Giulio Pallavicino Vero e distinto ragionamento In accordo con i criteri di trascrizione adottati da Edoardo Grendi per l’Inventione, preciso che: 1. anche i miei in- terventi sulla forma e sulla punteggiatura sono stati minimi. Ho eliminato le ripetizioni ma non gli errori, quand’anche evidenti, a eccezione di quelli segnalati in nota; 2. le lezioni doppie, dovute alle integrazioni e alle correzioni operate da Pallavicino (in glossa o in interlinea), sono segnalate in nota e fra virgolette; 3. nel testo, l’indicazione […] segnala un nome o un’espressione illeggibile (in ragione dello stato di conservazione del ms. o della grafa); l’indicazione (…) segnala invece i rari casi di omissis (di lacuna originaria, per lo più relativa a nomi di persona); 4. entro parentesi quadra le mie note, per i rari casi in cui il testo necessitava di integrazione (articolo, congiunzione, preposizione, etc.); 5. in grassetto le indicazioni relative a giorno, mese e anno (integrate in parentesi quadra, ove necessario); 6. in nota, ulteriori precisazioni, per lo più funzionali all’identifcazione di luoghi e personaggi di particolare rilievo; 7. in corsivo nel testo, la trascrizione delle fonti (documenti diplomatici, etc.) che sono parte integrante del Ragionamento. Per le note archivistiche, le caratteristiche fsiche del ms. e i salti nella numerazione rimando alle note 5 e 8 dell’Introduzione al volume. Domino nostro Jesu Christo, ac Beatissime Virginis Maria, Laus sempiterna. Al molto Ill.mo Signor Marc’Au- relio Rebuffo. Invio a V.S. due relationi, le quali narano il successo dell’ingiusta guerra mossa dal Re di Francia, e Duca di Savoia colegati, alla Republica Genovese. Della prima, che è di Raffaello di Raffaello Torre,1 non favelo punto, ma sì bene della seconda, la quale è stata composta da me, però in stile humile, ma curioso, il che mi giova credere, che non tanto sarà letta da quei, che per distanza di luogo non si trovarono presenti, ma ancora da quei vi si trovarono, poiché ella contiene in sé molte cose curiose, non da tutti sapute. V.S. lega l’una, e l’altra, senza però dichiarare l’opinione sua, quale le sarà stata più grata, non volendo che altri lo elega giudice sospetto, per esserli io tanto caro Amico, Compare, e servitore. Nostro Signore la guardi da ogni male come merita. Genova, 15 dicembre 1634. Servo Giulio di Agostino Pallavicino. Istoria, che contiene il principio, mezo e fne della guerra, che Carlo Emanuello Duca di Savoia, spinto dallo suo grande odio mosse alla Republica Genovese, l’anno 1625, la quale se bene nel cominciamento di essa, ella hebbe alcune picciole perdite, in ogni modo a capo di tempo il Duca rimase al disotto in guisa tale, che hoggidi la Republica Genovese posside cinquantasei sue terre e Ville. Ma quel che più importa, e che non si può raccordare senza rendere gratie a Dio misericordioso, che vediamo esso nemico, che oltre la perdita delle cinquanta sei terre, e Ville,2 che in tutto dipende dal volere del Re di Francia, conciosiacosa che tiene in suo potere la forte Città di Pinarolo, e la Valle di Santa Brigitta, luoghi vicino a Torino sua abitatione ordinaria, si che a malapena sta sicuro in esso. Onde per questo, é per essere ridotto in neccesità, non può il fgliuolo, che hora regna3 moversi contro di noi, e farci guerra tanto ingiusta, come quella ci mosse il Padre. Piacia allo stesso Dio infondere ne i petti de Senatori che hora sono al governo della Republica, et in quegli veniranno nell’avenire, tanta pietà, e prudenza, acciocché in eterno possiamo noi e nostri fgliuoli, godere un tanto bene, come viene dal vivere in libertà. E tanto più si spera questa gratia, quanto che ce n’ha fatte tante altre, che per ramentarne alcune. Non è guari tempo che morì lo stesso Duca di Savoia, sì fero nemico alla Republica, che per la sua natura, che mai stava ferma, et inclinata alle guerre, di morte violenta, che fu di peste. Morì parimenti La Digueres,4 e gli altri capi, che con l’esercito Francese, e Savoiardo vennero con animo sì maligno per annichilarsi. Morto ancora Claudio Marino5 nostro Genovese, il quale per l’odio grande che havea alla sua patria, concitò esse armi contro noi, e si sa che fu grande mezo a disporre il Re di Francia, a colegarsi col Duca di Savoia, e Republica di Venegia, e venire ad assalirci. Morto ancora Giovanni Antonio Ansaldo,6 rabbiato Popolare, e tanti altri scelerati huomini della stessa conditione, che l’anno 1628 congiurarono contro la Republica, e contro la nobiltà, e ne furono gastigati, come meritavano. Hora, per la Dio mercè siamo in libertà, e la godiamo con molto nostro gusto, e contento, né niuno potrà in l’avenire turbarsi punto, sì perché siamo tutti di accordo a mantenerla, sì anche perché habbiamo cinto la Città, e la marina con forti, e nove mura, che speriamo non tanto saranno un forte propugnacolo per dif-

1. Raffaele Della Torre. 2. “Forse 5 non perse”. 3. Vittorio Amedeo I di Savoia (1630-37). 4. François de Bonne, duca di Lesdiguières, connestabile di Luigi XIII di Francia. 5. Claudio di Cosmo De Marini, ambasciatore di Luigi XIII a Torino. 6. Gio.Antonio Ansaldi, conte di S.Pietro, cortigiano e funzionario di Carlo Emanuele I di Savoia. Morì nel 1629. 4 «In forse di perdere la libertà»

fendere la Città, ma anche la Italia tutta dalle incursioni de Barbari e nemici. Genova, l’anno 1633, primo giorno di Agosto. Giulio di Agostino Pallavicino. Vero, e distinto ragionamento fatto da Giulio di Agostino Pallavicino, per lo quale con ogni curiosità, si narra la scelerata guerra mossa l’anno 1625 dal Duca di Savoia alla Republica di Genova, scritta da lui con ogni verità, come quello, che si è trovato sempre presente ad ogni successo, et il tutto notava, con risolutione di formarne questo sì copioso scritto, non per altro, solamenti, sperando, che debba durare tanto, che in l’ave- nire vada nelle mani di suoi patrioti, et imparino a governare bene la Republica, e con quiete, che si stima, che non vi possa essere felicità maggiore come a vivere in libertà, e se i Cittadini usarano quella prudenza, e moderatione come usa chi governa hora, tengo per sicuro, che Dio farà la gratia, che la libertà, e la pace abitarà sempre con noi. Il che si conceda da Dio nostro Signore, e la Sua Madre Santissima. Genova 24 mag- gio dell’anno di nostra salute 1634. All’Ill.mo Signore, il Signor Agostino di Steffano Pallavicino, uno delli Procuratori del Palagio, nostro Signore Oss.mo. Non tanto il Duca di Savoia havea saputo, che le due terze parti del Feudo di Zuccarello, che egli havea compro da quel Marchese,7 che dall’Imperadore,8 e dal Suo Aulico Consiglio erano state dichiarate devo- lute all’Imperio, per haverle il Marchese vendute senza licenza. Ma che ancora erano state dall’Imperadore vendute alla Republica Genovese. Passioni che l’una et l’altra gli havevano penetrato sino all’anima, e lo dimostrava apertamenti, dolendoci agramenti dell’Imperadore stesso, il quale havesse tenuto sì poco conto di lui, che senza fargline motu veruno, havesse fatto tale dichiaratione. Ma più di tutti gli altri si doleva della Republica Genovese, che senza alcuno rispetto attendesse a questa vendita. Con l’Imperadore egli non se ne querelò altrimenti, ma bene lo fece con la Republica, alla quale scrisse una littera molto risentita, e gli la mandò con corriero, ordinandole che ne instasse la risposta, che le fu fatta, ma con ogni modestia, dimostrando che l’Imperadore gli havea fatto tale vendita, e se in cosa veruna si dovea dolere si dolesse dall’Imperadore lui, perché gli haverebbe dato sodisfattione. Dell’una, e dell’altra littera pongo qui la pro- posta e la risposta: Ser.mo Signore, Io mi rendo certo, che a V.S., e SS.rie Ill.me sia noto il contrato, che io feci già col fu Marchese di Bagnasco per le cose di Zuccarello, sotto il beneplacito dell’Imperadore mio Signore, e la soddisfattione del suo contracambio, che egli ha goduto pacifcamente per trenta anni, e se bene poi per diversi accidenti di guerra, et altri, io non ho potuto perseguire questo negotio appresso S.M.Cesarea, non credo però che per questo siano deteriorate le mie ragioni, né abbreviata la mano di Cesare a farmi, e giustitia, e gratia insieme. E perché ho inteso che V.S. e SS.rie Ill.me sono entrate in trattato di havere quei luoghi, ho giudicato bene, oltre gli ufci già fatti dall’am- basciatore Cattolico così da me pregato di mettere loro di nuovo in consideratione queste mie ragioni, accioché sapino l’aggravio che mi si verrebbe a fare, quando si pensasse di privarmene, e le cause mi si darebbero e di dolermine, e di risentirmene vivamenti. Confdo però che la loro prudenza non mi vorrà mettere in questa neces- sità, sapendo quanto sia ognuno obligato di conservare le sue ragioni, et a V.S. e SS.rie Ill.me auguro con questo ogni felicità dal Signore. Da Rivoli, li 8 di Aprile 1624. A servigi di V. S.tà e SS.rie Ill.me, Il Duca di Savoia Carlo Emanuele.

Ser.mo Signore, Fu sempre tale l’instituto della nostra Republica, che se bene il Feudo di Zuccarello è quasi da ogni parte circon- dato dal nostro dominio, oltre il censo compro dal Marchese Scipione Carretto sino l’anno 1576 con l’assenso Cesareo confrmato, non habbiamo però rivolto l’animo all’acquisto di esso, salvo quando si è inteso, che la Maestà Cesarea per sua diffnitiva sentenza ha dichiarato essere devoluto alla Sua Camera Imperiale, et imposto perpetuo silentio a pretensori, e vedendosi risoluta volontà in S.M.C. di alienarlo, et esservi altri aspiranti. Hab- biamo stimato obligo nostro di procurarne l’acquisto, e che facendolo trattare in quella Corte publicamente, non se ne possa Principe veruno dolere. Ci spiace hora il sentimento che V.A. con la lettera sua di otto del presente ce ne dimostra, come che continuando all’antico desiderio de nostri maggiori, gustiamo di poterle dare sempre ogni sodisfattione. Stimiamo però che V.A. come Principe di somma prudenza, e bontà, conoscendo di non ha- vere giusta causa di dolersi di noi, resterà sodisfatta di questa nostra attione, e darà luogo a che si conservi la

7. Da Gio.Antonio Del Carretto di Balestrino (1567) e dai suoi eredi (1622). 8. Ferdinando II d’Asburgo (1619-37). Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 5

buona volontà, che habbiamo havuto sempre di servir a V.A. alla quale augurando dal Signore compita felicità. Di Genova, a 17 Aprile 1624. Il Duce, e Governatori della Republica di Genova. Ma la Rep.ca, fatta la risposta, punto non curò di dare al Duca maggiore di soddisfattione, ma andava tirando avanti la compra, la quale dopo alcune difcultà fraposte, fnalmente si conchiuse, instandola non poco9 Monsignore Giovanni Battista Salvago, Vescovo di Serezana, Nontio di Sua Santità in quella Corte,10 e Lelio Levanto agente della Republica, amendue Nobili Genovesi, che all’hora si trovavano personalmente in Viena.11 Onde il Duca di Savoia, vedendosi così poco stimare, e deluso insieme, ne concepì maggiore sdegno, e pare che all’hora giurasse di volersi risentire vivamente, come havea scritto nella sua lettera. Ma se bene questo risentimento è stato gagliardo e fero, conciosia che la Republica Genovese è stata in forse di perdere la sua libertà, e però con l’aiuto di Dio, e della Sua Madre, e San Bernardo, nello stato che era prima di libertà e con speranza certa che lo stesso Dio la debba protegere. Egli è vero, che se12 noi ne hab- biamo sentito danno infnito, peggio assai ne è stato il Duca di Savoia, il quale ha perduto ogni riputatione, e quasi tutto lo Stato. Mentre si stava studiando per rispondere alla lettera del Duca di Savoia, avenne la notte passata con corriero spedito dal Podestà di Albenga, che avisava il Senato, come il Duca di Savoia molto nascostamente, et alla sflata, molta soldatesca havea inviato verso il luogo di Garessi,13 temendosi che con essa voglia impadronirsi del Feudo di Zuccarello e guernirlo e cacciarne il presidio della Republica. Onde perché non gli riuscisse, si è mandato molti soldati Corsi, con ordine procurino di entrare nella terra, e veramente nel Castello, e lo diffendino a tutto loro potere, parendo che riuscendo questo al Duca ogni lite restasse terminata, poiché egli l’haverebbe difesa con nuove fortifcationi malagevoli da espugnare, e non […] altro solo da la lettera del Duca di Savoia non si era pubblica a […] della Città, singolarmente al Consi- glietto, al quale è solito trattarsi de i più importanti affari che siano nella Republica. Il Senato, per prendere un tanto peso sopra le sue spale, trattò e fece leggere essa lettera a tutto il Consiglio nuovo et ambidua tal- mente deliberò di non cedere punto nell’affare de Zuccarello, ma difenderlo come cosa propria. Giovedì 28 aprile 1624. Apparisse chiaro, che i particolari trattati con segretezza grande nel Consi- glio piccolo, al quale si è letto la lettera scritta dal Duca di Savoia, e la risposta fattali, e sopra di essa si è longamente discorso, e poi si è deliberato di non cedere punto il luogo di Zuccarello al Duca di Savoia, ma rittenerlo, e quando bisognerà diffenderlo con l’armi, si facia. Non potendosi il Duca dolere di noi in guisa veruna, ma dell’Imperadore, se però è vero ciò che dice lui, la Republica ha compro esso Feudo dall’Im- peradore, come devoluto alla Camera Imperiale, ne deve cercare munirlo bene [e] conservarsi al possesso. E perché grandemente si temeva che con quella minaccia fatta il Duca di Savoia non suscitasse moto nella Riviera occidentale come più aperta, furono eletti con titolo di commissari di arme Gerolamo di Marc’An- tonio Spinola in Ventimiglia, e Niccolò di Sinibaldo in Albenga, et ambidue si è dato soldatesca, et ogni altra cosa necessaria alla difesa di essi luoghi. Come si è narrato sopra, la Rep.ca havea ottenuto la in- vestitura del luogo di Zuccarello, con pagare all’Imperadore cento sessanta mila talari.14 E perché già sono15 stipulate le scritture, e sborsata una parte degli danari, che l’altra parte conforme il concordato, si pagherà, havuto, che ne habbia la Republica il possesso, il quale l’Imperadore per non tardare molto a prenderli essi danari tanto da lui desiderati, ha qui spedito Piero Maria Gonzaga16 con titolo di suo Commissario, il quale ha palesato havere ordine dall’Imperadore suo Signore, [che] dare deve esso questo possesso, e di poi di esser dimorato qui dua giorni, allogiato, e spezato in nome publico con molta splendidezza, si è partito con una Galea della Republica, e sbarcato alla piaggia di Albenga, e poi itossene a Zuccarello, e lo giorno stesso ha consignato il luogo a Niccolò di Sinibaldo Doria, che lo ha preso a nome della Republica. Fatto questo poi esso Commessario è ritornato qua, essendovi rimasto il Doria, havendovi lasciato Paris Fiesco con molta soldatesca per Podestà. Lunedì 29 Aprile. Se bene il Gran Consiglio non intervenne mai in fare compra di luoghi, ma sola- mente in deliberare i danari per lo pagamento. Non ostante il Senato per dare sodisfattione ad esso, come

9. Aiutandola. 10. Gio.Battista Salvago, vescovo di Sarzana, nunzio a Vienna, Graz e Praga. 11. Vienna. 12. “Bene la Republica ha”. 13. Garessio. 14. Talleri. 15. “Erano state”. 16. Pirro Maria Gonzaga di Vescovado. 6 «In forse di perdere la libertà»

ha fatto al Consiglio piccolo, l’ha congregato hoggi, e per mezo del Segretario ha dato distinto ragguaglio della compra di Zuccarello, e di tutte l’altre circostanze seguite, e del possesso, che si era preso, il quale, era stato deliberato di non cedere punto al Duca di Savoia, ma di ritenerlo, e difenderlo. Sabbato 4 di Maggio 1624. Pirro Maria Gonzaga, Commessario imperiale, dopo di havere havuto in dono dalla Republica tanta argentaria in valuta di mile scuti17 di argento, si è partito, e ritornato a casa sua, lo stesso il suo Segretario che ha havuto ancora lui una cadena18 di oro di ducento scuti. Lunedì 20 maggio 1624. Quei di Zuccarello hanno sentito tanto gusto, e contento di essere sudditi della Rep.ca che hanno qui mandato quattro loro huomini de i più autorevoli a giurare l’ubbedienza alla Rep.ca, si come hanno fatto con qualche solenità avanti il Senato, il quale gli ha concesso molti privilegi, e gratie, singularmente, che si mandi uno Podestà, che sia nobile della Rep.ca. Giovedì 30 maggio 1624. La Casa di San Giorgio ha concesso alla Rep.ca il pottere fondare seicento luoghi, con che però trovi il provento. Commessario di Arme invece degli scusati, è stato eletto Giovanni Agostino di Giulio Centurione. Mercoledì 28 agosto 1624. Tutti i ministri Spagnuoli che sono in Italia, e singularmente l’ambascia- tore qui residente, tuttavia instanno coloro che governano la Rep.ca che si munisca la Città, e le Riviere di ogni apparato di guerra, perché eglino hanno nove che in Francia si apparecchiano eserciti, et altre cose per espugnare Città, e che in Torino si fa lo stesso, e che si crede fra di loro vi sia lega, et unione, non tanto per distruggere Genova, ma la Monarchia di Spagnuoli. Siami lecito fare un poco di digrittione e dire in che cecità stavano molti primarij Cittadini di Genova, che vedendo che chi governava la Rep.ca volea provedere la Città de soldati, tutto dì andavano a Palagio, e ne i Circoli de i Cittadini gridavano, che non si dovea spendere danari in questo, conciosia che era uno get- tarli al Mare, opinione che era stimata da gli altri erronea. Ma questi non erano uditi. Non ostante, il Senato deliberò di mandare due dell’ordine [dei] Procuratori, i quali furono Giorgio di Domenico Centurione, e Bernardo di Lionardo Clavarezza a rivedere la Fortezza di Savona, e munirla di quelle cose necessarie, che fussero parute bisognevoli per resistere a qualunque impeto, che avenisse da chi si voglia. Martedì primo di ottobre 1624. La Casa di San Giorgio, è sempre stata pronta a soccorrere la Rep.ca in tutti i bisogni, si come ha fatto hoggi nel suo Consiglio, perché [h]a concesso ad essa, possa aumentare la mina del sale per soldi venti perché con essi si possa pagare il provento a coloro comprarono de i quattro mila luoghi fondati. Martedì 8 ottobre 1624. È stato mandato per provedere meglio, e che sicurezza certa facia, trecento soldati a Savona, e per ripartirli è stato eletto Commessario di Arme Niccolò di Sinibaldo Doria, oltre di ciò sono stati eletti Capitani di ducento fanti per uno Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli, Luca di Gasparo Spinola, Carlo Guasco. I quali soldati si manderanno a Savona a guardare quella Città. È stato anche deli- berato mandarli tre galee, le quali alla continua dimorano in quel porto, conciosia che di guardarlo bene si assicura il rimanente della Riviera Occidentale. Si sono secondo l’uso antico, numero di Cittadini eletti che tassino non tanto l’azende de Nobili, ma di tutti gli altri. Ringratiato sia Dio, che fnalmente chi governa la Rep.ca, non attendendo più come faceva prima, alla temerità, et ignoranza di coloro che non volevano moversi punto in tanti preparamenti, che si fanno in Fran- cia, et in Torino, si è destata dal grave sonno, nel quale era immersa, perché ha cominciato a credere, essi preparamenti essere fatti per noi soli, e non per altri, onde per ostarli ha eletto Carlo di Paulo Sauli, Silvestro di Alessandro, e Niccolò di Agostino amendue Grimaldi, Tomaso Ragio, Gio.Tomaso di Gio.Paulo Invrea, Giorgio Maria di Tomaso Lercaro, Giorgio di Ambrosio Doria, Carlo di Arigo Salvagio, e Giacomo Filippo di Agostino Durazzo, e datoli titolo di Capitani, e facino ducento soldati per uno, volendosene servire per guardia della Città. Giulio di Gio.Battista Pallavicino con titolo di Nobile è stato eletto perché vada a residere a Milano appresso la persona del Duca di Feria Governatore di quello stato, accioche con la sua singulare destrezza, e prudenza procuri di tenerlo bene affetto verso la Rep.ca, e vada insieme procurando alla giornata di sapere i pensieri, e gli apparecchi di nostri nemici. La Rep.ca oltre i Capitani eletti, ne ha fatto elettione di sessanta altri tutti nobili, con assignarli cento cinquanta Artegiani, i quali habbino le loro armi, et a vicenda vadino di notte tempo rolando la Città, ac-

17. Scudi. 18. Catena. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 7

cioche non seguino moti. I nomi di Capitani sono: Luciano di Carlo, Paulo di Giovanni, Giulio Cesare di Giacomo Maria, Steffano di Napolione Spinoli; Giovanni Battista di Piero, Tomaso di Giovanni Francesco, Giovanni Benedetto di Carlo, Gio.Steffano di Gerolamo Spinoli; Bartolomeo di Oratio Imperiale; Antonio di Niccolò, Filippo di Francesco, Paulo Gerolamo Pallavicino; Gio.Niccolò di Agostino, Gio.Battista, Gia- como, Domenico di Federigo di Franchi; Domenico, Gio.Camillo di Steffano, Paulo Andrea di Gerolamo, Gio.Battista, Vincenzo di Gerolamo, Pietro Battista di Steffano Doria; Gio.Tomaso di Giacomo Airolo; Cesare di Piero Durazzo; Giuseppe Squarciafco; Gio.Bernardo di Gio.Battista Frugone; Gio.Francesco di Steffano, Pagano di Raffaello Torre; Niccolò di Giacomo Lomellino; Antonio Maria Sopranis; Gioffredo di Gio.Giorgio di Marino; Lorenzo di Giacomo, Luca, Gio.Bernardo, Gio.Giorgio Guistiniani; Urbano di Matteo Senaregha; Pietro Paulo di Gio.Tomaso Onza; Gio.Gerolamo di Ambrosio, Gio.Andrea di Tomaso, Niccolò di Battista, Gio.Battista di Giacomo Gentili; Steffano di Giovanni Francesco, Bartolomeo Balbi; Gio.Battista di Gregorio Garbarino; Tomaso di Gerolamo Chiavari; Benedetto di Gio.Agostino, Agapito di Filippo Centurioni; Gianettino di Gio. Giacomo, Gio. Battista di Giovanni Giacomo, Tomaso di Francesco, Giacomo di Agostino, Gio.Battista di Ansaldo, Gio. Maria di Gerolamo Grimaldi; Cornelio Ferrari; Anto- nio, Carlo Invrea; Pietro Antonio Moneglia; Gio.Battista Mercanti; Franco Merello; Niccolò di Gerolamo Chiesa; Steffano di Tomaso Gentile; Vincenzo Sauli; Ansaldo di Ansaldo Mari; Francesco Benigassi; Ge- rolamo Rivarola; Francesco di ; Leonardo di Marc’Antonio Ravaschiero; Antoniotto di Gio. Battista Invrea; Niccolò di Arigo Salvago; Gio.Antonio di Giacomo Ragio. È stata accettata la generosa oblatione fatta al Senato da Piero Maria di , il quale pro- mette di assoldare a sue proprie spese ducento soldati, e servire la Rep.ca in difesa sua sino cessino questi moti presenti. Oltre i Capitani di sopra eletti, ne sono stati eletti dua altri: Agostino Biassa della Specie, et Angelo Maria Petriccioli di Lerici. Giovedì 5 dicembre 1624. Oltre le provigioni già state fatte, ne è stata fatta un’altra di mandare, si come si mandò in effetto Filippo di Francesco Pallavicino, Cesare di Piero Durazzo, e Niccolò di Gio.Bat- tista Saluzzo nella Riviera Orientale a descrivere tre mila soldati, con ordine ancora che essi si comprino armi, e stiano preparati a venire a Genova quando saranno chiamati; si è mandato parimenti Pantaleo di Bartolomeo Monsa, Giacomo di Benedetto Moneglia, e Gio.Maria di Gio. a Lucca a con- durre qua otto cento soldati concessi da quei signori in aiuto nostro. Il principe Doria per seguitare le vestigie de suoi Avi, e Padre, ha fatto assoldare quattro cento soldati a sue proprie spese, e consegnatili alla diffesa della Rep.ca, et hoggi hanno dato mostra; Capi de quali sono Gio.Francesco di Pelegro Doria, e l’altro il Barbetta da U[n]gheria. L’altro anno del 1625, se bene il Senato con ogni possibile diligenza provedeva ad ogni cosa, con provedere di soldatesca, et in fortifcare la Città, ma anche di tenere a freno i Popolari, et alcuni altri Citta- dini benché nobili, con carcerarli, non di meno, essendo aumentate grandemente l’altre faccende ancora, e conoscendo che in l’avenire erano per aumentare di vantaggio. Havendo sino del mese di ottobre dell’anno passato fatta elettione di Cinque dell’ordine Senatorio, accioche anche essi come il Senato provedessero dove fosse più necessario, parve a tutti che non si mancasse di fare altra elettione di Cinque pure dell’ordine Senatorio, che havessero la stessa autorità Regia che havevano i passati. Gli eletti all’hora: Gio.Battista di Gio.Battista Saluzzo, Ottavio di Lorenzo Sauli, Francesco di Agostino Mari, Lionardo di Battista Torre, e Marc’Antonio di . E gli eletti hora furono Opitio di Michele Spinola, Steffano di Piero Spi- nola, Arigo di Gerolamo de Franchi, Giorgio di Domenico Centurione, e Bernardo di Lionardo Clavarezza. Questi, essendo pervenuto all’orecchie loro, come un posto di verso Santa Margarita, luogo del Golfo di Rapallo, vi era un ridotto ove vi si poteva con molta agevolezza, e sicuramente sbarcare genti da guerra, le quali poi a piacere loro hariano potuto scorrere tutta la Riviera Orientale, proposta la cosa nel Senato, fu risoluto, e veramente con molta prudenza, di mandarvi quattro Nobili, i quali vedessero esso posto, e trovato essere vero ciò che era stato riferto, si considerasse in che guisa fortifcare si dovea, per torre via tale occasione a nemici. Gli eletti furono Oratio di Sebastiano Lercaro, Arigo di Accelino Salvago, Piero Francesco di , e Gio.Luca di Gerolamo Chiavari. Come si è narato sopra, la Rep.ca ha compro dall’Imperadore tre quarte parti del feudo di Zuccarello, altro non mancava per haverlo tutto, che il Marchese Ottavio Carretto, Signore della terza parte, si risolves- se de venderlo alla Rep.ca. La quale cosa ha egli fatto con pagarli quaranta mila pezzi da otto reali. E perché non si havea la licenza, e si temeva, che il Duca di Savoia con le arti, e stratagemme non le facesse cambiare 8 «In forse di perdere la libertà»

questa risolutione di vendere la sua parte. Perché questo non seguisse, fu risoluto farlo venire ad abitare a Genova, con prometterli mentre si stava havere l’investitura di Lamagno, di darli cento scuti d’oro il mese, e più pagarli la casa, ove abitava. Il che egli fece, et sempre ha osservato la sua parola, senza difcultà veru- na. Giulio di Bendineli Sauli è stato mandato commessario di Arme nella Città di Albenga. A 15 gennaio 1625. I quattro eletti per andare a Santa Margarita, luogho del Golfo di Rapallo, sono ri- tornati alla Città, et andati nel Senato, hanno riferto havere veduto il sito, e posto in quello Golfo, et haverlo trovato capace di molti navili, e di starvi con molta sicurezza, quando da nemici fussi occupato, e così il posto da fortifcarsi, che adunque stimeriano fussi bene sin di adesso fortifcarlo con un Torrione da potervi stare cinquanta soldati, e quattro pezzi di artiglieria, la qual cosa il Senato aderì in tutto al parere loro, e si darà principio. L’Ill.mo Giorgio di Domenico Centurione, e Bernardo Clavarezza, ambidua dell’ordine [dei] Procu- ratori, sono stati dal Senato mandati un’altra volta a Savona perché vedino le fortifcationi, che si fanno a quello Castello, e quelle ancora che si fanno nella Città. Eseguito questo particulare si trasferirano alla Pieve, et al Porto per lo stesso effetto. Paulo Andrea di Gerolamo Doria, Niccolò di Gio.Battista Saluzzo, e Casare di Piero Durazzo, per comandamento del Senato, vanno nella Riviera Orientale a descrivere oltre li già descritti sei mila soldati. Giulio di Gio.Battista Pallavicino e Lucio di Bartolomeo Moneglia mandati per lo stesso effetto nelle Valli di Bisagno, e Poncevera a rolare mile soldati, per servirsene quando sarà bisogno. Sabbato primo di Febbraio 1625. Poco valerebbe l’assoldare soldati, se poi non vi fussero danari da pagarli. Onde la Rep.ca, perché non si venga in tale inconveniente, ha eletti Gio.Steffano di Niccolò Doria, et Opitio di Michele Spinola ambidua dell’ordine Senatorio, Piero di Giacomo Durazzo, e Do- menico di Benedetto Centurione dell’ordine Procuratorio, Gio.Battista di Domenico Doria, Gerolamo di Filippo Sauli, Gio.Andrea di Tobia Pallavicino, Steffano di Piero Spinola, Giacomo di Agostino Saluzzo, et Lucio di Bartolomeo Moneglia, perché consultino ove si possa trovare strada di havere somma di da- nari per suplire alle tante spese, che si vanno facendo, non potendosi tenere la borsa serrata, ma aperta ogni momento. Questo aviene in ogni Principe che ha guerra, ma molto più nelle Repubbliche, dove si maneggia le cose per mano di molti. Già cominciavano ad apparire segnali, che gli apparecchi di guerra, che si facevano in Francia, et in Torino. Quegli dal Re di Francia, e questi dal Duca di Savoia era tutti contro di noi, onde quei Cittadini, i quali erano nella Città de primarij, che sempre havevano disuaso a fare novità veruna, et a spendere danari per riparare a tali incontri, i quali dicevano non essere afferma- tivamente per la Rep.ca, conoscendo hora quanto male havevano saputo discernere quello poteva essere, ne i Consigli publici con molta facilità aderivano a fare ogni provigione, come fecero quando si trattò di mandare, come si mandò in effetto, Gio.Luca di Gerolamo Chiavari [a] Roma al Pontefce a pregarlo, che come Padre universale volesse interporsi fra noi, e Savoia a compore la pace, e quando pure esso Savoia non aderisse a questo, suplicarlo a volere prendere la parte nostra, come quella che era più vicina ad essere oppressa da una potenza tanto grande, come era il Re di Francia, l’esercito del quale era pieno di scelerata gente, et Heretica, che haveria infettata tutta la Italia. Ma se queste ragioni non erano vale- voli, che si adducessero quelle, che niuna Città del mondo poteva dedure, che Genova era grandemente bene merita di Santa Chiesa per haverla difesa dalle oppressioni di Federigo primo, e Federigo secondo, ambidue Imperadori Romani, i quali come arabbiati cani volevano morderla con i loro acuti denti, et anichinarla affatto, Testimonii ne sariano Gregorio Nono e Innocenzo quarto, amdidua Pontifci, e tanti altri, come si può sapere dalle storie di quei tempi. Giunse il Chiavari in Roma, et il Pontefce lo vide volentieri. Egli è vero che non vole prendersi briga veruna, ne sopra la pace, ne sopra la guerra, si che quello l’ambasciadore chiedette, fu sempre trattenuto con parole amorevoli. L’ambasciadore del Re di Spagna residente appresso la Rep.ca è stato hoggi nel Senato, e per parte del suo Signore ha offerto ogni potere suo in diffendere la sua libertà; è stato ringratiato. Tratanto parendo al Senato che la guardia di Svizzeri che era in Genova, la quale havea cura di tutte le porte della Città escluso il Palagio, e la Porta di San Tomaso, havesse troppi luoghi, furono levati via, e datoli solamente quella degli Archi, e quella dell’Acqua Sola; all’altri vi sono stati posti Paeselli Genovesi. Don Carlo Doria, fgliuolo del Principe Gioanni Andrea, che per suoi particolari disegni si era con tutta la sua casa retirato a stare di stanza a Lovano, luogo di suo Padre, che è nella Riviera Occidentale, hebbe ordine da Sua Maestà di andare a Genova, e di non partirsi, che non fussi terminata la guerra. Nel mese di Febbraio si congregò in Genova il Gran Consiglio, e fu in esso conferta ogni autorità Regia al Senato di diffendere con l’armi il nostro Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 9

stato contro chi volesse oprimerlo, et etiandio contro di essi, andare con l’armi ne i suoi proprij stati, e farli guerra in quel migliore modo a lui paresse. Benedetto di Pasquale Spinola è stato mandato con titolo di Commessario ne i luoghi di Ottagio, Gavi et Nove. Nella città sono stati deputati otto Nobili, perché de notte tempo, e repartitamenti vadino visitando tutti i posti guardati da soldati per conoscere se le guardie si fanno con diligenza. Gli eletti furono Giorgio Maria di Tomaso Lercaro, Agostino di Francesco Mari, Niccolò di Agostino Grimaldo, Andrea di Gerolamo Chiesa, Giovanni Battista di Giulio Rovere, Antonio di Niccolò Pallavicino, Giovanni Niccolò di Agostino De Franchi, e Niccolò di Tomaso Pallavicino. Non tutti accettarono questa carica, ma vi furono di quegli che per codardia la quale confessarono liberamente havere, furono scusati, e dato ordine, che li trenta Capitani ultimamente eletti suplissero loro. Del medesimo mese fu deliberato dal Senato di mandare due dell’ordine Procuratorio a stantiare a Savona, perché con la soldatescha che vi è, guardino quella Città, temendosi assai che il nemico, che pensa assalirsi, prima vada a detta Città, e la oprima, e poi venga a Genova. I dua eletti furono Giorgio di Domenico Centurione, e Arigo di Gerolamo de Franchi, i quali senza niuna dimora vi an- darono. Egli è vero, che poco vi stettero, convenne ritornassero a Genova, poiché si conobbe che il nemico non prendeva quella strada ma quella di Ovada, e Nove. Eletti Commessarij di Arme Barnabe Giustiniano, e Luigi di Barnabe Centurione, quegli a Voltri e questi a Ovada, con autorità di comandare alle Cerne. Luca di Gasparo Spinola, mandato Commessario di arme in Savona, e Steffano di Marco Doria a Ven- timiglia. Ma perché il sospetto che si havea della venuta a Genova degli dua eserciti Francese e Savoiardo andava di giorno in giorno crescendo, e conoscendosi anche, che se da essi fussi stato guadagnato il posto della Chiesa di San Benigno, nominato volgarmente il Capo di Faro, il rimanente, e forse la Città stessa, haverebbe corso grande rischio di perdersi, fu col parere de periti risoluto di farvi un Forte di terra, e fassine che soprastesse alla strada dritta, e la diffendesse con guardia di cento soldati, i quali vi dimorassero alla continua. Ma perché si sapeva che essi nemici con esso loro conducevano numero di Artiglieria grossa, e che facilmente haverebbono con esso battagliato la Città, come che si potesse fare dagli monti eminenti che havrebbono gettata a terra ogni casa, fu parimenti deliberato di trincerare tutte l’eminenze cominciando dalla Lanterna, poi a S.Benigno, Castellozzo,19 e Bisagno. Il che fu con molta prestezza fatto come che vi lavorassero grande numero di operari. E perché s’intendeva essere in Nove, Ovada et Ottaggio da quattro mila mine di grano ivi condotti da mercanti per lo procaccio, fu dato comandamento ad essi, che si condu- cessero a Genova, e se non l’havessero fatto, si facesse a loro spese. Il che essi veduto la ferma risolutione del Senato, l’ha fatto condurre a Genova. Gli huomini di Ottaggio, conoscendo anche essi chiaramente che venendo i dua eserciti nemici sariano stati i primi a provare la tempesta, la quale saria stata gagliarda, si sono con licenza del Senato di Genova radunati ad una, e riparato alle mura, et al Castello, che sopra sta al luogo, e pensano diffendersi in quella guisa potrano. Quei del luogo di Nove hanno fatto il medesimo. Egli è vero che il Senato perché il Monastero di Monache, che la maggiore parte sono Nobili Genovesi, che è in Nove, non sia nutrimento di lupi rapaci, ha ordinato venghino a Genova, e siano ripartite ne i Monasteri dell’ordine di San Francesco, non stimandole sicure in Nove, e perché siano condotte qua con ogni mode- stia, ne è stato dato cura particolare a tre Nobili attempati, i quali o vi andarono loro stessi, o vi manderano per accompagnarle, persone della medesima qualità che essi sono. I tre eletti furono Giacomo di Agostino Saluzzo, Gio.Francesco di Antonio Brignole, e Giacomo di Filippo Lomellino. Finalmente il Pontefce, che fu ad hora era spettatore delle nostre sciaure, che cominciavano ad appa- rire, si è destato del sonno, se bene tardamente per noi, conciosia che è qui venuto per andare in Francia Monsignore Salviati Fiorentino, il quale nel partire suo ha lasciato qui uno Breve che il medesimo Pontefce scrive alla Rep.ca dandole ragguaglio come mandò questo Prelato in Francia a trattare pace fra le corone di Francia, e Spagna, rimedio, che può essere giovi, ma non a noi, che già abbiamo il nemico potente oltra misura alle spalle, che grida da per tutto volere fare uccisioni, e saccheggiamenti a guisa di Barbari. Siamo ai sei del mese di Marzo dell’anno 1625. Homai da Francesi, e da Savoiardi, non si caminava più mascaratamente, ma con volto scoperto, poiché si è saputo certo, che uniti tutti dua gl’eserciti, capo di quello di Francia Monsù della Digueres, e di quello di Savoia il Duca stesso, che se ne vengono con qua- ranta mila soldati, e quattro mila cavalli verso Ovada, al quale luogo non hanno ancora mostrato animo hostile, ma stanno allogiati nei Castelli vicini. Egli è vero che poi si è saputo come agli otto di questo mese Ovada se gli era reso, e dato in potere suo senza conditione veruna. Tratanto il Senato non mancando a se stesso attendeva a provedere a ogni cosa, singularmente, che i Popolari, che in qualche occasione si ben

19. Castellaccio. 10 «In forse di perdere la libertà»

leggera, si erano mostrati poco bene affetti alla nobiltà, vedendo essa intemorita per la subita venuta degli eserciti nemici, non rumoreggiassero, ne andava, quando vedeva che alzavano le Cerne, a farli prendere, e cacciare nelle carceri, il quale rimedio, come si vede poi, fu effcacissimo mezo a fare che non seguissero moti, come si era grandemente temuto. Provide ancora che di nuovo si fortifcasse la Bastia di Promontorio, e di Peraldo, e perché si esequisse prestamente, e bene, ne fu dato cura a Gianettino di Giovanni Spinola, et a Niccolò di Tomaso Pallavicino, i quali esequirono la loro commissione meglio che poterono. Con l’eser- cito savoiardo vi è Bartomelino Sartorio, costui è del luogo della Croce, venuto ad abitare a Genova, ove havea fatto infniti omicidij, i quali gli erano riusciti così facilmente, e senza gastigo, che gli havevano dato animo di fare anche questa altra sceleratezza di prendere l’armi contro la Rep.ca et il Duca di Savoia l’havea veduto volentieri, e lo havea fatto Coronello di Cinque cento soldati, pensando servirsene per i passi per agevolarsi la strada sicuro a venire a Genova. Quando furono certifcati i Genovesi che gli eserciti Francese, et Savoiardo venivano a nostri danni, risolsimo di chiamare in iuditio San Giovanni Battista, et San Bernar- do, quegli per essere qua le sue Santissime Ceneri, e questi perché mentre visse con una sua lettera scritta alla Rep.ca promesse di pregare mai sempre per noi, che essendo hora l’occasione così urgente di essere assaliti da sì numerosi eserciti, che vogliano l’uno, e l’altro diffenderci perché da noi stessi non potiamo. E veramente da quello si è veduto poi, è stato acertato lo interpellare due santi sì gloriosi, perché senza dubi- tatione veruna il loro aiuto, e quello ancora della Santissima Vergine, è stato sì effcace, che ci ha difesso da ogni malo incontro. Quella Artiglieria che hora è nella Città, che è in numero di nove cento pezzi, si è posta alle mura così di terra, come di Mare con ordine, secondo la regula de periti huomini, si sono anche posti nelle strade vicine al Palagio rastelli di legno, accioche da gente maligna non si adoperi il Petardo per man- dare con questo mezo il Palagio all’aria, e porre il tutto in confusione. Dice l’ecclesiastico, che la elemosi- na estingue il peccato, il peccato senza dubbio genera il fagello, e la tribulatione agli huomini, si chieggia a Dio misericordia de peccati, e si facia elemosina, che restarano estinti essi fagelli, e tribulationi, e vi sarà la gratia di Dio, che produce tutti i beni. Così credete il Senato di Genova di torsi il presente fagello, perché diede ripartitamente cinquanta mila lire al magistrato di Poveri, et a Protettori dell’Ospidale detto di Pammatone,20 perché il primo potesse più largamente suffragare i Poveri, l’altro potesse pascere non tanto gli amalati, ma con più lor abondanza ricevergli. Tutte le suplicationi, che il Senato di Genova fece a Dio, et a Suoi Santi in questa occasione di guerra, furono con molta facilità, et generosità esaudite, conciosia che il Digueres, et il Duca di Savoia, i quali erano solamenti venuti per annichilarsi, restarono confusi, non havendo niuno di loro potuto effetuare i loro malvagi pensieri, perché si sa certo, che non ritornarono alle case loro un terzo della gente, che era venuta la prima volta, conciosia, che una parte morì di malatia, l’altra fu uccisa da Villani, i quali andavano alla caccia di loro, come di lepri. Niccolò di Sinibaldo Doria, che era ritornato nella Città, di nuovo fu mandato a guardare il passo di Rosiglione, il quale è tanto stretto che si può con poca gente guardare, e diffendere. Per l’ostinatione di quei Cittadini che non havevano voluto cre- dere, che gli eserciti Francesi, e Savoiardi, venivano a danni di Genova, non si era mai proveduto di Capo, che guidasse gli affarij della guerra. Onde le cose andavano in confusione, et erano per andarvi di vantag- gio, se non si elegeva nella ragunata del Consiglietto, con cinque cento scuti di argento il mese Gio.Gero- lamo di Piero Francesco Doria, gentilhuomo che per avanti era molti, e molti anni stato alle guerre di Fiandra, e di Italia, ove havea amparato assai bene il modo di guerregiare. Egli come eletto fu, accettò la carica, e cominciò ad esercitarla. Questa provigione fatta assai all’improviso, diede sodisfattione a tutti, se bene vi erano di quegli, che dicevano, che non era ragione dare questa carica a Genovese, ma a forastiero, il quale di fresco fussi stato alle guerre di Fiandra. Ma l’importanza era, che non si poteva dare gusto a tutti perché all’hora che il mondo era in tanto moto, singularmente l’Italia di tali huomini vi era penuria grande. La Domenica vegnente, che fu alli sedici del mese di Marzo 1625, senza penetrarsi prima cosa veruna, questa mattina avanti l’hora del desinare, dua barrigelli ambidua capi di Birri vennero in Banchi, e trovandovi Vincenzo di Piero Francesco di Marino, accostatissi a lui in atto di volerli parlare, lo presero, e con molta cautela lo condussero prigione a Palagio, ove fu posto in carcere segreta. Tale nova publicata per Genova recò non poca meraviglia, ognuno dicendo la sua. Egli è vero che niuno acertava la cagione. Le Galanterie per non dire tradimenti fatti da costui verso la sua patria in compagnia di Claudio di Marino, si narerano a suo tempo, e quando egli per tale delito sarà gastigato, parendomi ragionevole raccontarle a parte a parte, accioche siano note a posteri. È stata per ordine del Senato publicata grida, che tutti coloro, che non sono originari Genovesi, debbino andare a Palagio a farsi scrivere, e dire con verità di che paese

20. Pammontone. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 11

sono, e che fanno a Genova. E chi per aventura sarà trovato bugiardo, sarà mandato alla Galea per dieci anni. Opitio di Michele Spinola, e Giovanni Battista Saluzzo, ambidua Senatori con titolo di Commessari furono deputati all’esame di Vincenzo di Marino. Eletti tre Commessari mandati uno ad Ottaggio, che fu Marc’Antonio di Benedetto Gentile, l’altro in Poncevera, che fu Cornelio Ferrari, e il terzo per Rosiglione, Giovanni Antonio di Vincenzo Durazzo; tutti tre per provedere a i viveri de soldati, che dimoravano alla guardia de sudetti luoghi. Gio.Ambrosio Doria fu eletto Generale dell’Artiglieria. Mentre si facevano que- ste provigioni, si hebbe novella, che i nemici, havendo preso Ovada, si erano aviati a San Christofaro pic- ciolo castello de i Doria, havendo l’uno, e l’altro luogo saccheggiato con barbara mano, come si fece degli altri Castelli di Nobili Genovesi vicini, non essendo stato di questo saccheggiamento esente né le Chiese, né meno altro. Nei giorni appresso che seguirono alla presa di Vincenzo di Marini, il Senato mandò per prendere ancora un tale Prete nominato Gio.Antonio Anfosso, ma chi hebbe tale ordine non seppe usare tanta destrezza che venisse nelle mani de Birri, cosa che spiacque oltre modo a tutti, perché costui era gran- demente affettionato a Claudio di Marino, e sapeva tutti i suoi segreti, e da lui si sariano sapute molte cose, che non furono note a cui governava la Rep.ca. E se bene il Senato tanto operò che l’hebbe nelle mani, già era instrutto, che mai vole dire cosa veruna. La Porta della Città verso Oriente, chiamata degli Archi, fu data in custodia de soldati Svizzeri, e perché si è saputo essere eglino grandemente affettionati alla Casa di Sa- voia, e dubitandosi da alcuni, che essi guidati da questo affetto, potessero fare qualche falta a danno della Rep.ca, come già questa natione ha fatto ne i tempi andati, risolse il Senato di levarli da quel posto con qualche occasione, e poiché il nemico si andava accostando a Gavi, per torsi via il sospetto, che l’ingom- brava l’animo di mandarli a diffendere il luogo di Gavi, sì come in effetto andarono. Eglino ne mostrarono contento grande, non havendo in guisa veruna sospettato cosa alcuna, e questa mattina che erano li venti di Marzo [1625] partirono con grande Gazzara. I Nobili Genovesi che furono i giorni passati eletti Capitani, et imposto loro che con artegiani armati di notte tempo facessero le guardie a posti loro assignati nella Cit- tà. Non fu mai dato capo veruno, che guidasse essi Capitani. Onde parendo a tutti che fusse bene il farlo, o uno, o più, fu deliberato di farne quattro con titolo di Corronello. I nomi furono: Giacomo di Agostino Sa- luzzo, Gio.Battista di Gio.Maria Spinola, Gio.Francesco di Antonio Brignole, e Gio.Battista di Domenico Lercaro, il quale scusatosi per sue indispositioni, in vece sua fu sorteggiato Luca di Gio.Battista Pallavici- no. Questi poi congregati insieme fecero molti ordini, che quando i nemici, si fussero accostati, sariano stati di grande giovamento a ributargli, e facilmente romperli. Don Gerolamo Pimentelle generale della Cavalaria dello stato di Milano, partitosi da Milano, e venuto in Alessandria per congregare genti da guerra, per mandarne una parte a soccorrere la Rep.ca, l’altra per guardare quella parte dell’esercito Francese, che sta ivi vicino perché anche non manca[r]ano i Francesi di dannegiare le terre sugette a Spagnuoli. La quale cosa saputa dal Senato, fece la elettione di Gianettino di Giovanni Spinola, e lo mandò al Bosco, ove stava il Pimentelle, e tanto operò con lui, che inviò alcune poche genti a Genova, che in qualche parte solevarono il timore che si havea, il quale in molti fece sì di grande impressione, particularmente nelle Donne, come timide e di poco animo, che molte, e molte pensavano di partirsi dalla Città, et andare nella Toscana, et i mariti andavano loro ad accompagnarle. Ma il Senato considerando quanto danno haverebbe cagionato questa partenza, per ritenerli fece di notte tempo publicare grida, per la quale si vietano a tutti il partirsi. Publicata la grida niuno pensò più a fare una tale attione, che non tanto apporta machia alla natione, ma quello che era male sopra ogni altro male la nobiltà saria stata esclusa per sempre dal governo, e l’havereb- be preso la gente Popolaresca, che altro non desiderava. Fu nello stesso tempo data Cura a Gio.Agostino di Giulio Centurione, et a Giulio di Lionardo Torre, di fortifcare con altri ripari il Forte di Peraldo, che sopra- sta alla Città, perché essendo preso da nemici, quasi in conseguenza conveniva si perdesse la Città, o che si rendesse, conciosia che essi nemici con l’artiglieria haverebbono battagliato la Città che ogni ediffcio sa- rebbe andato a terra. E perché si sapeva, che molti soldati Francesi, che erano nell’esercito nemico impa- cienti di tanto indugio, questa è la natura di quella natione, si partivano, et andavano in Francia per la via di Lombardia, per darli più agevolezza, e comodità al fuggire, per ordine del Senato fu publicato grida in Nove, Gavi, et Ottaggio, che si dava generale salvo condotto a tutti, etiandio nemici, il venire a Genova, e di là andare in Francia. Oltre di questo fu anche posto nella grida, che si darebbe uno scuto di Argento per uno. L’esercito Francese, e Savoiardo, ripossato alquanto in Ovada, et in quei Castelli vicini, e poi in San Christofaro, sapendo che il luogo di Nove, non havea mura da resistere gran tempo a colpi di Artiglieria, vi andò Monsù di Crechì,21 genero del Digueres. Il quale giontovi, cominciò a scaramucciare con soldati della

