Inferno,, e le donne

Scritto da Abbruscato Venerdì 18 Gennaio 2013 00:00 - Ultimo aggiornamento Giovedì 11 Gennaio 2018 11:49

Inferno, Purgatorio, Paradiso e le donne

Quando si parla delle donne che si incontrano nella Divina Commedia, la maggioranza di quelli che hanno una conoscenza “liceale” del Poema pensano subito alle tre donne, che si sono mobilitate per venire in soccorso a Dante smarritosi nella oscura selva, cioè la Madonna, Lucia e Beatrice e poi a , Pia dei Tolomei, . Queste ultime tre sicuramente sono le più conosciute. Quasi tutti ignorano un'altra presenza molto importante, , che incontriamo nel Paradiso Terrestre. Ciò è avvalorato dalla considerazione che Dante si occupò di loro più di ogni altra donna.

Il poeta ha fatto il nome di tante donne, della mitologia, della storia antica, della Bibbia, del suo tempo. Si è soffermato a parlare della loro condizione e, in alcuni casi ha messo in evidenza la cattiva reputazione di cui godevano.

Un primo esempio della cattiva considerazione in cui erano tenute le mogli lo troviamo nell’episodio del giudice Nino Visconti, amico di Dante, che, nell'antipurgatorio, chiede di essere ricordato alla figlia Giovanna ed esprime un giudizio assai negativo della moglie ,Beatrice d'Este, la quale si era sposata assai presto , e conclude amaramente dicendo che lei è un esempio di quanto sia effimero l'amore in una donna, essere quindi molto volubile.

“Quando sarai di là da le larghe onde,/ d ì a Giovanna mia che per me chiami/ l à dove a li ‘nnocen ti si risponde./ Non credo che la sua madre pi ù m'ami,/ poscia che trasmut ò le bianche bende,/ le quai convien che, misera, ancor brami./ Per lei assai di lieve si comprende/ quanto in femmina foco d'amor dura."

Dante , parlando della donne, ha dato dei giudizi morali sul loro costume, ma mai ha considerato le donne essere inferiori come invece si riteneva nel Medioevo, fortemente influenzato dai classici, Ovidio, Virgilio , e dai Padri della Chiesa; secondo questa cultura l'uomo è superiore alla donna perché è stato creato ad immagine di Dio.

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I pochissimi personaggi femminili che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno, e con i quali svolge un dialogo, sono tutti storicamente esistiti. Con alcune di loro si è fermato a parlare ed ha voluto a metterne in evidenza la loro personalità, i loro sentimenti, il loro dolore. In tutti questi incontri Dante tratta con grande rispetto e simpatia le donne, e quasi sempre si commuove colpito dalla loro fragilità umana, altre volte con amarezza esprime la sua condanna contro quelle che ritiene colpevoli di una condotta immorale. Nell’incontro col suo trisavolo rievoca le donne dell’antica Firenze, virtuose, pudiche, modeste nel vestire, e laboriose, ma si addolora e si adira quando parla delle donne della nuova Firenze, che sono lussuriose e depravate nei costumi e sono state una delle cause della decadenza morale della città.

Così nel Purgatorio, nella cornice dei golosi, durante il colloquio con , suo amico, esplode in una invettiva contro le donne fiorentine che andavano in giro con abiti succinti mostrando il seno:

” tempo verrà che in pergamo sarà interdetto/ alle sfacciate donne fiorentine/ andar mostrando con le poppe il petto.”

Ma le donne per il Poeta hanno avuto una grande importanza in questo viaggio nell’aldilà ; nel discorso di Virgilio, pronunciato per superare la paura e la titubanza di Dante che non si riteneva degno di tale viaggio, viene evidenziato che Dante gode della protezione di tre donne: la Madonna, Santa Lucia e Beatrice; e Beatrice è la sua guida nel Paradiso celeste; si tratta di una donna , che lui conobbe quando ella aveva nove anni, a Firenze, che ha colpito profondamente il suo animo , una donna che è stata divinizzata , assurta a simbolo, a rappresentare la Teologia e a svolgere il ruolo di guida.

Io era tra color che son sospesi,/ e donna mi chiamò beata e bella,/ tal che di comandare io la richiesi./ Lucevan li occhi suoi pi ù che la stella;/e cominciommi a dir soave e piana,/ con angelica voce, in sua favella. V.52-57 canto II Inferno

Durante il suo intervento Beatrice riferisce che la Madonna ha chiamato Lucia chiedendole di soccorrere il suo fedele:

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Donna è gentil nel ciel che si compiange/ di questo 'mpedimento ov'io ti mando,/ s ì che duro giudicio l à s ù frange/ Questa chiese Lucia in suo dimando/ e disse : - Or ha bisogno il tuo fedele /di te, e io a te lo raccomando – v 94-99. Canto II Inferno

Lapidario e perentorio e' l' intervento della Madonna, bastano poche parole.

