DIEGO DALLA VERDE

LE “ALTRE MAFIE ”. CENNI STORICI SULL ’ORIGINE E L ’EVOLUZIONE DI CAMORRA , ‘ NDRANGHETA E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA PUGLIESE

1 INTRODUZIONE ...... pag. 3 1. La camorra campana 1.1 Origini...... pag, 5 1.2 e l’esperienza della N.C.O...... pag. 16 1.3 Relazioni equivoche: il sequestro di Ciro Cirillo ...... pag. 22 1.4 Elementi distintivi ...... pag. 28 2. La ‘ndrangheta calabrese 2.1 Genesi storica ...... pag. 38 2.2 Fascismo e Dopoguerra ...... pag. 47 2.3 Il “momento magico” degli anni sessanta ...... pag. 58 2.4 Colonizzazione...... pag. 64 2.5 Peculiarità...... pag. 70 3. La “quarta mafia” pugliese 3.1 Puglia regione mafiosa?...... pag. 83 3.2 Imitazione e originalità ...... pag. 92 3.3 Il contrabbando ...... pag. 100 3.4 Caratteristiche...... pag. 104

FONTI ...... pag. 118 BIBLIOGRAFIA ...... pag. 126

2 INTRODUZIONE

Quando si parla di “mafia” si fa comunemente riferimento a quella particolare forma di criminalità organizzata sviluppatasi in Sicilia a partire dall’800 e, come è noto, assurta all’interesse dell’opinione pubblica nazionale in ragione del suo apparentemente inarrestabile sviluppo criminale, cominciato con la fine della seconda guerra mondiale e culminato nella “politica” stragista di matrice corleonese degli anni ’90. Ma, in realtà, in particolare a partire dalla seconda metà del secolo scorso, gli Organismi a vario titolo deputati al contrasto alla criminalità organizzata hanno dovuto registrare, con riferimento ad altre, differenti consorterie criminali di origine meridionale – ‘ndrangheta calabrese, camorra campana e “quarta mafia” pugliese - un’ escalation decisamente significativa, in termini di organizzazione, strategie di sviluppo, capacità di controllo del territorio nelle zone indigene, prospettive di penetrazione in nuovi mercati criminali, potenza militare, capacità di infiltrazione politica ed economica, attitudine alla dimensione di “impresa criminale”, sinergie criminali nazionali ed internazionali, che hanno finito con l’avvicinare oltre le più pessimistiche previsioni le potenzialità criminali di queste organizzazioni a quelle della sempre temibile “Cosa Nostra” siciliana. Proprio in Piemonte, ad esempio, territorio apparentemente “lontano”, per storia, cultura, convenzioni sociali, dalle aree del Mezzogiorno, si è a più riprese registrata una significativa presenza della ‘ndrangheta, probabilmente in ragione della massiccia immigrazione calabrese verso le aree più industrializzate del paese, ma anche di una certa politica “giudiziaria” che ha destinato all’obbligo di dimora in comuni piemontesi numerosi capi bastone calabresi, in base all’ottimistica aspettativa, purtroppo puntualmente disattesa dall’evidenza dei fatti, che questi non avrebbero saputo riprodurre il complesso sistema organizzativo ed il tessuto di valori guida delle rispettive consorterie in aree diverse dal territorio originario e non ancora colonizzate dalla criminalità di tipo mafioso. Proprio per esigenze di approfondimento a questo riguardo, connesse all’incarico professionale rivestito e all’interesse personale per le fenomenologie mafiose, ho ritenuto dunque di operare una sintesi dell’evoluzione di queste organizzazioni criminali, di taglio esclusivamente storico-sociale, non proponendosi il presente lavoro di analizzare l’attività

3 delle predette organizzazioni criminali mediante l’analisi di indicatori statistici, ma piuttosto di approfondirne origine ed evoluzione allo scopo di migliorarne la comprensione dell’attuale configurazione. Obiettivo della presente monografia è dimostrare che i caratteri peculiari e le diverse strategie evolutive di queste tre organizzazioni si traducono in una spiccata originalità criminale, troppo spesso sottovalutata e erroneamente celata dall’asserzione, peraltro infondata e conseguentemente foriera di giudizi e valutazioni fuorvianti, secondo cui le stesse altro non sarebbero che semplici “variabili” regionali della mafia siciliana.

4 La Camorra campana

1.1 Origini

Secondo il Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri di Raffaele D’Ambra, il termine “camorra” significa “il denaro o la cosa esatta dal camorrista” 1 sottintendendo quindi un pagamento forzato cui ci si adeguerebbe per non incorrere in ritorsioni violente. Il significato corrente nella lingua italiana è invece: “lega di persone disoneste per ottenere illecitamente favori o guadagni ingiusti o anche l’insieme delle loro arti e delle loro azioni, un accordo per usare soperchierie, un agire ingiustamente a vantaggio proprio ed a danno altrui”. 2 Dunque dal concetto di frutto dell’estorsione (cui di conseguenza è associata un’attività delinquenziale) 3, proprio del dialetto napoletano di fine ‘800, nel passaggio all’italiano si assiste all’adozione di un significato che ne evidenzia maggiormente la componente organizzativa; se quindi al termine “mafia” storicamente si fa corrispondere in primis un comportamento, una forma mentis ,4 per definire la parola “camorra” si è fatto ricorso, già nel passato, ad un’attività illecita (esercitare l’estorsione), ad una peculiare modalità d’azione ed in ultima istanza ad una organizzazione delinquenziale. 5 Storicamente si ritiene che la genesi della camorra sia da ricercarsi nella Napoli dei primi anni dell’800; Galasso si spinge ad osservare che la fase di gestazione del fenomeno risalirebbe addirittura al secolo precedente, in funzione del rafforzamento, a livello dell’amministrazione comunale, dei ceti professionistici e dell’alta borghesia, a discapito di artigiani e commercianti che erano invece tradizionalmente molto solidi nei quartieri popolari.

1 R.D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri, Napoli, 1873. 2 Dizionario enciclopedico italiano, Istituto Enciclopedico Italiano Treccani, Roma 1961, ad nomen. 3 “lo scopo della camorra è quello di estorquere denaro [...] Il camorrista profittando della pusillanimità di alcuni estorque il danaro a titolo di prezzo della sua protezione” (Corte d’appello di Catanzaro Sezione di Accusa, Sentenza emessa nei confronti di Calarco Domenico più 48, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 119, 19 agosto 1885). 4 A questo proposito si vedano F.Lestingi, La mafia in Sicilia, in “Archivio di psichiatria, scienze penali, e antropologia criminale”, 1880 (cit. in R.Canosa, Storia della criminalità in Italia 1845-1945, Einaudi, Torino 1991, pp. 98-99 nota) G.M. Puglia, Il mafioso non è un associato per delinquere, in “La scuola positiva”, 1930 (cit. in R.Canosa, op.cit., p.293 nota) e H.Hess, Mafia, Laterza, Roma-Bari 1984. 5 Cfr. I.Sales, La camorra le camorre, II edizione rivista e accresciuta, Editori Riuniti, Roma 1993, p.23. “Il loro prevalere segnò un distacco via via più netto tra il potere cittadino e la massa di popolazione in meno felici condizioni. Di conseguenza ci fu un allentamento della disciplina sociale, di quella disciplina che fino ad allora si era mantenuta. Ed è in questa condizione che le prepotenze, gli abusi, le estorsioni – certamente largamente praticati – possono essersi coagulati in ciò che poi è stata la camorra”. 6 E’ peraltro opportuno ricordare che la ricostruzione operata da Galasso è stata ritenuta poco convincente da Isaia Sales, che ne ha contestato il riferire l’origine camorrista ad un’espressione di quel disordine sociale scaturito dall’incapacità del governo della città di gestire il malcontento serpeggiante tra il popolino. Al contrario “l’impressione è che essa rappresenti un “ordine” nel disordine sociale, che essa disciplini e contenga a suo modo la violenza spontanea che si sprigiona dalle condizioni miserevoli in cui viveva gran parte della popolazione”. 7 Per Sales la camorra trarrebbe invece la sua origine dalle particolari circostanze politiche ed economiche che investirono la città di Napoli a seguito del tentativo repubblicano del 1799 che, se da un lato permise un incremento del peso politico della plebe, dall’altro determinò un peggioramento delle condizioni di vita della stessa a seguito del crollo di un’economia che si fondava principalmente proprio sul servizio a quel ceto nobiliare e alto borghese che le condizioni di disordine della Napoli dei primi anni dell’800 avevano allontanato dalla città. Se a questo malessere sociale si aggiunge la strategia dei Borboni (che restaureranno la monarchia nel 1815), di fomentazione del conflitto tra popolino e ceto liberale responsabile dei moti del 1799, anche mediante il ricorso ad una sorta di tolleranza poliziesca nei confronti delle attività illecite del primo, si comprende come si possa arrivare a sostenere che la camorra fu una sorta di società segreta criminale, alleata del potere in funzione anti- liberale, all’interno della quale si aggregò tutto il malessere sociale degli strati più violenti della plebe e che si contrappose ad altre società segrete, espressione della borghesia e della nobiltà, quali la Carboneria e la Massoneria. E’ opportuno sottolineare che il rapporto con il potere costituito non si esaurisce con l’episodio della restaurazione della monarchia borbonica, essendo questo un tratto distintivo della modalità d’azione della camorra, centrale e manifesto, dalla sua lontana origine storica sino a giorni più

6 G.Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P.Allum, Laterza, Bari 1978, p.203. 7 I. Sales, op.cit., p.34.

6 recenti 8. Proprio la necessità di instaurare un rapporto organico con la plebe e la consapevolezza del carattere mercenario della camorra 9, indurrà, all’indomani della sconfitta nella rivoluzione del 1848 10 , anche i liberali a cercare un collegamento con i suoi esponenti in chiave antiborbonica; 11 tale vincolo culminerà nel gravissimo episodio del 1860, quando il prefetto Liborio Romano, in attesa dell’arrivo delle armate di Garibaldi, riterrà inevitabile arruolare nella Guardia Nazionale esponenti della camorra, con lo scopo di reprimere i saccheggi e la mobilitazione sanfedista 12 . Proprio l’investitura camorristica operata da Liborio Romano ha indotto Luciano Violante ad affermare: “rispetto a Cosa Nostra, per la camorra il rapporto storico con il potere politico nasce ufficialmente ”. 13 Sugli effetti dell’inquinamento camorristico delle forze di pubblica sicurezza, scaturiti dalla scelta del prefetto Romano, si sofferma un rapporto di polizia del 1861: “appartenenti alla camorra portanti il berretto delle Guardie nazionali e armati come sogliono di bastone animato [...] Gente facinorosa e ladra che si fa pagare dallo Stato un lavoro che non fa”. 14 Ma di una compenetrazione tra camorra e politica e di un utilizzo strumentale alle proprie esigenze della seconda da parte della prima si trova anche traccia durante le prime elezioni della democrazia postunitaria e, nel 1904, nell’acquisto dei voti e negli episodi intimidatori ai danni dell’elettorato del deputato socialista Ettore Ciccotti, poi non rieletto 15 . Gli episodi del 1860 chiariscono comunque perfettamente il rapporto tra la camorra e la plebe: “la camorra riesce a contenere il popolo e ad

8 Mi riferisco in particolare al caso Cirillo che verrà analizzato in seguito. 9 “Dietro pagamento la camorra è disposta a tutto” (I.Sales, op.cit., p.45). 10 I moti del 1848 a Napoli erano infatti stati contraddistinti da un atteggiamento passivo ed in alcuni casi apertamente sfavorevole da parte delle classi popolari. 11 Cfr. I. Sales, op.cit., p.45. 12 Il 24 giugno del 1860 Francesco II di Borbone, costretto dalle imprese di Garibaldi, aveva promulgato la costituzione del 1848, ma la situazione dell’ordine pubblico degenerò con grande rapidità, al punto che venne proclamato lo stato d’assedio durante la notte del 26. Sembrava imminente il saccheggio sistematico della città da parte delle classi meno abbienti; la decisione di Liborio Romano, anche se moralmente assai discutibile ottenne il risultato auspicato. A questo proposito Monnier ha osservato: “Francesco II se ne andò [...] senza trombe e tamburi e Garibaldi giunse senza colpi di fucile. E tutto ciò grazie ai camorristi.” (M.Monnier, La camorra, notizie storiche raccolte e documentate, Berisio, Napoli 1965, p.128) Sull’indispensabile contributo degli uomini della camorra in occasione della rivoluzione del 1860 si è soffermato anche lo storico borbonico Giacinto De Sivo che si è spinto a definire i moti come “la rivolta dei camorristi” ( G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste 1868, vol. II, p.98). 13 L.Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane , Einaudi, Torino 1994, p.67, il corsivo è mio. 14 Archivio di Stato di Napoli, AP, f.202, fasc.4, Compimento dello stato dei camorristi di questa città, trasmesso dal Questore al Ministero dell’Interno il 21 giugno 1861, citato in M.Marmo, Economia e politica della camorra napoletana nel secolo XIX, in “Quaderni dell’Istituto universitario orientale di Napoli” , 2, 1988, p.107.

15 Cfr. I. Sales, op.cit., pp.45 e 101.

7 allearselo, dimostrando così di essere “l’unico vero potere popolare”. [...] fino al 1860, la camorra viene dalla plebe e trova il suo potere nella plebe. I camorristi in genere sono dei senza-mestieri che vivono esclusivamente del controllo delle attività illegali. Esercitano una funzione di ordine e di controllo sociale, di cui di volta in volta si serve il potere costituito, il tratto mercenario è molto marcato”. 16 Passando poi ad analizzare l’argomento della penetrazione e della diffusione nel tessuto urbano della città, secondo un’inchiesta della Prefettura di Napoli del 1875 17 , parrebbe esagerata l’affermazione, di matrice pubblicistica e letteraria, secondo cui la camorra era, all’epoca, capillarmente presente in tutto il capoluogo campano con eguale forza ed influenza; esaminando l’indagine, emerge che i quartieri con la maggiore presenza camorristica erano Mercato, Vicaria, Porto, e poi, in misura più blanda, Pendino, Montecalvario e Stella 18 . Alla luce di tali evidenze emerge ancora una volta il carattere popolare della camorra, che esercitava una presenza più forte proprio in quelle parti della città dove era maggiore la presenza delle classi meno abbienti, e dove le condizioni socio economiche erano peggiori. Allo scopo di analizzare l’evoluzione del fenomeno, Isaia Sales ha utilizzato uno schema di periodizzazione della storia della camorra che si fonda su cinque distinte fasi storiche 19 : il primo periodo comincia agli inizi dell’ottocento e si conclude con l’Unità d’Italia e corrisponde alla nascita e alla legittimazione della camorra nella sua veste di unica portavoce degli interessi del popolo; il periodo successivo, che si apre con le repressioni postunitarie 20 e si conclude agli inizi del Novecento, è caratterizzato da una notevole espansione che Sales imputa agli allargamenti del 1882 e del 1889 del suffragio elettorale. Sarebbe inoltre riconducibile a questa fase storica un primo allontanamento della camorra dalla sua classe di origine, a seguito del

16 Ivi, pp.93-94. 17 Cfr. L.Mascilli-Migliorini, Povertà e criminalità a Napoli dopo l’unificazione: il questionario sulla camorra del 1875, in Archivio storico della provincia napoletana, 1980. 18 Si tenga presente che la città nel 1875 era suddivisa in dodici quartieri; anche considerando che nell’analisi di Mascilli-Migliorini mancano le risposte al questionario dei quartieri Avvocata e San Carlo all’Arena, peraltro quartieri “esterni”, pare corretto dissentire dall’affermazione secondo cui la camorra aveva a Napoli una distribuzione completamente omogenea. 19 Cfr. I. Sales, op.cit., pp.85-87. 20 Si pensi all’epurazione posta in essere da Silvio Spaventa a Napoli a partire dal 1861 (Cfr. L.Violante, Non è la piovra, cit. p.68), o alle repressioni del 1862 a Caserta con l’arresto di centinaia di camorristi (Cfr. I. Sales, op.cit., p.83) e alle successive ondate repressive del 1874, 1877, 1883 ( Ivi, p.95). Una tale politica di persecuzione del fenomeno è da ricercarsi sia nell’identificazione nella camorra nei vizi borbonici, sia nell’atteggiamento dei suoi aderenti dopo l’instaurazione della repubblica; essi infatti “tornarono alle loro opere consuete servendosi delle acquistate benemerenze politiche per esercitare e organizzare su vasta scala il contrabbando sotto il nome di Garibaldi” (M. Monnier, op.cit., p. 130)

8 suo impegno in alcune attività commerciali e del coinvolgimento nel sistema degli appalti per i servizi comunali e nell’edilizia, che la conducono inevitabilmente ad entrare in contatto con entità economiche e politiche di più alto livello. E’ un periodo di grandi cambiamenti anche nel modo di porsi dei camorristi che, nella loro ricerca di legittimazione, avvertono l’esigenza di fornire una rappresentazione di se stessi meno popolana, maggiormente ricercata e più simile ai benestanti 21 . Per fornire un semplice esempio, si osservi che il capo della camorra di quegli anni, Ciccio Cappuccio, era addirittura stato soprannominato “’o signorino,” appellativo decisamente in controtendenza rispetto agli anni della camorra del popolo, 22 ma ormai il nuovo modello di riferimento è quello che viene definito lo sciammeria , vale a dire il camorrista imborghesito. 23 Su questa mutazione di interessi e di stile, si sofferma anche l’inchiesta della Prefettura di Napoli sulla penetrazione territoriale; in una delle risposte al questionario si legge: “da un lato si assiste [...]a un numero minore di reati legati al piccolo contrabbando, ma, d’altra parte, aumenta corrispettivamente la camorra “in guanti gialli”, quella cioè esercitata su grandi interessi economici e che poteva giovarsi di protezioni più elevate.[...] I mestieri svolti [...] indicano ancora la presenza di classi infime, ma già si segnala una partecipazione di piccola borghesia e di appartenenti alle classi elevate”. 24 Il terzo periodo prende il via alla conclusione dell’inchiesta Saredo 25 per concludersi al termine della seconda guerra mondiale; è questa una fase storica di notevole diminuzione della forza della camorra, le cui cause vanno ricercate in una serie di avvenimenti politici (i governi Giolitti con la sottrazione alla camorra di parte della sua base sociale 26 , la progressiva

21 Si noti che dopo il 1875 viene addirittura accantonata l’usanza di vestirsi e pettinarsi in quel modo particolare che, come una sorta di uniforme, caratterizzava il camorrista agli occhi degli altri uomini. 22 Cfr. I. Sales, op.cit., p. 96. 23 Cfr. A. De Blasio, Usi e costumi dei camorristi, Luigi Piero edizioni, Napoli 1897, p. 156. 24 L. Mascilli-Migliorini, op.cit., p.573. 25 Nel 1901, a seguito degli scandali politici verificatisi a Napoli, legati ad un sistema visceralmente corrotto e clientelare e culminati nelle dimissioni dell’onorevole Agnello Alberto Casale, il governo nominò una commissione d’inchiesta presieduta dal presidente del Consiglio di Stato, Giuseppe Saredo.( Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., pp.63-64). Secondo la Commissione Saredo la camorra era profondamente mutata; le sue origini ottocentesche proletarie erano state sostituite, grazie all’ignavia dello Stato, da una nuova classe di camorristi di estrazione borghese, abili nell’infiltrazione nella pubblica amministrazione ed in generale in qualsiasi livello della società. (Cfr. Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, Relazione sull’amministrazione comunale (relatore senatore G.Saredo), 1901, parte I, pp.49-50) 26 A questo proposito è molto interessante l’osservazione di Sales secondo cui il nuovo sistema politico, oltre ad essere innegabilmente più affine alle classi popolari rispetto al passato, supera la camorra nel suo essere espressione delle componenti più povere della società in quanto oltre che offrire la protezione, cosa che già fa la stessa camorra, è in grado di garantire quella promozione sociale che sino a quel momento era stata solo un miraggio. (Cfr. I. Sales, op.cit., p.109).

9 avanzata del movimento socialista 27 , la repressione voluta da Mussolini 28 ), sociali (l’emigrazione di fine secolo, con un’oggettiva diminuzione numerica dei più poveri, il miglioramento generale delle condizioni di vita, anche associato al risanamento urbano di alcune fra le zone più miserevoli di Napoli), giudiziari (il processo Cuocolo 29 e la pesante repressione ad esso seguita). Dunque, per quanto la camorra si sia sforzata di avviare rapporti organici con l’autorità costituita e le classi superiori, questo suo tentativo di partecipazione attiva al sistema di potere non si concretizza, perlomeno non completamente; quella camorristica è un’integrazione improntata alla subalternità, poichè il suo essere intrinsecamente mercenaria la relega ad una semplice funzione di servizio che non può essere durevole. Conseguentemente il sistema di potere alterna fasi in cui se ne serve attivamente ad altre in cui la disconosce, il tutto in funzione dei propri interessi; la camorra non riesce nel suo intento di “saltare il fosso” che separa le classi meno abbienti dal resto della società non potendo quindi realizzare l’obiettivo di rappresentare i valori della società nel suo complesso, ma rimanendo invece allo stadio incompiuto di quello che Sales definisce “un illegalismo popolare di massa” 30 . “Nel processo Cuocolo, ad esempio, sono coinvolti gli stessi uomini che nel 1904, in combutta con il prefetto, avevano impedito la rielezione di Ciccotti e che ora venivano giudicati come volgari delinquenti. E’ ancora nelle mani del ceto dominante far considerare la camorra come delinquenza o come sfera ambigua ma necessaria del potere”. 31

27 Peraltro è documentato che, già nel 1898, in occasione delle proteste di piazza seguite alle cannonate milanesi di Bava Beccaris, la plebe non era più strumentalizzata dalla camorra, ma seguiva gli indirizzi dettati proprio dal partito socialista. 28 Gli anni del regime fascista rappresentarono un’aperta rottura nella storia della camorra. La monopolizzazione della violenza che caratterizzò il regime di Mussolini, a fronte dell’ inconsistenza di una camorra enormemente indebolita a seguito delle mutate condizioni sociali e politiche dei primi decenni del Novecento furono determinanti nel permettere un’operazione di repressione ben più agevole di quanto lo fu in Sicilia con la mafia. Questo anche in considerazione dell’assenza in , fatte salve alcune zone del casertano, di un forte movimento contadino che si opponesse ai fascisti. (Cfr. I Sales, op.cit., pp.122-123 e G. Capobianco, Appunti sulle origini del fascismo in Terra di Lavoro e momenti della Resistenza operaia e popolare 1921-1923, a cura della Federazione comunista di Caserta, 1983, pp. 10-11) 29 Nel 1911 si celebra il cosiddetto processo Cuocolo, vero e proprio processo alla camorra, scaturito dalla barbara uccisione di Gennaro Cuocolo e della moglie che erano stati condannati a morte dalla “Gran Mamma”, il tribunale della Camorra.(Cfr, I.Sales, op.cit., p.73). 30 Ivi, p.104. 31 Ivi, p.103.

10 La ricomparsa della camorra 32 dopo la repressione fascista coincide con l’inizio della sua quarta fase storica, che sarebbe caratterizzata da una più marcata origine provinciale 33 piuttosto che napoletana in senso stretto; gli anni cinquanta sono anche gli anni dell’esplosione del contrabbando 34 , attività illecita in cui la camorra si specializza. Complessivamente pare corretto rimarcare che in questo periodo si consolida una sorta di subalternità della camorra rispetto all’enorme potere che va acquisendo Cosa Nostra (i cui tentacoli si estenderanno poi sino a Napoli proprio in funzione dell’affiliazione dei contrabbandieri campani). Infine si arriva al quinto periodo, l’attuale, che Sales fa cominciare all’inizio degli anni sessanta, contestualmente alle prime tracce della modernizzazione del Sud . All’inizio di questa fase, non esiste ancora una camorra con una struttura centralizzata, ma piuttosto sono presenti sul territorio napoletano vari gruppi indipendenti che si spartiscono, per zone di competenza, il controllo sulle attività illegali; si tratta a tutti gli effetti di una criminalità che è ad un livello organizzativo più elevato rispetto a quella comune, ma è ancora ben lontana dalla complessità rappresentata dal modello siciliano del periodo.

32 Si tenga presente che l’immediato dopoguerra non vede la presenza di una camorra “organizzata” sulla falsariga di quella risorgimentale, ma a ricomparire sono i singoli camorristi che vanno a rioccupare le posizioni di controllo dei traffici illeciti ad un livello comunque molto basso. Se si considera che è pressoché totalmente assente anche la “presenza politica” della camorra (nessun indirizzo sui grandi temi del dopoguerra), è forse più corretto classificare queste entità sopravvissute al fascismo nella categoria del gangsterismo. 33 E’ all’inizio degli anni cinquanta che fanno la loro comparsa a Napoli i cosiddetti “guappi di provincia” (Cfr. I.Sales, op.cit., p.134) a seguito del boom delle produzioni ortofrutticole da esportazione di alcuni comuni agricoli vicini al capoluogo campano. Il loro ruolo è quello di “fare il prezzo” della merce che arriva sulla piazza di Napoli, unilateralmente, senza alcuna logica di mercato riferibile alla domanda e all’offerta. Si tratta di individui che detengono il monopolio del prodotto da contrattare e delle relazioni sia con i produttori che con i grandi distributori, mediante “una regolazione violenta e autoritaria di rapporti commerciali tra un mercato fortemente attivo e un’offerta enormemente spezzettata, un punto di riferimento nell’impatto agricoltura- mercato, nell’assenza di moderne strutture mercantili e nella subalternità, in questa fase di ripresa economica, della campagna alla città.”( Ivi, p.135). Altri ambiti dove questa nuova camorra esercita un ruolo di mediazione sono il commercio di tessuti, la produzione e distribuzione del latte e la macellazione clandestina di carni. (Cfr. G.Tutino, Camorra 1957, in “Nord e Sud”, n.35, dicembre 1957, pp.75-90.) 34 L’enorme numero di bombardamenti subiti dalla città di Napoli tra il 1940 ed il 1943 aveva delineato una situazione sociale ai limiti della sopravvivenza per le classi meno abbienti; a questo proposito Paolo Ricci ha scritto: “La plebe di Napoli nel 1943 pareva la plebe della città viceregnale” (P.Ricci, La nuova camorra porta la pistola sotto l’ascella, in “Vie Nuove”, n.20, 1959). Siffatta situazione aveva determinato un ricorso di massa ai traffici illegali, tra cui ovviamente il contrabbando; la peculiarità è che nonostante la guerra finisca, questo massiccio ricorso all’illecito non si esaurisce come in altre parti d’Italia, ma, soprattutto per il contrabbando di tabacchi, esplode prima con i furti nei depositi alleati e poi con la nascita di piccole fabbriche che si dedicano alla produzione illegale. Tuttavia, almeno in questa fase, la direzione del traffico di sigarette non sarà prerogativa della camorra, che è ancora troppo debole, ma come ha osservato Sales “In assenza di una forte organizzazione criminale locale, Napoli per due decenni sarà terreno di conquista della mala internazionale. Siciliani, genovesi, corsi, marsigliesi si alterneranno nel controllo del contrabbando di sigarette.” (I.Sales, op.cit., p.132).

11 La svolta si verifica nel 1960, a seguito di un evento politico internazionale quale è il passaggio del Marocco alla monarchia; ciò determina la chiusura del porto franco di Tangeri ed il conseguente spostamento del grande contrabbando di tabacchi dalla via tirrenica a quella adriatica. Questo accadimento è responsabile di notevoli cambiamenti nel costo del prodotto e nelle modalità di pagamento dello stesso: le organizzazioni acquirenti avrebbero da quel momento in poi versato in anticipo la metà del costo dell’intero carico e pagato l’importo del nolo della nave. 35 Quindi, per quanto la camorra, sin dal dopoguerra, fosse stata protagonista nel mercato illegale del contrabbando, le diviene ora impossibile, a fronte delle mutate condizioni dello stesso, continuare a gestirlo efficientemente, soprattutto perchè essa non è forte a sufficienza dal punto di vista economico. “Il mutare del sistema finanziario negli scambi di tabacchi lavorati esteri comporterà l’ingresso sulla scena di nuovi protagonisti”. 36 Se, a tale modifica “strutturale” delle condizioni di questo mercato illecito, si aggiunge che Cosa Nostra siciliana deteneva notevoli disponibilità di capitali da investire, frutto delle proprie attività illegali connesse alla speculazione edilizia di , che molti boss siciliani vennero inviati in quegli anni al confino proprio a Napoli e che il contrabbando è attività illecita per definizione non legata ad un singolo contesto, ma che necessita di strutture logistiche extraterritoriali, si può arrivare a comprendere quali siano stati i presupposti di quel fenomeno che è stato definito “mafizzazione” della camorra 37 . La concatenazione di questi elementi apparentemente distinti è dunque responsabile dell’evoluzione della camorra a fenomeno criminale di spicco; i boss siciliani, non appena giunti a Napoli, allacciano immediatamente rapporti di comparaggio con le cosche locali. Si noti, peraltro, che quella di Cosa Nostra è una strategia assolutamente innovativa rispetto ad un passato che mai aveva visto la collaborazione tra i due sodalizi, separati da un profondo gap culturale e comportamentale. Il boss della vecchia mafia non amava l’ostentazione, parlava poco, minimizzava la sua influenza e la riservatezza caratterizzava il suo potere e i suoi consumi. Il camorrista invece non aveva riservatezze, ostentava con anelli d’oro e penne stilografiche lucenti una agiatezza e una cultura che non

35 La malavita organizzata in Campania, in “Nord e sud”, aprile-giugno 1982, n.18, p.12, il corsivo è mio. 36 R. Gorgoni, Periferia infinita. Storie d’altra mafia, Argo, Lecce 1995, p.256. 37 Cfr., I. Sales, op.cit., pp. 142-146.

12 aveva, si esibiva nelle tirate e zumpate, tutte manifestazioni chiassose perchè praticate in pubblico. 38 Queste notevoli differenze avevano originato una profonda avversione tra le due entità criminali che si manifestavano anche negli Stati Uniti, dove tra Cosa Nostra americana e la Mano Nera (organizzazione composta e diretta da campani) i rapporti erano talmente tesi dal finire col degenerare in guerra aperta. Michele Pantaleone ha rilevato che fu importantissimo il ruolo di mediazione giocato, sia nel contesto americano che in quello italiano, dal boss Lucky Luciano, che, non a caso, dopo la guerra e le espulsioni da Cuba e dagli Stati Uniti decise di stabilirsi proprio a Napoli, nonostante fosse di origine siciliana. 39 Ma aldilà di tali considerazioni legate al passato, è opportuno osservare che la relazione che legherà mafia e camorra avrà comunque caratteristiche asimmetriche, essendo chiaro il predominio di Cosa Nostra, che si serve della manovalanza camorristica, anche in chiave militare nel conflitto con i marsigliesi, ma che non rinuncia al monopolio organizzativo del contrabbando prima e del traffico di stupefacenti poi. La prima Commissione parlamentare antimafia ha sintetizzato il rapporto mafia - camorra di questa fase definendolo una “collaborazione intermedia nella quale la camorra giocava una buona parte dei suoi interessi economici e si accontentava di lauti profitti, mentre la mafia organizzava”. 40 Alla “collaborazione intermedia,” propria di tutti gli anni sessanta, si sostituisce poi un modello improntato a quella che Lupo definisce “strategia di internalizzazione,” 41 cioè il ricorso di Cosa Nostra ad una vera e propria affiliazione di soggetti esterni, con il duplice scopo di riprodurre su territori non tradizionali le sue strutture classiche e contestualmente di ridurre le possibilità di scontro con la criminalità autoctona, che essendo inglobata diviene essa stessa parte dell’universo mafioso siciliano. Per : “inizialmente i rapporti dei suddetti [i camorristi n.d.r.] con elementi di Cosa Nostra erano solo di affari e

38 M.Pantaleone, Poi arrivò Lucky Luciano e anche Napoli fu Cosa Nostra, in “I Siciliani”, marzo 1983, pp.166-167. 39 Ibidem. E’ opportuno precisare che la decisione di Luciano scaturisce sia dall’aver preso coscienza dell’enorme importanza che Napoli può rivestire per il mondo dell’illegalità, ma anche da una valutazione strategica che lo induce a evitare pericolose intromissioni nei delicati equilibri di Cosa Nostra a Palermo. Peraltro è documentato lo stretto rapporto che lo lega ai fratelli La Barbera, protagonisti della prima guerra di mafia, in ordine al traffico di stupefacenti. 40 Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (legge 20 dicembre 1962, n.1720, Atti della Commissione, AP, Camera dei Deputati, VI legislatura, doc.XXIII, n. 2, Tipografia del Senato, Roma 1976, pp.414-415. 41 Cfr S. Lupo , Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma 1996, p.236.

13 riguardavano soprattutto il contrabbando di tabacchi; in seguito i legami con Pippo Calò, con i Corleonesi, e con i Greco di Ciaculli sono divenuti tanto intensi che anche i napoletani, unico esempio finora noto, sono divenuti appartenenti alla Cosa Nostra di Palermo a pieno titolo”. 42 Anche i magistrati di Palermo si sono soffermati sulla strategia posta in essere da Cosa Nostra nei confronti del contrabbando e della camorra, osservando: “la mafia, infatti, allo scopo di assumere il controllo e la direzione dell’intero traffico di tabacchi, non disdegnava di reclutare come uomini d’onore semplici “sigarettai” il cui unico merito era quello di essere esperti contrabbandieri, a prescindere dal possesso dei requisiti che solitamente venivano richiesti agli aspiranti uomini d’onore”. 43 Peraltro pare che, nonostante le affiliazioni, i rapporti tra napoletani e siciliani non fossero dei migliori; per Calderone: “l’accordo tra siciliani e napoletani per la gestione del contrabbando di sigarette non durò comunque a lungo. Si erano creati troppi contrasti. Era diventato impossibile controllare che tutti mantenessero fede agli impegni presi. I napoletani, come al solito, facevano i furbi. A ogni turno, cercavano di scaricare molte più casse di quelle stabilite. Eravamo nel 1979, e c’era pure la droga che attirava gli uomini d’onore più potenti”. 44 Calderone, in questo passaggio, pone dunque l’accento sull’importanza che rivestirà il business del traffico di stupefacenti; l’esperienza del contrabbando, con le sue reti organizzative già strutturate da anni e con il knowledge degli uomini che se ne occupano, si presta ottimamente ad essere riconvertita nel ricco mercato della droga. 45 Per Sales, “è con il ruolo occupato nel traffico internazionale della droga, alla metà degli anni settanta, grazie all’unificazione che avviene tra le reti del contrabbando e quelle dei traffici di droga, che la camorra comincia a varcare i confini campani, a crearsi una sua precisa identità mafiosa, a divenire, cioè, un’organizzazione di quadri criminali di una certa consistenza. Il traffico di droga sprovincializza i delinquenti campani e dà loro una dimensione nuova nella gerarchia criminale”. 46

42 C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo , Editori Riuniti, Roma 1986 ,p. 95. 43 Ivi, p.92. 44 P. Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone , Mondadori, Milano 1992 , p.121. 45 Cfr. C. Guglielmucci, Economia della società camorristica, in F. Barbagallo, (a cura di), Camorra e criminalità organizzata in Campania, Liguori, Napoli 1988, p. 119. 46 I. Sales, op.cit., p.148.

14 Si tratterebbe quindi di un doppio salto di qualità effettuato dalla camorra, prima, all’inizio degli anni sessanta, mediante la collaborazione con la mafia siciliana nella gestione del contrabbando e poi, verso la metà del decennio successivo, con l’ingresso nel mercato degli stupefacenti. La mafizzazione della camorra è dunque direttamente responsabile dell’evoluzione dei sodalizi criminali napoletani che assumono una struttura analoga alle cosche siciliane, con un forte familismo e legami interni molto robusti. Ciò in virtù del fatto che controllare mercati illegali ad elevata complessità necessita di un’organizzazione criminale strutturata, in grado di garantire il notevole rischio d’impresa ad essi connesso; inoltre essere i fiduciari a Napoli di Cosa Nostra, significa lavorare sotto l’ombrello di quel marchio di garanzia che identifica la mafia siciliana in tutto il mondo e conseguentemente assumerne le caratteristiche. Siffatta evoluzione della camorra fa sì che la sua attività non si esaurisca con il controllo del rifornimento di altri mercati, gestito in società con Cosa Nostra, andando altresì ad investire un ambito locale di proporzioni enormi se solo si pensa che, da uno studio effettuato nel 1982 da Pci e Fgci in merito al traffico di droga in Campania, si delinea la fotografia di un mercato che fornisce profitti per quattrocento miliardi l’anno e una liquidità circolante tra i 10000 e i 15000 miliardi di vecchie lire. 47 Inoltre, la possibilità di gestire, a scopo di riciclaggio, ingenti capitali in un primo momento riferibili perlopiù ad attività di Cosa Nostra, ma poi frutto dell’impegno diretto della camorra nel contrabbando e nel traffico di stupefacenti, fa sì che essa, in questi anni, assuma caratteristiche di modernità soprattutto in ordine alle proprie capacità imprenditoriali. Gli enormi profitti derivanti da sigarette e droga le hanno finalmente permesso di legittimarsi socialmente, abbattendo quella storica barriera che la separava dalle classi dominanti ed entrando quindi in contatto con quei ceti economici, finanziari e politici di Napoli e dintorni, il cui appoggio permette, per la prima volta, un attivo impegno nell’ambito della speculazione edilizia che si concreterà in un controllo capillare degli appalti e nel monopolio della costruzione di immobili nelle zone sottoposte ad un maggiore controllo camorristico. Questa attitudine affaristica, sino ad ora sconosciuta all’organizzazione criminale campana, arriva ad investire a trecentosessanta gradi l’illegalità sottesa alla realtà napoletana e soprattutto della sua provincia; sono infatti

47 Cfr. Droga e camorra in Campania, Coop.Editrice Sintesi, Napoli 1982, p.64.

15 documentati interessi anche nella gestione delle bische e dei locali notturni, nel racket, nel mercato di prodotti ortofrutticoli e nelle agenzie immobiliari. 48 Peraltro è opportuno sottolineare che il traffico di stupefacenti, se da un lato, in virtù degli enormi guadagni ad esso connessi, ha permesso alla camorra di assurgere al ruolo di grande criminalità organizzata, dall’altro, destando un forte allarme sociale, ha rotto quel fronte compatto della subcultura dell’illegalità che sino a quel momento aveva permesso la sopravvivenza secolare di mercati pubblici illeciti, ha posto in essere la fine della tolleranza istituzionale e piccolo borghese che sino ai tempi del semplice contrabbando era stata una caratteristica di Napoli e dintorni. Molti studiosi del fenomeno usano fare originare la fase imprenditoriale della camorra con la gestione illegale della ricostruzione post terremoto del 1980; in realtà, come si è visto, questa fase era già iniziata in sordina agli inizi degli anni settanta, e si era consolidata con il precipuo ruolo economico assunto dal sistema delle autonomie locali in quegli anni, ruolo semplicemente accresciuto dal terremoto. Con il terremoto l’Italia scopre la camorra, ma non è che il terremoto abbia dato inizio alla camorra come impresa. 49

1.2 Raffaele Cutolo e l’esperienza della N.C.O.

“Mentre, dunque, si stava consolidando un lento processo di mafizzazione della camorra grazie alla riconversione del traffico di sigarette in quello della droga, veniva alla luce un altro tipo di organizzazione delinquenziale ad opera di Raffaele Cutolo: la Nuova Camorra Organizzata. E’ questo tipo di organizzazione che va attentamente studiata, perchè difficilmente assimilabile all’altra camorra, avendo caratteristiche e motivazioni del tutto diverse. Il terremoto del novembre ’80 trova già operanti questi due tipi di camorra, che schematicamente si possono definire l’uno camorra-impresa e l’altro camorra-massa; l’uno a più spiccate caratteristiche mafiose, l’altro a più spiccate caratteristiche sociali”. 50 Sino all’inizio degli anni ottanta, la camorra non si impone all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, per quanto nella sua zona di origine si percepisca già da tempo la sua ingombrante presenza; l’opinione

48 Cfr. I. Sales, op.cit., pp.149-150. 49 Ivi, pp. 150-151. 50 Ivi, pp.161-162.

16 comune era ancora di considerarla fenomeno tradizionale-culturale, legato ad una particolare realtà geografica, e conseguentemente destinato a scomparire con l’evoluzione socioeconomica di quel contesto, sicuramente non paragonabile, in termini di pericolosità sociale, a Cosa Nostra. In occasione del grave sisma che colpisce Campania e Basilicata nel novembre del 1980, finalmente il dibattito politico e sociale esplode. Ciò avviene innanzitutto in seguito ai violenti scontri tra detenuti appartenenti a schieramenti rivali, verificatisi nel carcere di Poggioreale nei momenti di panico che seguono il terremoto – circostanza che permette di prendere coscienza del fatto che in Campania si sta combattendo una vera e propria guerra di camorra - e poi, più tardi, in relazione alle palesi infiltrazioni camorristiche nell’opera di primo soccorso e ricostruzione. 51 Eclatante è soprattutto l’azione della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, organizzazione peraltro non nuova ma presente sul territorio campano già da alcuni anni. L’origine di questo sodalizio sarebbe da ricercarsi nel mondo carcerario, ambiente storicamente fertile per la germinazione e lo sviluppo della fenomenologia camorristica 52 . Luciano Violante a questo proposito ha osservato che “nella cultura camorristica entrare in carcere è un segno di valore, significa che si sono commessi reati gravi; è perciò abituale vantarsi delle detenzioni subite[...] La camorra non ha organizzazioni ben strutturate, nè affidabili criteri di selezione degli affiliati, nè cerimonie iniziatiche particolarmente radicate. Il carcere diventa così un banco di prova che supplisce alla mancanza di altri criteri e procedure di selezione. Il passaggio attraverso il carcere mostra la qualità criminale del camorrista, il suo comportamento in carcere dimostra se è in grado di comportarsi “bene” in condizioni di difficoltà.[...] Conta anche lo stretto rapporto tra camorra e malavita, il ruolo storico di “governo” della malavita minore”. 53 Raffaele Cutolo inizia il progetto “NCO” proprio dal carcere, mediante l’affiliazione di molti detenuti a cui vengono assicurati, in cambio della lealtà all’organizzazione, concreti aiuti alle famiglie, assistenza finanziaria e legale, solidarietà da parte degli altri membri del clan per migliorare le proprie condizioni di permanenza in prigione.