21. Charles de Blanchefort-Créqui, maestro di Campo di Luigi XIII. 12 «In forse di perdere la libertà»

terra, i quali mostravano grande braura. Alla guardia di quel luogo vi era stato mandato Giorgio di Ambro- sio Doria con sei cento scelti soldati, e da essi si aspettava difesa per molti giorni, et essi lo dicevano, e vantavano, ma questi loro vantamenti non valsero nulla, perché si arresero dopo tre giorni con grave biasi- mo di chi era capo. Fatto questo acquisto, quei huomini, se bene erano pochi perché la maggiore parte con le loro Donne, erano fuggite a Dartona, giurarono la fedeltà a Francesi, cosa che non era seguita con gli huomini di Ovada, che il Duca di Savoia havea procurato con strattagemma si giurasse a lui, con non poco disgusto del Digueres il quale se bene disimulò, fu però cagione di generare fra di loro qualche gelosia. Onde nell’avenire non caminavano più di accordo come prima. Fra la soldatesca che era in Gavi, e la nemi- ca frequentemente seguivano scarammuccie. Egli è vero che quella della Rep.ca era sempre superiore. Gio. Battista di Giulio Rovere, e Lionardo di Marc’Antonio Ravaschiero, eletti Commessari, e mandati ad Ot- taggio a provedere i soldati de viveri. Come si è narato sopra, il Senato havea risoluto di cingere con Trincie l’eminenze che sono intorno alla Città, sì per tenere il nemico lontano dalle mura, sì anche per levare quel- la comodità a nemici a battagliare la Città, e perché la prestezza dovea giovare non poco, furono eletti venti quattro Nobili, che andassero solecitando essa fabrica, sì come essi fecero, et essa si terminò in breve con molto gusto di tutti. Il Cardinale Francesco Barberino, destinato dal Pontefce legato al Re di Spagna, a 21 di marzo partì di Roma e imbarcato a Civitavechia sopra le Galee Pontifcie, in tre giorni felicemente si condusse nel Golfo della Specie, ove fu a nome della Rep.ca ricevuto da Gio.Luca di Giovanni Maria Spinola, e da Cesare di Piero Durazzo mandati a posta fatta per allogiarlo, e spezarlo nelle terre della Rep. ca ove egli sbarcasse. Per la medesma cagione che si sono trasportate le Monache di Santa Chiara di Nove a Genova, per la stessa, si sono fatti venire quelle che sono nel luogo di San Martino, e ripartite nelli mona- steri. Lo stesso è stato fatto da quelle del Monastiero di San Giacomo, e Filippo, nominato il Monastero novo. In tutte le chiese, così parochiali, come Claustrali con molti lumi, si espone il Santissimo Sagramen- to, ognuno va a fare Oratione, con chiedere a Dio misericordia de peccati loro. Havendo il Senato formato processo contro Claudio di Cosimo di Marino, il quale si trova hora nell’esercito a Gavi, venuto ancora lui come nemico contro la sua patria, et essendosi contro di lui provato con testimonij tale, e tanta malvagità, ogni ragione vorrebbe che egli, poiché contro la sua persona non si può fare altro, fussi dichiarato ribelle in primo capite, e gettata a terra la sua casa che ha nella strada di Salvaghi. Ma il Senato, non si è risoluto di farlo lui stesso, ha voluto per acertare ben bene vi concorra il gusto di tutta quella nobiltà, che in questo anno è de Consigli. Per ciò fare questa mattina essendo congregato il Consiglio piccolo, si è in esso propo- sto, se fare si dovea l’uno, e l’altro. Varij furono i pareri de Consiglieri, ma le ragioni che dissero, e replica- rono quei, che lodavano l’affermativa, restò con tutti i voti degli astanti escluso uno, vinto il partito, licen- tiato il Consiglio. Il Senato con loro voti andarono nella medesima sentenza, la quale publicata in banchi, et altri luoghi, restò confrmata. Venivano da Barcellona tre liuti carichi di cento mila scuti in tanti reali, et havendo trapassato il Golfo del Lione non senza grave pericolo, giunsero a Marsiglia, ove credevano have- re sicuro ricetto. Egli è vero, che pervenuta la novella al Duca di Guisa Governatore di quella Provincia, e parendole poterli predare con questo pretesto, che la Rep.ca havesse guerra col Re Suo Signore, senza ver- gogna veruna, anzi con sfaciatezza grande, se li prese et ancora li gode, non so però con che quiete di animo, se però è Christiano, come professa. Questa somma di danari, era di Gio.Battista di Gio.Maria Spinola, il quale ha stimato più sicuro poterli trasportare da Barcellona qua per mezo di liuti, che con Galee. Ma la sua opinione è rimasta ingannata. I Principi sono hoggidi come i Pirati, i quali non fanno distintione veruna, ma rubbano a tutti, quando viene l’occasione. Il giorno di venti sette di Marzo [1625]. Il Cardinale Barberino nepote, e legato di Santa Chiesa, che havea dimorato un giorno intiero a Portovenere per dar gusto a suoi marinari, che potessero in quel breve tempo godere le loro mogli, giunse alle ventidue hore nel Porto di Genova, ove entrò senza salutare punto la Città come sogliansi fare in simili occasioni. Questa dimostratione diede molta maraviglia a tutti, non potendosi niuno imaginare la cagione, che havesse indotto un Prelato di tanta eminenza nella Chiesa a fare una ingiuria tanto grande, come questa, massime che poco prima havea con molti segni di amorevolezza ricevuti gli ambasciadori, che la Rep.ca gli havea mandato incontro fno quasi a Camogi.22 Onde ognuno ne mormorava. Ma assai presto cessò la maraviglia, e la mormoratione, conciosia che si seppe, che non havea salutata la Città perché con lui non si erano fatti i debiti ricevimenti soliti farsi a legati Pontifcij con salu- tarlo prima con l’Artiglieria. Ma il Senato, che havea disquidato tanto, non però volontariamente, si scusava con tutti, e poi col Cardinale, e diceva, che il trovarsi a Gavi contro la Rep.ca un esercito di Francesi, e

22. Camogli. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 13

Savoiardi, così poderoso gli havea fatto disquidare simile dimostratione dovuta. Però che si offeriva pronto ad emendare l’errore con sparare quei pezzi di Artiglieria, che erano sopra il Torrione del Molo. Acettò la scusa il Cardinale, e così alle venti tre hore si esequì, e la sua Capitana, con l’altre Galee resero il saluto. Non volse il Cardinale scendere altrimenti in terra, ma dimorò in Galea. Egli è vero, che sapendo che la Città era in grande alteratione per la venuta dell’esercito nemico a San Christofaro, da lui solo, e non spinto da niuno, mandò Monsignore Panflio, Prelato Romano, che con molti altri Prelati conduceva con esso lui a San Christofaro, ove era il Duca di Savoia a pregarlo a volere sospendere le sue armi, e non invadere più lo Stato della Rep.ca, perché oltre che ne daria grandissimo contento al Pontefce, egli haveria proposta cosa, che gli sarebbe stata grata. Andò il Panflio, e con molta modestia, e prudenza propose l’ambasciata del Car- dinale, alla quale rispose il Duca, che egli era in quell’esercito soldato del Re di Francia, e non poteva nulla, che bisognava favellare col Monsù Digueres, replicò il Panflio, che S.A. avertisse bene, perché i Signori Genovesi, spinti dalla necessità, si sariano dati al Re di Spagna. Rispose il Duca, che a lui non importava niente, pure che costoro restassero privi della loro libertà. Il Panflio, vedendo tanta ostinatione, si partì, et andò a trovare il Cardinale, che già era a Savona. Gerolamo di Marc’Antonio Spinola è stato eletto surgente maggiore di tutta la soldatesca che era in Genova, escluso però la soldatesca Alamanna. Li venti otto del mese di Marzo [1625] alla mattina, tutta la Città fu in grande movimento, e timore, perché si era sparsa voce, che i dua eserciti di San Christofaro erano calati in Sanpiero di Arena, e che una parte di essi era attaccata alle Mura della Città, e che il Duca di Savoia era a Voltri, e che velocemente ne veniva ancora lui, e che se non havesse trovata la porta aperta della Città, haverebbe scalate le mura. Questa novella, come si conobbe assai subito fu falsa, et hebbe origine credessi dall’havere il Duca di Savoia espu- gnato il posto di Rosiglione, il quale era difcile da espugnare, conciosia che era stato fortifcato da Niccolò di Sinibaldo Doria, che vi era stato posto alla guardia. Il quale Doria, se bene in altre occasioni havea mo- strato valore questa volta non valse nulla, perché non ostante il posto fussi guernito di trincie, e di soldate- sca, con tutto ciò la sua gente restò rotta, e lui ratamente fuggì con tutti i suoi soldati, venendo verso il luogo di Masone, il quale meno da lui parve sicuro, se ne venne a Genova. Tutto il contrario fece Pantaleo di Bartolomeo Monsa, et Alfonso Gentile Corso, i quali non spaventandoli punto la rotta havuta, si ferma- rono al passo stretto di Masone, e se bene il nemico fece ogni prova di acquistarlo, eglino furono sì valoro- si, e bravi che sustenerono l’impeto. Il che fu stimato grande ventura, conciosia che se per mala sorte esso nemico lo espugnava, sicuramente e con molta agevolezza potevano calare a Voltri, et a suo piacere scorre- re la Riviera Occidentale, et andare anche a Sanpierdiarena, ove haveriano fatto un abrugiamento in quei Palagi, che ivi sono, che sarebbe rimasto distrutto ogni cosa. Una altra sciaura saria stata, e maggiore, che le Trincie, ancora che vi si fussi travagliato intorno esse con molti operari, con tutto ciò ancora non erano in difese. Onde il nemico poteva andare dove a lui fusse piaciuto. La novella che il nemico non havea otte- nuto ciò che desiderava fu trasportata a Genova [e] acquetò l’animo del Senato, e si attendeva da per tutto a preparare altre difese, essendo i Cittadini risoluti di esalare lo spirito, più tosto che rendersi giamai. Il Senato non mancò, come che fusse il giorno della Santa Pasqua di Resuretione andare alla Chiesa Chate- drale ad udire la messa, e comunicarsi tutti conforme l’ordine fatto l’anno 1528 da Refformatori. Il Legato Pontifcio prima che partire dal Porto di Genova ha lasciato a Monsignore Vicario Archipiscopale un breve di Sua Santità per lo quale concede indulgenza plenaria a coloro visiterano la Chiesa Chatedrale di San Lorenzo. Il Duca di Feria, Governatore dello Stato di Milano, stava aspettando di Lamagna23 soldatesca, che havea mandato ad assoldare, e d’altri Potentati ancora obligati a mandarglin[e], in evento si possa dubitare sia assaltato lo Stato di Milano, e perché ne hebbe alcuni, ne inviò a Genova dua mila a piedi, e ottanta a cavallo, sotto la condotta di Ludovico Guasco nobile Alessandrino, il quale giunse sicuro a Genova, haven- do traghettato le strade inusitate, per venire sicuro, essendo le ordinarie guardate da nemici. Giunse nello medesimo tempo in Genova Camillo Cataneo, Cavaliere Ierosolimitano, il quale era pratichissimo della guerra per essere stato molti anni militando in Fiandra. Fu egli subitamente eletto Maestro di Campo, e suo sergente maggiore Giacomo di Mario Spinola. E perché il Duca di Savoia pareva che da San Christofaro si volesse trasferire a Gavi, del quale luogo sperava con la presenza sua impadronirsi ben presto, essendo stato abandonato dal […], il quale havea conosciuto di non poterlo difendere. Il Senato dubitando, che es- sendo preso il luogo, il Castello che soprasta non facesse il medesimo, ordinò al Cataneo vi andasse con la gente, che havea, che erano da mile soldati, egli con questo comandamento si partì da Genova, et alla dirit- ta andò ad Ottaggio, ove procurava di trattenere il nemico, che non facesse progressi maggiori. Generale

23. Alemagna (Germania). 14 «In forse di perdere la libertà»

delle Trincie fu eletto Giovanni Agostino di Giulio Centurione. Tuttavia il Duca di Feria Governatore dello Stato di Milano, stava ansioso della salute della Rep.ca. Onde per torsela via mandò a Genova nuova solda- tesca, che furono mile cinque cento Parmegiani, e mile Modonesi, i quali, perché si sapeva essere gente fera, et inclinata a rubbamenti, et altri mali, non si volse darli allogiamento dentro la Città, ma si ripartì alle Trincie, le quali erano quasi ridotte alla perfettione. De soldati del Guasco ne furono mandati al Cavaliere Cataneo per fortifcarlo di vantaggio mile. Perché nell’ottava della Santa Pasqua solevassi celebrare la pro- cessione delle Ceneri di San Giovanni Battista, ella si celebrò, e vi andò ad accompagnarla il Senato, e tutta la nobiltà. A questa processione ne successe un’altra al dopo pranzo dello stesso giorno, del Santissimo Rosario, con molta solenità, che vole celebrare il Padre Fra Tomaso Rispoli, originario dell’Isola di Malta. Questo Padre ha egli la presente Quaresima predicato nella Chiesa di San Domenico, et ha havuto una nu- merosa audienza, e in tutte le sue prediche, come che già cominciava ad apparire qualche segnale della venuta di Francesi, e Savoiardi contro della Rep.ca, nulla stimando, ma guidato dall’affetto grande che havea alla natione Genovese, nelle sue prediche non ha fatto altro, che esortare il Popolo a difendere la Rep. ca, e la sua libertà. La Tassa fatta sopra l’azende de Cittadini, che era stata designata scadere a Maggio, è stato deliberato scadersi hora, per potersene servire ne i presenti bisogni. Onde ognuno è ito a Palagio a pagarla. Pare che sia vero il volgato proverbio, che si suole dire, che le disaventure non vengono mai sole, ma accompagnate, e pare ancora si sia verifcato nel mesto accidente avenuto nel luogo di Ottaggio, che ne ha fatto nascere senza comparatione un altro maggiore, che è la perdita di quel luogo. Il primo si è che tro- vandosi in detto luogo di Ottaggio Giorgio Maria di Tomaso Lercaro, e Giovanni Battista di Gabriello Adorno, ambidue Capitani di una Compagnia di soldati a piedi, per cagioni leggere venero fra di loro in contesa, e come che tutti dua fussero giovani, e di grande vivacità, assai subito dalle parole venero a fatti, con spararsi l’uno, e l’altro l’Archibugio, una delle quali colse il Lercaro che in poche hore morì. Molti affermano per vero, che il Duca di Savoia saputo questo mesto successo, e che i soldati dell’uno, e dell’altro erano in confusione, e che non sapevano a chi ubbidire dovevano, egli per espugnare Ottaggio per la via del Brisco se ne venisse con tutta la fantaria, e Cavalaria ne i piani di Ottaggio, la quale cosa saputa dal Cata- neo, che poco prima era egli venuto in detto luogo, pose la sua gente in battaglia, et accostatossi al nemico, si affrontarono insieme ambidue con tanto impeto, che si non era la Cavalaria, che era in maggiore numero, al certo il Cataneo restava vittorioso, et il Duca si sarebbe pentito di havere mossa una guerra così ingiusta. Egli è vero che questa vittoria del nemico, mescolata fu con grande copia de morti, e singularmente di Mon- sù di Flandes, e di altri Capitani. A questa vittoria in conseguenza, ne successe la presa di Ottaggio, con sì barbaro sacchegiamento, che né maggiore, né più crudele non si poteva aspettare dallo Scità,24 o veramente dal Turco. Non furono esente le Chiese, né la riputatione delle Donne, né niuna altra cosa, etiandio i Vasi sacri dell’Altari, furono preda loro, gettando a terra l’augustissimo Sagramento, attioni che facevano aper- tamente conoscere essere verissimo che la maggiore parte di questa canaglia era infetta dall’Heresia Lute- rana, o Calvinista, la quale presa Genova haverebbe con questo morbo infettata tutta l’Italia. Il Duca di Savoia era spettatore di sì grande malvagità, né volle porvi rimedio, ancora che potesse, ma quel che è peg- gio pareva ne godesse, ad un Frate Cappuccino, che andò a riferirle la sfrenata libidine de alcuni soldati i quali havevano preso una bella giovineta che si era salvata nella sua Chiesa, e con molta violenza la condu- cevano via, ancora che egli havesse fatto prova di difenderla. Respose all’hora il Duca: “Padre non vi parà strano, le Donne sono fatte per gli huomini. E questi sono frutti della guerra”. Se mi fusse lecito, vorrei hora fare una invetiva contro queste parole del Duca, ma non mi è lecito. Restarono prigioni lo stesso Cavaliere Cataneo, Marc’Antonio Gentile, uno suo nepote, Cavaliere di San Giovanni Jerosolimitano, Lionardo di Marc’Antonio Ravaschiero, Giacomo di Mario Spinola, Paulo Antonio di Salvagio Clevezana, Agostino di Giovanni Battista Spinola, Giacomo di Mezesio Negrone e Steffano di Napolione Spinola. Questi erano tutti nobili Genovesi, de forestieri vi rimasero Ludovico Guasco, e Tomaso Caracciolo, oltre molti capitani Corsi, et Italiani di conto. Egli è vero, che tutti essi, veduto la loro sciaura, si retirarono nel Castello, ma perché era debole, e di niuna difesa, si aresero salva la loro vita al Marchese di Calusio, il quale, se bene come nobile doveva osservare la sua parola, egli non lo fece, e chi gli rimproverava tale mancamento ri- spondeva che il Duca di Savoia non havea voluto. Furono assai subito tutti condotti a Torino, ove quando entrarono nella Città, si sonarono le Campane, e se spararono molti pezzi di Artiglieria per allegrezza, come la rotta fusse stata data a Turchi, o veramante a nemici della nostra Santa Fede. La seconda cagione, che successe, fu che gli ottocento soldati del Guasco, che furono mandati da Genova al Cataneo ad Ottaggio,

24. Scià. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 15

una parte non giunse in tempo, perché la giornata già era cominciata e l’altra era in guisa stracca per lo viaggio fatto, che non potette entrare nella zuffa. La novella di sì fatto successo giunse il giorno seguente in Genova, ella diede qualche picciolo timore. Egli è vero, che non fu però tale, che turbasse in modo l’animo, che non si andasse provedendo a tutto. Onde per le espeditioni, alle quali non poteva il Senato per l’altre faccende acudire, accioche fussero prontamente esequite, si deliberò di elegere uno Senatore, e quattro Procuratori, i quali havessero tale cura, e sino di all’hora furono eletti Opitio di Michele Spinola, Piero di Giacomo Durazzo, Giorgio di Domenico Centurione, Bernardo di Lionardo Clavarezza, e Francesco di Agostino Mari. Questo mezo, come alla prova si conobbe, giovò molto alle espeditioni delle cose impor- tanti, che si trattavano, e si provedeva subitamente in tempo, cosa che negli affarij della guerra è necessaria. Tutti i Potentati del Mondo, in particulare quei di Italia incluso il Pontefce, saputo, che Francesi, e Piemon- tesi uniti insieme venivano ad assalire la Rep.ca con sì poderosi eserciti di genti a piedi, et a Cavallo, niuno di essi si mosse punto in darci aiuto, esclusi però principalmente il Re di Spagna, il quale mai abandonò la Rep.ca in questo travaglio, anzi diede tutti quei aiuti, che si seppe desiderare, et i Lucchesi, che concessero di potersi assoldare nello loro stato otto cento soldati. Tutti gli altri pareva sentissero contento delle nostre sciaure, e stimarono, che alla prima dovessimo cedere a sì grande incontro. Ma la Dio mercé non ha voluto ancora darci tanto fagello, e spero, che farà lo stesso nell’avenire, essendo tutta la nobiltà risoluta più tosto di morire cento mila volte, e sofferire ogni male, che perdere la sua libertà, che hora gode. Il Senato, non confdando in altri, che nell’aiuto Divino, e de suoi Santi, e particularmente in quei sono Protettori della Rep.ca, come nostra Signora sempre Vergine, San Giovanni Battista, San Giorgio, e San Bernardo, il quale mentre vestiva carne humana hebbe sì singulare affetto alla Rep.ca Genovese, che gli scrisse una amorevo- le lettera, che si vede notata nell’Opere sue stampate, nella quale egli promesse di porgere sempre preghie- re a Dio, promessa che ognuno deve credere, che non mancherà mai. Onde il Senato vedendosi da per tutto all’intorno circondato da tanta gente, la quale si mostrava avida della robba, della vita, e della riputatione de suoi Cittadini, si votò allo stesso San Bernardo, promettendole di festegiare mai sempre il suo giorno, celebrare per la Città una processione, udire la Santa Messa, dare la dote de lire cento l’una a dodeci fgliu- ole del Ridotto, e fnalmente di fabricare ad honore suo una Capella, o veramente una Chiesa. Da quello, che si vide poi questo voto fatto ad un santo sì eminente in Cielo, e sì caro a Dio fu egli di tanta effcacia e di tanto giovamento, che ci liberò da ogni male. Essendo già pervenuto i dodici del mese di Marzo [1625], il Duca di Savoia, con tutta la sua Coorte stava tuttavia col Digueres nel luogo di San Christoforo, e fra di loro stavano consultando quello che fare dovevano, poiché oltre il credere loro havevano trovato maggiori difcultà in espugnare Genova, e le sue terre, di quello si havevano da principio creduto, essendosi da mol- ti segnali conosciuto, per non havere Genovesi fatto quelle provisioni necessarie, stimavano certamente che alla giunta loro a confni del Genovesato, la Rep.ca, e chi la governava, senza intervallo veruno darsi doves- se in potere loro. Ma alla prova hanno costoro conosciuto non essere il valore Genovese ancora estinto. Anzi perché apparisse questa loro generosità, e mostrare che non stimavano punto li poderosi eserciti de nemici, facessi publicare nuova grida, che tutti quei, o siano Savoiardi, o siano Piemontesi, dovessero an- dare via dalla Città sotto la pena di dieci anni di Galea. Non restava il Senato a pieno sodisfatto, che si fussero fatte tante preghiere al grande Iddio (se vogliamo però paragonare i peccati fatti per l’adietro) che l’ira sua rimanesse appagata. Onde perché si sodisfacesse, se non quanto si dovea, almeno quanto si poteva, ordinò a preti delle Chiese della Città, e quelle ancora di fuori delle mura, che esortassero i loro parochiani, che si digiunasse tre giorni della settimana vegnente, la Domenica comunicarsi, con essersi confessato pri- ma. Se per nostra disaventura, si è perduta la giornata stata ne i piani di Ottaggio, nella quale pare sia al- quanto scemata la riputatione della Rep.ca, ha però Dio voluto in un istante ristorarla conciosia che Giovan- ni Galeazzo di Cesare Giustiniano giovine valoroso, come l’ha dimostrato l’impresa che così felicemente gli è riuscita. Questo Gentilhuomo pochi giorni avanti dal Senato era con due Galee stato mandato nella Riviera Occidentale a soccorrere quella parte, che pareva per essere vicina a stati del Duca di Savoia, po- tesse correre qualche rischio. Per il che trovandosi egli ne i Mari di Nizza, ove era trascorso, vide che la Galea Capitana del Duca di Savoia, partita dall’Isola di Santa Margarita, ella andava a Villafranca, seguita- tala, la colse, e l’assaltò così ferocemente, che dopo la morte del Lascari, Capitano della Galea, e di uno suo fgliuolo Cavaliere di Malta fatto prigione, la fece sua, conducendola a Genova con molto trionfo. Lo sten- dardo, et altre bandiere furono poste nell’Armeria publica, ove sono tuttavia a perpetua memoria. Questo sì nobile acquisto parve ad ognuno che del tutto ristorasse ogni riputatione, che per aventura la Rep.ca può havere perduto, né cedere, punto al Duca di Savoia. Perché se si considera gli acquisti fatti da lui appo que- 16 «In forse di perdere la libertà»

sto furono nulla, anzi quegli che egli fece, che furono assai piccoli, gli huomini del mondo gli ne diedero non poco biasimo, conciosia che in essi ponendo da banda la generosità della sua casa, da per tutto ove giongeva, non tanto comportava, che la sua soldatesca saccheggiasse ogni cosa indiferentemente, sfogasse la sua libidine, ma uccideva sino a fgliuoli piccoli, come si vide nella presa di Ottaggio, che se ne uccisero molti, e molti ancora, che non facevano veruna difesa, solamente per sfogare ben bene la sua rabbia. O come altri dicessero all’hora facesse queste inhumanità per intemorire il Popolo, e la nobiltà Genovese, la quale s’inducesse più facilmente a darsi in potere loro. Ma Dio, che non può soffrire certe strane sceleratez- ze non vole darli cosa veruna da lui desiderata. Quei Nobili Genovesi, che all’hora per loro procaccio di- moravano di stanza nel Regno di Napoli, stavano essi con molta ansietà di quello fussi per succedere in Genova, temendo che i Cittadini di essa non resistessero a nemici sì poderosi, i pochi non potevano essere presenti per aiutarla per parte loro, suplirono con mandarli trecento cantara di polvere, et altre munitioni da guerra, che eglino sapevano la Rep.ca haverne di mestiere. La resa del luogo di Gavi al Digueres, et al Duca di Savoia, seguita hieri alla dieci sette di Aprile, se bene si sapeva doveva seguire per la debolezza delle mura, non però si stimava seguir dovesse in tanta fretta. Non dimeno parve in Genova che in molti aumen- tasse il timore, che quei del Castello non seguitassero le stesse pedate. Ma questo timore di grande lungo era maggiore nel Senato, il quale non vedendo esserli altro rimedio, mandò huomo a posta fatta a Gavi. Costui si offerse entrare nel Castello per strada sicura, con il quale scrissesi ad Alessandro di Domenico Giustiniano, che era Capo della gente di guerra, che era in esso, raccordandole, che era di una famiglia, che mai havea mancato alla Rep.ca, ma che in l’occasioni importanti haveva sparso il sangue per la conserva- tione della sua libertà, che essendo vero, come era verissimo, non dovesse egli machiarla con degenerare da essa in una cosa di tanta importanza, ma se era possibile avanzarla, e col suo valore conservarlo alla Rep.ca che gli lo havea affdato, la quale lo rimunarebbe largamente. Egli è vero che l’huomo sicuramente giunse, et entrò nel Castello, e diede la lettera, e niente giovò. Il Senato in Genova attendeva a far carcerare tutti quei apparivano soverchiamente insolenti, come che gli ne fussero alcuni nobili, et ignobili mal sodisfatti, i quali per essere gli eserciti nemici a Gavi, andavano favellando liberamente più che prima, non curando punto il gastigo che potiva venire loro. Don Carlo Doria Duca di Torsi,25 che è capo in Genova dello stuolo di Galee, che il Re di Spagna vi tienne, dal Senato fu eletto Generale di tutta la soldatesca, che la Rep.ca havea in Genova solamente, senza stipendio veruno, non essendo gli huomini discendenti di Andrea Doria, quello diede la libertà alla Rep.ca, adusati a servire con danari, ma con la generosità dell’animo loro. La fducia grande, che questa gente nemica havea di se stessa, e della sua sicurezza, fece, che essendo essi alogiati nelle Castelle vicine al luogo di Gavi, senza riguardo veruno, né timore da un luogo all’altro. Il che avedutossine i nostri Contadini, particolarmente quei della Valle della Poncevera, si sono indotti di andare alla caccia di essi, et hieri verso il luogo di Belforte, ne presero trenta, e li condussero con molta gazara a Genova. Dicessi da tutti acertatamente, che un Religioso di bontà grande di vita, stando egli in letto risve- gliato, gli apparisse San Giovanni Battista, il quale le disse, che la giusta ira di Dio contro di noi, contrata per i nostri peccati, valendosi egli la sua misericordia era del tutto cessata, pure che noi nell’avenire ci co- mandassemo con risolutione di non più mai offenderlo. Il Senato in quella guisa, che si può, certifcatossi essere vero quanto ha riferito esso Religioso, ordinò con solenne decreto, così agli huomini, come alle Don- ne, etiandio alle Confrarie, processionalmente debbino andare a visitare la Capella di San Giovanni Batti- sta, che è nella Cathedrale, cantando le lettanie26 di nostra Signora, e de Santi. Il Duca di Feria non ostante che havesse per due volte fortifcato la debolezza della Rep.ca, ha di nuovo inviato a Genova mile soldati Lombardi, con Don Luigi, Don Alfonso, Don Camillo, e Don Anibale, tutti quattro fratelli di Casa Gonzaga, de Marchesi di Monferrato, e di Bozolo, i quali perché sono cavaglieri e Gentil’huomini di approvato valo- re, giunti nella città, sono stati posti alla guardia delle trincie verso Santo Bartolomeo delli Armeni, che per ancora non erano state sufcientemente fortifcate. Mentre che si stimava da ognuno, che il Castello di Gavi per essere munito di ogni cosa necessaria alla difesa, per molto tempo resistere dovesse al nemico, essendo il giorno di ventiquattro del mese di Aprile dell’Anno 1625, conobbesi essere essa stima stata falsa, con- ciosia che hieri alle diecesette hore del giorno, si era dato in mano del Duca di Savoia, salva la vita, così del capo come de soldati. Novella, che imprime oltre il timore grandissimo disgusto in tutta la Cittadinanza, essendo che ella pareva a tutti che dovesse essere un antimurale a ritenere la forza di essi dua esserciti, te- neva per sicuro, che tolto via questo impedimento, che solo poteva ritenere gli eserciti, che non calassero al

25. Tursi. 26. Litanie. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 17

basso, hora che più non vi era, dovessero farlo, e venirsene in Sanpier di Arena, ove haveriano potuto sfo- gare la loro rabbia con porre a famme, et a fuogo quelle Ville. Ma Dio non volse tanto male. Questo Ca- stello, se bene è fabrica antica, e non fanchezato da parte veruna secondo la scienza moderna, era però assai forte, percioche era malagevole da salire, sopra uno erto monte situato. Tale perdita parve strano a tutti che così facilmente fussi reso. Ma come la codardia, e viltà entra nell’animo del Capo, tutti gli altri inferiori sono della stessa maniera. Come si è detto sopra, Capo in esso castello vi fu mandato Alessandro di Dome- nico Giustiniano giovine di venti anni, e per conseguenza poco pratico del mestiere dell’armi, non havendo essercitato altro che il Capitanato di una compagnia alcuni mesi. Egli è vero, che egli fu eletto per relatione di un Senatore, il quale disse tante cose di lui e della sua peritia che il Senato, mentre si trovano di mandar- le persone per guardare esso castello, e difenderlo, fu forzato ad elegerlo. Che Dio perdoni loro sì grave peccato. Consegnato che gli hebbe costui il Castello al Digueres, se ne andò a Genova, ove liberamente, e senza niuna vergogna né rosore si pose a passeggiare per la Città. Egli è vero tanto malveduto da ognuno, che questo solo doveva indurlo a stare nascosto, e non lasciarsi vedere da niuno. Il Senato che considerava- no le cose con più maturità, havendo già saputa la viltà sua, lo fece carcerare, e deputare due dell’ordine Senatorio a formare il processo, accioche apparisca la viltà sua, sì come si fece. Lo fne fu che egli non sepe negare che guidato solamente dalla dapocagine sua havea reso il castello al nemico. Il quale esame letto poi nel Senato, fu condanato ad essergli tagliato il capo. Egli è vero che la benignità de Senatori, e del Consi- glietto fu tale che dopo alcuni giorni gli fu fatta la gratia, e confnato per sempre nell’Isola di Sicilia. La resa del Castello non hebbe però tanta forza, come si temeva che né il Duca di Savoia, né il Digueres deliberas- sero di moversi, et andare verso Ottaggio, e poi verso Genova, como tutti dì minacciavano, solamente che il Duca di Savoia, con suoi Bovi, inviare fece venti pezzi di artiglieria e porli fuori di Ottaggio verso Geno- va, quasi che volesse senza effetuarlo mostrare il desiderio suo di andare a Genova. Ambrosio di Filippo Spinola, maestro di Campo generale delli eserciti del Re di Spagna in Fiandra, havuto ragguaglio del peri- colo, nel quale stava la sua patria, sapendo che vi era carestia di Bombarderi, ad essa ne inviò dodici che furono molto grati, conciosia che ne havea di bisogno. Le Religioni, e le Confrarie della Città processional- mente, una dopo l’altra conforme al comandamento del Senato, andarono questa mattina alla Chiesa Cathe- drale a visitare la Cappella di San Giovanni Battista con cantare hinni, e salmi ordinati da Santa Chiesa per placare l’ira di Dio. Il sabbato vegnente, che fu il giorno di ventisei del mese di Aprile [1625], con infnito nostro contento, et allegrezza di tutti, comparvero ne i nostri Mari trenta due Galee guidate dal Marchese Santa Croce,27 che venivano da Napoli; ventidua del Re di Spagna, sette del Gran Duca di Toscana, e cinque del Pontefce, le quali entrarono nel Porto alle ventidue hore. Concorse grandissimo numero di persone di tutta fatta al Molo per vedere vista sì grata, e che portava la totale sicurezza della Rep.ca, spararono grande quantità di Arteglieria, e Moscateria, sì che pareva che la machina Mondiale, volesse ridursi all’antico Caos. Con esse […] hanno tre mila soldati Spagnuoli mandati dal Duca di Alva Vicerè di Napoli, per nostro aiuto, i quali con buono ordine si sono repartiti intorno alle Trincie della Valle di Bisagno, ove era stimato il pericolo maggiore. Alcuni Religiosi della Compagnia del Giesù, che sono stati mesi in la città di Torino, hora se ne ritornano a Roma, loro stanza, hanno riferto che mentre vi hanno dimorato, non tanto loro, quanto tutti gli altri Religiosi, vedendo eglino che si facevano tanti apparecchio di armi, e di gente, e di viveri, stimando, che si dovesse muovere qualche guerra, o sia per offesa o sia per difesa, nella celebratione della messa, che tutto dì facevano, secondo il rito di Santa Chiesa, dicevano l’oratione pro impetranda pace, che come il Duca di Savoia ne fu ragguagliato, mandò a dire loro, che tralasciassero di dire tale oratione, perché con suoi nemici egli non volea altrimenti pace. Il marchese Santa Croce, dopo il suo arivo in Genova, riposato alcuni giorni, prese abitatione con risolutione di dimorarvi sino terminasse la guerra. Il Senato lo mandò per mezo di nobili a visitare, et a ringratiarlo della sua incomparabile diligenza che egli usato havea di venire presto, e di haversi condotto tanti aiuti, e sì poderosi. A questo proposito mi conviene hora ramentare l’inf- niti, e singulari obligationi, che la Rep.ca ha al Re di Spagna, il quale come si è veduto, e da quello si vedrà in appresso, non ha mai cessato di porgersi tutti quei aiuti salutiferi che habbiamo saputo desiderare, per conservare la nostra libertà, senza mostrare segno veruno de interesse, o desiderio men che lecito, e se noi, e nostri posteri non ne conservaremo memoria, grande ingratitudine ne apparirà dalla parte nostra, conciosia che è opinione certa, che se esso Re, non dava sì potenti aiuti come ha dato, che le cose nostre non sariano successe con quella felicità, che sono successe. Voglio qui registrare la copia della lettera, che sentendo esso

27. Álvaro II de Bazàn, marchese di Santa Cruz, ammiraglio della fotta spagnola di Napoli. 18 «In forse di perdere la libertà»

Re, che da Francesi, e Piemontesi, e da altri Colegati, dovevamo essere assaliti, scrisse alla Rep.ca, la quale all’hora ne ricevette grandissima consolatione. Obligo grande ancora habbiamo al Duca di Alva Vicerè di Napoli, et la Duca di Feria Governatore dello Stato di Milano, i quali se bene fecero all’hora quello, che il Re loro Signore gli havea espressamente ordinato, con tutto ciò, considerato la naturale tardanza della natione Spagnuola, fu il tutto eseguito con tanta celerità, et in tempo che tolse via a Cittadini Genovesi ogni timore et ansietà che havevano. La copia della lettera è questa: Don Filippo por la gratia de Dios Rey. Ill.mos Mag.cos Nobles y bien amados nuestros. Todas la cossas desta Rep.[ca ] estimoy tengo per proprias y a esta […], siento et trabajo en que se halla agora, con la guerra que Francia y sus coligados, los hacen la stimandome muccho dello, y esto mi obliga a ceder todo e lofferco posible para vuestra defenca (como lo haro) assegurandos que mys armas poder no le ha da faltar en estas y en la de mas ocasiones que si offreceren, acui- dendo a vestra defenca, y en la de viestra libertad, y en esta confermation escrivo a my Governador de Milan que asista y ayude a difender, con todas las fuerzas que les pidiede des y tuviere, y las que los fueron intrando asta all’ultima fuerza, por que ago tanta estimacion dessa Rep.ca, y de su libertad, que vuelgo acuideros con todo, y a si os ruego y encargo a steys con buen animo, y con buena resolucion defenderes por que con a racon que ay de un vestra parte y iontas vuestras fuercas con las mias, non solo haveyo de quiedar con vuestra libertad pero vitorioso de nuestro enemigo, que han querido inquietaros con una guerra tan sin iniusticia. Tanbien ho ordinado a todas las Galeras de Italia, y armadas de Napoles que acuden ay. Non parendo ragionevole al Senato il tardare più a sodisfare al Voto fatto a San Bernardo, già che evi- dentemente si conosceva, che le sue preghiere fatte a Dio erano state sì effcaci, che erano state esaudite, conciosia, che non più si temeva di veruna cosa, ancora che gli eserciti nemici tuttavia facessero dimora a Gavi, et ad Ottaggio. Onde essendo venuta la Domenica delli ventisette, il Senato accompagnato con tutta la nobiltà si trasferì in la Chiesa Cathedrale, et ivi udì la Messa cantata da Francesco Maria di Tomaso Spinola vescovo di Savona. Egli è vero, che quando ella fu alla Epistola, Giovanni Battista Panesi Segretario della Rep.ca, prononciò il Voto con queste parole: Dux, Gubernatores et Procuratores Reip.ce Jenu.e. Gravissimis, et quidem publicis pecatis infnitam omnipoten- tis Dei bonitatem, et summam clementiam ad iustam ultiorem provocatam, et nos suaviter sepe, ac sepins monitos vocem eius non audivisse, et ideo iusto iuditio belli fagello affigi conftemur, verum etiam non ignari cor contri- tum, et humiliatum a Deo non despici, et neminem ad tribunalimo abissum miseratione num Deo confugientem despici, qui nimo Jesu Christum Dominum nostrum brachys extensis penitentes ad eum confugientes, confden- tes, et Sanctissimum nomen eius invocantes amplexari semper paratum, praeterita mala acta detrestamus, eaque corrigere, et funditus tollere Divino auxilio proponimus, et Spiritus Sancti gratia super nos Civitatem, Castella, pagos, et loca universi nostri status implorati Patrem misericordiarum, et Deum totius consolationis humilime summis precibus, et etiam atque etiam oxeremus ut nos parcere, et fagello ire sue que pro pecatis nostris me- remur avertere, et propter merita Sanctissime Passionis D. nostri Jesu Christi intercedente Beatissima Vergine matri eius nobis, et universis Rep.ce nostre Civibus, et subditis benedicere dignetur, cui omnipotenti Deo, Patri, flio, et Spiritui S.ti in manibus R.mi Francisci Marie Spinole, episcopus Savonensis, et R.di Canonicorum huis Ecclesie maioris attenta ab.ntia Ill.mi et R.mi Dominici de Marinis Archie.pi N.ri promitimus, et Vovemus. Post hac inter Divos R.ce nostre, titulares Divum Bernardum, quidam humanis agebat nostri in eternum non obliturum eius litteris spopondit ascribere, et conumerare. Diem eius festam celebrare, et a populis nostris, et a Clero au.ces R.mi Archiep. Et Rev.mos Episcopos celebrari curare. In hac Ecclesia Maiori, vel alia arbitrio nostro Capellam dicatum costruere. Eodem die D. Bernardi quot annis in perpetum solennem processionem feri, et sacrum solen- ni ad eius Altari nobis pie assistentibus celebrari facere. Et demum manu Ducis interdicti sacri solemnia singulis annis in perpetum, et pro hoc anno nunc duodecim puellis ut vocant Reductus Sancte Marie caritatis olim Sancti Hieronimi dotes scilicet libras centum unicuique eat per solvere. In cuius rei testimonium has ab infras.to nostro Secretario publice lecto recipi, et subscibi, et signo nostro muniri iubemus. Datas in Ecclesia Cathedrali ante d. die Dominica 27 Aprilis 1625. Fatto questo, il medesimo Segretario si voltò al Duce, e poi a tutti i Senatori, e Procuratori, e disse pla- ceat, risposero tutti unitamente Placeat. Poi si andò appresso al terminare la Messa, la quale fnita il Padre Vincenzo Castiglioni della Religione Cappuccina, e Genovese, salì sopra un Pulpitetto a questo effetto pre- parato, e sermoneggiò per meza hora con molto gusto degli astanti. Il quale sermone terminato il Duce diede alle dodeci fgliuole una borsa per una, ove dentro era poliza che obligava la camera publica al suo maritara darle cento lire. Terminata ancora questa faccenda, il Duce con tutti i Senatori si alzò in piedi, e s’aviarono verso la Capella di San Giovanni Battista, et inchinatisi quasi per un terzo di hora, orarono e poi se ne ritor- Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 19

narono a Palagio. Prima che il Senato dalla Cathedrale uscisse per ritornare a Palagio, giunse novella come la Galea Patrona di Don Carlo Doria, partita da Barcellona quattro giorni prima, era felicemente entrata in Porto recando più di ottocento mila scuti in tanti reali, cosa che diede a tutti allegrezza grandissima, poiché nella cassa ne 16 publico ne meno il primo non havea denaro da potere pagare la soldatesca. Al dopo pranzo il Senato ritornò nella Cathedrale per perfecionare del tutto il Voto, pocho altro non mancandovi che fare la processione, et essendo già congregate tutte le Religioni, etiandio quelle ancora, che per ordinario non sogliono intervenire a simili solenità, andò anche egli nella Cathedrale. Egli è vero che essendo giunti il Duce, e Senatori sopra la Piazza che è darincontro alla Chiesa, e già una parte di loro saliti sopra i scalini, venne dalla Chiesa medesima tale numero di gente, che volevano fuggire, indotti da certo romorio che era successo fra dua i quali haveano posto le mani alla spada per ferirsi nella Piazza nova. Il Duce, e Senatori non potendo sostener sì fatto empito,28 molti di essi andando per terra con tanta confusione, che non erano uditi coloro che gridavano, che non vi era cosa veruna, che ognuno si quietasse, ma si attendeva da coloro che erano per terra a levarsi suso, altri che non erano cascati, a cercare di solevarsi, conciosia che si temeva ella fusse congiura ordita per esequirsi quel giorno, per estinguere tutta la Nobiltà. E a dire il vero questo timore non fu senza molta cagione, perché non si sapeva l’origine, solo si vedea il Duce in terra, e molti Senatori, ei si stimavano morti. Finalmente ogni cosa restò quieta. Ma perché si stimava, che il tutto fusse avenuto dal nemico della generatione humana, non si mancò di andare appresso alla Processione, la quale in altra occasione mai si era celebrata tale, e con tanta solenità, perché tutti i Religiosi erano vestiti chi di pianete, e chi di peviali de i più sontuosi, che havessero nelle loro Sagrestie. Credessi che i Potentati dell’Italia hariano volentieri veduto l’oppressione, se per mala disgrazia segui- va, de Genovesi, resta assai noto, perché, come si è detto, niuno di essi si è mosso in suo aiuto, e pure ogni ragione politica voleva, che lo facessero con tutte le loro forze, conciosia che si ha per costante che il Re di Francia, ingordo di acquistare stato, ottenuto che havesse il dominio di Genova, haveria procurato di impa- dronirsi di tutta la Italia. Non era dunque da stimarsi meglio e più sicuro per tutti i Potentati tenere lontano i Francesi dall’Italia et havere vicini i Signori Genovesi, i quali si come vivono a Rep.ca, essi non cercano mai di occupare l’altrui, ma solo attendono a conservare il suo. Donque si può […] che quei Potentati di Italia, che in niuna cosa, non si sono mossi, siano stati spinti a ciò fare dall’invidia, che hanno alla libertà nostra et al Re di Spagna, il quale salva la libertà della Rep.ca de i Genovesi, la riverisce conciosia che [...] tanti sono riveriti da lui, lo quale non possono annichilare, che prima non habbino annichilato Genovesi, che provedono in Fiandra, et altri luoghi, oltre l’altre prerogative che non sono minori, i cinque, e i sei mi- lioni d’oro alla volta, col quale mezo ha potuto, e potrà sempre resistere alla disubedienza de Olandesi suoi vassalli. Ve ne sono degli altri, come i Venetiani, et il Gran Duca di Toscana, al quale gli era venuto capric- cio in questi moti insignorirsi del Golfo della Specie, e della Città di Serezana,29 e non sono guari giorni, che egli manifestò questo suo desiderio con una lettera al Duca di Feria, Governatore dello Stato di Milano, di questo tenore. Che dovea esserli nota la voce della vana pretensione inventata dalla Regina Madre di Francia sopra il suo Ducato, che altro (se però era vera tale voce) non voleva dire che sapendo ella, che il Re suo fgliuolo apparecchiava un validissimo esercito per andare a prendere Genova, la quale città conve- niva cedesse, ella con la stessa gente pensava farsi Signora della Toscana, cosa che fussi falsa, o vera, non mancava di darli qualche pensiero, tanto più che si vedeva che i Signori Genovesi non havevano forze ba- stevoli a resistere a sì grande potenza. Onde egli per assicurarsi bene, pensava impadronirsi di essi dua luoghi e munerli perché fussero un antemurale a difendere il suo stato, la quale cosa ridendava in servigio del Re di Spagna, che si conservasse lo stato di un suo parente tanto a lui aderente, che poi passati che fus- sero i moti, haria fedelmente restituito il tutto a Signori Genovesi. E in segno che questo assicuramento ad altro effetto non faceva, promettè senza dubitatione veruna. In leggendo la lettera, il Duca di Feria, sorise, conoscendo la malitia del Gran Duca, e come era acurato in prendere quelle di altri sotto pretesto di assicu- rarsi lui. Rispose al Duca a questa lettera, che i Signori Genovesi erano in stato tale, che benissimo poteva- no susistere al Re di Francia, et agli altri Colegati, e quando egli conoscesse, che con le forze proprie non potessero, haveria tali ordini da Sua Maestà suo Signore, che lo haria fatto lui. Questa risposta acquetò in guisa l’animo del Gran Duca, che gli tolse via ogni disegno che non ardì favelare mai più. Essendo andato uno tale huomo del luogo di Nove a chiedere salvacondotto a Monsù di Crechi, per potere andare, e poi ritornare dal luogo di Cassano, le rispose, che per Francesi gli l’haveria dato. Ma per Francesi, o Piemonte-

