Torino Tra Ottocento E Novecento

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Torino Tra Ottocento E Novecento TORINO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO Data del 1853 il primo perimetro della città di Torino realizzato in muratura: è di quell’anno la costruzione della cinta daziaria, un muro alto dai quattro ai cinque metri, della lunghezza di una ventina di chilometri, interrotto soltanto alle barriere, dove montavano di guardia i vigili daziari per riscuotere quanto dovuto da chi portava in città pollame, burro ed altri prodotti di campagna. Qualche anno prima (1847) Torino era entrata a far parte della rete ferroviaria italiana, mediante il collegamento con Genova, seguito nel 1854 da quello con Susa e con Pinerolo; nel 1856 vengono realizzate le linee per Biella, Savigliano, Saluzzo, l’anno dopo quella per Novara. Nascono molti insediamenti industriali lungo la ferrovia, in particolare nella zona nord della città, per la maggior facilità di approvvigionamento che offriva la ferrovia e soprattutto perché in quella zona, grazie ai corsi d’acqua, vi era la possibilità di sfruttare l’energia idraulica. Nel 1863 iniziano i lavori di costruzione della Mole Antonelliana, cosiddetta perché progettata dall’architetto Alessandro Antonelli. E’ a lui che la comunità israelitica affida la costruzione del proprio tempio. Ne scaturisce un’opera rivoluzionaria e modernissima, che pur usufruendo della tradizionale struttura muraria, giunge a soluzioni che si pensavano realizzabili soltanto dall’architettura in ferro. La costruzione si sviluppa in altezza, non essendoci lo spazio per uno sviluppo orizzontale: sopra una pianta quadrata si innalza una cupola a vele sottilissime, un tempietto dorico e un’altissima guglia. I lavori vengono sospesi, ripresi, congelati; si dice che non è stabile, la comunità israelitica si rifiuta di continuare a pagare. La situazione si sblocca quando l’edificio in costruzione viene acquistato dal Municipio di Torino che lo destina a sede del Museo del Risorgimento. Nel 1888, anno di morte dell’Antonelli, raggiunge l’altezza di 165 metri: è l’edificio che celebra la vittoria dell’uomo sulla forza di gravità, l’onnipotenza raggiunta dalla tecnica, e riecheggia, nella sua concezione e nella sua simbologia, un altro monumento simbolo di quegli anni, la Tour Eiffel a Parigi. La città di Torino, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, è ripensata e riprogettata. Occorre fare i conti infatti con una popolazione aumentata del 70% dal 1848 al 1861, con la carenza di nuovi alloggi, con il nascere dei primi grandi insediamenti industriali nella zona nord. Torino si autocelebra nelle periodiche Esposizioni Internazionali dell’Industria e dell’Artigianato, di cui particolarmente significative per il decollo industriale sono quelle del 1871, 1880, 1884, 1888, 1902 e 1911. Cambia in pochi anni l’aspetto della città, nei suoi luoghi cruciali. Per esempio nasce un nuovo modo di intendere la piazza. Da spazio aperto, al cui interno si svolgevano in forma pubblica le attività quotidiane, nella seconda metà dell’Ottocento diventa un nodo della circolazione dei veicoli, e assume importanza cruciale il monumento, spesso celebranti personaggi ed episodi risorgimentali (Torino è la città d’Italia con più monumenti). Nel 1894, simbolo di un nuovo modo di intendere la città e il suo sviluppo, viene aperta via Pietro Micca, che però i torinesi chiameranno per lunghi anni “la diagonale”, perché, tra lo sbigottimento generale, il suo andamento obliquo aveva rotto quel reticolo perfetto costituito dalle vie della zona. Perde importanza il mercato tradizionale che aveva messo in rapporto fino ad allora la città con la campagna, si allontanano dal centro le botteghe degli artigiani, sostituiti negli stessi edifici da negozi con le vetrine piene di prodotti alla moda. Trionfa il liberty, uno stile floreale elegante e ricercato, celebrato dalla Esposizione di Arte decorativa ed Industriale del 1902 dove aveva trionfato nei mobili, nelle ceramiche, nella progettazione degli edifici, delle vetrate, dei cancelli, degli oggetti di uso quotidiano. Non sono pochi però i problemi che la città deve affrontare, un anno dopo l’altro. Il più grande, nella seconda metà dell’ottocento, è sicuramente legato al trasferimento della capitale del Regno da Torino a Firenze (1865) che provoca un arresto dello sviluppo economico, un calo della popolazione, la necessità di una riconversione di immagine e di ruolo. Le condizioni di vita dei lavoratori sono molto dure: ancora nel 1906, dunque a crisi superata e a fronte di un grande sviluppo della industria meccanica e soprattutto automobilistica, il 33% degli alloggi operai è costituito da una sola camera dove vivono dalle cinque alle dieci persone. 