Enrico Bernard

I più segreti legàmi

Sinergie neorealiste tra letteratura e arti visive nel carteggio Bernari – Zavattini (1932–1989)

Abhandlung zur Erlangung der Doktorwürde der Philosophischen Fakultät der Universität Zürich vorgelegt von Enrico Bernard, angenommen im Frühjahrssemester 2014 auf Antrag der Promotions-kommission [Prof. Dr. Tatiana Crivelli «hauptverantwortliche Betreuungs- person», Prof. Dr. Francesca Bernardini, Prof. Dr. Raffaella Castagnola] als Dissertation angenommen.

Thesis Presented to the Faculty of Arts and Social Sciences of the University of Zurichfor the Degree of Doctor of Philosophy by Enrico Bernard, accepted in the Spring Term 2014on the Recommendation of the Doctoral Committee [Prof. Dr. Tatiana Crivelli «main advisor», Prof. Dr. Francesca Bernardini, Prof. Dr. Raffaella Castagnola].

[Rom-Trogen, 2014]

BeaT 

© 2014 BeaT - Enrico Bernard Entertainment Art Verlag Die vorliegende Arbeit wurde von der Philosophischen Fakultät der Universität Zürich im Frühjahrssemester 2014 auf Antrag der Promotions-kommission [Prof. Dr. Tatiana Crivelli «hauptverantwortliche Betreuungs-person», Prof. Dr. Francesca Bernardini, Prof. Dr. Raffaella Castagnola] als Dissertation angenommen.

Enrico Bernard Entertainment Art Verlag Speicherstrasse 61 CH-9043, Trogen

Via Maria Giudice 37 I-00135, Roma [email protected]

ISBN: 978-3-03841-016-4

Edizione online (pdf): ISBN: 978-3-03841-017-1

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SOMMARIO

Premessa L’idea neorealista...... 5 Epilogo di un’amicizia lunga una vita...... 11

Capitolo primo Arte figurativa e neorealismo...... 25 Immagine e testo...... 58

Capitolo secondo Fotografia e letteratura...... 79 Il problema della seconda realtà……………………………………………………………….....106 Verismo e neorealismo: un malinteso realismo...... 116 Immagine e parola…………………………………………………………………………………..132 Il singolare scambio epistolare tra Bernari e Zavattini nel 1950 in merito al concetto di realismo……………………………………………………………...... 139 La nascita del romanzo neorealista...... 142 Tra fotografia, romanzo e cinema...... 157

Capitolo terzo Una polemica “dura” a morire...... 205 Letteratura e cinema...... 224 Bernari e il cinema...... 230 Il “taglio” cinematografico di Tre operai...... 233 Il cinema nel carteggio Bernari-Zavattini...... 246 Un certo “Fanelli” (Farinelli)...... 269 Soggetti e sceneggiature...... 281

Capitolo quarto Realismo e teatro: “una rottura di…”……………………………………………………………307 Esiste il Teatro Neorealista?...... 319 L’attività teatrale di Carlo Bernari...... 336

Conclusioni...... 347

Bibliografia...... 351

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Premessa. L’idea neorealista.

Il neorealismo è stato, e per diversi aspetti è rimasto, un oggetto, se non misterioso, certamente «multiforme e sfuggente come un’anguilla» (Maria Corti) 1 . La critica ha riconosciuto la propria difficoltà nell’elaborare una definizione convincente del fenomeno e, in effetti, non è andata molto al di là della constatazione generica della presenza, nel neorealismo, di un conciliante equilibrio tra cronaca e narrazione2. Questa impostazione – che, fatte salve alcune eccezioni, emerge sistematicamente anche nei più recenti studi – sembra però più una confessione di impotenza che una via di uscita dal vicolo cieco in cui gli artisti del neorealismo – sempre imprevedibili, complessi, autarchici e difficilmente assoggettabili a schemi rigidi – hanno involontariamente spinto una nutrita schiera critica. Non riuscendo a fornire una definizione soddisfacente e puntuale delle varie forme assunte dal neorealismo, la critica ha persino tentato, sperando con questo di uscire dalla propria “impasse”, di modificare l’oggetto della ricerca stessa, come sostiene Bàrberi Squarotti quando parla di una «critica asservita alle ideologie d’accatto».3 Molto chiaramente si esprime a questo proposito :

Oggi, in genere, quando si parla di “letteratura impegnata” ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava “engagement”, l’impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, sprezzatura, sfida.4

Calvino, parlando del contesto in cui nacque il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, storicizza la sua osservazione facendone un vero e proprio caso, anche personale, con un esplicito riferimento a Vittorini quando accenna criticamente alla questione dell’”eroe positivo”:

Cominciava appena allora il tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’”eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche, di condotta sociale, di milizia rivo- luzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in

 1 Cfr. CORTI MARIA, Neorealismo, in Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, pp. 25–98. 2 Cfr. LEAVITT IV. L. CHARLES, Cronaca, Narrativa, and the Unstable Foundations of the Institution of Neorealism, in «Italian Culture», 1 (2013), March, pp. 28–46. 3 BÁRBERI SQUAROTTI GIORGIO, Il codice di Babele, Milano, Rizzoli, 1972, p. 72. 4 CALVINO ITALO, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori Meridiani, vol. I, 2003, p. 1192. 5 

seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’in- combere d’una nuova retorica.5

E se ciò non fosse abbastanza chiaro, ecco che ne Il midollo del leone Calvino alza tiro sostenendo che chi conosce quanto sia difficile e complessa l'attività politica:

[…] resterà sempre insoddisfatto e infastidito dallo scrittore che imita dall’esterno le operazioni del dirigente politico o sindacale, o dal critico che - con ancor maggiore facilità gli chiede di far ciò: di passare dalla analisi critica alla denuncia, alla indicazione dei rimedi, alla impostazione di lotta, alla critica delle deficienze, alla soluzione positiva e così via. Questa tendenza da parte della letteratura e dell’arte alla mimesi pura e semplice delle organizzazioni di partito e delle Camere del Lavoro, non è solo infantilismo politico, ma un residuo di presunzione intellettuale […]6

Potremmo dunque adottare il ragionamento di Calvino come sintesi della nostra tesi: «La verità è dalla parte della fantasia, anche se smentita dalla politica reale.»7 Non tutti gli scrittori sono però riusciti a scampare al pericolo che questa “politica reale” rappresenta per chi non si mette in riga al servizio di questa o quella “ideologia d'accatto”. Proprio in occasione del centenario della nascita di (1913–2013) il «Corriere della Sera» dedica un ampio servizio al caso dello scrittore fiorentino che ha subito, come molti altri suoi contemporanei, un processo di rimozione.8 La questione è che i tentativi di costringere gli autori del Novecento a salire su una bilancia oscillante tra documento, cioè cronaca, e invenzione letteraria, ovvero narrazione – parliamo dell’ultradecennale polemica con cui si discute la supremazia della forma o del contenuto, dell’estetica o dell’etica, del “bello scrivere” o dell’utilità dell’arte – falliscono ogni qual volta si torni a dare la scalata alla comprensione del neorealismo con i tradizionali strumenti della critica letteraria! Il motivo di questi fallimenti sta nel fatto che il neorealismo non si lascia comprimere, né tantomeno uniformare, nell’ambito di “uno” stile, di “un” genere, ovvero di “una” forma: la natura di quello che dovremmo considerare un vero e

 5 Ibid., CALVINO, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e racconti vol. I, cit., p. 1193. 6 CALVINO ITALO, Il midollo del leone, conferenza del 17 febbraio 1955, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 13. 4 Ibid., CALVINO, Il midollo del leone, cit., p. 7. 8 POLESE RANIERI, Pratolini, la solitudine dopo l’impegno in «Corriere della Sera», mercoledì 16 ottobre 2013, p. 38. L’occhiello dell’elzeviro è assai significativo: Mai organico al PCI, attaccato da sinistra, dimenticato. 6  proprio complesso filosofico ed epistemologico, più che un movimento artistico, risiede infatti nella molteplicità e nella sinergia di più stili, di più generi, di più forme della rappresentazione della realtà. Il fraintendimento – se non vogliamo parlare di fallimento – di buona parte della critica nei confronti del neorealismo è peraltro dovuto a diversi fattori. Tra questi, sicuramente il più innocente, ma non per questo il meno evidente, è quello concernente la settorialità (e rimandiamo invece il discorso sulla malafede di coloro i quali, e non sono pochi, hanno cercato di compromettere le fonti letterarie con gli interessi di questo o quel partito politico, questa o quella ideologia). In questo studio parleremo poi della questione del realismo socialista e del realismo fascista, che presentano un’insospettabile simbiosi; tant’è che, come vedremo, alcuni fautori del secondo divennero, con un provvidenziale ripensamento, i principali propagandisti del primo, ripercorrendo al contrario il destino politico dello stesso Mussolini, socialista e rivoluzionario prima di fondare il fascismo. In sede introduttiva, però, sarà utile soffermarci sulla “vexata quaestio” dell’in- terdisciplinarità. Una larga fetta della critica, infatti, ancora oggi, opera in compartimenti stagni: per questo i rapporti sinergici tra le arti risultano per essa difficilmente interpretabili. L’esperto di cinema stenta a seguire i fenomeni artistici in campo figurativo, così come il critico d’arte non ha i ferri del mestiere per un’attenta analisi letteraria, e viceversa. In tutto questo il teatro ha il ruolo della Cenerentola di turno – e sono pochi coloro9 che considerano la fotografia come parte integrante del panorama neorealista. Stando così le cose, proprio a causa di una carenza scientifica nel campo della interdisciplinarietà, le ricerche continuano a interrogarsi sulla natura del neorealismo, una natura sfuggente come il sesso degli angeli, riproponendo un enigma irrisolvibile: viene prima la cronaca (contenuto) o la narrazione (forma)? Solo pochi mesi fa Charles L. Leavitt ha ripreso il dibattito dell’immediato dopoguerra tra «Il Politecnico» e «Società»10 appianando apparentemente la questione con una soluzione “bipartisan”, secondo la quale il neorealismo sarebbe una miscela di entrambi i fattori: un po’ cronaca e un po’ narrazione, un po’ forma e un po’ contenuto. Ancora una volta, questo gioco di mediazione fra i due estremi è una sorta di minimo comune  9 Remo Ceserani, uno dei maggiori studiosi italiani dei rapporti tra letteratura e fotografia, non parla mai del neorealismo. Su questo argomento torneremo nel terzo capitolo. 10 «Whereas the intellectuals affiliated with Società feared that literature would succumb to the excitement oft the historical moment, inflaming the susceptible consciences, of their readers, those at Il Politecnico argued that literature, not cronaca, was Italy’s primary hope for overcoming the historical crises oft the recent past». LEAVITT, Cronaca, Narrativa, and the Unstable Foundations of the Institution of Neorealism, in «Italian Culture», cit., p. 32. 7  denominatore che, se da un lato mette d’accordo quasi tutti (i critici, ma non certo gli artisti, che vedono la questione diversamente e con qualche complicazione in più), dall’altro perpetua il “misunderstanding” senza riuscire a spiegare la vera natura del neorealismo, che è molteplice e sfaccettata come un prisma. In effetti, questo tipo di approccio risulta tanto semplice quanto inconsistente: un uovo di Colombo che non apporta un sostanziale contributo alla causa della scoperta del significato del neorealismo. La ragione di questo tiro a salve è presto spiegata. Si ricade infatti sempre nell’equivoco, comune alla maggioranza degli studiosi, di far partire l’analisi del fenomeno da un periodo storico, l’immediato dopoguerra, che è successivo di almeno quindici anni rispetto all’inizio dei fermenti intellettuali che ci interessano. Un errore che si manifesta anche nella critica più recente, ad esempio Paolo Chirumbolo afferma:

Com’è risaputo, tra le ragioni che portarono al successo del neorealismo vi fu la necessità di raccontare e mostrare l’Italia dopo vent'anni di dittatura fascista [….] sconfitto il regime, registi come Rossellini, De Sica, Visconti e sceneggiatori quali Zavattini e Amidei sentirono il bisogno, morale ed estetico, di rappresentare una nazione devastata dalla guerra e da un regime oppressivo e raccontare le storie di ladri di biciclette, pensionati, eroici partigiani.11

L’espressione “com’è risaputo” con cui inizia la riflessione di Chirumbolo è alquanto sospetta. Certo che i grandi autori da lui citati sentivano il bisogno morale di raccontare lo stato delle cose, ma il loro bisogno estetico li spingeva a tutt’altra visione formalistica che la nuda rappresentazione del reale. La coscienza storica, intesa come impegno di verità narrativa, è presente in Visconti, ma Senso, tratto dalla novella tardoromantica di Boito, e Il gattopardo da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, descrivono ben altri personaggi e figure rispetto a pensionati e ladri di bicilette. Lo stesso Ladri di biciclette è peraltro una fiaba, raccontata con toni da fiaba, come fiabeschi e incantati sono Miracolo a Milano e Il giudizio universale di De Sica-Zavattini. Torneremo su queste opere, ma lasciamo la parola a Calvino per rispondere in prima battuta a Chirumbolo a proposito della letteratura neorealista di “successo”:

Bisogna dire che in questo clima [della letteratura italiana del dopoguerra, ndr.] le poche voci di veri scrittori furono soverchiate da una fiumana di libri  11 CHIRUMBOLO PAOLO, La nuova narrativa del lavoro, saggio introduttivo a Letteratura e lavoro - conversazioni critiche, Soveria Mannelli, Rubettino, 2013, p. 28. 8 

grezzi, di voci anonime, di testimonianze sulle esperienze più crude, di nudi documenti della vita popolare, di tentativi letterari immaturi, di bozzetti naturalistici regionali, di una retorica popolaresca che si sovrapponeva alla realtà: tutti questi aspetti, buoni e cattivi insieme, caratterizzarono quello che è stato chiamato il neorealismo italiano.12

Sono innumerevoli le testimonianze degli autori che hanno richiamato l’attenzione sul quinquennio 1929–1934 in cui si manifesta l’humus culturale e letterario del cinema neorealista. A definire questo periodo, per il quale è stata coniata l’espressione “incunabolo del neorealismo”, non ci si è ancora soffermati sufficientemente. Eppure questi sono anni durante i quali, accanto alla progressiva evoluzione della letteratura in direzione di una sinergia con le arti visive nel loro insieme (teatro, cinema, pittura e fotografia), si costituisce la base teorica di un nuovo modo di raccontare, cioè di un raccontare e scrivere “per immagini”. È proprio questo nuovo paradigma letterario a racchiudere il “segreto” del neorealismo, la sua ragion d’essere. Si tratta di una “formula” apparentemente semplice ma che necessita, per essere riconosciuta, della volontà di tuffarsi in una ricerca scientifica interdisciplinare. Non ci sarà bisogno di ricordare che nel periodo in questione non vengono alla luce solo opere letterarie, bensì si costituisce un vero proprio corpus teorico che trasforma di sana pianta il concetto stesso di letteratura. Questo, ad esempio, è il caso di Carlo Bernari che, tra il 1929 e il 1932, riscrive l’originario manoscritto giovanile di stampo verista, Gli stracci, nel capolavoro neorealista Tre operai, facendo tesoro, come specificheremo in seguito, dell’esperienza teorica del Manifesto UDA (Unione distruttivisti attivisti) del 1928–1929. L’esempio di Bernari non è tuttavia casuale né isolato: si tratta bensì di un processo che parte dall’irruzione delle arti visive, in particolare della fotografia e del cinema, nella letteratura a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo (Verga e Capuana) e che si dipana dall’originario verismo verso la formulazione del neorealismo, inteso come nuova teoria della rappresentazione critica (quindi della trasformazione) della realtà. Questo processo teorico, che si concretizza in opere letterarie di prim’ordine, nasce appunto, come vedremo, dall’innesto delle arti visive nella struttura narrativa e viene a creare il “background”, ossia l’incunabolo neorealista che sarà la base dell’esperienza artistica dell’immediato dopo- guerra: un’esperienza che, differentemente da quanto sostenuto da Leavitt e da buona parte della critica, è dunque il punto di arrivo e non di partenza del neorealismo.

 12 CALVINO ITALO, Tre correnti del romanzo italiano, in Una pietra sopra, cit. p. 59. 9 

L’analisi dell’ampio carteggio tra Carlo Bernari e Cesare Zavattini confermerà la tesi che il neorealismo scaturisce dalla rielaborazione formalistica della realtà, non dalla sua riproduzione. Lo scambio epistolare comincia nel 1932 e prosegue fino all’inizio dell’estate 198913, estendendosi dunque per un lungo arco temporale, durante il quale il neorealismo si evolve in svariate direzioni. Fin dalle prime lettere tra i due scrittori emerge chiaramente il quadro neorealista che si viene qui delineando – cioè una compenetrazione sinergica di letteratura e arti visive, e non semplicemente di documento e narrazione – che implica gli elementi necessari a fornire quella definizione sempre ricercata e mai definitivamente elaborata, per sua stessa ammissione, dalla critica. Occorre in ultimo anche precisare, per spiegare il taglio e il tono di questo studio, che chi scrive fu non solo testimone, ma in qualche caso, con la sua motocicletta, persino il postino che di questo carteggio si fece carico, portando le missive tra casa Bernari e casa Zavattini, per quasi la metà della durata del rapporto tra i due artisti. Va dunque da sé che non potranno mancare alcuni spunti autobiografici, ai quali sarà da attribuire la doppia valenza di testimonianza storica da un lato e, dall’altro, di indiretta dimostrazione dell’at- tualità dell’idea neorealista. Questa idea, infatti, è il fondamento anche del mio lavoro artistico e io la porto avanti sperimentalmente dalla seconda metà degli anni Settanta, proprio sulla base della collaborazione con questi due padri: il padre anagrafico Carlo Bernari e, a distanza perché abitava in un altro quartiere, il padrino di battesimo Cesare Zavattini. Questa ricerca è suddivisa in quattro capitoli, ciascuno dei quali dedicato ad una delle principali arti visive praticate da Bernari e Zavattini: pittura, fotografia, cinema, teatro. Il materiale iconografico è inserito all’interno delle singole sezioni e non in una voluminosa appendice, questo per dare immediatamente l’idea, nell’ambito del nostro discorso, di una costante corrispondenza tra ragionamento e rappresentazione, tra parola e immagine. Da ciò ci sembra possa scaturire una testimonianza in grado di assolvere alla funzione di dimostrare sul campo, coi necessari supporti visuali, le tesi sostenute. Ma al di là di questa esigenza più tecnica e specifica, abbiamo anche pensato di dar vita ad un libro ricco di immagini, foto, disegni originali che rappresenta un modo, se non nuovo, certamente insolito di fare ricerca letteraria. Un modo che, come si potrà constatare, agevola il lettore contemporaneo nel compito non sempre facile, soprattutto quando si tratta di ribaltare alcuni schemi preconcetti o posizioni irrigiditisi nel corso dei decenni, nell’interpretazione e nel giudizio.

 13 Zavattini morì a Roma il 13 ottobre 1989, nel giorno dell’ottantesimo compleanno di Carlo Bernari. 10 

Epilogo di un’amicizia lunga una vita.

Una delle ultime lettere di Cesare Zavattini a Carlo Bernari reca il timbro postale di Roma Nomentano, quartiere in cui abitava lo scrittore di Luzzara, in data 15 settembre 1981. È redatta a macchina da scrivere su carta extrastrong: dai caratteri risulta essere la stessa macchina usata da Za fin dal 1941, anche l’impostazione grafica è identica alla corrispondenza risalente a quarant’anni prima, con luogo e data ben visibili al centro in alto e l’intestazione Caro Carlo, a sinistra distanziata da due spaziature dall’inizio del testo che presenta sette battute di rientro. Come al solito Za – quasi come se volesse personalizzare l’impostazione fin troppo burocratica dell’epistola dettata al figlio e aiutante Marione, precocemente scomparso – si accanisce con penna e matita sul testo, sottolineando alcuni punti (“abbraccia tutti”) e aggiungendo una nota relativamente ad un articolo di giornale allegato. Un altro intervento a mano è quello di una messa tra parentesi che mi riguarda direttamente:

Mi hanno detto che sei passato col chitarrista dal Politecnico. Ieri sera ne sono tornato in barella, ma dicono che è un’esibizione di vitalismo. (Mi farò vivo con Enrico o chi per me) (ho già dato il suo nome tempestivamente).

L’Enrico, alias “il chitarrista”, citato da Za tra parentesi, sono io: il terzo e ultimogenito figlio di Carlo Bernari, ovvero il “refuso di stampa” come mi chiamava scherzosamente mio padre giustificando così la distanza temporale, ben 16 anni!, che mi separa dal primogenito Eugenio. Sono nato l’11 novembre del 1955 quando Bernari era in Cina con una delle prime missioni di intellettuali italiani negli anni preparatori della Rivoluzione Culturale14. Così il primo uomo a sollevarmi tra le braccia non fu mio padre, ma proprio Za che si precipitò in clinica a Viale Regina Margherita, del resto a poche centinaia di metri dalla sua abitazione romana, a trovare mia madre in sostituzione dell’amico assente. Ma torniamo alla lettera di Za del settembre 1981, perché credo di dovere una spiegazione: che ci faccio io tra quelle righe? Da qualche anno andavo sporadicamente a trovare Za nel suo studio di via Santangela Merici 40 con la chitarra per fargli ascoltare i miei testi di cabaret che andavo pubblicando, musicando e rappresentando in giro per Roma. Non so se gli sono stato anche fonte di ispirazione, certo che Za fece un salto nella poltrona quando, era l’aprile del 1980, gli eseguii la mia ballata teatrale intitolata La verità (da me  14 Cfr. BERNARI CARLO, Il gigante Cina, Milano, Feltrinelli, 1957. 11  già cantata nel 1979 al mitico Folkstudio di Roma e pubblicata nel 198015). Io cantavo il mio testo forzando sulla “à” finale (“La veritààà non sempre è quella che / io dico a te / e tu ripeti a me/la veritààà... eccetera) e Za arrossiva: ma lo sai che abbiamo avuto la stessa idea? Solo che io ci metto qualche “à” in più di te. E così dicendo alza la cornetta per telefonare a Bernari: “a furia di rompere con la chitarra il tuo refuso (cioè io, ndr.) ci è riuscito!”. In che cosa fossi mai riuscito, lo sa quel diavolo di Za. Azzardo: probabilmente a coinvolgerlo emotivamente fino al punto da propormi un’apparizione nel film che stava preparando, La veritààààà (anche se la produzione Rai non mi permise di inserire tutta la canzone e mi concesse uno spazio marginale). Ecco comunque spiegata la mia presenza in quella lettera del 1981: Za aveva passato il mio nome e la canzone ai produttori per l’apparizione nel film girato, – quando si dice il caso –, nella location del teatro Politecnico di via Tiepolo al Flaminio, proprio nella sala in cui negli Anni Ottanta realizzai successivamente alcuni miei spettacoli. Va da sé che la mia posizione privilegiata, non solo di testimone, ma in qualche caso anche di compartecipe della vita artistica e quotidiana di due degli ultimi grandi uomini della storia letteraria italiana del XX secolo, Cesare Zavattini e Carlo Bernari, mi mette in condizione di fornire un contributo speciale e, forse, qualche spunto di novità all’in- terpretazione della questione del neorealismo tra cinema e letteratura, – una questione che a mio avviso resta ancora oggi da sviluppare. So che sono stati spesi fiumi di inchiostro su questo argomento, tuttavia se non è mancata, certamente è stata piuttosto debole una visione interdisciplinare del rapporto tra arte, cinema, teatro, pittura e letteratura, capace per altro di entrare anche nel privato di due protagonisti che hanno sempre artisticamente operato su piani diversi, passando dalla pittura alla saggistica, dalla scrittura cinematografica alla narrativa, dalla poesia al teatro, dalla pittura alla scenografia con estrema disinvoltura e bravura. Devo anche constatare una lacuna nella critica che, nonostante le decine di interventi su riviste importanti tra il 1950 e il 1970 in cui Bernari e Za andarono rivendicando una concezione sinergica della produzione artistica – per entrambi infatti, come dimostrerò più ampiamente in seguito, non aveva senso parlare di letteratura disgiuntamente dal cinema e dalle altre arti visive16 – negli ultimi  15 Cfr. BERNARD ENRICO, Il garbo del maestro sgarbato ovvero Scherzo da cani con due nani, Roma, Veberi, Studiotipografico, Via Flaminia, 1980. 16 Cfr. BERNARI CARLO, Tre linee di lettura, in «Rinascita» n. 29, 17 luglio 1965 p. 28. In questo intervento Bernari propone una visione sinergica della letteratura che comprenda arti visive, cinema e teatro, e le arti figurative. Cfr. pure BERNARI CARLO, Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del cinema italiano», agosto 1953, pp. 7–29: nell’intervento Bernari cita un saggio di C.L. Ragghianti, Cinema arte figurativa, Torino, Einaudi, 1952. 12  venti anni si è invece tornati ad una interpretazione sempre più “specialistica” e settoriale dei fenomeni artistici del XX secolo. Non è naturalmente un’accusa, ma certo un dato di cui bisogna prendere atto, la semplice constatazione che la critica letteraria italiana si è concentrata ultimamente sul fenomeno letterario tralasciando per esempio la funzione del teatro: raramente – salvo ribadire con una certa schematicità i rapporti tra cinema e letteratura neorealista – si è affrontato il problema delle sinergie, e comunque includendo mai il teatro e solo limitatamente la pittura nel discorso. Fanno eccezione due studiosi che insegnano in Canada e negli Stati Uniti, Rocco Capozzi e Antonio Vitti, i quali hanno proprio di recente riproposto la questione del neorealismo incrociando le loro ricerche: Capozzi parte dalla letteratura per comprendere osmosi e influenze sia con le arti figurative che col cinema, mentre Vitti reinterpreta il neorealismo nel cinema tenendo conto dei rapporti stretti tra la settima arte e la letteratura.17 Entrambi tuttavia non includono nell’analisi il teatro che ha fornito un contribuito essenziale alla genesi dello stile narrativo nella scrittura cinematografica, ovvero dello stile cinematografico nella narrativa:18 uno scambio che appunto costituisce la chiave di interpretazione dell’opera di due scrittori– sceneggiatori–drammaturghi e pittori come Zavattini e Bernari. Anche sul piano linguistico, solo sporadicamente si è affrontata la “questione teatrale” della letteratura italiana. Ciò ha finito per sminuire l’importanza del teatro e della drammaturgia fin dalla formazione del “volgare” e del “dolce stil novo”.19 E pure le altre arti visive, per le quali viene al massimo concesso un ruolo di “influenza” sulla produzione narrativa, sono in parte delegittimate: ne deriva la banale conseguenza che il critico teatrale consideri ormai detrivo l’aspetto letterario del testo mentre il critico letterario, all’opposto, veda nella destinazione scenica del testo un elemento scarsamente rilevante (si pensi a quanti mugugni ha suscitato l’attribuzione del premio Nobel per la letteratura a Dario Fo!). Se a ciò si aggiunge che i dibattiti degli Anni Cinquanta e Sessanta sui rapporti tra cinema e letteratura neorealista vengono oggi raramente riproposti, in una visione sempre più settoriale e specialistica delle singole arti, va da sé che ciascuno – ripeto con qualche significativa eccezione – continui a curare il proprio orticello disinteressandosi però di quali semi il vento trasporti dal campo del vicino.  17 Cfr. CAPOZZI ROCCO, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli Società Editrice Napoletana, 1984. Cfr. VITTI ANTONIO, Ripensare il Neorealismo Pesaro, Metauro, 2008. 18 Cfr. BERNARD ENRICO, Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il Neorealismo, a cura di A. Vitti, cit., pp. 17–28. 19 Cfr. BERNARD ENRICO, Convegno sul sonetto: manca solo il , in «Ibidem, Blattt der Romanistik Doktorierenden», Universität Zürich, Dezember 2013, pp. 1-4. http://www.phil.uzh.ch/elearning/blog/ibidem/files/ibid_2013_12.pdf. 13 

E dovrebbe aprire gli occhi una polemica riflessione di Bernari sulle approssimazioni critiche troppo schematizzanti che, prima e dopo la guerra mondiale, colsero solo marginalmente la novità di Tre operai:

Mi sarebbe piaciuto, allora, difendere il contenuto di verità del libro da ambizioni allegoriche del genere; ma la critica del tempo era troppo ligia al potere per inseguire i miti del proletariato; mentre quella posteriore, ormai abbacinata dal neorealismo, si sperdeva nella ricerca dei prototipi dell’engagement. È vero che se un movente allegorico c’era io stesso avevo contribuito a obliterarne le linee con riferimenti realistici, ora troppo evidenti, ora troppo sfumati.20

Per queste ragioni, – per correggere il tiro di quella che Bernari stesso definisce «una critica ormai abbacinata dal neorealismo» – ritengo che l’analisi della letteratura italiana del Novecento, Zavattini e Bernari in testa, richieda un rinnovato approccio multidisciplinare che tenga anche conto delle personalità, dello “spaccato” della vita artistica e privata degli autori in questione. Ecco allora che da uomo di teatro, che ha avuto la sorte di poter seguire da vicino per oltre un ventennio l’ultima fase di attività dei due “soci fondatori” del neorealismo nella narrativa e nel cinema, posso aggiungere qualche tassello nel puzzle delle rispettive biografie di Bernari e Za, e così contribuire ad una reinterpretazione del neorealismo come il prodotto della collaborazione di più arti (visive e letterarie). La letteratura neorealista nata con Bernari e Zavattini è insomma scarsamente comprensibile nel suo complesso se viene a mancare una visione interdisciplinare, e perde sicuramente pezzi importanti se poi non viene compresa alla luce delle personalità dei due scrittori anche attraverso una messa in luce del loro “privato” e dei rapporti interpersonali, familiari eccetera. Per queste ragioni non seguirò pedissequamente il “taglio” scientifico, per dedicarmi, quando ciò occorra, al racconto (auto)biografico nell’intento di fornire ulteriori materiali di analisi nell’ambito di una proposta di “rilettura” – rubo il termine ad Antonio Vitti – del neorealismo, un fenomeno ben più complesso di quella decina di films del dopoguerra che tutti ben conoscono e la cui genesi ha richiesto una lunga maturazione umana e artistica fin dai primi Anni Trenta. Un periodo che Za ricorda con commozione a Carlo Bernari nell’ultima lettera del settembre 1981 che citavo pocanzi:  20 BERNARI CARLO, Nota 1965, postfazione dell’A. alla prima edizione Oscar Mondadori di Tre Operai, Milano, 1966, pag. 257. L’edizione Oscar del 1966 è quella che Bernari considera definitiva. Rispetto alla prima edizione Rizzoli del 1934, lo scrittore apporta al testo qualche ulteriore variante soprattutto nella punteggiatura. 14 

...io ti ringrazio del tempo, dell’affetto che mi dai. Festeggeremo fra due anni il nostro cinquantenario. Ho saputo che Tre operai Oscar va fortissimo e ne sono felice come sempre.

La data cui Za si riferisce è quella del 1933, allorquando Za ricevuto il manoscritto del romanzo di Bernari Tre operai, lo propose con successo all’editore Rizzoli come prima pubblicazione della collana “I giovani” ideata e diretta dallo stesso Za. Nei prossimi capitoli illustrerò la genesi e la storia editoriale di Tre operai e del rapporto di amicizia e collaborazione tra Za e Bernari (che all’epoca portava ancora il cognome di famiglia, Bernard, prima di modificarlo nel 193921 su suggerimento di Corrado Alvaro a causa delle Leggi Razziali del 1938) le cui prime testimonianze risalgono, nella corrispondenza, al 1932. Ma so per certo che quella frase di Za circa il “cinquantenario” che sarebbe dovuto ricorrere nel 1983, non piacque a Bernari che aveva un sorta di idiosincrasia per le ricorrenze, gli anniversari e relative celebrazioni che lo riguardavano. Vuoi perché in queste occasioni si sentiva inevitabilmente soggetto ad essere considerato come “cosa morta”, uno scrittore del passato, vuoi per il retaggio scaramantico da cui un napoletano – “non è vero ma ci credo” recitava Peppino de Filippo– non riusciva a prescindere. Apro una breve parentesi per spiegare come questa sensazione nostalgica del “tempo passato” fosse comune ai due amici fin dalla prima edizione Mondadori del dopoguerra di Tre Operai22, il cui primo titolo nella versione del 1928–29 fu proprio per ironia della sorte Tempo passato. In una lunga lettera del 10 novembre 1951 Za accusa ricevuta della copia con dedica della prima ristampa nel dopoguerra di Tre operai da parte della Mondadori:

Non ho ancora riletto Tre Operai. “È una domenica, di marzo. Luigi Barrin e il figlio Teodoro...”. L’ho sul comodino da notte e credo che fra pochi giorni ne scriverò. La tua dedica23 mi ha dato una profonda gioia. Sono passati, caro Carlo, diciassette anni, una vita. E credo che sia tu che io siamo convinti, senza retorica, che il bello viene adesso. Ma quanti piaceri mi riprometto dalla  21 In una lettera senza data ma concidente col trasferimento a Milano del marzo 1940 di Carlo Bernard (ormai “Bernari”) con la moglie Marcella incinta del primogenito Eugenio che verrà alla luce a Milano il 9 maggio 1940, Za dà il benvenuto all’amico con una protesta contro la sua decisione di cambiarsi il cognome: «Caro B. ben tornato. Ma perché ti sei cambiato il nome? Bernard era anche bel cognome, e poi era anche l’autore di due libri non comuni. Forse come la barba, potresti fartelo ricrescere – O puoi? Te lo auguro, quel Bernari non mi va giù.» Al di là dell’ironia, il cambio del nome da parte di Bernari fa temere a Za che l’amico sia sotto tiro da parte della polizia fascista per la sua attività politica e forse anche per le origini ebraiche del nome Bernard: fatto che che Za decide di bruciare la corrispondenza con Bernard/Bernari da lui conservata per paura di una perquisizione. Za rimpiangerà in seguito quell’atto di “vigliaccheria” – come lui stesso onestamente lo definì parlandomene. 22 BERNARI CARLO, Tre operai, Milano, Mondadori, 1951. 23 «A Cesare Zavattini che di questo libro fu editore nel lontano 1934.» 15 

lettura del tuo libro, quelli letterari che si confonderanno con quelli sentimentali, e che ricordi. Ora il tuo primo libro è qui in una bella collana e credo che il tempo continuerà a giovargli. Caro Carlo, non desidero diventare più giovane. Desidero solo fare qualche cosa di buono. Tu non hai che da continuare a mettere pietra su pietra. Il resto è nelle mani del Signore (1). Adesso ti abbraccio, saluta tua moglie e i bambini. (1) di cui non so darti più ampie notizie. Tu intanto 3–4 pietroni li hai.24

La divertente nota riportata a mano da Za con una penna biro blu rappresenta di certo una curiosa anticipazione del film di De Sica–Zavattini Il giudizio universale uscito in sala nel 1961 – ma probabilmente da tempo in gestazione nella mente di Za. Tuttavia, il “divertissment” di Za non oscura del tutto il tono malinconico, la sensazione di un “tempo passato” e di una giovinezza ormai irrecuperabile e semmai riproducibile solo nello spirito del lavoro, in quel mettere pietra su pietra dell’operoso fare umano e intellettuale. Il tono della lettera del settembre 1981 non si discosta da questa toccante forma di riminiscenza dei sentimenti giovanili di ribellione e di collaborazione artistica e spirituale, che fu alla base del rapporto tra Za e Bernari fin dai primi Anni Trenta, e che rappresenta certo una specie di chiodo fisso del loro rapporto. Anche Bernari infatti ripropone di continuo nel corso degli anni l’argomento del tempo passato, dello Sturm und Drang di una volta, il cui solo ricordo provoca rimpianto e comprensibile nostalgia, comunque sana voglia di ricominciare: come Bernari stesso scrive con calligrafia nervosa all’amico in data 14 maggio 1963 da Napoli:

Caro Cesare, la tua lettera mi ha fatto molto piacere: sentirti impegnato, come una volta, letterariamente, mi fa compiere un salto indietro di venti o forse trent’anni, e mi ritrovo al tuo fianco, pronto al fuoco.25

Il riferimento di Za al “cinquantenario” della pubblicazione di Tre operai coincise, allora, con una presa di coscienza da parte di Bernari del fatto che la vita stava, se non volgendo al termine, certo ponendo il problema di una resa dei conti. Così nonostante il successo del suo romanzo Il giorno degli assassinii26 del 1981 – un social thriller ambientato nel sottobosco della camorra che prende spunto da un fatto di cronaca nera nella Napoli  24 Lettera dattiloscritta, con correzioni, autografa, indirizzata a “Carlo Bernari / via Franchetti 1 / Milano”, datata Roma, 10 novembre 1951, sottolineature nell'originale, pubblicata in: Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, Milano, Mondadori 2005, p. 240 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 25 Lettera manoscritta su carta intestata dell’Albergo Residence di Parco Margherita a Napoli, datata 14 maggio 1963, inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). 26 BERNARI CARLO, Il giorno degli assassinii, Milano, Mondadori, 1981. 16  dell’era di Raffaele Cutolo e delle Brigate Rosse – Bernari volle dedicarsi ad un altro genere di letteratura per il suo “ultimo libro”, l’autobiografia romanzata sul filo della memoria: ne Il grande letto27 Bernari, messo sull’avviso proprio da Za sulle lancette del tempo che stavano per arrivare a fine corsa, fa i conti con la propria vicenda umana e letteraria. Il libro uscito nel 1988 per i tipi della Mondadori, finalista al premio Strega 1989, rappresenta il testamento umano e letterario dello scrittore che stava per compiere nell’ottobre dello stesso anno gli ottant’anni (ovvero i suoi “quattro volte vent’anni”, come confessò lui stesso leziosamente ad un’intervistatrice).28 La verità è che Bernari non amava festeggiare le ricorrenze, nemmeno i compleanni, tantomeno il suo. Scherzosamente rispose con una telefonata alla lettera di Za del 1981, a proposito del cinquantenario di Tre operai che stava per sopraggiungere (1934– 1984), per redarguire l’amico: cinquantenne sarai tu, del resto si può essere ventenni a cinquanta o settant’anni, come dice Bontempelli, oppure cadaveri a venti.29 Ero presente alla telefonata e ho il ricordo poco preciso di un accenno a “mille mesi di vita”. Col senno del poi dovrei ammirare la lungimiranza e la preveggenza di Bernari: se stava augurando a se stesso e a Za di ragiungere i mille mesi di vita, devo dire che non andò molto lontano dall’obiettivo, visto che Za visse esattamente 1045 mesi, età sfiorata dallo stesso Bernari che morì nell’ottobre del 1992 a 83 anni precisi, toccando quindi quota 996 mesi! Sul significato dei “mille mesi” peraltro Bernari aveva le idee un po’ confuse: in qualche occasione li considerò numericamente equivalenti a dieci anni, quelli che sostenava che gli restavano da vivere quando ebbe compiuti i settanta anni nel 1979. Errore di algebra elementare che pure ripetè in una cartolina del 1 settembre 1979 (timbro postale del 04 settembre) a Za in cui cita anche me:

Caro Za, con Marcella ed Enrico abbiamo gioito del riconoscimento e riso di quegli 80 che ti attribuiscono! Volevano forse dire 08? Per altri mille mesi ti

 27 BERNARI CARLO, Il grande letto, Milano, Mondadori, 1988. 28 PALAZZOLO EGLE, intervista a Carlo Bernari, Io giovane e ribelle – L’ottantenne scrittore napoletano ha presentato a Palermo il suo ultimo romanzo Il grande letto, «Il Giornale di Sicilia», 9 maggio 1989. 29 Nell’ottobre 1960 Carlo Bernari commemora Massimo Bontempelli, scomparso due mesi prima, il 21 luglio, esaltando il “diciottennismo” del fondatore del “realismo magico”. Bernari insiste sul termine coniato dallo stesso Bontempelli rinforzandolo con svariati aggettivi (funambolico, notturno, distruttivo, imprudente, eccetera) e richiamandosi testualmente a un brano di Meditazioni e pensieri dello scrittore lombardo: «C’è chi nasce diciottenne e chi nasce quarantenne. Diciottennismo è la tendenza a vivere soltanto di ciò che si sta creando di nuovo... Il diciottenne distrugge di continuo, perché fida di poter continuamente rifare.» In «L’europa Letteraria», Ottobre 1960, pp. 100–5.

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auguriamo la stessa energia e le stesse imprese coraggiose e sempre nuove. Un abbraccio da tutti e particolarmente dal tuo Carlo Bernari.30

Il fatto che Za avrebbe compiuto gli 80 anni, erroneamente attribuitigli da un cronista nel 1979, solo nel 1982, fa ripetere a Bernari (che nell’ottobre del 1979 avrebbe compiuto 70 anni) l’errore di considerare il decennio mancante alla conclusione della vita, gli 80 anni da lui ritenuti una sorta di “orizzonte degli eventi”, come composto di mille mesi, anziché centoventi: sono proprio mille i mesi che augura a Za da vivere con pienezza prima di compiere l’età considerata un traguardo. E non si pensi ad un semplice sbaglio occasionale, perché l’errore si ripete tre anni dopo, in un telegramma di Bernari spedito da Gaeta che perviene a Za col timbro postale di Luzzara del 20 settembre 1982, proprio nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Il telegramma è scritto a penna con la calligrafia dello stesso Bernari:

Dalle rive del mar di Gaeta giungano luminosissimi auguri sulle rive del Po et amico e maestro per altri MILLE MESI di vita et esemplare attività. Bernari et famiglia.

Bernari sapeva fare bene i conti, al punto che mettendosi al tavolino da provetto ragioniere e commericialista aveva salvato negli Anni Settanta il ramo barese della Tintoria paterna, la “Fratelli Bernard Tintorie”. Come spiegare dunque questo banale errore se non come un lapsus causato da una forma di “horror vacui” del limite della vita che lo scrittore riteneva insormontabile ed ineludibile? Il pensiero della morte è sempre stato presente nella sua esistenza, non come minaccia arcana, ma come “memento mori”, un richiamo esistenziale all’importanza delle cose vere e profonde della vita: una “chiamata” all’operosità finchè si ha il tempo di fare, un ammonimento a non lasciar scorrere inutilmente la sabbia della clessidra, a non abbandonarsi al lassismo del “carpe diem” che per Bernari non era altro che una forma di decadenza borghese. Alla domanda rivoltagli da uno studente al termine di un incontro in un liceo romano, “Lei perché scrive?”, Bernari rispose: per ingannare la morte e, ovviamente, per cambiare il mondo – fintanto che c’è un mondo da cambiare. E giù applausi da una platea di giovani tra i quali cominciava lentamente a farsi largo la prima forma di coscienza ecologica: correva la primavera del 1989.

 30 Cartolina postale manoscritta, spedita da Gaeta, datata 1 settembre 1979 (timbro postale del 04 settembre), inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). 18 

A ciò si aggiunga l’innata vocazione al mistero. La scaramanzia è in effetti una specialità tutta partenopea: parlo di quella straordinaria capacità meridionale di semplificarsi la vita complicandosela, ma solo in apparenza, con una metafisica del quotidiano dove i numeri stessi diventano elementi di una sfida per l’esistenza. E così perfino con la data del suo compleanno Bernari dava “i numeri al lotto”. Era, dunque, nato il 9 ottobre 1909, ma quando si andava a fargli gli auguri, la risposta era sempre la stessa: “grazie, sono nato il 9 però mi hanno registrato con la data del 12”. Tornavi allora il 12 ottobre per gli auguri, ma lui ti rimandava ancora: “sono nato il 9, però i genitori sono andati a registrarmi il 13 fornendo come data di nascita all’anagrafe il 12 per non incorrere nella multa per aver tardato di registrarmi”. Allora tornavi il 13 a fargli definitivamente gli auguri, sperando che fosse la volta buona, senonché la risposta ti faceva quasi perdere la pazienza: “grazie, ma sono nato il 9 anche se sono andati a registrami l 13 con la data del 12”. Così, in famiglia, riusciva sempre a depistare chiunque cercasse di organizzare una festa o fargli un regalo: era una tattica che faceva imbestialire mia madre che non tollerava quella forma ironica di lotta contro lo scorrere del tempo.31 Ma riandiamo all’ottobre 1989, quando Bernari sta per compiere il suo ottantesimo compleanno. A Gaeta, una cittadina sulla costa tra Roma e Napoli, località citata anche da Virgilio e da Dante, si vuole festeggiare degnamente lo scrittore che dieci anni prima era stato insignito della cittadinanza onoraria. Un forte rapporto lega Bernari a Gaeta, non solo per le prolungate villeggiature trascorse dallo scrittore con la famiglia fin dal 1956, ma anche perché a Gaeta Bernari trovava, durante lunghi soggiorni invernali, la calma e l’ispirazione per scrivere alcune delle sue opere maggiori. Così, in barba alla contrarietà anche un po’ scaramantica di Bernari nei confronti delle “feste” di compleanno, la città di Gaeta aveva organizzato una cerimonia in onore dello scrittore napoletano. Il quale, però, quasi a conferma di quella partita a scacchi iniziata fin dalla nascita col destino, accusò i primi sintomi ischemici della malattia che lo colpì con un ictus gravissimo il 6 gennaio del 1990. Proprio nel giorno dei festeggiamenti e delle cerimonie ufficiali fissate per il 9 ottobre, Bernari fu ricoverato in ospedale dal suo amico e cardiologo personale, Saverio Palumbo, primario dell’ospedale di Gaeta che era stato anni prima anche medico e amico di Pietro Nenni. Il caso ha poi voluto che Zavattini – l’amico e compagno di sempre – se ne andasse proprio in una delle tre date che Bernari considerava come suo compleanno, il 13 ottobre  31 Bernari racconta la storia del suo compleanno nel capitolo Il regno del quasi in Bibbia napoletana. Cfr. BERNARI CARLO, Bibbia napoletana, Firenze, Vallecchi, 1961, p. 29. 19 

1989. La notizia fu naturalmente nascosta al paziente: d’accordo con la famiglia, il cardiologo consigliò l’amico di evitare di leggere i giornali per un paio di giorni, tanto per stare tranquillo il tempo necessario a riprendersi. Una parola! Impedire a Bernari di leggere almeno uno dei quattro quotidiani (Corriere della Sera, Repubblica, Messaggero e Unità) che era abituato da sempre a sfogliare prima di mettersi al lavoro, era un’impresa titanica, destinata a fallire. Bernari, nonostante gli 80 anni appena compiuti, era infatti drogato di notizie: qualsiasi momento della giornata era buono per rileggere i giornali, ascoltare notiziari radio e telegiornali. Tenere nascosta a Bernari la morte di Za non fu, dunque, possibile per più di una mezza giornata: la apprese da un giornale che il pittore Alberto Sughi, a Gaeta per intervenire alla festa per l’amico scrittore, dimenticò inconsapevolmente e incolpevolmente sul letto del degente. Bernari, non fidandosi dei propri occhi – i familiari avevano “dimenticato” di portargli gli occhiali, tanto a che ti servono? gli ripetè mia madre per arginare le sue insistenze, non puoi leggere, te l’ha vietato Palumbo! – chiese conferma a me. Già dalla mia prima imbarazzata espressione, Bernari colse un barlume di verità e guardando con le lacrime agli occhi la finestra, che si apriva sullo splendido scenario del Golfo di Gaeta baciato da un caldo solo autunnale, mi disse: metti un chiodo al sole, prima che faccia scuro. Scherzai sul fatto che anche Goethe tirando l’ultimo respiro pronunciò una frase simile: mehr Licht! Comunque Bernari aveva già cominciato a sospettare qualcosa circa la sorte di Za. Si sapeva che da qualche anno la salute dello scrittore di Luzzara andava aggravandosi. L’ultimo messaggio di Za risaliva al 6 febbraio 1984, cinque ani prima, e non prometteva nulla di buono.

Caro Bernari, fino a poco fa speravo di venire. Ma non me la sento dopo giorni tanto gravi (per i miei fratelli e... frase cancellata, ndr) per me. Caro Carlo, avrei ripetuto anch’io con gli altri che sei un grande romanziere, sempre fino al collo dentro alle cose con la (sincera... parola cancellata ndr) speranza di cambiarle. Mi conforrta comunque il fatto di averlo detto con tutto il cuore più di cinquant’anni fa. Tuo Za

Più che l’esplicito accenno ad una situazione grave, fa impressione nella lettera un vistoso appunto di Za a mano con pennarello blu: L’ho dettato a Gabriella Sobrino. È evidente che con questa postilla Za volesse far comprendere ancor più chiaramente all’amico

20  che non si trattava di un escamotage per sottrarsi all’occasione di un dibattito per la ristampa Mondadori–De Agostini di Tre operai, bensì di un serio problema di salute. Essendo a conoscenza della situazione fin dal 1984, a Bernari sembrava inverosimile e sospetto che Za lasciasse passare l’ottantesimo compleanno del vecchio amico senza una lettera o un telegramma, come invece aveva fatto dieci anni prima in occasione del settantesimo anniversario. Allora infatti Za aveva inviato, in data 12 ottobre 1979, un commosso telegramma:

Bernari presso Municipio di Gaeta. Profondamente dispiaciuto non poter essere Gaeta onorarti come altamente meriti Stop nostra amicizia compie questi giorni 45 anni risalendo 1934 quando proposi dattiloscritto Tre Operai Angelo Rizzoli per inaugurare così attività editoriale letteraria Stop clamoroso successo critica et pubblico salutarono nascita grande scrittore caro Carlo abbraccioti tuo Zavattini32

Si comprende allora perché l’assenza e il silenzio da parte dell’amico e mentore proprio nei giorni dell’ottantesimo compleanno, non potessero non accendere una spia d’allarme. Ma come sappiamo, Bernari non fu in condizione né di godersi i festeggiamenti in suo onore né di sincerarsi personalmente della situazione di Za. Ed ebbe la conferma dei suoi sospetti solo nel letto della sala rianimazione dell’ospedale di Gaeta: non potè fare altro che suggerirmi un telegramma di condoglianze a Marco ed Arturo, i figli di Za con cui ero in contatto. Appena ripresosi dal primo attacco della malattia ischemica, che presto si ripresentò con ben più gravi conseguenze, Bernari dedicò un commosso ricordo sul «Mattino» di Napoli del 13 novembre all’amico e mentore scomparso un mese prima. Ricordo molto bene il “pezzo” dedicato a Za perché Bernari lo scrisse proprio nel giorno del mio 34esimo compleanno, l’undici novembre 1989. Allora non abitavo più coi miei genitori, ma in altro appartamento dello stesso palazzo di via Bartolomeo Gosio 85, con mia moglie Beatrice e il mio primogenito Carlo, che porta il nome del nonno scrittore. Tuttavia, per ragioni di spazio mantenevo il mio studio nella casa paterna. Dopopranzo, Bernari mi chiese un piacere, – anche il giorno del mio compleanno, reagii! Infatti mio padre aveva sempre qualche commissione da affibbiarmi, un plico da consegnare, una dattilografa da incaricare di un lavoro, un amico da salutare. Quel giorno gli stenografi del giornale «Il

 32 Telegramma spedito a “Bernari presso Municipio di Gaeta”, data di spedizione del 12 ottobre 1979, inedito, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 21 

Mattino» di Napoli erano in sciopero, il che gli impedì di dettare l’articolo telefonicamente, dunque mi toccò andare a spedire un fax. Il ricordo di Za comunque fu l’ultimo articolo scritto da Bernari prima dell’attacco ischemico del 6 gennaio 1990. «Il Mattino» pubblicò altre quattro o cinque collaborazioni di Bernari tra la seconda metà di novembre e il periodo natalizio del 1989, ma si trattava di “pezzi” che Bernari a volte ripescava nel suo archivio di carte inedite! In realtà, l’archivio di Bernari conteneva (e contiene) innumerevoli appunti e materiali inediti, per cui non gli fu difficile reperire qualche argomento già pronto per il giornale. Ma la questione è che Bernari non si sentiva bene, le conseguenze del primo attacco circolatorio subito a Gaeta si facevano sentire. E cominciavano a preoccuparlo seriamente. Per la prima volta, quando mi consegnò i fogli del ricordo di Za in occasione del trigesimo da spedire via fax al giornale, notai nel suo sguardo un’ombra di tristezza e di malinconia, due sentimenti assolutamente estranei al suo carattere sempre pimpante e gioviale, magari con qualche atteggiamento pessimistico connaturato alla sua forma mentis partenopea: pessimismo scaramantico per esorcizzare i guai. Quel pomeriggio dell’11 novembre 1989 qualcosa invece aveva cominciato davvero a girare storto nella sua mente. “Che gli prende?” chiesi a mia madre che abilmente glissò la domanda. Premetto che anche lei era napoletana, di San Giorgio a Cremano per la precisione: si sa che un altro aspetto del carattere napoletano è quello di continuare a vivere, resistere nonostante tutto, fino al punto di non voler riconoscere apertamente la realtà, anzi nel caso negandola. Il Napoletano o esorcizza il peggio, la morte, attraverso il pessimismo oppure, se la Vecchia Signora si presenta alla porta, semplicemente cerca di non sentire che qualcuno bussa. Così la risposta di mia madre fu una mezza verità: “Papà è rimasto colpito dalla morte di Za... e poi non si sente bene... Palumbo (il cardiologo di Gaeta) gli ha detto che deve farsi un’ecodoppler alla carotide... lui ci ha l’occlusione che lo preoccupa... ieri non ci ha visto più per qualche minuto dall’occhio sinistro... Ha preso appuntamento col notaio per le volontà”. Mentre la prima parte del discorso di mia madre mi era arcinota e non costituiva una novità – Bernari infatti soffriva di un’occlusione inoperabile alla carotide da oltre dieci anni, un problema che oggi è risolvibile con un semplice intervento di angioplastica, ma allora era molto difficilmente operabile chirurgicamente – l’ultima ammissione circa il desiderio di dettare le volontà ad un notaio fu per me abbastanza scioccante: comportava indubbiamente una premonizione di morte risultata di lì a poco fondata. La sfortuna, o il caso, volle pure

22  che il notaio prescelto per le ultime volontà morisse la settimana prima dell’appuntamento con Bernari; e che lo stesso appuntamento per l’ecodoppler alla carotide venisse fissato per il 9 gennaio 1990. Troppo tardi: Bernari, colpito dall’ictus il 6 gennaio, non fece in tempo né a lasciare il testamento spirituale né a fare un esame clinico aggiornato della carotide che forse gli avrebbe prolungato la vita con una cura più aggressiva di carcieparina. Fatto sta che leggendo la commemorazione di Za prima di andarla a spedire per fax al giornale, dopo quelle ammissioni di mia madre, mi resi improvvisamente conto della situazione. Infatti, l’articolo non aveva nulla di celebrativo e di accademico, tanto che la redazione del «Il Mattino» nell’occhiello del lungo ricordo intolato “Per te, caro amico lontano”, si sentì in dovere di spiegare:

abbiamo chiesto a Carlo Bernari che da Zavattini fu scoperto come narratore e a lui fu legato per lunghi decenni da profonda amicizia, qualche ricordo personale per i nostri lettori, fuori dalle righe delle celebrazioni ufficiali.

Perché dunque Bernari, che pure aveva tutto l’interesse a storicizzare e a sottolineare il suo rapporto con Za, si astiene dall’autocitazione per lasciare forma ad un “amarcord” che sa molto di un “arrivederci a presto” fin dalle prime battute?

Carissimo Za, questa volta me l’hai fatta proprio bella! Hai approfittato di un momento in cui io spasimavo in un lettuccio di ospedale e ti sei allontanato alla chetichella per tornartene definitivamente nella tua Luzzara.

Anche un breve riferimento a Tre operai è commovente:

Come quando ti dimenticasti che la tua sposa stava per mettere al mondo il tuo terzo figliolo . Infatti l’avevi propiziata tu la stampa di quel mio primo libro, per inaugurare la nuova collana che dirigevi presso Rizzoli; preferendolo addirittura ad un romanzo di Cesare Brandi, sì proprio lui, che diventerà l’illustre storico dell’arte e scoprirà e salverà tanti capolavori come direttore dell’Istituto del Restauro. Ebbene furtivamente volli leggere quel suo romanzo, che mi apparve tanto più perfetto del mio. . Avevi ragione? Avevi torto? Ora so bene che non ti sei mai pentito di quel giudizio temerario. Ma ricordo bene dove me lo dicesti quel tuo parere, all’autodromo di Monza, mentre tra Ascari e Nuvolari si disputava non so quale Gran Premio. Eravamo a pochi giri dalla conclusione quando dagli altoparlanti udimmo echeggiare il tuo nome: il signor Zavattini

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è pregato di recarsi immediatamente a casa! Rivedo l’espressione del tuo volto verdognolo, come lo ritraesti centinaia di volte nei tuoi autoritratti. Allora ti sfuggì un . E staccammo una corsa furibonda fianco a fianco – come ci ritrasse un fotografo. Conservo ancora quella foto: quando vorrai te ne farò fare una copia.

La corsa all’autodromo di Monza riferita da Bernari era stata proprio da Za eletta a simbolo del sodalizio con l’autore di Tre operai. In un telegramma di auguri per il settantatreesimo compleanno di Bernari, spedito da Roma il 4 ottobre 1982, Za “riabbraccia” l’amico ricordandosi di dell’episodio di molti decenni prima: «Pronto riprendere quella corsa riabbraccioti con famiglia Zavattini». La corsa di Bernari al fianco di Za attraversa il XX secolo coinvolgendo non solo la letteratura e il cinema, ma le arti visive tra cui pittura, fotografia e teatro hanno avuto un ruolo determinante. Di quella corsa provocata dalla nascita del terzogenito di Za, Marco, che ha ereditato dal padre il talento artistico, io terzogenito Bernari sono, a mia volta, testimone e comprimario.

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Capitolo primo

Arte figurativa e neorealismo.

L’epistolario Bernari–Za contiene un certo numero di cartoline apparentemente poco significative, ma che in realtà pur nella sinteticità del messaggio racchiudono significati che solo chi ha convissuto con queste personalità può comprendere. Tra queste spicca la cartolina spedita a Za da Gaeta il 15 agosto del 1977 – considerando che Bernari imbuca proprio nel giorno di Ferragosto va da sé che il timbro postale sia quello del 19. Il messaggio apparentemente dice poco:

Qui con Paolo Ricci, – che con sua moglie ti salutano, – mentre prosegue una sua “personale” (*), leggendoti sull’Unità, ti abbraccio Carlo Bernari.

Seguono le firme di Piera (Piera Ricci) e quella incerta di Paolo Ricci, nonchè la nota che Bernari infila come augurio: (*) A quando una zavattiniana? Il testo della cartolina, che raffigura l’ultimo tratto della spiaggia di Serapo sotto Monte Orlando all’altezza dell’albergo Miramare dove il pittore Paolo Ricci sta allestendo una piccola personale estiva di acquarelli, dice effettivamente molto più delle parole. La firma sulla cartolina di Paolo Ricci è, come dicevo, molto incerta, infantile, tremante. In effetti, Ricci ha dovuto firmare con la mano sinistra, la mano che gli è rimasta da usare – per tutta l’ultima parte della sua produzione artistica – dopo il grave ictus che lo aveva colpito nel 1972. La mostra all’hotel Miramare di Gaeta era proprio la prima uscita pubblica dell’artista napoletano, compagno di gioventù e di formazione di Bernari fin dal 1925. Per poter tornare alla pittura, sia pur con la mancina, Ricci aveva dovuto percorrere un lungo periodo di riabilitazione motoria e di logopedia. Così il messaggio implicito della cartolina è quello di comunicare a Za che il comune amico Paolo Ricci stava lentamente tornando all’attività (in realtà il secondo e fulminante attacco colpì Ricci nel 1981). Il sodalizio tra il pittore e storico dell’arte Paolo Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni Venti33 e coinvolge anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo Peirce,

 33 Le attività dei tre amici vengono narrate da Bernari in racconti come Bettina ritrovata, in Per cause imprecisate (1965) e in romanzi semi–autobiografici quali Amore amaro, Prologo alle tenebre e ne Le radiose giornate. Le stesse attività vengono richiamate con una certa distanza critica, e con nostalgia, nell’ultimo romanzo di Bernari: Il grande letto. Per le esperienze vissute con Ricci durante la guerra, si vedano molte pagine in Vesuvio e pane. In un curioso capitolo di Bibbia napoletana Bernari narra le visite con Ricci in casa di Benedetto Croce. Cfr.,BERNARI, Visite a don Benedetto, in Bibbia napoletana, cit., p. 131. Va anche 25  a sua volta filosofo e pittore, nonchè cugino di Bernari. I tre giovani daranno vita, proprio negli anni in cui il regime fascista rivelava la sua natura autoritaria e violenta, ad un movimento marxista, quindi anticrociano e, soprattutto, antifuturista. Tra il 1927 e il 1929 i tre giovani intellettuali, non ancora ventenni, decisero di impegnarsi per una Storia del movimento operaio a Napoli, opera che mai vide la luce ma che fornì a Bernari, impegnatosi più degli altri due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti per le prime stesure di Tre operai (Tempo passato del 1928–29 e poi Gli stracci del 1929–1931)34. Tramite Ricci35, Bernari si avvicina agli artisti circumvionisti napoletani36 e, grazie all’attivissimo Peirce, al gruppo romano della “seconda ondata”, legato al futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo Marchigiano di Roma, presenti Marinetti, Balla e Luigi Pepe Diaz, quest'ultimo antifascista e comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi, Gustavo Barela, leader del gruppo, legge due poesie di Bernari, Ghigliottina e Idillio 7, andate perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ricci fondano un movimento d’avanguardia e, tornati a  ricordato che già dagli anni venti a casa del pittore D’Ambrosio, nella «Libreria del 900» di Arcuno, e a casa di Paolo Ricci a Villa Giulia, tantissimi artisti e intellettuali si radunavano per discussioni, dibattiti e scambio di informazioni. Casa Ricci era frequentata non solo da molti artisti napoletani ma anche da autori quali De Filippo, Viviani, Guttuso, Pratolini, Gatto e Alvaro, tanto per fare alcuni nomi. 34 Il romanzo Tre operai di Carlo Bernari pubblicato il 9 febbraio 1934 nella collana ‘I giovani’ di Rizzoli diretta dal giovane Cesare Zavattini, fu concepito già nel 1928, lo testimonia una prima stesura, ritrovata nel 1965, dattiloscritta: «Carlo Bernari/ TEMPO PASSATO [maiuscolo cassato a matita, ndr.] / Gli stracci [a matita, ripassato a penna] /1928–1929 [a matita, ripassato a penna] / Ia stesura di 3 operai, Inedita [a matita]». Alcuni capitoli, poi espunti o rielaborati nella stesura definitiva, furono pubblicati nei primi Anni Trenta da «Il Tevere» e «L’Italia vivente». Cfr. BERNARI CARLO, Opera, in «L’Italia vivente», II, 14,15–31 agosto 1932. Morte di una ragazza, in «Il Tevere» , IX, 234, 1° e 2 ottobre 1932. Il ragazzo del XV Lotto, in «Il Tevere», IX, 242, 12–13 ottobre 1932. Giornata di sole, in «Il Tevere» , IX, 260, 1°–2 novembre 1932. Cfr, BERNARI CARLO, Nota 1965, postfazione dell’Autore alla I edizione della Collana Narratori italiani di Tre operai, a cura di Niccolò Gallo, Milano, Arnoldo Mondadori, pp 256–257. Qui Bernari stesso fornisce una dettagliata descrizione del manoscritto inedito e della storia di Tre operai: «[...] dovendo sgomberare la cantina per una riparazione urgente, da una cassa piena di cartacce emerse un volume dattiloscritto, magicamente dico, poiché credo alla magia di certe concomitanze. Come non mettere in relazione la cantina allagata, la cassa che quasi vi galleggiava, il me assillato da quel discorso si e no su «Tre operai» , e quell’INEDITO che a grandi lettere in rosso mi tentava dalla copertina? Intatto; salvo alcuni margini intaccati dai topi, e sei pagine mancanti (33–38) pubblicate, come si legge sul risvolto della 32, nel1”’Italia Letteraria” del febbraio 1934; mentre le pagine 57–62 risultano staccate e recano annotazioni tipografiche di mano ignota (“tondo”, “corsivo”) rifiutate forse da qualche giornale dopo lo scandalo suscitato da «Tre operai» . Sul frontespizio, il primo titolo Tempo passato, cancellato a matita, è seguito dalla dicitura: “Gli stracci – 1931 – prima stesura di Tre operai – Inedita”. Quindi, dopo una pagina bianca, un’ epigrafe tolta dal Sistema della natura del d’Holbach, che dice il mio ingenuo materialismo di allora: “Se si consultasse 1’esperienza in luogo del pregiudizio, la medicina fornirebbe alla morale la chiave del cuore umano; e, sanando il corpo, si avrebbe qualche volta la certezza di sanare lo spirito”. La parola “fine”, a pagina 282, è preceduta da due date: 1930–1931.» 35 Cfr. RICCI PAOLO, catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari, Napoli, Castel Nuovo 26 giugno – 28 settembre 2008, a cura di Mario Franco e Daniela Ricci, Napoli, Electa, 2008. 36 Il gruppo circumvisionista sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illusioni nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori circumvisionisti (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in «Forche Caudine», II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) è proprio Guglielmo Peirce. Per una analisi esaustiva del movimento circumvisionista cfr. D’AMBROSIO MATTEO, I circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo, Napoli, Edizioni Cuen, 1996. 26 

Napoli circa a metà del ‘29, lanciano il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione distruttivisti attivisti), che, stampato in cinquecento copie «imbucato e distribuito di notte»37 viene recensito da Ungaretti.

Il manifesto nacque tra la fine del ‘27 e i primi del ‘28; proprio in opposizione all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innanzitutto come testimonianza critica antifascista, in opposizione all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo essere ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E bisognava abbatterlo; e come, se non prevaricando! […] Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina. […] Ed ecco come da una simile riflessione doveva nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè Unione distruttivisti – attivisti, per un’attività dello spirito non in senso gentiliano, ma in dialettica con la natura, in dialettica con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e scientifici da cui l’uomo d’oggi è condizionato.38

Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in primis, perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura borghese, annunciando la fine delle “arti belle” e mostrando intolleranza per ogni tipo di autorità sia in campo politico che artistico. I distruttivisti–attivisti affermavano il primato della scienza e della tecnologia,

«uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di classe e in grado di restituire un’immagine positiva del reale»,39 in tal senso essi consideravano la macchina non l’oggetto mitico dei futuristi, ma uno strumento da osservare senza enfasi:

Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produttivi e di eliminare lo sfruttamento presente nel mondo industriale. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista, l’attenzione, sulla linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi e al loro rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse che investiva tutti i campi dell’attività culturale: dai problemi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura, dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna.40  37 VERGINE LEA, L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ‘30 oppure I distruttivisti–attivisti, testo di una trasmissione radiofonica del terzo canale della Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p.1, ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 7/421. 38 CAPOZZI ROCCO, Intervista a Carlo Bernari, in «Italianistica», IV, gennaio aprile 1975, n.1, p.157. 39 BERNARI CARLO, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASNA), Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/36. 40 BERNARD DANIELA, Carlo Bernari a Parigi, in «Studi novecenteschi», Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio–dic. 2009, pp. 313–346. 27 

Il movimento ebbe scarsa influenza sulla cultura ufficiale, ma non passò inosservato a Croce che, nonostante la sua celebre ostilità verso ogni novità, a Francesco Flora che glielo fece recapitare disse che il manifesto era «una cosa molto seria»41 aggiungendo la “storica” frase: «’Sti guaglioni non so’ fessi!».42 L’unica lettura non superficiale del testo udaista fu quella di Giuseppe Ungaretti sul giornale «Il Tevere»43:

Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno seguito le idee intorno all’arte di questi ultimi tempi. […] È, riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici si trattava di liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo avuto questo: una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sempre più breve di queste successive retoriche, la persuasione sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da mandare al diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è messa a perseguire fini che sono l’opposto di questi dell’arte e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto dell’antiarte. Ma ora viene il bello. I Distruttivisti–Attivisti parlando di arte che sarebbe mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa, vogliono dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva detto anche Marinetti. Ma essi non considerano la macchina come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della nostra civiltà da sfruttare.

Il Manifesto44 dei “distruttivisti–attivisti” Bernari, Peirce e Ricci rappresenta la reazione negativa, probabilmente la prima da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo: si tratta sostanzialmente, al di là della polemica tipica del tempo sulla funzione e  41 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/80. 42 Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 3/125. 43 UNGARETTI GIUSEPPE, L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929. 44 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti. Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al saggio di Rocco Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, cit., pp. 151–157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento: 1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria. 2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento. 3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia. 4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno laciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte. 5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 etc. – e niente affatto perché I nostri problemi artistici siano più complessi. 6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione. 7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova. 8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte. 9. “L’arte è novità, la novità è arte” 28  valore dell’arte, di una vera e propria “messa in guardia” ideologica contro il mito della “macchina” che, disumanizzando il lavoro e incrementando la dinamica del profitto, non può essere vista solo come uno strumento di progresso, ma deve esserne avvertita la minacciosa potenzialità alienante. La cultura italiana, solitamente provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito, tranne qualche raro caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del Manifesto dell’Uda.45 Tuttavia Il 9 giugno 1929 sul «Corriere d’America» a New York apparve il Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. ( Unione Distruttivisti Attivisti) di Napoli, firmato da Carlo Bernard, Guglielmo Peirce e Paolo Ricci: la sorpresa sta nel fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo la pubblicazione a Napoli. Se colleghiamo questa data del 1929 col soggiorno parigino di Bernari del gennaio–aprile 1930 (Bernari raggiunge gli amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che già sono nella “Ville Lumière” da qualche tempo), dobbiamo rivedere – e di molto – la tesi sulla scarsa diffusione delle idee del Manifesto U.D.A. Appena giunto a Parigi infatti Bernari, ventunenne, entra in contatto con André Breton e Ribemont –Dessaignes46. Racconta Bernari:

Avevo conosciuto Ribemont–Dessaignes e, insieme, Nino Frank, in una fredda e grigia stanzetta che affacciava su un interno di St.Germain – des – Près; era tutta lì la redazione della sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il cappotto indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato. Sulla sponda opposta Breton metteva la rivista del surrealismo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato con l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di compilare un rapporto sulla situazione dei gasisti in Italia. “Pensate!” mi diceva furibondo “Io! Uno scrittore! Che ne so di quel che succede in Italia?” E io a rimproverarlo, che non avrebbe dovuto sottrarsi al compito. Chè sarei stato ben felice se qualcuno al mio paese avesse potuto chiedermi qualcosa di simile. Ero persuaso di dover

 45 È da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’Uda soprattutto in seguito come ha scritto Filiberto Menna per il quale il manifesto «non ebbe il rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a Monaco, a Berlino, ma anche a Roma o a Milano.» Cfr. MENNA FILIBERTO, Un normanno a Napoli, in Paolo Ricci, Napoli, Electa, 1987, p.14 46 Il legame del Manifesto con il Surrealismo è forte: nel 1930 Bernari vive alcuni mesi in Francia, dove un anno prima era uscita la ristampa del Manifesto del Surrealismo, a cura di André Breton. I due scrittori entrano in contatto condividendo aspetti comuni alle rispettive formazioni: l’acuta insofferenza per i valori dominanti, l’esplorazione psicologica, l’attenzione alle nuove logiche del sogno, del caso, della contraddizione, il lavoro sul linguaggio e sulle sue molteplici potenzialità. Nel Manifesto del Surrealismo, a proposito del sogno, Breton riflette sul conflitto che coinvolge sogno e memoria: si «verifica una dispersione maggiore negli elementi costitutivi del sogno […]. Vorrei dormire per potermi confidare ai dormienti, come mi confido a quelli che mi leggono, ad occhi ben aperti.» BRETON ANDRÉ, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1987, p. 127. La dimensione onirica è uno degli aspetti più significativi della poetica di Bernari: uno dei momenti letterari più suggestivi del romanzo Tre operai è il finale “come in sogno”, attraverso la cui costruzione l’autore pone fine alla vicenda di Teodoro e dei suoi compagni non–operai. Proprio a questi ultimi si contrappongono con fermezza i tre operai “con le maglie a righe rosse” che salutano il lettore con una disarmante dimostrazione di tenacia e di resistenza, qualità estranee ai protagonisti dell’intera “menzogna” letteraria. 29 

invidiare quella libertà che consentiva a lui di respingere una richiesta, essa stessa affermazione di libertà.47

Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momento in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista francese, si stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua rivista da «Révolution surréaliste» a «Le Surréalisme au service de la révolution». La lettura delle opere di Breton lo suggestionano e gli fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli e confluite nel manifesto U.D.A.:

[…] le opere [di Breton e Ribemont – Dessaignes n.d.r.] lette sul posto mi avevano impressionato in quanto le vedevo in linea con un surrealismo storico le cui radici affondavano nei Les Chants de Maldorol per un verso nei racconti del Poe nell’altro verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era il filone dada che in un certo senso o forse in tutti i sensi era stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato l’Uda 1928–1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda (forse tre) e mi toccava, lì sul vivo, sentirne ancora l’attualità.48

Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono Bernari (e le tesi del manifesto udaista) con grande interesse, rispondendo anche epistolarmente ad una Inchiesta sul surrealismo che Bernari porta avanti con determinazione e giovanile entusiasmo: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribemont–Dessaignes è del gennaio–febbraio 193049. A testimonianza del particolare clima di amicizia e considerazione, nonchè di collaborazione, instauratosi tra Breton e Bernari, resta un frontespizio del Manifeste du surrèalisme che Breton stesso dedica così: «A Carlo Bernard, trés simpathique homage Andrè Breton février 1930».50 Considerando che contemporeaneamente a Parigi nei primi mesi degli anni Trenta si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce – quest’ultimo a matita realizza una sorta di autoritratto51 del terzetto di amici, confondendone e fondendone i lineamenti –, va da sé che i temi ancora caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto U.D.A. diventino una sorta di biglietto da visita per i tre giovani intellettuali. Un sodalizio che sembra pure rompersi a  47 BERNARI CARLO, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp. 225–6. 48 BERNARI CARLO, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su “Tre operai” e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482. 49 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi presso il Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma, è stata pubblicata nel catalogo della commemorazione Roma Ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte, Roma 2002. 50 Frontespizio del Manifeste du surrèalisme dedicato da Breton a Carlo Bernard in data “février 1930” (Collezione privata Enrico Bernard, Roma). 51 Il ritratto a matita firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930. Collezione privata di Enrico Bernard, Roma. 30  causa di uno screzio politico–artistico tra Bernari e Ricci52, ed anche per via delle tendenze omosessuali di Peirce che percepiva una certa gelosia per le “parigine” frequentate dai due coetani. Comunque, le idee dei giovani distruttivisti–attivisti (che nel 1929 hanno trovato  52 Entrambi marxisti, Bernari e Ricci si sono confrontati per tutta la vita sulla politica. Bernari fu sempre animato da uno spirito indipendente, anarcoide, insofferente alle “direttive” o a seguire la linea dettata dal Partito. In questo caso lo screzio nacque sulla posizione di Andrè Breton che fu espulso dal Partito Comunista. In seguito, nel dopoguerra fino alla fine degli Anni Settanta proseguirono le diatribe ideologiche tra Bernari e Ricci. In particolare va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944 che Bernari stracciò in seguito ad incontro a Napoli tra Bernari e Togliatti, organizzato dallo stesso Paolo Ricci, in cui Bernari si vide “tagliato” dal Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui preparata. Togliatti fece infatti “saltare” numerosi autori perché non allineati o in “odore” di troskismo. Il viaggio a Napoli per incontrare il capo del PCI fu organizzato anche per discutere l’edizione dei Quaderni dal carcere di . Anche in questo caso il dissidio tra Bernari e Togliatti fu totale, poiché Bernari comprese che il dirigente comunista voleva in qualche modo adattare il pensiero gramsciano alle linee del partito. Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, Togliatti censore: correggete Gramsci, sul «Corriere della Sera» del 2 febbraio 1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcune pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul «Corriere della Sera» il 5 dicembre 1996. La questione della “organicità” al partito dell’intellettuale, rappresenta sempre un punto di dissidio tra gli amici Bernari e Ricci che fu sempre militante e collaboratore anche dell’organo stampa del PCI, il quotidiano «l’Unità». Ma è interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica. Vale la pena di ricordare che siamo nel 1929 e il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo del Manifesto, testo sul quale Bernari si confronterà fino alla Primavera di Praga col piü “allineato” e “organico” Paolo Ricci, infatti si legge: «I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esasperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro sel sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo.» BERNARI, RICCI, PEIRCE, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in CAPOZZI, Bernari tra Fantasia e Realtà, cit., p. 155. Il tema del rapporto soggettivo, “emotivo” o “emozionale, con la realtà per la nascita di una “nuova arte” trova riscontro nelle letture del giovane Bernari, in cui emerge il materialismo “sensibile” di Feuerbach e la filosofia erotica di Von Baader. Bernari descrive il manoscritto de Gli stracci (la versione del 1929–31 di Tre operai) ritrovato da lui nel dopoguerra, segnalando: «[...] una pagina bianca, un’epigrafe tolta dal Sistema della natura del d’Holbach che dice il mio ingenuo materialismo di allora: Se si consultasse l’esperienza in luogo del pregiudizio, la medicina fornirebbe alla morale la chiave del cuore umano; e, sanando il corpo, si avrebbe qualche volta la certezza di sanare lo spirito.» BERNARI, Nota 65, postfazione a Tre operai, cit., p. 238. Recentemente ho rinvenuto un inedito manoscritto di Bernari, iniziato nel 1929 e proseguito nel 1932, intitolato 32 pensieri sulla paura in cui il rapporto oggetto–soggetto viene analizzato in una serie di aforismi alla luce del concetto di paura, che scaturisce dalla sensibilità feuerbachiana. Cfr. BERNARD ENRICO, Bernari tra natura e paura con la trascrizione dei 32 pensieri sulla paura di Carlo Bernari, in «Forum Italicum», New York, vol. 42 Nr. 2, 2009, pp. 403–15. In una risposta all’Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo, Bernari parla di uno scambio incessante tra il soggetto e il mondo, in cui anche le opere dello spirito – quei prodotti della fantasia che Feuerbach considerava prodotti della natura – sono destinate ad ingrossare le acque dell’esistenza e a modificarne il flusso. Bernari usa la metafora di un «mare pauroso e mutevole» per alludere a uno scambio incessante tra il soggetto e il mondo, in cui anche le opere dello spirito – quei prodotti della fantasia che Feuerbach considerava prodotti della natura – sono destinate ad ingrossare le acque dell’esistenza e a modificarne il flusso. Cfr. BO CARLO, Inchiesta sul neorealismo, Torino, Eri Edizioni Rai, 1951, p. 56. Queste considerazioni comportano ovviamente la necessità di una revisione critica completa del- l’interpretazione del neorealismo che, fin dalla sua nascita, non rappresenta principalmente una forma letteraria che si evolve dal “realismo” o dal “verismo”, ma piuttosto un rifiuto del “realismo”, come arte borghese, in nome del materialismo feuebachiano; e, successivamente, ecco la nascita di Tre operai, del materialismo storico attraverso un percorso di ricerca artistica ed estetica di ricerca del rapporto tra individuo e la “sua” realtà interiore/esteriore. 31  anche eco a New York) si diffondono negli ambienti intellettuali parigini53. E parlando dell’influenza più o meno diretta che l’udaismo esercitò, indipendentemente dalla sua fortuna letteraria, va pur detto che in questo contesto, fra Parigi e New York, nacque la sceneggiatura di Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, film la cui genesi ideologica e artistica risale al 1933–34. Naturalmente non si può stabilire una relazione diretta tra la critica della “macchina industriale”, di cui Bernari–Ricci–Peirce nel 1929 evidenziano, contro l’esaltazione del futurismo, la mostruosità estetica ed esistenziale, e la tragica farsa dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio. Certo è che se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin, ad accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del “progresso” sono stati, “last but not least”, anche i tre giovani distruttivisti– attivisti napoletani! Tant’è vero che questa forma di critica assumerà più i connotati di una reazione di paura individuale al progresso industriale che un tentativo di dominazione economico–sociale di esso, insomma: più Feuerbach, con la sua teoria della sensibilità individuale e della determinazione materialistica–naturalistica delle percezioni, che analisi storica propria del marxismo. Ed è proprio il concetto di “paura”, intesa come forma della sensibilità moderna, a collegare l’omino chapliniano tragicomicamente straziato dalla macchina industriale, ai primi scritti filosofici di Bernari contemporanei alla stesura finale di Tre operai del 1932. Mi riferisco ai 32 pensieri sulla natura/paura che ho ritrovato nell’archivio di famiglia nel 200454.  53 A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur», che apparve con frequenza bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora, in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del 1931. Malgrado Breton la qualificasse “remarquable poubelle”, fu senz’altro una delle più belle e ricche riviste dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratura della rivista fu per i primi 4 numeri di 3.000 copie, per i numeri 5–6–7 di 2.000, e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du Carrefour con sede a Parigi in Boulevard Saint–Germain,169; direttore della rivista era Pierre G.Lèvy, redattore capo George Ribemont –Dessaignes e a partire dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come del resto Bernari e gli altri giovani del tempo che volevano allargare i propri orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del fascismo. Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione direttamente da «’900» a «Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino all’ultimo numero il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli, Gottfried Benn, Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William C. Williams. Grazie a un comitato così composto la rivista renderà facili i suoi contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra, con reportages, lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur» Bernari viene a contatto quasi subito recandosi in Boulevard Saint– Germain, nella redazione della rivista francese, e, analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le influenze tematiche e stilistiche che esse operarono nella formazione di Bernari. Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani, intermediario culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante ediffusore, attraverso le sue influenze e conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui cercherà di ottenere la pubblicazione. 54 I 32 pensieri sulla natura/paura di Carlo Bernari sono stati pubblicati a mia cura e con mia prefazione su «Forum Italicum». Cfr. BERNARD E., Bernari tra paura e natura, «Forum Italicum», cit., p. 403–15. Il rapporto tra realtà e paura viene sviluppato da Bernari su un piano teorico, oltre che narrativo, con 32 

La critica – non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segnalerò subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive e cinema, – ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l’importanza di questo documento.

 l’elaborazione del concetto di “realtà della realtà”, in particolare nel saggio L’arte è paura, ovvero la realtà della realtà raccolto in Non gettate via la scala ma scritto diversi anni prima come revisione nei “pensieri” del 1932. Nel saggio Bernari pone la questione del “mistero”: «Mentre ciò che costituisce il vero problema di ogni discorso intorno all’arte è rintracciare quel filo di Arianna che può aiutarci ad attraversare il labirinto, fino alla paura, essenza della realtà, realtà della realtà». BERNARI, in Non gettate via la scala, cit., pag 67. Cfr. anche CAPOZZI ROCCO, Paure e ombre nel primo Bernari, in «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, nr. 2, dicembre 2008, pp. 75–104. 33 

Non se ne è parlato fino alla fine degli anni ‘70, quando Rocco Capozzi ha pubblicato una fondamentale analisi del Manifesto in relazione alla genesi del neorealismo55. Recentemente Capozzi ha riproposto il problema dell’amnesia della critica italiana:

Dal 1972, vale a dire, a cominciare dalla mia intervista apparsa in parte in Italianistica nel 1975 56 ho sostenuto che una conoscenza degli interessi artistici di Bernari è essenziale per poter valutare la funzione simbolica dei colori e dei giochi di luce e di ombre che abbondano nelle sue opere dal 1929 fino al primo dopoguerra. Purtroppo, anche nelle pagine dei pochi critici che hanno ricostruito la formazione culturale di Bernari sono scarsi i riferimenti alla maturazione artistica e letteraria del giovane scrittore che seppe cogliere “il polline” culturale che viaggiava nell’aria di quell’epoca57. L’autore era conscio di queste lacune nei suoi critici e nella Nota ‘65 decide di segnalare ad esempio che Guido Piovene, nella recensione di Tre operai menzionava come dalle pagine di questo romanzo traspaiano la luce e i colori di Mario Sironi. Immagino che Piovene si sia soffermato su tantissime descrizioni di paesaggi urbani e periferici che abbondano nei primi capitoli di Tre operai [...]58

Ma ci sono voluti altri trent’anni prima che la lacuna critica lamentata e documentata da Capozzi fin dal 1972 tornasse in discussione: Francesca Bernardini, nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 2005 di Tre operai, ribadisce l’importanza del Manifesto UDA:

Nel ‘29 il Manifesto di fondazione dell’UDA [...] costituisce già nel taglio critico e polemico un punto d’arrivo e fornisce le basi su cui si preciseranno la poetica e l’ideologia dello scrittore: nonostante l’affermazione dell’arte come [...] afferma che l’arte è storico, assume una posizione e responsabilità politiche ben precise, propugna una concezione materialistica della vita e dell’arte; è antiidealistico e anticrociano, rifiuta l’ideologia futurista, in particolore l’attivismo e la ,  55 Cfr. CAPOZZI ROCCO, Arti visive e Nuova oggettività, sta in «Forum Italicum», anno 2001, nr. 1, pp. 140– 62. Capozzi esamina la presenza degli elementi figurativi nelle prime opere di Carlo Bernari. Attraverso questa analisi, Capozzi intende dimostrare come l’esperienza narrativa di Bernari vada collocata al centro di una cultura europea che certamente include le avanguardie napoletane legate ai manifesti “Circumvisionismo” e “UDA”, ma che allo stesso tempo abbraccia i movimenti tedeschi dell’espressionismo e del “nuovo oggettivismo”, il surrealismo francese, e l’arte metafisica italiana. Per Capozzi, la formazione culturale e interdisciplinare dell’autore ha un ruolo di estrema importanza sia nella composizione di Tre operai, l’opera forse più rappresentativa tra i cosiddetti romanzi capostipiti del Neorealismo, sia nelle opere successive, almeno fino a Speranzella. 56 Il proprio saggio cui Capozzi si riferisce è stato citato nelle pagine precedenti. 57 «Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno nei libri e nei film. Credevamo di essere fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella cultura ci ispirava”; “le idee viaggiano nell’aria come il polline e una coscienza avvertita sa sempre da dove spira il vento giusto”». BERNARI, Nota ‘65, cit., p. 251. 58 CAPOZZI ROCCO, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, in «Rivista di Studi italiani», Anno XXVI, n° 2, Dicembre 2008, pp. 50–74. 34 

guarda con interesse alla psicanalisi, al surrealismo, alla Neue Sachlichkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in senso socialista e per il possibile sviluppo di un realismo critico in cui sono centrali i temi della città e dell’industria.59

È allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un episodio di partenza del neorealismo, non è possibile ignorare il Manifesto UDA del 1928–29. Esso viene, certo, a rompere le uova nel paniere di una critica ormai assuefatta allo schematismo accademico, che considera il neorealismo cinematografico del dopoguerra come una innovazione, peraltro con forti margini di autonomia, del protorealismo letterario dei primi anni ‘30. Il quale, a sua volta, sarebbe una diretta conseguenza del filone realistico–veristico derivato da Manzoni e Verga. Questa impostazione, fuorviante, se non addirittura erronea, potrebbe essere nata anche da un gigantesco equivoco provocato in prima battuta da un critico, Emiliano Zazo, che, nel 1934, recensendo Tre operai con lo pseudonimo di “Aristarco”, si avvalse del termine “neo–verismo” 60 per ridimensionare l’innovazione stilistica del romanzo d’esordio di Bernari. Non c’è qui lo spazio per affrontare la questione della reazione della critica letteraria – peraltro resa nervosa anche dal fatto che il fascismo intuì con qualche ritardo e tentennamento la novità e pericolosità dell’opera e impose il silenzio61 con una velina di Mussolini solo a cose fatte – alla pubblicazione di Tre operai. Va comunque detto che il romanzo fu spiazzante per le posizioni del tempo62, in quanto promotore di una nuova forma, – anticalligrafica ed anticipatrice delle tecniche narrative cinematografiche, oggetto di questa analisi, – finalizzata all’espressione di un nuovo contenuto: non più l’operaio mitizzato dal realismo fascista o dal realismo sovietico, ma la figura tipica del giovane esponente di una classe allo sbando e priva di prospettive politiche, economiche, sociali e culturali. Mi riferisco ovviamente al giovane rivoluzionario fallito (Teodoro) di Bernari, ma anche al giovane borghese intorpidito de Gli indifferenti (1929) che dimentica di caricare la  59 BERNARDINI FRANCESCA, Introduzione a «Tre operai», Milano, Mondadori, 2005, p. xxx. 60 “Aristarco” (E. Zazo), Un neo–verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Letteraria» X, 14, 8 aprile 1934. 61 La recensione peraltro non positiva di Piero Pancrazi fu bloccata in redazione al «Corriere della Sera» e pubblicata postuma su «Il Ponte» nel 1956. 62 I contenuti letterari e politici che avevano alimentato la polemica sulla “intelligenza” e la “umanità” nell’arte, si riproposero all’inizio degli Anni Trenta nella polemica tra “contenutisti” e “calligrafi”: i contenutisti accusavano dalle pagine di riviste filofasciste come «Il Saggiatore» e «Oggi», i calligrafi di difettare di eticità e di umanità e di risolvere il loro atteggiamento di indifferenza morale e politica nel culto del bello stile e della bella pagina; nella lora schiera figurano quegli scrittori e intellettuali che attribuivano alla nozione di realismo la funzione di rappresentare la nuova Italia mussoliniana, ora in maniera conformistica ora in maniera critica, ma comunque in aperta contrapposizione con quell’altra tendenza ad una letteratura di contenuti, affermatasi già alla fine degli Anni Venti. Cfr. BERNARDINI, Introduzione a «Tre operai», cit., p. XL. 35  pistola (Michele) di Moravia, o a Gente in Aspromonte (1927) di Alvaro, in cui Antonello, il figlio del pastore Argirò che subisce le angherie della famiglia Mezzatesta, è come predestinato ad una ribellione priva di conseguenze sociali. Una linea narrativa, quella del protagonista ribelle e soccombente, che segnerà il percorso principale della letteratura italiana dall’Ortis di Foscolo fino ad Emmaus (2009) di .63 Non si è quindi lontani dal vero sostenendo che la forma originaria del neorealismo e, aggiungerei, del susseguente filone contemporaneo definito “neo–neorealismo”, è formalmente e contenutisticamente determinato dal tema della ribellione e della sconfitta del personaggio giovane che non trova individualmente sbocchi nella società borghese. Questa tendenza avvicina contenutisticamente il primo neorealismo degli anni 1928–1934 agli sprazzi di rivolta romantica contro la società borghese (Ortis, Werther ecc.) di fine ‘700 e primi ‘800, con due sostanziali novità per quanto riguarda Bernari: la forma narrativa che si arricchisce dell’esperienza e delle suggestioni delle arti visive e, a livello di contenuto, l’ambiente dello sfruttamento e dell’alienazione moderna dell’uomo, ossia la fabbrica. Il neorealismo così rappresenta innanzitutto una innovazione formale nettamente distinta dal verismo (basti solo pensare che gli scrittori del primo neorealismo sono marxisti e rivoluzionari, al contrario dei predecessori Manzoni e Verga che sono conservatori e cattolici): non è più in discussione, insomma, la rappresentazione di un contenuto sociale, ma la sua critica (rivoluzionaria). Dunque, siamo alle prese con una “forma rivoluzionaria”, quella appunto del neorelismo. È lo stesso Bernari ad anticipare a Za, il 21 febbario 1933 da Roma, l’imminente spedizione del dattiloscritto con una lettera esplicita a proposito del nuovo rapporto forma e contenuto proposto dal romanzo:

Carissimo Zavattini, sei troppo buono tu, coi tuoi pensieri e le tue preoccupazioni, a chiedermi il romanzo in lettura. Mi convinco ora, più che mai, che il tuo spirito di sacrificio non ha limiti. Sobbarcarti la fatica e la pena di leggere un lavoro di cui non conosci che pochi pezzi letti sui giornali64, significa per me un grande segno di amicizia! Ti spedirò il volume tra qualche giorno, appena ossia avrò terminata l’affrettata correzione, che comincerò domani stesso. Non so questo libro come potrà sembrarti dal punto di vista puramente estetico. Non per mettere le mani avanti, ma per chiarire la sua funzione in questo ambiente e in questo mo– mento, vorrei dirti alcune cose: credo che la parte, diciamo così ‘program–  63 Sul tema dell’antiromanzo di formazione nella letteratura italiana vedi la mia conferenza tenuta presso il Romanisches Seminar dell’Università di Zurigo il 27 novembre 2009. Cfr. BERNARD ENRICO, Ortis, Teodoro, Andre: tre protagonisti dell’anti–romanzo di formazione, in «Avanguardia», nr. 1, gennaio 2010. 64 Bernari si riferisce ai brani del romanzo pubblicati su «L’Italia vivente» e su «Il Tevere» nel 1932. 36 

matica’, abbia inficiato il suo significato puramente lirico. Chi infatti lo giudicasse coi metri dell’estetica idealista, lo troverebbe certamente arido e senza respiro; chi o giudicherà invece – come potrai farlo tu, per la posizione che hai assunto nella letteratura italiana – fuori delle file del crocianesimo, tenendo d’occhio, ossia prima che l’ispirazione lirica, la sua funzione etica e politica, potrà forse – dico: forse! – trovarvi qualche cosa di buono; potrà forse vedere nella sua aridezza il mezzo più onesto per il fine che la mia posizione ideologica mi consentiva raggiungere. Non vorrei adesso accodarmi al treno della retorica corrente attorno ad un’arte a contenuto sociale; ma penso, dal mio modesto punto di vista – senza per questo voler dar spago ai gazzettieri che si sono messi a strombazzare ai quattro venti la necessità di un’arte sradicata dal terreno della lotta economica e politica, è un bel fiore di cartapesta: avrà colori smaglianti, ma saprù sempre d’anilina, potrà essere profumato, ma sentirà sempre di morto. Mi consolo di una cosa: ripensare al tuo nuovo libro.65

Zavattini raccoglie subito il messaggio in bottiglia dell’amico e lo decifra con l’estrema sintesi e schiettezza che gli sono propri. Così risponde nel giro di pochi giorni:

Carissimi [...] Vi abbraccio, vi saluto e aspetto il manoscritto di Bernard. Vedo Peirce impegnato in polemiche (grave che non mi ha scordato, tanto più che la “contemporaneità” di quelli che sono stati chiamati umoristi non viene considerata. Errore enorme). Presto vi scriverò dicendovi alla buona le mie idee su queste polemiche. In linea generale manca la buona fede. Il perché di tanta confusione è lì, di tanti accomodamenti, ecc. ecc. e sfugge quello che a me pare “il fatto” più importante: una nuova generazione. Le discussioni con i contenutisti e formalisti non poteva trovare un articolo più memorabilmente sciocco, cieco per noi giovani di quello di Gargiulo su ‘Espero’.66  65 Lettera dattiloscritta, con correzioni e firme manoscritte, pubblicata in Carlo Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini cit. pp. 215–217, datata Roma, 21 febbraio 1933 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). Bernari risponde a una cartolina postale di Zavattini (datata 20. 2. 1933, Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma, pubblicata in questa sede nel capitolo dedicato al teatro), nella quale “ZA” oltre a comunicare la probabile pubblicazione di una novella, chiede per la prima volta il manoscritto di Tre operai in lettura, espone il progetto del suo nuovo romanzo, raccomanda agli amici «di stare vicino a Betti». 66 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard–Peirce/ via 4 Fontane 4/ Roma, data del timbro postale (Milano, 1. II. 33), inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Nelle lettere di Zavattini sono frequenti anacoluti e piccoli errori grammaticali, dovuti ad una scrittura rapida e spesso arzigogolata con aggiunte e ripensamenti. GARGIULO ALFREDO, Profondità, in «Espero», anno II, n. 1, gennaio 1933, p. XI. In questo articolo Gargiulo sembra prefigurare e anticipare l’atteggiamento ostile nei confronti del nuovo realismo di Bernari che assumerà la critica istituzinale all’indomani della pubblicazione di Tre operai. Gargiulo sostiene che «l’umanità con la quale il neorealismo andrebbe ridando sostanza a questa nostra letteratura – sino a ieri come dicono, troppo formale – deve consistere unicamente in una maggiore profondità psicologica[...]», e prosegue con un confronto tra il verismo che «intendeva cogliere la genuina sostanza umana, soprattutto attraverso i primordiali istinti» e il neorealismo «che va in cerca della più ricca umanità, scendendo più giù ancora, dove non troverà mai nulla, dato che laggiù, in quella zona del passivo, le figure, le persone, addirittura non si 37 

Zavattini coglie nel segno, come se avesse percepito che il materiale letterario che sta per giungergli sarà estremamente innovativo; e finirà col confondere le carte in tavola dell’ormai annoso e sempre più fumoso dibattito pro e contro uno sterile formalismo (la bella pagina) o un ottuso contenutismo (il realismo fascista). Bernari in effetti già rappresenta agli occhi di Za, che ha letto solo alcuni brani dell’opera su alcune riviste, il “fatto importante” di cui parla nella lettera agli amici: una nuova generazione in grado di elaborare un nuovo modo (forma) di rappresentare criticamente la realtà–contenuto. In tono scherzoso, ma non tanto, Zavattini comunicherà a Bernari dopo l’uscita del libro una serie di iniziative promozionali e pubblicitarie della redazione Rizzoli, tra cui una spiritosa provocazione tipicamente zavattiniana: «Manderò una poderosa colonna con tutti i giudizi all’Italia letter. [aria] quanto prima con scritto grosso: forma o contenuto?»67 Il fatto è che il “contenuto” sociale, nel caso di Bernari la fabbrica e la condizione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco attenti che, spesso e volentieri, hanno sottovalutato l’importanza, sotto il piano formale, del romanzo d’esordio di Bernari. Importanza che va fatta risalire alla fase preparatoria teorica della fine degli anni ‘20 e all’impostazione e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è quello di creare un’arte nuova, rivoluzionaria, in virtù dell’apporto sinergico di tutte le arti.68 Il concetto di opera d’arte totale è d’altronde il tema dominante del primo scorcio del ‘900. Nel tratteggiare il difficile percorso dell’arte totale è assolutamente necessario ricordare almeno Depero e Balla per la “fusione totale” capace di dare «scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile», Schreyer per l’arte scenica che “nasce organismo” 69 , Schwitters per il tentativo di fondare il “Gesamt- kunstwerk”, l’arte di tutte le arti; Moholy–Nagy per il richiamo alla “fusione delle arti”; e

 formano» e così termina il suo articolo deducendo che «l’inconsistenza e la disperata uniformità delle persone, tutte eguali, porta il neorealismo a presentare un abulico.» 67Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/4 Fontane 4 / Roma, data del timbro postale, Milano 29. II. 1934, pubblicata in Tre operai a cura di Francesca Bernardini, cit. p. 234 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 68 «In Tre operai si nota chiaramente l’intenzione di drammatizzare ambiente e personaggi tramite la luce (sia solare che lunare), le ombre, i colori, le nubi, la pioggia, il vento e l’inquinamento per far risaltare in primo piano le senzazioni inquietanti, quali il pessimismo, l’attesa e la paura, che affliggono la società. Con i suoi taglipittorici Bernari vuole mettere in risalto delle immagini che vanno al di là dell’immediato realismo della rappresentazione dell’ambiente. E questo potrebbemessere il fattore principale che rende la sua narrativa troppo concettuale esperimentale e meno realista per i critici che si aspettavano realismo e impegno dagli autori della cosiddetta era neorealista.» CAPOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, cit., pp. 56–7.

