POLITICA E ISTITUZIONI

DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Anno Accademico 2012 / 2013

Prof. Fabio Marazzi

1 INDICE

Introduzione………………………………………………………………… pag. 4

1. Cenni storici………………………………………………………………… pag. 11

2. Carattere e struttura delle organizzazioni internazionali…………………... pag. 16

3. Disciplina e classificazione…………………………………………………. pag. 19

4. Caratteristiche delle organizzazioni non governative internazionali (ONG).. pag. 28

5. Ruolo, funzioni, efficacia delle organizzazioni internazionali……………. pag. 35

6 La globalizzazione alla luce delle forze globali…………………………… pag. 40

7. Multilateralismo e società internazionale………………………………….. pag. 43

7.1 ONG e sindacati……………………………………………………... pag. 47

7.2 ONG e Unione Europea……………………………………………… pag. 53

7.3 ONG e globalizzazione………………………………………………. pag. 64

8. Cooperazione internazionale allo sviluppo; cooperazione decentrata…… pag. 71

9. Il principio di condizionalità nel quadro della cooperazione allo sviluppo.. pag. 118

10. Organizzazioni intergovernative…………………………………………… pag. 127

10.1 Società Delle Nazioni ed ONU…………………………………….. pag. 127

10.1.1 La carta delle Nazioni Unite…………………………………. pag. 132

10.1.2 La “Responsibility to protect”……………………………… pag. 137

10.1.3 Interventi umanitari………………………………………….. pag. 140

10.1.4 Il dibattito sulle riforme delle Nazioni Unite……………….. pag. 156

2 10.2 WTO, FMI e BM: globalizzazione e scenari di politica economica.. pag. 190

10.3 Una riflessione: Nota su finanza e sviluppo del Pontificio consiglio della giustizia e della pace……………………………………………….. pag. 212

10.4 Nuovi modelli di sostegno finanziario basati su modelli sociali….. pag. 229

10.4 Unione Europea…………………………………………………..... pag. 240

11. Prospettive………………………………………………………………….. pag. 251

12. Organizzazioni non governative……………………………………………. pag. 254

12.1 Croce Rossa e mezzaluna Rossa…………………………………… pag. 254

12.2 Altre ONG………………………………………………………….. pag. 260

12.2.1 Greenpeace…………………………………………………… pag. 260

12.2.2 Unesco………………………………………………………... pag. 262

12.2.3 W.W.F………………………………………………………... pag. 266

12.2.4 Amnesty International………………………………………... pag. 271

13. Globalizzazione neoliberista e commercio equo e solidale……………….. pag. 275

13.1 Il commercio equo e solidale………………………………………. pag. 278

14. L’epoca del web 2.0: un nuovo ruolo per le ONG?...... pag. 307

15. Responsabilità sociale d’impresa e Global Compac Initiative……………... pag. 347

3 INTRODUZIONE

A partire dalla metà del XIX secolo, e ancor più dagli inizi del XX secolo, si nota a livello di rapporti internazionali, un improvviso proliferare, perlopiù sul continente europeo, di contatti tra singoli individui dei vari stati. A cosa questo fenomeno fosse dovuto, non è ben chiaro; alcuni come Stosic ed ancor prima Potter, in “An introduction to the Study of International Organizations”, sostengono che ciò avvenne per reazione dei singoli cittadini all’isolamento degli Stati, i cui unici contatti, quando si verificavano, erano di carattere strettamente politico. Altri, tra cui risalta la figura di J.J. Lador-Lederer, ricollegano la nascita di questi primi movimenti organizzativi privati, più che ad un fenomeno di reazione ad un eccessivo isolamento, ad un sentimento di ribellione verso uno Stato, qual era quello del XIX secolo che, proclamatosi sovrano assoluto e svincolatosi da qualsiasi superiore autorità, non riconosceva al singolo un diritto di azione in campo internazionale. Probabilmente, entrambe le tesi possono essere sufficienti a spiegare, da un punto di vista strettamente storico, la nascita, di associazioni private, ma, a mio parere, ancor prima di cercare motivazioni di tal tipo, ritengo importante porre in risalto l’aspetto sociologico del fenomeno. La tendenza dell’individuo ad associarsi con i suoi simili, rappresenta una costante di tutta l’evoluzione del genere umano: inizialmente ci si associava secondo un vincolo di sangue, poi di genti e poi di interessi. Le associazioni private del XIX secolo, sorte nell’ambito di un sistema istituzionalizzato ed organizzato, qual’era lo Stato democratico e “moderno”, nato dalle ceneri della Rivoluzione Francese, sono anch’esse fondamentalmente l’espressione del bisogno di individualità, che trova modo di palesarsi all’interno di una più grande organizzazione, lo Stato appunto, senza necessariamente doversi porre né in antitesi né in alternativa a questo, ma costituendo piuttosto il necessario complemento alla vita sociale del cittadino, il quale non più semplice suddito, diviene soggetto di libertà. Affermerei perciò, che le ONG sono l’espressione e lo strumento dell’individualità del singolo d’ogni epoca, che nel XIX secolo, all’interno della struttura del “nuovo” Stato, manifesta liberamente, in modo ormai organizzato, le proprie aspirazioni ed i propri ideali.

4 Da qui la nascita delle Organizzazioni Non Governative come formule di concretizzazione dei diritti individuali e come intermediarie tra le aspirazioni soprannazionali dei singoli, ostacolate dallo Stato sovrano e gli altri soggetti internazionali. Certo, qualunque sia la tesi che si voglia accogliere, vi è l’evidenza di un improvviso sviluppo, a partire dal XIX secolo, di Organizzazioni Non Governative, le quali con il tempo non hanno cessato di aumentare quantitativamente fino a diventare, oggi, uno degli elementi più importanti nelle relazioni internazionali ed a trovare legittimazione nella Carta delle Nazioni Unite. In tal modo si può essere d’accordo con Stosic quando afferma che “l’on peut dire que le XIXème siècle a été le siècle de l’associationisme“. Questo loro successo, dovuto principalmente ad una struttura organizzativa ed amministrativa molto più agile e perciò facilmente adattabile di quella delle Organizzazioni Governative o di altri organismi internazionali pubblici, il loro modo d’agire senza vincoli burocratici eccessivi ed ancor più la piena libertà d’espressione, sono tutti fattori che concorrono a renderle strumenti più efficaci, attraverso i quali i singoli possono esercitare pressioni, talvolta notevoli, sull’operato degli Stati, spingendoli sia a modificare situazioni pregiudizievoli dei diritti dell’individuo, sia ad adattare o adottare adeguati regolamenti e comportamenti, in sintonia con il rapido mutare della congiuntura internazionale a qualunque livello politico, economico o sociale. L’espressione ONG è stata introdotta per la prima volta in un trattato internazionale dall’articolo 71 della Carta delle Nazioni Unite, che prevede la possibilità del Consiglio Economico e Sociale di consultare “organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza”. Una ONG è un’organizzazione indipendente dai governi e dalle loro politiche, caratterizzata da due elementi principali: il carattere privato, non governativo, e la totale mancanza di scopi lucrativi. La Risoluzione delle Nazioni Unite 1996/31 del 25 luglio 1996 ne dà una definizione: “…è considerata come un’organizzazione non governativa una organizzazione che non è stata costituita da una entità pubblica o da un accordo intergovernativo, anche se essa accetta membri designati dalle autorità pubbliche ma a condizione che la presenza di tali membri non nuocia alla sua libertà di espressione”.

5 Le organizzazioni non governative sono una componente vitale della società europea, garantiscono libertà di espressione e di associazione, elementi fondamentali della democrazia. Le ONG svolgono un ruolo chiave all’interno del Consiglio d’Europa. Il Consiglio riconosce l’influenza delle ONG già dal 1952 permettendo a queste organizzazioni di acquisire lo status consultivo e prendere così parte alle attività promosse dal Consiglio stesso. Le regole della cooperazione tra Consiglio e ONG sono stabilite dalla Risoluzione del Comitato dei Ministri 38 del 1993. Recentemente quest’ultima risoluzione è stata sostituita dalla Risoluzione del Comitato dei Ministri 8 del 2003 relativa allo status partecipatorio. A tutte le ONG che godevano dello status consultivo è garantito automaticamente lo status partecipatorio.

Il dialogo che il Consiglio d’Europa ha instaurato con le ONG ha lo scopo di: − conoscere il punto di vista e le aspirazioni dei cittadini europei − provvedere ad una diretta rappresentanza di questi ultimi − pubblicizzare le loro iniziative attraverso queste associazioni che attualmente sono 374. Per ottenere lo status di partecipante le organizzazioni non governative devono condividere gli obiettivi del Consiglio d’Europa e contribuire al loro raggiungimento e devono avere carattere internazionale e rappresentativo, sia dal punto di vista geografico che da quello delle attività, con una direzione permanente, una struttura organizzata e un segretariato. Il Consiglio coopera con le ONG in tutte le sue istituzioni: con il Comitato dei Ministri, l’Assemblea Parlamentare, il Congresso dei Poteri Locali e Regionali d’Europa all’interno dei loro programmi di attività. Questa cooperazione ha diverse forme: dalla semplice consultazione alla collaborazione in progetti specifici. Gli esperti delle ONG possono infatti partecipare in diversi studi, possono contribuire al lavoro dei comitati ad hoc, possono preparare memoranda per il Segretario Generale, presentare comunicazioni scritte o orali all’Assemblea Parlamentare e al Congresso dei Poteri Locali e Regionali d’Europa. A loro volta le ONG riportano i progetti e gli obiettivi del Consiglio d’Europa nel proprio ambito d’azione.

6 Le ONG con status di partecipante si occupano di specifiche aree: i diritti umani, l’educazione e la cultura, la Carta Sociale Europea e le politiche sociali, il dialogo e la solidarietà tra nord e sud, la società civile nella nuova Europa, lo sviluppo, la salute, le pari opportunità, la povertà e la coesione sociale. Il Consiglio prevede una struttura di tipo permanente per la cooperazione con le ONG internazionali. Nel 1976 è stato istituito il Comitato Liaison, composto da 25 membri, che si riunisce tre volte l’anno ed ha la funzione di tenere le relazioni con il Segretariato Generale, monitorare le ONG occupate in aree specifiche, preparare la Conferenza Plenaria e un programma di lavoro, incoraggiare le ONG a cooperare con il Consiglio d’Europa e a pubblicizzare il suo lavoro. Affianco al Comitato Liaison è prevista una Conferenza Plenaria annuale delle ONG alla quale partecipano tutte le ONG con status di partecipante, decisa in linea generale per i suoi obiettivi dal Comitato Liaison. Le ONG sono state coinvolte dal Consiglio nella preparazione di molte carte e convenzioni come ad esempio la Convenzione europea per la prevenzione alla tortura, la Convenzione culturale europea, la Carta europea per le minoranze regionali e linguistiche e la Convenzione europea per il riconoscimento della personalità legale delle organizzazioni non governative internazionali. Le ONG svolgono inoltre tre importanti funzioni all’interno del Consiglio. - Forniscono useful advices (consigli, pareri utili) o rappresentano individui o gruppi che si rivolgono alla Corte europea dei diritti umani; in alcuni casi le ONG possono essere invitate a fornire informazioni alla Corte per contribuire alla risoluzione del caso. Le ONG mandano inoltre regolarmente informazioni sulle condizioni delle carceri e dei detenuti al Comitato europeo per la prevenzione alla tortura. Le ONG hanno un ruolo importante nella promozione della firma e della ratifica della Convenzione europea per il riconoscimento della personalità legale delle organizzazioni non governative, che è l’unico strumento normativo internazionale in atto relativo a queste organizzazioni ed è un documento vitale per regolare l’operato delle ONG in tutta l’Europa. - Le ONG mobilizzano l’opinione pubblica, giocando un ruolo chiave nella Campagna europea del Consiglio d’Europa sull’interdipendenza e la solidarietà tra nord e sud, contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, contro la povertà e l’esclusione sociale e per l’Anno europeo delle lingue. La missione principale del consiglio d’Europa è quella di promuovere

7 i diritti umani e le libertà fondamentali e le ONG svolgono un ruolo essenziale informando i cittadini dei propri diritti e controllando che essi vengano rispettati. Il Consiglio è perciò costantemente in contatto con l’opinione pubblica attraverso i network di ONG. - Le ONG hanno un ruolo decisivo nello sviluppo democratico. Dal 1990 il Consiglio d’Europa ha moltiplicato i suoi contatti con le ONG nell’Europa centrale e orientale dove queste ultime rappresentano un momento cruciale nella costituzione della società democratica basata sui diritti umani e sullo Stato di diritto. Il Consiglio e le ONG che godono dello status di partecipante continuano ad organizzare attività nell’ambito dell’assistenza ai programmi delle ONG. Tra le ONG che hanno lo status consultivo nel Consiglio d’Europa, 90 rientrano nel gruppo che si occupa dell’educazione e della cultura e che ha perciò contatti con il Directorate dell’educazione. Questo gruppo di ONG ha adottato un metodo di lavoro che coinvolge comitati ad hoc che si occupano dei progetti del Consiglio. Questi comitati, attualmente 4 (per l’insegnamento della storia nel XX secolo, per l’EDC, per l’educazione nei media e per la cultura), interagiscono con le ONG creando una stretta collaborazione tra Consiglio e ONG. Vista la complessità degli aspetti educativi spesso è necessario il contatto con ONG appartenenti ad altri ambiti e con altri Directorate quali i diritti umani, la coesione sociale, i rapporti tra nord e sud, la società civile in Europa. Anche nei documenti scelti ci sono frequenti riferimenti all’importanza del coinvolgimento delle ONG nell’ambito educativo e del rafforzamento delle relazioni tra queste ultime e il Consiglio d’Europa. Nella parte conclusiva della Raccomandazione 1346 del 1997 riguardante l’educazione ai diritti umani, l’Assemblea Parlamentare raccomanda al Comitato dei Ministri di considerare l’educazione ai diritti umani come una priorità del lavoro intergovernativo del Consiglio d’Europa negli anni avvenire attraverso lo studio delle cause del razzismo, la creazione di un database contenente materiale educativo, la promozione “del contributo a questo processo dato dal Congresso delle Autorità Locali e Regionali in Europa e delle organizzazioni non governative;…”. La stessa Assemblea, nella Raccomandazione 1401 del 1999, sprona i governi degli stati membri ad incoraggiare un clima positivo di rispetto delle culture e di partecipazione democratica, attraverso le Università e le ONG; e anche al termine del testo sostiene che a

8 livello internazionale è importante la collaborazione con l’Unione Europea, le Nazioni Unite, l’Unesco e le ONG. La Raccomandazione e Dichiarazione del Comitato dei Ministri del 1999 in tema di educazione alla cittadinanza democratica basata sui diritti e sulle responsabilità, sostiene l’importanza dello studio della democrazia all’interno della vita scolastica e universitaria e perché ciò avvenga sprona alla collaborazione tra istituti educativi, comunità locali, organizzazioni non governative e autorità politiche. Inoltre la raccomandazione comprende il programma per la cittadinanza democratica, programma che si articola in tre attività principali, policy-making, research and collection, training and awareness-raising; nella seconda di queste attività, quella di ricerca, si parla di sviluppo dell’educazione alla cittadinanza democratica in collaborazione con le ONG. Nel paragrafo conclusivo della Dichiarazione si indicano i metodi di lavoro da utilizzare e in questo senso si invita alla cooperazione con altre organizzazioni internazionali attive nell’educazione alla cittadinanza. La Raccomandazione 1437 del 2000 trattando l’educazione non formale insiste particolarmente sull’importanza del ruolo delle ONG. Il processo di educazione non formale si manifesta attraverso diversi tipi di iniziative, tra queste un ruolo importante è svolto dalle ONG coinvolte nella comunità; per questo motivo l’Assemblea incoraggia tutti coloro che prenderanno parte allo sviluppo di politiche educative a riconoscere l’educazione non formale come parte essenziale del processo educativo e a riconoscere, all’interno di questa, il contributo dato dalle ONG. In questo senso i governi sono incoraggiati a supportare finanziariamente le attività educative non formali attraverso, per esempio, la riduzione delle tasse delle ONG, e a migliorare la formazione degli insegnanti e degli educatori dell’educazione non formale in collaborazione con le ONG, in particolare quelle interessate ai giovani. In questo momento, per la prima volta, si specifica una particolare categoria di ONG, le ONG che trattano questioni relative ai giovani. Nell’appendice della Raccomandazione 6 del 2002 in tema di politiche e educazione superiore nel corso della vita si sostiene che i governi devono promuovere la cultura nel corso della vita in accordo con il principio di sussidiarietà, e perciò “in collaborazione con gli istituti di educazione superiore, con le reti dei professionisti, con i partner sociali, con le organizzazioni non governative, con le autorità locali e con gli individui”.

9 Qualche breve cenno ora sulla nascita dell’espressione “ONG”. Il termine, divenuto d’uso comune dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha sostituito l’espressione “Associazioni Internazionali Private” o in inglese, “Private International Organizations” ed ha assunto ufficialità a seguito della inserzione nella Carta delle Nazioni Unite all’art. 71. A tale proposito bisogna anche ricordare che a tutt’oggi esso non è universalmente accettato; ad esempio Geroges Langord ritiene incorretta questa definizione allorché si parli di associazioni a composizione mista mezza pubblica e mezza privata. Ma a prescindere da questioni puramente terminologiche, và ricordato che è stato proprio con l’art. 71 della Carta delle N.U. che ha ricevuto ufficialità l’abbreviazione ONG, già in precedenza utilizzata dalla Union des Associations Internationales (UAI) ed oggi universalmente riconosciuta, così come risulta anche dalla lettura della “European convention on the recognition of the legal personality of international non-govermental organizations”, redatta a Strasburgo il 24 Aprile 1986.

10 1. CENNI STORICI

Nell’analizzare la genesi e lo sviluppo delle ONG, ciò che subito risulta evidente è che esse appaiono sulla scena internazionale non prima del secolo scorso, che tali associazioni private internazionali sorgono per la maggior parte in territori ove il protestantesimo ha forti radici, che infine vi sono fattori storici quali la guerra o le esposizioni internazionali che potrebbero avere avuto notevole influenza sulla loro improvvisa ed enorme crescita. Qui si cercherà di fare una breve esposizione di tutti questi elementi, in modo da poter collocare un fenomeno tanto importante, qual è quello delle ONG, in un corretto contesto storico. Iniziamo con il cercare di cogliere le motivazioni che spinsero i singoli, in un determinato momento del secolo scorso, a riunirsi in gruppi organizzati. L’afflusso di nuove ricchezze, dovuto al progresso tecnico e alla scoperta di enormi e nuove quantità di energia, nel XVIII e XIX secolo, causò un grosso sviluppo delle relazioni internazionali, soprattutto a partire dal 1815, attraverso la forma delle associazioni private. Si potrebbe affermare che la prima apparizione di ONG risalga ad un periodo precedente a questa data, anche se fu proprio nel 1815 che si tenne a Ginevra il “Congresso di Scienze Fisiche e Naturali”, primo simposio internazionale organizzato da soggetti non governativi di cui si abbiano informazioni precise; secondo la UAI, ad esempio, la più antica ONG potrebbe essere stata la “Roscrucian Order”, che ebbe origine in Egitto attorno al 1500; Stosic ricorda poi le riunioni di filosofi e saggi nel Medio Evo ed il Congresso Medico che si svolse a Roma dal 10 Marzo 1681 all’8 Giugno 1682, ma di tutti questi primi fenomeni associativi organizzati a livello internazionale, non vi sono dati certi. Fu nel XIX secolo invece che nacquero le prime ONG. Infatti poiché gli Stati non riuscivano a seguire il ritmo di sviluppo che la civilizzazione industriale stava imponendo, furono sostituiti in questo compito di adattamento ai “nuovi tempi”, dall’iniziativa privata e dal capitalismo, sui quali quella si fondava, che esigendo forme di coordinamento agili, veloci e non burocratizzate, favorirono la nascita delle prime associazioni internazionali. Esse inizialmente si moltiplicarono sul piano dell’azione economica, ciò proprio per l’esigenza di espansione commerciale propria di quell’epoca, nella quale un gran numero di

11 società di commercio assunsero carattere internazionale grazie all’ampiezza dei propri traffici. Si è parlato fin qui di questo improvviso sorgere di ONG e si è cercato di dare una ragione ravvisandola nella nascita del capitalismo “moderno” borghese, ma allorché si esaminino i luoghi ove tali contatti si svilupparono, si nota che essi si trovano perlopiù in paesi protestanti. Secondo Stosic questo sarebbe dovuto alla ricerca di un elemento soprannazionale comune da parte degli Stati protestanti, i quali, assimilando i principi della Riforma si erano allontanati dall’unico elemento che li teneva uniti: la fede in un'unica chiesa che si trasformò allora nella necessità di instaurare comuni relazioni internazionali in settori come la scienza, la legislazione, la cultura. Certo, sia che si condivida tale tesi, o meno, e personalmente mi sembra valida dato il facile riscontro che può avere nei fatti, le prime ONG sorsero in paesi protestanti: ad esempio la British and Foreign Anti-Slavery Society a Londra nel 1823 o la “World’s Evangelical Alliance” in Inghilterra nel 1846 o il “Comité International de la Croix Rouge” fondato a Ginevra nel 1863.

Altro fattore la cui influenza è importante nello studio della genesi delle ONG, è la guerra. In coincidenza di ogni conflitto, a partire dal 1870, si nota come l’attività delle ONG si riduca notevolmente e come talvolta sia proprio durante questi momenti di crisi che alcune ONG scompaiono, ma ancor più come, proprio per reazione alle atrocità dei conflitti, siano sorte le più importanti associazioni private: all’indomani della guerra del 1870-71 sorge L’Institut de Droit International, in Belgio e contemporaneamente nasce a Londra l’International Law Association, anche se l’esempio più significativo a favore di questo rapporto causa-effetto tra genesi delle ONG ed eventi bellici, è dato dalla fondazione nel 1863 del Comitato Internazionale della Croce Rossa per iniziativa di Henry Dunant, dopo che costui era rimasto profondamente colpito dalle atroci sofferenze dei soldati feriti nella battaglia di Solferino. Dunant, ottenuto l’appoggio della “Geneva Society for the protection of Public Interests”, organismo privato, e dopo essersi presentato al “International Statistic Congress” di Berlino del 1863, riuscì a persuadere i Governi ad interessarsi ai suoi progetti ed a trasformarli in regolamenti, a riprova anche di quanto possa essere fondamentale l’iniziativa privata.

12 Per venire a tempi a noi più vicini, va detto che il momento più difficile per la vita e la sopravvivenza della ONG fu durante la Seconda Guerra Mondiale; infatti, se negli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto si può notare come nei paesi dominati dall’ideologia fascista, dove si trovavano molte delle maggiori ONG, queste venissero lasciate libere di svolgere i propri compiti solo se in linea con l’ideologia del regime, in particolar modo in Germania, con il deflagrare del conflitto, si rileva una quasi completa inattività ufficiale di esse, sebbene la lotta anti-fascista clandestina abbia trovato aiuti proprio in alcune ONG.

L’ultimo fattore storico che resta da esaminare è stato rilevato ed analizzato da Stosic nel suo lavoro sulle ONG; la coincidenza tra le grandi esposizioni internazionali e la nascita delle ONG. Se tale fenomeno sia una coincidenza o meno è difficile dire. E’ vero che, ad esempio, l’istituto internazionale delle Casse di Risparmio, nacque in seguito a determinate esigenze manifestate dai conferenzieri durante il primo Congresso Mondiale del Risparmio, tenuto a Milano nel 1924, ma è altresì vero che affermare categoricamente, così come fa lo Stosic, che vi è un evidente ed inscindibile rapporto causa-effetto tra congressi od esposizioni e nascita di associazioni non governative, è forse eccessivo. Direi che le aspirazioni di cambiamento, non soddisfatte dai rispettivi governi, espresse dai privati, che dovevano far fronte ad improvvisi e profondi mutamenti dettati dall’avvento della Rivoluzione Industriale, da una conseguente espansione dei mercati e dalla diffusione di nuove idee, possono essere elementi più che sufficienti a spiegare un’improvvisa proliferazione, nel secolo scorso, di ONG in tutta Europa, senza dover giustificare il fenomeno adducendo una improbabile concomitanza causale tra congressi e sorgere di associazioni private. Mi sembrerebbe più corretto, da un punto di vista storico, affermare che nei congressi, non tanto prendevano corpo all’improvviso le esigenze individuali, ma quanto sostenere che essi erano le sedi, di maggior risonanza, nelle quali tali necessità, da tempo presenti, altro non ricevevano che il sigillo dell’ufficialità, essendo così più una conseguenza che non la causa della nascita delle ONG.

13 Certo, analizzando il grafico che Stosic riporta si nota che in concomitanza con la prima delle grandi esposizioni internazionali, quella di Parigi del 1867, furono istituite quattro ONG , e, dato ancor più significativo, si tennero tredici congressi internazionali.

Lo stesso elevato numero di congressi e di nuove ONG lo si rileva in coincidenza della Esposizione di Filadelfia del 1876, di Parigi del 1878, 1889 e 1900 e così fino a quella di Bruxelles del 1910, ma il dato non mi sembra vada interpretato così come fa Stosic. Comunque a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale tale fenomeno è meno evidente, poiché con la creazione della Società delle Nazioni e ancora delle Nazioni Unite, le relazioni internazionali e con esse le ONG trovarono luoghi appositamente deputati allo sviluppo dei contatti e delle relazioni internazionali. Anche se va detto che la carta della Società delle Nazioni non conteneva alcun riferimento esplicito ad ONG o ad associazioni private, mentre con la nascita delle Nazioni Unite è stata definitivamente ufficializzata l’importanza dell’operato dei privati, riconoscendo alle associazioni attraverso le quali essi esprimono le proprie idee, lo status consultivo presso il Consiglio Economico e Sociale. Infatti l’art. 71 della Carta recita:

“Le Conseil économique et social peut prendre toutes dispositions utiles pour consulter les organisations non gouvernementales qui s’occupent de questions relevant de sa compétence. Ces dispositions peuvent s’appliquer à des organisations internationales et, s’il y a des organisations nationales après consultation de Membre intéressé de l’Organisation »

In forza di tale previsione esplicita le ONG hanno avuto un notevole sviluppo negli ultimi quaranta anni grazie allo statuto consultivo loro riconosciuto anche presso organizzazioni specializzate o presso organizzazioni intergovernative non facenti parte delle Nazioni Unite, come il Consiglio d’Europa che nel 1986 ha redatto un’apposita convenzione disciplinante lo status delle ONG.

14 A conclusione di questa breve analisi della genesi storica delle ONG, ciò che si può rilevare è innanzitutto la crescente importanza, quantitativa e qualitativa, che esse hanno assunto con il passare del tempo, dalla prima associazione privata del 1815 fino al riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa e la notevole influenza che hanno avuto ed hanno, sulla vita di tutta la società internazionale. In particolar modo è evidente come la loro presenza sia divenuta sempre più necessaria dal momento in cui è stato loro riconosciuto lo status consultivo presso vari organismi ufficiali. Ed è qui che è maggiore il contributo che esse possono dare, in quanto non solo più vicine ed attente ai problemi della gente e libere da vincoli burocratici, ma anche perché assemblee di eminenti esperti spinti ad aderire ad una o all’altra associazione solo quando la propria volontà ed i propri ideali siano coincidenti con quelli dell’organizzazione.

15 2. CARATTERE E STRUTTURA DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Innanzitutto va detto cosa s’intenda per Organizzazione Internazionale Non-Governativa e a questo proposito sembra che la definizione migliore sia quella data da Benvenuti, nell’enciclopedia del diritto, allorché afferma che:

“con l’espressione organizzazioni internazionali non-governative si vuole indicare quella vita associativa e di collaborazione che può sorgere tra individui o entità che sono subordinati alla potestà di differenti Stati, vita associativa che non ha regole di funzionamento indipendenti, ma che concretamente dovrà modellarsi secondo le forme giuridiche previste o permesse dai diritti degli Stati nell’ambito dei quali nasce o è destinata a svolgersi”.

In questa definizione è racchiuso non solo un chiaro concetto di ONG, tale da permettere facilmente una distinzione tra queste associazioni “private” e le cosiddette Organizzazioni Internazionali Governative (OIG), ma che da essa scaturisce anche gran parte della problematica che le ONG pongono, allorché si inizi a studiarne il funzionamento pratico nell’ambito delle relazioni internazionali, cioè la questione della loro personalità giuridica, dell’ordinamento dal quale dipendono e ricevono formale riconoscimento e della scelta della struttura organizzativa che possono darsi, la quale non è vincolante, proprio perché esse sono libere da qualsiasi regola prestabilita di funzionamento. Vorrei premettere che allorché si parla di ONG e se ne dà una definizione quale quella di Benvenuti, sopra riportata, vengono alla mente organizzazioni trans-nazionali quali il Rotare o la Massoneria o movimenti politici come l’Internazionale Socialista, l’Internazionale Democristiana o qualsiasi altro gruppo ideologico di portata internazionale e che tenga periodiche riunioni. Su queste organizzazioni, che secondo me rientrano nella categoria delle ONG, anche esaminandole alla luce dei requisiti richiesti dall’UAI, dei quali poi si parlerà, non esiste concomitanza di pareri e perciò non se ne parlerà oltre, anche se ritengo, e vorrei ribadirlo ancora una volta, che esse siano ONG, non fosse altro che per quella caratteristica tipica e

16 universalmente riconosciuta, che è l’assenza di qualsiasi scopo di lucro. Mentre, e qui i pareri sono unanimi, le multinazionali, proprio perché orientate a creare profitti, non sono ONG.

L’esame della vita delle ONG inizia dalla struttura. Non ne esiste una uguale per tutte le organizzazioni, se non altro per i differenti fini che esse perseguono o più ancora per l’influenza che ogni ordinamento statale interno ha su di esse, tuttavia nei sistemi di organizzazione delle ONG regnano certe regole d’esperienza comune ed inoltre, la loro natura associativa le porta ad essere simili nei modi di svolgere la propria attività. Emerge in primo luogo che vi sono basilarmente tre organi deputati alla regolamentazione della vita dell’associazione: un organo rappresentativo, con poteri più ampi, un organo rappresentativo più ristretto con funzioni esecutive ed infine un organo burocratico, solitamente denominato “segretariato” con compiti burocratici. Tali organi sono generalmente: l’Assemblea Generale, il Consiglio d’Amministrazione, il Comitato Esecutivo, il Presidente, il Segretario Generale e talora un Tesoriere. L’Assemblea Generale è l’organo supremo della ONG, con i poteri più ampi tra cui quello di modificare lo statuto, definire le linee di attività dell’organizzazione, statuire la composizione e la competenza di tutti gli altri organi che ad essa renderanno conto del proprio operato e proclamare l’estinzione dell’organizzazione. L’Assemblea può essere composta o da tutti i membri della organizzazione o da membri scelti a rotazione, di solito mediante elezione e si riunisce ad intervalli regolari, a meno che non vi sia urgenza di sessioni straordinarie. Vi è poi il Consiglio d’Amministrazione, un corpo assai vasto e rappresentativo che comprende rappresentanti eletti dall’Assemblea tra le nazioni componenti la ONG; ad esso spettano solitamente la nomina dei membri del Comitato Esecutivo e delle commissioni tecniche, la fissazione delle date di riunione dell’Assemblea, l’approvazione dell’ammissione di nuovi membri e la ratificazione del bilancio annuale. Terzo organo è il Comitato esecutivo che nelle piccole ONG assume le veci anche del Consiglio d’Amministrazione, pur essendo i membri del Comitato di gran lunga meno numerosi di quelli del Consiglio.

17 Esso è nominato o dall’Assemblea o dal Consiglio, e nelle ONG dove il Tesoriere non costituisce organo autonomo, esso è ricompreso nel Comitato, di cui fa parte anche il Vice- Presidente. I poteri del Comitato sono generalmente abbastanza limitati e si esplicano nell’adottare decisioni in materie urgenti, verificare l’esatta applicazione delle decisioni del Consiglio e nel controllare l’attività del Segretariato. Il Presidente, eletto dall’Assemblea per i propri meriti e le proprie qualità, è colui che rappresenta l’organizzazione e nel caso delle ONG “en l’air” di cui si parlerà più avanti, è attraverso la sua persona che si determina talvolta ove si situi la sede dell’organizzazione. Talora, come nel caso dell’Istituto Internazionale delle Casse di Risparmio (2), egli è anche Presidente del Consiglio d’Amministrazione e del Comitato Esecutivo; ha comunque generalmente poteri di supervisione su tutta l’attività dell’ente; la carica è predeterminata nello Statuto ed è solitamente di durata pari all’intervallo tra due Assemblee generali ed egli può quasi sempre essere rieletto. Infine vi è il Segretario, la cui funzione non è meno importante di quella del Consiglio e per il quale le qualità personali sono tanto importanti quanto per il Presidente: egli dirige l’attività quotidiana dell’organizzazione, esegue le delibere dell’Assemblea, del Consiglio e del Comitato e prepara i rapporti periodici o annuali. Va detto, per dare un quadro completo della struttura tipica delle ONG, che talora vi è anche il Bureau: organo esecutivo assai ristretto composto da un presidente, un vice-presidente ed un segretario generale, che svolge compiti di routine quotidiana.

18 3. DISCIPLINA E CLASSIFICAZIONE

Caratteristica principale di qualsiasi ONG è quella di vivere ed operare, a differenza delle Organizzazioni Internazionali Inter-Governative, sotto l’impero del diritto interno dello Stato nel quale abbia la propria sede ed essere perciò considerata formalmente una semplice associazione di diritto interno anche se i frequenti contatti con ordinamenti giuridici statali diversi da quello di appartenenza, la rendono sostanzialmente un’associazione di livello internazionale. Il fatto di essere perciò legate a quello che Benvenuti definisce “il guscio della sovranità statale” crea il problema della scelta della legge applicabile al vincolo associativo ed agli atti posti in essere dalla ONG nell’esercizio dei propri compiti. Per quanto riguarda la legislazione italiana, con riguardo alla regolamentazione del contenuto degli statuti delle ONG, alla loro attività e alla responsabilità degli amministratori, bisogna far riferimento all’art. 17 (1) disp. Prel. Ove si richiama, come legge regolatrice, quella dello Stato che ne abbia riconosciuta la nazionalità. Talora però può capitare che l’organizzazione sia stata riconosciuta in più Stati; dovrà allora preferirsi lo Stato con il quale esistono i legami più forti, ad esempio ove abbia la sede principale l’organizzazione stessa. Può anche capitare però che nessuno Stato abbia riconosciuto la nazionalità alla ONG; in questo caso si applicherà il criterio sussidiario dello Stato presso il quale la ONG ha la propria sede; questo sempre per quanto riguarda il sistema di diritto internazionale privato italiano, così come risulta dall’esame congiunto degli art. 29 disp. Prel. e 46 C.C. Vanno poi ricordate quelle che vengono definite ONG “en l’air”, cioè quelle organizzazioni che di propria scelta rifiutano qualsiasi vincolo con ogni Stato, così da poter mantenere la propria autonomia ed indipendenza; un esempio di tal tipo è l’Institut de Droit International” per il quale l’art. 11 dello Statuto espressamente prevede che la sede coincida con il domicilio del segretario generale: in via di massima esistono principalmente tre tipi di ONG “en l’air”: 1. quelle che cambiano sede con il mutare del presidente; 2. quelle che adottano un principio di rotazione periodica della sede; 3. quelle che hanno sedi disseminate in vari paesi.

19 Si vede perciò che il problema della natura giuridica delle ONG è abbastanza complesso: esse dipendono perlopiù dal paese temporaneamente o permanentemente ospitante anche nelle modalità di regolamentazione della vita dell’organizzazione. La maggior parte degli autori, sin dagli anni ’50, sono stati d’accordo nel prospettare essenzialmente due tipi di soluzioni: o una modificazione delle legislazioni nazionali in tema di regolamentazione delle associazioni, o la redazione di una convenzione internazionale che assicuri degli standard minimi in base ai quali definire, riconoscere e regolare giuridicamente una ONG. Adottando la prima delle due soluzioni, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di ottenere, da parte degli Stati, maggiori facilità nel riconoscimento della personalità giuridica delle ONG costituite all’estero: il problema non è certo semplice poiché vi sono ONG in ogni angolo della Terra e soggette ad ordinamenti giuridici di diversa ispirazione. Ma quand’anche si giungesse ad una prospettiva di accordo, rimarrebbe la questione della delimitazione di compiti tra organizzazioni internazionali private ed organi dello Stato dove la ONG è stata riconosciuta. Ricomparirebbe allora la discrezionalità delle singole legislazioni che cercherebbero di non cedere troppe delle proprie esclusive competenze ai privati.

Per il momento perciò, la scelta per una ONG è tra lo stabilire la propria sede in un determinato Stato e da questo ottenere il riconoscimento adeguandosi alla particolare legislazione in esso vigente, o, così come fanno le ONG “en l’air”, restare indipendenti senza alcun rischio d’essere sottomesse ad alcun ordinamento statale. Sembrerebbe che la situazione di queste ultime sia molto meno favorevole di quelle che potremmo definire “permanenti” non solo per l’assenza di qualsiasi riconoscimento giuridico e per l’aspetto patrimoniale, ma anche per le indubbie scomodità che comporta un continuo mutare di sede e luoghi di riunioni. E’ altresì vero che le ONG stabilitesi in un determinato Paese, con il fatto stesso di porsi all’interno dell’ordinamento giuridico dello Stato ospite, perdono parte della loro autonomia e del loro carattere internazionale. Il problema comunque è oggi meno drammatico di quanto possa sembrare poiché, proprio l’accresciuta importanza delle ONG in questi ultimi quaranta anni, ha creato condizioni tali

20 da impedire in ogni paese, ad eccezione di quelle del blocco comunista, che esse siano soggette esclusivamente alla volontà dello Stato ospitante. Agli inizi del 900 parve che una soluzione potesse essere trovata mediante l’utilizzazione dello strumento della convenzione. In quegli anni infatti, furono elaborate varie convenzioni internazionali, ritenendo che questa fosse la via più adatta a porre le basi di una legislazione uniforme, di cui potesse esserne garantita l’esatta applicazione ed osservanza. Vanno ricordati qui soprattutto i primi due congressi che si occuparono di proporre una definizione dello status giuridico delle ONG e ancor prima di fornire criteri validi in base ai quali poter classificare come tale una organizzazione internazionale: il congresso delle Associazioni internazionali di Bruxelles, nel 1910 e quello di Mons del 1913, i cui risultati furono deludenti. Ma ancor prima di decidere quale carattere giuridico dare ad un ONG, e la controversia, abbiamo visto è ancora aperta, si pone il problema di stabilire in base a quali criteri definire e riconoscere come ONG una qualsiasi associazione privata. Come vedremo i criteri proposti sono molti e diversi: Alcuni, come quelli elaborati da Speeckaert e in parte anche quelli di Stosic, sono di scarsa utilità e fanno riferimento al tipo di attività svolta dall’organizzazione; altri, tra cui quelli proposti dall’UAI ed elaborati successivamente dal Consiglio economico e Sociale delle Nazioni Unite, parzialmente ripresi anche dal Consiglio d’Europa, sono abbastanza validi, pur se soggetti, come qualsiasi criterio di classificazione, a divenire con il tempo sempre più indefiniti: utilizzabili perciò in via analogica, od obsoleti se applicati restrittivamente e rigidamente. Accennare brevemente, come qui sarà necessario fare, ai criteri di classificazione in varie categorie delle ONG che operano a livello internazionale, non è affatto semplice, in primo luogo per l’elevato numero e la diversità dei compiti di tali organismi: a riprova di ciò è sufficiente esaminare l’annuario dell’UAI ove si possono trovare migliaia di ONG classificate sotto le più diverse voci corrispondenti al campo di attività in cui operano (ad esempio vi sono ONG tessili, chimiche, farmaceutiche, legislative fino a giungere perfino alla ONG internazionale dei cuochi). Il fatto poi, che non sia stato ancora formulato un criterio universalmente valido di classificazione in relazione all’attività svolta, pur essendo state molte le proposte da parte

21 dei più autorevoli studiosi, rende ancora più arduo stabilire quale sia il metodo da usarsi e limita l’indagine ad una sommaria esposizione delle teorie fino ad oggi avanzate.

Una delle prime è stata quella elaborata da G.P. Speeckaert in “L’Avenir des Organisations internationales non Gouvernementales”. L’autore, basandosi sul criterio degli “objets généraux d’activité”, ha classificato le ONG in sei gruppi a seconda che perseguano uno scopo: ideologico scientifico di miglioramento sociale, economico o tecnico di organizzazione di interesse professionale di relazioni tra i popoli.

Questo criterio, a mio avviso, sembra abbastanza generico innanzitutto perché prescinde dal contesto legislativo particolare dello Stato nel quale ogni ONG, con sede permanente, è posta, poi perché le sei categorie sono generiche e non idonee ad una chiara sistematica di tipo funzionale. Per rimediare alla mancanza di metodo, Stosic ha proposto di raggruppare le ONG in tre categorie fondamentali: quelle che svolgono attività ideologica o missionaria; quelle che difendono interessi materiali o professionali dei differenti gruppi. quelle che hanno come scopo la promozione di attività e la cooperazione scientifica, tecnica o professionale. Anche questo criterio non può essere accolto acriticamente poiché, ad esempio, come ben rileva l’autore a riprova della fallibilità della propria proposta, che pure ha una applicazione pratica meno problematica di quella di Speeckaert, esistono ONG che esercitano tutte e tre le funzioni, come l’Associazione Medica Mondiale. Lador-Lederer invece, senza voler apparentemente proporre alcun criterio, ha dedicato buona parte della sua opera principalmente a cinque categorie di ONG che esamineremo brevemente (sembrano infatti così generiche da ricomprendere in sé ogni tipo di ING).

22 L’autore inizia con una analisi delle “Legislative NGO’S” e della attività che esse svolgono, distinguendo a seconda che esercitino attività consultiva ed eventualmente siano anche attive nelle procedure che portano alla formazione di testi normativi internazionali, o che invece non abbiano alcuna funzione consultiva. Con riguardo alla prima categoria va ricordata innanzitutto la Carta delle Nazioni Unite ed in particolare l’art. 71dove si fa esplicito riferimento alle ONG con status consultivo, inoltre la risoluzione 1296 (XLIV) del 23 maggio 1968 che regolamenta le relazioni tra ONG e Consiglio Economico e Sociale, la quale ha suddiviso le prime in tre ordini: quelle che sono interessate alla maggior parte delle attività svolte dal Consiglio; quelle che sono interessate solo a materie specifiche; ed infine quelle comprese in un apposita lista (Roster) alle quali può essere occasionalmente riconosciuto lo status consultivo da parte del Segretario Generale. Per quanto riguarda l’importanza che determinate ONG possono avere nella promozione e formazione di testi legislativi, tra le più attive in questo campo spicca la Croce Rossa, ispiratrice della codificazione del diritto bellico moderno e della necessità di una considerazione umanitaria della guerra: la IATA (International Airline Transport Association) che attraverso il Traffic Conference Machiner, suo organo, determina le tariffe aeree, l’Interpol e l’Istituto di Diritto Internazionale. Lador esamina poi quelle che chiama “Scatterei Communities and State –preparing NGO’S” ossia quelle ONG che hanno come proprio scopo la costruzione o la rifondazione di uno Stato: situazione che si verifica in particolar modo allorché vi sia una lotta per il potere tra un regime che tema per la propria integrità territoriale e gruppi di pressione esterni che si ritengano legittimati a conseguire la liberazione della Nazione per stabilirvi il proprio dominio. Terza categoria è quella delle “Ideological NGO’S”, che a differenza delle precedenti, non hanno natura rivoluzionaria ma si propongono di raggiungere i propri obiettivi mediante una pacifica convivenza con gli Stati in cui operano. Esse sono associazioni di persone con un medesimo ideale e spesso nascono su base nazionale per poi trovare consenso al di fuori dei propri confini.

23 Le più vecchie ONG di questo tipo sono quelle a carattere religioso e quelle aventi finalità politiche, come l’Internazionale Socialista, o negli anni Trenta, il movimento fascista: ONG non prese in considerazione da Stosic. Vi sono poi le ONG di carattere economico, sorte come conseguenza dei rapporti commerciali, instaurati nel secolo scorso, tra le Nazioni colonialiste ed evolutesi fino a dar luogo alla nascita di associazioni private tendenti prima a proteggere e poi a regolamentare gli scambi internazionali, sia che si trattasse di flussi di merci o di denaro, dando vita, in questo ultimo caso, alle ONG bancaria. Come si è potuto dunque vedere, non vi sono criteri certi di classificazione in relazione allo scopo dell’organizzazione e lo stesso Consiglio d’Europa, affrontando il problema della definizione di ONG non ne ha formulati. Probabilmente il procedimento adottato dalla UAI che si avvicina più a quello funzionale di Stosic che ad ogni altro, sembra essere per il momento il migliore almeno fin a che un organismo come l’Istituto di Diritto Internazionale non offrirà criteri di classificazione scientifica. Va detto però che l’UAI, nella elaborazione dei propri criteri, non ha fatto alcun riferimento al tipo di attività svolta dalle ONG, ma ha preso in considerazione le caratteristiche strutturali che ha ritenuto essere proprie ed esclusive di ogni ING stessa. I parametri, recepiti dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, che nel 1950, con la Risoluzione 288 (X) del 27 febbraio ha formalmente stabilito la distinzione tra organizzazioni inter-governative e ONG, sono:

Scopi Gli scopi dell’organizzazione devono presentare un carattere veramente internazionale con l’intenzione di svolgere attività in almeno tre nazioni. Di conseguenza società come l’International Action Committee for Safeguarding the Nubiam Monuments o la Anglo- Swedish Society sono escluse: Ugualmente lo sono società rivolte unicamente alla commemorazione di persone scomparse, anche se queste abbiano dato grossi contributi alla comunità internazionale.

24 Membri Vi deve essere partecipazione individuale o collettiva con pieno diritto di voto da parte di almeno tre nazioni. L’organizzazione deve essere accessibile a qualsiasi individuo od entità le cui competenze rientrino nell’area di attività di essa. Di conseguenza sono esclusi gruppi chiusi, sebbene la situazione possa divenire ambigua quando un solo membro per Stato sia ammesso, poiché in tal modo si preclude l’ammissione all’organizzazione ad altri gruppi qualificati in quel paese. Il potere di voto deve essere tale da non permettere a nessun gruppo nazionale di controllare l’organizzazione. Le organizzazioni nazionali che accettino stranieri come propri membri sono escluse così come ordini religiosi o comunità governate su base gerarchica e movimenti sociali non ufficiali.

Struttura L’atto costitutivo deve prevedere una struttura organica ufficiale che attribuisce ai propri membri il diritto di eleggerne periodicamente l’organo di governo e i dirigenti dell’organizzazione. Vi deve essere una sede permanente e le attività dell’organizzazione devono possedere carattere di continuità. Di conseguenza, contrariamente ai comitati permanenti che stabiliscono un collegamento tra più riunioni successive, i comitati ad hoc e i comitati organizzatori di riunioni uniche non sono contemplati.

Dirigenti Il fatto che in un determinato periodo i dirigenti abbiano la medesima nazionalità non comporta necessariamente l’esclusione della organizzazione, ma in questo caso deve esservi rotazione ad intervalli determinati tra i diversi Stati membri, sia per quanto concerne la scelta della sede che per l’elezione dei dirigenti.

Finanze Contributi sostanziali al bilancio devono provenire da almeno tre nazioni. Ciò comporta l’esclusione di molte unioni e società “internazionali” che operano in Nord America su finanziamenti quasi del tutto provenienti dagli Stati Uniti. Non vi deve essere scopo di lucro

25 né tentativo di ottenere profitti da distribuire ai membri. Ciò non esclude organizzazioni che esistono per aiutare i propri membri ad ottenere più profitti o migliorare la propria situazione economica (es: trade unions o trade associations); ma si escludono le imprese che svolgono affari internazionali, le società di investimento o cartelli. La distinzione tra una associazione di commercio (trade association) e un cartello è spesso non chiara, nella pratica le relazioni esterne della società sono usate come criterio distintivo.

Relazioni con altre organizzazioni Le entità organicamente collegate con altra organizzazione non sono necessariamente escluse, ma deve essere evidente che esse conducano vita indipendente ed eleggano i propri dirigenti. Non sono perciò stati considerati gli organi interni o sussidiari i cui membri siano nominati da uno degli organi strutturali di un’organizzazione e che a questa facciano capo.

Attività Deve esservi prova evidente che l’organizzazione eserciti effettivamente un’attività. Le organizzazioni che sembrano essere state inattive per oltre cinque anni sono catalogate come “scomparse” o “dormant”.

Altri criteri La scelta delle organizzazioni catalogate non è stata determinata né da criteri di ampiezza né di importanza, né si è guardato al numero dei membri, al grado di attività o alla potenza finanziaria. Nessuna organizzazione è stata esclusa per ragioni politiche o ideologiche né sono stati considerati i campi di interesse o di attività. La localizzazione geografica delle sedi e la terminologia usata nella denominazione dell’organizzazione (come “commitee”, “council”….) sono state ugualmente irrilevanti.

La definizione ed il riconoscimento affinché un’associazione possa dirsi una ONG, risulta abbastanza agevolata utilizzando questi criteri, molti dei quali si ritrovano anche esaminando il testo redatto a Strasburgo nel 1986, della “Convenzione Europea sulle ONG”, ove si definiscono come tali (art. 1) quelle associazioni, fondazioni o istituzioni private che:

26 abbiano uno scopo non di lucro, di utilità internazionale; siano state create con un atto “importante” di legge interna di una “Parte”; esercitino la loro attività effettiva in almeno due Stati; abbiano la loro sede statutaria nel territorio di un “Parte” e la loro sede amministrativa sul territorio di questa “Parte” o di un’altra “Parte”.

Come si vede, l’unica e minima differenza nel dare una definizione dei caratteri essenziali di una ONG, è riferita al numero di Stati necessari e sufficienti per aversi vera attività internazionale: per l’UAI almeno due Stati, per la Convenzione di Strasburgo almeno tre, mentre tutti gli altri caratteri tipici sono simili in entrambi i progetti.

27 4. CARATTERISTICHE DELLE ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE INTERNAZIONALI (ONG)

Ai sensi dell’art. 1 della Convenzione Europea n. 124 firmata il 24/04/1986, le condizioni affinché “un’associazione, fondazione o altra istituzione privata” possa essere considerata un’organizzazione non governativa sono le seguenti: − avere scopo non lucrativo d’utilità internazionale; − essere stata creata con un atto di diritto interno di uno Stato; − esercitare la propria attività in almeno due Stati.

La Risoluzione 1296 del 1968 dell’ECOSOC (Economic and Social Council dell’ONU) definisce a sua volta l’ONG come “un’organizzazione internazionale che non è stata creata attraverso accordi intergovernativi, compresa un’organizzazione che accetta dei membri designati dalle autorità governative, a condizione che i membri appartenenti a questa categoria non ostacolino la libertà d’espressione dell’organizzazione”. La successiva Risoluzione 31 del 1996 modifica leggermente la definizione, precisando che una ONG non deve essere stata istituita da un’entità né intergovernativa, né governativa. Secondo il progetto di Convenzione dell’Istituto di Diritto Internazionale, presentato alla sessione di Bath nel 1950, le organizzazioni non governative sono “gruppi di persone o di collettività, liberamente creati dall’iniziativa privata, che esercitano, senza spirito di lucro, un’attività internazionale di interesse generale, al di fuori di ogni preoccupazione di ordine esclusivamente nazionale”. Dai documenti sopra considerati si evincono alcuni elementi che accomunano e caratterizzano gli enti che stiamo cercando di definire. Innanzitutto si tratta di associazioni, dunque di soggetti costituiti da più persone (fisiche e/o giuridiche), dotati di personalità giuridica e di un apparato istituzionale stabile e permanente. Stabilità e permanenza sono elementi necessari del concetto di organizzazione, dato che, senza tali elementi non sarebbe possibile identificare un ente a sé stante e distinto dalle persone che ne fanno parte e che sia un centro autonomo di imputazione giuridica. Nella Risoluzione dell’ECOSOC si richiede, oltre, appunto, alla presenza di una sede permanente e di una struttura burocratica, anche che lo statuto sia adottato secondo criteri

28 democratici e che la politica dell’organizzazione sia stabilita da un organo rappresentativo nei confronti del quale è responsabile un organo esecutivo. Nella struttura tipica delle ONG non sono, dunque, presenti elementi gerarchici. In genere i poteri direttivi spettano all’organo plenario, il quale determina lo statuto e la politica dell’associazione. Ad esso si aggiunge normalmente un organo esecutivo permanente, un organo burocratico ed eventuali organi ausiliari. Possiamo notare dunque una somiglianza strutturale tra le ONG e le organizzazioni intergovernative, ma bisogna precisare che la struttura complessa sopra descritta non è un requisito necessario e di fatto molte ONG hanno un apparato burocratico molto più limitato. Del resto la snellezza burocratica è una delle caratteristiche principali delle ONG ed una delle cause dell’efficacia della loro azione. Bisogna anche notare che le dimensioni delle ONG possono variare considerevolmente, in quanto esistono ONG composte da poche persone, così come ONG con una membership estremamente vasta, nell’ordine di migliaia di individui. Il secondo elemento discriminante è che, a differenza delle organizzazioni intergovernative, le ONG non sono create con trattati internazionali, dunque con atti di diritto internazionale, bensì con atti di diritto interno. Il loro status giuridico è determinato ai sensi del diritto dello Stato in cui sorgono. Esse non sono quindi soggetti di diritto internazionale, ma sono solo soggetti di un particolare ordinamento giuridico nazionale. Questo comporta che il loro status può variare fortemente da Stato a Stato, e di fatto così avviene generalmente, rafforzando ancor più la loro varietà e contrastando a livello logico, ma soprattutto a livello pratico, con il carattere materialmente internazionale delle attività da esse svolte e dando frequentemente luogo a problemi di diritto internazionale privato. Ciò peraltro corrisponde alla natura delle ONG, le quali sono espressione della capacità di autorganizzazione della società civile, manifestazione tra le più effettive di democrazia partecipativa. In quanto tali, queste organizzazioni si caratterizzano per il fatto di essere indipendenti dai governi e svincolate dal controllo delle autorità pubbliche. Le ONG si distinguono, pertanto, sia dalle organizzazioni intergovernative, i cui membri sono gli Stati, sia dalle organizzazioni di tipo “misto”, alle quali partecipano organismi pubblici e gruppi privati.

29 L’indipendenza e l’autonomia dai governi sono da più parti considerate fra le cause principali della loro crescente importanza sulla scena internazionale e dell’efficacia delle loro iniziative. Del resto le stesse ONG ne sono gelose custodi, ritenendole le discriminanti della loro identità e lo strumento per raggiungere in modo più diretto ed efficace i loro obiettivi. Indipendenza e autonomia non vogliono, però, significare totale separazione dalle istituzioni statali e dalle politiche governative: spesso le ONG, infatti, realizzano attività congiunte con i governi e ricevono da essi una parte, anche importante, delle loro risorse. Tali contributi, in forma di sovvenzione o di cofinanziamento, devono sempre essere dichiarati e soprattutto limitati, proprio a garanzia della loro indipendenza.

D’altra parte la natura di enti di diritto privato non limita la rilevanza delle ONG all’ambito nazionale. Bisogna, infatti, notare come spesso le ONG, a dispetto del loro carattere privatistico e nazionale, siano nondimeno oggetto di norme internazionali, ma soprattutto come esse siano, de facto, sempre più protagoniste della cooperazione internazionale a fianco degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Del resto, cooperazione non governativa, governativa ed intergovernativa non si svolgono solo parallelamente, ma tendono sempre più ad intrecciarsi ed a confondersi. Il carattere internazionale è, dunque, un elemento anch’esso fondamentale nella definizione di organizzazione non governativa. Se da un lato il carattere nazionale delle ONG è un dato formale, valutabile sulla base del diritto nazionale, l’internazionalità delle ONG è invece un requisito sostanziale, da valutare con riferimento alla vita effettiva ed al funzionamento di fatto dell’organizzazione. Esso riguarda sia la struttura dell’associazione, come membership, sia, soprattutto, il suo campo di attività ed i suoi scopi, i quali devono avere rilevanza. Le Risoluzioni dell’ECOSOC richiedono esplicitamente che l’organizzazione sia “rappresentativa” dei gruppi sociali che svolgono attività nel suo settore di competenza, esprimendone l’opinione a livello internazionale. Tale rappresentatività viene specificata in base ad un criterio geografico, come rappresentanza di un numero rilevante di paesi (per prassi almeno tre) appartenenti alle diverse regioni del mondo. L’internazionalità della membership comporta anche l’internazionalità del finanziamento, dato che esso di norma deriva per la maggior parte da quote associative, e della struttura, in quanto si richiede che

30 gli organi direttivi siano composti senza discriminazioni geografiche o nazionali. Sulla base delle citate Risoluzioni e delle altre fonti di diritto internazionale analoghe, la dottrina individua i quattro requisiti di internazionalità richiesti: scopo, composizione, campo di attività, struttura. Essi devono non solo sussistere, ma anche concorrere insieme. Altra caratteristica fondamentale è l’assenza di scopo lucrativo nelle attività svolte dalle ONG. Ciò significa non che i loro membri debbano essere tutti volontari o che le loro attività non debbano produrre alcun profitto, bensì che tali attività devono essere volte non a beneficio, economico o comunque materiale, dei membri dell’associazione, bensì a vantaggio di terzi e che devono avere carattere volontario e gratuito. Se un profitto esiste, esso non viene, quindi, ridistribuito tra i membri, bensì viene destinato esclusivamente al perseguimento degli scopi statutari, consistenti nell’erogazione di servizi a favore di terzi, al fine di accrescere le capacità di intervento dell’associazione. Questa caratteristica fa rientrare le ONG nel più vasto insieme del cosiddetto “terzo settore”, anche detto settore del No Profit o del Volontariato. Tale settore comprende, infatti, le organizzazioni caratterizzate da natura giuridica privata, divieto di distribuzione degli utili ed erogazione dei servizi a favore dell’intera collettività e non dei soli membri. Per quanto concerne il finanziamento, le ONG possono ricorrere a varie fonti quali: donazioni, sovvenzioni, cofinanziamenti, collette, vendita di beni e di servizi. Esse sono, dunque, in parte dipendenti dai donatori pubblici (Stati e organizzazioni internazionali) e privati, ma proprio la diversità delle fonti di finanziamento è condizione indispensabile per preservare l’identità propria della ONG e garantirne l’indipendenza finanziaria, presupposto per l’indipendenza effettiva. Come già evidenziato, è importante, nonché espressamente richiesto dalle norme internazionali che le riguardano, che le ONG ricevano solo limitati e dichiarati aiuti pubblici.

