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Dal Corriere della Sera del 23 dicembre 1947

“L'opera dei rappresentanti della Nazione si è conclusa ha la sua Costituzione Nella solennità dell'aula di Montecitorio, in una seduta memorabile, aperta con il canto dell'inno di Mameli, l'assemblea ha approvato, con 453 sì e 62 no, la nuova Carta del popolo italiano Roma 23 dicembre, notte.

L'assemblea ha approvato oggi la nuova Costituzione. Il lungo lavoro di elaborazione che, pur attraverso molte e vivaci battaglie, ha tenuto un alto livello di nobiltà, si è concluso stamane con la decisione sulle ultime questioni rimaste sospese nel comitato di coordinamento. Ma, al di sopra delle questioni giuridiche e tecniche, una più elevata ne sorgeva imprevista, quando il democristiano La Pira si alzava a proporre che alla "Carta" venisse premessa all'introduzione: "in nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione". Atto di speranza Togliatti, Marchese, Calamandrei ed altri hanno osservato che questo doveva essere dell'unità degli animi, mentre la proposta La Pira li avrebbe divisi: a sua volta, il qualunquista dissidente Coppa ha insistito e per un attimo, è sembrato che nel nome di Dio dovesse aprirsi un dissidio. Ma Nitti si è associato all'invito di Terracini perché La Pira ritirasse la proposta con la stessa nobiltà di cuore che lo aveva spinto a suggerire quella introduzione. E La Pira, allargando le braccia, ha receduto, fra i cordiali applausi di consenso delle sinistre. Il deputato democristiano appariva, però, così disorientato, che Nitti ha salito la scaletta per stringergli affettuosamente la mano, e anche Togliatti si è mosso dal lontano suo seggio per recarsi a parlargli di persona. Alle 17, i deputati quando sono rientrati nell'aula hanno trovato già pronte le urne che dovevo raccogliere il voto sulla "Carta".

La gran cerchia delle tribune era colma di pubblico; non un posto era , come sempre nelle sedute eccezionali, moltissime erano le signore. Eleganza severa, colori scuri negli abiti e nei cappelli. Anche le deputatesse erano, per la massima parte, abbigliate in nero. Nelle tribune spiccava, quà e là, qualche pennellata viva di colore. Una, fiammeggiante, era portata da un gruppo di garibaldini in camicia rossa, raccolte nella tribuna della presidenza. La loro presenza era come un legame ideale fra il passato e il presente, fra il primo ed il secondo Risorgimento. Gli orologi elettrici dell'aula segnano le 17,10 quando squilla il campanello presidenziale a segnare l'apertura della seduta. Quando la voce dell'onorevole Teresa Mattei ha terminato la lettura del verbale, e Terracini annuncia all'ordine del giorno la votazione del testo della Costituzione, si alza il presidente della Commissione dei 75, Ruini, indicando nella "Carta" che egli consegna al presidente, la prima Costituzione che il popolo si è liberamente dato nella storia millenaria d'Italia, ed in cui si concreta un atto di speranza e di fede. Potrà, essa, essere modificata in futuro, ma non cadrà. Sugli applausi dell'assemblea, in piedi, si diffondono scendendo dall'alto, le note dell'inno di Mameli: sono i garibaldini che l'hanno intonato. Questa infrazione al silenzio, che è norma per il pubblico delle tribune, lascia un momento perplesso il presidente; ma il canto, ormai, si è esteso dalla tribuna all'aula, fra gli applausi dell'assemblea, e si spiega a piene voci. Ore 18.18 quando torna il silenzio, Terracini rivolge un caldo ringraziamento a Rubini per la sua preziosa opera e poi apre la votazione a scrutinio segreto, che avviene con appello nominale. Il primo nome che risuona nella chiama è quello di un assente, Abozzi. Poi i deputati si succedono: l'uno dopo l'altro alle urne, mentre nell'emiciclo lampeggiano le lampade dei fotografi. Terracini, appena ode chiamare il suo nome, cede la presidenza a Conti e, fra gli applausi dei deputati, scende alle urne. Quando torna alla poltrona presidenziale, lo saluta l'applauso particolare dei giornalisti, in piedi nelle loro tribune e a quel saluto Terracini risponde con un cordiale gesto di ringraziamento, stringendo in alto le mani. Sono le 18. 18 allorché l'ultimo deputato depone il suo voto; lo squillo del campanello presidenziale chiude la votazione. Quasi contemporaneamente, nella tribuna diplomatica prendono posto l'ambasciatore degli Stati uniti, Dunn, l'ambasciatore di Francia, Fouques Du Parc , ed il consigliere dell'ambasciata britannica, Ward, aggiungendosi ai molti rappresentanti diplomatici già presenti. Memore saluto ai caduti, Terracini proclama l'esito della votazione: 515 votanti, 453 favorevoli, 62 contrari. Le acclamazioni alla Repubblica si rinnovano vivissime nel clamore di un'ovazione alla quale non partecipa soltanto la piccola pattuglia dei deputati monarchici. Il presidente dell'assemblea riprende a parlare. "Io credo”-egli dice-“di avvertire intorno a noi l'interesse fervido ed il plauso consapevole e soddisfatto del popolo italiano, che sempre più è venuto volgendosi alla Costituente come alla naturale delegata ed interprete, realizzatrice del suo pensiero e delle sue aspirazioni". Ricorda poi l'intensità del lavoro instancabile compiuto: 347 sedute, di cui 289 di carattere costituzionale, 1663 emendamenti, 1090 interventi da parte di 275 oratori, etc.