51 Cfr. R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione , Donzelli editore, Roma 1998 , p.165. 52 Sull’importanza dell’ambiente carcerario sin dalle origini della camorra, si veda I. Sales, op.cit., pp.88 e sgg. 53 L. Violante, Non è la piovra, cit., pp.141-142.

17 La Commissione Parlamentare antimafia, nella Relazione sulla Camorra del 1993, a proposito della Nuova Camorra Organizzata rileva: ad un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità e una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie. [...] Vive di estorsioni, realizzate anche attraverso la tecnica del porta-a-porta. Impone una tassa su ogni cassa di sigarette che sbarca. Vuole imporsi ai siciliani, che non si sottomettono. Impera con la violenza più spietata. 54 Dunque uno dei principali capisaldi del sodalizio criminale promosso da Raffele Cutolo è da ricercarsi nel suo essere un’organizzazione illegale del tutto autoctona, che si contrappone all’egemonia posta in essere da Cosa Nostra sulle cosche campane e conseguentemente si scontra con quei gruppi camorristici che restano in relazione con quest’ultima. Proprio a tale scopo è da interpretarsi l’intimo rapporto di Cutolo con la ‘ndrangheta calabrese; 55 le testimonianze di alcuni pentiti gli hanno addirittura attribuito una vera e propria affiliazione alla stessa, che sarebbe avvenuta nel carcere di Poggioreale sotto l’egida di importanti boss calabresi quali Piromalli, De Stefano e Mammoliti. 56 L’organizzazione calabrese sarebbe dunque l’originario modello organizzativo a cui si ispira Cutolo, anche se l’evoluzione della Nuova Camorra Organizzata sarà poi contraddistinta da caratteristiche ben diverse dalla ‘ndrangheta; 57 ma, a prescindere dallo schema logistico di riferimento, è il forte rapporto che lega Camorra di Cutolo e ‘Ndrangheta a influenzare gli equilibri criminali del sud di questi anni. “L’asse Cutolo – De Stefano caratterizzò per un lungo periodo (1977- 1982) l’assetto della criminalità organizzata nell’intero meridione d’Italia, influenzando le più rilevanti vicende delittuose, come omicidi, traffico di droga, sequestri di persona”. 58

54 Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, (relatore Luciano Violante), approvata a maggioranza il 21 dicembre 1993. A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, doc. XXIII, n.12, Roma 1993, pp.43-44. 55 Cfr. E. Ciconte, ‘ Ndrangheta dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1992. 56 Cfr. Tribunale di Reggio , Procedimento penale n.46/93 r.g.n.r. D.D.A. a carico di Condello P. ed altri, Procura della Repubblica, Direzione Distrettuale Antimafia, 1995, p.4741. 57 Si pensi, solo per fare l’esempio più ovvio, al familismo su cui si basa la struttura delle cosche calabresi, ben più di quelle siciliane, contrapposto alla struttura aperta di massa della NCO, che affilia indipendentemente dai legami di sangue. 58 Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza sentenza contro Albanese M. più 190, Reggio Calabria 1988, pp. 188-189.

18 E’ comunque interessante porre l’accento sull’intreccio di caratteristiche che stanno alla base della NCO: contrapposizione allo straniero colonizzatore, in particolare siciliano, compattamento intorno a comuni codici antropologici e culturali, riferibili all’antica tradizione camorristica ottocentesca, ricorso al modello ‘ndranghetistico nella scelta delle caratteristiche organizzative e normative. Raffaele Cutolo, mediante l’impiego di questi elementi, ha tentato di pervenire ad “un’identità regionale su basi delinquenziali”. 59 “Mi auguro che continui la nostra storia perchè sia io che voi tutti abbiamo dimostrato e rivelato quale sia la forza del nostro animo e del nostro carattere che rinnovando i fasti antichi di Napoli e della Campania abbiamo restituito un popolo alla sua dignità... per imporre noi il destino della nostra Campania con il simbolo del Vesuvio”. 60 Nel passaggio precedente emerge con assoluta chiarezza il tentativo posto in essere da Cutolo di strumentalizzare l’identità regionale in funzione aggregante, mediante il ricorso a richiami simbolici appartenenti al codice culturale campano. Tale elemento si combina perfettamente con la propensione della NCO a difendere i più poveri ed indifesi poichè dà luogo ad una sorta di filosofia della criminalità, nei cui valori si identificano i suoi aderenti e che in tal modo giustificano agli occhi della società il proprio agire fuori legge 61 . Cutolo è probabilmente stato il solo boss malavitoso “ad avere elaborato una sorta di filosofia, una teoria capace , a modo suo, di supportare la prassi quotidiana delle violenze”. 62 Tra il febbraio del 1978 e il maggio 1979, Cutolo è latitante a seguito dell’evasione dall’ospedale psichiatrico di Aversa; in questo breve periodo riesce a strutturare la NCO in modo verticistico, a nominare rappresentanti a capo delle province di Napoli, Salerno e Caserta, a estendere il proprio potere su tutta la Campania, a stringere rapporti con la mala milanese di Turatello e Vallanzasca, a rafforzare i legami con la ‘ndrangheta, e addirittura a tentare la colonizzazione di un’area in espansione come la Puglia, mediante la creazione di una organizzazione sottomessa alla NCO sul territorio pugliese con caratteristiche organizzative speculari. 63

59 I. Sales, op.cit., p.177. 60 R. Cutolo, Poesie e pensieri, Berisio, Napoli 1980, p.57. 61 Ecco da dove trarrebbe la sua origine la caratteristica della NCO di dare ampio risalto pubblico alle proprie attività illecite. “I camorristi scrivono lettere ai giornali, fanno dichiarazioni e soprattutto rivendicano ripetutamente gli omicidi .” (I. Sales, op.cit., p. 181) 62 F. Durante, Don Raffaele manda a dire, in “Il Piccolo”, 22 giugno 1983. 63 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p.167, 169.

19 L’approfondita analisi dell’ambizioso progetto di Cutolo, teso a pervenire al controllo onnicomprensivo di tutte le forme di illegalità su un determinato territorio, ha indotto Sales ad affermare: non si può assolutamente sottovalutare il fatto che con Cutolo sia stata costruita la più capillare organizzazione criminale mai pensata, almeno in Italia; un’organizzazione che non ha paragoni non solo nella storia passata della camorra, ma dell’intera criminalità internazionale.64 Anche Lamberti si è soffermato sul progetto cutoliano: “questo progetto non solo prevedeva la centralizzazione e la direzione unificata della attività criminale a livello micro e macro, ma aveva due importanti conseguenze: quella di espandersi su nuovi territori e quella di dar vita, di impiantare nuove attività criminali ”. 65 Ovviamente, le famiglie camorristiche legate da anni a Cosa Nostra non possono permettere all’organizzazione di Raffaele Cutolo di raggiungere l’auspicato predominio dei mercati illegali campani; al 1978 risale il tentativo di Michele Zaza di creare una struttura federativa di tutte le cosche non facenti parte della NCO, denominata Onorata Fratellanza. A questo primo tentativo di contrastare la rapida ascesa di Cutolo, segue, in stretta intesa con Cosa Nostra, la creazione della Nuova Famiglia 66 e, conseguentemente, in Campania scoppia un conflitto feroce, con un numero di omicidi che non si discosta da quello della seconda guerra di mafia che si sta combattendo a Palermo nello stesso periodo. 67 Isaia Sales ha osservato che, all’origine della guerra di camorra che vive la sua fase più violenta tra il 1977 ed il 1983, ci sarebbe anche una componente imputabile al tentativo di monopolizzare il traffico di stupefacenti; le famiglie collegate a Cosa Nostra erano infatti inizialmente impegnate esclusivamente nel traffico di eroina, mentre pare che i cutoliani si occupassero del mercato di cocaina, gestito in prima persona proprio da Cutolo che dal manicomio giudiziario in cui era detenuto teneva telefonicamente i contatti con i suoi referenti in America del Sud. L’affermazione secondo cui la NCO preferiva puntare sulla cocaina perchè sostanza meno pericolosa per gli assuntori e quindi non foriera di un forte allarme sociale, sarebbe del tutto priva di fondamento. La richiamata spartizione del traffico di stupefacenti sarebbe invece riferibile alla strategia

64 I. Sales, op.cit., p.163. 65 A. Lamberti, La camorra “impresa”: le nuove strategie economiche e i nuovi assetti organizzativi, in Barbagallo (a cura di), 1988, p.103. 66 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., pp.19,45. 67 Secondo Sciarrone, tra il 1980 ed il 1984 nella sola Campania vennero commessi 1242 omicidi (Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p.168)

20 di Cosa Nostra volta a lasciare una parte di mercato comunque residuale – la cocaina è senz’altro meno competitiva in termini di profitto, visto l’elevato costo e il target d’elite a cui si rivolge – ad altre organizzazioni criminali, in maniera da diminuire i contrasti con esse. Tale considerazione è avvalorata proprio dall’interesse che ad un certo punto la NCO comincerà a nutrire nei confronti del ricco mercato legato all’eroina e che sarà una delle cause dello scoppio del conflitto con le cosche vicine a Cosa Nostra 68 . L’esperienza di Cutolo e della NCO si chiuderà proprio per lo sterminio dei propri affiliati ad opera del clan rivale Alfieri-Galasso che culminerà nell’uccisione di , numero due dell’organizzazione e reggente della stessa durante la detenzione di Cutolo, in concomitanza con una forte azione di repressione intrapresa dalla magistratura e dalle forze di Polizia, finalmente divenute coscienti della forza e della pericolosità della camorra 69 . Ma oltre a queste cause “esterne” all’organizzazione, si assisterà ad una vera e propria implosione di quella filosofia improntata alla rivalsa sociale, che tanto successo aveva avuto nel reclutare un vero e proprio esercito di affiliati, perlopiù molto giovani. La NCO è l’organizzazione criminale che in assoluto conta il maggior numero di pentiti, ma non si tratta di pentitismo volto a danneggiare le cosche rivali, alla Buscetta, ma di una dissociazione, analoga a quella vissuta da molti brigatisti, che si manifesta nel momento in cui una vera e propria crisi ideologica investe questo sodalizio. Un pentito dichiarerà: “non vale passare la vita in carcere per un ideale che non esiste...ho avuto la definitiva conferma, dopo pochi anni di militanza nella N.C.O. che in realtà tutto ciò che si fa nell’ambito di essa è a quasi esclusivo vantaggio di pochi camorristi, i quali soltanto si assicurano una solida posizione economica per sè e per i loro familiari”. 70 La NCO è dunque stata vittima di se stessa e della sua promessa non mantenuta, una promessa che non si rivolgeva ad un solo destinatario ma che potremmo definire - come è stata definita la NCO - “di massa,” perchè coinvolgeva un’intera classe sociale, quella economicamente più povera e socialmente più disperata di Napoli e di altre province campane. Queste persone avevano un sogno inculcato nelle loro menti da quell’astuto manipolatore che fu Raffaele Cutolo, un sogno di ascesa sociale ed

68 Cfr. I. Sales, op.cit., p.154. 69 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., p.144.

70 Tribunale di Salerno, Ordinanza del giudice Santoro contro Abbruzzese più 140, Salerno 1983.

21 economica, di fuga dagli stenti e dal degrado, un sogno che finì però col tramutarsi prima nell’incubo della violenza, poi in quello della guerra di camorra e infine nel carcere. Pandico, all’indomani del suo pentimento, scriverà a Cutolo: “quando ti capiterà di essere solo, di non possedere più una massa camorristica, dovrai ben toglierti la maschera. Suppongo se non altro per tirare il fiato. Altrimenti finirai per soffocare davanti a tanti morti che gridano ancora: perchè, perchè siamo morti?” 71

1.3 Relazioni equivoche: il sequestro di Ciro Cirillo

Una delle cause responsabili del declino della NCO è da ricercarsi nel coinvolgimento della stessa nelle vicende connesse al rapimento di Ciro Cirillo. 72 Il 27 aprile del 1981 l’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo, viene sequestrato dalle Brigate Rosse 73 ; la sua prigionia si concluderà alla fine del mese di luglio dello stesso anno, a fronte del pagamento di un riscatto, dopo mesi di trattative tra i massimi esponenti del suo partito, gli stessi brigatisti, i servizi segreti italiani e uomini della Nuova Camorra Organizzata. L’intera vicenda è stata affrontata dal giudice Carlo Alemi, responsabile dell’istruttoria ed estensore della corposa ordinanza di rinvio a giudizio depositata nel luglio del 1988, che ha approfonditamente delineato i contorni di una vicenda torbida ed inquietante di cui sono stati protagonisti sia elementi della criminalità, sia esponenti ai massimi livelli del mondo legale 74 . “Il sequestro Cirillo è l’unico caso di cui si abbia notizia, che cioè non è sfuggito al vaglio dell’opinione pubblica, certo in Italia e forse nel mondo, in cui esponenti di un partito politico, terroristi, delinquenti, servizi segreti,

71 Cutolo giù la maschera, lettera aperta di Pandico a Cutolo riportata da E. Perez in “Il Mattino”, 31 luglio 1983. 72 Cfr. V. Vasile (a cura di), L’affare Cirillo. L’atto di accusa del giudice Alemi, Editori Riuniti, Roma 1989. 73 “Nel corso dell’azione brigatista vengono uccisi l’appuntato Luigi Carbone, addetto alla tutela dell’assessore democristiano e l’autista Mario Cancello. E’ ferito il segretario Ciro Fiorillo.” (L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 76) 74 Cfr. Tribunale di Napoli, Ordinanza di rinvio a giudizio del giudice Alemi, depositata il 28 luglio 1988, Napoli 1988.

22 “pezzi di Stato” hanno strettamente collaborato e si sono reciprocamente influenzati per liberare un ostaggio dalle mani di una banda criminale”. 75 Aldilà delle interpretazioni di parte in merito all’equivoco rapporto instaurato con i cutoliani alfine di liberare Cirillo 76 , occorre far luce sulle motivazioni che indussero questa commistione tra sistemi illegali - brigatismo, camorra e servizi deviati - ed alta politica; innanzitutto è fondamentale sgombrare il campo da equivoci e prendere atto del fatto che il sequestro Cirillo fu un rapimento esclusivamente di matrice politica, posto in essere da un gruppo eversivo, la colonna napoletana delle BR, che, all’interno dell’universo del brigatismo rosso italiano, aveva caratteristiche peculiari, poichè come referente sociale non aveva la classe operaia delle città ad elevata industrializzazione del nord “sfruttata” dal capitalismo, ma il ben più eterogeneo sottoproletariato urbano napoletano e le sue composite istanze di emancipazione sociale. Se questi erano i presupposti, per quale motivo la vicenda si concluse con un riscatto, come se i rapitori non fossero criminali politici ma elementi della malavita sarda o calabrese? L’ordinanza del giudice Alemi evidenzia che, almeno in prima battuta, non fu infatti richiesto alcun riscatto, ma lo scopo dei brigatisti era orientato all’”obiettivo politico di un allargamento del consenso attorno alla lotta armata.” 77 In maniera analoga al caso Moro si intendeva sottoporre un esponente politico al processo proletario che, nella fattispecie, si sarebbe dovuto concentrare sulle gravi mancanze della classe dirigente democristiana in ordine alla ricostruzione dopo il sisma del 1980. La liberazione di Cirillo, ammesso che fosse stata accordata, avrebbe dovuto corrispondere alla concessione da parte dello Stato di contropartite sociali, quali “lo smantellamento dei campi-container di Napoli o evitare la “deportazione”, come i brigatisti chiamavano il programma di ricostruzione di alloggi per i terremotati di Napoli nei comuni circostanti”. 78 Inizialmente dunque era del tutto privo di interesse per i brigatisti intavolare una trattativa fondata su contropartite economiche che

75 I. Sales, op.cit., p. 239. 76 Alcuni esponenti della sinistra hanno affermato che il rischio che Cirillo crollasse e cominciasse a parlare rivelando notizie scottanti sull’operato democristiano, impose alla DC di fare ricorso a qualsiasi mezzo per liberarlo, ivi compresa la trattativa con un delinquente del livello di Raffaele Cutolo. Dal canto loro, i servizi segreti hanno sostenuto che il coinvolgimento nell’affare Cirillo era stato scientemente programmato allo scopo di poter entrare in contatto con le BR ed effettuare attività di intelligence finalizzata al contrasto del fenomeno. (Ivi, p. 240). 77 L. Violante, Non è la piovra, cit. p. 76. 78 I. Sales, op.cit., p.241.

23 ineluttabilmente avrebbe coinvolto esclusivamente la famiglia dell’assessore regionale e non il suo partito politico. Questa linea strategica mutò radicalmente nel momento in cui le BR presero coscienza del fatto che la DC, su suggerimento della camorra, non si limitava ad essere un semplice interlocutore politico, ma era disposta ad intervenire economicamente pur di addivenire ad una conclusione incruenta della vicenda; a queste condizioni il riscatto assunse caratteristiche ben diverse, innanzitutto perchè divenne un vero e proprio esproprio proletario, ma, soprattutto, perchè avrebbe potuto costituire una prova inoppugnabile del collegamento tra DC, criminalità organizzata napoletana e settori dell’imprenditoria campana, che sarebbero stati i finanziatori dell’operazione. Si era quindi manifestata una situazione che poteva fornire risultati ben al di sopra delle aspettative iniziali dei rapitori. La colonna napoletana delle BR, nonostante le notevoli perplessità sollevate da gruppi brigatisti di altre città, nel prendere atto dell’imprevista evoluzione vissuta dalla vicenda Cirillo, comprese quindi che si erano creati i presupposti per trascinare il suo nemico politico per eccellenza in una trappola che ne avrebbe potuto compromettere profondamente i vertici nazionali e locali. Passiamo ora ad esaminare il secondo sistema illegale che entrò in gioco: i servizi segreti deviati controllati dalla P2. Prima di scendere nel dettaglio, pare corretto sgombrare il campo da qualsiasi dubbio in merito all’effettiva partecipazione dei servizi di sicurezza nella trattativa con la camorra e le BR; tale circostanza è stata infatti esplicitamente riconosciuta sia dall’allora direttore del SISDE, il Prefetto Parisi79 , sia dal Generale Mei 80 , suo omologo per il SISMI, sia dall’onorevole , 81 nel corso di una serie di audizioni tenutesi al cospetto della Commissione Parlamentare antimafia. Pare innanzitutto corretto sottolineare che non fu il servizio segreto civile, il SISDE, a divenire protagonista del caso Cirillo, ma quello militare, il SISMI che, in base ai propri compiti istituzionali, non avrebbe dovuto avere

79 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del prefetto Vincenzo Parisi, direttore vicario pro-tempore del SISDE, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 10 settembre 1993, Roma 1993, pp. 2622,2651. 80 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del generale Abelardo Mei, direttore vicario pro-tempore del SISMI, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 10 settembre 1993, Roma 1993, p.2642. 81 Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione dell’onorevole Vincenzo Scotti, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 15 luglio 1993, Roma 1993, p.2368.

24 voce in capitolo in una vicenda che atteneva alla criminalità ed alla politica interna del paese; ciò nonostante, come evidenziato nella relazione del Comitato Parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza 82 (la cosiddetta relazione Gualtieri, presidente del Comitato e relatore), furono proprio esponenti del SISMI a partecipare alla trattativa, su indirizzo della loggia massonica P2, in funzione di un progetto eversivo che avrebbe dovuto condurre ad un successivo ricatto nei confronti della Democrazia Cristiana. Tale affermazione è avvalorata dalla tempistica dell’intervento dei servizi, che fecero il loro ingresso sulla scena del rapimento solamente nel momento in cui fu chiaro che alla trattativa con BR e camorra non si sarebbero limitati a partecipare semplici esponenti politici locali - già peraltro notoriamente in contatto con la criminalità campana e quindi non ricattabili per queste equivoche frequentazioni - ma sarebbero state coinvolte anche figure di spicco del partito di maggioranza relativa. Per quanto riguarda invece i vantaggi che avrebbe avuto Cutolo ove avesse fornito la propria collaborazione, nel corso della stessa relazione il Comitato parlamentare ha precisato che la NCO avrebbe tratto beneficio del ruolo rivestito nella vicenda, ben aldilà della semplice spartizione del riscatto con le BR. “Il riscatto da pagarsi alle Brigate Rosse costituiva solo una parte della partita, e la concessione di contropartite di altro tipo ai clan camorristici di Cutolo, elevati a rango di intermediari tra lo Stato e le formazioni terroristiche, era altrettanto necessaria”. 83 Le ulteriori “contropartite” richiamate nella relazione Gualtieri, sono state poi individuate dalla Commissione Parlamentare antimafia in un ingente flusso di denaro, stanziato per la ricostruzione dopo il sisma del 1980 e finito nelle tasche di ditte camorristiche, grazie alla collusione che ha permesso l’aggiudicazione irregolare dei relativi appalti. 84 Il coinvolgimento nella trattativa di elementi democristiani di primo piano scaturì dall’aver preso atto che un episodio apparentemente minore, come il sequestro di un amministratore locale, rischiava di andare a sconvolgere gli equilibri della corrente dorotea, che dominava il partito sia a

82 Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Relazione del Comitato sui problemi relativi all’operato dei servizi di informazione e sicurezza durante il sequestro dell’assessore democristiano della regione Campania Ciro Cirillo, A.P., IX legislatura, doc. XLVIII n.1, maggio – luglio 1981, Roma 1984. 83 Ivi, p.12, (il corsivo è mio). 84 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., pp.114-115.

25 livello nazionale con Flaminio Piccoli che localmente col potentissimo , amico fraterno di Cirillo. Fu proprio Gava infatti, ad insistere con i vertici nazionali democristiani per una soluzione improntata alla trattativa con le BR, anche giocando sul fatto che il PCI, che era stato strenuo oppositore della trattativa nel caso del rapimento di Aldo Moro, era in quel momento privo di capacità decisionale, essendo stato estromesso dal governo dopo la fine del periodo del compromesso storico. Il grande peso politico esercitato da Gava all’interno del partito fece sì che a Roma si decidesse di trattare per la liberazione di Cirillo. Proprio a seguito di questi fatti, il SISMI, o per meglio dire le sue componenti deviate dalla P2, ritenne di divenire protagonista della vicenda; anche il servizio segreto militare, come già le Brigate Rosse, aveva quindi preso atto che l’evoluzione politica del rapimento di Cirillo avrebbe potuto aprire delle interessanti opportunità in relazione al disegno di colpire la DC. A questo punto si potrebbe obiettare che, una volta autorizzata la scelta di trattare da parte dei vertici romani del partito, non si comprende la necessità di un coinvolgimento diretto dei grandi nomi; sarebbe infatti stato sufficiente servirsi di esponenti locali del partito, quegli elementi di cui poc’anzi si ricordavano le frequentazioni equivoche, come Giuliano Granata, sindaco democristiano del comune di Giugliano. Fu proprio a questo livello che entrò in gioco la camorra, o meglio Raffaele Cutolo, che percepì il profilarsi della grande occasione, sfuggita a generazioni di camorristi prima di lui: entrare in diretto contatto con i più alti rappresentanti del mondo legale. Ciò avrebbe significato raggiungere finalmente quella legittimazione pubblica di cui godeva Cosa Nostra in Sicilia e che il carattere mercenario della camorra ed il proprio retroterra popolare avevano inibito per quasi due secoli. Cutolo era alla spasmodica ricerca della riconoscenza da parte del potere costituito; essa avrebbe potuto permettergli il definitivo salto di qualità che ancora mancava alla Nuova Camorra Organizzata, verticistica, militarmente efficiente, capillare nel controllo del territorio ma ancora indissolubilmente legata alle classi basse, ed in contatto con la politica locale esclusivamente in funzione strumentale alle esigenze di quest’ultima. L’atteggiamento spregiudicato della classe politica napoletana scaturiva dal teorema secondo cui “nel rispetto della legge non si governa una realtà così complessa come Napoli e il suo hinterland” 85 ma era altresì fondato sull’intima convinzione di una marcata asimmetria, a favore della politica,

85 I. Sales, op.cit., p.244.

26 intrinseca al rapporto con le componenti illegali della società, che erano, in qualsiasi momento, abbandonabili al proprio destino. Quando nel carcere di Ascoli Piceno 86 , dove era rinchiuso Cutolo, si presentarono esponenti della politica e delle forze dell’ordine per chiedere il suo aiuto nella risoluzione del rapimento di Cirillo, dinnanzi al boss della NCO si materializzò la grande possibilità; Cutolo quindi non si accontentò di trattare con uomini del livello di Granata - che venne infatti ricevuto solamente dal suo braccio destro Corrado Iacolare 87 - ma pretese, in cambio del proprio interessamento, di entrare in contatto direttamente con i più alti livelli della corrente dorotea. Ma, anche nel caso Cirillo, alla fine ebbe la meglio quella caratteristica, propria della criminalità organizzata campana, di fornire un servizio alle classi dominanti, in maniera esclusivamente estemporanea. Si ripropose, come rileva Sales, quel tratto mercenario al cui interno si trova “ in nuce la storia del rapporto tra camorra e Stato.” 88 Infatti, dopo la liberazione dell’assessore regionale, la corrente dorotea napoletana guadagnò ulteriori posizioni negli equilibri di potere della DC e non esitò a ripristinare quella storica asimmetria a suo favore nel rapporto che la legava al sottomondo dell’illegalità. Proprio questo ennesimo tradimento da parte della politica fu una delle cause del declino della Nuova Camorra Organizzata, poichè, come ha riferito il pentito Pasquale Galasso, una volta liberato l’assessore democristiano, la stessa esca usata in precedenza con Cutolo – gli appalti per la ricostruzione – venne gettata ai suoi rivali del clan Alfieri, con il preciso scopo di mettere a tacere Don Raffaele e dissuaderlo dall’avanzare richieste che avrebbero potuto creare imbarazzo agli esponenti democristiani coinvolti nell’ affaire Cirillo. Tale opera di persuasione fu realizzata da Carmine Alfieri con l’eliminazione di Casillo, braccio destro di Cutolo, mediante un’autobomba. 89 Sia il coinvolgimento iniziale della NCO che quello del clan Alfieri sarebbero,

86 Per una precisa ricostruzione della vicenda, cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., pp.95-116. 87 Cfr. I. Sales, op.cit., p.244. 88 Ibidem. 89 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Pasquale Galasso, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 13 luglio 1993, Roma 1993, p.2256, 2264.. A conferma delle connessioni tra NCO e apparati dello stato deviati, si osservi che tra gli effetti personali rinvenuti sul cadavere di Casillo risulta anche una tessera dei servizi segreti (Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p.79)

27 secondo Galasso, frutto di trattative tra camorra ed esponenti della Democrazia Cristiana legati all’onorevole Gava. 90 La NCO è stata sfruttata e poi abbandonata al suo destino, esattamente come la camorra ottocentesca che permise l’ingresso a Napoli di Garibaldi, o quegli esponenti malavitosi che tra il 1904 e il 1911 passarono dalla stretta collaborazione con il Prefetto di Napoli, al fine di non fare rieleggere il deputato socialista Ettore Ciccotti, al ruolo di imputati in occasione del processo Cuocolo. L’inferiorità palesata dalla camorra nei rapporti con altre entità – caratteristica comune a tutte le diverse espressioni della stessa che si sono susseguite nella sua secolare storia - non si esaurisce a livello della politica, investendo altresì tutte le espressioni criminali con cui essa è venuta in contatto; come infatti osservava nel 1986 la seconda Commissione Parlamentare antimafia in relazione al modello espresso dalla NCO, lo stesso “è stato il più adatto a farne un coacervo, un crocevia di tutte le illegalità diffuse in Italia e Campania. In pochi anni di ribalta la Nuova Camorra organizzata ha avuto rapporti con la grande finanza (Calvi), con la P2 (Pazienza), con una parte dei servizi segreti (caso Cirillo), con il terrorismo (Senzani), con la mafia, la ‘ndrangheta, con la malavita dell’alta Italia. Tutte le forme destabilizzanti della società campana e italiana si sono intrecciate con essa e se ne sono servite ”.91

1.4 Elementi distintivi

Si dovrebbe essere ora in grado di riassumere quelle che sono le caratteristiche più originali della camorra. Troppo spesso si è infatti abusato di una sua definizione che, semplicisticamente, si limita a configurare come “mafia campana” una fenomenologia criminale decisamente pregna di peculiarità che la differenziano profondamente da Cosa Nostra; riprendendo le parole di Isaia Sales: “essa non va considerata come una variabile regionale del fenomeno mafioso, perchè si coglierebbe solo un tratto della sua storia recente. Il suo modo di manifestarsi, di organizzarsi, di produrre criminalità non è riconducibile del tutto alla tradizione mafiosa [...]. Anzi, un secolo fa si

90 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Pasquale Galasso cit., p. 2256. 91 O. Barrese (a cura di), Relazione della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, relatore A. Alinovi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986, p.65, il corsivo è mio.

28 parlava della mafia come di un’espressione siciliana della camorra. Era un’analisi sbagliata allora e l’inverso sarebbe sbagliato oggi”. 92 La camorra è una forma di criminalità di cui si sono scientificamente approfondite le caratteristiche in maniera infinitamente inferiore a quanto si è fatto per Cosa Nostra, per la quale sono oggi disponibili, oltre che studi criminologici, storici e sociologici, anche corpose produzioni letterarie, pubblicistiche e cinematografiche, perlopiù di notevole livello. Nota ancora Sales che la camorra ha ispirato gli autori solamente sino all’inizio del Novecento, per poi divenire semplice ambito d’interesse per interventi giornalistici in occasione di azioni particolarmente eclatanti; alla particolare attenzione ottocentesca per il fenomeno, imputabile al realismo letterario, 93 al clima di ispirazione positivista sviluppatosi a Napoli, alla necessità di parlare dei mali del capoluogo campano originata dall’Unità d’Italia, all’insegnamento lombrosiano, 94 si è sostituito col nuovo secolo e con l’avvento della cultura borghese ed operaia “un bisogno di distinzione dalla plebe, culminato addirittura in atteggiamenti di estraneità, come un’intima necessità di mantenere le distanze da atteggiamenti, comportamenti, culture e tradizioni che si ritenevano appartenere a un passato da cancellare, da superare promuovendo (e lottando per) lo “sviluppo” e il “progresso”” 95 quasi a negare, nell’ansia di proporre un modello di Napoli diversa e moderna, l’effettiva realtà vissuta dalla città. Questa propensione, comune a culture diverse, alla “negazione” della plebe napoletana ha finito inevitabilmente con il coinvolgere la stessa camorra, che della plebe è diretta diramazione. A siffatta “rimozione culturale” si è aggiunta la già citata strumentalizzazione della camorra da parte dei ceti dominanti, caratteristica peraltro già presente nell’ottocento, che ha dato luogo ad un vero e proprio controllo politico dei mercati illegali, i quali a Napoli raggiungono proporzioni per lo meno uguali a quelle dei mercati leciti. 96 Ciò ha conseguentemente determinato una sorta di monopolio esercitato dalle classi

92 I. Sales, op.cit., p.12. A conferma delle riflessioni di Sales per quanto riguarda la definizione di mafia come espressione siciliana della camorra, cfr. P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita del paradigma mafioso, in M.Aymard e G.Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia: le Regioni dall’Unità a oggi, vol. 5, La Sicilia, Einaudi, Torino 1987, pp.905 sgg. 93 Cfr. A. Palermo, La camorra come tema letterario, in AA.VV., Camorra e criminalità in Campania, Liguori, Napoli 1988. 94 Si pensi agli studi di Abele De Blasio che viviseziona la plebe, e di conseguenza la camorra, quasi essa fosse un pericoloso insetto velenoso. 95 I. Sales, op.cit., p.14. 96 Cfr. A. Lamberti, in AA.VV., La camorra imprenditrice, Ed. Sintesi, Napoli 1987, p.41.

29 dirigenti per ciò che riguarda le valutazioni sulla pericolosità sociale della camorra, che ha finito con il fare parlare di questa fenomenologia criminale esclusivamente in quelle fattispecie in cui le soglie della tolleranza e della legittimazione dell’illegalità, ovviamente stabilite dagli interessi dei ceti dominanti, erano state fatalmente oltrepassate. “Non c’è nessuna parte del mondo occidentale dove l’illegalità abbia più libero corso che a Napoli e si svolga alla luce del sole, come un tratto immutabile e naturale di una lunga storia”. 97 Il determinare i confini dell’illegalità in funzione esclusiva degli interessi dei ceti politici ha dato luogo ad una sorta di schema ciclico che Sales ha così sintetizzato: “formazione tollerata e pilotata di un mercato illegale, sua egemonia su questo, tolleranza per la camorra entro certi limiti oltre i quali si manifesta invece un comportamento fortemente repressivo”. 98 Così si spiegherebbero le periodiche azioni repressive poste in essere dallo Stato solamente quando il fatidico limite viene superato dalla camorra; 99 sino a quando essa si limita a condividere la gestione dell’illegalità con i ceti dominanti, non viene considerata socialmente dannosa e di conseguenza non diviene oggetto privilegiato di approfondite indagini, ma se l’allarme sociale sale, o le classi dirigenti temono per la propria incolumità, ecco che viene colpita con forza. E’ importante osservare che la camorra è un fenomeno criminale che non ha goduto della continuità storica che ha sempre caratterizzato Cosa Nostra. Quest’ultima, pur con gli aggiustamenti dovuti al mutare dell’ambiente circostante, non ha mai reciso il filo conduttore delle sue caratteristiche e della sua presenza in Sicilia; al contrario tra la setta segreta napoletana delle origini ottocentesche e la criminalità endemica del Novecento, aldilà di alcune caratteristiche tutto sommato immutate 100 , sono comunque molto profonde le differenze, soprattutto per quanto riguarda la struttura organizzativa. “Perciò, se per “camorra” si intende il tipo di organizzazione criminale che ha dominato la vita dei ceti popolari e plebei napoletani per tutto l’Ottocento, si può dire tranquillamente che essa è iniziata ed è finita

97 F. Rosi, in Centro di documentazione mensa bambini proletari (a cura di), Rassegna stampa sulla camorra, Ed. Sintesi, Napoli 1982. 98 I. Sales, op.cit., p.17. 99 Negli anni 1860, 1862, 1874, 1883, 1906, 1983, 1984, 1992 oltre che durante il regime fascista, a fronte di una mafia siciliana che è stata duramente colpita solamente dal prefetto Mori, dopo il 1963 ed a partire dalla seconda metà degli anni ’80. 100 Mi riferisco nello specifico alle condizioni economiche e sociali, alle modalità peculiari seguite nel rapporto con la politica, agli atteggiamenti intimidatori, alle attività illecite svolte.

30 nell’Ottocento. Dopo è esistita sempre una particolare attività delinquenziale, fluida, dedita a diverse attività illegali e anche ad alcune legali, con momenti di grosso allarme per l’opinione pubblica, non retta da un’organizzazione centralizzata ma fatta da diverse bande, piccole e grandi, e senza la città di Napoli in funzione dominante”. 101 Proprio in funzione della caratteristica di comparire e scomparire, a seconda delle condizioni dell’ambiente circostante, di alternare momenti di onnipresenza e totale compenetrazione, ad altri improntati alla discrezione, alla mimetizzazione ed al basso profilo 102 , senza però mai perdere di vista quelle caratteristiche storiche che ne costituiscono lo scheletro immutabile 103 , Isaia Sales ha definito la camorra come “una criminalità carsica” 104 volendo appunto intendere un fenomeno delinquenziale fortemente capace di reagire al mutare delle condizioni esterne. Anche Cosa Nostra è sempre stata abilissima nel reagire prontamente alle novità sociali, ma la peculiarità della camorra è che essa “non è criminalità che si adatta al nuovo, ma [è] contemporaneamente emarginata e prodotta dal nuovo”. 105 Anche Violante si è soffermato sul concetto di criminalità carsica proposto da Sales osservando che nei momenti di difficoltà la camorra troverebbe rifugio tra gli strati più poveri della popolazione, riuscendo così a mimetizzarsi con l’illegalità diffusa; al ricomparire di condizioni migliori essa tornerebbe ad occupare il suo ruolo naturale; tuttavia “non si tratta dei vecchi clan che riappaiono, come invece è accaduto in Sicilia dopo la lunga repressione degli anni 1963-1969, o dopo la breve repressione del triennio 1992-1994. I vecchi scompaiono e compaiono nuovi soggetti che applicano il vecchio modello”. 106 Per quanto riguarda l’origine storica della camorra, che si preferisca propendere per la ricostruzione di Galasso o per quella di Sales, il dato inoppugnabile è che essa nasce come fenomeno criminale urbano per poi espandersi, agli inizi del Novecento, anche nelle campagne; un percorso decisamente antitetico a quello della mafia siciliana e della ‘ndrangheta che originano nell’ambiente rurale e conquistano le città solo in una fase successiva.

