Marino Zorzi

I domini veneziani in e Dalmazia e l’istituto rettorale

(testo integrale della relazione tenuta il 17 febbraio 2012)

Fino alla fine del secolo XI il Ducatus Venetie era l’avamposto dell’Impero d’Oriente nell’Italia settentrionale, una provincia, sia pur dotata di larga autonomia. Gli amplissimi privilegi concessi ai Venetici nel 1082 dall’imperatore Alessio Comneno, per compensare l’efficace aiuto da essi fornito contro i Normanni, e le possibilità di espansione offerte dalle crociate fecero sì che l’autonomia del Ducato si estendesse fino ad una completa indipendenza di fatto. Da un lato Venezia resiste in armi all’imperatore Giovanni, che vorrebbe revocare le concessioni del predecessore, dall’altro in varie città occupate dai crociati si formano colonie veneziane, legate solo alla madrepatria. Il governo ducale vi invia dei baili, che dirigono gli affari della colonia, giudicano le liti fra i venetici, rappresentano la città madre di fronte ai vicini, amici o nemici. Il termine, non usato prima a Venezia, è forse mutuato dai crociati: il , balivo, baiulo (che si trova anche in Dante), in Francia bailly, baile, in Inghilterra bailiff è appunto un alto funzionario statale. Come noto, nella laguna il sistema feudale non entrò mai: a Costantinopoli esso non esisteva fino alle crociate, essendo estraneo al diritto romano, ancora vigente nell’Impero. Quindi la supremazia adriatica che Venezia acquisisce già nel IX secolo, come dimostrano i compiti di polizia marittima ch’essa svolge in nome di Costantinopoli, con alterna fortuna, nei confronti di Saraceni e Slavi, non comporta un dominio di tipo feudale nei confronti delle città costiere. Anche la spedizione dell’anno Mille, in cui Pietro Orseolo riceve l’omaggio delle città istriane e dalmate, non sembra si traduca in una sudditanza formale (tuttavia Carlo Guido Mor parla di un senioratico del dux); d’altro canto difficilmente il potentissimo Basilio II, che governava con ferrea energia l’Impero allora all’apogeo, avrebbe consentito ad una limitazione della sua sovranità. Alla metà del secolo successivo si verifica un fatto nuovo, che condizionerà la storia dalmata: il regno di Ungheria incomincia il suo sforzo secolare per affacciarsi all’ Adriatico. Zara per qualche tempo diviene dominio ungherese, col favore di una parte dei cittadini; il doge Domenico ricupera dopo poco tempo la città all’Impero, ma la lotta sarà ormai continua, alimentata dagli opposti partiti, filoveneto e filoungherese, che si contenderanno il predominio nelle città fino alla definitiva affermazione veneziana nel Quattrocento. Nel 1107 il re Colomano si insignorisce di Zara e di Spalato, inviandovi un conte. Nel 1123 il doge Vitale Michiel II ristabilisce la supremazia veneziana; più tardi, dato l’allentarsi dei vincoli con l’Impero d’Oriente (l’imperatore Manuele arriverà nel 1171 a ordinare l’arresto dei Veneziani in tutto l’Impero e la confisca delle loro mercanzie), Venezia agisce in proprio e nomina nel 1160 dei conti a Zara, Ossero, Arbe. Il titolo e i poteri ricalcano quelli di cui godevano i governanti ungheresi: Venezia si adegua alla situazione e alle consuetudini dei luoghi, obbedendo a criteri politici che seguirà costantemente. L’esperimento dura poco, prevale di nuovo negli anni ottanta il partito ungherese. Le vicende dell’Istria presentano forti analogie con quelle dalmate. L’antica unità tra il Ducatus Venetie e l’Istria si spezza quando i Longobardi, tra il 768 e il 772, conquistano la penisola istriana; permane invece quella ecclesiastica, essendo l’Istria e il ducato compresi nel patriarcato di Grado. Ma anche questa unione cessa nel IX secolo, quando l’Impero franco, subentrato al regno longobardo, fa sì che l’Istria si assoggetti alla giurisdizione del patriarcato di . Venezia, che mantiene la supremazia marittima in nome dell’Impero d’Oriente, non perde il contatto strettissimo con le città della costa. Nel 932 il legame con Giustinopoli (o Capodistria) viene consacrato in un patto formale: la città viene dichiarata “federata”, e promette “fidelitas” al dux, impegnandosi a fornire annualmente “vini