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italiana Storie di cinema L’autore ringrazia Francesco Pitassio e Veronica Pravadelli per la puntuale Emiliano Morreale lettura del testo, la biblioteca “P. Giuntella” della Rai di Roma, la Cinteteca Nazionale e in particolare Enrico Magrelli e Annamaria Licciardello.

Al circolo L’incontro e al Nazionale dei fratelli Lo Medico

Italiana Comitato scientifico: Silvio Alovisio, David Bruni, Mariapia Comand, Cinema d’autore Mariagrazia Fanchi, Giacomo Manzoli, Francesco Pitassio, Veronica Pravadelli, Federica Villa degli anni Sessanta

Emiliano Morreale Cinema d’autore degli anni Sessanta © 2011 Editrice Il Castoro viale Abruzzi 72, 20131 - Milano [email protected] www.castoro-on-line.it

In copertina: L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni

Nell’impossibilità di rintracciare tutti gli aventi diritto, l’Editore si dichiara disponibile ad assolvere ai propri impegni e a regolare eventuali spettanze per quanto riguarda le immagini e i testi pubblicati nel presente volume.

ISBN 978-88-8033-566-5

Questo libro è stampato su carta certificata, proveniente da foreste e piantagioni tutelate e gestite in maniera corretta e sostenibile.

Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 presso Abbiati - Milano cinema d’autore degli anni Sessanta Le mutazioni della società e del pubblico

Renato, Renato, Renato, mi porti al cinema e guardi il film!

Nelle rievocazioni giornalistiche e nell’opinione comune, i primi anni Sessanta sono considerati di solito l’età dell’oro della società italiana e del suo cinema. I due ambiti sembrano correre paralleli, anzi saldamente collegati: il miracolo economico viene automati- camente illustrato, quando se ne parla nei giornali o in tv, con le immagini dei film dell’epoca, in un intreccio che non troviamo così forte in nessun momento successivo e nemmeno in momenti precedenti (forse nemmeno nel breve giro d’anni del primo neo- realismo). Del resto, è forte e non immotivata la tentazione di fare coincide- re quasi esattamente il cosiddetto boom con una stagione peculiare e isolabile del cinema italiano. Il periodo del “miracolo economi- co” strettamente inteso (1958-1963) è quello in cui esplodono, nel giro di pochi anni, i grandi successi di Fellini, Visconti, e in par- te Antonioni, ma è anche il periodo trionfante della “commedia all’italiana”, e vede affacciarsi una nuova generazione coetanea delle nouvelle vague (Rosi, Olmi, Pasolini, Bertolucci, per non citare che i maggiori). Per dare l’idea del mutamento epocale si possono esibire una serie di eventi simbolici. L’anno di confine è per molti storici il 1958: quando, mentre le pubblicità dei frigoriferi appaiono mas- sicciamente sui giornali, nasce Carosello, entra in vigore la legge Merlin che decreta la fine delle “case chiuse”, viene inaugurata

7 l’autostrada del Sole, muore Pio XII e gli succede Angelo Roncalli. tanti, non solo a causa delle migrazioni interne ma anche delle Negli anni del “miracolo economico”, si affermano una serie di progressive facilità di spostamento. Si incrementa soprattutto il fenomeni incubati in precedenza e destinati a segnare, nonostante trasporto privato, anche per brevi periodi, insieme alle vacanze di la recessione del 1964-5, tutto il decennio: la sostanziale piena massa. Le partenze aeree si quadruplicano: da 900.000 nel 1958 occupazione, le migrazioni interne (che toccano l’apice nel 1961- a 3.600.000 nel 1965. 63), la crescita dei salari e della combattività operaia, e infine il «Il consumismo, come è noto, esige una disponibilità discrezio- dato che, per la diffusione dell’immagine di quegli anni, è più nale di reddito e un’accentuata omogeneità di gusti»5. Cosa che appariscente: la nascita di un autentico mercato per l’automobile appunto avviene in Italia, in ritardo rispetto agli Usa ma anche con e gli elettrodomestici. 10.000 sono le lavatrici prodotte nel 1958, gli altri Paesi europei avanzati, e soprattutto con caratteri partico- 1.263.000 nel 1963, e nello stesso periodo «la fabbricazione di au- larmente marcati: toveicoli quintuplicò (…), i frigoriferi da 370.000 diventarono un milione e mezzo (…) e i televisori (che non erano più di 88.000 «Nell’Italia degli anni Sessanta il consumo assurge a divinità suprema nel 1954) 634.000»1. Nelle campagne si passa da 8 a 5 milioni di perché una congiuntura storica assolutamente straordinaria – il fatto occupati dal 1954 al 1964, «segnando la fine (o l’inizio della fine) che la sua espansione coincida con l’effettiva unificazione sociale e dei diversi mondi rurali che compongono il Paese. (…)»2, mentre demografica del Paese – lo carica di cifre simboliche addizionali svin- crescono in maniera sensibile i lavoratori dell’industria e del ter- colandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura: in ziario. Il reddito nazionale netto raddoppia dal 1954 al 1964; il altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che reddito pro capite passa da 350.000 a 571.000 lire. Da quel breve permette agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, giro di anni uscirà un’Italia completamente mutata. delle classi elevate e dei ceti popolari di adattarsi reciprocamente con Come ha osservato Silvio Lanaro, a rigore il boom non è da inten- una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e ser- dersi tanto in termini quantitativi, visto che si tratta più che altro di vizio militare non erano mai riusciti ad assicurare.»6 «un’accelerazione, molto sensibile ma non clamorosa, del processo espansivo iniziatosi nel 1951-52»3. Perfino alcuni simboli del mi- L’alfabetizzazione di massa e la pervasività dei media sono fonda- racolo economico erano già presenti prima della fine del decennio: mentali, almeno al pari dei mutamenti strutturali dell’economia, la Fiat Seicento viene commercializzata nel 1955 e la Cinquecento per capire le tendenze di fondo di quegli anni. E infatti proprio nel 1957 (ma è del 1960 un ribasso decisivo dei costi delle medie allora si stabilisce nel nostro Paese un moderno sistema dei me- cilindrate), il primo supermercato apre nel 1957. Come sintetizza dia, non solo audiovisivi. Nascono quotidiani come «Il Giorno» e Guido Crainz: «Ciò che balza agli occhi non è semplicemente la settimanali come «L’espresso», e i libri tascabili a cominciare dagli rapidità dei processi del 1958-63: è il vero e proprio cortocircuito Oscar Mondadori (nella copertina del primo volume, Addio alle fra i precedenti orizzonti economici, previsioni, quadri mentali, e armi, c’è Rock Hudson nell’omonimo film di Charles Vidor). Si quelli indotti dal boom»4. affermano i primi veri bestseller: Il dottor Živago e Il Gattopardo Soprattutto, e qui entriamo nel vivo del nostro discorso, nasco- nel 1957 e 1958, cui seguono nel ’60 La noia e La ragazza di Bube. no nuovi ceti e nuovi consumi. Uno dei settori più indicativi è la Ancora: «Il 1958 è il primo vero anno-boom del mercato discogra- crescita dell’istruzione di massa, specialmente dopo l’istituzione fico»7. A cambiare ora sono la struttura e il ruolo della musica: nel della scuola media unica e obbligatoria. Fra il 1955 e il 1965 1958, al Festival di Sanremo, vince Nel blu dipinto di blu di Mo- gli iscritti alle superiori raddoppiano (da 600.000 a 1.200.000). dugno contro L’edera, esempio dei cantanti ancora legati allo stile L’Italia comincia a diventare un luogo conosciuto ai propri abi- d’anteguerra. E del 1961 è la prima “canzone per l’estate”, Legata a

8 9 un granello di sabbia di Nico Fidenco, che si rivolge a un pubblico La televisione, all’epoca del boom, trasmetteva già da qualche di giovani “in quanto tali”. Quella del boom sarà infatti “la prima anno (l’emissione inaugurale era stata nel 1 gennaio 1954), e nei generazione” di giovani percepiti in quanto tali nel discorso pub- primi tre anni gli abbonati erano cresciuti da 88.000 a 600.000. blico e al proprio interno.8 Negli anni 1958-1964, invece, si passa da un milione a cinque Dal punto di vista dell’industria del cinema, questo implica an- milioni. È a questo punto che la televisione è ormai centrale nei zitutto la nascita di un nuovo pubblico, e di nuove potenzialità di consumi culturali degli italiani, ma soprattutto è chiaramente defi- comunicazione per gli artisti. Ma anche la necessità di nuovi temi, nita come forma di spettacolo domestico, a differenza di una prima di nuovi luoghi, e (come vedremo) di nuove forme del racconto. fase nella quale era assai rilevante il suo ruolo all’interno dei locali Come sintetizza Gian Piero Brunetta: «I film in testa alla classifica pubblici. Il modello estetico televisivo si basa essenzialmente sulla 1957 sono Belle ma povere di Carlo Ludovico Bragaglia, Arrive- pedagogia, sul varietà di derivazione teatrale-musicale, sul gioco derci Roma di Roy Rowland, Vacanze a Ischia di Mario Camerini. a premi derivato dalla radio, e soprattutto sulla ripresa filmata di Mentre nel 1960, i primi quattro titoli al vertice degli incassi com- pièce teatrali o primi rudimentali esempi di sceneggiati tratti dalla prendono La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di narrativa. Si tratta di modelli esteticamente derivativi, che cercano Luchino Visconti, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di di acclimatare la novità tecnologica attraverso la ripresa di forme Luigi Comencini».9 precedenti di spettacolo. Non esistono, come negli Stati Uniti, una Per definire questo sorprendente cambiamento, Vittorio Spinaz- produzione industriale di serial o la creazione di originali televi- zola conia già all’epoca il termine “superspettacolo d’autore”, rife- sivi,10 e forse la maggiore operazione creativa della televisione dei rendolo in particolare ai citati film di Fellini e Visconti, ma anche primi anni è la formula di Carosello, in onda dal febbraio 1957. ai loro film successivi fino al ’63 (8 ½, Il Gattopardo) e alla coeva Il rapporto tra ascesa della televisione e declino dello spettacolo “trilogia dell’incomunicabilità” di Antonioni (L’avventura, La not- cinematografico è tutt’altro che meccanico o univoco. È indubbio, te, L’eclisse). comunque, che tra il pubblico televisivo e quello cinematografico Si tratta di un mutamento decisivo, ma anche di un unicum. si crei, già negli anni Sessanta, una certa divaricazione, e che si Nella storia del cinema italiano successivo, non si ripeterà più il costituisca dunque un pubblico cinematografico nuovo per com- caso di un cinema “d’autore” che stia al vertice degli incassi. Anzi, posizione sociale, età e genere sessuale. Come osservava il critico a partire dalla metà del decennio si assisterà alla divaricazione tra Pietro Bianchi all’epoca: «Ricevendo spettacoli mediocri dal video, un cinema “alto” sempre più privo di pubblico, e di un cinema la gente pretende dal cinema la qualità». In un’inchiesta del 1961,11 popolare sempre più indirizzato verso generi “bassi”, dal i massimi frequentatori del cinema risultano essere i diplomati e all’italiana al mondo-movie fino ai generi degli anni Settanta come i laureati (l’82,8%, con una frequenza mensile di 3,5 volte) e la la commedia sexy, il alla Dario Argento, il “poliziottesco”. frequenza scende insieme al titolo di studio (fino al 31,8% con Va già notato, per intanto, che se il sistema dei media si amplia a frequenza di 0,8 presenze mensili, di coloro senza titolo di studio). dismisura, al suo interno il cinema rischia di avere un ruolo sempre Esattamente lo stesso legame c’è tra frequenza cinematografica e meno centrale: secondo i dati Siae, se dal 1954 al 1958 la spesa per classe sociale: dalla “classe media-superiore e superiore” (82,5% e il cinema era scesa dal 71 al 61% di quella complessiva per gli spet- 3,5 presenze mensili) si scende al 41,8% della categoria “inferiore” tacoli, nel periodo dal 1958 al 1964 scenderà ancora a poco sopra il (1,2 presenze). Assai significativamente, la fascia di età più fedele è 50%. E dalla metà degli anni Sessanta, per la prima volta, il cinema quella 16-35 anni (83,8%; 2,8 presenze mensili), che sarebbe sta- non sarà più la forma di spettacolo principale per gli italiani, sop- to interessante scorporare al suo interno, seguita da quella 36-55 piantato dalla televisione. (62,1%; ma con una frequenza mensile maggiore, 3,3, che può

10 11 indicare in questo pubblico di mezza età la persistenza di un tipo di parole i giovani abbracciano il boom, gli vanno incontro con istinto fruizione più “indifferenziata”, rivolta al cinema e non ai film). confuso ma sicuro, senza riserve mentali, senza moralismi, in modo Alle soglie degli anni Sessanta, la frequenza di chi va al cinema spontaneo e fiducioso.»15 in Italia è ancora molto più elevata che negli altri Paesi europei. Ma questo pubblico comincia a non essere più lo stesso di qualche Eppure, curiosamente è proprio l’universo giovanile a rimanere anno prima: spesso fuori dal cinema d’autore del periodo. Le poche eccezioni (su tutti I dolci inganni, 1960, di Alberto Lattuada) non modificano «Dal 1957 al 1960 emergono i segnali di una trasformazione dell’iden- l’impressione generale. I “giovani” semmai sono osservati non come tità del “moviegoer”. Lo spettatore di cinema assume progressivamen- nuovo soggetto emergente, ma nell’attimo di inserirsi nella società te un profilo anagrafico preciso. Chi si reca al cinema è il giovane di (giovani impiegati di Il posto, 1961, e I fidanzati, 1963, di Olmi), meno di 35 anni; maschio; che vive nei grandi centri urbani; sia nel e i tratti generazionali sono assolutamente secondari, ovviamente, nord, sia nel centro-sud d’Italia. È indifferentemente “imprenditore” nei sottoproletari di Pasolini, e in fondo anche nei proletari di Rocco o “lavoratore manuale”; diplomato alla media inferiore o laureato.»12 e i suoi fratelli. Mentre saranno altri ambiti, come la commedia, a prendere di petto una novità su cui insistono molto i rotocalchi L’arrivo della televisione, per questo pubblico, non funge affat- (emblematico il personaggio della Spaak in La voglia matta, 1964, to da deterrente, e ha semmai l’effetto di dargli un carattere più di Luciano Salce) per non parlare di un genere esplicitamente “gio- omogeneo dal punto di vista culturale e generazionale. Per questo vanilista”, forse il primo nella storia del cinema italiano, e cioè il pubblico, che comincia a costruire la propria identità come genera- cosiddetto “musicarello”, che celebra i suoi trionfi a partire dalla sta- zione autonoma, e appoggiandosi più ai media che alle istituzioni gione 1963-4.16 Dunque, se non come oggetto del racconto, è come sociali o familiari,13 la visione del film, come emerge nelle interviste pubblico che la generazione di nati nel dopoguerra risulta centrale compiute decenni dopo, è molto più che in passato un momento di per capire il ruolo e il senso del cinema in quel periodo. cultura: «La visione del “film impegnato” è talmente importante Per capire lo sfondo su cui si afferma il gruppo di film che sa- nel processo di costruzione dell’identità collettiva di questa gene- ranno analizzati in questo libro bisogna dunque tenere conto di razione di spettatori da diventare un vero e proprio dovere sociale, tutto il quadro d’insieme che abbiamo tracciato. Ossia un Paese spesso subito, mai eluso»14. E i titoli che ricorrono più di tutti, in trasformazione culturale oltre (e forse ancora più) che economi- nelle memorie degli spettatori, sono proprio La dolce vita e Rocco e ca; l’affermazione per la prima volta di una generazione di giovani i suoi fratelli, simboli di questa nuova maniera di fare e di vedere il che si percepiscono e sono percepiti come tali in conflitto con le cinema italiano. generazioni precedenti; una mutazione dei consumi culturali all’in- Si tratta di un nuovo pubblico anche dal punto di vista genera- terno dei quali il cinema è avviato su un lento declino ma ancora zionale. A fare la differenza sono anzitutto i nuovi spettatori. centrale nella gerarchia dei consumi; una mutazione del pubblico del cinema, meno indifferenziato, più istruito, teso a differenziarsi «Mentre si separano e si precisano come generazione diversa, l’inti- da quello televisivo; un ruolo contraddittorio, all’interno di questi mità con le ambizioni nuove degli adulti insieme all’attrazione verso nuovi consumi culturali, delle donne. il mutevole e indecifrabile rimescolamento dei valori della società del Si tratta di una premessa essenziale, per cogliere lo spessore anche boom in realtà aumentano. Lungi dal rifiutarli, rinvengono più ruo- stilistico dei film che analizzeremo e delle tendenze di una fase fon- li per sé proprio negli spazi imprevisti del benessere incipiente, più damentale della storia del cinema non solo italiano, caratterizzata da opportunità di quante non ne avessero avute in precedenza. In altre un mutamento radicale del linguaggio. Un passaggio alla modernità

12 13 cinematografica, che cercheremo di considerare insieme all’aspetto Un paese senza nouvelle vague? culturale complessivo. Come suggeriva Vincenzo Buccheri:

«È quasi banale ricordare come il passaggio dallo stile cinematogra- fico classico allo stile della modernità coincida con uno spostamento del pubblico da gusti e stili di vita popolari, di massa, a gusti e stili di vita medio e piccolo-borghesi. Meno scontato, però, è riflettere sul fatto che alcuni stili del cinema d’autore degli anni Sessanta cor- rispondono ad altrettante opzioni di gusto e di classe. Ad esempio, i film degli anni Sessanta di Antonioni e di Fellini, che una stilistica I primi anni Sessanta, pur dominati dalla triade Fellini-Visconti- del testo porterebbe a contrapporre (l’uno asciutto e “vuoto”, l’altro Antonioni, sono, anche nel cinema italiano, uno dei periodi più ric- eccessivo e “pieno”), in chiave di stilistica del gusto appaiono invece chi di nuovi talenti. Nel giro di tre-quattro anni esordiscono, tra gli complementari: entrambi sono contrassegno di una borghesia colta altri, Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Seta, Ermanno Olmi, Tinto tradizionalista ma moderatamente progressista, che attraverso l’ade- Brass, Gianfranco De Bosio, Ugo Gregoretti, i fratelli Taviani, Valen- sione negozia o contesta la sua appartenenza di classe (si pensi alle tino Orsini, Elio Petri, Damiano Damiani, Florestano Vancini, Ber- polemiche di molti intellettuali, in primis Arbasino, contro lo stile nardo Bertolucci (ma anche Mario Bava e Sergio Leone). Eppure gli di Antonioni). Tale classe, poi (e questo è l’altro punto fondamen- storici del cinema hanno notato come l’Italia costituisca, nel pano- tale), è del tutto diversa dalla base sociale che adotta come propri i rama mondiale, una sorta di eccezione, essendo tra le cinematografie linguaggi della Nouvelle Vague francese, i quali sono invece espressio- che hanno risentito meno di una nouvelle vague nazionale. ne dell’habitus di nuovi gruppi emergenti, giovanili e politicamente Mentre in Francia Godard, Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette, anarcoidi.»17 Resnais e altri effettuano un autentico ricambio generazionale e rivoluzionano la grammatica cinematografica, lo stesso non si può dire del cinema italiano. I tratti di novità formali e di contenuto, e quelli di rivolta generazionale, apparvero meno evidenti agli osser- vatori: una spia è forse anche il fatto che il nuovo cinema italiano degli anni Sessanta, così ricco di titoli importanti e di esordi, non ha un nome, qualcosa che chiarisca immediatamente di cosa stiamo parlando, come il inglese, la Nová Vlna cecoslovacca, o il Cinema Nôvo brasiliano. Alcuni elementi di difficoltà appaiono subito evidenti. In Italia la “nuova ondata” si pone, almeno a parole, in decisa continuità con la stagione neorealista, anzi volendo con essa riallacciare idealmente il filo dopo gli anni del centrismo e del neorealismo rosa. Come si vedrà, la nuova generazione di registi fa a suo modo, in manie- re diverse, i conti con quella precedente: ma non c’è un conflitto frontale, una uccisione di padri paragonabile ai conflitti scatenati dai “giovani turchi” dei «Cahiers du cinéma» contro il “cinema di

14 15 papà”. Inoltre, la generazione degli anni Sessanta non è preceduta sati, I nuovi angeli (1962) di Ugo Gregoretti, I fidanzati di Ermanno (né in fondo accompagnata) da un discorso critico-teorico prepara- Olmi. Ma anche altri produttori operano in quel periodo, favorendo torio e di sostegno, e dunque dalla rifondazione di un canone. tentativi di produzione più diversi: basti pensare alla 22 dicembre che produce Olmi e De Bosio, o ad Alfredo Bini ed Enzo Doria che In definitiva, si può parlare, e in che termini, di una nouvelle lanciano rispettivamente Pasolini e Bellocchio. vague italiana? Una risposta negativa pur se articolata era stata data, Adriano Aprà, in un intervento a una importante tavola rotonda in varie occasioni, da Lino Micciché.18 Secondo Micciché, il punto sulla Nouvelle Vague, fa un’integrazione significativa a questo qua- decisivo è che il neorealismo era stata la prima nouvelle vague mon- dro: «La novità c’è stata, ma proprio su un fronte totalmente opposto diale. Per questo poi non sarebbe esistita una vera e propria nou- a quello della Nouvelle Vague: sul fronte del cinema di qualità. Noi, velle vague italiana negli anni Sessanta.19 Le sue obiezioni sono poi a differenza dei francesi, non avevamo ancora il cinema di qualità. molteplici. Manca un cenacolo critico paragonabile ai «Cahiers»; La direzione di sviluppo del cinema italiano nella seconda metà de- manca la riscrittura del canone che escluda la “mitologia realistica”, gli anni Cinquanta era dunque inversa: da un cinema che era stato e si rimane dentro il dibattito sul neorealismo («come in una di “nouvelle vague” all’inserimento di questo cinema nell’industria»22. quelle pluriennali liti ereditarie» in cui alla fine l’unico a guada- E si può anche sottolineare, al riguardo, la rivendicata continuità gnarci è il notaio);20 infine la situazione politica italiana sarebbe anche produttiva, artigianale, del cinema italiano di quegli anni, nel tutto sommato meno vivace di quella che caratterizza la Francia ramo dei tecnici, dei produttori, degli sceneggiatori, con montatori, durante la guerra d’Algeria.21 Quella che si vede in Italia, conclude direttori della fotografia che garantiscono un saldo legame anche fi- Micciché, è una “politica dei produttori” e non una “politica degli gurativo con la stagione precedente. Come sintetizza in maniera pro- autori”, un’operazione che dura un paio d’anni ed è pilotata soprat- vocatoria lo stesso Aprà, basta vedere la differenza tra la luce di Raoul tutto da Goffredo Lombardo della Titanus. Coutard (direttore della fotografia di Truffaut e Godard) e quella di È Lombardo, infatti, a lanciare «l’operazione nouvelle vague» Gianni Di Venanzo, operatore-simbolo del cinema italiano di quegli (come la chiama Micciché), ossia il tentativo di sponsorizzare una anni (Salvatore Giuliano, 1962, 8 ½, L’eclisse).23 nuova leva di esordienti con film a basso costo e di qualità. L’idea nasceva anche dal mutamento di pubblico evidente nella stagione Questo per quanto riguarda la Nouvelle Vague intesa come mo- 1959-60, quando film come La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli si vimento generazionale. Ma con nouvelle vague si intende anche erano trovati al vertice degli incassi. Era forse giunto il momento, qualcos’altro: un metodo, un bagaglio di elementi stilistici, una pensarono i produttori e Lombardo in particolare, di puntare su un svolta nel linguaggio che è qualcosa di più, e di diverso, da un pubblico giovane, colto e urbano. avvicendamento generazionale. Il termine è anche, insomma, un Il “Giovane cinema” dunque è a suo modo, nelle intenzioni pro- sinonimo di modernità cinematografica.24 duttive, un genere o quantomeno un piccolo filone, che si estingue Vincenzo Buccheri ha ordinato gli esordi degli anni Sessanta secon- nel 1964, quando la Titanus viene travolta dai costi di Il Gattopardo do una serie di filoni tematici: 1) coloro che si avvicinano al cinema di e la gran parte degli esordi promossi dalla casa si sono rivelati un argomento resistenziale (Vancini, Montaldo: con grande uso di attori fallimento. Tra i titoli prodotti o coprodotti dalla Titanus, Banditi a teatrali, riprese spesso in teatro di posa, sfumature mélo e noir) e al Orgosolo (1961) di Vittorio De Seta, Giorno per giorno disperatamente psicologico (Damiani, Petri); 2) un filone di neo-neorealismo, (1961) di Alfredo Giannetti e L’assassino (1961) e I giorni contati che racconta i margini del miracolo economico, nelle periferie o nelle (1962) di Elio Petri, Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni regioni meno sviluppate (Olmi, Pasolini, De Seta, Taviani, Vito Pan- Loy, Smog (1962) di Franco Rossi, Il disordine (1962) di Franco Bru- dolfi); 3) i generi di profondità (Bava, Leone); 4) infine, una serie di

16 17 titoli che possono entrare più specificamente in un canone Nouvelle una scena con dei voyeur), e ha dei protagonisti giovani narrati in quan- Vague: un cinema giovanile (Brass, Eriprando Visconti) che a volte to tali. Ma il massimo dell’infrazione linguistica sono alcune immagini ha tratti regionalistici (Bertolucci, Baldi) o viene più esplicitamente riprese con obiettivi a focale lunga, e un inizio con un dialogo ermetico volto in commedia (Wertmüller, Caprioli, Missiroli). E mentre la cri- “alla Antonioni”, mentre è significativa anche la scelta della musica di tica italiana apprezza spesso della Nouvelle Vague il suo versante meno John Lewis, fondatore con il Modern Jazz Quartet di una mediazione intemperante, magari più esplicitamente “intellettuale” (Resnais),25 i tra jazz e musica colta (particolarmente melodica in questo caso). pochi registi che si confrontano direttamente con i modelli francesi Se si prescinde dal dato generazionale, la questione si fa più cu- sono appunto quelli di questo quarto sottogenere. riosa. In Italia si ha sì un ammodernamento del linguaggio, recepito Inoltre Buccheri identificava due tendenze nella rappresentazione soprattutto dai modelli francesi, ma esso non proviene dal cinema del rapporto tra individuo e collettività: da un lato «i personaggi rap- della nuova generazione. Tra gli esempi di film italiani più vicini presentati appaiono minacciati dalle istituzioni e dalle pratiche del al cinema francese coevo, molto più che esordienti come Vancini, controllo sociale», mentre «sull’altro versante, i personaggi appaiono Damiani, si possono infatti mettere I dolci inganni di Lattuada, ossessionati dalla presenza dei mass media: canzonette, televisione, che segue con precisione e con libertà narrativa una giornata nella giornali, quotidiani e persino il cinema, che vengono visti con so- vita di un’adolescente; o La vita agra (1964) di Carlo Lizzani, che spetto e spesso con vero e proprio fastidio»26. Questa tensione tra intreccia soggettività e osservazione di costume per dar conto dei l’individuale e il collettivo, si può notare, è anche uno dei segnali che nuovi ritmi della città industriale. differenziano maggiormente il cinema italiano da quello della Nou- Per compiere il definitivo salto verso la libertà di metodo della velle Vague, avvicinandolo per certi aspetti al Free Cinema inglese. Nouvelle Vague, l’ipoteca neorealista deve aver pesato anche come Invano si cercherebbero, comunque, nei film di Eriprando Vi- remora a rinunciare a dei contenuti “forti” (l’emarginazione, il re- sconti, di Olmi o di De Seta le celebri infrazioni di montaggio cente passato fascista), e soprattutto a considerare “i giovani”, bor- di un Godard, o gli intrecci arditi di immagine, parola, suono di ghesi o piccolo-borghesi, come entità a se stante. In questi film i Resnais; e nemmeno le eleganti sprezzature del primo Truffaut (i giovani non sembrano visti da coetanei, ma attraverso lo specchio dialoghi senza controcampi, i jump cut, i fermo immagine). Su dei discorsi giornalistici, e comunque senza empatia. Forse è Olmi questo piano, i punti di massima vicinanza sono, nel 1963, l’esor- a osservarli con più costanza, ma studiando il loro rapporto con dio di Tinto Brass (montatore, e allievo di Rossellini e Langlois), il mondo del lavoro. Mentre le figure di giovani dei film di Pe- che precede di poco Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo tri, Visconti, non sono in alcun modo raccontate come coetanei. Bertulocci, e nello stesso anno, I fidanzati di Ermanno Olmi. Nell’Italia di quegli anni un film come, mettiamo, Desideri nel sole In I giorni contati di Petri, ad esempio, il finale (con la morte in (Adieu Philippine, 1963) di Jacques Rozier (peraltro co-produzione autobus del protagonista, un idraulico interpretato da Salvo Ran- italofrancese) sarebbe inconcepibile, non tanto sul piano della li- done che, preda di angosce esistenziali, smette di lavorare) è costru- bertà formale, quanto proprio su quello del costume. ito in maniera molto libera dal punto di vista del linguaggio, ed è attaccato per contrasto a una scena quasi tipicamente neorealista D’altro canto, alcune esperienze di cinema italiano di quegli (l’idraulico che visita una famiglia proletaria). Ma questa libertà anni, completamente estranee ai confronti con il cinema francese, linguistica è legata all’assunzione di un punto di vista deformato, costituiscono indiscutibilmente una svolta linguistica e tematica, soggettivo, di un personaggio di outsider anzitutto psicologico.27 e segnano una riconoscibile via italiana alla modernità cinemato- Altro esempio: il film di Eriprando Visconti, Una storia milanese grafica. Se si dovesse indicare un equivalente, non generazionale (1962), presenta dei temi scabrosi (rapporti prematrimoniali, aborto, ma storico-teorico, delle nouvelle vague internazionali intese come

18 19 svolta nelle poetiche, i nomi italiani sarebbero quelli di Fellini, An- cennio, le possibilità di un giovane cinema italiano si affievoliscono, tonioni e Pasolini. mentre i grandi autori vanno variamente in crisi. Si tratta di tre linee assai diverse, che qui possiamo solo accen- nare rapidamente. Antonioni si confronta di petto con le novità Da questa analisi emerge anche una proposta di contestualizzare culturali e artistiche: il nouveau roman, il rapporto tra letteratura e le nouvelle vague internazionali: non solo all’interno della storia del neocapitalismo, i nuovi ceti e i nuovi consumi (e quindi, secondo cinema e della cinefilia, ma anche in interazione con i mutamenti le parole d’ordine dell’epoca, “l’alienazione”, “l’incomunicabilità”). sociali e culturali. È sempre più necessario distinguere, nella lettura o Fellini si inventa una via opposta, nutrita di materiali “bassi” e ba- costruzione di un canone, i vari piani della nozione di Nouvelle Va- rocca quanto quella di Antonioni è ascetica. I suoi modelli sono il gue: come stile (sinonimo di modernità cinematografica), come gene- fumetto, l’avanspettacolo, il circo. Il risultato è sempre quello di razione, come base per il discorso critico e la rifondazione di un cano- un’esplosione della narrazione classica, ma non, come in Antonio- ne, come espressione dei bisogni culturali di nuovi ceti. Nella prima ni, attraverso un nuovo rilievo attribuito ai luoghi, bensì in una accezione, si è visto, nouvelle vague possono essere magari considerati polifonia che tende al tableau. Pasolini, infine, è portato dalla sua titoli di registi non giovanissimi, più che di esordienti; nella seconda, concezione del cinema “di poesia” a evidenziare il lavoro della mac- gli elementi di continuità e di comunanza politica superano quelli di china da presa infrangendo le regole fondamentali del montaggio, frattura generazionale; nel terzo, le posizioni di alcune riviste (come secondo una linea che si riallaccia a una frontalità dell’immagine «Schermi» a Milano, «Il nuovo spettatore cinematografico» a Torino derivata dai pittori prerinascimentali. o «Filmcritica» a Roma) rimangono poco rilevanti. Sarà solo qualche E tutti e tre i nomi, segnaliamo di sfuggita, partecipano della carat- anno dopo, con gli esordi di Bellocchio e Bertolucci, con la contrap- teristica fondamentale della modernità cinematografica come l’hanno posizione tra «Ombre rosse» e «Cinema & Film», e con l’affermarsi descritta i teorici: la combinazione dell’impegno metalinguistico con di una generazione più politicizzata, che i piani coincideranno. Ma il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema,28 o il nuovo rapporto già nel segno di una prospettiva che appunto vede il cinema quasi in col personaggio, che scivola attraverso le situazioni senza una meta, posizione secondaria rispetto alla politica. per cui, per lo spettatore, garante dell’identificazione diventa quasi più Ancora più rivelatore del carattere di eccezionalità della nouvelle la figura dell’autore che quella del protagonista.29 I tre autori adem- vague intesa come modernità cinematografica, è la sua sostanziale ri- piono la caratteristica centrale del “film moderno” secondo Bálint- mozione dal canone. In Francia la Nouvelle Vague rimane una pietra Kovács, ossia la presenza di protagonisti che hanno perso i legami con di paragone, polemica o no, intorno alla quale giudicare le svolte suc- il mondo circostante30 (perché troppo dentro, nel caso di Fellini o cessive del cinema. Non ci riferiamo solo all’opera di registi che inter- Antonioni, o troppo ai margini, nel caso di Pasolini).31 preteranno in vario modo quella lezione (fino a Eustache e Garrel), Certo, un segno di forte rottura generazionale, stavolta segnalato an- ma al discorso critico delle riviste militanti e accademiche, e perfino di che dalla critica, avviene in Italia in un momento successivo, a metà molta stampa quotidiana. In Italia, invece, il richiamo che fa scattare del decennio, con Prima della rivoluzione e I pugni in tasca (1965). Tra la similitudine e l’opposizione non è il cinema “moderno” di prima l’altro, si potrebbero idealmente opporre i due film nel segno di una o di seconda ondata (Fellini-Antonioni o Bellocchio-Bertolucci), ma duplice lettura delle nouvelle vague europee: Bertolucci infatti è forse la commedia all’italiana, ossia un tipo di cinema che non si potrebbe il primo regista a proporsi esplicitamente come referente italiano del- immaginare più distante dalla Nouvelle Vague; mentre per tutti i film la Nouvelle Vague francese, mentre per Bellocchio l’influenza diretta drammatici di solito si usa indifferentemente il rimando al neoreali- sembra essere quella del Free Cinema. Ma si tratta, curiosamente, di smo o al cinema politico italiano, comunque in direzione meramente film che chiudono un periodo di forte creatività: dalla metà del de- contenutista, come esempi di “impegno sociale”.

20 21 “Say Alive”: L’EREDITà NEOREALISTA, lano (1951) con la commedia all’italiana. Dopo di allora, diventa appunto uno dei registi della commedia all’italiana, e nemmeno De Sica e Rossellini dei più rilevanti; dalla seconda metà del decennio, vaga tra recuperi tardo-nouvelle vague (Un mondo nuovo, 1965) e commedie inter- nazionali. Negli anni Sessanta, a dispetto dei successi internazionali dei suoi vehicles per la Loren (con o senza Mastroianni), De Sica sarebbe da considerarsi senz’altro un “minore” o meglio uno dei re- gisti che in maniera meno “autoriale” attraversano i diversi generi. Rossellini è invece un caso a parte. In uno dei grandi momenti In una scena di La dolce vita, la diva Sylvia (Anita Ekberg) viene del cinema italiano, uno dei maestri del neorealismo esita fra strade intervistata dai giornalisti italiani. Uno di loro a un certo punto diverse per poi dedicarsi alla didattica televisiva. La cosa è tanto le chiede: «Il neorealismo italiano è vivo o morto?». Al che l’inter- più sorprendente se si pensa che proprio il nome di Rossellini era prete, anziché tradurre come ha fatto con le altre domande, le dice tra i massimi modelli della Nouvelle Vague che, in quel momento, semplicemente: «Say: Alive». Dica che è vivo. La battuta di Fellini trionfava. Godard, Rivette, Truffaut hanno nei film del Rossellini ironizzava su un tabù ancora presente in una parte della critica di anni Cinquanta (Viaggio in Italia anzitutto), poco apprezzato in sinistra, anche se oggi questa persistenza può stupire. Ma è vero patria, uno dei progenitori diretti. Il cinema di Rossellini in que- che, in certa misura, il cinema d’autore del boom venne recepito gli anni appare ondivago, difficilmente classificabile, nel percorso anche utilizzando gli strumenti di una lettura “contenutista” del complessivo e perfino all’interno dei singoli film. Il generale Della neorealismo. Rovere (1959) era una parentesi consapevole per il suo autore, dopo Gli stessi percorsi dei tre “maggiori” prestavano appigli a una let- la difficile avventura in India, con un film “tranquillo”, un ritorno tura di questo tipo. Certo, della triade Antonioni-Fellini-Visconti, a temi forti e a una drammaturgia lontanissima dai suoi interessi il solo proveniente del neorealismo in senso stretto era l’ultimo. in quel momento, e che finisce con l’inaugurare un nuovo filone Ma Fellini era pur sempre lo sceneggiatore di Rossellini, Antonioni di cinema resistenziale.33 A questo, segue un altro film che cerca di nasceva nel gruppo di «Cinema», ed entrambi avevano esordito nel ripeterne la formula in chiave se possibile ancora più “di genere”, lungometraggio nel 1950.32 Era notte a Roma (1960), quasi tutto girato in studio; e due film in Gli altri registi-simbolo del neorealismo, invece, rimangono so- costume che suscitarono ulteriore sconcerto: Viva l’Italia (1960) stanzialmente estranei alla grande stagione dei primi anni Sessanta. e Vanina Vanini (1961). Il primo è un film su commissione, per O meglio, vi aderiscono in maniera epigonale, quasi da artigiani, il centenario dell’unità d’Italia, e se da un lato sembra addirittura praticando, più di altri, il “superspettacolo d’autore” come un ge- accentuare certi caratteri didattici, prefigurando tratti del suo per- nere. Vittorio De Sica in sostanza smette di fare “film d’autore” corso successivo in televisione e rendendo però rigido l’insieme, con la fine del neorealismo (ultimo titolo il tardivo Il tetto, 1955), dall’altro sembra avere il proprio cuore nelle pause del racconto, nei muovendosi insieme a Zavattini tra le varie mutazioni del cinema momenti en plein air in cui il regista sembra ripercorrere i luoghi di genere italiano: e cavalca pienamente l’onda del “superspetta- celebri in una specie di scampagnata (si veda anche la maniera an- colo d’autore”, realizzando un paio di film di una certa ambizione tispettacolare di filmare le battaglie). Vanina Vanini, d’altro canto, artistica, ma al riparo di fonti letterarie alte (La ciociara, 1960, e non può certo passare per un esempio, magari tardivo, dell’auspica- I sequestrati di Altona, 1962) con in mezzo un progetto come Il to passaggio “dal neorealismo al realismo”, come il Visconti di Senso giudizio universale (1961) che idealmente coniuga Miracolo a Mi- o di Il Gattopardo. Ogni sospetto di romanzo storico è allontanato

22 23 e decantato da una forma che punta all’eliminazione dei legami luoghi tipici della società di massa. Esemplare il sogno della sua romanzeschi e drammaturgici, e di ogni tipicità dei personaggi. morte, rifatto dai registi in uno stile da film di serie B dell’epoca, e La presenza di Rossellini in quegli anni è dunque secondaria chiarissima la scelta della recitazione survoltata di Gian Maria Vo- non solo nell’apporto diretto, ma anche nell’influenza sulla nuova lonté. Il sindacalista Salvatore è un personaggio pienamente degli generazione. In fondo, la nuova generazione di registi degli anni anni Sessanta, lontanissimo dagli eroi neorealisti, mettiamo, di un Sessanta non nasce rosselliniana. L’unico ideale discepolo di Ros- De Santis, e corrisponde in molti tratti proprio agli eroi del “cine- sellini è forse Olmi, e già un regista come De Seta tende, nei suoi ma d’autore moderno”, i quali «tendono a diventare entità astratte documentari e in Banditi a Orgosolo, a una monumentalità plastica distaccate dal loro ambiente. (…) La concentrazione sui personaggi debitrice piuttosto del Visconti di La terra trema (1948). nel cinema moderno non implica una caratterizzazione psicologica. In effetti, più ricca è l’influenza di altri due nomi centrali del È la “condizione umana” dei personaggi che diventa il centro di neorealismo, Luchino Visconti e Cesare Zavattini. Il primo rimane interesse del moderno film artistico piuttosto che l’incontro tra un comunque il simbolo più ufficiale del cinema italiano di sinistra particolare personaggio e un particolare ambiente»36. Per l’eroe del (ed è il maestro diretto di Maselli, oltre ad avere una forte influenza cinema moderno, il problema non è raggiungere uno scopo attra- sui film di Vancini e Zurlini), mentre il secondo (proprio mentre verso o contro un ambiente: il problema è anzitutto il proprio posto la sua opera di sceneggiatore si fa sempre più corriva) continua in questo ambiente. La nevrotica sconnessione tra individuo e co- senza sosta a promuovere iniziative e idee che oggi si direbbero munità, il suo rapporto ambiguo con la cultura di massa, mescolate multimediali.34 Come nota Brunetta, nell’«esigenza di raccontare però a una battaglia indiscutibilmente giusta ed eroica, fungono direttamente l’Italia» tipica di questi anni, è anche «il sogno zavat- allora anche da metafora istintiva, e quasi del tutto involontaria, di tiniano di Italia mia che sembra avverarsi».35 Zavattini in quegli una difficoltà di collocamento e di prospettiva dei registi di sinistra. anni organizza alcune iniziative “pedagogiche” significative come Il film, nella sua tumultuosa vocazione sperimentale, costituisce un Le italiane e l’amore (1962) o I misteri di Roma (1961), da lui coor- esempio e contrario del mancato appuntamento del cinema italia- dinato, e diretto da dodici registi, la maggior parte dei quali al loro no, ai suoi inizi, con la modernità cinematografica, ma soprattutto esordio. E sceneggia anche i primi due film di Damiano Damiani, (insieme a film coevi come il citato Salvatore Giuliano o Il terrorista, Il rossetto e Il sicario (entrambi del 1960). 1963, di De Bosio) di una linea diversa di cinema politico, moder- na e autoriflessiva, che non avrà seguito nelle successive evoluzioni In realtà, il superamento più radicale (seppure implicito) del neo- di questo “genere”. realismo viene tentato in quegli anni dai registi che affrontano non la rilettura della resistenza, ma quella di eventi più recenti legati al dopoguerra. È questo il caso del Salvatore Giuliano (1961) di Francesco Rosi (film di importanza capitale ma che richiederebbe un discorso a parte sul cinema “politico” e che dunque per moti- vi di compattezza lasciamo del tutto fuori dal nostro discorso), e dell’esordio di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani: Un uomo da bruciare (1962). A rivederlo oggi, colpisce di quest’ultimo film, più ancora che il coraggio del tema, la esplicita frizione tra vecchio e nuovo, che produce un personaggio centrale il quale, pur muoven- dosi nell’ambiente della mafia rurale, urta continuamente contro

24 25 Il cinema d’autore getto del genere offrirebbe molti spunti per rileggere “contropelo” come genere (mancato) le opere di quegli anni. La più completa teorizzazione dei generi cinematografici è pro- babilmente quella elaborata da Rick Altman, con un metodo “sin- tattico-semantico-pragmatico”, che cioè integra «le definizioni che si basano su un elenco di tratti comuni, atteggiamenti, personag- gi, riprese, ambienti, set e così via» e quelli «che giocano, invece, sulle relazioni costitutive tra varianti non prestabilite»41 (e dunque sulle meccaniche di funzionamento e di combinazione di questi Leggere il cinema italiano dei primi anni Sessanta attraverso gli elementi, sulle forme di narrazione e messa in scena). All’inizio del autori è una scelta che, per quanto quasi automatica, non è affatto suo libro Film/Genere, Altman sottolinea la molteplicità del con- scontata. Raggruppare insieme i film di alcuni registi del periodo cetto: genere come progetto (che organizza le strategie industriali estraendoli dalla produzione corrente, implica il riconoscere in loro della produzione); come struttura formale su cui si costruiscono i delle “somiglianze di famiglia”, che non sono semplicemente lega- singoli film; come etichetta utile per la comunicazione e la promo- te ai risultati estetici. “Film d’autore” non significa evidentemente zione; come contratto, patto di visione tra opera e spettatore.42 A opera artisticamente riuscita, ma anzitutto film che chiede di essere questi elementi l’autore ha aggiunto poi un particolare interesse per riconosciuto, attraverso una serie di strategie comunicative precise, gli elementi culturali, verso il contesto nel quale i generi agiscono, come opera di una individualità creatrice, il regista.37 maturano e sono riconosciuti. Nella definizione di genere dunque Se ha senso parlare di qualcosa come di un cinema d’autore, ossia andrebbe tenuta in conto non solo la forma interna dei testi, ma di una preminenza del lavoro del regista, autopercepita e ricono- anche il rapporto col pubblico, il ruolo della critica, il carattere re- sciuta come tale, di una scelta dei temi e di una riconoscibilità im- trospettivo e spesso dapprincipio denigratorio delle definizioni e la mediata dello stile, è proprio su quel giro d’anni che, per il cinema possibilità di aggiornamenti e di intrecci con altri generi. italiano, occorre concentrarsi. Anzi, il cinema di Antonioni e Fellini Proviamo allora a “giocare ai generi” con il cinema d’autore italia- rimarrà un paradigma per definire (e imitare e parodiare) il “cinema no degli anni Sessanta, estrapolando dal corpus dei film considerati d’autore” tout court, specialmente nei Paesi anglosassoni. Si può “d’autore” alcuni tratti comuni. L’idealtipo del “film d’autore” sarà, dire, ad esempio, che per i cinefili e i registi americani 8 ½ sia molto in questi termini, caratterizzato da uno stile che mette in primo spesso il prototipo del film d’autore, intendendo il genitivo anche piano la soggettività di un regista-artista; un film di ambientazione come film dell’autore, film sull’autore (l’autore del film stesso).38 contemporanea (o nel quale, al limite, la lettura del passato appaia Si può portare il gioco fino in fondo, e chiedersi quali siano le immediatamente attuale, metaforica, e polemica nei confronti del- somiglianze di famiglia, le regole che trasformano un film in un la storiografia ufficiale); quasi sempre dramma e non commedia; “film d’autore”. È quello che proponeva, proprio per il cinema ita- con una riconoscibilità stilistica e comunque una visibilità della liano di quegli anni, Veronica Pravadelli: «Si può pensare al cine- macchina da presa, cui è subordinato il lavoro degli sceneggiatori; ma d’autore teoricamente, considerandolo una sorta di genere. Il con un occhio rivolto ai “grandi temi” del mondo contemporaneo, denominatore comune è l’interesse a narrare l’io, la soggettività».39 ma con uno sguardo più morale che direttamente politico (e senza Ovviamente sarebbe necessario, per fare questo, costituire «un cor- esplicite intenzioni di denuncia). Esso tenderà, di conseguenza, alle pus concettuale capace di andare oltre la personalità del singolo ambientazioni borghesi o alto-borghesi, e sarà quasi tassativamente autore», mostrando quello che ha in comune con altri.40 Un pro- girato in bianco e nero.43

