Il Processo Andreotti

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Il Processo Andreotti CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE POLITICHE E DI GOVERNO MAFIA, POLITICA E GIUSTIZIA. UN CASO CONTROVERSO: IL PROCESSO ANDREOTTI. Tesi di Laurea di: Mattia Maestri Relatore: Prof. Fernando dalla Chiesa Correlatore: Prof.ssa Ombretta Ingrascì Anno Accademico: 2013/2014 1 A Valeria, il mio Sole. 2 Indice 5 Prefazione 9 Capitolo I: Mafia e Politica in Sicilia dal secondo dopoguerra 10 - 1.1: Cosa Nostra nel secondo dopoguerra 12 - 1.2: la classe politica siciliana nel secondo dopoguerra 18 - 1.3 I rapporti tra Cosa Nostra e la politica 23 Capitolo II: Analisi politica e sociale della corrente andreottiana in Sicilia 23 - 2.1: Da Fanfaniani ad Andreottiani 26 - 2.2: il potere della corrente andreottiana in Sicilia 34 Capitolo III: L’atto d’accusa ad Andreotti e il processo 35 - 3.1: L’atto d’accusa ad Andreotti dei magistrati palermitani 37 • Il rapporto tra la corrente andreottiana siciliana e Cosa Nostra 45 - Palermitani 64 - Nisseni 66 - Catanesi 3 71 • La percezione del rapporto tra la corrente andreottiana siciliana e Cosa Nostra emergenti da un delitto spartiacque (omicidio Carlo Alberto dalla Chiesa) 81 - 3.2: Il processo Andreotti 81 • Il giudizio di primo grado e le motivazioni 85 • Il giudizio di secondo grado e le motivazioni 88 • Il giudizio di terzo grado e le motivazioni 96 Capitolo IV: Gli schieramenti d’opinione durante il processo 98 - 4.1: Il problema etico-politico nel processo Andreotti 102 - 4.2: Il fronte degli innocentisti 111 - 4.3: Il fronte dei colpevolisti 121 Capitolo V: Conclusioni 129 Bibliografia 4 Prefazione Il “processo di Palermo”, che ha visto imputato il più volte presidente del Consiglio e Ministro Giulio Andreotti, è forse il caso esemplare per quanto riguarda le collusioni tra classe politica e Cosa Nostra, ed è considerato dagli studiosi il processo simbolo per tre importanti ragioni: a) Rilevanza politica dell’imputato; b) Contesto storico; c) Desiderio di giustizia proveniente dal paese. Nonostante l’arresto precedente di Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo), e il dossier sui rapporti tra Salvo Lima e Cosa Nostra (presentato a Strasburgo), possiamo affermare che il processo a carico di Andreotti fu il primo che riguardò un esponente politico di primissimo piano, considerato da tutti il politico più importante e potente d’Italia. La richiesta di autorizzazione a procedere presentata dai pubblici ministeri al Senato della Repubblica nel marzo 1993, provocò innanzitutto stupore e incredulità. Mai, prima di quel giorno, il Parlamento aveva dovuto fare i conti con un’indagine riguardante una personalità dominante nella scena politica italiana. E mai, prima di allora, i rapporti tra mafia e politica erano venuti alla luce dalle inchieste giudiziarie. Il contesto storico, politico e sociale del paese nel quale la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Andreotti irruppe, fu molto travagliato: l’inchiesta principe di tangentopoli, che provocò la frattura e la distanza dell’intera classe politica dai cittadini, con la definitiva conclusione della “Prima Repubblica”, che ha resistito circa mezzo secolo, lasciando spazio ad una nuova classe dirigente, che tuttavia fu impersonata per buona parte dagli stessi protagonisti politici della prima; la stagione delle stragi mafiose: da Capaci a Via D’Amelio (dove vennero uccisi i magistrati Falcone e Borsellino, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta), fino agli attentati del 1993 a Milano Firenze e Roma, in cui persero la vita cittadini innocenti, come i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia Nencioni di nove anni, Caterina Nencioni che aveva solo cinquanta giorni di vita e lo studente universitario Dario Capolicchio di ventidue anni, uccisi a Firenze in un’esplosione 5 in via dei Georgofili, accanto alla Galleria degli Uffizi. O come i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l'agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina, saltati in aria a causa dell’esplosione di un’autobomba posizionata nei pressi della Galleria d'arte moderna e il Padiglione di arte contemporanea di Milano, in via Palestro. Questa stagione stragista, attuata da Cosa Nostra a partire dal maggio 1992, generò tra l’opinione pubblica un desiderio di giustizia senza precedenti. Una indignazione popolare che già si fece sentire ai funerali degli uomini della scorta di Paolo Borsellino, uccisi con il magistrato quella domenica di luglio. Le immagini di quella giornata, con i cittadini che ruppero i cordoni della polizia per gridare la propria rabbia contro i vertici