boni amphoras centum”. Isola d’Istria si dà a Vitale Candiano nel 973. Solo molto tempo dopo, nel 1145, Pola promette, o conferma, la sua “fidelitas”. Il marchese d’Istria, vassallo diretto dell’Imperatore Germanico, non è presente all’atto, ma vi interviene un “comes”, Enrico, suo vassallo (l’Istria era divisa allora in tre contee, Carsia, Istria e Pola). L’anno stesso Giustinopoli conferma l’antica “fidelitas”. In cambio della protezione marittima veneziana, le due città si impegnano ad armare a loro spese, in caso di guerra, una galea, fornita da Venezia. Seguiranno nel 1150 i patti con le altre città della costa. L’alta sovranità rimane dunque all’Imperatore germanico, da cui dipendono il marchese e i conti; le città costiere, in cui fiorisce ormai la civiltà comunale, coltivano un legame particolare con Venezia, che si aggiunge all’altro. La quarta crociata segna un mutamento profondo. Già all’avvio, nel 1202, l’armata crociata ricupera Zara a Venezia. Poi l’imprevisto evento della conquista di Costantinopoli fa sì che il doge divenga un’autorità del tutto indipendente, anche formalmente, non solo dall’Impero Germanico, cui mai Venezia era appartenuta, ma anche da quello Romano d’Oriente, da cui il dux eredita dignità, insegne e cerimoniale. Venezia acquista vasti domini: quella quarta parte e mezzo dell’Impero di Romania che riesce solo in parte a occupare. A Costantinopoli riceve una porzione analoga della città e nomina ad amministrarla un “potestas”, podestà, Marino Zeno. Il termine è largamente usato nel mondo comunale a designare un forestiero stimato e autorevole, estraneo al comune, chiamato a governare la città quando questa non riesce a risolvere le lotte intestine. Lo spiega anche Dante, quando parla dei due “frati gaudenti” Catalano e Loderingo, “da tua terra presi come suol esser tolto un uom solingo per conservar sua pace”. Spesso i nobili veneziani, che godevano di larga fama per equità e capacità di governo, erano chiamati all’incarico in varie città italiane. A Costantinopoli il caso è ovviamente diverso, ma risalta il fatto che si tratta di un funzionario temporaneo. Al podestà, dopo la caduta dell’Impero latino e il ritorno del legittimo imperatore greco, subentrerà nel 1268 il bailo, con analoghe funzioni di capo della comunità veneziana e di ambasciatore, prima presso il sovrano bizantino poi presso il sultano turco, fino al 1797. A Creta, l’unico territorio che Venezia cerca di colonizzare direttamente, si crea una struttura analoga a quella della capitale lagunare: la governa un duca, temporaneo, nominato da Venezia, assistito da consigli modellati su quelli della madrepatria. A Modone e Corone si invia un castellano. Nelle isole dell’Egeo Venezia non ha i mezzi per imporre il proprio dominio diretto e fa quindi ricorso alle istituzioni feudali: Marco Sanudo viene nominato duca di Nasso, e da lui vagamente dipendono vari signori feudali minori, tutti nobili veneziani. Le vicende di queste famiglie si intrecciano con quelle dei feudatari franchi e italiani dell’Impero latino; molte sopravviveranno fino alla conquista turca. Nell’organizzazione del dominio di Levante risalta quella flessibilità che caratterizza la politica veneziana, quella capacità di adattare le soluzioni alle condizioni e tradizioni di luoghi e società diverse, cui si è già accennato. Tornando al mondo adriatico, a Zara, ricuperata come si è detto nel 1202, e nelle altre città dalmate vengono inviati magistrati, la cui durata in carica è temporanea, col vecchio titolo di conte: nel 1220 Nicolò Querini a Cherso, nel 1237 Giovanni Dandolo a Ragusa, nel 1236 Marco Mastropioero ad Arbe. Spalato e Traù non sono soggette. Nel 1278 si invia a Lesina un podestà. Nel 1254 il conte Marsilio Zorzi riesce a rimanere “comes perpetuus” a Curzola, altrettanto ottiene Ruggero Morosini ad Arbe: ma sono casi eccezionali, la regola è la temporaneità. Il titolo è solo una rievocazione del passato. In Istria nel Duecento alla pacifica coesistenza tra l’entroterra imperiale e la costa legata a Venezia subentra una situazione conflittuale: ciò quando l’imperatore Federico II investe