I quaderni della Contea Numero 3

L’ELEZIONE DEL LA CADUTA DEL COLOSSO DOGE E LA MEDITERRANEO CADUTA DELLA SERENISSIMA

Il retaggio della più longeva repubblica della storia

PAGINA 1 Sommario La Leggenda del Doge ...... 3 L’ordinamento politico della Repubblica ...... 4 L’elezione del Doge ...... 6 Pronostici sulla caduta della Repubblica ...... 8 La crisi del ...... 9 L’inizio della fine ...... 10 L’invasione della Terraferma ...... 11 La debole reazione veneziana ...... 12 La debolezza di Venezia ...... 14 Le Pasque Veronesi ...... 16 La caduta della Repubblica ...... 17 L’inaspettata rivolta antifrancese ...... 19 I provvedimenti della Municipalità ...... 21 SITOGRAFIA/BIBLIOGRAFIA ...... 24

PAGINA 2 “Viva il Doge e la Repubblica!”

La Gioconda, atto I, scena I

(Amilcare Ponchielli)

LA LEGGENDA DEL DOGE La leggenda della nascita del “Serenissimo” si perde negli oscuri meandri e nelle sconosciute anse della laguna veneta del VII secolo dopo Cristo.

E’ una figura al centro del mistico ambiente bucolico-marinaro frutto della riunione del panorama campagnolo-lagunare (nella figura delle 12 famiglie apostoliche) con tanto di benedizione patriarcale ad Eraclea. La crème aristocratica e clericale della Venetia Maritima si riunisce e dà alla luce il suo Doxe.

Ma tutto questo è solo uno scenario propagandistico.

La storia è molto più semplice e senza dubbio molto meno poetica: il duca-ipato [console] era un semplice legato di Bisanzio, una testa di legno coronata, il cui rapporto col potere all’ombra dell’Esarca di Ravenna veniva fin troppo spesso reciso dalle spade dei magistri militum. Grazie ad uno sgarro nel compromesso iconoclastico che quasi per errore lo elevò al vertice della comunità lagunare, la sua figura (e lo stato che essa rappresentava) divenne quasi indipendente. Si mascherava con titoli imperiali bizantini, stava al gioco della dipendenza dall’impero d’Oriente, sognando al contempo l’autonomia. Autonomia che alla fine arrivò, garantita dall’assemblea popolare e dal placet di una Bisanzio che lentamente si stava ritirando dalla penisola per la spinta di Longobardi e Franchi.

Il governo della Serenissima ebbe fin da subito un carattere fortemente aristocratico e basato sul modello bizantino, il dogado si proclamò “protospatario” strizzando contemporaneamente l’occhio a Carolingi e Ottoni: due piedi in due staffe insomma, per

PAGINA 3 poi andare a briglia sciolta al momento opportuno. Ma quanto più il doge si faceva sovrano assoluto, tanto più la sua vita era in pericolo.

Nei primi 300 anni dell’istituzione dogale infatti, su 28 Dogi eletti 14 vennero deposti da sommosse o da colpi di stato, 4 abdicarono e 1 morì in guerra; in pratica solo 9 riuscirono a morire nel loro letto. Questi continui fatti di sangue portarono le famiglie patrizie a formulare un assioma che garantisse stabilità al governo: la progressiva perdita di potere può diventare per il doge una forma di assicurazione sulla vita.

Nel 1130 venne così istituito un organo collegiale chiamato Commune Veneciarum, i cui poteri furono successivamente delegati al Maggior Consiglio (creato nel 1259 che nel corso dei secoli andò da un minimo di 321 a un massimo di 2570 patrizi), il consiglio dei patrizi veneziani, per organizzare e amministrare la vita politica della città. Ma le morti violente dei Dogi continuarono ad essere troppe, e le famiglie patrizie si resero conto che la sopravvivenza dello Stato era seriamente in pericolo, e stabilirono così di riformare una volta per tutte il sistema politico veneziano. Fu la “Serrata” del Maggior Consiglio del 1297 voluta dal Doge Pietro Gradenigo, che sancì il totale predominio del patriziato veneziano come classe detentrice del potere: fu l’apoteosi dell’immobilismo politico, la struttura statale venne appiattita da un’oligarchia caratterizzata da centinaia di cariche, delegazioni e partecipazioni tra le quali anche la sovranità del Maggior Consiglio venne diluita in mille rivoli, permettendo in questo modo che il potere fosse nelle mani di tutti e di nessuno, meno che mai del Doge. Ogni membro del governo o dipendente statale che fosse era indispensabile per muovere la mastodontica macchina della burocrazia, anche se nessuno lo era realmente: tutti erano sostituibili, ma se venivano a mancare l’ingranaggio statale si inceppava. Questa riforma, per quanto senza dubbio antidemocratica, garantì una stabilità granitica all’apparato statale veneziano: al Commune Veneciarum subentrò così la repubblica aristocratica basata sul ceto sociale. Le grandi gens veneziane infatti furono così divise in quattro ceti: la Nobiltà, cioè le famiglie che avevano diritto a sedere nel Maggior Consiglio; le Senatorie, casate ricche che non avevano il diritto patrizio ma che potevano sostenere gli oneri finanziari delle alte cariche dello Stato; le Giudiziarie, famiglie che traevano benefici dalle cariche remunerate e per finire le Barnabotte, chiamate così perché concentrate nella zona di San Barnaba, famiglie nobili o alto-borghesi meno abbienti che vivevano all’ombra di altre più nobili.

In questo modo, successivamente alla “Serrata” del 1297 l’ordinamento politico veneziano si articolò in maniera radicalmente differente.

L’ORDINAMENTO POLITICO DELLA REPUBBLICA A capo dello Stato, delle magistrature e del Maggior Consiglio c’era il Doge, eletto a vita dopo una complessissima elezione.

PAGINA 4 Il Doge era affiancato dal Cancellier Grande, suo consigliere speciale, un incarico a vita e massimo grado tra i funzionari della Repubblica.

Lo Stato in sé era amministrato dal Minor Consiglio, composto dal Doge e da 6 consiglieri all’origine eletti dalla cittadinanza dei sei sestieri di Venezia.

Il Doge prendeva parte alle sedute del Senato, o Consiglio dei Pregadi, che presiedeva alla politica estera e derivato dal Maggior Consiglio, inizialmente composto da 60 membri che nei secoli, dopo varie zonte, raggiunsero i 300.

Il Collegio era il comitato direttivo del Senato, e aveva il compito di dirimere l’ordine del giorno e verbalizzare le sedute.

Dal Senato procedevano i Savi, divisi in Savi Grandi, e , che amministravano in veste di ministri gli affari di guerra, di governo e di mare.

Almeno 10 Savi, assieme al Minor Consiglio e al Doge stesso, facevano parte del Consiglio dei Dieci, una sorta di KGB ante litteram che aveva compito di vigilare sulla sicurezza dello Stato da trame eversive e complotti (fu infatti creato nel 1310 in occasione della congiura di Baiamonte Tiepolo, Badoero Badoer e Marco Querini). Contrariamente al nome, il numero minimo perché il Consiglio potesse operare era di 12 componenti Doge escluso.