101 I. Sales, op.cit., pp. 18-19. 102 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 61. 103 Cfr. A. Lamberti, “Introduzione” a P. Ricci, La Gran Mamma, 150 anni di malavita napoletana, Ed. Sintesi, Napoli 1983. 104 I. Sales, op.cit., p. 19. 105 Ivi, p.20. 106 L. Violante, Non è la piovra, cit., pp. 61-62.

31 Proprio il differente ambito di gestazione tra queste due espressioni criminali avrebbe notevolmente influito sulle caratteristiche assunte dai due sodalizi. “La camorra si è sempre mostrata con tutte le caratteristiche urbane, quali il carattere di massa, [...] confuse aspirazioni sociali e ribellistiche, il bisogno di mostrare pubblicamente la violenza o il dominio di essa, il fare notare con segni tangibili la propria appartenenza (il modo di vestire, il gergo, perfino il modo di tagliarsi i capelli).[...] La camorra non si struttura in cosche chiuse. Il familismo [...] non è determinante [...]. Si diventa camorristi anche per esempi familiari, ma la base, la cellula della camorra non è mai esclusivamente o prevalentemente la famiglia”. 107 Tutto ciò a fronte di una mafia siciliana che ha storicamente fatto tesoro di peculiarità quali la discrezione, il basso profilo, l’organizzazione attorno alla cellula familiare. A titolo esemplificativo, si osservi il seguente passaggio, tratto dall’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del boss del clan Gionta di Torre Annunziata, in cui viene riassunto un episodio che ha come protagonisti un esponente dello stesso sodalizio ed una pattuglia dei che stava tentando di arrestare altri affiliati: “i militari [...] venivano ostacolati da [...] che bloccavano l’autovettura di servizio ponendosi a piedi in mezzo alla strada insieme a Paduano Ciro. Il predetto faceva addirittura condurre al centro della piazza anche alcuni bambini. Infine il Paduano, non soddisfatto per lo smacco inflitto alle forze dell’ordine, al fine di intimidirli per il futuro ed indurli così ad astenersi da ulteriori zelanti operazioni, ponendo le mani sul finestrino dal lato guida con toni arroganti pronunciava le seguenti frasi: però non si fa così, dovete stare attenti, con tutte le persone in mezzo alla strada. State attenti perchè un giorno di questi potete anche andare a spiaccicarvi contro il muro...non si sa mai....i freni potrebbero non funzionare...una cosa...l’altra”. 108 Questa marcata ostentazione dell’essere camorrista è semplicemente il frutto della tradizione o ha un’effettiva utilità? Luciano Violante ha spiegato questa ricerca di visibilità e questo sfoggio decisamente esagerato di potenza e prestigio con la mancanza di solidità strutturale e di radicamento sociale dei clan camorristici; alla luce di tali deficit diverrebbe indispensabile fare ricorso ad una autorappresentazione “clamorosa” delle proprie potenzialità 109 , che

107 I. Sales, op.cit., pp.37-38. 108 Tribunale di Napoli, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Gionta Valentino più 18 per associazione a delinquere di tipo camorristico, Procedimento n.3173/R/91, Napoli 1991, p.49. 109 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 68.

32 finisce poi con il ripercuotersi sullo stesso controllo del territorio, decisamente più oppressivo di quello esercitato da Cosa Nostra. 110 Per quanto riguarda la struttura organizzativa, è noto che, fatte salve le esperienze della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, della Nuova Famiglia di Bardellino-Nuvoletta-Alfieri 111 , e della Nuova Mafia Campana, 112 la camorra non ha mai assunto una configurazione gerarchica ma, al contrario, nella sua continua sovrapposizione “di bande che si compongono, scompongono e ricompongono senza ordine e senza disciplina,” 113 esprime una struttura pulviscolare. Si potrebbe dire che tale schema organizzativo le è proprio nei casi in cui essa è realmente e completamente autoctona, e non vi è l’influenza della criminalità organizzata di altre regioni; 114 è peraltro opportuno sottolineare che, nei casi in cui tale influenza è stata presente e si è cercato di realizzare una struttura gerarchica organizzata, “tutti questi esperimenti “d’ordine” sono cessati dopo pochi anni per circostanze contingenti, ma anche per le grandi diversità storiche politiche e sociali tra camorra e Cosa Nostra”. 115 La mancanza di una struttura gerarchica si ripercuote anche sulla stessa genesi dei singoli clan, operazione soggetta ad un profondo “disordine” che scaturisce dalla mancanza di regole fisse e formalizzate e che si manifesta solitamente per scissione di clan preesistenti. Per esempio a seguito dell’arresto o della malattia di un boss è probabile che alcuni dei suoi sottoposti tentino di creare un sodalizio concorrente a quello originale, invece che assumerne la reggenza come invece si fa di norma in Cosa Nostra. Ecco perchè è possibile che diventino capi anche individui giovani, eventualità da escludersi per la mafia siciliana, che approfittano delle caratteristiche di apertura, dinamismo e duttilità, ma anche di profonda instabilità, loro offerte dal modello camorristico. In merito all’analisi dell’estensione camorristica sul territorio campano, occorre sottolineare che le cifre ufficiali sul numero totale di affiliati non sono

110 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., pp. 21-22. 111 Organizzazione creata sotto la supervisione di Cosa Nostra per contrastare la NCO e conseguentemente con caratteristiche affini al sodalizio siciliano. 112 Risalente al tentativo posto in essere da Alfieri nel 1992 di accorpare le varie famiglie campane sotto un unico marchio. 113 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 58. 114 Mi riferisco alla ‘ndrangheta per la NCO e a Cosa Nostra per la Nuova Famiglia e per la Nuova Mafia Campana. 115 L. Violante, Non è la piovra, cit., pp.58-59. Alla citazione di Violante, in ordine alle differenze tra camorra e Cosa Nostra, pare corretto aggiungere anche la ‘ndrangheta, sicuramente fondamentale nell’esperimento NCO, anche se a sua volta molto diversa dalla camorra.

33 aderenti alla realtà (per difetto). Come infatti evidenziato dalla Commissione parlamentare antimafia, i clan camorristici sono organizzazioni criminali più aperte di quanto lo siano i propri omologhi in Cosa Nostra o nella ‘ndrangheta, poichè non adottano rigidi criteri selettivi per l’affiliazione e non fanno ricorso al ritualismo ed alla manipolazione di codici culturali 116 ; al contrario proprio “lo stato d’illegalità secolare” che contraddistingue la componente più disperata della popolazione campana, nonché la cinica disponibilità a ricorrere anche ai bambini, ha fornito per decenni, e fornisce tutt’oggi, un bacino di “forza lavoro” che sicuramente non gode della specializzazione dei membri di altre espressioni criminali, ma è indubbiamente molto più numeroso di quanto non risulti dall’analisi dei dati sulle affiliazioni ufficiali. 117 “La camorra è l’unica organizzazione di carattere mafioso che ha avuto, e continua ad avere, caratteristiche di massa”. 118 La camorra esercita un dominio incontrastato sugli strati più poveri della popolazione campana; si può dire che essa governa la disperazione sociale, in maniera del tutto originale rispetto ad esperienze criminali come la ‘ndrangheta e Cosa Nostra 119 , grazie alla sua capacità di fornire un’occupazione, ovviamente nell’ambito dell’illegalità ed in particolare nello smercio di droga e nell’industria del falso, a migliaia di disoccupati che senza di essa morirebbero di fame 120 . Un’altra caratteristica della camorra risiede nella sua spietatezza e nel suo cinismo, frutto della totale assenza di regole organizzative e di condotta: a fronte del guadagno non esiste morale di sorta che possa impedire la gestione di una particolare nicchia illegale 121 e gli stessi rapporti con la politica non sono sottoposti ad alcuna pregiudiziale partitica, ma sono

116 Ci si riferisce ovviamente al fenomeno nel suo complesso e non ai casi particolari prima richiamati che rappresentano delle vere e proprie eccezioni alla consuetudine camorristica. 117 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., p. 12. 118 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 60. 119 Si pensi solo al difficile rapporto tra Cosa Nostra catanese e l’illegalità diffusa rappresentata dai cursoti e dai carcagnusi. 120 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 63. 121 A questo proposito si pensi al ben diverso atteggiamento della ‘ndrangheta che, per fornire un esempio, ha sempre considerato il controllo del mercato della prostituzione come un’attività profondamente immorale e dunque da non praticare. Emblematico il racconto del collaboratore di giustizia Francesco Fonti che parla di una riunione appositamente tenuta a Torino nel 1982, cui parteciparono circa 700 esponenti della mafia calabrese emigrati in Piemonte, proprio per richiamare all’ordine quegli affiliati che se ne occupavano e per stabilire che in caso di prosecuzione di tale attività si sarebbe provveduto all’espulsione dall’organizzazione ed addirittura all’eliminazione fisica. (Cfr. Tribunale di Torino, Decreto nella procedura a carico di Rocco Lo Presti e Paolo Spallitta, Sezione misure di prevenzione, Torino 1996, p.8).

34 esclusivamente funzionali al proprio tornaconto. 122 Non è dunque l’ideologia a guidare gli uomini della camorra quando stringono legami con la politica, ma, come ricorda Galasso, essa non sostiene partiti ma individui singoli, disposti a divenire complici della malavita, e ciò a prescindere dalla loro connotazione ideologica. 123 Del particolare rapporto mercenario con il potere legale si è già discusso in maniera approfondita; giova comunque ricordare che nei confronti della politica le relazioni si sono sempre esaurite a livello locale, senza mai andare ad investire in alcun modo le grandi vicende nazionali. L’assenza di omicidi politici di rilevanza nazionale si spiega dunque da un lato con l’oggettiva incapacità della camorra di intervenire ad alto livello a causa della debolezza e della mancanza di compattezza intrinseche al modello pulviscolare, dall’altro con il disinteresse nei confronti di progetti eversivi fondati sullo scontro aperto con lo Stato; la camorra ha sempre ambito a collaborare con la politica, ad essere dalla stessa legittimata nel suo agire, e non a scontrarsi con essa. Dunque, in maniera analoga ai rapporti di collusione, è esclusivamente l’ambito locale ad essere colpito 124 , non essendo in genere uomini politici nazionali o rappresentanti delle istituzioni con elevate responsabilità gli interlocutori di riferimento della camorra. “La camorra ha un rapporto privilegiato, in genere, con le articolazioni periferiche della pubblica amministrazione e con gli enti locali. La camorra ha manifestato quindi una aggressività meno eclatante rispetto a Cosa Nostra, non solo per le sue caratteristiche strutturali, ma anche perchè i suoi obiettivi sono tradizionalmente diversi da quelli di Cosa Nostra, meno strategici e più legati alla convenienza immediata”. 125 Sul fronte economico infine si deve sottolineare la profonda vocazione imprenditoriale che contraddistingue storicamente la camorra; essa ha sempre perseguito l’inserimento nei cicli economici sia passivamente, con l’estorsione, l’usura e le rapine, che attivamente, con il controllo di un

122 Ciò a fronte di una mafia siciliana di cui sono noti lo storico odio nei confronti del partito comunista e la diffidenza verso l’MSI, erede di quel partito fascista responsabile dell’operazione Mori. 123 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Pasquale Galasso cit., p. 2260. 124 Il giornalista Giancarlo Siani ucciso il 23 settembre 1985 a seguito delle sue denunce contro la ricostruzione post terremoto; il sindaco di Pagani Marcello Torre assassinato l’11 dicembre 1980 per la sua scarsa malleabilità all’infiltrazione camorristica; il consigliere del comune di Ottaviano Domenico Beneventano eliminato il 7 novembre 1980 per i suoi dissidi con Cutolo; il vice questore della squadra mobile di Napoli Antonio Ammaturo caduto il 15 luglio 1982, ucciso dalle BR con l’aiuto di varie famiglie camorristiche, a seguito della sua determinazione nel fare chiarezza sul caso Cirillo. 125 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 72.

35 ventaglio di attività incredibilmente eterogeneo che comprende il gioco d’azzardo, le bische, il lotto clandestino, il totonero, il contrabbando, lo spaccio di stupefacenti, il controllo dei mercati agricoli, la macellazione e l’importazione clandestina di carni, il mercato del latte per arrivare sino all’enorme business degli appalti e dell’edilizia del dopo terremoto ed al più recente impegno nelle truffe CEE. 126 Celato tra le pieghe della semplicistica definizione di “mafia campana” c’è un atteggiamento di sostanziale sottovalutazione che ha la tendenza a collocare questa fenomenologia criminale ad un livello di pericolosità sociale nettamente inferiore rispetto a Cosa Nostra. Tale posizione origina indubbiamente dal carattere profondamente locale della camorra e dal suo conseguente impegno in un territorio tutto sommato circoscritto alla Campania, nonchè dalla mancanza di gesti eclatanti nei confronti dello Stato sullo stile della Cosa Nostra corleonese. Eppure perseverare nella sua sottovalutazione e adottare la cosiddetta linea dura saltuariamente, solo quando essa sta andando aldilà dei confini che il mondo legale le ha imposto, è un errore enorme. Si è detto che la camorra è una criminalità carsica; bisogna fare in modo che tale caratteristica non continui ad essere propria anche delle istituzioni che la devono contrastare ma, al contrario, che la linea di lotta da esse adottata sia nel tempo continuativa ed organica, poichè una proficua azione nei suoi confronti non si può realizzare solo con l’impegno delle forze dell’ordine, ma, in considerazione delle sue caratteristiche sociali, devono intervenire tutti quei soggetti pubblici che a vario titolo possono partecipare al progetto di miglioramento delle condizioni di vita degli strati inferiori della società campana. Contestualmente si deve realizzare un’opera di capillare sensibilizzazione nei confronti del resto di questa società perchè essa smetta di tollerare, per il proprio tornaconto, quelle attività illecite quali il contrabbando o l’industria del falso che apparentemente non sembrano danneggiare nessuno, se non le multinazionali, ma in realtà costituiscono la base su cui si fonda tutta la struttura camorristica. Questa è l’unica strada da seguire per separare finalmente la camorra da quell’apparentemente inesauribile bacino di manodopera criminale dal quale essa attinge, senza soluzione di continuità, da due secoli. Siamo di fronte ad un problema di “sviluppo sostenibile” della società campana che deve essere attentamente programmato poichè la camorra ha sin qui fornito ampie prove della sua capacità di insediarsi tra le sue pieghe, restandone emarginata anche per

126 Ivi, p. 73.

36 lungo tempo, per poi riemergere come fatto moderno o come segnale violento della sua sconfitta. “La camorra [...] sembra un fenomeno criminale più attaccabile da una modernizzazione totale ma anche il fenomeno criminale più congeniale a una modernizzazione senza sviluppo. Da un lato sembra più sconfiggibile dallo sviluppo, dall’altro viene quasi rigenerata dal tipo di sviluppo scelto per il Mezzogiorno e per Napoli”. 127

127 I. Sales, op.cit., p. 20.

37 La ‘Ndrangheta calabrese

2.1 Genesi storica

“All’indomani dell’unità d’Italia, andavano precisandosi i nomi con i quali si sarebbero definite in seguito le organizzazioni criminali e le associazioni a delinquere operanti in due regioni italiane: mafia per la Sicilia, camorra per Napoli e la Campania. E per la Calabria? Per questa regione il discorso è più complesso. Nessuna opera teatrale, nessun saggio storico, nessun libro si occupò in modo specifico delle associazioni a delinquere operanti in quei territori”. 128 Eppure che in Calabria fosse attiva già a quel tempo una vera e propria associazione a delinquere è ampiamente dimostrato da una serie di documenti giudiziari: la Corte d’appello delle Calabrie nel 1889 venne chiamata a giudicare in merito alle accuse nei confronti di un certo Luigi Labate accusato di essere “capo di un’associazione di maffiosi”; 129 l’anno successivo, dinnanzi allo stesso consesso, si discusse l’appello di Carmine Tripodi, precedentemente condannato per la sua appartenenza ad una “associazione di malfattori ad oggetto di delinquere contro le persone e la proprietà [...] tale associazione prese il nome di associazione di picciotti.” 130 All’esplosione del brigantaggio propria del primo decennio post- unitario, si era dunque sostituita, a seguito della repressione posta in essere dallo Stato, una realtà diversa, fondata su un’associazione a delinquere di tipo nuovo e destinata a radicarsi nella realtà calabrese in maniera talmente profonda da sopravvivere, pur con un naturale adeguamento alle nuove condizioni, sino ai giorni nostri. 131 Affascinante la leggenda, molto diffusa in Calabria132 , che spiega l’origine di quella fenomenologia criminale che oggi chiamiamo ‘ndrangheta: i tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che facevano parte della società segreta iberica denominata Garduna di Toledo, durante la prima metà del quattrocento si stabilirono sull’isola di Favignana e lavorarono sotto

128 E. Ciconte, op.cit., pp. 9-10. 129 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Crocè Paolo più 3, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 285, 22 marzo 1884. 130 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Tripodi Carmine, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 323, 27 agosto 1890.

131 Cfr. E. Ciconte, op.cit., p. 6. 132 Si tratta di una leggenda non scritta che si è tramandata oralmente sino ad oggi.

38 terra, per ventinove anni, allo scopo di redigere le norme di una nuova consorteria che sarebbe stata attiva sul territorio del mezzogiorno italiano. Secondo il racconto, al termine del lavoro, i cavalieri ritennero di dividere in tre parti la nuova associazione generando così la mafia in Sicilia, la camorra in Campania e la ‘ndrangheta in Calabria. 133 La suggestione ancora attuale 134 di questa leggenda risiede proprio nella sua caratteristica di essere stata tramandata esclusivamente per via orale; senza dubbio frutto di fantasia, essa è servita a creare il mito dell’origine della criminalità calabrese, ad investirla di una nobilitazione, “a costituire una sorta di albero genealogico con tanto di antenati, a far risalire nella notte di secoli lontani la nascita – nobile per di più! – e l’esistenza stessa del vincolo associativo che in questo modo trovava una propria legittimazione”. 135 Questa fiaba mitologica, a suo modo ingenua ed infantile, è fondamentale per comprendere la psicologia e la componente emotiva della ‘ndrangheta, per sviscerare i suoi rituali, i suoi giuramenti, i suoi linguaggi gergali, i percorsi culturali che hanno determinato le leggi, i codici comportamentali e la visione del mondo “esterno”; è essenziale per comprendere il cosiddetto comportamento ‘ndranghetista e le radici della mentalità che lo alimenta, per fornire una spiegazione al perchè tutto ciò, nato in tempi ormai lontanissimi, sia riuscito a resistere al passare degli anni, al mutare della società per presentarsi oggi, pur con le ineluttabili modificazioni, con tratti caratteristici molto simili a quelli delle origini. 136 Storicamente per identificare la criminalità organizzata calabrese si è fatto ricorso per lungo tempo a termini come maffia e camorra; sfogliando parte della saggistica e delle sentenze dei tribunali calabresi del periodo postunitario, si può notare il reiterato utilizzo di formule che fanno riferimento a questi vocaboli: “sospetti in fatto di ferimenti, camorra e di far parte di maffiosi” 137 ; “menava vita di bravo e di maffioso” 138 ; “setta dei

133 Cfr. L. Malafarina, La ‘ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi, Casa del libro, Reggio Calabria 1986, pp. 88-92 e S. Di Bella, La nascita della mafia ed il suo ruolo storico, in AA.VV. Cultura e politica contro la ‘ndrangheta, Pellegrini, Cosenza 1987, pp.21-22. 134 Cfr. G. Falcone, Strutture organizzative, rituali e “baccagghiu” della ‘ndrangheta, in AA.VV., Mafia e Potere, a cura di S. Di Bella, Rubbettino, Soveria Mannelli 1983, vol I, p.253. 135 E. Ciconte, op.cit., p. 8. 136 Ibidem. 137 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Borgese Rocco, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 315, 25 marzo 1889. 138 Corte d’appello di Catanzaro Sezione di accusa, Sentenza emessa nei confronti di Giovinazzo Francesco più 1, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 125, 20 maggio 1887.

39 camorristi” 139 ;“la mala pianta della camorra sia da moltissimi anni arrivata nelle Calabrie” 140 ; “aggregati nelle fila della mafia” 141 ; “maffia di Santo Stefano” 142 ; “camorra reggina” 143 . L’utilizzo frequente del termine camorra più che in riferimento ad un collegamento con la criminalità campana è spiegabile con il significato che gli attribuisce Monnier: “La camorra può essere definita l’estorsione organizzata” 144 e quindi non tanto nell’accezione di organizzazione criminale, quanto piuttosto in quella di una particolare attività delinquenziale che, come in Campania, anche in Calabria ne costituisce la funzione fondamentale. Ma aldilà delle considerazioni in ordine all’utilizzo del vocabolo camorra, ciò che pare opportuno sottolineare è l’incertezza terminologica vissuta da giudici e rappresentanti delle forze dell’ordine nel definire un’associazione a delinquere poco conosciuta, nuova, che si poneva in luce proprio in quel periodo mantenendo peraltro caratteristiche di estrema segretezza e riservatezza; quindi oltre all’abuso precedentemente evidenziato nell’utilizzo di vocaboli riferibili ad altre consorterie criminali all’epoca attive nel mezzogiorno, è possibile osservare, ancora a livello giudiziario, il ricorso ad un variegato ventaglio di definizioni che vanno da “associazione appellata la Malavita,” 145 a “i figli del coraggio,” 146 a “Società nicastrese,” 147 a “famiglia Montalbano” 148 sino ai più diffusi “onorata società,” 149 che è “la definizione

139 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Calia Michelangelo più 65, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 324, 14 ottobre 1890. 140 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Zagari Antonino più 19, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 372, 22 agosto 1898. 141 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Mangione Bruno più 53, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 405, 2 dicembre 1903. 142 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Favasulli Antonio più 44, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 406, 13 febbraio 1904. 143 A. Niceforo, Il gergo dei normali, nei degenerati e nei criminali, F.lli Bocca, Torino 1897, p. 155. 144 M.Monnier, op.cit., p. 9. 145 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Abate Vincenzo più 86, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 407, 9 marzo 1904. 146 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Aricò Antonio più 56, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 391, 2 agosto 1901. 147 Corte d’appello di Catanzaro Sezione di accusa, Sentenza emessa nei confronti di Cantafio Vincenzo più 53, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 129, 25 maggio 1888. 148 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Annaccarato Vincenzo più 93, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 516, 25 novembre 1930; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Faccineri Giuseppe più 20, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 460, 18 gennaio 1916; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Lucà Luigi più 38, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 504, 9 luglio 1928; si noti che il termine di “famiglia Montalbano” è stato recentemente utilizzato per definire la criminalità organizzata calabrese anche da Saverio Strati. (S.Strati, C’era una volta l’onorata società, “Corriere della Sera”, 10 febbraio 1978; S.Strati, Il selvaggio di Santa Venere, Mondadori, Milano 1987). E’ comunque opportuno ricordare quanto osservato in merito da Enzo Ciconte: “Tale definizione non è però molto diffusa. Essa, a quanto sembra, era in uso in alcune località della provincia di Reggio Calabria, soprattutto a Gioia

40 comunemente e più largamente usata per indicare l’associazione mafiosa calabrese” 150 tra le masse contadine, e “picciotteria” 151 che avrà grande fortuna e sarà ampiamente impiegato sia nelle sentenze che in diverse pubblicazioni 152 dei primi anni del Novecento. In merito all’utilizzo di vocaboli riferibili ad altri sodalizi criminali del sud, Ciconte ha osservato: “camorra, camorristi, maffia, maffiosi, picciotteria, picciotti, sembrano richiamare la realtà esistente in Sicilia ed in Campania e lasciano intendere forme di collegamento e di parentela con quelle associazioni. Picciotti e camorristi sono i gradi esistenti anche nella mafia e nella camorra e quindi le definizioni che se ne ricavano sembrano adombrare una sorta di filiazione delle organizzazioni calabresi da quelle più importanti operanti da tempo in quelle regioni, in modo particolare dalla camorra”. 153 Apparentemente sembrerebbe quindi che la criminalità organizzata calabrese viva una sorta di crisi d’identità nell’espressione di tratti originali ed autonomi; è sicuramente vero che in questo periodo essa è ancora un’organizzazione molto giovane, tuttavia è riscontrabile, anche in questo caso, una certa sottovalutazione da parte dei contemporanei che, nella loro limitata conoscenza di questa nuova forma criminale, trovarono probabilmente più semplice assimilarla alle già note fenomenologie campane e siciliane, invece che studiarne in maniera approfondita, a cominciare dalla definizione, i tratti caratteristici.

Tauro, e circoscritta nel raggio di azione dei comuni ricadenti sotto l’influenza di quella associazione.” (E. Ciconte, op.cit., p. 16). 149 Ibidem. 150 E. Ciconte, op.cit. , p. 16. Ciconte insiste sull’importanza di questa definizione poichè fa riferimento specificamente al concetto di onore come uno dei capisaldi attorno al quale ruota la struttura sociale e culturale di una società agraria come quella calabrese di fine Ottocento. Quindi uno dei requisiti fondamentali per l’appartenenza sarebbe proprio l’essere un uomo onorato, ovverosia un individuo che eserciti il dominio esclusivo della donna - moglie, figlia, sorella, amante o madre – e che nel caso in cui qualcuno le recasse offesa, non esiti a lavare l’affronto subito con il sangue. Dunque, nella società calabrese povera ed arretrata, in cui si nasceva senza diritti e proprietà di alcun tipo, almeno su una cosa gli uomini rivendicavano un dominio esclusivo: sulla donna. Lo stesso Ciconte osserva ancora che l’appellativo di “onorata società” è stato il più diffuso tra le masse contadine, che conoscevano bene l’organizzazione criminale, ma paradossalmente è stato utilizzato solo di rado in sentenze, atti ufficiali, pubblicistica e saggistica sull’argomento ( Ivi, p.18). 151 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Scidone Santo più 53, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 386, 27 ottobre 1900. Ma è soprattutto il dispositivo di una sentenza del 1903 delle stessa Corte d’appello che estende l’utilizzo dell’appellativo di “picciotteria” affermando che le associazioni per delinquere “sono denominate associazioni della picciotteria e quelli che la compongono sono chiamati picciotti” (Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Arcidiacono Gregorio più 15, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 403, 1 agosto 1903). 152 Cfr. D. Tarufi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Barbera, Firenze 1908, pp. 858-859; Si vedano anche E. Morselli, S. De Sanctis, Biografia di un bandito. Giuseppe Musolino di fronte alla psichiatria e alla sociologia, Treves, Milano 1903, p.216 e L. Ferraioli, Picciotteria, Monteleone 1900. 153 E. Ciconte, op.cit., p. 14.

41 In relazione al termine “’ndrangheta” comunemente utilizzato oggi per definire la mafia calabrese è opportuno ricordare che secondo Paolo Martino se ne troverebbe traccia per la prima volta nel 1909 154 ; peraltro tale appellativo si è definitivamente imposto solo nell’ultimo trentennio, proprio con lo scopo di identificare e distinguere i sodalizi calabresi da quelli campani e siciliani, 155 a seguito di quella che è stata definita da Franco Martinelli un’operazione giornalistica 156 . Sempre per Martino, etimologicamente esso sarebbe frutto della trasformazione della parola “‘ndranghita”, vocabolo di origine grecanica che deriva da andraghatos, con cui si indicava l’uomo coraggioso e valoroso; considerato che alla mafia calabrese potevano aderire solo uomini con queste caratteristiche ecco come si spiegherebbe la definizione dell’appartenente come “’ndranghitu” che altro non sarebbe se non una forma fonetica innovata di andraghatos. 157 Quindi, in origine, tale appellativo aveva caratteristiche positive e solo successivamente ha acquisito, a seguito di quello che Martino definisce “un processo di criminalizzazione,” il significato attuale che connota decisamente una peculiare organizzazione delinquenziale 158 . Sull’origine del vocabolo ‘ndrangheta, si è soffermato anche Saverio Di Bella offrendone una spiegazione che pare andare in direzione decisamente opposta a quella di Martino; infatti esso non avrebbe “nessuna origine nobile: indica uno dei versi che, in alcune aree della Calabria, accompagnava insieme al battere delle mani, alcune figure della tarantella e cioè: “e ‘ndrangheta e ‘ndrà”. Gli ‘ndranghetisti sono cioè individuati come uomini ballerini, senza sostanza, quasi buffoni, rispetto ai vecchi uomini d’onore che si sentono offesi dall’essere assimilati agli ‘ndranghetisti”. 159 E’ ancora interessante ricordare che recentemente è stata adottata un’ulteriore definizione per la mafia calabrese, quasi a tramandare la storica confusione sul nome da attribuirle; per Pantaleone Sergi essa sarebbe infatti “la Santa” 160 . Se per ‘ndrangheta si usa intendere l’organizzazione criminale in senso lato, a livello locale operano le cosiddette ‘ndrine, quelle che nella mafia siciliana si chiamano cosche e nella camorra clan; anche a questo livello, quasi

154 P. Martino, Per la storia della ‘ndrangheta, Roma 1988, pp. 26-28. 155 Cfr. S. Di Bella, Mafia, ‘ndrangheta e camorra, Guida bibliografica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1983 e G. Pallotta, Dizionario storico della mafia, Newton Compton, Roma 1977. 156 F. Martinelli, La guerra mafiosa, Editori Riuniti, Roma 1981, p.11. 157 P. Martino, Storia della parola ‘ndrangheta, in AA.VV., Le ragioni della mafia, Jaca Book, Milano 1983. 158 P. Martino, Per la storia della ‘ndrangheta, cit., p. 15. 159 S. Di Bella, ‘ Ndrangheta: la setta del disonore, Pellegrini, Cosenza 1989, p.8. 160 P. Sergi, La “Santa” violenta, Periferia, Cosenza 1991.

42 a ribadire l’incertezza terminologica di cui si è sinora parlato, esistono infatti più vocaboli. Oltre ai classici “cosca” e “famiglia”, mutuati dall’esperienza siciliana ma utilizzati anche in Campania, ed al già citato “’ndrine”, anch’esso di origine grecanica che significa “uomo di diritto che non piega mai la schiena” 161 è anche diffuso il vocabolo “fibbia” esteso agli affiliati che sarebbero definiti “affibiati”. 162 Si è precedentemente posto l’accento sulla trasmissione esclusivamente orale della leggenda dei tre cavalieri spagnoli; quella di un limitato ricorso alla scrittura è caratteristica che contraddistingue il sistema di comunicazione e di trasmissione di idee tra gli associati. “Sembra quasi che la ‘ndrangheta si sia fermata alla tradizione orale”. 163 E’ probabile che alla base di tale scelta non vi sia solamente il diffusissimo analfabetismo dell’epoca, ma anche un’esigenza di segretezza realizzata mediante il ricorso al linguaggio parlato che oggettivamente non lascia tracce permanenti come quello scritto. Ecco come si spiegano le risultanze giudiziarie del periodo secondo cui alcune 164 ‘ndrine basavano la propria organizzazione su statuti non scritti. “Questo fatto appalesa l’astuzia della società, la quale per tema che per una qualsiasi evenienza lo statuto potesse giungere nelle mani della giustizia, scaltramente eransi astenuti dal compilarlo”. 165 Non si dimentichi inoltre che l’utilizzo della forma orale nella trasmissione di un messaggio permette di arricchirlo e renderlo efficace, ad un livello che nessuna forma scritta potrebbe raggiungere, mediante la gestualità, i silenzi, le parole gergali 166 e dialettali, i doppi sensi, gli ammiccamenti, il contesto stesso in cui si realizza la comunicazione che non è casuale ma è frutto di una scelta razionale. Il ricorso ad un peculiare linguaggio per la comunicazione delle idee, assieme al sistema culturale, ai

161 L. Malafarina, op.cit. , p.79. 162 Ibidem. Sull’utilizzo di “fibbie” si sofferma anche Sharo Gambino nel suo La mafia in Calabria. (S. Gambino, La mafia in Calabria, Edizioni parallelo 38, Reggio Calabria 1975, p. 47). 163 E. Ciconte, op.cit., p. 22. 164 E’ infatti provata la redazione in alcuni casi di statuti scritti; per esempio la ‘ndrina di Nicastro aveva uno statuto che conteneva “17 articoli riguardanti gli obblighi e doveri degli affiliati, la formola del giuramento, la parola d’ordine per riconoscersi tra loro e distinguersi da quelli di altre società” (Corte d’appello di Catanzaro Sezione di accusa, Sentenza emessa nei confronti di Cantafio Vincenzo più 53, cit.). 165 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Martino Vincenzo più 46, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 414, 8 giugno 1905. 166 Il gergo ‘ndranghetistico è “u baccagghju”. (Cfr. G. Falcone, Strutture organizzative, rituali e “baccagghiu” della ‘ndrangheta, cit., pp. 251-273 e S. Gambino, La mafia in Calabria, cit., pp.14-15).

43 codici comportamentali 167 , ai segni distintivi 168 , al ritualismo 169 è strumentale alla formazione di un’identità di valori che permette il successo del modello organizzativo ‘ndranghetistico. Come osserva infatti Luigi Lombardi Satriani: “senza valori, senza quadri di riferimento, senza simboli, nessun gruppo umano regge”. 170 E’ un problema riconducibile al senso di appartenenza all’organizzazione; il ricorso ad uno statuto, orale o scritto che sia, conferisce a qualsiasi attività e decisione una sorta di legittimità 171 e contestualmente rimarca il carattere elitario della ‘ndrina, poiché per appartenerle bisogna rispondere a determinate caratteristiche che non tutti posseggono. Per esempio in uno statuto sequestrato a Catanzaro si prevedeva: “la esclusione dei pederasti, dei mariti traditi, delle guardie di finanza, di città e carcerarie e dei carabinieri, e di coloro che non si siano vendicati della grave offesa dell’onore”. 172 Per Martino, gli statuti ‘ndranghetistici sono complessi “di norme organizzative penali e rituali” piuttosto affini ai loro omologhi riferibili alle società segrete appartenenti al modello massonico ed ai codici degli ordini cavallereschi e delle confraternite medioevali, 173 fondati su un linguaggio frutto di una sorta di melting-pot tra l’italiano, il calabrese, il napoletano ed il siciliano “semplice e nel contempo astruso, pieno di doppi sensi, di frasi in gergo: popolare e insieme d’elite, con molteplici riferimenti religiosi ma anche

167 Tra cui per esempio il ricorso allo sfregio nei confronti di chi si è reso responsabile di qualche mancanza o di testimoni, rappresentante “il castigo destinato appunto per gli spioni e i traditori” (Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Greco Francesco più 30, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 384, 17 maggio 1900). Si noti il significato simbolico di una ferita permanente recata al viso, quindi in alcun modo nascondibile agli occhi della gente, che segna per tutta la vita chi la porta. Altri importanti codici comportamentali, rilevabili ancora oggi, sono la vendetta e l’omertà. (Cfr. E. Ciconte, op.cit., pp.60-67). 168 Sono molteplici le risultanze giudiziarie che riferiscono dell’abitudine di molti affiliati di farsi tatuare. “Questa medesima gente avea de’ segni particolari per comprendersi tra di loro […]; la massima parte di essa era tatuata.” (Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Marino Francesco più 147, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 336, 9 settembre 1905.) Sono altresì note espressioni estetiche di appartenenza quali “un ciuffo di capelli sulla fronte a guisa di farfalla” (Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Favasuli Bartolo più 28, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 359, 30 luglio 1896), “d’intorno al collo, per riconoscersi, un fazzoletto annodato” (Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Moscatello Pietro più 49, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 394, 22 gennaio 1902), “il camuffo di seta ed un garofano rosso all’occhiello” (S. Gambino, La mafia in Calabria, cit., p.62). 169 Si pensi alla complessa ritualità che segna l’ingresso del nuovo affiliato, e che viene definita “battesimo” con un esplicito richiamo al cattolicesimo; oppure, nel caso della promozione al grado di camorrista, al duello, la cosiddetta “tirata del sangue”, che si deve svolgere tra il candidato ed un altro membro dell’organizzazione (Cfr. S. Castagna, Tu devi uccidere, a cura di A. Perria, Il Momento, Milano 1967, pp.40-41). 170 L.M. Lombardi Satriani, Stratificazione sociale, dinamica culturale e mafia nel Mezzogiorno contemporaneo, in AA.VV. Mafia e potere, cit., p.208. 171 Cfr. L. Malafarina, op.cit., p.11. 172 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Bagalà Michele più 86, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 405, 23 novembre 1903. 173 Cfr. P. Martino, Per la storia della ‘ndrangheta, cit ., p. 25.

44 con immagini esoteriche difficilmente comprensibili per la cultura dello ‘ndranghetista medio, e proprio per questo pieni di attrattiva, di mistero, di fascino, di echi sconosciuti. L’ascolto rimanda a risonanze antiche e nel contempo mai udite prima”. 174 Questo reiterato tentativo di sviluppare un forte senso di appartenenza risponde ad un’esigenza largamente avvertita dalla gente calabrese nel periodo dell’unità: sconfiggere un sentimento di insicurezza diffusa 175 che ha molte origini: dal fenomeno dei briganti e delle truppe che li contrastano, alla vita su coste che storicamente sono state oggetto di scorribande e che hanno costretto i loro abitanti a ripiegare verso l’interno della regione, 176 dalle misere condizioni di vita che non garantiscono neppure la sopravvivenza 177 , all’estrema pericolosità delle vie di comunicazione178 , dalla debolezza intrinseca alla struttura sociale contadina 179 , ad una terra ostile, soggetta a tremendi terremoti e devastanti alluvioni, 180 per concludere con una storica sfiducia nei confronti delle leggi dello Stato, che agli occhi dei ceti meno abbienti risultano essere “leggi delle classi dominanti e di conseguenza ostili e antagoniste a quelle delle classi subalterne” 181 . A fronte di una così elevata insicurezza, “l’esigenza e la richiesta di protezione costituivano una tensione psicologica e culturale costante, che attraversava come una corrente invisibile, ma emergente di volta in volta in un pullulare di simboli, l’intera vita comunitaria”. 182

174 E. Ciconte, op.cit., pp. 27-28. 175 Cfr. J. Meyriat (a cura di), La Calabria, Lerici, Milano 1961, p.308. 176 Cfr. A. Placanica, I caratteri originali e Calabria in idea, in P. Bevilacqua- A. Placanica (a cura di), La Calabria, Einaudi, Torino 1985, pp.35-38. 177 Secondo la documentazione raccolta da Giovanni Sole nei primi anni dell’unità d’Italia la mortalità infantile “rimase eccezionalmente alta”. (G. Sole, Viaggio nella Calabria citeriore dell’800. Pagine di storia sociale, a cura dell’Amministrazione provinciale di Cosenza, Cosenza 1985, pp.291-307). 178 “le Calabrie poteano dirsi estranee tra loro per assoluto difetto di comunicazione. Il viaggio vi era ad ogni tratto pieno di disagi e di perigli, e se qualche calabrese affidavasi di affrontarli si disponea a far testamento tanto n’era incerto il rimpatriare.” (Grimaldi in A. Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel sud, Edizioni di Comunità, Milano 1982, p.47). 179 Per Augusto Placanica “ una congiuntura climatica, un cattivo raccolto – peggio un sia pur breve susseguirsi di annate magre - metteva senz’altro in ginocchio tutta la base della piramide sociale che inglobava – se pur con differenze – città e campagna.” (A. Placanica, Nel settecento calabrese: fluttuazioni climatico – produttive e rapporti di classe , in AA.VV., Civiltà di Calabria. Studi in memoria di Filippo De Nobili, a cura di A. Placanica, Edizioni Effe Emme, Chiaravalle 1976, p.375). 180 Cfr. A. Placanica, L’Iliade funesta. Storia del terremoto calabro – messinese del 1783, Casa del libro, Roma 1982; A.Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del settecento, Einaudi, Torino 1985; G.B. Croce, Dell’amministrazione della giustizia nel circondario di Rossano. Discorso del dì 13 gennaio 1873, Tipografia l’Indipendenza, Cosenza 1873, p.13). 181 E. Ciconte, op.cit., p. 67. 182 P. Bevilacqua, Quadri mentali, cultura e rapporti simbolici nella società rurale del Mezzogiorno, “Italia contemporanea”, 1984, n.154.

