportunamente in dati, intesi quali esito di uno scrupoloso ed imparziale metodo scientifico»9. La decisione, presa dal Parlamento nel 1877 di affidare al senatore Ste- fano Jacini il compito di svolgere una grande Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, la cui relazione finale uscì nel 188410, nacque dalla necessità di conoscere il mondo rurale che, sebbene fisi- camente vicino, appariva culturalmente lontano e, sino ad allora, meri- tevole di assai tiepido interesse, mentre maturava la consapevolezza che non fosse più possibile governare il paese trascurando, se non contro, la maggioranza della popolazione. Giuseppe Pitré fu il principale esponen- te del nuovo clima che suggeriva di affrontare i ‘fatti popolari’ in modo diverso dal passato. Senza trascurare il suo lavoro di medico, egli appro- fittò delle visite che effettuava a domicilio per raccogliere informazioni e studiare «la vita morale e materiale dei popoli […] documentata da diversi generi di tradizioni orali ed oggettive […] tutto un mondo palese ed occulto, di realtà ed immaginazione» che «si muove si agita, sorride, geme a chi sa accostarvisi e comprenderlo»11. In uguale misura egli trasse ispirazione dalle canzoni della madre che aveva ascoltato in casa da bambino e la partecipazione emotiva a quei canti lo spinse più tardi a trascriverne i testi e a interpretarli per conden- sarli criticamente all’interno della imponente “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”, uscita fra il 1871 e il 1913; pagine cui attinsero Luigi Capuana e Giovanni Verga. Pareva confermata la teoria di Herder sull’o- rigine popolare della letteratura e non solo nel caso del verismo sicilia- no, come dimostrano i saggi sulle tradizioni popolari del Nuorese, scritti da Grazia Deledda fra il 1894 e il 1895. Nel 1882, insieme a Salvatore Salomone Marino, Pitrè fondò un “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”; si trattava della terza rivista in ambito continentale – il cui ul- timo numero uscì nel 1909 – e si poneva l’obiettivo di documentare ogni regione italiana. La vasta apertura culturale del promotore e di chi la diresse trova conferma nei numerosi contributi stranieri che costituirono

9 Enzo Vinicio Alliegro - Maurizio Coppola, La nascita degli studi di tradizioni popolari in Italia tra Ottocento e Novecento, in Prima etnografia d’Italia, a cura di Gian Luigi Bravo, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 33. 10 Cfr. Stefano Jacini, I risultati della Inchiesta agraria [1884], Torino, Einaudi, 1976. 11 Giuseppe Pitré, Che cos’è il folklore, Palermo, Flaccovio, 1965, pp. 20-21. 114 Gianluigi Dalla Valentina oltre il 40% dei saggi pubblicati12. Nel 1893, Angelo De Gubernatis fon- dò la Società Nazionale per lo studio delle tradizioni popolari, dotata di una propria pubblicazione periodica, la “Rivista delle tradizioni popolari italiane”, che ebbe vita breve. Nell’Europa del secondo Ottocento si infittirono le ricerche sul cam- po da parte di antropologi cui il colonialismo apriva le porte di regioni sconosciute, nelle quali gli studiosi-esploratori si inoltravano per inda- garne le rispettive culture primitive alla luce delle teorie evoluzioniste darwiniane. L’esame di decine di tribù spostò il baricentro delle ricerche etnografiche, sorrette da apporti che provenivano da altri ambiti discipli- nari, così che ai glottologi, ai demologi agli studiosi del folclore si affian- carono gli etnologi impegnati sul campo del mondo primitivo. A Firenze, nel 1871, il fisiologo-neurologo Paolo Mantegazza e Felice Finzi, studio- so delle antichità assire, fondarono la Società Italiana di Antropologia e Psicologia Comparata, trasformatasi poi in Società di Antropologia e Etnologia che si occupò prevalentemente delle condizioni di vita delle classi popolari e che, nello stesso anno, promosse la pubblicazione di “Archivio per l’Antropologia e la Etnografia”, avviando contemporanea- mente una raccolta di materiali per l’etnologia italiana. Partendo dall’in- treccio di simili interessi e specializzazioni professionali, essi stessi mos- sero insieme ad altri alla volta di sentieri nuovi che, a Bergamo, furono esplorati da “Emporium”, fondata da Arcangelo Ghisleri nel 1895; la rivista infatti, curò articoli di carattere etnografico anche sugli Indiani d’America, i coreani, i pigmei dell’Africa equatoriale, gli Aztechi13. Il folclore, la demologia, l’etnografia cominciavano ad attrarre, oltre a intellettuali di estrazione sociale elevata, studiosi del nascente ceto me- dio sensibili alle tradizioni popolari, culturali e artistiche della penisola. Sino ad allora le maggiori energie erano state calamitate dagli aspetti immateriali del mondo popolare, ma nel 1889 fu inaugurato a Torre Pel- lice il Musée Vaudois, Museo storico valdese, segno che stava maturando l’interesse per la cultura materiale. Nel 1909, una volta che gli fu asse- gnata dall’Università di Palermo la cattedra di demopsicologia ispirata alla Völkerpsychologie tedesca, Pitré diede forma compiuta alla raccolta di oggetti della cultura materiale e del folclore siciliani che aveva ricu-

12 Renato Grimaldi - Simona Maria Cavagnero, L’archivio per lo studio delle tradizioni popolari di Pitré e Salomone Marino (1882-1909). Un’analisi statistica dei contributi scritti, in Prima etnografia d’Italia, cit., p. 182. 13 Cfr. Arturo Colombo, Ghisleri giornalista, in I periodici ghisleriani, a cura di Aroldo Benini, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1979, p. 16. I musei etnografici 115 perato nel corso di molti anni, attraverso l’allestimento di uno dei primi musei etnografici italiani, inaugurato nel medesimo capoluogo dell’isola e ispirato all’idea prevalente allora che dovesse avere un fine educativo. Dopo la sua morte, tuttavia, il museo rimase chiuso per quasi vent’anni. L’etnologia restava una disciplina acerba, almeno per quanto riguardava l’interesse della pubblica opinione e i riconoscimenti dei poteri pubblici, i quali lesinavano sui finanziamenti, costringendo le iniziative a cammi- nare sulle gambe di pochi volenterosi, animati da impegno intellettuale e civile. Entro un alveo non dissimile si inserì il Museo di Etnografia Ita- liana, istituito a Firenze nel 1906 da Aldobrandino Mochi e da Lamberto Loria. Nel 1911, quest’ultimo fondò la Società di Etnografia italiana che, nello stesso anno, organizzò il primo Congresso di etnografia italiana e poco dopo promosse la pubblicazione di “Lares”, una rivista di studi demo-etno-antropologici. Nel corso del congresso venne affrontato, fra gli altri, il tema del folclore al cui studio si riconobbe che dovesse essere impressa maggiore scientificità. Complessivamente ad arare per prima il terreno della museografia della cultura materiale fu l’Italia meridionale14, dove all’altezzosità della possidenza fondiaria fece da contrappunto un nascente ceto medio più sensibile alla realtà delle masse rurali di quanto non fossero i ceti urbani settentrionali. Erano gli anni vivaci della Belle époque e sia il Movimento sociale cattolico, sia i socialisti apparivano intenti a coinvolgere le classi subalterne nella vita dello Stato nazionale nella prospettiva di un rinno- vamento del paese e dei suoi ceti dirigenti. Si trattava di un compito e di obiettivi politici che, comunque, costringevano a voltare lo sguardo verso il mondo popolare. Nonostante i passi avanti compiuti, i dialetti e il folclore continuavano a interessare più della cultura materiale vera e propria, ma d’altronde, almeno per quanto riguarda gli strumenti del lavoro contadino e artigiano, si trattava di oggetti ancora di uso comune e come tali essi non parevano meritevoli di particolari attenzioni. Il ro- manticismo, insieme alla natura, aveva riscoperto il popolo e ne aveva idealizzato le manifestazioni dello spirito; il positivismo raccolse quanto seminato e andò oltre, ponendo le premesse di un lavoro museale più rigoroso. Il rinnovato clima culturale, ricco di fermenti indotti dalla Seconda

14 Cfr. Roberto Togni, Musei e cultura del mondo popolare e contadino, in Roberto Togni, Gaetano Forni, Francesca Pisani, Guida ai musei etnografici italiani. Agricoltura, pesca, alimentazione e artigianato, Biblioteca di «Lares», vol. 52, Firenze, Olschki, 1997. 116 Gianluigi Dalla Valentina

Rivoluzione industriale, coincise con l’avvio di un dibattito sui musei etnografici meno chiuso fra le mura di ristretti cenobi. Se escludiamo il Museo civico Camuno, aperto nel 1923, il Sud continuò a rivelare una particolare sensibilità alla materia anche nei decenni fra i due conflitti mondiali e nel 1925 vide la luce il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari del Gargano. Alla fine del decennio, ripresero le pubblicazioni della rivi- sta “Archivio per l’Antropologia e la Etnografia”, sospese all’inizio della Grande guerra, e qualche tempo dopo riaprì i battenti il Museo etnogra- fico di Palermo, grazie all’impegno profuso da Giuseppe Cocchiara, altro etnologo siciliano. Mentre Giovanni Gentile, Ministro dell’Educazione nazionale, sosteneva la pubblicazione dell’edizione integrale delle ope- re di Pitré15, emerse la figura di Paolo Toschi, dal 1933 docente di Storia delle tradizioni popolari, che dedicò i suoi studi alla poesia, all’arte, al canto, popolari e religiosi. Paul Scheuermeier, linguista ed etnografo svizzero, fu uno dei pochi che a quei tempi studiò con criteri scientifici l’etnografia bergamasca attraverso una vasta ricerca linguistica ed etno- grafica che condensò in un Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale. In particolare si occupò del lavoro contadino e molti anni dopo uscì un suo libro su La Lombardia dei contadini, 1920- 193216. Intanto Luigi Angelini era impegnato a documentare l’Arte mi- nore bergamasca17, con un’interessante Proposta per la trasformazione a giardino e Museo d’arte popolare del Lazzaretto in Bergamo. Antonio Gramsci era convinto che il folclore, del quale sino ad al- lora era stato raccolto solo materiale grezzo e per lo più studiato quale «elemento pittoresco», andasse inteso, invece, come «concezione del mondo», riflesso delle condizioni di vita del popolo con particolare ri- guardo agli «strati della società, che non sono stati toccati dalle correnti moderne di pensiero». Egli annesse tale importanza al folclore da ipo- tizzarne l’insegnamento nelle scuole. In quanto concezione del mondo altra rispetto a quella egemone, il suo studio avrebbe dovuto comportare un rovesciamento di prospettiva e un impegno analogo «intellettualmen- te, a ciò che è stata la Riforma protestante nei paesi protestanti»18. In sin-

15 Cfr. Prima etnografia d’Italia, a cura di Gian Luigi Bravo, Franco Angeli, Milano 2013, p. 47. 16 Paul Scheuermeier La Lombardia dei contadini. 1920-1932, a cura di Giovanni Bonfadini, Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi, 3 voll., Brescia, Grafo, 2001, 2002, 2007. 17 Cfr. Luigi Angelini, Arte minore bergamasca, Bergamo, Istituto italiano d’Arti Grafiche, 1956. 18 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, vol. I, p. 89 e vol. III, p. 231. I musei etnografici 117 tonia con il Mahatma Gandhi, secondo il quale il suo villaggio altro non sarebbe stato se non un microcosmo capace di riflettere in sé il mondo intero, Gramsci sosteneva con forza il valore delle culture locali che, a suo avviso, quantunque rimaste per secoli prive di una vocazione univer- sale, avrebbero espresso valori non estranei all’universalità. Negli anni trenta, il confino avvicinò non pochi intellettuali a strati popolari estranei ai processi di modernizzazione, soprattutto meridionali, e subito dopo fu la volta della Resistenza: una grande vicenda popolare che rafforzò ulte- riormente il contatto fra classi sociali lontane, fra chi veniva dalla città e chi viveva in località rurali remote. Com’era accaduto durante il Risorgimento, la cultura antifascista mirò al rinnovamento sociale del paese, solidale con le classi subalterne che la miseria e l’emarginazione relegavano in una situazione di arcaica inferiorità. In un’Italia non ancora industriale tout court, gli intellettuali che presero coscienza della condizione di vita delle masse rurali ebbero quale punto di riferimento i contadini, i braccianti e la disperazione che li spingeva a occupare terre in Sicilia, in Calabria, nel Fucino. Inchieste giornalistiche e fotografiche si occuparono con insistita frequenza delle lotte nelle campagne; documentarono le vite vissute nelle grotte di Ispi- ca, nei sassi di Matera, nei casoni di paglia nel delta del Po. La cultura progressista si immedesimò in quella umanità sofferente e dalle pagine di romanzi e giornali affiorò un mondo rurale – più raramente la classe operaia urbana – offeso e lacerato dall’emigrazione, costringendo i let- tori a farne materia di riflessione19. Una generazione più tardi inchieste, pubblicazioni e mostre avrebbero testimoniato il ‘come eravamo’; allora si documentava il ‘come sono loro’, gli italiani ancora privi di un reale diritto di cittadinanza. Fu la stagione della denuncia e dell’impegno a favore del riscatto degli strati popolari, cui non poteva non accompa- gnarsi una ripresa di interesse per le loro forme ed espressioni culturali. La storiografia, sciolti i lacci ideologici imposti dal fascismo, respirò li- beramente l’aria delle Annales francesi e alcuni suoi settori si occupa- rono con rinnovato impegno dei rapporti dell’uomo con l’ambiente, dei gruppi sociali, in particolare delle classi popolari, per giungere «a una scomposizione della storia su più piani»20. Fra il 1951 e il 1971 i censimenti registrarono la perdita di sei milioni

19 Cfr., fra gli altri, Giuseppe Giarrizzo - Fosco Maraini, Civiltà contadina. Immagini dal Mezzogiorno degli anni Cinquanta, Bari, De Donato editore, 1980. 20 Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1989, p. 32. 118 Gianluigi Dalla Valentina di addetti al settore primario e l’Italia del miracolo economico fu scon- volta dalle correnti migratorie che sradicavano milioni di persone dalle campagne per proiettarle verso le aree urbano-industriali o verso paesi stranieri, annunciando il tramonto della civiltà contadina. L’abbandono dell’agricoltura e l’industrializzazione trasformarono il paese, accele- rando l’inserimento nella storia di coloro i quali erano stati confinati in un’altra dimensione e, nel medesimo tempo, spazzarono via arcaiche modalità di vita. Andava dissolvendosi con inusitata celerità la «storia fuori della storia»; la «presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo»21. Quasi d’un colpo, la silenziosa ma imponente mobilità territo- riale proiettò nella contemporaneità masse enormi che ne erano rimaste ai margini. Con un secolo di ritardo rispetto all’Unità politica del paese si stava raggiungendo il traguardo della unificazione sociale e culturale. Nelle comunità pre-industriali a dividere le classi subalterne da quelle dominanti era un vasto spazio vuoto che rendeva difficili le contamina- zioni culturali. Nel corso del Novecento quello spazio era stato colmato progressivamente dal consolidamento dei ceti medi, dai crescenti livelli di istruzione, dal venire meno delle barriere responsabili della subalter- nità. Negli anni sessanta le trasformazioni trascinate con sé dallo svilup- po economico incrinarono gli schemi culturali e le scale di valori della generazione che aveva vissuto la guerra, i cui figli respiravano un’aria diversa. I giovani, complici la scolarizzazione di massa e l’incipiente benessere, misero in discussione l’idea di progresso che in Occidente le élites del potere avevano fatto propria in maniera acritica; si lasciarono sedurre dal terzomondismo germogliato con i processi di decolonizza- zione che, complice il messaggio di rinnovamento portato sulle ali del Concilio Vaticano II, spronava a volgere lo sguardo verso i dannati della Terra. In Italia, come altrove, i giovani rivalutarono le campagne contro le metropoli, le classi subalterne contro le borghesie, la cultura materiale e popolare contro il dominio della tecnologia; da paese a paese presero a fare i conti con il passato. L’anti-industrialismo, di cui si nutrì quel torno di tempo, preparò il terreno per un apparente rovesciamento dei valori sui quali era stato costruito il miracolo economico e rappresentò un tratto distintivo di tanta parte dell’intellettualità italiana che, salvo ristretti gruppi, appariva «slegata da ogni passione, interesse, amore per l’industria e le sue problematiche»22.

21 Cfr. Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1963, p. XVIII e X. 22 Giulio Sapelli, Storia economica dell’Italia contemporanea, Milano, Mondadori, 1997, p. 9. I musei etnografici 119

L’uscita di scena del mondo rurale stava proiettando l’Italia nell’an- cora ristretto gruppo dei sistemi economico-sociali industriali avanzati e subito dopo, tumultuosamente, il paese entrò nel novero delle potenze post-moderne, sebbene certe campagne e vallate di montagna, pur non distanti in linea d’aria dai maggiori centri urbani, continuassero ad av- vertire più l’eco della modernizzazione che i suoi effetti concreti, ancora incapaci di spazzare via del tutto stili di vita tradizionali; fino ai tardi anni sessanta, il nuovo vi fece capolino vestendo i panni dei villeggianti con le loro automobili e le seconde case; avanguardie del flusso che le avrebbe investite di lì a poco. Pier Paolo Pasolini colse il mutamento antropologico degli italiani consumatosi fra gli ultimi anni sessanta e il decennio successivo; lo spazio di un mattino, se misurato sui tempi della storia, durante il quale il traumatico «contatto tra l’arcaicità pluralistica e il livellamento industriale»23 causò distorsioni che assunsero connota- zioni più gravi nella penisola rispetto al resto del mondo occidentale. Ne risentì anche lo spirito con il quale, di lì a poco, ci si mise a raccogliere materiali per dare vita a decine e decine di musei di cultura materiale. L’emigrazione di milioni di meridionali lasciò dietro alle spalle paesi abitati solo da donne, bambini, anziani e simili perdite impoverivano il mondo popolare, ne laceravano il tessuto socio-culturale. In molte zone l’esodo causò forme di abbandono gravide di conseguenze sul piano de- gli equilibri ambientali e lo svuotamento di abitazioni molte delle quali poi riconvertite come seconde case per la villeggiatura. La società solida cominciava a liquefarsi e le radici parevano offrire un appiglio cui ag- grapparsi. Nonostante la maggiore attenzione alla cultura materiale dimostrata nel corso del primo Novecento, nel complesso al centro dell’attenzione erano rimasti prevalentemente il folclore, le usanze, la cultura e l’arte popolari, di cui si stavano occupando Gianni Bosio, Ernesto De Martino, don Lorenzo Milani, Danilo Montaldi, Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotel- laro e altri ancora. Fu allora che si incominciò ad avviare con maggior lena raccolte di utensili, arredi, attrezzi, strumenti affinché la memoria di quelle comunità non si disperdesse. Fra gli anni cinquanta e la fine del decennio successivo vide la luce una ventina di musei, tutti impo- stati su un’ampia base territoriale, regionale o provinciale, concentrati in Sardegna, Calabria, Friuli, ossia in regioni di emigrazione, ma anche in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio, dove a trasformare il

23 Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975, pp.159-160. 120 Gianluigi Dalla Valentina sistema economico-sociale erano l’immigrazione e lo sviluppo industria- le, oltre che in terre dai peculiari caratteri identitari, fra le quali la Tosca- na e il Trentino-Alto Adige. Qui, a San Michele all’Adige, un etnografo di origini boeme, Giuseppe Sebesta, nel 1968 fondò il Museo degli usi e costumi della gente trentina che resta tuttora uno dei più significativi in campo nazionale. Al Sud prevaleva ancora l’impostazione folclorica, mentre al Nord la cultura materiale stava prendendo il sopravvento, ma dietro le iniziative in atto andava maturando qualcos’altro di nuovo. Si accorciava la distan- za fra il sapere accademico e quello dei cosiddetti etnografi e «storici scalzi». Prima di allora, chi aveva guardato il popolo con simpatia, ade- rendo ai suoi valori, lo aveva fatto compiendo una sorta di salto giacché, provenendo da una diversa estrazione sociale era come se si chinasse, con la sua cultura alta, nazionale, per scoprire quelle subalterne, locali, e capitava che lo studioso di demologia non riuscisse sempre a colmare lo iato fra sé e l’oggetto delle sue ricerche, a dispetto del sincero tenta- tivo di identificazione con le masse popolari, in particolare contadine. Neppure una generazione più tardi, a occuparsi delle classi rurali e del- le loro espressioni artistico-culturali, in via di scomparsa, non furono più unicamente intellettuali progressisti, di estrazione sociale borghese o piccolo-borghese. Il secolare fossato che aveva allontanato le classi urbane da quelle agro-pastorali non era che un ricordo del passato e, a partire dai tardi anni sessanta, la riscoperta del mondo popolare iniziò a coinvolgere in numero crescente persone di ogni ceto sociale: mece- nati e parroci, insegnanti ed emigranti rientrati, contadini e artigiani che avevano appena lasciato i ferri del mestiere, persone di umili origini che si erano affermate, studenti universitari, riuniti in piccoli gruppi locali che andavano costituendosi con una certa frequenza un po’ ovunque, espressioni dei medesimi contesti culturali e comunitari di cui si faceva- no paladini. I movimenti spontanei prendevano coscienza del valore culturale del mondo popolare, in particolare contadino, in via di dissoluzione, cui essi stessi appartenevano o che avevano conosciuto in famiglia, in paese, e se ne fecero carico da un’angolatura propria. Né poteva essere diver- samente considerato che i membri di quei gruppi erano ormai inseriti in una società industriale che rendeva evanescente la memoria del folclore, ragione per cui lo sguardo si spostò più decisamente sugli oggetti della cultura materiale che, diversamente dal passato, ormai non servivano più. La correzione di rotta venne imposta anche dall’urgente necessità I musei etnografici 121 di scongiurare che l’abbandono delle campagne comportasse la perdita irrimediabile di quegli oggetti. Fu la vicenda del Gruppo della Stadura, composto da contadini e da ex-contadini, grazie al cui impegno prese vita, nel 1973, il Museo della civiltà contadina di San Marino di Benti- voglio, in Emilia-Romagna, uno dei più importanti in Italia, attraverso il quale il gruppo si riappropriò con orgoglio del proprio passato per riproporlo a un pubblico vasto, in gran parte estraneo al suo mondo24. Affiorava, non ultimo, un bisogno di riscatto, per togliersi di dosso la storica inferiorità del mondo popolare, che quasi per reazione tendeva a esaltare le identità e i caratteri peculiari dei territori rurali e delle rispet- tive comunità. Gli anni settanta videro fiorire in ogni campo – politico, religioso, culturale, ambientale – associazioni che rivendicavano con fierezza le virtù taumaturgiche di qualsiasi iniziativa promossa ‘dal basso’, com- posti per lo più da giovani donne e uomini aperti alla modernità e al cosmopolitismo, ma contemporaneamente desiderosi di riconnettere i fili che legano il presente al passato, la dimensione nazionale e sovra- nazionale a quella locale. Quest’ultima, intrinseca alla cultura popolare, non era più un panno stretto di cui vergognarsi. In campo storiografico «l’alternativa storia locale/storia nazionale sembrò abbastanza vicina a equivalere all’alternativa tra storia dal basso […] e storia dall’alto»25 e una corrente andò quasi magnificando la prima, di carattere prevalen- temente socio-economico e attenta ai movimenti popolari, contrappo- nendola alla seconda dall’impianto più politico. Intanto, gli incipienti fenomeni di de-urbanizzazione imprimevano un’ulteriore spinta alla na- vigazione verso il superamento della secolare frattura culturale fra città e campagna. L’ultimo approdo di quella rotta parve essere sulla spiaggia di una inusuale dimensione rurbana, nella quale sembravano confluire pacificamente ruralità e urbanesimo che per secoli si erano guardati in cagnesco26: una sintesi forse non del tutto compiuta alla quale, comun- que, gli elementi urbani contribuirono con assai maggiore dovizia di mezzi rispetto a quelli rurali. La modernità si era affermata negando un passato sinonimo di miseria e oppressione, di inferiorità culturale, socia- le, economica; milioni di contadini si erano affrancati dalla subalternità

24 Cfr. Alberto Mario Cirese, Oggetti, segni, musei, Torino, Einaudi, 1977, p. 10. 25 Guido D’Agostino, Nicola Gallerano, Renato Monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, in «Italia contemporanea», n. 133, ottobre-dicembre 1978, p. 4. 26 Cfr. Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 506-510. 122 Gianluigi Dalla Valentina imposta dalla vita nelle campagne. C’era progresso in tutto questo, ma la «scomparsa delle lucciole» fu accompagnata confusamente da nostalgie e rimpianti. Il ricordo del mondo contadino, sul quale aveva aleggiato sempre un’aura di religiosità, si intrecciava in maniera talvolta ambiva- lente con lo spirito laico della nuova società a cavallo fra industrializza- zione avanzata e post-modernità. Il nascente ambientalismo favorì la riscoperta del territorio, delle campagne, e spinse in direzione della natura, dell’agricoltura, del vi- cino, della piccola impresa e delle attività artigianali che parevano in grado di porre un argine ai trionfalismi della società e della cultura ur- bano-industriali. Talvolta ambientalismo, salvaguardia e valorizzazione della cultura materiale locale confusero i loro percorsi e qualche gruppo ambientalista si convinse che la salvaguardia e la valorizzazione dei pa- trimoni etnografici locali andassero annoverate fra i suoi compiti. Intan- to, nel 1970 gli italiani erano stati chiamati per la prima volta al voto per eleggere i Consigli regionali e la nascita del nuovo ente territoriale coincise con un rinnovato interesse, persino con la riscoperta delle ri- spettive identità culturali. Si annunciò un periodo cadenzato da conve- gni di storia locale, manifestazioni e mostre, raccolte di testimonianze materiali, orali, sonore, da iniziative editoriali e di salvaguardia di forme peculiari del patrimonio edilizio: dall’archeologia industriale alle abi- tazioni rurali. Dalle rotative delle tipografie uscivano con ritmo inedito monografie sulle storie di centinaia di paesi e su singoli aspetti di altret- tante comunità locali, frutto dell’impegno civile di storici locali ai quali va riconosciuto anche il merito di aver tolto un po’ di polvere da tanti archivi comunali, parrocchiali, di enti minori o familiari, spesso lasciati in condizioni di abbandono o quasi27. Il cinema non rimase alla finestra; nel 1973 Federico Fellini girò Amarcord, nel 1976 uscì Novecento di Bernardo Bertolucci e due anni dopo fu la volta di Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli. In Lombardia, il centenario di fondazione della Facoltà di agraria di Milano offrì lo spunto per la costituzione, a Sant’An- gelo Lodigiano, del Museo lombardo di storia dell’agricoltura e alla metà degli anni settanta, la Regione avviò una ricerca sulle fonti della storia locale; ne seguì un convegno, tenutosi a Brescia, sullo stato di conser- vazione degli archivi di istituzioni ed enti, pubblici o privati che fossero, e il risultato di quell’appuntamento fu un rinnovato impulso al riordino,

27 Cfr. Gianluigi Della Valentina – Bernardino Pasinelli, Le storie dei paesi, in «Quaderni di Archivio Bergamasco», 4/2010, pp. 157-201. I musei etnografici 123 alla valorizzazione e alla disponibilità pubblica di tali fonti. Nel 1977, venne promossa la pubblicazione dei «Quaderni di Documentazione Regionale» e della collana intitolata “Mondo popolare in Lombardia”, inaugurata dal volume Bergamo e il suo territorio. Nel 1984, fu la volta di un’altra collana di “Fonti e strumenti”, anch’essa progettata al fine di sal- vaguardare il patrimonio culturale locale. A Bergamo, nel 1982 apparve il primo numero dei «Quaderni dell’Archivio della cultura di base», editi a cura del Comune capoluogo e dedicati alle «forme espressive della cultura popolare» nella provincia orobica28. Seppure in modo differenziato, a una simile frenesia di intenti cultu- rali non si sottrasse alcuna regione della penisola e, a partire da quello stesso decennio, la diffusione dei musei etnografici registrò una crescita esponenziale. Nell’arco di una generazione le iniziative si moltiplicaro- no e dalle poche decine di realtà allora esistenti si superò la soglia dei cinquecento musei etnografici entro la fine del secolo. Un proliferare tanto rapido sollecitò, già alla metà degli anni settanta, il bisogno di un confronto fra i responsabili di queste realtà e fra gli studiosi della ma- teria che sfociò nel primo convegno di Museografia agricola, tenutosi a Bologna sul tema Il lavoro contadino. Si trattò non solamente di una soluzione di continuità rispetto a quanto maturato nel corso del secolo precedente, ma di una stagione nuova anche dal punto di vista della localizzazione e dell’orizzonte spaziale dei nuovi musei. Questi ultimi, infatti, furono impostati pressoché esclusivamente su base comunale; una scala territoriale poi condivisa dagli ultimi arrivati, nel primo scor- cio del nuovo secolo, durante il quale è, però, rallentato il ritmo delle nuove fondazioni. Sebbene in maniera non così accentuata come nel passato, il Mezzogiorno ha continuato a caratterizzarsi per una maggiore attenzione agli «elementi del tempo ‘festivo’ o ‘cerimoniali’, cioè per una notevole quantità di oggetti rituali» rispetto alle regioni settentrionali29. Lombardia e Piemonte paiono oggi guidare la classifica delle regioni in cui si concentra in assoluto il maggior numero di musei etnografici, ma poiché si tratta in prevalenza di realtà ubicate in piccoli comuni, sembra

28 «Quaderni dell’Archivio della cultura di base», n. 1, Bergamo, Sistema bibliotecario urbano, 1982, p. 5. Nel medesimo torno di tempo, alcune case editrici nazionali tornarono a pubblicare alcune famose inchieste sul mondo popolare effettuate alla fine dell’Ottocento. Oltre a quella coordinata da Stefano Jacini, edita da Einaudi, merita di essere ricordata la ristampa di Leopoldo Franchetti – Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1975. 29 Lucio Gambi, I musei della cultura materiale, in Campagna e industria. I segni del lavoro, Milano, Touring Club Italiano, 1981, p. 192. 124 Gianluigi Dalla Valentina più corretto misurarne la diffusione territoriale proprio in relazione al numero di comuni presenti in ciascuna regione. Così facendo, cambia il volto della graduatoria. Sul piano nazionale si conta in media un museo ogni sedici comuni circa; nove regioni, equamente distribuite fra Nord, Centro e Sud, si collocano sopra la media; in Sardegna si arriva a uno ogni sei e ogni sette in Emilia-Romagna. In ultima posizione figura la Campania, dove è stato aperto un museo ogni sessanta comuni; la pre- cedono di poco Molise, Basilicata, Calabria e Lazio30. I musei etnografici possono essere considerati alla stregua di archivi popolari che, fra l’altro, hanno contribuito a restituire dignità alle classi subalterne del passato; un’operazione iniziata nel momento stesso in cui queste ultime si emanciparono. Il museo, quindi, si pone nell’ottica del riscatto delle culture popolari e un punto di vista democratico ne accompagna il progetto di realizzazione, a condizione che non venga mortificato nell’intento di celebrare il campanilismo, ai danni dell’iden- tità nazionale. Si aprivano le finestre perché entrasse il genius loci, ma con nuova brezza, che esaltava le virtù vere o presunte del municipali- smo o del regionalismo, risultò talvolta difficile non cedere a una vena di populismo. Capitò, infatti, che questo processo di valorizzazione si dispiegasse con qualche concessione di troppo sul piano localistico, forse inevitabile del resto, come accadde alla Società filologica veneta, nata all’ombra di san Marco, nel 1977, con il fine di «riaffermare il di- ritto della nazione veneta al mantenimento e allo sviluppo della propria cultura, della propria lingua, delle proprie radici e della propria identi- tà»31. Gli intenti apparivano schiettamente culturali, ma soffiò presto un vento birichino sulle vele della ricerca etnografica avviata dalla Società filologica che si rivelò madre prolifica, per via di un parto gemellare; se il primo neonato ereditò i cromosomi della cultura, il secondo portò con sé il seme di una politica tessuta con i fili della retorica sulle tradizioni, la memoria, l’identità, le radici. Dalla sua culla, infatti, mosse i primi passi il movimento della Liga Veneta che imboccò il sentiero accidentato delle rivendicazioni federaliste verso il quale si stavano proiettando anche al-

30 Mia rielaborazione dei dati dell’inventario redatto dalla citata Guida ai musei etnografici italiani, integrati dalle rilevazioni disponibili su Internet. Il ruolo da cenerentola della Campania appare confermato dal fatto che a finanziare il Museo dell’agricoltura meridionale di Caserta, inaugurato nel 1978, fu l’intervento pubblico attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. 31 Francesco Jori, La Liga alla Lega, Marsilio, Venezia 2009, p. 36. Nel direttivo della società figuravano persone che, più tardi, furono fra i fondatori della Lega, ma anche radicali e della sinistra extra-parlamentare di allora. I musei etnografici 125 tre regioni: dibattito che appariva esso pure, quale frutto della medesima temperie culturale32. Carlo Ginzburg, nell’introdurre il libro di Peter Burke sulla Cultura popolare nell’Europa moderna, dopo essersi guardato intorno scrisse che gli studi (storici e non) sulla cultura popolare sarebbero sopravvissuti alla moda che allora li circondava, premurandosi di sottolineare che proprio di una moda si trattava33. Si veleggiava verso gli anni ottanta e dilagavano i «facili entusiasmi dei mass-media per il come eravamo» che rischiavano di svilire quanto si intendeva documentare. Un attivismo che si prodigò in più direzioni, come si è visto, alla «riscoperta-recupe- ro di immagini testimonianti valori e costumi scomparsi»34. Nel 1984, il Ministero delle Poste emise persino una serie di francobolli dedicata alle Civiltà contadine. Ci si occupò prevalentemente proprio di queste ultime, senza trascurare comunque il lavoro artigianale, in particolare i mestieri ormai sulla soglia dell’addio perché in quel medesimo torno di tempo, stavano chiudendo una dopo l’altra botteghe che sapevano di vecchio, comparse in un’altra stagione della nostra storia. Con l’ab- bassarsi delle saracinesche uscirono di scena figure secolari – sarti, osti, droghieri, falegnami, fabbri, stagnini e ramai, lattonieri, zoccolai, seggio- lai – e venne meno il diffuso lavoro itinerante svolto da ambulanti con i loro carrettini o le biciclette appositamente attrezzate: calzolai, arrotini, fotografi, impagliatori, ombrellai, lattai. Mestieri portati a domicilio del cliente, la cui memoria andava salvata, alla stessa stregua di quella del mondo contadino. Ovunque, nell’Europa occidentale, il profilarsi di un unico sistema economico globale e i profondi mutamenti nel modo di lavorare, che dischiudevano le porte alla post-modernità globale, hanno rafforzato il bisogno di non smarrire la memoria e i segni materiali di modi di pro- duzione e di vita precedenti, oltre che tracce delle identità locali. Man mano che la globalizzazione andò affermandosi, l’omologazione cultu- rale che essa tende a trascinare con sé si incaricò di imprimere nuova energia ai suoi anticorpi; in particolare a un’opposizione nelle quale

32 Se Franco Rocchetta, che figurava fra i fondatori della Società filologica, diventò esponente di spicco della Liga, un’altra fondatrice, Maria Rosaria Stellin, qualche anno dopo comparve nel gruppo che organizzò l’Università Verde di Venezia. 33 Carlo Ginzburg, Introduzione a Peter Burke, La cultura popolare nell’Europa moderna, cit., p. I. 34 Enzo Quarenghi, La fotografia: storia o industria del rimpianto? in «Studi e ricerche di storia contemporanea», n. 13, nov. 1979, p. 41. 126 Gianluigi Dalla Valentina

è identificabile una forte componente reattiva manifestatasi nella ricer- ca delle proprie radici. Un’opposizione che, comunque, arrivò qualche anno dopo l’affermazione dei localismi, di cui non fu la causa prima, essendosi innestata, piuttosto, su processi già avviati e di cui consolidò lo spirito. È stato scritto che moltitudini di persone cominciarono a «cer- care il senso della loro esistenza scavando alla rinfusa dentro alle loro presunte origini»35; un’affermazione che insinua utili dubbi sull’autenti- cità di taluni fenomeni.