Le ONG sono generalmente viste come gruppi che svolgono la loro attività nell'interesse della comunità, in maniera non violenta e senza scopo di lucro. Le ONG sono spesso etichettate come forze democratiche o addirittura come la "coscienza del mondo". Queste affermazioni non possono essere considerate valide in generale, poiché i valori che ispirano l'attività delle diverse organizzazioni variano e possono non essere condivisi da tutti.

31 Spesso esse non fanno che riflettere le divisioni ed i contrasti che esistono di fatto nelle varie società oppure nello stesso settore dei diritti umani. Si pensi ad esempio a due ONG, l'una schierata a favore dell'aborto, sul presupposto di tutelare il diritto di scelta della donna, e l'altra contro tale pratica, in difesa dei diritti del nascituro. La mancanza di un generale riconoscimento della personalità giuridica delle Organizzazioni non governative a livello internazionale è un elemento che si pone in forte contrasto con la grande attenzione suscitata dall'imponente presenza di queste entità sulla scena internazionale. Esse sono nate e hanno esteso il loro ambito di operatività e le loro capacità, indipendentemente da qualsiasi altro soggetto internazionale o da una loro approvazione, come espressione della Società Civile. Per quanto riguarda i diritti, i maggiori trattati internazionali in materia di diritti dell'uomo, riconoscono le fondamentali libertà che vengono generalmente attribuite ai gruppi, come ad esempio la libertà di associazione e di riunione pacifica, ma non prevedono disposizioni calibrate per tutelare le Organizzazioni non governative e la loro attività. Soltanto all'interno della Dichiarazione sui diritti e le responsabilità degli individui, gruppi ed organi di società per promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti, troviamo delle norme precise al riguardo, ma si tratta di uno strumento di soft law e come tale non vincolante nei confronti degli Stati. Dal punto di vista dell'affermazione di obblighi o di responsabilità, il quadro è ancora più scarno, tanto che le grandi ONG, sentendo il bisogno di accrescere la propria credibilità verso l'esterno, hanno deciso di adottare dei documenti con i quali si auto-impongono degli obblighi di condotta. La situazione è parzialmente diversa nell'ambito della cooperazione tra Organizzazioni Internazionali ed ONG. Le risoluzioni che disciplinano tali relazioni, dettano dei diritti e delle responsabilità più precisi per quelle entità che vengono selezionate come partners di una collaborazione, creando l'opportunità di un controllo maggiore sul loro operato. All'interno delle Nazioni Unite il meccanismo di concessione e di revoca dello status consultivo, è posto unicamente nelle mani degli Stati, i quali spesso sono mossi più da considerazioni politiche che da una effettiva conoscenza dell'organizzazione scrutinata.

32 Nel contesto del Consiglio d'Europa, la situazione è parzialmente mutata con l'introduzione nel 2003 di una nuova disciplina. Essa prevede infatti la partecipazione delle stesse Organizzazioni non governative, rappresentate unitariamente dal Liaison Committee, nei procedimenti di concessione, revoca e sospensione dello status partecipativo. Questa modifica non sconvolge la dinamica dei rapporti con le ONG, ma rappresenta pur sempre la presa d'atto della evoluzione delle relazioni con queste entità. Nonostante il fenomeno, con i suoi lati positivi e negativi, prema e manifesti sempre di più la sua imponenza alla comunità internazionale, quest'ultima è restia ad introdurre una disciplina che preveda un decisivo passaggio da un "diritto della coesistenza" a un "diritto della cooperazione". Le ragioni sono molteplici, ed in parte sono determinate da ciò che si diceva in precedenza riguardo alla mancanza di certezza della democraticità dei propri interlocutori. Con grande probabilità, però, il motivo dominante emerge analizzando l'attività che queste entità svolgono nella protezione degli standard internazionali. Molto spesso, l'attività delle ONG è critica nei confronti delle istituzioni statali e mira ad un cambiamento della politica dei Governi, i quali le avvertono come una minaccia alla loro sovranità e si pongono, quindi, in una posizione di chiusura verso qualsiasi maggiore coinvolgimento. Esiste poi una motivazione interna allo stesso fenomeno. Le differenze che si riscontrano tra le varie Organizzazioni non governative, in termini di valori perseguiti, rende difficile determinare quali di loro devono essere rappresentate all'interno di determinate istituzioni, fermo restando che non è possibile coinvolgere tutte le migliaia di ONG esistenti. Nel caso in cui la rappresentazione o la partecipazione sia fissata all'interno di un trattato o di una risoluzione, accadono due cose: la prima è che le ONG che acquisiscono tale status, ottengono una sorta di legittimazione ad intervenire per l'intera Società Civile su quella particolare questione; in secondo luogo, poiché il mondo delle Organizzazioni non governative è fortemente eterogeneo e non si esprime, generalmente, con una singola voce, questa partecipazione può mettere a tacere quelle entità che non sono state selezionate per prendere parte al procedimento. Un sistema che prevede un'ampia partecipazione delle Organizzazioni non governative non dà l'assoluta garanzia di essere un sistema efficiente. Sicuramente esse sono in grado di

33 creare una domanda o di aggregare interessi di cui lo Stato non si cura adeguatamente e di fare leva affinché vengano adottate delle soluzioni a dei problemi globali. Ci sono però esempi nei quali l'attribuzione di un maggiore spazio alle ONG all'interno dei meccanismi ufficiali, non accompagnato da un sistema di coordinamento, ha prodotto effetti paralizzanti. La partecipazione delle ONG nei meccanismi internazionali continua a dare luogo a controversie e dispute, tra chi ne richiede un ampliamento, sottolineandone la necessità per un effettivo rispetto degli standard internazionali, e chi invece è più incline ad una sua limitazione e si chiede perché le richieste avanzate da queste entità non possano essere veicolate per mezzo dello Stato.

34 5. RUOLO, FUNZIONI, EFFICACIA DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Al fine di valutare l’efficacia delle organizzazioni internazionali è indispensabile definire i caratteri dell’ambiente in cui operano ed il ruolo delle organizzazioni internazionali nello svolgere i compiti loro affidati. L’ambiente di attuazione delle organizzazioni internazionali, ossia, l’ambito internazionale può essere concepito secondo una prospettiva stato-centrica, per la quale la politica internazionale è assimilabile ad un network e le organizzazioni internazionali sarebbero alcuni fili di questa rete, svolgendo, pertanto, una funzione del tutto passiva, oppure, secondo un sistema di unità interagenti che si influenzano reciprocamente e il cui funzionamento è connesso alla necessità di trasformare le richieste dei soggetti giuridici in decisioni, e la cui efficacia è valutata in base alla capacità di offrire risposte adeguate e soddisfacenti a tale richieste, attribuendo in tal modo un ruolo complesso e dinamico alle organizzazioni internazionali. Nell’ambito della politica internazionale sono prevalsi tre modi principali di concepire il ruolo svolto dalle organizzazioni internazionali. In primo luogo le organizzazioni internazionali possono essere concepite come uno strumento a disposizione degli Stati. Questa prima concezione deriva dalla prospettiva stato-centrica ed è l’interpretazione più classica e riduttiva del ruolo delle organizzazioni internazionali che si limiterebbero ad essere un mezzo costituito per fini egoistici dei singoli Stati godendo, pertanto, di limitata autonomia. La seconda concezione del ruolo delle organizzazioni internazionali è quella che le vede come “arena”, ossia un luogo ove i singoli paesi hanno modo di incontrarsi e ove l’attività diplomatica ha modo di svolgersi in un contesto favorevole. Tale interpretazione tuttavia, ancora una volta attribuisce un ruolo passivo alle organizzazioni internazionali che contrasta con il fatto che tali organizzazioni agiscono sempre più come sistemi politici capaci di influenzare attraverso il loro stesso funzionamento la condotta degli stati. Le organizzazione internazionali agiscono ed incoraggiano la riarticolazione degli interessi da parte degli Stati membri, promovendo la percezione della indivisibilità dei valori fondamentali (ad esempio la sicurezza collettiva).

35 La terza e ultima interpretazione è quella che vede le organizzazioni internazionali come veri e propri attori nella politica internazionale. Da ciò deriva il riconoscimento di un rilevante grado di autonomia delle organizzazioni internazionali rispetto alla volontà dei soggetti che hanno dato loro vita, nonché la capacità di influenzare il corso delle cose andando al di là della volontà dei propri membri: teoria non certo comune ma che sembra trovare riscontro pratico, ad esempio relativamente alle operazioni di peace keeping, compito che i fondatori delle Nazioni Unite non avevano esplicitamente attribuito all’organizzazione ma che si è rinforzato e assunto importanza (basti pensare alle decine di missioni di peace keeping che hanno influenzato gli sviluppi della politica internazionale e l’attività politica degli stati) al fine di favorire l’esercizio della diplomazia preventiva. Quest’ultima concezione attribuisce un ruolo attivo alle organizzazioni internazionali che incidono sulla politica internazionale inducendo la comunità internazionale ad attivarsi per affrontare determinati problemi ed influenzando la politica degli stati membri che vengono spinti ad affrontare temi che, altrimenti, non verrebbero neppure presi in considerazione (ad esempio: conferenza di Stoccolma sull’ambiente (1972) che ha portato alla nascita delle United Nations environment program; i vincoli imposti dall’Unione Europea con i Trattati di Maastricht ed Amsterdam). È comunque opportuno rammentare che le organizzazioni internazionali possono essere contestualmente concepite come strumenti, arene e attori. Questa è la teoria di Archer, che suggerisce che le Nazioni Unite possano essere concepite come strumento nelle mani degli USA sino agli anni 50 per poi diventare attore della politica internazionale con il Segretario Generale Hammarskjold (1953-1961) e poi arena negli anni 60.

Funzioni Le organizzazioni internazionali sono create allo scopo di offrire strumenti che favoriscono la cooperazione e che oltre ad uno spazio fisico, metta a disposizione un apparato amministrativo destinato a tradurre le decisioni in azioni e che, di conseguenza permetta la apertura di molteplici canali di comunicazione tra i membri utili ad esplorare nuove opportunità di cooperazione ed evitare che si creino tensioni tra di loro. In realtà le organizzazioni internazionali agevolano la cooperazione in vari modi, poiché spesso gestiscono semplici problemi di coordinamento ma più sovente debbono aiutare i

36 paesi membri a risolvere veri e propri problemi di collaborazione in funzione della produzione di beni pubblici – ambiente, sicurezza, salute - che, lasciati alla nazionalità egoistica dei singoli attori non raggiungerebbero il livello minimo necessario. La cooperazione per produrre beni pubblici è piuttosto complessa, poiché non è sufficiente metterli a disposizione di tutti, è anche necessario che qualcuno vigili sul rispetto delle norme, al fine di garantire che i singoli stati facciano la loro parte. È utile ricordare che le organizzazioni internazionali aiutano a ridurre i costi di transazioni rendendo più probabile e solida la cooperazione poiché sono in grado di offrire informazioni sui problemi esistenti, ma anche sulle possibile soluzioni e possono controllare il comportamento dei propri membri e valutare l’applicazione di sanzioni laddove questi siano inadempimenti ai propri obblighi. Le organizzazioni internazionali, inoltre, svolgono funzione di garanzia del rispetto delle norme internazionali a partire da quelle fondamentali come garantire l’integrità territoriale l’autodeterminazione, la tutela dei diritti umani e contribuiscono all’evoluzione del tessuto normativo favoriscono la stabilizzazione dei diritti di proprietà (ad esempio conferenza per codificazione diritto del mare). E comunque aiutano a proteggere dalle turbolenze che attraversano l’ambiente internazionale (ad esempio dibattito sulla sicurezza in Europa in ambito OSCE o cooperazione per il Baltico) Le organizzazioni internazionali possono perciò costituire uno strumento attraverso il quale le domande vengono poste, una arena nelle quali diverse domande specifiche vengono discusse, ed attori che formulano domande proprie, assumendo un ruolo attivo e dinamico. Le organizzazioni non governative, in particolare, non solo aggregano ed organizzano su scala internazionale le domande che provengono dalle società nelle quali operano, ma svolgono un ruolo attivo suscitando domande nuove e richiamando l’attenzione delle opinioni pubbliche su questioni di rilievo L’efficacia delle organizzazioni non governative è legata a quattro dimensioni: 1) rappresentatività; 2) autorità morale 3) competenza 4) capacità di mobilitazione

37 L’incisività di una organizzazione non governativa è legata al numero di individui e gruppi che rappresentano ed a come si organizza per rappresentarli ed il relativo grado di identificazione degli associati con i fini dell’organizzazione stessa nonché alla sua estensione geografica, alla sua indipendenza ed imparzialità ed infine alla capacità di raccogliere e diffondere le informazioni, alla disponibilità di risorse per sviluppare e svolgere i compiti istituzionali, all’efficacia della sua leadership, alla sua competenza tecnica e quindi alla possibilità di accedere alla funzione consultiva presso le organizzazioni governative di riferimento. Il processo di conversione delle domande in scelte politiche è spesso ospitato dalle organizzazioni internazionali ma spesso anche stimolato da queste attraverso varie modalità quali la convocazione di grandi conferenze internazionali (ad esempio Conferenza Rio dell’ambiente (1992) – Agenda 21) La conversione delle domande in scelte politiche non avviene mai attraverso un procedimento meccanico; è un processo complesso che la comunità politica svolge facendo continuo riferimento alle norme ed ai valori che informano la società. Le organizzazioni internazionali svolgono qui una duplice funzione: da una parte contribuiscono a definire, affermare e veicolare la nozione ed i valori fondamentali (ad esempio definendo il comportamento legittimo) e nuovi valori e dall’altra costituiscono un’importante fonte di socializzazione degli attori a queste norme e valori. In certi casi, promuovono valori solo per il fatto di personificarli: è il caso della pace per l’ONU, dei diritti civili e politici per l’Amnesty International, della tutela dell’ambiente per il Greenpeace. Un esempio interessante di nuovo valore è il concetto di “patrimonio comune del genere umano” (elaborato per i giacimenti minerali in fondo al mare) il quale è noto in seno all’ONU ed è legato ad una ben precisa interpretazione della giustizia sociale internazionale a discapito della minoranza più ricca della comunità internazionale; tale concetto è stato poi applicato al patrimonio artistico mondiale di eccezionale valore.

Le organizzazioni internazionali svolgono anche un funzione collegata alla socializzazione degli stati membri alle “regole del gioco”. Una volta le nuove norme sono lanciate come

38 “messaggi” alla comunità internazionale, è necessario che gli Stati vengano socializzati alle medesime, in modo da farli valori e principi propri. Le organizzazioni governative, in particolare possono svolgere la funzione di luoghi di socializzazione dell’ apprendimento ove gli attori politici imparano ed insegnano agli altri quali sono le loro interpretazioni delle situazioni e le loro concezioni normative. Un esempio interessante è l’attività svolta dalla Unesco, tra il 1955 ed il 1975, di educazione di molti Stati alla promozione e coordinamento delle attività di ricerca scientifica e tecnologica, arrivando a far credere agli Stati moderni abbiano una responsabilità nella ricerca. Nell’ambito di tale funzione “educatrice” le organizzazioni governative internazionali possono insegnare agli Stati norme che li spingono a rielaborare la propria identità e gli interessi, ovvero a reintegrare, con nuovi canali la stessa statualità.

39 6. LA GLOBALIZZAZIONE ALLA LUCE DELLE FORZE GLOBALI

(Laurence C. Smith, 2050. Il futuro del nuovo Nord, Einaudi 2011)

Data la crisi finanziaria e politica che attraversa oggigiorno la scena mondiale e con la recessione ormai in marcia in diversi stati europei, la lettura di questo libro ci aiuta a comprendere come il 2050 non sia una data lontana, ma che invece determinate scelte politiche attuali già risentono di una prospettiva non immaginaria, bensì in pieno svolgimento. 2050 è la vivida descrizione scientifica di come potrà essere la Terra fra quarant'anni. La ricerca più avanzata individua quattro forze motrici destinate a cambiarlo: la tendenza demografica, la domanda di risorse naturali, il cambiamento climatico e la globalizzazione. La popolazione mondiale è in rapida crescita, le specie selvatiche stanno scomparendo, l'ambiente è degradato e il costo delle risorse naturali, dal petrolio all'acqua, non fa che aumentare. Quale mondo lasceremo ai nostri figli e nipoti? Laurence C. Smith 1 sviluppa i principali risultati che emergono dai dati fisici mondiali: le nazioni più vicine al Circolo polare artico diventeranno sempre più floride, potenti e politicamente stabili; i paesi più vicini all'Equatore dovranno affrontare i drammatici problemi della carenza idrica, dell'invecchiamento della popolazione e di megalopoli affollate e insidiate dai costi crescenti dell'energia e dalle alluvioni lungo le coste di mari e fiumi. La tesi dello scienziato è che la pressione globale trasformerà la parte più settentrionale del pianeta in un luogo di frenetiche attività, di maggior valore strategico e importanza economica. Smith unisce la lezione della geografia e della storia alle previsioni basate sui modelli più all'avanguardia e alle analisi più recenti su dinamiche del clima, riserve di materie prime, età delle popolazioni e crescita economica. Nei paesi del NORC 2 (USA, Canada, Islanda, Groenlandia, Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia) si apriranno nuove prospettive sia per quanto riguarda le risorse naturali (ivi compresa l’agricoltura), sia per le rotte libere dai ghiacci, sia per l’espansione economica e

1 Laurence C. Smith è professore di Geografia e di Scienze della terra e dello spazio e vicedirettore del dipartimento di Geografia presso la University of California, Los Angeles (Ucla). Ha presentato un rapporto al Congresso degli Stati Uniti sui probabili effetti del cambiamento climatico sul Nord del pianeta, e il suo lavoro ha avuto grande risalto nel Fourth Assessment Report dell'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite. 2 Northern Rim Countries.

40 delle popolazioni. Il Mar Glaciale Artico diventerà il nuovo crocevia dei commerci internazionali. Enormi vuoti territoriali saranno una calamita per popolazioni sul limite e sotto il limite della fame, attirate anche dalla scarsità attuale delle popolazioni di quelle latitudini. La popolazione russa, per esempio, sta costantemente diminuendo (16 morti per ogni 10 nati) e la Siberia ha (attualmente) una popolazione assai rarefatta. Si noti che non si tratta solo di scenari, se alcune migliaia di Tamil, poco tempo fa, hanno potuto inscenare una protesta nel centro di Ottawa. Dal 2008 sono entrati in Canada 250.000 immigrati legali. Non a caso nei paesi del Nord è già prevista una notevole crescita della popolazione, non certo dovuta agli autoctoni. Alcuni porti del Nord (i “dieci porti del futuro”) si stanno già attrezzando, mentre in modo sordo e poco percepito dall’opinione pubblica, tra i paesi del Nord sono già iniziati i contenziosi e la competizione per accaparrarsi le piattaforme marine continentali dell’Artico. Ci sono ovviamente altri grandi incognite. Per esempio, il permafrost siberiano si sta già sciogliendo, lesionando e facendo crollare case le cui fondamenta affondano nel terreno umidiccio, mentre nell’aria si liberano lentamente enormi quantità di metano imprigionate nel terreno; e già oggi il metano è responsabile per il 18% dell’effetto serra. Per non parlare delle enormi quantità di carbonio attualmente imprigionato nei ghiacci dell’Antartide. E se in Groenlandia già da alcuni anni si coltivano patate, riavviando una traiettoria agricola che prima della piccola glaciazione delle nostro evo aveva permesso ai Vichinghi di impiantarvi fattorie con coltivazioni e allevamenti, le enormi quantità di petrolio sottomarino che si pensa esistano nelle piattaforme continentali artiche e le grandi estensioni di sabbie bituminose del Canada, forse non basteranno a compensare l’aumento previsto del suo consumo e le riserve in esaurimento. Il Ministro dell’energia americano ha calcolato che nel 2030 serviranno 103 milioni di barili al giorno (contro gli 85 attuali): dovremmo avere in sostanza altre nove Arabie Saudite per far fronte alle necessità. Certo, ci saranno le energie alternative, ma dobbiamo tenere conto che se i biocarburanti, l’idroelettrico e persino l’energia nucleare sono (quasi) carbon-neutral , sono anche peggiori per quanto riguarda il consumo di acqua (per non parlare dei danni all’agricoltura derivanti dai biocarburanti). Verso la conclusione del libro, Smith sembra avvicinarsi all’idea che le attuali valutazioni del rischio siano del tutto fallaci, pur privilegiando il probabile invece dell’improbabile, ma insiste sulla fine della stazionarietà : l’intervallo di incertezza entro il quale si muove un

41 dato fenomeno sono oggi molto più ampie del passato. Ma i modelli usati non ne tengono ancora conto. E questo è un pericolo ulteriore se ci poniamo la domanda: quale tipo di mondo vogliamo?

Nel corso della trattazione, vengono prese in esame quattro forze che già agiscono su scala mondiale: la demografia, le risorse naturali, la globalizzazione, il clima.

42 7. MULTILATERALISMO E SOCIETÀ INTERNAZIONALE

Il numero delle organizzazioni internazionali, la varietà delle funzioni che svolgono l’ampiezza degli interessi e l’intensità dell’impegno che le contraddistinguono spiegano perché sia difficile oggi comprendere gli sviluppi della politica internazionale senza tener conto delle organizzazioni internazionali. E vero che mentre le organizzazioni non governative continuano a crescere (da 176 nel 1909 ad oltre 6 mila nel 1997), le organizzazione governative classiche, dal 1983, mostrano una tendenza inversa. Negli anni 80, la ragione di tale diminuzione è stata la mortalità delle organizzazione governative africane ed arabe. La mortalità delle organizzazioni intergovernative negli anni 80 non è l’unico elemento significativo. Attualmente la tendenza è che la maggioranza delle organizzazioni non sia più creata dagli Stati ma da altre organizzazioni. Soltanto la FAO ha dato vita a più di 25 organizzazioni. Inoltre si tende ad intensificare la cooperazione su questioni più specifiche e tecniche. Il fatto che le organizzazioni internazionali si specializzino e nascano all’interno delle organizzazioni stesse comporta diverse conseguenze. La più rilevante è che gli Stati più potenti sono meno in grado di influenzare la nascita ed il funzionamento di queste organizzazioni e, pertanto, tendono a dare più voce anche alle organizzazioni non governative. Per esaminare come le organizzazioni internazionali si muovono nel panorama politico internazionale è necessario collegare le organizzazioni internazionali tra loro attraverso la trama della politica internazionale e ragionare sul fenomeno delle organizzazioni internazionali. Occorre, quindi, guardare al concetto di “ambiente istituzionale” costituito dal complesso delle relazioni delle regole e dei sistemi di credenze che emergono nel più generale contesto sociale. Invero, anche le organizzazioni internazionali sono annidate in un ambiente istituzionale. Ogni organizzazione internazionale oltre all’ambiente generale è circondata da un ambiente più ristretto, rappresentato dal regime cui è collegata ovvero dai principi, norme, regole e

43 procedure decisionali che informano ciascuna di queste più specifiche istituzione internazionali, oltre che dai rapporti intrecciati all’interno dei rispettivi spazi politici.

La società internazionale è complessa e multilaterale. E ciò che contraddistingue il multilateralismo è che il coordinamento delle politiche avviene sulla base di principi di condotta generali; ciascuno Stato è tenuto a rispettare soltanto le regole che valgono per tutti, non esistono regole che si applichino solo ad alcuni e non ad altri. L’istituzione, in quest’ottica, ha due corollari. Da un lato si ottiene la costruzione sociale dell’indivisibilità di problemi e soluzioni (ad esempio: la pace collettiva/ indivisibile) ed dall’altro si favoriscono forme di “reciprocità diffusa”. Tali principi di condotta generali implicano compensazioni dilazionate nel tempo e complessive invece che soluzioni immediate e specifiche. Dopo la seconda guerra mondiale la discontinuità che si realizza consiste proprio nella definitiva legittimazione ed istituzionalizzazione del multilateralismo. Il multilateralismo del XX secolo influenza la forma delle organizzazioni internazionali ed il loro rendimento. Essendo basate su principi generali, le organizzazioni internazionali che incorporano il principio del multilateralismo sono più elastiche di quelle che rispecchiano interessi particolari ed esigenze legate a situazioni specifiche. Ciò influisce a sua volta sulle modalità di governare del sistema internazionale. Incorporando il principio della reciprocità diffusa, esse contribuiscono a collegare fra loro aree tematiche diverse ed incoraggiano l’elaborazione di orizzonti temporali più ampi, mobilizzano le aspettative degli attori circa la reciproca volontà di cooperare. Un sistema di autogoverno della comunità internazionale fondato sul bilateralismo non avrebbe potuto assorbire facilmente gli sviluppi dell’ottantanove. Il Multilateralismo è una delle istituzioni fondamentali della società internazionale contemporanea. La ragione per cui il multilateralismo si sia affermato nel novecento è probabilmente collegata al fatto che solo in tale periodo i principali attori della scena internazionale hanno consapevolmente accettato di rinunciare, almeno in parte a sfruttare le proprie rendite a disposizione (grazie a relazioni bilaterali) allo scopo di infondere all’ordine internazionale contenuti valoriali il più possibile prossimi a quelli che informavano i rispetti agli ordini

44 interni. Il Multilateralismo ha anche portato all’evoluzione della civiltà giuridica verso la codificazione di norme generali ed astratte. Se il secolo XX è stato il secolo del multilateralismo, il secolo XXI potrebbe essere il secolo della governance democratica.

Uno degli esempi più significativi di esperimento del multilateralismo è la Società delle Nazioni. Tale progetto è nato nel tentativo di superare il puro bilanciamento delle forze come unica garanzia di sopravvivenza degli Stati, nonché di superare i limiti del metodo diplomatico classico, attraverso l’istituzione di una vera e propria organizzazione fisicamente costituita e permanente (principio indivisionalità della pace). Inoltre, tale organizzazione si basava su un sistema di garanzie reciproche fra tutti i membri (organizzazione universale e democratica), sulla pacifica soluzione delle controversie e sull’idea/Principio che la guerra in quanto tale fosse una questione di interesse universale indipendentemente dalla sua localizzazione ed anche un crimine contro la comunità mondiale. Con la Società delle Nazioni nasce la concezione moderna del funzionariato internazionale che diventerà patrimonio comune di tutte le successive organizzazioni internazionali.

Nonostante il sistema delle Società delle Nazioni sia fallito in ragione della sua intrinseca passività ed inerzia, il palesarsi dei suoi limiti ha coinciso con il consolidamento dell’idea che le organizzazioni internazionali siano uno strumento indispensabile alla vita di relazione fra gli Stati, perché le organizzazioni internazionali: a) formulano, attraverso le proprie multiforme attività, nuove e più specifiche regole di condotta per gli Stati; b) coordinano la cooperazione in ambito economico e sociale (ad esempio ILO). Questa attività indusse la Società delle Nazioni ad introdurre una rivoluzionaria novità: l’assistenza tecnica su scala internazionale. La cooperazione funzionale doveva essere sviluppata al di la delle opere che richiedevano un semplice coordinamento tecnico. Ed attraverso tutto ciò, per la prima volta vengono coinvolti singoli individui ed enti privati, portando direttamente i cittadini sulla scena internazionale.

45 Oggi il coinvolgimento diretto degli individui è veicolato sempre più attraverso le organizzazioni non governative, le quali rappresentano una sfera amplissima di interessi, contribuendo al “policy-moving” internazionale. Esiste una sostanziale differenza tra le attuali modalità transnazionali della partecipazione ed una globale che presuppone il superamento dei vincoli di lealtà nazionale a favore di una nuova interpretazione, cosmopolita della cittadinanza e che presuppone il radicarsi di un senso di “comunità terrestre” con considerevole ridimensionamento del ruolo dello stato e delle sue prerogative Il declino/fine dello Stato è oggetto della letteratura sulla globalizzazione. La globalizzazione è il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi a livello mondiale in diversi ambiti, in ragione del progresso tecnologico in tema di trasporti, comunicazione e informazione. La gestione a livello globale dei problemi si scontra col principio della sovranità degli Stati e tale circostanza è attualmente il paradosso dell’organizzazioni internazionali.

46 7.1 ONG E SINDACATI

Oggi il settore delle ONG rappresenta l’ottava economia a livello mondiale, con un valore di oltre 1 milione di dollari l’anno. Dà lavore a circa 19 milioni di persone, senza contare i volontari. Le ONG spendono all’incirca 15 miliardi di dollari l’anno per lo sviluppo, tanto quanto investe la Banca Mondiale, ma mentre le ONG sono un fenomeno in rapida crescita dagli anni ’80 i movimenti sindacali sono in declino. Il collegamento tra ONG e sindacati è molto profondo: è stato l’attivismo della società civile, capeggiata dai sindacati che ha preparato la strada per lo sviluppo delle ONG dopo la Seconda Guerra Mondiale; molte di queste nacquero dai sindacati. I due mondi hanno collaborato a dar vita a potenti coalizioni (quali global call to action against povertà) ed hanno condotto campagne insieme, contro il libero commercio e contro molte grandi società (es. Wal-Mart) Può essere una combinazione vincente, come ha dimostrato la lotta contro l’apartheid dieci anni fa o come dimostra la battaglia contro la privatizzazione dell’acqua oggi. Di fatto il termine “social movement unionism” è stato coniato al fine di riflettere questo ampio approccio collaborativi che ha cambiato la faccia di molti paesi in via di sviluppo, più di recente in Georgia ed Ucraina e prima in gran parte dell’America Latina. Le ONG hanno spesso agito quali procuratrici per i sindacati, nelle nazioni ove i movimenti a difesa dei lavoratori sono repressi. Codici di condotta e responsabilità societarie sono spesso vinti attraverso azioni comuni di pressione e lo staff delle ONG tende ad essere membro attivo nella vita sindacale, quanto gli appartenenti al sindacato nella vita delle ONG.

Ogni anno le ONG ed i sindacati si scambiano grosse somme di denaro a supporto dei reciproci progetti. Alcuni Paesi (quali Irlanda e Sud Africa) sono andati persino oltre ed hanno incluso nelle loro politiche le ONG. Le Nazioni Unite hanno dato alle ONG un’arena internazionale nella quale poter operare insieme alle rappresentanze dei lavoratori.

47 Si tratta di un’opportunità storica per i sindacati e le ONG. La questione è più complessa. Il movimento delle ONG è un insieme complesso di alleanze e rivalità; carità e business, radicalismo e conservatorismo. I finanziamenti arrivano da più fonti e vengono distribuiti in ogni direzione concepibile. La definizione della banca Mondiale di ONG è sufficientemente ampia da includere Public Services International, quale una delle più vecchie ONG così come include molte espressioni di fede. La definizione data dalla WTO è pure ampia, così da includere gruppi di lobby industriale, quali l’Associazione dei Banchieri Svizzeri e la Camera di Commercio Internazionale. Più si guarda da vicino, più si è propensi a chiedersi se l’espressione “organizzazione non governativa” abbia un qualche significato. Il termine ONG diventa di uso corrente alla fine della Seconda Guerra Mondiale, allorché le nazioni Unite cercarono di differenziare tra agenzie specializzate inter-governative ed organizzazioni private, ma le origini del movimento sono più antiche. La prima ONG internazionale è stata probabilmente la Società contro la schiavitù” costituita nel 1839; il movimento contro la schiavitù, che raggiunse il suo apice alla fine del XVIII secolo, è stato il catalizzatore di molte organizzazioni che seguirono.

Alcune delle prime ONG nacquero dai conflitti bellici, inclusa la Croce Rossa nel 1864 dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana; Save the children dopo la Prima Guerra Mondiale e Oxfam e Care dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ad oggi la più grande ONG è la “Bill and Melinda Gates Foundation”, con un patrimonio di circa 30 miliardi di dollari. Alcune ONG sono molto abili nel gestire il proprio profilo mediatico, altre lottano nell’anonimato. Alcune, come Amnesty International sono basate sul presupposto dell’associazionismo, rifiutando aiuti economici dai governi e dai partiti politici. Altre sono organizzazioni capaci di produrre enormi profitti che esistono solo per creare azioni di lobby a nome di interessi puramente economici e di guadagno. Sempre più le ONG sono legate ai governi attraverso accordi di finanziamento e contratti di servizio.

48 Nel 2001 Care International ha ricevuto quasi il 70% dei suoi 420 milioni di dollari di budget, da contributi governativi. Un indagine del 1998 ha dimostrato che un quarto delle entrate di Oxfam arrivano dal governo britannico dalla UE. World vision negli USA ha raccolto 55 milioni di dollari in valore di beni dal governo statunitense. Nello stesso anno Médecins sans Frontières ha ricevuto il 46% delle sue entrate da fondi governativi. Uno studio sulle entrate delle ONG dichiara che: “le entrate per servizi sono incrementate del 52% ed i ricavi del settore pubblico del 40%”; nello stesso periodo le entrate filantropiche sono cresciute solo del 6%. Forse l’unica cosa che si può sostenere sulle ONG è che rappresentino l’espressione più visibile della società civile alla globalizzazione.

Da un punto di vista storico il movimento sindacale è nato più o meno nello stesso periodo, in risposta alla rivoluzione industriale; ma l’evoluzione dei sindacati ha avuto un percorso diverso. Dopo 175 anni il movimento si è sviluppato nella più importante forza democratica mondiale. Dai livelli più bassi in molti settori in più nazioni, su fino alle federazioni nazionali ed ad una serie di federazioni regionali e globali sino alla ICFTU (International Confederation of Free Trade Unions) cge può legittimamente vantarsi di rappresentare 155 milioni di persone. Ci può essere una vasta area di interessi comuni tra i due movimenti, ma l’industrializzazione e la globalizzazione sono due rivoluzioni molto differenti. Le rispettive forme nelle quali si sono evoluti (e le differenze culturali scaturite) spesso portano a difficoltà e tensioni come ha detto recentemente un leader sindacale: “Il movimento delle ONG può rappresentare una grande forza di cambiamento a tratti”. Paradossalmente, questa mancanza di una sola voce può spiegare la incredibile crescita delle ONG a partire dagli anni’80. Allorché la Banca Mondiale ed il FMI imposero tagli nei servizi pubblici, le ONG furono incoraggiate a riempire questi vuoti. Furono considerate il canale privilegiato per erogare servizi invece dello stato.

49 La Banca Mondiale non solo incoraggia i propri membri a lavorare con le ONG sui progetti di sviluppo, ma investe anche direttamente in progetti delle ONG. E’ stato rilevato che dal 1973 al 1980, le ONG erano state coinvolte in circa 15 progetti della Banca Mondiale all’anno. Dal 1990 questo numero è salito a 89, ossia il 40% di tutti i nuovi progetti approvati. Ma c’è una logica particolare dietro tutto ciò: sembra servire più uno scopo ideologico che economico: Non c’è prova che dimostri che i servizi erogati dalle ONG siano più economici di quelli pubblici. Di fatto negli USA, ove le ONG hanno un ruolo particolarmente rilevante nel prestare servizi nell’ambito di contratti governativi, sono diventate oggetto di profonde critiche proprio perché la loro presenza aumenta i costi di erogazione dei servizi e crea problemi di burocrazia aggiuntiva. Ciò è chiaro: non c’è una semplice formula per spiegare o sviluppare le relazioni tra sindacati e ONG. Molti sono alleati naturali, altri lavorano in aree complementari, ma molti sono concorrenti. C’è un certo consenso sulla circostanza che le ONG hanno rappresentato molto negli anni ’90 ma non c’è consenso sul perché ciò sia avvenuto. Non c’è una sola singola motivazione, ma una molteplicità di fattori tra loro interconnessi. Alcuni ritengono che tra questi fattori vadano ricompresi la fine della guerra fredda, la riduzione dello stato assistenziale, l’eredità del pensiero politico reganiano e thatcheriano nelle relazioni internazionali, l’aumentato ruolo delle istituzioni internazionali a cominciare dalle Nazioni Unite nell’ambito della governance globale,le grandi idee quali quelle di Robert Putnam sul capitale sociale, che hanno portato alla resurrezione del pensiero di Tocqueville ed al successo di movimenti sociali quali Solidarnost . Il risultato è stata un’incredibile crescita di risorse disponibili per le ONG. Oltre ad essere divenute le portatrici privilegiate di aiuti, queste organizzazioni si supponeva avrebbero promosso la democrazia (ed allo stesso tempo erano ritenute indici di salute della democrazia), che sarebbero intervenute in situazioni di emergenza, a supporto di cambi di regime, al fine di promuovere l’integrazione sociale di genti e comunità emarginate. Alcuni numeri sono significativi: per es. oltre il 90% dei finanziamenti a scopo umanitario della UE negli anni ’70 veniva canalizzato attraverso i governi e nessuno tramite le ONG.

50 Trenta anni dopo, i giovani contano per il 6%, mentre le ONG per il 37%.

Secondo dati forniti dalla OECD, il 13% di tutta l’assistenza allo sviluppo che ammonta a oltre 8.3 miliardi di dollari, nel 1992, è stata canalizzata attraverso le ONG (nel 1970 era lo 0,2%) Dopo lungo tempo, gli indicatori sembrano anche far apparire un processo di aggregazione. Il responsabile dell’amministrazione di USAID ha sostenuto che, con riferimento a particolari situazioni di emergenza e sostegno, 10 ONG europee e 10 USA spendano il 75% di tutti i fondi pubblici che vanno per emergenze complesse. Con il crescere del numero delle ONG, si è assistito ad una crescita del loro potere. La loro capacità di influenzare le relazioni internazionali è diventata presto chiara. L’ex Segretario delle Nazioni Unite Boutros Ghali ha detto una volta che le ONG sono una “componente indispensabile della legittimazione” delle Nazioni Unite. Kofi Annan ha definito le ONG “la coscienza dell’umanità”. Una serie di rivoluzioni “colorate” negli ultimi anni, nelle quali le ONG hanno svolto un ruolo preminente nelle proteste civili di massa, ha messo in luce il lavoro democratico di queste organizzazioni della società civile. Molti governi hanno risposto con misure legislative restrittive con lo scopo di evitare che le ONG potessero avere un ruolo attivo nei processi di sviluppo della democrazia. Ma ad ogni azione corrisponde una reazione. La popolarità senza precedenti ed il fatto di rappresentare la società civile hanno cominciato ad essere messe in discussione sul presupposto di mancanza di legittimazione, di serietà e di trasparenza. Per troppo a lungo sono state paragonate a realtà di affari o industrie. I Governi hanno iniziato a dire che le ONG non hanno un mandato democratico, che non sono espressione di elezioni. Molti critici delle organizzazioni sociali civili dicono che non devono rendere conto a nessuno se non a chi dona loro denaro. Ad oggi le ONG sono sotto attento esame. Il dibattito si fa difficile ed avrà un impatto sulla loro ragione di esistere e sull’influenza che le ONG hanno avuto sino ad ora; quanto meno ciò diminuirà i finanziamenti alle ONG. Così come da poche, le ONG sono diventate molte e potenti, all’improvviso potrebbero non rappresentare più un fenomeno globale.

51 Oggi le ONG si stanno mobilitando per difendere il loro operato ragionando su qualche forma di auto-regolamentazione, cercando di creare degli standards di buona condotta ed essenzialmente cercando di riformarsi. Alcuni dei donatori stanno immaginando strade alternative chiedendosi se non sia meglio tornare a finanziare aiuti attraverso i canali governativi o attraverso le grandi organizzazioni multilaterali. Anche così comunque, le ONG sono tuttora ben posizionate per fare cose che nessun altro potrebbe efficacemente fare. Vediamo alcuni esempi. Di recente una ONG che lotta per i diritti di persone disabili, si è impegnata in un’attività di promozione a livello nazionale in Macedonia ed ha raccolto quasi 20.000 firme. Lo scopo è di far approvare la Parlamento una legge che protegga i diritti dei disabili. Chi altro avrebbe potuto farlo ? Il Governo ? In un altro esempio, sempre dalla Macedonia, un paio di anni fa alcuni gruppi ambientalisti hanno lottato contro il Governo del Montenegro, in Tribunale, per il progetto di costruire una centrale di energia nella valle del fiume Tara, magnifica area naturale. Ed hanno vinto. In Albania il movimento giovanile MJAFT ha avuto un importantissimo ruolo nel combattere la corruzione a livello governativo. E lo stesso valga per migliaia di gruppi sconosciuti che prestano servizi tutti i giorni in comunità povere, nei ghetti, negli slums ed altre parti ove il sistema governativo non arriva. Fanno si che i bambini Rom vengano istruiti, combattono l’analfabetismo femminile, formano giovani disoccupati e così via.

52 7.2 ONG E UNIONE EUROPEA

I sociologi e politologi sono sempre più preoccupati della capacità, da parte della società civile, di influenzare la politica della UE e dei suoi Stati membri; questa capacità dipende, in larga misura, dal ruolo esercitato dalle ONG, che rappresentano gli interessi della società civile. Al fine peraltro di poter rappresentare le istanze della società civile, le ONG hanno necessità di poter accedere alle istituzione europee ove si preferivano i processi decisionali: questa condizione si collega con la questione, generale e controversa, della partecipazione della vita politica delle ONG, e del ruolo che possono svolgere nei processi internazionali di decision-making. Come noto, le NU hanno raggiunto il più alto livello di istituzionalizzazione del dialogo con la società civile, delegato al CES (ECOSOC) il compito di determinare una procedura speciale di accreditamento ed attribuzione di ruolo consultivo alle ONG. Per quanto concerne il sistema della UE, la varietà di interessi rappresentati dalle ONG e la crescente domanda per una più ampia partecipazione popolare nelle questioni civili, stanno imponendo alla UE di andare oltre il solo modello consultivo e di sviluppare, invece, un sistema più efficace e più integrato. Le ONG, in particolare, rappresentano, tra gli altri, interessi che hanno a che fare con lo sviluppo umano e nel fare ciò, le ONG sono un modello di successo nella capacità di gestire relazioni con i vari settori della società civile. Le cooperazioni con i Paesi vicini e i PVS è un esempio eccellente; attraverso la partecipazione ai programmi ufficiali della UE, le ONG europee hanno dato vita a molte iniziative, nell’ambito degli aiuti umanitari, specialmente in Africa. (Vd RYELANDT B. (1995) Pourquoi la Communauté Européenne travaille avec le ONG – Le Courier 152) Ciò ha costituito un buon punto di partenza per un aumentato coinvolgimento delle ONG nell’ambito della prevenzione di conflitti e/o della loro gestione ed un ruolo più attivo nelle missioni di pace UE.

53 Dibattito teorico La necessità di comprendere quale sia il livello di integrazione ed istituzionalizzazione a livello UE è stato ed è oggetto di dibattito; attenzione è stata prestata a due questioni: a) la volontà dei governi di dar vita ad istituzioni sovranazionali al fine di poter meglio sfruttare i vantaggi della condivisione delle risorse economiche e del sistema di libero scambio. b) La scala di competenze delle istituzioni europee ed il conseguente problema di una chiara suddivisione e gerarchia di livelli, in una struttura complessa ove coesistono centri di potere e decisionali. Poiché la specificità delle competenze UE richiede una adeguata conoscenza non sempre disponibile a livello di Stati e di istituzioni europee, gli attori della società civile ed i rappresentanti di interessi economici specifici, sempre più hanno svolto e svolgono un ruolo essenziale nell’ambito degli aspetti di molteplici politiche a livello UE. Negli anni ’70 si è assistito, ad esempio, al ruolo attivo giocato da gruppi economici nell’ambito del processo di consolidamento e di diffusione dell’integrazione economica (cosiddetto “effetto spill-over”) questo ruolo, attraverso una costante collaborazione con la Commissione, col fornire assistenza tecnica, è divenuto un reale metodo di consultazione ed ha aperto la strada all’integrazione politica. Questa tendenza è perseguita e si è rafforzata negli anni ’80; la pubblicazione del LIBRO BIANCO (Jacques Delors) nel 1985, fornì una serie di misure necessarie alla realizzazione del Mercato Unico, all’allargamento delle competenze delle Istituzioni europee ed all’introduzione della procedura di co-decisione; il rafforzamento della dimensione economica e l’ampliamento delle politiche comuni, accrebbe gli interessi e la pressione di vecchi e nuovi gruppi portatori di interessi. Questa fu denominata la “FASE DI LOBBIZZAZIONE” del processo di decisione europeo, una fase destinata a consolidarsi ed a svilupparsi ancora più, ove gli attori non-stabili hanno assunto ed assumeranno il ruolo di reali referenti. Mutamenti significativi accorsero anche negli anni ’90: il completamento del Mercato Unico, con tutta una serie di misure economiche e monetarie, ebbe un effetto a cascata sugli Stati membri, coinvolgendo tutti i livelli di governo ed inoltre il trattato di Maastricht portò

54 al consolidamento della posizione dell’Europa di diventare attore politico e qui oltre a gruppi, della società civile, economici, si affacciano altri gruppi attivi nelle questioni civili. Un nuovo sistema di rappresentanza di interessi stava ristrutturando la UE, per iniziativa di gruppi sociali.

Come afferma Schmidt “La democrazia UE non corrisponde alla definizione di stato – nazione quale “governo della gente” attraverso la partecipazione politica, “governo della gente” attraverso la rappresentanza dei cittadini, “governo per la gente” attraverso un effettivo governo, e ciò che chiama “governo con la gente” attraverso la consultazione con interessi organizzati” (SCHMIDT V. 2004 – The European Union: democratic legitimacy in a regional State? Center for European Studies Working Paper n° 112)

Le sfide poste alla UE, continuamente ricomparse anche dopo il Trattato di Maastricht, hanno a che fare con il fatto che le istituzioni europee prendono decisioni per conto dei cittadini ma SENZA che questi possano esercitare il dovuto controllo e parteciparvi. Per questa ragione nel 2001, la Commissione iniziò un percorso di riforma del sistema di governo UE, sul presupposto che un governo sovranazionale debba avere una governante democratica, almeno per tre ragioni: 1) democrazia implica non solo che i cittadini possano partecipare e legittimare il potere politico, ma anche che quest’ultimo a sua volta è responsabile verso i cittadini; 2) il concetto di bene pubblico significa che questo debba essere ampliamente condiviso da tutti coloro che sono soggetti alla sua giurisdizione; 3) democrazia richiede pesi e contrappesi appropriati.

La UE è un sistema nel quale sono rappresentati molteplici interessi, da una pluralità di attori, ma è un sistema ancora all’inizio di un processo di riforma dei propri metodi di partecipazione. Pertanto è sempre più importante il ruolo di gruppi ed organizzazioni che esprimono istanze non solo economiche.

55 Nel sistema della UE il concetto di società civile appare estremamente flessibile; la possibilità di delineare e concedere una procedura formale di accreditamento ed il conseguente status ufficiale consultivo è sempre stata esclusa dalla Commissione, come dichiarato nella Comunicazione “An Open and Structured Dialogue between The Commission and Special Interest Groups” (1993) (SEC 92, 2272). Ciò forse in considerazione del fatto di voler assicurare che il processo decisionale nella UE sia legittimamente esercitato dai rappresentanti eletti, il che però crea difficoltà nell’identificare canali appropriati per accedere agli interessi individuali ed, in qualche misura, ha fatto rallentare il processo di allargamento partecipativo. Allo stesso tempo, una flessibilità accresciuta ha permesso la partecipazione di una vasta gamma di attori. Come già detto all’inizio la UE riconobbe gruppi di interesse economico, rappresentativi di specifiche categorie (sindacati, imprenditori); gruppi principalmente legati al Mercato Unico ed alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria (agricoltura, pesca, energia, industria pesante). La dimensione degli interessi rappresentata nel sistema UE comporta per le istituzioni, la necessità di avere informazioni di qualità ed il processo attraverso il quale i gruppi forniscono “conoscenza” agli organismi decisionali si chiama “lobbying”; attraverso tale processo i gruppi hanno diretto accesso alle istituzioni e queste, senza doversi far carico dei costi, possono ridurre il deficit di informazione. Un metodo questo visto con favore anche dai gruppi non di espressione di interessi economici, ma della società civile, che furono, peraltro, favoriti dalla evoluzione istituzionale generata tramite l’Atto Unico Europeo ed il Trattato di Maastricht. La cosiddetta Community Based Organization (CBO) è composta da quei gruppi sociali, variamente organizzati che mettono insieme cittadini europei attivi nella vita locale e nazionale, e che rappresentano interessi pertinenti lo sviluppo umano. (Vd Economic and Social Committee - (1999) – The Role and Contribution of civil society organisations in the building of Europe – CES 851/1999)

Tra queste organizzazioni, le chiese e le comunità religiose, le associazioni di volontariato ed ovviamente le ONG: per quanto ostacolate soprattutto a causa della resistenza da parte

56 degli Stati membri, tuttavia hanno avuto successo nel gestire negoziazioni in certi settori e nel dar vita ad una sorta di dialogo civile. La cooperazione con i Paesi confinanti e i PVS ne è un esempio eccellente; col partecipare ai programmi ufficiali, le ONG europee hanno promosso molteplici iniziative di aiuto umanitario, specialmente in Africa (RYELANDT, 1995). Questi sforzi hanno ottenuto risultati concreti con la creazione, nel 1976, del COMITÉ DE LIASON, l’organo di rappresentanza di tutte le ONG europee impegnate nella cooperazione in collaborazione con le istituzioni comunitarie. Il comitato ha lo scopo di stabilire un collegamento e permettere il dialogo politico tra la società civile e la UE, rappresentando le ONG europee presso le istituzioni europee ed in particolare, al Parlamento, al Consiglio d’Europa e presso le Conferenze e le assemblee internazionali. In questo caso, la pressione delle ONG si è sviluppata sulla UE affinché la stessa desse forza alle politiche di aiuto umanitario, sviluppando politiche e programmi specifici. Il fatto è che essendovi interessi plurimi e diversi nella società civile, la questione si pone è di come le istituzioni europee abbiano e/o possano formalizzare le relazioni con i vari gruppi di interesse. A tal fine vi sono due vie: 1) SOCIAL DIALOGUE Dalla pubblicazione del Libro Bianco nel 1985, il sistema europeo ha disciplinato forme e procedure al fine di rendere attivo il dialogo sociale. L’Art. 138 del Trattato, stabilisce che la Comunità Europea sia considerata la base giuridica del dialogo sociale. Gli aspetti rilevanti sono due: A. In primo luogo la UE identifica chiaramente gli attori sociali (sindacati, associazioni imprenditoriali, professionali, multinazionali, gruppi industriali) organizzati verticalmente ed impegnati in aree chiaramente identificabili – il LAVORO. B. Vi è una procedura di consultazione che obbliga la Commissione a chiedere dei partners della società in tutte le questioni di loro competenza e prima di dare inizio ad una iniziativa legislativa. 2) CIVIL DOALOGUE

57 Qui invece non vi è una base giuridica; ciò ha causato grande incertezza riguardo all’ identità degli attori coinvolti ma anche alla modalità di accesso ai processi decisionali. E’ un problema che concerne ONG ed associazioni coinvolte in tutte quelle aree che non ricadono nella sfera economica: protezione del consumatore, cooperazione allo sviluppo, ambiente, diritti umani, protezione delle donne e dei bambini… La caratteristica degli interessi rappresentati porta ad una struttura che generalmente non è verticale o centralizzata, ma molto flessibile attraverso una struttura network. Non esiste una procedura di consultazione, richiesta per legge, il che, però, non impedisce alla commissione di mettere in atto meccanismi di dialogo. La mancanza di standard e procedure che disciplinino il dialogo “civile” cominciò a sentirsi fortemente negli anni ’90, tanto da diventare, negli anni successivi, una vera e propria esigenza. La vastità e complessità delle organizzazioni e degli interessi coinvolti, rese molto complessa la definizione di meccanismi standard. Prendendo in considerazione la definizione di governance data dalla Commissione, ciò che è stato sviluppato è un sistema di interazioni mantenute separatamente con ogni istituzione europea, talora con qualche convergenza, ma molto più spesso senza alcun coordinamento. Il “dialogo civile” è stato raccomandato al Comitato Economico Sociale, il quale avrebbe dovuto essere la naturale “casa”, non solo perché è l’organo rappresentativo di diversi interessi, ma anche perché ha il compito di incrementare le relazioni tra società ed istituzioni, agendo quale mediatore, peraltro le relazioni non sono mai state molto produttive e la prevalenza nel CES, di interessi economici, ha ostacolato il dialogo su altri livelli. La Commissione è quella che più si è spesa nel cercare di trovare una definizione condivisa di “Civil Consultation” e quindi nella definizione di procedure più comprensibili. Nel documento: “The Commission and The non-governmental organizations: building a stranger partnership” (January 2000 COM (2000)11)

58 Fu definita una dettagliata modalità empirica di verifica del come dare inizio ad un dialogo civile, così come furono affrontati una serie di problemi legati alla mancanza di trasparenza e di comunicazione, ed alla eccessiva complessità delle procedure. Le difficoltà principali furono essenzialmente due: 1) la stretta divisione di competenze della Commissione in ambiti diversi non era sempre corrispondente agli interessi rappresentati dalle varie organizzazioni che erano al contrario, più flessibili e interdipendenti; il che contribuisce a creare confusioni nelle organizzazioni in relazione a quale direttorio generale avere come interlocutore. 2) Il funzionamento, diretto mediato dalle autorità nazionali, non era inteso per il vantaggio delle organizzazioni, ma per singole competenza. A questi problemi, la Commissione rispose con una dichiarazione di grande impegno, ma richiedendo, allo stesso tempo, alle organizzazioni una maggior responsabilità ed un maggior uso del processo di consultazione. Il documento delinea una piattaforma per lanciare una prima strategia di cooperazione basata su 5 priorità: 1) accelerazione della partecipazione democratica; 2) rappresentazione delle visioni di specifici gruppi di cittadini verso le istituzioni europee; 3) contributo al policy making; 4) contributo al project management; 5) contributo all’integrazione europea. EUROPEAN COMM (2001) WHITE PAPER ON EUROPEAN GOVERNANCE Bruxelles COM (2001). Diventa perciò essenziale elemento la partecipazione della società civile e la priorità è l’allargamento della sua base. La parola chiave fu “partecipazione” : l’ Eurobarometro segnalava, ripetutamente, che l’interesse alle politiche europee era molto basso a livello individuale dei cittadini, ma considerevolmente elevato in gruppi strutturato e nelle organizzazioni ed inoltre nello WHITE PAPER, venne finalmente chiaramente definito cosa si intendesse per “appartenenti alla società civile”

59 “La società civile include: i sindacati e le organizzazioni imprenditoriali (“social partners”: le organizzazioni non governative, le associazioni professionali…” (p 14) Tempi e modi di coinvolgimento vennero spiegati attraverso l’uso del metodo aperto di coordinamento (p 21). Perciò la Commissione intese promuovere una nuova cultura di consultazione, mettendo insieme attori (organizzazioni della società civile, gruppi locali e nazionali, CES, Comitato delle Regioni e tutte le istituzioni) e metodi (rispetto per i principi base di buon governo) in un quadro di riferimento di interdipendenza e coordinamento. Il limite sta nella circostanza che si trattò ancora di un ruolo consultivo, non esteso al livello decisionale. La comunicazione: “TOWARDS A REINFORCED CULTURE OF CONSULTATION AND DIALOGUE…” EUROPEAN COMM 2001 Bruxelles Com (2002) 704 Cerca di dare una miglior chiarificazione di attore/i “organizzazioni della società civile sono le principali strutture della società al di fuori dell’amministrazione di governo e pubblica, inclusi gli operatori economici non generalmente considerati essere “terzo settore” ad ONG” Continua con l’affermare la necessità di partecipazione su base più ampia e vien riconosciuto il ruolo attivo svolto dalle organizzazioni della società civile, ma la parola chiave continua ad essere “consultazione”. Il dialogo con la Commissione che continua, ha come scopo di chiarificare quali attori debbano essere legittimati nel colloquio con le istituzioni europee e quali metodi vadano usati. Il risultato è stato quello di aver cominciato a dar vita a leggi e provvedimenti che hanno permesso alle ONG europee di essere associate al processo di formulazione di politiche in aree specifiche (quale ambiente, cooperazione allo sviluppo) ed ancora più importante accesso diretto ai finanziamenti; soprattutto grazie al dialogo instauratosi al Consiglio. In altri termini, vi è una forte presenza, nel sistema della UE, della società civile, variamente organizzata e desiderosa di essere ascoltata su temi sia nuovi che tradizionali; accanto ai temi rilevanti per gli attori del dialogo sociale (agricoltura, mercato interno, impresa) vi è una sempre maggior pressione in aree ove gli interessi in gioco sono variegati, quale sicurezza, diritti umani, soccorso umanitario.

60 Conflict management e intervento umanitario La trasformazione di due aspetti principali della sicurezza globale, la natura dei conflitti contemporanei – le cd nuove guerre – e gli attributi dell’intervento umanitario nel mondo contemporaneo, vanno tenuti in considerazione. Con la fine della Guerra Fredda, sono emerse le problematiche connesse ai cosiddetti “Stati deboli”; la debolezza istituzionale, la mancanza di regole di diritto e la fragilità economica, sono state causa di nuovi conflitti ed una delle caratteristiche comuni è data dallo spostamento da una dimensione “bellica” interstatale ad una intrastatale, con una presenza, appresso, di attori non-statali e con un venir meno di una chiara distinzione tra civili e combattenti. Tutto ciò comporta che il “Conflict management” non dipenda più solamente dai mezzi militari. Per questa ragione le missioni di peacekeeping con estese funzioni civili, includendovi la ricostruzione economica, la riforma istituzionale ed i processi elettivi, sono fattori necessari al fine di aumentare le opportunità e le ciance di successo nel contenere la violenza e costruire la pace. Il mutato carattere della guerra ed il parallelo trasformarsi degli strumenti di “Conflict management” e di intervento umanitario, oltre a peculiari caratteristiche ed eventi che hanno caratterizzato la UE, con la fine della Guerra Fredda, meritano attenta considerazione, anche in relazione al processo storico di sviluppo della Politica Estera e di Sicurezza Comune (CFSP); tema che però qui non può essere analizzato. Nel campo della sicurezza e dell’intervento umanitario, la UE ha, in maniera importante, accresciuto il proprio supporto alle ONG negli anni ’80 e ’90. La UE iniziò a fornire assistenza in questo ambito, attraverso finanziamento alle ONG, nella metà degli anni ’70, con un piccolo programma di co-finanziamento (U$ 3,2 mli). Dagli anni ’80, il budget fu rapidamente accresciuto e nel 1995 arrivava a 1,0 billion USD (il 15/20% del budget UE per aiuto estero) Il lavoro svolto dallo European Community Humanitarian Office (ECHO) e la gran parte del lavoro svolto sul tema dei rifugiati dalle varie DG, fu essenzialmente implementato dalle ONG.

