Enrico Ghetti

Giuseppe Avanzi (1645 - 1718), un pittore nella di secondo Seicento

Comune di Ferrara

2016

2 Il Comune di Ferrara, nell'ambito dell'attività editoriale di comunEbook e della collaborazione con Liceo Scientifico “Antonio Roiti” di Ferrara, ha varato il "Premio comunEbook Ferrara" rivolto a tesi di laurea specialistiche o magistrali aventi come oggetto aspetti della storia dell’arte, dell’architettura, dello spettacolo e del cinema legati al territorio ferrarese.

Il fine è quello di valorizzare le ricerche di giovani e promettenti studiosi consentendo la condivisione, ampia e gratuita, dei risultati culturali, storici e scientifici da loro raggiunti attraverso la pubblicazione delle tesi prescelte.

Il premio ha cadenza annuale e prevede l’assegnazione di due borse di studio e la pubblicazione delle tesi attraverso comunEbook Ferrara. Una delle borse di studio è riservata a tesi discusse presso l’Università degli Studi di Ferrara.

Il testo che vi accingente a leggere è pertanto la rielaborazione, adattata alle esigenze editoriali, di una delle due tesi selezionate nel 2015 da una commissione composta da esperti negli ambiti sopra indicati individuati dall’Amministrazione comunale in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara tra il personale scientifico del Comune e docenti dell’Ateneo ferrarese.

Per informazioni sul "Premio comunEbook Ferrara": http://www.comunebookferrara.it/premio-comunebook/

Tratto dalla tesi di E. Ghetti, Giuseppe Avanzi (1645 - 1718), un pittore nella Ferrara di secondo Seicento, Università di , Scuola di Lettere e Beni Culturali, Corso di Laura magistrale in Arti Visive, rel. prof. D. Benati, corr. prof.ssa B. Ghelfi, a.a. 2013/2014.

3 Prefazione

La monografia di Enrico Ghetti ci fa conoscere e apprezzare Giuseppe Avanzi, il pittore più prolifico nella Ferrara del secondo Seicento. Dopo le biografie di Girolamo Baruffaldi e Cesare Cittadella, che sottolineavano la sua indole naturalista, opposta a quella dei classicisti Maurelio Scannavini e Giacomo Parolini, allievi di Carlo Cignani, il suo carattere sbrigativo e l’abbondante, ma discontinua, produzione pittorica, in epoca moderna è stato Eugenio Riccomini, nel suo fondamentale volume sulla pittura a Ferrara nel Seicento del 1969, il primo a tentare una rivalutazione critica dell’artista ferrarese. Partendo dal contesto storico politico della Ferrara di metà Seicento, che in assenza della corte estense e dopo la scomparsa di Scarsellino e Carlo Bononi presentava ancora un’attività artistica rilevante, Enrico Ghetti, grazie a un approccio di studio che si è tradotto in accurate ricerche bibliografiche e archivistiche e nell’indagine sul campo, dimostra che Avanzi è stato in grado di recepire e rielaborare le sollecitazioni classiciste d’osservanza cignanesca di Scannavini, la modernità del primo Parolini e il paesaggismo di Giuseppe Zola. Dunque non fu un pittore irrimediabilmente ritardatario ma si rivelò capace di recepire le novità del panorama artistico contemporaneo e di conquistarsi un pubblico ampio e diversificato grazie al suo linguaggio originale e schietto. La ricognizione di Enrico Ghetti, che ha prodotto un catalogo ragionato delle opere e l’identificazione di diversi dipinti inediti, non ha precedenti nei contributi dedicati all’artista e nel contesto della pittura ferrarese di secondo Seicento. Grazie a questo lavoro è oggi possibile mettere a fuoco le circostanze di alcune importanti commissioni messe in cantiere da Avanzi, come il soffitto per la chiesa di San Carlo, i dipinti per la chiesa dei Santi Giuseppe Rita e Tecla e il ciclo un tempo nell’oratorio di San Crispino dell’Arte dei Calzolai che vide coinvolto anche Giacomo Parolini. Dal punto di vista metodologico il lavoro di Ghetti rappresenta un esempio importante per approfondire gli studi su un momento ancora poco considerato, quello cioè della produzione artistica a Ferrara nella seconda metà del XVII secolo e aprire la strada alle ricerche future.

Barbara Ghelfi

4 Ferrara nel secondo Seicento, contesto storico - politico

Pur non essendo la finalità principale di questa ricerca, un breve excursus storico e politico è opportuno per meglio comprendere l'ambiente in cui si trovarono a operare Giuseppe Avanzi e gli altri artisti locali. Nondimeno, la comprensione di alcuni aspetti è utile per meglio intendere il livello qualitativo di questi pittori, prevalentemente medio basso, e più ancora per comprendere il successo di cui godettero. Gli studi che permettono di approfondire la situazione ferrarese di quegli anni sono quelli di Riccomini sulla pittura a Ferrara del Sei e Settecento e quelli di monsignor Paliotto che indaga gli stessi secoli sul versante della storia politica e religiosa1. Il governo legatizio insediatosi nel 1598 comportò la restrizione in chiave moralista di un'area storicamente abituata a godere di una relativa libertà nei confronti di Roma. Questo clima di rigore è illustrato dalle dettagliate cronache contemporanee che narrano dell'attività di vescovi e legati. Soggetti dalla moralità irreprensibile si alternano ad altri che si preoccuparono prevalentemente del proprio tornaconto. Carlo Pio (1655 - 1662) ad esempio si comporta per certi versi da vescovo illuminato poiché riforma l'Università2 e inaugura nel proprio palazzo un'accademia letteraria3. Ciononostante non risulta molto amato dal popolo, avendo instaurato un clima di tensione e severità che lo costringerà a lasciare in fretta e furia la città (anche se al momento si ignorano le reali ragioni di questo abbandono4). Lo stesso si può dire per il cardinal Alderano Cybo (1651 - 1654), il legato che affiancò il Pio nei primi anni del suo Vescovado. Questi si dimostrò non meno rigido; all'atto dell'insediamento si preoccupò di comunicare al Maestrato la sua totale indisponibilità nel concedere grazie per i delinquenti e venne in seguito ricordato come persona dura sia con i sottoposti che con la nobiltà. Componente non secondaria fu senza dubbio l'aver lasciato le casse della città semi vuote5. Alcuni provvedimenti a favore della crescente povertà furono voluti dal legato Neri Corsini (1667 - 1670) che decise di ricostituire il Monte di Pietà (opera portata a termine del suo successore, il cardinale Nicolò Acciaroli6, 1670 - 1675), mentre non dovevano essere ben viste da una comunità già "sotto controllo" le norme da lui volute per ridurre gli eccessi di lusso7 che, si potrebbe supporre, si riflettevano anche sulla decorazione delle cappelle gentilizie nelle principali chiese. Acciaioli ricoprì un secondo incarico come legato alcuni anni dopo (1680 - 1689), durante il quale gli fu riconfermata la stima già dimostratagli dalla cittadinanza8. Egli stilò numerosi atti a favore della popolazione ed in particolare della classe più povera9. Il suo successore, il cardinale Lorenzo Imperiali (1690 - 1696), non fu altrettanto amato avendo curato principalmente i propri interessi attraverso certi traffici poco chiari sul prezzo del grano, in un periodo in cui, tra l'altro, esso non abbondava10. Restrizioni nei confronti della nobiltà si avranno anche col vescovo Carlo Cerri (1670 - 1690) che farà rimuovere tutte le insegne gentilizie dai portoni delle chiese "non volendo che alcuna persona fosse protettrice d'alcuna chiesa11". Le ragioni del declino culturale del territorio si possono ricercare anche in un certo disinteresse dei prelati per la cattedra ferrarese. Marcello Durazzo (1690 - 1691) ad esempio non raggiungerà mai la sede vescovile, mentre dopo di lui per cinque anni (1691 - 1696) essa rimarrà addirittura vacante, retta prima dal vicario e fino al 1696 dal cardinale legato Imperiali. La preoccupazione principale di questi alti prelati, il cui incarico sarà quasi sempre di breve durata, è quella di compiere visite ed ispezioni, per accertarsi del rispetto delle norme, delle liturgie e dei doveri del piccolo clero e del popolo, come l'osservanza dei sacramenti e la partecipazione alle messe. E' raro invece trovarli interessati all'arredo e al decoro urbano. Se infatti Pio si limita a far erigere una cappella in Santo Spirito (che consacra nel 165312), piccoli interventi in ambito artistico si avranno col cardinal Giacomo Franzoni (1660 - 1664) che risarcirà il Castello, dove farà restaurare a Carlo Borsatti pitture credute di Dosso13. Egli avalla inoltre l'idea del Maestrato di erigere una statua ad Alessandro VII in piazza Duomo, che verrà realizzata da Mateus Laumbiech su modello di Alessandro Caprioli14. Al vescovo Giovanni Stefano Donghi (1663 - 1669) si devono modifiche alla cattedrale dove farà aprire alcune finestre sul fianco sud e dove dedicherà una cappella al Santissimo Sacramento15. In Duomo il vescovo Carlo Cerri porterà più danno che beneficio: ne farà infatti imbiancare l'interno noncurante di affreschi e decori e,ancor peggio, farà abbattere l'importante apparato progettato da Nicolò Baroncelli e Domenico di per l'altare maggiore16. Le vicende del monumento ad Alessandro VII proseguiranno alcuni anni dopo durante la legazione di Sigismondo Chigi (1673 - 1676). Questi approva l'erezione di una colonna in piazza Nuova decorata su disegno di Cesare Mezzogori sulla quale verrà traslata la statua del Pontefice17, suo zio. Si può aggiungere che l'unico a coltivare l'educazione di un artista ferrarese fu il vescovo Pio, mecenate di Giovanni Bonati. Si preoccupò infatti della sua formazione presso ma partendo per Roma, dopo la rinuncia alla cattedra ferrarese, lo volle con sè, dimostrando di averlo cresciuto esclusivamente per il proprio godimento e non per beneficio della città natale. Non va dimenticato che il cambio di bandiera a Ferrara comportò l'instaurarsi di un clima costantemente guerresco. Pur se non toccata direttamente da eventi bellici, la città subì sin dal 1599 una progressiva militarizzazione il cui atto fondante fu la costruzione della Fortezza. Quest'ultima fu voluta come simbolo del cambiamento di regime piuttosto che per un'utilità concreta, e fu rivolta più alla difesa dai ferraresi che dei ferraresi18. La Legazione verrà coinvolta, indirettamente, anche nella guerra dei Trent'anni e, in modo più diretto, in quella di Castro per la quale fornì soldati. Ma soprattutto divenne un territorio di confine sempre a rischio di scontri, a volte con Venezia, a volte con l'Impero, a volte coi confinanti Estensi19. Ciò comportò la perenne presenza di guarnigioni armate: basterà citare le rappresaglie contro Farnese ed Este durante la guerra

5 di Castro, i rischi di scontri del 1662 con la Francia20 o ancora la ciclica presenza, negli anni Novanta, di truppe imperiali svernanti sui confini modenesi21. Azioni del genere portarono come si è detto alla "protettiva" presenza costante di armati a Ferrara e sul contado che ebbe notevoli ripercussioni su un bilancio alimentare già reso precario dalla situazione climatica, tanto da tenere il popolo in perenne rischio di carestia22. Senza contare le azioni vandaliche perpetrate dagli armigeri nei confronti del territorio e della popolazione. I problemi climatici non furono una componente di disagio secondaria poiché flagellarono Ferrara nel corso dell'intero secolo. Si spiegano oggi con un fenomeno geo-meteorologico ciclico che prende il nome di Piccola Età Glaciale23, periodo che comportò abbassamenti consistenti delle temperature e una piovosità fuori dall'ordinario. Nel 1662 il freddo fu taleda gelare il Po da una sponda all'altra24; nel 1697 una eccezionale grandinata con chicchi "come ova" distrusse interi raccolti25; nel maggio di ventidue anni prima sono testimoniati interi mesi di pioggia che resero impossibile la coltivazione delle terre26. È evidente che il clima (non solo quello atmosferico) non era certo favorevole alla crescita culturale essendo ben altri i problemi da gestire. Oltre a quelli citati si aggiunga la questione delle acque che da sempre interessava il territorio estense, soggetto a costante rischio di alluvione. In un secolo funestato da piogge frequenti e abbondanti il problema era ancora più sentito, col cedimento di argini e con l'esondazione di fiumi e canali (basti ricordare le rotte più devastanti del Po e del Reno: nel 1651, due volte nel 165227 e nel 167728). La maggior parte degli interventi artistici si riduce in questo periodo alla messa in atto delle disposizioni delle autorità che imponevano la dotazione degli altari di immagini quasi seriali (si pensi alle varie redazioni della Madonna del Rosario), la cui sola finalità era quella cultuale poiché le iconografie dovevano attenersi a rigidi schermi. Un fatto, questo, che probabilmente non incentivava i più facoltosi ad investire in opere di pregio, lasciando agli sforzi della comunità l'onere di raccogliere fondi che, nella maggioranza dei casi, erano appena sufficienti per l'ingaggio di artisti mediocri. Nonostante la situazione di crisi economica e politica, a quanto si apprende dalle visite pastorali nel secondo Seicento la popolazione sembra aumentare, specie nelle campagne. Ne è testimonianza la costruzione di nuovi edifici di culto in più di una parrocchia: a quanto pare quelli vecchi non erano più sufficienti a contenere i fedeli e andavano ingranditi. Negli anni del vescovo Cerri, ad esempio, si riedificano le parrocchiali di Bagnolo e Giacciano nella Transpadana29. La visita di monsignor Bertoni (1693) attesta la costruzione di edifici più grandi a Codifiume, Occhiobello e a Fiesso, dove la chiesa, nota agli studi per ospitare il ciclo della bottega bononiana sulla vita della Vergine, viene "notevolmente ingrandita in larghezza e lunghezza e quasi del tutto modificata"30, così come la sagrestia. L'arcipretale di Trecenta, che la visita di Cerri mostra ammodernata negli altari dei Magi e di San Carlo (dove si trovano i dipinti di Bononi), nel 1693 è descritta da Bertoni come alzata ed ampliata31. Lo stesso si può dire di Bergantino e di Cocomaro di Focomorto32. Come si vedrà in seguito questo fermento edilizio non è contraddittorio della situazione socio politica in cui si trovava la Legazione, anzi, è confortato da un medesimo fermento nel campo della decorazione degli altari ferraresi. In città infatti si assiste, in questo cinquantennio, alla sostituzione di numerose pale, perlopiù per volere del clero e delle confraternite. Ai gusti di questi pare si adeguino "per inerzia" anche le commissioni private, ad esempio quella di Euride Crispi Manfredi in San Giuseppe (che si affida a Giuseppe Avanzi, pittore di fiducia degli Agostiniani33). E non è contradditorio poiché le motivazioni che spingono a rinnovare gli edifici di culto, talvolta ingrandendoli, sono le stesse che portano ad ammodernare le iconografie dei dipinti, ossia motivazioni devozionali. Le chiese si ampliano solo per raccogliere più fedeli, non per manifestare l'interesse della comunità (o di singoli benefattori) a riunirsi in un luogo pregevole che è anche motivo di vanto, tanto che spesso questi nuovi edifici non sono riccamente decorati. Sintomatico è che anche a Ferrara importanti chiese come San Giuseppe o i Teatini, erette nella prima metà del Seicento, rimangono incompiute nella facciata. I dipinti si rinnovano in chiave "devota" probabilmente come risultato dello stretto controllo curiale che impone iconografie semplici, finalizzate essenzialmente al culto e all'educazione. Ma tali cambiamenti si devono anche al timore provocato in artisti e committenti dal controllo esercitato da un'autorità che le cronache dell'epoca tramandano come estremamente severa e attenta34. A conferma di ciò basti osservare la situazione del primo Settecento. Questo si apre con il vescovado di Dal Verme che durerà quasi un ventennio (1701 - 1717). Ai sui tempi in città erano presenti venti parrocchie, ventiquattro conventi maschili, diciassette femminili, cinque conservatori femminili e vari ospedali a gestione religiosa. Chiari indizi di una società fortemente clericalizzata. Il nuovo secolo, lungi dall'incominciare positivamente, è caratterizzato dalle rotte del Po di Primaro (1705) e dal perdurare della presenza di truppe nazionali e straniere sul territorio. A ciò si aggiunge una epidemia bovina (1713) che contribuì a ridurre il popolo alla fame35. Memorabile in particolare il saccheggio tedesco del 1708, durante il quale una cannonata frantumò il polittico Roverella di Cosmè Tura, un Sant'Antonio da Padova di Scannavini e la prima campata della chiesa di San Giorgio con le decorazioni di Francesco Ferrari (poi reintegrate dal figlio Anton Felice ed in parte da Giacomo Parolini). Ma proprio in coincidenza della fine di questo assedio qualcosa sembra mutare. Il segnale della fine dalla crisi economica è dato da una crescente disponibilità finanziaria che consentirà la ripresa edilizia. Il caso più significativo è l'inizio dei lavori di ammodernamento della cattedrale, il cui interno medievale fu totalmente cancellato dai lavori promossi nel 1712 dal cardinal Ruffo. Ma anche con la ricostruzione totale di chiese importanti come San Domenico e San Girolamo36. Senza contare che proprio nei primi anni del nuovo secolo si avvia una rinascita delle arti, con la comparsa di una

6 nuova generazione di pittori locali dalle doti e dalla cultura nettamente superiori a quelli della generazione precedente. È il caso di Giacomo Parolini, artista dalla formazione eclettica, o del suo allievo Giuseppe Ghedini. O ancora di Giuseppe Zola che, bresciano di nascita, trascorse la sua vita a Ferrara, al quale si deve l'introduzione in città della pittura di paesaggio.

7 Pittura a Ferrara nel secondo Seicento

Quello del declino delle arti a Ferrara a cominciare dal Seicento è un topos ormai smentito con la riabilitazione dei nomi di Bononi e Scarsellino e con il riconoscimento del loro livello qualitativo, ma anche con l'attribuzione del merito che spetta a figure quali Camillo Ricci, Alfonso Rivarola, Jan van Beyghem e Caletti. Ma è d'altro canto evidente come tale declino permei la seconda metà del secolo quando, con la scomparsa di questi artisti, i vuoti non vennero colmati da figure altrettanto degne. Se sembra realistico pensare che la scintilla vitale si spenga con la dipartita della Corte (i due caposcuola seicenteschi nascono ed operano inizialmente sotto la tutela di essa), non è però possibile imputare all’evento questo decadimento qualitativo. Intanto perchè la corte continua a finanziare imprese a Ferrara da Modena37 e poi perchè più banalmente le arti prosperavano in città, come , che di corte non furono mai sede. Tant'è che il declino, a Ferrara, è essenzialmente qualitativo ma non quantitativo: le fonti testimoniano centinaia di dipinti eseguiti nella seconda metà del secolo. E sarà opportuno considerare un fatto ad oggi non ancora analizzato, cioè l'arrivo in città di numerosi artisti forestieri. Le pagine che seguono sono una prima introduzione allo studio di figure trascurate dalla critica ma caratterizzate da un livello qualitativo medio, come di altre minori che comunque hanno connotato mezzo secolo di vita ferrarese e che per questo meritano di essere approfondite. E’ il caso ad esempio di Francesco Robbio, definito milanese dalle fonti38 ma presumibilmente originario dell'omonimo comune in provincia di Pavia da cui prende il nome. Di lui restano pochissime prove in città, perlopiù ad affresco. Fra queste un Crocifisso, eseguito nel 169439 nell'edicola sul lato esterno destro di Sant'Antonio Vecchio (fig.1). Restaurato in tempi recenti40, pur nella consunzione che lo connota, mostra all'opera un pittore "ordinato, un po' legnoso, del tutto adatto alla committenza ferrarese, parsimoniosa e poco bramosa di novità"41. Lo stesso si può dire degli affreschi nella tribuna di San Domenico, per forza settecenteschi viste le vicende architettoniche dell'edificio. Altro forestiero, di fama e popolarità maggiori rispetto a Robbio, è Giulio Cesare Avellino. Le sue origini sono messinesi42 e la sua notorietà locale è legata all'introduzione in città della pittura di paesaggio, genere sporadicamente praticato prima del suo arrivo43. Attestato con grande frequenza negli inventari dell' epoca, di lui si sono perse quasi completamente le tracce, essendo al momento sopravvissuti alle dispersioni solo tre quadri (fig. 2), per di più di ubicazione ignota44. La sua importanza non deve essere sottovalutata se poco tempo dopo un altro paesaggista, il bresciano Giuseppe Zola, al suo arrivo a Ferrara troverà la città pronta ad accoglierlo, evidentemente preparata al nuovo gusto introdotto da Avellino e bisognosa di nuovo materiale, tanto da fornirgli incessanti commissioni che soddisferà con l'aiuto della bottega. Il problema principale relativo a questi forestieri è la carenza di opere superstiti. E' il caso di Orazio Mornasi che apparentemente si distingue per essere l'unico propriamente straniero poiché, se in alcuni documenti è definito semplicemente “della Scala”45, il Brisighella lo considera fiammingo46 mentre Rizzi lo dice avignonese47, probabilmente derivando tale informazione dalla Memoria48 manoscritta dei padri Agostiniani, che questi non hanno però permesso di consultare. Dalla stessa è probabile che egli ricavi la notizia di una pala oggi dispersa con i santi Guglielmo d'Aquitania e Tommaso di Villanova datata al 1664 che si colloca pochi anni prima della sua morte, avvenuta nel 166749. La pala per l’oratorio di San Luca, anch'essa perduta, potrebbe ipoteticamente appartenere al fratello Cesare poiché Nicolò Baruffaldi la pone nel 166850. Attualmente di sua mano non esistono opere certe. I Misteri del Rosario di Ceneselli sono citati solo da Baruffaldi51, mentre le tre pale per Santo Stefano (fig. 3), di due mani diverse, sono ascritte alternativamente a lui o a Tommaso Capitanelli52. Su queste fragili basi ci si fa l'idea di un pittore dai ricordi bolognesi, come del resto afferma il Cittadella53, ma il cui referente principale sembra ancora Scarsellino. Definito scolaro di Francesco Ferrari54, è probabile che egli abbia potuto avere a che fare con pittori affini a Camillo Ricci, per quella sua compostezza e il devoto richiamo all'ordine che mostrano una progressiva scomparsa di genio creativo. E' probabile che i pittori di cui si è parlato fossero giunti a Ferrara in cerca di fortuna, sperando di sfruttare il prestigio passato della ex capitale e di trovare ancora un ambiente accogliente. Diverso è invece il caso di artisti che lavorano per la città sporadicamente, ricercati da committenti di buon gusto che evidentemente non trovano in loco artisti capaci di soddisfarli. Questo rivolgersi all'esterno resta comunque relativo a situazioni isolate e rare. Un esempio è fornito dalle due grandi Storie di Santa Tecla (fig. 4) commissionate a Girolamo Troppa da Gabriele Bartoli, priore degli Agostiniani neo eletto a Roma dove probabilmente ebbe modo di entrare in contatto con l'artista, il quale inviò le due opere nel 166855. I dipinti, che palesano una conoscenza diretta dell'opera di Correggio e di Annibale, mostrano “un’impaginazione movimentata e retorica e di crosta intensamente pittoricista” che li apparenta allo stile di Giacinto Brandi e Francesco Mola56 (che fu punto di riferimento anche per il ferrarese Bonati). A dispetto della notizia riportata dalla Memoria del convento agostiniano, che ci informa che “piacquero non poco al popolo il quale li apprezzò per la loro bellezza et vaghezza”57, va detto che l'influenza che tali dipinti ebbero sugli artisti locali fu pressoché nulla. Nelle tele che il nuovo priore commissionò a Giuseppe Avanzi per completare il ciclo di Storie della Santa non vi è né l'eco dello stile romano, né la volontà dell'artista ferrarese di far percepire i propri come pendants delle opere di Troppa, con accorgimenti miranti ad alludere alla continuità narrativa.

8 Cadranno nel vuoto anche altri tentativi di introduzione a Ferrara del linguaggio romano. Fu Alessandro Scanaroli a commissionare ad Andrea Sacchi il San Giovanni Battista per i Teatini (fig. 5). Essi a loro volta ordinarono, probabilmente tramite lo stesso Scanaroli58, gli affreschi del coro della loro chiesa a Clemente Maioli (fig. 6), pittore del quale non sono noti i natali59. Egli è documentato a date precoci come membro dell'Accademia di San Luca, nelle cui Congregazioni appare frequentemente60, mentre a Ferrara la penuria di attestazioni è sorprendente. Ma soprattutto il suo stile fin dalle prime opere note denuncia una formazione romana chiaramente riscontrabile negli affreschi di Santa Maria della Pietà, la più tarda delle sue opere superstiti, che il contratto reperibile nel fondo archivistico dei Teatini fissa al 167161. Come si è detto è chiaro il referente cortonesco di Maioli ed in particolare l'avvicinamento ad allievi del maestro quali Lazzaro Baldi e Giovanni Francesco Romanelli. Di quest'ultimo egli pare quasi un copista: per i Barberini aveva realizzato la versione di un'Ultima cena e quella di una Madonna col Bambino e San Giovannino; inoltre la sua unica tela superstite (Roma, Pantheon) riprende più di una figura dai Martiri persiani in San Carlo ai Catinari, sempre del Romanelli62. Le Storie di San Gaetano ai Teatini sono forse il più solenne tra i rarissimi cicli di affreschi sopravvissuti della Ferrara del secondo Seicento. Nonostante ciò, come ha notato Riccomini63, non avranno seguito nel panorama artistico locale, se non forse un pallido ricordo nei trompe l'oeil che sfondano su ambienti dal soffitto a lacunari che Menegatti affresca sulla cupola di San Carlo come alloggio delle Virtù, dubitativamente memori delle finte cantorie angeliche di Maioli. Quanto ai bolognesi occorre ricordare i dipinti degli “adottivi” Gennari. La loro attività tuttavia non è particolarmente degna di nota poiché, pur eseguendo dipinti di qualità medio alta, non sono che riproposizione di modelli tardoguercineschi come il San Liborio di Benedetto (Ferrara, Pinacoteca Nazionale, già in San Domenico), quando non addirittura copie dei capolavori del maestro64. Se di Cesare Mezzogori è palese la componente bolognese a metà strada fra l'idealismo reniano e la dolcezza carraccesca, per artisti di buon livello come Giacomo Parolini e Maurelio Scannavini è tradizionalmente riportata la notizia di un apprendistato presso Carlo Cignani65. Le opere superstiti del primo, oggetto di studio solo di recente da parte di Nora Clerici Bagozzi66, constano principalmente di due nuclei: uno di lavori eseguiti per Comacchio, sua città natale, e uno per Ferrara. Al primo non appartengono opere documentate, né certamente riferibigli, ad eccezione della Madonna del Rosario (Comacchio, chiesa del Rosario) e della lastra incisa su marmo murata nel portico della chiesa dell’Aula Regia raffigurante la Madonna in gloria. Collegabili ad essa sono le decorazioni a ramo di quercia della colonna in piazza Ariostea per le quali però Mezzogori fornisce solo i disegni, riportati su marmo da Andrea e Michele Bresciani nel 167567. Più interessanti sono i dipinti ferraresi e segnatamente quelli eseguiti per gli Agostiniani, coi quali egli fu in contatto per quasi un ventennio. E’ la solita Memoria che permette di datare e di attribuire con certezza le sue opere in San Giuseppe. Come si può notare ad esempio nella Presentazione al Tempio (fig. 8) egli non abbandona soluzioni ancora cinquecentesche, come se ne vedono anche in Avanzi, ad esempio il panneggiare arrovellato del manto della Vergine, che conserva qualcosa di garofalesco, o quello sovrabbondante di San Giuseppe. La fascinazione che la scuola bolognese esercita su Mezzogori è ben evidente nell'adozione ricorrente del topos ludovichiano dei due angeli appartati in secondo piano intenti a un muto dialogo, come si ritrovano ad esempio nella celebre Carraccina e che adotterà volentieri anche Guercino. Ma anche nella derivazione reniana del tipo di Madonna che solleva il velo68, impiegata dal comacchiese nella sua redazione della Fuga in Egitto (fig. 7) che per la verità è derivata più direttamente dalla versione ampliata (fig. 9) che Pietro Lauri (Pierre Laurier), allievo di Reni, realizza per Argenta69, dove Mezzogori aveva potuto facilmente vederla. Se la composizione di Mezzogori appare fortemente contrastata e memore di Bononi, un certo idealismo emerge nel paludato abbigliamento di Maria e nelle figure più smaltate degli angeli di destra che staccano su un paesaggio minimale ma morbidamente fuso e dalla avvolgente atmosfera dorata. Non è necessario rilevare l'irraggiungibilità dei modelli reniani o carracceschi, ma va comunque constatata l'abilità di Mezzogori nel raggiungere un risultato proprio che si distingue per unitarietà di narrazione e capacità di regia luministica, nonchè per una certa morbidezza diffusa che rende armonico l'insieme (certo caratteristiche non rilevabili nel quadro di Lauri). Le stesse peculiarità si ritrovano nel Riposo durante il ritorno dall'Egitto, mentre nella Presentazione al Tempio (fig. 8) compaiono alcune rigidità e un affollamento che rendono più goffa la composizione. Queste discrepanze possono spiegarsi con la presenza assidua a fianco di Mezzogori del non meglio noto Giacomo Filippo Felletti, suo collaboratore ricordato dal Cittadella70. Il calo qualitativo emerge ancor più nel grande San Guglielmo curato dalle pie donne che, vuoi per il formato maggiore, vuoi per la cronologia tarda (1680)71, dimostra poca scioltezza e si riscatta solo in brani come il braccio abbandonato del Santo, abilmente chiaroscurato, o nel gesto ardito della donna di profilo. E’ probabile che la stanchezza inventiva dell'artista fosse notata anche dai suoi committenti visto che pochi anni dopo sostituirono la sua Elemosina di San Tommaso di Villanova con quella più moderna di Maurelio Scannavini72. Quest’ultimo emerge sulla scena ferrarese più o meno in coincidenza col declino di Mezzogori, inviando da Bologna nel 1682 il San Giorgio e il drago73 (fig. 10). E’ noto che Scannavini aderì in toto allo stile del maestro Carlo Cignani. Una capacità disegnativa, un patetismo, una grazia ed un'eleganza tali non si vedevano da decenni in città e non tardarono a influenzare un artista impreciso ma intelligente come era Giuseppe Avanzi. Egli fu sempre in bilico tra tradizione, fascinazione per le novità e involuzione come mostra ad esempio l'Annunciazione in San Giuseppe, indicativamente del 1685. Qui i ricordi guercineschi dell'angelo si