28. Impeto. 29. Del Golfo di La Spezia e della città di Sarzana. 20 «In forse di perdere la libertà»

si Heretici andasse dal Duca di Savoia, che a lui toccava, poiché erano nel suo esercito. Hora qui conviene allontanarmi al quanto dalla Historia, e narare un atto generoso, e raro fatto da uno Infdele con la Rep.ca Genovese. È in Algeri un Rinegato chiamato Ostamorato,30 il quale è nato in la terra di Levanto, di Casa Ri. Costui fu preso Ragazo e condotto in Barberia, e sì come era di poca età, non vi fu molta forza a farlo rine- gare la Santa Fede, et essendo divenuto prode huomo con le prede fatte a Christiani, è andato aumentando, sì che ora si trova Capitano di cinque sue Galee. Egli è vero con […] impredando i navili Christiani. Hora, havendo egli saputo la crudele, e fera guerra mossa alla Rep.ca Genovese dal Re di Francia, e Duca di Savoia, scordatosi di essere rinegato, ma non però di essere Genovese, mandò un messaggiero proprio con una sua lettera scritta di lui al Senato di Genova, con la quale si doleva della iniqua guerra mossagli da Colegati, e si offeriva pronto andare con dodeci Galee, parte sue, e parte di altri Corsari suoi amici, nella Riviera della Provenza, e porre a fuogo, et a famme ogni cosa. Letta la lettera nel Senato cagionò varij pareri nei Senatori, una parte sosteneva che saria stata machia grandissima alla natione Genovese, che era sempre stata sopra ogn’altra Cattolica, il fare così poca stima della pietà Christiana, con coperare che un Rinegato sacheggiasse lo Stato di un Potentato Cattolico, ancora che suo nemico, e conducesse migliaia di huomini in schiavitudine, e questi era il maggiore numero de Senatori, l’altra parte mostrava con potenti ragioni che era lecito a chi che sia, assaltato senza niuna […] ragione, come era stata la Rep.ca Genovese, difendersi in qual si voglia modo, con chiamare etiandio in suo aiuto o sia Moro, o sia Turco, e singular- mente conveniva farlo hora, almeno per contracambiare alla stessa guisa, il Duca di Savoia, il quale cole- gato col Re di Francia con un poderoso esercito pieno [di] Luterani, Calvinisti, et Attisti,31 gente pegiore assai, e più scelerata di niuna altra nemica a Santa Chiesa. E che sia il vero testimonio ne può rendere Nove, Gavi, Parodi, Ovada, et Ottaggio, e molti altri della Riviera Orientale, ne i quali alla scoperta, esserci rispet- to veruno, si predicava alla Calvinista. Onde il vescovo di Dartona, che è Pastore spirituale di una parte di essi luoghi, vedendo tanta iniquità dicessi habbia sopra questa sceleranza fatto processo informativo per mandarlo a Roma. Da questo processo si vedrà quanto male habbia il Pontefce fatto a non soccorrere, sì come gli chiedeva, la Rep.ca Genovese, conciosia che forse e senza forse né Francia né Savoia non have- riano ardito di assalirla, e non vi sarebbe stato l’evidente pericolo, come vi è stato, di infettare parte così principale del pestifero morbo di Martino Lutero, et di altri scelerati autori di nuove sete,32 e se bene la Rep. ca con sue lettere ne ragguagliò esso Pontefce molte volte, tutto fu indarno, perché egli andava dicendo per non scusarsi che voleva essere Principe neutrale. Non ostante sì potenti ragioni addote dalla parte contraria, non fu però nel Senato vinto il tale partito. Onde rimase la cosa indecisa, bene fu approvato rispondere al Rinegato stesso, che si ringraziava grandemente, con soggiungerlo di vantaggio dell’amorevolezza datagli et della memoria di bene della sua natione et patria, che non si accettava la sua offerta per all’hora, essendo che il nemico non havea guadagnato cosa veruna di quello havea creduto, e che però egli dava segno di volersi partire et ritornare a casa sua tutto confuso, e che se nell’avenire fusse bisognato, si sarebbe accet- tata l’offerta sua. Se ritornassero in vita gli Avi, et Padri di coloro che hora sono vivi in Genova, e vedesse- ro che la Rep.ca spende cento mila scuti il mese in pagare quindici mila soldati, fra Spagnuoli, Italiani, Paeselli, Lucchesi, Corsi, Alamani e Trentini, parebbe loro cosa strana, et insieme maravigliosa che la Cit- tadinanza, dalla borsa de quali esce questa […] di denari, possa uscirne dalla tanta quantità. Ma l’essere ella oltre modo bramosa di conservare la sua libertà, fa che soffrisse tanto prezo, e le pare leggero. Giovanni Vincenzo di Giovanni Giacomo Imperiale, mandato ad assistere appresso la persona del Duca di Feria, Governatore dello Stato di Milano. Poco prima si è descritto chi sia, e da quale luogo sia originario Barto- melino Sartorio, o si è detto ancora essere un scelerato huomo, perché havendo molti anni fatto abitatione in Genova, e ritenuto molti Uffcij benefciali, non tanto lui […] tre suoi fratelli, pagando egli grande di ingratitudine, oltre che mentre non di meno egli fece molte sceleratesse, et omicidij, i quali non furono palesi. Ma havendone fatto, uno che fu manifesto a tutti, et fuggitossene, fu desterrato da Genova. Non di meno non cambiò conditione, anzi fece altre sceleratezze, come di andare dal Duca di Savoia. Il quale per- ché all’hora per altri particolari non stava bene con la Rep.ca prese la sua protettione e con una schiera di altri scelerati simili a lui rubava quando ne haveva l’occasione et uccideva e faceva altri mali, con stupore di tutti, che si mantenesse questa gente sì scelerata viva. Egli è vero se gli riusciva tenere in mora la Rep.ca che si uccidessero i suoi sudeti. E con questo mezo continuamente, e se bene altri suoi nemici gli tendevano

30. Osta Morato, futuro bey di Tunisi (1637). 31. Anabattisti. 32. Sette. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 21

insidie per levarlo dal mondo, non fecero mai niente, perché era protetto e fomentato dal Duca di Savoia. Hora essendo venuto capriccio al detto Duca di menare la guerra aperta alla Rep.ca lo ha eletto Coronnello de doi cento, e condottolo seco e perché sapeva essere pratico del paese, così del Levante, come del Ponen- te, lo mandò a prendere il luogo di Savignone, perché havea inteso, che preso che egli fusse, assai facilmen- te haverebbe preso tutta la Regione del Levante. Con esso lui vi mandò ancora un suo fgliuolo bastardo, et altri Capitani. Il luogo di Savignone non era guardato da niuno, anzi la maggiore parte di quei vilani, senti- to che i nemici si mandavano gente contro di loro, erano tutti fuggiti33 a Genova con le loro mogli e fgliu- oli. Giunto il Sartorio al luogo non tanto hebbe, ma il Castello ancora che non era forte, che da mano. Il Senato, che stava desto ad ogni movimento del nemico, saputo la perdita del luogo di Savignone, facendo ogni diligenza perché il nemico non si avanzasse, mandò Nicolò di Gerolamo Chiesa con titolo di Commes- sario, con alcune giunte pagate delle quali era capo Battino Marragliano, essendogli stata conferita autorità di potere comandare le Cerne all’uno et all’altro. Partì il Chiesa di Genova che era agli otto di Maggio [1625], e con tutta la soldatesca si diresse a Savignone, prendendo la strada della Valle di Bisagno, che è più corta, et essendo giunto vicino a luogo già si cominciava appicciarsi alcune scaramuccie con de nemici, i quali assaliti assai subito, si retirarono nel Castello per aspettare che venisse soccorso. Fra essi vi era il Bastardo fgliuolo del Duca di Savoia et alcuni altri banditi nostrali, che attendevano a difenderlo. Fra que- sto mezo, essendo tuttavia il Duca di Savoia in Gavi, egli hebbe con messaggero proprio ragguaglio, [o] sia come il Castello di Savignone, ove era dentro il suo fgliuolo, era strettamente assediato da Genovesi, che non haveria potuto lungamente tenersi, ma ben presto saria stato sforzato rendersi. Scelti dua mila de suoi soldati, con un poco di Cavallaria, in propria persona, se ne andò a Savignone, ove tanto fece, che trasse fuori del Castello il fgliuolo, sempre combattendo e scaramuciando, e parte de banditi scaramuzando con i soldati della Rep.ca, che erano gente tumultuaria, e senza alcuna disciplina. È constante opinione che se il Marragliano sapeva esservi il Duca di Savoia in propria persona, haverebbe in guisa tale spinta la sua gen- te, che certamente sarebbe rimasto o morto, o veramente prigione, con tutto ciò egli34 corse grande periglio poiché hebbe un moschettata nell’Arcione del Cavallo, e morto rimase il Crotti, suo caro Segretario, il qua- le stava vicino a lui, oltre altri Capitani il nome de quali non si è potuto sapere perché lo stesso Duca si sa, che proibì il pubblicarli, acciò che non si sapesse a quanto risico si era posto per salvare il fgliuolo, come salvò. Hora il Duca vedendosi circondato da tanta multitudine di gente Vilanesca, la quale e con tempo e senza tempo sparava Moschettate, stando egli con molto spavento di ricevere la seconda moschettata, disse che le foglie degli Arbori predicevano Moschettate. Finalmente egli, circondato dalla Cavalleria, e di molti suoi Capitani, si partì, e la sua partenza più tosto fu stimata fuga, e [più] forzata che volontaria. Da tale successo egli conobbe, che la gente Villanesca Genovese non era sì effeminata come gli era stato dato ad intendere. Giunse fnalmente il Duca di Savoia in Gavi, havendo per la paura che havea havuto a Giorni di Savignone fattoli affrettare il camino più di quello havria voluto. Dicono che aglì giunti da desde diede egli relatione di quello gli era successo al Digueres, il quale, dicono ridussi in sì fatta guisa, che il Duca l’hebbe per male assai. La perdita seguita di quasi tutta la Riviera Occidentale, esclusa Ventimiglia e San Romolo, pervenute in potere del Principe di Savoia, recava al Senato non poco pensiero, temendo che impadronitosi di esse due terre ancora non andasse ad espugnare Savona, la quale se bene ella era stata fortifcata, non si stimava però dovesse longo tempo resistere al nemico. Onde perché si rimediasse a quei diffetti, che circa questo potevano essergli, fu deliberato mandarli Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo, e Agostino di Steffano Centurione ambidua dell’ordine Senatorio, accioche solecitassero ogni lavoro risoluto intorno alla fortifcatione, oltre di ciò ad essi fu imposto col parere de periti, e venendo il nemico all’impresa di quella Città, non si partissero, ma procurassero con la loro presenza di difenderla, parendo a tutti, che il conservare quella Città, et il Porto verisimilmente si poteva sperare nell’esercito che tuttavia dimorava a Gavi, ne meno quello della Riviera, potessero andare alla espugnatione di Genova. Vi si mandò ancora il Ruggeri, Napolitano, et altri Capitani, e soldati, e con molte munitioni da guerra. Erano già i diecesette del mese di Maggio, e l’esercito nemico stava ottioso in Gavi, Ottaggio, e nelle Ville del Paredese, affigendo con sforzamenti, e stupramenti le Vergini e le Donne, e gli huomini con le taglie, e talvolta con levarli la vita. Onde molti di essi chiamavano vendeta a Dio di tante sceleragini. Egli è vero che si come non stima- vano né Dio, né il mondo, stavano in essi luoghi con tale desquidamento, che molti rimanevano nelle reti tesegli da Villani della Valle di Poncevera, come seguì nel luogo di Belforte vicino Ovada, che fecero pri-

33. “Andati”. 34. Il duca di Savoia. 22 «In forse di perdere la libertà»

gione Monsù di Bessè Francese, che era luogotenente del Principe di Savoia, con sessanta altri che allog- giavano in quello Castello mentre erano in letto, in amorosi diletti. Perché molti di San Romolo, e molti di Ventimiglia per fuggire le crudeltà di Savoiardi, si erano partiti con le loro mogli, e fgliuoli, e venuti a Genova, il Senato non potendo per all’hora mandarli soldati pagati, conciosia che non si voleva sguarnire i porti in Genova, gli fece comandamento che ritornassero alle case loro, a fne di difenderle. Questo coman- damento non fu intieramente osservato, perché la codardia ha grande forza. Tutte le Religioni che […] in Nove, Ottaggio, Ovada, e Gavi, all’apparire dell’esercito nemico abandonarono i loro Monasteri, esclusi i Padri Cappuccini, i quali perché sapevano essere cari al Duca di Savoia, si assicurarono di starvi, come pure stettero sino all’ultimo della guerra, e giovarono a quei di Ottaggio in alcune cose. A richiesta di Domenico di Ottavio Rivarola Cardinale di Santa Chiesa, il Pontefce si è contentato di dare con un suo Breve facultà al Vicario di Monsignor Domenico di Gerolamo Di Marino Arcivescovo della Città, che possa porre l’Anno Santo in Genova, con le stesse prerogative, et Indulgenze che sono in Roma, e questo l’ha fatto per conso- lare il Popolo, che possa in questa sua tribulatione darsi tutto a Dio. Gianettino Doria Cardinale di Santa Chiesa, Arcivescovo di Palermo e Vicerè di tutto il Regno di Sicilia, imitando la generosità di Andrea suo Avo, che diede la libertà alla Rep.ca, saputo il fero et […] assalto dato da Francesi, e Savoiardi a tutto il paese della sua patria, imbarcato sopra tre Galee dello stuolo di Sicilia trecentosettanta soldati Spagnuoli, l’ha inviati qui con altre provisioni da guerra; sono stati ricevuti con molto gusto e ripartiti alle Trincie di Bisagno. Per il mal trattamento, che fa il Principe di Savoia nelle terre da lui prese nella Riviera Occiden- tale, e per quello che potrà fare agli altri luoghi che andarà acquistando, molte Donne, e molti huomini, temendo tale maltratamento che vedevano tutto dì farsi, ma ancora la crudeltà, e licenza de soldati che non fanno distintione veruna sopra questo, un grande numero di essi, imbarcati se ne sono venuti a Genova, la quale cosa ha dato qualche noia al Senato, che non vorrebbe tanta carica perché in evento venisse assedio, mancassero i viveri, ha risoluto di elegere uno dell’ordine Procuratorio, e due Cittadini, sì come elesse Do- menico di Benedetto Centurione, Bartolomeo di Paulo Garibaldo, e Agostino di Steffano Pallavicino, a quali è stato imposto usino ogni diligenza di sapere che genti siano venute di Riviera, e di altri luoghi, non volendo però che in questo numero vi siano comprese le Donne, ma solamente gli huomini sfacendati, che possono cagionare confusioni senza veruno proftto della Rep.ca. A questo proposito non si mancarà sopra questo di soggiongere, che molte Donne, per altro di buona famiglia della Pieve, di Rosiglione, e di Ottag- gio, sono venute qui per schiffare la rabbia de soldati nemici, e hora sono in povertà grande,35 perché parti- te da luoghi loro in fretta, non hanno potuto con esse loro portare cosa veruna. Sono state racolte da Serva- gina Spinola moglie di Domenico Cataneo, da Lelia Pallavicina moglie di Francesco Grimaldo, da Flaminia Spinola moglie di Giacomo Gentile, da Lelia Pallavicina moglie di Francesco Mari, e da Virginia Centurio- ne moglie di Gaspare Bracolli. Le quali unite insieme per dare gusto a Dio, raccoltele tutte, e postele in una casa, ivi le nutriscono con molta carità. Hora qui in narrare un fatto seguito ci vorrebbe la facondia di Cicerone o di altro, né stimo sarebbe bastevole per esaltarlo quanto merita. Una grande mano degli huomini della Valle di Poncevera, guidati da Steffano di Paulo Spinola, havendo saputo che seicento Bovi, che il Duca di Savoia havea condoto di Pie- monte per trasportare venti pezzi di Artiglieria da gettare mura a terra, andavano pasculando l’Erba ne i piani della Centuriona, e di Carosio, e che ivi stavano con poca, o nulla guardia, si partirono dalle Case loro di notte tempo et ragunati ad una, giunsero nell’Arbore del giorno ne i piani inassaliti, uccise le guardie che non aspettavano tale assalto, uniti i Bovi, più chetamene, che poterono, insieme s’avviarono con essi verso Ottaggio, et avanti che comparisse giorno, erano dilungati tanto avanti, che non più potevassi credere che la cosa riuscire non dovesse. Il Duca dormiva, destato da suoi, si levò suso, e furiosamente voleva andare dietro a Ponceveraschi, ma considerato che altre insidie se gli potevano fare per prendere la sua persona, si ritenne per un’hora, mandando gente da ogni lato a fare la scoperta. Ma havendo ragguaglio che altro moto non vi era, postossi a Cavallo s’aviò verso Ottaggio, e giuntovi, saputo che malagevolmente potevassi co- gliere, essendo nella stessa paura di prima, temendo di altra insidia, ritornò adietro a Gavi colmo di dolore, pensando che per dapocagine del suo esercito, e delle guardie, sul sui proprij occhi, havesse ricevuto, oltre la perdita, una vergogna che mai si sapeva essere avenuta ad altro huomo, che pochi huomini e sgratiati, che non havevano ordine veruno, habbino saputo guidare una impresa sì ardita, la quale ha potuto oscurare ogni cosa fatta dal Duca di Savoia contro Signori Genovesi. In Genova saputa sì fatta novella, ne fu fatta alle- grezza grandissima, e riuscì assai maggiore quando i Bovi furono condotti a Genova, e nella Piazza Sena-

35. “Per avere le loro case (lasciate in fretta)”. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 23

toria, ove concorse numero infnito di genti di tutta fatta a vedersi. A questa impresa ne seguitò un’altra, se bene minore, che da quei dell’Orba in certo Castello furono fatti prigioni da quaranta Francesi huomini di qualche conditione, conciosia, che erano cavalli armati alla leggera, che sogliono essere nobili, e mandati a Genova furono carcerati con gli altri, e col signore di Corsagiro preso in Aiqui.36 Ma quello che diede mag- giore contento a Ponceveraschi, che presero vicino Ovada varij muli carichi di danari, i quali i ministri del Principe di Piemonte gli havevano estorti dagli huomini della Riviera Occidentale, a quali era stato imposto una taglia di cento mila scuti da pagarsi subitamente, e si mandavano a Gavi al Duca di Savoia. Di questa tassa fatta, e scossa con grandissimo rigore pare, che in Genova ne fusse sentito gusto, non perché si haves- se piacere del male altrui, ma perché erano appariti così disamorevoli per non dire avari, e malaffetti verso la Rep.ca, che non gli havevano mai offerto sussidio veruno in tante spese, che si facevano di giorno in giorno. Fra le spese gagliarde, che dalla Rep.ca si andavano facendo, non meno grave non era dell’altre quella di ducento Cavalli armati alla leggera, della quale era Capo Anibale Gonzaga, e suo luogotenente un tale Spatafora Siciliano, i quali, l’uno e l’altro havevano un grosso stipendio. Questi furono mandati a Sa- vona, perché potessero correre la Campagna. Sino a questo giorno si era stato in speranza di potere guidare gli affarij della Guerra senza Capo. Ma hora ognuno benissimo restava chiaro, che non era possibile potes- se riuscire cosa veruna in bene, senza havere persona perita di ogni scienza della guerra. Onde consultata la bisogna nel Senato, fu risoluto che in ogni modo egli se eleggesse, la quale cosa proposta al Consiglio mi- nore, fu parimenti accettata, e sin di quel giorno fu eletto Fra Lelio Brancaccio Napolitano Cavaliere di San Giovanni Battista Ierosolimitano, Gentil’huomo ornato de ogni savere, e prudenza, il quale perché era a Milano con lettera fu chiamato, et egli con prestezza venne, et esercitò con molta sodisfattione di tutti la sua carica. Pare che fra La Digueres et il Duca di Savoia siano nati alcuni disgusti, cagionati dalla continua instanza, che il Duca di Savoia faceva al Digueres di calare al basso con tutto l’esercito in Sampierdarena, e poi andare all’assedio di Genova; conciosia che egli diceva, che vi havea sì fatte intelligenze, che subita- mente giunto, o le sariano aperte le porte, e introdotti dentro, o altramente si saria venuto trattato di render- si. La quale cosa il Digueres, non vi voleva instare, e respondeva che non era riputatione di uno esercito Regio, e suoi senza quantità di viveri, rinchiudersi in una Valle come era quella della Poncevera, ove si sapeva che vi erano non soldati, ma huomini di tal guisa animosi e bravi che per difendere le loro case, mogli e fgliuoli sarebbono stati non che huomini ma lioni schatenati, che per questo non voleva convenire al gusto suo.37 Ve n’era un altro disgusto fra di loro, che era maggiore e più spingeva lo sdegno, che il Duca di Savoia havea sparsa voce che il Digueres non andava all’assedio di Genova non per le cagioni che anda- va dicendo, ma perché veramente era stato da Signori Genovesi imboccato con ducento mila scuti, accioche se ne ritornasse in Francia. Averia tratta fuori, si crede, perché il Re di Francia lo levasse dalla carica di suo Generale, et in sua vece ne mandasse un altro a lui più aderisse a suoi gusti, e che in tutto facesse a suo modo, come sarebbe dire precipitarsi a guisa di desperato. Ma La Digueres assai facilmente ributava si fusse […] che cosa sia, si purgasse suffcientemente, mandò in Francia al proprio Re Monsù de Crechi suo genero, il quale seppe così bene maneggiare questo particulare, che il Re, se per aventura havea conceputo alcuna sospetione di lui, se lo tolse del tutto dall’animo, con le ragioni dattele. Vi era il terzo disgusto, e dispetto, che il Duca di Savoia si lasciava intendere che poiché non si era potuto havere Genova, che si pensava sfogare il suo odio con gli abitatori de i luoghi di Nove, di Ovada, di Gavi et di Ottaggio, con por- re a famme, et a fuogho, e ridurre il tutto in ceneri, la quale cosa parendo al Digueres strana e cosa nuova il fare cose simili, disse liberamente, che non voleva altrimenti essere testimonio di cosa sì inhumana, et che gli ordini, che egli havea del Re di Francia suo Signore, erano di conservare Genova, se però la prendeva, e tutto il rimanente del suo Contado, intatto da simili fagelli, oltre che la natura sua, non lo faceva inclina- re come Catolico a sì mesti avenimenti, massime in gente che non l’havevano offeso in cosa veruna, ma si erano resi ubbidienti ad ogni suo volere. Una parte della famiglia Ravaschiera per molti e molti anni è abi- tata di stanza in Napoli. Ora sono molto potenti et sono posseditori di molti feudi et honori. Fra gli altri vi è Ettore Ravaschiero con titolo di Principe di Satriano. Hora costui vedendo la sua Patria assalita da dua eserciti così poderosi, temendo che gli avenisse qualche mesto avenimento, come buono Patriota ha voluto in quello che può aiutarla, si è offerto di assoldare tre mila cinquecento soldati soi vassalli Napolitani, e condurli alla difesa della Città, acompagnato da alcuni cavaglieri napolitani soldati, che ancora i tre mila servirono in detti bisogni per sue camerade; i tre mila alle spese della Rep.ca, i cinquecento alle spese sue.

36. Aqui. 37. Non voleva assecondare la volontà del duca di Savoia. 24 «In forse di perdere la libertà»

Generosità non ancora veduta in niuno benché antico Cittadino della Rep.ca, e dopo di havere ottenuta la licenza del Vicerè di Napoli, é stata accettata l’una, e l’altra. Dicessi, che un Frate Cappuccino favellando familiarmente col Duca di Savoia, quando era in Ottaggio, le dicesse che la Pace d’Italia che era durata tanti anni, hora del tutto restava rotta, che difcilmente si tornarebbe allo stato primiero. Rispose all’hora il Duca con un poco di resentimento, che era vero, che la pace era rotta, che se bene dalla parte sua l’havea rotta ne havea havuto grandissima occasione per le offese fatteli da Genovesi, i quali non si erano conten- tati di una sola, ma l’havevano multiplicate in infnito, e che stimava che ben presto si sariano pentiti perché se bene per colpa di altri non havea potuto sino all’hora di tale ingiuria risentirsi secondo il volere suo, era però con certa speranza di doverlo ottenere nell’avenire, ancora che non prendesse Genova con porre fra di loro molte dissentioni, che haveriano havuto tanta forza di ridurli in sì misero stato, che saria uguale come di perdere la libertà. Mentre seguivano queste cose conoscendo homai il Digueres, et il Duca di Savoia, che arte né stratagemma veruna usata non havea giovato, né meno hariano giovato nell’avenire di havere Ge- nova in podestà loro, deliberarono di partire da Gavi, sì come li 13 del mese di Giugno [1625] esequirono l’uno dopo l’altro, aviandosi verso Aiqui, con publicare tuttavia di andare alla espugnatione della Città di Savona, la quale espugnata che havessero, se ne anderiano alla impresa di Genova. Questa notitia fu tra- sportata a Genova, e perché pure non era inverisimile che questa voce ella fusse vera. Il Marchese Santa Croce, Don Carlo Doria, e molti altri Cavalieri Spagnuoli, et Italiani, posto insieme dieci Galee con altre munitioni da guerra, se ne andarono a Savona, la quale Città era guernita di un presidio di sei mila soldati, e tutti i soldati da fattione, sì che in Genova poco si temeva di perdita. Sì come era stato deliberato ne i Consegli, anticipatamente eletto, fu il Duce della Rep.ca, con però ordine di non prendere il possesso, che il presente non havesse terminato i dua anni, e fu eletto a tanta dignità Giacomo di Niccolò Lomellino Gen- til’huomo da tutti stimato proportionato a tempi sì male aviati. La spesa che la Rep.ca havea fatto per la guerra era stata grande, ma si diceva men male era, poiché sino a questa hora si era conservata la libertà e vi era speranza certa che dovesse essere nell’avenire. L’Errario publico era voto, e conveniva trovare dana- ri, non tanto per pagare la soldatesca, e per altre cose necessarie, ma anco per mostrare al Mondo che vi era risolutione di perdere la vita, e l’azenda, e conservare la libertà. Donque per trovare danari furono dal Se- nato eletti i seguenti: Giovanni Steffano di Nicolò Doria, et Ottavio di Lorenzo Sauli dell’Ordine Senatorio, Tomaso di Antonio Spinola, e Lionardo di Battista Torre dell’ordine Procuratorio, et Giovanni Battista di Domenico Doria, Giovanni Andrea di Tobia Pallavicino, Giovanni Battista di Michele Adorno, et Giacomo di Pantaleo Balbi, i quali, con imporre nove Gabelle, trovarono ciò che volerono. Ogni giorno i nostri Con- tadini vanno alla Caccia de Francesi e Savoiardi, e li prendono, sì che homai ne sono tanti nelle Carceri, che non vi possono più capire. Erano già trapassati più di dua mesi, che momento per momento si aspettava l’uscita del Duca di Feria con l’esercito. Finalmente i dua di luglio [1625] egli uscì con esercito poderosis- simo, e se ne andò in Alessandria, ove fece la mostra della gente. Il Digueres, et il Duca di Savoia erano a Spigno e pareva volessero andare a Savona. Egli è però vero, che questo incaminamento era a passi lenti, e tardi, come hebbero ragguaglio della uscita del Duca di Feria, e che andava verso Aiqui per espugnarlo, ove erano seicento soldati Francesi per guardie, e temendo di essere esclusi di tornare in Piemonte, si partirono quasi fuggendo da Spigno, et andarono a Verrua per fermarsi ivi, volendo vedere che pensieri havea il loro nemico. Quando il Principe di Piemonte andò ad invadere la Riviera Occidentale, s’impadronì non tanto de luoghi di San Romolo, e di Ventimiglia, ma ancora di Zuccarello resoli da tre Capi di cinquanta soldati Tedeschi che vi erano stati posti alla guardia, i quali in quello fatto apparirono vilissimi senza urgente ne- cessità, perché potevano difendersi. I tre Capi di Tedeschi reso il Castello, se ne venero a Genova al solito luogo della Piazza Senatoria. Egli è vero che dal Coronnello loro, furono carcerati, accioche rendessero conto della resa di Zuccarello, ma non havendo essi sodisfatto a giudici che sono li stessi Tedeschi che gli esaminarono, furono condanati alla Morte, la quale a tutti tre fu esequita nella Piazza del proprio Palagio. Steffano di Piero Spinola è stato dal Senato mandato con titolo di Nobile ad assistere alla persona del Duca di Feria, accioche andasse ragguagliando de i progressi che andava facendo. Il padre Marcello di Agostino Pallavicino della Compagnia del Giesù, che è stato fondatore insieme con Francesco, Giulio, Giovanni Cesare e Niccolò, suoi fratelli della notissima e bellissima Chiesa del Giesù in Genova vicino alla Piazza Nova, ove si è speso da ducento trenta mila scuti, è morto con estremo dolore di tutta la Cittadinanza di Febre maligna cagionata da i grandi travagli che ha fatto continuamente in confessare huomini, donne, e Monache, in accompagnare alla Forca, o veramente alla Manaja huomini dannati a sì fatto suplitio, che gli hanno abbreviato la vita; perdita stata stimata da tutti grandissima. Si suole per volgato proverbio dire, che Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 25

l’Italia è la sepoltura de Francesi, ma tolgasi per hora questo proverbio, e se ne prenda un altro, conciosia che sarà più proporcionato a tempi presenti, e si dica che il paese Genovese è la vera sepoltura de Francesi, chiaro si è veduto ne i tre mesi passati, che essi partirono da Torino, e giunsero a Gavi, perché si sa certo che morti da Villani e di infrmità siano andati a casa del Diavolo più di quindici mila. Non paia strano che si dica che siano andati a casa del Diavolo, perché essendo costoro venuti per rubbare e fare ogni altro male, e questa loro intentione postala ad esecutione, non si può fare più vera conseguenza, se però la legge di Dio nostro Signore non erra, che è certo che non può mai errare, perché è la verità stessa. Dopo che in Genova si seppe, che il Duca di Feria era con venticinque mila soldati, e tre mila Cavali uscito in campagna, e che andava dietro a Francesi, et a Savoiardi per scacciarli di Italia, i quali in gran fretta fuggivano; il Senato perché gli affarij de Spagnuoli che in conseguenza sono proprij della Rep.ca, caminassero con quella felicità che si desiderava, fece porre in la Chiesa di San Lorenzo, in San Siro, Santa Maria sopranominata delle Vigne, e il Giesù l’oratione delle Quaranta hore con quantità di lumi, acioche ognuno mandasse a Dio suplichevoli preghiere, e si ottenesse quello che la Rep.ca desiderava. Questo or- dine fu eseguito, onde ogni huomo vi andava con frequenza grande, e divotione. Per la partenza de i dua eserciti Francesi, e Piemontesi da Gavi, et andati verso Aiqui, fuori che Nove, Ovada, e Gavi col Castello tutto il rimanente restò libero dalla loro oppressione, ma l’uno, e l’altro tanto desolati, e distrutti, che eglino più tosto sembravano luoghi inculti, e non giamai abitati da huomini, conciosia, che erano tagliate le Vigne, e spiantato gli Arbori, et ogni altra cosa, che soleva produre quel paese così dovitioso, et abondante. Andava la Rep.ca pensando che si come havea ricuperato quella parte che era aperta, di ricuperare anche i luoghi murati, e singularmente il Castello di Gavi, che è situato sopra un Monte erto, difcile da battere, e di salirvi, e si stimava fussi stato ben fortifcato di ogni cosa, che per questo dovesse la impresa essere malagevole. E perché in Nove vi era Monsù della Grange con cinque cento soldati Francesi, i quali erano essi ignoranti, che all’hora non aspettavano assalto veruno, perciò che quando fussero assaliti, credevano essere soccorsi in quell’istante dal Digueres, che gli lo havea promesso, quando si partì, e dopo confermatoli con lettere scrittele da Spigno, dicendoli, che Signori Genovesi non havevano forza di darli assalto veruno, conciosia, che andando egli all’impresa di Savona, la quale per difenderla conveniva impiegassero tutte le forze loro, non haveriano potuto resistere all’uno, et all’altro in stesso tempo. De Spagnuoli meno si poteva credere che dovessero moversi, per che non erano in stato tale di rompere hora la guerra al Re Suo Signore. Ma costui dal successo benissimo si avide che Signori Genovesi ricuperarono Nove, e gli altri luoghi, senza perdere Savona, né altra cosa, essendo le forze loro aumentate assai, e potevano più di quello si erano dati da intendere né il Digueres, né il Savoia. Stando dunque La Grange senza timore veruno, Steffano di Paulo Spinola (questi è quello intervenne a prendere i Bovi ne i piani della Centuriona, e di Carosio, et era Gen- til’huomo di core e di valore) raccolto grande numero di Ponceveraschi con essi si accostò alle mura di Nove per sorprenderlo. Ma avedutossene le guardie, furono rebuttati addietro. Egli è vero che sopragiunti altri Ponceveraschi, essi, e gli rebuttati di nuovo ritornarono a fare empito, il quale fu con tanto sforzo, che aiutati da Alessandro Bonore entrarono dentro con uccidere molti, e tra gli altri un fgliuolo della Grange, il quale ivi si trovò e vole allo sproposito, spinto dalla sua furia cacciare mano alla spada; parimenti furo- no morti molti altri che corsero al romore, la quale cosa veduta dalla Grange, e dagli altri in grande furia fuggirono verso il Castello, et ivi si salvarono. Egli è vero che conoscendo che non potevano diffendersi per la debolezza delle mura pensavano all’arendersi. I Ponceveraschi, ingordi del saccheggiamento, come videro fuggire i Francesi, non seguitandoli come dovevano, si diedero a saccheggiare le robbe loro, il che non fu considerato da i Francesi, perciochè potevano uscire dal Castello, e tagliare a pezzi i Ponceveraschi. Ma Dio, che già havea risoluto, che la Republica ricuperasse, che malignamente gli era stato tolto, fece che i Francesi non conobbero la bona occasione che porgeva loro la fortuna, onde vedendosi alle strette si aresero, senza conditione veruna, essendo rimasti prigioni Monsù della Grange, Governatore della Piazza, Monsù della Rappè Capitano Seniore Luogotenente generale di tutto il Campo, quattro altri Luoghitenenti, il Sergente maggiore, quattro Uffciali, il Signore della Gardetta, il Signore di Bellagarda, il Cavaliere suo fratello, il Signore di Bonavilla, il Barone Etti, e trecento Francesi, che tutti per ordine del Senato furono condotti prigioni a Genova. Con la ricuperatione del luogo di Nove, parve a tutti che le cose della Rep. ca cominciassero a respirare, massime, che con la stessa facilità e felicità fu ricuperato Ovada, ove erano alla guardia seicento Piemontesi, i quali assaliti, tutti pieni di paura, si aresero subito a Paulo Agostino di Domenico Spinola, che vi era andato con le Cerne de i luoghi di Rosiglione e di Voltri, e vi erano ancora molti del luogo di Masone. Altro non vi restava fra terra che ricuperare Gavi, et il Castello, i quali l’uno, e 26 «In forse di perdere la libertà»

l’altro erano con molta vigilanza, et acuratezza guardati da Monsù di San Siro. Costui dal Digueres vi era stato lasciato capo, non tanto del luogo come del Castello, con esso lui mile novanta soldati Francesi, con promessa ancora in evento fussi assalito, o da Signori Genovesi, o da qual si voglia altro, lasciare addietro ogni altra impresa, e venire a soccorrerlo subito con tutto l’esercito. Il Senato di Genova con tutta la No- biltà, bramava di scacciare del tutto i Francesi […] che si faria con agevolezza, conciosia che il Duca di Feria era con validissimo esercito in campagna, e faceva grande diversione. Né il Digueres né altro saria potuto venire a soccorrergli. Ve n’era un’altra, che si come i Francesi dominavano con mezzi tirannici i popoli, i quali verso la Rep.ca non havevano scemato punto il loro affetto, ma instavano, e pregavano tutti, che homai si liberassero dalle tante miserie nelle quali stavano alla continua per lo violento governo che Francesi facevano. Il Senato stimulato da tante cose, diede principio a fare gli apparecchi necessarij per tale impresa, elegendo prima di ogni cosa per capo Monsù di Vatteville,38 Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli generale dell’Artiglieria, et altri Capitani, come i tre fratelli Gonzaga, marchesi di Bozolo,39 e Giulio Cesare di Cesare Pallavicino Cavaliere di San Giacomo di Spagna, con tre mila soldati Italiani, e Corsi, i quali come furono giunti, essendo già li 19 del mese di luglio [1625], stagione se bene calda, però proportionata a fare tale impresa. Riposato due giorni l’esercito, lo attese ad inquietarlo quei che erano dentro di Gavi, con prendere i posti per stringere bene la Piazza, lasciando per all’hora l’impresa del Castello. Questa inquie- tudine fu sì continua, e sì molesta a nemici, e particolarmente di tre Cannoni venuti da Genova, che sparati facevano sempre colpo in tale guisa, che i Francesi spaventati, cominciarono a parlamentare per rendersi, il che fecero a capo di dua giorni. E per che il Vatteville non havea sopra questo autorità veruna, solo se si rendeva senza conditione il Castello ancora, Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli si prese cura di andare a Genova, e rapresentare al Senato le conditioni, con le quali dicevano i Francesi di volersi rendere. Il Senato, consultata la bisogna, risolse che il Sauli ritornasse a Gavi, e riferisse che si accettassero quelle conditioni, che il Generale Vatteville, et il Sauli medesimo risolvessero, pure che il nemico subitamente andasse via del tutto, e così si esequì. Ma perché mancava la resa del Castello, si attese a serare le strade per le quali si poteva calare dal castello et andare nel luogho, le quali tutte cose vedute da Monsù di San Siro Castellano, e disperato di ogni soccorso, parve a lui non diferire più di arendersi ma dare subito il Castello in mano de Genovesi, per havere migliori conditioni, come in effetto hebbe, che furono le seguenti: L’anno 1625, 21 luglio. Che possino sortir fuori salve le vite dell’Uffciali, soldati, e servidori. Che gli Uffciali eschino con le sue armi, e gli soldati con spada e pugnale solamente, et a Monsù di San Siro, havendosi riguar- do alla qualità della sua persona, se gli permette, che porti seco dieci bandiere disarberate. Il signore Barone di Vatteville sia tenuto provedere alle cose necessarie per la condotta delli feriti, et amalati. Che il medesimo Signore sia obligato pigliare la condotta della gente che uscirà sino al Porto, et al luogo dell’imbarco, che più a proposito allo stesso parerà. Che faci condurre la gente a giornata di guerra, et a spese della Rep.ca sino all’imbarco. Che poi consegni quella gente Francese a Marinari, o ad altre persone pratiche, et isperimentate nel navigare, quali habbino cura di sbarcargli al luogo, o al Porto giudicato commodo. Che lo sbarco si facci di qua, o di là da Marsilia come compiacerà al Signore Barone di Vatteville. Che le munitioni, che si consumeranno dalo giorno dell’imbarco, sino allo sbarco vadino a conto loro. Che le munitioni di guerra tutte restino, e spettino alla Rep.ca, il medesimo s’intende dell’Artiglierie, et altre sorti di Armi che Monsù di San Siro consegni al Si- gnor Barone altre dieci Bandiere, che restano nella terra. Che detto Monsù dij ostaggio, per sicurezza delle mine, che potessero esser state fatte dietro, e fuori di Gavi, obligandosi a notarle. Che il mentuato Monsù consegni l’Artiglieria, che si trova nella terra al Signore Giovanni Antonio Sauli Generale dell’Artiglieria, per la Ser.ma Rep.ca, seguendone reciprocamente le dovute consegne, e ricevute, consegnandola però […], et in ordine come s’intende di tutte l’altre armi. Tutte le munitioni, e stromenti, come polvere, palle, micchie, zappe, badili, fuochi artifciati, sijno riposti in una Chiesa, e consignate al sopradetto Signore Generale dell’Artiglieria con tutto il rimanente che può servire per uso di questa. Che Monsù di San Siro, se vol uscir con li suoi sicuramenti, operi col Governatore del Castello suo luogotenente per il tempo conveniente facia triegua. Sottoscritti che saranno questi Capitoli, Monsù di San Siro habbi da consegnare le Porte della Terra nelle mani del Signore Barone di Vatteville, come anche tutte le Piazze per potervi mettere li corpi di guardia, mentre marcerano gli Francesi. Che Monsù di San Siro consegni le munitioni del vivere al Signore Niccolò Salvago Proveditore per la Ser.ma Rep. ca di Genova. Che ‘l più volte nominato Monsù di San Siro, con alcuni altri suoi Uffciali restino in Genova per ostaggi per sicurezza delle Navi, o Vasselli, che conduranno via la sua gente da durare sino al ritorno di quelli, con che però ne siano mandati altri Francesi in Genova a levar detto Monsù di San Siro. Che il Signore Barone

38. Pierre de Joux, barone di Watteville. 39. Bozzolo. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 27

possa fare, e far fare ogni sorte di artifcio contro il Castello, caso che non segua l’acenata triegua col Castella- no. Si dà parola inviolabile per il Signore Barone Vatteville per la intiera osservanza delli presenti articoli. Capitulato in questa guisa uscirono di Gavi mile novanta Francesi con quegli erano nel Castello che si era reso ancora lui, e s’inviarono verso Sanpier di Arena; furono levati da sei Galee, e condotti conforme il con- certato, restando gli ostaggi già detti. Le robbe trovate nella Terra, sono le seguenti: Cannoni venticinque, e fra gli altri due bellissimi, uno chiamato Ruggero, e l’altro Bradamante. Moschetti, et Archibuggi in tutto dieci mila, cinque mila Piche, Palle d’Arteglieria tra grosse, piccole, e mezzane dieci mila, Barili di polvere seicen- to, et assaissime armature, tre Petardi, Granate in copia, due mila tra Zappe e badili, infnità di Miccie, Alabar- de molte, Canepi per l’Artiglieria, Fanali cinquecento, Torcie da Vento mile, scale ducento, et altri ordigni in gran numero. Nel Castello che si rese alli ventisei del mese di luglio [1625], fu trovato barili di polvere quat- tro cento cinquanta due, Farina mine trecento novanta, Riso sacche tre mila seicento, Pezzi di Cannone di Bronzo tra grossi, mezani e piccoli quaranta tre, di Ferro sette, et altre cose. Questa ricuperatione non si può negare, che non sia stata molto honorevole per tutti i versi. Hora, che i luoghi ultra Jugum sono in potere della Rep.ca, non vi rimaneva che desiderare per l’intiero contento di tutta la Città, poiché si erano cacciati via Francesi, e Piemontesi, e sgombrato quel paese da sì fatto morbo. Onde il Senato attese di nuovo a porre sotto la sua ubidienza tutti quei huomini, che erano rimasti in vita, mandandovi iurisdicenti di bontà e di prudenza a governarli e acciocché andassero imprimendo (se però ne vi era di bisogno) nelle menti loro che tuttavia regnava nella Rep.ca l’affetto che per l’adietro havuto havevano verso di essi, et il dispiacere havea havuto la Rep.ca del travaglio, che per la guerra si era sentito, però che speravano nell’avenire con l’aiuto di Dio, doves- sero sgombrarsi novole così maligne, e venire il sereno, e il Senato andaria procurando a tutto suo potere che seguisse. E vi furono di quei Nobili Genovesi, che sapendo che in Ottaggio vi erano delle famiglie ridotte in povertà, che havevano bisogno di ogni cosa, comiserandole, vi mandarono somma di danari a distribuire, con i quai danari solevarono alquanto la misera loro conditione, in che erano. Fra questo mezo in Genova si erano andate preparando le cose necessarie per scaciare dalla Riviera Occidentale i Piemontesi, per questo effetto erano in pronto quaranta tre Galee, dieci delle quali erano della Rep.ca, le rimanenti del Re di Spagna, nelle quali si imbarcarono il Marchese Santa Croce, Don Carlo Doria, Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluz- zo, Agostino di Steffano Centurione ambidue Senatori, e Commessarij Generali della Rep.ca, Fra Lelio Bran- caccio Generale, Don Luigi Gonzaga con dua suoi fratelli, Giovanni Luigi Ruggero Mastro di campo, e Gio. Geronimo di suo Sergente maggiore, Giovanni Benedetto Moneglia, Francesco di Giaco- mo Ragio, Lionardo di Giulio Rovere, tutti tre Capitani, Galeazzo di Cesare Giustiniano Generale dell’Arti- glieria, portando con esso loro otto pezzi di artiglieria da campagna, e da gettare a terra mura. Partirono dal Porto di Genova li dieci sette del mese di luglio [1625], e quella prima sera andarono a Savona, ove fecero la risegna così delle Galee, come dell’infanteria. Francesco Barca, nobile di Albenga, è da quella Città bandito per havere ucciso un suo nemico, desiderava egli ritornare in gratia de suoi Signori, che è la Rep.ca, col servi- re qualche tempo in Guerra, conciosia, che sapeva che vi era decreto gratioso della Rep.ca fatto poco prima, il quale a chi serviva in guerra in qual si voglia modo, pure che lui havesse la pace da i parenti dell’offeso, gli era rimessa ogni colpa. Onde havuto egli spia che quattro compagnie di quaranta soldati l’una, Francesi me- scolati con Piemontesi, andavano per entrare in Albenga, per meglio guernirla, con cento huomini che da sua posta havea messo insieme, andò ad aspettarli in certi luoghi stretti, e come gli vide nella rete, gli assaltò e gli ruppe, facendo non tanto molti prigioni ma ancora acquisto di molta robba, che portavano con essi loro. È già un pezzo che si era sparsa voce, che l’armamento di Navi che si faceva nell’isola di Inghilterra da quel Re, era fatta per venire ad aiutare i desiderij del Duca di Savoia contro la Rep.ca Genovese, ma l’essere state le Navi lungo tempo in quei Porti per venti contrarij, le provigioni de viveri da loro fatti si erano guasti in maniera che havevano poi impedito la loro partenza. Il Duca di Savoia mentre era in Gavi per intemorire la Rep.ca, accio- chè i Cittadini di essa andassero a rendersi a lui, molto si valeva di questa falsa voce, dicendo con quel suo modo affermativo, che essa armata saria ben presto in sui aiuto, e che Genovesi, i quali stavano ostinati in non volersi rendere, ben presto e con loro grave danno si sariano pentiti della pazza ostinatione loro. Onde la Rep. ca, perché molti Cittadini, e de primarij, credevano (però senza veruno fondamento) essere vere le parole del Duca, andavano persuadendo gli altri, che non haveano questo timore, e sapevano che la natura del Duca era tutta volta a valersi di simili modi, e dicevano che vera o falsa fusse essa voce, e le parole del Duca, in tutti i modi era, et saria stimata prudenza grande il provedervi in qualche guisa per acquiettare tutti. Il Senato con molta maturità consultò ogni cosa, e venne in parere così persuaso da periti dell’arte di fortifcare, che si fa- cesse sopra la cima del molo una piattaforma con le sue Erchere da potervi mettere l’Artiglieria per vietare con 28 «In forse di perdere la libertà»

essa i navili volessero entrare dentro nel Molo; con questa fabrica rimasero i paurosi del tutto quieti. Intanto era partita l’armata da Savona, e giunta a dieci nove di luglio [1625] felicemente a i lidi del luogo di Albenga, ove sbarcò senza veruno impedimento tutto l’esercito, il quale in quell’istante, piantò i Padiglioni, e preparò gli allogiamenti. Era la Città guernita di novecento Piemontesi, i quali nel principio apparirono assai animosi, perché una parte di loro nel giungere dell’esercito, uscirono fuori et attizarono la scaramuzza, che ferirono molti fra quali Giovanni Paulo Spinola Alfere de una compagnia, oltre altri. Continuò la zuffa per dieci hore del giorno. Ma conoscendosi da Genovesi che se non si addopperava il Cannone non si saria fatta cosa veruna, fu fatto calare di Galea, e posto in luogo oportuno si diede principio a sparare contro le mura, le quali si come erano state fabricate anticamente, non resisterono molto tempo, conciosia cosa che fecero una grande apertura e con facilità per quel mezo si poteva espugnare la Città. Egli è vero che avedutossi i Piemontesi che bisogna- va in ogni modo rendersi, acettarono le conditioni che piacquero a Commessarij generali, poiché la guerra si faceva in nome della Rep.ca, che Piemontesi uscissero fuori con la spada solamente, et andare sicuri alle case loro, conditioni che gli furono concesse per due cagioni, la prima perché entrando l’esercito per forza dentro della Città haveriano saccheggiato le robbe de nemici, ma quelle de paesani che non meritavano questo. L’al- tra cagione era potente, per allettare i presidij delle altre terre da acquistarsi a darsi senza adoperare l’armi, essendo il Senato risoluto che si prendano le terre, e si scacino via i nemici, ma non mai con danno de sudditi. I dua Commessarij presero il possesso del luogo, facendoli giurare di novo fedeltà, la quale con molto conten- to loro fecero prontamente, parendo loro mile anni di essere fuori del governo di Piemontesi, i quali gli have- vano trattati male singolarmente, che volevano ogni giorno denari, non tanto per loro medesimi, quanto per il Duca, il quale impose in tutte le terre della Rep.ca acquistate, cento mila scuti, che con molto rigore si scosse- ro. La presa di Albenga agevolò quella della Pieve. Imperochè quei huomini saputola, cacciarono via i Pie- montesi, ma non si cont[en]tarono di questo solamente, che gli uccisero tutti, e quei ancora vi capitavano alle mani, non essendo stato niuno popolo più trattato male da suoi nemici, singularmente quando il Principe di Piemonte prese il luogo per forza, perché soffrì che si saccheggiasse la terra con grande empietà, oltre le altre sceleratezze che sciogliono usare i soldati, che costoro tutti provarono. Acquistata così gloriosamente Albenga e la Pieve, si deliberò di inviarsi subito al Porto Mauritio, nel quale luogo oltre che è situato sopra erto monte, vi era di guarnigione Piemontesi e Francesi mescolati insieme, che a primo tratto in le parole loro, si mostra- vano bravi, poiché protestavano di essere risoluti di volere più tosto morire cento mila volte che fare mai viltà veruna di arendersi e mancare di fede al Duca di Savoia che gli havea affdato quel luogo. Ma alla prova co- storo si avidero, che le loro bravate come si suole dire, erano fatte in credenza, perciò che battagliate le mura con l’Artiglierie, e fatta apertura grande in esse, erassi in quell’istante per darsi l’assalto, il quale se andava avanti, riusciva di prendersi il luogo, eglino senza altro, erano tagliati a pezzi. Onde essi, conosciuto la loro ignorante ostinatione, si resero con farli gratia, che potessero uscire salvi, et andarsene in Francia i Francesi, e i Piemontesi in Piemonte con portare le loro bagaglie quante però potevano, sotto il braccio. Filippo di Fran- cesco Pallavicino dal Senato è mandato a governare il politico a Savona, e gli è dato titolo di Commessario generale dell’armi invece di Luca di Gasparo Spinola, che per suoi domestici affari havea ricusato quella ca- rica. Nello stesso tempo si arese il luogo del Sacello, essendo però prima fuggiti alcuni Francesi, prima che vi giungesse Giovanni Battista di Niccolò Doria, il quale era stato cagione, e della fuga di Francesi, e della resa del luogo. Al Marchese di Valle di Fuentes, venuto a Genova, mandato al Senato dal Duca di Feria, ad instar- lo alla ricuperatione delle terre della Rep.ca, che erano in potere del Duca di Savoia, le quali acquistate, che siano esorta di vantaggio, che con l’esercito si entri nello Stato dello stesso Duca come vero nemico, e si pren- da le sue terre, perché promette, che quelle si acquisterano, si potrà incorporarle nella Rep.ca come sue; facen- do questo egli ne sentirà giovamento grande, conciosia che potrà tanto più presto debellare lo stesso Duca con prendergli Verua, e Presentino sue terre, acciochè per questo mezo resti gastigata la temerità sua di havere rotto la pace di Italia durata tanti anni. Quando il Duca di Feria prese la Città di Aiqui, nel quale luogo si erano fortifcati i Francesi quando si partì pure da Gavi. In essa Città vi era una parte della Guardarobba del Duca di Savoia, la quale pervenne nelle mani del Duca di Feria, et egli per un Trombetta le mandò al Duca, con un biglietto di questo tenore: Memoria al Trombetta: Andarete dal Signore Duca di Savoia, e li direte, che Sua Eccellenza vi invia per dirgli per parte sua, che mandi persona di confdenza a chi si possino consegnare li Forseri, e Bauli della Guardarobba di S.A., che si trovino in Aiqui nel Palagio del Vescovo di detta Città. Al quale biglieto, o sia memoria dal Duca di Savoia fu fatta risposta di questo tenore: Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 29