La museografia della cultura materiale

Lo spirito di coloro i quali dedicano il loro tempo libero alla realiz- zazione dei piccoli musei etnografici locali non è troppo dissimile da quello che, come sosteneva Bronislaw Malinowski, deve guidare la ricer- ca sul campo dell’etnografo: l’osservazione non freddamente scientifica, ma partecipe di quanto si sta indagando che, in ultima analisi, è la vita di gruppi umani anche quando si nasconde dentro gli oggetti. Ad animarli è stato e continua a essere il desiderio di rendere i visitatori partecipi di un vissuto che questi ultimi non conoscono e che i meno giovani talvolta guardano persino con sufficienza e distacco. Nella fase del primo consu- mismo di massa, l’impulso a rinnegare l’arcaicità spinse molti a disfarsi di ciò che, per generazioni, aveva connotato la condizione di inferiorità sociale del mondo rurale: vestiario, mobili, arredi, giocattoli dei quali quasi ci si vergognava e che fecero la fortuna di rigattieri e antiqua- ri. Costoro si premurarono di fare incetta di quanto veniva scartato dai nuovi ceti operai e impiegatizi appena inurbati, desiderosi di liberarsi di credenze sbrecciate, madie che sapevano di muffa, tavoli robusti segnati dall’usura del tempo; oggetti domestici che oggi «ritornano sovente nelle ricerche etnografiche perché attraverso di essi le persone si raccontano, rendono manifesti stili di vita, gusti, appartenenze di classe»36. Volevano sostituirli con le scintillanti cucine di fòrmica ‘all’america- na’ che davano l’illusione di proiettare l’acquirente nella modernità e nel benessere. Chi restò nelle campagne, meno facilmente se la sentì di sbarazzarsene e i più accantonarono la ‘roba vecchia’ in qualche soffitta o cantina, sotto il porticato di una cascina, in un retrobottega; ripostigli

35 Gad Lerner, Tu sei un bastardo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 11. 36 Pietro Meloni, L’uso (o il consumo) dello spazio domestico, in «Lares», a. LXXX, n. 3, settembre-dicembre 2014, p. 433. I musei etnografici 127 dove, non molti anni dopo, magari le stesse o altre mani l’avrebbero cercata. Così, l’operato iniziale dei volontari che si accingevano a dare vita a una raccolta museale fu condizionato dall’urgenza di fermare le mani che buttavano via oggetti che avrebbero potuto trasformarsi in fonti per la storia del mondo popolare. Il modo immediato di salvare le cose, e con loro le ombre evanescenti del passato cui esse sono legate, consi- stette, appunto, nel frugare fra i ferri vecchi e le apparenti cianfrusaglie che davano fastidio per recuperare il più possibile, preoccupati di non smarrire la memoria perché quando «l’ultimo sopravvissuto si spegnerà, tutto quel mondo non sarà più. Nessuno saprà che è stato. Come una stella che muore nell’universo e nessuno lo sa»37. Il modo in cui viene allestito e opera, almeno inizialmente, un museo etnografico difficilmen- te può prescindere dalla stessa cultura che precedentemente, in forme diverse da luogo a luogo, aveva messo in soffitta quanto poi si intende valorizzare. Il passo successivo consiste nella ricerca di una sede in cui collocare gli oggetti, di un contenitore che si presti a dare un senso, il più compiu- to possibile, al suo contenuto. Un museo minerario organizzato lungo lo snodarsi di gallerie sotterranee, quello contadino ospitato in una casci- na ristrutturata o quello ancora ricavato all’interno dell’edificio dove si svolgeva l’attività che il museo stesso ricostruisce, ormai diventato arche- ologia industriale, assumono un significato che altre collocazioni non riuscirebbero a esprimere, ma il più delle volte non resta che sottostare a vincoli economici o logistici. Questi ultimi, dunque, condizionano l’al- lestimento tanto quanto la quantità e la tipologia dei materiali raccolti. L’imperativo prioritario del reperimento e della salvaguardia, che pre- suppone il restauro, è condizione necessaria ma non sufficiente poiché i due momenti vanno accompagnati da una quasi inevitabile selezione degli oggetti raccolti, da effettuare secondo opportuni criteri, evitando di esporli tutti. Si tratta di un’operazione imprescindibile e legittima per scongiurare il rischio di affastellare troppi elementi, distogliendo l’atten- zione del visitatore dal filo del discorso espositivo prescelto. La selezione deve essere effettuata solo ex post, ossia dopo essersi assicurati che siano stati tutelati i materiali recuperati e condotta sulla base delle specifiche finalità dei singoli percorsi ostensivi prescelti. Quanto non si ritiene im- mediatamente pertinente rispetto a questi ultimi può trovare collocazio-

37 Mario Lodi, I bambini della cascina. Crescere tra le due guerre, Venezia, Marsilio, 1999, p. 131. 128 Gianluigi Dalla Valentina ne in un deposito per essere valorizzato in altri momenti: in occasione di mostre tematiche di approfondimento o per scambi con altri musei. Le raccolte museali etnografiche rientrano nella vasta categoria delle fonti primarie per lo studio della storia38 e, quindi, il loro allestimento si configura come un’operazione storiografica ai cui criteri deve ubbidire. Sono archivi popolari nei quali vanno ordinati e classificati ‘documen- ti’ particolari dei quali, diversamente da quanto avviene nel caso della documentazione cartacea, è prevista l’esposizione pubblica: la messa in mostra. Una cardatrice, un tempo presente nelle botteghe dei materas- sai o portata a domicilio dall’artigiano che cardava la lana, accantonata dall’evoluzione dei processi produttivi e una volta inserita in un museo etnografico ormai priva della sua funzione originaria, diventa un ‘do- cumento’ che impieghiamo per ricostruire un segmento del lavoro di quello stesso artigiano. L’esempio ci consente di comprendere meglio il significato della collocazione di qualsiasi oggetto dentro un museo. L’o- perazione comporta l’estrapolazione dei materiali dall’originario conte- sto funzionale, vivo, dove ubbidivano a uno scopo, in quanto pensati per dare soluzione a problemi precisi e dove interagivano, insieme ad altri oggetti, con la vita e il lavoro di una comunità. I curatori delle raccolte sono costretti a sottrarre materiali al mondo reale per ricollocarli in un al- tro spazio, artificiale, e in un’altra dimensione temporale; li privano delle rispettive funzioni e dei contesti originari, ne cambiano la destinazione d’uso, trasformandoli in oggetti di consumo culturale e quindi, attraverso l’esposizione si verifica una sorta di estraneazione. Bisogna, dunque, infondere agli oggetti un’altra vita che, non potendo essere quella di prima, deve assumere un proprio valore specifico alla luce della nuova finalità cui devono assolvere. Secondo Claudio Magris, «la morte si addice ai musei […] ogni espo- sizione è una natura morta»39. I musei etnografici sono prigionieri di un’intrinseca antinomia: pretendono di resuscitare aspetti della vita di un certo contesto spazio-temporale ma, di fatto, si limitano a rappresentar- la. Testimoniano un altrove spazio-temporale cui possono solo cercare di restituire vita in forme surrettizie, adottando un linguaggio che permetta di superare il distacco fra chi osserva e ciò che viene osservato. Non fa molta differenza che un quadro sia appeso alla parete di una chiesa, di un palazzo o di una pinacoteca, ai fini della sua fruizione da parte

38 Cfr. Carlo M. Cipolla, Tra due culture, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 37 e sgg. 39 C. Magris, Non luogo a procedere, cit., p. 12. I musei etnografici 129 dei visitatori. Anche le opere d’arte hanno bisogno di essere illustrate e contestualizzate, ma la loro funzione è chiara; la bellezza del quadro o della scultura prende il sopravvento e scivolano in secondo piano sia la sua collocazione, sia il distacco temporale fra l’autore e l’osservatore che si sente, comunque, partecipe emotivamente poiché la bellezza è in grado di avvicinare il secondo al primo. Non altrettanto si può dire degli oggetti custoditi in un museo etnografico dove, di fronte a materiali a volte persino sconosciuti, si dilata la distanza fra l’oggetto e colui che osserva. Quest’ultimo ha bisogno di trovare il senso perduto delle cose esposte, delle funzioni per le quali erano state create. Il significante non è sufficiente, non parla da solo; occorre altro affinché riesca ad affio- rare il significato, insieme a quello complessivo di un tempo lontano. Non sembra del tutto condivisibile l’affermazione secondo la quale nei musei, l’oggetto non perderebbe «nulla di più di quanto non abbia già perso di fronte allo sviluppo tecnologico diffuso, anzi paradossalmente» acquisterebbe «valore nuovo» poiché esso, in quanto «testimonianza ac- cessibile a tutti, recupera il suo valore-segno, tutta l’intrinsecità della sua esistenza»40. Spesso, invece, chi guarda, soprattutto se giovane, è come se fosse preso da un disorientamento analogo a quello che colse Dante all’Inferno, inducendolo ad aggrapparsi alle labbra di Virgilio: «Maestro, il senso lor m’è duro». Il compito dell’allestimento consiste, quindi, nel restituire senso ai materiali esposti che, tolti dal palcoscenico della storia e messi dapprima dietro le quinte, vengono risospinti in scena per una rappresentazione che, anche nella migliore delle ipotesi, non si svolge più in spazi vissu- ti. Sta al «lavoro di studio, di sistemazione e di catalogazione» rendere «possibile la conoscenza delle funzioni, la comprensione del significato culturale, la ricostruzione della storia delle forme, l’individuazione delle categorie sociali di fabbricazione e di consumo»41. Si tratta di infondere un’altra vita al museo, che tale deve restare senza pretendere di riesuma- re con espedienti non sempre pertinenti ciò che non può essere; la sua natura, dunque, si configura quale strumento di rappresentazione e ciò comporta l’impiego di opportune tecniche museografiche, affinché chi

40 «Quaderni del Centro Etnografico Ferrarese», n. 2, ottobre 1985, p. 2 41 Elisabetta Silvestrini, La cultura materiale, in Ricerca e catalogazione della cultura popolare, a cura di Sandro Biagiola, Diego Carpitella, Oreste Ferrari, Linda Germi, Aurora Milillo, Jacopo Recupero, Annabella Rossi, Elisabetta Silvestini, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma, De Luca, 1978, p. 7. 130 Gianluigi Dalla Valentina lo visita si senta partecipe, compresa la possibilità di toccare gli oggetti e, nel limite del possibile, interagire con gli stessi. Per conseguire l’obiettivo e sventare il rischio di cadere nel mero descrittivismo, occorre procede- re oltre la mera giustapposizione per far sì che ogni oggetto si configuri quale tassello da inserire all’interno di un percorso ideale complessivo che deve mirare alla ricomposizione di quadri compiuti. In altre parole, poiché i singoli pezzi non parlano da soli essi hanno bisogno di essere connessi agli altri in quanto parti di un tutto dal quale non vanno avulsi e il cui senso complessivo deriva non solo dall’indiscutibile autonomia delle singole parti ma anche dal quadro generale delle interconnessio- ni che compongono l’insieme, alla stessa stregua di fonemi all’interno di un sistema linguistico. Gli oggetti vanno affiancati ad altri puntuali documenti, anch’essi elementi di un unico discorso: scritti, fotografie, cartografie, materiali audiovisivi42, magari laddove possibile piccoli spa- zi coltivati, nel caso dei musei contadini; tutti specchi di uno specifico contesto composto da luoghi di lavoro, cultura, ambienti domestici di una comunità. Possiamo immaginare i pezzi da esporre quali nodi di una tela, la cui trama e il cui ordito vanno tessuti con il filo a disposizione della muse- ografia, con gli strumenti del suo linguaggio, in particolare con quelli multi-mediali che rientrano nel novero delle tecnologie oggi più diffuse. I modelli in scala che rappresentano il funzionamento di un attrezzo o di un macchinario oppure i video in grado di simulare lavorazioni agricole e artigianali effettuate un tempo con uno strumento ora esposto consentono di incrinarne la staticità, catapultando il visitatore entro lon- tane dimensioni temporali. Oltre a informare e istruire, un museo deve e può divertire. Se nell’allestimento l’ago della bussola che lo orienta punta verso la ricomposizione dell’intero mosaico, è grazie a un simile corredo di mezzi che si riesce a esplicitare le valenze racchiuse in sé da un oggetto, delle quali esso funge da supporto: materiali e tecniche di costruzione, costo, tempi e fatica che il suo uso comportava, produttivi- tà, modalità d’impiego e di lavoro che potevano essere di volta in volta e da luogo a luogo, individuali o collettive, declinate al maschile o al femminile, con l’eventuale apporto di braccia infantili. Se aiuta il visita- tore a interagire con il materiale ostensivo, il linguaggio museale lo mette in condizione di cogliere meglio la dimensione storica. L’interattività, la

42 Il cinema offre un aiuto prezioso da questo punto di vista. Fra i tanti, cfr. Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli, 1978 e Bernardo Bertolucci, Novecento, 1976. I musei etnografici 131 modellistica, gli esperimenti didattici, le molteplici tecniche oggi dispo- nibili contribuiscono a stracciare il velo della separatezza; un obiettivo certamente impossibile da conseguire in modo compiuto, ma al quale si deve tendere come un asintoto rispetto agli assi cartesiani. Realizzazioni concrete dimostrano che un museo etnografico può svolgere un ruolo significativo nella ricerca se riesce a integrare la sua funzione primaria con quella ancillare di un pur piccolo centro di ricerca storiografica e di divulgazione culturale, diventando il destinatario di fondi archivistici, librari, fotografici, audio e video. Quale tipo di ordinamento dare ai musei etnografici è una domanda che si cominciò a formulare già un secolo fa, quando i pionieri di questa branca della museologia si chiesero se dovessero impostarli su base ter- ritoriale oppure privilegiare un criterio differente, che facesse delle cate- gorie o delle funzioni degli oggetti l’asse portante dell’allestimento. C’è ormai unanimità di consenso sul fatto che l’ordinamento debba avvenire su base tematica, come nel caso del Museo della mezzadria a Senigallia. La forte valenza della soluzione imperniata sulle funzioni deriva dal fatto che accostare oggetti tipologicamente simili, provenienti da luoghi dif- ferenti per illustrare il medesimo tema, permette di inserire le peculiarità dei singoli ambienti entro il più ampio contesto della generale evolu- zione del modo di vivere e di lavorare. Per esempio, affiancare aratri o zoccoli diversi fra loro esalta le differenze e suggerisce più facilmente la domanda sulle relazioni con le caratteristiche dei singoli territori; a suoli particolari e agli animali a disposizione corrispondevano, infatti, aratri di una certa fattura e analogamente calzare zoccoli per lavorare in pia- nura o su pendii collinari imponeva di adattarne le suole alle specifiche morfologie dei siti. Se la base territoriale è vasta, come nel caso dei musei zonali, pro- vinciali o, a maggior ragione, regionali e nazionali, segmentare l’espo- sizione per ambiti spaziali locali giustapposti significa parcellizzare la visione. Al piccolo museo locale, dall’orizzonte per lo più municipale, spetta piuttosto il compito di rappresentare il territorio circostante; in tale caso, la bussola che ne orienta l’allestimento non viene fornita dalle differenze rispetto ad altri contesti spaziali. L’ago punta in direzione del rapporto fra una comunità e il suo ambiente naturale al fine di ricostruire e rappresentare i modi in cui la prima ha interagito con il secondo at- traverso gli strumenti che esso ha realizzato per vivere e lavorare. Ecco, allora, farsi più urgente la necessità del ritorno in scena del folclore al quale dovrebbe essere assegnato un certo peso, non da mera comparsa, 132 Gianluigi Dalla Valentina per infondere completezza a un quadro generale che può essere arric- chito ricorrendo ad altri tipi di differenze, come quella fra le classi socia- li. Così, sul versante del vestiario o degli arredi domestici, abiti, mobili e suppellettili appartenuti a ceti benestanti affiancati a quelli in uso fra le classi popolari aiutano a restituire con immediatezza i divari sociali43. La componente diacronica svolge un ruolo primario nei musei comu- nali, affinché al visitatore sia dato di misurare il cammino dall’attrezzo manuale, alle macchine a trazione animale, fino ai motori, ma è proprio su questo terreno che talvolta si riscontrano manchevolezze imputabili anche all’assenza di datazioni puntuali. In tempi più recenti, la primitiva tipologia del museo etnografico progettato sulla base del modello dei contenitori chiusi è stata inte- grata dall’introduzione degli ecomusei. Questi ultimi sono spazi aper- ti caratterizzati dalla presenza di un variegato patrimonio naturalistico e storico-artistico che include testimonianze della vita popolare in età preindustriale. La realizzazione di un ecomuseo comporta, dunque, la valorizzazione di un sito originale e non ‘museabile’ nel senso letterale e tradizionale del termine, dove si snoda un originale percorso espositivo nel quale contenitore e contenuto tendono a confondersi. In questo cam- po, la tipologia delle soluzioni adottate è ormai talmente variegata che spesso la discontinuità lungo la linea che dal museo chiuso conduce agli ecomusei diventa meno evidente. Corsi d’acqua artificiali con bocche di prese e paratoie, mulini e magli, trincee militari, fabbriche e cascine dismesse, castelli e palazzi, lo stesso paesaggio possono diventare essi stessi musei e rientrare fra gli elementi meritevoli di inserimento in un ecomuseo. Analogamente, taluni siti minerari, con i loro impianti lavorativi ester- ni e le gallerie, guidano il visitatore dentro il luogo stesso del lavoro e assurgono a elemento principale di interesse rispetto agli strumenti dell’attività estrattiva, magari esposti in qualche anfratto più ampio. Fra l’ecomuseo, che non necessariamente include al suo interno un conven- zionale museo etnografico, e quest’ultimo si collocano quelli all’aperto. In Europa il primo fu realizzato a Skansen, in Svezia nel 1891, dove

43 Senza dimenticare le contaminazioni, come ci ricordano le giovani di estrazione rurale mandate a lavorare quali cameriere o cuoche nelle case patrizie dove si imponeva una certa comunanza di vita. Le padrone solevano regalare vestiti e calzature dismessi che le domestiche indossavano nei giorni di festa pavoneggiandosi e cercando di imitare abitudini e stili di vita dei ricchi, così che qualcosa della vita signorile gocciolava su quella popolare. I musei etnografici 133 circa 150 edifici rurali scandinavi ospitano allestimenti con persone in costume che svolgono lavori tradizionali. Al 1936 risale Muzel Satului, nei pressi di Bucarest, dove compaiono quasi trecento edifici rurali ru- meni; nel 1964 a Gutach, un villaggio della Foresta Nera tedesca, fu individuata una vasta area dove ospitare la fedele ricostruzione di una ventina di edifici rurali tipici di altrettante regioni della Germania: abi- tazioni, stalle, essiccatoi, apiari, distillerie, granai44. In tutti e tre i casi, grazie alla prossimità degli edifici, viene messa in risalto la specificità di ciascuno in rapporto al contesto climatico, ai materiali da costruzione, al tipo di attività agricole svolte, ai bisogni delle famiglie rurali insediate nelle rispettive regioni. In Italia, nel 1976, una strada simile fu imboccata con l’inaugurazione in Alto Adige del Museo degli Usi e Costumi della Provincia di Bolzano.

Il quadro bergamasco

Sono ventidue i musei che, occupandosi del mondo popolare ber- gamasco, rientrano a buon diritto nel campo etnografico, almeno sulla base all’accezione in cui si è usato il termine in questa sede45. La Regione Lombardia ne ha riconosciuti pochi come musei veri e propri e ne annovera la maggioranza entro la classe delle raccolte museali46. Tredici, ossia oltre la metà, sono localizzati lungo l’asse che dalla Valle Seriana porta a quella di Scalve; una distribuzione geogra-

44 Cfr. Dieter Kauss, Vogtsbauernhof in Gutach, Heidelberg, Edm. von König-Verlag, 1991. 45 È la ragione per cui non si prende in considerazione il Museo e Villaggio Africano di Urgnano. Esistono altre raccolte meno blasonate, ancora in attesa di un futuro allestimento formale. Una si trova in locali del Comune di Villa di ; a Nembro è stato allestito un piccolo museo dedicato all’emigrazione bergamasca con pezzi che vengono da miniere del Belgio dove lavorarono alcuni uomini del paese; un’altra raccolta è ospitata nella Cascina Reina, una struttura agrituristica di Caravaggio; un’altra ancora, a Osio Sotto, fu oggetto di una mostra nel 2009. A queste andrebbe aggiunto il Mulino di Baresi, ristrutturato a cura del FAI che ha affidato la gestione delle visite e le attività didattiche all’Associazione Maurizio Gervasoni - Onlus. A Teveno, una frazione di Vilminore di Scalve, è in via di allestimento un museo didattico, attivo, ricavato dalla fucina ottocentesca dove si costruivano e riparavano attrezzi in ferro, dotata di forgia e maglio mossi dalla forza dell’acqua. 46 La guida più aggiornata dei musei provinciali ne riporta e descrive solo quindici, sebbene i rimanenti, esclusi quelli di Cologno al Serio e di Ranzanico, siano stati istituiti prima che la stessa guida venisse data alle stampe. Cfr. Provincia di Bergamo, Musei a Bergamo e provincia, Bergamo, 2010, pp. 97-139. 134 Gianluigi Dalla Valentina fica che sarebbe riduttivo spiegare unicamente alla luce del ruolo eco- nomico svolto da questo ambito territoriale sin dall’età moderna grazie alla diversificazione delle sue attività produttive. L’esperienza, non solo bergamasca, sembra suggerire l’ipotesi che le energie più vivaci, volte alla valorizzazione del mondo popolare, abbiano coinciso con le zone dove, nonostante la povertà e la subalternità, riuscì a radicarsi una realtà sociale più articolata di cui non necessariamente si sentì il bisogno di di- menticare la memoria una volta tramontato il sole sulla civiltà contadina. Dove, invece, si impose il bracciantato che, per sua natura, ostacolò il radicarsi di un rapporto solido fra le famiglie e la terra, rendendo ancora più cupo l’orizzonte esistenziale, la rottura della diga sospinse altrove, senza soverchi rimpianti, i salariati desiderosi di voltare le spalle al loro passato. La distribuzione geografica nell’intera penisola di queste realtà museali legittima l’ipotesi di una corrispondenza fra la loro presenza, da un lato, e, dall’altro, un radicamento nei luoghi e un più tenace senso di appartenenza comunitaria. Nel 1979 comparve a Zogno il Museo della Valle: primo di una serie che, almeno provvisoriamente, è stata chiusa dal Museo della memoria contadina inaugurato a Cologno al Serio nel 2012. La maggioranza reca nei rispettivi certificati di nascita l’ultimo ventennio del secolo scorso: lo stesso periodo in cui fiorirono, come in tutto il resto della penisola, iniziative analoghe volte al recupero della memoria e delle identità lo- cali. Ad attività non agricole – estrattiva e metallurgica, tessile, pietre coti – sono dedicati sette dei musei etnografici che punteggiano le valli Seriana e di Scalve nonché quello del falegname, con sede ad Almenno San Bartolomeo, e il Museo della seta aperto a Ranzanico; i restanti tre- dici rappresentano genericamente la vita, le abitazioni e il lavoro delle rispettive comunità rurali. Di questi ultimi i quattro ubicati in pianura sono incentrati sul mondo contadino ma in generale tutti questi musei, a fianco dei campi, lasciano entrare in scena i piccoli lavori artigianali svolti localmente, cui danno maggiore o minore risalto secondo i casi. Il panorama complessivo appare sfaccettato e restio a farsi ingabbiare in schemi rigidi anche da altri punti di vista. Alle ventidue realtà riconosciute dalla Regione Lombardia, di cui quattro private sono il frutto del mecenatismo dei loro ispiratori e fonda- tori, vanno aggiunti tre ecomusei i quali si differenziano dalle prime per le peculiari caratteristiche di ciascuno di essi. Il primo di questi è stato realizzato a Gorno, dove l’Amministrazione comunale ha valorizzato l’intero paese promuovendolo a ecomuseo in virtù delle sue emergen- I musei etnografici 135 ze culturali e naturalistiche che includono un museo etnografico vero e proprio e le miniere di zinco abbandonate. Quello della Val Borlezza, invece, è incentrato sulle vecchie torbiere, oltre che sugli antichi per- corsi dei valligiani, e non contempla la presenza di una specifica realtà museale a carattere etnografico. Ultimo in ordine di tempo l’Agri Museo Orizzontale (AMO) che intorno a Treviglio ha musealizzato a cielo aper- to strade, cascine, campi, rogge, nell’intento di valorizzare il paesaggio agrario locale. Non sembra, invece, opportuno rubricare sotto la medesima catego- ria il pur rilevante Museo storico SAME, inaugurato sempre a Treviglio nel 2008, che illustra la storia della meccanizzazione delle campagne italiane, corredato da importanti supporti documentari: l’archivio car- taceo, fotografico e video, annesso all’esposizione47. Nel novero degli strumenti del lavoro contadino vanno distinti quelli che ne hanno fatto la storia fino all’industrializzazione e che lo rappresentano compiutamente dai motori agricoli i quali, viceversa, hanno svolto un ruolo primario nel demolire con colpi di piccone ben assestati quello stesso mondo agricolo tradizionale. I trattori figurano al centro della straordinaria rac- colta custodita dal Museo SAME, ma mentre i musei etnografici possono ospitare senza forzatura alcuna vecchi motori o macchine, che illustrano l’evoluzione del lavoro, a Treviglio quanto esposto parla soprattutto dei progressi dell’industria meccanica; un settore esterno ai campi sebbene orientato verso questi ultimi. Le macchine documentano soprattutto i progressi di un ramo dell’industria e anche aspetti rilevanti della storia dell’agricoltura nazionale, a partire dalla penetrazione dei motori nel corso del Novecento, ma lasciano in ombra il mondo popolare poiché si tratta di prodotti standardizzati, come tutti quelli del settore secondario, che prescindono, in quanto tali, dalle specificità dei contesti locali. Le macchine e i motori hanno livellato le differenze ecologiche e imposto ovunque gli stessi ritmi di lavoro, le medesime modalità operative; ri- chiedevano e richiedono manutenzioni che esulano dalle competenze di chi li impiega, che non ne è più il costruttore, come accadeva invece nel caso dei tanti attrezzi in legno prodotti manualmente dagli stessi con- tadini o da artigiani ambulanti che li costruivano nelle cascine secondo le indicazioni che venivano fornite loro da chi li avrebbe impiegati. Tutte le altre raccolte museali etnografiche della provincia traggono origine dal rifiuto di assistere passivamente alla distruzione di qualcosa

47 Cfr. Same Deutz-Fahr, Archivio storico e Museo SAME, s.l., s.d. 136 Gianluigi Dalla Valentina che, oltre a racchiudere in sé un valore storico, materializzava la memoria di un vissuto individuale e collettivo, parte essenziale delle radici degli stessi promotori che per ciò stesso vi si identificavano. Ne furono artefici singoli uomini o donne e, più spesso, piccoli gruppi locali, nel cui seno figuravano persone di ogni estrazione sociale, compresi qualche sacer- dote e sindaci; gente per lo più anziana che nel passato lavorativo aveva svolto mestieri che si intendeva far rivivere grazie anche alle conoscenze maturate direttamente. Non mancarono i giovani ma essi hanno profuso un maggior coinvolgimento soprattutto quando l’attenzione alla cultura materiale maturò quale corollario di un contestuale impegno ecologico; la riscoperta della natura tornò a confondersi con quella del mondo po- polare, come era accaduto al tempo del Romanticismo. Lo testimonia il Nucleo Ecologico Alta Valle Cavallina, costituito nel 1974 come gruppo di base dalle cui file sarebbero usciti, più tardi, alcuni promotori e il direttore dei due musei etnografici della valle, con sede a Casazza e a Ranzanico. La vicenda conferma una forma di vocazione culturale-eco- logica, riscontrabile pure in altre località della penisola, che ha posto al centro dell’impegno dei promotori il rispettivo contesto ambientale, col- to nella sua interezza48. Alla stessa stregua, il prezioso lavoro di recupero dei fontanili di Cologno al Serio fu seguito, quasi si trattasse di un natu- rale completamento, dalla raccolta di materiali sfociata nell’allestimento del locale Museo della memoria contadina. La maggioranza dei musei etnografici bergamaschi ha privilegiato, come proprio ambito spaziale, quello municipale dal quale non è dato prescindere quando il cuore dell’allestimento è incentrato su particolari attività che hanno improntato di sé la storia della comunità locale. Così un peculiare complesso produttivo, quale il maglio di Ponte Nossa, non può restare avulso dal sito in cui la struttura è collocata e un’analoga considerazione vale per le gallerie minerarie con i connessi impianti di lavorazione delle materie prime estratte, come pure per le cave di pietre coti, ubicate in un ambito territoriale ben definito della bassa Valle Se- riana, fra Nembro e Pradalunga, dove tanta parte della popolazione fu occupata fino a tempi non remoti nell’escavazione e nella lavorazione di questa pietra singolare, utilizzata nell’affilatura di falci, coltelli e lame. Anche in simili casi, comunque, l’esposizione non può esimersi dal di- latare i propri orizzonti territoriali per tenere in considerazione la vasta

48 Cfr. Mario Suardi, NEAVC, poi NEVAS. Nascita dell’ambientalismo in Valle Cavallina, in «Quaderni di Archivio Bergamasco», 6/ 2012, pp.185-193. I musei etnografici 137 trama di relazioni che legarono il maglio, le miniere e le cave, da un lato, ai luoghi di rifornimento delle materie prime e, dall’altro, i percorsi del trasporto e del commercio di quanto ottenuto. Laddove, invece, il museo si indirizza genericamente al mondo rurale, l’ambito comunale com- porta la quasi inevitabile conseguenza della reiterazione di esposizioni simili fra loro che corrono il pericolo di rimanere soffocate entro le loro stesse minuscole dimensioni, dettate dal voler essere, ciascuno di essi, riflesso dell’ambito spaziale circostante i cui tratti, in realtà, si confondo- no con quelli dei tanti comuni limitrofi, inseriti dentro la medesima zona agraria. Di qui una certa ripetitività e l’assenza di significative incursioni nel campo del diverso e del lontano da sé, nella fallace convinzione che l’obiettivo primo consista nella riscoperta della rispettiva identità, dimenticando che questa, per definizione, costituisce un limite che ogni museo dovrebbe incaricarsi di superare proprio grazie a tali incursioni. Non basta allineare oggetti ed esporli se si intende perseguire l’o- biettivo di salvaguardare memoria e radici. Nei musei più piccoli la- sciano tracce evidenti gli intendimenti dei raccoglitori di memoria che li hanno promossi, fra i quali fa spesso capolino il legittimo desiderio di trasmettere ai giovani i valori intrinseci al modo di vivere contadino e popolare. Tuttavia, i singoli pezzi non possiedono una propria forza di convincimento e risulta fallace la pretesa di persuadere le nuove genera- zioni delle presunte valenze positive del tempo andato, allestendone una rappresentazione e tessendone le lodi. Spesso chi si è impegnato nella raccolta di attrezzi, arredi, oggetti della vita quotidiana era depositario di un vissuto personale, di un bagaglio di conoscenze nel campo lin- guistico dialettale, di un sapere tecnico-professionale, indispensabili nel momento in cui si avvia la realizzazione di un museo e per infondergli un’anima. La partecipazione emotiva, però, può condizionare il risultato se, dietro le operazioni di raccolta e di valorizzazione dei materiali da collocare nei musei, si nasconde unicamente una prepotente nostalgia temporum illorum; motivazione legittima ma che porta in sé il lasciarsi prendere la mano dal sentimento per via dell’assenza, in chi ha effettua- to il recupero, del necessario distacco da quanto ha riscoperto. Le modalità di osservazione e il coinvolgimento dell’osservatore cam- biano secondo l’età. La generazione più anziana, curatrice della me- moria, si riconosce ancora in tanti oggetti cui conferisce un valore a prescindere da qualsiasi allestimento poiché essi parlano il medesimo linguaggio della sua vita. Senza bisogno di mediazione alcuna, gli an- ziani colgono il nesso fra significato e significante, implicito nel percorso 138 Gianluigi Dalla Valentina espositivo. Non altrettanto accade alle generazioni più giovani, il cui at- teggiamento non può che essere disincantato di fronte a materiali a loro in genere sconosciuti, cui non conferiscono a priori alcun valore. Ciò che i giovani, e ormai anche buona parte del mondo adulto, osservano è storia distante, per quanto temporalmente magari non troppo lontana, non vita vissuta, né esperienza condivisa, e sarà così per tutti in un fu- turo più o meno prossimo, allorché verranno a mancare coloro i quali hanno usato o visto usare oggetti e attrezzi che fanno bella mostra di sé in un museo etnografico. I giovani possono solo immaginare il senso e il contesto originari nascosti dietro un’esposizione, il cui compito prima- rio consiste, appunto, nel permettere all’immaginazione di colmare il distacco fra una storia ignota e i materiali dell’allestimento che gli occhi colgono oggi. Una sorta di ansia, dettata dalla comprensibile paura di perdere qual- cosa che si potrebbe recuperare, induce a salvare quanto più è possibi- le, indipendentemente dall’ambito di provenienza dei singoli pezzi, sia esso l’ambiente in cui si intende realizzare l’allestimento oppure territori più o meno lontani. Conservando tutto, senza curarsi soverchiamente dell’origine dei materiali e di indicarne la provenienza, si rischia di in- quinare la corrispondenza con il territorio del quale l’oggetto non è più necessariamente una fedele espressione. Fra alcuni promotori albergò talvolta il generico desiderio di documentare un passato purchessia, non accompagnato dalla preoccupazione di ricostruire l’evoluzione storica subita dai materiali, il loro differenziarsi da luogo a luogo in relazione con l’ambiente; elementi che, al contrario, vengono messi in risalto nei musei che rappresentano contesti territoriali più vasti, ordinati, come av- viene solitamente, per funzioni e categorie. Capita, dunque, di imbattersi in allestimenti con dubbi inserimenti, dove non sempre viene segnalata l’eventuale provenienza da altre località di alcuni fra i pezzi esposti, i quali finiscono per rappresentare confusamente un passato indistinto e disancorato da un contesto spaziale preciso. Fino al tardo Ottocento, attrezzi, strumenti, arredi uscivano per lo più da mani artigiane e dunque i materiali – quasi esclusivamente il legno – di cui erano fatti e le loro forme variavano da un territorio all’altro e di ciascuno di questi ultimi essi parlano oggi. Solo con la standardizzazione delle tecniche costrut- tive e delle modalità di impiego, impostasi nel corso del XX secolo, si spalancò la porta alla diffusione dei manufatti oltre l’ambito locale. Ciò non comporta ovviamente la rinuncia a mettere in mostra i pezzi pro- dotti e impiegati in tempi meno datati, ma è bene distinguere i materiali I musei etnografici 139 peculiari di un certo luogo da quelli che rappresentano forme di vita e modalità di lavoro ormai più generalizzate e, in quanto tali, diffuse su più ampia scala. È una distinzione che merita di essere sottolineata nella cura dell’allestimento attraverso un ulteriore rafforzamento del corredo documentario di cui si diceva. L’eventuale debolezza di simili integrazioni spiega la sensazione che si avverte in talune circostanze visitando in sequenza alcuni musei et- nografici dedicati genericamente alla civiltà contadina; quella di ritro- vare un po’ ovunque un po’ di tutto, con evidenti ripetizioni, senza che emergano nitidamente i tratti fondanti dei singoli contesti che, invece, possono essere di montagna o di pianura, caratterizzati da economie prevalentemente agricole o integrate da particolari attività artigianali o manifatturiere, ciascuno con le proprie interconnessioni fra la vita e il lavoro. Se, nel loro insieme, i musei della cultura materiale bergamasca non sempre riescono a mettere a fuoco compiutamente i tratti di fondo della singolare ‘agricoltura manifatturiera’ che ha segnato la storia eco- nomica fra l’Adda e l’Oglio, forse ciò significa che questo strumento museale potrebbe essere affinato ulteriormente49. Il fatto che uno stra- niero o il visitatore proveniente da altre contrade della penisola trovi certamente in ogni museo etnografico qualcosa del mondo popolare orobico, ma riesca solo con qualche difficoltà a tratteggiarne un profi- lo più articolato è un limite comune a gran parte delle realtà di questo tipo, dalle Alpi al Lilibeo. Eppure, chi esce da un museo etnografico dovrebbe essere riuscito a cogliere il senso della vita e del lavoro delle comunità preindustriali, composte da individui che non mettevano piede nella scuola o vi facevano saltuarie apparizioni, usavano un medesimo linguaggio, condividevano scale di valori comportamenti e visioni della vita, si uniformavano a un insieme di norme e abitudini condivise dalla medesima comunità nella quale erano inseriti, partecipi del medesimo senso comune della vita; donne e uomini che si identificavano negli stessi simboli, mettevano in atto le medesime azioni volte a conservare o modificare l’ambiente, impiegavano gli stessi oggetti e attrezzi, attribui- vano la stessa valenza alle cose materiali e alle situazioni50.