il patriarca Wolchero, poi il successore Bertoldo di Andechs, della marca d’Istria, prima infeudata alle grandi case tedesche degli Andechs e degli Sponheim, che poco se ne curavano. I patriarchi cercano di affermare la loro autorità, a danno dei comuni costieri e di Venezia. Una soluzione esemplare è quella cui riesce a pervenire Pirano, che ottiene nel 1231 un equilibrato accordo: al Patriarca si riconosce l’ “honor regalis”, salvi l’ “honor Venecie” (l’antica “fidelitas”), e le libertà comunali. Ma altrove gli scontri sono gravi, in particolare tra Venezia e Pola, che nel 1242 viene presa e saccheggiata. Il patriarcato mostra la sua debolezza quando nel 1267 il patriarca stesso, Gregorio di Montelongo, viene fatto prigioniero dal conte di Gorizia, avvocato della chiesa aquileiese, che persegue senza scrupoli il proprio interesse. L’anno stesso il comune di Parenzo, fiero della sua autonomia minacciata da Capodistria, chiede a Venezia l’invio di un console e di un presidio: Venezia manda un podestà. Nel 1269 Umago segue l’esempio di Parenzo. L’anno dopo Cittanova offre la “subiectio”. Capodistria, alleatasi al conte di Gorizia, attacca Montona e Isola, veneziane, ma viene sconfitta e si sottomette nel 1278. Nel 1283 si danno a Venezia Pirano e Rovigno. Rimane al patriarca Trieste, con cui gli scontri sono durissimi; per mantenere la propria indipendenza di fatto la città si sottomette al duca d’Austria. Tornerà a Venezia solo dal 1368 al 1380, poi di nuovo per breve tempo nel 1508-9. Pola riesce a destreggiarsi abilmente tra Venezia e il patriarcato sotto la guida dell’antichissima famiglia dei Sergi, detti de Castropola perché il patriarca ha affidato loro il castello che sovrasta la città; essi riescono a dominare il comune sino a farsene veri signori, come accadeva in tante città italiane, ma commettono l’errore di farsi nemica Venezia, che - forte anche di un partito cittadino a lei favorevole - li rovescia ed esilia nel 1331. Da allora la città riceve un rettore da Venezia, che porta il titolo di conte, in ricordo dell’antico feudatario del marchese d’Istria. Il Trecento vede il primo acquisto veneziano in Terraferma, nel 1338: Treviso, con Mestre, fino a quell’anno terra straniera. Ma quel secolo vede anche lo scontro mortale con Genova. Si trattava di conflitti di dimensioni europee, combattuti in Terraferma, in Dalmazia, sui mari del Levante, nell’Adriatico e nel Tirreno, cui prendevano parte a fianco di Genova il regno d’Ungheria, il duca d’Austria, la signoria di Padova. L’ultimo atto fu la guerra di Chioggia, che si chiuse con la vittoria di Venezia, cui seguì nel 1381 la pace di Torino. E’ un momento eccezionale per la città, che non ha più rivali sul mare. La disfatta subita nel 1402 dall’impero turco, attaccato da Tamerlano, la libera per qualche anno dal pericolo maggiore in Levante. E Venezia sa approfittare della situazione. Nel 1386 estende il suo dominio su Corfù e Butrinto; nel 1388 è la volta di Argo, Nauplion e Andros; nel 1390 di Tinos, Mikonos e Negroponte; nel 1392 di Durazzo; nel 1393 di Alessio; nel 1396 di Scutari e Drivasto; nel 1407 di Lepanto e Patrasso; nel 1417 di Zonchio. Tra il 1409 e 1420 l’intera Dalmazia, con l’eccezione di Ragusa, torna sotto il dominio veneto. Intanto il Veneto, il Friuli, più tardi Bergamo, Brescia e Crema entrano a far parte dello stato. E’ un’avanzata trionfale, favorita dalla ricchezza della città e dalla sua abilità diplomatica, ma anche dalla fama che si era acquistata di amministratrice giusta e benevola. Vi è una gara ad offrirsi a Venezia. Qualche volta l’offerta è rifiutata, per timore di complicazioni internazionali: Cattaro la ripete per quattro volte, e solo alla quinta la Repubblica accetta. La terribile guerra con Maometto II, combattuta da Venezia quasi del tutto sola, salvo l’aiuto ottenuto dal re persiano Husun Hassan, per diciassette anni, dal 1463 al 1479, in Morea, nell’Egeo, in Albania, in Friuli, segnò l’inizio del ripiegamento. Venezia subì la perdita di Argo, di Lemno, di Negroponte, di Scutari e Croia in Albania. L’acquisto del regno di Cipro nel 1489 costituì un cospicuo