Memoria al Trombetta per la risposta: Rispondarete al Signore Duca di Feria, che le robbe consegnate al Vesco- vo di Aiqui, tanto dell’Altezza Ser.ma, che de suoi servitori, che servivano di passaggio all’Altezza Sua in quella Città, non sono della qualità, e del valore, che S.A. vorrebbe per dar maggiore gusto a Sua Ecc.a, alla quale perciò offerisse qualche cosa di meglio, quando ella sia per gradirla, ringratiandola in tanto della cortesia, che S.E. s’è compiaciuta di dimostrarle. Le quaranta tre Galee, con l’esercito andarono nella Riviera Occidentale per ricuperarla; è che elle fe- cero tutti quei acquisti, che si sono narrati, tralasciata per all’hora la impresa della Città di Ventimiglia, perché così parve a Ministri Spagnuoli, ritornarono a Genova con tutto l’esercito, havendo però lasciato ben munito i luoghi acquistati, acciochè l’inimico non ritornasse a ripigliarli, come facilmente haria potuto, se non fusse grandemente astretto dall’esercito del Duca di Feria, il quale si era posto all’assedio di Verua terra nelle viscere del Piemonte e gagliardamente fortifcata, che pigliandola, è costante opinione che saria convenuto il Duca, con tutta la sua prole abbandoni Torino, e andare a salvarsi nella Savoia. La ricuperatio- ne delle terre della Riviera fatta dalla Rep.ca con tanto valore, ha il Senato deliberato di renderne gratie a Dio. E perché egli sa, che non tanto essa ricuperatione, e tutto il rimanente inmediatamente vienne dalla bontà di esso Dio, ha voluto per hora rendigliene gratitudine, se bene poca, e non uguale alle grandi gratie ricevute, e perché sia palese a tutti, la mattina degli venti otto del mese di luglio [1625] è ito in San Loren- zo Chiesa Cathedrale, ove è stato presente alla Messa cantata de actione gratiarum Dei, et al Te Deum lau- damus cantato alla stessa guisa; alla quale solenità furono gente infnite di tutta fatta. Niuno ministro del Re di Spagna in Italia, è stato così ansioso della nostra salute, e solecito in mandarci aiuti, come il Duca di Alva Viceré nel Regno di Napoli, il quale oltre i soccorsi mandati, e notati nello scritto avanti, sono entrati nel nostro Porto nove Galeoni grossi, con mile soldati nominati scochi,40 gente fera, e bestiale, atta ad ogni fattione, perché la Rep.ca ne i suoi bisogni se ne possa servire, non si è voluto scendino in terra per non cagionare moto con gli altri soldati, poiché costoro pretendono precedere ad ogni altro, e questa loro vana pretensione è giunta a tale segno che essendo i loro Galeoni al Molo, non vogliono, che gli altre Navi, che pure sono al Molo alzino bandiera niuna, se non quando da loro è alzata, e chi ha ardito farlo, gli hanno minacciati di ucciderli, et ancora erano per farli peggio di mandarli al fondo, se non ubbidivano, ne è valsa ragione veruna per frenare questa loro insolente, e spropositata ambitione, e chi havesse voluto farlo, con- veniva fare una armata, e combattere con loro. Nel luogo di Triora, che è vicino a luoghi del Duca di Savo- ia, singularmente a Nizza, tuttavia fra quei confnanti si combatte alla scoperta; quei del Duca sono spinti da Don Felice, fgliuolo bastardo del Duca stesso, e quei della Rep.ca guidati da quei di Triora, e di altri luoghi vicini, i quali non si sono lasciati vincere, ma sempre valorosamente si sono difesi, et è venuta no- vella in Genova, che in una zuffa stata fra di loro, erano rimasti morti da quaranta Piemontesi, alt[re]tanti erano parimenti stati morti, i quali si erano separati dagli altri per rubbare. Quando fu preso il luogo di Oneglia all’hora fu guernito di gente Napolitana a nome del Re di Spagna, e postovi Jurisdicente Spagnuo- lo. Da questa risolutione parea che il Marchese Santa Croce volesse incorporarlo nello Stato di Milano. Ma hoggi che siamo a quattro del Mese di Agosto [1625], l’ha rilasciato alla Rep.ca, la quale come usa con tutte l’altre terre a lei suggette, vi ha mandato uno Nobile con nome di Podestà, e quella gente pare resti pienamente sodisfatta, poi che da Napolitani ivi allogiati erano trattati male, e pegio dal Duca di Savoia. Dopo fu preso il castello di Gavi, vi fu trovati venti sei pezzi di Artiglieria grossa, lasciativi dal Duca di Savoia. Essa non si era mai mossa. Il Senato per vederla, e mostrare al Mondo, che era sua acquistata se- condo la ragione di guerra, onde niuno vi era vi potesse pretendere alcuna cosa, la fece condure a Genova, per mezo di trecento para di Bovi, o di huomini. E questa condotta si fece con molta pompa, e solenità, perché ad accompagnarla vi era tutta la soldatesca. Il Battevilla Generale Maestro di Campo, Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli, et altri Capitani. Concorse a vederla ognuno, e quei che quel giorno non potero- no andarvi, vi andarono il giorno poi, conciosia, che ognuno vi poteva andarvi a sua posta, e con facilità, essendo che erano stati posti nella Piazza del Palagio publico, ove stettero molti giorni, e potevassi mane- giarle, e toccarle da cui si voglia. Erano nelle Carceri publiche da quattro cento Francesi stati presi in mare in varij tempi da Ponceveraschi, et altri. Questi della Rep.ca con grave spesa, erano costì di armamenti governati, cosa che era insoportabile, conciosia che fuori che alcuni pochi, tutti gli altri, non vi era speranza veruna di rimborsarsene, essendo che né Italiano, né Francese, nel tempo che stettero prigioni, furono mai cercati, tanto erano di humile conditione. Il Senato, dopo molte, e molte consulte, per liberare la camera

40. Scocchi. 30 «In forse di perdere la libertà»

publica di sì grande spesa, fu da lui deliberato, che apparecchiate due Galee in esse s’imbarcassero (come in effetto si esequì) e si trasportassero alla Piaggia di Viareggio, con darli biscoto per il vivere loro dua giorni solamente; ivi li sbarcassero, acciochè andassero ove più piaceva loro. Stimassi, che poi che essi per questo mezo rimasero liberi del tutto da sì lungo carcere, che ne sentissero contento grande, né stimassero, né se querelassero punto del modo che il Senato havea usato con esso loro, poscia che ottenuto havevano ciò che desideravano. Vi sono di quegli che affermano per verissimo, che né il Francese, né il Piemontese haveria mai ardito di venire all’impresa di Genova, se non fussero stati spinti, e stimulati da Claudio di Marino fgliuolo bastardo di Cosimo, il quale era così pieno di pensieri satanici che lasciandosi guidare dal suo senso, precipitò nel profondo Pelago di ogni sceleragine, le quali egli adoperò tutte contro la sua Patria, la pose sopra la bilancia che fu a grande risico di farle perdere la libertà, e si sa che quando gli eserciti ne- mici erano in Gavi, non faceva altro che persuadere il Digueres et il Duca di Savoia a calare abasso in Sanpierdiarena, dicendo che calati che fussero, egli sapeva certo che il Popolo, […] offeso dalla Nobiltà, in quell’istante solevato se saria, e saccheggiato le loro case. Il Duca di Savoia affermava, che era vero ciò che diceva il Marino. Ma il Digueres huomo di molta esperienza, che havea veduto altre imprese maggiori, e che non si lasciava guidare da leggerezze, e da promesse di fuoriusciti, che le più delle volte sogliono esse- re falaci, rispondeva, che due cose, che gli erano state promesse, non vedeva gli fussero state osservate, che in Gavi saria apparecchiata grande copia de viveri per pascere l’esercito, che si potessero trasportare col medesimo esercito in Sanpierdiarena perché l’andarvi senza essi viveri in gran copia era errore manifesto conciosiache se per aventura non fusse successa la cosa come si proponeva, conveniva pensare al ritorno, che senza dubbio saria stato malagevole per ogni verso, e forse il disfacimento del suo esercito, cosa che haverebbe machiata per sempre la sua fama, e la sua riputatione, guadagnata in tanti anni col suo valore in armi et altre imprese; oltre che dal Re di Francia suo Signore da questo volontario disquidamento ne saria stato severamente gastigato. L’altra cosa, che era di maggiore essenza, promessagli dal Duca di Savoia, e da Claudio di Marino insieme, che giunto che egli fusse in Gavi, la Rep.ca spaventata di sì copioso esercito, si sarebbe risoluta di darsi in suo potere, e quando ella pure volesse stare ostinata, il popolo si sarebbe so- levato, e forzatigli a fare quello che per volontà, non volevano. Le quali due cose egli si doleva dell’una, e dell’altra. Non si era mancato in Genova di tirare avanti il processo contro il Claudio di Marino,41 e ribella- to ancora. E questa sentenza fu fatta dal Consiglio piccolo, che consiste di Cento Cittadini. Non ostante lo potesse fare il Senato aggiunto con i Procuratori. Si era tralasciato di andare appresso al racquisto della Riviera Occidentale per dare gusto a Ministri Spagnuoli, che erano in Genova. Ma la Rep.ca spinta alla continua non tanto da racquistare il suo, quanto dalle preghiere, che particolarmente facevano gli huomini della Città di Ventimiglia, i quali piangevano la loro miseria, e dicevano che erano in tale guisa oppressi da Ministri del Duca di Savoia con taglie, e con nuove imposte, che più non potevano resistere, et esclamava- no che si liberassero da sì fatta tirannide. Onde la Rep.ca perché quella Città era sempre apparita affetiona- ta, deliberò di non più stimare cosa veruna, ma di dare di nuovo principio allo racquisto di detta Riviera sperando che Dio dovesse prosperare con l’effetto questo suo desiderio, conciosia cosa che stimavano non vi dovesse essere molta diffcultà, trovandosi il Duca di Savoia occupato in difendere Verua dal Duca di Feria, che la teneva stretta con duro assedio. Et essendo il sesto giorno del mese di settembre [1625], s’incaminarono cinque Galee della Rep.ca verso Santo Romolo, ove già era il Marchese Santa Croce, Gio- vanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo, e Giovanni Ambrosio Casella, Commessari Generali della Rep. ca. Il Batteville dichiarato capo dell’impresa, Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli Generale dell’Artiglieria, et otto cento soldati Corsi, e cinque cento Trentini e molti Italiani, e dieci pezzi di artiglieria da Campagna; le quali cose unite insieme, facesse deliberatione di mandare una parte di Trentini a prendere la Rocchetta picciola Villa del Duca di Savoia, che si prese subito. Egli è vero che gli huomini, che vi erano alla guardia allo sproposito volero fare alcune difcultà per ottenere migliori conditioni, o mostrarsi soverchiamente affetionati al Duca di Savoia, e di questo ne pagarono la pena, perché mentre si trattava l’accordo di render- si, eglino, disquidando la guardia i Trentini, presero il tempo oportuno, diedero l’assalto, e fu così subito che entrarono dentro la terra, ove fecero un nobile, ma crudele saccheggiamento, né si potette vietare, per- ché non diedero tempo veruno. Mentre nella Riviera Occidentale seguivano sì fatti mesti successi, giunsero in Genova i tre mila Trentini assoldati dalla Rep.ca, sotto la condotta del Baldirone, il quale, in Sestri di Ponente dava la mostra per porli allo stipendio. A questa solenità, che veramente era solenne, vi erano Ari- go di Gerolamo de Franchi dell’ordine Procuratorio, Piero Francesco di Agostino Saluzzo, Gerolamo di

41. Claudio De Marini; erroneamente nel testo “Claudio di Milano”. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 31

Marc’Antonio Spinola, Giovanni Battista di Michele Adorno, Niccolò di Sinibaldo Doria, e Filippo di Fran- cesco Pallavicino, magistrato di Guerra di all’hora. Presa la Villa della Rocchetta, l’esercitò s’incaminò a Castellofranco picciolo luogo, il quale si arese subito. Lo stesso fecero Baiardo, e Savorgio, ammaestrati dell’esempio seguito al luogo della Rocchetta. In Pigna si erano congregati tutti quei Piemontesi, che erano ne i luoghi presi dall’esercito, che erano fno a ducento, e dicevano che non volevano in guisa veruna ren- dersi, ma difendersi sino all’ultimo spirito; ma giunta l’Artiglieria, non più vi fu l’ostinatione, anzi non stettero un momento a darsi con le seguenti conditioni: Io Don Pietro Barone di Batteville Generale della Cavalaria per la Ser.ma Rep.ca di Genova, accetto a discrit- tione Monsù de Flessì Coronnello di Infanteria savoiarda per servitio di Sua Altezza, e così uscirà il Governatore salva la vita a lui, et a tutta la sua gente, armi e bagaglie come in appresso. E prima uscirà il Signore Coronnello di Flessì, col suo Sergente maggiore, Capitani, Luoghitenenti, Alferi, e Sergenti con le sue armi, intendendosi in detti Capitani altri Ufciali, le tre compagnie di Savorgio, Borgo, e Tenda. Se li concede a detti Ufciali no- minati di portare le sue bagaglie, che portano con suoi Cavalli, o sia Muli, li quali però all’imbarco doveranno consegnare a detto signore Barone, cioè detti Cavalli, e Muli, quali non eccedino più di otto. Che tutti gli altri soldati possino uscire con la spada a canto. Che il Signore Corronello di Flessì debba consignare al detto Si- gnore Barone le porte, e corpi di guardia della terra, e le bandiere, e che l’armi siano riposte così quelle della terra, come quelle di soldati, tutte in una casa, et consegnarle poi all’Ill.mo Signore Giovanni Antonio Sauli Generale dell’Artiglieria della Ser.ma Rep.ca di Genova con tutte le munitioni da guerra. Che tutte le munitioni de Viveri del Principe, e del publico siano consegnate all’Ill.mo Signore Giovanni Battista Grimaldo Generale per la Ser.ma Rep.ca di Genova. Si obliga di più detto Signore Barone fra dodici giorni farle condure ad Antibo, o Villafranca, dandoli a questo effetto Vascello, che li possa portare, con questa però, che il Signore Coronnello lassi ostaggi per il ritorno, e che siano a sodisfatione del Barone. Che dia ostaggi per sicurezza delle Mine. Che gli ostaggi si faranno condurre per mare, e per terra sino nello stato di S.A. subito ritornato il Vascello. Detto Signore Barone accetta la terra e huomini di essa a descrittione, non concedendogli che niuno possa andare fuo- ri. Tutti gli ammalati […] non potranno andare con detto Coronnello. Il Signore Barone, si obliga farli condurre fuori del territorio di Pigna, avertendo però che tutti gli ammalati siano posti in un luogo. Che le scritture di Castellofranco et altre terre della Ser.ma Rep.ca debbano essere consignate al detto Signore Barone, quelle però che sono in detta terra, et aciochè il tutto passi in conformità dell’apontato, il detto Signore Barone si obliga di farli condure sino alla Marina dal Signore Giovanni Battista Grimaldo, e le due compagnie di Cavalli. Et in fede della verità saranno frmati li presenti Capitoli di mano del Signore Barone, e del Corronnello di Flessi. Data fuori in Pigna li 12 di settembre 1625. Nel prendersi il possesso del luogo avenne a caso un miserando successo nella persona di Giovanni Antonio di Lorenzo Sauli Generale dell’Artegliaria, il quale per essere gentil’huomo di molti meriti verso la Rep.ca, amareggiò in parte il contento, che si era saputo di havere preso un luogo guernito di […] armi, e di Cittadini bellicosi […] di tale guisa. Havevano […] i soldati Piemontesi dilagati ove per le conditioni dell’accordo di porre Armi, Archibuggi, e Moschetti, e le altre munitioni da guerra in una stanza particolare deputata a questo effetto, per doversi consignare allo stesso Sauli, il quale così egli seppe, che il tutto era stato seguito, un altro dentro per consegnarlo al munitioniere della Rep.ca, con esso lui vi erano molti sol- dati, fra quali uno che havea il Miccio dell’Archibuggio acceso, che non avedendossene, accostandosi s’ap- picciò fuogho alla munitione della polvere, in appresso agli Moschetti, et Archibuggi, che gli erano vicini, i quali spararono quasi tutti insieme, et uccisero alcuni soldati, che pure erano vicini al Sauli, che arse tutto, senza però morire. In Genova, non tanto desideravasi da tutti di ricuperare i luoghi, e le terre state prese dal nemico, e di impadronirsi di quante si poteva delle sue; ma andavasi consultando per assicurare ben bene la Città di Savona, occhio dritto della Rep.ca, con gettare a terra le mura vecchie, e farne di nove con tutte le circostanze necessarie, di difendersi da qual si voglia Potenza. Questa fortifcatione da tutti quei havevano cognitione di simili cose, stimavassi necessaria, se conservare si voleva in Genova la libertà. Conciosia cosa che si conosceva, se per disaventura essa Città andasse mai in mano di chi si voglia, è certo, che mai più vi sarebbe speranza di racquistarla, anzi è opinione di molti, e non senza ragione, che l’una non possa stare senza l’altra, perché converia una cedesse, e forse toccarebbe alla Rep.ca di Genova, per la difcultà che vi è di andare in Lombardia, cosa che non ha la strada di Savona. Gli antichi Genovesi conobbero il medesimo, onde perchè non avenisse questo, guastarono più di una volta il Porto, che era capace di ogni navilio, sem- pre per tenergli ubbidienti a suoi voleri. E perché il Senato a cui spetta tale pensiero per all’hora non potiva per altri affari importanti che trattava acqudirli, fece elettione di dua dell’ordine Senatorio, e dua dell’ordine Procuratorio, e di quattro Cittadini, che furono Ottavio di Lorenzo Sauli, Agostino di Steffano Centurione, 32 «In forse di perdere la libertà»

Bernardo di Lionardo Clavarezza, e di Giovanni Vincenzo Imperiale, Giovanni Battista di Domenico Doria, Giacomo di Agostino Saluzzo, Giovanni Andrea di Tobia Pallavicino, e Steffano di Giovanni Francesco Balbi, i quali vedutossi insieme, e trattata la bisogna con ogni diligenza, risolsero che fare si dovessero esse fortifcationi con nove mura, includendosi l’eminenze che sono sopra la Città. Questo parere […] poi nel medesimo Senato fu deliberato, e poi si è esequito, e resta in tale guisa ben fortifcata che non si teme di veruna Potenza, quando però vi siano viveri per pascere la gente di guerra, che vi sarà alla guardia. Mentre si cingeva la Città di Savona di nuove mura, all’incontrario in Pigna, per ordine del Senato di Genova, si gettavano a terra, per snidare in ogni tempo quei scelerati huomini, che ivi havevano sicuro ricetto, e tutto dì con rubbarie, e talvolta con uccisioni molestavano i confnanti soggetti alla Rep.ca. È cosa certa che ogni nostra attione devesi sempre indirizzare a Dio perché riescano in bene si deve ricorrere con le suplicationi, si questo si deve fare da ogni privato, tanto più si deve fare da una Città, singularmente quando si muove una guerra come più suggetta alla […]. Onde il Senato conoscendo essere vero, prima che dare principio alla ricuperatione della Riviera Occidentale, ha fatto porre nelle Chiese di San Lorenzo, Santa Maria delle Vigne, et al Giesù il Santissimo Sagramento ornato di molti lumi, ove ogniuno vi va e secondo l’imbecilità humana porgie le sue preghiere. Preso, che fu il luogo di Pigna, essendo arivata la gente del Baldirone, egli si mosse verso la Città di Ventimiglia, ove a pena giunti a confni, uscirono i Consoli della terra, e si diedero a Commessari Generali della Rep.ca, essendosi i soldati Piemontesi salvati nella Fortezza, minaciando non tanto di difendersi ma di ripigliarsi di nuovo la Città, e di gastigare quei che senza la volontà loro, e senza ancora il dovuto tempo, si erano resi a Signori Genovesi. I Commessari lieti di sì felice successo, per non dare tempo al nemico di fortifcarsi di vantaggio nella Fortezza, attesero a preparare le cose necessarie per ottenere ancora il rimanente. Ma i Piemontesi amici più di parole che di fatti, alla prova non corrisposero, perché il quinto giorno di batteria, si arresero con le seguenti conditioni: L’Eccellenza del Signore Marchese di Santa Croce, e gli Ill.mi Giovanni Battista Saluzzo, e Giovanni Ambrosio Casella, dicono al Governatore, Capitani, e Soldati del Castello di Ventimiglia, che eschino e consegnino la Fortezza con la realità, che si deve, come anche tutte le munitioni di guerra, e viveri realmente. Concedendo so- lamente al Governatore, Capitani, et Ufciali, che possino uscire con solamente le spade, lasciando le bandiere, armi, et bagaglie, rendendosi le persone a discrittione di Sua Ecc.a, e di S.S.rie Ill.me. Data in Ventimiglia li 16 settembre 1625. Il Marchese Santa Croce, Giovanni Battista Saluzzo, Gio.Ambrosio Casella. In essa Fortezza vi erano trecento Piemontesi, e vi erano viveri di ogni sorte, sì che mostrarono grande viltà, e la stessa viltà mostrarono ancora il Governatore, Capitani, et altri Uffciali, i nomi de quali furono Alessandro di Alessandri di Saluzzo Governatore della Fortezza, Piero Martino da Nizza Luogotenente, Monsù di Fles Sergente Maggiore, Gabriello Vachero di Suspè Auditore, Antonio Lascari di Nizza Capita- no, Fabricio Rizzo di Suspè Capitano, Bestagno di Nizza Capitano, Bonifacio di Nizza Alfere, Giovanni Battista di San Martino Luogotenente. Oltre i sudetti vi erano cento guastatori, e seguenti munitioni: sei pezzi di Artiglieria, trenta barrili di polvere, cento mine di farina, e trecento di grano, trenta cantara di Riso, cento Rubbi di olio, piombo in quantità, trenta quattro balle di Micie, cento settanta spade, cento Piche, dodici armature, cinque Bandiere con l’armi del Duca di Savoia, carne di Porco salato, pesci salati, castrati numero assai, le quali cose furono consignate al Munitioniero della Rep.ca, e posto alla guardia della Fortezza il (…). Olduini nobile genove- se, con cento cinquanta soldati paeselli prese gli huomini affdati, sino il Senato proveda in quel modo a lui piacesse. Fatti tali acquisti essendo le Galee della Rep.ca alla piaggia di Ventimiglia, e desidera il Marchese Santa Croce, et Don Carlo Doria di ritornare a Genova, s’imbarcarono in esse, e se ne andarono in fretta alle Case loro per ripossarsi della fatica passata, in racquistare i luoghi che avanti della guerra erano della Rep. ca, e quei anche che erano del Duca di Savoia. E di vero ambidue non havevano tralasciato fatiga veruna, perché la Rep.ca restasse a pieno sodisfatta, come in effetto rimase, havendoli tutti dua, giunti che furono a Genova reso loro gratie. Mentre si facevano questi dovuti ringratiamenti, Don Lorenzo di Mendossa era ritornato da Napoli, ove era stato mandato dal Duca di Feria suo parente, a solecitare la soldatesca assoldata in quel Regno, per servirsene a stringere ben bene Verua, che tuttavia teneva assediata. Questi, ripossato dua giorni solamente, si partì per andare a trovare il parente. Egli è vero, che a pena giunto a Gavi, ivi trovò Correro speditogli dallo stesso Duca di Feria, il quale l’imponeva, che se bene era già partito da Genova, di nuovo vi ritornasse, e pregasse il Senato, che se bene egli haveva acquistato tutte le sue terre, e parte an- cora del nemico verso Nizza, volesse hora mandare esercito ad acquistare le terre pure del Duca, che erano verso il Mondovì, e che questa promessa più di una volta gli era stata confermata, e che hora era il tempo Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 33

oportuno di osservarla, il che riuscirebbe loro con molta agevolezza, poiché il Duca di Savoia, ocupato in difendere Verua, non potiva soccorrerne niuna. Ritornò il Mendossa a Genova, e con molta diligenza esequì ciò che il parente gli havea imposto, et il Senato gratiosamente, e con molta generosità le rispose, che la sua parola osservarebbe, con la promessa, e per quanto fussi in potere suo. E se bene erano già i sei di ottobre stagione non più atta a guerregiare, né in Mare, né in terra, non di meno fu dal Senato deliberato, che di nuovo si componesse l’esercito e si mandasse quanto sì presto fussi possibile all’impresa di Ormea, e di Garessi. Il quale esercito era di dodici mila soldati, repartiti in questa maniera, sei mila Trentini, tre mila sotto il Baldirone, l’altre compagnie franche, sotto il Barone di […], e Franzino, dua mila Corsi, dua mila Italiani, e dua mila Spagnuoli, mescolati con Napolitani. De tutti fu eletto Capo il marchese Santa Croce, Commissarij generali della Rep.ca Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo, e Giovanni Ambrosio Casella, il primo dell’ordine Senatorio, e l’altro dell’ordine Procuratorio. Tutti essi, e con la gente di guerra, raunare si dovevano in Oneglia, destinata Piazza di Arme, e mentre si stava aspettando che il tutto fusse in pronto tutte le ville che sono all’intorno al luogo di Oneglia, mandarono loro messaggeri a darsi in potere di commessarij della Rep.ca, i quali gli riceverono senza altro con farli però giurare la fedeltà alla Rep.ca. E perché è cosa curiosa il sapere i loro nomi, si diranno ad uno ad uno: il Ponte de Asse de Fuoghi cinquanta, Bestagno di cinquanta, Gazelli sessanta, Chiosanego di cinquanta, Chiusaveglia di trenta, Borgo di Gatti ot- tanta, Sariola quaranta, Castello vechio ottanta, Costa dieci, Borgo ottanta, Toira cento, Ceronega sessanta, San Bartolomeo cinquanta, Fubenasco dieci, Borgo Ratto trenta, Candiasco cinquanta, Aurigo cento, Con- nio sessanta, Valle di San Piero cento, Borgo di Marro cento cinquanta, Marro quaranta; Carpasio cento, San Lazaro cento cinquanta. La Valle del Marro con le Ville, non si risolvevano per ancora a rendersi, come havevano fatto l’altre, ma ella stava ostinata. Onde per farla ravedere dell’errore suo, il Castello proprio del Marro, et il luogo stesso, erano guardati da cento soldati Piemontesi, i quali, secondo il consueto loro bravavano, e minaccia- vano di non volersi rendere in guisa veruna. Egli è vero, a pena giuntovi l’esercito tutto, eglino temendo di non potere resistere, poiché si diceva loro, se stavano in questa in ignorante risolutione, si saria conceduto a soldati il saccheggiamento, si aresero con tale rescritto fattoli dalli Commessarij Generali della Rep.ca: 1. Che il Governatore debba subitamente consegnare il Castello per la Ser.ma Rep.ca di Genova all’Ill.mi Giovanni Battista Saluzzo, e Giovanni Ambrosio Casella, o qual si voglia di loro, le munitioni di guerra, e di viveri, di munitioni del Castello, per la Camera della Rep.ca, realmente, senza fraude, lasciando le bandiere, se ve ne saranno, armi, e bagaglie fuori di quelle, che si concedono, in virtù di queste capitulationi. 2. Che al Governatore, et Ufciali, et Soldati si concede uscire del Castello, salve le Vite. Al Governatore et Uffciali le loro armi, et alli soldati la spada loro. 3. Si darà al Governatore, et altri Ufciali, et Soldati scorta sicura, che li accompagni sino alli confni dello Stato del Ser.mo di Savoia. 4. I Paesani, che vorranno fermarsi, potran- no farlo liberamente, né li sarà dato fastidio. 5. Alli Paesani se le salverà la Vita, et l’honore. Del Borgo del Marro, li undeci ottobre 1625. Assai presto con questo esempio, si arese Bagnasco, e Carpasio luoghi assai grossi. In appresso fece il medesimo il Castello di Pietra Lata. Altro non mancava in quella parte, perché quel che vi havea il Duca di Savoia posseduto per avanti, ogni cosa era in potere della Rep.ca, solamente per osservare intieramente la parola al Duca di Feria, mancava di soggiogare i luoghi, che sono sopra Savona, cosa che in ogni modo dalla Rep.ca dovevasi fare per assicurare essa Città. Oltre che poteva avenire caso, che rimanessero essi luoghi alla Rep.ca per sempre, et insieme si osservarà la parola a cui tanto si dovea. L’esercito adunque fece partenza da Oneglia, e con ordine Militare s’aviò presso Ormea, e gionto, lo circondò da tutti i lati, e mentre si voleva a quei huomini persuadere l’arendersi, e già vi era speranza dovessero farlo, dalla strada, che si viene dal Mondovì apparvero tre mila Piemontesi mescolati con molti Francesi, accompagnati da quattro cento huomini a cavallo armati alla leggera, i quali mostrando grande bizaria nel loro girare, nello stesso tempo uniti con la gente a piedi, attaccarono la zuffa da quel lato, ove erano allogiati i Napolitani, che con valore riceverono l’assalto, si difendevano ferendone, et uccidendone molti. Egli è vero, che se i soldati Corsi non entravano nella scaramuzza, i Napolitani rimanevano al di sotto, e già si scorgeva, che volevano mettersi in fuga, e sariano rimasti morti, cosa che di vero succedeva se non vi era il valore Corsesco, che ritenne tanta bravura de nemici e ne uccise molti, e gli altri si posero in fuga. Il quale successo saputo, e da loro proprij occhi veduto, da quei di Ormea, deposero il loro orgoglio, e vennero a rendersi liberamente, senza conditione veruna. Le Donne, et i fgliuoli piccoli si salvarono nel Castello, il quale non stette molto a darsi ancora lui in mano de Commessarij generali della Rep.ca, salve le persone, et il loro havere che vi 34 «In forse di perdere la libertà»

havevano trasportato. Fece lo medesimo il luogo di Garessi, e dua altre picciole Ville, che come Ormea giurarono la fedeltà alla Rep.ca, con la quale fu data in cura al Gambarelli Milanese soldati de i buoni che all’hora fussero nell’esercito, e lasciatovi mile soldati Italiani con esso lui. Parendo al Senato di Genova di havere suffcientemente ademputo la parola data al Duca di Feria con havere soggiogato diversi luoghi del Duca di Savoia, et essendo sopragiunta la stagione Vernale, la quale più dell’ordinario, erano cascati dal Cielo in abbondanza l’acque, che sogliono più che ogni altra cosa recare impedimento al guerregiare in Campagna, anzi niuno altro è maggiore. Il Senato di Genova, essendone a pieno informato, e conoscendo ancora lui le difcultà, rimesse al Marchese Santa Croce, et alli Commessari Generali l’andare avanti, o pure ritornare addietro. Tale ordine venne in Campo che era tuttavia in Ormea, ove era cascata grande copia di Neve, che cagionava freddo grande, essendo quel paese fra monti, i quali generano tutto l’anno freddo. Fu chiamato il Consiglio, et in esso consultato, se mandare si dovea l’esercito alle stanze, o veramente andare avanti. Fu dopo molte ragunate, e varj pareri risoluto, che per le cagioni acenate sopra, non si dovea più andare avanti, e così si esequì, desiderandolo più di tutti gli altri il Marchese Santa Croce. È costante opi- nione, che se si fusse deliberato di andare avanti, si saria preso la terra di Mondovì et altre terre a lei vicine, e con quel corso di vittoria si saria andato molto presto a Torino, e se ciò seguiva, indeboliva grandemente le forze del Duca di Savoia. Hora che non seguissero tutte queste cose, che non poca Gloria dovevano are- care al nome Genovese, e mortifcare il Duca di Savoia, pare che tutta la colpa sia stata data al Marchese Santa Croce, il quale dicono che essendo di natura paurosa, e timida, come si era provato in altri particola- ri, non havea animo di andare avanti come ogni ragione voleva, e pure egli vi doveva andarli, e deporre tanto timore, conciosia, che sotto di lui havea un esercito tutto di gente scelta, e desiderosa di acquistarsi riputatione et honore, e pronta a ricevere qual si voglia incontro, e ribatterlo. Il Re di Francia saputo che in Genova per le sceleratezze di Claudio di Cosimo di Marino suo Cittadino, l’havea dichiarato ribelle in pri- mo capite, e che parimenti si era gettata a terra la sua casa, che havea nella piazza di Salvaghi, venutagli una grande colera, haveva fatto nella Città di Parigi publicare editto, per lo quale bandiva da tutto il suo Regno il Duce, e tutti i Senatori, etiandio nominatamente, che havevano fatta questa ribellione con proporre pre- mio a chi li uccideva, cosa nova, barbara, e strana, né mai pensata d’alcuno altro Potentato, che habbia guerra con altro. Nel tempo, che Francesi, e Piemontesi erano a Gavi, e che si temeva grandemente, che calassero al basso, e venissero in Sampier di Arena, fu deliberato dal Senato di mandare Steffano di Napo- lione Spinola a Gavi a procurare che il Digueres prendesse una bona mano di scuti, e poi si partisse con tutta la sua gente, e se ne ritornasse in Francia, abbandonando il Duca di Savoia, poiché con essere solo, la Rep.ca non haveria havuto difcultà a cacciarlo, e vincerlo. Ma lo Spinola, che accettò quella carica, che era importantissima e pericolosa solamente come lui diceva, per servire a la sua Patria, si partì di Genova et andò ad Ottaggio. Egli è vero, che giunse a punto in quel tempo che l’esercito della Rep.ca hebbe la scon- ftta dal Duca di Savoia, e che quei Nobili che vi erano, rimasero prigioni. Onde non potendo fuggire quel- la sciaura, egli ancora restò prigione, e condotto a Torino con tutti gli altri, ove è stato alcuni mesi, e per opera di Claudio di Cosimo di Marino, che era suo Cugnato fu liberato, e se ne venne a Genova, e dal Se- nato gli fu fatto comandamento andasse prigione, come fece liberamente, ove stette più di un anno. Alla fne fu condanato a pagare alla Camera publica sei mila scuti di Argento. Il titolo del suo delitto si era, che ha- vesse havuto pratiche col Digueres mentre era a Gavi. Fra questo mezo sapessi, che il Cardinale Francesco Barberino Nepote del Pontefce, ritornava dalla sua legatione, e che già era giunto a Marsilia. Il Senato, per honorarlo in quel migliore modo si poteva, e che conveniva alla persona di un legato a latere Pontifcio, e nepote di Sua Santità, fece elettione di sei ambasciadori, che furono Giovanni Filippo di Agostino Saluzzo, Agostino di Steffano Pallavicino, Costantino di Steffano Doria, Giovanni Antonio di Giacomo Ragio, Fran- cesco di Giovanni Agostino Pinelli, e Giovanni Luca di Giovanni Maria Spinola, i quali, partiti da Genova, imbarcati sopra una Galea, et andati a Savona, ivi lo trovarono, et a lui rifersero l’ambasciata, e volevano allogiarlo, ma lui ricusò ogni regalo apparecchiatoli, et andò in casa di (…) Ganoto, amico suo di molti anni. La voce che nacque sino nel principio, quando i Francesi, e Piemontesi mossero l’armi, che l’armata che si preparava in Inghilterra, era per venire in aiuto del Duca di Savoia, e che più da niuno vi si pensava, e ritornato a renovarsi. Onde quegli stessi nobili della Rep.ca che all’hora hebbero sì fatta credenza, ingom- brandosi di novo timore, altro non andavano esclamando, che si provedesse a sì iminente pericolo, che so- prastava, se l’armata veniva qua. A questo vi si era aggiunto il Marchese Castagneda, ambasciadore ordina- rio del Re di Spagna in Genova, il quale più ardente degli altri appariva, dicendo affermativamente che sapeva che la detta armata veniva a Genova in aiuto del Duca di Savoia, la quale perché si sapeva che era Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 35

poderosa, conveniva fortifcare ogni parte, singularmente la Fortezza di Santa Maria della Specie, la quale presa che fusse stata, haria l’armata fatta ivi sua stanza, et alla continua turbato la Riviera Occidentale in maniera, che saria stato necessitato di aiutarla, cosa che haveria deviso le forze della Rep.ca, si che egli non vedeva, come resistere si poteva in un tempo medesimo a dua lati, et a dua assalti. Nel Senato come per lo più suole avenire nel numero grande, vi erano di quegli di poco animo e di natura timida. Il che è stimato prudenza in certi casi, quando si tratta di assicurare ben bene le cose, questi aderivano e lodavano il parere, o dell’ambasciadore di Spagna o di coloro che volevano fortifcarsi. Finalmente il Senato importunato, decretò, che si mandassero due dell’Ordine Procuratorio nello stesso Golfo, e vedessero, se in effetto era vero, che quella fortezza potesse essere espugnata così facilmente, come si andava dicendo, come che per avanti fusse stimato il contrario. I dua Procuratori eletti, furono Giorgio di Domenico Centurione, e Bernar- do di Lionardo Clavarezza, da tutti stimati di singulare valore e prudenza, et ambidua erano stati Duci della Rep.ca, con ordine di trasferirsi in propria persona nel Golfo stesso, e considerare il tutto, e riportarne il parere loro in scritto. E perché l’ambasciadore di Spagna di questa deliberatione non si acquetava, se non andava ancora lui, disse di volervi andare, il Senato si contentò; lo stesso desiderio hebbe ancora Don Car- lo Doria, e tutti insieme s’imbarcarono in una Galea con i dui dell’ordine Procuratorio, i quali con esso loro condussero alcuni periti nell’arte di fortifcare, e giunti nel Golfo, e dimoratovi alcuni giorni, e considerato ogni cosa minutamente, sono ritornati a Genova, et hanno riferto in scritto essere quella fortezza veramente atta a ricevere qual si voglia empito da nemica mano, e di sustenerla, perché tra l’altre cose buone, ne ha una, che non può farsi batteria alcuna se non da un lato, il quale è fortifcato con trincie, e con larghi fossi. L’ambasciadore di Spagna, che più de gli altri haveva favelato, e protestato, è ancora lui rimaso sodisfatto a pieno, anzi ha havuto a dire poi, che in sua vita non haveva veduto Fortezza né più forte, né meglio pro- veduta di viveri, e munitioni da guerra di ogni qualità. Questa sì fatta diligenza turò la bocca a tutti indife- rentemente, sì che niuno in l’avenire hebbe più lingua di favelare di questo particolare. Le Guardie che per la Città in ogni lato, si facevano da Capitani Nobili, e da Artegiani, mentre gli eserciti de nemici erano a Gavi; il Senato, conoscendo non esservi più il bisogno, le tolse via, in sua vece pose guardie di soldati pa- gati in Castelletto, et altre parti della Città più pericolose, non tanto per guardarci da nemici esterni, ma ancora dagli interni. Gli ambasciadori mandati a Savona al Cardinale legato, sono ritornati, e con esso loro è venuto Quintio Dal Bufalo nobile Romano fratello del Cardinale di questo nome, mandato dal Cardinale legato a ringratiare il Senato delle dimostrationi fatte alla persona sua, sì come fece al Duce, et alli dua Senatori di Palagio. Il Duca di Savoia, in vedersi privo, e spogliato affatto de i luoghi repigliati dalla Rep. ca di Genova, poiché per mezzo di essi, esercitare non più poteva l’imenso odio che havea a tutta la natione Genovese, si sapeva, che ne havea havuto gagliarda mortifcatione, ma maggiore era stata quella, che egli non havesse potuto proibire a Signori Genovesi, i quali poco prima gli havea per vinti, si fussero impadro- niti di cinquanta sei sue terre, con poca speranza, per non havere forze uguali, di racquistarle. Una altra mortifcatione havea, che non era minore delle due prime, che egli restava privo di potere più cavare dana- ri, come già cavato ne havea grande somma dagli homini della Riviera Occidentale da lui presa, che sapeva essere eglino dovitiosi. Egli è vero che in questa mortifcatione non era lui solo, ma ella era comune a suoi ministri, i quali per non cedere punto al padrone, altro con i mezi leciti, et inleciti procurato hanno da i medesimi huomini della Riviera di havere danari. Il Duca di Feria ancora che habbia usato come valoroso soldato ogni possibile diligenza per espugnare il luogo di Verua, per l’abondanti acque venute dal Cielo, non gli è potuto riuscire. Onde il Duca di Savoia, che grandemente temeva di perderlo, ne ha sentito con- tento grande, conciosia, che benissimo conosceva, che se i Signori Spagnuoli, presa che havessero Verua, havessero voluto fare da dovere, che non tanto lui, ma la sua prole restava priva, e spogliata affatto del Ducato del Piemonte, sì che conveniva andasse a stantiare ne i Monti della Savoia, dove i suoi antichi heb- bero origine. Hora esso assedio, per le cagioni acenate, si è levato via, e per la stagione Vernale il Duca di Feria ha mandato l’esercito alle stanze. Il Duca di Savoia dopo tale retirata è divenuto altiero, e si mostra vigoroso, e bravo, et a lui pare di havere ottenuto una grande vittoria, e apertamente dice che a stagione nuova voglia rinovare la guerra e col Re Catolico, e con la Rep.ca di Genova, affermando di havere per compagno il Re di Francia, che lo protegerà, accioche egli possa vendicare le tante ingiurie ricevute dall’uno, e dall’altra. A questo proposito è bene narare un suo vantamento, che egli va dicendo, ornandolo con gia- tante parole, che nel Mondo vi sono quattro Potentati. Il Re di Spagna uno, l’altro il Re di Francia, dua, et il Gran Turco tre, et il quarto è lui, che possino mantenere esercito in campagna. Non si crede sia vero, né gli huomini tengono in questo concetto. In ogni modo, che sia, la Rep.ca Genovese o siano vere, o non le 36 «In forse di perdere la libertà»