Lucia si precipita da Beatrice e la mette al corrente della situazione di grave pericolo in cui versa il suo amato.

Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,/ ch é non soccorri quei che t’amò tanto,/ ch ’uscì per te de la volgare schiera?/ Non odi tu la pieta del suo pianto,/ non vedi tu la morte che ’l combatte/ su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? V. 103-108-.

Lucia e' piena di premura e di grande preoccupazione e descrive lo stato di pericolo del raccomandato con parole calorose e drammatiche.

Al sentire queste parole Beatrice si precipita nel Limbo per chiedere l’intervento di Virgilio, usando parole di tenera preghiera.

Or movi, e con la tua parola ornata/ e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,/ l ’aiuta sì ch ’i ’ ne sia consolata./ I ’ son Beatrice che ti faccio andare;/

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Scritto da Abbruscato Venerdì 18 Gennaio 2013 00:00 - Ultimo aggiornamento Giovedì 11 Gennaio 2018 11:49 vegno del loco ove tornar desio;/ Amor mi mosse, che mi fa parlare./ Quando sar ò dinanzi al segnor mio,/ di te mi loder ò sovente a lui ”.(Inf. II, vv.67-74)

Dante incontra donne famose, come santa Chiara d' Assisi e l' imperatrice Costanza, ma il poeta manifesta maggiore interesse per le donne citate nella cronaca del tempo, come Francesca, Pia Dei Tolomei, Piccarda Donati, la cui storia puo' interessare di piu' i suoi contemporanei, attratti di più' da fatti di cronaca da loro conosciuti, che non da storie lontane.

Nel Limbo, nel prato di fresca verdura, da un angolo luminoso ed alto i due poeti vedono gli spiriti magni e tra essi alcune donne famose: Elettra, ( la progenitrice della stirpe troiana), Camilla( figlia del re dei Volsci), Pantasilea ( la regina delle amazzoni),Lucrezia( famosa donna virtuosa del mondo romano), Iulia(figlia di Giuliio Cesare), Marzia( la moglie di Catone l’uticense) e Cornelia( la madre dei Gracchi), Lavinia ( la figlia del re Latino). Esse con altre anime, né tristi, né felici, Dante non si attarda a parlare con loro, ma ne fa cenno nominandole singolarmente :

“I’ vidi Elettra con molti compagni,/ tra ‘quai conobbi Ettòr ed Enea,/ Cesare armato con li occhi grifagni./ Vidi Cammilla e la Pantasilea,/ da l ’altra parte, e vidi ‘l re Latino,/ che con Lavinia sua figlia sedea./ Vidi quel Bruto che cacci ò Tarquino,/ Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia;/ e solo in parte vidi il Saladino. (Inf. V, vv.121-129)

Chi erano queste donne? Elettra era la madre di Dardano, progenitrice della stirpe Troiana, di Enea e dei suoi discendenti, Camilla era figlia del re dei Volsci, caduta nella guerra contro Enea , Pantasilea era la regina delle Amazzoni, figlia di Ares (Marte), uccisa da Achille , Lavinia era la figlia del re Latino, moglie di Enea e progenitrice dei Romani , Lucrezia moglie di Collatino, suicidatasi dopo l’offesa fatta al suo onore da Sesto Tarquinio, Iulia figlia di Giulio

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Cesare e sposa di Pompeo , Marzia moglie di Catone l’Uticense ed infine Corneglia (Cornelia) madre dei Gracchi . Di Marzia si parlerà ancora nel I canto del Purgatorio, quando Dante e Virgilio supplicano, in nome della sua cara sposa, appunto, il vecchio custode del secondo regno, Catone.

"ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni." (Purg. I, vv.78-80)

Io mi trovo nel cerchio(I dell'Inferno) dove sono gli occhi casti della tua Marzia che ancora prega te affinché' la consideri tua.

Marzia viene descritta da Virgilio come una donna “ casta”

Dante, come vedremo, ha avuto molto, rispetto per le donne, tant,e' che non ha posto tra i dannati più peccaminosi nessuna donna, tranne qualche eccezione come Taide, la meretrice, protagonista della commedia l’Eunuco di Terenzio, immersa nello sterco, nella seconda bolgia del cerchio ottavo.

“di quella sozza e scapigliata fante/ che l à si graffia con l’unghie merdose, /e or s ’accos cia e ora è in piedi stante./ Taide è, la puttana che rispuose..... ” ( Inf., XVIII, vv.129-133)

Nel canto V, cerchio II Dante incontra i lussuriosi, coloro cioè che non riuscirono a frenare gli istinti carnali" che la ragion sommettono al talento" .

La loro pena segue la cosiddetta legge del “contrappasso”, che si manifesta in due modalita' ,o la pena e' uguale o è contraria alla colpa commessa: i lussuriosi sono trascinati di qua, di la', su,

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Scritto da Abbruscato Venerdì 18 Gennaio 2013 00:00 - Ultimo aggiornamento Giovedì 11 Gennaio 2018 11:49 giu' senza sosta dalla bufera, così come in vita furono travolti dalle passioni.