45 Questa necessità finisce inevitabilmente con il concretizzarsi, perlomeno in parte, nell’affiliazione alla ‘ndrangheta, che è un’organizzazione in grado di offrire contestualmente sia l’auspicata protezione - ai suoi appartenenti, cui vengono anche garantiti prestigio e rispetto, ma anche a chi ne rimane fuori e che pagherà una sorta di tassa per ottenerla – sia – grazie al suo continuo mutuare valori popolari strumentalmente all’ottenimento di consenso - un vero e proprio ordinamento giuridico alternativo a quello proposto dallo Stato, che soddisfa pienamente l’esigenza riferibile alla suggestiva tesi di alcuni studiosi della cultura folklorica, secondo cui: “le classi subalterne producono un loro ordinamento giuridico che non coincide con l’ordinamento giuridico dello Stato nel quale tali classi sono inserite”. 183 Nello Zagnoli a tale proposito ha definito “cultura comune” quella dei contadini e quella della ‘ndrangheta 184 e per Lombardi Satriani: “la cultura mafiosa assume i valori folklorici ma li strumentalizza, caricandoli di finalità ad essi eterogenei[…] il comportamento mafioso […] rinvia ad un articolato sistema di norme. Questo, a sua volta, fa parte di una organica subcultura”. 185 La capacità della ‘ndrangheta di rappresentare, per i ceti popolari, una specie di baluardo di istanze ed interessi abitualmente trascurati dallo Stato ha addirittura assunto in qualche caso contorni al limite dell’irrealtà. Si pensi solamente a due casi che possono fare sorridere, ma in realtà sono amaramente rappresentativi del clima di controllo del territorio e delle menti posto in essere dalla ‘ndrangheta. Il primo si verifica in occasione del processo nei confronti della ‘ndrina di Maropati, Anoia, Cinquefrondi e Galatro. Nella sentenza si legge che uno degli affiliati si era associato “credendo che si trattasse di una società di Mutuo-Soccorso, e poscia, deluso, non volle più appartenere alla setta”. 186 Il secondo si verifica invece a Cosenza, quando uno degli accusati dichiara che si era affiliato perché “gli avevano fatto intendere che trattavasi di entrare in un circolo socialista e che egli così diceva ai compagni per affiliarli”. 187

183 L.M. Lombadi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Guida, Napoli 1974, p. 278. 184 Cfr. N. Zagnoli, A proposito di onorata società, in AA.VV., Le ragioni della mafia, cit., p. 69 185 L.M. Lombardi Satriani, Sulla cultura mafiosa e gli immediati dintorni, in AA.VV., Le ragioni della mafia, cit., p.86. 186 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Adornato Salvatore più 121, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 395, 22 aprile 1902. 187 Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Abate Vincenzo più 86, cit.

46 Ciconte ha osservato che alla base di questa ingenuità e di questa incredibile confusione c’è una distorta interpretazione della ‘ndrangheta che trae la sua origine dal fatto che essa “è stata vista attraverso la lente deformante della sua ideologia che aveva tutto l’interesse a far emergere questi tratti” 188 . In realtà è ampiamente noto che tra i vari reati di cui si resero colpevoli gli ‘ndranghetisti vi erano anche azioni odiose, che non potevano in alcun modo fruire della solidarietà della popolazione; per esempio è disponibile una lunga serie di sentenze nei confronti di affibbiati condannati per violenza carnale 189 che sottendono un impulso alla violenza fine a se stessa ed alla mancanza di rispetto nei confronti delle donne che non può che contrastare con l’immagine che la mafia calabrese ha voluto fornire di se stessa; “la realtà è diversa dall’immagine. Ma è l’immagine che è prevalsa nel tempo”. 190 All’indomani dell’unità, nelle menti degli appartenenti alle classi meno abbienti era radicato un diffuso sentimento di paura mista a profonda diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di rappresentanza del potere pubblico; fu proprio in quel momento che nacque e poi crebbe una tendenza all’antistatualismo che era destinata a radicarsi a fondo nella cultura calabrese. La ‘ndrangheta, astuta e lungimirante, seppe avviare un’opera di strumentalizzazione di questo sentimento in funzione dei propri fini delinquenziali così profonda e radicale da essere diffusa ancora ai giorni nostri.

2.2 Fascismo e Dopoguerra.

Nel paragrafo precedente, si è cercato di analizzare quali siano state le cause storico-sociali della nascita e dello sviluppo di una fenomenologia criminale complessa come la mafia calabrese, soffermandosi in particolare sul

188 E. Ciconte, op.cit., p. 76.

189 Si vedano a titolo esemplificativo Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Martino Vincenzo più 46, cit.; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Gioffrè Filoreto più 11, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 429, 8 dicembre 1908; Corte di assise di , Sentenza emessa nei confronti di Macrì Francesco più 141, Archivio di Stato di Catanzaro, b. 4, 6 settembre 1939; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Auteri Felice più 229, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 388, 25 febbraio 1901; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Costa Giovanni più 10, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 421, 12 luglio 1906; Corte d’appello delle Calabrie, Sentenza emessa nei confronti di Castagna Bruno più 21, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 421, 6 luglio 1906; Corte d’appello di Catanzaro Sezione di accusa, Sentenza emessa nei confronti di Maione Nicola più 68, Archivio di Stato di Catanzaro, v. 150, 15 dicembre 1896. 190 E. Ciconte, op.cit., p. 87.

47 periodo post-unitario. Considerato che le finalità che si prefigge questo lavoro non sono prettamente storiche, è possibile a questo punto operare un salto cronologico sino a tempi più recenti 191 per arrivare così a comprendere quale sia stato il percorso attraverso il quale questa forma criminale è pervenuta alle attuali caratteristiche. Nel capitolo dedicato alla camorra si è visto come, per questa consorteria, si sia registrata una massiccia repressione statale durante il periodo del regime fascista che recò notevoli danni alla struttura organizzativa. Per quanto riguarda la ‘ndrangheta è invece documentato che, nonostante gli sforzi del regime, il periodo del ventennio ha rappresentato non una fase di crisi 192 ma, al contrario, di assestamento delle sue strutture, se si considera che esso fallì sia nel tentativo di scompaginarne l’organizzazione, sia in quello di modificare la mentalità di cui si giovava, diffusa nella società calabrese di quegli anni. “Il fascismo [...] non riuscì a eliminare i caratteri strutturali, a modificare i rapporti sociali che stavano a fondamento dello sviluppo ‘ndranghetista. Nè riuscì a incidere sulla mentalità, sulla cultura, sui valori che [...] costituivano tanta parte della forza d’attrazione della ‘ndrangheta. L’immaginario collettivo mescolava timore e paura a giudizi positivi, a volte perfino lusinghieri nei confronti dell’onorata società”. 193 Oltre tutto, l’attività repressiva, proprio per le modalità estremamente violente con le quali venne intrapresa, non fece altro che acuire il distacco, già storicamente marcato, tra società ed istituzioni. Certamente alcune ‘ndrine vennero colpite ma, complessivamente, la ‘ndrangheta continuò ad operare come prima, anche in funzione di un atteggiamento ambivalente del regime, che non disdegnava, nonostante la repressione, di tentare di cooptarne i livelli più alti, vale a dire i capibastone. Ciò allo scopo di stabilire una sorta di alleanza in funzione persecutoria degli esponenti del movimento operaio e contadino, che continuavano a rappresentare, agli occhi dei fascisti, il pericolo più grande. Si osservi a questo proposito quanto affermato da Pasquale Contartese, sindaco socialista di Rombiolo, a seguito del suo arresto: “i

191 Per una dettagliata analisi del periodo storico che qui si è ritenuto di non approfondire, si rimanda a quella che è senza dubbio la più completa opera sulla storia della ‘ndrangheta realizzata sino ad oggi che è ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi di Enzo Ciconte. (Cfr. Ivi, pp. 90 – 231). 192 G. Raffaele, Temi e problemi nella letteratura sulla mafia, in AA.VV, Mafia e potere , cit., p.70. 193 E. Ciconte, op.cit., p. 232.

48 protetti sono i signori i quali ci denunciano per associazione a delinquere e mandano avanti la camorra portando alla miseria i poveri comuni”. 194 Vi fu quindi, da una parte, repressione e, dall’altra, quasi identificazione tra la realtà mafiosa calabrese e il regime fascista; per un semplice contadino di : “durante il fascismo i capi si sono accordati”; 195 i “capi” cui si fa riferimento sono ovviamente i vertici ‘ndranghetistici da un lato e del regime dall’altro. La ‘ndrangheta, i maggiori rappresentanti del ceto urbano ed i grandi proprietari terrieri vissero in questi anni una sorta di trasformismo che li portò a sposare la causa fascista, allo scopo di mantenere immutata la situazione precedente all’avvento dei movimenti politici popolari 196 ; la fusione di queste differenti realtà in funzione reazionaria diede luogo ad un blocco di potere in cui molti esponenti ‘ndranghetistici trovarono spazio. Ma, aldilà di questa “santa alleanza,” è opportuno ricordare che almeno sul finire degli anni venti, l’attività repressiva nei confronti della ‘ndrangheta ci fu davvero ed assunse caratteristiche di capillarità, con l’arresto di moltissimi esponenti e la decapitazione di intere ‘ndrine; il fatto è che non venne condotta in maniera da garantire frutti duraturi nel tempo, per esempio con operazioni di educazione alla legalità da realizzare a livello della società calabrese e soprattutto dei giovani, ma si limitò alla componente poliziesca, al problema di ordine pubblico 197 , nella assoluta convinzione che la ‘ndrangheta non fosse l’espressione delinquenziale di una società intrinsecamente malata, ma una semplice associazione “di malandrini, di volgari delinquenti dediti al furto, alla grassazione, alla rapina.” 198 Anche la Calabria ha avuto un suo prefetto Mori; si trattò del maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Delfino, un vero e proprio super investigatore della ‘ndrangheta (che peraltro conosceva molto bene essendo originario dell’ Aspromonte), passato alla storia con il nome di “massaru Peppe” per la sua abitudine di ricorrere addirittura ad un travestimento da pastore per recarsi in montagna a caccia di latitanti. Sulla rettitudine morale

194 A. Carvello, Fascismo e classi contadine in Calabria, in AA.VV., Mezzogiorno e fascismo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1978, p.532. 195 C. Stajano, Africo, Einaudi, Torino 1979, p.40. 196 Cfr. A. Carvello, op.cit., p. 527. 197 Peraltro, è sicuramente vero che non rientra tra le caratteristiche della natura del fascismo l’adozione di politiche di sviluppo ed educazione in zone arretrate e fortemente colpite da fenomeni delinquenziali. 198 S. Gambino, Mafia. La lunga notte della Calabria, Edizioni quaderni Calabria-oggi, Serra San Bruno 1976, p.70.

49 del maresciallo Delfino non vi sono dubbi; si pensi che nonostante fosse un uomo dello Stato, rifiutò l’iscrizione al partito fascista, perdendo così la possibilità di essere promosso. 199 Tuttavia, se da un lato il maresciallo perseguitava con tutte le sue forze le varie ‘ndrine, dall’altro è documentato un suo accordo con il capobastone don Antonio Macrì per evitare che durante la festa della Madonna di Polsi si verificassero incidenti 200 . L’episodio è emblematico della profonda ambiguità vissuta dal regime fascista e dai suoi rappresentanti dinnanzi alla ‘ndrangheta, con i cui vertici si tessono accordi e contro il cui esercito si combatte. La dura repressione nei confronti dell’associazionismo politico popolare, combinata all’oggettivo rafforzamento politico ed economico dei ceti padronali ed agrari, diede luogo ad una situazione in cui la pressione esercitata sulle classi meno abbienti divenne insostenibile; per di più, queste ultime non potevano nemmeno fare ricorso alla valvola di sfogo costituita dai partiti socialisti e contadini. Il tutto in una cornice politica contraddistinta dalle storiche ostilità e diffidenze delle popolazioni calabresi nei confronti dello Stato a cui si era aggiunta la violenza ostentata dal partito fascista nei confronti dei dissidenti. “Non c’è da meravigliarsi, dunque, se in molti centri – il fenomeno ebbe particolari caratteristiche soprattutto nella fascia aspromontana e nella Jonica reggina – la ‘ndrina rappresentò una forma di organizzazione che funzionò come un surrogato dell’associazionismo politico vietato dal fascismo”. 201 Dunque, l’antico antistatualismo, abbinato al recente antifascismo, fece sì che la ‘ndragheta potesse apparire come l’unica alternativa percorribile per soddisfare il forte sentimento di riscossa che animava il popolo calabrese. Ancora una volta essa avrebbe incrementato il numero dei propri adepti, sfruttando le debolezze di uno Stato che sin dall’ottocento aveva evidenziato una cronica incapacità di relazionarsi con la società meridionale e la cui recente deriva totalitaria non aveva fatto altro che aggravare una situazione già da tempo insostenibile. Se a ciò si aggiunge che i numerosi invii al domicilio coatto nei confronti degli oppositori del regime - sia che questi fossero esponenti della sinistra popolare, sia che fossero appartenenti alla

199 Cfr. M. La Cava, Tra i latitanti dell’Aspromonte, “Gazzetta del Popolo”, 30 marzo 1977. 200 Cfr. C. Stajano, Africo, cit., p. 38. Proprio nel cuore dell’Aspromonte sorgeva il santuario della Madonna di Polsi, luogo ove tradizionalmente si radunavano una volta l’anno i capibastone delle varie ‘ndrine; proprio in quell’occasione, il tribunale della ‘ndrangheta emetteva le proprie sentenze e dunque, abitualmente, dopo la festa nei boschi circostanti il santuario si rinvenivano numerosi cadaveri. (Cfr. Ivi, p. 13) 201 E. Ciconte, op.cit., p. 235.

50 ‘ndrangheta - determinò quella che Sharo Gambino ha definito “una strana mescolanza” 202 tra detenuti politici e detenuti comuni, si comprende come al termine della guerra, alla guida di molte amministrazioni locali calabresi, si troveranno uomini “che erano passati attraverso l’esperienza dell’organizzazione ‘ndrangheta”. 203 Sostanzialmente si può affermare che il maggiore danno recato dal regime alla mafia calabrese fu lo scompaginamento della struttura di alcune ‘ndrine a seguito del massiccio invio di giovani al fronte e del conseguente indebolimento della base. Alla fine della guerra, in Calabria si assiste ad un fenomeno analogo a quello verificatosi nella Sicilia occidentale: “tra il 1943 e il 1945 i mafiosi furono nominati dal governo militare alleato sindaci di buona parte dei comuni [...] della provincia di Reggio Calabria”. 204 Il potere esercitato dalla ‘ndrangheta non si era affatto spezzato, anzi la stessa scelta degli alleati rimarcava la continuità di questa fenomenologia criminale, rimasta pressoché immutata nella transizione dai governi liberali al fascismo prima, e da quest’ultimo alla democrazia nel dopoguerra. Sotto l’aspetto delle attività criminali, la ‘ndrangheta del dopo liberazione è caratterizzata da una mescolanza di vecchio e nuovo con l’impegno in una serie di attività commerciali e finanziarie come la borsa nera ed il contrabbando 205 . Nel 1950, il processo tenutosi presso la Corte d’assise di Locri nei confronti della ‘ndrina di Siderno permette di prendere contatto con un classico caso–tipo al fine di comprendere appieno quali siano i connotati assunti dalla nuova ‘ndrangheta: dagli atti processuali risulta che non vengono accantonate le vecchie pratiche estorsive nei confronti dei proprietari di frantoi, si praticano rapine, lesioni, omicidi e furti, questi ultimi strumentali all’offerta di protezione; le intimidazioni sono all’ordine del giorno, come i rapporti tra notabili di Locri e Siderno e capibastone; è diffusa la pratica del monopolio sul collocamento della mano d’opera, mediante minacce ai datori di lavoro recalcitranti; il boss Antonio Macrì, descritto nella sentenza come personaggio di rilievo e di tutto rispetto, è talmente potente da mediare nelle vertenze agrarie tra possidenti e coloni, sostituendosi a tutti gli effetti ai tribunali. Complessivamente, l’immagine che emerge dalla sentenza

202 S. Gambino, Mafia. La lunga notte della Calabria, cit., p.71. 203 E. Ciconte, op.cit., p. 236. 204 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice , cit., p.59. 205 C. Alvaro, I briganti , “Corriere della Sera”, 17 settembre 1955.

51 contro la ‘ndrina di Siderno è quella di un’organizzazione ramificata, potente che persegue un eterogeneo ventaglio di attività illecite. 206 Gli anni del dopoguerra sono anche quelli in cui la ‘ndrangheta stringe accordi con i rappresentanti della politica; contrariamente a ciò che accade in Sicilia però, in Calabria anche i partiti di sinistra, perlomeno inizialmente, vengono avvicinati dalla malavita. Questo differente atteggiamento tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra nei confronti di PSI e PCI è probabilmente spiegabile con la forte vocazione antifascista assunta da alcune ‘ndrine negli anni in cui l’associazionismo politico era vietato dal regime e con le frequentazioni tra ‘ndranghetisti e detenuti politici inviati al confino durante la repressione. Con il crollo del regime e la nascita di sezioni di partiti di sinistra in molte zone della Calabria, la ‘ndrangheta visse una sorta di crisi di legittimità, poichè la sua componente sana, quella composta da antifascisti che avevano scelto di aderirvi esclusivamente perchè essa rappresentava l’unica alternativa al regime, decise di abbandonarla per sposare la militanza politica di sinistra. Se a ciò si aggiunge la storica diffidenza calabrese nei confronti di Stato, Carabinieri e Polizia e l’avversione delle classi popolari per i proprietari terrieri, si comprende come il PCI, che nel suo programma ideologico sintetizzava tutte queste istanze, potesse essere la vera alternativa all’adesione alle ‘ndrine. Si può dire che la componente della ‘ndrangheta che rappresentava un potere extralegale in espansione e quindi perseguiva l’instaurazione di rapporti con un grande partito di governo che avrebbero permesso la penetrazione nei gangli della politica ad ogni livello, scelse la Democrazia Cristiana; la parte di essa maggiormente legata al mondo contadino, alla povertà, alle classi popolari scelse invece la sinistra. “Gran parte della ‘ndrangheta scelse la Dc e il governo ma una parte, la “mafia tradizionale”, scelse il Pci”. 207 Come osserva Ciconte: “l’aver mantenuto questi rapporti non fu senza conseguenze[...] In molte amministrazioni comunali governate dalla sinistra, nonostante la proclamata estraneità del Pci e del Psi rispetto alla ‘ndrangheta, le fibbie locali non di rado facevano convergere i loro voti su quegli amministratori senza che i dirigenti reggini avessero la capacità e la forza di intervenire in quelle situazioni per porvi rimedio[...]. Una vischiosità di

206 Cfr. Corte di assise di Locri, Sentenza emessa nei confronti di Agostino Giuseppe più 40, Archivio Corte di appello di Catanzaro. Sezione Penale, 29 dicembre 1950. 207 G. Manfredi, Mafia e società nella fascia ionica della provincia di Reggio Calabria: il “caso” Nicola D’Agostino, in AA.VV., Mafia e potere, cit, vol. II, p.273.

52 comportamento che indebolì l’azione politica rendendola, in quelle realtà, fiacca e poco credibile”. 208 La “vischiosità di comportamento” a cui si riferisce Ciconte, trae la sua origine da una sottovalutazione della ‘ndrangheta, di cui i dirigenti comunisti furono vittime. Per essi era innanzitutto difficile non tenere conto del suo essere stata un’organizzazione di solidarietà, di mutuo soccorso, quasi di autodifesa delle classi popolari; secondariamente, l’opinione diffusa a quel tempo era che la ‘ndrangheta rivestisse un ruolo di portata decisamente minore rispetto a quello di Cosa Nostra, 209 e che conseguentemente si potesse prendere in considerazione l’ipotesi di stringere degli accordi con essa. La grave ambiguità vissuta dai partiti di sinistra si esaurirà, per il Partito Comunista, contestualmente alla comprensione della dinamica seguita dalla ‘ndrangheta nel suo accentuare la propria propensione alla conquista del potere e conseguentemente nello stringere rapporti organici con la Democrazia Cristiana e gli agrari. Solo a questo punto il Pci adotterà un comportamento apertamente ostile alla mafia calabrese, al punto che qualsiasi esponente coinvolto in inchieste che la riguardino verrà immediatamente espulso dal partito. 210 Per quanto riguarda il PSI giova ricordare un vivace scontro alla Camera tra Tambroni e il deputato socialista Rocco Minasi; il Ministro dell’Interno affermò che durante un processo “uno dei catturati avrebbe detto: Bisogna votare per i candidati del partito socialista, ma in particolare per l’onorevole Minasi”. 211 Il processo a cui fa riferimento Tambroni è quello che era stato celebrato contro la ‘ndrina di Podargoni, durante il quale un imputato aveva effettivamente testimoniato che “in vista delle politiche del ’53 il capo disse che avremmo dovuto votare Psi e che ci avrebbe dato tre numeri; infatti il 6 giugno ci diede i numeri di un candidato poi eletto”. 212 La disputa tra Tambroni e Minasi, aldilà dell’asprezza dello scontro politico - in ossequio al quale ancora oggi non si lesina nel fare ricorso ad accuse gravissime tra esponenti di maggioranza e opposizione che poi spesso non trovano riscontri effettivi – getta comunque l’ombra del sospetto in

208 E. Ciconte, op.cit., p. 270. 209 Cfr. J. Meyrat, op.cit., p.308. 210 Si noti che quello comunista è stato l’unico partito ad aver adottato una simile linea di condotta nei confronti dei propri esponenti accusati di rapporti organici con la mafia. 211 A.P., Camera dei deputati, II legislatura, Intervento dell’on. F. Tambroni, seduta del 6 ottobre 1955, p. 20428.

212 G. Cervigni, Antologia della “fibbia”, “Nord e Sud”, n.18, 1956, p.75 .

53 ordine alla effettiva possibilità che anche il PSI fosse entrato a far parte del gioco delle clientele ‘ndranghetiste. Per quanto riguarda l’atteggiamento democristiano, si può affermare che esso non si discosta minimamente da quello tenuto in Sicilia: sfruttare l’organizzazione militare messa a disposizione dalla criminalità per i propri fini elettorali. Emblematica a questo riguardo fu la denuncia del deputato socialista Rocco Minasi, ancora lui, secondo cui il capobastone Vincenzo Romeo, a Pietrapennata “con il mitra in spalla, faceva la campagna elettorale in questi termini: “o votate Democrazia Cristiana o vi ammazzo””. 213 La stessa “operazione Marzano,” 214 apparentemente intrapresa con la ferma volontà dell’allora Ministro dell’Interno Tambroni di porre fine allo stato di illegalità che contraddistingueva gran parte della Calabria, è stata interpretata da più parti come una manovra politica, orchestrata dalla DC, tesa ad indebolire i partiti di destra, e soprattutto il PLI, i quali contavano su una fitta rete di vecchie clientele che non mancavano di coinvolgere i vertici

213 A.P., Camera dei deputati, II legislatura, Intervento dell’on. R. Minasi, seduta del 4 ottobre 1955, pp. 20190- 94. 214 Nell’estate del 1955, l’allora questore di Reggio Calabria Pietro Sciabica venne sollevato dal suo incarico direttamente dal ministro Tambroni e sostituito con il giovane questore di Trieste Carmelo Marzano, con il preciso scopo di fare pulizia dell’ingombrante presenza mafiosa in Calabria. Si è sostenuto che tale improvvisa decisione scaturì a seguito delle lamentele dell’onorevole Capua, sottosegretario calabrese all’agricoltura del governo Segni, in relazione ad un episodio che aveva visto protagonista inconsapevole sua moglie, la cui auto era stata colpita per errore da alcune fucilate.(Cfr. R.S., I banditi sparano per errore contro l’auto del sottosegretario, “La Nuova Stampa”, 3 settembre 1955). Considerata la reticenza manifestata dalla stessa signora Capua nel denunciare l’episodio e l’appoggio elettorale da parte della ‘ndrangheta di cui notoriamente si giovava l’onorevole (Cfr. Ministero dell’Interno Gabinetto, Rapporto del prefetto di Reggio Calabria del 20 settembre 1955, 1953-1956 b.4, fascc. 1066/1-2, Archivio Centrale dello Stato) tale circostanza pare però poco credibile. Quel che è certo è che il giovane questore si adoperò con grande fermezza, sollevando peraltro non poche critiche, sia in ordine all’opportunità di mantenere una sorta di stato d’assedio che investiva anche la popolazione esente da rapporti con la criminalità (Cfr. G. Bocca, Delianova paese del West, “L’Europeo”, a. XI, n.37, 11 settembre 1955 e C. Alvaro, Operazione Aspromonte. Psicologia della macchia, “L’Espresso”, a. I, n.1, 2 ottobre 1955), sia nei confronti delle tecniche poco ortodosse di cui si serviva per indurre a costituirsi i più pericolosi latitanti (le ammonizioni e il confino anche nei confronti dei famigliari degli stessi). All’opera rinnovatrice di Marzano non si sottrassero nemmeno numerosi funzionari della questura e delle forze dell’ordine che vennero allontanati dall’incarico perchè palesemente tolleranti nei confronti delle ‘ndrine e troppo superficiali nella concessione di passaporti e porti d’arma anche a personaggi decisamente equivoci. I risultati ottenuti dal giovane questore, supportato da un imponente spiegamento di forze, furono comunque notevoli (Cfr. G. Rospigliosi, Spezzata in Calabria la”spirale della vendetta”, “Il Tempo”, 27 ottobre 1955 e G. Selvaggi, Clamorose costituzioni di fuorilegge previste nei prossimi giorni in Calabria, “Il Tempo”, 13 settembre 1955) ma non lo salvarono dalla brusca interruzione dell’”operazione Calabria” comunicata da Tambroni al Senato il 27 ottobre 1955, 54 giorni dopo l’insediamento di Marzano a Reggio, che sollevò non pochi interrogativi: “Si ha l’impressione insomma che si sia avuto paura di “andare fino in fondo”, secondo quanto pur aveva promesso il ministro.”( G. Cervigni, op.cit., e G. Cingari, Storia della Calabria dall’unità ad oggi, Laterza, Roma – Bari 1982, p.367). Non è credibile che Tambroni potesse pensare di avere debellato la ‘ndrangheta in meno di tre mesi; evidentemente le motivazioni sia dell’inizio che della fine dell’”operazione Marzano” si devono ricercare ad un livello più elevato della semplice repressione poliziesca.

54 ‘ndranghetistici 215 . Per esempio, il giornalista Nicola Adelfi in un articolo de “La Nuova Stampa” sosteneva che la DC avrebbe tratto un vantaggio elettorale certo dall’indebolimento della ‘ndrangheta, considerato che i vertici di quest’ultima sostenevano il Partito Liberale 216 . Addirittura secondo Luigi Locatelli ad essere danneggiati dalla repressione della mafia calabrese non sarebbero stati solamente i partiti di centro destra, ma anche la corrente conservatrice della DC calabrese che era in aperto disaccordo con quella fanfaniana. “La destra DC era in maggioranza, sostenuta anche dai liberali, dai monarchici e dai potenti capi della onorata società, con i quali aveva interessi comuni da difendere e si opponeva alla linea politica del partito[...] [L’operazione Marzano n.d.r.] permetteva di raggiungere obiettivi più lontani: colpire, cioè, i capi mafia che organizzavano la campagna elettorale degli avversari. Solo eliminando questi “proprietari di voti” la corrente fanfaniana avrebbe potuto vincere alle prossime elezioni amministrative”. 217 Dello stesso avviso sembra essere “l’Unità”, secondo cui l’operazione Marzano era volta a “politicizzare la ‘ndrangheta, non ad eliminarla” essendo stata progettata per colpire sia le correnti ostili agli uomini di Fanfani, sia gli “uomini che hanno rotto con un determinato ambiente”. 218 Si è fatto sin ora ricorso a citazioni di articoli stampa; non esistono infatti documenti maggiormente probanti in ordine alla teoria che vuole che l’operazione Marzano sia stata esclusivamente una manovra politica.

215 Nel Rapporto del prefetto di Reggio Calabria del 20 settembre 1955 , in riferimento all’onorevole Capua si legge testualmente: “egli avrebbe conseguito il suo successo politico mediante il sostegno della malavita locale, soprattutto nella zona aspromontana della quale egli stesso è originario. [...] Che il Capua abbia cercato di sostenere in passato elementi non qualificati della provincia non è ignoto. Io stesso venni da lui reiteratamente ed insistentemente premurato verbalmente [...] perchè fosse concessa una patente automobilistica a tale Princi Pasquale di Delianova, patente che mi rifiutai recisamente di rilasciare per le non favorevoli informazioni che riferivano essere il Princi favoreggiatore del latitante Macrì: e il Princi è stato ora assegnato al confino [...] Neanche ora lo stesso Capua ha saputo sottrarsi ai suoi legami con elementi sospetti della provincia, che, venuto a Reggio il 14 corrente, ha creduto di poter spezzare una lancia presso l’ispettore generale dott. Marzano [...] in difesa dell’indipendente sindaco di Condofuri dott. Pizzi (notoriamente suo agente elettorale nella zona ionica) che, sospetto di favoreggiamento nei riguardi del latitante Romeo, veniva da più giorni sottoposto a pressanti interrogatori.” Lo stesso rapporto si sofferma anche su Giuseppe Porcino segretario provinciale del PLI a Reggio che avrebbe “precedenti penali poco edificanti”. (Cfr. Ministero dell’Interno Gabinetto, Rapporto del prefetto di Reggio Calabria del 20 settembre 1955, cit.). Ma non è questo l’unico caso di collusioni tra partiti di centro destra e ‘ndrangheta, se solo si considera che perfino la stampa nazionale riferiva del sostegno mafioso ai candidati di quell’area politica (Cfr. N. Adelfi, La legge della vendetta insanguina ancora l’Aspromonte, “La Nuova Stampa”, 25 settembre 1955.) 216 Ibidem. 217 L. Locatelli, Dietro la caccia ai banditi lotte fra le correnti democristiane, “L’Espresso”, a. I, n.1, 2 ottobre 1955. 218 R. Longone, Il ministro Tambroni e il sottosegretario Capua in disaccordo nel valutare la situazione esistente nelle province calabresi, “l’Unità”, 10 settembre 1955.

55 Tuttavia, sia alla luce dell’improvvisa ed inspiegabile interruzione dell’attività repressiva decisa da Tambroni a soli cinquantaquattro giorni dal suo inizio, sia in virtù del fatto che la DC calabrese stava effettivamente vivendo una fase di acuto scontro tra le sue correnti interne 219 , sembrerebbe perlomeno plausibile sostenere tale interpretazione. Ad ulteriore riprova di ciò, si tenga conto che la corrente della destra democristiana a Reggio Calabria uscì dall’operazione Marzano effettivamente indebolita, tanto è vero che, a partire dal 1956, il fanfaniano Vincelli diverrà prima segretario provinciale, poi segretario regionale ed infine deputato, 220 peraltro dovendo fare i conti con una sempre fortissima opposizione interna che lo accusava addirittura di essere stato favorito dal prefetto Leoluca Longo. Sulla figura di quest’ultimo si sofferma, con toni decisamente critici, il candidato democristiano Filippo Rizzo “non si fa mistero che, essendo nativo del luogo, subisca influenze, specie da parte di parenti ed amici della zona di Palmi, nell’espletamento delle funzioni. A tal proposito si fa anche il nome del gestore del teatro di Palmi, sig. Sciarrone che è uno dei soggetti più pericolosi della zona”. 221 Qui siamo già nel 1959 e, volendo credere a Rizzo, il quadro che sembra emergere non si discosta assolutamente dalla situazione precedente all’operazione Marzano, se non per i singoli interpreti: protagonista è sempre la ‘ndrangheta che continua ad avvantaggiarsi dei propri rapporti con il potere politico, rappresentato adesso dai nuovi democristiani della corrente di Fanfani, i quali a loro volta svolgono un ruolo di “cerniera” tra i primi e gli uomini delle istituzioni: “da una parte i rapporti di esponenti di questo partito con uomini della ‘ndrangheta e dall’altra con gli apparati dello Stato e con gli uomini che lo rappresentano”. 222 Visti i risultati, pare veramente calzante la definizione coniata da Sharo Gambino, secondo cui l’operazione Marzano era stata concepita e realizzata con una funzione di “taglio delle ali”; a sinistra i comunisti che erano caduti vittime degli arresti e degli invii al confino come volgari delinquenti, a destra

219 Sul quale si sofferma in maniera molto dettagliata un rapporto del prefetto Oscar Moccia (Cfr. Ministero dell’Interno Gabinetto, Rapporto del prefetto di Reggio Calabria del giugno 1953, 1953-1956 b.363, fascc. 6995/66, Archivio Centrale dello Stato) 220 Cfr. AA.VV., I deputati e i senatori del terzo parlamento repubblicano, La navicella, Roma 1958. 221 Cfr. Ministero dell’Interno Gabinetto, 1957-1960 b.183, fascc. 15101/66, Archivio Centrale dello Stato. 222 E.Ciconte, op.cit., p. 273.

56 i partiti e la corrente conservatrice della DC che storicamente detenevano i rapporti con gli uomini della ‘ndrangheta. 223 Dunque, un’operazione di polizia in grande stile, apparentemente concepita per eliminare in radice un fenomeno delinquenziale che cominciava ad assumere proporzioni preoccupanti, si concluse con un sostanziale rafforzamento ‘ndranghetistico 224 - considerato che le vere vittime della repressione furono solamente “pesci piccoli” e non sicuramente i vertici dell’onorata società - ma ottenne un grande risultato sotto l’aspetto politico, con un effettivo ribaltone degli equilibri di potere nella regione a favore dei fanfaniani. A tali effetti se ne deve aggiungere un altro, apparentemente di minore importanza, ma in realtà pregno di implicazioni future: il grande clamore suscitato dall’operazione attirò infatti molti giornalisti ed in quei tre mesi del 1955 la Calabria divenne protagonista, in negativo, delle prime pagine di molti giornali nazionali. Ben presto una simile attenzione cominciò a divenire fastidiosa e ad ogni livello della società calabrese cominciò a svilupparsi un sentimento di forte insofferenza. Si pensi solo all’appassionato discorso pronunciato dal procuratore della Repubblica di Reggio in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario del 1956, dove si parla di “una campagna che ha messo la Calabria all’ordine del giorno della delinquenza mondiale. [...] articoli pieni di triste fantasia, che accapponavano la pelle, di camorra organizzata, di feste religiose trasformate in riunioni di assassini, di delinquenza irresistibile che l’ordinaria polizia non era in grado di fronteggiare. La conseguenza fu che le su non lodate riviste videro aumentare la loro tiratura, la povera Calabria vide deviate le normali correnti del traffico ed il suo nome portato in segno di disprezzo sulle bocche di tutti. [...] Smettiamola, dunque di additare la nobile provincia di Reggio Calabria come il covo della peggiore delinquenza e tutta la Calabria come terra dei reietti della società! In Calabria c’è molta miseria, ma anche molta onestà e la regione – per costume ed onestà di vita – non è seconda a nessun’altra regione d’Italia. Ripeto che i calabresi non sono delinquenti [...] perciò io ho il diritto e il dovere, da questo seggio, di proclamare questa verità e di chiedere

223 S. Gambino, La mafia in Calabria, cit., p. 123. 224 In una relazione ministeriale non firmata del 1959 si evidenzia che “gli omicidi si succedevano l’uno all’altro con un crescendo impressionante. Le manifestazioni delittuose avevano soprattutto per teatro il capoluogo. Si uccideva in pieno giorno ed al centro cittadino, all’americana, a volte anche impunemente.” (Ministero dell’Interno Gabinetto, 1957-1960, cit.)