Lavoro instancabile, dunque: "ma anche lavoro completo?" Si domanda Terracini e risponde di sì, alla stregua del mandato conferito all'assemblea dalla legge istitutiva. Ricorda quindi l'assoluzione dell'amarissimo compito di dare avallo ai patti di pace e le leggi elettorali: ma anche ricorda gli istituti nuovi, suggeriti dalla esperienza dolorosa e dettati dall'evoluzione della vita sociale ed economica, che l'assemblea ha inserito nella struttura dello Stato: la Corte delle garanzie costituzionali ed il Consiglio dell'economia e del lavoro. Forse, aggiunge, molta parte del popolo italiano avrebbe voluto dalla costituente qualcosaltro ancora: i più miseri attendevano che essa udisse le loro ardente aspirazione di una modesta garanzia contro il bisogno, memore di parole proclamate e riecheggiate. "Noi sappiamo, oggi-egli dice-che ciò avrebbe superato le nostre possibilità. Ma sappiamo di aver posto nella Costituzione altre parole che impegnano inderogabilmente la Repubblica a non ignorare più quelle attese, e ad arrivare risolutamente all'apprestamento di strumenti giuridici atti a soddisfarne". Ed aggiunge che le riforme rivendicate dal popolo italiano solo postulate dalla Costituzione: mancare all'impegno sarebbe violare la Costituzione stessa e compromettere forse definitivamente l' della Nazione. Terracini ricorda poi l'ordine del giorno approvato ieri con cui si raccomanda al Presidente della Repubblica un atto di clemenza, ed osserva che questo rinnovato gesto di amnistia esprime lo spirito che ha informato tutti i lavori, avendo l'assemblea pensato e redatto la Costituzione come un solenne patto di amicizia e di fraternità di tutto il popolo italiano, a cui lo affida perché se ne faccia custode e realizzatore.

Invitati i colleghi a divenire i più fedeli e rigidi servitori della legge fatta, Terracini invia un saluto referente alla memoria di coloro che cadendo nella lotta contro il fascismo ed i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il prezzo di sangue per la nostra libertà e la nostra indipendenza. "E con voi inneggia -conclude- ai tempi nuovi cui, col nostro voto, aprimmo la strada per un legittimo affermarsi. Viva la Repubblica democratica italiana, libera, pacifica e indipendente". Un grande applauso e nuova acclamazione alla Repubblica coronano le parole di Terracini, mentre tutte le pause del suo discorso erano state punteggiate dall'eco ovattata di solenni rintocchi. Era l'eco del suono solenne della campana di Montecitorio, che annunciava al popolo l'approvazione della "Carta" mentre la facciata del palazzo berniniano sfavillava di luci. "Non poteva mancare in questo momento -riprende Terracini quando nell'aula si fa di nuovo silenzio- la parola del capo dello Stato". E dà lettura del messaggio inviato in quel momento da De Nicola. Calda è la manifestazione di omaggio che l'assemblea rivolge all'indirizzo del capo dello Stato e più viva ancora diventa quando il presidente saluta in De Nicola il primo presidente della Repubblica italiana.