Questo organo subiva il controllo degli Avogadori di Comun, che non avevano diritto di voto ma con la loro presenza garantivano la regolarità delle sedute.

Una filiazione del Consiglio dei Dieci sono i tre Inquisitori di Stato, soprannominati dal popolo Babài, il cui compito era quello di tribunale speciale, inquisizione e direzione del controspionaggio.

Staccata da tutti gli altri organi c’era la Quarantina, o Consiglio dei Quaranta, che era la suprema corte di appello dello Stato, ramificata in tre Consilii nei settori Criminale, Civile Vecchia e Civile nuova.

Chi, per qualsiasi motivo, rimaneva assente per tre settimane consecutive decadeva automaticamente dalla carica.

Va necessariamente ricordato che tutti i senatori, Doge compreso, non percepivano alcun compenso per il loro lavoro all’interno degli apparati statali, mentre i funzionari di ceto medio erano regolarmente retribuiti. Senatori e Doge infatti svolgevano una missione, e per questo dallo Stato ricevevano appena l’appannaggio delle spese, tanto che il carico di lavoro e responsabilità del Doge era così elevato che, quando vi era la possibilità di essere eletti, molti nobili preferivano non rendersi disponibili trattenendosi fuori dai confini della Serenissima.

La carica di Doge era infatti una non-carica, poiché deteneva il potere ma non era autorizzato ad usarlo. Se tentava il colpo di testa come Marino Falier, ce la rimetteva; se raggiungeva la gloria personale in guerra e il suo prestigio aumentava troppo, come Francesco Foscarini, era “pregato” di abdicare.

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L’ELEZIONE DEL DOGE

Dunque il futuro Doge, prima della sua elezione, doveva depositare l’intera documentazione del suo stato patrimoniale (in pratica l’estratto conto e le cartelle fiscali), e alla sua morte era effettuata dai tre Inquisitori di Stato una rigorosissima verifica fiscale sul Doge defunto, e nel caso fossero stati riscontrati arricchimenti personali o familiari rispetto al momento dell’elezione, gli eredi erano costretti a rimborsare lo Stato della differenza, come accaduto ai figli del Doge Leonardo Loredan, che furono costretti a risarcire lo Stato di circa 2700 ducati.

A partire dal 1268 fu dunque istituito un sistema elettorale estremamente complesso, in vigore senza sostanziali modifiche fino alla caduta della Repubblica, che aveva l’obiettivo di garantire la trasparenza del voto, poiché la suddetta elezione era di competenza della sola nobiltà.

Questo meccanismo, strutturato in varie fasi, iniziava con una prima ballottazione, cioè l’estrazione di alcune centinaia di palline, chiamate balote, ad opera di un bambino dagli otto a dieci anni scelto casualmente nella chiesa di San Marco: il ballottino.

Le balote tirate fuori dall’urna venivano consegnate a tutti i membri del Maggior Consiglio che avevano già compiuto il trentesimo anno di età. I 30 di essi a cui capitavano le ballotte d’oro prendevano parte al primo atto dell’elezione.

Seguiva un nuovo sorteggio e i 30 membri si riducevano a 9; i fortunati si riunivano per eleggere altri 40 consiglieri con la stessa modalità che, a loro volta, ne estraevano 12;

PAGINA 6 questi ne sceglievano altri 25, poi ridotti ancora a 9, che ne chiamavano 45 che venivano nuovamente diminuiti a 11.

Questi 11 sorteggiati eleggevano sempre tramite ballottazione i 41 ufficiali elettori del doge, che erano sottoposti a ferree regole: non potevano essere congiunti tra loro e non poteva essere presente in sala più di un membro per casato e, in caso venissero trovati legami di parentela, questi erano eliminati e sostituiti da altri.

L’obiettivo di questo complicatissimo sistema era la totale sconfitta della corruzione, ma le fonti rivelano che nel passare degli anni furono escogitati svariati trucchi per “aggirare” il sistema.

Dalle Annotazioni degli Inquisitori di Stato sulle elezioni dei Dogi Marco Foscarini e Paolo Renier ad esempio, risultano essere comprati i voti di almeno 200 patrizi. Da qui il termine anticamente veneziano broglio.

Il “mercato dei voti” infatti, che garantiva alle famiglie più ricche di ricoprire a rotazione i ruoli più prestigiosi, non poteva avvenire nella sala del Maggior Consiglio dove vigeva la regola del religioso silenzio, ma avveniva nel cortile interno di Palazzo Ducale che in veneziano si chiamava appunto “brolo” o “broglio”. L’origine di questo termine non aveva in se un’accezione negativa, ma col passare dei secoli ha assunto sempre di più il significato di vera e propria compravendita di voti o mistificazione dei risultati elettorali.

Dunque, una volta eletto il Doge, questi era obbligato a pronunciare di fronte al Maggior Consiglio un giuramento ferreo chiamato , introdotta nel 1192 dal doge (tanto per la cronaca, la Promissione del doge del 1595 era composta da 108 pagine più 16 di indice e quella dell’ultimo doge della Repubblica, Lodovico Manin del 1789 era composta da 301 pagine più 16 di indice).

Non appena terminava di leggere la sua Promissione, egli diventava prigioniero della sua carica.

Innanzitutto non poteva rinunciare al dogado, a meno che non fosse “invitato” a farlo, che era un modo gentile per comunicargli la sua deposizione dopo un colpo di stato. Non sfoggiava simboli vanagloriosi a Palazzo Ducale, e l’unico scudo recante il suo stemma si trovava nel suo appartamento, nel quale era costretto a vivere anche se il palazzo si fosse retto in piedi per miracolo (come dopo il disastroso incendio del 13 settembre 1483, quando il Doge Giovanni Mocenigo fu costretto a continuare a vivere all’interno delle rovine ancora fumanti di Palazzo Ducale). Non poteva mischiarsi fra la gente a teatro ma non aveva nemmeno una guardia del corpo. Non poteva ricevere doni di alcun tipo e nel caso ne ricevesse alcuni, questi dovevano andare per forza nel tesoro di San Marco. I suoi figli erano tassativamente esclusi da ogni carica, non poteva scrivere lettere al papa o agli altri regnanti europei senza il consenso del Minor Consiglio, ne poteva spedire lettere di Stato senza l’autenticazione dello stesso, non poteva ricevere o aprire plichi o lettere se non alla presenza di almeno il suo consigliere speciale. Non poteva ricevere privatamente nessuno, se non in presenza dei suoi consiglieri, non poteva lasciare il territorio della Serenissima di propria iniziativa, non poteva ricevere

PAGINA 7 titoli aggiuntivi (se non esteri) e per nessun motivo poteva far eleggere o fare pressioni per eleggere alcuno.

Nel caso il Doge contravvenisse anche a solo un articolo della Promissione doveva pagare alla cassa dei Camerlenghi di Comun (i tesorieri pubblici) esattamente 100 libbre di oro puro (indicativamente tra i 26.500 e i 30.000 euro attuali).

PRONOSTICI SULLA CADUTA DELLA REPUBBLICA Ma questo perfetto sistema elettivo, che rimase immutato fino all’ultimo giorno della Serenissima, col tempo iniziò a incepparsi.