"la bufera infernal che mai non resta /mena gli spirti con la sua rapina;/voltando e percotendo li molesta” (Inf. V, vv.31-33)

Il poeta chiede a Virgilio: "…Maestro chi son quelle genti, che l’aura nera sì gastiga?” (Inf.. V, vv.50-51 ) e Virgilio gli risponde, e nomina alcune donne dell’antichità, famose per il loro peccaminoso amore.

“ La prima di color di cui novelle / tu vuoi saper “ mi disse quegli allotta/ fu imperadrice di molte favelle./ a vizio di lussuria fu sì rotta/che libito fe’ lecito in sua legge,/ per tòrre il biasmo in che era condotta./Ell’è Semiramìs, di cui si legge/ che succedette a Nino e fu sua sposa;/tenne la terra che ‘l Soldan corregge./L’altra è colei che s’ancise amorosa/e ruppe fede al cener di Sicheo;/poi è Cleopatràs lussuriosa./Elena vedi, per cui tanto reo/tempo si volse, e vedi il grande Achille/che con amore al fine combatteo./Vedi Parìs, Tristano...”e più di mille/ombre mostrommi e nominommi a dito,/che amor di nostra vita dipartille. (Inf. V, vv. 52-69)

“ La prima dannata di cui tu vuoi sapere delle notizie, fu imperatrice di tante genti che parlavano lingue diverse; fu una donna lussuriosa, che per togliersi dal biasimo in cui tale vizio la gettava nella opinione pubblica,, rese, con una legge, lecito tale vizio; il suo nome è Semiramide e si legge che fu la sposa di Nino al quale succedette nel trono ( di Babilonia e dell’Egitto) e resse la regione che oggi comanda il Sultano. L’altra (Didone) che vedi è quella che tradì la memoria del marito Sicheo e poi si uccise per amore( di Enea); poi vedi Cleopatra, donna lussuriosa. Vedi Elena che fu la causa di una guerra lunghissima, e vedi il grande Achille che alla fine combatté per amore. Vedi Tristano, Isotta .. e così il mio maestro mi mostrò a dito e mi nominò moltissime donne che morirono a causa della passione amorosa”

Per ognuno di questi peccatori il poeta usa brevi ma efficaci parole, non ritiene utile soffermassi a narrare la loro storia, perché' nuocerebbe al suo discorso poetico che si concentrerà' più' a lungo nella storia di Paolo e Francesca. Didone, si suicidò dopo essere stata abbandonata da Enea, Cleopatra ("Cleopatràs lussuriosa"), fu portata alla guerra e al suicidio per amore di Antonio, Elena, moglie infedele di Menelao fu la causa della sanguinosa guerra di Troia, Semiramide, lussuriosa fu uccisa dal figlio incestuosamente amato. Sono tutte donne della tradizione classica, che vengono indicate come esempi di amore peccaminoso e lussurioso, donne famose nella storia dell'antichità' .

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":…..Poeta, volentieri parlerei / a quei due che ‘nsieme vanno /e paion sì al vento esser leggieri”.v 73-75 cnto V Inferno

“ Poeta io parlerei volentieri a quei due che vanno insieme e sembrano nel vento essere leggeri” Virgilio gli suggerisce di chiamarli facendo leva sull’amore che li unisce.

“.. O anime affannate /venite a noi parlar s’altri non niega”v 80-81

Il poeta fa leva sul loro tormento, mostrando così' tanta pietà' per la loro condizione. Gli risponde Francesca, mentre Paolo al suo fianco piange e tace: è Francesca da Rimini, o più precisamente Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, Guido il vecchio; dal 1318 Dante fu ospite, durante il suo esilio da Firenze, di un nipote di quest'ultimo, Guido Novello da Polenta. Francesca, giovanissima, fu costretta a sposare per ragioni politiche (1275) Gianciotto Malatesta, vecchio, zoppo e deforme. I due amanti, come racconta la cronaca del tempo, probabilmente nell’anno 1285, furono però sorpresi e uccisi dal marito–fratello offeso.

Francesca, mossa dalla domanda di Dante , esordisce con parole delicate, affettuose, commoventi .