61 La politica di prevenzione dei conflitti è stata radicalmente modificata, nel 1995, quale risultato del dialogo tra la Commissione e le ONG, con particolare riguardo all’Africa, per la politica allo sviluppo, il Sud-Est europeo e la ricostruzione post-bellica in Bosnia, dopo gli accordi di Dayton. Il colloquio tra ONG e Commissione ha in particolare contribuito allo sviluppo di alcune norme per la prevenzione dei conflitti ed a formulare proposte che esplicitamente hanno rafforzato le relazioni tra le cause strutturali di instabilità e la violenza e la necessità di legare tra loro aiuti e politica estera. Le relazioni con le istituzioni UE nelle aree dell’assistenza e dell’aiuto umanitario hanno contribuito ad incrementare il ruolo attivo delle ONG ed il LIASON COMMITTEE, in particolare, è stato di grande aiuto nel dar vita ad una piattaforma per migliorare la cooperazione tra un Europa bisognosa di un’accresciuta presenza nelle aree turbolente del mondo e le ONG, con la loro capacità, di farne fronte. Lo sviluppo è stato un accresciuto interesse verso le missioni di pace sviluppate nell’ambito della politica di Sicurezza e Cooperazione Comune così come la ricerca di nuove forme di cooperazione. Un ruolo, quello delle ONG, che coinvolge i temi del coinvolgimento nella partecipazione politica, della rappresentanza e della democratizzazione dei processi di decision-making e del cambiamento della natura delle missioni di pace multi-funzionali. Insieme alla Commissione, il Consiglio d’Europa, iniziò presto ad intravedere possibile forme di cooperazione con le ONG nell’ambito degli interventi umanitari. Nel giugno 2004 vennero pubblicati i: “MILITARY HEADLINE GOAL” e “ACTION PLAY FOR CIVILIAM ASPECTS OF ESPD”. Da questi emerse come il Consiglio abbia ritenuto di grande valore l’esperienza e la capacità di “early warning” delle ONG, soprattutto nell’ambito della capacità di gestire di crisi. Ad esempio, nel 2008, fu organizzata dal Segretariato Generale del Consiglio, una conferenza con la missione EULEX KOSOVO, al fine di studiare con le ONG non solo il livello di cooperazione in aree cruciali quali i diritti umani, ma anche con lo scopo di individuare attraverso quali modalità poter contribuire ad accrescere il rispetto delle regole di diritto in Kosovo.

62 La necessità di avere più potere, ha spinto la società civile, attraverso le due organizzazioni, a rafforzare la cooperazione tra loro: ciò è accaduto anche alle ONG a scopo umanitario. Lo EUROPEAN PEACEBUILDING LIAISON OFFICE (EPLO) è la piattaforma delle ONG europee, dei networks di ONG e dei think-tanks attivi nell’ambito del peace-building: è stato creato con lo scopo di promuovere politiche sostenibili di peace-building. Tra i risultati migliori ottenuti da EPLO, va ricordata la AMSTERDAM APPEAL: an action plan for european leaders e la creazione nel 1997 delle european platform for conflict prevention and transformation. Si tratta di una piattaforma composta da più di 150 organizzazioni attive nell’ambito della prevenzioni e risoluzione di conflitti violenti nell’arena internazionale ed un luogo ove ONG locali ed internazionali si scambiano esperienze.

Conclusioni La vastità dell’arena politica europea, che si sviluppa su molteplici livelli di governo, la complessità delle procedure e la pluralità di interlocutori politici, rende complesso per le ONG interagire efficacemente a livello UE. La crescente partecipazione delle ONG nel “conflict management” e nell’ambito dell’intervento umanitario è parte della lotta delle ONG per ottenere un efficace ruolo nella politica mondiale. Iniziarono supportando le missioni di pace delle NU negli anni ’90 e si adattarono ai cambiamenti sviluppando un ampio ventaglio di approcci. Nel sistema europeo, le ONG “umanitarie” hanno dovuto fronteggiare la variabile del processo di integrazione politica ed hanno sofferto la mancanza di istituzionalizzazione; nonostante ciò sono state in grado di sviluppare prassi che, negli anni, hanno dimostrato efficacia.

63 7.3 ONG E GLOBALIZZAZIONE Come sappiamo il termine ONG fu utilizzato, per la prima volta, dalle autorità delle NU, nell’ambito della Carta del 1945. Ciò peraltro non vuol dire che le ONG non esistevano prima ed inoltre il termine collocato nella Carta, non dà alcuna definizione. Il termine, come spesso accade nell’ambito delle scienze sociali, non è chiaramente definito ed inoltre non vi è una definizione generalmente accettata ed il termine, a seconda delle circostanze, ha differenti connotazioni. Peraltro, sebbene sia eventualmente difficile determinare cosa siano le ONG, è possibile specificare cosa non siano ad esempio: una ONG non si potrà costituire quale partito politico; non avrà scopo di lucro e sarà a fini non-violento. Le ONG non sono principalmente dei gruppi di precisione politica o di interessi. La loro funzione è di mettere in contatto il mondo complesso e non-familiare del livello governativo con il terreno familiare di gruppi economico e sociale esistenti o nascenti. Le ONG creano beni pubblici dei quali i cittadini hanno necessità che abitualmente non si trovano nel mercato orientato al profitto. Si accetta comunemente il fatto che le ONG formino un terzo settore distinto e separato da quello degli affari e del governo. Questo settore fornisce servizi sociali essenziali ed il profitto è il progresso sociale. Uno dei successi più importanti degli ultimi anni è stata la campagna di messa al bando delle mine anti-uomo ove centinaia di ONG non sono confinate solo alle agende governative; per esempio la NIKE è stata bersaglio a causa delle povere condizioni di lavoro nelle proprie fabbriche asiatiche. In breve, le ONG svolgono sempre più il ruolo vitale quali lobbiste ed attiviste a livello societario, nazionale ed internazionale e talora il loro criticismo porta ad una revisione delle politiche. Le ONG giocano ruoli che vanno oltre l’attivismo politico; molte sono portatrici di servizi, soprattutto nei PVS; alcune tra le più importanti ONG, quali CARE e MEDECINS SANS FRONTIERES sono in primo luogo ONG umanitarie e di cura. Allorché è venuto l’ottimismo successivo alla fine della Guerra Fredda ed alla prospettiva di un “dividendo della pace”, seguito da un fiorire di conflitto etnico nazionalistico in Europa,

64 Asia ed Africa, che hanno causato catastrofi umanitarie di proporzioni inique, il ruolo è l’importanza dell’aiuto umanitario è diventato ancor più cruciale. Nel 1995, si è stimato che circa 14 milioni di persone fossero rifugiati e circa 23 milioni “internally displaced”; ciò ha dato luogo ad una crescita delle attività delle ONG in questa area. Nella maggior parte dei casi, le ONG hanno esposto più efficacemente a queste crisi rispetto alle organizzazioni internazionali. E’ stato sostenuto che per rendere l’operato delle ONG ancora più efficace, queste dovrebbero pensare al di là delle sole azioni di sostegno e concettualizzare i loro interventi cosicché le politiche di assistenza umanitaria siano finalizzate alla creazione di programmi ed attività che (ri)portino pace. Le ONG sono partners nello/allo sviluppo o dovrebbero esserlo, almeno quelle che operano nei PVS; molte sono coinvolte in progetti di sviluppo, fornendo assistenza tecnica al fine di migliorare la qualità di vita nelle zone rurali povere: attraverso la sempre maggior partecipazione delle ONG nel disegnare, generare e attuare progetti, agiscono quali agenti al fine di migliorare la qualità di vita delle fasce di popolazione più povere. Le ONG tendono ad essere più sensibili ai bisogni ed alle aspirazioni delle comunità povere, delle minoranze e delle donne. Ci si aspetta che le ONG, attraverso un’attività di coordinamento appropriata al fine di evitare una competizione disfunzionale, si facciano carico di molti dei compiti convenzionali che spesso sono assunti dai governi e dalle agenzie specializzate delle NU. Un caso esemplare è il fatto che in un’era nella quale si assiste ad una diminuzione degli aiuti stranieri, l’ammontare degli aiuti canalizzati attraverso le ONG che operano nei PVS stia aumentando. Secondo la Banca Mondiale, oggi le ONG amministrano in Africa circa 3,5 bill U$D in aiuti esterni, in confronto al 1 bill U$D nel 1990. Questo, purtroppo, ha causato però, recentemente, casi di corruzione all’interno di alcune ONG in Ghana; ciò nonostante, in Ghana, gli esempi di alcune ONG di successo sono molteplici, soprattutto allorché la ONG dimostri come si possa essere attraverso la pianificazione, implementazione e sostenibilità dei progetti che vengono attuati. Secondo un working paper pubblicato dall’UNIDO nel 1997, “la forza delle ONG risiede nella loro vicinanza ai propri appartenenti, nella flessibilità e nell’alto grado di

65 coinvolgimento della gente e di partecipazione nelle attività che comporta forte coinvolgimento, appropriatezza di soluzioni ed un elevato tasso di accettazione delle decisioni prese”. Ad esempio, in Africa molti donatori vedono nelle ONG una componente importante del processo di democratizzazione, riconoscono un ruolo di garante del rispetto dei diritti umani e di buon governo. E’ uno dei più grandi paradossi dei nostri tempi che la globalizzazione sia stata associata con l’aumentare delle tensioni intra-statali ed abbia esacerbato una serie di preoccupazioni: sull’ambiente, diritti del lavoro, diritti umani, diritti dei consumatori…. Le ONG hanno e giocano un ruolo importante nel mettere in luce ed indirizzare queste preoccupazioni. Attraverso il potere di internet, le ONG forniscono servizi di rete, creando coalizioni attraverso reti di contatti, nazionali ed internazionali, che forniscono informazioni su questioni di rilievo. Attraverso questi network, ci si organizza per protestare contro certe politiche. Le ONG si confrontano con la globalizzazione non solo attraverso dimostrazioni a livello internazionale, ma anche locale, laddove le ONG stanno già sviluppando un numero di strategie per aiutare i poveri a confrontarsi con la realtà della loro posizione sociale nel mercato globale e nel giocare un ruolo creativo nel ridisegnare le forze economiche. Il ruolo delle ONG, allo scopo di combattere la povertà, è stato e continua ad essere quello tradizionale di sviluppare capacità educando, dar vita ad istituzioni, incrementare l’accesso al credito (microcredito) ed a opportunità economiche, mettendo in contatto differenti livelli e settori dell’economia. In secondo luogo, le ONG possono convertire forze di mercato a vantaggio dei gruppi più poveri, riducendo i costi di internazionalizzazione: esempio ne è il tentativo delle ONG in Sud Africa di lavorare con le associazioni comunitarie al fine di aiutarle ad ottenere migliori condizioni nell’ambito del commercio e del turismo, eliminando il ruolo degli intermediari. Nell’ambito delle relazioni internazionali, gli studenti oggi parlano delle ONG quali attori non statali, (una categoria che peraltro include anche le corporation trans-nazionali): questo termine suggerisce che stia sempre più emergendo l’influenza delle ONG sull’arena politica internazionale, ove, prima, erano gli Stati a ricoprire un ruolo significativo.

66 Il passato Segretario Generale delle NU, Kofi Annan, ha definito le ONG “la coscienza dell’umanità e le ONG tecniche sono state consultate su questioni rilevanti dalla Banca Mondiale e da altre agenzie delle NU prima che certe politiche fossero implementate." E’ certo che il ruolo delle ONG crescerà con lo sviluppo di una governance globale più pluralistica e meno confinante a sistemi basati sullo Stato sovrano.

Globalizzazione Oggi la globalizzazione è messa in discussione ovunque nel mondo. Vi è insoddisfazione per ciò che rappresenta e forse giustamente. La globalizzazione può essere una forza portatrice di buoni risultati; la globalizzazione delle idee di democrazie e di come vada interpretata l’idea di società civile hanno cambiato il modo in cui la gente pensa, mentre i movimenti politici globali hanno spinto i governi a ridurre i debiti dei paesi in via di sviluppo ed a negoziare un trattato contro le mine anti- uomo. La globalizzazione ha aiutato centinaia di milioni di persone a poter raggiungere migliori standards di qualità di vita, al di la di quanto gli stessi popoli, o molti economisti, pensassero fosse possibile solo poco tempo addietro. La globalizzazione dell’economia ha avvantaggiato nazioni che ne hanno tratto beneficio, andando alla ricerca di nuovi mercati ove esportare i propri prodotti ed attirando investimenti esteri. Le nazioni che ne hanno beneficiato maggiormente sono quelle che hanno preso in mano il proprio destino, e riconosciuto il ruolo che il governo può avere nel processo di sviluppo più che fare solo affidamento sulla capacità di un mercato di auto-regolamentarsi risolvendo i propri problemi. Ma per milioni di persone la globalizzazione non ha funzionato. Molti hanno visto peggiorare la propria condizione, assistendo alla distruzione dei posti di lavoro e andando incontro ad esistenze meno sicure. Si sono scoperti meno forti di fronte a forze al di la del loro controllo. Hanno visto le loro democrazie minacciate, le loro culture erose. Se la globalizzazione continua ad essere portata avanti come si è fatto nel passato, se non si impara dai propri errori la globalizzazione non solo non riuscirà a promuovere lo sviluppo

67 ma continuerà a creare povertà ed instabilità. Senza una riforma, il di scontento che sta montando contro la globalizzazione continuerà a crescere. Se gli interessi finanziari hanno dominato il modo di pensare al FMI (Fondo Monetario Internazionale) gli interessi commerciali hanno avuto un ruolo ugualmente dominante presso il WTO. Così come il FMI da poca rilevanza alle richieste dei poveri – ci sono miliardi a disposizione per prestiti alle banche, ma non ci sono fondi per gli aiuti alimentari per coloro che sono stati esclusi dal mondo del lavoro, quali risultato dei programmi del FMI – il WTO mette il commercio sopra ogni altra considerazione. Gli ambientalisti che cercano di proibire l’importazione di beni prodotti usando tecnologie che danneggiano l’ambiente con la distruzione di specie in via di estinzione, o elettricità prodotta da generatori che inquinano l’aria – si sentono dire che non possono comportarsi in questo modo, si tratta di interferenze sul libero mercato. Mentre le istituzioni sembrano perseguire soprattutto interessi commerciali e finanziari, non riescono a vedere se non tutto questo e credono sinceramente che l’agenda che perseguono sia nell’interesse generale.

A dispetto dell’evidenza del contrario, molti ministri del commercio e delle finanze, ed anche alcuni leader politici ritengono che ognuno alla fine trarrà beneficio dalla liberalizzazione del commercio e del mercato dei capitali. Molti ritengono e credono in tutto ciò così fortemente che spingono le nazioni ad accettare queste riforme con ogni mezzo, anche se si tratta di riforme impopolari. La grande sfida non sta però solo nel cambiare il modo di pensare ed agire delle istituzioni: preoccuparsi dell’ambiente, assicurarsi che i poveri possano esprimere la loro opinione quando si adottano provvedimenti che li riguardano, promuovere la democrazia ed un commercio equo, sono tutte azioni necessari se si vogliono raggiungere i potenziali benefici della globalizzazione. Il problema è che le istituzioni devono tener conto e riflettere le aspettative di coloro verso i quali sono responsabili.

68 Il tipico banchiere centrale inizia la giornata lavorativa preoccupandosi delle statistiche sull’inflazione, non di quelle sulla povertà; il ministro del commercio si preoccupa dei numeri dell’export, non degli indici di inquinamento. Il modo di agire di coloro che operano nelle istituzioni deve cambiare e chi opera nelle istituzioni deve rendere conto direttamente a coloro che rappresenta. La questione dei diritti di voto e chi possa sedersi al tavolo – anche con limitazione del diritto di voto – conta. Determina il potere definire le voci di chi sono espresse. Il FMI non si preoccupa solo di questioni tecniche e di accordi tecnici tra banchieri, le azioni del FMI impattano sulle vite ed i modi di vivere di miliardi di persone nel mondo in via di sviluppo; ciò nonostante queste persone non hanno diritto di parola.

La governance a livello del WTO è più complessa. Così come il FMI è l’arena ove vengono ascoltati i ministri delle finanze, presso il WTO, vi sono i ministri del commercio. Nessuna sorpresa che allora si presti poca attenzione alle questioni ambientali. Mentre gli accordi di voto fanno si che presso il FMI i paesi ricchi dominino, presso il WTO ogni paesi esprime un singolo voto e le decisioni sono perlopiù consensuali. Ma in pratica, negli anni passati, US, Europa e Giappone hanno dominato. Il cambiamento più importante richiesto per far si che la globalizzazione funzioni nel modo in cui dovrebbe, riguarda la governance. Al di là di una modifica delle regole di governance, il modo più rilevante per assicurarsi che le istituzioni internazionali siano più reattive alle istanze dei poveri, ai bisogni dell’ambiente, alle più ampie preoccupazioni politiche e sociali è aumentare la trasparenza e l’apertura verso l’esterno. Oggi diamo per scontato l’importanza del ruolo che una stampa libera ed informata ha nel “sorvegliare” i comportamenti dei nostri governi eletti democraticamente. La trasparenza è ancora più importante in organizzazioni quali il FMI, la Banca Mondiale e il WTO, poiché i loro leaders non sono eletti direttamente. Sebbene siano istituzioni pubbliche, non devono rendere conto direttamente al pubblico. E mentre ciò dovrebbe comportare che queste istituzioni siano ancora più aperte, esse incede sono ancora meno trasparenti.

69 Non è facile cambiare il modo di fare, le burocrazie, come le persone, possono assumere cattive abitudini e cambiare può essere difficile. Ma le istituzioni internazionali devono fare anche cambiamenti che sembrano impossibili per potere svolgere quel ruolo che devono anche per far si che la globalizzazione possa funzionare e funzionare non solo per i paesi industrializzati ma anche per le nazioni povere ed in via di sviluppo.

Il mondo sviluppato ha bisogno di fare la propria parte per riformare le istituzioni internazionali che governano la globalizzazione. Noi abbiamo creato queste istituzioni e dobbiamo ora aggiustarle. Se saremo capaci di rispondere alle giuste preoccupazioni di coloro che hanno espresso insoddisfazione verso la globalizzazione, se faremo si che la globalizzazione sia vista come qualcosa di positivo per i miliardi di persone che non la vedono così, se la globalizzazione assumerà un volto umano, allora la globalizzazione avrà vinto.

70 8. COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO

La cooperazione decentrata La cooperazione allo sviluppo può costituire un laboratorio del cambiamento, uno strumento per mettere a punto le soluzioni innovative che devono accompagnare i processi di sviluppo. Per fare questo, però, essa deve superare i limiti che l’affliggono e che sono riconducibili ad una radice comune: un difetto di partecipazione effettiva della maggior parte della gente ai processi di sviluppo. I principali modi in cui si manifesta il difetto di partecipazione sono: il centralismo, cioè il fatto che tutte le decisioni importanti che riguardano un gran numero di persone che vivono in aree lontane e diverse tra loro vengono prese in pochissime sedi centrali senza il coinvolgimento dei soggetti locali; l’assistenzialismo, cioè il fatto che sono stati promossi interventi che, invece di formare capacità, alimentano la dipendenza e la passività dei beneficiari. Nella cooperazione tradizionale, i limiti sopra ricordati hanno dato luogo ai progetti a pioggia, ai macro-interventi non sostenibili, a progetti frammentari concordati con i Governi dei Paesi (talvolta chiamati pretenziosamente “programmi paese”), agli interventi decisi dai politici o dagli esperti senza che i diversi attori sociali vi prendessero parte. Con il tempo si è affermata la consapevolezza che il modello del macro-intervento (la realizzazione di grandi infrastrutture con il conseguente impiego massiccio di capitali, tecnologie e professionisti occidentali) non ha funzionato perché spesso ha aggravato le condizioni di dipendenza del paese beneficiario. È così, soprattutto grazie agli interventi promossi dalle ONG, si è iniziata ad affermare la strategia del micro-intervento che presentava maggiori garanzie di sostenibilità (la capacità del progetto di sostenersi nel tempo) proprio per il fatto di fondarsi sul coinvolgimento dei beneficiari e sulla logica bottom-up (“dal basso verso l’alto”) ossia l’identificazione di un intervento a partire dalle esigenze locali. I due modelli, macro e micro, hanno convissuto nel corso degli anni ’80. Negli anni ’90, la visione dello sviluppo è cambiata radicalmente. Lo sviluppo viene finalmente recepito non più esclusivamente nei termini della crescita economica, bensì come un processo multidimensionale in cui economia, politica e cultura si intrecciano in modo complesso. Se

71 da un lato, il concetto di “Sviluppo Umano” elaborato dall’UNDP ha avuto il merito di mettere in primo piano il benessere degli uomini, il Vertice mondiale di Copenhagen sullo “Sviluppo Sociale” (1995) ebbe il merito di sottolineare la necessità della partecipazione della società civile nelle decisioni riguardanti la collettività e di svelare l’esistenza di una “questione sociale mondiale”: disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, sono problematiche che, seppur con gradi differenti, riguardano sia i Paesi del Sud, sia i Paesi del Nord del mondo. Nel contesto di questi ripensamenti è stato riconosciuto alla società civile un ruolo attivo nei processi di sviluppo e nelle attività di cooperazione internazionale. Un riconoscimento che non si esaurisce alle attività realizzate dalle ONG, ma che riguarda anche, in misura crescente, il ruolo delle autorità locali, dei gruppi di base, dei sindacati, delle cooperative, delle università, etc… Per cooperazione decentrata si intende una azione di cooperazione allo sviluppo svolta dalle Autonomie locali (Regioni, Province, Comuni), singolarmente o in consorzio tra loro, attraverso il concorso delle risorse della società civile organizzata presente sul territorio di relativa competenza amministrativa (università, sindacati, ASL, piccole e medie imprese, imprese sociali). Questa azione di cooperazione deve realizzarsi attraverso una sorta di partenariato con un ente omologo del Sud del mondo. In altri termini, due enti locali (uno al Nord e uno al Sud del mondo) concertano tra loro per la definizione e la realizzazione di un progetto di sviluppo locale. Si tratta di una forma di cooperazione che mira al coinvolgimento della società civile, tanto quella del “Nord” quanto quella del “Sud”, nelle fasi di ideazione, progettazione ed esecuzione dei progetti di sviluppo. Più in particolare gli obiettivi perseguiti dalla cooperazione decentrata sono: a) mobilitare le popolazioni e tener conto maggiormente dei loro bisogni e delle loro priorità; b) rafforzare il ruolo e la posizione della società civile nei processi di sviluppo; c) favorire lo sviluppo economico e sociale, duraturo ed equo, attraverso la partecipazione. La cooperazione decentrata, prevedendo la partecipazione diretta degli individui, sia quelli dei Paesi donatori che quelli dei Paesi beneficiati, riconosce l’esistenza di una molteplicità di soggetti dello sviluppo. In questo modo, si discosta notevolmente dalla logica dei macro- interventi ideati nei centri decisionali occidentali ed esportati, spesso in modo acritico, un

72 po’ ovunque nel mondo. La cooperazione decentrata è pensata a partire dalle esigenze locali e progettata attraverso un’integrazione delle competenze locali e delle competenze dell’ente del paese industrializzato che promuove l’intervento. Il riconoscimento delle competenze specifiche delle entità locali (piccole e medie imprese, imprese sociali, sindacati, università…) e l’invito a farle cooperare rappresentano l’elemento qualificante della cooperazione decentrata: gli enti locali, infatti, dovrebbero agire in base alle loro competenze. A loro volta, i programmi decentrati, per il loro carattere ristretto, sono più controllabili e proprio il fatto di aver puntato sullo sviluppo locale costituisce una garanzia di sostenibilità dell’intervento, ossia la capacità propria di sostenersi nel tempo attraverso le risorse umane, le tecniche ed istituzionali locali, e attraverso la capacità propria di gestione locale. La cooperazione decentrata non deve essere considerata come una via d’uscita di fronte ai fallimenti delle forme di cooperazione tradizionali quanto piuttosto uno strumento nuovo che, con le sue caratteristiche, dovrebbe affiancarsi alle forme di cooperazione già esistenti. Si tratta, ad ogni modo, di una forma giovane di cooperazione e pertanto non ancora collaudata e i cui risultati potranno essere valutati soltanto in futuro.

Storia La cooperazione decentrata è stata introdotta nelle disposizioni generali della IV° Convenzione di Lomè (ACP-UE), firmata nel 1989, che stabilisce un accordo di cooperazione tra Europa e Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. Nell’art.20 di tale convenzione, relativo alle parti attive della cooperazione, si afferma il principio di una cooperazione decentrata realizzata attraverso il concorso di parti attive economiche, sociali e culturali. Tra queste parti attive i poteri pubblici decentrati sono esplicitamente menzionati. Nel 1992, quest’approccio è stato esteso ai Paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia (ALA-UE). Nella dichiarazione adottata al termine della Conferenza euromediterranea di Barcellona del 1995 i Paesi partecipanti hanno manifestato la volontà di rafforzare gli strumenti della cooperazione decentrata, decidendo, tra l’altro, di “incoraggiare i contatti” a livello di “autorità regionali” e di “collettività locali”. Questo nuovo approccio alla cooperazione internazionale si è gradualmente affermato nel corso di questi ultimi anni e si è

73 concretizzato nella creazione, in sede europea, di una linea finanziaria specifica destinata alla promozione della cooperazione decentrata attraverso il finanziamento di azioni di mobilitazione e di informazione ed attraverso il finanziamento di azioni-pilota. L’importanza della cooperazione decentrata è stata riaffermata nella Convenzione di Lomè IV bis del 1995, dove sono state adottate disposizioni specifiche relative alla cooperazione decentrata. Mediante la cooperazione decentrata, la Commissione Europea ha voluto promuovere i programmi provenienti da una vasta gamma di organismi locali e non governativi che, spesso, completano la progettualità governativa. Il co-finanziamento della Commissione Europea ha lo scopo di sostenere e promuovere le seguenti tipologie d’azione:  valorizzazione delle risorse umane e tecniche;  sviluppo locale, rurale o urbano nei settori sociale ed economico dei Paesi in via di sviluppo;  informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata;  sostegno e follow up metodologico delle azioni. I progetti eleggibili devono prevedere un partenariato Nord-Sud. Dal 1993, inoltre, gli Organismi Internazionali di Sviluppo delle Nazioni Unite si sono dimostrati molto interessati a sperimentare programmi di cooperazione decentrata e la stessa Banca Mondiale si è dichiarata favorevole a promuovere politiche d’intervento decentrate.

I settori di cooperazione  sostenere l’attuazione di politiche miranti a eliminare la povertà e raggiungere gli Obiettivi del Millennio;  rispondere alle esigenze essenziali della popolazione, con attenzione prioritaria all’istruzione primaria e alla salute;  promuovere la coesione sociale e l’occupazione;  promuovere il buon governo, la democrazia e i diritti umani e sostenere le riforme istituzionali;  assistere i paesi e le regioni partner nel campo degli scambi commerciali e dell’integrazione regionale;

74  promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso la protezione dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali;  promuovere la gestione integrata e sostenibile delle risorse idriche e un maggiore uso delle tecnologie sostenibili per la produzione di energia;  fornire assistenza nelle situazioni di post-crisi e negli Stati fragili. I programmi tematici completano quelli geografici e conferiscono loro un valore aggiunto, in quanto riguardano un settore specifico di interesse per un insieme di paesi partner non individuati su base geografica delle attività di cooperazione rivolte a diverse regioni o gruppi di paesi partner o un’azione internazionale senza una specifica base geografica. Rientra in questi programmi tutta una serie di attività come il sostegno agli investimenti nelle risorse umane, l’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali, a cui si aggiungono le iniziative proposte da organizzazioni della società civile e dalle autorità locali dei paesi partner.

La cooperazione e gli attori della cooperazione decentrata Nei programmi di cooperazione decentrata allo sviluppo umano, ogni attore coinvolto svolge il proprio ruolo in base alle proprie capacità e competenze, in particolare:  i Governi dei Paesi interessati chiedono la cooperazione allo sviluppo umano, all’attuazione dei principi di Copenaghen e alle politiche di promozione allo sviluppo locale;  i Governi dei Paesi donatori d’intesa, insieme a quelli dei Paesi interessati, contribuiscono a creare le condizioni politiche favorevoli e finanziano i programmi- quadro;  le Organizzazioni delle Nazioni Unite, d’intesa con i Governi finanziatori e quelli dei Paesi interessati, e in collaborazione con i soggetti decentrati, identificano e formulano gli interventi, gestiscono i programmi-quadro e creano le condizioni di sicurezza, lo spazio istituzionale e l’organizzazione nella quale s’inseriscono le iniziative dei soggetti decentrati;  le Regioni e gli Enti Locali sono i partners politici dei Governi, assicurano il coordinamento delle proprie realtà locali, mettono a disposizione le risorse di propria competenza e cofinanziano le attività di cooperazione decentrata;

75  gli attori sociali dei Paesi che cooperano si organizzano, sulla base della propria appartenenza territoriale in Comitati o gruppi di lavoro locali, che sono il principale soggetto operativo della cooperazione decentrata;  le ONG di cooperazione internazionale già presenti localmente partecipano alla pianificazione degli interventi, alla loro attuazione ed alla costituzione dei Comitati o gruppi di lavoro locali, a disposizione dei quali mettono la loro esperienza e le loro capacità organizzative e di gestione;  le ONG locali partecipano alla pianificazione, alla realizzazione degli interventi e alla costituzione dei Comitati o gruppi di lavoro locali.

L’ONU e la cooperazione decentrata

Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo L’UNDP (United Nations Development Programme) è un network globale sorto nel 1966 a seguito della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la quale si decise di fondere il Programma ampliato di Assistenza Tecnica e il Fondo Speciale delle Nazioni Unite in un’unica agenzia. Il nuovo programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, risultante dalla fusione dei due enti precedenti, ne continua e combina le finalità e i metodi, operando sotto il controllo del Consiglio Economico e Sociale dell'Assemblea Generale dell'ONU. I progetti di sviluppo e i programmi per la loro preparazione, nonché la destinazione dei fondi relativi, sono esaminati e approvati (a maggioranza) dal Consiglio d'Amministrazione (riunito annualmente), che è formato dai rappresentanti di 48 Stati membri, di cui 27 vengono scelti fra i Paesi in via di sviluppo e 21 tra quelli ad economia avanzata. La direzione dell'organizzazione è affidata ad un amministratore, che è nominato dal segretario generale dell'ONU ed è assistito da un Ufficio Consultivo formato dal segretario generale dell'ONU e dai segretari generali degli istituti specializzati ed è presieduto dall'amministratore. A livello dei singoli PVS esiste una rete locale di Uffici nei diversi Paesi, gestiti da rappresentanti residenti che operano come coordinatori degli interventi del sistema delle Nazioni Unite e dipendono direttamente dall’Amministratore e dal Segretario Generale delle Nazioni Unite.

76 Una caratteristica peculiare di UNDP è relativa alla sua natura di soggetto multidisciplinare, competente non soltanto in uno specifico ambito operativo, quanto impegnato in un quadro complessivo di settori e funzioni che riguardano trasversalmente le dinamiche istituzionali, economiche, sociali e civili degli Stati dove si realizzano. L’UNDP è impegnato nel sostegno ai Paesi in via di sviluppo, in particolare nei settori del rafforzamento democratico, della crescita socio-economica, del rispetto dei diritti umani, della tutela ambientale, della lotta alla povertà e al virus dell'HIV. Inoltre opera per lo sviluppo di Istituzioni locali e di sistemi amministrativi, legislativi ed elettorali che promuovono la responsabilità civile delle popolazioni, la loro partecipazione ai processi di crescita sociale ed economica ed il rafforzamento delle opportunità economiche e degli scambi commerciali, coordinando le sinergie tra le realtà beneficiarie degli interventi e la comunità internazionale, in particolare ai fini della realizzazione del Millennium Project. Il Millennium Project è l'agenda operativa elaborata dalle Nazioni Unite durante il Millennium Summit del 2000 per raggiungere i Millennium Development Goals (MDGs), ovvero per ridurre la povertà, l'analfabetismo, la mortalità infantile ed altri indicatori di miseria umana e sociale entro il 2015. I MDGs rappresentano gli obiettivi che ogni Stato deve raggiungere nel portare a compimento le proprie politiche di sviluppo e di riforme e sono stati delineati anche per i Paesi dell'area balcanica, in una prospettiva di integrazione con i rispettivi Piani di sviluppo nazionale e con gli altri programmi di intervento internazionale, riferiti in particolare al processo di integrazione europea. Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo è la più importante fonte multilaterale di sussidi per lo sviluppo umano sostenibile. Il Programma coordina la maggior parte dell'assistenza tecnica che il sistema delle Nazioni Unite fornisce. Esso ha il compito di approvare programmi nazionali di sviluppo presentati da singoli stati, di stanziare i relativi fondi e di sovrintendere all'esecuzione dei progetti che compongono i programmi, che di solito è affidata alle agenzie specializzate, di collaborare con organizzazioni non governative e di perseguire lo sviluppo economico e sociale per soddisfare le necessità dei settori più poveri della popolazione. Il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo è il principale organismo di sviluppo delle Nazioni Unite, con quasi 77.5 miliardi di euro annui di risorse proprie. L’UNDP è

77 l’organismo che ha ideato l’approccio più sistematico nel definire lo sviluppo umano, dopo che nel 1988 l’Onu aveva proposto l’avvio di un approccio globale e totale allo sviluppo, che desse la priorità all’individuo. Dal 1990 produce una serie di documenti sul tema dello sviluppo umano, scegliendo ogni anno di focalizzare il rapporto su un argomento specifico. Esso ha elaborato alcuni nuovi indicatori interessanti:  l’Indice di sviluppo umano (Isu);  l’Indice di sviluppo di genere, composto dagli stessi indicatori dell’Isu, ma in particolar modo proiettato verso la determinazione del livello della disuguaglianza di genere;  la Misura del rafforzamento di genere, rivolto alla determinazione delle aree chiave della partecipazione politica ed economica e delle opportunità di decisioni politiche. In ogni caso, questi indici illustrano bene quanto il prodotto interno lordo individuale possa risultare insufficiente a misurare il benessere esistente in un Paese. I programmi dell’UNDP stanno contribuendo a porre le premesse per la creazione di assemblee legislative e autorità giudiziarie funzionanti, di una gestione etica ed efficiente del settore pubblico e privato dell’economia, di processi decisionali decentrati, di forme di governo locale forti e infine del rispetto per le libertà civili. A questi programmi, che rispondono alle richieste avanzate dai singoli Paesi per sostenere questa dimensione cruciale dello sviluppo, è destinato oltre un terzo delle risorse dell’UNDP. L’UNDP invita le organizzazioni internazionali (compresa l’Organizzazione mondiale del commercio) a ispirarsi ai principi e agli impegni sanciti dai trattati sui diritti umani nei processi decisionali per creare un sistema economico globale inclusivo ed equo. Ad esempio le regole del commercio internazionale, infatti, si sono sviluppate spesso separatamente dagli accordi sui diritti umani e sull’ambiente. Tradizionalmente favorevole all’assistenza diretta e diffidente per il “tutto privato”, l’UNDP è arrivato di recente alla conclusione che i Paesi ricchi, piuttosto che fornire aiuti, dovrebbero soprattutto aprire di più i propri mercati. Infatti quando, poco tempo fa, ha espresso l’intenzione di svolgere ricerche sugli eventuali effetti della tassa Tobin sulle speculazioni finanziarie, gli Stati Uniti hanno minacciato di sospendere i loro contributi.

78 LA POLITICA DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO EUROPEA ED ITALIANA

Il contesto storico Le origini dell’impegno dell’Unione europea nella cooperazione risalgono alla conclusione dei Trattati di Roma del 1957, nei quali viene evidenziata l’importanza delle relazioni con altre aree geografiche del mondo. E’ nel 1958 che la Comunità si associa con i cosiddetti “Paesi e Territori d’Oltremare” (PTOM), i Paesi con i quali alcuni Stati membri mantengono relazioni particolari in virtù di precedenti rapporti di tipo coloniale. Il primo articolo della Convenzione di applicazione relativa all’associazione dei Paesi e territori d’oltremare alla Comunità istituiva il Fondo Europeo di Sviluppo (FES), gestito dalla Commissione europea fuori dal bilancio comunitario e tutt’oggi maggiore strumento finanziario della cooperazione allo sviluppo. La Convenzione, con un mandato di cinque anni (1958-1963), mirava alla creazione di un grande mercato economico a vantaggio sia dei Paesi beneficiari sia degli Stati membri. All’inizio degli anni Sessanta, in seguito al processo di decolonizzazione, la cooperazione con le ex-colonie evolveva a favore dei Paesi beneficiari che iniziavano ad essere considerati su un piano di uguaglianza con gli Stati europei. Nel 1963 gli Stati membri e 18 Stati africani francofoni firmarono la Convenzione di Yaoundè che si prefiggeva la creazione di una zona di libero scambio e prevedeva da un lato la concessione di un sostegno tecnico e finanziario (attraverso il FES e successivamente anche attraverso i prestiti della Banca Europea degli Investimenti) e dall’altro l’istituzione di un dialogo formalizzato a livello governativo e parlamentare. Tale Convenzione è stata rinnovata nel 1969 per ulteriori cinque anni con 19 Paesi Africani a cui si sono associati tre Paesi anglofoni (Kenya, Tanzania e Uganda) nel contesto dell’imminente adesione del Regno Unito di Gran Bretagna alla CEE . Durante i primi anni Settanta l’evoluzione delle relazioni con i Paesi associati fu influenzata dalla crisi petrolifera e dall’aumento da sei a nove degli Stati Membri della CEE (1973) e, dopo lunghi negoziati, il 28 febbraio 1975 nella capitale del Togo si firmò la Convenzione di Lomè, sottoscritta da 46 Paesi in Via di Sviluppo (PVS), tra cui numerosi Paesi del Commonwealth, riuniti nell’acronimo “Paesi dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico” (ACP).

79 Si trattava di una Convenzione innovativa rispetto alle precedenti Convenzioni di Yaoundè poiché stabiliva: la non reciprocità del libero scambio fra UE e ACP; l’attivazione di un meccanismo (STABEX) volto alla stabilizzazione dei benefici di esportazione dei prodotti di base degli ACP; la nascita di una nuova forma di cooperazione finanziaria che prevedeva il coinvolgimento diretto delle PMI locali. La Convenzione di Lomè è stata rinnovata tre volte. La seconda Convenzione (firmata il 31 ottobre 1979 per cinque anni) ha introdotto un meccanismo simile allo STABEX chiamato SYSMIN, per la stabilizzazione delle entrate minerarie; La terza Convenzione (firmata l’8 dicembre 1984 per altri cinque anni) ha introdotto un nuovo capitolo dedicato alla cooperazione culturale e sociale; L’ultima Convenzione (firmata il 15 dicembre 1989 per dieci anni) ha introdotto il concetto di cooperazione decentrata, che permette agli attori territoriali (regionali e locali), pubblici e privati, dei Paesi ACP di partecipare ai progetti di cooperazione.

A Lomè IV, scaduta nel febbraio 2000, è subentrata la Convenzione di Cotonou, firmata con 77 Stati ACP il 23 giugno 2001 ed entrata in vigore il 1° aprile 2003, al termine delle procedure di ratifica. L’accordo mira a rafforzare la dimensione politica del partenariato in questione, a garantire una nuova flessibilità e ad attribuire maggiori responsabilità ai Paesi ACP. Esso poggia su cinque pilastri: 1. il dialogo politico permanente è inteso a prevenire lo scoppio di crisi, per evitare di dover ricorrere alla condizionalità, cioè alla sospensione della cooperazione in caso di mancato rispetto dei diritti umani, dei principi democratici e dello Stato di diritto; 2. la partecipazione della società civile e dei soggetti economici e sociali è favorita da alcune disposizioni di concezione moderna inserite nel nuovo accordo, in particolare per incoraggiare l’informazione e l’associazione delle organizzazioni non governative all’attuazione dei progetti;

80 3. la riduzione della povertà è l’obbiettivo centrale del nuovo partenariato, che propone un approccio integrato allo sviluppo, in modo da garantire la complementarietà tra le dimensioni economiche, sociali, culturali e istituzionali; 4. un nuovo quadro commerciale, che dovrebbe consentire di proseguire sulla strada della liberalizzazione del commercio tra l’UE e i Paesi ACP, sarà varato nel 2008; 5. una riforma della cooperazione finanziaria è stata al centro delle trattative. Le sue principali caratteristiche sono una razionalizzazione e semplificazione degli strumenti finanziari, in particolare del FES, nonché una revisione del sistema di programmazione.

Va sottolineato che, dopo la firma della Convenzione, si sono aggiunti al gruppo dei Paesi ACP sei nuovi Stati del Pacifico meridionale. Si tratta di: Isole Cook, Isole Marshall, Stati federati di Micronesia, Nauru, Niue e Palau. Qualche tempo dopo anche Timor Leste e Cuba hanno dato la loro adesione. Cuba, tuttavia, ancora oggi non fa parte del nuovo accordo di partenariato. A partire dalla metà degli anni Settanta la Comunità europea ha costruito progressivamente anche una rete di partenariato con i Paesi in Via di Sviluppo dell’America Latina e dell’Asia (PVS-ALA) per quanto riguarda il processo di transizione democratica dei primi e la crescita economica nel sud-est asiatico. Questa politica dal 1992 è stata disciplinata in modo organico attraverso il regolamento 443/92, tuttora in vigore, che sancisce le modalità di cooperazione con i PVS-ALA e prevede una novità importante: la partecipazione degli enti regionali e locali, delle ONG e degli attori privati alle azioni di cooperazione della Comunità. Con la caduta del muro di Berlino e il successivo smantellamento dell’Unione Sovietica, l’UE si è trovata a dover fronteggiare una nuova situazione: i Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale (PECO) e 12 Nuovi Stati Indipendenti (NIS) dell’Unione Sovietica avviano un difficile processo di transizione verso l’economia di mercato e la democrazia. L’Unione e gli Stati membri hanno deciso di concentrare le loro azioni di cooperazione sull’assistenza tecnica e sull’aiuto umanitario di emergenza e hanno gestito tale politica attraverso due

81 programmi, tuttora operativi: PHARE, destinato ai PECO, e TACIS, diretto ai NIS (dal 1995 anche alla Mongolia). Il programma PHARE è stato istituito nel 1989 per fornire assistenza alla ristrutturazione economica della Polonia e dell’Ungheria e contemporaneamente ha seguito la politica di allargamento dell’Unione, coinvolgendo 14 Paesi. PHARE è stato trasformato in uno strumento per l’adesione all’UE dei Paesi candidati mentre per gli altri Paesi, precedentemente destinatari del programma (l’Albania e le Repubbliche nate dalla disgregazione dell’ex-Jugoslavia), è stato di recente approvato un nuovo programma (CARDS) per favorire la partecipazione degli stessi al processo di stabilizzazione ed associazione. Il programma TACIS è invece stato istituito nel 1991 per sostenere le riforme economiche e politiche dei NIS e,ultimamente, è stato rinnovato per sette anni (fino al 31 dicembre 2006) per facilitare la transizione economica verso l’economia di mercato e il processo di democratizzazione nei 13 Stati destinatari. Attraverso un meccanismo chiamato Twinning che ha l’obiettivo di aiutare i Paesi candidati a sviluppare un’amministrazione moderna capace di recepire al meglio l’acquis comunitario, PHARE e TACIS riescono a destinare parte delle risorse alle iniziative di collaborazione tra enti regionali e locali. Con l’inizio degli anni Novanta anche la politica mediterranea dell’UE ha subito una evoluzione: nel 1991 la Politica Mediterranea Rinnovata aggiornava i vari protocolli di aiuto finanziario con otto Paesi mediterranei inserendoli in un unico contesto. Nel novembre del 1995, alla Conferenza di Barcellona, viene istituito un vero e proprio partenariato fra l’UE e 12 Paesi della sponda sud del Mediterraneo, con l’obiettivo di creare una zona di pace e di libero scambio entro il 2010. Nel 1996 è stato poi pubblicato il Regolamento 1488/96, istitutivo del programma MEDA, che gestisce l’aiuto finanziario dell’UE nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo.

Il contesto amministrativo-istituzionale La definizione delle linee politiche della cooperazione spetta prevalentemente al Consiglio dell’UE, mentre la gestione concreta è compito della Commissione. La Commissione europea è suddivisa in:

82 − Direzioni Generali (DG), organizzate in Direttorati e Unità settoriali; − Servizi, che fanno riferimento ai diversi Commissari. Normalmente i Servizi e le Unità sono responsabili dell’analisi e dell’approvazione dei progetti così come del loro monitoraggio e valutazione. Nel 2000 è stata avviata una riorganizzazione della Commissione che ha portato ad una ristrutturazione delle DG e dei Servizi; prima di allora la maggior parte dei programmi di cooperazione era gestita dalla DG I (Relazioni Esterne) e dalla DG VIII (Sviluppo). A queste si affiancavano ECHO (l’Ufficio per l’Aiuto umanitario) e l’SCR, il Servizio Comune per le Relazioni esterne. La DG I era articolata in tre sezioni quasi autonome: − La DG IA, che si occupava delle relazioni con i PECO e i NIS e gestiva i programmi PHARE e TACIS; − La DG IB, impegnata nelle relazioni con l’area del Mediterraneo, l’Asia e l’America latina, quindi nella gestione dei programmi MEDA e ALA; − La DG I propriamente detta, cui spettava la gestione delle relazioni con i Paesi industrializzati (Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, ecc…). − La DG VIII aveva il compito di sovrintendere alla cooperazione con i PVS firmatari della Convenzione di Lomé (ACP). La dicitura DG Relazioni Esterne si riferisce a tutte le DG che si occupano in qualche modo di relazioni esterne, ma al suo interno si compone di tre DG specifiche e autonome e due uffici che si occupano di politica di cooperazione, a cui si affianca la DG Commercio che ha la missione di portare avanti la politica commerciale dell’Unione. Le DG e gli uffici che fanno capo alle Relazioni Esterne sono: La DG Relazioni Esterne propriamente detta, responsabile del partenariato euro- mediterraneo, della cooperazione con i NIS e la Mongolia e con i PVS-ALA e che gestisce i programmi TACIS, ALA e MEDA; La DG Allargamento, responsabile delle relazioni con i PECO e del processo di allargamento in generale e che gestisce il programma PHARE; La DG Sviluppo, responsabile delle relazioni con i Paesi ACP e di tutte le strategie di sostegno ai PVS e che gestisce il FED;

83 ECHO, l’Ufficio della Commissione Europea per l’Aiuto Umanitario, istituito nel 1992 per gestire gli aiuti umanitari d’emergenza; L’Ufficio di Cooperazione EuropeAid, nato all’inizio del 2001 per sostituire il precedente SCR (Servizio Comune per le Relazioni esterne). L’SCR era stato istituito nel 1998 per gestire i programmi di cooperazione e per riunificare e razionalizzare le procedure di aggiudicazione dei contratti. In seguito alla riorganizzazione della Commissione e ai conflitti di competenze sorti fra le DG “geografiche” e l’SCR, alle DG “geografiche” è stata restituita la competenza di programmazione delle azioni di cooperazione, mentre all’Ufficio EuropeAid è stata attribuita la gestione di tutte le fasi del ciclo di progetto, dall’identificazione all’implementazione. Altre DG vengono coinvolte nella cooperazione, e ciò accade quando i programmi che gestiscono, non direttamente legati ad essa, sono fondamentali per la partecipazione dei Paesi candidati all’adesione in qualità di partner associati, ad esempio la DG Imprese (programma per la promozione dell’imprenditorialità e dell’impresa), la DG Educazione e Cultura (programmi Leonardo da Vinci, Cultura 2000, ecc…), la DG Energia (programmi Save, Altener, ecc…). Si distinguono in modo particolare le DG Agricoltura e Politiche regionali, che sono state incaricate rispettivamente della gestione degli strumenti di preadesione SAPARD (programma di adesione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale) e ISPA (strumento per le politiche strutturali per la preadesione, che si occupa della promozione delle infrastrutture per i trasporti e l’ambiente). La politica di cooperazione dell’UE coinvolge anche la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che eroga prestiti nell’ambito degli accordi conclusi dall’Unione europea.

Modalità di accesso ai finanziamenti E’ possibile accedere ai finanziamenti dei programmi elaborati dall’Unione europea attraverso tre diverse procedure: Bandi periodici, inviti a presentare proposte su ambiti definiti e in merito a temi precisi; hanno scadenze predefinite; Bandi aperti, offerte di finanziamento per progetti inerenti un’area geografica o tematica di particolare importanza per la Commissione; sono privi di scadenze o caratterizzati da un’ampia durata e da frequente periodicità;

84 Gare d’appalto, richieste di servizi specifici,forniture,lavori,messe a gara ed aggiudicate secondo parametri di mercato; la loro pubblicazione non segue calendari predefiniti. Queste misure sono state studiate per rispondere ad esigenze di diverso genere e selezionano in modo preciso le tipologie di soggetti proponenti e le loro strategie di approccio ai programmi comunitari. Vediamole nello specifico. Bandi periodici. A questo tipo di bandi ricorrono i programmi di finanziamento di modello “europeo”, ovvero programmi gestiti principalmente da Direzioni Generali che non si occupano di Relazioni esterne, che non hanno come finalità principale la cooperazione internazionale ma che agiscono nel quadro di settori determinati quali l’educazione, l’energia o l’ambiente. Questi programmi originariamente erano destinati solo ai Paesi membri, ai quali in un secondo tempo sono stati associati alcuni Paesi extraeuropei, soprattutto in vista dell’allargamento dell’UE o nel quadro di specifici accordi di cooperazione (vedi il Partenariato Euro-mediterraneo): è il caso di programmi quali SAVE, LIFE e SURE. In vista dell’allargamento, anche alcuni programmi riservati ai PECO sono stati strutturati secondo lo stesso criterio degli inviti a presentare proposte (vedi PHARE-ACCESS). Per i PTM sono state predisposte misure analoghe nell’ambito del programma MEDA (per i sottoprogrammi EUMEDIS, Euromed Heritage, ecc...) e per il programma ALA (sottoprogrammi ASIA Urbs, URB-AL, ecc…). Bandi aperti. A questo tipo di bandi appartengono quasi tutte le misure destinate alle ONG, così come i finanziamenti per facilitare la penetrazione delle PMI nei mercati extraeuropei. Ci sono delle sostanziali differenze tra questa modalità di accesso ai finanziamenti e quella del sistema degli inviti a presentare proposte. Gli obiettivi che la Commissione si prefigge, in questo caso, sono a lungo termine; i progetti seguono una procedura bottom/up, ovvero le proposte su come impiegare le risorse disponibili provengono dal basso (dagli stessi soggetti proponenti, ONG o PMI) sulla base di esigenze specifiche e di situazioni riscontrate sul campo. I programmi solitamente non hanno scadenze periodiche ma un budget disponibile che, al momento dell’esaurimento, può o meno essere riproposto con un nuovo stanziamento di fondi.

85 Gare d’appalto. Attraverso questa terza modalità la Commissione, nell’ambito di un determinato programma comunitario, richiede la fornitura di beni e servizi o l’esecuzione di lavori. La partecipazione ai programmi comunitari di cooperazione internazionale prevede due forme di finanziamento: − Finanziamento in forma percentuale; − Finanziamento al 100%. I programmi concepiti e strutturati secondo logiche partecipative (inviti a presentare proposte) non finanziano mai interamente un’azione: la Commissione agevola iniziative e proposte progettuali provenienti dai vari soggetti ammissibili, quindi contribuisce al loro finanziamento quando ne condivide le finalità e gli scopi. Sia che il soggetto proponente risponda ad un invito a presentare proposte sia che sottoponga una sua azione al finanziamento di un bando aperto, la Commissione sostiene la realizzazione dei progetti con contributi che vanno da un minimo del 35% dei costi, per i progetti di RST, ad un massimo dell’85%, per progetti presentati da ONG che operano nei PVS. Il finanziamento, concesso in percentuale dei costi del progetto e stabilito sulla base di specifici massimali (diversi da programma a programma) può coprire interamente le voci di spesa relative ad un’azione progettuale (ad esempio la totalità delle spese amministrative stimate su misura forfetaria) oppure contribuire in misura percentuale a ciascuna voce del budget. In alcuni casi specifici il finanziamento della Commissione assume la forma di un prestito a tasso agevolato (o a tasso zero). Il cofinanziamento comunitario può coprire porzioni notevoli degli effettivi costi progettuali in quanto, mentre la Commissione interviene solo dal punto di vista finanziario, il contributo a carico del proponente viene di prassi (che è la norma per le ONG) valorizzato in termini di risorse materiali e lavoro impiegato. Questo meccanismo da un lato permette al proponente un’agevole gestione del progetto, con possibili recuperi delle spese inerenti alla parte valorizzata e relative alle azioni progettuali che altrimenti non avrebbero sostenibilità economica, e dall’altro consente alla Commissione un controllo sui resoconti tecnici e finanziari del progetto, che le garantiscono una valutazione dell’efficacia e dell’efficienza dello stesso, ed un controllo generale sulla sua attinenza alle finalità del programma.

86 In sintesi, nel caso degli inviti a presentare proposte, la Commissione finanzia un progetto solo in modo parziale, ed a copertura di determinate voci di spesa, in proporzione diversa a seconda del programma e mai sotto forma di copertura totale dei costi progettuali al fine di incentivare azioni e promuovere scambi più che di raggiungere scopi predeterminati. Per quanto riguarda le gare d’appalto, invece, la Commissione agisce in qualità di committente e quindi paga per i servizi richiesti a tariffe di mercato, in linea con un approccio di tipo top/down.

Le gare d’appalto riguardano tre categorie di attività: i servizi, le forniture e i lavori. − Contratti per servizi. Questi contratti sono destinati a consulenze, studi, attività di formazione, trasferimento di know-how, ecc…Le procedure per stipulare contratti per servizi variano secondo l’impegno finanziario previsto. Un accordo diretto a seguito di una trattativa informale è previsto per importi inferiori ai 50.000 euro, mentre per contratti compresi tra i 50.000 e i 200.000 euro si adotta una normativa quadro rispetto alla quale si prevede che i contratti abbiano una durata di due anni e i contraenti siano individuati da una lista ristretta, stilata a seguito di un invito a presentare candidature pubblicato sulla GUCE serie S. Per contratti compresi tra i 200.000 e 10.000.000 euro si ricorre alla procedura ristretta attingendo da una lista stilata a seguito di un bando pubblicato sulle pagine web di competenza e sulla GUCE serie S. Per i contratti superiori ai 10.000.000 euro si prevede la pubblicazione di bandi sulla GUCE. La descrizione delle procedure ammissibili è analoga a quelle previste per i bandi pubblici per l’erogazione di forniture. − Contratti per forniture. I contratti per forniture prevedono che i beni forniti (attrezzature o materiali) siano prodotti nell’UE o in uno dei Paesi beneficiari del programma. La tipologia di contratto adottata muta al variare degli importi previsti: fino a 50.000 euro si ricorre ad un accordo diretto mentre per cifre superiori a 1 milione di euro è prevista una procedura ristretta sulla base di una lista preselezionata di qualificati partner potenziali. Per i contratti per forniture il cui importo è compreso tra i 50.000 e 300.000 euro è previsto il ricorso a bandi pubblici locali, pubblicati sui principali quotidiani o sulla Gazzetta Ufficiale del Paese interessato. Nei casi in cui l’importo del contratto sia superiore ai 300.000 euro si prevede un bando pubblico

87 pubblicato sulla GUCE, sulla stampa nazionale e sulle Gazzette Ufficiali dei Paesi partner. − Contratti per lavori. Si tratta di contratti che prevedono forme di finanziamento congiunto con i Paesi beneficiari per la realizzazione di opere pubbliche quali investimenti in infrastrutture, realizzazione di progetti d’ingegneria civile, ecc…Per la realizzazione di opere ed interventi particolarmente impegnativi sono previste forme di finanziamento congiunto con le istituzioni finanziarie internazionali quali la BEI, la Banca Mondiale, ecc…Se non è previsto un cofinanziamento da parte di tali istituzioni finanziarie, le procedure per l’assegnazione delle risorse disponibili dipendono dall’entità di spesa prevista: fino a 1.000.000 di euro è previsto il lancio di bandi, se l’entità di spesa è superiore, si prevede il ricorso alle procedure previste dall’International Federation of Consulting Engineers (FIDIC). Le procedure sono analoghe a quelle previste per i contratti per forniture.

Principali insiemi geografici La Commissione ha suddiviso il mondo in aree ed ambiti geopolitici ed ha strutturato i suoi interventi varando programmi destinati alla cooperazione con determinate aree-Paese ritenute di interesse prioritario o particolare per l’Unione europea. La Tabella 1 mostra tale suddivisione. Per quasi tutte le aree-Paese indicate sono stati istituiti specifici programmi di aiuti ed assistenza tecnica, che tengono conto delle esigenze specifiche dei Paesi destinatari. Si tratta di “programmi contenitore”, ovvero programmi base per l’istituzione di programmi d’azione in settori specifici: Programma ALA per i Paesi dell’Asia e dell’America Latina; Programma MEDA per i PTM; Programma PHARE per i PECO; Programma CARDS per i Paesi dell’area balcanica; Programma TACIS per i NIS e la Mongolia; La Convenzione di Cotonou per i Paesi ACP.