49 Cfr., fra gli altri, Alberto Cova, Dalla fine del Settecento all’Unità: sviluppo manifatturiero ed equilibrio agricolo-commerciale, in Storia economica e sociale di Bergamo. Dall’Evo antico agli inizi del XXI secolo. La sintesi, Bergamo, Fondazione per la Storia economica e sociale di Bergamo, 2014, pp.137-169. 50 Cfr. Renato Grimaldi - Simona Maria Cavagnero, L’archivio per lo studio delle tradizioni popolari di Pitré e Salomone Marino (1882-1909), cit., p. 171. 140 Gianluigi Dalla Valentina

Sembra ormai avviata al tramonto la stagione in cui furono mossi i primi passi, indispensabili ma non sufficienti; un momento caratterizzato dalla singolare fioritura di energie locali e spontanee grazie alle quali poté infittirsi la densità di questi insediamenti museali su tutta la carta geografica italiana, seppure con evidenti disomogeneità territoriali. Ora, tuttavia, «terminata la fase dell’entusiasmo pionieristico, i nuovi musei si sono trovati a un punto cruciale: procedere verso il consolidamen- to scientifico e istituzionale o vegetare nella periferia del curioso e del folkloristico»51. Un conto è far nascere un museo etnografico, altro è far- lo vivere dopo averlo allestito. Se dapprima è lecito indugiare sul passa- to, dopo è al futuro che deve svolgere lo sguardo. Occorre impedire che si fermi e far sì che si continui a cercare, quantunque in modo diverso rispetto a quanto avvenne durante la fase del recupero degli oggetti, che comunque non è mai conclusa una volta per tutte. Non diversamente da quanto succede con i documenti cartacei che, una volta consultati, non sono destinati a essere riposti per sempre dentro un faldone. Il volonta- riato ha svolto una funzione insostituibile, ma si avverte la debolezza di un tassello, quello decisivo, dell’ultimo passo, per certi versi, il più difficile da compiere poiché, una volta inaugurato, il museo muore se confinato nel ruolo di mero contenitore. La passione, il senso civico, le competenze personali, il coinvolgimento emotivo, volontariato e mece- natismo sono condizioni necessarie nella prima fase, ma non può dirsi altrettanto in quella successiva che richiede competenze diverse, speci- fiche della disciplina museologica. Si tratta di consolidare, appunto, la seconda fase che dovrebbe contemplare la collaborazione fra promotori e gestori, fra raccoglitori e curatori della memoria, che non possono e forse non devono sempre coincidere completamente, anche attraverso il coinvolgimento della comunità locale e favorendo l’entrata in campo di energie nuove. Ora si pone il problema di avviare una nuova stagione se non si vuole relegare «l’etnografia, che è parte così importante della scienza dei popoli, in un sottomondo di minuta erudizione locale e di angusto folclore»52. Approdati ai lidi di un’inedita dimensione ‘rurbana’ e avendo pareg- giato qualche conto fra l’alto e il basso della piramide sociale, viene spontaneo interrogarsi sulla prossima direzione della ricerca etnografica,

51 Massimo Tozzi Fontana, I musei del lavoro contadino e artigiano nella Padania, in Campagna e industria. Itinerari, Touring Club Italiano, Milano 1981, p. 28. 52 Antonio Rizzo, citato in Alberto Mario Cirese, Oggetti, segni, musei, cit., p. 74. I musei etnografici 141 una volta messe in salvo le testimonianze della cultura popolare. All’alba del nuovo secolo, il passaggio generazionale si rivela di importanza cru- ciale. Non pensare per tempo a questa transizione e non riuscire a darle adeguata soluzione comportano il pericolo di imbalsamare le raccolte e di perdere un vocabolario prezioso, tradizioni e un sapere tramandati oralmente finché sono vissuti i soggetti del mondo popolare eclissatosi con la post-modernità. Alle testimonianze orali e alle conoscenze vanno date forme concrete che consentano di fissarle stabilmente, sottraendole al soffio del tempo, affinché possano essere lasciate in eredità a coloro i quali avranno il compito di gestire i musei etnografici nel futuro e ai loro fruitori. Dovrebbe fare capolino con maggiore forza il genere femminile. Colpisce, infatti, che le esposizioni, esclusi gli spazi destinati a illustrare attività domestiche tipicamente femminili, appaiano declinate per lo più al maschile; una realtà forse non casualmente derivante dall’essere stati, i promotori dei musei etnografici, in prevalenza uomini. La gran parte dei materiali che compongono le raccolte era costruita e usata da uomini e solo una maggiore attenzione dedicata alla ricerca di documentazione sul folclore, a corredo degli oggetti esposti, potrebbe contribuire a resti- tuire un ruolo meno marginale alle donne. Nel campo dei musei etnografici, la normativa vigente ne assegna la competenza alle Regioni ma sono troppe le interconnessioni con gli am- biti territoriali cui ciascun museo si rapporta e con le rispettive identità locali perché la materia rimanga in mani accentratrici, lontane da una sfera culturale tanto legata alla memoria del vicino. A maggiore ragione nel caso di regioni, fra le quali proprio la Lombardia, che non possono certamente menar vanto della loro identità, troppo incerta e fragile a confronto delle rispettive province, come accade nel caso di Bergamo. Ne discende l’opportunità di decentrare le competenze, trasferendole appunto agli stessi territori provinciali che paiono i più adatti a occu- parsi delle culture popolari germogliate in ciascuno di essi. Se occorre sventare quel rischio di fissità in cui possono incorrere i piccoli musei di paese non vivificati da gestioni efficienti ed efficaci sul piano operativo, forse solo un rapporto di vicinanza al territorio e di comunanza con la sua cultura può riuscire nell’intento. Alla luce della recente legge che ha disciplinato il nuovo assetto istituzionale dell’Ente provincia, ridisegnan- done il volto, l’ipotesi di un decentramento potrebbe suscitare qualche perplessità, eppure sembra proprio che solo un territorio accomunato da vincoli linguistici e storici riesca a riflettere con migliore cognizione di causa sulla propria cultura popolare. 142 Gianluigi Dalla Valentina

Forse nessuno meglio della Provincia, delle Comunità montane più fortemente radicate o delle nuove articolazioni territoriali, come quella prevista dal recente statuto della Provincia di Bergamo, è in grado di predisporre una rete di strutture e di servizi culturali che abbia la sua ragione d’essere nella conoscenza della storia del mondo popolare; rete da tessere integrando realtà che appartengano a una scala territoriale significativa come, appunto, quella provinciale, la sola capace di resti- tuire il senso della civilisation bergamasca, senza perdersi nelle angustie di luogo. Poiché l’obiettivo consiste nel raccogliere documentazione di qualsiasi natura sul mondo popolare, diventa prioritario il raccordo delle variegate forme in cui si concretano le molteplici iniziative, partendo dall’integrazione delle realtà museali da inserire all’interno di una ma- glia ancora più ampia composta da siti rilevanti, edifici dismessi ancora da valorizzare (archeologia industriale, rogge e infrastrutture connesse), ma anche da sistemi archivistici e bibliotecari sull’esempio di esperien- ze già avviate positivamente proprio in Lombardia, dalla Val Trompia all’Oltrepò pavese53. A confermare quanto variegato sia il campo in cui muoversi è la recente apertura, da parte del Centro Studi Valle Imagna, di Ca’ Berizzi54 con l’annessa ‘Casa dei semi’, in via di realizzazione, che consentirà di «recuperare, catalogare e studiare le varietà autoctone con particolare attenzione alla biodiversità; raccogliere informazioni, docu- menti e testimonianze dell’agricoltura del passato»; ancora un’altra ini- ziativa, volta alla «ricostruzione identitaria del territorio» 55, il cui valore viene esaltato dall’essere l’anello di una lunga catena. Un sistema documentario per la storia del mondo popolare consen- tirebbero di colmare quella sorta di vuoto, avvertito nel quadro museale odierno e imputabile a una non sempre adeguata specializzazione delle singole esposizioni, attraverso la razionalizzazione delle rispettive rac- colte da perseguire soprattutto allorquando localizzate in comuni confi- nanti fra loro o a breve distanza uno dall’altro e pur tuttavia impegnate a offrire, ciascuna, la propria proposta culturale troppo simile una all’altra. Per conseguire una visione di insieme appare indispensabile quanto-

53 Cfr. Conferenza regionale degli archivi, delle biblioteche e dei musei, a cura di Alberto Garlandini - Salvatore Sutera, Milano, Regione Lombardia, 2007, pp.68-78. 54 È un complesso di antichi edifici rurali in pietra, nel Comune di Corna Imagna, affidati al Centro Studi che ne ha curato il restauro, trasformandolo in un centro culturale e di accoglienza, con biblioteca, ristorante e alloggio, ubicati nei medesimi spazi, senza separazione fra le diverse funzioni. 55 «L’Eco di Bergamo», 4 gennaio 2017. I musei etnografici 143 meno un coordinamento dei ventidue musei, pena il loro lento spegni- mento, come è stato fatto con i sistemi museali delle valli Camonica e Trompia o con la stessa Rete dei musei e dei beni etnografici lombardi della quale fanno parte quelli di Schilpario e di Ardesio. Fuori dei confini regionali, un’esperienza alla quale attingere consiglio è quella di Ferrara, dove l’istituzione di un Centro etnografico provinciale, creato all’inizio degli anni ottanta del Novecento dall’Amministrazione comunale, ha consentito di offrire consulenza scientifica alle piccole realtà municipali. Da ultimo va sottolineato come i piccoli musei etnografici svolgano un ruolo essenziale sul versante didattico, che richiede competenze spe- cifiche e un continuo affinamento dei relativi strumenti per rispondere meglio a questa loro vocazione primaria. Un obiettivo perseguibile at- traverso l’indispensabile «presenza di un mediatore […] necessaria per realizzare un dialogo mediato tra la conoscenza scientifica e le aspetta- tive del pubblico»56, soprattutto scolastico: visitatori da coinvolgere in una maniera attiva che vada oltre il mero ruolo dell’osservatore, passivo per quanto attento. Scolari e studenti vanno invitati ad allestire, insieme con i loro insegnanti e i responsabili dei musei, mostre tematiche con- gruenti con la programmazione didattica, magari selezionando di volta in volta, secondo le necessità del caso, oggetti esposti e altri fra quelli conservati nei magazzini, che non trovano collocazione abituale nello spazio ostensivo pubblico. Si tratta di attività di ricerca sul campo che permettono di integrare e rafforzare l’apprendimento in quanto sollecita- no le capacità induttive delle alunne e degli alunni.

56 Gualtiero Beolchi, «Schools and Museums: an education in heritage 2»: un seminario per progettare l’Europa, in “Museo e Storia”, anno IV, n. 4, 2002, p. 92.

FONTI, ARCHIVI E STRUMENTI

147

Simone Facchinetti

INEDITI BERGAMASCHI

«Il dubbio gusto dell’inedito, che ogni studioso che rispetti sé e gli altri deve reprimere (l’inedito è la merce per sé e di regola più vile, che straripa da ogni scaffale delle raccolte di mss.), cede a un interesse stori- co, al compito, che non è di oggi, ma che oggi può essere assolto forse meglio che non si potesse ieri»1. In questo passo Carlo Dionisotti attaccava l’abuso di rendere noti inediti letterari, offerti agli studi per il solo motivo di essere sconosciuti. Allo stesso tempo si autoassolveva, pubblicando l’Harleiano 3406 della British Library, da lui stesso riferito per la prima volta a Niccolò da Correggio. Ho sempre sognato un saggio fatto di sole fotografie, corredate uni- camente di didascalie, dove il lavoro si riduce all’esercizio dell’attribu- zione. Quel gesto che Roberto Longhi ha perfettamente descritto in un saggio della maturità: «Il modo con cui il critico giunge alla verità è una forma così misteriosa di intimazione spirituale, che qualora la si voles- se presentare così come avviene, senza ambage, non si sarebbe intesi, né creduti. Si è costretti, allora, a presentare come gradus ad veritatem quegli elementi che si vengono, per via di scienza, accumulando alla superficie, come controllo di una convinzione acquistata per via molto più sotterranea»2. Vorrei presentare qui alcuni materiali figurativi, riguardanti l’arte a

1 Carlo Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio [1959], in Scritti di storia della letteratura italiana, I, 1935-1962, a cura di Tania Basile, Vincenzo Fera, Susanna Villari, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 333-334. A distanza di qualche anno lo studioso sarebbe tornato a spiegare meglio il senso del discorso: «quella mia incriminata frase apparve in un articolo nel quale mi proponevo di mostrare come dalla sommaria descrizione a stampa di un ms. anonimo e non datato si potesse giungere a una probabile se anche approssimativa definizione cronologica del testo contenuto in quel ms., e di qui, esaminato il ms. e il testo, come si potesse probabilmente identificare l’autore, Niccolò da Correggio»: Carlo Dionisotti, Appunti su antichi testi [1964], in Boiardo e altri studi cavallereschi, a cura di Giuseppe Anceschi, Antonia Tissoni Benvenuti, Novara, interlinea edizioni, 2003, p. 96. 2 Roberto Longhi, Fra Bartolommeo [1926], in Saggi e Ricerche 1925-1928, Firenze, Casa Editrice G. C. Sansoni, 1967, pp. 279-280. 148 Simone Facchinetti

Bergamo dal XV al XVIII secolo, iniziando da Giacomo Busca detto il Borlone, l’autore della Danza macabra e del Trionfo della morte a Clu- sone. Credo sia da restituire a lui la Madonna con il Bambino in trono (fig. 1) affrescata intorno al 1487 nella Chiesa di San Defendente3. È una testimonianza particolarmente interessante per il suo stato di conserva- zione, perché ci aiuta a immaginare la precisione grafica che doveva connotare anche la prova maggiore del suo autore, dipinta solo due anni prima sulla parete esterna dell’Oratorio di San Bernardino. Rischiano al contrario di depistare i due Santi diaconi di Bernardo Zenale (figg. 2-3), tanto sono compromessi nella superficie pittorica, in specie nell’area delle teste dove un restauratore ottocentesco si è partico- larmente accanito. Fino a qualche anno fa erano in deposito (con l’attri- buzione a Carlo Crivelli) al Santa Barbara Museum of Art, prima di essere venduti come anonimi lombardi da Bonhams a Londra4. Tuttavia sono dei tasselli preziosi, per la ricomposizione di un polittico smembrato del pittore di Treviglio, risalente all’inizio del secondo decennio del Cinque- cento. Finora potevamo disporre solo di due pezzi dell’ordine superiore (entrambi tagliati) e di un pannello di quello inferiore5. Ora grazie ai Santi diaconi abbiamo – approssimativamente, perché anche loro sem- brano rifilati in alto – la misura originaria delle tavole del secondo ordine del complesso e possiamo ipotizzare che il polittico fosse composto da dieci elementi, divisi sui due registri. Più difficile rintracciare il ‘casamento’ da cui sono state estratte le due tavole di Antonio e Bernardino Marinoni (figg. 4-5), molto probabil- mente risalenti a una fase avanzata del loro percorso artistico (tra terzo e quarto decennio del Cinquecento), in larga parte circoscritto entro i con-

3 La data presunta si ricava da una doppia raffigurazione di San Rocco, datata 1487, ugualmente affrescata dal Busca sulla parete meridionale del presbiterio. Vedilo illustrato in Patrizia Iorio - Mino Scandella, La chiesa dei Santi Defendente e Rocco a Clusone. Dove l’arte diventa preghiera, Clusone, Circolo Culturale Baradello, 2016, pp. 67, 97. Sul pittore di Clusone: Simone Facchinetti, Ragioni di stile: per un catalogo di Giacomo Busca detto il Borlone, in Chiara Frugoni - Simone Facchinetti, Senza misericordia. Il Trionfo della Morte e la Danza macabra a Clusone, Torino, Giulio Einaudi editore, 2016, pp. 173-208. 4 Old Master Paintings, Bonhams, London, 2 maggio 2012, lotto 210W. 5 Sono il San Pietro del Birmingham Museum of Art, il San Michele Arcangelo già sul mercato antiquario milanese (forse il mutilo San Sebastiano della Banca di Credito Cooperativo di Treviglio) e il San Sebastiano già a Milano, collezione Venino reso noto e integrato con il resto da Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa, Marco Tanzi, Dopo Rancate, intorno a Varese, in Francesco De Tatti e altre storie, a cura di Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa, Marco Tanzi, Officina libraria, Milano 2011, p. 21. Inediti bergamaschi 149 fini della Valle Seriana. I parenti più stretti sono il San Giovanni Battista del Musée des Beaux-Arts di Lille e il San Lorenzo della Staatsgalerie di Stoccarda, entrambi posizionati su una pedana di marmo e ugualmente ritagliati su un arcaico fondo oro6. È di poco più antica questa finissima tela di Andrea Previtali, evi- dentemente destinata alla devozione privata (fig. 6). Non stupisce l’uso dell’oro nella costruzione illusionistica del nimbo della Madonna. Basta- no le luci baluginanti e l’inserimento di sghimbescio del San Giuseppe per dirci che siamo nel momento di massima sensibilità, da parte di Pre- vitali, all’influenza di Lorenzo Lotto, cioè all’inizio degli anni venti del Cinquecento. Epoca a cui credo risalga anche questo notevole foglio (fig. 7), conservato alla Pierpont Morgan Library di New York7. Giovan Paolo Lolmo può oramai contare su uno studio ricco di ag- giornamenti, in particolare nel genere del ritratto8. Due piccole aggiun- te al catalogo vengono da un recente passaggio d’asta (sotto le mentite spoglie del pittore fiorentino Alessandro Allori) e da un’antica ascrizione a Moroni (figg. 8-9). Il Ritratto di Pietro Suardo è infatti segnalato, fin dal 1775, con questa attribuzione9. Il Ritratto di Pietro Corsino (fig. 10) è forse l’apice ritrattistico di Gio-

6 Anche le misure delle due tavole menzionate nel testo sono compatibili (127,5 x 47,5 cm la prima e 127 x 46,5 cm la seconda). Se le quattro opere avessero fatto parte del medesimo complesso allora dovremmo considerare l’ipotesi che la venatura a finto marmo del basamento e la ricca punzonatura del fondo dorato siano il risultato di un ammodernamento ottocentesco delle nostre tavole, illustrate come «Lombard School, circa 1510-1520» in Old Master Paintings, Dorotheum, Wien, 18 ottobre 2016, lotto 203. Curioso come nello stesso catalogo sia riprodotta una terza opera dei Marinoni (lotto 205), classificata come «Spanish School, 15th Century». Per i dipinti di Lille e Stoccarda vedi Chiara Paratico, La bottega Marinoni XV-XVI secolo, Bergamo, Bolis, 2008, pp. 184-189, nn. 29-30. 7 Ora attribuito a Benedetto Carpaccio ma in passato anche a Bartolomeo Suardi detto il Bramantino: http://www.themorgan.org/drawings/item/141109. 8 Marco Tanzi, Gli sposi bergamaschi, Cremona, 2016. 9 Old Master Paintings, Dorotheum, Wien, 21 ottobre 2014, lotto 16 e Andrea Pasta, Le pitture notabili di Bergamo che sono esposte alla vista del pubblico, Bergamo, Francesco Locatelli, 1775, p. 18, nota 1: «Tre fra gli altri si reputano i migliori [ritratti di Moroni] [...]; e in Casa Suardi a S. Agata il Ritratto di un fanciullo di tre anni, per nome Pietro Suardi, e figliuolo del Co. e Cav. Lodovico, dipinto ritto in piedi con un Cagnuolino nel piano; pittura per ogni verso mirabile, ma segnatamente per le mani (più malagevoli da eseguire di qualsiasi altra parte) l’una delle quali è appoggiata alla cintola, l’altra staccata e libera, che per la dolcezza dell’atteggiamento è, si può dire, insuperabile». La fotografia che pubblico è classificata, alla voce Moroni, nella Fototeca Berenson, Villa I Tatti, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, inv. 122907. Da qui si viene a sapere che il quadro è stato venduto da Christie’s, Roma, l’11 giugno 1973, proveniente dalla collezione del conte Roncalli di Bergamo. 150 Simone Facchinetti van Paolo Cavagna, dipinto molti anni dopo la scomparsa del giovane cavaliere gerosolimitano, ucciso a Milano nel 1584 all’età di 29 anni. Più difficile stabilire l’identità dell’elegante rampollo che ha posato per Enea Salmeggia (fig. 11), in una data non troppo lontana dal 162010. Così come Cavagna si è sentito in dovere di realizzare un’opera alla maniera di Paolo Veronese, Domenico Carpinoni ha assecondato il gu- sto imperante per la serialità bassanesca, confezionando una magistrale ‘falsificazione’11. È l’anatomia di un’emozione quella impressa sulla tela da Carlo Ceresa con il Ritratto di giovane nobildonna (fig. 15). Certo ci sono tutti i dettagli della moda del tempo (1660-1670 circa), l’abito rosso, i nastri colorati, il filo di perle al collo, ma come si fa a ritrarre lo stato d’animo della paura, o meglio, della timidezza? Eccolo raffigurato sul volto della giovane, quasi l’esatto opposto di quello che si può solo intuire dietro lo sguardo deter- minato e arrogante della sua compagna più anziana (fig. 14). Il Ritratto di Bartolomeo Manganoni del Musée d’Art et d’Histoire di Narbonne (fig. 16) è stato a lungo creduto di Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario12. Se così fosse anche quello del Notaio Giuseppe Ambiveri (fig. 17) andrebbe riversato sul suo conto. Tuttavia la questione è più complicata di come sembra in apparenza. Ormai da tempo è stato circoscritto un corpus molto omogeneo di dipinti, realizzati da uno specialista del genere, che opera in un arco cronologico compreso negli ultimi trent’anni del XVIII secolo; momento che corrisponde anche a quello della giovinezza di Fra’ Galgario, nato nel 1655, ma le cui prime opere documentate risalgono solo ai primi anni del Settecento13. Non è detto che un giorno questo nucleo di quadri non si possa sciogliere nel capitolo iniziale del grande ritrattista berga- masco. Ma al momento manca ancora un anello di congiunzione. Ciò

10 Il fratello minore del nostro personaggio, sempre dipinto da Salmeggia, è passato (con l’attribuzione al solito Alessandro Allori) presso Daguerre, Paris, 10 novembre 2017, lotto 96. 11 Dipende da un perduto prototipo bassanesco, replicato da Domenico Carpinoni nel 1620, presso il Santuario della Torre a Sovere: Valeria Messina, Domenico Carpinoni (1566-1658). Un artista rudolfino nel Seicento bergamasco, Bergamo, Moma edizioni, 2009, pp. 33-34. 12 Francesco Rossi, in Fra’ Galgario. Le seduzioni del ritratto nel ‘700 europeo, catalogo della mostra, a cura di Francesco Rossi, Milano, Skira, 2003, p. 138, n. II.6. 13 Il problema è trattato con grande equilibrio da Francesco Frangi, «L’effetto naturale e sensitivo»: realtà ed espressione nella pittura di Fra’ Galgario, in Fra’ Galgario. Le seduzioni del ritratto nel ‘700 europeo, cit., pp. 52-54; credo pertenga allo stesso gruppo il Ritratto della contessa Laura Gargani Agliardi, conservata presso la collezione Agliardi a Bergamo. Inediti bergamaschi 151 che si può dire per certo è che il nostro dipinto raffigura un aristocratico e notaio, attivo in questo ambito dal 1644 al 1699. È comunque un pic- colo passo avanti, considerando che alcuni ritratti del gruppo (compreso quello più celebre, conservato all’, inv. 58AC00377), nonostante esibiscano degli abiti identici al nostro, sono sempre stati designati come ritratti di sacerdoti. Posto che per molti aspetti non c’è differenza tra notai e sacerdoti, qui abbiamo un esemplare sicuro della prima categoria. Questa rapida rassegna si chiude con il bozzetto della pala di Gian Bettino Cignaroli conservata nella Cattedrale di Bergamo (fig. 19). È pas- sato tempo fa in un’asta spagnola come «Escuela probablemente vene- ciana del siglo XVIII» (fig. 18)14. Posso solo immaginare cosa sarebbe accaduto se l’amico Arrigo Arri- goni fosse stato ancora tra noi, di certo il bozzetto ora non risulterebbe disperso sul mercato, solo per una manciata di monete.

14 Pintura y escultura, hasta 1800, Balclis, Barcelona, 26 maggio 2016, lotto 1654.

1 - Giacomo Busca detto il Borlone, Madonna con il Bambino in trono, dipinto murale, Clusone, San Defendente. 2 - Bernardo Zenale, San Leonardo, tavola (117 x 33,2 cm), già Londra, Bonhams. 3 - Bernardo Zenale, San Vincenzo, tavola (117 x 33,2 cm), già Londra, Bonhams. 4 - Antonio e Bernardino Marinoni, Santo vescovo, tavola (134,8 x 45,3cm), Bergamo, collezione privata. 5 - Antonio e Bernardino Marinoni, San Nicola da Bari, tavola (134,8 x 45,3 cm), Bergamo, collezione privata. 6 - Andrea Previtali, Sacra famiglia, tela (40 x 37,5 cm), Bergamo, collezione privata. 7 - Andrea Previtali, Madonna con il Bambino in trono tra un Santo guerriero (Alessandro?) e Giovanni Battista, penna e inchiostro marrone e nero su carta (235 x 200 mm), New York, Pierpont Morgan Library. 8 - Giovan Paolo Lolmo, Ritratto di Pietro Suardo, tela, ubicazione sconosciuta 9 - Giovan Paolo Lolmo, Ritratto di bambina, tela (45 x 38 cm), già Vienna, Dorotheum 10 - Giovan Paolo Cavagna, Ritratto di Francesco Corsino, tela (220 x 130 cm), Bergamo, collezione privata. 11 - Enea Salmeggia detto il Talpino, Ritratto di giovane in armatura, tela (186 x 107 cm), Bergamo, collezione privata. 12 - Domenico Carpinoni, Adorazione dei pastori, tela (138,5 x 184 cm), Bergamo, collezione privata. 13 - Giacomo Cotta, Riposo durante la fuga in Egitto, tela (44 x 44 cm), Milano, collezione privata. 14 - Carlo Ceresa, Ritratto di nobildonna, tela (65 x 49 cm), Bergamo, collezione privata. 15 - Carlo Ceresa, Ritratto di giovane nobildonna, tela (74 x 60 cm), Bergamo, collezione privata. 16 - Pittore bergamasco attivo tra il 1670 e il 1700, Ritratto di Bartolomeo Manganoni, tela (118 x 94 cm), Narbonne, Musée d’Art et d’Histoire. 17 - Pittore bergamasco attivo tra il 1670 e il 1700, Ritratto del notaio Giuseppe Ambiveri, tela (117 x 93 cm), Bergamo, collezione privata. 18 - Gian Bettino Cignaroli, Martirio di San Proiettizio, tela (81 x 41,5 cm), già Barcellona, Balclis. 19 - Gian Bettino Cignaroli, Martirio di San Proiettizio, tela (497 x 240 cm), Bergamo, Sant’Alessandro in Cattedrale.

173

Giacomo Quarenghi

IL TEATRO DELL’ERMITAGE

Nel 2017 abbiamo celebrato il Secondo Centenario della morte dell’architetto bergamasco Giacomo Quarenghi, avvenuta a San Pietroburgo il 2 marzo 1817. Nato a Rota d’Imagna il 21 settembre 1744, dopo un lungo soggiorno a Roma è nominato nel 1779 da Caterina II architetto di corte. Dal 1780 sino alla morte ha realizzato nell’allora capitale russa di San Pietroburgo splendide architetture, espressione di geniale creatività e di notevole abilità tecnico-costruttiva. La fama universale di cui gode rimarrà per sempre legata alla bellissima città sulla Neva, che Quarenghi ha rinnovato tra Sette e Ottocento secondo lo stile e il gusto italiano e neoclassico. Per la vita e la personalità dell’artista, con indicazione della più aggiornata bibliografia, si veda la voce “Quarenghi Giacomo” nel Dizionario Biografico degli Italiani, curata nel 2016 da Piervaleriano Angelini e Tommaso Manfredi, consultabile anche in rete al sito www.treccani.it Le celebrazioni quarenghiane, promosse da un Comitato internazionale con a capo il Comune di Bergamo, ma cui anima ispiratrice e animatrice è stato Piervaleriano Angelini, presidente di Osservatorio Quarenghi, hanno visto un susseguirsi ininterrotto per tutto il 2017 e in vari Paesi europei di mostre, cerimonie, convegni, conferenze, pubblicazioni, concerti. A Bergamo, per impulso dell’Assessorato alla Cultura del Comune, si è costituita una Rete bergamasca di enti, istituti, associazioni di interesse culturale, tra i quali il nostro Centro studi Archivio Bergamasco, con lo scopo di impegnare ciascun aderente, a seconda della sua missione e delle sue possibilità, nella elaborazione di una propria iniziativa che avesse carattere divulgativo e didattico. Sugli eventi culturali realizzati sia dal Comitato internazionale sia dalla Rete bergamasca ci informa esaurientemenete con dovizia di testi e di immagini il sito www.osservatorioquarenghi.org Come soggetto aderente alla Rete bergamasca, Archivio Bergamasco reca dunque il suo contributo alle celebrazioni quarenghiane pubblican- do la traduzione italiana, curata da Clelia Rota, del testo in francese che 174 Giacomo Quarenghi l’architetto pubblicò nel 1787 sul Teatro dell’Ermitage, una delle opere sue più famose e ammirate. Il testo è da sempre noto agli studi speciali- stici. La traduzione vuole favorirne una più larga fruizione, in particolare tra i giovani studiosi, che più non usano della bella lingua francese. Con decreto del 23 settembre 1783, Caterina II aveva disposto la co- struzione «presso l’Ermitage di un teatro in pietra […] secondo i progetti e sotto la direzione dell’architetto Quarenghi». Il Teatro, destinato al solo uso dell’imperatrice e della sua corte, fu edificato, contiguo alla residen- za imperiale del Palazzo d’Inverno, lungo la Neva, su cui prospetta la nobile facciata. L’architetto scrive di aver ideato un teatro «sul modello degli antichi per uso degli spettacoli moderni». Ma le fonti d’ispirazione nella realizzazione di questo gioiello neoclassico, oltre alla conoscen- za e al gusto dell’antico, sono le testimonianze ben note a Quarenghi della cultura architettonica di impronta palladiana cinque-seicentesca. L’architetto bergamasco ha costruito un’opera i cui principali caratteri sono nobiltà, armonia, convenienza, semplicità, comodità, funzionali- tà, caratteri tutti inebriati di vivo senso della tradizione classica greca e romana e della cultura moderna, i cui massimi autori Quarenghi non solo raffigura in facciata e dentro il Teatro, ma tiene nella sua biblioteca e legge con piacere. A lavori conclusi, che si protrassero sino al 1787, l’artista illustrò ac- curatamente il Teatro appena realizzato in un album a stampa, fornen- done i disegni progettuali e precisandone i più diretti riferimenti formali: Giacomo Quarenghi, Théatre de l’Ermitage de sa Majesté l’Imperatri- ce de toutes les Russies, St. Petersbourg, Imprimerie de l’Academie des Sciences, 1787. Due copie della pubblicazione sono conservate nella Biblioteca Civica Angelo Mai, da una delle quali sono prese le sette ta- vole qui riprodotte per gentile autorizzazione della Direzione della Bi- blioteca. Per l’analisi storico-critica si veda il saggio di Irene Giustina, Giacomo Quarenghi. Teatro dell’Ermitage a San Pietroburgo, in Dal mito al progetto. La cultura architettonica dei maestri italiani e ticinesi nella Russia neoclassica, a cura di Nicola Navone e Letizia Tedeschi, 2 tomi, Mendrisio, Accademia di Architettura, 2003, pp. 871-877, consultabile in rete al sito www.iris.unibs.it Il testo di Quarenghi ha la forma di lettera indirizzata all’imperatrice Caterina II. La lingua francese era all’epoca, in ambito culturale, la più usata alla corte imperiale russa. La traduzione mantiene il maiuscolo, maiuscoletto, iniziali maiusco- le, corsivi, capoversi e termini latini del testo originale. Il Teatro dell’Ermitage 175

A SUA MAESTÀ L’IMPERATRICE

MADAME

La bontà con la quale VOSTRA MAESTÀ IMPERIALE ha degnato ono- rarmi sino al presente, così come le mie opere, mi fa sperare che Ella vorrà ugualmente gradire l’Opuscolo che ho l’onore di presentarLE. MADAME, io sono, con il più profondo rispetto, di VOSTRA MAESTÀ, l’umilissimo e obbedientissimo Servitore GIACOMO QUARENGHI

Il Teatro dell’Ermitage, di cui ho curato il progetto e che ho avuto l’onore di eseguire per ordine di Sua Maestà Imperiale di tutte le Russie, è forse il primo, dalla rinascita delle belle arti, che sia stato realizzato sul modello degli antichi per uso degli spettacoli moderni1. Ho creduto, prima di entrare nel dettaglio di codesto Teatro, di do- verlo far precedere da un breve e succinto saggio sui Teatri degli antichi, per facilitarne l’intelligenza a coloro che non hanno la pazienza né di sfogliare né di consultare le opere troppo voluminose degli autori che ne hanno parlato e che sono per lo più colme di termini oggi quasi del tutto dimenticati e suscettibili più a stancare che a piacere; tanto più che essi si sono infruttuosamente copiati l’un l’altro, e ce ne sono pochi che hanno raggiunto il vero scopo. Mi riservo di parlarne più ampiamente in futuro, avendo già raccolto a tale scopo una grande quantità di materiali che le mie occupazioni non mi hanno permesso di mettere in ordine. All’inizio tutti i Teatri erano costruiti in legno. Si edificavano in occa- sione di qualche grande evento per il divertimento del popolo e sovente

1 Il famoso Teatro Olimpico [di Vicenza, NdT] deve piuttosto essere annoverato tra gli antichi che tra i moderni, poiché è stato costruito soltanto per rappresentarvi delle tragedie tradotte o tratte dal greco o di questo genere. Ed è per questo che l’immortale Palladio non l’ha reso suscettibile di alcun cambiamento di decorazioni e, in generale, lo ha fornito di tutto ciò che contenevano i teatri antichi e si è discostato soltanto quando è stato obbligato dall’irregolarità del terreno. Nella prima tavola si potrà vedere uno schizzo di questo Teatro Olimpico. 176 Giacomo Quarenghi per ingraziarselo. I Greci hanno forse iniziato prima di tutti gli altri a costruire i loro Te- atri in pietra e si crede (benché senza prove sufficienti) che Pericle fosse il primo a far erigere in pietra il Teatro di Bacco ad Atene. Il grande Pompeo osò per primo erigere a Roma un Teatro di pietra e, per prevenire il rigore delle leggi che vietavano una tale costruzione e per riguardo dei Pontefici, vi aggiunse un piccolo tempio che dedicò a Venere. La vasta estensione di questi Teatri, che dovevano contenere parecchie migliaia di persone, non permise di coprirli con un tetto e gli spettatori venivano riparati dal sole per mezzo di tende o vele. E per ripararli dalla pioggia improvvisa, c’erano Portici e lunghi Corridoi sotto l’Anfiteatro; i Teatri meno ampi sono stati talvolta coperti con un tetto. Le parti principali che componevano i Teatri dei Greci e dei Romani erano la Scena con il suo Postscenium, il Prescenium o Pulpitum, l’Or- chestra e l’Anfiteatro. La Scena era rettangolare e presentava all’occhio degli spettatori la più elegante e più superba architettura. In fronte aveva tre porte, dalle quali passavano gli attori, che avevano entrate diverse secondo i ruoli che recitavano. Oltre a ciò v’erano due entrate sui lati, destinate alle comparse e agli estranei. La Scena non rappresentava il luogo dove si supponeva avvenisse l’azione, poiché agli antichi era sconosciuta la fa- cilità con cui i moderni mutano la scenografia ogni volta che cambia il luogo e l’azione. Essi sopperivano in parte a questo difetto facendo apparire qualche segno che indicasse il luogo dell’azione supposta nella rappresentazio- ne. Gli antichi distinguevano tre generi di spettacolo: il tragico, il comico e il pastorale, mediante una macchina triangolare girevole, dove ogni lato riproduceva una decorazione analoga al soggetto rappresentato. Avevano ancora alcune altre macchine particolari sopra e sotto que- ste porte, che servivano per fare apparire sulla Scena ombre e furie o per far scendere dal cielo le divinità e trattenerle sospese, secondo la neces- sità della rappresentazione. Il Postscenium si trovava dietro la Scena. Era composto da più sale e corridoi, serviva all’uso degli attori e a tutto ciò che era necessario al Teatro, così come per il riparo dalla pioggia. Ed è per questa ragione che era sempre coperto da un tetto. Il Pulpitum era il luogo dei Teatri Romani, dove tutti gli attori rappre- sentavano le loro opere teatrali. Nei Teatri Greci i ballerini e i mimi dan- Il Teatro dell’Ermitage 177 zavano e recitavano nell’Orchestra; ed è per questo che il Pulpitum dei Teatri Romani è sempre stato più grande di quello dei Greci e l’Orchestra di questi ultimi più vasta di quella degli altri. Questa Orchestra era uno spazio vuoto al centro del Teatro; presso i Romani era il posto dei senatori, delle vestali e delle altre persone di rango. Infine l’Anfiteatro, destinato a tutti gli spettatori, aveva la forma di un semicerchio. Si elevava impercettibilmente attraverso una continuità di gradini che terminavano in un corridoio o in un colonnato coperto. Ciò che si nota di più ammirevole è la disposizione delle entrate e delle uscite, disposte in modo che, nel più grande Teatro, tutti potessero en- trare e uscire quasi contemporaneamente, in poco tempo, senza alcun ostacolo. Passerò sotto silenzio il gusto di questi Popoli e le spese immense che hanno sacrificato per le rappresentazioni Teatrali: la storia di quei tempi ne parla a sufficienza. Per l’intelligenza di tutto ciò che ho detto qui sopra, ho creduto dover far precedere una Pianta di un Teatro antico a quella dell’Ermitage, che si potrà vedere nella Seconda Tavola.

Avendo dunque esposto in poche parole ciò che appartiene al Teatro degli antichi, sarebbe qui il luogo per dare una descrizione ben detta- gliata del Teatro dell’Ermitage. Ma, in ragione della brevità che mi sono proposta, e siccome le Piante sono abbastanza chiare, lascio agli inten- ditori esaminare, comparare e vedere essi stessi in che modo mi son pre- murato di dargli la forma di un Teatro antico e di combinare parecchi dei loro usi con i nostri. Mi accontento soltanto di far notare alcuni oggetti che si possono rilevare solo confusamente sulle Piante. Questo Teatro è stato costruito per l’uso particolare di Sua Maestà Im- periale e della sua Corte. È abbastanza grande per poter dare gli spettacoli più magnifici e i suoi ambienti annessi non sono da meno di nessuno dei Teatri più celebri. Non c’è nessun posto distinto in questo Teatro, ogni etichetta è bandi- ta e ognuno può sedersi dove vuole. Per l’Anfiteatro mi sono servito della forma a semicerchio, per due ragioni; la prima, che questa è la forma più appropriata di ogni altra a permettere a ogni spettatore di godere della rappresentazione; e la se- conda che, quando tutti han preso posto, l’uno fa spettacolo all’altro: ciò che produce un colpo d’occhio piacevolissimo con tutta la sala piena. 178 Giacomo Quarenghi

Ho cercato di dare all’architettura del Teatro un carattere di nobiltà e di semplicità e non ho impiegato che gli ornamenti più analoghi e più convenienti al soggetto. Le colonne e i muri sono rivestiti di finto marmo. Al posto dei motivi decorativi floreali, nei capitelli corinzi ho messo delle maschere sceniche, seguendo i modelli di diversi capitelli antichi che ho notati a Roma, e principalmente di quelli che ho tratti dagli scavi nelle rovine del Teatro di Pompeo. Ho posto nelle dieci nicchie della Sala e del Proscenium le statue d’Apollo e delle nove Muse, e ho fatto mettere nei riquadri sopra le nic- chie i busti e i medaglioni dei grandi uomini moderni che si sono distinti in campo teatrale, ossia i due più famosi Compositori Jomelli [Niccolò Jommelli] e Buranello [Baldassare Galuppi] e, tra i Poeti, Metastasio, Mo- lière, Racine, Voltaire, Saumorokow [Aleksandr Petrovič Sumarokov] ecc. Ho fatto realizzare sopra il Proscenio e sotto l’Orchestra delle volte a botte con legno d’abete, affinché la voce risalti più chiara. La facciata sulla Neva è decorata con statue dei più celebri Poeti Greci.

I benefici cheS ua Maestà Imperiale ha degnato elargirmi, ma ancor più la soddisfazione di cui si è compiaciuta onorare quest’opera, e la testimonianza che Ella ha voluto darmi mi inorgogliscono, poiché ho avuto l’onore di riuscire nel compito che mi ero prefissato: di rendere il Teatro piacevole, comodo, conveniente all’occhio e all’orecchio degli spettatori, e di realizzare un’opera capace di avvicinare la Scena antica a quella moderna.

Tavola I: Teatro Olimpico di Vicenza Tavola II: Pianta di un teatro antico Tavola III: Pianta dell’Ermitage dove si trova il Teatro Tavola IV: Pianta del Teatro Tavola V: Facciata del Teatro Tavola VI: Facciata della Scena Tavola VII: Sezione del Teatro 187

Erika Francia

LA VITA DELLA COMUNITÀ DI STEZZANO NELLE CARTE DELL’ARCHIVIO PARROCCHIALE

Quando si parla di memoria storica collettiva e del ruolo giocato dagli archivi quali depositari della stessa, si ha spesso la percezione di come questi non vengano sentiti come un valore aggiunto, quanto piuttosto come un ‘peso necessario’ di cui si farebbe volentieri a meno. Gli archivi parrocchiali sono un luogo in cui la grande storia si fonde con la quotidianità della vita, dove chiunque può trovare tracce del proprio passato, e quindi una fonte in grado di rendere viva e vitale la storia.