compenso. Ma ormai di fronte al colosso turco Venezia era ridotta a una posizione di difesa, e l’arretramento continuò, con una resistenza accanita, fino alla grandiosa riscossa della guerra di Morea, dal 1683 al 1699, i cui risultati furono vanificati nel 1714. L’espansione in Italia, che Venezia aveva ripreso energicamente dopo la fine della guerra turca, fu sbarrata dalla lega europea di Cambrai. Solo in Dalmazia invece vi furono allargamenti territoriali, all’interno del paese. Ovunque vengono inviati a governare i territori annessi dei rettori, con titoli diversi: di podestà nei centri maggiori, di conte nelle città dalmate e a Pola, di provveditore nelle piazzeforti importanti e dove vi sia maggior necessità o pericolo di interventi militari, di castellano nelle fortezze. In Friuli e a Cipro viene inviato un Luogotenente. Cariche tutte riservate ai nobili veneziani. Le elezioni avevano luogo nel Maggior Consiglio, per quattro mani di elettori per i reggimenti maggiori, due per i minori: si eleggevano due o quattro gruppi di nove elettori, ciascuno dei quali eleggeva un candidato; tra i due o quattro prescelti sceglieva il Maggior Consiglio. Al di sopra dei rettori si nominava eccezionalmente un provveditore generale, dotato di poteri straordinari, cui si faceva ricorso in caso di guerra o in altri momenti di necessità e di pericolo. La situazione della Dalmazia, esposta all’attacco turco a partire dalla guerra che Venezia, come si è detto, condusse dal 1463 al 1479 contro Maometto II, richiedeva di frequente la nomina di tali personaggi, dotati di poteri tali da meglio garantire una efficace difesa. Dal 1597 la carica sarà permanente, mettendo in ombra i rettori. Al provveditore generale in Dalmazia e Albania (tale sarà il titolo) era superiore nell’onore soltanto il provveditore generale da mar, ovvero, in caso di guerra, il capitano generale da mar. Talvolta si nominava, in caso di guerra o minaccia di guerra, un provveditore generale in terraferma, mentre i provveditori in campo seguivano da vicino le operazioni belliche, dettando la strategia e controllando l’operato dei militari di professione. A fianco del podestà o conte si eleggeva il capitano, ma solo nei reggimenti maggiori, mentre nei minori le cariche si assommavano nella stessa persona. Il capitano aveva compiti militari e fiscali, talvolta esercitava la giurisdizione penale. Sempre nei reggimenti maggiori il camerlengo sovrintendeva alle finanze. Anche queste cariche erano riservate ai nobili veneziani. Delicatissimo il compito dei rettori, che dovevano mediare tra il potere centrale e i sudditi, assicurando l’equilibrio tra la volontà e l’interesse del primo e le aspirazioni e interessi dei secondi. Come scrive nel 1669 Agostino Barbarigo, podestà e capitano di Capodistria, nella sua relazione, bisognava procurare “più con desterità che col rigore di sostener le pubbliche ragioni”. Ad essi spettava in ultima istanza, salvo l’appello a Venezia, la giurisdizione civile e penale nel reggimento: potere/dovere di decisiva importanza perché il buono o cattivo esercizio di esso poteva assicurare il miglior rapporto tra la Dominante e i sudditi o pregiudicarlo. Il rettore doveva applicare gli Statuti del luogo, rivisti e corretti a seguito della dedizione a Venezia: “dummodo sint”, come si dice in quello di Padova, “secundum deum et iustitiam et honorem nostrum Venetiarum et bonum ipsius civitatis et districtus, bona fide”. In definitiva l’“arbitrium” del rettore era decisivo: i Veneziani diffidavano del tecnicismo giuridico e preferivano affidarsi all’equità, di cui i magistrati da loro eletti erano gli interpreti. Si comprende quanto fosse importante la corretta applicazione di questo principio da parte del rettore, l’unico a godere nel suo giudizio di questa “libertas”. Nell’attività giudiziaria il rettore era coadiuvato da una sua corte, costituita da due o più giudici. Nei grandi centri, come Padova e Verona, l’organizzazione era molto complessa, e vi si impiegavano giuristi competenti. Di importanza centrale era il sistema degli appelli, che facevano capo per le questioni di maggiore entità