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Tab. 1.1: I principali insiemi geografici.

89 Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Paesi industrializzati Australia e Nuova Zelanda. Paesi dell’Europa Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Centrale e Orientale Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, (PECO) Ungheria. Paesi del Sud-Est Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, FYROM, Europa Repubblica Federale di Yugoslavia. Algeria, Autorità Palestinese, Cipro, Egitto, Giordania, Paesi terzi del Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Mediterraneo (PTM) Turchia. NIS: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Nuovi Stati Kazakhstan, Kirgizistan, Moldavia, Federazione Indipendenti (NIS) e Russa, Tagiskistan, Turkmenistan, Ucraina, Mongolia Uzbekistan. AFRICA: Angola, Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Ca merun, Capo Verde, Repubblica Centroafricana, Ciad, Repubblica delle Comore, Congo (Brazzaville), Congo (Kinshasa), Isole Cook, Costa d’Avorio, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Gabon, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale, Kenya, Lesotho, Liber ia, Madagascar, Malawi, Mali, Isole Mauritius, Mauritania, Mozambico, Namibia, Niger, Ruanda, Sao Tomé e Paesi Africa, Caraibi, Principe, Senegal, Seychelles, Sierra Leone, Somalia, Pacifico (ACP) Sud Africa, Sudan, Swaziland, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe. CARAIBI: Antigua e Barbud a, Bahamas, Barbados, Belize, Dominica, Repubblica Domenicana, Grenada, Guyana, Haiti, Giamaica, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e le Granadines, Suriname, Trinidad e Tobago. PACIFICO: Fiji, Kiribati, Isole Marshall, Papua-Nuova Guinea, Iso le Salomone, Nauru, Niue, Palau, Isole Tonga, Stato Federale della Micronesia, Tuvalu, Vanatu, Samoa.

90 AMERICA LATINA: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Paesi in Via di Perù, Salvador, Uruguay, Venezuela. ASIA: Arabia Sviluppo dell’Asia e Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran, dell’America Latina Yemen, Oman, Qatar, Kuwait, Bangladesh, Brunei, (PVS-ALA) Bhutan, Cambogia, Filippine, India, Indonesia, Laos, Malesia, Maldive, Nepal, Pakistan, Repubblica Popolare Cinese, Singapore, Sri Lanka, Tailandia, Vietnam. Questo insieme comprende tutti gli ACP, i PVS-ALA, Paesi in Via di Paesi alcuni Questo insieme comprende tutti gli ACP, i PVS- in Via di Sviluppo ALA, alcuni PTM e altri Paesi che non rientrano in (PVS) nessuno dei raggruppamenti visti. Fonte: Guida ai programmi di cooperazione internazionale della Commissione europea

Il sostegno ai PVS in generale è fornito attraverso programmi settoriali che non fanno riferimento ad uno specifico programma contenitore.

LA POLITICA DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO ITALIANA

Le fasi della cooperazione italiana allo sviluppo La cooperazione allo sviluppo in Italia nasce in seguito ad una serie di interventi di assistenza tecnica ed economica messi in atto a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta in alcuni Paesi di recente indipendenza legati all’Italia da precedenti rapporti coloniali e, nel caso della Somalia, da un mandato ONU di assistenza fiduciaria. La situazione legislativa della cooperazione italiana allo sviluppo è rimasta piuttosto confusa fino all’emanazione della legge 1222 del 15 dicembre 1971, anche se nel corso degli anni Sessanta erano stati emanati dei provvedimenti legislativi, purtroppo male articolati a causa della completa assenza di una politica di cooperazione attiva.

91 Negli anni Sessanta la cooperazione è percepita in termini di “assistenza” e di “collaborazione”, pertanto le attività ad essa collegate riguardano il semplice invio di personale esperto nei PVS e il mantenimento di tali rapporti di lavoro. Il provvedimento più organico prodotto in quegli anni (legge 1376 del 1967) contiene una serie di interventi relativi all’”Assistenza tecnica, culturale, economica e finanziaria alla Somalia”. La legge prevede, oltre all’invio di personale tecnico, anche la formazione in Italia di personale somalo, la fornitura di mezzi alle forze armate e ai corpi di pubblica sicurezza, il sostegno alle imprese italiane per studi e progetti di sviluppo. Un altro elemento che caratterizza gli anni Sessanta è la separazione della normativa riguardante l’assistenza tecnica e l’invio di personale tecnico gestita dal MAE, da quella relativa alla cooperazione finanziaria, regolata in Italia dalla legislazione sui crediti all’esportazione (legge 131 del 28 febbraio 1967). Inoltre gran parte della partecipazione italiana alla cooperazione multilaterale è regolata da apposite leggi gestite dal Ministero del Tesoro o direttamente dal Parlamento. Nonostante l’incapacità a gestirsi in modo autonomo, negli anni Sessanta è l’approccio bilaterale il protagonista della politica di cooperazione. Nel 1961 il 77,4% dell’aiuto pubblico allo sviluppo è costituito da rapporti bilaterali. Tale percentuale scende al 42,6% nel 1970. Lo strumento principale attraverso cui si attua tale politica è l’invio di aiuti alimentari e altri doni; l’utilizzo degli aiuti finanziari va rafforzandosi mentre la cooperazione tecnica rimane sottoutilizzata. Ma è nel 1971, con l’approvazione della legge 1222 del 15 dicembre, che per la prima volta vengono affrontati e disciplinati alcuni aspetti fondamentali di una politica di cooperazione allo sviluppo. Gli aspetti innovativi riguardano sia gli obiettivi che gli strumenti istituzionali: • viene assegnato un ruolo prioritario alla cooperazione tecnica, affiancata dalla cooperazione finanziaria e commerciale; • la gestione delle iniziative pubbliche e il coordinamento con quelle private viene affidato al MAE, affiancato da un Comitato Consultivo Misto che determina gli indirizzi del contributo; • la parte operativa di tale politica è rappresentata dal Servizio per la Cooperazione Tecnica, costituito nell’ambito della Direzione Generale della Relazioni Culturali;

92 • prevalgono l’invio di esperti e volontari, la formazione di tecnici provenienti dai PVS, la realizzazione di studi e progetti, la partecipazione italiana a programmi di cooperazione tecnica di organismi internazionali. E’ possibile suddividere la politica italiana di cooperazione allo sviluppo durante gli anni Settanta in tre fasi distinte: fase di fondazione della politica di cooperazione tecnica (1971-1974); fase di dibattito critico sulle strutture e sulle politiche (1974-1979); fase di sviluppo quantitativo (1979-1983). Nella prima fase (1971-1974) si assiste all’elaborazione di alcuni concetti “nuovi” che vanno ad impostare una più precisa politica di cooperazione allo sviluppo. I concetti fondamentali sono i seguenti: • la cooperazione con i PVS richiede una visione coordinata di tutte le sue componenti, in quanto il sottosviluppo è un fatto organico; • la cooperazione tecnica svolge un ruolo centrale, superiore anche all’aiuto finanziario; • la cooperazione va gestita da un organismo specializzato, il Servizio per la Cooperazione Tecnica, appositamente creato all’interno del MAE; • la formulazione degli indirizzi richiede una partecipazione dei vari Ministeri e delle componenti sociali ed economiche del Paese donatore; viene per questo costituito un Comitato Consultivo Misto, presieduto dal MAE; • la cooperazione allo sviluppo è il risultato delle iniziative del settore pubblico e del settore privato; • il volontariato viene riconosciuto come forma originale della cooperazione tecnica; • viene riconosciuta la reciprocità di interessi nei rapporti con i PVS e viene perciò abbandonata la politica di cooperazione intesa come puro “assistenzialismo”; • si utilizza il “programma di cooperazione” quale modo organico di impiego di strumenti (esperti, volontari, borse di studio, studi) finalizzato agli interventi di cooperazione allo sviluppo. Durante i primi anni Settanta, l’obiettivo dell’attività di cooperazione è il perseguimento della pace e della giustizia fra le nazioni, che porta ad una sempre maggiore consapevolezza

93 dell’interdipendenza tra i vari popoli, riconosciuta solo successivamente dall’opinione pubblica. Nella seconda fase (1974-1979) si assiste all’avvio di una lunga discussione scaturita in seguito alla deludente esperienza dei primi anni di applicazione della legge 1222. La capacità operativa e tecnica del Servizio per la Cooperazione Tecnica non si dimostrò all’altezza degli obiettivi assegnatigli (anche perché era soggetto ai limiti di gestione delle strutture ministeriali) né si riuscì a realizzare il coordinamento tra la cooperazione pubblica e quella privata. Nel 1976 inizia pertanto l’esame di due provvedimenti sostanzialmente diversi: il primo è presentato dal MAE e ripete all’incirca la struttura della vecchia legge. Il secondo invece è costituito dalla proposta di legge presentata da un gruppo di deputati, da tempo attivi nel campo della cooperazione allo sviluppo (Salvi, Bassetti, Bernardi e Bonalumi). La proposta dei parlamentari mira a dare una maggiore incisività all’aiuto bilaterale e si presenta innovativa sia per quanto riguarda i contenuti teorici sia per gli strumenti attuativi. I programmi di carattere bilaterale devono comunque tenere conto ed essere raccordati con le iniziative degli organismi multilaterali (canale che resta il punto nodale della cooperazione italiana). L’aiuto allo sviluppo dovrebbe rispondere a criteri univoci e realizzarsi attraverso la creazione di poli di sviluppo anziché frammentarsi in molteplici iniziative conseguenti alla penetrazione commerciale dell’imprenditoria italiana. Lo strumento operativo dovrebbe essere una unica autorità, sul tipo dell’Agenzia, dotata di autonomia amministrativa e finanziaria. Un compromesso tra le due proposte viene raggiunto nel 1977 in sede di Commissione parlamentare, unificando i due testi. Il dibattito parlamentare fu comunque estenuante per la sua lentezza dovuta ad un relativo disinteresse delle forze politiche concentrate in quel periodo su altri temi (vedi il tentativo di avvio di una politica di unità nazionale). Il risultato ha lasciato la gestione della cooperazione sotto il controllo diretto del Ministero degli Affari Esteri. Nasce poi il Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo, una nuova struttura tecnica dotata di maggiore autonomia finanziaria che era in grado di superare in parte la divisione istituzionale tra la cooperazione tecnica e gli altri settori della cooperazione (finanziaria, commerciale, bilaterale e multilaterale). In questo periodo l’aiuto pubblico allo sviluppo mostra una dinamica decrescente dovuta prevalentemente alla diminuzione degli stanziamenti destinati alla cooperazione bilaterale, tanto da portare il rapporto all’8% dell’intero stanziamento di aiuto.

94 La terza fase (1979-1983) si apre con l’approvazione della legge 38 febbraio 1979 che dà alla politica di cooperazione una nuova dimensione. L’intera politica di cooperazione allo sviluppo comprende ora sia gli aspetti della cooperazione tecnica sia gli aspetti della cooperazione finanziaria o, più in generale, della cooperazione economica. Il 1° marzo 1979 viene istituita la nuova struttura gestionale, il Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo, e vengono nominati i nuovi organi decisionali, il Comitato Consultivo. In seguito alla pubblicazione di un documento del CIPES (novembre 1979), vengono assunti per la prima volta degli impegni quantitativi e si definiscono gli indirizzi in merito alla distribuzione settoriale e geografica delle risorse destinate all’aiuto. Purtroppo è mancata successivamente una riflessione esplicita e una più dettagliata individuazione degli interventi settoriali e delle priorità geografiche. Viene deciso che gli aiuti devono essere indirizzati verso Paesi individuati sulla base di criteri di “vincoli storici o culturali”, “per la possibilità di realizzare una maggiore complementarietà e integrazione economica”, “per la possibilità di mobilizzare le risorse naturali e finanziarie disponibili” o “per la possibilità di facilitare l’utilizzo di risorse complementari tra i PVS e i processi di integrazione regionale”. La legge 38 definisce in modo molto chiaro l’attività di cooperazione. Al primo posto si trova l’attività di elaborazione e di attuazione di progetti di sviluppo che interessano i settori dell’agricoltura, dell’energia, dell’industria e dell’artigianato, delle infrastrutture, dei servizi sanitari, sociali e culturali, del turismo, della ricerca scientifica e tecnologica. Solo al quarto posto si trova l’attività di emergenza a favore delle popolazioni dei PVS colpite da calamità naturali. E’ importante ricordare che con questa legge si definisce chiaramente che la cooperazione allo sviluppo è organizzata in funzione della politica estera italiana e non della politica commerciale. Mentre il Dipartimento e le altre strutture cercano un assestamento rispetto ai nuovi compiti istituzionali, nel corso del 1979 e del 1980 si assiste ad un fenomeno unico nei Paesi “donatori”. Nel settembre 1979 le pressioni del Partito Radicale portano il Governo a convocare in Parlamento un dibattito sulla fame nel mondo che porterà in seguito ad aumentare di 200 milioni di vecchie lire gli stanziamenti destinati a tal fine. Sempre su pressione del Partito Radicale si assiste ad una vera e propria crescita degli stanziamenti per l’APS che contrasta con una tendenza al contenimento in atto in altri Paesi donatori. Tale aumento quantitativo ha collocato l’Italia in una posizione completamente diversa nel dibattito Nord-Sud.

95 Negli anni Ottanta la cooperazione allo sviluppo si fonda sul riconoscimento dei principi della globalità e dell’interdipendenza. I programmi di cooperazione sono orientati verso il Paese beneficiario e rispondono ad una precisa richiesta rivolta al Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo. I singoli progetti inoltre vengono strutturati in modo tale da poter essere inseriti nei piani di sviluppo dei Paesi beneficiari. Essi devono anche essere compatibili con le risorse tecniche, umane e finanziarie disponibili in Italia. Per quanto riguarda la cooperazione tecnica i progetti sono di durata breve e dimensione limitata e sono indirizzati prevalentemente alla formazione di quadri intermedi e di dirigenti locali in grado di sostituirsi successivamente agli esperti o ai volontari italiani. Diciamo che viene privilegiata più la qualità dell’intervento piuttosto che la quantità. Nel caso di trasferimento di tecnologia si pone molta attenzione al grado di sviluppo economico e sociale del Paese beneficiario in modo da renderne adeguata l’applicazione evitando di arrecare ulteriori danni allo sviluppo autonomo. Per quanto riguarda la cooperazione finanziaria, vengono considerati prioritari il trasferimento di conoscenze e la formazione di personale omologo locale. I crediti di aiuto (development loans) sono destinati al finanziamento di progetti completi (project aid) individuati insieme ai responsabili del Paese beneficiario e devono comprendere, oltre al trasferimento agevolato di beni di investimenti e dei servizi necessari, anche il trasferimento delle conoscenze tecnologiche indispensabili per il loro inserimento ed effettivo utilizzo. A partire dal 1981 il Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo ha promosso una serie di studi volti ad individuare attività di sviluppo integrate per singoli Paesi, i cosiddetti country programmes. Anche in questo caso l’articolazione degli interventi è basata su progetti prioritari concordati con i Paesi beneficiari. Nel corso di questi anni la crescita qualitativa e quantitativa delle iniziative di aiuto allo sviluppo nelle diverse aree geografiche ha portato ad un rinnovo della legislazione in atto con l’emanazione della legge 49 del 1987. L’assetto che ne è risultato è tuttora quello vigente. Negli anni Novanta, a causa delle misure di contenimento della spesa pubblica, con la conseguente riduzione del volume globale degli interventi, la cooperazione italiana si è vista obbligata a riqualificare le proprie priorità sia sul piano bilaterale sia su quello multilaterale. Inoltre le nuove emergenze intervenute recentemente in aree prima non prioritarie, come ad

96 esempio nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, hanno conferito alla cooperazione un ruolo nuovo, molto più complesso e prioritario nella politica estera italiana. La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri (DGSC) è l’organo preposto ad attuare tale politica, secondo la legge n. 49/87. Si articola in 13 uffici e ad essa fanno capo l’Unità Tecnica Centrale (UTC) e 20 unità tecniche locali distribuite nei Paesi prioritari per la cooperazione italiana. La DGCS Programma, elabora ed applica gli indirizzi della politica di cooperazione e le politiche di settore tra cui sanità, ambiente, sviluppo e imprenditoria locale; attua iniziative e progetti nei PVS, effettua interventi di emergenza e fornisce aiuti alimentari; gestisce la cooperazione finanziaria e il sostegno all’imprenditoria privata e alla bilancia dei pagamenti dei PVS; è competente per i rapporti con le Organizzazioni Internazionali che operano nel settore e con l’UE, con le quali collabora finanziariamente ed operativamente per la realizzazione di specifici programmi; cura i rapporti con le Organizzazioni Non Governative e il volontariato; promuove e realizza la cooperazione universitaria anche attraverso la formazione e la concessione di borse di studio in favore di cittadini provenienti dai PVS. Oltre all’Unità Tecnica Centrale (che fornisce supporto tecnico alle attività della DGCS nelle fasi di individuazione, istruttoria, formulazione, gestione e controllo dei programmi; attività di studio e ricerca nel campo della cooperazione allo sviluppo), esiste anche l’Unità di Ispezione, Monitoraggio e Verifica delle iniziative di cooperazione allo sviluppo a finanziamento italiano realizzate in ambito multilaterale e multibilaterale nonché di quelle dell’Unione europea per la parte di competenza della DGCS. Nell’ambito della DGCS sono inoltre operativi tre coordinamenti in materia di ambiente, cooperazione decentrata e multilaterale/emergenza. Attualmente la politica che ispira la Cooperazione allo sviluppo dell’Italia viene dettata dalla legge che la disciplina e dagli obiettivi di ordine generale fissati in ambito Nazioni Unite e Unione europea. Il riferimento essenziale è la Dichiarazione del Millennio approvata nel 2000 dall’ONU, che detta gli obiettivi da perseguire in questi anni da raggiungere entro il 2015. La politica italiana si rivolge principalmente al raggiungimento degli obiettivi

97 relativi allo sradicamento della povertà e di sviluppo economico e sociale, unitamente a quelli relativi alla salute, primo fra tutti la lotta alle grandi pandemie presenti soprattutto nel continente africano. Le strategie e le modalità che persegue la cooperazione italiana per il graduale raggiungimento degli obiettivi si concentrano su tre fronti: • individuazione e ripartizione delle risorse; • individuazione delle priorità geografiche; • individuazione dei meccanismi più efficaci. Risorse. Le attività di cooperazione allo sviluppo si fondano sulle risorse finanziarie messe a disposizione del Ministero degli Affari Esteri dalla Legge Finanziaria e da altri provvedimenti di legge oltre che dai contributi al FES, dai contributi alla ricostruzione delle risorse di banche e fondi e dalla mancata entrata derivante dalle misure sulla cancellazione o riduzione o ristrutturazione del debito dei Paesi maggiormente indebitati. Il documento finale prodotto alla Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo di Monterrey del marzo 2002 (il cosiddetto Monterrey Consensus) ha elencato le fonti di finanziamento che dovranno concorrere al conseguimento degli Obiettivi del Millennio: • le risorse finanziarie nazionali dei PVS; • gli investimenti diretti esteri e gli altri flussi privati; • il commercio internazionale; • l’aiuto pubblico allo sviluppo; • la riduzione del debito; • le fonti innovative di finanziamento, tra cui la “de-tax” che il Governo italiano ha introdotto nel suo ordinamento. Durante il Consiglio Europeo di Barcellona del marzo 2002 gli Stati membri si sono poi impegnati ad incrementare il proprio rapporto APS/PIL fino a raggiungere lo 0,33% negli anni successivi. Attualmente consistenti finanziamenti sono pervenuti attraverso un procedimento di urgenza emanato il 19 gennaio 2004 che andrà ad accrescere la percentuale APS/PIL, visto che la legge finanziaria non ha concesso risorse aggiuntive alla cooperazione. Priorità geografiche. Nonostante l’attenzione sia sempre focalizzata sul continente africano, recentemente si è spostata in favore del sud-est asiatico dove è in corso una grande opera di

98 ristrutturazione dei Paesi distrutti dal maremoto del 26 dicembre 2004. Le altre aree considerate prioritarie dalla nostra politica di cooperazione sono quelle del Medio Oriente, nei settori di mantenimento della pace e aiuto alle democrazie locali. Da un punto di vista geografico, l’aiuto italiano degli ultimi anni è stato ripartito come segue: Africa sub-sahariana, al primo posto tra i Paesi riceventi con circa il 40% dei fondi; Medio Oriente e Nord Africa, con il 24%; Asia, con il 13%; America, con il 12%; Europa balcanica, con l’11%.

I nuovi impegni della cooperazione italiana nella pacificazione e ricostruzione dell’Afghanistan, nell’assistenza e riabilitazione dell’Iraq e nell’aiuto all’Argentina per superare la grave crisi economico-sociale, potrà determinare a medio-breve termine una variazione di tale ripartizione percentuale in favore dell’Asia e dell’America Latina.

Meccanismi più efficaci. Il 24 e 25 febbraio 2003 si è tenuto a Roma il primo Forum ad Alto Livello sull’Armonizzazione durante il quale l’Italia ha dimostrato un forte impegno verso le tematiche dell’armonizzazione delle procedure e delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Nella sua qualità di membro dell’Unione Europea, l’Italia si è impegnata ad integrare i suoi interventi nel campo degli aiuti allo sviluppo nell’ambito dei Regional Strategy Papers e dei Country Strategy Papers. In tale ambito l’Italia prende parte ad un progetto pilota condotto dall’UE in quattro Paesi in Via di Sviluppo (Marocco, Nicaragua, Vietnam e Mozambico). E’ stato avviato anche da qualche tempo un percorso che dovrà condurre alla realizzazione di un Piano Nazionale sull’Armonizzazione. Per quanto riguarda la modalità di erogazione degli aiuti, l’Italia preferisce il canale multilaterale, considerato un mezzo indispensabile nel perseguimento delle finalità fondamentali dello sviluppo. Tale scelta deriva dagli specifici vantaggi di cui organismi neutrali come le Nazioni Unite godono nell’attività di cooperazione verso i PVS. L’Italia, pertanto, eroga gran parte del proprio Aiuto Pubblico allo Sviluppo trasferendo fondi all’Unione Europea e alle principali Organizzazioni Internazionali e contribuendo alla ricostituzione del capitale di Banche e Fondi di Sviluppo. In generale, il criterio di

99 distribuzione delle risorse destinate agli organismi internazionali è basato sui seguenti fattori: − efficacia ed incisività delle attività degli organismi beneficiari; − grado di ricaduta politica del nostro appoggio, sia in termini di visibilità che di presenza del personale italiano; − ruolo riservato all’Italia nei processi decisionali; − fonti complessive di finanziamento disponibili; − valorizzazione dei “poli” di Roma (FAO-IFAD-PAM) e di Trieste-Venezia (Centri di Ricerca facenti capo all’UNESCO e all’UNIDO). Nel settore bilaterale, lo strumento a cui l’Italia maggiormente ricorre per distribuire i propri fondi è quello del dono, sia sotto forma di aiuti alimentari sia attraverso la cancellazione del debito. Inoltre, tramite i crediti d’aiuto, vengono finanziati progetti e programmi volti a promuovere la crescita dei PVS, prevedendo la restituzione del capitale prestato a condizioni agevolate. Analoga forma di sostegno ai Paesi poveri è la conversione del debito in fondi per specifici interventi di sviluppo. In entrambi i casi si intende ottenere un maggiore grado di responsabilizzazione dei governi beneficiari. Anche se gli aiuti erogati dalla Commissione sono classificati in sede internazionale come multilaterali, essi sono per certi aspetti sempre più assimilabili all’aiuto bilaterale. Quasi un terzo dell’APS italiano è canalizzato tramite la Commissione Europea per due distinte finalità: − Quale quota-parte nazionale dovuta al Fondo Europeo di Sviluppo (FES/FED), per finanziare le attività previste dal nuovo accordo ACP-UE, firmato a Cotonou nel giugno 2000 (la quota italiana per il IX FES 2002/2007 è pari al 12,54%); − Come contributo dell’Italia (il 13% circa) per le attività ordinarie sul bilancio comunitario a titolo di aiuto allo sviluppo. L’Italia, come già detto, partecipa all’implementazione degli Obiettivi del Millennio attraverso l’erogazione di contributi volontari alle Organizzazioni Internazionali, impegnate in prima linea con i loro programmi per rendere possibile l’assolvimento, entro il 2015, degli obblighi derivanti dalla Dichiarazione del Millennio promossa dal Segretario Generale delle Nazioni Unite.

100 Per quanto riguarda il primo obiettivo, il dimezzamento della povertà e della fame nel mondo, l’Italia collabora attivamente con la FAO e prende parte ad alcune sue iniziative specifiche come la NEPAD (Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’Africa) e il Programma Speciale per la Sicurezza Alimentare. Vi è inoltre un Protocollo d’Accordo del 2002 tra l’Italia da una parte, la FAO, il PAM e l’IFAD dall’altra che prevede una comune azione di lotta alla fame e alla povertà. Il secondo obiettivo, assicurare a tutti i bambini del mondo il completamento del ciclo d’istruzione primaria, trova un importante strumento di implementazione nei progetti UNESCO finanziati dall’Italia nell’ambito del programma EFA (Education For All) che si propone il raggiungimento entro il 2015 di un’istruzione di base di qualità obbligatoria e universale. L’Italia, nell’ambito dell’EFA partecipa anche all’iniziativa FTI (First Track Iniziative) che, per il raggiungimento del medesimo obiettivo, combina il canale bilaterale con quello multilaterale intorno ai due concetti di ownership dei Paesi beneficiari e armonizzazione dei donatori. Il terzo obiettivo, la parità tra i sessi, è promosso attraverso l’erogazione di contributi ai programmi di UNIFEM finalizzati non solo ad evitare la discriminazione contro le donne, ma soprattutto ad assicurare al genere femminile le stesse prospettive di istruzione e di lavoro degli uomini. UNIFEM mira inoltre ad una sempre maggiore voce e rappresentanza delle donne a livello di public policy e decision making nella convinzione che, senza la parità tra i due sessi, nessuno degli obiettivi del millennio possa essere raggiunto. Gli obiettivi quattro, cinque e sei, riguardanti direttamente la salute, sono promossi dall’Italia attraverso i contributi all’UNICEF e all’OMS che operano al fine di: − ridurre la mortalità infantile; − ridurre la mortalità materna; − arrestare la diffusione dell’HIV/AIDS; Contrastare e iniziare ad invertire le tendenze attuali in tema di malaria e altre gravi malattie, come la tubercolosi e la poliomielite (l’Italia finanzia, attraverso l’OMS, anche l’Iniziativa Globale per l’Eradicazione della Poliomielite). Nel gennaio 2002, a seguito del G8 di Genova, è stato creato il Fondo Globale, un’istituzione finanziaria internazionale basata sul partenariato tra istituzioni pubbliche, società civile, settore privato e fondazioni. L’Italia si colloca tra i primi donatori del Fondo

101 per entità di contributi effettivamente erogati e partecipa, con i propri rappresentanti, al Consiglio d’Amministrazione. Le priorità individuate dal nostro Paese per accelerare i progressi per il raggiungimento degli MDG sono quelle dirette, come già detto, alla lotta alla povertà, alla fame e alle grandi pandemie. Sarà dunque necessario intensificare lo sforzo diretto al potenziamento delle risorse finanziarie necessarie, ma, da un attento esame dei risultati, si è evidenziato che il miglior investimento consiste nel sostegno delle ONG e del mondo del volontariato, particolarmente attenti e profondi conoscitori del territorio. Per quanto concerne le nuove forme di partenariato, grande importanza va assumendo la cooperazione decentrata, intesa quale attività di cooperazione realizzata dalle Autonomie locali italiane (Regioni, Province, Comuni) in partenariato con enti omologhi dei PVS con il coinvolgimento della società civile dei rispettivi territori. La DGCS riconosce a questa forma innovativa di aiuto allo sviluppo, caratterizzata dall’ampia partecipazione popolare e dalla reciprocità dei benefici, una propria specificità ed un rilevante valore aggiunto rispetto sia alla cooperazione governativa che a quella non governativa (ONG), soprattutto nei settori della lotta alla povertà e all’esclusione sociale e della promozione della democrazia. Inoltre, promuovendo lo sviluppo economico locale, la cooperazione decentrata è in grado di creare l’ambiente favorevole all’internazionalizzazione delle nostre PMI. L’attività di stanziamento delle risorse da parte delle Regioni e degli Enti locali viene regolata da apposite leggi regionali che, riconoscendo al MAE una primaria competenza nella materia in quanto “parte integrante della politica estera”, sottopongono la loro programmazione al previo assenso del MAE-DGCS. L’autonomia delle Regioni nel settore della cooperazione allo sviluppo è quindi solo parziale, basandosi sulla capacità propositiva ad esse riconosciuta dalla legge n. 49/87, art. 2 comma 5. Inoltre è significativa la partecipazione delle Regioni italiane a programmi finanziati dall’Unione Europea. L’efficacia della cooperazione decentrata dipende strettamente da due fattori: La capacità delle Autonomie locali di instaurare partenariati attivi e di coinvolgere in forma partecipativa le forze vive del proprio territorio; La capacità della DGCS di mettere a disposizione degli Enti locali risorse e sinergie (programmi quadro) idonei ad orientare, coordinare e cofinanziare i singoli interventi evitando dispersioni, duplicazioni e frammentazioni.

102 L’azione della DGCS tende essenzialmente a fornire alle Autonomie locali dei quadri di riferimento entro cui inserire le proprie iniziative al fine di renderle coerenti con la nostra politica di cooperazione e possibilmente complementari con i nostri interventi. Tutto ciò mediante: − una reciproca informazione attraverso l’istituzione e la gestione comune di una banca dati; − un’azione di formazione rivolta agli amministratoti degli Enti locali italiani che intendono svolgere attività di cooperazione; − l’istituzione di programmi quadro ad hoc concordati a livello governativo ed eventualmente affidati ad organismi internazionali, diretti a favorire e guidare l’inserimento della cooperazione decentrata, anche attraverso idonee forme di cofinanziamento; − l’affidamento alle Regioni di progetti governativi nei settori in cui esse dispongono di strutture specializzate ed esperienza consolidata. A conclusione della seconda edizione delle Giornate italiane per la Cooperazione (ottobre 2005) è però emersa una situazione piuttosto drammatica riguardo allo stato reale della cooperazione nel nostro Paese. Gli impegni internazionali non rispettati, la riduzione drastica dei fondi nella finanziaria del 2006, il triste primato di ultimi nella classifica dei Paesi OCSE quanto a rapporto APS/PIL, la paralisi della DGCS del Ministero degli Affari Esteri mostrano come la politica pubblica di cooperazione non abbia strategia né coerenza e che pare non essere sostenuta da alcuna volontà politica. La responsabilità è chiaramente del Governo, che continua a venir meno ai suoi doveri istituzionali invece di cambiare direzione. Le proposte per un reale miglioramento sono: Riformare la legge n. 49/87 e il Ministero degli Affari Esteri; Sganciare la cooperazione dalla politica commerciale e dagli interventi militari; Ridurre le spese militari per finanziare le attività di cooperazione; Rispettare gli impegni presi in sede internazionale con gli Obiettivi del Millennio.

E’ importante che la cooperazione torni ad essere punto qualificante sull’agenda della politica e che sia fondata sulla giustizia e non sulla beneficenza, sulla pace e non sulle missioni militari “umanitarie”, sull’autosviluppo e non sull’invasione dei mercati e delle

103 imprese, sul rapporto paritario con le comunità dei Paesi del Sud del mondo e non su un approccio paternalista e neocolonialista. Se si analizza l’andamento dell’APS italiano negli ultimi anni e lo si paragona a quello degli altri Paesi europei, si nota che la tendenza italiana è del tutto opposta a quella del resto d’Europa: siamo passati da -15,3% nel periodo 2002-2003 a -9,7% nel periodo 2003-2004. Guardando alla spesa complessiva siamo passati dalla settima alla decima posizione, sorpassati da Svezia, Spagna e Canada. La situazione peggiora ulteriormente quando si osserva lo sforzo di ogni Paese in relazione alla propria ricchezza, ovvero il rapporto APS/PIL. Nel 2004 l’Italia da penultima della lista è diventata ultima, stanziando solamente lo 0,15% del PIL. La difficile congiuntura economica internazionale di questi ultimi anni non può giustificare la situazione italiana visto che altri Paesi dell’UE hanno invece significativamente incrementato le risorse per la cooperazione internazionale.

Tab. 1.2: Aiuto Pubblico allo Sviluppo nel 2004 (1/2).

Fonte: OCSE

104 La Spagna li ha raddoppiati; la Francia è arrivata allo 0,34%; la Gran Bretagna si è data l’obiettivo dello 0,47% entro il 2007; i Paesi del Centro e Nord Europa (Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Lussemburgo) hanno confermato quote superiori allo 0,7% del PIL in un lasso di tempo relativamente breve. In Italia, invece, non è mai stata creata una vera e propria road map da seguire per il raggiungimento degli obiettivi.

Tab. 1.2: Aiuto Pubblico allo Sviluppo nel 2004 (2/2).

Fonte: OCSE

Tab. 1.3: Andamento dell’APS totale per i grandi Paesi europei.

8 000 France 6 000 4 000 United Kingdom 2 000 usd million Italy

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

Fonte: OCSE

105 La Finanziaria 2006 prevede 152 milioni di taglio sul fondo a dono, cioè sulle vere risorse disponibili per la cooperazione, che in questo modo passano dai 552 milioni del 2005 ai 400 milioni del 2006 (-27%). Con la manovra di aggiustamento (Decreto legge sul contenimento delle spese, Consiglio dei Ministri del 14 ottobre 2005) il Ministero dell’Economia ha infatti decurtato la cooperazione internazionale di altri 100 milioni di euro per il 2005. Di questi 100 milioni aggiuntivi di tagli, 22 milioni riguardano direttamente le ONG, e rappresentano tutto il residuo non ancora erogato nel 2005.

Tab. 1.4: I tagli alla cooperazione degli ultimi mesi (dati in euro).

Finanziari DL N. DL sul Previsioni per Finanziaria a 106 contenimento delle l’anno finanziario 2006 2005 (17-6- spese (14-10-2005) 2006 – a 2005) legislazione vigente 570 -9 milioni -100 milioni per il 552 milioni 400 milioni milioni per il 2005 (ovvero - 2005 152 milioni) -18 milioni per il 2006 Fonte: OCSE

Tab. 1.5: Stanziamenti in finanziaria degli ultimi anni (in milioni di euro).

2003 2004 2005 2006 618 616 588 400

Fonte: OCSE

106 Inoltre, osservando la composizione dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, appare evidente come in Italia manchi una politica di cooperazione minimamente coerente. Il 70% dei fondi sono destinati al canale multilaterale e si decide quindi di delegare ad altri la scelta su cosa sia meglio fare dei fondi per la cooperazione. Si legge nella relazione annuale dell’OCSE- DAC che “il finanziamento dei canali bilaterali e multilaterale dovrebbe essere reso più esplicito e dovrebbe essere basato su considerazioni date dai risultati di valutazioni della performance degli interventi”. Tali valutazioni però non esistono: risulta quindi impossibile costruire delle strategie su di esse.

Tab. 1.6: I dieci maggiori beneficiari dell’APS bilaterale (%).

FLUSSI LORDI, MEDIA SU DUE ANNI. 1991-92 1996-97 2002-03 Albania 10 Malta 6 Mozambico 21 Mozambico 9 Uganda 6 Congo, R. D. 20 Tunisia 7 Bosnia 5 Tanzania 6 Erzeg, China 6 Etiopia 5 Etiopia 4 Argentina 6 Giordania 4 Tunisia 3 Marocco 6 Albania 4 Guinea Bissau 3 Egitto 5 Nicaragua 4 Afghanistan 3 Tanzania 4 Mozambico 4 China 3 Etiopia 3 Argentina 4 Palestina 3 Ex- 2 Congo,R.D. 4 Albania 2 Yugoslavia Totale 58 Totale 46 Totale 69 Fonte: OCSE

“Ad ogni modo”, continua la relazione, “le scelte dovrebbero essere coerenti con le capacità di gestione degli aiuti nei diversi settori” perché non vengano presi accordi in sede internazionale che poi non si è in grado di rispettare.

107 Rispetto ai destinatari degli aiuti l’Italia ha una quota relativamente alta, seppur ancora insufficiente (30%), di fondi destinati ai paesi più poveri (Least Developed Countries). Su questa cifra pesa fortemente l’iniziativa di cancellazione del debito, che si concentra su tali Paesi. Ma la scelta dei Paesi non sembra comunque indirizzata da alcun tipo di strategia. Osservando i flussi degli ultimi anni si vede che i dieci maggiori beneficiari cambiano costantemente. Mancando qualsiasi tipo di monitoraggio non è dato sapere cosa spinga ad aiutare un Paese anziché un altro, come vengano definite le strategie d’uscita e cosa spinga a smettere di finanziare i progetti in un Paese e si decida di cambiare la destinazione dei flussi. Affinché tutti questi problemi vengano risolti, sono state presentate delle proposte da un gruppo di 42 organizzazioni della società civile riunitesi in una campagna (“Sbilanciamoci”) a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti, l’ambiente e la pace. Le proposte sono le seguenti: − Portare entro il 2011 i fondi per la cooperazione allo sviluppo allo 0,7% del PIL e dal 2006 allo 0,24%; − Rispettare gli impegni presi in sede internazionale per la realizzazione degli Obiettivi del Millennio; − Creare un’Agenzia autonoma del MAE per il coordinamento e la gestione della politica e dei programmi di cooperazione pubblica allo sviluppo; − Riformare e snellire il funzionamento delle procedure amministrative della legge n. 49/87; − Slegare il 100% degli aiuti, ovvero non vincolarli all’acquisto di beni e servizi italiani; − Separare la cooperazione allo sviluppo da ogni commistione con il sostegno alle imprese e da ogni subalternità alla politica estera e militare del Paese; − Rispettare gli impegni del Protocollo di Kyoto, sostenendo con programmi e progetti le politiche di sviluppo sostenibile; − Abrogare la legge Bossi-Fini, chiudere i CPT e destinare i fondi corrispondenti a politiche di integrazione, formazione e cooperazione con le comunità dei Paesi d’origine dei migranti.

108 Il ruolo delle organizzazioni non-governative Quando si parla di organizzazioni non-governative ci si riferisce ad associazioni private, senza scopo di lucro, che realizzano iniziative di soccorso e di sviluppo in favore dei Paesi del Sud del mondo; in particolare si tratta di iniziative rivolte al soddisfacimento dei bisogni umani essenziali e a combattere lo stato di povertà assoluta delle popolazioni. Una delle principali caratteristiche delle ONG è la loro estrema diversità nella struttura, nella composizione culturale, nelle forme di presenza nei Paesi di appartenenza. Rientrano pertanto in questa definizione sia le associazioni che si propongono un obiettivo specifico sia le associazioni che perseguono scopi più ampi, fornendo aiuto ad un gran numero di Paesi in diversi settori. Il denominatore comune delle ONG è l’interesse verso il problema dello sviluppo, che cominciò a manifestarsi in maniera rilevate all’inizio degli anni Sessanta, in concomitanza con la proclamazione fatta in sede ONU del primo decennio per lo sviluppo e con il lancio, da parte della FAO, della prima campagna mondiale contro la fame nel mondo. E’ in quel momento che in Europa, negli USA e in Canada nascono le prime ONG. Negli anni Sessanta il concetto di cooperazione diffuso nell’ambiente non governativo e volontaristico non si discostava da quello governativo: la cooperazione si poneva come obiettivo la riduzione del divario tra il livello di vita delle nazioni industrializzate e quello delle nazioni emergenti; essa riproponeva il modello di sviluppo occidentale e si limitava a fornire ai Paesi beneficiari l’assistenza finanziaria e tecnica necessaria al loro decollo economico. Il riconoscimento da parte dello Stato italiano arriva nel 1971 quando, con l’approvazione della Legge Pedini (legge n. 1222/71), viene concessa la possibilità di effettuare il servizio sostitutivo all’obbligo di leva ai giovani che partono volontari con una ONG. Con una serie di leggi successive, la n. 38/79 che ammette il finanziamento delle ONG per la realizzazione di progetti nei Paesi del Sud del mondo, la n. 73/85 e la n. 49/87, la legge tuttora vigente, che amplia notevolmente le possibilità, i benefici e le forme di sostegno e riconoscimento delle ONG e del personale espatriato da esse impiegato, le relazioni e il riconoscimento di queste organizzazioni come attori importanti della cooperazione italiana diventano una realtà consolidata nel nostro Paese. Il panorama odierno italiano si presenta particolarmente frammentato, caratterizzato sia dalla presenza di organizzazioni ancora improntate al

109 modello di volontariato militante sia da associazioni più professionali che si ispirano a modelli di democrazia partecipativa. Da oltre trent’anni le Federazioni ed i Coordinamenti stabili di ONG hanno assunto ruoli progressivamente crescenti, sia per quantità che per qualità. Accanto alle tre Federazioni che storicamente hanno raggruppato la maggioranza delle ONG di più lunga data (la FOCSIV, Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario – creata nel 1972, tra le ONG cattoliche, conta 56 membri; il COCIS, Coordinamento Organizzazioni di Cooperazione Internazionale allo Sviluppo – nato nel 1975, tra quelle laiche, conta 28 ONG; il CIPSI, Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale – costituito nel 1983, ne raggruppa 25), a partire dagli anni Novanta, si assiste alla creazione di forme consortili create per la realizzazione di progetti o di attività in comune tra le varie ONG e alla nascita di aggregazioni stabili non necessariamente con riconoscimento a livello giuridico e con interessi e obiettivi diversificati. Alla fine del 2000 si è costituita formalmente l’Associazione ONG Italiane. Tale Associazione conta oggi circa 170 organizzazioni socie, la quasi totalità delle ONG attive in Italia, e si propone come principali obiettivi i seguenti: a. rappresentare i propri soci negli ambiti dove agiscono unitariamente; b. promuovere lo scambio e l’informazione tra i soci al fine di favorire processi di collaborazione e sinergia; c. favorire l’accesso e la fruibilità di servizi di utilità per i soci; d. promuovere e realizzare campagne di particolare rilevanza a livello nazionale ed internazionale; e. favorire l’elaborazione e la diffusione di standard di qualità etici ed operativi, promuovendone l’utilizzo da parte dei soci. Queste organizzazioni sono oggi uno tra gli attori fondamentali nell’ambito degli aiuti internazionali, nello studio e nell’attuazione di politiche di sviluppo. Esse si propongono come interlocutori indipendenti dei Governi e delle organizzazioni economiche internazionali, con una propria visione culturale e metodologica della cooperazione internazionale. In base al principio di sussidiarietà, necessario per garantire il ruolo e la crescita della società civile, le ONG chiedono di essere riconosciute e valorizzate come validi soggetti di cooperazione internazionale. Nel nostro ordinamento, esse appartengono

110 alla categoria giuridica delle associazioni senza scopo di lucro (no-profit), e ne condividono la disciplina civilistica. Nella maggior parte dei casi si tratta di associazioni giuridicamente non riconosciute. La legge n. 49/87 prevede una disciplina speciale delle ONG di cooperazione e sviluppo. Ai sensi della legge (articolo 28), tali organizzazioni possono ottenere dal Ministero degli Affari Esteri un riconoscimento di idoneità, fondamentale al fine di poter accedere ai contributi e ai progetti ministeriali.

Per ottenere l’idoneità, l’ONG deve: a. essere formalmente costituita; b. non avere finalità di lucro e non essere in alcun modo collegata a soggetti aventi tali finalità; c. avere come scopo istituzionale lo svolgimento di attività di cooperazione o di educazione allo sviluppo; d. fornire adeguate garanzie di competenza e capacità; e. accettare una serie di periodici controlli ministeriali.

L’art. 40 del Regolamento di esecuzione della legge n. 49/87 prevede che la richiesta di riconoscimento di idoneità può essere presentata dalle organizzazioni che siano state costituite almeno tre anni prima della data della domanda. Nel 1994 è stata elaborata congiuntamente dai rappresentanti delle organizzazioni europee poi discussa con i rappresentanti della Commissione Europea la Carta di Elewitt (dal nome della cittadina belga che ospitò il primo incontro). La Carta include i principi generali relativi alla mission, alla qualità, alla responsabilità delle ONG nel loro operato e definisce il comune denominatore del loro profilo organizzativo. Essa parla dei valori comuni che definiscono la mission delle ONG europee, a partire dal diritto di ogni uomo e di ogni donna a un livello minimo di qualità della vita, che si fonda su un’equa distribuzione delle risorse della Terra, sull’eliminazione della povertà e sulla giustizia sociale. Le attività di cooperazione devono quindi tener conto delle priorità che le stesse comunità locali identificano in modo autonomo; devono fare della partecipazione popolare l’elemento chiave di ogni iniziativa, progetto, programma che si ponga degli obiettivi di sviluppo. Gli uomini e le donne delle comunità coinvolte nelle attività di cooperazione diventano così i

111 principali responsabili dell’ideazione, pianificazione, realizzazione e valutazione dei progetti e dei programmi che li riguardano. Le ONG tentano di creare le condizioni per un dialogo che sia davvero paritario con gli interlocutori locali e credono nel diritto/dovere dell’opinione pubblica di essere coinvolta nella cooperazione allo sviluppo per contribuire al raggiungimento della giustizia sociale. Tra i principi fondamentali della Carta c’è l’impegno a mettere al primo posto i bisogni, le aspettative e le richieste dei partner del Sud, stando dunque attenti a non diffondere, con il proprio operato, dottrine o ideologie che poco hanno a che fare con il contributo ai processi di sviluppo. Lo sforzo congiunto più importante è stato quello di definire una comune strategia di intervento che prevedesse l’inizio di un approccio professionale alla cooperazione, ossia il dotarsi di pratiche di monitoraggio delle attività in corso e quelle di valutazione dei risultati conseguiti nelle iniziative di cooperazione. Un altro importante obiettivo che rientra nel lavoro delle ONG è quello di rafforzare i gruppi sociali particolarmente svantaggiati e le minoranze. Non ci può essere sviluppo dove esiste la disparità fra i sessi e quindi lavorare per eliminare tali disparità fa emergere che, in molti contesti, alle donne non è concesso di partecipare ai programmi né di essere tra i beneficiari. La Carta fa riferimento anche alle attività di raccolta fondi, ricordando che le ONG si sono date l’obiettivo di rappresentare le differenti realtà e la complessità delle situazioni nelle quali sono coinvolte senza fare uso di facili semplificazioni. Questo significa che le ONG devono controllare ogni attività di raccolta fondi che viene realizzata in loro nome, perché corrispondano alle attese e non comportino manipolazioni dei messaggi che si vogliono trasmettere. Infine, le ONG sono impegnate nella promozione di attività di educazione allo sviluppo e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in particolare quella dei Paesi dell’Unione Europea, sulla realtà e i meccanismi della povertà. Questo significa valorizzare le esperienze delle ONG al Sud, per cercare di influenzare le istituzioni sia del Nord che del Sud in merito alle condizioni di vita delle popolazioni più svantaggiate. L’ultima parte della Carta delle ONG si riferisce a quella serie di caratteristiche che consentono di definire una struttura organizzativa comune attraverso il radicamento nella società civile, ovvero il supporto da parte dell’opinione pubblica. Questo significa, tra le altre cose, cercare di favorire la partecipazione dei propri sostenitori al lavoro svolto. Le ONG europee sono organizzazioni senza scopo di lucro, che non traggono quindi alcun profitto dalla realizzazione delle proprie attività. Questo, oltre a rappresentare

112 un tratto distintivo, significa che ogni guadagno proveniente dalle singole attività va a solo vantaggio dei beneficiari e delle popolazioni coinvolte nei progetti di cooperazione o delle iniziative di sensibilizzazione realizzate. Le ONG, a tutela dei loro sostenitori, sono inoltre associazioni legalmente costituite, secondo le disposizioni legislative degli Stati europei di appartenenza, e sono organizzazioni indipendenti nel perseguire i loro obiettivi di sviluppo, libere dal controllo politico statale e da altre influenze esterne. Esse hanno strutture direttive che ne rappresentano la composizione sociale e i cui membri hanno l’obbligo di presidiare ogni possibile conflitto di interessi. Per mantenere un’indipendenza finanziaria dai donatori, le ONG si sforzano di diversificare le loro fonti di finanziamento e credono in una gestione trasparente delle loro pratiche e politiche di gestione, rendendosi disponibili ad audit, controlli e valutazioni. La realtà articolata delle ONG italiane presenta alcune peculiarità che rispondono a valori precisi: piccole, rispetto a molte europee, ma fortemente radicate nella società civile; possiedono una forte identità culturale e metodologica; mettono la relazione tra le persone al centro del loro operare; realizzano i loro interventi di cooperazione attraverso la presenza significativa di personale motivato che cura la realizzazione in loco dei progetti.

Inoltre l’Associazione delle ONG Italiane persegue numerose finalità condivise tra i propri soci e, in particolare, vuole contribuire alla elaborazione delle strategie e delle politiche di cooperazione nazionali ed europee, sostenendo il punto di vista delle ONG in rapporto con le istituzioni nazionali, europee e internazionali, e con tutte le espressioni della società civile. E’ sulla condivisione dell’obiettivo comune della pace e sulla convinzione che lo sviluppo favorisce pace e democrazia che si è avviata la collaborazione tra ONG e Unione Europea. Nel 1976, con una dotazione di 2,5 milioni di euro, veniva creata una linea di finanziamento dedicata esclusivamente alle Organizzazioni Non Governative che da anni lavoravano in stretto contatto con la Comunità. Alla base dell’istituzione di questa linea stava l’intuizione, da parte della Commissione, che la cooperazione allo sviluppo non era una funzione esclusiva delle istituzioni pubbliche e che esistevano altri attori in grado di realizzare interventi di solidarietà internazionale. Sebbene il principio di sussidiarietà sia stato

113 introdotto nel diritto comunitario in anni recenti, già la prima disciplina del co- finanziamento riconosce alle ONG un ruolo di complementarietà per la realizzazione delle politiche di cooperazione e di aiuti allo sviluppo. Nel 1979, poi, è stato introdotto un settore specifico nella linea di finanziamento, rivolto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica europea con l’obiettivo di mobilitare le popolazioni dei Paesi dell’Unione in favore delle strategie e delle azioni che hanno un impatto positivo sui popoli sfavoriti dei Paesi in via di sviluppo. La linea del co-finanziamento alle ONG ha conosciuto un progressivo aumento di fondi, fino ad arrivare ad un ammontare di 200 milioni di euro nel 2001 e nel 2002, che funge da complemento dei principali strumenti di finanziamento della cooperazione allo sviluppo, come ad esempio il Fondo Europeo di Sviluppo (FED) per i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, e gli accordi di programmi di cooperazione tecnica ed economica bilaterale della Comunità Europea con i Paesi in Via di Sviluppo dell’America Latina, dell’Asia e del Mediterraneo e dei Nuovi Stati Indipendenti. Il rapporto con l’UE si è instaurato essenzialmente sul riconoscimento dell’autonomia delle ONG e ha strettamente a che fare con il rispetto del diritto di iniziativa nella presentazione dei progetti. Una ONG è libera di proporre progetti in Paesi o in settori di intervento anche se questi non fanno parte delle priorità definite dalla Commissione. Per relazionarsi in modo più efficace con la Commissione le ONG europee hanno dato vita nel 1974, su proposta della stessa Unione Europea, al Comité de Liaison des ONGD-UE (CLONG), un organismo di coordinamento rappresentativo delle associazioni di solidarietà internazionale attive nella cooperazione Nord-Sud. Nel marzo del 2002 il CLONG rappresentava 930 organizzazioni dei 15 Stati membri. Il Comité era dunque la struttura di coordinamento delle organizzazioni degli Stati membri dell’Unione, a loro volta organizzati in piattaforme nazionali e aveva il compito di promuovere soprattutto la formazione e l’educazione dei quadri e degli operatori del mondo associativo e dell’opinione pubblica sull’idea stessa di sviluppo. Il Comité ha raccolto tutta l’esperienza del mondo associativo sulla cooperazione europea e ha svolto un’importante funzione anche per le istituzioni e gli Stati membri, per i quali è più semplice avere a che fare con un unico rappresentante piuttosto che con una miriade di organizzazioni. Nell’ultimo decennio, però, poco alla volta è venuto meno il rapporto di collaborazione che legava il Comité alla Commissione, a causa della crescita dei compiti di quest’ultima, che l’ha portata a non essere più in grado di reggere da un punto di vista gestionale. E’ stato

114 avviato pertanto un processo di ristrutturazione che ha delineato chiaramente una nuova strategia politica: una politica di cooperazione che mira ad accorpare il commercio con l’estero, concentrandosi su poche aree, in nome dell’efficacia, tralasciando altre zone considerate poco interessanti dal punto di vista dell’immagine. Si è assistito così all’abbandono delle popolazioni e delle fasce più deboli del mondo. Il CLONG ha tentato di opporsi intensificando i suoi rapporti con il Consiglio e il Parlamento europei, rivolgendosi ai politici; tale iniziativa è stata vissuta dalla Commissione come ostile nei propri confronti, in un momento in cui cercava di introdurre riforme non discusse con i soggetti non governativi. Nel dicembre del 2000 i rapporti tra Commissione e Comité si sono guastati irrimediabilmente: il CLONG ha denunciato “l’attitudine negativa” della Commissione nel corso di una conferenza stampa. La reazione della Commissione è stata quella di richiedere immediatamente un audit e nel contempo di sospendere tutti i contratti già firmati con il CLONG. L’audit non ha verificato alcuna frode, ma il Comité non è sembrato più essere l’organo idoneo a riallacciare rapporti proficui con la Commissione. E’ così che a fine gennaio del 2003, con un’assemblea straordinaria convocata a Bruxelles, le oltre mille ONG di sviluppo ed emergenza europee hanno formalmente costituitola nuova struttura di coordinamento e di rappresentanza verso le istituzioni dell’UE: CONCORD (Confederazione delle ONG di emergenza e sviluppo). L’Assemblea di CONCORD è costituita dai rappresentanti degli Stati attualmente membri dell’UE e ad essi si aggiungono i rappresentanti di 14 network. Le singole ONG partecipano attraverso le loro piattaforme nazionali. Oltre alla struttura direttiva della Confederazione, l’attività è stata organizzata in gruppi tematici che riguardano le principali questioni aperte a Bruxelles: dal commercio al finanziamento dello sviluppo; dall’educazione allo sviluppo agli aiuti umanitari; dall’accordo di Cotonou al co-finanziamento dei progetti delle ONG. L’Associazione delle ONG Italiane considera la creazione di CONCORD un passo fondamentale per un rinnovato rapporto con l’Unione Europea ed una relazione intensificata con i partner del Sud del mondo. Come già detto, i soci di CONCORD sono costituiti dalle Piattaforme nazionali e da alcune tra le principali reti europee di ONG. Questa è una delle maggiori differenze rispetto al CLONG e tiene conto della nascita, nell’ultimo decennio, di nuove forme aggregative tre le ONG europee. Primi tra tutti i network, costituiti da ONG che condividono un interesse tematico oppure una stessa appartenenza ideale o politica, raccolgono competenze e saperi

115 che permettono di dialogare e negoziare con la CE su argomenti specifici. Molte ONG italiane fanno parte di uno o più network, secondo le proprie caratteristiche operative o appartenenze ideologiche. Questo permette loro di condividere con partner europei strategie comuni, innovazioni operative e analisi politiche, indispensabili per migliorare la qualità dei loro interventi. Le “famiglie” sono invece grandi organizzazioni presenti in più Paesi europei (o anche extra-europei), con sedi più o meno autonome dal punto di vista gestionale. Il legame fra le varie associazioni nazionali è fortissimo ed è sostenuto da una condivisione di valori, di finalità e di metodologie di azione. Anche in Italia sono state aperte sedi di alcune grandi famiglie europee, con il rischio che i nuovi arrivati si limitino alla raccolta di fondi piuttosto che apportare qualche novità alla gestione dei progetti. Attualmente il numero di ONG è in continuo aumento nonostante la drastica riduzione degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. L’Italia si conferma il Paese europeo che sostiene di meno le proprie ONG, con budget che sono un decimo di quelli tedeschi; eppure il 70% di esse è nato negli ultimi venti anni dando vita a una miriade di movimenti, associazioni e imprese sociali. Si rende quindi sempre più necessaria una riforma legislativa che risani un sistema poco efficiente e lento. Le ONG infatti, per vedersi approvare un progetto dal MAE e ottenerne il finanziamento, devono seguire procedure troppo lunghe: due anni per farselo approvare (può capitare perfino che l’Ufficio competente cerchi di dissuadere la ONG dal presentarlo proprio per le scarse probabilità che il progetto venga approvato in tempi ragionevoli), un altro anno per poter partire in modo effettivo e ottenere la prima parte del finanziamento e poi, dopo il primo rendiconto, aspettare uno o due anni per la seconda parte. Tutto ciò avviene con la speranza che ci siano i soldi e che non vengano tolti improvvisamente quelli già destinati, come è accaduto nell’ultima finanziaria. Secondo l’OCSE la trafila, dal momento della presentazione di un progetto di due anni alla sua chiusura contabile, può anche essere di sette-otto anni. In alcuni casi si è superata la soglia dei dodici anni. Comunque la ONG è tenuta, in ogni caso, a rispettare il contratto stipulato, sia che i soldi arrivino oppure no, e a portare avanti il progetto. E’ chiaro che il dover operare senza la certezza di vedersi approvato il rendiconto e senza sapere quando potranno disporre dei fondi, pone le ONG in situazioni di grande disagio e, talvolta, si trovano costrette a non poter completare i progetti già iniziati o ad interromperli con gravi conseguenze per il contesto locale in cui il progetto è inserito. Le ONG chiedono:

116 a. l’istituzione di un organismo di gestione snello, che renda possibile la realizzazione dei progetti in tempi brevi; b. un controllo del Parlamento; c. il riconoscimento delle ONG come soggetti della cooperazione; d. il riconoscimento della cooperazione come strategica per la politica italiana. Probabilmente il problema maggiore italiano sta nella frammentazione del settore e nell’incapacità di autofinanziamento. Marco de Ponte, segretario generale di “Azione Aiuto” parla di un processo di selezione in corso tra le ONG in cui “funziona chi non dipende da un solo donatore, chi sa spiegare il proprio operato a sostenitori e attivisti, chi si fa apprezzare per efficienza e trasparenza”. E’ importante che la dimensione politica venga ritrovata e che si sperimentino nuove strade. Federico Perotti, responsabile progetti del Cisv di Torino, sostiene che si dovrebbero costruire alleanze forti tra ONG diverse e con altri rappresentanti della società civile. Le ONG dovrebbero recuperare il rapporto con il proprio territorio e saper coinvolgere maggiormente i giovani. Il Ministero degli Affari Esteri sembra aver fatto qualche passo in avanti, inaugurando la prassi di inserire i rappresentanti delle ONG italiane nelle delegazioni governative alle Conferenze delle Nazioni Unite e di grande importanza si sono rivelati gli incontri, sempre più frequenti, tra la delegazione italiana e i rappresentanti della società civile in vista di ogni riunione del Consiglio del Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria.