Nel tardo autunno del 1781, al termine del suo mandato di capitano e vice-podestà della nostra città di Padova, il patrizio veneziano Giacomo Nani avrebbe dovuto presentare al Senato, come ogni altro magistrato uscente, una relazione scritta riguardo al suo operato. Nani raccolse diligentemente un piccolo dossier di documenti, ma ciò che gli uscì dalla penna non fu un pesante verbale scritto in burocratese che sarebbe stato dimenticato negli archivi delle Procuratìe senza nemmeno essere letto, ma un vero e proprio trattato sulla politica veneziana e sui compiti e i poteri di un rettore di una provincia suddita, intitolato i Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla. Nani si guardò bene dal divulgare questa sua opera, che fece sparire cautelativamente in un cassetto, poiché da semplice rapporto i Principi furono una diagnosi quanto mai spregiudicata e una prognosi radicalmente pessimista circa i mali che affliggevano la Repubblica Serenissima i quegli ultimi anni della sua esistenza. Nani era infatti convinto che alla costituzione veneziana fossero "già stati corrosi tutti li fondamenti" e che la Repubblica vivesse quindi le sue ultime ore: "non manca che l'urto di una qualche interna o esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica".

PAGINA 8 Ne La fin de la République de Venise. Aspects et reflets littéraires, lo storico Guy Dumas descrive come la rivoluzione francese si limitò a mettere a nudo, oltre alla crisi strutturale della Repubblica, la precarietà della sua collocazione internazionale: il suo pavido isolamento che in un quadro europeo era sempre meno capace di opporsi con successo all'imperialismo delle grandi potenze non appariva più un salvacondotto, ma al contrario un decisivo elemento di debolezza.

Ma l’oscura premonizione sulla caduta della Repubblica di Giacomo Nani non fu la prima, ne l’ultima. Più di cinquant'anni prima l'autorevole Savio del Consiglio e pubblico storiografo Piero Garzoni aveva stilato uno sconsolato Pronostico alla durabilità della Repubblica: questa gli appariva, a causa della "corruttela de' tempi", talmente "indebolita de' Stati, d'uomini e di consiglio" e la sua "estimazione" politica così vacillante che non gli rimaneva altro che riporre ogni speranza di salvezza in "Dio Signore". Soltanto l'Altissimo poteva concedere a Venezia di "reggere e continuare libera sin al fine del Mondo".

LA CRISI DEL DOGADO La totale crisi del dogado si era infatti palesata fin dal 1752, con l’elezione del Doge Francesco Loredan. Infatti, a causa di una sequela di dogi non particolarmente efficienti e poco amati dal popolo, gli scherni e la disistima dei veneziani avevano trasformato l’accettare il dogado in una non piccola prova di coraggio: come ci ricorda Andrea dal Mosto, arrivati a quel punto occorreva una “persona molto decorativa” e “di cultura piuttosto superficiale”, figura individuata proprio nella persona di Francesco Loredan. La sua elezione fu l’apice dell’ormai imperante corruzione dei costumi veneziani, e dopo di lui l’istituzione politica nella sua interezza si trasformò in una mera palude corrotta. Dopo la sua morte nel 1762 il suo successore, Marco Foscarini, si presenta quotidianamente al Broglio accompagnato da parenti e amici comprando i voti dei patrizi alla luce del sole, e tuttora la sua elezione è ricordata come una delle più scandalose nella storia Serenissima. Il suo dogado durò mendo di un anno. Alla sua morte nel 1763, Alvise IV Mocenigo fu eletto all’unanimità. Fu da subito oggetto di scherno a causa della sua incapacità negli affari di stato e per la sua mollezza e la sua mancanza di polso. Alla sua morte, il 31 dicembre 1768, ci fu un altro conclave all’insegna della corruzione effettuata alla luce del sole, tanto da risultare provata anche nelle Annotazioni degli Inquisitori di Stato, che però non intervennero. Paolo Renier infatti si presentò al Broglio letteralmente con i soldi in mano e comprandosi 300 voti al prezzo minimo di 15 zecchini l’uno. Anche lui fu un doge non particolarmente bravo o onesto. L’unica cosa nella quale riuscì fu prevedere con esattezza il suo successore. Sul letto di morte infatti (morì di febbre il 13 febbraio 1789) si lasciò andare con il suo medico ad una rassegna sui candidati più accreditati a succedergli.

PAGINA 9 Le cronache ci riportano che disse: “Ve lo dirò mi chi i farà. L’erario xe in sconquasso, ocore un ricon, e i farà Lodovico Manin”1. Aveva ragione, e Lodovico Manin fu fatto Doge il 9 marzo 1789. Il suo principale avversario e detrattore, Piero Gradenigo, commentò la sua elezione con “I ga fato Dose un furlan, la Republica xe morta”. 2

L’INIZIO DELLA FINE Due mesi dopo la sua elezione la Francia fu sconvolta da un certo fatto: la Rivoluzione Francese; che molto in breve dopo aver deposto il Re e instaurato la repubblica, questa dichiarò guerra contemporaneamente a praticamente tutti gli stati europei. La Repubblica di Venezia rimase fedele alla sua secolare politica di neutralità; ma una volta venuti a sapere dell’esecuzione di Luigi XVI, un gruppo di patrizi con a capo Francesco Pesaro (consci del pericolo) premette sul Senato perché si passasse almeno ad una neutralità sostenuta dalle armi, richiesta che non fu nemmeno presa in considerazione.

Ma di già un giovane e sconosciuto generale, dal buffo nome di Napoleone, avanzava incontrastato alla testa di 100.000 uomini attraverso la Savoia e il Piemonte, dopo aver letteralmente annientato le armate sabaude di Amedeo III di Savoia e quelle imperiali di Ferdinando d’Asburgo. Ma nemmeno l’avvicinarsi di questo mastodontico esercito riuscì a smuovere la palude corrotta che era diventato il patriziato veneziano, che per la prima volta da secoli si vedeva realmente in gravissimo pericolo, anche se già il 12 maggio 1796 il Senato aveva istituito un generale per la Terraferma: Nicolò Filippo Foscarini, che affiancato dal segretario Rocco Sanfermo, “senza soldati, senza cannoni, e senza munizioni” doveva "confortare le provincie…, mantenere la tranquillità, la

1 C. Rendina, I dogi, storia e segreti, Roma 1984

2 Alberto Toso Fei, La Venezia segreta dei Dogi, Newton Compton editori

PAGINA 10 subordinazione ed il buon ordine, non alterando punto i riguardi della più impuntabile neutralità".