Stezzano è un comune dell’alta pianura bergamasca posto a cinque chilometri a sud di Bergamo. Affonda le sue origini in epoca romana, ma la storia e l’aspetto del paese sono stati fortemente caratterizzati e plasmati dall’economia rurale del territorio, almeno fino alla metà del secolo scorso1. Presso Stezzano è attestata la presenza di una basilica, ovvero una chiesa non battesimale, intitolata a San Pietro già dalla fine dell’XI secolo, citata nella documentazione appartenente al capitolo della cattedrale di Bergamo2. Tale chiesa, collocata all’interno del centro fortificato (nucleo del paese in epoca medievale), appare in seguito citata nelle visite pastorali dei vescovi di Bergamo come intitolata ai Santi Pietro e Giovanni Battista. La denominazione persiste fino al 1740, quando viene sostituita (come risulta nel verbale della visita del vescovo Antonio

1 I confini della parrocchia hanno coinciso con quelli del comune che oggigiorno conta più di 13.000 abitanti. Il trend demografico lungo i secoli è stato il seguente: 799 abitanti nel 1596, 1.300 nel 1776, 1.438 nel 1805, 2135 nel 1853, 2.366 nel 1861, 2.458 nel 1871, 2.522 nel 1881, 2.923 nel 1901, 3.317 nel 1911, 3. 671 nel 1921, 4.311 nel 1931, 4.447 nel 1936, 5.474 nel 1951, 5.932 nel 1961, 6.612 nel 1971, 7.556 nel 1981 e 8.253 nel 1991; cfr. a riguardo Paolo Oscar – Oreste Belotti, Atlante storico del territorio bergamasco, Monumenta Bergomensia LXX, Bergamo, Provincia di Bergamo, 2000, p. 286 (ad vocem). Per la storia di Stezzano si rimanda al volume Stezzano. Il suo tempo il suo ambiente, a cura di Daniele Vitali, Bergamo, Lubrina Editore, 2009, con i saggi di Barbara Oggionni e di Luca Mangili. 2 Da http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/1500299/ 188 Erika Francia

Redetti) dall’intitolazione al solo San Giovanni Battista. Come nella maggior parte delle comunità lombarde, la parrocchia è stata una presenza costante e determinante nella vita sociale, culturale e religiosa del paese. L’archivio della parrocchia rispecchia fedelmente tale ruolo dell’ente produttore nel territorio3.

Il riordino dell’archivio

Il lavoro di riordino e inventariazione dell’archivio parrocchiale ha preso il via nel maggio del 2014 per volontà del parroco don Mauro Arizzi. L’archivio contiene documentazione che copre un arco cronologico dal 1579 a oggi. In totale è composto da 2063 unità (fascicoli e registri) che costituiscono circa 42 metri lineari di documentazione. Da un primo sopralluogo è emersa una situazione complessa, caratterizzata dalla presenza non soltanto di più enti produttori (Fabbriceria parrocchiale; Santuario della Madonna dei Campi; Cappellania Beretta; Cappellania Morlani; Cappellania Valsecchi; quattordici congregazioni e confraternite laicali), ma anche di diversi luoghi di conservazione sul territorio. Fino al 2014 la documentazione era conservata prevalentemente presso la casa parrocchiale, attigua alla chiesa di San Giovanni Battista, in tre luoghi: ufficio segreteria; ufficio contabilità; sottotetto (compreso un arco di comunicazione tra la casa parrocchiale e la chiesa). I registri anagrafici e i registri delle messe celebrate (o effemeridi), dato l’uso frequente, erano conservati presso l’ufficio di segreteria e i danni su di essi rilevati sono dovuti all’usura di un’eccessiva consultazione. I registri contabili invece, soprattutto quelli afferenti alla fabbriceria, sono stati conservati nel sottotetto e presentano quindi frequenti danni causati dall’umidità e dalla proliferazione di muffe e insetti. Nei locali del cappellano del santuario della Madonna dei Campi erano invece conservati i registri delle messe celebrate dal 1994 al 2013. Tali registri

3 Sulle istituzioni ecclesiastiche di Bergamo si veda il saggio di Antonio Pesenti, Istituzioni ecclesiastiche e territorio bergamasco: diocesi, pievi, parrocchie, in Chiesa, istituzioni e territorio, Atti del corso, Bergamo ottobre-dicembre 1988 a cura di Lelio Pagani- Vincenzo Marchetti, Bergamo, Provincia di Bergamo, Contributi allo studio del territorio bergamasco X, Stamperia Editrice Commerciale, 1991, pp. 29-42. Sull’importanza degli archivi parrocchiali ai fini della ricerca storica si rimanda al saggio di Antonella Bongarzone, Gli archivi parrocchiali: risorse per la ricerca storica, in «Archivi», a. VIII, n. 2, luglio-dicembre 2013, pp. 181- 189. Archivio parrocchiale di Stezzano 189 sono stati riportati presso l’archivio parrocchiale e riuniti alla rispettiva serie. Bisogna infine segnalare come parte della documentazione (prevalentemente costituita da fascicoli giudiziari e contabilità della fabbriceria, e stimabile in circa venti faldoni), fosse conservata presso la sede del gruppo ‘Stezzano la Storia’, formato da appassionati di storia locale. Nel 2014, grazie a un accordo intercorso tra il parroco don Mauro Arizzi e il presidente del gruppo Antonio Lamera, la documentazione è stata riconsegnata alla parrocchia e ricondotta dove possibile alle serie d’origine4. Il gruppo (cui peraltro si devono numerose pubblicazione e iniziative per la riscoperta e valorizzazione del patrimonio storico del paese) ha gestito tale documentazione per circa trent’anni, il che ha comportato qualche modifica al vincolo archivistico e all’aspetto originario dei fascicoli. Questi sono stati infatti smembrati e ogni documento è stato regestato, classificato (generalmente per ‘materia’), ordinato cronologicamente e collocato in appositi raccoglitori. In fase di inventariazione si è reso quindi necessario un lavoro di ricostruzione dei fascicoli originari e un conseguente prolungamento dei tempi e dei costi di lavorazione. Prima di procedere all’inventariazione delle unità archivistiche è stata accertata la totale mancanza di precedenti inventari, elenchi di consistenza, o eventuali interventi di riordino. Da un esame del dorso dei faldoni e della documentazione è emerso come la produzione documentaria si sia stratificata nell’archivio senza alcun ordine particolare (fatte salve le serie dei registri anagrafici, dei registri delle messe e degli atti di matrimonio o processicoli, conservate in ordine cronologico). Non sono emerse tracce dell’uso di una classificazione, né tantomeno dell’adozione di un titolario. L’unica eccezione è rappresentata dalla documentazione della fabbriceria parrocchiale, sulle cui carte sono visibili segni parziali e discontinui di una classificazione. In base all’esame dei faldoni è possibile presumere che l’archivio abbia subìto due tentativi di riorganizzazione e ricondizionamento (probabilmente anche di scarto), ma senza particolari criteri. Il primo risale presumibilmente agli anni dal 1920 al 1950 circa, e ha interessato i fascicoli contenenti la documentazione più antica, dal Settecento alla fine dell’Ottocento. I fascicoli furono sommariamente ordinati in base al

4 Un elenco sommario del deposito è presente in Archivio parrocchiale di Stezzano (da ora in poi APS), Amministrazione patrimonio, fasc. 3. 190 Erika Francia contenuto e suddivisi nelle categorie: 1. Atti del Vescovo e della Curia; 2. Vicariato; 3. Sinodo diocesano; 4. Cappellania Beretta; 5. Capitali affrancati; 6. Lavori; 7. Restauri; 8. Oggetti diversi; 15. Atti matrimoniali. Mancano tracce delle categorie dalla 9 alla 14. La documentazione afferente agli anni dalla metà del Novecento in poi è stata invece condizionata in faldoni che riportano sul dorso un’indicazione sommaria del contenuto. Il secondo intervento deve essere stato realizzato in anni più recenti, attorno al 1970 circa. Ad esso si deve presumibilmente anche il raggruppamento di parte dei fascicoli relativi ai ‘capitali affrancati’, in faldoni con la scritta esterna «Esibiti diversi 1800-1850». Data la mancanza di un criterio di ordinamento organico e di un qualunque quadro di classificazione, in fase di riordino è stato applicato il titolario proposto da monsignor Antonio Pesenti (nel 1958) per le parrocchie della diocesi di Bergamo5, adottato e gradualmente modificato dall’Archivio Storico Diocesano di Bergamo. La struttura del titolario, articolata nella progressione titolo, classe, sottoclasse, parte, fascicolo/registro, è stata adattata alla realtà attuale dell’archivio parrocchiale di Stezzano ed è riportata in Appendice al presente saggio. La schedatura delle singole unità archivistiche e l’elaborazione dell’inventario sono state effettuate mediante apposito software denominato CeiAr 1.4.1, fornito dalla Cei (Conferenza episcopale italiana) alle diocesi italiane. Sono stati esclusi dalla schedatura i fascicoli e i registri appartenenti agli ultimi cinque anni di attività della parrocchia, oppure ancora in uso. Il riordino delle unità archivistiche è stato effettuato seguendo un criterio cronologico, in base all’estremo iniziale (ovvero in base alla data di apertura del fascicolo-registro). Si è provveduto poi al riordino fisico e al ricondizionamento, con l’adozione, dove necessario, di nuove camicie e nuovi faldoni. In accordo con le linee guida stabilite dall’Archivio Storico Diocesano di Bergamo, la numerazione delle unità nelle serie archivistiche è stata mantenuta aperta, data la natura dell’archivio in continua crescita. Per ultimo si è provveduto a una razionalizzazione degli spazi da adibire ad archivio, suddivisi tra i locali della casa parrocchiale dove si conservano i registri anagrafici e la documentazione più recente, e quelli dell’edificio denominato Casa

5 Antonio Pesenti, A proposito di archivi parrocchiali: sede, inventario, ordinamento, «La vita diocesana», 1958, pp. 101-104 e 212-219. Archivio parrocchiale di Stezzano 191

Isacchi dove invece è stato trasferito l’archivio storico. Il lavoro di inventariazione dell’archivio ha permesso di riportare alla luce aspetti singolari della storia della parrocchia, che si riflettono inevitabilmente nella complessa e articolata struttura finale assunta dallo stesso. Vediamone alcuni.

I rapporti con le autorità civili

A partire dal Settecento, l’ingerenza dei governi nella vita delle parrocchie lombarde, nonché delle numerose congregazioni e confraternite religiose, si fece sempre più evidente. Motivo del contendere furono soprattutto le notevoli proprietà immobiliari e il potere economico accumulato dalle stesse, grazie alle frequenti e generose donazioni da parte dei fedeli. Ma è soprattutto dal XIX secolo, sotto il dominio napoleonico prima e quello austriaco poi, che tale influenza divenne determinante e decisiva. Le prime leggi che intervennero sul patrimonio degli enti religiosi furono quelle napoleoniche del 9 e 26 maggio 1807 («Decreto riguardante la notificazione de’ benefici, cappellanie e legati anche di patronato» e «Decreto riguardante la proibizione delle confraternite, congregazioni, compagnie e società laicali, eccettuate le confraternite del SS.»), nonché del 25 aprile 1810 («Decreto portante la soppressione delle compagnie, congregazioni, comunie ed associazioni ecclesiastiche»). Queste determinarono la soppressione di congregazioni, compagnie e confraternite (con la conseguente confisca dei beni di loro competenza), e l’istituzione di fabbricerie a carattere laico che assunsero per conto del governo il ruolo di gestione amministrativa e contabile dei beni mobili e immobili delle parrocchie. Sessant’anni dopo il governo italiano, con l’emanazione delle leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867 n. 3848, determinò la ‘presa di possesso’ da parte del demanio dei beni immobili appartenenti alle corporazioni religiose e la loro conversione in titoli di rendita annua al 5%. Ovviamente anche la parrocchia di Stezzano fu interessata da tali provvedimenti di cui si trovano tracce evidenti nella costituzione dell’archivio.

Fabbriceria parrocchiale. L’istituzione della fabbriceria parrocchiale di Stezzano risale probabilmente attorno al 1810. Il suo periodo di attività è ascrivibile quindi al periodo che va dal 1810 circa al 1938, quando venne soppressa con decreto del 12 agosto 1938 n. 1573 con registrazione della 192 Erika Francia

Corte dei conti del 19 settembre 19386. In base alle leggi governative, scopo della fabbriceria era di provvedere alla manutenzione degli edifici di culto e al decoro delle funzioni religiose della parrocchia, alla gestione amministrativa ed economica del patrimonio immobiliare, nonché alla gestione del personale e dei contenziosi. Il passaggio dall’amministrazione dei sindaci a quella dei fabbricieri tuttavia non fu netto, ed è quindi oggi riconoscibile solo mediante un esame critico della documentazione. Inoltre la fabbriceria di Stezzano non si configurò mai come un ente vero e proprio, ma piuttosto come l’azione dei singoli fabbricieri, ciascuno con le proprie competenze e la propria contabilità. Per tale motivo è stata scartata la possibilità di costituzione di un archivio aggregato. La documentazione della fabbriceria costituisce quindi all’interno dell’archivio una classe apposita molto articolata, che rispecchia la complessità dei compiti ad essa assegnati.

La ‘presa di possesso’ del 1866-1867. Come accennato in precedenza, le leggi di presa di possesso e conversione in titoli di rendita dei beni immobili delle corporazioni religiose furono emanate dal governo tra il 1866 e il 1867. Nel caso di Stezzano i provvedimenti interessarono in particolare i beni della Deputazione dei Morti, per la quale si rimanda al capitolo relativo alle congregazioni e confraternite laicali. Presso l’archivio è presente un fascicolo pressoché completo che documenta le diverse fasi delle operazioni gestite dalla fabbriceria parrocchiale e dal delegato alla presa di possesso7. Il fascicolo è principalmente composto dal carteggio tra le parti e dai prospetti di denuncia dei beni da convertire, nonché dei beni non convertibili poiché appartenenti alla fabbriceria. Si segnala inoltre la presenza di documentazione sui canoni d’affitto riscossi dalla fabbriceria e dalla Deputazione dei Morti per conto della direzione del demanio di Bergamo, relativi agli immobili requisiti e concessi in affitto dal demanio stesso.

6 «La vita diocesana», XL (novembre 1938), fasc. 11, p. 218. 7 APS, Amministrazione patrimonio, Fabbriceria parrocchiale, Contabilità e tasse, Assicurazioni, utenze e tasse, fasc. 19. Archivio parrocchiale di Stezzano 193

I parroci

La documentazione presente in archivio relativa ai parroci che si sono susseguiti nella guida della parrocchia di Stezzano comprende un arco cronologico dal 1750 a oggi. Tale documentazione non presentava alcun ordine particolare, ed era collocata in faldoni contenenti altresì contabilità relativa alla gestione del beneficio parrocchiale. Durante il lavoro di inventariazione è stato deciso di ricondurre tale documentazione a fascicoli personali, in genere contenenti decreti di nomina a parroci, verbali e inventari di consegna e riconsegna del beneficio parrocchiale, carteggio e scritti personali. Per integrare e completare ove possibile la cronotassi dei parroci è stato consultato il fascicolo della parrocchia di Stezzano conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Bergamo8:

Rocco Bagini, vicecurato dal 28 aprile 1535 al maggio 1555 Rocco Bagini, parroco dal 22 maggio 1555 al 1564 Guglielmo de Beronis (o Beroa), parroco dal 1564 a tutto il 1566 Pietro Zucco (o Zucchi), vicario dal 21 gennaio 1567 al 1574 Ottaviano Foppa, parroco dal 1574 al 1578 Francesco di Mapello (o Giovanni Francesco Poli di Mapello), parroco dal 1578 al 1617 Benedetto Amanio, parroco dal 1618 al 1624 Bartolomeo Grumello, parroco dal 1624 al 1631 Francesco Rivola, parroco dall’11 giugno 1631 al 1634 Antonio Molinari, parroco dal marzo-aprile 1635 al 16599 Marco Antonio Gazuffino, parroco dal 1659 al 1713 Pietro Francesco Vitali, parroco dal 26 febbraio 1713 al 1735 Pietro Belotti, parroco dal 16 maggio 1736 al 1749

8 Archivio Storico Diocesano di Bergamo (da ora in poi ASDBg), Curia vescovile, Stezzano, Nomine parroci. La cronotassi dei parroci di Stezzano dal 1579 al 1967 è riportata anche nel volume a cura di Stezzano La Storia, Parrocchia di San Giovanni Battista Stezzano La Chiesa 1863-1988 centoventicinquesimo della dedicazione, Verdello, Fotocomposizione Rovaris & Regonesi, 1988, p. 51. 9 Con atto di permuta del 16-29 marzo 1635 (presente in ASDBg, Curia vescovile, Solto Collina, Nomine parroci), Antonio Molinari parroco di Santa Maria in Solto Collina e Detius (Decio?) Casari parroco di San Giovanni Battista in Stezzano, scambiarono tra loro le proprie chiese parrocchiali. 194 Erika Francia

Pietro Lozza, parroco dal 31 luglio 1749 al 1789 Giovanni Battista Valsecchi, parroco dal 2 marzo 1789 al 24 gennaio 1820 (morte) Pietro Cavagnis, parroco dal 20 giugno 1820 al 19 agosto 1858 (morte) Sperandio Carminati, parroco dal 2 novembre 1858 al 9 agosto 1888 (morte) Antonio Locatelli, parroco dal 18 febbraio 1889 al 13 settembre 1917 (morte) Giuseppe Carminati, parroco dal 9 novembre 1917 (presa di possesso il primo aprile 1918) al 24 novembre 1941 (morte) Davide Brevi, parroco dal 28 febbraio 1942 (presa di possesso 26 aprile 1942) all’8 ottobre 1946 (morte) Natale Trussardi10, parroco dal 13 gennaio 1947 (presa di possesso il 14 febbraio 1947) al 21 ottobre 1949 (morte) Angelo Locatelli, parroco dal 3 gennaio 1950 (presa di possesso il 19 febbraio 1950) al 10 aprile 1967 (morte) Mario Giavazzi, parroco dal 9 agosto 1967 (presa di possesso il 7 ottobre 1967) al 4 febbraio 1993 (rinuncia) Gianangelo Morelli, parroco dal 20 settembre 1993 (immissione in possesso il primo ottobre 1993) al 25 aprile 2008 (dimissioni) Mauro Arizzi, parroco dal 12 settembre 2008 (ingresso 11 ottobre 2008) a oggi.

La forte personalità di alcuni di questi parroci ebbe una significativa e documentata ricaduta sulle vicende della comunità.

Antonio Locatelli – Fu parroco tra il 1889 e il 1917. A lui si deve l’istituzione del primo Asilo infantile di Stezzano, la cui realizzazione seguì alla donazione di un terreno fatta dal conte Guido Morlani, vincolata alla costruzione dell’asilo e di un «Ricreatorio festivo femminile». Nel preliminare dell’atto di donazione11 datato 25 gennaio 1907, il parroco cedette a sua volta il terreno alla Congregazione delle Suore Sacramentine di Bergamo, con l’obbligo di istituire un asilo infantile e oratorio. L’inaugurazione avvenne il primo aprile 1908. Il 20

10 Si veda anche il breve profilo biografico riportato in Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete. Il clero a Bergamo durante l’occupazione tedesca (settembre 1943 – aprile 1945), Centro Studi Vallimagna, Bergamo, 2018, pp. 245-246 (ad vocem)

11 APS, Pastorale sociale ed opere parrocchiali, Scuola dell’Infanzia Umberto I poi Don Antonio Locatelli, fasc. 5. Archivio parrocchiale di Stezzano 195 ottobre 1913 l’asilo venne eretto in ente morale, mentre il 15 luglio 1918 venne stipulata la convenzione per la sua gestione tra l’amministrazione dell’asilo stesso e le Suore Sacramentine di Bergamo12. L’intitolazione originale ‘Asilo Infantile Umberto I’ fu modificata il 24 aprile 2002 dall’assemblea dei soci nella forma ‘Scuola Materna Don Antonio Locatelli’ (ora Scuola dell’Infanzia)13.

Giuseppe Carminati – Fu parroco dal novembre 1917 e il novembre 1941. Sacerdote battagliero fu protagonista di una vicenda che interessò la vita politica del paese. Nel maggio del 1926 fu al centro di un processo che lo vide accusato di antipatriottismo e antifascismo14. Da quanto emerge dalla documentazione presente in archivio, i rapporti tra il parroco e alcuni abitanti di Stezzano si fecero tesi a partire dai primi anni venti. Un certo malumore nei suoi confronti si era creato quindi già qualche anno prima del processo, ma l’evento scatenante fu la celebrazione del funerale di Luigi Nozza, avvenuta il 14 luglio del 1925. Come riferito dal parroco stesso durante il successivo interrogatorio dei carabinieri, quel giorno alle 9,30 egli si recò presso la casa del defunto per predisporre il funerale. Lì trovò il feretro circondato da alcune persone, tra cui Paolo Pinnacoli e Angelo Tognazzi, questi ultimi intenti a disporre sul feretro un drappo tricolore. Il parroco in obbedienza alle disposizioni dell’allora codice canonico (che prevedeva la presenza sui feretri soltanto di drappi neri e nessun simbolo che non fosse religioso), ne chiese più volte la rimozione. Al termine del funerale vi fu un acceso confronto tra il parroco, Paolo Pinnacoli e alcuni compaesani che accusarono don Carminati di essere antipatriottico, e in particolare di essere un «austriacante e vigliacco». Alla vicenda seguì una formale denuncia depositata presso la Procura, a cui fece seguito un interrogatorio avvenuto il 16 luglio presso la caserma dei carabinieri di Stezzano.

12 Ivi, fasc. 8. 13 Ivi, fasc. 23. 14 APS, Personale religioso e laico, Parroco, fasc. 5. Secondo quanto scrive B. Curtarelli, Ho fatto il prete…cit., p. 68 (ad vocem), don Giuseppe Carminati «cominciò ad essere segnalato come ostile al movimento fascista dal 1923, per cui fu fatto oggetto diverse volte da parte dei fascisti di spedizioni punitive, dalle quali si salvò solo grazie all’intervento dei carabinieri». 196 Erika Francia

Il verbale dell’interrogatorio ricostruisce l’intera vicenda e riporta i capi delle imputazioni mosse al parroco per le quali sarà poi processato, ovvero: −− nel novembre del 1918, alla notizia dell’armistizio tra l’Impero austro- ungarico e l’Italia, impedì ad alcuni cittadini di suonare a festa le campane, sprangando le porte del campanile che furono poi forzate dagli stessi; −− «negò al Comitato pel Monumento [ai caduti] l’autorizzazione per il lavoro festivo»; −− «inaugurandosi il parco [della Rimembranza], tenne un discorso così poco patriottico da obbligare il prefetto Cantone a parlare per distruggere la pessima impressione»; −− «mentre si inauguravano le bandiere delle scuole [asilo infantile ed elementari] e durante il discorso ufficiale, le campane iniziarono un suono assordante (pure per disposizione dello stesso parroco)»; −− «negò la benedizione del gagliardetto del Fascio. Non ritenne suo dovere intervenire alla cerimonia alla quale intervenne S. E. [on. Carlo] Bonardi»; −− «fece togliere il tricolore dalla bara del fascista Nozza»; −− in occasione dell’inaugurazione dell’asilo infantile, fece circolare la voce che il partito fascista volesse sostituire le suore con delle «signorine fasciste», generando scontento tra la popolazione al solo scopo di influenzare le elezioni politiche ormai prossime.

Il parroco si difese sostenendo di aver in ogni occasione agito in base alle norme del diritto canonico e alle disposizioni vescovili, e ritenendo il tutto frutto di una ritorsione causata dal suo rifiuto di prendere parte alla vita politica del paese. Nel verbale vengono inoltre citate le testimonianze di don Giuseppe Pietrasanta (insegnante presso il Seminario vescovile di Bergamo) e del cancelliere vescovile don Signorelli che confermarono:

L’art. 417 del Sinodo diocesano, che permette l’ingresso in Chiesa a bandiere non benedette, non ha per nulla derogato alla disposizione liturgica che prescrive che il feretro deve essere coperto in lutto e con panno nero a significare che il defunto ha bisogno di suffragio – disposizione costantemente e lodevolmente osservata in Diocesi.

In base a tali norme, quindi, i soli simboli ammessi sopra il feretro dei defunti erano quelli religiosi. L’unica eccezione che si era affermata Archivio parrocchiale di Stezzano 197 in quegli anni per consuetudine (non perché ammessa dalle autorità religiose) era l’apposizione del tricolore sulle bare dei militari di ritorno dal fronte. Il 5 marzo 1926, don Carminati scrisse una lettera indirizzata a un cardinale romano (di cui nella minuta non compare il nome), accompagnata da un lungo memoriale nel quale ribatté punto per punto a tutte le accuse che gli venivano mosse: −− «non è vero abbia rifiutato suono campane per la vittoria, ma ad alcuni presentatisi intempestivamente, soggiunsi: attendiamo disposizioni dalle competenti autorità, poi faremo. Infatti conosciute disposizioni, le campane furono suonate senza opposizione»; −− «non è vero abbia disturbato inaugurazione parco rimembranza. Intervenni cerimonia da principio alla fine. In Chiesa, celebrato officio, ho cantato Messa pei caduti; ho assistito con Clero a corteo e benedetto parco […] ho poi benedetto la bandiera dei Combattenti e delle Scuole elementari»; −− «non è vero abbia manifestato ostilità costituzione Fascio locale […] e non impartii la benedizione al Gagliardetto, in ossequio a tassative disposizioni vescovili vietanti benedizione a vessilli di qualsiasi partito politico, e a disposizioni Superiori, che vogliono il Parroco soprattutto, all’infuori e al di sopra di ogni competizione di parte. La riconobbe del resto anche il Colonnello venutomi in casa, che partiva dicendomi: Ella è un soldato!»; −− «non è vero abbia arrecato sfregio alla bandiera nazionale per aver invitato a togliere, come fu tolto di fatto, il drappo tricolore dalla bara di un funerale. Fu fatto […] in omaggio a disposizioni liturgiche, per le quali il feretro degli adulti è da coprirsi di solo panno nero […]. Ho sempre ammesso, e qualche volta fatto mettere, il tricolore su feretro in funerali e offici dei militari. […] Con tutto ciò ho ammesso senza osservazioni, sia nel corteo sia in Chiesa, bandiere tricolori e gagliardetti»; −− «non è vero abbia gettato il discredito su iniziativa fascista per sistemazione asilo infantile. […] Intervenni con tutto il Consiglio dell’Asilo, quando si tentò di cambiare la base della fondazione, impedire la sistemazione come all’atto legale e ridurre a zero l’autorità parrocchiale». Purtroppo manca completamente la documentazione relativa al processo. Le uniche informazioni che abbiamo le possiamo ricavare dalla corrispondenza del parroco. In una lettera datata 24 marzo 1926, il cancelliere della Curia 198 Erika Francia vescovile comunicò al parroco l’appoggio e gli auguri del vescovo di Bergamo [Luigi Maria Marelli] per il primo maggio, giorno che possiamo quindi individuare come possibile data del processo. L’esito invece lo possiamo dedurre dalla lettera inviata da don Antonio […]toni di Cividate al Piano (datata 2 maggio 1926), nella quale egli esprime la sua felicità nell’aver appreso dalla lettura del «Corriere della Sera» della piena assoluzione del parroco.

Davide Brevi – Nato a Chiuduno il 2 aprile 1876, fu parroco a Madone per trentasei anni. Fu anche un epigrafista, autore in particolare del volume Saggi di epigrafia, pubblicato nel 1941 dalle Edizioni Orobiche. Il 26 aprile 1942 fece il suo ingresso nella parrocchia di Stezzano all’età di 66 anni e vi rimase fino alla sua morte avvenuta nell’ottobre del 1946. Don Brevi fu un parroco molto attivo e zelante, autore di numerose iniziative svolte nell’arco di soli quattro anni: aggiornò il tariffario delle celebrazioni liturgiche; mise ordine tra gli adempimenti dei legati a carico della parrocchia; fu promotore dell’iniziativa di costruzione di un nuovo oratorio parrocchiale con annessa sala per spettacoli teatrali e cinematografici; regolamentò la banda parrocchiale che fu denominata Premiato Corpo Musicale S. Giovanni Battista15; aggiornò e completò i registri dello stato delle anime lasciati incompiuti dal suo predecessore; iniziò uno zibaldone di memorie16 rimasto incompleto a causa della sua morte. Ma soprattutto egli resse la parrocchia negli anni più duri della Seconda guerra mondiale, dei quali lasciò traccia grazie alla puntuale compilazione del chronicon parrocchiale17. Le sue annotazione sono quindi testimonianza diretta dei principali avvenimenti di quegli anni. Egli riprese le annotazioni interrotte dal suo predecessore nel 1918. All’inizio di ogni anno riportò puntuali relazioni (demografiche, finanziarie e morali), esposte pubblicamente ai parrocchiani durante le celebrazioni del primo giorno dell’anno. In esse riportò: dati demografici (nati, morti, caduti in guerra, matrimoni celebrati, cresimati, ammessi alla prima comunione, comunioni distribuite, militari sotto le armi); dati economici (bilancio fra entrate e uscite delle tre ‘casse’ della parrocchia: chiesa, Deputazione dei Morti, santuario); giudizi sulla ‘moralità coniugale’ (calcolata in base al numero delle nascite) e sulla ‘moralità

15 Per la storia della banda musicale di Stezzano si rimanda al sito http://www. unionefilarmonicastezzanese.it/storia 16 APS, Chronicon e memorie storiche, Chronicon e memorie, reg. 3.

17 Ivi, reg. 2. Archivio parrocchiale di Stezzano 199 pubblica’, calcolata in base alla frequenza di partecipazione alle funzioni religiose e alla dottrina, alla presenza e attività di congregazioni e confraternite, alla diffusione della Buona Stampa («L’Eco di Bergamo», il Bollettino parrocchiale, «La Domenica del Popolo»), e all’attività degli oratori. Il 7 ottobre 1942 iniziò anche per Stezzano il procedimento di requisizione delle campane, voluto sull’intero territorio nazionale dal Governo Mussolini con il Regio decreto 23 aprile 1942 N° 505 al fine di fonderle e utilizzarne il metallo per scopi bellici. In tale occasione il parroco scrisse:

Le crescenti esigenze della guerra mondiale che si acuisce e si prevede assai dura e lunga hanno determinato le autorità militari alla requisizione ed asportazione per ora del 60% circa delle campane esistenti in Italia, eccetto quelle dei Santuari, colla promessa di reintegrarle a spese dello Stato entro un anno dopo la vittoria […]. Fatto doloroso che diè luogo a commenti e previsioni pessimistiche, a manifestazioni di commosso cordoglio ovunque, e in qualche luogo anche ad inutili resistenze. Dalla nostra torre parrocchiale vennero calate le due maggiori e la più piccola fuori concerto, nonché quattro altre dai due oratori: vecchia parrocchiale e Santa Elisabetta: risparmiate quelle del Santuario.

Durante gli anni della guerra le città lombarde furono interessate da diverse incursioni aeree con relativi bombardamenti. In particolare a pagare il prezzo più alto fu Milano, dove il 24 ottobre 1942 si ebbe il primo bombardamento aereo in cui non si fece distinzione tra obiettivi militari e civili. Provocò 132 vittime e centinaia di sfollati, alcuni dei quali vennero accolti anche a Stezzano. Il parroco nel dicembre del 1942 riportò:

Per gli sfollati di Milano causa le incursioni aeree. Ad esempio ed incitamento degli altri proprietari della Parrocchia ho messo a disposizione degli sfollati, riconosciuti tali dalle autorità locali, n. 9 stanze affiancanti il Santuario della Madonna dei Campi e due altre nell’ex teatrino femminile. Di fatto vennero affittati detti appartamenti a n. 3 famiglie di Milano a £. 300 annue per ambiente, acqua e luce da pagarsi a parte a misura del consumo. Pure le RR. Suore dell’Asilo si sono messe a disposizione per ospitare un congruo numero di bambini alle condizioni che siano provveduti 200 Erika Francia

di lettini e di vittuarie. Altri proprietari, specie i maggiori, accolsero pure famiglie e uffici sfollati da Milano e da Dalmine, esso pure in pericolo di incursioni aeree.

Il mese di luglio del 1943 fu segnato dalla caduta del fascismo. Il 25 luglio il Gran Consiglio approvò l’estromissione di Benito Mussolini dal governo del Regno d’Italia, seguita dall’ordine del suo arresto emesso dal re Vittorio Emanuele III e dall’assegnazione dell’incarico di governo al maresciallo Pietro Badoglio. Alla data del 25 luglio il parroco riportò:

Insospettata fulminea giunse la notizia della caduta del Fascismo, e della nomina sovrana del Maresciallo Badoglio a capo del Governo. Fu un’esplosione generale di manifestazioni pubbliche, cui seguirono tosto atti di distruzione di ogni segno del fascio, di vandalismo alle sedi del partito, di vendetta e punizioni collettive ed individuali contro gli esponenti più compromessi del fascismo, con morti e feriti […]. In Parrocchia, se ne togli qualche pugno, ceffone o bastonatura, per certuni anche meritati, il tutto si ridusse a innocue, anche se chiassose, dimostrazioni di piazza. Si ebbe l’illusione che la caduta del Fascismo preludesse alla fine della guerra: ma come annunciò Badoglio: la guerra continua.

L’8 settembre del 1943 il maresciallo Badoglio annunciò alla nazione l’entrata in vigore dell’armistizio firmato con gli americani il 3 settembre a Cassibile. Pochi giorni dopo il parroco annotò:

Fattasi pressoché disperata la situazione militare e politica d’Italia […], il generale Badoglio per incarico della Corona chiedeva e otteneva l’armistizio alla condizione di cooperare cogli alleati nel cacciare i Tedeschi e dichiarar loro la guerra. Ne è seguito un caos nella nazione; le armate germaniche […] occuparono militarmente l’Italia settentrionale e centrale; la nostra Stezzano si vide requisite e occupate da reparti e comandi germanici i locali delle scuole, le ville Moroni, Zanchi, Morlani, Manzoni, ex Maffeis ecc. Nel frattempo si tentò di ridare vita al fascismo con etichetta non più monarchica ma repubblicana. Per sfuggire alle requisizioni e ad eventuali rappresaglie dal vicino campo di concentramento di Grumello del Piano i prigionieri di guerra si sbandarono per ogni verso, e gli approvvigionamenti in cibarie, vennero asportati di nascosto e depositati nei sotterranei del Santuario della Madonna dei campi, coll’intesa, manifestata al Archivio parrocchiale di Stezzano 201

cappellano D. Rocco Bianchi, che avrebbero servito a sovvenire oltreché i fuggiaschi e gli sfollati dei dintorni, anche i poveri di Stezzano. Tutto ciò si fece a mia insaputa; e ne ho redarguito il cappellano come di cosa arbitraria e pericolosa. Né mi opposi male; perché conosciutasi dal pubblico, moltissimi del Comune, poveri o no, si riversarono al Santuario e perfino nell’interno di esso inscenarono un indecente gazzarra durante la tumultuaria distribuzione di viveri che ne è seguita. Per tale profanazione ho immediatamente fatto chiudere il Santuario, e solo dopo qualche giorno venne riaperto al pubblico […]. Seguirono poi rappresaglie e fermi di sacerdoti bergamaschi imputati di favorire diserzioni e ribellioni alle autorità germaniche. Tra questi anche l’innocuo cappellano del Santuario D. Bianchi che casualmente trovavasi il mattino del 20 Ottobre a fare da sottoposto ad un ufficio funebre nella vicina Grumello del Piano venne catturato col clero di quella Parrocchia; ma il giorno seguente venne rilasciato, nulla essendo emerso a suo carico18.

Il parroco cita così un fatto per lungo tempo quasi dimenticato, ovvero che anche a Bergamo era stato creato un campo di concentramento. Situato nel territorio tra Grumello del Piano, Lallio e Bergamo, negli anni dal 1941 al 1945, fu campo di prigionia dove vennero internati migliaia di militari (fra i 3000 e i 3500) soprattutto stranieri (in prevalenza slavi), ma anche italiani renitenti alla leva della Repubblica Sociale e militari che non si arresero ai tedeschi dopo l’armistizio19. Il 6 luglio del 1944 lo stabilimento e il paese di Dalmine furono pesantemente bombardati dagli alleati. L’avvenimento causò la morte di 274 persone, di cui 244 dipendenti dello stabilimento provenienti da tutta la provincia. Stezzano non fu immune ai fatti e contribuì al bilancio dei decessi con nove vittime tra la propria popolazione. Dell’evento il parroco scrisse:

Erano le ore 11 ant.me del giovedì 6 Luglio quando un forte gruppo di aerei anglo-americani prese a volteggiare con rombo

18 Si veda a riguardio dell’arresto di don Rocco Bianchi B. Curtarelli, Ho fatto il prete..., cit., pp. 265-266. 19 Lia Corna, Prigionia, internamento e crimini di guerra. Il campo della Grumellina a Bergamo per i nemici dell’Italia fascista, 1941-45, tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, a. a. 2007-2008, rel. Elisa Signori; Mauro Gelfi - Giorgio Marcandelli - Alberto Scanzi - Francesco Sonzogni, The tower of silence. Storie di un campo di prigionia, Bergamo 1941-1945, Bergamo, Sestante, 2010. 202 Erika Francia

sinistro sugli stabilimenti di Dalmine, senza che venisse dato alcun segno d’allarme. Due soli minuti di bombardamento bastarono perché tutti e soli i reparti del grandioso opificio, gremiti di operai in pieno lavoro, venissero schiantati e rasi al suolo. Quale ecatombe e quale scempio di vite umane!!! Abbastanza pronti i soccorsi: primo fra tutti il clero citato poi ad onore: ogni mezzo fu approntato pel l’immediato trasporto dei feriti più gravi ai vari ospedali e ricoveri di città e fuori; più giorni si lavorò a sgombrar macerie, a rintracciare ed individuare al possibile le moltissime vittime, delle quali però gran parte irriconoscibili, perché ridotte ad un informe e spaventoso carnaio umano. Ogni parrocchia ebbe le sue vittime: Stezzano ne conta finora nove sugli oltre cento operai presenti e scampati quasi per miracolo: i feriti, anche gravi, danno a sperare almeno fino ad oggi 10 Luglio. È unanime la deplorazione pel mancato allarme che avrebbe potuto salvare la quasi totalità degli operai: è tuttora incerto a chi ne risalga la colpa, e si fanno le ipotesi più disparate. Più tardi si accertò a n. 269 il numero delle vittime.