117 9. IL PRINCIPIO DI CONDIZIONALITÀ NEL QUADRO DELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

Introduzione: La nascita della politica estera europea

La politica estera europea è stata sin dal suo nascere caratterizzata dalla profonda contraddizione esistente tra il procedimento evolutivo che conduce gli stati aderenti verso la costruzione di un destino comune 3, attraverso il costante dibattito istituzionale interno, e la necessità di creare una politica estera comunitaria capace di tradurre i principi dettati dai trattati istitutivi dell’Unione mediante la creazione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC). 4

Il quadro politico internazionale degli anni 90, i profondi cambiamenti degli assetti geopolitici dell’area Europea, dal crollo del Muro di Berlino del 1989, fino alle crisi dei Balcani, hanno acuito la consapevolezza per gli Stati aderenti della crescente necessità di radicare il ruolo da essi assunto nella Comunità Internazionale. La dimensione statale dell’azione politica verso l’estero risultava infatti, non più in grado di affrontare in maniera paritaria le sfide internazionali. Si sono gettate così le basi per l’istituzionalizzazione di un nuovo interlocutore geopolitico capace di tradurre i principi condivisi dagli Stati aderenti all’interno della Comunità Internazionale.

In ciò sta la ricchezza e la portata innovatrice del Trattato di Maastricht 5 che ha formalizzare i principi giuridici per un cammino di crescita e maturazione istituzionale attraverso il quale si è giunti all’attuale dibattito sulla costituzione europea. Dallo stesso trattato è quindi necessario prendere le mosse per identificare ed analizzare il ruolo che assume, all’interno della dimensione europea, la cooperazione allo sviluppo quale strumento di promozione del modello europeo e le forme in cui esso può manifestarsi.

3 CIG 81/04, DQGP, 16 giugno 2004, Preamble, pag. 5 4 Art. 11, Titolo I, Disposizioni Comuni, Trattato sull’Unione Europea, GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997, 5 Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997

118 Verso la creazione di una politica estera comune: la sovranità statale ed il ruolo della cooperazione allo sviluppo attraverso le previsioni del Trattato di Maastricht

Procedendo quindi alla disamina delle posizioni innovatrici che trovano spazio all’interno del Trattato di Maastricht, e quindi del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, è bene porre l’accento su due articoli in particolare, cui va attribuito il merito chiarificatore e definitorio di costituire l’asse giuridico attraverso cui l’azione di cooperazione europea in materia di politica estera trova un fondamento ed un riconoscimento giuridico nell’ottica della cooperazione internazionale per lo sviluppo.

1- Il titolo V del Trattato di Maastricht, ed in particolare l’art.. 11, come modificato dal Trattato di Amsterdam, ha il pregio di sancire definitivamente da un lato, il ruolo che deve assumere, nella politica di cooperazione europea che fonda l’esistenza dell’Unione, l’azione di politica estera comune (PESC), e, dall’altro, indicare gli obiettivi e le modalità di esercizio cui essa deve tendere.

ART. 11 (ex. Art. J.1) 6

L'Unione e i suoi Stati membri stabiliscono ed attuano una politica estera e di sicurezza comune disciplinata dalle disposizioni del presente titolo ed estesa a tutti i settori della politica estera e di sicurezza. Gli obiettivi della politica estera e di sicurezza comune sono i seguenti: 1) difesa dei valori comuni, degli interessi fondamentali e dell'indipendenza dell'Unione; 2) rafforzamento della sicurezza dell'Unione e dei suoi Stati membri in tutte le sue forme; 3) mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell'Atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi; 4) promozione della cooperazione internazionale; 5) sviluppo e consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

In particolare, due sono gli spunti sui quali è bene riflettere al fine di inquadrare correttamente il fondamento e la portata giuridico/politica delle previsioni contenute nell’articolo:

6 Art. 11, Titolo I, Disposizioni Comuni, Trattato sull’Unione Europea, GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997,

119 1- politica comune / politica unitaria: il profondo dualismo connaturato all’esistenza dell’Unione Europea che si concretizza in una continua mediazione, anche giuridica, tra una politica accentratrice che presuppone il trasferimento di poteri in capo ad un nuovo soggetto “costituzionale”, e l’atteggiamento politico prudenziale di preservare l’azione sovrana degli stati aderenti trova un pratico riscontro nella stessa definizione della politica estera cui l’articolo tende a costituire il fondamento. L’aggettivo “comune” porta infatti a considerare che la politica estera dell’Unione non possa risolversi in un’azione unitaria in grado di rappresentare le aspettative e le esigenze degli stati aderenti. Invero, ad un atteggiamento diffuso tra le autorità statali di non acconsentire benevolmente ad una limitazione della propria sovranità, si contrappone la necessità di istituzionalizzare il ruolo dell’Unione Europea verso la traduzione dei principi che costituiscono il fondamento della cooperazione interstatale; ne consegue che l’azione di politica estera non possa che tendere a rappresentare e riunire le singole posizioni statali rispetto alle questioni di comune interesse 7.

2- Il Ruolo dei diritti umani: una volta definita l’essenza comunitaria, e non unitaria della politica estera dell’Unione, è necessario puntualizzare quali siano gli obiettivi cui essa debba tendere secondo il legislatore europeo. Si assiste in merito ad una duplice affermazione: a) da un lato infatti l’articolo prevede che la politica estera comune debba mirare a “difendere” (§1) “rafforzare” (§.2), “mantenere” (§3) i principi su cui l’Unione stessa deve risultare fondata. Interpretata unicamente in tale prospettiva però l’azione politica estera assumerebbe un significato particolarmente riduttivo ed immobilizzante, posto che preservare i valori comuni, costituisce logicamente l’antefatto che porta soggetti distinti a costituire una comunità. b) Dall’altro, viene contestualmente previsto che la politica estera trovi il proprio dinamismo nel “promuovere” (§4) e “sviluppare” (§5) la cooperazione internazionale, la democrazia nonché il rispetto dei diritti umani i quali, per la prima volta, trovano nei trattati istitutivi dell’Unione un vero e proprio riconoscimento giuridico.

7 A. Lang in Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione Europea, Cedam, Padova, 2001pagg. 31 e ss.

120 2- Le previsioni che ineriscono la creazione di una politica estera comune, trovano ulteriore conforto nelle previsioni dell’art. 177 del Trattato che Istituisce la Comunità Europea. Per la prima volta, invero, viene inserita tra le competenze dell’Unione, dietro proposta di Paesi Bassi, Germania e Danimarca, all’interno del titolo XX (ex titolo XVII), la dimensione della cooperazione allo sviluppo quale attività integrativa alle azioni di cooperazione internazionale poste in essere dai singoli stati, ma che assume un ruolo nettamente distinto dalla politica estera comune prevista dall’art. 11, non potendo essere considerata come una semplice appendice di essa, in quanto portatrice di obiettivi e peculiarità proprie.

ART. 177 (ex 130 U) 8

1. la politica della Comunità del settore della cooperazione allo sviluppo che integra quelle svolte dagli stati membri, favorisce: – lo sviluppo economico e sociale sostenibile dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli più svantaggiati; - l’inserimento armonioso e progressivo dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale; - la lotta alla povertà nei paesi in via di sviluppo; 2. la politica della Comunità in questo settore contribuisce all’obiettivo generale di sviluppo e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 3. La Comunità e gli stati membri rispettano gli impegni e tengono conto degli obiettivi riconosciuti nel quadro delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali competenti.

La scelta di differenziazione operata dal legislatore europeo trova infatti ragione d’essere nella considerazione che, l’eventuale inserimento all’interno dell’art. 11 della menzione alla cooperazione allo sviluppo, avrebbe inevitabilmente comportato un regresso “formale” dei valori e degli obiettivi che essa persegue. Difatti, al tempo della stesura del trattato, gli innumerevoli strumenti di azione posti in essere dagli stati europei attraverso soprattutto gli accordi commerciali e di cooperazione economica avevano raggiunto un livello di diffusione e di complessità per cui, l’eventuale parificazione della cooperazione allo sviluppo alle ulteriori finalità previste dall’art. 11, si sarebbe tradotta in puro esercizio di stile mancate di un fondamento reale.

8 Art. 177, Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, (C 325 del 24 dicembre 2002)

121 Il principio di condizionalità politica quale strumento di promozione

Chiarito il quadro entro cui la dimensione della cooperazione allo sviluppo trova uno spazio autonomo all’interno del Trattato di Maastricht e del Trattato che istituisce la Comunità Europea, l’esame dell’art. 117 suggerisce all’interprete ulteriori e particolari indicazioni: a) L’art. 177 definisce, infatti, il ruolo preminente che assumono i Paesi in Via di Sviluppo quali destinatari privilegiati dell’azione di cooperazione internazionale svolta dalla Comunità a cui gli stati aderenti devono ispirarsi (cfr. p.3) e a cui devono riferirsi per costruire un’azione integrata di sostegno; b) All’interno dell’articolo viene posto inoltre l’accento sulle caratteristiche dell’azione di cooperazione che la Comunità di prefigge di porre in essere; accanto quindi ad un obiettivo di lungo periodo, quale il progressivo ed armonioso inserimento nell’economia mondiale dei Paesi in via di Sviluppo, volto a definire il ruolo dell’azione di sostegno svolto dalla Comunità che non può trasformarsi in un’assistenza permanente, viene altresì indicato che la politica di cooperazione non può limitarsi ad un’azione esterna di sviluppo ma deve prendere le mosse direttamente dall’interno dei Paesi destinatari, non potendosi interpretare semplicisticamente tale obiettivo quale ripetizione del primo principio 9; c) La portata innovatrice delle previsioni dell’articolo attiene però principalmente al riconoscimento del ruolo che assume la tutela dei diritti umani all’interno dell’azione generale di consolidamento e sviluppo dello stato di diritto. In ciò trova finalmente formale riconoscimento il principio di condizionalità quale strumento di promozione della tutela dei diritti umani e quale discriminante per l’erogazione di strumenti finanziari di assistenza.

Si assiste così per la prima volta ad una chiara definizione degli strumenti di attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo che non può più essere ridotta a semplice strumento di finanziamento agli stati in un’ottica assistenziale ma deve essere concepita quale autonomo istituto, in cui l’azione finanziatrice risulti il mezzo ma non lo scopo.

9 A. Lucchini, in Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione Europea, Cedam, Padova, 2001, pagg. 672 e ss.

122

Ulteriore testimonianza del profondo radicamento dell’azione di cooperazione descritta nei Trattati, è data dal Regolamento (CE) n. 975/1999 del Consiglio, del 29 aprile 1999, che in seguito ha fissato le modalità di attuazione delle azioni di cooperazione allo sviluppo che contribuiscono all'obiettivo generale di promozione e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto nonché a quello del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali 10 dove tra l’altro viene disposto, all’art. 1, che “Le azioni previste dal presente regolamento sono realizzate nel territorio dei paesi in via di sviluppo o sono connesse con situazioni che si verificano nei paesi in via di sviluppo” e, successivamente, all’art. 10, che venga destinato a tali azioni un monte di finanziamenti per il periodo 1999-2004 pari a 260 milioni di Euro.

Il principio di condizionalità e le sue implicazioni nella politica di cooperazione allo sviluppo

Esaminate le disposizioni che, all’interno del quadro giuridico offerto dal trattato di Maastricht e dal trattato che istituisce la Comunità Europea, descrivono il ruolo e la politica dell’Unione, è bene soffermarsi brevemente sulle implicazioni che sottendono all’applicazione del principio di condizionalità nella dimensione della cooperazione allo sviluppo.

Il principio di condizionalità politica, che si può riassumere come la facoltà dell’Unione Europea di “subordinare lo sviluppo delle relazioni [esterne N.d.A.] al rispetto di condizioni politiche ed economiche per costituire le basi per una coerente politica volta allo sviluppo di relazioni bilaterali nel campo degli scambi commerciali, dell’assistenza finanziaria e della cooperazione economica” 11 presuppone infatti un’attenta riflessione sul valore che l’azione politica assume nel quadro di un’effettiva cooperazione tra gli Stati.

10 REG. (CE) n. 9751999 in GUCE n. L 120 del 08/05/1999 pag. 0001 – 0007 11 Conclusioni del Consiglio sul principio di Condizionalità al fine di sviluppare le relazioni dell’Unione europea con taluni paesi dell’Europa Sudorientale, Bollettino UE 4-1997, 2.2.1

123 Senza voler entrare nel merito dei presupposti filosofico-giuridici che sottendono all’identificazione delle condizioni ritenute imprescindibili per l’instaurazione di una corretta relazione di cooperazione con paesi extra UE, è necessario tuttavia delineare alcune riflessioni che tale principio risulta in grado di suscitare.

Se, infatti, in un’ottica prettamente giuridica, la condizione possa essere definita come “l’elemento accidentale […] posto dalla volontà delle parti al fine di subordinare l’inizio o la cessazione [di un’azione N.d.A.] al verificarsi od al non verificarsi di un avvenimento futuro ed incerto” 12 , il valore della stessa laddove sia connaturata ad una valutazione politica cambia radicalmente. In effetti, in una prospettiva di politica internazionale, seppur il Trattato preveda degli obiettivi specifici cui l’azione esterna dell’Unione deve tendere, il valore e la chiarezza giuridica del concetto di condizione rischiano di risultare subordinati all’opportunità politica, strategica ed economica cui la politica estera diviene spesso interprete.

In egual maniera, posto che le disposizioni racchiuse all’interno del disposto dell’art. 177, in quanto norme giuridiche, devono presentare una ratio legis, ovvero il fine ultimo, lo scopo 13 che il legislatore europeo intende perseguire attraverso l’emanazione delle stesse, è tuttavia da sottolineare come lo strumento della cooperazione allo sviluppo, realizzata attraverso il principio della condizionalità corre il rischio di divenire il mezzo privilegiato attraverso cui viene esercitata la supremazia da parte di un soggetto economicamente forte.

Di conseguenza, la valenza del principio di condizionalità risolve la propria essenza e forza concettuale nella discriminante tra promozione ed ingerenza, ed in particolare, nel fissare le condizioni, ovvero i requisiti e gli obiettivi a mezzo dei quali la cooperazione economica trovi una reale attuazione e divenga cooperazione allo sviluppo.

12 F. Del Giudice, Nuovo dizionario giuridico, Edizioni Simone, 1998, Napoli, pag. 288 13 Ibidem, pag. 1001

124 Differentemente, lo sviluppo economico, la lotta alla povertà, il consolidamento della democrazia, ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali 14 rischiano di rivelarsi delle pure affermazioni di principio cui non segue una reale concretizzazione.

Tali obiettivi, nonché lo stesso concetto di condizionalità, presentano infatti un’anomalia di fondo che si concretizza nel dualismo esistente tra le contrapposte esigenze di fissare, da un lato, condizioni in grado di soddisfare tangibili richieste di perseguibilità da parte dei destinatari dell’azione politica che risultino alla portata della cooperazione allo sviluppo e, dall’altro, di preservare i valori e le peculiarità offerte dalle culture dei paesi destinatari dell’azione politica europea per non vedere ridotta la stessa ad una semplicistica affermazione di forza, ad un’imposizione di modelli, che dettino principi avulsi da un sostrato socio-culturale in grado di recepirli ed a sua volta di svilupparli.

L’art. 177 descrive quindi un processo dinamico che deve necessariamente scaturire da un dialogo tra l’Unione Europea ed i Paesi in Via di Sviluppo attraverso il quale siano identificabili concreti percorsi di crescita e di sviluppo.

Pertanto, seppur appaia inoppugnabile il forte legame che deve sussistere tra l’azione di cooperazione internazionale promossa dall’Unione, in particolare nel merito della cooperazione allo sviluppo, da un lato, ed il rispetto e la promozione dei diritti umani, e della democrazia dall’altro 15 , diviene requisito irrinunciabile che l’individuazione dei criteri attraverso cui tale azione politica trovi attuazione, tengano in debita considerazione il contesto socio-politico entro cui tali condizioni debbano produrre un reale effetto. Altrimenti, la portata innovatrice conseguente alla definizione dei principi sottesi all’azione di cooperazione allo sviluppo promossa dal Trattato di Maastricht, rischia di ridursi ad una semplice normativa di principio.

14 Supra testo art. 177 15 Cfr. Risoluzione del Parlamento Europeo sui diritti umani nel mondo nel 2003 e la politica dell’Unione Europea in materia di diritti umani, Azioni all’esterno dell’Unione Europea, Aspetti generali, in Bollettino EU 4-2004, Diritti dell’uomo, (5/11), 1.2.5

125 Il principio di condizionalità all’interno del dialogo Europa – Africa

In tali termini va inquadrata la cooperazione tra l’Unione Europea ed i paesi ACP che risale alla stessa creazione della Comunità Economica e rappresenta una aspetto fondamentale dell’azione politica di sviluppo dell’Unione e delle sue relazioni esterne. A partire dal 1975 con l’adozione delle Convenzioni di Lomè, fino alla recente Convenzione di Cotonou, del 23 giugno del 2000, le relazioni tra i paesi ACP e l’Unione Europea sono divenute man mano più strette, profonde e complesse e risultano tutt’oggi articolate attorno a due poli principali: la cooperazione economica e commerciale e la cooperazione allo sviluppo.

Nei recenti colloqui tenutisi a Roma, nel novembre 2003 16 e nelle successive riunioni, è chiaramente emerso come il dialogo costante e continuo tra le organizzazioni regionali africane (ECOWAS, NEPAD, IGAD, SADC) sia il mezzo attraverso cui la ristabilizzazione del continente possa costituire il presupposto essenziale per lo sviluppo economico dell’area. 17

In tale prospettiva, si potrà quindi verificare in che termini la definizione dei requisiti e delle condizioni cui l’Unione Europea subordinerà l’azione nell’area, potranno attualizzare e concretizzare positivi riscontri in termini di cooperazione economica e di sviluppo che non può comunque prescindere dal costante dialogo intraistituzionale 18 quale strumento di comprensione delle reciproche esigenze nell’intento di una concreta traduzione dei principi definiti nel Trattato di Maastricht. 19

16 EU – Africa Dialogue – Ministerial Troika Meeting, Rome, 10 november 2003, Final Communique, 14571/03 (Presse 323) 17 UE Presidency Conclusions, Brussels, 12 December 2003, p.77 18 Ibidem, 75 19 Supra, art. 11 Trattato di Maastricht e Art. 177 Versione Consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, BOE 325 del 24 dicembre 2002

126 10. ORGANIZZAZIONI INTERGOVERNATIVE

10.1 SOCIETÀ DELLE NAZIONI ED ONU Per comprendere appieno i motivi che stanno alla base della nascita dell’ONU occorre risalire alla nascita di un altro organismo internazionale, la Società delle Nazioni. Essa nacque ufficialmente il 28 aprile 1919 a Versailles, quasi come conseguenza del Trattato di pace successivo alla Prima Guerra Mondiale. Lo scopo di tale organismo, alla luce di quanto era successo durante il conflitto, era proprio quello di creare una struttura che potesse ergersi ad organo sopranazionale e dirimere i futuri conflitti tra le varie nazioni, contribuendo così, in maniera determinante al mantenimento della pace nel mondo compiendo anche un controllo sugli armamenti e favorendo la loro riduzione. Uno dei promotori principali fu il presidente americano Wilson, già professore di scienze politiche all’Università di Princeton, il quale, ancora durante il conflitto, aveva elaborato i famosi 14 Punti Fondamentali (tra cui il mantenimento della pace e sicurezza nel mondo e anche il principio dell’autodeterminazione dei popoli), che avrebbero dovuto costituire la base della futura organizzazione. Una delle ragioni per cui si giunse alla creazione di un tale organismo, fu anche determinata dalle dimensioni che la Prima Guerra Mondiale aveva assunto, coinvolgendo praticamente tutte le nazioni del mondo e tutti i continenti; inoltre, per la prima volta, anche le popolazioni civili erano state coinvolte in maniera massiccia nel conflitto, subendo privazioni e sacrifici che mai prima di allora avevano subito. Senza dubbio la creazione di una simile entità, rappresentava una vera e propria rivoluzione, nel panorama politico mondiale e negli equilibri che sino ad allora avevano regolato i rapporti diplomatici tra le varie potenze. Alcuni dei Punti Fondamentali enunciati da Wilson inoltre, configgevano con le politiche estere delle grandi potenze, come, ad esempio, Gran Bretagna e Francia. Infatti, a fronte del principio di autodeterminazione dei popoli, secondo il quale ogni popolo aveva il diritto di scegliersi liberamente il tipo di governo, vi erano gli enormi imperi coloniali dove questi paesi esercitavano qualsiasi diritto sulle popolazioni indigene e sfruttavano le risorse del territorio senza sviluppare le economie locali.

127 Non mancarono i dubbi in merito alle funzioni che la Società delle Nazioni avrebbe esercitato, come la nascita della stessa venne accompagnata da molto scetticismo sulle sue reali funzioni. Si ricorda a questo proposito, l’articolo apparso sul Corriere della Sera del 05.01.1918, a firma del futuro Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, dove si parlava appunto delle funzioni che una tale struttura avrebbe dovuto assumere, per poter adempiere perfettamente al compito che le veniva demandato. La prima assemblea della Società della Nazioni si tenne a Ginevra il 15 novembre 1920,alla quale parteciparono circa 42 nazioni, anche se fu vietata la partecipazione alle potenze sconfitte. Il primo presidente fu Paul Hymans ed il primo segretario l’inglese Sir James Eric Drummond. Il Documento su cui poggiava la Società delle Nazioni era composta da 22 articoli, inerenti, oltre alle norme per il funzionamento e l’organizzazione della struttura, anche la riduzione degli armamenti, il mantenimento della pace tra gli stati membri e la risoluzione pacifica delle controversie; il principio dell’autodeterminazione dei popoli venne recepito ma non ovviamente, applicato. Sulla base di questo Documento vennero poi siglati dei trattati, quali: il trattato sui mandati (1922); il trattato contro la schiavitù (1926); il trattato tra Francia e Polonia (1925) Per quanto attiene alla sua struttura, la Società delle Nazioni era composta da: Assemblea Generale dove sedevano tutti gli stati membri e dove ciascun stato aveva diritto ad un voto; Consiglio, formato da 5 membri permanenti, le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, ossia la Gran Bretagna, la Francia, gli USA, l’Italia ed il Giappone, dove ogni membro aveva un voto; Segretariato Generale; Corte di giustizia internazionale. Vi era poi il Sistema di Amministrazione dei territori coloniali, con riferimento ai territori che erano stati delle potenze sconfitte (ad esempio per le colonie tedesche dell’Africa), dove veniva dato un mandato ad uno stato per l’amministrazione di tali territori, che di fatto entravano a far parte dei possedimenti coloniali di tali stati, anche se in teoria il mandato

128 doveva essere a tempo determinato e per sviluppare una forma di autogoverno nel territorio stesso. Da parte di alcuni storici si ritiene che la Società delle Nazioni sia stato un vero e proprio fallimento, tuttavia, ad un’analisi più approfondita, probabilmente, la nascita dell’ONU è stata determinata anche dal fatto che si era già avuta l’esperienza della Società delle Nazioni. Molti possono essere indicati come i motivi del fallimento di tale organismo: ad esempio il fatto che non disponesse di proprie forze armate, la qual cosa non facilitava certo l’adozione di decisioni vincolanti e la verifica che le stesse venissero rispettate.

Uno dei problemi principali comunque, era dato proprio dal fatto che le decisioni dovevano essere adottate all’unanimità, il che causava un ostacolo a qualsiasi forma di provvedimento. Inoltre, molti paesi si erano ritirati da tale organismo e non si sentivano più obbligati a seguire le risoluzioni che venivano adottate; gli Usa ad esempio, già dal 1919 non avevano approvato l’adesione alla Società delle Nazioni, seguendo la corrente isolazionista che già durante il primo conflitto si era venuta a creare. Anche il Giappone scelse di uscire dalla stessa società nel 1932 a seguito della guerra di aggressione con la Cina, ma anche la Germania uscì dalla Società delle Nazioni nel 1933. Sul versante della concreta attività di soluzione delle controversie, vi furono alcuni episodi positivi come nel 1921 nel dirimere la questione tra la Finlandia e la Svezia a proposito delle isole Aland nel Mar Baltico e nel 1925 nel risolvere pacificamente la guerra che era scoppiata tra la Grecia e la Bulgaria. A questi però seguirono altrettanti insuccessi che minarono la credibilità della Società delle Nazioni; il più eclatante fu da collegarsi all’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista, nel 1935. L’Etiopia si rivolse alla Società delle Nazioni che emanò alcune sanzioni e livello economico; in sostanza si trattava di un vero e proprio embargo economico nei confronti dell’Italia, quale stato aggressore, riguardo a materie prime indispensabili per poter proseguire la guerra. Le sanzioni però produssero un effetto alquanto limitato, nonostante la propaganda fascista le presentò all’opinione pubblica italiana come alquanto dannose per la nostra economia e

129 come un tentativo da parte delle nazioni più ricche, in primo luogo la Francia e la Gran Bretagna, per impedire all’Italia di avere il proprio impero coloniale.

L’effetto fu limitato proprio per il fatto che molte nazioni, che non facevano più parte della Società delle Nazioni, come ad esempio USA e Germania, non si sentivano vincolate a tale provvedimento e quindi continuavano a rifornire l’Italia delle materie prime necessarie al proseguimento della guerra. L’Italia venne poi espulsa dalle Società delle Nazioni, quale stato aggressore che non aveva rispettato il Patto su cui la stessa Società si fondava. Durante la Seconda Guerra Mondiale si iniziò a parlare nuovamente della possibile creazione di un organismo sopranazionale capace di dirimere le controversie tra le nazioni e mantenere la pace nel mondo. Il 14 agosto1941 tra gli USA e la Gran Bretagna, si stilò la Carta atlantica nella quale si fissavano 8 punti tra cui anche la questione dell’autogoverno dei popoli e del mantenimento della pace nel futuro. Il 1 gennaio 1942, con la Dichiarazione di Washington, firmata tra 26 nazioni in guerra con i paesi dell’Asse, si iniziò a parlare di Nazione Unite. Come simbolo si adottò la stella a 5 punte quale figura di riconoscimento tra i paesi impegnati nel conflitto. Il 1 maggio 1942 durante l’incontro tra Molotov e Roosvelt, anche l’Unione sovietica diede il proprio assenso a creare tale organismo. Il 30 ottobre 1943 si riprese tale argomento nella Dichiarazione di Mosca. Nel maggio del 1944 venne elaborato il progetto per la creazione dei membri permanenti. Tra l’agosto e l’ottobre del 1944 si elaborò il vero progetto della Carta dell’ONU. Nel Febbraio 1945 a Yalta, durante l’incontro tra Churchill, Roosevelt e Stalin, venne riconfermata questa intenzione. Tra l’aprile ed il giugno del 1945 con la Conferenza di San Francisco, cui parteciparono circa 50 stati (ma non le nazioni che avevano combattuto con la Germania nazista), viene sottoscritta ufficialmente la Carta delle Nazioni Unite che di fatto crea l’ONU. Il 10 gennaio 1946 entra ufficialmente in vigore la Carta di San Francisco e quindi nasce l’ONU. 18 aprile 1946 viene sciolta ufficialmente la Società delle Nazioni.

130 La Carta di San Francisco è il documento con il quale si costituisce l’Organizzazione delle Nazioni Unite; viene considerato sia come un trattato-istituzione, che come un trattato- costituzione. In esso sono previste non solo le funzioni e gli scopi di tale organizzazione, ma anche le norme di funzionamento e di organizzazione. Detto documento viene considerato quale una lex specialis rispetto ad altre norme anche di livello internazionale che regolano i rapporti tra due o più stati. I principi enunciati nella Carta sono di carattere universale, cioè considerati vincolanti per tutti gli stati membri; alcuni principi però, nel tempo hanno subito alcune critiche. Ad esempio il principio di uguaglianza è oggi visto in maniera differente rispetto al 1946, in quanto se è senza dubbio vero che ogni stato membro ha gli stessi diritti e gode della stessa considerazione rispetto ad un altro, si è guardato criticamente al ruolo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza od anche al fatto che oggi alcuni paesi, definiti emergenti, come ad esempio India o Brasile, forse dovrebbero avere un peso differente rispetto a nazioni come Tonga o la Liberia. Il trattato è stato sottoscritto da tutti gli stati che sono entrati a far parte dell’ONU. L’Italia è entrata nel 1955 poiché le sue precedenti domande avevano sempre incontrato l’opposizione dell’Unione Sovietica che agiva in tal modo per tutelare altri stati che gli altri membri del Consiglio di Sicurezza non volevano entrassero a far parte delle Nazioni unite in quanto del blocco comunista. La Carta dell’ONU vieta l’uso della forza e viene bandita la guerra di aggressione. A questo scopo è utile richiamare la nostra Costituzione poiché anche in essa abbiamo il ripudio da parte dell’Italia di utilizzare la guerra quale metodo per risolvere le dispute con altre nazioni.

La stessa Carta dell’ONU quindi, pone una limitazione alla sovranità dei paesi membri, nel senso che devono accettare determinate decisioni dell’ONU, anche a discapito dell’esercizio totale della propria sovranità, per il bene della collettività. Ancora una volta si deve richiamare la nostra Costituzione, che autorizza la limitazione della sovranità nazionale, soltanto laddove ciò sia necessario per mantenere la pace tra le nazioni. Esiste comunque il principio del “dominio riservato”, secondo il quale l’ONU non può intromettersi nelle questioni interne di un singolo stato membro in quanto si tratterebbe di

131 materie in cui non è competente; occorre però distinguere quando una questione interna sia effettivamente tale, ossia quando uno stato, finga di risolvere una sua questione interna ed invece tenti di eliminare un gruppo etnico presente nel suo territorio o cerchi con la forza di imporre ad una minoranza tradizioni, lingua,costumi e religione diverse. In questo caso l’ONU dovrebbe intervenire a tutela delle minoranze minacciate, anche se il confine per determinare quando non si sia in presenza di una pura questione interna o invece di una questione inerente etnie diverse è molto labile.

10.1.1. LA CARTA DELLE NAZIONI UNITE La carta delle Nazioni Unite può venire modificata attraverso: - Emendamento, ossia un atto complesso per il quale occorre una delibera dell’Assemblea Generale ma è richiesta una maggioranza qualificata (2/3 dei presenti) inclusi comunque i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. In genere l’emendamento è richiesto per la modifica di un singolo articolo o la sua integrazione. - Revisione: consisterebbe in una rivisitazione di alcuni articoli della Carta, spesso inerenti determinati principi che vengono rimessi in discussione; si ha attraverso una conferenza generale che deve essere convocata dietro richiesta di almeno 2/3 dei membri dell’Assemblea ed il voto favorevole di almeno 9 membri del Consiglio di Sicurezza, anche se non è necessario il voto favorevole di tutti i membri permanenti. Adozione della revisione vi deve essere sempre con una maggioranza qualificata, ossia con la ratifica di almeno i 2/3 dei membri dell’Assemblea compresi però i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Vi sono però anche state delle modifiche definite “de facto”, cioè acquisite con il tempo e la pratica e che hanno determinato una differente modalità di procedere da parte degli organi dell’ONU in materie anche importanti, senza che vi sia stata una modifica di alcuni articoli della Carta. Può essere il caso delle operazioni definite di “peace keeping” o dell’utilizzo delle forze armate dei singoli stati membri come forza armata dell’ONU (caschi blu). Accanto agli stati originari o fondatori dell’ONU, esiste una procedura di ammissione che parte da una richiesta dello stato interessato, dall’esame della stessa da parte del Consiglio di Sicurezza che poi propone all’Assemblea l’ammissione dello stato richiedente.

132 L’ammissione si avrà anche in tal caso con una maggioranza qualificata, ossia con il voto di 2/3 dei membri presenti. Gli stati sono rappresentati da persone fisiche sino ad un massimo di cinque per ogni singolo stato. Coloro che devono rappresentare uno stato determinato, come nel caso degli ambasciatori, devono presentare le credenziali che verranno vagliate dall’apposito Comitato delle credenziali. Non ci sono dei criteri specifici a questo riguardo, ma ci potrebbe essere il rifiuto delle credenziali, anche se questa è una sanzione indiretta per determinati comportamenti tenuti dallo stato richiedente. Nel passato ciò è accaduto con il Sud Africa per la sua politica razzista. Vi può essere la sospensione di un paese membro, totale, collegata al fatto che non vengono più garantiti determinati diritti fondamentali, oppure parziale, in genere nel caso di mancato versamento del contributo. La perdita della qualità di membro delle Nazioni Unite vi sarà per: - espulsione, dovuta a determinati motivi legati alla politica sia interna che estera perseguita dallo stato; - recesso, volontaria da parte dello stato membro; - estinzione dello Stato, anche se occorre distinguere se la stessa si è avuta per motivi pacifici oppure a seguito di atti ostili quali un’occupazione militare, ma allora in tal caso non è detto che l’estinzione dello stato sia stata riconosciuta dalla collettività (Es. occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq). Vi sono poi alcune nazioni che hanno uno status particolare di osservatore: partecipano alle discussioni ma non hanno diritto di voto (Svizzera e Santa Sede) o la Palestina che può votare ma solo in questioni strettamente collegate alla sua esistenza. La sede dell’ONU e il suo personale godono dell’immunità diplomatica alla stessa stregua di tutte le rappresentanze diplomatiche. Per quanto attiene alla sua struttura, l’ONU risente di quanto era già stato concepito in seno alla Società delle Nazioni. L’Assemblea Generale è formata da tutti gli stati membri, ciascuno avente diritto ad un voto; le votazioni avvengono o a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata (in genere costituita dai 2/3 dei presenti). Spesso però è la stessa assemblea che decide se una questione debba essere votata con maggioranza semplice o qualificata.

133 Esistono delle sessioni ordinarie che si tengono una volta all’anno a partire da settembre, ma anche delle sessioni speciali, convocate entro 15 gg dal Segretario su richiesta del Consiglio di Sicurezza o di uno stato membro; di emergenza, convocate entro 24 ore dal Segretario su richiesta del Consiglio di Sicurezza con il voto di almeno 9 stati membri. Vi sono poi degli organi interni quali il Presidente dell’Assemblea, eletto per acclamazione, il quale ha il compito di dirigere i lavori dell’Assemblea e di condurre il dibattito, coadiuvato da 21 vice-presidenti; vi sono poi degli organi sussidiari alla stessa Assemblea quali le 6 commissioni (come ad esempio il Comitato delle credenziali), ciascuna competente nelle materie definite. L’Assemblea ha una funzione di studio e di informazione, di indirizzo ed operativa; dette funzioni si esplicano attraverso degli atti particolari quali: Raccomandazioni: si tratta di atti dell’Assemblea definiti anche quali “deliberazioni” o “risoluzioni”. Sono prive di forza vincolante, ossia sono delle manifestazioni di desiderio che invitano ma non obbligano. Si parla di un dovere dei destinatari delle medesime di conformarsi, per quanto possibile alle stesse. Dichiarazioni di principio: sono atti di particolare solennità, inquadrati nelle soft law; si dicono anche de lege ferenda e riguardano spesso la modifica di diritto internazionale consuetudinario o patrizio. Decisioni vincolanti: si hanno in materia di contributi Il Consiglio di Sicurezza è composto da un totale di 15 membri di cui 5 permanenti (Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia e USA) e 10 non permanenti, eletti dall’Assemblea con maggioranza dei 2/3, per due anni e non rieleggibili. I membri permanenti godono del “potere di veto”, ossia possono opporsi alla formazione di determinati atti del Consiglio stesso e poiché per molte decisioni è prevista l’unanimità dei membri permanenti, tale veto può bloccare l’attività del Consiglio e l’eventuale condanna o l’adozione di un determinato provvedimento, nei confronti di quello stato determinato. Il Consiglio ha la responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo. Nel caso delle controversie vi è l’obbligo del deferimento al Consiglio, ma non per quelle che vengono definite situazioni particolari per le quali vi è la facoltà ma non l’obbligo. Il Consiglio di Sicurezza gode di un ampio potere d’inchiesta allo scopo di acquisire tutti gli elementi utili per comprendere appieno una determinata situazione; tale potere lo si esercita

134 in maniera differente, con l’invio di una commissione formata da rappresentanti degli stati membri o dello stesso Segretario Generale. Lo stesso Consiglio è competente nel qualificare una determinata situazione come minaccia alla pace o violazione della pace o vero e proprio atto di aggressione. Nel caso della minaccia alla pace, recentemente si è considerata anche la situazione umanitaria ed economica di uno stato. Allo scopo di far cessare una situazione di questo tipo, il Consiglio può adottare delle misure provvisorie, volte proprio ad impedire l’aggravarsi di una determinata situazione; la loro caratteristica è data proprio dalla temporaneità delle stesse. Nel caso però che la situazione non migliori, il Consiglio può adottare delle misure coercitive che possono non implicare l’uso della forza ma sanzioni di carattere economico, collegate al settore militare. Per verificare il rispetto di quanto disposto, il Consiglio può anche consentire l’uso della forza con contingenti militari degli stati membri. Il Segretariato Generale è un ufficio complesso e permanente con al vertice il Segretario generale; questi viene nominato dall’Assemblea dietro proposta del Consiglio di Sicurezza. Per essere proposto dal Consiglio di Sicurezza, deve avere la fiducia di tutti i membri permanenti. Non si dice nulla in merito alle qualifiche o requisiti che la persona deve avere per ricoprire tale carica e la durata viene in genere determinata dallo stesso Consiglio di Sicurezza, così come nulla si dice in merito alla possibilità di essere rieletto o alla proroga. Una volta eletto, il Segretario ha l’obbligo di imparzialità ed indipendenza rispetto agli interessi nazionali del paese di cui è cittadino. Il Segretario Generale è il più alto funzionario amministrativo, ma ha anche un ruolo politico; rappresenta l’ONU nei rapporti con altre organizzazioni internazionali e con gli stati e può concludere i trattati La Corte internazionale di giustizia con sede all’Aja venne creata nel 1945 sull’esempio della Corte permanente, collegata alla Società delle Nazioni. Si compone di 15 giudici che durano in carica per 9 anni e sono rieleggibili. Essi devono rappresentare i principali sistemi giuridici esistenti. La designazione avviene ad opera dei singoli stati e votazione da parte sia del Consiglio che dell’Assemblea. La Corte elegge un Presidente, un Vice-presidente ed un cancelliere che durano in carica per tre anni ma sono rieleggibili. Vi sono poi le sezioni o camere quali:

135 − di tre giudici per particolari controversie; − ad hoc con un numero di giudici deciso dalla stessa corte; − proc. Sommaria su richiesta delle parti. Solo gli Stati possono essere parti, ma non le organizzazioni internazionali. Le sentenze possiedono i limiti della cosa giudicata e sono obbligatorie per le parti; in caso la parte non ottemperi si può ricorrere al Consiglio di Sicurezza. La Corte può anche esprimere dei pareri ma solo su determina. Vi sono poi degli organi collegati all’ONU con determinati compiti in materie specifiche come la FAO, UNESCO, WTO, UNICEF ed il Consiglio Economico e Sociale.

136 10.1.2. LA “RESPONSIBILITY TO PROTECT” Il concetto della “responsibility to protect” (responsabilità a proteggere) – abbreviato con l’acronimo r2p – è un principio di diritto internazionale umanitario elaborato e sviluppato nel corso degli anni più recenti, che ha visto un acceso dibattito proprio in sede ONU. Il principio è costituito da una norma che mira alla protezione della popolazione mondiale da eventi quali il genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e, in generale, i crimini contro l’umanità. Tale responsabilità incombe, in primis, sullo Stato sovrano in riferimento ai suoi cittadini. Solo qualora lo Stato non possa o non voglia proteggere i propri cittadini, o addirittura sia lo Stato stesso a danneggiarli, la comunità internazionale è tenuta ad intervenire e provvedere a difendere i diritti umani violati. La “r2p” è stata enunciata in forma ufficiale, per la prima volta, nell’assemblea generale dell’ONU del settembre 2005, in occasione della quale un gran numero di Paesi ha riconosciuto di avere una generale “responsabilità a proteggere” gli esseri umani da accadimenti quali quelli sopra elencati. Concepita dagli esperti di diritto internazionale umanitario, la r2p nasce dalla volontà di impedire che disastri umanitari quali, ad esempio, i genocidi del Ruanda, gli omicidi di massa della Bosnia e crimini di tal genere possano ripetersi. Per tale ragione, è necessario sensibilizzare la comunità internazionale su questo tema, rafforzando l’idea che sulle istituzioni grava la responsabilità di prevenire ed impedire tali accadimenti, approntando altresì gli strumenti che, al ricorrere di determinati presupposti, rendono necessario e consentono l’intervento da parte di soggetti terzi rispetto allo Stato sovrano. Il riconoscimento e la condivisione del concetto della r2p ad oggi ottenuti sono il risultato di anni di studi, approfondimenti, riflessioni, dibattiti, discussioni da parte dei maggiori esponenti e studiosi del diritto umanitario internazionale. Ufficialmente, come si è detto, l’evoluzione del riconoscimento del principio della r2p ha la sua pietra miliare nel 2005. Nel report del Segretario generale dell’ONU del 21 marzo 2005, si evidenzia che la “r2p” rileva nell’ambito del perseguimento del fine di “libertà di vivere in condizioni di dignità”, quale esplicitazione del più generale principio di “libertà dalla paura”.

137 Nonostante gli Stati membri dell’ONU avessero già dichiarato di non voler risparmiare i propri sforzi per il riconoscimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali – quali condizioni essenziali per la creazione di una condizione di giustizia e stabilità – la ricorrenza di fenomeni quali il terrorismo e la diffusione di armi di distruzione di massa hanno dimostrato che senza azioni concrete ogni dichiarazione sarebbe rimasta fine a sé stessa, una promessa senza significato. Si è così posta la necessità di implementare, sopratutto nell’ambito delle Nazioni Unite, il ruolo attivo della comunità internazionale nell’istituire e rendere effettivi i principi della democrazia in tutti gli Stati del mondo, abbracciando l’idea della “responsabilità a proteggere” ed agendo nel rispetto di essa a favore delle vittime di episodi e atti di atrocità di massa. L’aspetto proattivo del principio in esame è intensificato dalla considerazione per cui è giunto per gli Stati il momento di prendere in considerazione l’importanza, sia a favore dei propri cittadini che di quelli stranieri, del rispetto della dignità dell’individuo, in riferimento a cui troppo spesso si appronta soltanto una tutela formale, a livello di mere enunciazioni. È, invece, necessario passare da un’era della legislazione ad un’era dell’implementazione, condizione imprescindibile per la tutela dei popoli. Una simile impostazione diviene tanto più importante quando si tratta del ruolo della legge, che non può più limitarsi ad una mera dichiarazione, ma deve effettivamente trovare esecuzione nella realtà. Il “gap” tra la retorica e la realtà è particolarmente visibile in alcuni Stati, i quali, nonostante le dichiarazioni e gli impegni assunti, continuano impunemente a violare tali principi, con conseguenze spesso tragiche per le loro popolazioni. Tale “gap” è tanto più evidente nel campo dei diritti umani; non c’è diritto sino a che la comunità internazionale assiste, quasi impotente, a violazioni tanto efferate dei più elementari diritti dell’individuo. Tali considerazioni sono il prodromo delle determinazioni assunte in merito nel corso dell’Assemblea Generale ONU del settembre 2005. La pubblicazione del report di tale assemblea (paragrafi 138 – 139) evidenzia, appunto, le fondamentali risoluzioni adottate al riguardo, laddove si dichiara che: (traduzione non ufficiale) “ciascuno stato ha la responsabilità di proteggere i propri cittadini da genocidi,

138 crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Tale responsabilità include la prevenzione di tali crimini e della loro incitazione, attraverso gli appropriati e necessari mezzi. … “. “La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare gli appropriati mezzi di natura diplomatica e umanitaria, in accordo con i Capitoli VI e VIII della Carta delle Nazioni Unite, per proteggere i popoli da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. In tale contesto, siamo preparati ad intraprendere azioni collettive, in modo tempestivo e deciso, … in base alle caratteristiche della fattispecie e in cooperazione con le competenti organizzazioni regionali qualora i mezzi di pace non siano adeguati e le autorità nazionali non siano in grado di proteggere le loro popolazioni … . Sottolineiamo la necessità che l’Assemblea Generale continui la riflessione sulla responsabilità a proteggere le popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità … . Inoltre ci impegniamo … ad aiutare gli Stati a raggiungere la capacità di proteggere le loro popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità e ad assistere quelli sottoposti a tensioni prima che le crisi ed i conflitti esplodano.” Da questi presupposti è nata e deve essere sviluppata l’idea che esiste una responsabilità collettiva a proteggere; tale principio deve costituire la regola che imponga alla comunità internazionale, ed all’O.N.U. in primis, che il dovere primario di ciascuno Stato è quello di proteggere i suoi cittadini, e che, qualora ciò non accada, la responsabilità alla protezione di quella determinata popolazione si sposta in capo alla comunità internazionale, la quale dovrà intervenire fisicamente mettendo in atto le azioni necessarie al ripristino dell’efficacia dei diritti umani violati. Il concetto della R2P, recentemente, è stato oggetto di un acceso dibattito tra i suoi sostenitori e coloro che, a prescindere dalla strumentalità di tale posizione, considerano tale idea come una possibile giustificazione ad interventi armati nei confronti di uno Stato terzo. In sostanza, gli scettici temono che la responsibility to protect possa essere utilizzata quale mezzo per giustificare indebite interferenze a livello internazionale, divenendo così un “right to intervene” (R2I). In tal senso, il recente intervento anglo-americano in Iraq (giustificato quale “intervento umanitario”) ha costituito un argomentazione di un certo impatto.

139 Tale posizione è stata presa da diversi Paesi, tra i quali: India, Cuba, Pakistan, Egitto, Sudan, Venezuela. Il concetto della “r2p” è stato oggetto di dibattito anche nell’Assemblea Generale dell’O.N.U. del 27-28 luglio 2009. Prima di tale avvenimento, i media avevano sottolineato le contrapposizioni sopra descritte su questo tema, e vi era il timore che, proprio in considerazione di esse, l’esito delle discussioni avrebbe potuto causare un indebolimento del principio, con la conseguenza di ostacolare il percorso di implementazione ed estrinsecazione pratica dello stesso, che aveva avuto inizio proprio in occasione dell’Assemblea Generale O.N.U. del 2005. L’esito si è invece dimostrato assolutamente positivo, con soddisfazione di coloro che cercano di diffondere e consolidare il principio. Dichiarazioni favorevoli al riconoscimento ed all’applicazione della “r2p” sono provenute da ogni regione del pianeta, compresi gli stati del Guatemala, Costa Rica, Corea del Sud, Nigeria, Ghana, Randa, Francia, Norvegia, U.E. Ciò nonostante vi sono stati tentativi di taluni detrattori di sviare il dibattito e di far passare il concetto quale strumento a favore dello strapotere dei Paesi occidentali.

10.1.3. INTERVENTI UMANITARI Come si è già visto, il diritto internazionale vieta agli Stati di intervenire nelle vicende interne di altri Stati. Si può parlare di principio di non intervento anche se la carta dell’ONU non sancisce espressamente questo principio in quanto si impone agli organi dell’ONU l’obbligo di astenersi da ogni intervento nelle materie che rientrano nella domestic jurisdiction degli stati membri, fatta eccezione per le situazioni dove il Consiglio di sicurezza può adottare misure coercitive di fronte ad una minaccia della pace e sicurezza internazionale. Il principio di non intervento viene enunciato in alcuni documenti ONU come la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli tra gli Stati adottata con risoluzione n. 2625 del 1970. In considerazione di ciò, si può invece considerare intervento: le minacce e le azioni armate contro la sovranità, personalità o gli elementi politici, economici e culturali di uno Stato; l’uso della forza al fine di privare i popoli della loro identità nazionale;

140 l’organizzazione, il finanziamento, l’assistenza o la tolleranza di attività sovversive o terroristiche volte a rovesciare il regime di un altro Stato. Inoltre l’intervento sarebbe realizzato per ottenere vantaggi di qualsiasi tipo e comprende non solo attività armate ma anche altre forme di interferenza. Nell’intervento è comunque implicita l’idea di coercizione ed è possibile una distinzione tra interventi in base al grado di coercizione: intervento leggero, con semplici discussioni e verifiche, intervento forte con l’adozione di misure penetranti ed incisive ma senza l’uso della forza, come ad esempio sanzioni economiche o di altra natura e l’intervento armato che riguarda tutti gli atti che comportano l’uso della forza.

Il principio di non intervento si basa invece sul principio della sovranità assoluta degli Stati; tale principio che è una norma fondamentale del diritto internazionale venne enunciato anche prima della carta delle Nazioni Unite come ad esempio nella costituzione francese del 1793 all’art. 119 dove si diceva che la Francia non sarebbe intervenuta negli affari di un altro stato né avrebbe permesso che altri stati intervenissero nei suoi. Tale principio rimase inalterato anche con la creazione della Società delle Nazioni. Come si è già visto, oggi questo divieto non è più assoluto ma relativo per l’accresciuto numero di limiti che gli obblighi del diritto internazionale pongono all’azione dello Stato. Ciò significa che è possibile individuare delle forme lecite di intervento negli affari interni o esterni di uno Stato. Si può affermare la liceità dell’ingerenza umanitaria ossia interventi condotti allo scopo di fornire assistenza umanitaria nei casi di emergenza. Si tratta di forme di intervento previste dal diritto umanitario ossia da quell’insieme di norme che secondo la definizione che individua il contenuto del diritto umanitario in senso stretto sono dirette a proteggere in modo immediato tutti gli esseri umani che si trovano, senza loro colpa, in situazioni di emergenza per fatti commessi dall’uomo. Se è vero che l’intervento umanitario può costituire un’eccezione al principio imperativo di non-intervento, nel diritto internazionale non sembra esservi una nozione di diritti umani e pertanto l’intervento umanitario è discrezionale. E’ certo che l’abuso di ciò comporterebbe ripercussioni alquanto gravi in molti paesi.

141 Secondo alcuni studiosi pertanto, il concetto di intervento umanitario non ha alcun fondamento legale nel diritto internazionale e qualificarlo quale eccezione comporta l’affermarsi di un principio contrario alle norme di diritto internazionale; infatti non si può parlare legalmente di intervento umanitario per tre ragioni: - è un diritto che non esiste nella carta dell’ONU e nel diritto internazionale; - negli ultimi due secoli e ancora di più dal 1945 non si rinvengono casi veri di intervento umanitario; - l’abuso di tale diritto è più pericoloso di ogni altra considerazione.

L’espressione “intervento umanitario” è stata impiegata per indicare numerose e disparate circostanze; tutte le definizioni però susseguite dal XX secolo ad oggi sono accomunate dall’uso della forza. Si potrebbe quindi definire l’intervento umanitario come “uso della forza da parte di uno Stato o un gruppo di Stati nel territorio di un altro Stato esercitato senza il consenso del governo di quest’ultimo o l’autorizzazione dell’ONU per le sole ragioni di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo e reprimere tutti quegli atti perpetrati dal governo dello Stato oggetto dell’intervento”. I principi tutelati sono costituiti dai diritti fondamentali dell’uomo sulla cui universalità e validità esiste un diffuso consenso all’interno della comunità internazionale. L’intervento umanitario è una risposta alle violazioni di tali diritti fondamentali. Un altro aspetto che deve essere considerato riguarda i soggetti coinvolti nell’intervento umanitario ossia i belligeranti, mentre tutelati dall’intervento umanitario sono gli individui che patiscono materialmente le violazioni dello Stato all’interno del cui territorio si sviluppa l’intervento, quindi non solo i cittadini di tale Stato,ma tutti coloro che sono presenti in quel momento al suo interno. Dal punto di vista della dottrina, in merito all’intervento umanitario, sono sorte una varietà di posizioni, anche se la paternità di tale concetto viene attribuita al giurista olandese Ugo Grozio, con la sua teoria della guerra giusta. Lo studioso francese Rougier, facendo riferimento all’intervento francese in Siria nel 1860, affermò che in un epoca nella quale gli Stati non sono più isolati e liberi di fare ogni cosa al

142 loro interno, vige la “loi de solidarité” per cui gli Stati possono intervenire per reprimere crimini efferati . L’americano Stowell individuò cinque situazioni in cui si può esercitare il diritto di intervento contro uno Stato terzo: la persecuzione, cioè l’intolleranza di uno Stato verso le minoranze religiose; l’oppressione ossia ciò che attualmente si definirebbe come il mancato rispetto del diritto all’autodeterminazione; la presenza di una guerra civile; l’ingiustizia ovvero la violazione di quelli che oggi sono indicati quali diritti civili e politici; infine il mancato rispetto dei diritti dell’individuo, termine con il quale lo studioso indica il diritto minimo di protezione degli stranieri la cui violazione permette ad uno Stato di intervenire a tutela dei propri cittadini all’estero.

Tra le varie posizioni della dottrina circa la legalità dell’intervento umanitario, deve essere segnalata la tesi di coloro che cercano di comprimere la portata del divieto dell’uso della forza. Infatti secondo tali studiosi il divieto di cui all’art. 2 della Carta non è assoluto ma sussisterebbe una deroga quando l’uso della forza non è diretto contro l’integrità territoriale dello Stato o l’indipendenza politica o risulta compatibile con la realizzazione di un fine delle Nazioni Unite. Tale interpretazione parrebbe però smentita da alcuni documenti dell’ONU e dai lavori preparatori della Carta dove comunque l’uso della forza è in contrasto con i fini della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Altri studiosi ritengono però che questa impostazioni possa portare al paradosso che una buona norma produca un cattivo risultato in quanto il divieto dell’uso unilaterale della forza in senso assoluto può produrre in determinate circostanze di gravi violazioni dei diritti il risultato appunto paradossale di lasciare al proprio destino le vittime di una tragedia umanitaria; è per questo motivo che alcuni studiosi hanno avanzato l’idea che l’uso della forza unilaterale in caso di emergenze umanitarie sebbene illegale dal punto di vista formale possa essere considerato legittimo e quindi giustificato sul piano morale. Lo strumento giuridico attraverso il quale sarebbe possibile colmare il gap tra ciò che impone la lettera della legge ed il senso comune della morale è tratto dall’esperienza degli ordinamenti penali nazionali ed in particolare dal concetto di circostanza attenuante.

143 Coloro che sono chiamati ad applicare ed interpretare il diritto internazionale applicabile dovrebbero considerare non solo il testo della norma ma anche il contesto specifico di una situazione che potrebbe non essere stato contemplato all’epoca della sua redazione. La valutazione della validità della circostanza attenuante in relazione ad un illecito ma giustificato uso della forza spetterebbe certamente ai tribunali internazionali, ma considerata la realtà dell’ordinamento giuridico internazionale, la stessa sarà di competenza degli organi politici delle Nazioni Unite, come ad esempio l’Assemblea Generale dell’ONU. Deve essere cioè dimostrato che l’intervento armato è in grado di conseguire risultati che sono significativamente migliori rispetto a quelli conseguenti alla mancanza di intervento.

Secondo altri autori, un intervento umanitario è tale solo se l’unico motivo di azione è la soppressione delle violazioni dei diritti dell’uomo. Si tratterebbe quindi di un intervento “disinteressato” ma se si dovesse considerare solo questo valore quale movente dell’intervento umanitario, allora si arriverebbe alla conclusione inevitabile che l’intervento umanitario è una fattispecie impossibile. Infatti poiché un qualsiasi intervento costituisce uno sforzo per ogni Stato, sia economico che militare, che può anche avere serie ripercussioni politiche interne, è utopistico ritenere che uno Stato possa agire militarmente al solo fine di rimuovere in altri Stati crisi umanitarie non relative ai propri cittadini. E’ altrettanto chiaro che ogni Stato è mosso da ragioni inerenti gli interessi economici o strategici, che lo portano ad assumere determinate decisioni o intraprendere alcune missioni con le proprie forze armate. Si può quindi affermare che la legittimità dell’intervento umanitario discende non tanto da norme giuridiche positivamente esistenti ma da scelte morali che talvolta gli Stati possono compiere. In assenza di precise norme di diritto, gli interventi umanitari vengono realizzati quando gli Stati lo ritengono opportuno, giusto e moralmente giustificato, ossia legittimo. Si è però avvertita la necessità di individuare dei parametri o criteri che regolino il ricorso all’uso della forza a tutela dei diritti dell’uomo, allo scopo di prevenire gli abusi ed i rischi connessi. I criteri più frequentemente menzionati in dottrina sono 4:

144 1) Si richiede che vi sia l’evidenza della commissione ripetuta di gravi e massicce violazioni dei diritti dell’uomo come il genocidio o i crimini contro l’umanità; tali crimini devono generare una situazione per la quale è necessaria una soluzione immediata ed urgente allo scopo di evitare il peggioramento della condizione umanitaria. 2) si dovrebbe ricorrere all’intervento umanitario solo in caso di impasse dell’ONU, ossia quando l’assenza di accordo tra i membri del Consiglio di Sicurezza o l’esercizio del potere di veto da parte di un membro permanente impedisce al Consiglio di agire per porre termine ai massacri. In base a tale criterio si riafferma il ruolo del Consiglio di Sicurezza quale unico organo competente ad autorizzare l’uso della forza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. 3) si richiede che l’intervento venga realizzato da più di uno Stato affinché gli interessi specifici di uno solo Stato non prevalgano sul fine umanitario. 4) si richiede il limite della proporzionalità nell’uso della forza.