9 accompagnano a dettagli tardocinquecenteschi come l'inginocchiatoio, ad effetti "alla Scarsellino" e all'idealismo che nel volto di Maria rimandano a Cignani stesso. La levigata monumentalità del San Giorgio di Scannavini, la sua sapiente regia luminosa, il momento stesso scelto (quello che vede Giorgio già vincitore sul drago) appartengono al migliore classicismo che si poteva vedere a Bologna e tuttavia a Maurelio andrà rimproverata un'adesione troppo pedissequa allo stile di Cignani, una quasi totale emulazione. Pare uno sgarro involontario a questa devota emulazione la figura della principessa che sembra danzare spiritata e che, come fa notare Riccomini, risulta memore di certe figure evanescenti di Gian Gioseffo dal Sole74, come se ne vedono nella coeva Morte di Priamo (Modena, collezione Banca Popolare dell'Emilia Romagna). Ed in effetti nelle sue poche opere superstiti non pare di scorgere particolari evoluzioni di stile, tutt'al più un affinamento tecnico e qualche ulteriore inconscia sbandata. E’ il caso della già citata Elemosina di San Tommaso, di dodici anni più tarda ma per la quale il nume tutelare è sempre Cignani. Dopo il San Giorgio è una delle opere più apprezzate dagli eruditi locali. Lo stesso Riccomini ne riconosce la qualità notando quei timidissimi sconfinamenti veneti che si apprezzano, ad esempio, nella resa tattile delle pennellate rapide ed allusive che compongono la manica del Santo75 (fig. 11). Queste fanno presagire un potenziale che poteva erompere se egli si fosse meno controllato e non avesse avuto le ansie di rifinitura attestate dalle fonti. Riccomini fa notare che è su premesse del genere che la pittura ferrarese potrà recuperare, con l'aprirsi del nuovo secolo, se non l'indipendenza quantomeno una dignità artistica. Scannavini verrà superato solo dal più giovane Giacomo Parolini (nato nel 1663) col quale condivide la formazione presso Cignani e lo studio nelle gallerie e nelle chiese felsinee. Egli, debuttando nel 1689, è da considerare artista già settecentesco. Come i suoi contemporanei non ha goduto di particolare interesse da parte della critica prima del fondamentale intervento di Eugenio Riccomini76, mentre a Girolamo Baruffaldi, Cittadella, Scalabrini e Barotti non era sfuggito che, dopo Bononi e Scarsellino, solo con Scannavini e Parolini la qualità della pittura ferrarese aveva cominciato a risalire. Se, come si è detto, Parolini fu per certo tempo scolaro di Cignani, questa non fu per lui che una fase della formazione. È tramandata infatti una lunga permanenza torinese, utile probabilmente a fargli conoscere i capolavori di Rubens, Van Dyck e dei loro seguaci liguri, dai quali gli deriva forse il gusto per una materia che si sgretola e per l'abbreviazione. Egli trascorse un soggiorno anche a Venezia, come suggeriscono opere quali il San Giovanni Battista alla fonte (Ferrara, chiesa di San Giovanni Battista), memore dello stile di Marco Ricci, e la testimonianza di Baruffaldi. L'indagine compiuta da Riccomini ne analizza la pluralità di influenze, che lo rendono capace di fondere il classicismo accademizzante cignanesco visibile nelle opere giovanili come il San Leone (Ferrara, chiesa di Santo Stefano) con le originalità baroccheggianti alla Canuti, evidenti negli affreschi della cappella della Madonna del Carmine in San Paolo. A questi spunti si aggiunge l'estro di Burrini nei due Martìri di San Crispino e Crispiniano (fig. 12) e l'essenzialità di Giuseppe Maria Crespi che caratterizza il Transito di San Giuseppe (Ferrara, Duomo). Ma lo studioso riscontra anche chiari ricordi da Luca Giordano nelle due scene di martirio oggi in Curia, nelle quali si avvertono in alcune figure anche abbreviazioni alla Maffei. Queste poi diventano particolarmente evidenti in opere di piccolo formato quali i Misteri del Rosario di Massa Lombarda (Pinacoteca Comunale), provenienti dalla chiesa del Rosario come il quadro che contornavano, che oggi si trova nell'arcipretale. Il testo di Riccomini è ancora esemplare per la capacità di dissezione della complessa cultura dell'artista ma presenta alcuni aspetti che oggi si possono correggere grazie a un'attenta lettura degli Annali di Nicolò Baruffaldi77 e al reperimento di documenti78 che permettono di anticipare le esecuzioni di Presentazione al Tempio (fig. 13) e Disputa di Cristo (fig. 77) dal 1711 al 1706. Tale anticipazione contrasta con la supposizione dell'influenza su Parolini della celebre e variegata quadreria del cardinale Ruffo poiché egli giunge in città quattro anni dopo l'esecuzione delle tele; comporta inoltre la necessità di cercare altrove le fonti (iberiche e ancor più quelle giordanesche) che influenzano l'artista a queste date. Indipendentemente da ciò è davanti agli occhi di tutti il buon livello dei suoi raggiungimenti con punte tanto notevoli da permettere di sbilanciarsi e parlare di una nuova gloriosa scuola locale. Se tale affermazione suona un po' forte, va però constatata la grande differenza tra Parolini e, ad esempio, Scannavini. Questi fu sì il primo a riportare lustro alla città ma, chiuso nella sua devozione per Cignani, non fu capace di osare quanto invece farà il più giovane. Parolini si potrà allora immaginare come una di quelle figure inquiete sempre all'erta in cerca di nuovi stimoli che, sintetizzati, se non danno forse avvio a una "scuola", confluiscono però in uno stile proprio e riconoscibile, tale da influenzare sia le nuove generazioni (il figlio Francesco, Giuseppe Ghedini) sia soggetti più anziani come Avanzi. Quest'ultimo infatti, nel San Pietro risana uno storpio, mostrerà di aver colto gli innovativi spunti offerti dal più giovane artista. Tra i devoti alla tradizione ferrarese di primo Seicento va ricordato Camillo Setti, compagno di bottega di Avanzi presso Francesco Costanzo Catanio anche se probabilmente più giovane di lui poiché muore nel 167979. Il Miracolo di sant'Andrea Avellino (Ferrara, chiesa dei Teatini, fig. 14), databile in coincidenza con l'apertura della chiesa che avvenne nel 1653, propone uno schema rimontante a Bononi e che Catanio impiega quindici anni prima per la grande Incoronazione di spine (fig. 15) di San Giorgio. Da quella infatti deriva l'ambientazione prospettica che ricorda un fondale da teatro, così come la scelta di collocare in primo piano i protagonisti. A quel quadro e al pendant con la Flagellazione rimandano anche il deciso e violento chiaroscuro e i colori della veste del giovane. Come nel modello essi squillano improvvisamente entro una composizione dominata da colori terrosi. Le fisionomie arcigne dei personaggi fanno ipoteticamente dubitare dell'unità di mano tra il Miracolo e il

10 San Michele coi santi Francesco e Antonio da Padova (Ferrara, chiesa del Gesù, già in San Michele, fig. 16) che le fonti concordemente gli attribuiscono80, nel quale prevalgono piuttosto espressioni dolci e bamboleggianti e posture elementari. Una novità che caratterizza la Ferrara della seconda metà del secolo è la grande decorazione. È evidente come essa derivi dalla diffusione del quadraturismo bolognese che, se in patria si diffonde già dal primo quarto del secolo, in quest'area ormai periferica giunge con ritardo. Numerosi sono i pittori che si specializzano nella decorazione su vasta scala, tra questi il già citato Mornasi e ancora Carlo Borsatti e Giuseppe Menegatti dei quali si vedono "palazzi da capo a fondo coperti con gran fogliami, e figure, e colorite, e chiaroscuro, senza ritegno di misure, o di regole"81. Per Mornasi, se si eccettua la citazione di Cittadella, nelle fonti non si trova riscontro di un'attività come decoratore che invece è testimoniata abbondantemente per Borsatti e Menegatti. Il primo decora la volta di Santa Maria degli Angeli82 ed inoltre è da riconsiderare l'ipotesi di una sua partecipazione alla realizzazione dei ritratti di monaci agostiniani in San Giuseppe. Se a un attento esame una serie di dieci dipinti sembra per intero ascrivibile a Van Beygem, altri ritratti potrebbero appartenere a differenti esecutori, tra i quali lo stesso Borsatti. Menegatti invece, allievo forse di Francesco Ferrari, affresca i soffitti di una decina di chiese e ha commissioni anche da laici per le loro abitazioni. I veri specialisti del settore furono però Francesco Scala e Francesco Ferrari. Se del primo sopravvivono pochissime opere documentate, fatto che impedisce un facile giudizio della sua caratura, del secondo si hanno ancora diversi cicli importanti che, pur se minima cosa rispetto agli ettari di superfici che gli si riferiscono, sono sufficienti a farsi un idea del suo stile e della sua personalità. Tralasciando per il momento le decorazioni che Ferrari realizza nella chiesa del Rosario di Finale Emilia (gravemente lesionata dal terremoto del 2012) e quelle di Ravenna (eseguite con la collaborazione di Scala, per il quale si potrà qui cercare materiale per una più precisa messa a fuoco dell'attività giovanile), la testimonianza più precoce tra quelle rimasteci è il soffitto della chiesa esterna di Sant'Antonio in Polesine. Dagli Annali di Nicolò Baruffaldi si apprende che fu terminato nel 1677 quando l'artista aveva quarantatrè anni83. Se si considera che alle stesse date Andrea Pozzo lasciava una stupefacente saggio a Mondovì (chiesa di San Francesco Saverio) ci si renderà conto di quanto arretrato fosse il Ferrari che si misura ancora sui più antichi esempi di quadraturismo bolognese. Ma soprattutto, come nota Riccomini84, egli era probabilmente più adatto alle attività di scenografo teatrale. Infatti non si dimostra preparato all'uso di un chiaroscuro sufficientemente illusorio (che in teatro era raggiunto con le luci di scena) e nemmeno particolarmente attento alle regole della prospettiva. Così le sue architetture sono poco realistiche e molto pesanti, effetti accentuati da una sovrabbondanza decorativa al limite dell'horror vacui che frena lo slancio delle strutture dipinte. L'impresa più significativa di Ferrari fu la decorazione dell'intera superficie parietale della chiesa di San Giorgio. Essa si colloca nella sua tarda attività e, come informano gli Annali di Baruffaldi, si scala tra 1689 e 169685. Nonostante la distanza cronologica che separa questi affreschi da quelli di Sant'Antonio in Polesine non si notano grandi differenze stilistiche e compositive e pure il repertorio "di scena" non muta sensibilmente. Un confronto si potrà tentare tra il catino affrescato nella chiesa olivetana (fig. 17) e quello che Ferrari dipinge nel 1672 in San Francesco, un'opera della prima maturità che non ci è giunta ma della quale esiste una trasposizione grafica86 (fig. 18). Di questa non è determinabile la fedeltà all'originale ma sembra comunque tramandare una situazione più felice, non saturata da una miriade di particolari ed entro la quale lo spazio oltre il grande arco che prolunga la navata pare meglio gestito. Dagli affreschi di San Giorgio si potrà poi notare come Ferrari appaia più a suo agio a lavorare su pareti verticali, entro le quali non deve proiettare complicate macchine che sostengano soffitti o cieli infiniti. Ferrari lavora in parallelo anche alla decorazione di Palazzo Bevilacqua Massari assieme ai migliori artisti della Ferrara di fine Seicento. Tale ciclo, che si colloca attorno al 169087, vede la partecipazione di Scannavini, Scala, Parolini e del bolognese Tommaso Aldrovandini ed è la più rilevante tra le pochissime imprese profane dell' epoca giunte fino a noi, essendosi perduti ad esempio i lavori che gli stessi artisti fecero nel Castello e nel Palazzo Ducale. E' stato finora studiato da Riccomini e dalla Fioravanti Baraldi che si sono cimentati nel tentativo di distinguerne le mani88. Sopravvivono cinque sale soltanto in cui la decorazione, pur guastata da ridipinture ottocentesche, può dirsi sei-settecentesca. Apparentemente l'intervento di Ferrari si distingue solo in una stanza che poteva essere forse dedicata alle Virtù Bevilacqua poiché illustra le allegorie di Fortezza, Giustizia, Fama e Abbondanza al di sopra di un fregio composto di medaglioni che racchiudono busti trompe l'oeil di membri della famiglia. Proprio di questo fregio l'artista dovrebbe essere autore, e Riccomini lo descrive come uno dei suoi interventi più riusciti. Le quadrature delle altre stanze seicentesche sono ascrivibili all'Aldrovandini e ad Antonio Felice Ferrari e qui, tra un buon numero di figure ridipinte, emergono le uniche tracce dello Scannavini frescante. Interventi di grande eleganza e raffinatezza, la Donna con liuto (fig. 19) e la Donna con vaso e un paggio (rispettivamente nella Stanza di Flora e in quella di Iride) dimostrano la padronanza tecnica e formale raggiunte da Scannavini e fanno rimpiangere la perdita dei suoi affreschi in san Guglielmo. Ancora a lui dovrebbe spettare la decorazione al centro del soffitto della Stanza di Amore, prova di pittura mitologica in cui l'artista si dimostra capace anche nel campo della narrazione. L'ultima di queste stanze è più propriamente settecentesca ed è ascritta al Parolini (fig. 20) per la facilità di esecuzione e il brio che caratterizza la scena in cui gli dei dell'Olimpo sono frivolamente rappresentati in abiti contemporanei. Va ricordato che Parolini si dedicò all'affresco in più occasioni. Oltre alla già citata cupoletta della cappella del Carmine in San Paolo esisteva la decorazione della chiesa dei Gesuiti di Verona89. Purtroppo distrutta durante la

11 seconda guerra mondiale, viene qui presa ad esempio per testimoniare la fama extra cittadina di cui l'artista godette. La "febbre" per la grande decorazione toccò anche pittori che, pur maggiormente portati per la pittura da cavalletto, vollero occasionalmente cimentarvisi. È il caso di Giuseppe Avanzi che nel 1674 collabora con Menegatti alla decorazione della cupola della chiesa di San Carlo90. Essa è una delle poche sopravvissute fino ai giorni nostri, nonché il più antico intervento di entrambi. Peculiarità di questo torno d'anni sono le decorazioni degli oratori. Indipendentemente dalla data di costruzione la maggior parte di essi vede nel secondo Seicento il rinnovamento delle proprie decorazioni e la comparsa di nuovi quadri alle pareti. È il caso di quello dei Teatini in cui Brisighella ricorda opere del misterioso Giuseppe Bonaccioli, Setti, Capitanelli, Alessandro Naselli e affreschi di Ferrari91. O quello dei Gesuiti, dedicato alla Penitenza, che lo stesso descrive colmo di dipinti di Borsatti, Mezzogori, Capitanelli, Alessandro Naselli, Fantozzi e Avanzi (una Visitazione che è forse quella oggi in Pinacoteca92). E ancora quello dei Filippini, il solo iniziato nella seconda metà del Seicento, il cui unico dipinto è ancora di Avanzi93. Lo stesso si può dire di alcune antiche sedi di Confraternite. Quella di San Sebastiano, ad esempio, commissionò quadri a Mornasi, Borsatti e Mezzogori oltre che gli affreschi a Francesco Ferrari94; quella dei Calzolai invece si rivolse ad Avanzi, Campalastri e Parolini e i suoi quadri sono tra i pochi che ancora si conservano (in Curia)95. Si chiude notando come la seconda parte del secolo sia caratterizzata da una pressoché totale assenza di rinnovamento edilizio. Limitandosi all'analisi degli edifici di culto, ed eccettuando alcune fabbriche di modestissimo interesse, l'unica nuova costruzione è la chiesa di Sant'Apollonia, i cui lavori iniziarono nel 1662 grazie ad un ingente eredità96. Questi però procedettero lentamente, tanto che l'edificio fu consacrato solo nel 1693. È d'altronde constatabile come molte fabbriche erette nel primo Seicento furono decorate nel cinquantennio seguente: il caso più emblematico è la chiesa di San Giuseppe, terminata proprio a metà Seicento la cui decorazione mobile (ma anche i perduti decori parietali) appartengono per intero alla seconda metà del secolo. Ma anche la chiesa dei Teatini, consacrata nel 1678, all'interno della quale trovano collocazione i dipinti della vecchia chiesa ma anche numerose nuove opere.

12 Giuseppe Avanzi

La biografia di Giuseppe Avanzi è narrata per la prima volta da Girolamo Baruffaldi nelle sue Vite de’ pittori e scultori ferraresi che vedranno la stampa solo tra il 1844 e il 1846. L'artista nacque a Ferrara nel 1645 e fu battezzato in Duomo il 30 Agosto097. E' da considerare una svista la notizia riportata da Nicolò Baruffaldi che Giuseppe morisse nel 1718 all’età di sessantatre anni098. Ciò presupporrebbe una nascita posticipata di dieci anni, nel 1655: se così fosse Giuseppe non avrebbe potuto frequentare, seppure per pochi anni, la bottega di Francesco Costanzo Catanio, morto nel 1665. Le fonti citate concordano invece sull’anno di morte, il 1718, che come ci informa Girolamo avvenne il 29 maggio. ll pittore fu sepolto nel cimitero della Certosa grazie all’intervento del priore Campanini, suo committente ed amico. Tra queste due date si svolge la vita dell’artista che, nonostante sia stato spesso descritto come un perdigiorno avvezzo alla scherma e alle bevute più che al lavoro, ad esso deve aver dedicato non poco tempo se il canonico Baruffaldi afferma che dipinse “quanto avrebbero potuto fare dieci studiati pittori” e Cesare Cittadella rincara la dose definendo “prodigioso” il numero delle opere uscite dalla sua “stanza”099. Sono gli stessi biografi a narrare l’incontro tra Avanzi e Catanio, avvenuto fortuitamente grazie alla comune passione per la spada. Nella sua bottega il giovane rimase quattro anni, fino alla morte del maestro, avvenuta il 3 luglio 1665 quando Avanzi non aveva ancora compiuto vent’anni100. Certo è che Catanio, in soli quattro anni, non dovette essere in grado di terminare la formazione di Giuseppe ma a quanto ci tramandano le fonti ebbe un ruolo importante, poiché cedette al giovane una certa quantità di incisioni. E se è vero che Cittadella ci riferisce della passione di Giuseppe per quelle di Bernardo Castello detto il Genovese101 (che illustrò l’edizione del 1590 della Gerusalemme Liberata) dalle quali trasse per lo più figure di uomini d’arme in battaglia102, è nell’inventario dei beni della collezione Saraceni che si trova notizia di un perduto Noli me tangere di Avanzi tratto da un’incisione del Sadeler103. Il pittore esordisce nel 1671 a ventisei anni con la perduta Santa Maria Maddalena de’ Pazzi per la chiesa di San Paolo che sostituiva un quadro di Carlo Bononi. Poiché “primizia del suo pennello”104 l'opera di Avanzi fu a sua volta ben presto rimpiazzata. Girolamo Baruffaldi ci informa infatti che “i primi tentativi di chi poi assai meglio avanzò” erano “senza considerazione alcuna”105. La sua più antica prova documentata giunta fino a noi è il soffitto della chiesa di San Carlo (fig. 21) che le fonti dicono ultimato nel 1674106. Si tratta di un’impresa di una certa importanza per vastità e prestigio: l’edificio fu infatti costruito nel primo quarto del XVII secolo per interessamento del potente cardinale Carlo Emanuele Pio di Savoia che lo volle quale sede della Confraternita di San Carlo, di cui era membro d’eccellenza107. Il progetto fu affidato a Giovan Battista Aleotti, personalità di spicco a cavallo dei due secoli che in più occasioni lavorò per committenti altolocati come i Bentivoglio e i Farnese. Stupisce in parte la decisione di affidare un’impresa del genere ad un pittore di cui le fonti tramandano fino ad allora un’unica opera pubblica. E’ quindi probabile che Avanzi, all’epoca ventinovenne, avesse già portato a termine imprese rilevanti che lo avevano fatto conoscere ed apprezzare al pubblico108. Ma si può supporre che la scelta della Confraternita sia anche testimonianza del declino artistico locale e della scarsa considerazione di cui godettero le imprese artistiche a Ferrara dopo la morte di Scarsellino, Bononi e dei loro primissimi allievi109. Il reperimento del documento che certifica il pagamento al carpentiere per il montaggio e lo smontaggio dell’impalcatura servita a dipingere la cupola conferma la sua esecuzione nel 1674110. Da esso si apprende anche che la decorazione del catino absidale, perduta (forse solo scialbata) nel 1767111, fu eseguita nello stesso momento. Avanzi opera qui con un altro pittore, Giuseppe Menegatti, ricordato come autore di figure ma noto soprattutto come quadraturista. Come osserva Riccomini112 la decorazione di Menegatti “arieggia la maniera bolognese del Colonna, conservando tuttavia alcune soluzioni di gusto arcaico, mutuate dalla tradizione manieristica”. E' forse possibile andare un po’ più a fondo e ricordare che Cittadella descrive Menegatti come allievo, seppur in tarda età, del giovane Francesco Ferrari113. Sembra infatti derivare il suo stile più da questi che direttamente dai bolognesi: rimandano al repertorio di Ferrari il gusto per decorazioni in finto stucco particolarmente arzigogolate in volute o arricciamenti e quello per la frequente simulazione della doratura di cornicioni ed altri dettagli, disseminati di festoni e ghirlande vegetali. Queste esagerazioni, quasi da horror vacui, rendono il risultato pesante e macchinoso anziché leggiadro ed aereo come negli originali bolognesi, quasi si volesse compensare con la quantità e la varietà dei decori l’incapacità di scorciarli correttamente. L’effetto illusorio risulta poco riuscito, lo slancio stenta a partire ed anzi porta le strutture ad incombere pesantemente su chi guarda. Esse presentano soluzioni “architettoniche” che simulano unghiature costolonate sfondate da piccoli oculi balaustrati. Nelle nicchie compaiono le allegorie delle sette Virtù più una identificabile forse con la Chiesa poiché regge un cero acceso. Per sostenere il greve cornicione dorato dell’oculo centrale Menegatti progetta la simpatica soluzione degli angioletti-telamoni (e chissà che in questo caso la suggestione non derivi dai puttini alati che reggono la balaustra del bellissimo portale di palazzo Prosperi Sacrati). Riccomini ne attribuisce l’esecuzione, che in questa sede si ribadisce, a Giuseppe Avanzi così come quella dei quattro angioletti entro gli oculi minori e delle otto Allegorie a margine delle cupola114. Le anatomie sono già quelle che il pittore utilizzerà per il resto della sua carriera, un po’ intuitive e ripetitive, e consueta diverrà pure la tecnica caratterizzata da chiaroscuri fortemente contrastati, con lo scopo di accentuare

13 l’impressione di scorcio verso l’alto. Se davvero queste figure gli spettano, pur nella ripetizione a coppie dei modelli si deve riconoscere al giovane Giuseppe un’attenzione alla resa delle espressioni e al coinvolgimento dello spettatore che non ripeterà più nella sua lunga carriera. Alcuni angioletti infatti guardano lo spettatore, altri sorridono, altri ancora soffrono comicamente nello sforzo di reggere il cornicione, più o meno avviluppati in drappi colorati. Un paio di loro, dalle carni morbide e dalle bianche alucce spiegate, tornano anche nell’oculo centrale115 a confermarne l’unità di mano. Essi partecipano alla gloria celeste della Vergine assieme a due angeli di dimensioni maggiori e a una coppia di santi. Uno di questi, porporato e con un rocchetto dalle pieghe quasi neoquattrocentesche, è chiaramente Carlo Borromeo, il titolare della chiesa, nella più canonica delle sue iconografie; l’altro è identificato a volte con Ambrogio ma non ha alcun attributo specifico (le api o l’alveare e lo scudiscio) ed è più verosimilmente San Maurelio, vescovo e patrono di Ferrara. A questo punto occorre fare una precisazione di carattere iconografico. Non è necessaria particolare attenzione per notare che sul soffitto la Vergine e gli angeli hanno le mani colme di rose (che si devono ritenere saggi dell’Avanzi “fiorante” celebrato dalle fonti116). In una chiesa dedicata al Borromeo ciò può apparire poco pertinente non esistendo specifici legami (non così stringenti almeno) tra il santo e il Rosario. Ma va ricordato che la Compagnia di san Carlo, responsabile della costruzione dell’edificio, prese tale nome solo nel 1611, mentre prima era votata proprio al santo Rosario. Prima della costruzione della nuova chiesa essa aveva la propria cappella in San Domenico, al cui altare era esposta la pala di Domenico Tintoretto raffigurante la Madonna del Rosario coi Santi protettori di Ferrara (Ferrara, Pinacoteca Nazionale). Nel 1662 fu deciso di collocare il quadro, allora in deposito temporaneo presso la chiesa di santo Stefano, sull’altare di sinistra della nuova chiesa, dove rimase finchè non fu trasportato in Pinacoteca117. In essa, come in molte pale dedicate alla Madonna del Rosario, Maria e gli angeli hanno le mani colme di rose che riversano sui donatori e i fedeli. L’affinità con l’analogo gesto compiuto dagli attori presenti sulla cupola è evidente: in essa mancano solo i rosari e i fedeli, presenti in carne e ossa sotto la volta durante le celebrazioni. In assenza di documenti che spieghino la scelta iconografica dei committenti, si può ipotizzare che essi abbiano voluto omaggiare assieme al nuovo patrono la precedente intitolazione della Compagnia, emulando nell’affresco il quadro più antico e prezioso della propria chiesa. Tornando all’aspetto stilistico, è in questa scena che Avanzi palesa il proprio modello: le fisionomie, le anatomie, la tecnica luministica, il trattamento “morbido” in seguito raramente sperimentato, il ricorso allo scorcio pronunciato dal basso verso l’alto sono tutti elementi che derivano da Carlo Bononi, l’ultimo grande esponente della scuola ferrarese. Nessuno fra i pittori della generazione seguente (ma neppure i contemporanei come lo Scarsellino) potè prescindere nella propria formazione dalle novità bononiane che finalmente fondevano il colorismo veneto, le luci contrastate, la fantasia, l’eccentricità ferraresi, alla solidità del perfetto disegno, al naturalismo di matrice bolognese e più precisamente di Ludovico Carracci (un’adesione al naturalismo che in Carlo troverà nuovo carburante durante il viaggio romano). In particolare il monumentale e inarrivabile ciclo di Santa Maria in Vado deve aver turbato e smosso gli animi dei più giovani. Carlo non dipinge solo il catino absidale, ma colloca tele pure alle pareti del coro e sui soffitti di transetto e navata. Il dipinto murale con l’Esaltazione del nome di Dio è impressionante. Per trovare cicli di analoghe dimensioni ed impatto nella pittura emiliana si è costretti a retrocedere di cent’anni fino al Correggio della cupola del Duomo parmigiano (gli affreschi di Alessandro Tiarini per il Santuario della Ghiara a Reggio Emilia sono pressoché contemporanei e terminano più tardi). Ma a Ferrara, d’improvviso, la gloria si fa meno “celeste”, più atmosferica e terribile con nubi gravide di umori, bagliori più accecanti ed ombre più cupe. La stessa perentorietà, michelangiolesca ma con maggior grazia, del gesto di Cristo ha un che di mai veduto da queste parti. Il movimento delle sue braccia sembra innescare il turbinio delle nubi e degli angeli che lo circondano mentre un certo allarme si diffonde “a terra”, tra profeti, santi ed evangelisti alcuni solo turbati altri davvero sgomenti. I colori acquistano saturazione e brillantezza, quasi in un velato rigurgito manieristico (già visibile e più accentuato in opere di Carlo di poco precedenti, come quelle mantovane o ravennati) e riempiono figure che pur nella libertà e nella fluidità di tocco sono disegnate magistralmente. Ovvio che non si possa considerare Avanzi un seguace di Bononi in senso stretto, non crescendo egli né aggiornandosi in parallelo a quest’ultimo per evidenti ragioni cronologiche. Dunque l’influenza di Bononi sull'artista è da considerare in modo generale (si può dire che egli avesse a disposizione in modo simultaneo “l’intero campionario”). Sebbene fossero trascorsi cinquant’anni tra il completamento del ciclo di Santa Maria in Vado e gli avvii di Avanzi, le opere di Bononi rappresentarono il suo rifugio ogniqualvolta egli ebbe bisogno di ispirazione, fungendo da vero e proprio repertorio iconografico dall’inizio alla fine della sua carriera. Le possibilità di lettura sono due. Giuseppe va forse visto come autentico devoto della tradizione ferrarese e dei suoi grandi, tanto da rivolgersi frequentemente ad essi ed omaggiarli facendone i propri punti di riferimento. O forse fu un pigro mestierante che si trovò nel posto giusto al momento giusto, in una Ferrara ormai provinciale dove la gloriosa scuola pittorica locale aveva chiuso nel 1632 con la morte di Bononi, ma dove le richieste dei committenti erano ancora numerose. Senza necessità di stimoli esterni Avanzi trovò entro le mura di Ferrara tutto ciò che bastava a soddisfare i clienti del posto, nostalgici, attardati e poco interessati a quanto succedeva fuori. Probabilmente come spesso accade, la verità sta nel mezzo. E se per l’opera di Avanzi si è parlato di artigianato più che di arte, è indubbio che i grandi del passato cittadino esercitarono su di lui un vero fascino, tanto che le citazioni di essi non si limitano a Bononi o Scarsellino, ma arrivano a Garofalo. Inoltre, come si vedrà più avanti, è un errore considerare Avanzi un pittore costantemente attardato, dimostrandosi egli in più occasioni aggiornato

14 su quanto di nuovo giungeva in città. Ma soprattutto, pur non mancando esempi forestieri a Ferrara118, Avanzi sembra non considerarli, o, meglio, considerarli sporadicamente (come sarà nel caso delle quattro storie della Passione realizzate per la chiesa di San Giuseppe, in cui le componenti bolognesi e venete sono manifeste), rendendo possibile definirlo, a posteriori, l’ultimo pittore veramente ferrarese. Tuttavia è evidente che egli fu meno dotato dei suoi predecessori. Per esempio, come nota Eugenio Riccomini, nel soffitto di San Carlo anzichè costruire una macchina in grado di aprire “realmente” sul cielo, si limita a proiettare in sottinsù gli elementi tipici di una pala d’altare piramidale, non ottenendo così uno sfondato convincente119. L’”angelone” poi sembra barcollare pericolosamente sulle teste di chi guarda, appesantito da vesti spesse e inamidate e sostenuto a fatica dalla ventata che gli gonfia il drappo (trovandosi in questo in sintonia con le pericolanti architetture di Menegatti). La postura della Vergine è quella tipica bononiana “a gambe incrociate” visibile in pale come la Madonna in gloria col Bambino e i santi Rocco e Sebastiano della chiesa di Santa Chiara a Trecenta, mentre l’angelo seduto, pur nella resa grottesca del volto, sembra derivare dall’invenzione di Carlo per la Podestà Spirituale, la figura al centro della cupoletta Brami nel Santuario della Ghiara di Reggio Emilia. Se l’angelo di Avanzi mostra scopertamente la propria anatomia, essa è direttamente percepibile sotto il manto dell’Allegoria reggiana, nella quale muta la posizione del braccio sinistro, mentre il destro è leggermente spostato verso l’esterno nella derivazione di Giuseppe. Di questa figura si conoscono due disegni preparatori120 che però non mostrano la stessa frontalità del dipinto, rendendo possibile azzardare la proposta di una visione diretta da parte di Avanzi, che si può fantasticare abbia compiuto questo viaggio come una sorta di pellegrinaggio per omaggiare e studiare l’opera di colui che aveva eletto a ideale maestro. Ma di fantasticherie appunto si tratta, intanto non potendo provare il viaggio ma anche per quanto si è detto precedentemente di Avanzi, che a Ferrara poteva vedere quel tanto che gli bastava per soddisfare le richieste dei clienti. Senza contare che un viaggio reggiano avrebbe forse dovuto influenzare in qualche direzione il pittore, offrendo alla vista, anche dopo le spoliazioni di Francesco I d’Este, opere di svariata provenienza: oltre che emiliane, anche romane, toscane e venete. Tornando in San Carlo, è ancora bononiano il luminismo fortemente contrastato, con ombre profonde e nette che fanno spiccare il mento e le arcate sopraccigliari della Vergine e dei Santi e che in alcuni casi (nell’angelone, ad esempio) coprono buona parte del volto (e non può non tornare in mente l’aneddoto relativo a Bononi e ai ritratti della paletta di Santo Stefano121). Effetti analoghi si riscontrano negli angioletti, in alcuni dei quali è da riconoscere ad Avanzi una certa capacità di resa morbida, quasi ad evidenziare il tremolio delle carni. Ma forse i risultati migliori Avanzi li raggiunge nelle Virtù che abitano le finte nicchie alla base della cupola. Fede, Fortezza e Speranza paiono le cugine (povere, va detto) delle tre figure femminili che trasportano l’icona nel Miracolo di Soriano di Bononi (Ferrara, chiesa di San Domenico). La somiglianza è facilmente riscontrabile nei colori scelti per vestirle, in una certa levigatezza e lucore su fronti e guance e nelle capigliature raccolte con una vistosa scriminatura al centro. E' poi caratteristico ed affine il modo di bagnare d’ombra i visi. Anche la gestualità della donna che regge la candela, forse la più bella del ciclo, dal volto carnoso ma fine, costruito per delicati passaggi chiaroscurali, prende spunto dal Miracolo di Soriano, ma è memore pure del tipico patetismo estatico con cui a Bologna e i suoi seguaci caratterizzavano i martìri e le visioni dei propri santi. Il risultato dello sforzo congiunto di Avanzi e Menegatti dovette riscuotere un certo successo se già nel 1675 la coppia fu nuovamente ingaggiata per un'impresa analoga in Santa Maria Novella dei Battuti Bianchi. Purtroppo il ciclo è perduto ma doveva seguire lo stesso schema di San Carlo se è vero che al centro del soffitto si trovava un quadro (un affresco?) di Avanzi e Menegatti aveva decorato il resto122. Altre opere perdute sono quelle eseguite a Mirandola. E’ da ritenere sbagliata la data 1660 che si legge nel Papotti123 a proposito dei lavori di Avanzi in San Francesco, che più probabilmente si riferisce ai restauri del portico d’ingresso, solo in seguito affrescato dal pittore ed oggi perduto124. Egli vi rappresentò la Visione di Innocenzo III con San Francesco che regge la Chiesa125, mentre nella controfacciata della chiesa fu posta la sua Decollazione di san Paolo, smarrita nel 1838. Papotti informa che sopra al santo stava un grande angelo a reggere la corona del martirio, e che l’opera era “non senza merito”, ma imparagonabile al quadro di Sante Peranda con la Conversione di Saul ancor oggi esistente e dagli anni Venti del Novecento in Palazzo Comunale. Grazie ad una memoria manoscritta del convento di San Giuseppe a Ferrara126 si apprende che, quando nel 1680 Avanzi consegna agli Agostiniani i due quadri di santa Tecla, era impegnato con il duca della Mirandola. Considerando che la chiesa di San Francesco era il pantheon della famiglia Pico, è probabile che i “lavori” a cui si riferisce la Memoria fossero proprio quelli di cui si è detto. Pur essendo perduti, è possibile collocare cronologicamente affreschi e quadro, e grazie alla descrizione di Papotti si può immaginare se non altro la parte superiore della pala col grande angelo probabilmente affine a quello di san Carlo e a quello coevo di San Giuseppe del 1680. I prolungati rapporti con l’ordine agostiniano non si inaugurano con le due Storie di santa Tecla (fig. 36- 37) del 1680, ma con quelle, più piccole, della Passione di Cristo, che la Memoria del convento dice consegnate nel 1676 “dopo non poco tempo dalla commissione”127, probabilmente avvenuta durante l’esecuzione delle decorazioni di Santa Maria Novella. Le tele vengono commissionate da padre Gioacchino dell’Incarnazione128 e raffigurano l'Incoronazione di Spine (fig. 22), la Cattura di Cristo (fig. 23), dove però si dà maggior risalto a san Pietro che taglia l’orecchio del soldato

