Dietrich Bonhoeffer
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Dietrich Bonhoeffer Una parola per la libertà Albani Francesca Classe 4 A Dopo una prima, una seconda e una probabile terza guerra mondiale, l’uomo può avere un rapporto con Dio? O troppi orrori hanno macchiato la sua anima per poter aver una minima sensibilità che lo porti ad aver un contatto con essa? Siamo un’umanità che non ha più il bisogno o il diritto di un Dio? “Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio,dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima” 1 C’era un uomo, un tedesco, un teologo che nel periodo più buio dell’umanità, negli anni Quaranta, era certo che l’uomo avesse un’anima; anzi che anima e corpo fossero una cosa sola, e che questa fosse pronta a ricevere Dio in un modo completamente nuovo. Quell’uomo era Dietrich Bonhoeffer. Nato nel 1906 a Breslava, Bonhoeffer, era figlio di una famiglia di inclinazione culturale ateo-scientifica, nessuno, quindi, si sarebbe aspettato che si laureasse nel 1927 in teologia. Bonhoeffer aveva mostrato interesse per le tradizioni religiose e culturali e nel corso dei suoi studi aveva cercato di capire se i problemi che affioravano nella comunità tedesca fossero gli stessi degli altri paesi. Questo suo interesse lo spingerà a viaggiare e ad approfondire i suoi studi in Spagna, Svizzera, Inghilterra e in America. Nel 1930 andrà a studiare a New York e nel 1931 tornerà in Germania per insegnare teologia all’Università di Berlino. Qui dal ’31 al ’33 insegnerà religione ai suoi alunni, con un approccio innovativo sempre rivolto alla riflessione politica. Nel ’33, quando Hitler salirà al potere, la chiesa tedesca appoggerà le idee naziste sulla supremazia della razza ariana, escludendo chiunque fosse di razza diversa dalla possibilità di far parte dell’ordine ecclesiastico. Bonhoeffer indignato, protesterà con veemenza contro questa scelta, specificando che la razza non può essere importante, che questa parola non ha 1 D. Bonhoeffer , Lettera al padre, 1943, in Resistenza e resa , Lettere e scritti dal carcere , San Paolo Edizioni, traduzione a cura di A. Gallas, Milano,1992. nessuno significato; che a far la differenza tra un uomo e un altro, è la dedizione al prossimo, al suo lavoro e alla pace della propria anima. Ben presto il lavoro di Bonhoeffer sarà ostacolato dalla Ghestapo, fino a essere costretto, temendo per la sua stessa vita, ad accettare un incarico di insegnante in America. Negli Stati Uniti, tuttavia, non rimarrà a lungo, pensando di aver lasciato il suo popolo in balia di un “ pazzo senza Dio” , allo scoppio della guerra, tornerà in patria, per condividere il destino del suo popolo. A Berlino terrà dei seminari clandestini che saranno presto osteggiati e poi chiusi dalla polizia. Questo, tuttavia, non farà desistere Bonhoeffer dall’entrare in un’organizzazione antinazista, costituita soprattutto da militari, stanchi dei soprusi di Hitler e di essere scavalcati da organizzazioni come le SS o la Gestapo. Nel 1943 viene arrestato e portato nella prigione di Tegel, per presunta cospirazione contro lo Stato nazista, qui inizierà a scrivere struggenti lettere ai familiari, alla fidanzata e agli amici, che verranno poi raccolte nel volume Resistenza e resa . Nel 1945, quando la Gestapo scoprì i documenti che testimoniavano la partecipazione di Bonhoeffer alla congiura per uccidere Hitler, sarà lo stesso Führer, a ordinarne la morte. Morirà impiccato a Flossenburg, con la consapevolezza di essere riuscito a trasmettere un messaggio in grado di fare del mondo un posto migliore. Nonostante tutti gli orrori della guerra, nella culla della follia creata da Hitler, ci furono uomini che cercarono di combattere per le nuove generazioni. Bonhoeffer è il simbolo di tutti quei tedeschi, che lottarono per liberare la Germania, l’Europa, il mondo dalla depravazione nazista. Egli ha cercato di far capire che poteva esserci un nuovo tipo di rapporto tra Dio e uomo moderno: “colui che sta con un piede sulla terra, starà un piede sul paradiso”. Nel Novecento ci si trova davanti ad un uomo completamente diverso da quello del secolo precedente, un uomo che è riuscito a rispondere a tutte le sue domande, non affidandosi a Dio, ma cercando le risposte nella scienza. Si tratta di un uomo che guarda la vita in maniera critica e razionale, con una freddezza calcolatrice che non lascia spazio a nessuna emozione. Tuttavia, c’è anche un altro tipo di uomo che non è riuscito ad essere al passo con lo slancio dell’età moderna, che, impaurito, se ne sta chiuso in una sorta di “bolla” in attesa di giungere in paradiso. Bonhoeffer, nel posto più insospettabile, la prigione, ha cercato di trovare una risposta alle domande