In considerazione di ciò, si può asserire che questi criteri pur fornendo uno strumento utile per l’analisi di tutti gli interventi condotti al di fuori del sistema di sicurezza collettiva dell’ONU, non consentono di comprendere se tali interventi siano leciti o meno secondo il diritto internazionale e quindi resta il problema connesso all’intervento umanitario e cioè che il conflitto che esso genera tra due norme imperative del diritto internazionale ossia il divieto all’uso della forza e la tutela dei diritti dell’uomo. Permane quindi un vuoto normativo che rende difficile stabilire se tale forma d’intervento sia conforme o meno al diritto internazionale; gli Stati quindi, in occasione di emergenze umanitarie, sono chiamati ad effettuare una scelta sia giuridica che morale, tra l’applicazione di norme del diritto classico che vietano l’uso della forza ed impongono la sovranità territoriale degli Stati e il recente imperativo di reagire alle violazioni dei diritti dell’uomo. Per colmare tale lacuna, secondo l’Istituto Danese di affari internazionali, le vie percorribili sono quattro: 1. Status quo strategy: consiste nella preservazione dell’ordine giuridico esistente per mezzo di una rigorosa applicazione delle norme positive vigenti. Quindi la realizzazione di

145 interventi umanitari senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza è totalmente esclusa. In caso di impasse dell’ONU non sono previsti mezzi alternativi. 2. Strategia ad hoc: prevede la possibilità di realizzare interventi umanitari anche al di fuori della legalità secondo le norme dell’ONU ma solo in circostanze di estrema urgenza. L’intervento umanitario resterebbe quindi una fattispecie illecita ma giustificabile solamente sul piano morale e politico. Anche questa teoria tende a mantenere la situazione esistente. In effetti nel breve periodo questa strategia consente di realizzare rapide operazioni necessarie. 3. Strategia dell’eccezione: riguarda l’introduzione nel diritto vigente di un emendamento alla Carta dell’ONU, di una norma che consenta l’uso della forza a tutela dei diritti dell’uomo quando il Consiglio non sia in grado di agire per reprimere le violazioni già in atto. Il fine di questa strategia è quello di creare una base giuridica alternativa nell’eventualità di paralisi del sistema dell’ONU, attraverso la formalizzazione di ragioni politiche e morali che sottendono l’intervento umanitario. 4. Strategia della facoltà generale: riguarda la creazione di una norma che riconosca la piena facoltà degli Stati di usare la forza per la tutela dei diritti dell’uomo ma al di fuori del sistema dell’ONU. Si lascia però ampia discrezionalità ai singoli Stati in merito all’intervento e quindi si priverebbe il Consiglio di una sua importante prerogativa, accrescendo la possibilità di abuso dell’uso della forza da parte degli Stati.

Si nota quindi che attraverso l’applicazione delle prime due strategie si nega la liceità dell’intervento umanitario secondo il diritto internazionale. Il divieto dell’uso della forza prevarrebbe sulla tutela giuridica dei diritti; al contrario le altre due strategie consentono di eliminare il confine tra legittimità intesa come valenza etica e politica e liceità dell’intervento umanitario rendendo quest’ultimo pienamente conforme al diritto. In considerazione di quanto riportato sopra, si può affermare che oggi l’intervento umanitario sarebbe illecito, ma secondo un ordine giuridico che non si è ancora adeguato ai profondi cambiamenti storico/politici intercorsi nell’ultimo decennio del ventesimo secolo.

Strumenti e modalità operative degli interventi ONU Dalla mancata attuazione delle disposizioni della Carta si è sviluppata una prassi di interventi ONU sostanzialmente articolata in due tipologie quali:

146 1) Peace-keeping operations: Queste sono costituite da operazioni decise dal Consiglio di Sicurezza con il consenso dello Stato dove le forze devono andare ad operare. Le forze, sia militari che civili, vengono fornite volontariamente dagli Stati membri e controllate dal Consiglio attraverso una catena di comando che fa capo al Segretario Generale dell’ONU. Sul piano operativo tali forze devono agire con imparzialità ed utilizzare le armi per la difesa personale o per fronteggiare azioni militari dirette ad impedire la realizzazione del loro mandato. La Carta dell’ONU non menziona questo genere di attività ed infatti sono sorte teorie differenti ai fini di un loro inquadramento giuridico. Per alcuni studiosi sarebbero da ricondurre all’art. 36 della Carta e quindi relative alle raccomandazioni del Consiglio per la soluzione pacifica delle controversie; tuttavia l’esistenza di un corpo militare armato che partecipa alle operazioni, fa propendere per gli artt. 39 – 40 – 42 e quindi alle azioni previste dalla Carta per il ristabilimento della pace. Tale modello d’intervento è oggi diffusamente accettato dagli Stati; in effetti si deve sottolineare come la decisione del Consiglio nasca dal consenso sempre espresso dello Stato dove tali forze andranno ad operare e quindi l’operazione non viene mai percepita come coercitiva Dall’atra parte le modalità di costituzione dell’operazione, la gestione ed il controllo della stessa da parte dell’ONU, sono tutti elementi che contribuiscono a valorizzare il carattere collettivo di questo tipo di intervento che è certamente molto vicino a quello immaginato dalla Carta dell’ONU. Lo stesso Segretario dell’ONU Boutros-Ghali, nel 1992 definì tali operazioni come “quell’invenzione delle Nazioni Unite che ha portato stabilità in numerose aree di tensione nel mondo”. In effetti dare una definizione esatta delle operazioni di peace-keeping è difficile anche perchè si vuole evitare di cristallizzare un concetto che segue un evoluzione imprevedibile. Storicamente queste operazioni ebbero origine negli anni cinquanta come una risposta improvvisata a determinate situazioni di crisi, ma si svilupparono successivamente adattandosi di volta in volta a tutte quelle circostanze che l’ONU non ha mai potuto gestire direttamente proprio per la mancanza di una forza armata dell’Organizzazione.

147 Alle prime operazioni volte al mantenimento delle frontiere e loro controllo ed al monitoraggio degli accordi di armistizio o di cessate il fuoco, si è passati ad operazioni sempre più complesse ed anche per questo motivo è difficile dare una definizione unica ed esaustiva di peace-keeping.

Le operazioni di peace-keeping sono realizzate sotto la direzione del Segretario Generale dell’ONU previa delega del Consiglio sempre per un tempo determinato. E’ il Segretario che deve costituire la forza militare ed individuare gli Stati che possono fornire volontariamente i contingenti armati. Il Segretario nomina poi un comando sul territorio. Un aspetto problematico riguarda la responsabilità dei vari contingenti rispetto ai loro paesi d’origine e nei confronti dell’ONU. Infatti le truppe sono sottoposte all’autorità del Segretario Generale, ma dal punto di vista amministrativo e logistico dipendono dal loro paese e quindi non cessano di appartenere alle forze armate nazionali. Ciò diventa importante nell’eventualità che si siano verificati atti illeciti e quindi in tema di responsabilità giuridica. 2) Autorizzazioni Diverso è il discorso per ciò che concerne le autorizzazioni in quanto si tratta di operazioni coercitive in senso proprio e ciò infatti ha creato non pochi problemi in merito al loro inquadramento giuridico. Alcuni autori ritengono tali interventi illegali dal punto di vista del diritto dell’ONU, mentre altri ricavano la legalità ricorrendo o a sviluppi del diritto internazionale generale o ad interpretazioni estensive di norme del Cap. VII della Carta e ferma restando la necessità del rispetto dei principi e delle condizioni generali di operatività del sistema di sicurezza stabilito dalla Carta. Secondo l’art. 53 della Carta, il Consiglio di Sicurezza può utilizzare accordi o organizzazioni regionali sotto la sua direzione, ma nessuna azione coercitiva può essere intrapresa da tali organizzazioni regionali. Secondo una corretta interpretazione dell’articolo citato, non è possibile che si svolga un intervento dell’ente regionale senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza; in effetti nella prassi vi sono stati dei casi dove l’autorizzazione è stata successiva all’intervento dell’organizzazione regionale. Le operazioni che sottendono ad una autorizzazione sono di natura militare-coercitiva e condotte da uno Stato o da una coalizione di Stati membri , contro un altro Stato in

148 situazioni di grave emergenza dove non è possibile ottenere il consenso dello Stato sovrano perché o questo viene negato o non esiste un’autorità che può concederlo. Inoltre queste operazioni si differenziano da quelle di peace-keeping proprio perché comportano un uso della forza di carattere sanzionatorio che non può essere svolto solo da forze di pace ma da un vero e proprio esercito. E’ evidente che tale uso della forza si allontana dalla difesa legittima.

Alcuni interventi ONU nel mondo dal 1945 ad oggi E’ interessante analizzare alcuni interventi che vi sono stati dal 1945 sino ad oggi . Certamente dopo la caduta del sistema bipolare si sono avuti più interventi proprio per le mutate condizioni politiche e la possibilità da parte dell’ONU e quindi del Consiglio di Sicurezza, di agire più liberamente, anche se non sono mancati esempi di interventi di carattere umanitario, pur sussistendo il bipolarismo tra le due superpotenze.

Corea 1950 In effetti a fronte dell’attacco della Corea del Nord contro la Corea del Sud, il Consiglio, in assenza del delegato sovietico, riuscì ad autorizzare l’utilizzo della bandiera ONU da parte della coalizione di Stati che intervenne a fianco della Corea del Sud.

Sono poi da segnalare tre casi di intervento umanitario cui la dottrina fa riferimento durante il periodo della guerra fredda che sono ormai diventati casi di scuola.

Pakistan orientale – India 1971 In seguito alla vittoria nelle elezioni dell’ottobre 1970 del partito autonomista del Pakistan orientale, territorio da sempre soggetto al predominio economico e militare del Pakistan occidentale, il governo centrale pakistano, decise di non riunire il nuovo parlamento ritenendo che questo costituisse una minaccia per l’integrità territoriale del paese. La reazione della popolazione del Pakistan orientale a tale decisione fu costituita dal diffondersi di proteste che furono brutalmente represse dalla truppe inviate dal Pakistan occidentale soprattutto a Dacca nella capitale della regione.

149 Ciò coincise con una serie di massacri che provocarono la migrazione di circa 10 milioni di persone nella vicina India, che subì, nel dicembre del 1971 un attacco aereo da parte del Pakistan. Il governo indiano, constatata l’inerzia della Comunità Internazionale, sempre il 5 dicembre del 1971, ordinò l’invasione del Pakistan riconoscendo lo stato indipendente del Bangladesh. Dopo circa due settimane di combattimenti l’esercito pakistano fu costretto a ritirarsi dal Pakistan orientale.

Tale intervento fu espressamente giustificato anche in ragione delle gravi violazioni dei diritti umani che avevano provocato una situazione simile al genocidio, ad opera dell’esercito pakistano. Fu questo però l’unico intervento nel periodo considerato che venne considerato per ragioni umanitarie.

Cambogia 1975 In Cambogia a partire dal 1975 le gravi violazioni dei diritti dell’uomo commesse da parte del governo dei Khmer rossi, sfociarono in un vero e proprio genocidio della popolazione locale; Le Nazioni Unite non imposero sanzioni o adottarono raccomandazioni per far cessare tale massacro. Nel 1978 i ribelli del Fronte unito di salvezza nazionale e dell’esercito regolare del Vietnam, che aveva avuto numerosi scontri di frontiera con unità cambogiane, entrarono nel paese mentre i Khmer rossi erano costretti a rifugiarsi nelle zone montuose. Con l’aiuto dell’esercito vietnamita quindi venne instaurato un nuovo governo guidato dal Fronte Unito e cessarono i massacri della popolazione civile.

Tanzania – Uganda 1978 Nel 1978 le truppe tanzaniane entrarono in Uganda dove combatterono congiuntamente con il Fronte Ugandese di liberazione nazionale contro le forze regolari; i due paesi da tempo erano protagonisti di scontri armati per la contesa della regione del Kagera che faceva parte della Tanzania. Nel 1978 però tale territorio era stato occupato dalle truppe ugandesi e quindi l’esercito della Tanzania intervenne e contribuì alla caduta del dittatore ugandese Amin che era noto a livello internazionale per le brutali violazioni dei diritti umani, senza che la Nazioni Unite o l’Organizzazione per l’unità africana intervenissero. Le truppe tanzaniane vennero ritirate dopo la presa di Kampala capitale dell’Uganda.

150

Libano 1982 – 1984 Entrambe le missioni videro per la prima volta l’impiego delle forze armate italiane in misura considerevole; sia per la prima che per la seconda missione vi era stata una richiesta da parte del governo libanese. La prima missione aveva come scopo di assicurare l’incolumità fisica del personale palestinese in partenza da Beirut e degli abitanti della regione e favorire il ristabilimento della sovranità e dell’autorità del governo libanese. La seconda missione che inizio sempre nel 1982 e durò sino al 1984, venne richiesta dal governo libanese a seguito dei tragici avvenimenti accaduti nei campi palestinesi di Sabra e Chatila ed alle consultazioni tra il governo libanese ed il Segretario Generale delle Nazioni Unite, in applicazione della Risoluzione n. 521 del Consiglio di Sicurezza.. L’Italia partecipò alla missione in Libano con un contingente di circa 2300 uomini insieme con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia. Dopo la fine del periodo della Guerra fredda si possono evidenziare le seguenti operazioni internazionali volte al ristabilimento della pace e della sicurezza violate:

Iraq 1991 IL 2 agosto 1990 l’Iraq invase ed occupò il confinante Kuwait, accampando rivendicazioni territoriali ma soprattutto per ragioni economiche. Il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’invasione dell’Iraq da parte delle forze di una coalizione internazionale per ripristinare la sovranità dello stato del Kuwait: La guerra terminò con la Risoluzione n. 687 dell’ONU per il cessate il fuoco. Le forze della coalizione si erano limitate a liberare il Kuwait ma a non invadere l’Iraq; in ogni caso la sovranità dello Stato venne notevolmente ridotta e limitata. Infatti venne stabilita a nord ed a sud del paese una “no-fly zone” a protezione della minoranza curda e sciita che già erano state oggetto di repressione da parte del regime di Saddam Hussein. Inoltre il governo iracheno dovette concedere ampia autonomia ai distretti curdi e riconoscere il confine con il Kuwait. A ciò si aggiunsero misure di disarmo e restrizioni nella vendita del petrolio per cui una parte venne destinata a ripagare i danni inflitti al Kuwait.

Somalia 1992

151 Viene indicata come il caso più genuino di intervento umanitario delle Nazioni Unite. L’operazione denominata “Restore Hope” risulta essere il primo intervento di “ingerenza umanitaria armata” per rendere più sicuri i porti, gli aeroporti ed i centri di assistenza umanitaria in Somalia e per mantenere l’embargo sull’importazione delle armi. A seguito delle insurrezioni contro il governo repressivo di Siad Barre, la Somalia era precipitata in una fase di anarchia che aveva provocato una crisi umanitaria senza precedenti. La risoluzione n.794 del Consiglio di Sicurezza nel 1992, approvata all’unanimità, ratificava una coalizione di forze di pace delle Nazioni Unite sotto la guida degli Stati Uniti allo scopo di assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari e ristabilire la pace nel paese. L’Italia partecipò alla missione con un contingente di circa 3600 uomini. In merito alla partecipazione USA alla missione, si era sostenuto che il coinvolgimento statunitense mirasse al controllo delle concessioni petrolifere poiché prima che fosse deposto Siad Barre circa i due terzi del territorio somalo erano stati assegnati in concessine petrolifera alla Conoco, Amoco, Chevron e Phillips. Nel 1995 si dovette procedere al ritiro dei contingenti della missione senza che l’ordine fosse stato restaurato nel paese.

A tale prassi si è soliti riportare anche l’operazione Turquoise condotta prevalentemente dalla Francia in Ruanda a seguito della Risoluzione ONU n. 929 del 1994, allo scopo di garantire la sicurezza e la protezione dei dispersi, dei rifugiati e di altri civili. Sempre a tale tipologia di intervento deve essere riportata l’Operazione Alba condotta sotto il comando italiano in Albania, a seguito di Risoluzione n. 1101 del 1997, con il compito di garantire la pronta e sicura consegna dell’assistenza umanitaria nonché contribuire a stabilire un ambiente sicuro per facilitare l’attività delle organizzazioni umanitarie internazionali presenti nel paese.

Timor Est 1999 Anche in questo caso si segnala tale intervento a tutela dei diritti dell’uomo. Infatti nel maggio del 1999 un accordo concluso tra Indonesia, stato occupante e Portogallo, ex potenza coloniale che si era ritirata da quelle terre nel 1974, aveva dato l’avvio ad un

152 processo di autodeterminazione culminato nell’agosto del 1999 con un referendum sull’indipendenza della regione. La vittoria schiacciante degli indipendentisti fu immediatamente seguita da violenze, deportazioni e massacri della popolazione cattolica da parte di milizie integraliste con la complicità delle forze armate indonesiane. Sull’isola si era quindi verificata la condizione necessaria per la realizzazione di un intervento umanitario proprio per le gravi violazioni dei diritti umani. Con la Risoluzione n. 1264 del 1999 il Consiglio di Sicurezza autorizzava una forza militare multinazionale guidata dall’Australia per la repressione delle violenze, il ripristino della pace, e la tutela di civili e personale ONU. Tale decisione veniva assunta con il consenso del governo centrale indonesiano che sino allora era rimasto inattivo e si era dimostrato incapace di porre termine a tali violazioni. In effetti più che di peace-keeping, questo intervento era inquadrabile come peace-enforcement.

Kosovo 1999 Il Kosovo, è sempre stato abitato da cittadini di etnia albanese; per questo motivo, all’indomani della morte di Tito e del disfacimento della federazione iugoslava la popolazione era entrata in tensione con la popolazione di etnia serba. A fronte della revoca dell’autonomia della regione, la popolazione d’etnia albanese aveva messo in opera una campagna di resistenza non violenta ; dopo la fine della guerra con la Bosnia Erzegovina, tra i kosovari di religione musulmana si costituirono formazioni armate guidate dai veterani di quella guerra con intenti indipendentisti. La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte: - 1996 – 1999: i separatisti albanesi dell’UCK (Esercito di liberazione del Kosovo), operarono contro postazioni militari ed entità statali. Successivamente ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e delle forze paramilitari ispirate da estremisti serbi. - 1999: intervento della NATO contro la Serbia. Infatti nel 1998 mentre la guerriglia si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva sempre più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Iugoslavia guidato da Milosevic. Esercitando forti pressioni la NATO ottenne l’avvio dei negoziati di Rambouillet che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei rappresentanti dell’UCK nel sottoscrivere un documento dove si garantiva l’autonomia del

153 Kosovo ma non la sua piena indipendenza . Successivamente però, la delegazione serba abbandonò la sede dei negoziati rimettendo in discussione gli esiti politici della trattativa, poiché non poteva accettare quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. La NATO prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò le operazioni militari contro la Serbia con il bombardamento di Belgrado e di altre località. Le operazioni iniziarono senza alcun provvedimento dell’ONU a causa del minacciato veto di Russia e Cina. La Nato iniziò un escalation di bombardamenti per oltre due mesi; gli aerei dell’Alleanza partivano dalle basi italiane e veniva quindi utilizzato lo spazio aereo italiano. La guerra si tenne sempre sul livello aereo senza presenza di truppe terrestri. Da notare che questo fu il secondo intervento militare italiano a carattere offensivo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo la prima guerra del Golfo nel 1991. Nel corso del conflitto ci furono anche episodi gravi come il bombardamento di un convoglio di civili in fuga, la distruzione della torre della televisione ed il bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado. L’esercito serbo, sotto la pressione degli attacchi NATO aumentò la pressione contro la popolazione del Kosovo di etnia albanese che iniziò a spostarsi verso la Macedonia e l’Albania. La capitolazione del governo serbo portò al dispiegamento della missione ONU KFOR disposta dal Consiglio di Sicurezza. Una conseguenza della pace riguardò il ritorno della popolazione di etnia albanese ma nello stesso tempo, l’esodo di quella di etnia serba che temeva le rappresaglie albanesi. Miolsevic fu arrestato nel 2001 su mandato del tribunale internazionale dell’Aja ed accusato di crimini contro l’umanità. Nel 206 il processo si è interrotto per la morte dell’imputato; nello stesso anno a Vienna sono iniziati i colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello kosovaro per la definizione dello status della provincia del Kosovo.

Conclusioni Le riflessioni di cui si è parlato, del vertice del 2005, che hanno portato all’elaborazione del concetto di “responsabilità a proteggere”, in effetti inziarono nel 2003, in un momento di massima crisi di autorità per il ruolo delle Nazioni Unite, determinato dall’intervento anglo- americano nel Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein.

154 A fronte di genocidi, pulizie etniche, crimini contro l’umanità, si riconosce che ciò non sia altro se non una minaccia interna alla pace ed alla sicurezza internazionale. A fronte di tali fatti quindi, si riconosce non tanto il diritto di intervento di qualsiasi Stato, quanto quella che viene definita la “responsabilità a proteggere” che ogni Stato ha verso i suoi cittadini. Solo di fronte all’incapacità dello Stato di agire a protezione dei suoi cittadini, questa responsabilità a proteggere viene assunta dalla Comunità Internazionale attraverso molteplici azioni, preventive, diplomatiche, di assistenza, diversificate e comportanti anche l’uso della forza. In tali situazioni il Consiglio di Sicurezza può autorizzare interventi militari in situazioni che costituiscono una minaccia alla pace. In effetti si deve rilevare come, quanto enunciato nel vertice del 2005 era già emerso nel passato nella prassi e nella dottrina. Il rifiuto dell’unilateralismo militare assume un valore più alto nel momento in cui si propone come fondamento della responsabilità di proteggere un quadro teorico che presenta elementi di novità con riferimento al bilanciamento tra sovranità degli Stati e tutela dei diritti umani. Le iniziative di elaborazione del principio della responsabilità a proteggere testimoniano lo sforzo considerevole di ancorare la sua affermazione allo sviluppo di un quadro concettuale in linea con l’evoluzione sistemica della realtà internazionale attuale dove la tutela dell’individuo assume una dimensione sempre più significativa. L’adozione di tale principio ha chiarito che la Comunità Internazionale non riconosce la legalità degli interventi militari unilaterali anche per scopi umanitari, rinviando la responsabilità di quelli collettivi al Consiglio di Sicurezza; però è proprio sul ruolo del Consiglio di Sicurezza che durante i lavori del vertice non sono state proposte soluzioni attinenti ad una maggiore credibilità dell’ONU di far fronte alla sua primaria responsabilità di garantire la pace e la sicurezza mondiale. In sostanza non vi sono state reali proposte in merito al funzionamento degli organi delle Nazioni Unite per evitare le impasse del passato e la sua inazione a fronte di situazioni di emergenza umanitaria come ad esempio nel caso del Darfur.

155 10.1.4. IL DIBATTITO SULLA RIFORMA DELLE NAZIONI UNITE

Che cosa siano le Nazioni Unite, cosa potrebbero o dovrebbero essere è stato un tema di cui si è discusso ininterrottamente fin dalla loro fondazione, nel 1945, ma volendosi allargare, come sembra opportuno, il complesso dibattito si protrae sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale con la precedente esperienza della Società delle Nazioni. Questo confronto, giocato sia sul piano delle idee che sul piano della potenza, si avvicina così al secolo di vita. Il dibattito sulla natura, sulla forma, sui compiti e, cosa più importante e strettamente collegata alle altre, sui poteri della Nazioni Unite, è uno dei nodi cruciali delle relazioni internazionali del presente e del prossimo futuro. Ciò appare tanto più vero quanto più si pensi che tutte le altre grandi questioni della nostra epoca, da quella ambientale, a quella del rapporto tra paesi sviluppati, in via di sviluppo e terzo mondo, fino alla questione del rapporto tra uomo e tecnologia, sono giustamente percepite dai contemporanei come questioni globali, non più trattenibili all’interno dei confini delle singole nazioni, delle singole culture, delle singole entità geografiche e politiche e in quanto avvertite come questioni globali, queste istanze attendono di poter essere globalmente affrontate. Ma proprio mentre i “nodi globali” vengono al pettine, le Nazioni Unite vanno attraversando una delicata fase di transizione storica e di crisi di credibilità originata da quella lunga serie di insuccessi, inefficienze e paralisi che gli stati membri non hanno ancora saputo e spesso voluto superare. Questa fase di transizione va inserita nell’evoluzione dello scenario mondiale: Gli ultimi due decenni hanno condotto il mondo fuori dall’epoca del confronto tra il blocco comunista e quello liberaldemocratico, verso un nuovo mondo, i cui tratti essenziali devono ancora pienamente manifestarsi o per lo meno essere compresi. Quali saranno ora i problemi più urgenti: il terrorismo? Ancora una volta la proliferazione delle armi di distruzione di massa? Il degrado ambientale? La sovrappopolazione? Gli squilibri economici, politici, sociali tra le diverse aree del mondo? Il modo in cui le varie parti in causa risponderanno nel prossimo futuro a queste domande influenzerà non poco le trattative al tavolo della riforma delle Nazioni Unite. La cultura occidentale ha globalizzato il mondo proponendo con successo ed imponendo con la forza l’apparato scientifico-tecnologico, la sua economia capitalistica, il sistema

156 politico basato sugli stati nazionali e sulla democrazia, tentando inoltre di scrivere un codice morale, la Dichiarazione dei Diritti Umani, che potesse valere per ogni polo ed ogni essere umano. Ora però che il mondo è globalizzato, che anche la proposta comunista di gestione della tecnica, dell’economia e della politica si è eclissata, e che la globalizzazione è quindi completata in tutti i suoi aspetti, che cosa vuole fare l’Occidente di quella globalizzazione della quale le Nazioni Unite non sono che un aspetto? L’argomento di questo breve studio sarà proprio il confronto che attorno alla questione della riforma delle Nazioni Unite, inserita nel quadro generale del governo di un mondo sempre più destinato alla globalità, l’Occidente-America ed Europa - sta sviluppando e dei possibili esiti nel prossimo futuro di questo grande processo. La questione diviene particolarmente complessa, se si vuole evitare di cadere in tentazioni eccessivamente semplificatrici, dobbiamo considerare infatti sia l’Europa che l’America non come blocchi monolitici ed immutabili, ma piuttosto come realtà variegate e mutevoli, rispetto alle quali possono essere individuate delle linee d’azione tendenziali e non degli schemi sempre uguali a se stessi, i quali sono invece facilmente rinvenibili all’interno di visioni forzate o stereotipate che la nostra analisi cercherà di evitare. Negli ultimi anni la condotta internazionale degli Stati Uniti è stata da molti europei e spesso anche nella sede delle Nazioni Unite, accusata di unilateralismo irresponsabile ed interessato. Si è usato contrapporre, con una schematizzazione forse troppo rigida, ad un’America unilaterale, un’Europa multilateralista. Se l’Europa è polemos, ed è ancora più originariamente polemos, degli Stati Uniti, il suo multilateralismo non è spiegabile solamente con i motivi della sua debolezza: la multilateralità europea è anche una multilateralità, per così dire, costituzionale. Essa ha rappresentato infatti l’unica risorsa possibile per impedire che il declino dell’Europa divenisse, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, un regresso indefinito all’ombra delle due superpotenze e dei paesi in via di sviluppo. La stessa Unione Europea è genealogicamente, un grande atto multilaterale e, sebbene la debolezza sia stata storicamente la ragione necessaria per la nascita dell’Europa unita, non ne costituisce certo la ragione sufficiente.

157 Proprio a partire dalla fine delle due guerre totali sul suo territorio, la cultura europea ha sviluppato una formidabile auto-critica del proprio passato. Questa autocritica si è manifestata sul versante interno rispetto ai conflitti religiosi ed ideologici, dai più remoti (Medioevo, Inquisizione, Guerra dei Trent’anni) ai più recenti (conflitti mondiali e regimi totalitari), mentre sul versante esterno l’auto-critica si è focalizzata sul colonialismo e sul rapporto con le culture extra-europee (schiavismo, razzismo, paternalismo coloniale, sfruttamento economico). Questo riesame culturale e politico, storicamente molto originale non va sottovalutato, perché spiega almeno una parte delle ragioni di quello che viene considerato essere il multilateralismo europeo, sia all’interno dell’Europa (Unione Europea) che al di fuori (Nazioni Unite). Anche negli Stati Uniti, che pure si sono presentati più spesso come potenza anti-coloniale che come colonizzatori e che non hanno avuto guerre di religione ed inquisizioni, la rivalutazione in senso fortemente autocritico del passato schiavista, razzista e del trattamento riservato alle popolazioni native, è pervenuto ad una sua stabile maturazione. Questo tardivo pentimento va ad ulteriore conferma della comune matrice dei due versanti della cultura occidentale e della generale evoluzione attorno al tema del rapporto con la propria storia – in occidente molto più conflittuale che altrove – che d’altra parte la comune genesi nel polemos non poteva che esigere. Eppure proprio l’assenza di un forte passato da potenza colonialista degli Stati Uniti, che anzi è nata da tredici colonie che hanno condotto una guerra d’indipendenza dall’Europa imperialista, può essere considerata l’origine della differenza sulla percezione di cosa il multilateralismo nel nostro tempo debba e, cosa più importante, possa essere. Al di là di qualche periodo isolazionista, gli Stati Uniti, hanno opposto alla politica delle preferenze imperiali, tipiche della logica coloniale europea, la dottrina della “Open door policy” (politica della porta aperta), incarnata dal principio di libertà di commercio e di concorrenza internazionale. Questa dottrina ha trovato il suo definitivo successo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la firma dell’Accordo GATT (Accordo Generale sul commercio e sulle tariffe 1947) e con la recente istituzione del WTO (Organizzazione Mondiale del commercio 1995), resa possibile dall’estinzione degli imperi coloniali e dalla dissoluzione del blocco dei paesi ad economia comunista. Questa “apertura del mondo”, talvolta vista come missione (si ricorda

158 le già citate parole di Wilson sull’internazionalizzazione del tema del destino manifesto), che all’Europa dall’ingombrantissimo passato coloniale pare una via imbarazzante se non impercorribile, può essere, dal punto di vista degli Stati Uniti, nient’altro che la prosecuzione su scala allargata di quel processo che ha portato l’America a liberarsi dal giogo coloniale. La condivisione quindi di quelle stesse istituzioni politiche che hanno permesso la loro liberazione e consolidazione di un sistema democratico in grado di assicurare, all’interno del solito inesauribile polemos, che il confronto non sfociasse in quello armato totale che negli Stati Uniti è durato solo quattro anni (1861 – 1865) durante la Guerra Civile, nella quale si erano scontrate due diverse idee di America (illuminismo contro tradizionalismo, schiavismo contro liberalismo, latifondismo agricolo contro capitalismo commerciale ed industriale), ma che in Europa è perdurato nei secoli e che le istituzioni europee, dal punto di vista americano, non hanno mai saputo evitare, salvo forse oggi, con la faticosa genesi di una federazione europea. Rispetto alla politica internazionale, quello degli Stati Uniti può apparire quindi come un multilateralismo globalizzante, che s’identifica nel programma di introduzione nel mondo del “great experiment” americano e della sua fruttuosa “digestione” delle contrapposizioni interne alla cultura occidentale. Dal punto di vista di molti europei, questa è la temuta “esportazione (forzata) della democrazia”. Il multilateralismo globalizzante vuole appunto conglobare al suo interno un numero sempre maggiore di realtà culturali e geopolitiche, superando i conflitti tramite la condivisione delle regole di una democrazia liberale estesa a tutto il mondo. Se questo grande esperimento possa funzionare anche per i conflitti che sono estranei al polemos della civiltà occidentale, come i conflitti culturali, economici, tribali delle culture di origine extra-europea, è probabilmente il principale argomento della controversia. Qualsiasi sia la risposta, il multilateralismo globalizzante può anche prevedere la guerra come mezzo – necessario ma non preferibile- per raggiungere il proprio fine: anche gli Stati Uniti, in fin dei conti, hanno avuto bisogno della guerra d’indipendenza prima di giungere allo spezzamento del dominio coloniale ed alla costruzione delle nuove istituzioni politiche.

159 Quello europeo è più un multilateralismo pacificante. La logica della nuova Unione Europea rispecchia molto di più questa esigenza: evitare lo scontro a qualsiasi costo, prima che esso diventi ancora una volta guerra totale. Questo “a qualsiasi costo” ha trovato la sua più profonda realizzazione proprio nella costruzione dell’Unione Europea, in cui nazioni come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Italia hanno rinunciato alla propria potenza militare, ai propri imperi coloniali, in parte anche al diritto di darsi leggi e regole economiche coerenti con la propria realtà storica e culturale, hanno persino accettato il calare della cortina di ferro sul proprio territorio, pur di evitare che la stagione del conflitto totale potesse riprendere, con l’aggravante, questa volta, dello scenario dell’inverno nucleare. Seguendo questo tipo di analisi, per un multilateralismo di impostazione globalizzante come quello americano, non vi è contraddizione nell’utilizzare l’organizzazione internazionale universale per raggiungere i fini della politica estera nazionale, come ad esempio è già avvenuto ai tempi della presidenza Truman, quando gli Stati Uniti utilizzarono l’ONU come piattaforma di lancio e di legittimità della dottrina di contenimento nella guerra di Corea. Ciò si deve al fatto che la politica estera statunitense ha la tendenza a vedere sé stessa come la promozione su scala allargata di quei principi che già vivono all’interno della nazione americana. In questa prospettiva la presidenza Eisenhower poteva sentirsi legittimata a coinvolgere nel Maccartismo (la caccia al comunista degli anni cinquanta) anche la struttura e gli uffici delle Nazioni Unite, lasciando di stucco un europeo come il Segretario Generale norvegese Trygve Lie che sollevò la più indignata protesta. Per tutta la Guerra Fredda la visione che i governi americani avevano delle Nazioni Unite oscillò tra l’ideale, ritenuto almeno momentaneamente irrealizzabile, di avere un’autorità mondiale che garantisse la sicurezza e la soluzione dei grandi temi globali e la più strumentale visione dell’organizzazione internazionale come una grande arena talvolta utilizzata per il confronto, talvolta manipolata, talvolta ignorata, nella quale gli Stati Uniti potevano condurre la loro battaglia contro il blocco comunista. E’ ormai parte della memoria collettiva il leggendario confronto tra gli ambasciatori americano e sovietico all’epoca della crisi di Cuba del ’62, quando Stevenson platealmente introdusse le prove fotografiche dell’installazione dei missili e accusò l’Unione Sovietica di creare un’intollerabile minaccia per la pace mondiale.

160 Una denuncia analoga, quella del Segretario di Stato Colin Powell e della fialetta di antrace agitata teatralmente in occasione delle discussioni che precedettero l’invasione in Irak, ci da l’occasione, tramite le parole di Robert Kagan, di avere una buona definizione del multilateralismo conglobante, da Kagan definito “multilateralismo pragmatico”. “Sbaglierebbero nell’invadere senza l’approvazione. Se il Consiglio di Sicurezza dice no, è no. Non molti Americani sarebbero d’accordo. La maggior parte degli Americani non è d’accordo con il multilateralismo dei principi. Apprezzano gli alleati e apprezzano il consenso per le loro azioni. Ma il nucleo del multilateralismo americano è pragmatico”. Come dice Baker (James Baker, ex segretario di stato ), “il prezzo è più grande e lo saranno anche i rischi politici, sia interni che internazionali, se andremo avanti da soli”. Tutto ciò non sembra augurabile. Ma il multilateralismo di Baker è un’analisi di costi e benefici, non una perpetrazione dell’azione multilaterale come pietra angolare dell’ordine mondiale”. In questo senso possiamo affermare che, tradizionalmente, la politica estera americana non può dirsi né unilaterale né multilaterale in senso stretto: essa non mira unicamente alla promozione degli interessi nazionali, ma subordina piuttosto il multilateralismo agli obiettivi statunitensi, movendo dal presupposto che il multilateralismo sia già ampiamente compreso in quegli stessi obiettivi che sono della nazione americana e che sono in generale compresi nel pacchetto di valori tipici della loro cultura, il cui più alto simbolo è la Costituzione Federale.

Guardiamo allora da questa nuova prospettiva anche alcune controverse affermazioni dello US National Strategy del 2002: “Nel costruire un equilibrio di potere che favorisca la libertà, gli Stati Uniti sono guidati dalla convinzione che tutte le nazioni abbiano delle responsabilità fondamentali. Le nazioni che godono della libertà devono combattere il terrore. Le nazioni che fanno affidamento sulla stabilità internazionale devono aiutare a prevenire il diffondersi delle armi di distruzione di massa. Le nazioni che cercano sostegno internazionale devono governarsi con saggezza, solo così il sostegno è ben speso. Affinché prosperi la libertà, la responsabilità deve essere pretesa e comandata”.

161 “Nell’esercitare la nostra leadership, rispetteremo i valori, i giudizi e gli interessi dei nostri amici e dei nostri alleati. Tuttavia, saremo preparati ad agire da soli allorché i nostri interessi e le nostre uniche responsabilità lo richiedano”.

Dobbiamo comunque tenere presente come anche queste considerazioni sui due multilateralismi non possano che essere indirizzi di massima. Non potremmo proprio spiegarci, riferendoci unicamente a questa schematizzazione, la diversa posizione dei vari stati europei di fronte all’invasione americana dell’Irak, dove paesi di primo o primissimo piano come l’Inghilterra, l’Italia e la Polonia si sono trovati più vicini alla posizione degli Stati Uniti che a quella di Parigi o Berlino, o dove un paese come la Spagna ha mutato la sua posizione rispetto all’Irak in immediata corrispondenza al rovesciamento della maggioranza di governo. Né ci si deve sorprendere del fatto che l’intervento degli Stati Uniti abbia raccolto il consenso dei paesi dell’Est appena entrati nell’Unione Europea; dobbiamo infatti considerare che l’allargamento dell’Unione ha spostato il confine dell’Europa unita proprio verso quei paesi che ora sono, tra i paesi europei, quelli meno distanti geograficamente e politicamente da zone ancora non del tutto sicure come i Balcani o il Caucaso. Questi tendono quindi a sentirsi molto più tutelati dalla potenza militare americana che dalle posizioni più caute dei paesi occidentali fondatori dell’Unione.

Anche sull’altra sponda dell’Atlantico, fenomeni come il successo dei documentari di Micheal Moore, che dipingono l’amministrazione americana come una banda di ignoranti e criminali di guerra o le imponenti manifestazioni pacifiste, specialmente prima dell’inizio dell’invasione, testimoniano come le divisioni sul mulitlateralismo e su molti altri temi siano in realtà divisioni trasversali del mondo occidentale intero e non solo delle sue due principali porzioni, l’Unione europea e gli Stati Uniti. Ed anche “l’eccezionalismo” americano non è sempre a senso unico; come ha infatti detto Gorge W. Bush senior di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “Io vedo un mondo costruito attorno al modello emergente dell’Unione Europea, non solo l’Europa, ma il mondo intero, intero e libero”.

162 Un’interessante analisi di Walter Russel Mead individua ben quattro atteggiamenti americani rispetto alla politica estera: 1) gli Hamiltoniani che cercherebbero di aumentare la prosperità nazionale garantendosi un ambiente esterno favorevole aperto al commercio ed agli affari; 2) i Wilsoniani, il cui obiettivo è l’estensione della democrazia, dell’autogoverno e della legalità internazionale; 3) i Jeffersoniani, che ritengono sia meglio salvaguardare la democrazia nella propria patria e guidare semmai il mondo tramite l’esempio; 4) i Jacksoniani, concentrati esclusivamente sull’ardente e bellicosa difesa del benessere economico e dell’incolumità fisica dell’uomo americano.

In Europa d’altra parte, alle distinzioni ormai classiche del “Paneuropeismo” e “dell’Euroatlantismo”, Timothy Garton Ash affianca il nuovo termine “Eurogollismo” che calza perfettamente nell’indicare quel pensiero di politica estera europea che non si vede legato né ad una stretta alleanza-unità strategica con gli Stati Uniti, né può per questo essere ridotto o sacrificato all’interno della logica dell’Europa federale. Ora che tra il Paneuropeista e l’Hamiltoniano, tra il Wilsoniano e l’Euroatlantista o tra l’Eurogollismo ed il Jeffersoniano – o al limite il Jacksoniano – ci sia più di un punto di contatto, alle volte persino una possibile alleanza, pare andare ben oltre le riduzioni schematiche che spesso vengono proposte. Altri, analizzando le differenze in politica internazionale tra America ed Europa, distinguono tra approccio realista e idealismo-moralismo internazionale. Ma questa distinzione, che già appare eccessivamente semplificatrice, è comunque presente sia in America che in Europa. Altri invece valutano, significativamente, il problema della provenienza: negli Stati Uniti c’è certamente differenza tra una formazione nelle urbanizzate East e West Coast (la prima culturalmente più europea), piuttosto che nel Midwest o nel profondo Sud agricoli. Ma anche in Europa c’è diversità tra un leader politico cresciuto nella City londinese o nella Polonia agricola, piuttosto che in una cittadina turistica mediterranea.

163 Gli aspetti essenziali della riforma ONU Ciò che in generale tutti si aspettano dalle Nazioni Unite è che esse siano in grado di assumere, rispetto alle più importanti questioni globali, in tempi adeguati, delle decisioni imparziali e concrete, godendo allo stesso tempo dei poteri necessari per rendere effettivo ciò che è stato deciso. Si tratta quindi, logicamente, sia di una richiesta di potenziamento dei fini che dei mezzi. Tuttavia, proprio la logica bipolare della sua genesi preclude all’ONU questa possibilità: il Consiglio di Sicurezza, l’organo esecutivo è stato ideato in modo da non permettere a nessuno dei due blocchi di assumere una decisione che non fosse condivisa anche dall’altro. Lo strumento di questo reciproco controllo era – ed è – il diritto di veto dei cinque membri permanenti. Inoltre ogni emendamento o revisione della carta delle Nazioni Unite non può essere approvata senza il consenso dei membri permanenti (artt. 108 e 109 del Trattato); in questa maniera si completò la blindatura del sistema, senza la quale i paesi del blocco comunista mai avrebbero accettato di entrare in una nuova organizzazione internazionale dominata dai paesi del blocco opposto. Queste premesse ci portano a due osservazioni fondamentali. Primo, la riforma del Consiglio di Sicurezza sarebbe, almeno teoricamente, la riforma tramite la quale ogni altra riforma (strutture, sistema burocratico, sistema di difesa collettivo, ecc.) potrebbe effettivamente essere varata: essa sarebbe insomma “la riforma delle riforme”. Secondo, proprio per questo essa è temuta dai membri permanenti che perderebbero parzialmente o totalmente i loro storici privilegi, senza avere alcuna certezza di guadagnare una contropartita proporzionata alle rinunce. L’evidente nodo cruciale di ogni riforma significativa del Consiglio non è purtroppo risolvibile riunendo attorno ad un tavolo i più dotti e brillanti esperti in materia, (professori universitari, esperti di diritto internazionale, tecnici, intellettuali) che sappiano indicare quale formula il Consiglio di Sicurezza dovrebbe avere per essere ad un tempo imparziale, incisivo ed efficace. Tale era, se vogliamo, la speranza di Wilson che cercò di far accettare a tutti l’istituzione di un sistema ideale sulla carta ma in buona parte incapace di tradursi nella realtà. Appare più praticabile la strada che porta ad una serie progressiva di accordi, di successive e graduali riforme che si confrontino di volta in volta rispetto a cosa il Consiglio e le Nazioni Unite in generale, potrebbero essere rispetto alla realtà storica del momento. Anche la

164 visione gradualistica necessita, in ogni caso, per essere tradotta in fatti, del conseguimento di una solida maggioranza nell’Assemblea Generale più l’accordo tra i cinque paesi con diritto di veto. Questa del perfezionamento graduale dell’organizzazione internazionale era la strada intrapresa da Roosvelt e i suoi collaboratori quando accettarono di venire a patti sia con la volontà europea incarnata in Churchill di mantenere gli imperi coloniali (contro il diritto all’autogoverno di Wilson), sia con l’Unione Sovietica alla quale Roosvelt garantì un’organizzazione che non avrebbe mai potuto decidere con i soli voti dei paesi dell’Ovest ed alla quale il presidente concesse anche una rappresentanza supplementare con l’ingresso di Bielorussia ed Ucraina, che pure in quanto facenti parte dell’URSS non avrebbero avuto titolo per sedere nell’Assemblea tra gli altri stati.

Da un certo punto di vista, il successo di Roosvelt fu di limitare il potere di veto ai cinque membri permanenti, mentre la vecchia Società delle Nazioni prevedeva un’unanimità totale sia nell’Assemblea che nel Consiglio di Sicurezza. Se l’istituzione del veto ha creato una ancora più ampia disuguaglianza fra membri permanenti e non, ha perlomeno fatto si che l’ostruzione di un solo membro non permanente potesse bloccare una decisione largamente condivisa all’interno del Consiglio. I paesi del movimento dei non allineati furono i più determinati nel proporre l’abolizione del veto. Alcuni paesi in via di sviluppo hanno cercato di proporre una scadenza oltre la quale il diritto di veto sarebbe stato abolito. Il Cile ad esempio nel 1998 propose la data del 2030 (85 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale). La Colombia ha invece avanzato l’ipotesi del veto multiplo, secondo la quale dovrebbero essere almeno due i membri che intendono porre il veto, affinché questo abbia valore. Proposte più realistiche sembrano quelle tese ad una limitazione della possibilità dell’utilizzo di questo potere. Una risoluzione del Parlamento Europeo del gennaio 2004, ad esempio, propone un emendamento sul diritto di veto che ne riduca l’utilizzo alle sole questioni del capitolo VII della Carta (decisioni su misure coercitive). I membri permanenti perderebbero così la possibilità di bloccare l’adozione o l’espulsione dei membri o l’elezione del Segretario Generale.

165 L’ipotesi dell’auto-limitazione è pure interessante. Essa potrebbe appoggiarsi sul principio che i membri permanenti concordino di ricorrere al veto solo nel caso di una minaccia ai propri interessi vitali. L’Europa potrebbe farsi portatrice di un accordo simile al “compromesso di Lussemburgo” del 1966 quando, per superare l’opposizione della Francia di De Gaulle rispetto al passaggio dal voto all’unanimità a quello a maggioranza nel Consiglio, si giunse al compromesso per cui si sarebbe votato a maggioranza su tutte le questioni che non mettevano in gioco gli interessi vitali degli stati membri ai quali rimaneva la possibilità di porre il veto qualora questi risultassero invece minacciati.

Un’altra questione cruciale, strettamente legata al potere di veto delle cinque potenze, è il cosiddetto principio “nemo iudex in re sua” (il principio giuridico generale secondo il quale nessuno può giudicare e quindi votare su una questione nella quale risulti essere parte in causa). Seguendo questo principio le parti in causa, nella Società delle Nazioni, dovevano astenersi dal voto. Il Trattato delle Nazioni Unite invece, prevede questo limite solo per le materie coperte dal capitolo VI della Carta (Soluzione pacifica delle controversie), mentre esclude le materie del capitolo VII, ben più gravi, tra cui le azioni in caso di minaccia della pace e di atti di aggressione. Grazie anche alla difficoltà interpretativa nel separare le materie di questi due capitoli, nella prassi della nuova organizzazione internazionale, questo limite di fatto non si è mai applicato. Questa differenza di impostazione testimonia ancora una volta una discontinuità tra la Lega di spirito wilsoniano, decisamente idealista e l’ONU, così come è nato dalle varie concessioni possibili che l’idealista più “disincantato” Roosvelt fu in grado di strappare all’Europa degli imperi coloniali ed al blocco comunista, entrambi nettamente contrari a vedere limitato il loro diritto di veto. Questo compromesso sul principio del nessuno giudichi se stesso, ha probabilmente contribuito alla lunga e stabile vita delle Nazioni Unite, così come la sua totale applicazione ha verosimilmente reso ancora più impotente la Società delle Nazioni. Ai nostri giorni, oltre che l’aspetto del potere di veto, il Consiglio di Sicurezza è considerato inadeguato anche per quanto riguarda la sua rappresentatività. Nel 1948 la popolazione mondiale era di 2,5 miliardi, gli Stati Uniti, l’URSS e la Cina da soli arrivavano quasi a 900 milioni (rispettivamente 160, 180 e 550) ed altri 800 milioni circa erano i sudditi

166 dell’Impero Britannico (650) e di quello francese (150). Subito dopo la guerra mondiale, quindi, i soli cinque membri permanenti del Consiglio potevano rappresentare oltre il 65% della popolazione mondiale. Dopo la decolonizzazione, lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e soprattutto l’enorme incremento demografico nei paesi in via di sviluppo rispetto a quello assai più modesto dei paesi industrializzati, hanno cambiato radicalmente la situazione. Oggi la popolazione è di 6,5 miliardi e i cinque membri permanenti coprono, soprattutto grazie all’apporto della Cina, appena il 29% della popolazione mondiale (Cina 1,3 miliardi, USA 300 milioni, Russia 145, UK e Francia 120).

Se consideriamo inoltre che quattro dei cinque membri permanenti appartengono al cosiddetto mondo occidentale, il quadro della rappresentatività dei membri che godono del seggio permanente e del diritto di veto appare decisamente lontano dal rappresentare le proporzioni demografiche ma anche geografiche, economiche e socio-culturali dell’assetto geopolitica odierno. Un altro nodo cruciale riguarda gli strumenti a disposizione del Consiglio per dare forza alle proprie decisioni ed in particolare la possibilità di varare misure di qualunque tipo nei confronti di stati che minacciano la sicurezza globale. Questo significa anche contare su delle proprie forze armate in grado di intraprendere azioni militari, laddove le misure di altro tipo non siano sufficienti. Per quanto riguarda soprattutto quest’ultimo punto, la Carta delle Nazioni Unite di per sé non necessiterebbe di alcuna riforma, in quanto gli art. 41 e 42 già prevedono ampiamente la possibilità da parte del Consiglio di intraprendere direttamente con proprie forze o indirettamente tramite autorizzazione a membri o ad organizzazioni regionali, misure che comprendano l’uso della forza, per la cui realizzazione i membri sono chiamati a fornire i mezzi necessari.

Il problema dei mezzi è quindi chiaramente subordinato agli scopi che i membri permanenti decidono opportuni per il Consiglio di Sicurezza. Ne è prova il fatto che, quando i membri permanenti poterono trovare un accordo e vale a dire nel 1950 in occasione della guerra di Corea, grazie al fatto che l’URSS aveva temporaneamente abbandonato il Consiglio e che il seggio cinese era ricoperto da Taiwan, come anche nel 1991 per la Guerra del Golfo, le

167 Nazioni Unite furono in grado di autorizzare vere e proprie campagne militari sotto la propria bandiera.

La prima riforma e gli emendamenti del 1965 Tutti questi limiti in realtà già coscientemente avvertiti all’epoca della Conferenza di San Francisco, tanto è vero che l’articolo 109 prevedeva che una Conferenza di revisione della Carta doveva venire convocata al più tardi al momento della decima sessione annuale delle Nazioni Unite, quindi nel 1965. Lo stesso articolo stabiliva che i cinque membri permanenti non avrebbero potuto porre il veto alla convocazione della conferenza di revisione, per la quale sarebbe quindi stato necessario il solo voto a maggioranza semplice. Molti paesi in via di sviluppo e con particolare forza Cuba e Argentina, premettero per arrivare in tempi brevi alla revisione della Carta, ma risultò a tal punto chiaro che nessuno dei cinque membri permanenti aveva intenzione di rinunciare alla propria disuguaglianza e superiorità sugli altri membri, che la conferenza venne rimandata indefinitivamente. Attraverso un lungo processo, si era invece arrivati nel 1965, tramite emendamento della Carta, ad un aumento dei membri non permanenti del Consiglio, da 6 a 10. Questo allargamento del Consiglio (simile a quelli che avevano già interessato la Lega a più riprese negli anni Venti e Trenta), era una logica conseguenza dell’aumento del numero degli stati membri e dell’esigenza di una maggiore rappresentatività. E’ da notare come anche il varo di questa sia pur limitata riforma, sia stato tutt’altro che scontato: i tre membri europei e Washington erano sfavorevoli all’emendamento (URSS e Francia votarono contro, USA e UK si astennero), mentre solo Taiwan risultò favorevole.

Comunque tutte le potenze accettarono di ratificare l’emendamento: nessuno voleva infatti, per una riforma che tutto sommato non andava ad intaccare alcun privilegio né tanto meno il diritto di veto, alienarsi i paesi in via di sviluppo. Il Consiglio Economico e Sociale ebbe analogamente nel 1965 e nel 1971 due successivi allargamenti: da 18 a 27 a 54. Significativa fu anche la revisione del meccanismo di ripartizione dei seggi non permanenti rispetto alle aree geografiche. Questo meccanismo, stabilito tramite accordi informali nel 1946, aveva assegnato due seggi all’America latina, uno per il Commonwealth britannico, il Medio Oriente, l’Europa Occidentale e l’Europa Orientale. Nel 1965, nella stessa

168 risoluzione che prevedeva l’allargamento, la ripartizione venne così riveduta: 3 seggi all’Africa, 2 all’Asia, 2 all’America Latina, 2 all’Europa Occidentale e gli altri paesi ed 1 all’Europa Orientale. E’ curioso notare come la distinzione tra le due Europe sia sopravvissuta alla guerra fredda e sia ancora oggi parte del meccanismo di ripartizione dei seggi nel Consiglio di Sicurezza. Nel 1980 un ulteriore tentativo di allargare il Consiglio, portando i membri non permanenti a 16, fu proposto da un gruppo di paesi africani, asiatici e sudamericani, ma senza successo. Questa ulteriore riforma avrebbe portato il Consiglio a decidere solo in presenza di 14 voti affermativi compresi i cinque membri permanenti, aumentando quindi il rischio di paralisi dell’organo esecutivo. La conclusione che si può trarre è che durante la guerra fredda il tema della intoccabilità dei membri permanenti è stato una delle poche questioni rispetto alle quali sia la potenza americana che quelle europee e l’URSS si sono sempre trovate d’accordo.

Le Nazioni Unite, la regionalizzazione e la proposta italiana Se il processo di decolonizzazione ed il corrispondente allargamento dell’Assemblea Generale hanno portato all’adeguamento quantitativo ed alla riformulazione ripartitivi dei seggi non permanenti del Consiglio, è doveroso soffermarsi sull’altro grande aspetto emergente degli assetti geografici, economici e politici del secondo dopoguerra: la regionalizzazione. L’Unione Europea è il più compiuto esempio di regionalizzazione del secondo dopoguerra ma non è certo l’unico: l’ASEAN (Associazione delle nazioni del Sud- Est asiatico), il NAFTA (USA, Messico e Canada), l’Unione Africana, il Mercosur in America Latina, la Lega Araba, sono solo alcuni esempi a vario livello evolutivo, di questa tendenza alla formazione di organizzazioni regionali miranti all’integrazione economica, strategica o costruiti attorno ad affinità culturali e sociali. La prima manifestazione del rapporto esistente tra il processo di regionalizzazione ed il problema della rappresentatività nel Consiglio di Sicurezza, fu ancora in tempo di guerra, mentre si gettavano le basi per un accordo che portasse alla nascita della nuova organizzazione internazionale, ossia la proposta di Churchill di creare dei corpi regionali anziché una vera e propria organizzazione universale di stati. Così, nell’idea inglese, dovevano sorgere un Consiglio delle Americhe, europeo, asiatico e via dicendo, ossia degli

169 organi intermedi che avrebbero impostato le Nazioni Unite su base regionale e che avrebbero permesso, secondo Churchill, di risolvere i conflitti al proprio interno, su scala regionale. Si trattava in realtà di un altro episodio della contrapposizione tra il colonialismo europeo e le sue sfere d’influenza e il principio americano della decolonizzazione e della “porta aperta”.