grantante parole del Duca di Savoia, attendendo a quello poteva essere vero, che è la sicurezza della sua libertà, ha deliberato provedere al suo esercito di uno Capo di esperienza, e di valore, che sia versato nelle guerre di Fiandra, che è scuola da imparare questa arte. Fra i proposti per mezo de i suoi Consigli ha eletto, o sia rieletto, Fra Lelio Brancaccio nobile Napolitano, e Cavaliere di San Giovanni Gierosolimitano, e da- toli titolo di Mastro di Campo Generale, in stipendio di sei cento scuti di Argento il mese, e più gli altri Regali soliti darsi a capi di eserciti. Questa elettione si è fatta anticipatamente, conciosia che erano stati trasportati da Napoli con le Galee dua mila ducento soldati Napolitani, che era buono governo darli capo, i quali sono i medesimi stati assoldati dal Principe di Satriano Ettore Ravaschiero nobile Genovese, il quale, come si è detto volendo mostrare a tutti la sua generosità, che di vero è stata grande in serviggio della sua Patria, ha voluto con essa acquistarsi sì fatto merito. Da periti huomini di fortifcare nove mura, sono stati per autorità publica formati modeli, e poi stabiliti per cingere all’intorno la Città di Savona di nove mura. Il Senato conoscendo che non terminandosi la guerra, era cosa da prudente, e savio huomo fare questo lavoro, per torre via ogni disegno al nemico, per venirne dunque all’intiera deliberatione, e perché non vi sia che replicare e si turi la bocca a Cittadini, i quali per ordinario sono loquaci più del convenendo, ha eletto Marc’Antonio di Agostino Doria dell’ordine Senatorio, Giovanni Vincenzo di Giovanni Giacomo Imperia- le dell’ordine Procuratorio, Giacomo di Agostino Saluzzo, e Steffano di Giovanni Francesco Balbi, perché tutti quattro, con altri Nobili chiamati, personalmente vadino a Savona, e nell’atto medesimo conoschino se è vero quello è stato rapresentato nel Senato ne i modeli, e trovato essere vero, si dia col nome di Dio prin- cipio alla Fabrica di così eccelsa opera, e sì necessaria. Entrò l’altro Anno del Mile seicento venti sei. E perché sino l’Anno antecedente del Mese di No- vembre dal Bussolo del Seminario erano stati estrati cinque, tre dell’ordine Senatorio, che furono Tomaso di Benedetto Gentile, Pasquale di Agostino Negrone, e Giulio di Agostino Pallavicino, e dua dell’ordine Procuratorio Giacomo di Gio. Francesco Ragio, e Giovanni Battista di Scipione Squarciafco, i quali questa mattina ch’era il primo del mese di Gennaio [1626] uniti tutti insieme, havendo però prima udita la Santa Messa nella Capella dedicata a San Giovanni Battista nella Chiesa Cathedrale, con accompagnamento di parenti et amici, sono iti a Palagio a prendere il possesso della carica a loro imposta, ricevuti nella sala gran- de del Palagio dalli restanti Senatori, e dal Duce, che era sopra un’alta seggia assiso. Il medesimo giorno conoscendosi da tutti poiché la guerra pareva che più che prima, dovesse acendersi, e che era necessario crearsi novo magistrato di guerra, che guidasse quei affari, non potendovi dal Senato attendere come conve- niva a questo sì importante ministerio furono eletti Bernardo di Lionardo Clavarezza dell’ordine Procurato- rio, che vi sedesse come Presidente, Giacomo di Agostino Saluzzo, Francesco di Agostino Mari, Agostino di Steffano Pallavicino, Gianettino di Giovanni Spinola, et Ottavio di Lorenzo Sauli Gentil’huomini scelti fra tutti gli altri. Rimaneva tuttavia il Re di Spagna in forse della Fede del Duca di Savoia, il quale nel suo pensiero di altro non si nodriva, che di variare ogni hora volere, conciosia che egli quando appariva Spagnuolo, e quando Francese, e in l’una, et in l’altra molto poco vi dimorava. Onde per porlisi il freno in bocca, il Re di Spagna, al quale conveniva stare più vigilante, e desto per lo grande interesse, che havea in Italia di tanti stati, dopo molte consulte fatte nel suo Consiglio di Stato, fnalmente risolse, che niuna cosa era più valevole a frenare la tanta bizaria, et instabilità, come il moversi la guerra, e non terminarla mai, che non fussi scaciato di Stato. E perché si andava avicinando la stagione di Primavera, mandò ordine a suoi Vicerè di Napoli, e di Sicilia, et al suo Governatore di Milano, che quanta gente di guerra eglino potessero, mettessero insieme, e la inviassero in Lombardia, ove dovevasi fare la mostra delle genti, delle quali capo di tutte era stato eletto il Duca di Feria. Il Re di questa deliberatione, ne diede con una sua affettuosa lettera ragguaglio alla Rep.ca di Genova, la quale sapeva, che bramava che venisse occasione di vendicarsi delle tante ingiurie fatteli dal Duca di Savoia, et in essa narrò l’offese ricevute, e la poca fede, che per sempre haveva conosciuto in lui. Onde era stato forzato ancora che contro sua voglia a moverli la guerra, e frenare la sua temerità. Ma perché non voleva essere solo, ma accompagnato, altro non havea invitato che la Rep.ca a fare unione con le sue armi, et a prima stagione spingerle nel Piemonte, e ridurre il tutto a famme, et a fuogo. Voce che grandemente piacque alla Rep.ca Genovese, et a tutta la sua Cittadinanza, alla quale pareva che saria stato mezo non tanto per vendicare l’ingiurie ricevute da quel Duca, ma di ardere tutto il Paese del Piemonte per rendergli la pariglia di quello havea fatto l’anno mile seicento venti cinque a quello della Rep.ca. Il Senato se bene havea stimato cosa salutare alla sua libertà tale unione, perché il Re di Spagna si saria obligato (oltre gli altri stimoli che per sua bontà havea di difendersi mai sempre), non di meno la Rep.ca non l’havea frettolo- Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 37

samente acettata, la cagione perché trovandosi l’errario publico esausto, stimava che saria stata occasione di entrare in maggiore spesa in matenere tanta soldatesca, oltre l’altre spese più necessarie. Essendo dunque trattata questa pratica molto seriamente ne i Consegli della Città, da boni homini, i quali si espettava risol- vere questo particulare, si conchiuse essa unione con obligatione di armare sette mila soldati solamente, i quali la maggiore parte già erano in essere, prometteva il Re di Spagna di armarne otto mila, e più mile cinquecento huomini a cavallo armati alla leggera. Hora questo tanto moto di unione, se bene tutti stimava- no seguire ne dovesse l’effetto al determinato tempo, senza essersi penetrato la cagione, essa unione si di- stolse, cosa che alla Rep.ca diede non poca alteratione, conciosia che si sperava, che il Duca di Savoia do- vesse in l’avenire mortifcarsi in guisa, che non pensasse di fare più moto in Italia, come con tanto danno suo, e di tutti gli altri Principi era successo. La Rep.ca non mancò in cosa veruna, la gente che ella dovea preparare era in ordine, e così ogni altra faccenda necessaria, perché l’unione havesse la intiera sua perfet- tione. Hora perché il Re di Spagna si distogliesse dall’unione, varij furono i pareri, una sola fu stimata la vera cagione, che egli temette, che sentito il Re di Francia questa sì fatta unione, stimulato dall’antica emu- latione che havea, si dovesse moversi a favore del Duca di Savoia, il quale impaurito di tale unione, le an- dava instando di altra unione, o almeno lo aiutasse in tanta necessità. E già esso Re ne cominciava a dare qualche segnale, con aderire al gusto di esso Duca, come che già havesse assagiato la vivanda soave, che era il dominare in Italia. Tra tanto in Genova si aspettava di Roma il Cardinale Francesco Barberino man- dato dal Pontefce suo Zio legato a latere in Francia a procurare la pace fra le due Corone. La Rep.ca già havea deliberato di allogiarlo non tanto in Genova, quanto in tutto lo stato suo, dove scendesse in terra, e perché se seguisse l’effetto furono eletti Filippo di Agostino Pallavicino, et Ipolito di Silvestro Invrea, con ordine di partire subitamente, et andare a Lerice, ivi riceverlo a nome della Rep.ca, et spezarlo. Partirono essi dua, e a punto giunsero in quel tempo, che il Cardinale stesso vi giunse ancora lui, il quale non vole scendere in terra altrimenti, ancora che Giovanni Ambrosio di Ambrosio Doria, Niccolò di Tomaso Pallavi- cino, Bartolomeo di Agostino Lomellino, Cesare di Piero Durazzo, Antonio di Nicolò Pallavicino, e Gior- gio di Ambrosio Doria, ambasciadori mandatili dal Senato a riceverlo, lo pregassero, et instassero. Egli sempre rifutò, scusandosi, che i Regali della Rep.ca sariano stati tali, era certo, che haveriano dato dilatio- ne al suo viaggio, oltre che gli ordini datili da suo Zio erano sì precisi che non poteva trapassarli senza suo grande biasimo. Si partì da Lerici, et alla diritta andò a Savona, passando sopra Genova, e lo incontrarono Filippo di Christofaro Centurione, Giovanni Andrea di Tobia Pallavicino, Giovanni Battista di Michele Adorno, Paulo di Antonio Serra, Agostino di Luca Spinola, Domenico di Prospero Doria e Giulio di Ben- dinelli Sauli, e Nicolò di Giacomo Lomellino, altri ambasciadori della Rep.ca, i quali gli fecero molta in- stanza, e lo pregarono ad andare a Genova perché tutta la Cittadinanza haveria ricevuto molta consolatione di vedere la sua persona. Ma ricusò come l’altra volta, replicando le medesime parole. Del mese di Febbra- io si videro lettere scritte dal Marchese di Mirabello. Costui era ambasciadore del Re di Spagna in Parigi appresso la persona del Re di Francia; il quale scriveva, che quei ministri Francesi, ragguagliati sinistra- mente da un ambasciadore del Duca di Savoia andato in quella Corte, apparivano mal sodisfatti della Rep. ca, et andavano dicendo alcune cose, che denotavano essere il Re ancora lui mal sodisfatto. Onde per torre via queste false imputationi, che potevano per qualche tempo nocere alla Rep.ca, havea egli risoluto di scrivergli, e dirle che stimava acertato, che se le mandasse una vera naratione de tutto quello era successo, cominciando dal principio quando si fece la compra del Feudo di Zuccarello, e che si hebbe la investitura dall’Imperadore, sino al giorno presente, perché lui havutala, haria procurato di levare via la falsità semina- ta dall’ambasciadore savoiardo. Da quel si vide poi, fu acertato il mandare essa relatione, perché giovò non poco nell’avenire. Il Baldirone, capo delli tre mila cinquecento soldati Trentini, o siano Tedeschi, è divenu- to sì insolente, oltre la sua avaritia, et ingordigia di danari, che ha violentato il magistrato di Guerra a darli licenza, come in effetto se gli diede, che dopo pochi giorni si partì dalla Città, ritornandossene in Lamagna, e per quanto si disse con quaranta mila scuti di avanzo, la maggiore parte rubbati a soldati. La nova Fabrica fatta nel castello di Gavi, e così bene composta, da tutti è stimata fortissima, e da fare ostacolo a qual si voglia impeto di esercito ben numeroso, essendosi per giungere a tale fortifcatione speso grande somma de oro. Bacari è picciola villa lontana da Genova da dieci miglia, è Arciprete della Chiesa Prete Aurelio Pieve. Costui è da tutti stimato Religioso bene regulato, e da bene, e che sia vero, egli fu quello che nelle turbolen- ze passate indusse il Senato a fare molte devotioni per mezo delle quali restò placata l’ira di Dio, come si è conosciuto. Già sono trapassati alcuni giorni che con una sua lettera, che egli scrisse nel Senato, gli raccor- dò, che stimava acertato di impetrare dal Pontefce una beneditione, non tanto per vivi come per morti, con 38 «In forse di perdere la libertà»

includervi ancora i terreni, la quale, se si fusse ottenuta, teneva sicuro, che le sementi sariano nell’avenire state più copiose de frutti. Piacque al Senato la proposta, e scrisse al Pontefce, et ello se ottenne, et il re- scritto, e venuto, e si manderà ad esequirsi a luoghi già destinati. Dalle lunghe e frequenti pratiche che si facevano in Monsone,42 ove era la Corte et il Re stesso di Spagna, fra il Conte Duca di Olivares, e l’amba- sciadore Francese ivi residente, pareva che ne dovesse riuscire lo stabilimento di nuova pace fra esse due Corone. Questa opinione non fu vana, anzi vera, perché essendo già i trenta del mese di Marzo [1626], si sortirono fuori con essersi conclusa pace fra esse due Corone, e lor Colegati che erano del Re di Spagna, i Signori Genovesi, e del Re di Francia, il Duca di Savoia, con obligatione non tanto di osservarla loro ma di farla dalle parti circa le loro diferenze i medesimi Re, che da se stessi se ne constituirono giudici, e perché ella pace fussi stabile, e ferma, si andava considerando di non darvi dilatione veruna, ma di farla più presto fussi possibile. Onde la Rep.ca raguagliata di ogni cosa da Battista di Antonio Serra, suo ambasciadore re- sidente in la Corte del Re di Spagna, perché se ne venisse all’effetto, sapendo quanto siano effcaci le pre- ghiere unite fatte a Dio, ordinò che si ponesse l’oratione delle Quaranta hore in Santa Maria delle Vigne, in Santa Maria de Servi, et in Santa Maria del Guastato, ordinando ancora, et insieme esortando ciascaduno andare a visitarle, perché si ottenesse questa gratia. Stimossi all’hora da tutti che esse preghiere dovessero giovare non poco, e tanto più quanto che da Dio se n’era ricevuta una altra gratia maggiore, quella della ritornata da Barcellona della Galea carica di danari, i quali se bene immediatamente non erano della Rep. ca, erano però de suoi Cittadini, che in conseguenza da essi ancora ne usciva la conservatione e difesa del- la libertà. La Rep.ca desiderava veramente essa pace, ma questo desiderio non era però tale, e tanto, che non si credesse da tutti, che non fusse maggiore nel Duca di Savoia, il quale era odiato da suoi suditi, che ogni momento esclamavano sino alle stelle, sempre dimandando a Dio questa pace, cosa che si sapeva non esse- re nei sudditi, in quei della Rep.ca come quegli che agevolmente sofferire potevano i leggeri imposti, etian- dio straordinari che erano imposti loro. Fra questo mezo il Re di Francia, conosciuto, che la carceratione fatta per ordine suo in tutto il suo Regno l’anno 1625 di quei Genovesi che vi restavano era stata ingiusta, e fatta in colera, ordinò fussero liberate non tanto le persone loro, ma le merci ancora. Fra all’hora si trova- va in Genova un tale nominato Monsù di Alegro, costui era originario della Contea di Borgogna, da tutti tenuto trufatore, perché le più delle volte proponeva a Principi inventioni, che riuscivano di grande ingiuria loro. Egli è vero che havea tale gratia nel proporle che parevano vere, et acettabili; una ne propose a Don Carlo Doria, Duca di Tursi, che fu per essere la sua morte, e fu tale che se egli si voleva fare aderente alla Corona di Francia, a dare una fgliuola di un Signore Francese per moglie a suo fgliuolo, il Re di Francia lo haverebbe fatto Signore di Genova. Come che questa proposta questo […] la persona di Don Carlo da disleale al Re di Spagna suo Signore, spinto dalla colera, non potendosi contenere, cacciò mano al pugnale, e si aventò verso di lui per ucciderlo, ma da chi si trovò presente fu ritenuto. Il Senato, che seppe sì fatta proposta, oltre che oltre modo si spiacque perché non si era ancora la natura di costui, non ostante il salva condoto dateli nel principio che venne a Genova, lo fece carcerare. Egli è vero che considerato il Senato che osservare si dovea la parola a ciascaduno, dopo alcuni mesi fu liberato, et ordinatoli, che mai più ritornasse a Genova, parendo a tutti che fussi bene che ne stesse lontano, come che egli si nodrisse di bugie e di bugie. Il Duca di Savoia, mostrandosi ignaro di quello era stato stabilito in Monsone fra il Conte Duca di Olivares e l’ambasciadore di Francia intorno alla pace, andava trattando con alcuni Capitani Corsi già dichiarati ri- belli, che egli havea a suoi stipendij, di rivoltare le terre della Corsica, e farle ribellare a Signori Genovesi. Queste pratiche assai presto furono note alla Rep.ca, onde perché non riuscissero né al Duca, né meno a costoro, il Senato fece assoldare suoi soldati Italiani, oltre molta provisione di guerra, e gli mandò in Cor- sica accioche si levasse via il disegno di costoro, particolarmente in Aiaccio, in Calvi et Bonifacio come che questi luoghi principalmente fussero più esposti alla incursione de nemici, e il tutto fu esequito con somma diligenza, in guisa che i disegni di costoro che vi habbiamo ragguaglio assai presto si deleguarono. Il Duca di Savoia era sì bramoso di vendicarsi de Signori Genovesi che come vedeva, che uno suo disegno o per meglio dire chimera da lui pensata, o d’altri proposta per offenderli in qualche maniera, non gli riusciva, subitamente saltava in uno altro il quale per essere da chi lo proponeva con poco fondamento, ne meno le riusciva, et a capo dell’anno si trovava con le mani vote, non considerando quel detto volgare ma provato in ogni tempo essere vero, che le promesse de fuoriusciti se ne volano nell’aria sempre, e bene egli le co- nobbe, perché niuna cosa tentata da lui contro Signori Genovesi mai hebbe felice fne, come che non hebbe quella che gli fu proposta da Camillo della Casa […] pure ribelle, il quale diceva che in molto facile si po-

42. Pace di Monçon. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 39

teva invadere la Riviera Occidentale, e farsi esso molto agevolmente […] nuovo possessore delle terre de […]. Il Duca era stato sì facile a crederlo, che havea cominciato a fare grandi apparecchi di […] e di altri bellici instrumenti per darvi principio al Mondovì. Alla Rep.ca era stata manifesta ogni cosa, ma ella se ne stava con molta quiete, conciosia che Fra Lelio Brancaccio, l’altro generale poco avanti ritornato dalla det- ta Riviera, affermava che se il Duca havesse voluto mettere ad esecutione questo suo pensiero, egli lo sti- mava del tutto pazzo, essendo che la soldatesca che la Rep.ca havea, era così bona, e così bene disciplinata, che vi volea più gente assai a vincerla di quella poteva all’hora havere il Duca di Savoia. Sono tante, e sì meravigliose le gratie che Dio onnipotente ha fatto per mezo di San Bernardo alla Rep.ca Genovese, che bene ha adempito la promessa che egli mentre visse fece con una sua lettera scritta alla Rep.ca, di sempre pregare per lei. Ma niuna gratia fu maggiore né più meravigliosa che quella fu fatta da lui l’anno 1625, che la liberò dalla oppressione che Francesi e Savoiardi volevano fare della Rep.ca, la quale per mostrarsi grata di questa sì fatta gratia, instandola l’ambasciadore della Rep.ca che all’hora era in Roma, ottenne dal Pon- tefce Urbano Ottavo che in perpetuo si festeggiasse il suo giorno in memoria di sì grande benefcio ottenu- to per mezzo di lui. La debolezza (la facilità che saria stato in prenderla è oltre il nostro credere) delle Mura della Città di Genova si conobbe l’anno 1625, che qui venero molti Cavalieri, et altri privati huomini pratici di questo mestiere, i quali vedutole affermarono che veramenti quando furono fabbricate, erano secondo l’uso di all’hora nel guerreggiare molto bene composte, e di meravigliosa fortezza. Ma hora che questo modo era stato dismesso, perciochè il modo di abbattere le mura si era cambiato, erano stimate hora di effetto debole assai, e tanto più con che l’eminenze, che erano all’intorno alla Città, offendevano in guisa che chi era fuo- ri, e nemico, poteva con le bombarde mandare a terra tutti gli edifci. Onde havendo il Senato considerato tutte queste cose, e parendoli di consideratione grande, dopo vari giramenti di pareri de Senatori medesimi, e di altri primari Cittadini, che non approvavano tale lavoro, fnalmente si decretò, che già erano li venti- sette del mese di Aprile, e poi a sei di Maggio [1626], essendosi di nuovo ristretta la pratica, fu fatto altro Decreto pure dal Senato, che il magistrato di Guerra che erano Bernardo di Lionardo Clavarezza dell’ordi- ne Procuratorio, Giacomo di Agostino Saluzzo, Francesco di Agostino Mari, Gerolamo di Marc’Antonio Spinola, Giulio di Giovanni Battista Pallavicino, et Ottavio di Lorenzo Sauli, insieme con Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo, Giovanni Battista di Niccolò Baliano dell’ordine Senatorio, e Giorgio di Do- menico Centurione, e Giovanni Vincenzo di Giovanni Giacomo Imperiale, dell’ordine Procuratorio, di nuovo vedessero i modelli già fatti, e considerato il tutto, minutamente riferissero il parere loro al Senato, il quale senza altro haverebbe deliberato quello havesse stimato il meglio ad una opera di tanta considera- tione, e dove consisteva la conservatione della Città, e della libertà; stimava il Senato, e tutta la Cittadinan- za, che essendosi fatta la pace fra le due Corone di Spagna, e di Francia dovesse seguire quella fra la Rep. ca Genovese, et il Duca di Savoia. Ma bene si conosceva, che non era facile il farla, poiché il detto Duca apertamente andava dicendo che se i Signori Genovesi volevano fare la pace di bona voglia l’haveria fatta, eceto intervento, e mezo de Potentato alcuno, e tutto questo l’andava dicendo non tanto lui, ma i suoi am- basciadori, che havea nella Corte di Roma, e di altri Principi. Ma il Senato, che già havea dato parola al Re di Spagna per mezo del suo ambasciadore residente in quella Corte di non farla senza il suo consentimento, non voleva in modo veruno mancar la parola. Onde per questo non poteva aderire alla volontà del Duca, né si veniva a conclusione alcuna. Al Re di Spagna, et a suoi ministri era noto ogni cosa, che il Duca di Savo- ia era risoluto di non fare la pace, e con tutto che ne havesse sentimento, conciosia che sapeva che la pace fatta con Francesi saria andata a monte, poiché quella della Rep.ca dipendeva dalla sua. Non ostante, perché non voleva lasciare in guisa veruna la unione fatta con Signori Genovesi, anzi si mostrava pronto in confer- marla di nuovo, come disse il suo ambasciadore andato nel Senato. Ancorché il Duca di Savoia havesse pieno ragguaglio di queste negotiationi che si facevano fra il Re di Spagna, e Signori Genovesi, non però si sgomentava punto, poiché pareva sicuro con essersi quasi del tutto dichiarato di fatto di fattione Francese, et andava dicendo che se i suoi nemici fussero aiutati da Spagnuoli, a lui non mancava di havere dalla par- te sua il Re di Francia, il quale l’haveria difeso, et posto sotto la protettione sua. Tra tanto sempre che ha- vesse voluto, trattava alla continua con Biaggino Da Lesa Corso, e con dua suoi fgliuoli, i quali gli promet- tevano grandi cose per rivoltare il Regno della Corsica, e farlo suo. Ma i Signori Genovesi, con la loro vigilanza, facevano riuscire ogni trattato vano. Era in questo temporale Giovanni Francesco Gandolfo, del luogo di Porto Mauritio. Costui, come che egli fussi Prete, dal Pontefce fu eletto Vicelegato di Ferrara, nella quale carica egli dimorò alcuni anni, poi fu eletto Vescovo di Ventimiglia, e in l’uno, e l’altro grado 40 «In forse di perdere la libertà»

apparì in lui una grande ambitione, e particolarmente ambiva per sé, e per suoi fratelli la Nobiltà Genovese, la quale non potette mai ottenere. Questo ardente desiderio era in lui, sì fttamente radicato, che conoscendo, che la nobiltà Genovese non volea soddisfarlo in questo, ponendo egli da parte la riverenza che il sudito deve havere al suo Signore, divenne affatto nemico alla Rep.ca, mostrandosi apertamente partiale del Duca di Savoia, non tanto lui ma i suoi fratelli, che meno di lui stimavano la nobiltà Genovese. Il Senato, e tutta la nobiltà per questi loro portamenti gli portava grande odio. Egli è vero, che si sarebbero gastigati come meritavano, ma il vescovo era Prete, e senza grave scandalo non poteva farsi, i fratelli erano maritati in nobili Genovesi, sì che non vi era strada di mortifcarli. Finalmente esso Vescovo si partì da Genova, et andò al suo vescovato, ove meno appariva nemico alla Rep.ca di quello havea fatto avanti, conciosia, che essen- do l’esercito del Principe di Piemonte all’assedio della Città di Ventimiglia, con poca speranza di prenderla, s’interpose a trattare accordo, e si fece partiale di esso Principe, conciosia che persuase il Negrone et il Casero, che erano capi nel Castello a rendersi, ancor che potessero difendersi ancora per molti giorni. Que- sta attione, unita con tutte l’altre passate, come ella si seppe, manifestò a tutti chiaramente l’animo suo nemico. Onde vedendosi odiato da tutti elesse di rinunciare al vescovato che havea di Ventimiglia e pren- dere il vescovato di Alba che il duca di Savoia, per gratifcarlo di quello havea fatto per lui, se prometteva di darlo, morto che fussi il quale hoggi gode. Con questa macchia e con titolo di ribelle, come certamente dalla Rep.ca havea havuto se non fusse stato Prete, non havendo ardire di venire più né al Porto Mauritio, sua Patria, né a Genova. Uno de suoi fratelli è morto miseramente confnato a Chiavari. La città di Savona, e i suoi Cittadini, nella venuta di Francesi, e Savoiardi, è apparita la più fedele et affezionata Città che la Rep.ca havesse, conciosia che ella si armò, e fortifcò se stessa per resistere al fero nemico, sì che il Duca non risolse andare a quell’impresa come havea disegnato. Ma perché questa sua affettione verso la Rep.ca apparisca al Mondo, ella desiderò poi di essere dalla Rep.ca insignita col titolo di Città fdelissima, il quale titolo per solenne decreto del Senato gli fu concesso con parole dimostranti il grande affetto, altresì verso quella Città. Il Duca di Feria, che era Governatore dello Stato di Milano, dal Re di Spagna suo Signore è stato richiamato in Spagna per adoperarsi in cose di maggiore importanza. Egli è vero, che questo ritorno non poteva fare se non havea Galea che lo trasportasse in Barcellona. Egli richiese il Senato una Galea, che gli fu concessa, la quale apparecchiata che fu, egli se ne andò a Voltri per imbarcarsi, e vi fu ricevuto da dua ambasciadori, che furono Giulio di Giovanni Battista Pallavicino, e Steffano di Giovanni Francesco Balbi, i quali lo allogiarono, e spezarono a nome publico con molta splendidezza. Mentre dimorò in esso luogo, che fu dua giorni, egli per mostrarsi grato a tanti regali fattigli dalla Rep.ca, mandò Giovanni Battista Pani- garolo, nobile Milanese, a baciare le mani al Duce, et a Giulio di Agostino Pallavicino, et ad Alessandro Rosso, amendue dell’ordine Senatorio, all’hora residenti in Palagio. Fra Domingo, Spagnuolo dell’ordine de Frati Carmelitani scalsati, andando in Lamagna a trovare l’Imperadore, che l’havea dimandato al Ponte- fce, egli si trovò in Genova, quando dal Senato e da Consegli fu fatta la deliberatione di cingere la Città di nove mura, e perché da tutti era stimato nel suo favelare Religioso di grande bontà, e santità, predisse, che esse mura si farebbono e che riuscirebbono a grande difesa, non tanto della Città di Genova, ma ancora di tutta Italia, il quale mezo sarebbe un antemurale da tenere i barbari lontani. Egli scrisse una affettuosa let- tera al Senato et al Consiglio, esortando e l’uno e l’altro a solecitare essa Fabrica, e stimassi da tutti esse esortationi habbino in guisa operato che si sia posto ad effetto opera sì eccelsa. La partenza di Francesi e Savoiardi da Gavi, non tanto liberò la Rep.ca dal timore, che havea havuto, e che poteva havere in appresso di essere oppressa, e di andare nelle barbare mano di Francesi, ma ancora dell’infettatione della seta Calvi- nista, che la conversatione havea generata nelle menti delle genti ultra Jugum, soggiette alla Republica […]. Ma come questo morbo della heresia sia tale che con molta agevolezza contamini gli huomini, […] non have mai del tutto liberatone molti huomini a quali era oltre modo piaciuta vita sì libera, e tutta dedita al senso. Il Senato bramoso di conservare quella candidezza ereditata da maggiori loro, che era sempre stata nella natione Genovese, da che San Bernardo Apostolo, et in appresso i Santi Nazario, e Celso, l’anno mil- le cinquanta otto di nostra salute, […] con le loro predicationi […] che Giulio di Agostino Pallavicino et Alessandro di Marco Rosso, ambidua dell’ordine Senatorio, assistenti in Palagio, dovessero subitamente avanti che tale infettatione prendesse maggiore campo, mandare Religiosi addottrinati, e di vita regulata a Nove, a Ovada, a Gavi, et a Ottaggio, ove si intendeva essere il malore, i quali procurassero di disradicare dal pensiero di costoro cose sì sataniche e scelerate. I Padri Teatini si offersero di fare loro sì santa opera, furono acertatori, con molta pietà la esequirono, sì che con tale rimedio quella gente ritornò all’instituto antico e Catolico, ancora che non vi mancassero delle difcultà, tanta è la forza che dà il senso con gli huo- Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 41

mini malaviati. Giovanni Luca di Gerolamo Chiavari, che era i mesi passati stato mandato ambasciadore a Roma per impetrare aiuto dal Pontefce, era a tuttavia in quella Corte, sempre ricercando dal Pontefce qualche aiuto da difendersi. Egli è vero che per quanta retorica egli havea addopprato niuna è stata valevo- le ottenere cosa veruna, scusandosi il Pontefce che come Pastore non dovea dipendere più dal Francese, che dallo Spagnuolo, essendo a lui l’uno, e l’altro ugualmente caro, si rispondeva a questa ragione che non si trattava di dipendere più da uno, che dall’altro, ma di difendere una Rep.ca Catolica, e benemerita della Santa Sede, assalita così all’improviso, e tanto ingiustamente, e che turba la quiete, e pace della Italia. Non ostante che il Chiavari per persuadere il Pontefce addopperasse queste, et altre potenti ragioni, non ottenne mai cosa veruna dalla Rep.ca, e da lui desiderata. Esso Chiavari diede ancora con le stesse lettere raggua- glio, come con buona occasione era ito a rendere la visita a Pietro Valerio, e Federigo Cornaro, amendue Cardinali di Santa Chiesa, Venetiani, i quali si dolsero agramente di coloro, che erano stati sì maligni, che havevano machiato la loro Rep.ca, che dicevano che ella pagava ogni mese ottanta mila scuti al Duca di Savoia, per che con essi si valesse in acquistare la Rep.ca di Genova, e la distruggesse, per abattere la Casa si Austria loro nemica, cosa che non era vera, che bene era vero, che pagava ad essa ottanta mila scuti, non per questo effetto ma perché egli fusse a parte con essi loro a difendere la libertà a passi della Valltelina, che volevano Spagnuoli credere, che non fusse comune. Restava la Città di Genova in questi giorni medesimi in molta quiete, attendendo il Senato a ritornare negli huomini, così della Città, come delle Riviere, i buoni costumi et il timore di Dio, e della giustitia, le quali cose per la guerra erano state scaciate, et bandite dalla gente trista, e scelerata, e particolarmente ancora a premiare chi havea servito, e dare lode loro, a gastigare chi havea operato male, come si fece contro Giovanni Domenico Doria, Marchese di Corie, abitante in Torino, il quale non stimando punto l’Amore che si deve alla Patria, era venuto come nemico tutto armato con l’esercito del Principe di Savoia, quando venne ad invadere la Riviera Occidentale, e fu preso il luogo della Pieve, e poi tutti gli altri, come si è narato. Cosa che haveva a tutti cagionato non poca maraviglia, che essendo egli di una famiglia, che per avanti non havea mai mancato a dare, e conservare la libertà alla sua patria, hora con tanta sfaciatezza venisse per torli via fore sì bello, come era la libertà. Fu egli per decreto del Senato dichiarato per publica grida ribelle in primo capite. Il Duca di Pastrana grande di Spagna nel principio dell’anno mille seicento venti cinque dal Re di Spagna suo Signore era stato mandato ambascia- dore straordinario a Roma, al Pontefce; havendo fatto l’ufcio a lui imposto, se ne ritornava in Spagna im- barcato sopra due Galee concessegli dal Senato di Genova. Di mattina si partì da Savona, et essendo già giunto sopra le marine di Finale, scoperse che dodici Navi, venivano alla volta sua, una di esse di smisura- ta grandezza, temendo fusse gente nemica, ritornò addietro, salvandosi in Savona, dandone ragguaglio a Giovanni Luca di Giovanni Maria Spinola, Governatore di quella Città, il quale senza porvi dilatione, e senza sapere se i navili erano amici, o nemici, spedì subitamente correro a Genova al Senato. Tale novella sbigotì alquanto gli animi di coloro erano al governo della Rep.ca, temendo, che le Navi fussero in maggio- re numero, e Francesi, come in effetto erano, guidati dal Duca di Guisa, che andassero, o in Corsica, o ve- ramente in altro luogo della Riviera. Ma ponendosi da parte ogni timore, attese il Senato a provedere in quel breve tempo a quello era necessario per difesa della Città, delle Riviere, e della Corsica. Tra l’altre cose ordinò si ponessero in essere le sette Galee, con guarnirle di mile soldati, et accompagnarle con altretante dello stuolo di Don Carlo Doria, il quale non tanto offerse di armarle subitamente, ma di imbarcarsi lui stesso, et essere Capo dell’impresa, la quale cosa fu molto grata al Senato, che ricevete tale offerta con molto suo gusto, sperando che guidata l’impresa da huomo del suo valore, e prudenza ogni cosa riuscire dovesse prosperamente, et essendo già i dieci sette di luglio [1626], et il tutto in pronto, prima che partire, dal Porto, esso Don Carlo Doria venne di mattino nel Senato, ove sedendo a mano destra del Duce, prese il giuramento, che soglionsi prendere da coloro, che sono posti in qualche administratione della Rep.ca, poi in voce chiara et alta, disse che rendeva gratie infnite al Senato di haverlo eletto a sì grande ministiero, il quale procurarebbe farlo con quella maggiore cautela, e sicurezza che si potesse a fne, che le terre della Rep.ca non sentissero danno veruno. Alle quali parole rispose il Duce, che il Senato era conoscitore del valore suo il quale era tale che haverebbe, etiandio spianato ogni difcultà, che poteva fraporsi in difesa della libertà, la quale se ella havesse inteletto, e senso, non gli sarebbe mai paruto cosa strana, e nova che fusse conservata da lui, poiché Andrea Doria suo Avo tanto l’adoperò in servigio della sua Patria. Ma quel- lo che deve stimarsi maggiormente, quando vide il bisogno, gli la diede con tutte le sue forze, et è quello, che la Rep.ca gode con tanto suo contento in questi tempi. Partì Don Carlo Doria il giorno seguente, haven- do imbarcato sopra le sue Galee da quattro cento soldati Spagnuoli, et altra soldatesca, et alla diritta s’aviò 42 «In forse di perdere la libertà»

verso Livorno, ove havea ragguaglio essersi incaminati i Navili Francesi, non per combattere, ma per esser- li alla coda, osservando i suoi andamenti, et i suoi pensieri, e risolutioni. Il Duca di Guisa giunto in Livorno scese in terra et ivi dimorò da quattro giorni, poi si partì, havendo penetrato che il Grande Duca non havea gusto vi si fermasse più, temendo di darne disgusto al Re di Spagna, e per la stessa strada ritornò a Marsilia sempre seguitato dalle Galee del Doria, il quale come lo vide nelle Marine Provenzali, se ne ritornò a Ge- nova; ricevuto da tutta la Cittadinanza con lieto volto. Pensando ciascaduno che con quel suo modo di procedere, et andare dietro all’armata delle navi non fussi seguito danno veruno. Resta hora incerto a che fne il Duca di Guisa facesse questa armata, e che disegno egli havesse nel suo capo, conciosia, che non si vide pure un minimo segnale in luogo veruno, e pure è verisimile credere, che si vi fusse insidia apparita da qualche parte. Essendo vero questo, come è verissimo, si conclude da huomini savi, e pratici della natura di Francesi, che questa mossa sia stata, come sogliono essere tutte l’altre attioni loro, piene di leggerezza, e non di sostanza veruna. Il timore, che dell’armata Francese havea ingombrato l’animo de Signori Genovesi, come si sepe la giunta sua a Marsilia, [non] era in tutto cessato, poiché stimavano dovesse dopo di essa altra maggiore armata venire, come si andava dicendo, e che dovesse andare ad invadere le terre della Corsica, o veramente quelle delle Riviere. Onde, restando tolta via ogni noia, si attese a preparare alloggiamento per il Cardenale Francesco Barberino nepote del Pontefce che ritornava di Francia, il quale desiderava il Sena- to fare tutte quelle dimostrattioni, che meritava la persona sua. E già havea eletto Paulo di Antonio Serra, Luca di Giovanni Battista Pallavicino, Luca di Alessandro Giustiniani, Giovanni Giacomo di Tomaso Lo- mellino, Giacomo Filippo di Agostino Durazzo, e Giovanni di Tomaso Gentile, i quali con una Galea an- dassero ad incontrarlo sino a Ventimiglia, e lo conducessero a Genova. Partirono essi ambasciadori assai subito. I Commessari di armi che all’hora erano nella Riviera Occidentale per ordine del Senato inviarono a Genova distinta relatione delle Terre, e Ville state acquistate novamente che prima erano del Duca di Sa- voia, acioche egli provedesse loro di Podestà, e di altri ufciali, che gli governasse; con questa occasione raccontaremo il numero, et il nome loro, i quali sono: Oneglia col castello, le Cassine, Malpertato, Costa, Barchio, Borgo, Ponte di Asse, Bestagno, Gatto, Arsairola, Valle del Marro col Castello, Tonina, San Laza- ro, Lusinasco, Borgo del Marro, Conio, Pesante, Aurigo, Diverse villette e chia.te, La Pelegrina, Borgo Ratto, Valle di San Bastiano, San Pietro, Caudisco, Caranemico, Gazolo, Chiesanego, Chiusoneglia, Garsi, San Bartolomeo, Larze, Cenoa, Lavina, Montegrosso, Ormeto col Castello, Pigna et Rocchetta, Valle di Pietralata, Pietralata col Castello, Morteo, Vania, Tanile, Moline, Picele, Pantazina. Gli undeci del Mese di Agosto [1626] Don Gonzalvo di Cordoa,43 Governatore dello Stato di Milano inviò al Marchese Santa Croce copia di una lettera scrittagli da Torino da i dua Ambasciadori del Re di Francia andatovi per dare principio a porre in essere la pace fatta in Spagna fra le due Corone, scrivossi egli- no che il Duca di Savoia a loro richiesta ha sospeso l’armi, altro non vi resta, che esso Don Gonzales facia il medesimo, poi aggiungono, che saria bene, che la Rep.ca Genovese facesse lo stesso, per che si potesse andare perfecionando la pace, non tanto quella fra le due Corone, ma quella ancora fra la Rep.ca di Genova, et il Duca di Savoia. La copia della lettera fu letta nel Senato, et il giorno appresso consultato, che risposta fare si dovea, come fu fatto in tale guisa, che la Rep.ca era pronta a sospendere l’armi sue quando il Duca di Savoia facia lo stesso nel tempo medesimo e prometta insieme di osservarla. Ma da qual si vide poi, il Duca non vole farlo altrimenti, dicendo essere risoluto, che prima di dare la parola voleva si costituissero giudici confdenti alle parti, i quali decidessero per perfecionarlo ciò che conveniva accioche per sempre fusse stabile. Difcultà fraposta da lui, conciosia che si scorgeva in lui tale alterigia, che lo faceva stare ostinato di non volere passare per mezo né di Francia né meno di Spagna, parendoli che l’uno, e l’altro volessero con lui usare una certa superiorità, che egli come Principe libero, che si stimava in molte cose pari a loro, la quale cosa egli non poteva tolerare, sì che per questo solamente rimase per all’hora troncata ogni pratica di pace. In Spagna di quello succedeva in Italia, non si sapeva altro, gli ambasciadori Francesi vedendo l’osti- natione del Duca, e non sperando mitigarla se partirono da Torino, e se ne ritornarono in Francia, sì che la loro venuta altro non havea operato che la suspentione dell’armi fra il Re di Spagna, et il Duca di Savoia, la quale anche durò poco tempo. Il Cardinale Francesco Barberino, havendo terminato gli affarij per i quali il Pontefce suo zio, l’havea mandato in Francia, partito di Parigi alla diritta era venuto ad imbarcarsi a Mar- siglia, sopra quattro Galee pure Pontifcie, e tre del Gran Duca di Toscana, che vel aspettavano, e in pochi giorni se ne venne a Genova, sbarcando alla spiaggia della Villa di Sampier di Arena, allogiando nella Casa di Giovanni Battista di Giovanni Maria Spinola, statali apparecchiata molto sontuosamente. Egli è vero che

43. Gonzalo Fernández de Córdoba. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 43

egli memore che il Pontefce suo zio havea promesso a Giovanni Luca di Gerolamo Chiavari ambasciadore residente in Roma, che sarebbe venuto in Genova, et acettato l’allogiamento publico, dimorato solamente dua giorni in Sampier di Arena, imbarcato sopra Feluche, con tutta la sua Corte se ne venne a Genova, ri- cevuto al Ponte di Calvi da Filippo di Christofaro Centurione, da Giovanni Andrea di Tobia Pallavicino, da Opitio di Michele Spinola, da Giovanni Agostino di Gerolamo di Marino, da Agostino di Luca Spinola, da Domenico di Prospero Doria, da Paulo Gerolamo di Giovanni Torriglia, e da Niccolò di Giacomo Lomelli- no. I quali si ralegrarono con esso lui della sua salva giunta, e lo condussero all’allogiamento publico statoli apparecchiato in casa di Filippo di Giulio Spinola in strada nova, ove il Senato lo vide, et il giorno appresso lui rese la visita. Dimorato un giorno solamente in Genova, si partì, et andò verso Civitavechia. Pareva non più si dovesse trattare di pace in Torino per le cagioni sopra accenate, ma in Milano, e perché vi fusse per- sona che sapesse difendere le ragioni della Rep.ca, fu deliberato dal Senato di elegere Gentil’huomo ornato di quelle parti che ricercavano il bisogno, il quale andasse subito, et a lui si conferisse tutta le autorità ha- vea il Senato che era plenipotenziario, come si fosse stato personalmente. L’eletto fu Steffano di Giovanni Francesco Balbi, il quale in breve si pose all’ordine, e s’aviò a Milano ancora che già era i sei di settembre [1626], stagione che all’hora era ancora calda. Alcuni Navili di pirati Francesi, e Savoiardi, questi spinti, come si diceva, dal Duca di Savoia andavano con loro Navili nelle Marine della Riviera Occidentale, et in quelle della Isola di Corsica, e predavano quantunque navili Genovesi andavano a Genova; e perché questo aviso venne a Genova dopo haverne predato molti, il Senato per rimediare a tale inconveniente, ordinò si armassero due Galee, e subitamente andassero in busca di essi navili, e preseli, con ordine a capitani di esse che, trovato essere colpevoli, fatti alcune picciole prove, dovesse farli impiccare. Ne furono presi alcuni, e per freddezza di chi dovea esequire tale ordine, non se ne fece altro, ma si condussero prigioni a Genova, ove non parve bene esequire, se bene erano colpevoli, perché si stimava, che saputolo il Re di Francia, non facesse simile esecutione contro i Genovesi, che in quel Regno mercatavano tanto sono furiosi, et esequitivi, come per l’anni adietro era più di una volta successo, le dimostrationi fatte dal Senato a favore di Ettore Ravaschiero Principe di Satriano, non essendo parute tante quante si desiderava, per gratifcarlo maggiormente gli ne fu fatta un’altra di elegerlo Capo della Cavalaria, che già havea Alfonso Gonzaga, che alcuni mesi avanti era stato licentiato. Era stato riferto al Senato, che la Fortezza di novo fabricata sopra il luogo di Gavi era del tutto terminata; per chiarire se era vero e per assicurare ben bene essa, che era stimata un antemurale gagliardo, elesse Fra Lelio Bancaccio Generale dell’armi, Gerolamo di Marc’Antonio Spi- nola, perché ambidua col Padre Firenzola personalmente vi si trasferissero, et il tutto con molta acuratezza considerassero, non tanto se più bisogno vi era di altro lavoro, e se restava così bene fortifcato come si era proposto, quando si era risoluto refrabricarlo. Questi tutti di brigata, e alcuni altri con esso loro, vi anda- rono, et a capo di otto giorni ritornarono molto sodisfatti di ogni cosa, e così fu riferto al Senato, il quale decretò che vi si mandasse per tre mesi a vicenda Cittadino perito in armi. Di vero, che il Marchese Santa Croce da che hebbe principio la guerra, e che egli venne a Genova con la Infantaria Spagnola, e con trentatre Galee in aiuto della Rep.ca, cosa ordinatali dal Re di Spagna, il tem- po, che vi è dimorato, è apparito sempre amorevole verso di essa senza scorgersi in lui interesse particolare meno che ragionevole. Onde havendolo il Senato provato tale, per renderle qualche gratitudine, venne in questa sentenza, e così decretò perdonarlo proporre a Consegli della Rep.ca, che il Marchese non tanto lui, quanto suo fgliuolo, il Marchese del Viso, e tutta la sua prole per sempre, restassero insegniti della Nobiltà Genovese, e di più, se gli donasse un Bacile d’oro masicio con l’arma della Rep.ca nel mezo, di valore di sei mila ducento scuti d’oro, et al suo Segretario una cadena di ducento scuti. Le quali cose furono da lui accettate, poi che saranno vero testimonio a posere, quanto la Rep.ca era intieramente di lui sodisfatta. Il Maresciale Digueres, che l’anno mile seicento venti cinque venne a Gavi con uno validissimo esercito, accompagnato con quello del Duca di Savoia, che non era meno di numero per soggiogarsi, quando egli conobbe che non poteva ottenere il desiderio suo, se ne ritornò in Francia, e poi essendo vechio al suo go- verno, s’intende hora sia morto di morte naturale, essendo andato, come faranno tutti gli altri a dare conto di sé avanti a Giudice retto e senza eccetuatione, il quale senza remissione veruna lo gastigherà delle rapine, et altre sceleratezze fatte da suoi soldati nelle nostre contrade. Havendo il Senato deliberato come il tempo sia bono, poiché hora non fa altro che piovere, di porre la prima pietra alla Lanterna, ove si hà da cominciare le nove mura, per andare seguitando il rimanente, e perché se pretende fare alcuna solenità usate in simili occasioni, si è decretato dal medesimo Senato, che il Magistrato di Guerra, che sono Bernardo di Lionardo Clavarezza dell’ordine Procuratorio, che vi siede Presidente, Giacomo di Agostino Saluzzo, Francesco di 44 «In forse di perdere la libertà»

Agostino Mari, Gerolamo di Marc’Antonio Spinola, Giulio di Giovanni Battista Pallavicino, et Ottavio di Lorenzo Sauli, insieme con Gianettino di Giovanni Spinola, e Giovanni Battista di Giovanni Battista Sa- luzzo dell’ordine Senatorio, e Giorgio di Domenico Centurione e Giovanni Vincenzo di Giovanni Giacomo Imperiale dell’ordine Procuratorio, vadino, e considerino quali solenità è bene fare, pretendendosi farle più sontuose che sia possibile. Fra l’altre gratie, che in questa occasione si chiederanno a Dio, sarà che egli voglia soprabondare con la gratia sua sopra di esse, e se benedica, accioche siano propugnacolo vero a con- servare la libertà alla Rep.ca per sempre, l’altra gratia, che si dimandarà che voglia ammolire l’ostinatione di quei Cittadini, che non cessano per ogni strada, etiandio con stratagemme, et arti non lecite di frastonare opera sì eccelsa, stimandosi da savi huomini che facendo esse mura, oltre che non vi sarà Città, né fortezza più forte di essa, sarà un certo antemurale a tenere, che la gente barbara, e nemica della Santa Fede, non venga a invadere la bella Italia. Ultimamente ne è nata una altra difcultà molto senza dubio alcuno mag- giore dell’altra, la quale era per confondere, anche coloro che erano propitj alla edifcatione di esse mura. Il Marchese Castagneda nominato Don Sancio Monroi, è qui ambasciadore ordinario per il Re di Spagna. Costui, senza sapersi la vera cagione, che a ciò l’habbia indotto, solamente stimarsi si può, per parere mini- stro prudente, ha egli scritto al Re suo Signore, dandoli novella, come i Signori Genovesi, vogliono fabri- care nuove mura. Questo aviso sarebbe bastato, ma aggiunge, che tal volta egli ha scorto che vi sono molti però dell’ordine inferiore, e poveri, i quali non sono così bene affetti alla Sua Maestà, e che in l’avenire conoscendosi così forti questi tali apparirebbono più nemici, di quello si mostrano hora. A questa lettera il Re di Spagna respose. Vedassi la grande bontà sua, che egli già sapeva tale risolutione che per questo lasciasse di più favelarne, ma attendesse a curare l’altre cose. La Rep.ca di Genova è libera come è noto al Mondo, non riconosce altro superiore, che Dio stesso. Egli è vero, che non tanto Carlo Quinto Imperadore, Filippo Re di Spagna, e gli altri successori, sono sempre stati particulari Protettori della libertà, e la Rep.ca ne conserva memoria. Onde quando il presente Re, che hora regna, havesse mostrato desiderio che non si facessero, stimo jo, e così devessi stimare da tutti, esse mura non si sarebbono fatte e non sariano state espo- ste al bersaglio di nostri nemici. Del mese di novembre dello stesso anno [1626], parendo al Senato, che la stagione vernale ne venisse a veloce passo, e che niuno fuori che gente disperata, non dovea pensare al guerregiare, et allo stare in Campagna, e che il Duca di Savoia era sguarnito di gente da guerra, e quella che havea a malapena poteva sostenerlo. Onde pensava esso Senato fare riforma e sminuire la gente, sì come soglionsi usare in tempo di guerra, che secondo l’occasione si sminuisce, et si acresce. Essendo a sedici mila, si pensava sminuirlo a dodeci, sì come si fece, sei mila fu risoluto farli stare di stanza nella Riviera Occidentale, e li rimanenti a guardia della Città. Steffano di Giovanni Francesco Balbi, che si è detto sopra essere stato mandato a Milano, e che vi andò, conciosia che all’hora pareva dovesse trattarsi la pace fra la Rep.ca di Genova, et il Duca di Savoia. Tale andata è stata vana, dovendosi hora trattare in Francia dal Re stesso, e non vi si mandarà alcuno, bastando che vi vada Don Lorenzo Ramires di Prado, mandato dal Re di Spagna, il quale non tanto farà la parte come ministro di esso Re, ma della Rep.ca Genovese ancora, la quale ha mandato suffciente procura per aderire alla pace, quando per aventura si componga, cosa che non si crede, per l’instabilità, e poca voglia, che ne ha il Duca di Savoia, non volendo fare questa pace per mezo di questi dua Potentati. La relatione formata da due Senatori e dua Procuratori, e dal Magistrato di Guerra, in che guisa si debba fare la solenità di porre la prima pietra delle nove mura, da essi è stata fatta, e come che il Senato desideri fare essa solenità quanto più presto sia possibile, è stata letta hoggi, che siamo a sette del mese di Decembre [1626], ove erano ancora quei Senatori dell’ordine Procuratorio, che tutti formano il Senato, e non vi essendo stato replicato cosa veruna, con tutti i voti degli astanti è stata confermata la quale è questa: Havendo VV.SS. Ser.me deliberato che il nuovo cinto di mura, cominci dalla parte della Lanterna, e che noi chiamati persone periti consideriamo il luogo preciso dove si doverà dar principio ad esse Mura, et insieme tutto quello, che appartiene all’attione di porre la prima pietra a fnché ogni cosa proceda con quella dignità, et atti di Religione, che richiede opera di tanta importanza, habbiamo havuto consideratione a tutto, et appoggiato il pensiero, et la cura all’Ill.mo , e Giovanni Vincenzo Imperiale, et al Mag.co Gerolamo Spi- nola di andare in luogo medesimo, insieme con l’Ill.mo Fra Lelio Brancaccio capo dell’armi della Rep.ca con l’Ingegnero Petrucci,44 Paulo Rizzo, e gli architetti, et esaminino bene la positura, e sito, e considerato, che ivi doverà essere la porta principale della Città, e li Baluardi, che doveranno guardarla, hanno stimato, che non sia necessario per hora precisamente stabilire, ma che trattandosi di punto principale, e di grandissima qualità, sia