38  poi Gropius per il “teatro comunità”; e non ultimo Piscator per il “teatro politico” in cui “architettura e drammaturgia si determinano a vicenda”70. Questo “spirito del tempo”, come si è detto, assume dunque un ruolo centrale nella formazione artistica e nella visione del mondo del giovane Bernari, la cui “forma mentis”, il back ground culturale, è determinata da una visione del mondo aperta a 360 gradi sul connubio e partecipazione sinergica all’atto creativo, – sia pur letterario – la cui componente ideologica, politica, lo trasforma in un atto rivoluzionario tout–cour: non c’è azione artistica senza rivoluzione e non c’è rivoluzione senza un’altra rivoluzione con cui rivoluzionare la rivoluzione stessa. Questa visione del mondo sarà la costante ideologica di tutta l’attività letteraria di Bernari, fino ad uno degli ultimi romanzi dal titolo emblematico Tanto la rivoluzione non scoppierà71. Un romanzo, terzultimo della sua produzione letteraria, che Bernari stesso in una intervista alla Rai72 ha definito come la prosecuzione e conclusione di Tre operai proponendo un suggestivo confronto tra i due protagonisti delle rispettive opere, Teodoro Barrin e Elio Denito. I quali sarebbero sostanzialmente uno la prosecuzione dell’altro nella visione di un grande fallimento del mito rivoluzionario incarnato, prima dal Barrin operaio fallito, e poi dal suo "doppelgänger": l’intellettuale meridionale che esporta e sperde nelle nebbie del nord opulento, venendone risucchiato e corrotto, la sua rabbia e desiderio di rivolta sociale. Torniamo però a considerare il piano formale, sinergico, che, al di là di ogni sterile e obsoleta polemica sul “calligrafismo–contenutismo”, si rivela essere fin dall’inizio al centro degli interessi dello scrittore nella ricerca di un nuovo modo di strutturare la rappre- sentazione critica del reale.73

 70 BALLA–DEPERO, Ricostruzione futurista dell’universo, in «Archivi del futurismo», a cura di M. Drudi Gambillo e T. Fiori, Roma, De Luca, 1958, vol. I, p. 59. MOHOLY–NAGY LAZLÒ, Pittura Fotografia Film, Einaudi, Torino, 1987, pp. 15–16. SCHREYER LOTHAR, Das Bühnenkunstwerk, in Expressiunismus, Die Kunstwende, a cura di R. Walden, Berlin 1918, in CHIARINI PAOLO, Caos e geometri, La Nuova Italia, Firenze, 1964, p. 117. GROPIUS WALTER, I compiti del teatro del Bauhaus, in O. Schlemmer, L. Moholy–Nagy, F. Molnar, Il teatro del Bauhaus, Torino Einaudi, 1981, p. 191. PISCATOR ERWIN, Il teatro politico, Torino, Einaudi, 1975, pp. 87–88. cfr. anche TRIMARCO ANGELO, Opera d’arte totale, Roma, Sossella, 2001, pp. 21–33. 71 Cfr. BERNARI CARLO, Tanto la rivoluzione non scoppierà, Milano, Mondadori, 1976. 72 Intervista a Carlo Bernari, in Un autore una città, a cura di Anna Benassi, programma televisivo della Rai, 1978. L’intervista è stata raccolta in Un autore una città, Torino, Edizioni Eri–Rai 1991. 73 Cfr. BERNARI CARLO, Thomas Mann e noi, sta in Non gettate via la scala, cit., pp. 177–202. In questo saggio Bernari sottolinea l’importanza dell’elemento “critico” del reale rappresentato da qualsiasi arte fondata sul linguaggio riprendendo il concetto dal Saggio su Lessing di Thomas Mann. Cfr. MANN THOMAS, Saggi e scritti, Milano, Mondadori, 1958. 39 

In effetti, l’aspetto formale dell’opera d’arte è un tema centrale del dibattito culturale del tempo fin dagli inteventi di Luigi Pirandello74: esso non può e non deve essere confuso con la rivendicazione neocrociana della “bella pagina”. Il problema della forma rientra in quel campo etico cui Bernari accenna nella lettera a Za del 1933, al di là di ogni considerazione contenutistica. Insomma, per rappresentare la realtà, un contenuto, bisogna prima avere un’idea “rivoluzionaria” sul “come” farlo 75 . Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni ‘50, che non basta la descrizione di un ambiente sociale, non basta l’engagment politico– ideologico, non basta il documentarismo, cioè la “rappresentazione della realtà vera”, così com’è, a trasformare un’opera d’arte in opera neorealista. Lo dice chiaramente Zavattini in un convegno del 1953:

Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che risponde ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo momento [...] Ci sono dei film più o meno felici nell’ordine sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le vacanze del signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista ci sono i pensieri [...] Le opere neorealiste non possono essere che nel corso [...] che si deve percorrere per avvicinarsi alla realtà [...] Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si limita al fatto così detto artistico, ma fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali necessità storiche [...].76

 74 «Chi concepisce la tecnica come alcunché d’esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunchè di esteriore la forma. La tecnica è il movimento libero spontaneo e immediato della forma [...] Chi imita una tecnica, imita una forma, e non fa arte, ma copia, o artificio meccanico.» PIRANDELLO LUIGI, Arte e scienza, in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, Meridiani, 2006, p. 692. 75 Nella Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino esprime chiaramente la problematica della forma ponendola al centro della poetica neorealista: «[...] Mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere [...] mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quelli oggettivi che passavamo per essere [...] Il neorealismo per noi che cominciammo di lì, fu quello [...] Perché chi oggi ricorda il neorealismo soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà [...] tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.» CALVINO ITALO, Prefazione 1964 a Il sentiero die nidi di ragno, in Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori Meridiani, 2003, pp. 1186–7. 76 ZAVATTINI CESARE, Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3, 4, 5 dicembre 1953 (pubblicata in «Rivista del Cinema italiano», a. III, n. 3, marzo 1954, poi in Neorealismo ecc. a cura di Mino Argentieri, Milano Bompiani, 1979. Ia citazione è ripresa dall’antologia: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Il Saggiatore 1980, p. 177. 40 

Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in un intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida)77 del 1955, deve difendere La strada dagli attacchi della critica marxista italiana:

Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera78, come ho letto gli articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali ti accordi, e spero vorrai accettare la mia franchezza se ti dirò che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembrano persuasivi [...]

E dopo aver difeso La strada dalle accuse di “monadismo”e di “individualismo”, Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno al neorealismo:

Secondo me il processo storico, che l’arte deve, certamente, scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche, di quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico– politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà social–politica in cammino.79

Da questi interventi risulta evidente che l’incomprensione tra autori e critici, da cui scaturì quella polemica degli anni ‘50–’60 intorno al neorealismo (di cui – non riuscendo a giungere ad una definizione soddisfacente – poi si preferì teorizzare la morte prematura, tanto per far sparire col cadavere – del neorealismo – anche l’ipotesi di delitto perpetrato dalla critica), riguarda appunto l’errore di partenza: quello di considerare il genere neorealista sotto l’aspetto del “contenuto” e non della “forma” come altresì suggerito a gran voce dagli artisti stessi. A cominciare dallo stesso Bernari che in Questioni sul neorealismo scrive:

Un contenuto artisticamente parlando può risultare prevedibile, quanto invece imprevedibile deve essere la forma in cui si manifesterà; tutto alla fin fine è contenuto; quel che non è, per definizione, contenuto, può diventare tale appena rivelato sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtà da cui proviene e modificarla.80  77 FELLINI FEDERICO, Neorealismo, sta in «il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955. La citazione è tratta da: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche , cit., p. 196. 78 MIDA MASSIMO, Lettera aperta a Federico Fellini, sta in «Il Contemporaneo» a. II, n. 12, 19 marzo 1955. 79 FELLINI, Neorealismo, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 200. 80 BERNARI CARLO, Questioni sul realismo, saggio del 1953 raccolto in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, p. 109.  41 

Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro, rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de La strada di Federico Fellini ne è un classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come le diffidenze dei “compagni” e l’ostracismo dei conservatori contro il regista Giuseppe De Santis81). Ma questa marcia indietro, innestata senza tener conto dell’avvertenza di Pirandello che l’arte è forma e non contenuto, ha cozzato nuovamente contro i paletti della letteratura: si è così cominciato a parlare, nell’immediato dopoguerra, di un “incunabolo” neorealista a proposito della letteratura dei primi anni ‘30. In modo particolare si è usato il romanzo Tre operai del 1934 di Carlo Bernari per quella subdola mistificazione del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto ciò nonostante le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di essere considerati “neorealisti”, tantomeno “proto” – se per neorealismo si doveva intendere il prevalere del “contenuto”, l’impegno sociale, sulla “forma” rivoluzionaria dell’opera d’arte. Certo, Tre operai fin dal titolo, pareva rappresentare la riprova, malgrado le rimostranze dell’autore, di una letteratura postverista che, rappresentando l’ambiente della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi “contenutistiche” di un neorealismo in nuce. Così la critica (e si sa che la critica cinematografica è piuttosto superficiale nei confronti della letteratura, così come la critica letteraria guarda al cinema con una certa altezzosa severità) ha trovato bell’e pronta la soluzione al problema del neorealismo: un travaso contenutistico dalla letteratura postverista e protoneorealista alla forma tipicamente neorealista del cinema. Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente così. Se si concepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un “avvicinamento al reale” (Za), cioè come una forma e non come un contenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava), allora oltre all’individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto UDA), bisogna poter anche evidenziare la catena di trasmissione con cui questa nuova “forma” neorealista riuscì ad innestare il suo processo artistico. Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capozzi, Eugenio Ragni82 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato l’importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fondamentale del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del ‘900 alla letteratura neorealista dei primissimi anni ‘30. Si tratta di un atto “formale” che sancisce la nascita del “neorealismo” come processo di “avvicinamento” alla realtà, non

 81 Cfr. VITTI ANTONIO, Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006. 82 Cfr. RAGNI EUGENIO, Invito alla lettura di Bernari, Pesaro, Mursia, 1978. 42  più e non solo da un punto di vista letterario (verismo e conseguente contenutismo), ma con la teorizzazione della sinergia di tutte le arti sul piano della forma83.

A monte del Manifesto c’è la vicinanza al gruppo dei circumvisionisti, che, superando il futurismo, ma conservando simpatie per il cubismo, già si erano rivolti all’espressionismo, all’astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo [...]84

Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda un nuovo modo di concepire l’arte nel rapporto tra forma e contenuto, tra arti visive e letteratura – quest’ultima viene trascinata nel Manifesto ad un confronto serrato sul piano dell’eikon, dell’immagine – ha reso possibile l’equivoco letterario–contenutistico a proposito del neorealismo che citavo poc’anzi. Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico (Mario Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un piacere a ingabbiarlo in una definizione, quella di autore “neorealista”, che in realtà era, per lo scrittore, una riduzione “contenutistica” di un’opera letteraria “formalmente” aperta alle altre arti. Non che Bernari rifiutasse la definizione di neorealismo per distinguersi ecletticamente, piuttosto lo scrittore si ribellava ad un’operazione critica che all’epoca mirava a svalutare la libertà formale dell’arte per prediligerne l’aspetto sociale e politico, il contenuto. Di qui, negli scrittori e registi neorealisti, nasce il dissidio con la critica allineata, prima dei fatti di Ungheria, col Partito Comunista (vedi Fellini e il caso De Santis cui ho precedentemente accennato). Nel saggio sul realismo del 1957, poi ripreso nel 1973, Bernari lancia un’accusa grave contro la “critica” sia cattolica che marxista:

[...] fin quando però la cultura italiana non si riconoscerà in un comune fronte laico, ma continuerà a manipolare le verità complici, (con la complicità della Chiesa innanzi tutto, e delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per proprio conto o tornaconto, un’unità confessionale) non vedo vie d’uscita entusiasmanti; non vedo cioè come questa cultura possa sottrarsi all’azione corrosiva della controriforma che insidia, anzi è il presupposto permanente di ogni mistificazione conservatrice. Altro che realismo e neo–realismo!85  83 Nella cultura italiana permane una sorta di setticismo nei confronti del “formalismo”, probabilmente per un retaggio critico la cui origine risale al giudizio sul marinismo. In realtà il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha influenzato autori e movimenti rivoluzionari del ‘900, basti pensare ai formalisti russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a Pirandello, che hanno considerato la “forma” (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario dell’arte. 84 BERNARDINI, Introduzione a «Tre operai», cit., p. XXX. 85 BERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo, in «Tempo presente» a. II, n. 7, luglio 1957, cit. p. 111–2. 43 

Comunque, a proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria (contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell’intervista originaria del 195786 in cui definisce il realismo socialista come:

[...] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui partì lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ‘30 e il ‘40, allorché il neorealismo significò resistenza al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) [...]

La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui bollato come «una corruzione del realismo in senso neorealistico», risale al 1957, all’indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe dovuto smuovere nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del “vero” fondamento del neorealismo! Si optò invece per la soluzione più schematica e semplice possibile, cioè il neorealismo fu preso per la sua coda “contenutistica”, e non per la sua “testa” pensante, rivoluzionaria e formalistica. Naturalmente Tre operai ha un preciso contenuto storico e politico, addirittura economico, ma tutto ciò è preceduto dalla “forma” nuova che assume il romanzo, che non è più nella poetica bernariana – dopo il Manifesto UDA – quella del romanzo borghese:

Tre operai ha pertanto la funzione [...] di contribuire alla rinascita del romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma nuova, contrap– ponendosi alla tradizione del romanzo borghese, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la soggettività dell’autore, l’ dei personaggi e la letterarietà la realtà e la situazione storica venivano sublimati in una dimensione lirica e astratta. L’umanizzazione di cui Bernari e Zavattini discorrono nelle loro lettere consiste nel radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno economico e politico, nell’analisi delle trasformazioni che la tecnica e l’industria hanno comportato nella struttura e nei rapporti sociali.87

Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il romanzo di Bernari viene subito accusato di essere “scarno”, “ridotto all’osso”. Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia della critica a Tre operai, ma colgo qui solo un aspetto della

 86 Ibid., BERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo, in «Tempo presente» a. II, n. 7, luglio 1957, cit., pp. 220–4. 87 BERNARDINI, Introduzione a Tre operai, cit. p. XXXVIII 44  questione: la novità dell’opera di Bernari è che non si tratta più di letteratura, ma di qualcosa d’altro che va in direzione delle arti visive e del cinema, assumendo la caratteristica di una vera e propria sceneggiatura, di un trattamento o di una novellizzazione di opera cinema- tografica88. Insomma di un’altra “forma” rispetto al romanzo borghese, una forma deter- minata dal rapporto con le arti visive – e va da sé che non stiamo parlando di un astratto formalismo fine a se stesso, esagerazione o “male infantile” delle avanguardie, che Bernari in ripetuti interventi fa ricadere nell’estetica borghese. Di questa nuova “prospettiva”, che va in direzione delle arti visive e delle esperienze artistiche del ‘900, parla Remo Cantoni a proposito di Tre operai, definendolo “visionario” al di là della matrice letteraria:

un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli ambienti che descrive; [...] ma realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose89

Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di Tre operai fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidò come un romanzo “operaio” politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini merita l’inciso: Tre operai che non fanno popolo90. Lecito domandarsi: qual è dunque la differenza tra il neorealismo contenutistico 91 di Vittorini e il neorealismo formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella prefazione de Il garofano rosso, si lascia sfuggire una frase che è tutta un programma politico– contenutistico: «scrivo perché credo in “una” [virgolettato mio, ndr] verità da dire.»92 Ebbene, Bernari non crede, non ha mai creduto e mai crederà nella “verità”, tantomeno in “una” verità. Il titolo dell’ultima opera cinematografica di Zavattini, che come raccontavo

 88 Sui rapporti di Tre operai con le arti visive, cinema e teatro, vedi: BERNARD ENRICO, Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il neorealismo, a cura di Antonio Vitti, cit., pp. 17–28. Vedi anche: BERNARD ENRICO, Bernari e il cinema, in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5. 89 CANTONI REMO, Prefazione a Carlo Bernari, in Tre operai, Milano, Mondadori, 1951, pp. 9–10. 90 E.V [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello» , VI, 22 luglio 1934; poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926–1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997. 91 Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della rivoluzione e del Partito Comunista, ha progressivamente modificato la sua opinione sul rapporto arte–ideologia. Il suo intervento L’arte è engagement naturale, relazione tenuta nell’agosto del 1948 in occasione delle Rencontres internationales di Ginevra, sta in VITTORINI ELIO, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957 (sta anche in Neorealismo poetiche e polemiche, cit. pp. 77–83), parebbe assumere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929. Infatti quella dell’engagement sarebbe dunque una predisposizione dell’artista nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni. 92 VITTORINI ELIO, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. 45  prima contiene anche un brano della mia canzone La verità, è neanche a farlo apposta una sonora pernacchia ad ogni vero ideologico: La veritààààà. Il marxismo di Bernari è dialettico, la sua missione di intellettuale e scrittore non è la verità, ma la crisi della verità, la critica del vero, la ricerca come atto formale di indagine della realtà, contro ogni “massimo sistema”, che si chiami fascismo o partito comunista. È, d’altronde, interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica quando, siamo nel 1929, il mito rivoluzionario dell’Urss è ancora forte. In questo paragrafo del Manifesto, infatti si legge:

I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esa– sperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo93.

Il Manifesto Uda rappresenta, nella formazione della poetica bernariana e da questa al primo neorealismo, il tassello del passaggio dalle arti visive, pittura e cinema94, degli anni ‘20 e ‘30, alla letteratura con un corto circuito parola–immagine, logos–eikon, – da cui scaturisce la scintilla di una nuova letteratura, appunto il neorealismo che deve essere allora così ridefinito. Naturalmente, le questioni relative ai rapporti letteratura–cinema neorealista sono note e dibattute ampiamente dagli stessi protagonisti ed autori del tempo. La discussione che, alla fine degli anni ‘50, assunse anche toni polemici circa la “morte” del neorealismo è conosciuta. Resta però – ripeto – ignorato l’antefatto che ha permesso la nascita di una cultura neorealista, antefatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che ha

 93 BERNARI, RICCI, PEIRCE, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in CAPOZZI, Bernari tra Fantasia e Realtà, cit. p. 155. 94 L’influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al romanzo di Luigi Pirandello Si gira! del 1915 riscritto e ripubblicato dall’agrigentino del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma vale la pena ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal cinema, per gli scrittori della generazione successiva, Bernari, Moravia, Alvaro ed altri, si tratta del processo inverso, cioè di scrivere “come” per il cinema. Trasformando altresì il “romanzo” tradizionale, anche da un punto di vista di tecnica narrativa, in un “trattamento” vero e proprio dove la parola deve per forza trasformarsi in immagine in movimento. 46  nel Manifesto UDA del 1928–1929 un momento teorico le cui implicazioni, nonostante il Manifesto stesso sia passato quasi inosservato, risulteranno essenziali. È in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi neorealisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono alla luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo e non tanto, le armi e le tecniche della “vecchia” letteratura, quanto piuttosto la forza espressiva delle immagini derivate dal rapporto logos–eikon dalle arti visive. E non è certo un caso che Bernari e Zavattini, come Moravia ed Alvaro, si dedicarono al cinema e al teatro, alla pittura e alla fotografia con la stessa passione e forza che alla narrativa. Realizzando così quella sintesi delle arti che Carlo Bernari rivendicò nel 1953 con un intervento dal titolo emblematico: Cinema tra arte figurativa e letteratura.95 In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorealista che cede il passo al scomposizione del reale e all’astrattismo (di cui Bernari non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati artistici):

[...] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell’intellettuale raffinato [...] quando si parla di tentativi di recupero dei contatti con la realtà, rimasta troppo fuori e troppo distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di decantazione dei contenuti cominciato circa un secolo fa e non ancora esaurito. Ma quale è la strada che riconduce le arti figurative nell’ambito di quel generale processo di rinnovamento della nostra cultura che grazie alla letteratura e al cinema sembra muoversi in direzione di un realismo critico? Mi limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la realtà [...]; la serie degli “Orrori della oppressione nazista” di Renato Guttuso, la serie degli “Orrori della guerra” di Corrado Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il ‘44 e il ‘45; e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da durante il suo soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che la riuscita di un realismo pittorico sia problema unicamente di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti si afferma che mancherebbe anche la possibilità non soltanto di affermarsi, ma anche di estrinsecarsi. Qualcosa del genere sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva («Cinema nuovo», n. 9, aprile ‘53) che: [...] Ma il problema del neorealismo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano quando manca una convinzione della necessità di ciò che si vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorchè occorrono, allorchè una verità non deformata da intenzioni propagandistiche e commerciali s’impone alla nostra coscienza, sono sempre pronti alla nostra coscienza. È proprio in questa direzione che bisogna accettare l’esempio del cinema”.96

 95 BERNARI, Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema italiano», cit., pp. 7–29. 96 Ivi. 47 

Si tratta allora di cogliere l’essenza del nuovo modo di “de–scrivere” la realtà: una narrazione per immagini che diventa critica della realtà attraverso lo strumento della parola. Qualche ulteriore testimoninza a supporto di questa tesi non guasta. Nel carteggio con Bernari, dando da Milano, il 5 marzo 1934, il resoconto della promozione di Tre operai e stimolando l’amico a procurarsi recensioni e segnalazioni per premi letterari, Zavattini cita Corrado Alvaro:

[...] La faccenda della STAMPA (in maiuscolo nell’originale, ndr) è di enorme importanza. Devi con tutte le tue forze tendere al felice esito della proposta di Alvaro che saluterai tanto da parte mia. Anch’io lo ringrazio per questa sua pronta e larga cordialità.97

Zavattini si riferisce probabilmente ad una possibile candidatura di Tre operai per il premio letterario patrocinato da «La Stampa». Alvaro, che ha già ottenuto il riconoscimento e che proprio sul quotidiano torinese ha pubblicato il 14 gennaio 1927 le prime pagine di Gente in Aspromonte, è la sponda ideale per Bernari: l’amicizia tra i due risale alle frequentazioni napoletane di casa Ricci e della libreria Arcuno del 1928–1929. Il consistente carteggio tra Bernari e Corrado Alvaro, documentabile a partire dalla lettera di Alvaro del 2 novembre 1935, si interseca temporalmente e, in qualche caso, “programmaticamente” – soprattutto nel periodo 1935–1941 – con i rapporti epistolari tra Bernari e Zavattini. Anzi, i rapporti tra Alvaro e Zavattini vengono cuciti proprio da Bernari che si fa portavoce di varie proposte editoriali (come la collaborazione di Alvaro al «Tesoretto» edito da Bompiani prima, e con il «Tempo» di Mondadori di cui Bernari, grazie all’intercessione di Zavattini con Alberto, diverrà caporedattore). Ma al di là di questi curiosi episodi di vita letteraria, interessa qui segnalare una lettera di Alvaro a Bernari in cui l’autore calabrese puntualizza al più giovane collega napoletano la questione formale del neorealismo:

[...] accenni al quesito se quel libro si possa chiamare romanzo. I pittori e i critici seguitano a chiamare figura e ritratto e paesaggio raffigurazioni che con queste denominazioni non hanno quasi più nulla da fare, e che sono riflessi di uno stato d’animo poiché la tecnica è la sola cosa che cambia di secolo in secolo o di decennio in decennio nelle arti. Altrimenti noi staremmo a rifare coi medesimi modi le medesime apparenze essendo l’uomo e la natura sempre gli stessi. Queste cose si  97 Lettera dattiloscritta, datata Milano, 5 marzo 1934, firma manoscritta autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’Arte della Stampa, Milano” inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 48 

possono dire soltanto tra artisti; si può dire che i temi sono pochi, sempre quelli; noi li confondiamo sotto falsi aspetti di novità, gli antichi rifacevano di continuo e apertamente sempre, e diversi, gli stessi temi e gli stessi miti. L’evoluzione delle arti nell’ottocento, e di certe arti come il romanzo, ci è sembrata definitiva; ma pensiamo a quello che furono e perciò non pensiamo al loro divenire. Ed esse sono divenute tanto più diverse, personali, estranee in apparenza, quanto più esperienza ha avuto l’artista, e non nel senso che l’artista abbia applicato la sua esperienza letteraria o artistica rifacendo il già fatto, ma servendosene da reagente, andando, d’istinto, proprio nell’inesplorato, nel non espresso, disprezzando le forme che i critici ci rimproverano di non rispettare, i generi che essi ci accusano di violare.98

Dalle parole di Alvaro emerge così l’aspetto formale del processo e del progresso letterario che non può essere altro che innovazione e rivoluzione del modo “critico” (forma) di rappresentare la realtà (contenuto). Bernari, come possiamo ben constatare, è tornato più volte sulla questione: il dibattito su quello che, con un pleonasmo, potrei definire “realismo del neorealismo”, in tal senso parafrasando Bernari stesso che in diversi interventi ha teorizzato una “realtà della realtà” come obbiettivo dello scrittore, lo ha difatti impegnato per tutta la vita. Capozzi ha più volte stimolato Bernari a tornare sull’argomento ottenendo, ad esempio, questa risposta epistolare99:

Il problema del realismo non può risolversi applicando la più ovvia formula dialettica, ora col privilegiare la realtà (l’oggetto) ora col privilegiare l’artista (cioè il soggetto) a seconda che si propenda per un materialismo cieco o uno spiritualismo non meno allucinante. A questo punto dovrebbe essere chiaro per tutti che quando si parla di realismo non si vuole pretendere di asservire l’arte al più piatto oggettivismo o naturalismo, ma s’intende agire all’interno di un fenomeno per coglierne tutti i momenti di crisi. Operando una scelta nella realtà l’artista compie un atto critico; ma tale scelta è già il risultato di un rapporto istituito, o meglio in fieri fra l’artista, nel nostro caso lo scrittore, e la realtà [...]

 98 Lettera datata Santa Liberata (Grosseto) 20 settembre 1938, autografa, redatta con macchina da scrivere e ricopiata da Bernari a macchina da scrivere per la conservazione nel suo archivio. Emblematico che vengano ribattute da Bernari esclusivamente le lettere di Alvaro del periodo più fecondo della loro collaborazione dal 1935 al 1941. Il carteggio prosegue fino alla morte di Alvaro nel 1961, ma solo su basi strettamente amichevoli e di collaborazione ai problemi del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui Alvaro fu fondatore e segretario generale. È curioso notare che nel ricopiare le lettere senza modifiche, Bernari sintetizzi l’intestazione con un “Caro B.” al posto del “Caro Bernard” usato dal Alvaro. La questione è che Alvaro, come Zavattini, cercò di dissuadere l’amico dal darsi lo pseudonimo di Bernari. Entrambi gli scrissero vanamente: “Caro Carlo, resta Bernard, è un nome bellissimo”. 99 Lettera di Carlo Bernari a Rocco Capozzi, 13 nov. 1974. Il carteggio Bernari–Capozzi è pubblicato in «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, nr. 2 Dicembre 2008, pp. 248–285. 49 

Al di là delle questioni teoriche e storiche concernenti la formazione dell’idea del “neorealismo”, è importante soffermarsi sul “piano formale” del discorso tra Alvaro e Bernari prima e tra Bernari e Capozzi poi. Quello che si può facilmente constatare è che non emerge nettamente una questione “contenutistica”: gli autori di cui parlo, Alvaro, Bernari, Zavattini, Moravia eccetera, danno per scontato l’engagement sociale, ma sfuggono alla rappresentazione realistica (cui si avvicina di più Vittorini) preferendo una rielaborazione allegorica, grottesca, fantastica e favolistica della realtà. La testimonianza 100 di Capozzi, definito da Bernari stesso “il mio biografo”, dell’ultimo incontro con lo scrittore in un ristorante nei pressi di Ponte Milvio a Roma (molto prima che il fenomeno pseudoletterario di Muccia e dei suoi “lucchetti d’amore” trasformasse la zona in un circo notturno) rappresenta un ideale suggello a questa analisi:

Alla fine di agosto del 1988, in un piccolo ristorante buio nei pressi di Ponte Milvio, ebbi l’ultimo colloquio con Carlo e gli chiesi se voleva essere conosciuto come un autore impegnato; la sua risposta ci riporta all’inizio del nostro discorso e ai rapporti tra Paolo Ricci e Bernari:

«Se per impegno s’intende l’engagement sartriano, cioè quell’obbedienza alle regole politiche di questo o quel partito, mestiere che fu battezzato da pifferai, certamente mi trovi congedato. Se invece per impegno vuol intendersi rettamente quel processo che trova lo scrittore come coscienza e come conoscenza conflittuale del mondo reale, allora mi reputo più che impegnato, asservito a quest’opera alla quale mi sono votato da molti decenni.»

E quindi, realismo spettrale, realismo critico, realismo linguistico, o qualsiasi altro tipo di realismo che possiamo identificare nelle opere di Bernari, va ribadito che alla base della sua narrativa c’è sempre la realtà socio–storica abbinata all’arte e alla cultura del tempo. La sua finzione è sempre ricchissima di richiami alla realtà e alle verità nascoste della società che viene descritta e indagata in ogni opera. In breve, è sempre la realtà a mettere in moto la fantasia dell’autore. Ma una volta che la realtà, come quella della sua città nativa, entra nell’immaginazione di Carlo Bernari, e cioè una volta che si dissolve in “libera fantasia”, ecco come questa diventa una menzogna narrativa ben costruita, o meglio, un’ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda.

 100 Rocco Capozzi ha intervistato per l’ultima volta Carlo Bernari a Roma nel luglio del 1989, circa mesi prima dell’ictus che colpì lo scrittore. La risposta citata da Capozzi è quella rielaborata da Bernari in una lettera, l’ultima indirizzata al “suo biografo”, del settembre 1989. L’intervista a Carlo Bernari di Rocco Capozzi è pubblicato su «Forum Italicum» nr. 1, 1994, p. 381 e seg. 50 

La «ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda», tanto per usare la felice espressione coniata da Capozzi, può essere adoperata per spiegare la prevalenza dell’aspetto formale nel neorealismo, che è dunque un modo di rappresentare un contenuto attraverso una particolare “Weltanschauung”: non tanto e non solo quella ideologico–politica (che c’entra ma non c’entra col neorealismo, potrei dire con un eufemismo), bensì quella fantastica, visionaria e talvolta erotica (vedi la Silvana Mangano di Riso amaro di Giuseppe de Santis o della Lisa Gastoni di Amore amaro dello stesso Bernari) che, uso una pittoresca espressione di Zavattini, “faceva a cazzotti” col “pifferaio” al servizio del partito. Tornando agli anni Trenta e ai rapporti tra Bernari, Alvaro e Zavattini, è stato Domenico Scarpa della Normale di Pisa a notare in margine alla copertina della prima edizione Bompiani de L’uomo è forte di Corrado Alvaro la firma dell’artista della curiosa immagine: b e r n a r d. Si tratta ovviamente di Carlo Bernard, che proprio con una variante suggerita a malincuore da Alvaro, comincerà a firmarsi Bernari dalla fine del 1939.

51 

Nel saggio del 1953 su cinema arte e letteratura, Bernari si richiama al filone neorealista della pittura – che a suo giudizio rischia di esaurirsi per l’esplosione delle tendenze astrattiste – un filone che da Sironi e Crisconio, attraverso Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a Carlo Levi, Renato Guttuso, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi, Ernesto Treccani, Emilio Greco e Domenico Purificato. 101 Presentando nel 1980 l’opera pittorica di Purificato, ad esempio, Bernari insiste sulla dialettica logos–eikon, immagine e parola:

Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle parole dello scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile. Spesso, fra l’una e l’altra attività, pittorica o letteraria, si determina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due espressioni ha prevalso [...] Vi sono comunque casi singolari in cui lo scrittore che si dedica alla pittura, anche trasferendo in questa attività collaterale o suppletiva gran parte del suo mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente autonomia [...] Ma accade anche l’inverso, quando è il pittore ad invadere il campo vicino delle lettere. Il pittore allora trasferisce nella scrittura, insieme ad una quantità di sensazioni visive, gran parte di quell’humus che dà vita al suo mondo pittorico; ma in modo aneddotico, oserei dire: narrativo; ecco, come se il pittore attingesse ad un altro cielo di verità.

Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa capacità, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtà attingendo, per dirla con le parole di Bernari, ad altri cieli di verità. Va da sé che allora il rapporto col cinema102, l’immagine in movimento che – nella concezione zavattiniana – è una sintesi di arte figurativa e narrativa, come se le immagini venissero messe appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro, l’essenza del neorealismo. Un modo di rappresentare il reale

 101 Bernari fu buon profeta fin dal 1950 della crisi dell’astrattismo, un tema ricorrente nei suoi inteventi critici e nei cataloghi delle mostre con la sua prefazione. Basti pensare alla recensione apparsa sul «Corriere della Sera» della autobiografia del critico Renato Barili, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neoavanguardia (Autoritratto a stampa, Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo il libro autobiografico di Barili scrive Pierluigi Panza: «Pure la Neoavanguardia, dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza, nonostante alcuni tentativi di rilancio negli anni Novanta [...] c’e chi come Eco diventa scrittore borghese postmoderno e chi si rifugia negli studi storici, come Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli [..]» 102 Cfr. PURIFICATO DOMENICO, Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica, «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzolo, pubblicato in occasione dell’omonimo incontro tenutosi a Fondi presso il Palazzo Caetani il 23 maggio, 2010. Molti scritti teorici sul rapporto pittura–cinema del pittore Domenico Purificato sembratn in qualche modo ispirati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore Bernari e il pittore Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni ‘60. Entrambi avevano lo studio estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due artisti. 52  che va ben oltre il documentarismo e mette in allerta l’astrattismo con quel monito con cui Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo:

Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, ndr.) non serva anche alle altre forme di cinema, anche a quelli non neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come i frati per sentirsi dire: avvicinati alla realtà.103

Questo “avvicinamento alla realtà”, inteso da Za come una predisposizione, sul piano della forma, dell’artista all’impegno, è il “leit–motiv” della discussione a cavallo degli anni ‘50. Abbiamo visto come Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi de «Il Politecnico», rivendica all’artista un ruolo indipendente, se non disimpegnato, nei confronti del contenuto – e dell’ideologia del partito. Questa “nuova” posizione di Vittorini, che dagli stretti legami con Togliatti passa ad una critica del cosiddetto realismo socialista, è però già all’ordine del giorno, perché ricalca sostanzialmente le tesi del 1929 del Manifesto udaista di Bernari & Co. Tesi che tornano di attualità venti anni dopo con Vittorini stesso, che pure originariamente le osteggiò, con Zavattini e Fellini che, nell’intervento del 1955 in difesa de La strada, scrive:

Se sono partito – per questa ricerca di come l’essenza del desiderio e della possibilità sociale nasca in un rapporto – da una situazione così apparentemente inadatta, e astratta, e immediata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo, per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come bisogno del cuore, come impulso dell’attimo, come linea in azione dentro il più dimesso corso della nostra esistenza.104

Va da sé che il “bisogno del cuore”, di cui parla Fellini, parta dal concetto rivoluzionario post–romantico e anti–idealistico, feuerbachiano, di sensibilità: che nel

 103 Non c’è bisogno di ricordare, se non a piè di pagina, che Zavattini stesso fu pittore notevole di ispirazione surrealista e che il suo cinema “neorealista” ed ideologicamente impegnato ha un’impronta surrealista inconfondibile. Questo comporta che il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso, rappresenta un approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtà. Ha quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare il plurale “i neorealismi” al posto del singolare (cfr. VITTI, Ripensare il neorealismo, cit.). È del resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento del 1953,: «Partiamo tutti insieme, per esempio accordandoci sulle esigenze fondamentali del neorealismo, mettiamo Vita di un paesucolo. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può [...] la partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimento di quest’esperienza può infinitamente dargli.» ZAVATTINI, Il neorealismo secondo me, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 184. 104 FELLINI, Neorealismo, in Neorealismo poetiche e polemiche, cit., p. 199. 53  manifesto udaista del 1929 viene concepito come una forma di “simpatia” (e relativa empatia) tra il soggetto e l’oggetto della rappresentazione. È da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si dipartono – attraverso l’opera bernariana – dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sarà definito “neorealismo”. Bisogna così partire dal presupposto che la genesi dell’opera letteraria di Bernari – l’incunabolo neorealista105, come viene definita dalla critica letteraria l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite del genere, Tre operai – trova l’humus ideale non tanto nella letteratura dell’epoca, quanto piuttosto nelle arti figurative. Anche perché Bernari ha la sua sponda intellettuale nei due amici pittori e soprattutto negli ambienti del circumvisionismo napoletano di cui Paolo Ricci, il più anziano (anche se di poco, ma sul filo dei venti anni anche i mesi contano) e ideologicamente determinato del gruppo, è diventato uno degli esponenti di spicco, mentre Peirce ne rappresenta l’anima iniziale e più teorica106. Il passaggio tra il manifesto circumvisionista del 1928 al manifesto dell’U.D.A del 1929, meglio l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da Marinetti, all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’essere rivoluzionaria e marxista di questi giovani che prendono le distanze dall’estetica futurista del regime fascista. E lanciano una non–estetica, una nuova ricerca di espressione della realtà, che si fonda sulle angosce più profonde dell’individuo di fronte ai mostri del ‘900, capitalismo e fascismo, alleati nell’idrolatria della “macchina” e del progresso. Progresso antiumanistico, se privato del “sentimento” per privilegiarne l’aspetto totalitaristico–tecnologico, secondo la critica udaista che non ricade nell’errore romantico del rifiuto della modernità, ma la “relativizza” al bisogno e all’aspetto “emotivo” del rapporto Uomo–Natura. Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia circumvisionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del futurismo ed in particolare della pittura  105 Il termine “incunabolo neorealista” viene riferito in particolare al romanzo Tre operai di Bernari. La paternità del termine è piuttosto incerta e comunque dimostra la difficoltà della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera poliedrica e ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di collegare il cinema neorealista del 1943–1948 con la precedente esperienza letteraria degli anni Trenta, dimenticando una semplice realtà, che Bernari e Zavattini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anche se in diversi modi e misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria neorealista e il successivo cinema neorealista. 106 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi dei giovani artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non subalterno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente la tradizione delle avanguardie e di collegarsi con le ricerche più innovative in corso in Europa. La prima mostra dei pittori circumvisionisti all’hotel Quisisana di Capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il Manifesto dei pittori Circumvisionisti fu pubblicato in «Forche Caudine», n. 2, Benevento, 15 gen. 1929, p. 5, a firma Cocchia, D’ambrosio, Peirce. Cfr. D’AMBROSIO, I Circumvisionisti, cit., pp. 338–41. 54  di Sironi107, e con la immediatamente successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 1929–1930, si delinea il percorso della formazione intorno ai vent’anni di Carlo Bernari. Una formazione in primo luogo antiaccademica, ed in seconda battuta pittorico–visiva, puttosto che letteraria. E come poteva essere altrimenti, se i compagni di viaggio (Ricci– Peirce) del giovane Bernari erano artisti, pittori, anziché letterati? Riprendendo la risposta a Carlo Bo, Bernari richiama alcune tappe della genesi di Tre operai, romanzo che la critica ha definito, ricordiamo, “l’incunabolo neorealista”:

Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi solo parentele letterarie, e non anche politiche, sociologiche, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture più frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isolamento, una scuola l’avevo anch’io dietro le spalle: una scuola antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi, dal più elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista, alle medie e superiori che battezzammo Circumvisionismo e Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che fu per noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui manifesto, firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre che da me, apparve nel 1929).108

Si può dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo affondano in un terreno ben più fecondo del semplice back ground letterario: così l’idea di un travaso di linfa immediato (e un po’ scontato) dalla letteratura verista o dal realismo coglie solo in minima misura il bersaglio. Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste radici, a tutta una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche, sociologiche, filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini “libreschi”: perché le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da cui nacque Tre operai, fu una culla in cui le arti visive, e qui stiamo analizzando in particolare la funzione che ebbe l’arte figurativa, la pittura, assolsero un ruolo determinante. Al punto che possiamo affermare che la formazione giovanile del “capostipite” della letteratura neorealista, Carlo Bernari, venne pressochè ipotecata da una  107 Il primo accostamento della pittura di Sironi a Tre operai è di Guido Piovene su «Pan», aprile 1934. Bernari commenta nella Nota 65: «[…] allora mi suonò come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le tavole con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal cinema realista europeo o americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver sùbito. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava.» BERNARI, Nota 65, cit., pp. 244. 108 BERNARI, Nota 65, cit., p. 252–3. 55  ricerca artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo primario, ma venne a costituirsi in seconda battuta, cioè dopo le prime esperienze del 1928–29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo, come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le mosse all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle arti visive e, in questo caso, figurative. In altre parole, non è tanto o solo di Verga che bisogna parlare come referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la fine del primo ventennio del ‘900, bensì dell’opera pittorica, questa sì fondamentale, di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion e paesaggi industriali cupi e privi di speranza, apre le porte a nuove visioni della condizione umana. E il punto di congiunzione tra il neorealismo “letterario” del Bernari di Tre operai e questo retroterra pittorico–visivo sironiano, è rappresentato dagli artisti circumvisionisti della mostra caprese del 1928, primo su tutti Crisconio, quale ideale erede di Sironi. Tant’è vero che proprio nei primi quadri – mi riferisco in particolare all’olio su tavola Centrale termica dell’Ilva del 1929 – di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio fu fin da giovanissimo amico ed estimatore, e nei dipinti del 1934 Cantata operaia di un altro artista circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si può toccare con mano la vera anima del neorealismo che si manifesta letterariamente con la pubblicazione della stesura definitiva di Tre operai del 1934. Il quadro di Paolo Ricci del 1929 intitolato Centrale termica all’Ilva (v. fig. 1) trova del resto una collocazione narrativa nel romanzo di Bernari, in quanto una parte della vicenda del giovane operaio Teodoro si svolge proprio, con una premonizione incredibile vista la situazione attuale degli operai dell’Ilva di Taranto, in quella stessa acciaieria! Un altro esempio di pittura circumvisionista è rappresentata dalla serie Cantata operaia di De Ambrosio (v. fig. 2) del 1932–1934, proprio gli anni della stesura definitiva del romanzo di Bernari. Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928, della nascita in campo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udaismo, non è assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze rappresentano momenti essenziali, e interconnessi, della formazione di Carlo Bernari scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, drammaturgo, critico d’arte e giornalista. A proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica, e non nella tradizione letteraria, Bernari ne parla con chiarezza in un’intervista del 1957109 in cui definisce il realismo socialista come:

 109 BERNARI, Risposte a Questioni sul neorealismo in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957, cit. pp. 221. 56 

[...] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui partì lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ‘30 e il ‘40, allorchè il neorealismo significò resistenza al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) [...]110

 110 Ivi. 57 

Immagine e testo.

Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avventura milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste di semplice correttore di bozze, poi come art director ed infine come Direttore Editoriale, è bene a conoscenza dell’attività teorica– artistica del terzetto di giovani napoletani composto da Carlo Bernari, del cugino Guglielmo Peirce e del pittore Paolo Ricci. Attività che a Za non può essere passata inosservata, visto che il Manifesto UDA del 1929 viene recensito da Ungaretti, trova spazio sulla stampa di oltreoceano e suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi, – e di Breton in particolare che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari con una lunga lettera. Del resto Zavattini è attentissimo alle novità: dall’epistolario con Bernari–Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza che Za conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo d’occhio Bernari in particolare che nel 1932 pubblica alcuni brani del capolavoro neorealista sul «Tevere». Vedremo infatti come l’interesse di Za si focalizzi sempre più proprio su Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard–Peirce, Paolo Ricci non viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà via via sparendo. In una lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard (che da subito è il referente privilegiato anche nell’intestazione delle lettere), Za taglia corto circa alcune “querelle” letterarie, per stabilire un contatto artistico diretto e il piu ampio possibile col giovane amico:

[...] La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose si divergeva teoricamente. Poco male perché sia tu che io in teoria siamo impegnati, come quelli che hanno fatto la polemica pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa che non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci vuole altro: e la nostra amicizia si sta facendo su un terreno umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico. Caso mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e non avevo mai letto Croce. Poi mi è sembrato di non esserlo, assolutamente. E oggi non mi ricordo più perché mi sembrò di non esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose fondamentali e in quelle siamo d’accordo.111

In questa lettera Za comunica a Bernari, più o meno direttamente, un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico–artistici del gruppo udaista del 1929.

 111 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 58 

Infatti la missiva esordisce con un giudizio non negativo, ma certamente riduttivo dei disegni di Guglielmo Peirce:

Mio caro Bernard, Bompiani ha già dato l’incarico a Mucchi per illustrare il mio libro. Ma non voglio che questi disegni di Peirce vadano perduti e allora spero di convincere Piazzi112 a ospitarli nel [Secolo] XX con un mio pezzo fatto ad hoc. Ci vorrà solo un pochino di pazienza. Questi disegni mi piacciono ma sono un po’ alla maniera di… ti pare?

Non si può stabilire con esattezza la data e l’occasione del primo incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da Milano a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune e i motivi di incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi definitivamente a Milano verso la metà del 1930, forte del successo di Parliamo tanto di me pubblicato presso Bompiani nel 1931 e ormai certo del sostegno professionale nel mondo editoriale (Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno i suoi principali sponsor), Zavattini non dimentica gli amici più giovani: Ricci, Peirce e soprattutto, come abbiamo visto, Bernari. Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini ai primi del 1931 per ottenere un sostegno dall’amico che ormai, nel mondo editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. È interessante notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto i disegni di Peirce. In risposta a una ipotizzabile lettera di Bernari113, Za risponde con una lettera manoscritta:

Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall’influenza. Per quei disegni non c’è proprio modo di piazzarli. Il solo che poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no – io mi ero offerto di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo solo il Secolo XX114 poteva aiutarvi – ma anche là hanno paura di andare troppo in là – Come vedete, sono inerme e non riesco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con una novella. Ahimè, Milano è così –

 112 Filippo Piazzi, direttore editoriale della Rizzoli conosciuto da Zavattini a Milano alla fine del 1929. Fu Piazzi ad inserire Za nel mondo editoriale milanese ed in particolare nelle riviste del gruppo Rizzoli, inizialmente con l’incarico di correttore di bozze al «Secolo XX», «Novella» etc. 113 Gugliemo Peirce era il cugino di Bernari, oltre ad essere l’ideatore del Manifesto UDA. Omosessuale e antifascista, Peirce fu arrestato nel 1937; fu allora che Zavattini, per paura di essere coinvolto, bruciò un’intera cassa di materiali letterari, corrispondenze ecc. attestanti i rapporti con Peirce e Bernari. 114 «Il Secolo XX», settimanale edito da Rizzoli, “Grande rassegna d’arte, di lettere, di politica, di scienze. Documenti rari ed eslusivi”. Zavattini vi collabora a partire dal 1929. 59 

Vi abbraccio, scrivetemi e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e quello per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come sino ad ora – Vostro affezionatissimo Zavattini. 115

Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937, si intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e Peirce, che però non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini continua a farsi in quattro per aiutare gli amici, ai quali scrive da Milano il 6 agosto 1932:

Carissimo Bernard... ti assicuro che mi ricorderò di Peirce per l’Almanacco. Quei suoi tre disegni sono ancora inutilizzati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia, caro Bernard, vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua...116

Zavattini insomma incontra grandi difficoltà a “piazzare” i disegni di Peirce (curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il perché è presto detto: questi disegnini sono avulsi dal contesto editoriale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale però manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione «provate ancora con una novella» suggerendo agli amici una soluzione editoriale precisa per una “terza pagina” illustrata. L’idea sembra funzionare, tanto che da Milano giunge una rassicurazione sull’impegno personale ad aiutare i due amici e una piccola conferma:

Caro Bernard ho bisogno di un’altra proroga. Scusami, scusami, scusami. Speravo di rubare qualche ora in ufficio, ma Marotta117 è ammalato e io non ho un minuto di tempo. Dunque, aspetta ancora qualche giorno, sii buono. È uscita la novella, finalmente. Riceverete il modesto compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è ridotta, povera novella, con l’aggiunta e con i tagli! Fatene un’altra.

 115 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Bernard–Peirce / Via 4 Fontane / Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Si tratta della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario Bernari–Za. 116 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane, 4 / Roma”, data del timbro postale Milano, 6 VIII. 1932, pubblicata in: BERNARI, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 117 Nel 1930 Zavattini inaugura per Giuseppe Marotta, direttore di «Cinema Illustrazione», la rubrica di immaginarie corrispondenze Cronaca di Hollywood, firmandola con vari pseudonimi di fantasia. 60 

Ora sono in corrispondenza con Petrone118, un giovane che scrive spesso sui giornali di Roma. Lo conosci?119

La missiva scritta da Zavattini a penna, col solito caos nell’utilizzare il foglio in ogni verso e direzione, come fosse un disegno, prosegue con un’interessante osservazione sulla mentalità che regna nell’organizzazione della stampa periodica, in particolare dei rotocalchi a grande tiratura. Probabilmente Zavattini risponde a un lamentela di Bernari:

Per i settimanali hai ragione. Ma non vogliono essere altro – tanto che avevo chiesto li facessero precedere [i racconti pubblicati, ndr], il primo, da un cappello per spiegare che io volevo solo fossero così [sottolineatura nell’originale, ndr] – Giornalistici, labili, labilissimi, contingenti – non vogliono essere altro. E c’è un proposito: quello di non scrivere cose importanti [sottolineatura nell’originale, ndr]: giù di cattedra, così, non come scrittore. Ma può darsi che fosse meglio non averli iniziati. Ti abbraccio saluta Peirce.

Naturalmente Za continua a pensare anche a Peirce, e scrive al “Caro Bernard”:

[...] Per i disegni di Peirce, spero di fare il pezzo sul [Secolo] XX nella settimana ventura. Se crede, farà qualche cosa per l’almanacco letterario 1933, che sto architettando in questi giorni. Ci pensi.120

Ma non c’è nulla da fare: nonostante gli sforzi Zavattini non riesce ad aiutare gli amici come vorrebbe. Il 7 ottobre 1932 scrive da Milano:

Caro Bernard, te lo dicevo che finiremo con le botte. Non sono ancora riuscito a fare un piacere a te o a Peirce. Mentre a voi sembra facile. Per un pelo infatti: così queste due novelle, vanno quasi bene. A manca un finale. Tu dirai c’è: più corposo e più complicato. Questo è il parere dei redattori nostri. La trovata è spassosissima, finisce solo in un modo un po’ magro. Questo secondo il nostro pubblico o quel genere che gli somministriamo dietro sua indicazione. Io sono addolorato, pensa che  118 Con ogni probabilità si tratta dello scrittore Guglielmo Petroni, autore de Il mondo è una prigione. Bernari conobbe Petroni a Roma proprio in questi anni, probabilmente in seguito all’indicazione di Zavattini. 119 Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).  120 Lettera manoscritta, autografa carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 61 

altri quattro o cinque amici in gamba hanno subito la stessa sorte. E temo d’andarci di mezzo io. Volete provare ancora? Io leggerò subito tutto, uniformatevi a 121. La mano l’avete, come si dice, e dovreste fare centro. Per ottobre niente. Non parlarmi di Mondadori, ora sono nel solito mare di guai e non trovo tempo neanche per la Gazzetta. Ti scriverò fra pochissimi giorni per l’almanacco. Intanto vi abbraccio. Io sono a vostra completa disposizione. Ma non posso fare quello che vorrei per voi. A ogni modo scrivetemi e vogliatemi bene. Vostro ZA.122

Le difficoltà di Zavattini sono naturalmente dovute a una scarsa comprensione da parte dei giovani intellettuali dei meccanismi massmediali e commerciali dell’industria editoriale che è da subito terreno di scontro e confronto tra Bernari e Za. Del resto, in una lettera già precedentemente citata, Za aveva consigliato a Bernari di scrivere facile, giù di cattedra insomma. I tentativi di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi risultati, ma non per questo Za demorde. Da Milano parte una lettera in data 26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di come impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al ruolo dell’immagine e dell’illustrazione del testo.

Caro B. Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di commento, potrebbe essere immaginato così: (segue esempio grafico di impaginazione: disegno, a sinistra, testo a destra, ndr.) questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la mia proposta. Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Me lo mandate subito? L’almanacco sta per andare in macchina. Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri due nomi ci siano. Lasciate passare questa bufera. È una vera bufera e spero fortemente che potrò fare qualche cosa per voi. Vi giuro che ora non basta la buona volontà. Vi scriverò presto. Un abbraccio vostro Za.123

 121 Nel giugno del 1930 Zavattini è assunto a «Novella» edito da Rizzoli, “antologia settimanale di letteratura amena; ogni fascicolo contiene sei novelle, una puntata di romanzo, aneddoti, varietà; riccamente illustrata”. 122 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale. Inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 123 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 62 

Le sottolineature con matita rossa nell’originale evidenziano, in primo luogo, un concetto che viene assumendo nella dinamica che stiamo analizzando un ruolo centrale: il soggetto letterario.

63 

Si comprende bene che questa lettera è fondamentale per l’ultima fase di formazione dello stile di Bernari che viene sollecitato da Zavattini all’individuazione di una sinergia, non più intuitiva, ma da questo punto razionalmente ricercata, tra testo e immagine, tra parola e rappresentazione visiva. Da questo momento, dunque, la possibilità della narrazione verrà estesa dall’organo del pensiero razionale, il logos, al pensiero rappresentativo che si base sulle immagini e sulla loro “messa in sequenza”. 124 Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che Bernari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, autore di testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e disegnino – una passione, quella del disegno, che Bernari, come dirò, coltiverà per tutta la vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za insiste:

Carissimi grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubblicitario. Aspetto tre righe sul genere di quelle di ottobre. Come mai? Dei vostri due pubblicherò quello coi soldi. Va bene? Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho già letta, ora la leggeranno gli altri. Ma so già il responso. Quasi... Sì, accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come avete fatto. Chi non lo sa che le novelle di Novella sono quel che sono? Quando si dice: le vostre non sono adatte per l’amor di Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per esempio, valeva un po’ più piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istruzioni secondo il modello che qui hanno in testa e da quello non si muovono. Se dipendesse da me, mandatemene pure, io farò l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc. ecc. Dirò a Bompiani se può pagarvi quel disegno. Ma B. non mollerà, lo so, perché ciascuno collabora gratuitamente, salvo le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamente. Io sono sempre a vostra disposizione. Vi abbraccio vostro Za.125

La tesi secondo cui Bernari e Peirce si starebbero rapportando a Za entrambi in qualità di artisti a tutto tondo, cioè entrambi come autori di testi e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di Za datata Milano 27 dicembre 1932:

Carissimi,

 124 Verga, come diremo nel prossimo capitolo a proposito dell’osmosi fra verismo e neorealismo di Bernari, parla di una “messa in movimento” dell’immagine. 125 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale 2 novembre 1932, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 64 

grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi. Avete visto l’almanacco? È come è (o meglio come può essere). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi scriverò più a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, a guai finanziari. Vi abbraccio Za.126

E ancora da Milano il 27 gennaio 1933 Za scrive:

Cari amici, aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una novella per Novella, (vedeste che vi rubai un terzo di spunto in un mio raccontino? Ma così poco che potreste non esservene accorti, sul Fuorisacco127). Aspetto dunque i disegnini e farò l’impossibile per il Secolo XX. Il solo che, lo capite da voi, possa ospitare il genere [...]128

L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice ragione editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento necessitano di quello che suol chiamarsi “alleggerimento in pagina” della parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933 sta dedicando ogni sforzo alla riscrittura di Tre operai, ad “alleggerire” anche la parte “letteraria” del capolavoro del neorealismo. Tuttavia Zavattini, nonostante la buona volontà, riesce ad ottenere solo magri risultati per i due giovani amici, così è costretto a desistere, almeno per il momento, e a rinviare i disegni all’autore Guglielmo Peirce. In realtà, Zavattini si renderà, nel giro di poco tempo, utilissimo a Bernari tanto da diventare il suo primo editor, ma non avrà che sempre più sporadici contatti con Peirce. I contatti saranno definitivamente troncati nel 1937, con l’arresto di Peirce, omosessuale e comunista: troppo esposto, insomma, per un tipo come Zavattini, molto cauto con le amicizie e le frequentazioni. Questa posizione poco delineata politicamente procurerà a Zavattini non pochi rimorsi di coscienza, descritti nel romanzo del 1976 La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini, in cui si dichiarerà, in una lettera a Bernari che vedremo in seguito, troppo poco indignato, al pari di altri intellettuali, nei confronti del fascismo.

 126 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano 27 dicembre 1932, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 127 “Fuorisacco” è una rubrica che Za teneva sul Secolo XX. 128 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale 27 gennaio 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 65 

Senonché l’idea di una fusione immagine–parola nell’ambito del racconto, una sinergia che naturalmente nasce spontanea in Zavattini che lavora nelle redazioni dei rotocalchi e poi passa a dirigere un settore della Walt Disney mondadoriana, resta una ricerca costante nei rapporti con l’amico Bernari. Il quale viene sollecitato, prima, nel 1932– 1933, coi disegni di Pierce, poi, nel 1934, con opere di “artisti di nome”, quindi – come appureremo nel prossimo capitolo – con la fotografia, ad insistere su questa particolare forma di rappresentazione in cui immagine e parola trovano un sorta di sintesi narrativa. Così Zavattini scrive a Bernari datando a mano “Milano il 12 settembre del 1934”:

Caro Bernard, dovresti interessarti per l’almanacco di raccogliere a Roma dei disegni (non molti), ma di primaria importanza, e di artisti di nome. Quest’anno l’almanacco conta di pubblicarne pochi ma buoni: ci contiamo. Scrivimi in merito ed interessatene veramente. Grazie, ed occupati di quello di cui ti eri impegnato per l’almanacco. Tanti saluti dal tuo Zavattini129

Nel carteggio si cominciano a perdere le tracce di Gugliemo Pierce, anche perché il cugino di Bernari, come dicevamo, ha una vita particolarmente rischiosa e spericolata ostentando, in maniera fin troppo disinvolta, la sua omosessualità e le sue idee antifasciste. Ma il discorso tra Bernari e Zavattini coinvolge sempre, e diremmo sempre di più, le arti visive, non solo la pittura e il disegno, ma la fotografia e il cinema, arti che avranno un ruolo centrale nella formazione dell’idea neorealista. La questione da ribadire resta, insomma, quella relativa alla centralità, nell’ambito della produzione creativa dei due scrittori, della pittura cui si sono entrambi dedicati attivamente, sia pur con diverse fortune. Nota è, ad esempio, l’attività artistica di Za che fu, nella sua genialità poliedrica, pittore a tempo pieno; mentre Bernari, pur coltivando il pallino del disegno e dei pennelli, ha proseguito solo estemporanemente e per svago la sua “passione” per il disegno che si rivela ad esempio in un ritratto di Guglielmo Pierce da lui realizzato nel 1930130. In questo caso in calce sono riportati la data e il soggetto del ritratto, poiché la calligrafia è proprio quella di Bernari, quindi non si tratta di una firma. Del resto, che quella per la pittura sia una passione di vecchia data per Bernari è dimostrato da questo piccolo

 129 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Casa editrice V. Bompiani & C. S.A., Milano”, indirizzata a “S. Carlo Bernard / Quadrivio/ Piazza di Spagna, 66 / Roma”, datata Milano 12 settembre del 1934, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). Sottolineature nel testo originale. 130 Collezione privata Enrico Bernard. 66  dipinto, una tempera su cartoncino, realizzato nel 1939131, come una visione del capitolo XVI di Tre operai, intitolato Marco trova un impiego; ed Anna muore.

Il rione Cattori era formato da un gruppetto di palazzine e due palazzi grandi, costruiti quasi sulla spiaggia, che si stendeva tra Torre Annunziata e Castellammare. [...] La plaga era arida e stepposa [...] La domenica anche gli operai andavano al bagno, ma si riunivano fra di loro e se ne stavano in disparte in qualche angolo della spiaggia, che non aveva fine; dove gli uomini e le cose, per la vista larga, si perdevano in una nebbiolina lucente che il caldo sollevava dalla rena. Le voci dei villeggianti si facevano eco di tenda in tenda e giungevano fino ai diseredati cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità, e sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste. Il mare batteva quasi sempre su quel lato portandovi sbavature di alghe e di catrame, che seccandosi attiravano mosche, zanzare, nugoli di moscerini.132

Il quadretto, successivo di oltre cinque anni al romanzo, come attestato dalla firma “Bernari 1939”, sembra comunque essere un fotogramma che dalla pagina si materializza in una visione della stessa marina napoletana tra Torre Annunziata e Castellammare. Questa

 131 Collezione privata Enrico Bernard. 132 BERNARI, Tre operai, cit., pp. 115–6. 67  immagine infatti ritorna nel capitolo finale, significativamente intitolato La spiaggia, del penultimo romanzo di Bernari Il giorno degli assassinii. Qui ci troviamo nello stesso “villaggio estivo” in cui avevamo lasciato Teodoro nel finale di Tre operai, un epilogo che accumuna il personaggio bernariano del 1934, Teodoro, al suo epigono, Lo Scrivente, del romanzo del 1981:

Allora vivevo in una casetta di un Villaggio estivo, sorto su un arenile, poco distante dalla città, e che si popolava soltanto durante le vacanze; mentre nei mesi invernali, quando io vi fui portato da Lea, era un deserto di sabbia, di rovi bruciati dalla salsedine, e di vento.

A questo punto la descrizione si interseca con la stessa spiaggia di Tre operai, di cui il quadretto del 1939 sembra essere una sorta di fotogramma interiore impresso nella memoria visiva dello scrittore, tanto da riemergere quasi mezzo secolo dopo:

L’alta marea vi aveva lasciato appena una striscia di rena asciutta, sotto un manto di sterpaglie, di alghe, di spugne marine.

In realtà Bernari nel 1980 non aveva sotto gli occhi il suo dipinto giovanile: esso era sepolto in un cassetto del mio armadio, destinato probabilmente ad essere gettato se non lo avessi salvato. Mia madre che mi rimetteva a posto i cassetti lo stava stracciando, nella riproduzione si nota il segno dello strappo, quando riuscii a fermarla perché avevo iniziata una collezione di disegnini di vari artisti. Questa testimonianza personale rende ancor più significativa la descrizione del capitolo La spiaggia de Il giorno degli assassinii del 1980: essa fotografa esattamente il quadretto che mio padre aveva realizzato decenni prima:

Margini stenti di verde nel grigiore del cemento segnavano incerti limiti tra una villetta e l’altra. Pochi e rinsecchiti gli alberi che riuscivano ad elevare qualche smunto ramo oltre le recinzioni; pronti a chinare anche quei pochi ciuffi dal verde malato all’impeto del maestrale che spalmava attorno, fin sui vetri delle finestre, mani di salmastro.133

Tuttavia, se è vero che Bernari non è stato un pittore se non in rari momenti di pausa dalla scrittura, va citata la sua attenzione per il mondo dell’arte figurativa e della pittura attraverso amicizie profonde e di lunga data con pittori come Alberto Sughi, Domenico  133 BERNARI, Il giorno degli assassinii, cit., p. 169. Per la genesi del romanzo cui ho avuto modo di assistere e partecipare, cfr. BERNARD ENRICO, Il giallo fulminante nella narrativa di Carlo Bernari, in «Studi novecenteschi», XXXVII, 80, luglio–dicembre 2010, pp. 339–59. 68 

Cantatore, Carlo Carrà, Ernesto Treccani, Emilio Greco, Renato Guttuso, Domenico Purificato, oltre ai sodalizi storici (Paolo Ricci e l’ultimo dei “circumvisionisti” Giordano in arte con lo pseudonimo di “Buchicco”) e alle amicizie con giovani artisti come Enzo Frascione, Vangelli, Pasini, De Tomy, Zanetti–Righi, Villoresi, Dessì e molti altri. Naturalmente Bernari trae ispirazione per le sue opere di narrativa dal rapporto con i pittori che sente a lui più vicini. Ma in qualche caso scopre una vera e propria simbiosi con alcuni amici artisti in particolare. Il primo è Domenico Cantatore, una figura di cui abbiamo già parlato in precedenza, ma sulla quale occorre spendere altre due parole. L’amicizia tra Bernari e Cantatore era consolidata da un terzo personaggio che entrambi frequentavano assiduamente, Michele Pellicani, giornalista, politico e storico del movimento operaio.134 Le riunioni avvenivano di pomeriggio in casa Pellicani, in via Tagliamento a Roma, a pochi passi dalla sede del settimanale «l’Espresso», per cui gli incontri spesso si allargavano ai redattori che salivano per un “cicchetto” di whisky da Michele, considerato un grande intenditore e collezionista non solo di arte, ma anche di rare marche irlandesi e scozzesi; oppure, per le cene, a casa Bernari, dove immancabilmente mia madre, a conclusione del menù (solitamente sartù di riso e parmigiana di melanzane di cui erano tutti ghiotti), offriva un delizioso gelato al caffé preparato da lei stessa. Il rapporto con Domenico Cantatore travalicava la semplice e sincera amicizia. Infatti, grazie anche alla presenza silenziosa di Michele Pellicani, abilissimo a scatenare le discussioni politiche o artistiche per poi restarsene in disparte ad ascoltare, la stima tra il pittore e lo scrittore si era consolidata sempre più fino a raggiungere la forma di una sinergia. Bernari ha scritto diverse presentazioni alle cartelle di incisioni di Cantatore; una in particolare merita la nostra attenzione fin del titolo: Cantatore o della scrittura. La bozza del testo, battuta con la vecchia Olimpia su carta redazionale del «Mattino di Napoli», cui Bernari collaborava, è recentemente spuntata fuori da un fascicolo dell’Archivio.

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 134 Fu eletto deputato per la prima volta nella IV Legislatura della Repubblica Italiana alla Camera dei Deputati nel 1963 per il Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat. Successivamente, fra il 1968 e il 1976, è stato rieletto nella V e VI Legislatura per il Partito Socialista Unificato e infine per il Partito Socialista Italiano. Fu dunque nominato sottosegretario di stato nel Governo Rumor I alla Pubblica Istruzione; nel Governo Rumor III a Grazia e Giustizia; nel Governo Colombo a Grazia e Giustizia; nel Governo Rumor IV alla Difesa. Ha presentato numerose proposte di legge sia come primo firmatario che come co–proponente, fra le quali si evidenziano principalmente quella sul voto ai diciottenni, sulla pensione sociale, sulla obiezione di coscienza al servizio militare di leva, sul divorzio. Fu giornalista e direttore fra l’altro della rivista «Vie nuove» e del quotidiano del PSDI, «La giustizia», ha scritto inoltre svariati saggi politici sulla storia del movimento operaio. 69 

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Da rimarcare l'espressione bernariana: «come se il pittore attingesse ad un altro cieolo di verità» che rivela la concezione dell'artista come “cercatore di verità”, indipendentemente dal mezzo espressivo e semmai in sinergia con ciascuno di esso. Si ha così l’impressione che il recentissimo saggio 137 di Bernard–Henry Levy su pittura e scrittura, arte e filofofia, avrebbe potuto e dovuto tener conto di questi importanti precedenti. La seconda figura artistica di rilievo nella biografia bernariana è senz’altro il pittore di Cesena Alberto Sughi. Egli sembra raffigurare sulla tela personaggi, idee pittoriche, ambienti che Bernari traduce letterariamente. Sarebbe troppo lunga l’analisi delle forti corrispondenze, non solo visive ma addirittura ideologiche, tra il Sughi autore di Gran Caffé Italia e i personaggi, i salotti, le redazioni, romane e milanesi, dei romanzi di Bernari.

 135 È il caso di Zavattini e in tono minore dello stesso Bernari. 136 BERNARI CARLO, Cantatore o della scrittura, in «il Mattino di Napoli», 15 ottobre 1986, p. 3. 137 Cfr. HENRI LÉVY BERNARD, Arte e filosofia, il grande armistizio, in «Corriere della Sera» del 6 giugno 2013, p. 37. Il saggio di Henry Lévy viene pubblicato dal quotidiano italiano in occasione della l’uscita in Francia del volume Le avventure della verità del filosofo francese. 70 

L’amicizia e la collaborazione di Sughi con Bernari meritano sicuramente una ricerca a parte che darebbe luogo ad una ricostruzione artistica e ideologica degli ultimi quarant’anni del Novecento italiano.138 Qui possiamo solo accennare alla specularità visuale del narratore che, per usare un simpatico eufemismo, dipinge con le parole, e il pittore che scrive con le immagini. Conservo un foglietto di carta con uno schizzo di Bernari che raffigura un personaggio femminile sotto la sua firma a caratteri cubitali139:

Ma in un altro quaderno lo stesso Alberto Sughi, era il 1969, mi ha dedicato un suo disegno140 così:

In un domani Enrico, ti nascerà il problema della donna. È un problema irrisolvibile ma appassionante.

 138 Cfr. CAPOZZI, Arti visive e nuova oggettività nel primo Bernari, cit., pp. 140–162. Vedi anche la relazione di Rocco Capozzi Luce, colori e narrativa. Carlo Bernari critico d’arte in occasione del Convegno Internazionale: Carlo Bernari nel ventennale della morte tenutosi il 10–11 dicembre 2012 presso l’Università la Sapienza di Roma. Gli atti sono in corso di pubblicazione . 139 Era su un’agenda accanto al telefono di casa. Parlando Bernari aveva l’abitudine di fare qualche disegnino o prendere qualche appunto. Collezione privata Enrico Bernard. 140 Collezione privata Enrico Bernard. 71 

Nei tratti della figura femminile di Sughi, che ricorre in tutta la sua opera pittorica, mi sembra di scorgere il personaggio femminile di Bernari, che ne attraversa l’opera narrativa: un personaggio femminile sicuramente idealizzato, ma che dimostra l’esistenza e la persistenza di fotogrammi della memoria che riaffiorano nella mente dello scrittore – anche quando sta conversando al telefono.

A partire dagli anni Cinquanta Bernari diventa un assiduo frequentatore di gallerie e mostre, di cui cura spesso cataloghi e presentazioni, scrive recensioni di arte contemporanea e saggi. Tuttavia, sembra aver perfettamente interiorizzato lo schema immagine/parola dettatogli da Zavattini nel lontano 1932. Una lezione che insiste nella mente delle scrittore napoletano quando realizza su carta velina una ventina di disegni raffiguranti una mano che scrive disegnando o che disegna scrivendo:

72 

In questo schizzo sono raffigurati diversi momenti del processo di scrittura e di illustrazione: c’è una mano con la matita che disegna due mani che battono sulla tastiera di una macchina da scrivere; una mano che disegna un personaggio della narrazione... accanto la firma accennata (Carlo) e un numero di telefono che non sapremo mai di chi fosse.

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Raccontare disegnando, Scrivere con le immagini, Un quadro come una pagina scritta, Cantatore ovvero della scrittura, sono i titoli delle introduzioni di Bernari ai cataloghi delle mostre di amici pittori come Enzo Frascione, Paolo Villoresi, Sughi e Domenico Cantatore: titoli che confermano, a questo punto, origine e finalità di un’arte visiva, la pittura, che attraverso il teatro elabora “criticamente” il fotogramma della realtà attraverso la narrazione che si sviluppa, a sua volta, nella finzione – cioè in una seconda realtà cinematografica. Le immagini così prodotte, secondo la visione di Bernari e Zavattini, sembrano riallacciarsi ai padri della pittura e della letteratura italiane – Giotto e Dante Alighieri – il primo impegnato nella rappresentazione drammatica e il secondo nella drammatica rappresentazione, la Commedia appunto, della realtà del suo tempo. Un piccolo ma significativo aneddoto spiega come l’immagine, la rappresentazione grafica o pittorica, sia parte integrante non solo dell’opera di Zavattini e di Bernari, ma

74  coinvolga la vita quotidiana, i rapporti interpersonali. Zavattini comunicava spesso e volentieri tramite disegnini o quadretti: mi fece ad esempio pervenire nel giorno del mio matrimonio, al posto del classico telegramma, un quadretto augurale141 con su scritto:

W gli sposi Cesare (salutatemi i rispettivi genitori da Zavattini)

Ciò illustra eloquentemente la funzione dell’immagine figurativa, del quadro come del disegno, nell’opera dei due scrittori che, fin dalle prime, fondamentali esperienze letterarie, procedono verso una forma di narrazione che prolunga la scrittura in una vera e propria rappresentazione plastica. Nascono così le didascalie dei capitoli del romanzo d’esordio di Bernari, veri e propri schemi da story board142 cinematografico, didascalie che non sono presenti nella precedente stesura (Gli stracci). L’incipit di Tre operai è fulminante per la potenza visuale che ne caratterizza il dinamismo della “carrellata” – prendendo in prestito un termine della tecnica

 141 Collezione privata Enrico Bernard. 142 Nella storyboard la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie delle varie scene. 75  cinematografica – al punto che potremmo dire che un regista non avrebbe potuto visualizzare meglio la scena iniziale di un film!

È domenica, di marzo. Luigi Barrin e il figlio Teodoro sulla via Poggioreale. In fondo, il cimitero coi suoi alberi folti e neri, poche nuvole gelate nel cielo chiaro. Nella piazza Nazionale vi sono due baracconi da fiera e un organetto che suona lentamente la Marsigliese. Vecchi cartelloni di propaganda elettorale pendono fradici dai muri.

Ecco dunque cosa spiega l’immediato, fortissimo interesse di Zavattini per l’opera prima del giovane amico: la sua forza visiva, la novità della forma Vneorealista”, più dell’aspetto contenutistico. Non è neppure difficile immaginare la possibilità di una versione illustrata del romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie che preannunciano il contenuto dei capitoli.

I – Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro. II– Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora si accontenterebbe di un qualunque lavoro. III– Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai. IV– Teodoro non ne può più: ha bisogno di Maria; ma anche un po’ di Anna. V – Teodoro deve prendere una decisione. VI – Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprezzare la povera Anna. VII–Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli pare un uomo coraggioso e intelligente. VIII– Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri dei poveri. IX – Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma forse il lavoro non è fatto per lui. X – Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita può farne anche un rivoluzionario. XI – Praticamente Teodoro impara che la mentalità e le idee sono il frutto di determinate condizioni d’ambiente. X – Anna trova un uomo che le vuole bene e d’un impiego. XIII – Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i riformisti sono più forti di lui e gli fanno commettere una grande sciocchezza. XIV – Pippetto muore a Napoli.

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XV – Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimentari. XVI – Marco trova un impiego: ed Anna muore. XVII – Agosto–settembre 1921: occupazione delle fabbriche. XVIII – Sbandamento.

Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo cinquecentesco, in particolare Rabelais, nonchè il feuilletton romanzesco che Za è impegnato a rialaborare nell’ambito delle sue collaborazioni editoriali passando dai rotocalchi ai fumetti. La polemica su «Novella», anzi sulle “novelle per Novella” è il tallone d’Achille di Za che deve far capire agli amici la situazione e, soprattutto, deve spiegare che non è in discussione il loro valore letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che per scrivere novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore. Sta di fatto che però questa insistenza da parte del più anziano e navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince Bernari a rivedere molte cose della sua attività creativa, in primis ad utilizzare la scrittura come se fosse un disegno, una illustrazione, come a dirsi: disegna prima con la mente quello che stai per scrivere. Vedremo in seguito come i passi ulteriori dello scrittore Bernari, e non potrebbe essere altrimenti, andranno in direzione della fotografia, del teatro e del cinema. Ma è altrettanto vero che Bernari giungerà a questa forma nuova di rappresentazione e interpretazione dell’oggettività, il neorealismo, attraverso il complesso delle arti visive che intersecano la sua intera produzione letteraria. La pittura in particolare, come si è detto, rappresenta sia da un punto di vista teorico che sotto l’aspetto pratico quel bacillo giovanile originario da cui scaturirà l’evoluzione rapida e drastica della sua scrittura. Possiamo chiudere questa sezione con una fotografia di Bernari che ritrae il pittore e scultore Pietro Consagra in occasione di una vernissage negli anni Sessanta: è la testimonianza della sinergia tra lo scrittore che fotografa un artista e ci porta ad introdurre l’argomento del prossimo capitolo, dedicato appunto alla fotografia.

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78 Capitolo secondo

Fotografia e letteratura.

La verità non sempre è quella che io dico a te e tu ripeti a me...

Sono le prime strofe della ballata teatrale che ho composto per una scena dell’ultimo film di Zavattini La veritaaaà del 1982. Il pittore circumvisionista Giordano (Buchicco) mi ha immortalato con la chitarra nel 1966, mentre strimpello i miei primi accordi. Dieci anni dopo avrei scritto la canzone che Za inserì brevemente nel film.

L’ultimo lungometraggio di Za ha una lunga, ventennale, travagliata gesta- zione: il protagonista, Antonio, potrebbe essere la reincarnazione di Totó il buono di Miracolo a Milano (il film omonimo di De Sica fu tratto dal romanzo dello stesso Zavattini del 1943), il simpatico e commovente capopopolo che organizza la rivolta, anzi la fuga dei poveri in scopa verso un mondo dove «buongiorno vuol dire ancora

79 buon–giorno». Antonio, fuggito dal manicomio, dove è stato rinchiuso per la follia di voler sempre dire la verità, riesce ad introdursi negli studi televisivi della Rai e a mandare in onda una sorta di canale della verità. La verità sembra essere dunque più che mai l’ossessione di Zavattini. Tanto che ci si può porre un interrogativo: si tratta forse di una verità oggettiva, o non piuttosto di una visione soggettiva di una realtà fenomenica che “oggettivamente” non esiste 1 , come un kantiano inconoscibile “noumeno”, ma che muta fenomenologicamente a seconda dei punti di vista?

Antonio, il protagonista del film interpretato dallo stesso Zavattini in camicia di forza, si ritaglia un poscritto d’autore, quasi a ribadire che la verità “oggettiva” consiste nella confluenza di una miriade di punti di vista, non necessariamente “intellettualistici”, concetto che in questo caso assume anche una valenza idelogica:

 1 Zavattini mi ha dedicato un pastello raffigurante tre fiorellini in un vaso con una dedica che spiega bene la sua costante riflessione sul rapporto tra realtà e verità, che poi è anche il nocciòlo del pensiero kantiano sulla realtà fenomenica: Caro Enrico, non dire che questi fiori non ci sono, anche così maldestri ci sono. 80 Poscritto... Poscritto... Il pensiero ha bisogno degli ingredienti di tutti per manifestarsi, altrimenti non si manifesta [...] perché tutti siamo uguali nella ...grandezza!

Paradossalmente anche quella che è considerata l’opera più documentaristica e cronachistica pensata da Zavattini per la regia di Vittorio De Sica, Umberto D. , film del 1952 che consiste in un unico piano sequenza con la telecamera che segue il protagonista come in un reality, è in effetti una doppia soggettiva: quella del protagonista inseguito dall’occhio elettronico e quella dello spettatore che pedina entrambi. Infatti chi vede la proiezione dell’azione, considera la “MdP”, cioè la macchina da ripresa, come una sorta di deuteragonista e a sua volta si considera tritagonista, insomma un voyeur! Non si tratta del resto di una tecnica narrativa nuova: descrivere la realtà di un personaggio seguendolo realisticamente nella sua vita quotidiana e, al contempo, rappresentando la sua visione soggettiva della realtà è, ad esempio, uno degli aspetti formali dell’Ulisse di Joyce. E non c’è nemmeno bisogno di citare l’idealismo da Platone a Kant circa l’inconoscibilità del “vero” e della verità come percorso soggettivo della conoscenza, per notare come il tema letterario del “realismo” e del “verismo” abbia antiche, anzi arcaiche fondamenta nel pensiero filosofico e nel teatro. Il pensiero dialettico e il metodo maieutico scaturiscono infatti dal “dia–logo”, tanto che possiamo considerare l’Edipo Re sofocleo come l’archetipo della ricerca della verità oggettiva da parte di un “occhio” soggettivo che, se coglie la realtà nella sua “vera verità”, ne resta accecato come l’obiettivo di una telecamera che inquadra l’astro solare. Al di là del tema cinematografico insito nell’archetipo platonico del mito della caverna, bisogna considerare che il concetto di “verità”, in arte ha sempre generato confusione tra soggetto e oggetto della rappresentazione – differentemente da quanto accade nell’epistemologia scientifica che si affida, da Galileo e Newton, al metodo matematico. Dalla confusione tra soggetto e oggetto della produzione artistica è scaturita una dicotomia che comporta il rischio di una visione schematica: secondo la quale l’arte è più fotocopia, o mimesi, del vero che reinterpretazione fantastica, o fiction, che parte dalla realtà oggettiva per poi trascenderla.

81 Ovviamente la discussione sul naturalismo e l’imitazione della natura (o realtà storico–sociale) è ben più antica. Per restringere il discorso al verismo e all’opera di Verga che, come vedremo, è alla base di ogni discorso sul neorealismo di Bernari e Zavattini, bisogna considerare che l’equivoco della verità cui si accennava prima è insito nel nome stesso del movimento letterario. Pur non volendo ricostruire l’opera verghiana, bisogna tener presente che il capolavoro dello scrittore catanese, I Malavoglia, è introdotto dallo stesso autore con una prefazione teorica che ha avuto una genesi complessa. L’intervento definitivo datato “Milano, 19 gennaio” (un paradosso: Verga “manifestandosi” nell’introduzione sostiene che l’autore dell’opera deve celarsi dietro di essa!)2 si conclude con queste parole apparentemente chiare, ma che in relatà celano un piccolo rebus:

Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.3

Gli occhi del lettore e della critica si sono concentrati soprattutto sulla penultima frase dell’autoprefazione di Verga, ossia su quel “dare la rappresentazione della realtà com’è stata” che riporta la novità stilistica dello scrittore siciliano nell’ambito di un naturalismo o tutt’al più di un realismo alla Zola. Non ci si è invece adeguatamente soffermati sull’ultima e rivelatrice frase con cui Verga conclude il pensiero: “o come [la realtà] avrebbe dovuto essere.” Il fatto è che, nel primo caso (la realtà com’è stata), siamo appunto nell’ambito della rappresentazione realistica, ma quando Verga parla di “realtà come avrebbe dovuto essere”, ebbene veniamo posti di fronte ad un vero e proprio superamento del realismo. Così si è partiti, nel giudicare I Malavoglia fraintendendo Verga, o non comprendedolo interamente4, col piede sbagliato. La conseguenza è stata che col  2 Per accennare ad un percorso del realismo verso il neorealismo attraverso il verismo, segnaliamo che Manzoni, ne I promessi sposi, con l’invenzione del manoscritto ritrovato, adotta uno stratagemma diverso da Verga per giungere allo stesso risultato dell’occultamento dell’autore dietro la sua opera. Lo stesso stratagemma torna nell’ultimo romanzo di Carlo Bernari Il giorno degli assassinii (cit.) in cui all’autore perviene per posta un manoscritto anonimo. 3 VERGA GIOVANNI, Prefazione a I Malavoglia, in Id., Opere, a cura di L. Russo, Milano–Napoli, Ricciardi, 1965, p. 179. 4 La critica è sempre stata ambivalente per non dire ambigua sul rapporto tra fotografia e letteratura nell'opera verghiana. Secondo Vincenzo Consolo, ad esempio: «non c’era insomma nessun rapporto tra la scrittura e le fotografie di Verga [...]» , salvo poi aggiungere «senonché, fotografando, l’uomo Verga 82 termine “verismo” si è finito con l’appiattire, spalmare la “forma” della rappre– sentazione, ossia la forma artistica, sul “contenuto” della rappresentazione stessa, svalorizzando o posponendo in secondo piano la prima e amplificando, valorizzandolo a dismisura, il secondo in senso oggettivo. Quanto più vera è la rappresentazione di un contenuto, ecco il malinteso sul verismo, tanto più scarna è la forma che tenderebbe allora a sostituire l’arte formale con la semplice forma del documento o del documentario. Così il “superamento del naturalismo”, per usare un concetto di Hermann Bahr5, in senso letteralmente “veristico” avverrebbe, ma vedremo che le cose non stanno proprio così, non sul piano della forma, ma su quello della rappresentazione critica di una realtà non più astrattamente “naturalistica” ma umana, storica, sociale. In questo modo al “verismo” viene principalmente attribuita una funzione di disvelamento e palesamento della realtà sociale nei suoi contrasti, sofferenze, condizioni e lotte di classe, eccetera. Insomma, stiamo parlando di “contenuti” che si paleserebbero in tutta la loro verità (e denuncia) non tramite una forma artistica, bensì come abolizione dell’arte come forma. Il tutto in nome della ricerca della verità che Bahr, contemporaneo di Verga, spiega come una pericolosa reazione alle esagerazioni del tardoromanticismo.

[...] Le cose, non appena si toccano con la pretesa della verità, ecco! improvvisamente si trasformano tutte in menzogna e chi cerca la realtà trova soltanto apparenze dappertutto. Allora non si potè evitare che venisse proclamata questa parola d’ordine: essa fu imposta inesorabilmente dall’evolversi dei fatti e quando avvenne quell’improvviso allontanamento dal generale gusto romantico, non ci fu nessun’alternativa. Verità – questa sembrò una soluzione così semplice, chiara e affidabile, a tutti comprensibile [...] E di certo nessuno si sarebbe mai sognato che essa si trasformasse nelle mani

 fatalmente riportava nelle immagini quello che era l’“occhio,” il sentimento, il modo di essere e di sentire dello scrittore. Riportava quell’occhio “fotografico,” quell’obiettivo ‘impersonale’ che guarda come dall’alto i personaggi dei Malavoglia ...» e quindi concludendo «secondo noi, semplicemente le foto di Verga, dell’uomo Verga ritornato, prima idealmente e sentimentalmente, poi anche fisicamente, dopo anni di lontananza, alla sua Catania... e qui deponendo la penna, si mette a fotografare, per passatempo.» CONSOLO VINCENZO, prefazione a Verga fotografo, a cura di G.G. Garra, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 1990, p. 6. L'analisi sbrigativa di Consolo è la cartina di tornasole dell'impostazione critica seguita anche da Leonardo Sciascia, Alberto Asor Rosa, Gino Tellini, le posizioni dei quali sono riassunte in un saggio di Giuliana Minghelli, che si conclude con una frase assolutamente incomprensibile e che denota serie difficoltà interpretative: «lungi dall’essere memento innocui, le foto per Verga sono oggetti inquietanti.». MINGHELLI GIULIANA, L’occhio di Verga. La pratica fotografica nel Verismo italiano, online http://ebookbrowsee.net/003-minghelli-verga-x-doc-d132393274 5 BAHR HERMANN, Il superamento del naturalismo, scritti 1888–1904, a cura di Giovanni Tateo, Milano, SE, 1994. 83 di chi aveva tentato soltanto di afferrarla, e che costui venisse poi accusato da tutti gli altri di aver perpetrato un’odiosa truffa.6

Se i concetti che circolano in Europa alla fine dell’Ottocento sono quelli, gli scritti di Bahr qui citati risalgono al 1888–1904, del “superamento del naturalismo”, “la crisi del naturalismo” e ancora “c’è naturalismo e naturalismo”, “la nuova psicologia”, “verità! verità” va da sé che l’idea di un’arte “impersonale” proposta da Verga – ne parleremo presto – nel supporre la tesi di un occultamento dell’autore dietro l’opera, non intendeva certo affermare l’arte informale, né tantomeno l’annullamento dell’artista creatore di forme in un “fotografo” di contenuti oggettivi. Vedremo che Verga è ben al corrente di questa dialettica e disbriga intelligentemente la pratica del “naturalismo” in alcune battute, rifiutando, per quel che lo riguarda, l’arruolamento tra i post–naturalisti e gli eredi del, pur da lui ammirato e studiato, Zola. Prima di continuare dobbiamo riflettere sul fatto che le teorie di Bahr, il quale pubblica nel 1902 un saggio dal titolo filosofico Critica della critica contenuto nella raccolta appena citata, apre le porte ad una forma di dialettica metaletteraria che si richiama ad un antico problema epistemologico. Scrive infatti Bahr:

A questo punto ebbe inizio la grande ricerca della verità, e giravano per strada tante verità quanti erano i giovani autori: il meno che si potesse pretendere dal principiante se fosse voluto diventare famoso, era che si facesse rilasciare il brevetto per una verità completamente nuova.7

Bahr descrive qui una situazione artistica che presenta non poche analogie con quella del secondo dopoguerra e, a ben guardare, anche un po’ con quella attuale, dove il termine “neorealismo” sembra tornato in auge, ma in una accezione – ancora una volta – realistica e contenutistica. Senonchè, come concludeva – e sembra di leggere Zavattini o Alvaro8 – Bahr nel 1902:

Ma la verità, per quanto seducente possa sembrare la soluzione, è una faccenda delicata e pericolosa. Che cos’è la verità? Dov’è la verità?  6 Iibid. BAHR, Verità! Verità!, in Il superamento del naturalismo, cit., p. 69. 7 Ibid. BAHR, Verità! Verità!, in Il superamento del naturalismo, cit., p. 71. 8 «[...] non credano gli scrittori d’essere artisti perché hanno qualcosa da dire; tutto sta nel modo di dire...» ALVARO CORRADO, La politica teatrale, sta in I maestri del diluvio, a cura di D. Manera e M. Sinibaldi, Massa, Memoranda Edizioni, 1985, p. 45. 84 Come si può definire la verità? Come un fuoco fatuo sembra sempre di averla di fronte, ma si spegne ogni qual volta le si rivolge lo sguardo. Dapprima la combattiva compagnia partì con gagliardia alla sua conquista. REALTA’, REALTA’ gridavano incessantemente a se stessi, e in questa esclamazione c’era qualcosa che spronava, che rassicurava [...] con la penna, con lo scalpello, con il pennello, ognuno avrebbe dovuto raccontare il mondo là fuori, tutto quello che esisteva – era così semplice ed era irresistibile. Un po’ di filosofia li avrebbe dovuti confondere.9

Questo è il punto: un po’ di filosofia! Non è infatti comprensibile come si possa affrontare criticamente, e mi rivolgo una volta di più alla critica letteraria, autori come Verga, Bernari, Zavattini – che furono teorici e artisti dai molteplici interessi e attitudini – senza una preparazione scientifica nel settore delle nuove arti visive, ma anche e forse soprattutto negli studi filosofici. Infatti, seppure la millenaria questione filosofica della realtà fenomenica meriterebbe una più ampia trattazione a partire da Platone per finire a Ponzio Pilato10, impossibile in questa sede, bisogna ricordare che uno dei punti cruciali del Manifesto Uda (1929) di Bernari, Pierce e Ricci sta proprio nel rapporto tra il soggetto e l’oggetto dell’arte sulla base del concetto feuerbachiano della sensibilità. Del resto, la riproposizione in campo letterario di una questione filosofica che risale alla notte dei tempi e al mito platonico della caverna riguardo alla “verità oggettiva” e alla fenomenologia non è un anacronismo o una semplificazione intellettualistica. Infatti, l’invenzione della tecnica fotografica mette per la prima volta gli artisti di fronte al problema della rappresentazione della realtà; alle possibilità di utilizzare la nuova tecnica che permette di fissare in un’immagine il mondo; e di partire da questa stessa immagine in un percorso di finzione drammatica. In questo modo fotografia e racconto verrebbero a trovarsi, nell’ambito del verismo in un rapporto sinergico e dinamico, nonchè dialettico. È bene allora ricordare il punto 3 del Manifesto Uda: «L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia.»

 9 Ibid. ALVARO, La politica teatrale, sta in I maestri del diluvio, cit., p. 72. 10 Che cosa è la verità? è la domanda platonica rivolta da Ponzio Pilato a Gesù. Cfr. Giovanni 18, 37. 85

Si è visto precedentemente come il neorealismo di Bernari germogli dalle radici nel movimento udaista del 1928–1929. Il che significa che, fin dalle prime mosse teoriche degli scrittori che stanno per far nascere il nuovo genere letterario, non

86 s’intende rappresentare la realtà oggettiva (in questo caso lo stesso verismo e il neorealismo poco si differenzierebbero dal naturalismo, come sostiene anche Verga11), ma anteporre all’oggetto (o contenuto) dell’opera d’arte la simpatia o sensibilità del soggetto–autore della rappresentazione, che è quindi sempre soggettiva. Tra i tanti indizi a favore di questa tesi c’è, ad esempio, da ricordare che, parallelamente alla stesura di Tre operai, cioè a partire dal 1929 fino al 1934, Carlo Bernari raccoglie un pamphlet di pensieri intitolati 32 pensieri sulla paura12. Dal manoscritto emerge il fondamento filosofico del rapporto soggettivo dell’artista nei confronti della realtà che vede il concetto di paura come motore dell’arte, un concetto che Bernari teorizza – occorre precisarlo – quando Kafka è ancora sconosciuto in Italia. Nel dopoguerra Bernari propose a Gastone Manacorda, allora direttore di «Società» (rivista legata al Partito Comunista), la pubblicazione col titolo L’arte è paura? dei 32 pensieri sulla paura. Però Manacorda, che si aspettava invece da Bernari un saggio realistico sulla condizione operaia, trovandosi sulla scrivania uno scritto antirealistico, in contrasto con la visione del realismo socialista, rifiutó la proposta e respinse al mittente il manoscritto iconoclasta e totalmente estraneo alla linea politico–culturale del PCI.13 Questi episodi dovrebbero essere ben noti a storici e critici, dato che gli archivi sono aperti e a disposizione di tutti da anni e che perfino il «Corriere della Sera» se ne è occupato con diversi scoop. Ciò nonostante, l’opinione superficiale che insiste sul verismo come forma di rappresentazione “oggettiva” e sul neorealismo come una rappresentazione immediata della realtà, si è trasformata in un luogo comune, una specie di notte hegeliana dove tutte le vacche sono grigie. Questo avviene perché, come ci ricorda Bahr, quella della realtà è la strada più comoda per tutti. Ma c’è, ammonisce il filosofo tedesco, realtà e realtà. Infatti, se si prendesse per buona l’interpretazione del verismo come rappresentazione oggettiva del vero, la letteratura italiana di fine Ottocento con Capuana, De Roberto e naturalmente Verga, non avrebbe fatto un solo passo in avanti rispetto alla definizione di Cervantes dell’impegno del poeta e del suo debito artistico nei confronti della realtà sociale:

 11 Le citazioni riguardanti la posizione di Verga sul naturalismo sono presenti nelle pagine successive di questo capitolo 12 BERNARD E., Bernari tra natura e paura, introduzione a: Carlo Bernari, 32 pensieri sulla paura, in «Forum Italicum», cit., pag. 403–15. 13 cfr. FERTILIO DARIO, Carlo Bernari, l’esiliato in casa, in «Corriere della Sera» del 26 novembre 2011, p. 57. 87 Dico ora dunque che gli esercizii corporali del letterato sono questi: principalmente la povertà, non già perché tutti sono poveri, ma per supporre il peggio di siffatta condizione. [...] Battendo costoro (i letterati, ndr.) la strada difficoltosa che ho dipinta [...] pervengono pur finalmente a conseguire l’oggetto proposto [...]14

Cervantes affida peró questa modernissima considerazione, che anticipa quello che potremmo definire l’“impegno in letteratura”, non ad un saggio erudito di teoria letteraria, bensì alle parole di un pazzo come Don Chisciotte. Parole del resto scatenate da un discorso sulla verità in letteratura tra Cardenio, Dorotea, il Curato, il Barbiere e l’Oste – credulone, anche se meno svitato del Cavaliere dalla Triste Fugura, – che prende anch’egli per vero quello che legge nei libri. Al che Cardenio avverte: «Egli (cioè l’oste, ndr.) tiene per indubitato che quanto raccontano quei suoi libri, sia stato né

più né meno come vi è scritto.» 15 E alle parole di Cardenio fa eco il Curato: «[...] non possa darsi uomo di sì

crassa ignoranza che tenga per veritiera alcune delle istorie che vi si leggono.»16 Dunque solo un matto può pensare che l’arte esprima sempre la verità, poiché l’arte – e la letteratura in particolare, sembra voler suggerire Cervantes –, sono la trasformazione di un contenuto, non la sua rappresentazione. Sempre che il letterato, lo scrittore, questo il concetto espresso da Don Chisciotte, non si dìa a voli pindarici astratti senza tener conto della realtà. Ma questa è anche la “chiave di volta” del neorealismo e dell’opera di Carlo Bernari e Cesare Zavattini, opera che non è appunto mai “oggettiva”, cioè documentaristica, descrittiva o più semplicemente cronachistica, ma il risultato una creazione fantastica. Come si vede il concetto di “verità” in letteratura dà ancora adito ad una discussione accesa e di certo non può essere ridotta, la verità, ad una forma scolastica e schematica di “verismo” oggettivo. Del resto, lo stesso titolo del film di Zavattini, La veritààààà, pone l’accento su un tema enorme della nostra letteratura: quello della “rappresentazione del vero” e del “vero come rappresentazione”. Un tema che è addirittura alle radici, alle origini della letteratura italiana, a partire da Dante che affronta l’argomento della verità nei versi 106–142 del XVII canto del Paradiso della

 14 CERVANTES MIGUEL DE, Don Chisciotte della Mancia, versione di Bartolomeo Gamba, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d., vol I. p. 359–60. 15 Ibid. CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, cit., vol I, p. 293. 16 Ibid. CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, cit., vol I, p. 294 88 Divina Commedia, dove fa dire a Cacciaguida in risposta ai dubbi ed angosce del Poeta circa la sua missione di verità:

[...] indi rispuose: «Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Chè se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.