Foscarini trovò una situazione militare disastrosa: inconsistenti le forze militari, le fortezze (a Peschiera la guarnigione era composta da sessanta invalidi e l'artiglieria era smontata); sfiduciati e inerti gli ufficiali; sbandate le truppe, incerte tra un rassegnato fatalismo e sporadiche velleità di resistenza alle brutalità delle milizie francesi. Ma il principale antagonista all’operato di Foscarini non fu Napoleone, ma la mancanza di ordini precisi da Venezia, dalla quale riceveva solo generici inviti a calmare i sudditi, blandire Austriaci e Francesi, assicurare a gran voce una sempre più impossibile neutralità. Le terre della Lombardia veneziana vennero presto invase dalle masse di profughi in fuga dalla guerra, dalle truppe austriache sbandate o in fuga, alle quali si aggiunsero in breve le prime infiltrazioni di contingenti francesi. A stento Foscarini e le autorità veneziane sul campo riuscirono a distogliere prima gli austriaci del generale Kerpen e poi i francesi di Berthier al loro inseguimento di occupare Crema. Il 29 maggio Peschiera fu occupata dagli austriaci e poi abbandonata, il 30 Napoleone attraversò il Mincio, spazzando via la retroguardia austriaca che si dirigeva a rotta di collo verso il Tirolo e facendo terra bruciata ovunque andasse, sordo alle lamentele del Foscarini, al quale ribatteva che la Repubblica Serenissima aveva favorito l'Imperatore (non dichiarando guerra all’Austria dopo il fatto di Peschiera) e i nemici della Francia (avendo dato ospitalità nel 1794 al pretendente al trono francese Luigi Stanislas Xavier, conte di Lilla e fratello minore di Luigi XVI).

L’INVASIONE DELLA TERRAFERMA Il 1 giugno 1796 Nicolò Foscarini fu costretto ad aprire le porte di Verona all’armata francese, che ufficialmente iniziò l’occupazione dei territori di San Marco. A Verona infatti, secondo i rapporti dello stesso Foscarini "non esiste[va] sulle mura una sola garita per collocarvi una sentinella", le munizioni erano scarsissime, i pezzi d'artiglieria erano soltanto quarantadue "in maggioranza senza letti", mentre Chiusa era "mancante di pezzi d'artiglieria e di munizioni di qualunque genere". Il Senato inaspettatamente reagì in meno di 20 ore ma troppo debolmente, attuando un piano di difesa inventato dal già citato Giacomo Nani ma storpiandolo malamente. Ordinò il richiamo della flotta, la coscrizione delle cernide (milizie cittadine) dell', la creazione di un Provveditore generale sopra le Lagune e i Lidi (carica che assunse lo stesso Nani) per provvedere all’estrema difesa del Dogado. Fu nominato nuovo provveditore generale l’efficientissimo Francesco Battagia che, stabilitosi a Brescia, iniziò, in un'opera politica di enormi difficoltà e per giunta in buona fede, una tattica imbelle e disastrosa, che, se gli procurò la stima e la non disinteressata amicizia del Bonaparte per allora e per l'avvenire, condusse al disgregamento dell'intera Terraferma veneta. In più, nuove tasse e contributi volontari furono richiesti per provvedere al riarmo dello Stato.

Senato, Savi e Maggior Consiglio sono più o meno in riunione permanente, ma il governo veneziano è ormai l’ombra di se stesso. Nei nove mesi successivi all'ingresso dei Francesi a Verona la situazione rimase, quanto meno in superficie, immutata: la Repubblica marciana si conservò fedele alla politica di neutralità, mentre nella Terraferma investita

PAGINA 11 dai belligeranti la popolazione si aggrappò a una normalità molto tesa, a una pace garantita dai cannoni francesi. Questa nuova situazione di stallo nacque grazie alle riorganizzazioni degli eserciti francese e austriaco. L'obbiettivo principale dei due eserciti infatti divenne la piazzaforte veneziana di Mantova, per Bonaparte l'ultimo ostacolo sulla strada del controllo della pianura padana e per gli Austriaci un caposaldo, che doveva essere conservato a tutti i costi in modo da impedire all'Armée d'Italie di avanzare dritta verso Vienna. Gli Imperiali cercarono testardamente di liberare Mantova dall'assedio, allestendo, una dopo l'altra, quattro spedizioni contro i Francesi; tutte e quattro furono sconfitte da Bonaparte, nonostante che le sue truppe fossero sempre inferiori a quelle nemiche. Nacquero durante questo periodo le due repubbliche giacobine sorelle, la Repubblica Cispadana e la Repubblica Transpadana.

LA DEBOLE REAZIONE VENEZIANA Mentre gli Inquisitori di Stato agivano nell'ombra, ponendo le premesse per una possibile sollevazione legittimista nel marzo 1797 (che non avvenne, o almeno avvenne in parte e nelle modalità errate), Bonaparte consolidava alla luce del sole il suo controllo della Lombardia veneta e del Veronese, occupando Legnago e la linea dell'Adige, costringendo il governo veneziano a rimpiazzare a Verona i reggimenti schiavoni, che erano ritenuti particolarmente ostili ai Francesi, con i reggimenti italiani e collocando con pretesti e in tempi diversi guarnigioni transalpine nei castelli di Verona, Brescia e Bergamo. Queste "opportune disposizioni", avrebbe spiegato lo stesso Bonaparte allo stesso Battagia, durante un colloquio che ebbero il 23 luglio a Desenzano, erano state prese "non tanto per ridurre inutili tutti gli sforzi degli Austriaci, ma per essere in istato di farsi padrone di tutta la Veneta Terra Ferma".

PAGINA 12 Conquistata Mantova il 2 marzo 1797, i francesi si liberarono dell'ultima importante sacca di resistenza asburgica. In tale posizione, gli occupanti finirono per forzare apertamente la democratizzazione di Bergamo, che, su pressione del generale Jean Landrieaux si ribellò il 13 marzo all'autorità veneziana. Il giorno successivo, dal canto suo, il Senato provvide a inviare attestati di gratitudine sovrana alle città e castelli mantenutisi fedeli, ordinando finalmente anche i primi veri e propri provvedimenti difensivi. Si decretò lo sbarramento delle Lagune, l'istituzione di ronde armate nelle città ancora fedeli e il richiamo delle unità navali di stanza in Istria e in Dalmazia, fino ad arrivare alle basi di Durazzo e Corfù (avvenne insomma la mobilitazione generale della Flotta di Levante). Si ordinò l'incremento l'invio di rinforzi in Terraferma. Il 19 marzo i Tre Inquisitori di Stato riferirono allo stesso Senato lo stato generale dei reggimenti veneti. Per Bergamo (in piena rivolta) risultavano tagliati i collegamenti, e gli Inquisitori furono costretti ad attendere notizie dai castelli e dalle valli circostanti. Secondo le loro fonti Brescia risultava invece ancora tranquilla, sotto il pieno controllo del provveditore Battagia, così come Crema, per la quale si richiedeva però un rafforzamento del presidio militare. Verona pareva invece in pieno fermento antifrancese, mentre Padova e Treviso tacevano, anche se la prima rimaneva sotto costante osservazione per il potenziale pericolo connesso alla presenza dell’Università (nei rapporti degli Inquisitori chiamata anche Studio o Studium). Si leggeva infatti dal loro rapporto:

«Bergamo: i capi sollevati sostenuti da francesi, e si tenta di screditare la Repubblica, interrotte le comunicazioni, si attendono notizie dalle valli e luoghi e castelli della Provincia. Brescia mediante le prudenti direzioni del Provveditore straordinario [Battagia] è tuttora ferma (…). Crema (…) reclama un qualche presidio militare.

Verona (…), il di cui popolo disse sembrargli non inclinato ai francesi, (…) che (…) non lasciano di essere e armati e pericolosi. (…)

Padova oltre non esser pur troppo immune dal veleno in alcuni della città e dello Studio (…) ha numero di scolari delle città oltre il Mincio (…).