“O animal grazioso e benigno / che visitando vai per l’aer perso/ noi che tignemmo il mondo di sanguigno:/se fosse amico il Re dell’universo/noi pregheremmo Lui della tua pace,/poi c’hai pietà del nostro amor perverso./Di quel che udire e che parlar vi piace,/noi udiremo e parleremo a vui,/mentre che ‘l vento come fa si tace./Siede la terra dove nata fui,/su la marina dove il Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui./Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/prese costui della bella persona/che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende./Amor, c’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte,/che, come vedi, ancor non m’abbandona./Amor condusse noi ad una morte,/Caina attende chi a vita ci spense.” (Inf. V, vv. 88-107)

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“ Oh essere animato, grazioso e pieno di bontà, che vai visitando noi che abbiamo sparso del sangue sulla terra; se il Re dell’Universo fosse nostro amico noi pregheremmo Lui per la tua pace, poiché hai pietà di questo nostro male perverso. Di tutto quello che vuoi sentire noi parleremo ed ascolteremo mentre la bufera tace. La terra dove sono nata riposa sulla pianura, vicino al mare, dove sfocia il Po per avere pace coi suoi affluenti. L’Amore che veloce si impossessa di un cuore gentile, fece innamorare costui della mia bella persona che mi è stata tolta e il modo come avvenne mi offende ; l’Amore che non perdona a nessuna persona amata di amare, fece innamorare me di costui che come tu puoi vedere è con me, non mi abbandona; Amore ha portato noi alla morte; la zona dell’Inferno Caina attende colui che ci ha spento.”

In tre terzine Francesca manifesta tutta la forza ineluttabile dell'amore, che alberga solo negli animi gentili, che così' colpiti si innamorano e sono attratti fisicamente dalla bella persona , un amore che viene seguito fino alla morte”. Questo Amore viene indicato come l'unica causa della tragedia. Ma Dante non si accontenta di questo racconto così generico, desidera sapere come si è rivelato l’amore , vuole conoscere il modo e la circostanza nella quale si è' manifestato.

“ .. ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,/ a che e come concedette amore/ che conosceste i dubbiosi desiri?”

Francesca non ha alcuna reticenza, gli manifesta, con estrema delicatezza e gentilezza, il momento cruciale della loro storia d’amore.

” E quella a me: Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ nella miseria; e ciò sa il tuo dottore/ Ma se a conoscer la prima radice/ del nostro amore hai cotanto affetto,/ dirò come colui che piange e dice./ Noi leggevamo un giorno per diletto/ di Lancillotto come amor lo strinse;/ soli eravamo e sanza alcun sospetto./Per più fiate li occhi ci sospinse/ quelle lettura e scolorocci il viso;/ ma solo un punto fu quel che ci vinse/ Quando leggemmo il disiato riso/ esser baciato da cotanto amante,/questi, che mai da me non fia diviso,/ la bocca mi baciò tutto tremante./ Galeotto fu quel libro e chi lo scrisse/ quel giorno più non vi leggemmo avante.

“ E quella disse a me : non esiste al mondo alcun dolore maggiore che ricordarsi del tempo felice durante la miseria, e questo sa il tuo dottore. Ma se tu vuoi conoscere la causa prima del nostro amore, io farò come colui che parla e piange .Un giorno noi stavamo leggendo il racconto amoroso di Lancillotto e Ginevra, eravamo soli e non sospettavamo nulla. Per più volte quella lettura ci sconvolse e spinse i nostri occhi a non guardare, ma soltanto un passo fu

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Scritto da Abbruscato Venerdì 18 Gennaio 2013 00:00 - Ultimo aggiornamento Giovedì 11 Gennaio 2018 11:49 quello che ci vinse. Quando leggemmo che il viso tanto desiderato ( quello di Ginevra) fu baciato da cotanto amante, allora questi che era sempre vicino a me, mi baciò tremante la bocca .Il libro fu Galeotto ( ruffiano),ed anche chi lo scrisse, e da quel giorno non vi leggemmo più.”

Dante è vinto da profonda pietà e cade a terra come corpo morto cade.

Nel cerchio della palude Stige, Virgilio cita la maga tessala Eritone, che lo aveva una volta costretto, con un sortilegio,a lasciare il Limbo per scendere nel nono cerchio infernale per evocare uno spirito sulla terra.

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,/congiurato da quella Eritòn cruda/che richiamava l’ombre ai corpi sui./Di poco era di me la carne nuda,/ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,/per trarne un spirto del cerchio di Giuda.(Inf. IX, vv.22-27)

Scendendo ancora nel profondo dell’ Inferno, sulle mura della città di Dite appaiono le Erinni, cinte di idre e al posto dei capelli hanno serpentelli e ceraste; sono Megera, Tesifone, Aletto, che gridano e si graffiano il petto.

. .tre Furie infernal di sangue tinte,/che membra femmine avieno e atto,/e con idre verdissime eran cinte;/serpentelli e ceraste avian per crine,/onde le fiere tempie erano avvinte."(Inf. IX, vv. 38-42) e poi:“Quest’è Megera dal sinistro canto,/quella che piange dal destro è Aletto,/Tesifòn è nel mezzo” e tacque a tanto.(Inf. IX, vv. 46-48)

Il Poeta non trascura di citare alcune figure femminini che non si trovano condannate all’Inferno, ma meritano di essere ricordate, o per la loro virtu', come ad esempio (Inf. XVI, v.37) l’ava del dannato Guido Guerra, “la buona Gualdrada”, (esempio di virtù domestiche e di onesti costumi nella Firenze del suo tempo) o come vittime di prepotenza, come la Ghisolabella, sorella di Venedico Caccianemico, condannato tra i ruffiani, per avere condotto la sorella nelle braccia libidinose del marchese .