26 27 Ovviamente, in questa chiave appaiono fondamentali, per il suo Fellini) i registi entrano in scambio dialettico con alcuni luoghi riconoscimento, il rimando al neorealismo, primo vero esempio di tipici della commedia. cinema d’autore in Italia e non solo, e i premi in festival internazio- Rimane il fatto che, con la parziale eccezione di Fellini e Ferre- nali (tantissimi in quel periodo, da Cannes a Venezia agli Oscar). ri, il “film d’autore” è un genere drammatico. Anzi, se ne possono Non va sottovalutata infine la sua capacità di attivare dibattiti al di agevolmente rinvenire i legami con il mélo del decennio preceden- fuori delle pagine specialistiche, essenziale per definire un pubblico te, da un punto di vista delle strutture visive e narrative come da ampio (cfr. infra, “Maggiori e minori”). quello dei temi. Dapprima, il cinema d’autore viene offerto al pubblico come Intanto, era stato proprio il mélo (magari alleato al noir, con del- marchio proprio nei titoli decisivi del “superspettacolo d’autore”, le strutture a indagine che permettevano una condanna morale) a La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, 8 ½ (e seconda- interessarsi alla nuova borghesia negli anni della crisi del neoreali- riamente L’avventura, La notte, L’eclisse). Sono alcuni produttori a smo: da Persiane chiuse (1950) e La tratta delle bianche (1952) di concepirlo come tale, e quindi come prosecuzione di un proprio Comencini a Le infedeli (1952) di Steno e Monicelli, da Febbre di cinema ad alto costo, come fascia alta per un pubblico emergen- vivere (1953) di Claudio Gora a La spiaggia (1954) di Lattuada. Ma te, come cinema antitelevisivo. Ma è ovviamente la critica a pro- è soprattutto sul piano della modernità delle forme che certo melo- muovere e autorizzare la lettura di un film come “film d’autore”, dramma ha costituito un autentico laboratorio del cinema d’autore basandosi su una lunga tradizione. E qui il discorso si complica: successivo. Film come quelli di Vittorio Cottafavi (Una donna ha perché per la critica dell’epoca il cinema d’autore si caratterizza ucciso, 1954; Traviata 53, 1953; Una donna libera, 1956; melo- soprattutto per alcuni elementi di contenuto, ossia per l’altezza drammi autoriflessivi e raffreddati che sono stati definiti “brechtia- dei temi. ni”), Soldati (La provinciale, 1953, con l’incrocio di flashback da Il “cinema d’autore” dovrà anche definirsi per somiglianza e dif- punti di vista differenti), Antonioni (Cronaca di un amore, 1950; ferenza da altri tipi di film. Ad esempio, temi troppo “politici” pos- La signora senza camelie, 1953) propongono la sperimentazione sono far deviare verso un interesse immediato di denuncia, verso estetica forse più avanzata del cinema italiano dell’epoca.46 un genere che in quegli anni comincia appena a formarsi e che ha il E c’è un altro elemento da tenere presente. Nella mutazione del proprio campione quasi unico in Francesco Rosi. Il “cinema politi- pubblico cinematografico che abbiamo descritto all’inizio del libro, co” definirà peraltro un tipo di film assai più codificato del “cinema va notato che, per tutto il decennio, i grandi generi cinematografici d’autore”, e da esso nettamente distinto.44 (con l’eccezione parziale del musicarello) sono eminentemente ma- Ma i rapporti più complessi il cinema d’autore li intrattiene da schili: non solo la commedia all’italiana, ma anche il mitologico, il un lato con il genere mainstream di quegli anni, ossia la commedia western all’italiana, il comico di Franchi e Ingrassia e generi minori all’italiana, e dall’altro con il melodramma del decennio preceden- come l’horror o lo spionistico. Il cinema d’autore sembra riempire te. La violenza con cui molta critica d’epoca respinge la commedia anche un vuoto di cinema “drammatico” lasciato dalla fine del ge- all’italiana45 si spiega forse anche con una sua fastidiosa prossimità nere melodrammatico in senso stretto. al cinema d’autore. I temi e i ceti messi in scena dal cinema di Anto- Il processo di affermazione della soggettività dell’, degli nioni, Fellini, Visconti non sono troppo distanti da quelli dei film elementi di autoriflessività e dell’allentamento dei nessi narrativi di Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, Vincenzoni, Sonego. E spesso ne forti ha però una controparte nel nell’attutirsi del confronto diretto abbassano, ridimensionano la tragicità e la serietà, oltre a renderli con il genere del mélo (ad esempio, da parte di Antonioni), nello più ambiguamente vicini allo spettatore. Ma, come vedremo, in spostamento di interesse verso i personaggi maschili (in Visconti). alcuni casi (l’uso di Tognazzi in Ferreri, quello di Mastroianni in Ma se, come ricorda Brunetta, «la riaffermazione del potere registi-

28 29 co avviene, in questo periodo, a spese dei personaggi femminili»,47 delfini di Francesco Maselli, I dolci inganni di Alberto Lattuada».50 il confronto continuo tra i sessi è il tema centrale dei film di An- Negli anni successivi la foga diminuirà, anche se nella censura in- tonioni e di Fellini, attraverso una serie di strategie non lineari che capperanno ad esempio, in maniera clamorosa, La ricotta (1963) vedremo più avanti. Entrambi, anticipiamo, mantengono una cer- di Pasolini e L’ape regina (1963) di Ferreri (a cui il regista antepo- ta distanza dalla figura femminile principale. Ma il primo la pone ne un cartello quasi parodistico di giustificazione, e il sopratitolo al centro di una serie di relazioni figurative tra oggetti, facendone Una storia moderna).51 Infine, va ricordato che pressoché tutti i film il vettore di forme di affettività che rendono possibile la compren- d’autore degli anni Sessanta vanno in sala con un divieto ai minori sione e la partecipazione dello spettatore, mentre Fellini moltiplica di sedici anni, e questo è a ben vedere uno dei primi “segnali” peri- le figure femminili intorno a un osservatore sempre più autobio- testuali che li distingue dalla commedia all’italiana. grafico, e proprio in quel periodo crea i suoi personaggi femminili C’è chi ha addirittura ipotizzato, nella disponibilità dei produttori più complessi, avventurandosi fino al suo unico film in cui assume alla realizzazione di film in certo modo “provocatori”, anche una vo- una prospettiva femminile (Giulietta degli spiriti, 1965). Negli anni lontà di suscitare e sfruttare dei succès de scandale, che però si sarebbe successivi, poi, da Prima delle rivoluzione ai film di Ferreri, il rap- rivelata un errore almeno parziale di valutazione storica: le forze re- porto tra i generi sessuali diventerà sempre più centrale. trive all’interno delle istituzioni avevano infatti ancora un considere- Il “cinema d’autore”, infine, finisce per definirsi in quegli anni vole potere nel bloccare le modernizzazioni del costume della società anche attraverso la censura. Tutti i grandi registi italiani dei primi italiana, e la censura, anziché funzionare da detonatore, mostrò una anni Sessanta incorrono in censure politiche o per blasfemia o per forza residua nel reprimere le istanze più trasgressive.52 oscenità; e questo li colloca tacitamente nell’ambito di una cultu- Per verificare la posizione del cinema d’autore nelle battaglie per ra progressiva ma non necessariamente di area social-comunista: l’emancipazione dei costumi, è utile anche dare uno sguardo ad piuttosto, li rende parte di una “battaglia di modernizzazione” che alcune parodie che ne vengono fatte: a cominciare dal celebre Totò, è grossomodo quella di testate come «Il Giorno» o «L’espresso». Ad Peppino e... la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci e da Walter e i attaccarli infatti si trovano, oltre a elementi di una corporazione tra suoi cugini (1961) di Marino Girolami, che come ha mostrato Roy le più arretrate come era la magistratura, anche diverse testate di Menarini svolgono una funzione tecnicamente “reazionaria”, di ir- destra e, in qualche occasione, settori più o meno ampi della Chie- risione e resistenza alle novità culturali e di costume: sa. Tra i film più violentemente colpiti dalla censura c’è ovviamente Rocco e i suoi fratelli,48 tra i più attaccati dalla stampa conservatrice «Si ha la sensazione che siano i modelli – e non le parodie – a ricoprire La dolce vita: ossia i due film fondativi del “superspettacolo d’au- un ruolo trasgressivo per il cinema italiano degli anni Sessanta. (…) tore”. In un paio d’anni (tra il 1960 e il 1962) vengono censurati Questo cinema, in definitiva, sembra candidarsi alla “difesa”, attra- pesantemente anche La giornata balorda di Bolognini, L’avventura verso la derisione del cinema d’autore, del pubblico popolare, e al e La notte di Antonioni, Il gobbo di Lizzani, Accattone di Pasolini, rigetto del riformismo cinematografico dettato dai grandi protagoni- Chi lavora è perduto di Brass (che viene ritirato e rititolato In capo sti/autori dei primi anni Sessanta. Non è un attacco proditorio, bensì al mondo),49 Laura nuda di Niccolò Ferrari, Odissea nuda di Franco una recinzione, come a dire: abbiamo digerito ogni spinta esterna Rossi. Alcuni di questi film vengono anche sequestrati dopo l’usci- grazie alla grande macchina della parodia e della farsa, ce la faremo ta nelle sale. Ancora: «Tra settembre e la prima metà di ottobre anche questa volta.»53 (1960), interventi censori vieppiù grevi e opprimenti colpiscono, tra gli altri, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, Adua e Ugualmente significativo, per altri versi, il filone di film ”alla le compagne di Antonio Pietrangeli, Kapò di Gillo Pontecorvo, I Antonioni”, che costituisce in fondo il grosso del cinema arty del

30 31 decennio: Antonioni è molto più imitabile di Fellini, e immedia- fidata alla presenza di un jazz morbido (le canzoni originali sono tamente più “moderno” e allettante nei confronti degli intellettuali cantate da Helen Merrill). che si rivolgono al cinema. Nel filone possiamo inserire tra gli altri Caso estremo quello di Il vuoto, in cui lo spregiudicato Vivarel- gli esordi di Giuseppe Patroni Griffi (Il mare, 1962), Enzo Battaglia li (autore di canzoni per Celentano e futuro specialista in B-mo- (Gli arcangeli, 1963), Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campa- vie) sposta l’ambientazione a Buenos Aires per descrivere la storia nile (Un tentativo sentimentale, 1963), Marco Vicario (Le ore nude, d’amore, assai “metaforica”, tra un’interprete e un fisico nucleare. 1964), o anche Il vuoto (1964) di Piero Vivarelli. Se è vero che il Vivarelli accentua il lato erotico della storia d’amore, piegandolo genere si coglie spesso meglio negli epigoni, allora è anche nei film nel finale verso sviluppi tranquillamente melodrammatici, e con- del genere “autoriale” girati da non-autori, o da registi occasionali, dendolo di dialoghi che sembrano ideati dall’Arbasino dell’epoca: che emergeranno meglio alcuni tratti della percezione comune, e «Come è livellatrice la spiaggia»; «Cupido ha perso le ali, da quan- dell’autopercezione, del “cinema d’autore”. do l’alfabeto Morse ha tolto ogni intimità alle parole d’amore» e Il mare, ad esempio, è in molte parti un esplicito calco di L’av- così via. E le trasferte esotiche fanno anche di questo bizzarro film, ventura, fin dall’ambientazione in un’isola fuori stagione (Capri) sul filo della parodia involontaria, una specie di ideale ponte tra con pochi personaggi misteriosi e laconici. Anche lo stile, con varie L’avventura e Bora Bora (1968) di Ugo Liberatore. inquadrature di oggetti che soverchiano i personaggi, o di spazi e Tutti questi film hanno inoltre cura di eliminare ogni forma di oggetti privi di presenze umane, è ricalcato su quello di Antonio- ironia e ogni personaggio che possa ricordare la commedia, di met- ni. A questo si aggiunge però un ricordo preciso di L’anno scorso tere al centro dei personaggi alto-borghesi o privi di tratti sociali a Marienbad (1961) di Alain Resnais (i personaggi misteriosi, gli definiti, e dei temi non direttamente sociali, psicologico-erotici, in- alberghi) e soprattutto una deviazione verso certe forme teatrali dulgendo in sequenze o situazioni più o meno osé, alludendo nello tradizionali (il protagonista Umberto Orsini è un attore, e di questa stesso tempo a una dimensione politica che si vuole importante professione parla più volte, recitando anche una parte dell’Otello (dalla baia dei Porci all’imborghesimento del Pci). shakespeariano). Nel complesso, lo stile di Antonioni subisce una torsione verso un estetismo e un artificio più pronunciati, nell’evi- Complessivamente, se seguiamo le teorizzazioni più rigorose del- dente idea che il cinema d’autore passi anzitutto attraverso il rifiuto la nozione di genere cinematografico, è assai difficile farvi rientra- del realismo nei dialoghi e nei personaggi, e nel ruolo autonomo re completamente il cinema d’autore italiano degli anni Sessanta. dato alle location. Eppure, usare gli strumenti dell’analisi dei generi rimane qui assai I protagonisti di Gli arcangeli sono invece dei giovani ricchi e an- utile. Sarà allora il caso, magari, di parlare di un genere mancato. noiati, pur se tra loro c’è l’inevitabile comunista in crisi. Anche in Dal punto di vista cronologico (la stagione d’oro dura al massimo questo caso i loro dilemmi sono sentimentali, e abbondano le scene 3-4 anni, quelli del boom), dal punto di vista degli intenti dei pro- sessualmente un po’ spinte (come sempre in apparenza atone, prive duttori, e dal punto di vista della ricezione critica e giornalistica e di tensione erotica). Il debito verso Antonioni si spinge in questo dell’autopercezione dei protagonisti. caso fino a un “Arcangeli Twist” messo in colonna sonora, e gli Ritorna assai utile a questo punto una curiosa nozione, quella stessi protagonisti esclamano beffardi: «L’incomunicabilità!». Ma in di autore “impari”, coniata alcuni anni fa da Alberto Pezzotta.54 realtà lo stile è piuttosto tradizionale, e ogni velleità “modernista” Autori impari sarebbero alcuni registi italiani che esordiscono negli viene confinata quasi negli “stacchi” tra le scene, con i consueti anni Sessanta con opere ambiziose, per poi conoscere una rapida edifici senza presenze umane (l’EUR, ovviamente), le serie di foto decadenza all’interno dei generi e scomparire con l’avvento delle fisse. Anche qui come in Una storia milanese, la “modernità” è af- tv private: Brunello Rondi, Eriprando Visconti, Alberto Cavallo-

32 33 ne, Romano Scavolini, Cesare Canepari, Massimo Pirri, Gianni Maggiori e minori Vernuccio, Nello Rossati, in parte Mino Guerrini, Giulio Petroni, Giuseppe Bennati.55 Le loro carriere hanno esiti sconcertanti, quasi vertiginosi. Rondi passa da Una vita violenta (1962) e dalla sceneg- giatura di 8 ½ (1963) a Racconti proibiti… di niente vestiti (1972) e Velluto nero (1976); Eriprando Visconti quindici anni dopo Una storia milanese farà soft-core come Oedipus Orca (1977), e Romano Scavolini passerà da La prova generale (1968) a Un vestito bianco per Marialè (1972). Pezzotta riassume così i loro tratti comuni: Interrogare la nozione storica di cinema d’autore significa an- «1) L’autore impari inizia con ambizioni alte, è salutato dalla critica che riproporre il problema di un canone, anzi della mutazione dei come una promessa, e poi man mano decade. (…) 2) Possiede una poeti- canoni negli anni. Se negli ultimi decenni la nozione di genere, ca, anche se spesso non può (o non sa) esprimerla in modo adeguato. (…) pur vaga, è servita (secondo la lontana lezione della politique des 3) Possiede un elemento di follia. Non ama le mezze misure, ignora ) a rivendicare la statura di alcuni autori (il melodramma il buon gusto, sceglie i temi più controversi. 4) Lo stile dell’autore di Raffaello Matarazzo, l’horror di Mario Bava o il poliziesco di impari è all’insegna dello spreco. Ossia della sproporzione tra mezzi Fernando Di Leo, ma anche l’eclettismo di un Sergio Corbucci), e risultati. Nel senso, attenzione, che raffinatezze formali vengono valorizzando le varianti personali e gli scarti rispetto a dei codici, utilizzate in contesti che non lo richiedono. (…) 5) L’autore impari si il pecorso inverso che dall’autore cerca di scoprire gli incroci con impossessa con sicurezza e disinvoltura della cultura alta, in un contesto mode, generi e filoni si fa più difficile. basso. La sua formazione di rado è artigianale. L’autore impari ha fat- La tacita idea che la modernità cinematografica riguardi quasi to buone letture, cita con sicurezza i maestri della cultura. (…) 6) è esclusivamente il cinema d’autore, infatti, è un errore prospetti- spesso in anticipo sui tempi, anche se non se ne accorge nessuno. (…) 7) co. Esiste anche un cinema moderno di genere e un cinema d’autore Si autodistrugge con cognizione di causa.»56 classico.57 La questione, poi, si può complicare ulteriormente. Se si assume il cinema d’autore come forte riconoscibilità di stile e Le caratteristiche comuni a questi registi permettono di costruire contenuti, e la modernità con la presenza di personaggi senza coor- una specie di “ombra dell’autore”, che integra e accompagna in dinate, la predominanza di quella che Deleuze ha definito “imma- maniera tragicomica il trionfo del cinema d’autore del decennio. gine-tempo”58 o la spiccata autoriflessività dei testi, appare chiaro In questo ritratto si intravede anche la confusione di un periodo, e che registi come Bava o come Sergio Leone possono essere consi- vediamo quasi incarnata in singole figure quella lacerazione tra film derati esempi di cineasti moderni. La riflessività propria del cinema d’autore e cinema popolare sempre più trash che sarà alla base del moderno, oltretutto, è anche confronto con il cinema precedente, cinema italiano successivo. e certi autori che giungono in un genere in una fase decadente o postuma, con la piena coscienza di esso, possono perciò incarnare una forma particolare di modernità, a confronto con delle regole di genere che appaiono sempre più “a nudo”. Se dunque è possibile definire la stagione del cinema moderno anche come una forma di sua accentuazione “manierista”,59 proprio in questi termini Serge Daney aveva letto il cinema di Sergio Leone: «I manieristi sono co-

34 35 loro che hanno posto la propria firma sul divenire anamorfizzato di in secondo piano, negli anni, la ricchezza e le articolazioni di un ciò che avevano intravisto i moderni. Ma prima di divenire un puro periodo complesso, favorendo una tacita gerarchia tra “maggiori” effetto del mercato, l’“effetto di firma” non risulta del tutto indolo- e “minori”. re. La firma è come un dettaglio che sostituisce l’insieme che non Tra i nomi sacrificati e difficilmente classificabili una volta ac- riesce a dimenticare. E questo è il manierismo».60 L’idea di cinema cettata la prospettiva che pone al centro gli autori “maggiori”, ri- “manierista” potrebbe servire anche a rendere chiara la distinzione cordiamo Alberto Lattuada, Valerio Zurlini, Antonio Pietrangeli, tra cinema moderno e cinema d’autore, cogliendo ad esempio le Mauro Bolognini e in parte Luigi Comencini. Inserirli pienamente somiglianze di famiglia tra soggettivismo autoriale e semplice “stile nel canone significherebbe forse anche ricostruire una mappa rin- pop” (presente in molto cinema di genere, dallo spionistico all’hor- novata di quegli anni. I primi due si pongono in dialogo più preci- ror), per favorire una loro successiva distinzione. so con la commedia all’italiana, ma senza coincidervi come fanno Tra le personalità “autoriali” degli anni Sessanta, peraltro, quel- Monicelli, Risi e (in quel periodo) Germi. Se gli anni Sessanta poi la di Leone sarà forse la più influente sulle generazioni future: e sono in fondo un momento di transizione per Comencini (che co- proprio come stile registico, non come rilettura e ricombinazione noscerà una nuova straordinaria stagione dalla fine del decennio) di elementi del genere. Morto il western all’italiana, infatti, non è i film di Lattuada, Zurlini e Pietrangeli sono indubbiamente tra i difficile vedere il “manierismo” leoniano incarnarsi nel cinema di più significativi del periodo. Dario Argento, ma anche nei colossi degli anni Ottanta di Bernar- E un discorso nuovo meriterebbero gli adattamenti letterari di do Bertolucci (che, come Argento, nel 1968 aveva collaborato a Bolognini, che declina l’idea di film d’autore in una variante appa- C’era una volta il West), e più avanti, esplicitamente, nel cinema di rentemente “debole”, in un confronto con testi letterari soprattutto Giuseppe Tornatore. Per tacere delle influenze, più o meno accerta- nazionali, da Il bell’Antonio (1960) a La viaccia (1961), da Senilità bili o rivendicate, su autori come John Woo o Tarantino. (1962) ad Agostino (1962), ma compiendo una riflessione tutt’altro Smontando la nozione di modernità e quella di autore, se si com- che banale sulle mutazioni delle identità di genere e sui rapporti di pie una epochè dalle stratificazioni storico-critiche e si torna ai te- potere tra le classi e i sessi, che sarebbe magari da leggere in paralle- sti, possono risultare sorprendenti certe somiglianze tra i differenti lo con quella di Lattuada.62 “manierismi” di Fellini e di Mario Bava. I primi film a colori di Lattuada è uno dei frutti estremi del cinema “calligrafico” d’an- Fellini (Giulietta degli spiriti, 1965, Toby Dammit, 1967) sono fi- teguerra, ma è proprio negli anni Sessanta che trova una delle sue gurativamente più vicini ai film coevi di Bava che a quelli di Anto- stagioni più felici, lambendo la commedia all’italiana con alcuni ti- nioni o di Visconti: a parte la ricorrenza della misteriosa “bambina toli eccentrici e sperimentali (Mafioso, 1962; La mandragola, 1965; con la palla” di Operazione terrore in Toby Dammit, li accomunano Don Giovanni in Sicilia, 1967, Venga a prendere il caffè… da noi, l’onirismo di fondo e l’imagerie gotica, l’uso di materiali “bassi” e 1970), e soprattutto realizzando, come abbiamo già ricordato, uno l’impianto visivo fumettistico (mentre Bava nel 1967 gira Diabolik dei pochi film “giovanilisti” vagamente nouvelle vague del nostro Fellini fa quello che lui stesso considera il suo Flash Gordon, ossia cinema (I dolci inganni): il suo è un cinema nel quale la presenza il Satyricon, uscito nel 1969), con uso particolarmente irrealistico dei corpi (fanciulle in fiore o maschi grotteschi) si risolve anche del colore.61 in una continua lotta tra sguardo e narrazione, sostituendo alla ba(l)ade deleuziana63 un distratto e sornione voyeurismo, come Ma non è solo questione di rileggere gli autori di genere, ope- nelle scene di spiaggia di Don Giovanni in Sicilia o nel folgorante razione in fondo largamente praticata negli ultimi decenni. Il ri- inizio di I dolci inganni con il risveglio della Spaak tra le lenzuola. lievo della triade Fellini-Visconti-Antonioni ha soprattutto messo È possibile che alcuni di questi registi (Pietrangeli e Lattuada)

36 37 scontino la loro prossimità alla commedia in certe situazioni (e nel- gli Intellettuali al cinema, la scelta degli attori), e soprattutto, non tanto paradossalmente, al mélo. Inoltre, se ad esempio Antonioni compie il salto bruciando il cinema agli intellettuali le scorie dei suoi grandi melodrammi anni Cinquanta (da Cronaca di un amore, 1950, fin quasi a Il grido, 1957), film come I dolci in- ganni, La ragazza di Bube (1963), La ragazza con la valigia (1961) hanno al loro interno donne troppo poco “problematiche” in senso moderno, anzi sostanzialmente figure di transizione, oggi peraltro molto più credibili dal punto di vista psicologico e sociologico dei personaggi di Antonioni, che sono più che altro elementi funzionali alle sue costruzioni spazio-temporali (e che infine, in Deserto rosso, Per la definizione del cinema d’autore è essenziale il suo rapporto 1964, devieranno esplicitamente verso la patologia). A interpretarle con il contesto culturale. È il cinema d’autore, soprattutto in alcuni sono spesso due fra le attrici più moderne del cinema italiano del momenti, a costituire la faccia con cui la produzione cinematografica decennio: Catherine Spaak e Claudia Cardinale. di un Paese si presenta al “mondo esterno”, agli altri ambiti della cultu- Il maggior rilievo oggi assunto da registi come quelli citati rispec- ra. Da questo punto di vista, la stagione d’oro del cinema d’autore, gli chia un interesse mutato per l’Italia degli anni Sessanta e per il suo anni Sessanta, è (non certo solo in Italia) il momento in cui il cinema cinema. Non più e non tanto, dunque, la ricerca di elementi di sembra rispondere meglio di ogni altra forma espressiva alla efficace aggiornamento culturale, e forse nemmeno di segni forti di moder- presentazione dei grandi temi contemporanei. nità stilistica, ma un interesse per le variegate strategie con le quali In Italia il fenomeno è particolarmente evidente, specialmente se i registi entrano in relazione con i generi e l’orizzonte di attesa del lo si paragona con i decenni successivi. In nessun momento forse il pubblico, con la società e con gli altri media. E un’attenzione per cinema è stato così al centro della riflessione culturale come nei primi le linee minoritarie della storia del nostro cinema, per esperimenti anni Sessanta. A ciò cooperano vari fattori, a cominciare dall’inte- eccentrici e non destinati a una eco immediata, ma che anche per resse per i “mass media” e per le mutazioni dell’industria (il celebre questo giungono a noi meno logorati dalle interpretazioni. numero 4 del «Menabò» di Vittorini e Calvino dedicato a “Industria Non che questo debba per forza condurre a facili rivalutazioni o e letteratura” esce nel 1961), e il predominio di una generazione per frettolose liquidazioni (la triade Fellini-Visconti-Antonioni aveva la quale il cinema era tranquillamente parte della formazione etica ovviamente ottimi motivi per essere considerata il fulcro del no- ed estetica. stro cinema). Se occorre un revisionismo, esso dovrebbe essere, alla Certo, la storia del rapporto tra letterati italiani e cinema è molto lettera, una passione del rivedere e la scoperta, che continua ogni antica, e già negli anni Cinquanta una delle caratteristiche delle rubri- giorno, dell’incredibile ricchezza del nostro cinema fino agli anni che di critica cinematografica è la massiccia e stabile presenza di let- Settanta. terati, che aiutano questo settore a trovare una collocazione di rilievo all’interno dei periodici. Nel dopoguerra hanno rubriche fisse Alberto Moravia, Ercole Patti, Giuseppe Marotta, Anna Banti ed Ennio Fla- iano, ma anche, per fasi più brevi, Corrado Alvaro, Aldo Palazzeschi, Vasco Pratolini, Tommaso Landolfi. Si nota però una mutazione si- gnificativa: se negli anni Cinquanta era magari «Cinema Nuovo», con periodiche inchieste, a chiedere l’intervento dei letterati su questioni

38 39 cinematografiche, cercando di accreditare il cinema nella cultura del isce un ottimo osservatorio delle mode culturali. Intanto, è signi- proprio tempo, adesso sono invece le riviste letterarie a sentirsi in do- ficativo che una rivista squisitamente letteraria si appoggi, fin dal vere di confrontarsi con il cinema (d’autore). primo numero, alla pubblicità del listino Titanus, esposto in quarta Il cinema non è più soltanto una sponda “alimentare”, con cui di copertina: esempio eloquente del tentativo di legittimazione hi- guadagnarsi da vivere (come critici o come sceneggiatori), ma una ghbrow che la casa di Lombardo cercava di compiere (di lì a poco sirena culturale. Diventa allettante, per il letterato, la figura del arriveranno le pubblicità di molte altre distribuzioni, a cominciare regista, sancita definitivamente da Fellini con 8 ½. E se al cine- da De Laurentiis). Ben presto, poi, la rivista apre al proprio interno ma arrivano scrittori-sceneggiatori di nuova leva (Goffredo Parise e una sottorivista, «L’Europa cinematografica», a partire dal n. 9-10 Raffaele La Capria, ad esempio), sono numerosi gli scrittori e i let- dell’estate 1961, aperta da un articolo di Pietro Bianchi su Cinema terati che puntano alla regia con ambizioni pienamente artistiche o e letteratura che prende spunto, inevitabilmente, da Antonioni. Il spinti da curiosità. Oltre al caso eclatante di Pasolini, si ricordano numero ospita addirittura la relazione di Goffredo Lombardo a un alcuni tentativi variamente falliti o isolati: Giuseppe Patroni Griffi convegno milanese, ovviamente un ampio dossier su Antonioni, e (Il mare, 1961), Pasquale Festa Campanile (Un tentativo sentimen- un “contraddittorio francese” con frammenti e testimonianze sulla tale, 1963), Alberto Arbasino (La bella di Lodi, 1963, con Mario Nouvelle Vague e dintorni. Anche se si fa sentire il legame con il Missiroli), Nelo Risi (Andremo in città, 1966), Enzo Siciliano (La gruppo di «Cinema Nuovo», saranno molti gli scrittori che affron- coppia, 1968). teranno il cinema su quelle pagine, da Piovene a Gianna Manzini La gran parte di questi registi esordisce, come abbiamo visto, con (con una curiosa difesa del cinema di Bolognini in parallelo a una film “alla maniera di Antonioni”, e in effetti il regista di Ferrara è “spiegazione” di Antonioni in termini di narrativa quasi ottocente- il nome più citato e analizzato dagli intellettuali dell’epoca. Subito sca), da Sciascia (che stronca Sedotta e abbandonata) a Nelo Risi. Gli dopo, nell’interesse dei letterati, c’è Fellini: La dolce vita era stato il speciali, oltre a quello inaugurale su Antonioni, saranno due: uno primo film a suscitare un dibattito extracinematografico di vasta por- sul cinema spagnolo (con una nuova tavola rotonda su Antonioni, tata (ricordiamo gli interventi celebri di Arbasino, Berto, Calvino, cui partecipano Juan Antonio Bardem, Luis García Berlanga e altri) Pasolini, Moravia), e anche 8 ½ susciterà grandi discussioni. Ma An- e uno su 8 ½, con gli interventi di Fernaldo Di Giammatteo, Giu- tonioni rimane l’autore che più si presta al confronto (e all’equivoco) seppe Berto, del filosofo Armando Plebe, dello psicanalista Emilio da parte degli intellettuali, anche perché tende a presentarsi come Servadio, e di Elizabeth Mann Borgese. Questo aspetto non è certo un’operazione rivolta anche a loro, un’operazione di modernizzazio- secondario nella costruzione culturale del cinema d’autore: non solo ne della cultura italiana. A colpire è oggi il tono di serietà con cui le a vario titolo vi partecipano gli intellettuali, ma esso è riconosciuto, opere del regista vengono smontate e interrogate in ambito non cine- descritto e promosso nelle sedi canoniche del dibattito estetico, poli- matografico. Si pensi alla tavola rotonda che su «Il Contemporaneo», tico e culturale nazionale come pieno fatto di cultura, non eccezione rivista culturale vicina al Partito comunista, vede discutere di L’eclisse (come era nel caso del neorealismo) né divertissement (come era nel due nomi di punta della cultura marxista dell’epoca, il filosofo Gal- rapporto col cinema di una rivista degli anni Venti come «Solaria»), vano Della Volpe e lo storico della letteratura Carlo Salinari, insieme ma fenomeno equiparato in tutto alla letteratura. ad Alberto Carocci e a Luigi Chiarini.64 Il “caso Antonioni” è dunque il banco di prova degli intellettuali Ma come esempio più probante si può scegliere la rivista di cul- dell’epoca, anche se oggi la parte più caduca del suo cinema è proprio tura forse più “generalista” del periodo, ossia «L’Europa letteraria», quella che era più discussa, i temi dell’alienazione e dell’incomuni- nata nel 1960 e diretta da Giancarlo Vigorelli, che proprio per il cabilità. È ovvio oggi dire che l’importanza di Antonioni e i motivi suo non essere in nessun modo una rivista “di tendenza” costitu- della sua grandezza stanno altrove, e che la storia della ricezione del

40 41 suo cinema da parte dei letterati è soprattutto la storia di un equi- prove di Antonioni si poteva, fino a un certo punto, ammettere l’an- voco, per quanto istruttivo. Già all’epoca, le esilaranti stroncature di tipersonaggio, è certo che l’attrice lo confuta nella misura in cui gli dà Alberto Arbasino su «Il Mondo» di Pannunzio (che colpiscono prima vita.»71 L’ipotesi di Debenedetti è che la morte del personaggio-uomo L’avventura e poi La notte, L’eclisse e Deserto rosso) tendevano a col- sia appunto provvisoria, e rispecchi piuttosto una situazione tipica del pire, attraverso i film, una moda culturale nazionale.65 Arbasino in periodo: anche per lui il cinema (di Antonioni) è il luogo privilegia- ogni modo si concentrava soprattutto sulla descrizione dei personaggi, to per osservare le tendenze artistiche in atto. Ma, diversamente da cogliendo implicitamente nella loro mutazione uno degli elementi altri osservatori, Debenedetti era un vecchio frequentatore dei film: centrali del cinema di Antonioni. E proprio questo è il punto d’ar- e la sua confutazione di quel che la cultura dell’epoca voleva vedere rivo (e costituisce probabilmente la scintilla prima) di uno dei più nel cinema proviene, nei passi decisivi, dall’interno di un’analisi delle celebri saggi letterari del decennio, la Commemorazione provvisoria del poetiche e anzi della grammatica del cinema (attraverso l’analisi del- personaggio-uomo di Giacomo Debenedetti (1965),66 che ricostruisce la ricchezza degli strumenti retorici del cinema, Debenedetti confuta la lunga crisi del personaggio del romanzo ottocentesco, attraverso un l’idea di una “imperturbabilità” della macchina da presa, condannata parallelo con l’evoluzione delle scienze fisiche (e tenendo sullo sfondo a un eterno presente). gli eventi tragici della Seconda guerra mondiale). L’obiettivo polemi- co di Debenedetti sono i teorici del nouveau roman, che sostengono Mentre i letterati italiani si volgono al cinema come mai fino la necessità di una obiettività assoluta nel descrivere il mondo alie- allora, specularmente è anche il cinema di quegli anni a sentirsi nato, e fanno derivare le loro scelte anche dalla lezione del cinema. in dovere di mettere in scena la crisi degli intellettuali come tema Ma il cinema, obietta Debenedetti, non insegna affatto le cose che rilevante. Anzi, si potrebbe ipotizzare che la presenza di figure di imparano i teorici del nouveau roman. Non è affatto obiettivo e im- intellettuali, raccontate in quanto tali, sia uno dei topoi del cinema perturbabile, non conosce affatto, come unico tempo, l’indicativo d’autore. Si ha, nel complesso, il senso di una circolarità di richiami presente.67 E soprattutto, al grande critico appare pernicioso l’effetto tra dibattito intellettuale e film: dagli uni agli altri, e viceversa. di retroazione dell’antipersonaggio nel cinema, tentando di fare arte Ancora una volta, i due esempi fondamentali sono Fellini e An- «su un dato di cultura, eterogeneo, che difficilmente si presta come tonioni. L’esempio più eclatante è lo scrittore Giovanni Pontano in materiale».68 L’esperimento di Antonioni, osserva Debenedetti, fun- La notte, circondato dall’industria editoriale, tra critici agonizzanti ziona anche perché lo stile di Antonioni è giunto all’antiromanzo, e “cumenda” editori. Ma ad affrontare per primo il tema era stato «ammesso che vi sia giunto, senza essere clamorosamente passato per Fellini, con il celebre episodio di Steiner, il suicida di La dolce vita. le scapigliature della Nouvelle Vague»,69 e maneggia i materiali con Trattato malissimo dalla critica all’epoca, l’episodio appare invece, accortezza comunicativa; e perché il momento in cui i film di An- come si vedrà nell’analisi dedicata al film, uno snodo fondamentale tonioni arrivano è proprio quello giusto, in cui l’antipersonaggio è dell’opera e altamente significativo del cinema italiano di quegli divenuto di moda, e quindi i suoi film si collocano a mezza strada tra anni. Lo stesso 8 ½, a farlo nascere idealmente dal tronco di La cultura e divulgazione.70 Beninteso, per Debenedetti Antonioni è un dolce vita, partirebbe proprio dall’episodio di Steiner. In 8 ½, po- regista di prima grandezza, ma semplicemente la sua grandezza non tremmo dire, il protagonista centrale è una specie di Steiner incro- deriva dal cimentarsi con la forma dell’antiromanzo e specialmente ciato con Marcello: sempre testimone, ma stavolta della propria dell’antipersonaggio. E il critico nota anche un altro momento in cui interiorità. Ed è ben inquietante che la prima figura di intellettuale, la creazione di antipersonaggi al cinema finisce in aporia: la presenza e una delle più importanti, del cinema italiano di quel periodo, fisica del corpo degli attori. «Il nostro vero intento è di liberare l’eroina compia rapidamente la propria parabola in un suicidio e in una dalla sua sorte, o l’attrice dalle sofferenze della sua parte? Se in queste piccola strage di innocenti.

42 43 Autori nella crisi: la seconda metà stagioni del nostro amore di Vancini, Il Gattopardo di Visconti, ecc.) per circoscrivere il respiro e la misura, corti ed esigui, di ripensamenti del decennio più patetici che critici. Lo stesso Uccellacci e uccellini, con tutta la sua disponibilità intellettuale alle più spericolate contaminazioni, non si sottrae, infine, alla dimensione dell’idillio commemorativo, di specie funerea se non elegiaca.»72

Già alla metà del decennio tutti i grossi nomi del cinema italiano conoscono delle svolte radicali, verso il mito, il passato, l’incubo, La periodizzazione che si è adottata in questo libro presenta al o l’evasione in luoghi esotici. A Rocco e i suoi fratelli, La notte, La proprio interno una vistosa cesura cronologica, tanto da giustifi- dolce vita, Salvatore Giuliano, Banditi a Orgosolo, Accattone, Prima care quasi una doppia trattazione. Si tratta di un mutamento che della rivoluzione, seguono da parte degli stessi autori Giulietta degli riguarda l’intera società italiana, ma che trova una drammatica con- spiriti, Toby Dammit, Satyricon, Vaghe stelle dell’orsa…, Lo straniero, sonanza nella storia del cinema, sia dal punto di vista economico La caduta degli dei, Teorema, Medea, Edipo Re, Blow Up, Zabri- che artistico. skie Point, Un uomo a metà, Partner. Mentre si avvicina quel filone Con la “congiuntura” economica del 1964 e il consolidamento mito-politico che in grandi e grevi allegorie tenta da lontano la politico del centro-sinistra (ma anche il definitivo affossamento dei riflessione sull’attualità (I cannibali, 1969, di Liliana Cavani; Sotto suoi progetti più radicali di riforme, a cominciare da quella urbani- il segno dello scorpione, 1969, di Paolo e Vittorio Taviani) stica) comincia la storia di quello che Guido Crainz ha definito “il Nel suo studio su Cinema e pubblico, Vittorio Spinazzola indi- Paese mancato”, accompagnato dal “rumore di sciabole” dei primi viduava la novità del boom nella creazione di un cinema “medio” progetti eversivi di destra. E comincia anche il lungo declino, e poi maggioritario per una borghesia più ampia, e dunque nella fine di l’agonia, del cinema italiano. un cinema “popolare” in senso stretto verso un cinema “di massa”, Ecco come, alcuni anni dopo, Adelio Ferrero rievocava l’impor- secondo la logica delle analisi gramsciane: tanza di quest’anno per il cinema e la cultura italiane: «Al cinema popolare appartengono le opere destinate al consumo esclu- «Il 1964, anno della morte di Togliatti, è anche l’anno in cui, ripub- sivo delle classi subalterne; il cinema di massa è invece programmato in blicando il suo primo romanzo apparso nel 1947, Italo Calvino, nel vista di una unificazione del pubblico, borghese e proletario, e appare rievocare la stagione “neorealistica”, ne parla come di “una potenzialità perciò dotato di una valenza interclassista. (…) L’antinomia ci rimanda diffusa nell’aria. E presto spenta”. E il 1963 vedrà le violente polemi- a due fasi storico-culturali distinte. Nella prima, il film dichiaratamente che intorno al libro di Asor Rosa, l’appassionato discorso di Vittorini di serie B si contrappone in modo netto alle pellicole che ambiscono a sul “populismo”, la penetrante “verifica” di Fortini. Se la “delusione una qualifica di nobiltà espressiva; in seguito, l’avanzata dei prodotti per storica” induce questi e pochi altri intellettuali a una coraggiosa e una fruizione tendenzialmente universale determina un restringimento tuttora aperta “verifica dei poteri”, nel cinema essa tende invece a dell’area d’influenza dei film nati per incontrare il consenso delle élite contrarsi e a chiudersi nel ripiegamento elegiaco, nella nostalgia delle intellettuali: da ciò le fughe in avanti dello sperimentalismo avanguar- rivoluzioni mancate o tradite, nel lamento infine sulle “grandi spe- distico, portato a rinserrarsi in zone franche, fuori e contro il mercato ranze” eluse e frustrate. È sufficiente ricordare alcuni titoli e nomi dei industrialmente strutturato. In parallelo, anche il film popolare è con- primi anni ’60 (Estate violenta di Zurlini, La lunga notte del ’43 e Le finato entro margini più ristretti, dove può ancora conservare qualche

44 45 tratto di autonomia specialistica ma perde il suo carattere separato e più che per una reale attenzione alle opere, alle novità artistiche si qualifica prevalentemente nel senso di una ripetizione immediata, a che il cinema porta. infimo livello, dei modelli offerti dal consumo corrente. Nella seconda metà degli anni Sessanta non solo non c’è nessun Lo sviluppo complessivo del nostro cinema tra il 1945 e il ’65 ha segui- film che attivi un dibattito paragonabile a quello dei film di An- to questa linea.»73 tonioni, Visconti e Fellini negli anni precedenti, ma spesso alcuni dei film più rilevanti sono sostanzialmente ignorati dal pubblico: Ma le cose sono ancora più complesse. Certo, a metà del de- era già il caso di Prima della rivoluzione (29 milioni di lire di incas- cennio si costituisce un robusto filone mainstream, che coincide so), e lo sarà anche per l’esordio più folgorante di fine decennio, sostanzialmente con la commedia (ormai molto diversa da quella Nostra signora dei turchi (1968) di Carmelo Bene, che incassa 30 dei primi anni Sessanta: meno direttamente critica nei confronti milioni nella stagione 1968-69. Da un punto di vista più generale, dell’italiano del boom, e sempre più indulgente e ripetitiva), e il aumenta la forbice tra pochissimi titoli che rastrellano molti incassi cinema d’autore perde l’occasione di poter guidare l’evoluzione del e una moltitudine di invisibili (spesso film d’autore senza merca- pubblico italiano (come accade invece, per certi aspetti, in Francia). to). A fine decennio, nel 1969, quindici film incassano insieme Il cinema d’autore non conoscerà mai più incassi e un interesse del 13 miliardi, mentre gli ultimi cinquanta non ne mettono insieme pubblico paragonabili ai primi anni Sessanta, e d’altro canto sarà complessivamente nemmeno uno.75 Dal 1966 il calo delle presenze sempre meno interessato a un dialogo diretto con la società. In comincia a farsi avvertibile, soprattutto al Nord, che aveva sancito questo quadro si ha, come accennato, il paradosso dei due film- il trionfo dei film di Fellini e Visconti. simbolo di una nouvelle vague italiana, Prima della rivoluzione e I E ciò a dispetto di una nuova legge sul cinema, la cosiddetta legge pugni in tasca, che arrivano alla fine di una stagione di innovazione, Corona (frutto anch’essa, tra vari compromessi, dei primi governi e subito prima di un tracollo economico e artistico (dal 1965 la di centro-sinistra) che entra in vigore nel novembre 1965:76 essa qualità degli esordi italiani crolla). estende la composizione della commissione ministeriale ai rappre- Ma oltre a questi due poli va ricordato come il cinema “popola- sentanti delle varie categorie, e istituisce un fondo speciale per i re”, che avrebbe dovuto avere a questo punto un carattere residua- film con particolari scopi artistici. L’anno dopo verrà istituito l’Ital- le, conosce invece per quasi una ventina d’anni un avvicendarsi di noleggio, istituzione pubblica destinata a operare nel campo della generi e filoni di qualità sempre più bassa, fino all’avvento delle distribuzione cinematografica, e che poi passerà anche alla produ- tv private: dal mitologico a Franco e Ciccio, dallo spaghetti we- zione. Ma già dai primi anni i contrasti tra democristiani e socialisti stern al giallo argentiano, dal poliziottesco alla commedia sexy, la all’interno della sua gestione ne determinarono la vita tormentata.77 maggior parte degli incassi del cinema italiano saranno assicurati Quel che ci preme sottolineare è che i successivi interventi dello dai “generi di profondità”, creando una situazione caotica, vitale stato e della televisione italiana nel cinema segneranno, nel bene e e forse anche patologica.74 In questo gioco a tre il cinema d’autore nel male, la storia del cinema “d’autore” per decenni, separandolo rimarrà legato sostanzialmente ai nomi dei tre registi del “super- anche economicamente dal resto del cinema italiano, fosse esso quel- spettacolo d’autore”, e poi a quelli del solo Fellini, affiancato dai lo dei generi “bassi” o dei vecchi attori della commedia all’italiana, nomi di volta in volta più spendibili in chiave di cronaca politica o sulla breccia fino agli anni Ottanta. scandalistica (Pasolini, Ferreri, poi Bertolucci). Unici nomi in gra- Nel frattempo, il cinema d’autore va incontro, più che a una ri- do di catalizzare un discorso non confinato alle pagine dei perio- conoscibilità, a una vera e propria sclerotizzazione in alcuni stilemi dici specializzati, e in grado anche di raccogliere qualche consenso più o meno “moderni”, derivati dalle nouvelle vague internazionali all’estero. Spesso per motivi contingenti, polemici o scandalistici, o da modelli autoctoni. Sono gli anni in cui trionfano il teleobiet-