Treviso non offre peculiari osservazioni.»

(Relazione dei Tre Inquisitori di Stato del 19 marzo 1797 sullo stato delle Provincie venete)

Gli Inquisitori ignoravano però che il giorno precedente (18 marzo) vi era già stata una rivolta e che Francesco Battagia (che proprio a Brescia aveva installato il suo quartier generale) per non creare danni alla popolazione ancora filo-veneta, aveva deciso di abbandonare con il reggimento fedelissimo di Schiavoni la città. La notizia degli eventi venne infatti recata al Senato solo il 20 marzo, dopo l'arrivo a Verona dello stesso provveditore Battagia, scampato alla rivolta. Solo a quel punto il governo Serenissimo sembrò reagire. Si inviò a tutti i Reggimenti di terraferma una lettera ducale per ordinare l'apprestamento all'assoluta difesa e per reclamare il rinnovo del giuramento di fedeltà.

Il 21 marzo, mentre Bonaparte entrava a Gradisca, prendendo il controllo di Tarvisio e dell'accesso alle valli austriache, giunse la prima risposta: Treviso si proclamava ancora pienamente fedele a Venezia. Il giorno seguente però, da Udine pervenne una lettera da

PAGINA 13 parte degli ambasciatori veneziani inviati a parlamentare con Napoleone. Questi informavano il governo dell'atteggiamento sempre più evasivo e sospetto tenuto dal generale francese. Di rimando il governo ritenne utile informare pertanto i principali magistrati di Terraferma, quasi tutti concentrati a Verona, della necessità di operare con la massima circospezione nei confronti dei francesi: di fatto limitando il concetto di assoluta difesa espresso nella lettera ducale, nella speranza di non dar modo a Napoleone di entrare in aperto conflitto. Il 24 marzo giunsero i rinnovi di fedeltà anche da parte delle cittadinanze di Vicenza e Padova, in breve seguite da Verona, Bassano e Rovigo. Numerose delegazioni giunsero persino dalle valli bergamasche, pronte a sollevarsi contro i francesi.

Lo sventurato Battagia, nonostante le sue ineccepibili capacità di militare e soprattutto di mediatore, in questa occasione rivelò tutte le insufficienze della classe politica veneziana. Riuscì a scrivere al Senato solo qualche ore prima della rivolta di Brescia che "l'esempio di Bergamo non è molto seducente, regnandovi nella maggior parte, trattane l'infima plebe sempre amante di novità, la confusione e lo squallore per il nuovo ordine di cose" e che, in ogni caso, "ogni movimento non sarebbe effetto che di zelo animoso e di fede, pure inopportuno alle circostanze" e che quindi aveva esortato i sindaci del territorio a "contenere i villici in quel buon ordine ch'è delle pubbliche massime".3

LA DEBOLEZZA DI VENEZIA A Venezia le rivolte della Lombardia veneta suscitarono il panico. Il Consiglio dei Savi, presieduti in quella settimana dall'indolente Alessandro Marcello, reagirono "a tanta vicissitudine di cose" con provvedimenti scontati (vive proteste nei confronti del governo e dei comandi militari francesi: fu deciso di inviare Francesco Pesaro e il savio di Terraferma Giambattista Corner in deputazione presso Bonaparte con il mandato di chiedergli un "pronto riparo") e in larga misura rituali, come la conferma della fiducia negli inquisitori e in Battagia, nonostante che i dispacci di quest'ultimo indicassero che aveva perso il controllo della Lombardia veneta e che gli Inquisitori di Stato si fossero rivelati un assai debole argine antirivoluzionario. Venne poi ratificato anche un contraddittorio invito a Giacomo Nani ad attivarsi per l'esenziale difesa di Venezia ma anche a fornire truppe da inviare in Terraferma. Il provveditore alle lagune dovette fare i conti con una situazione largamente compromessa: non mancavano certamente i cannoni, ma moltissimi tra essi erano antiquati, mentre nei depositi veneziani i fucili erano circa venticinquemila e le pistole - quasi ottomila - risultavano alquanto difettose. Quanto agli uomini sulla carta, le milizie veneziane potevano contarne più di novemila: ma soltanto quattromila di essi erano considerati da Nani sufficientemente addestrati ed equipaggiati per affrontare le soverchianti forze francesi.

3 Dispaccio nr. 97 di Battagia al senato, Brescia 17 marzo 1797, ore 18 1/2, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 224.

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La questione chiave era diventata quella del controllo di Verona, già occupata dalle truppe francesi ma sotto il controllo politico veneziano, sotto ogni aspetto il perno strategico del Dominio di terra. Il 20 marzo si discusse se la difesa della città scaligera dovesse essere “prudente”, come suggerivano Alvise Pisani (che presiedeva quel giorno il Consiglio) e gli altri Savi, vale a dire prevedesse la possibilità di “resistere con la forza” soltanto nel caso in cui “non constasse la cooperazione e l'intervento dei Francesi”, oppure “assoluta”, come chiedevano Angelo Giustinian e molti altri senatori, e quindi dovesse eventualmente constare di un’azione militare rivolta anche contro i Transalpini.

Pur respingendo la proposta di prevedere quest'ultima ipotesi, i tre quarti dei senatori votarono a favore dell’assoluta difesa. Due giorni più tardi fu deciso di inviare, nella persona di Andrea Erizzo, un esponente dell'ala intransigente, un provveditore straordinario a Vicenza (la cui competenza si estendeva anche sulle province di Padova, Rovigo e Bassano). Nello stesso tempo gli si legò le mani con un mandato che rovesciava la linea politica del 20 marzo: fu infatti approvata una lettera ducale che prescriveva ad Erizzo di "mantenere il buon ordine e prevenire e ripulsare gl'arditi attentati de' facinorosi, che venissero a turbarlo", ma "senza esporre codesti fedelissimi sudditi a un certo sacrificio", chiedendogli in pratica di opporsi strenuamente ai francesi ma senza opporsi. I Savi transigenti avevano infatti ripreso il controllo del senato grazie ad un intervento di Sanfermo, segretario del discusso Battagia, che questi aveva inviato da Verona per illustrare una situazione militare della città che il provveditore generale in Terraferma riteneva quasi disperata. Nonostante l'opposizione di Michiel e di Erizzo, il senato decise che anche la difesa di Verona doveva essere "prudente". Iniziò così la mobilitazione generale delle milizie veneziane su una prima linea difensiva sulla terraferma, senza precisi obbiettivi militari ma più che altro come risposta all’inerzia del governo centrale. E proprio nel momento in cui per Venezia si apriva forse un debole raggio di luce verso la salvezza, ci fu il tracollo: le Pasque Veronesi.