ai consigli della capitale. Le corti competenti erano gli Auditori Vecchi per il e il dominio da mar; gli Auditori Novi per la Terraferma. Si trattava di tre magistrati eletti dal Maggior Consiglio. Se laudavano (confermavano) la sentenza, questa diventava definitiva; se la tagliavano, dagli Auditori Novi ci si appellava ai Vecchi, e viceversa, e per le cause maggiori alla Quarantia. Più tardi l’appello, per le cause di valore modesto, andava agli Auditori Novissimi. In materia penale era competente la Quarantia Criminal. In vari reggimenti, come Padova e Verona, era possibile ricorrere in loco a due gradi di giudizio, e se si ottenevano due sentenze conformi la sentenza diventava definitiva. Anche a Capodistria era istituita una corte composta dal podestà e da due consiglieri, che decideva in appello, e quindi in via definitiva, sulle sentenze emesse dai rettori minori, in materia sia civile sia criminale, salvo quelle relative a “negotii di comunità, di fondachi e luochi pii”. La complessità del sistema era frutto della grande varietà degli ordinamenti vigenti nei luoghi entrati a far parte dello stato, delle diverse condizioni sociali ed economiche in cui questi si trovavano, della diversità dei patti di dedizione, e corrispondeva a quella flessibilità e a quel pragmatismo che, come si è più volte rilevato, caratterizzava la politica veneziana, in questo e altri campi. L’ampia possibilità offerta agli interessati di ricorrere alle corti centrali mirava a rendere il più possibile unitaria l’amministrazione della giustizia e a controllare l’operato dei rettori, sempre avendo in vista l’ “honor Venetie” e il “bonum” della città governata. La macchinosità dell’ordinamento, frutto di secolari sovrapposizioni, offriva poi ampi margini di intervento per aggiustamenti e adattamenti a situazioni disparate. Gli appelli costituivano un forte limite al potere dei rettori, che talvolta lamentano la riduzione di autorità che deriva loro dalle frequenti sentenze emesse dalle corti della capitale contrarie alle loro. Vi era anche qui un problema di equilibrio, per cui il governo si sforzava da un lato di venire incontro alle esigenze dei sudditi, dall’altro di non impoverire il ruolo dei rettori. Un passo in favore di questi ultimi fu l’estensione ad alcuni di essi del rito penale del Consiglio di Dieci, decisa nel Seicento. Altra grave limitazione, le periodiche ispezioni dei sindici, ovvero ispettori in visita nelle città del dominio. Spesso tale ruolo era assunto per la Terraferma dagli Auditori Novi, magistrati non di rado giovani, che talvolta erano portati ad eccedere nello zelo esercitando i loro poteri di controllo. Al rettore peraltro non mancavano occasioni per difendersi, e molto spesso le corti superiori di Venezia finivano col dargli ragione. Accadeva poi che venisse nominato un provveditore generale e sindico, che cumulava i poteri relativi alle due funzioni. Poteri amplissimi; ma anche a simili altissimi personaggi non mancavano difficoltà e fastidi, se si adoperavano con passione. Ne offre un esempio Bernardo Sagredo, provveditore generale e sindico a Cipro nel 1562-65, che si sforzò negli anni del suo governo di combattere abusi, inganni, sopraffazioni dei feudatari a danno dei contadini, ricevendo in cambio, al ritorno a Venezia, due gravi denunzie al Consiglio di Dieci, cui seguì un lungo processo, con finale assoluzione. Nel corso del Quattro e Cinquecento la carriera dei rettori si definisce. I grandi reggimenti, che aprono la via al Senato e al Collegio, magari alla Procuratia, sono ambiti da chi aspira all’elezione negli organi supremi. Le grandi sedi, come Padova, Verona, Brescia, Zara, sono ricoperte spesso dalla stessa persona, che cessato un incarico ne riceve subito un altro, in progressione di importanza, alternando il servizio nei reggimenti ad ambascerie all’estero, in sedi via via più prestigiose. Spesso questi patrizi trascorrono dei periodi a Venezia, eletti a qualche alta carica di governo, per poi ripartire infaticabili verso altre sedi; altri non tornano a casa per vari anni. In generale si tratta di nobili provvisti di larghe