15 Malco, la Flagellazione (fig. 24) e l'Orazione nell’Orto129 (fig. 25). Quest’ultima dipende dalla rielaborazione che Scarsellino fa di un prototipo zuccaresco tratto da un’incisione di Cornelis Cort130 ampiamente diffusa. Se nell’originale l’angelo è in perfetto profilo, il ferrarese lo ruota leggermente verso l’interno facendo sfumare il profilo nell’ombra del forte controluce. Sono note ad oggi due versioni del soggetto che presentano tali caratteristiche: una tela di medie dimensioni nei Musei vaticani proveniente dalla collezione Pio e un piccolo rame conservato in Palazzo Barberini131 (fig. 26). E’ probabile che Avanzi abbia visto quest’ultimo a Ferrara nella dimora di un privato dato che la sua storia comincia nel 1953. Ciò rende possibile infatti un suo arrivo a Roma tardi e non subito dopo la Devoluzione, tanto più che Maria Angela Novelli lo data al primo decennio del Seicento. Ma non è da escludere l’esistenza di ulteriori versioni oggi perdute. Suggestiva ma meno probabile l’ipotesi che Avanzi possa aver ammirato la versione Pio nella residenza romana di Carlo Francesco che con la nomina a cardinale lascia definitivamente Ferrara tra il 1662 e il 1663. E’ da ricordare la familiarità di pittori ferraresi quali Catanio e Giovanni Bonati col porporato di cui il secondo diverrà, tramite il primo, pittore “di casa”132. E va considerata la possibilità che Bonati parlasse al proprio mecenate del collega conosciuto tramite il comune maestro a Ferrara entro il 1662 (Avanzi era a bottega da Catanio dal 1661). Né va dimenticato che lo stesso Catanio si recò a Roma almeno una volta nel 1654133 e quindi poteva aver suggerito all’allievo la stessa esperienza formativa. Ma la possibilità di un viaggio romano appare poco plausibile poichè sarebbe difficilmente sfuggita alle fonti: Brisighella e Baruffaldi infatti sono contemporanei del pittore, improbabile dunque che si siano lasciati sfuggire l’occasione di inserire nella sua biografia un viaggio di studio tanto importante. Se davvero Avanzi si fosse recato a Roma, questa esperienza gli avrebbe lasciato segni ben più profondi. Al contrario nel giovane non si avvertono tracce di un'influenza romana, tra il 1674 (cupola di San Carlo) e gli anni Ottanta (quadri per San Giuseppe). E’ vero che le Storie della Passione di San Giuseppe sono caratterizzate da un taglio ravvicinato e da un violento battere del lume, elementi tipici dei quadri di matrice caravaggesca, ma è assai più probabile che soluzioni del genere derivino da esempi bolognesi. A cinquanta chilometri da Ferrara infatti avevano operato pittori quali Giacomo Cavedoni (fig. 27), Alessandro Tiarini (ancora vivi e più o meno attivi durante la giovinezza di Avanzi), Lionello Spada, Lucio Massari e Lorenzo Garbieri, tutti artisti epidermicamente contaminati dal germe caravaggesco. Un viaggio di Avanzi a Bologna è plausibile vista la breve distanza che separava le due città. Non va poi dimenticato che Ludovico invia a Ferrara più di un quadro, come il Crocifisso di Santa Francesca Romana, una delle sue opere tarde più suggestive, crude e realistiche, che Tiarini manda il Martirio di San Lorenzo, già in San Benedetto, perduto nei bombardamenti del 1944134, mentre Guercino esegue tra 1627 e 1628 la pala di analogo soggetto per il cardinal Magalotti. E' pressoché certo che nella gestazione delle opere del 1676 Avanzi abbia guardato poco al maestro Catanio come invece spesso si è asserito135. Questi nei suoi anni tardi dipinge in modo ben diverso dai due episodi di San Giorgio136 e difficilmente avrà potuto influenzare l’allievo in quella direzione. Occorre notare che infatti, quando nel 1674 Avanzi affresca la cupola di San Carlo, dimostra ben altro stile, tutto preso da colori chiari, brillanti, da vertiginosi sottinsù più o meno riusciti, da figure monumentali e da una pittura di “macchia” che va in direzione di Bononi. Se poi si vuole trovare un elemento di congiunzione con la cultura romana dei primi decenni del Seicento si può rimanere entro le mura di Ferrara, considerando parzialmente influente la visione dei quadri di Catanio in San Giorgio, o quelli di un caravaggesco di periferia come Jan Van Beyghem137 che però non raggiunge la crudezza dimostrata da Avanzi, o ancora di Pietro Muttoni. Per l’Avanzi delle quattro tele di San Giuseppe si è parlato di richiamo “involontariamente parodistico” a Caravaggio138. Occorre tuttavia estirpare definitivamente l'abusato aggettivo “caravaggesco” dalla descrizione di queste opere. Avanzi ereditò la ricca e preziosa collezione di stampe di Catanio e già in esse avrà potuto trovare la crudezza e l’enfasi dei fiamminghi e dei nordici del Cinquecento, così vicini ad un’intepretazione “caravaggesca” ante litteram. Inoltre bisogna prestare attenzione ai soggetti delle quattro tele: la Passione di Cristo offre scene tra le più drammatiche e crude, per questo si adatta così bene ad una pittura di tipo naturalistico e realistico. Non c’è bisogno del caravaggismo per spiegare opere del genere, valgano per tutti un paio di esempi bolognesi: la Flagellazione di Douai (fig. 28) o le due Scene della Passione dalla Certosa di Bologna, ora in Pinacoteca Nazionale139, tutte di Ludovico Carracci, mostrano come egli sia stato in grado di ottenere esiti assolutamente para-caravaggeschi. Nel caso dell’Orazione nell’orto di Avanzi va sottolineata la ripresa fedele da Scarsellino per la figura dell’angelo (a sua volta derivante dall’incisione di Cort ma ruotato fino a perdere il profilo del volto nell’ombra). Ma non è affatto necessario coinvolgere Caravaggio solo perché l’ambientazione è notturna e la luce battente. Espedienti analoghi si ritrovano oltre che nello stesso Scarsellino140, anche in opere bassanesche e a tal proposito non va dimenticata una Natività di Avanzi, citata dalle fonti, “che pare guardata dagli originali de’ Bassani”141. Se quindi per questa serie più schiettamente naturalistica l’ispirazione è bolognese (è sufficiente confrontare Coronazione di spine e Cattura di Cristo con analoghi soggetti di Spada e Cavedone), lo stile si lega invece più strettamente a Ferrara. Diversi confronti si possono fare con opere dello Scarsellino. I visi tondeggianti dalle labbra piccole ma carnose, come quelle del Cristo nella Flagellazione, rimandano ad opere quali la Santa Cecilia (Ferrara, Pinacoteca Nazionale), la Maddalena del Noli me tangere dello stesso museo e quella del quadro di analogo soggetto del museo di Digione, ma anche alla martire nella Decollazione di Santa Margherita (Ferrara, Musei civici di Palazzo Schifanoia). Nella Cattura di Cristo di Avanzi il profilo del Salvatore, reso livido da

16 un fascio di fredda luce che evidenzia anche la cruda anatomia del braccio di Pietro, non è così distante da quello della Maddalena penitente in San Domenico a Ferrara. Estranea ad Ippolito è invece la gestualità così enfatica di ascendenza nordica e a tal proposito vale la pena rammentare le incisioni di cui Avanzi disponeva e la presenza a Ferrara di Jan Van Beygen, qui attivo per un trentennio142 quando Avanzi era un bambino. Pur se meno enfatico e più “francese”, il belga di Malines è sempre attento a connotare in modo “ricco” le proprie opere. Lo dimostrano la scelta di tessuti preziosi e lavorati con cui veste i suoi personaggi e il gusto per la descrizione minuziosa degli inserti d’oreficeria che pone su abiti e tavole, sulle quali ama soffermarsi rappresentando vere e proprie nature morte. Avanzi è invece generalmente molto sobrio e minimale, soprattutto nelle quattro Storie della Passione, ma probabilmente non del tutto impermeabile a questo gusto decorativo. Lo testimoniano l’inclinazione alla natura morta, genere per il quale fu famoso a Ferrara, ma del quale purtroppo non ci restano esempi. Questa propensione è però percepibile nella descrizione realistica e minuziosa degli oggetti con i quali orna le proprie tele, quasi fossero coprotagonisti dell’evento narrato. Ciò è evidente nella Flagellazione dove il plinto di colonna è posto in primissimo piano assieme alle fruste o nell'Incoronazione che mostra cordami e canne di cui una, spezzata, è posta diagonalmente in un tentativo mal riuscito di misurare lo spazio verso l’esterno. Una timida apertura in senso decorativo è poi percepibile nella Cattura di Cristo, in cui la veste di Pietro è fermata in vita da una fusciacca variopinta, mentre nella Flagellazione gli abiti degli sgherri sono, se non preziosi, quantomeno ricercati. Proprio in questo dipinto si percepisce l’influenza del bizzarro cremonese Giuseppe Caletti: il panneggio fremente, mosso ed increspato e la condotta pittorica insolitamente libera con cui Avanzi tratta le vesti degli aguzzini, veri e propri lanzichenecchi cinquecenteschi, trovano rispondenza ad esempio nelle Storie del Battista dei Musei Civici di Ferrara. Basti osservare il trattamento dell’abito di Salomè nella Danza (fig. 29), altrettanto frusciante e forse non casualmente dagli identici colori e tagli nelle maniche a sbuffo, o quello del boia nella Decapitazione del Battista. In esse tornano inoltre gli stessi caratteristici tocchi di vivificante bianco puro. In ultima analisi è possibile cercare qualche influenza del Catanio sull’Avanzi del 1676. Ma va sottolineato che non sarà certo possibile trovarne con il Catanio del 1661 - 1665, che dipinge in modo visibilmente diverso. Piuttosto in quello di trent’anni prima, autore delle tele di San Giorgio a Ferrara, che illustrano, e non sarà forse una coincidenza, scene della Passione di Gesù Cristo143 (fig. 15). La distanza temporale che separa gli anni dell’alunnato di Avanzi da quelli delle due tele rende improbabile che sia stato il maestro a spingere l’allievo in tale direzione, mentre più facile sarà pensare che si sia trattato di una deliberata scelta di quest'ultimo. Qualcosa del tardo Catanio passa però nel giovane allievo, come ad esempio “certi panneggi avvolti e replicati, di sapore ancora manierista"144, elementi di cui abbiamo un saggio evidente nel quadro rappresentante Il corpo di San Gaetano sollevato al cielo dagli angeli (fig. 30), parte di una serie di quattro storie del santo. Qui l'angelo maggiore ricalca piuttosto fedelmente quello che accompagna san Gregorio nella pala di Catanio pure ai Teatini (fig. 31), a sua volta guercinesca ma non senza influenze calettiane. La versione di Avanzi è piuttosto semplificata, come si nota dall'anatomia incerta e da semplificazioni eccessive, per esempio nelle ali, ma la relazione col modello del maestro è manifesta nel netto controluce che separa il volto in due aree e dall'inserimento dello stesso drappo gonfiato dal vento che nell'opera di Avanzi fatica a trovare un proprio spazio. Se il trattamento a leggere volute arricciate che Catanio riserva alla veste dell'angelo non torna in quello dell'allievo, egli però lo imita nella sciarpa del più piccolo di spalle in primo piano. Si propone l’ipotesi che i quattro dipinti possano collocarsi precedentemente alla cupola di san Carlo (1674), sua prima opera databile145. Si tratta di opere di qualità modesta e dai tratti ingenui e comunque inferiori alla serie di Storie della Passione in San Giuseppe (è Baruffaldi a descrivere le prime opere di Avanzi come “senza considerazione alcuna”146). In ultimo si riportano alcune ulteriori notazioni di carattere stilistico che possono confermare per le quattro tele una cronologia precoce nel catalogo di Avanzi. Innanzitutto il gusto marcatamente calettiano che emerge nel dipinto in cui San Gaetano salva una donna e i figli dalle acque del fiume (fig. 32). Le posture danzanti della donna e del giovinetto, di gusto neocinquecentesco, sono accostabili a quelle della Salomè di uno degli episodi delle Storie del Battista di Caletti (La danza di Salomè, Ferrara, Museo Civico, fig. 29), come anche simile è il frusciare delle vesti che si avvitano al corpo delle due donne, pur più statico in Avanzi. E’ ipotizzabile quindi che si tratti di un primo accostamento alle opere del Cremonese che porterà col tempo agli esiti ben più convincenti delle Storie della Passione di san Giuseppe (ad esempio la Flagellazione, 1676, fig. 24). Il dipinto di Avanzi mostra inoltre singolari analogie compositive con l’Angelo Custode oggi nella sagrestia di san Girolamo (fig. 33). Questo, pur attribuito ad Alfonso Rivarola detto il Chenda come il pendant con l’Angelo con gli strumenti della Passione147 (fig. 34), è da espungere dal suo catalogo, non possedendo la morbidezza di tratto, la stesura liquida, i volti bamboleggianti che egli mutua direttamente da Bononi. I due dipinti sono invece probabilmente riferibili a Catanio per le analoghe fisionomie, la maggior solidità, la nitidezza ottica che marca i contorni delle figure, il segno più grafico, un fare meno fuso e impastato e più lucido148.

L’atmosfera cupa destata da baluginii improvvisi è congeniale al fare di Catanio come si riscontra nella Flagellazione e nella Incoronazione di spine (Ferrara, chiesa di san Giorgio). Fu per primo Emiliani ad attribuirgli la patente di naturalista149, e con l’analisi di queste tele gliela si può rinnovare, specialmente osservando il brano con gli strumenti della Passione sul quale medita l’angelo, le cui ali sono notevole brano di natura morta esso

17 stesso. Può inoltre sostenere attribuzione e cronologia il ripetersi, nel bambino vegliato dall’Angelo custode, delle posture avvitate che Catanio propone molto simili in opere quali la già citata Flagellazione e nel Martirio di san Matteo (Ferrara, santo Spirito, fig. 35), opere che si scalano tra quarto e quinto decennio del Seicento. Confermando tali opere a Catanio, riesce più semplice seguire la formazione di Avanzi nella sua bottega, dove egli poteva studiarne i modelli e mutuare da questi gli spunti che si riscontrano in opere della sua fase giovanile come appunto avviene nelle Storie di San Gaetano. Ma ancora nel 1680 reminiscenze cataniesche tornano a farsi sentire chiaramente, pur se assenti o quasi nelle opere del 1676. E' il caso della Santa Tecla che trova rifugio nella montagna (fig. 36), ulteriore commissione di Padre Gioacchino150 come il pendant con Santa Tecla nella fossa dei leoni (fig. 37). Da Catanio sembrano derivare il gusto per il colore squillante a tinte intense (non però tanto sorde e opache) e l’abbondante panneggiare a fitte pieghe statiche, dure ma stondate (in Catanio mai calcificate come in Avanzi), che si possono vedere anche nella stessa chiesa in certi attori della Pala del terremoto (1633) come la Madonna che, come spesso in Avanzi, ha la mandibola fortemente sporgente, o nello speculare San Giuseppe. A proposito di queste due opere, e in particolare della Santa Tecla che si rifugia nella montagna151, va ricordato quanto registrato dalle fonti, ossia la rielaborazione occorsa a più riprese dopo il compimento152. Intervento che appare verosimile e non solo aneddotico, come si dirà più avanti e che riguarda in particolare l'inserto di paesaggio, l'incorniciatura vegetale dell'angolo sinistro e i ritocchi alle tinte assorbite dalla preparazione. Nonostante i vari interventi “per migliorarlo”, il quadro non è particolarmente pregevole. I personaggi riempiono eccessivamente lo spazio e lo squarcio di paesaggio, probabilmente aggiunto in seguito, non rende meno pesante e soffocante la scena. Pur avendo a disposizione un soggetto dinamico, Avanzi non è in grado di sfruttarne le potenzialità, raggelando i movimenti e rendendo i personaggi totalmente statici. Gli “homini impudici” che avrebbero dovuto insidiare la santa non ci provano nemmeno, piuttosto sono presi dalle proprie chiacchiere, gesticolanti ed accomodati sguaiatamente su alcuni blocchi di pietra. L’azione è suggerita solo dall’avvitamento manieristico di Tecla, che però pare quasi mettere radici come una dafne mutata in lauro. Da parte sua l’angelo, troppo grande, ricorda più il molle abbandono dell’Odalisca di Boucher che l’eroe precipitatosi a squarciare la montagna. Egli replica in controparte l’angelo visto in San Carlo, nel quale tuttavia Avanzi dimostrava un maggior pittoricismo e una certa libertà di tocco che qui pare invece aver perduto. L'ampia gamma cromatica adottata da Avanzi conferisce vivacità alla composizione, ma come già osservato non ha nulla della vibratilità tipica dei ferraresi. Comunque vi si può vedere qualche affinità con soluzioni impiegate dal pittore al termine della sua carriera, per esempio nella pala già sull’altar maggiore di San Lorenzo (1714, ora in Santo Stefano), dall’analoga atmosfera schiarita e varietà cromatica, lì però più lucida, ammorbidita e contrastata. Come nota Riccomini il pendant con la Santa nella fossa dei leoni è più gradevole e riuscito. Il quadro appare senz’altro meno pasticciato e più arioso nonostante l’atmosfera cupa. L’attenzione del pittore si focalizza sulla santa e sul miracoloso intervento che ha come intermediari gli angeli, illuminati da un fascio di luce divina che sbalza le forme e si riflette sulle superfici levigate di guance, gole ed avambracci. Ciò è interpretabile forse come un tentativo di aggiornamento su testi della cultura bolognese contemporanea dominata dal patetismo accademizzante di Cignani, che nel 1678 colloca un San Filippo Neri a Finale Emilia e di cui si avranno a breve saggi pure a Ferrara con l’arrivo del capolavoro di Maurelio Scannavini per San Giorgio (1682). La santa è affine al San Giorgio nel trattamento luministico e nella posa che, pur semplificata in Avanzi, denota il comune modello raffaellesco della Santa Cecilia nello sguardo rivolto al cielo, già ampiamente noto a Ferrara da un secolo e mezzo come dimostrano la Santa Margherita di Ortolano ed esempi di Bononi (Santa Caterina, Palazzo Arcivescovile) e Scarsellino (Sacra Conversazione, San Domenico). Pochi anni separano le opere che completano la decorazione della Cappella Maggiore (collocate il 6 aprile 1680) dai due laterali della cappella di San Giuseppe. La solita Memoria non li documenta, probabilmente perché non commissionati (né pagati) dagli Agostiniani ma dai patroni dell’altare, la famiglia Crispi. Riccomini propone di datare i quadri attorno al 1685, perché all'epoca Avanzi dipinge ad affresco le pareti della cappella (perdute) e soprattutto perché in tale data vengono dorate “le cornici laterali dell’ancona”153. Queste sono inequivocabilmente le cornici dei due quadri in questione, La Visitazione (fig. 38) e la Annunciazione (fig. 39), ancora nella loro collocazione originaria a differenza dela pala d’altare che ora si trova a lato della cappella adiacente. Quest’ultima è opera di Jan Van Beyghem ed è stato ipotizzato che la santa Tecla ai piedi della Vergine sia una rielaborazione di Avanzi154 come dimostrerebbero lo scorcio della testa dalla mandibola marcata e il fitto panneggiare a pieghe poco profonde ma in realtà, dopo un esame ravvicinato, si ritiene più probabile che la ridipintura sia una modifica ottocentesca. Alle opere del 1676 rimanda ancora l’Annunciazione, probabilmente il miglior lavoro di Avanzi. Il panneggio dell’abito della Vergine ha caratteristiche analoghe a quello dell’angelo dell’Orazione nell’orto (fig. 25). Il trattamento è insolitamente morbido e frusciante per Avanzi, che in opere precedenti ci aveva abituati a tinte piatte, sorde, a durezze di vario tipo e soprattutto alla staticità delle figure. Nel modo in cui raggruma la luce sulle pieghe facendone brillare le creste che emergono dall’ombra egli rimanda di nuovo, e non solo tipologicamente, alla maniera bassanesca di Scarsellino, che in questo caso non è un modello puntuale ma uno spunto per una personale reinterpretazione. Scarsellino infatti non indugia mai in panneggi cosi abbondanti e replicati, quasi petali di Rosa centifolia ammassati sul gradino. L’impianto compositivo è memore di composizioni guercinesche, come l’Annunciazione di Pieve di Cento o

18 quella di Forlì. La pala di Avanzi, pur mancando del Padreterno, è più vicina a quest’ultima (fig. 40) per la comune presenza della Gloria angelica che accompagna l'evento sacro. Prototipo di Gabriele è l’angelo del Martirio di San Maurelio di Guercino (fig. 41), ma pure in Bononi si trovano modelli simili (come nell'Estasi di San Paterniano, Fano, Cattedrale). Nella derivazione di Avanzi i panni, pur mossi, tornano quelli ghiacciati di sempre e l’anatomia subisce semplificazioni eccessive, come nel punto di giunzione tra braccio e spalla che ricorda gli attacchi di certe bambole dagli arti snodabili. Si lasciano tuttavia apprezzare alcuni dettagli come i biondi capelli ondulati, un po’ troppo disegnati rispetto al referente guercinesco ma gradevoli nel loro aspetto neo-cinquecentesco, e il giglio che Gabriele regge mollemente con la mano sinistra. La parte qualitativamente più alta dell’opera resta quella inferiore. In essa la Vergine è impostata secondo modelli controriformati155 “alla Cesi” un po’ superati, ma è comunque pregevole per il patetismo che muove, per l’attenzione espressiva e per il livello di finitezza. Più moderno è il trattamento luministico, funzionale alla resa dell’immediatezza dell’evento: un faro di scena colpisce prima l’angolo per poi posarsi su Maria che, colta di sorpresa, ancora con la destra tiene il segno sul libro che naturalisticamente si piega nell’angolo sporgente, ma già col gesto della sinistra mostra di sottomettersi al volere di Dio (con una mano protesa che Avanzi non riesce a porre in scorcio). Oltre al libro non mancano altri dettagli che rivelano l’attenzione dell’artista alla realtà, quasi una costante della sua lunga carriera. Nel letto visibile dietro la tenda il lenzuolo, della stessa materia dell’abito di Maria, è rimboccato senza troppa precisione, generando una teoria di piegoline che acquistano ritmo quasi decorativo grazie alla luce che le lambisce di riflesso (fig. 42). Il cesto sporge verso lo spettatore in un tromp l’oeil a cui contribuiscono il gradino sul quale in parte poggia e il gioco di luce che quasi brucia il candido lino ricamato, lasciando in ombra totale la sinistra del contenitore. Il volto idealizzato di Maria (fig. 43) è d’ascendenza reniana e nella sua genericità è improbabile possa davvero essere il ritratto di Euride Manfredi, come invece sosteneva Baruffaldi. Com’è noto Reni non ebbe particolare fortuna in città, ma Catanio ne fu per breve tempo allievo156 sia pur non trattenendo granchè dello stile del maestro, orientandosi maggiormente in direzione guercinesco-bononiana. Egli è con tutta probabilità l’autore di una replica del San Sebastiano di Reni oggi al Louvre157, che si trova proprio nella chiesa di San Giuseppe e potrebbe avere influenzato Avanzi nel trattamento fortemente contrastato che egli riserva al volto della Vergine. Tuttavia il risultato a cui giunge Avanzi appare aggiornato su esempi più recenti e un confronto interessante è con una Madonna derivata da Reni (fig. 44) oggi a Spilamberto158, il cui autore dimostra di conoscere Carlo Cignani per via della “fattura naturalistica e insieme delicatamente smaltata”159. E’ quindi con la coeva Annunciazione di San Giuseppe che il quadretto di Spilamberto condivide, se non il formato, la medesima intonazione patetico- naturalistica, la levigatezza, l’atmosfera raccolta e devota. Non si vuole qui attribuire ad Avanzi la Madonna orante, evidentemente di una mano più abile, ma sottolineare una cultura simile che muove i due autori per dimostrare che il ferrarese, solitamente tacciato di cronico attardamento, è invece capace di mostrarsi aggiornato sui testi più moderni. Il quadro che fa da pendant all'Annunciazione mantiene un livello qualitativo discreto. Nell’opera in questione Avanzi torna a misurarsi con Carlo Bononi: è il soggetto stesso a richiederlo, una Visitazione (fig. 38), che a Ferrara non può non tener conto del capolavoro nel soffitto di Santa Maria in Vado (fig. 45). In effetti la riproposizione è fedele: oltre all’identica scelta cromatica per gli abiti dei protagonisti, tornano il punto di vista ribassato e il motivo della doppia rampa di scale in cui compaiono, dal basso verso l’alto, i servitori, San Giuseppe e le due cugine. Avanzi attualizza l’evento ambientandolo entro un’architettura tardo-cinquecentesca memore di quelle veronesiane di Bononi (le due Nozze di Cana di Santa Maria in Vado e Pinacoteca) o di Scarsellino (Nozze di Cana, Pinacoteca). Indugia poi su piccoli dettagli realistici quali il capitello sbrecciato ai piedi del garzone o i riflessi metallici dei pomelli della ringhiera o ancora sul battere di “una lama di luce vera”160, sulla corda che trattiene il mulo. Meno riuscita è l’anatomia del garzone, enfatica ma approssimativa nel torace che sembra scoppiare e nel marcare eccessivamente l’articolazione del braccio, memore forse dei muscolosi esempi manieristici di Domenico Mona. Anche quest’opera, come l’Annunciazione, si collega ai quadri del 1676: in particolare alle anatomie “nordiche” del san Pietro della Cattura di Cristo (fig. 23) e alle torsioni degli sgherri nella Flagellazione. Alle vesti di questi rimanda il timido decorativismo dei bragoni del garzone e l'analogo l’inserimento di dettagli “archeologici”. Il già citato San Pietro sembra il gemello del San Giuseppe e anche il panneggiare dei mantelli senape dalle falde larghe che generano profonde lingue d’ombra è simile. Tutti dettagli che, messi insieme, potrebbero far pensare ad una datazione più precoce di quella che Riccomini formula basandosi sulla data di doratura delle cornici che, a ben pensare, è solo un termine ante quem. Qualche dettaglio rimanda a Scarsellino, per esempio il drappo dell’angelo spiegazzato e cangiante come di ciniglia, che ricorda il panno lasciato sulla riva del fiume da Salmace nella tela Borghese161 (ma anche la veste di Maria nell’Annunciazione di Avanzi). La tipologia stessa dell’angelo-bambino è più vicina a Scarsellino che a Bononi, il quale solitamente sceglie per tali ruoli giovani adulti. Ma non gli è totalmente estranea: gli angioletti che si abbracciano nell'Annunciazione sono molto vicini a quelli che Bononi dipinge nella pala di Casumaro, così come ad uno di essi è affine quello mollemente adagiato nel Martirio di Santa Tecla. Resta quest’ultimo il referente privilegiato di Avanzi e non solo da un punto di vista cromatico o iconografico, ma anche per il modo di “macchiare” con ombre penetranti e dense nelle quali i colori sembrano assorbirsi162. Le fisionomie sono le solite dai tratti marcati ed il mento sporgente, che però si ingentiliscono nel profilo in ombra della Vergine, che come nella tela compagna è levigato e quasi lucido sulla guancia. E’ forse opportuna qualche osservazione di carattere critico sulla figura di Giuseppe Avanzi. E’ infatti arduo poterlo