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“I’ fui colui che la Ghisolabella/condussi a far le voglie del marchese,/come che suoni la sconcia novella.”(Inf. XVIII, vv.55-57)

Altre donne vengono commiserate per la loro triste sorte: è il caso di Isifile e Medea, sedotte ed abbandonate da Giasone, il conquistatore del vello d’oro, punito nella prima bolgia del cerchio ottavo ad essere continuamente frustato sul retro da diavoli cornuti e spietati, che ho citato sopra. Scendendo ancora più giù nell’imbuto infernale, nella quarta bolgia, tra gli indovini che vollero “veder troppo davante” ed ora “tacendo e lacrimando” procedono avanzando all’indietro col capo orrendamente torto, ci si presenta la maga Manto. Manto, figlia dell’indovino tebano Tiresia, è la fondatrice della città di Mantova (= Mantua, città natale del poeta Virgilio). Con questi versi, messi in bocca a Virgilio, viene raffigurata l’indovina :

“E quella che ricopre le mammelle,/che tu non vedi, con le trecce sciolte,/ e ha di là ogni pilosa pelle,/Manto fu, che cercò per terre molte;/ poscia si pose là dove nacqu’io;” ( Inf., XX, vv.51-56)

“Quella che con le sue trecce sciolte copre le sue mammelle,e dall’altra parte ha la peluria sua femminile, fu Manto che viaggiò per molte terre fino a quando non fissò la sua dimora dove io nacqui ( Mantova)”

Nella decima bolgia, dedicata ai falsari, nel XXX canto, Dante ricorda una madre resa folle dal dolore: Ecuba, regina di Troia, che, dopo la caduta della città, vede l’uccisione della figlia Polissena , immolata dai Greci sulla tomba di Achille,e poi trova sulla riva del mare il corpo fatto a pezzi del figlio Polidoro, ucciso da Polinestore, re di Tracia; la leggenda tramandava che ella impazzisse e fosse tramutata in cagna.

"Ecuba trista, misera e cattiva /poscia che vide Polissena morta,/e del suo Polidoro in su la riva/del mar si fu la dolorosa accorta,/forsennata latrò sì come un cane;/tanto il dolor le fé la mente torta". 16-21

“ Ecuba triste, misera e prigioniera, dopo che vide sua figlia Polissena morta e vide sulla riva del mare il suo Polidoro morto, impazzita latrò come un cane, tanto il dolore le travolse la mente”

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Dante non cita solo donne realmente esistite, o donne citate nella Bibbia, ma anche donne che appartengono al mito, come Mirra, che é collocata tra i falsari nella decima bolgia. Questa era una principessa, che per poter soddisfare la sua insana passione verso il proprio padre, Cinìra, re di Cipro, falsifico ' se stessa fingendosi un’altra donna. Il padre si accorse della falsificazione e, preso dall'ira e dal disgusto, cercò di ucciderla, ma ella riuscì a fuggire e fu poi mutata in pianta odorosa (la mirra, appunto).

"Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica/di Mirra scellerata, che divenne /al padre, fuor del dritto amore, amica./ Questa a peccar con esso così venne,/falsificando sé in altrui forma” v 37-41 canto XXX Inferno

“ Quella è l’anima antica di Mirra empia, che divenne amante del padre, fuori da ogni regola. Per potere peccare falsificò la sua persona fingendosi altra”

Sempre nella decima bolgia, sconta la pena un altro personaggio biblico, la moglie di Putifarre, ( ricco signore d’Egitto al tempo della cattività ebraica), la quale accusò falsamente Giuseppe di aver tentato di violentarla, ma la verità era un'altra , fu proprio lui a sfuggire ai suoi tentativi di adescamento e per questa la perfida donna lo accusò, per vendicarsi, nella speranza di vederlo condannato dal faraone. Dante la sistema tra le anime degli accusatori fraudolenti, che giacciono in preda ad una grande febbre.

L'una e' la falsa ch'accuso' Gioseppo v 97 canto XXX

In un solo verso il poeta ci segnala la storia la cui conoscenza è' affidata alla cultura di chi legge. Chi conosce la Bibbia la può' ricostruire, perché' Giuseppe è famoso e la sua é una bellissima storia.La falsa è la moglie di Putifarre, un ricco signore d'Egitto

Donne nel Purgatorio.