Su questi versi che affrontano la missione di “verità” del Poeta si sono spesi fiumi d’inchiostro. È piuttosto utile insistere sul fatto che la questione non viene posta da Dante nell’ambito di un’analisi teorica, bensì compare in un’opera di fantasia e, per di più, arriva da un personaggio, in questo caso Dante stesso, che ha smarrito la retta vita e si è ritrovato in una selva oscura. Ecco allora che scatta la preoccupazione del Poeta di risultare indigesto raccontando la verità («ho io appreso quel che s’io ridico, / a molti fia sapor di forte agrume»); oppure di passare per pazzo e di essere allontanato dalla comunità. Dante così lega il tema della verità a quello della follia, proprio come farà secoli dopo Cervantes che affida al suo personaggio di fantasia la missione di verità del letterato: quella di raccontare la realtà degli umili. Verità e follia sono allora i principali elementi dialettici della letteratura – italiana in particolare. Per esempio Ariosto fa capire come l’invenzione, cioè la mediazione letteraria e fantastica, crei una seconda realtà che, parafrasando i versi ariosteschi, tende più al falso che al vero:

Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo: io ‘l vidi, i’ ‘l so: né m’assicuro ancora di dirlo altrui; che questa maraviglia al falso più ch’al ver si rassimiglia. 17

L’Orlando furioso, al pari del successivo Don Chisciotte, al di là di più ampi significati, accende un faro metaletterario sul tema della verità: solo un pazzo può esprimerla. Così l’ Enrico IV e il Ciampa de Il berretto a sonagli di Pirandello fanno  17 ARIOSTO LUDOVICO, Orlando furioso, Canto secondo – 54, Garzanti, Milano, 1982, p. 48. 89 ricorso alla pazzia come mezzo artistico del vero, che resta altrimenti indicibile, inconfessabile. Una situazione che non cambia negli anni Sessanta: L’onorevole di Sciascia (in questo caso, la fuga nella follia di Beatrice, rea di confessare la mafiosità del marito politico) e Ditegli sempre di sí di Eduardo de Filippo, un titolo che parla da sé, sono gli esempi più a portata di mano. Ecco dunque che la verità oggettiva del poeta si trasforma, nell’opera d’arte, in una forma “soggettiva” del vero: proprio quello che sembra dire il personaggio zavattiniano di Antonio, a sua volta scappato dal manicomio, ne La veritaaaà di Zavattini. Forse non si è tenuto sufficientemente conto che la problematica della rappresentazione della verità non è sbocciata solo in ambiti teorici, ma anche in capolavori di fantasia; ed è suggerita da personaggi “border line” (Orlando, Don Chisciotte, Enrico IV, Ciampa ecc.), in preda alla follia e ai margini della società. Con un eccesso di superficialità si è così impresso il marchio della realtà sulla verità letteraria, come se la rappresentazione della realtà fosse o potesse essere certificata come una sorta di “vera realtà” solo perché, appunto, rappresentata. E qui il Curato di Cervantes fa bene a rimbrottare il Barbiere che prende per vera la realtà letteraria! La questione che può, a prima vista, sembrare abbastanza banale e facilmente risolvibile, ha invece – per diversi motivi, non ultimi tra i quali le ideologie dominanti che, nel Novecento, si sono riconosciute e hanno imposto una concezione propagandistica del realismo, cioè il fascismo e il comunismo sovietico – si è invece avvitata su se stessa generando confusioni e ripercussioni nel corso degli anni. La visione realistica (leggi: contenutistica) del verismo (inteso come rappresentazione di una verità oggettiva) ha del resto procurato diversi affanni e necessità di interventi e spiegazioni allo stesso Verga. Lo scrittore siciliano nella lettera a Salvatore Farina, che precede la novella L’amante di Gramigna compresa nella raccolta Vita dei campi, lettera premessa come Manifesto Verista, osserva spiegando il concetto di “illusione completa della realtà”:

[…] Il semplice fatto umano farà pensare sempre: avrà sempre l’efficacia dell’esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, si maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittorii, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di

90 seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narrow oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello di arrivo, e per te basterà, – e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di codesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile dell’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i “fatti diversi”? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà completa, che il suo processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ad esser spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del suo peccato di orgine. 18

Ma il “peccato di origine” cui si riferisce Verga è proprio quello di una seconda realtà data dalla forma artistica come nuova creazione del mondo, seconda realtà che avrà la parvenza del vero, ma non potrà mai essere veramente vera in quanto creazione di un demiurgo–drammaturgo che pure celandosi dietro l’opera, la

 18 VERGA GIOVANNI, L’amante di Gramigna, in Id., Tutte le novelle, vol. I, Milano, Mondadori («Gli Oscar» ), 1968, p. 200. Verga torna spesso sull’argomento. Si veda, ad esempio, la lettera a Felice Cameroni datata «Milano, 19 marzo 1881» nella quale lo scrittore siciliano mette in discussione le teorie naturaliste adducendo le seguenti argomentazioni: «No, io non limito i modi di sviluppo delle teorie naturaliste, per servirmi del vostro frasario, cercando di mettere in prima linea, e solo in evidenza l’uomo, dissimulando ed eclissando per quanto si può lo scrittore, dando all’ambiente solo quel tanto di importanza secondaria che può influire sullo stato psicologico del personaggio, rinunziando a tutti quei mezzi che sembrami più artificiosi che emanazione vera e diretta del soggetto, la descrizione, lo studio, il profilo. Tutto questo deve risultare dalla manifestazione della vita del personaggio stesso, dalle sue parole, dai suoi atti: il lettore deve vedere il personaggio, per servirmi del gergo, l’uomo secondo me, qual’è (l’apostrofo è originario della scrittura di Verga, ndr.), dov’è, come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso. Io non ci sono riuscito, ma non vuol dire che il principio sia falso, altri riescirà; e il profilo, la descrizione, la presentazione, altro che sommaria e presentata di sbieco, parrà falsa e insopportabile come sembrano oggi le tirate e i soliloqui sulla scena.» VERGA GIOVANNI, lettera a a Felice Cameroni datata «Milano, 19 marzo 1881», apparsa in Lettere inedite di Giovanni Verga raccolte e annotate, a cura di Maria Borgese, in «Occidente», IV, vol. X–XI, 1° gennaio–30 aprile 1935, pp. 7–22. Le sottolineature sono nel testo originale. 91 crea. Lo stesso Luigi Capuana in uno studio su La Lupa di Verga fornisce una definizione che potremmo paradossalmente definire antiveristica del verismo:

Più spesso si vedeva andare di qua e di là per la campagna “sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospetto della lupa” tale quale il Verga l’ha superbamente dipinta. Ora il pagliaio è distrutto, e quell’angolo di collina deserto. Io provavo un gran senso di tristezza nel guardare quella rovina. Ma non era il ricordo della vera Lupa che mi faceva evocare con tanta emozione la sua pallida figura dagli occhi neri come il carbone, dalle labbra fresche e rosee che vi mangiavano, no; era la Lupa dell’arte, la Lupa creata del Verga che sopraffaceva quella della realtà e me la metteva sotto gli occhi più viva della viva quand’era viva. Tanto è vero che l’arte non sarà mai la fotografia!19

Capuana conclude, anticipando un concetto su cui insisterà Pirandello (e altri dopo di lui, da Bernari a Calvino) secondo cui la forma, la drammaturgia dell’opera, non il bello stile è ovvio, prevale sul contenuto:

La forma si è anche qui, perfettamente compenetrata col soggetto [...] E quando dico forma, non intendo soltanto la frase, lo stile, ma qualche cosa di più elevato: la concezione, tutto l’organismo dell’opera d’arte, che funziona colla pienezza della vita, libero e indipendente dalla personalità che lo creò. È di questa forma che s’intende quando s’ha la fortuna di parlare d’un artista come il Verga.20

Tutto chiaro, dunque, per la cristallinità della visione di uno dei padri del verismo italiano che parla di “forma come organismo dell’opera d’arte”? Sembrerebbe di no, visto che la concezione desanctisiana dell’arte\vita e dell’artista\uomo sociale, intuita da Gramsci nella sua straordinaria importanza, una volta ridotta ad una formula schematica, finì per svuotare la forma a favore del contenuto; ridurre il realismo a documento (spesso e volentieri finalizzato alla propaganda ideologica fascista e comunista); impoverire la funzione dell’artista alla sua utilità sociale e, alla fine del processo, asservire l’arte agli interessi ideologici, sminuendo o annullando del tutto la fantasia creatrice dell’autore. Prova ne sia il travisamento del pensiero di Gramsci operato da Togliatti che non esitò a subordinare la concezione, ben più ampia e complessa dell’intellettuale “organico” alle esigenze del partito. Ecco perché,  19 CAPUANA LUIGI, Giovanni Verga, in Studi sulla letteratura contemporanea, a cura di P. Azzolini, Napoli, Liguori editore, 1988, pp. 75–6. 20 Ibid., CAPUANA, Giovanni Verga, in Studi sulla letteratura contemporanea, cit., p. 77. 92 nonostante i richiami all’aspetto formale del verismo e del neorealismo, è prevalsa l’interpretazione “realistica” che Bahr definisce “più facile” e – aggiungiamo – anche più comoda, visto che carriere accademiche e collaborazioni editoriali passavano in buona parte attraverso la segreteria politica del Partito Comunista italiano. Per questo non c’è da stupirsi se ancora nel 1988, anno di ripubblicazione, dopo la prima edizione del 1882, della raccolta degli scritti di Capuana, si continua a parlare di un “caso Verga”21 nella letteratura italiana, come recita la quarta di copertina del libro: «Dell’opera di Giovanni Verga [...] Capuana fu l’insostituibile profeta, con ragioni che illuminano ancora tutte le nostre discussioni sul “caso Verga”.» Le discussioni in realtà nascono da alcune confusioni e molte amnesie che preciseremo in breve. Fatto sta che, partendo dal presupposto contenutistico, anche Verga e il verismo – e quindi non solo il neorealismo di Bernari e Zavattini – sfuggono da tutte le parti e resistono ad una così semplice (Bahr) sistemazione. In effetti il cosiddetto “caso Verga”, come lo definisce Paola Azzolini nella nota redazionale, è ancora oggi più ampio e contrastato di quanto si possa immaginare e, come si è detto, implica una reinterpretazione storico–critica del verismo e del neorealismo in funzione delle arti visive. Lo sostiene – aggiungendo però un errore abbastanza grave – la stessa Azzolini nell’introduzione agli scritti di Capuana:

Come la scienza registra i risultati di un esperimento nelle condizioni di massimo equilibrio, perché dalla serie di sperimentazioni nasca la possibilità di formulare la legge del fenomeno, così l’arte osserva il fatto umano e lo descrive, come un occhio che vede e non giudica e non sente. L’impersonalità postula un autore che è come l’occhio meccanico di una macchina fotografica (il Capuana, non meno di Verga, era un accanito fotografo dilettante) [...] L’autore si trova nella stessa condizione del pubblico immerso nell’oscurità della platea; osservatore, ma non partecipe, del “gioco delle parti” che si svolge davanti ai suoi occhi.22

Al di là del fatto che Pirandello è chiamato in causa impropriamente e avventatamente dal virgolettato («osservatore ma non partecipe del “gioco delle  21 Il caso Verga è il titolo del volume apparso, a cura di Alberto Asor Rosa, nel 1972 per i tipi dell’Editore Palumbo di Palermo. Esso raccoglie saggi – per la maggior parte pubblicati dalla rivista «Problemi» tra il 1968 e il 1969 di A. Asor Rosa, V. Masiello, G. Petronio, R. Luperini e B. Biral. Una delle ragioni per cui gli scritti sono stati riuniti in volume è che la discussione: «non impegna genericamente critici di diverso orientamento ideale e metodologico ma critici che esprimono orientamenti ed interessi diversi all’interno dello stesso campo teorico, cioè il marxismo [...]». ASOR ROSA ALBERTO (a cura di), Il caso Verga, Palermo, Palumbo, 1972, p. 5–6. 22 AA.VV., Luigi Capuana, introduzione di P. Azzolini, cit., p. XXXII. 93 parti”»), proprio lui che prevede la partecipazione, addirittura a scena aperta, dell’autore come vuole la tradizione del teatro–nel–teatro!23 – sembra che tra le fonti e le asserzioni della studiosa ci sia un abisso incolmabile, al limite dell’incomunicabilità. Infatti, Capuana sostiene testualmente che «l’arte non sarà mai fotografia!» (suo il punto esclamativo a ribadire), e Paola Azzolini fraintende parlando di «un autore che è come l’occhio meccanico di una macchina fotografica», prescindendo così del tutto dal vasto ed acceso dibattito svoltosi negli anni Cinquanta e Sessanta su riviste e quotidiani. Un dibattito cui, come vedremo nel capitolo dedicato al cinema, Bernari e Zavattini presero combattivamente parte parlando dell’impossibilità di un’arte cinematografica come riproduzione fotografica e\o imparziale della realtà. Definire poi Verga fotografo dilettante, adoperando cioè una formula purtroppo non isolata nel campo della critica letteraria – dimostratasi finora anche attraverso i suoi rappresentanti più insigni, del tutto inadeguata ad affrontare l’argomento con cognizione di causa e quindi con la necessaria competenza – significa andare incontro a gravi fraintendimenti. Minimizzando o disconoscendo24 pertanto  23 L’Autore è protagonista di diversi drammi di Pirandello, primo fra tutti Questa sera si recita a soggetto e naturalmente nei Sei personaggi in cerca d’autore che rappresentano la dialettica, l’incontro–scontro, tra la falsa verità dei personaggi reali e la vera falsità dei Signori Interpreti . 24 La ricerca bibliografica su Verga e la fotografia dà risultati alquanto desolanti. I pochi interventi su quello che dovrebbe essere un argomento centrale della letteratura italiana contemporanea sono racchiusi nello spazio di poche pagine o di un elzeviro. A parte qualche breve spunto originale di Sanguineti e di Sciascia si resta nell’ambito dell’interpretazione tradizionale del verismo come riproduzione mimetica o appunto fotografica della realtà a fini di studio per l’elaborazione narrativa. Nessuno parla di ”scatto”, non solo in senso meccanico, ma anche in senso fisico, dinamico, fisico, di movimento: ossia di messa in moto della realtà attraverso un processo di riscrittura finalizzato a quella ”drammaturgia delle immagini” cui fa cenno Verga. Cfr. SANGUINETI EDOARDO, Ma com’è fotogenica la realtà... anche troppo, in «Infinito», n. 3, Torino, 1985; cit. in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 302–5. SANGUINETI EDOARDO, Prefazione a G. Verga, I Malavoglia, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 7–16, ora in SANGUINETI EDOARDO, Il mito verghiano, in ID., Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 157–65. SCIASCIA LEONARDO, Verismo e fotografia, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp.187–91. Nemiz Andrea, prefazione di L. Sciascia, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, nota introduttiva di A. Di Paola, Palermo, edikronos, 1982, pp. 7–9. LOMBARDO MOSCHELLA OLGA, Fotografando il «reale»: «Mastro–don Gesualdo» tra letteratura e fotografia, in «Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», n. 7, 1989, pp. 283– 91. FAVA GUZZETTA LIA, Itinerario della gestualità verghiana: tecnica dei piani, valore iconico, in ID., Quaderno verghiano: appunti di analisi narratologica, Messina, Prometeo, 1984. DI SILVESTRO ANTONIO, Verga e Capuana: tra scrittura come fotografia e poetica della memoria. Appunti per uno studio, in «Annali della Fondazione Verga», XVI, 1999, pp. 7–24. DOLFI ANNA (a cura di), Letteratura e fotografia, 2 vol., Roma, Bulzoni, 2005. In particolare possiamo segnalare tre interventi nel primo volume: Irene Gambacorti, Ritratti verghiani; Michela Toppano, La configurazione dello spazio nella narrativa e nella fotografia di Federico De Roberto; Remo Ceserani, Il tema della fotografia nell’opera narrativa di Pirandello. CRISPOLTI FRANCESCO CARLO (un programma TV1 di), Letteratura e fotografia. Capuana, Verga, De 94 l’importanza del Verga fotografo, si perde, come nel caso indicato, anche l’occasione di leggere il Verga fotografo, tutt’altro che dilettante visti i risultati, in relazione alla sua opera letteraria. La verità è che la confusione25 nasce dal concetto di impersonalità dell’opera cui si riferiscono Capuana e Verga, i quali (come i loro posteri neorealisti) non intendono assolutamente trasformare l’autore in un occhio meccanico o fotografico della realtà, bensì fornire alla finzione dell’opera d’arte la forma dell’apparente realtà. Quindi, per fare un esempio astruso ma efficace (e che piacerebbe tanto a Zavattini), l’autore non deve essere paragonato ad una macchina da presa, ma semmai ad un proiettore di finte realtà o verità. Bahr, anticipando di oltre mezzo secolo le teorie di Roland Barthes26, parla di:

Sensazioni, nient’altro che sensazioni, immagini momentanee sconnesse di rapidi avvenimenti sui nervi – questo caratterizza l’ultima fase nella quale la verità ha fatto entrare la letteratura.27

Sembrerebbe dunque teorizzato un processo secondo il quale la realtà si fissa per immagini, fotogrammi, nel cervello dello scrittore che poi riproduce e proietta fuori di sé un’altra realtà, un’altra verità, attraverso la forma della finzione letteraria, della fantasia. Così il percorso dalla letteratura verista e dal neorealismo alla letteratura fantastica dello stesso Zavattini e anche di Italo Calvino28, ma questo aprirebbe un  Roberto, Strindberg, Zola, Carrol, introduzione di G. Cattaneo, Roma, Appunti dell’ufficio stampa Rai, 1977. SICILIANO ENZO, Verga fotografa i suoi personaggi, in «La Stampa», 2 aprile 1971. MUTTI ROBERTO (a cura di), Giovanni Verga scrittore fotografo, introduzione di G. Bezzola, Novara, De Agostini, 2004. 25 Il presunto metodo “oggettivo” verista viene addirittura attribuito con qualche forzatura allo stesso Pirandello da Giovanni Croce che, nella prefazione dell’Oscar Mondadori de I vecchi e i giovani afferma: «la narrativa si ispirava allora ai canoni del verismo. Teorico della scuola era il siciliano Luigi Capuana […] Il metodo verista, da lui sostenuto e applicato, si atteneva alle regole della rappreentazione obiettiva, alla descrizione attenta del particolare.» CROCI GIOVANNI, Introduzione a I vecchi e i giovani, Milano, Mondadori Oscar, 1979, p XIX. Lo scritto di Croci prosegue col paragone critico con Zola, un paragone che però lo stesso Verga allontana, come stiamo vedendo, in maniera piuttosto decisa. 26 «Chiamo “referente fotografico”, non già la cosa “facoltativamente” reale a cui rimane un’immagine o segno, bensì la cosa “necessariamente” reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna [...] ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende tra l’infinito e il soggetto (operator o spectator).» BARTHES ROLAND, La camera chiara, Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 77–8. 27 Ivi. 28 I primi scritti di Italo Calvino si inquadrano nell’ambito della ricerca della realtà. Questa parte della produzione dello scrittore è stata poco considerata dalla critica ed esclusa dall’opera completa. Andrea Dini, della Montclair State University, ha indetto, per l’annuale convegno dell’American Association for Italian Studies (AAIS) tenutosi a Filadelfia nel 2012 una sessione dal titolo Italo Calvino 1943–49: 95 altro discorso, potrebbe rivelarsi una giusta via interpretativa. Ne parla appunto Bernari in Non gettate via la scala del rapporto tra realtà e fantasia, un titolo che evoca l’albero di Calvino su cui sale il Barone rampante, ma le cui radici sono ben piantate in terra. Naturalmente, per tornare al nostro discorso, la critica è andata avanti, dal 1988, sul “caso Verga”. Così più di recente Giorgio Patrizi ripropone il tema del rapporto tra “naturalità” e “verità” nell’autore catanese con una prospettiva interessante:

La naturalità e la verità si fondano sul ruolo dell’opera letteraria come espressione di un mondo e di una cultura costituzionalmente, nell’ideologia verghiana, naturale e vera. Come da una causa deriva un effetto, dal dato materiale dell’evento colto dall’esperienza deriva la forma linguistica in cui l’esperienza si organizza e si esprime.29

Ma qui si cade in un altro equivoco abbastanza evidente. La domanda è se l’esperienza, nella concezione verghiana, si organizzi e si esprima sempre e solo in forma linguistica. Oppure non vi sia una fase pre–letteraria, non solo teorica ma soprattutto pratica, di formazione dell’opera (quella della “sensibilità” tra artista e oggetto della rappresentazione di cui parla tanto Verga stesso e che torna nel capo 5 del Manifesto Udaista di Bernari), ad esempio nella forma dell’arte fotografica che rappresenta il reale attraverso l’occhio dell’artista dietro l’obiettivo: attività che piuttosto precede, nel caso di Verga e, come si vedrà, di Bernari, l’operazione linguistico–letteraria. La risposta di Patrizi sembra dettare una soluzione che non risolve il problema, anzi lo acuisce:

Si riformula così la tesi della mimesi verghiana non come rappresentazione verbale di un mondo, ma come rappresentazione dei modi di rappresentare verbalmente il mondo.30

Pur centrando la questione della non “immediatezza” della “rappresentazione del mondo” e della natura, che per Verga assume nell’arte una forma di “seconda  A Critical Reassessment. La sessione invitava all’esame e alla rivalutazione critica della produzione di solito meno studiata – racconti giovanili, racconti esclusi dalle raccolte principali, contributi per i fogli partigiani e per «L’Unità» , etc.– vista in relazione alla composizione de Il sentiero dei nidi di ragno (1946), all’epistolario 1941–49 e alla crisi compositiva degli anni 1947–49. 29 PATRIZI GIORGIO, Prefazione a I Malavoglia, Roma, La Biblioteca di Repubblica, Supplemento al quotidiano «La Repubblica», 2006, p. XVII. 30 Ivi. 96 realtà” – ovvero, come suggerisce Patrizi, di una “rappresentazione dei modi di rappresentare [verbalmente] il mondo” – si ricade nell’equivoco sul verismo. Patrizi infatti aggiunge arbitrariamente31, nel suo ragionamento, l’avverbio “verbalmente”, restringendo di conseguenza l’opera di Verga all’esclusivo campo verbale o, per meglio dire, letterario e saltando pertanto la fase pratica e preparatoria di ricerca dei materiali narrativi. Va segnalata qui la confusione terminologica, indice di una carenza logica del ragionamento: Patrizi, innanzitutto, avrebbe dovuto scrivere “letterariamente” e non “verbalmente” poiché l’opera di Verga è, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, linguistico–letteraria e non genericamente verbale32. Ma anche in questo caso – ammessa e non concessa la superficialità terminologica – non si dà la giusta importanza, nella valutazione dello scrittore siciliano, alla presenza di un’altra componente determinante: quella delle arti visive, in particolare della fotografia e, come analizzeremo successivamente, del teatro e del cinema: quelle forme cioè d’espressione artistica che hanno impegnato e non poco influenzato l’autore de I Malavoglia e, a maggior ragione, tenuto conto dello sviluppo di queste arti proprio nei primi tre decenni del secolo scorso, i neorealisti e in particolare Bernari e Zavattini. Lo studio recente di Remo Ceserani33 sul rapporto tra fotografia e letteratura se da un lato rappresenta, come si legge nella la quarta di copertina, “una vastissima ricognizione comparatistica” del tema, dall’altro non dedica approfondimenti storici specifici al passaggio dal naturalismo al verismo e al neorealismo. Questo passaggio, tuttavia, è determinato proprio dall’uso pratico, e non solo teorico come proposto da Ceserani, della macchina fotografica da parte dello scrittore, e le sole tre citazioni – per Capuana e per Verga, così come la mancanza di un capitolo sul neorealismo e sulla Neue Sachlichkeit (entrambi termini che non vengono mai citati nello studio), non possono certo soddisfare l’esigenza di un approfondimento di questo aspetto. Gli scrittori del periodo che ci interessa, infatti, fanno del giornalismo fotografico, o

 31 Nella Critica della critica della filosofia del diritto di Hegel , Marx definisce “arbitrario” un concetto inserito senza la dimostrazione logica della sua necessità. In particolare Marx critica Hegel quando aggiunge al concetto di “proprietà”, che si deve intendere in senso generale e concernente l’intera umanità, l’attributo “privata”, che viene a restringere il concetto di proprietà con un passaggio non dimostrato dal genere all’individuo, dall’uomo al privato borghese. La critica di Marx alla critica di Hegel è per altro, più in generale, una critica alla critica nell’ambito delle scienze umane. Ogni passaggio concettuale (quindi logico) deve assumere validità scientifica, anche in letteratura. 32 La letteratura può essere orale, ma non certo “verbale”. 33 Cfr. CESERANI REMO, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2011. 97 documentarismo che dir si voglia, una “premessa” o un “supporto” alla loro creazione letteraria e a volte operano in questo campo addirittura per mera necessità economica, come nel caso di Bernari. Certo: questa pratica fotografica comporta uno sviluppo teorico, ma riteniamo che, quanto meno nel nostro caso, possa risultare fuorviante analizzare la teoria senza partire dall’esperienza concreta e umana da cui essa scaturisce. Bisogna dunque ribadire che l’approccio della critica alla narrativa italiana è stato pressoché unilateralmente letterario; mentre scrittori come Verga, Pirandello, e poi Alvaro, Moravia, Bernari e Zavattini sono stati – come si sa – veri e propri geni poliedrici alla stregua degli artisti rinascimentali più eminenti, soprattutto per l’interesse manifestato nei confronti delle arti visive (le quali, non dimintichiamo, necessitano anche di una discreta conoscenza e pratica tecnica). Del resto, solo nel caso di Pirandello la critica è riuscita ad analizzarne l’opera nella sua completezza, opera che dal teatro al cinema e alla letteratura (ma anche alla pittura, visto che la famiglia era una vera e propria fucina rinascimentale con i figli Fausto, pittore, e Stefano, drammaturgo e sceneggiatore) spazia in tutti i campi delle arti. 34 Tornando al tema della “rappresentazione dei modi di rappresentare il mondo”, non solo quindi “verbalmente”, come nota Patrizi a proposito di Verga, è invalso fin dall’origine un doppio malinteso che si è ripercosso sull’interpretazione del verismo prima, e, successivamente, del neoralismo. Il che ha comportato, come dicevamo, una minore attenzione per la forma artistica con conseguente sopravvalutazione del contenuto: l’etica dello scrittore, che non basta da sola a fare arte, ha preso così il sopravvento nella dialettica tra forma e contenuto. Va da sé che la critica abbia superato la visione schematica e un po’ ingenua di un verismo “oggettivo”, di una rappresentazione della realtà non filtrata dalla “forma” artistica. Ma questo superamento e aggiornamento della critica sono semmai avvenuti, come accennato,

 34 Tuttavia, anche in questo caso, la critica ha agito, per i limiti culturali e di formazione settoriale che dicevamo – tranne alcune eccezioni, per altro marginalizzate nel campo critico e accademico, come ad esempio il poliedrico studioso Ruggero Jacobbi – in maniera unilaterale. Lo storico del teatro si è occupato del Pirandello drammaturgo, il critico letterario si è preso cura del narratore, mentre lo studioso di cinema – pur valorizzando le intuizioni cinematografiche di Pirandello nel romanzo Si gira! – ha trascurato il Pirandello cineasta. Lo dimostra il fatto che alcuni soggetti e sceneggiature di Pirandello siano ancora inediti. La sceneggiatura di Acciaio, scritta da Pirandello su incarico di Mussolini, per fare un esempio eclatante, è stata pubblicata dalla Eri Edizioni Rai solo nel 1991. Si può parlare quindi di una visione abbastanza superficiale e approssimativa delle influenze e delle sinergie nella produzione artistica di Pirandello. 98 solo nell’ambito linguistico–letterario, stilistico e narrativo, senza tener conto che la letteratura già dalla fine del XIX secolo si confronta, si mescola e si arricchisce con le nuove tecnologie e le nuove forme della narrazione visiva e del documento fotografico. Il malinteso sul verismo35 e sul neorealismo si consolida proprio nel mezzo del ventennio fascista, la cui critica militante all’uscita di Tre operai di Bernari nel 1934 elogiò il romanzo come espressione del realismo fascista. Ci pensò Mussolini a redarguire i suoi censori, responsabili di non essersi accorti che il romanzo di Bernari era «comunista e disfattista». È noto del resto l’episodio della “velina”36 del Duce agli organi di informazione per bloccare le recensioni, tra cui quella di Pannunzio sul «Corriere della Sera». Il destino di Tre operai che rimase impigliato nelle maglie della censura fascista37 dopo aver ricevuto un primo “placet” dal regime per la struttura neoveristica, testimonia comunque che il malinteso circa la natura del realismo nasce già nella prima metà del Novecento. Scrive Giovanni Lanza:

Nel 1933 la rivista «L’universale» (1931–1936) pubblicò il Manifesto realista che chiamava la cultura italiana a dare il proprio contributo alla rivoluzione fascista, un contributo critico, cioè fatto anche di dissenso antiborghese, anticapitalistico, antiidealistico e dunque realistico, fuori della logica del Concordato con la chiesa. Anche gli intellettuali che lavorano alla terza pagina de «Il Bargello», settimanale della federazione fascista di Firenze, vogliono spazi di autonomia all’interno del fascismo, in nome della cultura popolare e del rilancio degli aspetti sociali del ‘primo’ fascismo. Gli intellettuali che si raccolgono intorno a «L’Universale» e a «Il Bargello» sono dunque fascisti, ma criticano la fisionomia che va  35 C’è infatti un consolidamento negli anni Venti e Trenta del malinteso sul verismo come espressione di una realtà oggettiva. L’equivoco sul “naturalismo” inteso contenutisticamente e non, piuttosto come dovrebbe essere, “formalmente”, cioè come una forma dell’arte che ricrea una realtà, è il cruccio dello stesso Verga che ne parla abbondantemente nell’intervista concessa a Ugo Ojetti nell’agosto del 1894: «Ma non si vede – afferma Verga – che il naturalismo è un metodo, che non è un pensiero, ma un modo di esprimere il pensiero? Per me un pensiero può essere scritto, in tanto in quanto descritto, cioè in tanto in quanto giunge a un atto, a una parola esterna: esso deve essere esternato. [...] I due metodi [naturalismo e psicologismo] sono in fondo ottimi tutti e due, non si escludono; possono anzi fondersi e dovrebbero nel romanzo perfetto essere fusi. Inoltre osservi che noialtri detti, non so perché, naturalisti (sottolineatura dell’originale, ndr.) facciamo della psicologia con la stessa cura e la stessa profondità degli psicologi più acuti. [...] Il naturalismo è un metodo [...] il naturalismo è forma [...]». L’intervista, comparsa sul «Corriere della Sera» dell’8 agosto 1884, è pubblicata nell’appendice Verga intorno a I Malavoglia che chiude la ristampa del romanzo nella collezione Ottocento della Biblioteca di Repubblica, Roma sd., pp. 395–96. Cfr. OJETTI UGO, Alla scoperta die letterati, a cura di P. Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 112–24. 36 Nel gergo giornalistico per “velina” si intende una direttiva imposta dall’alto per guidare la linea politica e culturale di una testata. 37 Sulla censura libraria nel corso del Ventennio fascista cfr. BONSAVER GUIDO, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Roma–Bari, Laterza 2013. 99 assumendo il regime; essi sono contrari alla filosofia di Giovanni Gentile, che appare loro legata alla visione del mondo liberale, sono contro l’imborghesimento del movimento fascista, esprimono idee anticapitaliste (vorrebbero che le Corporazioni fossero un effettivo strumento di giustizia sociale), si richiamano alle origini rivoluzionarie del fascismo. Non si dimentichi che Mussolini, prima di diventare il fondatore del fascismo, era stato socialista rivoluzionario, e suggestioni socialisteggianti erano presenti nel primo fascismo (e ritornarono, dopo, nel fascismo della Repubblica sociale di Salò). La base sociale di tali atteggiamenti anticapitalistici era costituita dai reduci, da quelli che avevano duramente combattuto nella prima guerra mondiale e, al ritorno in patria, si trovavano a fare i conti con la miseria, con la disoccupazione, e a prendere atto del fatto che una ristretta classe di capitalisti si era invece arricchita grazie alla guerra. 38

È quindi evidente che il fascismo fosse più preparato ad accogliere piuttosto che a rifiutare e respingere l’ondata neorealista dei primi anni Trenta. Al punto che Vito Zagarrio scorge una continuità tra cultura fascista e cinema neorealista ponendosi la domanda su:

quali siano le eredità che il cosiddetto neorealismo si porta dietro dal cinema fascista, quali le radici che affondano nel cinema degli anni Trenta e dei primi Quaranta [...] quali gli elementi di continuità e conservazione? Quanto l’interventismo della cultura fascista applicato al cinema ha influito sulla nascita dei quadri del futuro neorealismo?39

Zagarrio scorge una continuità e contiguità del cinema neorealista con la politica culturale del fascismo che, del resto, come nota lo stesso Zagarrio riprende l’idea del cinema come arma più forte, secondo lo slogan di Mussolini mutuato da Lenin. Tuttavia l’analisi di Zagarrio non tiene conto del fatto che questa “continuità o contiguità” del neorealismo col fascismo è solo apparente e nasce da una distorta interpretazione del verismo prima e del neorealismo poi. Non è del resto difficile dimostrare come abbia a lungo prevalso una semplificazione eccessiva del rapporto tra verità e oggettività, nel realismo socialista, nel realismo fascista e, nel dopoguerra,

 38 perché.giovanni–lanza.de/appunti_sul_neorealismo.htm 39 ZAGARRIO VITO, Il neorealismo prima del neorealismo. Continuità o rottura?, in Inconri cinematografici e culturali tra due mondi a cura di Antonio C. Vitti, Pesaro, Metauro, 2012, pp. 288–9. 100 nel ritorno al realismo sovietico. Operazione culturale che, col placet di Togliatti40, rende possibile il cosiddetto “cambio di casacca”, ossia il passaggio di alcuni intellettuali e autori fascisti o compromessi col fascismo (come Vittorini che fu un esponente “trasversale” alle ideologie del realismo: prima fascista, poi socialista e quindi sovietico!) all’area di influenza culturale del Partito Comunista. Tornando per un istante al tema del malinteso originario sul verismo e la mancata definizione del nucleo originario del neorealismo nei primi anni Trenta, va detto che le confusioni hanno finito per susseguirsi e autoalimentarsi, purtroppo fino ad oggi. Non è certo mancata un’analisi storicamente approfondita della polemica tra il gruppo ideologico fascista intorno a «Il Bargello», diretto dal gerarca Pavolini, e le altre riviste filofasciste come «Il Saggiatore» e «Oggi» che difendevano la cultura realista e il “contenutismo” del fascismo, contro i cosiddetti “calligrafi”, in parte riuniti intorno a riviste come «Il Frontespizio» 41 e «Solaria», la rivista che portò avanti durante il ventennio la tesi dell’ermetismo, visto come soluzione poetica, lirica di fronte alle enormi problematiche della storia. Riassumendo brevemente l’argomento del contendere, i contenutisti accusavano i calligrafi di difettare di eticità e umanità, e di risolvere il loro atteggiamento di indifferenza morale e politica nel culto del bello stile e della bella pagina; nella loro nozione di realismo la funzione di rappresentare la nuova Italia mussoliniana, ora in maniera conformistica ora in maniera critica, ma comunque in aperta contrapposizione con quell’altra tendenza a una letteratura di contenuti, affermatasi già alla fine degli anni Venti.42 In realtà, accanto a questi due gruppi (e qui prende spunto il discorso sul ritardo della critica che non ne ha identificato con chiarezza l’attività, spessa svolta  40 Palmiro Togliatti fu ministro degli interni del primo governo italiano presieduto da De Gasperi all’indomani della liberazione che di fatto rinunciò alla epurazione dei quadri fascisti dagli apparati ministeriali. Si deve anzi a Togliatti il tentativo di recupero all’interno dei quadri del Partito Comunista degli intellettuali che sia pur cmpromessi col fascismo potevano dare un contributo alla spinta rivoluzionaria sulla base degli ideali “socialisti” della cosiddetta “prima ora”. 41 Nota è la vicenda de «Il Frontespizio» che nasce il 26 maggio 1929 a Firenze come bollettino bibliografico della Libreria Fiorentina prima di passare nel 1930 all’editore Vallecchi. La rivista ha radici cattoliche e tenta di recuperare i valori religiosi, sia nell’arte che nella letteratura, cercando di rimanere autonoma rispetto al potere fascista. Nella rivista si formano due gruppi, uno di destra composto da Bargellini, Papini, Barna e Occhini, e l’altro di sinistra rappresentato da Carlo Bo e dagli amici di , Oreste Macrí, Alessandro Parronchi, Leone Traverso. Il saggio Letteratura come vita che sarà il centro di accese polemiche, porterà Bo a lasciare «Il Frontespizio» nel settembre del 1938. Il saggio, che risulta uno dei documenti più validi della nuova stagione ermetica, accredita alla condizione letteraria il senso del fatto interiore, del movimento integro e vivo della coscienza proprio quando «Il Frontespizio», tra il 1937 e il 1938, inizia a ripiegarsi su posizioni di cronaca conformista. Con questo documento Bo e suoi amici dicono no a «Il Frontespizio» e al suo allineamento con la cultura fascista. 42 BERNARI, Tre Operai , a cura di F. Bernardini, cit., introduzione p. XL. 101 clandestinamente – ne parla giustamente Francesca Bernardini nell’Introduzione all’edizione critica di Tre operai), occorre segnalare la presenza di un movimento intellettuale neorealista e soprattutto antifascista che, per quanto debole o disorganiz– zato, creó una vera e propria rete di “intellighezia” dell’opposizione al fascismo. Del resto, che il fascismo stesse prendendo le misure sul neorealismo – cominciando a considerarlo meno amico di quanto precipitosamente supposto alla fine degli anni Venti (leggi Alvaro e Moravia) solo per contrapporlo alla corrente ermetica – è testimoniato da un articolo meno sciocco e banale di come lo segnala Zavattini a Bernari in una lettera del marzo 1933. Zavattini si lamenta del fatto che, nella polemica tra contenutisti e formalisti sfuggisse «quello che a me pare il dato più importante: una nuova generazione». In questo caso Zavattini, se non parla proprio di complotto della critica, certo ci si avvicina:

Presto vi scriverò dicendovi alla buona le mie idee su queste polemiche. In linea generale manca la buona fede. Il perché di tanta confusione è lí, di tanti accomodamenti, ecc. ecc., e sfugge quello che a me pare il “fatto” più importante: una nuova generazione. Le discussioni con i contenutisti e formalisti non poteva trovare un articolo più memorabilmente sciocco, cieco per noi giovani di quello di Gargiulo su «Espero».43

Per quanto memorabilmente sciocco l’articolo di Gargiulo fornisce peró la testimonianza storica di come il fascismo stesse cominciando ad operare dei distinguo tra la sua concezione del verismo e quel neorealismo che sembrava sfuggire all’ideologia culturale ufficiale del regime. Ecco infatti quanto scrive Gargiulo insistendo sul tema dell’umanità del cosiddetto neorealismo:

[...] L’umanità con la quale il neorealismo andrebbe ridando sostanza a questa nostra letteratura – sino a ieri, come dicono, troppo formale – deve consistere unicamente in una maggiore profondità psicologica [...] il verismo intendeva cogliere la genuina sostanza umana, soprattutto attraverso i primordiali istinti [...] [mentre] il neorealismo va in cerca della più ricca umanità, scendendo più giú ancora, dove non troverà mai nulla, dato che laggiú, in quella zona del passivo, le figure, le persone, addirittura non si formano.

 43 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata Rizzoli&C. Anonima per l’Arte della Stampa, Milano indirizzata Bernard–Peirce / via 4 Fontane 4 / Roma , data del timbro postale (Milano, I. III. 33 –XI), Archivio Carlo Bernari. 102 E così termina il suo articolo deducendo che «[...] l’inconsistenza e la disperata uniformità delle persone, porta il neorealismo a presentare «un abulico» 44 Nel marzo del 1933 né Gargiulo né Zavattini (che non ha ancora ricevuto45 il dattiloscritto del romanzo di Bernari che gli viene spedito con una lunga lettera accompagnatoria il 29 febbraio, cioè due giorni prima della succitata lettera, dello stesso anno), sanno che questa figura abulica del neorealismo sta per essere impersonata appunto dal giovane operaio che non vuol essere operaio: Teodoro, protagonista del romanzo Tre operai che Zavattini farà uscire nel febbraio del ‘34. Le parole di Zavattini avvertono comunque la costante tendenza della critica italiana all’accomodamento e al malinteso, ovvero, più in genere, Zavattini docet, alla sostanziale mancanza di buona fede. Sono parole premonitrici, quelle di Za, che trovano puntuale conferma nelle recenti analisi di Sergio Romano e di Raffaele Liucci46 in cui si parla, con approssimazione e qualche paraocchi, di una sorta di “Torre d’avorio” degli intellettuali italiani durante il fascismo. Come se fossero esistiti solo i due gruppi contrapposti dei contenutisti (fascisti) e dei formalisti (calligrafi), i due studiosi ignorano che proprio negli anni Trenta, con l’attività culturale e politica di Carlo Bernari, Cesare Zavattini, Corrado Alvaro47, Massimo Bontempelli48, si formò un vero e proprio gruppo ideologico antifascista che si avvalse della protezione di

 44 GARGIULO, Profondità , in «Espero», cit., p. XI. 45 Zavattini riceve il dattiloscritto il 23 marzo del 1933 e ne dà notizia all’amico; «Ho ricevuto oggi il romanzo, faró miracoli per leggerlo entro quattro cinque giorni». Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata Rizzoli&C. Anonima per l’Arte della Stampa, Milano indirizzata Bernard/ via 4 Fontane 4 / Roma, data del timbro postale (Milano, 29. III. 33 –XI), Archivio Carlo Bernari. 46 Cfr. ROMANO SERGIO, L’equivoco della cultura antifascista, Considerazioni sugli intellettuali italiani durante il fascismo. Sta in: «Nuova storia contemporanea», n. 4, luglio–agosto 2000. Cfr. Anche: LIUCCI RAFFAELE, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale Torino, Einaudi, 2011. 47 Per il rapporto politico nell’ambito dell’antifascismo tra Corrado Alvaro e Carlo Bernari vedi: BERNARD ENRICO, Alvaro–Bernari, storia di una ventennale amicizia nel carteggio inedito 1934– 1954, in «Campi Immaginabili», Nr. 44/45, fascicolo I–II, 2011, pp. 411–32. 48 Bontempelli viene descritto dall’amico Bernari come uno convinto e attivo antifascista fin dai primi incontri nel 1928 alla Libreria del Novecento a Napoli frequentata da marxisti e antifascisti di varia provenienza. Scrive Bernari: «Un antifascismo da quarantenne covava dunque sotto il suo spensierato diciottennismo funambolico [...] quale ne fosse l’origine non so: ne colgo un indizio in un articolo di Augusto Monti (L’Unità 23 luglio ‘60), che gli fu compagno di lettere alla facoltà di lettere a Torino.» BERNARI CARLO, Commemorazione di Massimo Bontempelli, in «L’europa Letteraria», Ottobre 1960, p. 104. La testimonianza di Bernari sull’antifascismo di Bontempelli fin dal 1928–29 è importante perché spiega che l’amicizia col ministro Bottai e lo scrittore comasco dette luogo solo ad una collaborazione provvisoria e sempre meno convinta col regime da parte di Bontempelli, che cominciò a dissociarsi apertamente dal fascismo dalla metà degli anni Trenta fino al rifiuto nel 1938 di succedere in cattedra a Attilio Momigliano allontanato dall’università in seguito alle leggi razziali. Nel 1939 Bontempelli fu espulso dal PNF ed esiliato a Venezia col divieto di scrivere. 103 Arnoldo e Alberto Mondadori e di Bompiani. Fu la casa editrice Mondadori, ad esempio, a far lavorare come capo–redattore di «Tempo» Carlo Bernari – che non aveva la tessera del partito fascista ed era anzi schedato come comunista – tra il 1937 e il 1942 nascondendolo perfino in redazione quando lo scrittore era ricercato dalla polizia politica per la sua attività antifascista.49 Nel racconto autobiografico Notti insonni alla Mondadori Bernari riporta alcune frasi di un colloquio con Alberto Mondadori, il quale incoraggia il giovane scrittore antifascista da lui voluto alla guida di «Tempo» con queste parole:

Ti ho mai imposto qualcosa? [...] Ti ho forse impedito di far collaborare tanti tuoi compagni già bollati? Non ti ho concesso di dare uno stipendio, addirittura, a Ugo Arcuno, notoriamente trotzkista? Puoi negare che i fototesti che Arcuno ci fornisce potevamo procurarceli da qualsiasi altro?

Quindi intorno alla Mondadori di Bernari e Zavattini si costituisce un vero e proprio nucleo di attività antifasciste. Strano che uno storico del calibro di Sergio Romano, titolare di una rubrica proprio sul «Corriere della Sera», che aveva pubblicato nei primi anni Novanta un ampio servizio circa questi rapporti, non abbia preso in considerazione una ricostruzione dell’antifascismo impegnato intorno alla Bompiani e alla Mondadori. E basta questo per dimostrare come tutta la questione del neorealismo – della sua valenza formale e politica – abbia subito una sorta di eclissi e deformazione a partire dal malinteso originario sulla natura del rapporto tra verità oggettiva e finzione narrativa nell’ambito del verismo. Malinteso che ha comportato una serie di conseguenze a cascata. Questo perché il neorealismo, nella sua vocazione critica delle ideologie, fu di intralcio e si oppose tanto al realismo fascista quanto al realismo socialista.

 49 Cfr. FERTILIO, DARIO Arnoldo, il compagno Bernari e l’ispezione del gerarca, «Corriere della Sera» del 30 agosto 1993, online: archiviostorico.corriere.it/1993/agosto/30/Arnoldo_compagno_Bernari_ispezione_del_co. L’articolo contiene brani di la testimonianza autobiografica inedita di Carlo Bernari intitolata Notti insonni alla Mondadori. Dopo il 25 luglio 1943 Bernari ritorna a Roma e all’armistizio dell’8 settembre entra nelle file dell’antifascismo clandestino, rischiando a più riprese l’arresto. La partecipazione di Bernari alla lotta non si limita, però, alla sola sfera politica: collabora, accanto a nomi di prestigio (Cantimori, Garin, Sapegno, Alicata), ad avviare la Nuova Biblioteca Editrice, il cui catalogo uscirà a Roma il 7 giugno 1944, alla liberazione della città. In questa impresa editoriale che doveva essere un contributo di azione nella lotta contro il fascismo e il nazismo, a Bernari è affidata la sezione La commedia umana, dove vengono pubblicati alcuni testi fondamentali della narrativa europea. 104 Per sgombrare dunque il campo dal “malinteso originale” che ha dato origine alla grossolana equiparazione tra verismo e verità, tra realismo e oggettività, bisogna dimostrare una connessione tra verismo e neorealismo50 e di come la falsa partenza dell’interpretazione del primo abbia influito poi sulla visione critica del secondo. Quindi dovremmo trovare conferma nel carteggio Bernari–Zavattini di una questione così delicata come il rapporto tra forma e contenuto, tra oggetto rappresentato (il vero) e soggetto che cerca la verità (l’artista), così da stabilire la vera natura del neorealismo. Una natura che si discosta fortemente da una forma di rappresentazione oggettiva, fotografica, della realtà. E qui entra in gioco il discorso sull’arte fotografica di cui sono stati protagonisti, non a caso, sia il capostipite del verismo, Giovanni Verga, sia il neo– verista, o meglio il fondatore del neorealismo Carlo Bernari51. Una coincidenza che dimostra come in entrambi sia sorto, e sia stato risolto, il problema della rappresentazione della realtà, sia in letteratura che nelle arti visive.

 50 Come affermerà anche uno dei maestri del cinema neorealista, Giuseppe De Santis, autore di Riso amaro del 1949, citando le influenze letterarie americane sul suo cinema e limitando a Gente in Aspromonte di Alvaro e Tre operai di Bernari, quelle italiane con un richiamo diretto a Verga: « […] ma insomma, salvo questi rari esempi in cui la narrativa italiana prendeva contatto con la grande realtà italiana, soprattutto delle classi subalterne, bisogna risalire solo ad un grande scrittore che è Giovanni Verga.» VITTI, Peppe De Santis secondo se stesso, cit., p. 2. 51 Il rapporto con Verga è testimoniato dallo stesso Bernari che nella Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo così interviene: «Gli unici che potessero aiutarmi erano allora Alvaro, che aveva spinto la lezione verghiana ai limiti dell’Aspromonte ed ora tornava indietro, e Moravia che dopo aver arricchito il problematicismo psicologico europeo, ripiegava su altre ambizioni.» BO, Inchiesta sul neorealismo, cit. p. 34. 105 Il problema della seconda realtà.

Nel gennaio del 1898, Giovanni Verga scrive al Conte Giuseppe Primoli, il quale condivide con lo scrittore catanese la passione per la fotografia, per commentare uno “scatto” sottopostogli dall’amico:

[...] questa fotografia che ha voluto mandarmi è un vero quadretto. Ma cosa succede in quel vicolo o in quell’androne? Una rissa? Un funerale? Un arresto? Io pittore, mi varrei molto di questo punto interrogativo che aiuta tanto all’interessante soggetto. 52

In queste poche righe Verga dimostra in primo luogo come già la pittura rappresenti per lo scrittore uno strumento narrativo per interpretare la realtà. Naturalmente siamo, con Verga, nel campo di quella sintesi delle arti tipicamente ottocentesca, ma vi si aggiunge in questo caso il desiderio drammaturgico di leggere la fotografia, spogliandola del suo lato realistico (la riproduzione del reale), con la visionarietà dell’artista che non rappresenta, dunque, la realtà, ma la trasforma, la altera in una storia, in un racconto. Nasce qui l’idea, che sarà alla base del neorealismo di Bernari e Zavattini, di rappresentare la realtà come una fotografia narrativamente in movimento, cioè come una sequenza cinematografica che ovviamente non “documenta” o riproduce il “reale”, bensì, attraverso la “ripresa” visiva del racconto letterario (lo scenario, il soggetto, il trattamento e la sceneggiatura), raggiunge la dimensione artistica in cui reale e fantasia si controbilanciano e si sostengono a vicenda, in una specie di rincorsa tra realtà e finzione narrativa. L’invenzione della fotografia nel 1839 modifica – come ben noto – la rappresentazione della realtà in tutti gli ambiti artistici, soprattutto per quanto riguarda la pittura. L’argomento del rapporto dell’arte fotografica con la pittura, nonchè gli sviluppi di quest’ultima verso il soggettivismo, il simbolismo e l’astrattismo futurista del primo Novecento, è stato esaurientemente trattato e non vi è qui bisogno di aggiungere altro. Invece si potrebbe ancora dire qualcosa sull’influenza della fotografia in campo letterario, in quanto stili narrativi come il verismo e il neorealismo, che vennero a formarsi contemporaneamente e parallelamente allo sviluppo della

 52 Lettera del 7 gennaio 1898, in SPAZIANI MARIA LUISA, Con Gegè Primoli nella Roma bizantina. Lettere di Nencioni, Serao, Scarfoglio, Giacosa, Verga, ecc., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, l962, p. 237. 106 fotografia, sono ancora oggi comunemente considerati53 – e su questo bisogna tornare a discutere – come forme di rappresentazione “oggettiva”, quindi realistica o veristica della vita e della società. Certamente la tardiva scoperta nel 1966 del prezioso materiale fotografico, realizzato da Giovanni Verga a partire dal 1878, nella sua abitazione catanese in via S. Anna 8, dove furono ritrovati ben 448 negativi fotografici, 327 lastre in vetro e 121 fotogrammi in celluloide, non ha aiutato la critica a formarsi subito una opinione corretta sui rapporti tra opera letteraria e attività fotografica dello scrittore. Una scarsa conoscenza al proposito è denotata anche dalla riflessione di Carlo Salinari che nel 1962, cioè quattro anni prima della scoperta del materiale in casa Verga, continua ad insistere sul realismo “oggettivo”, casomai carico di intenzioni sociali, di Giovanni Verga. Tutto ciò senza poter considerare che Verga avvia il ciclo de I vinti nel 1880 con la pubblicazione della raccolta di novelle Vita dei campi, ossia due anni dopo i suoi primi scatti fotografici. D’altronde bisogna anche chiedersi come abbia potuto passare ignorato e non catalogato un consistente materiale come quello ritrovato in casa Verga solo nel 1966, mezzo secolo dopo la morte dello scrittore. Perché qui tra negativi, lastre e fotogrammi si parla di un migliaio di pezzi, un archivio forse non colossale, ma senz’altro consi– stente, e soprattutto della massima importanza per la storia della letteratura italiana. C’è il sospetto che questo materiale sia stato per così dire dimenticato, forse perché non lo si è considerato sufficientemente importante nell’ambito della formazione del verismo, forse perché in contrasto con la pacifica accettazione di una

 53 Basti citare, ed è solo un esempio, la linea interpretativa di Carlo Salinari che esemplifica la posizione di una consistente parte della critica italiana su verismo e neorealismo: «Dopo il 1928 [...] cominciò a manifestarsi e ad affermarsi una letteratura chiaramente di opposizione e di orientamento realistico. Questa letteratura faceva propri gli aspetti più positivi della prosa d’arte, si richiamava alle grandi esperienze europee in polemica con la cultura ufficiale, cercava i suoi modelli italiani in Verga e Svevo, scopriva nella letteratura americana un grande esempio di arte realistica e democratica, ma, soprattutto, s’impegnava a conoscere e a rappresentare la realtà italiana nelle sue più stridenti contraddizioni.» SALINARI CARLO, La letteratura d’opposizione e gli inizi del nuovo realismo, in Id., Profilo storico della letteratura italiana, vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 281. Salinari – senza citare Bernari, – individua in autori come Vittorini, Pavese, Moravia e Alvaro i padri del neorealismo, ma qualche pagina dopo, inserendo il nome di Bernari, fa marcia indietro contraddicendosi (la frase parentetica non sembri un paradosso) considerando questi stessi scrittori come causa della crisi dello stesso neorealismo: «In realtà già negli scrittori più anziani che avevano dato il via negli anni Trenta alla ripresa realistica (i Vittorini, i Pavese, i Moravia, gli Alvaro, i Bernari) abbiamo potuto notare il bisogno acuto di collegarsi con le grandi esperienze decadenti europee, tanto che il movimento realistico (e non sembri un paradosso) si sviluppò in un intreccio assai stretto e complesso con quelle esperienze.» Ibid. SALINARI, La letteratura d’opposizione e gli inizi del nuovo realismo, cit., p. 330. 107 matrice naturalistica dell’opera verista. Il sospetto è avvalorato dal fatto che anche la più conosciuta attività fotografica di altri due esponenti del verismo, come Capuana e De Roberto, sia passata non dico inosservata o sotto silenzio54, ma solo sommariamente raffrontata alla loro opera senza, almeno fino alla fine del Novecento, una necessaria e profonda revisione critica. Occorre allora parlare di un complotto della critica? No, le cose sono più complesse e in questa sede non si può entrare nel merito di una ricostruzione e di una revisione radicale della storia della critica italiana del Novecento55. Piuttosto desidero apportare una testimonianza personale. Ho conosciuto Carlo Salinari quando il fratello Giambattista era preside del liceo Castelnuovo di Roma da me frequentato nel periodo caldo del Sessantotto. Posso quindi attestare l’assoluta indipendenza di pensiero, apertura e disponibilità al dialogo di entrambi i Salinari. Ma basta citare un intervento di Carlo Salinari su «l’Unità», organo del Partito Comunista, dal titolo indicativo Bernari, un pioniere della ricerca realistica per capire come la critica abbia tentato di riportare il discorso sempre al realismo, piuttosto che individuare i punti di rottura di Bernari con la ricerca “realistica”, con ogni tipo di realismo fascista o socialista. Così il giudizio di Remo Cantoni che nella prefazione all’edizione del 1951 del romanzo parla fondatamente di «un realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose [...] per cui questa realtà appare frantumata dal giuoco della luce e dell’ombra» 56, diventa un punto di riferimento con cui la critica ha fatto i conti con ritardo57, preferendo, negli anni Cinquanta (come hanno fatto Togliatti e Vittorini) “aggiustare” l’opera di Bernari all’interpretazione corrente del neorealismo. C’è da chiedersi dunque come si possa far rientrare l’opera di Bernari negli schemi letterari che non tengono conto della confluenza nel neorealismo di una visione del mondo non superficialmente realistica, documentaristica o saggistica, ma narrativa in funzione delle nuove arti visive, come suggerisce esplicitamente Remo Cantoni sin dai primi anni Cinquanta?  54 Cfr. NEMIZ ANDREA, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, Palerno, Edikronos, 1982. Cfr. pure SETTIMELLI WLADIMIRO e GARRA AGOSTA GIOVANNI (a cura di), Giovanni Verga fotografo, catalogo della mostra, introduzione di V. Spinazzola, Milano, centro informazioni 3M, 1970. A questo lavoro si collega il successivo volume Giovanni Verga specchio e realtà, a cura di SETTIMELLI WLADIMIRO, Roma, Editrice Magma, 1976 con una scelta antologica e 84 foto inedite di Verga. 55 Cfr. PELLIZZARI LORENZO, Critica alla critica, Roma, Bulzoni, 1999. L’analisi di Pellizzari esprime la necessità di una revisione storico–critica della stessa critica letteraria. 56 CANTONI, prefazione a Tre operai di Carlo Bernari, cit., p. 11. 57 Bisognerà attendere il saggio di Rocco Capozzi dal titolo Bernari tra fantasia e realtà cit., che nel 1984, a conclusione di una ricerca iniziata un lustro prima, apre una nuova originale prospettiva critica sul neorealismo di Bernari. 108 Giuliano Manacorda tenta, ad esempio, una intelligente ma non del tutto riuscita mediazione:

Il romanzo di Bernari si inseriva nel nascente clima del neorealismo. Ma il problema comincia esattamente da qui, da come e quanto Tre operai sia un romanzo operaio – cioè, del mondo operaio, della classe operaia – e, più in generale, un romanzo realista.58

Senonchè dopo aver posto il problema del “realismo”, Manacorda propone un aggiustamento ideologico cercando di dimostrare che il realismo di Tre operai non va ricercato nella presenza della condizione operaia, ma, paradossalmente, nella sua assenza:

La verità è che il senso del romanzo andava cercato proprio nel popolo come «assenza», nella testimonianza di una classe operaia che vive in una condizione di «non classe» .59

Va ricordato che la posizione della critica si è mantenuta inalterata fino alle interviste rilasciate da Bernari a Claudio Toscani e a quella fondamentale concessa a Rocco Capozzi, entrambe del 197560 in cui Bernari riprende e amplia il discorso inaugurato con Carlo Bo che ebbe il merito, con la Inchiesta sul neorealismo, di riaprire la discussione nel dopoguerra. La testimonianza di Carlo Bernari nella Nota 65 a Tre operai è emblematica:

Quando [...] Carlo Bo mi chiese se accettavo qualche responsabilità nell’affermazione del neorealismo italiano, risposi che l’accettavo volentieri a patto di poter prendere “per mano coloro che mi furono più vicini in quegli anni e presentarmi alla ribalta in loro compagnia” (virgolettato di Bernari che si autocita testualmente, ndr.). Non mentivo, aggiustavo e scorciavo i tempi tra un prima e un dopo, in cui avrei dovuto collocare, proprio al fine di sentirmi meno solo, Verga, Svevo, Tozzi, Borgese (del Rubè), prima ancora

 58 MANACORDA GIULIANO, Storia della letteratura italiana contemporanea, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 357. 59 Cfr. Anche su questo argomento di un presunto realismo sociale di Bernari: MAURO WALTER, in Letteratura italiana. I contemporanei, Milano, Marzorati, 1963; ASOR ROSA ALBERTO, in Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965. 60 CAPOZZI, Intervista a Carlo Bernari, in «Italianistica» , IV, 1975, cit., pp. 142–68. Cfr. TOSCANI CLAUDIO, Incontro con Carlo Bernari, in «Il ragguaglio librario», XLII, 1975, pp. 11–18. 109 di Moravia, di Alvaro, di Silone, per restringermi ai libri di narrativa immediatamente precedenti a Tre operai.61

Resta però il fatto che la forzatura togliattiana del concetto gramsciano di intellettuale organico e la collaborazione di Vittorini – ricordiamo la sua stroncatura di Tre operai sul «Bargello» fascista in ossequio a Mussolini – col leader comunista nell’immediato dopoguerra, prima della rottura dei rapporti tra i due, prolungò lo stato confusionale della critica a proposito del neorealismo: gli autori avevano le idee chiare, ma nessuno voleva starli a sentire! Gli effetti di questa paradossale situazione di incomunicabilità (e sordità da parte della critica) si sono protratti comunque per tutti gli anni Cinquanta, cioè ben oltre la storica rottura tra lo scrittore siciliano ed il PCI62, almeno fino all’invasione sovietica dell’ Ungheria del 1956 che determinò, anche nel campo della critica letteraria, un lento e progressivo allontanamento dal realismo  61 BERNARI CARLO, Nota 65 postfazione a Tre operai che accompagna il romanzo a partire dalla edizione Oscar Mondadori del 1966. La citazione in questo caso è tratta dall’edizione Oscar Mondadori del 1993, p. 180. 62 La ragione del dissidio fra PCI e Vittorini, infatti, a parte l’aspirazione di quest’ultimo ad una maggiore libertà ed autonomia degli scrittori nei confronti del Partito, mentre il Partito tendeva ad un maggiore controllo sugli scrittori, stava nel fatto che «Il Politecnico» con le sue aperture alla cultura europea metteva in pericolo la linea di politica culturale nazionale perseguita dal PCI che, giova ribadirlo, era condizionata dal clima politico nazionale e internazionale. La guerra fredda e la contrapposizione frontale in Italia con la Democrazia cristiana e l’egemonia cattolico–clericale portano il PCI da una parte a rafforzare il rapporto con l’Unione Sovietica (e di qui le aperture al realismo socialista), dall’altra parte a sottolineare la propria continuità con la cultura italiana classica, ottocentesca, nel continuo tentativo di presentarsi come partito nazionale, per certi aspetti addirittura “tradizionale” e “conservatore”, al fine di conquistare il consenso dei ceti medi. Il 1949, l’anno in cui le Edizioni Rinascita pubblicano il volume Politica e ideologia, raccolta dei principali scritti di Zdanov, può essere considerato l’anno di svolta: la sconfitta elettorale, il clima della guerra fredda inducono il Partito comunista ad irrigidire la linea di politica culturale, per cui si verifica un vero e proprio “ritorno all’ordine”. La battaglia a favore del realismo per i dirigenti della politica culturale del PCI si concretizzò in una battaglia se non contro almeno per il superamento del neorealismo (movimento troppo ibrido ed eterogeneo: ecco perché dopo il 1948 comparve un’altra volta il termine neorealismo, e di nuovo in un’accezione negativa) e per il ritorno ad un romanzo realista di tipo classico ottocentesco. Per la verità va anche ricordato che lo stesso Vittorini, di fronte all’invasione della moda neorealistica– documentaristica che caratterizzò la letteratura italiana del primo decennio del dopoguerra, avanzò qualche dubbio. A questo proposito scrive Giuseppe Lupo: «Bisognerebbe chiedersi, per esempio, se questo tipo di scrittura abbia avuto soltanto un valore testimoniale oppure si sia elevato a discorso letterario […] Il rischio è tanto più elevato quanto più queste forme di narrazioni si generano a ridosso della ricostruzione, fase in cui l’esigenza di engagement continua a produrre una cultura figlia del “documento”, così aderente al vero da tingersi di eccessivo grigiore, da diventare una scolorita copia della realtà, fino al punto da costringere Vittorini a pronunciare una dura requisitoria su ciò che è stato scritto fino a quel momento in tema di fabbriche e di condizione operaia e sottolineare, sul «menabò» (4, 1961), che per molti degli scrittori tutto ciò che apparteneva al tecnologico restava un «mondo imposseduto», frutto di un approccio «naturale» (o naturalistico). [...] Il braccio di ferro tra invenzione e matrice documentaria esula dal semplice racconto di fabbriche e ciminiere, presuppone una riflessione sulle tendenze del neorealismo e sulle traiettorie che Vittorini intendeva seguire negli anni della ricostruzione e del boom economico, mentre dirigeva la collana einaudiana dei Gettoni.» LUPO GIUSEPPE, Fabbrica di carta, sta in Fabbrica di carta, a cura di Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti, Roma–Bari, Laterza, 2013, p. 8. 110 socialista. Fu così possibile il perpetuarsi dello schema “semplice e comodo” – secondo Bahr – e “opportunistico” – secondo Zavattini – della critica che restringeva la novità del neorealismo nell’ambito dell’impegno sociale (e politico) piuttosto che nel suo aspetto formale/fantastico. E poco importava che gli artisti protestassero pure sulle pagine di «Cinematografo» o de «La fiera letteraria», tanto a salire in cattedra e a scrivere su giornali e riviste del PCI (finanziati dall’Urss) erano proprio loro, i signori critici! E non si dimentichi che il non allineamento con le direttive del PCI e l’accettazione del ruolo subordinato dell’intellettuale alla missione ideologica e politica, poteva comportare serie conseguenze in Italia sul piano professionale, come dimostra il caso di Giuseppe De Santis in rotta involontaria con il PCI per alcuni contenuti del suo film Riso amaro ritenuti estranei all’ortodossia marxista; o come, per fare un esempio ancora più calzante, dimostra il fallito tentativo di Cesare Pavese di portare – correva l’anno 1949 – Carlo Bernari nella Einaudi orientata da Vittorini e dai suoi collaboratori63, ovvero nella Casa Editrice che annoverava tra i consulenti proprio quel Gastone Manacorda che aveva appena rifiutato la pubblicazione su «Società» del saggio L’arte è paura (32 pensieri sulla paura) di Carlo Bernari perché non “in sintonia con la linea ufficiale”. Certo è che la critica cominciò a correggere il tiro sul neorealismo solo a partire dal 1968, cioè all’indomani dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia e, nei primi anni Settanta, a seguito dell’avvento della visione eurocomunista di Berlinguer per un socialismo democratico che fece entrare aria fresca nella “caserma” di via Botteghe Oscure. Così Giacinto Spagnoletti definisce nel 1962 il Bernari neorealista:

[...] dopo aver largamente riveduto la propria formazione crociana, Bernari si impegnò a fondo nell’indagine sociale. Alle parole “lucide” della letteratura dominante egli volle sostituire quelle “matte”, cioè opache, della grigia realtà quotidiana [...] Letto in un altro clima e in altri anni, il romanzo sarebbe apparso il corrispondente nel mondo  63 Il carteggio Pavese–Bernari del 1949–1950 (recentemente pubblicato dal «Corriere dela Sera», cfr. FERTILIO DARIO, Carlo Bernari, l’esiliato in casa In un carteggio le confidenze di Pavese: a Milano non ti vogliono. Il difficile rapporti dell’intellettuale antifascista con l’Einaudi e il PCI. L’ostilità di Vittorini, in «Corriere della Sera», 26 novembre 2011, p. 57) dimostra la presenza di un forte ostracismo politico da sinistra nei confronti dell’autore di Tre operai. In una lettera Pavese parla infatti proprio del mancato allineamento di Bernari alla “chiesa” marxista di Vittorini e Togliatti: «Ti si imputa – scrive Pavese a Bernari – una forma di sinistrismo anarcoide. E in una successiva missiva: vedrai che finiranno per farti perdere il premio» (Pavese allude al Premio Viareggio 1950, ndr). 111 proletario del lucido ritratto realistico compiuto da Moravia della vita dell’alta borghesia.64

La serietà e preparazione culturale e letteraria di Giacinto Spagnoletti non si vuole certo mettere qui in discussione.65 Fatto sta però che nelle note di Spagnoletti sopra citate, risalenti al saggio su Bernari del 1962, saltano agli occhi le espressioni quasi d’obbligo dal dibattito culturale del tempo, come “indagine sociale”, “realtà quotidiana”, “mondo proletario”, “ritratto realistico”, “alta borghesia”. Per non parlare della forzatura secondo la quale Bernari avrebbe «largamente riveduto la propria formazione crociana». Il che non è del tutto corrispondendente al vero, se si considerano i diversi capitoli di Bibbia napoletana dedicati da Bernari agli incontri con Croce, determinanti per il giovane scrittore come egli stesso ammette:

Peccato non aver conosciuto Benedetto Croce nel tempo in cui più avidamente divoravamo le sue opere. Allora i nostri occhi, i nostri orecchi, tutti i nostri pensieri erano per lui: Che cosa fa? Che dice? Che ne pensa di questo? E di questo altro? 66  64 SPAGNOLETTI GIACINTO, Scrittori di un secolo, Marzorati, Milano, 1974, p. 648. Il saggio L’ultimo Bernari, ivi contenuto, è del 1962. 65Amico dall’immediato dopoguerra di mio padre, Giacinto Spagnoletti è stato anche per me un referente, direi un compagno di strada (sono stato per anni editor della sua rivista di poesia dialettale «Il Belli» ), un amico ed estimatore sincero anche nei miei confronti, nonostante la differenza di età. La nostra corrispondenza è piuttosto nutrita. Eccone un esempio quando l’esperto critico prese carta e penna per chiosare le mie prime uscite poetiche: «1 giugno 1983 Caro Enrico, ho letto con attenzione le tue poesie. Esse riflettono molto intimamente i tratti principali del tuo carattere, del tuo spirito direi, anche se la vita sembra averti dato due aspetti contrastanti: da una parte (ed è quel che la poesia rende meglio) la sincerità assoluta di ogni cosa che tu pensi, un modo di agire coerente e disarmato; dall’altra una prematura visione pessimistica, certo provocata dallo stato di degradazione generale. Su questi due versanti batte l’accento tematico della tua produzione in versi. E la città, attraverso te, parla di se stessa, di ciò che era, oppure di ciò che è diventata (molte, tra cui, agghiacciante, la IV). Dalle due facce della metropoli discendono anche i due corposi vitali momenti di presa di coscienza poetica. Forse, a raggiungere quello più significativo, direi, è non tanto la Roma di oggi, descritta da cronista atterrito, quanto quella che ti si presenta dagli spicchi della natura o del passato. Farei una scelta di tutte, prima di pubblicarle in una rivista: tenendo presente che a queste poesie, tutto sommato assai singolari, spetta il diritto di apparire, una volta scelte, insieme: formano infatti un poemetto unico. Un caro saluto e un augurio dal tuo Giacinto PS. Quando vuoi ritirare il dattil., telefona a Piera. Io parto per la Russia il 5 e tornerò, credo, il 17 o 18 giugno. Però alla scelta sarebbe bene sovrintendessi anch’io.» 66 BERNARI CARLO, Visite a Don Benedetto, in Bibbia Napoletana, cit., p. 131. Dai racconti di Bernari esce un Croce antifascista e che si vanta come riportato da Bernari di aver saputo ottenere il rispetto dei teorici sovietici: «Ad un congresso di filosofia [...] Lunaciarski, che si occupava anche lui dei problemi dell’arte, si alzò per fare una sfogata contro di me: il filosofo della borghesia eccetera eccetera. Gli osservai a mia volta di non comprendere quella sua classificazione, poiché arte e filosofia non vogliono attributi, essendo esse universali, utili sia alla borghesia come al proletariato... Che comunque però tenevo a far sapere al signor Lunaciarski che io, filosofo borghese, ero stato il primo editore dei saggi del marxista Antonio Labriola.» Ma il giovane Bernari coglie anche nell’estetica crociana gli spunti per una rielaborazione “moderna” dell’arte, dal punto di vista dell’intuizione visiva di cui stiamo qui discutendo. Soprattutto laddove il filosofo napoletano afferma: «La conoscenza ha due forme: è o 112 Naturalmente nel 1962 Spagnoletti conosce bene, ma direi fin dalle bozze del 1960, Bibbia napoletana, che esce nel 1961, in cui è raccontato e documentato il rapporto con Croce. Ma la voce del critico sembra adeguarsi all’aria che tira, alle parole chiave del tempo, proponendo ancora una volta una visione realistica ed una interpretazione contenutistica del capolavoro di Benari. I toni di Spagnoletti muteranno radicalmente nell’arco di dieci anni quando, nel 1971, saranno ben altri i termini usati a dimostrazione che, a proposito del neorealismo, la critica sta rifacendo, più o meno approssimativamente, i conti. Sui nuovi autori del dopoguerra infatti Spagnoletti scrive:

È giusto e giustificabile in un “arrabbiato”, venuto alla luce nella confusione degli anni Cinquanta, che non se la sentiva di condividere gli scimmieschi apparati del tardo neorealismo, gli orecchiamenti marxisti, l’oppressione ancora perdurante del nostro “piccolo” Novecento, le fissazioni degli Ermetici.67

Si rileva, dunque, un cambio di registro, nei primi anni Settanta, da parte della critica che segue l’apertura politica e intellettuale del nuovo PCI di Berlinguer. Così Spagnoletti dalle pagine de Il codice di Babele di Giorgio Bárberi Squarotti, vede profilarsi il nuovo critico letterario:

A chi legge il suo libro [Il codice d Babele, ndr.] risulta insomma evidente qual è la vera funzione richiesta al critico: qualcosa d’altro, una meditazione globale che non prescinda dalla «biologia» dell’opera d’arte, dal suo farsi e vivere in continua protesta, o meglio come alternativa alla realtà medesima. Per questo critico, assolutamente impermeabile a ideologie d’accatto, il testo poetico avrà tanto più respiro in noi se sarà inteso come assunzione utopica, profezia o apocalissi, e pertanto pensato come “contra- ddizione”, come “lacerazione”, come egli si esprime, “ferita mai chiusa”. 68

Non è ovviamento il compito di questa ricerca dimostrare se e come sia nata, ovvero se e perché sia venuta a mancare, anche nel quarantennio che ci separa dalla  conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti.» CROCE BENEDETTO, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I, Bari Laterza, 1928, p. 3. 67 SPAGNOLETTI, Scrittori di un secolo, cit., p. 799. 68 Ibid., SPAGNOLETTI, Scrittori di un secolo, cit., p. 803. 113 testimonianza di Spagnoletti, una critica «assolutamente impermeabile a ideologie d’accatto». Fatto sta però che, per come risulta dalle parole di Spagnoletti e dall’analisi di Bárberi Squarotti, non sembra esserci alcun dubbio sul fatto la critica, per quanto riguarda il Novecento, si sia resa in qualche modo “permeabile” alle “ideologie d’accatto“69: altrimenti non avrebbe avuto alcun senso parlare della questione. Marina Zancan, riguardo alla situazione politica della critica italiana dal dopoguerra ad oggi, osserva:

...il neroealismo, letterario cinematografico e artistico in senso complessivo, al di là del “valore” che noi [critici, ndr] oggi possiamo riconoscergli, rappresenta, di fatto, la proposta che buona parte del ceto intellettuale democratico e progressista è stato in grado di formulare nel secondo dopoguerra.70

A parte l’eufemismo del «ceto intellettuale democratico e progressista» adoperato per attenuare la reale forza dell’influenza del PCI esercitata sulle carriere accademiche, sulle collaborazioni a riviste e giornali e sulle scelte delle case editrici, la Zancan, che di questo “ceto democratico e progressista” fa tuttavia parte, fornisce un breve ma sincero quadro della situazione della critica italiana. La permeabilità della critica all’ideologia, sommata all’impreparazione interdisciplinare cui si accennava prima, ha quindi causato mistificazioni, incomprensioni, confusioni (e dialoghi tra sordi) che hanno gravato, e in qualche modo tuttora gravano sugli studi letterari. Tutti problemi – questi – denuciati (autodenunciandosi allo stesso tempo) anche da Asor Rosa:

Non posso entrare nel merito di questa impressionante galleria di “traduzioni” dalla narrativa al cinema ; [e ancora] Non sono abbastanza competente per arrivare con assoluta sicurezza ad una conclusione ; [e quindi] non credo di andare lontano dal vero [...] affermando una presenza altrettanto forte dell’ispirazione letteraria come base dell’invenzione e della sceneggiatura cinematografica.

 69 Un esempio evidente a questo proposito è la carriera politica del critico Walter Pedullà (presidente della Rai in quota socialista), presidenza poi passata al critico e scrittore che gli succedette alla Presidenza Rai in quota PCI o PSI. Ciò dimostra che nella cultura come nelle università le carriere venivano, e le cose non sono cambiate molto, gestite dalle segreterie dei partiti sulla base dei loro interessi ideologici e politici. 70 ZANCAN MARINA, Tra vero e bello, documento e arte, in Cinema e letteratura del neorealismo, a cura di G. Tinazzi e M. Zancan, Venezia, Marsilio, 1983, p. 39. 114 Così, dopo tutto il dibattito che ha imperversato negli anni Cinquanta e Sessanta sui rapporti tra cinema e letteratura neorealisti, finalmente – siamo nel 1983 – la critica accademica si accorge del problema sentendosi però ancora impreparata come confessa lo stesso Asor Rosa:

Questa convinzione [sul rapporto tra cinema e letteratura, ndr] risulterebbe probabilmente consolidata, se si potesse disporre di uno studio approfondito, – che anch’esso non esiste, e che sarebbe bene che qualcuno intraprendesse, – intorno a quell’altro fenomeno d’innegabile rilievo, che è il lavoro di sceneggiatura cinemato- grafica direttamente compiuto da alcuni fra i più importanti scrittori di questo periodo. 71

E la conclusione di Asor Rosa è alquanto desolante:

Una delle “croci” più significative della critica cinematografica sul neorealismo consiste infatti precisamente nella discussione sulle dimensioni dell’apporto della letteratura alla costruzione dell’universo filmico neorealistico.72

 71 ASOR ROSA ALBERTO, Il neorealismo o il trionfo del narrativo, in AA. VV., Cinema e letteratura del neorealismo, a cura di G. Tinazzi e M. Zancan, cit. pp. 81–2. 72 Ibid., ASOR ROSA, cit. p. 83. 115 Verismo e neorealismo: un malinteso realismo.

Questo capitolo necessita di una premessa e di un riepilogo. La premessa consiste nel fatto che potrebbe sembrare eccessivo e un po' unilaterale fondare il discorso su Verga, come una specie di “esclusiva”, tralasciando altri fondamentali apporti e suggestioni che contribuirono alla formazione del protoneorealismo di Bernari e Zavattini. Tuttavia, il malinteso nasce da un equivoco originario che si ingenera a proposito del verismo e che si ripercuote nella deformata interpretazione del genere che ad esso viene collegato. Se dunque dobbiamo procedere in una rielaborazione e riproposizione del concetto di neorealismo, allora è proprio il “nodo” Verga a dover essere sciolto per primo. A questo punto è necessario però un breve riepilogo. Non si va lontano dal vero sostenendo che sul neorealismo le acque furono fin dall’inizio e poi a lungo, anche nella seconda metà del Novecento, confuse. Nel 1934, ad esempio, Tre operai fu definito dal «Tevere», prima della condanna di Mussolini beninteso, un libro fascista. Successivamente fu considerato un libro sulla classe operaia, prima della rottura di Bernari con Togliatti. Infine – quando nel dopoguerra non si poteva proprio non citare l’opera che quindi andava recuperata criticamente e politicamente – un libro realista sull’assenza storica della classe operaia (Manacorda, Salinari, Mauro, Asor Rosa e molti altri). La confusione sul neorealismo (segnalata dallo stesso Carlo Bo) ha dato luogo ad un interrogativo sul neorealismo – fascista o marxista? – di Tre operai. Infatti, a riprova che Tre operai rappresenta un caso letterario che continua a sollevare dubbi, quesiti e problemi interpretativi, ecco in anni recenti Piero Paolantoni parlare, addirittura, di un giallo storico–letterario:

Partendo dalle matrici culturali futuriste di Bernari , cita alcuni giudizi elogiativi della stampa fascista come quello di Caneva in «Vedetta Fascista», Paolantoni [...] arriva a sconfessare il taglio socialista del romanzo, situandolo, semmai, nelle temperie culturale fascista.73

In realtà Bernari e i suoi amici di gioventù, Paolo Ricci e Guglielmo Pierce, sono fin dalle prime esperienze marxisti e antifascisti convinti – Peirce oltretutto è

 73 Dalla prefazione redazionale dell’edizione Oscar Mondadori 1993 di Tre operai. Cfr. PAOLANTONI PIERO, Il giallo letterario di Tre operai, in «Ragionamenti», anno 15, n. 176, settembre 1988, pp. 15-7. 116 omosessuale dichiarato, quindi molto lontano dall’ideologia fascista. Di conseguenza le matrici futuriste dell’UDA si limitavano ad una rielaborazione critica in chiave marxista e antifascista della fase rivoluzionaria iniziale del futurismo, accanto al riconoscimento artistico dei suoi esponenti: Marinetti in testa. Ma l’Uda si pose subito ideologicamente nel campo opposto, marxista, anche se rifiutò il realismo socialista e lo stalinismo (come poi Bernari rifiuterà Togliatti e il PCI difendendo l’autonomia ideologica e critica degli intellettuali). Di conseguenza il tentativo fascista di appropriarsi ideologicamente di Tre operai fu un’operazione ingenua e approssimativa subito abortita perché stigmatizzata, come dicevamo, dallo stesso Mussolini. 74 La confusione a proposito di Tre operai non nasce quindi sul piano ideologico ovvero contenutistico dell’opera (la questione del realismo proletario andava bene ad entrambi i campi ideologici), bensì sulla sua novità formale, cioè sul modo di rappresentare la realtà, non realisticamente o oggettivamente, come avrebbero voluto i difensori delle due scuole del realismo, quella fascista e quella socialista che poi si ritrovarono nello strano ibrido di un Vittorini improvvisamente antifascista e filo– togliattiano (una contraddizione che esploderà con la nota questione del «Politec- nico»). Ecco dunque che, per l’assenza di un approccio interpretativo interdisciplinare, il neorealismo è rimasto vittima di quel malinteso originario e quindi non si è mai liberato di un aspetto nebuloso e indecifrabile. Queste incomprensioni della critica spiegano dunque anche l’acceso dibattito nel dopoguerra con gli autori che si opponevano, pur non rifiutando il concetto di “arte impegnata”, ad una riduzione allo schematismo contenutistico. Con la svolta democratica del PCI di Enrico Berlinguer, ne parlavamo a proposito del giudizio di Spagnoletti, nei primi anni Settanta, la critica cominciò a rimettere in discussione il tema della letteratura impegnata e a rivedere la problematica dell’“intellettuale organico”. E a riaprire, sia pur parzialmente, la questione del

 74 Il romanzo di Bernari non fu messo al bando ufficialmente dal fascismo solo perché il regime non voleva riconoscere la scempiaggine del proprio apparato di censura. Figuriamoci d’altronde che il Duce nel 1934 sperava in tutt’altra rappresentazione della realtà operaia italiana finanziando Pirandello padre e figlio per l’impresa del film Acciaio, basato sulla potenza titanica dell’operaismo fascista nelle nuove acciaierie di Terni. Progetto che stava avviandosi al fallimento proprio nel 1934, anno di pubblicazione di Tre operai, perché tutto poteva Pirandello, padre del dubbio e del rovello del Novecento, tranne che trattare il tema muscolare del fascismo operaio. E fa sorridere pensare alla faccia di Mussolini che si ritrova sulla scrivania il romanzo di Bernari, che parla della debolezza della coscienza di classe rivoluzionaria marxista come causa dell’avvento del fascismo, al posto della possente sceneggiatura maschia e romana dello spaesato duo Luigi e Stefano Pirandello. 117 neorealismo. La lentezza di questo processo di reinterpretazione del neorealismo non si deve però imputare a macchinazioni o a tentativi di pilotare la storia nei comodi porti degli schemi già pronti, ma piuttosto alla difficoltà storica (e parlo della mancanza di una visione interdisciplinare delle arti) della critica italiana di leggere la letteratura contemporanea in funzione delle arti visive, a partire dalla fotografia. Ma è proprio nei primi anni Settanta e Ottanta che viene a formarsi finalmente una nuova critica (citavo nel precedente capitolo Rocco Capozzi, Eugenio Ragni, Francesca Bernardini, Antonio Vitti, Matteo D’ambrosio, Nicola Cacciaglia) attenta e preparata all’interpretazione delle sinergie artistiche, dei rapporti tra letteratura verista e neorealista e le arti visive. La strada viene definitivamente spianata da Maria Corti che – pur districandosi a fatica nel coacervo neorealistico che gli sfugge appunto, – sua la definizione, citata nell’incipit (pag. 3), “come un’anguilla” – ha osservato come nella letteratura critica sul neorealismo spesso si dimentica che la legge costitutiva di un testo letterario si crea al punto di incontro fra livelli tematico–ideologici e formali. Maria Corti avvalora così, non senza ritardo, la proposta di un’interpretazione formalistica del neorealismo: proposta su cui peraltro scrittori e registi e sceneggiatori si erano sgolati fin dai primi anni Cinquanta. Il problema è semmai che Maria Corti si ritrova tra le mani “l’anguilla” del neorealismo perché fissa una data improbabile come atto ufficiale della sua nascita, restringendolo entro gli anni 1943–1950. La studiosa ritiene infatti che il 1943 possa adeguatamente essere considerata la data di partenza, in quanto quell’anno non solo segna l’inizio della Resistenza ma costituisce anche

la data post quem dell’estendersi dell’etichetta di neorealismo dall’ambito cinematografico a quello letterario e il termine neorealismo si impone in modo autonomo rispetto al suo uso letterario negli anni Trenta.75

Ciò, tuttavia, è fuorviante poiché, come abbiamo sin qui visto, sinergie tra le arti visive e la letteratura, tra pittura, fotografia, teatro, cinema e narrativa vengono a coagularsi sin dagli anni Trenta con un processo di contaminazioni che derivava da lontano: dal verismo, appunto, di Verga e Capuana. Fin dalla nascita dell’arte fotografica contaminazioni e influenze si sono rivelate così strette da comportare un

 75 PAOLANTONI, Il giallo letterario di Tre operai, cit., p. 16. 118 nuovo modo di rappresentare la realtà, un nuovo realismo ovvero, nell’acronimo, un neorealismo. Si diceva che il “cambio di passo” della critica avviene nella prima metà degli anni Settanta. Lo testimonia la fondamentale prefazione di Geno Pampaloni alla prima ristampa Oscar Mondadori (1975) di Tre operai:

Ciò che colpisce di più il lettore odierno di questo romanzo di quarant’anni fa è il risoluto “no” alla realtà, espresso con una determinazione che in Italia, in quegli anni, aveva dimostrato soltanto Moravia [...] Del resto, il retroterra culturale del giovane Bernari era molto diverso. La sua tradizione di crocian–socialista era il naturalismo, ed egli non la rifiuta ma vi fruga dentro con passione conoscitiva tutta moderna, ne esaspera i contenuti nell’istante stesso in cui, con il fervore espressionistico suggeritogli dall’esperienza delle avanguardie, si volge a rimodellarne le forme. Così non senza ragione Tre operai è stato definito “un incunabolo del neorealismo” (Montale)76 e ciò non solo per il tipo di realtà che ci rappresenta, ma perché la rappresenta con quell’intreccio di naturalismo ed espressionismo che sarà una delle sigle costanti del neorealismo di vent’anni dopo.77

Passano pochi anni dalla illuminante prefazione di Pampaloni, anticipata però dalle ricerche di Rocco Capozzi che se ne occupa a partire dal 1973, ed anche un esponente della critica marxista, Romano Luperini, nei primi anni Ottanta finalmente propone una rilettura di Tre operai non più in chiave contenutistica, ma sotto l’aspetto della novità della forma chiamando in causa i grandi della letteratura mondiale del Novecento (lo aveva già fatto per altro Spagnoletti nel 1961, vedi note precedenti):

Anche la struttura narrativa è originale: solo apparentemente si tratta di un romanzo neoverista, in realtà la scrittura è di tipo sperimentale: la terza persona molto spesso si soggettivizza, e la narrazione oggettiva lascia il posto al monologo interiore (d’altronde Bernari è molto attento alla lezione di Döblin, Dos Passos, Kafka). Ciò può spiegare la sorpresa che suscitò questo libro al suo apparire (nel 1934), l’opposizione del regime, l’isolamento successivo di Bernari.78

 76 MONTALE EUGENIO, Tre operai, in «Corriere della Sera» del 29 maggio 1957, p. 3. 77 PAMPALONI GENO, Introduzione a Carlo Bernari, in Tre Operai, Milano, I. ristampa Oscar Mondadori, 1975, p. 15. 78 LUPERINI ROMANO, Il Novecento. Apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, 1981, p. 561. 119 Il problema è che poi la critica, indipendentemente dalla “chiesa\partito” di appartenza, marxista o cattolica, per usare un termine di Bernari che le accomuna, è rimasta, tranne alcune eccezioni, – e per i motivi più svariati, dagli interessi personali giunti ad un punto di non ritorno come sostiene Franco Cordelli che parla di una critica in declino79, ai limiti nell’approccio interdisciplinare scientifico, – sulle sue posizioni primordiali nell’interpretare il neorealismo dal punto di vista contenutistico e realistico. Ne è la riprova un recente giudizio di Paolo Di Stefano che, non riuscendo a coglierne appieno la novità formale, continua a ridurre il neorealismo ad una forma di populismo ideologico:

Certo, c’è il filone della narrativa verista del Verga di Rosso Malpelo, che arriva ai Tre operai di Carlo Bernari, al Capofabbrica di e al neorealismo di Vasco Pratolini. Ma non si sfugge al sospetto che se confrontato con l’ampio respiro del grande romanzo francese o anglosassone, il populismo ideologico italiano abbia in qualche modo impedito un racconto più libero da schemi mentali prima ancora che narrativi.80

Naturalmente il discorso di Di Stefano sarebbe corretto, se prendessimo come termine di paragone solo la versione ideologica del neorealismo, quella cui dà voce Vittorini quando parla nella Inchiesta sul neorealismo di una “verità obbiettiva” insita nell’animo dello scrittore (chiamando le cose per nome: la sua ideologia) che verrebbe ad assolverlo dalla riproduzione mimetica della realtà, in quanto la verità – una verità interiore, aprioristica alla conoscenza e fortemente ideologica – sarebbe già in suo possesso. Vittorini esprime insomma l’esigenza di un compromesso, una sorta di “Realliteratur” – parafrasando un’espressione che deriva dalla politica – un modo per liberare lo scrittore dal realismo mimetico come forma della rappresentazione, tenendolo al tempo stesso ben ancorato, e forse incatenato, all’ideologia – e al partito\chiesa di riferimento. L’idea della verità obbiettiva di Vittorini sembra infatti postulare un a priori idealistico–ideologico che farebbe sorridere Kant… per non

 79 Cfr., CORDELLI FRANCO, Se la carta bollata sostituisce una critica in declino, in «Corriere della Sera» del 30 settembre 2012, p. 35. Nell’articolo si leggono molte accuse esplicite, tra cui: «Che dire di un giornale (il Fatto) che non ospita articoli di criticca; o se li ospita (Repubblica) li affida a un cosiddetto scrittore, per di più inesperto, per di più della stessa casa editrice del libro che deve analizzare?» 80 DI STEFANO PAOLO, Il romanzo del lavoro tra ideologia e tristezza , in «Corriere della Sera», 1° maggio 2012, p. 22. 120 parlare di Marx81, insieme ad un gran numero di autori, a partire da Calvino e Pasolini che non erano certo deboli in fatto di ideologia, ma che sentivano in questo caso odore di incenso o di caserma stalinista.82 I progressi della ricerca letteraria sul neorealismo e su Tre operai in particolare, sono dunque ancora in uno stato di “work in progress”, anche se l’analisi delle sinergie tra pittura e cinema (Capozzi), espressionismo e sperimentalismo (ancora Capozzi e Francesca Bernardini) nella narrativa di Carlo Bernari, hanno spianato la strada ad un approccio scientifico e interdisciplinare che deve a questo punto coinvolgere, nel complesso delle arti visive, la fotografia, il teatro e naturalmente il cinema. Come già del resto aveva intuito, sin dal 1934, Guido Piovene, giungendo a collegare il romanzo alla pittura di Sironi:

Nella narrazione di Bernari vi è direi un realismo assoluto, dove le cose e gli eventi sembrano avere sentimenti in se stessi, e il loro semplice ritratto basta a creare una sentimentale suggestione [...] Si capiscono, in quest’arte, le interminabili enumerazioni degli oggetti che attorniano le vicende umane e che col loro semplice apparire devono esprimere un senso di stanchezza umana. Da quadro di Sironi.83

Il fatto è che il semplice apparire degli oggetti quotidiani, colto da Piovene, va oltre la fissità pittorica di un quadro, sia pur espressionista: in questo caso l’immagine del dipinto sta sempre lì davanti a noi, presente, cioè realistica, per quanto contorta o sfumata. L’apparire degli oggetti in Bernari e in Zavattini (e in Verga) è più di un “semplice apparire”, ma è anche uno sfumare nel nulla, nell’ombra, come se il quadro della realtà interiorizzata si tramutasse in un fotogramma della memoria la cui “proiezione letteraria” crea l’opera d’arte, la quale si evolve come una specie di “stringa narrativa”: ossia è il risultato di una molteplice stratificazione e compenetrazione di stimoli e di forme rappresentative e creative che interagiscono col reale, ma non sono esse stesse realtà. Ovviamente Piovene, nel 1934, non poteva  81 «Ho un bel negare le parrucche incipriate, mi restano pur sempre le parrucche» parodiava Marx ne LiIdeologia tedesca il vizio idealistico del materialismo ingenuo di ricadere nella vecchia dialettica hegeliana. La “verità obbiettiva” postulata da Vittorini equivarrebbe in sostanza ad una sorta di contenuto etico dello scrittore o, per dirla con Heidegger, ad un Essere dell’Esserci. Un a priori appunto che volendo partire dal marxismo ricade nell’idealismo. 82 Non si è fatta mai piena luce sulla situazione professionale di Cesare Pavese, all’interno della Einaudi vittorinizzata, nei mesi precedenti il suicidio, che ha certamente motivi soprattutto privati. Pavese, nel carteggio con Bernari precedentemente citato, sostiene di non potersi muovere più di tanto, dopo il fallimento del suo tentativo di portare Bernari nella casa editrice torinese. 83 PIOVENE GUIDO, I Tre Operai , in «Pan», 1° aprile 1934, p. 4. 121 disporre delle testimonianze e dei documenti che avrebbero potuto portarlo a dare una definizione complessiva del problema: le fotografie di Verga sono state scoperte solo negli anni Sessanta e di sinergia tra scrittura cinematografica e letteraria si è cominciato a parlare nel dopoguerra. Tuttavia, alla luce delle ricerche e dei materiali oggi disponibili, è possibile giungere ad alcune conclusioni rimaste a lungo in nuce perché hanno stentato a maturare per il problema cui accennavo prima, ovvero per la mancanza in molti casi, da parte della critica, di un approccio interdisciplinare sulla sinergia delle arti nell’ambito del verismo e del neorealismo. Una lettera di Verga all’amico Capuana del 26 dicembre 1881, per entrare in particolare nel merito della questione della fotografia, dimostra come la reinter- pretazione del verismo e del neorealismo, appunto alla luce dei rapporti con le arti visive, fosse e sia ancora quanto mai necessaria:

Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario.84

La funzione determinante dell’arte fotografica nella formazione dell’opera narrativa di Verga è focalizzata da Ignazio Burgio che si spinge anche ad un collegamento diretto con lo stile neorealista successivo al verismo:

Nelle opere veriste di Verga, paesaggi, ambienti e personaggi vengono descritti facendo ricorso, proprio come nelle foto d’autore rigorosamente in bianco e nero, al sapiente gioco di luci ed ombre, del sole, della notte, dei fuochi, e via dicendo. Inoltre le trame dei racconti sembrano una sequenza di brevi scene neorealiste legate insieme dalla voce del narratore.