19 definire un vero e proprio artista, come invece egli probabilmente si riteneva. Lanzi163 lo considerava una sorta di artigiano, definizione che non pare del tutto sbagliata e che deriva sia dalla qualità medio-bassa (con qualche eccezione, a dire il vero) dei suoi prodotti, sia dalla scarsa originalità nell’invenzione. Occorre notare la frequente anzi sistematica prassi di comporre inserendo figure desunte da invenzioni di artisti più dotati, per lo più ferraresi o comunque presenti con opere sul territorio. Non si tratta di citazioni nel senso più alto del termine, capaci di prender vita entro il nuovo contesto, ma di veri e propri “copia-incolla” che per questo non si fondono con la cornice naif ideata da Avanzi. E’ la tecnica il suo punto debole: se infatti egli ama impiegare diffusamente tinte variegate e forti, nel solco della tradizione ferrarese che accomuna Garofalo, Mona, Scarsellino, Catanio fino Bononi, non sa però rendere vivi e vibranti i suoi impasti cromatici. Questi diventano macchie appariscenti in grado di distrarre l’occhio semplice del profano che facilmente si sofferma in superficie senza indugiare in una lettura più approfondita dell’opera. Ed ecco perché Avanzi dovette aver successo nel suo ambiente. In un periodo critico come il secondo Seicento, in cui la crisi economico-politica del cinquantennio precedente (vivace però almeno da un punto di vista culturale) si protrae164, il fermento culturale ed intellettuale viene meno. Per contro diviene sempre più massiccio l’insediamento di nuovi ordini religiosi il cui desiderio di iconografie strettamente controriformate e devote raramente s’accompagna a quello di standard qualitativi elevati. In una situazione come questa le uniche autorità dal punto di vista artistico sono i legati e i vescovi che però raramente incentivano la formazione di artisti locali. Quando lo fanno (esemplare è il caso del cardinal Pio con Giovanni Bonati) li invitano a completare la formazione fuori città finendo per portarli con sé una volta terminato l'incarico istituzionale165. Ne è prova infatti che le fonti tramandino Giuseppe Avanzi come pittore per ordini religiosi, per confraternite e per una classe a volte benestante ma artigiano-mercantile quindi con cultura limitata che si può supporre si facesse più facilmente impressionare da tele di grandi dimensioni e dai colori sgargianti che da composizioni corrette, equilibrate e ben disegnate. In un unico caso egli lavora per una famiglia aristocratica, i Crispi, in san Giuseppe, e non a caso con due quadri tra i migliori che abbia prodotto in giovinezza. Esemplare è il caso della Visitazione (fig. 46) oggi nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara166 che si ipotizza provenire dall’oratorio della Penitenza presso la chiesa del Gesù167. Non ci si sente di condividere la datazione attorno al 1676 proposta da Berenice Giovannucci Vigi poiché la composizione e la stesura sono lontane da quelle della pala di ugual soggetto in San Giuseppe. Se simile è la scelta di porre il servitore su un primo piano molto ravvicinato, piegato per mostrare le figure retrostanti, intento a lavori di fatica che ne mettono in evidenza la muscolatura possente, nel dipinto di San Giuseppe la scansione spaziale era ben più riuscita che qui, dove invece i personaggi son ammassati su uno stesso piano. Troppo vicino, Giuseppe osserva le cugine quasi dovendo scavalcare il servitore, mentre Zaccaria fa capolino dalla porta. In alto a sinistra gli angioletti reggono il cartiglio. L’opera si direbbe un vero e proprio collage: i quattro angeli sembrano derivare direttamente da prototipi guercineschi (impossibile non pensare ai due già ad Althorp House (fig. 47), un tempo cimasa della pala oggi al Nelson Atkins Museum di Kansas City gia in San Francesco a Reggio Emilia). Al maestro centese rimanda la resa traspirante dei contorni e la morbidezza degli incarnati, rare in Avanzi, così come la soffice e rada lanugine sulle teste degli angeli, caratterizzati anche dall’analogo modo di sfumare nell’ombra gli occhi che non mostrano distinzione fra sclera e pupilla. Elisabetta è la fedele riproposizione in controparte della stessa santa nella Madonna col Bambino e i santi Antonio, Lucia ed Elisabetta (fig. 48), pala di Scarsellino in Santa Chiara168 a Ferrara. Avanzi irrigidisce però il panneggiare sempre molto libero e mobile di Scarsellino con risultati affini ad esempio a quelli di Domenico Mona (che appare sempre più “squadrato” ma elegante). Dalla Deposizione di quest’ultimo, parte del monumentale trittico in San Francesco, Avanzi mutua la possente figura del servitore chino a raccogliere la corona di spine. La figura ricompare anche tra gli sgherri affaccendati nel Martirio di San Lorenzo di Scarsellino (Raccolte Comunali di Lugo) e nel servitore intento a raccogliere le stoviglie nelle Nozze di Cana di Bononi169. Prototipo comune di questo topos è probabilmente una figura presente nel Giudizio Universale di Tintoretto (Venezia, Madonna dell'Orto). Avanzi aggiunge alla figura il copricapo, mentre la gamba, per l’accurata descrizione anatomica del piede, non può essere farina del suo sacco, ma l’ennesima desunzione, probabilmente da un modello tardomanierista forse di area nordica per il quale candidato è ancora Mona (ma a Ferrara Avanzi poteva anche vedere opere di Tommaso Laureti, Arrigo Clocher ed altri). Tornando ad Elisabetta, il suo viso ha chiari tratti scarsellineschi; è infatti quasi sovrapponibile a quello del San Giovanni della Deposizione di ubicazione ignota170 (fig. 49), solo invecchiato da qualche ruga. La Vergine è di vaga ispirazione guercinesco - classicista nella forma piena del volto, nel naso affilato e nel taglio degli occhi, ma vicina anche a tipi scarsellineschi. Degno di nota il paesaggio che si apre alle sue spalle (fig. 50). In esso la fusione atmosferica lo lega ancora ad esempi ferraresi cinque e seicenteschi. Le chiome degli alberi sono sfumate a creare macchie verdi che si compenetrano intimamente alle lame azzurro-rosate di un cielo albeggiante, mentre sono solo allusi da rapidi tocchi i segni di civiltà sulle rive dello specchio d’acqua. Soluzioni analoghe (fig. 51) contraddistinguono e collocano cronologicamente vicina a questa Visitazione la lunetta con Sant’Agostino che lava i piedi a Gesù (Ferrara, chiesa di San Giuseppe, fig. 52)171. Se in essa il panneggiare delle vesti di Cristo è veramente impressionante per ridondanza e rigidezza (fa pensare al Noli me tangere di Scarsellino172, comunque più morbido e leggero), l’apertura paesaggistica sui colli al tramonto è invece apprezzabile. Le caratteristiche sono quelle del paesaggio della Visitazione e torna anche il gradevole controluce dell’alberello “umbro” dalle fronde rade. La lontanananza tra la Visitazione della Pinacoteca e quella di San Giuseppe, e le differenze nella resa del paesaggio che emergono da un confronto fra queste opere ed altre

20 più tarde come i quadretti di San Domenico e quelli di Poggio Rusco, fanno datare la Visitazione e la Lavanda qualche anno dopo i dipinti documentati di San Giuseppe, forse tra 1685 e 1690 e comunque prima dell’inizio del XVIII secolo, quando probabilmente giunge a Ferrara il giovane Giuseppe Zola173. Paesaggista bresciano dalla formazione oscura174 ma che cresce poi sugli esempi veneti di Marco Ricci, Zola troverà patria d’elezione in Ferrara, dove con la propria bottega a conduzione familiare ornerà le dimore di tanti collezionisti, riuscendo a collocare dipinti anche su qualche altare cittadino. I paesaggi che Avanzi inserirà nelle sue opere sono certamente debitori di Zola. Egli impiega le stesse acacie contorte dai rami spezzati e dalle fronde rade come repoussoir per vedute fluviali e di costa. Sulle rive sparpaglia piccoli paesi “alla romana”, sovrastati da tipiche montagne brulle e scoscese sulle cui cime tra nubi e foschie si scoprono irraggiungibili Olimpi. La comparsa di paesaggi “alla Zola” nei quadri di Avanzi segnala una prima forte reazione del pittore al gusto moderno che stava diffondendosi anche a Ferrara e permette di marcare una cesura anche cronologica tra le sue opere ancora secentesche e quelle che eseguirà nel nuovo secolo. In mancanza di supporti documentari resta comunque faticoso se non impossibile ricostruire precisamente la cronologia di Avanzi e di pittori affini. Infatti essi mancano solitamente di un lineare percorso di crescita stilistica, di maturazione parallela al trascorrere del tempo. Più consueto è in essi il ricorso a modelli di repertorio collaudati e di facile “smerciabilità”, e spesso questi maestri attraversano lunghi periodi senza manifestare segni di particolare evoluzione. Lo stesso Avanzi sarà capace di ripiegarsi su se stesso dopo quello che sembrava un percorso in progress. Ma rispetto a tanti colleghi a lui va riconosciuto il merito di non essere rimasto sempre uguale a se stesso e di aver saputo cogliere di volta in volta, anche se solo esteriormente, gli stimoli più innovativi. Lo dimostra la prontezza con cui egli reagisce alle novità cignanesche introdotte da Scanavini e a quelle del paesaggista Zola. Ma lo dimostrerà anche cogliendo quanto di più innovativo e di veramente settecentesco portò in città Giacomo Parolini terminati i propri viaggi. Ovviamente con i limiti di un mestierante di scarsa cultura, che rendono la raccolta di questi impulsi più delle infatuazioni passeggere che veri e propri aggiornamenti, venute meno le quali il pittore torna alla banalità oltre la quale non è in grado di andare da solo. Almeno fino all’infatuazione successiva. Al momento le opere tra il 1685 e il 1701 sono pochissime. Le fonti ne documentano molte ma di esse rimangono solo, in condizioni disastrose, le due enormi tele un tempo nel presbiterio della Certosa, rappresentanti la Visione di San Bruno e L’apparizione di San Bruno a Ruggero di Sicilia. Dopo che il bombardamento del 1944 le ebbe colpite furono staccate dalla parete, spalmate di melassa e arrotolate, poi ignorate per almeno quindici anni prima di entrare, nel 1962, nello studio di restauro Nonfarmale. Qui una delle due è stata srotolata e posta in tensione per iniziare un restauro poi interrotto per mancanza di fondi. Le due opere sono pressoché inedite, non esistendo documentazione fotografica precedente al bombardamento175. Nella Visione di San Bruno pare tuttavia di scorgere la consueta enfasi e sovrabbondanza di pieghe e panni rigidamente svolazzanti che caratterizzano il modus operandi di Avanzi.176 Nel 1701 vengono consegnati alla chiesa di Villanova Marchesana (Rovigo) due quadri ancor oggi in situ, l’Ultima Cena (fig. 53) e l’Orazione nell’orto (fig. 54). Le informazioni relative alla commissione si ricavano dal libro parrocchiale dell’arciprete Francesco Miccai che ricoprì tale incarico dal 1690 al 1714177. Il prelato sembra aver avuto molto a cuore la decorazione della propria chiesa, barcamenandosi alla meglio tra ristrettezze economiche, offerte di privati e modeste rendite per accomodare l’organo, costruire i barbacani, dotare la chiesa di un nuovo altar maggiore, di nuovi quadri e per farne eseguire e decorare le cornici. Queste furono realizzate da un non meglio precisato Giovanni Manchiaro ma non si poterono decorare per mancanza di fondi e si appesero “schiete”, provvedendo al loro ornamento solo tra il 1709 e il 1710. La commissione giunse ad Avanzi quasi certamente tramite padre Benedetto Morellini, procuratore della Certosa di Ferrara, istituzione con la quale il pittore era già in rapporti, ed è la prima per una chiesa fuori città della quale si abbia una documentazione, dopo quelle perdute di Mirandola. L’Ultima Cena si trova a destra (in cornu Evangelii), e davanti ad essa è l’Orazione. Nella prima, che sembra aderire a modelli emiliani ma anche veneti, sul genere dei Bassano o di Scarsellino per l’atmosfera fosca ravvivata da candele e per la disposizione a esedra degli apostoli, Avanzi tenta qualche virtuosismo luministico grazie ai bagliori prodotti dal candeliere, in modo particolare nella mano in totale controluce dell’apostolo di destra. La sua figura è esemplata su quella del San Marco della pala Fugger di Giulio Romano, nota nel Ferrarese grazie alla copia antica della chiesa di Mesola178, certo precedente al 1617, quando il restauro di Carlo Saraceni muta la direzione del capo del leone. Lì infatti deve averla vista Avanzi, probabilmente ai tempi della consegna di due quadri che in questa sede gli vengono restituiti. Si tratta di due ulteriori versioni dell’Orazione nell’orto (fig. 55) e della Flagellazione (fig. 56), entrambe in condizioni preoccupanti per sporcizia, impoverimento dello strato pittorico, tagli ed abrasioni. La seconda è pressoché ingiudicabile per la consunzione e il degrado che ne investono l’intera superficie. Formato, cornice e vicinanza dei soggetti la riconducono vicino all’Orazione, meglio giudicabile e certamente riferibile ad Avanzi. In realtà anche qualche tratto stilistico potrebbe ricondurre la Flagellazione al pittore, come le guance intensamente arrossate di Cristo e l’abitudine di trattare in modo molto sommario i personaggi sullo sfondo. Ma è soprattutto la stretta dipendenza di entrambi i dipinti da incisioni di Sadeler179 (figg. 57 e 58) che permette di attribuirgliele, oltre che stilisticamente, anche per il modus operandi. Le due tele sono di qualità modesta, ciononostante hanno una certa importanza in quanto documentano per prime l’attività di Avanzi come traduttore di incisioni, un’attività resa nota dalle fonti180 e ispiratagli dall’insegnamento del maestro Catanio. Stilisticamente l’Orazione non pare distante dai quadri di Villanova e se ne può proporre una cronologia limitrofa

21 ed ipoteticamente anteriore ad essi. Gli angeli delle due Orazioni (figg. 54 e 55) sono infatti piuttosto simili e in quello di Villanova si può cogliere un tentativo di definizione più preciso e particolareggiato delle vesti, soprattutto nello svolazzare meno rigido dei lembi di cintura. Essi inoltre abbandonano il modello scarselliniano della versione giovanile (Ferrara, San Giuseppe) e pure l’atmosfera se ne distacca. Cupa in tutti e tre i casi, nel primo la luce vagava inquieta rialzando le sole parti lambite e lasciando nel buio più totale quelle in ombra. Nelle due opere per il contado invece i protagonisti sono investiti da un potente fascio che illumina a giorno l’evento notturno. A dire il vero la distanza dalla serie giovanile è palese e non in direzione di un miglioramento. Le anatomie della Flagellazione di Mesola (fig. 56) hanno perso quel che di maggiormente dinamico che caratterizza gli sgherri della versione ferrarese e si assiste ad una potente semplificazione delle vesti che da vaporose e fruscianti si fanno aderenti e schematiche. Nemmeno il ricorso ai buoni modelli incisi da Sadeler rende dinamica l’opera di Avanzi. Nell’Orazione (fig. 54) egli riprende l’idea mesolana della pallida luna che fa capolino dai temibili nuvoloni neri, con un risultato atmosferico apprezzabile. Nemmeno stavolta manca l’omaggio alla tradizione ferrarese che si esplicita nella figura dell’apostolo Giovanni che dorme appoggiato alla propria mano. Il panneggiare riacquista una relativa morbidezza e si lasciano apprezzare i forti contrasti della veste di Cristo, in particolare sulle maniche. Meno felice è la decisione di illuminare a giorno gli apostoli che avrebbero dovuto essere in totale penombra. Nuocciono alla composizione un certo affollamento e il gigantismo delle figure che non permettono l’inserimento di divagazioni paesaggistiche né di dettagli descrittivi. Essi si riducono all’unico arbusto spelacchiato nell'angolo destro che rimanda da vicino a quello presente nella Santa Tecla si rifugia nella montagna (fig. 36, a riprova dell’effettiva rielaborazione che il quadro dovette subire dopo il 1680 e comunque dopo l’arrivo di Zola, come dimostra il brano di paesaggio sulla sinistra181. L’affollamento diventa soffocante nell’Ultima Cena. Qui Avanzi non adotta la tradizionale iconografia del san Giovanni addormentato tra le braccia di Cristo, che avrebbe complicato notevolmente un gioco di incastri già precario. Tale soluzione è usata da Scarsellino ad esempio e proprio da una delle sue versioni182 potrebbe dipendere il dettaglio del tovagliolo che sporge dal bordo del tavolo. Dettaglio presente anche nel rame carraccesco già in Certosa (ora Ferrara, Pinacoteca) da cui pare dipendere anche l’apostolo di spalle (fig. 59). L’inserimento di questo come di altri particolari rientra nelle abitudini di Avanzi, naturalmente portato alla rappresentazione di oggetti inanimati tanto da trattar spesso anche i vivi come tali. In una descrizione la più possibile didascalica dell’evento la tavola si arricchisce di piatti metallici, di tovaglioli, di una forchetta che fuoriesce dal tavolo misurando lo spazio e di pani che si ritrovano anche nel grande cesto intrecciato ai piedi di Pietro. La sua figura è connotata da una gestualità adatta, più che a un’Ultima cena, all’intercessione di un santo fra fedeli e divinità, come risulta dal confronto col San Pietro Martire di Giovanni Andrea Ghirardoni (Ferrara, san Domenico). Completa la natura morta una ciotola entro la quale Giuda sta versando vino da una fiasca impagliata. Sempre nel 1701 si colloca la messa in opera della grande pala oggi in Santa Maria dei Servi ma un tempo nella chiesetta delle Orsoline183 che lì si trasferirono nel 1779 portandosi i propri arredi184 . L’opera raffigura la santa titolare dell’ordine circondata dalle compagne vergini e martiri (fig. 60). Presenta una monumentalità fin qui inedita per Avanzi, che è forse memore, nell’impostazione, del capolavoro di medesimo soggetto di Ludovico Carracci (Bologna, Pinacoteca) dal quale però non è in grado di mutuare patetismo, concitazione e frenesia dei gesti. Per la prima volta il pittore colloca il gruppo principale su un piano lontano dal primo, permettendo ai fedeli di accostarsi gradualmente all’evento. Questo è preannunciato da una freccia abbandonata tra le prime rocce, quasi simbolica reliquia perché strumento del martirio di Orsola. La santa già vincitrice della morte si erge in tutta la sua regalità al centro della tela e al suo fianco giacciono un paio di sensuali compagne che sembrano memori delle Allegorie per la cupola di san Carlo. La loro gola palpitante e il molle abbandono preludono al morire già mitigato dall’estasi riservato ai martiri. Avanzi volge a suo favore l’incapacità di mostrare l’azione, per raggiungere un risultato di mistica iconicità nella figura di Orsola rapita dalla luce divina dello Spirito Santo che dall’alto la avvolge. Se il pittore si mostra solitamente poco dotato nel narrare, lo stesso non si può dire per ciò che concerne l’inserimento di particolari e la caratterizzazione del paesaggio. In questo caso ad esempio non dimentica che l’episodio si svolge all’approdo delle Vergini al porto di Colonia e quindi diventa immancabile l’inserimento del vascello e di brani di paese lungo la riva del Reno. Né dimentica lo status di queste donne, tutte sontuosamente vestite, con diademi tra i capelli, nastri e camicie ricamate. La più chic è ovviamente Orsola, la cui corona ferma un impalpabile velo di seta traslucida e i cui abiti dai colori brillanti sono bordati d’oro. La linea di panni e veli ha un andamento spezzettato potenzialmente frenetico, quasi che il modello cui Avanzi si rivolge fosse la Transverberazione di Santa Teresa di Bernini. Il risultato è però frenato dalla staticità oltre la quale egli non sa andare, accentuata dal fare placido delle figurette di fondo impegnate nella conversazione più che nel massacro. Gli stessi angeli sembrano fluttuare e roteare per inerzia in assenza di gravità più che volare sospinti dalla potenza del batter d’ali. Il risultato è, come detto più volte, statico ma di una staticità sospesa.Sono caratteristiche che si riscontrano anche nella Visitazione un tempo in san Crispino ed oggi conservata in Curia a Ferrara (fig. 61). Già datata su basi stilistiche attorno al 1685 per la vicinanza a quella di San Giuseppe185 , è oggi possibile posticiparla di quasi vent’anni, avendo reperito la data del pagamento in un piccolo fondo archivistico apparentemente mai indagato186 . Il documento, firmato da Avanzi, porta la data 1703. La maggior modernità di questo dipinto non andrà cercata nell’impianto compositivo in tralice ormai ampiamente diffuso (un esempio: Il Riposo durante la fuga in Egitto di Scarsellino, Ferrara, San Francesco, fig. 62) ma nella maggiore eleganza e compattezza del profilo di Maria, nel quale l’ombra muta repentina in luce su una pelle levigata, candida, appena arrossata sulle gote come porcellana dipinta, in cui

22 è facile riconoscere l’influenza dell’ideale classico cignanesco e della cultura dei Gennari, tradotti in gergo popolare e mediati da Maurelio Scanavini tornato definitivamente a Ferrara attorno al 1687187 . La composizione è nobilitata dal consueto inserimento di citazioni tratte da capolavori della scuola ferrarese che in questo caso vanno ricercate nella figura dell’angioletto di spalle che replica in controparte quello della succitata pala di Scarsellino, dalla quale Avanzi mutua anche l'idea del cappello di paglia buttato a terra. Da lì infatti derivano la posa in equilibrio sulla punta del piede e l’ombra del drappo che stacca netta sui polpacci. Avanzi però lo lascia maliziosamente svestito coprendone a malapena la nudità con un panno pesante e ruvido mentre Scarsellino lo ammanta di una sottile ed aerea garza188. Da notare le piccole alucce variopinte dello stesso facchino alato, se non altro perché nelle Veglie Centesi Baruffaldi cita tale scelta come frequentemente adottata da Avanzi (ma oggi riscontrabile in quest’unico caso) criticandola e consigliando per le ali un più consono color candido189. Resta il fatto che esse si guardano con piacere grazie alla minuzia con la quale egli ce le restituisce e che permette di distinguere ogni singola piuma che le compone, quasi fossero già di per se un piccolo brano di natura morta. Brano che continua in quello più ampio degli oggetti accatastati davanti alla scala di pietra che a sua volta entra a farne parte. Esso è quanto di più simile per estensione al vasto numero di nature morte ricordato dalle fonti e per ora sconosciute. Proprio su questo particolare puntava l’attenzione Riccomini nel 1969 commentando l’opera ed in effetti il risultato è soddisfacente nella cura con cui Avanzi si dedica a rendere la grossa tela di sacco del fagotto, o i cerchi concentrici che compongono il cappello di paglia al quale si arricciano i lembi della falda, o la fiasca da paraduro alla quale non manca il cordone che ne assicura il tappo. Gli stessi oggetti ricompaiono in una coppia di tele, nel loro piccolo sorprendenti, che si trovano nella parrocchia del Santo Nome di Maria di Poggio Rusco e sono state ricondotte ad Avanzi da Alfonso Garuti190 . Rappresentano una ulteriore versione della Visitazione (fig. 63) e del Riposo durante il ritorno dalla fuga in Egitto191 (fig. 64). Lo spoglio dei documenti conservati presso l’archivio parrocchiale effettuato da Lino Rezzaghi non ha dato frutti192 e quindi non si è in grado di datare ad annum le due tele. Ciononostante alcuni dettagli inducono a pensarle piuttosto vicine al dipinto del 1703 ora in Curia (fig. 61). Innanzitutto, come già osservato, nel Riposo ricompare pressoché invariato il gruppo di oggetti presente in quella tela. Ma pure il concio perfettamente squadrato su cui siede Maria (e che torna identico nel pendant, addirittura scheggiato nello stesso punto) è della stessa pietra di cui è fatta la scala del quadro di San Crispino, facile a sbrecciarsi e dalla lucentezza cerosa. I confronti possono continuare nelle figure: come nella Maria riproposta a Poggio Rusco in controparte e semplificata, ma che ripete l’analogo ricadere del manto blu che le si apre sul fianco. O nel rapido virare dell’ombra in luce sul volto della Vergine ferrarese che torna simile nel “profilo sottile e allungato, decisamente caratterizzante”193 dell’Elisabetta mantovana o dell’angelo di sinistra nel Riposo. In questa tela tra l’altro la Vergine indossa un velo di foggia quasi islamica che le incornicia il viso e che torna, variato, sul capo della cugina nell’opera di Ferrara. La Sacra Famiglia rimanda ad un’incisione di Aegidius Sadeler II194 dove il Bambino è posto tra le ginocchia della Madre e compie un virtuosistico avvitamento per ricevere dal patrigno alle sue spalle i frutti che questi ha colto per lui. Ma la grande novità in tali dipinti è il paesaggio. Precedentemente Avanzi non dimostra interesse nel connotarlo e comunque mai in modo così significativo. Una comparsa così prepotente non può che essere una reazione e l’evento che la scatena deve essere per forza l’arrivo di Zola a Ferrara. Non è noto esattamente quando egli giunga in città ma le fonti parlano di un arrivo in giovane età195. Nascendo nel 1672 è quindi pressoché certo che dai primissimi anni del Settecento egli fosse lì, ma è possibile che vi giungesse già a metà degli anni novanta del Seicento se è vero che fece in tempo a frequentare la bottega da Giulio Cesare Avellino, scomparso nel 1700. Proprio agli inizi del secolo potrebbero risalire le prime opere pubbliche di Zola come la Visitazione e la Predica del Battista della chiesa a lui dedicata (ora Ferrara, Musei Civici) che Berenice Giovannucci Vigi ipotizza essere “opere della prima ora”196 (anche se in realtà difficilmente databili con precisione). Ma è la produzione di quadri da stanza il campo privilegiato di Zola (fig. 65), genere nel quale, dopo la morte del meno dotato Avellino, è facile pensare non avesse molti rivali, soprattutto vista la maggiore inclinazione dei pittori ferraresi per opere chiesastiche che, nel clima un po’ bigotto della Ferrara dell’epoca, erano le più richieste. Nel campo profano gli artisti locali potevano tutt’al più spiccare come decoratori ad affresco o come quadraturisti (come dimostra l’estesa attività dei vari Ferrari, Scala, Menegatti). Se (ed è improbabile) Avanzi avesse tardato a vedere i paesaggi con cui Zola arredava le stanze dei palazzi nobili e borghesi, è certo che non gli poterono sfuggire quelle prime opere pubbliche197. La formazione di Zola non è nota ma è altamente improbabile che abbia frequentato esclusivamente la bottega di Avellino (cosa per altro solamente ipotizzabile). Nei pochissimi esempi noti quest’ultimo sembra dedicarsi più al rovinismo riscontrabile in alcune opere giovanili di Zola. Più formativa per il bresciano sarà stata l’esperienza veneziana, che egli visse inizialmente tramite le incisioni di Marco Ricci ma che è impossibile non abbia poi sperimentato in modo diretto. L’adesione allo stile di Ricci si arricchisce in Zola della personale interpretazione di pittori quali Pieter Mulier detto il Tempesta, Johan Anton Eismann, Carlo Antonio Tavella e naturalmente Salvator Rosa. Sono dipinti come il Paesaggio fluviale con ponte o il Paesaggio con lavandaie e un bambino (Ferrara, Fondazione Cassa di Risparmio, fig. 65) ad indirizzare le scelte di Avanzi. Nel primo piano, in cui trovano posto le figurette principali198, egli pone contorti alberi di acacia a far da quinte e a misurare lo spazio sia in altezza che in profondità. Dietro ad essi si spalanca la vallata in un rasserenante quanto consueto paesaggio di costa. Sulla riva si raggrumano piccoli borghi murati in cui torri medievali si accompagnano a rovine antiche. Esse non mancano nemmeno sulle vette delle montagne crestate ed

23 accidentate che chiudono l’orizzonte e che riportano alla mente quelle di Dosso o Garofalo nel modo in cui la foschia le avvolge e colora d’azzurro. Ma in questi dipinti sembra di essere davanti al risultato della sovrapposizione di due livelli autonomi: un fondale in cui Avanzi sa rendere l’atmosfera quieta e sospesa di una città abbandonata, la vita tranquilla dei pastori che governano il gregge sul pendio e i pescatori sulla costa in paziente attesa che la preda abbocchi. Un fondale in cui con pennellata rapida ed intuitiva sa rendere in maniera convincente i riflessi sulla roccia al tramonto e il baffo di fumo che si leva dal torrione sulla più imprendibile cima. Anche la verzura e le macchie arboree in lontananza, nello sfarsi di una pennellata più rapida ma sicura, si compenetrano piacevolmente all’atmosfera carica di umidità. La poesia si infrange però nel primo piano dove le proporzioni tra alberi e figure sono improbabili. Ma soprattutto è la tecnica a scadere improvvisamente: Avanzi non è in grado di rendere le chiome in modo mimetico, e le semplifica eccessivamente. Il tratto è secco e i contorni troppo disegnati e se non fosse per i riflessi dorati che toccano foglie e capelli il risultato sarebbe davvero piatto. Pure la cascatella nel Riposo, di chiara matrice zoliana col grosso macigno che la infrange199 , è eccessivamente stilizzata nell’angolo ottuso dello spigolo vivo che l’acqua produce nel momento di ricadere. Va però ribadita una volta ancora la capacità di aggiornamento con quanto di più nuovo accadeva nel panorama ferrarese. Che poi gli esiti di questo aggiornamento non siano così entusiasmanti, è un altro discorso.Sono coeve alle opere di Poggio Rusco la Samaritana al pozzo (fig. 66) e il Noli me tangere (fig. 67) in san Domenico a Ferrara. Qui l’artista ripropone la medesima ambientazione all’aperto, pur differenziando il rapporto proporzionale fra sfondo e figure che campeggiano monumentalmente saturando lo spazio in altezza. Ancora una volta sembra di essere in una scena da teatrino ambulante: i fantocci sono posti davanti a un fondalino intercambiabile che mostra i segni dell’usura e del tempo per via di quell’atmosfera argentea che avvolge cielo monti e specchi d’acqua, quasi che il cartone su cui sono dipinti abbia subito una prolungata esposizione a luce e polvere. Nella Samaritana al pozzo, il volto della donna riprende direttamente quello dell’angelo nell’Orazione di Villanova (fig. 54) che mostra la spalla per lo scivolar della veste lungo il braccio. Dettagli che contribuiscono a fissare la cronologia di queste tele (e di quelle di Poggio Rusco) non lontano dall’inizio del secolo. Non è infatti necessario posticiparle a dopo la costruzione della nuova chiesa di san Domenico, potendo essere state realizzate per la chiesa precedente come molte opere ancora conservatevi. La figura della Samaritana deriva molto probabilmente da quella della figura femminile dell’Allegoria dei doveri matrimoniali incisa da Johan Sadeler200 (fig. 68), che raccoglie l’abito sul fianco allo stesso modo e che mostra un analogo anchement. Anche la posizione affrontata dei due protagonisti, col Cristo lievemente riverso in avanti, riecheggia quella dei due coniugi nel foglio inciso, piuttosto che la non meglio specificata invenzione marattesca cui allude Riccomini201. L’incontro si svolge davanti a un imponente edificio colonnato affacciato sul mare, l’estensione del quale si perde piatta e indistinta all’orizzonte, interrotta appena da una breve lingua di terra. Degni di nota sono l’atmosfera morbida e il tratto indefinito del bosco alle spalle dei protagonisti che rimanda chiaramente a Zola. Ma spicca anche il consueto inserimento didascalico di oggetti d’uso comune a connotare l’evento. In questo caso si tratta dei contenitori in rame, si direbbe lucidati di fresco, naturali “attributi” del pozzo. Avanzi esibisce la consueta inclinazione per la scena di genere nella cura che infonde nell’annaffiatoio dal fondo sbalzato e dal manico che si espande in due riccioli divergenti, o nel realistico riflesso metallico che si ritrova con uguale posizione ed intensità nel bacile. Tale propensione emerge pure nel pendant, dove il Cristo in veste di ortolano si appoggia alla vanga che, pure in una frontalità eccessiva (quasi fosse in vetrina), è realisticamente connotata da un dettaglio secondario come lo staffale. Analogo il discorso per il barattolo di unguento tenuto in mano da Maddalena. L’eccessiva semplificazione del ruscello, identico nel Riposo di Poggio Rusco, o degli alberi di Robinia, contrasta nuovamente col bel paesaggio sul fondo in cui la bruma avvolge, uniformandole, rocce e rovine. Il ripetersi del modello impiegato per la Maddalena permette di sottrarre all’anonimato la Natività sotto la neve di Mesola (fig. 69) e di collocarla covincentemente attorno alla metà del primo decennio del secolo. L’angelo di sinistra ripete fedelmente la postura inginocchiata della Maddalena (fig. 67) col manto che ricade rivoltandosi ampiamente sulla schiena in pieghe abbondanti. Anche lo scorcio estremamente naïf del piede è lo stesso. Ma ad ancorare l’opera non lontano dal 1703 è il riproporsi della figura con soggolo (qui la Vergine) che dimostra la sua parentela con l’Elisabetta del quadro in Curia (fig. 61). Più che la componente figurativa è ancora una volta l’ambientazione l’aspetto maggiormente interessante dell’opera. La Natività è infatti ambientata in un originalissimo paesaggio innevato che non dovrebbe stupire alle nostre latitudini ma al quale tuttavia non si è abituati. Ad alberi e arbusti è conferita un’innaturale impostazione curvilinea a formare una sorta di cornice per il santo evento, col risultato di una certa sproporzione tra figure e vegetazione. Questa è ricoperta da un sottile strato di bianco la cui pennellata sostituisce il tocco rapido di verde con cui Avanzi solitamente connota le foglie. Curiosamente dai rami secchi partono qua e là lunghe e rapide pennellate filamentose che non si capisce bene a cosa possano alludere ma che ricordano le ghirlande che decorano oggi gli alberi di Natale. E’ curioso notare come questa, pur essendo l’unica opera “invernale” giunta fino a noi, non sia però l’unica realizzata dall’artista. Cesare Cittadella infatti riferisce di aver visto un’analoga soluzione in un quadro di casa Maffei (di cui non riferisce il soggetto) ma anche in una delle Storie della vita di David di Santa Maria della Rosa, dove Avanzi inserì “un inverno con le piante, e le case coperte di neve”. Serie che spiace aver perduto in quanto, stando a Cittadella, esemplificava l’originalità e la capacità creativa di Avanzi202. Sono parole del genere a far supporre che l’invenzione del paesaggio innevato sia proprio di Avanzi se non fosse che idee analoghe, pur non frequenti, si riscontrano ad esempio in opere della cerchia del Tempesta o del Tavella203 (fig. 70) . E’ quindi possibile imputare ancora a Zola, che fu in contatto col mondo di questi artisti,