46 47 tivo, il grandangolo, lo zoom, la luce in macchina, talvolta il flou Note e i fermo-immagine, e, dal punto di vista della narrazione, le storie narrate in flashback o con piani temporali incastrati. In qualche modo, il cinema d’autore è diventato un bagaglio di attrezzi che però può di volta in volta servire a nutrire anche degli esempi di ci- nema di genere che lo imitino in maniera smaccata: sarà questo, po- chi anni dopo, il caso del filone neomelodrammatico alla Anonimo veneziano (1970). Mentre anche registi di generazioni precedenti, in un’ansia di modernità, si appropriano con entusiasmo di questi stilemi e ne fanno uso spesso abusandone: si pensi a tutto l’ultimo 1. Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, cinema di De Sica, o a La caduta degli dei (1969) di Visconti.78 Einaudi, Torino, 1995, p. 417. Nello stesso periodo Bolognini, con la collaborazione del direttore 2. Guido Crainz, Storia del miracolo economico, Donzelli, Roma, p. 87, il quale della fotografia Ennio Guarnieri, del musicista Ennio Morricone e specifica che «una diminuzione così rapida del peso dell’agricoltura avvicina del costumista Piero Tosi, porterà all’estremo questo stile, col quale semplicemente l’Italia ad altri paesi europei» come Francia e Germania. trova una intima consonanza, specialmente nella rievocazione del 3. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 1992, p. 239. passato sospesa tra fascino nostalgico e ripulsa morale. 4. Guido Crainz, Storia del miracolo economico, cit., 1996 (2003 II ed.), p. 56. Di conseguenza, per le nuove generazioni, che si preparano a vi- 5. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 271. vere il ’68, il cinema d’autore non sarà affatto così importante come 6. Ivi, p. 276. lo era stato per “la prima generazione”: 7. L’aumento delle vendite in quell’anno è del 30%: «dai 5 milioni di dischi del 1953 siamo ora a poco meno di 18 milioni, che saranno 22 nel ’52, 44 nel ’64» «Il dato davvero sintomatico che si rileva a partire dagli anni Ses- (Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze, santa è una crescente distonia fra la storia dei fenomeni di consu- 1995, p. 77). mo culturale e la vicenda del Paese in termini storici (…). Fa in- 8. Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo dubbiamente riflettere che la generazione studentesca sia cresciuta economico italiano, Franco Angeli, Milano, 1993. consumando (accanto a una cultura scolastica che faceva perno sul 9. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Vol. IV: Dal miracolo economico liceo classico come matrice della classe dirigente futura) il fumetto agli anni novanta 1960-1993, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 5. nero e il cinema mitologico-seriale o quello ».79 10. Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia, 1992, p. 307. 11. Il cinema e il suo pubblico. Indagine statistica e motivazionale sulla validità pubblicitaria del mezzo cinematografico, a cura di CODIS italiana, 1961, cit. in Francesco Casetti - Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media: dati statistici, ricerche sull’ audience e storie di consumo”, in Mariagra- zia Fanchi ed Elena Mosconi (a cura di), Spettatori, Edizioni di Bianco e Nero - Marsilio, Roma-Venezia, 2002, p. 146. 12. Francesco Casetti - Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media”, cit., p. 141. 13. «Il punto metaforico di raccolta della gioventù in questi anni, il luogo simbo-

48 49 lico del loro incontro corrispondono al cinema e alle immagini fotografiche. I euforici all’ombra del neorealismo, poi subirono il peso degli avvenimenti rea- ventenni non si riconoscono ancora un “noi” sul piano nazionale (...) attraverso gendo in qualche caso con una tale sopravvalutazione delle proprie sventure le immagini. Il James Dean di Gioventù bruciata, il Marlon Brando di Il selvag- da diventare eroi dell’arte di arrangiarsi». («Schermi», n. 20, gennaio-febbraio, gio, l’impudica Pascale Petit di Peccatori in blue-jeans, le immagini e i film di 1960) Brigitte Bardot, l’esistenzialista Juliette Gréco, la protagonista più ritratta del 26. Vincenzo Buccheri, “Mappe per un debutto: profili e tendenze nel cinema degli processo Montesi, Anna Maria Moneta Caglio, inducono l’autoriconoscimento esordienti”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. silenzioso di una generazione per adesione spontanea, con quell’inclinazione X: 1960-64, cit., p. 168. che James Coleman riassume nell’espressione “inward lookingness”: il guardar- 27. È lo stesso Petri a chiarire e giustificare i limiti di uno sperimentalismo pos- si reciproco, l’imitazione, il prendersi a modello l’un l’altro.» (Simonetta Piccone sibile in Italia: «La mescolanza di forme nuove di montaggio, con (…) tagli Stella, La prima generazione, cit., pp. 11-12) rivoluzionari, nei Giorni contati esprime una mia cautela. Le rivoluzioni non 14. Casetti - Fanchi, “Le funzioni sociali”, cit., p. 156. possono essere attuate senza premesse rivoluzionarie, come fatto intellettuali- 15. Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, cit., p. 13. stico. Nessuno in Italia ha scritto come Dos Passos, nemmeno Pavese e Vittori- 16. Sul tema cfr. Claudio Bisoni, “Cinema a 45 giri”, in Giacomo Manzoli e Gugliel- ni, e lo stesso Svevo non è supinamente joyciano, Guttuso, che è il più grande mo Pescatore (a cura di), L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a pittore italiano di oggi, deve molto a Picasso, ma non al cubismo.» (Intervista basso costo in Italia negli anni Sessanta, Carocci, Roma, 2005, pp. 53 - 61. in «La fiera del cinema», febbraio 1962, raccolta in Patrizia Pistagnesi, a cura 17. Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci, Roma, 2010, p. 55. di, Poetiche delle nouvelles vagues. 2: Italia, Marsilio, Venezia, 1991, p. 16). 18. Già presente nelle varie edizioni di Il cinema italiano degli anni ’60 (ultima 28. Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, edizione Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 2002), questa 1993. ricostruzione è sintetizzata e aggiornata nel saggio “La nuova ondata e la po- 29. David Bordwell, “The Art Cinema as a Mode of Film Practice” (1979), raccolto litica dei debutti: percorsi cinematografici”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), in Leo Braudy e Marshall Cohen (a cura di), Film Theory and Criticism, Oxford Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-64, Edizioni di Bianco e Nero - Marsilio, University Press, New York, 1999, pp. 716-20; Id., Narration in the Fiction Film, Roma-Venezia 2001, pp. 136-159. University of Wisconsin Press, Madison, 1985. 19. Lino Micciché, La nuova ondata e la politica dei debutti: percorsi cinematogra- 30. András Bálint-Kovács, Screening Modernism. 1960-1980, fici, cit. University of Chicago Press, Chicago, 2007, specialmente pp. 63-6: «Le carat- 20. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, cit., p. 61. teristiche della narrazione moderna sono conseguenze del fatto che esse rac- 21. Ivi, pp. 59-61. contano storie di una persona estraniata che ha perso tutti i suoi contatti 22. Roberto Turigliatto (a cura di), Nouvelle vague, Festival Cinema Giovani, Tori- essenziali con gli altri, con il mondo, con il passato e con il futuro o addirittura no, 1985, pp. 104-5. perso le fondamenta della propria personalità. Più radicale è l’estraniamento 23. «Quella del cinema italiano di quel periodo è una luce da produttore.» (Ivi, 104-5) di questa persona, più radicale il carattere moderno della narrazione. Più una 24. Cfr. la classica discussione, già all’epoca, della difficoltà di definire il nucleo persona è radicata nelle tradizionali relazioni umane e sociali, più classica sarà portante del “nuovo cinema”, compiuta da Christian Metz nel saggio “Il cinema la narrazione» (p. 66). moderno e la narratività”, («Cahiers du cinéma», n. 185, 1966) raccolto in Id., 31. Sul rapporto autore/personaggio nei film italiani dell’epoca cfr. Veronica Pra- Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972, pp. 253-303. vadelli, “Moderno/Postmoderno: elementi per una teoria”, in Bruno Torri (a 25. Curiosamente, come notava all’epoca uno dei critici giovani estimatori della cura di), Nuovo cinema (1965-2005). Scritti in onore di Lino Micciché, Marsilio, Nouvelle Vague (specialmente rive gauche), Morando Morandini, gli exploit del Venezia, 2005, pp. 66-78, cit., pp. 72-3. nuovo cinema francese erano stati accolti piuttosto male dalla critica italiana: 32. L’idea che il richiamo al neorealismo sia ciò che distingue esplicitamente il «Gli oppositori italiani della “nouvelle vague” sono coloro stessi che crebbero cinema d’autore italiano da quello commerciale dello stesso periodo è stata di

50 51 recente articolata anche da Angelo Restivo, The Cinema of Economic Miracles: motivi della nuova ondata neorealista: l’antifascismo, la questione meridiona- Visuality and Modernitazion in the Italian , Duke University Press, le, gli umori esistenziali, i turbamenti erotici.» Durham, 2002. 46. Al riguardo, Vincenzo Buccheri (Lo stile cinematografico, cit., p. 131) ha lancia- 33. Cfr. nota 21. to l’ipotesi che, a fronte di un cinema degli anni Sessanta “imperfettamente” 34. Le iniziative di Zavattini in quegli anni, realizzate e no, sono come al solito le moderno, si potessero rintracciare invece elementi di modernità stilistica nel più diverse: tra le altre il documentario televisivo Chi legge? (1960) in collabo- cinema degli anni Cinquanta, superando il meccanico legame tra modernità razione con Mario Soldati, l’attività di docente e supervisore per la scuola di degli stili ed epoche storiche. cinema dell’Avana, il progetto dei «Cinegiornali della pace» (ne verrà realizzato 47. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Vol. IV, cit., p. 180. solo un numero), l’idea abortita di film-inchiesta autobiografici (su De Lauren- 48. Per la cronistoria delle vicissitudini del film, cfr. G. Gerosa, La censura balorda, tiis, Danilo Dolci e Maurizio Arena) ecc. (cfr. la Cronologia in Cesare Zavattini, «Schermi», 28 dicembre 1960, ora in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del Opere 1931-1986, Bompiani, Milano, 1991, pp. XXXVII- XXXIX). cinema italiano. Vol. X: 1960-64, cit., pp. 583-588. 35. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, cit., p. 183. 49. Basti pensare che il primo annuario di cinema curato da Vittorio Spinazzola 36. András Bálint-Kovács, Screening modernism, cit., p. 65. (Film 1961, Feltrinelli, Milano) presenta come inserto fotografico esclusiva- 37. Fondamentale, per l’identificazione di un “cinema d’autore” come pratica sto- mente una scelta di titoli di grande valore artistico che in quell’anno sono stati ricamente definita, che possiede «una serie di convenzioni formali e delle pro- colpiti dai tagli della censura. Da ricordare anche il numero della rivista «Il cedure spettatori ali implicite», il saggio citato di Bordwell del 1979 su The Art Ponte» diretta da Piero Calamandrei (n. 11, novembre 1961): alcuni interventi Cinema (la citazione è a p. 717). sono riprodotti in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. 38. Su questo aspetto del film di Fellini cfr. András Bálint-Kovács, Screening Moder- Vol. X: 1960-64, cit., pp. 588-591. nism, cit., pp. 316-22. Da notare che l’espressione anglosassone per indicare 50. Franco Vigni, “La censura”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema quello che noi chiamiamo “cinema d’autore” sia art cinema: in Francia e in Ita- italiano. Vol. X: 1960-1964, cit., p. 518. I dati dei tagli sono contenuti in Alfre- lia, l’idea che il cinema d’arte si definisca in base alla preminenza dell’autore do Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia 1947-1948, Marsilio-Edizioni di è implicita nel nome stesso. Bianco e Nero, Roma, 2002. Da essi si evincono anche tagli di piccola entità 39. Veronica Pravadelli, Moderno/Postmoderno, cit. imposti anche a Il carro armato dell’8 settembre, La ciociara, Vanina Vanini, La 40. Ivi, p. 73. viaccia. 41. Rick Altman, Film/Genere, V&P. Milano, 2004, p. 333. 51. Si tratta quasi sempre di tagli riguardanti scene a sfondo erotico o sessuale, men- 42. Ivi, p. 25. tre sono molto minori che nel decennio precedente i tagli “politici” (con qualche 43. Dopo Senso (1954), Visconti fa di nuovo eccezione con Il Gattopardo (1963) eccezione, ovviamente, come i tagli imposti a Salvatore Giuliano di Rosi). ma passerà definitivamente al colore solo nel 1967; Fellini e Antonioni nel 52. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, cit. 1965; Comencini nel 1966; Lattuada e Zurlini nel 1968. Ed esordiscono in bian- 53. Roy Menarini, La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna, 2001, pp. 38-9. co e nero quasi tutti i nuovi autori del decennio, da Olmi a Pasolini a Bertolucci, 54. Alberto Pezzotta, Alla scoperta dell’autore impari, «Segnocinema», n. 110, lu- fino a Bellocchio (1965), Cavani (1966, ma è un film per la tv), Samperi e glio- agosto 2001, pp. 4-8. Agosti (1967). 55. Ivi, p. 4. 44. Oltretutto esso si articolerà nell’innesto sullo spaghetti western anche come 56. Ivi, pp. 4-7. genere esotico, specialmente nei film di Pontecorvo o in certi mafia-movie. 57. La differenza tra cinema d’autore classico, ad esempio, sarebbe quella tra il 45. Cfr. quanto dice Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, Bompiani, Milano, Bergman degli anni Cinquanta e quello del decennio successivo (András Bálint- 1974: «I più agguerriti specialisti del filone (comico-brillante) diedero il segna- Kovács, Screening Modernism, cit., p. 63); la stessa distinzione può valere gros- le di abbandono del campo, passando a impadronirsi di tutti i più impegnativi somodo anche per Antonioni e Fellini.

52 53 58. Il concetto di “immagine-tempo”, che mostra la durata, la “situazione ottica 67. Ivi, pp. 1309-11. pura”, in contrapposizione con “l’immagine-movimento” legata a un’azione, a 68. Ivi, p. 1312. un percorso tra due situazioni, è una nozione molto complessa che coincide 69. Ivi, p. 1313. solo in parte con l’opposizione tra cinema classico e cinema moderno (cfr. Gil- 70. Ivi, p. 1314. les Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, pp. 11-16). Da notare 71. Ivi, p. 1316. come Deleuze veda una continuità tra neorealismo e cinema italiano degli 72. Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Falsopiano, 2005. anni Sessanta, dal punto di vista dell’invenzione di un cinema moderno: «In tal 73. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., pp. 348-9. senso, Visconti, Antonioni, Fellini appartengono pienamente al neorealismo, 74. Cfr. Emanuela Martini, “L’omologazione verso il basso del cinema italiano”, in malgrado tutte le loro differenze». (p. 14) Enrico Magrelli (a cura di), Sull’industria cinematografica italiana, Marsilio, 59. Goffredo Fofi, “Ieri e oggi”, prefazione a La politica degli autori, Le grandi Venezia 1986. interviste dei “Cahiers du cinéma”, minimum fax, Roma, 2000, p. 7. 75. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Vol. IV, cit., pp. 21-22. 60. Serge Daney, Devant la recrudescence des voleurs de sac à main (1991), trad. 76. Flavio De Bernardinis, “1965: la legge sul cinema”, in Storia del cinema italia- it. Cinema televisione informazione, e/o, Roma, 1999, p. 95. no. Vol. XI: 1965-1969, Edizioni di Bianco e Nero-Marsilio, Venezia-Roma 2002, 61. Bernardino Zapponi, del resto, il nuovo sceneggiatore di Fellini di questo perio- pp. 379-396. Da notare come sull’articolo 5 della legge si sia scatenata una po- do, era uno scrittore con forte propensione al fantastico, che negli anni succes- lemica che arrivò fino a minacce di dimissioni e di porre il voto di fiducia sulla sivi collaborerà a vari film horror, a cominciare da Profondo rosso. legge, a causa delle richieste di alcuni settori della Dc di inserire come requisiti 62. Una rilettura di Bolognini in questa chiave è stata proposta di recente da Pier per il finanziamento, oltre a quelli artistici, anche altri di natura “morale”. Maria Bocchi e Alberto Pezzotta, Mauro Bolognini, Il Castoro, Milano, 2007. 77. Bruno Torri, “La nascita dell’Italnoleggio”, in Gianni Canova (a cura di), Storia 63. Il termine bal(l)ade è un gioco di parole tra “ballade” (ballata) e “balade” (pas- del cinema italiano. Vol XI: 1965-1969, cit., pp. 419-426. seggiata), usato da Deleuze per indicare una delle forme della crisi dell’“imma- 78. Barbara Grespi, “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a gine-movimento”, caratterizzata proprio dal vagabondaggio dei personaggi in cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1964-69, cit., pp. 233-251. contrapposizione a una struttura più chiaramente orientata al raggiungimento 79. Fausto Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ot- di uno scopo. Il termine, nel volume precedente L’immagine-movimento (Ubuli- tocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano, 1998, pp. 246-7. bri, Milano, 1984) era stato tradotto anche come “forma-andare a zonzo”. 64. «Il Contemporaneo», V, n. 9, giugno 1962 (parzialmente raccolto in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, Marsilio, Venezia, 1994, pp. 189-198). 65. Al di là del fuoco di fila di sberleffi e parodie, l’obiezione di Arbasino a tratti sembra battere stranamente sul tema della verosimiglianza (il concetto è: An- tonioni racconta cose che non conosce, questi personaggi nella realtà non sono così o non sono raffigurati in maniera verosimile) e poi adombra un nucleo assai serio: «Trovo artisticamente manchevole un film che invece di rappre- sentare l’alienazione, è l’alienazione stessa». «Il Mondo», 3 luglio 1962, poi in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, cit., p. 210. 66. In «Paragone-letteratura», XVI, n. 190 (10 dicembre 1965), poi in Giacomo De- benedetti, Saggi, Mondadori, Milano, 1999, pp. 1283-1322.

54 55 i film affresco in rotocalco: Di recente, più di un libro ha addirittura collazionato i materiali La dolce vita (1960) che, nella stampa popolare, sono da considerare i diretti ispira- tori dell’opera felliniana.2 Il mito di via Veneto, la “Hollywood di federico fellini sul Tevere”, i paparazzi: tutto questo è il materiale su cui vivono rotocalchi come «Le ore» (che ha in via Veneto la propria sede), «Gente», ma non si sottraggono nemmeno «La settimana Incom illustrata», «Epoca», «Tempo» e addirittura «L’espresso». I giornali pullulano di divi sorpresi all’uscita da night, più o meno ubriachi, a volte vestiti da antichi romani per motivi promozionali. Roma è 1. un centro della mondanità cinematografica per tutti gli anni Cin- La dolce vita è forse il film che più incarna la nozione di “super- quanta. Il primo a sbarcare, nel 1949, era stato Tyrone Power, che spettacolo d’autore” coniata da Spinazzola. Più di Antonioni, ma in qui si era sposato con Linda Christian; mentre la grande stagione fondo anche più di Rocco e i suoi fratelli. Perché, a suo modo, risul- dei supercolossi americani comincia con le riprese, nel 1950, del tano in esso più evidenti i tratti di modernità insieme linguistica e Quo vadis? di Mervyn Le Roy. di costume, di confronto con una nuova dimensione della cultura Numerosi sono inoltre i singoli casi in cui si è voluto vedere, di massa, fino alla codifica di modi di dire (appunto “dolcevita”, nell’opera di Fellini, la trasfigurazione di celebri eventi di cronaca. “paparazzo”), e di un vero e proprio glamour all’italiana, simboleg- A sfogliare i rotocalchi degli anni Cinquanta si ritrovano infatti giato idealmente dalla scena-simbolo del bagno nella Fontana di un bagno della Ekberg nella Fontana di Trevi (durante le riprese Trevi. Inoltre, La dolce vita è il film che in misura maggiore punta del film di Guido Brignone Nel segno di Roma, settembre 1958), sulle proprie dimensioni, di superspettacolo, di “kolossal all’italia- il marito della Ekberg che aggredisce i paparazzi, e su «Settimo na”, come di solito è lecito essere solo ai film in costume. Giorno» il re dei paparazzi, Tazio Secchiaroli, pubblica le foto di Non a caso, le ricerche degli ultimi tempi si sono soffermate due bambini che nella campagna romana affermano di aver visto spesso sul carattere multimediale dell’opera di Fellini, sul suo essere la Madonna. E come ricorda Kezich, una statua del Cristo venne anche un’enciclopedia dei media contemporanei. Il rapporto del effettivamente portata in elicottero sui cieli di Roma il 1 maggio film La dolce vita con il proprio tempo è a due direzioni: utilizza gli del 1956. A questi eventi si può aggiungere il celebre spogliarello spunti di cronaca, e diventa esso stesso oggetto di cronaca fin dai della ballerina turca Aiché Nanà al ristorante Rugantino (6 novem- primi annunci delle riprese, con una serie di notizie che filtrano, in bre 1958), le cui foto apparse sui giornali causano uno scandalo (e maniera insieme sapiente e istintiva, sulla stampa “alta” e bassa, i ci- a movimentare la festa, poco prima dello strip-tease, in pista c’era negiornali, la televisione. La cosa significativa è però che questo tra- stata ancora una volta la Ekberg).3 gitto in doppia direzione non è dal film alla cronaca e dalla cronaca Ma soprattutto, il confine tra “la dolce vita” (non ancora tale) e al film, ma dal cinema agli altri media e viceversa. In questo senso, La dolce vita (non più Via Veneto, come sperava il primo produt- il progetto di La dolce vita presuppone (anche nella sua struttura tore Peppino Amato) si fa labilissimo nel periodo delle riprese. Su formale) una realtà italiana già mediatizzata. Lo aveva dichiarato lo tutti i giornali arrivano, a mano a mano, le foto delle riprese nella stesso regista: «Se dovessi cercare un precedente a questo film (...) Fontana di Trevi (fot. 1) e quelle della Ekberg con l’abito prelatizio sarebbe stampato in rotocalco. (…) Il rotocalco è già una forma di di Piero Gherardi. Si susseguono reportage dal set e interviste dopo rappresentazione del mondo contemporaneo. Il film non ne costi- la scandalosa e trionfale uscita del film (non mancano, ovviamente, tuisce che un prolungamento, un’interpretazione personale».1 gli articoli scandalistici sulla presunta “coppia in crisi” Federico-

58 59 Fot. 1 Fot. 2

Giulietta, fot. 2).4 Non stupisce che, quando va a fuoco l’albergo 2. Ambasciatori di via Veneto, tra le maestranze si sparga subito la Anche se alcuni elementi, atmosfere e perfino sequenze del film voce che l’episodio finirà immediatamente nel film.5 ricordano in maniera evidente i titoli immediatamente anteceden- Questo effetto di sovrapposizione durerà fino a oggi, ma si può ti del regista (Il bidone e Le notti di Cabiria, rispettivamente del dire che per tutto il periodo del boom quasi non conosca flessioni. ’55 e del ’57), i segni di novità sono evidenti. Fin dall’ampiezza Nel 1962-3 le dieci puntate su via Veneto del settimanale scandali- dell’opera, che supera di almeno un’ora la durata di qualunque stico «Le ore» sembrano chiudere un’epoca, ma il mito di via Vene- suo film precedente. E, per limitarci al piano dei contenuti, La to si trasferisce dalla cronaca presente all’idealizzazione passata. Già dolce vita curiosamente mostra uno spostamento dal mondo degli nel 1962 «L’Europeo» pubblica una storia di via Veneto in quattro “umili” o dei personaggi piccolo-borghesi (Gelsomine e Cabirie, puntate, con testi di Fellini e Flaiano.6 La costruzione del mito di via ma anche sposine di provincia e “vitelloni”) fino allora prediletti Veneto è parallelo alla nascita del film di Fellini come macchina mito- dal regista, verso il cuore di una nascente società dello spettacolo. poietica parahollywoodiana, produttrice di icone dello spettacolo e Il passaggio dai fotoromanzi di Lo sceicco bianco (1952) al jet-set di di glamour internazionale. E il cinema stesso se ne farà portatore: via Veneto mette in evidenza come Fellini, sempre interessato allo se già durante il montaggio del film una parte degli attori viene spettacolo (o più precisamente, ai modi in cui una società si rivela convocata da Mario Camerini per girare Via Margutta (1960), le antropologicamente attraverso lo spettacolo) segua con assoluta e immagini del film rimbalzeranno nel grande e nel piccolo schermo ironica fedeltà l’esplosione dell’industria dei media. Al momento in mille versioni, tra cui quella “filologica” di Ettore Scola in C’era- di riprendere il vecchio progetto di Moraldo va in città, il regista si vamo tanto amati (1974), nel quale lo stesso Fellini interpreta se trova dinanzi un mondo mutato; a questo cambiamento risponde stesso sul set della Fontana di Trevi. un “salto” formale, compiuto consapevolmente.

60 61 “Opera mondo”, come la definisce Costa,9 o “film-rotocalco”, La dolce vita è un film che esibisce la propria struttura, a cominciare dalle dimensioni, rendendole immediatamente visibili allo spetta- tore. Fellini gonfia l’insieme e separa le sue parti, rendendo visibili le “stazioni” della storia. Non a caso una definizione più ricorrente del film sarà quella dell’affresco (per le dimensioni e per la quantità di personaggi), oltre al paragone con la La Divina Commedia.10 Il film è costruito per ampi blocchi distinti. Dopo una specie di prologo, con l’arrivo della statua di Cristo su Roma, seguiamo le peregrinazioni di Marcello, che ha abbandonato le ambizioni letterarie per fare il giornalista di rotocalchi scandalistici. Il primo episodio è l’incontro con Maddalena, ricca annoiata, che si con- clude in casa di una prostituta, in periferia. Al ritorno, Marcello trova Emma, la sua nevrotica fidanzata, semisvenuta per aver in- gerito troppi barbiturici: è la seconda figura femminile di rilievo. Fot. 3 Il terzo incontro, subito dopo, è con Sylvia, diva americana di pas- saggio a Roma: altro vagabondaggio notturno che si conclude col «Oggi la bohème, nel senso di allora, è scomparsa. Non c’è una co- celebre bagno nella Fontana di Trevi. A contrasto, l’incontro suc- munità di artistoidi che vivono alla giornata saltando i pasti tutti cessivo (in due tempi) è con l’amico Steiner, intellettuale dolente insieme. Oggi ci sono il giornalismo, i fotoreporter, la motorizza- che chiede conto a Marcello delle sue ambizioni di un tempo; in zione, l’ala della café-society. Un altro mondo. (...) Così ci dicem- mezzo, la scena del “falso miracolo” cui Marcello partecipa come mo: teniamo lo schema e facciamo un copione nuovo, Moraldo ’58. osservatore disincantato. Trovammo quasi subito una chiave che mi parve buona: la moda a La seconda parte del film si articola intorno a tre macro-scene: sacco, le donne che sembrano uccelli, canguri, abitatrici di un mon- una festa dell’aristocrazia in un castello a Bassano di Sutri (dove do irreale. Poi dissi: inventiamo episodi, non preoccupiamoci per Marcello incontra di nuovo Maddalena, alla quale si confida da ora della logica e del racconto. Dobbiamo fare una statua, romperla stanza a stanza, mentre, senza che lui se ne accorga, la donna ha e ricomporne i pezzi. Oppure tentare una scomposizione picassiana. un rapporto occasionale con uno sconosciuto); il ritorno a casa di Il cinema è narrativa nel senso ottocentesco: ora cerchiamo di fare Steiner, dove scopre sgomento che l’amico ha ucciso i propri figli qualcosa di diverso.»7 e si è suicidato; e infine la festa nella villa che si conclude all’alba, con l’apparizione, sulla spiaggia di Passo Oscuro, di un misterioso Inscindibile da quanto detto sopra è l’originalità linguistica del pesce, e di una fanciulla che dice qualcosa di inudibile a Marcello. film, e non solo nell’ambito del cinema di Fellini, ma nella storia Come si vede da questo sommario, il film è articolato secondo del cinema italiano tutto. Un’originalità che non poteva fare scuola, uno schema non tanto di anti-racconto, quanto di blocchi relati- per un film concepito da subito come un unicum, un “evento” si vamente compiuti, e separati in maniera visibile. Chi ha provato a direbbe oggi. smontare la composizione narrativa dell’opera, ha potuto dimostra- È stato notato «come la forma stessa del film si definisca attraver- re che Fellini bilancia la spinta caotica e centrifuga del suo mondo so il suo stesso processo di produzione e insieme di promozione»8. con una spinta inversa centripeta e quasi classica a cui àncora l’in-

62 63 sieme, rispettando addirittura gli elementi tipici dello “stile classico La struttura del film alterna improvvisi rallentamenti e accelera- hollywoodiano” descritto da David Bordwell.11 zioni, scene intime “a due” o immagini postume all’alba (otto, ne ha contate Kezich)14 a vertiginose e affollate composizioni collet- 3. tive, quasi senza centro. Tra le sequenze più “piene” e febbrili del Ma la forza registica di Fellini risalta ed è più riconoscibile non film ci sono l’arrivo di Anita a Roma, con la conferenza stampa e la tanto nell’organizzazione complessiva del materiale narrativo, quan- visita al night; la scena del miracolo, la visita al castello dei nobili e to nella sua disposizione dentro la singola sequenza o addirittura la festa finale con lo spogliarello. la singola inquadratura. Il piano della sintassi, dell’organizzazione Per vedere più da vicino lo stile di Fellini, soffermiamoci sulla parte del profilmico, del découpage e dell’impianto figurativo. Lo stesso iniziale di quest’ultima sequenza, dall’irruzione nella villa all’inizio sceneggiatore Tullio Pinelli lo riconosceva in una lettera a Fellini: dello spogliarello di Nadia sulle note di Patricia. Si tratta di quattro «La responsabilità di questo film sarà tutta registica (...). Altre sce- minuti, divisi in una trentina di inquadrature, con un montaggio neggiature ti hanno dato il sostegno preciso di una vicenda, di una quindi piuttosto veloce, ma alternando inquadrature brevi e altre costruzione logica. Qui non avrai niente. Dovrai dare sostanza at- più lunghe, quasi sempre con complessi movimenti di macchina. traverso la forma. Il film sarà bello e importante solo se scavalcherai Si notano poi dei falsi raccordi, per cui dei normali tagli interni alla la sceneggiatura inventando un linguaggio nuovo».12 scena non collimano del tutto (come quando si passa dalla propo- La peculiarità dello stile della messa in scena felliniana è stata sta di Nadia a un piano ravvicinato di lei e del marito che cerca di spesso sottolineata dagli stessi collaboratori del regista, come il di- dissuaderla – 28’55” del Dvd Medusa Home Video). La musica in rettore della fotografia Otello Martelli: sottofondo cambia continuamente, e spesso in un’inquadratura si sentono voci e rumori di incerta attribuzione, che provengono ma- «Fellini è un regista moderno, si è ambientato subito con il cinema- gari dall’inquadratura precedente, o da quella successiva. L’effetto scope. (…) In questo film ha voluto applicare l’ottica come ha voluto. è quello di uno stordimento complessivo, aumentato dal fatto che Forse contro i principi secondo i quali si devono usare certi obiettivi. ogni personaggio, in una prima fase, sembra compiere azioni indi- Che cosa dovevo fare? Trincerarmi dietro la consuetudine, le regole, le pendenti dagli altri, e i movimenti di macchina seguono dei perso- tabelle? Farne una questione di buon senso? (…) Questa volta è stata naggi-guida che non sono gli effettivi protagonisti, ma piuttosto dei una specie di scommessa. Federico ha voluto adoperare sempre obiet- vettori che permettono di esplorare altre porzioni della scena (men- tivi a fuoco lungo. Il 75 millimetri, il 100 e perfino il 150: obiettivi tre sta guardando il biondo effeminato Giò Stajano, la macchina da da ritratto, da primissimo piano. Ha voluto usarli nei movimenti, nei presa passa alla discesa dei due travestiti dalla scala, e poi l’incedere carrelli. Gli premeva di avere il personaggio molto a fuoco e non si dei due apre, a mo’ di sipario, sul gruppo che comprende Laura curava, invece, della profondità focale. Il 50, che è l’obiettivo norma- Betti), perché alle loro spalle ci sono sempre altri personaggi più o le per il cinemascope, l’ha adoperato pochissimo. (...) Con il 175 le meno con lo stesso statuto all’interno della scena e della storia. Il panoramiche e i movimenti lunghi possono dare fastidio, creare uno protagonista, Marcello, è invece immobile, e dialoga in un campo- sfarfallamento. Da principio l’ho fatto notare a Fellini, ma lui mi controcampo piuttosto funzionale: egli è ancora, flebilmente, pur rispondeva: che cosa ce ne importa? Come spesso succede, aveva per- sempre il baricentro della scena, un ancoraggio per lo spettatore. fettamente ragione. Ha dato uno stile al film, una visione stretta, un Se si prende una scena tipica del Fellini successivo, ad esempio quadro raccolto, delle figure incise, una deformazione dei personaggi quella della “festa de noantri” in Roma (ma si potrebbe scegliere e degli ambienti.»13 quasi ogni altra sequenza di questo film), vedremo che tale proce- dimento rimane, ma spinto al virtuosismo. Il quadro complessivo

64 65 è ancora più pieno e frastornante: i personaggi che intervengono deformanti o deformati dei miei personaggi o dei miei arredamenti sono (in circa otto minuti) almeno una trentina, in scena si arriva “caricaturali”. No, è una visione che ha in sé, che presume in sé già un fino a quattro-cinque azioni che si svolgono contemporaneamente giudizio morale sulle cose.»16 (a volte nella stessa inquadratura) come i rumori e le musiche, che in più sono marcate da forti accenti e timbri esasperati, in puro L’uso della caricatura e del fumetto comincia ad affacciarsi in La stile “radiofonico”. I personaggi sono ridotti a semplici apparizioni dolce vita in forma appena embrionale, ma diventerà un elemento caricaturali, l’insieme non costituisce nessuno sviluppo dramma- fondamentale della poetica del regista. turgico ma procede in un’ideale, unica inquadratura gigantesca con immagini simultanee, mentre lo stesso protagonista-osservatore è 5. inghiottito dalla scena, scompare; e in effetti il film, nel suo com- Lo stile della messa in scena felliniana si àncora, come visto, a plesso, di protagonista è privo. un’osservazione precisa di un mondo rappresentato e insieme in- ventato. In questo senso La dolce vita è, tra i film di Fellini, quello 4. in cui si può leggere in maniera più forte l’apporto di Ennio Fla- L’impianto visivo di La dolce vita, la costruzione delle sequenze, iano, sceneggiatore che del mondo di via Veneto, nella sua fase è indicativo della peculiare via felliniana alla modernità, che appare anteriore, era stato uno dei cronisti più precisi. Le somiglianze tra caratterizzata dal ricorso alle pratiche “basse”, a una impostazione i due sono anche un compendio di culture peculiari, di tradizioni dell’inquadratura e delle sequenze debitrice verso vecchie forme di profondamente, criticamente italiane: teatralità comica (il circo e l’avanspettacolo, che però sono anche un elenco di suggestioni tematiche e di immagini) ma più ancora a for- «L’origine provinciale e il rapporto con Roma, il senso dell’humour me di spettacolo tipicamente moderne come la radio (i film di Fellini, e della satira sociale, il ripudio della volgarità anche nel raccontare la così carichi dal punto di vista visivo, sono anche dei radiodrammi, volgarità, l’attenzione agli umili senza la loro idealizzazione, un certo sempre più “reinventati” in sala di doppiaggio) e il fumetto.15 scetticismo politico, che aveva però in Fellini una matrice più decisa- Il confronto con Antonioni è ancora una volta inevitabile: se mente cattolica, ma che collimava con la coscienza “esistenzialistica” quest’ultimo sceglie di affrontare i grandi temi al centro del dibat- di Flaiano (...) e trovava omogeneità e senso del limite, nella sfiducia tito culturale (la psicanalisi, il romanzo sperimentale, il dibattito verso le possibilità dell’uomo di farcela da solo a risolvere i suoi pro- su letteratura e industria) attraverso una forma narrativa moderna, blemi e a combattere il suo male.»17 Fellini sceglie una via più obliqua, “dal basso”: per lui la crisi delle forme narrative tradizionali apre la via al recupero delle forme di Come sintetizzava lo scrittore, rispondendo a una lettera di Tullio spettacolo e di comunicazione di massa della prima modernità, e al Kezich, «il terreno d’incontro tra me e Fellini non so quale sia. For- cortocircuito con altri media. se l’attenzione e la tolleranza verso le azioni degli uomini, comprese Quella di Fellini è anzitutto una narrazione per caricature, per le nostre, o la pietà per il nostro destino. (...) Il furto, in certi casi, frammenti che continuamente minacciano l’armonia dell’insieme, è un tentativo di mettere ordine nel caos».18 il che è ben lungi dal costituire un limite. Come ricorda il regista: Con La dolce vita il rapporto tra i due è più forte e insieme più conflittuale, e forse proprio perché in certo modo si trattava del «La caricatura ha in sé una forza essenziale, cioè di sintesi, che mi film che Flaiano sentiva più “suo”. Qualcosa che Flaiano aggiunge sembra che sia uno degli aspetti fondamentali dell’arte, e quindi non a Fellini è lo spirito di autocritica degli emergenti ceti intellettuali. sono affatto seccato che qualche volta la critica definisca certi aspetti Certo, non si tratta soltanto di un tema di Flaiano. Il ruolo degli in-

66 67 tellettuali era fin troppo centrale nel dibattito dell’epoca, e Flaiano sceneggiatori e ovviamente dal produttore Rizzoli. «Alzò lo sguardo era il dolente osservatore satirico di questa centralità. dal copione e disse: “Caro artista, dimmi ti prego che questa cosa Di questo mondo, però, viene ora mostrata la vicinanza, anche non l’hai pensata tu... Con quella faccia buona, non è possibile”. E fisica, con il mondo dei paparazzi e delle attricette. In Fellini, l’in- nessuno gli ha più levato dalla testa che si tratta di un’idea di “quel tellettuale del neocapitalismo alle prese con alienazione e rapporto Flaiano là”».20 con l’industria, è semplicemente l’altra faccia dell’attore di peplum, Anche lo spettatore di oggi, per la verità, potrebbe nutrire qual- del fotografo scandalistico. La convivenza fisica dei due mondi nel- che sospetto simile a quello di Rizzoli, conoscendo il cupo umor la via Veneto di quegli anni, con Cardarelli e Steve Reeves fianco a nero di Flaiano sugli intellettuali («…giurare sull’arte impegnata, fianco, assume per Flaiano e Fellini il carattere di una rivelazione ripetere che l’industria è bella/e chiudere la giornata con un colpo del mutamento dell’industria culturale. Marcello è una figura di di rivoltella» finisce uno dei suoi epigrammi più noti). Ma in realtà tramite, punto di confluenza (tra alto e basso, vecchio e nuovo, Steiner è da subito, per Fellini, il baricentro morale dell’opera. Non sacro e profano). L’idea di un protagonista “anfibio”, a cavallo dei solo resisterà alle varie opposizioni, ma lavorerà in varie fasi sul- due mondi, che dev’essere un giornalista, è presente in Flaiano (per la struttura dell’episodio, depurandolo e rendendolo un nocciolo esempio nel racconto lungo Una e una notte, antecedente diretto figurativo-ideologico compatto. di La dolce vita), mentre non lo troveremo né prima né dopo in La prima apparizione di Steiner arriva subito dopo la notte tra- Fellini, che verrà sempre più avvicinandosi a una figura di vittima- scorsa con Sylvia, con forte effetto di contrasto. L’intellettuale si demiurgo più che di testimone. trova in una chiesa moderna dallo straniante aspetto gotico. La fi- Due anni dopo l’uscita del film, Flaiano ci tornerà su, in una serie gura di Alain Cuny vi si trova visivamente rispecchiata, anzi, come di reportage che vanno avanti e indietro dal presente agli appunti ha ipotizzato lo scenografo Gherardi: «Si tratta di uno dei pochi durante la stesura del copione: i “Fogli di via Veneto”. La scelta casi nei quali una scenografia ha determinato la scelta di un atto- di non ordinare i piani temporali nel racconto, confondendoli in re».21 Steiner è un laico, ma è una figura di coscienza di Marcello, un andirivieni, si rivela felicissima. Il destino del film si intreccia quasi religiosa: «Di spalle, con il colletto alto e bianco, fa pensare a quello di una città e di una società. Regista e sceneggiatore vaga- ad un pastore»22, e ricorda al protagonista la sua vocazione artisti- bondano tra reperti di città in procinto di diventare immagine. Il ca perduta. Il secondo incontro è in casa di Steiner stesso, duran- percorso culmina in un sogno in cui tutti gli intellettuali dell’epoca te una riunione di intellettuali e artisti, alcuni nella parte di loro ritornano in una notte sospesa, agitandosi senza scopo in un cor- stessi (Anna Salvatore e Leonida Rèpaci). Steiner è quasi estraneo teo. E quando infine, nell’ultima pagina, questo mondo trova cor- a questa consorteria che pure ospita: «Sei così alto che non puoi po nel film che pareva non si dovesse fare, il risultato assume una più sentire nessuna voce da lassù», gli dicono a un certo punto. consistenza spettrale, da museo delle cere. «Fellini quaresimalista?», La serata è interrotta dall’apparizione dei figli di Steiner, svegliati si chiede Flaiano, «è un’ipotesi tentatrice».19 dagli ospiti: il padre li rimette affettuosamente a letto, e riflette ad alta voce: «Voi non potete sapere che dolcezza sia addormentarsi 6. con una piccola creatura accanto». Per questo, l’effetto di shock è Quest’ultima riflessione di Flaiano ci conduce al culmine tragico enorme quando, qualche giorno dopo, Marcello, al termine di una del film, a quello che è probabilmente il suo centro morale, ma an- delle sue solite nottate, viene svegliato da una telefonata che gli che il momento più rimproverato a Fellini dai critici: l’episodio di annuncia la strage e il suicidio compiuti dall’amico. Marcello visita Steiner, lo scrittore amico di Marcello che uccide i propri figli e poi nuovamente la casa che abbiamo visto nell’episodio precedente. La si suicida. Le prime perplessità sulla sequenza vennero dagli stessi scena è caratterizzata da uno sgomento atono, sciolto in parte solo

68 69 all’arrivo della moglie dello scrittore, che ignara viene assediata dai La serata in casa Steiner ha degli evidenti tratti onirici, spettrali,27 paparazzi. ma all’opposto della successiva festa nella villa non mostra la ver- L’episodio era stato lavorato con particolare cura dal regista, av- tigine dell’abiezione, bensì l’impotenza (tragica, per il momento) valendosi di vari apporti. Agli sceneggiatori, si era aggiunto in una degli intellettuali, della dimensione estetica ed etica: fase Pier Paolo Pasolini, che proponeva una serie di idee gran parte delle quali poi non accolte, tranne due, importanti:23 l’eliminazione «Costruimmo la “serata in casa Steiner” come una specie di ansiosa del riferimento, troppo esplicito, all’intellettuale cattolico Thomas veglia e vigilia d’un mondo nuovo, intuita però da gente che non Merton, e l’inserimento di un quadro di Morandi. Intorno a que- ha armi e mani concrete per costruirlo; gente, inoltre, che partecipa sto quadro si svolge anche un piccolo dialogo, nel quale sommes- almeno per metà alla faccia esangue del Decadentismo. È questa dop- samente Steiner espone, incarnato nello stile del pittore, un ideale pia presenza – decadentismo e mondo nuovo – che abbiamo sentito di ascetismo laico: «Gli oggetti sono immersi in una luce da sogno. e voluto esprimere in quel convegno dolce e un po’ spettrale che è la Eh? Eppure sono dipinti con uno stacco, con una precisione, con serata. (…) un rigore che li rendono quasi intangibili. Si può dire che è un’arte La fine di Steiner è quella dei profeti disarmati. È quella dei proto- in cui niente accade per caso.»24 Il quadro apre una specie di fine- martiri, degli annunciatori di epoche nuove, che non hanno altro stra dentro il film, un’immagine di ascesi oggettivata che sembra che un cuore e un occhio aperti sul futuro, e nessuna forza di lavoro l’esatto contrario del film stesso (compresa anche la sequenza nella concreto per realizzarlo. In un certo senso quindi Steiner, che è forse quale il quadro appare). il solo personaggio al di là della “dolce vita”, vi è travolto e implicato Ma soprattutto, alcune delle più rilevanti modifiche complessi- perché si accampa in idee sincerissime e astratte.»28 ve alla sceneggiatura sono tese a far risaltare l’episodio di Steiner come picco emotivo. E dunque, dopo vari ripensamenti, vengo- Steiner è una figura centrale del film, e uno dei momenti nei no eliminati l’episodio della gara sui motoscafi, con una ragazza quali esso si distacca dalla cronaca tendendo alla riflessione morale che brucia viva («scaricava nella prima metà del film l’emozione esplicita. Ma è anche l’ultima volta (forse l’unica) in cui i personag- e il tono tragico della fine di Steiner»)25, e l’intero personaggio gi di Fellini si trovano davanti un “doppio” esplicitamente etico e della poetessa Dolores (che avrebbe dovuto essere interpretato da tragico. Il successivo intellettuale messo in scena da Fellini, in 8 ½, Luise Rainer): la quale, “San Francesco in gonnella”26 ma anche sarà un critico petulante che finisce anche lui ucciso, ma in maniera donna decadente e senza sbocco, rischiava di essere una specie di farsesca, appeso come un pupazzo. E viene la tentazione di leggere “doppione” dello scrittore. Dal punto di vista della costruzione in questa chiave anche l’altra apparizione di Alain Cuny nel cinema d’assieme, l’effetto della strage posta come penultima sequenza del di Fellini. Pochi anni dopo, nel ’69, nel film che realizza dopo una film è non solo di separare due scene di festa-orgia abbastanza violenta crisi personale, il Satyricon, Fellini utilizza di nuovo l’at- simili (la visita al castello dei nobili e quella nella villa al mare di tore che era stato Steiner, la “cattedrale gotica”, il protomartire, il Riccardino), ma soprattutto di inserire per la prima volta, in una protestante, e lo trasforma in un pirata con un occhio di vetro, cac- narrazione ostentatamente “orizzontale”, un elemento traumatico ciatore di cose e uomini per conto di Cesare, nevrotico e crudele. di crisi del protagonista e un senso di decadenza all’intero per- Le ultime immagini lo mostrano grottescamente vestito da donna corso. L’ultima festa appare dunque tinta di una tonalità emotiva congiungersi in matrimonio al “figlio dei fiori” Encolpio. diversa da tutti gli episodi precedenti, mentre per la prima volta si avverte un percorso di degradazione di Marcello, pennivendolo che si crogiola nella propria corruzione.