57 a tutti, specialmente a coloro che formano la pubblica opinione, che non si diffami questa terra e non si diffamino questi cittadini”. 225 Queste parole, per quanto condivisibili, sono senza dubbio figlie di una sorta di riflesso condizionato nei confronti di quella che è interpretata come un’aggressione esterna che dà luogo ad un rovesciamento delle responsabilità. “L’aggressione non proviene dagli ‘ndranghetisti ma dalla stampa, le offese al buon nome di Reggio e della Calabria non sono inferte dai delitti e dalle azioni criminali ma dagli articoli dei giornali che descrivevano gli episodi di violenza. Si provava vergogna non per quello che era successo, ma perchè quei fatti erano finiti sulla stampa nazionale”. 226 Dunque, con l’operazione Marzano e con tutto ciò che ne è conseguito, lo storico solco che separava le popolazioni calabresi dal resto del paese si acuirà ulteriormente, dando luogo al ricorso a meccanismi di autodifesa, come quello del procuratore di Reggio, inevitabilmente improntati ad una palese sottovalutazione del danno sociale determinato dalla ‘ndrangheta, che finirà col divenire una vera e propria copertura della stessa. Un’eredità che ancora oggi in Calabria è tristemente avvertibile. 227

2.3 Il “momento magico” degli anni sessanta

Con gli anni sessanta, l’atteggiamento delle ‘ndrine è palesemente orientato ad una profonda compenetrazione con l’economia legale; i rapporti con la politica, ben lungi dall’essersi interrotti ma al contrario sempre più saldi 228 , determinano infatti una situazione in cui i capobastone “scaltri e furbi

225 Ministero dell’Interno Gabinetto, 1953-1956 b.293, fascc. 5160/23, Archivio Centrale dello Stato. 226 E. Ciconte, op.cit., p. 290. 227 Cfr. N. Dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano 1984. 228 I rapporti con la politica sono una costante della storia della ‘ndrangheta che da sempre controlla capillarmente l’elettorato calabrese; per un approfondimento sulla crescita enorme di questo sistema di corruzione si rimanda a ’Ndrangheta dall’Unità a oggi di Ciconte che dedica un intero capitolo a questa tematica. (Cfr. E. Ciconte, op.cit., pp.329- 341). Ciò che pare comunque opportuno ricordare è che il modello in auge negli anni immediatamente successivi la fine della guerra, che prevedeva comunque una sostanziale dipendenza delle ‘ndrine rispetto agli esponenti politici, nel periodo tra la fine degli anni settanta e l’inizio del nuovo decennio si è ribaltato a favore delle cosche. A questo proposito il giudice Saverio Mannino, nel 1983 ha osservato: “la mafia ormai da tempo non si limita più a convogliare consensi elettorali verso gli uomini politici, ma elegge direttamente propri rappresentanti negli organi elettivi” (S. Mannino, La strage di Razzà, prefazione di L. Malafarina, Dimensione 80, Roma 1983, p.18). Si noti inoltre che tale compenetrazione politica non fu

58 non intaccano apertamente il codice penale. Si interessano così delle più svariate attività, oneste in apparenza, come la mediazione nel commercio degli agrumi.[...] nessun altro concorrente deve commerciare nelle zone di rispetto [...] E’ evidente che così operando i capimafia godono di un superguadagno”. 229 Inevitabile che gli equilibri economici della regione, alla luce di queste pesanti interferenze, vengano sconvolti; sono anni in cui la politica dello Stato nei confronti del mezzogiorno è orientata al massiccio trasferimento di fondi, che dovrebbero essere impiegati per lo sviluppo di realtà oggettivamente arretrate ed in notevole difficoltà nella competizione di mercato, ma che finiscono inevitabilmente, in Calabria come in Sicilia, nelle mani della grande criminalità che controlla i centri di potere incaricati di vigilare sull’utilizzo del denaro pubblico. Emblematico a questo riguardo il caso della cosiddetta “integrazione dell’olio”, con il 20% delle somme erogate a sostegno di questo settore intascate direttamente dalle ‘ndrine 230 ed un mercato olivicolo totalmente monopolizzato dai “Mammoliti e i Rugolo di Castellace, i quali, ad ogni stagione olearia (dopo aver impiantato con illeciti profitti imponenti oleifici), incettano a prezzo vile il prodotto degli uliveti o, in caso di rifiuto, “sconsigliano” ogni altro aspirante acquirente dal concludere contratti con le vittime”. 231 Qui emergono chiaramente le due attività delinquenziali preferite dalla ‘ndrangheta: sottrazione illecita di fondi statali irrogati per lo sviluppo del sud e totale controllo del mercato mediante l’erosione delle posizioni dei concorrenti con minacce e intimidazioni. Ma il vero business di questi anni è anche in Calabria l’edilizia con enormi modificazioni nel panorama degli insediamenti urbani; la costa jonica, sia nella parte reggina sia nella parte catanzarese, subirà consistenti modificazioni strutturali che daranno luogo all’abbandono degli antichi centri urbani ubicati sulle colline a vantaggio di un repentino sviluppo degli insediamenti abitativi nelle marine 232 . E’ praticamente sottinteso che di questa rivolta nei confronti di un unico partito, come avvenne in Sicilia, ma coinvolse pressoché tutti i partiti dell’area di governo, con l’eccezione del solo PCI che, come prima osservato, aveva assunto un atteggiamento di totale chiusura nei confronti dei tentativi di infiltrazione. 229 Ministero dell’Interno Gabinetto, 1957-1960, cit. 230 Cfr. F. Rosso, Ora c’è la mafia delle autostrade, “La Stampa”, 3 marzo 1970. 231 Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di rinvio a giudizio contro De Stefano Paolo più 59, Reggio Calabria 1978, p. 286. 232 Cfr. R. Monheim, La decadenza dei centri di antica origine e lo sviluppo delle marine ioniche tra il 1861 e il 1961, in AA.VV. , Territorio e società. Calabria 1750-1950, Lerici, Roma 1978, pp. 79 - 109.

59 crescita i primi ad avvantaggiarsi saranno gli impresari edili collegati alla ‘ndrangheta. Inoltre, gli anni sessanta e settanta sono contraddistinti da una notevole propensione dello Stato alla realizzazione di grandi opere pubbliche, come il completamento dell’autostrada del Sole nel tratto tra Salerno e Reggio Calabria, il raddoppio della linea ferroviaria Napoli-Reggio Calabria, la realizzazione dell’arteria di collegamento tra la costa jonica e quella tirrenica, i lavori aeroportuali ed industriali di Lamezia Terme, la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro. Purtroppo tali opere, concepite per “rompere l’isolamento della regione, per collegare la Calabria al resto del paese e per dare slancio allo sviluppo economico” 233 finiranno per rappresentare un boccone prelibato per le ‘ndrine che si inseriranno capillarmente sia nei lavori di costruzione che in tutte le attività ad essi collegate, come la vigilanza dei cantieri o i servizi di trasporto, pervenendo al doppio risultato di realizzare ingenti guadagni e di fornire una impressionante dimostrazione di forza all’opinione pubblica. Le grandi opere pubbliche calabresi hanno a tutti gli effetti impresso un nuovo ritmo, più accelerato, allo sviluppo delle cosche. 234

233 E. Ciconte, op.cit., p.299. 234 Cfr. A Madeo, Calabria: l’industria della mafia, “Corriere della Sera”, 14 maggio 1970. Peculiari le modalità di infiltrazione della ‘ndrangheta nei subappalti delle grandi opere; tutte le risultanze dimostrano infatti che le ditte del nord vincitrici delle gare d’appalto nazionali “non furono avvicinate, ma avvicinarono direttamente di loro spontanea iniziativa, i capibastone e con loro trattarono” (E. Ciconte, op.cit., p. 300). Secondo l’allora questore di Reggio, Emilio Santillo, le imprese del nord “prima di iniziare le opere, si rivolgono agli esponenti mafiosi delle zone in cui sono ubicati i cantieri” ( L. Malafarina, Il canto della lupara, Edizioni parallelo 38, Reggio Calabria 1981, p. 61) in conformità ad una sorta di “capitolazione in partenza” (P. Paoli, Le mani sulla Calabria, “Il resto del Carlino”, 22 ottobre 1977) che dotò le ‘ndrine di una forza enorme. Enzo Ciconte ha schematizzato le tappe obbligate nel processo di inserimento: “contatti preventivi con la cosca locale ancor prima dell’installazione dei cantieri e pagamento della mazzetta in cambio di protezione; successiva assunzione di ‘ndranghetisti come guardiani; infine, subappalto dei lavori di sbancamento e di trasporto del materiale inerte, nonchè forniture di materiale di varia natura, a cominciare dal pietrisco e dalla sabbia” (E. Ciconte, op.cit., pp. 300-301). Inoltre, ben presto le imprese appaltanti presero coscienza del costo d’impresa costituito dall’infiltrazione mafiosa, dando così luogo a continue richieste allo Stato della revisione dei compensi concordati in sede di gara. Osservava ancora Santillo “E’ una situazione paradossale. Le imprese non terminano mai i lavori nel tempo previsto ed accusano la mafia di ritardarli. In realtà c’è una specie di collusione, per cui grazie ai ritardi le imprese riescono ad ottenere altri milioni dalle perizie suppletive.” (F. Rosso, op.cit. ). Il commissario Franco Sirleo era addirittura arrivato ad osservare che ormai “ è stata istituzionalizzata la lievitazione del circa quindici per cento per tangente pro – mafia per tutti i lavori dello Stato e degli enti pubblici nella provincia reggina” (L. Malafarina, ‘ Ndrangheta alla sbarra, Dimensione 80, Roma 1981, p.184). E’ comunque noto che questo gioco perverso era ampiamente conosciuto dagli organi statali che gestivano i fondi che però si adeguavano ad un circolo vizioso che accontentava le ‘ndrine, le quali guadagnavano il denaro delle tangenti ed eseguivano i subappalti, e le imprese, che incassavano i fondi aggiuntivi, risparmiavano sulla manodopera, anch’essa soggetta al giogo mafioso, e soprattutto portavano a termine i lavori senza incidenti. Per un approfondimento sul modus operandi seguito dalle imprese appaltatrici, si rimanda all’approfondita ed interessante analisi realizzata da Rocco Sciarrone in ordine alla sconcertante vicenda della Piana di Gioia Tauro, dove si tentò di realizzare prima il quinto centro siderurgico italiano, poi,

60 Per Alfonso Madeo, gli anni sessanta hanno rappresentato per la ‘ndrangheta il “momento magico” 235 di una crescita che nel decennio successivo avrebbe permesso l’ulteriore salto di qualità al rango di “mafia imprenditrice” 236 , per la realizzazione di quello che Tuccio ha definito “il nuovo volto della mafia”. 237 Infatti, oltre all’edilizia e alle opere pubbliche, attorno al 1965 si presentò un nuovo interessante business, quello del contrabbando di tabacchi, a seguito di un’efficace azione della Guardia di Finanza che aveva reso insicure le coste siciliane, tradizionali aree di sbarco. Inevitabile lo spostamento delle rotte sulle coste calabresi, in particolare sullo Jonio a Crotone, nella Locride e a Gioiosa Jonica e sul Tirreno a Lamezia Terme. 238 Lo sviluppo di questa attività criminosa fu tale che agli inizi del decennio successivo sembrava addirittura che la ‘ndrangheta si fosse resa autonoma dalla mafia siciliana. 239 L’attività di enterprise syndicate costituita dal contrabbando prima e dal traffico di stupefacenti poi, anche se almeno inizialmente ridotta ad un semplice ruolo di servizio nei confronti della più potente mafia siciliana, proiettò la ‘ndrangheta al di fuori dei propri confini tradizionali; le conferì una nuova dimensione, più complessa e pericolosa, grazie agli stretti rapporti intrattenuti con esponenti di Cosa Nostra e della camorra, con la quale, durante la seconda metà degli anni settanta, si realizzerà l’ambizioso progetto della NCO di Raffaele Cutolo, di cui si è fornita un’ampia analisi in precedenza. “Fu nel 1974, nel manicomio giudiziario di Sant’Eframo che Cutolo pensò “di fondare una nova camorra che ha organizzato sul modello della ‘ndrangheta calabrese”, assimilandone il sistema e il rituale ”. 240

una grande centrale termoelettrica a carbone ed infine, con lo scopo di non lasciare inutilizzato il grande porto industriale a suo tempo pensato come infrastruttura per il quinto centro siderurgico, il maggiore polo del Mediterraneo nell’attività di transhipment. I primi due progetti sono stati abbandonati proprio a seguito della insostenibile presenza ‘ndranghetista e dell’appurata collusione con le ditte titolari degli appalti, mentre il terzo, partito nel 1994, pare funzionare, grazie alla politica di estremo rigore e di esecuzione di tutti i lavori in totale autonomia, proprio per evitare l’infiltrazione, adottata dalla Contship Italia, gruppo concessionario dell’area portuale. (Cfr. R. Sciarrone, op.cit., pp. 53 – 63). 235 A. Madeo, Nasce la mafia dalle scarpe lucide, “Corriere della Sera”, 16 luglio 1974. 236 Cfr. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit. 237 G. Tuccio, Esperienze giudiziarie, con particolare riguardo alla valutazione delle prove, in C.S.M., Riflessioni ed esperienze del fenomeno mafioso, Jasillo, Roma 1983, p.113. 238 C. Cavaliere, Una tranquilla città, prefazione di S. Di Bella, La Modernissima, Lamezia Terme 1989, p. 50. 239 Cfr. A. Madeo, Nasce la mafia dalle scarpe lucide, cit. 240 V. Macrì – A. Lombardo, Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza sentenza contro Albanese Mario più 190 , 1988, p.187, il corsivo è mio.

61 Ma il ventaglio di interessi della ‘ndrangheta non si fermava qui; si pensi solamente alla compenetrazione capillare nel settore dei forestali, gestito dalla Regione Calabria, e particolarmente permeabile all’infiltrazione mafiosa 241 sia a livello gestionale che nella formazione delle squadre di operai, spesso costituite in grande maggioranza da diffidati dalla polizia, 242 a riprova del fatto che la ‘ndrangheta ha sempre palesato una notevole propensione al controllo del mercato del lavoro. 243 Da non sottovalutare inoltre un settore fondamentale dell’economia calabrese: l’agricoltura che viene controllata dal basso, con il caporalato della manodopera, e dall’alto con una vera e propria trasformazione in proprietari terrieri di alcuni tra i più noti capibastone che però, si noti bene, non sempre avviene a seguito di una regolare compravendita, ma è invece frutto di un’appropriazione “ nei fatti di quella terra, con una sorta di innovazione autoritaria dei negozi giuridici: la loro diventò una proprietà senza titolo.” 244 Ma l’aspetto più grave di questi anni è l’infiltrazione ‘ndranghetistica ad ogni livello del mondo legale calabrese che darà luogo a quella che Ciconte ha definito “omertà dall’alto”: “si può parlare di “omertà dall’alto”, altrettanto se non più importante di quella dal basso. Sulla scena troviamo, in primo piano, altri protagonisti: sono sempre di più le classi dirigenti, professionisti, gruppi e ceti sociali che con la ‘ndrangheta ricavano cointeressenze economiche e di potere. Sono banche, enti pubblici nazionali e regionali, uomini politici di governo – sindaci o notabili nazionali – a volte esponenti della Chiesa altre volte della magistratura o delle forze dell’ordine. E’ questa enorme rete di protezione che ha permesso uno sviluppo della ‘ndrangheta così esteso[...] Si procedette per gradi, ma tutti i gangli vitali furono avvinghiati in questa rete”. 245 A questo impressionante sviluppo a livello di società, corrisponde anche un’espansione geografica della mafia calabrese; ultimato il

241 G. Manfredi, I forestali, “Calabria”, nn.41-42, settembre – ottobre 1988. 242 Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di rinvio a giudizio contro De Stefano Paolo più 59, cit., p. 30. 243 Circostanza riscontrabile anche al di fuori dell’ambito strettamente regionale; secondo la ricerca di Rocco Sciarrone sull’infiltrazione ‘ndrnghetistica in Val di Susa, in Piemonte “la via principale attraverso cui si afferma il loro potere è appunto il controllo del mercato del lavoro locale. In questo modo essi divengono imprenditori della protezione: possono dare e togliere lavoro, questo controllo è la loro risorsa principale, e non è poco”. (R. Sciarrone, op.cit., p. 257). 244 A. Spinosa (a cura di), L.M. Lombardi Satriani, G. Mancini, L. Villari, ‘ Ndrangheta la mafia calabrese, Cappelli, Bologna 1978, p. 20. 245 E. Ciconte, op.cit., p. 307.

62 consolidamento nella provincia di Reggio, 246 le ‘ndrine si affermarono nelle zone di Catanzaro, Crotone, Lamezia Terme, Vibo Valentia, Soverato e nei comuni del basso Jonio, per poi colonizzare, più recentemente, Cosenza e tutto il Tirreno cosentino. 247 La storia di questi anni è anche una storia di aspri scontri nell’universo ‘ndranghetistico; le nuove frontiere del guadagno offerte dagli stupefacenti, dai sequestri di persona 248 , dai grandi appalti hanno l’effetto di creare una nuova classe di giovani affibbiati che “tendevano a forzare le cautele e i tempi lunghi imposti da quei vecchi capibastone il cui prestigio si era affermato e consolidato nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta”. 249 In maniera analoga a quanto successo in Sicilia nel feroce contrasto tra il giovane Luciano Liggio ed il vecchio boss Michele Navarra, anche in Calabria si assiste ad una dialettica di scontro generazionale che determina il fronteggiarsi delle nuove leve e della vecchia ‘ndrangheta “notabiliare”. Emblematiche a questo proposito le parole dell’anziano capobastone Vincenzo Romeo: “i giovani non ci rispettano più. Vogliono guadagnare subito e molto. Non gradiscono fare anticamera”. 250 Nicola Tranfaglia ha osservato: “l’accelerazione degli affari legata al boom italiano degli anni Sessanta produce necessariamente una lotta per il

246 A.P. Camera dei deputati, X legislatura, Intervento dell’on. G. Lavorato, seduta del 12 ottobre 1987, pp. 3411-15. 247 E. Ciconte, op.cit., pp. 313-314. 248 E’ questa un’attività illecita decisamente originale; la camorra non se ne è mai occupata e Cosa Nostra, a parte il periodo della “ricostruzione” dopo la prima guerra di mafia, vi ha fatto raramente ricorso. La ‘ndrangheta ne ha fatto invece un ulteriore fonte di potenza e arricchimento strumentale all’acquisto di “mezzi di trasporto, pale meccaniche, strutture per impiantare e creare società nel settore dell’edilizia privata” (E. Ciconte, op.cit., p. 326). Si è trattato di un’attività illecita foriera di un enorme allarme sociale, esercitata in Calabria ma anche nel Centro-nord, che ha raggiunto proporzioni enormi con ben 620 sequestri effettuati nel periodo dall’ 1-1-69 al 23-6-89 (Cfr. Ministero dell’Interno, Sequestri di persona a scopo di estorsione, Roma 1989) anche in virtù delle modalità di esecuzione che prevedevano che l’azione materiale del sequestro venisse eseguita da una banda operante nella zona ove risiedeva la vittima e poi il periodo di “carcerazione” venisse invece gestito dalle ‘ndrine “professioniste” direttamente in Calabria, con una vera e propria attività di compravendita del sequestrato, che veniva passato da banda a banda dietro un compenso in denaro. Ci si è domandati per quale motivo la criminalità calabrese abbia insistito così a lungo su questa attività delinquenziale che, rispetto ad altre, è meno remunerativa e ben più pericolosa. Secondo la relazione di minoranza del gennaio 1990 della Commissione antimafia “le ragioni sono certamente più di una. Sul mercato del sequestro entra chi non può o non sa svolgere altro lavoro criminale. Latitanti pericolosi o persone che pur non disdegnando l’affare non intendono lasciare la loro attività tradizionale. E’ il caso dei pastori che possono contemporaneamente guardare le mandrie e custodire un ostaggio.”(Cfr. Commissione Parlamentare sul fenomeno della mafia (legge 13 settembre 1982, n.646, art.32), R elazione di minoranza del 24 gennaio 1990, (relatore on. L. Violante), Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, X legislatura, Roma 1990). 249 E. Ciconte, op.cit., p. 318. 250 L. Malafarina, La ‘ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi, cit., p. 202.

63 potere anche all’interno dell’organizzazione mafiosa che sfocia in omicidi a ripetizione, vere e proprie stragi e azioni clamorose”. 251 Questa riflessione ha trovato applicazione in Sicilia con le due guerre di mafia, in Campania con l’aspro scontro tra NCO e Nuova Famiglia ed anche in Calabria 252 , dove però, proprio in funzione della particolare struttura organizzativa che prevede una totale autonomia delle singole ‘ndrine, la lotta non si limitò a coinvolgere due schieramenti contrapposti, che potremmo definire il vecchio ed il nuovo, ma si manifestò come uno scontro continuativo e di inaudita ferocia tra i vari clan. Ciò determinò una situazione in cui quelli che di volta in volta uscivano vincenti, “si guardarono bene dal far terra bruciata rispetto al passato. Aggiornarono metodi e tecniche, sostituirono il coltello – antica arma “nobile” degli ‘ndranghetisti – con il tritolo e con le armi più sofisticate, si specializzarono nei sequestri di persona e si diedero al traffico di droga e delle armi – che tante perplessità avevano provocato nei vecchi capibastone -, ma l’impianto complessivo della struttura d’elite dell’organizzazione, i valori, le finalità, la cultura, le gerarchie di comando e i relativi gradi, le affiliazioni, i rapporti familiari e parentali non furono considerati come anticaglie del passato. Vecchio e nuovo andarono a braccetto”. 253

2.4 Colonizzazione

La ‘ndrangheta ha dimostrato di avere una forte propensione all’espansione della propria struttura anche al di fuori dalla tradizionale area calabrese. Questo è un processo che ha egualmente riguardato sia alcune

251 N. Tranfaglia, La mafia come metodo, “Alfabeta”, n.42, 1982. 252 La vera causa scatenante è in tutti e tre i casi il controllo del mercato illecito in assoluto più remunerativo, vale a dire il traffico di droga. Si noti che le notevoli analogie riscontrate tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra, arrivano ad estendersi anche all’ipotesi di creare un organismo di coordinamento in Calabria analogo alla Commissione siciliana. Durante una riunione a Montalto tra i capibastone, Giuseppe Zappia disse: “qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va!” (G. Marino, La mafia a Montalto, sentenza 2 ottobre 1970 del Tribunale di Locri, “La voce di Calabria”, Reggio Calabria 1971, p.27). E’ questa una proposta molto moderna, soprattutto in funzione dell’organizzazione calabrese che, come detto, è caratterizzata dalla grande autonomia delle singole ‘ndrine. Non ottenne però il risultato sperato, considerato che di un’unificazione totale della ‘ndrangheta non risulta esservi alcuna traccia; alpiù si è fatto ricorso a federazioni temporanee, sul modello delle esperienze camorriste, atte alla realizzazione di un determinato affare ma poi destinate a sciogliersi alla sua conclusione. 253 E. Ciconte, op.cit., pp. 324-325.

64 zone italiane, sia paesi esteri come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. L’impressione che emerge è che seguendo la direzione dei flussi migratori la ‘ndrangheta sia riuscita, nel tempo, a ritagliarsi delle nicchie anche nelle regioni italiane e nei paesi esteri di destinazione degli emigranti. Numerose ‘ndrine, a partire dagli anni settanta, si sono trasferite stabilmente nel Centro–nord; secondo il giudice Saverio Mannino è possibile tracciare una mappa di questa espansione, che vede i Raso di Taurianova a Pomezia, i Gullace di Taurianova in Liguria, i Cosentino di Cittanova a Perugia, i Copelli di Gioia Tauro a Torino, i Facchineri di Cittanova a Genova, i D’Agostino di Canolo e gli Avignone a Roma. 254 Nel 1985, anche la Commissione parlamentare antimafia si è soffermata sulla strategia espansiva posta in essere dalla ‘ndrangheta rilevando che all’epoca essa era presente in Liguria con un’attività delinquenziale prevalentemente incentrata sul riciclaggio, in Lombardia con i sequestri di persona e il traffico di droga, nel Lazio con il riciclaggio, le estorsioni, i sequestri e gli stupefacenti ed in Piemonte con attività analoghe. Il Piemonte costituisce un interessante caso-studio per comprendere i meccanismi di colonizzazione ‘ndranghetistica 255 , anche in considerazione del fatto che gli appartengono due tristi primati: innanzitutto l’essere stata la prima regione ad insediamento “non tradizionale” ove si sia verificato l’omicidio di un magistrato attivamente impegnato sul fronte della lotta alla mafia: il procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, ucciso nel maggio 1983 su mandato delle cosche calabresi ivi operanti; 256 secondariamente, nel maggio 1995, il primo comune settentrionale ad essere stato soggetto ad un provvedimento di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa è stato il comune di , noto centro turistico della provincia di Torino. 257 Il Piemonte è la regione italiana, ovviamente ad esclusione della Calabria, dove la ‘ndrangheta ha potuto realizzare le proprie attività

254 R. Chinnici – S. Mannino, La mafia oggi e la sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata, in C.S.M, 1983, op.cit., p.29. 255 Per cui si rimanda all’approfondita analisi operata da R. Sciarrone nel suo Mafie vecchie mafie nuove. (Cfr. R. Sciarrone, op.cit., pp. 207-291). 256 Cfr. Commissione Parlamentare sul fenomeno della mafia (legge 13 settembre 1982, n.646, art.32), Audizione del ministro dell’Interno on. O.L. Scalfaro, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, IX legislatura, seduta del 30 luglio 1985, Roma 1990 257 Cfr. Prefettura di Torino, Relazione riepilogativa degli accertamenti espletati presso il Comune di Bardonecchia in esecuzione dell’incarico conferito dal Prefetto della Provincia di Torino con decreto n. 9400058/gab. datato 23.1.95, Torino 1995.

65 criminose con maggiore profitto; inizialmente la presenza ‘ndranghetistica si è fatta sentire con i sequestri di persona, con ben trentasette rapimenti dal 1973 al 1984. 258 Poi, con il boom del traffico di stupefacenti degli anni ottanta, l’attenzione dei gruppi criminali calabresi si è spostata in tale direzione. 259 La diffusione della ‘ndrangheta nel contesto piemontese assume una conformazione a macchia di leopardo, con ampie zone totalmente esenti dalla sua influenza, altre dove non si riscontra un vero e proprio radicamento stabile, ma una semplice presenza di elementi di raccordo con sodalizi riferibili alle zone di origine e che saltuariamente forniscono un’attività di assistenza ad alcuni traffici illeciti, senza per questo assumere pienamente le caratteristiche tradizionali, ed altre ancora dove si configura invece un vero e proprio controllo del territorio, paragonabile per alcuni aspetti all’esperienza ‘ndranghetistica in Calabria; particolarmente grave la situazione nel Verbano- Cusio-Ossola, in Valle di Susa, nel Canavese e in alcune zone dell’area metropolitana torinese 260 . Secondo la Commissione Parlamentare antimafia le principali attività criminose della ‘ndrangheta in Piemonte sono il traffico di droga, le estorsioni, il “totonero” e l’usura e sono documentati suoi tentativi di inserimento in amministrazioni pubbliche allo scopo di pervenire al controllo dei lavori pubblici. Anche se vengono fermamente esclusi veri e propri collegamenti organici tra criminalità e politica locale, sono tuttavia da registrare alcuni episodi isolati, riferibili alla Val d’Ossola e alla Val di Susa, che segnalano una tendenza preoccupante all’infiltrazione, soprattutto in considerazione delle profonde differenze sociali e culturali che caratterizzano comuni piemontesi e calabresi. 261 Sotto l’aspetto economico non risultano infiltrazioni nell’industria, con la sola eccezione dell’edilizia, ma piuttosto ad attirare la ‘ndrangheta sembrano essere attività legate al terziario, con un elevato numero di società fiduciarie e finanziarie, nate soprattutto negli ultimi anni, che potrebbero

258 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 207. 259 Cfr. S. Sorbello, Presenza mafiosa in Piemonte, azione preventiva e repressiva, in Consiglio Regionale del Piemonte 1982, Torino 1983. 260 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia , Punto di situazione della criminalità organizzata in Piemonte , in Archivio della Commissione Parlamentare antimafia, XI legislatura, doc. 1098, Roma 1993. 261 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di stampo mafioso in aree non tradizionali. Schede allegate delle singole regioni , A.P., Camera dei Deputati- Senato della Repubblica, XI legislatura, Roma 1994, pp. 196, 201-202.

66 rappresentare un ottimo modo di realizzare il riciclaggio di denaro sporco. 262 Inoltre: “la vera presenza mafiosa nella regione Piemonte è, certamente, quella del terzo livello, quella cioè che ricicla, e reinveste i grandi guadagni provenienti principalmente dal traffico e dallo spaccio di stupefacenti. A Torino l’attività delle famiglie mafiose consiste nell’acquisto di esercizi pubblici sull’orlo del fallimento spesso pagando un prezzo considerevolmente superiore al valore di mercato. I dati relativi agli anni 1991-1992 indicano l’inserimento di personaggi legati ad ambienti mafiosi in 55 esercizi pubblici bene identificabili nella loro tipologia (bar, night club, sala giochi, discoteca, sartoria, abbigliamento, rivendita di bibite, assicurazioni)”. 263 In ordine all’analisi delle cause che hanno determinato la diffusione della ‘ndrangheta in Piemonte, secondo Rocco Sciarrone, che ha dettagliatamente sviscerato questa tematica, sembrano preponderanti “le tesi riconducibili alla “metafora del contagio”, vale a dire l’insorgenza della mafia come conseguenza inattesa di fatti demografici. A parte il ruolo esercitato dal soggiorno obbligato, è infatti da considerare la presenza di un forte nucleo di immigrati provenienti dalle aree di tradizionale insediamento mafioso. [...] Tra le regioni del Centro-Nord, il Piemonte presentava la percentuale più alta (quasi il 10%), rispetto alla popolazione residente, di individui nati nelle regioni meridionali di tradizione mafiosa. Lo sviluppo industriale, soprattutto nell’area metropolitana, e la forte espansione urbanistica, in particolare nelle località montane di richiamo turistico, hanno attirato, negli anni cinquanta e sessanta, oltre a centinaia di migliaia di immigrati, anche le organizzazioni mafiose che hanno trovato favorevoli opportunità per estendere i traffici illeciti”. 264 A questo proposito è da rilevare che quegli immigrati che hanno trovato spazio nella grande industria hanno potuto accelerare la propria integrazione con la nuova realtà grazie all’associazionismo offerto dal movimento operaio e dal sindacato. 265 Agli altri, essendo in genere sprovvisti

262 Cfr. Guardia di Finanza, Fenomenologia della criminalità organizzata nella regione Piemonte, II Legione, Comando II Gruppo, Torino, in Archivio della Commissione Parlamentare antimafia, XI legislatura, doc. 1062, Roma 1993, p. 4. 263 Commissione Parlamentare antimafia, Insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di stampo mafioso in aree non tradizionali. Schede allegate delle singole regioni , cit ., p. 201.

264 R. Sciarrone, op.cit., pp. 211-212. 265 Cfr. P. Arlacchi, Lo sviluppo della grande criminalità nell’Italia settentrionale negli anni ’70 e ’80: un’ipotesi interpretativa, in Consiglio Regionale del Piemonte 1983, Torino 1983.

67 di qualifiche professionali specifiche, non è rimasto che orientarsi sulla provincia e ricorrere ad ambiti produttivi di dimensioni minori, come l’edilizia, con soluzioni lavorative spesso precarie e non regolari, offerte quasi sempre dai sodalizi criminali che avevano monopolizzato il cosiddetto “mercato delle braccia”. In altre parole, non potendo godere dei benefici dell’associazionismo sindacale, a molti immigrati non rimase altra scelta se non quella di farsi tutelare da quei boss che, giocando sapientemente su una comunanza di valori e di cultura con i lavoratori meridionali, sembravano gli unici in grado di fornire loro un minimo di garanzie di sopravvivenza. Proprio mediante il controllo del mercato del lavoro, i gruppi ‘ndranghetistici riuscirono a realizzare un network di interessi estesi e condivisi, da cui scaturì un oggettivo consolidamento del loro potere; non è sicuramente una coincidenza se le zone ad elevato sviluppo urbanistico, come la Valle di Susa o il Canavese, sono anche quelle dove accanto a corposi gruppi di immigrati si rileva la presenza di soggetti criminali calabresi, forti e consolidati, 266 i quali hanno realizzato un progetto espansivo che Giovana ha così schematizzato: “conquistare il controllo del subappalto cottimistico di lavori nell’esecuzione di manufatti edilizi; entrare prepotentemente nel “giro” dell’imprenditoria del settore attraverso la ramificazione di tale controllo e, adoperando le tecniche della sopraffazione mafiosa, fondare “colonie” di predominio dell’ “onorata società” in grado di muoversi autonomamente sul mercato della speculazione”. 267 La Commissione Parlamentare antimafia, nella relazione presentata alla Presidenza della Camera il 16 aprile 1985, si è dettagliatamente soffermata anche su un altro aspetto dell’espansione territoriale ‘ndranghetistica: quello verso l’estero, significando a questo proposito che erano provati “solidi collegamenti” con l’Australia, gli Stati Uniti ed il Canada. 268 Secondo Gianfranco Manfredi era molto attiva proprio in Canada e nello Stato di New York, la ‘ndrangheta di Siderno 269 . Del resto solidi legami con la mafia americana erano storicamente evidenti se solo si pensa che boss del calibro di

266 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 213. 267 M. Giovana, Considerazioni sulle cause economico – sociali dell’insediamento mafioso in Piemonte, in Consiglio Regionale del Piemonte 1983, Torino 1983, p. 73.. 268 Cfr. Commissione Parlamentare sul fenomeno della mafia (legge 13 settembre 1982, n.646, art.32), Relazione presentata alla Presidenza della Camera il 16 aprile 1985 (relatore on. A. Alinovi), cit. 269 G. Manfredi, Mafia e società nella fascia ionica della provincia di Reggio Calabria: il “caso” Nicola D’Agostino, cit., p. 279.

68 Anastasia e Costello erano proprio di origine calabrese. 270 Col passare degli anni questi rapporti si sono ulteriormente intensificati soprattutto per la gestione del traffico di droga, come emerge da due operazioni di polizia, del 1982 e del 1988, che hanno coinvolto DEA, FBI, Carabinieri e Guardia di Finanza e che hanno portato al sequestro complessivo di ingenti quantitativi di eroina e cocaina e all’arresto di esponenti delle ‘ndrine di Cortale e Lamezia Terme. 271 L’Australia, che sin dal XIX secolo è stata una terra di forte immigrazione calabrese con insediamenti che coprono tutta l’isola ma che sono particolarmente concentrati nel Queensland, nel Victoria e nel Nuovo Galles del Sud, è stata teatro di due omicidi ‘ndranghetistici eccellenti: nel 1977 è stato ucciso un deputato al Parlamento e nel 1989 il vice capo della Polizia federale Colin Wincester. Entrambi sono caduti vittime della mafia calabrese a seguito del loro impegno nelle indagini relative al traffico di stupefacenti, gestito appunto da questo sodalizio e in particolare dalla ‘ndrina di Platì che sarebbe ivi presente ed attiva in maniera oltremodo preponderante. 272 In ordine al Canada il giudice Giuseppe Tuccio ha accertato l’esistenza di uno stabile rapporto tra la ‘ndrangheta di Gioia Tauro e la famiglia calabrese emigrata dei Violi, per la gestione del traffico di stupefacenti. 273 A confermare la struttura multiforme assunta dalla mafia calabrese, sono inoltre documentati contatti con la malavita tunisina, corsa e marsigliese, per la gestione del contrabbando 274 e, più recentemente, stretti legami con sodalizi criminali di origine ‘ndranghetistica operanti in Francia, nel sud del paese, in Germania, nei landern sud-occidentali, 275 in Spagna per il traffico della droga tra il Nord Africa e l’Europa, in Svizzera per il riciclaggio

270 A. Di Marco, Il fenomeno mafioso tra intervento politico e repressione criminale, Intervento a nome dell’Associazione magistrati della Calabria alla II Conferenza regionale promossa dal Consiglio Regionale della Calabria, Mafia Stato Società, Reggio Calabria 1983, p. 10. 271 Cfr. Tribunale di Lamezia Terme, Sentenza contro Raineri Rosario più uno, Lamezia Terme, 8 febbraio 1988; Procura della Repubblica di Lamezia Terme, Istruzione a carico di Notaro Giovanni più 1, Lamezia Terme 27 febbraio 1985; E. Fantò, Mafia poteri democrazia, introduzione di A. Bassolino, Gangemi, Roma 1991, pp. 53-55; P. Cannizzaro, Micidiale colpo alla mafia dei due mondi, “Gazzetta del Sud”, 2 aprile 1988. 272 S. Gambino, ‘ Ndrangheta dossier, Frama sud, Chiaravalle 1986, p.44. 273 L. Malafarina, ‘ Ndrangheta alla sbarra, cit., p. 350. 274 Cfr. Commissione Parlamentare sul fenomeno della mafia (legge 13 settembre 1982, n.646, art.32), Audizione del ministro dell’Interno on. O.L. Scalfaro, cit. 275 Cfr. A.P., Camera dei deputati, X legislatura, Commissione I. Indagine conoscitiva sulla minaccia della grande criminalità organizzata. Audizione del capo della polizia, prefetto V. Parisi , seduta del 5 giugno 1990, Roma 1990.

69 dei proventi illeciti 276 . A questi paesi, dopo la caduta del blocco comunista, si sono aggiunti Polonia, Ungheria ed altri stati dell’Europa orientale che costituirebbero un interessante “terminale” per la “ripulitura” di denaro sporco e per transazioni finanziarie incentrate sulla speculazione monetaria. 277 Da non dimenticare infine la proficua collaborazione con la criminalità turca, che risalirebbe agli anni ottanta, finalizzata all’importazione in Italia di eroina 278 .

2.5 Peculiarità

Delineati i più importanti passaggi dell’evoluzione storica della ‘ndrangheta, sia in Calabria che al suo esterno, è ora possibile cercare di “tirare le somme” in ordine alle caratteristiche peculiari assunte da questo sodalizio criminale. Innanzitutto pare essenziale analizzarne la struttura: non gerarchica come quella di Cosa Nostra, non pulviscolare come quella della camorra, ma orizzontale, vale a dire con un composito numero di ‘ndrine che si spartiscono il territorio in totale autonomia le une dalle altre e senza un organismo di coordinamento, sul modello della Commissione siciliana, che detti gli indirizzi generali dell’organizzazione. Secondo Luciano Violante, le cause del ricorso a questo modello organizzativo sarebbero da ricercarsi nelle stesse caratteristiche geopolitiche della Calabria, con solamente il 9% del territorio pianeggiante ed un paesaggio complessivamente “accidentato e tormentato, con torrenti che possono diventare improvvisamente distruttivi, tendenza alle frane, storiche difficoltà di comunicazione tra i paesi tradizionalmente arroccati, per la maggior parte, su contrafforti montuosi per difendersi dalla malaria prima, dagli arabi e dai turchi poi”. 279 Con un simile contesto geografico si può comprendere l’osservazione di Ciconte, secondo il quale, ancora oggi, il peso dei particolarismi ereditati dal passato è tanto forte da fare sì che si possa parlare di Calabrie piuttosto che di Calabria. 280 Ad insistere sull’importanza rivestita dalla frantumazione

276 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 106. 277 Ivi, p. 107. 278 Ibidem. 279 Ivi , p. 81. 280 Cfr. E. Ciconte, op.cit., p. 93.

70 territoriale nella comprensione di questa complessa realtà è anche Soriero che, in relazione alla tendenza propria della regione a non accettare un’unica città guida, come potrebbe essere Palermo per la Sicilia o Napoli per la Campania, ma a “lottizzare” le istituzioni ed i servizi tra Reggio, Catanzaro e Cosenza, ha parlato di “vocazione passiva al policentrismo” 281 . Proprio in questo contesto territoriale estremamente frammentato si è trovata ad operare una compagine criminale come la ‘ndrangheta che si è adeguata adottando un modello organizzativo che non punta tanto all’estensione dei confini del territorio dominato, quanto piuttosto al rafforzamento di tale dominio, che deve divenire pressoché totalitario. Ecco perchè le ‘ndrine, a parte la recente parziale eccezione della provincia di Reggio, 282 hanno sempre rifiutato un’erosione del proprio potere esclusivo a favore di un organismo di coordinamento a livello provinciale o regionale. 283 Ciò ha inevitabilmente dato luogo a frequenti faide tra le singole ‘ndrine, molto lunghe in termini di durata temporale e coinvolgenti tutti gli appartenenti alle famiglie naturali in lotta, bambini compresi. Alla conclusione di queste guerre di ‘ndrangheta si perviene generalmente o con il completo sterminio di una delle due consorterie in lotta, oppure a seguito di una specie di accordo di pacificazione realizzato perchè i contendenti si sono troppo indeboliti e rischiano di perdere potere a favore di altri clan che intendono approfittare della situazione di guerra in atto. E’ importante ricordare che un notevole punto di forza della ‘ndrangheta è rappresentato dall’ alto tasso percentuale di affiliati rispetto alla popolazione; questo dato è molto più alto rispetto a quello di Cosa Nostra e della camorra e, associato all’elevata frammentazione in piccoli comuni del territorio calabrese, ha dato luogo ad una situazione in cui le organizzazioni ‘ndranghetiste esercitano un “controllo sulle persone che non ha eguali sul territorio nazionale” 284 . Per quanto riguarda la composizione delle singole ‘ndrine è opportuno sottolineare come nei criteri di selezione domini il familismo; questa è una grossa differenza rispetto a Cosa Nostra e camorra, dove cosche e clan presentano caratteristiche di maggiore apertura, incorporando soggetti che nulla hanno a che fare con la famiglia naturale del boss. A questa

281 G. Soriero, Le trasformazioni recenti del territorio, in P. Bevilacqua - A. Placanica (a cura di), La Calabria, cit., p. 769. 282 Su cui ci si soffermerà nel prosieguo di questo paragrafo. 283 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., pp. 82-83. 284 Ivi, p. 88.