L’analisi di Burgio è tuttavia ancora, seppure in parte, legata al “vecchio” schema che vede nel verismo uno stile “oggettivo”:

All’interno di tali scene, i personaggi per lo più umili risaltano come figure in chiaroscuro sullo sfondo di un paesaggio rurale ed umano, gretto e spesso ostile, ritratto fedelmente come nelle fotografie che ci ha lasciato.  84 RAYA CIRO, Carteggio verga-Capuna, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1984, p. 164. 122

Agli occhi di Burgio appare, nonostante tutto, la novità che slega il verismo di Verga da una forma di riproduzione fotografica “verbale”, poiché il racconto verghiano comincia ad assumere l’aspetto di un movimento dinamico dell’immagine attraverso lo strumento della drammaturgia (che sarà poi evidente quando torneremo a parlare del teatro in rapporto con la letteratura verista e neorealista, a partire da Cavalleria Rusticana di Verga).

E proprio perché la struttura di ogni racconto è immaginata come una sequenza di istantanee, chi ritrae, cioè lo scrittore, riesce a restarne più facilmente al di fuori, come dietro la sua macchina, al momento di aprire l’obiettivo sulla realtà.

Ed ecco la conclusione del ragionamento di Burgio:

Tutto ciò ha il sapore di una sceneggiatura cinematografica ante litteram [...] questo poiché se è vero che le novelle e i romanzi di Verga avevano in qualche modo il loro modello ideale nell’arte fotografica, ma finivano per evidenziarne i limiti – poiché le fotografie non possono narrare – l’evoluzione tecnologica delle fotografie, ovvero il cinema, avrebbe potuto sopperire a questa mancanza.85

L’analisi stilistica dell’uso dei colori nella narrativa di Verga – caratterizzata, oltre che dal bianco/nero fotografico che utilizza giochi di luci ed ombre, come un’anticipazione del cinema espressionista del primo Novecento, anche da squarci di colore, rosso, verde e blu – potrebbe rivelare un collegamento diretto col neorealismo di Tre operai, in cui si individua chiaramente una forte accentuazione cromatica ed espressiva che non può non far pensare allo stile dello scrittore siciliano. Così basta accostare le riflessioni di Ignazio Burgio sul cromatismo in Verga e lo studio di Rocco Capozzi dei colori nelle opere di Bernari, per trovare un denominatore comune – formale e stilistico prima ancora che contenutistico (il mondo degli umili eccetera) – dei due scrittori, dal che si può facilmente dedurre che verismo e neorealismo siano strettamente correlati. Un rapporto tra i due movimenti, di fine Ottocento l’uno e della prima metà del Novecento il secondo, che troverà formalmente nel cinema e nel teatro  85 BURGIO IGNAZIO, Raccontare in bianco e nero: Giovanni Verga fotografo e il suo stile verista, cfr. sempre dello stesso Autore, Giovanni Verga e i suoi racconti in bianco e nero, entrambi questi articoli in si leggono formato PDF, in perché.cataniacultura.com, 2011. 123 – attraverso il “trait d’union” di un altro scrittore che opera proprio nel mezzo tra la generazione di Verga e dei veristi e quella di Bernari e dei neorealisti, cioè Pirandello – il “tavolo di lavoro” in comune. Il semplice fatto che dopo il 1905, e fino alla morte, Giovanni Verga non sia rimasto inoperoso, ma abbia anzi lavorato alacremente alla stesura di soggetti e sceneggiature cinematografiche (proprio come il suo più giovane conterraneo Pirandello), spiega come l’evoluzione dal verismo al neorealismo avvenga sulla base della tecnica fotografica prima e del suo sviluppo nel cinema poi. Tutto questo processo è stato, salvo alcune eccezioni nel campo degli studiosi e salvo le dichiarazioni pressochè unanimi degli stessi autori che hanno sempre rivendicato il loro processo creativo basato sulla forma piuttosto che sul “contenuto” ideologico e sociale, insufficientemente considerato dalla critica, o “dimenticato” come nel caso dei materiali fotografici di Verga. Tale critica, come accennavo, si è mossa nell’ambito di uno schema fittizio e di un’equazione falsante: verismo e neorealismo = oggettivismo e contenutismo sociale. Questa interpretazione, che si è comunque consolidata fino a trasformarsi in una forma mentis e in giudizi stereotipati difficili da estirpare anche a livello di insegnamento scolastico (soprattutto dagli anni Cinquanta agli anni Settanta dello scorso secolo), non ha peró tenuto conto di alcuni risvolti elementari, tra cui spicca quello per cui si considera la forma narrativa del verismo, ad esempio, sotto il punto di vista dell’azione drammatica del reale, mentre la fotografia sarebbe una “istantanea”, una posa, insomma un “fermo immagine” della realtà, capace sì di rappresentarla, ma di per sé non sufficiente a descrivere appunto la drammaturgia delle forze che spingono la realtà stessa al movimento, all’azione, al dramma e alla tragedia del vivere. Questa concezione cozza però con la constatazione che il “fermo immagine” fotografico racchiude una forza narrativa ben superiore al documento: l’arte fotografica consiste nel riuscire ad esprimere con una sola immagine, o con una serie di immagini, proprio quella drammaturgia del reale che si ritiene comunemente appannaggio esclusivo della letteratura e del teatro. Per questo, come vogliono i surrealisti a partire da Man Ray, la fotografia e il cinema sono un’arte e non una tecnica. Ovviamente dobbiamo fin d’ora tener presente che la fotografia racchiude in sé una potenzialità narrativo–drammatica che trova il suo naturale sviluppo nell’arte cinematografica. Cos’è infatti il cinema se non fotografia o fotogramma “in

124 movimento”, dove il movimento è dato dall’elemento letterario del dialogo, comunque dal “fine” narrativo e/o espressivo dell’artista che traduce in immagini la forma drammatica, cioè il racconto? È utile ora osservare come, fin dal suo esordio, la fotografia determinò un nuovo modo di rappresentare la realtà, molto al di là del semplice dato descrittivo. Ciò non vale solo per la pittura, il che sarebbe scontato, nel suo rapporto con la rappresentazione naturalistica, ma anche in campo strettamente letterario, a cominciare dal “presunto” verismo di Verga: perché “presunto” lo si vedrà tra poco da un intervento di Massimo Bontempelli. Il dato è che il verismo, nonostante il termine stesso faccia pensare ad una documentazione della realtà “così com’è” e si porti dietro come un’ombra dai contorni imprecisi questo suo rapporto riproduttivo o addirittura mimetico con la realtà, altresì procede ben oltre il semplice “oggettivismo” per entrare piuttosto in quelle dinamiche psicologiche e soggettivistiche che sono alla base della letteratura del Novecento: una letteratura che ha dovuto fare i conti, esercitando su di esse a sua volta una forte influenza, con le arti visive come la fotografia, il teatro, il cinema. La critica ha tuttavia preferito, con qualche eccezione, considerare l’attività fotografica di Verga come un passatempo, un vezzo, un elemento biografico tutt’al più utile a studiare interessi e ambientazioni della sua opera narrativa. Eppure la fotografia, come sostiene Giovanni Sorbello, è il primo strumento narrativo dello scrittore catanese nel decennio del ciclo de I Vinti:

[Verga] blocca la sua attenzione sulle caratteristiche percettive dell’immagine e sulla sua precarietà semantica, dimostrando una più o meno inconsapevole assimilazione di alcuni valori estetici peculiari del nuovo medium. Le considerazioni di Verga oltrepassano, di fatto, la comune accezione veristico–documentaria in cui l’immagine analogica era di solito relegata nel sistema delle arti ottocentesco. [...] uno “stile Verga” che definisce la sua prassi di costruzione dell’immagine lontano da quel semplicistico e riduttivo intento documentario in cui essa è di solito sbrigativamente confinata.86

Dunque Verga aveva a disposizione, proprio nella fotografia, uno strumento diverso, e ben più potente, dalla penna per rappresentare la realtà, qualora di essa avesse voluto fornire una descrizione “veristica”: cosa che per altro fece, fotografando  86 SORBELLO GIOVANNI, L’Io pittore di Giovanni Verga: lacrymae rerum e l’immaginario visivo dell’ottocento. Si legge in formato PDF, in perché.italianisti.it. 125 la realtà con grande impegno e passione. Tuttavia, ecco il nodo centrale della questione, la critica non sempre ha dato risposte esaurienti su come la fotografia abbia influito sulla formazione dello stile “verista”, né si è sufficientemente studiato il Verga fotografo87 nonostante il consistente materiale da lui realizzato. Altro che passatempo utile semmai a vagliare il rapporto tra le immagini e le ambientazioni e i personaggi romanzeschi. Come se Verga avesse avuto bisogno di porsi davanti agli occhi dei quadretti più o meno veristici per poterli dipingere come un pittore dilettante fa davanti ad un panorama! La risposta giusta sarebbe semmai un’altra: Verga affidando il lato descrittivo all’immagine fotografica, riesce con la prosa a scardinare la superficie del reale per entrare nella “vera” tragedia umana, in una drammatica antidescrittiva, antioggettiva, ma tutta incentrata sulle dinamiche interiori dei personaggi in lotta sia tra loro che contro un elemento assolutamente antirealistico e antinaturalistico come il Fato. Non è questa la sede per un vaglio critico dell’opera di Giovanni Verga in rapporto con la fotografia. Ma certo è che si può considerare quella di Verga una forma narrativa che prende dalle fotografie – da lui stesso realizzate – gli elementi drammatici e tragici del reale da trasfigurare su un piano metafisico, surreale; ovvero, come ebbe a dire Massimo Bontempelli, “omerico”. Tra i pochi ad accorgersi di questo superamento della fotografia del reale in direzione di una tragedia “irreale” o “surreale”, per usare un termine che assumerà forte significato simbolico alla fine del primo ventennio del Novecento, è stato proprio Massimo Bontempelli che sembra parlare, a proposito dello stile “verista” di Verga, di un procedere come per immagini fisse, rapide, sintetiche, in altre parole fotografiche:

La brevità estrema di Verga [...] non dà l’impressione di velocità, di vertiginoso, che davvero è un gusto molto mediocre. Essa vale a suscitare il senso di apparizione, e un súbito solidificarsi d’ognuna delle immagini per cui si viene costruendo l’avvenimento. Siamo proprio agli antipodi della maniera cinematografica. Ci accostiamo invece alla poetica del Leopardi, che sta nel fare immobili le immagini.88

 87 Cfr. GARRA AGOSTA GIOVANNI, Verga fotografo, Catania, Maimone Editore, 1990. L’edizione riproduce un centinaio di “scatti” eseguiti da Giovanni Verga. 88 BONTEMPELLI MASSIMO, Verga , Discorso pronunziato il 15 febbraio 1940 nella Reale Accademia d’Italia in Roma, in Sette discorsi, Milano, Bompiani, 1942, p. 137. 126 Naturalmente lo stile di Verga non può aver ancora ricevuto l’influsso del cinema come invece accadrà esplicitamente ad uno scrittore della generazione successiva come Luigi Pirandello, a partire da Si gira! del 1915. Verga infatti smette di scrivere nel 1905 e il suo periodo “verista” va dal 1880 col racconto Vita dei campi al romanzo Mastro don Gesualdo del 1889, un decennio in cui il cinema non aveva ancora mosso i primi passi. Senonchè la fotografia sembra assumere nella narrativa verista una funzione guida di primaria importanza, in quel fare “immobili le immagini” di cui parla Bontempelli. Ma non si tratta, ripetiamolo fino alla noia, in Verga di una “verità” da riprodurre fotograficamente, – a ciò gli basta appunto la fotografia – ma da reinterpretare cogliendo nel reale la presenza di forze “irreali” e tragiche come il Fato. In questo senso non può essere considerato paradossale che nel discorso su Verga del 1940 Bontempelli, quasi presentendo quello che sarebbe avvenuto di lì ad un decennio, lanci una frecciata alla critica che, soprattutto nella seconda metà del Novecento, continuerà per lunghi anni ad appioppare al verismo, come accadrà anche al neorealismo, l’etichetta di uno stile volto alla «comprensione e rappresentazione dei conflitti di classe»89 (Salinari). Secondo Bontempelli:

Veduto a questo modo il mondo di Verga, siamo ben lontani da una tesi molto comune tra i suoi lettori, e da lui stesso accettata: la tesi che la sua opera intenda rappresentare la vita degli umili, e ne sia in certo modo la protesta e la difesa. 90

Bontempelli è stato il primo e forse anche l’ultimo, almeno fino ad ora, a defi- nire già nel 1940 il termine “verismo” usato a proposito di Verga come una etichetta falsante, difendendo la “primordialità” dell’opera verghiana, un concetto che va molto oltre l’idea di verità oggettiva della rappresentazione appunto veristica della realtà:

Primordiale è ciò che in fondo a tutti gli stadi della storia rimane immutabile, è esso la sorgente costante delle variazioni che succedendosi la creano; è il fermo che governa il mobile.91

 89 SALINARI, Storia della letteratura italiana, cit. p. 139. 90 BONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, cit. p. 145. 91 Ivi. 127 Parrebbe dunque, secondo Bontempelli, che Verga, proprio in concomitanza con l’inizio della sua attività di fotografo, sviluppi il nuovo stile narrativo del ciclo de I Vinti: dallo scatto fotografico, evitando la descrizione letteraria, lo scrittore entra nella tragedia di quel mondo primordiale di cui appunto parla Bontempelli ricorrendo a due aggettivi che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni: “omerico” ed “eschileo”. Perciò Bontempelli rifiuta l’etichetta di verista parlando di Verga. Il concetto stesso di verismo ci riporta ad una dimensione meno primordiale, come lui direbbe, ossia meno omerica ed eschilea, ovvero ad una dimensione documentaristica, oggettiva e critica della società – come direbbe in aggiunta Salinari92. Nel denunciare questa linea interpretativa che già intuisce delineata nel 1940, Bontempelli, in un brano che merita di essere citato per esteso perché ci dà la chiave di lettura interpretativa del cosiddetto verismo e dello stesso neorealismo, precisa :

Sono dunque stato bene attento, parlando del nucleo di quel mondo verghiano, a non dire primitivo, ma primordiale, o elementare. Anche all’infuori di questa interpretazione elementarista dei protagonisti di Verga (la quale abbatte il pregiudizio del suo verismo, ch’era una involontaria condanna capitale contro il poeta) pensate che per un’altra ragione dopo aver letto I Malavoglia o le tre novelle non rimane affatto in voi l’impressione d’aver avuto a che fare, come dicono, con un mondo piccolo. Una famiglia in lotta col destino, la cui arma è la potenza del mare, quale mondo più grande di questo? La grandezza si genera dalle distanze create. C’è di più: sventura su sventura, nasce naturale l’impressione della legge oscura di persecuzione, nasce il senso di fato come inesorabilità e inconoscibilità [....] Ulisse o Antigone premuti dal destino avverso, non sono maggiori di padron ‘Ntoni e di Rosso Malpelo.93

Bontempelli passa quindi a chiarire anche l’origine del fraintendimento:

 92 «La scoperta di un contenuto nuovo (o, se si preferisce, di una nuova visione del mondo) permette al Verga di comprendere, assai meglio degli storici ufficiali, la società che lo circondava. E innanzitutto gli permette di comprendere nella sua vera essenza il moto risorgimentale, che si spoglia nelle sue opere di ogni orpello retorico e si rivela per quello che fu realmente: un moto guidato dalla borghesia per i propri interessi di classe nel quale venivano realizzate alcune conquiste comuni ed utili a tutti (come l’unità e un regime rappresentativo), ma venivano eluse le questioni fondamentali, le trasformazioni profonde delle strutture economiche e dei rapporti politici.» SALINARI, Storia della letteratura italiana, cit., p. 141–2. 93 BONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, p. 145. 128 Lui stesso il Verga – come avvenne più volte ai poeti – non se n’è reso conto. Nella prefazione a I Malavoglia, che doveva preludere a tutta la serie, mostra chiaro di aver avuto in mente qualche cosa di meno vasto e tragico di quel che poi ha fatto. Pensava di scrivere uno studio, gli è venuta una trasfigurazione. Credeva aver presentato un certo numero di umili, ha rappresentato l’umanità nelle sue necessità e leggi fondamentali. Badate che qui si può vedere una cosa importante. Quando Verga passò dai suoi primi romanzi, di ambiente mondano, ai racconti siciliani, credè candidamente di aver accettato l’incitamento della scuola verista, e primo tra i veristi italiani fu subito proclamato dalla critica. Noi non possiamo più cadere in questo errore. Lui non è verista come non è verista Goldoni...94

A questo punto Bontempelli introduce un elemento che acuisce la differenza tra Verga e il suo presunto verismo: lo sfondo scenografico o decorativo, ma se vogliamo anche fotografico. Il verismo si esaurisce nella rappresentazione oggettiva e fotografica (cosa che Verga ha già fatto con le sue eloquentissime fotografie), mentre l’opera di Verga va ben oltre l’oggettività e la descrittività:

[...] e dico Goldoni con intenzione, c’è del goldoniano nelle trame serrate con cui si disegna la vita di sfondo paesano de I Malavoglia; e anche nel fatto che questo sfondo non è decorativo, ma è un personaggio, viene continuamente in primo piano insieme con i protagonisti. Tutti quelli che han preso le mosse da lui, tra essi il primo D'Annunzio, han fatto il contrario, in loro gli stessi protagonisti sono assorbiti dallo scenografia, tutto diventa decorativo balletto folclore.95

Bontempelli non concorda, insomma, con la definizione di un Verga verista, o di precursore di una nuova visione storico sociale come pensa Salinari:

Se d’un tratto Verga chiamato dal Dio ha abbandonato le donne fatali gli esteti la cortigiana squisita, non lo ha fatto come tutti dicevano, per ubbidire alla consuetudine verista di dedicarsi alle classi povere; no, lui parlava di pescatori proprio per uscire dalla attualità, dal costume; avendo intuito che la trasfigurazione poetica è quella che da qualunque aspetto vivo risale alle origini, lui ci è corso dritto, all’origine; per lui i pescatori di Aci Trezza non sono umili su cui suscitare compassione, ma individui umani presentati in tono di primordio.96

 94 Ibid., BONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, p. 145–6, 95 Ivi. 96 Ibid., BONTEMPELLI Verga, in Sette discorsi, cit., p. 146–7. 129

In conclusione, Bontempelli esprime il suo imbarazzo nei confronti della linea critica che fin dalla prima metà del Novecento – ma anche nel corso della seconda metà del secolo, continuando ad insistere su una certa visione schematica del verismo, prima, e del neorealismo poi – ha travisato il presunto verismo di Verga e l’altrettanto presunto neorealismo di Bernari e Zavattini come stili narrativi che avrebbero sviluppato una visione oggettiva, al limite del documento sia pur con intenti critici, della realtà e della società italiane:

Per questa ragione il piglio, il modo della rappresentazione, in quel periodo che solo nella sua opera conta, è un modo tra eschileo (penso alla Lupa) e omerico (penso ai Malavoglia). I primi critici, e non i primi soltanto, si sono affannati a cercargli per forza qualche parentela; han tentato il metallo credendo di sentirlo risonare ora con quello di Flaubert ora di Zola, che non c’entravano affatto, e poi con Tolstoi e Manzoni e altri. Ma sono tutti accostamenti che oggi quando li pronunci senti che non reggono; quello che meglio regge è appunto quando dici Omero.97

Quella che può sembrare una lunga digressione sul verismo e su Verga – l’opera del quale anticipa di circa mezzo secolo l’esordio con Tre operai di Carlo Bernari e la prima fase dell’attività letteraria e narrativa di Cesare Zavattini – è invece un punto di partenza essenziale del discorso sul neorealismo. Ma anche Bontempelli, che pure da Verga trae tanta linfa, è riferimento per Bernari98 (e certamente anche per Zavattini) già nel 1929 come ricorda Capozzi:

Naturalmente il momento storico, la cultura e la censura allora vigente ebbero un notevole ruolo nella scelta delle tecniche adottate dall’autore. E quindi la fusione di realismo, simbolismo e allegoria surrealistica va vista innanzitutto come mezzo per analizzare la realtà sociale e onnipolitica nei suoi aspetti più ambigui e poliedrici. Inoltre va ribadito che queste due componenti della narrativa bernariana,  97 Ivi. 98 Nell’ottobre 1960 Carlo Bernari commemora Massimo Bontempelli, scomparso due mesi prima, il 21 luglio, esaltando il diciottennismo del fondatore del realismo magico. Bernari insiste sul termine coniato dallo stesso Bontempelli rinforzandolo con svariati aggettivi (funambolico, notturno, distruttivo, imprudente, eccetera) e richiamandosi testualmente a un brano di Meditazioni e pensieri dello scrittore lombardo: «C’è chi nasce diciottenne e chi nasce quarantenne. Diciottennismo è la tendenza a vivere soltanto di ciò che si sta creando di nuovo... Il diciottenne distrugge di continuo, perché fida di poter continuamente rifare. Nell’intervento Bernari ricorda l’amicizia con Bontempelli scaturita dagli incontri nella libreria Novecento nel 1929 e poi proseguita negli anni Trenta. BERNARI, Commemorazione di Massimo Bontempelli in «L’europa Letteraria» cit., pp. 100–5. 130 quella realistica (storico–saggistica) e quella inventiva (fantastico- simbolico – allegorica) sono complementari e intrinseche al realismo nell’intera opera dello scrittore. L’uso di elementi fantastici all’epoca avrebbero fatto pensare giustamente a delle possibili influenze del realismo magico di Massimo Bontempelli. E se consideriamo che il giornalista e aspirante scrittore Bernard conosceva molto bene le opere metafisiche di Bontempelli quando lo intervistò a Napoli nel 1929, è ancora più facile assumere che tra il realismo magico e il realismo spettrale ci siano dei nessi. 99

 99 CAPOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, in «Rivista di Studi Italiani», cit., pp. 50–74. 131 Immagine e parola.

Ci siamo dunque dilungati su questa analisi, perché si tratta di argomenti che entrano nel carteggio Bernari – Zavattini: l’idea di una fucina mediatica basata sulla sinergia “forza della parola\potenza dell’immagine”, entrambe come parti non antitetiche di una dialettica narrativa “nuova”, nasce proprio dal back–ground neo– verista e surrealista degli amici che cominciano a corrispondere nel 1932. Come si è appurato, il neorealismo non ha niente a che fare con la rappre- sentazione veristica, oggettiva, della vita degli umili. Bensì con il Verga “omerico” individuato da Bontempelli: il Verga che ampiamente utilizza il mezzo fotografico per scavare sotto la realtà apparente, documentaria, così a fondo da portare alla luce le forze irrazionali, metafisiche che alimentano il contrasto tra personaggio e destino, tra Uomo e Storia. Non è un caso, del resto, che sia Verga che Bernari partano da una concezione “storica”: vogliono entrambi de–scrivere, intendo superando il mero dato descrittivo ma entrando piuttosto nel contesto di una critica alla realtà, le condizioni degli umili, delle classi sociali sconfitte: è quanto Verga afferma nella prefazione de I Malavoglia, ed è pure il dato di partenza, quello dell’analisi storico–sociale, da cui prende vita il romanzo Tre operai che, nelle iniziali intenzioni dello scrittore, avrebbe dovuto diventare una storia della classe operaia prima dell’avvento del fascismo. Ma poi, all’interno della scrittura stessa che perde il lato didascalico, storico–sociale, per assumere le proporzioni di tragedia eschilea o di poema omerico, scaturisce quel rapporto formale e non contenutistico, meno evidente ma più profondo, tra il verismo di Verga e il neorealismo di Bernari. Verga infatti non è verista, come sostiene Bontempelli, perché descrive oggettivamente la vita e le condizioni sociali degli umili, così come non è da considerarsi neorealista Bernari perché parla di giovani operai. Quanto al legame tra Verga e Bernari, va ricordato che la critica intuì fin dall’esordio di Bernari il suo rapporto con Verga definendo Tre operai un romanzo neo–verista100 (concetto da cui poi si generò il termine di neorealismo), per il modo nuovo di rappresentare la realtà. Un modo che scavalcando l’elemento descrittivo, oggettivo, naturalistico o addirittura giornalistico pernette ad entrambi – Verga e Bernari, come vedremo, si servono della fotografia per documentare e documentarsi, non avvertono

 100 Cfr. ARISTARCO [E. Zazo], Un neo–verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Letteraria», cit., p. 9. 132 dunque alcun bisogno di una scrittura realistica – di creare una forma che risulta nuova per i mezzi espressivi utilizzati, ma antica per quel dato di “primordialità” intuito da Bontempelli: il Fato verghiano rappresentato dal mare in tempesta, oppure i vapori e i fumi industriali che si levano mostruosamente intorno al giovane Teodoro di Bernari, impedendogli “omericamente” di vedere le mosse del suo incerto destino. Su questo tema insiste Francesca Bernardini:

[...] Bernari si distingue dal dibattito sul romanzo che impegnò gran parte degli intellettuali e degli scrittori italiani, accomunati tutti – i solariani come gli intellettuali della «Fiera letteraria» – anche se su posizioni diverse rispetto al fascismo, nel ritenere che l’arte sia rappresentazione e rivelazione di un ‘umano’ genericamente inteso, in cui si esprime una condizione caratterizzata in senso ora esistenziale e soggettivo, ora oggettivo, popolare e razionale, ma comunque sempre concepita come eterna e universale […]; e nel considerare l’arte il valore supremo dell’umanità. Mentre Bernari, dopo l’esperienza distruttivista, se si volge all’arte, lo fa secondo una poetica dell’ anti- romanzo, rifiuta il romanzesco, cala le vicende che narra nella storia e nella realtà, contamina i linguaggi, e facendo reagire la lezione di Verga con quella di Cecchi, di Montale e dei poeti dialettali, crea l’impasto espressivo, inconfondibile, di Tre operai. 101

Del resto, il richiamo a Verga nel discorso su Carlo Bernari non può non essere centrale: Tre operai fu immediamente visto dai primi critici come una sorta di opera neoverista. La recensione de «L’Italia letteraria» 102 – positiva ma con un appunto negativo nel finale – del capolavoro di Bernari, merita di essere riproposta perché dimostra la confusione dei critici che, partendo da una fuorviante interpretazione del verismo, insistono nell’errore imputando a Bernari difetti che difetti non sono, ma pregi di un’opera che smuoveva la letteratura italiana facendole compiere un passo in avanti con l’estremizzazione della tecnica fotografica di Verga, alla quale, come vedremo, si aggiunge anche il mezzo narrativo del cinema:

Il romanzo del napoletano Carlo Bernard [...] appare scarno e scheletrico, con una accentuazione documentaria e cronistica che lo distacca, senza dubbio, dalla nostra tradizione letteraria. [...]

 101 BERNARDINI FRANCESCA, Tre operai nel tempo , in «Rivista di Studi Italiani», nr. II, 2010, p. 33. 102 ARISTARCO [E. Zazo], Un neo–verista: Carlo Bernard, cit., p. 10. 133 Nell’incipit dell’articolo si potrebbe leggere una contraddizione col titolo: se il giovane scrittore viene presentato come un neo–verista ponendo l’accento sulla “accentuazione documentaria e cronistica”, non si capisce perché il romanzo dovrebbe distaccarsi, e non piuttosto inserirsi, nella nostra tradizione letteraria. Ma in questo caso bisogna ricordare che l’estensore della recensione si riferisce probabilmente al calligrafismo della “bella pagina”, tanto che Emiliano Zazo (che si firma con lo pseudonimo di Aristarco) prosegue:

L’indagine critica del suo romanzo si ferma subito ad un problema assorbente: se ed in quale forma il poverissimo materiale fantastico del libro, intessuto di quella cronaca quotidiana che senza dubbio è nella memoria di ognuno, abbia superato la nebulosa anonima del ricordo frammentario e confuso, per rivestirsi luminosamente, attraverso la rappresentazione estetica, di poesia e quindi di vita non effimera. Intendiamoci bene, questo discorso non vuole costringere la critica ad una pura e vuota questione di forma, trascurando gli altri elementi vitali del romanzo. [...]

Così la rinuncia all’estetismo dell’arte per l’arte diventa uno dei pregi principali dell’opera di Bernari:

Riteniamo, all’opposto, che giudicare come il nostro abbia saputo comunicarci, non con la facile schiuma della retorica, bensì con la solida persuasione poetica, il senso umano e universale della cronaca e del documento su cui poggia il romanzo, sia la migliore valutazione di tutti gli elementi vitali che in esso sono compresi. [...] Crediamo che proprio un tale problema o meglio un tale scopo si sia imposto Carlo Bernard: trarre dal quotidiano monotono passaggio di vicende ed esperienze, da questa materia che spontaneamente si genera e germoglia nello spirito di tutti (diremo dell’ignoto partecipe alla vita) la scintilla dell’arte, con i mezzi di una personale ed intima forza espressiva. Quando volessimo raccontare all’antica, la trama del romanzo, non sapremmo da che parte rifarci, appunto perché, seppure lontano dalla tradizione italiana e piuttosto nel clima di un certo realismo germanico o nord–americano, il libro interessa non tanto per quello che dice, quanto per “come” è detto, ed in quel sintetico come vorremmo comprendere [...] la presa di posizione dello scrittore dinnanzi al documento che egli stesso – attraverso reminiscenze autobio- grafiche – ha raccolto, lo stato d’animo e la conclusione ine- vitabilmente etica a cui lo stesso fine artistico che si è voluto imporre, lo conduce. [...]

134 Quindi la novità di Tre operai va ricercata non sul piano del contenuto, bensì su quello della forma:

Ancora una volta, anche attraverso l’esame di un libro più che ogni altro, lontano dalle preziose ma sterili esercitazioni letterarie dobbiamo riconoscere che l’“espressione” (forma, stile o linguaggio) sopra ogni altra cosa valorizza e nobilita in maniera inconfondibile, la materia poetica.

Giunto però al punto di dover definire la novità di questa nuova forma o di nuovo verismo – per richiamare il titolo dell’articolo – del romanzo, il recensore innesta una marcia indietro che riduce tutto ad un eccesso di cronachismo senza considerare – e ciò avrebbe costituito senz’altro un precedente importante per la critica successiva – che il presunto difetto del romanzo, l’eccesso di verismo, determina la dinamica dell’opera che passa dalla tecnica fotografica della rappresentazione della realtà all’introspezione di una realtà vissuta e modificata soggettivamente dal personaggio. Una sorta di dialettica Interiore–Esteriore fondata sull’immagine del reale fissata in un fotogramma che si trasforma in una radiografia intima del reale: il mondo – per dirla con Schopenhauer – inteso come Volontà e Rappresentazione. Invece la conclusione dell’articolo lascia l’amaro in bocca per l’occasione perduta:

Eppure dopo aver letto il libro del nostro, non c’è possibile nascondere l’impressione che egli abbia esagerato. [...] In altri termini si è lasciata troppa libertà di parola alla “cronaca” di cui è farcito il romanzo. [...]

Eurialo De Michelis, contemporaneamente alla recensione apparsa ne «l’Italia Letteraria», in una missiva 103 personale a Bernari sembra non cogliere la novità di Tre operai sul piano formale. Anche lui sottovaluta la modernità della scrittura asciutta, secca, che procede per fotogrammi non “oggettivamente” riproducenti la realtà, come filmando i riflessi di coscienza della realtà politica e sociale, ma anche individuale e sentimentale, traducendo tutto in un difetto, anzichè in un pregio104:  103 Lettera manoscritta, pubblicata in: Carlo Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, Milano, Mondadori «Gli Oscar» , 2005, cit. p. 230–2 (Archivio Carlo Bernari). 104 Rocco Capozzi, ad esempio, vede nell’uso del presente una tecnica cinematografica, quella del pedinamento del personaggio: «L’’uso del presente abbinato alla tecnica cinematografica di avvicinarsi ai personaggi e seguirli mentre si muovono qui ci fanno pensare alla teoria del pedinamento diffusa nel 135 Il suo stesso stile, secco, in tempo presente, se ha il pregio di non avere certi difetti (non è pletorico, non è decorativo ecc. ecc.) è poi secco, come annotazioni da cui può nascere un giorno poesia, ma che intanto sono niente altro che appunti cronachistici.

Il richiamo a Verga torna così, sull’onda di questa interpretazione, con una certa costanza nella critica del tempo. Francesco Bernardelli scrive a proposito del romanzo di Bernari che «si tratta di un nuovo verismo, secco […] intenso.»105

Anche Piovene, scrivendo su Bernari, cita Verga:

Teodoro […] all’inizio è un po’ simile al giovane Antonio de I Malavoglia. […] si capiscono, infine, in quest’arte, le interminabili enumerazioni degli oggetti che attorniano le vicende umane, e che col semplice loro apparire devono esprimere un senso di stanchezza umana: perché quest’arte, parli di cose o d’uomini, è tutta un sunt lacrimae rerum […] diciamo pure che questa è un’arte crepuscolare: purché s’aggiunga che la parola ha un senso più largo di quello spesso attribuitole, e può definire gran parte della narrativa moderna. Che altro significa infatti arte crepuscolare, se non quel realismo assoluto, nel quale gli uomini sono come assenti e dissolti, e le cose sforzate a sentir per se stesse, a esprimere di per se stesse? 106

Senonchè il “malinteso originale” sul verismo e, di conseguenza, sul neorealismo, provoca un arroccamento della critica che non coglie la novità di Tre operai sul piano della forma, ma insiste sull’aspetto contenutistico, in questo caso del “contenuto lirico” (e vedremo in seguito che sul tema del lirismo si solleverà un po’ di burrasca nei rapporti tra Bernari e Zavattini). Salvatore Battaglia scrive infatti:

Forse lo scrittore [Bernari, ndr.] progettava un esperimento parallelo ai Malavoglia del Verga e intendeva trasferire il mondo dei Malavoglia in quello dei braccianti e dei manovali meridionali, ma i suoi personaggi risultano contagiati dalla fatalità che il Verga aveva sentita incombente nella cronaca quotidiana e dall’assen- teismo che corrodeva all’interno della coscienza i protagonisti del  cinema neorealista dall’amico di Bernari, il famoso regista e scrittore Cesare Zavattini.» CAPOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, in «Rivista di Studi Italiani» , cit., p. 70. 105 BERNARDELLI FRANCESCO, Varia letteratura. Carlo Bernard: Tre operai – Emilio Radius: Amici di mezzanotte, «La Stampa», 27 marzo 1934. 106 PIOVENE, I Tre operai, in «Pan», II, 4, 1° aprile 1934, p.12. 136 Borgese, senza che tali atteggiamenti possano sollevarsi al piano dell’arte per la mancanza dell’ invenzione lirica di Verga.107

A Battaglia risponde, quarant’anni dopo108, Francesca Bernadini richiamando giustamente l’attenzione a quella tensione filosofica di cui parlavo all’inizio di questo capitolo a proposito della simpatia dell’artista nei confronti dell’oggetto di cui tratta il punto 3 del manifesto Uda del ‘29. Punto che rappresenta la chiave di volta del neorealismo:

È evidente che, come alcuni tra i primi recensori del romanzo, anche Battaglia non coglie la tensione morale che muoveva Bernari, una tensione morale dai risvolti politici che non potevano essere esplicitati, e di natura eminentemente filosofica (come rovello, come tensione, non come teoresi).109

È dunque possibile che la confusione sul verismo di Verga, chiaramente denunciata da Bontempelli nel 1940110, fosse tanto più operativa e fuorviante nei confronti di uno dei primi neorealisti come Carlo Bernari, il quale a Verga doveva non tanto e non solo l’attenzione per il mondo degli umili, quanto la forma, lo stile, quello scrivere come se avesse a disposizione una macchina fotografica: gli scatti o immagini ferme cui si riferisce Bontempelli nel discorso del 1940. Anche quando animata dalle migliori intenzioni, la critica ha sempre trovato difficoltà a collocare l’opera di Bernari, proprio per una identificazione imprecisa del verismo e del neorealismo. Sembra accorgersene Carlo Bo quando recensisce nel 1951 la prima edizione Mondadori nella collana dello Specchio di Tre operai:

La ristampa di Tre operai […] consente di vedere con maggior chiarezza la storia di quello che è chiamato ‘neorealismo’ [...] Penso che sia difficile per un neorealista dei nostri giorni ritrovare un punto di partenza preciso nei Tre operai, il libro gli apparirà  107 BATTAGLIA SALVATORE, I Tre operai di Carlo Bernari , in «Filologia e letteratura», XI (1965), 44, p. 339; il saggio è stato poi inserito in Mitografia del personaggio, Milano, Rizzoli, 1968. 108 L’argomento della tensione filosofica di Tre operai è peraltro chiamato in causa da Ruggero Jacobbi nell’introduzione ad Amore amaro, cfr. JACOBBI RUGGERO, Introduzione ad Amore amaro di Carlo Bernari, Milano, Mondadori, «Gli Oscar», 1972, p. VIII. 109 BERNARDINI, Introduzione a Tre operai, cit. p. 30. 110 Ma la sua correzione non fu poi presa nella giusta considerazione dalla critica che si contrappose, anche per motivi ideologici e politici, ai malumori degli autori che non si sentivano rappresentati dalle “etichette” come appunto verismo, neorealismo eccetera né volevano far parte “organica” del partito comunista e rifiutavano di conseguenza il concetto di “impegno” come un forzoso debito al contenutismo del realismo sovietico. 137 lento, compiaciuto, risolto troppo spesso con argomenti puramente letterari. Ed è giusto che sia così, il neorealista di oggi ignora il cammino percorso negli ultimi vent’anni e in un certo senso è arrivato a cose fatte, spinto dalle sole ragioni del tempo.111

 111 BO CARLO, Tre operai di Carlo Bernari (Edizione Mondadori), «La Fiera letteraria», 23 settembre 1951, p. 3. 138 Il singolare scambio epistolare tra Bernari e Zavattini nel 1950 in merito al concetto di realismo.

Le acque confuse - almeno per i critici (sintomatica è l’espressione di Carlo Bo nel succitato articolo: «quello che è chiamato neorealismo»), mentre gli autori sapevano benissimo cosa bolliva nella loro pentola, spiegando chiaramente in ogni occasione, articolo e dibattito, lettera o riunione, che il loro non era un realismo contenutistico né tantomeno oggettivo, bensì un approccio nuovo, dal punto di vista formale, alla realtà – produssero anche la necessità di qualche chiarimento interno tra gli stessi scrittori e tra Bernari e Zavattini in particolare. È quanto accade, ad esempio, in un singolare scambio epistolare risalente al 1950. La lettera di Zavattini a Bernari, datata 7/2/1950, è un lungo e divertente riepilogo di vari argomenti aperti da tempo, tra cui quello dello stile di Tre operai. In questo caso Zavattini azzarda un paragone con Zola che, come poi vedremo, scatenerà una interessante reazione da parte di Bernari. Riproponiamo il testo integrale della lettera perché costituisce un’ulteriore testimonianza dello spirito di collaborazione tra i due scrittori e del il tono del loro sempre aperto dibattito – ma anche perché si tornerà in seguito su alcuni brani di grande interesse. La lettera è battuta a macchina senza un “a capo”, di getto, senza alcuna correzione – fatto insolito per Zavattini che usava rielaborare le missive con cancellazioni e richiami in diversi colori. Per la verità sembrerebbe battuta materialmente a macchina da un’altra persona, sotto dettatura. La firma “tuo Za”. è autografa e un punto esclamativo con la stessa penna e grafia della firma è apposta accanto alla data, come pure vi è una sottolineatura del giorno 7 e del mese 2, cioè febbraio (ma la sottolineatura sarà avvenuta dopo e probabilmente è attribuibile a Bernari che era solito archiviare diligentemente la corrispondenza):

Caro Carlo, ci vuole la tua buona volontà, la tua amicizia a sopportarmi. Non so più come fare, caro Carlo, ma forse è così perché nel mio segreto voglio così: un modo per confondere le carte sempre di più e stare lontano dai veri impegni. Pesco dalla posta inevasa le lettere a caso, senza più scegliere né secondo l’urgenza né secondo l’affetto, mi gira la testa, sono sempre indietro di un anno, almeno rispetto a quello che credo in coscienza di dover fare. È finito il tempo da parecchio, peró, che io me la pigliavo con gli altri. Dunque: pare

139 davvero che io venga in marzo avanzato a Milano per starci un lunghissimo mese. Dovevo venirci il 3 e poi la conferenza organizzata da Tofanelli al Piccolo Teatro è andata in aria, non so perchéun . Come saprai c’è lì De Sica che sta girando Totó il buono 112 . Non ti ho scritto niente come dovevo per il tuo romanzo 113 che lesse prima di me mia moglie trovandolo interessante. Essa è un lettrice molto elementare. In fatto di elementarità non scherzo neanch’io: a me pare che sia un buon libro anche se non raggiunge sempre la intensità di Tre operai (titolo sottolineato nell’originale, ndr) o di certi altri tuoi racconti. Forse ho un po’ il paraocchi perché cerco continuamente le pagine liriche quando il tessuto narrativo spesso non ne ha bisogno e allora Dostojewschi (un errore di battitura che conferma che a scrivere la lettera materialmente a macchina non è Zavattini, che non avrebbe mai sbagliato il nome dello scrittore russo, ndr.) e per andare agli antipodi Proust? Tu invece hai sempre più voglia di raccontare senza tante storie, quasi come un compito, qualche cosa di preciso, di documentato, di faticato, se non dico una fesseria direi che Zola ti ha insegnato qualche cosa. Pensavo ai tuoi viaggi, una cosa che mi fece impressione: Vado a Napoli a vedere certi posti che mi servono per il libro. Questi viaggetti silenziosi, da commesso viaggiatore tanto erano disadorni mi fecero sul serio impressione e capii benissimo cosa vuoi fare. Tutti ci documentiamo, ma tu avevi un’aria professionale, diciamo così, appunto disadorna, poco artistica, cioè come deve essere oggi se si vuol fare qualche cosa di utile prima che di artistico; l’artistico viene da sé, l’utile bisogna volerlo. Scriverò a quel tuo agente, spero domani, mi metteró in contatto con lui e senza dubbio ne riceverò un vantaggio, anche di questo ti devo ringraziare. Ti confesso che io con l’estero non faccio niente. Ho lasciato passare e lascio passare delle buone occasioni e non capisco bene perché faccio così. Anche qui ci sarà una ragione molto seria che scoprirò un giorno o l’altro. O pigrizia o scarsa convinzione sui propri meriti. L’estero mi fa ancora tanta impressione. Ciao, caro Carlo, e arriverderci presto. Saluta tua moglie e Cicci.114 L’Olga torna da Milano dove è stata pochi giorni per un matrimonio. Non so se vi ha visto. Ma il suo viaggio che pareva felice si è mutato alla fine in un viaggio malinconico per vicende di salute della sua famiglia.115

 112 Il riferimento è al film Miracolo a Milano tratto appunto dal romanzo di Zavattini Totò il buono. 113 Si tratta di Speranzella edito da Mondadori nel 1949, che vinse il Premio Viareggio nel 1950. 114 Il primogenito di Bernari, Eugenio, viene soprannominato in famiglia Geggi. 115 Lettera dattiloscritta, autografa, indirizzata a “Carlo Bernari / via Franchetti 1 / Milano” datata Roma, 7 /2 /1950, la data è sottolineata dallo stesso Zavattini con un punto esclamativo accanto, pubblicata in: BERNARD ENRICO, Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, Cosenza, Rubettino Editore, 2012, pp. 356-7 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 140 La lettera di Zavattini delude l’amico Bernari per diversi aspetti. Passi il giudizio approssimativo sul romanzo Speranzella che proprio nel 1950 vince il Premio Viareggio. Opera che peró Zavattini pare leggere distrattamente riportando per altro un giudizio della moglie Olga, donna bravissima e sensibile, che, come giustamente sottolinea Zavattini, rappresenta il lettore medio ideale, soprattutto quel pubblico femminile che comincia nei primi anni del boom economico a determinare il successo di una novità letteraria. Zavattini pensa, insomma, di fare un piacere all’amico citando una prima reazione positiva al romanzo, ma dalla risposta di Bernari si evince una certa amarezza: forse lo scrittore napoletano si aspettava un sostegno meno generico e soprattutto senza quel paragone con Tre operai, certamente riduttivo per la nuova opera – tant’è che vi insiste quasi a voler rimarcare la grossolanità del giudizio – che va promossa e sostenuta al Viareggio. Quello che probabilmente irrita Bernari è l’accostamento a Zola che Zavattini si lascia sfuggire con una certa ingenuità e con molta superficialità, cautelandosi con una formula diplomatica «se non dico una fesseria». Agli occhi di Bernari il paragone con Zola significa che Zavattini ha dimenticato tutto ripartendo proprio da quell’accusa di secchezza e cronachismo da neo–verismo superficiale da cui Bernari pensava di essersi affrancato (e che pure a Verga aveva causato qualche irritazione). È infatti interessante notare come il richiamo e il paragone con Zola abbia costretto anche Verga a qualche “distinguo”, sia pur con tutto il rispetto e l’ammirazione per lo scrittore francese. Scrive Verga a Felice Cameroni nel 1881:

Coteste osservazioni che faccio non vogliono dire che io non reputi Zola uno dei più grandi artisti che siano mai stati. A mia volta e istintivamente, io ho seguito verso di lui il suo metodo d’esame per arrivare a scoprire il motivo di certe intermittenze nella splendida manifestazione del suo ingegno, di certi svarioni nell’applicazione rigorosa della sua teoria [...] Ma con tutte le sue lacune, con tutte le deviazioni dei suoi principi, egli resta il più grande artefice dell’idea moderna di romanzo .116

 116 VERGA, Lettera a Felice Cameroni, datata Milano 19 marzo 1881, in Lettere inedite di Giovanni Verga raccolte e annotate, a cura di Maria Borgese, in «Occidente», cit., 32. 141 La nascita del romanzo neorealista.

Ancora una volta, in questo caso nel giudizio su Zola, Bernari si ritrova in sintonia con Verga. Così la sua risposta a Zavattini tende a chiarire bene questi rapporti: fin dalle prime righe si intuisce la sua irritazione, che viene manifestata

all’amico con un “divertissement”. La lettera è senza data, scritta a mano su quattro foglietti di un album, senza righe o quadretti, ed è da Zavattini archiviata con una B (che sta per Bernari) e l’anno (che naturalmente è il 1950), data e simbolo sono segnati in rosso a matita con la calligrafia dello stesso Zavattini, il quale non conserva la busta, per cui non si può risalire, dal timbro postale, alla data esatta di invio, che comunque si può far risalire al febbraio del 1950, trattandosi di una risposta a caldo alla lettera del 2 febbraio dello stesso Za.

Caro Cesare scusami se ti “manoscrivo” ma la mia macchina ha perduto una E e non ho abbastanza per ricomperarla. Non dolerti della tua pigrizia che è un tuo stato di grazia, direi un momento estetico e se Kierkegaard (che nomi!) ha ragione, un primo passo verso l’etica e la religione. Comunque so aspettarti anche degli anni. Grazie per quel che mi dici per il mio libro. Mi sta dando rare soddisfazioni, che non provavo dai Tre operai. Lettere di scrittori italiani (lontanissimi anche da me, anche se poi per civetteria mondana dicono alle spalle un sí con molte riserve) e stranieri di piena adesione; lettori comuni e parenti; personaggi perfino, che si riconoscono117 e si fanno vivi per correggere un dato inesatto, dopo essersi casualmente riconosciuti nel libro, che mi scrivono il loro consenso... Ma il libro dopo tre mesi (o due) era ancora sulle mille copie, mentre La pelle di Malaparte, libro salottiero e bugiardo, che civetta con la realtà più viva e bruciante come con un aneddoto, pare già esaurito! E l’Editore? Posto che possa fare qualcosa, se ne disinteressa. Preso egli stesso nel giro della mondanità, pur non consentendo al Malaparte, dà a me le briciole della sua attenzione. Io soffro e devo per una strana parte assegnatami dalla vita fingere di essere beato e contento, far mostra di non desiderare nulla, anzi d’aver già troppo avuto.  117 È il caso di un vecchio proprietario di un ristorante a Napoli frequentato da Bernari durante la stesura finale nel 1948–49 di Speranzella. Bernari si fermava ore a pranzo e cena a prendere appunti e il vecchio si accorse di essere oggetto di un ritrattino nel romanzo, anche perché Bernari lo fotografó più volte come si vede nell’appendice fotografica, e chiese con tipica ironia partenopea allo scrittore che lo stava tratteggiando: “Professo’, sto venendo bene?”. L’episodio è riportato in un’intervista a Bernari: Cfr. BENASSI ANNA (a cura di), Un autore una città, Torino, ed. Eri–Rai, 1981, p. 46. 142 Caro Cesare, più la mia coscienza s’apre ad una certezza e ad una durezza a cui solo con l’arte si può dare testimonianza – o con la vita, perché io brucio e mi consumo dentro in un’apparente indifferenza esterna – e più mangio amarezza.118 Ti dico questo a preambolo del fatto che Tre operai a te dedicato dorme ancora dei suoi sonni più tranquilli; e ciò dopo che critici valenti lo hanno menzionato ad onore come capostipite della nuova letteratura neorealista italiana. Che mi ha fruttato finora, se non dolori? E che mi frutterà domani?119 Vedi bene da te stesso come da Speranzella io debba attendermi altre delusioni. Eppure ti assicuro che questo romanzo non è un fatto casuale e che anche ciò che in esso può sembrare risultato di un “bisogno di raccontare, senza tante storie, quasi come un compito”, come tu dici, è la conseguenza di un attento esame di materiali direttamente osservati, e spesso con intenti etnologici. A te spaventerà la parola, dal momento che ti vedo in cerca di poesia: ma io credo che la poesia non possa essere che la conseguenza di uno – se vogliamo appassionato – studio scrupoloso della realtà: costume, linguaggi ambiente. Questa può essere barbarie. Ma indubbiamente è una nuova barbarie; un modo cioè fanciullesco ma intero 120 di riprendere contatto con la realtà (natura e società)121 a cui per interessato formalismo avevamo voltato le spalle. Tu lo hai detto magistralmente nella tua conferenza, e con una sintesi davvero poetica che avvertiva l’arte della sua responsabilità. Zola non c’entra che per poco. Dostojewski sì, c’entra ed anche Proust. Che cosa è Proust se non un attento catalogatore degli usi e costumi della sua società. E sarebbe stato quel che lui seppe essere, se per lunghi anni non si fosse messo a fare il “viaggiatore di commercio” dei salotti, delle ville, dei teatri e restaurant francesi agli albori del secolo? Non mi spaventa il titolo, anzi mi spaventa molto di più il furor estetico di coloro che credono di trapassare di un sol sguardo la realtà da parte a parte. Dopo la tua lettera sono andato a rileggermi il capitolo della morte della cafettera studiato e ridotto ad un fazzoletto da potersi tenere nel pugno; e mi sono sentito contento di quello studio perché mi ha ancora commosso. Molte cose le dobbiamo al cinema, e voglio anzi scriverne per Bianco e Nero che mi chiede da un anno un articolo. Farò un pezzo su Vento e poesia nel neorealismo italiano, raffrontando film a romanzi degli ultimi cinque anni.  118 La crisi esistenziale di questo periodo è anche testimoniata da un tentativo di suicidio a Milano quando Bernari si gettó sotto un tram. Suicidio che fallì perché l’autista riuscì a fermarsi. 119 La fortuna editoriale di Tre operai comincerà invero poco dopo con la ristampa da parte di Mondadori nella collana de Lo Specchio degli italiani. Seguiranno decine di nuove edizioni. 120 L’espressione “fanciullesco ma intero” richiama il motto schilleriano «l’uomo è completo quando gioca e gioca perché completo». SCHILLER FRIEDRICH, Über naive und sentimentalische Dichtung, (Sulla poesia ingenua e sentimentale), in Schiller–Werke, Herausgegeben von Paul Stapf, Wiebaden, Tempel Klassiker s.d., p. 680. 121 “Natura e società” è un concetto chiave del passaggio dal materialismo feuerbachiano al materialismo storico marxista. 143 A proposito di film ti dirò che mi vanto un poco di una Rivista del sud, alla quale ho suggerito un’inchiesta l’ascesa del sud. Ho dato il tuo indirizzo (ma non quello di De Sica e ci terrei anche lui rispondesse) perché tu scriva una paginetta. Molti registi hanno già risposto, terrei molto che tu non mancassi. Ci conto? Scusami la lunga lettera. È uno sfogo ed una pausa di cordialità in questo deserto popolato di esaurimenti nervosi. Forse sarò a Roma per impaginare la rivista. Speriamo di incontrarci. Saluti a tua moglie. Tante cose affettuose ai tuoi. A te una forte stretta di mano dal tuo Carlo Bernari122

 122 Lettera di Carlo Bernari a Cesare Zavattini, manoscritta, senza data, presumibilmente febbraio 1950. Sottolineature nell’originale, pubblicata in: BERNARD ENRICO, La narrativa di Bernari tra cinema e fotografia, Atti del Convegno «Bernari tra narrativa e arti visive», marzo 2013, Università la Sapienza, Roma in «Rivista di Studi italiani» nr. 4, Settembre 2013; ripubblicata successivamente in BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 358-60 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

144 La lettera di Bernari anticipa, insomma, un tema che, agli inizi degli anni Cinquanta, e poi per tutto quel decennio e oltre, fu al centro del dibattito culturale: il rapporto tra cinema e romanzo. Anzi, qui Bernari, rivendicando la funzione del documento fotografico, annuncia a Zavattini l’intenzione di aprire il dibattito con un suo intervento sulla rivista di cinema «Bianco e Nero». Questo brano della lettera sarà al centro della nostra attenzione nel prossimo capitolo, quando verremo a trattare del rapporto tra cinema e romanzo nel carteggio Bernari–Zavattini. Preferiamo ora soffermarci sulle già articolate argomentazioni che Bernari porta all’attenzione dell’amico, soprattutto concentrandoci su un punto: la questione della rappresentazione della realtà nel duplice rapporto di forma e contenuto. Bernari mette tra virgolette l’espressione usata, peraltro poco felicemente, da Zavattini nella sua sbrigativa lettera: «bisogno di raccontare, senza tante storie, quasi come un compito». Bernari non accetta questa semplicistica riduzione del problema, perché l’operazione narrativa di Speranzella non è una riduzione del racconto ad una, come oggi si direbbe, “docu–fiction” sul reale, quasi un’operazione di letteratura che potremmo definire giornalistica. Di qui il rifiuto – parziale, perché il realismo bernariano necessita comunque di una solida formazione narrativa basata sul dato sociale – dell’accostamento a Zola, un rifiuto che invece apre le porte a scrittori dell’inconscio e dell’analisi profonda della personalità come Dostojewski e Proust, i quali – sostiene Bernari – sono al contempo stati grandi “catalogatori” della loro società. La parola “catalogatori” non viene adoperata qui a caso. C’è da chiedersi dunque: perché Bernari non usa il più semplice termine di “studiosi” oppure di “osservatori”? È evidente che l’attività di catalogare elementi della realtà presuppone una sorta di archivio di dati, un archivio che non può non tener presente l’etnologia, la sociologia eccetera, per cui, come scrive Bernari, il suo romanzo (Speranzella) è la conseguenza di «un attento esame di materiali direttamente osservati, e spesso con intenti etnologici.»123 A Zavattini, che parla di lirismo in maniera un po’ astratta, Bernari ribatte con una provocazione:

 123 È lo stesso concetto usato da Gramsci nei Quaderni dal carcere. Va ricordato, come già precedentemente segnalato, che fu proprio Bernari insieme a Paolo Ricci a consegnare a Napoli a Togliatti e a Felice Platone una copia fotografica dei Quaderni nel 1943. Sull’argomento cfr. FERTILIO DARIO, Togliatti censore: correggete Gramsci, in «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1996, p. 12. 145 [...] ti vedo in cerca di poesia; ma io credo che la poesia non possa essere la conseguenza di uno – se vogliamo appassionato – studio scrupoloso della realtà: costume, linguaggi, ambiente.

Lo studio attento dei materiali presenti nell’archivio di Carlo Bernari e anche la sua biblioteca personale124 dimostrano che per tutta la sua lunga vita lo scrittore ha raccolto migliaia di documenti, fotografie, articoli di giornali, libri e pubblicazioni, cataloghi eccetera su svariati argomenti, ma con una particolare attenzione alla storia di Napoli e del Mezzogiorno. L’interesse dello scrittore napoletano non comportava – qui sta il nocciolo della questione – solo una ricerca “passiva” del dato della realtà e della società, attraverso lo studio o la lettura libresca. Bernari si è fatto invece parte attiva in una sorta di indagine conoscitiva del reale da sviluppare in “arte”, cioè in forma narrativa, usando svariati strumenti: dagli appunti ricchissimi che prendeva direttamente sul luogo prima di scrivere un romanzo125, a disegni e schizzi dei personaggi, e soprattutto all’uso della fotografia, di cui, come vedremo, resta una vastissima documentazione su vari argomenti e soggetti. Il riposizionamento del neorealismo su basi realistiche, cioè il richiamo alla realtà, è particolarmente utile, secondo Bernari, in un momento in cui la letteratura prende, ad esempio col primo Calvino, una linea fantastica, sollevandosi sul reale col rischio di sorvolarlo come una meteora. Del resto la stessa opera narrativa e cinematografica di Zavattini di quegli anni oscilla tra un eccesso di formalismo (vedi il finale di Miracolo a Milano del 1950 con la partenza dei poveri capitanati da Totò “il buono”, personaggio romanzesco del 1943 che dà il titolo al romanzo dello stesso Za, a bordo di scope volanti) ad un eccesso di contenutismo e di realismo: quasi come se l’esplosione fantastica sul piano astratto, formale, potesse essere compensata da un “engagement” sociale totalizzante. Il suo tentativo, confida Bernari all’amico, di riscrivere il neorealismo superando la barriera del rozzo realismo, facendo partire – come Proust e Dostojewski – l’opera letteraria dalla realtà, per poi elevarla al di sopra di essa formalmente e fantasticamente, cioè trasformandola in opera d’arte (non mimetica, ossia non “oggettiva” o riproduttiva) può allo stato essere considerata una nuova barbarie. «Ma indubbiamente è [...] – taglia corto lo scrittore – un modo fanciullesco ma intero di  124 L’archivio Bernari è in fase di digitalizzazione per l’Università la Sapienza di Roma a cura di Francesca Bernardini, mentre la biblioteca dello scrittore è stata donata dagli Eredi alla Biblioteca Alessandrina di Roma dove è attualmente consultabile come «Fondo Bernari» . 125 Decine di taccuini “preparatori” sono conservati nell’Archivio Bernari. 146 riprendere contatto con la realtà (natura e società) a cui per interessato formalismo avevamo voltato le spalle.» Cosa intendesse l’autore di Tre operai per “interessato formalismo” è presto detto: si tratta proprio di quel passo avanti del realismo in funzione di una nuova tecnica narrativa capace di ricostruire la funzione della parola, di conseguenza del testo letterario, come elemento dell’immagine fotografica e successivamente del cinema che Bernari comincia ad intendere nell'accezione di Verga; ossia come una messa in movimento del fotogramma attraverso la drammatica nerrativa, la drammaturgia. Il segreto della realtà, la realtà della realtà cui accenna Verga e che Bernari teorizza, starebbe dunque in quello che viene prima e dopo lo scatto fotografico che fissa la realtà, se la fotografia potesse muoversi e raccontare. Verga insomma anticipa e Bernari ricupera il concetto surrealista di fotografia: Man Ray sostiene ad esempio che in una foto non si può distinguere tra soggetti vivi e oggetti morti, quindi essa non è mai un documento o riproduzione della realtà, bensì una seconda realtà da indagare.126 Si tratta dunque di una nuova forma di realismo: la trasformazione di un contenuto o documento “reale” (storico e sociale) in una forma artistica. Rocco Capozzi spiega molto bene questo aspetto, per cui vale la pena riportare un ampio brano della sua riflessione:

Quando Bernari specifica nella Nota ‘65 che nel riscrivere Tre operai i riferimenti ambientali subirono alterazioni: vennero configurandosi, diversamente dalla prima stesura, con prospettive, esasperate, atmosfere allusive, in una sfocata dilatazione di effetti visivi, a mezza strada tra espressionismo e metafisica (Nota, pp. 240–41), egli in effetti dichiara come il surrealismo, De Chirico, Sironi, l’arte e il cinema hanno tutti stimolato e influenzato il suo progetto di svelare e allo stesso tempo denunciare le angosce e le paure che l’ambiente fascista incuteva sempre più oppressivamente sugli individui. In breve, per Bernari le arti figurative sono tanto importanti quanto le opere letterarie di autori come Kafka e Lautrèamont nel raffigurare ansie e paure, e cioè nel tradurre simbolicamente, incertezze e inquietudini in un realismo espressionistico e spettrale realizzato tramite giochi di luce, di colori, di ombre e di forti contrasti di bianco e nero. Da Tre operai a Prologo alle tenebre gli elementi pittorici aiutano l’autore a drammatizzare, con maggiore forza espressiva, le pagine in cui  126 Per questo la narrativa di Bernari fin da Lo strano Conserti (L'ombra del suicidio) del 1936 si sviluppa nella dimensione dell'indagine e dell'inchiesta, quando non del giallo letterario vero e proprio. Cfr. BERNARD ENRICO, Il giallo fulminante nella narrativa di Carlo Bernari, in «Studi Novecenteschi», XXXVII, numero 80, luglio-dicembre 2010, Pisa-Roma, Serra Editore, pp. 339-61. 147 ambiente e personaggi sembrano afflitti da un’abulia immobilizzante e allo stesso tempo lo aiutano ad intensificare la tensione che nasce dallo scontro tra individuo e realtà socio–storica. Per cui credo che sia logico pensare anche alla pittura metafisica di De Chirico. Mi riferisco specificamente alle Piazze d’Italia e ai monumenti desolati dove le lunghe ombre e gli acuti contrasti di luce seguono delle linee geometriche (triangolari o cubiche), mentre gli oggetti e le rare persone, spesso raffigurate dalle ombre, suggeriscono spaesamento e mistero. Comunque, in ultima analisi bisogna tener presente che il ricorrere al metafisico o al surreale in Bernari serve sempre ad arricchire la narrativa di implicazioni psicologiche e socio–politiche. [...] Di fatto, sono innanzitutto gli elementi figurativi a dare una carica di sperimentalismo al realismo di Carlo Bernari, e sono le immagini a trasmettere sensazioni e emozioni, sia quelle sentite dai personaggi che quelle che l’autore vuole far scaturire nel lettore. 127

Per ottenere questo risultato, nei primi anni Trenta, era giocoforza puntare su una nuova forma del modo di narrare, tenendo conto di altre tecniche, quelle proprie delle arti visive nel loro complesso e nelle loro contaminazioni e influssi reciproci. Rocco Capozzi scorge un rapporto diretto col movimento della Neue Sachlichkeit che viene citato da Bernari–Ricci–Pierce nel punto 5128 del manifesto dell’UDA del 1929 richiamando la data storica della prima mostra degli artisti della Nuova oggettività a Mannheim nel 1925:

... nei primi esperimenti del realismo di Bernari in una narrativa neo–oggettiva. Faccio uso del neologismo per richiamare la Nuova Oggettività, la Neue Sachlichkeit tedesca, perché in essa Bernari vedeva nuove possibilità di rappresentare la realtà prima che apparisse il termine neorealismo. 129

Ma torniamo al carteggio Bernari–Zavattini poiché il dissidio su Speranzella fu di breve durata. All’indomani del conseguimento del premio Viareggio, sia pur ex aequo130, Zavattini, superando il primo approssimativo giudizio della moglie Olga, rilesse (o lesse per la prima volta?) il romanzo, questa volta fidandosi solo del suo giudizio, ricoprì di lodi e testimonianze di affetto l’amico, il quale gli rispose in tono altrettanto cordiale: «Caro Za, non avevo certo bisogno di vincere un premio per avere  127 CAPOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, cit., p. 59. 128 Si legge al punto 5 del Manifesto Uda: «In Germania il movimento iniziato da Franz Ro(c) perché col suo Magischer Realismus è stato il primo tentativo, ancora romantico, di realismo, che come sviluppo naturale, ha avuto il neo oggettivismo attuale». 129 CAPOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, p. 64. 130 L’altro vincitore fu con Le terre del Sacramento. 148 certezza della tua amicizia.» Al di là della questione strettamente biografica relativa all’amicizia e collaborazione dei due scrittori, bisogna tenere presente che il romanzo Speranzella nasce non più da un’attività e una ricerca letteraria, sia pur guidata e sottoposta agli influssi delle arti visive come il precedente Tre operai. In questo caso la fotografia assume un ruolo centrale e determinante. Come si è visto, Zavattini se ne accorge quando confida nella lettera su citata:

Pensavo ai tuoi viaggi, una cosa che mi fece impressione: Vado a Napoli a vedere certi posti che mi servono per il libro. Questi viaggetti silenziosi, da commesso viaggiatore tanto erano disadorni mi fecero sul serio impressione e capii benissimo cosa vuoi fare.

Perché Zavattini «capisce benissimo» cosa vuole fare Bernari? Qui dobbiamo aprire una parentesi sull’attività fotografica dello scrittore napoletano, attività che Zavattini intuisce – e vedremo tra breve il motivo – ma che non può conoscere nei dettagli in quanto gli scatti fotografici di Bernari, almeno quelli di questo periodo cioè del 1948–1949, restano nel cassetto dello scrittore. Verranno ripresi un decennio dopo per i sopralluoghi del film sulla resistenza a Napoli contro l’occupazione nazista del 1943, Le quattro giornate di Napoli (1962), scritto da Bernari per Nanny Loy tra il 1958 e il 1961. Tuttavia, nel 1949 nessuno ancora è al corrente – a parte l’intuizione di Zavattini – del fatto che Speranzella nasce dal materiale fotografico realizzato da Bernari a Napoli nell’immediato dopoguerra. Le fotografie realizzate nel 1948 a Napoli hanno una caratteristica peculiare. A differenza degli scatti realizzati nel 1946 a Firenze, di cui rimangono 6 esemplari in archivio, e di un più consistente reportage (45 scatti) sulla Bari vecchia dell’im- mediato dopoguerra (in un’immagine si legge sullo sfondo un manifesto che annuncia un comizio di Di Vittorio), le foto napoletane assumono una dimensione narrativa.

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Infatti, per la prima volta le immagini vengono accompagnate da un testo che le illustra, come se l’immagine avesse bisogno di una spiegazione e il testo letterario avesse a sua volta bisogno di un’esplicazione visuale e di un intervento letterario. Ben 16 delle 57 foto napoletane, pubblicate neglia anni Novanta nella riedizione di Bibbia napoletana 131, sono infatti accompagnate da un testo che non è semplicemente descrittivo, ossia oggettivo, ma testimonia la presenza dello scrittore dietro l’obiettivo. Così, per quanto verghianamente l’autore si celi dietro l’opera, egli torna presente nell’atto creativo che supera il semplice scatto oggettivo. Sarà utile fornire qualche esempio. Lo scatto che fissa un gruppo di persone intorno ad un venditore ambulante porta sul retro una annotazione che è una vera e propria didascalia cinematografica:

 131 BERNARI CARLO, Bibbia napoletana, con le foto originali dello scrittore, a cura di Enrico Bernard, Roma, Newton Compton, 1994. 150

151 Attori della strada; il ciarlatano : – Non ve le vendo a 3000 Lire, né a duemila… ma, vi giuro su San Gennaro e sulla testa dei miei dodici bambini che ci rimetto, ve le lascio a…

Un’altra immagine che rappresenta una serenata all’interno di un vicolo trova invece una spiegazione didascalica, ma non per questo meno personalizzata del- l’autore:

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NAPOLI. La gente di Napoli ama riversarsi nelle strade. La strada è la principale fonte di risorse e il luogo di maggior divertimento: un continuo pittoresco alternarsi di scene, di cui gli spettatori sono nel tempo stesso gli attori. Come distinguere tra questi cantori della strada e coloro che si fermano ad ascoltarli?

Ma la forza teatrale che esprimono queste fotografie non possono non riportare Bernari ad un vero e proprio sviluppo drammaturgico, ad una sorta di sceneggiatura con dialoghi del fotogramma in cui vediamo una donna che in un negozio di anticaglie spolvera con un piumino una statuetta della Madonna:

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Da una porta aperta, il negozio di immagini religiose. Non c’è nessuno che non ne abbia a Napoli almeno una nella sua casa. Il gesto prezioso, mentre spolvera, della proprietaria sembra proprio dire: Signurì, Madonna mia, quanto sei bella!

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Così la drammaturgia diventa esplicita quando si tratta di commentare un’inquadratura in cui appare un vecchio appoggiato sul famoso teschio di bronzo di una colonnina di marmo a San Gregorio Armeno:

Per il teatro della strada tutto può servire da scenografia e da elemento decorativo. Il teschio murato nella colonna avanzo di un’antica chiesa aiuterà a richiamare i clienti per questo fioraio? O

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i passanti si fermeranno piuttosto al fioraio di fronte che si è piazzato sotto l’attraente manifesto della festa di Piedigrotta?

Lo stile fotografico non ricorre solo nella didascalia dell’immagine che viene così “de–scritta”, ma si trasforma nella struttura stilistica del romanzo Speranzella che prende corpo proprio da questa ricerca documentaria. Si consideri il seguente esempio – tra i tanti che si potrebbero addurre – tratto dall’opera del 1949:

Il sabato accende una nuova luce sulla miseria che negli altri giorni annera l’aria... Ad ogni crocicchio, dove si solleva nel sole un pannolino di fumo felice, c’è un mucchio di spine o di bucce di limoni esauste .1

 1 BERNARI CARLO, Speranzella, Milano, Mondadori, 1949, p. 20.

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Tra fotografia, romanzo e cinema.

Ed ecco la foto da cui partirà il film Le quattro giornate di Napoli 2, da considerare il primo film pacifista sulla guerra e sulla Resistenza. Si tratta proprio del vicolo “Speranzella” ai Quartieri Spagnoli che Bernari sta immortalando non solo fotograficamente ma anche nell’omonimo romanzo. Si noti la scritta sul muro “Abbasso i guerra fondai”, che sarà la filosofia del film Le quattro giornate di Napoli:

 2 Cfr. BERNARD ENRICO, Mio padre Carlo Bernari e le Quattro giornate di Napoli. Vi racconto io come è nata l’idea del film , in «Corriere del Mezzogiorno», martedì 12 giugno 2007, p. 10.

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Le strade di Napoli sono strettissime, ma straripano di gente, di avvenimenti, di cose. In un angolo a terra, la piccola caldaia del venditore di dolciumi, cotti al momento (le famose zeppole dalla caratteristica forma a nodo) contornato da ragazzini in attesa… di un momento di distrazione o di uno slancio di generosità. Su un muro, un’espressione spontanea della pacifista anima napoletana “Abbasso i guerrafondai”.

Questa immagine assume un rilievo particolare in rapporto al film realizzato da Nanni Loy nel 1962. Ho oltretutto avuto la fortuna di essere testimone fin da piccolo dell’esempio pratico della derivazione del cinema dalla letteratura, come una forma letteraria sviluppata con altri mezzi. Di quel film mi rimane indelebilmente nella memoria il perpetuo andirivieni da casa mia, prima di Vasco Pratolini, autore del primo soggetto del film, poi del regista Nanni Loy e quindi dei co–sceneggiatori ò e Pasquale Festa–Campanile. Ma soprattutto ricordo che per due anni la casa fu invasa da un unico assordante rumore: il trambusto che faceva mio pradre sulla sua possente macchina da scrivere Olympia, un rumore assordante, minaccioso, che invadeva per ore, interminabilmente ogni stanza. Si sentiva perfino dall'androne del palazzo. Bernari racconta la storia del film:

Quando fui chiamato alla collaborazione – in casa Pratolini, da Loy, da Festa Campanile e da Franciosa – era già stato raccolto un copioso materiale... esisteva anche un soggetto scritto da Pratolini: duecento pagine circa: più di un semplice soggetto, meno di un trattamento cinematografico; qualcosa insomma come un esteso affresco, in cui già s'individuavano le linee generali del film e dove già gli episodi si disponevano in figura acquistando volto e voce. Fui subito posto sull'avviso che questo soggetto – che aveva suscitato generali consensi – andava il più possibile rispettato.3

Senonchè, a questo punto, gli amici co–sceneggiatori e il regista si dileguarono:

Ero solo a comporre la prima stesura dello scenario: affidandomi l'incarico, ciascuno degli amici era tornato a un proprio lavoro già iniziato: soltanto Festa Campanile e Franciosa potevano ogni tanto accordarmi qualche ora per uno scambio di vedute o per risolvere i casi più dubbi e controversi.

 3 BERNARI CARLO, Le mie faticose quattro giornate, in «Cinema Nuovo», novembre–dicembre 1963, pp. 428–35.

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Intanto, il “trattamento” di Pratolini di 200 pagine cresce nel laboratorio di Bernari, impegnato a raccogliere testimonianze ed episodi, fino a raggiungere la bellezza di 600 pagine, mole su cui Bernari, lasciato solo e piú che libero di scrivere, si interroga: «Cosa avverrà quando alla fine si dovrà discutere su queste 600 pagine, quante ne avevo ammucchiate nel corso di quella sceneggiatura alla cieca?» La furbesca fuga dei collaboratori che lasciarono Bernari solo a lavorare fino al “taglio” finale dello script aveva del resto una logica: coi reportage fotografici del 1948–49, da cui erano nati due romanzi (Speranzella e Vesuvio e pane), lo scrittore aveva accumulato un tale materiale di storie, facce, luoghi di Napoli che era praticamente impossibile stargli dietro. Naturalmente da quell'esperienza familiare (l'intero nucleo paralizzato e annichilito dal tambureggiare delle dita di mio padre sui tasti dell'Olimpia) appresi una semplice verità: che la macchina da presa, nella produzione cinematografica, giunge solo alla fine di una trafila letteraria e che il prodotto “film” si genera attraverso fasi di montaggio della parte letteraria su fotogrammi fissi (lo “storyboard” con un termine tecnico) per poi diventare immagini e dialoghi in movimento. Bernari narra che nella revisione dello script si dovettero fare delle scelte dolorose, i tagli tanto odiati dagli sceneggiatori:

Il nono taglio colpiva purtroppo l’unica scena abbozzata in sede di seconda sceneggiatura, da Pratolini, e narrava la visita che un vicario del cardinale Ascalesi fa al colonnello Scholl per ottenere una tregua, agevolare i rifornimenti idrici e di vettovaglie. La città è stata messa a ferro e a fuoco: dovunque rastrellamenti, ostaggi, fucilazioni, massacri di innocenti. “Innocenti? –s’infuria il nazista. – Una popolazione che ti colpisce alle spalle?”. Scholl ha perso la sua patina di raffinato e parla duro, nel suo duro tedesco di punizioni e di morti. È su questa scena che io introdussi – unico merito che voglio attribuirmi – una trovata: LA SCOMPARSA DEI FASCISTI. Monsignore finge di non comprendere il tedesco, ma Scholl lo raggela rammentandogli gli anni trascorsi all’Annunziatura di Berlino con l’allora cardinale Pacelli, quindi monsignore può intendere perfettamente la lingua del nemico. Ma se per caso l’avesse dimenticata, ebbene lui, Scholl, è in grado di parlargli nella lingua universale della chiesa. E gli ripete parola per parola, in latino, le minacce che aveva già pronunciate in tedesco. Erano sei battute, in tutto, troppo lunghe ugualmente per una materia così incandescente. Comunque udire nella lingua della chiesa, nella lingua dell’Umanesimo, parole di odio, di ferocia, di barbarie e di crudeltà, sortiva un effetto tragico; con un risvolto comico, allorchè Scholl –

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licenziato il monsignore, – apriva la porta dello studio contiguo e al federale fascista che lì si era nascosto durante il colloquio, lo investiva di insolenze poichè il promesso appoggio dei fascisti era diventata una macabra pagliacciata, di fronte al dilagare della rivolta popolare. Soppressa la scena caddero una dietro l’altra tutte le scene in cui erano presenti i fascisti; in qualitá di cecchini come in qualità di spie ... Si salvò, come simbolo, il fascista Valente; il quale, preso in retata in camicia nera, spera solo per questo di salvarsi tra tanti ostaggi; fin quando, – inviato dai nazisti ad imporre la resa ai suoi fratelli, che assediano in armi il campo sportivo – cercando di ammorbidire il suo tradimento traduce l’ultimatum in termini bonari e pulcinelleschi e si sente rispondere nei freddi termini della lotta per l’onore, – egli non vede altra via di scampo che la fuga. Ma il piombo dei suoi amici nazisti lo atterra prima che abbia fatto un solo passo.

Le battute della sceneggiatura sono, del resto, inequivocabili quando il fascista Valente risponde al Capitano che comanda i partigiani che lo apostrofa con un “amico dei nazisti”: «VALENTE –– Che amico e amico, capitá!... Chille so’ fetiente, e che nun `o saccio?» A questa battuta si può aggiungere una “dichiarazione storico–ideologica” degli autori pubblicata insieme alla sceneggiatura.

Il 20 settembre si assistette ad una grottesca farsa: il tentativo di ricostituire anche a Napoli il fascismo repubblichino. Se ne fece promotore, con un proclama ai fedelissimi, un tal Tilena che, in verità, era un uomo in buona fede ed è morto alcuni anni fa senza rinnegare le sue idee, nelle quali aveva sinceramente creduto.4

La scelta di eliminare dal film il tradimento dei fascisti, e casomai di far passare gli stessi fascisti come altrettante vittime italiane dei nazisti, in tempi sicuramente difficili per simili aperture, provocò aspre polemiche e critiche da parte del PC.I.: critiche da cui gli autori del film, Bernari in testa, dovettero difendersi.

Al rimprovero che alcuni ex partigiani ci mossero per l’assenza dei fascisti dal film, il compianto Nazim Hikmet rispose che in arte basta un simbolo a rappresentare una realtà complessa. Loy si giustificò sostenendo che i fascisti avrebbero introdotto nel film un secondo tema... e aggiunse pure che scopo degli autori non era stato quello di fare un

 4 AA.VV., Le quattro giornate di Napoli, collana «Il Cinematografo» diretta da Enrico Rossetti, FM edizioni, agosto 1962, p. 21.

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film contro i tedeschi e contro i fascisti, ma di fare un film contro la guerra.

Era questo sentimento pacifista ad animare i napoletani fin dall'immediato dopoguerra? Oppure Bernari si è lasciato prendere la mano da una sua visione ideale, peraltro osteggiata all'epoca dal PCI? La risposta ci viene dalle fotografie scattate da Bernari a Napoli, in particolare quella in cui si legge la scritta sul muro. Infatti lo scrittore si accorge dell'importanza di quell'affermazione popolare e la sottolinea nella nota letteraria allo “scatto” che avevamo visto in precedenza: «...su un muro, un'espressione spontanea della pacifista anima napoletana “Abbasso i guerrafondai”.»

Il protagonista de Le quattro giornate di Napoli sarà nella sceneggiatura di Bernari un simpatico ragazzino di nome Gennarino Capuozzo (soprannominato Cazzillo dai compagni più grandi ) che si perde per le vie di Napoli e che si unisce per emulazione ad un gruppo di scugnizzi più grandi che, evasi dal carcere minorile, decidono di combattere i tedeschi. Morirà sotto i cingoli di un carro armato divenendo il simbolo della resistenza napoletana. Ma l’immagine del fanciullo dalla faccia sporca Bernari l’ha già acquisita fotografando i personaggi e gli scugnizzi:

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La maggior parte degli abitanti della strada nei paesi del sud è sempre costituita da bambini. Ecco qui alcuni dei notissimi scugnizzi, scalzi e patiti, ma sempre con un’aria pronta e vivace. Curiosi di tutto si fermano negli angoli ad ascoltare la musica, ma più spesso corrono a gruppi per le strade, impegnati in giochi che hanno sempre qualche fine, o fare un tiro (fare fesso) qualcuno, o magari anche procurarsi da mangiare. In fondo i bambini di Napoli sono i più maturi e i meno spensierati del mondo.

Non manca la fotografia di una giovane napoletana che mangia una fetta di cocomero. La donna esercita il mestiere più antico del mondo.

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L’immagine è pittoresca e porta sul retro una didascalia consunta dal tempo, scritta con una biro blu; la grafia è di Bernari stesso: “A ricciulella è una donna di vita ma è fra quelle della [Germania] (quasi indecifrabile, può significare una ragazza che si concedeva ai Tedeschi, ndr.), ha il suo guappo che è gentile con tutti.” Un’ulteriore nota posta di traverso aggiunge un tocco professionale: “Si è fatta fotografare dietro compenso di 200 lire.”

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A dimostrazione del fatto che Bernari esegue il suo reportage con piglio professionale, va detto che sul retro delle foto, oltre alle didascalie è sempre presente una gabbia disegnata a matita per dare allo stampatore l’inquadratura esatta, spesso fornendo anche numericamente le dimensioni del taglio. Vedremo tra breve che per Bernari l’attività fotografica è un vero e proprio esercizio professionale iniziato prima della guerra nella redazione del mondadoriano «Tempo» e proseguita fino al 1955. Infatti nel 1955 Bernari si trova a far parte della prima delegazione di scrittori italiani invitati nella Cina maoista del periodo tra la Grande Marcia e la successiva Rivoluzione Culturale. La delegazione, composta, tra gli altri, da Malaparte, Moravia e Bigiaretti, si ferma a Pechino per due settimane per una serie di incontri e conferenze ufficiali. Benari invece riceve da «l’Europeo» l’incarico di inviato speciale ed ottiene dalle autorità cinesi il permesso di percorrere in lungo e in largo il Paese. Bernari compirà la sua missione in oltre sei mesi di permanenza. Partito infatti nel maggio del 1955, farà ritorno a casa solo a metà dicembre dello stesso anno. Per questo ad alzarmi per la prima volta dalla culla sarà, in assenza di mio padre, proprio Cesare Zavattini che abitava non distante dalla clinica di viale Regina Margherita a Roma dove sono nato l’11 novembre di quell’anno. Il materiale fotografico realizzato da Bernari in Cina è impressionante per quantità. Si tratta di 912 fotografie (solo una decina furono pubblicate da «l’Europeo» 5 ). Bernari ordinò il lavoro tematicamente 6 organizzando i cosiddetti “provini” in 38 album di cartone neri coi titoli in bianco. Circa 300 di queste foto sono stampate in formato 17/24 secondo l’inquadratura specificata da Bernari nei provini.

 5 BERNARI CARLO, L’Europeo nella Cina di Mao Tse–Tung. È una luna affollata, in «l’Europeo» dell’8 gennaio del 1956, pp. 7–11. 6 Questi gli argomenti dell’album cinese di Bernari: La vita di ogni giorno, Miniere e industria, I bambini, I vecchi, La vita religiosa, Oggi sposi, Divorzio in tribunale, Armata Rossa, Botteghe e commerci, I bambini, Come si mangia, Le minoranze nazionali, Come si divertono, Un rito funebre, Dalla culla alla bara, La vita del villaggio, I cento mestieri ambulanti, Stranieri in cina, Come si ibridano i pesci, Artigianato artistico, Cultura e educazione, Il teatro cinese, Templi e pagode, I tribunali, I Chin – famiglia contadina, Carceri e case di rieducazione, Città vita paesaggi, La banca del villaggio operaio, Una casa operaia a Han Schan, La vita sui fiumi, I trasporti, La casa di rieducazione delle prostitute, L’ultima levatrice sul Fiume delle Perle, Ombrelli ombrelli, Per una biografia di Mao Tze Tung.

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Le immagini del servizio fotografico cinese sono accompagnate da didascalie; tuttavia i testi sono meno “drammatizzati” di quelli del precedente reportage a Napoli. In questo caso le note sono più giornalistiche. Il fatto è che mentre a Napoli nel 1948 Bernari è in missione privata anche se professionale – sta accumulando materiali per

166  il romanzo Speranzella – in Cina è in missione per il settimanale «l’Europeo» cui deve fornire un sostanzioso numero di scatti professionali. Le didascalie non sono apposte sul retro, ma in uno spazio bianco a pié della stampa:

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Tuttavia, bisogna ricordare che, pur espletando un lavoro giornalistico, Bernari non rinuncia alla rielaborazione letteraria, anche se diaristica, della sua esperienza visuale, e specificamente fotografica, nella Cina semisconosciuta di quegli anni. Nasce così un bellissimo libro sulla Cina del primo maoismo ante Rivoluzione Culturale: Il gigante Cina7. Il racconto del suo viaggio rappresenta proprio quel supporto letterario che Bernari, come scrittore che utilizza la macchina fotografica per fissare una realtà da cui scaturisce un’epifania narrativa, ha ormai metabolizzato. Nel precedente capitolo, analizzando i primi scambi epistolari tra Zavattini e Bernari a proposito dei disegni da abbinare ai racconti da pubblicare sulle riviste da lui curate, abbiamo appurato che Zavattini fornisce al giovane amico napoletano un’indicazione che sarà fondamentale per il suo lavoro. Si tratta della lettera scritta da Milano in data 26 ottobre 1932 (già citata e presentata precedentemente) che riproduciamo in originale qui sotto poiché essa contiene uno schema grafico difficile da rendere verbalmente, ma che presenta, a questo punto, un elemento decisivo. Si tratta di un documento che non va analizzato tanto per il dato testuale, ma come vuole appunto il tema che stiamo trattando, per la sua elaborazione grafica e teorica dell’abbinamento e sinergia tra parola e immagine, che potrebbe interessare anche qualche storico della linguistica8. È del resto nel periodo dei primi scambi epistolari, 1932–1934, tra Bernari e Zavattini che si focalizza il “campo d’azione” neorealista che avrà poi, ma solo un ventennio dopo, in Calvino – ne parla Tommaso Pomilio9 – una significativa rielaborazione. Purtroppo Pomilio, pur individuando i termini della questione neorealista («Il neo non indica tanto una nuova capacità di rappresentare il reale, quanto la possibilità di una scrittura quasi di produrre direttamente, matericamente stati di realtà» 10) non collega il rapporto Zavattini–Calvino, sul tema dell’immagine/parola, alla lettera – vista nelle pagine precedenti – di Zavattini a Bernari del 1932, che pure giace, facilmente consultabile, nell’Archivio Bernari nella stessa Facoltà di Lettere dell’Università «La Sapienza» di Roma, dove Tommaso  7 BERNARI CARLO, Il gigante Cina, Milano , Feltrinelli, 1958. Riedizione a cura di Enrico Bernard con alcune foto dell’Autore, Roma, Editori Associati, 1990. 8 Lo schizzo di Zavattini circa il rapporto tra immagine e parola ricorda in qualche modo il desaussuriano triangolo semiotico (significato–significante–referente), cui lo scrittore italiano sembra pervenire per via pratico–intuitiva. L’opera di Ferdinand de Saussurre Corso di linguistica generale è del 1916, ma riscosse attenzione in Francia solo alla terza edizione del 1931. La traduzione italiana apparve soltanto nel 1967 presso l’Editore Laterza di Bari, a cura di Tullio De Mauro. 9 Cfr. POMILIO TOMMASO, Parola–immagine: nella luce del Sentiero. Poetiche all’aperto. Tra Zavattini e Calvino in Dentro il quadrante, forme di visione nel tempo del realismo, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 26–34. 10 Ivi.

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Pomilio insegna. Bernari raccoglie e conserva bene nell’archivio della memoria il disegnino di Zavattini, tanto da riutilizzarlo nel servizio napoletano del 1948–1949, e registra e fa tesoro anche di quel suggerimento zavattiniano sulle cinque righe di commento da aggiungere all’immagine stessa. È proprio quello che Bernari, infatti, farà anche nel successivo, vastissimo, servizio fotografico e letterario realizzato in Cina e in parte pubblicato nel corso degli anni. È chiaro che il consiglio di Zavattini è motivato dalla generosità che dimostra nel tentativo di far lavorare i due giovani amici, Bernari appunto e il pittore cofondatore del movimento udaista Guglielmo Pierce. Ma il gesto amichevole tiene conto anche della necessità giornalistica di far convivere testo e letterario e disegno (in questo caso, ma presto vedremo che entrerà in ballo la fotografia) nell’ambito dei rotocalchi di grande tiratura i cui lettori sono poco propensi a proposte artistiche e letterarie sperimentali: per questo Zavattini chiede un soggetto letterario per il disegno, ma specifica che deve essere umoristico, comico. Lo schizzo frettoloso ma assai esplicativo di Zavattini si fissa come un fotogramma nella mente, artisticamente in formazione, del giovane amico, tanto da determinarne l’attività letteraria: la riscrittura della realistica versione de Gli stracci nel neorealistico Tre operai che tiene conto della scrittura cinematografica e della funzione dell’immagine nella rappresentazione “verbale” della realtà, inizia proprio a partire da questa lettera del 1932. Ma il suggerimento di Zavattini si trasforma in una vera e propria iniziativa giornalistica–editoriale per l’Almanacco Bompiani 11. Infatti il 14 agosto 1934 – ricordiamo che Tre operai è uscito nel febbraio dello stesso anno – perviene a Bernari il seguente invito ufficiale e impersonale a firma «Cesare Zavattini» per esteso.

Illustre Amico, quest’anno non Le chiediamo (almeno per ora) né il pensierino né il brano inedito e neppure la fotografia della Sua casa e dei suoi figli. Crediamo di aver avuto un’idea non del tutto peregrina. Questa: ogni scrittore fotografa qualche cosa (un fatto, un dettaglio, un ramo o un leone) cercando appunto nella scelta del soggetto di “caratterizzarsi”: una breve dicitura sotto la foto completerà per il lettore dell’Almanacco questa specie di confessione per immagini. E se proprio non vuol essere una confessione di rito, può essere una  11 «Almanacco Letterario Bompiani», Milano, 1934; catalogo compilato da Valentino Bompiani e Cesare Zavattini con la collaborazione del pittore Bruno Munari e del fotografo Egone.

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confessione dei propri gusti, della propria arte. Invece di uno scritto, insomma, richiediamo una fotografia fatta da voi, improvvisati registi. Se ci siamo spiegati, contiamo di riceverla per la fine del mese dato che l’Almanacco uscirà prestissimo. Cordiali Saluti. 12

Il testo dell’invito di Zavattini agli scrittori di “caratterizzarsi” fotografando qualche cosa, anche un leone, aggiungendo una breve dicitura per una specie di confessione per immagini, trasforma i letterati in registi improvvisati. Ecco allora che si delinea la progettualità di Zavattini sul rapporto parola/immagine trasmettendo al più giovane amico Bernari, che a sua volta proprio tra il 1930 e il 1932 scopre attraverso il cinema la funzione narrativa delle immagini, l’esigenza di una nuova letteratura in sinergia con le arti visive. Non sarebbe errato parlare – ma andremo oltre il nostro tema specifico – di una visione che anticipa, se non di un secolo poco ci manca, il mondo degli ebook che tanto piacerebbe anche a Verga, a sua volta appassionato fotografo! È comunque, quello di Zavattini, un progetto che Bernari, come abbiamo visto, mette subito in pratica e a cui resterà legato artisticamente e professionalmente per tutta la vita. Negli anni Trenta, fu proprio Zavattini a iniziare professionalmente il giovane Bernari alla fotografia13 spedendolo a realizzare qualche “servizietto” giornalistico per guadagnarsi da vivere. L’incarico arriva a Bernari con una lettera del 17 febbraio 1936:

Caro Bernard VUOI FARE un servizietto per il SECOLO ILLUSTRATO? Si tratta di fare un articolo chiaro, concreto, informativo su quei monaci di Grottaferrata che hanno, mi dicono, la più moderna clinica del libro: mettono a posto i libri rotti, incunaboli guasti, ecc. ecc. Prima d’andarci informati se ci sono, ma ci sono senz’altro. Dovresti fare anche quelle cinque o sei fotografie interessanti e didascaliche. Insomma voglio vedere se ti potrò utilizzare anche in seguito per il SECOLO ILLUSTRATO. Hai una Leica o c’è qualcuno che te la può prestare? O qualcosa del genere? Dovresti partire subito subito subito, tornare in giornata, fare l’articolo e spedirmelo. Del compenso non ti lamenterai. Fatti onore perché da questo articolo possono dipendere altri tuoi  12 Lettera dattiloscritta, firma manoscritta, carta intestata Casa editrice Valentino Bompiani & C.S.A., Milano, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373.(Archivio Carlo Bernari). 13 Le prime foto in assoluto di Bernari risalgono al periodo della prima leva militare risalente al 1931 quando gli fu chiesto da un superiore di realizzare alcune istantanee a Roma.