di senso dell’uomo moderno. Egli ha compreso che i problemi principali dell’uomo della sua epoca sono la cupidigia, l’insensibilità, l’indifferenza, vivere pensando al domani e non al presente, isolato da tutti. La soluzione, secondo il teologo, è nella ricerca dell’equilibrio: l’uomo deve pensare all’oggi e vivere attimo per attimo la propria vita; posare le proprie certezze e la propria tranquillità su pilastri quali la famiglia, l’amicizia, l’amore e la fede. Quest’ultima, non deve basarsi su un rapporto bigotto con Dio, in cui non ci sia una apertura verso nuove conoscenze o ci si chiuda in rigide regole ecclesiastiche. La fede va intesa come un percorso che anima e corpo, percorrono insieme, attraverso la realizzazione nella vita terrena, prendendo consapevolezza della realtà, non rimanendo indifferenti al prossimo ma aiutando se stessi e gli altri. Questo consente di giungere ad una condizione di pace, che ci permette, quando chiudiamo gli occhi, di sentire tranquillità e quiete provenire da noi stessi; perché la religione non sia fatta solo di testi sacri da prendere alla lettera, ma sia una guida per seguire un modello di vita che ci faccia star bene con se stessi. Lo stesso Bonhoeffer, per arrivare alla quiete dello spirito e per aiutare gli altri a raggiungerla ebbe bisogno del sostegno della sua famiglia. Testimonianza di ciò sono le lettere che mandò ai suoi familiari; ricordiamo quella inviata il 14 gennaio del 1944 da Tegel, nel giorno del suo compleanno. In questa lettera, Bonhoeffer ringrazia i suoi genitori per il pacco ricevuto, per l’immensa felicità che questo dono provoca in lui ma, allo stesso tempo, mostra la sua preoccupazione. Se, da un lato, è grato del pensiero dei genitori dall’altro gli ricorda che loro sono là fuori, in una città dove tra i bombardamenti e l’arrivo dei russi sono sempre più in pericolo, li prega di andarsene a Patzig per trarsi in salvo anche se sa che non lo faranno per stare accanto a lui. Qui si capisce l’importanza della famiglia per Bonhoeffer, così come per qualsiasi altro uomo. Egli non sarebbe arrivato dov’era, non sarebbe morto per i suoi ideali se non avesse avuto dietro di sé una famiglia in grado di sostenerlo e incoraggiarlo. Anche se a molti questo sembra scontato, o di poco conto, per me ha un significato profondo, quasi toccante, perché rispecchia la mia vicenda personale, la storia di mio nonno. È una storia che riguarda la famiglia di mia madre e che ancora è ben impressa nei ricordi di noi nipoti anche adesso che il nonno non c’è più. Nel 1943, quando il generale Badoglio firmò a Cassibile l’armistizio con gli americani, non informò nessuno e il popolo del Nord Italia e l’esercito italiano alleato con la Germania rimasero all’oscuro di tutto. Infatti, quando i tedeschi iniziarono a catturare gli italiani molti di loro non sapevano neanche perché venivano mandati nei campi di lavoro o concentramento a morire. Mio nonno fu più fortunato, fu catturato dai tedeschi in Albania e portato al campo di lavoro di Malchow, lì fu ridotto alla fame, e portato in fin di vita da una tremenda infezione. Visto che nel campo c’era bisogno bisogno di forza lavoro, fu mandato in infermeria per ricevere delle cure. Lì incontro un dottore di Messina che lo prese in custodia come suo infemiere. I prigionieri venivano trattati come animali, sfruttati per ogni tipo di lavoro con il minimo di viveri per non morire. Mio nonno sopravvisse grazie alla speranza di un pacco ricevuto dalla famiglia tramite un ufficiale tedesco. Anche se non seppe mai, fino al ritorno a casa, come quel pacco fosse arrivato fino a lui. Quel pacco fu importante non tanto per quello che conteneva, ma per quello che rappresentava: l’idea di una famiglia amorevole che lo stava aspettando, la speranza di ritornare nel suo paese natale ad una vita di pace e tranquillità. Avere una famiglia avrebbe aiutato quell’uomo a sopravvivere, gli avrebbe dato la forza necessaria per tentare la fuga. Grazie all’amico dottore fu mandato come barelliere a prendere i feriti tedeschi con i treni bianchi diretti in Italia, con questo pretesto riuscì a scappare. La fuga, però, fu dura, dovette camminare per giorni, da solo, di notte, senza cibo, nei pericolosi sentieri di montagna dove tedeschi e partigiani uccidevano chiunque incontrassero. Quando arrivò all’Eremo di Chiesa Forte, fu salvato dalla misericordia delle suore di clausura del convento del paese che lo ospitarono e lo curarono fino a che non si mise in sesto e fu in grado di ripartire e raggiungere Treviso, dove viveva la sua famiglia. Grazie alla speranza che gli aveva dato quel pacco mandato dai suoi cari, mio nonno visse ancora a lungo, e io sono qui, a raccontare questo episodio.