dello Stato presenti, sono vive nella mente anche di chi non ha vissuto direttamente quella stagione di sangue. In seguito a quelle terribili stragi si formò, nel 1992, la quarta Commissione parlamentare antimafia, che vide come presidente Luciano Violante. Fu lui a raccogliere le deposizioni scottanti di Tommaso Buscetta che rivelò l'esistenza del terzo livello della mafia, cioè il legame con il mondo politico. Il desiderio di giustizia dei cittadini portò la Commissione all’approvazione quasi all’unanimità della relazione del 6 aprile 1993. La gestione di Luciano Violante della presidenza della Commissione, fu criticata da Giulio Andreotti come improntata a parzialità politica all'indomani dalla sentenza di Palermo che l'assolse dall'addebito di associazione a delinquere di stampo mafioso per i fatti successivi al 1980, mentre confermò la colpevolezza per i fatti antecedenti, ormai prescritti. Il processo Andreotti si sviluppò secondo i canonici tre gradi di giudizio. La Corte d’Assise assolse l’imputato “perché il fatto non sussiste”, nonostante fossero stati accertati in sede giurisdizionale i rapporti tra Andreotti e i cugini Salvo di Cosa Nostra. Il giudizio di primo grado fu in parte ribaltato dalla sentenza d’Appello, che provò la colpevolezza di Andreotti per il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980 (tuttavia il reato nel 2003 fu prescritto in quanto dal 1980 passarono più di ventidue anni e sei mesi), mentre confermò l’assoluzione per quanto riguarda il periodo successivo a tale data. Sia la difesa, sia la Procura di Palermo, fecero ricorso in Cassazione: l’imputato per cancellare quella rilevante 6 colpevolezza e tornare all’assoluzione come in primo grado; i pubblici ministeri, invece, per confermare la colpevolezza anche per il periodo successivo alla primavera del 1980. La Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, rigettò entrambi i ricorsi, confermando di fatto la sentenza della Corte d’Appello. In particolare vengono accertati e provati due incontri dell’imputato con l’esponente di spicco di Cosa Nostra Stefano Bontate, tenuti prima e dopo l’omicidio a Palermo del presidente della regione Sicilia (e compagno di partito di Andreotti) Piersanti Mattarella. Nel secondo incontro, Andreotti chiese spiegazioni a Bontate sull’omicidio Mattarella, e il boss lo zittì semplicemente con una frase: “In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi”1. Anche in quell’occasione Andreotti decise di non denunciare ciò che era a sua conoscenza in base ai propri rapporti diretti con Cosa Nostra. Rimase per tutta la vita in silenzio, negando ogni accusa, talvolta anche con le più improbabili motivazioni. Nonostante ciò, il senatore a vita Giulio Andreotti, fu sostenuto e appoggiato, direttamente e indirettamente dalla quasi totalità della classe politica italiana. Tralasciando la piccola ala radicale che ribadiva la colpevolezza di Andreotti, possiamo affermare che la netta maggioranza di esponenti politici ha garantito, non solo solidarietà al collega, ma anche una riabilitazione politica e morale totale, nonostante la prescrizione per il reato di associazione a delinquere confermata anche dalla Cassazione. Com’è stato possibile tutto questo? Immediatamente dopo la sentenza d’Appello, un plotone di giornalisti, intellettuali e politici, ha cominciato una operazione di salvataggio mediatico dell’imputato Andreotti, attuando una sistematica mistificazione della realtà. Analizzeremo, a tal proposito, articoli e prime pagine dei quotidiani nazionali all’indomani delle sentenze. L’opinione pubblica fu fortemente influenzata dal parere quasi unanime di politici e media, che 1 Umberto Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, 1997, p. 181 7 ribadivano a più riprese l’innocenza del senatore a vita. Si aprì anche, negli anni, un dibattito pubblico tra gli innocentisti e i colpevolisti (che analizzeremo nel quarto capitolo di questo elaborato), quest’ultimi in netta minoranza. Soltanto alcuni ‘eroici’ giornalisti (Travaglio, Barbacetto, Lodato) e storici, come Tranfaglia, Lupo, Pezzino e Santino, studiarono le carte della Procura di Palermo e le motivazioni delle sentenze, arrivando ad una conclusione molto differente dalla proclamata assoluzione di Andreotti trasmessa ai cittadini dalla televisione e dai quotidiani nazionali. Questo elaborato si prefigge l’obiettivo di trasmettere la verità giudiziaria definitiva emersa dalle sentenza, e di analizzare il quesito di fondo che è emerso da questo processo simbolo: è lecito fare politica compiendo dei reati? Anche se mancasse una rilevanza penale degli incontri accertati
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