44. Carlo Petrucci. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 45

meglio con reiterate visite più comodamente esaminarle, e che per hora basti designare il luogo dove si doverà porre la prima pietra, non importando alla sostanza dell’opera, che resti sotto un Baluardo, o sotto la porta, purché egli sia nel fondamento di esso muro. Quando dunque così a VV.SS. Ser.me parà, potranno deliberare, che la prima pietra si ponga in luogo da VV.SS. Ser.me designato, si farà aggiustare nella maniera, che conviene. Questa pietra lodiamo, che ella fusse una lapide marmorea di due palmi, e mezo in quadro, nella quale si doverà intagliare quell’inscrittione, che VV.SS. Ser.me comandarono di molte che sono state fatte, fra le quali habbiamo scelta la seguente: “Deo et Dei Mater, Divis Jo.Bap.te Georgio, Laurentio ac Bernardo tutelaribus, Prefigato bello ad hostium timorem, Civium securitatem, libertatis propugnaculum. Hinc […] moenia, montibus optando se sumque dicabunt Urbi Janue, Religiosa unanime incumcussa. Anno salutis MDCXXVI”. Si doverà far fare una Medaglia di Argento di mezo palmo di diametro tonda da incastrarsi nella detta pietra, e coprirsi con una Chiappe di rame, et in essa da una parte sarà intagliata l’imagine di nostro Signore, nostra Signora, e i quattro Protettori della Rep.ca, San Giovanni Battista, San Giorgio, San Lorenzo, e San Bernardo, dall’altra parte l’in- segna della Rep.ca con la inscrittione Dux et Gubernatores Rep.ce Genuensis, e l’Anno corrente. E li detti Ill.mi Giorgio, e Gio.Vincenzo haverano cura di dare ordine all’una cosa, e l’altra sij fatta con quella acuratezza che si deve, la quale pietra doverà essere posta a suo luogo per mano del Ser.mo Duce, a cui serviranno in quell’atto due huomini vestiti di veluto cremisile. Per solennizare questa attione, et acompagnarla con tutti quegli atti di Religione che convengono, così per implorare il Divino aiuto, e protettione, come per ecitare la pietà della Cit- tadinanza, e Popolo di tutta la Città, et insieme ciascaduno verso così utile, et importante opra, e per continuare in quello che in simili occasioni è stato solito in questa, et in altre Città, si loda che i Ser.mi Collegi, li vadino il giorno, che si doverà, mettere a suo luogo, processionalmente invitando tutto il Clero, e Religiosi, e confrater- nita, facendo ancora chiamare i Consoli di tutte l’arti, acciò seguitino la Processione, e quando non paresse a VV.SS. Ser.me potere andare con essa Processione per tutta la strada, che haverà da fare, potrebbono andarsene da parte in letica sino a Santo Teodoro, et ivi cominciare a seguirlo sino al luogo, dove si haverà da celebrare la Messa, et ivi doveranno fermarsi. Et accioche essa Processione ritornando, et incontrando chi andarà per la strada, e frequenza del Popolo, non cagioni confusione, potrà, giunta che sia alla Lanterna, scendere alla Coscia, et indi girare, e cingere San Benigno, e calare dove scende la strada verso l’Oliva, e ritornarsene a Ge- nova. Lodiamo, che la Messa si celebri in campagna con licenza di Monsignore Vicario, facendo apparecchiare il luogo con tavolato, e Tende, con la decenza, et honorevolezza, che si deve, il che sarà, quando così approvino VV.SS. Ser.me in uno sito vicino alla Villa de Padri di San Benigno, dove converrà in quell’atto servirsi di un poco di essa Villa, gettando giù certa muraglia, la quale si farà subito rifare. Alla messa, e così anche all’attione di por la pietra, doverà essere numerosa musica di voci, et instrumenti, e perciò oltre quella di Palagio, chiamerà altri Musichi, che parranno, et all’elevatione del Santissimo Sagramento, e così per anco quando si metterà la pietra, si deverà sparare tutta l’Artiglieria de i posti della Città, del Molo, e Lanterna, e così delle Galee, le quali si haveranno da trovare quando il Mare sij quieto sotto la Lanterna per honorare l’attione, e se li saranno Galee de particolari, o di altri stuoli, si doveranno parimenti invitare. Si loda richiedere il Signore Cardinale Rivarola a volere intervenire a questa fattione, celebrare la messa, e benedire la Pietra. Invitare anche il Padre Domingho Carmelitano scalzo, acciò assista all’attione facendo un sermone sopra questa opera, con quelle considerationi di pietà, e religione, che a lui benissimo soveniranno. Si doverà chiamare copioso numero di Cittadini, acciò fa- cino compagnia al Ser.mo Senato. Ma perché le persone vi concorreranno sarano assai, e le strade sono anguste, si loda proibire, che quella mattina, e sino fnita l’attione, e ritornati a casa, Ser.mi Collegi, non vadano dalla Porta di San Tomaso, sino alla Lanterna, Lettiche, né Cavalli, o altri giumenti, che possono generare confusione, e disordini, e provedere in modo, che ciò sia esattamente osservato. E se VV.SS. Ser.me vorranno andare in letica sino a Santo Teoddoro come si è detto, e non le paresse seguitare la processione a piedi, si doverà provedere, che subito smontati, esse letiche, e Cavalli, se ne vengano dentro della Porta di San Tomaso, dove doveranno aspet- tare sino al ritorno. A questo effetto si potrà anche mettere ordine, che Bestie da soma e da vetura, che veniranno di fuori, non passino in detto tempo por la detta strada, ma si fermino, o vero vadino d’altra parte, e perciò sarà bene poner guardie ne i luoghi oportuni, che li avisino, e si proibischino l’entrare, scrivere un giorno avanti alli Capitani di Poncevera, e di Sestri, che non le lascino venire, e la guardia di San Tomaso non lasci uscire, né letiga né altro animale. Sarà a proposito, che i Padri di Commune facino in quella parte accomodare le strade, dove ne sarà di bisogno, e rifare il parapetto alla Lanterna, fortifcandolo, acciochè qualche inconveniente non succeda. Lodiamo ancora che dalla Porta di Santo Tomaso sino alla Lanterna si ripartino soldati, e birri per oviare ogni disordine. Finalmente per solenizare maggiormente questa festa, quanto si può, e per allegrezza universale, lodiamo far essortare ognuno, e che la sera dell’istesso giorno, facino luminarie alle Finestre delle Case per tutta la Città. Il Duca di Savoia, se bene si trattava la pace con la Rep.ca, era sì inquieto, poiché niuna cosa gli era riuscita alla scoperta, non mancava di valersi delle segrete, con andare trattando congiure, particularmente per racquistare le sue terre, pretendendo non volere fare tale acquisto per via di accordo, ma da guerrero 46 «In forse di perdere la libertà»

prenderle con l’armi, e pure cosa veruna in questo genere non gli è riuscita. Tra l’altre ordite da lui una, che pure si scoperse, la quale fu fatta in Zuccarello da Diego di Marciano, da uno suo fratello, e tre altri privati soldati nativi della Provincia di Calabria, i quali tutti unitamente havevano promesso al Duca di Savoia di darli quel luogo, che havevano in custodia. Ella fu scoperta da Giuseppe Marciano suo parente, pure Calavrese, et i congiurati presi, e confessato il delito, conforme si usa nelle guerre, nella piazza di Albenga passarono fra mezo le picche di soldati. La stessa fne fece ancora un soldato Corso, che pure era consape- vole della congiura. Cose che molto noiarono la Rep.ca, ma per molto più la noiò la fuga di Scipione della Casabianca, e trenta altri soldati pure Corsi, i quali andarono a Torino, e furono tutti dichiarati ribelli, e per manifestarlo a tutti particolarmente la malvagità del Scipione, alla Malapaga ove allogiano per ordinario le Compagnie di Corsi, si fece dipingere la sua effgie impiccato ad una Forca. La fuga di costui e de i trenta soldati quanto si potette, si tenne segreta, perché gli altri soldati non prendessero questo esempio, e non fug- gissero tutti. Erano già trapassati alcuni mesi, che la Chiesa della Casa professa della compagnia del Giesù in Genova vicina alla piazza del Palagio publico, altro non vi rimaneva per terminare quella fabrica, che porre in essere la Porta principale della Chiesa, la quale si fece, con ornamenti, et incrostature di fnissimi Marmi, e di Statue, con essersi posto sopra di essa tale epitafo: Franciscus, Julius, Marcelus, Joes Caesar, et Nicolaus Augustini Pallavicini flij pro sua in Deum Religione, et in Beatum Ignatium Societatis Jesu, parentem pietati eiusque ordinem observantia Templum hoc nomini Jesu dicatum cum adiuncta professorum Domo ac fondamentis extruxerunt. Anno D. MDCXXVI. Il luogo di Dolceacqua è vicino alla Città di Ventimiglia in sito assai forte, ma quello è più stimato, e molto opportuno allo scendere di Piemonte al Mare, è sempre stato dominato dalla Casa Doria, et hora è signore di essa Carlo pure Doria, il quale per disgratia sua punto non ha seguitato le vestigie di suo Padre, et Avi, che hanno sempre procurato di conservare quel luogo con trattare bene, e con ogni amorevolezza i suoi sudditi, cosa che non ha voluto fare lui, anzi ingordo di dimande straordinarie, e fuori di tempo, per sodisfare al suo senso, è venuto in contese con essi loro, e questa contesa è in guisa cresciuta, che il Duca di Savoia saputala, come che egli habbia sempre havuto gola, e desiderio di haverlo per suoi particulari disegni, e per quei ancora che sono communi a tutti i Principi del Mondo, che procurano a tutto potere loro, etiandio per strade non lecite di acrescere il loro dominio, ma più di ogni altro esso Duca, particolarmente in questi temporali de moti di Italia. È stato per questo stimato, che esso Duca habbia non poco fomentato tali contrasti, e disgusti, e non è grande fatto il crederlo, conciosia che esso luogo senza avedersene il Doria, è ito in potere del Duca, il quale l’ha munito con grande diligenza. Egli è vero che per ancora non si è fatto possessore delle Rendite, ma lo farà. Hora, per onestare questa rapina e di haverne preso il possesso così fortivamente, egli va dicendo, che può giudicamente farlo per l’aderenza, che già l’Ava del Doria le fece. E questo possesso pensa ritenerlo sino non veda sedati essi disgusti. Il che sarà quando a Dio piacerà. La Rep.ca di Genova ha sempre procurato di ostare a sì fatti disegni del Duca di Savoia. Egli è vero che come ha conosciuto che il Doria havea poco sale nel Capo, e meno fermezza, dilettandosi assai della varietà, per non prendere nuove brighe col Duca nemico mortale della Rep.ca ha lasciato correre, e non ha voluto im- picciarsene. Ma ha bene dall’altra parte procurato che il Marchese Santa Croce, l’ambasciadore di Spagna qui residente,45 e Don Carlo Doria, tutti tre ministri, che rapresentano la propria persona del Re di Spagna, facino loro e diano ordine, come hanno fatto, a Fra Lelio Brancaccio Generale dell’armi della Rep.ca, che in evento il Doria richieda a lui soldati per difendersi dall’insidie del Duca di Savoia, gli le dia a nome del Re di Spagna solamente. Non di meno questi ordini così precisi, e che dovevano giovare molto alla causa, non sono valuti niente, perché il luogo di Dolceacqua è ito nelle mani del Duca di Savoia, aconsentendolo il Doria stesso ingelosito se Spagnuoli ne prendevano il possesso, e postovi guardia, diceva, mai più gli saria stato restituito. Vi aconsentirono ancora gli huomini più autorevoli del luogo, perché non vedevano volen- tieri per lo dubbio, che havevano di andare sotto il moderato governo della Rep.ca, e di essere severamente gastigati. Ancora che gli apparecchi fatti per porre la prima Pietra alla Lanterna, fussero molti giorni avanti preparati, per i tempi tristi in Mare, et in Terra, non si era mai fatta tale solennità. Onde essendo cessata l’Acqua, che dal Cielo per molti giorni era cascata in grande abondanza, questa mattina, che erano i sedici del Mese di Decembre [1626], vi si diede con la gratia del Signore Iddio principio. Essendosi nel fare del giorno sonate le Campane del Duomo, e dell’altre Chiese, e quella ancora del Palagio, così verso le quinde- ci hore si congregarono tutte le Religioni in Santo Lorenzo, etiandio quelle che per ordinario non sogliono

45. Sancho de Monroy, marchese di Castañeda. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 47

ire a niuna processione, come sarebbe a dire Teatini, Giesuiti, Bernabiti, Carmeliti scalsati, Minimi, del Ben morire, e quei della Maddalena, i quali così gli uni, come gli altri erano parati delle più belle, e riche vesti sacerdotali, che havessero nelle loro sagrestie. Oltre di ciò vi erano ancora tutte le Confrarie, della Città, che sono in grande numero. Come il Senato seppe tale ragunata, egli andò nella stessa Cathedrale, accompagna- to dal Marchese Santa Croce, che era a lato sinistro del Duce, e da molta Nobiltà. All’hora la Processione cominciò aviarsi verso la Lanterna, prendendo la strada deritta verso San Tomaso, andando tutti a piedi. Giunti al luogo designato, assai subito da Musici, e da Preti della Cathedrale si diede cominciamento alla Messa, dicendola Francesco Maria di Tomaso Spinola Vescovo di Savona. Terminata che ella fu, fra Dome- nico Spagnuolo Carmelitano scalsato, salì sopra un Pulpiteto, il quale prononciò un affettuoso sermonetto accomodato al tempo, et al luogo, esortando il Senato, e tutta la Cittadinanza andare perfecionando opera sì eccelsa, come il fare le nuove mura, mezo effcacissimo a conservare la libertà per sempre. Terminato il sermone ancora, il Duce con tutti i Senatori, si levarono da loro luoghi, ove erano assentati, et andarono ove era stato designato il porre la prima Pietra e con dirsi alcune orationi di Preti appropiate, il Duce pose la pietra prendendo ancora la cassola46 da calcina, e gettandone sopra essa; lo stesso fecero i Senatori uno per uno secondo l’età, e poi i Procuratori, sparandosi in questo atto grande numero di Artiglieria, e moscateria da soldati. Poi montati in Cadreghe de Muletti, tutta la gente se ne ritornò a Casa e così il Senato, che già l’hora era tarda. La lettera, che si è detto sopra che dal Padre Domenico, Spagnuolo Carmelita scalsato fu scritto al Senato, et al Consiglio minore, quando stavassi in forse di risolvere la fabrica delle nuove mura, è la presente, che habbiano voluto porre qui a posta fatta, con aggiungere che all’hora fu stimato che essa let- tera, sì come è effcace assai, facesse risolvere molti Cittadini che erano dubiosi a concorrere nell’opinione di coloro che mostravano con quante evidenti ragioni politiche si dovevano fare: Jesu Maria, Ser.mo Prencipe, Ecc.mi Senatori, et Ill.mi Signori del Consiglietto. Il desiderio della gloria di Dio, e del bene di questa Ser.ma Rep.ca da me tanto caramente amata nel Signore, mi sprona di ricordare alla Serenità vostra, et a tutti questi miei Ecc.mi Signori radunati in questo luoco, quella immensa misericordia che Dio benedetto questi mesi adietro le fece, di liberarli dal certo, et evidente pericolo di sc[h]iavitudine, e perdita di libertà, di honore, di vita, e di facultà, con tutti quei esterminj, violenze et ruberie che il vincitore nemico feramente sdegnoso sole fare negli oppressi, e vinti, e debellati. O Signori miei amatissi- mi, se Dio li havesse aperto gli occhi quel Giovedì e Venerdì Santo dell’anno passato, o che doloroso spetacolo haveriano visto nelle proprie vite, e nel sangue de propij flij, et amici. E pure Dio miracolosamente, senza loro industria, havendo pietà di questa Ser.ma indifesa, e confusa Rep.ca, ne pigliò paternamente la diffesa, assicu- randola, che flialmente li gastigava, mostrando solo la sferza, con ritenere il braccio del gastigo. Il che deve movere le SS.VV. Ser.me a due cose, la prima ad una straordinaria corrispondenza di gratitudine verso il Signore Iddio di benefci ricevuti la quale mostraranno confdente della vita, e con la divotione verso la Santissima Ver- gine, e Glorioso San Bernardo, con l’osservanza de voti fatti, e principalmente con l’emenda de peccati nostri, i quali come tante voci domandano al Cielo rigorosa condotta. E questi in gran parte sono stati l’origine della passata guerra, e se non saranno con una vera penitenza scancelati, si può temere di peggio, perché una bontà irritata come in questa occasione è quella di Dio, è per riuscire contro la gente sconoscente et ostinata in una severissima vendetta. Per questo gli esorto a vivere più che mai con timore. Ma che il timore sia di Dio, che serva di un Baluardo per trattenere la sua ira, e mantenerci la nostra libertà. L’altra cosa, che voglio ricordare e, che più che mai unitamente attendino al buon governo dello stato loro, vigilando nella custodia del ben commune, come se fusse di ognuno in particolare, e dal quale solo dovessero cavare il sostento privato della sua famiglia, che a questo modo saranno benissimo custoditi e per farlo il mezo più proportionato di tutti, è l’unione, et il concerto generale, che quasi (con applauso aspetto) che tutti hanno d’havere nella proposta che si ha da fare per la fortifcatione nova de muri, tanto a questa Rep.ca necessaria, quanto è l’istessa libertà. Loro stessi benissimo se ne avidero, quando si ritrovarono nella stretta, assaltati dalli nemici, che per questo vedendosi mal sicuri con grossa spesa procurarono con trinchiere, piateforme, e baluardi di aiutare la facchezza de Muri poco atti a sostenere l’impeto di uno esercito vicino, perché approssimato il nemico alle mura di Genova, è forza aprir le porte, perché sariano più maltratt[at]i, et oppressi di fuori, che di dentro per l’eminenze di poggi, e colinette, come la ragione di guerra, e l’istessa esperienza dimostrarono. Per questo è ragione per la difesa propria, e per non havere a spendere ogni volta grossa somma di danari, che hora si facci una perfetta e compita fortifcatione di maniera, che sempre habbia da durare. Nel terrore della guerra ogniuno di loro haveria dato la metà della sua azenda per assicurare l’altra metà. Hora si dimanda un niente, per dir così di spesa in comparatione di quel- lo, che si saria dato all’hora, e pure corriamo l’istesso risico. Signori miei gli aviso, che non si scordino della guerra passata per la pace presente. Vedino che è insidiosa più che mai, le macchine che si fabricano contro

46. Cazzuola. 48 «In forse di perdere la libertà»

Genova hoggidì sono maggiori delle passate, le nostre forze minori, li sdegni de nemici maggiori più che mai. Per questo hora che Dio gli ha liberati dalla tribulatione, e dallo spavento della vicina guerra devono effcace- mente attendere a comandare che si esequisca quanto prima la nuova fortifcatione. Genova è la chiave d’Italia, e ragione che sia in punto, che tutti i Potentati la riveriscono, e temono, il che non si può ottenere solo con una straordinaria fortifcatione, con levar pensieri, che per ogni tempo possino venire, a qualsivoglia Principe del Mondo di possederla. Genova è l’origine della Fede Catolica, e la pietà Genovese vuole, che per conservarla, e per non mettere che s’introduchino Eresie in Italia, non solo dia la facultà di fortifcare, e chiudere i passi a nemi- ci di Santa Chiesa, ma ancora offerire con somma liberalità il proprio sangue. Genova è sacrario delle Reliquie del Glorioso San Gio.Battista diffensore di questa sua divota Città particolarmente contro l’onde del Mare, e ragione che per diffesa delle stesse Reliquie Sante la pietà Genovese li fabrichi nove Mura, e fortifcatione contro gli Eretici, che in questa ultima guerra si vantavanodi volere con rinovata impietà di novo abbrugiare le Sacre Ceneri. In somma Signori miei, questo negotio è di Dio, e della Santissima Vergine, e di San Bernardo, e di tutti i Santi Protettori di questa Città, et io in nome loro, ne prego, e scongiuro le Serenità Vostre, Protestandoli per parte di Dio, essere sua volontà, che si esequisca questa santa opera, se pretendono mantenere quella libertà tanto desiderata con tutte l’altre circonstanze brevemente accenate. Della spesa non si piglino fastidio, perché oltre che è poca in comparatione di quella, che si saria fatta, se la bontà di Dio non li metteva la mano. Dio agiuntarà, concorreranno i poveri di questo Ser.mo Dominio ad aiutare il bene publico, servirano l’istessi soldati pagati, e li schiavi di Galea, si trovarano altri mezi facili per il fne che si pretende, et jo ne restarò con infnito obligo, offerendole le mie povere orationi, con quel maggiore affetto, che si degnerà la bontà di Dio di riceverle ad utile di questo da me tanto amato Ser.mo Dominio. E facendo alle Ser.tà Vostre humile riverenza, le prego dal Cielo ogni maggiore bene spirituale, e temporale. Di Santa Anna, li 6 di ottobre 1626. Di V. Ser.tà osserv.de, Ecc. me, et Ill.me. Humilissimo servidore nel Signore, Fra’ Domingo di Jesù Maria, Scalso. Non ostante che la lettera per ordine del Senato ella fusse letta a Consiglieri dell’uno, e dell’altro Con- siglio, et dal Segretario esortato ognuno […], et aiutare per la parte sua ad una impresa tanto profttevole alla Rep.ca, et alla sicurezza di lei, per conservare per sempre la libertà, quei Cittadini, che si erano posti in capo di non volere Mura, già non si tolsero via dalla loro ostinatione, anzi molti più a guisa de Cornacie da Campanile graciavano contro di esse alla continua. Ma i Senatori, che all’hora sedevano in quella seggia, senza punto stimare la loro ostinatione, andavano tirando la pratica avanti, quanto potevano, con andare cercando tracia, e modo di trovare danari, poiché si faceva conto, che per terminarle perfettamente vi voleva da sei cento mila scuti d’oro, somma, che spaventava non tanto quei, che erano contrari alle Mura, come i favorevoli. Ma Dio, che nella sua mente già havea stabilito, che nonostante tante difcultà se facessero […] che si aumentò la gabella del Vino e quella del Grano, e s’impose una tassa a Cittadini, con grande genero- sità de Consegli della Città, segno evidentissimo che le due terze parti de Nobili vi aderiva. Egli è vero che superata questa difcultà, ne nacque un’altra non minore dell’altre, che i Religiosi che per ordinario sono esenti di ogni gabella, e [...] senza veruno rispetto, andavano dicendo, che non volevano pagare né l’una, né l’altra gabella, cosa che dava non poca baldanza a repugnanti alle Mura, perché essi stimavano, che questa difcultà potesse impedire la totale risolutione, dicendo, che non tanto era ragionevole ma giusto, che essi pagassero sì poca cosa, perché essendo tale, come era in effetto, fatte per sicurezza di tutti i Preti, anche eglino stantiano con la medesima sicurezza di secolari. Ma essi non ostante le ragioni che si dicevano, che erano acettabili, con tutto ciò non si acquetavano. Tra tanto, non si faceva deliberatione veruna, e il tempo, e la stagione apropriata a fabbricare andava passando, in quell’anno. Queste difcultà, come si conobbe poi, non erano però bastevoli a impedire una tanta impresa abbracciata, et approvata da tanto numero di Cittadini, ma si bene dilatarla, essendo necessario perché i Religiosi pagassero, havere il beneplacito dal Pontefce, il quale non mancava havervi della ripugnanza. Del mese di Marzo [1627] di quell’anno il Duca di Ratelle,47 che era succeduto nel Ducato di Mantova a guisa di Principe, con proprio messaggiero fece sa- pere a tutti i Potentati di Italia questa sua successione, et alla Rep.ca di Genova, mandò Giovanni Giacomo Sgarampo Conte di Camino, il quale era Generale della sua Cavalaria. Costui fu ricevuto da dua Nobili a nome del Senato, e condotto all’allogiamento apparecchiatoli. Nel seguente giorno andò nel Senato, ove espose la sua ambasciata, la quale egli fece con ogni riverenza dimostrante la grande stima, che il Duca Suo Signore faceva della Rep.ca. Il Senato non rimaneva a pieno sodisfatto, che gli ringratiamenti fatti al Re di Spagna per mezo di Giovanni Battista di Giovanni Maria Spinola suo ambasciadore, perché egli a pena giunto in Madrid, havuta la prima audienza, di Febbre maligna era morto. Ma vole ripeterli essi ringratia- menti, perché così conveniva alle obligationi, che si havea a quella Maestà. Onde per tale effetto elesse

47. Carlo I di Gonzaga-Nevers, duca di Rethel. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 49

novo ambasciatore Luca di Giovanni Battista Pallavicino, il quale apparecchiatossi, poco dopo imbarcossi sopra due Galee della Rep.ca, con esso lui Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo, che andava am- basciadore ordinario alla medesima Corte, ambidua poi gionti a Madrid fecero i detti ringratiamenti. Come per avanti si è notato, il Duca di Savoia con le sue solite stratagemme hebbe in potere suo il Castello et il luogo della Pena, datoli da un fgliuolo bastardo di Andrea Rossano, Castellano di quello Castello, che per danari si è indutto a fare sì strano tradimento, e l’ha il Duca tenuto con molta custodia. Egli è vero che lo ha distrutto del tutto. Prima che ciò facesse, i soldati Piemontesi che erano in quel luogo, erano sì scelerati, che contro ogni ragione trattavano male quei huomini, e particolarmente le Donne, e nell’honore, e nell’azienda in guisa che essi adunati insieme, un bel mattino si partirono, e di brigata andarono a Ventimiglia. Egli è vero che non havendo in questa loro transmigratione potuto portare con esso loro, né robba, né altra cosa da sostenere la vita. La quale infelicità saputa dal Senato, come pio Padre diede ordine a Benedetto di Pasquale Spinola, suo Commessario di Arme, che el era giovine, e bono per soldato desse a lui paga il mese, a Vecchi e Donne, et a fgliuoli piccoli, tre pani il giorno, aciochè così gli uni, come gli altri potessero sostentare la vita, e non morirsi di fame. Atione che fu stimata pia, e santa, e d’altri Potentati non fatta giamai, anzi tutti gli altri, per dirla come vocabolo vero, suciano non che la robba ma il sangue stesso. In tutte l’altre parti, non si ostentava fra Popoli della Rep.ca, e del Duca di Savoia l’ostilità solamente a confni di Ventimiglia, come che ella sia vicino a Villafranca, che sempre alternativamente entravano soldati […] ne i luoghi del nemico, e rubbavano quanto potevano. Un giorno quei che erano in guardia della Rocchetta, luogo del Savoia, entrarono nel Paese della Rep.ca e rubbarono molto bestiame, e fecero di molti altri danni, senza che quei di Ventimiglia vi potessero riparare, perché l’assalto era stato all’improviso. Ma perché i soldati Genovesi erano certi, che i Piemontesi non sariano allettati dalla preda, contentati di una sola volta, un gior- no che stimarono dovessero venire, si posero con molta segretezza in aguato, aspettandoli. Non fnirono il pensiero loro, percioche i Piemontesi non tardarono molto a comparere. All’hora coloro che erano in aguato uscirono fuori, e con grande furia assaltarono i nemici, i quali se bene erano molti, con tutto ciò spaventati si posero in fuga, rimanendone venti morti, et altrettanti feriti, che ancora hebbero agio al fugire. Questo fatto che successe così felicemente vietò a Piemontesi a non entrare più nell’avenire nel territorio de Signori Genovesi, i quali meno si mossero per non ricevere dal nemico, ciò che havevano dato a lui. Onde ognuno stava ne i suoi termini. Fra questo mezo il Senato da suoi Commessari di arme, che erano nella Riviera Occidentale hebbe distinto ragguaglio in che guisa restavano guardate, e fortifcate le terre delle dette Riviere, che si è voluto porre qua: in Pigna cinquecento sessanta otto; Ventimiglia, e Camporosso mile trenta; Castello Franco cin- quecento; Triora ducento ottanta; San Romolo nove cento diece; Taggia cento ottanta; Porto quattro cento; Arassi ducento sessanta; Albenga ducento settanta; Zuccarello ducento settanta; Castello Vecchio novanta; Pieve soldati Corsi settecento; Ormea mile trecento cinquanta; Savona mile trecento cinquanta; Sacello cinquanta; Ovada cinquanta, e Nove trecento. In tutto sono nove mila venti dua soldati, i quali, fuori che i Corsi, tutti gli altri erano Italiani. Il Duca di Savoia, poiché non poteva acquistare fama di havere gente da guerra in assai numero con fare tutte quelle apparenze che poteva, si sforzava di darlo ad intendere al Mon- do, come fece in questo mese di Aprile [1627], più che ogni altra volta, et a Signori Genovesi per porli in timore. E se bene all’effetto stesso non serviva a nulla, egli havea però gusto di apparire bravo, poiché non potea fare l’altra cosa con offesa de suoi nemici. Egli sparse voce, e fece che i suoi ministri, e Popolo faces- sero il medesimo, che egli, per debellare i Signori Genovesi suoi nemici apparecchiava venti mila soldati, fra questi vi erano uniti dodeci mila Tedeschi, che dicono, che il Marchese di Bada conduceva in suo aiuto di Lamagna. Questa voce falsa sparsa da lui, hebbe tanta forza, che Don Gonzalo di Cordova, Governatore dello Stato di Milano, il Marchese di Santa Croce, il Brancaccio Generale dell’armi della Rep.ca, e molti altri lo credettero, in guisa che Don Gonzalo rispose a Claudio di Marino che gli scrisse tale nova, che se il Duca di Savoia si moverà ad assaltare i Signori Genovesi, egli nello stesso tempo dalla parte di Lombardia, haverebbe assaltato lui, et il Piemonte, non volendo comportare, che si facia alteratione veruna, mentre si tratta pace fra le due Corone. Il Marchese Santa Croce lo credette ancora lui a segno, che non fdandosi di niuno, vole lui stesso trasferirsi nella Riviera Occidentale havutone però prima la licenza dal Senato, e ve- dere tutti i posti pericolosi che erano stati fortifcati, se stavano secondo la regola militare, e particolarmen- te vide i posti della Città di Savona, e tutti trovò bene fortifcati secondo il gusto suo. La Rep.ca hebbe an- cora lei qualche timore fussi vera la novella, et spedì correro a Napoli al Duca di Alva, perché egli inviasse qui seicento Spagnuoli, scrisse anche a Don Gonzalvo di Cordova Governatore dello Stato di Milano, che 50 «In forse di perdere la libertà»

in aiuto della Rep.ca mandasse dua mila soldati. A pena furono fatte queste dimande, che tutti quei haveva- no creduto fussi vera sì falsa nuova sparsa dal Duca di Savoia, si disinganarono, e bene conobbero, che erano delle solite malitie e stratagemme di lui, che di altro non si nodriva. Luca di Alessandro Giustiniano dal Minore Consiglio fu eletto con titolo di ambasciadore, e mandato a fare rendere il compimento al Duca, fatto per leggitima successione Duca di Mantova. Quando l’anno 1625 vennero il Re di Francia, et il Duca di Savoia a Gavi, e che presi vari luoghi della Rep.ca, si valsero dell’opera di Bartomelino Sartorio dello luogo della Croce, il quale per essere pratico del paese della Rep.ca valeva molto. Costui per avanti habita- va in Genova, poi per havere commesso molti omicidi, et altri scelerati eccessi fu bandito, e lui per sdegno andò a ricoverarsi sotto l’ombra del Duca di Savoia, il quale le dava comodità, e ricetto potesse infettare il paese della Rep.ca alla continua come egli faceva con molto danno de popoli, né mai valse a Signori Geno- vesi dolersene con Ministri del Duca, perciò che come il loro Signore mostravano non saperne cosa veruna, eglino facevano il medesimo, e tutto questo succedeva in tempo, che non era né disgusto, né guerra aparen- te fra la Rep.ca et il Duca di Savoia. Egli è vero che venuto l’anno 1624, che Signori Genovesi comprarono dall’Imperadore il Feudo di Zuccarello, all’hora ogni cosa si scoperse, et il Duca di Savoia inzigò maggior- mente questo scelerato contro essi, e lo fece Corronnello di dua mila soldati Italiani, il quale non stimando né Dio, né Signori Genovesi, et havendo in tutto levato il Velo della vergogna, si diede a fare ogni eccesso contro tutti, né valeva che la Rep.ca facesse ogni diligenza per levarlo dal Mondo, sempre, che era astretto saltava in un subito nel territorio Piemontese, ove era ricettato senza replica veruna, ancora che fusse con evidente danno de Popoli, ma non ardivano risentirsene. Hora costui non essendo adusato a servire Fede a veruno, per cosa leggera si disgustò col Duca di Savoia, dal quale havea ricevuto molti benefci, e gli venne voglia di ritornare in gratia de Signori Genovesi, trattò per mezo di uno Religioso, Monaco di San Benedet- to suo amico con quei dell’ordine Procuratorio a cura de banditi, di abandonare il Duca, e venire a Genova, e servire la Rep.ca in l’avenire con ogni fedeltà. Dopo molte repliche, ottenne il salvo condotto dal Senato, non tanto lui, quanto due suoi fratelli, che pure per non essere da meno del fratello maggiore, havevano fatto molti omicidi, et altri eccessi, et erano l’uno, e l’altro banditi capitalmente. Questi et il Bartomelino hebbero grosso stipendio dalla Rep.ca. Il magistrato di guerra hebbe desiderio di sapere, se erano stati veri gli apparecchi che il Duca andava facendo, e che pensieri erano i suoi, egli rispose, che gli apparecchi erano veri, e che da per tutto si diceva erano fatti per andare all’impresa di Savona, e che la Rep.ca non disquidas- se in munirla, ma lo facesse con ogni diligenza. Onde il Senato, assicurato che vi poteva essere qualche pericolo, diede ordine si fortifcasse come prestamente si fece, mandandovi il Padre Vincenzo Macalano da Firenzola, il Petrucci, et altri, i quali non mancando di diligenza, repartirono le difese in tale modo. Il posto di Mangiaguadagni, di Loreto, e di San Giacomo, eminenze sopra Savona, che sono stimate le più deboli, queste si sono assicurate, il primo dato a difesa della Fantaria Spagnuola; il secondo a soldati Napolitani che guardino ancora quello di San Giacomo. A soldati Italiani sotto la guida del Maestro di campo Datalo Le- venuto. Il Mocenigo, ambasciadore della Rep.ca Venetiana, per andare in Spagna ad esercitare la sua carica è passato di qua. Il Senato, sì come è solito, l’ha fatto visitare da quattro Nobili, lui il giorno seguente ha reso la visita al Duce, et a due dell’ordine Senatorio residenti nel Palagio, dopo di haverli ringratiati del regalo fattoli della visita a buono proposito con grande veemenza, disse, che non poco si meravigliava che si fusse trovato al Mondo huomo così maligno, e guernito di ogni malvagità, che havesse potuto intaccare la fama, et la reputatione della Rep.ca Venetiana, con dire che ella pagava ottanta mila scuti il mese al Duca di Savoia, acioché non essi debellasse la Rep.ca Genovese, conciosia che da quella rovina necessariamente ne succederia quella della Casa d’Austria, e la potenza di lei in Italia. Il che non era vero, anzi colui, che era stato inventore di sì fatta falsità, egli stimava certo egli non fusse huomo ma spirito diabolico venuto dall’Infernale Chiostro, poi che egli non poteva credere, che huomo, e christiano potesse inventare sì mani- festa bugia; che era bene vero, che la sua Rep.ca pagava ottanta mila scuti il mese al detto Duca, quando si pose a liberare il passo della Valtellina dalla oppressione de Spagnuoli, i quali usurpare si volevano quel passo, e tenerlo guardato, cosa che mai più era stato, ma libero a tutte le nationi. Ma come la sua Rep.ca havea saputo, che il Duca di Savoia, non andava altrimenti nella Valtellina, ma alla distruttione della Città di Genova associato con l’esercito di Francesi, subitamente havea tolto via la commessione di pagare più i danari, e si era agramente doluta col Duca di sì fatta ingiuria. Il medesimo dissero in Roma, i Cardinali Cornaro et […] a Gio.Luca di Gerolamo Chiavari, che all’hora era ambasciadore appresso la Persona del Pontefce. Alle dette parole rispose il Duce, che egli era vero, che questa colpa si dava alla Rep.ca Venetia- na, se poi ella era vera in effetto alla Rep.ca Genovese, non era però stata data maggiore giustifcatione, et Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 51

a tutti pareva strano che una Rep.ca come era la Venetiana, tanto Christiana, sapendo che tale machia gli era data non procurasse di levarsela da addosso, e farne giustifcatione ad una altra Rep.ca come era la Geno- vese, che pure era Christiana pari a lei, se non di stato, almeno di ogni prerogativa, che conveniva per fare una Rep.ca perfetta in ogni parte. Al primo aviso hebbe il Duca di Alva, Viceré del Regno di Napoli, che la Rep.ca Genovese stava in qualche dubio di essere assaltata dal Duca di Savoia, il quale si era andato van- tando, cosa che frequentemente faceva, di voler andare all’impresa della Città di Savona, e prenderla a viva forza, mandò, tanto era il quidado48 che havea della salute della Rep.ca, in aiuto di lei mile soldati Spagnuo- li, i quali giunti in Genova, e non havendovi trovato il Marchese Santa Croce, andarono alla diritta a Savo- na, ove egli era, con Don Carlo Doria, che ambidue vi si erano trasferiti poco prima per trovarsi alla difesa di quella Città, in evento che il nemico fussi stato così dissensato che venisse ad assaltarla. Da essi dua la Fantaria, così Italiana, come la Spagnuola, fu ripartita a luoghi opportuni alla difesa che si estimava che non si saria potuto fortifcare di vantaggio, tanta era stata la cura e solertia della Rep.ca e di questi dua Cavalie- ri. Il Marchese Carretto, Signore di Balestrino, luogo vicino ad Albenga, anche egli opportuno a difendere quei piani, si contentò di non stimare la gelosia, che poteva havere di dare quel Castello in potere di solda- ti Genovesi, e ricevere il loro presidio sino passasse il capriccio al Duca di Savoia di volere guerra con Sig. ri Genovesi. Il Duca di Savoia, in guisa veruna non poteva con forza aperta ricuperare i suoi luoghi, che Signori Genovesi havevano in mano, andava però tentando insidie, e de trattati. Era in Ormea un tale Me- dico affettionato oltre misura allo stesso Duca di cui era sudito. Costui hebbe segrete pratiche con un tale di Casa Testa, il quale abitava in Garessi, et a lui havea promesso in compagnia di uno hoste, che pure abitava in Ormea di darli di notte tempo una porta di esso luogho, perché egli saria poco lontano con una mano di soldati Piemontesi, e si impadroneria di essa, e poi dello stesso luogho. Cosa che con molta agevolezza era per riuscirli, ma costoro non furono in trattare simile faccende così cauti come la cosa si richiedeva, che esso trattato non pervenisse all’orechie di Giacinto Cavallo di Ughera di Lombardia Alfere, e di Giovanni Vincislao Ungano Capitano di una Compagnia, i quali datone raguaglio all’Auditore generale, che in Al- benga resideva, furono per ordine dato presi, e l’hoste, et il Medico, et alcuni soldati pure mescolati nel trattato, e perché confessarono assai facilmente tutto l’ordine della congiura, poiché il negarla con tanta evidenza era acrescere loro maggiori tormenti. Dal medesimo Auditore ambidue, et i soldati condannati furono alla Forca, e con esso mezo costoro pagarono il fo della loro pazza ignoranza. Il Senato, per dimo- strare quella gratitudine che sogliensi da Principi mostrarsi in simili occasioni, fece dono di una Cadena d’oro, che valeva ducento scuti all’uno, et all’altro, e uno di loro che solamente era Alfere, fu fatto capo di una compagnia. Mentre seguivano sì mesti avvenimenti, in Ormea cinquecento soldati Francesi, non si sa da chi guidati, come nemici, e ladri, entrarono per la Valle di Borbona nelle terre della Rep.ca, andandosse- ne alla diritta verso il luogo di Triora per sorprenderlo, e per fare la cosa più sicura quanti huomini trovava- no per strada niuno offendevano, ancora che potessero essere loro nemici. Egli è vero che avedutossene alcuni Villani, che a caso passando, traversata la strada, hebbero tempo di avisare quei di Triora, i quali come quei che sono bene affetti alla Rep.ca, si posero in ordine, et guidati da Angelo Maria Bottino soldato di qualche esperienza, ributarono l’assalto di questa scelerata gente con morte di cinquanta di loro, et alcu- ni feriti. Habbia hora pacienza il lettore, e che sarà spettatore a chi leggerà questo scritto, conciosia che voglio raccontare uno successo, che avvenne, nel quale apparì quanto il savere e prudenza de Signori Ge- novesi valeva. Questa pratica fu ella segretamente trattata ne i Consigli della Città, e non ho potuto desco- vrirla prima, poiché non mi era nota. Ella è curiosa, e degna di sapersi. L’anno mile seicento venti cinque, quando lo stato della Rep.ca Genovese fu così barbaramente et crudelmente assalito da Francesi, e Savoiar- di, uniti insieme in stretta lega, il presente Pontefce, che all’hora pure era nella seggia di Pietro, fece offer- ta alla Rep.ca Genovese, che se ella havesse voluto colegarsi con lui, e col Gran Duca di Toscana, si saria fatta lega a commune difesa. Egli è vero, che il Consiglieto, ove si trattò seriamente, e per due volte questa sì importante pratica, non vole farne altro, non havendo voluto scostarsi dalla amicitia del Re di Spagna. Savia, e prudente deliberatione fu all’hora stimata da coloro havevano sale in capo; conciosia, che niuna cosa era più valevole a conservare la Rep.ca, e la libertà di questa, sì come benissimo havevano conosciuto i padri nostri, i quali a loro potere procurato havevano di conservarsi mai sempre questa amicitia, e protet- tione. Così fu per lo stesso fne risoluto all’hora nel Consiglietto, essendosi in tutto ributtato simile propo- sito. A questo proposito voglio narare un altro particolare, il quale farà pienamente conoscere, che la deli- beratione fatta dal Consiglietto fu acertata, conciosia che ella fu lodata da huomini pratichissimi di materie

48. Cura, interesse. 52 «In forse di perdere la libertà»

di stato, e che conoscono benissimo la natura di Spagnuoli, e di Francesi. Essendo andato a Roma questo anno medesimo il Vescovo di Brugnato di Casa Spinola49 ad limina Apostolorum, giuntovi andò a baciare i piedi al Pontefce, il quale le disse “Monsignore che si fa a Genova? I vostri patrioti, non volero fare lega con la Sede Apostolica, e col Gran Duca di Toscana, sì come io medesimo le proposi, che se per bona ven- tura la facevano, al certo le cose loro sarebbono state guidate meglio, et hora forse sariano senza guerra”. Il buono Vescovo, come quello, che era ignaro della proposta fatta dal Pontefce a Signori Genovesi, non ri- spose cosa veruna, ma essendo andato poco dopo a visitare il Cardinale di Trento,50 che era suo domestico, il quale le disse: “Monsignore, che vi ha detto Sua Santità?”. Rispose all’hora il Vescovo, “mi ha detto non so che di lega con la mia Rep.ca, e non ho inteso di che lega habbia voluto parlare”. Sogiunse all’hora il Cardinale, “i Vostri Signori Genovesi sono stati prudenti, che non hanno voluto lasciare l’amicitia di uno, che vole aiutarli, che è il Re di Spagna, per acquistarne altra, che non può né meno vole aiutarvi, e di un ragazo, volendo del primo intendere il Pontefce, che apertamente si mostra partiale de Francesi, et il secon- do, il Gran Duca di Toscana, che è in età di venticinque anni. Dal successo si è veduto, come bene si sono verifcate le parole del Cardinale, conciosia, che se si acettava tale lega, la Rep.ca senza veruna dubitatione precipitava nel profondo di ogni miseria, che era di perdere la sua libertà. Poiché si vedeva il Duca di Sa- voia non havere forza uguale a Signori Genovesi, eglino andavano pensando di sminuire la spesa di settan- ta scuti il mese, che si spendevano in mantenere la soldatesca. Ma perché si dubitava che il fare tale sminu- imento non cagionasse qualche novità nelle terre che la Rep.ca possedeva, che già erano del Duca di Savoia, che essendo maggiore il numero de terreri, i quali per havere grande brama di ritornare sotto l’an- tico loro padrone, il Duca di Savoia, non uccidessero i soldati della Rep.ca, che erano in minore numero, per questo, e per altri importanti affari, il Senato risolse mandare elemosina assai grossa a Religiosi, e Re- ligiose, perché impetrassero da Dio autore di ogni bene, guida a questa faccenda, secondo il volere suo, et a conservatione della libertà Genovese. Lo sminuire la spesa dopo alcuna poca dilatione di giorni, si fece col consentimento universale, e fu acertato il farlo, poiché in ogni modo il Duca di Savoia non havendo forze uguali a Signori Genovesi non fece motivo veruno. Era già venuto il mese di settembre, quando Gio- vanni Tomaso Porrata, che all’hora governava il Politico del luogho di Rapallo, con messagiero proprio, scrisse al Senato, che havea saputo che di là era passato Giovanni Antonio Ansaldo, il quale si era imbarca- to sopra un Navilio, et andato a Santo Frutuoso, et ivi havea favelato con persona incognita venuta da Ge- nova, ma non havea penetrato chi fussi costui. Questa novella diede al Senato non poco travaglio di animo, temendo che col mezo di questo scelerato, e nemico della Rep.ca non si facesse qualche trattato in danno di essa. Onde di nuovo tornassi a scrivere al Porrata, facesse maggiore diligenza. A pena partito l’huomo, che ne sopragiunse un altro, col quale lo Porrata avisava il Senato, che colui che segretamente stato era con l’Ansaldo era Giovanni Giacomo Ruffo. Costui fu preso, e posto in carcere segreta, e deputato dua dell’or- dine Procuratorio a esaminarlo. Ma egli seppe così bene esaminarsi che stette sopra la negativa, a segno, che non essendovi altro inditio, fu di bisogno liberarlo. Tutti questi sì fatti successi avennero nella Riviera Orientale, nell’altra Occidentale furono quei che vi succederono mesti, e lagrimosi. Il luogo del Buso, che era del Duca di Savoia, vicino un miglio al luogo di Pigna, venne voglia a quattro scelerati huomini dello stesso luogo nemici di Dio e della loro patria, per apparire affettionati al Duca di Savoia mandare al Buso un tale nominato Macario, bandito dal luogo, e scelerato insieme, e con esso cento Piemontesi guerniti tutti della stessa sceleratezza, i quali s’impadronirono di esso luogho, a nome, dicevano, del Duca di Savo- ia, sì come fecero, e lo fortifcarono. Egli è vero che tutta questa gente non si contentava solamente di guardare il luogho, ma frequentemente usciva, et andava rubbando chiunque veniva alle loro mani, e singu- larmente rapirono una Donna, e dua huomini, che tutti con molto rigore fecero riscatare con buona somma di danari. Le quali cose essendo note a Giovanni Francesco Franzino capo di settecento soldati Trentini, che a nome di Signori Genovesi governava Pigna, cupido ancora lui di fare le stesse prede, che i Piemontesi facevano nel luogo del Buso, e parendoli ancora male sofferire, che su gli occhi suoi si facessero tanti ec- cessi, deliberò da sé solo di espugnarlo, e scacciarne quei ladri, e così un giorno, che le parve tempo oppor- tuno vi andò, conducendo seco cinque cento de suoi soldati, i quali egli ripartì all’intorno del luogo, e del Castello, e quando parve a lui tempo, diede l’assalto alle Mura. Ma da quei di dentro ne fu ributtato. Egli è vero, che di nuovo replicò il secondo assalto, che fu più fero del primo, e pure ne fu ributtato la seconda volta. Ma egli di nuovo replicò il terzo non havere però prima composto una […], alla quale dato il luogo,