sostanze, che possono far fronte alle spese che i reggimenti maggiori e le ambascerie comportano, non essendo spesso sufficienti i fondi assegnati dal governo. Le altre sedi inferiori rimangono destinate a nobili di più modesti mezzi e ambizioni. I primi reggimenti sono detti per questo “con pena”, perché chi li occupa deve sopperire alla deficienza della dotazione di tasca propria, i secondi “di soldo”, perché l’appannaggio consente una vita decorosa. Tuttavia il limite tra gli uni e gli altri doveva non sempre essere netto, perché in molti casi si registrano rifiuti di accettazione della carica, nonostante i divieti e le relative sanzioni pecuniarie e di carriera: evidentemente vi erano posti che non allettavano nessuno, né per il prestigio né per il salario. E d’altra parte il sacrificio era in molti casi evidente: rischi, pericoli, spese, lontananza. Ma qualcuno alla fine risultava eletto e, benché scontento, accettava. E in generale si comportava in modo adeguato. Si formano fra i rettori specializzazioni territoriali ereditarie: i Sagredo ad esempio ottengono frequenti incarichi a Zara, a Modone si trovano spesso nel Quattrocento i Bembo. Evidentemente la conoscenza dei luoghi che si trasmetteva nelle famiglie veniva apprezzata dagli elettori. Il rettore, rappresentante dello stato, doveva apparire una figura elevata, posta su di un piano diverso, separato da quello degli amministrati, e ad affermare il principio miravano le leggi della Repubblica: non può legarsi in alcun modo ai sudditi, in particolare partecipando a iniziative commerciali o sposando donne del luogo; non può nemmeno partecipare a feste e banchetti, se non in particolari circostanze. Di fatto molti trasgrediscono, creando per sé e per il proprio casato vincoli proficui e durevoli: è il caso ad esempio delle nozze di patrizi con dame di grandi famiglie zaratine, come Matafari, Bregna, Grisogono, Sopa (anche se di certo non celebrate “durante munere”). Tutto ciò veniva tollerato in linea di fatto, in quanto rafforzava i legami con la classe dirigente delle città suddite. Compito del rettore era, come si è detto, rappresentare lo stato nella sua gloria e grandezza, senza esaltare se stesso: tuttavia in linea di fatto si tolleravano iscrizioni e statue in onore di lui, pur vietate in linea di principio, nella convinzione che anch’esse indirettamente giovassero al prestigio della Repubblica. Purtroppo il divieto fu rinnovato con insolita energia nel 1691-92: fu addirittura disposta la distruzione delle opere esistenti, e in qualche reggimento, come Brescia e Feltre, si ebbe la debolezza di obbedire, con la conseguente triste perdita di preziose testimonianze storiche e artistiche. Vietati erano anche gli scritti celebrativi all’ingresso e all’uscita del rettore, ma per analoghe ragioni se ne fecero molti senza che lo stato intervenisse. Tra i doveri del rettore vi era quello di tenere informato il governo centrale di quanto accadeva nel reggimento, sia per mezzo di frequenti dispacci, sia con una relazione finale, alla conclusione del mandato. Al rientro le notizie venivano comunicate oralmente, poi dovevano essere stese per iscritto, limitatamente alle cose essenziali. Non erano obbligati a redigere una relazione scritta i camerlenghi, i castellani e i rettori delle sedi minori. Oneri analoghi erano imposti agli ambasciatori, le cui relazioni costituiscono, come noto, una fonte di primaria importanza per la conoscenza della storia europea, di cui già il Ranke fece ampio uso. L’obbligo della stesura di relazioni venne ribadito con una legge del 1524, che confermava analoghe precedenti disposizioni, non osservate; e questa volta al provvedimento venne data esecuzione. Incomincia da allora un flusso continuo di relazioni, pur con molte lacune, dovute in parte all’inadempienza di non pochi rettori, in parte alla scomparsa di alcuni documenti, o alla collocazione di essi in sedi improprie. Tuttavia ciò che rimane è imponente. Le relazioni non sono tutte della stessa qualità e ampiezza, alcune offrono un quadro completo del reggimento sotto ogni aspetto, altre si limitano a trattare alcuni principali