PAGINA 15 LE PASQUE VERONESI Il 22 marzo il Provveditore Battagia aveva indetto una riunione operativa d’emergenza con i principali nobili scaligeri. Il Provveditore generale invitò alla prudenza, ma il conte Emilei gli ricordò che la resistenza passiva aveva già portato alla perdita di Bergamo e Brescia, e i cittadini veronesi non avevano paura di prendere le armi contro i giacobini lombardi. Battagia, compreso che i presenti erano tutti dell'opinione di Emilei, non poté fare altro che prendere atto della decisione nel tentativo di riuscire ad arginare l’infermabile avanzata di Napoleone con un inaspettato colpo di mano, e fu quindi stabilito all’unanimità di provvedere alla difesa militare dei confini veronesi. La rivolta antigiacobina iniziò la mattina del 17 aprile 1797, Lunedì dell’Angelo (lo stesso giorno in cui Napoleone firmò il Preliminare di Leoben, nel quale prometteva agli austriaci la cessione dei territori veneziani in cambio del Benelux). La popolazione esasperata, appoggiata dalle formazioni delle Guardie Nobili Veronesi e dagli efficientissimi Schiavoni di Battagia, riuscì a mettere fuori combattimento più di mille soldati francesi, soprattutto nelle prime ore della battaglia, mentre i militi francesi cercavano di rifugiarsi nei castelli della città, successivamente presi d'assalto. L'insurrezione terminò il 25 aprile 1797 con l'accerchiamento della città da parte di 15.000 soldati francesi e polacchi: le conseguenze a cui la città e i cittadini dovettero far fronte furono principalmente il pagamento di ingenti somme e le razzie di opere d'arte e di beni, ma intanto Napoleone aveva subito la perdita di più di 2000 soldati di guarnigione.

Nonostante poi fosse stata nuovamente rinnovata la proibizione all'ingresso di navi da guerra straniere nelle acque del mar Adriatico (dopo la presa francese del porto di Ancona), avvisando prontamente del fatto la Francia, il 20 aprile la fregata francese Le Liberateur d’Italie tentò di forzare la rada del Lido, nel probabile tentativo di saggiarne le difese. In risposta, le potenti artiglierie del Forte di Sant’Andrea, approntate da

PAGINA 16 Giacomo Nani in difesa della laguna, la fecero a pezzi, uccidendo il comandante e la maggior parte dell’equipaggio. Napoleone, venuto a sapere di questo fatto, esordì di fronte agli inviati della Serenissima:

“Io non voglio più Inquisizione, non voglio più Senato. Sarò un Attila per lo stato .”

La caduta di Verona fu seguita, nei giorni immediatamente successivi e senza alcuna prova di forza, da quelle di Vicenza e di Padova. Il 29 aprile le truppe francesi raggiunsero i bordi della laguna. Anche se sarebbero trascorsi parecchi giorni prima che la democratizzazione della Terraferma fosse completata e parecchie settimane prima che fosse del tutto ammainata la bandiera veneziana nelle province da mar, era ormai evidente che la Serenissima era ritornata ad essere una città-stato chiusa nelle sue lagune, proprio come lo era stata agli albori del VII secolo. Nei giorni successivi, l'armata napoleonica procedette quindi alla definitiva occupazione della Terraferma, arrivando ai margini della laguna. Il 30 aprile una lettera di Napoleone, ormai attestatosi a Palmanova, informò la Signoria dell'intenzione da parte sua e del generale Laugier di modificare la forma di governo della Repubblica, pur offrendosi di mantenerne la sostanza. L’ultimatum concesso era di quattro giorni. Bonaparte si preoccupò in questo modo di far sì che la scomparsa della Repubblica marciana non apparisse formalmente il frutto di imposizioni o, peggio ancora, della violenza francese: se la democratizzazione di Venezia avesse avuto luogo ad opera dello stesso governo aristocratico diventato per amore o per forza filofrancese, l'Armée d'Italie sarebbe potuta "entrer dans la ville sans difficulté".

La caduta della Repubblica Alla fine, trattati o no, Napoleone dichiarò ufficialmente guerra alla Repubblica di Venezia il 2 maggio (è molto importante sottolineare come de facto Napoleone abbia invaso e conquistato l’intero dominio veneziano in terraferma senza avere dichiarato legittimamente guerra, a tradimento). Il 3 maggio, Venezia revocò l'ordine generale di reclutamento per le cernide della Dalmazia. Poi, nell'ennesimo tentativo di placare Napoleone il 4 maggio, con 704 voti favorevoli, 12 contrari e 26 astenuti, il Maggior Consiglio deliberò l'accettazione delle richieste francesi, accondiscendendo all'arresto del comandante del forte di Sant’Andrea, responsabile dell'affondamento della Le Libérateur d'Italie, e dei Tre Inquisitori di Stato, magistratura particolarmente invisa ai rivoluzionari e che più di tutti si era impegnata per salvare la Repubblica. L'8 maggio il Doge Lodovico Manin si dichiarò pronto a deporre le insegne nelle mani dei capi giacobini, invitando nel contempo tutte le magistrature allo stesso passo. Tutto questo nonostante il Savio Francesco Pesaro (che assieme a Battagia aveva gestito le ultime decisioni-harakiri della Repubblica) lo spronasse a fuggire a Zara, possedimento ancora sicuro e nelle mani degli Schiavoni. Venezia dopotutto disponeva ancora della propria potente flotta e dei fedeli possedimenti Istriani e Dalmati, oltre che delle intatte difese della città e della laguna. Nel corpo della nobiltà serpeggiava però il terrore di una possibile rivolta popolare. L'ordine diramato fu quindi quello di smobilitare le fedeli truppe di Schiavoni presenti in città.

PAGINA 17 Lo stesso Pesaro sfuggì all'arresto, ordinato dai consiglieri filo-francesi per ingraziarsi Napoleone, lasciando Venezia per sempre e rifugiandosi a Vienna. La mattina del 12 maggio, tra voci di congiure e dell'imminente attacco francese, il Maggior Consiglio della Repubblica si riunì per l'ultima volta. Nonostante alla seduta fossero presenti solo 537 dei 1200 patrizi aventi diritto e mancasse quindi il numero legale, il Doge Lodovico Manin aprì la seduta con le seguenti parole:

«Quantunque siemo con l'animo molto afflitto e conturbà, pure dopo prese con una quasi unanimità le due Parti anteriori, e dichiarata così solennemente la pubblica volontà, anche Nu semo rassegnadi alle divine disposizion.

(...)

La parte che se ghe presenta no xe che una conseguenza de quanto Le ha già accordà con le precedenti (...); ma due articoli ne reca sommo conforto, vedendone assicurada con uno la nostra Santa Religion, e con l'altro li mezzi di sussistenza per li nostri concittadini (...).

(...)

Mentre ne vien minacià sempre el ferro e el fogo se non se aderisce alle loro ricerche; e in adesso semo circodadi da 60/m uomini caladi dalla Germania, vittoriosi ed in conseguenza liberadi dal timor dele Armi austriache.

(...)

Chiuderemo dunque, come ben se deve, col racomandarghe de rivolgerse sempre a Dio Signor ed alla Madre sua santissima, onde i se degni dopo tanti flagelli, che meritamente per le nostre colpe i n'ha fatto provar, i vogia riguardarne con gli occhi della loro misericordia, e sollevarne almeno in qualche parte da tante angustie che ne opprime.»