49. Vincenzo Giovanni Spinola. 50. Carlo Gaudenzio Madruzzo. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 53

fece tale impeto, che in guisa aperse il muro gettandolo a terra, particularmente quello era più vicino al Castello, che pure fece grande appertura. Quei del luogo, conoscendo essere a malpartito, e di essere sfor- zati andare nelle mani del nemico, diedero segno di volersi arendere parlamentando. Egli è vero che questi segnali da Trentini non erano né conosciuti, né stimati, perciò che vedendo il muro da tanti lati apperto, mentre si trattava l’accordo, parendo loro, che se gli togliesse il saccheggiamento, che per ragione di guer- ra, era loro dovuto, senza aspettare alcuno comandamento de Capitani loro, entrarono dentro per l’appertu- ra, et in quell’istante si posero a saccheggiare l’havere di quei miseri, e mentre ciò facevano veramente con grande crudeltà, non si sa come fu dato il fuogo alle munitioni, che erano state poste in serbo in una Caset- ta vicino, ove i Trentini havevano dato l’assalto. Il rumore fu grande perché la Cazassa, e gli altri edifci vicini, spinti dalla violenza della polvere andarono all’aria. Onde i Trentini senza sapersi di loro la cagione, spaventati, e vedendo cadere molti di loro compagni morti, cominciarono a gridare ammazza, ammazza. Non fu vana questa voce, percioche i Trentini tutti si diedero ad uccidere, e poi a saccheggiare con grande rabbia. Veramente la crudeltà, sì nel principio, sì nella fne fu grandissima, e quanta mai si sia veduta in simili occasioni, perché vi perirono più di cento di quei terreri. Ma come si è raccontato sopra, tutto avenne dal caso, e non dal volere de Signori Genovesi, come nelle Corti de Potentati di Italia, e di altri, il Duca di Savoia si sforzava di far credere in guisa i Signori Genovesi, ne riceverono non poco biasimo, se bene poi restò assai chiaro, che il successo era stato, come si è raccontato. Conciosia che molti di quei Trentini che nel processo formato contro di loro confessarono alcune sceleratezze, che havevano fatto con Donne, ne furono gastigati con molta severità, dimostratione che quel fatto non era stato per ordine della Rep.ca. Del mese di Novembre [1627] ritornò Battista Serra dalla Corte di Spagna, ove quattro anni era stato appresso quel Re ambasciadore, havendo esercitato quella carica con sodisfattione universale del Re stesso, e della Rep.ca. Giunto che egli fu in Genova, il giorno seguente andò a Palagio, ove era congregato il Senato, il quale si ralegrò con esso lui della sua giunta, et egli sino di all’hora, diede distinta, e copiosa relatione di ciò che era avenuto nel tempo che era dimorato in Spagna, singularmente narrò le gratie, e favori, che quel Re havea fatto alla Rep.ca et alla persona sua, il quale gli havea detto in favelando con lui, che seguitando le vestigie di suo Padre, et Avi, era per tenere sotto l’impero suo la libertà, e la conservatione di essa. Le medesime parole con molto affetto gli havea detto il Conte Duca di Olivares, che è quello ha l’imperio, et il Genio del Re, e gli altri ministri più inferiori. Strana cosa pareva, e che recava non poca maraviglia a tutti, che facendo il Duca di Savoia tanta professione di Principe bellicoso, e di più essendo guernito di tanto odio contro Signori Genovesi, non facesse qualche movimento tante fate minacciato da lui, e non mai esequito cosa veruna, che per mezo di esso haverebbe potuto sfogare in parte lo sdegno, che diceva, e in tante guise mostrava havere con esso loro. Ma il successo fece conoscere, che ciò non faceva per viltà, e codardia, ma perché non havea tante forze da resistere a quelle de Signori Genovesi, i quali sapeva, che concertato havevano tanto bene le cose loro, così nella Città, come nelle Riviere, che ancora maggiore po- tentato di lui, che appo loro non era niente, non era bastevole a vincergli, andava però egli pensando non più nell’avenire valersi dell’armi, poscia che havea conosciuto quelle non esserli riuscite, e dare di piglio ad altra forma di guerreggiare, con valersi dell’inganni, delle congiure, e di trattati, le quali cose quando succedono bene secondo il devisato, sogliono essere più sanguinose, e più crudeli di ogni altro modo, in offendere il nemico, cosa che non può esercire una Rep.ca per la diversità di pareri. A questo suo desiderio trovò assai bene la materia disposta, perché tra gli altri si valse di Giovanni Antonio Ansaldo, arrabiato Popolare, e di natura crudele. Costui non era propriamente Genovese, ma de Cogoletto, picciola terricciola nella Riviera Occidentale. Il Padre suo fu il primo a venire ad abitare a Genova, e all’hora dismesse l’arte di fare carta da scrivere, vile esercitio, et inferiore assai a tutti gli altri, attese al negotio de Merci, nel quale mestiere guadagnò danari. Egli è vero, che non ostante aumentasse in havere, era egli così modesto, che non scordava il suo vilissimo nascimento, né si lasciava venire in mente quei pensieri, che hebbe poi il Giovan- ni Antonio suo fgliuolo. Il quale allo sproposito si diede a pretendere la Nobiltà; ma con tale, e sì insolente modo, che si pareva del sangue Assarico, né voleva cedere a niuno, etiandio a quelli, che un giorno, che se ne fussero creati potevano farli ottenere tale prerogativa. Con esso lui vi erano mescolati Giulio Cesare Vachero, Niccolò Zignago Barbero,51 Gerolamo Fornari, Accelino Silvano Dottore, Gottardo Savignone Orefce, Clemente Corte, Bartolomeo Consiglieto, e Desiderino Bomazza tutti tre del luogho di Bargagli, e Villani, i quali corroti con danari dal Vacchero, si erano fatti nemici della Nobiltà. Dalla loro havevano

51. Barbiere. 54 «In forse di perdere la libertà»

Giovanni Tomaso Maiolo52 Bancalaro, Giulio Compiano Servitore, Gerolamo Fornari, Giovanni Antonio, Anibale e Giovanni di Casa Bianchi, e Fratelli, Bartolomeo Grandino Marinaro di Galea, Giovanni Battista Benigassi scrittore di Novelle, e Simone di Giuseppe Piaggia, gente bassissima, di vile nascimento ancora loro, de quali si era fatto capo in Genova il Vacchero, che guidava tutta la faccenda, e guidare la dovea an- cora nell’esequire il fatto, e si era tra loro deliberato, stando eglino in compagnia consultando il modo di esequire la scelerata congiura, con uccidere nella publica piazza di Banchi di mezo giorno tutta la nobiltà, et etiandio nelle case i flij latanti, et a Palagio il Duce, et i Senatori, e pare che il primo motivo venisse dal Duca di Savoia, il quale non si voleva contentare, tanto era immenso lo sdegno suo, di sfogarlo con quei Senatori, che erano al governo della Rep.ca, all’hora quando si fece la compra di Zuccarello, con quali, e non con altri, egli diceva havere odio immortale, ma voleva estinguere tutti indiferentemente con mezo sì barbaro, et iniquo. O impietà non mai più udita. Il Vacchero, il Zignago, il Fornari, et il Silvano, poi il Gran- dino, et il Campiano furono tutti presi, e dopo alcuni giramenti gastigati con troncare loro il capo. Il proces- so di costoro non fu altrimenti fatto dalla Rota Criminale, che è composta di tre giudici forastieri, parendo bene, che non sapessero i segreti esami di tutta la congiura. Ma fu data a cura di Giovanni Battista di Do- menico Lercaro, e Luca di Giovanni Battista Pallavicino, ambidua dell’ordine Procuratorio, i quali con molta diligenza, e solertia formarono il processo, per lo quale si venne in cognitione di ogni cosa, e dell’or- dimento della Congiura. Il Duca di Savoia, come quello, che apertamente si era dichiarato capo di sì fatta sceleratezza, saputo che esequire si dovea in Genova la sentenza capitale contro i quattro primi, venuto in grande rabbia, giurò che se tale esecutione si faceva, egli haverebbe fatto morire dello stesso genere di morte i quattro prigioni nobili di guerra, che havea in suo potere. Ma perché egli stimava, che in Genova non si saria fatto conto veruno de suoi giuramenti, premendoli oltre modo la morte de congiurati, come egli diceva, suoi cari amici, con instanza grande pregò Don Consalvo di Cordova Governatore dello Stato di Milano, che per altri particolari si era abboccato in Alba con lui, che non volesse dare a Signori Genovesi quei congiurati fatti in Serravalle prigioni, si come di parola si era obligato con esso loro. Questa dimanda il Duca di Savoia la fece con dichiararsi apertamente lui stesso, non tanto autore, ma Capo della Congiura. Ma ne fece allo stesso Don Consalvo un’altra dimanda più biasmevole assai che l’altra, che dovendosi in Genova fare l’esecutione della sentenza de i quattro primi congiurati, poscia che era già stati condannati, procurasse, che tale sentenza non si esequisse; ma il Don Consalvo come quello, che era ambitioso, e leg- gero oltre modo, gonfandosi di vedersi far tante preghiere da un Duca di Savoia, si dispose in guisa, che come mal Cavaliere, non istimando più la parola data alla Rep.ca di dargli i prigioni, né meno curando l’osservanza delle conventioni fatte da Ferdinando, et Isabella Re di Spagna, e giurate sempre da suoi suc- cessori, che hora è Filippo Quarto Re di Spagna, che al presente regna, i quali, alternativamente si obliga- rono, con solenne giuramento di non ricetare ribelli ne i suoi stati, negò assolutamente di non più dare essi ribelli. Oltre di ciò mandò a Genova Don Alvaro de Luxado Spagnuolo, e con costui scrisse lettere al Sena- to quasi minaciatorie, dicendo, che a lui pareva bene, che per all’hora non si esequisse tale sentenza, e non volendo farlo, sì come egli desiderava, protestava che egli haveria nell’avenire largo campo di negare alla Rep.ca quelle cose, che per sua generosità l’altre volte gli havea consentite. Il Luxado, giunto a Genova, conforme la sua commessione a tutto potere suo si diede a instare la sospentione della sentenza, come che ella si dovesse fare in quei giorni, e ancora lui non mancava nelle sue instanze mescolare delle minaccie, dicendo che con piacere si dovea a Don Consalvo, che era Governatore dello Stato di Milano, stato tanto confnante a quello della Rep.ca, il quale sdegnato grandemente quando non si attendesse la sua dimanda, molte cose a lui arbitrarie, e che potevano essere di giovamento grande alla Rep.ca, et a suoi Cittadini, egli tutte le negaria, per questo pensassero bene a ribattere con negativa questo desiderio che desiderava som- mamente, perché tardi si sariano pentiti. Egli è vero, che queste minaccie, le faceva con tale rispetto e rive- renza, che non trapassava i termini della modestia, forse anche per non ridurre la cosa al negarla assoluta- mente, come fatto haverebbe molto liberamente il Senato, il quale, trovandosi quasi oppresso da tante instanze, e minaccie non sapeva che deliberatione fare, come quello che desiderava gastigare i rei, et insie- me dare sodisfattione a Don Consalvo, ma si trovava che non poteva seguire, perché l’uno era direttamente contrario all’altro. Fu raccordato, che era bene favelarne col Consiglieto, il quale sì come è composto di cento Cittadini nobili, per l’ordinario de i più stimati, e prudenti, che siano nella Città, con più maturità si sarebbe esaminata tale dimanda, e quella si risolvesse, ad ognuno restaria turata la bocca, e stimata che ella fussi la più adequata di ogni altra. E quando per aventura fussi riuscito male il successo rimaneva in quegli

52. Maggiolo. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 55

havevano fatto la risolutione, che ella si era fatta in numero grande, e non piccolo come era il Senato. Fu dunque congregato il Consiglietto, e in esso dopo vari discorsi deliberato, che non si istimasse né minaccie di Don Consalvo, né meno i giuramenti del Duca di Savoia, ma al tempo determinato si esequisse la sen- tenza contro li rei. Fu cosa meravigliosa, conciosia, che in esso Consiglietto vi erano Padre, fratelli, et altri stretti parenti de i quattro nobili Genovesi prigioni in Torino. Non ostante il sangue, et il timore della perdi- ta di parenti di metterli a tale cimento, la risolutione di fare morire i rei della congiura, fu fatta con tutti i voti degli astanti, non havendo i parenti solamente stimato in dare il voto, conservare la riputatione, e la libertà della Rep.ca, e non la vita de carcerati. Tra tanto, perché Don Consalvo per la negatione della diman- da non rimanesse mal soddisfatto, e in l’avenire potesse conservare questo suo sdegno, e fare qualche dan- no, sapendosi quanto pronti siano gli huomini alle vendette. Il Senato fece elettione di Agostino di Steffano Centurione con titolo di nobile, e lo mandò a Casale a Don Consalvo, che ivi sogiornava, assediando quel- la Città, a pregarlo, che poi che sapeva certo, che la congiura era vera, confessata a lui dalla propria bocca del Duca di Savoia, non dovea per niuna ragione importunare più la Rep.ca per non farli fare una ingiustitia, con non gastigare chi per le leggi Divine, et humane meritava sì dovuto gastigo. Il Centurione sbrigato di alcune sue faccende famigliari, si partì da Genova, et alla diritta andò a Casale, et ivi giunto, con la facon- dia, che è sua peculiare, procurò di ammollire l’ostinata opinione del Don Consalvo, che si sodisfacesse di non più chiedere suspentione della sentenza contro li rei della congiura, ma lasciasse, che si gastigassero sì come meritavano, come era benissimo noto a lui. Oltre di ciò, conforme la promessa fatta, volesse ancora dare i prigioni erano in Serravalle alli mandati della Rep.ca, che tuttavia erano in esso luogho, aspettando per condurli a Genova. Il Don Consalvo rispose senza fare mentione veruna della promessa fatta alla Rep. ca di darli i prigioni nominati sopra, che havea egli data la sua parola al Duca di Savoia e che per quanto era in lui volea osservarla. Il Centurione ritornò a replicare, e disse che il Senato di Genova, per la sua intiera sicurezza, non poteva a meno di non gastigare questa gente popolaresca, la quale con la protettione che pareva a lei di havere del Duca di Savoia, ella divenerebbe tanto insolente, et ardita che ogni giorno tenda- rebbe nuove insidie contro la nobiltà, e quando meno si credesse la tagliarebbe a pezzi. Hora se questo era servitio, e sicurezza del Re suo Signore, che gente sì fatta dominasse la Rep.ca, lasciava che lo consideras- se lui, che era ministro tanto principale in Italia. A queste parole Don Consalvo non rispose altro, solamen- te che ritornò a ripetere, che egli non voleva mancare la sua parola, che havea data al Duca di Savoia, sì che il Centurione, conoscendo che le ragioni da lui dette, le quali erano verissime, et effcacissime, non partori- vano che ostinatione, non replicò altra cosa, ma prese acomiato, e se ritornò a Genova, et il tutto riferse a suoi Signori, i quali conforme il parere risoluto de consiglieri del Consiglietto, esequirono la sentenza capi- tale contro i quattro rei, e poi fra poco, contro i dua altri. La quale esecutione di notte tempo si fece nel Palagio del Criminale con pochi assistenti, solamente Religiosi, per consolare quei miseri in quel tremendo passo. Il giorno appresso, furono posti nella Piazza nova a publico spetaculo di tutti, sopra uno erto palco, acciochè ogniuno potesse vederli, e pregare Dio per l’animo loro, ma ringratiarlo ancora, che havesse leva- to dal mondo huomini sì feri, e crudeli, quanto s’è veduto dalla poca relatione, che habbiamo fatto di loro. Vi furono de molti etiandio gente Popolaresca che sentì grande contento, et approvò tale esecutione, e par- ve loro che ella fusse stata con le debite circonstanze, e secondo richiedeva il debito de congiurati, percio- chè consideravano, se la congiura haveva il suo fne, quanti sacchegiamenti, quante dissolutioni, e quanti altri malori erano per succedere. Onde essi sicuramente ne haveriano sentito la loro parte, et è certo, se Dio non vi poneva la sua Santa mano, sariano succedute tutte, e di vantaggio, tanto in loro albergava la crudeltà, e la impietà, essendo che costoro non stimavano Dio, né il Mondo, ma solamente caminavano dietro a i desideri del Duca di Savoia, il quale per sfogare ben bene il suo Odio, e il suo sdegno, altro non bramava, che vedere la totale estintione di tutta la nobiltà Genovese, e la perdita della libertà loro. E perché da sé solo non poteva ottenere questo suo desiderio, si servì del mezo di Giovanni Antonio Ansaldo. Costui, se bene Genovese, in quel tempo abitava però in Torino, il quale come che egli fussi tutto pieno di iniquità, intro- dusse il Vacchero, et i dua Fornari, huomini simili a lui, pieni di ogni malvagità, e crudeltà, i quali, per l’odio grande che essi portavano per altre cagioni agli stessi nobili, aderirono subitamente al volere dell’An- saldo, e promessero di ubbidire in tutto, e per tutto al volere suo. Il quale si partì da Torino, et andò a Geno- va lui medesimo per guadagnare altri compagni, sì come guadagnò, e insieme far conoscere agli altri Con- giurati le felicità, se seguiva la estintione de Nobili, che erano nell’avenire per godere, con formarsi una Rep.ca Popolare con la protettione del Duca di Savoia, che gli harebbe difesi di ogni incontro che potesse avenirli. Queste cose, giunto, che egli fu a Genova, cominciò egli a seminargli nelle menti di congiurati, sì 56 «In forse di perdere la libertà»

che grandemente alettava l’anima di tutti a solecitare la fne della congiura, e porla in atto. È opinione de molti, che benissimo conosceva il fero animo di costoro, come havevano bene composta la congiura, che se la ponevano in atto, sarebbe riuscita loro. Il Duca di Savoia havuto raguaglio, che in Genova si era ese- quita la sentenza pronunciata contra i sei congiurati, e trovatoli il capo, dicessi egli saltasse in grande rab- bia, che nello stesso tempo conforme il giuramento fatto, ordinò si esequisse ne i quattro Nobili Genovesi suoi prigioni ciò che egli havea giurato, che farebbe, quando i Signori Genovesi esequissero la sentenza loro; e questa dolorosa novella vole, che fno di all’hora se gli intimasse, come fu fatto essendoseli manda- ti Religiosi per doverli confessare, e consolare, in quel pericolo[so] passo. Tale novella essi quattro, essen- do eglino di animo forte, e generoso insieme, riceverono con lieto volto, dicendo unitamente, che si ralegra- vano di morire così gloriosamente per la loro patria, la quale morte prendevano in assolutione de loro gravi peccati. Il Duca di Savoia, come che nel suo pensiero fussi risoluto, che si ponesse ad effetto la sua delibe- ratione, per non essere delle preghiere altrui necessitato a farli gratia, si nascose, imponendo a suoi ministri che niuno si movesse fno fatta la totale esecutione. Egli è vero, che non ostante tanta segretezza le due sue fgliuole, che per ancora non sono maritate, saputo ciò che era per succedere ne i quattro prigioni, tanto fecero che con un loro biglietto, che scrissero al Padre, penetrarono ove egli si era nascosto, egli lo manda- rono, con quale biglietto, dopo le parole, che si potevano dire per commiserare questo caso ne i quattro nobili prigioni, dissero il grande biasimo, che era per essere a lui, et a tutta la sua posterità, che per sempre sarebbe memorabile che havesse fatto morire quattro Nobili prigioni di guerra inocenti, che non havevano punto cooperato a quello era in Genova succeduto, oltre che non sapevano come questo fatto si poteva se- condo il volere Divino esequire, e che non caricassi la conscienza. Questo biglietto scritto di mano propria dalla fgliuola maggiore, e sottoscritto ancora dalla minore apperse l’inteletto al Duca, il quale se bene era ingombrato dall’odio, hebbe però forza di farle conoscere la ingiusta deliberatione, che havea fatta, sì che sospese per all’hora la esecutione, e fnalmente la gratia, con essere stati essi quattro tre giorni come si suole dire con la Manara sopra il capo, in quella agonia, che da tutti è stimata un genere di morte somiglian- te alla Morte stessa. E perché si andava stimando, che il Duca sudetto per l’affetto grande che portava alle due fgliuole, alle quali havea donata la vita de quattro prigioni, non facesse altro resentimento per lo novo sdegno conceputo, con la sua gente di guerra, non entrasse nel paese della Rep.ca, dalla parte della Riviera Occidentale ma farebbe qualche scorraria, con danno grandissimo di quei popoli. Fu dato ordine al Gene- rale dell’armi, che tenesse pronta la gente per pessare ogni disegno, et eletti dua Coronnelli de armi, che furono Filippo di Francesco Pallavicino, et Ipolito Invrea, con ordine si ponessero subitamente in ordine, e s’iniziassero a esercitare la carica a loro imposta. Se bene di ogni cosa, così della congiura, come di altre, si era data distinta relatione in Spagna all’ambasciadore residente in quella Corte, perché egli ne raguaglias- se il Re, e suoi ministri. Non di meno parve acertato fare consapevole Sua Maestà con la viva voce di am- basciadore straordinario, e così fu eletto Luca di Giovanni Battista Pallavicino, il quale se bene era nel nu- mero de Procuratori di Palagio, grado che scusa di ogni carica, con tutto ciò egli essendo geloso molto del bene della sua patria, acettò la carica, e si espedì in breve, e partì, imbarcato sopra due Galee apparecchiate per questo effetto, che in pochi giorni lo trasportarono da Genova in Barcellona. Conviene qui alquanto fermarsi a considerare quanta sia stata la fortezza di animo, et il valore grande, che apparì nel Duce, e ne i Senatori, che in quei temporali residevano nella segia del Palagio, perciochè resisterono a sì fatta imposta dimanda, né punto paventando alle minaccie del Duca di Savoia, né meno a quelle del Governatore dello Stato di Milano, né alle persuasioni del Principe Doria e di altri ministri Spagnuoli che erano in Genova, i quali tutti dicevano, che per all’hora sospendere si devea la esecutione de i quattro Congiurati, per dare qualche sodisfattione al Duca di Savoia, che poi come fusse passata tanta caldezza, haverebbono esequita la loro volontà, e che il Re di Spagna, se egli fussi stato presente haveria fatta tale richiesta. Tanto pareva di ragione a tutti si dovesse fare, e questo a fne di non cagionare nuovi moti in Italia, come si poteva stimare certamente sariano seguiti, se non si faceva tale sospentione, vedendosi chiaro, che il Duca di Savoia mo- strava grande sentimento, e passione di animo. Ma il Senato stando fermo nella deliberatione già fatta, non tanto fece troncare il capo a i quattro, ma ai dua ancora. E veramente era più che necessario fare tale esecu- tione per apparire al mondo tutto, che la Rep.ca era libera, e che non dipendeva da niuno altro, ma anche conveniva farla per mortifcare la gente popolaresca in Genova, la quale vedendosi sì protetta dal Duca di Savoia si haverebbe vendicata, ma a tale, e tanta autorità, per ardire che non si sarebbe trovata strada di frenarla. Intanto seguivano queste cose fra la Rep.ca Genovese, che a guisa di Genovese antica mostrava il valore suo, et il Duca di Savoia, e gli altri personaggi che erano in Genova. Si hebbe nuova che in Monzone Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 57

terra della Spagna, ove all’hora resideva la Corte, si era fatta la pace fra le due Corone di Spagna, e di Fran- cia, le quali havevano nominati loro agliegadi,53 la Rep.ca di Genova dal Re di Spagna, et il Duca di Savoia dal Re di Francia, obligandosi così l’una parte, come l’altra, per patto espresso, che in appresso haveriano composto la pace fra questi Principi, per sedare in tutto i moti, che in l’avenire potevano succedere. La Rep. ca subitamente ne hebbe ragguaglio per mostrare al Mondo che ella era amica della pace per osservarla, e della guerra quando era provocata, ella al primo aviso, che il Re di Spagna ne gli ne diede con sua lettera, rimesse in lui sì de facto, sì de iure ogni diferenza che ella havesse col Duca di Savoia. Il quale assai presto s’intese, che haveva fatto il medesimo, sì che da questo principio si stimava che ben presto dovesse sgom- brarsi ogni maligno infusso che fussi nell’Aria, et in l’avenire essere un Cielo sereno, con comporre una pace da durare sempre. Perché in altri particulari, come sarebbe a dire nella triegua, pienamente non l’havea osservata il Duca di Savoia, si temeva potesse fare lo stesso nella rimessa fatta nel Re di Spagna circa la pace, la Rep.ca come prudente, e che prevedeva che era per succedere, quando si fussi troppo fdata, essen- do l’Errario publico voto quasi del tutto. I Consegli piccolo e grande deliberarono una tassa da imporsi sopra le Azende de tutti gli abitanti in Genova, e nelle due Riviere, et Ultra Jugum di uno per cento, da pagarsi in dua anni, ogni anno la metà. Il che fu esequito da Consiglieri con grande generosità, e senza mormoratione de Cittadini. Il timore, che si havea, che il Duca di Savoia non haveria osservato ciò che andava promettendo assai presto chiaro apparì, havendo un suo navilio assai grosso che stava nascosto nel luogo, e Porto di Villafranca, all’improviso uscito di esso in un subito predato havea una Barca Genovese carica di preciose merci, che andava a Sibilia,54 e per quanto vi si adoperassero gli interessati, non fu mai ordine di ricuperarla, dicendosi per parte de i ministri Ducali, che per non havere pagata la solita gabella si era ritenuta. La Rep.ca di Genova conoscendo che poco si poteva fdare, e che se ne sariano fatti degli altri quando gli ne fussi stata data l’occasione, fece deliberatione di mandare tre delle sue Galee a dimorare a Monaco con ordine di fermarvisi, e di fare scorta a tutti i navili, che andavano a Genova o nelle Riviere. Le Merci prese furono trasportate per ordine del Duca di Savoia a Torino, il quale si compiacque di vederle, perché vi erano merci di grande valuta. Questo compiacimento fu sì grande, che mai più furono restituite, ma ripartite fra le Donne di Corte, e le concubine, che non erano poche in numero. A pena era stata data l’autorità al Re di Spagna, et al Re di Francia di comporre la pace fra la Rep.ca di Genova, et il Duca di Savoia, che il Re di Francia, e suoi mini- stri si presero cura di comporla con tali conditioni, che Signori Genovesi dovessero restituire al Duca la Ga- lea con suoi corredi, lo stendardo, che vi era sopra, l’Artiglieria, così quella presa a Gavi, Ormea, Oneglia, et in tutti gli altri luoghi, con più cento mila scuti per una volta tanto per rifacimento de danni per il luogo di Zuccarello, il quale debba restare alla Rep.ca con obligatione, che a Signori Genovesi debba parimenti restituirsi dal Duca di Savoia l’artiglieria presa in Gavi, suso nel castello, come nel luogo, in la Pieve, in Albenga, nel Porto Mauritio, et in Ventimiglia. Ma quello, parve a Signori Genovesi malagevolmente da sofferire, che vi aggiunsero, che le pretensioni, che havea il Duca di Savoia sopra il Feudo di Zuccarello per questo laudo, non si intendessero estinte, ma sempre che gli piaccia, egli potesse dedurle avanti l’imperato- re giudice supremo, e fnalmente i prigioni da ogni parte liberati. Tale relatione fu fatta dal Segretario Panesi al Consiglietto, il quale si dolse di sì fatto laudo favorevole da ogni parte al Duca di Savoia, e all’hora vi fu Cittadino, che si levò in piedi, e con licenza del Senato, disse che acettare non si dovea in guisa veruna detto laudo, ma rifutarlo del tutto come vergognoso, e fatto da persona partiale, e perché questo rifuto apparisse a tutti i Potentati del Mondo il torto, che era stato fatto alla Rep.ca, si dichiarasse con decreto publico, che si voleva più tosto sofferire ogni male prima che acettarlo, et insieme, perché questa risolutione si manifestas- se, sin di all’hora si mettesse tutte le Galee della Rep.ca in ordine, e si mandassero nelle Marine di Nizza, e quanti Navili, così di Nizzardi, come di altri vassalli del Duca di Savoia si trovassero, tutti si prendessero, di più dove si potesse in terra saccheggiare, o veramente ardere qualunque cosa si facesse. Questo accordo piacque al Senato, et a Consiglieri, e sino di all’hora proposto a voti, si approvò con novanta voti, e quindeci contrari. Egli è vero, che questa generosa deliberatione fatta con tanti suffragij di Consiglieri, dove si dovea in l’avenire non fu esequita per vari accidenti che la sturbarono. Gio.Gerolomo Doria, Pietro Maria Gentile, Carlo di Arigo Salvago, et il Cavaliere Cataneo, prigioni di guerra, che tuttavia stavano nelle carceri del Duca di Savoia, se bene trattati male, non a guisa di prigioni di guerra, ma da rei di qualche grave delitto, havendo eglino saputo la vergognosa pace, che fra la Rep.ca,

53. Alleati. 54. Siviglia. 58 «In forse di perdere la libertà»

et il Duca di Savoia era stata pronunciata, scrissero lettera a suoi parenti in Genova, che gli era stato riferto il laudo, che in Francia era stato fatto, per lo quale mezo dovevano essere liberati da sì lunga carcere, nella quale stavano con tanto disagio, e travaglio, che non ostante non pareva loro, che la pace si dovesse acetta- re, ma rifutarla del tutto, poiché a loro non importava stare in prigione etiandio terminarvi la loro vita, pure che la Rep.ca non ricevesse in lei tale mac[h]ia di acettare pace di sì grande vergogna. Generosità, che fu stimata non havere pari. Tra questo mezo che la Rep.ca stava in forse quello dovesse fare circa il rifutare o l’acettare la pace venne correro di Spagna spedito da Luca di Giovanni Battista Pallavicino, il quale scrive, che in quella Corte, vi erano capitati dua Correri con lettere di Don Lorenzo Ramires, e del Marchese di Mirabello ambasciadore il primo straordinario, e l’altro ordinario in quella Corte, che avisavano, come era stabilita pace fra la Rep.ca di Genova, et il Duca di Savoia, la quale esaminata ben bene dopo alcuni gior- ni dal Consiglio di Stato del Re, era stata rifutata, che lo stesso doverassi fare dalla Rep.ca. Non fu però all’hora fatto tale rifuto, ma ad altro tempo il Duca di Savoia si doleva del rifuto, e minacciava che non era per soffrire sì grande ingiuria, ma di porre in bilancia il suo stato perché non se gli facesse torto sì grande. Da queste minaccie, pareva che in conseguenza, ne dovesse venire la guerra. Onde per non trovarsi la Rep. ca di Genova sprovista, fece elettione di dua, che furono Filippo di Francesco Pallavicino, e Ipolito di Sil- vestro Invrea con titolo di Commessario di arme, e gli mandò nella Riviera Occidentale, et insieme col Ge- nerale dell’armi della Rep.ca, regulassero in modo la gente di guerra che potessero riparare alle scorarie di Piemontesi. Oltre di ciò furono eletti Niccolò di Agostino Grimaldo, Giovanni Battista Imperiale, Giacomo di Benedetto Moneglia, Francesco di Niccolò Imperiale, Cesare di Piero Durazzo, Pantaleo di Bartolomeo Monsa, Giovanni Giacomo di Tomaso Lomellino, e Giovanni Domenico di Tomaso Pallavicino a quali fu dato titolo di Commessario, con ordine andassero nella Riviera Orientale a descrivere sei mila fanti, e de- scritti che fussero imporli si provedessero di armi, e stare pronti ad ogni cenno della Rep.ca, pensandosi di formare esercito per resistere in Campagna ad ogni movimento del nemico. Hora ci conviene qui racontare, non senza amare lagrime uno crudelissimo fatto seguito l’anno 1628, li 27 del mese di ottobre, il quale da me si raccontarà da parte a parte con ogni distintione nella persona di Gio- vanni Gerolamo di Francesco di Negro, il quale in letica andava ad una sua Villa a Fasciolo55 vestito da Senato- re come egli era. Giunto dalla strada che di rincontro a quella, che va alla Chiesa di Giesù Maria ivi assaltato fu da Paulo Sartorio, che con lui havea undeci masnadieri. Di Archibuggiata fu morto, caso che in Senatore mai più era avenuto. Eccesso che dispiacque a tutti universalmente quanto si possa imaginare, poiché si sospettava, come poi si conobbe che era vero, che eccesso sì scelerato, era stato fatto per comandamento del Principe di Savoia, il quale pieno di maltalento, havesse risoluto di mandare a terra questo gentil’huomo, o altro pure egli fusse nella dignità Senatoria per dare maggiore colpo alla Rep.ca, e farlo che apparisse nel conspetto del Mon- do più memorabile. Quale sia la cagione che mosse esso Principe a fare una sì fatta uccisione, tutti affermano, che per altro non l’habbia fatto, che per sfogare la sua rabbia contro coloro, che non havevano compiaciuto suo Padre alla dimanda che havea fatta di sospendere la esecutione de i quattro congiurati, e poi a i dua a quali era stato tagliato il capo; circostanza che ha gravato l’eccesso non tanto appresso Dio, ma al Mondo, quanto anche che questo Gentil’huomo con molta impudenza fu morto. Il Sartorio dopo di havere esequito eccesso tanto grave, perché era di notte tempo, s’imbarcò in una Feluca, che a posta havea preso, e s’aviò con tutti i suoi compagni verso Varagine, e di là in Piemonte, a Ceva, ove quei Marchesi saputo l’eccesso che costui ha- veva fatto, non volevano recetarlo, ma lui trasse fuori del suo seno l’ordine, et il salva condotto, che egli havea del Principe, e non del Duca di Savoia suo padre. Non gli fu dato impaccio veruno. Il Senato all’hora seguì l’eccesso, fu congregato, et egli quasi nel medesimo instante, mandò Galee fuori in busca di costoro, ma come che la notte scura non lasciava scorgere navilio veruno, così questa canaglia hebbe agio di salvarsi. Poco dopo Giovanni Andrea Sartorio, fratello di Paulo, che di stanza stava in Noli, fuggì ancora lui, et andò in Piemonte a trovare il fratello, che già era in sicuro. Fu poi saputo che in questo delitto vi era mescolato Giovanni Antonio Ansaldo, del mezo del quale il Principe di Piemonte si era servito in persuadere il Paulo, come si può vedere dal bando publicato in Genova contra di lui, non però nominandosi altrimenti il Principe, autore principale. Il tenore del bando è il seguente: Duce, e Governatori, della Rep.ca di Genova. Havendo Giovanni Antonio Ansaldo conspirato contro la Rep.ca nostra, in compagnia di altri, sotto i nomi, e forme come dal processo, e sentenza appare, et havendo dato mandato a Paulo Sartorio, perché amazasse, come

55. Fassolo. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 59

amazzò, l’Ill.mo Giovanni Geronimo di Negro, et essendo detto Ansaldo perciò, et il detto Paulo, e parimenti Gio.Battista Meira q. Pelegro Celaro, Battista Carlino sopra nominato il Barba, Francesco Riccardo detto il Calegarotto, Giacomo Lombri di Spigno, Giacomo Firpo q. Agostino di Clavarezza detto il Bonaccio, e Battista Ratto q. Pecini di Gardena, sopranominato il nemico, pure anch’essi mandatarij di detto omicidio, stati con- danati come rei di leza maestà, sono li modi, e forme come per lo processo, e sentenza consta. Et essendo utile publico che tali mostri siano levati dalla terra de viventi, e ricevano la dannata pena a così esecrandi deliti. Perciò preponiamo premio a chi darà nelle forze della nostra giustitia Gio.Antonio Ansaldo di pezzi quindeci mila de otto reali, et a chi l’ucciderà de pezzi dodeci mila da otto reali, et a chi darà in potere nostro detto Paulo Sartorio, premio de pezzi dieci mila da otto reali, et a chi l’ammazzarà pezzi otto mila, si come anco proponiamo premio de pezzi cinquecento da otto reali a ciascuno delli sudetti Gio.Battista, o compagni, cioè a chiunque darà chi si vogli di loro in potere della giustitia, o vero li ucciderà, dichiarando che Gio.Antonio Ansaldo non si possa giamai rimettere. Il Paulo Sartorio si possa rimettere solo con l’amazzare, o darà in potere della nostra giustitia detto Ansaldo, e rispetto agli altri di sopra nominati, se alcuno di loro amazzarà Ansaldo, o lo darà in potere della giustitia, possa oltre il premio pecuniario rimettere sé, et un altro compagno, e così amazzando, o dando in potere della giustitia il Paulo Sartorio, e se gli altri si amazzarono l’uno l’altro, o daranno in potere della giustitia, si possa, chi amazzarà o darà in potere della giustitia il compagno del medesimo delitto rimettersi, et havere il premio pecuniario sudetto. Li quali premij rispettivamente saranno prontamente esequiti, e rispetto a pecuniari dalla nostra Camera pagati. Del che si fa con publica grida con far stampar questa propositione de premij a ciascuna notitia, accioche desidera conseguire detti premij, procuri di esequire quanto sopra. Data in Genova, nel Ducal Palazzo a di 19 Decembre mile seicento venti otto. Dalla Cancelaria del mag.co Gio.Battista Panesi, Canceliere, e Segretario. Nella Città per l’adietro si stava con non poco disquidamento in guisa che qualsivoglia etiandio nemico domestico poteva o con la forza, o con qualche stratagemma soggiogare la Rep.ca del tutto, tanto erano i Signori Genovesi stimevoli de loro stessi, che non stimavano, che trovare si dovesse Potentato, che egli fussi così ardito, che pensasse mai di venire non che a confne, ma entrare dentro, sì come sono entrati Francesi, e Savoiardi insieme uniti, che se la mano adiutrice di Dio non li soccorreva in tempo, per certo, che erano soggiogati di giogo sì insoportabile, che mai più non potevano scoterlo. E poi succeduta la con- giura fatta da sì perversa, e scelerata gente, che se lo stesso Dio, che aiutò la Rep.ca l’altra fata, non faceva il medesimo con farla scoprire, senza dubbio si provava molto più fero fagello, che dalla prima mossa di Francesi, e Savoiardi. Tutte queste cose unite insieme, hanno fatto destare coloro che governavano la Rep. ca dal grave sonno in che eglino stavano immersi, con provedere a quegli inconvenienti, e debolezza nelle quali erano. Con ciò sia, che non tanto si provide di altra soldatesca repartita in vari posti più periculosi, ma si fortifcò il Palagio publico, e la Piazza, che prima stava con poca, o nulla sicurezza, perché la guardia che era ripartita in due parti, si ridusse in una porta fatta sola nel mezo. Oltre di ciò si fece elettione di un Ma- gistrato di Cinque Cittadini, con uno che faceva il numero di sei, che era dell’ordine Procuratorio. Il quale magistrato si chiamasse di Inquisitori di Stato, et havesse solamente cura, e pensiero di gastigare coloro, che soverchiamente si mostravano sì arditi nelle loro operazioni o veramente nel favelare contro lo Stato, o contro qual si voglia Senatore; i primi eletti a questo magistrato furono Filippo di Christofaro Centurione, Giulio di Giovanni Battista Pallavicino, Steffano di Paulo Spinola, Giovanni Michele di Giorgio Zoagli, Luca di Alessandro Giustiniano, et Ipolito di Silvestro Invrea, et Agostino di Francesco Mari dell’ordine Procuratorio, nello stesso tempo furono eletti sessanta nobili, i quali repartitamente andassero per ogni strada cercando, chi vi stava, e trovandolo essere Piemontese o veramente sudito del Duca di Savoia, do- vessero cacciarlo via con pene rigorose, se non lo facevano. I nomi de quali furono: Francesco di Giovanni Agostino, Gio.Agostino di Giovanni Paulo Pinelli; Giovanni Battista di Steffano, Giovanni Francesco di Steffano, Angelo di Pietro Lomellini; Claudio di Lazaro, Giulio Cesare Cibo, Agostino di Luca, Giovanni Battista di Pietro, Alessandro di Andrea, Giacomo di Dionisio Spinoli; Marco Antonio di Giovanni Batti- sta, Giovanni Giorgio di Franco, Giovanni Tomaso di Camillo, Luca di Alessandro, Badassale di Camillo Giustiniani; Giulio di Agostino, Giovanni Domenico di Tomaso Pallavicini; Luca di Gerolamo, Ansaldo di Gerolamo, Battista di Oratio, Gianettino di Gio.Giacomo, Francesco di Luca, Giovanni Battista di Ansaldo Grimaldi; Andrea di Piero Maria Ferrari; Urbano di Matteo Senaregha; Gaspare di Giovanni Tomaso Oliva; Giovanni Ambrosio di Giacomo, Domenico, Agostino di Steffano Centurioni; Giovanni Camillo di Stef- fano, Giovanni Battista di Niccolò, Costantino di Steffano Doria; Badassale di Niccolò Odone; Gio.Maria di Battista, Gio.Andrea di Steffano, Gerolamo di Federigo Franchi; Giacomo Filippo di Agostino Durazzo; Isnardo di Giacomo Cataneo, Giovanni Battista di Filippo Catanei; Niccolò di Piero Durazzo; Giovanni Tomaso di Giacomo Airolo; Giovanni Battista di Taddeo di Negro; Giulio di Battista, Pagano di Raffaello 60 «In forse di perdere la libertà»