71 caratteristica, si deve aggiungere l’ulteriore tendenza delle ‘ndrine all’ “endogamia”, vale a dire al fare ricorso a matrimoni tra uomini e donne già affiliati in maniera tale da estendere il raggio d’azione ed il potere di controllo sul territorio delle singole famiglie, un po’ alla maniera delle monarchie europee dell’età moderna che, per consolidare le proprie posizioni ed alleanze, facevano spesso ricorso a matrimoni tra principi ereditari 285 . Proprio questa robustezza della cellula base, associata ad una cronica debolezza dello Stato in Calabria, è responsabile di un curioso risultato che non trova riscontri nell’analisi di Cosa Nostra e della camorra: sono numericamente maggiori gli arresti di affibbiati in Lombardia e Piemonte, zone di forte espansione della mafia calabrese, che in Calabria che ne è la roccaforte. La ‘ndrangheta ha sempre fatto un ampio ricorso al ritualismo e alla strumentalizzazione dei codici culturali calabresi; l’analisi dei codici e degli statuti che è stato possibile sequestrare alle ‘ndrine ha permesso di entrare in contatto con una realtà mafiosa caratterizzata da “un simbolismo primitivo e del tutto specifico della ‘ndrangheta che ha lo scopo di rafforzare l’identità e il senso di appartenenza” 286 Un’altra sua caratteristica “primitiva” è il frequente ricorso a forme di violenza e di efferatezza che non trovano eguali riscontri nelle altre mafie italiane; come ha osservato Violante: “la violenza per la ‘ndrangheta non è uno strumento residuale ma è lo strumento principale di imposizione del dominio. La mancanza per lungo tempo di un coordinamento tra le varie famiglie, il localismo esasperato, la stessa condizione di marginalità che affligge la Calabria, agevolano, anche sul versante criminale, una cultura alla quale sono estranei i principi della regolamentazione preventiva dei conflitti”. 287 A riprova di tali considerazioni si osservi il dato dell’indicatore statistico “omicidi”: secondo il Viminale, tra il 1985 ed il 1991 la Calabria, che aveva un numero di abitanti pari al 3,7% della popolazione italiana, ha prodotto una percentuale di omicidi dolosi addirittura pari al 16,4% del totale

285 Questo esasperato familismo rappresenta una notevole forma di garanzia nei confronti del pentimento, poichè se si accetta la collaborazione con la giustizia è giocoforza il denunciare e il tradire non dei semplici compagni di affiliazione, ma i propri parenti più stretti; infatti la ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa italiana che presenta il minor tasso percentuale di pentiti rispetto agli affiliati. 286 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 85. 287 Ivi, p. 89.

72 nazionale 288 . Anche considerando la notevole flessione degli ultimi anni del valore di questo parametro, secondo il Compendio Statistico 2002 realizzato dall’ISTAT, la Calabria alla data del 31 dicembre 2001 era la seconda regione italiana per numero di omicidi volontari, dopo la Campania, con ben 88 episodi 289 . Proprio questo primitivismo, che risponde ad una concezione dell’onore particolarmente forte che si configura come capacità di sopraffare prima di essere sopraffatti, sarebbe responsabile di una mancanza di predisposizione ‘ndranghetista alla conciliazione e al patteggiamento, che ha dato luogo, come detto, ad una durata notevole delle faide tra ‘ndrine. A questo proposito è fondamentale ricordare la guerra di ‘ndrangheta che, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, sconvolse le cosche reggine, considerate le più pericolose “per radicamento sociale, collegamenti esterni, potenza criminale, storia e per i rapporti con Cosa Nostra”. 290 Lo scontro, che cominciò nel 1985, vide fronteggiarsi due schieramenti composti dalle famiglie De Stefano – Tegano da una parte ed Imerti – Condello – Fontana – Serraino dall’altra, con lo sterminio di ben 550 persone in sei anni. Solo l’intervento di Cosa Nostra nel 1991, a seguito dei profondi effetti distruttivi che rischiavano di compromettere l’intero tessuto ‘ndranghetista reggino, pose fine a questa cruenta faida e sortì una conseguenza del tutto innovativa per la struttura della mafia calabrese: l’istituzione di un organismo di coordinamento provinciale che, pur non avendo le stesse caratteristiche verticistiche della Commissione di Cosa Nostra, avrebbe dovuto assolvere ad una funzione di arbitro delle controversie. Ciò in un’ottica di prevenzione degli scontri tra singole ‘ndrine e di realizzazione di un modello organizzativo di tipo “federale”, esperienza che rimane del tutto unica nel panorama calabrese, non essendo previsti organismi analoghi per le altre province 291 . La ferocia manifestata dalla ‘ndrangheta trova un’ulteriore conferma se si affronta l’esame di una delle attività illecite che essa, in maniera del tutto originale rispetto alle altre mafie 292 , predilige: i sequestri di persona. Dal 1987

288 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1993) , Tipografia del Senato, Roma 1994, pp. 216-217. 289 Cfr. Istituto centrale di Statistica, Compendio statistico 2002, Roma 2002, p. 204. 290 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 93.

291 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione conclusiva, approvata il 18 febbraio 1994, A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica , XI legislatura, doc. XXIII, n.14, Roma 1994, p.42. 292 Ivi, p. 43.

73 al 1993, gruppi criminali calabresi 293 sono stati ritenuti responsabili di ventisette rapimenti sul territorio nazionale che hanno fruttato una cifra vicina ai quattordici miliardi di vecchie lire 294 ; rispetto ai ricavi riferibili ad altre attività illecite, si tratta di una somma oggettivamente esigua, anche considerato l’elevato numero di soggetti che entrano in gioco nei lunghi mesi di un sequestro ed il notevole rischio di arresto a cui si sottopongono. Eppure la ‘ndrangheta si è dedicata a questo settore criminale molto a lungo. Precedentemente si è cercato di fornire una spiegazione a questa particolare propensione criminosa, sottolineandone la funzione di accumulazione di capitale da reinvestire in altri traffici e la possibilità che essa offre, per esempio ai pastori, di guadagnare molto senza smettere di eseguire il proprio lavoro “normale” e ai latitanti, che dovrebbero comunque vivere alla macchia, di impegnarsi in un’attività remunerativa. Ma aldilà di tali considerazioni, che sono sicuramente fondate, è opportuno evidenziare quella che è probabilmente la più importante motivazione del ricorso a questa attività: il sequestro di persona conferisce alla ‘ndrina che l’ha progettato un incremento della propria capacità di controllo del territorio, poichè, come ha osservato Violante in relazione all’Aspromonte che è la zona classica di custodia dei sequestrati: “gli organizzatori [...] garantiscono a una vasta rete di gregari un reddito annuo, ricevendo in cambio consenso, fedeltà e soprattutto il controllo minuzioso di un territorio essenziale per le loro attività più redditizie”. 295 A riprova di tale affermazione si ricorda la drammatica avventura vissuta nel 1983 dall’imprenditore campano Carlo De Feo che, riuscito a liberarsi dalla prigionia e a scappare, chiese aiuto ad alcune persone incontrate durante la fuga, le quali invece di informare le forze dell’ordine lo riconsegnarono alla banda che lo teneva in ostaggio. Che la pratica del sequestro di persona sia, soprattutto in provincia di Reggio Calabria, uno strumento di ordinaria amministrazione utilizzato dalle ‘ndrine per realizzare finalità criminali, lo dimostra un curioso episodio verificatosi nel 1992 a Bovalino, quando alcuni imprenditori vennero arrestati poichè avevano organizzato il rapimento dei loro concorrenti in gare d’appalto, allo scopo di intimidirli e indurli a ritirare la loro partecipazione. Tale vicenda non può che confermare l’affermazione secondo cui spesso “ciò

293 Principalmente le famiglie della costa jonica reggina Jerinò, Strangio e Barbaro. 294 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 95. 295 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 97.

74 che altrove si fa con la minaccia o con la rapina, in Calabria si fa con il sequestro di persona”. 296 Ancora in riferimento all’aspetto delle attività illecite in cui la ‘ndrangheta impegna la propria struttura, è opportuno ricordare che, oltre al mercato degli stupefacenti di cui è protagonista, 297 essa è fortemente presente nel traffico d’armi; 298 è questa un’attività illecita abbastanza recente perchè deve la sua origine all’esigenza di entrambi gli schieramenti protagonisti della guerra di ‘ndrangheta del periodo 1985-1991, di incrementare il proprio arsenale militare. I rapporti instaurati a quel tempo con produttori e mercanti nazionali e stranieri sono stati successivamente mantenuti conferendo alla mafia calabrese un ruolo di mediazione tra tutti i gruppi criminali italiani ed i grandi fornitori di armamenti; tale ruolo di monopolio si è ulteriormente accresciuto a seguito dei contatti instaurati, mediante la Sacra Corona Unita, con la criminalità dell’ex Jugoslavia, intenzionata a barattare gli ingenti quantitativi di armi di cui dispone sin dalla fine della guerra, con stupefacenti. L’impegno nel traffico di stupefacenti e di armi costituisce un aspetto decisamente moderno palesato dalla ‘ndrangheta dell’ultimo ventennio, così come improntato alla modernità appare il tentativo risalente al 1993 di acquisizione, a scopo di riciclaggio del denaro sporco, di un importante istituto di credito russo, contestuale all’acquisto di trentaquattro miliardi di rubli da reimpiegare in attività produttive dell’ex Unione Sovietica. 299 Interessante notare che accanto a queste caratteristiche, tipiche di una criminalità “evoluta,” ne permangono altre che confermano l’estrema arcaicità culturale di questa organizzazione; un esempio emblematico è quello offerto dalle cosiddette “vacche sacre” su cui si è soffermata la Commissione antimafia dell’XI legislatura. Si tratta di circa 3000 bovini che vagano indiscriminatamente, causando ingenti danni alle coltivazioni, alla circolazione stradale e a quella ferroviaria 300 , in una fascia di territorio compresa tra Cittanova e Taurianova sulla costa tirrenica, ad Africo e Melito Porto Salvo su quella Jonica. Il fatto è che i capi di bestiame appartengono ad

296 Ivi, p. 98. 297 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 2002) , cit., p. 120. 298 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione conclusiva, approvata il 18 febbraio 1994, cit., p.43.

299 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 99. 300 Si pensi che si sono addirittura verificati due deragliamenti, uno a Cittanova il 16 ottobre 1987 e l’altro a Taurianova il 15 ottobre 1992.

75 alcuni capibastone della ‘ndrangheta e per questo motivo nessuno si sente di prendersi la responsabilità della cattura e dell’abbattimento, anche in considerazione del fatto che sarebbe probabilmente impossibile, per il timore di ritorsioni, trovare macellai disposti a partecipare all’azione. Per comprendere il significato simbolico di quella che pare essere una anomalia folcloristica si osservi quanto affermato dal questore di Reggio Calabria davanti alla Commissione antimafia: “il boss del posto così facendo riafferma ancora di più il suo potere mafioso: non soltanto tengo questa mucca pascolante, ma lo faccio come, dove e quando voglio, e se la vacca rovina un campo seminato a me non interessa; il mafioso della zona sono io”. 301 Questa questione, che sembra perfino pittoresca nel suo essere assolutamente incredibile, nasconde in realtà la profonda vocazione prepotente, oppressiva e di controllo del territorio che la ‘ndrangheta ha sempre manifestato nei confronti di una popolazione che, se non vuole guai, non può fare altro che convivere silenziosamente con simili abusi, anche perchè lo Stato, forse ritenendo secondaria questa vicenda, non è mai intervenuto a garanzia dei privati cittadini. La popolazione calabrese e conseguentemente la ‘ndrangheta che ne costituisce una degenerazione criminale, ha storicamente evidenziato un forte atteggiamento antistatuale. Sin dal periodo borbonico la Calabria è stata dimenticata dallo Stato: “nessuna città calabrese è mai stata capitale, i signori locali hanno preferito soggiornare a Napoli, considerando la Calabria come pura terra di feudi da sfruttare”. 302 Proprio questa sottovalutazione governativa sarebbe stata responsabile del rafforzamento di un sistema fondato sui legami familiari e le convenienze private, di cui la ‘ndrangheta è interprete privilegiata, a discapito dello sviluppo del senso civico e del rispetto delle regole nazionali. Questa situazione, si noti bene, non è esclusivamente riferibile all’Ottocento o ai primi del Novecento, ma continua ancora ai giorni nostri, se solo si osserva quanto emerge, già negli anni ottanta, dalle dichiarazioni di un cittadino calabrese: “lo Stato proteggeva i potenti, i ricchi. Contro questa situazione si ribellavano i poveri e quelli che avevano ingegno si associavano nelle associazioni clandestine che procuravano loro vantaggi [...] La mafia era una

301 Commissione Parlamentare antimafia, Audizione del questore e del comandante dei Carabinieri di Reggio Calabria sul problema delle cosiddette “vacche sacre”, seduta del 13 gennaio 1994, A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica , XI legislatura, Roma 1994, p. 3443. 302 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 86.

76 società di mutuo soccorso, in termini di tutela sociale [...] Lo Stato era il nemico numero uno, era forestiero”. 303 La ‘ndrangheta ha giocato, e gioca, sulla sfiducia nei cittadini che è prodotta da questa idea dello Stato, proponendosi come un surrogato dello stesso che però ha il grande vantaggio di essere nella condizione di fare rispettare le (sue) regole. Non è molto ma è già un passo avanti rispetto all’incertezza e all’insicurezza di cui si sono approfondite le cause precedentemente. Ed è proprio in ossequio a questo manifesto antistatualismo che si spiega un’altra grande differenza tra la ‘ndrangheta e le altre mafie: l’appoggio offerto da parte di alcune ‘ndrine a PCI e PSI, i due partiti antistatuali per eccellenza, all’indomani della fine della guerra, appoggio esauritosi successivamente a seguito della scissione del PSI e del rifiuto comunista di perseverare in questo ambiguo rapporto. Complessivamente comunque si può affermare, come fa Violante, che “nella storia della ‘ndrangheta, a differenza di quanto è accaduto per Cosa Nostra e per la camorra, non c’è storicamente una consuetudine di rapporti con il potere politico; i rapporti si sono stabiliti solo negli ultimi decenni”. 304 Abbiamo precedentemente osservato che sia le strutture di Cosa Nostra che quelle della camorra, storicamente, sono state strumentalizzate dal potere costituito in tutte quelle occasioni in cui la classe dirigente riteneva di non avere altra scelta, se non quella di fare ricorso ad un potere extra legale, pur di tenere sotto controllo la società siciliana o campana; l’attribuzione di questa funzione “d’ordine” sociale, con il conseguente riconoscimento ufficiale del ruolo mafioso di “guida” e “governo” delle classi basse, ha, con le opportune differenze, 305 posto in essere un processo di legittimazione di queste due fenomenologie mafiose. Tutto ciò per la ‘ndrangheta non è invece mai accaduto dando luogo ad una vera e propria “lontananza storica” tra la criminalità calabrese e la politica, che non è altro che la riproduzione a livello criminale del marcato antistatualismo già ampiamente diffuso nella stessa popolazione. Anche le distinzioni tra alta e bassa mafia e tra alta e bassa camorra, introdotte nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento per descrivere la presenza di due anime distinte all’interno di quelle

303 F. Piselli–G. Arrighi, Parentela, clientela e comunità, in P. Bevilacqua-A. Placanica (a cura di), La Calabria, cit., p. 400. 304 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 91. 305 Anche se è la camorra a ricevere un vero e proprio riconoscimento ufficiale da parte del potere costituito, con l’episodio del prefetto Liborio Romano risalente al 1860, in realtà il suo carattere mercenario e popolare le ha storicamente impedito di raggiungere i livelli di legittimazione effettivamente realizzati da Cosa Nostra.

77 consorterie, 306 costituiscono una prova indiretta della loro “vocazione dirigente.” 307 Nel 1880 proprio un esponente della “bassa mafia” scriveva al questore di Palermo lamentando che: “l’alta mafia comanda [...] con la protezione che tengono, ho che ci fanno ammonire, ho che ci fanno andare su un’Isola, ma più facile ucciderci”. 308 Analogamente si noti quanto osservato dal senatore Saredo nella relazione sulla corruzione del 1901: “è quest’altra Camorra che patteggia e mercanteggia colla bassa e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, l’audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso, perchè ha ristabilito il più pericoloso dei nepotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e la pubblica fede”. 309 Ebbene, per la ‘ndrangheta una simile distinzione non è storicamente stata prevista ed in nessuno scritto ve ne si trova traccia, almeno sino a tempi relativamente recenti quando “un’alta ‘ndrangheta, che riesce ad avere rapporti privilegiati con la politica e con le istituzioni si costituirà, [...] grazie ai rapporti con Cosa Nostra, con importanti uomini politici e con logge massoniche deviate.” 310 Per quanto riguarda gli omicidi politici della ‘ndrangheta, pare corretto evidenziare, come già si è fatto per la camorra, che essa non ha manifestato, a livello nazionale, una pericolosità minimamente raffrontabile a quella di Cosa Nostra, essendo sostanzialmente l’ambito locale il suo territorio di riferimento. Non sono tuttavia mancate le vittime del mondo legale: “a metà degli anni settanta furono uccisi Giuseppe Vinci e Rocco Gatto. A metà del 1980 toccò a Giuseppe Valarioti e a Giovanni Losardo. Poi, nel 1982 una bomba devastò la casa del consigliere regionale Quirino Ledda. Due anni dopo, nel febbraio 1984, toccò a Salvatore Tassone e a Cosimo Monteleone,

306 U na, quella “alta,” in diretto collegamento con le classi dirigenti; l’altra, quella “bassa,” composta dalla “manovalanza” mafiosa. 307 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 91. 308 S. Lupo, op.cit., p. 54. 309 Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, op.cit., pp. 49-50. 310 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 92.

78 sindaco e vice sindaco di Nardodipace [...] rimanere vittime, fortunatamente incolumi, di attentati mafiosi”. 311 A questi fatti criminosi, principalmente rivolti ad esponenti comunisti che non si piegavano al sistema di corruzione ed intimidazione posto in essere dall’onorata società, si deve purtroppo aggiungere il lungo elenco di omicidi ed attentati che hanno colpito, per tutti gli anni ottanta, esponenti politici, amministratori pubblici, funzionari statali e rappresentanti delle istituzioni di qualsiasi area politica. A titolo puramente esemplificativo, ricordiamo qui di seguito solamente le vittime più eclatanti: il procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia nel 1983, il sindaco di Gioia Tauro Vincenzo Gentile nel 1987, l’ex presidente delle Ferrovie dello Stato Ludovico Ligato nel 1989, il giudice Antonio Scopelliti - che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxiprocesso giunto in Cassazione - ed il sindaco di Bova nel 1991, 312 il sovrintendente della Polizia di Stato Salvatore Aversa nel 1992. Tuttavia, aldilà del notevole scalpore suscitato da questa ferocia ‘ndranghetistica , il dato che emerge è che essa, tradizionalmente, colpisce esclusivamente in funzione di singole circostanze attinenti la sfera locale e non in ossequio ad un più ampio progetto antistatuale come quello che è stato invece perseguito dalla Cosa Nostra dei corleonesi. All’origine di questa impostazione risiedono la stessa struttura orizzontale dell’organizzazione e la manifesta tendenza allo scontro tra singole ‘ndrine; queste caratteristiche non permettono l’impegno in omicidi che creano un elevato allarme sociale perchè l’inevitabile reazione dello Stato si gioverebbe delle preziose “soffiate” che giungerebbero dalle famiglie nemiche. Ecco perchè la ‘ndrangheta ha sì ucciso rappresentanti del mondo legale, ma l’ha fatto ad un livello “meno vistoso e più produttivo,” 313 impegnandosi in azioni eclatanti, come l’uccisione del giudice Scopellitti, esclusivamente in maniera estemporanea e slegata da qualsiasi articolato progetto di lotta alle istituzioni 314 . Sono tuttavia state documentate dagli inquirenti relazioni tra gli uomini del boss De Stefano ed il terrorismo di estrema destra, prima nell’organizzazione della rivolta di Reggio Calabria del luglio 1970-febbraio

311 E. Ciconte, op.cit., p. 354. 312 Ivi, p. 355.

313 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 94. 314 Si è infatti osservato che l’eliminazione di Scopellitti, pur essendo stata eseguita materialmente in Calabria dalla criminalità autoctona, aveva in realtà come mandante Cosa Nostra, che stava cercando in ogni modo di creare degli ostacoli alla celebrazione dell’ultimo grado di giudizio del maxiprocesso, in modo tale da fare scadere i termini della custodia cautelare degli imputati

79 1971 e poi nell’evasione di Franco Freda dal carcere di Reggio, che sarebbe stata organizzata e realizzata proprio dalla ‘ndrangheta. 315 Inoltre, come risulta nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del deputato Paolo Romeo, accusato dagli inquirenti di associazione mafiosa, sarebbero stati posti in essere dai capibastone calabresi importanti rapporti con logge massoniche deviate. 316 Tale circostanza è stata ulteriormente avvalorata dal giudice Agostino Cordova durante la sua audizione del 1993 davanti alla Commissione antimafia. 317 A proposito dei rapporti con altre entità, risultano molto forti i legami tra la ‘ndrangheta reggina, Cosa Nostra e la Camorra 318 , sia nella gestione in collaborazione di attività illecite complesse, come il contrabbando o il traffico di droga, sia in funzione di ospitare e nascondere latitanti appartenenti ad altri sodalizi o di scambiarsi risorse umane per la realizzazione di specifiche attività delittuose. A questo riguardo esistono molteplici risultanze: in primis l’uccisione del giudice Scopelliti nel 1991, di cui si è riferito in precedenza; la sentenza di condanna del boss ‘ndranghetista Mario Albanese (dalla quale si evince che nel 1983 una grossa partita di droga di proprietà della cosca di Nitto Santapaola venne sbarcata sul litorale jonico di Saline e che un terzo della stessa venne consegnato a titolo di “provvigione” alla famiglia calabrese dei De Stefano, che controllava quella zona); 319 la lettera lasciata prima di suicidarsi dall’uomo d’onore Antonino Gioè, imputato per la strage di Capaci (tesa a scagionare, tra gli altri, il capobastone Papalia, a riprova che evidentemente la ‘ndrangheta e i suoi capi stavano più a cuore di quanto si pensi ai vertici della mafia siciliana); 320 l’attiva collaborazione tra ‘ndranghetisti e clan dei catanesi a Torino durante i primi anni ’80, finalizzata tra l’altro all’eliminazione dei giudici Caccia e Sorbello. 321 Per quanto riguarda i legami con la camorra è sufficiente ricordare la genesi della NCO, per mano dei capibastone Piromalli, Mammoliti e De

315 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione conclusiva, approvata il 18 febbraio 1994, cit., p.43. 316 Cfr. A.P., Camera dei deputati, XI legislatura, doc. IV, n.465, Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio nei confronti del deputato Paolo Romeo per il reato di cui all’articolo 416 bis, commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto del codice penale, Roma 1993. 317 Commissione Parlamentare antimafia, Audizione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palmi dottor Agostino Cordova, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 9 luglio 1993, Roma 1993. 318 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione conclusiva, approvata il 18 febbraio 1994, cit., pp.52- 53. 319 Cfr. Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza sentenza contro Albanese M. più 190, cit. 320 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 104. 321 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 230.

80 Stefano, e gli strettissimi legami tra Raffaele Cutolo e De Stefano che caratterizzarono tra il 1977 ed il 1982 le più importanti vicende criminose del Mezzogiorno 322 . In relazione alla situazione attuale della ‘ndrangheta si può osservare come essa sia una forma malavitosa estremamente pericolosa perchè nel suo continuo mescolare elementi arcaici a caratteristiche di estrema modernità, nel suo alto numero di affiliati e soprattutto nella sua peculiare capacità di mantenere elevati livelli di impunità, anche grazie al rigoroso familismo che previene i pentimenti, esprime un modello criminale di indubbio successo e ciò è ulteriormente suffragato dalla massiccia penetrazione in zone non tradizionali come il Piemonte e la Lombardia, dove essa esercita un totale monopolio sui traffici illeciti. Si è detto, in riferimento alla camorra, che nell’attività di contrasto bisogna partire dall’educazione alla legalità e al senso civico dei giovani e delle masse sociali; ciò è sicuramente vero anche per la Calabria che è vittima di un’arretratezza cronica forse più della stessa Campania, però qui il discorso deve essere diviso in due tronconi. Sicuramente è fondamentale intervenire sulla disoccupazione giovanile e sulla percezione purtroppo comune a molti calabresi secondo cui il modello mafioso rappresenta un modello vincente. Tale azione, combinata ad una organica attività di polizia, potrebbe probabilmente risolvere una parte del problema: quella legata al controllo del territorio calabrese e alla situazione di autentico terrore vissuta dagli imprenditori, 323 in una zona d’Italia che sotto molti aspetti sfugge alla sovranità dello Stato, non esercitando quest’ultimo, in maniera esclusiva, il monopolio dell’elemento fondamentale di ogni ordinamento giuridico: quello della coercizione. Tuttavia l’impressione è che ciò non sia di per sé sufficiente per sconfiggere completamente la ‘ndrangheta, poichè essa pur non tralasciando le proprie attività tradizionali legate alla realtà locale, ha contestualmente raggiunto una tale modernità, soprattutto a livello di attività riconducibili al concetto di enterprise syndicate, da rendere necessaria un’azione di contrasto ben più specialistica, concentrata sulla prevenzione e la repressione dei

322 Cfr. Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza sentenza contro Albanese M. più 190, cit.

323 Per un approfondimento sul clima che si respira in Calabria tra gli imprenditori, mediante una serie di interviste ad operatori economici ivi operanti, cfr. R. Sciarrone, op.cit., pp. 53-111.

81 grandi affari internazionali in cui essa si è recentemente cimentata e soprattutto improntata alla collaborazione con le forze di polizia di altri paesi. “Ha una struttura fortemente organizzata; è presente massicciamente nel traffico internazionale di droga e, a quanto pare, di armi e di preziosi; ha una potenza economica e una potenza politica; possiede una notevole capacità militare; ha affinato il proprio sistema fiscale basato sulle mazzette; ha sviluppato una notevole capacità di penetrazione nelle istituzioni e di rapporti con pezzi del potere e dell’apparato pubblico”. 324 Sotto questi aspetti, pur mantenendo la sua originalità organizzativa e culturale, la ‘ndrangheta, nell’ultimo trentennio, si è ispirata ed avvicinata tantissimo a Cosa Nostra ma, a sua differenza, ha saputo mantenere un atteggiamento improntato al basso profilo, perlomeno a livello nazionale, ed ha sapientemente giocato sul suo apparente ruolo di mero “sottoprodotto” della mafia siciliana, elementi che l’hanno protetta da repressioni istituzionali troppo capillari; inoltre, come si diceva, non ha dovuto fare i conti con quello che è stato l’incubo dei siciliani: il pentitismo. A ciò si deve aggiungere la sua capacità di proporsi come una sorta di cerniera che collega tutte le altre consorterie criminali operanti nel mezzogiorno, caratteristica che l’ha resa di conseguenza un’assoluta protagonista della criminalità organizzata nazionale. Alla luce di tali considerazioni pare corretto porre l’accento sulla versatilità e l’astuzia palesate da questa consorteria criminale ed auspicare un pronto e determinato impegno istituzionale nell’azione di contrasto, prima che sia veramente troppo tardi per arginarne lo sviluppo e gli effetti sulla società civile.

324 E. Ciconte, op.cit., p. 362.

82 La “Quarta mafia” pugliese

3.1 Puglia: regione mafiosa?

Sino a qualche tempo fa, la Puglia era una regione che poteva definirsi immune dalla fenomenologia mafiosa; infatti, a differenza di altri contesti territoriali appartenenti al meridione italiano, essa non ha storicamente convissuto con un underworld criminale organizzato che si fosse perfettamente integrato con il tessuto socioeconomico e politico del mondo legale, in maniera analoga alle forme delinquenziali esaminate sino a questo punto. L’oggettiva assenza di consorterie criminali articolate e perfettamente integrate con il territorio è stata attribuita da Luciano Violante 325 al fatto che la Puglia ha avuto una storia diversa da quella parte del Mezzogiorno che, sin dal secolo scorso, ha assistito passivamente all’insediamento ed allo sviluppo di esperienze criminali riconducibili al concetto di mafia. I feudi pugliesi erano infatti in gran parte coltivati in maniera intensiva da proprietari che vivevano sui loro terreni, amministrando in prima persona i propri interessi economici e non adottando, quindi, l’abitudine in voga tra i latifondisti calabresi, campani e siciliani di vivere nelle grandi capitali del Sud. Inoltre, storicamente la Puglia ha dato prova di notevole dinamismo economico ed imprenditoriale, dotandosi sin dal Settecento di una rete viaria all’avanguardia per quei tempi (era la più moderna di tutto il Regno di Napoli) e manifestando generalmente i più alti livelli di reddito riscontrati, con una bassa percentuale di appartenenti alle classi povere. A queste evidenze storiche si deve aggiungere la notazione di Galasso 326 , secondo cui il ceto dirigente pugliese aveva saputo emanciparsi dalla rovinosa consuetudine in voga soprattutto in Sicilia ed in Campania di delegare alla cosiddetta mafia notabiliare il controllo delle classi popolari, con la duplice funzione di garantire la gestione dell’ordine pubblico e di tutelare gli interessi dei nobili meridionali contro gli eventuali abusi dei sovrani spagnoli. Tale pratica ha infatti determinato il deleterio risultato sociale di

325 L. Violante, Non è la piovra , cit., p. 114. 326 G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994, pp. 408-421.

83 ammantare le fenomenologie mafiose di un’aura di legittimità che ha finito col costituire un notevole contributo offerto dalle classi dirigenti del mondo legale per il loro sviluppo successivo. Eppure, nonostante questa storia di modernità e di immunità dalla criminalità organizzata, oggi si deve purtroppo parlare di una “quarta mafia” che si discosta così poco dalle caratteristiche delle tre mafie italiane “tradizionali” da avere suscitato nell’opinione pubblica l’errata impressione secondo cui anche la Puglia sarebbe una regione storicamente mafiosa. Tale atteggiamento è ormai talmente radicato nella società italiana, che perfino un organismo istituzionale tecnico, quale è la Commissione Parlamentare antimafia, è incorso nel 1994 in un errore, poichè, in ben due documenti ufficiali relativi alla diffusione della mafia in aree non tradizionali, 327 ha clamorosamente omesso di contemplare la regione Puglia, ritenendola, a torto, una zona mafiosa originale e non colonizzata. Per Gorgoni, si è trattato di una valutazione “che appare storicamente errata non solo sul piano delle datazioni dell’insorgenza del fenomeno mafioso, ma anche su quello delle modalità attraverso le quali la criminalità si è insediata e diffusa nella regione”. 328 Che il caso pugliese appartenga alla categoria delle mafie non tradizionali era stato peraltro avvalorato dalla stessa Commissione parlamentare che, nella legislatura precedente, aveva approfondito tale tematica concludendo che si trattava di una mafia di recente diffusione, originata e sviluppata mediante meccanismi peculiari e che non presentava, perlomeno in prima battuta, le caratteristiche tipiche delle fenomenologie presenti nelle aree di radicamento mafioso tradizionale. 329 La definizione che pare più corretta è quella che identifica la Puglia come “la prima tra le regioni italiane a sviluppare una nuova mafia”; 330 analizzare a fondo “la vicenda pugliese può forse essere utile per

327 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di stampo mafioso in aree non tradizionali. Schede allegate delle singole regioni , cit. e Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di stampo mafioso in aree non tradizionali , A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, doc. XXIII, n.11, Roma 1994. 328 R.Gorgoni, op.cit., p. 273. 329 Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulle risultanze dell’indagine del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Puglia , A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, X legislatura, doc. XXIII, n.10, Roma 1989. Dello stesso avviso è anche Maritati in un articolo del 1992. (Cfr. A. Maritati, Puglia. Dai tentativi di infiltrazione alla Sacra Corona Unita, in “Asterischi”, 2, 1992). 330 R.Gorgoni, op.cit., p. 11.

84 comprendere, per così dire, la mafia nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. 331 Il fatto è che , per una serie di cause, “la Puglia è stata utilizzata come colonia da parte delle organizzazioni più titolate [...] ha costituito una sorta di “cortile di casa” delle tre mafie tradizionali”. 332 Sicuramente uno dei fattori che hanno suscitato l’interesse di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra risiede nelle peculiari caratteristiche geopolitiche di questa regione: essa, caratterizzata perlopiù da coste piatte e sabbiose, ideali per gli attracchi dei natanti, è un crocevia delle rotte commerciali che vanno da Est ad Ovest, dista poche miglia nautiche dalla Jugoslavia e può contare su una tradizione di rapporti che la legano all’Albania, alla Grecia ed al Medio Oriente. Tali caratteristiche avevano, già da molto tempo, spinto la malavita autoctona ad occuparsi principalmente del contrabbando di tabacchi e, attorno agli anni settanta, a stringere addirittura accordi, peraltro temporanei ed a livello individuale, con alcuni elementi della camorra. Come più volte osservato in precedenza, le dotazioni di natanti, il knowhow degli uomini impegnati, le relazioni con sodalizi criminali esteri finalizzati a questa attività illecita si prestavano facilmente ad essere riconvertiti nei business del traffico di droga ed armi, che proprio attorno alla metà degli anni settanta era la principale fonte di arricchimento delle tre mafie tradizionali. Ma come sono riusciti siciliani, calabresi e campani a penetrare capillarmente nel territorio pugliese? I meccanismi di diffusione della mafia - ricorrendo ad un’ottica sociologica che fa riferimento specificamente al comportamento strategico adottato dagli attori - sono stati schematizzati mediante il ricorso a due forme ideal-tipiche: la colonizzazione, cioè l’espansione vera e propria in nuove aree e l’imitazione, vale a dire la “copiatura” endogena operata da gruppi criminali autoctoni che perseguono la riproduzione di modelli organizzativi ed operativi riferibili a consorterie mafiose tradizionali. 333 Se da un lato, il ricorso a forme ideal-tipiche permette di realizzare dei modelli sociologici finalizzati allo studio dei meccanismi sociali, dall’altro nasconde un oggettivo limite che risiede nel pericolo di produrre

331 Ibidem. 332 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 113. 333 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., pp. 125-126.

85 semplificazioni di tale portata da stravolgere l’interpretazione della realtà; nell’affrontare casi di mafia “esportata” è quindi di fondamentale importanza sottolineare come colonizzazione ed imitazione non si escludano a vicenda, ma si combinino mediante il ricorso ad una grande varietà di meccanismi che, di caso in caso, modificano i termini percentuali di questo connubio. A questo proposito infatti, già nel lontano 1897, Durkheim osservava che nei processi sociali “ben raramente l’imitazione è, da sola, una spiegazione sufficiente” 334 e si comprende facilmente come questa riflessione possa essere estesa anche al concetto di colonizzazione. Passando ad esaminare lo specifico caso pugliese, si può prendere atto di come tali considerazioni siano pienamente avvalorate dall’osservazione della realtà, poichè non solo si sono presentati entrambi i meccanismi di diffusione postulati dai sociologi, ma essi si sono intrecciati, combinati, sovrapposti, dando luogo ad una situazione in cui ai tentativi espansivi posti in essere dalle fenomenologie mafiose di altre regioni, è corrisposta la creazione di organizzazioni autoctone per reagire a tale sconfinamento, che hanno però finito per strutturarsi in maniera analoga al modello proposto dagli “invasori”. 335 Geograficamente la Puglia è contigua alle aree tradizionali e questa caratteristica a parere di Maritati ha fatto sì che “per una serie di attività illecite rappresenta da tempo immemorabile una sorta di terreno naturale di sconfinamento, a volte con sortite rapide quanto micidiali (si pensi ai sequestri di persone consumati negli anni ’70-80 dal Salento al nord Barese ed ai grossi sbarchi di tabacchi lavorati esteri, droga ed armi lungo le estese coste della regione) e di progetto, non nuovo, di farne una vera e propria terra di conquista criminale”. 336 Proprio l’attività dei sequestri, su cui si sofferma Maritati, ha visto l’instaurarsi dei primi rapporti tra la ‘ndrangheta e delinquenti comuni pugliesi che collaboravano, sotto la supervisione calabrese, alla realizzazione dei rapimenti nella loro regione. Come si vedrà nel paragrafo dedicato alla Sacra Corona Unita, l’intervento dell’onorata società in Puglia non è destinato ad esaurirsi a questo livello - che, come per il contrabbando gestito in collaborazione con la camorra, è caratterizzato da rapporti non organici

334 E. Durkheim, Sociologia del suicidio (1897) , Newton Compton, Roma 1978, p.164 nota. 335 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 156. 336 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, in F. Occhiogrosso (a cura di), Ragazzi della mafia , in “Minori giustizia”, 1, 1993, p.120.