E’ chiaro infatti che Churchill mirava a mantenere intatto, in un’epoca di estinzione dei grandi imperi coloniali, l’impero britannico, che avrebbe così goduto di maggiore peso nei vari corpi regionali. La proposta fu inizialmente appoggiata anche da Stalin che, preoccupato di possibili interferenze da parte degli Alleati nella politica estera sovietica, preferiva l’impostazione regionalista a quella universale. Quando Stalin fu convinto dalle concessioni di Roosvelt che le Nazioni Unite non avrebbero potuto prendere decisioni contro l’interesse sovietico, virò anch’egli verso l’impostazione universalista. L’Inghilterra che al termine della guerra sarebbe dipesa ancora per lunghi anni dai finanziamenti e dalle armi americane, era ben lontana dall’avere la forza per proseguire la battaglia da sola. Anche la Francia, che pure, con il suo desiderio di restaurare il proprio impero coloniale, era l’alleata naturale della proposta britannica, guidata da un De Gaulle sospettoso nei confronti degli Alleati e comunque non ancora sicuro di un seggio permanente, finì per non appoggiare la proposta inglese. Sempre negli incontri preliminari alla stesura della Carta, fu discussa la possibilità di assegnare un sesto seggio permanente al Brasile, che era sceso in campo a fianco degli Alleati sin dal 1942. L’idea fu proposta dagli Stati Uniti, che in seguito la ritirarono per evitare di dover portare il Consiglio da 11 a 13 membri totali, secondo il principio che i membri eletti dovessero essere superiori numericamente rispetto ai membri permanenti. Anche la possibilità di veder rappresentato con un seggio permanente un quarto continente oltre al Nordamerica, Europa ed Asia, era quindi svanita sul nascere. Nel 1990 il clima era molto diverso; da tempo estinti gli imperi coloniali, allo sfascio anche il blocco comunista e con il processo di regionalizzazione ormai lanciato – Europa in primis – una proposta del Governo Italiano riportò il tema delle organizzazioni regionali di fronte alla comunità internazionale. La Germania, da poco riunificata, mirava, insieme al Giappone, all’assegnazione di un seggio permanente che premiasse il suo rientro tra il

170 novero delle grandi potenze e che, al contempo, premiasse il suo impegno finanziario all’interno delle Nazioni Unite. Il Governo Italiano, nella speranza di non vedersi declassato a potenza di secondo piano rispetto a Gran Bretagna, Francia e Germania propose, nel Settembre dello stesso anno, che Francia e Gran Bretagna rinunciassero al loro seggio permanente in favore di una rappresentanza comune per l’Unione Europea. Come era naturale né Bonn, né tanto meno Londra e Parigi, considerarono minimamente la proposta italiana. La candidatura di Germania e Giappone era invece sponsorizzata sia da Gran Bretagna e Francia che dagli Stati Uniti. Per il governo americano le due nazioni, nemiche giurate durante la Seconda Guerra Mondiale, erano ormai da tempo solidi ed affidabili alleati. In una risoluzione del 1994 gli Stati Uniti avevano comunque subordinato la promozione dei due paesi ad un contributo crescente nelle future operazioni di peacekeeping. Anche la maggior parte dei piccoli stati europei sembrava preferire l’ipotesi di un terzo seggio continentale alla Germania piuttosto che un solo seggio comune. Tuttavia la promozione di Germania e Giappone non poteva concretizzarsi per l’opposizione di vari paesi in via di sviluppo e naturalmente dell’Italia: a Germania e Giappone servivano infatti il consenso dei 2/3 dell’Assemblea Generale e di tutti i membri permanenti. L’occasione tornò nel 1997, quando il presidente dell’Assemblea, il malese Ismael Razali, per aggirare il problema dei 2/3 dei voti, propose di procedere per due fasi: prima ottenere una risoluzione che chiedeva al Consiglio di Sicurezza di aggiungere cinque membri permanenti (due paesi industrializzati e tre divisi equamente tra i paesi in via di sviluppo di Asia, Africa e America Latina), mentre in una seconda fase l’Assemblea avrebbe votato una seconda risoluzione per individuare quali fossero i nuovi membri permanenti. Almeno inizialmente questi non avrebbero goduto del potere di veto. L’ambasciatore italiano Paolo Fulci, denunciò il piano Razali come un escamotage per promuovere con un colpo di mano Germania e Giappone, dato che in questo modo i nuovi membri permanenti avrebbero dovuto essere selezionati con meno voti di quelli richiesti da un emendamento della Carta. La votazione infatti, sarebbe stata considerata come “votazione su questioni importanti” e quindi, come stabilisce l’art. 18, avrebbe necessitato dei soli consensi dei membri presenti e votanti in Assemblea e non della totalità dei membri, come l’articolo 108 stabilisce nel caso di un emendamento alla Carta. La campagna italiana portò all’adozione di una risoluzione che pose termine a ogni possibilità di allargare il Consiglio di Sicurezza al di fuori del

171 principio di votazione dell’art. 108 e quindi senza una maggioranza dei 2/3 dei membri permanenti. Si venne a creare quindi una spaccatura interna all’Europa tra gli stati che appoggiavano l’aumento dei membri permanenti sostenendo la candidatura tedesca e il gruppo guidato dall’Italia che sembrava puntare al meno controverso allargamento dei membri non permanenti, non rinunciando comunque mai alla strenua difesa del proprio prestigio nazionale. Sembrava invece definitivamente tramontata la possibilità di un seggio permanente comune per l’Unione Europea. Esso sarebbe stato il primo caso di rappresentanza per un’intera regione e non più per un singolo stato all’interno dell’ONU.

Nel 1999 l’Italia propose nuovamente l’idea di un seggio per l’Unione Europea, ottenuto questa volta tramite l’assegnazione all’Unione Europea del seggio non permanente spettante ad uno stato dell’Europa Occidentale. Si trattava dell’idea del “seggio embrionale dell’Unione Europea”, privo di veto ma di fatto permanente. La proposta è rimasta almeno fino a dora solo sulla carta, anche perché l’art. 4 dello Statuto prevede che solo gli stati e non le organizzazioni internazionali, possano essere membri delle nazioni Unite. Il seggio comune richiederebbe quindi un emendamento della Carta il che significa di nuovo una faticosa ricerca di consensi tra Assemblea e membri permanenti. Nel maggio 1997, anche il gruppo dei paesi arabi propose, in caso di aumento dei membri permanenti con diritto di veto, uno dei seggi permanenti da far ruotare tra tutti gli stati arabi, tramite una consultazione tra i paesi arabi africani e quelli asiatici. L’affidamento alle organizzazioni regionali della rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza è stato quindi bocciato dagli Stati Uniti nella sua versione universale quando ancora si discuteva sui principi che avrebbero dovuto regolare il funzionamento dell’ONU, mentre per la versione particolare limitata alla sola Unione Europea (che è comunque il più avanzato modello di regionalizzazione contemporaneo), la bocciatura è venuta ancora prima che dall’Assemblea Generale o dal Consiglio di Sicurezza, da parte degli stessi stati europei, che si sono trovati divisi dai vari interessi nazionali.

172 Dobbiamo sempre tenere presente che il problema del seggio permanente per l’Unione Europea, si scontrerebbe con la difficoltà da parte dei membri dell’Unione Europea di proporre posizioni condivise di politica estera, come la crisi irachena del 2003 ha ancora una volta ampiamente dimostrato. Se questo problema resta ancora irrisolto nella più integrata ed avanzata delle nuove organizzazioni regionali, ancora più lontani dalla possibilità di essere rappresentati a livello regionale sembrano realisticamente i paesi degli altri continenti.

L’High-level Panel del 2004 e le attuali proposte Nell’autunno del 2003, di fronte all’impossibilità di sviluppare un accordo sufficiente a promuovere una qualsiasi riforma del Consiglio di Sicurezza, il Segretario Generale Kofi Annan creava, insieme all’Assemblea Generale, un gruppo di esperti, l’High-level Panel, con l’incarico di trovare una soluzione realistica in grado di uscire dall’empasse. Un anno dopo il Panel presentava il proprio rapporto “A more secure World: our shared responsibility” al Segretario Generale. Nel rapporto venivano proposti due modelli per la riforma del Consiglio tramite il suo allargamento; essi vennero a loro volta inseriti da Annan nella propria proposta “In lager freedom towards development, security and human rights for all” del marzo 2005. Analizziamo sinteticamente i due modelli proposti dal Panel. Il modello A prevede la promozione di 6 nuovi membri permanenti senza diritto di veto (2 per l’Africa e l’Asia, 1 per l’America e l’Europa) e 3 ulteriori membri non permanenti; il modello B non prevede la promozione di alcun nuovo membro permanente, ma la creazione di una nuova categoria di membri semi-permaenti con un mandato rinnovabile ogni 4 anni (anziché il mandato non rinnovabile di due anni dei membri non permanenti attuali), composta di 8 membri (2 per Asia, Africa, America e Europa) più un ulteriore membro non permanente che garantirebbe il principio della superiorità di questi ultimi rispetto ai seggi permanenti. La posizione degli Stati Uniti negli ultimi anni è sempre stata negativa nei confronti di qualsiasi riforma del Consiglio di Sicurezza che portasse il numero dei assoluto degli stati rappresentati oltre i 20, al massimo 21 membri. E’ quindi da ritenere che anche i modelli A e B del Panel che prevedono l’allargamento ad un totale di 24 membri avranno assai scarse possibilità di essere prese in considerazione da USA, come infatti ha confermato l’attuale

173 ambasciatore americano all’ONU, John Bolton: “L’organizzazione internazionale deve divenire più efficiente e responsabile. Rendere il Consiglio di Sicurezza troppo vasto significherebbe mettere a repentaglio questo obiettivo. Portare il numero di seggi a 25 o 26 significherebbe una paralisi. La risposta dei paesi europei al lavoro dell’High-level Panel si è concretizzata nella presentazione di due proposte che prendono in considerazione sia alcune precedenti ipotesi di riforma, che il più recente lavoro del Panel. La Germania si è fatta promotrice assieme ad altri tre aspiranti membri permanenti, Giappone, India e Brasile, e con l’appoggio della Francia (che ha anche firmato la relativa bozza di risoluzione), dell’Inghilterra e di circa altri 20 stati, della proposta di nota come “G-4 Draft”. L’Italia, la Spagna e un gruppo di circa 20 stati hanno per contro presentato il documento Assemblea Generale delle Nazioni Unite, “Question of equitable representation on and increase in the membership of the Security Council and related matters”. I paesi firmatari sono Afghanistan, Belgio, Bhutan, Brasile, Danimarca Figi, Francia Georgia, Germania, Grecia, Haiti, Honduras, Islanda, India, Giappone, Kiribati, Lettonia, Maldive, Nauru, Palau, Paraguay, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Salomone, Tuvalu e Ucraina. Il Gruppo G-4 ha proposto nella primavera del 2005 una risoluzione che allarghi il Consiglio a 6 nuovi membri permanenti (2 per l’Asia e l’africa, 1 per l’Europa Occidentale e l’America Latina e Europa Orientale). Chiaramente la Germania mira al posto di membro permanente per l’Europa Occidentale e India, Brasile e Giappone si autopromuovono per 3 dei restanti 5 seggi. Si tratterebbe quindi di una riforma simile al Modello A proposto dal Panel, con un membro permanente in più. I nuovo membri permanenti non godrebbero, almeno inizialmente, del diritto di veto, il cui eventuale conferimento sarebbe valutato 15 anni dopo il passaggio dell’emendamento alla Carta. Questa proposta è un evidente versione aggiornata del piano Razali e delle aspirazioni, ormai quindicennali, di Germania e Giappone al seggio permanente. All’inizio del 2006 il Giappone ha fatto un mezzo passo indietro rispetto alla proposta G-4, rendendo il suo appoggio indiretto, e favorendo invece i dialoghi bilaterali con gli Stati Uniti che sembrano decisamente intenzionati a promuovere un posto per la più industrializzata economia asiatica tra i permanenti, non è chiaro se con o senza diritto di

174 veto. Rispetto alla questione del veto, la Germania ha sempre invocato il principio dell’uguaglianza dei membri permanenti e la relativa attribuzione anche agli ultimi arrivati di questo potere, mentre il Giappone sembra disponibile ad accettare un seggio permanente anche senza il diritto di veto, almeno in un primo momento. A questa posizione si oppongono vari stati di un certo peso: l’Italia e la Spagna, che non vedono di simpatia la promozione tedesca, l’Argentina, la Colombia e il Messico che sarebbero esclusi da una posizione permanente nel Consiglio, concessa invece al Brasile, il Pakistan e il Bangladesh, evidenti oppositori della candidatura indiana, così come la Corea del Sud rispetto a quella giapponese. La posizione italiana insomma conquista l’adesione di tutte le medie potenze che non hanno la forza o non godono dell’appoggio per richiedere un seggio permanente. Questi paesi si sono coalizzati sotto l’impulso italiano, nel gruppo “Unitine for Consensus”, scherzosamente indicato come “Coffee Club”, che propone, fermi restando i cinque membri permanenti, l’aggiunta di altri 10 membri non permanenti i quali, insieme ai 10 già presenti, formerebbero una categoria di membri semi-permanenti eletti a rotazione su scala regionale, e con mandato rinnovabile di 4 anni. I seggi semi-permanenti sarebbero così suddivisi: Africa 6, Asia 5, America Latina 4, Europa Occidentale 3, Europa Orientale 2. la proposta italiana, che in misura diversa, adotta la nuova categoria dei semipermanenti del Modello B, richiama quindi in gioco un certa gestione regionale della rappresentanza all’interno del Consiglio, alla quale comunque restano esclusi gli intoccabili 5 membri permanenti. Traendo le somme per quanto riguarda l’Europa, essa ha ancora una volta fallito nel presentare una proposta unitaria, dando invece vita ad una vera e propria battaglia, che si è facilmente collegata alle analoghe competitività nazionali degli altri continenti (India/Pakistan, Brasile/Argentina, Giappone/Korea Sud, etc.). La battaglia è stata combattuta anche sul piano delle accuse, quanto il rappresentante italiano Spatafora ha denunciato il presunto uso del ricatto finanziario nei confronti di alcuni paesi in via di sviluppo al fine di ottenere da questi l’adesione a una bozza di risoluzione piuttosto che a un'altra.

Una terza proposta è stata presentata da 43 dei 53 paesi dell’Unione Africana. Essi propongono di espandere il Consiglio fino a 26 membri , tra cui 6 permanenti con diritto di veto, 2 dei quali sarebbero riservati proprio ai 39 paesi africani.

175

Tutte e tre le proposte (G-4, United for Consensus e Unione Africana) porterebbero il Consiglio di Sicurezza a superare il limite che gli Stati Uniti considerano invalicabile di 20- 21 Stati. Washington si è chiaramente espressa in sfavore della proposta del G-4, sebbene continui ad appoggiare il Giappone. Per quanto riguarda la Germania, essa ha, almeno momentaneamente, perso l’appoggio che gli americani parevano averle concesso agli inizi degli anni Novanta, nell’ottica di un “quick fix”, vale a dire una promozione diretta di Giappone e Germania al rango di membri permanenti. La questione potrebbe essere inserita all’interno del mancato appoggio da parte della Germania di Schroeder all’intervento americano in Iraq, e questo potrebbe far pensare ad una possibilità per gli Stati Uniti di riprendere in futuro una politica che torni a supportare la candidatura tedesca per un seggio permanente, qualora il nuovo governo tedesco si avvicini di più alle posizioni di politica estera americana. Anche la Cina è contraria al draft G-4, avendo criticato la candidatura del Giappone, paese rivale su scala regionale e considerato dal governo cinese inadatto, visti i gravi precedenti di aggressione durante il secondo conflitto mondiale, ad assumersi la responsabilità diretta della sicurezza globale. Tra i membri permanenti, la posizione della Russia pare essere quella più conservatrice, assieme a quella cinese. Mosca, come ha recentemente sostenuto il suo ambasciatore Andrei Denisov, è contraria a ogni diluizione del potere dei cinque e del loro diritto di veto.

La questione delle responsabilità finanziarie e militari Un ulteriore elemento della posizione americana rispetto alla riforma del Consiglio di Sicurezza è emerso non senza una certa teatralità, quando alla fine del 2005 l’ambasciatore Bolton ha minacciato di bloccare il budget biennale per il periodo 2006-2007, al quale gli Stati Uniti contribuiscono con una fetta del 24% sul totale qualora i membri non avessero fatto dei passi concordi in avanti verso una visione generale concordata sul tema della riforma. Anche in questo senso va letto l’appoggio americano al Giappone: il paese asiatico infatti è nettamente il secondo finanziatore dell’Onu, dietro solo agli Stati Uniti, assieme ai quali contribuisce per oltre il 40% del budget regolare delle Nazioni Unite.

176 Lo stesso Giappone ha fatto intendere che, qualora la sua richiesta di un seggio permanente rimanesse inascoltata, Tokyo potrebbe ridurre considerevolmente i suoi finanziamenti nel 2007-2009, con la motivazione che non sarebbe ravvisabile alcun senso, specialmente agli occhi dell’opinione pubblica giapponese, nel continuare a versare nelle casse delle Nazioni Unite una quantità di fondi dieci volte superiori a quella di un membro permanente come la Cina. Questa posizione sul peso che il contributo finanziario dei singoli stati meriterebbe rispetto alla promozione degli stessi membri del Consiglio, è stata espressa nel giugno 2005 dal rappresentante americano all’Assemblea: “Poiché l’espansione del Consiglio di Sicurezza avrà implicazioni di grande portata, noi crediamo che un approccio basati su dei criteri precisi sia il miglior strumento per misurare i requisiti per l’accesso a un seggio nel Consiglio. Questi criteri dovrebbero includere il prodotto interno lordo, la popolazione, le capacità militari, i contributi al peacekeeping, l’impegno in favore della democrazia e dei diritti umani, i contributi finanziari all’ONU, l’accettazione della non proliferazione e della lotta al terrorismo, e il bilanciamento geografico.”

Questa posizione è condivisa anche dal Segretariato Generale e dall’High-Level Pannel:

“(I membri) dovrebbero, in onore dell’articolo 23 della Carta, incentivare la presenza nel processo decisionale di coloro i quali contribuiscono maggiormente alle Nazioni Unite finanziariamente, militarmente e diplomaticamente (..)”

Nel drafts del G-4 e di United for Consensus, invece è fatto solo un generico accenno ai principi dell’art. 23 che valgono per l’elezione dei membri permanenti: l’equa distribuzione geografica ed il contributo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Nella storia della posizione italiana tra l’altro, all’epoca dell’opposizione al piano Razali, non sono mancate forti critiche al principio dell’attribuzione di seggi permanenti in considerazione del loro contributo finanziario alle Nazioni Unite. Il rappresentante italiano in quell’occasione ebbe a dire polemicamente che i seggi permanenti non erano in vendita e

177 che se il finanziamento è il criterio usato per stabilire l’eleggibilità dei membri permanenti, allora perché non dare un seggio anche alla CNN che dà un miliardo di dollari alle Nazioni Unite?

Le responsabilità finanziarie e militari (peacekeeping, lotta al terrorismo) sembrano quindi essere prioritarie come criteri proposti dal governo statunitense, insieme all’equa distribuzione geografica, alla quale sembrano guardare comunque con più attenzione la proposta italiana dell’United for Consensus ed il G-4 appoggiato dalla Germania.

Sguardo d’insieme sulla riforma Si è visto come tutte le proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza dal 1945 in poi siano sostanzialmente delle proposte di inclusione di stati, gruppi di stati od organizzazioni regionali come membri permanenti (con o senza diritto di veto), non permanenti o in categorie intermedie tra questi due (semipermanenti). Anche volendo mettere momentaneamente da parte le pur fondamentali divisioni ideali e reali, i vari giochi di potere e tutto quanto abbia reso impossibile finora un accordo sulla riforma, il problema dei vari drafts, ma anche di tutte le proposte d’inclusione formalmente e informalmente presentate dalla fine del bipolarismo, risulta essere un irrisolvibile rompicapo teorico. La questione che emerge implicitamente è: dove si ferma e rispetto a quali principi il meccanismo di inclusione? Quali membri dovrà avere il Consiglio? e quali parametri dovranno soddisfare tali membri? Se ad esempio si accetta la promozione a membro permanente di uno stato A con una popolazione di 80 milioni (potrebbe essere la Germania), difficilmente si potrebbe privare dello stesso privilegio lo stato B con un miliardo di abitanti (India); se si concede a quest’ultimo lo stesso privilegio di A, lo stato C potrà sempre addurre il suo superiore potere economico, la sua industrializzazione, i suoi contributi finanziari all’organizzazione (Giappone), ma di fronte a tutto ciò lo stato D (un qualsiasi grosso stato del terzo mondo) chiamerebbe in causa il principio di equa rappresentanza geografica, dichiarando che certe aree del mondo non possono essere sovra-rappresentate e così via in un processo che non avrebbe mai fine. Questo però per inciso, è il timore di molti osservatori ed in particolare degli Stati Uniti che hanno già “ messo le mani avanti”

178 sostenendo il principio secondo il quale in ogni caso il Consiglio di Sicurezza non dovrà superare i 20 – 21 membri. Anche considerando accettato questo limite e l’esistenza di varie proposte che lo oltrepassano ci induce a essere cauti in proposito, rimangono da definire i criteri che portano ad includere o escludere i vari possibili candidati all’allargamento. La strada è quindi lunga e in salita. In ogni caso qualsiasi riforma delle Nazioni Unite che non comprenda una riforma del Consiglio di Sicurezza sarebbe quasi universalmente avvertita come incompleta. Rispetto al Consiglio, possiamo distinguere due diversi tipi di inclusione: l’inclusione per meriti che possono essere di volta in volta il peso economico, demografico, militare, l’impegno finanziario o di altro tipo nell’ONU, che può prevedere o meno meccanismi di riequilibrio geografico e l’inclusione per regionalizzazione, che privilegia la rappresentatività geografica sugli altri tipi di considerazione. Rientrano in questo secondo caso le proposte di allargamento alle organizzazioni internazionali regionali (finora la più concreta proposta ha riguardato l’Unione Europea) e l’istituzione di membri semipermanenti la cui rotazione è organizzata su base regionale (proposta italiana). Occorre quindi distinguere tra l’ipotesi di una regionalizzazione esterna e una regionalizzazione interna al Consiglio. Se la regionalizzazione esterna è un processo che si sviluppa indipendentemente e autonomamente rispetto alle Nazioni Unite, la regionalizzazione interna sarebbe un processo che deve almeno una parte delle ragioni del proprio sviluppo allo scopo comune di mettersi d’accordo sul come auto-rappresentarsi tutti insieme, il che presuppone perlomeno un accordo minimo sulla propria politica estera. Questo potrebbe essere il caso dei membri sempermanenti “all’italiana” della proposta United for Consensu. A cosa potrebbe portare in futuro l’adozione di un allargamento o addirittura di una riformulazione del Consiglio di Sicurezza che si fondi sul principio dell’inclusione per regionalizzazione? Se l’apertura fosse rivolta direttamente alle organizzazioni regionali, essa potrebbe avere l’effetto di promuovere o accelerare lo sviluppo della regionalizzazione. Le varie organizzazioni regionali potrebbero “fare a gara” per accaparrarsi un maggior numero di stati, avere quindi più peso e promuovere una propria candidatura per un seggio permanente nelle Nazioni Unite. Gli stati stessi potrebbero decidere di trasferirsi in base alla convenienza da un’organizzazione regionale non rappresentata ad una rappresentata al Consiglio. Qualche paese dell’Africa settentrionale, ad esempio, o Israele, potrebbero

179 avvicinarsi all’Unione Europea, se questa arrivasse a godere di un seggio permanente o addirittura del potere di veto. Questi scenari di regionalizzazione sarebbero diversi invece nel caso dell’istituzione di membri semipermanenti su scala regionale. Il meccanismo di rotazione potrebbe creare un nucleo di ulteriore integrazione e favorire così la regionalizzazione in aree dove questa risulti debole o essere gestita direttamente dalle organizzazioni regionali, laddove queste siano sufficientemente solide: l’unione Africana, ad esempio, potrebbe gestire l’intera rotazione dei membri semipermanenti del continente, dato che solo il Marocco non fa parte dell’organizzazione.

L’Unione Europea è chiaramente la più probabile candidata per un seggio regionale al Consiglio di Sicurezza, Tuttavia questo vantaggio storico di essere la più avanzata organizzazione internazionale regionale dal dopoguerra ad oggi, appare ancora insufficiente. All’interno dell’Europa, almeno due dei paesi più importanti non hanno mai dimostrato una forte inclinazione in favore di una politica estera comune: si tratta ovviamente della Francia e della Gran Bretagna. E’ difficile pensare che l’Europa possa ambire ad un seggio comune prima di aver dimostrato, almeno per un periodo di qualche anno, la volontà e la capacità di formulare una politica estera unica sufficientemente condivisa dagli stati membri. Proprio l’obiettivo di un seggio permanente sarebbe invece un movente considerevole in vista di un integrazione più stretta della politica estera comunitaria per tutti i paesi europei, tranne ovviamente per quelli che già lo possiedono.

Cenni sulla posizione americana L’orientamento generale dei governi degli Stati Uniti d’America rispetto alla riforma delle Nazioni Unite, è nelle sue linee principali, rimasto invariato dalla fine della guerra fredda ad oggi, tranne per l’appoggio diretto inizialmente accordato e poi ritirato ad un seggio permanente alla Germania. Gli USA ritengono più realistica e fruttuosa la riforma degli strumenti e delle capacità a disposizione dei vari organi delle Nazioni Unite nei campi del peacekeeping, delle missioni umanitarie, della promozione dello sviluppo e della riforma del sistema burocratico,

180 considerato troppo “pesante” ed esposto alla corruzione, come dimostra lo scandalo del programma “Oil for food”.

La posizione americana rispetto al Consiglio di Sicurezza non è conservatrice come quelle della Cina e Russia, ma ha dimostrato di fondarsi attorno ad alcuni capisaldi ben precisi. Il principio che emerge sopra tutti, è che i paesi che contano all’interno del Consiglio, devono essere dei paesi virtuosi, con un passato ed un presente di cooperazione finanziaria, militare, politica, di rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani. I membri permanenti, in particolare, devono essere solidi alleati degli Stati Uniti. Il Giappone, ad esempio, avendo dimostrato la sua alleanza tramite l’appoggio concreto alla visione strategica americana è promosso a pieni voti anche in virtù della sua generosità finanziaria nei confronti dell’organizzazione. La Germania, invece, dopo aver preso le distanze al momento dell’invasione dell’Irak, non ha più goduto della sponsorizzazione concessa all’alleato asiatico. Il principio è ancora una volta quello del multilateralismo globalizzante: prima deve essere accertata la responsabilità internazionale e l’adozione di un minimo di principi democratici e liberali applicati (questi ultimi due punti in particolare riguardo ai paesi emergenti) e solo in seguito il peso politico e formale all’interno dell’organizzazione verrà riconosciuto in conseguenza agli impegni ed agli sforzi sostenuti.

“Gli Stati Uniti sono aperti ad una riforma ed espansione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come parte di una più ampia riforma delle Nazioni Unite. Noi raccomandiamo un approccio basato su criteri rispetto ai quali i potenziali membri vengano ritenuti idonei, basandoci su fattori come: la forza economica, la popolazione, la capacità militare, l’impegno rispetto alla democrazia ed ai diritti umani, i contributi finanziari e alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, nonché l’accettazione dell’antiterrorismo e della non proliferazione. Dobbiamo certamente tenere presente l’equilibrio geografico del Consiglio, ma l’efficienza rimane la priorità di ogni riforma.

181 Gli Stati Uniti quindi subordinano il principio dell’equilibrio geografico al principio meritocratico ed al principio del “peso” reale di ogni stato (popolazione, forza economica e militare). Altro principio fondamentale, che ricordiamo ulteriormente qui solo per motivi di completezza è il limite massimo di 20 – 21 membri per la riforma del Consiglio, pena la paralisi del suo processo decisionale. Riguardo alla concessione del veto ad eventuali nuovi membri permanenti, gli Stati Uniti non si sono mai espressi con chiarezza, ma è da credere che essi sarebbero disposti a concedere questo potere al più ad un numero ristretto di alleati considerati come più affidabili, quindi il Giappone e forse la Germania.” La volontà americana sembra essere quella di arrivare al più presto ad un riforma come dimostrano le posizioni espresse anche recentemente dall’ambasciatore Bolton. Ciò pare motivato da una certa pressione interna dell’opinione pubblica sul tema della riforma: sia rispetto a quella parte dell’opinione pubblica che vorrebbe vedere nell’ONU un embrione di governo globale e preme quindi sulla riforma del Consiglio di Sicurezza e sul rilancio della sua credibilità, sia anche rispetto a quella parte scettica del pubblico americano che vede nelle Nazioni Unite un mero meccanismo burocratico senza alcuna capacità che non sia quella di ingerenza negli affari nazionali o addirittura di una certa parte di pubblico che riterrebbe la migliore riforma per le Nazioni Unite la loro abolizione o perlomeno il ritiro americano dall’organizzazione. E’ da notare come una simile posizione abbia influenzato non poco la presidenza Clinton degli anni ’90, quando, in seguito alla vittoria nelle elezioni del Congresso che consegnò l maggioranza ai repubblicani, una compagine guidata dal senatore del North Carolina Jesse Helms, minacciò di bloccare il trasferimento dei fondi promessi all’ONU dal presidente, se questi non avesse fatto pressioni all’organizzazione per un’immediata riforma basata sui principi indicati da Washington. Si arrivò addirittura a minacciare il ritiro dalle Nazioni Unite, considerato da Helms l’unico mezzo in grado di indurre i “burocrati” dell’ONU ad intraprendere la via della riforma. Rispetto a questi ultimi approcci, è chiaro che il governo americano non vuole mantenere aperto il tema della riforma troppo a lungo. Il progetto del governo degli USA, in ogni caso, sembra essere molto più focalizzato sulla riforma degli strumenti e delle modalità di azione delle Nazioni Unite, piuttosto che al

182 Consiglio di Sicurezza, rispetto al quale sembra invece prediligere una sistemazione rapida, volta ad un allargamento limitato (uno o due membri permanenti e qualche nuovo membro non permanente), che non vada ad intaccare, di fatto, l’attuale formula di funzionamento dell’organo esecutivo delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti, dall’alto della loro posizione di maggiore potenza economica mondiale, unica potenza militare con capacità d’intervento globale, superpotenza nucleare, maggiore finanziatore dell’ONU, fondatore, paese ospitante della sede dell’ONU, vedono il Consiglio come un luogo dove dovrebbero trovare spazio paesi alleati o comunque amici, in qualche misura comunque democratici.

Nuova fase negoziale Dal febbraio del 2009, gli Stati membri delle Nazioni Unite sono tornati ad impegnarsi in uno sforzo collettivo per dare nuovo lustro all’organo incaricato di garantire pace e sicurezza internazionale. Lo scetticismo che ha accompagnato l’inizio di questa nuova fase negoziale ed il timore che un nuovo fallimento possa minare definitivamente la credibilità dell’organizzazione sono giustificati alla luce dell’insuccesso del 2005. Alcune recenti novità potrebbero tuttavia favorire sviluppi positivi in vista dell’attesa riforma. Nel settembre del 2008, l’Assemblea generale ha deciso all’unanimità di lanciare un nuovo meccanismo di consultazione basato su negoziazioni intergovernative. Tre fasi di negoziazioni si sono susseguite dal febbraio del 2009 ad oggi sotto la guida dell’Ambasciatore afgano Tanin, e hanno condotto ad alcuni risultati tangibili. Tra questi, vale la pena sottolineare la convergenza sul tema dell’ampliamento del Consiglio di Sicurezza (ad un numero di membri di non molto superiore ai 20); sulla revisione dei metodi di lavoro e del processo decisionale; sullo sviluppo dei rapporti del Consiglio di Sicurezza con l’Assemblea generale e gli altri organi dell’Onu. Le questioni più controverse restano le categorie dei nuovi membri del Consiglio di Sicurezza e il potere di veto. Per quanto concerne il primo tema, il G4 auspica la creazione di nuovi seggi permanenti da assegnare a Brasile, Giappone, Germania e India; il gruppo africano chiede invece che l’Africa sia rappresentata con due seggi permanenti (contesi tra Nigeria, Sud Africa ed Egitto) e cinque non permanenti (uno per ciascuna delle cinque sotto-regioni africane); la

183 coalizione U.f.C., con l’Italia in prima linea, rifiuta categoricamente ogni aumento dei membri permanenti, a favore di seggi non permanenti di più lunga durata (mandato di due anni rinnovabile oppure da tre a cinque anni non rinnovabile). Sul potere di veto, sono state invece avanzate diverse proposte finalizzate a limitarne l’utilizzo: dalla sua non estensione agli eventuali nuovi membri permanenti, alla restrizione del suo esercizio ad alcuni casi specifici, fino all’obbligo di motivazione dinanzi all’Assemblea generale.

Soluzioni transitorie Le crisi che hanno segnato il 2009, da quella finanziaria ed economica ai conflitti in Asia centrale, Africa e Medio Oriente, hanno richiamato l’attenzione della comunità internazionale sulla necessità di un nuovo sistema di governance globale. Il passaggio di consegne dal G8 al G20 delle funzioni di gestione dell’economia mondiale deriva dal riconoscimento della redistribuzione del potere economico globale e dall’urgenza di fronteggiare la drammatica crisi in corso. Questi elementi hanno condotto ad un ripensamento della composizione e del ruolo del vecchio gruppo dei grandi, a favore di una compagine più ampia e rappresentativa (sebbene l’Africa risulti ancora una volta marginale, avendo nel Sud Africa il suo unico rappresentante). Le stesse motivazioni di fondo dovrebbero spingere a trovare formule di compromesso per un ammodernamento del principale organo di sicurezza internazionale. Le posizioni estreme ed apparentemente non conciliabili dei diversi gruppi potrebbero trovare un terreno di incontro in forme intermedie e temporanee di riforma, in preparazione di un risultato definitivo da raggiungere nel lungo periodo. Soluzioni transitorie potrebbero includere la creazione di seggi non permanenti di lunga durata (da 3 a 15 anni) oppure nuovi seggi permanenti senza potere di veto da confermare o rivedere dopo un certo periodo di tempo. Se Brasile, India e Giappone, non sembrano orientate a muoversi dalle loro posizioni e non hanno presentato nuove opzioni nel corso dei negoziati, il nuovo Presidente dell’Assemblea generale, il libico Treki, potrebbe condurre il gruppo africano ad adottare un atteggiamento flessibile e cooperativo. Il ruolo giocato dagli Stati Uniti potrebbe essere decisivo in questa partita. Il forte accento posto dalla nuova amministrazione americana sull’importanza del multilateralismo e delle

184 Nazioni Unite per la stabilità mondiale sono segnali incoraggianti. La posizione americana sulla riforma del Consiglio di Sicurezza non è stata ancora resa esplicita, ma l’impegno statunitense per un organo più forte potrebbe creare un terreno favorevole a soluzioni innovative e condivise.

Il confronto tra Italia e Germania Sul versante europeo, oltre alle resistenze di Francia e Gran Bretagna ad abbandonare i privilegi connessi alla loro posizione di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, pesa il divario con le posizioni di Germania e Italia, esponenti di spicco rispettivamente del G4 e del gruppo UfC. Qualche segnale di apertura si può cogliere da entrambe le parti. Il programma del nuovo governo di coalizione tedesco (formato da liberali e cristiano- democratici) pone una maggiore enfasi sulla creazione di un seggio europeo, anche se nel frattempo la Germania resta pronta ad assumersi maggiori responsabilità in Consiglio di Sicurezza e ha avanzato la sua candidatura per un seggio non permanente nel 2011/12. L’Italia, dal canto suo, ha presentato in aprile una piattaforma negoziale che ammorbidisce le posizioni avanzate dall’U.f.C. del 2005, parla di seggio europeo come obiettivo di lungo periodo e si dice disposta ad accettare soluzioni intermedie. In particolare, l’Italia ha elaborato una proposta pragmatica, che mira ad assicurare - nelle parole del Ministro degli esteri Frattini - una presenza istituzionale dell’Ue in Consiglio di Sicurezza attraverso l’istituzione di un seggio a rotazione tra i Paesi europei. Ciò servirebbe ad aggirare l’ostacolo, per ora insormontabile, della revisione della Carta Onu, la quale stabilisce che soltanto gli Stati possono diventare membri dell’organizzazione. Resta da vedere se questa volta gli altri membri dell’Ue sosterranno la proposta dell’Italia, evitando che essa naufraghi come altre iniziative analoghe negli anni passati.

Le potenzialità del Trattato di Lisbona Certo è che sulle posizioni dei membri europei del Consiglio di Sicurezza (permanenti e non permanenti) peserà l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Tra le innovazioni destinate ad incidere maggiormente sulla rappresentanza europea alle Nazioni Unite compare non tanto il riconoscimento formale della personalità giuridica internazionale per l’Ue, quanto la creazione della figura dell’Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica

185 di sicurezza comune. Assistito da un servizio europeo per l’azione esterna - composto da funzionari del Consiglio, della Commissione e dei servizi diplomatici degli Stati membri - l’Alto Rappresentante dovrà incarnare il volto e la voce dell’Unione nel mondo. Se le nuove forme di rappresentanza dell’Unione presso le Nazioni Unite saranno dettate in larga misura dai delicati equilibri istituzionali interni, e soprattutto dal negoziato tra l’apparato burocratico di Consiglio e Commissione, il ruolo che l’Ue è destinata a giocare nell’organizzazione mondiale dipenderà dalla forza delle idee politiche che gli Stati membri sapranno avanzare. Un fronte europeo compatto sulla riforma del Consiglio di Sicurezza darebbe un contributo concreto al proclamato impegno per il rafforzamento dell’Onu e all’attuazione del “multilateralismo efficace”.

Conclusioni sulla posizione europea Come è emerso in questa analisi, una posizione europea sulla riforma dell’ONU, di fatto non esiste e non può esistere, almeno finché l’Unione Europea resterà un corpo politico dipendente dalla volontà particolare dei singoli paesi che la compongono. Una posizione comune non è mai stata presentata all’interno di essa, nemmeno dal gruppo degli stati europei più importanti. Infatti anche l’appoggio alla candidatura tedesca non sembrò mai definitivo e convinto e l’Italia si è opposta sempre con la massima fermezza rispetto a tutte le iniziative in tal senso. Non ci resta quindi che tentare di interpretare la posizione che l’Europa potrebbe delineare in futuro, specialmente se la riforma delle Nazioni Unite non dovesse essere portata a termine a breve o se comunque, si arrivasse solamente ad una soluzione transitoria od ad un accordo di riforma parziale tale da lasciare spazio alle richieste di una continuazione del processo di rinnovo dell’organizzazione negli anni a venire. Quegli stati europei che hanno dimostrato interesse nella riforma, hanno dimostrato un forte interesse sul tema dell’equilibrio geografico come principio della rappresentatività del Consiglio e della regionalizzazione come strumento per rendere effettivo questo principio.

La proposta italiana sulla gestione dei membri permanenti potrebbe essere l’embrione per un futuro interesse dell’Unione Europea nel proporre la questione della regionalizzazione su più ampia scala all’interno del Consiglio. Potrebbe avere un simile ruolo di catalizzatore

186 l’istituzione del seggio comune per l’Unione Europea, posizione verso la quale anche la Germania da ultimo sembra guardare con rinnovato interesse, se non altro, realisticamente dopo la perdita della sponsorizzazione americana alla richiesta del seggio permanente.

Riguardo alla questione più generale sui criteri che dovrebbero guidare la decisione sulla promozione dei membri, specialmente se permanenti e semipermanenti, ad un Consiglio allargato, il punto di vista europeo sembra essere orientato in modo opposto a quello americano: se i grandi paesi, specialmente quelli in via di sviluppo, non avranno adeguata rappresentanza ed adeguato potere all’interno del Consiglio, verrà loro a a mancare quella spinta, quella motivazione per promuovere, sia al proprio interno che la proprio esterno, lo sviluppo economico e sociale, una democrazia moderna e compiuta, un impegno concreto e stabile per la pace e la sicurezza mondiale. L’assunzione di responsabilità all’interno del Consiglio, quindi, non sarebbe come prevale nella visione americana, un premio per i virtuosi, ma piuttosto un incentivo ad esserlo in futuro. Prima per gli americani quindi, lo sviluppo, la democrazia e la responsabilità, poi potere all’interno del Consiglio (multilateralismo globalizzante) per gli europei invece prima potere e poi come diretta conseguenza, responsabilità, (multilateralismo pacificante). All’interno di questo quadro si spiega la differenza tra Europa e America nel valutare l’importanza dell’equilibrio geografico e conseguentemente, nel tema della regionalizzazione. A differenza degli Stati Uniti, gli europei sembrano guardare al Consiglio di Sicurezza, come al luogo comune all’interno del quale la legalità e la rappresentatività (se assicurata con equità) possono evitare l’emergere di nuovi conflitti o catastrofi globali. Questa posizione tuttavia, sembra molto più sfumata per i governi degli stati che dispongono di un seggio permanente o di quelli che ambiscono ad averlo.

Considerazioni finali Viste le principali proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza e tutte le proposte formalmente concretizzate nel momento attuale, date le posizioni conservatrici di Russia e Cina, la posizione di una riforma limitata da parte degli Stati Uniti e le divisioni in seno all’Assemblea Generale, la riforma più accessibile – forse l’unica possibile – in un futuro a

187 noi prossimo, pare quella di un’espansione limitata del Consiglio. Potrebbe trattarsi di un parallelo incremento dei membri permanenti e non permanenti, i primi quasi certamente, almeno all’inizio senza potere di veto, oppure di un aumento dei soli membri non permanenti, come già avvenuto nel 1965 o in alternativa, la creazione della categoria dei semipermanenti, forse con la considerazione della proposta italiana sulla loro gestione regionale.

Rispetto alla decisione finale su queste varie ipotesi, il peso complessivo degli Stati Uniti sembra essere destinato ad avere un ruolo più determinante di quello europeo una volta arrivati al momento cruciale. L’Europa, divisa e senza una voce comune, priva di una linea di condotta stabile ed univoca, rispetto al tema nel presente, come nel passato, difficilmente potrà essere attiva nella fase decisionale, nella stessa ampia misura che l’ha vita protagonista nella fase propositiva. Un allargamento del Consiglio di Sicurezza: che cosa potrebbe significare una riforma di questo tipo? Essa renderà certamente più improbabile l’eventualità che i membri permanenti possano assumere una decisione da soli, dato che avrebbero bisogno di maggioranze sempre più nutrite tra i membri permanenti e non, qualora questo dovessero aumentare. Ma in passato il problema del Consiglio non è certo stato quello di evitare che i permanenti decidessero da soli, quanto il problema opposto e cioè che essi potessero bloccare decisioni largamente condivise, teoricamente perfino condivise da tutti, tranne che da un membro permanente con potere di veto (anche qualora questo fosse parte in causa).

Visti i precedenti nella storia dell’organizzazione internazionale, la questione è quella di facilitare, non di bloccare ulteriormente il processo decisionale del consiglio. Ci si chiede quindi: in un Consiglio allargato, ci sarebbero più o meno possibilità di incentivare il potere effettivo del Consiglio? Se, ragionando per assurdo, l’Indonesia fosse stata nel 1999 un membro permanente del Consiglio con potere di veto, è difficile pensare che ci sarebbe stato un successo delle Nazioni Unite nella questione di Timor Est. D’altra parte è chiaro che la questione della rappresentatività, finché i grandi paesi in via di sviluppo come pure alcune importanti potenze economiche e industriali saranno subordinate ai cinque membri

188 permanenti, va a penalizzare l’immagine e la fede che l’opinione pubblica ha rispetto alle Nazioni Unite e questo non è un problema da poco. La forza anti-decisionale del veto, per quanto cruciale, è ben lontana dall’essere superata e lo testimonia inequivocabilmente il fatto che nessuna delle principali proposte di riforma presentate dagli stati ha mai osato evocarne la soppressione o la limitazione. Giuridicamente, solo gli attuali beneficiari di questo diritto possono decidere sull’auto- limitazione del proprio potere, ma che cosa potrebbero mai portare le cinque potenze vincitrici alla rinuncia del loro privilegio? In altri tempi, il filosofo europeo Emmanuel Kant, campione dell’universalismo e del cosmopolitismo moderno, nel suo “Per la pace perpetua” del 1795, presentava la nascita di una federazione di tutti gli stati della terra, sviluppata a partire dall’Europa, portatrice di un diritto internazionale in grado di assicurare ovunque la pace e la sicurezza. A tutto questo l’uomo, secondo Kant, è inevitabilmente destinato: a garantirlo sarà l’esigenza di trarre dalle eterne discordie degli uomini, anche contro la loro volontà, la concordia. La civiltà occidentale ha creato una prima federazione sulla sponda occidentale dell’Atlantico e in seguito una seconda sulla sponda orientale. Queste due federazioni hanno già conosciuto al proprio interno l’esigenza degli stati di auto-limitare il proprio potere per scongiurare il ripetersi della catastrofe. Se e quando una nuova emergenza o forse la preveggenza porterà l’Occidente a limitare ulteriormente la sovranità dei propri stati, in concreto il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza, rimane al di fuori delle possibilità di previsione di questa analisi.

189 10.2 WTO, FMI E BM: GLOBALIZZAZIONE E SCENARI DI POLITICA ECONOMICA

«Un piccolo errore commesso all’inizio è grande alla fine»

Aristotele, De coelo et mundo , I, 5, 271b 8-10.

Premessa Alla luce della recente crisi che ha coinvolto la comunità politica ed economica mondiale appare sempre più importante riflettere sul fenomeno della globalizzazione e domandarsi che cosa sia la globalizzazione e che impatto abbia avuto tale fenomeno a livello mondiale. Mondializzazione e internazionalizzazione sono, infatti, due concetti simili ma diversi: la globalizzazione è un fenomeno che ci ha messo di fronte a una nuova realtà.

Il 1492, anno di scoperta dell’America e 1519 , anno della prima circumnavigazione della Terra, sono due date importanti parlando di globalizzazione: esse segnano il primo nucleo importante di mondializzazione dell’economia attraverso il commercio triangolare (madrepatria – colonia – mercato europeo) e il primo allargamento significativo dell’economia mondiale, con l’Europa a guida di questo processo. Possiamo introdurre a questo punto due termini: 1) Polarizzazione: l’Europa diventa un polo centrale che ha bisogno di manodopera, di prodotti minerari e agricoli. Essa li prende in altri paesi e guida questo commercio per i propri interessi; 2) Subalternizzazione: le altre aree del mondo entrano nell’economia mondiale in posizione subalterna, secondaria.

Questo modello di scambi, che si svolge tra nazioni che commerciano ciascuno secondo i propri interessi, adottando ciascuno una politica di protezionismo, è ancora un’economia che si svolge tra nazioni, internazionalizzata, ma non ancora internazionale. A seguito del secondo conflitto mondiale, l’avvento di due grandi rivoluzioni di tipo scientifico-tecnologico introducono un nuovo impulso all’economia globale: 1) La rivoluzione dei trasporti, che fa diventare la distanza materiale un fatto relativo, permettendo cioè un superamento dello spazio;

190 2) La rivoluzione delle telecomunicazioni, che relativizza il concetto di tempo. Marshall Mc Luhan 20 parla a questo proposito di rivoluzione di costume, di villaggio globale : il mondo è diventato un villaggio globale, cioè uno spazio che grazie alla tecnologia diventa piccolo, e facilita così gli scambi commerciali, i contatti, il giro dei capitali finanziari, ecc. A questo punto si fa strada il concetto che la globalizzazione sia un fenomeno complesso, frutto di un processo tecnologico, culturale, economico e politico.

La globalizzazione ha assunto nell’epoca post-moderna un’accezione prevalementemente – o esclusivamente? – economica, il cui capitalismo sfrenato (di cui la finanza è l’artificio più estremizzato) ha visto nel progresso tecnologico la spinta propulsiva per la sua affermazione definitiva.

L’economia si è quindi impadronita della globalizzazione. Ma dov’erano le altre istanze sociali e politiche mentre ciò accadeva? Il sociologo Zygmunt Bauman 21 – di cui è nota la definizione di “ Glocal ” – nel libro “Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone ”22 dà una definizione soddisfacente di globalizzazione come “compressione dello spazio e del tempo”. I processi di globalizzazione non presentano quell’unicità di effetti solitamente loro attribuita: in realtà racchiudono profonde trasformazioni che investono tutta la nostra vita. Gli usi del tempo e dello spazio inducono essi stessi differenze tra le persone: “la globalizzazione divide tanto quanto unisce” e le cause della divisione sono le stesse che promuovono l’unità del globo. Ci sono i “globalizzati” e quelli che invece sono condannati alla loro dimensione locale. La stessa libertà di movimento diventa il principale fattore di mutamento sociale: chi va avanti vince, chi rallenta è destinato a soccombere.

20 Herbert Marshall McLuhan (Edmonton, 21 luglio 1911 – Toronto, 31 dicembre 1980) è stato un sociologo canadese. La fama di Marshall McLuhan è legata alla sua interpretazione innovativa degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso sia sui comportamenti dei singoli. La sua riflessione ruota intorno all'ipotesi secondo cui il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull'immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione di volta in volta veicolata. 21 Zygmunt Bauman (Pozna ń, 19 novembre 1925) è un sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche. Sul finire degli anni ottanta, si è guadagnato una certa fama grazie ai suoi studi riguardanti la connessione tra la cultura della modernità e il totalitarismo, in particolar modo sul nazionalsocialismo e l'Olocausto. 22 1998: Globalization: The Human Consequences trad. it.: Dentro la globalizzazione - le conseguenze sulle persone , Ed. Laterza, Roma - Bari 1999

191 Si è così creata un’esasperazione degli estremi della povertà e della ricchezza: la conferenza di Bandung 23 –alla vigilia della quale si introduce la definizione di “ Terzo Mondo ” – in Indonesia nel 1955, porta i paesi del Sud del mondo a rendersi conto che la loro povertà è una conseguenza di quest’economia. Si presenta così l’istanza di un nuovo ordine mondiale. Lo stesso Papa Paolo VI nella sua “ Popolorum progresso” 24 proclama: ”Chi vuole la pace deve promuovere la giustizia e l’eguaglianza”, nonostante il 20 per cento della popolazione mondiale consumi l’80 per cento delle ricchezze. Non si possono, infine, dimenticare gli effetti ambientali di questo modello di sviluppo basato sul consumo infinito: possiamo ancora allargare questo nostro modello di sviluppo e con quali conseguenze? Istanze di cambiamento, di perequazione, di sviluppo sostenibile si stanno facendo sempre più largo, creando consensi, sulla scena globale. Le OING sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale di ripristino dei valori trascurati da un mercatismo economico-finanziario sfrenato.

Con le sue logiche che privilegiano la massima del profitto, l’allargamento del mercato sta infatti rischiando il collasso: le recenti crisi finanziarie ne sono un esempio allarmante. Per questo attualmente non si può più parlare di Nord - Sud del mondo, quanto piuttosto di Centro- Periferia, intendendo con Centro il mondo finanziario - economico le 500 aziende in grado di influenzare i mercati e Periferia tutti coloro che non hanno peso per condizionarlo con le loro scelte.

Alla luce di tale premessa, verranno analizzati, in questo capitolo, i diversi ruoli delle Organizzazioni Internazionali Governative che sono state protagoniste di tale fenomeno fin dal secondo dopoguerra, ossia Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca Mondiale (BM), cercando di comprendere quale eredità hanno lasciato alla comunità internazionale e, sulla base di tale analisi, di immaginare quale ruolo sono oggi chiamate a svolgere le Organizzazioni internazionali non governative.

23 Incontro dell’aprile 1955 tra 29 Stati afro-asiatici, nel quale furono per la prima volta enunciati i principi di non ingerenza e neutralismo che dovevano in seguito ispirare il movimento dei paesi non allineati. 24 La Populorum progressio (Lo sviluppo dei popoli) è una famosa enciclica sociale scritta da papa Paolo VI e pubblicata il 26 marzo 1967.

192 Il paradosso del PIL Il PIL (Prodotto Interno Lordo, in inglese GDP Gross Domestic Product ) è definito da come il “valore complessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in dato intervallo di tempo (solitamente un anno) destinato ad usi finali25 ”. Il PIL è rappresentato dall’equivalenza Y = C + G + I + (X – M), dove Y è PIL ed è rappresentato dall’insieme dei consumi finali (C), dalla spesa pubblica 26 (G), dagli investimenti (I) e dalle esportazioni nette, ossia esportazioni (X) meno importazioni (M). Il prodotto interno lordo è solito distinguersi in PIL reale , ossia il prodotto il cui valore è depurato dalle variazioni dei prezzi e in PIL nominale , quando ne è invece misurato il valore espresso in moneta attuale.

Il concetto di PIL è stato storicamente assunto come indice di riferimento per la misura del benessere (inteso come ricchezza) di una collettività nazionale: il volume “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” (“The General Theory of Employment, Interest and Money ”) è l'opera più importante dell'economista inglese John Maynard Keynes, che, con essa, ha gettato le fondamenta del moderno pensiero macroeconomico 27 . In tale volume, in estrema sintesi, viene teorizzato il principio per cui le voci che compongono il PIL vengono messe in relazione con una serie di indicatori quali la domanda aggregata, la propensione marginale al consumo, la politica di piena occupazione e gli

25 Definizione di John Maynard Keynes.

26 Con il termine spesa pubblica si indicano le somme di denaro che vengono spese dallo Stato in beni pubblici finalizzati al perseguimento di fini pubblici, indipendentemente dalla natura (pubblica o privata) dell'obbligazione che ne è titolo. Si tratta dunque delle uscite da parte dello Stato e dunque una voce di passività all'interno del bilancio dello Stato. La copertura finanziaria di queste uscite avviene tramite le entrate statali quale in massima parte il ricorso alla tassazione dei contribuenti secondo modalità tipiche definite dalla politica fiscale attuata dal governo in materia di contabilità nazionale e specificate all'interno della legge di bilancio e della legge finanziaria. 27 La macroeconomia è la parte della teoria economica (detta anche macroanalisi economica) che ha per oggetto l’individuazione dei valori di equilibrio dei grandi aggregati (reddito nazionale, livello dell’occupazione complessiva, livello generale dei prezzi ecc.), e il loro andamento nel tempo, in contrapposizione alla microeconomia , intesa come studio che tiene conto il più possibile anche dei particolari. La macroeconomia studia l’economia attraverso l’analisi delle variabili aggregate, spesso coincidenti con le poste di contabilità nazionale. A differenza della microeconomia, dove al centro dell’analisi viene posto il comportamento del singolo agente economico (consumatore/produttore), nella macroeconomia si rinuncia a fondare l’analisi positiva nei comportamenti individuali perché troppo complessi e di difficile rappresentazione mediante un sistema di relazioni matematiche.

193 investimenti. Non solo, vi si afferma con forza che la teoria del “ciclo economico 28 ” permette di stabilire i fattori della crescita economica, ossia il raggiungimento dei due principali obiettivi macro-economici, quali, la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Molto schematicamente, si afferma quindi il concetto del PIL di equilibrio , ossia la combinazione ottimale dei fattori macroeconomici. Una prima riflessione ci porta a chiedersi se la ricchezza di un Paese, così calcolata attraverso il PIL, sia davvero indice del benessere dei membri che vi appartengono.

Il 18 Marzo del 1968 Robert Kennedy pronunciava, presso l'università del Kansas, un discorso 29 nel quale evidenziava l'inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati Uniti d'America. Qui di seguito le sue parole:

« Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l'inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell'equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta »

28 La teoria del ciclo economico è l'alternanza di fasi caratterizzate da una diversa intensità dell'attività economica di un Paese o di un gruppo di Paesi economicamente collegati. Nei cicli economici vengono individuate le seguenti fasi: fase di prosperità, o boom, nella quale il PIL cresce rapidamente; fase di recessione, individuata da una diminuzione del PIL in almeno due trimestri consecutivi; fase di depressione, in cui la produzione ristagna e la disoccupazione si mantiene a livelli elevati; fase di ripresa, in cui il PIL inizia nuovamente a crescere.

29 Su YouTube al seguente link il video del discorso del 18 marzo http://www.youtube.com/watch?v=iLw-WLlM9aw .

194 Quasi 40 anni più tardi la conferenza del 2007 denominata “Beyond GDP 30 ” mette in luce che vi sono differenze significative fra crescita economica e sviluppo economico, laddove il termine “crescita economica” si riferisce all’aumento di un indicatore specifico quale il reddito nazionale reale, il prodotto interno lordo, o il reddito pro-capite (il reddito o prodotto nazionale è cioè espresso comunemente in termini di una misura del valore aggiunto del prodotto aggregato dell’economia interna: quando il PIL. di una nazione aumenta si ha quella che gli economisti chiamano crescita economica). Il termine “sviluppo economico”, invece, implica molto più: si riferisce tipicamente ai miglioramenti in una varietà di indicatori quali i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita ed i tassi di povertà. Il PIL è una misura specifica di benessere economico che non considera le funzioni importanti quali tempo libero, qualità ambientale, la libertà, o la giustizia sociale. La crescita (economica) di un qualunque indicatore specifico non è una condizione sufficiente di sviluppo economico.

Il PIL è dunque, nelle conclusioni della conferenza, un mero parametro degli equilibri economici di uno Stato; il paradosso viene alla luce analizzando il concetto di PIL di equilibrio, ossia l’assunto secondo cui l’equivalenza delle voci di reddito che lo compongono sia mantenuto sulla base delle 3 macro-variabili del ciclo economico. 1) crescita economica,

30 L'idea che il PIL sia un numero relativamente poco significativo è sempre più condivisa. Il dibattito in materia è intenso anche a livello istituzionale. A titolo di esempio, il 19 e 20 novembre 2007 si è tenuta a Bruxelles la conferenza internazionale “Beyond GDP” (“Oltre il PIL”) organizzata dalla Commissione europea, dal Parlamento Europeo, dall'OCSE e dal WWF. La conferenza ha richiamato leader politici, rappresentanti di governo ed esponenti di istituzioni chiave come la Banca Mondiale e le Nazioni unite con l'obiettivo di chiarire quali possano essere gli indicatori più appropriati per misurare il progresso. Sempre a testimoniare la crescente attenzione del mondo politico per il tema, il presidente francese Nicolas Sarkozy nel corso della conferenza stampa di inizio 2008, ha annunciato di aver incaricato due premi Nobel per l'economia, l'americano Joseph Stiglitz e l'indiano Amartya Sen, di riflettere su come cambiare gli indicatori della crescita in Francia. «Bisogna cambiare il nostro strumento di misura della crescita», ha detto Sarkozy, convinto che contabilità nazionale e PIL abbiano «evidenti limiti» che non rispecchiano «la qualità della vita dei francesi». Il tema interessa da anni gli studiosi di diversi ambiti della conoscenza. Recentemente si è sviluppato un intenso dibattito multi-disciplinare sorto in seguito all'evidenza empirica riguardante il diffuso disagio e le sperequazioni esistenti nelle società a reddito avanzato. Il dibattito ha portato alla creazione di numerosi indici di benessere o di crescita alternativi al PIL.

195 2) piena occupazione (la cui diminuzione conduce alla recessione), 3) stabilità dei prezzi (il cui aumento conduce all’inflazione). Esemplificando, nel caso di un automobile, il suo utilizzo ottimale e quindi lo sfruttamento massimo in termini di redditività deve necessariamente tenere conto dell’equilibrio delle diverse variabili: velocità ideale a 3.000 giri al minuto, usura delle gomme e delle componenti del motore, stabilità del veicolo, risparmio dei consumi ecc.

Nelle riforme macro-economiche degli Stati, molto spesso accade che non sia il PIL inteso come PIL di equilibrio ad essere ottimizzato, bensì le singole voci che lo compongono ad aumentare o a diminuire: ecco perché le manovre degli Stati sul PIL appaiono sempre puntuali, non definitive e incomplete: un’azione della spesa pubblica può avere come effetto un valore più alto del PIL, ma provocare fenomeni di recessione, abbattendo di conseguenza i Consumi e spostando l’equilibrio. Una frangia di economisti internazionali afferma che basare le strategie politico- economiche sull’aumento del PIL vuole in realtà indirizzare il reale interesse verso le speculazioni sulle valute monetarie, su cui si basano i tassi dei prestiti bancari, con la complicità delle agenzie di rating 31 , società private che analizzano la solidità finanziaria di imprese, banche, assicurazioni ma anche degli Stati. Le agenzie che dominano il mercato sono soltanto tre, tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.