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Nel Purgatorio, dopo l’incontro con Catone, durante il quale si fanno dei riferimenti a Marzia, nel terzo canto, Manfredi, presentatosi come nipote di Costanza d’Altavilla ( anima che ritroveremo tra i beati nel III canto del Paradiso), prega Dante affinché, una volta tornato nel mondo dei viventi, riferisca a sua figlia (anch’essa di nome Costanza, che egli afferma essere “bella” e “buona”), che lui, nonostante la scomunica, si è salvato dall’Inferno e che ora si nel Purgatorio. Poi sorridendo disse:

“Io son Manfredi,nepote di Costanza imperadrice;/ond’io ti priego che, quando tu riedi,/vadi a mia bella figlia, genitrice/de l’onor di Cicilia e d’Aragona,/e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.” Versi 112-117

“Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,/ revelando a la mia buona Costanza/come m’hai visto, e anco esto divieto;/ché qui per quei di là molto s’avanza”. (Purg.III, vv. 142-145)

“ Poi sorridendo disse: io sono Manfredi, nipote di Costanza imperatrice;/io ti prego che quando ritorni sulla terra di andare da mia figlia Costanza, madre del re di Sicilia e d’Aragona, per raccontarle la verità, se sù si dicono altre cose. Vedi se mi puoi dare questa gioia manifestando alla mia buona Costanza come mi hai visto e anche la mia condizione di penitente a cui è vietato salire in alto senza le preghiere dei vivi.”

I versi alludono al fatto che Costanza sposò Pietro III d’Aragona e generò due figli,re, Federico di Sicilia ( onor di Cecilia, cioè Sicilia) e Giacomo D’Aragona ( onor D’Aragona).

Una donna, famosa, conosciuta come lo è Francesca, descritta con toni delicati ed epigrammatici, è Pia dei Tolomei, una donna vittima della prepotenza altrui. Non accusa apertamente il marito, ma fa capire che su di lui cade la responsabilità primaria della sua morte. Nel suo animo non c’è odio, solo un ricordo; tutte le anime del Purgatorio manifestano questo atteggiamento pacato, distaccato,, la loro vicenda non li appassiona, è solo un ricordo del passato.

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“ Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via/- seguitò 'l terzo spirito al secondo/ - ricorditi di me che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma:/salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua gemma” Purg., V, vv.130-136)

“ Deh, quando tu sarai ritornato al mondo e ti sarai riposato della lunga via, fece seguito il terzo spirito al secondo, ricordati di me che sono la Pia; mi fece Siena ( nacqui a Siena) mi disfece Maremma ( morii nella Maremma): come avvenne la mia morte lo sa colui che mi diede l’anello e mi sposò”

Pia de’ Tolomei, visse tra la fine del 1200 e i primi anni del secolo successivo. Ella apparteneva alla famiglia dei Tolomei di Siena. Sposo' Nello de’ Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, fu assassinata dal marito, che la fece precipitare da un balcone del castello della Pietra in Maremma. (Oggi le rovine di questo castello vengono ancora indicate come “il salto della Contessa”.).C’è chi dice che sia stata uccisa perché colpevole di infedeltà, chi invece sostiene che il marito se ne liberò per potersi risposare. Ci sono molte notizie infatti di una relazione e di un successivo matrimonio di Nello con una donna “dai molti mariti e dai molti amanti”: Margherita degli Aldobrandeschi. Il mistero della morte di Pia rimane fitto oggi come allora.

Nell'antipurgatorio , V canto del Purgatorio, è ricordata con biasimo Giovanna, da suo marito, Bonconte da Montefeltro, figlio del conte Guido, che chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere, perché sua moglie non lo ricorda più:

“Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;/Giovanna o altri non han di me cura;/per ch’io vo tra costor con bassa fronte”.( Purg. V, vv.88-90) /

13 / 19 Inferno,Purgatorio, Paradiso e le donne

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“ Io vissi a Montefeltro, e sono Bonconte;( mia moglie) Giovanna e altri ( della famiglia) non si prendono cura di me ( non pregano per la mia anima), e per questo io provo vergogna”

Nel canto IX, davanti la porta del Purgatorio, Virgilio fa sapere a Dante che Lucia era venuta dal cielo, lo ha preso e trasportato fino davanti la porta del Purgatorio , agevolandogli così il cammino

“ Danzi, ne l’alba che procede al giorno,/quando l’anima tua dentro dormia/ sovra li fiori ond’è laggiù addorno,/ venne una donna, e disse

Nel XII canto, nella prima cornice, dove sono scolpiti nel marmo degli esempi di superbia punita, Dante vede raffigurate due eroine della mitologia classica: Niobe e Aracne.