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articoli per il SECOLO ILLUSTRATO; anzi se hai qualche cosa da segnalarmi, di eccezionale, dico eccezionale, scrivimi subito. CIAO Zavattini. 14

Bernari tuttavia non sembra essere baciato dalla fortuna. L’utile che può trarre dalla proposta di Zavattini è solo quello di improvvisarsi fotografo professionista e realizzare il servizio richiesto dopo aver trovato a prestito una Leica, «o qualcosa del genere» – come dalla simpatica provocazione zavattiniana. Anzi, devo dire che il passaggio dalla Leica alla Rolleiflex non fu indolore, ma professionalmente motivato da Bernari. Fatto sta che Zavattini litiga improvvisamente con Rizzoli per la sua iscrizione al sindacato dei giornalisti: Rizzoli non gradisce i sindacati in azienda e lo licenzia in tronco nel marzo del 1936. Zavattini informa l’amico Bernari:

Caro Bernard, Le cose stanno così: son venuto via da Rizzoli litigando. La mia iscrizione nella categoria dei professionisti generó la cosa. Mi incazzai tanto per il suo modo, per le sue parole ecc. che ruppi decisamente, respinsi qualunque tentativo di accomodamento. Fino a ieri speravano di riallacciare ma io già da dieci giorni avevo trovato il nuovo posto: direttore editoriale della “Walt Disney – Mondadori”, come vedi, devo essere contento: altra atmosfera, credo. Devo mettere allo studio giornali nuovi. 15

Così nel 1936 Zavattini esordisce come direttore editoriale dei periodici Mondadori, compreso il settore Disney. Viene convinto da Federico Pedrocchi (che si impegna a realizzarne le sceneggiature) a scrivere soggetti per i fumetti, ed esordisce con Saturno contro la terra inizialmente senza firmare. La collaborazione col settore Disney e la collana di fantascienza durerà fino al 1949. Certo non è casuale la collaborazione di Zavattini con la Disney–Mondadori e con la collana di fantascienza illustrata, ambiti che sembrano essere il naturale sbocco dello Zavattini teorico della sinergia testo–disegno, parola–immagine. Probabilmente Bernari non prende molto bene la decisione dell’amico a Milano di passare dalla

 14 Lettera dattiloscritta, firma manoscritta, autografa, carta intestata Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano, indirizzata a: Sign. Carlo Bernard presso Quadrivio, via Due Macelli 12, Roma, datata Milano, NF/17 febbraio 1936 / XIV, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma) 15 Lettera manoscritta, autografa, s.d., indirizzata a Sign. Carlo Bernard, Via dei Maroniti 7 [ROMA] – 1936, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Rizzoli alla Mondadori, poiché confidava in uno sviluppo della collaborazione al «Secolo illustrato». Così tocca a Zavattini riallacciare il rapporto:

Caro B. ero in collera per il tuo enorme silenzio ora capisco. Vedrò Radius16 in settimana e gli riferiró. R. [adius] è molto cordiale. Cosa fai di preciso lí?17 Io lavoro forte. Fra l’altro anche a un giornale letterario di notevole importanza che sarà edito da Mondadori e Bompiani. So già cosa dici: non c’era posto per me? No. C’è un solo redattore. Prima, chiamato da Bompiani; Dettore – e ne verrà un secondo, politico – scientifico. Stop. Ma certo avró modo di farti lavorare che cosa pensi di un giornale letterario? Come lo vedi? Sto facendo un’inchiesta per mio conto, privata, tra i miei amici. I miei stanno bene (dopo mesi e mesi di farmacia) gli affari morali vanno bene, gli altri come possono. Scrivimi e ti scriveró Tuo Za p.s., manda lo stesso subito il pezzo a Radius. 18

Purtroppo per Bernari il progetto del giornale letterario fallisce:

Caro B., condivido molte cose della tua lettera. Avevamo pensato ad un giornale per molti. E non puoi immaginare con che serietà e passione ci si era messi. Credo veramente che avevo qualche qualità per servire bene la letteratura e Mondadori e Bompiani i quali si erano messi nell’impresa con idee chiare e disinteressate. Ora pare che non si faccia più niente, da un giorno all’altro: personalmente rimedierò alla cosa mettendo qualche ora a disposizione del libro. È una vergogna. Scriviamoci più spesso, caro B., e non solo nelle occasioni solenni. Tu continua a essere così apposto nei riguardi dello “scrivere” e te ne troverai sempre bene. È la cronaca che ci fotte. Ma non tentare di più (anche se non ci si riesce). Ora ti abbraccio perché devo lavorare. Tuo ZA .19  16 Emilio Radius, giornalista e scrittore italiano (Torino 1904 – Milano 1988). Collaborò a varî quotidiani e periodici, con funzioni anche di critico musicale e direttore (Oggi, 1956–62). Pubblicò volumi biografici, critici e di fantasia (Amici di mezzanotte, 1935; Ore piccole, 1936; Verdi vivo, 1951; La vita di Maria, 1954; Paura di che?, commento ai Promessi sposi, 1956; ecc.) e alcuni romanzi (Nati per vivere, 1938; Raffaella e Vittoria, 1941; ecc.). Nel 1936 Radius è redattore capo del « Secolo Illustrato ». 17 Bernari lavora nel 1936 presso la libreria antiquaria Hoepli di Roma, dove organizza i “Sabati del bibliofilo”. 18 Cartolina postale, manoscritta, autografa, s.d., carta intestata Edizioni Walt Disney – Mondadori, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I- II/Anno 2012, cit., p. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 19 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata Edizioni Walt Disney – Mondadori, indirizzata a: Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma, data del timbro postale, Milano, 27. I. 37. XV,

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Vuoi per fare un favore all’amico, e così riparare alla delusione provocatagli con la ventilata possibilità, abortita, di una collaborazione continuata al «Secolo illustrato», vuoi per le insistenze di Bernari che ha ora nell’amico un referente nel cuore editoriale della Mondadori, Zavattini riesce nell’impresa non facilissima di far incontrare Bernari e Alberto Mondadori. Premetto che Bernari stesso in alcune interviste ha dichiarato di aver incontrato per la prima volta casualmente Alberto alla libreria antiquaria Hoepli, durante uno dei «Sabati del lettore» da lui organizzati e di aver stretto subito, più che un’amicizia, un vero e proprio sodalizio. Le cose non stanno proprio così: è vero che tra i due si instaurò immeditamente una simpatia istintiva che durò (salvo uno scontro e allontamento durato due anni alla fine degli anni Quaranta) per tutta la vita. Alberto Mondadori fece nel 1940 da padrino al battesimo di mio fratello Eugenio Alberto (Geggi), primogenito di Bernari. Ben nota, del resto, è la personalità di Alberto Mondadori, personaggio dinamico, interessato al nuovo, in costante fermento anche a costo di entrare in attrito col più posato e oculato genitore Arnoldo. Il giovane Bernari (che nel 1938 ha 29 anni), dopo lo straordinario esordio nel 1934, rappresenta agli occhi di Alberto l’interlocutore ideale: un giovane scrittore e intellettuale da inserire nella Casa Editrice. L’incontro tra Bernari e Alberto Mondadori non avviene però casualmente, come l’autore di Tre operai romanze- scamente ricorda, presso la libreria Hoepli di Roma, bensí è stato abilmente studiato e preparato da Zavattini. Bernari nei primi mesi del 1938 sottopose infatti a Za il suo romanzo della conferma Quasi un secolo 20, con l’evidente desiderio di proporlo, tramite l’intercessione dell’influente amico, a Mondadori. Ecco dunque che la magia zavattiniana, il suo miracolo editoriale, già avvenuto un lustro prima con Tre Operai per Rizzoli, si ripete:

Caro Bernard, ho riparlato di te con Mondadori nella quiete della sua villa a Meina. Egli dice che appena avrà letto il libro te lo stamperà e te lo lancerà in modo eccezionale e che dal giorno della consegna del manoscritto al giorno della stampa passerà il minimo tempo possibile, addirittura un record. E tu stai sicuro non solo perché l’ha detto l’editore, ma anche perché te lo dico io che mi occuperò, come immagini, della cosa sino in fondo. Ma quattrini per adesso niente, i quattrini li avrai  pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I- II/Anno 2012, cit., p. 376 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

20 BERNARI CARLO, Quasi un secolo, Milano, Mondadori, 1940.

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alla consegna del manoscritto se sarà accettato. Io penso che tu debba lavorare con gioia poiché hai la sicurezza che è un grande editore che ti prende in considerazione e che non ti farà fare anticamera. I miei poteri, caro Bernard, arrivano sino qui. Ti abbraccio e ti dico di lavorare con fede. Domani sarò a Roma, Albergo Oriente. Tuo ZAVATTINI 21

Il prodigio di Zavattini si avvera rapidamente: porte aperte per Bernari alla Mondadori e primo incontro tra Bernari e Alberto organizzato da Za ai primi di luglio del 1938:

Caro Bernard, Va bene. Vai da Alberto, al quale scrivo oggi stesso; spero che egli ti possa essere giovevole nel senso che tu dici. Sono stato a Roma la giornata di mercoledì arrivando la mattina e partendo la sera e immagina chi ho visto chi ho incontrato per caso22 (sono venuto per cinema). Ti abbraccio e ti faccio i migliori auguri. TUO ZA 23

L’incontro tra Bernari e Alberto Mondadori, preparato come si vede abilmente da Zavattini, quindi non avviene assolutamente in modo casuale; si verifica cioè verso la metà del mese di luglio del 1938, probabilmente come ricorda Bernari proprio presso la libreria Hoepli durante uno dei frequenti spostamenti sull’asse Milano–Roma di Alberto che ha aperto un punto vendita in via Sistina. È difficile pensare che Bernari, il quale viveva in ristrettezze economiche, abbia affrontato un viaggio a Milano. Comunque, che le cose si stiano mettendo per il verso giusto è già chiaro alla fine dell’estate di quell’anno:

 21 Lettera dattiloscritta, firma e correzioni manoscritte, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”, data del timbro postale, Milano 24 aprile 1938 – XVI, indirizzata a Egregio Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 377 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 22 L’incontro casuale di cui Za fa cenno all’amico avrà conseguenze straordinarie per il cinema e la letteratura italiana: il personaggio è infatti l’attore e regista Vittorio De Sica. 23 Lettera dattiloscritta, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”, data del timbro postale, Milano 4 luglio 1938 – XVI, indirizzata a Egregio Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 377 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Caro Bernard, scusa se ti rispondo con il solito ritardo. Sarò breve: stai tranquillo che qualcosa di buono succederà. Tu sei doppiamente fortunato perché alla mia ormai vecchia amicizia devi aggiungere quella nuova e vivissima di Alberto. Dunque, stai tranquillo. So che il romanzo è molto avanti e sono certo che farai un bel colpo: te lo meriti anche contro quei tantissimi che hanno fatto di tutto per dimenticare il tuo primo eccezionale successo. Ti abbraccio sperando di vederti presto. Saluta24 Pescarzoli 25

L’amicizia di Bernari con Alberto Mondadori promossa da Zavattini avrà conseguenze durature nella storia editoriale e letteraria italiana. A partire da Quasi un secolo del 1940 fino a Il grande letto del 1988, Mondadori pubblicherà e ristamperà tutte le opere dello scrittore napoletano. Ma la questione che a noi interessa è un’altra: riguarda specificatamente l’attività fotografica e giornalistica di Bernari. Ai primi del 1939 Bernari viene chiamato dai Mondadori a Milano e incaricato di guidare come capo redattore la redazione del neonato «Tempo» mondadoriano che vede nel comitato la presenza di un selezionatissimo manipolo di giovani e promettenti intellettuali e giornalisti. Ad esempio il numero 28, anno IV del 7 dicembre 1939 pubblicava un colophon redazionale composto da Carlo Bernard (caporedattore), dal poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri, dal giornalista Ettore Della Giovanna, dal poeta Salvatore Quasimodo, dal regista Alberto Lattuada e, come direttore artistico, dal fotografo Bruno Munari.26 Intorno alla metà del mese di novembre del 1938 Bernari entra nella redazione di «Tempo» condividendo la scrivania con Indro Montanelli, che però abbandona presto la Mondadori. Dopo un breve periodo di intenso lavoro redazionale, dove apprende dall’art director Bruno Munari il mestiere di impaginatore e di come si tagliano le immagini fotografiche per ottenere l’inquadratura perfetta, il giovane

 24 Antonio Pescarzoli, direttore della libreria Hoepli a Roma. È del 23 gennaio 1938 una recensione a cura di Carlo Bernard su La storia degli Uomini di A. Pescarzoli, apparsa in «Circoli» . 25 Lettera dattiloscritta, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”, data del timbro postale, Milano 19 settembre 1938 – XVI, indirizzata a Egregio Sign. Carlo Bernard / via Ennio Quirino, 85 int. 13 / Roma, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 377-8 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 26 La composizione della redazione di «Tempo» dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che proprio la via interdisciplinare rappresenta la strada maestra per l’interpretazione e la comprensione del neorealismo come un movimento che, non solo nelle intenzioni programmatiche, ma proprio nel suo DNA culturale, abbracciava a 360 gradi tutti i generi e le arti visive.

175  scrittore – non ha ancora trent’anni – si butta nella più pericolosa delle avventure giornalistiche: riceve l’incarico di inviato speciale in Norvegia per eseguire un servizio sull’occupazione della Scandinavia, la cosiddetta operazione Weserübung scattata il 9 aprile del 1940, da parte della Germania nazista. Bernari fa tappa a Berlino nel dicembre del 1940 per ottenere i visti e presentare le credenziali giornalistiche. Dalla Scandinavia invia un telegramma alla moglie Marcella comunicando che sta bene. La data è dell’8 dicembre 1940. Marcella e Carlo Bernari si erano sposati l’anno precedente, nel luglio del 1939, e il 9 maggio del 1940 era nato il primogenito, Eugenio. Bernari lascia dunque la moglie fresca di nozze e il figlioletto Geggi per imbarcarsi in una pericolosa avventura nella Germania nazista. Pericolosa non solo per via della guerra, ma anche perché l’autore di Tre operai, libro giudicato comunista da Mussolini fin dal 1934, va a sfidare la Gestapo a casa di Hitler, per di più al seguito delle sue truppe: si tratta indubbiamente di un’iniziativa assai rischiosa, anche se ormai Carlo Bernard comincia a usare, proprio dal 1940, il nuovo nome Bernari. Ma quella del cambio del nome non può certo definirsi una copertura sufficiente. Probabilmente Arnoldo e Alberto Mondadori attivano le loro amicizie in alto (mi riferisco in particolare al Ministro, nonché genero del Duce, Galeazzo Ciano, che peraltro conosce e stima Bernari) per far passare agli occhi delle autorità tedesche il pericoloso marxista come un semplice giovane cronista di un’importante testata italiana, questo nel clima della collaborazione in atto tra fascismo e nazismo. Forse Ciano, che ha sempre dubitato di Hitler, vuole proprio ottenere informazioni non edulcorate da una fonte oggettiva, e sa che Bernari racconterà l’occupazione nazista in maniera veritiera? La questione Ciano merita un breve approfondimento. Come ben noto, la politica culturale del regime fascista negli anni Trenta, con Bottai e Ciano, fu almeno fino all’inasprimento del 1938, volutamente improntata ad una relativa permissività nei confronti degli artisti. Si è già detto che quando Mussolini “censura” personalmente Tre operai, la censura si trasformò in una forma di tolleranza, vuoi per non sconfessare i primi giudizi positivi dell’apparato ideologico fascista, vuoi perché Ciano sta appunto cercando di “dialogare” coi giovani intellettuali e preferisce evitare azioni di forza. Fatto sta che la notizia del ripensamento del regime a proposito di Tre operai, improvvisamente giudicato sovversivo, arriva come un fulmine a ciel sereno a Zavattini che informa subito l’amico:

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Caro Bernard hai saputo di un ordine del Capo Ufficio Stampa di non parlare del tuo libro? Ti confesso che non riesco a comprendere la ragione. Tu che sei a Roma forse ne puoi sapere più di me. Aspetto con ansia una tua lettera. [...] In questo momento riesco a sapere che la notizia della proibizione ai giornali di parlare del tuo libro è ufficiale. Spero che Interlandi 27 possa illuminarti in proposito. La cosa ha conseguenze gravissime per te. La prima è stata quella dell’Ambrosiano che non ti segnala (saresti stato tu quasi infallibilmente il vincitore) secondo che l’Almanacco forse se aveva voglia di premiarti, non ti premierà, terzo che i giornali che dovevano accoglierti come collaboratore avranno paura di ospitarti. E i premi letterari? Non vorrei che questo fatto stroncasse tutti quegli splendidi risultati che tu stavi per raccogliere, quindi tu mettiti in moto lì io mi metterò in moto qui per vedere se proprio sia irrevocabile la decisione. Leggo in questo momento le tre colonne sull’Italia Letteraria.28 Benissimo. Ma come mai? A meno che il divieto sia solo per i quotidiani. Ti abbraccio. Tuo ZA 29

E Bernari, raggiunto dalla notizia che la sua opera non sarà censurata ma viene proibito parlarne, si mette subito in moto a Roma. La prima porta dove va a bussare è proprio quella di Galeazzo Ciano. Il nome di Ciano infatti compare in una lettera immediatamente successiva di Zavattini; è il 9 aprile 1934:

Caro Bernard, meglio così. Non credo sia il caso di scrivere a Ciano perché non vorrei seccare o dare l’impressione d’essere soffocante. La festa del libro si avvicina così ci rivedremo. Ora ti abbraccio. Sono più che mai in mezzo alle presentazioni e il daffare. Scusami se ti scrivo  27 Telesio Interlandi è nel 1934 direttore di «Quadrivio» , rivista dove Bernari muove i primi passi della sua formazione giornalistica. La biografia non lascia adito a dubbi sulla posizione ideologica di Interlandi che tuttavia, ispirandosi al fascismo rivoluzionario della cosiddetta prima ora, è aperto ad un più vasto dibattito soprattutto coi giovani intellettuali. Su invito di fonda nel 1924 e dirige, in antitesi con il «Popolo d’Italia», foglio ufficiale del fascismo, un giornale più spregiudicato e aggressivo: «Il Tevere». Dalle colonne del «Tevere» vengono attaccati in prima pagina ministri in carica, come Giuseppe Bottai, o personaggi di rilievo del Regime, come nel caso di Marcello Piacentini, architetto e urbanista ufficiale del fascismo. Alla terza pagina del «Tevere» collaborarono, tra gli altri, Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati, Antonio Baldini, Corrado Alvaro, Carlo Bernari, Ercole Patti, Ardengo Soffici, Julius Evola, Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Giorgio Almirante e Alfredo Mezio. Nel 1925 Interlandi viene nominato segretario dei giornalisti romani. 28 Si tratta dell’articolo a firma Aristarco, cioè Zazo, cit. 29 Lettera dattiloscritta, firma manoscritta autografa carta intestata, “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”, indirizzata a “Carlo Bernard / Piazza di Spagna, 66 / Quadrivio / Roma”, data del timbro postale, Milano 6 aprile 1934, XII , indirizzata a Bernard / 4 Fontane 4 / Roma/, data del timbro postale Milano, 9. 4. 34, inedita (Archivio Carlo Bernari), pubblicata in ZAVATTINI, Una, cento mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1998, cit., p. 37 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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poco. tuo ZA 30 Bernari non raccoglie però il suggerimento dell’amico e, di fronte alla cappa di piombo che cala improvvisamente sulla sua opera e su di lui, disattendendo colpevolmente il consiglio e le istruzioni di Zavattini, scrive all’editore Andrea Rizzoli e a Galeazzo Ciano. Quindi subisce una solenne tirata d’orecchie da parte di Za:

Caro B, leggo ora la tua lettera a Rizzoli. Non è stata utile, egli non ricordava neanche più la cosa. Non vuoi capire che le preoccupazioni non riguardavano noi, ma te e se io spronavo era perché mi pareva che eri un po’ lontano dalla realtà. Dici che io volevo tu ti agitassi. Io non volevo che tu facessi quanto hai fatto e se non lo facevi, se cioè non andavi da Ciano, ecc. ecc., tutto sarebbe stato come prima. 31

La lettera continua con un chiarimento circa le voci messe in giro ad arte su Bernari, che viene malevolmente spacciato per finto povero, uno che parla di operai e di miseria, ma ha le tasche piene di soldi. Zavattini non ci crede (« ...se sapessi che avevi in tasca 1000 lire e invece dicevi di averne cinquanta, allora saresti stato un porco. Ma ciò non è»). Tuttavia, la parte storicamente rilevante è proprio quella concernente il tentativo di approccio con Ciano che – è il timore di Za – rischia di amplificare il problema anzichè risolverlo: il regime, questo il tono di Za, si sarebbe dimenticato presto di lui e del suo libro, così invece, agendo, finirà per attirare su di sé tutte le attenzioni. E male ha fatto a scrivere anche ad Andrea Rizzoli (l’editore di Tre operai ) che non ricordava più la questione. Il nome di Ciano ricompare ancora, per l’ultima volta, in una lettera del 29 agosto 1934: «Bene per Interlandi circa Ciano».32 I rapporti con Interlandi non sono ottimi, dato che si tratta di un fascista della prima ora, ma evidentemente Bernari riesce ad ottenere qualche rassicurazione circa le intenzioni del regime sulla sua attività che proseguirà, relativamente indisturbata dalla  30 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”, data del timbro postale, Milano 19 settembre 1938 – XVI, indirizzata a Bernard / 4 Fontane 4 / Roma/, data del timbro postale Milano, 9.4.34, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 380 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 31 Lettera dattiloscritta, carta intestata, “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa Milano”,, datata Milano primavera 1934, pubblicata parzialmente in Cesare Zavattini, Una, cento mille lettere a cura di Silvana Cirillo op. cit. p. 35, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 32 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa”, Milano, indirizzata a “Carlo Bernard / Piazza di Spagna, 66 / Quadrivio / Roma”, data del timbro postale, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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censura e dall’Ovra fascista, in forma di una clandestinità piuttosto provvisoria, fino al mese di marzo del 1942.33 Bernari arriva ad Oslo nel Natale del 1940 a bordo della nave Neptun della marina tedesca. La data è confermata, sia pur approssimativamente, da alcune fotografie scattate all’arrivo: la Neptun reca un albero di Natale a prua e la scritta Weihnachtsschiff des Reichskommission Norvegen.

 33 Alberto Mondadori, come accennato prima, riesce a “nascondere” e a far lavorare Bernari alla Mondadori fino alla primavera del 1942. Successivamente Bernari si trasferirà a Roma per entrare nella Resistenza. Nel dramma teatrale Roma 335 (1973) lo scrittore racconta il suo dissidio con il gruppo partigiano di Bentivegna che organizzò l’attentato di via Rasella.

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L’albero spoglio sarà poi illuminato e posto al centro della banchina come documentato dai primi scatti dello scrittore italiano appena sbarcato. Successivamente Bernari, dopo aver fotografato numerose scene di vita quotidiana e della presenza dei soldati tedeschi nella città, viene associato al gruppo degli inviati speciali al seguito delle truppe. Da una delle macchine ufficiali fotografa le Mercedes nere che lo precedono in direzione nord.

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Naturalmente non può fotografare tutto quello che vuole, né ha libertà di movimento (come altrimenti sarà in Albania l’anno successivo e nel 1955 in Cina); quindi ha difficoltà a trovare soggetti da riprendere. Giunge a 65 chilometri a nord di Oslo, come si nota in una foto di un cartello stradale. È più che altro affascinato dai panorami industriali nordici, le ciminiere che gli ricordano i paesaggi desolati di Sironi che fanno da sfondo al dramma di Teodoro in Tre operai:

Il reportage comunque non avrà momenti eclatanti: Bernari è senz’altro intimorito. In mezzo ai nazisti, non parla tedesco; coi norvegesi non può comunicare neppure in inglese, perché non sa (e non imparerà mai) una parola dell’idioma di Shakespeare. È costretto ad arrangiarsi col francese e con qualche traduzione cui si presta un collega.

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Rovistando tra le carte rimaste per due decenni chiuse in uno scatolone dimenticato nell’armadio di mio fratello, ho appena rinvenuto un quadernetto a spirale di 66 pagine fittamente chiosate sia a lapis che a penna: si tratta del diario e delle osservazioni di viaggio di Bernari in Norvegia nel 1940. È un documento34 assolu- tamente sconosciuto e di straordinaria importanza storica che dimostra come il rapporto tra immagine fotografica e pagina letteraria viene a costitursi centralmente nell’esperienza artistica e professionale di Bernari. È la riprova, insomma, di una tecnica di scrittura parallela al fotogramma che anticipa l’esperienza maturata a Napoli e succesivamente in Cina tra il 1948 e il 1955.

 34 Il taccuino è attualmente depositato al Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento Roma.

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Il taccuino, come risulta evidente da una rapida lettura, intende “raccontare” le foto che evidentemente non bastano allo scrittore nella sua missione di esplorazione e rendicontazione della verità. La verità, secondo Bernari, necessita di una seconda fase, quella proprio della narrazione, sia pur giornalistica, fino ad assumere il ruolo del racconto. Si tratta altresì della stessa tecnica adottata da Verga – in questo caso non più dalla scrivania dello scrittore, ma mettendo a repentaglio la propria vita in una missione di guerra, per giunta al seguito, per lui marchiato come comunista dallo stesso Mussolini, nel bel mezzo dell’esercito nazista! Questi appunti hanno una struttura diaristica da vero e proprio resoconto di viaggio e svariano da osservazioni antropologiche ad annotazioni di vita quotidiana, dal reportage di eventi politici e militare all’analisi dei comportamenti umani, delle usanze e delle tradizioni sia dei Norvegesi, ma anche dei Tedeschi che lo scrittore segue con particolare attenzione come a studiarne abitudini, virtù e vizi.

Le donne norvegesi sono belle. Non ho incontrato solo donne belle, ma la maggioranza è d’aspetto piacevole; la più parte veste bene e con ricercatezza. Quasi tutte però hanno caviglie forti, ed anche doppie; bei corpi, bei seni, orribili gambe. Immagino che queste caviglie si siano sviluppate per l’esercizio che di continuo queste

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donne fanno sulla neve e in montagna. Forse è un difetto che si va perpetuando di generazione in generazione. Costrette a camminare e a sciare tra neve e ghiaccio, le gambe di queste moderne ragazze avevano garetti ben forti. Anche i nudi femminili di Vigeland35 hanno le caviglie forti. Un suo biografo dice ed io sono sicuro che Vigeland ha colto un elemento che è caratteristico nel suo popolo. Popolo giovane il norvegese si è fatto influenzare dai popoli più progrediti di Europa. In arte ha accettato forme già sperimentate, in politica ha tentennato tra un nazionalismo borghese e un socialismo intellettuale. Oggi esperimenta una nuova forma di direzione: quella che riceve da Berlino. Sono spuntati fuori i nazisti, che qui si chiamano National- samlung36 e sono comandati da Quisling37. Vestono un’uniforme blu, simile ad un costume di sciatori. Li si vede speso la domenica sulle piazze di Oslo; e più spesso li si vede prendere a cazzotti qualcuno che protesta, vuoi contro i tedeschi, vuoi contro gli N.S. stessi. I quali per lo più sono giovani appartenenti a buone famiglie, simpatizzano per i tedeschi e simpatizzano per i nazisti attualmente al potere. Il più bello è vedere soldati ufficiali tedeschi non intervenire in queste lotte, mantengono un corretto contegno estraneo alla lotta. Intervengono i poliziotti norvegesi, coi manganelli.



Il coraggio di Bernari non passa inosservato e, al ritorno in patria, Bernari viene richiamato38 dall’esercito che a fine aprile del 1939 è sbarcato a Durazzo. E parte in compagnia di Dino Buzzati poco tempo dopo aver fatto ritorno dalla Norvegia. Siamo alla fine di gennaio del 1941. Bernari è inquadrato come reporter al servizio del comando, il che vuol dire che non è solo un corrispondente di guerra del giornale, ma un militare. Con la formazione delle divisioni binarie, viene inserito nella Divisione di Fanteria Venezia della quale fanno anche parte l’84° Reggimento Fanteria (il suo) e il 19° Reggimento Artiglieria.

 35 Adolf Gustav Vigeland (Mandal, 11 aprile 1869 – Oslo, 12 marzo 1943) è stato uno scultore norvegese. La sua fama è legata soprattutto al Parco di Vigeland 36 Termine trascritto successivamente in inchiostro verde, erroneamente con una “m” sola. In realtà Bernari mischia il termine tedesco con quello proprio norvegese di “Nasjonal Samling“. 37 Vidkun Abraham Lauritz Jonssøn Quisling (Fyresdal, 18 luglio 1887 – Oslo, 24 ottobre 1945) è stato un militare e politico norvegese. Ufficiale dell’esercito e fondatore nel 1933 del partito fascista norvegese il Nasjonal Samling, fu uno dei più famosi collaborazionisti, mettendosi al servizio di Hitler e delle forze armate tedesche che all’inizio della Seconda guerra mondiale avevano occupato la Norvegia. 38 Il servizio di leva Bernari lo espleta al ritorno da Parigi nel 1931, in fanteria. Bocciato agli esami di caporale, è assegnato come scritturale alla segreteria del capo di Stato Maggiore a palazzo Baracchini.

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Sul campo, Bernari dimostra il suo valore, non solo artistico. Sotto il tiro nemico fotografa l’orografia del territorio: il suo coraggio sarà attestato da un riconoscimento ufficiale militare. Possibile che il Duce non ricordi quel poco comune nome francese, Bernard, che lo aveva mandato in bestia quando aveva letto sette anni prima quel romanzo comunista Tre operai? Poiché il fascismo ha molte facce, ma non quella della stupidità, soprattutto a quei tempi, il riconoscimento militare gli viene consegnata alla fine del ‘41, quando non ci sono più spiragli di dialogo tra gli intellettuali antifascisti e il regime che, a partire dal 1938, ha dato un forte giro di vite alla repressione dell’antifascismo anche velato: bisogna quindi per forza credere alle testimonianze dei superiori di Bernari che ne hanno comprovato ufficialmente l’incredibile valore. Ma accanto al lavoro di reporter militare, Bernari svolge un’intensa attività giornalistica: documenta gli orrori della guerra attraverso decine di scatti dedicati ai corpi (animali e uomini) morti.

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Oppure riprende giovani militari che soffrono il freddo; o le speranze racchiuse in una scritta su una casa diroccata: Per noi già è primavera.

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E ancora la popolazione colpita dalla guerra: donne, vecchi, bambini, persone inermi di fronte alla devastazione. Il capolavoro Bernari lo realizza documentando l’arrivo dei Tedeschi in soccorso dell’esercito italiano bloccato dai Greci sul Pireo.

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L’incontro tra l’ufficiale nazista e il comandante italiano è una sequenza narrativa oltremodo eloquente ed emblematica: il baldanzoso crucco abbraccia e stringe la mani da trionfatore, mentre i soldati italiani sono velati di malinconia non solo per il fallimento della loro missione, ma perché tra loro e le orde di Hitler si intuisce già che manca il feeling: si sa come è andata a finire la storia con il massacro dei soldati italiani da parte degli ex–alleati nazisti. È trascorso appena un lustro da quando Zavattini ha scritto a Bernari la fatidica frase «fatti prestare una Leica o qualcosa del genere» scatenando nell’amico un demone, quello dell’arte fotografica che coinvolge un’ampia problematica fenomenologica, che covava dentro dai tempi della riscrittura del veristico Gli stracci prima di ultimare la stesura del capolavoro del neorealismo Tre operai. Un processo di elaborazione letteraria durato alcuni anni che comporta una prospettiva nuova39 per il giovane scrittore napoletano che improvvisamente mette a fuoco la realtà come attraverso l’otturatore di una macchina fotografica. Lo afferma lo stesso Bernari nella  39 «La scelta dei primi piani si sposa con l’interesse, mostrato dalla fotografia e dalla pittura, per il corpo umano, per l’oggetto, per la capacità di vedere le cose in modo diverso a seconda della prospettiva. Dopo Parigi Bernari ha introiettato in qualche modo queste tematiche e quando in Tre operai descrive Teodoro disteso a letto, del corpo egli tratteggia solo la mano e l’occhio, vale a dire la mano che regge il libro alludendo all’oggetto e all’azione che il soggetto sta compiendo e l’occhio che legge e a cui si collega il pensiero e l’attività visionaria e onirica, di rappresentazione mentale che seguirà alla lettura.» BERNARD D., Carlo Bernari a Parigi: la rivista «Bifur» e i rapporti tra Napoli e la Ville Lumière negli anni Trenta, in «Studi novecenteschi», cit. p. 313.

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Nota 65:

Così la riduzione di quanto ancora risultava oggettivo – senza peraltro diventare oggettivante – in Tempo passato, a quel particolare soggettivismo in terza persona di Tre operai, si avveleva anche di quel processo presentificante, grazie all’accumulo di materiali realistici – fatti, cose, ambienti, personaggi – sottratti alla realtà viva e collocati a una distanza caliginosa e polverosa che facesse memoria .40

La fotografia fornisce, insomma, allo scrittore lo strumento necessario ad una ricognizione sulla realtà che non è di per sé, o non lo è ancora, opera d’arte. La fotografia necessita di una successiva drammaturgia letteraria per mettersi – come voleva Verga – in movimento come scoperta della realtà. Questo è il senso del grande cinema neorealista che Bernari così caratterizza:

All’origine della più recente produzione cinematografica italiana, accanto ad opere di vero e proprio cinematografo, come ad esempio Paisà di Rossellini, dobbiamo collocare anche un’opera letteraria come Cristo si è fermato a Eboli di Levi. Con queste due opere non voglio dire che sia stata scoperta una realtà ignota alla letteratura come alla cinematografia italiana, ma voglio dire che con queste due opere è stata restaurata una fiducia nel reale; per cui in esse non tanto hanno valore le “cose scoperte” quanto il modo attraverso il quale esse furono scoperte e rappresentate. 41

Ma dopo la “scoperta delle cose”, ossia al di là della fotografia e in simbiosi e in parallelo con la letteratura, ecco che il cinema assolve ad una funzione critica:

Se uno scrupolo mancino ci porterà a rintracciare nell’una come nell’altra creazione un bel mucchio di difetti, finiremo per sempre per riconoscere in ciò che ci rimane di vivo quella rara virtù che solleva una favola sul piano rivoluzionario e di un’opera di poesia ne fa uno strumento di lotta contro la morale e il costume imperanti.42

 40 BERNARI, Nota 65, postfazione a Tre operai, cit., p. 177. 41 BERNARI CARLO, Nostro film quotidiano, in «Paese Sera» del 27 febbraio 1951, p. 3 42 Ivi.

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Un’operazione, quella di trasformare la poesia in una sorta di “favola sul piano rivoluzionario” ossia di “poesia come strumento di lotta” che a sua volta impone, nella concezione bernariana che sembra qui riprendere il discorso di Bahr sul superamento del naturalismo, un’analoga presa di posizione estetica in grado di recuperare la lezione verghiana, in quanto, come sostiene l’autore di Tre operai:

la lezione verghiana si era sperduta fra le varie deviazioni del naturalismo; sulla riva opposta invece della Realtà, era stato eretto un simulacro per cui se veniva meno il gusto, avvertivi subito l’affettazione di un linguaggio insopportabile.43

A questo punto riprendiamo il discorso sul film Le quattro giornate di Napoli, in particolare su un altro episodio estromesso dalla sceneggiatura, l’unico in cui si sarebbe dovuto vedere un fascista sparare sugli italiani e poi cadere colpito a morte da un pensionato, a conferma del libero dibattito tra gli autori:

Oggi, sul filo della memoria, se condivido la responsabilità di quel che c’è, come c’è e di quel che manca e per come manca, avverto tuttavia che un fascista, uno solo che spara alle spalle dei patrioti bisognava lasciarlo; almeno quello che poi rimane ucciso per la raffica sparatagli contro da un pacifico pensionato... però quando il vecchio si accorge di aver colpito non un nemico, ma uno come lui, napoletano, anche se fascista, non sa darsi pace: chi poteva pensare stamattina uscendo di casa che avrei ammazzato un cristiano come me. E piange. Di tutta la scena si è salvata la sola battuta, ma riferita all’uccisione di un tedesco! Ci fossero nel film anche i fascisti, protestano i tedeschi, il peso delle nostre responsabilità sarebbe più lieve.44

Ma se nel film “l'ideologia” del popolo napoletano si sostituisce auto- maticamente, quasi come un'esigenza del reale, all'ideologia del partito comunista, espulsa dall'opera come un corpo estraneo, ebbene, se tutto ciò avviene sulla base di una documentazione fotografica che serve allo scrittore per far nascere su basi realistiche la finzione artistica, prima letteraria con la sceneggiatura poi cinematografica vera e propria, dovremmo allora ritrovare una forte analogia tra i fotogrammi del film e le stesse foto sotto esame, fotografie derivanti da quel “viaggetto

 43 Ivi. 44 BERNARI, Le mie faticose quattro giornate, in «Cinema Nuovo», cit., p. 435

190  da commesso viaggiatore” di cui Zavattini, nella lettera precedentemente riportata, comprende l'importanza creativa. E da qui estendere la ricerca anche alle esperienze del Bernari fotografo militare e reporter di guerra. L'immagine qui riportata, ad esempio, viene dal film o è uno degli scatti di Bernari?

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Bella domanda: se non se ne conoscesse la provenienza – è un fotogramma della deportazione dei napoletani tratto dal film – potrebbe essere facilmente scambiato con quest’altra istantanea di Bernari:

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E il ragazzino soprannominato “Cazzillo”, alias Gennaro Capuozzo, unitosi agli scugnizzi della brigata “Ajello”...

...che muore in azione contro un tank tedesco...

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...non è forse già impresso fisionomicamente presente nelle foto che Bernari ha scattate nei vichi?

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Parrebbe proprio che il servizio fotografico di Bernari torni utile, quindici anni dopo, al regista Nanni Loy che si serve dello scrittore napoletano non solo come sceneggiatore e autore della parte letteraria del film, ma come un vero e proprio coregista. Ma anche l'esperienza di corrispondente di guerra serve a Bernari per la ricostruzione di sequenze e personaggi da lui giù visti e ripresi nel corso dei suoi reportage in Scandinavia e in Grecia nel 1940-41. Lo stesso puzzle fotografico di veri scatti e di frames tratti dal film potrà dunque indurre in imbarazzo: quale sarà vero e quale di “fiction”?

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Se avessimo modificato il tono colore e la satinatura delle due immagini, la prima scannerizzata da una copia del film e la seconda un vero scatto di Bernari, non

197  saremmo in grado di cogliere la differenza tra realtà e finzione. In un'altra immagine riconosciamo il protagonista, Gian Maria Volontè, quindi possiamo accorgerci di essere nell'ambito dell'invenzione filmica:

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Così le immagini degli sfollati del film sono riminiscenze dei servizi di guerra di Bernari.

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Si potrebbe insistere a lungo su questi paragoni, ma è opportuno a questo punto fare un passo in avanti, anche per evitare di fraintendere il discorso; che non è certo quello di un ritorno al concetto del neorealismo come rappresentazione immediata della realtà. Del resto il confronto tra la realtà fotografica e il realismo dei frames del film potrebbe dar luogo a questo malinteso. Allora, utilizzeremo un'altra breve sequenza de Le quattro giornate di Napoli per dimostrare invece che il film, proprio sulla base della scrittura e della narrazione, tende a trascendere il reale e a manifestarsi come una rielaborazione fantastica ovvero, per continuare ad usare un'espressione ormai abusata, una “fiction”.

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Nella sequenza dal “taglio” realistico si aggiunge una nota quasi paradossale, se non proprio surreale, quando le orde naziste vengono bloccate nei vichi dai napoletani asserragliati alle finestre con lancio di oggetti di ogni tipo: anche un water serve all'occasione mentre il soldato tedesco prende la mira. La questione è che la critica ha messo in risalto più l'impianto “neorealistico” del film, la ricostruzione precisa di un evento storico della resistenza italiana, sorvolando sulle caratteristiche narrative della sceneggiatura che si avvale di un piano drammatico molto articolato, anche perché deve rendere conto di una ben nota caratteristica del popolo napoletano, quella di stravolgere la tragedia in farsa, di riuscire a cogliere il lato surreale e paradossale delle vicende umane. È di tutta evidenza che questa elaborazione “surreale” e un po' favolistica del neorealismo, cui non è estranea la “napoletanità” dello scrittore, il suo umorismo e fatalismo tipicamente partenopeo45 sempre pronto a sdrammatizzare e a fondere tragedia e farsa, non può non manifestarsi anche nella sceneggiatura del film di Loy. Così la farsa del fascista in camicia nera, per seguire un percorso opposto, che si avvede della bestialità dei suoi “alleati” nazisti, fino a vergognarsi di indossare la divisa del gerarca, si conclude con la sua tragica fine sotto gli occhi della moglie per una raffica di mitraglia tedesca. Una sorte che nella storia “vera” è toccata al genero del Duce, Galeazzo Ciano. Il cinema neorealista, fin dai primi successi dell'immediato dopoguerra, non ha mai disdegnato l'inserimento di elementi surreali, quando non proprio farseschi o comici, a sdrammatizzare la tragedia “realistica” dell'occupazione e degli eccidi nazisti. Qualche brevissimo esempio può essere utile a rinfrescare la memoria, come la scena comica di Roma città aperta di Rossellini, allorquando il parrocco “addormenta” con una padellata sulla fronte il vecchietto demente che si agita e fa baccano mentre in casa è in corso una perquisizione nazifascista e sotto il suo letto è nascosto un ricercato. Scena che fa ridere, ma che prelude alla tragedia della famosa sequenza in cui la protagonista Anna Magnani, rincorrendo il camion che trasporta il

 45 Alla domanda di Anna Benassi (Un personaggio dei suoi libri dice che per scrivere di Napoli bisogna essere pazzi o piccirilli. Lei che ne pensa?) Bernari risponde: «Ma se l’ho accolta questa formula, è perché risponde a un momento del mio temperamento, del mio spirito. Cioè Napoli è veramente un regno delle fiabe; è favolosa in tutte le sue manifestazioni. Quindi, per capirla occorre altrettanta fantasia, quanta imprevedibilità il napoletano pone nelle sue azioni.» BENASSI (a cura di), Un autore una città, cit. p. 59.

203  marito vittima dei rastrellamenti, viene falciata da una raffica sotto gli occhi del figlioletto. Rimarginate le ferite del conflitto e della guerra civile la narrazione cinema- tografica, passando per il neorealismo “rosa” del Poveri ma belli e de La spiaggia, si avvia dunque sulla strada della commedia all'italiana dei primi anni Sessanta – di cui L'immorale di Germi nella sceneggiatura di Bernari, che frusta l'ipocrisia borghese e cattolica, è uno dei momenti più interessanti. Due film segnano il passaggio dal neorealismo di guerra al neorealismo “rosa” e della commedia all'italiana: si tratta di La grande guerra di Monicelli e, appunto, de Le quattro giornate di Napoli scritto da Bernari per Loy. In entrambi i casi alla fedele ricostruzione storica e ad un neorealismo fotografico, si aggiungono elementi di fiction e di commedia che, se sono evidenti e spudoratamente comici nel capolavoro di Monicelli, assumono nella rievocazione della resistenza a Napoli un aspetto narrativo strutturale: entrano cioè a far parte della rappresentazione surreale e paradossale della realtà, come se fossero reali e non inventati. In ciò gli autori vengono senz'altro agevolati dal cosiddetto “paradosso napoletano” di cui si parlava prima, la voglia del partenopeo di scherzare su tutto, anche e soprattutto sulla tragedia. Ma questo è possibile perché proprio colui che ha preparato il cosiddetto “incunabolo” neorealista, cioè Carlo Bernari, è napoletano di natura e di cultura. Le strade artistiche e creative di Zavattini cineasta e di Bernari sceneggiatore si incrociano e si fondono, come vedremo dal carteggio, fin dai primi scambi epistolari. Ma è forse necessario accennare, prima di passare ad una analisi più dettagliata di questi rapporti, che preludono ad una sceneggiatura che i due amici scrivono insieme nel 1952. Sceneggiatura che pure avremo modo di presentare, accennando alla produzione cinematografica di Bernari, sicuramente meno nota e storicizzata di quella di Zavattini, ma non per questo meno importante. Infatti tra le tante questioni ancora da chiarire c’è l’apporto di Bernari al cinema e alla “scrittura cinematografica”.

204 Capitolo terzo

Una polemica “dura” a morire.

Ancora oggi, nonostante i parziali ma importanti progressi di una critica meno permeabile alle “ideologie” (Barbèri Squarotti), cui si accennava, alcuni studiosi insistono nel ridurre il neorealismo alla semplice rappresentazione della realtà. Così, non comprendendo il “nuovo stile” nella sua vera essenza di sinergia sperimentale tra le arti, finiscono per minimizzarlo o addirittura liquidarlo come un obsoleto riflusso neoverista. Ne è prova una recente ricerca di Guido Oldrini che, fin dal titolo non privo di risvolti polemici1, torna a intonare un po’ fuori tempo massimo il de profundis al neorealismo ignorando la sfida pasoliniana racchiusa nei versi di In morte del realismo (1960):

Tutti l’avete amato quello stile, ai giorni della speranza: e non senza motivo. Che motivo ora vi impedisce di rimpiangerlo? Ah, ragione! Perduto di nuovo negli oscuri meandri dell’irrazionalità! Elusione, riduzione, elezione stilistica: atti, tutti, alla resa davanti alla reazione! Scusate... il mio cuore è là dentro la bara, con quello stile... Vorrei tacere e basta.2

I versi di Pasolini contro i nuovi puristi, i “lirici” e i vittoriniani “pifferai” del socialismo, in particolare Cassola (ma volendo fare qualche altro nome: Giancarlo Vigorelli) citato nell’epitaffio pasoliniano che adotta la tecnica del discorso shakespeariano di Antonio contro Bruto con l’insistente e quindi alla lunga dirompente “Cassola è un rispettabile scrittore”, dovrebbe far riflettere chi, come Oldrini, ripropone – a quarant’anni dalla polemica letteraria – la tesi della “morte del neorealismo”. E tutto ciò per giunta avviene, è il caso di Oldrini, in nome delle “sorti magnifiche e progressive” della società e della cultura italiane contemporanee! Il saggio di Oldrini è infatti del 1992–93. Ossia – ma è un caso – l’anno in cui muore

 1 Cfr. OLDRINI GUIDO, Gli autori e la critica: fatti e misfatti nel mondo del cinema, Venezia, Marisilio, 1993. 2 PASOLINI PIER PAOLO, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, p. 140.

205 Carlo Bernari e nel periodo – e non è affatto un caso, anzi! – in cui Achille Occhetto, segretario della “Cosa”, il Partito Comunista che cambia nome dopo la caduta del Muro di Berlino, pensa a costruire quella “gioiosa macchina da guerra” che avrebbe dovuto spazzare via lo spettro di Berlusconi. Le cose andarono diversamente: la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto fece cilecca e Berlusconi si avviò alla presa del potere bissando un “ventennio” di mussoliniana memoria. Le affermazioni di Oldrini assumono dunque il sapore della retorica di partito nel momento topico del “serrate le fila” preelettorale. Un partito in cui restavano tracce culturali di quel sentimento da sempre, più o meno esplicitamente, ostile al neorealismo fantastico e surreale di Bernari, Zavattini e Calvino. Così i “nuovi critici” del “nuovo” Partito Comunista ribattezzato Quercia, DS, Ulivo e poi PD, si rimboccano le maniche, all’inizio dell’ultimo decennio del XX secolo, per ricreare una formula, più utile a fini propagandistici, di realismo, se non socialista ideologicamente parlando, almeno assoggettato agli interessi elettorali che si sognavano rosei – ma rose non furono – per la sinistra italiana.3 Ma torniamo a Oldrini che scrive con toni enfatici:

Qualsiasi atteggiamento anche semplicisticamente nostalgico verso di esso [il neorealismo] non avrebbe più senso. Il profondo mutamento dello sfondo storico e dei problemi, l’evoluzione della società italiana, le strade nuove – più o meno feconde che esse siano – imboccate dalla cultura, dall’arte e anche dal cinema, non solo rendono il neorealismo, come tendenza, inattuale, ma fanno sorgere la necessità di sottoporre a riesame critico l’intero quadro di valutazione del fenomeno […]4

Una buona occasione per dare inizio a questo riesame critico del neorealismo (ma basterebbero i versi di Pasolini a rendere la questione superflua, per non dire ridicola) è offerto a Oldrini da un datato saggio5 di Roy Armes, che viene spacciato come «uno dei contributi più seri e consistenti allo studio del neorealismo che sia giunto dalla critica estera.» Che cosa ci verrà dalla critica estera di tanto importante? La prima dichiarazione d’intenti è sconfortantemente semplicistica. Dallo studioso “estero” veniamo a sapere che:

 3 Sarebbe interessante studiare l’evoluzione del teatro e del cinema italiani negli ultimi anni in direzione di un minimalismo al limite del documentarismo, proprio all’opposto di quello stile antimimetico e soggettivistico che rappresenta il primo approccio del neorealismo al problema della rappresentazione della realtà. 4 OLDRINI, Gli autori e la critica: fatti e misfatti nel mondo del cinema, cit., p. 176. 5 ARMES ROY, Patterns of Realismo: A Study of Italian Neo–Realist Cinema, South Brunswick–New York–London, A–S. Barnes–The Tantivy Press, 1971, p.74.

206 Il neorealismo ha prodotto sia un gruppetto di autentici capolavori, sia una quantità di opere solide, efficaci, senza compromessi, che hanno lasciato il segno sull’intero sviluppo successivo del cinema, non soltanto in Italia ma nel mondo.

Questo scontato e parziale, quanto doveroso riconoscimento datato 1971, quindi abbondantemente superato visto che non bisogna aspettare gli anni Settanta per trovare ricerche e giudizi ben più approfonditi sul neorealismo, induce Oldrini a chiosare: «ciò mostra, in particolare, un notevole innalzamento di livello sopra lo standard della precedente critica inglese.» 6 Il notevole “innalzamento dello standard”, evidentemente assai modesto in genere, della critica inglese si rivela però una pericolosa palude. Certamente Armes corregge il giudizio precedente di Rhode7 su La terra trema di Visconti, finalmente considerato un capolavoro, o meglio “il capolavoro di Visconti” : un’espressione che però sotto sotto, qui ci vuole la parafrasi del titolo di Calvino «Il “Visconti” dimezzato», è una frase non priva di ambiguità. L’operazione di Armes è sostanzialmente quella di salvare il film di Visconti dall’accusa di “documen– tarismo”. Accusa e liquidazione che invece toccano, e qui entriamo in argomento, a Zavattini. Ce ne dà riassunto e resoconto lo stesso Oldrini:

Intanto Armes non mostra più alcuna indulgenza o particolare condiscendenza verso la poetica zavattiniana… egli ( [Armes, ndr.] è in grado di distinguere sempre bene arte da vita, realismo da naturalismo; e quindi anche i prodotti d’arte del neorealismo dalla poetica – naturalistica – di Zavattini. Tra questa e quello non c’è lo stretto rapporto che si crede. Mentre “la base teorica del neorealismo come elaborata da Zavattini è molto vicina alle idee di Zola” (Armes, p. 168), cioè a un naturalismo descrittivo dove “non sono offerte soluzioni ai problemi sollevati” (Armes p. 18), “i metodi del neorealismo non sono mai quelli della semplice documentazione della realtà che sta alla radice di molte opere documentarie e caratterizza le teorie di Zavattini” (Armes, p. 187).8

Documentazione della realtà? Naturalismo alla Zola? Ma non erano questi i problemi già affrontati un secolo prima da Verga e liquidati con una semplice intervista dallo scrittore catanese? Totò il buono (romanzo) e Miracolo a Milano  6 OLDRINI, Gli autori e la critica: fatti e misfatti nel mondo del cinema, cit. p. 176. 7 Cfr. RHODE ERIC, Why neorealism failled, in «Sight and Sound», London, inverno 1960–1961, pp. 27-32. 8 OLDRINI, Gli autori e la critica: fatti e misfatti nel mondo del cinema, cit., p. 177.

207 (film) di Zavattini sarebbero prodotti di un “naturalismo alla Zola”? Si sarebbe indotti a sospettare una scarsa attenzione di questi critici nei confronti dei film di cui intendono parlare. Del resto, sarebbe bastata un'occhiata ai manifesti di alcuni film neorealisti per rendersi conto che qualcosa non tornava nel loro approccio. E pensare che il surreale finale zavattiniano, riproposto nei poster, fece arrovellare i critici di destra e di sinistra che si chiedevano: scappano sulle scope in Russia, e allora sono comunisti, oppure nella terra della libertà, gli Stati Uniti, e allora sono di destra? Sembrerà uno scherzo, ma De Sica e Zavattini faticarono sette camicie a spiegare il loro intento “ideologico” dicendo che la “morale della loro fiaba” è probabilmente che sulla terra non c’è un posto dove stare. Con buona pace delle due chiese\partito, quella comunista e quella democristiana. E come non pensare alla censura subita da Peppe De Santis, autore di Riso amaro? Il regista fu infatti vittima di una doppia scomunica: da parte cattolica per il contenuto ideologico marxista, e da parte del moralismo comunista per il contenuto “erotico” del capolavoro del cinema neorealista. Basta dare un’occhiata al manifesto del film per capire in che ambito il neorealismo di De Santis non corrispondesse a quella “verità obbiettiva” pretesa dal partito: insomma, per dirla francamente, le grazie di Silvana Mangano non si addicevano né alle sale parrocchiali né alla caserma comunista in cui tirava aria di conformismo. Perfino Senso di Visconti si trovò nell’occhio del ciclone. Dovette intervenire «l’Unità»9 a richiamare alcuni critici “di area” che, sentendosi investiti da un compito sacerdotale nei confronti dell’ideologia di partito, talvolta finivano per emettere sentenze politiche, anzichè artistiche. Una breve parentesi serve a dimostrare, con un esempio, tra i tanti che se ne potrebbero citare, lo stato d’animo degli scrittori che pativano la pesante cappa di piombo ideologica che gravava sul loro operato artistico. Mi riferisco all’intervento di , non a caso uno dei maggiori protagonisti della stagione neorealista fin dal 1929, in «Nuovi argomenti» del 195310

 9 Cfr. “Senso” di Visconti a Venezia una tappa del realismo italiano, articolo di Ugo Casiraghi ne «l’Unità» di Sabato 4 settembre 1954, p. 3. L’articolo sviluppato su un’intera pagina rappresenta una definitiva presa di posizione del Comitato Centrale a favore del film è accompagnato oltretutto da un “occhiello” che non lascia adito a dubbi: «Accalorate discussioni. C’è da augurarsi che la polemica, nell’interesse del nostro cinema, miri unicamente ed onestamente all’approfondimento della sostanza artistica dell’opera.» 10 MORAVIA ALBERTO, Il comunismo al potere e i problemi dell’arte, in «Nuovi Argomenti», a. I, n. 1 (1953), marzo–aprile. Poi in L’umo come fine, Milano, Bompiani, 1964. L’intervento di Moravia è stato poi ripubblicato in AA.VV., Neorealismo poetiche e polemiche, a cura di C. Milani, op. cit., pp. 158–66.

208 dall’emblematico titolo Il comunismo al potere e i problemi dell’arte. Già nelle prime frasi Moravia centra il problema:

Un conto è sostenere e dimostrare che l’arte è sovrastruttura e un altro è pretendere che l’artista ne sia consapevole e faccia di questa consapevolezza la ragione della sua arte. Non hanno mai pensato i marxisti che l’arte comincia invece proprio a partire dalla incon– sapevolezza dell’artista di ogni determinazione extrartistica? E che un’arte che accettasse la loro definizione sarebbe paragonabile ad una donna che si definisse da se stessa venale? E che non è un caso che l’arte esplicitamente sociale sia soltanto un trascurabile episodio nella storia dell’arte di tutti i tempi? E che ogni determinismo, non soltanto quello economico, fa avvizzire l’arte come un soffio di aria gelida su un fiore appena sbocciato? I marxisti vorrebbero un’arte com– pletamente sociale, senza residui né evasioni di alcun genere [...]

È curioso notare che Moravia usi la stessa metafora del “fiore” che rischia di appassire sotto il gelido soffio del realismo sociale (e socialista) cui Bernari accenna nella lettera a Za del 1933. Ma è sicuramente altrettanto importante stabilire, per la verità dei fatti, che sia Moravia che Bernari e lo stesso Luchino Visconti non rinnegano la loro convinzione marxista. Pertanto quando l’autore de Gli indifferenti attacca i “marxisti” non se la prende11 con i rivoluzionari e i compagni operai o contadini, bensì coi critici, giornalisti, accademici che assolvono funzioni di funzionari e/o dirigenti di partito, che fanno beceramente la guardia all’ideologia comunista. Moravia nella sua polemica antiideologica sgombra il campo da ogni dubbio:

Marx aveva detto: è tempo che la filosofia si adoperi non per spiegare ma per cambiare il mondo. Ma non aveva detto che l’arte dovesse fare la stessa cosa. Probabilmente, ove fosse stato interrogato in proposito, egli avrebbe riconosciuto che all’arte come sempre spettava il compito di rappresentare il mondo una volta che fosse cambiato. Il comunismo, invece, chiede all’arte di contribuire, in maniera diretta ed attiva, a tale cambiamento.

                             «E non s’accorgevano che Teodoro si sforzava di tenersi lontano non dalla lotta in sé [...] ma dal partito? Non s’accorgevano che in lui aveva preso il sopravvento la sfiducia per l’azione lenta e faticosa del partito, il quale faceva da inquisitore contro i nuovi rivoluzionari, e ne paralizzava l’azione accordandosi con tutti tranne che con i veri compagni?». BERNARI, Tre operai, cit. p. 105.

209 Moravia conclude il suo intervento rivendicando all’artista il dovere di «fare arte, poiché egli sa che un’arte che non sia un’arte non può portare alcun contributo afficace alla causa in cui crede.» Nel finale lo scrittore romano prende di mira i “critici comunisti”:

L’arte per l’arte, dai critici comunisti, viene contrapposta di solito all’arte partitica. In realtà questo contrasto non esiste e né l’una né l’altra possono dirsi espressioni sane e dirette di una data società.

Moravia conclude con un’affermazione che troveremo assolutamente condivisa da Bernari e Zavattini: «L’arte sana e diretta nasce dall’incontro a pari termini tra la società e l’artista.» L’espressione “pari termini” ci riporta dunque all’equilibrio tra forma e contenuto, tra fantasia e documento, che il neorealismo rivendica fin dalle sue prime istanze teoriche. Tornando a Senso, la presa di posizione de «l’Unità», “Organo del Partito Comunista Italiano fondato da Antonio Gramsci”, a favore del film di Visconti significava naturalmente un intervento deciso e diretto dell’ufficio culturale, – in sostanza di Palmiro Togliatti in persona: un richiamo all’ordine, insomma, ai “critici comunisti”. I quali si erano spinti troppo in là nelle prime reazioni e polemiche che rasentavano la stroncatura. Sono del resto passati pochi mesi dall’intervento di Moravia su «Nuovi argomenti» e dal congresso di Parma sul neorealismo in cui Bernari, in sintonia totale con Moravia, spiegava – come presto vedremo – la posizione comune di molti scrittori: fanno eccezione Cassola, Vigorelli e pochi altri, allineati su posizioni più ortodosse. In sostanza Togliatti sentì di dover allentare la briglia dopo il dissidio col «Politecnico»12 di Vittorini. Agli occhi del dirigente comunista schierarsi contro Visconti senza un giustificatissimo e ben chiaro argomento ideologico avrebbe significato perdere un altro intellettuale eminente e internazionalmente stimato, insomma un personaggio–chiave della cultura italiana. Così al sorgere delle prime polemiche, peraltro fuori luogo anche in un contesto politicizzato, nei confronti di un capolavoro assoluto come Senso, «l’Unità» dette molto risalto alla presa di posizione ufficiale della dirigenza del Partito che avallava  12 L’ultima edizione del «Politecnico» è del dicembre 1947. La chiusura del settimanale, poi diventato mensile, fu accompagnata dal suo fondatore Elio Vittorini col famoso rifiuto di “suonare il piffero alla rivoluzione” . Il segnale insomma della crisi del pensiero egemonico nell’ambito culturale e artistico di Palmiro Togliatti.

210 l’opera; una presa di posizione che segnò come dicevo un “altolà!” alle critiche e alle polemiche – perlomeno da parte dei difensori del “realismo socialista”. L’organo del PCI spiegò infatti con estrema cura, dettagliando passo per passo, perché e per come il film di Visconti si inquadrasse, nonostante le scene di passioni e di sensualità, in un affresco storico di spessore. Ecco un significativo passaggio dell’articolo in cui appare evidente la difesa ideologica del film:

Lo spettatore POPOLARE (in maiuscolo nel testo, ndr.) quando vedrà il film, si chiederà: è realistica questa interpretazione storica di un oscuro periodo del nostro risorgimento, guidata da personaggi negativi che muovono con piscologia esasperata nel ritretto ambiente della loro cerchia aristocratica (...) Il giudizio che nel film l’autore voleva offrire su una particolare classe sociale, risulta quindi, da tutto ciò approfondito e senza lacune. Il popolo entra di necessità nel panorama sotto una prospettiva marginale, però esatta.

Tutto l’articolo vuole convincere “il lettore POPOLARE”, cioè il critico vicino al PCI, del “realismo storico” di Visconti e della sua volontà “ferrea” di esprimere un giudizio fortemente negativo su una particolare classe sociale, l’aristocrazia, in un’ambientazione realistica in cui il popolo, sia pur marginalmente, è rappresentato “senza lacune”. Insomma, una benedizione marxista ad una storia d’amore e di passione su uno sfondo storico sul quale Visconti non intende esprimere il benchè minimo giudizio etico o morale. Anche perché la vicenda è tratta da un feuilleton tardo ottocentesco di Arrigo Boito sulla cui formazione marxista si possono nutrire molti dubbi! Ma la questione era un’altra: serviva – Togliatti riprende in questo senso un’idea gramsciana – un collegamento diretto tra l’Italia uscita dalla Resistenza al nazifascismo e quella degli ideali risorgimentali. E così il capolavoro di Visconti scampò al classico “fuoco amico” di una critica ideologizzata che si approntava alla stroncatura. In quegli stessi anni, invece, fu più difficile per Fellini difendere un altro capolavoro del cinema neorealista come La strada13, perché in questo caso sfugge il dato storico e ci troviamo in un contesto surreale difficilmente assoggettabile al “realismo” così come inteso dai critici–compagni di partito. E se non fosse arrivato per Fellini il successo di pubblico, come avvenne qualche anno prima a

 13 La risposta di Federico Fellini a Massimo Mida e a coloro che il regista definisce con qualche ironia “di sinistra” è già stata citata in precedenza. Cfr. FELLINI, Neorealismo in «Il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955.

211 livello internazionale per Riso amaro di De Santis, oggi non staremmo qui a discutere di neorealismo, semplicemente perché il tentativo di rimozione e di liquidazione (di cui Oldrini è l’esempio più recente) avrebbe potuto provocare danni maggiori. Per ironia della sorte fu invece sotto un ministro della cultura “postcomunista” del governo Prodi, Giovanna Melandri, che la parodia softporno del film di Visconti, realizzata dal “genio dell’eros” Tinto Brass col titolo Senso 45, ottenne, nel 2001, un mega–finanziamento di svariati miliardi di vecchie lire! I contenuti erotici del neorealismo risalgono al concetto feuerbachiano di “sensibilità”14 nel rapporto uomo–natura, soggetto–oggetto della conoscenza, artista– realtà che rappresenta uno dei pricipali punti del manifesto udaista del 1929 a firma di Bernari, Pierce e Ricci. Il documento, come precedentemente illustrato, costituisce la base teorica del protoneorealismo. Alcuni esempi pratici confermano questo assunto. Ad esempio va ricordato che due stars e icone del cinema neorealista come Silvana Mangano e Stefania Sandrelli, dopo i clamorosi esordi rispettivamente con Riso amaro di De Santis e Divorzio all’italiana di Germi, interpretarono ruoli ancor più trasgressivi. La Mangano è la madre ninfomane in Teorema di Pasolini mentre la Sandrelli diventa la regina del softporno d’autore – senza avere alcuna esigenza economica sia chiaro, ma solo per scelta artistica: plausibile per la Mangano con Pasolini, ma più azzardata e rischiosa nel caso della Sandrelli con La chiave di Tinto Brass. Lo stesso Brass, indiscusso maestro del cinema erotico italiano, si forma con Rossellini proprio come Ettore Massarese, in arte Joe d’Amato, che si dedica al cinema porno hard con indiscutibili risultati artistici – al di là del giudizio morale che se ne può dare. La collaborazione di Giuseppe De Santis – reo agli occhi di Togliatti e del PCI di aver trattato in chiave erotica il tema della lotta di classe – con Carlo Bernari, del resto, testimonia la tesi della prospettiva erotica del neorealismo. Si tratta benitenso di un erotismo non fine a se stesso, ma concepito come elemento di analisi critica dei

 14 Bernari cita costantemente Feuerbach in rapporto al concetto della sinergia delle arti. Nella bozza inedita conservata presso l’archivio del ’900 a Roma del suo intervento Cinema, fra arte figurativa e letteratura apparso su «Rivista del cinema italiano», agosto 1953, si legge: «Si è ipostatizzato per il cinema una realtà specificamente cinematografica, cioè libera da simboli e da croste letterarie. Ma anche i prodotti della fantasia (Feuerbach) sono da considerare alla stregua dei prodotti della natura, essendo l’immaginazione dell’uomo essa stessa una forza della natura. Cioè a dire la realtà dell’arte non è soltanto formata da realtà, ma anche di realtà trasfigurate, che oggettivate tornano a circolare nella realtà. Le arti dunque, tutte le arti, fanno anch’esse parte della realtà dell’arte, l’una per l’altra, tutte per una e ciascuna per se stessa.» BERNARI CARLO, Cinema, fra arte figurativa e letteratura, «Rivista del Cinema Italiano», n. 9, agosto 1953, p. 7.

212 rapporti umani e sociali. Bernari collabora alla sceneggiatura de La Garçonierre con lo stesso De Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra, Elio Petri ed Ugo Pirro. Nel film il protagonista Raf Vallone si crea un mondo di ipocrisie e falsità per nascondere i rapporti erotici con una giovane amante. La collaborazione di Bernari con De Santis si era peraltro stabilita già l'anno precedente, nel 1959, con Pettotondo, scritto per la giovane Claudia Cardinale ma rimasto inedito, sul tema dello sfruttamento sessuale delle giovani contadine pugliesi. A sfondo sentimental–erotico è del resto anche il romanzo breve di Bernari Amore amaro15, da cui Florestano Vancini trasse nel 1974 un bel film erotico con la star di Grazie zia, l’avvenente Lisa Gastoni. A proposito del film di Vancini, ricordo una tempestosa telefonata tra mio padre e il regista, reo di aver inserito scene sul filone inaugurato proprio dall’attrice Lisa Gastoni interprete di Grazie zia, oggi assolutamente innocenti ma al limite dell’oscenità nel comune senso del pudore dei primi anni Settanta. Bernari in realtà non sopportava la riduzione consumistica e commerciale, insomma l’inflazione della pornografia, soprattutto perché la riteneva gratuita e non necessaria allo sviluppo narrativo del film tratto da una sua storia d’amore (e di sesso) che aveva però un particolare significato politico: un giovane intellettuale si rinchiude in una relazione morbosa mentre il fascismo conquista il potere. Va pure spiegato che il rapporto col regista di Amore amaro non era nato sotto buoni auspici. Già in precedenza Bernari si era rifiutato di collaborare con Vancini per un episodio16 dal titolo del film documentario (o docu–fiction nel linguaggio attuale) Le Italiane e l'amore del 1961 a cura di Cesare Zavattini. Un progetto (e un titolo vorrei aggiungere) con cui Bernari proprio non si trovava in sintonia. Quindi con una cortese ma ferma lettera del 19 aprile 1961 Bernari confermò a Zavattini, che cercava di convincerlo a partecipare alla sceneggiatura, la sua ostilità, dovuta probabilmente sia a questioni legate al compenso che ad un disaccordo più generale. La lettera è dattiloscritta su carta intestata della Piccola Enciclopedia.

 15 BERNARI CARLO, Amore amaro, Firenze Vallecchi, 1958. Il romanzo breve poi confluì nella raccolta Per cause imprecisate (Milano, Mondadori, 1965) e fu ristampato negli “Oscar” nel 1974 e nel 1978 con la prefazione di Ruggero Jacobbi. L’edizione più recente a cura di Daniela Bernard è di Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 2001 col titolo Amore amaro ed altri amori. 16 Gli altri episodi erano di Marco Baldi, Marco Ferreri, Giulio Macchi, Francesco Maselli, Lorenza Mazzetti, Gianfranco Mingozzi, Carlo Musso, Piero Nelli, Giulio Questi, Nelo Risi e appunto Florestano Vancini.

213 Carissimo Cesare, ho considerato con calma il problema della mia partecipazione alla sceneggiatura dell’episodio affidato a Vancini; e con quella franchezza che la tua stessa fiducia mi ispira, devo confessarti che non me la sento di assumere un impegno come questo, che – pur nella sua brevità – richiede assiduità, tempo, affinchè il risultato sia degno delle tue legittime aspettative. Approfondendo il film, attraverso le tue appassionate e tecniche illustrazioni, mi sono reso conto che colui il quale sceneggerà l’ultimo episodio dovrà possedere tutta la materia del film e non sottrarsi a nessuna eventualità con gli altri colleghi, affinchè il finale sia all’altezza del grido...17 Ora tu conosci – e, per quel che non sai, immagini, com’è bestiale la mia giornata: con otto ore fisse in Enciclopedia, e una sceneggiatura18 a date fisse. Si fosse trattato di lacerare dieci o dodici foglietti dal mio calendario brulicante di scadenze, lo avrei fatto, pur di starti – almeno una volta! – vicino. Ma dopo i colloqui avuti con te, mi sono persuaso che ogni illusione di far presto e bene, si tradurrebbe in inganno e tradimento. Scusami e non condannarmi, con un abbraccio Credimi tuo Carlo Bernari 19

L’uso della carta intestata per una lettera personale ad un amico intimo al quale solitamente Bernari ha, nella corrispondenza del dopoguerra, l’abitudine di scrivere a penna, è il segno dell’intenzione di dare ufficialità al diniego. Prendendo per altro a pretesto l’impegno gravoso sia della sceneggiatura per Nanni Loy, cui Bernari stava lavorando intensamente in quel periodo, sia le altre incombenze professionali per sbarcare il lunario, come appunto l’incarico della Piccola Enciclopedia, egli cerca di dare a Zavattini una pezza d’appoggio ufficiale che non abbia sentore di bocciatura artistica del film. Tale bocciatura, per altro, fa capolino dall’ultimo periodo della missiva: «approfondendo il film, attraverso le tue appassionate e tecniche illustrazioni»; e ancora «dopo i colloqui avuti con te». Insomma a Bernari il progetto di questa docu–fiction proprio non garba, oltrettutto in quel momento non aveva né tempo né bisogno di imbarcarsi nell’impresa. Cosa lo convince a declinare l’invito di Zavattini? Diversi fattori contribuiscono alla formazione di una sensazione negativa, al di là delle motivazioni “ufficiali” fornite a

 17 Sottolineatura e punti sospensivi nel testo originale, ndr. 18 Bernari allude alla sceneggiatura de Le quattro giornate di Napoli per Nanni Loy, lavoro cominciato in fase di scrittura nel 1959 e ultimato nella primavera del 1962. 19 Lettera dattiloscritta, con correzioni e aggiunte manoscritte, su carta intestata “Piccola Enciclopedia/ Viale Belle Arti 7 / Roma “, inedita, datata Roma 19 aprile 1961, (Archivio Cesare Zavattini, Biblio- teca Panizzi, Reggio Emilia).

214 Za: il film a episodi affidati a diversi registi e sceneggiatori vari, quindi poco controllabile e gestibile nell’insieme artistico; qualche nome tra gli autori impegnati che non lo convince (forse lo stesso Vancini col quale avrebbe dovuto collaborare?); il titolo del film da rotocalco “rosa”, un genere frequentato da Zavattini ma non da Bernari; e poi, senz’altro, la questione “documentario” sceneggiato che al neorealista Bernari poteva sembrare fin troppo schiacciato sulla realtà.

215 Un decennio dopo, la collaborazione con Florestano Vancini per lo scenario di Amore amaro si rivelò subito un fallimento: Bernari si accontentò di incassare le royalties dei diritti rinunciando alla sceneggiatura, che fu affidata a Suso Cecchi d’Amico. Nel 1974 all’uscita del film fu organizzata una anteprima alla quale andai in compagnia di mio padre e di mia madre. Ero seduto tra di loro, preso tra due fuochi, mio padre si contorceva sulla sedia, mentre mia madre continuava a sbuffare alle scene erotiche, in verità abbastanza spinte per quel tempo. Soprattutto durante la sequenza di un furioso amplesso sul muretto dei giardinetti pubblici parmensi (la scena del romanzo a Roma, a Villa Borghese, fu ambientata per esigenze di produzione nella cittadina emiliana) mia madre fulminò ripetutamente con lo sguardo mio padre che si stringeva nelle spalle. Il giorno dopo scattò naturalmente la telefonata di protesta di Bernari: nella ramanzina a Vancini, per altro inutile perché poi il film uscì definitivamente senza tener conto delle critiche del romanziere che non aveva certamente alcuna voce in capitolo, lo scrittore riassunse le tesi che aveva sviluppato qualche anno prima, siamo nel 1969, nel corso di un viaggio a New York proprio nell’anno della contestazione e del trionfo della cosiddetta liberazione sessuale. Di fronte all’invasione di materiale a contenuto erotico e pornografico Bernari, riprendendo un concetto di Marcuse20 circa il cannibalismo capitalistico dello stesso spirito anticonsumistico, si chiede in una corrispondenza per il settimanale «Tempo»21 come fare a liberarsi dalla liberazione sessuale. Il titolo dell’intervento I pornostanchi è emblematico di una critica non necessariamente moralistica, ma al contrario artistica contro la società dei consumi in cui lo stesso concetto di amore libero da atto di ribellione si trasforma in merce di scambio capitalistica:

la mia spiritosaggine nasceva da tutt’altre intenzioni critiche: dalla necessità (per dirla in poche parole) di liberarci di una liberazione chiamata a pretesto di un erotismo divenuto oggetto di un puro sfruttamento propagandistico e industrializzato. La noia e il disgusto

 20 MARCUSE HERBERT, One dimensinal man. Studies in the Ideology of advanced industrial society, Boston, Bacon Press, 1964. L’edizione italiana esce presso Einaudi, (Torino 167) col titolo L’uomo a una dimensione, L’ideologia della società industriale avanzata. Nella biblioteca di Carlo Bernari nella parte rimasta in mio possesso perché attinente alle mie ricerche (il “grosso” della biblioteca è stata donata alla Biblioteca Alessandrina di Roma dove è disponibile alla lettura il «Fondo Bernari») c’è una copia del saggio di Marcuse nella seconda edizione Einaudi firmata e datata a mano “Carlo Bernari 1967” . 21 BERNARI CARLO, I pornostanchi, in «Tempo» 23 agosto 1969, p. 4–5.

216 nascono per effetto di una saturazione di una paccottiglia a buon mercato.

Dopo questa puntualizzazione però Bernari non esclude

la possibilità della salvezza della ragione attraverso un atto d’amore è un gracile riscatto, ma è comunque un riscatto di natura estetica, di fronte a un dilagare di un meretricio a buon mercato, che quanto più si massifica e si industrializza tanto più perde di efficacia artistica e liberatoria.

Naturalmente, come accennato, il contenuto sentimental–erotico è finalizzato all’analisi e alla critica della società come Bernari stesso precisa nell’intervista a Capozzi:

credo che un libro d’amore possa essere tutto fuorchè un libro intimista: nessuno dei miei libri più di Amore amaro è obiettivato storicisticamente. Direi anzi che il fascismo che traspira dalle pagine di Amore amaro è più presente, puzza di più, che non il fascismo che traspira dalle pagine di Prologo alle tenebre.22

A dimostrazione di un doppio binario del cinema neorealista che accanto al documentarismo dei primi film girati all’indomani della Liberazione – mi riferisco a Sciuscià, Paisà, Roma città aperta, Il sole sorge ancora, Ladri di biciclette e Germania anno zero – cova una strategia narrativa “popolare” in cui non è estraneo, anzi è implicito, l’elemento sentimental–erotico, c’è un’importante rivendicazione proprio di Giuseppe De Santis. Il regista di Fondi infatti, sostenuto da Mario Alicata, fin dal 1941 aveva ribadito sulla rivista «Cinema» l’ascendenza letteraria di un nuovo realismo, in particolare con due articoli su Verga e il cinema italiano il 10 ottobre e 25 novembre. Non è inutile ricordare che anche Verga, come Boito – si è accennato a Senso di Visconti e Senso 45 di Tinto Brass – sarà un punto di riferimento del cinema erotico italiano con varie trasposizioni teatrali da lui stesso curate (La lupa) e cinematografiche (Storia di una capinera) di alcune sue opere letterarie, realizzate in tempi recenti da un’altra icona dell’eros all’italiana: Monica Guerritore. Del resto lo stesso argomento o soggetto sintetizzato personalmente da Verga di Storia di una

 22 CAPOZZI, Intervista a Carlo Bernari, cit., p. 146.

217 capinera porta ad una lettura erotica, oltre che sentimentale, dell’iniziale progetto verghiano.23 Così, per una prima disamina di questo filone ancora poco studiato – anzi si può dire ignorato con malcelato imbarazzo dalla critica cattolica e liquidato con qualche sdegno eccessivo da quella “laica”24 – del contenuto erotico e in qualche caso pornografico (ad esempio Pasolini del Decameron e Tinto Brass de La chiave) del cinema neorealista italiano, bisogna riaprire la questione del verismo e del rapporto tra cinema e letteratura che si sviluppa sulla base di una sinergia tra le arti. Una sinergia che, come abbiamo dimostrato, parte da Verga e passa attraverso il neorealismo di Carlo Bernari e Cesare Zavattini. Occorre allora ripartire dalla lettera di Bernari a Zavattini del 21 febbraio 1933 che segue la spedizione a Milano del dattiloscritto di Tre operai. In particolare richiamiamo l’attenzione sul paragone della letteratura sradicata dall’impegno come un “fiore” profumato ma inutile; un paragone che, vent’anni dopo, torna nell’in- tervento di Moravia precedentemente citato.

Non so questo libro come potrà sembrarti dal punto di vista puramente estetico. Non per mettere le mani avanti, ma per chiarire la sua funzione in questo ambiente e in questo momento, vorrei dirti alcune cose: credo che la parte, diciamo “programmatica”, abbia inficiato il suo significato puramente lirico. Chi infatti lo giudicasse coi metri dell’estetica idealistica, lo troverebbe certamente arido e senza respiro; chi lo giudicherà invece – come potrai farlo tu, per la posizione che hai assunto nella letteratura italiana – fuori dalle file del crocianesimo, tenendo d’occhio, ossia, prima che l’ispirazione lirica, la sua funzione etica e politica, potrà forse – dico: forse! – trovarvi qualche cosa di buono, potrà forse vedere nella sua aridezza il mezzo più onesto per il fine che la mia posizione ideologica mi consentiva di raggiungere. –

 23 Cfr. VERGA GIOVANNI, Tutto il teatro, Milano, Garzanti, 2009, p. 553. Il soggetto cinematografico Storia di una capinera scritto da Verga potrebbe fornire un ricco materiale letterario ad un regista che volesse realizzare un film erotico. La parola “turbamento” ricorre continuamente, perché Verga vuol descrivere le pulsioni amorose e sensuali che sconvolgono la poveretta destinata al convento. Sulla falsariga della novella di Verga troviamo un altro grande esempio di racconto erotico con Die Braut (1912) di Arthur Schnitzler, in cui una fanciulla destinata al matrimonio scopre nel suo intimo pulsioni irresistibili. Nonostante questi presupposti letterari la critica ha sempre mantenuto un certo distacco dal cinema erotico, ora minimizzandolo come un filone commerciale, ora interprentandolo come una provocazione. Un retaggio di cui si è sentita traccia anche di recente nelle contestazioni e violente critiche sui massmedia al film neo–porno (un mio neologismo con cui sintetizzo la natura neorealista e al contempo pornografica esplicita dell’opera) di Paolo Franchi con Isabella Ferrari E la chiamano estate vincitore del Filmfestival di Roma del 2012. Un film che, nonostante le stroncature della critica per le scene scabrose, non è assolutamente gratuito, ma rappresenta uno spaccato delle emozioni sessuali della società contemporanea.

218 Non vorrei adesso accodarmi al treno della rettorica corrente intorno ad un’arte a contenuto sociale; ma penso, dal mio modesto punto di vista, – senza per questo voler dar spago ai gazzettieri che si sono messi a strombazzare ai quattro venti la necessità di un’arte di contenuto, fino a far perdere a questo concetto il suo valore – ma penso, dicevo, che l’arte sradicata dal terreno della lotta economica e politica, è un bel fiore di cartapesta: avrà colori smaglianti, ma sa sempre d’anilina; potrà essere profumata, ma sentirà sempre di morte.25

Bernari ha appena ventitrè anni quando scrive questa lettera, nella quale con estrema chiarezza delinea l’ossatura teorica, l’hardware del neorealismo che avrà nelle arti visive in generale, ma nel cinema in particolare, la sua “interfaccia” naturale. È curioso notare che Bernari prima ancora che si profili la pubblicazione del suo lavoro d’esordio, anticipa il giudizio che alcuni critici daranno, tacciando l’opera di “aridità” – come abbiamo visto nel precedente capitolo. E bisogna insistere sul rapporto contenuto–forma che trova in queste righe una sintesi efficace. Si tratta di raggiungere un equilibrio che non renda l’arte fine a se stessa (appunto, il lirismo, il fiore di cartapesta che sa di morto) ma che non la snaturi neppure (di qui le reazioni fredde se non ostili fin da subito di Vittorini, ne abbiamo ampiamente parlato, e poi della critica filotogliattiana nell’immediato dopoguerra) in una «rettorica corrente intorno ad un’arte a contenuto sociale» dalla quale – paradossalmente, verrebbe da dire – l’autore di un romanzo dal titolo emblematico come Tre operai rifugge! Quello che maggiormente importa sottolineare, in questo scorcio di analisi, è il rapporto tra un’arte etica, non «sradicata dal terreno della lotta politica ed economica» e la questione del crocianesimo, questione, quest’ultima, centrale nella elaborazione della concezione di un nuovo realismo che si sta enucleando tra Bernari e Zavattini. Il lettore attento avrà notato che Bernari, nella lettera a Za, parla infatti di crocianesimo; – e non di Croce. Non si tratta di una questione di lana caprina, poichè pur distaccandosi dalla concezione “lirica” dell’arte, quindi dall’estetica crociana, Bernari non attacca direttamente le posizioni di Croce, ma quelle dei suoi derivati ed epigoni. Tant’è vero che Bernari interviene nella polemica sulla morte del neorealismo – una sentenza, come visto, rigettata da Pasolini con uno sberleffo a Cassola e alla letteratura “impegnata” – chiamando a deporre due testimoni–chiave a

 25 Lettera dattiloscritta, con correzioni e aggiunte manoscritte, firma manoscritta “Bernard”, datata 21 febbraio 1933, pubblicata in Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit. pp. 215–7 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

219 favore dell’imputato neorealismo: Zavattini e Croce (o meglio, il Croce che emerge nella lettura gramsciana del pensiero crociano). S’intende bene che questo ritorno ad un Croce riciclato a favore di un neorealismo etico – “umano” al di là di ogni «rettorica corrente intorno ad un’arte a contenuto sociale» era una forte provocazione nel dibattito dei primi anni Cinquanta, tanto più ardita, e sicuramente riuscita, in quanto portata avanti dalle colonne di «Rinascita»26, l’organo politico e teorico del Partito Comunista. Allo sberleffo poetico di Pasolini si aggiunge dunque la provocazione teorica di Bernari nei confronti di quei critici che sentenziavano la fine di un neorealismo soggettivo, quindi libero e aperto al surrealismo e al fantastico (Calvino), per far posto ad un più “allineato” realismo di denuncia, utile senz’altro alla causa politica, ma artisticamente povero. Il paradosso nel paradosso è poi che Bernari giunge ad un’arringa convincente in difesa del neorealismo sintetizzando l’opera letteraria e filmica di Zavattini con i principi di quella parte dell’estetica crociana che aveva convinto anche Gramsci. Esiste una crisi del neorealismo? Questo è ciò che si chiede provocatoriamente Bernari fin dal titolo, per procedere poi ad una disamina della vitalità e dell’im- portanza del genere letterario e dello stile che si sono affermati nel cinema e che trovano in Zavattini la loro più attuale realizzazione (la prima citazione, infatti, è per il romanzo di Za Totò il buono che nella versione cinematografica di De Sica, Miracolo a Milano, suscita in quel periodo polemiche “a sinistra” per il tono fiabesco del racconto).

Tutti abbiamo avvertito […] un motivo ispiratore unico, che riduceva in ultima analisi quelle varie “pezze d’appoggio” del neorealismo ad un unico denominatore: l’Uomo. L’Uomo nelle sue varie età: bambino buono, come Totò il buono, che crede nella bontà umana e non divina dell’uomo e questa bontà gli si frantuma nelle mani come una misera favola […] son personaggi tutti riconducibili ad un’unica misura: quella umana. E se le tragedie in cui essi furono veramente immersi sembrano troppo modeste per certi cuori induriti nelle scalate arcaiche e arcadiche (“Gli hanno rubato una bicicletta? Questo è tutto? E che è poi una bicicletta?”) per i cuori semplici imbevuti di senso comune […] quelle piccole tragedie, che seguivano gli orrori della guerra, rappresentarono una grande scoperta:

 26 BERNARI CARLO, Esiste una crisi del neorealismo?, in «Rinascita» nr. 12, 1953, pp. 684–7. Il periodico del PCI riprende l’intervento di Carlo Bernari al Convegno di Parma sul neorealismo tenutosi nei mesi precedenti.

220 rappresentarono l’amore per l’uomo, l’amore dell’uomo per la storia dell’uomo.

È evidente, da questo stralcio del suo intervento, come Bernari si adegui al cento per cento all’estetica zavattiniana, tanto che gli esempi principali vengono tratti da Miracolo a Milano e da Ladri di biciclette due opere di cui accetta, – e lo fa volentieri, lui che aveva desiderato scrivere “una favola” col suo romanzo Tre operai, – il tono favolistico e surreale. Così facendo Bernari apre formalisticamente il nuovo realismo a diverse possibilità di rappresentazione:

Raccontatela pure col linguaggio che volete, questa storia [dell’uomo, ndr], manifestate questo amore come vi pare, ma se siete fedeli all’una come all’altro, non vi sottrarrete dal fare opera realistica. Perché quando si vuol rappresentare l’uomo e la sua storia, non si può giocare agli equivoci e offrirne fettine, ma bisogna prendere l’uomo intero […] nella sua umana ricchezza [...) devo pur dire che quella ricchezza tematica che si distribuiva variamente tra i tronconi dell’antologia neorealistica, mi faceva pensare ad una trasposizione al fantastico della ricchezza morale, della ricchezza d’interessi pratici, della ricchezza affettiva o passionale, che animò l’uomo del dopoguerra, nel ripensamento delle sue debolezze e delle sue colpe e gli spalancò l’animo ad infinite speranze di rinnovamento.

Il richiamo a Zavattini diventa letterale nell’intervento di Bernari che cita la struttura narrativa di Umberto D il film di Zavattini e De Sica del 1952 in cui si segue come in un reality (ma anche, non dimentichiamo, sul modello dell’Ulisse di Joyce) la giornata di un uomo qualunque. Scrive Bernari:

L’uomo si riscopre in quel punto centro dell’universo e responsabile non soltanto degli atti minuti e grandi della sua giornata, ma anche degli atti altrui: in quel punto l’uomo si scopre responsabile anche dei suoi silenzi; si scopre a far storia anche se va al bagno o all’osteria, direbbe Pascarella; e che la storia non gliela fabbricano gli altri per regalargliela graziosamente quando è divenuta solenne, che lui già non riconosce per sua, ma se la fabbrica da sè minuto per minuto, con le sue stesse mani, impugnino queste mani la penna dell’intellettuale, impugnino la vanga o il fucile.

Il concetto dell’arte come responsabilizzazione dell’Uomo nei confronti della storia, non solo in quanto “genere” ma anche come singolo e apparentemente insignificante individuo, comporta il recupero come dicevo della concezione di

221 quell’arte educatrice espressa da Croce e intuita da Gramsci in tutta la sua importanza. Prosegue allora Bernari:

E allora dovremmo concludere che è forse proprio in questa ricchezza la funzione educatrice dell’arte. Perché l’arte è educatrice, avverte il Croce, non in quanto è educatrice, ma in quanto è arte. E su questo concetto intravedo già le infinite possibilità di polemiche: ma in un passo successivo dello stesso scritto il Croce dice qualcosa sulla quale dobbiamo tutti essere d’accordo, o ci sfugge il concetto stesso moderno dell’arte, (cito sempre a memoria): i più alti critici di poesia esortano sempre – dice Croce – a non far ricorso alle ricette letterarie, ma di “rifare l’uomo”! Una volta ricostruito l’uomo, una volta restaurato il suo spirito, una volta sbocciata una nuova vita di affetti, sorgerà una nuova poesia [...] Perciò se intendiamo bene le parole del Croce, che Gramsci rivendicò al materialismo storico [...] dobbiamo gettare alle ortiche il manto della “spontaneità” dell’artista puro e darci da fare per cambiare l’uomo se vogliamo meritarci poi veramente una nuova poesia.

Per “nuova poesia” Bernari ovviamente intende una “nuova poetica”, allude cioè alla tensione gramsciana, educatrice, del neorealismo: quella possibilità di educare gli uomini attraverso l’arte. Il che significa immedesimazione, partecipazione e sensibilità reciproche tra soggetto e oggetto della rappresentazione, tra uomo e natura, tra uomo e società, tra lettore e scrittore (come nel calviniano Se una notte d’inverno un viaggiatore), tra spettatore e personaggio, per usare termini cinemato- grafici. Termini che Bernari appunto adotta nella conferenza di Parma riproposta da «Rinascita» che viene qui sintetizzata: la poetica neorealista deve anzitutto far sorgere il dubbio nello spettatore che guarda un film: ma quello sono io? E se non sono come quel personaggio, come mi identifico oppure mi distinguo da lui? Come c’era da aspettarsi, l’intervento di Bernari finisce col trasformarsi in una lettera aperta a Zavattini per attestare all’amico di Luzzara una totale sintonia in un momento in cui il suo cinema (con De Sica) al pari di quello di Fellini sono sotto attacco da parte della critica marxista – e vacillano sotto il “fuoco amico”. L’intervento di Bernari, che pur essendo un marxista non allineato poteva contare anche su ascendenze culturali e politiche e sul rispetto di dirigenti come Giovanni Amendola e Pietro Ingrao, per esempio, si rivelò se non conclusivo e risolutore, perlomeno capace di zittire i critici “illuminati “ che accusavano soprattutto De Sica, Zavattini e appunto Fellini di voli pindarici e mancanza di realtà.

222 Ma leggiamo ancora qualche passaggio di Bernari:

Quel che mi ha maggiormente stupito ieri fu il fatto che la maggior parte delle critiche apertamente o allusivamente era diretta contro Zavattini, cioè contro colui che è tra i maggiori artefici della nostra rinascita cinematografica e delle fortune del neorealismo italiano [...] da questo convegno ci si deve attendere una dimostrazione di stima e di fiducia per l’opera di Zavattini in campo cinematografico.

E dopo aver avvertito il pericolo di una caduta nella realtà da parte dell’artista, cioè il problema della mimesi e del documentario, Bernari rilancia la polemica zavattiniana attraverso la concezione di un’arte che sappia servirsi della realtà, piuttosto che riprodurla passivamente.

Sì: è bene “convivere”, come ha detto Zavattini, con la realtà, direi è il primo atto di scelta estetica collocarsi “dentro” la realtà che si vuole rappresentare. È anche salutare “appropriarsi” il vero, perché l’arte nasce sempre dalla complicità col documento.

Si tratta dunque di “convivere” con la realtà, collocarvisi “dentro” nel segno di una “complicità”, e non di una immedesimazione pedissequa, col documento. L’arte insomma non è documento, anche se col documento deve in qualche modo fare preliminarmente i conti – e abbiamo visto che Bernari come Verga li fa preli- minarmente i conti, addirittura con la macchina fotografica – col documento, coi materiali su cui costruire l’opera. Ma, attenzione!, prosegue Bernari:

Qui comincia un’esortazione all’artista, non una poetica, tantomeno un’estetica nuova; un’esortazione all’artista a cominciare il suo lato estetico non nel suo studio ma per la strada, nella fabbrica, e non limitarsi ad aristocratiche “affacciate” su questa realtà, ma a calarsi in esse, a starci dentro, e trasferirsi egli stesso nei panni dell’uomo comune o dell’operaio di fabbrica. Allo stato attuale delle cose dobbiamo limitarci a dire che il vero artistico non è il “vero–vero– vero”, su cui possiamo giurare; ma è il vero, puro e semplice, che però ha la forza di commuoverci e quindi di “modificarci”.

223 Letteratura e cinema.

L'inchiesta sul neorealismo curata da Carlo Bo, pur nello spazio di un libriccino di un centinaio di pagine, oltretutto datate 1951, è ancora oggi un viatico essenziale se non altro per inquadrare il fenomeno neorealista e respirare l'atmosfera culturale in cui esso maturò. L'argomento era ed è troppo vasto e complesso, inglobante una concatenazione sinergica e di esperienze artistiche che risultano impossibili da catalogarsi ed esplicarsi in breve. Fatto sta che però in quelle preziose pagine, oltre alle testimonianze degli artefici del movimento neorealista, troviamo spunti che suggeriscono più che soluzioni definitive, alcune direzioni da seguire per giungere ad una chiara definizione della “questione neorealista”. Il capitolo finale dell’inchiesta di Carlo Bo è infatti dedicato al Neorealismo nel cinema e nella pittura. Ora, anche se questi due argomenti fondamentali vengono appena accennati e liquidati in poche righe – e bisogna segnalare che nessun accenno viene fatto alla fotografia – non può sfuggire che è proprio in questa occasione viene posto per la prima volta il problema del rapporto, nell'ambito del neorealismo, della letteratura con almeno due arti visive: cinema e pittura. Diremo subito che il paragrafo sulla pittura è, almeno alla luce degli strumenti critici e di analisi di cui oggi si dispone, piuttosto generico: Carlo Bo accenna un discorso sulla pittura realista e cita il nome di un solo artista, peraltro legato al PCI, Renato Guttuso. Purtroppo Carlo Bo in questo caso se la sbriga frettolosamente, minimizzando – pur percependone la presenza sotterranea – l'influsso reciproco tra arte figurativa e letteratura ben prima della parabola artistica (e politica) di Guttuso. Naturalmente l’autore della Inchiesta sul neorealismo non ignora che il '900 letterario, europeo ed italiano, è caratterizzato dal surrealismo, dall'espressionismo, dal futurismo – che segna l'estetica del primo fascismo, ma non solo, – mentre la pittura realista è propedeutica, semmai, al realismo socialista e al nazismo in chiave propagandistica. Tuttavia, nelle conclusioni Carlo Bo, forse perché il volumetto edito dalle edizioni della Rai non gli offriva lo spazio e la possibilità di un ragionamento più ampio, perde l’occasione per anticipare un collegamento diretto e di maggiore spessore storico tra letteratura neorealista e pittura del primo '900: il legame più suggestivo e innovativo glie lo avrebbe potuto fornire proprio Tre operai di Bernari

224 così imbevuto di folgorazioni sironiane. Altro che le rosse bandiere al vento di Guttuso! Carlo Bo dunque non fa cenno alla fotografia, mentre alla pittura riserva solo qualche riferimento. La sua apertura alle arti visive trova una maggiore attenzione (in tutto però si tratta di una decina di pagine) quando lo studioso deve affrontare un tema che nei primi anni Cinquanta cominciava ad essere culturalmente e ideologicamente caldo: la questione del rapporto col cinema. Pur nella laconicità dovuta ai limiti del volumetto, è proprio in questa sintetica analisi sotto forma di interviste che vengono a delinearsi le tematiche che saranno di lì a poco al centro dell'intenso dibattito sul neorealismo tra letteratura e cinema. Insomma a Carlo Bo si deve il merito di aver dato il via alla discussione, suggerendone i temi e affrontando attraverso opinioni e testimonianze dirette una prima, sommaria ma efficace, analisi. Ecco infatti come lo studioso abbozza l’argomento col tono evidente di chi lancia una pietra nello stagno:

Un capitolo dedicato al cinema non può mancare. Anzitutto perché quando oggi si parla di neorealismo non è subito facile capire a che cosa si alluda: se agli esperimenti letterari oppure alla moda del cinema italiano del dopoguerra. Riguardo all'ultima accezione va detto senz'altro che il lavoro di ricognizione e di sistemazione è proceduto assai più alacremente e con maggiori frutti di quanto non sia avvenuto per il campo letterario. Proprio perché il tempo del cinema neorealista sembra perfettamente concluso, riesce più semplice metterne a nudo le origini, le ragioni pratiche, contigenti e la funzione rappresen- tativa.27

L'incipit del capitoletto apre le porte ad una duplice riflessione. La prima riguarda la matrice letteraria del neorealismo, una matrice che resta secondo Carlo Bo ancora da approfondire; la seconda invece concerne il cinema neorealista che lo stesso autore della Inchiesta considera “perfettamente concluso”. Tuttavia questa “conclusione” resta per certi versi aperta proprio perché il neorealismo stesso necessita ancora di una definizione, meglio di una “nuova” definizione che ne espliciti la natura sperimentale e quindi mutevole non tanto e non solo come una semplice “riproduzione del reale”, ma come una forma di rappresentazione che si evolve con l’elvolversi della realtà, della società, dei mezzi di espressione artistici, nonchè con la soggettività dell’artista. Tutto ciò a partire dalle arti visive, con cui il  27 BO, Inchiesta sul neorealismo, cit., p. 68.

225 neorealismo è, come si è dimostrato, dapprima in sinergia e poi, attualizzandosi, in strettissima simbiosi. Come intuisce Carlo Bo, la “questione neorealista” non è assolutamente “conclusa”, anzi lungi dall'esserlo torna generazione dopo generazione a manifestarsi. Su questo calviniano “mare dell'oggettività” 28 rappresentato dal neorealismo letterario naufragano in molti poiché, come sostiene Giansiro Ferrata nell'Inchiesta di Bo: «troppe acque confluiscono in questo fiume». E non a caso la critica va ancora oggi in cerca, senza riuscire tuttavia a focalizzarne la posizione, di un “quadrante” (Tommaso Pomilio citato in precedenza) per «rintracciare il meccanismo profondo» del fenomeno neorealista. Alla fine di luglio del 1966 si concluse la sceneggiatura del film L'immorale, con grande sollievo di mia madre che non sopportava la puzza dei sigari fumati a ripetizione dal regista Pietro Germi durante le quasi quotidiane riunioni – sei mesi di lavoro praticamente ogni pomeriggio tranne il sabato e la domenica – a casa mia. Il “Germi fumante” compare in un ritrattino a me dedicato dal cosceneggiatore Alfredo Giannetti accanto ad un ricordo, lasciatomi dallo stesso Maestro, e dallo scrittore e sceneggiatore Tullio Pinelli.

 28 Il saggio Il mare dell'oggettività scritto nell'ottobre 1959 e pubblicato sul n. 2 (1960) del «Menabò di letteratura», venne poi incluso in Una pietra sopra, ora in CALVINO ITALO, Saggi 1945–1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Meridiani Mondadori, 1995, vol. I, pp. 52–60.

226 Alfredo Giannetti era il primo ad arrivare, abbronzatissimo anche d'inverno, e aspettava sul marciapiede davanti al portone Germi e Pinelli che giungevano solitamente in macchina insieme. La zona è il quartiere Fleming a Roma, la collina sul Tevere, oggi quartiere di lusso, tra i Parioli e Vigna Clara. All'epoca si trattava di una periferia da cui partiva la campagna di Roma Nord: siccome le case costavano meno che in centro vi si erano insediati diversi intellettuali, attori, giornalisti, cineasti e scrittori: da Luchino Visconti che abitava in via Vincenzo Tiberio a cento metri da casa mia, a Vasco Pratolini in via Nitti, Helmut Berger e Monica Vitti, il critico Pio Baldelli, i pittori Giordano e Frascione, i giornalisti Andrea Barbato, Giuseppe Fiori, Vanni Ronsisvalle eccetera. Racconto questo particolare perché proprio di fronte al nostro portone di via Bartolomeo Gosio 85, all'incrocio con via Fleming, abitava un gentilissimo signore, Agenore Incrocci, più noto con lo pseudonimo di Age: il grande sceneggiatore del binomio Age–Scarpelli che ha firmato tanti capolavori del cinema italiano. Così in via Bartolomeo Gosio 85 si formava un capannello formato da Giannetti, Pinelli e Germi, che non passava certo inosservato. Al gruppetto si aggiungeva Mario Monicelli che, alla stessa ora, si recava dall'altra parte della strada, esattamente in via Fleming al numero 3, a casa Incrocci, luogo deputato per la stesura di un altro grande film di quella stagione, L'armata Brancaleone. Il figlio di Incrocci, cioè di Age, Alessandro, era mio coetaneo e compagno di scuola. Proprio a quell'ora uscivamo, accompagnati dalle rispettive mamme, per andare ai corsi di basket al Palazzetto dello Sport al Villaggio Olimpico. Avevamo entrambi 11 anni e non ci rendevamo conto di come le nostre vite fossero intrecciate con la finzione cinematografica: sentivamo ripetere dalle nostre madri che non ne potevano più di sopportare l'odore di fumo e di preparare in continuazione fiumi di caffè. Alessandro mi raccontò che il padre prima lo aveva minacciato di tirargli un paio di sberle per alcune frasi goliardiche che parodiavano il latino, considerato una “palla mostruosa” in un linguaggio “macheronico–giovanilistico” sui nostri diari. Ma poi Age aveva incoraggiato Alessandro a proseguire i giochi linguistici in latino. Secondo il mio amichetto, il padre e Monicelli stavano scopiazzando dal suo diario, poichè in casa li sentiva ripetere le battute di Brancaleone, poi interpretate da Gassman, che venivano dalle sue, anzi dalle nostre parodie. Sicuramente io e Ale non

227 abbiamo inventato il linguaggio di Brancaleone, cui poi si è ispirato anche il “nuovo macheronico” di Luigi Malerba29: tutto comincia intorno al 1517 con la prima delle quattro edizioni delle Macaronee30. I nostri diari e le nostre invenzioni goliardiche, che non sapevamo attingessero alla tradizione della letteratura italiana, rappre- sentavano comunque una piccola anticipazione della contestazione della cultura borghese che sarebbe scoppiata nel giro di pochi mesi. Spunti ed esempi dell’attualità di quel particolare linguaggio goliardico che Monicelli e Age colsero naturalmente al volo. In una conferenza inedita31 rinvenuta nell’archivio, Bernari si riallaccia ad un suo saggio del 1953 intitolato Cinema, fra arte figurativa e letteratura32 rilevando:

L’errore madornale di chi sostiene che il cinema neorealistico nacque nel vuoto assoluto, cioè assente una narrativa realistica. Nacque, già il verbo è sbagliato [...] che tesi si voglia sostenere quando si nega l’esistenza di un clima culturale che giustifichi e spieghi la nascita del cinema, – diciamo realista per dire del miglior cinema, cioè di quello che ci interessa come arte – non ho ancora capito.