Torre; Giovanni Battista di Giulio Cigala; Oratio Bava; Tomaso di Lorenzo, Antoniotto di Giovanni Battista Invrea; Gerolamo di Francesco Di Marino; Alessandro di Paulo Sauli; Lorenzo Sorba; Giovanni Battista Marruffo; Paulo Ambrosio Carmagnola; Gerolamo di Giovanni Battista Lercaro; Giacomo di Filippo Ca- taneo; Giovanni Battista di Giacomo, Giovanni Andrea di Tomaso, Dionisio di Piero Gentili; Giovanni di Stefano di Franchi. I quali fecero la cura con ogni acuratezza, e fu a proposito il farla perché vi erano di quegli, che per scrivere qualche cosa di nuovo, avisavano i suoi parenti, o amici ciò che si faceva in Genova, e costoro ogni cosa riferivano al Duca di Savoia. Perché era venuta certa, e sicura notitia al Senato di Genova, che Gio- vanni Antonio Ansaldo havea dato mandato al Sartorio di uccidere qual si voglia del Colegio de Senatori, e da questo, ne era successa la morte di Giovanni Gerolamo di Negro, vole si come conveniva alla giustitia farli processo con chiamarlo, s’era inocente potesse, per scolparsi di delito sì grave. Constituirsi il processo da due dell’ordine Procuratorio, e non dalla Rota Criminale si fece, e lui come colpevole non si vole ap- presentare, di donde ne uscì poi tale bando, non tanto a lui, ma a tutti gli altri masnadieri suoi compagni. Il tenore del quale è il seguente: Duce, Governatori, e Procuratori della Rep.ca di Genova, volendo che ciascuno procuri conseguire i premi proposti per il decreto fatto a tredici di Decembre passato, publicato a trenta, dichiariamo, e se fa di bisogno aggiungiamo, che chiunque darà in potere della giustitia, o amazzarà Giovanni Antonio Ansaldo, non solo conseguirà il premio pecuniario proposto per detto Decreto, cioè pezzi da otto reali quindici mila, dandolo in potere nostro vivo, e dodici mila amazzandolo, ma di più essendo bandito, ancorché non delli nominati in detto Decreto, otterrà il libero perdono, e totale sua liberatione, e di più potrà dimandare che si rimetta tre altri banditi di lesa maestà, o di altri delitti, li quali si doveranno rimettere, e liberare, e se non sarà bandito potrà domandare che si rimettano, e li debbano rimettere, e liberare quattro banditi di leza maestà, o di altro delitto talmente che chi darà in potere della giustitia detto Ansaldo, o l’ucciderà oltre il premio pecuniario sudetto libererà sé, e tre banditi come sopra, e non essendo bandito, ne libererà quattro sopra. Di che si fa a tutti notitia, accioche sapino quel che con l’estintione di detto Ansaldo conseguirano. Data in Genova nel Ducale Palazzo, 8 Gennaio 1629. L’altro bando fatto per il Gio.Andrea Sartorio è il seguente: Premendo al Ser.mo Duce, et Ecc.mi Signori Governatori, et Ill.mi Procuratori della Ser.ma Rep.ca di Genova che sia estinto, o dato vivo nelle forze della giustitia della Rep.ca Gio.Andrea Sartorio bandito di prima classe, et anche per assassino, e delitto di offesa maestà. Perciò in virtù di questa publica grida, promettemo premio di pezzi da dua mila da otto Reali, già per decreto di loro Signorie e Ser.me stato deliberato a chi lo estinguerà, o darà come sopra nelle forze della giustitia da pagarseli prontamente di Camera, compreso in essi il premio pecu- niario già statuito per la persona sua dagli ordini classasi, e ciò oltre l’autorità di nominare, e far rimettere dua banditi alla forma delle leggi, et ordini di dette classi, delle quali cose hanno loro Signorie Serenissime ordinato che si faci presente publica grida, acciò pervenga a notitia di ciascuno, e chi vorrà possa guadagnare li premij sudetti. Dato in Genova nel Ducal Palazzo, li 29 Gennaio 1629. Il medesimo Ansaldo con la licenza datali dal Duca di Savoia i mesi addietro, compose alcuni scritti, che egli fece stampare in Vercelli, i quali erano apunto libelli infamatori contro la Nobiltà Genovese, i più scelerati, che in questo genere si possono fare. Egli è però vero la maggiore parte buggie, e falsità, e piene di molte malvagità, singularmente quello che egli dice, che la legge di creare nobili, prima ella diceva, che debeant, e non che possint, come dice hora, affermando, che da Nobili sia stata cambiata, cosa che non è vera. Questi scritti così stampati furono mandati da per tutto, e una grande parte nascostamente a Genova a gente Popolaresca, da quali furono letti con molto loro gusto, prima che il Senato potesse proibirgli. E perché fra essa gente ve ne sono de intendenti, et ambitiosi, furono molto bene considerati. Onde si acese in essi un tale desiderio di essere anche eglino fatti nobili, e di partecipare del governo, che in ogni con- versatione loro di altro non si favelava, sì che molti lo stimavano una meza seditione. Il Senato ben che tardi avvedutossi, che tale morbo era per infettare tutto il corpo, e ben presto cagionare qualche universa- le seditione, se non vi poneva gagliardo rimedio, proibì sotto grave pena non che leggerli, ma tenerli in casa. Egli è vero che ancora vi fussi il gastigo pronto di punire chi transgrediva, molti non volsero portar- li a Palagio, come era loro comandato, ma gli ritenerono, e per quello si crede, sovente li leggevano per recitarli nelle compagnie, ove si trattava di questi scritti, come avenne a Vincenzo Ligalupo Dottore, Giu- lio Cesare Cardarina, che altri serve per scrituale, Giovanni Battista Zoagli solecitatore de liti, Giovanni Angelo Chiegaro, e Luca Assarino. Costoro senza considerare punto, i suoi natali che sono vilissimi, ma Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 61

solamente la loro sfrenata, e satanica ambitione, la istate passata andarono nella Casa del Principe Doria, ove allogiava il Conte di Monte Rei grande di Spagna, dal Re destinato ambasciadore a Roma, e li diede- ro un memoriale, per lo quale naravano, come loro ancora erano Cittadini di questa Rep.ca, et antichi, ma che per loro disaventura, non erano mai potuti giungere a quella meta degli honori, che arivavano i Citta- dini loro pari, e questo era avenuto, perché erano stati tolti via dalle leggi della Rep.ca, ove è statuito si debbino ogni anno di mese di Gennaio creare dieci Nobili, sette della Città, e tre delle Riviere, quella pa- rola, che obligava il Senato, che debeat, e non possit. Onde erano trapassati tanti anni, che tale creatione non si faceva, perché così piaceva a Consiglieri, che usavano questa tirannide, che un’altra loro suplica consimile havevano mandato al Re di Spagna, perché gli facesse giustitia, et essendo egli ministro tanto principale, come era di quel Re, stimavano che la suplica mandata in Spagna ella fusse rimessa a lui, ve- nivano a pregarlo, che volesse interrarsi delle loro ragioni, e farli giustitia, o almeno farne in Spagna rela- tione tale, accioche si conoscesse, che dimandavano cosa giusta, e degna di essere giudicata da un Re tanto grande, che non era per veruno verso interessato, né con l’una parte, e non con l’altra. Il Conte di Monterei vedendosi dare una suplica tale, rimase stupito, non potendosi imaginare perché questa gente a lui ricorresse per simile faccenda, per all’hora non rispose altra parola, che haverebbe veduta la richiesta loro, e poi rispostoli. Tratanto, che costoro stavano attendendo la risposta, il Chiegaro, et l’Assarino pen- sando meglio al fatto loro, e che intrico si ponevano senza loro proccacio, un bel mattino andarono dal Duce, e dua Senatori assistenti in Palagio, e gli palesarono l’ordimento della risolutione de compagni loro. Onde uscì catura di prendergli, sì come fu esequito in quell’istante, e posti in carcere. Egli è vero non tutti. Gli Inquisitori di Stato vi furono attorno, e la cosa era sì palese, che essi confessarono ogni cosa senza dimora veruna, e ne furono gastigati non di morte, como certamente meritavano, ma di Carcere. Che pensieri havessero costoro, non si è veramente potuto sapere, solamente si stima, che addottrinati dagli scritti dell’Ansaldo, siano andati con molta ignoranza dietro a questo loro pazzo appettito. Altri dicono, et affermano, che Don Sancio di Monroi, marchese di Castagneda ambasciadore ordinario del Re di Spagna in Genova, che a danno della Rep.ca vole fare il politico, et lo stattista, essendo costoro ricorsi da lui prima di ogni altro, gli esortasse andare avanti alla loro giusta pretensione, e si dice, che esso Marchese di ogni cosa diede parte in Spagna al Re suo Signore. Egli è vero che la bontà di esso non soffrì di continuarlo più quella carica di ambasciadore, ma lo tolse via, non parendo che i concetti che haveva, non potessero gio- vare punto alla conservatione della Rep.ca, che per esperienza si vede, vole conservare, ma nocerli oltre modo. Tre fratelli del luogo di Porto Mauritio, chiamato uno Giovanni Francesco, il quale è Vescovo di Ventimiglia, l’altro Niccolò, e il terzo Giulio Cesare di parentado di Gandolf, che in quel luogo non sono però degli inferiori. Costoro quando Francesi, e Savoiardi vennero per soggiogare Genova, sono sempre stati mal affetti verso la Rep.ca, e ne hanno dato più di un segnale, più particolarmente quando il Principe di Piemonte andò ad invadere la Riviera Occidentale, questi tre fratelli furono mezo a persuadere i Con- soli di quel luogho a darsi subito al detto Principe e questa persuasione eglino fecero, che non era ancora avicinato l’esercito nemico, né che vi fussi urgente necessità di farlo con tanta prestezza, oltre altre dimo- strationi, che del tutto palesarono il male animo loro. Egli è vero, che questo mal animo l’andavano co- prendo in guisa, che non si poterono gastigare dopo la ricuperatione della Riviera dalle mani di Piemonte- si, come si desiderano, e come si saria fatto. Il Vescovo non è più in Ventimiglia, ma dal Duca di Savoia è stato eletto Vescovo di Alba di meno entrata che quello havea prima. L’altro che è Giulio Cesare è morto confnato a Chiavari, il terzo et ultimo non si sa dove sia. Apena era in Genova terminato di gastigarsi quei che con tanta insolenza erano andati a dare il memoriale al Conte di Monterei, che nacque nuova occasio- ne di gastigare altri di maggiore delito, il quale per esequirlo non vi mancarono delle difcultà per la varie- tà de pareri, però vinse il migliore, e la giustitia si fece al Molo publicamente, come conveniva. Un tale nominato fgliolo di Pelegro, che era Celaro, era egli nepote per sorella di Gio.Andrea Sartorio, et era in età di tredici anni. Fu persuaso dal zio, ad andare a Genova e poi a Palagio nel portico, che alla mattina si sogliono venire i Senatori, accostarsi ad uno di essi, e col pugnale, che gli diede lo uccidesse, e quando questo egli non potesse esequire, uccidesse un nobile, che fosse meglio vestito de ogni altro, e gli diede un cavallo sopra del quale salisse, che con spronarlo si saria salvato, dandoli ancora per suo compagno un Veturino che era di Chieri terra del Monferrato. Il Ragazzo come che egli di mala razza, e di mala qualità fusse somigliante in tutto a Sartori suoi zij, accettò di fare ciò che gli era imposto, venne egli dunque a Genova, che erano i quindici del mese di Decembre, dormì all’Hostaria di San Lazaro, alla mattina leva- tossi per tempo, alla diritta andò nel Cortile del Palagio, ivi si fermò, aspettando che venissero i Senatori, 62 «In forse di perdere la libertà»

i quali per loro ventura erano da diversi accompagnati. Onde il malvagio, non ardì assaltarli, e vedendo non capitarne altro, non volendo più indugiare, si accostò a Gianettino di Giovanni Spinola, che all’hora ivi era giunto, e s’incaminava verso la porta del magistrato ove siede alla continua, e con il pugnale gli diede un colpo, che lo ferì nell’ombelico con leggera ferita. Lo Spinola, vedendosi ferito, cominciò a gri- dare, che il traditore si prendesse. Un soldato Corso, che ivi si trovò presente, prese il Ragazzo per il colo, e lo fermò, e poi lo diede a birri, che lo condussero prigione, e poco dopo esaminato, egli non tanto con- fessò il delitto, ma chi l’havea mandato, poi soggionse all’interrogatorio che gli fu fatto da chi era stato condotto a Genova; egli rispose da un Veturino de Cavalli, che lo aspettava all’Hostaria di San Lazaro, e che ivi si trovaria. Fu all’hora mandato uno capo di Birri, molto bene accompagnato al luogo, e trovato, che stava scaldandosi al fuogo, aspettando il Ragazzo, fu preso, e condotto a Palagio, e interrogato, con facilità confessò ogni cosa, non tanto che havea accompagnato il Ragazzo, ma che sapeva ancora che cosa veniva a fare a Genova. Furono all’uno, et all’altro assignate le difese, poi a capo de quindeci giorni con- dannati ambidue alla Forca. Ma prima che condanarli, fu posto in dubio, che essendo il Ragazzo di tredici anni non era capace di pena veruna. Questa cosa fu proposta a Consegli, i quali diedero l’autorità al Sena- to, che giudicò essere egli reo di pena di Forca, la quale fu esequita al Molo, e fu spetaculo degno di com- passione, perché il Ragazzo morì molto resignato. Poco appresso il Giovanni Andrea Sartorio, autore di sì fatte sceleratezze, da Monferato a un luogo che si chiama Fagiana, fu miseramente ucciso, solamente per prendere la taglia, la quale dalla Camera publica gli fu prontamente pagata. Il Conte di Monterei, prima che partirsi da Genova, et inviarsi alla sua carica di ambasciadore a Roma al Pontefce, andò a Casale a vedere quell’assedio, et essendosi trovato col Pacero,56 primo segretario del Duca di Savoia, e con esso favelato per fare prova se poteva acquistarsi questa gloria di havere composto la pace fra la Rep.ca Geno- vese, et il Duca di Savoia, ma ogni diligenza da lui usata, fu indarno, perché esso Duca dimandava condi- tioni sì stravaganti, che non erano da vinto, ma da vittorioso, e tra l’altre cose, che erano tante, e tali le intelligenze, che il Duca suo Signore havea in Genova, che con trecento soldati se si fussi accostato alla porta di San Tomaso, saria introdotto dentro. Ma che non l’havea sino all’hora voluto farlo, per non dare questo disgusto al Re di Spagna, che tanto osservava e riveriva. Finalmente, non potendo Dio più sopor- tare i gravi, e scelerati peccati di Giovanni Antonio Ansaldo, si è inteso lo habbi levato dal mondo di morte naturale, la quale cosa piacque a molti, conciosia che mai havesse cessato hora con una cosa, ora con un’altra, travagliare la Rep.ca Genovese, e con l’appoggio, e protetione del Duca di Savoia le più delle volte, l’ha posta a segno in bilancio che era per perdere del tutto la sua libertà, e farla soggetta a genti Barbare, e se nell’ultimo di spirare l’anima non ha implorato la misericordia Divina, molto si può temere della sua salute. Ha questa morte liberata non tanto la Città da ogni insidia che nell’avenire poteva tendergli. Ma la Nobiltà ancora della quale faceva professione particolare di odiarla a morte, e con la sua malvagia natura in l’avenire poteva nocere a tutti. Il Duca di Savoia, che come si è detto l’ha sempre pro- tetto, era consimile a lui, non tanto, fero nemico a tutta la nobiltà Genovese, ma ancora per la brama, che l’uno, e l’altro havevano di farli perdere la libertà per darla in mano della gente Popolaresca, e ne ha fatto a tutto suo potere ogni diligenza, la quale non è stata a segno che habbia sodisfatto al pensiero, e desiderio dell’uno, e dell’altro, perciochè la Rep.ca Genovese risplende più che prima, stimata da tutti i Potentati del Mondo. Era grandissima la brama che il Duca di Savoia havea di racquistare i luoghi che Signori Geno- vesi tuttavia tenevano, che intitulandosi egli difensore della libertà di Italia, pareva a lui molto scemare la sua riputatione, che in tanto tempo non havesse potuto ricuperargli, ma perché conosceva con la viva for- za non potere ottenere questo suo desiderio, andava pensandosi come era usato, di valersi di trattati, come pure vole valersi hora. Il trattato, che egli compose, fu tale, fece che certi che stavano nel luogo di Gares- sio, si amicassero con alcuni del luogo di Ormera, il che riuscì loro con molta agevolezza, come che già era un pezzo fa, fra di loro, non erano stati atti ostili. A questi egli ordinò a porre di notte tempo, o in altra guisa, che a loro fussi paruto più sicuro di riuscire sotto la Sala, ove per ordinario solevansi dare le paghe a soldati, e quando maggiore fussi il numero, appicciassero il fuogo ad essa polvere, la quale certo era, che con la sua violenza saria andato all’aria tutto l’edifcio, e quegli vi erano sopra, sariano rimasti estinti. Oltre di ciò ordinò ad altri, che apparecchiati stessero pronti con l’armi alla mano, e procurassero in quel- la confusione entrare in Ormea, e farsene padroni. Ma questo ordimento ancora, che stabilito e preparato fussi non hebbe la esecutione perfetta, perché il tutto fu noto, e quei di Ormea furono gastigati. L’altro

56. Gio.Tommaso Passero, conte di Cervere, cavaliere e commendatore dell’ordine dei SS.Maurizio e Lazzaro, primo segre- tario di stato di Carlo Emanuele I, duca di Savoia. Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 63

anno Monsù di Lande, e Monsù di Sabrano ambidue ambasciadori del Re di Francia vennero a Genova, il primo non vi si fermò. Egli è vero, che fece riverenza al Duce, et a dua Senatori residenti in Palagio, con essi favelò dandoli parte col re di Francia suo Signore, che di Lione era venuto in Susa solamente per li- berare il Duca di Mantova dall’opressione, che Spagnuoli li facevano. Ivi tuttavia dimorava, soggionse poi, che Sua Maestà haveria fatto il medesimo per la Rep.ca di Genova, quando per aventura vi fussi stata la necessità. L’altro diceva essere venuto a trattare alcuni particolari per ordine del Re parimenti di Fran- cia, come sogliansi fare, fu allogiato in casa di Tomaso di Francesco Grimaldo a spese publiche in Genova, e vi è dimorato in Genova molto tempo, et ancora hora vi dimora, non come ambasciadore né come agen- te, ma come vi stanno tutti gli altri, che non sono Genovesi, che vi stanno a piacere loro. E se bene Spa- gnuoli più di una fata, hanno procurato di scacciarlo. Il Consiglio piccolo non ha voluto compiacerli an- cora che vi fussero dua esempi. L’uno dell’anno mile cinquecento quaranta due, e l’altro l’anno mile cinquecento cinquanta quattro, che il Senato di all’hora non vole dare luogo a Luigi Alamani Fiorentino mandato dal Re di Francia per dimorare qui nella Città, con titolo di Agente, dicendosi, che scaciarlo non si voleva, ne meno comportare che con tale titolo vi dimorasse. Li ventinove del mese di Aprile [1629] di quel secolo Agostino di Steffano Pallavicino, che un mese avanti dal Consiglietto era stato eletto amba- sciadore straordinario al Re di Francia, il quale come si è detto era venuto in Susa per soccorrere in Duca di Mantova, e mostrava pensiero di venire in Italia. E perché all’hora non havea esercito come desiderava, e bastevole a resistere a quello de suoi nemici, andava procurando di aumentarlo. Parve al Senato di Ge- nova di mandarlo a salutare per amicarselo, e renderselo amorevole, più che si potesse, come sequì, et il tutto riuscì benissimo, essendo stato l’ambasciadore ricevuto con ogni sorte di amorevolezza, e fattolo coprire, favore, che non suole da quel Re farsi a tutti, oltre la speranza, con molta splendidezza. Non ostan- te vi fussi magistrato di Inquisitori di Stato, gli huomini, massimamente quei della gente Popolaresca, non cessavano quando veniva l’occasione, palesare i loro spropositati desideri, e questo lo facevano con stra- parlare con molta abondanza, parendo loro che detto magistrato non havesse ben bene tratto fuori la sua spada per farsi conoscere, che era gastigatore di simili gente, il che per apparire tale in tanto disordine stava consultando che si dovea fare, sapendo che quando il Corpo è pieno di mali humori i medici prima che fare altri rimedij, danno di mano a medicine per purgarlo. Lo stesso fecero essi Inquisitori di Stato, sciegliendo quei che più mordaci nel loro parlare si mostravano. In vari tempi dunque bandirono, e conf- narono molti di essi, levandoli dalla Città. Onde sentendo gli altri, che non erano tanto colpevoli, sì rigo- rosa sentenza esequita con molto rigore, tacquero in guisa, che non fu più di mestieri addopperarlo con essi, ma tutti si contenevano nel loro modo di favelare. I nomi de confnati furono i seguenti: Gio.Tomaso Frigone per quattro anni in la Isola di Sardigna, e perché invece di andare al Confne, andò a Torino fu ribellato, Giovanni Battista Bacigalupo in Sardigna per tre anni, Franco Bargagli in Firenze per cinque anni, Francesco Adorno in Aiaccio per tre anni, Pantaleo Ranano alla Specie per dua anni, Agostino Com- piano a Livorno per tre anni, Giovanni Battista Lagorio a Napoli per dua anni, Giovanni Battista di Gio- vanni Francesco Ottone a carcere, Bernardo di Tomaso Levanto il medesimo, e Giovanni Gerolamo di Bernardo Boso a Levanto per dua anni, oltre alcuni altri, che per andare le cose con molta segretezza, non si sono sapute. Il Duca di Savoia più inquieto, che la inquietudine stessa, mercé la sua grande alterigia, la quale non havea pari, egli altro non studiava, che alla rovina della Rep.ca, non tanto di farli perdere la li- bertà, ma ancora di porla in tale confusione, che i Nobili da loro stessi si uccidessero l’uno, e l’altro. Onde non cessava sopra questo di andare insidiando per ogni verso, et usare quelle sue solite arti, e malitie, già molto bene note a tutti, e non più stimate da niuno, et havendo conosciuto a più di una prova che l’andare appresso alla gente Popolaresca non lo conduceva, ove egli bramava, e desiderando pure giungervi un giorno, e mettere in opera l’ira sua per vendicarsi, come egli diceva, della nobiltà Genovese, che l’havea offeso tanto, venegli pensiero di valersi di quei della nobiltà stessa, quegli però che erano bisognosi di ogni cosa, e che non si sodisfacevano di quello stato, che Dio l’havea dato, ma volevano vivere con più agiatezza, e le riuscì il farlo con Marc’Antonio di Luca Grillo, huomo ambitioso, e vago di novità di ogni sorte, il quale succedendoli secondo il suo divisamento, il Duca di Savoia gli haverebbe fatto cambiare la sua aversa fortuna in meglio. Mandò dunque esso Duca per questo effetto con molta segretezza uno suo Segretario a Genova, il quale altrimenti non entrò nella Città, ma nella Villa di Cornigliano, che è nella parte Occidentale, non lontana dalla Città più che Cinque miglia, ove il Grillo vi andò, e molte hore trat- tarono insieme. Ma come egli per altro mezo già si era volto al volere del Duca, non vi fu briga veruna, il promettere di nuovo l’opera sua al Segretario. Egli è vero, che non si è potuto sapere, che promesse fusse- 64 «In forse di perdere la libertà»

ro queste, che prima fece al Duca e poi al Segretario, solo da capo a giorni che il Grillo fu dichiarato con decreto publico traditore della sua patria, e tale confnato per quindeci anni a carcere segreta, con giunta, se mai egli farà fuga, e poi preso, gli sia mozato il capo. Hebbe egli una hora di corda, e la sveglia, e non confessò, cosa che fece stupire molti, che non confessasse e così virilmente sostenesse tanto tormento, essendo in età di cinquanta sei anni. Egli è vero di robusta, e forte natura e complessione. Gli inditij, et evidenze che erano contro di lui, che ei fusse colpevole erano tanti, che gli hanno fatto dare tale gastigo. Molti dicono, che meritava maggiore pena, e che era ragione lavare dal Mondo sì fatto morbo, che era per contaminare altri. Con molto mio disgusto ritornò a favelare di Claudio di Cosimo Di Marino, che volen- tieri haverei tralasciato di farlo, conciosia che a me pare il suo nome doverebbe levarsi in tutto dalla me- moria degli huomini, ma havendo da farlo questa volta solamente, mi vi sono indotto per narare la infelice sua morte, la quale se bene è stata naturale, e però stata accompagnata da quell’infame nome di traditore della patria sua, sapendosi, che non sia mancato per lui, che non sia successo quel mesto, e lagrimoso avenimento della perdita della Rep.ca, poiché si sa certo che con le sue sataniche persuassioni, et instanze, egli habbia fatto risolvere il Re di Francia, il quale non havea occasione veruna, solo appetito di togliere quel di altri, a fare lega col Duca di Savoia, e venire e l’uno, e l’altro con validissimo esercito per soggio- gare, et annichilare ogni nome di libertà, che ella havea, per questo sì grave eccesso, ancora che egli fusse ambasciadore del Re di Francia appresso la persona del Duca di Savoia, non stimandolo punto, egli è sta- to processato dalla Rep.ca, condannato, e publicato ribelle, e mandata la casa sua a terra, come traditore, se bene poi, ad instanza del Re di Spagna, che ne pregò il Senato di Genova, questo bando fu rivocato, e rimesso in gratia, cosa che dovea farli ravedere lo errore suo, et emendarsi per torsi quell’infame nome di traditore della Patria, ma lui non già lo fece, anzi come Cane ferito, venuto in grande rabbia altro non fa- ceva, che inzigare e il Re di Francia stesso, e ‘l Digueres suo generale, et il Duca di Savoia a venire all’im- presa di Genova. Venne egli stesso a Gavi con essi dua eserciti, e in esso luogho stimulava di nuovo a fare presto, e scendere in Sampierdiarena, perché senza veruno dubbio gli sarebbono aperte le porte, et intro- dotto dentro e impadronitossi della Città. Piacia a Dio, che il tutto non sia seguito con detrimento dell’ani- ma sua, che io ne sono in molto dubbio, perché se è vero, come dicono i maestri, in Teologia, in Paradiso vi sia luogo da darsi a colui, e veramente a coloro, che fanno qualche benefcio alla Patria; all’incontrario essere vi deve nell’Inferno un altro luogo per coloro vi arecano qualche danno. Non molto stette, che suc- cesse un’altra morte, assai più memorabile di morbo di peste in Vercelli nella propria persona del Duca di Savoia, non meno dell’altra veduta volentieri dalla Rep.ca Genovese. Egli è vero che tale morte seguita a questa guisa in tutti cagionò non poca maraviglia, e per la maraviglia quasi non creduta nel principio, che ella si divulgò, che si bene la Morte non ha rispetto a niuno cui si voglia, conciosia che ogni huomo è soggetto al suo imperio, e quando ella deve esercitare la sua tirannide, sa cogliere in quella guisa, che le piace, e più le agrada, e tutti senza replica veruna cedono a tanta violenza, con tutto ciò lo fatto successo fu di stupore grande a tutti, che morse di peste uno Duca di Savoia, il quale ha tante strade da preservarsi da simili mesti accidenti. Da questo se ne può cavare una conseguenza, che è vera, che i gravi peccati che tutto dì dagli huomini si commettono, quando hanno di remissione passato il segno, quasi sempre provo- cano l’ira di Dio a non tardare più a levarlo dal Mondo, perché non divenga peggiore, né vale guardarci, né cercare rimedij humani perché non vi sono; anzi l’huomo per ordinario è colto quando meno lo crede. Il Duca di Savoia era un grande Principe, non di meno non ha potuto schiffare a guisa di huomo privato il morire di peste, e si crede siano stati i suoi peccati, e l’inaudite sceleratezze, da lui comportate, fatte nelle contrade della Rep.ca Genovese dal suo esercito l’anno 1625. Era egli poi tanto inquieto, e vario nelle sue risolutioni, che mai stava un giorno intiero nella stessa volontà e proposito. Era anche superbo più di ogni altro huomo, e questa sua superbia cagionava in lui inusitata stima, che non credeva fussi maggiore di lui; anzi quando alcuno voleva paragonare lo Stato della Rep.ca al suo, o in altra cosa, veniva in rabbia a segno che non bisognava colui che ne favelava parlasse più avanti. Si stimava poi il più grande guerriero che all’hora fussi al Mondo, e vi fussi mai stato per l’addietro, e pure si sa, che niuna guerra da lui cominciata, ha vinto, anzi è rimasto sempre al di sotto, com’egli intervenuto in quella guerra da lui mossa a Signori Genovesi, i quali ben bene l’hanno mortifcato, e tuttavia mortifcano il fgliuolo, che hora regna, perciò che tengono in potere loro un quasi terzo dello Stato di Piemonte, confnante a quello della Rep.ca nella Riviera Occidentale, e per quante congiure, trattati, e stratagemme ha addopperato, niuno è stato valevole a farli ricuperare il suo. A bello studio habbiamo tralasciato di favelare di Vincenzo Di Marino, e dell’in- felice sua morte, perché essendo all’hora ancora vivo Piero Francesco suo padre, andava temendo, che per Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 65

qualche via, un giorno, egli vedere potesse queste memorie da noi scritte, e per narrarsi in esse la verità sentirne egli non poco discontento, e per conseguenza contro di me concepirne odio grande; cosa, che non haveria voluto succedesse, sì per essere suo amico di molti anni, sì anche, perché sentendole leggere, non se gli rinovasse la memoria de suoi dolori per la perdita del fgliuolo. Hora che non tanto lui, ma la sua successione resta del tutto estinta, non pare sia più ragionevole tralasciarla, ma narare il fatto liberamente, conciosia, che mi giova credere, che essa narratione sarà un vero ammaestramento a posteri di regulare i loro mal regulati affetti. Dico dunque, che il Vincenzo era unico fgliuolo di Piero Francesco Gentil’huo- mo dotato di bone parti, il quale giovine, egli attese a negotij di Cambi, stando nel Regno di Napoli, e per sua disaventura non hebbe esercitando essi quella felicità, che si è veduto in molti altri che con simile mestieri sono divenuti ricchi, anzi dell’eredità di suo padre una parte andò in sodisfare a questa perdita, sì che conoscendo egli, che malagevolmente, e per la qualità de tempi, rifarsi de danni non più poteva, ritor- nò alla patria, che già era assai avanti di anni, et essendo all’hora vacato l’uftio di Mastro di Poste, che per Cinque anni la Rep.ca afftava a suoi Cittadini, offerendo egli più somma di danari degli altri, a lui fu data. Il Vincenzo essendo già in età adulta, maneggiava l’azenda non tanto del padre, quanto la carica di Mastro de Poste, e perché come il padre, era assai prefuso nello spendere, et oltre modo ambitioso, in poco tempo mandò a male, non tanto i danari paterni, ma quei ancora che per aventura guadagnare si potevano nella posta in guisa tale, che malagevolmente si pagavano le terze dovute alla Camera publica. Onde i promis- sori dubitando di quello poteva avenirli esclamavano sino alle stelle, pure con andarne porgendo alcune, si andava dissimulando. Il Vincenzo se bene non havea obligatione veruna con essi, sentiva però disgusto grande in vedere stimulare il padre, e sovente con suoi amici si doleva della sua mala fortuna, e più fre- quente lo faceva con Claudio Di Marino, il quale in quei tempi resideva ambasciadore ordinario del Re di Francia appresso la persona del Duca di Savoia, et il quale già si era dimostrato fero nemico della Rep.ca in molte cose. Onde si stimava all’hora, che se non fussero state le sataniche instanze di lui, et il rapresen- tare con molta falsità, e bugie la impresa facile da riuscire, il Re di Francia non si saria mai colegato col Duca di Savoia per venire a danni de Signori Genovesi, poiché non havea cagione veruna di farlo. Il Clau- dio dunque scrisse al Vincenzo, che gli era oltremodo spiaciuto quello gli havea fatto sapere de i suoi travagli, e che era pronto in qual si voglia modo aiutarlo, quando egli si risolvesse di prendere la servitù del Re di Francia, et alla giornata, andarlo raguagliando delle novelle, non tanto quelle seguivano in Ge- nova, ma in tutta Italia ancora, e che facendolo compitamente, lo assicurava che il Re di Francia, Re ge- neroso, lo haveria solevato da ogni miseria, in guisa che mai si saria pentito di havere seguitato sì fatta fortuna. Onde il poverino di Vincenzo, persuaso da questa promessa, ma più dalla necessità in che si tro- vava, si lasciò vincere dalle parole del Claudio, al quale egli rescrisse, che haverebbe fatto ciò che le consigliava, e così esequì. Egli è vero, che non tanto raguagliava il Claudio delle novelle, ma a poco a poco andava dicendo, per accattarsi maggiore benevolenza, che provisioni, che forze, e che dispositioni erano in Genova per difendersi se per aventura fussero assaltati. Le quali cose il Claudio scriveva in Fran- cia, e ne dava raguaglio ancora al Duca di Savoia, il quale vedendo quanta poca acuratezza si usava da Signori Genovesi, e quanto presto si potevano opprimere, lieto andava solecitando non tanto l’apparecchio che dovea fare lui, ma il Digueres Generale del Re di Francia a passare i Monti, e venire nel Piemonte. Hora il tanto scrivere del Vincenzo diede non leggero sospetto ad un servitore di lui, il quale lo disse ad un altro, e quegli ad un Senatore, che lo riferse nel Senato, che non badò a farvi suso consideratione, e la consideratione andò tanto avanti, che fu risoluto farlo carcerare, sì come fu esequito la Domenica mattina dalli quindici del mese di Marzo, dell’anno Mile seicento venti cinque. Egli è vero, che il capo de Birri, havea ordine di porli la mano nella tasca, e prendergli i papeli che vi havea, sì come in quell’istante fece, cosa, che fu quasi per farlo venire meno, e di questo simile accidente benissimo si avide il capo stesso de Birri, pure rinfranchito, disseli all’orecchie piano, che se egli voleva occultare la lettera presagli nella Tasca, prometteva di darli la Cadena d’oro, che havea al Colo. Ma il Birro o non intese, o veramente non vole intendere, come è più credibile, perché attese ad assicurarsi di lui, cose tutte, che riferte nel Senato, acrebbero grandemente il leggero sospetto, che vi era prima. Ma non già mai di credere, che nell’animo di lui albergasse un tradimento tanto grande, come dal successo si conobbe. La lettera era scritta al Claudio per mezo della quale egli havea intiera notitia di tutto quello all’hora si trattava in Genova. Condotto, che fu a Palagio, e chiuso nelle Carceri della Torre grande del Palagio Senatorio, assai subito vi andarono Opitio Spinola, e Giovanni Battista di Giovanni Battista Saluzzo già stati eletti con titolo di Commessari sopra questa medesima causa, i quali dopo haverli dimandato se sapeva la cagione della sua carceratione, 66 «In forse di perdere la libertà»

scesero ad altre interrogationi, singularmente quante volte havea scritto al Claudio Marino, e per scrivergli cosa le dava, o che predire ne sperava, rispose francamente che scritto havea solamente quella volta come amico, e Genovese, e che da lui non sperava cosa veruna, sopra questo le fu dato tormento, e sostenne ogni cosa con molta constanza. Egli è però vero che confessò altre cose, come sarebbe a dire, che il Claudio l’havea offerto di farlo pensionario del Re di Francia, ma che niente havea accettato. Non molto stette a palesarsi per la Città la cagione della presa del Vincenzo, e quello che havea confessato. Onde il Piero Francesco suo padre che forse sapeva qualche cosa, e dell’humore peccante del fgliuolo, conoscendo, che poco, o nulla vi era di suo scampo, vole valersi di un mezo, che meritava non leggero gastigo. Se però non si vole questo peccato condanarlo all’amore paterno, il quale pare facia lecito per salvare un fgliuolo va- lersi di quei mezi etiandio proibitti da ogni legge. Egli scrisse una lettera al Claudio Di Marino dandoli ragguaglio della prigionia del fglio con qualche periculo della sua vita, e che tutto aveniva per haverli scritto, che lo pregava di aiuto, di intercedere una lettera da Monsù di Digueres Generale dell’esercito del Re di Francia, che scrivesse alla Rep.ca per la sua salute. Il Marino ottenne la lettera, la quale era tutta piena di minaccie, particolarmente che il Marino era pensionario del Re di Francia, e che ogni male che a lui si facesse, stimaria si facesse allo stesso Re. La lettera fu scritta dal luogo di San Christofaro ove allo- giava esso Digueres, e mandata nel Senato, e poi letta, la quale non mancò di generare in alcuni Senatori per natura paurosi qualche timore, e volentieri hariano veduto, che si fussi trovata strada per liberarlo, e loro nella paura in che si ritrovavano. Ma niuna strada vi era a fare tale liberatione. Il Senato a questa lettera non fece risposta veruna, non stimandola necessaria, poiché di niuna cosa si voleva sodisfare. Non molto durò a terminarsi il processo, sì che i Commessari molte fate rapresentarono, che se spedire si vo- leva ogni cosa era pronta. Finalmente uditi i Dottori, che diffendevano la causa, il Vincenzo come reo di leza maestà, fu condannato ad essergli mosso il Capo, per doversi esequire fra tre giorni nelle proprie carceri del Palagio. La quale sentenza le fu dal Segretario intimata. A questa attione, che invero fu lacri- mozza, fu presente il Padre Marcello di Agostino Pallavicino della Compagnia del Giesù, il quale né all’hora, né dopo non l’abandonò sino all’ultima esecutione, e con le sue esortationi lo fece morire con quella resignatione, che la bisogna richiedeva, voltandolo in quella vera, e stabile risolutione di prendere l’amaro Calice della Morte, sì infelice, per sodisfattione de suoi gravi peccati. Questa esecutione fu fatta li dodeci del Mese di Maggio dello stesso Anno. Veramente il morire, non è niente, poiché così è stato statuito da Dio, ma il morire di Morte violenta, e con questo titolo di lesa maestà, pare a me sia delle infe- licità maggiori, che siano in questo Mondo. E se il Vincenzo Marino si doleva di questo più che del mori- re stesso, havea egli gran ragione, conciosia, che la memoria di questo fatto sarà eterna, e da essere biasi- mata. Reguliamo dunque i nostri affetti, e voltiamoci a Dio, il quale è moderatore perfetto di ogni cosa. Esequita la sentenza, attione che fu assai breve, poiché così era stato statuito, il corpo col capo del Vincen- zo, fu posto fra due porte sopra un palco nella piazza del Palagio Senatorio, sì che così di dentro, come di fuori sì fero spectaculo potevassi vedere da tutti quegli volevano vederlo. Vi concorse numero assai di gente di tutta fatta. Alla sera poi fu levato esso corpo dalla Compagnia di Succorre Miseris, volgarmente chiamata della Misericordia, e portata con poca, o nulla cerimonia alla Chiesa professa del Giesù, et ivi interrato, conciosia, che né il Padre, né i parenti volero impicciarsi in questo particulare, come non fussi toccato a loro. In questo mezo, come già si è detto, morì Carlo Emanuello Duca di Savoia nell’età sua di settanta anni, a lui era succeduto il fgliuolo maggiore nominato Carlo Emanuello Vittorio Amedeo, il quale perché già si sapeva, che oltre modo era altiero, e superbo, e che malagevolmente sofferiva, che Signori Genovesi, non tanto possedessero cinquanta sei sue terre, ma che in molti particulari havessero ancora non poco mortifcato suo padre, stimavassi, che questo sdegno aumentare dovesse le cose della guerra, e tanto si stimava, quanto, che mentre era Principe, ne havea dato manifesti segnali, quando egli con altri ne favelava. Ma questa opinione, che in tutti era sì fattamente radicata, dal successo conobbessi, che non era vera. Conciosia che conoscendo la inquieta vita, che suo padre haveva passato, che forse era stata cagione di affrettarli la morte (essendo vero, che molto più offende la nostra vita le passioni dell’ani- mo, che ogni altra passione) non tardò molti giorni, dopo hebbe preso il possesso del Ducato, che confer- mò la plenipotenza, che suo padre mentre viveva, havea data al Re di Spagna di potere comporre la pace fra lui, e la Rep.ca Genovese, la quale come si divulgò, non essendo aspettato, ognuno ne sentì contento grande, ma più di ogni altro i Piemontesi, i quali con l’angarie poste sopra le loro spalle, che alla continua si esigevano con grande rigore, homai erano ridotti ad ogni estremo di miseria, non ostante che quel paese sia dovitioso di tutte cose, sì che molti volontariamente si erano risoluti di gire ad abitare altre contrade, Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 67

et abandonare i loro terrenni, conciosia che a capo di ogni Anno, conveniva pagassero alla Camera publi- ca più di quello havevano eglino raccolto. Si aspettava momento per momento, che di Spagna venisse il Laudo, il quale si sapeva, che non il Re, ma il Duca di Olivares, et il Consilio di Stato fare dovevano. Capitoli aggiustati in Spagna dalla Maestà Cattolica per la pace tra il Duca di Savoia, e la Rep.ca di Genova. Che tra la Rep.ca di Genova, et il Duca di Savoia sia buona, e reciproca amistà, come è stato nel passato, ap- prendovi il comercio, e retirino le loro armi. Che tutte le parti restituischino reciprocamente tutte le cose, che l’uno, e l’altro vi havessero preso, cioè la Rep.ca al Duca tutte le terre, l’artigliaria di Gavi, la Galera, e tutti li prigionieri, et il Duca faccia l’istesso dell’artigliaria presa alla Pieve e Riviera. Che il luogo di Zuccarello sia della Rep.ca libero, e che per tutte le pretensioni paghi la Rep.ca al Duca scuti 160 mila d’oro in quattro termini. Il primo subito accettata la Pace, e gl’altri otto in otto mesi seguenti, e la prima sia de scuti 60 mila, la seconda de 40 mila e le due volte di 30 mila, pagandi nel luogo, che dirà il Governatore di Milano, e questi servino per ogni pretensione. Che per levare ogni difcoltà nella restituttione de beni si dichiara che ha da intendersi detta restituttione di tutti li beni tanto feudali come allodiali, censi et altro di qualsivoglia genere, così sequestrati come confscati, così donati, come occupati a suddetti particulari come altri, tanto per ragione di guerra, come altro, e questo in termine di giorni 60, e passato detto termine non seguendo, possano li Procuratori di essi, senza intermediatione di Giudice, et altro, andare al possesso. Si dichiara che li beni si habino a restituire nell’istesso grado che si trovano alla publicatione di detti Capitoli. Che la restituttione dell’Artigliaria si faccia nell’istesso luogo dove hoggi si trovano. E perché le cose si reduchino al stato di Pace, e tranquilità, e perché si lascino le memorie, che ponno partorir nove guerre, si darà perdono generale, a tutti e qualsivoglia persona di quali si sia conditione e stato, senza escluderne alcuna, che havesse servito, et adherito a qualsisia delle dette parti, intervenuto e tenuto parte in la guerra, e movimenti che sono successi da l’anno 1625 sino alla publicatione delli presenti Capituli, con remissione e gratia di tutte le pene, bandi, e confscattione, priggioni, e taglie che saranno state fatte contro qualsivoglia, mettendoli in libertà e restitutione de loro beni, gradi, e offtij, ricercando in me la dichiaratione delle persone, che hanno a godere di questa gratia, e meterli la limitatione, e restitutione, che per magior convenienza del stato publico e d’ambe le parti si convenga, et è necessaria. Caso segua qualche diferenza, o qualche dubietà in li detti Capitoli, riservo in me la dichiaratione, che mi parerà necessaria e nel tempo e quando converrà. Li quali Capituli le parti saranno obligate ad acettarli et obligarsi a quelli in forma autentica con le solennità dette, et per magior fermezza e osservanza nel termine di un mese dopo che li saranno inviati dal mio Gov.re di Milano, a quale ciaschuno di detti Prencipi invieranno dentro di detto termine due cop- pie autentiche e frmate perché a me se ne mandi una et l’altra al’altro Prencipe. Le quali cose. Il Re. Per quanto in li Capitoli che hoggi si sono aggiustati per la pace tra il Duca di Savoia, e la Rep.ca di Genova nel settimo, che si tratta, che reduccendosi le cose al stato di Pace, e tranquilità non è giusto che rimanghino quelle cose che possono rinovare la memoria de novi movimenti, e occasione di guerra, si darà perdono generale a tutte quelle persone, di qualsivoglia condizione, stato e grado, che fussero senza esclusione di nessuno, che havesse servito, et adherito a qualsivoglia delle dette parti, intervenuto e tenuto parte nella guerra, e movimenti successi dal principio dell’anno 1625, sino alla publicatione di detti Capituli, con remissione e gratia di tutte le pene, e bandi, confscationi, prigionie, taglie, che fossero fatte contro qualsivoglia suddito ponendoli in libertà, restituendoli li suoi beni, gradi, e offtij, e riccercando in me la dichiaratione delle persone, che hanno a godere di questa grazia e metterli la limitattione, e restrintione, che per magior convenienza del stato publico ed ambe le parti convenga sia necessario. Per tanto per l’intera esecuttione delli detti Capituli dichiaro che quelli che hanno da godere del benefcio e gra- tia della pace sono 7: Antonio, e Anibale Bianchi, Gio.Battista Benigassi; Gio.Tomaso Maggiolo, Gio.Battista Franco di Agostino, Gio.Francesco Ratto, Gottardo e Gio.Stefano Savignoni, Desiderio Romanza et il dottor Francesco Martignone. Tutte le quali persone qui contenute e nominate dichiaro che hanno da esserli perdonati li loro delitti, e lavati di bando, taglie, e di qualsivoglia altra pena, che le fosse stata imposta, e che loro posino aministrare, e disponere de loro beni per loro procuratori, faccendoli accendere e ricuperare il valor di essi, e mandarlo dove più le pia- ce, con che non possino entrare nel dominio della Republica di Genova, et se entraranno si habbia da intendere che siano cascati, et incorsi nella medesima pena che prima havevano e le fu imposta, in la qual conformità ho comodato dispacciar questa dichiarazione, e recatto frmato di mia Real mano. Sigillato in Madrid li 27 ottobre 1632. Capitoli concertati tra il Re di Francia e Duca di Savoia contro Genova. Nel trattato fatto l’anno 1632 a 5 maggio fra S.M. Christianissima et il Duca di Savoia per la compra della Città, et Castello di Pinarolo, oltre li Capitoli publici concertati per la compra sudetta, se ne stabilirono due da star segreti. Il primo conteneva l’obligatione del Re di Francia di rompere fra tre anni guerra a la Rep.ca di Genova in compagnia del Duca di Savoia, e di altri Prencipi che volessero interessarsi in quest’impresa. Che il 68 «In forse di perdere la libertà»

Re somministrarebbe effettivi per questa guerra, otto mila fanti, e tre mila cavalli. Che le spese si ripartissero, quando non entrassero il lega altri Prencipi due terzi del Re, e l’altro terzo del Duca di Savoia. Che entrando a parte altri Prencipi s’intendesse sempre obligato il Re per la metà della spesa, l’altra si ripartisse a proportione fra Collegati. Che li proftti et utili che se ne cavassero per l’acquisti si dovesse regolare il riparto in conformità dello già altre volte stabilito nel trattato di Susa fatto l’anno 1624, a 5 settembre. Il secondo capitolo conteneva che il Re di Francia assisterebbe il Duca di Savoia in prendere il possesso della parte assignatale del Monferrato per il trattato in Ratisbona, e che gli ne diffenderebbe con tutte le sue forze il possesso, con aderire a che potesse fortifcare Trino. Che il Re pagarebbe lui di proprio quello era dichiarato debitore al Duca di Mantova il Duca di Savoia, per la qual causa si diffenderebbe da qualunque molestia.

Trattato di Susa contro Genova Si era trattato in Susa nell’anno 1624 una conferenza tra il Contestabile Lesdigueres, et il Duca di Savoia, nella quale furono conchiusi, segnati, et arrestati tre sorte d’articoli. I primi che erano stati risoluti in presenza dell’Ambasciadore di Venetia, obligavano il Re, Venetia, e Savoia all’esecutione delli articoli arrestati li 5 settembre 1624 e di approntare le Armate per marchiar cadauna dal canto suo dentro li 15 di prossimo Novembre. Oltre questi articoli che furono publici, furono fatti due scritti segreti, l’uno che dissegnava il luogo ove dovevasi fare la divisione d’Italia, che fu proposto dal Duca di Savoia, et arrestato contro Genova, sotto pretesto della pretensione del feudo di Zuccarello. Con questo medesimo scritto fu formato un progietto delle Truppe, Artiglierie, Viveri, e Munitioni da guerra, Vascelli, et altre cose necessarie per l’esecutione dell’impresa, che tendeva a la totale conquista dello Stato di Genova, e sopra tutto della Città principale. Il secondo scritto intitolavasi de proftti della guerra, et era una specie di partiggione tra il Re, et il Duca di Savoia de luoghi che sarebbero conquistati, et era proposto dal Duca in questa maniera: 1. Che Genova presa dimorarebbe nelle mani di Madama e del Prencipe di Piemonte per tenerla in deposito in nome del Re e del Duca con guarniggione metà francese, e metà delle genti di S.A. 2. A conditione che detta Città di Genova, e tutto lo Stato della Signoria sarebbero lasciati liberi a S.M. ogni volta che Milano e la miglior parte di quello Stato sarebbero consignati a S.A., e che ella ne haverebbe il pieno possesso, eccettuato il Marchesato di Zuccarello, e le terre che sono sul dritto camino d’Ormea, et Oneglia, e tutte le altre doppo detto camino verso la Contea di Nizza, le quali restarebbero a S.A. 3. Overo che S.A. haverebbe il possesso libero, et assoluto di Ginevra, nel qual caso Genova restarebbe al Re, insieme col Regno di Corsica, e tutto lo Stato della Signoria da Genova verso Levante, il rimanente da Genova verso Ponente restarebbe a S.A. 4. Overo se il Regno di Corsica fosse liberamente rimesso a S.A. con tutta la Riviera che è verso Ponente, la Città di Genova e tutta la Riviera dalla banda di Levante restarebbero a S.M. 5. Che S.A. fosse rimessa nel libero possesso del Monferrato, e della Riviera di Genova verso Ponente. La città di Genova, e tutta la Riviera di Levante col Regno di Corsica restarebbero a S.M. 6. Che S.M. trovasse buono di rendere a S.A. tutti li stati che prima possedeva di là da Monti goduti hora da S.M., e di darle il possesso di Ginevra, la Città di Genova, e tutto il suo Stato dimorarebbero liberi al Re fuorché il Marchesato di Zuccarello, e le terre specifcate nell’articoli secondi. 7. Pendente che Genova restarebbe in deposito le rendite della Città, descrittane prima la spesa della guarnig- gione si partirebbero per metà tra S.M. e S.A. 8. Il bottino si partirebbe per metà egualmente tra S.A. et il Contestabile, pagate antecedentemente le spese delle Armate. Questi scritti, che erano segreti furono portati da Chriquì in Corte, e per non omettere cos’alcuna per il successo d’una sì grande impresa, il Duca, et il Contestabile spedirono in Provenza al Duca di Guisa per l’armamento de suoi Galioni, et in Inghilterra et in Olanda, al Prencipe Mauritio per venti vascelli da guer- ra, ciaschuno con tutto il guarnimento. Guisa promise i suoi Galioni mediante un buon intrattenimento, e che le galere del Re fossero comandate per la medesima speditione sotto la sua autorità. L’Inghilterra diede buone parole, e buone speranze. Gl’Olandesi si obligarono di fornire venti vascelli ben armati, e proveduti per sei mesi sotto un Amiraglio, e che sortissero in Mare per il fn di Marzo, e ciò mediante cinque milla lire per ciaschun vascello al mese, per il cui pagamento furono obligati i beni del Duca, e del Contestabile che facevano caosa e fatto proprio questa conquista. In Corte ascoltato Chriquì fu risoluto d’inviare espressamente nel mese di Dicembre al Contestabile con instruttione contenente quatro punti; il Segretario di San Georgij: Giulio Pallavicino, Vero e distinto ragionamento 69

1. D’approvare in nome del Re il risultato della conferenza di Susa di che Chriquì portarebbe al Contestabile le intentioni di S.M. più espresse; 2. di consentire alla levata di sei regimenti, e dieci compagnie di cavalli leggieri di cinquanta huomini l’una; 3. che facesse passare in Piemonte subito tre regimenti e quattro Cornette di Cava- laria; 4. concernente gl’Ugonotti, che pareva si preparassero a qualche novità, al cui rimedio desideravasi, che il Contestabile impiegasse tutto il suo credito, et autorità. Il Re veggendo che senza la divesione d’Italia tutte le armi di Spagna caderebbero adosso a Courè57 in Valtellina, inviò Chriquì al Contestabile con la concessione di quanto haveva domandato, et oltre ciò il Re per mostrare la sua generosità, se bene non fosse obligato a far passar in Piemonte tre in quattro milla huo- mini, e pagar a Savoia le spese convenute per la diversione, a cui haveva pienamente sodisfatto, consentì nondimeno che il Contestabile e Chriquì passassero personalmente in Italia con sei milla fanti, e sei cento cavalli. Era obligato il Duca di Savoia per la lega di havere otto milla fanti, e due milla cavalli, e per il trat- tato di diversione doveva mettere in piedi a spese del Re, di Venetia, e Savoia 12 mila fanti e 600 cavalli, di sorte che li sei milla del Contestabile, e 600 cavalli, l’Armata dovevasi componere in tutto di 26 mila fanti, e 6.000 cavalli con viveri, e tiraglio necessario de quali il Duca si era addossato. Il Re approvava che il Contestabile l’assistesse in persona, ma non consentiva che si entrasse nello Stato di Milano, che in due casi, o per soccorrere Courè in Valtellina, o Venetiani se fussero attaccati da Spagnoli, e nel passaggio non fare alcun danno. Allo scritto de proftti della guerra haveva il Re modifcato quatro capi: Primo. Desiderava il Re che preso Genova se ne intendesse fatto il deposito nelle mani di Madama sola, e non del Prencipe di Piemonte congiontamente, affnché fosse riputato neutro, e non affettato al Duca di Savoia. Che la guarniggione fosse composta la metà de Francesi, e l’altra metà de sudditi del Duca, e che il comandante per Madama fosse francese e nominato dal Re. Secondo. Che il Re intendeva che si riscrisse dal detto scritto l’artico- lo quinto, che faceva mentione della possessione futura del Monferrato per il Duca, il cui pensiero e disegno non era gradito da S.M. Terzo. Voleva che l’articolo sesto mentionante li Stati avanti posseduti dal Duca di qua da Monti fosse levato dal scritto. Quarto. Che facendosi qualche bottino si partisse tra ‘l Re et il Duca, riserbandosi S.M. di dare sopra ciò ogni contento al Contestabile pagate prima le spese dell’Armata.

57. François-Annibal I d’Estrées, marchese di Couvres, maresciallo di Francia.