70 71 1. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, pp. 61, 197. galli, Federico Zecca (a cura di), Cinema e fumetto/Cinema and Comics, atti 2. Si vedano la ricca raccolta di immagini dai rotocalchi curata da Aurelio Magi- del XV convegno internazionale di studi sul cinema, Udine, 2009, pp. 327- stà, Dolce vita Gossip, Bruno Mondadori, Milano 2007 e il recentissimo Dome- 337. nico Monetti e Giuseppe Ricci (a cura di), La dolce vita raccontato dagli archivi 16. Intervista inedita dal documentario Fellini (1961) di André Delvaux, «Fellini Rizzoli, Rizzoli, Milano, 2010. Amarcord» II, n. 1-2, giugno 2002, p. 13. 3. L’elenco dei “fatti di cronaca” si trova in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto 17. Goffredo Fofi, Strade maestre, Donzelli, Roma, 1996, pp. 58-59. La dolce vita, cit., pp. 248-50, le foto degli eventi citati sono raccolte in Aurelio 18. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 90. Magistà, Dolce vita gossip, cit. 19. “Fogli di via Veneto”, in Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, ora in Id., Opere. 4. Riprodotti in Aurelio Magistà, Dolce vita gossip, cit. p. 181. Scritti postumi, Bompiani, Milano, 2001, pp. 650-2, 654. 5. Tullio Kezich, Noi che abbiamo…, cit., p. 135 20. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 52. 6. Riprodotte tutte in Aurelio Magistà, Dolce vita gossip, cit., pp. 78-81. 21. Ivi, pp. 162-3. 7. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., pp. 48-9. 22. Ivi, p. 163. 8. Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, Lindau, Torino, 2010, p. 91. 23. Il contributo di Pasolini al film è analizzato da Antonio Costa, Federico Fellini: 9. Ivi, p. 90. Ma, aggiunge Costa, «il modello (o se si preferisce il pattern, la ge- La dolce vita, cit., pp. 80-3. stalt) attraverso cui formalizzare l’invenzione figurativa di La dolce vita è il 24. A partire dal quadro di Morandi è stata addirittura riproposta una lettura provino, modello sul quale Fellini ha del resto più volte fatto ritorno» (p. 91). complessiva del film: Mauro Aprile Zanetti, La Natura Morta de La dolce vita, 10. Gian Piero Brunetta definisce La dolce vita e 8 1/2 «i film più danteschi della Istituto Italiano di cultura, New York, 2009. storia del cinema» (“Padre dante che sei nel cinema”, in Gianfranco Casadio, a 25. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, p. 175. cura di, Dante nel cinema, Longo, Ravenna, 1991). Il paragone con Dante risale 26. Ivi., p. 110. alla prima apparizione del film, ma cfr. John P. Welle, Fellini’s Use of Dante in 27. Costa avanza anche l’ipotesi che l’intero episodio sia un sogno, parto della La dolce vita, «Studies in Medievalism», II, n. 3, estate 1983: questo saggio e fantasia di Marcello (Noi che abbiamo fatto La dolce vita, pp. 138-40) il precedente sono raccolti in parte in Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce 28. Testimonianza di Brunello Rondi in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., pp. 202-5). vita, p. 154 e 153. 11. Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, cit., pp. 93-4. Inoltre Costa ha studiato le modifiche fondamentali che Fellini compie dal soggetto alla sceneg- giatura al film finito, tra cui l’eliminazione di un picnic al Circeo nella villa del padre di Maddalena, e la scena di un incidente nautico con un morto, e l’elimi- nazione dell’intero personaggio di Dolores, amante/maestra di Marcello. 12. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 79. 13. Testimonianza di Otello Martelli, in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 115. Nello stesso volume (p. 104) cfr. anche la testimonianza della segretaria di edizione Isa Mari: «Lascio perdere i raccordi, non hanno nes- suna importanza per un regista come lui. Con Fellini la grammatica del cinema sembra banale, passa in seconda linea». 14. Ivi, p. 244. 15. Su questo tema cfr. Emiliano Morreale, Slumberland/Cinecittà: l’influenza del fumetto sul cinema di Federico Fellini, in Leonardo Quaresima, Laura Ester San-

72 73 I borghesi e il sublime: I tre film che lanciano Antonioni a livello internazionale sono L’av- ventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962), visti all’epoca come L’avventura (1960) una “trilogia dell’incomunicabilità”, anzi talvolta come uno stesso film in tre movimenti. Già all’epoca di L’eclisse, Guido Aristarco so- di Michelangelo Antonioni steneva che i tre titoli erano «i “tempi”, i momenti solo apparente- mente staccati, di un’unica opera»: «Possiamo così dire che all’ini- zio di L’eclisse, ritroviamo i coniugi Pontano, qualche anno dopo da come li avevamo lasciati nell’ultima inquadratura di La notte. (…) Parimenti possiamo dire (…) che i coniugi Pontano non erano che 1. Claudia e Sandro sposati, dopo che la prima aveva compreso, nella Come si è detto nella Prima parte, i film di Michelangelo Antonio- chiusa di L’avventura, il dramma del secondo».4 ni sono, nella prima metà degli anni Sessanta, quelli su cui la cultura “alta”, non solo italiana, si confronta con più impegno. A stimolare 2. gli interventi è anche il fatto che Antonioni affronta i “temi” al centro La trama del film è semplice e nota: un gruppo di coppie borghesi del dibattito letterario e filosofico dell’epoca confrontandosi anche è in gita in barca alle Eolie. Una delle ragazze, Anna (Lea Massari), con alcune mode estetiche del periodo: il nouveau roman francese, scompare, e gli altri, tra cui il suo amante Sandro (Gabriele Ferzetti), con la scelta di una supremazia dell’occhio sulla narrazione e le psi- la cercano invano. Sandro, il cui rapporto con Anna era in crisi, du- cologie; le nuove correnti artistiche come la pop art e l’informale; i rante la ricerca di avvicina a un’altra ragazza, Claudia (Monica Vitti). rapporti tra cultura e industria. I due vagano, seguendo labili indizi, attraverso vari luoghi della Si- I primi anni Sessanta sono un periodo di particolare vivacità cultu- cilia: un commissariato, una stazione mineraria, una cittadina dove rale anche per l’Italia: il confronto con le novità intellettuali europee passa una divetta assediata dalla folla. Sandro e Claudia si innamora- e il conflitto generazionale innescato dai giovani del “gruppo 63” che no, e la loro ricerca diventa ambigua: pur seguendo le tracce di Anna, propongono una nuova avanguardia al passo con il neocapitalismo; il in qualche modo si augurano di non ritrovarla. Il percorso di Sandro tentativo di aggiornamento della cultura di area comunista davanti al primo centro-sinistra e alle aperture chrusceviane;1 il ruolo sempre più centrale dei mezzi di comunicazione di massa.2 Intanto il paesaggio ur- bano e quello domestico dell’Italia mutano in maniera vertiginosa, con le grandi speculazioni edilizie e la stagione d’oro del design industriale. Su questo sfondo, i film di Antonioni offrono agli intellettuali l’oc- casione per mostrarsi aggiornati discutendo di film anziché di libri, e suscitano una serie di riflessioni e dibattiti senza precedenti.3 Sui film fioriscono interpretazioni diverse, ma spesso imperniate sui temi dell’incomunicabilità (i personaggi di Antonioni non riescono a co- municare e a manifestare i propri sentimenti) e dell’alienazione (essi sono privi di punti di riferimento e al posto di relazioni interpersona- li vivono immersi in luoghi senz’anima, tra oggetti che li dominano anziché servirli). Fot. 4

74 75 e Claudia si conclude in un albergo di Taormina, dove l’uomo, di e (come vedremo) di sublime. La dismisura degli spazi e lo spaesamento notte, ha un rapporto occasionale con l’attricetta vista in precedenza. dei fuori campo di L’avventura è in fondo inscindibile da una situazione Claudia lo scopre, e scappa. Ma all’alba, sulla terrazza dell’albergo, gli che ha le proprie radici nella città e nel mondo contemporaneo, come si avvicina di nuovo, e mentre lui scoppia in lacrime gli poggia una dimostreranno i film successivi del regista. Il prologo, tra i cantieri del mano sulla spalla, in segno muto di affetto e di perdono (fot. 4).5 boom in mezzo ai quali si aggira Anna, è essenziale per capire il senso Il tema del film, della sua prima parte almeno, è dunque una spari- del viaggio. E il finale è una precaria e incerta tregua, post morale, che zione. Ma tutto il resto del film abbandona e contraddice la premessa, nulla garantisce della posizione dei personaggi nel mondo.10 mostrando la vanità dell’indagine. Forse il primo a utilizzare sistema- ticamente la definizione di “giallo alla rovescia” per L’avventura era 3. stato lo stesso regista, in un’intervista del marzo del ’60 a Vittorio Con L’avventura, aprendo la sua stagione più famosa, paradossal- Bonicelli.6 In effetti è proprio la premessa da detection a potenziare il mente Antonioni abbandona uno stile che era già riconoscibile, fatto percorso ondivago del film.7 Ma il tema della sparizione, che tornerà di piani-sequenza, movimenti di macchina elaborati, «a una distanza anche in Blow Up (1966), è qualcosa di più, connesso con il «processo che diffida della troppo facile catarsi del primo piano».11 Ora, men- di riflessione sullo sguardo».8 In molti lo hanno notato: protagonista tre «i primi piani esplodono con una violenza lirica» (ma si tratta di del cinema di Antonioni è proprio lo sguardo, e il metodo del regista piani sempre piuttosto larghi, tranne in un paio di occasioni come il suscita insieme la domanda «che cosa stiamo guardando?» (la figura, primo amplesso tra Sandro e Claudia), «il montaggio, più frammen- lo sfondo?) e quella, collegata «chi siamo noi che stiamo guardando un tato, accorcia la lunghezza dei piani».12 Dunque, uno dei mezzi tipici film?».9 In L’avventura appare per la prima volta tutta la forza del fuori della modernità cinematografica di quegli anni e di quelli seguenti (si campo, dello spazio tra le inquadrature, cui poi si aggiungerà, nei film pensi agli interminabili piani-sequenza di Miklós Jancsó) viene rifiu- successivi, la forza delle inquadrature “vuote”, o meglio popolate di tato da Antonioni, a favore di un découpage dall’apparenza classica, oggetti e manufatti ma senza figure umane. (In questo senso, il finale che però valorizza la composizione dell’inquadratura.13 di Professione: reporter, 1974, sarà un’esposizione perfino didattica del Ma L’avventura fa anche tesoro del lavoro precedente del regista.14 A tema fondamentale del cinema di Antonioni, della liberazione dello cominciare dal fatto che si tratta di un mélo raffreddato, che si snoda sguardo dall’oggetto, e del suo poter continuare a esistere nel confron- tra sparizioni, tradimenti, mancati appuntamenti: figure ben note al to con un reale pesante, contaminato, in cui sembra abolita la distanza repertorio del melodramma. 15 Le si può osservare, riportate alla loro tra esteriorità e interiorità.) L’inverosimiglianza dei dialoghi, tante vol- forma-base, nel cineromanzo tratto dal film («Cineintimità», n. 1, mag- te rimproverata a ragione ad Antonioni, ha però anche questo effetto: gio 1961, fot. 5).Il gioco di Antonioni sul genere si nota fin dalla scelta che i sentimenti vengono esposti come oggetti tra gli altri. degli attori. Ferzetti era quasi l’attore-simbolo di un certo tipo di me- L’avventura inoltre mostra in maniera forte e consapevole il legame lodramma “intellettuale”. Il suo personaggio in L’avventura è in fondo del progetto di Antonioni negli anni Sessanta con il cinema di Rosselli- una variazione di quelli interpretati in La provinciale (1952) di Mario ni, che fino a quel momento era stato piuttosto lontano dalla sua pratica Soldati, Nata di marzo (1957) e Il sole negli occhi (1955) di Antonio registica. Già la scelta del set eoliano e il suo uso rimandano a Stromboli, Pietrangeli, Le amiche (1955) dello stesso Antonioni. Nel film non bi- terra di Dio (1950). Ma se in Rossellini si aveva l’assunzione, almeno sogna sottovalutare il gioco di casting che mette a confronto un attore parziale, di un punto di vista “straniero” (quello della protagonista In- riconoscibile, che recita un personaggio già rodato, con due personaggi grid) cui a poco a poco si svelava il miracolo dell’apparizione della realtà, femminili moderni e relativamente inconsueti, anche fisicamente poco in L’avventura il rapporto tra personaggi e spazio non può recuperare classificabili, interpretati da Lea Massari e da una sconosciuta Monica alcun equilibrio, esso è improntato a un sentimento letterale di panico Vitti, ben poco in linea con i canoni di bellezza dell’epoca.

76 77 «La borghesia di Cronaca di un amore e di Le amiche è (…) ancora una borghesia che lotta per il suo miracolo. Sfiora delitti, paga tradimenti, investe (…) il proprio successo sociale sul proprio insuccesso esistenzia- le (…). La borghesia di L’avventura ha invece ormai vinto: ha conqui- stato il “sociale” e il “politico”, è classe indiscutibilmente al potere (…). Eppure, o forse appunto per questo, essa è come naufraga».17

Il rapporto con certi “resti” neorealistici in L’avventura può essere letto allo stesso modo. Nelle figure che Antonioni spesso, in que- sto film, inserisce per relativizzare i dilemmi dei suoi personaggi e per spiazzare lo spettatore (come sarà per i ragazzi di borgata nella passeggiata di La notte), emerge un’altra verità, visiva prima che so- ciologica: che l’alienazione e l’incomunicabilità, per chi viene dalla povertà, possono essere anche una forma di eleganza, di distinzione, di coolness. Tutte queste cose le ricorderà Scola in C’eravamo tanto amati, attraverso il personaggio di Giovanna Ralli che da burina stile “neorealismo rosa”, figlia di Aldo Fabrizi, diventa donna “alla Anto- nioni”, traendone emancipazione e infelicità, fino al suicidio. Fot. 5 4. Antonioni era un women’s director, che nel decennio precedente ave- Il suggerimento di Sandro Bernardi, di vedere nel cinema italiano va lavorato sulla costruzione/decostruzione della diva Lucia Bosè, e (di quegli anni in particolare) una rilettura “antropologica” nella finché in Italia esiste un genere con una sua rispondenza di pubblico direzione degli studi di Ernesto De Martino (ma anche della “mu- egli preferisce agire in relazione dialettica con esso. Il confronto con il tazione antropologica” di Pasolini),18 si rivela assai suggestiva se ap- mélo viene compiuto con forza da molti registi, nelle chiavi più diver- plicata a L’avventura e alla compresenza di arcaico e moderno che la se: dall’interno, da Cottafavi (Traviata 53, Una donna libera) con i suoi caratterizza. L’intero percorso del film è inaugurato da un prologo in ritratti di donne distaccati e autoriflessivi; in chiave più ideologica, da un cantiere (uno dei grandi topoi visivi del cinema di quegli anni) Giuseppe De Santis (Un marito per Anna Zaccheo, 1953). Con gli anni con San Pietro sullo sfondo: «Questa povera villa sarà soffocata, tra del miracolo economico, la corrispondenza tra questo genere e il suo poco» commenta la donna parlando al padre. E se il percorso mitico pubblico si sfalda, e Antonioni a quel punto potrà ribaltarne e negarne è anche quello di un confronto con una natura selvaggia e un’uma- i meccanismi, usandolo come uno schema quasi da parodiare.16 nità bruta, quasi calibanesca, il tema continuo è lo sfasamento tem- Come già aveva capito il melodramma anni Cinquanta, l’analisi porale, non riducibile a un confronto col passato, ma piuttosto a delle figure femminili è il campo in cui si possono osservare in ma- una sorta di doppio percorso da scentrato, da “viaggio al niera più evidente i mutamenti della società, l’emergere di nuove centro della terra”.19 Sull’isola, insieme ai turisti, arrivano aliscafi ed classi sociali, nuovi costumi e consumi, nuove relazioni sociali, nuove elicotteri, e da sottoterra appaiono resti romani (come in Viaggio in insoddisfazioni. I percorsi di Antonioni mostrano anche questo: Italia); il commissariato sorge surreale nelle stanze della Villa dei Mo- stri di Bagheria; ma i veri “relitti” che si incontrano sono quelli di una

78 79 città fantasma costruita dall’Ente Minerario, specie di involontaria intellettuali nel ruolo di loro stessi, e culmina in un’altra orgia con opera di land art e simbolo di uno sviluppo già “fantasma”; e anziché spogliarello. l’amore pagano dei viaggiatori alla D.H. Lawrence il povero Ferzetti La notte (1961) è il film in cui Antonioni affronta di petto il proprio si ritrova su un divano con una divetta-squillo. In tutto questo, la pubblico, facendone quasi l’oggetto del film. I protagonisti di L’avven- Sicilia è vista inevitabilmente con l’occhio di un turista, e dunque tura sono borghesi ma per lo più non intellettuali: tecnici, o parassiti, popolata di macchiette comico-erotiche (il pescatore che parla ingle- diremmo, e i loro teatrini erotici in barca nella prima parte sono visti se, e soprattutto l’arrivo della “diva-scrittrice” in città, quasi un iro- con evidente ironia. Dal confronto con il mondo intellettuale e bor- nico doppio dell’arrivo di Sylvia in La dolce vita). Dapprima dunque ghese visto nel proprio habitat derivano invece alcune novità di stile, a il film mostra delle scene da teatro borghese raffreddato (le coppie cominciare da uno dei classici marchi di fabbrica del regista: la presen- sulla barca, a parte quella centrale, tendono più alla commedia che za di inquadrature “vuote” che precedono l’ingresso dei personaggi, al dramma), poi li butta a confronto con l’assurdo della sparizione marcandone l’estraneità ai luoghi. Uno stilema che viene qui usato per di Silvia e soprattutto con un luogo totalmente altro: «In un viaggio la prima volta in maniera massiccia, mentre in L’avventura è molto più così superficiale di gente sciocca come il Sandro di Gabriele Ferzetti, evidente un altro leitmotiv formale, ossia l’attacco di molte sequenze il Raimondo di Lelio Luttazzi, si verifica un’esperienza grandiosa: “in medias res”, su personaggi nel pieno di un’azione, lasciando fuori l’incontro con una forza arcaica, primordiale, che essi non vedono, campo i precedenti dell’azione stessa. La prima inquadratura del film ma che la cinepresa intravede, spingendosi grazie a loro, accanto a mostra Lea Massari già in movimento, e attacchi simili ci sono nella loro, fino alle soglie del mondo visibile, fino ai confini oltre i quali scena del commissariato, e nell’abbraccio in primo piano tra Ferzetti non è possibile andare».20 e la Vitti, dopo la visita alla città-fantasma. Inoltre, se la potente natu- Questa compresenza di piani temporali, che ricorda la celebre im- ra del film precedente aveva una forza di suggestione autonoma, che magine dell’inconscio di Freud paragonato alla visione simultanea creava ancora qualche effetto “epico”, la realtà urbana in La notte è di Roma antica e moderna,21 accomuna Fellini e Antonioni. Per La gemella del cinema, e c’è quasi un effetto di raddoppio della disuma- dolce vita, popolato continuamente di comparse in vesti di antichi nità della città industriale sulla macchina-cinema. Se in L’avventura romani, di creature faunesche e di sopravvivenze pagane, Fellini chie- c’è un effetto di smarrimento, qui ce n’è anche uno di prigionia. E de a Gherardi scenografie e costumi “bizantineggianti”, e a Rota una insieme, si affaccia in maniera ambigua una sorta di estetismo della parodia di musica da peplum. Dal canto suo, Antonioni spiega così disumanizzazione: l’implacabile bellezza degli oggetti, del design, una il leitmotiv che gli serve per L’avventura: «Come avrebbero fatto un specie di attrazione fatale del dispositivo cinematografico per elementi pezzo jazz nell’ellenismo, se allora il jazz ci fosse stato».22 che l’umanesimo (anche del regista) vorrebbe a parole “denunciare” e smascherare. In questo senso il giudizio di Arbasino, secondo il quale 5. i film di Antonioni non criticano l’alienazione ma sono l’alienazione L’avventura aveva ottenuto il Premio speciale della giuria a Cannes stessa, è un involontario complimento. Detto altrimenti, quello di nello stesso anno in cui La dolce vita aveva vinto la Palma d’oro. Antonioni è anche l’«unico caso, assieme al cinema di Godard, di Era stato accolto in maniera contrastata, ed era poi diventato un una “scrittura” del disagio che essendone la “forma” è anche il modo “caso”, assai diverso dall’evento felliniano ma inevitabilmente con- “estetico” della sua “ideologia”».23 L’“estetismo” di Antonioni è in fon- frontabile con esso. Nel film successivo, Antonioni sembra accettare do un altro modo di definire la centralità che ha per lui il momento la sfida col film di Fellini. Prende come protagonista Mastroianni, della visione, e come la situazione dei personaggi e del loro contesto come sceneggiatore Flaiano, comincia con un intellettuale morente discenda in lui da un’interrogazione sugli spazi e sui luoghi, sul loro che fa da coscienza critica ai protagonisti, usa come comparse degli effetto sullo sguardo, sulla loro bellezza.24

80 81 6. 1. Sono anni particolarmente difficili per il Pci, che dopo la crisi seguita alla rivo- Se è vero che il processo di Antonioni da L’avventura è quello di una luzione ungherese del 1956 (e mentre il Psi entra nell’orbita del governo) cerca decantazione del melodramma, la sua impostazione complessiva farà di aggiornare i propri strumenti anche culturali per tenersi al passo con i muta- approdare L’eclisse, nel finale, in un’atmosfera fantascientifica. Antonio- menti sociali. E in Italia è spesso in ambienti culturali vicini al Pci che si fanno i ni gioca spesso coi generi, dal noir di Cronaca di un amore al “giallo alla conti con Antonioni: «Cinema Nuovo» gli dedica grande spazio, con lunghi saggi rovescia” di L’avventura.25 Ma il suo “immaginario fantascientifico” ha a del direttore Guido Aristarco, «Il Contemporaneo» (cfr. la Prima parte) impianta che fare più con la visione d’assieme che con il meccanismo narrativo; una tavola rotonda con nomi prestigiosi (Chiarini, Della Volpe, Salinari, Carocci), infatti il regista la sfiorerà di nuovo in Deserto rosso e, più esplicitamente, e anche un filosofo di scuola fenomenologica, di recente approdato al marxismo, in Identificazione di una donna (1982). La tonalità fantastica-orrorifica Enzo Paci, organizza una discussione con i suoi allievi che sarà poi pubblicata di Antonioni è dovuta forse anche al fatto che il suo “estetismo” non ha su «L’Europeo». (Riprodotta poi in versione ampliata in Carlo di Carlo, a cura di, a che fare tanto col bello, quanto con ciò che Edmund Burke descrisse Antonioni, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1964, pp. 87-118). sotto il nome di sublime: «tutto ciò che può destare idee di dolore e di 2. Tra cui la televisione, che ormai appare anche in Italia in tutta la sua importanza pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda politica ed estetica: in questi anni arrivano le prime tribune politiche, ma anche oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore».26 Un senso di le candid camera di «Specchio segreto», insieme ai primi “casi” politici, dalla Can- incertezza, di vertigine che nasce nelle faglie dei grandi mutamenti stori- zonissima di Dario Fo al licenziamento di Enzo Biagi dal telegiornale. ci dell’età moderna, e si manifesta anche attraverso forme di privazione: 3. Per una rapida rassegna di interpretazioni, cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio.27 In L’avventura questo ha a cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 112-3; come introduzione critica, che fare, come detto, col timor panico che nasce dal confronto con la cfr. Geoffrey Nowell-Smith, L’avventura, Bfi, Londra, 1997, e soprattutto il recente natura, per cui in un certo senso «Anna non può essere ritrovata perché Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, Lindau, Torino, 2010, che ormai Anna è diventata natura, Anna è il paesaggio».28 Nel finale di utilizza fonti nuove chiarendo vari passaggi della genesi del film. L’eclisse lo sguardo della macchina da presa si perde nelle cose, elimina 4. L’universo senza qualità, «Cinema Nuovo», n. 157, maggio-giugno 1962 (raccolto l’uomo o lo rende irrilevante, e si rivela oltretutto macchina tra le mac- in Carlo di Carlo, a cura di, Antonioni, cit., p. 257). chine, oggetto, dispositivo. Ma insieme, ostinatamente, riafferma una 5. Anche il percorso di L’avventura, come quello di La dolce vita, si conclude all’alba: e capacità di organizzazione del mondo attraverso la composizione delle le albe sono anzi due classici topoi del loro cinema: albe che non annunciano il nuo- immagini, il montaggio visivo e sonoro. Il prosciugamento dei perso- vo, ma semmai sembrano segnalare una diversità dei personaggi, e dello sguardo naggi e delle regole dei generi, lo scioglimento del personaggio nello del regista, a vedere la realtà quotidiana da una prospettiva straniata e irreale. sfondo, l’autonoma forza plastica (sinistra e affascinante) degli oggetti 6. «Tempo», 23 marzo 1961. Cfr. anche Guido Fink, Antonioni e il giallo alla rove- producono una nuova, ipnotica flagranza, un’apocalisse di inquietante scia, «Cinema Nuovo», n. 162, marzo-aprile 1963. bellezza. Da queste visioni della città e del tempo partirà molto cinema 7. Federico Vitella (Michelangelo Antonioni: L’avventura, cit., pp. 106-120) ha rico- successivo: certi set e tempi sospesi, urbani e no, del cinema americano struito i passaggi della gestazione del film, per cui il cuore della vicenda, ossia degli anni Sessanta-Settanta (da Monte Hellman ad Alan J. Pakula), le l’inspiegabilità della sparizione di Anna, già presente nel soggetto, venne a un città tedesche e i non luoghi americani di Wim Wenders, o i vagabon- certo punto sacrificato dal regista per venire incontro alle esigenze dei finanzia- daggi nelle metropoli orientali di Tsai Ming Liang o Hou Hsiao Hsien, tori, per essere poi ripristinato in una fase ulteriore della lavorazione. hanno radici in questo percorso dello sguardo proprio di Antonioni.29 8. Ivi, p. 128. Sul tema cfr. Pascal Bonitzer, La disparition (Sur Antonioni), in Id., E il cinema del maestro di Ferrara finisce col risultare una delle poche Cinéma et peinture. Décadrages, Cahiers du Cinéma/Editions de l’Etoile, Parigi, eredità persistenti di una stagione di modernità, le cui istanze radicali 1985, pp. 97-101. sono state invece nel tempo negate e riassorbite. 9. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., pp. 114-5. Anche Lorenzo

82 83 Cuccu (La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, que, al di là delle proverbiali icone femminili del regista (statuarie come Sylvia o Bulzoni, Roma, 1973) ha notato che la dedramatisation in Antonioni va di pari grottesche come la Saraghina), siano queste le donne reali di Mastroianni. passo con una valorizzazione estetica del momento visivo. 17. Lino Micciché, I “meravigliosi” anni ’60 (1989), cit., p. 158. Accenni di grande 10. Come ha affermato al riguardo il grande storico dell’estetica Wladislaw Tatar- acume sul tema del moderno in Antonioni li ha dati, in tempi più recenti, Roland kiewicz, intervistato da una rivista polacca, «io credo che egli non abbia pensato Barthes, il quale nota che nei suoi film «il Moderno è la difficoltà di seguire il a una nuova etica, ma a una nuova moralità, cioè non a una nuova formula, ma mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all’interno a nuovi impulsi». (W. Tatarkiewicz, Antonioni e l’avventura, intervista, «Film», n. di quella piccola Storia di cui è misura l’essenza di ciascuno di noi». “Caro Anto- 10, in Carlo Di Carlo, Michelangelo Antonioni, cit., p. 478) nioni…”, in Caro Antonioni, catalogo della mostra al Palazzo delle esposizioni, 11. Roger Tailleur, Vivere La notte, «Positif», n. 29, maggio, 1961, ora in Gianni Volpi Comune di Roma-Assessorato alla Cultura, 1982. (a cura di), Roger Tailleur & Positif, Falsopiano, Alessandria, 2006, p. 376. Si 18. «Nel loro stare sempre sul confine tra sguardo e racconto, i registi italiani, spesso veda anche, nello stesso ambito francese, la precisa ricostruzione di Paul-Louis inconsapevolmente, s’imbattono e anche assorbono o realizzano nei loro film Thirard, «Les lettres francaises», 6-12 aprile 1961. quella straordinaria mescolanza di mondo arcaico e mondo moderno che carat- 12. Per una nuova riconsiderazione del ruolo del volto e del gesto nel cinema di terizza la cultura italica. Nasce una figura di narratore-osservatore più complessa Antonioni cfr. Veronica Pravadelli, “Dall’assenza all’affetto: lo sguardo etico di di quella classica, collocata fra presente e passato, fra storia e mito, fra sapere Antonioni”, in Uta Felten e Stephan Leopold (a cura di), Le dieu caché? Lectura e non sapere, piena di feconde interessanti contraddizioni.» (Sandro Bernardi, Il cristiana des Italienischen und Französischen Nachkriegskinos, Stauffenberg, Tü- paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 92). bingen, 2010, pp. 111-120. 19. Bernardi ha citato addirittura il mito di Proserpina (Il paesaggio nel cinema ita- 13. Sandro Bernardi nota come, rispetto allo stile della Nouvelle Vague, quello di liano, cit., p. 161). Antonioni sia per questo ancor più ricco e disturbante. Antonioni invece «non 20. Ivi, p. 160. La passeggiata di La notte, d’altro canto, è anche l’esplorazione di demolisce tutto il sistema narrativo (…), anzi, lascia tutto com’è, si limita ad un multiversum temporale, di un cronotopo in cui passato e presente convivono aprire dei vuoti tra un’inquadratura e l’altra, spesso dentro l’inquadratura stessa ipnoticamente: emergono operai, figure neorealiste, violenze premoderne, musi- (…). La forza del cinema di Antonioni è l’incertezza che coinvolge tutto e tutti». chette di lisci quasi anni Trenta, insieme agli spazi dell’industria (siamo davanti (“Antonioni: immagini di pensiero”, in Giorgio De Vincenti, a cura di, Storia del alla Breda). E al commento di Mastroianni («Incredibile: non è cambiato niente cinema italiano. 1960-64, Marsilio-Scuola Nazionale di Cinema, Roma-Venezia qui») la Moreau risponde: «Cambierà. Cambierà molto presto». 2001, p. 98). Sullo stesso tema, cfr. Id., Il paesaggio nel cinema italiano, cit. 21. «Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’en- 14. Per il rapporto del nuovo stile di Antonioni col suo cinema precedente Lorenzo tità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più Bulzoni, Roma, 1973, pp. 27- 45. recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso 15. Sul tema del melodramma come genere letterario, e sul suo armamentario cine- di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septi- matografico, cfr. Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976), Pratiche, zonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Parma, 1985. L’inventario più recente e completo dei topoi melodrammatici è pro- Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui babilmente P. Perez Rubio, El cine melodramatico, Paidós, Barcellona, 2004. fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato 16. Il paragone con i personaggi femminili di Fellini è interessante. In qualche modo, dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser nel vorace caleidoscopio felliniano il mondo di Antonioni è già presente e paro- demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recen- diato. I personaggi di Anouk Aimée, compagna nevrotica in La dolce vita, moglie te, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, raffinata e indulgente in 8 1/2, potrebbero essere personaggi di Antonioni (con un quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove di più, inevitabilmente, di indulgente calore materno): ed è indicativo che comun- ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus Aurea

84 85 di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, Il principe, il conte e il walzer quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio origi- nario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di finale: Il gattopardo (1963) Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare di luchino visconti l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore.» (“Il disagio della civiltà”, 1929, in Sigmund Freud, Opere. Vol. 10: 1924-1929, Boringhieri, Torino, 1978, pp. 562-3, corsivo mio). 22. Cit. in Tommaso Chiaretti (a cura di), L’avventura, Cappelli, Bologna, 1960, p. 44. 23. Lino Micciché, I “meravigliosi” anni ’60 (1989), ora in Id., Patrie visioni. Saggi sul 1. cinema italiano 1930-1980, Marsilio, Venezia, 2010, p. 159. Il Gattopardo è considerato dagli studiosi un film-cesura tra la pri- 24. Il tema dell’estetismo di Antonioni, del suo ambiguo rapporto con la realtà e il ma maniera di Visconti, che ancora domina le spinte contrastanti tra visivo, si lega al tema della superficie, sul quale Chatman ha impostato la propria impegno neorealista e “derive decadenti”, e una seconda fase in cui il lettura dell’opera del regista (Seymour Chatman, Antonioni, or the Surface of suo sguardo si rivolgerà al passato, a mondi scomparsi e personaggi Things, University of California Press, Berkeley, 1985), e che è stato ripreso in alto-borghesi o aristocratici. Se fino al 1963 l’unico film in costume termini generali da Fredric Jameson: «Questa minaccia della reificazione e del del regista era stato Senso (1954), da allora tutti i successivi saran- visuale (…) è un tutt’uno con il modernismo stesso, la cui strategia omeopatica no ambientati nel passato, tranne Gruppo di famiglia in un interno contrappone la reificazione a se stessa, riproducendo per mezzo dell’autodifesa (1974) che (girato completamente in studio) è appunto un film su un processo sociale nei suoi linguaggi formali specializzati, ma è una minaccia un uomo chiuso in casa, anche lui in fuga dal presente. che non può essere soddisfatta senza distruggere la medesima struttura dell’ope- Visconti, aristocratico e comunista, era all’epoca la bandiera dei ra modernista». Fredric Jameson, “L’esistenza dell’Italia” in Id., Firme del visibile. critici di sinistra, e il film creò enorme disappunto tra le fila dei Hitchcock, Kubrick, Antonioni (1992), Donzelli, Roma, 2003, p. 221. suoi sostenitori. Già qualcosa doveva insospettire nella scelta di un 25. Sandro Bernardi, “Antonioni: immagini di pensiero”, cit., p. 106. libro risolutamente antiprogressista, non amato né dai critici lukac- 26. Edmund Burke, Inchiesta sul bello e il sublime (1756), ed. it. Aesthetica, Palermo siani né dalla nuova generazione del gruppo 63, che lo considerava 1995, p. 86. un bestseller astuto e vecchiotto. Certamente Lampedusa, con la 27. Ivi, p. 95. A questo punto, giocando con le coincidenze si può anche collegare la sua visione dell’immutabilità della storia d’Italia, non era in nessun silenziosa “apocalissi” finale di L’eclisse a un film pienamente “di genere” che viene modo un autore di sinistra, ma Visconti, nella fase preparatoria girato pochi mesi dopo negli stessi luoghi, all’Eur, e che potrebbe esserne un ideale del film, quando già comincia un ampio lavoro di promozione del seguito: L’ultimo uomo della terra (1963) di Ubaldo Ragona e Steve Sekely, con film, tenta di fornirne una lettura “progressista” e contemporanea- Vincent Price. mente di inserirlo nel proprio percorso di autore. 28. Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, cit., p. 155. Visconti presenta il “suo” Lampedusa come completamento della 29. Per la filiazione del cinema di Tsai Ming Liang da Antonioni cfr. Giuliana Bruno, linea di Verga, Pirandello e De Roberto, congruente con la visio- Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 87-91, che la leg- ne del Risorgimento come “rivoluzione tradita”: insomma un testo ge sotto il segno del nomadismo dei personaggi nel loro rapporto con gli spazi «per nulla contraddittorio a quello della storiografia democratica e urbani. marxista, diciamo di Gobetti, di Salvemini o di Gramsci».1 A garan- te politico dell’operazione stava anche la presenza come consulente storico di Antonello Trombadori, storico dell’arte, abile e influente

86 87 consigliere culturale di Togliatti, e già collaboratore dei film risorgi- ripetuti accenni alle fucilazioni di “disertori” che avevano raggiunto mentali di Rossellini, Viva l’Italia e Vanina Vanini.2 Garibaldi in Aspromonte (e che il regista reitera fino alle ultime Le coordinate per la lettura dell’operazione sono chiare. Il critico scene, in un tentativo estremo di bilanciare il cupio dissolvi del ballo marxista Guido Aristarco (che considerava Rocco e i suoi fratelli, visto con cenni di “impostazione corretta”) e soprattutto le scene della come recupero del romanzo nazional-popolare, la via “corretta” per il battaglia a Porta Carini, assenti nel romanzo.7 Ma la modifica più nuovo cinema italiano contro l’antiromanzo di Fellini e di Antonio- macroscopica portata da Visconti, su cui ci soffermeremo in segui- ni), all’annuncio del film descrive candidamente il film che Viscon- to, è la completa eliminazione dei capitoli settimo e ottavo, con la ti, giusta la sua corretta posizione ideologica, dovrà necessariamente morte del principe e il ritorno sui luoghi a decenni di distanza. dare. «Il Gattopardo, che Visconti sta girando, sarà senza dubbio la Una posizione di grande onestà e acume, all’epoca del film, fu continuazione del discorso iniziato con Senso. (…) Nel film ci sarà quella espressa in un’altra lettera aperta da Renzo Renzi, comunista quell’ampiezza di visione storica che in verità manca al romanzo.»3 anche lui e sodale di Aristarco, che definiva il film, senza mezzi Davanti al film finito, ovviamente, sarà grande l’imbarazzo. termini: «il più bel film conservatore degli ultimi vent’anni»8, elen- Visconti si riprometteva dunque di mostrare «non solo lo splen- cando gli elementi di questo “conservatorismo”: dido tramonto del principe, ma anche il fermento di vita della col- lettività». Ma questo fermento alla fine nel film manca, e le “forze «1. la mancata e impossibile rinuncia dell’autore alla sua condizione nuove” non sono rappresentate. Soprattutto, l’identificazione di di aristocratico; 2. l’elemento funesto, decadente – il tema morte – Visconti con il principe appare pressoché totale, e il film assume in sempre presente, fin da Ossessione; 3. la posizione pre-religiosa; 4. la più punti, esplicitamente, il suo punto di vista.4 È proprio il rap- concezione del futuro come un passato da riconquistare, mescolata a porto tra lo sguardo di Lampedusa, quello del principe di Salina, e quella di un nuovo tempo da costruire.»9 quello di Visconti, il punto di maggior contraddizione, ma anche di maggior modernità del film. E concludeva: «Fatta eccezione per i piccoli-borghesi di Le notti Mentre dunque la stampa “conservatrice” e “borghese” elogia il bianche, [Visconti], del resto, non ha ancora tentato (almeno nel film,5 Aristarco scrive una recensione in forma di lettera aperta al cinematografo) un dramma borghese. Forse perché, Visconti, Don regista,6 manifestando le sue perplessità. Il film gli appare troppo Calogero, lo disprezza troppo. Ha, appunto, due ragioni per di- fedele al romanzo; e quindi esso non è affatto la continuazione di sprezzarlo: una di destra e una di sinistra».10 Senso, bensì «un epos della decadenza, ma proprio nello stile del Visconti cercherà di difendersi dalle accuse,11 ma sarà l’ultima Principe don Fabrizio Salina». volta. Dal film successivo, ogni pretesa di leggibilità in chiave mar- È certo indicativo, dell’adesione di Visconti al libro, il fatto che xista sarà eliminata, e l’animo “decadente” di Visconti si libererà Il Gattopardo sia l’adattamento più “fedele” realizzato dal regista senza remore.12 (poi ci sarebbe stato, nel 1967, Lo straniero da Camus), che fino Nel film, dunque, a conti fatti «nessuno, proprio nessuno, assolu- allora era stato piuttosto disinvolto nell’uso delle fonti, da James tamente nessuno e niente rappresenta i segnali dei “tempi nuovi”».13 Cain a Verga, da Testori a Dostoevskij. Tra le modifiche principali O meglio, le due presenze di Angelica e Tancredi li richiamano am- della sceneggiatura rispetto al testo di partenza, c’è l’eliminazione biguamente, con la fotogenia di due attori moderni, che per il pub- del quinto capitolo (il viaggio di padre Pirrone a San Cono antici- blico simboleggiano la generazione degli anni Sessanta: Alain Delon pato e riassunto in una scena in osteria in cui il prelato parla della e Claudia Cardinale. Dei due, va detto, il personaggio più “positivo” difficoltà di capire i nobili). E tra le piccole varianti “ideologiche” è forse Angelica, l’unica borghese che, per meriti diremmo anzitutto ci sono un generale Pallavicino ancor più antipatico che nel libro, i estetici, non viene guardata con disprezzo. Su Tancredi, invece, Vi-

88 89 sconti appare davvero scisso: da un lato, nell’intervista programmati- di loro esibizione. Curiosamente, ad apprezzare la svolta di Visconti ca a Trombadori afferma che egli «non è soltanto cinico e vorace: ri- sarà proprio il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che in una lette- verberano in lui, già dall’inizio della deformazione e della corruzione, ra a Trombadori sprona quest’ultimo a consigliare Visconti di non quei lumi di civiltà, di nobiltà e di virilità che l’immobilità feudale ha tagliare nulla, specie del lungo ballo finale nel quale «l’opera d’arte cristallizzato e cicatrizzato senza speranza di futuro nella persona del culmina, anche perché raggiunge quel carattere ossessivo (non so se principe Fabrizio». Ma poco oltre, si fa delle domande angosciose: sia ben detto) che è solo delle grandi concezioni artistiche» (fot. 6).19 «Ti sei mai chiesto, leggendo il Gattopardo, se un uomo come Tan- La definizione, in effetti, è acuta: il ballo è davvero un momento di credi avrebbe un giorno potuto dire di sì non solo alla repressione pura ossessione, nella concezione e nell’esecuzione. dei moti del ’96, ma addirittura al fascismo? Io mi sono posto questa domanda, e debbo dire che il barlume che Lampedusa getta in di- rezione di una risposta affermativa mi ha profondamente scosso».14 Nasce allora quasi un sospetto: ci sono forse già, nella seduzione che il regista subisce da parte di Tancredi, i germi di quell’attrazione sof- ferta e masochista di Visconti per i nazisti di La caduta degli dei e i neofascisti di Gruppo di famiglia in un interno? Infine, c’è anche un elemento che riguarda il metodo, e perfino i vezzi e le ossessioni, del regista, a qualificare il film come intimamen- te aristocratico.15 Il gusto del dettaglio rivelatore, dell’oggetto, molto meno presente in Senso dove predominava il gusto del riferimento pittorico e musicale, rende il film assai più “nostalgico”, emotivamen- te caldo. Nella visita a Donnafugata gli sceneggiatori avevano inse- rito anche suggerimenti tratti dai Ricordi d’infanzia16 di Lampedusa, testo in prima persona assai debitore di Proust. E il nome di Proust ricorreva, come un’aspirazione o una minaccia, tra i riferimenti del film. Visconti ne rivendicava la liceità nell’intervista a Trombadori: «Sarebbe la mia ambizione più sentita quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica, la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann, e in don Calogero Sedàra nei suoi rapporti coi contadini e nella notte del Plebiscito, Mastro don Gesualdo».17 Ma l’incontro magico tra questi personaggi non avviene (non in questi termini, almeno), e il ballo finale, che dovrebbe unire e armonizzare realismo progressista e “pulsioni decadenti”, diventa uno dei pezzi più memo- rabili del cinema di Visconti per i motivi opposti, per l’accettazione e la contemplazione delle contraddizioni, trasformate in spettacolo; per come il corteggiamento della morte germoglia da un’osserva- zione maniacale, feticistica del dettaglio storico, ossessione dentro ossessione, con un effetto non di superamento delle tensioni, ma Fot. 6

90 91 2. all’interno del film, il punto di vista di Salina e quello del regista «Col punto di vista di Lampedusa, e diciamo pure con quello del suo coincidono in senso stretto. Si hanno vere e proprie soggettive del protagonista, il principe Salina, io concordo non soltanto fino al li- principe nella scena del rinvenimento del cadavere di un soldato mite del movimento analitico dei fatti storici e delle situazioni psico- nel giardino di villa Salina, e poi nel racconto in flashback che in- logiche da essi derivanti, ma oltre questo limite: vale a dire laddove è terrompe la sequenza del trasferimento del principe a Donnafugata adombrata la loro considerazione pessimistica di quei fatti. Il pessimi- per mostrare l’incontro con un generale garibaldino23. È indubbio smo del principe di Salina porta quest’ultimo a rimpiangere la caduta poi che il ballo sia vissuto con lo stato d’animo del principe, in di un ordine che per quanto immobile era sempre un ordine, mentre un’alternanza di inquadrature in soggettiva e di parti oggettive. il nostro pessimismo si carica di volontà, e in luogo di rimpiangere Di più: il tema dello sguardo è essenziale e il principe Salina (in l’ordine feudale e borbonico mira a postularne uno nuovo.»19 questo pienamente contemporaneo al cinema di quegli anni) non agisce ma osserva, e si trova scollegato dal mondo esterno come i Il nodo ideologico di Il Gattopardo è dunque il rapporto di pros- protagonisti assai più giovani di un cinema assai più “moderno”. simità con il punto di vista del testo di partenza e, all’interno di Sempre alle prese con cannocchiali, finestre, specchi, lo sguardo del questo, con lo sguardo del suo protagonista. «Mai come in Il Gat- principe domina il film24 nella sua continua e parziale coincidenza topardo Visconti sposa il punto di vista del protagonista letterario con quello di Visconti. e adotta la sua centralità narrativa».20 E questo diventa l’elemento In tutto questo, la maggiore preoccupazione di Visconti è di decisivo per capire non solo la posizione ideologica dell’autore, ma “riempire” l’inquadratura, «caratterizzata dal trionfante formato la sua posizione nel cinema di quegli anni. Il Gattopardo esce lo Technirama a otto perforazioni: un’opzione tecnica che garantisce stesso anno di 8 ½, che fonda il moderno “film sul cinema” inte- un fotogramma la cui ampiezza è analoga al 70mm, pur impie- so come film sull’autore, aprendo la stagione dell’autobiografismo gando la consueta pellicola a 35, tuttavia utilizzata nel senso della felliniano.21 Dall’altro lato, i registi della Nouvelle Vague sono nel larghezza anziché in quello dell’altezza. Da questo punto di vista, pieno della loro pratica di un cinema “moderno”. L’autore, dunque, Visconti condivide con Fellini una sorta di horror vacui, sebbene è in primo piano come stile o contenuto dell’opera. Visconti in tut- con opzioni stilistiche assai diverse.25 to ciò realizza un film dall’apparenza classica, senza nessuna delle Ma in definitiva, i tratti di autobiografismo del film non deriva- marche caratteristiche del “nuovo cinema” degli anni Sessanta. no tanto dai momenti di identificazione con il punto di vista del Tuttavia questa classicità del film è incrinata dal continuo negare principe, ma nell’impostazione generale del film, per cui questo e affermare la coincidenza col punto di vista del principe. Se già si autobiografismo risulta infine quasi coincidere con una forma di è molto discusso della coincidenza tra narratore e protagonista nel autoriflessività. libro, per valutare quanto delle idee del principe Salina appartenga a Lampedusa, con l’entrata di un terzo soggetto (Visconti) il gio- «Benché il rapporto autore/personaggio sia di grande complicità, il co si complica. O, secondo alcuni, si semplifica. Visconti infatti film nel suo complesso è organizzato e controllato da Visconti a tutti non può utilizzare le continue marche ironiche con cui Lampedusa i livelli, sino al dettaglio irrilevante. L’istanza autoriale permea ogni punteggia il racconto, e nemmeno i procedimenti di analessi e gli scena dando al film una tessitura altamente autoriflessiva. Particolar- anacronismi22 per cui i continui riferimenti a eventi e a termini suc- mente significative sono le scelte compiute dal regista nella configura- cessivi svelano il carattere di “gioco” nella costruzione da romanzo zione del profilmico: dalla scelta di arredi e oggetti, ai restauri e ritoc- storico dell’intero libro. chi apportati ad ambienti e palazzi sino alla rete di citazioni pittoriche Gli studiosi hanno segnalato precisamente i momenti nei quali, e riflessive, Il Gattopardo esprime non solo il mondo del Principe, ma,

92 93 soprattutto, il mondo culturale e artistico del regista: questo è forse il tratto che meglio esprime l’autorialità di Visconti.»26

A suo modo, con questo film Visconti ottiene il massimo di au- tobiografismo cui avesse aspirato fino ad allora. Del resto, il regista ha sempre preferito sublimare e decantare le pulsioni autobiogra- fiche, in una sorta di camuffamento che potrebbe essere letto a partire anche dalla logica dell’occultamento della propria identità omosessuale. Se dopo Il Gattopardo Visconti ritroverà altre due fi- gure in cui mette molto di sé (in maniera fantasmatica e mediata l’Aschenbach di Morte a Venezia [1971], in maniera più esplicita il professore di Gruppo di famiglia in un interno), prima del 1963 il personaggio più “autobiografico” del regista è probabilmente la contessa Serpieri di Senso, sospesa tra dovere e amore. Potremmo dire: tra impegno e vocazione, tra la propria più intima natura “de- cadente” e il “marito” Ussoni del Pci e di «Cinema Nuovo».