24 l’importazione del modello a Ferrara. Ma è senza dubbio ad Avanzi che va riconosciuto il merito di averlo divulgato e reso popolare. Il dipinto di Mesola, nonostante l’originale divertissement, non brilla per unitarietà e fusione. Infatti ancora una volta la scenetta devotamente incorniciata non ha legame alcuno con il fondale al quale pare incollata. Esso raffigura una boscaglia ancora verde che ingloba edifici antichi, turriti e merlati, nel consueto stile fuso ed atmosferico zoliano. E ancora il paesaggio permette di ricollegare ad Avanzi anche il pendant con l’Annunciazione (fig. 71). Si tratta di una riproposizione pedissequa dall’incisione di Johan Sadeler I da un dipinto perduto di Friedrich Sustris204 (fig. 72). L’inconsueta chiarezza compositiva, l’educato rispetto delle proporzioni, la delicatezza quasi sfumata con cui è reso l’angelo sono elementi che in un primo momento possono trarre in inganno. Ma l’irrigidimento dell’anatomia ben visibile nel braccio alzato e nel collo, l’espressione inerte del volto (di probabile eco garofalesca) e soprattutto il panneggiare pesante, spesso e statico restituiscono definitivamente il dipinto ad Avanzi. A lui va tuttavia riconosciuto il merito di aver voluto variare il modello almeno nel paesaggio che ha saputo rendere più familiare, più zoliano e quindi più italiano. Nella seconda metà del primo decennio del Settecento sono collocabili tre dipinti. Il primo è l’Assunzione della Vergine di Villanova Marchesana (fig. 73) che i documenti205 identificano come la seconda commissione inoltrata ad Avanzi da don Miccai, destinata ad ornare l’altar maggiore della chiesa. Gli stessi documenti permettono di datare la richiesta al 14 giugno mentre la collocazione del quadro avvenne l’11 agosto, giusto in tempo per la festa dell’Assunta titolare della chiesa. I colori sembrano virati su toni arancio-bruni, probabilmente a seguito dell’incendio del 1968 (che fra l’altro portò alla perdita di una pala di Scarsellino). Cionostante si lascia ancora oggi apprezzare come composizione discretamente riuscita, probabilmente grazie all’ispirazione tratta da modelli carracceschi. La Madonna è infatti energicamente condotta al Regno dei Cieli grazie al moto ascensionale innescato dai forzuti angeli che la guidano sulle nubi. Nubi dense e spesse, “controriformate”, separano la scena celeste da quella terrena, dove gli apostoli dalle variate espressioni si accalcano attorno ad un sarcofago in pietra modanata posto prospetticamente. Modelli del genere erano già stati ampiamente divulgati in territorio ferrarese dai capiscuola secenteschi: per la Vergine (purtroppo rovinatissima) una possibile fonte è quella della bottega bononiana nell’Assunzione di Fiesso Umbertiano che però Avanzi reinterpreta con maggior turgore di forme e con maggiore “urgenza”. In tale dipinto torna anche la disposizione a esedra degli Apostoli attorno al sepolcro, che era scelta anche da Scarsellino per l’altar maggiore della chiesa di san Crispino (ora Ferrara, Curia) dove fra l’altro lavorerà anche Avanzi, e da cui questi pare mutuare certi atteggiamenti e fisionomie. Consueto è l’inserimento di citazioni tratte da altre opere; più curioso è il ritrovarvene due di origine raffaellesca: se l’Apostolo inginocchiato a sinistra riprende ancora il San Marco della pala Fugger (Mesola, parrocchiale, fig. 74) di Giulio Romano206, quello corrucciato che svetta in piedi al centro della tela deriva dal San Paolo dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello. Benché Avanzi non riesca a trasporre fedelmente la leggera torsione della schiena del modello, né lo scorcio del braccio piegato (in quello del ferrarese l’omero risulta eccessivamente lungo), queste figure spiccano notevolmente sulle altre, le cui anatomie sono in certi casi molto intuitive. In particolar modo nel santo accovacciato sulla destra non si capisce esattamente da dove provengano né a cosa siano attaccate le piccole mani che incrocia sul petto. Nonostante incongruenze come questa l’opera è di qualità discreta, anche per la piccola apertura sul paesaggio che dona equilibrato respiro alla composizione. Il tramonto dorato si riflette sulla montagna scoscesa e pietrosa (ancora zoliana) facendola scintillare. Si può lavorare di fantasia osservando l’Apostolo inserito di straforo all’estrema sinistra. Nelle memorie di don Miccai infatti si legge che Avanzi mise nell’opera “tuta l’aplicazione per sua particolare divotione”. Dunque perché non ipotizzare che egli non abbia deciso di includersi tra gli astanti, seminascosto ed in secondo piano a dimostrar la propria umiltà e modestia? D’altronde egli è l’unico a rivolgere il proprio sguardo verso chi guarda. E’ vero che non ha molto in comune con l’effigie che Baruffaldi inserisce nelle Vite, ma va considerata innanzitutto la mediocre attitudine di Avanzi nel ritratto (come dimostrerebbe il generico volto di Euride Manfredi nei panni della Vergine dell’Annunciazione di San Giuseppe) ed in secondo luogo la possibilità che si tratti di un ritratto in un certo senso idealizzato. Tornando a dati più concreti è invece evidente come alcune figurette tracciate rapidamente e con maggiore libertà rendano la composizione meno statica del solito. I due Apostoli intenti a scrutare, increduli e preoccupati, l’interno vuoto del sarcofago (fig. 75) sono dipinti con tecnica identica a quella delle figure della pala oggi a Sabbioncello San Pietro ma proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Ferrara. Essa raffigura San Pietro che risana uno storpio (fig. 76) e alla luce delle considerazioni sopra svolte è difficile pensarla realizzata attorno al 1714 come proponeva Graziano Gruppioni207. Ci si trova invece in maggior sintonia con Antonio Torresi quando afferma che qui “l’artista ha tentato (riuscendovi) di modernizzare il proprio linguaggio espressivo, soprattutto schiarendo la tavolozza […] e ricorrendo a sinuosi movimenti dei panneggi e delle membra. Di bella resa sono infatti alcune figure secondarie, dall’intonazione verdognola o bluastra208”. E’ al giovane stupito del miracolo, in particolare, che s’apparenta quello che nell’Assunzione osserva turbato il sepolcro vuoto (fig. 75). Stessi occhi bassi sottolineati da due tratti scuri e sfumati ad indicar ciglia e sopracciglia, stesso modo di alludere a naso e bocca, stessa lanugine morbida e rada per indicare i capelli, stessa espressività del gesto, pur differente, delle mani. Ma è evidente come qui a Sabbioncello il gusto tutto settecentesco per l’abbreviazione pervada l'intero dipinto. Un dipinto che proprio per queste capacità di sintesi, di allusione, di rapidità di tratto, per fluidità di pennellata e per il dinamismo dei leggeri panni mossi dal vento ha fatto dimenticare l’autografia di Avanzi. Sono stati proposti infatti i nomi di Scarsellino209 e di Giacomo Parolini, poi caduti col reperimento in sede di restauro della firma dell’autore, Gioseffo Avanzi210. Ma il precedente orientamento su Parolini era comprensibile essendo

25 stato proprio costui il rinnovatore in senso settecentesco della pittura ferrarese, certo più del povero Scanavini. Morto prima dello scadere del secolo egli condivise con Parolini un giovanile alunnato presso Carlo Cignani del quale divenne un emulo, senza riuscire (o senza fare in tempo) ad emanciparsi. La formazione cosmopolita di Parolini invece aggiunse nuova linfa agli insegnamenti di Cignani, grazie alle suggestioni veneto-rubensiane ma anche romano-napoletane che potè cogliere nei suoi viaggi fra Torino e Venezia, e alle novità più radicali che potè vedere nella stessa Bologna col fiorire del coetaneo Giuseppe Crespi. Volgendoci ora al concreto e guardando con occhi nuovi la Disputa di Gesù al Tempio (fig. 77) di Parolini (già in San Crispino, ora Ferrara, Curia) che oggi, col reperimento del contratto è possibile confermare al 1706211 (rispetto al 1711 riferito dalla maggior parte della bibliografia)212, ci si accorge che l’influenza di questo artista su Avanzi è più incisiva di quanto supposto anche nell’Assunzione della Vergine. Sulla destra si dispone il gruppo concitato degli Apostoli (fig. 75), dei quali emergono poco più che le teste allineate (eccettuato quello, svettante, “raffaellesco”). Essi discutono tra lo scettico e l’incuriosito e ripetono lo schema che Parolini adotta per i Dottori (fig. 77) della Disputa. La nuova datazione rende plausibile la possibilità che Avanzi abbia visto il dipinto in corso d’opera e che l’abbia studiato, traendone spunti per la propria Assunzione. Il confronto può continuare nell’Apostolo ammantato di rosso che sulla sinistra si porta enfaticamente la mano al petto che è una non troppo celata citazione dell’uomo calvo dal volto caricaturale e vestito di identico colore cui Parolini fa compiere quel gesto prima di Avanzi. Valutando ciò assieme a quanto detto è evidente che lavorare a cronologie parallele a quelle di Parolini abbia portato Avanzi a nuove riflessioni oltre a fornirgli nuovi spunti inventivi. Nuove consistenze materiche, nuovi tipi a volte perfino grotteschi, nuovi colori, nuovi modelli compositivi. Nel San Pietro risana uno storpio (fig. 76) egli tiene conto di ognuna di queste componenti per giungere ad un risultato nuovo. Va detto che anche qui egli non tralascia di omaggiare i grandi predecessori: lo storpio miracolato è la fedelissima riproduzione del mendicante che Bononi pone ai piedi di Maria e Giuseppe nella Disputa al Tempio (Ferrara, Santa Maria in Vado, fig. 78), del quale Avanzi varia la direzione del braccio riportando invece le fasce che il poveretto ha in testa e sullo stinco e la sottile bretella che porta a tracolla. Ma, quasi incredibilmente, è la qualità della copia che cambia, in meglio rispetto agli esempi precedenti. Non solo essa è più sicura anatomicamente e più aderente nella corrispondenza all’originale, ma Avanzi compie su quest’ultimo ciò che non ci si sarebbe aspettato facesse: lo aggiorna. La pennellata si allunga e diviene più liquida, quasi acquerellata, rendendo meno pesanti i morbidi panni bononiani. Ma ciò che va davvero sotolineato non è il confronto tra Avanzi e Bononi, bensì quello tra questo Avanzi e quello degli anni precedenti. La sicurezza nella resa dei dettagli anatomici quali la mano di Pietro e quella dello storpio, la correttezza nello scorciarne le gambe e la muscolatura in torsione della schiena dell’altro mendicante sono lontane dalla resa sommaria delle mani del Cristo nell’Orazione villanoviana. C’è stata un’evoluzione anche rispetto all’anatomia grossolana e rigida del servitore nella Visitazione di San Giuseppe (fig. 38), e alla sproporzione tra facchino e le restanti figure nel quadro in Pinacoteca. Le differenze più evidenti sono nella resa del panneggio. Se finora Avanzi ci aveva abituato a pieghe dure, rigide e spesse, a colori interi sui quali la diversa incidenza della luce non sortiva alcun effetto qui invece una differente consistenza dei materiali permette alle stoffe pieghe più vivaci, leggere ammaccature che infrangono nervosamente le superfici in infiniti piani su ognuno dei quali la luce porta ad un risultato diverso, mostrandoci tutte le sfumature che un solo colore può avere (risultati ai quali non sembra estranea neppure una meditazione, pur tardiva, sul Battista di Andrea Sacchi ai Teatini, fig. 5). Forse il brano più bello di questo dipinto è la delicata e dolce madre in secondo piano, alla gamba della quale si stringe un bel bambino, morbido e carnoso ma dall’espressione triste. La fisicità salda che li connota sembra contrastare con l’aspetto evanescente dovuto alle scelte cromatiche; un’evanescenza che deriva da quella che Parolini conferisce alle figure di Giuseppe e Maria nella sua Disputa al tempio (fig. 77), alla quale si potrebbero trasferire le parole che Torresi riservava alla descrizione della pala di Avanzi. Se il Miracolo di San Pietro è firmato per esteso ma non datato, situazione opposta presenta il San Girolamo penitente (fig. 79) conservato nel convento di Santo Spirito a Ferrara. In questa tela di forte naturalismo il segnalibro posto tra le pagine del libro aperto esibisce chiaramente la data 1706. L’attribuzione ad Avanzi spetta a Berenice Giovannucci Vigi213 che lo riconsegnò all’artista ben prima dell’identificazione della pala di Sabbioncello, con la quale mostra diverse affinità e per la quale è possibile parlare di una datazione prossima a quella degli altri due quadri di cui qui si discute, vale a dire al 1706 del San Girolamo (e di Presentazione e Disputa di Parolini) e al 1708 dell’Assunzione. Il pensoso santo mostra innanzitutto affinità esteriori con i personaggi che animano la tela di Sabbioncello, come il volto corrucciato con naso adunco ed affilato. Esso si avvicina al mento per il rientrare delle labbra causato dalla probabile assenza di denti ed è un tipo molto simile a quello del San Pietro o a quello del calvo mendicante sulla destra (entrambi rimandano a fisionomie paroliniane214). Dettagli che fanno pensare, se non a un ritratto, almeno all’ispirazione alla realtà, nelle tipiche fattezze di un anziano segnato dal tempo. Ma anche tecnicamente le corrispondenze non mancano: il modo di rendere il battere della luce sul naso o sull’orecchio con una singola pennellata chiara che stacca nettamente sulla parte in ombra, la resa lanuginosa dei capelli fatti di sottili tocchi filanti, la costruzione anatomica con chiaroscuri che definiscono in modo discretamente corretto la muscolatura. L’abito rosso di Girolamo è poi realizzato della medesima materia di quello di San Pietro e ha la stessa leggerezza quasi di carta velina che appena acciaccata produce mille sfaccettature di sfumatura diversa. Rispetto alla tela precedente sembra di notare un leggero calo qualitativo, ad esempio nella resa meno definita di particolari quali la mano, o nella leggera ipertrofia della spalla. Indipendentemente da questo Avanzi si mostra una volta ancora attento a quanto di più nuovo succede a Ferrara

26 e capace di far proprie tali novità. Alla luce di quanto esposto è possibile collocare il Miracolo di San Pietro tra il 1706 del San Girolamo e il 1708 dell’Assunzione e per l’esattezza più vicino al primo. Se infatti il Santo è un primo riflesso degli innovativi dipinti che Parolini realizza lo stesso anno, la pala già in San Lorenzo vede Avanzi acquisire maggior sicurezza ottenendo forse il suo miglior raggiungimento. Per contro, pur avendo preso l’Assunzione quale punto di riferimento per spiegare la svolta settecentesca del pittore perché documentata e databile, essa mostra già un punto discendente nella sua parabola qualitativa, trattenendo degli stimoli paroliniani solo tracce, nell’impostazione compositiva e in un paio di figure memori del Miracolo di San Pietro e di Parolini stesso. La fase tarda della vita di Avanzi ruota attorno ad alcune opere di grandi dimensioni ma di qualità non elevata. Opere che, nonostante il mediocre livello, ebbero collocazioni importanti. Una di queste, il Matrimonio mistico di santa Caterina da Siena (fig. 80), si trova ancora sull’altar maggiore della chiesa di San Domenico, dove fu collocata nel 1714215. Anche il Martirio di san Lorenzo (fig. 81), oggi in Santo Stefano, era in origine pala dell’altare principale della chiesa dedicata al santo216. Il San Mauro che risana gli infermi (fig. 82), oggi ai Teatini ma in origine in San Benedetto217, non ebbe una collocazione così prestigiosa ma potè fregiarsi di una versione incisa dal bravo Andrea Bolzoni,218 indicatrice di un certo gradimento. L’opera è datata 1718, anno della morte di Avanzi, ma certo non ne è il canto del cigno. Ancora una volta il pittore non raggiunge un risultato unitario e le figure vengono sovrapposte le une alle altre in una composizione in cui la profondità è totalmente assente. Il San Mauro, come la Sant’Orsola della chiesa dei Servi (fig. 60), si erge al centro della tela in posizione arretrata come a voler alludere all’esistenza di uno spazio praticabile davanti ai suoi piedi, spazio che però è qui annullato dalla presenza di numerose figure che sembrano poste le une sulle altre più che scalate in profondità. L’infermo accasciato sulla destra è riproposizione di quello bononiano già raffigurato nella pala di Sabbioncello, ma semplificato in un’anatomia di nuovo ingenua e come raggelato. Più gradevole la madre implorante nell’angolo sinistro, il cui volto è costruito da un più attento passaggio chiaroscurale oltre che ingentilito da un’acconciatura elegante. Il ricalco non è letterale ma pare interpretare modelli quali la Santa Lucia di Scarsellino219 (fig. 83) o la Santa Caterina di Dielaì oggi in Duomo. Poco riuscite sono invece le due madri ai lati del santo che paiono prendere spunto da quelle della Strage degli innocenti di Guido Reni e del Miracolo di San Carlo di Guercino a Renazzo. Oltre che poco unitaria la composizione è palesemente antiquata: la macchinosità e la pesantezza che la contraddistinguono non hanno più nulla da spartire con la chiarezza compositiva, la semplicità e la naturalezza esibite nelle opere dei coetanei di Avanzi quali Crespi o Franceschini ma rimontano ancora a certe artificiosità tardomanieristiche di provincia, con la chiara distinzione tra le due sfere e l’istruttiva aneddoticità. Risultato analogo Avanzi lo aveva già ottenuto alcuni anni prima nella pala di San Domenico (fig. 80). Essa venne collocata nel 1714 a detta di Brisighella, ma ciò non esclude che possa essere stata realizzata prima, soprattutto in assenza di date o documenti. Affollamento e sovrapposizioni sono le parole d’ordine, così come l’impostazione arcaica che fa pensare alla pala di Dielaì (fig. 84) oggi a Crespi d’Adda220, in particolare per la presenza centrale di David musicante e per la posa affrontata dei due sposi. Ma poi è tutta scarsellinesca la figura di Maria, tanto simile a quella oggi in San Petronio a Bologna (fig. 85) da far pensare per quest’ultima ad una precedente collocazione ferrarese. Di Avanzi è da apprezzare l’esecuzione della veste fermata da una cintura appena sotto al seno, le cui armoniche pieghe appaiono più concrete e fragranti del solito. Scarsellinesco è anche il concerto angelico nella centina: un confronto riuscito si può istituire con gli angeli musicanti di una Natività (fig. 86) recentemente passata all’asta221. L’intera scena è ambientata nei cieli, così che non è consentito parlare di sfere celeste e terrena, ma è comunque percepibile una separazione di livelli che però Avanzi nel suo consueto horror vacui rende meno percepibile poiché lo spazio di rispetto è riempito da ulteriori figure angeliche che, anziché suonare, guardano lo spettatore. Tra quest’opera e quella cronologicamente precedente (l’Assunzione della Vergine di Villanova Marchesana, 1708) si contano circa sei anni. E’ un lasso di tempo nel quale è forse possibile collocare due opere eseguite per il contado sulla scia delle commissioni di Villanova e di Mesola, ossia la Madonna col Bambino di Castelmassa e la Madonna col Bambino adorati da San Carlo di Calto. Questa in particolare, per una certa semplificazione formale, per minori consistenza e caratterizzazione fisionomica, non stona accanto alla pala di San Domenico. Anche il quadro (trafugato) di Castelmassa condivide analoghe caratteristiche. Datato 1718 è il San Marco evangelista (fig. 87) oggi al Seminario di Ferrara ma proveniente dalla chiesa di Fossanova San Marco222. Opera sufficientemente equilibrata, è probabile che una suggestione vada ricercata nel San Marco di Caletti, un tempo in San Benedetto. Apice qualitativo del Cremonese, è probabile che da subito diventasse imprescindibile punto di riferimento per la raffigurazione di soggetti analoghi, visto l’apprezzamento tributatogli dai contemporanei (ad esempio dal Brisighella223). Ma se il Caletti offrì consistenti spunti e materia di riflessione stilistica e tecnica all’Avanzi giovane (quello delle Scene della Passione in San Giuseppe, per intendersi), lo stesso non si può dire quarant’anni dopo. Qui del capolavoro del maestro il nostro non trattiene che qualche spunto iconografico, come il Vangelo squadernato sul ginocchio, i volumi accatastati ai piedi del santo, la quinta sulla sinistra e l’apertura di paesaggio a destra. Il panneggio arrotondato, fitto ma dalla costruzione elementare e i cromatismi squillanti richiamano opere più antiche, per via di quel mancante processo di evoluzione o, meglio, di quegli inevitabili ripiegamenti involutivi di cui già precedentemente si è parlato e che caratterizzano i pittori di tale livello. Qualcosa di più moderno sembra percepirsi in una certa idealizzazione somatica e nel modo in cui la luce definisce nettamente volto, avambraccio e mani, ma si tratta di

27 novità relative che Avanzi sembrava aver già fatto proprie in opere a cavallo dei due secoli. Il fatto è che, se un’opera del genere mancasse di data e firma, la si potrebbe forse collocare ancora entro il XVI secolo. Si accenna solo rapidamente al Martirio dei certosini di Seltz (Ferrara, San Cristoforo, fig. 88), che si inserisce nell’ampia produzione di quadri di committenza certosina documentata dalle fonti. La farragine compositiva di ascendenza bononiana (caratterizzata però da vistosi ed imperdonabili errori prospettici e dimensionali come il gatto sulla loggia di fondo che, portato in primo piano, diventerebbe più imponente di una pantera), i tipi angelici, i colori squillanti dei turchi che paiono ispirati alle incisioni di Bernardo Castello per la Gerusalemme Liberata qualificano l’opera come prodotto di Avanzi. Un esito dai fini esclusivamente didattici, atto a diffondere il poco noto episodio cristiano, come conferma il lungo e dettagliato cartiglio che regge l’angelo di destra. Il dipinto è datato: l’anno è letto alternativamente come 1712 o 1717224, ma pare più verosimile una collocazione vicina alla fine della vita del pittore. Si chiude con un’opera che, pur non essendo l’ultima eseguita da Avanzi (è datata 1714), si è preferito considerare come la conclusiva della sua carriera. Qui egli torna a livelli qualitativi interessanti, condensandovi gli aspetti migliori del suo stile. Il Martirio di San Lorenzo (fig. 81) venne richiesto ad Avanzi dalla Confraternita del Santissimo Sacramento, come si ricava da un cartellino posto sul retro della tela225. Si tratta di un dipinto affollato ma non soffocante e che concede ampio spazio ad un variopinto tramonto e al paesaggio. Le componenti sono molteplici e di alto lignaggio: alla base potrebbero esservi le incisioni del Martirio di San Lorenzo di Tiziano (fig. 89), che Avanzi poteva possedere. Se a prima vista può sembrare referente privilegiato il Martirio di San Lorenzo del Guercino nel Duomo di Ferrara, da cui probabilmente deriva il forte chiaroscuro che Avanzi impiega per sbalzare le figure (in particolare gli angeli, il santo e l’aguzzino di sinistra), non è escluso che egli possa aver visto la pala dello stesso soggetto eseguita da Scarsellino (fig. 90) per Lugo (che la Novelli data agli anni Novanta del Cinquecento). A sua volta anch’essa pare basarsi sull’opera di Tiziano, che Scarsellino potè ammirare di persona in uno dei propri soggiorni veneziani e al quale deve un certo sfarsi della materia, l’atmosfera corrusca nonché la gestualità di Lorenzo e degli aguzzini coi bastoni. Dal medesimo dipinto egli non trae però la figura, in posa un po’ artificiosa, dell’addetto al fuoco che nell’opera di Lugo deriva dal topos bassanesco del pastore a carponi. Avanzi lo traspone nel proprio dipinto, pur semplificandolo per adeguarlo alle sue modeste capacità di disegnatore. Come si diceva l’opera possiede un certo respiro, dovuto alla veduta in profondità dal sapore ancora zoliano tipico di Avanzi, resa possibile dal divergere delle due diagonali. Queste richiamano il modello di Guercino ma pure quello scarsellinesco. Ancora tipica di Avanzi è la caratterizzazione dell’evento con gli oggetti più appropriati, in questo caso il mantice, il grande cesto di carbone e l’attizzatoio. Ma anche la propensione quasi maniacale nel rappresentare perfino la lucente catenella che assicura Lorenzo ad un grosso rocco di colonna e le sue vesti accantonate sul lato opposto. Attraente è la rappresentazione del fuoco sotto la graticola, natura morta che Avanzi si premura di rendere coi colori infuocati della brace. Le fiamme producono un credibile effetto di luce sui visi di alcune figure come gli angeli che guardano verso il basso. Nondimeno piacevole è l’effetto di decisa levigatezza memore della cultura dei Gennari così come di Franceschini che contraddistingue le carni di Lorenzo e degli angeli, questi particolarmente capaci di intenerire il fedele attraverso gestualità affettuose: l’abbraccio che si scambiano i forieri di palma e corona, il fare carico di compassione con cui un altro angelo scende ad asciugare la fronte madida di Lorenzo, finendo con l’intralciare il lavoro di un aguzzino. Il risultato finale è piuttosto statico e non presenta al meglio la scansione dei piani, relegando i protagonisti uno sull’altro, ma per lo meno in questo caso Avanzi tenta di rendere più chiara e semplice la propria opera e di diminuire le dimensioni dei personaggi per alludere ad una sequenza "vicino – lontano”.

28 Opere

1. Madonna in gloria tra i santi Maurelio e Carlo Borromeo, angeli e Virtù

Gli affreschi sono eseguiti assieme al quadraturista Giuseppe Menegatti nel 1674 come conferma un documento reperito nel fondo archivistico dell'omonima Chiesa. Nella stessa occasione venne affrescato anche il catino absidale che però è perduto. È la prima opera documentata di Avanzi, e la prima in cui compaiono forti accenti bononiani riscontrabili principalmente nei personaggi dell'oculo centrale e nelle Virtù, mentre gli angioletti che reggono il cornicione mostrano una vaga eco dossesca.

1674 Ferrara, chiesa di San Carlo Affresco

29 Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 101; CITTADELLA, IV, 1783, p. 78; AVVENTI, 1838, p. 106; BARUFFALDI, II, 1846, p. 312 n.1; LADERCHI, 1856, p. 175; MEDRI, 1933 p. 151; RICCOMINI, 1969a, p. 57; BRISIGHELLA, 1991, p. 242; MAZZEI TRAINA, SCARDINO, 2002, p. 69; ADFe, F.do San Carlo, sezione 1, filza G, documento n. 35.

2. San Gaetano appare a un infermo San Gaetano salva una donna e i due figli dalle acque del fiume San Gaetano portato in cielo dagli angeli San Gaetano al cospetto di Cristo

Si trovano dal l'origine attorno alla pala con San Gaetano davanti al crocifisso di cui riprendono l'atmosfera nebulosa e i toni spenti. Sono probabilmente opere della giovinezza di Avanzi da collocare tra il 1670 - 1676, comunque prima delle Storie della Passione in San Giuseppe per i ricordi calettiani (San Gaetano salva una donna e i suoi figli dal fiume), catanieschi (Sollevamento del corpo di San Gaetano), guercineschi (nell'angelo del San Gaetano guarisce un allettato) e per un certo impaccio compositivo. Nel San Gaetano al cospetto di Cristo spicca uno dei primi saggi di natura morta di Avanzi, specialità per la quale egli fu noto ma di cui non restano esempi a sé stanti.

30 1670 - 1676 circa Ferrara, Chiesa di Santa Maria della Pietà dei Teatini Olio su tela. 140 cm x 120

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 44; CITTADELLA, IV, 1783, p. 66; MEDRI, 1933, p. 156; RICCOMINI, 1969a, p. 59; GIOVANNUCCI VIGI, 1980, p. 68; BRISIGHELLA, 1991, p. 42, 45 nn. 7-10; GIOVANNUCCI VIGI 1993 p. 312.

3. Flagellazione Orazione nell'orto Cattura di Cristo Incoronazione di Spine

Questa serie di quattro tele fu commissionata nel 1676 da padre Gioacchino dell'Incarnazione e si trova ancora nella cappella del Crocifisso, l'unica dell'intera chiesa invariata dall'origine. Probabilmente dopo il restauro del 1969 furono rimontate in una sequenza errata, così la luce sulle due pareti laterali della cappella non sembra più provenire da un unico punto. Sono tra i migliori risultati dell intera carriera di Avanzi, nei quali egli si mostra sciolto e sperimentale come non farà più. Unisce infatti spunti cromatici e fisionomici scarsellineschi a posture dinamiche calettiane, basandosi su modelli bolognesi come quelli di Spada e Cavedone per la scelta del formato orizzontale e del taglio ravvicinato che accentua il dramma delle scene. Anche in questa serie inserisce

31 "ritratti" di oggetti a rimarcare l'inclinazione per la natura morta, forse impressionato in questo senso da un pittore estremamente ornato come Van Beyghem.

32 1676 Ferrara, chiesa di San Giuseppe Olio su tela. 153 cm x 184

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 117; SCALABRINI, 1773, p. 382; AVVENTI, 1838, p. 212; MEDRI, 1933, p. 230; RICCOMINI, 1969a, p. 57; RICCOMINI, 1969b, p. 32; BRISIGHELLA, 1991, p. 290; LUCIANI, 1996 pp. 16, 34; Memoria manoscritta degli

33 agostiniani, c. 165.

4. Santa Tecla si rifugia nella montagna Santa Tecla nella fossa dei leoni

Le Storie di santa Tecla sono un'ulteriore commissione di padre Gioacchino. Egli le volle nel 1680 per completare il ciclo di storie di Santa Tecla che si trova nel coro di San Giuseppe, iniziato nel 1668 con le due tele di Girolamo Troppa. Passati solo quattro anni dalle Storie della Passione già Avanzi mostra un'involuzione verso forme bloccate, colori vivaci ma sordi, anatomie semplificate e meno convincenti. La Santa Tecla fra i leoni appare meglio riuscita, probabilmente perché il soggetto non richiedeva dinamismo. Appare pertanto di una certa iconicità, accentuata dalla semplicità compositiva che manca nella Santa Tecla che si rifugia nella montagna.