86 realizzati perlopiù mediante accordi temporanei e individuali - ma si svilupperà sino ad acquisire i caratteri di una vera e propria leadership . E’ dunque corretto sottolineare che, nella fase iniziale di contatto con la criminalità pugliese, sono stati esclusivamente coinvolti singoli appartenenti alle mafie tradizionali e non le organizzazioni nel loro complesso. 337 Uno dei principali fattori che stanno alla base della “mafizzazione” della Puglia è da ricercarsi in due sfortunate (consideratene a posteriori le conseguenze) decisioni politiche: l’invio al soggiorno obbligato nella regione di alcuni boss siciliani e campani nella seconda metà degli anni settanta e l’utilizzazione delle carceri pugliesi per la detenzione dei membri della NCO – decisione scaturita a seguito dell’esigenza di tenerli separati dagli appartenenti al sodalizio avversario dei Bardellino-Nuvoletta-Zaza con cui era in corso la “guerra di camorra” – nei primi anni ottanta. 338 A proposito delle deleterie conseguenze del soggiorno obbligato è sufficiente ricordare il caso del palermitano Amedeo Pecoraro, affiliato alla potente cosca dei Madonia, vicina ai corleonesi, che inviato nel 1978 nel comune di Fasano, in provincia di Brindisi, in pochissimo tempo avviò una collaborazione finalizzata al traffico di eroina con alcuni criminali locali, il più importante dei quali era Giuseppe D’Onofrio. A riprova dell’interesse di Cosa Nostra per il territorio pugliese si pensi solo che, allo scadere della misura di prevenzione, Pecoraro non solo non fece rientro in Sicilia, ma venne addirittura raggiunto da Pietro Vernengo della famiglia di Santa Maria di Gesù, specializzata nella raffinazione di eroina, dal contrabbandiere Filippo Messina e dai trafficanti di stupefacenti Giuseppe Baldi e Stefano Fontana, tutti convenuti per incrementare il business inaugurato da Pecoraro. 339 Tale profondo interesse per la Puglia è ulteriormente avvalorato dall’invio nel brindisino, nei primi anni ottanta, di un uomo di spicco della potentissima cosca Fidanzati, anch’essa attiva nel traffico di droga: si tratta di Francesco La Manna, successivamente arrestato in Colombia durante un incontro con i rappresentanti del cartello di Medellin. 340 Sulla vicenda di Fasano si sarebbero anche soffermati i collaboratori di giustizia Francesco Marino Mannoia e Joseph Cuffaro: “il noto pentito

337 Cfr. Eurispes-Osservatorio permanente sui fenomeni criminali, La quarta mafia: percorsi e strategie della criminalità organizzata pugliese, in “up & down”, 7-8, 1994. 338 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 115. 339 Cfr. R. Gorgoni, op.cit., pp. 268-269. 340 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 116.

87 Mannoia e tale Joseph Cuffaro, collaborando dinanzi ai giudici palermitani, fecero un significativo richiamo alla vicenda di Fasano come un esempio di espansione, verso quella zona della Puglia, della mafia palermitana ed in particolare come una vera e propria testa di ponte dei Corleonesi e di Madonia per il traffico di stupefacenti verso il nord Italia”. 341 Ma, nonostante questa vicenda nel suo costituire una prova della propensione manifestata da Cosa Nostra all’espansione in Puglia sia di indiscutibile importanza nell’analisi dello sviluppo di una mafia pugliese, è indispensabile sottolineare che è dalla Campania che partì il più importante tentativo di colonizzazione della regione: è la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo il sodalizio campano che, alla fine degli anni settanta, tenta l’espansione nella regione, sia a seguito delle gravi difficoltà incontrate a Napoli, originate dalla cruenta faida con i clan rivali che facevano capo alle famiglie Bardellino, Nuvoletta e Zaza, sia per una valutazione di tipo economico, che originò dalla consapevolezza dell’importanza rivestita dalle coste pugliesi per i traffici illeciti. Per Rocco Sciarrone: “è stata accertata l’esistenza, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, di un diretto collegamento tra criminalità pugliese e camorra. Si può dire che il processo di espansione della camorra in Puglia prende avvio quando i gruppi della NCO cominciano a trasferire l’attività di contrabbando di tabacchi dal Tirreno alle coste pugliesi”. 342 Ai contatti estemporanei ed esclusivamente individuali, che avevano contraddistinto la collaborazione tra la delinquenza autoctona e le mafie tradizionali, si sostituì da questo momento in poi la strategia di diffusione camorristica orientata a vere e proprie alleanze permanenti. Ancora una volta l’istituto del soggiorno obbligato aveva giocato il suo ruolo deleterio, poichè in Puglia oltre ad elementi di Cosa Nostra, si trovavano anche alcuni camorristi. 343 Il collaboratore di giustizia Pasquale Galasso ha spiegato che: “fino a quando Cutolo non evade dal carcere, in Puglia di delinquenza organizzata non ce n’è; Cutolo è quello che da latitante si porta in Puglia e comincia a creare i primi associati malavitosi pugliesi alla NCO. Dopo Cutolo si va a creare

341 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit., p. 121. 342 R. Sciarrone, op.cit., p. 169. 343 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1992) , Tipografia del Senato, Roma 1993. Nel 1979 venne inviato in soggiorno obbligato in Puglia il camorrista Giuseppe Sciorio che sino al suo omicidio, verificatosi il 28 novembre 1983, sarà una vera e propria “punta di diamante” della camorra nel foggiano. (Cfr. L. Violante, Non è la piovra, p. 117).

88 questa associazione di gruppi delinquenziali pugliesi [la Sacra Corona Unita] e ci sono rapporti fra questa associazione e le nostre associazioni campane”. 344 Infatti, il 5 gennaio 1979 in un albergo di Lucera in provincia di Foggia, Cutolo incontrò un numeroso gruppo di criminali pugliesi e ne affiliò alla NCO circa una quarantina. Ma l’attività di proselitismo avviata da don Raffaele non si esaurì qui, orientandosi anche su altre aree della regione, come il Salento; qualche mese dopo, infatti, Puca, uno dei suoi più stretti collaboratori, organizzò “la riunione dei 90” a Galatina, in provincia di Lecce, cui parteciparono anche un rappresentante di Cosa Nostra ed uno della ‘ndrangheta, a riprova che, almeno in questa fase, le altre due organizzazioni “storiche” non si opponevano all’espansione in Puglia della NCO. 345 Questa intensa attività aveva il preciso obiettivo di dare vita ad una “camorra pugliese,” con caratteristiche organizzative e strutturali analoghe a quelle della “casa madre” campana, ma subordinata alla Nuova Camorra Organizzata, cui avrebbe dovuto versare una provvigione pari al 40% di ciascun affare illecito realizzato. A tal fine fu direttamente lo stesso Raffaele Cutolo a nominare i cosiddetti capi-zona pugliesi “a cielo scoperto” vale a dire in libertà ed “a cielo coperto” cioè in carcere. Questa distinzione, apparentemente poco significativa, permette invece di focalizzare l’attenzione sia sulle deleterie conseguenze scaturite dalla decisione governativa di inviare i detenuti affiliati alla NCO nelle carceri pugliesi, sia sull’estrema importanza storicamente rivestita, in un’ottica di egemonia del mondo criminale, dal sottomondo degli istituti di reclusione per la Nuova Camorra Organizzata. Le ragioni del successo dell’intenso proselitismo perseguito nell’ambito carcerario dalla NCO sono state così spiegate da Luciano Violante: “all’interno di tutti gli istituti di pena ci sono gerarchie e regole di comportamento precise dettate dai gruppi criminali più forti, cui gli altri devono aderire oppure opporsi scatenando una guerra interna al carcere che può condurre anche alla morte.[...] Cutolo [...] attraverso le migliaia di affiliati detenuti poteva imporre in molte carceri italiane la propria volontà. Per i delinquenti pugliesi detenuti, l’invito dei cutoliani era insieme una cortesia irrifiutabile, una necessità di vita e una promozione criminale”. 346

344 Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Pasquale Galasso, cit., p. 2240, il corsivo è mio. 345 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, p. 117. 346 L. Violante, Non è la piovra, p. 118.

89 Che la Puglia sia stata una zona di intensa colonizzazione mafiosa è ulteriormente dimostrato da una sorta di lottizzazione del territorio tra le tre mafie tradizionali; infatti, secondo Rocco Sciarrone: “l’influenza di Cosa Nostra sembra essere più rilevante in alcune aree delle province di Brindisi e Lecce. In quella di Taranto è prevalente l’interesse delle cosche calabresi e nel Foggiano quello della camorra”. 347 La Commissione Parlamentare antimafia della XII legislatura 348 ha inoltre posto l’accento sul fatto che lo sviluppo della mafia pugliese ha coinciso con il dilagare del ricorso a pratiche illegali nel campo della pubblica amministrazione e con l’imputazione di un grande numero di funzionari e rappresentanti delle istituzioni. 349 Lo stesso prefetto di Bari ha a questo proposito dichiarato: “si è verificato uno sviluppo parallelo della criminalità organizzata e di una certa classe politico-imprenditoriale: la penetrazione della delinquenza è avvenuta contemporaneamente e anche con l’aiuto di una parte delle forze politiche ed economiche che hanno dominato incontrastate per decenni consolidando il loro potere sull’illegalità”. 350 Questo non significa che dove c’è un’estesa corruzione politica e amministrativa si debba per forza sviluppare un’articolata criminalità organizzata, tuttavia è innegabile che il circolo vizioso che viene ad instaurarsi tra i due fenomeni sia fonte di vicendevole rafforzamento. “La criminalità organizzata rafforza con i suoi pacchetti di voti e le risorse di violenza i politici corrotti i quali poi utilizzano il loro potere per accrescere il potere della criminalità organizzata che li appoggia, e, attraverso l’impunità e il controllo del territorio che garantiscono loro gli appalti, aumentano il potere dei malavitosi stessi”. 351 Un clima di dilagante corruzione, nel suo deteriorare il tessuto istituzionale della società locale, realizza comunque quella connivenza responsabile della riduzione degli ostacoli alla commissione di gravi reati

347 R. Sciarrone, op.cit., p. 157. 348 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia , doc. XXIII, n.6, in Commissione Parlamentare antimafia, Relazioni e documenti approvati nella XII legislatura (18 ottobre 1994-31 gennaio 1996), A.P., Camera dei Deputati, XII legislatura, Roma 1996. 349 Cfr. A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit. 350 Cit. in Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia , cit., p. 129 nota. 351 D. della Porta, I circoli viziosi della corruzione in Italia, in D. della Porta-Y. Mény (a cura di), Corruzione e democrazia. Sette paesi a confronto, Liguori, Napoli 1995, p. 62.

90 associativi; la vicendevole protezione che scaturisce dall’intreccio mafia- politica accresce i rispettivi poteri implementandone le possibilità espansive 352 “e dando luogo ad un adeguamento delle strutture organizzative ed operative dell’azienda del crimine, che passa da una fase individuale ad una di tipo consorziale industriale”. 353 Inoltre, come ha rilevato Vannucci: “riducendo i rischi delle transazioni occulte, la mafia contribuisce all’espansione del mercato della tangente. Al tempo stesso un’omertà molto forte copre quelle attività, ostacolando enormemente le indagini della magistratura”. 354 A conferma del fatto che la mafia moderna non si sviluppa in zone povere ed arretrate, ma, al contrario, punta su habitat contraddistinti da dinamismo ed espansione economica, è interessante osservare che il periodo del consolidamento sul territorio pugliese delle organizzazioni mafiose, avvenuto nel biennio 1985-1986, è contestuale al boom economico vissuto dalla regione che all’epoca godeva addirittura del “più alto tasso annuo di crescita economica d’Italia dopo quello del Trentino Alto Adige (21,6%, il 4% in più del tasso medio italiano) e vive[va] un momento di prosperità economica e di sviluppo consistente.” 355 Sintetizzando quanto sin qui esposto, è ora possibile affermare che la stretta interazione di una serie di circostanze di varia natura, originariamente indipendenti, ha prodotto la nascita e lo sviluppo del fenomeno mafioso in una zona di non tradizionale insediamento, quale è la Puglia. I fattori più rilevanti a questo riguardo sono stati: posizione geopolitica della regione che attrae altri sodalizi criminali per le favorevoli opportunità delinquenziali che essa detiene in potenza; interesse delle tre mafie tradizionali all’adozione di una strategia espansiva in Puglia; dinamismo economico dei mercati legali che, nel loro produrre ricchezza, investimenti e nuove iniziative produttive fatalmente finirono con l’offrire interessanti opportunità anche a quelli illeciti; marcato deterioramento delle istituzioni locali, fortemente soggette a corruzione e collusione con l’ underworld criminale; soggiorno obbligato di affiliati alle consorterie tradizionali che, approfittando della misura di prevenzione, posero in essere business illegali in nuove zone; utilizzo delle

352 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 158. 353 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit., p. 132. 354 A. Vannucci, Politici e padrini. Mafia e corruzione politica in Italia, in D.della Porta-Y.Mény (a cura di), op.cit. , p.84. 355 N. Piacente, Seconda a nessuno, in “Narcomafie”, 7/8, 1997, p.18. Peraltro lo stesso Piacente rileva come il tasso di investimento pubblico sia superiore del 30% alla media italiana.

91 carceri pugliesi per la detenzione di camorristi della NCO, con la conseguente affiliazione all’organizzazione campana dei delinquenti autoctoni ivi reclusi; imitazione da parte della delinquenza locale dei modelli criminali “di successo” introdotti dalle mafie colonizzatrici; inconsistenza dell’azione di contrasto posta in essere dalle istituzioni, frutto di sottovalutazione e superficialità.

3.2 Imitazione e originalità

Nel paragrafo precedente si è posto l’accento sull’importanza della colonizzazione da parte delle tre mafie storiche nel processo di mafiosizzazione della regione Puglia. E’ peraltro emerso come, tra le tre, sia stata la camorra ad assumere l’atteggiamento maggiormente invasivo. “In Puglia […] è soprattutto la camorra a mettere in atto tentativi di colonizzazione rispetto alla criminalità locale, mentre la ‘ndrangheta e Cosa Nostra sembrano interessate a trovare alleanze e partner affidabili per portare avanti traffici illeciti. Anche quando mafiosi calabresi […] intervengono in modo più sostanziale, con funzioni di regolamentazione, nei rapporti interni alle organizzazioni criminali pugliesi, sembrano essere spinti in ciò non tanto dall’obiettivo di assumere il controllo della criminalità locale, quanto piuttosto dall’esigenza di creare quelle condizioni di garanzia che rendono più agevole la loro presenza nei mercati illegali della regione. Si tratta pur sempre di processi di colonizzazione, anche se meno forti e “totalizzanti” rispetto a quelli progettati dalla camorra”. 356 Qualcosa di simile a quanto verificatosi in Campania, con la nascita della NCO in risposta alla colonizzazione di Cosa Nostra, si verifica anche in Puglia, proprio in relazione al disegno dei cutoliani di dominio criminale sulla regione. Parte della criminalità locale inizia quindi a progettare la costituzione di consorterie delinquenziali endogene, sulla falsariga del modello organizzativo di quelle tradizionali. “Sia la collaborazione continuativa con esponenti delle famiglie mafiose, che la crescita delle opportunità di azione nei locali mercati leciti e

356 R. Sciarrone, op.cit., p. 170.

92 illeciti, costituiscono dei potenti stimoli alla maturazione e all’espansione delle formazioni criminali pugliesi”. 357 Ma ciò che è importante osservare è che non è il semplice processo imitativo a conferire alla criminalità pugliese i caratteri di organizzazione mafiosa, ma è il riconoscimento che essa riesce ad ottenere dalle mafie tradizionali. “Nessuna di queste organizzazioni può muoversi nel panorama criminale nazionale e internazionale, senza l’appoggio e il riconoscimento della grandi famiglie mafiose siciliane, calabresi e campane. L’approvvigionamento dei prodotti del mercato criminale è infatti mediato da Cosa Nostra, dalla ‘ndrangheta e dalla camorra”.358 Nel momento in cui alle inevitabili tensioni legate al regime di sudditanza con la NCO ed alla forte pressione “fiscale” esercitata da quest’ultima si aggiunge la percezione della profonda crisi che essa sta vivendo, sia a seguito della repressione statale, sia per la faida che la contrappone ai clan rivali, parte della malavita pugliese tenta di andare ad occupare direttamente alcuni spazi nel mondo criminale della regione. In un rapporto del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) dell’Arma dei Carabinieri, a questo proposito si afferma: “intuiti i vantaggi che si potevano ricavare, si svincolarono in tempi successivi dall’iniziale regime di sudditanza ed imposizione che avevano con i cutoliani e si posero la prospettiva di consociarsi in un’unica organizzazione, di natura prettamente pugliese, con l’intento di gestire autonomamente le varie attività delittuose svolte in Puglia e i derivati ad esse connesse, nonché di controllare eventuali infiltrazioni di ogni qualsivoglia famiglia mafiosa, come già si era verificato con la NCO”. 359 Esattamente come nel caso della nascita della NCO è anche in questo caso il carcere l’ambiente “naturale” ove progettare e realizzare l’avventura mafiosa “autonomista” pugliese. Ma le analogie con la genesi della camorra cutoliana si spingono oltre, poiché anche in Puglia il progetto di realizzare una mafia realmente autoctona, non potendo prescindere da un forte protettore criminale, viene realizzato sotto l’egida della ‘ndrangheta. Il 25

357 Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1992), cit., p.200. 358 Eurispes-Osservatorio permanente sui fenomeni criminali, La quarta mafia: percorsi e strategie della criminalità organizzata pugliese, cit., p. 76. 359 Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, doc. XXIII, n.7, Roma 1993, p.53.

93 dicembre del 1981 Giuseppe Rogoli, originario di Mesagne nel brindisino ed all’epoca detenuto nel carcere di Bari a seguito di una condanna a ventitré anni di reclusione per omicidio a scopo di rapina, fonda la Sacra Corona Unita, la prima organizzazione mafiosa pugliese indipendente che si prefigge di dominare tutto il territorio della regione. 360 Il progetto è, come detto, orchestrato dalla ‘ndrangheta nella persona del potente boss Umberto Bellocco che in precedenza aveva “battezzato” lo stesso Rogoli. 361 Secondo il collaboratore di giustizia Annacondia: “il padre della Sacra Corona Unita era Umberto Bellocco, grande ‘ndranghetista, [essa] è stata fondata dalla Calabria”. 362 Sull’importante ruolo svolto dalla ‘ndrangheta nella vicenda della nascita della Sacra Corona Unita si sono soffermati anche gli analisti del Ministero dell’Interno che nel Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata del 1994 hanno addirittura ipotizzato che alcuni ruoli di vertice dell’organizzazione pugliese sarebbero stati ricoperti da esponenti della mafia calabrese. 363 Dal punto di vista organizzativo, secondo Gorgoni: “la Scu delle origini divide la Puglia in due aree di competenza: Bari e Foggia da una parte e Lecce, Brindisi e Taranto dall’altra. Ciascun’area è poi suddivisa in una serie di subaree. E’ ovvio che una così articolata suddivisione del territorio comporta un controllo gerarchico e quindi che i preposti al controllo delle zone abbiano, a seconda della loro importanza, un “grado””. 364 L’idea originale di Rogoli prevedeva infatti una struttura piramidale sul modello di Cosa Nostra, 365 con otto livelli gerarchici suddivisi in tre fasce ed un articolato sistema di norme, mutuato dalle consorterie tradizionali, per regolare l’affiliazione e la promozione interna. 366 Ma l’ambizioso progetto di

360 Cfr. Tribunale di Lecce, Sentenza contro De Tommasi G. più 133, Corte d’Assise, Lecce 1991. 361 Ci si riferisce al rito di affiliazione ‘ndranghetista che, strumentalizzando il ritualismo cristiano, prevede per gli iniziati la cerimonia del battesimo con un “padrino” che funge da garante per il nuovo adepto. 362 Commissione parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Salvatore Annacondia, AP 1992-1994, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, XI legislatura, Seduta del 30 luglio 1993, Roma 1993, pp. 2458-2459. 363 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1994) , Tipografia del Senato, Roma 1995, p.124. Si noti inoltre che la stessa scelta del nome e della data di nascita della nuova consorteria è spiegabile con l’abitudine delle organizzazioni mafiose di servirsi di elementi sacri. 364 R. Gorgoni, op.cit., p. 242. 365 Cfr. L.Violante, Non è la piovra, cit., p. 119. 366 Cfr. Arma dei Carabinieri, Studio sulla criminalità organizzata in Puglia, con particolare riferimento alla “Sacra Corona Unita”, Raggruppamento Operativo Speciale (ROS), Bari 1993.

94 organizzare verticisticamente tutto il sottomondo criminale pugliese rimarrà un’aspirazione, poiché la struttura ideata da Rogoli non resisterà alla notevole conflittualità interna dei singoli gruppi e alla storica diffidenza e ostilità che divide, nel territorio pugliese, chi è originario della zona di Bari, da chi è foggiano o salentino. “Si afferma piuttosto una struttura ad arcipelago, caratterizzata dalla frammentazione delle cosche e, di conseguenza, da un’estrema parcellizzazione territoriale”. 367 Peraltro, questa circostanza non costituirà un problema per la mafia pugliese poiché permetterà lo sviluppo di numerosi gruppi criminali, costituendo “un volano di crescita per le organizzazioni mafiose non ingessate in strutture verticistiche”. 368 Inoltre, proprio la descritta mancanza di coesione interna sarà responsabile dell’attitudine operativa della SCU che, invece di essere mirata ad un capillare controllo del territorio sul modello del power syndicate tipicamente siciliano e calabrese, si caratterizzerà come enterprise syndicate, privilegiando l’accumulazione di ricchezza e la gestione dei mercati illegali; si osservino a questo proposito le riflessioni del collaboratore di giustizia Cosimo Cirfeda: “la filosofia della Sacra Corona Unita, così come concepita da Rogoli e dai suoi uomini più rappresentativi, è stata basata sul concetto puramente economico dell’attività della società per il quale l’avanzamento nella scala gerarchica della stessa non avveniva in base ad una valutazione dell’effettivo valore dell’uomo o in base al superamento di prove, anche di sangue, così come proveniva dall’insegnamento delle altre organizzazioni, bensì sulla valutazione fatta da Rogoli della capacità di qualsiasi persona di portare utili e ricavo a lui e ai suoi uomini”. 369 Ciò non significa assolutamente che la SCU non sia identificabile col concetto di associazione mafiosa poiché, come ha osservato il magistrato Nicola Piacente, il suo carattere mafioso deriva comunque da una gestione dei mercati illegali che “passa attraverso la formazione e l’aggregazione del consenso” 370 e ciò può andare a costituire la premessa per un successivo stadio evolutivo maggiormente incentrato sul controllo del territorio.

367 R.Sciarrone, op.cit., p. 173. 368 R. Gorgoni, op.cit., p. 246. 369 Cit. in N.Piacente, op.cit., p. 16. 370 Ibidem.

95 La Sacra Corona Unita ha palesato, sin dalle origini, una necessità quasi fisiologica di ricorrere ad un esasperato ritualismo, allo scopo di dotare un’organizzazione del tutto priva di tradizioni di un “marchio” di riconoscimento e di permettere ai propri adepti di avvertire in maniera più profonda la propria condizione di affiliati; dalle risultanze investigative è emerso che tali codici comportamentali e simbolici non vennero però realizzati semplicemente ricorrendo alla strumentalizzazione delle tradizioni pugliesi, ma invece trassero la propria origine da quelli delle mafie storiche, che venivano semplicemente rivisitati in chiave locale, rimanendo sostanzialmente immutati nelle proprie caratteristiche fondamentali. In particolare, sia perché la ‘ndrangheta mediante Bellocco 371 fu la consorteria di riferimento nella genesi della SCU, sia perché essa tra i sodalizi storici è senza dubbio quella che offre il più corposo bagaglio di simboli e rituali, fu proprio la mafia calabrese la principale fonte di ispirazione di Rogoli; ciò è vero sia per quanto concerne la redazione delle “leggi” e dei “rituali” pugliesi (nella documentazione sulle formule di giuramento e sui riti di iniziazione è costante il richiamo alla “Famiglia Montalbano” di cui si è riferito nel capitolo dedicato alle origini della ‘ndrangheta), sia per la stessa struttura organizzativa che man mano acquisirà la SCU; per Maritati: “tutti i gruppi organizzati pugliesi, di cui la Sacra corona unita rappresenta quello più agguerrito ed organizzato, presentano le caratteristiche delle cosche calabresi (‘ndrine), perché senza essere organizzati in una o più “famiglie” con strutture piramidali convergenti comunque in un unico organismo supremo di comando, operano invece in autonomia, accaparrandosi o spartendosi il territorio e le attività illecite più lucrose”. 372 La SCU può, senza dubbio, essere considerata l’organizzazione criminale pugliese che ha operato in maniera maggiormente simile alle mafie tradizionali, 373 sia nella sua ricerca di coordinamento della criminalità regionale, sia per i suoi profondi legami con la ‘ndrangheta, sia per gli stabili collegamenti con altre organizzazioni pugliesi con cui vennero posti in essere “rapporti di confederazione, di alleanza o di subordinazione”. 374 Inoltre, sulla base dell’insegnamento della NCO, Rogoli tentò di realizzare un circuito di

371 Oltre che con Bellocco, sono peraltro accertati collegamenti tra Rogoli e la ‘ndrangheta reggina di Paolo De Stefano (Cfr. L.Violante, Non è la piovra, cit., p.119). 372 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit., p. 131. 373 Cfr. Tribunale di Lecce, Sentenza contro Leone P. più altri, Corte d’Appello, Lecce 1990 e Tribunale di Lecce, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Accettura R. più 68, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, Lecce 1993. 374 R. Sciarrone, op.cit., p. 174.

96 tutela e assistenza nei confronti dei detenuti che si affiliavano alla SCU, ottenendo il duplice risultato già sperimentato da Cutolo, di incrementare la coesione interna e di ottenere nuove affiliazioni nel sottomondo degli istituti di pena. 375 Tuttavia, la storia della Sacra Corona Unita è quella di un sodalizio criminale che accantona rapidamente il progetto di dotarsi di una struttura coesa e piramidale sul modello siciliano. E’ comunque corretto osservare che tale evoluzione organizzativa non è esclusivamente riconducibile a concetti come le peculiarità etnico sociali regionali, la difficoltà di imporre una disciplina malavitosa ai propri aderenti, l’inesperienza di una organizzazione appena nata, ma anche al disegno delle mafie tradizionali teso ad evitare la costituzione di un quarto polo mafioso che col tempo avrebbe potuto divenire un temibile concorrente. La profonda conflittualità, le scissioni e riunificazioni, la creazione di altre consorterie pugliesi che non riconoscono alla SCU il monopolio dell’illecito sull’intera regione, sottintendono, oltre che una fragile unità organizzativa, soprattutto l’influenza “delle altre organizzazioni che avevano adottato in Puglia il principio del divide et impera. Mentre in Calabria Cosa Nostra era intervenuta per mettere fine alla guerra di mafia di Reggio Calabria, nessuno sarebbe mai intervenuto in Puglia per mettere un po’ d’ordine. Evidentemente l’ordine in Puglia non interessava”. 376 Già nel febbraio del 1984 nel carcere di Pianosa viene creata la “Famiglia Salentina Libera”, ad opera del leccese Salvatore Rizzo che intendeva rivendicare l’autonomia della criminalità del Salento dal disegno monopolizzatore della Sacra Corona Unita. Poi, a seguito delle ammissioni di Rogoli rese al giudice istruttore di Bari Alberto Maritati nel maggio dello stesso anno in ordine all’effettiva esistenza della SCU ed alla sua funzione di coordinamento e regolamentazione della criminalità pugliese, gli affiliati di Foggia e Bari se ne scindono ed il ramo leccese si rifonda con il nome di “Remo Lecce Libera” 377 ; a riprova del profondo disordine che contraddistingue la criminalità organizzata pugliese, nel 1986 anche la Famiglia Salentina Libera si dissolve e viene sostituita da un nuovo sodalizio che prende il nome di “Nuova

375 Cfr. Tribunale di Lecce, Sentenza contro De Tommasi G. più 133, cit. 376 L.Violante, Non è la piovra, cit., pp. 119-120. 377 Dal nome di un criminale locale, Remo Morello, che era stato ucciso nei primi anni ottanta da uomini della NCO poiché si opponeva fermamente ai tentativi di colonizzazione dell’organizzazione campana (Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 175).

97 Famiglia Salentina,” che si propone di instaurare una pacifica coesistenza con la SCU fondata su un’equa suddivisione delle aree illegali. Rogoli, consapevole del momento estremamente complesso vissuto dalla SCU che sta perdendo quel poco della coesione organizzativa raggiunta, fonda la “Nuova Sacra Corona Unita,” ma non riesce comunque a riassorbire i gruppi foggiani, che intendono serbare la propria autonomia. Ancora più complessa è la situazione nel barese, dove operano diverse entità criminali autonome: alcuni sodalizi nel 1987, grazie all’appoggio della cosca Fidanzati appartenente a Cosa Nostra e con il beneplacito della ‘ndrangheta e dello stesso Rogoli che è consapevole di non potere agire diversamente, si associano in una nuova consorteria che verrà denominata “La Rosa” con a capo il boss Oronzo Romano; 378 ma il territorio di Bari nel quadriennio 1989-1992 sarà teatro di una cruenta faida, poiché altri gruppi si schiereranno con la potente famiglia di Savino Parisi, che spadroneggia sul rione Japigia, ed altri ancora con il gruppo facente capo al boss Salvatore Annacondia, personalmente affiliato dal 1989 a Cosa Nostra. Essere affiliati alla mafia siciliana, come ha ammesso lo stesso Annacondia, 379 garantiva sia una forma di tutela dalla conflittualità che stava sconvolgendo il territorio del capoluogo pugliese, sia la possibilità di operare sotto il “marchio” di Cosa Nostra che era unanimemente riconosciuto nei mercati illeciti nazionali ed internazionali. 380 Un’altra importante organizzazione autoctona operante sul territorio pugliese è la “Rosa dei Venti”, fondata nel settembre del 1990, nel carcere di Lecce, dai pregiudicati De Tommasi e Stranieri ancora una volta per sancire l’autonomia della criminalità salentina dal resto della regione. Dietro alla nascita di quest’ultima consorteria ci sarebbero ancora una volta alcuni gruppi criminali calabresi, 381 ma le risultanze giudiziarie raccontano che vi sarebbe anche una componente riferibile alle dinamiche di interazione profondamente conflittuali che contraddistinguono i rapporti tra esponenti della malavita pugliese; infatti pare che la “Rosa dei Venti” tragga la propria origine soprattutto dall’odio che separava Rogoli da De Tommasi e dal grave affronto subito da quest’ultimo che aveva dovuto prendere atto del rifiuto di Rogoli, all’atto del suo ingresso nel carcere di Lecce, di farsi recludere nel suo

378 Cfr. Eurispes-Osservatorio permanente sui fenomeni criminali, La quarta mafia: percorsi e strategie della criminalità organizzata pugliese, cit., p. 58. 379 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Salvatore Annacondia, cit., p.2462. 380 Cfr. D.Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992 , p. 216. 381 Cfr., Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1994), cit., pp. 124 sgg.

98 stesso braccio, preferendo proprio quello dove si trovavano gli assassini di suo fratello. 382 Quest’ultimo aneddoto è profondamente esemplificativo di due aspetti ricorrenti nelle dinamiche evolutive vissute dalla “quarta mafia”: il primo è che esse sono senza dubbio condizionate dalle mire espansionistiche delle mafie tradizionali (in questo caso della ‘ndrangheta), ma anche notevolmente influenzate dalle rivendicazioni autonomistiche dei gruppi autoctoni e soprattutto dai rapporti spesso contrastanti tra i leader ; il secondo è invece da riferirsi alla predilezione di alcuni tra i principali sodalizi criminali pugliesi (Sacra Corona Unita, Nuova Sacra Corona Unita, Remo Lecce Libera, Rosa dei Venti) nell’instaurare rapporti con la ‘ndrangheta, “storicamente intesa come associazione madre più completa.” 383 Le cosche pugliesi, pur manifestando istanze autonomiste, hanno spesso non solo tollerato, ma addirittura sollecitato un riconoscimento, considerato prestigioso, da parte della ‘ndrangheta, in aperto contrasto con l’atteggiamento serbato nei confronti della camorra. Enzo Ciconte ha tentato di fornire una spiegazione a questa differente attitudine nei confronti delle mafie esogene: “probabilmente perché la ‘ndrangheta nel rapporto con le altre organizzazioni si muoveva lungo una via che era quella di stabilire zone di influenza per portare avanti i propri traffici illeciti senza porsi problemi di egemonia o di predominio ossessivo sulle altre organizzazioni e senza ledere l’autonomia altrui. Sembrano stabilirsi rapporti, per così dire, alla pari. I calabresi si sono sempre ben guardati dall’interferire nelle guerre interne alle altre organizzazioni. Le consideravano come faccende di quelle organizzazioni, che dovevano dirimere da sole”. 384 Ma, a prescindere del rapporto spesso privilegiato intessuto con la ‘ndrangheta, pare interessante evidenziare come il processo di mafiosizzazione della Puglia si sia differenziato da quello di altre aree italiane soggette all’espansione di sodalizi criminali esogeni, come per esempio alcune regioni del Nord. In queste zone la colonizzazione non ha prodotto il risultato, verificatosi invece in Puglia, di dare vita ad una forte mafia locale, non ha insomma, per usare le parole di Gorgoni, dato luogo a “crimine

382 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 175.

383 Cfr. Ministero dell’Interno, Relazione sull’attività delle forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica nel territorio nazionale (anno 1995) , Tipografia del Senato, Roma 1996. 384 E. Ciconte, Processo alla ‘ndrangheta, Laterza, Roma-Bari 1996, p.208.

99 organizzato con tendenze antagoniste.” 385 Qui, la malavita locale solo raramente ha intrapreso azioni di contrasto alla penetrazione esogena, preferendo propendere per un atteggiamento accomodante, improntato al raggiungimento di accordi per il rispetto delle rispettive aree illecite di interesse, che è spesso culminato in una posizione subalterna rispetto alle potenti mafie colonizzatrici. 386

3.3 Il contrabbando

Il più redditizio traffico illecito della Sacra Corona Unita resta ancora il contrabbando, il quale ha purtroppo finito con il costituire una fondamentale risorsa dell’economia regionale, se solo si pensa all’elevato numero di persone anche non affiliate coinvolte in qualità di manovalanza nelle operazioni di imbarco e sbarco e ai numerosi depositi ubicati sul territorio. 387 Questa attività illegale che, come si è sottolineato precedentemente, è stata tradizionalmente praticata dalla malavita pugliese, ha vissuto, al termine del processo che ha determinato l’egemonia della Sacra Corona Unita, un ulteriore sviluppo, poiché alla flessibilità operativa garantita da molteplici organizzazioni satelliti e indipendenti 388 , dunque molto difficili da contrastare, si è aggiunta una forte sovrastruttura in grado di ottimizzarne la gestione complessiva e di condurre efficacemente la contrattazione sui mercati internazionali sia con altre consorterie illegali, sia con gli stessi produttori di sigarette. E’ infatti documentato addirittura un tentativo di compenetrazione nella struttura societaria della Philip Morris, attraverso l’acquisto di consistenti quote azionarie della multinazionale americana del tabacco. 389 A ciò si deve aggiungere che la superiorità organizzativa e la forza militare raggiunte dalla Sacra Corona Unita hanno permesso a quest’ultima di imporre il meccanismo della protezione – estorsione su tutte le transazioni

385 R. Gorgoni, op.cit., p. 23. 386 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 176. 387 Cfr. N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, intervista di L. Rastello, in “Narcomafie”, 7, 1995, p. 15. 388 Cfr. Questura di Brindisi, Informativa di denuncia a carico di Andriola più altri, Brindisi 1994. 389 Cfr. N. Piacente, Seconda a nessuno, cit., pp. 16-17.

100 illegali svolte nella regione, comprese quelle tra soggetti non mafiosi in senso stretto. 390 Il giudice Falcone in ordine alla pratica del contrabbando osservava: “il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmologia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben diversa…” 391 Purtroppo il contrabbando è stato a lungo considerato un’attività illecita minore, in funzione dello scarso allarme sociale da esso destato e della sua effettiva funzione di ammortizzatore sociale che riesce a realizzare in realtà fortemente soggette alla disoccupazione ed alla povertà; chiunque abbia avuto la possibilità di visitare Brindisi o Taranto può capire quanto sia diffusa questa pratica anche tra chi non si considera, e non può effettivamente essere ritenuto un mafioso. La Sacra Corona Unita ha saputo sfruttare al massimo questa situazione, passando a gestirlo mediante una metodologia mafiosa. “La circostanza che il contrabbando avesse una così grande diffusione poteva consentire all’organizzazione che ne avesse acquisito il controllo e la gestione diretta di puntare sulla contiguità, se non sull’affiliazione di un numero enorme di persone. E questo significa controllo del territorio”. 392 La peculiare geopolitica regionale, con le coste dell’ex Jugoslavia a poche miglia nautiche di distanza, ha consentito alla Sacra Corona Unita, soprattutto dopo le note vicende del conflitto serbo-croato, “di fare il salto di qualità o, quantomeno, di accreditarsi rispetto alle altre organizzazioni criminali come interlocutrice privilegiata per alcuni traffici.” 393 Le vicende politiche dell’ex Jugoslavia e la profonda instabilità che ne è conseguita, associata alla repressione che ha colpito gli affiliati della Sacra Corona Unita, hanno indotto questi ultimi a cercare rifugio sulle coste montenegrine dove è anche stato possibile, grazie alla connivenza delle forze di polizia locali, creare infrastrutture per il contrabbando di sigarette.

390 Cfr. M. Fiasco, Geopolitica mafiosa del Mediterraneo. Il modello italiano di contrasto del crimine organizzato, Mimeo, Bruxelles 1995, p. 7. 391 G. Falcone, Interventi e proposte (1982-1992), Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Sansoni, Firenze 1994, p.322. 392 N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, cit., p. 15. Si noti, proprio in tale fattispecie, quanto siano simili le strategie ed il modus operandi della mafia pugliese e della camorra 393 N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, cit., p. 15.

101 “Dopo i colpi che subisce tra il 1991 e il 1993, la SCU trasferisce la direzione strategica nel Montenegro, incoraggiata dal disordine istituzionale che offre sicurezza ai suoi latitanti […]. Dalla nuova sede operativa, i grandi latitanti brindisini saggiano le potenzialità che offrono gli eventi di guerra per valorizzare le loro risorse, che consistono nella spendibilità del network del contrabbando per muovere carichi di armi e di valuta, oltre che nei collegamenti tra oriente e l’Europa. Attorno a quel nucleo salentino si forma un milieu di criminali baresi, siciliani, calabresi”. 394 Questa strategia è stata poi responsabile di un ulteriore risultato: si è accelerato il processo di conversione del network del contrabbando in una struttura pronta a garantire una proficua conduzione di altri traffici illeciti prettamente strumentali alle condizioni di guerra, 395 primo fra tutti quello di armi 396 ed in misura minore quello di droga. 397 “A questo proposito è necessario precisare che l’intreccio tra tabacchi lavorati esteri e droga non avveniva - e non avviene neppure oggi – nel senso di una sovrapposizione dei canali di traffico. Il valore di ciascuna merce, inversamente proporzionale al volume, è troppo differente. I rischi di una commistione nel trasporto e nella distribuzione sarebbero troppo alti. Tuttavia è ampiamente mostrato che il know-how accumulato dalle diverse organizzazioni criminali nel contrabbando ha finito poi per rivelarsi spendibilissimo nei traffici più diversi, dalle droghe leggere e pesanti alle armi”. 398 Contrariamente a quanto prima osservato per il contrabbando di tabacchi, la Sacra Corona Unita non è riuscita a interagire direttamente con i grandi produttori internazionali di stupefacenti, ma ha dovuto frequentemente fare ricorso ad intermediari appartenenti alle mafie tradizionali; la scelta di impegnarsi maggiormente nella risorsa locale

394 M. Fiasco, op.cit. , p.6. 395 Ibidem. 396 E’ infatti noto che questo processo ha finito con il rendere le cosche pugliesi le più importanti fornitrici d’armi alle altre organizzazioni criminali italiane. (Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1995) , Tipografia del Senato, Roma 1996, p. 19). 397 Pare che questa attività illecita fosse inizialmente stata sfruttata solamente da alcuni gruppi criminali e non dall’organizzazione nel suo complesso ( Cfr. Tribunale di Lecce, Sentenza contro De Tommasi G. più 133, cit., pp.143 sgg.); poi, proprio a seguito del conflitto jugoslavo e del conseguente dirottamento del traffico di droga sulle cosche pugliesi, si è assistito ad un ben più marcato interesse della mafia pugliese per questa attività. I trafficanti sono infatti stati costretti “ ad utilizzare, in alternativa alla parte terminale della classica “rotta balcanica”, un nuovo percorso marittimo che prevede lo sbarco della droga nei porti pugliesi ed il suo trasferimento al Nord via autostrada.” (Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1992) , cit., pp. 210-211). 398 R. Gorgoni, op.cit., p. 265.