Il funerale delle vittime stezzanesi fu celebrato presso la chiesa parrocchiale il 9 luglio. In data 13 agosto 1944, il parroco riportò di un’altra incursione aerea anglo-americana che ebbe come obbiettivo il campo d’aviazione di . Non vi furono bombardamenti, ma un «esteso sventagliamento di pallottole a mitraglia», che danneggiò non soltanto Orio al Serio ma anche i paesi limitrofi. A Stezzano riportarono danni alcuni fabbricati adiacenti alla chiesa parrocchiale e si ebbe l’incendio di una casa colonica, fortunatamente senza alcuna vittima. Tra gli avvenimenti minori che interessarono la parrocchia durante la guerra, vi fu anche l’inusuale celebrazione dei funerali di un militare «forestiero» che rimase vittima di un mitragliamento. Ecco cosa accadde:

Una squisita prova di cristiana solidarietà ha dato la Parrocchia in occasione della tragica morte per mitragliamento aereo di un ottimo giovane, certo Pironti Tancredi di Napoli che era già al servizio delle forze armate germaniche. Da mesi allogatosi successivamente presso due nostre rispettabili famiglie, pel suo tratto gentile, educato ed esemplare s’impose all’attenzione ed alla benevolenza di tutti così, che la sua tragica fine destò un generale compianto, ed una gara unanime perché pari al merito ne fossero le funebri onoranze. Archivio parrocchiale di Stezzano 203

Tra coloro che possiamo considerare ‘vittime indirette’ della guerra vi furono almeno due abitanti di Stezzano, deceduti a seguito di incidenti occorsi nello stesso giorno ma in luoghi diversi. In data 23 marzo 1945 il parroco scrisse:

Un ragazzo diciasettenne certo Cerrutti Giuseppe della cascina Suardina baloccandosi imprudentemente con un relitto aviatorio di guerra trovato nei campi e creduto esploso venne quasi maciullato dall’esplosione da lui stesso provocata, e con lui, che morì dopo poche ore, venne ferita la madre che però si spera di salvare. Nello stesso giorno a Villafranca d’Asti un treno diretto a Torino veniva fatto saltare con dinamite messa sui binari. Tra i diciassette morti si deplora un bravo giovane di Stezzano, certo Locatelli Giuseppe, e tra i numerosi feriti si conta un altro pure di qui certo Moroni Luigi che si spera di salvare.

Finalmente gli ultimi giorni di aprile del 1945 si ebbero le fasi conclusive della guerra. Il parroco sotto le date 26 aprile-7 maggio riportò fedelmente gli avvenimenti essenziali di quei giorni:

La Germania, ridotta a doversi difendere in casa propria, dopo aver perduto man mano i territori già occupati nei passati anni, vedeva fatalmente avvicinarsi la sconfitta totale. Al suo rifiuto di resa incondizionata, le Nazioni Unite: Inghilterra, Stati Uniti e Russia ripresero con estremo vigore il bombardamento aereo su tutto il territorio Germanico, riducendo tra l’altro Berlino un cumulo di macerie […]. Anche nell’Italia Settentrionale da Bologna in su tuttora occupata dalle forze germaniche e tiranneggiata dai neo-fascisti, autoproclamatisi Repubblica Sociale Italiana, venne ripresa l’offensiva con ottimi risultati da parte degli eserciti anglo- americani mentre le numerose bande di patrioti da mesi annidatisi sulle alture del Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto si tenevano pronti a discendere per la decisiva lotta di liberazione nazionale. […] I patrioti scesero e ben organizzati costrinsero alla resa uno dopo l’altro i presidi germanici e fascisti delle varie unità, tra cui Bergamo nostra, miracolosamente risparmiata dalle devastazioni e dagli orrori della temuta guerra guerreggiata. Contemporaneamente tra l’unanime esecrazione del popolo finiva per la II volta il neo- fascismo fiancheggiante il nemico Tedesco, e il suo capo Benito Mussolini scoperto sul Comasco mentre tentava di fuggire oltre 204 Erika Francia

i confini veniva per sommario giudizio e sentenza di popolo fucilato, assieme alla sua druda [sic] Claretta Petacci ed ai suoi maggiori sostenitori, ed i loro cadaveri venivano esposti a ludibrio in una piazza di Milano. […] Seguì una settimana di chiassose e, non sempre, né ovunque, pacifiche dimostrazioni di esultanza popolare, di caccia ai filofascisti e filonazisti, di cui molti fucilati, moltissimi incarcerati, mentre contro l’elemento femminile ci si tenne paghi di raderne i capelli a ludibrio in pubblico. Ciò che si fece pure a Stezzano. L’arrivo delle armate britanniche ed americane sui mastodontici carri armati, transitati per più di due ore anche attraverso la via centrale del paese ha suscitato deliri di entusiasmo popolare indescrivibili. Finalmente il 7 Maggio attraverso le onde radiofoniche veniva lanciata al mondo la tanto attesa parola: la guerra è finita in Europa per la resa incondizionata della Germania. Quale festa per tutte le genti umane!! Il 2 giugno 1946 si tennero il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, oltre alle prime votazioni per la scelta dei deputati che avrebbero poi composto l’Assemblea Costituente. Il parroco riportò fedelmente non soltanto i risultati a livello nazionale, ma persino a livello provinciale e comunale divisi sezione per sezione. Angelo Locatelli – Fu parroco dal 3 gennaio 1950 al 10 aprile 1967, giorno della morte20. Egli fu protagonista suo malgrado di un avvenimento che interessò negativamente il patrimonio storico-artistico della parrocchia, a seguito del quale subì anche un processo. Per maggiori chiarimenti si rimanda al paragrafo relativo alla ex chiesa quattrocentesca di San Giovanni Battista. Durante il lavoro di inventariazione dell’archivio sono stati ritrovati nel sottotetto della casa parrocchiale 24 quaderni. Questi contengono gli appunti scritti da don Angelo durante gli anni di studio presso il Seminario vescovile di Bergamo, presumibilmente tra la fine del XIX secolo e il primo decennio del Novecento. L’oggetto degli scritti, la consistenza e la loro appartenenza ad anni antecedenti ed estranei al periodo in cui egli ricoprì il ruolo di parroco a Stezzano, hanno portato alla decisione di costituire con gli stessi un fondo autonomo aggregato all’archivio parrocchiale. In fase di schedatura, quindi, i quaderni sono stati suddivisi in base alla materia scolastica cui si riferiscono e ordinati cronologicamente.

20 Si veda anche il breve profilo biografico che gli dedica B. Curtarelli, Ho fatto il prete…, cit. p. 29, (ad vocem) Archivio parrocchiale di Stezzano 205

I registri anagrafici

L’adozione dei registri anagrafici da parte delle parrocchie venne stabilita in base alle disposizioni emerse dal Concilio di Trento (1545- 1563) per la cura d’anime dei fedeli e la necessità pratica di vigilare sull’amministrazione dei sacramenti. La conservazione e tenuta dei registri venne poi formalizzata in maniera definitiva da papa Paolo V, con la promulgazione del Rituale Romanum del 17 giugno 1614. Tali norme però vennero recepite in tempi diversi sul territorio nazionale. Nella diocesi di Bergamo la loro applicazione si deve soprattutto all’intervento di san Carlo Borromeo e all’opera del vescovo Luigi Cornaro (1560-1561). Per tale motivo la maggior parte dei registri anagrafici delle parrocchie bergamasche risale a un arco cronologico compreso tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. Le serie anagrafiche della parrocchia di Stezzano iniziano le registrazioni a partire dal 1579 e continuano ininterrotte fino ai nostri giorni. Dalle stesse emergono a volte interessanti aspetti della vita quotidiana della comunità, come ad esempio le testimonianze delle tre maggiori epidemie che hanno attraversato il paese: la peste bubbonica (1630); il colera (1833-1836); l’influenza spagnola (1918-1920). La peste giunse a Milano nel settembre del 1629, portata dai soldati tedeschi dell’imperatore Ferdinando II. Essa si diffuse rapidamente anche a Bergamo; il picco di virulenza dell’epidemia fu raggiunto durante l’estate del 1630. Nel registro parrocchiale che riporta i decessi avvenuti tra il 1619 e il 164321, le annotazioni dei mesi estivi del 1630 si susseguono rapide, con una scrittura incerta e veloce che abbandona ogni tentativo di ordine e chiarezza. Per riuscire a completare l’elenco, si ricorse persino all’inserimento di fogli estranei. L’ondata pestilenziale lasciò dietro di sé un imponente numero di cadaveri (si stima che i decessi furono 640, a fronte di 454 sopravvissuti22). I morti vennero sepolti in fosse comuni (com’era d’uso fare per limitare il contagio) poste al di fuori del centro abitato in corrispondenza delle

21 APS, Anagrafe e sacramenti, Battesimi, Registri dei battesimi, reg. 1. 22 Lorenzo Ghirardelli, Il memorando contagio seguito in Bergamo l'anno 1630, per li fratelli Rossi, Bergamo, 1681; è stata consultata la trascrizione dell'opera edita con il titolo Storia della peste del 1630, Brembate Sopra, Archivio storico brembatese, 1974, p. 364. I dati dei morti della peste del 1630 nei comuni della bergamasca, tratti dall’indagine del Ghirardelli sono riportati anche in Bortolo Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi [1940], Bergamo, Banca Popolare di Bergamo, 1989, vol. V, pp. 20-21. 206 Erika Francia principali strade d’accesso al paese. Sopra tali fosse vennero in seguito erette tre piccole cappelle campestri, la maggiore delle quali (situata in via Guzzanica) è denominata ‘cappella dei Mortini’23. Presso di essa si praticò a lungo il culto dei defunti nella convinzione che i ‘morti della peste’ fossero testimoni diretti e mediatori della volontà divina, in grado di intercedere per i vivi e fornire ad essi protezione. A seguito di tale devozione nel XVIII secolo venne fondata la deputazione dei Morti, per la quale si rimanda al paragrafo relativo. Nel XIX secolo furono due le epidemie di colera che interessarono il paese, di cui sicuramente la peggiore fu la prima, risalente al periodo 1833- 1836. Nonostante la presenza di circolari della Delegazione provinciale di Bergamo24, diffuse già nel 1831, riportanti disposizioni per la prevenzione del «cholera morbus», nei primi anni le autorità civili locali sottovalutarono la situazione. Di fatto, le prime morti per colera passarono sotto silenzio benché fossero segnalate come morti sospette. Le autorità (probabilmente per non creare il panico) negarono per mesi la vera origine di queste morti improvvise che venivano annotate nei registri parrocchiali come «diarrea» o «diarrea con marasma». Nelle pagine del registro dei morti relativo agli anni dal 1833 al 183725, si trovano interessanti annotazioni del parroco don Pietro Cavagnis che forniscono quasi una cronaca puntuale di ciò che accadde in paese. Il primo vero allarme compare come annotazione a seguito di un decesso avvenuto il 13 dicembre 1835: «Praticatale l’autopsia dal Medico Provinciale, si dichiarò cholerus nostrano, non Asiatico»; e ancora: «Sia pur detto in buona pace del Sig. Medico Provinciale e senza disanimare nessuno, ma questo è vero cholera. Già da qualche mese ne avevamo qualche sentore in paese, e adesso s’incomincia davvero». Nei giorni seguenti i decessi si moltiplicarono, e con essi le registrazioni che testimoniano del clima generale: «Di cholera si vuole che non se ne parli»; «O disanimarsi o no, qui parlano i fatti»; «Il cholera di sottomano progredisce»; «Molti si tengono occulti […] e rifuggono la chiusura nell’Ospitale»; «I forastieri fuggono»; «la piazza è deserta»; «sempre più frequentansi preghiere publiche e private»; «Replicansi Processioni ai Campi […] ai Morti dei campelli26 […] al Camposanto».

23 Barbara Oggionni, Cappelle campestri, in Stezzano. Il suo tempo…cit., p. 90. 24 APS, Autorità civili, Prefettura e Questura di Bergamo. 25 APS, Anagrafe, Morti, reg. 7. 26 È la già ricordata cappella campestre situata in via Guzzanica, dedicata ai morti per la peste del 1630. Archivio parrocchiale di Stezzano 207

Troviamo inoltre appunti concernenti le disposizioni per la profilassi e il contenimento dell’epidemia: «Polizia severa personale e domestica altamente raccomandata in pubblico ed in privato, e vitto sano»; «Regolare dieta, temperanza rigorosa, odoriferi aciduli, suffumigi frequenti sono le precauzioni fin qui praticate»; «Visite di Medici ed Autorità Provinciali»; «apertura d’Ospitale». Nonostante i tentativi di prevenzione ancora nell’aprile 1836, l’epidemia era fuori controllo e il parroco esprimeva il proprio sconforto con le parole: «Intanto ed in mezzo alle nostre lusinghiere speranze il 21 corrente Aprile moriva di cholera a Bergamo il Sig. Conte Maffeis Domenico, sebbene non gli mancassero i mezzi di assistenza e di sussidio di ogni genere»27. In data 3 maggio 1836 il parroco annotò: «Visite di Medici ed Autorità Provinciali; apertura d’Ospitale; precauzioni comandate; sussidi preparati; tutto è in questi giorni frammisto ai molti frequenti casi che avvengono in paese». Le ultime annotazioni risalgono alle date 11 luglio e 18 agosto 1836: «in proporzione di quantità di ammalati la mortalità è minima»; «Seguitano ancora come da principio le distribuzioni di carne pane e vino alla classe povera e specialmente ai miserabili, e sperasi calma dalla calma degli estivi calori». Come accadde già nel caso della peste infatti, la fine del calore estivo segnò la fine dell’epidemia, la cui ultima vittima è riportata in data 9 settembre 1836. Infine la terribile «influenza spagnola» del 1918, ricordata come la prima vera pandemia della storia. Veicoli di diffusione dell’epidemia furono soprattutto i militari che al termine della Prima guerra mondiale tornarono nei propri paesi accompagnati dal virus. Stezzano ovviamente non fu esente dalla diffusione della malattia, di cui troviamo traccia specialmente nel registro dei morti che riporta i decessi dal 1908 al 194028. I deceduti a seguito di febbre spagnola sono segnalati con la dicitura: «obiit morbum vulgo dictus febbre spagnola». I registri delle messe La serie dei registri delle messe (o effemeridi) riporta le messe celebrate in parrocchia dal 1835 a oggi. I registri, e in particolare i frontespizi, sono spesso arricchiti da una notevole produzione grafica. Al loro interno possiamo trovare

27 La notizia della morte del conte fu riportata anche in «Bergamo o sia Notizie Patrie» raccolte da Carlo Facchinetti. Almanacco per l’anno 1837, p. 72. «Fra le dolorose perdite, sentite specialmente dalla povertà, annoveriamo anche quella del benemerito sig. conte Domenico Maffeis avvenuta nel giorno 21 aprile 1836, confortandoci almeno che abbiamo un vero imitatore delle sue virtù nel degnissimo suo figlio signor conte Giambattista, sotto li cui auspicii fiorisce il caritatevole stabilimento della Casa di Ricovero di cui esso è provido direttore». 28 APS, Anagrafe, Morti, reg. 17. 208 Erika Francia inoltre annotazioni relative a eventi straordinari che interessarono Stezzano, come ad esempio l’invocazione del parroco Davide Brevi annotata in occasione dei funerali delle vittime del bombardamento di Dalmine avvenuto il 6 luglio 194429. Nel 1929 Stezzano ospitò il Congresso eucaristico diocesano tenutosi nei giorni dal 5 all’8 settembre, che vide una grande mobilitazione da parte di tutto il paese. A testimonianza dell’impatto che ebbe sulla vita della comunità, rimane una lapide commemorativa collocata sul lato sud della chiesa parrocchiale, dove si legge: «maestosi apparati splendidi, folle immense da ogni parte accorse, le gioie a goder di un’adorata notte radiosa paradisiaca»; a esso presero parte personalità religiose illustri come «Monsignor Luigi Maria Marelli pastore della Diocesi [...], S. E. Monsignor Angelo Roncalli arcivescovo di Areopoli [patriarcato di Gerusalemme, attuale Giordania], [...] S. E. Monsignor Giacinto Gaggia vescovo di Brescia», nonché il cardinale Luigi Capotosti. Nel 1924 ebbe inizio una grande raccolta fondi, finalizzata all’organizzazione del Congresso e al compimento di una serie di lavori di ristrutturazione e abbellimento degli edifici di culto della parrocchia. Di tale raccolta fondi conserviamo ancora oggi un resoconto dettagliato in un apposito registro30, dal quale emerge la partecipazione non solo dei singoli cittadini, ma anche di organizzazioni, associazioni e persino industrie (come nel caso dello Stabilimento Cotonificio di Ponte Lambro allora situato in Stezzano). Alle donazioni spontanee si affiancarono anche iniziative diverse, tra cui la vendita di «uova domenicali», frumento e granoturco. In archivio è conservato un cospicuo carteggio relativo ai lavori di ristrutturazione, concentratisi prevalentemente all’interno della chiesa parrocchiale, soprattutto in corrispondenza della decorazione a stucco, degli altari e dei paramenti sacri che vennero rinnovati e restaurati31. Specifica attenzione fu posta inoltre all’illuminazione esterna della chiesa e del campanile, e all’imponente spettacolo pirotecnico a chiusura dei festeggiamenti, di cui si conserva il dettagliato programma-preventivo della ditta Guerino Martinelli e Figli di Mariano al Brembo. Al Congresso parteciparono personalità religiose provenienti da diverse diocesi italiane. Tra di essi, come ricordato, vi fu in particolare

29 APS, Culto, Registri delle Messe, reg. 20.

30 APS, Culto, Feste e celebrazioni straordinarie, fasc. 7

31 Ivi, fasc. 8. Archivio parrocchiale di Stezzano 209 il cardinale Luigi Capotosti – del quale in archivio è conservata una fotografia scattata in quei giorni – già vescovo di Modigliana (Bologna), elevato poi al rango di cardinale da Papa Pio XI il 21 giugno del 1926. Alla vigilia della chiusura del Congresso, nella notte tra il 7 e l’8 settembre, presso la chiesa parrocchiale venne organizzata una veglia notturna che si svolse alla presenza dell’«Ostia Sacra» portata in chiesa dopo una solenne processione lungo le strade del paese32. In base a quanto riportato da «L’Eco di Bergamo» di lunedì 9 settembre, furono oltre cinquantamila le persone che in totale parteciparono ai lavori e ai festeggiamenti. Cinquant’anni dopo, nel 1979, l’evento del Congresso eucaristico diocesano venne ricordato con una solenne processione per le vie del paese.

La chiesa vecchia

Vicino all’attuale chiesa parrocchiale si trova un edificio oggi adibito ad auditorium. Si tratta in realtà dell’ex chiesa quattrocentesca di San Giovanni Battista, ovvero della parrocchiale antecedente a quella attuale (la cui prima pietra è stata posata nel 1673). Alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, l’edificio fu oggetto di una demolizione indebita a seguito della quale il parroco Angelo Locatelli subì un processo in sede civile con relativa condanna. Quel che rimane della documentazione attestante la vicenda è stato raccolto dall’ex parroco don Gianangelo Morelli e allegata al chronicon parrocchiale33. Vediamo quindi cosa accadde. Alla fine degli anni cinquanta la chiesa versava in un pessimo stato di conservazione ed era pericolante. Un imprenditore locale e una banca fecero un’offerta al parroco per l’acquisto dell’area. Il parroco venne più volte diffidato dalla Soprintendenza ai Monumenti di Milano a procedere alla vendita e alla demolizione, fino all’imposizione del vincolo di «notevole interesse storico» a tutto il centro del paese (datato 13 marzo 1958). Ciò nonostante vi furono due interventi di abbattimento, di cui il secondo (quello definitivo) operato da un’impresa edile della zona nella notte del 15 aprile 1959 mediante l’uso di corde e di un trattore. Nel 1960 fu celebrato il processo nel quale il Ministero della pubblica istruzione si presentò come parte civile, e a cui seguì la prima condanna

32 Ivi, fasc. 10. 33 APS, Chronicon e memorie storiche, Chronicon e memorie, reg. 2, cc. 46-47. 210 Erika Francia datata 15 maggio 1960. Nel 1961 si ebbe la sentenza definitiva per il parroco e gli altri imputati, condannati alla ricostruzione della chiesa (in base alle indicazioni della Soprintendenza) e al pagamento delle relative spese. Parte degli affreschi fu recuperata mediante strappo ed è attualmente collocata presso la casa parrocchiale. Nello stesso chronicon si trova un’annotazione di don Battista Manzoni (economo spirituale), scritta nei giorni immediatamente successivi alla morte di don Angelo Locatelli avvenuta il 10 aprile del 1967. Egli riporta che, dopo la sua morte molta documentazione dell’archivio venne distrutta, in particolare la ‘documentazione personale’ del defunto. Tra di essa vi era probabilmente il fascicolo processuale, di cui infatti non vi è traccia. Nel 1983 dovendo intervenire per far fronte ad una serie di problemi legati alla stabilità del tetto presero il via i lavori di trasformazione dell’ex chiesa in auditorium parrocchiale, che si conclusero nel 198834.

Il campanile

La costruzione dell’attuale campanile ebbe inizio il primo aprile 1739 e terminò nel 176435. Le fondamenta alla sua base appartengono a una preesistente torre, facente parte probabilmente del nucleo fortificato di età medievale. Per tale motivo il campanile risulta staccato dalla chiesa parrocchiale. La proprietà del terreno e delle fondamenta su cui sorge era ed è tuttora del Comune di Stezzano. Tale situazione ha portato a una serie di controversie tra la parrocchia e le autorità comunali che continuano ancora oggi. La documentazione presente in archivio relativa al campanile inizia con un accordo stipulato in data 7 gennaio 1765 tra la fabbrica della chiesa prepositurale e la fabbrica del campanile36. L’accordo era finalizzato a un’equa distribuzione delle risorse economiche investite nella costruzione dei due immobili. Sappiamo che già nel primo decennio del XIX secolo il campanile ebbe necessità di un intervento di

34 APS, Amministrazione patrimonio, Manutenzione immobili non di culto, Auditorium e complesso polifunzionale di via Carrara Beroa. 35 Daniele Vitali, Il campanile di Stezzano: la storia, in Il campanile di Stezzano: la storia e il restauro, a cura di Giacomo Andreoletti, supplemento di «Stezzano Nostra», dicembre 2017, pp. 21-43; Id., Stezzano e la sua chiesa. 1863-2013 centocinquantesimo della dedicazione, Parrocchia San Giovanni Battista, Stezzano, [2013], p. 68. 36 APS, Edifici di culto, Campanile e campane, fasc. 1. Archivio parrocchiale di Stezzano 211 consolidamento e restauro, in particolare nella sua parte sommitale. Fu proprio tale intervento a dare il via a una diatriba sul suo possesso mai pienamente risolta. Nel maggio del 1815, la fabbriceria parrocchiale presentò un esposto presso la Prefettura del Dipartimento del Serio, nel quale chiese l’intervento del Comune di Stezzano nel pagamento delle spese di restauro37. La Prefettura stabilì che, in base alle leggi allora vigenti (che prevedevano l’impossibilità di gravare le casse comunali con spese destinate a edifici di culto), l’onere fosse a carico della fabbriceria stessa, salvo la possibilità del Comune di concorrere volontariamente in base alle proprie disponibilità economiche. In anni più recenti, invece, vi fu una diatriba relativa al possesso delle chiavi per l’accesso al campanile. La torre, infatti, oltre a ospitare le campane è sede anche di un orologio di proprietà comunale, da sempre utilizzato per finalità pubbliche. Tale orologio in passato necessitava di una manutenzione costante effettuata da un dipendente comunale38. Nel maggio del 1925 vi fu un fitto carteggio tra il parroco Giuseppe Carminati e il sindaco circa il possesso delle chiavi che consentivano l’accesso all’orologio da parte del ‘regolatore’ comunale. La diatriba si risolse presumibilmente qualche anno dopo. In occasione dell’inaugurazione del nuovo concerto di campane nel mese di maggio del 1946, vi fu infatti uno scambio di carteggio tra il parroco Angelo Locatelli e il sindaco39, nel quale si cita il campanaro della parrocchia quale responsabile del servizio di custodia dell’orologio comunale. Nel 2016, infine, hanno preso il via i lavori di risanamento e restauro volti al consolidamento e alla stabilità del campanile che si sono conclusi il mese di settembre dell’anno successivo. Ancora una volta si è riproposta l’annosa questione relativa alla proprietà dello stesso, temporaneamente risolta mediante la concessione di un contributo comunale all’esecuzione dei lavori.

37 APS, Patrimonio, Fabbriceria Parrocchiale, Edifici di culto, fasc. 3. 38 APS, Edifici di culto, Campanile e campane, fasc. 2.

39 Ivi, fasc. 3. 212 Erika Francia

La ‘Scuola dei fanciulli’

La fondazione della prima scuola a Stezzano risale alla fine del XVIII secolo, per volontà di un privato cittadino, Antonio Micheli, che, nel suo testamento datato 2 giugno 1770 redatto dal notaio Giovanni Beretta, stabilì quanto segue:

Lascio alli poveri figliuoli di questa terra di Stezano la Pezza di terra detta la Vitta di Zanica […], in vicinanza della casa de Pessini, da impiegarsi l’usufrutto annuo di questo, di pagar […] un maestro qual facia scuola ad essi figliuoli, per quel tempo ogni anno, che da Sindici della Terra stessa sarà creduto opportuno, ed a proporzione del suddetto ricavato; mentre voglio che essi Sindici siino Amministratori del presente Legato, e che il suddetto Maestro sii Religioso, d’ottimi costumi, da esser questi riconosciuti dal Parroco, che pro tempore sarà della Terra medesima40.

A questo primo lascito ne seguirono altri, in virtù dei quali la scuola pubblica divenne un’istituzione stabile del paese. In archivio è presente una scrittura privata che costituisce uno dei primi contratti di nomina dei maestri41. Nell’atto datato 18 gennaio 1786, i sindaci del Comune Domenico Maffioletti e Giuseppe Bovetti eleggono a maestri i signori Giacomo Ricci e Giuseppe Roncalli, il cui pagamento viene effettuato in parte con il ricavato del legato di Antonio Micheli, e in parte con il ricavato della questua. Negli anni seguenti il diritto di nomina dei maestri di scuola fu fonte di tensioni tra il Comune e il parroco. I contrasti ebbero fine grazie a un accordo stipulato dalla deputazione comunale e dal parroco Pietro Cavagnis datato 1 dicembre 182142, nel quale si stabilì che la nomina fosse disposta consensualmente dal parroco e da un rappresentante dell’amministrazione comunale. Nell’accordo sono citati inoltre i precedenti legali sui quali fonda tale decisione. Si fa così riferimento a un decreto emesso dal capitano e dal podestà di Bergamo il 13 novembre 1792, che disponeva il diritto esclusivo di nomina in favore del parroco. Le motivazioni di tale decreto fondano a loro volta le proprie ragioni

40 APS, Pastorale sociale ed opere parrocchiali, Scuola dei fanciulli poi Scuola elementare, fasc. 1.

41 Ivi, fasc. 2. 42 Ivi, fasc. 5. Archivio parrocchiale di Stezzano 213 nel legato di £. 3000 stabilito dal conte Suardi in favore della scuola, vincolato al diritto di nomina come esclusiva del parroco (di tale legato purtroppo non sono emerse ulteriori notizie). Già dai primi anni del XIX secolo però l’onorario dei maestri superò il valore del lascito Suardi, e la deputazione comunale si trovò a dover integrare a proprie spese la somma necessaria, chiedendo in cambio di avere voce in capitolo nella nomina degli stessi.

Casa Isacchi Si tratta di un immobile di proprietà della parrocchia, posto a fianco della chiesa di San Giovanni Battista (lato nord). Le sue origini risalgono probabilmente al XVII secolo, ma il primo documento presente in archivio è una perizia di stima redatta da Candido Micheli in data 12 gennaio 173443. In essa viene così definito: «sedume di Case Poste nel Castelo coerente alla V.da Chiesa Nova Prepositurale di S.to Gio. B.ta di Stesano». L’edificio è noto per aver ospitato la famiglia di madre Maria Ignazia Isacchi (1857-1934) che vi nacque il giorno 8 maggio, fondatrice insieme a suor Margherita Lussana della Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù di Asola in provincia di Mantova. Fu in suo ricordo che nel 2004, al termine di un importante intervento di restauro iniziato nel 1998, assunse la denominazione di ‘Casa Isacchi’. Attualmente è sede della biblioteca e di parte dell’archivio parrocchiale.

Cappellanie In archivio è presente documentazione relativa a tre cappellanie, legate ad alcune tra le più illustri famiglie stezzanesi: Beretta, Morlani e Valsecchi. Cappellania Beretta – Fu istituita per volere di Alessandro Beretta con testamento datato 28 aprile 184044, e fondata con atto del notaio Angelo Custode Locatelli in data 24 giugno 1841. In base alle disposizioni testamentarie essa fu cappellania coadiutorale con sede presso la chiesa

43 APS, Amministrazione patrimonio, Manutenzione immobili non di culto, Casa Isacchi, fasc. 1. 44 APS, Amministrazione patrimonio, Testamenti, legati e compravendite, Cappellania Beretta, Atti costitutivi, legati e patrimonio, fasc. 3. 214 Erika Francia parrocchiale di San Giovanni Battista. Del possesso della cappellania e relativa sostanza era investito il parroco di Stezzano, che aveva altresì l’autorità esclusiva per la nomina del cappellano. Oltre a ciò, in base a una serie di codicilli voluti dal testatore nel 1842, il parroco aveva anche il diritto all’amministrazione della proprietà patrimoniale della cappellania, con la condizione che desse precedenza nella nomina del cappellano al sacerdote presente in quel momento nella famiglia Teani (dalla quale proveniva Francesca Teani, moglie del testatore). Era poi discrezione del parroco decidere di gestire direttamente i beni della cappellania, oppure darli in gestione al cappellano titolare. La Cappellania Beretta è stata unita in perpetuo al beneficio parrocchiale di Stezzano con decreto vescovile del 9 gennaio 193945. Cappellania Morlani – Fu istituita a seguito di una serie di legati stabiliti da diversi membri della famiglia Carrara Beroa. Il primo legato è quello istituito da Elisabetta Carrara con testamento del 15 luglio 163046, che destinò parte della sua eredità per la celebrazione di una messa quotidiana (in suffragio della sua anima) presso l’oratorio di Santa Elisabetta in Stezzano annesso alla villa della famiglia Carrara Beroa. Il conte Guido Carrara Beroa47, con testamento datato 22 ottobre 187248, stabilì la facoltà per i propri eredi

45 Ivi, fasc. 12. 46 APS, Amministrazione patrimonio, Testamenti, legati e compravendite, Cappellania Morlani, fasc. 1.

47 Il conte Guido Carrara Beroa era figlio di Ottavio Carrara Beroa e Caterina Foresti Tomini. Nel 1808, all’età di 24 anni sposò Flaminia De Vecchi nata il 13 giugno 1792 figlia unica del conte Luca De Vecchi e della contessa Lucrezia Pesenti che morì quando la figlia aveva pochi anni. Il padre di Flaminia si risposò in seconde nozze con la contessa Cecilia Carrara Beroa, sorella di Guido. I coniugi Guido Carrara Beroa e Flaminia De Vecchi trascorsero la loro esistenza tra il palazzo in Città alta e le ville di Stezzano e di Carvico. Ebbero un’unica figlia, Cecilia, nata molti anni dopo il matrimonio, e che morì prematuramente all’età di due anni. La contessa Flaminia mori all’età di 53 anni nel 1845 e la sua salma fu tumulata accanto alla figlia nella cappella della famiglia Carrara Beroa nel cimitero di Stezzano. Generosa benefattrice, la contessa Flaminia per testamento beneficò con ingenti somme di denaro i principali enti assistenziali della città (la Casa di Ricovero, le Istituzioni Botta, lo stabilimento dei Pazzi agiati, gli asili d’infanzia della città) e la cattedrale. Guido Carrara Beroa morì il 26 ottobre 1874, all’età di 90 anni, e fu sepolto accanto alla moglie. In vita aveva ricoperto molti incarichi pubblici a Bergamo: era stato assessore municipale, membro del Direttorio dei Luoghi Pii Elemosinieri, membro di vari Consigli di amministrazione di istituti di beneficenza fra i quali molti asili. In assenza di figli, i suoi beni e quelli della moglie Flaminia, passarono ai nipoti fratelli Morlani figli di Giambattista e della contessa Maria Carrara Beroa sorella di Guido. (Cfr. i necrologi di Flaminia De Vecchi Carrara Beroa in «Bergamo o sia Notizie Patrie» raccolte da Carlo Facchinetti. Almanacco per l’anno 1846, pp. 71-73, e quello di Guido Carrara Beroa in «La Provincia Gazzetta di Bergamo», anno III, 1874, N. 249). 48 Ivi, fasc. 3. Archivio parrocchiale di Stezzano 215 di scegliere il sacerdote cui far celebrare le messe dipendenti dai legati Carrara Beroa, istituendo di fatto la figura del cappellano. Mancano tuttavia un atto e una data certa di fondazione della cappellania. Agli inizi del XIX secolo Guglielmo Carrara Beroa per primo chiese al vescovo di Bergamo la riduzione delle messe da celebrarsi a carico del legato originario. La maggior parte della documentazione contenuta in archivio riguarda quindi la gestione economica del legato e delle relative messe a carico della famiglia Carrara Beroa, poi Morlani Carrara Beroa. Cappellania Valsecchi – La sua istituzione si deve al capitale lasciato dal parroco Giovanni Battista Valsecchi con testamento redatto dal notaio Paolo Agazzi in data 2 settembre 1816. Il testamento originale non è presente nell’archivio parrocchiale, ma è conservato in copia nel fascicolo ‘legati’ della parrocchia di Stezzano, presso l’Archivio Storico Diocesano di Bergamo49. Le clausole presenti nel testamento stabilivano che titolare della cappellania fosse il testatore fino alla sua morte, e che in seguito dovesse passare a un sacerdote della famiglia Valsecchi. Lo stesso testamento inoltre stabilì l’istituzione dell’Opera pia Valsecchi, gestita e dipendente dalla deputazione comunale di Stezzano. In data 14 aprile 1892, con decreto di re Umberto I, l’opera pia venne concentrata nella Congregazione di carità del Comune di Stezzano. La documentazione appartenente all’opera pia è conservata presso la sede del gruppo ‘Stezzano la Storia’.

Confraternite e associazioni laicali

La parrocchia di Stezzano fu, ed è tuttora, sede di numerose associazioni, gruppi, confraternite e congreghe di matrice laicale a partire dal XVI secolo. Si segnala quindi la presenza di documentazione relativa a: scuola del Suffragio dei Morti (poi deputazione dei Morti o deputazione del Triduo); Congregazione femminile; confraternita del Santissimo Rosario; Gioventù cattolica maschile della parrocchia di Stezzano ‘Circolo San Luigi’; pia associazione della Sacra Famiglia; Lega delle Madri di famiglia (o Madri cristiane) di Stezzano; Lega dei Padri di famiglia di Stezzano; Congregazione di Maria Vergine Immacolata (o Figlie di Maria); Circolo operaio di San Giuseppe con Cassa di mutuo soccorso; Azione

49 ASDBg, Curia vescovile, Stezzano, Legati. 216 Erika Francia

Cattolica (con Circolo Benedetto XV della Gioventù di Azione cattolica); associazione Uomini cattolici di Stezzano; Ordine francescano secolare; Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali); Società di San Vincenzo de’ Paoli. Ad esse ne vanno aggiunte altre, più antiche ma oggi non più esistenti, quali la Scuola del Santissimo Nome di Gesù, la Scuola del Santissimo Sacramento, la Scuola e confraternita del Santissimo Rosario (aventi sede presso la chiesa parrocchiale) e la Scuola della Disciplina di San Defendente (avente sede presso l’omonima chiesa, ora perduta). Tali confraternite furono probabilmente soppresse in seguito all’emanazione delle leggi napoleoniche (1807-1810) e l’unica testimonianza rimanente in archivio è un registro di testamenti e atti diversi, comprovanti rendite in loro favore (anni 1620-1697)50. Tra le confraternite presenti in parrocchia, la Scuola del Suffragio dei Morti (poi denominata Deputazione dei Morti o Deputazione del Triduo) è stata la più attiva e longeva dal punto di vista della produzione documentaria. Il sodalizio aveva probabilmente sede all’interno della chiesa parrocchiale ed era impegnato nella gestione degli aspetti economici e organizzativi del culto dei defunti della parrocchia. Per tale ragione si occupava della raccolta fondi (tramite elemosine, donazioni e questua) da destinarsi sia alle celebrazioni per i defunti sia alla gestione e manutenzione delle cappelle ad essi dedicate. Tra le sue principali prerogative vi erano il finanziamento e l’organizzazione del Triduo dei Morti. Si tratta di una pratica devozionale nata in Lombardia nei primi anni del Settecento51, probabilmente a seguito delle ondate pestilenziali che la colpirono, finalizzata alla commemorazione dei defunti con solenni funzioni. Nei tre giorni del Triduo (corrispondenti agli ultimi tre giorni del carnevale), presso la chiesa parrocchiale veniva eretto un imponente apparato ligneo (scolpito o dipinto) da posizionarsi sull’altare maggiore, sul quale veniva esposto il Santissimo Sacramento. La deputazione si occupava sia del coordinamento delle maestranze impegnate nella costruzione della ‘macchina del Triduo’, sia della raccolta fondi per la sua realizzazione. La Scuola dei Morti era gestita da deputati nominati dai sindaci della

50 APS, Amministrazione patrimonio, Testamenti, legati e compravendite, Testamenti e legati, reg. 3. 51 Sulle confraternite in area lombarda vedi il recente Confraternite: fede e opere in Lombardia dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di Stefania Buganza, Paolo Vanoli, Danilo Zardin, Milano, Scalpendi, 2011. Archivio parrocchiale di Stezzano 217 chiesa parrocchiale e aveva al proprio servizio un gruppo di cappellani. In archivio si conservano principalmente registri contabili, fascicoli personali dei cappellani e dei deputati della scuola, fascicoli personali dei salariati, rapporti con autorità civili e religiose. In seguito all’istituzione della fabbriceria parrocchiale nel 1810 circa, la Scuola dei Morti perse la propria autonomia e divenne parte delle attività gestite dai fabbricieri, così come dimostrano i conti consuntivi di quegli anni. La deputazione cessò la propria attività presumibilmente nel 1936, sostituita da un legato perpetuo istituito dal parroco Giuseppe Carminati presso la Curia vescovile di Bergamo nel 193752. Ciò nonostante, la raccolta di fondi destinati alla commemorazione dei defunti proseguì e prosegue ininterrotta, producendo una propria contabilità definita come ‘cassa dei Morti’.