34 1680 Ferrara, chiesa di San Giuseppe Olio su tela. 300 cm x 270 circa

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 117; SCALABRINI, 1773, p. 380; CITTADELLA, IV, 1783, p. 60; AVVENTI, 1838, p. 212; BARUFFALDI, II, 1846, p. 309; LADERCHI, 1856, p. 175; MEDRI, 1933, p. 230; RICCOMINI, 1969a, p. 58; BRISIGHELLA, 1991, p. 290; SCALABRINI, 1997, p. 141; LUCIANI, 1996, pp. 16, 35; Memoria degli agostiniani, c. 174.

5. Annunciazione Visitazione

Le opere furono commissionate dalla famiglia Crispi Manfredi attorno al 1685, anno in cui furono dorate le rispettive cornici. Si può però tentare di retrodatarle di qualche anno per ragioni stilistiche che apparentano le tele alle Storie della Passione. Con quelle infatti condividono una qualità superiore, un disegno più accurato, cromatismi lucenti e cangianti che rimandano a Scarsellino. Appare qui tuttavia, oltre al ricordo compositivo guercinesco (Annunciazione di Forlì), anche un qualcosa di più moderno, che nella levigatezza e nell'idealizzazione dei volti mira in direzione di Cignani e dei suoi seguaci (ad esempio il ferrarese Scannavini). Consueto è il retaggio bononiano che affiora nella costruzione della Visitazione come anche dalla citazioni dei due angeli abbracciati (nell'Annunciazione) derivanti dalla pala di Casumaro.

35 36 1685 circa Ferrara, chiesa di San Giuseppe Olio su tela. 250 cm x 160

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 118; SCALABRINI, 1773, p. 381; CITTADELLA, IV, 1783, p. 61; AVVENTI, 1838, p. 213; BARUFFALDI, II, 1846, p. 302; MEDRI, 1933, p. 230; RICCOMINI, 1969a, p. 59; BRISIGHELLA, 1991, p. 290; LUCIANI, 1996, pp. 16, 40; SCALABRINI, 1997, p. 141

6. Visitazione

La provenienza di questa pala è ignota ma si può ipoteticamente identificarla con la Visitazione notata dalle fonti nell'oratorio della Penitenza del Gesù. La struttura richiama quella di San Giuseppe (n. 5) ma l'ambientazione all'aperto che implica una maggiore attenzione per il paesaggio consiglia di spostare leggermente in avanti la data di esecuzione. È probabile però che questa non vada spinta oltre il 1695 - 1700 per l'assenza delle suggestioni zoliane che invece si faranno consistenti già dai primi del XVIII secolo.

37 1685 - 1700 circa Ferrara, Pinacoteca Nazionale Provenienza: Oratorio della Penitenza del Gesù (?) Olio su tela. 254 cm x 177

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 106; SCALABRINI, 1773, p. 137; BRISIGHELLA, 1991, p. 253; La Pinacoteca, 1992, p. 196.

7. Sant'Agostino lava i piedi a Gesù

La grande lunetta non è ricordata dalle fonti più antiche, né dalla Memoria del convento agostiniano ma è verosimilmente databile vicino alla Visitazione della Pinacoteca di Ferrara. Con essa condivide infatti un paesaggio "ferrarese", non ancora influenzato dallo stile di Giuseppe Zola.

38 1685 - 1700 circa Ferrara, chiesa di San Giuseppe Olio su tela.

Bibliografia: RIZZI, 1972, p. 80, 86 nn. 28-29; GIOVANNUCCI VIGI, 1993, p. 313; LUCIANI, 1996, pp. 16, 37.

8. Apparizione della Vergine col Bambino a San Brunone Apparizione di San Brunone a Ruggero conte di Sicilia

I due enormi quadri ornarono il presbiterio della Certosa di San Cristoforo fino al 1944. Da allora non sono più visibili poiché coinvolti nel bombardamento che danneggiò la chiesa. Sono depositati da decenni presso lo studio Nonfarmale, dove solo uno dei due è visibile agli addetti poiché ne è stato iniziato il restauro, mentre l'altro giace ancora arrotolato su sé stesso. È tuttavia in uscita un volume sulla chiesa di San Cristoforo di Ferrara contenente un contributo di Elisabetta Lopresti relativo all'iconografia certosina, illustrante il quadro srotolato che la studiosa ha potuto visionare.

1696 Ferrara, certosa di San Cristoforo (attualmente Bologna, laboratorio di restauro Nonfarmale) Olio su tela. 300 cm x 1000 circa

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 72; SCALABRINI, 1773, p. 117; CITTADELLA, IV, 1783, p. 59; AVVENTI, 1838, p. 233; BARUFFALDI, II, 1846, p. 310; MEDRI, 1933, p. 113; RICCOMINI, 1969a, p. 60; BRISIGHELLA, 1991, p. 178; SCALABRINI, 1997, p. 45; Musei ferraresi n. 18, 1998, p. 101; MAZZEI TRAINA, SCARDINO, 2002, p. 70.

9. Orazione nell'orto Flagellazione

Si tratta di due tele in questa sede restituite ad Avanzi. Sono appese ad una certa altezza e molto deperite, fattori che ne pregiudicano un'attenta analisi. Sono le prime opere del percorso dell'artista a testimoniarne l'abitudine a servirsi di incisioni nordiche come modello (in questo, come in altri casi, di Sadeler). È probabile siano databili a cavallo dei due secoli poiché il ricordo dei soggetti analoghi realizzati per San Giuseppe è ormai svanito, mentre sono vicine ai due quadri che ornano il presbiterio della chiesa di Villanova Marchesana (datati al 1701).

39 40 1695 - 1701 circa Mesola, parrocchiale Olio su tela. Rispettivamente 150 cm x90; 160 cm x 123

Bibliografia: inediti

10. Orazione nell'orto Ultima Cena

Opere documentate dai i libri parrocchiali all'anno 1701 per la cui commissione fu tramite padre Morellini della Certosa di Ferrara (chiesa per la quale Avanzi lavorò frequentemente). L'Orazione nell'Orto è vicina a quella di Mesola, con la quale condivide l'ambientazione al chiaro di luna e i forti bagliori. L'Ultima Cena mostra ascendenze venete, pur affievolite da un fare maggiormente disegnato e schematico che connota anche la tela compagna.

41 1701 Villanova Marchesana, parrocchiale Olio su tela. 200 cm x 235

Bibliografia: Villanova Marchesana, senza anno di edizione, p. 39; APVM, Tomo I, parte II, fascicolo 25, cc. 1-2.

11. Sant'Orsola e le Vergini Martiri

L'opera pervenne alla chiesa dei Servi da quella delle Orsoline quando le monache vi si trasferirono. La Novelli la considera dispersa (1991). La pala mostra una staticità che, come nel caso della Santa Tecla nella fossa dei

42 leoni, non le nuoce, accentuando l'iconicità della santa martire. La composizione, pur se approssimativa e caratterizzata da una forte componente lineare, non risulta appesantita dall'affollamento che Avanzi riserverà a una pala dall'impostazione simile, il San Mauro tra i malati (Ferrara, chiesa dei Teatini 1718).

1701 Ferrara, chiesa di Santa Maria dei Servi Provenienza: chiesa delle Orsoline Olio su Tela.

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 70; CITTADELLA, IV, 1783, p. 67; BRISIGHELLA, 1991, p. 136; MAZZEI TRAINA, SCARDINO, 2002, p. 70.

12. Visitazione

La tela, datata dubitativamente da Riccomini al 1685 per vicinanza con la Visitazione di San Giuseppe, è invece da spostare al 1703 per il rinvenimento del documento di commissione e del pagamento. Mostra una costruzione

43 in tralice esemplata su modelli noti da tempo a Ferrara, come il Riposo nella fuga in Egitto di Scarsellino (Ferrara, San Francesco), dal quale mutua anche la figura del piccolo angelo di spalle e il cappello di paglia per terra. Compare qui un grande brano di natura morta sul quale "finalmente batte una lama di luce vera" (Riccomini).

1703 Ferrara, Curia Arcivescovile Provenienza: oratorio di San Crispino Olio su tela. 180 cm x 170

Bibliografia: SCALABRINI, 1783, p. 243; MEDRI, 1933, p. 58; RICCOMINI, 1969a, p. 60; BRISIGHELLA, 1991, p. 224; SCALABRINI, 1997, p. 113.

13. Visitazione Riposo durante il ritorno dall'Egitto

Le due tele hanno vagato nell'anonimato fino al 1992, quando Garuti le riconobbe ad Avanzi. In esse ricompaiono gli oggetti della natura morta della Visitazione (n. 12), fattore che induce a datarle attorno al 1703 come confermano i confronti fra le tipologie dei personaggi. Ma la grande novità delle due opere è la predominanza del paesaggio, dove compaiono per la prima volta consistenti omaggi a Giuseppe Zola, come la tipologia degli alberi di acacia o il modo di sfumare nel pulviscolo i fondi di paese o ancora il tipo di cascatella pietrosa che si ritrova affine in un'opera del bresciano oggi alla Fondazione CaRisBo. Avanzi rispetto ai modelli semplifica e schematizza estremamente il tutto, non pervenendo a una riuscita fusione tra primo piano e sfondo.

44 1700 - 1705 circa Poggio Rusco, parrocchiale Olio su tela. 137 cm x 125

Bibliografia: BRUNERI, 1988, pp. 26.29; GARUTI, MARTINELLI BRAGLIA, 1992, pp. 122-123; Oltre il sisma, 2013, pp. 26, 45.

14. Noli me tangere

45 La samaritana al pozzo

Le tele si apparentano a quelle di Poggio Rusco per l'ampiezza dei brani di paesaggio, ma qui il rapporto con le figure appare più equilibrato. Come in molte opere di Avanzi anche qui compaiono vari oggetti di scena a completare la descrizione degli eventi. Ancora tipico di Avanzi è il prestito da un'incisione, l'Allegoria del Matrimonio di Sadeler, su cui egli basa l'impostazione della Samaritana al pozzo.

1700 - 1705 circa Ferrara, chiesa di San Domenico Olio su tela. 120 cm x 193

Bibliografia: BARUFFALDI, II, 1846, p. 312 n. 1; LADERCHI, 1856, p. 175; RICCOMINI, 1969a, p. 60; La chiesa di San Giovanni Battista, 1981, p. 39; BRISIGHELLA, 1991, p. 107.

15. Natività sotto la neve Annunciazione

Si tratta di due ulteriori tele anonime che qui si restituiscono ad Avanzi. L'Annunciazione è pedissequo prestito da un'incisione di Sadeler, se si eccettua il bel paesaggio zoliano. La Natività è invece interessante per l'ambientazione innevata, testimoniata dalle fonti per altre opere di Avanzi oggi perdute. Fisionomie e posture sono quelle tipiche del pittore e il ripetersi di alcune di esse nelle opere di San Domenico e di Poggio Rusco (a

46 loro volta legate alla Visitazione oggi in Curia) àncora la loro realizzazione vicina al 1703.

47 1700 - 1705 circa Mesola, parrocchiale Olio su tela. Rispettivamente: 140 cm x 95; 163 cm x 124

Bibliografia: inediti

16. San Girolamo penitente

L'opera, datata 1706, recava un'attribuzione alla cerchia di Giacomo Parolini che è sintomatica dell'improvviso cambiamento di stile di Avanzi. Il dipinto è infatti ricollegabile alla pala di Sabbioncello che, non fosse firmata da Giuseppe, si potrebbe attribuire alla cerchia di Parolini (come infatti è successo in passato). La modernità del dipinto si nota nella maggior scioltezza di disegno e nella pennellata rapida, fluida, che quasi fuoriesce dai contorni e che rende la figura più dinamica e "leggera".

48 1706 Ferrara, chiesa di Santo Spirito Olio su tela. 117 cm x 94

Bibliografia: LOMBARDI, II, 1974, p. 114; Musei ferraresi n. 8, 1978, p. 23.

17. San Pietro risana uno storpio

Opera cardine della maturità di Avanzi, apice qualitativo mai più ripetuto. Si può datare attorno al 1706 o poco dopo, per lo sviluppo delle caratteristiche che contraddistinguono il San Girolamo (n. 16), ossia il tocco leggero, rapido e fluido, il colore liquido, le anatomie ben disegnate (con un evidente prestito da Bononi in uno degli storpi) che riconducono a una forte influenza di Parolini e segnatamente alle opere che egli realizza proprio nel 1706 per San Crispino (oggi in Curia).

49 1706 - 1708 circa Sabbioncello San Pietro, parrocchiale Olio su tela.

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 115; CITTADELLA, IV, 1783, p. 64; BRISIGHELLA, 1991, p. 286; GRUPPIONI, 1999, pp. 71-72; TORRESI, 1999, pp. 66-68; GRUPPIONI, 2001, pp. 62-84; MAZZEI TRAINA, SCARDINO, 2002, p. 70.

18. Madonna col Bambino in gloria

Dipinto estremamente semplice, dal carattere prevalentemente devozionale, che quasi ricorda un'antica icona nei tratti schematici del volto di Maria. E' pertanto difficoltoso datarlo precisamente, dovendosi mantenere prudentemente entro il primo quindicennio del XVIII secolo.

50 1700 - 1715 circa Castelmassa, oratorio del Santo Nome di Maria (rubato tra 22 e 23 febbraio 2000) Olio su tela. 85 cm x 74

Bibliografia: BRISIGHELLA, 1991, p. 587

19. Madonna col Bambino adorati da San Carlo Borromeo

Molto vicino al dipinto di Castelmassa, se ne differenzia per la presenza di San Carlo. La datazione sarà da pensare pure in questo caso nel primo quindicennio del Settecento, vicino alle prime commissioni per il contado e la Transpadana.

51 1700 - 1715 circa Calto, parrocchiale Olio su tela.

Bibliografia: BRISIGHELLA, 1991, p. 583.

20. Assunzione della Vergine

La pala, un tempo all'altar maggiore della chiesa di Villanova Marchesana, è documentata all'anno 1708. Dimostra alcuni legami con le due opere precedenti, ad esempio la resa "abbreviata" degli apostoli che scrutano dentro al sarcofago, o il riferimento ad alcuni personaggi della Disputa al Tempio di Parolini (Curia, 1706). Ma l'opera dimostra già una fase qualitativa calante, in cui tornano a mostrarsi consistenti incertezze anatomiche e spaziali.

52 1708 Villanova Marchesana, parrocchiale Olio su tela. 230 cm x 150

Bibliografia: Villanova Marchesana, senza anno di edizione, p. 40; APVM, Tomo I, parte II, fascicolo 25, cc. 11-13.

21. Matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena

L'opera si fregia del posto d'onore nella chiesa di San Domenico a Ferrara. Collocata (non datata) nel 1714, rieccheggia la struttura della pala di Dielaì oggi a Crespi d'Adda e notevoli sono i richiami a Scarsellino, ad esempio nella figura della Vergine e nella schiera di angeli musici. Il risultato è però di poco pregio, affollato, arcaico e dalla profondità annullata.

53 1714 (collocazione sull'altare) Ferrara, chiesa di San Domenico Olio su tela. 300 cm x 160 circa

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 61; SCALABRINI, 1773, p. 52; CITTADELLA, IV, 1783, p. 66; BARUFFALDI, II, 1846, p. 312 n. 1; LADERCHI, 1856, p. 175; MEDRI, 1933, p. 146; RICCOMINI, 1969a, p. 60; BRISIGHELLA, 1991, p. 107; SCALABRINI, 1997, p. 27.

22. Martirio di San Lorenzo

E' questa l'opera tarda di Avanzi maggiormente apprezzabile, grazie alle ispirazioni "incrociate" da Tiziano, Guercino e Scarsellino. Il risultato è arioso, brillante e muove i sentimenti grazie alla gestualità affettuosa degli angeli. Il chiaroscuro, accentuato da lucidità settecentesche, rimanda ancora a Guercino e ai suoi seguaci. Non mancano nemmeno qui brani di natura morta come la dettagliata descrizione della brace incandescente sotto la graticola.

54 1714 Ferrara, chiesa di Santo Stefano Provenienza: chiesa di San Lorenzo Olio su tela. 290 cm x 203

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 115; SCALABRINI, 1773, p. 264; CITTADELLA, IV, 1783, p. 64; FRIZZI, 1787, p. 152; RIZZI, 1974, pp. 59-61; BENTINI, 1983, p. 136; BRISIGHELLA, 1991, p. 287; SCALABRINI, 1997, p. 124; MAZZEI TRAINA, SCARDINO, 2002, p. 70.

23. Strage dei certosini di Seltz

Il dipinto è da considerare essenzialmente in un'ottica "didattica" poichè atto a diffondere il poco noto episodio certosino come dimostra il lungo cartiglio narrativo che vi figura. Presenta strafalcioni prospettici e proporzionali e anatomie schematiche e legnose, tuttavia rallegrati da un vivace cromatismo scarsellinesco.

55 1712 o 1717 Ferrara, certosa di San Cristoforo Olio su tela.

Bibliografia: RICCOMINI, 1969a, p. 61; Musei Ferraresi n. 18, pp. 98, 102.

24. San Mauro tra gli ammalati

Si tratta di un dipinto affollato, dal colore uniforme, privo di profondità e arcaico, vicino per questo al Matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena (n. 20). Si riscatta solo in pochi brani, ad esempio nel volto di profilo della madre in basso a sinistra, modellato su esempi di Scarsellino e Dielaì. Fu inciso da Andrea Bolzoni.

56 1718 Ferrara, chiesa di Santa Maria della Pietà dei Teatini Provenienza: chiesa di San Benedetto Olio su tela. 277 cm x 135

Bibliografia: CITTADELLA, IV, 1783, p. 258; GIOVANNUCCI VIGI, 1980, p. 68; BRISIGHELLA, 1991, pp. 80 n. 21, 177.

25. San Marco evangelista

Il dipinto è stato recentemente restaurato e mostra la data 1718. La figura del santo si accampa monumentale nello spazio, memore del San Marco di Caletti in certe citazioni (il Vangelo sul ginocchio, altri libroni accatastati a terra) ma è lontano dal risultato delle influenze del Cremonese sull'Avanzi giovane. Superfici più levigate indirizzano verso artisti coevi quali i Gennari o Cignani, e il rovello di pieghe stondate ma dure richiama opere quali la Santa Tecla si rifugia nella montagna.

57 1718 Fossanova San Marco, parrocchiale (in deposito presso il Seminario di Ferrara) Olio su tela. 173 cm x 127

Bibliografia: TORRESI, 2006, pp. 59-61.

58 Opere dubbie o rifiutate

1. Sacra Famiglia adorata da Santa Tecla

Si tratta di un'opera di Jan Van Beygem che ha subito modifiche nel corso del tempo. Probabilmente, per questioni di simmetria, sotto alla Santa Tecla deve celarsi la figura di Sant'Agostino. La rielaborazione invece è stata imputata a Giuseppe Avanzi, ma un esame ravvicinato fa supporre un intervento ottocentesco (peraltro già segnalato da Barbara Ghelfi).

Ferrara, chiesa di San Giuseppe

Bibliografia: RICCOMINI, 1969a, p. 54; RIZZI, 1972, p. 82 nota 6; LUCIANI, 1996, pp. 16, 41; BRISIGHELLA ,1991, p.293 nota 23

2. La caduta di Gesù sotto la croce

L'opera, pur se visionata solo tramite una fotografia di pessima qualità, non sembra mostrare i caratteri peculiari dello stile di Giuseppe Avanzi. E' forse da ricondurre alla mano di Camillo Setti, l'autore del Miracolo di Sant'Andrea Avellino conservato nell'antisagrestia della chiesa dei Teatini, al quale rimandano la figura del cavallo, il dinaismo che permea la scena e il forte chiaroscuro.

59 Ferrara, collezione Saracco Riminaldi

Bibliografia: TORRESI, 1999, pp. 66-68

3. Morte della Vergine

La conoscenza solo fotografica non permette di sbilanciarsi nell'attribuzione. Tuttavia il modo di panneggiare, i tratti della Vergine che rimandano al san Giovanni addormentato dell'Orazione nell'orto di San Giuseppe e lo stesso rifarsi palmare ad un'incisione di Sadeler potrebbero realmente indicare la mano di Avanzi.

60 Collezione privata

Bibliografia: TORRESI, 2010, p. 87

4. Fondazione della Certosa

La qualità di questo dipinto sembra superiore a quella dimostrata solitamente da Avanzi, anche se certe fisionomie richiamano quelle tipiche del pittore. Inoltre va notato che sotto alcuni ritratti dei priori che contornano la scena principale si leggono date che vanno ben oltre la morte di Giuseppe: 1727, 1757. Queste tuttavia possono essere state aggiunte in seguito o sostituirne altre, contribuendo a lasciare nel dubbio questa attribuzione. Questa inoltre data a tempi relativamente recenti, non essendo l'opera segnalata dalle più antiche fonti.

61 Ferrara, certosa di San Cristoforo

Bibliografia: BARUFFALDI, II, 1846, p. 312 n.1; N.L.CITTADELLA, ​___, p. 97; LADERCHI, 1856, p. 175; RICCOMINI, 1969a, p. 61; RIZZI, 1974, p. 60; Musei Ferraresi n. 18, 1998, pp. 99, 102.

5. Pesca miracolosa Resurrezione di Lazzaro

Le opere in questione sono di qualità davvero modesta, al di sotto degli standard pur non elevati di Avanzi. E' ipotizzabile l'esecuzione di bottega, e a proposito vale la pena ricordare che l'artista aveva un figlio, Francesco, che è ricordato come autore di un San Felice da Cantalice o un Beato Serafino da Montegranaro per la chiesa di Borgo San Luca (dove ritocca anche una perduta pala di Bastarolo).

62 Ferrara, chiesa di San Giuseppe

Bibliografia: RICCOMINI 1969a, p. 59; RIZZI, 1972, p. 80; POZZI, PRODI, 2002, p. (I cappuccini in Emilia Romagna, storia di una presenza)

6. San Giovanni Battista alla fonte

L'opera, di qualità davvero modesta, è stata attribuita ad Avanzi dalla Giovannucci Vigi nel catalogo delle opere del Seminario di Ferrara, ma non sembra possibile riscontrarvi le peculiarità del pittore. Si segnala comunque che essa dipende dal modello di soggetto analogo di Giacomo Parolini, attualmente nella chiesa di San Giovanni Battista a Ferrara.

63 Ferrara, Seminario

7. Ecce Homo

Ho solo avuto notizia dell'esistenza di tale dipinto, che non ho potuto vedere né dal vivo né tanto meno in fotografia.

8. Flagellazione

Il dipinto è stato attribuito dalla Giovannucci Vigi nel catalogo de La candida Rosa, mostra tenuta a Cento alcuni anni orsono. In realtà si tratta di una delle numerose copie da un quadro attribuito a Vanni, di cui esistono diverse versioni tra cui una comparsa sul mercato ad una vendita Finarte (Dipinti Antichi, asta 581, 3 marzo 1987, Milano, lotto n. 125). Nello specifico la versione di Cento si lega ad un altra copia conservata a Rovigo (chiesa dei Cappuccini), che mostra le medesime varianti rispetto alla tela Finarte.

64 Cento, chiesa dei Servi

Bibliografia: CONTRI, LORENZINI, 2007 ​__, La Candida Rosa, 1988, p. ​__, SGARBI, 1988, p. 53; Dipinti antichi, 1987, p. 69.

9. Strumenti della Passione

Le ridotte dimensioni del dipinto, frammento di una tela di maggiori dimensioni, nonchè l'impossibilità di visionarlo di persona suggeriscono di sospendere il giudizio su di esso.

65 Collezione privata

Bibliografia: NEGRO, 2005, p. 117; TORRESI, 2006, pp. 59-61.

10. San Girolamo e l'angelo

L'opera dipende dall'incisione di Jusepe Ribera di analogo soggetto, ripresa similmente anche, ad esempio, da Giuseppe Vermiglio. L'opera potrebbe appartenere alla fase giovanile di Avanzi (all'altezza delle Storie della Passione del 1676) ma l'attribuzione non convince fino in fondo.

66 Ferrara, Musei Civici di Palazzo Schifanoia

11. Martirio di Sant'Agata

Il dipinto è attribuito alla cerchia di Avanzi in una scheda dell'archivio fotografico della Soprintendenza (scheda 08/00029093). Tuttavia è probabilmente identificabile con la "bella tavola rappresentante una Santa Vergine e martire, opera di Francesco Naselli cavata però dal suo originale d'altra mano" notata da Baruffaldi nella chiesa della Madonna del Buon Amore (BRISIGHELLA, 1991, p. 379). Infatti è noto che i beni di quest'ultima passarono in Sant'Apollonia nel 1922. Il dipinto è oggi irreperibile.

67 Ferrara, chiesa di Sant'Apollonia

Bibliografia: BAROTTI, 1770, p. 143; SCALABRINI, 1773, p. 286; MEDRI, 1967, p. 206; BRISIGHELLA, 1991, pp. 279, 280 nota 19.

68 Appendice iconografica al capitolo 2

Fig. 1 Francesco Robbio, Crocifisso, Ferrara, Sant'Antonio vecchio

69 Fig. 2 Orazio Mornasi o Tommaso Capitanelli? Episodio della vita di San Filippo Neri, Ferrara, Santo Stefano

70 Fig. 3 Giulio Cesare Avellino, Paesaggio con figure e rovine, ubicazione ignota

71 Fig. 4 Girolamo Troppa, Santa Tecla sul rogo, Ferrara, San Giuseppe

72 Fig. 5 Andrea Sacchi, San Giovanni Battista, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

73 Fig. 6 Clemente Maioli, San Gaetano e i compagni fondano l'ordine dei Teatini, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

74 Fig. 7 Cesare Mezzogori, Fuga in Egitto, Ferrara, San Giuseppe

Fig. 8 Cesare Mezzogori, Presentazione al Tempio, Ferrara, San Giuseppe

75 Fig. 9 Pietro Lauri (Pierre Laurier), Fuga in Egitto, Argenta, Museo civico

76 Fig. 10 Maurelio Scannavini, San Giorgio, Ferrara, San Giorgio

77 Fig 11 Maurelio Scannavini¸ Elemosina di san Tommaso da Villanova, Ferrara, San Giuseppe

78 Fig. 12 Giacomo Parolini, Un episodio del martirio dei Santi Crispino e Crispiniano, Ferrara, Curia arcivescovile

79 Fig. 13 Giacomo Parolini, Presentazione al Tempio, Ferrara, Curia arcivescovile

80 Fig. 14 Camillo Setti, Un miracolo di sant'Andrea Avellino, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

81 Fig. 15 Francesco Costanzo Catanio, Incoronazione di spine, Ferrara, San Giorgio

82 Fig. 16 Camillo Setti (?), San Michele arcangelo e santi, Ferrara, Gesù

83 Fig. 17 Francesco Ferrari, La Vergine adorata dai santi dell'ordine olivetano, Ferrara, San Giorgio

Fig. 18 Da Francesco Ferrari, Disegno della perduta decorazione del catino di San Francesco, Ferrara, collezione privata

84 Fig. 19 Maurelio Scannavini, Decorazione della sala di Iride, Ferrara, palazzo Bevilacqua Massari

Fig. 20 Giacomo Parolini, Decorazione della sala del Trionfo dell'Amore, Ferrara, palazzo Bevilacqua Massari

85 Fig. 77 Giacomo Parolini,Disputa al Tempio, Ferrara, Curia arcivescovile

86 Appendice iconografica al capitolo 3

Fig. 21 Giuseppe Avanzi, La Vergine in gloria tra i santi Maurelio e Carlo Borromeo, Ferrara, San Carlo

87 Fig. 22 Giuseppe Avanzi, Incoronazione di spine, Ferrara, San Giuseppe

Fig. 23 Giuseppe Avanzi, Cattura di Cristo, Ferrara, San Giuseppe

88 Fig. 24 Giuseppe Avanzi, Flagellazione, Ferrara, San Giuseppe

Fig. 25 Giuseppe Avanzi, Orazione nell'orto, Ferrara, San Giuseppe

89 Fig. 26 Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino, Orazione nell'orto, Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini

Fig. 27 Giacomo Cavedoni, Incoronazione di spine, collezione privata

90 Fig. 28 Ludovico Carracci, Flagellazione, Douai, museo della Certosa

91 Fig. 29 Giuseppe Caletti detto il Cremonese, Danza di Salomè, particolare, Ferrara, Musei civici

92 Fig. 30 Giuseppe Avanzi, San Gaetano portato in cielo dagli angeli, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

93 Fig. 31 Francesco Costanzo Catanio, San Gregorio e l'angelo, particolare, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

94 Fig. 32 Giuseppe Avanzi, San Gaetano salva una donna e i due figli dalle acque del fiume, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

95 Fig. 33 Francesco Costanzo Catanio (qui attribuito), Angelo Custode, Ferrara, San Girolamo

96 Fig. 34 Francesco Costanzo Catanio (qui attribuito), Angelo in meditazione sugli strumenti della passione, Ferrara, San Girolamo

97 Fig. 35 Francesco Costanzo Catanio, Martirio di san Matteo, particolare, Ferrara, Santo Spirito

98 Fig. 36 Giuseppe Avanzi, Santa Tecla si rifugia nella montagna, Ferrara, San Giuseppe

99 Fig. 37 Giuseppe Avanzi, Santa Tecla tra i leoni, Ferrara, San Giuseppe

100 Fig. 38 Giuseppe Avanzi, Visitazione, Ferrara, San Giuseppe

101 Fig. 39 Giuseppe Avanzi, Annunciazione, Ferrara, San Giuseppe

102 Fig. 40 Guercino, Annunciazione, Forlì, Musei di San Domenico

103 Fig. 41 Guercino, Martirio di San Maurelio, particolare, Ferrara, Pinacoteca Nazionale

104 Fig. 42 Giuseppe Avanzi, Annunciazione, particolare, Ferrara, San Giuseppe

105 Fig. 43 Giuseppe Avanzi, Annunciazione, particolare, Ferrara, San Giuseppe

106 Fig. 44 Anonimo cignanesco da Guido Reni, Madonna orante, Spilamberto, Santa Maria di Fondo Bosco

107 Fig. 45 Carlo Bononi, Visitazione, Ferrara, Santa Maria in Vado

108 Fig. 46 Giuseppe Avanzi, Visitazione, Ferrara, Pinacoteca Nazionale

109 Fig. 47 Guercino, Coppia di angeli, ubicazione ignota

110 Fig. 48 Scarsellino, Madonna col Bambino e santi, particolare, Ferrara, Santa Chiara

111 Fig. 49 Scarsellino, Deposizione, particolare, ubicazione ignota

112 Fig. 50 Giuseppe Avanzi, Visitazione, particolare, Ferrara, Pinacoteca Nazionale

113 Fig. 51 Giuseppe Avanzi, Sant'Agostino lava i piedi a Cristo, particolare, Ferrara, San Giuseppe

Fig. 52 Giuseppe Avanzi, Sant'Agostino lava i piedi a Cristo, Ferrara, San Giuseppe

114 Fig. 53 Giuseppe Avanzi, Ultima cena, Villanova Marchesana, parrocchiale

Fig. 54 Giuseppe Avanzi, Orazione nell'orto, Villanova Marchesana, parrocchiale

115 Fig. 55 Giuseppe Avanzi, Orazione nell'orto, Mesola, parrocchiale

116 Fig. 56 Giuseppe Avanzi, Flagellazione, Mesola, parrocchiale

117 Fig. 57 Johan I Sadeler, Orazione nell'orto

118 Fig. 58 Johan I Sadeler, Flagellazione

119 Fig. 59 Lucio Massari, Ultima cena, Ferrara, Pinacoteca Nazionale

Fig. 60 Giuseppe Avanzi, Sant'Orsola e le Vergini martiri, Ferrara, Santa Maria dei Servi

120 Fig. 61 Giuseppe Avanzi, Visitazione, Ferrara, Curia arcivescovile

121 Fig. 62 Scarsellino, Fuga in Egitto, Ferrara, San Francesco

Fig. 63 Giuseppe Avanzi, Visitazione, Poggio Rusco, parrocchiale

122 Fig. 64 Giuseppe Avanzi, Riposo durante il ritorno dalla fuga in Egitto, Poggio Rusco, parrocchiale

Fig. 65 Giuseppe Zola, Paesaggio fluviale con ponte, Ferrara, Cassa di Risparmio

123 Fig.66 Giuseppe Avanzi, La samaritana al pozzo, Ferrara, San Domenico

Fig.67 Giuseppe Avanzi, Noli me tangere, Ferrara, San Domenico

124 Fig.68 Johan I Sadeler, Manus manum lavat (Allegoria dei doveri matrimoniali)

125 Fig.69 Giuseppe Avanzi, Natività sotto la neve, Mesola, parrocchiale

126 Fig.70 Seguace di Antonio Tavella, Paesaggio innevato con ponte, ubicazione ignota

127 Fig.71 Giuseppe Avanzi, Annunciazione, Mesola, parrocchiale

128 Fig.72 Johan I Sadeler, Annunciazione

129 Fig.73 Giuseppe Avanzi, Assunzione della Vergine, Villanova Marchesana, parrocchiale

130 Fig.74 Giulio Romano (copia da), Madonna col Bambino e santi, detta Pala Fugger, Mesola, parrocchiale

131 Fig.75 Giuseppe Avanzi, Assunzione della Vergine, particolare, Villanova Marchesana, parrocchiale

132 Fig.76 Giuseppe Avanzi, San Pietro risana uno storpio, Sabbioncello san Pietro, parrocchiale

133 Fig.77 Giacomo Parolini,Disputa al Tempio, Ferrara, Curia arcivescovile

134 Fig.78 Carlo Bononi, Disputa al Tempio, Ferrara, Santa Maria in Vado

135 Fig. 79 Giuseppe Avanzi, San Girolamo penitente, Ferrara, Santo Spirito

136 Fig. 80 Giuseppe Avanzi, Matrimonio mistico di santa Caterina da Siena, Ferrara, San Domenico

137 Fig. 81 Giuseppe Avanzi, Martirio di san Lorenzo, Ferrara, Santo Stefano

138 Fig. 82 Giuseppe Avanzi, San Mauro tra gli appestati, Ferrara, Santa Maria della Pietà dei Teatini

139 Fig. 83 Scarsellino, Santa Lucia, ubicazione ignota

140 Fig. 84 Giovan Francesco Surchi, detto Dielaì, Sacra Famiglia con Davide, Crespi d'Adda, Santo Nome di Maria

141 Fig. 85 Scarsellino, Madonna col Bambino e angeli, Bologna, San Petronio

142 Fig. 86 Scarsellino, Natività, mercato antiquario

143 Fig. 87 Giuseppe Avanzi, San Marco evangelista, Ferrara, Seminario, in deposito dalla parrocchiale di Fossanova San Marco

144 Fig. 88 Giuseppe Avanzi, Martirio dei certosini di Seltz, Ferrara, certosa di San Cristoforo

145 Fig. 89 Da Tiziano, Martirio di san Lorenzo

146 Fig. 90 Scarsellino, Martirio di san Lorenzo, Lugo, palazzo Trisi

147 Appendice documentaria

Doc. 1

ADFe, Fondo San Carlo, 1/G, foglio n. 35

Adi 23 ottobre 1674 Io sotto scrito ho riceputo dal Mag.co Antonio Zanzi Com. Reg.te della vene.le Conf.ta di S. Carlo scudi nove e baliochi setanta quali sono per havere fatto e disfato l'armatura che a servito per dipingere il sufitto di d.ta Chiesa come anco per levare via il baldachino di sopra l'altare magiore dico.

scudi 9 e 70

Io Giulio Preti marangone afermo quanto di sopra

Doc. 2

ADFe, Fondo Teatini, n. 73 = M V, F IX

Il 24 agosto 1671 Mezzogori e Feletti ricevono tre scudi di quaranta dovuti per le cornici, fregio e balaustrate eseguite. Nello stesso foglio il 17 dicembre Mezzogori e Felletti ricevono 62 scudi e 50 per saldo e intero pagamento “delle cornici fresi tanto di sopra quanto di soto ecetuato però il fregio delle due capelle laterali che fuorono compresi in un altro accordo però havendo noi solamente altra l’indoratura delle dicinove cornici indorato il fresio di sotto con sue lunette e fatte li fogliami ab altro di sopra”.