102 costituita dal contrabbando può dunque essere interpretata come funzionale alla creazione di un regime di monopolio gestionale su almeno un’attività illecita, caratteristica che una vera mafia deve assolutamente detenere, alfine di accreditare la propria reputazione nel panorama criminale nazionale ed internazionale. A questo proposito, il magistrato Nicola Piacente ha osservato: “il percorso strategico della Scu è inverso rispetto a quello di ‘ndrangheta e camorra, società contrabbandiere convertitesi col tempo agli stupefacenti: la Scu nasce come organizzazione che, quanto meno in Puglia, intende assumere il controllo della droga, non ce la fa e si converte, sia pure con l’introduzione di metodologie mafiose, al contrabbando”. 399 Contrariamente a quanto spesso sostenuto dai mass media ed alla diffusa convinzione dell’opinione pubblica, un’attività illecita nei confronti della quale la mafia pugliese si è tutto sommato disinteressata è quella dell’immigrazione clandestina; 400 l’interesse della SCU per il traffico di esseri umani pare infatti essere limitato al meccanismo dell’estorsione-protezione nei confronti di quei soggetti criminali che ne sono protagonisti; 401 essa non vi parteciperebbe direttamente “perché assicura guadagni tutto sommato ristretti rispetto al contrabbando e comporta margini di rischio notevoli, per la possibilità che le persone trasportate collaborino con le autorità italiane.” 402 Le risultanze investigative hanno evidenziato che la gestione di questo business è nelle mani di alcune organizzazioni albanesi che hanno tentato di trovare dei partner italiani ma, considerato il manifesto disinteresse delle organizzazioni mafiose, si sono orientate verso “soggetti che molto spesso avevano avuto dei trascorsi economici non propriamente brillanti: falliti, protestati, persone considerate assolutamente inaffidabili dalle banche che hanno svolto una vera e propria attività di supporto logistico nei confronti delle organizzazioni albanesi.” 403 Infatti, secondo il Ministero dell’Interno: “non si hanno, allo stato, risultanze che confermino la costituzione tra gli albanesi di organizzazioni criminali di tipo mafioso, né la loro affiliazione a quelle presenti in Italia”. 404

399 N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, cit., p. 16. 400 Ivi, p. 15. 401 Cfr. M. Fiasco, op.cit., p. 7. 402 N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, cit., p. 17. 403 N. Piacente, Seconda a nessuno, cit., p. 19. 404 Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1996) , Tipografia del Senato, Roma 1997.

103 Esiste invece una spartizione dei contesti illegali che permette ai gruppi albanesi di gestire i loro traffici illeciti, dietro il pagamento di una tangente alla criminalità autoctona, “legittima proprietaria” del territorio pugliese. “Esiste dunque una direttrice di ingresso in Italia di tabacchi lavorati esteri e di armi che provengono dalla ex Jugoslavia gestita in maniera monopolistica dalla Scu, e una direttrice di ingresso di clandestini e droghe – leggere, perché gli albanesi non hanno mai avuto contatti diretti con le grandi organizzazioni del narcotraffico internazionale – che proviene dall’Albania e che è gestita direttamente da organizzazioni albanesi, e se ci sono componenti italiani in questa organizzazione, non fanno parte della Scu”. 405 Questa “coabitazione” dell’illegalità da parte di gruppi criminali diversi è particolarmente sviluppata nella zona di Brindisi, dove “si assiste alla presenza contestuale nello stesso territorio di alcune organizzazioni criminali che hanno trovato un loro punto di equilibrio per quanto riguarda le attività illecite che devono svolgere e i capitali da reinvestire.” 406 Come osservato da Barbagli, anche se negli ultimi anni il numero di reati commesso da immigrati è decisamente aumentato, non risulta ancora che essi siano entrati nei settori illegali gestiti dalla mafia pugliese 407 , in ossequio ad una logica non conflittuale, probabilmente risultato di un accordo consensuale per la spartizione dei mercati illegali. 408

3.4 Caratteristiche

Tralasciando l’analisi della distribuzione territoriale e numerica per province dei singoli sodalizi e degli affiliati, è comunque ora possibile delineare quali siano le caratteristiche più significative della mafia pugliese. Secondo gli analisti del Viminale: “le manifestazioni criminali pugliesi sono in gran parte riconducibili alla categoria del gangsterismo urbano: si tratta per lo più di bande composte da un numero consistente di individui, che si caratterizzano per un’età media relativamente bassa, una elevata eterogeneità socio-culturale derivante dalla scarsa severità dei criteri di

405 N. Piacente, Seconda a nessuno, cit., p. 19. 406 Ibidem. 407 Cfr. M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna 1998, p.72. 408 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 184.

104 reclutamento, ed una bassa capacità di infiltrazione e di manipolazione delle istituzioni pubbliche”. 409 Ciò che pare emergere è dunque che, per quanto le varie consorterie mafiose pugliesi abbiano a più riprese palesato una sorta di “predilezione” per il modello offerto dalla ‘ndrangheta, cui corrisponde un ben più sporadico ricorso a rapporti organici con Cosa Nostra e addirittura una forte avversione per la camorra e per il suo tentativo di colonizzazione e controllo della criminalità autoctona, in concreto invece è proprio con quest’ultimo sodalizio, perlomeno nelle sue manifestazioni più recenti, che si possono riscontrare le maggiori affinità. Innanzitutto il carattere di criminalità di massa, con la capacità di governare la disperazione sociale ed un consistente ricorso al reclutamento di manovalanza, spesso minorile 410 , da qualsiasi ambito delinquenziale, in ossequio ad una manifesta labilità dei criteri di reclutamento; 411 la pressoché totale mancanza del ricorso al familismo nella formazione delle cosche, che viene sostituito da un altro requisito di identificazione: la comune origine territoriale; 412 la struttura pulviscolare, o ad arcipelago, che se da un lato conferisce elasticità e flessibilità all’organizzazione, dall’altro la pone nella necessità di fronteggiare una sorta di conflitto perenne tra i singoli clan e, all’interno degli stessi, tra gli affiliati che vivono questa mancanza di coesione come una chance di affermazione personale; il carattere “aperto” e dinamico delle cosche che le porta ad un frequente interscambio con altre forme criminali “che si sviluppa secondo logiche di alleanza, di inglobamento, di confederazione” 413 ed all’attribuzione della leadership interna ad individui anche di giovane età; la scarsa compenetrazione, se

409 Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata ( anno 1992) , cit., p.202. 410 “Una specificità della mafia pugliese, che l’accomuna alla camorra, è l’utilizzazione di minori. Si tratta però di un fenomeno non omogeneo sul territorio regionale; il dato è rilevante nelle province di Bari e Foggia, lo è meno a Brindisi e Lecce. Si può trarre un principio da questa prima valutazione, per il quale a forme consolidate e strutturate di criminalità corrisponde un basso ricorso ai minori; al contrario le organizzazioni criminali meno strutturate tendono a utilizzare ogni tipo di disponibilità, compresa quella minorile. Infatti a Brindisi e Lecce c’è tradizionalmente una criminalità più strutturata rispetto a Bari e Foggia. Il principio sembrerebbe confermato guardando a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra. Le prime due organizzazioni non si avvalgono di minori. La camorra, invece, che è molto più labile dal punto di vista organizzativo, se ne avvale ampiamente.” (L. Violante, Non è la piovra, cit., pp. 136-137). 411 Si pensi, solo per fare un esempio, all’elevata probabilità di trovare tra le file degli affiliati alla mafia pugliese ed alla camorra tossicodipendenti o spacciatori, eventualità assolutamente impensabile nella ‘ndrangheta ed in Cosa Nostra dove l’estrema rigidità dei criteri selettivi non permette a queste categorie di entrare nelle cosche. 412 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 178. 413 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla camorra, cit., p.20.

105 raffrontata a quella di Cosa Nostra e ‘ndrangheta, dei centri di potere; la bassa età media degli affiliati. Si potrebbe motivare una così marcata affinità tra la mafia pugliese e la camorra ricordando come l’unica consorteria tradizionale che abbia attuato un progetto di palese colonizzazione della Puglia sia stata proprio quest’ultima, e che quindi il “marchio” impresso dai cutoliani sia penetrato così a fondo nella criminalità autoctona da influenzarne ineluttabilmente lo sviluppo successivo; tuttavia questa interpretazione pare un po’ troppo semplicistica, considerato il breve periodo di effettivo dominio della NCO. Più probabilmente, queste marcate analogie con la mafia campana sono da imputarsi ad altri due fattori: innanzitutto entrambe le consorterie contano su un’origine urbana e non rurale e tale circostanza, come è emerso nel paragrafo dedicato alle caratteristiche della camorra, è come minimo responsabile del loro comune carattere di massa e di strumentalizzazione della disperazione sociale. Secondariamente, per quanto la camorra esista almeno da duecento anni, pare corretto porre l’accento sul fatto che le caratteristiche assunte da questa entità nell’ultimo trentennio non hanno quasi nulla a che vedere con il modello originario 414 ; si ritiene quindi accettabile l’affermazione secondo cui anche la camorra attuale sia, tutto sommato, una mafia relativamente giovane come senza dubbio è la sua omologa pugliese. In tal senso, il tentativo cutoliano di strumentalizzare il ritualismo della camorra delle origini allo scopo di sollecitare il senso di appartenenza e di nobilitare la figura del camorrista si potrebbe definire un bluff, considerate quelle che sono state poi concretamente le caratteristiche espresse dagli affiliati alla NCO, che ben poco hanno avuto a che vedere con i camorristi pro-plebe ottocenteschi. Ben diversa è la profonda continuità che sia Cosa Nostra che la ‘ndrangheta hanno saputo mantenere nella loro storia. Adottando questa chiave di lettura della camorra, diviene quindi possibile sottolineare come le analogie precedentemente elencate tra i due sodalizi possano essere imputate alla mancanza di radicamento e di tradizione che entrambi, seppur in misura diversa, condividono. Un’altra peculiarità della mafia pugliese è l’avere mantenuto, anche al termine del processo di autonomizzazione, stretti legami con le mafie tradizionali, quasi a significare che la nascita di una criminalità organizzata endogena, invece di avere espulso dalla gestione dei traffici illeciti della

414 Ibidem.

106 regione i gruppi appartenenti a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, li abbia posti nella condizione di potere operare in un habitat criminale maggiormente organizzato e quindi più efficiente sotto l’aspetto dei risultati. Per Maritati infatti: “mentre prima, per il compimento di singole operazioni criminali, le varie mafie erano costrette a scegliere volta per volta l’interlocutore ed il socio locale, con tutti gli imprevisti e i rischi di una più ridotta “professionalità”; attualmente le alleanze sembrano essere divenute più rapide ed agevoli, atteso che il collegamento e l’alleanza viene stabilita sulla base della materia trattata (contrabbando di sigarette, armi, droga, rapimenti, ecc.), del ruolo rivestito in loco dai vari capi e dalle zone di influenza territoriale”. 415 A riprova di tali considerazioni, sono accertati stretti legami con le tre mafie tradizionali soprattutto nella zona della provincia di Taranto. 416 E’ comunque sempre preponderante il rapporto con la ‘ndrangheta, probabilmente in ossequio alla contiguità geografica tra le due regioni, che è talmente forte da permettere addirittura l’inserimento di capibastone calabresi nei vertici dei gruppi locali; nei confronti di Cosa Nostra vi sono semplici scambi di uomini e dotazioni per la realizzazione di omicidi, attentati e rapine, mentre con la camorra permangono legami d’affari strumentali al contrabbando ed al più recente business dello smaltimento illecito di rifiuti. 417 “Il processo di imitazione delle mafie tradizionali da parte delle formazioni criminali pugliesi si evidenzia con la massima intensità nel frequente ricorso a una simbologia che risulta molto simile a quella tipica della camorra e soprattutto della ‘ndrangheta, sia pure con l’inserimento di elementi appartenenti alla tradizione locale (o che tali vengono fatti apparire)”. 418 Se la propensione ad un marcato ritualismo è tradizionalmente presente nelle organizzazioni storiche, è ancor più importante nel caso di un nuovo sodalizio dove si supplisce all’oggettiva mancanza di un codice culturale radicato con il ricorso ad un esasperato e spesso fittizio ritualismo. Come ha rilevato Gambetta: “l’appropriazione (e la manipolazione) di una degna tradizione è pratica comune di ogni istituzione per elevare il proprio status agli occhi degli altri, e per rafforzare la coesione interna”. 419

415 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit., p. 133. 416 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, cit., pp. 35-36. 417 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 180. 418 Ivi, p. 184. 419 D. Gambetta, op.cit., p. 186.

107 Come rilevato precedentemente, sotto questo punto di vista la principale fonte di ispirazione della mafia pugliese è stata la ‘ndrangheta, ed in misura minore la camorra. Effettivamente questa predilezione per i modelli simbolici calabresi e campani, cui corrisponde un palese disinteresse per quelli offerti da Cosa Nostra, trova la sua motivazione nelle numerose somiglianze nei codici e nei rituali di camorra e ‘ndrangheta e nella scarsa affinità di questi ultimi con quelli della mafia siciliana 420 ; come ha evidenziato Ciconte: “è comune alla camorra e alla ‘ndrangheta la pratica costante di una accentuata e accurata simbologia che si coglie a piene mani. Segno di una comunanza, di un rapporto stabilitosi nel tempo”. 421 Come avevano a suo tempo fatto le organizzazioni tradizionali, anche quelle pugliesi si circondano di un apparato simbolico che sembra derivare “da un cocktail quasi surreale di fonti false e autentiche, personaggi mitici e quotidiani, invenzione e realtà;” 422 la differenza è che esse lo copiano direttamente dalle tradizioni dei modelli vincenti offerti dalle mafie storiche. Tuttavia, la caratteristica di avere importato i propri codici da fonti esterne e non averne quindi elaborati di propri non implica affatto che “siano senza scopo, né che gli importatori stessi, in questo caso la mafia, non siano autentici , quasi che la falsità della simbologia li potesse contaminare. Tale pensiero si fonda sulla convinzione che coloro i quali non producono i propri simboli, ma li copiano, siano essi stessi inautentici: trasposta nel mondo comune questa idea è ovviamente ridicola.” 423 Specificamente, i rituali adottati dal principale gruppo mafioso pugliese, la Sacra Corona Unita, hanno una manifesta origine ‘ndranghetista cui si affiancano una serie di innovazioni autoctone: per esempio, analizzando la complessa “liturgia” prevista per il passaggio di grado all’interno dell’organizzazione, si possono osservare elementi tipicamente calabresi, come l’invocazione ai tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, o il richiamo alla tradizione massonica con Garibaldi, Lamarmora e Mazzini, affiancati da riferimenti a personaggi mutuati dalla letteratura (il Conte Ugolino, Fiorentin di Russia, Cavalier di Spagna, Athos e Porthos) e dalla storia antica e moderna (Carlo Magno, Cavour). Inoltre si provvede alla realizzazione dei cosiddetti “Rintagli” che Gorgoni ha definito:

420 Ivi., pp. 211-212. 421 E. Ciconte, ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi, cit., p. 24. 422 D. Gambetta, op.cit., p. 178. 423 Ivi, p. 187.

108 “una serie di dialoghi, di gesti, di comportamenti necessari al riconoscimento tra affiliati che non si conoscono.” 424 “L’antropologo Alfonso Maria Di Nola, nel commentare queste formule, ricorda che esse si riferiscono a varie simbologie, cattolica, pseudomassonica, veteroborbonica, scelte probabilmente per la loro idoneità a confermare il vincolo tra gli affiliati sulla base di quanto appare, alla modesta cultura di queste persone, idoneo allo scopo. L’espressione Sacra Corona era il titolo con il quale ci si rivolgeva ai sovrani borbonici sino a metà dell’Ottocento”. 425 La necessità di garantire agli affiliati di un’organizzazione giovane un “marchio” di garanzia ed una forte identità interna, determina l’esigenza di inventare una tradizione dove non c’è, fondata su complessi riti nei quali si mescolano elementi sacri e profani. 426 “Il significato profondo di questo “patrimonio culturale” – mutuato in larga parte dalla più antica tradizione ‘ndranghetista – non è da ricercare esclusivamente nei contenuti che veicola, spesso del tutto privi di senso, ma nella dimensione psicologica che crea e che assume un ruolo centrale nel processo di costruzione di identità in cui risultano coinvolti non solo i singoli affiliati, ma l’organizzazione nel suo complesso”. 427 Vi è peraltro una grande differenza con il ritualismo proprio delle mafie tradizionali: un ricorso esasperato agli elementi mitologici e sacrali. Analizzando i codici pugliesi, non si può infatti fare a meno di osservare un strumentalizzazione effettivamente sovradimensionata di questa simbologia, come se le organizzazioni della regione, consce della loro mancanza di un pedigree mafioso ma determinate a “clonare” i modelli vincenti offerti dalle consorterie storiche, avvertissero l’esigenza di colmare il profondo divario in termini di tradizione che le separa da essi. Maritati ha in tal senso osservato che: “le forme pseudo-sacrali sono comunque segno di una fase primordiale dell’associazione criminosa, tant’è che nelle zone ove il fenomeno è ormai di antica origine non si ha notizia di simili procedure, quanto meno in modo così evidente”. 428

424 R. Gorgoni, op.cit., pp. 244-245. 425 L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 128. 426 Cfr. R. Sciarrone, op.cit., p. 185. 427 M. Massari, Potere e segreto nella Sacra Corona Unita, Relazione al Convegno su La giovane ricerca italiana sulla grande criminalità, Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Sesto Fiorentino, Firenze 8-9 dicembre 1995, p. 10. 428 A. Maritati, La criminalità organizzata in Puglia, cit., p.131.

109 I riti pugliesi sono infinitamente più elaborati e dettagliati di quelli per esempio di Cosa Nostra, definiti da Gambetta “elementari e non artificiosi,” 429 ma anche di quelli di ‘ndrangheta e camorra, certamente “intricati e verbosi,” 430 in alcun modo paragonabili a quelli della mafia pugliese che appaiono “esagerati, come se fossero costruiti solo per far colpo sugli altri.” 431 Tale elaborato ricorso al ritualismo si intreccia con una numerosa creazione di nomi e sigle delle associazioni mafiose pugliesi; proprio questa forte dispersione finisce con l’indebolire la loro credibilità, poiché non permette la creazione di un unico marchio, facilmente riconoscibile e con una precisa identità. Fatto salvo il tentativo della Sacra Corona Unita, non si è infatti verificata l’affermazione di un marchio comune o predominante sugli altri; inoltre la denominazione assunta dai sodalizi pugliesi non riesce a imitare efficacemente la “particolare combinazione di precisione e vaghezza” che per Gambetta ha reso i termini “mafia” e “Cosa Nostra” marchi di successo e di difficile imitazione. 432 Il cammino che conduce alla costruzione di una reputazione affidabile spendibile nell’ underworld criminale non può prescindere dall’utilizzo di un unico “marchio di garanzia” che goda di caratteristiche di continuità temporale, in maniera del tutto analoga alle esigenze di marketing di qualsiasi impresa legale che non può continuare a mutare la propria denominazione se vuole difendere le quote di mercato acquisite. “In definitiva, non si è realizzato in Puglia quel riconoscimento reciproco, tra i diversi gruppi, di un marchio comune e della legittimità del suo uso, che rappresenta un importante elemento costitutivo e, quindi, un punto di forza delle organizzazioni mafiose tradizionali”. 433 Precedentemente si è rilevato come le organizzazioni pugliesi, più che una forte attitudine al controllo del territorio, abbiano manifestato un interesse specifico per i traffici illeciti; in tal senso si è osservato come il contrabbando continui ad essere uno dei principali ambiti d’attività, seguito dai traffici, come quello di armi o di stupefacenti, realizzati mediante la conversione del network su cui esso è fondato. Tuttavia l’impegno affaristico della quarta mafia non è limitato al solo mondo dell’illegalità, andando ad investire attività apparentemente lecite; per

429 D. Gambetta, op.cit., p. 209. 430 Ivi, p. 210. 431 R. Sciarrone, op.cit., p. 186.

432 Cfr. D. Gambetta, op.cit., p. 200. 433 R. Sciarrone, op.cit., p. 187.

110 esempio secondo la Commissione Parlamentare antimafia negli anni novanta si è registrato in Puglia un boom delle società finanziarie anomalo in funzione delle effettive esigenze economiche della regione, che potrebbe nascondere attività di riciclaggio dei proventi realizzati con attività illecite. Parallelamente è conclamato un attivo intervento nell’ambito delle truffe agricole collegate all’ottenimento dei fondi CEE ed AIMA. 434 Sia a proposito delle infiltrazioni nell’economia legale che di quelle nella politica, è purtroppo da registrarsi un’inspiegabile difformità tra le analisi esperite dal Ministero dell’Interno e quelle della Commissione Parlamentare antimafia nel corso del decennio scorso; per esempio si osservi quanto rilevato nel Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata per l’anno 1992 dal Viminale: “il numero di società controllate direttamente o attraverso prestanome dagli imprenditori criminali è ridotto, ed il loro interesse si limita per lo più al settore agricolo ed a quello commerciale. Anche i pochi esercizi, individuati dagli apparati di contrasto, sono in gran parte di modeste dimensioni (negozi di abbigliamento, bar, ristoranti). Solo in alcuni casi si hanno concreti elementi per affermare che aziende di dimensioni medie o grandi siano utilizzate dai clan per il reinvestimento dei profitti criminali”. 435 Tali considerazioni stridono con quanto invece sostenuto dalla Commissione Parlamentare antimafia che osserva che in Puglia le presenze criminali nel mondo economico legale “sono ormai tali da non fare più pensare a semplici infiltrazioni, ma ad una vera e propria sostituzione dell’economia legale con quella illegale .” 436 Analogamente, se nello stesso documento si afferma che la mafia pugliese “appare dotata di grande capacità imprenditoriale e saldamente collegata con le pubbliche amministrazioni e con la politica,” 437 il Ministero dell’Interno osserva che le consorterie attive nella regione non paiono possedere una grande capacità di infiltrazione nelle istituzioni, con la sola eccezione della Sacra Corona Unita che esercita una certa influenza su politici

434 Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia , cit. 435 Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1992) , cit., pp. 211-212. 436 Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, cit., p. 23, il corsivo è mio. 437 Ibidem.

111 e funzionari pubblici non tanto a seguito dell’instaurazione di rapporti collusivi quanto piuttosto in virtù di alcune azioni intimidatorie. 438 Successivamente, la Commissione antimafia ha ulteriormente ribadito le proprie preoccupazioni segnalando “il definitivo accertamento del fittissimo intreccio che esiste tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata” e che “il controllo della attività criminale non sarebbe possibile senza la attiva partecipazione collusiva di soggetti appartenenti alla politica (centrale e locale), alla pubblica amministrazione ed alla imprenditoria.” 439 Prescindendo da questa difformità interpretativa, che peraltro è stata superata dalle analisi più recenti che si attestano sulla stessa linea, giova ricordare che tra il 1991 ed il 1998 ben sette consigli comunali pugliesi sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa; dalla disamina dei decreti di scioglimento 440 emerge il solito meccanismo intimidatorio-collusivo nei confronti degli amministratori pubblici che permetteva l’aggiudicazione illecita di appalti ad imprese mafiose o comunque collegate alla criminalità. Ad ulteriore riprova dell’intreccio imprenditoria-politica-mafia sono documentati una serie di episodi quali gli arresti, nel 1995 e nel 1996, di tre consiglieri dei comuni di Brindisi, Taranto ed Alliste con accuse che vanno dall’estorsione, all’usura, al riciclaggio, all’associazione a delinquere, sino all’associazione a delinquere di stampo mafioso; 441 è stato inoltre provato che a Bari la gestione dei parcheggi pubblici veniva affidata dal comune ad esponenti del clan Campanale, 442 ma l’episodio sicuramente più clamoroso è quello della Commissione edilizia del comune di Foggia, rimasta in regime di prorogatio per ben undici anni, con l’accertata esistenza di corsie preferenziali per alcuni costruttori che “riuscivano a portare una pratica, anche in una settimana, due volte in commissione, mentre altre pratiche rimanevano ferme da 15 anni.” 443

438 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1992) , cit., p. 212. 439 Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia , cit., p. 129. 440 Cfr. Presidenza della Repubblica, Decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Gallipoli (LE), Roma 1991; Presidenza della Repubblica, Decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Surbo (LE), Roma 1991; Presidenza della Repubblica, Decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Modugno (BA), Roma 1993; Presidenza della Repubblica, Decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Terlizzi (BA), Roma 1993. 441 Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1996) , cit., pp. 157,161,165. 442 Cfr. Ministero dell’Interno, Relazione sull’attività delle forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica nel territorio nazionale (anno 1996) , Tipografia del Senato, Roma 1997, p. 227. 443 Commissione Parlamentare antimafia, Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Puglia , A.P., Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, X legislatura, doc. XXIII, n.38, Roma 1991.

112 Analizzando i legami tra mafia e mondo legale in Puglia non si può prescindere dal caso della famiglia di Pasquale Casillo, imprenditore foggiano leader nel settore della macinazione del grano, nonché armatore mercantile, azionista di svariate squadre di calcio (Foggia, Salernitana, Bologna), editore del quotidiano napoletano il Roma, presidente, dalla fine del 1992, dell’Unione Industriale di Foggia, a capo di un gruppo composto da 62 aziende, con più di tremila dipendenti e con un volume d’affari che nel 1992 ha toccato i 2200 miliardi di vecchie lire. 444 Pasquale Casillo, già coinvolto nel 1989 in una frode ai danni dell’AIMA, è stato poi arrestato il 21 aprile 1994 con l’accusa di avere sottratto 430 miliardi di lire alla CEE e 94 miliardi all’AIMA, di avere emesso fatture false per 36 miliardi e soprattutto di appartenere ad un’associazione camorristica; per comprendere quanto fosse potente l’imprenditore foggiano, si pensi che l’indagine che lo riguardava era precedentemente stata insabbiata presso la Procura di Foggia, con il trasferimento d’ufficio dei tre funzionari di polizia che se ne occupavano. 445 La figura di Pasquale Casillo era tutt’altro che ignota agli inquirenti, se solo si pensa che secondo il pentito D’Amico egli sarebbe addirittura stato presente alla riunione organizzata nel 1979 dalla NCO per l’affiliazione dei delinquenti locali. 446 Alla dichiarazione di D’Amico si può aggiungere che Gennaro Casillo, padre di Pasquale, era lo zio del braccio destro di Raffaele Cutolo, Vincenzo Casillo, e che, secondo il collaboratore Pasquale Galasso, sarebbe stato il tramite “per l’esportazione del modello camorristico nella zona di Foggia.” 447 Il caso della famiglia Casillo è pienamente rappresentativo del rapporto di collusione tra imprenditori e mafia che è caratteristico delle zone di tradizionale presenza mafiosa; vi è uno scambio che reca reciproci vantaggi, poiché permette ai Casillo di fruire della protezione dei gruppi camorristici sia nei confronti dei concorrenti, sia nella realizzazione delle truffe ad AIMA e CEE ed alla camorra di avvantaggiarsi dei servizi di un imprenditore amico che mette a disposizione i circuiti dell’economia legale di cui è titolare per

444 Cfr. G. Ruotolo, La quarta mafia. Storie di mafia in Puglia, Pironti, Napoli 1994, p. 47 e R. Gorgoni, op.cit., p. 228.

445 Ivi, pp. 227 sgg. 446 Cfr. Tribunale di Bari, Sentenza contro Romano Oronzo più 194, Bari 1986. 447 Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, cit., p 27. Si noti che nonostante i vincoli di parentela con il numero due della NCO, Gennaro Casillo era personalmente molto legato al boss dello schieramento rivale Carmine Alfieri, con cui non esitava ad intrattenere rapporti di affari. (Cfr. Commissione Parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Pasquale Galasso, cit., pp. 2323 -2324, 2740).

113 coprire traffici illeciti orchestrati dai gruppi criminali, e soprattutto può fornire un capitale di relazioni sociali fondamentale, grazie ai propri legami con uomini politici ed esponenti della Magistratura. 448 Il caso dei Casillo non è certamente un episodio isolato; sono stati infatti documentati altri collegamenti incentrati sulla collusione tra mafia ed imprenditoria, perlopiù basati sullo scambio di prestazioni fittizie, come false fatturazioni o registrazione di costi non sostenuti nei confronti di aziende mafiose, che in tal modo possono giustificare la detenzione di liquidità in realtà realizzata con traffici illeciti. A Bari le indagini giudiziarie hanno evidenziato come l’incendio doloso che nel 1991 ha distrutto il teatro Petruzzelli sia frutto della collusione tra mafia ed imprenditoria; 449 sempre nel capoluogo pugliese sono stati accertati rapporti di cointeressenza economica tra la cosca Capriati, le Case di Cura Riunite di Francesco Cavallari 450 (maggiore presidio sanitario dell’area), ed una sua società satellite, la Geroservice srl che ne curava il reperimento di personale ausiliario. Le indagini hanno evidenziato un meccanismo collusivo che prevedeva l’assunzione fittizia di affiliati alla cosca mafiosa (addirittura in stato di detenzione), in cambio della “tranquillità sindacale” all’interno dell’azienda, oltre che l’illecita spartizione tra politici, imprenditori e mafiosi dei finanziamenti sanitari regionali illecitamente erogati alle C.C.R. Nel marzo 1995 l’inchiesta della Magistratura ha condotto all’arresto, oltre che di Cavallari e dei capimafia baresi, anche di veri e propri insospettabili appartenenti al mondo legale, come i politici Rino Formica e Vito Lattanzio, l’ex presidente della Regione Puglia Michele Bellomo, l’ex vice presidente Franco Borgia, l’ex assessore regionale al bilancio Nicola di Cagno, il sindaco di Bari Giovanni Memola, oltre ad imprenditori, magistrati, ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza e addirittura il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Franco Russo. 451 Anche la zona di Taranto non è esente dalla collusione tra mafia, politica ed imprenditoria; emblematica in tal senso è la vicenda di Giancarlo Cito, inizialmente proprietario di un’emittente televisiva, dal 1990 consigliere

448 Per Pasquale Galasso, Casillo aveva numerose amicizie tra i giudici; in particolare era in ottimi rapporti con il magistrato Nicola Damiano con cui metteva addirittura a punto gli atti processuali relativi ad Alfieri. ( Ivi, pp. 2324-2325). 449 Cfr. G. Ruotolo, op.cit., pp. 110 sgg. 450 Francesco Cavallari, sino al suo arresto, è stato unanimemente considerato il vero re della sanità pugliese. (Cfr. Tribunale di Bari – Direzione Distrettuale Antimafia, Richiesta per applicazione di misure cautelari contro Cavallari Francesco più 11, Proc. Pen. N. 6992/93, Bari 1993). 451 Su questa vicenda si veda l’attenta ricostruzione di Rocco Sciarrone. (Cfr. R. Sciarrone, op.cit., pp. 194- 196).

114 comunale, dal 1993 sindaco di Taranto, poi rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, quindi sospeso dalle funzioni di primo cittadino, e ancora eletto nel 1996 in Parlamento. Secondo ben nove collaboratori di giustizia Cito intratteneva rapporti privilegiati con il potente clan Modeo in cambio di voti alle elezioni. 452 A fronte di questa imprenditoria accomodante ed aperta al rapporto con la criminalità, sono numerosi i casi di uomini d’affari, soprattutto edili che, non avendo accettato la collusione, si sono poi trovati nella condizione di esserle subordinati e di dovere sottostare al meccanismo dell’estorsione- protezione, alle intimidazioni, agli attentati ed in qualche caso anche agli omicidi. 453 E’ soprattutto nella zona del foggiano che l’estorsione pare avere la maggiore diffusione, probabilmente per gli stretti legami della criminalità autoctona con la camorra; si pensi solo al cosiddetto “racket del pomodoro”: i meccanismi mediante i quali si manifestano le estorsioni testimoniano il collegamento tra la criminalità pugliese e quella campana. Infatti, l’intervento malavitoso si realizza, ai danni dei produttori e dei trasportatori, nel momento del trasferimento delle derrate dal luogo di produzione agli impianti di trasformazione, collocati tutti nel territorio campano. Si tratta di un affare di oltre 18 miliardi in quanto il “pizzo” richiesto è di lire 1000 al quintale per una produzione di oltre 18 milioni di tonnellate di pomodoro. 454 Anche nella zona di Brindisi il meccanismo estorsivo risulta essere decisamente diffuso, in questo caso ad opera della Sacra Corona Unita. “E’ emblematico il fatto che l’organizzazione non si preoccupasse di pilotare l’appalto in favore di questo o quel personaggio a essa legato, ma soltanto che l’appalto fosse aggiudicato perché poi la ditta, qualunque fosse, diventava necessariamente oggetto di taglieggiamento”. 455 Come si è potuto notare in Puglia si delinea una tipologia di legami tra la mafia ed il mondo legale del tutto analoga a quella delle aree tradizionali; a ciò si aggiunga che le frequenti guerre tra clan rivali e l’estensione raggiunta dal mercato dell’estorsione determinano un’impressionante mole di episodi di violenza che turbano la gente e le città pugliesi.

452 Cfr. S.M. Bianchi, Geometra Cito, Sindaco di Taranto, Kaos Edizioni, Milano 1996, pp. 141 sgg. 453 Cfr. Tribunale di Foggia, Procedimento penale contro Antoniello Cesare più 67, Foggia 1994. 454 Commissione parlamentare antimafia, Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, cit., pp. 25-26. 455 N. Piacente, Con la Sacra Corona Unita la partita è ancora aperta…, cit., p. 18.

115 “Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, a Taranto e provincia uccisioni, ferimenti, attentati sono all’ordine del giorno, frutto di una violenza che pare non avere limiti”. 456 Un’ulteriore prova del livello di pericolosità sociale raggiunto in pochi anni dalla quarta mafia si manifesta a partire dalla fine del 1991, proprio nel periodo di più aspro scontro tra lo Stato e le varie organizzazioni che si muovono sulla scena italiana; ispirandosi palesemente alla strategia della tensione progettata dai corleonesi, alcuni gruppi criminali pugliesi della zona di Surbo, capeggiati da Angelo Vincenti e Raffaele Gianfreda 457 , compiono due attentati dinamitardi che hanno come obiettivo il Palagiustizia di Lecce; il 5 gennaio 1992, lo stesso giorno del secondo attentato contro l’ufficio giudiziario salentino, con una bomba collocata sui binari, tentano, fortunatamente senza successo, di fare deragliare il rapido Lecce-Milano- Zurigo. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, le motivazioni di tali azioni - cui si devono aggiungere l’attentato al Presidente della Corte d’Assise di Lecce Francesco Cosentino e la decisione di eliminare il procuratore Cataldo Motta - andrebbero ricercate in un tentativo di golpe, attuato nei confronti di Rogoli e dei vertici della Sacra Corona Unita, che in quei giorni si trovavano sotto processo a Brindisi e sui quali i media avrebbero fatto ricadere la responsabilità. 458 E’ invece della Sacra Corona Unita la responsabilità dell’attentato dinamitardo del 10 novembre 1992, nei confronti dell’abitazione di campagna di Vittorio Bruno Gamerra, direttore del Quotidiano di Brindisi, Lecce e Taranto, attivamente impegnato con servizi di denuncia nei confronti della consorteria. 459 A questa catena di episodi inquietanti si deve aggiungere il fallito attentato al procuratore della repubblica di Trani, dottor Rinella, attivamente impegnato sul fronte della lotta agli abusi edilizi, ed i complessivi 1956 attentati dinamitardi ed incendiari compiuti in Puglia dal 1989 al 1992. 460 Ciò è ampiamente indicativo del livello di sviluppo raggiunto dalla criminalità organizzata in questa regione che, giova ricordarlo, nonostante le caratteristiche mafiose raggiunte negli ultimi anni, rimane un contesto colonizzato e non originale ed è altresì probante in ordine all’effettiva possibilità di riproduzione del modello criminale mafioso in aree non

456 R. Sciarrone, op.cit., p. 200. 457 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 130. 458 Ibidem. 459 R. Sciarrone, op.cit., p. 200. 460 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 131.

116 tradizionali; i paradigmi culturalisti che, nel loro imputare il fenomeno mafioso alle caratteristiche socio culturali e tradizionali di un determinato contesto ambientale, non ne prevedono una sua efficiente esportazione in habitat che non condividano quel particolare humus, dinnanzi al caso pugliese subiscono un deciso ridimensionamento. La mafia pugliese non riproduce in maniera onnicomprensiva i modelli storici di riferimento, ma è certo che un processo avviatosi alla fine degli anni settanta, con il giusto cocktail di colonizzazione e di imitazione, ha realizzato un prodotto criminale che è mafioso a tutti gli effetti e che, sia pure con intensità diversa, ha investito l’intera regione. Vive tuttora dei limiti, che sono i responsabili della sua incapacità di essere una vera e propria organizzazione per il controllo del territorio e della protezione privata, e della sua propensione verso il modello criminale dell’ enterprise syndicate : deboli radici sociali, scarsa selezione nel reclutamento, debolezza dei vincoli interni, bassa attitudine cospirativa, fragilità dissimulatoria, elevata conflittualità, ottica predatoria di breve periodo, incapacità di gestire efficacemente il proprio capitale sociale, uso smodato ed eccessivo della violenza, mancata realizzazione di network relazionali atti a massimizzare la coesione interna e a implementare la cooperazione esterna. 461 Eppure ciò che deve fare attentamente riflettere i responsabili istituzionali del contrasto alla mafia, in Puglia troppo a lungo inerti, non è l’elenco dei limiti di questa realtà criminale, ma piuttosto il cospicuo sviluppo che essa ha vissuto in un periodo di tempo oggettivamente breve, nonché l’acquisizione e la sapiente sintesi di peculiarità mutuate dalle organizzazioni storiche, come la ferocia ‘ndranghetista, la capacità di calcolo di Cosa Nostra ed il carattere carsico della camorra. 462 Infatti, come ha avuto a dichiarare Salvatore Annacondia: “la malavita pugliese è abbastanza pericolosa ed è molto più avanzata delle altre perché, dopo anni di frequentazioni, ha assorbito la mentalità della mafia, della ‘ndrangheta e infine della camorra”. 463

461 Ivi, p. 205. 462 Cfr. L. Violante, Non è la piovra, cit., p. 125. 463 Commissione parlamentare antimafia, Resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore della giustizia Salvatore Annacondia, cit., p. 2457.

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