3. Nella non appariscente modernità del film (che come stiamo ve- dendo risiede soprattutto nelle sue contraddizioni), oltre alla schi- zofrenia ideologica, e al complesso rapporto fra i punti di vista del personaggio, del regista e dello scrittore, va inserito un ultimo ele- mento. Ossia il duplice paradosso di un “bestseller aristocratico”, che a sua volta dà vita a un kolossal internazionale sotto il segno dell’autore (fot. 7). Il Gattopardo di Visconti è interessante anche come momento di massima sintesi, e massima contraddizione, del “superspettacolo d’autore”. Film costosissimo, dalla interminabile lavorazione, con un cast di divi internazionali (Burt Lancaster, Alain Delon) e gran- di attori teatrali (Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli), è un Fot. 7 grande successo di pubblico ma ugualmente, a causa dei costi, con- tribuisce alla rovina della Titanus di Lombardo, che contempora- Soldati).27 L’idea del produttore era di farne “il Via col vento italia- neamente si era lanciato in un’altra impresa ancora più catastrofica: no”: anche qui, una storia di un Sud “nobile” sconfitto dal Nord, la Sodoma e Gomorra (1962) di Robert Aldrich. Il romanzo di Lam- nostalgia di un mondo spazzato via col vento, e la possibilità, tra i pedusa era stato anzitutto il primo bestseller italiano in senso mo- conflitti familiari, di inserire sontuose ricostruzioni d’epoca. derno, e Lombardo ne deteneva i diritti fin dalla sua uscita (prima È Lombardo a insistere, contro un perplesso Visconti, perché Burt di Visconti, aveva cercato di affidarlo a Ettore Giannini e a Mario Lancaster interpreti il principe Salina, ed è sempre lui a scegliere

94 95 infine di non realizzare il progetto in coproduzione con la Francia 4. (come era d’uso all’epoca, e come era stato anche per Rocco e i suoi Come abbiamo accennato, il film di Visconti termina nel 1861, fratelli) ma di coinvolgere invece una casa di produzione america- condensando idealmente nel gran ballo finale i due ultimi capitoli na, la Fox. La quale, in difficoltà con la Cleopatra (1963) di Joseph del libro di Lampedusa, che invece narravano la morte del principe e L. Mankiewicz (le cui riprese erano in corso a Cinecittà), parteci- un malinconico ritratto dei superstiti cinquant’anni dopo. Il senso di pa al film cercando un prodotto di successo relativamente a buon questa “condensazione temporale” è spiegato da Visconti stesso: mercato.28 Il risultato però li sconcerta, e il film uscirà sul mercato americano in un’edizione con venticinque minuti in meno. Ov- «Io ho sentito che tutto ciò che nel romanzo si sviluppa oltre il nesso viamente, nel passaggio al pubblico americano, a saltare sono quei 1861-2 potevo anticiparlo e bloccarlo grazie al linguaggio del cinema, momenti che invece il pubblico europeo sarebbe stato disposto ad esattamente in quell’arco di tempo, ricorrendo, naturalmente, a una assorbire come parte della strategia d’autore: e quindi vengono ta- forzatura espressiva, a una dilatazione iperbolica dei tempi del ballo gliate soprattutto le scene con attività non finalizzate strettamente in casa Ponteleone.»32 all’azione, e i numerosi tempi morti. I critici americani, comunque, reagiranno lo stesso al film biasimandone le lunghe parate senza Il ballo è idealmente un “viaggio nel tempo”: oltre le stanze, si po- eventi. Altrettanto significativo delle strategie commerciali e delle trebbe immaginare che l’Italia giunga non solo al 1911 del roman- mutazioni del pubblico sarà la successiva riedizione del film di Vi- zo, ma (perché no?) alle soglie del 1963; che il palazzo Salina vada sconti nei primi anni Ottanta, agli albori della nuova ideologia del davvero in rovina, ma cent’anni dopo, come è stato nella realtà e “director’s cut”, con successiva edizione in home video. come la sgomenta troupe di Visconti non smette di notare durante La prospettiva “aristocentrica” del passaggio Lampedusa-Visconti i sopralluoghi. Lo stesso regista confidava al figlio adottivo di Lam- non deve far dimenticare questo momento di mediazione econo- pedusa i mutamenti intervenuti dagli anni in cui aveva girato La mica e ideologica, ossia il rapporto bestseller letterario-superspet- terra trema: «Sì, dal tempo di Acitrezza molte cose sono cambiate. tacolo d’autore. Il Gattopardo non è solo il libro di un aristocratico C’è un risveglio di attività. Ma anche di obbrobri. Palermo, per siciliano, ma anche il primo bestseller italiano “di massa”. E quindi esempio, era molto più bella prima. Ora le speculazioni edilizie la il gioco è tra un nuovo pubblico borghese (quello dei bestseller e stanno rendendo decisamente brutta».33 dei registi come Visconti) e una visione del mondo che paradossal- Il tema del tempo, più ancora che quello della storia, è centrale mente si fonda sul rifiuto sprezzante, seppur fatalista, di ogni ruolo nel film. Il film di Visconti non sembra vedere forze storiche pro- progressivo della borghesia italiana.29 gressive e razionali in azione nel tempo storico, ma non è d’altronde Questa costruzione produttiva del film ne segna la struttura for- riconducibile al “fatalismo” delle celebri parole del principe di Sa- male in maniera profonda, e le strategie di ricezione: «La fascinazio- lina. Come ha scritto una studiosa, «più che celebrare (o rimpian- ne immediatamente visibile, quasi palpabile, del grosso investimen- gere) il trionfo dell’immutabile, Il Gattopardo propone, mi sembra, to produttivo – fatta di un accumulo anche esagerato di oggetti, di nel gioco che s’instaura tra il racconto, l’immagine e il sonoro, un persone, di attori, di architetture e di interventi particolarmente modello di come si articolano i diversi ritmi del tempo storico»34: costosi – si incontra con la fascinazione più segreta e impalpabile la campagna immutabile, i bruschi avvenimenti, la continuità ari- del segno dell’autore».30, in un film che è tutto costruito all’insegna stocratica confliggono. Ma questo scontro di tempi, agli occhi dello di una poetica del dettaglio e dello spreco, e insieme del restauro e spettatore di mezzo secolo dopo, coinvolge inevitabilmente il tem- dell’intervento scenografico su set esistenti (superando l’alternativa po nel quale il film fu girato. tra cinema neorealista e “studio”).31 All’epoca si colsero, nel film, riferimenti più o meno volontari a

96 97 una “fine delle illusioni” più recente, quella degli ideali della Re- tici che elogiano Il Gattopardo, preferendolo a volte allo stesso Senso, ci sono sistenza, per cui il “Risorgimento tradito” era anche una metafora Filippo Sacchi, Pietro Bianchi ed Ercole Patti. della “Resistenza tradita”35, ma anche accenni più contemporanei, 6. Il Gattopardo e il telepata, «Cinema Nuovo», n. 162, pp. 123-5. Da segnalare, come l’idea che quella messa in atto dal principe Fabrizio e da don sempre su «Cinema Nuovo», un’altra lettera, molto critica sul film, di Leonardo Calogero sia una specie di “operazione Milazzo”36. Ma la maggior Sciascia (n. 166, novembre-dicembre 1963). impressione oggi è visiva, e generata dal fatto che Visconti si trova 7. Ma come nota Michèle Lagny, le scene di battaglia sono anche «un semplice in effetti a girare in un periodo in cui solo per pochi istanti potrà momento di teatro, dove si agitano un po’ di comparse, mentre altre mano- filmare le cose in quel modo, ossia con la citata estetica “del restau- vre, quando i rivoluzionari saranno incensati ma eliminati, ne cancelleranno ro” e “della ricostruzione” che presuppone un luogo reale da ripri- le eventuali conseguenze». (“Un Gattopardo senza storia, o una storia senza stinare. Il principe di Salina si muoveva già, nel romanzo di Tomasi Gattopardo?”, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 43). Sul rap- di Lampedusa scritto tutto in un bar del centro, nel cuore della porto tra il film di Visconti e lo sfondo storico, cfr. Alberto Costa, Visconti, nuova Palermo del sacco edilizio. Il principe Salina di Visconti, tra Il Gattopardo e la scena storica, in Id., Immagine di un’immagine. Cinema e Villa Boscogrande (successivamente divenuta discoteca), la piazza letteratura, Utet, Torino, 1993, pp. 118-127. di Ciminna e Palazzo Ganci a Palermo, si muove sul crinale di una 8. La lettera aperta, uscita su «Cinema Nuovo», n. 167, gennaio-febbraio 1964, è crisi perfino più radicale di quella di cent’anni prima, quasi sapen- riproposta in Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma- Bari 1994, pp. 138- dolo. A suo modo, compostamente e malinconicamente, il ballo sgg. di Il Gattopardo è anche l’ultimo dei grandi “sabba” del cinema 9. Renzo Renzi, Visconti segreto, cit., p. 141. italiano del boom, quelle grandi feste, party e orge che punteggiano 10. Ivi, p. 153. i film di Antonioni e Fellini degli stessi anni. 11. Tra le varie dichiarazioni del regista, a parte la citata intervista di Trombadori, si veda quella di Paolo Spriano («l’Unità», 11 aprile 1963, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 295), intitolata significativamente Voterò come 1. «Né Verga, né Pirandello, né De Roberto avevano detto tutto del dramma ri- ho sempre votato per la lista comunista. sorgimentale italiano rivissuto da quell’angolo visuale determinante che è 12. «Nel film pesano ancora il volontarismo dell’impegno viscontiano, le intenzio- costituito dalla grande, complessa, affascinante realtà siciliana. Tomasi di ni intellettuali di rileggere i processi storici del passato per meglio capire il Lampedusa ha in un certo senso completato quel discorso. Da questo suo presente, i consigli ideologici degli uomini di sinistra, cui Visconti si sente (…) completamento, che sul terreno dell’arte non ho trovato per nulla contraddit- particolarmente vicino; ma il tutto invece di produrre feconda dialettica, porta torio a quello della storiografia democratica e marxista, diciamo di Gobetti, di ormai più soltanto a una palese contraddizione, che Visconti supererà soltanto Salvemini o di Gramsci, ho preso le mosse; sollecitato al tempo stesso da pure dopo Il Gattopardo (accettandola senza contrastarla: ovvero nel solo modo che emozioni poetiche.» (Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, in Suso gli è ormai possibile).» (Lino Micciché, Luchino Visconti, cit., pp. 47-8). Cecchi d’Amico, a cura di, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, 13. Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id. (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. Cappelli, Bologna, 1963, p. 24). 11. 2. Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Utet, Torino, 1981, p. 439. 14. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 29. 3. «Cinema Nuovo», luglio-agosto 1962. 15. «Al tripudio dell’esteriorità, al mondo fulgido delle apparenze Visconti affida il 4. Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia, 1996, pp. proprio discorso interiore. (…) Il mondo che Visconti evoca è un mondo perduto, 45-8. in cui le cose sono divenute emanazione dei personaggi e i personaggi ema- 5. Citazioni da David Bruni, “La fortuna critica in Italia”, in Lino Micciché (a cura nazione delle cose. (…) L’intima adesione di Visconti al sentire principesco dei di), Il Gattopardo, Electa Napoli/Csc, Napoli/Roma, 1996, pp. 243-5. Tra i cri- suoi personaggi si riverbera fin nel metodo di preparazione del film, del tutto

98 99 simmetrico rispetto al mondo messo in scena.» (Stefania Parigi, “L’ambiente 29. La stroncatura di Alberto Arbasino, in effetti, accomunava tranquillamente come sentimento”, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 74). libro e film leggendoli dalla stessa prospettiva di prodotti dell’industria cul- 16. Gianni Nuvoli-Maurizio Regosa, Storie ricreate. Dall’opera letteraria al film, turale per una nuova borghesia del boom: «L’Italia ha finalmente una destra Utet, Torino, 1998, pp. 245-8. Letteraria dignitosa e presentabile (…). Il suo regno è il Tempo Perduto. I suoi 17. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 28. sovrani, Jadis e Naguère. Il suo ciambellano, la Memoria. La sua ideologia, lo 18. La lettera del 2 aprile 1963 è riprodotta in Caterina D’Amico (a cura di), Album Status Quo Ante: fermo, sicuro, riposante, morale. E la sua arma sarebbe la No- Visconti, Sonzogno, Milano, 1975, p. 197. stalgia, ribattezzata però accortamente Recherche». (Grazie per le magnifiche 19. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 23. rose, Feltrinelli, Milano, 1965, poi in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La 20. Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., p. 9. letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, 21. 8 1/2 e Il Gattopardo escono, nel 1963, nelle stesse settimane, e vengono spes- Marsilio, Venezia, 1994, p. 225). Sapendo sicuramente il dispetto che faceva a so letti insieme all’epoca. La stessa lettera aperta di Aristarco è seguita dalla Visconti, Arbasino definiva in questa chiave Il Gattopardo un film “malagodia- recensione del film di Fellini, donde il titolo Il Gattopardo e il telepata. In una no”, dal nome del leader dal Partito liberale. recensione, Tullio Kezich deplora l’assenza in Visconti dell’umorismo di Lam- 30. Paolo Bertetto, “Il simulacro e la figurazione. Strategie di messa in scena”, in pedusa, e rinnova il paragone con l’autobiografismo di 8 1/2, più dichiarato e Veronica Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Edizioni di Bianco palese («La Settimana Incom illustrata», 14 aprile 1963, cit. in David Bruni, “La e Nero, Roma, 2000, p. 201. fortuna critica in Italia”, in Il Gattopardo, cit., p. 247). 31. Ivi, pp. 203-4. 22. Secondo Micciché, anzi, Visconti è molto più vicino a Salina dello stesso Lampe- 32. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 26. dusa, proprio perché non può adottare questa strategia di flash-forward e ana- 33. Giuseppe Lanza Tomasi, «Stasera», 27 settembre 1962, poi in Lino Micciché (a cronismi (Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., p. 12). cura di), Il Gattopardo, cit., p. 292. 23. L’analisi è in Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., pp. 34. Michèle Lagny, “Un Gattopardo senza storia, o una storia senza Gattopardo?”, 12-13, che fornisce anche i numeri di inquadratura delle sequenze (45-6 e 187- in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 46. 204). 35. Renzo Renzi, Visconti segreto, cit., p. 149. 24. Vito Zagarrio, “Lo sguardo dell’eccellenza. Note sulla regia”, in Lino Micciché (a 36. Ivi, p. 151. Silvio Milazzo governò la Regione Sicilia dal 1958 al 1960 (tra i due cura di), Il Gattopardo, cit., pp. 62-73. Gattopardi, si potrebbe dire) scalzando la Dc con una singolare coalizione com- 25. Si potrebbe ipotizzare, a questo punto, che per il cinema di Fellini, Antonioni e posta dalla Unione Siciliana Cristiana Sociale (composta da fuoriusciti della Visconti gli elementi di innovazione o comunque la peculiarità della modernità Dc), da Psdi, Pri, Pli e addirittura Msi, con l’appoggio di Psi e Pci. L’esperienza, cinematografica emergono assai più chiaramente dall’analisi delle singole se- assai contraddittoria, ebbe importanti ripercussioni sulla politica nazionale e quenze e addirittura della singola inquadratura, che dall’analisi delle strutture viene da alcuni storici considerata una delle prime avvisaglie dei futuri governi narrative. di centro-sinistra. 26. Veronica Pravadelli, Moderno/Postmoderno, cit., p. 73. 27. Caterina D’Amico, “La bottega del Gattopardo”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 269. 28. Sam Rohdie, “Il giudizio della critica anglosassone”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 218. In questo senso, dal punto di vista produttivo il film segna idealmente la fine non solo del “progetto Titanus” ma anche dei grandi produttori italiani. Il recente documentario di Giuseppe Tornatore su Lombardo, non a caso, si intitola L’ultimo gattopardo (1963).

100 101 essere vivi o essere morti: un’idea cara a vari linguisti, vale a dire una semiologia totale della Accattone (1961) realtà) con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo.»1 di pier paolo pasolini Gli scritti successivi all’arrivo a Roma spesso “prefigurano” il ci- nema, e soprattutto quelli in cui la materia descritta non è ancora organizzata intorno a dei fuochi narrativi definiti. Come esempio lampante, si può citare questo brano all’inizio di Studi sulla vita del Testaccio (1951): «Panoramica iniziale – dall’alto, come in qualche 1. classico del cinema francese, René Clair: – Porta Portese, Riforma- Quando Pier Paolo Pasolini, alle soglie dei quarant’anni, esordisce torio dei minorenni – di uno stinto, solido barocco romano – lun- nella regia, è già ben noto alle cronache letterarie. Poeta e studioso, goteveri alti, deserti. Ma questo di scorcio: l’obbiettivo si fermerà ha conosciuto il successo e lo scandalo con il romanzo Ragazzi di subito contro la riva di Testaccio. Ponte Testaccio».2 Ma i lampi vita, nel 1955, e nello stesso periodo ha intrapreso la carriera di sce- di cinema nei testi di quell’epoca sono numerosi: Appunti per un neggiatore, collaborando a una ventina di film. L’avvicinamento al poema popolare (1951-2) è anche una meditazione allucinata sulla cinema è progressivo: scopre il set grazie a Mario Soldati (La donna luce di Roma, e il racconto Mignotta (1954) ha come sottotitolo re- del fiume, 1954) e a Fellini (Le notti di Cabiria e La dolce vita); tra lazione per un produttore. Non è un caso se questi testi confluiranno il dicembre del ’59 e il febbraio del ’60 tiene una rubrica di critica in Alì dagli occhi azzurri (1965), insieme ai testi per La notte brava cinematografica su «Il Reporter»; lo stesso anno recita in Il gobbo (1959), Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963), di Carlo Lizzani. È sempre Fellini a stimolarlo a esordire, salvo ri- a costruire un ideale continuum.3 trarsi dopo aver visto le prime riprese, probabilmente spaventato A monte di Accattone si trovano dunque due percorsi, che in re- dall’ostentato primitivismo del suo sguardo registico. altà si intrecciano in maniera inscindibile: la tensione verso delle Dal 1961, e fino alla morte, Pasolini non smetterà più di fare forme che permettano l’immersione in una realtà primigenia, pre- film, a ritmi più o meno di uno all’anno. Il suo incontro con il linguistica, e la scoperta del mondo delle borgate romane. cinema ha il carattere di un destino. Non solo perché, come molti registi della sua generazione, Pasolini ama fin da giovane il cinema. 2. Ma perché il cinema giunge a compimento di un percorso di ri- Dopo aver rinunciato a trasformare in film il proprio racconto cerca che dalla scoperta della lingua friulana arriva al dialetto delle La commare secca, affidato al suo aiuto-regista Bernardo Bertolucci, borgate, e poi alla lingua del cinema, nell’inesausto tentativo di Pasolini decide di lavorare su un soggetto originale. Si tratta della aderire a una sostanza ultima della realtà. Il percorso è stato riven- storia di Vittorio detto Accattone, giovane magnaccia di borgata, dicato e narrato più volte dallo scrittore: il quale dopo l’arresto della sua donna Maddalena tenta di tornare dalla moglie Asenza, che vive coi parenti e non lo vuole più vedere. «Già il dialetto era per me il mezzo di un approccio più fisico ai Ma in quella zona Accattone conosce un’angelica ragazzina burina, contadini, alla terra, e nei romanzi “romani” il dialetto popolare mi Stella: la corteggia, sembra innamorato, e ben presto la manda sulla offriva lo stesso approccio concreto, e per così dire materiale. Ora, ho strada a battere, anche se lei è timidissima e non ci riesce. Accatto- scoperto molto presto che l’espressione cinematografica mi offriva, ne, intenerito, sembra quasi messo sulla retta via da Stella: andrà grazie alla sua analogia sul piano semiologico (ho sempre sognato a lavorare, la manterrà. Ma nel frattempo, in carcere, Maddalena

102 103 viene a sapere della nuova fiamma di Accattone, e lo denuncia. libero su cui aveva fondato i due romanzi “di borgata”. Lì la forma L’uomo è ormai spesso seguito da un agente, e quando tenta di narrativa, la mimesi del dialetto era una forma di letterale manieri- rubare del cibo da un camion viene inseguito. Ruba una moto, va a smo, reinvenzione linguistica, e la voce narrante cercava di mima- sbattere contro un camion, e muore sul lungotevere mormorando: re l’effetto di un punto di vista parallelo a quello dei personaggi, «Aaah… mo’ sto bene!» adottandone il timbro e il sistema di valori. In Accattone, proprio Al centro del film, a differenza che in Ragazzi di vita e nel film La perché la mimesi non è un punto di arrivo ma di partenza, la pre- commare secca (1962), troneggia un protagonista assoluto. Come occupazione di Pasolini sarà quella inversa, di distanziarsi dai per- nel romanzo Una vita violenta (1959), ma molto di più, perché lì la sonaggi e in qualche modo di far sentire la presenza del regista: non folla dei personaggi minori riempiva a tratti il racconto offuscando con l’esibizione di un punto di vista, ma attraverso la costruzione la centralità del giovane Tommaso Puzzilli. Inoltre, il suo personag- di uno stile visibile, imponente e riconoscibile, che non coincide gio non compie alcun percorso di presa di coscienza politica come, in nessun modo con la riproduzione della realtà, e anzi chiarisce seppur contraddittoriamente, faceva Tommaso con l’iscrizione al subito dei riferimenti pittorici e musicali “alti”. Questa distanza, Pci e il coinvolgimento nelle rivendicazioni dei malati dell’ospedale peraltro, indica anche la coscienza di una distanza da un mondo di Forlanini. cui non si intende più rendere la vitalità in presa diretta, ma quasi Dunque, come Pasolini stesso ammette,4 da un punto di vista il solenne monumento funebre: rigidamente marxista Accattone è un passo indietro rispetto a Una vita violenta. Ma in verità, è facile oggi vedere come il film sia sem- «In realtà già nel ’61 il film si presenta come un’urna incrinata, che il plicemente fuori da un’impostazione di quel tipo, proprio perché poeta ha edificato nel corso degli anni ’50 soltanto per celebrarne il assume come dato di fatto il carattere irrecuperabile (se non postu- rimpianto. (…) Accattone non ci appare oggi come un fossile riesumato mo) del sottoproletariato, in un’Italia ormai nel pieno del miracolo dal passato perché l’inattualità è il suo tratto ontologico già all’inizio economico. E anzi non è escluso che gli elementi di “sacralizzazio- degli anni ’60. Il film non ha mai proposto una lettura sociologica della ne”, lo stile sublime provocatoriamente applicato a un ambiente borgata: quel tanto o poco di documentario che contiene è dovuto al sociale infimo, siano anche una reazione autocritica a Una vita vio- carattere riproduttivo del medium cinematografico.»7 lenta. Nel romanzo precedente, infatti, dopo gli attacchi dei critici comunisti a Ragazzi di vita,5 Pasolini aveva costruito intorno a un personaggio una vicenda di presa di coscienza, almeno parziale. Ma 3. se Una vita violenta era stato scritto sull’onda del 1956, con il rap- Questo percorso è ormai lontanissimo dai termini del dibattito porto Chruščëv la rivolta d’Ungheria e la speranza che la crisi del sul neorealismo. La sua estetica unisce in maniera originale ele- Pci preludesse a una sua modernizzazione («uno stato terribile di menti di modernità tipica del decennio a un vistoso recupero pri- crisi annunciava albeggianti e luminose soluzioni: il rovesciamento mitivista di tecniche e stilemi da cinema muto, ma sotto il segno dell’epoca staliniana, un rinnovamento interno e fecondo dei Par- di una dichiarazione di filiazione più dall’arte figurativa (Masaccio, titi comunisti»), la storia di Accattone «ha la durata di un’estate, che Giotto) che dal cinema: è quella del governo Tambroni. Tutto, nella mia nazione, in quei mesi, pareva riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di «Il mio primo, istintivo approccio con la tecnica cinematografica è superstizione, di servilismo e di inutile vitalità».6 stato quello di semplificarla: questa semplificazione ha portato con sé Più ovvio, ma non per questo da trascurare, è il fatto che nel una scoperta estetica, cioè la scoperta estetica della semplicità ieratica passaggio al cinema Pasolini debba rinunciare al discorso indiretto ferma fissa sacrale delle immagini.»8

104 105 «Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma stanziazione è dato dalla recitazione non professionale, quasi da sa- figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visi- cra rappresentazione (gli attori principali e secondari erano davvero vo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto (…). Quindi, quando le borgatari, sottoproletari, in qualche caso veri magnaccia o piccoli mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come criminali) cui si sovrappone un doppiaggio assai carico. se l’obiettivo si muovesse su loro (come) sopra un quadro; concepisco Per sintetizzare questo intreccio tra riferimenti pittorici, infrazioni sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e alla grammatica corrente del cinema e passione quasi mistica della per questo, lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muo- realtà, la cosa migliore è rivolgersi al Pasolini poeta, che così si ritrae vono su questo sfondo sempre in maniera simmetrica, per quanto nell’atto di girare, rivolto al direttore della fotografia Tonino Delli è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata Colli: «Una coltre di primule. Pecore/ controluce (metta, metta, contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) Tonino,/ il cinquanta, non abbia paura/ che la luce sfondi – fac- di campi, ecc. ecc.»9 ciamo/ questo carrello contro natura!)/ L’erba fredda tiepida, gialla tenera,/ vecchia nuova – sull’Acqua Santa./ Pecore e pastore, un La semplificazione, la spinta verso il primitivo sono anzitutto il pezzo/ di Masaccio (provi col settantacinque,/ e carrello fino al pri- rifiuto della verosimiglianza del cinema narrativo tradizionale, ere- mo piano)».13 de del romanzo borghese – e dunque qui la spinta di Pasolini coin- cide in parte con le istanze coeve di rinnovamento del linguaggio 4. cinematografico, ma se ne distanzia per il rifiuto, ideologico e istin- I rapporti dello stile pasoliniano con le forme del cinema mo- tivo, della dimensione borghese, e per la tensione verso il sacro.10 derno sono tutt’altro che univoci. Da un lato, egli opta per alcune La libertà stilistica di Pasolini, dunque, fa saltare la sintassi tradi- soluzioni che sono l’opposto delle poetiche della Nouvelle Vague: zionale con il richiamo a una ieraticità antica, filmica e soprattutto lavora su una sceneggiatura di ferro che non tocca durante le ripre- figurativa, e fondando questa scelta sulla necessità di una narrazio- se, anzi si munisce di storyboard,14 fa uso del doppiaggio (come del ne che esuli dai canoni borghesi, in omologia col mondo racconta- resto tutti i registi italiani), e rifiuta il piano-sequenza,15 preferendo to, la cui alterità rispetto al presente capitalistico giustifica e quasi già nella fase di riprese effettuare inquadrature brevi da comporre fonda, come vedremo, un’ontologia quasi mistica. al montaggio.16 Ma dall’altro lato gira esclusivamente in ambien- Nella prima inquadratura del film la presenza del dispositivo si ti naturali e utilizza le nuove macchine da presa leggere Arriflex, segnala in maniera forte, con un personaggio, Scucchia, che si ri- che consentono una lavorazione meno “ingombrante”, compiendo volge alla macchina da presa dicendo: «Ecco ’a fine del mondo» tranquillamente infrazioni allo stile di illuminazione e al montag- (scopriamo pochi secondo dopo che questa prima inquadratura è gio “classici”. in pratica una soggettiva del gruppo di sfaccendati, tra cui Accat- Nel complesso, la Nouvelle Vague appare a Pasolini (come gli tone, seduti al bar). Gli stacchi da un’inquadratura all’altra sono apparirà, almeno all’inizio, il ’68) un fenomeno generazionale bor- bruschi, i movimenti di macchina quasi completamente limitati ghese. E non solo perché, rispetto agli esordienti francesi come alle panoramiche,11 sia sui paesaggi che sui volti, secondo una fi- Truffaut o Godard, lui ha dieci (decisivi) anni in più (sono suoi co- gura che Stefania Parigi ha definito di panoramica “a stazioni”12. etanei semmai Rohmer e Resnais), ma appunto perché quello stile Le riprese erano state effettuate tutte con un filtro arancione, per nervoso, moderno, quell’esibizione di soggettività artistica gli sono rendere la fotografia ancora più contrastata. La pellicola usata, una estranei.17 Inoltre, il regista costruisce i primi due film intorno a dei Ferrania P30 uscita sul mercato pochi mesi prima e molto “dura”, personaggi “forti” (cosa che non farà più in seguito, scegliendo la serviva allo stesso scopo. Infine, un elemento fondamentale di di- dimensione dell’apologo o del mito o del racconto breve). La strut-

106 107 tura narrativa è lineare, anzi epica, solenne, per blocchi narrativi Nel 1964 e nel 1965 il regista interviene ai convegni del festival squadrati e nettamente distinti. di Pesaro con due conferenze importanti, sui cui temi poi torna Questo consente oltretutto di utilizzare lo spazio come protago- più volte. In questi due scritti, Il “cinema di poesia” e (più interes- nista, attraverso ritorni di luoghi, con dei moduli quasi musicali, sante per il nostro discorso) La lingua scritta della realtà, offre in ritmici: «La messinscena dello spazio prevale su quella del tempo»18, compendio una semiologia “eretica” del cinema, basata su una tesi anche perché i personaggi (come in Ragazzi di vita) camminano radicale e provocatoria: «L’unità minima della lingua cinematogra- sempre, sono sempre in movimento, e sempre tornano negli stessi fica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura»: luoghi. Dietro i personaggi, ci sono sempre spianate e palazzi: i film i cinèmi.22 Non dunque l’inquadratura, ma ciò che essa contiene sono girati in esterni reali che Pasolini rende alla pari della figura (anzi, più precisamente, l’azione): il che apre tra l’altro la vertigi- umana, e Roma c’è quasi in ogni inquadratura. La pulsione verso la nosa conseguenza che «l’intera vita, nel complesso delle sue azioni, realtà si manifesta anche in questo guardare allo stesso modo luoghi è un cinema naturale e vivente».23 Il cinema e la sua grammatica e corpi, quasi non scindendo gli uni dagli altri. dunque cercano di ordinare qualcosa che ha un fondamento in un Pasolini regista non si nasconde allo spettatore, tutt’altro. Il suo caos vitale prelinguistico, «quel sotto-film mitico e infantile, che, stile anzi è così riconoscibile da poter essere presto declinato in ag- per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film commerciale gettivo, perfettamente riconoscibile e replicabile. Il suo è un cinema anche non indegno».24 che rivendica il proprio essere d’autore, la presenza di un punto di Senza addentrarci nelle varie formulazioni della teoria pasolinia- vista forte.19 Questo stile riconoscibile è anche un aspetto di quello na, va rilevato che essa affonda le radici in alcune delle spinte più che è stato definito manierismo pasolinano: «un continuo eccesso profonde della sua ricerca poetica e critica. Già in un articolo del di presenza dell’autore e delle sue maschere formali per fronteggiare 1947, lo scrittore faceva un ragionamento molto simile sulla pit- l’insidia fatale dell’assenza, della scomparsa, del vuoto di esisten- tura, chiedendosi se in ogni tela non si trovasse contenuta tutta la za».20 E se il regista si metterà in scena solo successivamente, in La pittura, «come una potente mina “sempre sul punto di brillare”» e ricotta, come personaggio e come “altro” da quel mondo, riguar- se potessero identificarsi nelle arti figurative dei “cromemi” equiva- do ad Accattone si può rinvenire una proiezione dei propri impulsi lenti ai “fonemi”.25 di base, funerei e sensuali, non solo sul mondo narrato ma anche Va notato però che il concetto pasoliniano di realtà è assai pros- sul protagonista, o quanto meno sul suo destino. Come mostra simo all’uso che di questa parola fa, negli stessi anni un costante l’ironico narcisismo di far nascondere il persecutore di Accattone, interlocutore di Pasolini: Elsa Morante. La quale, proprio tra le due un poliziotto che è anche emissario del Fato, dietro il «Candido», conferenze di Pasolini, nel febbraio 1965, dà la formulazione più foglio di destra che negli anni precedenti si era lanciato in ripetuti compiuta e appassionata alla propria idea del rapporto tra il poeta attacchi contro Pasolini. e la realtà in Pro e contro la bomba atomica. L’irrealtà è il nemico del poeta, dice Morante, e la realtà, quasi inesprimibile a parole 5. ma attingibile nella pratica poetica, va ricercata come «il paradiso Il Pasolini teorico farà tesoro dell’esperienza di Accattone, e gli naturale di tutte le persone umane, almeno finché non si siano scritti della metà degli anni Sessanta ci aiutano anche a chiarire trasformate nella struttura stessa visibile dei loro corpi. Non siano retrospettivamente il rapporto del regista con la realtà filmata. «I diventate, cioè, dei mutanti».26 In questo senso, il punto di osser- poveri sono reali, i ricchi irreali»21 così il regista sintetizza i motivi vazione di Morante è già in parte quello del Pasolini successivo, della sua predilezione per gli ambienti sottoproletari. Ma cosa in- osservatore atterrito di corpi mutanti. tende Pasolini per realtà? In che senso egli la filma? La scrittrice vedeva come ultimi portatori di realtà i reietti e le

108 109 generazioni più giovani, ma già in una prospettiva di trionfo gene- così ricorrente nelle opere di Pasolini, sarà allora da intendere come ralizzato dell’irrealtà. Il complesso sistema semiologico di Pasolini, idealmente opposto a Realtà, come quel che resta della realtà (bio- checché lui ne pensasse, sembra oggi soprattutto la sistematizza- logica, prestorica e prelinguistica) dopo l’urto feroce con la Storia. zione ex post di una fase del suo cinema, da Accattone a La ricotta, In questo senso Micciché ha proposto di leggere il compimento proprio mentre prendeva nuovo spazio uno dei motivi conduttori della “Trilogia della vita” degli anni Settanta nel film successivo, del Pasolini intellettuale, poeta, regista: ossia l’elemento funebre. Salò (1975), considerandola dunque una «tetralogia della morte»,30 Al posto di realtà, Pasolini usa talvolta il termine “vita”, che però ipotizzando che per Pasolini «sia proprio la Storia l’agente pato- indica di solito qualcosa di più cupo: se con “realtà” possiamo in- geno che conduce alla morte i personaggi: ciascuno di essi, e tutti tendere un impulso biologico primario, il dato di base dell’esisten- senza eccezione, sembrano provenire – e per Pasolini provengono za e della sua contemplazione, quando dice “vita” Pasolini sembra – da un immoto Limbo pre-storico, ignaro e felice nel proprio pre- intendere spesso il suo contrario, l’istinto di morte. biologismo».31 Il film d’esordio in effetti rimarrà l’unico a celebrare il mondo pre-storico, pagano, del sottoproletariato romano, tanto da farlo 6. considerare a ritroso come un riassunto e insieme la “premessa” per Già da subito i critici avevano notato la vocazione mortuaria del- un discorso, che il poeta aveva già cominciato altrove, nei saggi e lo stile di Pasolini, che in Accattone è evidente: negli interventi militanti. Alla luce dei film immediatamente suc- cessivi, appare chiaro che Accattone è un riassunto, la descrizione «Accattone non è un film che contiene o implica una ideologia politi- di una scena originaria. Già Mamma Roma racconta la tragedia di ca sbagliata o regressiva, per la semplice ragione che, al di là delle pro- un sottoproletariato che vuole diventare piccola borghesia, un per- prie stesse pretese, non si offre in alcun modo come rappresentazione corso di ascesa che però non è in alcun modo una presa di coscien- ideologica della condizione proletaria, ma soltanto come applicazione za, ma solo una violenza.32 Nel successivo La ricotta la situazione a un mondo sottoproletario (…) dell’“ideologia della morte” che tor- è ancora più interessante. Qui viene esplicitamente tematizzato il menta ed esalta l’intellettuale borghese Pier Paolo Pasolini.»27 proprio rapporto di intellettuale e di artista con la materia trattata, e viene mostrato un regista, una specie di nichilista di sinistra in- I richiami alla morte sono continui, fin dalla prima battuta del terpretato da Orson Welles, che risponde a base di citazioni paso- film.28 Accattone è, a tutti gli effetti, un morto vivente, e a un cer- liniane, ma in maniera cinica e ironica. Un esorcismo di una parte to punto il suo volto ricoperto di sabbia è davvero quello di uno di se stesso, che è da un lato una sorta di prima apparizione dello zombi.29 «Guarda che il cimitero sta dall’altra parte» gli gridano a spirito “saggistico” di un film come Uccellacci e uccellini (1966), un certo punto, e subito dopo incontra un funerale. Culmine di e dall’altro il confronto diretto con i grandi registi borghesi della questo versante è la scena del sogno, che è appunto la premonizio- modernità: Fellini è esplicitamente nominato («Egli danza», dice ne della propria morte, declinata in varie figure. Welles doppiato da Giorgio Bassani), mentre i sottoproletari/com- Il finale dell’episodio La terra vista dalla luna (1967), reciterà che parse (mostrati per la prima volta come comparse) ballano al ritmo «Essere vivi o essere morti è la stessa cosa». Ma già i personaggi di dell’Eclisse twist. L’alternanza di bianco e nero e colore è a suo modo Accattone sono, assai più di quelli dei romanzi degli anni Cinquan- illuminante: perché a questo punto il bianco e nero non è semplice- ta, dei morti viventi: e il loro nemico non è la morte, ma la Storia, mente il (neo)realismo da contrapporre all’artificio “hollywoodia- da intendere proprio nel senso del romanzo di Elsa Morante, «uno no” del film religioso ispirato ai pittori manieristi, ma un universo scandalo che dura da diecimila anni». E lo stesso concetto di Vita, stilistico da contrapporre a un altro.