1 TORINO NELL’OTTOCENTO. LE PRINCIPALI INDUSTRIE ED ATTIVITÀ ECONOMICHE DELLA CITTÀ La prima fase di industrializzazione torinese, all’inizio dell’Ottocento, è caratterizzata dal sorgere di lanifici, cotonifici e setifici. Queste industrie si servono all’inizio di macchinario straniero: il loro sviluppo costante sollecita il sorgere di industrie meccaniche. Seguono le industrie chimiche: numerose per esempio le fabbriche di zolfanelli. Altra grande attività è la lavorazione del tabacco. Due sono i grandi stabilimenti dove si svolge: la Regia Fabbrica di Torino, in via Po, e Regio Parco, e danno lavoro a oltre 600 persone (da tener presente che la popolazione all’iniziod el secolo è di 80.000 abitanti). Vi sono quindi in città cinque fabbriche di candele, di cui la più grande appartiene a Michele Lanza, il costruttore della prima automobile italiana a quattro ruote (1895). Coloro che lavorano a Torino appartengono generalmente alla categoria di commercianti, impiegati, militari (oltre 7.000), osti e albergatori, vetturini, carrozzieri, insegnanti. Tanti i minori: per esempio nelle manifatture laniere, oltre 6.000 persone impiegate, circa il 20 % della manovalanza era costituito da bambini. Notevole peso hanno le officine militari, non soltanto perché danno lavoro a tante persone (per esempio, all’Arsenale lavorano 750 operai; alla fabbrica d’armi Valdocco 600; alle Officine di Artiglieria, altri 600), ma anche perché da queste maestranze deriverà il primo nucleo di operai altamente specializzati con cui prenderà avvio l’industria automobilistica. Si trattava infatti di manodopera qualificata, meccanici, metallurgici, siderurgici, carrozzai, le cui competenze diventeranno ancora più preziose con il passare degli anni e l’affacciarsi di nuove attività. Negli anni in cui Torino è capitale del Regno gli operai metallurgici che lavorano in città sono circa 6.000. Poco meno numerosi gli operai che lavorano nell’industria del legno, circa 5.000; 6.500 quelli occupati nell’industria alimentare, soprattutto dolciaria; 2.000 invece sono impiegati nell’industria dei pianoforti. La popolazione aumenta lentamente, nel 1881 conta 250.000 abitanti. La distribuzione dei mestieri non cambia granché: circa 10.000 sono diventati gli operai meccanici e metallurgici, e 50.000 gli operai addetti alle attività industriali in genere. Ma la città è all’avanguardia per molti aspetti. Dal 1837 è dotata di un’illuminazione pubblica a gas: è la prima in Italia, la quarta in Europa. Nel 1896 è una delle prime città del mondo a dotarsi di un doppio sistema di fognature, con una rete di canalizzazione bianca ed una nera. Nel 1884, all’Esposizione Nazionale, viene presentata per la prima volta l’utilizzazione della energia elettrica per scopi industriali: una rivoluzione immensa, uno spartiacque tra ottocento e novecento di cui oggi fatichiamo a renderci conto. Per la prima volta alcuni padiglioni sono illuminati con l’energia elettrica, che si diffonderà non soltanto nelle industrie ma nelle case, rivoluzionando abitudini, ritmi, persino l’arredo domestico. Le condizioni di lavoro, invece, non sono ancora cambiate molto. Tanto alto è il ricorso alla manodopera infantile e femminile (sottopagata, più ricattabile e dominabile) che occorre addirittura una legge (1886) che proibisca il lavoro notturno dei minori di dodici anni e limiti a sei ore quello dei ragazzi da dodici a quindici anni. Con sempre maggiore frequenza si impiegano le donne, soprattutto nell’industria laniera (circa il 70% delle maestranze), con orari che toccano spesso le quattordici ore al giorno. Con l’avvicinarsi della fine del secolo le ore di lavoro diminuiscono ma non scendono mai al di sotto delle dodici giornaliere. Gli ambienti di lavoro sono tutt’altro che salubri, anche perché generalmente ricavati da edifici preesistenti, come cascine, conventi, collegi. Chi si ammala non ha tutela, e può anche essere licenziato. Ancora all’inizio del novecento vi sono fabbriche in cui le condizioni di lavoro sono pesantissime. Un muratore guadagnava tre lire al giorno, un operaio finito 2 lire e mezza, manovali o garzoni molto meno, da due lire a una lira e mezza. Un chilo di pane costava (1896) 35 centesimi, un chilo di pasta 50 centesimi, un etto di burro 30 centesimi, un chilo di riso 40 centesimi, un litro di latte 30 centesimi; un alloggio di due camere costava 15 lire al mese. Le donne guadagnavano molto meno: da mezzo centesimo e una lire e mezza; le strussere, ossie le bambine aiutanti delle filatrici, trenta centesimi. In certe fabbriche poi le multe erano un ottimo sistema di decurtazione dei salari. Si era multati di 30 centesimi se si era sorpresi a parlare, 2 20 centesimi per un ritardo di cinque minuti. Non vi erano sussidi per la pensione, fino al 1899, quando si varò il progetto di versare un assegno agli operai durante l’invalidità e la vecchiaia. COME SI SVAGAVANO I TORINESI Si adorava il ballo, in tutti i ceti sociali; e si andava molto a teatro, frequentato come oggi il cinema o forse più a tutti i livelli. Il caffè era un punto di incontro non soltanto sociale o mondano ma anche artistico, politico, culturale. Intorno al 1840 le “botteghe da caffè” a Torino sono più di cento, e vengono frequentati da tutti, braccianti, contadini, operai, uomini d’affari. Tutti usano bere il bicerin, deliziosa bevanda calda a base di caffè, panna, cioccolata. I caffè torinesi sono sempre forniti di giornali, riviste e quotidiani di ogni tendenza; era costume leggere il giornale al caffè, e questo dava esca ad interminabili discussioni politiche.
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