Poi sorge a parlare De Gasperi, il quale si associa alle parole di ammirazione e di ringraziamento del presidente dell'assemblea per De Nicola, ed all'augurio che egli possa continuare la sua opera ancora per lungo tempo. Ringrazia poi tutti i membri dell'assemblea e quelle della commissione per la costituzione. Il discorso di de Gasperi

"Ora che la Carta è compiuta -dice de Gasperi- il governo ha l'obbligo di attuarla e di farla applicare, e ne prende solenne impegno. Ma le leggi non sono applicabili, se accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume". Qui il Presidente del Consiglio ricorda le parole del programma mazziniano: "La costituente nazionale, raccolta a Roma, metropoli e città sacra della Nazione, dirà all'Italia e all'Europa il pensiero del popolo e Dio benedirà il suo lavoro". "Valga tale auspicio -prosegue- anche per quest'assemblea del nuovo risorgimento: il soffio dello spirito animatore della nostra storia e della nostra civiltà cristiana passi sulla sua faticosa opera, debole perché umana, ma grande nelle sue aspirazioni di ideali, e consacri nel cuore del popolo questa legge fondamentale di fraternità e di giustizia, sicché l'Europa ed il mondo riconoscono nell'Italia nuova, nella nuova Repubblica assisa sulla libertà e sulla democrazia, la degna erede e continuatrice della sua civiltà millenaria ed universale". Agli applausi vivissimi del centro, della destra e del centro sinistra, non si uniscono invece i socialcomunisti. Un gran silenzio e nell'aula quando prende la parola il decano del Parlamento, Vittorio Emanuele Orlando, "a che debbo onore di parlare, qui, oggi?" Egli chiede, e subito dalla risposta: "non al titolo della maggior vecchiezza, ma al fatto d'essere l'estremo rappresentante delle tre generazioni che fecero l'Italia".

Commozione di Orlando Dice che, guardando ormai dal vertice la strada percorsa, si può, in certo modo, essere fieri della fatica compiuta. Per merito di chi? Di tutti, perché, attraverso i contrasti, vi è stata solidarietà anche fra i sostenitori delle opposte tesi. Ma, parlando in nome dell'assemblea, vuol ricordare due uomini che sono stati simbolo del lavoro compiuto. Innanzitutto l'uomo a cui ben spetta di trasformare il titolo che gli ricordava la provvisorietà, in quello di primo presidente della Repubblica italiana: l'uomo tale da augurare patriotticamente che coloro che gli succederanno siano sempre degni di continuarne l'opera (vivissimi applausi); poi il presidente Terracini, cui l'assemblea in piedi esprime il suo saluto con un lungo applauso, "homo parlamentaris" per vocazione formidabile, dice Orlando, è stato veramente un gran presidente, un presidente nato perfetto. Qui Orlando rileva che la costituzione ha ormai avuto la sua consacrazione laica e tutti le debbono obbedienza assoluta, perché non si può concepire nessuna democrazia e libertà se non sotto forma di obbedienza alle leggi popolo libero si è dato. Nel concludere, Orlando afferma che quali che siano gli eventi futuri, mai verrà meno il sentimento di attaccamento alla vecchia Italia. “Viva l’Italia!”-egli esclama con foga, ed è questo il suo appello conclusivo- Dio salvi l'Italia". Si è appena spenta l'eco degli applausi, che il presidente fa dare lettura immediata del verbale di questa seduta solenne.”