Doc. 3

ADFe, Fondo Teatini, n. 73 = M V, F IX

Il 27 gennaio 1672 i Teatini concordano con i pittori Cesare Mezzogori e Giacomo Filippo Feletti “di dipingere sotto le cantorie conforme il disegno di quadratura già fatto et le sue quattro figure e indorature ove fussi di bisogno”.

Doc. 4

ADFe, Fondo Teatini, n. 52, M4, F3, n. 5

Adi 16 marzo 1671 in Ferrara. Con la presente scrittura si dichiara come li M.to R.R. P.P. Teatini di Ferrara concordano col Sig.r Clemente Maioli di far dipingere parte della loro Chiesa, cioè li tre Quadroni del Choro a fresco assieme con le due Cantorie, che si fabbricano in Presbiterio ne gl’altri due volti che vi sono, cioè disotto l’incannucciata, che vi si deve fare e di sopra quel poco di muro, che sta tra il volto, e le due finestre, et in oltre gl’altri quattro quadri, che sop.a le due porte, una che va in Convento, l’altra in strada, e questi a olio, ne gli quadri tutti si deve pingere la vita, e attioni del n.ro R.o gaetano conforme li disegni esibiti, concordano dico in questa forma.Che il d.o S.r Clemente sia tenuto fare ogni diligenza per la perfettione, di d.i quadri, acciò ne risultidecoro alla Chiesa mediante la sua virtù, e honore a lui stesso e cio senza riguardo di figure.2.do Che previo ogn’accidente d’infirmità, o altro sia tenuto dar finite le dette pitture per la festa del B.o che sarà alli 7 d’Agosto 1671.Si obligano per altra parte i P.P. Teatini darli tela, colori, olio, pennelli, e tutto ciò che sarà di bisogno per far detti quadri.2. li daranno i d.i P.P. a tutte loro spese li Ponti fatti a suo piacere per la fabbrica di d.i quadri, come ancora li daranno le mura ricciate e intonacate con l’assistenza del muratore confe. il suo bisogno.3. Per prezzo e mercede di d.e fatture, cioè tre quadroni del coro, 2 cantorie, e quattro quadri a olio gli daranno scudi trecento moneta corrente così d’accordo tra loro, in questa forma però. Scudi dugento in denari, e gl’altri scudi cento in tanta robba da pagarseli conf.e l’avanzamento del lavoriero. Intendendo per d.a roba cosa di servitio, et uso ddella sua casa, come vino, frumento.Per osservanza della presente scrittura sarà sottoscritta da ambi le parti, cioè dal P. Vic.o come superiore e dal S.r Clemente Maioli.Io D. Borso Ferri vicario promette q. di sopra ecc.Io Clemente Maioli mi obligo e prometto quanto di sopra.

Doc. 5

APVM (depositato presso la parrocchia di Crespino), Libri parrocchiali di Gianbattista Beretta, Tomo I, parte II, fascicolo 25, cc. 1-2.

L'anno 1701 feci fare li due quadri grandi che sono per parte del altare magiore, il pitore fu Giuseppe Avanzzi

148 Ferrarese e per sua manifatura bisognò darli trenta scudi moneta ferr.se e le cornise le fece Gio. Manchiaro e con il legname e fatura stimo che costano 12 scudi si che li quadri come stano costano 42 scudi ferraresi e perchè non si hebe la possibilità di fare adornare le cornici si apesero così schieti confidando nel sig. Iddio che una volta dia forza al popolo et a me con elemosine di poterli melio adornare, dovend esser fato tuto per carità come ognuno sino adhora tuto si è fato con le elemosine del popolo et in questi quadri fu anche impiegato l'elemosina del formento spigato 1702.

Doc. 6

APVM (depositato presso la parrocchia di Crespino), Libri parrocchiali di Gianbattista Beretta, Tomo I, parte II, fascicolo 25, cc. 11-13. adì 14 giugno 1708 si acordò sino li primi giorni della quaresima scorsa alla presenza delli Massari e loro conssensso col sig. Paolo Valeri intaliatore per fare l'altar maggiore alla Romana e ridurlo all'uso moderno e restò acordato il contrato col mememo di sua materia fatura e indoratura in sc. 55 si mandò a piliare a Ferrara e fu posto al suo loco per li 13 del presente mese di giugno, si comprò quatro braza di damasco che importò sc. 4 et un scudo in altre cose bisognevoli cioà chiave e pitore per la portella del tabernaculo e muratore per acomodarlo al suo loco che computatis computandis in tuto costa il dito altare sc. 60 Si è ordinato al sig. Giuseppe Avanzzi pittore il quadro dell'Assunta della B.ta Vergine con l'interposicione e racomandazione del P. D. Benedetto Morelini Procuratore della Certosa in Villanova e per il prezzo di detto quadro si sono dati al deto pittore scudi dodeci, qualle fu veduto da alcune persone nell'occasione che si portò fuori di Ferrara e fu giudicato che valesse dieci dopie. Il presso, cioè li sudeti dodeci scudi li ho trovati per carità di questo popolo. Come però anche per l'altare vi è stato un benefatore che ha dato per carità quindeci scudi. Si è fato fare la cornice al sig. Carlo Valeri per adornare il deto quadro al quale ho datto scudi cinque e tredeci che resta havere nel ternime di due anni, importo di detta cornice che fanno sc. 18. e si è acordato con l'indoratore che è il sig. Alessandro Chiozini in scudi dodeci per mandarla bianca e oro per acompagnare l'altar maggiore e tutte queste spese parte pagate e parte da pagare si sono fate col formento spigato e dal Legato Fieschi e di altre elemosine havute dalli particolari. adì 20 xbre 1709 si fece adornare la cornice del quadro in coram evangeliis dell'Altar maggiore e si spese scudi 18 adì 13 marzo 1710 si fece adornare l'altro quadro del altar maggiore in coram epistole e si spese il medemo scudo 18

Doc. 7

ADFe, Fondo Arte dei Calegari, 1/F Io sottoscritto ho ricevuto dal Sig. Marc'Antonio Bertelli Genuine cinquanta, che fanno scudi sessantacinque, e questi per il prezzo del quadro di mano dell'Avanzi representante il Martirio di Santi Crispino e Crispiniano, qual quadro deve servire per mettere nel fondo della loro Chiesa intitolata San Crispino, et il presente denaro mi è stato sborsato dal sudd. Sig. Bertelli come massaro della sud.ta Arte dico

scudi 65

Ignazio Schiatici

Adi 3 deto Notta di spesa fatta per ricevere deto quadro fori di cassa del deto sig.re Schiatici per portarlo ala chiesa. Primo dato a m. Fra.co Tacini marangone per aver distacato deto quadro e per aver adoperato un taioni con il carro et averlo posto in deta chiesa con duoi omini con s(?)i di sua fatura

scudi 72 di più pagatto a sei fachini che li aiutò a distacharlo e portarlo a deta chiesa e che li ha aiutato a meterlo nel posto che si ritrova di sua mercede

scudi 60 in tuto scudi 132

Doc. 8

ADFe, Fondo Arte dei Calegari, 1/F

149 Adi 1 giugno 1703 Confesa il sig. Gioseppe Avanzi pitore di esere restato dacordo con Marc'Antonio Bertelli masaro di deta arte come il sud.to sig. Avanzi si obliga a fare un quadro con la Presentacione di La Visitacione di S.ta Elisabeta dacordo in pagamento del mede.mo quadro in scudi tredeci con questo che deto Sig. Avanzi si meta suoi il telaro e la tela per far deto quadro et anco lascero in fede de la verità il sud.to sig. Avanzi si sottoscrive di suo pugno dico

Scudi 13

Io Giuseppe Avanzi affermo quanto di sopra

Adi 8 agosto Io sottoscritto ho ricevuto li scudi tredeci per saldo In più uno scudo per haver acomodato il baldachino che in tutto fano scudi quatordeci dico

Scudi 14

Io Giuseppe Avanzi

Doc. 9

ADFe, Arte dei Calegari, IF, anno 1706

Adi 7 aprile 1706 Si dichiara con la presente scrittura qual vogliono le parti habbia forza come se fosse pubblico strom.zo (?) qualmente il p. Giac.o Parolini del quondam Fran.co della p.a di S. M.a di Bocco obblig.e se stesso e suoi beni presenti e futuri, si obliga e conviene fare di pitura però per quello p...(?) la sua profisione. Al m.co Gioseffo Gatti massaro del Arte de Calzolari presente e ...(?) per essa Arte due quadri della grandezza che sono gli altri esposti nella scola dell'Arte mede.ma nell'uno de quali sarà espressa pa presentazione del Bambino al Tempio e nell'altro la disputa de dottori e questi dipingerli e terminarli in tutto e per tutto che huomo da bene per tutto li venticinque del mese di settembre pross.mo venturo dell'anno presente. Per prezzo e pagamento delli quadri scudi esso Gioseffo Gatti del q.m Bart.meo Massaro dell'Arte de Calzolari obblig.o tutti e singoli beni dell'Arte med.ma promette e conviene al sud.to Parolini presente e ...(?) pagarli et effetivam.te esborsarli scudi sessantacinque monete corrente di Pauoli dieci per scudo ...(?) ogni eccett.ne e contradiz.ne a conto delli quali scudi sessantacinque esso Gatti alla p.enza delli ...(?) testimoni. Io Giacomo Parolini aff.mo quanto di sopra Io Gioseppe Gatti masaro afermo quanto di sopra Io Antonio Taselli (?) fui presente a quanto di sopra Ignatio Borsetti scrissi e vidi fare le sudette sottoscritioni

Adi 7 luglio 1706 E più ho riceputo a conto dal sudetto massaro scudi sei dico

sc. 6

Giacomo Filippo Parolini

Adi 27 luglio 1706 E più ho riceputo dal mede.mo Massaro scudi tre

sc. 3

Adi 30 agosto 1706 E più ho riceputo dal medemo Massaro scudi due

sc. 2

Giacomo Filippo Parolini

Adi 23 ottobre 1706 Io sottoscritto confesso haver riceputo dal sig. Gioseppe Gatti Massaro de Calzolari scudi quarantaquatro per resto et intiero pagamento di quanto contiene la sudetta scrittura. In fede dico

sc. 44

Giacomo Filippo Parolini aff.mo quanto di sopra Io Antonio Taselli fui presente a quanto di sopra

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155 Ringraziamenti

Le prime parole sono, con affetto, per Barbara Ghelfi: è lei che mi ha coinvolto nelle ricerche sul Seicento ferrarese e mi ha suggerito di concentrarmi sulla figura mai indagata di Giuseppe Avanzi. Mi ha costantemente sostenuto con parole di stima e mi ha seguito ad ogni passo con la lettura e le correzioni al mio testo, con l'aiuto nella ricerca archivistica e come tramite per accedere ad edifici e chiese ferraresi al momento inagibili a causa del terremoto che ne ha colpito la quasi totalità (dove ho potuto scattare un numero infinito di fotografie ai dipinti, la mia passione!). Nondimeno il mio pensiero va a Daniele Benati, mio relatore, sempre disponibile a chiarire i miei dubbi e a valutare le nuove ipotesi attributive ma soprattutto per la simpatia che mi ha sempre dimostrato, che per me vale molto più di qualunque bel voto. Il pensiero più affettuoso va alla mia famiglia: la mamma che mi ha sempre fatto coraggio e sostenuto e il babbo che mi ha pazientemente aiutato nella battitura. Indimenticabile la nonna che fino all'ultimo mi ha sempre ripetuto di ricordare quanto valgo, e che si è sempre tanto preoccupata per il mio futuro: ora potrà guidarmi ancor meglio. E naturalmente la cara zia Angela, pure lei grande sostenitrice e motivatrice. Come dimenticare Valentina Lapierre? Senza il suo sostegno e la impressionante quantità di libri di cui mi ha fatto dono, alcuni davvero fondamentali per le mie ricerche, sarei ancora al punto di partenza. E nell'occasione un caro pensiero va anche a Roberto Cara. Ancora, don Enrico Peverada, Elena Fumagalli, Lino Rezzaghi, Giuseppe Ferrari, i Teatini di Ferrara, il sagrestano di Villanova Marchesana, Corinna Giudici, Stefania Ferrari, Elisabetta Lopresti e anche il gruppo Les Connoisseur! Ultimi ma non per importanza quei pochi veri amici che ho accanto: Francesca, Paola, Franco, Pompilio, Marcello, Adriano, Matteo, Chiara, Anna, Andrea, Franco che mi hanno incoraggiato nei momenti felici e sopportato in quelli di sconforto. Ed Elena e Silvia che mi hanno accompagnato con grande divertimento durante gli studi. A tutti voi: GRAZIE!

156 Note al capitolo 1

1 E. RICCOMINI, Il Seicento ferrarese, Ferrara 1969; RICCOMINI, Settecento ferrarese, Ferrara 1970; L. PALIOTTO, Ferrara nel Seicento. Quotidianità tra potere legatizio e governo pastorale. Parte prima, Ferrara 2006; PALIOTTO, Ferrara nel Seicento. Quotidianità tra potere legatizio e governo pastorale. Parte seconda, Ferrara 2009; PALIOTTO, Clero e non solo. Il Settecento religioso ferrarese. Istituzioni e persone, Ferrara 2013.

2 G. MANINI FERRANTI, Compendio della storia sacra e politica di Ferrara, vol. IV, Ferrara 1808, p. 213.

3 G. A. CIRIANI, Cronaca di Ferrara dal 1651 al 1673, ms, BCAFe, collezione Antonelli, n. 269, p. 178.

4 Ibidem, pp. 192-193; PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte seconda, p. 88.

5 CIRIANI, Cronaca, pp. 28-32, 58, 65, 124-128.

6 MANINI FERRANTI, Compendio, vol. IV, p. 231.

7 PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte prima, p. 113.

8 Ibidem, pp. 113-114.

9 C. OLIVI, Annali della città di Ferrara dalla devoluzione dei principi estensi a quella di S. Chiesa sino all'anno 1754, ms, BCAFe, Classe I, n. 105, pp. 221-222.

10 PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte prima, pp. 119-120.

11 N. BARUFFALDI, Annali della città di Ferrara dagli anni 1660 al 1720, tomo I, ms, BCAFe, collezione Antonelli, n. 594, c. 55.

12 L. BAROTTI, Serie de' vescovi ed arcivescovi di Ferrara, Ferrara 1781, p. 129.

13 BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 10.

14 ASCFe presso ASFe, Serie patrimoniale, b. 159 n. 1 e b. 161 n. 89.

15 G. A. SCALABRINI, Memorie sacre e profane della S. Chiesa di Ferrara, ms, BCAFe, Classe I, n. 241, cc. 312- 313.

16 BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 72.

17 PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte prima, p. 115.

18 RICCOMIINI, Il Seicento, p. 10.

19 OLIVI, Annali, p. 69.

20 BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 12.

21 Ibidem, c. 125, 129.

22 Ibidem, c. 161.

23 PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte prima, p. 44.

24 BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 2.

25 Ibidem, c. 206.

26 Notizie storiche della città nostra di Ferrara, ms, BCAFe, collezione Antonelli, n. 294d, cc. 5 r, 11 v.

27 CIRIANI, Cronaca, pp. 1, 9, 41, 43, 74, 76.

28 BARUFFALDI, Annali, tomo I, cc. 68, 76, 80.

29 PALIOTTO, Ferrara nel Seicento, parte seconda, p. 105.

30 Ibidem, pp. 158-159.

157 31 Ibidem, pp. 105, 159.

32 Ibidem, pp. 159, 161.

33 G. BARUFFALDI, Vite de' pittori e scultori ferraresi, vol. II, 1697 - 1730, ed. Ferrara 1846, p. 309.

34 Ibidem, p. 311. Il pittore Giuseppe Avanzi fu costretto a modificare il dettaglio del perduto Martirio dei santi Crispino e Crispiniano col cane che si dedicava alla propria toilette, da direttive provenienti dal cardinal Dal Verme che lo aveva ritenuto indecente.

35 PALIOTTO, Clero e non solo, p. 35.

36 RICCOMINI, Settecento, pp. 9-10.

158 Note al capitolo 2

37 B. GHELFI, Pittura a Ferrara nel primo Seicento. Arte, committenza e spiritualità, Ferrara, 2011; F. CAPPELLETTI, B. GHELFI, C. VICENTINI, Una storia silenziosa, Venezia, 2013.

38 BARUFFALDI, Annali, tomo I c. 161, BCAF, Antonelli, 594.

39 Ibidem.

40 A. FAORO, Cenni storici sull'edicola e Crocifisso di via Cavedone, in F. D., Bollettino della Ferrariae Decus, n. 18, 2001.

41 Ibidem.

42 C. BRISIGHELLA, Descrizione delle Pitture e Sculture della città di Ferrara, Ferrara, 1991, p. 531 nel testo aggiunto da Girolamo Baruffaldi.

43 M. MAZZEI TRAINA, L. SCARDINO, Fughe e arrivi, Ferrara, 2002, pp. 46-48, con alcune considerazioni sulla diffusione della natura morta a Ferrara.

44 Ibidem; Archivio Bargellesi, cartella Vendeghini Baldi; ibidem, cartella Vari, ex antiquario Cossarrini.

45 ASF, ANA, Bellagrandi Antonio, matr. 1197, p. 7, in MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, p. 436

46 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 416.

47 G. RIZZI, Arte e ambiente nella Ferrara minore. Contributi sulla chiesa di San Giuseppe, p. 83, nota 6, in Musei ferraresi, n. 2, 1972; un elenco dei "Maestro in diverse chose delano 1600 sino alano 1725" contenuto in una cronaca ferrarese cita, tra i pittori, "Oracio Mornasi Davignon": F. VACCHI, Giornalle delle cose di Ferrara ocorse dal'anno 1640, Ferrara, BCAFe, Ms cl. I, 364.

48 Memoria dell'ingresso dei PP. Scalzi di S.to Agostino della Congregazione d'Italia nella città di Ferrara et della fondazione del Monastero, et chiesa di S. Gioseppe, manoscritto presso la Biblioteca degli Agostiniani di Ferrara.

49 ASF, ASC, Libro dei defunti, Registro XXIX. In MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, p. 88.

50 BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 27. In verità Girolamo Baruffaldi, nelle aggiunte al BRISIGHELLA, Descrizione, data al 1668 solo la costruzione dell'oratorio, mentre in esso può essere stata posta una pala terminata precedentemente.

51 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 585. Attribuzione ipoteticamente condivisa anche da Novelli, come si evince dalla nota n. 2.

52 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 118. Lo storico le attribuisce collettivamente a Bonfanti, Mornasi e Capitanelli; C. BAROTTI, Pitture e Scolture che si trovano nelle chiese.., Ferrara, 1770, p. 67 lo segue fedelmente; SCALABRINI, Memorie istoriche delle chiese di Ferrara e de' suoi borghi, Ferrara, 1773, p. 66 idem; C. CITTADELLA, Catalogo istorico de' Pittori e Scultori ferraresi, v. IV, Ferrara, 1783, p. 26 al solo Mornasi. M. NOVELLI in BRISIGHELLA, Descrizione, p. 118 n. 24 notando l'unitarietà di mano delle tre tele, propende o per Mornasi, o per Capitanelli, escludendo il Bonfanti. Utile sarebbe un confronto con due opere certe del Capitanelli: il lunettone col Transito di San Giuseppe, nell'omonima chiesa, e la pala già in San Nicolò ora in collezione Malagù.

53 CITTADELLA, Catalogo, v. IV, p. 26.

54 BARUFFALDI, Vite de' pittori e scultori ferraresi, v.II, Ferrara, 1846, p.286. Ferrari, nascendo nel 1634, è improbabile che possa aver istruito un pittore morto nel 1667, a meno che questo non fosse nato più o meno in contemporanea a lui, il che implicherebbe una vita molto breve che a giudicare dalla quantità di opere riferitegli non è molto probabile.

55 Memoria, c. 137.

56 S. RUDOLPH, Un episodio del barocco romano a Ferrara e alcune considerazioni sul cavalier Girolamo Troppa, p. 27, in Musei ferraresi, n. 7, 1977.

57 Memoria, c. 138.

58 B. GIOVANNUCCI VIGI, Le chiese di Ferrara nel Seicento: un secolo di pittura cosiddetta "minore", p. 312, in La

159 pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, v. II, Bologna, 1993.

59 Baruffaldi lo ignora; CITTADELLA, Catalogo, v. III, p. 319.

60 A. LO BIANCO, I dipinti sei-settecenteschi degli altari del Pantheon. Bonzi, Camassei, Maioli, Labruzzi, p. 100, in Bollettino d'arte, n. 42, 1987.

61 A. MEZZETTI, Restauri ferraresi: notizie e problemi, p. 281 n. 26, in Bollettino d'arte, n. 47, 1962.

62 LO BIANCO, I dipinti, p. 99.

63 RICCOMINI, Il Seicento ferrarese, Ferrara, 1969, p. 52.

64 Il Martirio di San Lorenzo per Castelmassa, il San Rocco per l'omonima chiesa di Ferrara ora in Pinacoteca, il Martirio di San Maurelio in San Giorgio, tutte di Benedetto. Per i Gennari a Ferrara: J. BENTINI, Attori e comparse sulla scena pittorica ferrarese del Seicento, pp. 129-138, in Frescobaldi e il suo tempo. Nel quarto centenario della nascita, catalogo della mostra, Venezia, 1983.

65 CITTADELLA, Catalogo, v. IV, pp. 6, 116; BARUFFALDI, Vite, v. II, pp. 151, 315.

66 N. CLERICI BAGOZI, Vademecum per le chiese di Comacchio, pp. 140-151, in I tesori nascosti delle chiese di Comacchio, Ferrara, 2000.

67 Nella Appendice alli pittori dello Stato di Ferrara, in BARUFFALDI, Vite, v. II, p. 581, è riportato che Niccolò Baruffaldi tramanda per la colonna l'anno 1665, mentre nel 1675 Mezzogori è pagato per la doratura della statua di Alessandro VII postavi in cima. in MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, p. 88 si parla genericamente del 1675.

68 L'originale del quadro di Reni pare perduto, ma è documentato da versioni quali la Fuga in Egitto, forse replica autografa, nella quadreria dei Girolamini a Napoli.

69 Comune di Argenta: Museo Civico, Catalogo generale, a cura di . ANTONELLINI, Ferrara, 2008, pp. 120.121, n. 38.

70 CITTADELLA, Catalogo, v. IV, p. 27.

71 Memoria, c. 177.

72 Memoria, c. 54.

73 BARUFFALDI, Vite, v. II, p. 256.

74 RICCOMINI, Il Seicento, p. 62, n. 168.

75 Ibidem, p. 64, n. 175.

76 RICCOMINI, Settecento ferrarese, Ferrara, 1970, pp. 14-20, 33-42, basilare per i commenti relativi a Parolini in questa sede.

77 MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, pp. 90.

78 ADFe, Arte dei Calegari, sezione 1 filza F, cartella anno 1706.

79 ASF, ASC, Libro dei defunti, XXXII, in MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, p. 376.

80 BAROTTI, Pitture, p. 85; CITTADELLA, Catalogo, v. IV, p. 236; BRISIGHELLA, Descrizione, p. 186. Fa eccezione SCALABRINI, Memorie, p. 68, che lo attribuisce infondatamente a Coltellini.

81 CITTADELLA, Catalogo, v. IV, p. 79.

82 Per una descrizione si vedano SCALABRINI, Guida per la città e i borghi di Ferrara in cinque giornate, a cura di C. FRONGIA, Ferrara, 1997, pp. 34-35 e BRISIGHELLA, Descrizione, p. 168.

83 BARUFFALDI, Annali, c. 70.

84 RICCOMINI, Il Seicento, pp. 53-54.

85 BARUFAFLDI, Annali, cc. 115, 188.

86 G. AGOSTINI, L. SCARDINO, Inventari d'arte, Ferrara, 1997, p. 251.

160 87 RICCOMINI, Il Seicento, p. 64 n. 174.

88 RICCOMINI, Il Seicento, p. 63 n. 172, 173, 174; A. M. FIORAVANTI BARALDI, Arte bolognese e arte ferrarese a confronto. Gli affreschi di palazzo Bevilacqua Massari a Ferrara, in Il Carrobbio, anno XVII, Bologna 1991, pp. 140 - 149.

89 BARUFFALDI, Vite, v. II, p. 323; C. LADERCHI, La pittura ferrarese, memorie, Ferrara, 1856, p. 181.

90 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 242.

91 Ibidem, p. 49.

92 Ibidem, p. 253.

93 Ibidem, p. 121.

94 Ibidem, p. 325.

95 Ibidem, p. 223.

96 Ibidem, p. 375.

161 Note al capitolo 3

97 G. BARUFFALDI, Vite de’ pittori e scultori ferraresi , Vol. II, Ferrara 1846, p. 306. La vita di Avanzi è narrata anche da Cesare Cittadella, Catalogo istorico de' pittori e scultori ferraresi e delle opere loro, Tomo IV, Ferrara, 1783.

98 N. BARUFFALDI, Annali, BCAF, Antonelli, 594, t. II, c. 267.

99 CITTADELLA ( Catalogo istorico de’ pittori e scultori ferraresi e delle opere loro, Tomo IV, Ferrara 1783, p.52, lo considera “Pittore che più dipingeva per divertirsi […] che per farsi largo tra i più rinomati professori del suo secolo”, o ancora che “pur in un così prodigioso numero di opere prodotte non impegnava tanto tempo, che non ve ne restasse per i suoi stravizi in abbondanza” (CITTADELLA, Catalogo, Tomo IV, Ferrara 1783, p. 70). G. BARUFFALDI ( Vite, Vol. II, Ferrara 1846 p.308) dice che “in tante e copiosissime opere sue […] era riuscito e andava riuscendo con tante imperfezioni” e che “dilettandosi oltremodo della caccia all’archibugio”, con essa “perdeva giornate intere, e molto tempo” passava “ne’ conviti, essendo molto amante del vino” ( G. BARUFFALDI, Vite, Vol. II, Ferrara 1846, p. 312). N. BARUFFALDI (Annali, c. 267) alla morte ne ricorda il maestro di scherma piuttosto che quello di pittura. RICCOMINI, Il Seicento ferrarese, Ferrara, 1969, p. 20, considera la preferenza di Avanzi per opere di grandi dimensioni come un palliativo col quale "la grandezza del gesto può in qualche modo sopperire e sostituire quella, per l'Avanzi irraggiungibile, dell'arte". RIZZI, Arte e ambiente nella Ferrara minore: contributi sulla chiesa di San Giuseppe, in Musei ferraresi, Bollettino annuale, n.2, 1972, afferma che l'insolitamente equilibrata invenzione del Sant'Agostino lava i piedi a Cristo "viene come al solito compromessa dalla sciatteria esecutiva che inamida i panneggi e imbambola i personaggi".

100 G. BARUFFALDI, Vite, Vol. II, Ferrara 1846, p.306; CITTADELLA, Catalogo, Tomo IV, Ferrara 1783, p. 52.

101 CITTADELLA, Catalogo, Tomo IV, Ferrara 1783, p. 56.

102 Di questi non restano esempi, se non forse nella Strage dei Certosini di Selz che però deve essere molto più tarda se la data che porta è davvero leggibile 1712 o 1717.