"O Niobè, con che occhi dolenti/vedea io te segnata in su la strada,/tra sette e sette tuoi figliuoli spenti."(Purg. XII, vv.37-39)

"O folle Aragne,sì vedea io te già mezza ragna, trista in su gli stracci de l'opera che mal per te si fé."(Purg. XII, vv. 43-45)

“ Oh Niobè con quali occhi dolenti ti vedevo scolpita sulla strada in mezzo ai tuoi sette e sette figli uccisi ( 7 femmine e 7 maschi). Oh Aragne folle, così io ti vedevo già mezza ragna, tutta triste tra i brandelli della tua opera che fu un male per te “

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Scritto da Abbruscato Venerdì 18 Gennaio 2013 00:00 - Ultimo aggiornamento Giovedì 11 Gennaio 2018 11:49

Con la parola brandelli il poeta si riferisce alla tela tessuta da Aragne nella gara con la dea Atena.

Niobe, moglie del re di Argo, andava superba per la numerosa prole (sette maschi e sette femmine) e si faceva beffe della dea Latona, che doveva essere commiserata perche' era madre di soli due figli Apollo e Diana; a causa di questa arroganza Niobe fu da lei punita con l'uccisione di tutti i suoi figli. Aracne, abile e superba tessitrice della Lidia, avendo sfidato la dea Atena nell'arte del tessere, fu da questa tramutata in ragno (Aragne = Aracne, nome che in greco significa "ragno").

Nel secondo girone dedicato agli invidiosi, Dante vede un'ombra, che sembra ansiosa di parlare con lui, e le chiede di farsi riconoscere.

“Tra l’altre vidi un’ombra ch’ aspettava / in vista; e se volesse alcun dir “Come?”,/lo mento a guisa d’orbo in sù levava./“Spirto” diss’io “che per salir ti dome,/se tu se’ quelli che mi rispondesti,/fammiti conto o per luogo o per nome”./"Io fui sanese"- rispuose- "e con questi/ altri rimondo qui la vita ria,/ lagrimando a colui che sé ne presti./ Savia non fui, avvegna che Sapìa /Fussi chiamata, e fui de l'altrui danni/più lieta assai che di ventura mia" (Purg. XIII, vv. 100-110

“Tra le altre ombre vidi una che attendeva in piena vista e levava in su il mento come fanno i ciechi.

Sapìa apparteneva alla famiglia senese Salvani, era zia di quel Provenzano, che aveva sperato di diventare Signore di Siena e che, per questa sua presunzione, Dante ha posto tra i Superbi, fu sposa di Ghinibaldo di Saracino, signore di Castiglioncello, presso Monteriggioni. Dalle poche notizie che sono pervenute sappiamo che prese parte alle lotte politiche e che, come essa stessa dice, assistette compiaciuta, perche' presa da grande invidia,alla sconfitta, ad opera dei Guelfi di Firenze, dei suoi concittadini, che erano guidati dal suo stesso nipote Provenzano Salvani, nella battaglia di Colle Val d'Elsa nel 1269.

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“ Eran li cittadin miei presso a Colle/in campo giunti co’ loro avversari /ed io pregava Iddio di quel ch’e’ volle./ Rotti fuor quivi e volti ne li amari /passi di fuga; e veggendo la caccia,/ letizia presi a tutte altre dispàri,/ tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,/ gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,/ come fe’ ‘l merlo per poca bonaccia.”* ( Purg. XIII, vv.115-123)

“I miei cittadini si trovavano nel campo di battaglia di Colle coi loro avversari e io pregava Iddio che si avverasse quello che poi avvenne ( la sconfitta dei Senesi), furono sconfitti e fuggirono e furono inseguiti; vedendo io tale caccia provai gioia non uguale a tutte le altre gioie, tanto che io volsi il mio viso verso Dio gridando così come fa il merlo quando vede un poco di bel tempo”

“E chèggioti per quel che tu più brami,/se mai calchi la terra di Toscana,/che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami./Tu li vedrai tra quella gente vana/che spera in Talamone, e perderagli/più di speranza ch’a trovar la Diana;/ma più vi perderanno gli ammiragli”. ( Purg. XIII, vv.148-154)

“E io ti chiedo in nome di quello che più desideri, se mai calpesterai la terra di Toscana, che tu mi ricordi ai miei parenti per ridarmi buona fama. Tu li vedrai tra quella gente inutile che spera nell’impresa di Talamone e perderà di più la speranza che ha nutrito di vedere Diana ( un mitico fiume sotterraneo); ma più di tutti perderanno quelli che dovevano comandare le navi ( gli ammiragli)”

Lei fortemente disprezza i suoi concittadini, definiti “gente vana”, perché sperano in imprese senza fondamento, sperperando i loro averi. Si diceva infatti che il borgo di Talamone sull’Argentario fosse stato acquistato dai Senesi per farne uno sbocco al mare, ma, essendo il luogo malarico, nonostante le ingenti spese essi non ne ricavassero niente. La Diana era un mitico fiume, che i Senesi credevano scorresse sotto la città, ma le lunghe e dispendiose ricerche non approdarono a niente.