Omelie, panegirici, discorsi e scritti filosofico-teologici

Nel solaio della casa parrocchiale sono stati ritrovati due scatoloni contenenti 168 fascicoli che coprono un arco cronologico dal XVIII secolo al 1910 circa, senza alcun ordine apparente. Tali fascicoli sono costituiti da omelie, panegirici, discorsi e appunti filosofici. In fase di schedatura è stata tentata un’attribuzione in base al tipo di scrittura, agli argomenti trattati e all’eventuale presenza di date. Ciò nonostante la maggior parte degli scritti rimane anonima e collocabile in un ampio lasso di tempo. Per tale motivo nel titolario è stata inserita una classe apposita, nella quale i fascicoli sono collocati in ordine cronologico. In base a un confronto calligrafico, la maggior parte delle omelie potrebbe essere opera di Giovanni Antonio De Agostini, il cui nome compare in uno dei fascicoli53. Purtroppo non è stato possibile trovare notizie sull’autore, né sul motivo della presenza dei suoi scritti nella casa parrocchiale di Stezzano.

52 APS, Associazioni laicali, Scuola del Suffragio dei Morti (poi Deputazione dei Morti o Deputazione Triduo), fasc.19. 53 APS, Chronicon e memorie storiche, Omelie, panegirici, discorsi e scritti filosofico- teologico, fasc. 156. 218 Erika Francia

Il santuario della Madonna dei Campi

Risalgono al XII secolo le prime attestazione relative alla presenza di una cappelletta dedicata alla Vergine Maria, situata nei campi tra Stezzano e Lallio. A seguito delle apparizioni mariane (la prima del XIII secolo, la seconda del 1586), la cappelletta venne ingrandita e adibita a chiesa sussidiaria dipendente dalla chiesa parrocchiale di Stezzano54. Negli anni tra il Seicento e gli inizi dell’Ottocento, la chiesa sussidiaria risulta amministrata prima da deputati coordinati da un sindaco, poi dalla Soprintendenza e deputazione alle Cause pie della Quadra di Mezzo di Bergamo. Fin dal XVIII secolo è attestata la presenza di cappellani interni. A partire dal XIX secolo, l’intero complesso venne gestito da un cappellano-rettore, tenuto alla firma di un apposito capitolato. In seguito alla proclamazione delle leggi napoleoniche (1807-1810), l’amministrazione della chiesa sussidiaria divenne una prerogativa della fabbriceria parrocchiale, fino alla sua soppressione avvenuta nel 1938. Negli anni dal 1947 al 1958, la gestione del complesso del santuario venne ceduta al Patronato San Vincenzo di Bergamo, a seguito della relativa convenzione firmata con il parroco in data 8 settembre 194755. In base alla convenzione, al Patronato spettavano il servizio di custodia e la gestione della cancelleria, in cambio dell’uso delle case occupate dal cappellano e dal sacrista. In questi anni presso il santuario venne istituita una scuola professionale. La convenzione venne scissa il 30 giugno 1958, a seguito di controversie relative proprio alla presenza della scuola. Nel 1959, la gestione del santuario venne affidata alla Congregazione delle Suore Sacramentine di Bergamo, che vi aprirono un orfanotrofio femminile intitolato a Papa Giovanni XXIII. Di tale gestione non vi è traccia in archivio. L’unica testimonianza presente è una comunicazione inviata da Papa Giovanni XXIII al parroco don Angelo Locatelli, riportante il benestare all’istituzione dell’orfanotrofio, datata 4 giugno 195956. Nel 1986, durante le celebrazioni del quarto centenario dell’apparizione mariana (12 luglio), è stato istituito il gruppo ‘Amici del santuario’ che si occupa anche attualmente della sua manutenzione.

54 Gruppo di Ricerca Stezzano la Storia, Il Santuario di Nostra Signora della Preghiera nei campi di Stezzano, Treviolo Ikonos srl, 2011. 55 APS, Santuario della Madonna dei Campi di Stezzano, Edifici, Santuario, porticato area verde, fasc. 5. 56 APS, Santuario della Madonna dei Campi di Stezzano, Chronicon e memorie storiche, fasc. 4. Archivio parrocchiale di Stezzano 219

Il complesso del santuario è stato dichiarato di notevole interesse storico artistico, ed è quindi sottoposto a vincolo da parte della Soprintendenza per i beni storico artistici di Milano, in base a notifica del 7 agosto 200757. In assenza di personalità giuridica, e data la dipendenza sin dalle origini della chiesa della Madonna dei Campi dalla parrocchia di Stezzano, la documentazione ad essa attinente è stata considerata parte integrante dell’archivio parrocchiale e collocata in un apposito titolo. La documentazione conservata in archivio riguarda prevalentemente la gestione delle proprietà immobiliari (frutto di lasciti e donazioni dal 1590 circa in poi); la gestione e manutenzione del complesso di immobili e relativi beni storico-artistici (santuario, porticato e area verde, casa del pellegrino e pertinenze); la celebrazione di anniversari dell’apparizione del 1586 e festività diverse; il carteggio e la registrazione delle testimonianze di miracoli e fatti prodigiosi avvenuti presso il santuario; la registrazione degli ex voto donati. Parte della documentazione relativa al santuario antecedente al XVIII secolo è andata persa a seguito di un incendio, avvenuto nella notte del 15 agosto 185658, che distrusse l’edificio adibito ad alloggio dei cappellani presso il quale era conservata. In seguito, tale edificio è stato venduto alla deputazione comunale e demolito dalla stessa per dare nuova struttura alla piazza comunale59.

Incoronazione della Vergine della Preghiera – Presso il santuario è presente una statua della Vergine Maria che rievoca l’apparizione del 12 luglio 1586, eseguita dallo scultore Luigi Carrara di Oltre il Colle, su commissione del parroco don Sperandio Carminati; fu collocata nel santuario il 12 luglio 1868. Si tratta del complesso di statue composto dalla Madonna (rappresentata con una veste scura, un libro aperto in una mano, e intenta nella preghiera con gli occhi volti al cielo) e dalle due ragazze a cui apparve in quell’occasione. Denominata Vergine della Preghiera, nel 1885 fu oggetto di numerose segnalazioni di eventi miracolosi, in particolare relativi al movimento degli occhi. Nel febbraio del 1886 prese il via una raccolta firme patrocinata dal

57 APS, Santuario della Madonna dei Campi di Stezzano, Edifici, Santuario, porticato e area verde, fasc. 8/19. 58 Daniele Vitali, Stezzano e la sua Chiesa..., cit. p. 123 59 APS, Amministrazione patrimonio, Manutenzione immobili non di culto, Immobili di proprietà della parrocchia, fasc. 1. 220 Erika Francia vescovo di Bergamo Gaetano Camillo Guindani, che interessò l’intero territorio della diocesi60. La raccolta firme era indirizzata al capitolo di San Pietro in Vaticano, e finalizzata alla richiesta della concessione di una corona d’oro per la statua. In archivio sono ancora conservate alcune delle schede originali della raccolta firme. In una lettera di don Sperandio Carminati a monsignor Felice Cavagnis datata 7 giugno 1886, il parroco espone le motivazioni della richiesta ricordando i fatti prodigiosi iniziati nel giugno del 1885 e protrattisi per circa un anno. Le numerose attestazioni parlavano di «prodigioso movimento degli occhi» e di «cambiamento del colore del volto del Santo Simulacro». Il decreto d’incoronazione venne concesso dal capitolo vaticano in data 20 luglio 1886. L’originale del decreto è conservato presso la Curia vescovile di Bergamo, mentre in archivio parrocchiale è presente una copia autentica conforme all’originale, rilasciata dalla Curia il 18 luglio 1996. L’incoronazione ebbe luogo con solenni festeggiamenti il 5 settembre 1896.

Miracoli ed ex voto – Nei secoli trascorsi dopo gli avvenimenti prodigiosi del 1586, numerose furono le grazie concesse dalla Madonna. Esse comprendevano sia guarigioni inspiegabili da malattie o incidenti, sia la protezione dei fedeli dalla guerra, da atti criminali o morti violente. Presso il santuario sono conservati numerosi ex voto a testimonianza di tali avvenimenti, fonti preziose di informazioni sulla vita quotidiana e la religiosità popolare del nostro recente passato. Nel 1885 si iniziò un’importante operazione di catalogazione che portò alla compilazione di dieci registri. In essi per ogni ex voto sono indicati: numero progressivo; nome dell’offerente; descrizione di materiali e aspetto; descrizione dell’evento miracoloso; nome e firma dei testimoni61. A tali descrizioni si uniscono anche deposizioni giurate rilasciate da testimoni oculari di eventi miracolosi avvenuti presso il santuario. Tra di essi quello riportato con maggior frequenza è il movimento degli occhi della statua della Vergine della Preghiera. Presso l’archivio parrocchiale sono conservate inoltre numerose lettere con richieste d’intercessione alla Vergine o con ringraziamenti per grazie concesse62.

60 APS, Santuario della Madonna dei Campi, Culto, Feste, celebrazioni religiose e pellegrinaggi, fasc. 5. 61 APS, Santuario della Madonna dei Campi, Miracoli e grazie ricevute, fasc. 3-12. 62 Tra le altre, citiamo queste due testimonianze. «Oggi 21 agosto 1885. Venuta a Archivio parrocchiale di Stezzano 221

Appendice

Titolario elaborato negli anni 2014 – 2017 durante il riordino e l’in- ventariazione dell’Archivio parrocchiale di Stezzano.

I. Autorità ecclesiastiche 1. Santa Sede 2. Episcopato lombardo 3. Vescovo 1. Decreti 2. Lettere pastorali e circolari 3. Sinodi diocesani 4. Curia vescovile 5. Vicaria

II. Autorità civili 1. Governo ed organi centrali 2. Subeconomo dei benefici vacanti di Bergamo 3. Prefettura e Questura di Bergamo 4. Comune di Stezzano

III. Parrocchia 1. Visite pastorali 2. Privilegi e indulgenze IV. Personale religioso e laico 1. Parroco 2. Sacerdoti, religiosi nativi e seminaristi 3. Personale laico V. Anagrafe e Sacramenti 1. Battesimo 1. Registri dei battesimi 2. Copie atti di battesimo questo santuario per visitare l’immagine di Nostra Signora della preghiera, ho veduto chiaramente il movimento degli occhi, assieme alla mia nipote Margherita Isacco d’anni 8. In fede Ghita Colleoni, vedova Vanoncini, di Stezzano». «Li 29 luglio 1885, Bergamo. Dichiaro io sottoscritta questa mattina di aver veduto con tutta verità, di aver veduto gli occhi e particolarmente l’occhio sinistro, a muoversi e mi fece una grande impressione l’oposso [sic] giurare. Beatrice Spinelli»; ivi, fasc. 1, 4 e 5. 222 Erika Francia

2. Matrimonio 1. Registri di matrimonio e sponsali 2. Processicoli 3. Morti 4. Prima Comunione 1. Registri delle Prime Comunioni 2. Attestati d’idoneità 5. Cresima 1. Registri delle Cresime 2. Certificati di ammissione 6. Stati d’anime

VI. Culto 1. Feste e celebrazioni ordinarie 2. Feste e celebrazioni straordinarie 3. Registri delle Messe 4. Registri di Messe per defunti e legati 1. Messe per i defunti 2. Messe pro legato 5. Tariffari 6. Reliquie

VII. Edifici di Culto 1. Chiesa parrocchiale e battistero 2. Campanile e campane 3. Chiesa vecchia e cappelle 4. Inventari suppellettili e arredi sacri

VIII. Amministrazione patrimonio 1. Beneficio parrocchiale 2. Fabbriceria parrocchiale 1. Registri delle deliberazioni 2. Registri di protocollo 3. Repertori degli atti pubblici 4. Fabbricieri e salariati 5. Feste e celebrazioni ordinarie e straordinarie 6. Edifici di culto 7. Contabilità e tasse 1. Registri cassa Archivio parrocchiale di Stezzano 223

2. Conti consuntivi 3. Bollettari 4. Assicurazioni, utenze e tasse 5. Contabilità generale 8. Patrimonio immobiliare 1. Testamenti, legati, donazioni, compravendite e permute 2. Affitti e concessioni 3. Livelli, capitali affrancati e ipoteche 9. Contenziosi 3. Consiglio pastorale affari economici 4. Testamenti, legati e compravendite 1. Testamenti e legati 2. Compravendite, permute e donazioni 3. Cappellania Beretta 1. Atti costitutivi, legati e patrimonio 2. Contabilità, utenze e tasse 4. Cappellania Morlani 5. Cappellania Valsecchi 5. Manutenzione immobili non di culto 1. Casa parrocchiale e centro parrocchiale polifunzionale 2. Casa Isacchi 3. Auditorium e complesso polifunzionale di via Carrara Beroa 4. Immobili di proprietà della parrocchia 6. Affitti, livelli (mutui), servitù e concessioni 1. Affitti 2. Livelli, mutui e capitali affrancati 3. Servitù, concessioni e cessioni 7. Cassa e contabilità 1. Registri cassa 2. Contabilità generale 8. Elemosine da inviare in Curia 9. Spese ordinarie (tasse, assicurazioni, utenze) 1. Imposte e tasse 2. Assicurazioni e sorveglianza 3. Utenze 10. Contenziosi 11. Archivio parrocchiale 224 Erika Francia

IX. Pastorale sociale e opere parrocchiali 1. Consiglio pastorale parrocchiale 1. Istituzione, statuto, membri 2. Verbali delle assemblee 3. Commissioni parrocchiali 2. Annuncio Parola e Liturgia 1. Scuola della Dottrina cristiana 2. Ministri straordinari dell’Eucarestia 3. Carità, missioni e promozione umana 4. Scuola dell’infanzia ‘Umberto I’ poi ‘Don Antonio Locatelli’ 5. ‘Scuola dei fanciulli’ poi Scuola elementare 6. Oratorio 1. Gestione edifici e campi sportivi 2. Contabilità 3. Polisportiva oratorio Stezzano 7. Cinema - Teatro Eden 1. Edificio 2. Contabilità 3. Licenze, assicurazioni, tasse e utenze 8. Colonia Santissima Trinità di Somendenna 9. Associazioni e corpi musicali 10. Casa di riposo Villa della Pace

X. Associazioni laicali 1. Scuola del Suffragio dei Morti (poi Deputazione dei Morti o Deputazione Triduo) 2. Congregazione femminile 3. Confraternita del Santo Rosario 4. Gioventù cattolica maschile della Parrocchia di Stezzano, Circolo San Luigi 5. Pia Associazione della Sacra Famiglia 6. Lega delle Madri di famiglia (o Madri cristiane) di Stezzano 7. Lega dei Padri di famiglia di Stezzano 8. Congregazione di Maria Vergine Immacolata (o Figlie di Maria) 9. Circolo operaio di San Giuseppe con Cassa di Mutuo Soccorso 10. Azione Cattolica (con Circolo ‘Benedetto XV’ della Gioventù Azione Cattolica) Archivio parrocchiale di Stezzano 225

11. Associazione Uomini cattolici di Stezzano 12. Ordine francescano secolare 13. Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) 14. Società di San Vincenzo De Paoli

XI. Chronicon e memorie storiche 1. Chronicon e memorie 2. Omelie, panegirici, discorsi e appunti filosofici 3. Bollettino parrocchiale «Stezzano Nostra»

XII. Santuario della Madonna dei Campi di Stezzano 1. Regolamenti 2. Patrimonio 1. Atti notarili 2. Affitti, concessioni, livelli e capitali affrancati 3. Culto 1. Feste, celebrazioni religiose e pellegrinaggi 2. Registri delle Messe 1. Messe prenotate 2. Messe celebrate 4. Edifici 1. Santuario, porticato e area verde 2. Casa del Pellegrino e pertinenze 5. Contabilità 1. Registri cassa e mandati 2. Contabilità 6. Personale 7. Confraternita del Santo Rosario 8. Miracoli e grazie ricevute 9. Contenziosi 10. Chronicon e memorie storiche

MOSTRE, CONVEGNI, EVENTI

229

«DI ELEVATO INGEGNO» E «SOMMA DOTTRINA». ANTONIO TADINI E LA SCIENZA DELLE ACQUE. Mostra documentaria promossa dal Comune di Romano di Lombardia

Dal 2016 il Comune di Romano di Lombardia ha promosso alcune iniziative di valorizzazione della cultura scientifica in generale e della figura dell’ingegnere idraulico Antonio Tadini in particolare. Dando seguito a queste attività, dal 2 all’11 marzo 2018 il Comune di Romano ha riproposto presso la Rocca viscontea la mostra documentaria «Di elevato ingegno» e «somma dottrina». Antonio Tadini e la scienza delle acque. Nella sua prima edizione, dal 29 settembre al 22 ottobre 2017, la mostra è stata ospitata presso il Museo d’Arte e Cultura Sacra di Romano, inserita nel programma del XV Festival di Bergamo Scienza, approdato per la prima volta a Romano, ed è stata rivolta prioritariamente alle scuole. Le visite guidate sono state curate dagli studenti degli Istituti Superiori Statali Don Lorenzo Milani e Giovanni Battista Rubini di Romano, che a loro volta hanno partecipato a Bergamo Scienza con propri progetti. La riproposizione della mostra è scaturita dalla volontà dell’amministrazione comunale di allargarne la fruizione anche a un pubblico più vasto, inserendo le date di apertura nel calendario delle Giornate dei Castelli, palazzi e borghi medievali aperti 2018. In una lettera del 1819 scritta da Venezia, Pietro Paleocapa definì l’ingegnere idraulico Antonio Tadini uomo di «elevato ingegno» e «somma dottrina» e questa definizione è stata scelta come titolo della mostra. Romanese di nascita, Tadini, conosciuto anche come Giovanni Antonio o Antonio, è noto soprattutto per la sua memoria idraulica del 1816 Del movimento e della misura delle acque correnti e per le Tavole idrometriche per la dispensa delle acque correnti per uso della Regia Città di Bergamo del 1825. In realtà, la complessità della sua figura di scienziato consente di annoverarlo tra i più significativi esponenti della cultura enciclopedica europea tra Sette e Ottocento. In quattordici pannelli espositivi, la mostra ripercorre le principali tappe della biografia di Tadini, non tanto per ricrearne la cronologia ma con lo scopo di evidenziare, a partire da casi concreti, alcuni degli aspetti fondamentali del suo contributo all’idraulica 230 Mostre e convegni italiana, insieme al suo apporto alla diffusione della cultura illuminista. Così, il ritratto di Tadini eseguito da Giuseppe Diotti è l’occasione per parlare dei rapporti con la città di Bergamo e presentare un’inedita corrispondenza con l’abate Giuseppe Bravi suo amico; la lettera di Pietro Paleocapa sulla gestione del Sile consente di collocare le riflessioni di Tadini nel contesto degli studi sulla Laguna veneta; la corrispondenza con l’amico Lorenzo Mascheroni introduce gli anni di formazione di Tadini insieme alle sue esplorazioni nelle prealpi bergamasche; i suoi diari di uccellagione, così come i registri degli esperimenti sul lancio dei gravi per la dimostrazione della rotazione terrestre, sono un esempio concreto di applicazione del metodo scientifico; ancora, l’alluvione del 1801 nei dipartimenti del Mincio e del Basso Po è un caso esemplare dell’attività di Tadini come ispettore generale del Corpo di Acque e Strade per la gestione idraulica dei territori interessati dalle sue visite dipartimentali. Proprio in merito agli studi di idraulica, in un periodo di profonde trasformazioni storiche culminate con la rivoluzione del 1797, Tadini inizia dal 1798, con la Repubblica Cisalpina, una rapida carriera nell’amministrazione delle acque diventando prima commissario generale del potere esecutivo «per qualsiasi oggetto idraulico», poi dal 1804, con la Repubblica Italiana, idraulico nazionale e, infine, dal 1806, ispettore generale del Corpo di Acque e Strade del Regno d’Italia, incarico svolto fino al 1812, anno delle sue dimissioni. Al termine della sua esperienza nell’amministrazione napoleonica Tadini torna a Romano, dove prosegue i suoi studi e dove muore nel 1830. La mostra, realizzata con un taglio didattico-divulgativo, attinge in larga misura all’Archivio Antonio Tadini. L’archivio è stato depositato nel 1998 dagli eredi di Tadini, la famiglia Galbiati, presso la Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo e dagli stessi definitivamente donato nel 2017. Presso la Biblioteca Mai, che figura tra gli enti collaboratori della mostra insieme al Macs e al Parco del Serio, era già presente un significativo nucleo di manoscritti di Tadini e di altri intellettuali coevi, di cui l’ingegnere romanese era corrispondente ed amico, come ad esempio i già citati Lorenzo Mascheroni e Giuseppe Bravi. L’Archivio Tadini è stato inventariato da Barbara Cattaneo, che ha curato il progetto, le ricerche archivistiche e iconografiche e i testi della mostra, una sintesi della quale è stata pubblicata in un in un opuscolo distribuito gratuitamente dal Comune di Romano.

La Redazione Mostre e convegni 231

LA REPUBBLICA BERGAMASCA DEL 1797: NUOVE PROSPETTIVE DI RICERCA

Nei giorni 22 e 23 settembre del 2017 l’Università di Bergamo ha ospitato il convegno dal tema La Repubblica bergamasca del 1797: nuo- ve prospettive di ricerca. L’organizzazione scientifica è stata curata dai professori Daniele Edigati, Simona Mori, Marco Pellegrini e Roberto Per- tici; hanno presenziato e coadiuvato lo svolgimento del convegno l’Ate- neo di Bergamo e la Fondazione Bergamo nella Storia. Le due giornate di studio hanno ospitato nove interventi che, come è stato notato in apertura dei lavori, si sono avvalsi di esperti afferenti a Università ed enti di ricerca di varia collocazione e di diversa forma- zione. Il convegno ha accolto contributi provenienti dalle più svariate discipline, dall’archivistica alla storia istituzionale, passando per la storia culturale e la storia economica. L’appuntamento ha rappresentato anche l’occasione per rompere l’as- sordante silenzio che a Bergamo ha spesso accompagnato la parentesi – ma si trattò davvero di una parentesi? – repubblicana del 1797. Conside- rando solo gli ultimi decenni di produzione storiografica, un significativo addensamento delle pubblicazioni si è avuto – comprensibilmente – in- torno al 1989. All’importante contributo di Roberto Formento pubblicato su «Storia in Lombardia» del 1988 ha fatto seguito, l’anno successivo, il numero monografico di Archivio Storico Bergamasco, che con Antonella Rizzi, Giorgio Daneri e Giosuè Bonetti dava luce all’opera più compiuta sulla Repubblica bergamasca. Da questa pubblicazione in poi, gli studi sulla fine dell’Antico Regime a Bergamo si misurano veramente con il contagocce. Con il CCX anniversario hanno fatto la loro comparsa una sintesi ragionata di Mauro Gelfi sul 1797 e uno studio di Eliana De Cata sul vescovo Gianpaolo Dolfin, figura cruciale di quel periodo. Nel convegno, due relazioni hanno avuto un valore introduttivo, an- che se incasellate in momenti diversi da quello di apertura. Fondamentale il contributo di Virginie Martin, che ha ricostruito il rapporto tra politica estera della Francia rivoluzionaria e Repubblica bergamasca grazie alle fonti d’Oltralpe. In particolare, la studiosa ha analizzato l’atteggiamento e la visione delle maggiori autorità francesi (ufficiali, uomini di governo, Bonaparte stesso) concernente il destino del nuovo organo politico oro- bico. Le posizioni apparivano cristallizzate tra chi lo riteneva un «aborto 232 Mostre e convegni senza vita», un soggetto politico destinato solo a confluire entro compa- gini più ampie, e chi invece aveva la necessità di presentarlo come un movimento spontaneo e autonomo di adesione agli ideali rivoluzionari. Altre informazioni propedeutiche sono state quelle fornite da Valeria Leoni, volte a ricostruire – almeno parzialmente – la storia dei fondi archivistici legati alla Bergamo del 1797: è emersa una sostanziale di- spersione delle fonti, anche se del materiale ancora inesplorato si ritrova certamente nella sezione di Antico Regime della Biblioteca Civica An- gelo Mai di Bergamo e nel fondo Dipartimento del Serio conservato in Archivio di Stato. Un forte dialogo si è instaurato tra gli interventi di Michele Simonetto e Giacomo Girardi. Il primo si è concentrato sulle reazioni che si scate- narono in Laguna alla notizia – tutt’altro che inaspettata – della solleva- zione di Bergamo. In fondo si trattava di una città che si staccava da una Repubblica per aderirne a un’altra. È stata perciò l’occasione per fare un focus specifico sui temi, già noti agli storiografi della Serenissima, della legittimità delle rivoluzioni, della neutralità armata, del rapporto tra ca- pitale e capoluoghi. Girardi, invece, è tornato sul problema della contro- rivoluzione delle valli bergamasche – e quindi, in qualche modo, sempre sul rapporto centri/periferie – , connettendolo con quanto accadde nel frattempo in altri contesti territoriali, come Brescia o Verona. Dando per- ciò all’argomento una visione d’insieme che prima era, forse, mancata. Contributi di taglio più specialistico quelli di Goffredo Zanchi (sul rapporto tra Rivoluzione e religione), di Luca Bani (sul ruolo, non una- nime, degli intellettuali bergamaschi dell’epoca) e di Fabrizio Costantini (sull’economia bergamasca all’immediata vigilia della Rivoluzione). Di assetto e di scelte istituzionali ha parlato la professoressa Simona Mori nel suo intervento sulla Costituzione della Repubblica. Delle due giornate di incontro è prevista la pubblicazione degli atti (tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019), che proporranno, a circa 220 anni di distanza dalla cacciata del podestà Ottolini, la sintesi più recente e aggiornata degli avvenimenti riguardanti la Repubblica bergamasca.

Fabrizio Costantini RECENSIONI

Recensioni 235

Giovanni Michele Alberto Carrara, Armiranda, edizione critica, traduzio- ne e commento a cura di Lucia Mancino, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2011 (Teatro umanistico, 4), pp. CXX-268. Il volume, quarto della collana «Teatro umanistico» (diretta da Stefano Pittaluga e Paolo Viti), presenta l’edizione critica, accompagnata da tra- duzione e commento, della commedia latina Armiranda, redatta dall’u- manista bergamasco Giovanni Michele Alberto Carrara (1438-1490) negli anni della sua formazione universitaria a Padova. Dell’opera in questione, suddivisa in 56 scene – ognuna delle quali preceduta da una didascalia, un argumentum e un prohemium –, esisteva precedentemente un’unica edizione (Giraldi 1976), non priva di difetti. Nell’ampia introduzione (pp. IX-CXX) la curatrice ricostruisce la bio- grafia di Carrara, valorizzando in particolare gli studi di Angelo Mazzi e di Giovanni Giraldi, e passa in rassegna le sue opere, gran parte delle quali ancor oggi inedite e trasmesse da manoscritti per lo più conservati presso la Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo. Si sofferma poi su questioni ine- renti al periodo di stesura della commedia (1457-1460 circa), sugli aspetti autobiografici in essa presenti e sulle correzioni, parzialmente ascrivibili a Carrara stesso, relative ai nomi propri di alcuni personaggi dell’opera: Ca- melius, Armiranda, Dogius e Nidona. Particolare attenzione viene inoltre dedicata al reperimento e all’analisi dei modelli classici a cui l’umanista, «personalità […] certamente non secondaria del Quattrocento», si ispirò per la stesura dell’Armiranda, come, in primis, le commedie di Terenzio e – in misura minore – quelle di Plauto. Si individuano poi alcune riprese, più o meno fedeli, anche da Catullo, Pacuvio, Ovidio, Cicerone, Virgilio, Sallustio, Seneca, Livio, Plinio il Vecchio, Properzio, Persio, Giovenale, Orazio e dalla Rhetorica ad Herennium. Nelle due sezioni successive Lu- cia Mancino si sofferma sulla lingua e sullo stile dell’umanista, che si ca- ratterizzano per raffinatezza e sperimentalismo, e sul tipo di verso da lui utilizzato: lo «scazonte». Questa prima parte si chiude con la descrizione dell’unico manoscritto che tramanda l’opera (Milano, Biblioteca Trivulzia- na, 763, sec. XV²) e con i criteri adottati per l’edizione. Il testo critico della commedia (pp. 1-225), preceduto dall’elenco dei personaggi, è accompagnato da traduzione italiana e da un buon appa- rato di note di commento (pp. 227-260), che rendono conto degli aspetti storico-letterari e linguistici dell’opera. Chiudono il volume gli indici dei manoscritti (p. 263) e dei nomi di persona e di luogo (pp. 265-268). Dario Personeni 236 Recensioni

Patrizia Iorio - Mino Scandella, La chiesa dei Santi Defendente e Rocco a Clusone. Dove l’arte diventa preghiera, Clusone, Circolo Culturale Bara- dello, 2016, 192 pp.

Il testo è stato redatto da Mino Scandella, storico e studioso clusone- se, che da decenni si interessa di storia patria e da Patrizia Iorio, storica dell’arte, laureata in conservazione dei beni culturali, che si è ‘innamo- rata’ di questa chiesa. Mino Scandella ha curato la parte storica, con un’accurata ricerca su fonti e documenti presenti negli archivi locali, relativa all’edificio sacro, costruito all’esterno delle mura del borgo di Clusone e che per la scarsità di documenti relativi al periodo dall’edificazione sino alla fine del ’600 ha goduto di scarsa attenzione da parte degli storici locali precedenti. La chiesa edificata tra il 1471 e il 1477, probabilmente a cura della Confraternita dei Santi Defendente e Rocco, e successivamente ampliata con il portico cinquecentesco a tre arcate, all’esterno non è eccessiva- mente caratterizzata, se non dalla torre campanaria, ed è stata pressoché abbandonata alla fine dell’Ottocento e utilizzata come magazzino. L’edificio sacro è stato ‘riscoperto’ nel Novecento e, grazie a diversi in- terventi di restauro, l’ultimo compiuto nel 2016, è stato restituito al culto e contemporaneamente a una pregevole rilettura storico-artistica. La chiesa mostra infatti sin dal portico addossato all’antica facciata il suo vero pregevole tesoro: una teoria di affreschi votivi che nei secoli hanno rivestito la quasi totalità delle pareti. Patrizia Iorio, basandosi su una approfondita ricerca delle fonti ma- noscritte (Biblioteca Laudense), bibliografiche, e sul materiale documen- tario presente negli archivi della Soprintendenza, ha analizzato le pittu- re sotto diversi aspetti: artistico, iconografico e devozionale. Riguardo a quest’ultimo tema la studiosa ha saputo anche confrontare la chiesa dei santi Defendente e Rocco con l’agiografia e la diffusione nel Bergama- sco del culto di questo soldato martire appartenente alla Legione Tebea, sterminata ad Agaunum – l’attuale Saint-Maurice nel Vallese svizzero – all’epoca di Diocleziano. L’oratorio di Clusone si inserisce quindi all’interno di in una serie di edifici coevi, che potremmo definire quasi come ‘gallerie di ex-voto af- frescati’ – basti il confronto con il vicino santuario della Santissima Trinità di Casnigo – che mostrano una cultura dell’immagine sacra, taumaturgica e allo stesso tempo propiziatoria, ripetuta nel tempo per sottolineare, in picturis et in verbis, la presentazione di suppliche al Santo Tebeo vene- Recensioni 237 rato come patrono contro la peste, l’assalto dei lupi, gli incendi e come protettore dei viaggiatori-mercanti che, lasciando la comunità per diverse commissioni, passavano a lato dell’edificio per viaggi spesso lunghi e densi di pericoli e preoccupazioni e al santo di Montepellier, pellegrino per eccellenza, che colpito dalla peste e successivamente guarito era di- venuto simbolo e strumento della Provvidenza. Di fatto se le raffigurazioni di Defendente oggi leggibili, realizzate dalla fine del Quattrocento alla metà del Cinquecento, seguono il gusto e il costume dei tempi, sia nell’abbigliamento, che va dal ‘curtense’ al militaresco, sia nelle acconciature dei capelli che nelle attitudini, presen- tandolo come un miles vigilans, sempre pronto ad intervenire in ogni oc- casione, con la sensazione che lo si possa invocare, ma sempre come un contemporaneo, un amico, un compagno di viaggio, la rappresentazione di Rocco è invece più stereotipata e statica, con la pedissequa ripetizione dei suoi classici attributi di pellegrino con le insegne di ‘romeo’ e la pre- senza del bubbone pestilenziale sulla gamba ignuda. La pregevolezza della ricerca realizzata dalla Iorio abbinando un’at- tenta analisi stilistica dei vari dipinti a una lettura stratigrafica dei medesi- mi, resa possibile dall’ultimo restauro compiuto nel 2016, ha permesso la nuova attribuzione di uno degli affreschi al così detto ‘Maestro del 1525’, al quale si sono così potute ascrivere altre opere coeve presenti in questo contesto nelle chiese del territorio. Alla figura e allo stile di Giacomo Borlone de Buschis, mirabile ese- cutore del ciclo degli affreschi dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, è stata avvicinata la lunetta con la Natività con Santi collocata nella parete di fondo del presbiterio, andata distrutta nella parte centrale in conse- guenza dell’inserimento nella muratura della medesima parete dell’an- cona lignea contenente la pala del Transito di san Giuseppe inserita nella massiccia cornice dipinta e dorata recante la data 1631. La ricerca della mano del pittore clusonese nella chiesa di San Defendente è stata svilup- pata grazie al vaglio delle fonti e della critica che nella seconda metà del XIX secolo ha citato la chiesa dei Santi Defendente e Rocco come possi- bile luogo di attività del Borlone. La ricerca stilistica e l’individuazione di figure di artisti locali potrà condurre ancora oltre, soprattutto attraverso altre comparazioni con la produzione pittorica a soggetto religioso del tardo Quattrocento diffusa sul territorio. Il testo su questa chiesa, piccola e ricchissima di storia, densa di valori devozionali, espressioni dell’atteggiamento mentale delle epoche che ha attraversato, creatura della società che ha voluto edificarla, grazie alla 238 Recensioni dovizia di immagini ed alla accuratezza di descrizioni, diventa quindi guida eccellente per chiunque voglia avvicinare questo piccolo universo di immagini votive tanto varie quanto preziose, con quell’attenzione e rispetto che questa ‘iconostasi orobica’ merita e richiede. Andrea Pilato

Tarcisio Bottani, Francesco Tasso e la nascita delle poste d’Europa nel Rinascimento - Francesco Taxis and the birth of the European postal ser- vices in the Renaissance, Bergamo, Museo dei Tasso e della Storia postale di Camerata Cornello, 2017, 232 pp.

Il testo è imperniato sulla figura di Francesco Tasso (Cornello dei Tasso 1459 - Bruxelles 1517), di cui ricorre il 500° della morte. Francesco è considerato il maggiore organizzatore delle poste imperiali tra Quattro- cento e Cinquecento, il creatore in particolare di quei collegamenti ve- loci e stabili con le principali città europee, attività per la quale viene ri- conosciuto ai Tasso il merito di aver fondato le moderne poste d’Europa. Dopo l’iniziale riferimento alle origini della famiglia da Cornello e l’accenno ai primi incarichi postali a Venezia e presso la corte pontificia, si sofferma sugli inizi delle poste tassiane in Tirolo, illustrando le rice- vute per compensi percepiti da Francesco e dai suoi parenti per attività postali. Descrive quindi l’avvio delle poste delle Fiandre, analizzando il contenuto delle lettere patenti di Filippo il Bello e Carlo I di Spagna che assegnarono a Francesco Tasso il ruolo di capo e maestro delle poste imperiali. L’ultima parte del volume si occupa degli aspetti più personali del- la vita di Francesco, e in particolare della devozione alla chiesa di Notre-Dame du Sablon, nella quale fece realizzare la cappella votiva di famiglia. Chiude l’opera un cenno alla diffusione delle poste nelle principali città europee dopo la morte di Francesco, avvenuta nel 1517, e al ruolo dei nipoti che ne assunsero l’eredità per espanderla fino a farne un’im- presa multinazionale destinata a durare per secoli. Il lavoro di ricerca usufruisce di un’ampia ed aggiornata bibliografia specifica e si avvale di una documentazione in buona parte inedita repe- rita in archivi nazionali, vaticani, austriaci, tedeschi, francesi e spagnoli in grado di offrire una solida testimonianza dell’attività postale di respiro europeo della famiglia. Recensioni 239

L’autore, Tarcisio Bottani, ha al suo attivo numerose opere di storia brembana, ma da una ventina d’anni la sua ricerca si è concentrata sul Cornello, patria dei Tasso, e sull’attività postale della famiglia, partendo dalla pubblicazione della Mariegola dei corrieri veneti e dallo studio sul- le poste pontificie a quello dei testamenti di alcuni dei maggiori corrieri, quali Ruggero, Janetto e Leonardo Tasso. Ivano Sonzogni

Johann Simon Mayr, L’organo. Dall’organo ellenistico a quello medioeva- le, analisi e trascrizione a cura di Giosuè Berbenni, traduzione dei do- cumenti a cura di Matteo Brambilla, Guastalla, Associazione Giuseppe Serassi, 2017 (Collana d’Arte organaria, VI), 144 pp.

A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione dell’opera del musicista bavarese Giovanni Simone Mayr intitolata Breve istruzione pel modo di suonare il pedale cavata dalle fonti più autorevoli, e corredata di ogni ge- nere di esercizi ed esempi corredata da esercizi per il maneggio meccani- co ed intellettuale del pedale […], a cura di Giosuè Berbenni (Guastalla, Associazione Giuseppe Serassi, 2016), ecco ora un’altra pubblicazione che ci propone la trascrizione, con commento critico, di un altro scritto che Mayr, intorno al 1820, dedica all’organo tracciandone un profilo storico dalle sue origini in epoca ellenistica fino a tutto il periodo me- dievale. Si tratta di un elaborato in due versioni contenute nello stesso manoscritto intitolato Storia musicale e conservato presso la Biblioteca Angelo Mai di Bergamo con segnatura: Mayr Salone N 9.6.4/1-11. La seconda stesura, appartenente con ogni probabilità ad un’età più tarda (1840 circa), appare come uno sviluppo della prima. Nell’introduzione al volume vengono resi espliciti gli obiettivi della pubblicazione fra i quali la volontà di riportare il grado di conoscenza della storia dell’organo nel periodo considerato trattandosi, cronologi- camente, della prima storia dell’organo antico scritta in Italia in modo esteso. La duplice trascrizione è preceduta da una nota biografica di Mayr, nella quale vengono sottolineati i contributi del maestro bavarese all’or- gano dal punto di vista esecutivo, teorico e storico. Segue un capitolo dedicato alla storia dell’organo dall’antichità al medioevo alla luce dei più recenti studi sull’argomento con diversi chiarimenti di carattere ter- minologico. 240 Recensioni

Esplicitati i criteri di trascrizione e di traduzione dei passi in latino, francese e inglese. Un prospetto con le opere citate nel manoscritto, corredate da brevi biografie dei loro autori, costituisce un efficace strumento per meglio contestualizzare i fatti riportati. La bibliografia e gli indici, onomastico e toponomastico, chiudono il volume consentendo ulteriori chiavi di ac- cesso e piste di indagine. Da puntualizzare anche il fatto che la prima stesura dello scritto mayriano sullo strumento è stata utilizzata da Pietro Lichtenthal per la voce Organo nel suo Dizionario e bibliografia della musica pubblicato a Milano dall’editore Antonio Fontana nel 1826. Ciò risulta evidente sia dalle diverse citazioni e notizie mayriane riportate nella pubblicazione di Lichtenthal sia dal carteggio intercorso fra i due intellettuali dal quale emerge, già dal 1822, una continua richiesta di collaborazione a Mayr da parte di Lichtenthal sia per la revisione dell’intero manoscritto sia per la stesura di alcune voci con particolare riferimento proprio all’organo. Marcello Eynard

Dizionario Donizettiano, a cura di Francesco Cento, LIM, 2016, XIX+ 552 pp.