Bernari poi chiarisce il suo pensiero con degli esempi partendo proprio dall’amico Zavattini:

Che cos’è Ladri di biciclette? Un puro scenario? Oppure un romanzo di Luigi Bartolini, diventato un’altra cosa in film, ma per merito di chi? Di Zavattini, cioè di uno scrittore che ha riportato nel cinema tutte le sue esperienze, i suoi umori e le sue ricerche di scrittore (si legga il suo Diario per capire lo scrittore e per intendere i fermenti della sua immaginazione). E Ossessione? Non è forse Il postino suona eccetera di Cain, diventato un’altra cosa? E La Terra Trema, parte proprio dal vuoto o non parte piuttosto da una suggestione letteraria con una sua precisa topografia? Giuseppe De Santis, prima di accedere al cinema, non fece forse il suo bravo tirocinio letterario con racconti realistici che poi ritroveremo a brani in Caccia Tragica e Riso amaro? Ma se scandagliamo a fondo l’intero repertorio neorealistico vi troviamo tante di quelle partenze letterarie da arrossirne...

 29 Cfr., MALERBA LUIGI, Il pataffio, Milano, Bompiani, 1978. 30 Le redazioni delle Macaronee sono: Paganini (1517), Toscolanense (1521), Cipadense (1935 circa), Vigaso Cocaio (1552, postuma). 31 Dattiloscritto senza data né indicazioni di luogo con numerose correzioni a mano, la calligrafia è di Carlo Bernari. Si tratta del testo di un intervento tenuto probabilmente nei primi anni ’60. 32 BERNARI CARLO, Cinema, fra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del cinema italiano», n. 9, agosto 1953. Sottolineature nell'originale dattiloscritto.

228 Bernari prima di proseguire in una lunga disamina della letteratura che precorse il cinema neorealista, preparandogli il terreno culturale, lancia una provocazione alla critica:

Non è compito nostro travalicare i limiti di una pura indicazione: ma da critici come Assunto, Bo, Cajumi, Fortini, Varese, proprio questo ci aspettiamo: più che una gratulazione al cinema, grande barbaro, un’indagine ci aspettiamo da loro che ci aiuti a portare in luce i più segreti legami fra il cinema e la letteratura, come ha già fatto Ragghianti fra il cinema e le arti figurative.

A questo punto lo scrittore napoletano individua, tra le cause del malinteso a proposito del rapporto tra letteratura e cinema non colto in pieno dalla critica, la questione della settorialità della stessa, che non sarebbe stata in grado di intuire le sinergie tra cinema, letteratura e le altre arti visive.

Debbo intanto notare di sfuggita che mentre i critici cinematografici professionali, quantunque sedotti anch’essi dalle giaculatorie che partono da tutti pulpiti in omaggio del cinema, cercano di esibire accanto ad ogni film le carte di identità letteraria, con autentiche filologiche, i critici letterari, all’opposto, fanno sforzi inauditi, sino allo spasimo, pur di dimostrare l’immunità letteraria. Felici di sputare nel piatto in cui hanno terminata la loro cena letteraria, corrono a vedersi un bel western e crepi la marcia letteratura.33

 33 Titoli e parole sottolineate nell’originale.

229 Bernari e il cinema.

L'impegno cinematografico di Bernari nel e per il cinema, soprattutto nel secondo dopoguerra, è estremamente significativo e si sostanzia nel conferimento di un Academy Award nel 1963 (con 8e1/2 di Fellini e America America di Elia Kazan) per la sceneggiatura de Le quattro giornate di Napoli, scritta da Bernari con Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Nanni Loy e Vasco Pratolini. Il successo viene bissato nel 1967 con la sceneggiatura de L'immorale scritta con Pietro Germi, Alfredo Giannetti e Tullio Pinelli, un film – protagonisti Tognazzi e la Sandrelli – precursore di alcune tematiche della commedia all'italiana degli anni '70. Tuttavia questo exploit ha una lunga genesi. Infatti risale al 1936 – quindi all'indomani della pubblicazione di Tre operai – la prima esperienza cinematografica di Bernari che sceneggia con Nunzio Malasomma per il giovanissimo Gino Cervi il romanzo di Paolo Lorenzini I due sergenti, regia di Enrico Guazzoni. L'attività di Bernari sceneggiatore prosegue nel 1952 col film di Antonio Leonviola Sul ponte dei sospiri, con Massimo Girotti. E poi subito nel 1953 con Terza liceo di Luciano Emmer in cui Bernari interpreta addirittura il ruolo del Prof. con Ilaria Occhini. La successiva esperienza del 1960 sembrerebbe aprire a Bernari le porte della collaborazione con uno dei maggiori autori italiani del '900, Giuseppe De Santis. Bernari collabora alla sceneggiatura de La Garçonierre con lo stesso De Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra, Elio Petri ed Ugo Pirro. La collaborazione con De Santis si era peraltro stabilita già l'anno precedente, nel 1959, con Pettotondo scritto per la giovane Claudia Cardinale, ma rimasto inedito. La collaborazione tra Bernari e De Santis è peraltro attualmente argomento di studio dell'esperto del neorealismo Antonio Vitti. Accanto alle esperienze prettamente cinematografiche, Bernari scrive anche per il “piccolo schermo” con poche ma significative collaborazioni. È del 1963 quella con Anton Giulio Majano (Un braccio di meno, episodio della serie “Racconti dell'Italia di oggi”). Nel 1971 Bernari collabora alla sceneggiatura della fiction Pendolari alla rovescia, regia di Toni De Gregorio. Quindi, nel 1980, con Enzo Siciliano e Citto Maselli sceneggia il suo capolavoro Tre operai che viene realizzato dallo stesso Maselli in 3 puntate per Rai Uno. Sull'onda del successo, la Rai gli commissiona la versione cine–televisiva del suo romanzo Un foro nel parabrezza.

230 Dai documenti dell'Archivio Bernari presso l'Archivio del '900 de La Sapienza di Roma si sono trovati ben 40 tra sinossi, soggetti e riduzioni cinematografiche di Bernari. Questi scritti potrebbero essere così ordinati: riduzioni cinematografiche che Bernari realizza dalle sue stesse opere (Amore amaro, Speranzella, In silenzio il tuo cuore, Tanto la rivoluzione non scoppierà, Domani e poi domani – proposto col titolo La rivolta dei vedovi). Ho conoscenza personale anche di un altro trattamento tratto da Vesuvio e pane che Bernari stracciò infuriato per quello che lui considerò quasi un plagio: Pane amore e fantasia.34 A questi titoli, riduzioni delle sue stesse opere di narrativa, si aggiungono alcuni soggetti originali: Assassino bella presenza, L'autobus della speranza, 5 terribili vecchietti, O lotti o lottizzi (ovvero Dove lo trovi un posto così ovvero In campagna è un'altra cosa), Proposta gialla, Addio Europa, Gli amanti della città eterna, I due corrispondenti, Le avventure del Dott. Bethune in Cina, Michele il Taciturno (soggetto di un film su Kid Palermo). Vi sono poi i soggetti nati con altri autori come Pretori d'assalto (con Leonviola), ...e vinsero gli elefanti e Operazione 44 (entrambi con Ugo Pirro),

 34 La questione è talmente dolorosa per lo scrittore napoletano che se ne fa cruccio anche pubblicamente: «Ma a questo punto credo che occorra tener presente l’acuta analisi del Muscetta sulle cause della crisi del realismo (Cinema controrealista, «Società», Aprile ’54). Poiché mi trovo costretto a citare uno scritto con cui concordo, debbo innanzi tutto precisare che non condivido affatto il parallelo che il Muscetta istituisce tra Pane, amore e fantasia e Vesuvio e Pane. Lo ringrazio dell’elogio a Vesuvio e Pane, come al miglior mio libro, ma respingo senza altro la parentela, la quale non va oltre la parola pane, comune d’altronde a troppi titoli, letterari e non. Qui, in Vesuvio e Pane il riso è assunto come un elemento della tragedia, cioè un limite dell’uomo ignaro, quindi come condanna di tutta una cultura idealqualunquistica; mentre in Pane amore e fantasia il riso è un risolutore del conflitto maresciallo– affamati, ed è un regolatore intestinale starei per dire, adatto ad ogni scorpacciata di fantasia.» Lintervento di Bernari si conclude con un richiamo alla funzione della fantasia come elemento regolatore del rapporto forma–contenuto: «Si è incominciato a staccare il cinema dalla cultura del suo tempo senza accorgersi che la si staccava anche da tutto il resto. Si è ipotizzato per il cinema una realtà specificamente cinematografica, cioè libera da simboli e da croste letterarie. Ma anche i prodotti della fantasia (Feuerbach) sono da considerare alla stregua dei prodotti della natura, essendo l’immaginazione dell’uomo essa stessa una forza della natura. Cioè a dire la realtà dell’arte non è soltanto formata di realtà, ma anche di realtù trasfigurate, che oggettivamente tornano a circolare nella realtà. Le arti dunque, tutte le arti, fanno anch’esse parte della realtà dell’arte, l’una per l’altra, tutte per una e ciascuna per se stessa. In breve: non solo l’albero, e il contadino curvo sulla zappa sotto una nuvola minacciosa, che prega Iddio che piova e lo maledirà se pioverà; ma anche le infinite maniere in cui quell’albero, quel contadino curvo sulla zappa, quella nuvola minacciosa, quelle credenze religiose e quelle superstizioni del contadino blasfemo furono cantati, raccontati, dipinti, scolpiti nei secoli sono rappresentati.» BERNARI CARLO, Esiste una crisi del neorealismo?, intervento al Convegno di Parma, 3–5 dic. 1953, parzialmente pubblicato in in «Rinascita», n. 12, 1953 I, pp. 684–7.

231 Questo pazzo pazzo pazzo west (con Romualdo Farinelli) e Un italiano a Londra, trattamento di 88 pagine scritto con Eduardo e datato 25 novembre 1964.35 L’ulima scrittura cinematografica di Bernari risale al 1985. Si tratta di una sinossi, ovvero di un primo trattamento cinematografico del romanzo Tanto la rivoluzione non scoppierà. Sono 4 pagine dattiiloscritte che riportano numerose correzioni a mano con stilografica nera. Le pagine sono raccolte in una cartellina gialla spillata su cui Bernari ha scritto di propria mano il titolo: Sinossi appross.va di Tanto la Rivoluzione non scoppierà.

Il 6 gennaio 1990, a ottanta anni appena festeggiati, Carlo Bernari veniva colpito da ischemia cerebrale: rimasero sulla sua scrivania alcuni copioni da leggere per la commissione Siae e le schede del David di Donatello di cui fu membro della giuria per alcuni anni, senza perdersi praticamente nessuna delle tre proiezioni settimanali a cui lo accompagnavo con la Cinquecento di famiglia. In occasione della morte dello scrittore avvenuta a Roma il 22 ottobre 1992 il quotidiano «Messaggero» di Roma (23 ottobre 1992) pubblicò in esclusiva le prime pagine del nuovo romanzo cui Bernari stava lavorando prima della malattia, Tre soldi di bellezza. La scena iniziale era, neanche a dirlo, come una sequenza cinematografica; una donna seminuda in fuga (da chi? da cosa?) nelle strade notturne della metropoli.

 35 V. appendice.

232 Il “taglio” cinematografico di Tre operai.

Bernari è stato dunque anche scrittore di cinema, autore cioè di soggetti e sceneggiature di una certa importanza. Ma la questione, ripeto, è di stabilire come e perché il suo stile, fin dall'esordio con Tre operai, maturi una forma quasi esplicita (che Bernari rivendicherà anche sotto il profilo teorico) di narrazione cinema- tografica, come si potrà capire ripetendo le tappe della genesi del romanzo. La data di prima pubblicazione di Tre operai (1934) non deve trarre in inganno, poichè i primi abbozzi risalgono alla pubertà di Bernari che, nel 1927–28, il periodo della prima stesura dell'opera che inizialmente si intitola Tempo passato e poi Gli stracci, è appena diciottenne essendo nato a Napoli il 9 ottobre (o il 13 come vuole la registrazione anagrafica) 1909. La biografia di Carlo Bernari è abbastanza nota e può essere qui rapidamente sintetizzata. All'età di tredici anni il giovane Bernari viene espulso da tutte le scuole del Regno, accusato di incitamento alla ribellione. Mandato a lavorare dal padre presso un suo amico sarto, prosegue gli studi con lezioni serali. Successivamente a diciotto anni, cioè nel 1927, si trasferisce nella succursale romana della tintoria di famiglia “Fratelli Bernard”. È a partire da questi anni che in una forma larvata, su dei quaderni scritti a matita, il mondo dei Tre operai farà la sua comparsa, col titolo Tempo passato, che costituirà appunto la prima stesura, il protoromanzo che, ampiamente rielaborato (Gli stracci 1929–30), diventerà Tre operai nel 1931–32. Il dattiloscritto ritrovato nel 1965 dallo scrittore, presentava il titolo cancellato a matita, seguito dalla dicitura “Gli stracci, prima stesura di Tre Operai. Inedita”. Quello che qui preme sottolineare è che, a proposito di Tre operai, esistono due fasi di scrittura. La prima è antecedente al 1929–30: l'esatta datazione dei primi germi narrativi è indicata da Eugenio Ragni:

Nella valigia che il diciottenne Bernari porta con sè a Roma nel 1927 c'è forse una prima stesura, non possiamo dire quanto completa, del romanzo, cui molto probabilmente l'autore ha già dato il titolo: Tempo Passato.36

Nella nota a pié di pagina Eugenio Ragni tuttavia precisa l'ampiezza del protoromanzo del 18enne Bernari:  36 RAGNI EUGENIO, prefazione a Gli Stracci, Roma, Menichelli 1994, p. 13.

233

Da una battuta di un racconto dichiaratamente autobiografico del 1965, “Bettina ritrovata”, si potrebbe inferire che in quei primissimi anni romani Bernari avesse scritto metà del romanzo.37

A parte la curiosità letteraria che darebbe a Bernari il primato narrativo del neorealismo, fermiamo al 1931–1932 il periodo della definitiva stesura dell'opera. Tra le due versioni (quella del 1929–30 intitolata Gli stracci e quella licenziata circa due anni dopo come versione definitiva di Tre operai) vi sono molte concordanze e altrettante discontinuità. Per un'attenta analisi letteraria rimando ai citati saggi di Francesca Bernardini, Rocco Capozzi ed Eugenio Ragni. Piuttosto va sottolineato il fatto che nel giro di pochi mesi, cioè tra i venti e i ventuno anni, Bernari dà vita ad una trasformazione stilistica di grande modernità: un salto che trascina la sua scrittura da un impianto più “veristico”, pur se anticipatore del neorealismo – ad una nuova, fortemente innovatrice struttura letteraria che, appunto, non solo fonda il neorealismo, ma va oltre fino a prevedere il successivo snodo del neorealismo nel cinema, addirittura anticipando e influenzando il cosiddetto neo–neorealismo degli ultimi venti anni del Novecento. Nelle tre stesure dell'opera (Tempo passato del 1926–29, Gli stracci 1929–30, Tre operai 1931–32), stesure che abbracciano un arco di tempo di cinque/sei anni, circa dal 1926 al 1932, il che comporta la maturazione stilistica dello scrittore dal diciottesimo al ventitreesimo anno d'età, possiamo confrontare i passaggi stilistico– strutturali con le esperienze del giovane scrittore. Francesca Bernardini scrive:

Nella riscrittura del '34 il testo viene drenato anche nella forma: il dettato, che privilegia la paratassi, diventa conciso ed essenziale e procede per frasi brevi, spesso di genere nominale, segmentate e isolate con una punteggiatura non convenzionale, usata in funzione espressiva, con uno stile misto, in cui predomina il parlato dei personaggi.38

Francesca Bernardini prosegue individuando le discontinuità narrative, le innovazioni tecniche e linguistiche. Anche Eugenio Ragni coglie l'evoluzione dell'opera:

 37 Ivi. 38 BERNARDINI, introduzione a Tre operai, cit. p. XXVI.

234 Con un'ulteriore operazione riduttiva – testimoniata da un secondo manoscritto (su fogli commerciali, a matita, chi sa dove finito) in cui si confermava il definitivo passaggio da un'oggettività naturalistica piccolo–borghese ad una soggettività aspra, risentita, quasi da prima persona – Bernari toccherà lo straordinario traguardo del Tre operai del 1934.39

L'analisi di Ragni è tanto più importante se si tiene conto che le frasi da me sottolineate sono tratte dalla nota 1965 che Bernari stesso redasse per la prima edizione negli Oscar Mondadori del romanzo. Quel passaggio «da un'oggettività naturalistica piccolo–borghese ad una soggettività aspra» di cui parla Bernari ha naturalmente molti connotati storici e letterari che i due critici su citati, Francesca Bernardini ed Eugenio Ragni, hanno ampiamente illustrato anche con qualche differenza interpretativa. Si deve comunque fissare un punto su cui entrambi sono d’accordo, cioè che la riscrittura de Gli stracci che diventa Tre operai comporta un passaggio stilistico e formale da un tardoverismo un po’ “di maniera” ad un protoneorealismo sperimentale. Infatti è come se cambiasse lo strumento stesso dell'opera che non è più “scritta” letterariamente ma è, nella nuova stesura, come “descritta” per immagini, appunto come una sceneggiatura in nuce, un “trattamento”. A questo proposito è utile confrontare i due incipit de Gli stracci e di Tre operai.

Da Gli stracci :

Capitolo I Il bambino era stato messo su un vecchio divano a fiori rossi, con le spalle appoggiate a due cuscini. Il caldo nella stanza era forte e la luce bianca dava fastidio alla vista. S'era visto solo il padre quella sera scendere le scale in fretta, coi capelli che gli uscivano di sotto il cappello da ogni lato. Doveva essere ritornato appena dal lavoro, ed ora si precipitava dal medico. La casa era piena di luci che pareva una festa. Il ragazzo era rimasto, chi sa da quando, su quel letto improvvisato mezzo disfatto, con una vecchia scatola da sigari sulle ginocchia. Nel palazzo si era saputo che Teodoro stava male, perché i bambini del piano di sotto non lo avevano visto in giro da parecchi giorni”.

 39 RAGNI, prefazione a Gli Stracci, cit., p 17.

235 La figura delprotagonista, Teodoro, ne Gli stracci viene dunque introdotta con un'immagine che ne rievoca l'infanzia e l'ambiente familiare. Invece, in Tre operai Teodoro entra subito in scena adulto con un'immagine fortemente “cinematografica”, introdotta per altro da una didascalia (i capitoli di Tre operai sono tutti caratterizzati da queste sinossi iniziali tipiche del cinema d'epoca).

Da Tre operai :

I – Da una domenica all'altra: la prima settimana di lavoro È domenica, di marzo. Luigi Barrin e il figlio Teodoro sulla via Poggioreale. In fondo, il cimitero coi suoi alberi folti e neri, poche nuvole gelate nel cielo chiaro. Nella piazza Nazionale vi sono due baracconi da fiera e un organetto che suona lentamente la Marsigliese. Vecchi cartelloni di propaganda elettorale pendono fradici dai muri. “Ora ti mostro la fabbrica, così domani ti saprai regolare” ha detto stamattina Luigi Barrin al figlio, che ha fatto assumere nella lavanderia dove è capoperaio.

La differenza sostanziale tra i due incipit è che mentre Gli stracci prendono spunto da una descrizione letteraria del protagonista, colto nell'intimo familiare dell'infanzia con chiaro intento veristico, in Tre operai Teodoro viene subito alla ribalta come il protagonista di un dramma (l'assunzione in fabbrica), e di questo dramma viene data la scenografia – con una carrellata degna di un regista cinematografico – con tanto di colonna sonora: Teodoro sente di perdere la sua libertà entrando in fabbrica e, per ironia della sorte, il tutto avviene mentre un organetto intona un canto rivoluzionario e libertario, la Marsigliese! Rocco Capozzi ha curato un'attenta e originale analisi del “colore” e della scenografia nella scrittura di Carlo Bernari.

Bernari potè senz'altro apprezzare il meglio che l'Espressionismo esponeva, grazie ai suoi contatti con intellettuali ed artisti come Paolo Ricci e all'arrivo in Italia di film come “Il gabinetto del Dott. Caligari” e “Metropolis” ... la sua esperienza surrealista (arricchitasi a Parigi) e gli elementi espressionistici (derivati dal cinema e dalla pittura... come le vedute urbane di Sironi, Carrà o a quelle più metafisiche di De Chirico) si ritrovano facilmente nella prima narrativa di Bernari proprio perché in queste arti figurative l'autore

236 riconosceva le sensazioni che egli stesso sentiva davanti alla realtà italiana di quei giorni.40

Meriterebbe un'ulteriore ricerca anche il tema delle citazioni musicali nei romanzi di Bernari che rievocando ambienti e atmosfere sonore napoletane (o romane come in Amore amaro) portano al recupero di una certa solarità. Infatti, mentre la tavolozza dello scrittore napoletano è cupa, – appunto Sironi, pioggia e paesaggi industriali fatiscenti, quasi a rievocare ed anticipare il destino dei personaggi, la musica assolve nella narrativa bernariana un momento di pacificazione, sia pur provvisoria e destinata a svanire al primo sferragliare di un tram che riporta al dramma, col mondo. Eugenio Ragni fissa la datazione de Gli stracci al 1930–31 riferendosi alla nota a matita apposta da Bernari al dattiloscritto originale. A mio avviso, la nota sulla copertina dell'originale fu apposta da Bernari stesso dopo il ritrovamento in una cassapanca salvata all'inondazione di una cantina della casa dello scrittore in via Gosio 85 a Roma avvenuto nei primi Anni '60. Va quindi intesa col beneficio dell'inventario della memoria di Bernari che avrebbe potuto far scivolare di qualche mese in avanti l'esatto momento della stesura stessa. Infatti, a mio avviso la stesura definitiva de Gli stracci è più verosimilmente individuabile tra l'ottobre–dicembre 1929 e la prima metà del 1930. Nell'estate del 1930 infatti Bernari si reca a Parigi per alcuni mesi. E cosa fa un giovane di 21 anni – aspirante scrittore – nella mitica Parigi del tempo? Non si rinchiude certo in camera a riscrivere un romanzo che considera appena terminato, ma naturalmente cerca di accumulare quante più esperienze

 40 CAPOZZI, Bernari tra fantasia e realtà, cit. p. 48. Nella Nota '65 (I edizione Oscar Mondadori di Tre operai p. 221–2) Bernari stesso delinea la creazione della scenografia del suo capolavoro: «Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo... Era naturale che travolgessi in un giudizio senz'appello anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l'altra, proveniente dal cinema realista europeo e americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver subito. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi, che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch'esse visioni congruenti al cinema di quel periodo: ai film di Dupont, di Vidor, Sternberg, Murnau, Dreyer, Pabst, Dovzenko, Eisenstein, Pudovkin; senza contare Buñuel del Chien andalou, il breve film surrealista del 1928 che feci in tempo a vedere a Parigi insieme ad altri esperimenti d'avanguardia, come il sovietico Tre in un sottosuolo, L'ètoile de mer di Man Ray, La Marche des machines di Deslaw. Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella cultura ci ispirava. » (I titoli sono sottolineati nell’originale, ndr.)

237 possibili. Basti pensare che Bernari “lancia” un'inchiesta sul surrealismo, conosce tra gli altri Breton, che intervista – e col quale intrattiene anche uno scambio epistolare. Ma a Parigi il giovane Carlo, come abbiamo letto nella sua testimonianza, assiste a spettacoli teatrali e soprattutto a molte proiezioni di film che influenzeranno non poco – ecco il punto determinante – «la sua scrittura e il suo rapporto con la realtà.»41 Si può dunque trarre la conclusione che l'esperienza parigina, indipen- dentemente dalla datazione precisa della stesura delle due ultime versioni del romanzo capostipite del neorealismo, determini in maniera decisiva l'evoluzione narrativa dello scrittore tra il 1932 e il 1934, come sostiene anche Ragni:

Il soggiorno parigino, breve ma intenso d'esperienze e d'incontri, segna forse la tappa decisiva nella formazione del giovane Bernari: a contatto con le numerose, variegate, disinibite forze culturali che da tutto il mondo convenivano e si componevano nella capitale francese, assorbe infatti ogni suggestione che in qualche modo risponda al suo intenso bisogno di novità e verità... Al rientro in Italia per il servizio militare – siamo ai primi mesi del 1931 – Bernari si rende conto di aver assunto e assimilato durante il soggiorno parigino molte più linfe di quante avesse immaginato: e il suo ricordo più vivo di quel ritorno è la repulsione provata davanti alla prima stesura del libro (Gli Stracci). Di qui il proposito di rifarlo.42

Rifarlo, appunto, ma come? Nella Nota 1965 Bernari stesso descrive il percorso del “nuovo” romanzo.

Non bastava scorciare, emendare... si trattava di ben altro che di migliorare la lingua. Bisognava rivivere l'intero progetto; disporlo ad un altro linguaggio, non importa se più o meno rozzo...43

Ma a quale “altro linguaggio” si riferisce Bernari? Sappiamo da una risposta di Zavattini del 31 marzo 1932 da Milano che il romanzo stava appunto tramutandosi in qualcosa di diverso, forse non nelle intenzioni coscienti, ma certamente nel background creativo del giovane scrittore napoletano:

 41 BERNARD DANIELA, Bio–Bibliografia di Carlo Bernari, Roma 2002, Prefazione agli Atti del Convegno su Bernari, p. 12. 42 RAGNI, prefazione a Gli stracci, cit., p. 20. 43 BERNARI, Nota 65, cit., p. 227.

238 Caro Bernard, hai ragione, non c’è una parola più elastica di umano. Anche Valery è umano. Ma ci s’intende – solo, no? E lo vedo da quel che mi dici del tuo romanzo. Non preoccuparti dell’editore: scrivi come se non dovessi pubblicare mai più il libro. A suo tempo ti aiuterò efficacemente a trovare l’editore: prima mi farai leggere il copione e anzi te ne darò il mio parere. Se non mi piacerà, te lo dirò. Se mi piacerà ti troverò l’editore. Il mio parere è importante perché senza complimenti (...) 44

Le allusioni di Zavattini («scrivi come se non dovessi pubblicare mai più il libro [...] mi farai leggere il copione») non possono passare in secondo piano, soprattutto se espresse da un personaggio come Zavattini che certo seppe coniugare letteratura e cinema, anzi fu maestro nella commistione dei linguaggi. Zavattini ha forse già in mente e qui suggerisce all’amico una revisione e/o trasformazione dell'opera letteraria in script cinematografico? Certo è che la stesura del dicembre- gennaio 1932–33 di Tre operai – non del 1934 come qualche studioso erroneamente afferma confondendo la data di stesura con quella della pubblicazione effettiva, dopo i vari passaggi redazionali e tipografici – tende esplicitamente alla scrittura cinema- tografica, senz’altro sulla base delle suggestioni ed esperienze del periodo parigino (1930) corroborate però dai rapidi ma essenziali scambi con Zavattini. Il romanzo di Bernari assume allora la forma di un vero e proprio “trattamento”, insomma di uno scenario, di un “copione”, dove lo scrittore sembra servirsi di una macchina da presa evocando immagini e suggerendo, di volta in volta, una colonna sonora. La versione del 1931–32 di Tre operai (semidefinitiva, poichè interverranno ancora alcune minori modifiche in fase di stampa dell'edizione del 1934 e successivamente nel 1965) rivela dunque una revisione in chiave cinematografica del romanzo originale. Naturalmente la questione dell'influenza del cinema sulla letteratura, sul neorealismo in particolare, è un argomento ampiamente trattato (cito solo Chiarini, Barbaro, Brunetta, Miccichè, Pasinetti)45. Tuttavia una giovane studiosa napoletana, Silvia Acocella, compie un ulteriore passo in avanti:

 44 Cartolina postale, manoscritta autografa, carta intestata “Rizzoli&Co. Anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sg. Carlo Bernard, presso Lucon, via Quintino Sella, 15 / Roma” , data del timbro postale, Milano 31 maryo 1932, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit., p. 32 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 45 In relazione all'opera di Carlo Bernari – che comunque ha preso parte al dibattito culturale sull'argomento – se ne sono occupati anche i seguenti autori: GALLO MARIO, La lezione del cinema, «l’Avanti» 27 gen. 1955. CHIARINI LUIGI, La conquista di uno stile, in «l’Avanti» 2 feb. 1955.

239

Tra le tante sollecitazioni non letterarie cui è sottoposta la scrittura degli anni '30 e '40, il cinema occupa un posto di rilievo... proprio gli scritti di Bernari offrono l'occasione critica di restringere il campo sul terreno specifico della sceneggiatura e, attraverso i codici della produzione filmica, di incrociare un percorso tra i meno lisi nel groviglio di piste delineato intorno al cinema.46

La tesi era già stata avanzata dal biografo di Bernari, Rocco Capozzi, nei saggi che sono stati precedentemente citati. Ma è qui interessante notare un primo riconoscimento della questione da parte di una nuova critica, giovane e pertanto disincrostata da ogni scoria ideologica interessata solo ad approfondire scienti- ficamente il campo delle sinergie delle arti del Novecento e la dimensione sperimentale e formale del neorealismo. Trova così conferma l'ipotesi che la versione definitiva di Tre operai rappresenti una sorta di “riscrittura in chiave cinematografica” del protoromanzo: questa ipotesi si spinge oltre la considerazione di un comprensibile influsso di una forma narrativa – appunto il cinema – sulla letteratura e viceversa. Sono però certo del fatto che la novità di Tre operai (con qualche punto di contatto con Si gira! di Pirandello, come accennavo) consista proprio nell'elaborazione di un genere letterario nuovo per il suo tempo, il “trattamento”. Alcuni esempi proposti da Capozzi sono calzantissimi per esaminare da un punto di vista “pittorico” e “cinematografico” l'opera di Bernari:

... i chiaroscuri, gli elementi cromatici, gli effetti di luce, oltre a dissolvere la dimensione naturalistica del background servono a caratterizzare il clima oppressivo e il senso di squallore sentito dai personaggi. In Tre operai i cromatismi e gli effetti di sinestesia caratterizzano maggiormente l'ambiente industriale.47

L'ambiente industriale di Tre operai in una Napoli senza sole e senza speranza ha degli strani parallelismi col soggetto Gioca, Pietro! di Pirandello e del figlio

 MAURO WALTER, Scrivere racconti con la macchina da presa, in « l’Unione Sarda», 7 apr. 1963. TERMINE LIBORIO, L'estetica, la critica e il film, in «Corriere di Sicilia», 9 apr. 1963. MAURO WALTER, Le incertezze di un matrimonio difficile, in «l’Unione Sarda», 11 apr. 1963. OLDRINI GUIDO, Il filone idealistico della critica del neorealismo, in «Giovane Critica» dic. 1963 / gen. 1964, p. 53–63. BALDELLI PIO, Cinema e Letteratura, in « Ulisse», ott. 1965, p. 114 – 23. 46 ACOCELLA SILVIA, «La Settimana». Resistenze della scrittura, Roma, E&A, 1998 p. 18. 47 CAPOZZI, Bernari tra fantasia e realtà, cit., p. 42.

240 Stefano Landi del 1932, pubblicato nel gennaio 1933 a Roma da Scenario nel n. 1, anno II48 da cui fu poi realizzato il film Acciaio di Walter Ruttmann. Sono certo che un confronto tra il soggetto di Pirandello–Landi e Tre operai potrebbe dar luogo ad alcune sorprese. Mi preme qui comunque fissare che la versione definitiva di Tre operai è della fine del '32 e che diversi capitoli delle precedenti stesure vengono pubblicati dal 1929-30.49 Tre operai rappresenta, nel 1932, una sintesi di cinema, arte e letteratura che anticipa la stessa esperienza cinematografica di Acciaio. Aggiungo che, da una prima analisi testuale, risultano molteplici – forse troppe per invocare il caso – corrispondenze50 col soggetto coevo Gioca, Pietro, questo il titolo originario del film di Pirandello.51 Una analogia evidente tra Verga (che smise di scrivere narrativa nei primi del Novecento per dedicarsi al cinema e alla drammaturgia), Pirandello e la primissima fase dell’attività letteraria di Bernari è proprio quella di ripensare l’attività letteraria in chiave cinematografica – oltre che pittorica e teatrale. L’idea comune ai tre autori appena citati è proprio quella dell'estensione della letteratura ad un nuovo mezzo tecnologico dell'espressione narrativa: la macchina da presa. La quale, con una

 48 Per la datazione esatta del soggetto pirandelliano v. PIRANDELLO LUIGI, Acciaio, a cura di Claudio Camerini, Torino, Nuova Eri 1990, p. 20. 49 Naturalmente il soggetto del film di Pirandello–Landi risente di tutta la cultura e del cinema espressionista cui attinge anche Bernari. Fatto sta però che vi sono anche concomitanze testuali come se Pirandello (o meglio Landi, poiché si sa che Pirandello affidava questi lavori di “manovalanza” al figlio Stefano) attingesse direttamente a quei Tre operai rifiutato ad esempio nel 1933 dalla Bompiani. È del resto noto che Mussolini, impegnatosi personalmente per la realizzazione di Acciaio (in origine il soggetto era appunto Giuoca, Pietro!) che doveva sponsorizzare il rilancio dell'industria bellica di Regime, in particolare delle Acciaierie di Terni al centro di una complessa operazione finanziaria, manifesta malumori per la pubblicazione nel 1934 di Tre operai che rappresenta il contrario dell’immagine dell’operaio forte nato dal fascismo. Il Duce in persona, come precedentemente riportato, fece diramare una velina ai giornali imponendo il “silenzio stampa” con l'ordine di non enfatizzare il debutto di Bernari. 50 Bisogna sempre tener presente che Bernari teorizza nel manifesto Udaista del 1929 una forma rivoluzionaria di scrittura e impegno culturale che, criticando le esagerazioni e le provocazioni fini a se stesse del futurismo, fonda l'arte moderna sulla “utilità (scopo) dell'artista, grazie all'incontro uomo (artista)–macchina, quest'ultima intesa come strumento e prolungamento del processo creativo. In un'intervista concessa nel 1984 da Bernari alla giornalista della Rai Anna Benassi nel corso del programma Un autore, una città, in cui lo scrittore delineava un concetto etico della funzione dell'attività letteraria: «Prima di scrivere tu Scrittore devi chiederti perché e per chi scrivi. » E al suo biografo Rocco Capozzi, Bernari così ricorda l'impegno giovanile dell'UDA: «Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo futurista, che era in sé per sé un'esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina.... » CAPOZZI, Intervista a Carlo Bernari, cit., p. 143–4. 51 Non a caso il cinema ha presto intravisto una possibilità per il grande schermo nel romanzo di Bernari che fu ridotto a scenario dal regista Gianni Franciolini e Virgilio Sabel per la Lux nel 1948, anche se quel progetto rimase nel cassetto. Il film su Tre operai fu poi realizzato nel 1980 da Citto Maselli.

241 metafora fantasiosa ma efficace di Bernari, viene equiparata alla penna che, invece di segnare la pagina, è come se stesse proprio incidendo la pellicola di un film: «quasi che la la penna si vada trasformando in macchina da presa.»52 Col “film letterario” o “trattamento”, tale si può chiamare Tre operai (e Zavattini come abbiamo visto mostrò subito una inconscia sintonia ancor prima di aver letto l’opera) Bernari riesce a coniugare il suo “bisogno” di narrazione con l'intenzione originaria di creare un documento storico. In alcune interviste televisive Bernari stesso racconta che il suo romanzo d’esordio nasce, in realtà, come ricerca storica fin dal 1927: infatti l’intenzione originaria del giovanissimo autore, ha appena 16 anni, è quella di scrivere un saggio sulla condizione operaia a Napoli. Lungi quindi da Bernari ogni iniziale intento artistico e narrativo, tentomeno estetico: il che spiega anche la secchezza della scrittura che impressiona negativamente, come abbiamo detto, Eurialo De Michelis. Così in Tre operai, grazie alla fusione della scrittura letteraria e cinematografica, Bernari riesce nell'impresa titanica di far confluire e coincidere la “grande storia” della classe operaia e della società italiana del primo ventennio del XIX secolo, con la “piccola”, intima e drammatica storia di tre individui, tre giovani destinati al naufragio della coscienza. Ritrae quel fallimento collettivo–individuale, di classe e di coscienza, che sta per aprire le porte alla presa del potere fascista. L'archivio Rai conserva una preziosa quanto silenziosa testimonianza di Bernari. Nel corso di un'intervista sul set di Tre operai a Bernari e Citto Maselli, ad una domanda sui risvolti storici del romanzo, Maselli parla di “avvento del fascismo”, di storia e ideologia mentre Bernari lo guarda con circospezione: lo scrittore ha infatti

 52 BERNARI CARLO, Film e arte narrativa, in Carte Stampate, «Tempo», 11 gen. 1940, p. 2. Bernari torna a parlare di “potere visivo della letteratura”, in Tre linee di lettura: letteratura, pittura e cinema nel giudizio di uno scrittore, in «Rinascita» n. 29 del 17 luglio 1965, p. 28. In questo articolo Bernari riprende tesi precedemente enucleate nel saggio Cinema, fra arte figurativa e letteratura cit. del 1953. In particolare la tesi di partenza è: «Se si ammette l’ipotesi che la lettura è in ogni caso un processo di riduzione della parola ad immagine, bisogna convenire che tale riduzione è irreversibile, poiché il film offre allo spettatore (lettore) l’immagine già ridefinita in ogni suo particolare: è quindi inammissibile una riduzione della figura in parola, poiché nel film è tutto già irrimediabilmente espresso.». Occorre anche ricordare che questa è una tesi su cui gli scrittori italiani insistono da oltre mezzo secolo. Nelle raccolta delle interviste di Anna Benassi ad alcuni autori italiani alla domanda «“Scrivere per il cinema per lei è cosa diversa?” Alberto Bevilacqua risponde: No, no! Perché, diversa? Io sono un narratore. È importante, questa precisazione […] Chi crea raccontando, prima di scrivere, davanti alla pagina Bianca, “vede” ciò che si propone di evocare. Un’illuminazione visionaria assai simile a quella che precede l’animarsi di un set cinematografico. Sulla pagina, le parole si collocheranno, si muoveranno, assumeranno un loro ritmo, uno stile, come gli attori inquadrati e seguiti dalla macchina da presa.» BENASSI, Un autore una città, cit. p.. 68.

242 in mente un film, mentre il regista Maselli sta cercando di fare “storia” con la macchina da presa. Anche in occasione della scomparsa di Bernari – Roma, 22 ottobre 1992 – Maselli non parla del cinema nella narrativa di Bernari, preferendo ricordare lo scrittore come un “comunista scomodo” 53 , cioè con un’immagine ideologica piuttosto che artistica. Francesca Bernardini chiarisce la portata del “salto” narrativo tra la seconda e terza stesura del romanzo. Vorrei aggiungere che questa rottura (e ricomposizione) dell'opera in un nuovo progetto formale è resa possibile dall'inserimento del cinema nella narrazione. Siamo di fronte alla trasformazione della “penna in macchina da presa”, di cui parla Bernari, secondo per altro – come accenavo – un meccanismo che Pirandello sperimenta nel 1915 col romanzo Si gira che Bernari legge sicuramente nella successiva edizione del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Rispetto a Pirandello, però, le conclusioni di Bernari esulano dal romanzo “sul e nel cinema” per raggiungere la mimesi del romanzo con il trattamento cinematografico vero e proprio, non per puro sperimentalismo, ma per un'esigenza di verità, sintesi e rappresentazione.

Il romanzo (Tre operai, ndr) viene riscritto al tempo presente, ma conservando in alcuni casi il passato remoto e l'imperfetto narrativo, e creando così un'interferenza e una sovrapposizione tra l'epoca in cui il racconto si svolge, ormai consegnata al passato, e il presente della scrittura: la situazione storica e sociale e l'influenza decisiva che essa svolge nel destino dei personaggi si riferiscono, fuori d'allegoria, in continuità all'epoca in cui agiscono i tre operai e al momento storico in cui scrive l'autore.54

È dunque certo che questa “soggettiva dell'autore” comporti l'utilizzazione in chiave narrativa della macchina da presa (intesa come “occhio dell'autore”): mentre il Si gira pirandelliano è un romanzo sul e nel cinema – pur con una forte identificazione dei “punti di vista” nel rapporto narratore/macchina da presa – Tre operai di Bernari non si limita a contenere il cinema solo come elemento formale, ma è come scritto per la macchina da presa. È, insomma, il romanzo che diventa “trattamento” di se stesso. Ed è in questa “rivoluzione copernicana”, della letteratura che si fa cinema, documento, analisi, storia, racconto, che il capolavoro di Bernari

 53 MASELLI CITTO, intervista rilasciata al «Messaggero» di Roma, 23 ott. 1992. 54 BERNARDINI, prefazione a Tre operai, cit., p. XXVII.

243 rende possibile – anticipandola e preparandola – la grande stagione del neorealismo e, come accennavo, del neo–neorealismo nel cinema – certamente senza dimenticare l'influenza dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore sulla narrativa bernariana. Posso qui solo dire che nella biblioteca di famiglia un volume della vecchia edizione mondadoriana andato purtroppo perduto dei romanzi di Pirandello era fittamente annotato, soprattutto alle pagine dei Quaderni. Tre operai è, in conclusione, un romanzo sintetico e rappresentativo, uno “script” letterario che tiene però conto delle regole fondamentali del cinema: sintesi e rappresentazione. Lo dice lo stesso Bernari:

Una descrizione d'ambiente, che in un romanzo è di venti pagine, in un film si traduce in un passaggio di immagini che dura appena qualche secondo; uno stato psicologico, che in un romanzo noi possiamo imbottire di verbi: “pensò” “sentì” “credè”, in un film deve tradursi in un'immagine precisa; tutto ciò che in un libro si “dice”, in un film deve essere “rappresentato”.55

Silvia Acocella spiega:

La definizione dell'immagine filmica come di un'arte dotata di un'eccezionale facoltà di rappresentazione va integrata con una visione critica e dialettica della realtà, che, nella prospettiva bernariana, proietta la creazione artistica in un processo incessante di conoscenza. Destinata ad approssimarsi soltanto ai suoi oggetti, ma a non concludersi mai, la tensione interpretativa dell'arte viene procrastinata all'infinito, nel tentativo irrealizzabile, ma continuamente ripetuto, di raggiungere “la realtà della realtà”, il nucleo noumenico dell'esistenza.56

Pur senza affrontare un ulteriore argomento di critica letteraria, voglio ribadire che la “sensazione del lettore” delle opere di Bernari è quella della “indispensabilità” di ciascuna parola, come succede per i “frames” o i “fotogrammi” di un film. Bernari, insomma, con un dialogo estremamente cinematografico riesce a riprodurre nella sua narrativa “sintesi e rappresentazione”, cioè le regole indispensabili del cinema. La sua  55 BERNARI CARLO, Romanzo e film, in «La Settimana» n. 3, marzo 1945, p. 6–7. 56 ACOCELLA, «La Settimana», cit. p. 18. Sul concetto di “realtà della realtà” Bernari torna più volte anche nei colloqui col suo biografo Rocco Capozzi. Va detto che questo è un tema che ricorre nelle riflessione di Bernari fin dalla fine degli Anni Venti, cioè dai 32 pensieri sulla natura del 1929– 30, cit. Cfr. BERNARI CARLO, L'arte è paura? ovvero la realtà della realtà, in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori 1973.

244 non è una scrittura facile, anche perché non è mimetica della sceneggiatura che pure intrinsecamente evoca. E di “realtà della realtà” parla Rocco Capozzi nel suo saggio su Bernari, quando descrive l'opera dello scrittore come volta al disvelamento della realtà nascosta da una realtà apparente:

La nozione della realtà della realtà è basata sull'idea che l'arte deve avere il potere di “penetrare” e non meramente registrare o duplicare la realtà sensibile.... Questo concetto di voler “penetrare” la realtà per esaminare dall'altra parte ciò che la compone viene illustrato in Un foro nel parabrezza (1971) dove il foro permette l'analisi della realtà da due posizioni opposte (da dentro e da fuori il parabrezza della macchina, e della vita) e permette al protagonista–narratore di arrivare alla cosiddetta realtà della realtà di se stesso, vale a dire alla sua autenticità come alla sua inautenticità57.

Opportunamente Capozzi cita Un foro nel parabrezza, uno dei tre romanzi tradotti in film, di cui Bernari ha curato la sceneggiatura col regista Scavolini, non senza malumori per le esigenze televisive da rispettare. Oltre al già citato Tre operai di Citto Maselli e ad Amore amaro di Florestano con Lisa Gastoni, è proprio Un foro nel parabrezza l'opera più simbolicamente cinematografica di Bernari (scritto per il cinema, sosterrà il regista Sauro Scavolini) che, grazie all'interpretazione di Vittorio Mezzogiorno, Pamela Villoresi e Mimsy Farmer, ottenne discreto successo anche in televisione Vorrei aggiungere che questa “realtà da disvelare” non è per Bernari la semplice realtà dell'individuo che si cala sul volto la maschera pirandelliana della convenzione. Per Bernari – ed ecco perché con qualche esagerazione direi che Bernari sta a Pirandello come Marx sta ad Hegel – la verità che determina l'individuo è la storia, con tutte le sue coordinate economiche, sociali, politiche. Così, la libertà dell'individuo non è naturalmente data dal “calarsi la maschera” allo specchio, ma nel rompere lo specchio della realtà per rivelare le forze occulte (economiche) che condizionano le coscienze e creano i drammi individuali.

 57 CAPOZZI, Bernari tra fantasia e realtà, cit., p. 18.

245 Il cinema nel carteggio Bernari–Zavattini.

L’intuizione di Zavattini che, nella lettera del 31 marzo 1932, chiama “copione” l’atteso dattiloscritto di Tre operai è un divertente lapsus che svela qualche significato più profondo. Naturalmente nella fretta – perché Za va sempre di fretta sul lavoro redazionale che deve sbrigare con tempi tipografici ed editoriali strettissimi – la confusione parrebbe non rilevante, a prima vista. In fondo tutti i manoscritti o dattiloscritti sono una sorta di “copioni”. E Zavattini che scrive di getto su foglietti impossibili seguendo un filo logico, ma come in un vero e proprio flusso di coscienza, butta giù la prima definizione che gli viene in mente. Avrebbe potuto scrivere, mandami subito il tuo libro, il tuo romanzo, la tua opera, il tuo lavoro, – e invece tra le tante alternative finisce per scegliere, più o meno consciamente, il termine che ritiene, anche senza pensarci, più appropriato. Naturalmente non bisogna ingigantire la questione, perché si tratta appunto di un dettaglio. Un dettaglio però rivelatore di un sensazione generale dello scrittore emiliano nei confronti del giovane amico. Anzitutto va ricordato che, seppur caotiche e contorte, ricche di illustrazioni a mano, esempi, scritte trasversali ed oblique, le lettere di Zavattini – come del resto tutta la sua opera letteraria – sono di un’assoluta precisione linguistica. Non una parola fuori posto, insomma. Non ingannino l’apparente sperimentalità e i concetti come gettati a sprazzi sui fogli di carta, poichè Zavattini sa sempre come e cosa scrivere: anzi, proprio per paura di essere frainteso, magari di suscitare eccessive speranze o malumori all’amico, è sempre lingusticamente preciso. Così quando “butta giù” il termine “copione” sa benissimo in che senso sta usando la parola, di cui peraltro conosce perfettamente che il termine implica la scrittura teatrale e cinematografica. Tuttavia si potrebbe osservare che Zavattini avrebbe potuto avere in mente il termine di “copia”, da cui il lapsus, per la fretta, con “copione”. Ma è piuttosto probabile che Zavattini scriva la parola di getto, con grande spontaneità, condizionato sia dai pensieri che in quel momento gli frullano per la testa (nel 1933 Za sta già lavorando a vari soggetti cinematografici), sia dal fatto che Tre operai, di cui ha già letto alcuni capitoli usciti tra il 1929 e il 1930, istintivamente lo porti ad aspettarsi una nuova forma di rappresentare il reale che si avvicina alle arti visive. Certo,

246 conosce ancora troppo poco del romanzo “antiletterario” dell’amico Bernari: si riserva di esprimerne un giudizio sincero dopo una prima lettura. E, semmai, di aiutare a cercare un editore. Ma, come stiamo per vedere, questo aiuto si estenderà subito anche al sostegno, che diventerà reciproco, per trovare un “produttore cinematografico”. È chiaro che Zavattini è portato a lavorare con le immagini anche quando si tratta di fare giornalismo o letteratura. Del resto è sua l’idea di creare un rapporto tra immagine e parola ancora più stretto della tradizione delle illustrazioni che ha importanti precedenti. È propio negli anni Trenta che l’artista e scrittore farà carriera, prima ancora che come sceneggiatore e autore di romanzi che fungono da soggetti cinematografici, nel settore dei rotocalchi e nelle edizioni della Disney, «Topolino» in particolare, della Mondadori. E questa sua forma mentis che si rivela fin dai primi carteggi con Bernari lo sprona ad insistere coi due giovani amici, Bernari scrittore e Pierce pittore, affinchè approntino alcuni story board o come li definisce Za “soggetti letterari”. Il termine salta fuori in una lettera a Bernari, per altro su carta intestata su cui compare la testata di «Commedia» e di «Cinema – Illustrazione», di pochi mesi successiva a quella in cui nomina il “copione”. Da Milano, il 26 ottobre 1932 Zavattini propone agli amici: «Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di commento.»58 L’idea di letteratura che Zavattini ha ormai maturato e che cerca di trasmettere al più giovane amico, che però già si sta muovendo in quella direzione, trova una conferma decisiva in una cartolina postale che parte da Milano il 26 settembre 1933:

Carissimo, la tua novella va quasi bene, ma non bene ci vuole più intreccio, una trovata. Un fatto pieno, insomma, cronaca. Se vuoi una con un finale a sorpresa. Movimento, movimento. Ma ci riuscirai in fretta vedrai. Mandamene, subito, un’altra. Intanto ti abbraccio. A Peirce scriverò fra due o tre giorni. Ti abbraccio. Saluta Peirce. Tuo ZA59  58 Cartolina postale, manoscritta, cit. È la lettera in cui Za mostra lo schema disegno/testo riprodotta nel precedente capitolo. Parentesi e sottolineature nell’originale. 59 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard / 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano 26 settembre 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

247 Movimento, movimento – più un intreccio, un fatto di cronaca e un finale a sopresa: ma questa è la sintesi del cinema neorealista, non certo i suggerimenti soliti di un letterato ad un giovane scrittore su come scrivere una novella. Insomma Zavattini sembra voler influenzare Bernari proprio per portarlo a quella sintesi neorealista che sta prendendo forma narrativa nella elaborazione teorica e formale di entrambi. E questa linea di “alta tensione” teorica comincia a fare scintille quando entra in campo il manoscritto di Tre operai che Bernari decide dunque di rivedere, prima di un’eventuale pubblicazione, seguendo alcuni suggerimenti di Zavattini che vanno appunto in direzione del suo incitamento: movimento, movimento.

Caro B., bravo, lavora con ardore, ne vale la pena. Sono certo che apporterai al manoscritto quei ritocchi che mi convinceranno a pubblicarlo. Coraggio – e pensa che io ho pensato subito a te – che, cioè, sei nel mio programma. Da ciò che mi dici credo fermamente nel tuo proficuo lavoro. Non aver fretta – un mese di più o di meno non conta. Ti abbraccio con Peirce, Tuo Za60

E Bernari si mette al lavoro per la stesura definitiva. Non deve essere mancato qualche accenno di insofferenza, di cui abbiamo riscontro solo da una risposta concisa di Za – che, ricordiamo, distrusse per paura di farsele trovare in casa dall’Ovra, la polizia fascista, quasi tutte le lettere di Bernari di questo periodo.

Caro Bernard, abbi pazienza e perdonami soprattutto queste cartoline affrettatissime. Ma sono giorni eccezionali per me. Dunque aspetta una mia lettera decisiva entro il mese61. E spero benissimo. Mi dispiace però che tu dici: il libro non è più quello... Io non ti avevo detto di cambiarlo, ma di togliere solo le pagine superflue. Ti abbraccio con Peirce, tuo Za (da una settimana cercavo il tuo indirizzo) Nella postilla verticale Zavattini aggiunge:

 60 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano” , indirizzata “Bernard / via Cesario Console 3 / Napoli” ,, data del timbro postale, già pubblicata in Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit., p. 221 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 61 Zavattini è in attesa della risposta di Rizzoli per inaugurare la collana de “I giovani” con Tre operai.

248 Soprattutto fai che il fatto sia più sensato ma se hai tolto, il ritmo sarà cresciuto naturalmente – Bene quell’umanizzazione – nel senso nostro, s’intende. – Sotto, sotto, sotto. Tuo Za.62

I rimorsi dello scrittore circa i tagli operati saranno archiviati dalla bella notizia che gli comunica Zavattini il 30 novembre di quello stesso anno, il 1933.

Caro Bernard, sono felice di dirti che inauguro la Collana Rizzoli con il tuo manoscritto.

Dopo alcuni chiarimenti organizzativi ed editoriali Za aggiunge suggerimenti per altre modifiche:

Spero che tu sia contento, caro Bernard. Guarda che ci sarà da togliere qualche parolina qua e là e inoltre mi permetterò di darti un consiglio, per due o tre pagine da inserire, ma ne riparleremo ampiamente quando ho pronte le bozze. Saluti a te e a Peirce63 tuo Zavattini 64

 62 Cartolina postale, manoscritta, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard / 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano 25. 11. 33, sottolineatura nell'originale, già pubblicata in Carlo Bernari, Tre operai, a cura di F. Bernardini, op. cit. p. 222 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 63 Nella lettera Zavattini sbaglia il nome scrivendo „Perce” invece di „Peirce” 64 Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard / via Cesario Console 3 / Napoli”, data del timbro postale, Milano 30 novembre 1933, già pubblicata in Cesare Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, op. cit. p. 34 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

249 Ma facciamo un passo indietro, di qualche mese appena, all’ottobre del 1933. Da un biglietto di Za senza data e privo di indirizzo postale possiamo determinare una circostanza fondamentale: Bernari sta già progettando una sceneggiatura – questo prima ancora di spedire il romanzo a Zavattini, in piena rielaborazione formale della versione definitiva.

Caro Bernard, grazie della tua lettera cordiale e auguri per il film65 e per il resto. Hai ragione i temi umani li prediligo. Certo che su questi temi bisognerebbe discorrere a lungo. Sono molto facili gli equivoci. Scrivimi quando credi. Io ti risponderò volentieri. Intanto saluti amichevoli Zavattini.66

Di quale film sta parlando Zavattini e perché risponde a Bernari sulla questione dei “temi umani”? Per chiarire bisogna compiere un ulteriore breve passo indietro, cioè al 3 agosto del 1933, quando Zavattini inizia una lettera67 a Bernari citando Mario Soldati: «Caro B. questa sera darò la cartolina a Soldati.» Non c’è bisogno di ricordare che Soldati, al ritorno dagli Stati Uniti nel 1931, inizia a lavorare con la Cines–Pittaluga, la realtà pù importante del cinema italiano. Il presidente della Cines Emilio Cecchi lo invoglia a scrivere soggetti, Soldati inizia così la carriera di sceneggiatore collaborando con Mario Camerini. Questi pochi cenni fanno capire che nel 1933 Soldati è ben introdotto nel mondo del cinema, nel quale il giovane Bernari chiede appunto a Zavattini di inserirlo. La missione riesce nel giro di qualche mese: «auguri per il film» gli scrive Za in risposta ad un probabile biglietto di ringraziamento, con l’aggiunta della nota «hai ragione i temi umani li prediligo». Le date e la questione dei “temi umani” fanno sì che si possa individuare ne I due sergenti di Enrico Guazzoni (dal romanzo omonimo di Paolo Lorenzini, nipote di Collodi, ispirato al dramma Les deux sergents di B. Daubigny e A. Maillard) il film di cui Bernari con Nunzio Malasomma inizia a scrivere la sceneggiatura – prima ancora di dare alle stampe il suo romanzo d’esordio di cui si sta cominciando appena a parlare con Zavattini.  65 La stessa espressione “auguri per il film” torna in una successiva lettera del dicembre 1935 in occasione del lancio imminente del film. 66 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 67 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano” , indirizzata “Bernard / via Quattro Fontane / 4 Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

250 I due sergenti esce nel 1936 ed è tra i primi film importanti di una “stella” del cinema italiano, Gino Cervi. La trama68 spiega da sè il riferimento ai “temi umani” con cui Bernari cerca di mettere le mani avanti per il contenuto abbastanza melò del soggetto, peraltro tratto da un romanzo del nipote dell'autore di Cuore. Da queste premesse si potrebbe dedurre che a Zavattini salti in mente l’idea di un film tratto da Tre operai. Ne accenna a Bernari in un momento difficile, è vero, quasi come una provocazione. Siamo nell’aprile del 1934: il veto fascista è appena calato sul romanzo fresco di stampa.

Caro Bernard, tu continui a mandarmi a dire che la cosa è appianata – ma io voglio dei fatti – e devi volerli anche tu. Sino a quando non sarà tolto il veto ai giornali, e ufficialmente, significa che tutto è come prima, con quel che segue [...] Caro Bernard, devi muoverti, se no ti freghi. Pensa quante belle cose si potrebbero fare, da un film, mettiamo, alle traduzioni (me lo hanno già chiesto in esame da Berlino). Invece ora si sta fermi con questa cappa di piombo [...]69

Pochi giorni dopo Zavattini torna sull’argomento del film ammettendo che è un pensiero che continua a frullargli in mente:

[...] Penso anch’io al tuo film. Aspetto solo l’occasione. Ora sono in un momento in cui lavoro come un asino, sono senza 100 lire quindi con poca visione chiara ma passerà e potenzieremo il successo al massimo [...]70

 68 (da Wikipedia) 1805. Martelli è un capitano dell'esercito francese che, fidatosi del suo sottoposto Duval, si ritrova derubato di un importante documento. Duval l'ha fatto per amore, raggirato dall'affascinante Maryline Gould. Martelli, per sapere dall'attendente di Duval dov'è il suo padrone, si fa passare per suo complice. La ricerca del reo si rivela vana, infatti Duval è stato fatto salire con l'inganno su una nave da Maryline. Martelli, ormai ricercato, si iscrive nell'armata italiana dell'esercito napoleonico sotto il falso nome di Guglielmo Salvoni, acquista il grado si sergente e fa amicizia con un suo pari grado, Roberto Magni. Passano gli anni. L'esercito napoleonico ha isolato un villaggio infestato dal vaiolo, ma i due sergenti, impietositi dalla sua storia, lasciano passare una donna. Vengono condannati alla fucilazione ma Salvoni, con un gesto coraggioso, e grazie alla devozione dell'amico, viene riabilitato dopo che il colpevole dell'atto spionistico per cui lui aveva perso i gradi ed era ricercato, si costituisce. L'imperatore, con un atto di clemenza, restituisce la libertà a lui insieme a quella del compagno. 69Lettera manoscritta, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, datata Milano aprile 1934, già pubblicata in ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit. p. 35 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 70 Lettera manoscritta, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, datata Milano aprile 1934, già pubblicata in ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit. p. 38 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

251 Zavattini sta dietro al progetto di un film da Tre operai che sembra concretizzarsi nel giro di poche settimane:

Caro Bernard, ti accludo una buona notizia. Ho chiesto 300 dollari, salvi restando i debiti per un’eventuale versione in film. Va bene? Siccome Rizzoli cede a me i diritti dell’editore, avrei diviso così: il 75% a te, il 25% a me (negli altri casi, cioè quando è l’editore che procura la traduzione, fanno metà e metà). Dimmi francamente cosa ne pensi. E anzi, autorizzarmi per l’avvenire a trattare in tuo nome. Questo affaretto credo possiamo considerarlo fatto. Però ci tireranno qui una cinquantina di dollari [...]71

Ma le cose non vanno sempre per il verso giusto. Così il 4 luglio Zavattini comunica che non ci sono trattative in corso:

Caro B., niente di nuovo. Che si siano spaventati per i trecento dollari? A ogni modo, risponderanno, so che scrivesti a Rizzoli. E mi spiacque. Perché dimostrasti di non credere che io avevo già fatto direttamente tutto il possibile e forse qualche cosa di più. Mi costringi a dire ciò che non volevo. M’impegnai a fondo. Insistei ed ebbi anche l’appoggio di Andrea [Rizzoli, ndr]. Ma non fu possibile [...] 72

Il sapore di un altro fallimento Za lo assapora in quei giorni per un altro suo progetto finito in malora, come comunica amareggiato a Bernari:

[...] Ciao, stavo combinando per venire a Roma per un film, pareva tutto deciso: poi all’ultimo momento si sono accorti che il mio soggetto era proprio bello. E allora tutto andò in aria. Maledizione. 73

Si tratta del soggetto cinematografico Buoni per un giorno scritto da Za insieme con G. Mondaini. Zavattini pensa subito di proporlo a Bernari per la pubblicazione su «Quadrivio»: 74

 71 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., dal contesto riconducibile al periodo della lettera precedentemente citata (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 72 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, indirizzata “Bernard / Quattro Fontane 4 / Roma”, inedita, data del timbro postale 4 luglio 1934, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 73 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d. (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 74 Il settimanale esce tra il 1933 al 1941 e va considerato come uno dei portavoce della cultura

252

[...] Caro B. credo che presto proporrò a Interlandi di pubblicare il mio soggetto cinematografico. Ora è in mano di certi produttori romani, appena me lo rimandano, io lo guardo da un punto di vista letterario poi ve lo mando. Potrebbe essere un’iniziativa curiosa nuova senz’altro. 75

Il 31 luglio 1934 arriva l’immediata risposta di Bernari al “Carissimo Cesare” che in questo caso è confortata dall’originale:

[...] Qui si attende il tuo soggetto. Quando lo mandi? Cerca di inviarcelo al più presto. Non negarmelo. Saluti a tutti in redazione. Grazie a Monicelli ringrazialo, tu credimi sempre il tuo Carlo Bernard76 .

Bernari nomina per la prima volta Mario Monicelli: è la testimonianza, che si aggiunge ai rapporti precedenti con Soldati e all’attività cinematografica già avviata da Bernari e Za nei primi anni Trenta, che si stanno stabilendo sinergie profonde, tanto da non poter distinguere il cineasta dal letterato, lo scrittore dallo sceneggiatore. Monicelli, che troveremo un lustro dopo nella redazione di «Tempo» diretta da Bernari, del resto si rende subito utile alla “causa” comune, come fa cenno Za a Bernari pochi giorni dopo:

Caro Bernard, parte in questo momento il biglietto di Monicelli per De Pino. Credo che De Pino si interesserà della cosa dati i suoi rapporti con noi. Tu scrivigli due righe dicendogli dove può pescarti all’occorrenza. Monicelli gli ha dato due indirizzi: le Fontane 4 e Quadrivio [...] 77

 ufficiale, tant'è vero che le annate sono computate secondo il calendario fascista. Diretto da Telesio Interlandi ha come redattore capo fino al 1934 Vitaliano Brancati. Tra i collaboratori troviamo Giovanni Gentile e Italo Balbo, ma anche una fitta schiera di intellettuali che dimostrano la compromissione con il regime, basata sulla fittizia divisione tra la sfera politica e quella artistica– letteraria.Vi fanno il loro esordio letterario, tra gli altri, Francesco Jovine, Carlo Bernari e Alberto Moravia. Per quanto riguarda le vicende artistiche è notevole la rubrica tenuta da Roberto Melli nel corso degli anni Trenta. In netto anticipo rispetto alle leggi razziali, «Quadrivio» inizia già nel 1934 una campagna antiebraica, che dopo il 1938 verrà sostenuta anche da due testate affini, «Tevere» e «La Difesa della razza», con toni molto aspri che vedono Interlandi e il giornalista Giuseppe Pensabene in prima linea contro qualsiasi forma di internazionalismo nell'arte e nella cultura. 75 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 76 Lettera manoscritta, autografa su carta intestata «Quadrivio grende settimanale letterario illustrato di Roma», inedita, datata 31/7/34, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).  77 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

253 Bernari si fa comunque paladino in redazione del soggetto cinematografico– letterario dell’amico, al quale comunica con grande soddisfazione il 28 agosto del 1934:

Caro Zavattini, il tuo soggetto è stato un successo. Tutti qui in redazione lo abbiamo letto e ci è piaciuto. Se ne potrebbe fare un gran film... che se i produttori italiani fossero un po’ più intelligenti. Ma .... siamo alle solite. Spero di non essere incappato in grossi errori di testa. Ma come avrai notato è sfuggito in tipografia il Copryragt (inglese erroneo nell’originale, ndr.) il copione lo avevo segnato in calce al dattiloscritto. Perdonami. Se vuoi Chiarini78 mi ha detto che si può inserire un avviso nel prossimo numero, come errata corige[...]79

 78 Luigi Chiarini (1900–1975) nel 1935 fonda il centro sperimentale di cinema. 79 Lettera manoscritta, autografa su carta intestata “Quadrivio grande settimanale letterario illustrato di Roma”, inedita, datata 28/8/34, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

254 Il soggetto cinematografico Buoni per un giorno, in una versione narrativa che potremmo definire “treatment”, esce su «Quadrivio» del 19 agosto 1934, (II, n. 43 fino al n. 45). Il ringraziamento di Za è sincero e in parte autocritico, ma solo, naturalmente, in previsione di una realizzazione filmica. È interessante notare che, in questo caso, non siamo nel campo di una riscrittura dal cinema alla narrativa o viceversa dalla prosa alla sceneggiatura, come i precedenti di Verga, Pirandello, D’Annunzio; bensì di una forma nuova di scrittura che trapassi la superficie letteraria per appuntarvi le immagini con l’ago di uno speciale filo narrativo.

Caro B., grazie di tutto. Sono lieto che sia piaciuto. Ma vi sono tanti difetti. Non l’ho più toccato perché va riveduto solo in ragione dell’interprete, del regista e di tante altre cose pratiche. Solo in caso di realizzazione vi rimetteremo le mani, cioè nuove trovate e un maggior equilibrio dando poi alla parte satirica (la società buona provvis.) più sviluppo ecc. ecc. [...] 80

Il cinema naturalmente non è solo una forma di espressione artistica per i due scrittori, è anche un modo per guadagnarsi la pagnotta. Mi sovviene che a casa nostra bisognava sempre appuntarsi i nomi di coloro che telefonavano in assenza di mio padre, e guai a lasciar squillare l’apparecchio a vuoto: può essere sempre un produttore che cerca un’idea o uno sceneggiatore disponibile, e se non ti trovano passano al prossimo! Che si tratti di una condizione esistenziale di ogni tempo per lo scrittore è confermato da Zavattini che, torniamo al 1934, scrive all’amico che non nuota nell’oro, ma che per fortuna ha il cinema a dargli una mano:

Caro B., ottime cose dici di me ma la verità è questa: che di giorno in giorno speravo di darti buone nuove invece quattrini niente: Parrini ti scriverà entro 24–48 ore in merito ai conti e vedrai come ci sia da star poco allegri. I conti li abbiamo potuti avere solo adesso. Posso dirti che risultano vendute circa 1300 copie! Con Rizzoli non c’è niente da fare perché proprio in questi giorni ha mandato in aria anche la realizzazione del mio film (ha comperato due soggetti da me, quello

 80 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Carlo Bernard / presso Quadrivio / Piazza di Spagna 66 / Roma” , data del timbro postale non leggibile, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

255 “Buoni per un giorno” 81 e un altro fatto in collaborazione con Andrea82). Ora dice che bisogna andare ai giornali, fare economia, ecc. Non c’è che la speranza in un cambiamento. Forse verrò a Roma in settimana e parleremo tranquillamente, mi auguro. Io ho molti debiti, caro B., con te. Ma sono stati due mesi sconvolgenti. Ci fu un momento in cui stavo dichiarando fallimento. Ma venne l’acquisto dei soggetti (10.000) e mi salva. Ora spero in un altro colpetto perché ho altre 10.000 lire di debiti abbastanza urgenti [...] 83

La “botta di vita” rende euforico Zavattini che annuncia all’amico grandi sorprese nell’immediato futuro:

Caro B., sono qui alla carretta, come una volta. Ma entro un mese, te lo dico in gran confidenza, o due mesi al massimo credo che avverrà nella mia vita qualche importante cambiamento. Te ne scriverò. Venni via da Roma al volo, male, per le ragioni che sai e salutai solo quei due o tre che vidi per la strada. Com’ero amareggiato! Ma ora sono sereno e felice di aver fatto una tanto dura esperienza. Solo così si va avanti. Ero nel campo cinemat.[ografico] voglio cambiare [...]84

Za è in questo caso enigmatico e stranamente – per il suo carattere proverbialmente euforico – avvilito. La sua partenza in sordina da Roma senza neppure salutare gli amici è il preludio di un lungo sfogo successivo sulle sue condizioni economiche, sulla irriconoscenza degli altri eccetera. Ma vuole davvero lasciare il cinema, oppure la laconicità della lettera è frutto più di uno stato d’animo tumultuoso che di una scelta ponderata? Quindi la decisione così impulsiva sarà presto contraddetta? La risposta arriva a Bernari con la prima lettera di Za nel nuovo anno, il 1935:

[...] Film. In questi giorni sto alla vigilia di qualche cosa: credo che alla fine del mese saprò il mio destino cinematografico. Ma il destino lo aiuterò io: voglio fare il regista. Sono riuscito sino ad ora in quasi tutto ciò che volevo – credo di essere stato saggio a volere ciò che  81 Scritto con G. Mondani verrà comprato da Rizzoli in qualità di produttore (“Novella Film”); il film diverrà Darò un milione di Mario Camerini nel 1935. 82 Con Andrea Rizzoli scrive il soggetto cinematografico Cinque poveri in automobile, acquistato da Rizzoli ma realizzato soltanto nel 1952 da un altro produttore e diretto da Mario Mattòli. 83 Lettera manoscritta autografa, carta intestata “Premio della notte di Natale”, inedita, data del timbro postale non leggibile, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 84 Lettera manoscritta, inedita, autografa, data del timbro postale non leggibile, nella parte finale il foglio risulta strappato (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

256 potevo. Sono felice di ciò che le persone intelligenti hanno detto del film. Che cosa si sarebbe potuto fare! 85

Dunque Za cova l’idea di passare dietro la macchina da presa. Una decisione che prende perché vede il suo lavoro preparatorio, di scrittura, parzialmente sprecato e comunque per accorciare i tempi nella filiera produttiva cinematografica che gli dà costantemente filo da torcere.

Canzo, Villa Magni (Grimello) 1935 Caro Bernard, da tre mesi non so più bene cosa accade intorno a me. Questo film, unito al solito lavoro dei giornali, sempre più improbo per varie ragioni, mi fa girare la testa.86

Qualche giorno dopo, da Milano in data 27 gennaio '36, Za torna sui dubbi circa le collaborazioni coi cineasti in circolazione e si informa su una notizia che fa eco al successo de I due sergenti bene accolto dalla critica:

Ho fatto un soggetto comico che mi pare riuscito ma a chi capiterà in mano? Ora sto occupandomi con Perilli di una sceneggiatura del libro sportivo di De Martino La danza delle lancette87. Un mese di lavoro bestiale. E tu? È vero che sceneggi i Castigliani? Ne sono felice. Con Amati si può osare.88

In verità non si tratta de I Castigliani ma de I fratelli Castiglioni, con Amedeo Nazzari e prodotto dalla Giuseppe Amato Film (non Amati come riporta erroneamente Za). La storia sembra congeniale a Bernari, anche perché pare una commedia di Eduardo De Filippo. In breve: gli eredi di un ricco possidente sanno che costui era tra l'altro possessore di un biglietto di lotteria che è risultato vincente. Le affannose e gelose ricerche del prezioso talloncino si spingono fin nella tomba del defunto, che gli eredi non esitano a profanare, per impossessarsi del biglietto. Quando  85 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C.. anonima per l’arte della stampa, Milano”, datata 1935, già pubblicata in Cesare Zavattini “Una, cento, mille lettere”, a cura di S. Cirillo, cit. p. 38 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 86 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Carlo Bernard / presso Quadrivio / Piazza di Spagna, 66 / Roma”, data del timbro postale, Canzo, Villa Magni (Grimello) 1935, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 87 La danza delle lancette – regia: Mario Baffico, agosto 1936. B.M. Società cinematografica, Milano. 88 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C.. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “C. Bernard / Largo del Tritone 7 / Roma”, inedita, datata 27 gennaio 36, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

257 sta per scadere il termine utile alla riscossione del premio si viene a sapere che esso è stato incassato dal notaio del ricco testatore che lo aveva destinato al figlio naturale di una sua nipote. È di tutta evidenza che De Filippo trae proprio da questa storia ispirazione per Non ti pago del 1940, il che dimostra – ancora una volta – le osmosi e i passaggi dalla letteratura al cinema e al teatro di cui lo stesso Eduardo sarà con Bernari tra i protagonisti. Passata la bufera politica e ideologia su Tre operai, siamo nel 1936, rallenta l’ostracismo del regime che pare ignorare Bernari o comunque, per volere di Ciano e di Bottai, non vuole insistere su atteggiamenti censori o repressivi, per le ragioni già ampiamente esposte. Così, all’indomani del successo de I due sergenti, il nome del giovane scrittore e sceneggiatore napoletano torna alla ribalta. Per questo Zavattini lancia un sasso nello stagno cercando di informarsi se può piazzare qualche idea:

Hai un produttore tra le mani? Se vuole un soggetto... ma ci sono molti ma... io non lavorerei brutalmente, cioè per vendere un soggetto e stop. Insomma dipende. E la tua collaborazione mi sarà sempre gradita. 89

La risposta a questa sollecitazione – Za ha problemi economici e chiedere a Bernari se abbia un produttore per le mani, figuriamoci, è una richiesta un po’ disperata – nasce da un malinteso. Infatti Bernari deduce che Zavattini si stia mettendo a disposizione per lavorare insieme a un soggetto, – mentre Zavattini vuole invece vendere i suoi di soggetti. Bernari dà a Zavattini qualche idea per una possibile collaborazione: questa ricostruzione è resa plausibile dalla successiva lettera, sempre in data 1936, di Za che precisa all’amico troncando le speranze sul nascere:

Cinema: grazie, caro B., della tua offerta, ora sono impegnato fin sopra ai capelli e non faccio che rifiutare sceneggiature, ecc. Sto combinandone una da fare con calma. Un mio soggetto comico è in giro (La casa dei tic nervosi). Qualcuno lo acquisterà. Spero che lavoreremo insieme qualche volta. Il cinema mi interessa sempre sommamente e credo di potervi fare qualcosa di buono. Scrivimi in via Fucini 3 e scrivimi spesso. Ti abbraccio tuo ZA.90

 89 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa”, inedita, datata 1936, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 90 Lettera, manoscritta, autografa, indirizzata a “Carlo Bernard, via dei Maroniti 7 / Roma”, inedita, datata 1936 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

258 Insomma Zavattini dopo aver chiesto al giovane amico qualche entratura nelle produzioni, sostegno che Bernari non può proprio dargli, prosegue per la sua strada. Del resto la ricerca di Zavattini di un regista vero capace di valorizzare le sue idee e intuizioni cinematografiche, ma anche di dare un contributo produttivo, durerà circa un anno, fino al 4 luglio 1938, quando comunica a Bernari un fatto apparentemente insignificante ma di una grande rilevanza per la storia del cinema:

[...] sono stato a Roma la giornata di mercoledì arrivando la mattina e partendo la sera e immagina chi ho visto chi ho incontrato per caso (sono venuto per cinema). Ti abbraccio e ti faccio i migliori auguri. TUO ZA (Cesare Zavattini) .91

Non ci vuol molto ad intuire che a Roma, dove è venuto per cinema e dove si ferma un giorno solo, ha incontrato – anzi ha preso il treno per questo – il personaggio che sarà determinante nella sua carriera artistica e nella storia del cinema italiano: Vittorio De Sica. Un nome che Za non ha neppure bisogno di nominare a Bernari, che probabilmente intuisce subito chi si agita dietro il sipario. Del resto, per smuovere Zavattini da Milano per una scappata di un solo giorno a Roma, ci voleva una buona ragione. E comunque Zavattini incontra quotidianamente tante persone importanti, chi poteva essere questo personaggio misterioso, se non lui, il grande attore orami sulla bocca di tutti e in rapida ascesa verso le vette del successo? De Sica nel 1938 ha già sfondato in cinema da alcuni anni, il primo grande exploit popolare era arrivato con Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini del 1932. In effetti De Sica, al tempo del primo incontro professionale con Zavattini (quello avvenuto a Roma ai primi di luglio del 1938 è un vero e proprio atto di nascita del binomio che determinerà le sorti artistiche del neorealismo italiano), sta progettando, da attore, quello stesso passo verso la direzione filmica che, da autore, Zavattini aveva in mente. E De Sica realizza il passaggio dietro la macchina da presa nel 1939 con Rose scarlatte, sotto l’egida di un potente produttore dell’epoca – proprio quel Giuliano Amato già produttore de I fratelli Castiglione di cui poco tempo prima Zavattini aveva chiesto notizie a Bernari. De Sica e Zavattini si misero comunque subito al

 91 Lettera dattiloscritta, firma e correzioni manoscritte, carta intestata “Anonima Periodici Italiani, Milano” indirizzata a “Pre.mo Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma” , inedita, datata 4 luglio 1938, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

259 lavoro e nonostante lo scoppio della guerra riuscirono a realizzare il loro primo film nel 1943: I bambini ci guardano (tratto dal romanzo Pricò di Giulio Cesare Viola). La collaborazione con De Sica impedì o rese superflua la collaborazione con Bernari sul piano cinematografico, con un’unica importante eccezione (una sceneggiatura scritta insieme e rimasta nel cassetto, della quale ci occuperemo tra poco). Così si spiega comunque la brusca marcia indietro, commentata nella pagina precedente, di Zavattini che, dopo aver agganciato De Sica, sa di aver trovato finalmente l’interlocutore e realizzatore ideale. De Sica è un maestro delle riprese, ma non ha alcuna vocazione narrativa, tantomeno letteraria: rappresenta l’occhio (critico) di Zavattini. Non entriamo nella delicata questione del rapporto tra i due, c’è solo da ammettere che mentre Bernari rappresentava per Za una forma di concorrenzialità artistica – entrambi erano narratori, soggettisti e sceneggiatori – con De Sica la rivalità e la latente competizione rifluivano automaticamente nell’alveo di una reciproca compensazione e di uno scambievole sostegno. Bernari era dunque tagliato fuori dal cinema di Zavattini: ecco dunque che le influenze, le contaminazioni e le sinergie fino ad allora cercate, provocate e in parte realizzate (la favola realistica di Tre operai è giocoforza il punto di partenza del neorealismo fantastico di Za), d’improvviso danno luogo ad un allontanamento, non certo umano né di amicizia e stima, ma esclusivamente cinematografico del loro percorso. In questo modo trova spiegazione– negli anni Sessanta – il rifiuto di Bernari di collaborare con Zavattini per il film a episodi prima citato. Un rifiuto, qui sta il nodo della questione, che pare pure una rivalsa, un rendere pan per focaccia all’amico che qualche anno prima si era reso protagonista di un rifiuto alla collaborazione altrettanto bruciante per Bernari. Un rifiuto che nasconde però un piccolo da giallo su cui è bene investigare subito. Premetto, a scanso di equivoci, che questa ricostruzione di un episodio risalente al 1951–1952 non vuole alludere assolutamente ad alcuna forma di ipocrisia da parte dei personaggi coinvolti, soprattutto Zavattini, di cui conosco personalmente la fedeltà granitica ai principi dell’amicizia, della lealtà e della solidarietà. Capita del resto nel grande circo equestre del cinema che la giostra dei nomi, spesso degli stessi progetti, cambi le carte in tavola, rovesciando il tavolo stesso o modificando la disposizione dei commensali.

260 Questi i fatti. Alla metà del 1951 Carlo Bernari viene chiamato dal produttore Alfredo Guarini all’elaborazione di un soggetto per un film di Giuseppe De Santis. Collaboratori alla sceneggiatura, oltre a Bernari, sono il grande sceneggiatore del nascente cinema della “Commedia all’Italiana” Rodolfo Sonego, e lo scrittore Felice Chilanti – che ha seguito la strada di diversi intellettuali italiani passati dal fascismo della “prima ora” all’antifascismo militante. Bernari insiste che partecipi ai lavori di scrittura del film anche Cesare Zavattini che però, come si dice nel gergo romanesco di Cinecittà, “dà buca”. Bernari si meraviglia e gli scrive di fretta e furia:

Carissimo Cesare mi è stata data ieri una notizia assai dolorosa: e ossia che tu non parteciperai al film di Guarini. Perché? È vero che il tuo da fare è tanto: ma è mai possibile che tu non riesca a trovare quindici pomeriggi, nel corso di dicembre, da poter dedicare al film e discutere il soggetto eventuale e l’eventuale materiale d’ambiente che può risultare dall’inchiesta? Fin dal primo momento Guarini e De Santis mi dissero che tu – durante la tua cura ad Ischia – avresti potuto rivedere e concordare le nostre proposte. E allora io proposi di andare a Napoli a scrivere, in modo che si potesse raggiungere Ischia facilmente per sottoporti il materiale elaborato e quello da elaborare. Perché è andato a monte questo progetto? Perché forse essendo stato

261 a Luzzara non andrai più ad Ischia? E che importa? Staremo a Roma e limiteremo l’inchiesta a Napoli al puro tempo necessario per condurla avanti. Ho saputo che si dovrebbe partire entro il 3, forse il 2, al massimo. Perché non cerchi di essere a Roma per quel tempo? Sarebbe meraviglioso che tu abbandonassi il tuo riposo (ma è riposo?) e te ne venissi con noi. La tua fatica sarebbe solo quella di vedere e di leggere qualcosa, un modo anche per distrarti. Insomma, caro Za, tu devi esserci! Perché ho l’impressione (da quel poco che ho potuto capire e da quel poco che ho potuto contribuire a portare nel film) che si tratterà di una cosa che non ti farà sfigurare. (1) (forse una tua assenza invece potrà generare…) [in nota nel testo, ndr.). Io mi fermo fino a sabato mattina 27 all’albergo Inghilterra. Da domenica al giorno della partenza sarò a Milano, dove puoi scrivermi o telefonarmi. Saluti cari ai tuoi a te un abbraccio tuo Carlo [segue indirizzo Albergo Inghilterra e quello di Bernari a Milano92, ndr.]93

La risposta di Zavattini arriva nel giro di pochi giorni. Ma della lettera esistono due versioni. Quella che perviene a Bernari è diversa dall’originale: manca tutto un brano. E nel brano mancante c’è in parte la soluzione del giallo. La prima versione, datata Roma. 9 novembre 1951, è questa: Nel rileggerla Zavattini si accorge di aver esagerato, cancella alcuni passaggi e ribatte la lettera a macchina. Questa del giorno dopo, cioè del 10 novembre, è la versione definitiva94:



92 Bernari vive fino al 1952 a Milano dove collabora al quotidiano «Momento Sera», si trasferisce a Roma per seguire da vicino il mondo del cinema alla fine del 1952. 93 Lettera manoscritta, con numerose correzioni e note, busta mancante, inedita, datata a penna rossa 51 probabilmente dallo stesso Zavattini che la archivia (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). 94 Lettera dattiloscritta in due versioni, autografe, entrambe con numerose correzioni manoscritte, portano la data Roma, 9 nov. 1951 e Roma 10 nov. 1951, entrambe inedite, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

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A parte la chiusa tipicamente zavattiniana “il resto è nelle mani del Signore (1) [nota inserita a mano nel testo originale, ndr.] di cui non so darti più ampia notizia” e i saluti di Olga Zavattini a mia madre e ai miei fratelli (io non ero ancora

264 nato), il testo presenta pochi cambiamenti rilevanti tranne, come dicevamo, il brano che viene cassato. E se Zavattini ha tempo da perdere a riscrivere una lunga lettera all’amico con cui è in fitta corrispondenza e confidenza da decenni, vorrà dire che è proprio in quelle frasi cancellate che si annida il nocciolo della questione. Il periodo cancellato è questo:

Io poi devo aggiungere che non sto neanche più volentieri nei lavori in collaborazione. Quel poco di buono che ho fatto, l’ho fatto sempre quando ho potuto comandare, essere il despota, addirittura, del testo. D’ora in avanti farò soltanto due films all’anno e me li curerò in ogni più piccola vite. Ma ora sto uscendo dal seminato .

Insomma Zavattini si è lasciato andare ad una confessione che riguarda i rapporti con Bernari, col quale ritiene difficile la convivenza in sede di collaborazione ad una sceneggiatura. Del resto, non avrebbe nessuna difficoltà a collaborare con Sonego, che da eccellente “scriptwriter” professionista lavora su commissione e sotto la guida di un regista, in questo caso De Santis – che a sua volta non nutre velleità narrative tali che possano minacciare il trono di Za. Lo stesso produttore Guarini è un pezzo di pane e l’altro scrittore al seguito, Chilanti, è poco più di un mestierante incapace di contrastare o di contendere l’autorità cinematografica di Zavattini. Ma con Bernari presente, cambia il discorso. Con Bernari, Za deve confrontarsi, mediare, magari in qualche caso cambiare idea, mettersi al servizio. Nel suo accorato, quanto ingenuo appello all’amico, Bernari tenta proprio di ovviare al (ri)sentimento autoriale – da despota, addirittura, del testo, come si legge nella prima versione della missiva – di Zavattini, scrivendogli: sono disposto a sottostare alla tua autorità pur di realizzare il progetto. Il quale senza la partecipazione di Za avrebbe avuto poche possibilità di riuscita commerciale. Ma Zavattini nicchia, si lascia desiderare e alla fine si ritira. ll vero problema non è rappresentato dagli impegni, o dagli altri artefici e collaboratori dell’operazione, bensì proprio lui, l’amico di vecchia data, l’autore di Tre operai scoperto e lanciato proprio da Za. Il quale, allora, inconsciamente percepisce di essersi rivelato e sbottonato troppo, torna indietro, cancella, salvando solo il bellissimo ricordo di Tre operai di cui ha appena ricevuto una copia fresca di stampa nella prima riedizione del dopoguerra nella “Medusa degli Italiani” della Mondadori. Come a dire all’amico: tu per me sei – e resti – quello del 1934.

265 La prova del nove di questa ipotesi è fornita dalla constatazione che Zavattini non ha – altrimenti – nessuna difficoltà a collaborare, proprio tra il 1951 e il 1953, con Guarini, De Santis e Sonego. Scrive infatti la sceneggiatura di due film: Roma ore 11 del 1952 (diretto da De Santis, sceneggiatura dello stesso De Santis, Zavattini, Sonego e altri) e la sceneggiatura del secondo episodio con Alida Valli di Siamo donne del 1953, prodotto da Alfredo Guarini per la Titanus film. Nella lettera, sia nella prima che nella versione definitiva, Zavattini era stato chiaro con l’amico Bernari:

voi siete una troupe come meglio non potrebbe esserci e farete un magnifico copione anche senza il sottoscritto. Guarini è un ottimo produttore da tutti i punti di vista, De Santis fa dei passi da gigante, e voi tre, tu Sonego e Chilanti, avete del talento da vendere.

Parole chiare e sincere, soprattutto amichevoli e di riguardo. Al che si potrebbe dedurre che Za stia semplicemente asserendo che la sua presenza e partecipazione potrebbero essere più di impiccio che fattiva. Ma resta da chiarire l’incipit abbastanza oscuro della missiva, una sorta di messaggio come a dire: a buon intenditor... Con chi se la sta prendendo Zavattini quando scrive nelle prime righe, che poi trascrive anche nella versione originale del giorno dopo, quella che potremmo definire “a mente fredda”?

Scusami se non risposi subito alla tua affettuosissima lettera che ricevetti intorno alle 2095 a Chianciano non risposi volutamente. Ero troppo imbarazzato nei confronti di questa impresa96 per ragioni che ti dirò; ragioni [piuttosto] gravi forse solo per la mia maniera di giudicare i diritti e i doveri dell’amicizia. Ma mi accorgo di diventare sempre più antiquato in questa partita, caro Carlo. Non parliamone più.

E invece parliamone. Con chi ce l’ha Cesare? Non certo con Bernari, dal quale ha ricevuto appena una lettera piena di riguardi e di considerazione... a proposito, la lettera di Bernari forse è addirittura troppo sincera: i due amici sono soliti dirsele schiette e in faccia, senza peli sulla lingua o salamelecchi. Ci sarebbe da giocarsi il

 95 Ma il giorno prima aveva scritto «regolarmente a Chianciano», senza specificare l’ora che invece aggiunge qui con un certo formalismo, ndr. 96 L’espressione “questa impresa” viene cancellata e inserita invece la frase «del film dei tre porti», correzione manoscritta, ndr.)

266 cappello che l’idea del film “dei tre porti”, che Za chiaramente irritato nella prima bozza non vuole nemmeno nominare e che poi aggiunge per essere franco, nasca da una sua idea, da un suo soggetto – all’insaputa di Bernari, che altrimenti mai si sarebbe messo in concorrenza col suo carissimo amico al quale è comunque sinceramente legato da affetto, stima, amicizia. Né si sarebbe abbassato per tutto l’oro del mondo ad un plagio. Così Zavattini ci mette una notte a digerire il rospo, ma soprattutto a capire che Bernari, l’amico Carlo, con la fregatura non c’entra niente. E che viene mandato avanti, con tutta la sua sincerità, a recuperare Zavattini nel progetto, a non perderlo per strada mettendoselo persino contro. Chi frequenta il mondo del cinema sa che questi rapporti sono all’ordine del giorno, che le idee passano di mano in mano e di bocca in bocca. Al proposito mi permetto una breve digressione. Fin da ragazzino, nei primi anni Sessanta, seguivo mio padre e mia madre a cena fuori: ero piccolo per restare solo a casa e per le “tate” non vi era possibilità economica. Si tenga presente che andare a cena fuori, al tempo, era un obbligo professionale. La maggior parte degli incontri, dei progetti e dello scambio di progetti avveniva davanti ad un piatto di tagliatelle. Ad esempio, quando mio padre voleva incontrare la schiva , si andava a cena dal “Calabro” alla Penna d’Oca, nell’omonimo vicoletto tra piazza del Popolo e via Ripetta. Per incontrare i giornalisti (Alberto Ronchey, Antonio Ghirelli, Giuseppe Fiori, Antonio Debenedetti e altri) la tappa d’obbligo era la “Fiaschetteria Beltramme” in una traversa di via del Corso. Lì cucinavano una splendida “paglia e fieno”, carciofi alla giudìa, petto di vitello “alla fornara” con patate. Fellini lo si “beccava” alle cinque per l’aperitivo al tavolino di Canova, perché il Maestro abitava in via Margutta. Poi c’era il giro dei pittori e degli sceneggiatori che si incontravano al ristorante die “Fratelli Menghi” a Piazzale Flaminio, accanto al cinema Arlecchino (ora non esistono più né il ristorante né il cinema).97 Le tavolate erano spesso aperte: soprattutto da Menghi

 97 Quando morì l’ultimo titolare del ristorante die Fratelli Menghi, gli eredi decisero di cessare l’attività perché c’erano numerosi debiti da saldare ai fornitori. Gli eredi presero così a lamentarsi della figura paterna, perché quel “povero fesso non si faceva mai pagare da questi pidocchiosi”. In effetti, a quei tempi la creatività non andava di pari passo – soprattutto nell’arte figurativa – col successo commerciale. Così i pittori accumulavano debiti ingenti, per pranzi e cene, col vecchio Menghi che bonariamente – e, come poi si appurò, astutamente – accettava quadri in pagamento. Le pareti del ristorante erano impressionanti, tappezzate interamente di quadri, figurarsi! in trent’anni di attività ne erano passati di “imbrattatele” (così gli eredi): dai pittori della Scuola Romana a Dorazio passando per Kounellis e tanti altri. E che quadri! Quando mio padre suggerì agli eredi Menghi, che non erano assolutamente al corrente del capitale artistico che si era maturato nel tempo sulle mura del loro ristorante, di farseli valutare, quasi presero un infarto: si trattava, alla fine degli anni Settanta, di

267 dove capitavano De Sica, Zavattini, Fellini stesso con la Masina, Flajano, Germi e poi produttori, sceneggiatori, registi di cui sarebbe troppo lungo fare l’elenco. Si mangiava su tovaglie di carta che servivano da canovacci per buttare giù idee, soggetti, disegni, bozzetti, scenografie e quant’altro. Possibile che un tovagliolo con un’idea di Zavattini, che magari porta ancora l’impronta delle labbra di mio padre o mie, sia passato di mano in mano diffondendo l’idea senza rivelare chi ne fosse l’autore. Può darsi quindi che l’arroccamento, l’indurimento di Zavattini nei confronti della “troupe del film dei Tre Ponti” sia stato provocato da un malinteso o da una dimenticanza involontaria. Di qui il tentativo, affidato alla penna di Bernari, di saldare il debito di riconoscenza verso Zavattini – e naturalmente di riportarlo nel cast. Za però ha due calli dolorosi: il primo, è che non vuole la riconoscenza di nessuno e non vuole essere interpellato perché ci si sveglia con la coscienza sporca nei suoi confronti. L’altro, forse ancor più doloroso perché non del tutto portato alla coscienza, nasce dalla difficoltà di raccordarsi al lavoro di uno scrittore altrettanto centrale e accentrante come Bernari. Naturalmente il lambrusco del ristorante Menghi lavava via alla fine ogni macchia di inimicizia. Ci si trovava nuovamente a tavola, si ristabilivano amicizie e, tra una forchetta di carbonara e un sorso di vino, si ripartiva da zero verso nuovi progetti.

 svariate centinaia di milioni! Così le piccinerie nei confronti del padre morto, il “povero fesso”, si trasformarono in osanna.

268 Un certo “Fanelli” (Farinelli).

Prima di presentare i tentativi di collaborazione in fase di sceneggiatura tra Bernari e Zavattini, collaborazione effettivamente cercata più dallo scrittore napoletano che da colui che lo aveva lanciato nel mondo letterario, bisogna introdurre un personaggio che appare di sfuggita nel carteggio, ma che invece ha avuto nella vita professionale di entrambi, e in quella familiare nel caso di Bernari, un ruolo tutt’altro che indifferente. Si tratta di Romualdo Farinelli, al quale nel 1968 Bernari dedica una poesia1 poi pubblicata nel 1977 nella raccolta 26 cose in versi.

“Gubbio (a Farinelli)”

Risalgo il tuo silenzio estivo e maledico il mio passo che irrita l’attesa di una bottega aperta allo stupore degli anni.

Affanno e vento avvolgono i cantoni patinando la pietra nell’opaca trasparenza d’un remoto alabastro. Follia di strade s’impennano, contrada su contrada, nel frastuono di corse impavide o d’infantili scarrocci allo scoccare delle balestre in gara.

La breve poesia si intitola Gubbio ed è appunto dedicata a Farinelli per un motivo assai semplice: Romualdo, con la moglie Ebe e i figli Massimo, Fabrizio e Michetta, abitavano a Perugia, dove il capofamiglia aveva intrapreso l’attività di distributore cinematografico e di gestore di alcune sale sia in Umbria che nel Lazio. Romualdo, che cadde in disgrazia nei primi anni Ottanta per la crisi di pubblico, e per alcuni investimenti in campo cinema-tografico che si rivelarono azzardati, finì la sua vita ultraottantenne, felice – coma amava ripetere – ma in povertà estrema. Per altro utilizzò gli ultimi anni di vita (morì nel 1986 a ottantadue anni) per laurerarsi – era il  1 BERNARI CARLO, 26 cose in versi, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1977, p. 47.