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Negli ultimi versi del canto successivo, il poeta ode voci che gridano esempi di invidia punita. Viene ricordata Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, che invidiosa della sorella, aveva cercato di impedirne l’amore col dio Mercurio, e che da questi fu per punizione tramutata in pietra.“Io son Aglauro che divenni sasso” Purg. XIV,v. 139)

Anche qui il poeta allude alla storia di questa donna con un solo lapidario ma efficace verso.

Come esempio di mansuetudine, viene citata la mansueta risposta di Pisistrato alla moglie , di cui condanna l’atteggiamento altero e vendicativo. Essa infatti chiedeva di punire duramente l’affronto subito dalla figlia, baciata in pubblico da un giovane ateniese innamorato di lei.

"Indi m’apparve un’altra con quell’acque/giù per le gote che ‘l dolor distilla/quando di gran dispetto in altrui nacque,/e dir: “Se tu se’ sire della villa/del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,/e onde ogne scienza disfavilla,/vendica te di quelle braccia ardite/ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto”./ E ‘l segnor mi parea benigno e mite/ risponder lei con viso temperato:/“Che farem noi a chi mal ne desira,/se quei che ci ama è per noi condannato?”." (Purg., XV,vv.94-105)

“Indi mi apparve un’altra con le gote bagnate di lacrime spremute dal dolore provocato da qualcuno, che disse il sire ( re) di quella città, per il cui nome gli dei litigarono tra loro, e dalla quale promana ogni sapienza umana, vendica te stesso per quelle braccia ardite che in pubblico hanno abbracciato nostra figlia, o Pisistrato” E il signore, benigno e mite,mi pareva rispondere

Proseguendo nel nostro viaggio nel Purgatorio, troviamo, nella cornice dedicata agli iracondi, al canto diciassettesimo due figure mitologiche femminili che Dante ci offre come esempi di ira punita. Esse sono: Progne, e la regina Amata.

Progne, sposa dell’eroe greco Teseo, uccise il figlio Iti e ne diede in pasto le carni al marito, per punirlo d’aver violentato la sorella Filomena, e che per questo fu trasformata in usignolo.

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“De l’empiezza di lei che mutò forma/ ne l’uccel ch’a cantar più si diletta/ ne l’immagine mia apparve l’orma. (Purg, XVII, vv19-22)

“Nella mia immaginazione mi apparve la figura dell’uccello che più si diletta a cantare ( usignolo), nella quale fu trasformata colei che fu empia”

Per capire questo verso ed interpretarlo bisogna conoscere le metamorfosi di Ovidio, dove è' narrata questa storia.

La regina Amata, moglie del re Latino, credendo improrogabili le nozze di sua figlia Lavinia con lo straniero Enea, furiosa si tolse la vita, impiccandosi ad una trave:

"Surse in mia visione una fanciulla/ piangendo forte e dicea: “O regina/perché per ira hai voluto esser nulla?/Ancisa t’hai per non perder Lavinia;/or m’hai perduta! Io son essa che lutto*,/madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina”./

“ Apparve nella mia visione una fanciulla che piangendo diceva forte

Mentre salgono verso la sesta cornice, dedicata ai golosi, canto XXII ( versi 109-114), Virgilio nomina alcune eroine greche, che dice son con lui nel Limbo. Esse sono: Antigone, Deifile, Argia, Ismene, Isifile, Teti, Deidamia .

Nella cornice sesta dei golosi, XXIII Canto, vengono incontro anime terribilmente magre, il cui aspetto rinsecchito fa venire alla mente a Dante quello degli Ebrei dopo il lungo assedio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito. Allora, per la fame, narrava lo storico Giuseppe Flavio, una donna Maria di Eleazaro divorò bestialmente il suo stesso bambino:

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"Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco/la gente che perdé Ierusalemme,/quando Maria nel figlio diè di becco*!”."(Purg., XXIII,vv.28-30)

“Io tra me stesso pensando diceva

Tra di loro,( i golosi puniti con la pena del contrappasso, a non mangiare e a non bere, come il mitico Tantalo ), Dante incontra l’amico Forese Donati, morto circa cinque anni prima. Dante gli chiede come è possibile che non sia ancora nell’Antipurgatorio, come coloro che hanno atteso per pentirsi tanto tempo quanto durò la loro vita.

Forese risponde che è per merito delle lacrime e delle preghiere di sua moglie Nella, unica donna onesta in mezzo alle corrotte donne di Firenze e scaglia una forte invettiva contro la moda femminile del suo tempo:

“Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto/ a ber lo dolce assenzio d’i martìri/ la Nella mia col suo pianger dirotto,/coi suoi prieghi devoti e con sospiri/tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,/e liberato m’ha de li altri giri./Tanto è a Dio più cara e più diletta/la vedovella mia,che molto amai,/quanto in bene operare è più soletta;/ché la Barbagia di Sardigna assai/ne le femmine sue più è pudica/che la Barbagia dov’io la lasciai. XXIII 85-96

“Per cui egli disse a me

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