Dopo la pubblicazione, a partire dal 2001, di Dizionari dedicati a illustri operisti italiani, e ci riferiamo in particolare a quelli proposti da Eduardo Rescigno per Giuseppe Verdi, Gioachino Rossini, Vincenzo Bel- lini e Giacomo Puccini, ecco ora anche un Dizionario Donizettiano, cu- rato da Francesco Cento per la LIM, che esce con il sostegno della Com- mission de la Recherche de l’Université di Parigi in collaborazione con Studium – Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Torino e la Donizetti Society di Londra. Nella prefazione Alexander Weatherson inquadra l’intensa e ric- ca biografia donizettiana in riferimento al Dizionario che ne coglie gli aspetti di relazione umana e di innumerevoli fonti cui poté attingere nelle tre capitali europee e non solo. È un intimo scandaglio della vita del compositore attraverso elementi eterogenei. Nell’introduzione si fa riferimento ad un lavoro di raccolta e stesura durato vent’anni. Il Dizionario comprende 304 voci, i titoli delle opere con le rispettive trame, interpreti e ruoli; bibliografia e discografia. È preceduto da un elenco di tutte le voci. Recensioni 241

Oltre a familiari, colleghi compositori, librettisti, cantanti, amici e persone con le quali Gaetano Donizetti ebbe contatti significativi, trovia- mo i toponimi e i singoli titoli delle opere oltre alla terminologia speci- fica d’ambito musicale più generale (aria, cavatina, barcarola, organico, partitura, pertichino, quartetto ecc.) e a parole chiave nelle trame doni- zettiane (armi, bosco, congiura, esule, figli, madre, mare, notte, servi e servette, veleno, tomba ecc.). Non mancano termini dal significato più generale, ma che assumono una valenza specifica in un contesto doni- zettiano: editoria, famiglia, filologia, lettera, mitologia, viaggio, censura ecc. Per quanto riguarda le trame delle opere si attinge spesso alla biblio- grafia esistente con particolare riferimento alle note allegate ai libretti delle incisioni discografiche che il curatore riporta analiticamente. Segue un elenco di tutte le opere citate, anche riferite ad altri compositori con indicazione di librettisti, luoghi e date delle prime rappresentazioni. È anche presente un indice alfabetico dei personaggi delle opere do- nizettiane con indicazione dei ruoli, dei registri canori e delle opere nel- le quali si trovano. Analogo indice è dedicato agli interpreti delle prime rappresentazioni con i personaggi interpretati e le opere di riferimento. La ‘Bibliografia funzionale’ è preceduta da un breve inquadramento storico relativo agli studi sul musicista bergamasco. Un altro inquadra- mento storico è dedicato alla ricca discografia, comprensiva di videori- prese, rispetto alla quale il curatore inserisce talvolta alcune osservazioni sulla versione considerata, sulle circostanze dell’esecuzione o sulle scel- te esecutive e sulla qualità. Il volume si chiude con una Postfazione di Camillo Faverzani, diretto- re del gruppo di ricerca “L’Opéra narrateur” nell’ambito del Laboratoire d’Études Romanes dell’Université Paris 8. Francesco Cento, quarantanove anni, è laureato in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Da venticinque anni vive e lavora a Genova dove esercita la professione di scultore e insegna Disci- pline plastiche presso il Liceo artistico statale. Dichiara: «Io, che faccio scultura da sempre, mi accorgo come questo significhi continuamente “fare”, “comunicare”, rapportarsi con la realtà che ci circonda, mettersi sempre in discussione, non arrivare mai». Infatti, l’autore si interessa an- che di Storia delle tecniche artistiche e di Melodramma italiano. Marcello Eynard 242 Recensioni

Non per divertimenti ma per cercar pane e lavoro. Memorie d’emigra- sione di Bortolo Carminate (1892-1902), Bergamo, Centro Studi Valle Imagna, 2017.

Otto dei cinquanta titoli sinora editi dal Centro Studi Valle Imagna nella collana “Persone e pensieri” sono dedicati a testimonianze di emi- granti o di preti fra i migranti. Ma sono una ventina le pubblicazioni complessivamente dedicate alla storia dell’emigrazione bergamasca in Europa e nel mondo; un segno del rilievo centrale che il tema riveste nel lavoro di ricerca e di salvaguardia della memoria da parte del Centro. Il volume ripropone fedelmente il diario di Bortolo Carminati – questo il vero cognome - che insieme alla moglie e ai sette figli, nel 1892 si im- barcò a Genova alla volta del Brasile dove rimase dieci anni. Lavorava la terra, come quasi tutti gli emigranti, e partì insieme ad altre ventu- no famiglie di Filago, in totale centossessanta persone, appoggiandosi all’Opera Bonomelli. Sin dal 1896 operava a Bergamo una sezione del Segretariato del popolo che si occupava degli emigranti, unitamente a molte San Vincenzo, ma fino al 1908, quando venne costituito un appo- sito Segretariato per gli emigranti da parte della Curia vescovile locale, la Bonomelli fu l’istituzione che più garantì assistenza a chi lasciava l’Italia. Il diario comincia proprio con la partenza dell’intera famiglia, su un carretto diretto alla stazione di Bergamo. «Per cosa poi? Per andar dove? Chisà! Dio solo saprà il nostro destino». Quasi due mesi dopo arrivaro- no alla fazenda dove avrebbero lavorato nella piantagione di caffè e di miglio. Prima di giungere a destinazione morirono oltre quaranta delle persone partite – un quarto del totale - soprattutto bambini, a causa delle privazioni e delle malattie contratte. Bortolo sapeva appena leggere e scrivere, ma grazie alla sua capacità lavorativa e all’intelligenza diventò amministratore dell’intera fazenda, stimato dalla proprietà e dai lavo- ratori per i quali diventò un punto di riferimento, nonostante qualche inevitabile invidia. Ottenuto il permesso, organizzò la costruzione di una piccola chiesa e si premurò di invitare periodicamente, almeno una o due volte all’anno, i missionari che l’Opera Bonomelli inviava nelle località dove maggiore era la presenza di comunità di italiani emigrati. Parte delle famiglie di Filago rimpatriarono dopo pochi anni; Carmi- nati, più fortunato di altri, lasciò il Brasile con alcuni risparmi che gli permisero, mentre ancora lavorava laggiù, di comprare un podere a Bo- nate Sotto e persino una casa una volta rientrato. Come per quasi tutti, il parroco fungeva da punto di riferimento e di appoggio sia prima della Recensioni 243 partenza, sia durante gli anni di assenza. Succedeva così in ogni paese d’Italia, dove c’erano emigranti, perché ci si fidava di quella figura, che sapeva tutto di tutti, al punto che gli eventuali risparmi venivano spesso indirizzati proprio al parroco affinché provvedesse poi a consegnarli ai familiari. Era il parroco che manteneva i rapporti epistolari quando, e succedeva spesso, si era in difficoltà con la penna. Nel caso della fami- glia Carminati, Bortolo affidò al parroco persino l’incombenza dell’ac- quisto del podere. Il diario si chiude con il ritorno. Ai sette figli imbarcati con lui se ne erano aggiunti altri due, nati in Brasile dove però ne morirono quattro. Eppure la sua vicenda non rientra fra quelle più drammatiche.

Gianluigi Della Valentina

Juanita Schiavini Trezzi, Archivi per la storia dell’assistenza a Bergamo Casa di Ricovero - Casa d’Industria - Ricovero di Mendicità Inventario 1811-1959, Bergamo, Università degli Studi di Bergamo – Dipartimento di Lettere e Filosofia, Fondazione Casa di Ricovero S. Maria Ausiliatrice Onlus, G&G – Industrie grafiche sorelle Rossi, Castelleone (CR), 2013, pp. 296.

Alcune tra le principali istituzioni assistenziali e di ricovero di Ber- gamo e provincia negli ultimi anni hanno provveduto a riordinare e ad inventariare i loro archivi. Per prima si è mossa l’allora Azienda ospe- daliera Ospedali Riuniti di Bergamo che tra il 2005 e il 2007 ha riordi- nato l’archivio del Manicomio composto soprattutto dalle cartelle clini- che dell’antico manicomio della Maddalena, del manicomio d’Astino, e dell’Ospedale Neuropsichiatrico di via Borgo Palazzo (si veda il saggio di Giulia Todeschini in «Quaderni di Archivio Bergamasco», n. 2, 2008, oppure si consulti il sito http://www.cartedalegare.san.beniculturali.it se- lezionando Guida agli archivi/Lombardia/Ospedale neuropsichiatrico di Bergamo). Pochi anni fa, la Fondazione MÎA ha finanziato l’intervento di riordino e inventariazione della sezione moderna dell’archivio dell’en- te di cui si parla in questa rivista alle pagine 45-60. La Fondazione ha poi depositato nel 2014 la documentazione presso l’Archivio di Stato di Bergamo che ne ha pubblicato l’inventario sul proprio sito (http://www. asbergamo.beniculturali.it/Patrimonio/Inventari digitali). Nello stesso anno l’Azienda ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha depo- 244 Recensioni sitato presso l’Archivio di Stato il proprio archivio storico che consta di 917 buste, 245 registri, 52 scatole, 2 cartelle, con documentazione che va dal 1395 alla seconda metà del XX secolo. L’elenco di consistenza della documentazione si può consultare sul sito dell’Archivio di Stato, anche se l’archivio è consultabile solo parzialmente in quanto non è ordinato e dotato di strumenti di corredo sommari. Nel 2011 l’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate, da cui dipendono anche gli ospedali S. Biagio di Clusone, Antonio Locatelli di Piario, Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, Briolini di Gazzaniga, SS. Capitanio e Gerosa di Lovere, S. Isidoro di Trescore, e Pier Achille Faccanoni di Sarnico, ha finanziato con risorse proprie il riordino e l’inventariazione degli archivi storici di tutti gli ospedali sopraelencati. Il lavoro è stato svolto dalla Fondazione Famiglia Legler e si è concluso nel 2014. Detti archivi che hanno l’uni- ca denominazione di Archivio storico della ASST Bergamo est-Ospedale Bolognini sono depositati e conservati presso la stessa Fondazione Legler di Brembate di Sopra. Anche un’altra importante istituzione assistenziale della nostra città ha recentemente deciso di avviare il riordino e l’inventariazione del pro- prio archivio storico. Si tratta della Fondazione Casa di Ricovero Maria Ausiliatrice, erede della Casa di Ricovero per i poveri invalidi e della Casa d’Industria per i poveri abili al lavoro fondate nel 1811, e del Rico- vero di mendicità istituto nel 1873. Il lavoro affidato a Juanita Schiavini Trezzi si è concluso nel 2013. L’archivio, che riunisce gli archivi delle tre istituzioni assistenziali fon- date per far fronte al grave problema della mendicità, è collocato pres- so la Fondazione Casa di Ricovero Santa Maria Ausiliatrice Onlus (CA. RI.S.M.A) in via Monte Gleno 49, Bergamo. Si compone di 335 buste, 33 cartelle, 394 registri per complessive 1.818 unità archivistiche riferite ad un arco cronologico compreso tra il 1811 e il 1959 con documentazione antecedente dal 1506. Il volume che segnaliamo riporta l’inventario analitico dell’archivio in oggetto. Consta di 296 pagine suddivise in tre parti: l’introduzione (pp. I-LXII), la presentazione degli inventari analitici degli archivi (pp. 1-262) e l’indice dei nomi di persona, di luogo e delle istituzioni a cura di Ilaria Chiesa. (pp. 263-296). L’introduzione è suddivisa a sua volta in due parti: la prima di oltre venti pagine molto dense e suddivisa in cinque paragrafi (1. Vicende istituzionali, 2. Le sedi, 3. L’archivio, 4. Il riordino odierno, 5. Temi di ricerca); la seconda è costituita da un’appendice documentaria nella Recensioni 245 quale si riproducono 14 documenti (planimetrie della sede della Casa di Ricovero alle Grazie in cui fu anche ospitata la Congregazione di Carità, fotografie di elenchi di materiali di scarto e di consistenza, di copertine di fascicoli, di titolari degli archivi dei tre enti assistenziali, ecc…, e la struttura dei tre archivi Casa di Ricovero, Casa d’Industria, Ricovero di Mendicità). Come si può evincere dai titoli dei cinque paragrafi, nella prima par- te dell’introduzione, l’autrice dopo una premessa sui principi fondanti dell’archivistica e su come sono stati interpretati e attuati dai più impor- tanti studiosi di questa scienza, ricostruisce le vicende istituzionali della Casa di Ricovero, della Casa d’Industria e del Ricovero di Mendicità. Nella ricostruzione delle vicende istituzionali non ha potuto prescindere dall’organizzazione dell’assistenza decisa dai vari governi che si sono succeduti tra Ottocento e Novecento: particolarmente importante è stata l’istituzione della Congregazione di Carità voluta dal governo francese e, dopo la breve fase austro-ungarica (1824-1865), ripristinata dal nascen- te stato unitario e attiva fino al 1937, quando il fascismo istituì gli ECA (Enti Comunali Assistenza) che a loro volta rimasero in vita fino al 1977 allorché le competenze in materia di assistenza passarono alle Regioni. Nel 2003 la Casa di Riposo di Bergamo, l’unico dei tre enti che continuò la sua attività, si trasformò in Fondazione. Nelle pagine successive la ricostruzione delle vicende storiche connesse ai tre istituti prosegue con la descrizione delle sedi in cui furono ospitati i tre istituti, con particolare riferimento a quelle della Casa di Ricovero che, dall’originaria sede in Porta Nuova, si trasferì all’inizio del primo conflitto mondiale alla Cle- mentina, per passare poi alla fine del 1969 nell’attuale sede di via Monte Gleno. Nel terzo paragrafo l’autrice spiega come si sono venuti forman- do gli archivi dei suddetti tre enti e «che hanno avuto molte affinità nella modalità di produzione, di organizzazione e gestione» (p. XI), non solo tra di loro, ma anche con l’archivio della Congregazione di Carità la qua- le fino al 1939 amministrò la Casa di Ricovero e la Casa d’Industria. Jua- nita Schiavini annota come gli estensori degli statuti organici e dei piani disciplinari delle tre istituti assistenziali sin dalla loro origine si fossero preoccupati di stabilire precise disposizioni sulle procedure da adottare nello svolgimento della loro attività e sulla documentazione da utilizza- re; tutto questo in linea con la rivoluzione archivistica napoleonica. Si è trattato di un sistema efficiente che prevedeva un controllo sull’iter del fascicolo e lo stato di avanzamento della pratica (p. XIII); inoltre il Piano organico della Congregazione di Carità di Bergamo del 1811 stabiliva 246 Recensioni che le pratiche concluse degli enti di beneficenza amministrati dalla stessa confluissero in un unico archivio generale tenendo però separata la documentazione di ciascun ‘stabilimento’. Nonostante queste lungimiranti disposizioni e l’impegno degli am- ministratori nel mettere a disposizione locali idonei alla conservazio- ne dell’archivio, l’autrice denuncia che non sono mancati problemi che hanno compromesso l’integrità degli archivi e la loro organizzazione. Ci furono infatti scarti poco oculati, cui si aggiunse la disattenzione delle direttive date dalla Soprintendenza Archivistica per le Provincie Lombar- de, e infine l’interruzione del lavoro di riordino avviato nel 1960, tra l’al- tro svolto con criteri poco rigorosi che portarono alla rottura del vincolo archivistico di parte della documentazione. Tutto questo ha reso più complicato il lavoro di riordino descritto nel quarto paragrafo, riordino che è stato improntato all’applicazione del me- todo storico per tutti e tre gli archivi compreso quello più consistente e complesso della Casa di Ricovero. Nelle parti del volume dedicate alle pre- messe delle singole serie, si dà conto di tutte le scelte operate per eliminare le macroscopiche incongruenze. Il lavoro di riordino è risultato difficoltoso anche per l’assenza di strumenti di corredo, tranne che per un repertorio del Ricovero di Mendicità. L’intervento ha riguardato gli atti prodotti fino al 1959, perché nel 1960 l’ente ha adottato un nuovo titolario. Nel quarto paragrafo si riporta una sintetica descrizione di alcuni ar- chivi privati pervenuti alla Casa di Ricovero prima del 1960, per altro poco consistenti. Sono gli archivi delle famiglie Maccarani di Gorlago, Secco (proprietari di beni a Viadanica), Vailetti (giunto con l’eredità del- la contessa Maria Vailetti Lochis) Infine, nell’ultimo paragrafo vengono individuate e presentate alcune piste d’indagine storica praticabili stu- diando la documentazione presente negli archivi della Casa di Ricovero; non solo afferenti alla storia dell’assistenza e della sanità, ma anche a molti altri ambiti, tra i quali la storia dell’agricoltura e del paesaggio rurale, la storia sociale, la storia dei benefattori e delle loro famiglie, la storia dell’arte in considerazione degli oggetti d’arte donati o acquistati, a partire dai quadri gratulatori dei principali benefattori che sono esposti in bella mostra negli uffici della direzione di CA.RI.S.M.A. Dopo l’Introduzione vengono presentati gli inventari analitici dei tre archivi, a partire da quello della Casa di Ricovero che occupa il maggior numero di pagine (1-227), e comprende anche la sezione dedicata ai ‘Testamenti’ (203-226) curata da Alessandra Veronese nella quale si fa una breve descrizione dei 75 testamenti (di 59 testatori uomini e di 16 Recensioni 247 testatrici donne) pervenuti all’ente, che sono elencati in ordine alfabe- tico del nome del testatore, tra i quali non si può omettere di ricordare quello di Francesco Gallicciolli (1833-1905) per l’entità del medesimo. L’inventario analitico delle Casa d’Industria occupa quattordici pagine, (227-241), e altre tre quello del Ricovero di Mendicità; per ultimo si presenta l’inventario del “Riparto” Affari generali della Congregazione di Carità che occupa sedici pagine (247-262). Anche per l’autrice di questo volume non sono più rinviabili il rior- dino e la inventariazione degli archivi della Congregazione di Carità e dell’ECA, la cui documentazione integra e completa quella presente ne- gli archivi degli istituti che da questi due organismi dipesero. Il volume è un utilissimo strumento per gli studiosi interessati ad ap- profondire la vasta e interessante documentazione presente negli archivi dei tre istituti. A questo punto corre l’obbligo di fare una breve riflessione sull’accessibilità agli studiosi di questi archivi e di quelli di cui si è fatto cenno all’inizio. Per quelli che dopo l’inventariazione sono stati depo- sitati presso istituzioni pubbliche come l’Archivio di Stato non ci sono problemi in questo senso. Difficoltà maggiori si riscontrano quando gli archivi si conservano presso gli enti produttori, perché spesso si riscontra una certa diffidenza a favorirne la consultazione. Le direzioni adducono come motivazione la mancanza di personale appositamente incaricato della gestione e della gestione, altre volte si diffida degli studiosi che chiedono di accedere all’archivio per svolgere ricerche autonome e che non sono promosse da chi amministra l’ente. Un altro motivo è l’igno- ranza del valore ‘sociale’ e dell’importanza ai fini della ricerca storica della documentazione antica dell’ente che si amministra, importanza che, come si è detto prima, travalica i confini dell’attività precipua svolta dall’ente. Le difficoltà ad accedere agli archivi costituiscono oggettiva- mente un problema per gli storici, che, come ha affermato Marc Bloch, utilizzando un’espressione un po’cruda ma efficace, non si pongono li- miti rispetto agli oggetti delle loro ricerche e si muovono come «l’orco della fiaba: là dove fiuta[no] odore di carne umana, là sa[nno] che è la [loro] preda» (Apologia della storia o mestiere di storico, 1944, p. 41). Non resta che auspicare che le direzioni delle più importanti isti- tuzioni ospedaliere, assistenziali, (ma anche di quelle amministrative, scolastiche, economiche ecc) comprendano il valore culturale della documentazione prodotta nel corso dei secoli dagli enti che oggi esse amministrano, e nel caso detengano gli archivi presso le loro sedi, si rendano disponibili a valorizzarle agevolando le ricerche e gli studi, e si 248 Recensioni impegnino a risolvere le eventuali difficoltà di mancanza di personale e logistico-organizzative. Del resto lo scopo principale di ogni intervento di riordino e inventariazione dovrebbe essere quello di favorirne la frui- zione da parte degli studiosi e la valorizzazione. Nel caso degli archivi della Casa di Ricovero un primo esempio di valorizzazione è stata la pubblicazione del volume Tendere la mano ai bisognosi. Luoghi, vicende, personaggi della Casa di Ricovero di Berga- mo XIX – XX secolo, Bergamo, Fondazione Casa di Ricovero Santa Maria Ausiliatrice – Ateneo di Scienze Lettere ed Arti, Grafica L’Azzurro, 2014, pp. 190, con saggi di Maria Mencaroni Zoppetti, Nazzarina Invernizzi Acerbis, Laura Bruni Colombi, Antonia Abbattista Finocchiaro.

Cesare G. Fenili

Matteo Rabaglio – Giosuè Bonetti, O tu che leggi, ricorda. Epitaffi cimiteriali tra l’Adda e il Brembo, Bergamo, Centro Studi Valle Imagna, 2017, p. 487.

Nel presentare questo volume Antonio Carminati, presidente del Cen- tro Studi Valle Imagna che lo ha pubblicato, parla dei cimiteri quali silen- ti custodi della identità dei luoghi e tali sono senza dubbio i capsànt dei piccoli paesi, come quelli ubicati fra l’Adda e il Brembo di cui si sono occupati gli autori come se si trattasse di «archivi storici di facile consul- tazione» (p. 106). Lo hanno fatto in una chiave inconsueta, leggendoli con l’intelligenza dello storico ma avvicinandoli anche con il sentimento e il rispetto dovuti a simili luoghi. «Archivi di pietra» li ha definiti Chiara Frugoni nella sua prefazione, in grado di dare voce e senso alle parole mute scolpite su 3288 lapidi dell’Isola e delle valli Brembana, Imagna, San Martino, ossia la parte nord-occidentale della provincia; da quelle sulle quali il tempo ha lasciato con più forza i suoi segni – la più antica risale al 1682 – fino alle ultime del 1950. Importante la scelta di fermarsi alle soglie del miracolo economico; uno spartiacque fra due storie, pri- ma e dopo la «scomparsa delle lucciole». Il quasi subitaneo dissolversi della civiltà contadina portò con sé lo slabbrarsi dei tessuti comunitari di paese dei quali recano traccia profonda persino le epigrafi incise sulle la- pidi cimiteriali. Come se a partire da allora non ci fosse stato più bisogno del ricordo, in chi è rimasto, di coloro che pur essendosene andati hanno contribuito a dare senso alla vita di quanti furono a loro vicini. Superato Recensioni 249 il crinale che immise nella civiltà industriale, mentre i processi di scola- rizzazione arricchivano rapidamente il frettoloso vocabolario quotidiano di ogni cittadino, le parole vennero a mancare sulla pietra dove invece restano scolpite in maniera duratura. È stato scritto che un’unica cultura rurbana avrebbe preso il posto di quelle urbana e rurale che per secoli distinsero città e campagna. Persino i cimiteri rivelano il cambiamento indotto dall’allentarsi dei vincoli di appartenenza comunitaria anche a causa del rimescolarsi degli abitanti di ogni sito, della mobilità spaziale. Senza nemmeno prendersi la briga di leggere Luis Borges, la contem- poraneità si è presto astenuta dalle «garrule trasgressioni all’onnipotenza dell’oblio» e ha ritenuto di non avere più bisogno di cincischiare «nu- merando con prolissità il nome, l’opinione, gli eventi, la patria» di chi se ne era andato, la sua biografia morale, senza bisogno di tanti orpelli: nomignoli, contrade e altro ancora. «Tanti monili è bene aggiudicarli alla tenebra», aggiungeva Borges; non bastano forse le coordinate essen- ziali riassunte nella carta di identità di ciascuno a ricordarci i personali paralleli e meridiani? Paradossalmente la sinteticità ha espunto dalle co- ordinate anagrafiche persino i luoghi che pure costituiscono tanta parte dell’identità personale – il dove si è nati e morti, poiché siamo anche il paese nel quale viviamo – come ben sanno coloro che hanno avuto a che fare, magari solo indirettamente, con l’esperienza dell’essere profu- go, dell’esilio, del migrare. Oggi quanto un cimitero significhi per una comunità paiono ricordarlo solo le profanazioni di cui di tanto in tanto diventano oggetto, quando la bestia dei nazionalismi, che pare assopita, torna a svegliarsi. Accadde nei Balcani, negli anni novanta del secolo scorso. Carlo Sgorlon, nel suo romanzo La foiba grande, ha ricordato l’accanirsi in Istria, contro le tombe italiane, da parte dei partigiani slavi usciti dai boschi. La vita delle società e degli uomini, di cui si occupa la storia, è fatta di mille frammenti; tasselli minuti, non necessariamente intrecciati con vicende più grandi, che lasciano tracce a volte apparentemente trascu- rabili ma che lo storico attento e sensibile sa cogliere, proprio come in questo caso. Con gentilezza e sensibilità, oltre che con rigore metodolo- gico, i due autori si sono avvicinati alle iscrizioni sepolcrali, senza viola- re il silenzio quasi sacrale dei cimiteri, ripercorrendo i passi di chi visita quelli dei piccoli paesi il quale, dopo essersi soffermato sulla tomba di una persona cara, si aggira alla ricerca di altri volti capaci di suscitare in lui ricordi con cui ritessere una memoria individuale ma anche col- 250 Recensioni lettiva. Grazie a questa ricerca le parole mute degli epitaffi sono uscite dall’ombra e hanno ripreso la loro forza comunicativa. Con la «nobile e antichissima arte dell’Epigrafia» (p. 106) si cimenta- rono coloro che potremmo definire mediatori culturali, spesso il parroco del paese, ai quali affidare pensieri perché aiutassero, chi con le parole scritte non aveva molta dimestichezza, a dare loro una forma compiuta. Dietro quest’arte, essa stessa meritevole di indagine, affiorano le biogra- fie dei due soggetti protagonisti: da un lato i vivi che salutano e ricorda- no; dall’altro l’estinto, la sua età, le cause della morte, brevi note biogra- fiche. Nelle dediche si riassumono il senso della caducità della vita, la concezione profondamente religiosa della stessa vita terrena e di quella ultraterrena. Vicende personali si sarebbe tentati di dire se non fosse per il numero ragguardevole di epitaffi, di cimiteri presi in considerazione: 156 località di 88 comuni diversi. Come sempre succede, nel loro insie- me i grandi numeri consentono di leggere e di capire molto di più della mera sommatoria di singole vicende individuali. Così la frequenza con la quale ci si imbatte nella morte di bambine e bambini induce a riflet- tere sul senso di impotenza e di fragilità che per secoli accompagnò la vicenda umana di fronte alle forze della natura, alla malattia. Gianluigi Della Valentina

Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete. Il clero di Bergamo durante l’occu- pazione tedesca (settembre 1943 – aprile 1945), Sant’Omobono Terme, Centro Studi Valle Imagna, 2018, pp. 501

Non si può che concordare con monsignor Goffredo Zanchi – soste- nitore insieme all’A.N.P.I. di questo lavoro - quando nella presentazione del libro di Barbara Curtarelli afferma che questo studio «riempie un vuoto su un argomento finora indagato solo marginalmente e in modo insufficiente da alcuni benemeriti pionieri» (p. 17). L’affermazione fa riferimento anzitutto a monsignor Roberto Amadei1, che ha guidato la ricerca che tre studenti del Seminario Vescovile di Ber-

1 Tra gli interventi di Roberto Amadei, vorrei almeno citare I cattolici bergamaschi e l’avvento del fascismo, in Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), a cura di Paolo Pecorari, Milano, Vita e Pensiero, 1979. Recensioni 251 gamo hanno condotto per la tesi di laurea nel lontano 1976, dal titolo Preti bergamaschi nella Resistenza2, una ricerca che per lungo tempo è rimasta l’unico strumento a disposizione sull’argomento e che ha messo a disposizione alcune interessanti testimonianze di sacerdoti che hanno operato nell’ambito dell’antifascismo e della Resistenza. Qualche indicazione è venuta anche dai due volumi di Giuseppe Be- lotti I cattolici di Bergamo nella Resistenza3 e più tardi dalla tesi di lau- rea Il clero bergamasco nella Resistenza di Erica Belingheri4. I testi finora citati si dimostravano sicuramente insufficienti e facevano auspicare l’avvio di una ricerca più ampia e più articolata. Non sono mancati i riferimenti a figure di sacerdoti nei numerosi studi fatti sulla Resistenza bergamasca dall’I.S.R.E.C. di Bergamo, che ha curato anche la biografia del comandante partigiano “Dami”, don Antonio Milesi5. Nel 2013 è stato dato alle stampe il Diario del vescovo Adriano Ber- nareggi6, che ha fornito elementi interessanti per valutare il comporta- mento del clero durante l’occupazione tedesca. Mancava, tuttavia, un’o- pera complessiva, che mettesse a disposizione una serie di dati tale da consentire una prima risposta al problema, attesa da studiosi e pubblico interessato; Barbara Curtarelli ci ha provato con esito molto positivo. Alla presentazione di mons. Zanchi seguono due premesse, la prima di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna, la secon- da di Mauro Magistrati, presidente dell’A.N.P.I. bergamasca. “Resistenza dimenticata” è il titolo della premessa di Carminati, che sottolinea la complessità e l’ampiezza del fenomeno Resistenza; questo infatti non si può identificare solo con il movimento partigiano, ma deve essere ampliato per comprendere le formazioni dell’esercito che non hanno de- posto le armi dopo l’8 settembre 1943, gli operai che hanno interrotto o boicottato le produzioni belliche, i soldati che si sono rifiutati di aderire alla R.S.I., la popolazione che ha nascosto o aiutato gli ebrei e ha fornito

2 G.Borlini – P.Brignoli – G.Zambelli, Preti bergamaschi nella Resistenza, Biblioteca del Seminario vescovile Papa Giovanni XXIII, tesi di laurea, a.a. 1976 3 Giuseppe Belotti, I cattolici di Bergamo nella Resistenza, Bergamo, Minerva Italica, 2 voll., 1989. 4 Erica Belingheri, Il clero bergamasco nella Resistenza, Università degli Studi di Milano, tesi di laurea, a.a. 1998-1999 5 Un’esperienza di vita. Don Antonio Milesi, prete partigiano, a cura di Giuliana Bertacchi e Mario Pelliccioli, Bergamo, Istituto Bergamasco per la Storia del Movimento di Liberazione, 1994. 6 Antonio Pesenti, Adriano Bernareggi. Diario di guerra (settembre 1943 – maggio 1945), rivisto e completato da Alessandro Angelo Persico con la collaborazione di Goffredo Zanchi, Roma, Edizioni Studium, 2013. 252 Recensioni alimenti, vestiario e aiuti di ogni genere ai perseguitati e alle formazioni partigiane. Le parole di Carminati rimandano alla riflessione sul lungo percorso compiuto dagli studi sulla Resistenza, dall’A.N.P.I. e delle altre associazioni partigiane; basti pensare che bisogna arrivare al 2004 per trovare una storia della Resistenza che esprima la necessità di accosta- re alla Resistenza incentrata sul consapevole progetto politico-militare «una resistenza molto più diffusa, multiforme e mutevole, che ha le sue radici nella stanchezza, nel rifiuto della guerra e che si manifesta nella resistenza alle nuove leve militari e al lavoro obbligatorio per gli “occu- panti-alleati” tedeschi, nelle mille forme di mancata collaborazione»7. Dopo d’aver espresso un convinto apprezzamento per la ricchezza del materiale messo a disposizione dal libro di Curtarelli, Carminati sot- tolinea la varietà dei comportamenti e delle motivazioni dei sacerdoti: «Attraverso questo libro veniamo a conoscenza di tante opzioni, una diversa dall’altra, quante sono le esperienze di vita pastorale qui presen- tate, vissute dentro la specificità dei singoli territori»; un poco eccessiva – dato lo stato attuale degli studi – pare la certezza che «le prese di po- sizione dei tanti sacerdoti e religiosi, documentate in questo libro, non siano altro che l’espressione di un fenomeno ancora più diffuso». Nella premessa di Mauro Magistrati si conferma l’apprezzamento per il lavoro della ricercatrice soprattutto per due motivi: anzitutto per il tentativo di indagare l’uomo e le ragioni della scelta dei sacerdoti di impegnarsi nella Resistenza o di fiancheggiarla; secondariamente per la capacità della ricercatrice di non cadere nell’agiografia, rischio nel quale spesso è incappata la storiografia locale. Interessante è il discorso di Ma- gistrati sulla solitudine dei sacerdoti di fronte alla scelta di operare per la Resistenza, una solitudine che è acuita dalla mancanza di un indirizzo generale da parte del vescovo Bernareggi, ma che ben si collega con la scelta chiara e difficile che ogni italiano si trova a dover fare dopo l’8 settembre 1943, una assunzione di piena responsabilità individuale ope- rata per lo più nell’assoluta solitudine, come bene ha spiegato Claudio Pavone8. Nella Premessa storica Curtarelli chiarisce il cambiamento della pro- spettiva storiografica che è avvenuto verso la fine degli anni ottanta, per il quale la ricerca ha cominciato a riguardare non solo quanti operarono

7 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, p.6 8 Si legga a questo proposito il capitolo dedicato a La scelta, in Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 3-62. Recensioni 253 nella resistenza armata, ma anche quanti attuarono una resistenza civile nei confronti dell’occupante e a favore dei partigiani e di tutti i perse- guitati (ebrei, sbandati, prigionieri, renitenti alla leva, ecc.); fra questi certamente sono stati molti sacerdoti, che si sono messi dalla parte delle vittime, ritenendo inevitabile la condivisione delle loro difficoltà. Un segno della correttezza metodologica del lavoro è la presentazio- ne delle fonti utilizzate, consistenti soprattutto in testimonianze orali e testimonianze scritte, che costringono sempre a fare i conti con le diffi- coltà di interpretazione della memoria dei testimoni; utile è stata la con- sultazione degli studi svolti sulla Resistenza, dei giornali locali dell’e- poca e degli archivi, dall’Archivio Diocesano agli archivi dell’I.S.R.E.C. di Bergamo, dai fondi Questura dell’Archivio di Stato di Bergamo agli archivi del Seminario di Bergamo, dei preti del Sacro Cuore, del liceo classico “Paolo Sarpi” e della Casa dell’Orfano. Il volume si compone di due parti. La Parte Prima è suddivisa in due sezioni: la prima dedicata al “Clero bergamasco e fascismo”, la seconda a “L’occupazione tedesca”. Nella prima sezione la ricercatrice analizza alcuni momenti che costituiscono degli snodi per il consenso-dissenso del mondo cattolico al fascismo a partire dalla Prima guerra mondiale per passare all’adesione al Partito Popolare, allo scontro tra il fascismo e la Reduci, alle posizioni del vescovo Marelli (la cui ostilità al fascismo si trasforma in neutralità), alla presa di posizione del nuovo vescovo Adria- no Bernareggi (che, auspicando un cristianesimo capace di permeare tutta la società, non evita tensioni con il fascismo), alla politica econo- mica del regime per far fronte alle spese belliche, alla responsabilità del fascismo nella decisione di affrontare l’avventura della guerra e alla disu- manità della guerra stessa. Seguono le schede di 72 sacerdoti “sovversi- vi” diocesani e di 8 sacerdoti “sovversivi” extra diocesani, cioè sacerdoti che operano in zone della provincia di Bergamo appartenenti ad altre diocesi. Come tutte le schede dei singoli sacerdoti presentate nel volu- me, anche queste schede sono piuttosto essenziali: ove è stato possibile, il breve profilo è corredato da un ritratto fotografico del sacerdote e nel profilo la ricercatrice si attiene ai fatti documentati, segnalando le fonti. Nell’introduzione alla seconda sezione sull’occupazione tedesca, dopo alcuni brevi cenni alla Resistenza bergamasca, Curtarelli volge l’attenzione al clero che, dopo l’occupazione tedesca, rimane l’unica autorità riconosciuta, l’unico punto di riferimento e di coesione di fronte alla disgregazione delle istituzioni pubbliche. «Ci fu una minoranza nella quale lo spirito di carità cristiana prevalse sulla paura e su ogni altro tipo di valutazione» (p. 114) . 254 Recensioni