(Estratto dell’ultimo discorso del Doge Manin, 12 maggio 1797)

PAGINA 18 Si procedette quindi a esporre le richieste francesi, portate da alcuni esponenti giacobini veneziani, che prevedevano l'abdicazione del governo in favore di una Municipalità Provvisoria, l'innalzamento in piazza san Marco dell’Albero della Libertà, lo sbarco di un contingente di 4000 soldati francesi e la consegna di alcuni magistrati che più avevano sostenuto l'ipotesi di resistenza. La salva di moschetti sparata dagli Schiavoni per rendere onore al vessillo di San Marco un’ultima volta fu scambiata dai patrizi in seduta a Palazzo Ducale come il segnale di arrivo dei francesi in Piazza e, con una votazione-lampo di 512 favorevoli, 5 astenuti e 20 contrari, la Repubblica di Venezia cessò di esistere.

L’inaspettata rivolta antifrancese Sciolto il Maggior Consiglio, il Doge e i membri del Minor Consiglio deposero le insegne marciane e uscirono sul balcone di Piazza San Marco, rivolgendosi alla folla che si era venuta a creare per lo scompiglio, annunciando la caduta della Repubblica. Al contrario di quello che temeva la nobiltà veneziana, la folla esplose in grida come “Viva la Repubblica! Viva San Marco!”, tirando giù dalle aste le bandiere francesi che i giacobini veneziani avevano frettolosamente innalzato e rimettendo al loro posto i gonfaloni, dando il via a un vero e proprio principio di controrivoluzione che culminò con la devastazione e il saccheggio delle case dei giacobini e dei nobili filo-francesi, tumulto che fu stroncato solo grazie ai colpi di cannone sparati alle avanguardie francesi che ormai erano entrate in città e stazionavano nella zona di Rialto.

La mattina del giorno dopo, 13 maggio, ancora nel nome del Serenissimo principe e con l'usuale stemma marciano, furono emanati tre proclami con i quali si minacciava di morte chiunque avesse osato sollevarsi, si ordinava la restituzione presso le Procuratie dei frutti del saccheggio e infine si riconoscevano i capi dei giacobini come benemeriti della patria. La Municipalità Provvisoria che si insediò a Palazzo Ducale rilasciò un altisonante proclama di installazione e si trovò in una situazione simile a quella dell’Impero Romano nei suoi ultimi mesi di esistenza: tutte contemporaneamente le province dell’ex Dominio de tera e dello Stato de Mar presero a ribellarsi alla nuova autorità di Venezia, cercando di istituire propri governi, mentre l'impennarsi del debito pubblico, non più sostenuto dalle entrate dei domini, unita la sospensione dei pagamenti del Banco Giro e degli altri provvedimenti fiscali, spingevano a sempre più chiare forme di insofferenza da parte della popolazione. Le autorità francesi che erano subentrate al Doge, il 13 giugno, temendo che la Municipalità non riuscisse a mantenere il controllo di Corfù, salparono da Venezia con una flotta, intenzionati a deporre il Provveditore Generale da Mar che ancora reggeva le province d’oltremare, e stabilire il governo democratico. Il 27 giugno venne così creata una Municipalità Provvisoria delle Isole Ionie.

Ma se la situazione a Venezia e nell’entroterra padano era tesa e nelle isole/province dello Stato de Mar instabile, la situazione dell’Illirio era disastrosa: magistrati e nobili si rifiutavano di riconoscere il nuovo governo, la flotta che aveva riportato in patria i reggimenti dei fedeli Schiavoni allontanati da Venezia rimaneva all'ancora a Pola senza mostrare l'intenzione né di rientrare in laguna, né tantomeno di imporre il controllo

PAGINA 19 municipale. Nella città di Traù i beni mobili (e soprattutto immobili) dei filo- rivoluzionari giacobini furono saccheggiati e dati alle fiamme, mentre a Sebenico lo stesso console francese venne fucilato. Il diffondersi della notizia degli infami patti stipulati a Leobén, poi, spinse la popolazione a invocare una rapida occupazione da parte austriaca. Il 1º luglio gli Imperiali entrarono a Zara accolti da campane a festa e salve di saluto. Le insegne marciane, ammainate quello stesso giorno, vennero condotte in processione nella cattedrale per ricevere l'omaggio della popolazione. A Perasto, città che vantava il titolo di fedelissima gonfaloniera, il vessillo venne sepolto sotto l'altare maggiore tra due ali della Guardia cittadina solo dopo le ripetute minacce dei fucili austriaci, accompagnata dal discorso del Comandante della Guardia e Capitano della città Giuseppe Viscovich, divenuto celebre per la frase Ti con nu, nu con ti.

“In sto amaro momento, che lacera el nostro cor; in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenissimo Dominio, el Gonfalon de la Serenissima Repubblica ne sia de conforto, o Cittadini, che la nostra condotta passada che quela de sti ultimi tempi, rende non solo più giusto sto atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nu.

Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa, che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co' sto atto solenne e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto. Sfoghemose, cittadini, sfoghemose pur; ma in sti nostri ultimi sentimenti coi quai sigilemo la nostra gloriosa carriera corsa sotto el Serenissimo Veneto Governo, rivolzemose verso sta Insegna che lo rappresenta e su ela sfoghemo el nostro dolor.

Per trecentosettantasette anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodìa per tera e par mar, per tutto dove né ha ciamà i so nemici, che xe stai pur queli de la Religion.

Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per Ti, o San Marco; e felicissimi sempre se semo reputà Ti con nu, nu con Ti; e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi. Nissun con Ti n'ha visto scampar nissun con Ti n'ha visto vinti o spaurosi! Se i tempi presenti, infeicissimi per imprevidensa, per dissension, per arbitrii illegai, per vizi offendenti la natura e el gius de le zenti, no Te avesse tolto dall'Italia, per Ti in perpetuo sarave stae le nostre sostanze, el sangue, la nostra vita, e piutosto che vederTe vinto e desonorà dai Toi, el coraggio nostro, la nostra fede se avarave sepelio soto de Ti”

Ma za che altro no resta da far per Ti, el nostro cor sia l'onoratissima To tomba e el più puro e el più grande elogio, Tò elogio, le nostre lagreme".

(Giuramento di Perasto, 23 agosto 1797)

In ricordo di questo giuramento, la band italiana Ultima Frontiera ha scritto un brano intitolato proprio Ti con nu nu con ti, pubblicato nell’album Anime Armate del 2010.

PAGINA 20 I provvedimenti della Municipalità La Municipalità dunque, nonostante la situazione, iniziò a prendere i primi provvedimenti contro i vecchi volti della politica veneziana anti-francese.