argomenti, alcune appaiono ricche di notazioni originali, altre più ripetitive. In generale esse seguono uno schema costante: si comincia con una descrizione della posizione geografica e di ciò che concerne la difesa, poi si tratta dell’ambiente sociale, dell’economia, dell’amministrazione locale, della pubblica assistenza, della giustizia, della sanità. Alcuni studiosi hanno sollevato varie critiche al valore delle relazioni. Si è detto che non conterrebbero dati economici precisi: forse non abbondano i dati statistici, ma all’economia della zona sono quasi sempre dedicate osservazioni e proposte puntuali e acute. Si disapprova il tono ossequioso verso i poteri centrali, le lodi costanti al predecessore, il richiamo alle virtù aristocratiche (spirito di sacrificio, senso del dovere): ma si tratta di formule di cortesia che l’uso suggerisce, di uno stile che àncora il testo a una secolare tradizione, sottolineando i legami che uniscono l’autore alla classe di governo cui appartiene, una classe che ha dato prova nei secoli di possedere davvero quelle virtù ch’egli loda. E la cortesia delle formule non impedisce di mettere in evidenza, se necessario, errori del governo e dei predecessori, sia pure nelle forme rispettose richieste dal buon gusto: ad esempio, nella relazione di Bernardo Sagredo, il già ricordato provveditore generale a Cipro, critiche anche severe alla politica dei predecessori e degli organi centrali non mancano affatto. La qualità delle relazioni è in generale elevata. E’ stato notato che vi mancano informazioni di ordine culturale e artistico: ciò è spiegabile, trattandosi di testi politici e amministrativi, ma non sempre vero. Vorrei ricordare ad esempio la già citata relazione di Agostino Barbarigo, podestà e capitano di Capodistria, letta in Collegio nel 1669, in cui si consacra molto spazio alla descrizione, piena di ammirazione e ricca di particolari, dell’arena di Pola, cui il Barbarigo ha dedicato molte cure, togliendo i “tronchi di galera” abbandonati “che la dannificano assai oltre il levarli la natural bellezza” e facendo “tenir netti li suoi pilastri e volti”. Esistono poi dei casi, rari certamente, in cui il rettore provvede ad indagini accuratissime sulla situazione del proprio territorio, affidandole a voluminosi allegati alla relazione. Il massimo esempio è offerto da Francesco Grimani, che raccolse una serie imponente di dati durante i suoi incarichi di provveditore generale in Dalmazia e Albania (1753-57), provveditore generale da mar, residente nelle Isole Ionie (1757-61), capitano di Brescia (1763-64), dati che confluirono poi nell’opera grandiosa delle Anagrafi. E’ stato osservato che le relazioni si presentano con una frequenza maggiore in certi periodi, minore in altri, come nel lungo, drammatico, logorante periodo delle guerre turche, dal 1645 al 1718. Esse continuano ad essere prodotte fino agli ultimi anni della Repubblica. Vorrei ricordare a questo proposito la breve ma succosa relazione di Marco Foscari, capitano di Raspo dal 1789 al 1792, di recente pubblicata, assieme ai suoi dispacci e assieme - cosa invero curiosa - alle lettere che il patrizio si faceva inviare sistematicamente da tre suoi dipendenti veneziani per essere informato di ciò che accadeva nella capitale e sentire meno così la nostalgia della sua città. È innegabile quindi che le relazioni costituiscano una fonte di straordinario interesse. Quelle di Terraferma sono state pubblicate, come noto, per iniziativa di Amelio Tagliaferri. Quelle provenienti dal dominio da Mar sono state oggetto di numerose pubblicazioni parziali, ma molte rimangono inedite e molte appaiono difficilmente accessibili. Riteniamo quindi che l’iniziativa di Bruno Crevato-Selvaggi, che si svolge sotto gli auspici della Società Dalmata di Storia Patria di Roma, possa rappresentare un fatto di straordinaria importanza per gli studi e consentire una conoscenza più profonda della storia di quelle terre che per secoli sono state strettamente legate alla civiltà veneta. E siamo grati alla Regione del Veneto che ha fatto propria, e resa possibile, un’iniziativa così utile e importante.