Le poche testimonianze scritte di alcuni sacerdoti sulle motivazioni della loro scelta confermano che il loro operato non è suggerito da una posizione politico-ideologica, ma dalla propria vocazione sacerdotale; d’altra parte le indicazioni del Vescovo permettevano le interpretazioni più varie. L’efficace rete di assistenza che si forma dopo l’8 settembre (basata sulla Croce Rossa, sulla Casa del Popolo, sul Patronato e sull’I- stituto di ) subisce presto un brusco ridimensionamento. Interessanti sono le figure dei preti che collaborano attivamente con i partigiani, nonostante il Vescovo si limiti a sollecitare l’assistenza reli- giosa ai giovani senza fornire altre indicazioni chiare. Quasi tutti i preti che hanno a che fare direttamente con la Resistenza subiscono violenze, ruberie e devastazioni. Molto contenuto è il numero dei sacerdoti che fiancheggiarono la R.S.I., anche se non è sempre facile capire il loro grado di adesione. Uno spazio considerevole è dedicato a monsignor Adriano Berna- reggi (pp. 133-149); la pubblicazione del suo diario conferma il grande spessore culturale di questo vescovo, ma anche i suoi limiti caratteriali; parroci e curati non ricevono da lui risposte chiare; a lui si contesta la preferenza per un approccio formale con le autorità e la ritrosia a esporsi personalmente; egli lavora incessantemente per ribadire l’apoliticità dei sacerdoti, ma questi si sentirono spesso abbandonati a se stessi. L’atteg- giamento improntato all’imparzialità e alla eccessiva prudenza finisce per procurargli anche la diffidenza delle autorità, oltre che dei partigiani e della popolazione. Il capitolo dedicato ai cappellani militari (pp.149-174) si apre con una sintetica storia di questa figura, che, ripristinata nella Prima guerra mondiale, attraversa gli anni del regime fascista e della R.S.I.; le schede dei cappellani militari sono 33, redatte con i criteri già segnalati in pre- cedenza. Anche se ammette di aver focalizzato l’attenzione sul clero secola- re, Curtarelli definisce «rilevante e fondamentale» l’aiuto fornito ai per- seguitati da parte delle comunità religiose maschili e femminili. Tra le comunità maschili si citano i padri Giuseppini (con due schede), i Do- menicani di San Bartolomeo (con tre schede), i frati minori Cappuccini di Borgo Palazzo, Albino e Sovere, i Sacramentini di (con una scheda), i Monfortani di Redona (con una scheda), i padri Passionisti della Basella ed altri 4 religiosi di altri ordini. Delle comunità religiose femminili si afferma che «appaiono maggiormente in prima linea, rispet- to a quelle maschili, nel fornire asilo ai perseguitati, soprattutto alle fa- Recensioni 255 miglie ebree» (p. 184); vengono poi citate le suore Poverelle dell’Istituto Palazzolo (con 4 schede), le suore della Beata Capitanio (con una sche- da), le suore Sacramentine, le Figlie del Sacro Cuore, le suore Orsoline di Gandino (con 2 schede), le Terziarie domenicane, le suore del Buon Pastore, le suore Ausiliatrici del Purgatorio, le Figlie di Maria Ausiliatrice, le Canossiane (con una scheda), le Orsoline di Somasca, le Preziosine di Monza, le Domenicane di Matris Domini a Bergamo. La sezione sull’occupazione tedesca si chiude con il clero extradioce- sano (pp. 193-203), che presenta 12 schede di sacerdoti. La Parte Seconda del volume è titolata “Il clero bergamasco duran- te l’occupazione” (pp. 205-448), è la più corposa e presenta ben 251 schede di sacerdoti, redatte con il criterio già indicato: profilo, ritratto fotografico, fonti. Le schede sono ordinate adottando il criterio del luo- go dove i singoli sacerdoti hanno esercitato il loro ministero; perciò si parte da Bergamo (cappellani delle carceri, insegnanti, istituti ecclesia- stici diocesani, organizzazioni cattoliche e opere diocesane, parrocchie, scuole); dalla Città si passa alle parrocchie del circondario, all’Isola, alla pianura, alla Valle Brembana, alla Val Calepio e Sebino, alla Valle Caval- lina, alla Valle Imagna, alla Valle San Martino, alla Valle di Scalve, alla Valle Seriana, alla Valle Serina. La Conclusione (pp. 448-453) accenna al clima diffuso nel mondo cattolico nell’immediato dopoguerra, un clima che deve fare i conti con un Vescovo che insiste perché non si indugi sugli accadimenti passati, ma si affrontino le questioni urgenti dei primi tempi dopo la guerra: la tutela dei nuovi perseguitati (i fascisti), l’assistenza a profughi e sfollati, il pericolo comunista, il rientro degli internati, la disoccupazione. Questa parte conclusiva pare un poco troppo sintetica in rapporto alla complessità dell’argomento, ma è probabile che l’autrice abbia di proposito evitato ogni approfondimento, nell’economia dell’opera. L’ Appendice (pp. 455-474) mette a disposizione alcuni elenchi che possono essere utili: 1. Sacerdoti segnalati negli anni del Regime o avversi al fascismo prima del conflitto bellico (n. 72) 2. Sacerdoti che hanno assistito i perseguitati dai nazifascisti (n. 177) 3. Sacerdoti mediatori (n. 45) 4. Sacerdoti ostaggi (n. 25) 5. Sacerdoti che hanno assistito i fascisti dopo la Liberazione (n. 24) 6. Religiosi coinvolti in fatti resistenziali (n.365) 256 Recensioni

All’ Indice dei nomi (pp. 475-491) e alle Sigle e abbreviazioni (pp. 493-494) segue un’interessante Bibliografia ragionata(pp. 495-501) così suddivisa: 1. Riguardo ai sacerdoti e alle religiose di Bergamo 2. Per un approfondimento sul clero bergamasco durante la Resistenza 3. Riguardo al clero fra le due guerre mondiali 4. Riguardo al periodo dell’occupazione tedesca nella bergamasca 5. Riguardo alle formazioni partigiane orobiche

Se è vero che il lavoro di Curtarelli non è esente da squilibri e presen- ta punti che restano controversi, è altrettanto vero che merita un apprez- zamento incondizionato per vari motivi: −− Anzitutto la ricerca contribuisce a colmare un vuoto su un argomento finora indagato in modo insufficiente. −− Il ritardo della storiografia locale (il quale è ancor più colpevole, se messo a confronto con le altre provincie e diocesi) non ha facilitato la ricercatrice e ha reso più limitata la disponibilità delle fonti e dei testimoni. −− Il lavoro contribuisce a determinare le dimensioni della partecipazio- ne popolare alla Resistenza, partecipazione alla quale non è estranea l’opera del clero. −− La partecipazione del clero, che di per sé è sempre significativa al di là dei dati quantitativi, assume dimensioni non immaginate, se si pensa che i sacerdoti coinvolti costituiscono circa il 18% del clero bergamasco. −− Barbara Curtarelli ha il non piccolo merito di mettere a disposizione degli studiosi e dei lettori una grande mole di dati, informazioni, in- dicazioni: un repertorio immenso, frutto di diligenza e costanza.

Insomma, il quadro generale del tema, pur mantenendo e conferman- do la sua complessità, si è fatto un poco più chiaro, anche se non sono venuti meno i punti controversi della questione, sui quali, tuttavia, si può aprire un più proficuo confronto. Quello di Curtarelli è un lavoro che non pretende di essere definitivo, anzi sollecita integrazioni e suggerisce piste di ricerca. Mario Pelliccioli Recensioni 257

Ivano Sonzogni, Attilio e Gino Rota. Politica, economia e istituzioni negli anni dello sviluppo bergamasco (1856-1963), Bergamo, Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo, 2017

Viene proposta la lunga recensione dell’onorevole Beppe Facchetti al volume di Ivano Sonzogni, già pubblicata con il titolo Attilio e Gino Rota, da Zanardelli e Giolitti a Malagodi su «Libro Aperto», rivista fondata da Giovanni Malagodi, 89 (aprile-giugno 2017), pp. 128-136; si ringraziano l’onorevole Beppe Facchetti e la redazione della rivista per la gentile concessione.

Per merito della Fondazione per la storia economica e sociale di Ber- gamo e dell’autore, lo storico Ivano Sonzogni, è venuto un ulteriore forte contributo storiografico alla conoscenza di personalità illustri che hanno operato tra l’Ottocento e il Novecento come, nel caso specifico di Ber- gamo, Attilio e Gino Rota, padre e figlio, protagonisti in modo diverso e in epoche successive della classe dirigente di un’Italia minore nella visibilità, ma alta e maggiore nei valori. Si tratta di due esempi significativi di una personale ispirazione libe- rale praticata nella concretezza dell’amministrazione e dell’imprendito- rialità, con nitido senso del bene comune, da tenere sempre forte e ben presente. Attilio Rota fu tre volte deputato (nel 1897, nel 1907 e nel 1909) poi senatore del Regno, amministratore locale e uomo di banca e d’indu- stria. Suo figlio, Gino, ne raccolse l’eredità morale e operativa e fu a sua volta un punto di riferimento della classe dirigente bergamasca, ammi- nistratore pubblico e d’azienda, per decenni presidente di Italcementi, negli anni complessi che vanno dall’epoca difficile di un fascismo con cui fare i conti in termini di grande autonomia e dignità, e poi di ricostru- zione dell’economia e della politica nella nuova Repubblica succeduta alla catastrofe. Due liberali senza necessariamente aggettivi specificativi, anche se Attilio apparteneva a quel liberalismo di sinistra che – avendo come ri- ferimento Zanardelli – pur senza rinnegare i fondamenti che avevano fatto grande la Destra storica nell’immediato periodo post unitario, ha sempre avuto ben chiara la funzione sociale dello Stato. Funzione da interpretare anche come condizione della sua modernizzazione, negli anni della incarnazione dell’idea socialista nel primo partito del lavoro, e dell’influenza crescente della Rerum novarum. Gino Rota, dal canto suo, aveva tenuto ben forti le sue convinzioni li- 258 Recensioni berali negli anni del regime e poi, nitidamente, in un secondo dopoguer- ra convulso, ancora agitato dai fantasmi del fascismo e dall’incombenza di una nuova sinistra alternativa, anche e soprattutto nei riferimenti in- ternazionali. L’uno e l’altro accomunati dal fatto di essere oggetto di una stima uni- versale, dal riconoscimento di un galantomismo indiscusso, di una lealtà ai principi, senza per questo mai diventare fazione. Ma, soprattutto, Attilio e poi Gino Rota intuiscono e sviluppano il futuro della terra di Bergamo nel difficile transito dall’agricoltura all’in- dustria, realizzando – su entrambi i versanti – la versione sempre più innovativa e più attenta allo sviluppo sociale. Non era compito facile, muovendo da un’agricoltura gracile e aspra, soprattutto sulle colline e sulle montagne vicine a quell’Almenno culla della famiglia. Si trattava di un’agricoltura avara, che non riusciva a sfamare le nu- merose famiglie contadine, molto attratte – qui come nel vicino Veneto – dall’alternativa dell’emigrazione e della ‘fortuna’ cercata altrove. Gino fu un grande organizzatore agrario, a lungo alla guida dei con- sorzi, interpretando un ruolo attento alla crescita culturale e sociale di un ceto, il suo, che doveva aprirsi alle nuove necessità della società che gradualmente cambiava e che a Bergamo, prima che altrove, vedeva pro- prio nel rapporto tra agricoltura e industria lo spiraglio verso un mondo nuovo. Entrambi i Rota, sia pure in epoche diverse, avevano la sensibilità e la visione giusta sul rapporto, oggi diremmo, tra pubblico e privato – o meglio: di un privato che sente doveri pubblici – capace di agire in modo innovativo in una terra uscita a fatica dal secolo in cui altri avevano avviato le rivoluzioni industriali, che non subito avevano investito l’Ita- lia, neppure quella sua parte settentrionale che pure, sotto il controllo austriaco, aveva conosciuto i primi radicali cambiamenti infrastrutturali. Sarebbe stata questa élite borghese, con l’apporto di provenienza estera, in particolare svizzera, che avrebbe realizzato a Bergamo il segno del progresso, introducendo le prime tecnologie e le concrete innovazio- ni dell’industrializzazione moderna. Attilio Rota, rispetto al figlio, mostrò maggiore interesse e dedizione alla politica, un po’ per indole, un po’ perché spinto dai circoli libera- li orobici a rappresentarli in Parlamento, dove si affiancò a Zanardelli prima e a Giolitti poi. A Roma fu il coerente portavoce di un elettorato molto compatto, conquistato dal suo equilibrio e dalla capacità di rap- Recensioni 259 presentanza di idee liberali ben coniugate con un cattolicesimo orgo- glioso. Cosa questa non semplice, visto che si era formato politicamente vicino a leader di estrazione garibaldina, come Cucchi, o di impegnata militanza massonica come Adolfo Engel. Poteva farlo, proprio per la stima conquistata sul campo dei compor- tamenti, delle idee, della professionalità di giurista autorevole, che aveva presto trasferito lo studio di avvocato da Almenno, paese di origine, a Bergamo, trovando nel capoluogo, da subito, un ruolo eminente e con- siderato. Appartenevano entrambi, Attilio e Gino, ad una classe, di notabili del territorio, ma eccellevano in qualche modo spontaneamente per via naturale, non certo in ragione di un privilegio sociale. Notabili, dunque, nel più importante significato della parola, cioè espressioni di una élite che si sentiva investita più dal dovere che dal diritto di essere guida della società. È certamente ispirandosi a personaggi come Attilio Rota che Gaetano Mosca – che il senatore avrà certo frequentato negli ambienti parlamentari romani – il più grande pensatore politico italiano dopo Machiavelli, identifica nei suoi studi la classe politica come aristocrazia, che emerge fatalmente in qualunque regime politico. Classe politica come sinonimo di classe dirigente, concetto ripreso e sviluppato in chiave ancor più attuale dallo stesso Giovanni Sartori che parla delle élites, già teorizzate da Pareto e appunto da Mosca, aggior- nandone la definizione come «gruppo di riferimento di valore», in altri termini come la classe di coloro che «meritano» di esercitare il potere. Ecco, Attilio Rota e per altri versi Gino Rota, appartengono a questa categoria di predestinati, che quasi istintivamente vengono identificati dalla comunità in cui operano come guida morale. Oggi parleremmo di leadership, anche se nella vulgata corrente è diventato quasi prevalente l’istinto contrario, e cioè il gioco al bersaglio contro chi occupa posizio- ni eminenti in ragione di una superiorità innanzitutto culturale e morale. Attilio dimostra la sua leadership per l’appunto culturale quando, nei decisivi primi anni dieci del Novecento, deve orientarsi, e orientare i suoi sostenitori, nella complessità del rapporto tra cattolici e laici nella Bergamo di quell’epoca. Questa complessità era duplice, perché i liberali come Rota e l’insie- me delle componenti definite moderate dovevano confrontarsi con i cat- tolici ma anche con i socialisti, nonostante questi ultimi fossero ancora su posizioni incerte tra riformismo e massimalismo. Sarebbero diventati 260 Recensioni la sponda preferenziale ma purtroppo inesplorata del giolittismo solo in relazione all’introduzione – voluta proprio da Giolitti – di quello che era allora il suffragio universale, consacrato nelle elezioni del 1913. Attilio Rota fu eletto la prima volta alla Camera nel 1897 quando ancora tutto questo non era maturato, in rappresentanza del Collegio di Zogno e la seconda dieci anni dopo per quello di Bergamo, replicata nel 1909, ma ogni volta il rapporto fu particolarmente delicato con il mon- do cattolico, perché quello era ancora un decennio di duro scontro tra fazioni clericali e anticlericali. Nei primi anni del secolo era ancora troppo presto per immaginare un Patto Gentiloni, anche se qualcosa di nuovo era accaduto proprio in provincia di Bergamo. Nella bassa provincia, a Treviglio, fino ad allora feudo del radicale Adolfo Engel, nel 1904 era stato eletto il primo depu- tato cattolico, il giovane Agostino Cameroni, che aveva quindi avuto il ruolo storico di spezzare la proibizione pontificia post risorgimentale. Treviglio apparteneva alla diocesi di Milano, ma i giochi furono fatti a Bergamo con la regia di Nicolò Rezzara, il vicentino fondatore dell’«Eco di Bergamo», senza il quale nulla si muoveva nel cattolicesimo locale. Non mancò certamente la benedizione del vescovo Radini Tedeschi (il cui segretario era Angelo Giuseppe Roncalli, poi amico e confidente di Gino Rota), ben lieto di scaricare su Milano la decisione ma in tutta evi- denza favorevole all’operazione. I radicali e anche gli anticlericali in genere avevano avuto fino a quel momento campo libero in caso di elezioni politiche, perché appunto ai clericali era consentito dal papa la sola partecipazione alle elezioni amministrative. A Bergamo capoluogo e in alcune parti della provincia, i cattolici avevano avuto modo di misurare la propria forza, emergendo in particolare in città e creando qua e là quelle che vennero definite pic- cole Vandee, piccole isole nel mare radicale. Il giovane avvocato Attilio Rota aveva scelto fin dall’inizio il versante radicale della politica liberale sostanzialmente per ragioni sociali e non certo per professione laicista, e dedicò molto della sua attività politica a cercare un punto di incontro tra i due estremi. Il suo era infatti il liberalismo illuminato delle posizioni di Zanardelli, poi sfociate nell’epoca d’oro del giolittismo, e quindi della politica di apertura verso le classi proletarie che cercavano faticosamente rappre- sentanza nel socialismo nascente, ma trovavano illuminate soluzioni le- gislative concrete proprio grazie alle grandi riforme zanardelliane della sinistra liberale. Recensioni 261

Le prove generali di intesa si videro in particolare in occasione delle elezioni del Comune di Bergamo del 1906, in cui Rota fu uno dei prota- gonisti di un serio tentativo di mediazione tra le varie componenti mo- derate dei due fronti, una sorta di ricerca di ‘larghe intese’ ante litteram. Intese peraltro talmente difficili che il Consiglio comunale non riuscì ad eleggere un sindaco, neppure il candidato naturale Attilio Rota, dando una posizione primaria al moderato Suardi, ottimo amministratore, e di- stribuendo gli assessorati senza però designare il Primo cittadino; Suardi risultava infatti soltanto Presidente del Consiglio comunale e Prosindaco. L’accordo trasversale produsse comunque una buona amministrazio- ne, che consentì a Rota e ai liberali di far brillare la concretezza del loro programma amministrativo. La proposta liberale aveva posto come finalità «la modernizzazione delle strutture comunali attraverso 1) scuola: refezione, nuovi edifici e aumenti salariali per il personale; 2) gestione pubblica dell’acquedotto; 3) viabilità e edilizia; 4) case popolari; 5) fognatura; 6) nuova gestione del cimitero unico; 7) bilancio comunale in sicurezza e programmazione poliennale delle opere pubbliche; 8) revisione del dazio sul consumo; 9) municipalizzazione di servizi pubblici; 10) riorganizzazione degli uffici comunali». Cose pratiche, concrete, che si sarebbero oltretutto realizza- te, contribuendo a costruire la nuova Bergamo moderna già dall’inizio del secolo. Di fatto, quella precaria amministrazione senza sindaco seppe fare grandi cose, come scrive Ivano Sonzogni: «L’amministrazione Suardi si trovò ad operare su un vasto fronte che andava dal recupero della gestio- ne diretta dei trasporti pubblici, della distribuzione di energia elettrica e dell’acqua potabile alla realizzazione della rete fognaria e alla gestione dell’area della Fiera. L’ampia collaborazione [tra diverse tendenze] per- mise di incrementare le tasse per risanare un bilancio in difficoltà e di procedere ad investimenti». Questo piano di investimenti, alimentato da imposte, ma soprattutto da significativi interventi bancari, aprì la strada ad un rapporto intrec- ciato tra Comune e banche, basato su una sorta di controllo reciproco e solo un notabile distaccato, onesto e capace come Attilio Rota poteva, a quel punto, rivestire il doppio incarico di amministratore pubblico e di presidente della Banca Mutua Popolare (analoghi incarichi furono attri- buiti al Suardi per quel che riguarda la Banca Bergamasca, al Valsecchi, che ne era già presidente, per il Piccolo Credito). Il compromesso di una intesa trasversale non poté invece replicarsi 262 Recensioni l’anno successivo, in occasione delle elezioni politiche indette per la ri- nuncia del deputato in carica, ma emerse a quel punto la nitidezza della posizione di Attilio Rota. Tanto era stato abile nel 1906 a tessere accordi sulle cose concrete da fare, al di là delle diverse premesse ideologiche, tanto fu capace nel 1907 di fare emergere la trasparenza della sua po- sizione, ancora una volta sul crinale del rispetto dei principi cattolici in uno Stato laico. Rota si presentò a sorpresa come candidato alle elezioni del Collegio di Bergamo, avendo a disposizione solo tre giorni di campagna elettorale e di fatto un solo discorso pubblico da fare, spiazzando in modo plateale le speranze del partito dei cattolici, che – senza lui contro – avevano vi- sto la possibilità di una vittoria e contavano sulla sua assenza dalla lotta per affiancare il loro campione, Bonomi (che poi si ritirò al ballottaggio pur avendo vinto di poco al primo turno), al recentemente eletto Came- roni di Treviglio. Rota fu duramente attaccato in quell’occasione, per la prima e forse unica volta, dalla corrente più clericale, e anzi direttamente dal clero bergamasco, ma, rispondendo con l’alta qualità delle sue convinzioni, seppe fare le opportune distinzioni. Come scrive Ivano Sonzogni, «l’attacco duro lo riservò al partito cle- ricale, che confondeva fede e politica. Mentre lui, cattolico per forma- zione, viveva profondamente il sentimento della fede, il clericalismo del primo ’900 continuava lo spirito dell’Opera dei Congressi: senso della gerarchia, obbedienza in ogni campo all’autorità religiosa, conquista di aree di influenza e di potere. Era la religione totalizzante: il clericale diffidava di un sentimento di fede pura». Rota, continua Sonzogni, esplicitò la differenza politica tra liberali e clericali: «non si parli di religione. Qui si tratta di un atto puramente politico». Poteva insomma – nel vivo di una competizione elettorale – essere molto chiaro e netto, preparando così anche un mandato par- lamentare che non avrebbe avuto ombre compromissorie. Per questo indicò «la divergenza sostanziale fra i due partiti, liberale e clericale: il partito liberale italiano riconosce l’integrità materiale e morale dello Stato e dello Stato vuole l’autonomia, vuole la sovranità civile. Il partito clericale, invece, vorrebbe sottomettere a sé questo potere». Collocando la sua candidatura in un contesto politicamente rilevante, il caso Rota diventò anche di interesse nazionale, procurandogli l’atten- zione e infine il sostegno inizialmente un po’ diffidente di Giolitti e dei grandi giornali liberali, in una fase storica in cui era ancora vivace la Recensioni 263 conflittualità tra Stato e Chiesa. Rota non pretendeva di incarnare da solo la distinzione cavouriana tra Stato e Chiesa, ma ne ripercorreva il significato più profondo con grande serenità ed equilibrio. Il «Corriere della Sera» aveva scritto che Rota, «affermando alta e forte la sua fede religiosa, ha voluto ricordare come la religione non possa essere né debba diventare un partito politico». Interessante notare che – mentre si presentava agli elettori con tanta chiarezza – teneva a sottolineare un punto di principio, e cioè la supe- riore qualità dello Statuto Albertino che prevedeva il divieto del mandato imperativo. Vien da pensare alla miopia di chi oggi, dopo oltre 150 anni di vigenza, ne vorrebbe inficiare la validità, forse innanzitutto per banale non conoscenza dei fondamenti democratici. Ma qui importa sottoli- neare che un uomo come Attilio Rota insisteva su questo proprio per sottolineare in generale l’autonomia del parlamentare e in particolare la sua indipendenza sia da coloro che polemizzavano contro di lui, sia da coloro che volevano tirarlo dalla propria parte (lo fecero sia i radicali sia la destra conservatrice), strumentalizzando quella bella competizione elettorale. Contesa vivace, polemica, aspra, ma non tale da incidere sull’equi- librio di un uomo libero – il galantuomo che tutti rispettavano – nell’in- terpretare la composita volontà degli elettori, sia quelli che lo votavano sia quelli che lo osteggiavano, ma che intendeva rappresentare integral- mente nelle istituzioni. Si deve tra l’altro a questa sua capacità di inter- pretazione e rappresentazione, se si arriva a parlare di ‘risveglio liberale’ e se l’organizzazione liberale sopravvive alla frammentazione che la in- debolisce e che l’avrebbe potuta condannare al declino ben prima che quella stagione venisse stravolta dalla Grande guerra e soprattutto dallo smarrimento politico sociale del dopoguerra. Attilio Rota riesce in questo compito proprio per la capacità di dialo- go e la credibilità della sua fede personale, ma al tempo stesso per la sua nitida concezione della laicità delle istituzioni. Si vedrà ancor meglio questa sua capacità quando, in sede parlamen- tare, dovrà confrontarsi con un nodo difficile e non mai risolto, anche nell’Italia della democrazia repubblicana, dell’insegnamento della re- ligione – allora si diceva del catechismo – nelle scuole di Stato. Rota, d’intesa con i cattolici deputati più disponibili, fu protagonista di quel dibattito, e presentò un chiarissimo ordine del giorno: «la Camera fa voti che la scuola primaria s’ispiri e si esplichi all’incondizionato rispetto di due principi: il diritto dei padri di famiglia di esigere l’istruzione religiosa 264 Recensioni e la piena libertà di coscienza». E così commentò la sua scelta: «il mio ordine del giorno è di una evidenza intuitiva, e rispecchia col criterio liberare l’ossequio più incondizionato alla più sacra di tutte le libertà, la libertà di coscienza, che verrebbe menomata qualora si disconoscesse il diritto avanzato dai padri di famiglia per l’istruzione religiosa dei loro figlioli». Quanto sia stato rilevante questa capacità di essere cattolici in uno Stato liberale lo conferma una eredità politica che durerà fin quasi ai tempi nostri. Bortolo Belotti, cui toccò di raccogliere l’eredità delle posizioni li- berali, nel suo caso anche al livello di Governo (Rota rifiutò invece un posto di sottosegretario), riuscì altrettanto limpidamente a conciliare co- scienza e politica e continuò nel solco di Attilio Rota proprio negli stessi luoghi in cui egli stesso aveva cominciato a seminare questo liberalismo illuminato. Ci piace sottolineare infatti che in quella Val Brembana, e valli la- terali, in cui Rota aveva tanto ben meritato stima e considerazione, si aprì un percorso di reputazione liberale che avrebbe resistito al fascismo e tenuto testa all’egemonia democristiana del secondo dopoguerra con uomini come Francantonio Biaggi, deputato PLI per dieci anni e sindaco di San Pellegrino, fino ad Angiolino Quarenghi, anch’esso sindaco del capoluogo brembano ed esempio di fulgida cultura liberale, un altro con la schiena ben ritta. Come a dire che la traccia di quanto è stato fatto resta a lungo nel tempo e nella memoria delle generazioni. Chi scrive trovò conferma di questa traccia in un contesto affatto di- verso, in una campagna elettorale condotta sotto il simbolo liberale a ottanta anni di distanza. Il nome liberale nella montagna bergamasca godeva ancora di quella lontana reputazione. Non erano magari molti voti nelle urne (ma in Val Taleggio nel 1987 si superò ancora il 10%), ma vigeva una sorta di rispetto per quel simbolo di buon governo, di attenzione equilibrata alle esigenze profonde della società. I pronipoti di coloro che avevano sentito parlare un Attilio Rota portavano dentro di sé, più o meno inconsapevolmente, un’eredità che continuava a dare i suoi frutti. Gino Rota raccolse molto giovane il testimone dal padre Attilio, affian- candolo negli anni del declino fisico fino alla morte avvenuta nel 1931, ma respirando l’aria che lo circondava, ricca di sentimenti di rispetto, di stima, di considerazione anche da parte degli avversari. Lo scambio tra padre e figlio era avvenuto su un terreno comune, il patriottismo sincero Recensioni 265 e profondo, ma in un’ottica diversa. Attilio si era infatti schierato a favore del neutralismo di Giovanni Giolitti nella ‘radiosa’ vigilia della Guerra mondiale, iniziata per l’Italia un anno dopo il suo scoppio e quindi con tutto il corredo di incertezze, di contrasti, di sentimenti diversi di quella lunga attesa dell’intervento. Gino, giovane e pieno di ardore, non aveva avuto esitazione ad entra- re nelle schiere dei volontari che avevano fatte proprie le motivazioni, innanzitutto risorgimentali, dell’irredentismo da riscattare. Non a caso, proprio a Treviglio aveva vissuto la famiglia di Cesare Battisti, che il mar- tire, libero dai suoi impegni, raggiungeva di tanto in tanto, fino alla fatale cattura da parte degli austriaci. Nel successivo dopoguerra sarebbe toccato a Gino raccogliere l’ere- dità dell’impegno pubblico del padre, portando alto, con lo stesso stile e lo stesso equilibrio e circondato dalla stessa stima, un nome presente in tutte le più significative espressioni della vita civile, amministrativa, economica della Bergamo del suo tempo. Si era affermato nel frattempo il fascismo, sulle rovine sociali di un dopo guerra che aveva presto dimenticato l’eccitazione e l’orgoglio ‘tra- dito’ di Vittorio Veneto, dovendosi confrontare con la dura realtà di un Paese ancora fragile che poteva essere più facilmente illuso dalla retorica del regime che indicava un futuro, anzi un presente, di riscatto, degno della grandezza dell’antica Roma. Il tema del consenso popolare, tanto ben delineato dagli studi di Ren- zo De Felice, spiega molti comportamenti della vecchia élite e della nuo- va classe dirigente che si sarebbe formata in quel contesto e che punta- va a soppiantare la vecchia guida dei galantuomini liberali, se possibile cooptandoli, ma con l’intento sostanziale di emarginarli, perché corpo estraneo rispetto alle priorità del regime. Restò intatta, anche nel nuovo contesto, la considerazione genera- le per un Attilio Rota, finché restò in vita e accompagnò con lo stesso sguardo speranzoso di molti, i primi passi di un governo inizialmente appoggiato da ambienti liberali e monarchici e che per affermarsi aveva dovuto scrivere la tragica pagina del 1924, con l’assassinio di Matteotti, ma che prometteva il riscatto moderno del Paese. Gino Rota attraversò quegli anni con realismo, ma senza compromis- sione. Affiancò sì il podestà di Bergamo nell’amministrazione della città – una delle più dinamiche che in verità si ricordi – ma quel podestà era un uomo come Antonio Locatelli, non proprio organico al partito per in- dole, eroe di guerra, tre volte medaglia d’oro, per il quale la Repubblica 266 democratica, a guerra finita, inaugurò con convinzione un monumento ancor oggi tra i più rispettati della città. L’impegno amministrativo di Gino fu però molto importante per Ber- gamo, collaborando per conferirle un volto moderno e in armonia tra Alta e Bassa città, avendo la fortuna ma anche il merito di valorizzare un architetto come Luigi Angelini, cui si deve il salvataggio di quel gioiello che è oggi la Città Alta, sottratta a sventramenti e imponenze sostitutive, in linea con le promesse enfatiche del regime. Ma la mano di Rota si vide anche un un’altra fondamentale istituzio- ne bergamasca, l’Accademia Carrara, che conobbe con lui presidente il primo momento di recupero di identità che l’avrebbe portata nel tempo ad essere un patrimonio di interesse internazionale. E qualcosa del gene- re si potrebbe dire per il . A differenza del padre, Gino ebbe con l’attività politica un rappor- to meno intenso ed impegnativo, volgendosi innanzitutto alla cura del Consorzio Agrario e comunque preferibilmente alle questioni ammini- strative, almeno fino al secondo dopoguerra, quando invece si impegnò politicamente in un Partito Liberale pur piccolo e poco rilevante dalla strettoia della guerra e dall’impossibilità di ricuperare il filone protagoni- sta ancora tanto forte nei primi anni venti del Novecento. Occupò cariche di vertice del Partito e lo rappresentò inizialmente in piccola compagnia in Consiglio comunale negli anni in cui la politica di schieramento, dettata dall’incombenza del PCI, avvicinò i moderati al nuovo partito egemone di Bergamo, la Democrazia Cristiana, con la sindacatura Galmozzi che molto fece per ridare slancio e sviluppo alla città. Ma il PLI non solo bergamasco gli deve molto e non tanto perché Rota seppe contribuire all’onda lunga che portava ai grandi risultati malago- diani dei primi anni sessanta che produssero a Bergamo uno straordina- rio 14,88%, con otto eletti nel Consiglio comunale del 1964, ma perché le sue capacità manageriali si videro bene nell’organizzazione di questa piccola comunità volontaristica, una testimonianza davanti ai partiti di massa che ormai dominavano la scena. Il PLI ebbe una sede, due notiziari, un’agenzia di stampa, e avviò una importante attività di formazione e proselitismo tra i giovani della GLI, che vide impegnati anche gli stessi figli di Gino, Attilio e Franco, quest’ultimo oggi animatore dell’iniziativa di recupero storico di cui stia- mo parlando. E non è certo insignificante il particolare per cui fu un mi- nistro liberale degli anni ottanta a designare Franco Rota presidente della 267

Croce Rossa di Bergamo, in continuità con l’impegno nel volontariato del padre Gino. Il personale politico in questi lontani anni sessanta fu di grande quali- tà, e uomini di valore come Antonio Rodari e Giovanni Riva animarono un Consiglio comunale in cui il livello del dibattito era assicurato dalla presenza contemporanea di uomini come Filippo Pandolfi, Mirko Tre- maglia, Antonio Tagliarini, Lucio Magri: un piccolo club di politici di primo piano come mai prima, e poi, si sarebbe potuto vedere all’opera nell’Aula di Palazzo Frizzoni. Il Congresso Provinciale del PLI del 1958 si tenne in un teatro con lar- ga partecipazione di iscritti e la relazione introduttiva di Giovanni Mala- godi, segretario nazionale in crescita di popolarità grazie anche all’avvio delle trasmissioni televisive della RAI. Una stagione felice e feconda del liberalismo bergamasco, quella dell’immediato secondo dopoguerra, in cui quelle personalità che ave- vano segnato il primo Novecento, come Sebastiano Zilioli, Ciro Caver- sazzi e Sereno Locatelli Milesi, lasciarono il testimone del liberalismo alla nuova generazione dei Francantonio Biaggi, Augusto Premoli, Gian- nino Cima, Enrico Vivona, Paolo Bonomi e ai dissidenti Bruni e Zenoni. Tra tutti questi, Gino Rota era un leader naturale riconosciuto: rinun- ciò alla proposta di una candidatura al Parlamento che era stata convin- tamente avanzata dagli stessi vertici nazionali e da Giovanni Malagodi in persona. Ma se la politica era quasi un hobby di famiglia, Gino Rota si dedicò piuttosto con passione ad un versante che aveva già visto impegnato con successo il padre Attilio: quello dell’industria e dell’impegno culturale, sociale e della beneficenza. Arrivato al vertice di Italcementi già nel 1946, quasi come uomo di pacificazione e mediazione dei soci famigliari, Gino restò presidente fino al termine dei suoi giorni, accompagnando la crescita industriale e finanziaria del gruppo dalle dimensioni locali a quelle nazionali e in- ternazionali, curando in particolare il versante dell’innovazione e della ricerca, che hanno rappresentato il segreto del successo imprenditoriale di questa azienda nel tempo. Protagonista nei primi anni della ricostruzione di un Paese coperto dalle macerie della guerra, Italcementi è stata un soggetto esemplare della capacità italica di trovare all’interno di una famiglia le risorse in- nanzitutto morali per affermare la capacità d’impresa ai più alti livelli, e Gino Rota conferì a questa ascesa il valore e il tocco di grazia dell’e- 268 quilibrio, della responsabilità, della correttezza che erano nel DNA della sua famiglia. Per questo, nel ricco curriculum di Gino Rota non c’è solo Italcementi, ma anche l’altra grande realtà industriale bergamasca, la Dalmine, e il libro di Sonzogni ben racconta quanto seppe fare di utile e determinante la dirigenza che si trovò a rianimare la siderurgia in un dopoguerra devastato e senza le necessarie materie prime. Ma il legame affettivo più profondo Gino Rota lo ebbe con l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche – che era un po’ anche l’azienda di famiglia per l’antica presenza azionaria di Attilio – entrandovi operativamente fin dal 1940 quando la situazione, un tempo gloriosa in termini industriali e so- prattutto culturali, pativa una crisi che sembrava irreversibile. Ne scaturì un modello nuovo di grande qualità che Gino non fece a tempo a vede- re in tutta la sua forza, ma che doveva a lui, alla sua capacità di guida e mediazione la rinascita e il consolidamento di una realtà davvero di primo piano. Ricchissima e diffusa è stata la sua presenza nelle principali opere di carità e di assistenza dell’intera provincia, mettendo al primo posto la sua Almenno e la sua Bergamo. L’elenco sarebbe lungo ma tocca tutte le principali istituzioni: dall’ONMI all’Opera Bergamasca per la Salute dei Fanciulli alla Congregazione di Carità di Bergamo.

Il libro di Ivano Sonzogni ha dunque il merito di averci restituito nella sua interezza il profilo di due personaggi davvero protagonisti del loro tempo e del loro ambiente. Diversi per temperamento, come abbiamo visto, ma straordinaria- mente simili nella severa interpretazione di un dovere sociale o sempli- cemente di un dovere inevitabile per chi ha avuto la fortuna del carisma e della leadership nella società. Quando Gino scrive a Malagodi per rinunciare ad una candidatura al Senato che in quel momento sarebbe stata sicura, perché il partito era in grande ascesa, parla della propria stanchezza come un limite per essere davvero all’altezza degli impegni che avrebbe assunto. «Nella mia vita – rispose a Malagodi – ho sempre fatto buon viso e accettato qualsiasi incarico pubblico gratuitamente alto o basso che fosse, ritenendo un do- vere per chi appena potesse o ne fosse in grado, di dare parte della sua attività pel pubblico bene». Questa volta non poteva però accettare «per rispetto a me stesso e soprattutto al corpo elettorale». Questi erano gli uomini come Attilio e Gino Rota. Scrive Ivano Sonzogni di Gino: «Era un liberale convinto nel senso 269 più nobile e impegnativo del termine, cioè nella volontà di porre come primo obiettivo nell’attività amministrativa e politica il principio del bene comune, il rispetto della res publica, la difesa dei valori individuali, fino al punto di rifiutare proposte professionalmente e politicamente lusin- ghiere perché non in linea con i propri principi etici e comportamenta- li». Solo così, conclude Sonzogni, Gino Rota «poté ottenere anche dagli avversari il riconoscimento di una grande correttezza e di un elevato spirito di indipendenza e autonomia. E solo così ha potuto passare in- denne tra i grandi rivolgimenti politici della storia italiana, conservando prestigio e autorevolezza personali». Il giudizio è riferito a Gino, ma potrebbe essere replicato pari pari per Attilio Rota. E anche per questo è giusto averli ricordati insieme, perché di uomini così è necessario tenere la memoria civile e collettiva, per quel che può servire in un’epoca tanto diversa dalla loro anche perché inde- bolita sul versante del senso del dovere civico. Si può dire che quella di oggi sia purtroppo largamente l’epoca del dispetto e del sospetto. Quella dei Rota fu l’epoca del rispetto. Beppe Facchetti

Finito di stampare nel mese di luglio 2018 da Grafica Monti s.n.c. Bergamo