103 ASCFe, Fondo Deputazione provinciale ferrarese di Storia Patria, busta 66, I. 2. a., scheda 1713, in Inventari d’Arte. Documenti su dieci quadrerie ferraresi del XIX secolo, a cura di G. AGOSTINI, L. SCARDINO, Ferrara 1997, p. 243. Quale dei tanti non sappiamo, ma le redazioni più diffuse oggi sono quelle di Jan, da Spranger, e quella di Aegidius II, da Clovio.

104 N. BARUFFALDI, Annali, t. I, c. 36; C. BRISIGHELLA, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara, a cura di M. A. NOVELLI, Ferrara, 1991, pp. 195, 2002 n. 58. La pala di Avanzi sostituì una Madonna e San Francesco supplicante di Bononi, e che a sua volta fu rimpiazzata da una Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Clemente Maioli, quindi da una pala con la santa Pazzi e i santi Francesco ed Alberto adoranti Maria e Cristo.

105 G. BARUFFALDI, Vite, vol. 2, p. 307.

106 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 242; N. BARUFFALDI, Annali, t. I, c. 50.

107 Per un resoconto approfondito sulle vicende costruttive dell’edificio e sulla vita della confraternita: GHELFI, Pittura a Ferrara nel primo Seicento, Ferrara, 2011, p. 149.

108 Ipoteticamente si può collocare in questa fase la realizzazione delle Storie di San Gaetano per la chiesa dei Teatini di Ferrara, come si argomenterà più avanti.

109 Interessante è il parere espresso da Cittadella a proposito dell’impossibilità di Avanzi di proseguire il proprio apprendistato dopo la morte di Catanio, perché “era in Ferrara malagevole il ritrovare maestro in quel tempo”, che illumina sulla consapevolezza del declino delle arti tra gli eruditi settecenteschi (CITTADELLA, Catalogo, p. 54)

110 ADFe, Fondo San Carlo, sezione 1 filza G, documento n. 35. Vedere Appendice documentaria, doc. 1

111 C. BAROTTI, Pitture e Scolture che si trovano nelle chiese.., Ferrara, 1770, p. 101.

112 E. RICCOMINI, Il Seicento Ferrarese, Ferrara 1969, p. 57.

113 C. CITTADELLA, Catalogo, Tomo IV, p.78.

114 E. RICCOMINI, Il Seicento, p. 57.

115 L’oculo dipinto da Avanzi è descritto come un quadro ad olio in BAROTTI, Pitture, p. 101. RICCOMINI, Il Seicento, p. 57 lo definisce correttamente un affresco.

162 116 C. CITTADELLA, Catalogo, Tomo IV, p. 56. In esso è definito “vivace, e vero nel dipinger frutta e fiori, i quali passano per i migliori, che si vedono”. Altre testimonianze si trovano in Quadri da stimarsi, a cura di A. FAORO, L. SCARDINO, Ferrara 1996, p. 209: quadri di fiori e frutta “ben dipinti”; e in Fughe e Arrivi, a cura di MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Ferrara, 2002 p. 47 (Collezioni Rizzoni e Roverella).

117 Vedere nota 11.

118 Solo alcuni esempi: Ludovico Carracci, Crocifissione (S. Francesca Romana) e Circoncisione (perduto); A. Tiarini, Martirio di S. Stefano (S. Benedetto, perduto); A. Sacchi, S. Giovanni Battista e gli affreschi “romani” di Clemente Maioli (S. Maria della Pietà).

119 RICCOMINI,Il Seicento, p. 57.

120 E. SCHLEIER, Five drawings by Carlo Bononi, in Master Drawings, vol. XXXI, 4, 1993, pp. 409-414; Palazzo Pratonieri e la collezione d’arte della Fondazione Pietro Manodori, a cura di M. MUSSINI, A. MAZZA, Reggio Emilia 2005; Disegni del museo civico di Bassano da Carpaccio a Canova, a cura di L. MAGAGNATO, Venezia, 1956 (come Bernardo Castello).

121 G. BARUFFALDI, Vite, Vol. 2, pp. 119-120. Commentato più criticamente da GHELFI, Pittura, p. 85

122 N. BARUFFALDI, Annali. Tomo I, c.n. 56; BAROTTI, Pittura, p.136; SCALABRINI, Memorie, p. 365; SCALABRINI, Guida per la città e i borghi di Ferrara in cinque giornate, a cura di C. FRONGIA, Ferrara 1997, p 104.

123 F. I. PAPOTTI, Memorie storiche della città e dell’antico ducato della Mirandola, vol. I, 1876, pp. 166-167. Ripreso in Arte a Mirandola ai tempi dei Pico, a cura di V. ERLINDO, Mirandola, 1994, p. 40 (in cui si sbaglia anche l’anno di nascita di Avanzi).

124 G. CAMPORI, Gli artisti italiani e stranieri negli stati estensi, Modena, 1855, pp.15-16. Qui l’autore, la cui fonte è un manoscritto oggi irreperibile (?), riferisce che fu imbiancato il 7 Luglio 1788. Oggi il portico, ancora visibile in una fotografia del 1925, è scomparso, demolito probabilmente nel 1937 (Committenze dei Pico, a cura di G.M. BRAGLIA, Modena, 1991, p. 60).

125 G. CAMPORI, ibidem, dove tra l’altro non si specifica la data d’esecuzione, ma ci si limita saggiamente a porla nella giovinezza dell’artista.

126 Memoria dell’ingresso dei PP. Scalzi di S. Agostino della Congregazione d’Italia nella città di Ferrara.., vol. I (1623 – 1690), ms, Archivio Conventuale dei SS. Giuseppe, Rita e Tecla, c. 174 r.

127 Ibidem, c. 165 r.

128 Ibidem, c. 165 r.

129 La Memoria informa che un quadro conteneva l'Orazione e la Flagellazione, l'altro la Cattura e l'Incoronazione di spine. Va però notato che in un momento imprecisato (ipoteticamente dopo i restauri del 1969 di cui da conto RICCOMINI in Seicento Ferrarese minore, Ferrara, 1969, pp. 32 - 33) le scene sono state ricollocate entro le cornici in modo differente. Si trovano a destra dell'altare del Crocifisso l'Orazione e la Cattura, a sinistra la Flagellazione e l'Incoronazione. A riprova dell'errore si osservi la diversa provenienza della luce entro le due coppie di tele. La stessa permette di stabilire che originariamente Cattura e Incoronazione fossero poste alla destra del Crocifisso, Flagellazione e Orazione alla sua sinistra.

130 Taddeo Zuccari, collezione privata, scheda 29403 della fototeca Zeri; da Cornelis Cort, British Museum, nr. 1874, 0613.643. Probabilmente Zuccari si rifà a sua volta al bulino di Durer di uguale soggetto datato 1508.

131 Pinacoteca Vaticana (depositi) n. inventario 41.253; Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, inventario 2367. Immagini e brevi schede in Scarsellino, a cura di M. A. NOVELLI, Milano, 2008, schede n. 21 e n. 141.

132 Approfondimenti sull’argomento sono in. J. BENTINI, Quadri, amicizie e fabbriche Pio di qualche conto a Ferraara nel Seicento, in Quadri rinomatissimi, il collezionismo dei Pio di Savoia, a cura di J. BENTINI, Modena, 1994, p. 83 e in L. FICACCI, Giovannin dei Pio: Notizie su Giovanni Bonati, pittore del cardinale Carlo Francesco Pio di Savoia, in Quadri rinomatissimi, p. 199.

133 BARUFFALDI, Vite, pp.222-223.

134 BRISIGHELLA, Descrizione, ed. 1991, p. 79, nota 6.

135 RICCOMINI, Il Seicento, p. 58; B. GIOVANNUCCI VIGI, in La Candida Rosa, a cura di S. BAVIERA, J. BENTINI, 1988, Bologna, p. 141; B. GIOVANNUCCI VIGI, Le chiese di Ferrara nel Seicento: un secolo di pittura cosiddetta

163 “minore”, in La Pittura in Emilia e in Romagna: il Seicento, vol. 2, pag 313.

136 Lo si vede bene in quadri come la Pala del Terremoto del 1653, in San Giuseppe, o il Sant’Antonio con Bambino e un Agnello del 1653, in San Maurelio.

137 Pittore su cui hanno portato importanti chiarimenti e novità F. VERATELLI, Una traccia documentaria per Giovanni Vangembes, pittore fiammingo del Seicento ferrarese, in Storia dell’Arte, n.5.21, 121, 2008, pp. 123-138 e GHELFI, Pittura, pp. 145 - 149, 235. A quest’ultimo si rimanda per la bibliografia precedente.

138 RIZZI, Arte, p. 80.

139 Della Flagellazione di Douai esiste una copia in Santa Maria in Aula Regia a Comacchio, proveniente dall'Ospizio di Longastrino di Argenta e forse eseguita per l'apertura di questo, nel 1653 (CLERICI BAGOZZI, Schede critiche: dipinti e sculture, p. 179, in I tesori nascosti delle chiese di Comacchio, Ferrara, 2000). Anche SCALABRINI, Memorie, p. 366 ne ricorda una copia, pur attribuendola ad Annibale. Si può ipotizzare che si tratti dello stesso quadro di Naselli.

140 I Misteri del Rosario di Bondeno, L’Ultima cena, nn 371-373 della Pinacoteca di Ferrara; la Discesa al Limbo della Galleria Estense di Modena, ecc..

141 CITTADELLA, Catalogo, tomo IV p. 70.

142 ACFe, Libro dei defunti, registro XXVI.

143 Come si fa notare in RICCOMINI, Il Seicento, p. 48 è in BORSETTI, Supplemento al Compendio storico del Signor Marc’Antonio Guarini ferrarese, Ferrara, 1670, p. 235 che si informa sulla collocazione delle due tele di San Giorgio già avvenuta nel 1636, mentre è EMILIANI che traccia il primo profilo della giovinezza del pittore sulle pagine del numero 13-16 di Arte Antica e Moderna del 1961 (pp. 276-278).

144 RICCOMINI, Il Seicento, p. 47.

145 GIOVANNUCCI VIGI, Giuseppe Avanzi pittore nella chiesa dei Teatini, p. 68, in La Pianura, n. 2, 1980. La studiosa ipotizza la probabile contemporaneità dei dipinti di Mezzogori e di Avanzi, pur preferendo per essi una data attorno al 1678.

146 BARUFFALDI, Vite, vol. 2, p. 307.

147 FIORAVANTI BARALDI, La pittura a Ferrara nel secolo XVII, in La chiesa di San Giovanni Battista e la cultura ferrarese del Seicento, Milano, 1981, p. 121.

148 E. GHETTI, Artisti a Ferrara nel primo Seicento. Da Camillo Ricci a Costanzo Catanio, da Jan van Beyghem alla bottega di Carlo Bononi, in "Arte Cristiana", n. 897, 2016, in corso di pubblicazione.

149 EMILIANI, Francesco Costanzo Catanio pittore

150 Memoria, c. 174 r

151 Va ricordato che essi si andarono ad aggiungere ai due quadri di Gerolamo Troppa di simile soggetto consegnati dall'artista romano nel 1668.

152 CITTADELLA, Catalogo, tomo 4, pp. 60-61; ma è soprattutto BARUFFALDI (da cui probabilmente Cittadella attinge) ad approfondire: in Vite, vol. 2, pp. 308-309, afferma di aver visto quattro volte almeno staccare, da Giuseppe, il San Giovanni Battista dalla Certosa (perduto), per ritoccarlo, cosicché è possibile attribuire a testimonianza oculare pure l’analogo trattamento riportato a proposito dei quadri di San Giuseppe. Lo stesso torna poi sull’argomento nelle aggiunte al manoscritto del BRISIGHELLA, Descrizione, ed 1991, p. 290, dove tra l’altro Baruffaldi annota che i ritocchi vennero apportati poco prima che Avanzi “passasse all’altra vita”.

153 Memoria, C. 174 r.

154 RICCOMINI, Il Seicento, p. 40, che la considera sovrapposta ad un Sant’Agostino, come pure GHELFI, Pittura, p. 148, che però lo indica come modificato dopo il 1838. RIZZI, Arte, p. 80, afferma che la santa Tecla è “aggiunta, non sostituita ad un Sant’Agostino, mentre Novelli ritiene correttamente insostenibile una semplice aggiunta “per inderogabili principi di equilibrio compositivo”, ma non concorda sull’attribuzione ad Avanzi della ridipintura (BRISIGHELLA, Descrizione, ed. 1991, p. 293, nota 23).

155 RICCOMINI, Il Seicento, p. 54.

164 156 BARUFFALDI, Vite, Vol 2, pp. 218-219.

157 FIORAVANTI BARALDI, La pittura a Ferrara nel secolo XVII, in La chiesa di san Giovanni Battista e la la cultura ferrarese del Seicento, p. 126, accolta da GHELFI, Pitture, p. 199. A giudicare dalle sole immagini la copia di Catanio sembra rivista secondo un gusto più morbido e contrastato, più bononiano quindi, maggiormente naturalistico dell’originale. E’ databile di conseguenza vicino alle tele di San Giorgio, al tempo dell’alunnato dell’artista presso Reni o poco dopo.

158 Anonimo cignanesco (da Reni), Vergine in preghiera, Spilamberto, Chiesa di Santa Maria Nuova in Fondo Bosco, dalla chiesa di Sant’Adriano Papa. In Spilamberto, Capolavori di pittura nell’ambito estense, a cura di P. AMATO, Savignano sul Panaro, p. 100.

159 BENATI, comunicazione orale.

160 RICCOMINI, Il Seicento. P. 60.

161 Scarsellino, Ermafrodito e Salmace, Roma, Galleria Borghese, inv. 124. In M. A. NOVELLI, Scarsellino, p. 310, n. 129.

162 Non si possono dimenticare le critiche di Baruffaldi all’Ascensione per San Salvatore a Bologna (BARUFFALDI, Vite, vol. 2, pp. 128-129).

163 LANZI, Storia pittorica dell’Italia…, vol. 2, Venezia, 1796, p. 262.

164 E. RICCOMINI, Il Seicento, p. II.

165 Interessante sarebbe approfondire il caso di Clemente Maioli di cui poco si sa relativamente ad origine e rapporti con Roma e Ferrara, dove lascia un’importante testimonianza di gusto romano nella chiesa dei Teatini attorno al 1671. In proposito vedere A. MEZZETTI, Opere restaurate a Ferrara, catalogo della mostra, Bologna, 1964, pp. 93-95; MEZZETTI, Restauri ferraresi: notizie e problemi, in Bollettino d’Arte, 47, 1962, pp273-283.

166 Entratavi probabilmente dopo il 1887 poiché mai citata dalle guide precedenti: ancora il Catalogo della Pinacoteca Municipale di Ferrara, redatto da Fei e pubblicato nel 1887 cita infatti di Avanzi la sola Fondazione della Certosa alla presenza di Borso d’Este, oggi di nuovo in Certosa, e che peraltro attualmente è opera non unanimemente attribuitagli.

167 La Pinacoteca Nazionale di Ferrara: catalogo generale, a cura di J.BENTINI, Bologna, 1992, scheda n. 231, p. 196

168 Tale figura potrebbe a sua volta derivare da quella dello sgherro che riceve il corpo di Cristo nella Deposizione di Domenico Mona in San Francesco che ripete lo stesso lento movimento in avanti piegando la gamba in primo piano, e col quale condivide l’analoga inquadratura di tre quarti vista da dietro. Essa è databile attorno al 1580 e precede la pala di Scarsellino di circa trent’anni (FRABETTI, L’Autunno dei Manieristi a Ferrara, Bergamo, 1978, p. 70).

169 E l’opera di Scarsellino fu davvero realizzata per la cittadina romagnola come sostengono la Bentini e la Novelli (in Scarsellino, scheda n. 94, p. 305) è possibile ma non certo che Avanzi possa averla studiata. Il suo modello è più probabilmente in questo caso Mona, la cui pala era comodamente visibile già allora nel coro di San Francesco (salvo l’ipotesi di un prototipo comune al quale i tre possano essersi rivolti).

170 NOVELLI, Scarsellino, scheda n. 282, p. 329.

171 RIZZI, Arte, pp 80-81, che lo data tra 1700 e 1710.

172 NOVELLI, Scarsellino, scheda n. 26, p. 294.

173 AVVENTI nel Servitore di piazza, Ferrara, 1838, p. 90, lo dice allievo di Giulio Cesare Avellino, che muore nel 1700. Se fosse vero, Zola sarebbe giunto a Ferrara entro i 27 anni. Anche B. GIOVANNUCCI VIGI, Giuseppe Zola, Firenze, 2002, propende per un arrivo in giovane età, comunque testimoniato dai riflessi del suo stile sulle opere di Avanzi attorno al 1700-1705. Brisighella mostra di conoscere opere di Zola prima di morire nel 1710 poiché sua e non di Baruffaldi è la citazione di Zola come autore delle lunette del chiostro della chiesa di Santa Croce (BRISIGHELLA, Descrizione, p. 85).

174 Approfondimenti biografici e sullo stile di Zola sono reperibili in: E. CALABI, Un paesista del Settecento: Giuseppe Zola, in Rivista di Arte, 1934, pp. 84-93; E. CALABI, La pittura a Brescia nel Seicento e nel Settecento, catalogo della mostra, Brescia, 1935, p. 35; E. RICCOMINI, Il Settecento, pp 23-24; B. GIOVANNUCCI VIGI, Giuseppe Zola, pp. 9-31.

165 175 La Visione di San Bruno è oggetto di studio da parte di Elisabetta Lopresti per un contributo sull’iconografia certosina in corso di pubblicazione, pertanto non mi è stato possibile accedere alle immagini in suo possesso, se se ne esclude una piccola apparsa online.

176 Le notizie qui riportate sono il frutto di una lunga chiacchierata con la dottoressa Lopresti dei Musei Civici di Ferrara che oltre ad avermi dato numerose informazioni di carattere storico relativamente alla sorte dei dipinti dopo il 1944, mi ha reso partecipe delle novità sugli sviluppi (e sulle interruzioni) del restauro dell’opera, oltre che di numerose informazioni riguardo l’iconografia certosina.

177 Archivio parrocchiale di Villanova Marchesana (RO), oggi presso la chiesa di Crespino. “Documenti della chiesa parrocchiale di Villanova Marchesana in questo primo Tomo raccolti da don Gianbattista Beretta Arciprete della suddetta chiesa”. Trascrizione effettuata da Giuseppe Ferrari (che me l’ha gentilmente fornita). Tomo I, parte II, fascicolo 25, carte 1-2 (corrispondenti alle pagine 29-30 della trascrizione di Ferrari) e 11-13 (pagine 39-41 della trascrizione); vedere regesto in appendice. D’ora in poi come APVM. Vedere appendice documentaria, doc. 5.

178 Dallo stesso modello deriva probabilmente l’Apostolo all’estrema sinistra dell’Assunzione su rame del Bononi oggi in Pinacoteca, ma soprattutto il servitore che Cristo incarica di occuparsi delle anfore nelle Nozze di Cana dello stesso Carlo. E' tuttavia più probabile che Avanzi si rifaccia al quadro di Mesola poichè il modello di Bononi, che mostra una torsione del busto verso l'esterno, presupporrebbe una capacità di rielaborazione dell'originale di cui Avanzi non si mostra mai capace. La sua figura infatti, come quella che porrà nell'Assunta di Villanova, presenta la stessa torsione del busto verso l'interno che mostra il San Marco giuliesco.

179 Si tratta della n. 098 e della n. 099 del Bartsch Illustrated, 70.03, Johan Sadeler I. Sono realizzate da quest’ultimo su disegni di Marten de Vos.

180 Vedere note (101), (102), (103).

181 RICCOMINI, Il Seicento, che la considera sovrapposta ad un Sant’Agostino, come pure GHELFI, Pittura,che però lo indica come modificato dopo il 1838. RIZZI, Arte, afferma che la santa Tecla è “aggiunta, non sostituita ad un Sant’Agostino, mentre Novelli ritiene correttamente insostenibile una semplice aggiunta “per inderogabili principi di equilibrio compositivo”, ma non concorda sull’attribuzione ad Avanzi della ridipintura (BRISIGHELLA, Descrizione, ed. 1991).

182 Scarsellino, Ultima Cena, Ravenna, chiesa di santa Maria degli Angeli. Ma non è dimostrabile che si trovi lì ab antiquo e quindi potrebbe esservi giunta più tardi da Ferrara (NOVELLI Scarsellino, scheda n. 126, p. 310.

183 NICOLO’ BARUFALDI, Annali, tomo II, c. 18.

184 BRISIGHELLA, Descrizione, ed. 1991, p. 136, nelle brevi note sulla storia dell’edificio redatte da M. A. Novelli che però dà il quadro come disperso.

185 RICCOMINI, Il Seicento, p.60.

186 ADFe, Arte dei Calegari, IF, anno 1703. Vedere Appendice documentaria, doc. 7.

187 G. BARUFFALDI, Vite, tomo II, p. 256, e come testimonia anche N. BARUFFALDI, Annali, tomo I, c. 109, che lo dice intento ad affrescare la chiesa di San Guglielmo in quell’anno.

188 Malizia dovuta alla polemica contro i “regolari” come Scanavini, sintetizzata da BARUFFALDI. Vite, tomo II, pp. 311-312: “Nell’Oratorio di s. Crispino dipinse un quadrone, grande quanto è tutta la facciata a fronte dell’altar maggiore, dimostrandovi il martirio dei ss. Crispino e Crispiniano istoriato con molte figure a cavallo, con qualche membro di architettura. Fra le altre cose scherzò egli artificiosamente nel dipingere un cane che mezzo coricato leccavasi in modo indecente, ed invero […] parve a molti cosa impropria. Fu ciò riferito al cardinal Dal Verme […] che gli incaricò che immediatamente dovesse cancellare quel cane […] ma non cancellò il cane, bensì fece sì che innanzi ad esso sorgesse un cespo d’erba che in parte il coprisse; così […] non per questo levò la caricatura che egli avea inteso di fare, ed era di simboleggiare i pittori […] i quali finivano, e come, diceva egli, leccavano le figure, e da lui leccardini erano chiamati”. Si coglie questa occasione per rendere noto il pagamento di detto quadro avvenuto il 2 Gennaio 1703, che implica la sua esecuzione negli ultimi mesi del 1702. ADFe, Arte dei Calegari, IF, anno 1703. Vedere Appendice documentaria,doc. 8. A. TORRESI, A proposito di Giuseppe Avanzi, pittore ferrarese tra Sei e Settecento, in La Pianura, 3/1999, p.67, riferisce che attraverso inediti documenti dell’ADFe è possibile apprendere che questo Martirio nel 1847 venne acquisito dalla Confraternita della Morte. Oggi è disperso.

189 S. BAVIERA, F, GOZZI, Considerazioni sull’arte di due arcipreti di San Biagio; Baviera – Baruffaldi, Cento,

166 2010, pp. 205-206.

190 Beni Artistici dell’Oltrepo mantovano, a cura di A. GARUTI, G. MARTINELLI BRAGLIA, Modena, 1992.

191 E non il Riposo durante la fuga come solitamente indicato, poiché qui si rappresenta il momento in cui Giuseppe nutre Gesù coi frutti miracolosamente avvicinatigli dalla pianta. E’ necessaria un po’ di immaginazione dato che nel dipinto non si vedono palme, né gli alberi mostrano di avere piegato le fronde come narra lo pseudo- Matteo, ed è Giuseppe a protendersi per cogliere l’uva (e non i datteri) dalla vite che cresce avvinghiata all’acacia. Ma l’età già avanzata del Bambino, che mostra di avere almeno un paio d’anni, e il gesto reso universale da Correggio ne Il Giorno, non lasciano spazio a dubbi.

192 Comunicazione scritta. Lo stesso Rezzaghi (al quale mi ha indirizzato l’attuale parroco di Poggio Rusco) mi informa che nemmeno presso l’Archivio Diocesano di Mantova ha reperito informazioni sui due quadri. Ma “ripassando le varie visite pastorali e rileggendo la storia della parrocchia” ipotizza che “questi quadri siano giunti alla chiesa grazie a don Girolamo Caprini, figura molto importante e carismatica” che fu parroco proprio a partire dal 1703 e fino al 1742.

193 Beni artistici, p.123.

194 E’ la n. 035 del Bartsch Illustrated, 72.01, Aegidius Sadeler II. E’ tratta da un disegno perduto di Bartholomeus Spranger.

195 Vedere nota 176. Va inoltre segnalato come egli non fosse l’unico pittore forestiero in città, che evidentemente continuava a funzionare come polo attrattivo. Lo prova la presenza di C. C. Avellino, messinese (BARUFFALDI, Vite, tomo II, p.222); di Ludovico Campalastri, “marchiano” e quindi marchigiano (SCALABRINI, Guida per la città a cura di G. FRONGIA, 1997, p.88); di Tommaso Capitanelli di Lugano (RIZZI, Arte, p.__); di Giandomenico Dalle Donne, fiorentino (BAROTTI Pitture, p. 94); di Carlo Griffini, cremonese (MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, pp.12, 84); di Orazio Mornasi, detto fiammingo (BRISIGHELLA, Descrizione, ed. 1991, p. 416) o avignonese (Rizzi, Arte, p__.); di Francesco Robbio, milanese (N. BARUFFALDI, Annali, tomo I c. 161) di cui nel duomo di Milano si trova La messa di Bolsena.

196 B. GIOVANNICCI VIGI, Giuseppe Zola, p. 26. Come la stessa Giovannucci sottolinea, è pressoché impossibile giungere ad una datazione precisa senza che esistano documenti relativi. Ma una commissione pubblica poteva essere risultato del crescente entusiasmo provocato dalla novità zoliana, e della sua crescente affermazione come pittore per case private abbienti.

197 A quelle ricordate in San Giovanni è probabile si possano aggiungere le perdute lunette del chiostro della chiesa della Croce, ricordate dal Brisighella stesso prima di cedere il manoscritto a Baruffaldi.

198 Per Avanzi costituiscono ancora il soggetto principale, mentre per Zola esse sono già solo un pretesto per animare la scena. Ma va ricordato che anche il ferrarese si dedicò al paesaggio “puro”, come testimoniano alcuni inventari antichi (Quadri da stimarsi, p. 39: due quadri con paesi, architetture e figurine in collezione Menini, e p. 137: i sette tondi, con paesi e boschi, in collezione Lollio Galvani).

199 L'idea è confrontabile con una soluzione più volte adottata da Zola, come ad esempio nel dipinto recentemente entrato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna.

200 La n.__ del Bartsch Illustrated, 70.0, Johan Sadeler I. E’ tratta da un dipinto di Friedrich Sustris.

201 RICCOMINI, Il Seicento, p. 60.

202 CITTADELLA, Catalogo, tomo IV, P. 62.

203 Fondazione Umberto Severi. Arte antica, a cura di J. BENTINI, Savignano sul Panaro, 1991. Mi riferisco ai dipinti n. 49 a p. 178, Pieter Mulier (cerchia), Nevicata con fuga in Egitto; e n. 55 a p. 190, Carlo A. Tavella (seguace), Paesaggio con ponte sotto alla neve. Oggi entrambi di collocazione ignota dopo la dispersione della collezione.

204 E’ la n. 144 del Bartsch Illustrated 70.01.

205 APVM, “Documenti”, Tomo I, parte II, fascicolo 25, carte 11-13 (pagine 39-41 della trascrizione). Vedere Appendice documentaria, doc. 6.

206 Vedere nota (180).

207 G. GRUPPIONI, Il restauro di un dipinto di Giuseppe Avanzi, in F. D. Bollettino della Ferrariae Decus, n. 16, 1999, pp. 70-72.

167 208 A. TORRESI, A proposito, pp. 66-68.

209 Scoperta a Sabbioncello una tela di Scarsellino, in Gazzetta Padana, 12 Luglio 1958.

210 A. TORRESI, A proposito, p. 66.

211 ADFe, Arte dei Calegari; IF, anno 1706. Vedere Appendice documentaria, doc 9. La data compare negli Annali di Nicolò Baruffaldi, alla carta 123 del II tomo (MAZZEI TRAINA, SCARDINO, Fughe, p. 90).

212 RICCOMINI, Il Settecento Ferrarese, Ferrara 1970, p. 39, corregge l’affermazione di Baruffaldi integrante BRISIGHELLA, Descrizione ed. 1991, pp. 223-224 circa la datazione dell’intero gruppo di opere di Parolini per San Crispino al 1711. Riccomini nota infatti che l’incisione tratta da Bolzoni da una delle due versioni del Martirio dei due santi è datata 1699 (come conferma la data segnata sul contratto in ADFe, Arte dei Calegari, 1F; anno 1699) ma sbaglia (seguito dalla Novelli nelle sue note a Brisighella) considerando le restanti tele (Disputa al Tempio, Presentazione al Tempio, e le quattro raffiguranti santi e beate, perdute) tutte del 1711. Se tale data è ora ascrivibile alle sole tele perdute (ADFe, Arte dei Calegari, IF, 1711), Disputa e Presentazione sono richieste e pagate nel 1706 (ADFe, Arte dei Calegari, IF, anno 1706 – vedere nota precedente).

213 B. GIOVANNUCCI VIGI, Schede settecentesche, in Musei Ferraresi, n. 18, 1978, p. 23.

214 Non a caso l’attribuzione del San Girolamo riportata da Lombardi verteva proprio nell’ambito di G. Parolini, T. LOMBARDI, I Francescani a Ferrara, vol. II, Bologna 1974, p. 114.

215 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 107.

216 RIZZI, Note ferraresi, p. 61, in Musei Ferraresi, n. 4, 1974.

217 GIOVANNUCCI VIGI, Giuseppe Avanzi, p. 69. E’ inoltre ipotizzabile che la composizione risenta dell’influenza della Predica di Sant’Antonio di Ludovico Carracci, oggi a Brera ma proveniente da Bologna, nella quale lo schema delle figure è simile.

218 Ibidem. L’incisione è qui resa nota dalla studiosa.

219 Scarsellino, scheda n. 196 p. 320.

220 Ma un tempo in San Giobbe a Ferrara, e comunque in città per secoli, fin quando non fu spostato con la vendita Costabili, come spiegato in Scarsellino, scheda n. 26.

221 Sotheby’s, Old Master Paintings, 5 giugno 2014, New York, lotto n. e.g.42.

222 TORRESI, Su un quadro dell’Avanzi a Fossanova San Marco, p. 59, in La Pianura, n. 2, 2006.

223 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 77 “Il San Marco […] così ben caricato in tutte le sue parti [..] è la più insigne opera mai colorita dal bizzarro Gioseffo Cremonese”.

224 MASSARENTI, La quadreria di San Cristoforo alla Certosa, p. 102, in Musei Ferraresi, n. 18, 1998.

225 BRISIGHELLA, Descrizione, p. 288 n. 22: “ De Juribus Confraternitatis S.S. Sacramenti Sub / Iussu V. R. Petri Antonimi Priori Licio a Joseph / Avantio Pictore Ferrariensis Anno….”.

168 Questo eBook è frutto di una collaborazione tra Comune di Ferrara e Liceo Scientifico “A. Roiti” di Ferrara.

ISBN 9788898786282 2017 Comune di Ferrara

Progetto grafico e realizzazione eBook a cura del Liceo Scientifico “A. Roiti” di Ferrara

169 Indice

Prefazione 4 Ferrara nel secondo Seicento, contesto storico - politico 5 Pittura a Ferrara nel secondo Seicento 8 Giuseppe Avanzi 13 Opere 29 Opere dubbie o rifiutate 59 Appendice iconografica al capitolo 2 69 Appendice iconografica al capitolo 3 87 Appendice documentaria 148 Bibliografia 152 Ringraziamenti 156

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