In particolare furono presi provvedimenti molto pesanti contro il principale antagonista di Bonaparte, il Savio del Consiglio Francesco Pesaro (che era fuggito qualche mese prima a Fiume e poi a Vienna), che fu dichiarato nemico del popolo e il cui caso era stato rimesso al Comitato di salute pubblica veneziano, che ordinò di “eseguire il decreto di confiscazione, senza pregiudizio delle azioni civili di chicchessia”. A nulla era valsa la pubblicazione di una sua lettera, dove giustificava la sua fuga come una scelta obbligata, per il bene della patria: colpire l’ex Provveditore aveva infatti il senso, carico di significati simbolici, di recidere gli ultimi legami con il passato regime, mentre il passaggio dei suoi beni alla collettività rappresentava una sorta di risarcimento dei soprusi subiti dal popolo veneziano per tanti secoli. Le medesime decisioni furono prese per altri rappresentanti delle più cospicue famiglie patrizie dell’epoca, come il provveditore generale in Dalmazia Querini, il savio alla scrittura Priuli e il responsabile delle forze armate Morosini, che più volte richiamato in patria per il processo, il 3 settembre fu dichiarato in contumacia fellone e nemico della patria, bandito per sempre da Venezia e, quel che più conta, bruciato in effige con una solenne cerimonia nella piazzetta di San Marco. Come quello di Pesaro, il suo patrimonio fu sottoposto ad immediata confisca.

Trovarono un medesimo significato ma per motivazioni assai diverse, i casi di Agostino Barbarigo, Angelo Maria Gabriel e Cattarino Corner, i temutissimi ex Inquisitori di Stato, incarnazione stessa, secondo la retorica bonapartista, delle brutalità e delle nefandezze per secoli perpetrate dal governo oligarchico. Bonaparte aveva ripetutamente chiesto il loro arresto e l’istituzione di un processo, ancor prima che i suoi soldati mettessero piede a Venezia: secondo le accuse, gli Inquisitori portavano la piena responsabilità di una lunga serie di azioni a danno dell’Armée d’Italie. Il loro arresto era stato uno degli ultimi atti del governo veneziano, ma il processo e la condanna furono portati a termine dalla Municipalità Provvisoria, e infine furono costretti a firmare la cessione della metà dei loro beni a vantaggio del popolo veneziano in cambio della libertà, e la Commissione alle confische notificò alla Municipalità il termine del caso. In questo modo, al contrario delle condanne a morte tanto amate dai parigini i provvedimenti di confisca sembrarono, in quel breve periodo, il mezzo più efficace per contrastare i dissidenti politici e soprattutto la via migliore per consegnare agli occhi delle altre municipalità e dei francesi l’esempio di una concreta adesione agli ideali democratici, nel tentativo di dimostrare quanto in laguna le novità d’Oltralpe avessero trovato un terreno fertile.

PAGINA 21 Per quanto invece non fosse venuta mai meno la sua amicizia con Bonaparte, gli sviluppi della Municipalità provvisoria invece avevano chiuso in un sol tratto l'attività politica di Francesco Battagia e le sorti dell'indipendenza politica veneta, della quale egli era stato, per destino più che per reali meriti, ultimo ufficiale rappresentante. Rifugiatosi a Padova, visse triste e ritirato, ripercorrendo in cuor suo le "meditazioni continue, vigilie, inquietudini, amarezze d'ogni genere" della sua vecchia attività.

Dopo il Colpo di Stato del 18 fruttidoro (4 settembre), l'ala dura giacobina prese il controllo del governo di Francia, premendo per la ripresa delle ostilità con l'Austria. Il 29 settembre venne recapitato a Napoleone un ordine del Direttorio che gli intimava di annullare i preliminari di Leoben, lanciando un ultimatum all'Impero, per non lasciare a questo la possibilità di riprendere il controllo della penisola. Napoleone semplicemente ignorò gli ordini del Direttorio e, dopo una serie di colloqui, il 17 ottobre 1797, venne firmato a Villa Manin in Friuli (di proprietà dell’ex Doge Lodovico) il Trattato di Campoformio. Così, in conformità alle clausole segrete di Leoben, i territori della repubblica di Venezia, ancora formalmente esistente sotto il governo della Municipalità provvisoria, furono consegnati all’Arciducato d’Austria. Tutti i monumenti e i luoghi di culto o interesse storico artistico vennero razziati di preziosi e opere d'arte. La Zecca di stato venne depredata, il Tesoro di San Marco liquefatto per pagare i soldati francesi, e il Bucintoro fatto a pezzi assieme a tutte le sculture, che furono bruciate sull’isola di San Giorgio Maggiore per fondere la foglia d'oro che le ricopriva. Anche i cavalli di bronzo della basilica di San Marco furono trasferiti a Parigi. Molti privati furono incarcerati senza validi motivi e costretti a versare le loro ricchezze in cambio della libertà. Furono abbattute e depredate 70 chiese e furono chiusi gli ordini religiosi. Concluso il passaggio di questa orda barbarica dai conti risultarono scomparse circa 30.000 opere d'arte, molte di loro tuttora in bella mostra nei musei francesi.

Il 28 dicembre la Municipalità si sciolse tra le grida di giubilo e gli scherni dei cittadini veneziani e il potere venne preso da una giunta di polizia. Il 18 gennaio 1798 entrarono a Venezia le truppe austriache che restarono fino al 1805. Il 18 marzo di quell’anno infatti, con il Trattato di Presburgo, l’Austria cedette di nuovo la Provincia Veneta alla Francia: il 26 maggio Napoleone, da poco divenuto Imperatore dei Francesi si incoronò a Milano anche Re d’Italia. Venezia tornò così sotto il controllo francese. Dopo avere soppresso gli ordini religiosi, questi iniziò i lavori per trasformare Venezia in una delle principali città del suo impero: abrogò il Carnevale di Venezia, abbatté la chiesa di San Geminiano in Piazza San Marco e fece erigere le Procuratìe Nuovissime, chiamate anche Ala Napoleonica, dove installò la sua sala da ballo. Distrusse una serie di caseggiati nel sestiere di Castello per costruire la Via Eugenia (oggi Via Garibaldi), in onore di suo figlio Eugenio de Beuharnais. Nel 1808 la Dalmazia fu definitivamente annessa al suo regno e posta sotto il controllo di un Provveditore Generale di Dalmazia (riprendendo l’antica carica veneziana).

Con la caduta di Napoleone, il 20 aprile del 1814 Venezia venne restituita agli asburgici e con la caduta del Regno di Italia napoleonico, quello stesso mese, la città e l'intero Veneto tornarono ufficialmente all’Impero Austriaco, che incorporò i territori nel Regno Lombardo-Veneto (1815-1866).

PAGINA 22 Così ebbe fine la Serenissima Repubblica di Venezia.

PAGINA 23 SITOGRAFIA/BIBLIOGRAFIA https://www.treccani.it/enciclopedia/l-ultima-fase-della-serenissima-la-politica-la- fine-della-repubblica-aristocratica_%28Storia-di-Venezia%29/ https://it.wikipedia.org/wiki/Caduta_della_Repubblica_di_Venezia https://journals.openedition.org/mefrim/3169 https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-battaglia_%28Dizionario- Biografico%29/ https://www.storicang.it/a/caduta-della-repubblica-di-venezia_14794 https://it.wikipedia.org/wiki/Doge_della_Repubblica_di_Venezia

Comune di Venezia Fondazione Musei Civici Venezia Venezia360 - Arte, Storia, Cultura ed Eventi

I Dogi, storia e segreti, Claudio Rendina, Newton Compton Editori, Roma 2007

La Costituzione di Venezia vol. 1 e 2, Giuseppe Maranini, La Nuova Italia, Firenze 1974

Il Rituale Civico A Venezia Nel Rinascimento, Edward Muir, Il Veltro Editrice, Roma 1984

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