110 111 Dopo il 1963, Pasolini si lascia alle spalle il mondo della borgata: 1. Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, prima gira il Vangelo secondo Matteo (1964), poi utilizza in maniera Roma, 1983, ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, quasi astratta gli sfondi delle periferie per il film-saggio Uccellac- 1999, p. 1413 (d’ora in poi SPS). ci e uccellini: e curiosamente la fine della centralità delle borgate 2. Pier Paolo Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, ora in Id., Romanzi e racconti 1961- coincide con l’arrivo di Ninetto Davoli, che in qualche modo la 1975, Mondadori, Milano 1998, p. 414. porta dentro di sé, come un angelico superstite. La realtà su cui si 3. Lino Micciché ha ripercorso la tendenza a uno “sguardo cinematografico” non fondava Accattone e che i saggi di teoria cercavano disperatamente solo nei romanzi degli anni Cinquanta, ma forse ancora più nelle prose sparse, di sistematizzare, è sempre più corrotta e lontana.33 Nell’appunto come quelle raccolte nel 1995 da Walter Siti col titolo Storie della città di Dio. Contro la televisione (1966), Pasolini dichiarerà di essersi reso conto Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, Marsilio, Venezia, 1999, pp. 24-7. che «probabilmente tutto il realismo, e la sua idea, è piccolo-bor- L’autore cita tra gli altri un brano dal racconto Roma allucinante (1961): «Enor- ghese. È una nostalgia della realtà»,34 e addirittura applica la propria me sequenza, d’una lentezza che rasentava la fissità, il foro cuoceva a un sole che allucinata ricostruzione al mezzo televisivo, osservandone quasi il non riusciva nemmeno a intiepidirlo, un sole mattutino ancora un po’ profumato contagio che apporta mostruosamente perfino alle fisionomie degli di cavoli, fragilissimo ardente vaporoso. (…) Ma nell’odierna purezza, la stupenda uomini a lui cari: Bassani diventato dirigente della televisione «era carrellata carica di aeree panoramiche, compie il suo giro intorno ai fianchi del divenuto a tratti un uomo irriconoscibile», e l’espressione gonfia, Campidoglio…». Come ricorda ancora Micciché, I morti di Roma (1959), scritto allusiva e contegnosa degli uomini «aveva cominciato a invadere la poco prima di Accattone, è il progetto di un film in cinque episodi sulla capitale sua faccia tesa e gonfia», così come quella di Attilio Bertolucci, a cui vista dal Tevere. «un orrendo rossore, come una tabe (…) sta gonfiando le membra e 4. Pier Paolo Pasolini, Diario al registratore, in Id., Accattone-Mamma Roma-Ostia, le membrane del viso».35 L’osservazione dei volti e delle fisionomie Garzanti, Milano, 1993, p. 395. assume dei tratti quasi lombrosiani nel tardo Pasolini. Il culmine 5. Cfr. Il giudizio di Carlo Salinari, riportato nella Cronologia dei vari Meridiani, sarà uno dei suoi ultimi articoli, nel quale il regista, in occasione alla data 1955: «Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo della messa in onda televisiva di Accattone, commenta la lontananza del sottoproletariato romano, ma ha come contenuto reale del suo interesse il di quel mondo filmato nemmeno quindici anni prima: gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido…». 6. Dalla rubrica dei lettori su «Vie nuove» (1 luglio 1961), ora in SPS, p. 943. Ma «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto anche in Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 63. un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. (…) Se 7. Stefania Parigi, Pier Paolo Pasolini: Accattone, Lindau, Torino, 2008, pp. 8 e 9. io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, 8. Dal dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini (Alessan- andando in giro per la “grandiosa metropoli plebea”, avrei avuto l’im- dria 1964), ora in SPS, cit., pp. 777-8. pressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, 9. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma (Rizzoli, Milano, 1962), poi in Accattone- sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fanta- Mamma Roma-Ostia, cit., pp. 386-7. smi. (…) Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. 10. «La caratteristica di questa figura stilistica (il primo piano frontale, “sacrale”) Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche non è la speranza ma la disperazione. E con la scomparsa della speranza, c’è lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentati se stessi in anche la scomparsa dell’amore per l’uomo medio. C’è l’amore per l’eroe, per Accattone.»36 l’uomo eccezionale». (Intervista a Jean-André Fieschi per la trasmissione Cinéa- stes, de notre temps, poi in «Cahiers du cinéma», hors série 1981 (Pasolini cinèaste), cit. in Stefania Parigi, op. cit., p. 33). 11. A parte un uso sporadico dello zoom, all’epoca peraltro non molto in voga, e un

112 113 paio di carrelli indietro, il più vistoso dei quali nella scena dell’istigazione alla 28. Gli appunti del regista all’epoca mostrano la consapevolezza di questo tema: prostituzione di Stella da parte di Accattone. «Un sole radioso e stupendo, che era tanto più macabro quanto più era radio- 12. Stefania Parigi, op. cit., p. 167 so.» (“Diario al registratore”, in Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 373) 13. Pier Paolo Pasolini, Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 395. «C’è qualcosa di funereo, di cadaverico nella pelle del mondo – facciate di case, 14. Stefania Parigi, op. cit., pp. 109 e 113. strade, visi di amici, vestiti – che circonda Franco come un pianeta disabita- 15. Sul montaggio cfr. “Il sogno del centauro”, in SPS, p. 1518, e le Osservazioni to.» (Ivi, p. 378). Questa “luce nera” che illumina il film la si può ritrovare in sul piano-sequenza, lette a Pesaro nel 1967 e poi raccolte in Empirismo eretico un’azione costantemente compiuta dai personaggi, e cioè il riso a piena gola, (ora in SPS, pp. 1555-61, insieme a una seconda parte inedita, pp. 1671-74). grottesco, che ricorda la definizione che Michail Bachtin dà della moderna ver- 16. Il metodo di Pasolini prevedeva le riprese di scene brevissime, già in vista della sione degradata del carnevalesco, che comincia col romanticismo: «Nel roman- loro composizione al montaggio, e questo ad esempio causò dei problemi in ticismo la maschera perde quasi interamente il suo elemento rigeneratore e Mamma-Roma con la Magnani, costretta a frammenti di recitazione (Pier Paolo rinnovatore e prende una valenza lugubre. Vi si cela spesso un vuoto terribile, Pasolini, Accattone-Mamma-Roma-Ostia, cit., p. 381) il “niente” (…). Nel grottesco popolare, invece, dietro la maschera si nasconde- 17. L’elenco dei registi preferiti, oltre a Rossellini, comprende Dreyer, Murnau, Mizo- va l’inesauribilità della vita e i suoi molteplici volti». (L’opera di Rabelais e la guchi, Renoir e Tati, Godard, Chaplin. Inoltre, come ribadisce in un’intervista degli cultura popolare, Einaudi, Torino, p. 46). ultimi giorni di vita, «Non amo nessuno dei miti dei “Cahiers du cinéma”, cioè 29. Su questo tema cfr. Stefania Parigi, op. cit., pp. 179-187. Parigi elenca i rife- Hawks, Hitchcock, Ford. E detesto Eisenstein». («Gente», 17 novembre 1975, inter- rimenti alla morte nei dialoghi, le continue pose funerarie dei personaggi, e vista di Peter Dragadze, ora in SPS, p. 865) Una certa insofferenza per la Nouvelle ricorda la scena della visita alla tomba del padre di Stella ad Ardea, poi non Vague era stata già mostrata da Pasolini durante la sua breve carriera di critico girata. cinematografico per «il Reporter», dicendosi irritato dalla presunzione del princi- 30. Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, cit., p. 36. piante di I quattrocento colpi (ma alla distanza, ammette, il film migliora). (L’anno 31. Ivi, p. 133. E ancora: «La Morte, intesa come destino ineluttabile che dà un del “Generale Della Rovere”, 5 gennaio 1960, ora in SPS, pp. 2240-1). senso alla vita e costituisce la sua pulsione fondamentale; la Storia, intesa 18. Ivi, p. 161 come il luogo dove l’individuo è destinato a dannarsi spegnendovi la propria 19. «Il cinema d’autore è creazione assolutamente individuale. Il numero dei colla- individualità e la propria libertà». (p. 130) boratori tecnici non cambia nulla» dichiara Pasolini nell’intervista a Jean Du- 32. «Filmcritica», n. 125, settembre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, flot (Il sogno del centauro, poi in SPS, p. 1434). Mondadori, Milano, 2001, p. 2819. 20. Stefania Parigi, op. cit., p. 57. 33. Sulle mutazioni della teoria del cinema di Pasolini, dagli scritti degli anni 21. «Gente», 17 novembre 1975, ora in SPS, p. 868. Sessanta al “nominalismo” e all’abiura della “Trilogia della vita”, cfr. la rico- 22. Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà (1965), poi in Id. Empirismo struzione di Antonio Costa, “Pier Paolo Pasolini: eresia semiologica e scrittura eretico (1972), ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, tragica”, in Id., Immagine di un’immagine, Utet, Torino, 1993. 1999, p. 1508. 34. Pier Paolo Pasolini, SPS, p. 129. 23. Ivi, p. 1514. 35. Ivi, p. 133. 24. Pier Paolo Pasolini, Il “cinema di poesia” (1964), poi in Id., Empirismo eretico 36. Pier Paolo Pasolini, Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio, «Corriere della (1972), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 1469. Sera», 8 ottobre 1975, poi in Id., Scritti corsari, ora in SPS, pp. 676-7. 25. Pier Paolo Pasolini, Il ritratto a Udine, ora in SPS, pp. 240-1. 26. Elsa Morante, Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano, 1987, p. 110. 27. Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, cit., p. 40.

114 115 spaesamenti: I fidanzati (1963) tadino, entra in contatto con la realtà metropolitana, il film subisce una metamorfosi stilistica, aderendo alla sua percezione della realtà di Ermanno Olmi circostante: alcune scene (come i passaggi dal lavoro a casa) non sono segnalate dalle classiche dissolvenze al nero o incrociate, ma giustap- posta l’una all’altra a stacco, in nervosa continuità; l’idillio tra il pro- tagonista e la compagna di lavoro per le vie della città è pedinato con i classici obiettivi a focale corta tipici del “pedinamento” da cinema en plein air; sono frequenti le infrazioni al découpage classico e i passaggi spiazzanti da campi lunghi a primissimi piani. Proprio verso il finale, 1. che segna la definitiva integrazione/disintegrazione del protagonista, Al festival di Venezia del 1961, sparsi nelle varie sezioni, si trovarono il film raggiunge la sua massima forza sperimentale: dopo la festa di alcuni film di registi italiani che davvero diedero l’impressione di una capodanno, con un brusco taglio si passa ad alcuni uomini che guar- “nuova ondata” generazionale: in concorso Banditi a Orgosolo di Vit- dano in macchina: sono i colleghi di ufficio, che assistono al liberarsi torio De Seta, e nella sezione informativa Il posto di Ermanno Olmi, della scrivania di un collega morto. Segue una serie di inquadrature Accattone di Pier Paolo Pasolini, Tiro al piccione di Giuliano Montal- “vuote”, irrelate alla narrazione, che mostrano alcuni luoghi abitati do.1 Ovviamente, per motivi vari, i film in questione furono letti da dallo scomparso. A questo punto il protagonista, fino allora semplice buona parte della critica nella chiave di un “ritorno al neorealismo”, e fattorino, è impiegato. L’ultima inquadratura è un lungo primo piano a questa prospettiva non sfuggì Il posto. I più benevoli segnalarono la che lo mostra fissare davanti a sé, leggermente in alto. continuità con il neorealismo, derivandone una ortodossia alla sua le- Gli elementi di modernità stilistica di Il posto si trovano presenti zione («Olmi ha voluto tornare al neorealismo più rigoroso (…) anzi assai più chiaramente nel successivo I fidanzati (1963), che è uno dei (…) il neorealismo non ha mai raggiunto una purezza così ascetica», film italiani stilisticamente più vicini alle coeve nouvelle vague (in Kezich), o addirittura lo collegano al pedinamento zavattiniano (Lino specie allo stile di Alain Resnais) e il titolo più sperimentale dell’inte- Dal Fra).2 Da altri, invece (specialmente in area socialista e comuni- ra carriera del regista. Ma anche davanti a questo film la critica italia- sta) Il posto viene criticato per l’impostazione ideologica,3 e le critiche na si concentrò su elementi contenutistici, riferendosi a un’ortodos- maggiori sono appunto quelle di una mancata fedeltà ai modelli neo- sia neorealista intesa come impostazione politica corretta, e il film, realisti, di una impostazione “deamicisiana” e di un bozzettismo, che che fu un insuccesso di pubblico e di critica, venne apprezzato molto evocano lo spettro del temuto “neorealismo rosa”. di più in Francia e negli Stati Uniti. I fidanzati, venendo dopo Il In realtà, rivisto oggi Il posto è un film di una sorprendente crudel- posto e Il tempo si è fermato (1960), costruiva idealmente una “trilogia tà, ferocissimo nel raccontare la quotidianità del mondo impiegati- del lavoro”, e sulla base di come questo tema era affrontato, andava zio, con scene di una cupezza e di uno squallore quasi insostenibili, appunto giudicato. Ne derivarono accuse di intimismo cattolico, di a cominciare dalla celebre scena del party aziendale di capodanno. ignoranza dei conflitti operai e via dicendo.4 Ma soprattutto, già riguardando quel film, ci si accorge quasi di un progressivo slittamento, durante la narrazione, da una descrizione 2. sostanzialmente realistica, nella descrizione della famiglia di origine, I fidanzati sembra cominciare dove Il posto finiva, con la scena di della provincia lombarda, verso una sempre maggiore vicinanza con un ballo (fot. 8): ma stavolta alla mestizia un po’ crepuscolare si so- le istanze più avanzate delle nouvelle vague contemporanee. A mano stituisce una vera e propria esplosione della messinscena. Il film, che a mano che il protagonista, proveniente da un hinterland ancora con- dura settantatré minuti (nella edizione italiana in Dvd uscita con il

116 117 «Corriere della Sera»), è pressoché privo di dialoghi per i primi otto, offrendo prima la silenziosa descrizione dei preparativi e poi dello svolgimento di un ballo, che richiama alla mente la festa della parte finale di Il posto.

Fot. 9

minente separazione. Poi il film segue Giovanni nel suo spostamento (il film è girato a Priolo, in provincia di Siracusa, dove era stato instal- lato uno stabilimento petrolchimico): l’immersione nel lavoro operaio, Fot. 8 i commenti dei colleghi, le esplorazioni di luoghi quasi metafisici come le saline, i contatti sporadici con strani personaggi (un cameriere della L’impostazione visiva delle scene dei due film è però molto diversa: mensa che racconta la misteriosa malattia del figlio neonato, un se- la prima era stata girata tutta insieme (96 inquadrature, girate in una minarista che fa da garzone a un barbiere). In quest’incontro con una sola notte) e, nonostante la libertà dello stile di ripresa paradocumen- Sicilia industrializzata in modo paradossale e contraddittorio si sente taristico, ha una sostanziale compattezza interna, presentandosi chia- forte l’influenza di Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottie- ramente come clou dell’intero film, costruita al proprio interno in ri:7 le giovani impiegate accompagnate dall’intera famiglia, gli operai maniera molto serrata (arrivo nella sala deserta, incontro con alcuni che nei giorni di pioggia non vanno a lavorare. Il “vagabondaggio” di personaggi, esplosione della festa, brusca interruzione col passaggio Giovanni culmina nella lunga scena del carnevale di Paternò, girato in alla scena successiva), mentre l’altra viene subito inframmezzata di maniera para-documentaria, con gli attori mescolati alla vera festa. In immagini e suoni provenienti da un altrove e da un altro tempo, questo evento rituale e collettivo, i momenti della relazione con Liliana secondo la precisa lezione del Resnais di Hiroshima mon amour e si ripresentano, insieme al ricordo di un tradimento compiuto da Gio- L’anno scorso a Marienbad.5 vanni, e di come lei lo avesse scoperto. Verso la fine, una serie di lettere, La peculiarità di I fidanzati sta proprio qui: nella decisione con cui che Giovanni e Liliana leggono ad alta voce, uniti dal montaggio come affronta gli intrecci spazio-temporali facendone l’anima del film.6 Du- in un dialogo a distanza indica il recupero del loro rapporto, la sua rante questa sequenza (che complessivamente dura dodici minuti), crescita attraverso la lontananza: vengono visualizzate le immagini evo- vengono isolati i due protagonisti, Giovanni e Liliana, che seduti ac- cate dal testo, oppure vediamo i due personaggi leggerne le frasi come canto non si rivolgono la parola (fot. 9), e in una serie di fulminei salti se parlassero tra loro. Le ultime immagini (anzi, quasi le ultime, come indietro vediamo i motivi del loro litigio: lui è stato appena trasferito in vedremo), li mostrano baciarsi sulla spiaggia, sono forse quelle dei loro Sicilia con mansioni di operaio specializzato, e lei è amareggiata dall’im- primi incontri, quasi in un percorso à rebours.

118 119 L’intreccio tra passato e presente dunque è fitto nella scena iniziale 3. del ballo, poi si distende in quello centrale, con l’esplorazione di un In I fidanzati, «a differenza che nei due film precedenti, (…) mondo diverso (o meglio, di un mondo familiare come la fabbrica l’identificazione tra autore e personaggio è totale».11 Uno dei tratti del Nord, trapiantato in un ambiente estraneo) da parte di Giovanni, più evidenti di Il posto era proprio una distanza con il protagonista, e riesplode nel finale del carnevale e delle lettere. Nella parte iniziale con il quale l’identificazione è impossibile, perché con quella sua aria e in quella finale, Olmi «innesta in verticale le immagini, e talora atona, quasi da Buster Keaton, è sì un puro di cuore, ma anche un vi impasta anche i suoni, di eventi anteriori accaduti in altri luoghi personaggio che il regista tiene a distanza da sé e dallo spettatore, (…). Tutti accadimenti in bilico tra lo statuto di ricordi, intermitten- salvo poi rendere partecipi della sua confusione, in una descrizione ze della coscienza rammemorante di cui il montaggio traduce i sus- che paradossalmente, nel descrivere il grigiore impiegatizio, procede sulti, e quello di libere analessi dello sguardo narrante che ne assume sempre più a singulti: a salti di montaggio, a ellissi, a falsi raccordi. il punto di vista».8 In questo film, in maniera più chiara che nei due Nel film successivo il rapporto tra regista e personaggi cambia. «Gio- precedenti del regista (che pure contenevano «un intenso lavoro di vanni e Liliana sono operai, ma sono lontani dai “cuori semplici” di découpage che fraziona la scena e la ricompone attivando tutto un Il posto, richiedono strumenti espressivi all’avanguardia per cogliere sistema di raccordi impercettibili»), 9 si chiarisce l’assoluta centralità ombre e smarrimenti»,12 e il film fin da subito, con tutto il suo arma- del montaggio nella poetica del primo Olmi. Lo stesso regista, in mentario di complessi intrecci spazio-temporali, manifesta una forte un’intervista ai «Cahiers du cinéma», aveva sottolineato in maniera prossimità al loro sentimento. chiara lo statuto ambiguo delle immagini, molto diverso da quello di In questo senso l’uso dei flashback, evidenziato in precedenza, un tradizionale flashback esplicativo: ha un ruolo decisivo, nell’accompagnare lo sbandamento morale ed emotivo dei due fidanzati: «al punto estremo della crisi tra i due «I salti della narrazione non sono flashback nel senso tradizionale del personaggi corrisponde la massima ambiguità sia spaziale sia tempo- termine. Si avvicinano piuttosto a quel “cinema-memoria” che comin- rale», nella scena del tradimento in spiaggia da parte di Giovanni e cia proprio adesso a nascere, e che supera i limiti convenzionali della del successivo dialogo con Liliana, in cui non capiamo dove siamo, narrazione cinematografica per raggiungere una narrazione pluri-dire- nel tempo e nello spazio. «Dopo questo apice di crisi, il montaggio zionale, che esiste in sé, libera dal tempo e dallo spazio. Allo stesso comincia a operare in senso inverso: non separa i fidanzati che abi- modo, i flashback non sono ricordi personali del personaggio, ma una tano lo stesso spazio ma li unisce (grazie a dei semplici raccordi sullo oggettivazione del suo carattere, della sua psicologia, della sua maturità sguardo) benché siano in spazi diversi.»13 morale.»10 In apparenza, dunque, il film compie un percorso di riconquista dei rapporti umani: «Volevo mostrare (…) che un avvenimento tem- Il film dunque accorpa due vie maestre della modernità cinema- porale può portare a una maggior fermezza morale e coesione: (…) tografica di quegli anni: si apre e chiude sotto il segno di Resnais è la separazione stessa a far nascere la riunione».14 Ma in verità di- e di una nuova concezione della scansione temporale, e all’interno remmo piuttosto che il percorso che attraverso i due personaggi lo procede radicalmente secondo il dettato “rosselliniano” (nel senso dei spettatore compie è quello di una scoperta e accettazione della com- suoi discepoli francesi), con il vagabondaggio di un protagonista, che plessità dolorosa, traumatica, sottilmente angosciosa del mondo – un sostanzialmente guarda il mondo intorno; in grande libertà narrati- mondo che è essenzialmente mutazione, cambiamento storico. va, tra scene rubate e successioni di immagini sconnesse dal parlato e Come in Il posto, lo smarrimento dei personaggi è dato dal loro non accostate spesso a un punto di vista particolare. inserimento in una situazione nuova: la realtà del lavoro e della vita urbana, o il confronto con l’urto violento, visivo, tra mondo conta-

120 121 dino e industriale. Lo stile del film non cerca di descrivere una sen- siva perdita di contatto con il mondo esterno, fino alle soglie della sibilità nervosa e giovane, una rabbia o una vitalità, come è in certi patologia mentale. film di Godard, Truffaut, Skolimowski, Reisz. Il protagonista di Il Questo può aiutare a capire come molte caratteristiche tipiche posto (dato sconcertante per lo spettatore di oggi) è un quindicenne, del personaggio del cinema “moderno” descritte da Bordwell o da e quelli di I fidanzati ne hanno meno di trenta, ma il film tematizza Bálint-Kovács siano anche, in Italia, da legare a un preciso momento l’opposizione tra loro e il mondo esterno non in quanto giovani, di shock che deriva dall’industrializzazione rapidissima e dall’entrata bensì in quanto “nuovi arrivati” in un mondo in trasformazione – e ancora più rapida nella società dei consumi. Di questo elemento, di questa trasformazione paiono cogliere (o meglio sentire) soprat- che non ha riscontri simili non solo negli Stati Uniti, ma neanche tutto gli elementi di angoscia: «La constatazione della brutalità (e in Francia e Inghilterra, offrono testimonianze assai potenti proprio della bruttura) del capitalismo non produce tanto dialettica, quanto i personaggi di molti romanzi, come quelli citati o altri coevi di Cal- smarrimento esistenziale.»15 vino (La giornata di uno scrutatore, 1963), Moravia (La noia, 1960), Buzzati (Un amore, 1963) e numerosi altri. 4. Olmi, peraltro, era stato in contatto con molti di questi autori: Pa- Il lavoro sullo spazio-tempo è dunque inscindibile dalle contraddi- rise aveva scritto il testo di uno dei documentari che il giovane regista zioni storiche messe in scena. L’accavallarsi spazio-temporale, la con- aveva girato per la Montedison (Michelino 1° B), con Bianciardi (del fusione e la multidirezionalità delle immagini non hanno una radice quale pare avesse presentato a Milano La vita agra) scriverà la sce- esistenziale o teorica, ma diremmo proprio storico-antropologica. neggiatura di un film sulla campagna di Grecia,17 e sarà in rapporto Lo notò, all’epoca, Jean-Louis Comolli nella recensione apparsa sui anche con Ottieri, intellettuale della cerchia di Adriano Olivetti e au- «Cahiers du cinéma»: tore del citato Donnarumma all’assalto, ispirato all’esperienza dell’au- tore come selezionatore del personale alla Olivetti di Pozzuoli. «I fidanzati sono insieme testimoni e critici delle opposizioni Nord- Inoltre, il regista giunge all’amarezza di I fidanzati dopo una serie Sud, padrone-operaio, dei conflitti di classe, dei luoghi, dei climi, delle di documentari industriali per la Edisonvolta, spesso sinceramente usanze… Ma la novità di Olmi è, invece di trattare queste difficoltà convinti della possibilità di coniugare progresso industriale e realtà come materia od oggetto, di integrarli nella struttura stessa del film, di rurale italiana: centrali idroelettriche o dighe che uniscono passato far sì che il percorso e i suoi termini si sposino e si scambino.»16 e presente, città e campagna (alcuni appunto scritti da Parise, o da Pasolini). Ma se già nel primo lungometraggio, Il tempo si è fermato, Va notato come in effetti il cinema di Olmi, nel suo racconto la convivenza di vecchio e nuovo è assai più stridente, nel conflitto preciso della nuova borghesia nata dal boom, rappresenti un’ec- tra l’anziano custode di una centrale d’alta montagna e uno studente cezione: operai, tecnici e funzionari dell’industria non sono quasi che vi lavora per arrotondare, i film successivi segnano addirittura un mai al centro del cinema di quegli anni, mentre sono al centro di ribaltamento della prospettiva. E in I fidanzati questo appare ancora romanzi di rilievo: Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, Me- più chiaramente, proprio perché Olmi ritorna a quel mondo indu- moriale (1962) di Paolo Volponi, La vita agra (1962) di Luciano striale, agli operai e ai tecnici osservati nei documentari. Mentre fuori Bianciardi, Il maestro di Vigevano (1962) di Lucio Mastronardi, cui dal finestrino scorre il paesaggio di una Sicilia contadina, i colleghi seguirà poco dopo il terribile Il padrone (1965) di Goffredo Parise. commentano fuori campo, come in una parodia dei commenti dei Olmi è uno dei pochi registi del periodo che possa essere avvicinato documentari industriali, compresi quelli di Olmi stesso: «Appena a questa narrativa, tutta fortemente critica nei confronti dei modi messo da parte qualche soldo, cominciano a costruire la casa. Non dello sviluppo, e tutti con al centro personaggi alienati, in progres- importa se poi devono piantare lì i lavori a metà: l’importante è avere

122 123 su quattro mattoni. Mangiano pane e limone, pane e carrube e il il salvare piccoli frammenti di realtà e di felicità, di grazia laica, che resto lo mettono via per pagare i debiti. Piantano un po’ di aranci, presuppongono l’apertura e la precarietà del punto di vista. Come mandarini; soprattutto limoni e mandarini che fanno prima. Passa dice lo stesso regista: «Dopo la telefonata con la ragazza con cui final- qualche anno, e appena il terreno comincia a rendere, vengono via mente il dialogo è ricominciato, anzi è cominciato veramente per la dalla fabbrica e vanno a vivere sul campo».18 prima volta, lui resta lì a guardare la pioggia, come i bambini. Torna Per far andare in cortocircuito i personaggi, per avere un’antinomia anche lui bambino, si libera dallo spettro della fabbrica».22 forte, anche Olmi sceglie di andare a Sud, per la prima e unica volta nella sua carriera. In questo senso, è vero, «I fidanzati è la risposta di Olmi a Rocco e i suoi fratelli».19 Ma anche, potremmo aggiungere, a 1. I primi quattro erano stati curiosamente presi in considerazione da Federico Fel- L’avventura. Se è vero che la storia del film afferma la possibilità della lini che, in maniera abbastanza velleitaria, dopo La dolce vita aveva accarezzato comunicazione nonostante tutto,20 la maggiore opposizione con An- l’idea di diventare produttore per favorire nuovi talenti, fondando con Rizzoli la tonioni riguarda l’uso del set-Sicilia, che in Olmi è pienamente teatro Federiz, che alla fine non portò a termine nessun progetto. in sé di contraddizioni, non proponibile in alcun modo come luogo 2. Laura Buffoni, “La fortuna critica”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il del mito. E viene da ricordare che quello stesso anno un altro regista cinema, i film, la televisione, la scuola, Marsilio, Venezia, 2003, p. 97. mette, assai più sarcasticamente, a confronto Nord e Sud, anzi pro- 3. Ivi, pp. 98-9. prio Sicilia e Milano, anzi fabbrica e paese, in una chiave che mostra 4. Una rassegna della critica dell’epoca è in Laura Buffoni, “La fortuna critica”, cit. (stavolta in chiave grottesca) i paradossi del boom: Mafioso (1963) di 5. Virgilio Fantuzzi, “Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce”, in Adria- Alberto Lattuada. Lì un tecnico della fabbrica taylorista va in Sicilia, no Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., ma non per “industrializzarla”, bensì per diventare semplicemente p. 43. killer. Rivelando come le due logiche, quella dei colletti bianchi e 6. Morando Morandini ha messo tra le caratteristiche del cinema di Olmi la discon- quella della criminalità organizzata, non siano poi così incompatibili. tinuità della linea narrativa, già indicata timidamente con Il posto, ma sistemati- L’unione tra Nord e Sud descritta da Lattuada ha qualcosa di ag- ca in I fidanzati, dove Olmi, così incolto, recepisce la sovversione del montaggio ghiacciante e profetico, quella contemplata da Olmi è un fallimento discontinuo, inaugurato dalla Nouvelle Vague, e lo adatta alla propria poetica. da cui al massimo si salvano gli individui, ma a patto di “dimentica- Come in Resnais (più che in Godard), Olmi sceglie il tempo come terreno privile- re” la fabbrica. giato della narrazione. Le sconnessioni temporali, all’indietro ma anche in avanti, La scena finale, «aperta e un po’ enigmatica, è uno dei punti forti il rilievo dei fatti e dell’azione passano attraverso il filtro della coscienza del del film: a un passo dalla sua sintesi narrativa, la dialettica del film si personaggio o dei personaggi principali. Pochi altri hanno coltivato il “tempo a blocca e quel che viene consegnato allo spettatore è il desiderio del fisarmonica” quanto lui.” (Ermanno Olmi, Il Castoro, Milano, 2009, p. 7) suo completamento».21 Dopo il flashback (ma è davvero un flashback 7. A fare il nome di Ottieri è lo stesso Olmi: cfr. Morando Morandini, Ermanno Olmi, o una visione?) dei due “fidanzati” che si baciano: lui la chiama, così cit., p. 44. per sentirla, mentre sta per scatenarsi un temporale. Stavolta, come 8. Luciano De Giusti, “Il lavoro della scrittura”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno gli operai troppo contadini del luogo, è lui che non ha tanta voglia di Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 74. andare a lavorare. Le ultime inquadrature colgono dei bambini con 9. Ivi, p. 71. la bocca aperta mentre scende la pioggia, e Giovanni che si ripara con 10. Intervista di Jean-Luis Comolli e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma», n. 157, luglio la sua cartellina. C’è una forte somiglianza con il finale di Viaggio 1964, p. 28. in Italia di Rossellini, con le ultime inquadrature “rubate” di gente 11. Virgilio Fantuzzi, “Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce”, cit., p. tra la folla. E il senso finale è l’apertura a una realtà di frammenti, e 51.

124 125 12. Alberto Pezzotta, “I fidanzati”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il racconti crudeli della giovinezza: cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 147. Prima della rivoluzione (1964) 13. Ivi, p. 149. 14. Intervista di Jean-Luis Comolli e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma», cit., p. 28. di bernardo bertolucci 15. Alberto Pezzotta, “I fidanzati”, cit., p. 148. 16. Jean-Luis Comolli, I fidanzati, «Cahiers du cinéma», n. 157, luglio 1964, p. 35. e i pugni in tasca (1965) 17. Luca Mazzei, “Amori di confine. Olmi fra società industriale e mondo contadino”, di marco bellocchio in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 27. Cfr. Morando Morandini, cit., pp. 26-7. Olmi poi, sempre tra gli anni Cinquanta e Sessanta, collabora anche con il giovane Pasolini (che sceneg- 1. gia i documentari Manon finestra due e Grigio), e con Mario Rigoni Stern per Se oggi Prima della rivoluzione viene considerato uno degli esordi un adattamento da Il sergente nella neve poi non realizzato (la sceneggiatura è italiani più importanti del decennio, e uno dei pochi film ascrivi- stata pubblicata nel 2009 da Einaudi). bili a una nouvelle vague italiana, alla sua uscita cadde nel silenzio 18. I documentari di Olmi sono stati raccolti nel Dvd Gli anni Edison, Feltrinelli, Mi- più completo. L’opera seconda di Bertolucci rappresentò l’Italia alla lano, 2007. Sull’industrializzazione della Sicilia furono realizzati all’epoca vari Semaine de la Critique a Cannes 1964 vincendo due premi, ma documentari che ne annunciavano le potenzialità: l’anno successivo al film di fu ignorato o stroncato dai corrispondenti italiani, e conobbe un Olmi, viene girato a pochi chilometri di distanza da Priolo Gela antica e nuova totale insuccesso commerciale, sia in prima visione sia in un’uscita (1964) di Giuseppe Ferrara su testi di Leonardo Sciascia. successiva con alcuni tagli di alleggerimento: con circa 32 milioni di 19. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Vol. III, Editori Riuniti, Roma, incasso, fu uno dei film italiani meno visti dell’anno. Invece in Fran- 1998, p. 203. cia il film veniva subito adottato dai critici dei «Cahiers du cinéma», 20. Morando Morandini, “Tra candore e rigore, profilo di un regista”, in Tullio Ma- e sarebbe stato distribuito in sala poche settimane prima del Maggio soni, Adriano Piccardi, Angelo Signorelli, Paolo Vecchi (a cura di), Lontano da 1968, diventando la bandiera di una generazione di cinefili.1 Del Roma. Il cinema di Ermanno Olmi, La Casa Usher, Firenze, 1990, p. 22. resto Bertolucci, reduce da una trasferta parigina avente come meta 21. Luca Mosso, I fidanzati, «Quaderni del CscI», n. 5, 2009, p. 184. sostanzialmente la Cinémathèque, ha ricordato spesso come in quel 22. Franca Faldini-Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano 1960-1969, periodo si sentisse idealmente più “francese” che italiano.2 Feltrinelli, Milano, 1981, p. 81. In effetti Prima della rivoluzione è uno dei primi e pochi film ita- liani del periodo a proporsi come espressione diretta di una sogget- tività d’autore,3 parzialmente incarnata in un personaggio, in un luogo, e in una generazione. La vicenda è quella classica di un ingres- so nell’età adulta, della fine delle illusioni (sentimentali e politiche) della giovinezza. I protagonisti hanno nomi rubati a La Certosa di Parma di Stendhal:4 Fabrizio, il protagonista, è un giovane borghese parmense, deluso da una breve parentesi politica (rappresentata da un suo amico, militante comunista e insegnante elementare, Ce- sare). Già messo in crisi dalla morte, forse volontaria, dell’amico Agostino, Fabrizio lo sarà ancora di più dal ritorno in città di Gina, sorella di sua madre, eccentrica e mentalmente instabile, con la qua-

126 127 le intreccia una relazione incestuosa. Ma alla fine anche la trasgres- su di lei, senza legame col contenuto della scena. Molto scioccanti sione erotica verrà abbandonata dal giovane, che si sposerà con una anche le immagini, “rubate” da lontano con un obiettivo a focale giovane e bella figlia della gioventù cittadina, Clelia.5 lunga e commentate da una canzone di Gino Paoli, di Gina in giro Come ha notato Veronica Pravadelli, il film, pur costruito come per la città, che si concludono con la dissolvenza a iride tipica del ci- la storia di un coming of age, non è un “romanzo di formazione” in nema muto, mentre le scene successive delle passeggiate sono girate senso stretto, perché Fabrizio è già borghese dalla nascita, e dunque con la macchina a mano. Il rapporto sessuale tra i due protagonisti nella sua parabola gli manca l’elemento dinamico:6 anziché la storia è girato con un montaggio alternato senza musica, stilizzato, che di un’ascesa, potremmo dire, la sua è la storia di una resa. Di più: la cita un famoso brano di L’Atalante (1932) di Jean Vigo. E in una prima frase del film, che si ascolta sullo schermo ancora nero («Bi- visita a Fontanellato, dove i protagonisti visitano la camera ottica sognava che accadessero molte cose. Bisognava che io soffrissi, che tu soffrissi tanto. Esistevo perché voi esistevate. Adesso che me ne sto in pace, attaccato alle mie radici, mi pare di non esistere più») sembra connotare l’intera vicenda come una specie di flashback a partire dalla rassegnazione del presente. La citazione che dà il titolo al film è attribuita a Talleyrand: «Chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non sa che cosa sia la dolcezza del vivere». Bertolucci ha dichiarato di essere stato indeciso se metterla all’inizio o alla fine, e di considerarla un’antifrasi, perché il film esprime piuttosto un’angoscia del vivere. E si può ag- giungere un dato curioso, e cioè che “la dolcezza del vivere” è anche, alla lettera, La dolce vita:7 La douceur de vivre si chiamava il film di Fellini in Francia, per cui la frase potrebbe tradursi anche: chi non è vissuto prima della rivoluzione non sa cosa significhi la dolce vita… Fot. 10

2. Il film comincia con una specie di monologo declamato dal pro- tagonista: e sullo schermo, in salti di montaggio fondati su raccordi liberissimi, vediamo Fabrizio, alternato a riprese della città dall’alto. Siamo quasi in uno spirito da pastiche: le prime frasi sono tratte da una poesia di Pasolini, cui seguono senza stacco le riflessioni del protagonista su Parma, la sua borghesia, e la fidanzata Clelia. Per tutto il film poi sono continui i momenti di forte visibilità dello stile e di rottura della continuità narrativa. Citiamo solo qualcuno dei più vistosi: la scena in cui Agostino si esibisce sulla bicicletta è piena di jump cut con una musica circense (fot. 10), come quella in cui Adriana Asti si prova vari modelli di occhiali (fot. 11). Durante il racconto del funerale del padre di Gina lo zoom va avanti e indietro Fot. 11

128 129 (convenzionalmente considerata un ideale antenato del dispositivo ancora che per le citazioni esplicite, Prima della rivoluzione è il film cinematografico) le immagini viste nel marchingegno rinascimenta- di un cinefilo perché comunica il piacere di far cinema, di girare: fa le sono improvvisamente a colori. sentire il lato, anche ludico, di fare (e ri-fare) del cinema, e lo collega In una intervista per l’edizione in Dvd (Ripley’s video, 2004) il direttamente al piacere di guardare il cinema altrui. montatore Roberto Perpignani ha sottolineato la varietà delle solu- Nel film c’è un famoso dialogo tra il protagonista e l’amico cine- zioni registiche di Bertolucci. E per poter gestire la libertà creativa filo interpretato da Gianni Amico (co-sceneggiatore del film)12. Le delle riprese, con largo ricorso all’improvvisazione, l’autore si serve battute del dialogo tra Francesco Barilli (Fabrizio) e Gianni Amico di una struttura fatta di blocchi ampi, definiti, e invertibili tra loro. vengono spesso citate (con ragione) come una dichiarazione di po- «Il film io l’avrei potuto montare in tre o quattro modi diversi. (…) etica del regista: «Non si può mica vivere senza Rossellini», «360° È questa un’esperienza che ha dei punti di contatto col metodo di di carrello, 360° di moralità»… Va tenuto presente però che queste lavoro della poesia.»8 frasi sono dette da un personaggio un po’ petulante e importu- Il film si gioca tutto tra seduzione della realtà e impeto espressivo no nel suo “cahierismo”, e punteggiate dai commenti perplessi del (e ludico) giovanile; in maniera più specifica Francesco Casetti ha protagonista («Ma tu sei matto…»): anche qui il regista mette un individuato all’interno del film l’alternanza tra “i modi dell’imme- diaframma, sostanzialmente fatto di ambiguità, tra sé e i suoi spec- diatezza” e quelli “della mediatezza”: «se il film palesemente insegue il chi, moltiplicando e contraddicendo il sé-cinefilo come ha fatto col “dire diretto” dell’autobiografia, insieme cerca anche degli strumenti sé-Fabrizio, con Cesare, e ovviamente con Gina. di “distanziazione”, degli allontanamenti prudenziali: Stendhal (e Flaubert) come pretesti narrativi, o Melville e Talleyrand come voci 3. con cui confrontarsi, funzionano appunto come una sorta di filtro Veniamo con ciò a un elemento come sempre decisivo nei film di che ritarda l’urgenza di una vicenda di per sé troppo spinta».9 Nel questi anni: il rapporto tra il regista e il suo personaggio principale. film ci si sposta continuamente tra i due poli che caratterizzano la Così Bertolucci: modernità cinematografica, quello del “ritorno al realismo” e quel- lo della spinta metalinguistica: «Il montaggio sregolato e la musica «Nel film ci sono due personaggi: uno è questo autore molto ingom- vengono associati alla dimensione dell’infanzia, della giovinezza, e brante che tende ad autorappresentarsi tutto il tempo, attraverso il suo più in generale dell’affettività del desiderio. È chiaro come invece delegato che è il personaggio di Fabrizio; e poi c’è il cinema-verità su il binomio piano sequenza/linguaggio sia riconducibile a una di- Adriana Asti, che è veramente l’altro polo del film, insomma la cosa mensione opposta: non solo la vita adulta, il simbolico, la ragione, vera e, credo, più interessante. Il personaggio di Fabrizio, rivisto oggi, l’ordine, ma anche l’ideologia e il “dover essere”».10 mi sembra quasi uno scherzo se ripenso a come è vicino a quello che La forza dirompente dell’elemento metalinguistico è dovuto anche ero io, uno scherzo di mancanza di pudore da parte mia.»13 al fatto che Prima della rivoluzione è uno dei primi film cinefili italiani, forse il primo. Nel film vengono citati Il fiume rosso (Red River, 1948) D’altro canto, come si è già accennato, Bertolucci tiene a mettere di Howard Hawks, e La donna è donna (Une femme est une femme, tra sé e Fabrizio una serie di veli e di prismi: da un lato si scompone 1961) di Godard; inoltre, lo stesso regista ha elencato varie influenze: anche negli altri personaggi del film, dall’altro distanzia da sé Fabri- «Marienbad, nella scena in cui Gina guarda le fotografie distesa sul di- zio, anzi lo usa come esorcismo di un lato di sé: vano; i carrelli sui quadri (Il disprezzo); il discorso tra Fabrizio e Brice Parain in Vivre sa vie, lì fondamentale, qui molto meno. La scena degli «In Prima della rivoluzione ho voluto descrivere un personaggio che è occhiali è godardiana ma non c’è un riferimento preciso».11 Ma più un vinto, un impotente, che crede di essere qualcosa e non è assoluta-

130 131 mente niente. A un altro livello, Fabrizio sono io, come Gina sono io, Lo stesso intreccio di invenzione, nostalgia e cinefilia presiede alla come Puck sono io, come Cesare sono io. Sono affettuosamente legato rappresentazione di Parma. Bertolucci parte da Parma, ma per in- a questi personaggi». 14 ventarla, come «una terra straniera» ma intima, e inscindibile (nella automitologia) dal cinema: Prima della rivoluzione è uno dei titoli che Pasolini utilizza nella sua celebre conferenza su “Il cinema di poesia”. Secondo Pasolini, «Parma era il posto dove andavo al cinema. Ma ti dirò che se questa città i film di Bertolucci o quelli di Godard esemplificano una nuova li- è così dentro di me, lo si deve anche al fatto che a undici anni sono anda- nea, neo-formalista, che si basa su una “soggettiva libera indiretta”, to ad abitare a Roma: perché a Roma mi sembrava di essere all’inferno, ossia su una sovrapposizione della voce dell’autore su un personag- e allora avevo nostalgia di Parma, di quella Parma che non conoscevo se gio. Ma se è vero che il film moderno si conclude normalmente non nella sua veste domenicale, la città del cinematografo.»19 «con l’affermazione, da parte dell’autore, del suo maggiore grado di consapevolezza»15, in Prima della rivoluzione sembra che il regista E l’altra cosa sorprendente è che la giovinezza, per la prima volta, adotti, rispetto al suo protagonista, anche un certo incremento di non è più l’oggetto ma il soggetto della contemplazione del passato. emotività, in una maggiore prossimità con Gina: nel finale, «il ru- Quelli di Prima della rivoluzione (compreso il ventitreenne regista) more dei singhiozzi di Gina è l’unico suono diegetico della scena: sono i primi ventenni a essere investiti da un sentimento di struggi- così, se la diegesi termina con il matrimonio di Fabrizio con Clelia, mento proveniente dall’appena ieri. Bertolucci irrompe in maniera l’immagine e il suono privilegiano Gina e il suo pianto. Il finale sorprendente tra i registi nati quindici-vent’anni prima, ancora scon- rappresenta dunque il momento di massima distanza tra l’autore e volti dalla fine degli ideali resistenziali, dal XX congresso del Pcus, il suo alter ego»,16 e insieme di grande vicinanza con il personag- dalle delusioni del centro-sinistra, e usa questi rimpianti e rimorsi gio femminile e con il “demone del melodramma” (che è anche, quasi come elementi ritmici, figurativi, per campire una provincia nella fattispecie, un genius loci), mentre viene ricordata attraverso che, con una sensibilità acutissima, legge in tutta la sua imminente il montaggio anche la via di uscita “razionale”, politica, all’impasse fine. Una spia eloquente: le canzonette, che in film come La lunga borghese di Fabrizio: Cesare che spiega ai suoi alunni la folle caccia notte del ’43 di Vancini o Una vita difficile di Risi rappresentano la di Achab a Moby Dick.17 volgarità del presente contro gli anni dell’impegno, sono per Ber- tolucci dei momenti di pura epifania della realtà e del cinema in- 4. sieme, anche secondo l’esempio di Godard. Nelle scene «rubate» al Tra Bertolucci e i suoi amati francesi, specie quel Godard che an- mercato, Gino Paoli canta in colonna sonora: «Ricordati/ Del film che Pasolini cita, un elemento di grande differenza è il rapporto con che abbiamo veduto/ E poi tutto quello che abbiamo vissuto/ Quel il passato, molto più intenso e sofferto. Si può anzi parlare esplici- giorno, quel giorno/ che era un giorno come tutti gli altri». tamente, e Bertolucci stesso ne ha parlato, di un’opzione nostalgica Il paradosso di Prima della rivoluzione (o meglio: il paradosso vi- per questo impetuoso film di un ventitreenne. sto, riprodotto e patito da questo film) sta proprio qui, nella sua Intanto, il film è curiosamente ambientato un anno e mezzo pri- assoluta contemporaneità e nel rivendicato giovanilismo, costruiti ma delle riprese, nella primavera-estate del 1962, a creare una im- attraverso la nostalgia. Sta, insomma, nel fatto che non è chiaro qua- percettibile sfasatura: «Prima della rivoluzione dovrebbe essere un le sia «la rivoluzione». Da un lato, è difficile non leggere nel film la film storico: l’ho girato nel 1963-64, ma l’azione si situa nel 1962, premonizione delle inquietudini generazionali che sfoceranno nel l’anno della morte di Marilyn Monroe. Un film storico sull’ambi- ’68. Ma già le cose si complicano nelle parole di Fabrizio alla festa guità e l’incertezza».18 dell’Unità:

132 133 «Io ho (una) febbre. Una febbre che mi fa sentire la nostalgia del presen- Puck: Non ci sarà più l’estate. te. Mentre vivo, sento già lontanissimi i momenti che sto vivendo. Così Pittore: I canali… non voglio modificarlo, il presente. Lo prendo come viene. Ma il mio Puck: Non ci sarà più l’inverno. futuro di borghese è nel mio passato di borghese. Così, per me, l’ideo- Pittore: I rospi… logia è stata una vacanza, una villeggiatura. Credevo di vivere gli anni Puck: Anche per te è finita, fatti da una parte. Tirati indietro, affon- della rivoluzione e invece vivevo gli anni prima della rivoluzione. Perché dala quella tua barca! Sì, sì, parlo anche per te! Non pescheremo più è sempre prima della rivoluzione quando si è come me.» il luccio insieme. Neanche le carpe pescheremo, e le anatre non passe- ranno, non ritorneranno più dentro il mirino del mio fucile. E basta Il rapporto con i padri, tema costante delle trame e dello stile di le folaghe, basta il volo delle oche selvatiche! Amici miei, vedete? Qui Bertolucci, è qui esplicitamente tematizzato in chiave generazionale finisce la vita e comincia la sopravvivenza. e politica. Il confronto con i padri è, in questa scena di forte intensi- Perciò addio, Stagno Lombardo. Ciao. Ciao, fucile. Ciao, fiume. tà emotiva, il confronto con il Pci.20 Ma stilisticamente, in realtà, il E ciao, Puck.»21 film è già il primo dei “tradimenti” di Bertolucci, del “padre” Paso- lini col “fratello maggiore” Godard. E coi tradimenti successivi, che lo portano a un padre non istituzionale come Leone, e ai “nonni” Visconti e Lean (con i kolossal da Novecento a Il tè nel deserto), Ber- tolucci aggiungerà un’ulteriore dimensione di grande spettacolarità e di “sfida a Hollywood”. Ma c’è anche un altro elemento. La “rivoluzione” che il film con- templa con gli occhi del vecchio aristocratico in una celebre sequen- za ha i tratti della catastrofe (fot. 12), non politica bensì sociale e (avrebbe detto Pasolini) antropologica; ed è uno dei pochi momenti in cui il cinema italiano degli anni del boom avverte così apocalitti- camente il mutamento:

«Puck: Il fiume no. Il fiume basta. Bisogna dimenticarselo, il fiume. Fot. 12 Ci dicono di salutarlo; ci ordinano di salutarlo. Verranno qui con delle macchine… 5. Il pittore, sull’argine: Le tinche… Se già all’epoca della loro uscita i critici occasionalmente si trova- Puck: Verranno qui con le loro draghe. Ci saranno degli uomini diver- rono a considerare insieme Prima della rivoluzione e I pugni in tasca si, e il rumore dei motori! (ma si tenga conto che il primo fu molto meno visto del secondo, e Pittore: Pioppi, i filari… non suscitò in Italia alcun dibattito), successivamente il confronto Puck: Ah, chi ci penserà a tirarli su, che non gelino, i pioppi? tra i due film e i loro autori è diventato corrente. Le carriere paral- Pittore: La pavera… lele, di registi che avevano esordito con film letti come una critica Puck: Non resterà più niente. “di sinistra” al Partito comunista e adottati come precursori del ’68, Pittore: Le nasse. si biforcarono ben presto proprio nelle opzioni politiche di quegli anni (Bellocchio con una fase maoista, Bertolucci con un “ritorno

134 135 al padre” Pci), incontrarono poi la psicanalisi in diverse forme e con Evidenti sono però anche le differenze. È l’atteggiamento verso diversi esiti, e si ritrovarono per una curiosa coincidenza alla Mo- il presente a mutare: introflesso e agonistico in Bellocchio, nevroti- stra del cinema di Venezia del 2003, con due film che rievocavano camente edonista in Bertolucci, più aperto ai “segnali del tempo”. l’inizio e la fine degli anni del Movimento: Buongiorno, notte e The Bertolucci è cinefilo, ama le canzonette, i suoi personaggi ballano Dreamers. e si stringono; quelli di Bellocchio si agitano in preda agli spasmi. Certo I pugni in tasca e Prima della rivoluzione hanno vistosi ele- Soprattutto, è ancora una volta decisiva la diversa distanza dai per- menti in comune: sono due film di ribellione interna alla borghesia, sonaggi: entrambi gli autori costruiscono due “doppi”, ma quello con protagonisti coetanei dei registi (a loro volta tra loro quasi coe- di Bellocchio è progettato dall’inizio come una deformazione grot- tanei); opere di giovanissimi, entrambi autori di versi pubblicati in tesca, per impedire ogni immedesimazione col regista, e lo stile del volume o rivista. Due registi che vengono dalla provincia, anzi che film che ne consegue oscilla tra la “prosa” di cui parlava Pasolini raccontano una borghesia a pochi chilometri di distanza, Parma e e la “soggettiva libera indiretta”. Il rapporto di Bertolucci col suo Piacenza, facendo saltare la geografia maggioritaria del cinema italia- protagonista, anzi con tutti i personaggi, è più affettivo, ambiguo, no del boom, dominato dall’asse Roma-Milano (e Sicilia come polo e le strategie per dominare questa identificazione sono più labili. La dialettico). Due film portati a termine con operazioni produttive passione per il melodramma, si direbbe, è in Bertolucci più sensuale, avventurose, ormai fuori dalla “politica degli esordi” della Titanus o in Bellocchio più intellettuale – anche se nessuno dei due registi è simili.22 Due racconti che hanno al centro figure di donne moder- mai un ideologo (nemmeno Bellocchio, nonostante i propri inten- nissime, difficili da cogliere, si direbbe, sia per i registi sia per i pro- ti), ed entrambi sono rimasti, attraverso le metamorfosi dei decenni, tagonisti, ma di vitalità in fondo positiva, e alla fine fedeli a se stesse, dei visionari, in fondo dei poeti. laddove i personaggi maschili vengono, se si vuole perfino mora- listicamente o per compensazione con l’eccessiva identificazione, 6. condannati (uno alla morte, l’altro alla vita borghese). E a incrociare I pugni in tasca è stato uno degli esordi più discussi della storia questi personaggi maschili e femminili sono in entrambi i casi dina- del cinema italiano. Sostanzialmente autoprodotto dal regista grazie miche interne alla famiglia, in varia misura incestuose: un rapporto alla collaborazione di un gruppo di compagni di studi del Centro fratello-sorella (più allusivo) per Bellocchio, un rapporto zia-nipote Sperimentale di Cinematografia, il film suscitò dibattiti su giornali (esplicito) in Bertolucci. Sia I pugni in tasca sia Prima della rivoluzio- e riviste, dovuti soprattutto all’atteggiamento dissacrante con cui ne, peraltro, nel corso della lavorazione conoscono una progressiva raccontava il mondo della famiglia.24 decantazione degli elementi “sociali” e collettivi, per concentrarsi su Il film narra la storia di una famiglia borghese “malata”, composta ambienti ristretti, familiari, sui destini dei personaggi. Nel copione da una madre cieca e quattro fratelli: Ale, ribelle puerile e nichi- di Bellocchio, saltano le scene che mostrano la relazione tra la fami- lista sul filo della psicosi; Giulia, legata al fratello da un rapporto glia di Ale e la società cittadina. E anche la sceneggiatura del film di morboso (fot. 13); il ritardato Leone e Augusto, l’unico “normale” Bertolucci era molto più ricca di riferimenti precisi, addirittura con con un lavoro e una fidanzata. Il film è tutto cucito addosso al per- nomi e cognomi della borghesia parmense, poi tutti espunti.23 In sonaggio di Ale, che progetta dapprima lo sterminio della famiglia entrambi i film, poi, i registi si rivolgono curiosamente a un giovane per “liberare” Augusto, e poi butta davvero la madre in un burrone. compositore, che aveva sino allora lavorato solo a qualche spaghetti Gli atteggiamenti di Ale sono sempre eccessivi, infantili o velleitari: western: Ennio Morricone. Ma tutti e due, alla fine, concludono progetta un allevamento di cincillà, va con una prostituta frequen- i destini dei loro personaggi sulle note ottocentesche e padane di tata da Augusto, prova a sedurne la fidanzata, frequenta con esiti Giuseppe Verdi… disastrosi una festa di coetanei “bene”. Infine, prosegue la propria

136 137 stanza tra autore e personaggio, rispetto a Prima della rivoluzione, è molto maggiore, e all’ambiguità rivendicata di Bertolucci fa riscon- tro qui una oscillazione tra adesione e ripulsa. Tutto il racconto si muove all’interno di una famiglia, che però non è indicativa o tipica di alcunché. Ale, Giulia, Leone, la madre, con ogni evidenza non sono “la borghesia”, non sono “una famiglia borghese”. La gente per strada li considera anormali. Augusto, l’uni- co fratello “normale” è colui che più si avvicina alla posizione dello spettatore. E l’anormalità degli altri personaggi serve anche a meglio decostruire la normalità di Augusto, che è forse l’unico personaggio realistico, “sociale”. Spostando l’attenzione dal vistoso protagonista al grigio fratello, è come se Bellocchio abbia voluto mettere in scena Fot. 13 il rimosso, i fantasmi, gli incubi di un personaggio “normale”, un Augusto, in una serie di suoi specchi deformanti, quasi horror. opera di “igiene familiare” annegando Leone nella vasca. Giulia cer- ca di soccorrere Leone ma cade dalle scale, rischiando di restare pa- 7. ralizzata. Subito dopo i funerali di Leone, Ale ha una crisi epilettica I pugni in tasca è sempre stato giustamente considerato un punto e muore tra le convulsioni, invocando la sorella che non può (o non di svolta nella storia del cinema italiano, ma più che aprire fronti vuole) salvarlo. nuovi appare in difficile e fecondo equilibrio tra diverse fortissime La cosa che più sorprende, nel riguardare I pugni in tasca e nel ri- tradizioni e opzioni. percorrere il dibattito che ne accompagnò l’uscita, è la sua ricezione Come si è visto nella Prima parte, la nuova generazione di autori in termini politici. Mentre oggi salta agli occhi proprio, si direbbe, italiani non costituisce una nouvelle vague vera e propria, e gli esor- la programmatica inutilizzabilità “pubblica”, sociologica del perso- di più promettenti sono andati esibendo un recupero della lezione naggio di Ale, il suo carattere ambiguo e aporetico. del cinema neorealista. In questa situazione, il posto di Bellocchio Molto si gioca, evidentemente, nel rapporto (istintivo eppure mul- è abbastanza chiaro, e la novità di I pugni in tasca è, insieme alla fe- tiforme) tra il regista e il personaggio. Il nichilismo di quest’ultimo è roce descrizione della borghesia di provincia, la volontà di smarcarsi solo in parte quello di Bellocchio; i due condividono solo l’impulso dalla strada che il cinema italiano d’autore andava prendendo. Ma vitalistico, di base. Dove regista e personaggio si separano è proprio se ci spostiamo sul piano della storia dei linguaggi, il discorso su I nella torsione parossistica e grottesca di quest’ultimo, nell’accento pugni in tasca si fa più complesso. Lo scritto di Pasolini sul “cinema posto da Bellocchio sul nichilismo di Ale. Certo, Ale non è in alcun di poesia”, che trova una delle sue applicazioni proprio nel film di modo un proto-rivoluzionario, la sua spinta ribellistica può sembra- Bellocchio25, è una delle riflessioni più significative: Pasolini, dopo re che contenga tratti quasi fascisti. (E infatti, nel girare nel 2009 aver identificato sostanzialmente il cinema di prosa con la gramma- Vincere, il regista in un primo tempo immagina il giovane Mussolini tica classica hollywoodiana (e non solo) e il cinema di poesia con le come un figlio, o un antenato, di Ale). Bellocchio non si identifica nouvelle vague, pone Bellocchio a mezza via tra le due opzioni: un con il suo protagonista, ne è insieme attratto e respinto. Il suo stile cinema di prosa espressionista, che va oltre il neorealismo propo- a tratti ne mima le convulsioni, ma ad esempio nel finale sembra nendo una rivolta irrazionalistica alla borghesia. accomunarlo ai suoi simili e godere della sua agonia. Di certo la di- Rispetto agli esempi coevi della Nouvelle Vague ma anche a cer-

138 139 te punte avanzate del cinema indipendente americano, e perfino Tanto che Antonio Costa ha sostenuto, correggendo Pasolini, l’ap- rispetto a certi esempi italiani (come Prima della rivoluzione) I pu- partenenza del film di Bellocchio al “cinema di poesia” proprio sulla gni in tasca mantiene un legame abbastanza stretto con le forme base della performance di Lou Castel, «principio organizzatore (…) tradizionali di narrazione. A livello di struttura, non disperde gli dell’intero film».28 eventi, non procede in modo “orizzontale”. A livello di sguardo, Non sorprende allora, in questa dimensione critica interna alla mantiene una centralità del montaggio classico, sembra voler tenere borghesia, che sia già la casa l’unità di luogo del film. Ed è già la casa tutto entro una rappresentazione spaziale centrifuga sì, ma ancora che impareremo a vedere in molti film successivi, da Salto nel vuoto non esplosa. (1980) a Diavolo in corpo (1986) a L’ora di religione (2002): fatta Eppure fin dalle prime inquadrature notiamo un nervoso smarcar- di stanze inquadrate in modo che appaiano simultaneamente squa- si da una sintassi troppo rigida, con un uso frequente della macchina dernate davanti all’obiettivo, labirintica, dinamica e comunicante a mano e raccordi spiazzanti. Questi elementi di rottura sono anche al proprio interno (tutta finestre, porte, balconi) ma anche in certo legati all’apporto di due collaboratori fondamentali, come il mon- modo verticale, e separata in modo verticale dal resto del mondo tatore Silvano Agosti e ovviamente l’attore protagonista Lou Castel. (con precipizi, salti nel vuoto: qui c’è la terrazza con la montagna Agosti, giovanissimo, era sensibile alle innovazioni della Nouvelle innevata che si vede dal balcone). Dalle case di Bellocchio si entra Vague, come nel caso della scena iniziale di uno dei ragazzi che gi- (si esce, si salta) anche attraverso i balconi, le finestre, i lucernai. rano intorno a Giulia in moto, finché uno di loro non cade: cadu- La vertigine della casa, una delle emozioni ricorrenti del cinema ta involontaria, prontamente recuperata e inserita nel film.26 Ma i dell’autore, è già tutta in questo film. momenti di nervoso infrangersi della sintassi, come le esplosioni del protagonista, sono inscindibili da altri di opprimente stasi. Quiete e 8. febbre procedono insieme, così come quelle che Pasolini chiamava Se i personaggi di Bellocchio sconfinano dunque esplicitamente “prosa” e “poesia”. Il ribellismo di Ale non può fare a meno, nell’eco- nel patologico, l’occhio del regista pare fermarsi un attimo prima, nomia del film, della descrizione, realista per quanto a tinte grotte- letteralmente borderline. Se i film della Nouvelle Vague sono spesso sche, della quotidianità borghese. l’espressione coerente di brucianti sensibilità nervose, I pugni in ta- Da questa impostazione, da questo conflitto deriva una peculiare sca è l’incontro di uno stile “nevrotico” con personalità “psicotiche”. teatralità degli spazi e dei movimenti, accentuata dalla recitazione Il risultato è, come accennato, un film che da un lato è interno alla ludica e goliardica di Castel e della Pitagora. Ci sono certo, come drammaturgia classica, ai suoi canoni, personaggi e temi; dall’altro, aveva notato Grazia Cherchi, motivi interni alla costruzione dei per- pare pronto a forzarne la prosa verso accensioni liriche ed “espres- sonaggi: Ale «è un esibizionista. È nell’età in cui si ha l’impressione sioniste”. di essere costantemente seguiti da una macchina da presa»27. Ma Non sarà casuale forse che Bellocchio venga alla lettera dalla prati- i movimenti scomposti, i continui scarti rispetto alla quotidianità ca poetica, come peraltro Bertolucci29. L’emergere della loro sogget- e alla verosimiglianza sono anche parenti immediati e involonta- tività di registi però si può declinare in modi diversi, e la prima mos- ri dei moti di molto teatro, più interessato all’espressione corporea sa che fa Bellocchio è proprio esorcizzare l’identificazione tra autore che allo “straniamento” brechtiano, che si faceva conoscere in que- e personaggio, infrangere il triangolo autore-spettatore-regista che gli anni anche in Italia. Un certo gusto dell’happening rende il film in alcuni momenti pare costitutivo della nuova figura del regista in teatrale nel senso di una cosciente decostruzione dei meccanismi quegli anni. rappresentativi, proprio attraverso il cortocircuito tra i corpi dei gio- I pugni in tasca, oggi ci appare come un film che chiude con il pas- vanissimi attori e i set (specialmente gli interni) in cui sono inseriti. sato e che coglie convulsamente una situazione storica sospesa (l’an-

140 141 no dopo la “congiuntura”, tre anni prima del ’68), trasfigurandola d’animo di un giovane della sua stessa età che, invece, ne farebbe un romanzo» in mondi visivi che da un lato già sono quelli del Bellocchio maturo, (Mario Soldati, Da spettatore, Mondadori, Milano, 1973, p. 129); e che «è il roman- ma dall’altro hanno una potenza e una urgenza che, proprio per la zo che egli avrebbe scritto se avesse esordito vent’anni fa» (Adriano Aprà e Stefa- loro immediatezza, acquistano una profondità e una polisemicità da nia Parigi, a cura di, Moravia al/nel cinema, Fondazione Alberto Moravia, Roma, esplorare ancora oggi nei loro intrecci col tempo storico. I pugni in 1993, p. 95). Anche il copione iniziale, è stato ricordato, ricordava «l’abbozzo di tasca è certo documento di se stesso, di un punto di vista e dell’in- un romanzo di quasi trecento pagine» (Fabien S. Gerard, Sulla cresta dell’onda. Il contro tra una sensibilità emergente davanti all’incerto manifestar- sogno di una cosa in “Prima della rivoluzione”, «Cinegrafie», cit., p. 30). si di vecchio e nuovo (un film che «sceglie di rappresentare, come 4. Sul rapporto tra il film e il romanzo di Stendhal cfr. Linda Williams, Stendhal and spesso è accaduto alla grande arte, il nuovo attraverso il vecchio»30). Il Bertolucci: The Sweetness of Life before the Revolution, «Film Quarterly», IV, n. suo paradosso è forse quello di essere un grande film giovanile che 4, estate 1976, pp. 215-221 e T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci: arrivava alla fine del momento di maggiore vitalità della società ita- cinema e psicanalisi, Gremese, Roma, 1994, soprattutto p. 19. liana e del suo cinema; un film, quasi, in leggera e feconda discrasia, 5. Il critico del «Nouvel Observateur» Jean-Louis Bory lo definì «Un’autobiografia controtempo senza saperlo. che comincia come La certosa di Parma e finisce come L’educazione sentimenta- le» (cit. in Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 41). 6. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Bernardo Bertolucci, Marsilio, Venezia, 2011 (in corso di pubblicazione) , pp. 4-5. 1. Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, La Nuova Italia, Firenze, 1975, pp. 39- 7. Il primo a osservarlo di sfuggita è stato, che io sappia, Tatti Sanguineti nell’in- 40. Prima della rivoluzione è uno di quei film particolarmente amati dai registi: tervista Si vive sempre “prima della rivoluzione”, cit., e in quell’occasione Berto- si ricordano a questo riguardo le testimonianze di Martin Scorsese (New York lucci sostiene che il film di Fellini è quello che lo ha spinto a diventare regista. 1964, “Prima della rivoluzione”, «Cinegrafie», n. 17, pp. 9-10) e di Glauber Rocha 8. Intervista di Adriano Aprà e Maurizio Ponzi, «Cinema e film», nn. 156-7, aprile- (citato sullo stesso numero della rivista). Negli Usa il film fu acclamato dalla maggio 1965; nello stesso numero cfr. il saggio di Adriano Aprà, Bertolucci e il nuova generazione di critici come Andrew Sarris e Pauline Kael. cinema come certezza. 2. Il regista ha raccontato più volte che alle prime conferenze stampa pretendeva 9. Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 41. di rispondere alle domande in francese «perché è la lingua del cinema». Inoltre, 10. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, cit., p. 12 come direttore della fotografia avrebbe voluto Raoul Coutard, geniale collabo- 11. Intervista di Adriano Aprà e Maurizio Ponzi, cit., p. 273. ratore di Truffaut e Godard. (Giuseppe Bertolucci e Tatti Sanguineti, a cura di, 12. La cosa curiosa è che questa scena non solo è stata aggiunta alla fine delle Si vive sempre “prima della rivoluzione”. Conversazione con Bernardo Bertoluc- riprese come momento di alleggerimento, ma il dialogo è stato aggiunto al ci, «Cinegrafie», n. 17, pp. 50-1. L’intervista si trova tra gli extra del Dvd edito doppiaggio. Come si può dedurre dalla visione della copia-lavoro (di cui alcuni da Ripley’s Home Video nel 2004). Roberto Perpignani ricorda come il lavoro frammenti si trovano nel Dvd Ripley’s), che mantiene la colonna sonora guida in col regista fosse stato tutto condotto sotto il segno del comune amore per i presa diretta, il dialogo in origine partiva sì dal film di Godard, ma si spostava registi francesi di quegli anni: non solo Godard e Truffaut, ma anche Resnais: su tutt’altri temi: il rapporto tra il Pci e gli intellettuali, la figura di Cesare. Nes- Perpignani imitò “a memoria” lo stile di L’anno scorso a Marienbad nella scena sun riferimento alla moralità delle carrellate circolari di Ray, al Grande sonno. E dell’abbraccio ripetuto tra i due protagonisti, dopo la crisi dell’incontro con la la battuta «Non si può mica vivere senza Rossellini!» era in realtà un più prosai- bambina. (L’intervista è contenuta tra gli extra del citato Dvd Ripley’s). co invito a sentirsi per telefono. 3. Forse influenzati dal debutto di Bertolucci come poeta, due scrittori, Alberto Mora- 13. Giuseppe Bertolucci e Tatti Sanguineti (a cura di), Si vive sempre “prima della via e Mario Soldati, entrambi molto amici del padre Attilio, recensendo il film nota- rivoluzione”, cit., p. 13. Nel copione originario l’identificazione era moltiplicata no come il film di Bertolucci sia esattamente girato «con le identiche disposizioni da alcuni dettagli, come il fratello minore chiamato Giuseppe, e la passione di

142 143 cineamatore di Fabrizio, che mostrava alla zia i film fatti durante l’estate (pro- 25. Si veda lo scambio epistolare contenuto nel volume Giacomo Gambetti (a cura prio come Bernardo girava nelle campagne parmensi i suoi primi 16mm). I brani di), I pugni in tasca. Un film di Marco Bellocchio, Garzanti, Milano, 1967 (ora in del copione espunti dal film si trovano nel volumetto: G. Cusatelli (a cura di), Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, Filmino a passo ridotto, Alfa, Reggio Emilia, 1965, pp. 352-354. pp. 2000-2015). Le risposte di Bellocchio, come lo stesso regista ha ammesso 14. «Cineforum», n. 73, marzo 1968, dichiarazioni trascritte da Jean-André Fieschi, anni dopo, furono in realtà redatte da Piergiorgio Bellocchio e soprattutto da ora in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, Bompiani, Milano Grazia Cherchi (cfr. Antonio Costa, “I pugni in tasca”, in Gianni Canova, a cura 2010, p. 39. di, Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 66-67). 15. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, cit., p. 6. 26. «I due ragazzi che girano attorno a Giulia cadono: tutto da ripetere… E invece 16. Ivi, p. 7. no. Recupero un pezzo di ciak in cui a Paola scappa da ridere e in cui lei si 17. Si capisce forse allora cosa possa aver spinto Pasolini, nella sua analisi del film, copre le labbra con la mano. Monto la caduta e gli aggiungo la risata. La cosa alla singolare affermazione secondo cui Prima della rivoluzione sarebbe un film non era assolutamente prevista in sceneggiatura: era un incidente che qualsiasi che adotta la prospettiva «lo stato d’animo dominante della protagonista del montatore avrebbe tagliato.» (Intervista di A. Ferrente, in Antonio Costa, Marco film, la giovane zia nevrotica» (Il cinema di poesia, cit., p. 1480). Bellocchio: I pugni in tasca, cit.¸ p. 7). Una scena curiosamente simile a quella 18. L’ambiguité et l’incertitude au miroir, «L’Avant-scène du cinéma», giugno 1968, di Prima della rivoluzione, in cui Barilli cadeva dalla bicicletta e, anche lì, era ora in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, cit., p. 36. implacabilmente tenuto nel montaggio definitivo da Perpignani. 19. Intervista in Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 3. 27. L’età verde, «Giovane Critica», n. 12, estate 1966, ora in Antonio Costa, Trent’an- 20. Un piccolo dato per inquadrare i tormenti politici di Fabrizio: all’interno di una ni con “I pugni in tasca”, Anteprima per il Cinema Indipendente Italiano, Bella- forbice sempre maggiore, all’interno del Pci, tra elettori e militanti (questi ultimi ria, 1995, p. 22. in costante diminuzione), la Federazione Giovanile Comunista passa addirittura 28. Antonio Costa, Marco Bellocchio: I pugni in tasca, cit., p. 131. da 358.000 a 183.000 iscritti tra il 1956 e il 1962. 29. Un paio di poesie di Bellocchio, (uscite sui «Quaderni piacentini» tra il 1962 21. Curiosamente l’interprete del personaggio di Puck, Cecrope Barilli, zio di Fran- e il ’63), sono state ristampate in Antonio Costa, Trent’anni con “I pugni in cesco, era uno dei fondatori del Movimento di Cooperazione Civica, un gruppo tasca”, cit. di intervento sociale e pedagogico di ispirazione liberalsocialista (tra gli altri 30. Lorenzo Cuccu, “Figli e padri: l’immaturità rivendicata”, in Gianni Canova (a fondatori Ebe Flamini, Guido Calogero, Ignazio Silone e Augusto Frassineti). cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., p. 64. Lucide le osservazioni Dunque tutto sommato più simile, anche se non comunista, a una figura come retrospettive di Piergiorgio Bellocchio: «Si poteva discutere se la tematica della l’educatore Cesare. lotta contro l’istituzione familiare fosse ambientata nel luogo e nel tempo giu- 22. L’avventurosa lavorazione del film è stata raccontata più volte dal regista: cfr. sto – quella provincia, quella campagna un po’ anni ’30, un po’ vetero… – ma la ad esempio Si vive sempre “prima della rivoluzione”. Cit., pp. 16-18. vitalità del film era tale da bruciare simili obiezioni sociologiche. La tipologia 23. Ivi, pp. 13-14. della famiglia era in effetti sfasata rispetto alla realtà, ma era perfetta per il 24. A questa ricezione contribuì, ricorda Antonio Costa, un’intervista a «L’Espresso» in cinema, per il cinema di poesia di Marco, che ricordava un po’ sia Rimbaud, sia cui il regista parlava di «un’alternativa rivoluzionaria, non democratica, a tutta la Vigo. Letta nero su bianco, la storia mi aveva deluso – oltre che per la stranezza sinistra italiana» (cit. in Antonio Costa, Marco Bellocchio: I pugni in tasca, Lindau, della situazione – proprio per l’aria rétro che si respirava in alcune pagine… In Torino, 2005, pp. 65-6): ne seguirono ben otto articoli sulla rivista ufficiale del Pci, effetti l’atmosfera un po’ “vecchiotta” era rimasta, ma di fronte allo schermo il «Rinascita». Bellocchio all’epoca era assai vicino al gruppo della rivista «Quader- senso del film era diventato altro». (Testimonianza raccontata in Paola Malan- ni Piacentini»: Piergiorgio Bellocchio (fratello maggiore anche anagraficamente), ga, a cura di, Marco Bellocchio, Olivares, Milano, 1998, p. 205). Goffredo Fofi e Grazia Cherchi, che utilizzarono il film anche per un discorso sullo stato della sinistra italiana e del suo rapporto con le nuove generazioni.

144 145 una donna alla finestra: inizialmente contattato per il ruolo di Roberto, l’attore “vincente”, io la conoscevo bene (1965) ma che riteneva giustamente di poter rendere al meglio nel ruo- lo del comico fallito di varietà.5 Con questa nuova distribuzione di antonio pietrangeli di “maschere” il film occupa con maggior precisione un campo, fornendone però una critica implicita. Non solo per il finale tra- gico, che in realtà può essere considerato un elemento comune a molti film avvicinabili alla commedia all’italiana (La grande guerra [1959], Tutti a casa [1960], Il sorpasso, ma anche Risate di gioia [1960]); ma proprio per lo sguardo femminile, che ribalta la pro- 1. spettiva rigorosamente maschile della commedia all’italiana e ne os- Quello che oggi appare uno dei punti di forza di Io la conoscevo serva i personaggi togliendo loro ogni simpatia e ambiguo fascino.6 bene, l’incrocio tra sguardo d’autore e commedia all’italiana, tal- Nel contempo, la vicinanza al genere commedia non impedisce un volta è stato un ostacolo al suo pieno apprezzamento.1 Nonostante dialogo con il cinema di Antonioni e di Fellini. Il rapporto con gli la vittoria ai Nastri d’Argento del 1965, infatti, il film di Pietran- oggetti, come vedremo, è una versione più emotivamente coinvolta geli fu sottostimato da parte della critica specializzata, che recepì dell’alienazione alla Antonioni, e l’influenza felliniana apparve da le spie della prossimità alla commedia (la presenza di Tognazzi e subito ancora più evidente. Ad esempio, è facile scorgere un omag- Manfredi, più Gassman in effige) come cedimenti commerciali. gio/rovesciamento del film di Fellini nella scena della festa in cui Pietrangeli era stato, da critico, uno dei sostenitori del neorealismo il vecchio attore di varietà Bagini si esibisce fino allo stremo per il del dopoguerra, e in quella chiave era stato letto il suo esordio Il sole divertimento della sua vecchia spalla ora attore di successo (Enrico negli occhi (1953). Ma ormai da tempo il suo cinema era poco clas- Maria Salerno). sificabile in quei termini, e piuttosto dialogava con la commedia e si concentrava su ritratti femminili piccolo-borghesi, proletari, 2. provinciali che consentivano il racconto di un passaggio epocale in Le prime immagini del film mostrano in un lungo piano-sequen- maniera spesso obliqua, senza prendere di petto i “grandi temi”. za la giovane Adriana (Stefania Sandrelli) distesa sulla spiaggia di Qui va osservata subito una cosa: Io la conoscevo bene era già stato Ostia. La ragazza gestisce una parruccheria, e ha una relazione col progettato, scritto e messo in cantiere nel 1961. Nella sua ideazione laido proprietario. Ma nelle scene successive Adriana ha già cam- e nel suo progetto, esso è un film del pieno boom: sarebbe uscito biato lavoro, e fa la maschera in un cinema. Seguiamo poi il suo prima di Il sorpasso (1962), insieme a Una vita difficile (1961), a tentativo di farsi strada nel mondo del cinema, attraverso il misero ridosso di La dolce vita e di La notte, controcanto interessante di giornalista-traffichino Cianfanna che le fa pubblicare delle foto a un cinema che scopriva la società del benessere. Sarebbe stato forse pagamento su una rivistina, e le trova qualche altro piccolo ingag- ancora di più «una “dolce vita” in minore, da grandi magazzini, gio. Nel frattempo, Adriana ha storie occasionali con vari uomini: poco eroica e molto tragica».2 uno che scappa dal motel lasciandole il conto da pagare; un altro È interessante anche osservare il progressivo avvicinamento, negli appartenente a una famiglia bene, che dopo essere stato con lei le anni intercorsi, ai modelli della commedia all’italiana: il personag- chiede di telefonare alla fidanzata per coprirlo; uno scrittore che gio dello pseudo-giornalista Cianfanna, che era stato assegnato a in un racconto la descrive come una donna priva di intelligenza e Tullio Kezich, passa a Nino Manfredi,3 mentre quello di Bagini morale. La ragazza, che si è fatta una piccola posizione e vive in un (che nella prima stesura era un’attricetta siciliana)4 va a Tognazzi, appartamento, a un certo punto si scopre anche incinta e aborti-

146 147 sce, però rifiuta una carriera da mantenuta cui vorrebbe istradarla peraltro questa frase avrebbe reso molto più chiaro come il ritratto una conoscente. A una festa in onore dell’attore Roberto, Adriana che lo scrittore stesso ne aveva offerto poco prima (un po’ “alla assiste alla pietosa esibizione di un vecchio comico, Bagini, che vie- Moravia”, tra La noia e l’intervista alla Cardinale) fosse parziale se ne inviato anche dall’attore come ruffiano. Adriana rifiuta l’offerta non del tutto falso. poco signorile. Nel corso della festa ha comunque ottenuto di ap- Il metodo di lavoro di Pietrangeli, ampiamente ricostruito sulla parire in un servizio per un cinegiornale. Potrebbe essere l’occasio- base di vari documenti e testimonianze,11 si basava su una sceneg- ne buona: ma quando va a vederlo al cinema, Adriana scopre che giatura molto rifinita, anche se soggetta a continue modifiche sul il servizio, manipolando le sue scarne risposte, la presenta come set,12 e su una ripetizione dei ciak quasi proverbiale, con movimenti un’idiota buona per il marciapiede. Tutto questo, però, non sembra di macchina particolarmente complessi. Ma per Io la conoscevo bene colpirla in profondità. Una sera incontra un ragazzo americano di è significativo anche il lavoro di inchiesta precedente. Se può esse- colore, forse la persona più gentile in cui si sia imbattuta, passa la re vero che alla radice dell’ispirazione originaria c’era addirittura notte in giro con lui, fino all’alba, ma dopo un giro in auto, sola per l’omicidio Montesi del 1953,13 gli spunti maggiori vennero dalle la città deserta, tornata a casa, Adriana mette su l’ennesima canzone interviste che lo stesso Pietrangeli fece ad alcune attricette del sot- sul giradischi e si butta dal balcone. tobosco di Cinecittà.14 In verità, Io la conoscevo bene rischiò seriamente di essere uno dei numerosi progetti mancati del suo regista. Il produttore Morris 3. Ergas si tirò indietro perché non troppo convinto dell’attrice scelta, Il procedimento dell’inchiesta chiarisce bene lo spirito del film, Sandra Milo,7 e probabilmente anche a causa di preventivi più alti spaccato sociologico prima che introspezione dell’animo di un per- di quelli previsti. Pietrangeli dunque accetta un lavoro su commis- sonaggio. Io la conoscevo bene è il culmine di una serie di ritratti sione, ma assai vicino alle sue corde, come La parmigiana (1963), femminili del suo regista, “women’s director” come pochi altri nel e torna sul soggetto anni dopo. A questo punto, si impone come nostro cinema. Il suo film d’esordio era stato Il sole negli occhi, deli- attrice la giovanissima Sandrelli, già musa di due film di Germi zioso ritratto tardo-neorealista di una servetta, ma è solo negli anni e protagonista di La bella di Lodi (1963) di Arbasino-Missiroli. del boom che i suoi film compongono un’esplorazione dell’uni- L’attrice viene preferita da Pietrangeli alle numerose ipotesi della verso femminile in mutazione. In Nata di marzo (1958) c’è una produzione (Catherine Spaak, Corinne Marchand di Cléo dalle 5 giovane moglie sposata con un uomo più maturo, capricciosa e alle 7, Brigitte Bardot, Natalie Wood, Daniela Rocca, Silvana Man- poco incline ai compromessi (ma con un lieto fine imposto dalla gano, Claudia Cardinale…)8 e vincendo le resistenze del fidanzato produzione). Adua e le compagne (1960) è la tragica storia di alcune di allora, Gino Paoli, preoccupato di una possibile identificazione ex prostitute che, dopo la legge Merlin, cercano una propria strada tra personaggio e attrice.9 in autonomia, finendo però schiacciate da una società maschilista La modifica più consistente rispetto alla sceneggiatura sta e ipocrita. Protagonista di La visita (1963) è una donna non più nell’epilogo, che fu addirittura girato e poi eliminato al montaggio: giovanissima, impiegata “single”, che cerca un compagno tramite «Era un’intervista postuma, in cui lei si raccontava così come si un annuncio matrimoniale, e si imbatte in un meschino impiegato vedeva, poi gli altri, i giornalisti e quelli che l’avevano conosciuta, romano. Il personaggio più vicino ad Adriana è però Dora, la pro- la descrivevano secondo il loro punto di vista. Era una sequenza tagonista di La parmigiana, interpretata da Catherine Spaak. Nel che avrebbe reso ancora più completa la personalità di Adriana».10 film, attraverso una serie di flashback, viene raccontata una ragazza Proprio in questo finale uno dei personaggi (lo scrittore) avrebbe di provincia, disinibita e moderna, alle prese con maschi che ne pronunciato la frase del titolo: «Già. Io la conoscevo bene» – e subiscono il fascino e/o cercano di sfruttarla: un seminarista, un

148 149 fotografo che la porta a Roma (Manfredi, in un ruolo molto simile Cardinale (la visita ai genitori in Toscana), da una Sandrelli-Loren a quello di Io la conoscevo bene), un poliziotto meridionale geloso. (la seduzione del garagista, con lei molto truccata) a una Sandrelli- Pietrangeli stesso, però, chiarì di non essere interessato alla donna Sandrelli (di Germi): «Il personaggio di Adriana ne risulta fram- in quanto tale, ma ad alcuni tipi specifici di donne in quanto osser- mentato, impossibile da fissare anche nella memoria spettatoriale vatori privilegiati per osservare i mutamenti della società italiana: in un’icona unitaria». Insomma Io la conoscevo bene è anche un film su «un io vissuto come supporto di tipi intercambiabili».19 In que- «Non è tanto che io sia la Celestina di Il sole negli occhi o l’Adriana di sto rapporto ineludibile, fondativo, tra una ragazza e i mass media, Io la conoscevo bene o la Pina di La visita come, scusatemi, Flaubert che in qualche modo ne definiscono l’identità, un evento trauma- era Emma Bovary. Ma è che nel processo di trasformazione sociale a tico è quello del cinegiornale nel quale lei finisce per apparire de- cui, da vent’anni a questa parte, assistiamo in Italia, la donna ha in- formata e definitivamente assunta a rotella di un sistema: «Non contestabilmente un ruolo da protagonista. Tanto profondo e rapido c’è rimedio a quella menzogna: la distruzione dell’immagine (o la è stato il passaggio dalle posizioni in cui era relegata ancora subito sua deformazione caricaturale) cancella ogni residua speranza, ren- dopo la guerra a quelle che, di forza, ha occupato negli ultimi anni. de impraticabile ogni illusione. Adriana non si riconosce nel servi- (…) Sono tutte legate da uno stesso “filo rosso” rappresentato non già zio del cinegiornale, eppure sa che quell’immagine finta conserva da una mia predilezione per questo o quel prototipo di donna quanto un’impronta reale di quello che lei effettivamente è».20 dai vari aspetti che può aver assunto il cammino dell’emancipazione Ma soprattutto, e a bilanciare la distanza “sociologica” dell’assun- della donna nella società italiana.»15 to, in questo film il rapporto tra regista e personaggio femminile raggiunge una tensione e una prossimità nuova attraverso lo stile In Io la conoscevo bene il legame tra il personaggio e l’epoca è della messa in scena: la scomposizione narrativa, la supremazia del- più dichiarato che nei film precedenti. In fondo, è la storia di una la musica, l’emergere del momento della messinscena su quello del donna “incastrata” dal mutamento dei costumi, che hanno l’uni- racconto. co risultato di mutarla in oggetto, sfruttando le crepe aperte dalla maggiore libertà e laicità di consumi: «Una delle più belle figure 4. femminili di tutto il nostro cinema diventa poco a poco (…) una Nei decenni, è stata più notata la modernità narrativa e visiva del sorta di acida e malinconica fenomenologia del disagio. Quasi la film, costruito in una serie di salti temporali arditissimi, con inserti radiografia di una modernità che, stordita dai suoi stessi miti e ab- di brevi flashback, e di piani-sequenza al limite del virtuosismo. bacinata dai suoi feticci più vistosi, sembra aver perso di fatto ogni In un’analisi minuziosa della struttura del film, Lino Micciché ha coscienza di sé».16 E più precisamente, l’unicità del discorso di Pie- sottolineato come lo stile di Pietrangeli, da sempre tendente a una trangeli sta nel «fotografare un’epoca di disequilibrio nel rapporto costruzione “paratattica”, per episodi, del racconto, tocchi qui la tra i sessi, di transizione nella concezione del ruolo femminile».17 propria forma più sperimentale. Il film è costruito da una serie Il ritratto di Adriana è però tutt’altro che freddo e, nel corpo del di episodi (diciannove ne conta lo studioso) tra loro nettamente film, è sviluppato in modo non psicologico ma anzitutto fisico. divisi, per ambientazione e cronologia, spesso senza nessi forti, e di Sono i gesti, le movenze, i passi di danza, i cambi d’abito e di pet- durata relativamente simile.21 tinatura, gli sguardi nel vuoto a chiarire il personaggio, nelle sue Qui l’effetto è proprio di un détournement temporale, strettamen- interazioni con l’ambiente, gli oggetti, gli altri.18 Secondo Ruggero te connesso con la figura femminile principale. In questo caso, i tre Eugeni il personaggio passa attraverso una serie di metamorfosi di- sceneggiatori del film sono espliciti fin dall’inizio, nel presentare il vistiche, da una Sandrelli-Bardot (sulla spiaggia) a una Sandrelli- progetto già nella prima versione del ’61:

150 151 «Non è proprio una storia, perché non ha – come del resto tutto il personaggio di Adriana – un inizio preciso, né uno sviluppo ragiona- to e conseguente. Racconteremo alcuni “momenti” della sua vita casuale e un po’ scon- clusionata, con grandi intervalli in mezzo. Come quando si sfoglia un album di fotografie, dove forse mancano quelle più importanti: come appunto succede in tutti gli album, dove magari ci sono dieci istanta- nee di una vecchia gita in campagna e neppure una, neppure formato tessera, del giorno in cui si è persa la fede nella vita. Dei ritratti di Adriana, quello che viene prima non è certo la causa di quello che succede dopo, ma tutti insieme forse sono la causa di quello che viene per ultimo. Fot. 14 Così come a guardare bene quelle dieci fotografie della gita in campa- gna, si può anche arrivare a capire e ricostruire la fotografia – che non tuazione evocata una situazione tipo, che sembra essersi ripetuta c’è nell’album – della fede perduta.»22 infinite volte».26 I flashback lampeggiano all’interno del racconto con brevi inserimenti che non servono a far procedere la vicenda, Questo comporta una certa varietà di registri: dalla sospensio- ma sono piccole apparizioni di un passato: l’immagine della sorella ne della narrazione, in certe scene vuote di eventi, a una versione morta, una sera a un bowling, le avance di un ragazzo… intermit- corrusca della commedia all’italiana, che scorrono insieme alla mu- tenze temporali quasi casuali.27 tevolezza della protagonista. La stessa Sandrelli afferma che «Io la L’assunzione di questo modello frammentato è anzitutto un ele- conoscevo bene è un insieme di tanti piccoli film, di piccole storie, mento di prossimità alla protagonista, di resa del suo tempo e del di incontri e di stati d’animo che, come un puzzle, ricostruiscono suo spazio, di avvicinamento grazie anche all’uso dello zoom e degli la storia di Adriana».23 sguardi in macchina,28 che un paio di volte servono a introdurre i Per tutta la parte iniziale del film, addirittura, non si capisce quale flashback del passato, ma non solo. Il suo sguardo si sofferma sulla sia il presente, il cuore del racconto. Lo spaesamento riguarda allo cinepresa, di sfuggita, anche in altri momenti come quando viene stesso modo anche la geografia di una Roma che continuamente presa dalla delusione per il comportamento di uno dei suoi amanti tracima verso Ostia, Orvieto, la campagna pistoiese, e che al suo in- (quello che la fa telefonare alla fidanzata) e soprattutto nell’intensa terno è caratterizzata da una sensibile “assenza di riferimenti topo- scena “sospesa” in cui Adriana è in casa, da sola, e guarda fuori dalla grafici” per cui non sappiamo quasi mai dove si trovi esattamente finestra mentre sul giradischi suona Mani bucate di Sergio Endrigo Adriana.24 Mentre lo spettatore viene costretto “a continui salti di (fot. 14 e 15). Un piano-sequenza di tre minuti, una delle scene più logica e aggiustamenti di tiro”, la protagonista è spesso inquadrata potenti del film e di tutto il cinema italiano dell’epoca, che mostra da vicino, o tagliata nei dettagli, e spesso attraverso vetri (fot. 14) appieno l’unione di modernità cinematografica e di dialogo con il o nello specchio25 (come nel prefinale): «Lo sviluppo cronologico sistema-cinema. In quella scena Stefania Sandrelli guarda in mac- della scena è ricco di ellissi destinate a rimanere incolmate (…). china come Anna Karina in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962) Piccoli lampi invadono il presente (…). Ma sono legami deboli di Jean-Luc Godard, e sta proprio guardando noi, sta guardando gli e metonimici. L’imprecisione dei flashback, infatti, fa di ogni si- spettatori (maschi) della commedia all’italiana.29

152 153 forse anche a se stessa – e così facendo, peraltro, non le permette di riscattarsi, ma la uccide.