269 suo sogno – in letteratura italiana all’Università di Perugia; e ancora oggi gli appartiene il record del più anziano laureato nella storia italiana. In precedenza era stato, se non ricchissimo, assai benestante: e non aveva mai mancato di dare sostegno e aiuto, sotto forma di prestiti, ospitalità eccetera, a Bernari, quando questi se la passava male. Andavamo a trovare la famiglia Farinelli a Perugia almeno una volta al mese e per me era una gioia: Romualdo era un simpaticone, un uomo all’antica con i baffi alla ciclista, elegantemente vestito, con tanto di farfallino al collo, ma sempre allegro e divertente. Come allegra e spensierata era la moglie Ebe, una veneta, specializzata nel cucinare “riso e bisi” (riso e piselli), che andava d’accordo con mia madre. Fare gite e scampagnate a Perugia rappresentava per me una “tombola”: cinema gratis in una delle tre sale di proprietà di Romualdo, una scappata alle giostre della Città dei Ragazzi di Perugia, ore di gioco con Michetta, la figlia di Romualdo, che ha circa la mia età, nel giardino della villa alle porte del capoluogo umbro, e poi una cena coi fiocchi servita in guanti bianchi da un maggiordomo. Ogni quindici giorni Romualdo ed Ebe col loro macchinone di lusso, la mitica “ferro da stiro” della Citroen, ci ricambiavano la visita domenicale a Roma. Il che significava due cose: la prima era che si andava tutti insieme a pranzo a Castelgandolfo, sul litorale romano, nella villa di Carlo Rustichelli, il compositore di colonne sonore per il cinema, padre dell’attrice Alida Chelli in quel periodo fidanzata col grande Walter Chiari. Alida e Walter si presentavano sempre e solo per il caffè, perché Walter si svegliava tardissimo e mangiava poco: ma dopo il caffè attaccava a raccontare barzellette a tutto spiano, fino all’imbrunire. L’amicizia di Bernari con Rustichelli fu naturalmente provocata da Romualdo Farinelli che, quasi in veste di agente cinematografico di Bernari, spingeva le persone di valore alla collaborazione e permetteva loro di ritrovarsi intorno ad un progetto comune. Quelle visite dei primi anni Sessanta erano peraltro motivate da un fine particolare: la collaborazione del Maestro Rustichelli al film Le quattro giornate di Napoli. Il film avrebbe avuto proprio nella colonna sonora di Rustichelli uno dei punti di forza per l’epica e la drammatica, ottenendo un award all’Oscar nel 1964. Sintetizzo queste vicende personali e familiari per dire che Romualdo Farinelli, che si occupava di cinema commercialmente ma che aveva una formazione e una preparazione culturale e intellettuale di rilievo, metteva al servizi dell’amico

270 Bernari tutte le sue conoscenze e tutti i suoi “agganci” professionali con registi, produttori, sceneggiatori. Fu dunque proprio Romualdo Farinelli il deus ex machina della carriera cinematografica di Bernari e, più in particolare, delle collaborazioni con Zavattini. Farinelli fu sempre anche il primo lettore di Bernari. Considerandolo il lettore ideale, mio padre gli spediva addirittura le bozze dei suoi scritti, per avere una sua opinione: credo perciò di non essere lontano dal vero sostenendo che la presenza di Farinelli, costante fin dai primi anni Trenta fu uno sprone rilevante all’attività creativa di Bernari, e che il loro rapporto può essere considerato emblematico di quella ricerca di sinergia tra prosa e scrittura cinematografica che contraddistingueva il lavoro dei giovani intellettuali del tempo. Infatti, neanche a farlo apposta, il “trait d’union” tra Bernari e Farinelli fu proprio Zavattini, che in una lettera a Bernari del 19322 accenna a un certo «Fanelli»:

[...] Ho letto sul Tevere un articolo di un certo Romualdo Fanelli (pressapoco così si chiama). Mi pare un giovane con il quale dovresti intenderti. O sbaglio? Scrivimene.

Zavattini non sbagliava affatto: Carlo Bernari e Romualdo Farinelli resteranno amici strettissimi per tutta la loro lunga e fruttuosa esistenza. Peraltro, poco dopo, Zavattini torna a correggersi: «Se non sbaglio quel nome che ti indicai, non era Fanelli. Riguarda la mia lettera. Ma può darsi che sbagli.»3 Da ottimo “talent scout” Zavattini non solo è abile nello scoprire e lanciare giovani di valore, ma anche nel metterli in contatto tra loro, creando così non tanto in sede teorica, ma proprio nell’ambito pratico delle amicizie e degli scambi di idee, una sinergia tra le arti fondata sulle esperienze di questa “meglio gioventù” dei primi anni Trenta. Naturamente esiste una fitta corrispondeza tra Bernari e Farinelli, e tra quest’ultimo e Zavattini: si tratta di documenti che necessiterebbero di un vasto capitolo a parte, una storia sulla quale qui non è possibile dilungarsi (anche perché, di

 2 Lettera manoscritta inedita, autografa, su carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, inedita datata 1932, data del timbro postale non perfettamente leggibile, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 3Lettera manoscritta, inedita autografa, su carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, inedita datata 1932, data del timbro postale non perfettamente leggibile, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

271 simili intrecci di amicizie e di corrispondenze, in circa sessanta anni di battaglie e vita intellettuale in comune, Bernari e Zavattini ne ebbero da vendere). Certo è però che Romualdo Farinelli può essere considerato una figura chiave nell’evoluzione dello stile letterario di Bernari in funzione del cinema; allo stesso modo anche si può dire che fin dagli anni Trenta egli assunse un ruolo per così dire di propulsore: di idee, di collaborazioni e di scambi tra i due scrittori. Va inoltre aggiunto che Farinelli, che pure coltivava aspirazioni letterarie, davanti a due giganti come Bernari e Zavattini preferì assumere appunto un ruolo differente, meno di punta, scegliendo di agire nell’ombra e per l’organizzazione culturale. Tuttavia dobbiamo sempre tener presente che, con ogni probabilità, a tessere le fila delle collaborazioni tra Bernari e Zavattini fu proprio il “gentiluomo del cinema” originario di Gubbio. La presenza del taciturno, ma spiritosissimo comune amico Romualdo Farinelli, ha insomma accompagnato il sessantennio di vita sia artistica che privata di Bernari e Zavattini. Come uomo di cinema, sapiente di letteratura, ottimo organizzatore culturale, manager dagli innumerevoli “agganci” anche nel mondo della televisione – suo figlio Massimo negli anni Settanta fu un divo del piccolo schermo come protagonista de La famiglia Benvenuti accanto a Enrico Maria Salerno – l’intellettuale originario di Gubbio fu un vero e proprio deus ex machina di decine di incontri, cene, prime visioni, viaggi, conferenze che i due scrittori condivisero. Certo, nell’era del telefono, dagli anni Cinquanta in poi, è difficile dare testimonianza scritta delle settimanali chiacchierate e appuntamenti che i tre si davano a voce. Basti qualche esempio per dire della natura dei contatti che essi mantenevano, come questo foglio manoscritto del 26 novembre 1968 che Bernari invia a Zavattini insieme al testo di una conferenza da lui revisionata, in cui si legge: «So che per l’irrestringibile Farinelli domenica ci si dovrebbe vedere a cena. Pur di vederti ho acconsentito».4

 Lettera manoscritta, inedita, datata successivamente da Zavattini - sua la calligrafia dell’appunto a matita sul lato “c’è già” e il memorandum in maiuscolo “BERNARI” - nell’archiviarla 26 novembre 1968 (originale in Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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O come la cartolina spedita5 da Bernari a Za da Cervinia il 28 febbraio 1977, in occasione di un convegno di scrittori, in cui fa capolino il nome di Romualdo e di sua moglie Ebe.

 5 Cartolina postale manoscritta, inedita, datata 28 / 2 / 77 (originale in Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Del resto che Farinelli assuma, quando si rende necessario, anche il ruolo di paciere, va da sè. Nel 1980 Zavattini ha un duro sfogo contro Bernari perché in un’intervista raccolta da Antonio Ghirelli per il «Mattino di Napoli» egli omette di citare il nome dell’amico e poi cerca di correre ai ripari con una rettifica che peggiora la situazione. Zavattini invia a Bernari una "letteraccia"6 di ben cinque pagine dattiloscritte, facilmente riassumibile così: ma come, dopo tutto quello che ho fatto per te, ti dimentichi di me?

 6 Lettera dattiloscritta, con numerose aggiunte manoscritte alcune con inchiostro nero altre blu, datata Roma 17 ottobre 1980, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

274 La risposta di Bernari tenta di calmare le acque e fa ammenda dell’omissione, non sua - si giustifica - chiedendo al giornalista e scrittore Ghirelli di rimediare, nei limiti del possibile. E naturalmente ecco comparire la figura di Farinelli come testimone e giudice di pace della controversia:

Alla lettera datata 17. 10. 80 firmata “Cesare”, ricevuta oggi 21. 10. 80

Caro Za, La questione si fa seria, e voglio entrarci dentro con la serietà che il caso richiede e della cui gravità nella precedente telefonata, non seppi rendermi conto; anche se ne uscii piuttosto amareggiato. Ma devo entrarci pure con tutta la franchezza che un’amicizia cinquantennale impone. Sono serenamente sgomento. L’ossimoro non è un rifugio letterario: esprime esattamente lo stato d’animo di chi si trova in paro con la coscienza: eppure davanti al tribunale a rispondere al tentativo di soccorrere l’amico che stava per essere dimenticato sotto una raffica di citazioni. Da questo animo parte la telefonata all’amico Ghirelli, che contiene queste esatte parole; “Ma come? Citi tutta quella ottima centuria e dimentichi Zavattini?” – Un cordiale rimprovero. Lo avresti fatto uguale a me in un caso analogo. Alla telefonata assisteva l’amico Farinelli (cui invio, come doverosamente a Ghirelli, la tua e la mia lettera in copia, se me ne autorizzi) il quale avendo ascoltato il mio intervento, più che telefonico, addirittura telegrafico, così commenta: “Sei il solito, chissà se un altro l’avrebbe fatto al posto tuo...7

 7 Lettera di due pagine dattiloscritta con alcune correzioni a penna nera e la data sottolineato in rosso. La lettera datata oggi 21. 10. 80, inedita, (originale in Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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La lettera di Bernari che per la prima ed unica volta in uno scambio con Za adotta un tono quasi legale, addirittura con testimoni (Farinelli) chiamati in causa (il che suona strano perché tra Bernari e Zavattini è sempre bastata la parola) ottiene però l’effetto desiderato: Zavattini si accorge di aver esagerato e corre ai ripari cercando a sua volta di rimediare: «Caro, Bernari, ma che errore la mia lettera!». E imputa tutto al suo “stato di nervi”. 8

 8 Della lettera datata Roma, 24. 10. 80. esistono sia la versione in bozza manoscritta che quella dattiloscritta che pure presenta numerose correzioni a penna, entrambe inedite, (bozza manoscritta in Archivio Cesare Zavattini e lettera dattiloscritta in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Sia nella minuta che nella stesura definitiva della lettera con cui il caso si dichiara risolto con un: mettiamoci una pietra sopra, in cui compare ancora una volta, il povero Farinelli che nel frattempo, ridotto sul lastrico e studente all’Università di Lettere di Perugia, non potrà più promuovere, accompagnare e sostenere gli amici. Bisogna in conclusione ricordare che l’amicizia con Farinelli sfocia anche in una forma di collaborazione professionale sia in occasione di alcuni tentativi di soggetti cinematografici estemporanei, sia per un lavoro più corposo come la sceneggiatura del romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli. 9

 9 Dattiloscritto della riduzione cinematografica di Carlo Bernari del romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli, s.d., composto di 73 pagine rilegate, inedito (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Per la verità, Bernari non aveva molta fiducia nelle qualità artistiche di Romualdo Farinelli, che però considerava un lettore esperto, attento e appassionato. Per questo la riduzione porta esclusivamente la firma dello scrittore napoletano, anche se dobbiamo comunque immaginare una presenza attiva nel progetto dell'intellettuale perugino. Il quale appunto da Perugia in data 12 marzo scrive:

Caro C. eccoti la riduzione di Cristo. Continuo la ricerca della riduzione (con le tue correzioni, dovrei averle). Non credo che verrò nella settimana 13 / 9. Conto di essere a Roma lunedì 20. Ti abbraccio R.10

Il breve testo lascia comunque intuire che Romualdo Farinelli stia seguendo molto da vicino l’elaborazione del romanzo di Carlo Levi da parte di Bernari. Ritengo possibile che Farinelli, al tempo esercente cinematografico di professione, ma grande appassionato di letteratura oltre che di cinema, pensasse di intraprendere la via della produzione. So per certo che Farinelli si prodigava in aiuti anche economici a favore  10 Biglietto manoscritto allegato allo scenario, redatto con inchiostro verde, datato PG – domenica 12 / 3, indirizzato, sottolineatura dell’iniziale del nome R (Romualdo) nell’originale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma) 

279 di Bernari, in questo caso commissionandogli il trattamento con un sostanzioso anticipo. Doveva trattarsi di un milione di lire, cifra non indifferente per la metà degli anni Settanta, periodo cui risale questa vicenda: carpii un dialogo con mia madre in cui mio padre si poneva il problema dell’eventuale restituzione a Farinelli della somma, quando il progetto del film non andò in porto11. Ma Romualdo Farinelli, da quel gran signore e mecenate che era, sorvolò sempre sull’argomento.

 11 Il film fu realizzato nel 1979 da Francesco Rosi con la sceneggiatura di Tonino Guerra, e lo stesso Rosi.

280 Soggetti e sceneggiature.

La collaborazione tra Bernari e Zavattini in sede di scrittura cinematografica è limitata a due episodi in due momenti distinti: l’inizio degli anni Quaranta, proprio all’entrata in guerra dell’Italia fascista al fianco di Hitler, e nei primi anni Cinquanta. A farsi avanti con un’idea per il cinema verso la metà del 1941 è proprio Bernari. Da una prima lunga lettera di Zavattini senza data, ma collocabile al luglio del 1941, si intuisce appunto che Bernari sta promuovendo qualche idea per il grande schermo. Probabilmente però lo scrittore napoletano cova qualche speranza che rasenta l’ingenuità e che è dettata dall’inesperienza. Il tono di Zavattini è perentorio e cerca di riportare l’amico coi piedi per terra, esortandolo ad abbandonare i voli pindarici e i sogni di gloria e a mettersi, piuttosto, seriamente al lavoro, perché non basta uno spunto. La lunga lettera spiega a Bernari la situazione e i rapporti reali nel mondo del cinema dove pure abbondano i cialtroni:

[...] 2. Ho letto lo spunto. Ma tu vivi nelle nuvole rispetto al mondo cinematografico. Ascoltami: è difficile collocare un soggetto, specialmente se buono, figurati uno spunto di uno spunto. Tu hai in testa un’impresa disperata. Qualunque produttore ti dirà: “fate, fate, io leggerò volentieri e se mi piacerà acquisterò”. Anche un pro- duttore amico intimo. Non solo: ma hai 2 soluzioni. Peggio ancora. Se esistesse un produttore come tu desideri cadrei tramortito dal saperlo. Esiste qualche grande coglione che compra soggetti senza leggerli o su una paginetta: ma saranno sempre cose combinate in un’alcova o con qualche retroscena (per es: hanno fatto fare a un nostro collega un tempo (sottolineatura nell’originale, ndr.) e una sceneggiatura in una notte: sai perché serviva? Per avere tutta la sceneggiatura all’indomani così dandola alla Banca del Lavoro avevano l’anticipo (inutile dirti che di quella sceneggiatura pagata 12.000 lire non cercarono più neanche l’originale). Tutto il difetto sta nel manico: è [il] produttore. Il marcio della situazione è lì – altro che [non compensibile, ndr.]. Per tornare a te: fai un soggetto vero e proprio, di 10 pagine, e io me ne occuperò. Devi sapere che si rivolgono a me almeno 10-15 persone al mese per inoltrare soggetti, lo immagini – ma do loro indirizi, e basta, se no la mia vita la consumavo per queste cose – Ti dico questo perché tu capisca che, promettendoti un serio interessamento per il tuo soggetto, farei qualche cosa di solido: in sostanza, lo farei leggere a un paio di produttori esigendo subito una risposta.

281 Ma, ripeto, con le due pagine che mi mandi neanche il Padreterno riuscirebbe a fare niente. Non solo, ma neanche a entrare nella più generica trattativa con chicchessia. Quale delle 2 soluzioni ti consiglio, la metafisica o la cosiddetta “piacevole”? Quella che ti viene meglio, la più interessante, la più ricca, sorprendente, movimentata. Sino a oggi hanno fatto dei brutti film cercando e lavorando su soggetti detti facili – chissà che non succeda che con soggetti detti “a torto” difficili non si facciano dei buoni film – Certo che siamo alla vigilia di un rivolgimento nel cinema, io credo: dunque tu starai meglio con un buon soggetto che con un soggetto così così – C’è già qualche reazione (vedi Bontempelli), entro un anno qualche cosa di grosso deve succedere. Il cinema sarà salvato solo dalla invasione degli intellettuali. Ma il tuo problema è urgente: fai un buon soggetto nel senso che la trama sia interessante per un tipo di lettore come Tempo, mettiamo – un buon soggetto da romanziere, da narratore come sei, insomma. E io girerò per Roma a venderlo. [...]12

 12 Lettera manoscritta autografa, senza data ma collocabile dal contesto nel luglio 1941, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma)

282 La datazione esatta di questa lettera, importantissima poiché annuncia una rivoluzione nel cinema che avverrà nel giro di un paio di anni, a partire dalla fine del 1943 coi primi film neorealisti, è facilmente fissabile poiché il terzo foglio fa cenno a una trattativa con la Mondadori per un romanzo per ragazzi. Zavattini non sarà molto soddifatto: si accorge infatti alla fine che avrebbe potuto chiedere di più. I nomi di Zorzi e di Alberto Mondadori tornano nelle due lettere scritte probabilmente a poche settimane di distanza. La lettera seguente infatti porta la data del 7 novembre 1941 ed esordisce proprio con un incitamento a Bernari a mettersi all’opera col soggetto:

Caro Bernard, sotto col soggetto dunque. Per gli scrittori un soggetto è il solo modo fantastico e insieme possibile di chiudere le falle dei bilanci. 13

Al di là dei buoni consigli al più giovane e ancora inesperto amico, Zavattini enuclea in maniera chiarissima i postulati che di lì a pochi anni saranno i criteri del cinema neorealista: il cinema “salvato” dall’invasione degli intellettuali e dei soggetti “impegnati”: la nascita insomma del romanziere-sceneggiatore-drammaturgo contro quello che Za definisce il cinema dei “produttori marci” e dei “soggetti facili”. Bernari così si mette all’opera e, probabilmente un po’ troppo di fretta, rispedisce a Za un soggetto poco più elaborato ma ancora insufficiente e insoddisfacente. Il 26 novembre del 1941 infatti Zavattini dà una lavatina di testa a Bernari:

Caro Bernard, ho letto il soggetto e mi pare che tu abbia fatto solo l’ottanta per cento di quello che dovevi fare. Non c’è quella puntualizzazione dei contrasti (sottolineature a penna nell’originale, ndr.) che una stesura meno affrettata ti avrebbe fatto esprimere alla perfezione. Vuoi che io consegni subito a Leda Gloria 14 il soggetto? O preferisci darci ancora un’occhiata? Ubbidirò ciecamente al tuo ordine.

 13 Lettera dattiloscritta autografa, datata Roma 7 / 11 /1941–XX, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 14 Da Wikipedia: Leda Gloria, pseudonimo di Leda Nicoletti Data (Roma, 30 agosto 1908 – Roma, 17 marzo 1997), è stata un'attrice italiana. Debutta giovanissima in alcuni film muti prodotti a Roma alla fine degli anni 20, abbandonando gli studi musicali come arpista. Nel 1931 l'incontro con Blasetti che la fa scritturare per la pellicola Terra madre, e con il quale inizia una lunga carriera di attrice in oltre settanta film. Attiva anche in lavori teatrali sia nella Compagnia di Giulio Donadio, che in alcuni

283 Ma ti consiglierei di ridurre le 22 pagine magari a 15: non impòrtano i dettagli quanto invece l’atmosfera che fa supporre dettagli ancor più di quanto tu stesso non ce ne possa mettere. Descrivi chiaramente i caratteri e, secondo me fai che il viaggio dei due al paese nasca da una ragione più forte, comunque che nasca convincentemente.

A questo punto con la stilo Zavattini aggiunge una nota di cui si capisce il senso anche se qualche parola risulta poco decifrabile:

il timore che la ragazza si voglia uccidere per colpa delle risposte del protagonista – vedi il viaggio e l’arrivo al paese ha ben altra dinamica – e suggerirne scena dell’arrivo più forte.

Prosegue la lettera:

E del collega del protagonista non metterei che è stato posto al fianco suo per attenuarne il cinismo ma più naturalmente, cioè meno artificiosamente: perché è un redattore dal carattere opposto al suo nasce dalla vicinanza il contrasto. Anche al paese ci vuole qualcosa che faccia intreccio; e toglierei assolutamente proprio assolutamente il ritorno in città del protagonista: a meno che non ci torni in stretta funzione di intreccio.

Zavattini sa bene di dare consigli forse in abbondanza, soprattutto a chi ritiene comunque all’altezza della situazione: quasi gli spiace intromettersi nel lavoro di Bernari, così conclude affettuosamente (anche se l’appellativo “Carletto” mio padre, basso di statura, non lo soffriva proprio):

Caro Carletto, fa il conto che vuoi di queste mie osservazioni che non posso approfondire. Io desidero solo presentare una tua cosa con il massimo delle possibilità di successo. Se vuoi in 24 ore mi mandi il nuovo testo. E se non vuoi mandami due righe che io presenterò subito il soggetto com’è. Arrivederci verso il 15 dicembre, tuo Za.15

 spettacoli del teatro di rivista della metà degli anni 40. Sarà anche protagonista accanto a Eduardo e a Totò di numerosi film del dopoguerra. 15 Lettera dattiloscritta, con note correzioni manoscritte, datata 26/11/1941-XX, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

284 Invece la situazione cambia, Bernari probabilmente si inalbera, insiste che il soggetto va bene così e costringe Zavattini a una risposta a tempo record, prima di quell’arrivederci verso il 15 settembre che chiudeva la comunicazione. Infatti la lettera che segue, scritta in fretta e furia, è del 1 dicembre. Zavattini addirittura confonde i mesi scrivendo di getto la data del 1/ 11/ 1941: lo si deduce facilmente dal testo che recita: domani 2 dicembre spedisco il soggetto a Leda Gloria.

Caro Carletto, va bene, domani 2 dicembre mando a Leda Gloria il tuo soggetto. E auguri. Io sono veramente troppo pignolo, ieri in una casa cinemat. [ografica, ndr.] si sono buttati a pesce sopra un soggetto da me giudicato troppo debole! Ciao, ti aspetto, tuo Za.16

La scelta dell’attrice Leda Gloria non è casuale: la Gloria ha appena girato il film Antonio Meucci (1940) con Enrico Guazzoni che è il regista de I due sergenti cosceneggiato da Bernari nel 1936. Sicuramente i contatti sono stati forniti proprio da Guazzoni che, oltre ad esercitare senza infamia e senza lode il mestiere di regista, è

 16 Lettera manoscritta, datata per errore 1/11/41 (in realtà è il 1° dicembre), inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 

285 anche un pittore figurativo, scenografo e costumista. È anche un valente cartellonista e sicuramente ha mantenuto i rapporti con Bernari che dal 1940 è caporedattore del «Tempo» mondadoriano. Qual è il ruolo di Zavattini in questa avventura cineletteraria che si concluderà con un fiasco – un fiasco che Za per altro già sente nell’aria? Ovviamente Bernari spera che sia il suo amico più celebre e addentro alla materia filmica ad occuparsi dell’elaborazione del soggetto, quanto meno a parteciparvi attivamente. Ma Zavattini, come dichiara apertamente nelle lettere che abbiamo analizzato, si rende disponibile tutt’al più per un ruolo di sponda e di mentore. Insomma, non vuole sprecarsi più di tanto: del resto ha le sue idee in testa, i suoi contatti (ha appena conosciuto Vittorio De Sica, come accenna in una precedente lettera), quindi vuole giocare la partita a modo suo. Il che tuttavia non gli impedisce di cercare di favorire come può il giovane scrittore che scalpita nella sua scuderia. Così di traverso riporta la bozza del biglietto che allega al plico per Leda Gloria:

Ti trascrivo la lettera con la quale accompagno il tuo soggetto. Illustre signora, il mio carissimo amcio Carlo Bernard (Bernari) redattore capo di Tempo mi prega17di sottoporre il suo soggetto Piccola porta a qualche casa cinemato-grafica. Mi sembra che il soggetto abbia eccellenti qualità per questo credo di far bene a mandarlo a voi che siete in cerca di soggetti. Non temete di esprimere francamente il vostro parere di cui l’amico Bernard farà gran conto. Io vi sarò grato se potendolo, darete una risposta piuttosto prossima (precisa viene cancellato, ndr.). Vi saluto cordialmente e spero sempre che vogliate venirci a trovare prestissimo come avete promesso a mia sorella (che tornerà a Ostia insieme a me e a sua figlia fra 4 giorni). Vostro Z..

Zavattini è naturalmente sincero e corretto: la sua lealtà e la sua stima tuttavia non bastano a smuovere né Leda Gloria né alcuna casa di produzione. Soprattutto perché Zavattini non accenna minimamente a una sua eventuale collaborazione, il che di fatto indebolisce la proposta. Infatti passano mesi di silenzio e dalla signora Gloria non giunge alcuna risposta. E Za informa Bernari (gennaio 1942)18:

  mi manda questo soggetto pregandomi è cancellata. Le sottolineature nell'originale. 18 Lettera manoscritta, autografa, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

286 [...] Leda Gloria non mi telefona ancora. L’ho sollecitata anche stamattina appena tornato da Tirrenia, qualche piccola speranza la nutro per questo indugio.

La "piccola" speranza nutrita da Za è però destinata a svanire nel giro di poco tempo. E si capisce anche il motivo quando lo stesso Zavattini chiude con questa frase:

[...] Ho mia madre che sta assai poco bene. E io pure sono ancora in balia dell’esaurimento alla testa. E non immagini come devo lavorare bestialmente, per il cinema.19 Insomma, lui lavora “bestialmente” per il cinema - Bernari no; e Leda Gloria – che non è una pivellina – mangia la foglia: il celebre Za si sta dando da fare per aiutare un amico, ma di suo non intende portare proprio nulla. Il che, come si diceva, annulla ogni “piccola” speranza di successo. Tuttavia Zavattini si indispettisce, perché non accetta il silenzio e l’indifferenza. Così prende il telefono e si decide a ottenere una risposta, ma ancora una volta senza successo. In data Roma, 28 febbraio 1942, è costretto ad avvertire l’amico che continua a scalpitare nell’attesa:

Caro Bernard Ho parlato per telefono con la madre di Leda Gloria, dice che la figlia ha trovato interessante il soggetto anche se non adatto a lei e che mi telefonerà quanto prima per parlare meco della cosa. Siccome io ho detto alla madre di non fare complimento nel caso che il soggetto non le piaccia, la madre mi ha detto: No no il soggetto è stato trovato molto interessante e curioso. Il che non vuol dire, aggiungo io, che lo comprino ma insomma una minima possibilità c’è – intanto ho voluto informarti di questo colloquio anche perché il colloquio con Leda Gloria, lo so per esperienza, non avverrà in 24 ore. Quanto hanno da fare questi disgraziati. Speriamo caro Bernard che in tutta questa faccenda tu ci ricavi qualche cosa. Ti abbraccio, tuo ZA20

La guerra, la lotta al nazifascismo (nell’ottobre del 1942 Bernari entra nella resistenza col nome di Alberto Martirani, come testimonia una falsa carta di identità

 19 Lettera manoscritta, autografa, (sottolineature nell’originale, ndr), senza data, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 20 Lettera dattiloscritta, con aggiunte manoscritte, datata Roma, 28 Febbraio 1942-XX, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

287 con la sua fotografia) 21 fanno sì che i progetti cinematografici dello scrittore napoletano venissero sospesi e rinviati a tempi migliori – anche se per Zavattini l’attività non si ferma praticamente mai: lui continua, anche nei tempi bui dell’occupazione, a sfornare idee, sceneggiature e soggetti anche perché la collaborazione con De Sica sta maturando in fretta. Tra il 1942 e il 1944 scrive alcuni film come Quattro passi fra le nuvole, regia di Alessandro Blasetti (1942), Quarta pagina, regia di Nicola Manzari (1942), C'è sempre un ma!, regia di Luigi Zampa (1943). Romanzo a passo di danza, regia di Giancarlo Cappelli (1943). I bambini ci guardano, regia di Vittorio De Sica (1943), La porta del cielo, regia di Vittorio De Sica (1944). E si dimentica dell’amico Carlo Bernari ricercato dalle SS e impegnato nella lotta partigiana a Roma: Marcella, la moglie di Bernari, viene arrestata in compagnia di Vasco Pratolini con un pacco di volantini di cui tarda a disfarsi durante una perquisizione e finisce nel famigerato carcere di tortura di via Tasso. Sfuggirà per una coincidenza, nel trambusto provocato da Vasco con una rocambolesca fuga, alla fucilazione delle Fosse Ardeatine. In questo periodo Zavattini evita i rapporti con Bernari, brucia le sue lettere, che possono comprometterlo e collegarlo a lui: per questo nell’epistolario degli anni Trenta si trovano, salvo poche eccezioni, solo le lettere pervenute a Bernari. Di questi episodi Zavattini porterà sempre un amaro ricordo imputandosi un comportamento da vigliacco: nella polemica del 1980 a proposito dell’intervista a Bernari raccolta da Ghirelli per il Mattino di Napoli, in cui Zavattini si sente sminuito (ne abbiamo appena parlato) c’è un accenno alla questione nella lunga lettera22 scritta a Bernari e di cui Za poi si pente:

E non è un , piuttosto sofferto, diciamo, la mia unica commedia LA NOTTE CHE HO DATO UNO SCHIAFFO A MUSSOLINI (maiuscolo nell’originale, ndr.) non è un fallimento ancora più grosso, poveri noi, te compreso, che non abbiamo fatto pressochè niente per avere il diritto di dargli quello schiaffo ed è il senso del libro?

 21 Il documento è conservato presso l’Archivio Bernari. 22 Lettera citata.

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Per la verità Bernari è estraneo a questo “fallimento” politico: schiaffi - e non solo quelli - ne ha dati e ne ha presi dalle squadracce fasciste sfuggendo miraco- losamente all’arresto da parte delle truppe di Kappler, mentre il suo amico era impegnato nelle produzioni cinematografiche, peraltro di indubbio valore. Che Za ne riparli dopo decenni sta quasi a significare: ce l’hai ancora con me perché in quegli

289 anni ti ho abbandonato al tuo destino? A guerra finita ovviamente i rapporti ripartono da dove si erano interrotti. Nel febbraio del 1942 Zavattini pensa ancora di poter aiutare Bernari nel mondo del cinema e riprende, forse anche con un senso di colpa inconscio, a “lavorare per lui”. Così lo propone al produttore Carlo Ponti, come gli scrive il 31 gennaio 1951:

Caro Bernari, ho dato in questo momento il tuo numero di telefono a Ponti. Pare che ci sia qualche cosa di buono per te. Ho letto il tuo soggetto e sono sempre più convinto che l’occasione è eccellente anche se c’è un po’ di maniera, ma hai fatto anche troppo dato la fretta. Passando un mese nel paese di Michele è sicuro che troverai gli altri elementi che ci mancano. Cerca di forzare il meno che puoi la realtà, vedrai come la troverai ricca lì sul luogo. Auguri, auguri, saluta i tuoi, Za.23

Si tratta di «uno spunto di massima per un film su Kid Palermo» come lo definisce Bernari stesso dal titolo provvisorio Michele il taciturno24. Il soggetto di Bernari si incentra sulla figura di Michele Palermo detto “kid”: il pugile contadino originario di San Marco Evangelista in provincia di Caserta che fu Campione d’Europa dei pesi welters. Era chiamato anche “Michelone” o “Il gigante buono”, ma si portava dietro anche il soprannome di “’o malommo” per via della carica agonistica e dell’aggressività sul ring. Bernari, che in gioventù aveva tirato di boxe e che non smise mai la passione per quello che considerava il più nobile degli sport, fu affascinato dalla figura di Michelone, il contadino giunto sul podio europeo, e volle scriverne la storia. Tornando alla lettera di Zavattini, che rimase infruttosa in quanto Carlo Ponti non commissionò il trattamento, vanno evidenziati due particolari. Il primo è il plurale che per la prima volta irrompre in una lettera di Zavattini a proposito di un progetto cinematografico di Bernari: «troverai gli altri elementi che ci mancano», dove appunto quel “ci” sta a significare un coinvolgimento eventuale di Cesare in una eventuale sceneggiatura. Ma curioso è anche il consiglio che Za dà all’amico: «cerca di forzare il meno che puoi la realtà, vedrai come la troverai ricca lì sul luogo.»

 23 Lettera dattiloscritta, datata Roma, 31 gennaio 1951, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 24 Soggetto dattiloscritto, inedito, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

290 La questione è che Zavattini non sta parlando con un dilettante, né con uno scrittore che conosce poco: nel 1951 Bernari ha già tre romanzi fondamentali alle spalle, dopo Tre operai avevano fatto seguito Quasi un secolo nel 1940, Prologo alle tenebre del 1947 e Speranzella del 1950: tutti passati per l’officina di Za. Dire a Bernari, uno dei fondatori del neorealismo, «cerca di forzare meno che puoi la realtà - e aggiungere pure: vedrai come la troverai ricca lì sul luogo» - e abbiamo visto che Zavattini sa delle ricerche giornalistiche e documentarie di Bernari come lavoro preparatorio della finzione narrativa - fa sospettare la presenza in cuor suo di qualche remora. Naturalmente qui si entra nel campo delle congetture e dovremmo presumere che sul tema del “neorealismo” Bernari e Zavattini abbiano molte idee in comune; e qualche divergenza. Abbiamo detto che Bernari fin dal Manifesto Udaista rifiuta il realismo socialista e l’impegno politico come asservimento dell’arte agli interessi dell’ideologia. Tuttavia, non rifiuta assolutamente il concetto di arte impegnata e dell’artista portatore e fautore di un ideale socialista e marxista: Bernari non si stanca mai di dire che l’artista deve essere impegnato, deve confrontarsi con la realtà storica e sociale in maniera critica, dove però la funzione critica deve essere esercitata a 360 gradi, cioè, se necessario, anche contro l’ideologia comunista e le sue strutture e oragnizzazioni politiche. Non suona insomma, per dirla con Vittorini, il piffero alla rivoluzione, ma per essa tuttavia intende sempre dare anima e corpo. Zavattini invece è più cauto. Abbiamo visto che durante la fase peggiore del fascismo, sotto il dominio nazista, continua a produrre films: brucia anche le lettere di Bernari per non compromettersi. Ne consegue che la sua posizione nei confronti dell’impegno politico dell’artista è meno netta, ideologicamente parlando, di quella di Bernari: ne parlavamo a proposito di quella lettera dell’immediato dopoguerra in cui scrive a Za «ti vedo in cerca di lirismo». Zavattini è invece impegnato da sempre in un mondo commerciale dove bisogna senz’altro sforzarsi di fare “film intelligenti” e “impegnati”, ma in cui poi alla fine bisogna fare i conti con l’editore, col produttore, col pubblico e pure con la censura, fascista prima e democristiana poi – passando naturalmente per il setaccio della critica “illuminata”, sì, - ma spesso e volentieri allineata alle direttive politico- ideologiche dettate dal PCI in fatto di cultura e rapporti con gli intellettuali e artisti. Non c’è quindi da stupirsi che Zavattini tema che Bernari si dedichi, con il film sul pugile, ad un impegno cinematografico che vada oltre il piano narrativo della storia

291 umana a lieto fine, di un’emancipazione sociale attraverso lo sport. Zavattini ha insomma il timore che il suo amico e collaboratore si getti in un discorso più impegnato esaltando la vicenda epica dell’uomo che sale sul ring per spezzare così, come un gladiatore, le catene della servitù della gleba e della sua classe sociale. Seguendo cioè un filone ideologico e politico, scorge il rischio di pestare i piedi al perbenismo borghese e – come accadde al povero De Santis – magari anche i calli dell’ideologia comunista e delle scelte politiche del Partito circa la Questione Meridionale. Una problematica in cui del resto, in questi anni, da Speranzella del 1950 a L’anno del sole quieto del 1965, Bernari è impegnatissimo. E Zavattini, conoscendolo bene, sa che l’amico in nome della verità e delle proprie opinioni non guarda in faccia a nessuno. Carlo Ponti del resto non realizzò il film sul pugile Michelone Palermo, detto the Kid, né Zavattini volle insistere più di tanto. Così alla fine degli anni Cinquanta Bernari finì per collaborare con un regista e sceneggiatore ideologicamente più agguerrito di Zavattini, quel Giuseppe De Santis di Riso amaro che – come sappiamo - scontava la duplice condanna della censura cattolica e di quella marxista per i contenuti iconoclasti, sia a destra che a sinistra, della sua cinematografia. Le cose cambiano dopo il successo internazionale del film sull’insurrezione antinazista a Napoli: Le quattro giornate di Napoli, sceneggiato da Bernari per la regia di Nanni Loy. Il film non smette di scatenare polemiche, come recentemente accaduto sul Corriere della Sera quando recensendo un saggio di Marco Demarco (direttore dell’edizione napoletana del Corriere dell’Informazione), Battista scrive:

Demarco denuncia gli schemi ideologici della sinistra nel dopoguerra [...] Demarco rilegge alcuni passaggi cruciali della storia politica e culturale della sinistra napoletana come esempi di un passato ricostruito e dunque ritoccato, se non manipolato, con conseguenze negative che si ripercuotono sull’attualità di una città rotta e non riconciliata con se stessa. Per esempio il passato ricostruito, e dunque manipolato [...] di quelle quattro giornate che cominciano ad essere rivalutate solo negli anni Sessanta, quando il PCI ha bisogno di un passato per accreditarsi agli occhi della città. Col film di Nanni Loy del 1962 [...] si contribuisce a far sì che intere generazioni di comunisti si identifichino del tutto arbitrariamente con il popolo in armi contro i nazisti alimentando la tesi dell’antifascismo popolare di Napoli col risultato di

292 avvicinare il PCI al popolo.25

L’intervento di Battista e la ricostruzione di Marco Demarco però falsi- ficavano volutamente la natura del film e gli intenti degli autori. La mia risposta, che provo a riassumere, non si fece attendere. In primo luogo, l’idea di un film sulla resistenza a Napoli nasce alla fine del 1957, quindi in un periodo lontano dalla scalata al potere del Pci a Napoli, fenomeno politico di circa dieci anni dopo. E lontano dal PCI, non ideologicamente ma in nome dell’in- dipendenza di pensiero, è Carlo Bernari marxista antitogliattiano Ciò è ampiamente documentato da Dario Fertilio che proprio sul «Corriere della Sera» (del 2 dicembre 1996) si è occupato dell'insofferenza di Bernari nei confronti del “dirigismo” di Togliatti fin dal 1944, un desiderio di autonomia che nel dopoguerra portò al rifiuto dell’autore di Tre operai di iscriversi al Partito. L’Archivio del ’900 di Roma conserva la domanda di iscrizione al PCI strappata da Bernari nel 1946. Sarebbe piuttosto inverosimile, dunque, che il PCI chiami proprio Bernari, intellettuale assolutamente ingestibile da un punto di vista “organico” e di obbedienza ai diktat di partito! Non solo, ma a contattare Bernari per la sceneggiatura delle Quattro giornate non fu un funzionario di partito, ma un altro scrittore ideologicamente poco strumentalizzabile: Vasco Pratolini. Da questa testimonianza e dalla stessa personalità degli scrittori impegnati (Bernari, Pratolini, Franciosa, Festa Campanile) che mai si sarebbero lasciati trascinare per interesse o superficialità ideologica, bisogna escludere ogni forma di manipolazione della realtà a fini propagandistici. Anche perché il film è prodotto da Goffredo Lombardo, patrono della Titanus, casa produttrice e distributrice legata al mercato americano. Tant’è che Le quattro giornate arrivano agli Oscar. Possibile che un film manipolato dal Partito Comunista a fini propagandistici potesse ottenere, in pieno clima di guerra fredda, simili risultati? C’è di piú. Verso la fine degli anni ’40 – un periodo in cui Marcella, la moglie di Bernari, stava ancora riprendendosi dallo choc di un arresto nella famigerata camera della tortura nazifascista di via Tasso a Roma – si presenta a casa di Bernari un giovane autore con un dattiloscritto da proporre. È un ex-repubblichino di Salò ferito in battaglia, il romanzo è Tiro al piccione, autobiografia di un giovane fascista. Lo scrittore, Giose Rimanelli, trova

 25 BATTISTA PIERLUIGI, La falsa Napoli ricostruita dal PCI – L’epica delle quattro giornate, «Corriere della sera », 6 giugno 2007, pag. 41.

293 ovunque ostacoli a causa del suo passato e del tema del libro; solo Bernari legge e apprezza l’opera presentandola a Pavese, aprendo così le porte alla pubblicazione presso Einaudi nel 1953. Ancora oggi Rimanelli ricorda con commozione l’aiuto e la comprensione di Bernari. Ecco quanto mi ha scritto Giose Rimanelli:

CARO ENRICO, ti ricordo ragazzino quando venivo a casa tua sia per battere a macchina qualche suo racconto, oppure intervistarlo sul suo lavoro narrativo e i suoi “rapporti” con gli scrittori contemporanei napoletani che anche lui, tuo padre, onorava da ogni spigolo del mondo che lui viaggiava. Che lui viaggiava con la fervida mente, naturalmente, altrimenti i suoi viaggi erano Roma\Napoli\Roma, e qualche volta Viareggio, per assistere ai premi letterari. Era un uomo che conosceva benissimo la tradizione letteraria napoletana e quella della musica, la canzone. Tua madre era un angelo di donna: pazientissima, e quasi sempre affaticata coi lavori. Spesso con tuo padre ci davamo appuntamenti fuori per chiacchierare, rivedere certe correzioni sulle bozze di un suo nuovo libro, seduti in mezzo ai giovani e gli stranieri viaggiatori sulla Scalinata di Piazza di Spagna, a Roma, oppure sorseggiare un Espresso di caffè su via del Tritone. Era uomo di sottile sensibilità per lo studio quotidiano della vita che esplorava con i suoi occhi “napoletani” acuti come spilli nel percepire all’istante il buono, il meglio e il peggio della vita, coltivando con segreto amore il linguaggio della “sua” penna che abbracciava Napoli e Roma, spesso giocando con affetto linguistico sulla fonetica delle due città della sia vita: Napoli e Roma. Un giorno gli portai a leggere alcune mie pagine di narrativa, e con gentilezza criticò questo e quello, quando corressi seguendo il suo consiglio gli feci rivedere il racconto (parlava di contadini poveri del Molise) e lui disse, “Me lo lasceresti?” Glielo lasciai. Un mese dopo lo vidi pubblicato sul maggiore giornale letterario di quel tempo, La fiera letteraria. Gli volevo un gran bene: e lui a me!26

Giose Rimanelli – che talvolta mi confonde, “ti ricordo ragazzino”, con mio fratello secondogenito Claudio di 11 anni piú anziano di me, - ricorda con commozione i primi incontri con Bernari a partire dal 1949 nella casa di via Barrili a Roma (e non quella di via Gosio dove sono nato nel 1955, elemento importante per la datazione dei primi incontri). L’atteggiamento di Bernari nei confronti di un ex- repubblichino è straordinario. Il momento storico, siamo nel 1949-50, non è certo maturo per un inizio di comprensione e riappacificazione col “nemico fascista”.  26 Lettera-email di Giose Rimanelli ad Enrico Bernard del 28 ottobre 2008.

294 Bernari, che si dichiara marxista ma straccia la domanda di iscrizione al PCI, rifiutando contemporaneamente anche la direzione di Tempo offertagli da Alberto Mondadori quando viene a sapere che la rivista avrebbe usufruito di finanziamenti americani del piano Marshall, – ebbene, Bernari, antifascista integerrimo, riceve e sostiene come può quel giovane ex repubblichino, ma valente scrittore, che gli altri intellettuali, Zavattini compreso, invece evitano temendo di compromettersi. Il desiderio di superare l’odio “tra italiani” del dopoguerra diventa uno dei leit motiv, alla fine degli anni Cinquanta, della sceneggiatura delle Quattro giornate. Infatti nel film c’è, come abbiamo precdentemente visto, una novità storico- ideologica: la “scomparsa dei fascisti dal film”. Scomparsa – dalla parte degli “eroi negativi” – di cui peraltro Bernari si assume tutta la responsabilità (v. p. 254). La scelta di eliminare dal film il tradimento dei fascisti, e casomai di far passare gli stessi fascisti come altrettante vittime italiane dei nazisti, in tempi sicuramente difficili per simili aperture, provocò aspre polemiche e critiche da parte del PCI. Critiche da cui gli autori del film, Bernari in testa, dovettero difendersi. Altro che manipolazione della storia da parte del PCI. Ricordiamo - ne avevamo parlato a proposito di una fotografia scatatta da Bernari nel vicolo Speranzella con una scritta sul muro “Abbasso i guerrafondai” – che in una delle ultime scene compare un ribelle, Masullo, il quale, spinto a sputare in faccia la sua rabbia al nazista capitolato, gli dice con grande umanità e dignità: E c’aggia dí? Fagli capí c’a nuje e guerre nun ce piaceno [...] e se li odiamo è perché odiamm’e guerre [...]. Basta ca se ne vanno! Alla luce di tutto ciò, comunque, Demarco si corregge e mi risponde: «Considero le Quattro giornate di Napoli un capolavoro assoluto, uno di quei film che non smetterei mai di vedere, almeno come Dobbiamo vivere di Lubitsch!»27 Perché Demarco parla di capolavoro assoluto, addirittura superiore a Dobbiamo vivere? La questione, come dicevo nelle premesse, è che il film di Loy e Bernari conclude la stagione del neorealismo con un’opera che apre nuovi orizzonti. Certamente i presupposti con cui Bernari si dedica alla sceneggiatura sono un po’ differenti dai canoni del neorealismo di Paisà dove la finzione, la struttura narrativa assume un ruolo non dico marginale, ma senz’altro “nascosto” nelle immagini riprese

 27 DEMARCO MARCO, «Corriere del Mezzogiorno», 12 giugno 2007, pag. 10.

295 con stile apparentemente da reportage (Bernari direbbe: oggettivistico). Premesso che tra Rossellini e Bernari – che ha scritto alcuni interessanti saggi su Roberto – c’è stato un rapporto di amicizia e stima, non è però un caso se le collaborazioni alle sceneggiature avvennero con autori come Giuseppe De Santis o Pietro Germi. Il fatto è che nel lavoro di questi registi si rivela una forte vocazione “epica” (De Santis) e “di finzione” (Germi), necessaria, secondo Bernari, sia alla narrazione cinematografica che alla prosa. E a questo punto torna in scena Zavattini. Ma in questo caso mi devo sfilare le lenti del ricercatore e salire sul banco dei testimoni. Naturalmente la produzione de Le quattro giornate di Napoli non poteva non aver pensato ad una collaborazione di Zavattini, co-autore con De Sica di un capolavoro come Sciuscià (1945) e poi di altri film dedicati alla resistenza e alla liberazione come Roma città libera (1946) e soprattutto Caccia tragica (scritto nel 1947 per Giuseppe De Santis), prima di Ladri di biciclette per De Sica del 1948. Quindi Zavattini, amico strettissimo di Bernari, è lo sceneggiatore più indicato per collaborare al “treatment”. Ne resta invece stranamente fuori: e dire che sia Bernari che la produzione stessa di collaborazione avevano urgente bisogno. Tuttavia, un po’ dell’anima zavattiana nelle Quattro giornate c’è, eccome! Il tema della pace, ovvero l’intenzione di fare un film contro la guerra, anzi “contro tutte le guerre” come scrive Bernari, è caro all’animo del mite Cesare, come pure la volontà di uscire dal clima di resa dei conti perenne dopo la guerra civile della Repubblica di Salò. Questo spirito zavattiano entra allora nel film, vuoi perché Bernari lo condivide e ne è egli stesso fautore e partecipe, vuoi perché Zavattini si fa costantamente sentire al telefono durante la lavorazione del film che avviene a pochi metri dalla “stanza del bambino” (la mia), situate in una posizione strategica della casa, vicino al telefono, che andavo io ad alzare quando trillava la suoneria. Avevo sei anni al tempo delle Quattro giornate di Napoli e ricordo distintamente le numerose chiamate di Cesare che aveva un vocione impressionante e passava qualche minuto a scherzare con me prima di mandarmi a chiamare “quei bambinoni cresciuti”, cioè mio padre, Nanni Loy e Pasquale Festa Campanile. Un discreto filologo potrebbe del resto ricollegare alcune battute e scene surreali del film, che servivano a testimoniare la natura tragicomica del popolo napoletano capace di sopravvivere con l’ironia a qualsiasi disgrazia, alle tipiche espressioni zavattiniane.

296 Il successo mondiale de Le quattro giornate di Napoli attestato dalla “nomination” all’Oscar, da un Golden Globe ed altri riconoscimenti, oltre al grande successo di pubblico , un successo ormai senza tempo, naturalmente convinse i produttori a tentare il bis. Prese così corpo un progetto cinematografico che, finalmente, riuscì a coinvolgere due sceneggiatori d’eccezione: Carlo Bernari e Cesare Zavattini, coadiuvati da uno sceneggiatore professionista come Carlo Musso precedentemente distintosi per la collaborazione allo script di Riso amaro. Non si hanno notizie della “commissione” della sceneggiatura, ma certo è che per giungere alla stesura finale deve esserci stato senz’altro un committente iniziale e un contratto. E ci sarebbe da mettere la mano sul fuoco che a tirare le fila ci sia proprio Goffredo Lombardo, il patron della Titanus, produttore de Le quattro giornate di Napoli. La scelta del soggetto cade su un capolavoro dello scrittore francese Romain Gary:28 La promessa dell’alba29.  28 (da Wikipedia) Figlio di Arieh Leib Kacew e di Mina Owczyńska, Romain Gary arrivò in Francia, a Nizza, all'età di 13 anni. Dopo aver studiato legge a Parigi, si arruola nell'aviazione e raggiunge la "Francia libera" (l'organizzazione di resistenza fondata da Charles De Gaulle) nel 1940 e vi presta servizio nelle Forces aèriennes françaises libres. Termina la guerra come "compagnon de la Libèration" e decorato con la Legion d'onore. Dopo la fine delle ostilità, intraprende una carriera di diplomatico al servizio della Francia. A questo titolo, soggiorna a lungo a Los Angeles (California), negli anni cinquanta, in qualità di Console generale di Francia. Fu il marito della scrittrice Lesley Blanch e dell'attrice americana Jean Seberg, dalla quale divorziò. Poco più di un anno dopo il suicidio di questa (settembre 1979, per ingestione di barbiturici), profondamente travagliato dalla decrepitezza legata al proprio invecchiamento, si diede la morte sparandosi in bocca. Dopo la sua morte si scoprì che, sotto lo pseudonimo di Èmile Ajar, era l'autore di quattro romanzi la cui paternità era stata attribuita ad un suo parente, Paul Pavlovitch, il quale aveva sostenuto il ruolo di Ajar di fronte alla stampa e all'opinione pubblica. Si aggiunga che Ajar e Gary non furono i suoi soli pseudonimi; aveva infatti anche scritto un romanzo poliziesco-politico, Le Teste di Stèphanie, con il nome di Shatan Bogat e una allegoria satirica, L'uomo con la colomba, firmata Fosco Sinibaldi (le lettere s, i e n sostituiscono le g, a e r di Gar-ibaldi). Romain Gary è così stato, grazie a una volontà di mistificazione ambigua (Gary e Ajar significano rispettivamente "brucia!" e "la brace" in russo; frasi di uno scrittore si trovano nell'altro), l'unico scrittore a ottenere due volte il Premio Goncourt, la prima volta con il suo pseudonimo usuale, per Le radici del cielo nel 1956, e la seconda volta con lo pseudonimo di Èmile Ajar, per La vita davanti a sé nel 1975. Diversi suoi libri sono stati adattati al cinema, in particolare Chiaro di donna (1979) di Costa-Gavras, con Yves Montand e Romy Schneider come protagonisti, e La vita davanti a sé (1977) di Moshè Mizrahi, che ottenne l'Oscar come miglior film straniero, e con Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, che ottenne il Cèsar come miglior attrice. Romain Gary ha anche girato due film, di cui fu sia regista che sceneggiatore, che non hanno riscosso molto successo. 29 GARY ROMAIN, La promesse dell’aube, Parigi, Gallimard, 1960. (da Wikipedia): Era bambino, Gary, all’alba appunto della sua vita, quando promise per la prima volta a sua madre di tornare un giorno a casa dopo aver strappato vittoriosamente il possesso di questo mondo ai potenti e ai malvagi. Prima di Biancaneve, prima del Gatto con gli Stivali, prima dei Sette Nani e della Fata Carabosse, sua madre, infatti, gli sussurrò i nomi della vasta schiera di nemici contro cui un uomo degno di questo nome deve battersi. C’è prima di tutti Tatoche, il dio della stupidità, col sedere rosso da scimmia e la testa da intellettuale. Nel 1940 era il cocco e il teorico dei tedeschi, dopo si è appollaiato sulle spalle dei nostri scienziati, e a ogni esplosione nucleare la sua ombra si fa un po’ più alta sopra la terra. C’è Merzavka, il dio delle certezze assolute, una specie di cosacco ritto sopra cumuli di cadaveri; ogni volta che uccide, tortura e opprime in nome delle sue verità religiose, politiche o

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L’intuizione di incaricare Bernari e Zavattini è, sulla carta, felice: Bernari viene dal successo del suo film sulla resistenza a Napoli, opera che si impone non tanto per il piano documentaristico ma per il tentativo ideale – e non ideologico – di lanciare la prima proposta di pacifismo e di riappacificazione nazionale nell’Italia uscita dale distruzioni morali e materiali della guerra e della guerra civile in particolare. Zavattini, che naturalmente condivide questa prospettiva, è del resto un collaudato autore di soggetti che riescono a rielaborare la realtà in chiave surreale (vedi Miracolo a Milano), quindi più lieve e digeribile per il pubblico. Carlo Musso poi, come coautore di Riso amaro gode di una fama internazionale e della fiducia anche di alcuni settori della critica vicini al Partito Comunista. Per la verità fin dale prime uscite in sala de Le quattro giornate di Napoli Bernari strizza l’occhio a Zavattini per indurlo a una nuova avventura insieme. Il 20 agosto del 1962 Bernari invia a Cesare Zavattini e Signora una cartolina dal “buen ritiro” di Gaeta, via Catena 1:

 morali, la metà del genere umano gli lecca le scarpe con commozione. C’è Filoche, il dio della meschinità, dei pregiudizi, del disprezzo, dell’odio che, affacciato alla guardiola della portineria, all’ingresso del mondo abitato, grida: «Sporco americano, sporco arabo, sporco ebreo, sporco russo, sporco cinese, sporco negro». E vi sono numerosi altri dei, più misteriosi e più loschi, più insidiosi e nascosti, difficili da identificare…

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Gaeta – Via Catena 1 – 20/8/62 Carissimo Cesare, grazie, è arrivato preciso e puntuale proprio come una volta. Ci speravo ormai solo perché c’eri di mezzo tu. Il che naturalmente accresce nostalgia di discussioni e speranze di collaborazioni. E certo mi appeno saperti con le mani tra gli ingranaggi di 7 film! Anche Marcella condivide nostalgie e speranze e saluta Olga. Un abbraccio Carlo.30

Quelle “speranze di collaborazioni” cui allude Bernari si realizzano nel giro di pochi mesi. Comunque, basta dare una rapida occhiata al soggetto del romanzo di Gary per capire come tre personalità del cinema e della letteratura italiani come Zavattini, Bernari e Musso fossero particolarmente indicati a portare a termine l’impresa. In effetti, la sceneggiatura giunge all’ultima stesura, copia della quale viene spedita a Parigi il 28 dicembre 1965, probabilmente per l’avallo definitivo dello stesso Romain Gary, con l’elenco delle ultime correzioni apportate:

 30 Cartolina Postale, manoscritta, indirizzata a Cesare Zavattini e Signora via S. Angela Merici 40 Roma, datata Gaeta-Via Catena 1- 20 agosto 1962, inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). Nell’originale compare la scritta a matita di pugno di Zavattini “Bernari” ed una lettera B maiuscola in rosso probabilmente per motivi di ordine di catalogazione.

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A lavorare alla sceneggiatura è principalmente Bernari, coadiuvato da Carlo Musso che aveva tuttavia il compito più pratico di mettere in pagina le indicazioni che gli venivano dettate. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine di Carlo Musso seduto sul divano dello studio di Bernari (divano che ora, con la tappezzeria cambiata, arreda il mio salotto) in un atteggiamento sommesso e ossequioso, col taccuino in mano e lo scenario, che prendeva sempre più corpo, aperto sulle ginocchia. Entravo ogni tanto nello studio per passare le telefonate di Zavattini che veniva interpellato o si informava sui progressi dello script. Tuttavia Zavattini non prese mai parte ad una riunione. La sceneggiatura così fu subito impostata nel modo più congeniale a Bernari, come si può leggere fin dalle prime battute, quando ad esempio (e siamo a

300 pagina 3) una recluta urla dal finestrino del treno in partenza per il fronte: io sono contro la guerra. Un’affermazione che ricorda alcuni dialoghi delle Quattro giornate - ad esempio, quando il popolano dice al comandante nazista “noi siamo contro la guerra, contro tutte le guerre”- che si riallaccianno a quella fotografia scattata da Bernari nel 1948 in un vicolo dei Quartieri Spagnoli a Napoli, dove su un muro si legge “abbasso la guerra”.

La sceneggiatura, terminata da Bernari con l’aiuto di Musso, prende a questo punto la strada per casa Zavattini: ora l’amico Cesare può apportare le sue pennellate d’autore sulla copia finale. Lo scenario conservato presso l’archivio Bernari a Roma presenta in effetti una serie di chiose manoscritte, la cui calligrafia è facilmente riconducibile alla mano di Zavattini. Eccone alcuni esempi:

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302 Le aggiunte riguardano solo alcune didascalie e poche battute.

Niente di sostanziale insomma, come un dettaglio più stretto facilmente rivela:

303 Insomma, la collaborazione tra Bernari e Zavattini si ferma sulla soglia dei rispettivi “studi”: il primo imposta il lavoro, monta le scene, mentre il secondo “onora la firma” con qualche pennellata. Pennellate d’autore che del resto si diradano sempre di più col passare delle pagine: gli spunti manoscritti di Za sono infatti limitati alle prime 60 pagine del complesso scenario che però non fu mai realizzato – per motivi che non è stato possibile ricostruire (cash flow del produttore? Veto di Romain Gary o del suo editore Gallimard?). La promesse del’aube divenne un film solo nel 1970 per la sceneggiatura e la regia di Jules Dessain, con Melina Mercuri: ciò fa pensare che la cinematografia francese osteggiò la possibilità di un film italiano sulla loro resistenza raccontata da un capolavoro contemporaneo francese. Di qui il blocco? I produttori e distributori italiani non vollero pestare i piedi ai loro corrispondenti d’Oltralpe che già si sentivano fin troppo “invasi” dal cinema neorealista italiano e che fin dal 1958 si stavano impegnando al lancio della “nouvelle vauge” del cinema francese?

L’ultima cartolina spedita da Bernari a Zavattini, prima dell’episodio che mi riguarda del teatro Politecnico per la mia piccola partecipazione al film La veritààààà, è del settembre 1979, e in questo caso sono direttamente citato da mio padre:

304 Gaeta – sett. 79

Caro Za, con Marcella ed Enrico abbiamo gioito e riso di quegli 80 che ti attribuiscono. Volevano forse dire 08? Per altri mille mesi ti auguriamo la stessa energia e le stesse imprese coraggiose e sempre nuove, Un abbraccio da tutti e particolarmente dal tuo Carlo Bernari.31

 Cartolina postale, manoscritta, indirizzata a Cesare Zavattini via S. Angela Merici 40 Roma, datata Gaeta 4 settembre 1979 (il giorno nella datatazione manoscritta è illeggibile ma il timbro postale è del 4), inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

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306 Capitolo quarto

Realismo e teatro: “una rottura di…”

La drammaturgia, fin dalle origini, si è sempre confrontata con la questione della “rappresentazione della realtà”. Shakespeare, per fare un esempio famoso, trasforma il Principe Amleto in un precursore di Stanislavskj, il grande teorico del teatro contemporaneo, quando gli fa suggerire le seguenti raccomandazioni ai comici che dovranno inscenare davanti al Tiranno assassino e usurpatore, per inquietarlo e studiarne le reazioni, la scena dell’omicidio del padre:

AMLETO: Mi raccomando, la battuta dilla come te l’ho detta io, con la lingua sciolta; però se tu la declami come fanno molti dei nostri attori, tanto vale che sia un banditore di piazza a dire i miei versi. E non tagliare troppo l’aria con la mano, così, ma sii sempre moderato, perché nello stesso torrente, nella tempesta, e come potrei dire, nel turbine della tua passione, tu devi acquisire e far acquisire una temperanza che le dia sottigliezza. Ah, mi urta fin in fondo all’anima udire un gigione grosso e imparruccato fare strage di una passione, stracciarla, per spaccare le orecchie del pubblico, che di solito non comprende altro che le pantomime senza senso e i rumori. Un gigione così lo farei frustare perché esagera […]; mi raccomando, evitalo. PRIMO ATTORE: Parola mia, lo eviterò, vostra signoria. AMLETO: Non siate nemmeno troppo monotoni, ma lasciatevi guidare dalla vostra discrezione. Il gesto segua la parola e la parola il gesto, con questa speciale avvertenza, che non venga mai oltrepassata la modestia della natura. Perché qualsiasi cosa così eccessiva è lontana dallo scopo della recitazione, il cui fine sia all’inizio, che adesso, era ed è di reggere lo specchio alla natura; di mostrare alla virtù il suo proprio volto, al vizio la sua propria immagine, e alla stessa età e allo stesso corpo la sua forma e la sua impronta. Ora, se questo viene esagerato o reso sottotono, si può far ridere gli incompetenti, ma non si può che infastidire gli esperti; la cui sentenza nella vostra considerazione deve venire prima d’un tutto esaurito. Oh, ci sono attori che ho visto recitare (e ho sentito altri lodarli e con che lodi!), che, senza parlarne in modo profano, non possedendo né l’accento di cristiani, né il portamento di cristiani o pagani o uomini, zampettavano impettiti ed urlavano talmente da farmi pensare che qualche operaio della natura li avesse fatti uomini, e manco bene, tanto abominevole era il modo in cui imitavano l’umanità.1

Il concetto di “specchio alla natura”, cui accenna Amleto, fa capolino, da un  1 SHAKESPEARE WILLIAM, Amleto, Principe di Danimarca, Torino, Utet, 1916, vol. II, pag. 46. 307

punto di vista teorico, anche in Goldoni con la celebre concezione del “teatro specchio del mondo”. Tuttavia, sia Shakespeare che Goldoni sapevano benissimo che lo specchio, nel riflettere la realtà al pubblico, la trasforma: la realtà rappresentata, il contenuto, assumendo un’altra forma, cioé quella propria della rappresentazione, non torna indietro alla realtà tale e quale com’era da essa originate. Il semplice fatto che essa sia stata rappresentata implica una nuova condizione e funzione etica, ancorché estetica. Il drammaturgo conosce benissimo il trucco di provocare un “effetto ritorno” sul pubblico che assiste ad una rappresentazione che sembra realistica, ma che realistica non è più: l’arte teatrale, infatti, trasforma il contenuto non in una “realtà” mimetica, fotografica, ma in una “verità” con cui confrontarsi ed immedesimarsi catarticamente. Proprio questo è l’”effetto ritorno” che Amleto vuol provocare nel suo pubblico – in particolare nello Zio assassino che dovrà assistere alla rappresentazione, cioé alla “messa in verità”, alias “la mise en espace”, del suo orrendo misfatto. La funzione “critica” del teatro, – una concezione “critica del reale” che accumuna l’arte drammatica e la letteratura neorealista – è iscritta a chiare lettere sull’arcoscenico del Teatro San Carlino di Napoli. Torneremo in seguito sulla storia di questo teatro, che costituì dal 1774 al 1884 il punto di partenza della drammaturgia napoletana – da Petito a Scarpetta, da Viviani a Eduardo – la quale, come vedremo meglio in seguito, interagisce col neorealismo oggetto del nostro discorso. Castigat Ridendo Mores, ovvero: Con il riso si possono denunciare i vizi. E non sono necessarie ulteriori spiegazioni a questo motto, anche se si potrebbero fare, se ce ne fosse qui la possibilità, molti altri esempi di questa funzione del palcoscenico. Qualche riferimento alla drammaturgia contemporanea italiana sarà, comunque, utile per capire che la questione del realismo spesso si interseca, dato che in diversi casi drammaturghi e commediografi sono gli stessi grandi narratori neorealisti (Alvaro, Moravia, Bernari, Brancati e molti altri) del Novecento italiano, col dibattito culturale degli anni Cinquanta e Sessanta. Ne La governante del 1952 di Vitaliano Brancati, ad esempio, che fu al centro di un’aspra polemica contro la censura da cui fu colpito2, emerge l’insofferenza dello scrittore siciliano per il realismo mimetico. Il dialogo sotto riportato si svolge tra Caterina, l’ipocrita governante puritana, e il protagonista del dramma, il sessantenne Leopoldo Platania, a proposito dell’arte di un ospite

 2 Brancati per reagire scrisse un saggio sulla storia della censura in Italia dal titolo Ritorno alla censura, cfr. BRANCATI VITALIANO, La governante, con il saggio Ritorno alla censura, Milano, Bompiani, 1986, pp. 5-79. 308

d’eccezione, Alessandro, lo scrittore annoiato e che vuole sempre morire (in realtà una parodia di Alberto Moravia).

LEOPOLDO: Come sono insipidi, questi scrittori! Devono descrivere tutto. Vedono una cameriera e devono descrivere unacameriera, vedono me e descrivono me, vedono lei e descrivono lei. La verità è che non hanno fantasia. Perché io dico: Omero non aveva mai visto Achille. Eppure lo descrisse. E bene, mi pare. CATERINA: Quest’arte di descrivere quello che si vede si chiama realismo. LEOPOLDO: Ed è una rottura di…3

Il categorico giudizio finale del personaggio di Brancati, don Leopoldo, a proposito del realismo (“una rottura di…”), rappresenta, in sintesi estrema e volutamente villana, la posizione degli scrittori, anzi di tutti gli artisti che si sono occupati del problema, contro il tentativo della critica di ridurre il neorealismo ad un piatto realismo da utilizzare in chiave propagandistico–ideologica. Ancor più ironico e sbeffeggiante compare il termine “realismo” in una battuta del ridicolissimo giovane poeta Luigi o Don Luigino in Ditegli sempre di sì di Eduardo De Filippo:

LUIGI: Ho immaginato due distese di cipressi in conversazione notturna. Un lungo viale che conduce al cimitero. Avverto subito l’uditorio che, mentre la tematica delle mie composizioni è un fatto tutto personale, il ritmo, al contrario, si stacca, è vero, dalla formula ermetica, ma si aggancia alla corrente realistica e impressionistica, fatta di chiazze opache e di spiragli allucinanti, il cui filone trova larvati riscontri in tutta la letteratura valida avanguardistica degli ultimi vent’anni.4

L’ironia di Eduardo prende di mira non solo i letterati improvvisati come il povero Luigino, ma anche certe interpretazioni critiche che andavano, e purtroppo ancora sono nell’aria, per la maggiore. Non sarebbe difficile, ma non stiamo trattando certo di questo, far risalire filologicamente la battuta del personaggio eduardiano a qualche articolo di rivista letteraria coeva: probabilmente Eduardo si sarà servito di qualche brano di una recensione o di un ingenuo saggetto!

 3 Ibid., BRANCATI, Ritorno alla censura, in La governante, cit., p. 163. 4 DE FILIPPO EDUARDO, Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1956, p. 165. 309

Abbiamo già citato Eduardo a proposito di una sceneggiatura scritta a quattro mani con Carlo Bernari, Un italiano a Londra, script che, passando di mano in mano negli uffici delle produzioni cinematografiche, ispirò Fumo di Londra sceneggiato e interpretato da Alberto Sordi nel 1966. Tutti sanno che “Albertone” fu grande interprete, nonché geniale collaboratore di registi, ma non uno “script writer” a tutti gli effetti, se non in un paio di casi non artisticamente eclatanti (mi riferisco ad esempio al mediocre Un tassista a New York). Nel caso di Fumo di Londra, dunque, Sordi si ispira all’opera di Bernari e Eduardo. Come abbiamo visto prima, il contratto di cessione del soggetto prevedeva assolutamente la possibilità di una rielaborazione o sviluppo del plot. E così è stato. D’altro canto, da un punto di vista della storia del cinema, non si può non rilevare questa coincidenza tra l’idea originaria del soggetto e la successiva riscrittura da parte di Sordi. Il che dimostra comunque, qualora ci fosse bisogno di una riconferma, la stretta sinergia tra cinema, teatro e letteratura.

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Il frontespizio del trattamento qui riprodotto, si tratta di un fascicolo di 87 pagine dattiloscritte, con poche correzioni a penna (la calligrafia è quella di Bernari) e un promemoria datato 25/11/1964 a proposito di una scena ancora da inserire, è una bella sintesi della parentela tra le arti visive e letteratura.

Questa foto della prima metà degli anni Sessanta ritrae Bernari ed Eduardo. Bernari, col cappello, ha un fascicolo tra le mani: si tratta forse proprio del soggetto di Un italiano a Londra? Personalmente lego a quel periodo alcuni ricordi: per esempio la visita alla residenza estiva di De Filippo, una villa affacciata sulla costiera amalfitana. La raggiungemmo in barca, c’era anche mia madre, e per approdare, faceva caldo, ci tuffammo in acqua, subito imitati dalla scogliera dal cane di Eduardo, un cucciolone di molosso napoletano di colore chiaro – se la memoria non mi inganna – che voleva giocare con me, col rischio di annegarmi. Rimasi sempre affezionato a Eduardo, come dimostra la lettera che mi indirizzò quando osai sottoporgli i miei primi scritti teatrali, covando l’ingenuo desiderio che fosse lui a rappresentarli! La sua risposta5, gentile ma evasiva, fu comunque lusinghiera, poiché mi mise in contatto e facilitò l’amicizia col figlio Luca, attore e capocomico ma non scrittore di teatro,  5 Lettera di Eduardo De Filippo ad Enrico Bernard, dattiloscritta, autografa, indirizzata a “Enrico Bernard, via Bartolomeo Gosio 85, Roma”, datata “Roma, 2.12.80 (Collezione privata Enrico Bernard). 311 quindi al riparo da qualsiasi ombra di competizione artistica, per una più giusta vicinanza generazionale.

Approfitto di questa parentesi autobiografica per puntualizzare, con un altro episodio personale, che quando si parla di “sinergia tra le arti” a proposito del 312

neorealismo bisogna anche tener conto di qualche eccezione importante, come ad esempio dimostra questa lettera6 indirizzatami da Vasco Pratolini. Avevo interpellato l’autore di Metello e Cronache famigliari perché avevo dato vita, nella seconda metà degli anni Ottanta, ad una collana di narratori che scrivono per il teatro. Pratolini, il quale peraltro mi seguiva artisticamente da tempo, non potè rispondere al mio appello per il semplice motivo, come si legge nella sua simpatica missiva indirizzatami, che non aveva mai scritto nulla per il teatro.

Nonostante il diniego motivato di Vasco al mio progetto, posso dire che la sinergia tra cinema, letteratura, teatro e pittura era rappresentato in casa Bernari da un simpatico quadretto naïf che mio padre aveva appeso sopra il lavello della cucina (un po’ in castigo poiché il simpatico acquerello gli rammentava un episodio non felicissimo della sua vita artistica). Il piccolo dipinto, a firma A. Maffeo, raffigura Bernari davanti al Teatro S. Carlino, sullo sfondo del Vesuvio, in procinto di essere esaminato da Pulcinella e la sua amorosa Palummella. Pulcinella ha la chitarra a tracolla e reca una bilancia su cui Bernari dovrà far pesare il suo romanzo Vesuvio e pane. Alle spalle dello scrittore sono in fila i personaggi del romanzo.

 6 Lettera manoscritta di Vasco Pratolini a Enrico Bernard, autografa, indirizzata a “Enrico Bernard via B. Gosio 85, Roma”, datata “Roma 24 maggio 1987 (Collezione privata Enrico Bernard). 313

Pulcinella apostrofa Bernari: «Carlù, ‘o faie o nun’o faie stu cacchie ‘e film, mo avota a valanza a part’o grusso… me stai piglianne proprie pe fesso…»

La frase tradotta letteralmente significa: «Carlo, ma lo fai o non lo fai questo cacchio di film, adesso rivolto la bilancia dalla parte grossa... mi stai prendendo proprio per fesso…» Un modo per dire a Bernari che la bilancia a favore della cultura

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napoletana resta sempre vuota. Tant’è che Palummella rincara la dose: «Pulciné… nun pierde tiemp… chist… ‘è romanizzate…» Cioè: Pulcinella… non perdere tempo… questo… si è romanizzato….

Il dipinto di Maffeo dedicato a Bernari si ispira, vedi il pittoresco sfondo del Vesuvio fumante e i personaggi di Pulcinella e Palummella, alla ricostruzione7 di uno scenario dello storico teatrino. In essa è riprodotto il palcoscenico originale del teatro San Carlino al momento della demolizione, avvenuta nel 1884, a causa dei lavori di risanamento dell'attuale Piazza Municipio. Il teatro sorgeva infatti davanti palazzo San Giacomo, nell'area dei giardini antistanti l'ingresso alla chiesa di San Giacomo degli Spagnoli.

 7 Sezione teatrale del museo di San Martino a Napoli. Oggi al posto del San Carlino troviamo la sede della Banca d’Italia, non vi è nemmeno una targa a ricordo degli artisti che fecero grande quel teatro, nel San Carlino nasce la parodia, la comicità, lo sfottò. Basti pensare che in quegli anni nessuno poteva osare prendere in giro il Re, a parte gli attori del San Carlino che nelle loro parodie potevano sberffeggiare anche la famiglia reale, e si racconta addirittura, che lo stesso Ferdinando IV di Borbone preferisse disertare il San Carlo dove i nobili andavano a sentire le opere e a vedere i drammi, per andare al San Carlino travestito da Lazzaro , in modo da confondersi con la folla. 315

Anche la ricostruzione in un plastico della facciata del teatro fa pensare ad un’analogia del dipinto naïf con l’originale.

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Naturalmente la scelta della location da parte del semisconosciuto pittore napoletano che ritrae Bernari non è casuale, a partire dal nome: Carlo Bernari col romanzo Vesuvio e pane davanti al Teatro che porta il suo stesso nome, rappresenta una sospensione del giudizio e della valutazione sul bilancio del rapporto dell’autore con la sua origine: è lo scrittore ad essere in debito nei confronti della sua città, perché essa gli ha fornito personaggi e fonti di ispirazione, oppure è Napoli ad essere in debito con Bernari che ha dato respiro europeo alla letteratura partenopea fin ad allora relegata in ambito regionalistico?8 Il simpatico quadretto – un tempo appeso nella cucina di casa dello scrittore e che ora invece rallegra la cucina di casa mia – cela, come dicevo, un episodio doloroso della vita artistica di Bernari. Nel 1952, contemporaneamente all’uscita per Vallecchi del romanzo Vesuvio e pane, cominciava la preparazione del film Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini con Vittorio De Sica (l’amico di Zavattini) e una fascinosa giovane Sophia Loren. Il problema è che Bernari sperava di essere ingaggiato per la sceneggiatura, ma si trovò “tematicamente” e professionalmente scavalcato da un filmetto del genere “neorealismo rosa” che fu giudicato un ritorno al vecchio folklore campanilistico – a “strapaese” per intenderci. Ma soprattutto Bernari considerò il film come una piccola appropriazione per il rapporto tra la ricerca del pane, quasi come una condizione esistenziale, e la capacità partenopea di metaforizzare il problema con la fantasia. Un concetto che Bernari sapeva di avere introdotto da tempo nella letteratura e nel cinema. E di avere discusso più volte con Zavattini che, a quei tempi, collaborava assiduamente con De Sica. Certo, Zavattini non poteva tutto e non poteva neppure essere considerato responsabile di tutto, anche perché allora le idee giravano vorticosamente nelle tavolate serali e negli incontri tra scrittori, pittori, sceneggiatori e registi. Ciò nonostante la delusione di Bernari, che si aspettava l’incarico per la sceneggiatura dopo l’uscita del suo romanzo che portava un titolo simile e presentava un contenuto affine, non fu indifferente. Ma torniamo al tema dell’arte drammatica in rapporto con la letteratura. Nel precedente capitolo abbiamo citato alcune interviste televisive in cui Bernari rivela che il suo intento originario, prima di scrivere Tre operai sotto  8 Lo ha affermato Raffaele La Capria, riporto a memoria il brano poiché gli atti non sono mai stati pubblicati, al convegno su Bernari tenutosi proprio al S. Carlo di Napoli nel giugno del 2002 in occasione del decennale della morte dell’autore di Tre operai: «Bernari ebbe il merito di elevare la letteratura napoletana, fino ad allora pittoresca e folcloristica, al livello della grande letteratura europea e far così trovare alle successive generazioni di scrittori la base di una narrativa contemporanea». 317

forma di romanzo, era stato quello di redigere una storia della classe operaia a Napoli. Ma dai racconti dello scrittore circa i suoi studi convulsi con un professore pagato privatamente (Bernari era stato infatti espulso da tutte le scuole del Regno per indisciplina) improvvisamente spunta il teatro, e non la saggistica o la narrativa, come primo tentativo autoriale:

Allora mi misi a fare un mestiere pratico, nonostante la mia famiglia non fosse – devo precisare – povera, affinché mi fosse possibile pagarmi qualche maestro capace di insegnarmi quello che non avevo appreso o capito a scuola: il latino, l’italiano, la storia della letteratura italiana. Pagavo questo maestro con quello che guadagnavo a fine settimana […] Ebbene questo professore mi dava dei temi, descrivimi questo o quest’altro; e io due giorni dopo invece di portargli il solito tema su tre facciatine gli portavo un intero quaderno scritto. Il pover’uomo, leggeva con una certa fatica. Poi la fatica si fece sempre maggiore perché dal quaderno passai a due quaderni, poi a tre quaderni. Ed era una commedia in tre atti (forse una tragedia?) che il pover’uomo mi restituì dicendomi: “Figlio mio, io non ce la faccio più, a te ti ci vuole un’università, non un povero professore d’italiano e di latino. Che posso dirti? Tu scrivi così male9, ma così male, che forse sarà la tua fortuna. Tu non scrivi nell’italiano che tutti scriviamo, tu scrivi un’altra lingua e quindi hai un altro destino davanti a te.10

E così, dal teatro, nasce la “nuova” lingua di Bernari:

Capii che dovevo autorizzarmi da me a imparare quello che mi serviva e quindi a scrivere come mi sentivo, a inventarmi una mia lingua, quella lingua più adatta alle cose che volevo narrare.11

 9 Il concetto dello “scrivere male” a proposito del rinnovamento dello stile proposto da autori originali che creano nuove forme è stato espresso, prima di Bernari, da Luigi Pirandello in un saggio su Goldoni: «pensate che finanche Goldoni, neppure ai suoi tempi fu riconosciuto. E quante gliene dissero! Che scriveva male, subito, e glielo dissero tutti …» PIRANDELLO LUIGI, Esternamenti, in Saggi e interventi, Milano, Meridiani Mondadori, 2006, p. 1167. 10 BENASSI (a cura di), Un autore una città, cit. p. 38 11 Ibid., BENASSI (a cura di), Un autore una città, cit. p. 39. 318

Esiste il Teatro Neorealista?

Prima di analizzare la funzione del teatro, – non certo prevalente ma non per questo meno importante, come risulterà da alcuni passaggi del loro carteggio, – nell’opera di Carlo Bernari e Cesare Zavattini, è opportuno chiarire se esista nella nostra recente storia drammaturgica un vero e proprio teatro neorealista. La domanda potrebbe sembrare scontata: infatti se la letteratura neorelista fin qui dibattuta ha influito sulla formazione del cinema neorealista, traendo essa stessa dal cinema e dalle altre arti visive ispirazione e linfa vitale, soprattutto sul piano della forma, allora dovrebbe anche emergere, fin dai primi anni Trenta, un parallelo nel teatro. Tuttavia, per quanto scontata, questa domanda non ha ancora avuto una risposta esaustiva da parte della critica letteraria, la quale si è praticamente disinteressata della dram- maturgia seguendo superficialmente la visione crociana e dimenticando la passione e l’attenzione per il teatro di un Piero Gobetti o di un Antonio Gramsci, – entrambi attivi anche come critici teatrali. Non che Croce avesse in antipatia il teatro, tutt’altro: ne era anche lui un appassionato conoscitore e frequentatore. Tuttavia la drammaturgia non rientrava, secondo gli schemi dell’estestica del filosofo, in quella scienza del sublime propria della poesia. Così la critica letteraria postcrociana è stata, più o meno inconsciamente, influenzata e condizionata dall’idea che il drammaturgo sia posto di fronte ad una sorta di “sbarramento lirico” al raggiungimento dello “spirito puro”. Pertanto il testo teatrale è stato relegato in un angolo della produzione letteraria: utile strumento tecnico per la rappresentazione e per la recita degli attori, però con la stessa reputazione, minima, che gode lo script cinematografico in campo letterario: insomma, una specie di artificio tecnico. Questa deformazione critica ha comportato anche un oscuramento, se non proprio un azzeramento, di una cospicua parte della letteratura nazionale. Lo stesso teatro dei grandi autori, da Manzoni a Verga, da Svevo a Moravia, da Elsa Morante a Pasolini, è stato così considerato ora un “di più”, ora un vezzo, ora un tentativo più o meno riuscito di tradurre in opera teatrale la propria “maggiore” attività letteraria, magari per diffonderla meglio anche attraverso il palcoscenico. Mai come un vero e proprio capolavoro della scrittura. E aggiungo solo, a dimostrazione di questo atteggiamento ad excludendum, che il Nobel per la Letteratura a Dario Fo è stato accolto con mugugni e sospiri di malcelata sopportazione da parte dei critici italiani!

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Così il teatro, che invece ha da sempre avuto una funzione centrale nella nostra letteratura, è stato messo in un cassetto – e lì praticamente dimenticato – della grande produzione culturale italiana dalle origini del volgare.12 Numerose testimonianze incoraggiano a sostenere che l'approccio letterario al testo teatrale andrebbe rovesciato una volta per tutte: è necessaria una (nuova) valutazione teatrale della letteratura, non viceversa. Ma purtroppo il teatro viene spesso trascurato dalla critica letteraria, che lo considera quasi un prodotto secondario, raramente degno di valenza lirica. Un rammarico mi accomuna ad altri studiosi e appassionati di drammaturgia come ad esempio Domenico Pietropaolo che lamenta:

Purtroppo la disciplina degli studi teatrali fa ancora molta fatica a conquistarsi lo statuto di autonomia scientifica ed istituzionale che ad essa compete, vedendosi costretta nella maggior parte delle nostre università a farsi spazio all'interno di rigide strutture concepite per lo studio della letteratura.13

Il discorso di Pietropaolo sulla doppia natura, letteraria e scenica, del testo teatrale, può essere a sua volta ampliato sul tema della teatralità del testo letterario. E va da sé, in quest'ottica, un accenno all'unidimensionalità della critica letteraria che, confinando spesso e volentieri il testo teatrale in una nicchia, trascura di fatto l'essenza drammaturgica della letteratura non destinata immediatamente alla rappresentazione. Goldoni nelle sue Memorie affronta questo argomento con un simpatico aneddoto:

[...] i miei amici volevano assolutamente che mi dessi a qualche altro argomento da romanzo... Stanco delle loro insistenze finii col dire che invece di leggere un romanzo per cavarne una commedia, preferivo comporne una con la quale si potrebbe fare un romanzo.14  12 Su quest’ultima affermazione bisogna però soffermarsi. Infatti, com'è noto, diversi fattori hanno contribuito alla formazione del “volgare” prima, e del “dolce stil novo” verso la fine del XII secolo e, tra questi, il teatro ha indubbiamente rivestito un ruolo importante. In particolare mi riferisco alla trasformazione delle sacre rappresentazioni tardomedievali nelle laudi teatrali del Duecento: processo culturale, spettacolare, e linguistico stimolato dalla necessità di rendere comprensibile, con l'uso del volgare, che sostituisce il latino, il contenuto morale e religioso delle sacre rappresentazioni. «Perché un autentico dramma sia possibile, è necessario che il latino della liturgia si apra ad una lingua magari rozza ed elementare ma più in grado di aderire al reale... Sicché l'avvento del dramma in volgare si delinea come fatto inevitabile e necessario.» LOMBARDO AGOSTINO, Storia del Teatro, Torino, Eri Edizioni Rai, 1962, p. 50. Il testo drammaturgico assume dunque una certa importanza non solo nella formazione del volgare, ma anche nel processo di affinamento quale lingua "dolce" e nell'evoluzione della letteratura nazionale. 13 PIETROPAOLO DOMENICO, Regia e Filologia negli studi teatrali, in: La Lotta con Proteo, metamorfosi del testo e testualità della critica, atti del XVI congress A.I.S.I.L.L 6-9 ottobre 1997, a cura di L. Ballerini, M. Ciavolella, Fiesole, Edizioni Cadmo, 2000, p. 1492. 14 GOLDONI CARLO, Memorie, Milano, Bur, 1980, cap. XI, p. 291 320

Molti dei romanzieri italiani del '900 si sono cimentati col teatro raggiungendo risultati importanti come Pasolini, Sciascia e Savinio, di buon livello drammaturgico come Moravia e Bernari, o di non eccelso valore teatrale come Zavattini, Camilleri fino ad arrivare, last but not least, a Corrado Augias e Claudio Magris. In questi casi tuttavia abbiamo a che fare sempre con narratori che una, due o tre volte hanno tentato la drammaturgia come percorso alternativo, cioè come una forma di "toccata e fuga" in un mondo estraneo alla propria ispirazione. Più interessanti sono invece quei fenomeni in cui il narratore si è fuso col drammaturgo. Si pensi a Pirandello che una intervista del 1926 ebbe a sostenere la tesi del drammaturgo\scrittore\regista:

La situazione ideale per uno scrittore drammatico è essere contempo– raneamente autore e regista. Entrambi, scrittore e regista, ottengono in tal guisa una grande abilità. Il regista penetra in tal modo nei più profondi segreti dell’autore, mentre il poeta a sua volta ha una percezione precisa del materiale umano, cioè degli attori. Molière, Shakespeare, Ibsen, tutti erano grandi registi.15

Del resto, è nella natura stessa dei testi drammatici dell'XI, XII e XIII secolo essere destinati alla lettura più che alla rappresentazione – così come da secoli erano destinate esclusivamente alla lettura, non alla recitazione, commedie e tragedie del teatro latino classico. Il che comporta, come sostiene Agostino Lombardo che «essi appartengono alla letteratura, non al teatro.»16 Un grande poeta contemporaneo, Antonio Porta, ha scritto: «il senso del tragico è alla base di ogni mia possibilità di operazione poetica.»17 Il pensiero di Porta sulla natura teatrale e tragica della sua poesia può essere esteso ai diversi generi ed epoche della letteratura italiana: il senso del tragico è alla base di ogni possibilità di operazione poetica. Se poi consideriamo il fatto che la maggior parte dei poeti italiani contemporanei (Sanguineti, Penna, Spaziani, Luzi, Rebora, Pagliarani, Pecora, Doplicher, Jacobbi e molti altri) considerano il teatro come parte integrante e in qualche caso addirittura centrale della loro produzione, possiamo definire la dichiarazione di Porta sul tragico come la "costante teatrale" della poesia, a partire da Dante e Petrarca.  15 PIRANDELLO LUIGI, intervista apparsa in «Neue Freie Presse», firmata T.C. [trad. Michele Cometa] raccolta in Grande Scrittore nel mondo dello spettacolo. Su teatro e cinematografo, in Saggi e interventi, a cura di G. Macchia, Milano, I Meridiani Mondadori, 2006, p. 1333. 16 LOMBARDO, Storia del Teatro, cit., p. 59. 17 PORTA ANTONIO, Il Grado Zero della poesia, intervista apparsa su Marcatré, 1 gennaio 1964, p. 7. 321

Tornando alla questione che però ponevamo inizialmente è quella legata allo stretto rapporto tra la tradizione teatrale napoletana e il primo "neorealismo" di Bernari. Vi sono innumerovoli riscontri di questi fermenti e delle atmosfere che passano da un'opera all'altra, da un genere all'altro. Basti pensare che se il teatro napoletano popolare fu osteggiato dalla corrente intellettualistico–borghese del verismo della Serao e dell'estetismo lirico di Di Giacomo, è proprio Bernari a prediligere, alla poesia e canzone digiacomiana, il crudo e cupo lirismo popolare sia di Viviani che di Ferdinando Russo, poeta del quale Bernari ha curato nel 1986 l'opera completa18. Non è oltretutto passato inosservato il fatto che l'impianto scenico di Natale in casa Cupiello di Eduardo anticipi di molti anni il neorealismo del cinema postbellico. Ne parla ad esempio Mario Mignone notando che nel momento stesso in cui si alza il sipario nella stanza da letto di casa Cupiello ci troviamo in una ambientazione e in uno stile narrativo neorealisti. E siamo nel 1932! È comunque evidente che Bernari ed Eduardo (ricordiamo che Bernari è di nove anni più giovane di Eduardo che nasce nel 1900) attingono a piene mani alla tradizione popolare del teatro napoletano e al suo realismo critico che tocca punti di grande modernità con le opere di Raffaele Viviani. Posso del resto personalmente testimoniare l'influenza di Viviani su Bernari, il quale amava spesso citare alcune battute del grande autore teatrale partenopeo, atteggiandosi spassosamente anche ad imitare la vivianesca figura di "Scartellatiello" nel fingere un'inesistente zoppia che mandava in bestia mia madre. Ma Bernari spiega bene il senso di questo suo apparente infantilismo:

Che cosa dunque faceva più ridere: il mio essere napoletano, cioè interprete e portatore di una naturale condizione umana, per quanto dolente e beffarda; oppure il mio fare il napoletano, vale a dire quel mio recitar la parte del napoletano che fa il napoletano?… è proprio nel fare il napoletano… che noi avvertiamo anche meglio il tanfo di miseria che la maschera ha acquistato, dall'avvicendarsi in essa di generazioni e generazioni di personaggi, vittime della sorte e spropositati: Pulcinella, Pascariello o Sciosciammocca…19

Il capitolo del volume appena citato in cui Bernari affronta il tema della "teatralità" della sua narrativa si intitola significativamente Il teatro delle tre Napoli e

 18 RUSSO FERDINANDO, Poesie, a cura di Carlo Bernari, Napoli edizioni Bideri, 1984.

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introduce alla tradizione teatrale che Bernari stesso dichiara di avere nel sangue. Dicevo prima di Viviani: il critico e pittore napoletano Paolo Ricci sostiene:

nella sua folgorante sintesi il teatro di Viviani anticipa uno stile che avrà poi sviluppi illustri nella letteratura come nel teatro e che troverà riconfermati, successivamente, in Brecht e Garcia Lorca, fino a Gadda, Pasolini e Bernari, gli esempi più convincenti del modo come, alimentandosi di linfe popolari, accogliendo il linguaggio e a volte il gergo della plebe, si possano raggiungere contenuti universali e livelli poetici sorprendenti.20

Non bisogna però pensare ad un rapporto esclusivamente teorico e critico tra Raffaele Viviani, Eduardo De Filippo e Paolo Ricci, che con Bernari fu il fondatore del movimento Circumvisionista nella pittura e dell’udaismo (ricordiamo il Manifesto UDA del 1929), cioè il “distruttivismo–attivismo” che riformulò il futurismo in termini marxisti. Pittura e teatro si fondono a tal punto nella ricerca pittorica di Ricci da portarlo, al di là dell’impegno di critico per « il Mattino» e per «l’Unità», a dipingere molte scenografie sia per Viviani che per lo stesso Eduardo.

 20 RICCI PAOLO, Ritorno a Viviani, Roma, Editori Riuniti , 1979, pag. 64. 323

A questo punto potrebbe sorgere il giustificato sospetto che Zavattini c’entri poco o nulla in questo contesto specificatamente teatrale. D’altro canto, bisogna ricordare che Zavattini non aveva scartato, come invece abbiamo appena visto per Pratolini, il teatro dalla sua produzione letteraria. Ciò si rileva distintamente da un brano di una lettera che abbiamo precedentemente citato, quando trattavamo la questione del malinteso per un’intervista a Bernari da parte di Antonio Ghirelli in cui Zavattini si sente sminuito dall’amico. Nella lunga e articolata replica a Bernari, infatti, Zavattini cita il suo unico testo teatrale Come nasce un soggetto cinematografico. Ma si accorge di essersi, per così dire, a sua volta autoridimensionato, se non altro per questo suo lato drammaturgico, in poche righe. Così puntualizza a penna, – con cipiglio, lo si può notare dalla scrittura salda e precisa e non, invece, come era suo solito, “svolazzante” e artisticamente fantasiosa, nonché dai due asterischi della chiosa a margine ben rimarcati – rivendicando l’importanza del suo testo teatrale, che ebbe pure una certa fortuna nelle mani di un impareggiabile attore come Tino Buazzelli.21

 21 La “prima” rappresentazione assoluta è avvenuta il 17 luglio 1959 al Teatro La Fenice di Venezia. 324

Trascriviamo il passaggio che ci interessa:

E non è un “fallimento” piuttosto sofferto, diciamo, la mia unica commedia? ** Come nasce un soggetto cinematografico: non citata stamattina da Tian22, a proposito del povero Buazzelli che ne fu l’ultimo interprete inaugurando la Biennale alla Fenice e poi un mese al Piccolo e poi da solo se ne andò in Austria, in Germania compreso Parigi Parigi (ripetuto nel testo originale, ndr), e Buazzelli l’avrebbe ridata un paio d’anni fa, ma il Ministero aveva nel ’59 fatto minacce storiche (ma sono così forte, caro Bernari?).

Il brano della lettera fa capire che Zavattini non considera il teatro come un tentativo più o meno riuscito ma come un caposaldo, il tono e lo scopo della lettera a Bernari sono proprio questi, della sua attività. Allo stesso tempo lo scrittore di Luzzara intuisce, anche se non lo dice a chiare lettere, che il titolo della sua “commedia”, così definisce lui stesso la sua opera drammatica, è emblematico di un percorso e di una sinergia tra le arti visive. Il titolo è infatti Come nasce un soggetto cinematografico, e dal momento che sappiamo che i soggetti cinematografici di Za nascono dai suoi spunti letterari, ecco che si realizza come per un gioco di specchi la sintesi perfetta di un testo teatrale che parla della nascita del soggetto cinematografico dall’opera letteraria. Un vero e proprio colpo di genio di cui Zavattini era evidentemente ben conscio. In questa prospettiva, allora, non si può neppure considerare un caso che l’ultimo film di Zavattini La veritààààà sia un’operazione tra cinema e teatro realizzata in un teatro, il Politecnico di via Tiepolo (oggi trasformato in magazzino di rottami, che alla fine degli anni Ottanta rappresentava uno degli ultimi esempi del Teatro Off romano. Purtroppo, la critica letteraria non ha mai affrontato l’opera teatrale degli scrittori come parte integrante e significativa della loro attività letteraria. Quando non se ne è potuto proprio fare a meno, come nel caso di Pirandello, il quale rappresenta la congiunzione perfetta di teatro e letteratura con le sue trasposizioni e “adattamenti” da un linguaggio all’altro, il critico letterario ha cercato di procedere “a braccetto” con lo studioso di teatro, dovendo talvolta accettare persino la compagnia del regista o dell’attore nell’impostazione di un’analisi dell’opera di Pirandello.

 22 Renzo Tian, storico e critico teatrale de «Il Messaggero» di Roma e docente di Storia del Teatro all’Università la Sapienza di Roma. È stato anche direttore dell’Ente Teatrale Italiano. Molto attento alla drammaturgia italiana contemporanea, ha dedicato ad esempio ampie recensioni delle mie commedie. In quella occasione, commemorando il grande attore Tino Buazzelli in radio, dimenticò che Buazzelli fu artefice e protagonista dell’opera teatrale di Zavattini. 325

Senonché in quasi tutte le altre situazioni, dalla Morante a Pasolini, da Svevo a Moravia, da Alvaro a Brancati – e non si farebbe fatica ad allungare la lista dei nomi – ebbene, in tutti questi casi l’attività drammaturgica degli autori è stata messa tra parentesi, non oscurata del tutto, ma certo non approfondita come si sarebbe dovuto – e a dirlo non sono io, ma un critico come Odoardo Bertani a proposito addirittura di Svevo23. E qualora ci fosse bisogno di un altro esempio, si potrebbe aggiungere che Medea in Aspromonte, il capolavoro teatrale di Corrado Alvaro, è stato stampato a proprie spese dalla Fondazione Alvaro ed è disponibile solo previa richiesta “on demand”. Si risponderà: è solo una questione di mercato. Ma la verità è che il mercato dei “classici” contemporanei, se non c’è ricerca critica, se non ci sono studi scolastici e accademici, finisce per forza per languire. Sarebbe poi anche limitativo fermare l’indagine, qualora la si volesse appro- fondire, alle opere teatrali degli scrittori: perché la questione non è se, quante e di che livello, commedie o drammi essi abbiano scritto, bensì – ecco il nodo cruciale – se e come la struttura teatrale abbia influito sulla formazione dello stile, sul taglio dei dialoghi, sulla formazione culturale, sulla loro stessa fantasia narrativa. Se si è scritto molto ad esempio sulla “teatralità” della Divina commedia, allora si dovrebbero proseguire gli studi ad esempio sulla “teatralità” de I Malavoglia di Verga – in relazione diretta all’attività esplicitamente teatrale dello scrittore siciliano che ha in Cavalleria rusticana un eccezionale esempio di drammaturgia. Una drammaturgia, o se vogliamo definirla ancor più specificatamente una “drammatica”, che trova riscontri, e qui il discorso si farebbe però troppo lungo e complesso per le finalità che ci siamo proposte, nella prima narrativa neorealista, cioè nel passagio dal verismo al neorealismo che si determina in Tre operai di Bernari. Questa panoramica sulle sinergie “illustri” tra drammaturgia e narrativa potrebbe concludersi proprio con Italo Calvino, la narrativa del quale, come noto, nasce dalla passione per la scrittura teatrale. Calvino rivela infatti che «il suo “sogno nutrito tra i 16 e i 20 anni è quello di diventare scrittore di teatro»24, un sogno che,

 23 Cfr. BERTANI ODOARDO, prefazione a Il teatro di Italo Svevo, Milano, Garzanti, 1986, pp. I-LVI. 24 Il gusto dei contemporanei, Quaderno n. 3: Italo Calvino, Pesaro, Banca Popolare Pesarese, 1987, p. 83. Nel 1942, prima del suo esordio letterario, Italo Calvino presentò la sua unica pièce teatrale La commedia della gente al concorso del Teatro Nazionale dei Gruppi Universitari fascisti (i “Guf”) e l’anno successivo, ridotta in un atto aveva inviato a Walter Ronchi, direttore della redazione forlivese dei medesimi Guf, Pattuglia perché la publicasse, ciò che non avvenne a causa della chiusura della rivista. La pièce, dimenticata dallo stesso Calvino, è di recente riemersa dall’archivio di Ronchi senza tuttavia suscitare eccessivo interesse né da parte della critica letteraria né di quella teatrale. Vedi a 326

come accenna brevemente Tommaso Pomilio 25 , sarà comunque determinante nell’opera dell’autore de Il sentiero dei nidi di ragno, il capolavoro neorealista del primo dopoguerra scritto quasi in contemporanea con Totò il buono di Cesare Zavattini, romanzo surreale da cui deriva il soggetto di Miracolo a Milano per De Sica. Come nasce – appunto – un soggetto cinematografico, è l’emblematico titolo dell’unica commedia di Zavattini che sembra costiture una sorta di segnale stradale, poco seguito dai critici a dir la verità, per rivedere la concezione del neorealismo, altrimenti confuso in un’astra nebulosa o “Torre di Babele”26, alla luce delle sinergie tra cinema, pittura, fotografia, letteratura e naturalmente teatro. A queste sinergie, Tommaso Pomilio ne aggiunge giustamente un’altra nel capitolo intitolato Polemiche dell’aperto. Tra Zavattini e Calvino, dove tratta della passione giovanile di Calvino – una passione anticipata professionalmente, fin dalla seconda metà degli anni Trenta, da Zavattini che fu a lungo direttore e autore di Topolino per la Mondadori/Disney – per i fumetti27:

[…] di carattere prettamente (seppur ibridamente) visivo è, ancor prima della teatrale, l’aspirazione a divenire disegnatore, soprattutto di fumetti e vignette umoristiche.28

Anche in questo caso Pomilio sorvola – come nel capitolo dedicato a Domenico Rea e ai vicoli di Napoli, in cui non si fa cenno alla collaborazione di Bernari col giovane autore di Gesù fate luce! – il carteggio Bernari–Zavattini, soprattutto le lettere della prima metà degli anni Trenta. È singolare che Pomilio – figlio oltretutto di Mario Pomilio, scrittore napoletano della generazione, successiva a Bernari, che vedeva nell’autore di Tre operai un vero apripista – tratti il un rapporto Zavattini–Calvino sulle arti visive, senza rilevare che questo rapporto si costituisce  questo proposito anche il caso del testo drammatico di Elsa Morante La serata a Colono che debutta per la prima volta in teatro solo oltre quarant’anni dopo la pubblicazione presso Einaudi. Cfr. MORANTE ELSA, La serata a Colono, in Il mondo salvato dai bambini, Torino, Einaudi, 1968, pp. 31–96. Alla “prima” assoluta dell’opera teatrale, avvenuta al Teatro Argentina di Roma nel febbraio del 2013, ho dedicato un’ampia recensione sul magazine online www.saltinaria.it/teatro/recensioni. 25 POMILIO, Dentro il quadrante, cit., p. 26. 26 Angelo Del Boca, autore del romanzo neorealista Dentro mi è nato l’uomo, testo “resistenziale” del 1947, parla proprio di “Torre di Babele” nella sua risposta a Carlo Bo, cfr.: BO, Inchiesta sul neorealismo, cit. p. 32. 27 «La sua prima attività creativa furono vignette e fumetti», testimonia Scalfari nella comemmorazione uscita sul quotidiano «la Repubblica» il 20/9/1985 in occasione della morte dello scrittore, col titolo Quando avevamo diciotto anni… 28 POMILIO, Dentro il quadrante, cit., p. 27.

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sulla base dell’interrelazione con Bernari fin dai primi anni Trenta. In particolare ci riferiamo a quella lettera, precedentemente presentata, in cui Zavattini spiega graficamente a Bernari come comporre il testo da inserire nel disegno dell’amico Peirce. La verità, per non aprire una polemica, è che Bernari rappresenta una “mina vagante” nella cultura accademica: dove inquadrarlo? Come interpretare il suo neorealismo – nato dal rapporto con Zavattini come variante marxista del futurismo e del surrealismo – che sconfessa lo schema critico propenso ad una interpretazione più elementare del movimento avvicinandolo ad una specie di “realismo politicizzato”, più che impegnato. In questo discorso torna allora in ballo il teatro, non tanto come scrittura per la scena vera e propria, ma in quanto forma rappresentativa del reale tras–formato – attraverso (tras) la forma propria del teatro – in una rappresentazione surreale (o meglio “sul–reale”): cioè critica, in quanto avviene “sul palcoscenico”, il luogo dove ciò che accade non è mai “vita riprodotta” come essa è (Pirandello), ma “critica della vita” in quanto appunto rappresentata, trasfigurata o come dicevo prima: tras– formata.29 E non importa se questo processo di “tras–formazione della vita” venga scritto – e qui c’è l’innovazione bernariana e zavattiniana – come scenario da tradurre in immagini, scenografia o disegno da tradurre in dialogo, testo teatrale sempre aperto (vedi ancora Pirandello) ad una rielaborazione letteraria. O addirittura viceversa come adattamento teatrale o cinematografico di un’opera narrativa: qui gli esempi, a partire da Totò il buono – Miracolo a Milano, rispettivamente romanzo e film, sotto il segno di Come nasce un soggetto cinematografico, testo teatrale, si sprecherebbero non solo nel caso di Zavattini, ma anche di Bernari. Ciò che importa, tuttavia, in questo “brodo primordiale” del neorealismo in cui letteratura, teatro e le altre arti visive interagiscono come in un campo di forze o come elementi di un reagente chimico, è che il prodotto finale sia “critico”: una forma di “messa in discussione” della realtà, con gli strumenti rappresentativi propri della realtà che si vuole mettere in discussione. Insomma, oggi Bernari e Zavattini parlerebbero senz’altro il linguaggio multimediale della rete. E non osiamo neppure pensare che cosa sarebbero capaci di fare oggi, i due scrittori, con il computer, riandando alle obsolete macchine da scrivere su cui hanno composto  29 Ho rielaborato questi concetti nel mio Manifesto del Teatro S–naturalista illustrato da Dario Fo, pubblicato sul mensile «Ridotto», n. 1–2 gennaio febbraio 1993, pp. 44–52. Il Manifesto è scaricabile anche online dal sito di Dario Fo al seguente link: la visione del mondo del teatro di Enrico Bernard – con le illustrazioni di Dario Fo (http://www.archivio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=15894&I DOpera=8). 328

faticosamente la loro opera che, sia nel caso di Bernari che in quello di Za, non potremmo non definire enciclopedica30. La “prova del 9” della comprensenza dell’elemento drammatico, teatrale, nella formazione di questo nucleo del neorealismo che si coagula intorno alle prime esperienze letterarie ed artistiche di Bernari e Zavattini, non può, a questo punto, non rientrare in quel gruppo di lettere del primo periodo, quello tra il 1932 e il 1935. Tra i due scrittori non vi è un dibattito teorico sulla funzione del teatro, così come il loro carteggio raramente – tranne i pochi casi fondamentali che abbiamo visto – raramente presenta discussioni estetiche o stilistiche: Bernari e Zavattini si scambiano altresì comunicazioni pratiche (leggi questo, incontra quello, mandami il racconto, eccetera), o sfoghi esistenziali. Quindi, se di teatro bisogna parlare, ebbene non sarà certo un discorso astratto dalle loro esigenze – pur culturali – quotidiane. Avviene così che i due amici cominciano a parlare di teatro quasi per caso, di sfuggita, similmente a come avviano il discorso sul cinema a proposito del comune amico Romualdo Farinelli. Solo che in questo caso si tratta di Ugo Betti. Sarebbe ovviamente fuorviante pensare che i riferimenti a Betti nelle lettere che Zavattini scrive a Bernari riguardino esclusivamente il teatro. Il drammaturgo originario di Camerino era apprezzato, nei primi anni Trenta, anche per le sue brevi prose31. Tuttavia, il suo nome è associato, in quel periodo, al successo di uno dei suoi primi lavori teatrali, La padrona, del 1926. Nell’importante lettera del 20 febbraio 1933 che si apre con un “cari amici” rivolto a Peirce e a Bernard, nella quale Zavattini sollecita l’invio di Tre operai in lettura, si fa per la prima volta il nome di Betti.

[…] Aspetto allora il romanzo di Bernard, lo leggerò subito, e dopo discorreremo il da farsi: mandatemelo subito. Sono felice che mi vogliate bene e io sarò felice quando potrò fare qualche cosa per voi. Sì state vicino a Betti, sia perché vale moltissimo, è uno dei tre o quattro che contano, sia perché è fedele con chi è fedele, sicuro. Vedo intorno a noi la confusione, la malafede, crescere crescere crescere, vedo mettere su gente che in coscienza non stimo un fico. E più i giornali danno

 30 Vedendomi al lavoro con il primo Mac, un modello Plus, nel 1988, mio padre si fece dare i primi rudimenti dell’arte di impaginare. Impazzì letteralmente di gioia al pensiero di poter tagliare, copiare, incollare, archiviare diverse versioni di un lavoro. Lo presi in giro con una battuta tipicamente generazionale di cui oggi ancora mi pento, perché si avverò di lì a poco come un funesto presagio: “ma che ti metti a fare alla tua età, non fai in tempo ad imparare ad usarlo che me lo devi lasciare in eredità… “ 31 Cfr. BETTI UGO, Le Case, raccolta di racconti, Milano, Mondadori, 1933. 329

spazio alla letteratura più la fanno diventare impopolare. Io temo che sarà sempre così. Vi abbraccio. Vostro Za.32

Evidentemente il nome di Betti era già in discussione da prima, probabilmente nominato da Bernard\Bernari in una di quelle lettere che Zavattini ha distrutto. Tuttavia abbiamo la risposta di Bernari, la “classica” risposta del giorno dopo, cioè del 21 febbraio 1933. Anche questa è una lettera, già precedentemente citata, fondamentale del carteggio, quella in cui infatti Bernari mette le mani avanti sul romanzo che sta per inviargli. Abbiamo già citato il brano in precedenza, ne ripetiamo l’incipit per rinfrescare la memoria:

[…] Ti spedirò il volume tra qualche giorno, appena ossia avrò terminata l’affrettata correzione, che comincerò domani stesso. Non so questo libro come potrà sembrarti dal punto di vista puramente estetico. Non per mettere le mani avanti, ma per chiarire la sua funzione in questo ambiente, vorrei dirti alcune cose: credo che la parte, diciamo così “programmatica”, abbia inficiato il suo significato puramente lirico. […]

Bernari prosegue invogliando l’amico ad un giudizio «come potrai farlo tu… fuori dalle fila del crocianesimo». Lo scrittore napoletano già prevede infatti che la forma della sua opera sarà accusata di aridità e secchezza – cosa che poi è puntualmente accaduta, come abbiamo precedentemente visto. Infatti Bernari prosegue:

[…] un’arte sradicata dal terreno della lotta economica e politica, è un bel fiore di cartapesta: avrà colori smaglianti, ma sempre d’anilina, potrà essere profumato, ma sentirà sempre di morto […]

Al culmine di questa analisi però Bernari si riallaccia alla produzione di Zavattini e di Betti:

Mi consolo con una cosa: ripensare al tuo nuovo libro. Il titolo che hai scelto è bellissimo: “Rotocalco S/A”33 è un titolo magnifico che tu non dovrai assolutamente cambiare: è migliore di gran lunga dell’altro  32 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa”, Milano”, indirizzata a “Bernard–Peirce / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, datata Milano, 20 febbraio 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma). 33 Zavattini aveva esposto a Bernari il progetto di un nuovo romanzo nella stessa lettera del 20 febbraio precedentemente citata. Probabilmente si tratta de I poveri sono matti, Milano, Bompiani, 1937. 330

annunziato: “Fra quattro mura”34: oggi potrebbe far pensare a Betti, dato il titolo del suo ultimo libro, e pure forse un poco al tipo della sua letteratura.

In conclusione Bernari confida a Zavattini: «hai veramente ragione su Betti: infatti è il più buono e meno acido di tutti quelli che stanno a Roma.» Le poche righe dedicate a Betti nelle comunicazioni tra i due scrittori ottengono però un effetto ben più ampio di quanto si potrebbe a prima vista pensare. Bernari infatti si attiva subito e, attraverso Paolo Ricci, crea un contatto tra Betti e Viviani: si viene insomma a costituire quel ribollente crogiuolo delle arti, teatro–narrativa– pittura–cinema–fotografia, in cui vediamo immersi e attivissimi il pittore Paolo Ricci, Carlo Bernari, Raffaele Viviani, Ugo Betti e Cesare Zavattini. Insomma, un'ottima selezione della nuova generazione di artisti degli anni Trenta. Paolo Ricci è, come sappiamo, fin da giovane, amico, compagno e ispiratore di Bernari. È proprio lui a rappresentare l'anello di congiunzione35, – un ruolo ancora da focalizzare per quella parte della critica che non ha ancora intrapreso una ricerca interdisciplinare ad ampio raggio, – tra il neorealismo di Tre operai e il realismo popolare napoletano di Viviani, con un successivo coinvolgimento di Ugo Betti. Un processo, quello della sinergia che si viene a formare tra arti figurative e arte drammatica, che coinvolge i pittori neorealisti del periodo successivo, come Renato Guttuso36:

 34 Bernari si riferisce alla raccolta dei racconti di Betti uscita nel 1933 per la Mondadori col titolo Le case, cit. 35 E’ interessante notare che anche il pittore Paolo Ricci si dedicò alla fotografia raccogliendo immagini per usarle come modelli per i suoi quadri, ma anche con un’attività fotografica propria. I suoi ritratti di Viviani, Eduardo ed altri commediografi napoletani derivano dai suoi scatti con cui immortalava gli autori per poi raffigurarli su tela. Dell’opera fotografica di Ricci, che si riallaccia al nostro discorso sulla genesi “fotografica” del verismo prima e del neorealismo poi, cfr. COCURULLO SILVIA, La raccolta fotografica di Paolo Ricci nella fototeca storica del Museo San Martino, Catalogo della Mostra Antologica di Paolo Ricci, Napoli, Castel Nuovo, 26 giugno – 28 settembre 2008, pp 137–9. 36 Cfr. RICCI PAOLO, Renato Guttuso, Tutto falso per essere più vero, “l’Unità”, 4 novembre 1984; si veda anche di Ricci, Guttuso e il primo incontro col teatro di Eduardo, dattiloscritto in sette cartelle conservate presso l’Archivio di Stato di Napoli; probabilmente è il medesimo testo che il critico pittore utilizza per la presentazione a Guttuso, scene e costumi per Il contratto di Eduardo, Roma, Il Gabbiano. 1970. Di quella mostra ho un ricordo vivissimo perché, quindicenne, vi accompagnai Ricci e mio padre. Ricci visitò la mostra con un rapido giro e proprio quando si stava aprendo il buffet del rinfresco disse a mio padre: jammuncenne. Sarà un caso ma era appena entrato in sala l’allora giovane “migliorista” del Comitato Centrale Comunista Giorgio Napolitano, amico di Guttuso e della Primadonna delle terrazze romane di stampo “liberal” Marta Marzotto. Guttuso e la Marzotto erano proprietari di una villa tra il Pincio e Piazza del Popolo, un modo di vivere ed essere “comunisti” che ai “puri” marxisti Bernari e Ricci non andava proprio a genio. Quindi si finì tutti a cena dal Calabro, il ristorantino low budget di Moravia, Pasolini, Fellini, Elsa Morante e molti altri autori, a via dell’Oca. 331

[…] tentai di sviluppare un discorso inteso alla valorizzazione del teatro vivianesco. A questo proposito, nei miei rapporti con Carlo Bernari, anch'egli estimatore di Viviani, ebbi più volte occasione di parlarne. Era il momento del grande successo teatrale di Ugo Betti e in particolare del dramma Frana allo scalo nord [...] Betti era amico di Bernari, pregai perciò quest'ultimo di invitare Betti a considerare l'ipotesi di una sua collaborazione con Viviani. Il 14 giugno del 1937 Bernari mi scrisse: Caro Paolo, ho parlato a Betti di Viviani, è entusiasta [...] Viviani ha qui, nell'ambiente intelligente, degli amici insospettati. E molti già parlano di un Betti vivianizzato...37

Se Bernari esagera un po' nel parlare a Ricci di un Betti "vivianizzato", pur se dal carteggio Viviani–Ricci–Betti–Bernari emerge una forte sintonia tra questi scrittori, è anche vero che Ricci stesso mischia le carte in tavola con qualche enfasi parlando di un Viviani "bernarizzato":

Non a caso Viviani si aggancia ai temi della letteratura mitteleuropea del primo novecento riallacciandosi, peraltro, allo scrittore a lui più affine, cioè a Carlo Bernari e ai suoi Tre operai.38

L'opera di Viviani è però, in gran parte, antecedente alla data di pubblicazione di Tre operai, il 1934. Il che significa che è Viviani, (nato nel 1888) il punto di riferimento di Bernari e, naturalmente, di Eduardo, – non viceversa. È altresì interessante notare come il teatro di Viviani non subisca solo una osmosi "naturale" in Eduardo ma, attraverso un narratore come Bernari, vada ad influire su un altro autore, diverso per origine, estrazione, cultura e tematiche, come Ugo Betti, che di professione fa il giurista. Betti (nato nel 1892) ottiene il primo successo con Frana allo scalo nord, dramma scritto nel 1932, pubblicato nel 1935 e rappresentato la prima volta al Teatro Goldoni di Venezia nel 1936. L'opera drammatica di Betti suscita subito l'interesse di Bernari che scorge nell'autore originario di Camerino un "alter ego" teatrale. Cosa collega Bernari a Betti? Guarda caso: tre operai. Infatti il dramma di Betti inizia da un "neorealistico" fatto di cronaca: una frana che ha sepolto tre operai. Ora, il romanzo di esordio di Bernari si intitola, ricordiamo, nella prima versione del 1929–1930 Gli stracci, mentre il titolo e la stesura definitiva di Tre operai sono del 1932. C'è di più: mentre il Teodoro de Gli stracci è un giovane di estrazione piccolo–borghese,  37 RICCI, Ritorno a Viviani, cit. , p. 172. 38 Ibid., RICCI, Ritorno a Viviani, cit. , p. 174. 332

improvvisamente nella stesura successiva del 1932 (Tre operai, appunto) diventa il figlio di una famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze non escludono, anzi sembrano proprio avvalorare l'ipotesi di un continuo rapportarsi della letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. E non è neppure da escludersi a priori – anche se non è dimostrabile nei fatti – l’idea che Betti abbia fatto leggere a Bernari il suo testo ancora inedito tra la fine del 1932 e il gennaio 1933, quando cioè il giovane scrittore napoletano completa l’ultima stesura di Tre operai. Certo, stilisticamente Frana allo scalo nord e Tre operai sono differenti.Tanto per cominciare Betti ambienta il suo dramma in un'aula di tribunale dove si crea un'atmosfera kafkiana e mistica già dai nomi dei protagonisti: l'imprenditore Gencker, l'operaio Bert, il pubblico ministero Goetz e il giudice Parsc. Invece Bernari tende ad una visione che, se vogliamo usare un definizione approssimativa ma che serve a chiarire il concetto, si potrebbe definire in linea con il surrealismo di Breton e un'anticipazione dell'esistenzialismo marxista di Sartre. Solo a titolo informativo, aggiungo che il secondo romanzo di Bernari, L'ombra del suicidio ovvero Lo strano Conserti (del 1936 data stesura, ma pubblicato postumo)39, rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che porteranno anche Betti al suo capolavoro teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia del 1945. Non posso qui dilungarmi su questo argomento, perché un confronto tra l'opera rimasta a lungo inedita di Bernari e Corruzione di Betti necessiterebbe di uno studio più approfondito. Basti sapere che gran parte della successiva narrativa di Bernari, fino alla metà degli anni '80, sarà dedicata al tema della corruzione e della caduta degli ideali (Era l'anno del sole quieto, Tanto la rivoluzione non scoppierà, Il giorno degli assassinii). In conclusione è possibile affermare che come il teatro di Machiavelli, Aretino e soprattutto Goldoni ha creato i presupposti del grande realismo manzoniano, così il teatro di Viviani anticipa gli elementi "neorealisti" del teatro di Eduardo e di Betti e della narrativa di Bernari che sarà protagonista dell'apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l'osmosi di temi, atmosfere e personaggi dal teatro al cinema trova in Tre operai di Bernari, come pure nei tre operai protagonisti della Frana di Betti, un esempio della possibilità di trasformare il romanzo in cinema partendo dal teatro. Come? Attraverso l'invenzione di una nuova forma di scrittura: il trattamento. Uno stile che Bernari elabora proprio nel suo capolavoro d'esordio sotto l'influenza del

 39 BERNARI CARLO, L’ombra del suicidio, a cura di Enrico Bernard, Roma, Newton Compton, 1994. 333

cinema surrealista, della pittura di Sironi e – soprattutto – del teatro popolare di Viviani. Sembra quindi impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla letteratura neorealista senza capire l'importanza del teatro nella formazione della narrativa di Bernari e in quegli autori del neorealismo, come Zavattini, che trovano in Viviani e in Pirandello40 modelli drammaturgici di riferimento. Gli stessi modelli che Eduardo e Betti hanno ben presenti nell'elaborazione di una drammaturgia, che a buon diritto, possiamo definire "incunabolo neorealista". Lo stesso Domenico Rea, che di Bernari fu ammiratore e seguace, non solo scrisse un bellissimo dramma, Le formicole rosse del 1948, ma fu anche appassionato di teatro e membro di alcune giurie di premi teatrali, tra cui il premio “Fondi – la Pastora” nato su iniziativa del pittore Domenico Purificato, autore di molti scritti sul cinema, nonché vicino di casa al mare di Bernari. Nel 1980 mi rivolsi proprio a don Mimì Rea per un sostegno al premio teatrale fondato da Purificato di cui lo scrittore napoletano, amico di famiglia e – posso dire senza tema di esagerare – mio estimatore, era in giuria. Rea mi rispose con un biglietto che oggi giudico divertente, ma che allora faticai a digerire perché prendendomi un po’ in giro mi diceva che poco avrebbe potuto fare per me:

Napoli, 26 marzo 1980 Caro e giovane Enrico, non ho ancora ricevuto il testo della tua commedia; ma sono ad assicurarti soltanto una cosa: concorresse anche Shakespeare, andrò alla riunione col tuo “Maestro sgarbato”. I commissari sono diversi e supponenti e, ovviamente, faziosi. Ma nemmeno io scherzo. Ricordami al carissimo Papà e a Mamma. Tuo Mimì Rea

Naturalmente il mio lavoro teatrale non fu assolutamente preso in consi- derazione, anche perché Rea si dimenticò l’appuntamento per la riunione dei membri del premio, così nessuno mi difese e nessuno si ricordò del mio lavoro. Tuttavia conservo la letterina di don Mimì come un cimelio.

 40 Luigi Pirandello parla ampiamente della sinergia tra letteratura, teatro e cinema: cfr. Grande scrittore nel mondo dello spettacolo (scritti 1926–1936), vedi in particolare la sezione Sul teatro e cinematografo, in Saggi e interventi, cit., pp. 1315–414. 334

335

L’attività teatrale di Carlo Bernari.

A differenza di Zavattini – il quale si è dedicato attivamente al teatro per un solo testo, impegnatissimo com’era nella stesura di scenari cinematografici che in qualche modo surrogavano e amplificavano la forte teatralità della sua scrittura – l’impegno di Bernari in campo drammaturgico è più significativo, anche se poco noto, in qualche caso addirittura sconosciuto alla critica, che non si è mai interessata al faldone con sopra la scritta “TEATRO” conservata presso l’Archivio Bernari. E da quel faldone spuntano le sorprese. Il primo testo teatrale di Bernari, assolutamente inedito e anche a me finora sconosciuto, è Il Re non risponde. Oppure, il frontespizio li riporta tra virgolette, altri possibili titoli: Bernari era solito appuntarsi diversi titoli e poi scegliere quello giusto,

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interrogando amici e parenti sul titolo preferito per testarne l’efficacia. Gli altri titoli suggeriti sono: 1947, Liberazione, La guerra tra noi, La pelle del morto. La commedia, mai citata né proposta a nessun attore o compagnia dallo stesso Bernari, è databile 1953 o ‘54. La datazione si può desumere da un personaggio centrale della commedia, la domestica Rina di 20 anni, come si legge nell’elenco delle dramatis personae: Si tratta di un personaggio che Bernari trae dalla realtà più stretta: in seguito al trasferimento della famiglia Bernari da Milano a Roma nel 1950 in zona Monteverde Vecchio, la tata comasca Rosa che aveva allevato mio fratello maggiore Eugenio, nato nel 1940, resta incinta di Marcella, una bambina che porta il nome di mia madre, e decide di tornare al paese natale sulle rive del lago di Como. A sostituirla arriva da Foligno una pepatissima marchigiana, ventenne, Ottorina Bacarani, cioè Rina. La Rina resterà, fedelissima, in casa nostra – per me fu una seconda madre – fino alla morte dei miei genitori negli anni Novanta. Bernari usa spesso elementi autobiografici o estrapolati dalla realtà a lui vicina nelle opere di fantasia: Rina è uno di questi. Nervosa, permalosa, buona come il pane ma guai a contraddirla: il carattere del personaggio della commedia è esattamente quello della mia balia. La stesura è comunque cominciata qualche anno prima, probabilmente alla fine degli anni Quaranta visto che, come si legge sul frontespizio del dattiloscritto, «l’azione si svolge in una famiglia meridionale trapiantata in una città del nord Italia, fra il 1946 e il 1948.» In questo caso l’autore mischia diversi elementi: la “famiglia meridionale trapiantata in una città del nord” potrebbe rappresentare la stessa famiglia dello scrittore, entrambi i coniugi Bernari sono infatti napoletani, trasferitasi prima a Milano e poi a Roma. L’ambientazione ricorda elementi de La governante, opera quasi coeva (1952) di Vitaliano Brancati. Del resto, vi sono della commedia di Bernari tre stesure: una sinossi per quadri scritta a penna; un dattiloscritto con numerose correzioni a penna riportate in diversi periodi con colori differenti; un’ultima stesura con ulteriori, ma non frequenti correzioni. Insomma, è certamente un lavoro che Bernari si porta dietro per qualche tempo. Ecco un esempio delle tre versioni:

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Il prologo che compare nella prima stesura a penna viene rielaborato successivamente da Bernari, senonché sparisce dalle due versioni dattiloscritte. Si tratta invece di una forma teatrale su cui dobbiamo fermare la nostra attenzione, poiché spiega come Bernari impieghi qualche tempo a liberarsi dell’influenza pirandelliana del Teatro–nel–Teatro, in particolare la struttura metateatrale dei Sei personaggi in cerca d’autore e soprattutto di Questa sera si recita a soggetto. Il prologo “sul teatro” consta di alcune pagine scritte a penna, di getto, con inchiostro nero:

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Il protagonista della commedia si rivolge al macchinista nel tipico stile pirandelliano:

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No, no. Signori. Non è ancora incominciato. E io non sono ancora il personaggio della commedia, come mi vedrete tra poco. Sono l’Autore. Precedo tutti, per avvertire il pubblico che i fatti e le persone di cui si parla in questa commedia non hanno nessun riferimento a fatti e persone reali.

La presenza di una struttura pirandelliana è importante per stabilire che il teatro, almeno come struttura formale, è entrato da tempo nel bagaglio sperimentale di Bernari, che a fatica se ne libera passando dal prologo metateatrale ad una rappresentazione realistica “critica”. In che consiste, dunque, questa critica del reale, cioè il tema della responsabilità collettiva del fascismo e della guerra che l’autore vuole esprimere col suo lavoro teatrale? Lo spiega Bernari stesso in due pagine dattiloscritte che ho rinvenuto piegate all’interno del fascicolo. Si tratta di un’analisi della massima importanza, poiché qui lo scrittore esprime il concetto del palcoscenico come “ente morale” della società, come afferma Lessing nella Drammaturgia d’Amburgo. Un concetto che si riallaccia all’intenzione dello stesso Bernari, risalente a venti anni prima, cioè al 1933, quando rivendicava con Zavattini la necessità di un’arte non astratta dalla lotta economica e politica. Non sfuggirà, in questa sintesi dell’opera a firma dello stesso autore, un ulteriore accostamento a Pirandello, questa volta al narratore: la commedia dà infatti l’impressione di essere una rielaborazione drammatica del romanzo pirandelliano Il fu mattia Pascal, opera che Pirandello, a differenza di molte altre, non tradusse mai in copione teatrale41. Vale la pena di leggere lo scritto bernariano legato alla sua commedia, tenendo presente che il concetto di responsabilità individuale e responsabilità collettiva sono argomenti della massima importanza nell’anno d’oro della drammaturgia italiana (nel 1945 escono contem- poraneamente Napoli milionaria di Eduardo e Corruzione a Palazzo di Giustizia di Betti) che approfondisce tutte le implicazioni, soggettive e oggettive, della responsabilità e complicità, col fascismo nel caso di Eduardo, e con il tradimento degli ideali di giustizia nel caso di Betti.

 41 Una recente adattamento de Il fu Mattia Pascal è stato realizzato da Tullio Kezich nel 1988. 340

La commedia che si compone di un prologo e di 3 atti e che si svolge fra meridionali trapiantati da alcuni anni in una città del nord – vuol rappresentare il problema della “responsabilità” individuale e collettiva di fronte agli assurdi della vita d’oggi.

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Ciascuno è individualmente responsabile delle proprie azioni, ma ciascuno è anche responsabile della responsabilità altrui in una catena che si svolge all’infinito, dall’uno all’altro. Guai quando un anello, qualche tratto di questa catena si spezza per effetto di un arbitrio individuale o per causa di una guerra o di un cataclisma. Come nelle reazioni nucleari non è possibile più controllare gli effetti della “scissione”.

Dal preambolo teorico, Bernari passa ad illustrare più da vicino la sua commedia che presenta dunque significative affinità elettive, anche se non parlare di analogie, con alcune opere del neorealismo italiano, come ad esempio Rocco e i suoi Fratelli di Rosselini o come il testo teatrale di Brancati La Governante, o ancora il film di Germi del 1950 Il cammino della speranza. Tutte e tre le opere citate infatti parlano di famiglie meridionali trapiantate al nord (Roma in Brancati, la periferia milanese nel film di Rossellini, la Francia in quello di Germi). Ecco dunque come Bernari ambienta la sua piéce rimasta finora sconosciuta: «per la raffigurazione drammatica di questo problema si è scelta una famiglia di meridionali trapiantati a Milano […]» Il seguito della storia riassunta da Bernari, in un sorta di soggettino cinematografico, chiama in causa il Pirandello de Il fu Mattia Pascal. Anche nel caso di Bernari il protagonista Fausto (che è anche il nome del figlio di Pirandello) sparisce, in questo caso nel caos della guerra, e viene dato per morto, per poi ricomparire all’improvviso vivo e vegeto. Un fantasma che si ripresenta come Gennaro Jovine, il marito della trafficante Amalia in Napoli milionaria di Eduardo, dato per morto o disperso in Russia, e che poi ricompare col suo carico di sofferenze che nessuno, finita la guerra, vuole più ricordare. Si faccia attenzione a questo particolare, l’elemento della “scomparsa” e poi del “ritorno” doloroso, perché riapre una ferita nella coscienza: Bernari andrà poi ad utilizzarlo, alla fine degli anni Cinquanta, nuovamente nel film Le quattro giornate di Napoli con la figura del reduce che spera, dopo il ’43 di ritrovare una Napoli in pace; e invece deve riprendere la guerra contro l’occupazione nazista. Il tema si ripresenta anche nel penultimo romanzo di Bernari Il giorno degli assassinii42, con il personaggio dell’Accordatore che racconta di aver ucciso la moglie, prostituitasi con i tedeschi, al suo inaspettato ritorno dalla guerra in Russia. Come si

 42 Cfr. BERNARI, Il giorno degli assassinii, cit.. Anche in questo caso l’Accordatore parla della responsabilità, della coscienza, del “dover uccidere” chi ha collaborato o si è dato, come la moglie mentre lui soffriva al gelo del fronte russo, al nazista. 342

può notare si ricompone quell’effetto eco, la sinergia, che spinge la letteratura a farsi teatro, trasformarsi in soggetto (racconto) cinematografico che poi viene ripreso e rielaborato dal processo di scrittura per il cinema. Ma seguiamo il racconto di Bernari a proposito della sua pièce:

[…] famiglia di meridionali trapiantati a Milano] composta di genitori e due figli, Assunta e Fausto; Fausto che ha subito tutti i colpi che la guerra può infliggere ad una creatura umana, un bel giorno è scomparso. Il dolore della famiglia, alimentato da Riccardo, un amico di Fausto, e suo coetaneo, è trasceso in collera dal momento in cui ciascun congiunto, adattandosi alla sua parte di responsabilità, ha preferito considerarlo morto piuttosto che bandito, rapinatore, fuorilegge, come si ha più di un motivo per ritenere che sia diventato.

Scatta a questo punto il meccanismo, tipicamente pirandelliano, della finzione per comodità o quieto vivere, l’adattarsi ad una realtà a cui fa più comodo credere, anche se fittizia:

Finalmente il destino pone sotto gli occhi dei parenti lo sfigurato cadavere di un annegato. Subito tutti si adattano a riconoscere in quei miseri resti le spoglie mortali di Fausto.

Ma a questo punto ecco il fantasma che fa ritorno:

Ma il giorno in cui – ripartiti per il sud i parenti convenuti per i solenni funerali e archiviata la “pratica Fausto” con quella morte non più presunta ma vera – riappare Fausto, – ed ecco che tutto precipita, dolore e gioia, stupore e paura. Il desiderio di lagrime che ciascuno si covava dentro esplode in reciproche accuse e discopre il rovescio della medaglia. A ciascuno, Fausto deve ritogliere qualcosa, a cui pare si era adattato, a ciascuno deve contendere la gioia del dolore, quel dolore che uno può seppellire dentro di sé con un sospiro per epigrafe.

E qui emerge il concetto di “responsabilità” (verso la guerra e verso il fascismo) che Bernari rielabora del tutto originalmente rispetto a Pirandello (che nei confronti del fascismo non volle assumersi ne far assumere ai suoi personaggi alcuna responsabilità):

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Inoltre Fausto riapre il problema della responsabilità che ciascuno si è assunto di fronte alla legge nel riconoscere lui nelle spoglie dell’annegato. Bernari non può essere più esplicito quando conclude:

Occorre togliersi il lutto e con ciò autodenunciarci, tutti, oppure occorre tenerselo addosso finché non sia possibile smistare in qualche modo la incomoda presenza di Fausto? Giocare alle responsabilità come si gioca a carte, d’azzardo, è l’unica soluzione per Fausto; il quale alla fine può chiamarsene fuori che vuol dire: uscire dal gioco43 oppure sottrarsi al giogo della vita.

Concludendo con la lunga lettera–polemica a Bernari che abbiamo visto poco fa, subito dopo l’autodifesa della sua opera teatrale Come nasce un soggetto cinematografico, Zavattini parla a sua volta – e il cerchio si chiude – proprio di quella responsabilità collettiva di fronte al fascismo.

LA NOTTE CHE HO DATO UNO SCHIAFFO A MUSSOLINI44 non è un fallimento ancora più grosso, poveri noi, te compreso, che non abbiamo fatto pressoché niente per avere il diritto di dargli quello schiaffo ed è il senso del libro?

Bernari, a differenza di Zavattini, si dedicherà con discreto impegno al teatro. Al primo testo completamente sconosciuto si aggiungono altri lavori come Roma 335 scritto per il ventennale dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e rappresentato dal Teatro di Roma nel 1973 con la regia di Giorgio Ferrara. Significativo anche un testo. L'attesa, anch’esso risalente alla fine degli anni Cinquanta, andato in scena nell’estate del 1992 nell’ambito del Festival del Teatro italiano di Fondi. In quest’opera torna il tema della responsabilità collettiva di fronte alla corruzione dilagante di un paese perennemente a rischio di smottamento sociale, economico e morale. Va anche, in ultimo, segnalato che Bernari ha sempre avuto gli occhi bene aperti sulla possibilità di una rappresentazione drammatica dei conflitti e delle problematiche dell’Italia contemporanea. Ciò è dimostrato dai suoi “appunti per atti brevi”, in cui si trovano alcuni foglietti contenenti idee per il teatro:

 43 Il concetto di “non stare al gioco” qui elaborato per la prima volta, ritorna nella Nota ’65 alla prima edizione Oscar di Tre operai, op. cit, quando lo scrittore presenta la sua opera al lettore parlando del «furore di un giovane che non vuol stare al gioco.» 44 Maiuscolo nel testo originale, ndr. 344

Solo a questo punto è comprensibile come il teatro venga a rappresentare per Bernari – e anche per Zavattini – come una seconda pelle, una struttura di base, a partire dalla stessa formazione dell’autore accompagnato in una maturazione artistica con due compagni di vita come il critico teatrale e pittore Paolo Ricci e i drammaturghi Raffaele Viviani, Ugo Betti, Eduardo De Filippo. Del resto il senso della “teatralità”, dell’elemento e delle regole della drammatica, sono indispensabili per chi, come Bernari e Zavattini, partono dalla narrativa per approdare al cinema, attraverso la fotografia e, appunto, il teatro. Non dovremmo poi nemmeno dimenticare la pittura, un’arte che a sua volta rappresenta, e con questo ci riallacciamo all’inizio del nostro discoroso, un termine visivo, una dimensione di partenza e, come stiamo per concludere, di arrivo. In questo senso si spiega il titolo del saggio di Bernari sul Tintoretto, Il teatrale Tintoretto45, in cui si legge:

Che egli (Tintoretto, ndr) si servisse di modellini scenografici per “montare” le sue Cene, le sue Lavande, i suoi Miracoli, quali vere e proprie favole o rappresentazioni drammatiche, si è detto; resta da aggiungere che la disponibilità che egli dimostrò verso il teatro non fu casuale in lui, ma gli derivava da una tendenza culturale che da privilegiata finì per essere comune negli ultimi decenni del Secolo. Può dirsi che egli sia stato allevato nel clima teatrale, che ha alle sue origini la commedia letteraria, cui si si sostituirà quella popolare, poi, a preludio della commedia dell’arte. Dalla Calandria del Cardinal Bibbiena, alla Venexiana di un anonimo, agli Ingannati del Picco– lomini, fino alle commedie del Machiavelli, del Caro, dello stesso Aretino, fu un pullulare di temi ispirati a Plauto, ma con innesti boccacceschi, che via via trarranno alimenti sempre più freschi dalla vita reale: innesti i quali, preparano l’avvento al più prestigioso interprete delle vicende del contado pavano: il Ruzzante.

Il «pullulare di temi (pittorici, ndr) ispirati a Plauto, ma con innesti boccacceschi, che via via trarranno alimenti sempre più freschi dalla vita reale», apre dunque la strada, secondo Bernari, alla nascita di un realismo moderno, alias del neorealismo nelle forme del linguaggio visivo della contemporaneità. Negli ultimi anni di vita Bernari riprese in mano i pennelli realizzando due tele che vennero esposte in occasione di una mostra nazionale intitolata Scrittori che dipingono. Uno dei due quadri è un autoritratto fortemente, volutamente teatrale, pirandelliano: accanto all’effige di Bernari stesso che da pittore si raffigura scrittore,  45 BERNARI CARLO, Prefazione a “L’opera completa del Tintoretto”, a cura di Pierluigi De Vecchi, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 7–8. Il volume è stato successivamente ristampato da FMR. 345 una maschera simboleggia il tema della teatralità dell’esistenza e della “doppia realtà”, quella noumenica, inconoscibile, e quella propria della rappresentazione. Sull’altro lato, quasi in primo piano, la lampada a petrolio della nonna: in verità erano due e ornavano le estremità di un tavolo ovale tardo–ottocentesco di casa Bernari. Ma anche in questo caso abbiamo a che fare con un simbolo: la luce, sicuramente una citazione, tanto semplice quanto efficace per spiegare l’ékphrasis – ovvero il “discorso descrittivo che pone l’oggetto davanti agli occhi con vivida chiarezza” – di un concetto illuministico. In questo autoritratto Bernari si rappresenta, insomma, come un cercatore di verità, un intermediario tra la verità nascosta dalla maschera e la luce della ragione come strumento di ricerca. Temi, questi che, fin dai 32 pensieri sulla natura/paura, di cui abbiamo già parlato, risalenti alla fine degli anni Venti, per concludere con l’ultimo romanzo Il giorno degli assassinii (1980), contraddistinguono la narrativa di Bernari “giallista” che, nel definire “l’arte come paura” con un percorso che dalla fenomenologia di Feuerbach giunge a Hitchcock, trasforma l’artista in un vero e proprio Inquirente.

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Conclusioni.

Attraverso il suo autoritratto “teatrale”, neanche troppo velatamente “pirandelliano”!, Bernari riconduce al tema iniziale della rappresentazione pittorica, attraverso il teatro. Il compito che ci eravano prefissi era quello di dimostrare come la “teoria” neorealista – non si può infatti più parlare di un genere o di uno stile, ma di un vero e proprio movimento filosofico, artistico e politico interessato alla critica della realtà e della società, al cambiamento più che all’interpretazione, proprio come voleva Marx – getti le basi di un complesso pensiero che travalica l’arte, l’estetica, la forma della rappresentazione, per preoccuparsi della trasformazione, con gli strumenti propri della nuova “società delle immagini” del reale. Nasce da questa “volontà etica” quel tipo di linguaggio neorealista – spesso e, in qualche caso come abbiamo visto, volentieri malinteso dalla critica – che usa l’immagine al posto del concetto, la visione al posto dell’ideologia, creando una nuova forma di comunicazione in cui la parola e la stessa letteratura sembrano voler sconfinare nell’ideogramma, nel visivo e, come in un teatrale rispecchiamento della realtà, nel “visionario”. In una brillante analisi 46 sull’”ibridismo” teatro-narrativa nella letteratura contemporanea da Verga e Pirandello (ricordiamo che ben 29 delle 43 opere drammatiche che compongono la raccolta di Maschere nude hanno un’origine letteraria) fino agli autori contemporanei, tra cui chi scrive, Annunziata Acampora presenta un’ampia bibliografia47 di studi e ricerche su questo attualissimo tema. Per brevità rimando allo studio della Acampora, facilmente consultabile online, per tutti gli approfondimenti ulteriori. Mi sta però a cuore citare un brano, al di là del fatto che mi riguarda direttamente, per dimostrare come il concetto dell’“ibridismo”48, mentre qui si parla di “sinergia” che in fondo è la stessa cosa, sia diventato una costante della letteratura contemporanea:  46 ACANFORA ANNUNZIATA, Teatro e romanzo nella produzione letteraria contemporanea, progetto di ricerca attivato presso il Dipartimento di Letteratura, Arte, Spettacolo dell’Universita ̀ degli Studi di Salerno (responsabile del progetto Prof.essa Antonia Lezza), pp. 7-20, online: http://elea.unisa.it:8080/jspui/bitstream/10556/785/1/A.%20Acanfora.%20Teatro%20e%20romanzo%20 nella%20produzione%20letteraria%20contemporanea.pdf 47 Cfr. in particolare su questo argomento: BÁRBERI SQUAROTTI GIORGIO, Le sorti del tragico. Il Novecento italiano: romanzo e teatro, Ravenna, Longo Editore, 1978. SEGRE CESARE, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984. 48 Sull’etimologia della parola ibridismo cfr.: MERCURI ROBERTO, Intertestualità e ibridismo, in Generi letterari. Ibridismo e contaminazione, a cura di Annamaria Sportelli, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 88-9.  347

Oltre ai numerosissimi casi di traslitterazione dal romanzo al teatro, occorre ricordare il procedimento inverso, ossia la trasformazione di un testo teatrale in romanzo. Nella letteratura italiana la trasposizione dalla scena alla narrativa è una procedura poco frequente, infatti, accanto al celebre Dal tuo al mio di Verga, si registrano pochissimi episodi quali Sogni e bisogni... incubi e risvegli49 di Vincenzo Salemme La voragine di Enrico Bernard. Si tratta di due esempi inusuali di un’opera nata per il teatro e trasformata in romanzo dallo stesso autore. Nel primo caso Salemme trae dallo spettacolo Sogni e bisogni (2001) un singolare romanzo, strutturato in capitoli contenenti episodi conclusi come se fossero delle micro-scene di una commedia con ambientazioni autonome; con il romanzo La voragine50, a distanza di dieci anni dal debutto del testo teatrale, Bernard ritiene di aver dato vita a un nuovo genere letterario: il “treatment teatrale”. 51

Effettivamente in un’intervista ho rilasciato questa affermazione che rappresenta pure la cartina di tornasole della mia analisi:

In verità mi sembra di aver scritto un nuovo testo letterario. E ̀ stata questa primavera che, rileggendo dopo un decennio il testo teatrale, sono stato colpito dall’apparato dialogico che poteva anche vivere pienamente in un testo letterario. Da qui la decisione a riprenderlo e conferirgli un andamento narrativo. Ho pensato, non lo nascondo, al grande successo della trattatistica nel nostro Rinascimento, un genere letterario divenuto obsoleto, e che invece trovo di grande attualità e modernita.̀ E ̀ venuta da sola la decisione di definire la mia tecnica narrativa “Treatment teatrale”. 52

Oggi il nuovo autore “neorealista” andando oltre la sinergia di varie arti – dalla pittura al teatro, dalla fotografia al cinema, – che ha caratterizzato la prima fase, dal verismo di fine Ottocento al neo–neorealismo del secondo Novecento passando per il proto–neorealismo di Bernari e Zavattini – si avvale di un nuovo strumento di comunicazione che, ancora una volta, è sia linguistico–letterario che visivo–filmico: il digitale.53

 49 SALEMME VINCENZO, Sogni e bisogni... incubi e risvegli, Milano, Mondadori, 2002. 50 BERNARD ENRICO, La voragine, Roma, Edizioni Studio 12, 2008.                 52 TOSTI MARIO, “Voragine”, un testo teatrale di Enrico Bernard, diventa un’opera di narrativa. E ̀ nato un nuovo genere letterario?, in http://www.italiafestival.it/detail.asp?sid=984  53 Esempio dell’attualità di questa sperimentazione – iniziata con Verga e Capuana e proseguita con 348

Così il neorealismo che affonda le sue radici storiche nel verismo di Verga per poi inglobare, con Bernari e Zavattini, le arti visive del Novecento, si ripropone, nell’era del digitale, come uno strumento, non tanto e non solo di lettura o rappresentazione formale, ma di critica e, in ultima istanza ideale – o idealistica che dir si voglia – di “rivoluzione” e trasformazione della storia. L’attualità di questo “bildnerisches Denken”, il “pensare per immagini”54, usando una definizione di Paul Klee, si ripresenta dunque come la forma dell’arte contemporanea che nasce dalla commistione, dalla sinergia, ma a questo punto dovremmo parlare piuttosto di sintesi, tra parola e immagine, tra rappresentazione visiva e comunicazione contenutistica. Infatti, senso e percezione, per concludere, formano la base di partenza dell’espres– sione artistica che scaturisce, come asseriva Bernari già negli aforismi del 1929, dalla paura, dalla sensibilità feuerbachiana che pone il problema della realtà e – per estensione – della realtà storica e sociale che l’artista si impegna a rappresentare criticamente. Ed è bello chiudere questa ricerca delle “vere” radici del neorealismo con una “chicca” fotografica: il drammaturgo Raffaele Viviani sorpreso nel camerino al trucco dal giovane fotografo Carlo Bernari.

 Bernari e Zavattini – è l’annuncio dell’imminente uscita di un’edizione, a cura di Massimo Arcangeli, del Decamerone in forma di “tweet” realizzata dalla Società Dante Alighieri per il 700° anniversario della nascita di Giovanni Boccaccio. Cfr., DI PAOLO PAOLO, Boccaccio in forma di tweet, in «Il Messagero di Roma», domenica 11 agosto 2013, p. 21. 54 Cfr. RELLA FRANCO, Pensare per immagini. Una metafisica paradossale, in «Anterem», giugno 2013, anno XXXVIII, n. 86, pp. 77– 9. 349

La foto, risalente ai primi anni Trenta, sarà pubblicata qualche decennio dopo dallo stesso Bernari, a testimonianza e riprova di quanto fin qui enunciato, in Bibbia napoletana 55 : un’opera composita e sinergica tra iconografia, fotografia, analisi etnologica, reportage giornalistico e elaborazione letteraria che andrà ulteriormente analizzata alla luce di quanto emerso sin qui. Un segnale importante, ad esempio, è la recentissima (2012) ricerca56 di Silvana Cirillo sulle sinergie della variegata produzione artistica e letteraria di Zavattini. La Cirillo mette in evidenza l’influenza surrealista sul neorealismo zavattiniano che si è avvalso dell’apporto teorico e dell’amicizia di Carlo Bernari, al quale è dedicato un ampio capitolo del volume. Così la “questione neorealista” comincia a non rappresentare più un oggetto misterioso agli occhi della critica che, a questo punto, non può rimandare la risposta alla sollecitazione di Antonio Vitti – citato all’inizio - circa la necessità di “ripensare il neorealismo”.

 55 BERNARI, Bibbia napoletana, cit., p. 119. 56 CIRILLO SILVANA, Za l’immortale, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2012. 350

BIBLIOGRAFIA

La presente ricerca si fonda in gran parte sul carteggio Bernari-Zavattini conservato sia a Roma, presso il Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, sia a Reggio Emilia presso l’Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi. A Roma si trovano gli orginali ricevuti da Bernari, mentre a Reggio Emilia sono archiviati gli orginali delle lettere da lui spedite a Zavattini. Tuttavia i due archivi si sono scambiati le copie rispettive, per cui è possibile valutare e analizzare l’intero carteggio in entrambe le strutture scientifiche. Va ricordato che gran parte delle missive spedite da Bernari a Zavattini tra il 1932 e il 1942 sono andate distrutte: è stato lo stesso Zavattini a bruciarle temendo perquisizioni della polizia fascista in seguito all’arresto di Guglielmo Pierce e dell’adesione di Bernari alla Resistenza. Quasi tutte le missive sono o datate in calce dagli autori, oppure riconducibili alla data del timbro postale. Nel primo caso si troverà la dicitura “datata” altrimenti si è adottata la dicitura “data del timbro postale”. Solo alcune lettere sono prive di una datazione precisa: in questo caso si è indicato il periodo approssimativo derivante dal contesto e dal contenuto delle missive stesse. In questo caso si è adottata la dicitura “s.d.” (senza data). “Ms.” sta per “ms.”, “mss.” per “manoscritte, manoscritti”.

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FONTI PRINCIPALI:

LETTERE DI CESARE ZAVATTINI A CARLO BERNARI (in ordine di pubblicazione)

Lettera dattiloscritta, autografa, datata 2 settembre 1981, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, datata marzo 1940, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, datata 6 febbraio 1984, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Telegramma spedito a “Bernari presso Municipio di Gaeta”, data di spedizione del 12 ottobre 1979, inedito, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l'arte delal stampa, Milano”, indirizzata “Bernard-Peirce/ via 4 Fontane 4/ Roma, data del timbro postale (Milano, 1. II. 33), inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, con correzioni, autografa, indirizzata a “Carlo Bernari / via Franchetti 1 / Milano”, datata Roma, 10 novembre 1951, pubblicata in: BERNARI CARLO, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, Milano, Mondadori 2005, p. 240 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l'arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/4 Fontane 4 / Roma, data del timbro postale, Milano 29. II. 1934, pubblicata in: BERNARI, Tre operai a cura di Francesca Bernardini, cit. p. 234 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, datata Milano, 5 marzo 1934, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’Arte della Stampa, Milano”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera datata Santa Liberata (Grosseto) 20 settembre 1938, autografa, redatta con macchina da scrivere e ricopiata da Bernari a macchina da scrivere per la conservazione nel suo archivio (Fondo Carlo Bernari,Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, datata 1932, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, data del timbro postale illeggibile (presumibilmente gennaio 1932) indirizzata a “Bernard-Peirce/Via 4 Fontane/ Roma”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale del 6 agosto 1932, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane, 4 / Roma”, data del timbro postale, pubblicata in: BERNARI, Tre

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operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms. [1932], autografa, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms. [1933], autografa carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a Sign. Carlo Bernard/via Quattro Fontane 4/Roma”, data del timbro postale Milano 7 ottobre 1932, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard/Via 4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale [Milano 26 ottobre 1932], inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard/Via 4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale [2 novembre 1932], inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard/Via 4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale [Milano 27 dicembre 1932], inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard/Via 4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale [Milano il 27 gennaio 1933], inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Casa editrice V. Bompiani & C.S.A., Milano”, indirizzata a “S. Carlo Bernard/Quadrivio/Piazza di Spagna, 66/Roma”, datata a mano Milano 12 settembre 1934, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Casa editrice Valentino Bompiani & C.S.A., Milano”, pubblicata in: BERNARD ENRICO, Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 373(Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’Arte della Stampa, Milano”, indirizzata “Bernard-Peirce/via 4 Fontane 4/Roma” data del timbro postale Milano, I. III. 33 -XI, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Lettera dattiloscritta, autografa, indirizzata a “Carlo Bernari/via Franchetti 1/ Milano” datata Roma, 7/2/1950, la data è sottolineata dallo stesso Zavattini con un punto esclamativo accanto, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», Fascicolo I-II/Anno 2012, Cosenza, Rubettino Editore, 2012, cit., pp. 356-7 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, firma ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Sign. Carlo Bernard presso Quadrivio, via Due Macelli 12, Roma”, datata Milano, NF/17 febbraio 1936/XIV, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I- II/Anno 2012, cit., p. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma)

Lettera ms., autografa, s.d., indirizzata “Sign. Carlo Bernard, Via dei Maroniti 7 [ROMA] – 1936”, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, s.d., carta intestata “Edizioni Walt Disney – Mondadori”, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili»,fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 374 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Edizioni Walt Disney – Mondadori”, indirizzata a: Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma, data del timbro postale, Milano, 27. I. 37. XV, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 376 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, firma e correzioni mss., autografa, carta intestata “Anonima Periodici Italiani, Milano”, data del timbro postale, Milano 24 aprile 1938 – XVI, indirizzata “Egregio Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma”, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I- II/Anno 2012, cit., p. 377 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Anonima Periodici Italiani, Milano”, data del timbro postale, Milano 4 luglio 1938 – XVI, indirizzata “Egregio Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma”, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 377 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Anonima Periodici Italiani”, Milano, data del timbro postale, Milano 19 settembre 1938 – XVI, indirizzata “Egregio Sign. Carlo Bernard / via Ennio Quirino, 85 int. 13 / Roma”, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 377-8 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, data del timbro postale, Milano 6 aprile 1934, XII, indirizzata a “Bernard / 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano, 9. 4. 34, inedita, pubblicata in CESARE ZAVATTINI, Una, cento mille lettere, a cura di Silvana Cirillo,

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Milano, Bompiani, 1998, cit. p. 37, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, data del timbro postale, Milano 19 settembre 1938 – XVI, indirizzata “Bernard / 4 Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale Milano, 9. 4. 34, pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., p. 380 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, carta intestata, Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano , datata Milano primavera 1934, pubblicata parzialmente in: ZAVATTINI, Una, cento mille lettere a cura di Silvana Cirillo, cit., p. 35, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano, indirizzata a Carlo Bernard / Piazza di Spagna, 66 / Quadrivio / Roma, data del timbro postale, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms. autografa, carta intestata “Rizzoli&Co. Anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sg. Carlo Bernard, presso Lucon, via Quintino Sella, 15 / Roma”, data del timbro postale, Milano 31 marzo 1932, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit., p. 32 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale Milano 26 settembre 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard / via Cesario Console 3 / Napoli”, data del timbro postale Milano 22.10.1933, già pubblicata in: BERNARI, Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit., p. 221 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/4 Fontane 4/Roma”, data del timbro postale Milano 25.11.33, pubblicata in BERNARI, Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit., p. 222 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard/via Cesario Console 3/Napoli”, data del timbro postale, Milano 30 novembre 1933, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit. p. 34 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Bernard / via Quattro Fontane / 4 Roma”, data del timbro postale, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, datata Milano aprile 1934, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit., p. 35 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, datata Milano aprile 1934, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit., p. 38 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., dal contesto riconducibile al periodo della lettera precedentemente citata dell’aprile 1934 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, indirizzata “Bernard / Quattro Fontane 4 / Roma”, inedita, data del timbro postale 4 luglio 1934, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d. (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa. Milano”, inedita, s.d., (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. Anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata “Carlo Bernard / presso Quadrivio / Piazza di Spagna 66/ Roma”, data del timbro postale non leggibile, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Premio della notte di Natale”, data del timbro postale non leggibile, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, data del timbro postale non leggibile, nella parte finale il foglio è strappato, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C.. anonima per l’arte della stampa, Milano”, datata 1935, pubblicata in: ZAVATTINI, Una, cento, mille lettere, a cura di S. Cirillo, cit., p. 38 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, indirizzata a “Carlo Bernard / presso Quadrivio / Piazza di Spagna, 66 / Roma”, data del timbro postale, Canzo, Villa Magni (Grimello)

357

1935, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C.. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “C. Bernard / Largo del Tritone 7 / Roma”, inedita, datata 27 gennaio 36, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa”, datata 1936, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera, ms., autografa, indirizzata a “Carlo Bernard, via dei Maroniti 7 / Roma”, datata 1936, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, firma e correzioni mss., carta intestata “Anonima Periodici Italiani, Milano” indirizzata a “Pre.mo Sign. Carlo Bernard / via dei Maroniti 7 / Roma”, datata 4 luglio 1938, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera datata Roma, 24. 10. 80. Di questa missiva esistono sia la versione in bozza ms. che quella dattiloscritta che pure presenta numerose correzioni a penna, entrambe inedite, (bozza ms. in Archivio Cesare Zavattini e lettera dattiloscritta in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, senza data ma collocabile dal contesto nel luglio 1941, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, datata Roma 7 / 11 /1941–XX, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, con note correzioni mss., autografa, datata 26/11/1941-XX, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, datata per errore 1/11/41 (in realtà è il 1° dicembre), inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera ms., autografa, (sottolineature nell’originale, ndr), senza data, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, con aggiunte mss., datata Roma, 28 Febbraio 1942- XX, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera dattiloscritta, autografa, datata Roma, 31 gennaio 1951, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale, ms., autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa”, Milano”, indirizzata a “Bernard-Peirce / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, datata Milano, 20 febbraio 1933, inedita (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

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LETTERE DI CARLO BERNARI A CESARE ZAVATTINI (in ordine di pubblicazione)

Lettera ms., autografa, carta intestata “Albergo Residence di Parco Margherita a Napoli”, datata 14 maggio 1963, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Cartolina postale, ms., autografa, spedita da Gaeta, datata 15 agosto 1977, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Cartolina postale ms., autografa, spedita da Gaeta, datata 1 settembre 1979 (timbro postale del 04 settembre), inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera dattiloscritta, con correzioni e firme mss., autografa, pubblicata in: BERNARI, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini cit. pp. 215-217, datata Roma, 21 febbraio 1933 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera ms., autografa, senza data, presumibilmente febbraio 1950, sottolineature nell’originale, pubblicata in: BERNARD E., La narrativa di Bernari tra cinema e fotografia, Atti del Convegno «Bernari tra narrativa e arti visive», marzo 2013, Università la Sapienza, Roma in «Rivista di Studi italiani» nr. 4, Settembre 2013; ripubblicata successivamente in BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 358-60 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera dattiloscritta, autografa, con correzioni e aggiunte mss., carta intestata “Piccola Enciclopedia / Viale Belle Arti 7 / Roma”, datata Roma 19 aprile 1961, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera dattiloscritta, con correzioni e aggiunte mss., autografa, “Bernard”, datata 21 febbraio 1933, pubblicata in: BERNARI, Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit., pp. 215–217 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Quadrivio grande settimanale letterario illustrato di Roma”, datata 31/7/34, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera ms., autografa, carta intestata “Quadrivio grande settimanale letterario illustrato di Roma”, datata 28/8/34, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera ms., con numerose correzioni e note, busta mancante, datata a penna rossa “51”, probabilmente dallo stesso Zavattini che la archivia, inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

Lettera dattiloscritta in due versioni, autografe, entrambe con numerose correzioni mss., portano la data Roma, 9 nov. 1951 e Roma 10 nov. 1951, entrambe inedite (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

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Lettera ms., autografa, datata successivamente da Zavattini - sua la calligrafia dell’appunto a matita sul lato “c’è già” e il memorandum in maiuscolo “BERNARI” - nell’archiviarla 26 novembre 1968, inedita (Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina postale ms., autografa, datata 28 / 2 / 77, inedita (Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera di due pagine dattiloscritta con alcune correzioni a penna nera e la data sottolineato in rosso, autografa, datata “oggi 21. 10. 80”, inedita (Archivio Cesare Zavattini e copia in Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Cartolina Postale, ms., autografa, indirizzata “Cesare Zavattini e Signora via S. Angela Merici 40 Roma”, datata Gaeta-Via Catena 1- 20 agosto 1962, inedita, (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). Nell’originale compare la scritta a matita di pugno di Zavattini “Bernari” ed una lettera B maiuscola in rosso probabilmente per motivi di ordine di catalogazione.

Cartolina postale, ms., autografa, indirizzata “Cesare Zavattini via S. Angela Merici 40 Roma”, datata Gaeta 4 settembre 1979 (il giorno nella datatazione ms. è illeggibile ma il timbro postale è del 4), inedita (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia).

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ALTRE FONTI:

Lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, pubblicata nel catalogo della commemorazione Roma Ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte, Roma 2002 (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera di Carlo Bernari a Rocco Capozzi, 13 nov. 1974. Il carteggio Bernari–Capozzi è pubblicato in «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, nr. 2 Dicembre 2008, pp. 248– 85.

Manoscritto de 32 pensieri sulla paura di Carlo Bernard (Bernari), 12 foglietti mss., con numerose aggiunte e correzioni, poi rielaborato in 32 pensieri sulla natura, pubblicato in: BERNARD E., Bernari tra paura e natura, «Forum Italicum», New York, vol. 42, Nr. 2, 2009, pp. 403–15.

Dattiloscritto dell’articolo di Carlo Bernari per «Il Mattino di Napoli» Cantatore ovvero della scrittura, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera-email di Giose Rimanelli ad Enrico Bernard del 28 ottobre 2008.

Lettera di Eduardo De Filippo ad Enrico Bernard, dattiloscritta, autografa,datata Roma 2. 10. 80, inedita, (collezione privata Enrico Bernard).

Sceneggiatura de La promessa dell’alba di Carlo Bernari e Cesare Zavattini, dattiloscritto con correzioni mss. sia di Bernari che di Zavattini, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Dattiloscritto della riduzione cinematografica di Carlo Bernari del romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli, s.d., composto di 73 pagine rilegate, inedito (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Trattamento cinematografico Un italiano a Londra di Carlo Bernari e Eduardo De Filippo, dattiloscritto, inedito (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera di Vasco Pratolini a Enrico Bernard, ms., autografa, datata Roma 24 maggio 1987, inedita (collezione privata Enrico Bernard).

Lettera di Domenico Rea ad Enrico Bernard, ms., autografa, datata Napoli, 26 maggio 1980, inedita (collezione privata Enrico Bernard).

Lettera di Giacinto Spagnoletti ad Enrico Bernard, dattiloscritta con un postscrittum manoscritto, autografa, datata Roma 1 giugno 83, pubblicata in: Bernard E., Buchi nella sabbia, poesie di Enrico Bernard, Trogen (Svizzera), Bea entertainmentart, 2013, p. 5, (collezione privata Enrico Bernard).

Scritti teatrali e appunti per drammi e commedie di Bernari su numerosi fogli dattiloscritti e altri mss., inediti (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Biglietto manoscritto di Romualdo Farinelli a Carlo Bernari, allegato allo scenario di Cristo si è fermato ad Eboli, redatto con inchiostro verde, datato PG – domenica 12 / 3,

361 indirizzato, sottolineatura dell’iniziale del nome R (Romualdo) nell’originale, inedita, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Lettera manoscritta di Vasco Pratolini a Enrico Bernard, autografa, indirizzata a “Enrico Bernard via B. Gosio 85, Roma”, datata “Roma 24 maggio 1987 (Collezione privata Enrico Bernard).

Lettera di Eduardo De Filippo ad Enrico Bernard, dattiloscritta, autografa, indirizzata a “Enrico Bernard, via Bartolomeo Gosio 85, Roma”, datata “Roma, 2.12.80 (Collezione privata Enrico Bernard).

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OPERE DI CARLO BERNARI

Narrativa

BERNARI, RICCI, PEIRCE, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, Il Manifesto, firmato da Carlo Bernard, Guglielmo Peirce e Paolo Ricci, uscí a Napoli (S.I.E.M., 1929) e su «L’Impero», 30 gennaio 1929, firmato dal solo Guglielmo Peirce; è stato ripubblicato in: CAPOZZI, Bernari tra Fantasia e Realtà (v. Capozzi). BERNARI CARLO, Il gigante Cina, Milano, Feltrinelli, 1957. BERNARI CARLO, Il gigante Cina, riedizione a cura di Enrico Bernard, con alcune foto dell'Autore, Roma, Editori Associati, 1990. BERNARI CARLO, Nota 1965, postfazione dell’A. alla prima edizione Oscar Mondadori di Tre Operai, Milano, 1966. BERNARI CARLO, Tre operai, Milano, Mondadori, 1951. BERNARI CARLO, Il giorno degli assassinii, Milano, Mondadori, 1981. BERNARI CARLO, Il grande letto, Milano, Mondadori, 1988. BERNARI CARLO, Quasi un secolo, Milano, Mondadori, 1940. BERNARI CARLO, Morte di una ragazza, in «Il Tevere», IX, 1 e 2 ottobre 1932, p. 234; Il ragazzo del XV Lotto, in «Il Tevere», IX, 12-13 ottobre 1932, p. 242; Giornata di sole, in «Il Tevere», IX, 1 -2 novembre 1932, p. 260; tutti ora in Tre operai, Appendice L’officina dello scrittore, ed. Oscar Mondadori, 2005, a cura di F. Bernardini, cit., pp. 181-98 BERNARI CARLO, Tanto la rivoluzione non scoppierà, Milano, Mondadori, 1976. BERNARI CARLO, Amore amaro, Firenze Vallecchi, 1958. BERNARI CARLO, Speranzella, Milano, Mondadori, 1949. BERNARI CARLO, L’ombra del suicidio, a cura di Enrico Bernard, Roma, Newton Compton 1994.

Saggistica e articoli di Carlo Bernari.

BERNARI CARLO, Tre linee di lettura, in «Rinascita», n. 29, 17 luglio 1965, p. 28. BERNARI CARLO, Commemorazione di Massimo Bontempelli», in «L’europa Letteraria», ottobre 1960, p. 7-8. BERNARI CARLO, Opera, in «L'Italia vivente» , II, 15-31 agosto 1932, p. 14. BERNARI CARLO, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/36. BERNARI CARLO, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su “Tre operai” e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482. BERNARI CARLO, Il teatrale Tintoretto, prefazione a L’opera completa del Tintoretto, Milano, Rizzoli, 1970, pp. 5-8. BERNARI CARLO, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973. BERNARI CARLO, L’Europeo nella Cina di Mao Tse–Tung. È una luna affollata, ne «l’Europeo» dell’8 gennaio del 1956, pp. 7–11. BERNARI CARLO, Nostro film quotidiano, in «Paese Sera» del 27 febbraio 1951, p. 3. BERNARI CARLO, Risposte a «Questioni sul neorealismo», in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957, pp. 57-60; poi rielaborato col titolo Questioni sul neorealismo in: Non gettate via la scala (v.), pp. 107-12.

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BERNARI CARLO, Esiste una crisi del neorealismo, in «Rinascita», nr.12, 1953, pp. 684-7. BERNARI CARLO, Visite a Don Benedetto, in Bibbia Napoletana, Firenze, Vallecchi, 1961, p 131-43. BERNARI CARLO, L'arte è paura, ovvero la realtà della realtà, in Non gettate via la scala (v.), pp. 66-73. Il saggio riprende gli aforismi 32 pensieri sulla paura del 1929-30, ritrovati da Enrico Bernard nel 2004 sotto forma di 12 fogli di diario mss. e pubblicati in: BERNARD ENRICO, Bernari tra natura e paura con la trascrizione dei 32 pensieri sulla paura di Carlo Bernari, in «Forum Italicum», New York, vol. 42, nr. 2, 2009, pp. 403-15. BERNARI CARLO, Cinema, fra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del cinema italiano», n. 9, agosto 1953, pp. 7-29. BERNARI CARLO, Romanzo e film, in «Punti d’incontro», in «La Settimana», n. 8, 1 mar. 1945, p. 15. BERNARI CARLO, Film e arte narrativa, in «Tempo», 11 gen. 1940, p. 2. BERNARI CARLO, Le mie faticose quattro giornate, in «Cinema Nuovo», novembre- dicembre 1963, pp. 428-35. BERNARI CARLO, I pornostanchi, in «Tempo illustrato» 23 agosto 1969, p. 14-5. BERNARI CARLO, Criminalità e tensione documentaria57, inedito del 1967 servito poi per un altro intervento intitolato Il banditismo come soggetto di opere di narrativa, teatrali e cinematografiche, in «Ulisse», aprile 1969, pp. 164–74. BERNARI CARLO, Neorealismo ed etnologia, in «Paese Sera» del 27 febbraio 1951, p. 3. BERNARI CARLO, Cantatore o della scrittura, in «il Mattino di Napoli», 15 ottobre 1986, p. 3.

 57 Nel titolo del dattiloscritto originario vi è un errore di battitura: Criminalità e tensione documentatia. Ovviamente Bernari intedeva “documentaria” e non “documentatia”, senonché qualche lettore ha tradotto erroneamente con “documentata” stravolgendo l’assunto bernariano che non parla di “tensione documentata” bensì della forza dell’artista che deve spingere l’arte oltre il documento. 364

ALTRE FONTI LETTERARIE.

AA.VV., Le quattro giornate di Napoli, collana «Il Cinematografo» diretta da Enrico Rossetti, Roma, FM edizioni, agosto 1962. ARIOSTO LUDOVICO, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1982. BERNARD ENRICO, La voragine, Roma, Edizioni Studio 12, 2008. BETTI UGO, Le Case, raccolta di racconti, Milano, Mondadori, 1933. BRANCATI VITALIANO, La governante, con il saggio Ritorno alla censura, Milano, Bompiani, 1986, pp. 5-79. CALVINO ITALO, Prefazione 1964 a Il sentiero die nidi di ragno, in Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori Meridiani, 2003. CALVINO ITALO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980. CERVANTES MIGUEL DE, Don Chisciotte della Mancia , versione di Bartolomeo Gamba, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d. CROCE BENEDETTO, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I, Bari Laterza, 1928. DE FILIPPO EDUARDO, Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1956. GOLDONI CARLO, Memorie, Milano, Bur, 1980. MALERBA LUIGI, Il pataffio, Milano, Bompiani, 1978. MANN THOMAS, Saggio su Lessing, in Saggi e scritti, Milano, Mondadori, 1958. MARCUSE HERBERT, One dimensinal man. Studies in the Ideology of advanced industrial society, Boston, Bacon Press, 1964. PASOLINI PIER PAOLO, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961. PIRANDELLO LUIGI, Arte e scienza, in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 2006. PIRANDELLO LUIGI, Esternamenti, in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 2006. PIRANDELLO LUIGI, Acciaio, a cura di Claudio Camerini, Torino, Nuova Eri 1990. PIRANDELLO LUIGI, intervista apparsa in «Neue Freie Presse», firmata T.C. [trad. Michele Cometa] raccolta in Grande Scrittore nel mondo dello spettacolo. Su teatro e cinematografo, in Saggi e interventi, a cura di G. Macchia, Milano, I Meridiani Mondadori, 2006. PISCATOR ERWIN, Il teatro politico, Torino, Einaudi, 1975. SALEMME VINCENZO, Sogni e bisogni... incubi e risvegli, Milano, Mondadori, 2002. VERGA GIOVANNI, I Malavoglia, in Id., Opere, a cura di L. Russo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965. VERGA GIOVANNI, L'amante di Gramigna, in Id., Tutte le novelle, vol. I, Milano, Mondadori («Gli Oscar» ), 1968. VERGA GIOVANNI, Lettere inedite di Giovanni Verga raccolte e annotate, a cura di Maria Borgese, in «Occidente», IV, vol. X-XI, 1° gennaio-30 aprile 1935. VERGA GIOVANNI, Tutto il teatro, Milano, Garzanti, 2009. VITTORINI ELIO, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957. VITTORINI ELIO, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. ZAVATTINI CESARE, Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre 1953, in «Rivista del Cinema italiano», a. III, n. 3, marzo 1954. ZAVATTINI CESARE, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1998.

365

SAGGISTICA.

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ICONOGRAFIA

Frontespizio del Manifeste du surrèalisme dedicato da Breton a Carlo Bernard in data “février 1930” (Collezione privata Enrico Bernard, Roma).

Ritratto a matita di Carlo Bernari da giovane a firma “Peirce 1930” (Collezione privata Enrico Bernard, Roma).

Rione Cattori, dipinto a tempera su cartoncino di Carlo Bernari, firmato “Bernari 1939” (Collezione privata Enrico Bernard, Roma).

Disegni e bozzetti vari di Carlo Bernari, (collezione privata Enrico Bernard).

Disegno di Alberto Sughi, firmato “Sughi 69” con dedica ad Enrico Bernard, (collezione privata Enrico Bernard).

Ritratto di Enrico Bernard con la chitarra a firma Giordano (Buchicco) con data 1967 (collezione privata Enrico Bernard).

Bozzetto di Paolo Ricci per rappresentazioni di Vittorio Viviani (Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, Fondo Viviani.)

Autoritratto di Carlo Bernari (1987) (collezione privata Enrico Bernard).

Biglietto di auguri “W gli sposi” di Cesare Zavattini ad Enrico Bernard, pastello su carta, (collezione privata Enrico Bernard).

Copertina dell’edizione Bompiani 1939 de L’uomo è forte di Corrado Alvaro. LA copertina è disegnata e fermata (Bernard) da Carlo Bernari.

Cantata operaia, dipinto (1928) di Antonio De Ambrosio, olio su tela (Collezione privata, Napoli).

Centrale termica all’Ilva, dipinto (1929) di Paolo Ricci (Collezione Paolo Ricci, Napoli).

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PRINCIPALI DOCUMENTI FOTOGRAFICI

Servizio fotografico (1940) di Carlo Bernari dalla Scandinavia al seguito, come reporter della rivista mondadoriana «Tempo» delle truppe naziste impegnate nella “Weserübung”, ovvero l’invasione tedesca della Scandinavia. Il servizio fotografico che accompagna una serie di appunti presi da Bernari su un taccuino recentemente ritrovato è composto da 60 fotografie sia di azioni militari che di vita commune. Alcuni scatti sono stati pubblicati in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Servizio fotografico (1941) di Carlo Bernari al seguito delle truppe italiane nella campagnia di Grecia e di Albania. Si tratta di una raccolta di 110 immagini riprese da Bernari, inviato come fotografo di guerra, in cui, oltre alle fotografie di obiettivi militari, lo scrittore documenta la tragedia dei militari italiani. Alcune foto sono accompagnate da didascalie giornalistiche, pubblicate in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

12 fotografie (1946) di Carlo Bernari della Bari dell’immediato dopoguerra, una scelta è stata pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Servizio fotografico di 85 scatti (1947) di Carlo Bernari della Napoli dell’immediato dopoguerra, molte foto sono accompagnate da didascalie giornalistiche o commenti di carattere narrativo, una selezione è stata pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Servizio fotografico di 600 scatti (1955) di Carlo Bernari inviato da «l’Europeo» nella Cina maoista nel periodo precedente alla Rivoluzione Culturale. Tutte le foto sono accompagnate da didascalie giornalistiche o commenti di carattere narrativo, una selezione è stata pubblicata in: BERNARD E., Bernari fotografo neorealista, in «Campi immaginabili», fascicolo I-II/Anno 2012, cit., pp. 373, (Fondo Carlo Bernari, Archivio del Novecento, Roma).

Immagini del film Le quattro giornate di Napoli, pubblicate in: AA.VV., Le quattro giornate di Napoli, collana «Il Cinematografo» diretta da Enrico Rossetti, Roma, FM edizioni, agosto 1962.

Due ritratti dello scultore Pietro Consagra fotografato da Carlo Bernari (collezione privata Enrico Bernard).

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APPENDICE

Gli scritti di Bernari sul cinema sono innumerevoli. Dal momento che gli scritti di Zavattini sul cinema sono noti mentre quelli di Bernari sono di difficile reperimento ne diamo qui la traccia completa:

Filmografia relativa a Bernari e alle sue esperienze cinematografiche*

Anno 1936

I due Sergenti

Regia: Enrico Guazzoni – Soggetto: dal romanzo omonimo di Paolo Lorenzini – Sceneggiatura: Carlo Bernari e Nunzio Malasomma – Interpreti: Gino Cervi, Ugo Céseri, Antonio Centa, Evi Maltagliati, Luisa Ferida – Produzione: Manerfilm – Origine: Italia.

Anno 1952

Sul Punte dei Sospiri

Regia: Antonio Leonvila – Soggetto: Luigi Bonelli – Sceneggiatura: L. Bonelli, C. Bernari, E. D’Errico, G. Malatesta, W. Ruffilli, G. Vigorelli – Interpreti: Frank Latimore, Massimo Girotti, Maria Frau – Produzione: Prod. Cin.che Bomba & C.

Anno 1953

Terza Liceo

Regia: Luciano Emmer – Soggetto e Sceneggiatura: S. Amidei, C. Bernari, L. Emmer, G. Moreno, V. Pratolini – Interpreti: Giulia Rubini, Ilaria Occhini, Carlo Bernari – Produzione: INCIM – Origine: Italia.

Anno 1960

La garçonnière

Regia: Giuseppe De Santis – Soggetto e Sceneggiatura: C. Bernari, G. De Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra, Elio Petri, Ugo Pirro – Interpreti: Raf Vallone, Eleonora Rossi Drago – Produzione: Ramo Film – Origine: Italia.

Anno 1962

Le quattro giornate di Napoli

Regia: Nanni Loy – Soggetto: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Nanni Loy, Vasco Pratolini – Sceneggiatura: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Vasco Pratolini, Nanni Loy, Carlo Bernari – Interpreti: Lea Massari, Aldo Giuffrè, Gian Maria Volontè – Produzione: Titanus/Metro – Origine: Italia.

Anno 1967

L’immorale

Regia: Pietro Germi – Soggetto e Sceneggiatura: C. Bernari, P. Germi, Alfredo Giannetti, Tullio Pinelli – Interpreti: Stefania Sandrelli, Ugo Tognazzi – Produzione: RPA/Delphos/Les Prod. Artistes Associés – Origine: Italia/Francia.

• Nota: Dati ripresi da Il Grande Dizionario dei film apparsi in Italia dal 1930 ad oggi, a cura di Massimo Moscati, Hobby e Work Italiana Editrice, 1998.

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Inedito ripreso dall’Archivio De Santis*

Anno 1959

Pettotondo

Regia: Giuseppe De Santis – Soggetto: G. De Santis, Ugo Pirro, Elio Petri – Sceneggiatura: G. De Santis, Ugo Pirro, Elio Petri, Carlo Bernari, Franco Giraldi, Tonino Guerra – Interprete principale: Claudia Cardinale nei panni di Carmela Lo Cascio ovvero Pettotondo – Produzione: Roberto Amoroso.

• Nota: L’Archivio De Santis si trova presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Film tratti dalle opere di Carlo Bernari

Anno 1974

Amore Amaro

Regia: Florestano Vancini – Soggetto: Dal racconto omonimo di Carlo Bernari – Sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Florestano Vancini – Interpreti: Lisa Gastoni, Leonard Mann – Produzione: Fral – Origine: Italia.

Filmografia relativa a Bernari e alle sue esperienze televisive

Anno 1963

Un braccio di meno

Regia: Anton Giulio Majano – Sceneggiatura: Giandomenico Bagni, Carlo Bernari – Interpreti: Pupella Maggio, Maria Fiore, Luigi Vannucchi, Tecla Scarano, Aldo Giuffrè, Amedeo Girard, Pino Cuomo, Carlo Taranto, Vittoria Crispo, Giuseppe Anatrelli – (serie: Racconti dell’Italia di oggi).

Anno 1971

Pendolari alla rovescia

Regia: Toni De Gregorio – Sceneggiatura: Carlo Bernari … – Interpreti: Nicoletta Languisco, Gigi Pistilli, Paola Falace, Lucia Monaco.

Anno 1980

Tre Operai

Regia: Citto Maselli – Soggetto: dall’omonimo romanzo di Carlo Bernari – Sceneggiatura: Carlo Bernari, Francesco Maselli, Enzo Siciliano – Interpreti: Nunzia Greco, Nello Mascia, Stefano Santospago – Produzione: RAI – Origine: Italia – Film TV trasmesso dalla RAI in quattro puntate.

Anno 1983

Un foro nel parabrezza

Regia: Sauro Scavolini – Soggetto: dal romanzo omonimo di Carlo Bernari – Sceneggiatura: S. Scavolini, C. Bernari – Interpreti: Vittorio Mezzogiorno, Mismy Farmer, Pamela Villoresi – Produzione: RAI – Origine: Italia – Film trasmesso dalla RAI in tre puntate.

Scritti di Carlo Bernari sul cinema

1. C. Bernari, Dalla sceneggiatura al film, in «Lo Schermo», a. II, n. 2, feb. 1936. 2. C. Bernari, Gli artisti e il cinema, in «Carta Stampata», in «Tempo», a. III, n. 13, 24 ago. 1939, p. 4. 3. C. Bernari, Film e arte narrativa, in «Carta Stampata», in «Tempo», a. IV, n. V, 11 gen. 1940, p. 2.

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4. C. Bernari, Una comoda scappatoia: il Film Storico, in «Bianco & Nero», a. V, n. 11, nov. 1941, pp. 42–46. 5. C. Bernari, E l’Epopea?, in «Bianco & Nero», a. VI, n. 10, ott. 1942, pp. 16–23. 6. C. Bernari, Romanzo e film, in «Punti d’incontro», in «La Settimana», n. 8, 1 mar. 1945, p. 15. 7. C. Bernari, Documento e poesia nel film italiano, in «Bianco e Nero», a. XI, n. 10, ott. 1950, pp. 17–21. 8. C. Bernari, Neorealismo ed etnologia, in «Paese Sera», 27 gen. 1951. 9. C. Bernari, Non più vergogna della realtà, in «Milano Sera», 12 feb. 1951. 10. C. Bernari, Siamo tutti mobbisti?, in «Paese Sera», 18–19 apr. 1951. 11. C. Bernari, Siamo proprio tutti mobbisti, in «Cinema n.s.», a. IV, n. 61, 1 mag. 1951, pp. 229– 30. 12. C. Bernari, Cinema come scuola, in «Il Nuovo Corriere», 11 gen. 1952. 13. C. Bernari, Cinema come scuola, in «Milano Sera», 15 gen. 1952. 14. C. Bernari, Servitù militare, in «Paese Sera», 19 set. 1953. 15. C. Bernari, Libertà di stampa per soli riformati?, in «Milano Sera», 25 set. 1953. 16. C. Bernari, Cinema fra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema Italiano», vol. II, n. 8, ago. 1953, pp. 7–29. 17. C. Bernari, Esiste una crisi del neorealismo, in «Rinascita», n. 12, 1953 I, pp. 684–7; Contiene parte dell’intervento di Carlo Bernari al Convegno di Parma, 3–5 dic. 1953. 18. C. Bernari, Realismo assolto, in «Paese Sera», 6 lug. 1954. 19. C. Bernari, La parte dello scrittore, in «Cinema Nuovo», a. III, n. 39, lug. 1954, pp. 11–13. 20. C. Bernari, Questo è un film che non si farà, in «La Fiera del Cinema», a. I, numero unico, giu. 1959. 21. C. Bernari, Bernari difende un titolo, in «Gazzetta del Popolo», 18 gen. 1961. 22. C. Bernari, Storia di un titolo (lettere al Direttore – Aristarco), in «Cinema Nuovo», a. X, n. 149, gen./feb. 1961, pp. 5–7. 23. C. Bernari, Le Quattro interminabili giornate di Carlo Bernari, in «Cinema Nuovo», a. XII, n. 166, nov./dic. 1963, pp. 428–35. 24. C. Bernari, Tre linee di lettura, in «Rinascita», 17 lug. 1965, p. 28. 25. C. Bernari, Il banditismo come soggetto di opere di narrativa, teatrali e cinematografiche, in «Ulisse», apr. 1969, pp. 164–174. 26. C. Bernari, I pornostanchi, in «Tempo», 23 ago. 1969, p. 3. 27. C. Bernari, Una particolare dimensione di creatore e ricercatore, in «Basilicata», a. XIX, n. 5/6, 1975, pp. 18–21. 28. C. Bernari, Autopedagogia in Rossellini, in «Roberto Rossellini, il cinema, la televisione, la storia, la critica», a cura di Edoardo Bruno, atti del Congegno, città di Sanremo 1980, pp. 115– 120. 29. C. Bernari, Il cinema per conoscere se stesso, in «Il Mattino», 21 ott. 1981. 30. C. Bernari, Scrittori rifritti, in «Bianco & Nero», a. XLVIII, n. 3, lug./set. 1987, pp. 94–97. 31. C. Bernari, Per te, amico mio lontano, in «Il Mattino», 13 nov. 1989.

Interviste, interventi, inchieste

1. AA.VV., Bollettino del neorealismo n. 2, in «Cinema Nuovo», a. IV, n. 57, 25 apr. 1955, Allegato; (Galvano, Della Volpe, Marino, Mazzacurati, Alberto Carocci, Carlo Bernari, Renato Guttuso). 2. AA.VV., Gli scrittori e il cinema, inchiesta a cura di Filippo Accrocca, in «La Fiera Letteraria», a. V, n. 120/121, 1 dic. 1957, pp. 3–6; (In relazione al 1° Convegno Scrittori e Cinema indetto dall’ANICA per salvare il Cinema Italiano. Interventi: E. Contini, G.P. Callegari, M. Pomilio, L. Chiarini, C. Bernari, R. Resta, G. Bassani, A. Blasetti, Pia D’Alessandria, M. Prisco, V. Marinucci, L. Bartolini, N. Saito, G.B. Angioletti, A. Petrucci, G. Berto, G. Montesanto, Maria Luisa Spaziani, G. Vigorelli, A. Lattuada, M. Soldati, C. Zavattini, Eitel Monaco, A. Moravia, V. Pratolini, M. Lacalamita, Giorgio Bo, A. Fratelli, L. Curci, R.M. De Angelis, G. Spagnoletti, M. Liverani, G.L. Rondi, V. Cajoli, G. Gironda, L. Zaccardi). 3. AA.VV., Incontro tra scrittori e cinema, in «Cinema Nuovo», a. VI, n. V, 15 dic. 1957; (Chiarini, Zavattini, Moravia, Pratolini, Pasolini, Bernari, Bassani, on. Resta Gandin). 4. AA.VV., Dall’allarme all’intervento per il cinema italiano, in «L’Europa cinematografica», in «L’Europa Letteraria», a. IV, n. V, mar. 1964, pp.103–120; (Tavola rotonda: De Sica,

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Margadonna, Mida, Pottino, Alatri, Vancini, Miccichè, Rossi, S. Cecchi D’Amico, Solinas, G. Macchi, C. Bernari). 5. AA.VV., I migliori, il linguaggio e le opere a basso costo, Inchiesta a cura di Sandra Giannattasio, in «Cinema Nuovo», a. XIII, n. 168 mar./apr. 1964, p. 93; (tra gli interventi Carlo Bernari). 6. Massimo Mida, Carlo Bernari «nella mia narrativa certi film ebbero peso», in «Paese Sera», 24 ago. 1972 (intervista).

Recensioni film di Carlo Bernari

1. C. Bernari, I bari e le fiches di Marcel Carné, in «Cinema Nuovo», a. VII, n. 136, nov./dic. 1958, pp. 201–202. 2. C. Bernari, Odio di razza, in «Italia Domani», a. I, n. 1, 16 nov. 1958. 3. C. Bernari, Muraglia italiana, in «Italia Domani», a. I, n. 2, 23 nov. 1958. 4. C. Bernari, Per non dimenticare, in «Italia Domani», a. I, n. 3, 30 nov. 1958. 5. C. Bernari, Volano le cicogne, in «Italia Domani», a. I, n. 4, 7 dic. 1958. 6. C. Bernari, Il gas dei cannibali, in «Italia Domani», a. I, n. 5, 14 dic. 1958. 7. C. Bernari, I tedeschi di Remarque, in «Italia Domani», a. I, n. 6, 21 dic. 1958. 8. C. Bernari, La Mangano nella tempesta, in «Italia Domani», a. I, n. 7, 28 dic. 1958. 9. C. Bernari, La gatta immobile sul letto, in «Italia Domani», a. II, n. 1, 4 gen. 1959. 10. C. Bernari, Otto mercedes nere, in «Italia Domani», a. II, n. 2, 11 gen. 1959. 11. C. Bernari, Le ciliegie dell’ispettore Gabin, in «Italia Domani», a. II, n. 3, 18 gen. 1959. 12. C. Bernari, Clima di miracoli, in «Italia Domani», a. II, n. 4, 25 gen. 1959. 13. C. Bernari, Castità di provincia, in «Italia Domani», a. II, n. 5, 1 feb. 1959. 14. C. Bernari, Peccatrici e peccatori, in «Italia Domani», a. II, n. 6, 8 feb. 1959. 15. C. Bernari, Un po’ di cielo, in «Italia Domani», a. II, n. 8, 22 feb. 1959. 16. C. Bernari, I tartufi del Piave, in «Italia Domani», a. II, n. 8, 22 feb. 1959. 17. C. Bernari, Il mondo in una cella, in «Italia Domani», a. II, n. 9, 1 mar. 1959. 18. C. Bernari, I film, in «Italia Domani», a. II, n. 9, 1 mar. 1959. 19. C. Bernari, La gente del Don, in «Italia Domani», a. II, n. 10, 8 mar. 1959. 20. C. Bernari, Tavole separate, in «Italia Domani», a. II, n. 10, 8 mar. 1959. 21. C. Bernari, L’estrosa americana, in «Italia Domani», a. II, n. 11, 15 mar. 1959. 22. C. Bernari, La strega non ci incanta, in «Italia Domani», a. II, n. 12, 22 mar. 1959. 23. C. Bernari, L’Italia in cortometraggio, in «Italia Domani», a. II, n. 13, 29 mar. 1959. 24. C. Bernari, Ricordo di Barbaro, in «Italia Domani», a. II, n. 14, 5 apr. 1959. 25. C. Bernari, La notte degli amanti, in «Italia Domani», a. II, n. 15, 12 apr. 1959. 26. C. Bernari, L’uomo del risciò, in «Italia Domani», a. II, n. 16, 19 apr. 1959. 27. C. Bernari, Colette tradita, in «Italia Domani», a. II, n. 17, 26 apr. 1959. 28. AA.VV.,Peccatori in blue–jeans, in «Film da discutere», in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico», a. I, n. 1, mag./giu. 1959, pp. 3–4. 29. AA.VV., La Ronde, in «Film da discutere», in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico», a. I, n. 1, mag./giu. 1959, pp. 5–7. 30. C. Bernari, Pietà per la caarne, in «Film da discutere», in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico», a. I, n. 1, mag./giu. 1959, pp. 9–10. 31. C. Bernari, La legge regna a Warlock, in «Italia Domani», a. II, n. 18, 3 mag. 1959. 32. C. Bernari, Le duecento famiglie, in «Italia Domani», a. II, n. 19, 10 mag. 1959. 33. C. Bernari, Appuntamento col delitto, in «Italia Domani», a. II, n. 20, 17 mag. 1959. 34. C. Bernari, Processo ai nazisti, in «Italia Domani», a. II, n. 21, 24 mag. 1959. 35. C. Bernari, Fuga nel deserto, in «Italia Domani», a. II, n. 22, 31 mag. 1959. 36. C. Bernari, Un delitto perfetto, in «Italia Domani», a. II, n. 23, 7 giu. 1959. 37. AA.VV., Policarpo ufficiale di scrittura, in «Il nuovo spettatore», a. I, n. 2, ago. 1959, pp. 30– 31. 38. AA.VV., Un condannato a morte è fuggito, in «I grandi film», in «Il nuovo spettatore», a. I, n. 2, ago. 1959, pp. 42–47.

Conversazione con i lettori in «Italia Domani»

Anno II, n. 16, 19 aprile 1959

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Italia in cortometraggio. Giuliano Betti scrive a C. Bernari in relazione all’art. Italia in cortometraggio, (pubblicato su «Italia Domani», a. II, n. 13, 29 mar. 1959). Risponde il Direttore.

Anno II, n. 17, 26 aprile 1959

Cortometraggio. C. Bernari si rivolge al Direttore.

Parlano gli sceneggiatori. Age e Scarpelli scrivono a Bernari riguardo al suo art. su Policarpo, (pubblicato su «Italia Domani», a. II, n. 14, 5 apr. 1959). C. Bernari risponde.

Anno II, n. 25, 21 giugno 1959

Una lettera di Carlo Cassola indirizzata a M.R. Pistone, datata Grosseto, 8 giugno 1959. Pubblicata. M.R. Pistone risponde a Carlo Cassola.

Discussioni, polemiche

Cornelio di Marzio, Per concludere. Gli artisti e il cinema, in «Meridiano di Roma», a. IV, n. 32, 13 ago. 1939, p. 1; C. Bernari, Gli artisti e il cinema, in «Carta stampata», in «Tempo», a. III, n. 13, 24 ago. 1939, p. 4.

P.M. Pasinetti, Film e arte narrativa, in «Bianco & Nero», a. III, n. 12, dic. 1939; (AA.VV., Antologia di Bianco & Nero 1937–1943, vol. 2,Scritti Teorici, a cura di Mario Verdone, Edizioni Bianco & Nero, 1992). C. Bernari, Film e arte narrativa, in «Carta stampata», in «Tempo», a. IV, n. 4, 11 gen. 1940, p. 2.

Guido Aristarco, Miracolo a Milano, in «Cinema n.s.», a. IV, n. 57, 1 mar. 1951, pp. 114–117. C. Bernari, Siamo tutti mobbisti?, in «Paese Sera», 18–19 apr. 1951. C. Bernari, Siamo proprio tutti mobbisti?, in «Cinema n.s.», a. IV, n. 61, 1 mag. 1951, pp. 229–230.

Caso Renzi/Aristarco. C. Bernari, Servitù militare. C. Bernari, Libertà di stampa per soli riformati.

Autori vari sul cinema in cui si cita Bernari

1. Mario Gallo, La lezione del Cinema, in «Avanti», 27 gen. 1955. 2. Luigi Chiarini, La conquista di uno stile, in «Avanti», 2 feb. 1955. 3. Le quattro giornate di Napoli è all’oggetto dei Carteggi tra la Casa di Produzione Titanus– Metro S.p.A. e il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, tra il 1962–1967. 4. Walter Mauro, Scrivere racconti con la macchina da presa, in «Unione Sarda», 7 apr. 1963. 5. Liborio Termine, L’estetica, la critica e il film, in «Corriere di Sicilia», 9 apr. 1963. 6. Walter Mauro, Le incertezze di un matrimonio difficile, in «Unione Sarda», 11 apr. 1963. 7. Guido Oldrini, Il filone idealistico della critica del neorealismo, in «Giovane Critica», dic. 1963/gen. 1964, pp. 53–63. 8. Pio Baldelli, Cinema e letteratura, in «Ulisse», ott. 1965, pp. 114–123.

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