1. Sulle reazioni della critica cfr. Lorenzo Pellizzari, “Antonio Pietrangeli e la cri- tica”, in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi, a cura di, Il cinema di Antonio Pietrangeli, Marsilio, Venezia, 1987, pp. 83-5. 2. Irene Bignardi, “Le donne di Pietrangeli”, in Lino Micciché (a cura di), Io la co- noscevo bene di Antonio Pietrangeli: Infelicità senza dramma, Lindau, Torino, 1999, p. 59. 3. Tullio Kezich, “Mi voleva Pietrangeli”, ivi, p. 68. 4. Antonio Maraldi, “Da Pacini a Bagini: Le sceneggiature di Io la conoscevo Fot. 15 bene”, ivi, p. 110. 5. Testimonianza di Ugo Tognazzi in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi (a Insieme all’uso dei flashback e del piano-sequenza, il terzo ele- cura di), Il cinema di Antonio Pietrangeli, cit., p. 172. mento fondante della prospettiva del film (e certo non il meno 6. «Io la conoscevo bene fa i conti con tutto l’immaginario che l’ha prodotto, fissa importante) è l’uso delle canzoni. Il film è praticamente sempre ac- ed isola i caratteri delle maschere (…), ricompone ed armonizza i moduli del compagnato dalla musica, talvolta quella originale di Piero Piccio- genere raccogliendo nella tragedia le loro forme più evolute (…), svela i propri ni, ma più spesso canzoni italiane e straniere, per lo più provenienti mezzi commerciali – i cast, i dischi a 45 giri che formano la colonna sonora – e da fonti sonore in scena: juke-box, orchestre, radioline. La centrali- sa usarne.» (Tullio Masoni-Paolo Vecchi, “Il realismo difficile di Antonio Pie- tà della musica doveva essere ben presente fin dalla concezione del trangeli”, in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi, a cura di, Il cinema di film (il soggetto iniziale si intitolò a un certo punto Il giradischi),30 Antonio Pietrangeli, cit., p. 24) ma la costruzione a flashback e la presenza delle canzonette fu pro- 7. Intervista a Sandra Milo di Maria Pia Fusco, in Lino Micciché (a cura di), Io la gressivamente accentuata nelle successive fasi di stesura.31 L’intero conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 19. film è costruito in molti momenti in totale simbiosi con la musica. 8. Ritratti cinematografici di donne italiane di oggi, «Bianco e Nero», n. 5, maggio Le canzonette fanno parte del mondo della protagonista, delle sue 1967, poi in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietran- illusioni; ma fanno parte anche del corpo del film. Dunque, da un geli, cit., p. 273. lato «Adriana muore uccisa dalle canzoni, dai palazzoni, dai loca- 9. Intervista a Stefania Sandrelli di Maria Pia Fusco, in Lino Micciché (a cura di), lini, dalla miseria dei padri e dal desiderio di ricchezza dei figli»;32 Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit, p. 15. eppure le canzonette, nell’economia del film, non comunicano tan- 10. Ibid. to biasimo, quanto un pathos moderno. Le canzoni trasformano il 11. Si vedano le interviste contenute nei citati volumi Il cinema di Antonio Pietran- film in un neo-melodramma, e in alcuni momenti fungono da ele- geli e Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, e in quest’ultimo volume i menti di epifania (come nel coevo Bertolucci). Come dice un per- due soggetti, la scaletta e il verbale di una riunione ideativa del ’61. sonaggio di La signora della porta accanto (La femme d’à côté, 1981) 12. Sceneggiare per Pietrangeli, testimonianza di Ettore Scola in Lino Micciché (a di Truffaut: «le canzonette dicono la verità. E più sono stupide, più cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., pp. 25-30. dicono la verità». L’elemento tragico del film sta anche in questo: 13. La ventunenne Wilma Montesi era stata trovata morta sulla spiaggia di Tor- ciò che reprime e aliena Adriana è anche ciò che la svela, a noi e vaianica, e la morte, dapprima archiviata come suicidio, si trasformò poi in

154 155 uno scandalo che coinvolse nomi della politica, del cinema, dell’aristocrazia e 22. Antonio Pietrangeli-Ruggero Maccari-Ettore Scola, “Il primo soggetto”, in Lino della giurisprudenza. Che lo spunto iniziale venisse da quel caso è sostenuto Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., pp. 84-5. da Tullio Kezich nella sua testimonianza in Io la conoscevo bene di Antonio 23. Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 17. Pietrangeli, cit. 24. Vincenzo Buccheri, “Transiti e viaggi”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del 14. Nel volume Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., sono pubblicati tre cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 205 e 207. ritratti contenuti nella cartella intitolata Personaggi e tipi per Io la conoscevo 25. Vito Zagarrio, “La frantumazione dello sguardo”, in Lino Micciché (a cura di), Io bene, depositata nel Fondo Pietrangeli del Comune di Cesena. La prima ha il la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 254. nome fittizio di Esterina Libassi, è umbra, amante di un capocomico, che la 26. Barbara Grespi, “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a porta all’abuso di alcol e droghe, poi diventa amante di un cantante e infine cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 245-6. si stabilisce col fratello gay. “Adelaide Franchetti”, amante di un organizzato- 27. Come ha notato Micciché (“Su alcuni dati strutturali di Io la conoscevo bene”, re di concorsi per miss, rimasta più volte incinta, ora sta con un attore. “Eva cit., p. 121), dal punto di vista della costruzione narrativa, in effetti, Io la cono- Rossetti” è una prostituta da residence, poi conosce un produttore. Una sera scevo bene si spinge molto avanti, anche rispetto ai film precedenti del regista partecipa alla festa nella villa di un’attrice. Quest’ultima non sapendo che la (La visita e La parmigiana) che facevano uso di flashback. Negli altri casi, ragazza è diventata amica del produttore le fa scherzi crudeli «e Sordi non si infatti, essi costituiscono una buona parte dell’intreccio, e sono la struttura su lasciò sfuggire l’occasione per fare una serie di numeri, uno più crudele dell’al- cui si basa l’intero film. Qui, invece, i brevi flashback (appena cinque, tra 1 e tro, alle spese della nuova arrivata. La fecero ballare, cantare, suonare. A un 30 secondi di durata) non aggiungono niente alla narrazione ma al più «con- certo punto il giovane produttore, seccato, cercò di portarla via dalla festa. Ma notano lo stato psicologico della protagonista». Eva non se ne diede per intesa. Quella le sembrava la sua grande occasione». 28. Vito Zagarrio, La frantumazione dello sguardo, cit., pp. 257-8. In Pietrangeli (p. 81). Eva peraltro è lesbica, e riesce a eccitare il produttore presentandosi rimangono delle tentazioni di virtuosismo, anche in questo film: le riprese dal regolarmente con un’amica. basso della Sandrelli davanti al duomo di Orvieto, la macchina a mano che ne 15. Ritratti cinematografici di donne italiane di oggi, cit., pp. 271-2. segue l’arrivo in campagna, la panoramica a 360° del suo svenimento durante 16. Gianni Canova, “La commedia all’italiana: l’‘invenzione’ della borghesia”, in il corso di recitazione. Id. (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, Marsilio-Edizioni di 29. Gli sceneggiatori di questo film, come degli altri ritratti femminili di Pietrange- Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, p. 128. li, sono tutti maschi. E forse nell’impostazione rimane un che di programmatico 17. Piera Detassis, “Storie di donne nell’Italia di Pietrangeli”, in Il cinema di Anto- o addirittura di paternalista: ma si potrebbe dire che quel che di estraneo per- nio Pietrangeli, cit., p. 47. mane nel progetto e nel copione venga bruciato da una regia assai partecipe e 18. «Adriana si fa definire dalle cose illudendosi di appropriarsi, con esse di un tutt’altro che ideologica o moralistica. mondo. (…) Gli oggetti con cui si maschera (…) la definiscono ma non le ap- 30. Antonio Maraldi, “Tra le carte di un regista. I materiali preparatori per «Io la partengono, se non nel senso estremo della recita cui inconsapevolmente si conoscevo bene»”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio sottomette.» (Luisella Farinotti, “Il rovescio delle cose”, in Gianni Canova, a Pietrangeli, cit., p. 74. cura di, Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, cit., p. 269) 31. “Da Pacini a Bagini: Le sceneggiature di Io la conoscevo bene”, cit., p. 112. 19. Ruggero Eugeni, “Nuovi volti/corpi attoriali”, in Gianni Canova (a cura di), 32. Sandro Bernardi, “Luoghi e paesaggi”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, cit., p. 182. cinema italiano. Vol. XI, cit., p. 193. Un tema nascosto del film, ricorda Ber- 20. Gianni Canova, “Il cinema “inquieto” di Antonio Pietrangeli”, in Lino Micciché nardi, è l’inurbamento, il rapporto di una provinciale di origine contadina con (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 45. Roma. 21. Lino Micciché, “Su alcuni dati strutturali di Io la conoscevo bene”, in Id. (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 120.

156 157 la lunga notte: Il punto di svolta nel cinema di Ferreri può considerarsi Break Up (1965-8), film rimontato dal produttore Ponti come episodio di dillinger è morto (1969) un film collettivo, e ripreso dal regista tre anni dopo con l’aggiunta di marco ferreri di tre scene, ma mai uscito in Italia. In esso, si racconta un’unica minima ossessione che conduce il protagonista alla morte: scoprire quanto si può gonfiare un palloncino senza farlo scoppiare. In se- guito Ferreri continuerà a usare questo procedimento, costruendo su un’unica idea la trama dei propri film: un uomo vuole entrare in Vaticano e non ci riesce (L’udienza, 1971), alcuni uomini decidono 1. di mangiare fino a morirne (La grande abbuffata, 1973), l’umanità La carriera di Marco Ferreri fino agli anni Settanta viene talvolta del futuro proibisce la riproduzione (Il seme dell’uomo, 1969), una divisa in tre fasi: la prima, quella dei film girati in Spagna, segnati da donna decide di sostituirsi al cane di un uomo e di essere letteral- un feroce umorismo nero; poi la fase dei film italiani con Tognazzi, mente il suo animale da compagnia (La cagna, 1972).3 che si concentrano sulla critica alla famiglia borghese e furono visti Nel caso di Dillinger è morto, però, l’ossessione unica intorno a come varianti particolarmente acri della coeva commedia all’italia- cui il film è costruito non sembra appartenere solo al personaggio, na; infine la serie, che comincia con Dillinger è morto (1969), degli ma soprattutto al regista. L’ossessione del protagonista non c’è, o apologhi nichilisti e radicali sul destino dell’uomo contemporaneo. meglio essa è il vuoto: appena un passo più avanti dell’ossessione La difficoltà per la critica italiana dell’epoca a inquadrare la pri- per i palloncini del protagonista di Break Up. L’elemento più vistoso ma produzione di Ferreri derivava anche da una sua doppia pro- del film, e quello che lo definisce, è la scelta registica di riprodurre venienza: prima, il neorealismo di area zavattiniana (Ferreri aveva i tempi morti della quotidianità in maniera da creare una sorta di cominciato organizzando alcuni dei progetti di Zavattini negli anni performance, di sfida allo spettatore. La coerenza con cui questa Cinquanta),1 poi appunto l’umor nero di area spagnola, alla Buñuel. vicenda non viene raccontata, con cui un’interminabile introduzio- Infine, giocava un ruolo la prossimità apparente con la commedia ne a non si sa cosa viene condotta avanti, in una specie di suspense all’italiana, anche per la presenza costante di Ugo Tognazzi nei primi all’incontrario fino all’unico evento che accade senza apparenti spie- quattro film realizzati in Italia. Quest’ultimo riferimento è forse il gazioni, è la vera azione del film. più utile, a patto di intenderlo in maniera dialettica, come il pro- getto di estremizzare e sabotare, fino al capovolgimento, una forma 2. di racconto e un tipo di rapporto con i personaggi e col pubblico. Il protagonista del film, disegnatore industriale, torna a casa dal Maurizio Grande, oltre a sottolineare gli ovvi limiti di una tale pe- lavoro, dove ha assistito a una prova di maschere antigas, commen- riodizzazione, ne ha precisato alcuni punti. Se è vero, infatti, che tate da un collega con considerazioni sul destino dell’uomo nella fino a Dillinger è morto il processo di “fissazione del senso” era lar- civiltà consumistica. A casa, trova la moglie a letto con il mal di gamente affidato alla sceneggiatura, e da quel film in poi il primato testa e una cena non troppo invitante. Allora si mette a preparare passa alla messa in scena, in realtà già prima quella fra trama e messa un piatto elaborato, e contemporaneamente, inizia a giocare con in scena era una relazione dialettica – come è evidente, ad esempio, una pistola, a oliarla, a dipingerla a pois. Nel frattempo rientra la in L’ (1967) che, per ammissione del regista, era un film «gira- cameriera, e si chiude in camera. I contatti tra i due arrivano fino to contro il modo in cui era stato scritto, e montato contro il modo a un pigro rapporto sessuale consumato con l’ausilio di un vasetto in cui era stato girato».2 di miele. Infine, il protagonista uccide la moglie, che dorme sotto

158 159 l’effetto dei sonniferi, sparandole attraverso il cuscino. All’alba, lo che la forza di Ferreri, nel rapporto col pubblico, fu anche di giocare vediamo fuggire e raggiungere uno yacht di proprietà di una giovane con un tipo di spettatore che si era formato negli anni del “superspet- donna. Si offre come cuoco, e la nave salpa per Tahiti contro un sole tacolo d’autore” e che stava popolando i numerosi cineclub, oltre a rosso fuoco dall’aria irreale. nutrire un fitto dibattito sul cinema nei giornali. Dillinger è morto può Come si è detto, la serata del protagonista, proprio perché seguita essere considerato il punto estremo e la conclusione di un certo tipo nei suoi minimi dettagli, assume rapidamente i caratteri di una gigan- di film d’autore, di un certo rapporto tra autore e pubblico. Il film di tesca, unica gag che consiste nel procrastinare qualcosa che dovrebbe Ferreri infatti, pur nella sua radicalità, non è un film sperimentale nel accadere. In questa orizzontalità, tuttavia, è evidente una divisione in senso del cinema underground di quegli anni. Il suo è comunque un parti: «Il film racconta, in fondo, la storia di una “esecuzione” ma è racconto, seppure ridotto all’osso, e anzi alcuni elementi mostrano anche la esecuzione di una serata, e, come ogni esecuzione si articola in una precisa strategia comunicativa. Lo mostrano, tra l’altro, la pre- movimenti».4 Si può anche suddividere la serata in due macro-episodi: senza (seppur molto parca) della musica di commento, specialmente la preparazione della cena e della pistola, e la proiezione dei film fa- all’inizio e alla fine, e il fatto che ad esempio il film, nonostante dia miliari seguita dal rapporto sessuale con la cameriera e dall’omicidio quest’impressione, non è ovviamente girato in tempo reale: la sua pa- della moglie. Ma per il protagonista «non vi è alcuna differenza tra le rabola si svolge dalla cena all’alba, mentre la sua durata è dell’ora e diverse azioni compiute», e in alcune scene anzi egli sembra giocare mezza canonica. Dunque al suo interno si riscontra il consueto pro- sull’equivalenza tra l’olio che serve per cucinare e quello in cui è im- cedimento di condensazione del tempo tipico della narrazione cine- mersa la pistola per ungerne i meccanismi.5 matografica tradizionale. L’ora e mezza di Dillinger è morto è una co- Questa dimensione del lavoro sul tempo entra in relazione di- struzione pensata anche in tensione dialettica con la drammaturgia e namica con la rigidità dell’assunto, che come in molto cinema di con le forme di comunicazione tradizionali. L’efficacia che il film ebbe Ferreri all’epoca è assai presente, e non si capisce quanto parodiata. all’epoca deriva anche da questa strategia di mediazione-radicalità, che consiste nel disporre alcuni elementi narrativi per poi disfarli nel «Dillinger è morto mette alla prova il cinema come dispositivo di du- corso della narrazione, approdando però infine a un insieme estetico plicazione (più che di rappresentazione) della realtà. (…) È certamen- riconoscibile e, per quanto ambiguo, comprensibile. te un esercizio di stile sul tempo cinematografico e sui tempi morti dell’esistenza nella civiltà moderna. (…) La scrittura diviene pura ese- 3. cuzione di un programma di duplicazione dell’apparenza, per cui “mo- Quella che Elsa Morante chiamava l’irrealtà (cfr. capitolo su Ac- strare” il reale significa anche riprodurre i concatenamenti metonimici cattone) ha ormai trionfato: per questo nelle inquadrature di Ferreri di una superficie piatta, sulla quale si inscrive l’effetto-cinema come non c’è più spazio per i corpi, per la fisicità, e anche gli elementi calco virtuale delle immagini (e dei legamenti fra le immagini), come di happening che si trovano nel cinema della Nouvelle Vague sono esecuzione di uno sguardo “a programma”.»6 negati. Semmai si trova nel film una precisa vicinanza alla sgomenta oggettività della pop art italiana di quegli anni (il film è girato nella Si può notare di sfuggita come un film “impossibile” come questo casa del pittore Mario Schifano, tranne la cucina che è quella della abbia avuto una notevole eco sulla stampa, e un buon successo di casa di campagna di Ugo Tognazzi). E se nel precedente L’harem pubblico (130 milioni di incasso), con un coro di consensi critici che la scelta di uno stile “pop” riguardava anzitutto una patina visiva, sarebbe oggi inimmaginabile per un film del genere, e che testimo- cromatica, e una certa libertà dei nessi di montaggio, qui c’è una vi- nia comunque una certa persistente ricettività dell’opinione pubblica cinanza più profonda alla programmatica atarassia degli artisti pop dell’epoca nei confronti del cinema. A questo riguardo va specificato nei confronti dei prodotti della cultura di massa.

160 161 In un film come questo, ovviamente, è più facile notare quel che l’elemento di forza del proprio cinema. In Ferreri, almeno in questa manca rispetto a quello che c’è: le assenze sono più lampanti delle fase, non sono l’inquadratura e il découpage a comunicare l’aliena- presenze. Il film è composto di piani fissi con movimenti funzionali, zione, ma la progressione drammaturgica complessiva, il tempo, in qualche zoom e qualche movimento di macchina a mano, nessun relazione invece a un’assoluta banalità. Salta quindi l’ultima àncora, carrello. Gli obiettivi sono spesso a focale corta, e schiacciano i per- l’estetismo che in qualche modo combatteva e insieme accompa- sonaggi nello spazio degli interni. Riguardo all’inquadratura-tipo di gnava l’alienazione, finendone anzi per costituirne un’ambigua con- Ferreri, Maurizio Grande ha parlato di “spazio rifilato”: templazione.

«il campo visivo coincide con uno spazio che espone oggetti e agen- 4. ti molecolari (atmosfere) in un calcolo di forze equilibrate che corri- Come per Prima della rivoluzione o I pugni in tasca, appare quasi spondono alla rotazione visiva del raggio di 360 gradi appiattito (…). incredibile che Dillinger è morto possa esser stato letto come esempio È qualcosa di più della centratura dell’immagine attraverso una inqua- di film “politico” e rivendicato dalla sinistra, soprattutto estrema. dratura ben calibrata. (…) Si tratta del centro neutralizzato in quan- Ma per i film precedenti citati, opere di giovani borghesi inquieti e to focus privilegiato (…). Questo modo di elaborare il dinamismo di ribelli, c’era davvero un elemento di rivolta (anche generazionale), di uno spazio inerte è ovviamente legato alle tematiche più care a Ferreri: cosciente ambiguità; mentre quello di Ferreri è un film dichiarata- la superficie traslucida dell’immagine-cosa, la levigatezza del design, mente “borghese”, anarcoide ma più apocalittico che rivoluzionario l’esattezza del gesto, la monodia del comportamento.»7 (e piuttosto misogino). Il regista rivendicò, nelle interviste dell’epo- ca, il carattere eminentemente negativo del proprio fare cinema, la La scelta di Piccoli, rispetto agli attori dei film precedenti, è una volontà di fare un cinema borghese a dispetto delle tentazioni ri- relativa novità, e va nella direzione intrapresa con il Mastroianni di voluzionarie dell’epoca (è il periodo in cui ad esempio Bellocchio Break Up, di una certa apatia e passività rispetto ai toni sanguigni o Godard “abiurano” il loro essere autori mettendosi al servizio di di Tognazzi. (Il successivo cinema di Ferreri oscillerà tra questi poli, progetti collettivi dell’estrema sinistra), facendosi carico del proprio ottenendo peraltro alcuni dei risultati migliori con corpi di attori statuto ambiguo di regista dentro il sistema. Ai redattori della rivista esuberanti, da Enzo Jannacci a Roberto Benigni a Jerry Calà.) politicamente impegnata «Ombre rosse», che lo sostenevano come Eppure il mondo osservato è tutt’altro che ridotto all’essenziale, uno dei pochissimi autori-manifesto, risponde provocatorio: «Non e nel crudo materialismo dei piani ferreriani ben poco spazio viene servo a niente io come non servite a niente voi. Anche perché manca lasciato all’altrove, a quel che non si vede. «In Dillinger è morto tut- il discorso politico al quale riferirsi… e gli studenti non possono to quello che era assenza è diventato eccedenza; nulla viene lasciato esserlo troppo, con tutti i loro difetti. (…)».9 fuori campo se non in modo provvisorio, il piano-sequenza riunifica E ribadiva i concetti ai rappresentanti di un’altra rivista sostenitri- spazio e tempo sventando ogni possibile stravolgimento o indeter- ce, «Cinema & Film»: minazione.»8 Dall’ascesi razionalista degli ambienti dei primi anni Sessanta si è «Dillinger è nonostante tutto ancora un film borghese per i borghesi. passati ai colori pop, a una casa non algida ma anzi fin troppo reale, (…)Un film come Dillinger in fondo è come se lo avesse fatto lo sta- e insieme piena di “eccessi” cromatici e arredativi. In questo risalta la to: lo distribuisce l’Ital Noleggio, l’Ente di Stato, che non funziona. differenza con Antonioni, che nei suoi film aveva introdotto in ma- (…) è una ribellione solo personale. Però oggi come oggi le ribellioni niera vistosa il tema dell’estraneità dell’uomo al proprio ambiente personali o le rivoluzioni personali non servono. La rivoluzione con il urbano e domestico. Antonioni, fa del rapporto con il fuori campo film che uno si produce non serve a niente. (…) Forse è sempre me-

162 163 glio fare invece di una cattiva opera rivoluzionaria, un’opera negativa la rivoltella, la moglie (che quasi non si vede, assente e malata) e al massimo, un’opera che voglia distruggere. Dillinger non è certo un la cameriera appassionata del cantante Dino. Il film, soprattutto, film positivo, è un film negativo, perché è un film abbastanza tragico. fotografa con particolare precisione il nuovo spazio domestico della Ecco, al massimo possiamo arrivare a fare gli sciacalli di un mondo visione e del consumo culturale, solitario e narcisistico: la cameriera che va autodistruggendosi, e basta. (…) Il suicidio cinematografico balla guardandosi allo specchio in una tutina sexy a beneficio non non è proibito.»10 si sa di chi. Piccoli è uno spettatore televisivo nonché di filmini familiari privati, e come nel film ogni azione equivale a un’altra, La differenza tra Dillinger e i film di Bellocchio e Bertolucci è così sullo schermo tutte le immagini si equivalgono, anche quando anche cronologica: quelli sono film che intercettano inquietudini alludono sarcasticamente a un altrove che magari si trova all’interno giovanili, in un periodo di fermento ancora pre-politico. Ferreri, stesso dello spazio in cui si trova Piccoli, o nei paraggi del film tutto: invece (che peraltro ha oltre dieci anni in più dei due), realizza Dil- Adriano Aprà, giovane sostenitore di Ferreri, appare sullo schermo linger è morto in piena contestazione studentesca, in qualche modo parlando di Satellite, film di Mario Schifano le cui tele si vedono applicando alcune riflessioni che stavano a monte del bagaglio di ovviamente in varie occasioni, essendo sua la casa. quella generazione a un resoconto della nuova borghesia, che appa- Le frasi nel colloquio iniziale, (che sono il programma illustrato re (coerentemente appunto con la visione delle nuove generazioni) e insieme condotto ad absurdum dal prosieguo del film) secondo la come classe giunta al capolinea. Ed è curioso che alcuni dei film testimonianza di Ferreri, erano tratte da scritti di Umberto Eco:13 “d’autore” italiani fatti a ridosso del ’68 o immediatamente dopo «Una camera quindi dove per sopravvivere è necessario portare una siano film claustrofobici, tutt’altro che vicini alle masse o alle piazze maschera, ricorda molto le condizioni di vita dell’uomo contempo- (Partner, Nostra signora dei turchi), o film di esplicita fantastoria, raneo. (…) L’introiezione di questi bisogni ossessivi e allucinatori ambientati in epoche immaginarie o remotissime, come Sotto il se- non dà come risultato l’adattamento alla realtà, ma la mimesi, la gno dello scorpione dei fratelli Taviani e il Satyricon di Fellini. A suo massificazione, l’annullamento dell’individualità». Ed è curioso il modo, la produzione di Ferreri di quegli anni, tra L’harem, Dillinger nome dato al protagonista, che si chiama Glauco, e rimanda a un è morto e Il seme dell’uomo, è a cavallo delle due tendenze. celebre passo posto all’inizio del Discorso sull’origine della disugua- Un tratto essenziale del film è, a rivederlo oggi, l’ambiguità, o me- glianza di Jean-Jacques Rousseau: la statua del dio marino Glauco, glio il carattere ambivalente del proprio rapporto con il messaggio, secondo una metafora presa dalla Repubblica di Platone, era in quel con le tesi politiche che vengono esposte, applicate e insieme disper- caso il simbolo dell’uomo sfigurato dalla società, reso irriconoscibile se nel corso del film. Come ha scritto Ungari, in Ferreri «L’idea del rispetto al suo stato di natura (finito con l’introduzione della pro- film diventa (…) il film di un’idea della quale l’autore ha colto tutta prietà privata).14 l’inadeguatezza. Quanto più il soggetto iniziale è didascalico, tanto più è il film finito a insegnare qualcosa».11 Il che, però, alla distanza 5. regge fino a un certo punto, e in fondo il retroterra culturale del Uno dei punti su cui i critici si sono scatenati nelle interpretazioni film, seppure evitato o contraddetto, rimane molto presente e rende è l’epilogo, con l’uccisione della moglie e la fuga di Glauco verso comunque molto invecchiato lo sfondo dell’operazione (in questo è Tahiti, come cuoco di bordo per un equipaggio tutto maschile agli vero che nel film «fenomenologia e marcusianesimo si accavallano, ordini di una giovane donna (che si stia ricreando la situazione di e non sempre il dosaggio funziona»).12 base di L’harem? O i lontani prodromi di La cagna?). Ora, la sola Gli elementi in scena che scandiscono l’alienazione del personag- cosa certa è che Ferreri punta all’ambiguità e all’assurdità del gesto gio sono in fondo pochi: la televisione, i filmini familiari, la cucina, finale, ma nello stesso tempo mette sullo stesso piano tempi morti,

164 165 omicidio e forse anche la loro negazione, la fuga. Per cui è vero che «è questa casa (…) a uccidere la povera moglie di Piccoli, Anita Pallenberg, che vediamo appena»15 e, più direttamente, che «il com- portamento del protagonista è istigato dall’esperienza di visione dei film familiari».16 Oppure, si potrebbe aggiungere: Piccoli uccide la moglie perché c’è una pistola da usare. In questo senso, l’estenuante operazione di pulitura della pistola è una versione paradossale della celebre frase di Čechov sulla costruzione drammaturgica, citata da mille film e manuali di sceneggiature: «Se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare». In Dillinger c’è solo questo: un fucile (una pistola), per quasi un intero film, e lo sparo. E tra l’uno e l’altro non c’è nessun legame di causa ed effetto, a parte la presenza fisica Fot. 16 della pistola stessa.17 La pistola diventa un’opera d’arte, attraverso una minuziosa elaborazione (pulitura, colorazione) e il gesto finale è di turismo in luoghi esotici, o di riprese di un soldato francese in in fondo un gesto “estetico”, gratuito nel senso della “finalità senza Indocina. Probabilmente Ferreri intende anche questo quando nel scopo”, nella logica dell’assurda quotidianità borghese ma anche in press-book afferma che «la chiave del discorso del film è la quoti- quella delle performance dell’arte contemporanea. Comunque, sia- dianità subita anche nell’atto di ribellione». In un finale che d’altro mo lontani dall’agghiacciato pathos della strage compiuta da Steiner canto «dà il senso a tutto il discorso, è quasi la ragione del film. Che, in La dolce vita, esattamente dieci anni prima. d’altra parte, è ambiguo tutto». Tutte queste interpretazioni però devono andare insieme alla so- La stessa ambiguità segna il rapporto di Ferreri con il suo prota- stanziale, costitutiva ambiguità e anzi assurdità del contesto, anche gonista: che è sì osservato con freddezza da entomologo, ma è forse perché il film manifesta in modo chiaro che il proprio senso non anche il personaggio, volontariamente o meno, più rivelatore di Fer- sta nei suoi significati possibili, ma nella sua superficie18: il gesto reri, quello nel quale si ha l’impressione che egli si riconosca di più: performativo è forma e contenuto del film. negli improvvisi scatti buffoneschi e negli slanci culinari e artistici E l’importanza della visione dei filmini familiari (fot. 16) si fa più e sessuali, nel suo essere contemporaneamente “dentro” e “fuori”, forte soprattutto nell’epilogo. Glauco, più che allo stato di natura, spettatore e attore, vittima e carnefice; nell’aporia rivendicata della torna all’evasione pura, quella creata dai mass media. Il finale, nel sua ribellione.19 quale a differenza del resto del film impazzano gli zoom e risuo- na la musica, è una specie di riunione con un immaginario esotico che abbiamo visto dispiegato proprio nei filmini familiari. Piuttosto 1. Con Zavattini, Ferreri aveva lavorato in qualità di addetto alla produzione della che una semplice fuga dalla civiltà, in questa fantasticheria esotica “rivista cinematografica” Documento mensile (1953), collaborando anche al possiamo vedere la riunione del protagonista a quell’immaginario successivo film a episodi L’amore in città (1953). turistico nel quale si è crogiolato poco prima sullo schermo dome- 2. Maurizio Grande, Marco Ferreri, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 95. stico: immaginario sempre vagamente coloniale e “alla Gualtiero Ja- 3. Il che costituirà negli anni la forza e il limite del suo cinema. «È tipico del suo copetti”, come ha mostrato la serie dei Frammenti elettrici di Yervant metodo partire da un unico (anche minimo, a volte) pretesto assurdo o ai limiti Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che smontano i filmati balneari o dell’assurdo, ed estrarne le possibilità narrative, dimostrative. A volte il pretesto

166 167 risulta grande, la metafora è subito centrata e massima, come in La grande ab- mente politico), in cui la scoperta dell’unica trovata è portata fino in fondo, con buffata, L’ape regina, La donna scimmia, perfino Non toccare la donna bianca, esplicite pretese di critica negativa della società: Dillinger è morto, La cagna, Il eccetera, e allora il film ne consegue, con la sua duplice forza di evidenza e di seme dell’uomo. È forse nei successivi, più affastellati e pieni di episodi colla- profondità, di leggibilità dell’aneddoto e di provocatorietà degli sviluppi. A volte terali, più contagiati dalla verve degli attori, più inclini al comico basso e alla appare invece forzato, perfino gratuito, e il film annaspa, si perde, deve infittirsi parodia e al recupero del vecchio grottesco, che il cinema di Ferreri raggiunge di digressioni non conseguenti, di divaganti provocazioni secondarie.» (Goffredo il suo apice: L’udienza, La grande abbuffata e un film all’epoca sottovalutato Fofi, “Dillinger è morto”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e come Non toccate la donna bianca. Ed è almeno in parte vero quel che sostene- i film, Marsilio, Venezia, 1995, p. 204) va Adriano Aprà che «Ferreri, come Fellini e come Pasolini, riesce meglio quando 4. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Fer- non è sicuro di sé» – o quando si trova a mediare con strutture produttive e di reri. Il cinema e i film, cit., p. 9. generi più esigenti (come nei primi film con Tognazzi o in L’harem). 5. Veronica Pravadelli, “Derive del soggetto. Il cinema di Marco Ferreri”, in Gianni 13. Press-book a cura dell’Italnoleggio, p. 9. Una copia del press-book è conservata Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1965-1969, Marsilio-Edi- alla Cinteteca Nazionale. La copia della sceneggiatura, invece, che sarebbe sta- zioni di Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, p. 105. ta utilissima per ricostruire il metodo di lavoro del regista, era stata depositata 6. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, cit., p. 8. Tra le descrizioni più interessan- alla Cineteca come risulta dal catalogo, ma è dispersa. ti del procedimento ferreriano, si segnala quella di Pasolini, relativa a Break Up: 14. «Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le procelle avevan talmente «[...] egli riproduce la realtà nelle sue durate per sadismo: cioè, la durata reale sfigurato, che somigliava meno a un dio che a una bestia feroce, l’anima umana, di un’azione, nella sua riproduzione, mostra tutta la sua casualità, la casualità alterata in seno alla società da mille cause senza posa rinascenti, dall’acquisto cioè del tempo che passa [...] si mostra in tutto il suo misero e spaventevole di una moltitudine di conoscenze ed errori (…), e non vi si trova più (…) se non orrore.» (Battute sul cinema, «Cinema & Film», I, n. 1, inverno 1966-7, poi in Pier il deforme contrasto della passione che crede ragionare e dell’intelletto deliran- Paolo Pasolini, Empirismo eretico (1972), ora in Id., Saggi sulla letteratura e te.» (Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza [1755], sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, p. 1547) in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze, 1972, p. 39) 7. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, cit., pp. 3-4. Quella di Ferreri è definita 15. Sandro Bernardi, “I luoghi del cinema nell’opera di Ferreri”, in Stefania Parigi (a da Grande inquadratura celibe “perché non ha bisogno di accoppiarsi a un’altra cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit. inquadratura”. 16. Veronica Pravadelli, “Derive del soggetto”, cit., 106 8. Enzo Ungari, Lo spazio della malinconia, «Cinema & Film», 7-8, 1969, poi in Id., 17. Altrettanto ambiguo (programmaticamente ambiguo, si direbbe) è il riferimen- Schermo delle mie brame, Vallecchi, Firenze (col titolo “Marco Ferreri e lo spazio to a Dillinger, presente nel titolo e, all’interno del film, in un ritaglio di giornale della malinconia”), pp. 58-9. che ne racconta la morte. Nel press-book, oltretutto, c’è una curiosa aggiunta 9. La corazza e il baraccone, intervista di Goffredo Fofi e R. Savino p. 45 e 44. E insieme esplicativa ed enigmatica. Dopo una lunga descrizione della figura di ancora: «Sarei d’accordo con chi pensasse che il film rappresenta un cedimento Dillinger e della sua figura come ideale di ribelle nichilista, il press-book de- rispetto alla linea portata avanti nei miei film; d’altronde, basta a dimostrarlo scrive la sua cattura e la sua morte e aggiunge: «Nello stesso giorno, a Vienna, l’indice di gradimento del film, l’unanimità della critica, che si è creata proprio veniva ucciso il ministro Dolfuss» (p. 6). Come, insomma, se l’epoca simbolica in perché il film è innocuo, proprio innocuo». (pp. 43-44) cui “Dillinger è morto” fosse anche quella del trionfo dei totalitarismi novecen- 10. Intervista di Adriano Aprà, «Cinema & Film», 7-8, primavera 1969, pp. 33-5. teschi. 11. Enzo Ungari, “Marco Ferreri e lo spazio della malinconia”, cit., p. 58. 18. Bruno Torri, “Metafore e catastrofi”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. 12. Goffredo Fofi, “Dillinger è morto”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il Il cinema e i film, cit., p. 67. cinema e i film, cit., p. 204. Dei film di quel periodo, i più datati sono i proprio 19. La corazza e il baraccone, cit., p. 44. quelli in cui la ricerca è più “pura” e quindi più ideologica (non in senso stretta-

168 169 nota bibliografica Guido Crainz, Storia del miracolo italiano: cultura, identità e trasformazio- ni tra anni cinquanta e sessanta (Donzelli, Roma, 1996) – Il paese manca- to. Dal miracolo economico agli anni Ottanta (Donzelli, Roma, 2003) A partire soprattutto dagli anni Novanta, sono molte le ricostruzioni della storia repubblicana e degli anni del boom. Il libro di Crainz è forse quello che in maniera più puntuale si confronta con i media, e con il cinema in particolare, utilizzandolo come luogo di osservazione privilegiato accanto ai verbali delle riunioni di partito o agli archivi del- la polizia. Ma il volume (e in misura ancora maggiore il suo ideale se- Il cinema italiano degli anni Sessanta, e lo stesso cinema degli anni guito, Il paese mancato, che per buona metà rientra anch’esso nel nostro del miracolo economico, non sono stati troppo spesso oggetto di ambito cronologico) fa riflettere anche su un parallelismo ulteriore, os- studi complessivi. Per il cinema del decennio, oggi le raccolte di sia tra la decadenza della società italiana e quella del mezzo-cinema che maggior importanza sono i due volumi pubblicati dalla Scuola Na- con maggiore evidenza l’aveva raccontata. Gli ultimi capitoli di Il paese zionale di Cinema in collaborazione con Marsilio, e curati rispetti- mancato hanno titoli come Alle origini del tunnel, L’ultima occasione, La vamente da Giorgio De Vincenti (Vol. X. 1960-64, 2001) e Gianni catastrofe, e sono utilizzabili anche per leggere la parabola del cinema Canova (Vol. XI. 1965-1969, 2002). Sul versante delle testimonian- italiano (e dei media tutti) dagli anni Settanta agli Ottanta. ze dirette, è imprescindibile L’avventurosa storia del cinema italiano (Feltrinelli, Milano, 1980) a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Vittorio Spinazzola, Film 1961 - Film 1962 - Film 1963 - Film 1964 (Fel- in corso di riedizione per la Cineteca di Bologna. trinelli, Milano, 1961-64) Se nel corso di questo volume abbiamo rilevato una certa carenza, Per quattro anni Vittorio Spinazzola, studioso di letteratura italiana all’epoca, di esperienze critiche di riferimento, vanno comunque di ispirazione gramsciana, curò un annuario di cinema per la casa segnalate, per l’attenzione al nuovo cinema, riviste come «Filmcriti- editrice Feltrinelli. I quattro volumi sono utilissimi per capire il ca», «Schermi» (pubblicata dal 1958 al 1961) e «Il nuovo spettatore clima culturale nel quale viene vissuto il cinema, perché Spinazzola cinematografico» (che chiude nel 1964). Il nuovo status del cine- è un osservatore particolarmente privo di pregiudizi, attento alla ma italiano, inoltre, si rispecchia in alcune iniziative editoriali tra le dimensione comunicativa e popolare del mezzo, al rapporto con il quali spicca la collana dell’editore bolognese Cappelli “Dal soggetto pubblico, all’evoluzione dei generi. I suoi saggi che ogni anno fan- al film”, che pubblica i copioni dei film italiani di maggior rilievo, no il punto della situazione confluiranno poi, insieme ad altri testi, corredati spesso da materiali di grande interesse. Fondata nel 1956 e in quel libro ancora oggi fondamentale che è Cinema e pubblico diretta da Renzo Renzi, la collana raggiunse il suo apice proprio nel (Bompiani, Milano, 1974), storia del rapporto tra cinema italiano corso degli anni Sessanta. e società condotto con l’eleganza del saggista e la precisione del I titoli possono essere istruttivi come testimonianze d’epoca, come sociologo. I quattro volumi che proponiamo sono concepiti non letture critiche, o entrambe le cose. come semplice catalogo, ma come strumento di intervento: anche perché, come si afferma nell’introduzione a Film 1961, «il film ita- liano è vivo, ed è vivo perché è all’opposizione», come confermano gli attacchi della censura. Proprio alla censura è dedicato l’inserto di immagini di quell’anno, con foto dai film più colpiti dai tagli nella stagione in esame (L’avventura, La dolce vita, I dolci inganni,

170 171 La giornata balorda, Il gobbo, Rocco e i suoi fratelli, La ragazza in ve- costituito dal lungo reportage sulla lavorazione del film, che Kezich trina). L’impostazione è a tratti vicina a quella di «Cinema Nuovo», segue in maniera discontinua, dalla fine del 1958 all’uscita. Il risul- ma assai più aperta, e a tratti tangente con certe posizioni e curiosità tato è una commistione esemplare di aneddotica e interpretazione della critica francese («Positif» anzitutto) e di alcune riviste giovani critica, ritmo narrativo e materiali di prima mano: numerose le in- italiane («Schermi» e «Il nuovo spettatore cinematografico»). I vo- terviste ai collaboratori e le lettere. Certo, quel che rende appassio- lumi non si interessano solo di cinema italiano ma, dato il periodo, nante il libro è anche l’oggetto, il fatto che si tratti di un “evento” l’analisi della produzione nazionale è molto presente. Oltre ai saggi progettato come tale, e in questo senso il libro di Kezich racconta di Spinazzola ricordiamo un importante questionario a otto “nuovi l’operazione-Dolce vita nello stesso tempo in cui ne è parte. Il ri- registi” del cinema italiano e a cinque stranieri (Film 1962); un sultato rende in maniera esatta il percorso accidentato di un’opera saggio imprescindibile di Leonardo Sciascia sul cinema e la Sicilia e ambiziosa ed epocale, al centro del quale troneggia un ritratto di uno di Umberto Simonetta su Milano, oltre a un notevole excursus Fellini già sornione dentro il proprio mito, astuto e sicuro, geniale di Gian Piero Brega su Film sadici e film sadiani (Film 1963). e cagliostresco.

Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre (Marsilio, Venezia, Pasolini, Empirismo eretico (Garzanti, Milano, 1972 e sgg.) – Accatto- 2002) ne-Mamma Roma-Ostia (Garzanti, Milano, 1993) Lino Micciché, oltre che uno studioso, è stato uno dei protagonisti Anche se lui negava che le proprie riflessioni teoriche fossero una del dibattito culturale sul cinema negli anni Sessanta. Socialista, poetica mascherata, rifiutando di essere considerato una “bestia da critico del quotidiano «Avanti!», fu soprattutto direttore del Festi- stile”, pratica e teoria sono inscindibili nell’opera di Pasolini. Si ve- val Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che portò l’Italia dano le riflessioni raccolte nella parte finale di Empirismo eretico, a contatto diretto con le nouvelle vague internazionali. Il suo libro ampiamente citate nel capitolo di questo libro dedicato al regista. Il cinema italiano degli anni ’60, pubblicato da Marsilio nel 1975, E soprattutto, le sue opere trapassano l’una nell’altra, da un mezzo raccoglieva contributi nuovi o editi e ha costituito per lungo tempo all’altro, come è evidente anche nelle sceneggiature pubblicate. Si la guida principale, forse l’unica, alla produzione italiana del decen- tratta di testi interessanti anche per la loro scelta di esplicita etero- nio, non solo quella d’autore, ma anche quella di genere. Impostato geneità, per il loro presentarsi come zibaldoni che cercano di rende- classicamente per temi, autori e filoni, il libro di Micciché è stato re la tumultuosa ispirazione dell’autore: molto vicini, in questo, a ristampato più volte, con introduzioni che di volta in volta face- un testo come Alì dagli occhi azzurri. La sceneggiatura di Accattone vano il punto sulla questione: la prefazione del 1986, è eloquente- è preceduta da un diario di lavorazione che testimonia il primo mente intitolata Erano invece gli ultimi bagliori. impatto di Pasolini col nuovo mestiere. Mamma Roma è seguita da un Diario al registratore altrettanto illuminante, e da alcuni versi Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita (Sellerio, Palermo, scritti durante la lavorazione del film. Tra essi, troviamo il celebre 2009) passo «Io sono una forza del Passato/ Solo nella tradizione è il mio Nella citata collana di Cappelli “Dal soggetto al film”, forse il tito- amore/ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai bor- lo più memorabile è il reportage su La dolce vita scritto da Tullio ghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti Kezich. Il libro è stato poi più volte ristampato senza la sceneggia- i fratelli./ Giro per la Tuscolana come un pazzo/ per l’Appia come tura del film, con titoli diversi: l’ultima, presso Sellerio, col titolo un cane senza padrone» ecc., che confluiranno in Poesia in forma di Noi che abbiamo fatto La dolce vita. Negli anni, altri materiali e rosa (1964) e che Orson Welles leggerà (esibendo proprio il volume riflessioni si sono accumulati sul film, intorno al nucleo centrale rizzoliano) in La ricotta.

172 173 Goffredo Fofi, Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli, Milano, INDICE 1971) Seguito ideale della rivista «Ombre rosse», il libro è interessante come testimonianza di quella fase in cui nelle giovani generazioni l’interesse verso il cinema si accompagna o entra in conflitto con Cinema d’autore degli anni Sessanta l’impegno politico. Si tratta di un pamphlet assai diretto contro «gli opportunismi e le fughe dei registi, le miserie e i condizionamenti Le mutazioni della società e del pubblico 7 del “mondo del cinema”». I modelli politici a cui Fofi si rifà sono, alla lontana, quello maoista dell’“inchiesta”, e quello della nuova Un paese senza nouvelle vague? 15 sinistra americana. Il cinema americano è visto a tratti come mo- “Say Alive”: L’eredità neorealista, De sica e Rossellini 22 dello anche per il cinema “interno al sistema”, opposto a un cinema Il cinema d’autore come genere (mancato) 26 italiano più ipocrita e blandamente progressista. Anche se all’epoca Maggiori e minori 35 fece scalpore più come collezione di stroncature, il libro era anche Gli intellettuali al cinema, il cinema agli intellettuali 39 un tentativo di leggere il sistema-cinema nel suo insieme, fino alla Autori nella crisi: la seconda metà del decennio 44 distribuzione e all’esercizio. Gli “alibi” e gli “equivoci” di cui ven- Note 49 gono accusati i registi vengono elencati alla fine: l’alibi dell’autore; l’equivoco della fine del mondo, la mistica del cinema (e qui sono sot- to accusa anche i discepoli rosselliniani di «Cinema e film»), l’equi- I film voco del linguaggio (i registi underground), l’equivoco della rivolta (gli epigoni di Bellocchio); l’equivoco della politica, l’equivoco della Affresco in rotocalco: La dolce vita (1960) di Federico Fellini 58 popolarità. Le poche vie praticabili, a questo punto, sono quelle di un cinema “borghese” radicale, e di un cinema militante che però I borghesi e il sublime: L’avventura (1960) in Italia non ha praticamente nessun esemplare. In questa dimen- di Michelangelo Antonioni 74 sione di cinema possibile, è curioso l’elenco dei temi che il cinema Il principe, il conte e il walzer: Il Gattopardo (1963) italiano di quegli anni non affronta, e che potrebbero secondo l’au- di Luchino Visconti 87 tore costituire la base di un rinnovamento anche contenutistico Essere vivi o essere morti: Accattone (1963) di Pier Paolo Pasolini 102 (pp. 218-9): il rapporto tra borghesia e ascesa del fascismo, l’im- Spaesamenti: I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi 116 migrazione meridionale al Nord, il sindacato, i politici (invocando Racconti crudeli della giovinezza: Prima della rivoluzione (1964) un film anche kennedyano, “all’americana” sui politici italiani), la di Bernardo Bertolucci e i pugni in tasca (1965) scuola, i mutamenti del mondo cattolico, eccetera. di Marco Bellocchio 127 Una donna alla finestra: Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli 146 La lunga notte: Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri 158

Nota bibliografica 170

174 italiana Storie di cinema

Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Editrice Il Castoro, Milano, 2010.

Emiliano Morreale, Cinema d’autore degli anni Sessanta, Editrice Il Castoro, 2011.