Per concludere, citiamo le parole di Francesco Gesualdi, editorialista del Sole24Ore e fondatore del Centro Nuovo Modello 32 :

31 Per un approfondimento si veda su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Rating 32 Francesco Gesualdi è un attivista italiano, editorialista del Sole24ore e fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (PI), un centro di documentazione che si occupa di squilibri sociali e ambientali a livello internazionale, con l'obiettivo di indicare le iniziative concrete che ciascuno di noi può assumere, a partire dalla propria quotidianità, per opporsi ai meccanismi che generano ingiustizia e mal sviluppo. Una sezione del Centro svolge attività di ricerca sul comportamento sociale ed ambientale delle imprese con l'obiettivo di fornire informazioni ai consumatori tramite guide cartacee e siti internet. Particolarmente sviluppata anche la riflessione su temi come la decrescita e l'economia stazionaria. Francesco Gesualdi ha pubblicato vari libri e articoli riguardanti la negazione dei diritti umani, lo sfruttamento del lavoro minorile, il potere delle multinazionali, la crisi dell'occupazione, l'impoverimento a livello globale, il problema energetico, il debito del Terzo Mondo, l'inquinamento e la distruzione dell'ecosistema. Collabora con la rivista Altreconomia e ha fondato insieme ad Alex Zanotelli la rete Lilliput. Nel settembre 2009 ha dato inizio

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“La sola logica economica è quella della crescita. Imprenditori, intellettuali, economisti, giornalisti e dirigenti di partito, sostengono in coro che il nostro obiettivo deve essere più produzione, più commercio, più consumi, più velocità, più tecnologia, più competizione. È l’inno della crescita ritenuta la strada che conduce al benessere, al progresso, alla modernità. Concetti, dai mille significati, che andrebbero discussi di continuo. Invece li abbiamo trasformati in idoli indiscussi. Se un ingegnere si mettesse in testa di costruire un grattacielo sempre più alto senza tenere conto della friabilità del terreno, della velocità dei venti, della tenuta del cemento, verrebbe rinchiuso in un manicomio. Invece gli economisti progettano la crescita infinita e vincono il Nobel”.

Il commercio internazionale: cenni Il commercio è, in generale, definito come lo scambio mediante l'acquisto e la vendita di beni valutari o di consumo, mobili o immobili, e di servizi. Quando il commercio si svolge tra nazioni diverse avvengono le cosiddette esportazioni ed importazioni. Tra i fattori che influenzano le esportazioni nette, i principali dipendono da: a) Ricchezza degli altri Paesi; b) Barriere commerciali (tariffarie e non tariffarie).

Secondo il “principio dei vantaggi comparati” enunciati dall’economista Campbell R. Mc Connel, “ la produzione mondiale è massima quando ciascun bene viene prodotto nella Nazione in cui il suo costo opportunità è più basso”. Tale principio fonda la “Teoria del libero scambio” , ossia una politica commerciale basata sulla libertà di vendita e acquisto di merci tra tutti i paesi tramite l'eliminazione dei dazi e delle frontiere. Il Protezionismo è al

alla campagna "Cerca la rotta", un coordinamento fra gruppi sparsi in varie parte d'Italia che insieme riflettono su un nuovo modo di fare funzionare l'economia e la società che pur disponendo di meno garantisce a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali.

197 contrario una politica economica, opposta a quella libero-scambista, che tende a proteggere le attività produttive nazionali dalla concorrenza di stati esteri mediante interventi economici statali.

Per quanto riguarda le modalità di finanziamento del commercio internazionale, bisogna premettere che le esportazioni (vendite di beni e servizi) e le importazioni (acquisti di beni e servizi) di tutti gli operatori di un paese vengono registrate nella bilancia commerciale , che è una parte del documento contabile nazionale che registra i pagamenti con l'estero, cioè la bilancia dei pagamenti internazionali. Il saldo della bilancia commerciale, ossia la differenza tra esportazioni e importazioni fornisce un indicatore economico molto importante: infatti, un saldo positivo (avanzo commerciale) o in pareggio indica che l'economia di un paese è in grado di soddisfare la domanda di beni e servizi interna coi propri mezzi; viceversa, un saldo negativo (disavanzo commerciale) indica che l'economia del paese dipende anche dall'estero.

Da parte delle autorità monetarie, il problema principale legato ai disavanzi commerciali è l’esigenza di procurarsi la valuta estera necessaria a pagare la differenza tra esportazioni e importazioni. Per questo scopo è possibile per uno Stato: - ricorrere alle riserve ufficiali in valuta, che però sono limitate e quindi non possono essere usate per disavanzi commerciali di lunga durata (detti anche strutturali); - ricorre a prestiti internazionali, pubblici o privati, i quali però a lungo andare generano un debito estero per il paese; - svalutare la moneta nazionale, cioè rendere più costose le valute estere e quindi le importazioni, e nelle stesso tempo meno costose le esportazioni, in modo da riequilibrare la bilancia commerciale; - adottare politiche di protezionismo, ossia rendere più costose le importazioni imponendo delle imposte (tariffe commerciali), oppure limitare o proibire le importazioni di determinati beni e servizi; - adottare delle politiche di aggiustamento strutturale, le quali tendono a ridurre le importazioni facendo diminuire la domanda interna attraverso riduzioni della spesa privata e pubblica; aumentare le esportazioni spostando forza lavoro dai beni

198 nazionali a quelli di esportazioni, diminuendo salari e costi di produzione, ossia aumentando la competitività dei beni nazionali.

Tali operazioni sono oggetto di una serie di regole fissate da accordi internazionali sul commercio.

Il GATT Il General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio, meglio conosciuto come GATT) è un accordo internazionale, firmato il 30 ottobre 1947 a Ginevra da 23 paesi, per stabilire le basi per un sistema multilaterale di relazioni commerciali con lo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio mondiale. In realtà l'iniziativa conclusasi con l'adozione del GATT era stata presa dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite che si proponeva, inizialmente, di realizzare un progetto ben più ambizioso: l'istituzione dell' International Trade Organization (ITO) (Organizzazione Internazionale del Commercio) come organizzazione permanente che regolasse il commercio mondiale, da affiancare a quelle nate dalla Conferenza di Bretton Woods ovvero Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale.

L'accordo relativo all'ITO fu effettivamente raggiunto nell'ambito della Conferenza sul Commercio e l'Occupazione delle Nazioni Unite, tenutasi a L'Avana tra il 21 novembre 1947 ed il 24 marzo del 1948 e conclusasi con l'adozione dello statuto dell'ITO (noto come Carta dell'Avana ), ma rimase bloccato per la mancata ratifica americana. Nonostante l'impegno del governo statunitense, che lo inviò più volte al Congresso, non venne mai approvato perché la maggioranza dei parlamentari temeva che l'ITO potesse ingerirsi nella politica economica interna degli Stati Uniti. Il 6 dicembre 1950, dopo oltre due anni di tentativi, il presidente Truman annunciò che non avrebbe più chiesto l'approvazione della Carta.

A seguito della mancata istituzione dell'ITO, il GATT iniziò a funzionare, pur privo di istituzioni permanenti, anche come organizzazione : quando ci si riferisce al GATT ci si può riferire, quindi, sia all' accordo in sé e per sé, sia all' organizzazione nata per gestire e sviluppare questo accordo.

199 Sebbene si trattasse di un'organizzazione non riconosciuta nell'ambito del diritto internazionale - essendo i paesi partecipanti indicati ufficialmente non come "paesi membri" (di un'organizzazione), bensì come "parti contraenti" (di un accordo) - è stato comunque esclusivamente nell'ambito del GATT che, dal 1948 al 1994, si sono discusse ed adottate le norme per regolare il commercio internazionale e sono stati affrontati e disciplinati i rapporti commerciali fra Stati Uniti, Unione Europea e gli altri paesi ad economia di mercato aderenti all'accordo.

Il principio sul quale è basato il GATT è quello della "nazione più favorita" (most favored nation ): le condizioni applicate al paese più favorito (vale a dire quello cui vengono applicate il minor numero di restrizioni sono applicate incondizionatamente a tutte le nazioni partecipanti. L'articolo 1 dell'accordo riguardante il Trattamento generale della nazione più favorita sancisce infatti:

"1. Tutti i vantaggi, favori, privilegi o immunità, concessi da una Parte contraente a un prodotto originario da ogni altro Paese, o a esso destinato, saranno estesi, immediatamente e senza condizioni, a tutti i prodotti congeneri, originari del territorio di ogni altra Parte contraente, o a esso destinati. [...] “

Il GATT è cresciuto, nel corso degli anni, attraverso otto diverse sessioni di negoziati (indicate col termine di "round" ) per la riduzione delle tariffe doganali nonché con l'aggiunta di accordi plurilaterali tra i paesi partecipanti.

L’organizzazione mondiale del commercio (WTO) Il GATT (come organizzazione) è stato sostituito, dal 1º gennaio 1995, dall'Organizzazione Mondiale del Commercio ( World Trade Organization - WTO), organizzazione permanente dotata di proprie istituzioni che ha adottato i principi e gli accordi raggiunti in seno al GATT, mentre il GATT come accordo esiste ancora e, per distinguere il nuovo accordo dall'accordo originario, si parla di "GATT 1947" quando ci si riferisce all’accordo originario e di "GATT 1994" quando ci si riferisce invece all'accordo aggiornato nel 1994 a seguito dell'Uruguay Round.

200 I paesi partecipanti al GATT hanno negoziato nel corso degli anni nuovi accordi commerciali ai quali hanno aderito, di volta in volta un numero crescente di paesi. Ogni nuovo insieme di accordi negoziali (nonché le sessioni tenutesi per il raggiungimento degli stessi) è stato denominato "round" . In generale ciascuno di tali accordi ha portato i paesi membri alla riduzione delle tariffe doganali sul commercio (pur con numerose eccezioni di volta in volta previste sia per specifici prodotti che per taluni paesi). L’ultimo e più importante di tali negoziati, l’ Uruguay Round (il nome di tale "round" deriva dal fatto che i negoziati iniziarono, il 20 settembre 1986, a Punta del Este in Uruguay) è stato una vera e propria maratona di trattative che ha coinvolto 123 paesi ed è durata sette anni e mezzo (tra il 1986 ed il 1994), terminando con la firma degli accordi di Marrakech, il 15 aprile 1994, con la creazione del WTO e la ratifica di tre accordi principali:

a) GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) : Accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio

b) GATS (General Agreement on Trade in Services) : Accordo generale sul commercio dei servizi

c) TRIPS (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) : Aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale

Tali accordi contengono le definizioni e i principi generali, rispettivamente, nei campi del commercio e delle tariffe (sui prodotti), dei servizi e della proprietà intellettuale (brevetti, marchi, copyright ed invenzioni industriali). A seguito dei negoziati sono poi stati ratificati, tra i paesi partecipanti, diversi altri accordi (una cinquantina) legati a settori specifici e sono stati stabiliti gli impegni dei singoli paesi per permettere ai prodotti stranieri di accedere ai rispettivi mercati: nell'ambito del GATT si tratta di impegni vincolanti (binding commitments ) sulle tariffe doganali delle merci, per i prodotti agricoli gli accordi hanno riguardato le limitazioni relative ai prezzi ed alle quote di importazione, mentre nell'ambito del GATS, gli impegni riguardano una lista di eccezioni, cioè di servizi per i quali i paesi dichiarano di non applicare il principio di non discriminazione della "nazione più favorita" . Mentre nell'ambito dell'accordo GATT del 1947 era contemplata l'esistenza di un complesso sistema di quote di import-export e di sussidi, con la nascita del WTO e l'entrata in vigore

201 della nuova serie di accordi tali "distorsioni" al libero mercato sono state eliminate: la nuova normativa introdotta con l' Uruguay Round impone, infatti, come unica limitazione possibile quella tariffaria, nonché la graduale riduzione di tutti i sussidi alla produzione interna ed all’esportazione.

Il ruolo del WTO Mentre la maggior parte delle organizzazioni internazionali operano secondo il criterio "un paese, un voto" o anche secondo quello del "voto ponderato", molte delle decisioni prese in ambito WTO (come, ad esempio, l'adozione degli accordi o la revisione degli stessi) sono prese secondo il meccanismo del consenso : tale criterio non prevede l'unanimità delle decisioni ma che nessun paese membro consideri una decisione talmente inaccettabile da obiettarvi; le votazioni sono dunque utilizzate esclusivamente come meccanismo sussidiario o nei casi determinati dall'accordo istitutivo. Il vantaggio dell'adozione delle decisioni sulla base del consenso risiede nel fatto che in tal modo si incoraggiano gli sforzi tesi a proporre ed adottare decisioni che siano le più largamente condivisibili e condivise; gli svantaggi di tale iter procedurale sono invece riscontrabili nell'allungamento dei tempi necessari e nel numero dei round negoziali necessari a raggiungere il consenso per l'adozione delle decisioni nonché nell'utilizzo di un linguaggio ambiguo nella stesura dei punti controversi nelle decisioni, in modo tale che la successiva interpretazione degli stessi risulta spesso difficoltosa. I più recenti fallimenti del modello decisorio del WTO basato sul consenso si sono avute alle conferenze di Seattle del 1999 e di Cancún del 2003, fallimenti prevalentemente dovuti al rifiuto, da parte di alcuni paesi in via di sviluppo, di accettare le proposte di decisione avanzate (da parte degli Stati Uniti e dell'Unione europea in primis ); inoltre il round negoziale denominato Doha round , che ha avuto inizio con la Quarta Conferenza Ministeriale del WTO tenutasi a Doha in Qatar nel novembre 2001, ha presentato fasi altamente conflittuali senza il raggiungimento di alcun accordo finale nonostante i continui incontri negoziali tenutisi, di volta in volta, a Cancún, Ginevra, e Parigi.

202 Le organizzazioni Di Bretton Woods: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM)

Gli accordi di Bretton Woods La conferenza di Bretton Woods si tenne dal 1 al 22 luglio 1944 nell'omonima località nei pressi di Carroll (New Hampshire), per stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. La Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite ( United Nations Monetary and Financial Conference ) riunendo 730 delegati di 44 nazioni alleate, deliberò gli accordi, entrati poi in vigore il 27 dicembre 1945, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, organismi internazionali destinati a concedere prestiti, il primo a breve scadenza e a carattere monetario, il secondo a lunga scadenza e allo scopo di incrementare la produttività. Mentre ancora non si era spento il secondo conflitto mondiale, si concepì, infatti, la ricostruzione del sistema monetario e finanziario mondiale. Con gli accordi di Bretton Woods , di cui fu ispiratore J. M. Keynes, furono così gettate le basi del sistema di relazioni monetarie internazionali durato fino agli inizi degli anni Settanta, quando con la decisione degli USA di mettere fine alla convertibilità del dollaro in oro (1971) ebbe fine il regime di cambi fissi instaurato dagli accordi. Al vantaggio di disporre di cambi fissi, si contrappose, infatti, l'importante problema di gestire i deficit commerciali, che si verificano quando un paese acquista da un altro beni e servizi in valore superiore al valore delle vendite.

Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale ). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò avvenne nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato anche l’Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI

203 ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.

Gli accordi di Bretton Woods favorirono, in conclusione, un sistema liberista, il quale richiede, innanzitutto, un mercato con il minimo delle barriere e la libera circolazione dei capitali privati. Quindi, anche se vi furono delle divergenze sulla sua implementazione, fu chiaramente un accordo per un sistema aperto. Tutti gli accordi derivati direttamente o indirettamente da Bretton Woods non prevedevano un corretto controllo della quantità di dollari emessi, permettendo così agli USA l'emissione incontrollata di moneta, fatto contestato più volte da Francia e Germania in quanto gli USA esportavano la loro inflazione, impoverendo così il resto del mondo. Poi la guerra del Vietnam, che fece aumentare fortemente la spesa pubblica statunitense, mise in crisi il sistema: di fronte all'emissione di dollari e al crescente indebitamento degli USA, aumentavano le richieste di conversione delle riserve in oro. Ciò spinse il 15 agosto 1971, a Camp David, il presidente statunitense Richard Nixon, ad annunciare la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro degli USA aveva già erogato 90.000 tonnellate di oro. Nella gestione del Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i Diritti Speciali di Prelievo con un valore puramente convenzionale di un diritto speciale di prelievo per un dollaro. Nel dicembre del 1971 il Gruppo dei Dieci firmò l'accordo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro e dando inizio alla fluttuazione dei cambi. Lo standard aureo fu quindi sostituito da un non sistema di cambi flessibili. L'assenza di un sistema monetario è stata in seguito lievemente mitigata prima dall'introduzione nel 1979 del Sistema monetario europeo e poi dall'introduzione nel 1999 dell'Euro.

Il fondo Monetario Internazionale Il Fondo Monetario Internazionale (IMF, International Monetary Fund ), fu istituto insieme con la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Banca Mondiale), dalla conferenza di Bretton Woods nel luglio 1944 ed entrò in funzione il 27 dicembre 1945. Ha sede a Washington – dato che gli USA hanno contribuito alla sua dotazione iniziale con la maggiore quota (2.750 milioni di dollari, pari al 33,80% del totale) – ed è retto da un

204 consiglio dei governatori (in cui tutti gli Stati membri sono rappresentati) e da un consiglio di direttori esecutivi o amministratori.

Nell'articolo 1 dell'Accordo Istitutivo gli scopi del FMI sono così definiti: 1. Promuovere la cooperazione monetaria internazionale; 2. Facilitare l'espansione del commercio internazionale; 3. Promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio evitando svalutazioni competitive; 4. Dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili con adeguate garanzie le risorse del Fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei pagamenti; 5. In relazione con i fini di cui sopra abbreviare la durata e ridurre la misura degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.

L’FMI è nato con l’intento di promuovere la cooperazione monetaria internazionale e la stabilizzazione dei cambi, facilitare l’espansione e la crescita equilibrata del commercio mondiale, aiutare gli Stati membri a correggere temporanei squilibri nelle bilance dei pagamenti. Il numero dei paesi membri, originariamente 44, è salito progressivamente fino a 185. Ciascun paese contribuisce alla dotazione dell’FMI tramite una quota (calcolata in base ai principali indicatori economici nazionali) che viene versata per il 75% in moneta nazionale e per il 25% in valuta di riserva e diritti speciali di prelievo. L’insieme delle disposizioni originarie rappresentò un compromesso tra la tesi del ritorno puro e semplice al sistema aureo e la tesi, sostenuta soprattutto da J.M. Keynes, di una moneta manovrata, e rese flessibile il meccanismo di Bretton Woods, pur ponendo ancora l’oro alla base dei sistemi monetari degli Stati aderenti. Infatti nel gold exchange standard , sistema di tassi di cambio fissi ma aggiustabili, ciascun paese fissava una parità iniziale della propria unità monetaria con il dollaro o l’oro e si impegnava a mantenerla entro limiti di oscillazione dell’1% al di sopra e al di sotto. La parità iniziale poteva essere ufficialmente variata sino al 10%, mentre per mutamenti di entità superiore, motivati solo da uno squilibrio grave e permanente tra il corso dei cambi e i fattori economici da cui esso dipende, il paese doveva richiedere l’autorizzazione dell’FMI.

205 Gli strumenti di finanziamento di breve periodo concessi dall’FMI per la difesa del tasso di cambio e la correzione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti sono, a esclusione dei prelievi automatici concessi in misura limitata, crediti condizionati al perseguimento di determinate misure di politica economica e monetaria atte a riassorbire in breve tempo lo squilibrio originale. Diverse facilitazioni creditizie furono inoltre predisposte negli anni 1970 per fronteggiare le difficoltà causate dalla crisi petrolifera e dalla forte oscillazione nei prezzi delle materie prime. Ma gli squilibri delle varie bilance dei pagamenti si sono dimostrati ben più gravi e meno sanabili con prestiti a breve di quanto si era immaginato.

Le risorse dell’FMI sono risultate spesso inadeguate, nonostante siano state più volte aumentate le quote di partecipazione e siano stati stipulati, a partire dal 1962, gli accordi generali di prestito, con i quali i paesi del Gruppo dei dieci si impegnano ad assicurare all’FMI risorse addizionali. L’attività dell’FMI ha favorito senz’altro il raggiungimento di importanti obiettivi, quali il ‘multilateralismo degli scambi’ con il ripristino della convertibilità esterna delle monete (1958) e la progressiva abolizione delle discriminazioni e dei controlli di carattere valutario e degli ostacoli al commercio internazionale. Già dagli anni 1960 però incominciarono a verificarsi inconvenienti che incrinarono progressivamente il sistema monetario creato con gli accordi di Bretton Woods: intensificazione dei movimenti di capitale tra i vari paesi, movimenti che l’FMI ritenne di finanziare per difendere le monete che ne erano maggiormente colpite, quantunque ciò non rientrasse tra i suoi compiti statutari; difficoltà a imporre politiche di riequilibrio sia ai paesi persistentemente deficitari sia ai paesi largamente eccedentari; creazione sovrabbondante di dollari, che i paesi membri erano costretti ad accettare in base agli obblighi inerenti al mantenimento di cambi fissi. Tutto ciò, attraverso varie crisi, portò, nell’agosto 1971, alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e, nel dicembre dello stesso anno, all’ampliamento dei margini di oscillazione dei cambi (dall’1% al 2,25% al di sopra e al di sotto della parità). Nonostante i diversi riallineamenti operati tra le valute successivamente all’esplosione della crisi, alcuni paesi decisero di adottare la libera fluttuazione della propria moneta rispetto alle altre valute. Nel 1976 l’impossibilità del mantenimento di un sistema internazionale di tassi di cambio fissi

206 fu definitivamente sancito attraverso il riconoscimento della libertà per ciascuno Stato di adottare il regime di cambio preferito. Si fissarono nuovi obiettivi alla luce delle mutate condizioni monetarie internazionali, tra cui la riduzione del ruolo dell’oro (abolizione del prezzo ufficiale dell’oro e dell’obbligo di versamento di parte della quota in oro) per incentivare invece l’uso dei Diritti speciali di prelievo (SDR, special drawing rights ) come principale attività di riserva internazionale, e la predisposizione di ulteriori meccanismi di finanziamento soprattutto per le esigenze di liquidità dei paesi in via di sviluppo. La creazione degli SDR, approvata nell’assemblea tenuta a Rio de Janeiro nel luglio 1967, rappresenta il tentativo di dar vita a una moneta fiduciaria internazionale, emessa da un organismo finanziario internazionale quale l’FMI, per venire incontro alle sempre maggiori esigenze di liquidità mondiale che né l’oro né il dollaro potevano soddisfare. Con la creazione degli SDR, l’FMI ha accentuato la sua funzione di banca internazionale rispetto a quella di organo di consultazione e di ispezione, ma i vincoli politici e di statuto cui è soggetto rimangono numerosi e ne condizionano la funzione di organismo monetario sovranazionale.

Le vicende economiche e finanziarie degli anni 1970 (crisi petrolifere), 1980 (crisi del debito), 1990 (transizione verso il mercato delle economie dei paesi dell’Europa centro- orientale, crisi finanziarie in Messico, in Asia, in Russia e il pericolo della loro estensione) hanno portato l’FMI a creare nuovi strumenti finanziari e linee di credito specifici per gestire le singole situazioni di crisi come la ESAF ( Enhanced Structural Adjustment Facility ), la STF ( Systemic Transformation Facility ), la EFF ( Extended Fund Facility ), la SRF ( Supplemental Reserve Facility ), la CCL ( Contingent Credit Lines ). L’FMI si è interessato anche degli aspetti distributivi dei programmi di aggiustamento, come pure degli effetti che tali programmi possono avere sull’ambiente. Di particolare importanza sono, inoltre, sia gli interventi diretti a fornire assistenza alle economie in transizione in difficoltà con la bilancia dei pagamenti, sia quelli tendenti a sostenere, nel medio termine, attraverso la PRGF ( Poverty Reduction and Growth Facility ), creata nel 1999 in sostituzione dell’ESAF, i programmi di riforma e di riduzione della povertà nei paesi in via di sviluppo.

207 Nel corso del dibattito sulle linee di riforma delle istituzioni di Bretton Woods, svoltosi all’interno e all’esterno delle istituzioni stesse, sono emersi alcuni principi che dovrebbero ispirare la riforma del FMI – discussa durante il G20 di Londra nel 2009 – di cui si vorrebbe rafforzare il ruolo nella prevenzione delle crisi estendendo la funzione di sorveglianza, a esso tradizionalmente attribuita, agli aspetti rilevanti per la stabilità finanziaria dei singoli paesi. È stato anche posto l’accento sia sull’esigenza di accrescere le quote dei paesi aderenti per rafforzare la capacità dell’FMI di fronteggiare situazioni di crisi sia sui pericoli di propensioni al moral hazard che la presenza di un prestatore di ultima istanza, dotato di risorse maggiori, farebbe crescere ulteriormente. Il dibattito sulle modalità di intervento dell’FMI ha prodotto toni ancor più accesi e contrastati a proposito della crisi finanziaria iniziata nel 2008, date le sue pesanti ricadute soprattutto sui paesi poveri, dato il blocco dei crediti e il rallentamento del commercio internazionale.

La Banca Mondiale La banca mondiale è stata creata il 27 dicembre 1945 con il nome Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), dopo che la firma dell'accordo di Bretton Woods, approvò il suo primo prestito, concesso alla Francia per $250 milioni. La Banca Mondiale fu creata principalmente per aiutare Europa e Giappone nella loro ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, ma con il movimento della decolonizzazione degli anni ‘60, i paesi da finanziare aumentarono, occupandosi quindi dello sviluppo economico dei paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina. Il gruppo della Banca Mondiale (World Bank) comprende oltre alla la BIRS, l’Associazione internazionale per lo sviluppo (IDA) e altre tre società affiliate, tra le quali la Società finanziaria internazionale (IFC). Dai 41 membri originari, il numero degli Stati membri della Banca Mondiale è salito a 184. A partire dalla metà degli anni 1960, la Banca Mondiale ha indirizzato, quindi, la sua attività al potenziamento delle risorse e al miglioramento delle condizioni di vita nei paesi in via di sviluppo, anche fornendo la necessaria assistenza tecnica. La Banca mondiale, in generale, offre finanziamento a lungo termine, a basso tasso d’interesse ai paesi a medio reddito in via di sviluppo o in transizione; tramite la IDA offre donazioni e finanziamenti senza interessi ai paesi più poveri che non hanno accesso ai

208 mercati internazionali del credito; tramite l’IFC sostiene l’investimento estero privato in paesi ad alto rischio, con l’assumere garanzie o, sussidiariamente, con la propria partecipazione diretta. Garantisce, inoltre, il coordinamento dei prestiti concessi o garantiti con altri prestiti internazionali e svolge opera di consulenza economico-finanziaria con le missioni di studio nei paesi aspiranti ai prestiti. Le attività della Banca Mondiale includono l’aiuto alla ricostruzione in caso di disastri naturali o distruzioni belliche, il sostegno all’investimento pubblico e la promozione d’investimenti esteri privati mediante garanzie e partecipazioni, il finanziamento di programmi per alleviare la povertà, ridurre il debito estero e migliorare trasparenza ed efficacia dell’azione pubblica nei paesi in via di sviluppo. Nel 1990 la Banca Mondiale ha istituito la Global Environment Facility (GEF), una forma d’intervento finanziario nata come programma pilota per assistere i paesi in via di sviluppo nella protezione dell’ambiente, che è poi divenuta strumento permanente di cooperazione internazionale. Negli anni 1990 ha destinato fondi crescenti a progetti per lo sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale. Nel 1996, ha promosso con il Fondo monetario internazionale l’iniziativa per la cancellazione del debito dei paesi poveri ( Heavily Indebted Poor Countries Initiative , HIPC initiative), rivista e rafforzata nel 2000 (Enhanced Initiative for Heavily Indebted Countries ); i paesi interessati sono 28. La missione della Banca Mondiale è attualmente la riduzione della povertà, in linea con gli obiettivi della Dichiarazione del Millennio ( Millennium Declaration ) fissati nel 2000 alla Conferenza della Nazioni Unite.

Joseph Stiglitz 33 e la critica al Washington Consensus

33 Joseph Eugene Stiglitz, economista statunitense (n. Gary 1943), prof. nella Yale University (1970-74), a Stanford (1974-76; 1988-2001), a Princeton (1979-88), dal 2003 alla Columbia University. È stato capo del dipartimento di ricerca economica della Banca Mondiale (1996-99), dove ha ricoperto anche la carica di vicepresidente (1997-2000). Nel 2001 gli è stato assegnato il premio Nobel per l'economia (con G. A. Akerlof e A. M. Spence) per il contributo offerto, sin dagli anni Settanta, alla teoria dell'informazione. S. si è occupato del meccanismo con il quale operatori economici poco informati traggono informazioni da quelli più informati. Applicando la sua analisi su mercati diversi, ha dimostrato come l'informazione asimmetrica possa provocare tra l'altro disoccupazione e razionamento del credito. Ha ricoperto numerosi incarichi governativi e dal 2003 è membro della Pontificia accademia di scienze sociali. Tra le sue opere: Lectures on public economics (in collab. con A. Atkinson, 1980); Theory of commodity price stabilization (in collab. con D. Newbery, 1981); Economics of the public sector (1986); The economic role of the state (1989); Principles of economics (1993); Principles of macroeconomics (1997); il manuale Economics (1997); Globalization and

209 Nel suo libro Globalization and Its Discontents [5] uscito nel 2002, e in una serie di interviste ed articoli, Joseph Stiglitz, dimessosi dalla vicepresidenza della Banca Mondiale, accusa il Fondo Monetario di aver imposto a tutti i Paesi una "ricetta" standardizzata, basata su una teoria economica semplicistica, che ha aggravato le difficoltà economiche anziché alleviarle.

Stiglitz fornisce una serie dettagliata di esempi a supporto della sua tesi, come ad esempio, la crisi finanziaria asiatica e la transizione dall'economia pianificata al capitalismo in Russia e nei paesi ex-comunisti dell'Europa orientale: i prestiti del FMI in questi paesi sono serviti a rimborsare i creditori occidentali, anziché aiutare le loro economie. Inoltre il FMI ha appoggiato nei Paesi ex-comunisti coloro che si pronunciavano per una privatizzazione rapida, che in assenza delle istituzioni necessarie ha danneggiato i cittadini e rimpinguato le tasche di politici corrotti e uomini d'affari disonesti. Al contrario, Stiglitz osserva che i risultati migliori in materia di transizione sono stati conseguiti proprio da quei paesi, come la Polonia e la Cina (che non hanno seguito le indicazioni del FMI), mentre in Asia il modello economico che ha permesso una massiccia crescita dell'economia di molti paesi si basa su un forte intervento statale, anziché sulle privatizzazioni. Stiglitz sottolinea inoltre i legami di molti dirigenti del FMI con i grandi gruppi finanziari americani e il loro atteggiamento arrogante nei confronti degli uomini politici e delle élites del Terzo Mondo, paragonandoli ai colonialisti di fine XIX secolo convinti che la loro dominazione fosse l'unica opportunità di progresso per i popoli "selvaggi". In sostanza, Stiglitz illustra come la risposta del FMI a queste situazioni di crisi sia stata sempre la stessa, basandosi sulla riduzione delle spese dello Stato, una politica monetaria deflazionista e l'apertura dei mercati locali agli investimenti esteri. Tali scelte politiche venivano di fatto imposte ai paesi in crisi ma non rispondevano alle esigenze delle singole economie, e si rivelavano inefficaci o addirittura di ostacolo per il superamento delle crisi.

its discontents (2002); The roaring nineties (2003); Fair trade for all (con A. Charlton, 2005); Making globalization work (2006).

210 Stiglitz afferma che il Fondo Monetario Internazionale, perseguendo il cosiddetto "Washington consensus ", non protegge le economie più deboli né garantisce la stabilità del sistema economico globale, ma fa in realtà gli interessi del suo "maggiore azionista", gli Stati Uniti, a discapito di quelli delle nazioni più povere.

Il Washington consensus comprende dieci direttive:

1. Una disciplina di politica fiscale volta al perseguimento del pareggio di bilancio 2. Il riaggiustamento della spesa pubblica verso interventi mirati: si raccomanda di limitare i sussidi indiscriminati e di favorire invece interventi a sostegno del progresso economico e delle fasce più deboli, come le spese per l'istruzione di base, per la sanità di base e per lo sviluppo di infrastrutture 3. Riforma del sistema tributario, volta all'allargamento della base fiscale (intesa come somma globale delle singole basi imponibili) e all'abbassamento dell'aliquota marginale 4. Tassi di interesse reali (cioè scontati della componente puramente inflattiva) moderatamente positivi 5. Tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato 6. Liberalizzazione del commercio e delle importazioni, in particolare con la soppressione delle restrizioni quantitative e con il mantenimento dei dazi ad un livello basso e uniforme 7. Apertura e liberalizzazione degli investimenti provenienti dall'estero 8. Privatizzazione delle aziende statali 9. Deregulation 10. Tutela del diritto di proprietà privata

Appare interessante un confronto tra i 10 principi del Washington Consensus e i 10 principi del Global Compact iniziative.

211 10.3 Una riflessione: Nota su finanza e sviluppo del Pontificio consiglio della giustizia e della pace 34 - Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale

Natura del pronunciamento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace 35 Allorché si trattò di scegliere il genere di pronunciamento su una tematica importante e cruciale per lo sviluppo integrale dei popoli, con gli Organi competenti della Santa Sede si è concordato di non procedere per la via dell’elaborazione di una Nota assunta formalmente dalla stessa, al contrario di quanto avvenuto qualche anno prima con la Nota sulla Conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Doha, pure elaborata dagli esperti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. La ragione è stata ravvisata nel fatto che la Santa Sede non avrebbe partecipato, per ovvie ragioni, al G20 36 di Cannes, svoltosi come è noto dal 3 al 4 novembre 2011. La Nota , quindi, doveva rimanere nell’ambito di semplici riflessioni stilate dal Pontificio Consiglio, sotto la sua responsabilità e secondo la competenza che caratterizza un Dicastero il quale, tra le sue finalità, ha quella di diffondere, approfondire e contribuire alla sperimentazione della Dottrina sociale della Chiesa. Secondo l’opinione di alcuni commentatori ciò avrebbe limitato la rilevanza del pronunciamento, quasi si trattasse di un’espressione marginale della Santa Sede. Certamente, va rilevato che non si tratta di un testo a firma del Sommo Pontefice, come può

34 Cf P ONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE , Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011. 35 Cf P ONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE , Un nuovo patto finanziario internazionale 18 novembre 2008. Nota su finanza e sviluppo in vista della Conferenza promossa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Doha , Tipografia Vaticana, Città del Vaticano 2009. Prima ancora il Pontificio Consiglio si è interessato delle ricorrenti crisi finanziarie e della necessità di nuove istituzioni pubblicando i seguenti testi: ANTOINE DE SALINS-FRANÇOIS VILLEROY DE GALHAU, Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esigenze etiche del cristianesimo , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994; Social and Ethical Aspects of Economics , Atti relativi al I Seminario di economisti organizzato il 5 novembre 1990 presso il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Vatican Press, Vatican City 1992; World Development and Economic Institutions , Atti del II Seminario di economisti organizzato il 4 gennaio 1993, Vatican Press, Vatican City 1994. Entrambi i Seminari sono stati possibili grazie alla collaborazione dei professori Ignazio Musu e Stefano Zamagni, esperti del Pontificio Consiglio. 36 Il Gruppo dei 20 (o G20) è un forum dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, creato nel 1999, dopo una successione di crisi finanziarie per favorire l'internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo. Di esso fanno parte i 19 paesi più industrializzati (quelli del G8 in primis) con l'eccezione di Spagna, Paesi Bassi e Svizzera. È presente, inoltre, l'Unione europea. Inizialmente e fino al 2008, i rappresentanti dei paesi membri erano i ministri delle finanze ed i direttori o governatori delle banche centrali. In seguito alla crisi economica del 2008 è stato tenuto il primo vertice dei capi di Stato a Washington in novembre 2008. È stato poi tenuto un secondo vertice a Londra in aprile 2009 e un terzo a Pittsburgh in settembre 2009. Nel corso di quest'ultimo vertice è stato deciso che tale vertice andrà a sostituire il G8 come principale consiglio economico delle nazioni più sviluppate. Il G20 rappresenta i due terzi del commercio e della popolazione mondiale, oltre al 80% del PIL mondiale.

212 esserlo un’enciclica o l’ormai tradizionale Messaggio per la Giornata mondiale della pace, e nemmeno, come già detto, di un testo-documento ufficiale della Santa Sede. Si tratta precisamente di una Nota di un Dicastero della Santa Sede, la quale – sebbene formalmente non sottoscritta da altri Organi - è frutto dell’iter proprio dei documenti dei Dicasteri della Curia Romana, che prevede una consultazione preventiva e costante e il nulla osta degli Organi competenti della Santa Sede. Ciò al fine di garantire la specificità dei ruoli e al tempo stesso l’omogeneità del pensiero. Ciò premesso , non sembra inutile notare anche che un testo, per essere correttamente valutato nella sua autorevolezza, andrebbe letto tenendo presente il ruolo istituzionale del soggetto che lo emana. Tuttavia , un testo va soprattutto valutato per i suoi contenuti, per la sua coerenza al magistero della Chiesa, per la sua ragionevolezza e consistenza rispetto alla materia trattata. È su questo piano che si è posto il Pontificio Consiglio, elaborando una riflessione coerente alla sua competenza, morale e religiosa, e fedele alla Dottrina sociale della Chiesa e al magistero di Benedetto XVI.

Le ragioni del pronunciamento e la continuità con l’enciclica «Caritas in veritate» L’intento che si proponeva di raggiungere l’elaborazione di un Nota, che doveva essere breve e centrata su un solo problema importante, è molto semplice 37 : offrire una serie di riflessioni ponderate, stilate col contributo di esperti internazionali di chiara competenza, volte a sviluppare l’analisi, il giudizio e la progettualità già tratteggiati nella Caritas in veritate (CIV) 38 , a proposito della crisi dei sistemi monetari e finanziari in contesto di globalizzazione. A ciò il Pontificio Consiglio è stato sollecitato, oltre che da un impegno istituzionale, dal permanere della crisi economica e finanziaria, e anche dalla dichiarazione di intenti sottoscritta dai leader del G20 celebrato nel 2009 dove si afferma che: « the economic crisis demonstrates the importance of ushering in a new era of sustainable global economic activity grounded in responsibility 39 ».

37 La Nota non intendeva recensire tutte le cause, quanto piuttosto analizzare soprattutto quelle di tipo antropologico ed etico, con speciale attenzione per quelle di tipo ideologico, nella linea tracciata dalla CIV. 38 Cf B ENEDETTO XVI, Caritas in veritate , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. 39 Leaders’ Statement , The Pittsburgh Summit, September 24-25, 2009; Annex, 1: «La crisi economica dimostra l’importanza di avviare una nuova era dell’economia globale fondata sulla responsabilità».

213 È con tale prospettiva che si è voluto, dunque, raccogliere l’appello di Benedetto XVI, secondo il quale l’attuale crisi: «ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa […] occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente» (CIV n. 21). E, inoltre, si è voluto approfondire quanto il pontefice propone sia nel n. 57 (ossia la necessità di un’Autorità che governi la globalizzazione secondo il principio di sussidiarietà e poliarchicamente), sia nel n. 67 (che qui si riporta e che alcuni bypassano perché esprimerebbe contenuti in contrasto con il precedente paragrafo): «Di fronte all'inarrestabile crescita dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria internazionale , affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni. Sentita è pure l'urgenza di trovare forme innovative per attuare il principio di responsabilità di proteggere e per attribuire anche alle Nazioni più povere una voce efficace nelle decisioni comuni. Ciò appare necessario proprio in vista di un ordinamento politico, giuridico ed economico che incrementi ed orienti la collaborazione internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli. Per il governo dell'economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell'ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale , quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri

214 di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite». Sia permesso di osservare, per chi desidera approfondire il senso delle affermazioni della Dottrina sociale della Chiesa, che, per quanto concerne il concetto di autorità politica, non si può estrapolare una sola affermazione o un solo paragrafo delle encicliche dal corpus del magistero sociale. Nel nostro caso, il n. 57 della CIV, che alcuni giornalisti e commentatori hanno enfatizzato, va letto ed interpretato in connessione con il n. 67 della medesima enciclica. Non solo. Essi vanno, inoltre, collegati alla Mater et magistra e alla Pacem in terris , a cui la CIV si riallaccia, come suggerito dal brano sopra riportato, per rilanciare la prospettiva di un’Autorità politica mondiale.

La costituzione di un’Autorità politica mondiale, l’angolatura dell’approccio, le ragioni del bene comune e della giustizia sociale .

Nella CIV, il cui tema centrale è dato dallo sviluppo integrale in contesto di globalizzazione, si trova elencata una serie di ragioni di tipo morale più che «tecnocratico», che postulano finalmente la costituzione di un’ Autorità politica mondiale . Come risulta dal numero 67 trascritto più sopra, essa è da intendersi nel senso già indicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris . Vale a dire, non come una semplice governance , a mo’ di un’autoregolamentazione del settore monetario e finanziario o di una regolamentazione frutto della collaborazione spontanea tra i principali Stati, quale alcuni improvvisati esegeti dei testi del Magistero sociale, hanno voluto farci credere. E nemmeno nel senso di un superpotere tecnocratico e monocratico; bensì di una forza morale , di un principio unitivo e coordinativo superiore, avente la facoltà di esercitare il comando secondo ragione e di obbligare in virtù di un ordine morale e giuridico, cui cerca di adeguarsi sempre più, al fine di tradurlo mediante decisioni concrete, indispensabili a raggiungere il bene comune. Questo è il senso dell’espressione «Autorità politica mondiale» a cui si appella la CIV. Ma è bene ritornare alla serie di ragioni enumerate dalla CIV per giustificare la costituzione di una simile Autorità. Rileggendo tutta l’enciclica, l’elenco del numero 67 potrebbe

215 allungarsi con riferimento all’alto tasso di disoccupazione, alla priorità del lavoro per tutti , agli obiettivi del superamento della povertà e della fame, all’urgenza di una green economy e della universalizzazione di una welfare society . È una presa d’atto dei contenuti attuali e delle corrispettive esigenze morali del bene comune mondiale della famiglia dei popoli della terra. Sono proprio tali esigenze, la cui cogenza è accresciuta dal contesto della globalizzazione, a postulare l’innalzamento di Istituzioni politiche ed economiche che, superando i nazionalismi, siano veramente sovranazionali. Detto diversamente, l’emergenza sempre più evidente di beni collettivi mondiali i quali sostanziano di contenuti nuovi il bene comune di tutta l’umanità, che le singole sovranità nazionali non sono in grado di garantire e di promuovere né da sole né riunite in gruppi spontanei, postula un’Autorità proporzionata e, quindi, dotata di nuovi organi, strutturati e agenti in maniera tale da essere idonei a tradurre nella realtà tali beni collettivi e il bene comune mondiale. Secondo una simile prospettiva, che si radica su obiettive esigenze morali ben evidenti nella Nota , « autorità » e «sovranità » mondiali non sono entità assolute, avulse dal bene umano universale. Il loro nuovo profilo viene a delinearsi non semplicemente come un’opera di ingegneria istituzionale e burocratica, ma anzitutto sulla base della cogenza di tali esigenze morali , attinenti a soggetti liberi e responsabili , siano essi persone o popoli, essenzialmente protesi al loro compimento umano , contrassegnato da trascendenza orizzontale e verticale. Vi è, dunque, nella Nota una stretta connessione tra la proposta di un’Autorità politica mondiale e il bene comune , considerato ovviamente come l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono a singoli, famiglie e popoli, la loro pienezza umana. Qui, parlando di condizioni sociali, viene anche spontaneo sottolineare che, tra le ragioni della costituzione di un’Autorità politica mondiale, vi sono in modo particolare quelle – peraltro ben espresse nella CIV – della realizzazione di una giustizia sociale globale . La questione della giustizia sociale, oltre che per i vari problemi connessi ai beni pubblici dell’aria, dell’acqua, della pace, si pone anche con riferimento ad altri beni pubblici, costituiti dai sistemi economici, monetari e finanziari 40 . Vi sono, ad esempio, questioni di giustizia, poste dalla liberalizzazione dei mercati, dalla delocalizzazione delle imprese, dalla liberalizzazione del movimento dei capitali , che, con le nuove tecnologie

40 Cf P ONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE , Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, p. 29.

216 telematiche, possono essere immediatamente trasferiti da una parte all’altra del globo, sfuggendo al controllo delle autorità nazionali; vi sono problemi come le crisi finanziarie periodiche e globali, che creano gravissimi danni per l’economia reale, per la crescita, con ricadute devastanti sui più deboli. Va, in particolare, preso atto che la questione della giustizia sociale dev’essere affrontata e risolta sia all’interno dei singoli settori economici sia sul piano globale, con risposte proporzionate alla sua estensione concernente il reddito mondiale dei popoli, oggi uniti in un’unica comunità. L’attività finanziaria è attività umana ed ha una funzione sociale indispensabile anche sul piano mondiale. Pertanto, non può essere lasciata a se stessa senza nessun intervento disciplinatore ed orientatore sul piano nazionale e mondiale, dato che, come riconoscono gli stessi studiosi del settore, l’autoregolazione non sempre funziona 41 . Occorre, poi, una seria riflessione – come avvenne a suo tempo con la Quadragesimo anno in occasione del crollo della borsa di New York nel 1929 –, sulla unitarietà dell’economia mondiale e sulla globalizzazione dell’economia sociale. A questo proposito, non dovremmo stancarci di chiederci: per quale ragione, nonostante si parli in continuazione di economia globalizzata, non si approfondisce il tema dell’ unitarietà dell’economia mondiale, evidenziandone le implicanze sul piano della giustizia sociale ? Lo esige la sempre maggiore interdipendenza nelle politiche, nei fattori produttivi, nei settori economici, nell’uso delle risorse, negli stessi salari, dato che la convenienza a investire capitali dove il costo della manodopera è molto basso fa scattare, su scala mondiale, una indebita concorrenza salariale e commerciale. E ancora: come mai non si avverte l’urgenza di realizzare la giustizia sociale nelle transazioni finanziarie e commerciali, sul piano della destinazione universale dei beni materiali, tecnici e qualitativi, e delle opportunità sociali e culturali? Evidentemente, se si ammette l’unitarietà dell’economia e della finanza, e la loro funzione o utilità sociale , a fronte anche delle ricorrenti crisi determinate dalla speculazione e dall’assolutizzazione del profitto, occorre essere consequenziali: urge una nuova architettura istituzionale e giuridica, in grado di realizzare con metodi democratici, ovvero partecipativi e sussidiari, la giustizia sociale relativa al bene comune mondiale nei suoi aspetti distributivi e contributivi. È indispensabile un’Autorità politica mondiale che realizzi la giustizia sociale

41 Cf ad esempio T. P ADOA -SCHIOPPA , Regole e finanza . Contemperare libertà e rischi , Il Mulino, Bologna 2011, pp. 97-118.

217 globale, a fronte del fatto che le autorità o sovranità nazionali risultano di fatto erose e sproporzionate. La realizzazione della giustizia sociale sul piano mondiale è premessa e condizione per uno sviluppo qualitativo e sostenibile per tutti, ai fini di una stabile pace sociale, oggi molto compromessa da vistose sperequazioni tra ricchi e poveri. Questi fattori, secondo alcuni noti economisti quali Joseph Stiglitz, sarebbero all’origine dell’attuale recessione.

Le basi morali della sovranità e dell’autorità mondiale sono il fondamento di una loro concezione poliarchica e democratica La tensione al bene umano integrale, insita nella coscienza di tutti i popoli e sfociante nell’esigenza della realizzazione di un bene comune mondiale , esige fra l’altro che si ripudi l’onnicomprensività dell’economico e del finanziario, quale si è riscontrata anche nell’ultima crisi; che li si riconduca entro la loro giusta «misura» antropologica, etica e sociale, sul piano nazionale e mondiale; che si riconosca alla politica il suo alto e nobile compito di coordinamento, di direzione, di incitamento e finanche di coercizione, se è il caso; che la politica stessa, concepita come arte del buon vivere o della vita buona sociale , secondo le esigenze del bene comune mondiale, sia realizzata in modo subordinato al primato ontologico e finalistico delle persone e dei popoli. È un primato che postula quello dell’interiorità, ossia il primato della loro unione morale sulle istituzioni e sulle regole procedurali, pur imprescindibili. E, inoltre, che si rinunci ad una concezione ideologica di sovranità , che alimenta isolazionismi e nazionalismi arcaici . La sovranità non può concentrarsi in un punto unico, generando una specie di Superstato, di Leviatano tecnocratico, di concentrazione pericolosa di potere monocratico. È, piuttosto, da considerare come realtà funzionale o ministeriale, indispensabile per la realizzazione del bene comune universale sia a livello locale che mondiale, e pertanto da modellare sussidiariamente, ossia flessibilmente e reticolarmente , secondo termini di autonomia e di libertà responsabile, in contesto di solidarietà. Rispetto all’attuale assetto, la sovranità va quindi «ridistribuita» tra Stati nazionali ed entità politiche regionali o mondiali, a seconda delle necessità storiche, ovviamente con validazione democratica. Ciò implica che le Nazioni, in vista del bene umano universale, considerino la necessità di rinunciare liberamente all’esercizio di alcune prerogative, per trasferirle ad una sovranità superiore più proporzionata.

218 Ciò obbliga a concepire le sovranità nazionali non in termini radicali di autonomia e di indipendenza, bensì di comunicazione e di reciprocità, come realtà interdipendenti, relative a qualcosa che precede. Esse, infatti, portano scritto nella loro stessa essenza relazionale un principio di autotrascendimento verso la forma di una sovranità superiore, che le completa senza negarle, le presuppone e le potenzia secondo il principio della sussidiarietà, raccordandole e consentendo loro di agire coralmente su un piano transnazionale, entro una comunione di principi coordinativi e potestativi. Per la Pacem in terris e per la CIV non si pone semplicemente la questione di un’Autorità mondiale e della sua articolazione istituzionale. Prima di procedere alla costituzione di un’Autorità mondiale, è pregiudiziale la costituzione di una società politica mondiale , ossia l’unificazione dei molti popoli in una coscienza comune, ciò che presuppone l’assunzione di responsabilità, la volontà di collaborare, mediante istituzioni e regole procedurali condivise, nella realizzazione del bene comune mondiale. In altri termini, il processo di costituzione di un’Autorità politica mondiale non può prescindere da un moto democratico di partecipazione dal basso. La costituzione di un’Autorità mondiale è vincolata a una democrazia universale: democrazia sostanziale, partecipativa, solidale, aperta alla trascendenza. La Nota concentra la sua attenzione sulla crisi dei sistemi monetari e finanziari internazionali, per i quali la CIV chiede la riforma della loro attuale architettura, in connessione con la riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’enciclica insiste sul fatto che i sistemi monetarie finanziari devono essere orientati al bene comune della famiglia delle Nazioni non solo da parte dei soggetti monetari e finanziari, primi responsabili di se stessi, ma anche da parte di altri soggetti sociali oltre che di un’Autorità politica mondiale, quale responsabile ultima, anche se non unica, del bene comune di cui trattasi. Un’Autorità politica a responsabilità universale, come già visto, trova una delle sue ragioni d’essere proprio nell’esistenza e nel funzionamento adeguato dei mercati monetari e finanziari che, secondo la Nota , sono da considerarsi «bene pubblico». È proprio il «bene» costituito dai sistemi monetari nazionali ed internazionali – oggi resi più interconnessi ed interdipendenti dalla globalizzazione – che esige la costituzione non solo di un’Autorità monetaria e finanziaria internazionale, ma anche di un’Autorità politica mondiale, commisurata alle esigenze di «beni pubblici» a dimensione sovranazionale. I sistemi

219 monetari e finanziari ben funzionanti sono beni che debbono essere resi accessibili a tutti, secondo il principio della destinazione universale dei beni .

Difficoltà ermeneutiche nella ricezione La proposta della Nota circa la costituzione di un’Autorità politica mondiale ad alcuni è parsa «utopistica» o non plausibile almeno per il momento, perché ritenuta troppo difficile da realizzare, stante l’attuale frammentazione del tessuto internazionale. Ad altri è sembrata incomprensibile, anzi dannosa per la democrazia, persino antitetica ad essa. Questi ultimi, infatti, ritengono che il concetto di Autorità proposto dalla Nota non si concilii con l’attuale idea di democrazia. Chi invoca la costituzione di un’Autorità politica mondiale non vorrebbe la democrazia, quasi che l’esistenza di un principio unitivo e coordinativo, avente facoltà di comandare secondo ragione e di sanzionare secondo il diritto, cozzi con la stessa essenza dei governi democratici, che decidono le loro leggi sulla base del principio della maggioranza e del consenso sociale, prescindendo dal suo radicamento nell’ordine morale quale realtà metaconsensuale. Si tratta di difficoltà reali di comprensione dei contenuti della Nota , che sono emerse anche durante la conferenza stampa in cui è stata presentata, a dimostrazione della necessità sempre più acuta di dover curare la comunicazione dei contenuti della Dottrina sociale della Chiesa. A ben vedere, le difficoltà sussistono, perché oramai la gran parte dei nostri contemporanei, oltre ad aver smarrito il concetto tradizionale di bene comune, ha anche perduto la nozione classica di autorità, intesa come facoltà di comandare secondo ragione : ossia come forza morale – e, quindi, non arbitraria e non irrazionale – al servizio della crescita in libertà e responsabilità dei cittadini e dei popoli, perché «commisurata» a quella dignità umana che li caratterizza in quanto persone dotate della capacità di ricercare liberamente e responsabilmente il proprio e l’altrui bene. In sintesi, i nostri contemporanei si richiamano soprattutto a un concetto di autorità che coincide di fatto con quello di potere, derivante dalla dottrina politica moderna (cf J. Bodin, Th. Hobbes, ma anche J. J. Rousseau, sia pure in maniera diversa, partendo dalla prospettiva di una democrazia retta dalla volontà generale), che ha contribuito ad ipostatizzare i concetti di autorità e di sovranità, rendendoli indipendenti dall’ordine morale. L’autorità e la sovranità non hanno l’obbligo di rendere conto ad alcuno se non a se stesse. Non riconoscono nessun ordinamento superiore. Ogni singolo Stato viene a porsi al di sopra della comunità delle Nazioni e della legge morale.

220 È evidente allora che, se ci si riallaccia a un concetto di autorità che si identifica con un potere arbitrario, accentratore, assorbente ogni autonomia, non è possibile comprendere il senso della proposta di un’Autorità mondiale senza cadere in equivoci. A questo proposito, urge allora il recupero di un più adeguato concetto di autorità in senso personalistico e comunitario, che ne riaffermi i molteplici legami con l’ordine morale, ne evidenzi la valenza di ministerialità e ne sottolinei l’interconnessione con il pluralismo sociale ed istituzionale: l’autorità è per essere al servizio delle libertà e delle autonomie, per aiutarle a crescere, non per abbatterle o comprimerle. Con ciò ritroverà la sua misura etica anche l’elemento metodologico della democrazia, dato dal principio o criterio della maggioranza. Solo così l’autorità non rischierà di cadere in balia dell’arbitrio di minoranze o di maggioranze totalitarie. La razionalità e la conformità all’ordine morale sono essenziali all’autorità politica. In definitiva, la Dottrina sociale della Chiesa, allorché propone un’Autorità politica mondiale non intende avanzare l’idea di un centro di superpotere irresistibile, simile ad un Moloch che domina su tutti, o che è espressione di interessi parziali, non lasciando alcuna libertà e soggiogando tutti i soggetti sociali, non riconoscendo i loro diritti di iniziativa, riducendoli a semplici cinghie di trasmissione di una volontà superiore e tirannica, come avveniva negli Stati assoluti. La proposta della Dottrina sociale va verso la realizzazione di una Comunità e di un’Autorità politica mondiali, istituite di comune accordo e non imposte con la forza, fondate sui principi democratici, strutturate e operanti sussidiariamente. Detto altrimenti, le loro istituzioni dovrebbero essere modellate e attivate sulla base della rappresentanza e della rappresentatività , della divisione dei poteri , di un ordinamento giuridico in cui sono fissati i rapporti fra persone-cittadini, società religiose, famiglie, corpi intermedi e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche; tra i poteri pubblici delle singole comunità; tra i poteri delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale; tra i poteri pubblici della comunità mondiale e società civili, organizzazioni internazionali governative e non governative. Fa parte del funzionamento democratico di un governo anche la metodologia del criterio della maggioranza . Pregiudiziale, poi, è che criteri e metodi democratici siano informati dai contenuti morali del bene comune mondiale e della connessa giustizia sociale. I poteri pubblici della comunità mondiale non avranno, dunque, lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici delle singole comunità politiche e

221 tanto meno di sostituirsi ad essi; avranno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su piano mondiale, di un «ambiente» nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi cittadini, le famiglie e i corpi intermedi, le società religiose possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza. In definitiva, l’autorità politica mondiale, in maniera analoga a quella nazionale, sarà autorità limitata o, meglio, informata da un ordinamento giuridico , quale viene espresso normalmente in una carta costituzionale o in uno Statuto, come peraltro previsto negli Stati liberali di diritto ; partecipata , attraverso più istituzioni rappresentative che rendono operante il principio dell’autonomia sociale e politica dei vari soggetti sociali; decentrata , perché articolata su più piani e perché «relazionata» ad una pluralità di soggetti sociali ( pluralismo sociale ed istituzionale: Stati, Popoli, Organizzazioni internazionali, governative e non governative, società civili e attori non statali, come ad esempio le comunità religiose ).

La risemantizzazione dell’economia e della finanza grazie al recupero di una ragione integrale e del telos umano La Nota sollecita alla risemantizzazione dell’economia e, in particolare, della finanza. Non si tratta solo di evidenziare la loro intrinseca ed autonoma eticità: un’eticità peculiare, che implica il marchio della gratuità e del dono, e che le identifica nella loro essenza. Si tratta, soprattutto, di vederle e di coglierle nel contesto delle altre attività dell’uomo e, per conseguenza, in rapporto alla politica, alla cultura, alla religione. L’identità dell’economia e della finanza non possono essere definite adeguatamente staccandole dalle persone concrete e storiche, dalla molteplicità dei loro fini. Infatti, l’economia e la finanza non esistono in se stesse, in astratto, separate dai soggetti che le pongono in essere, al di fuori dei contesti sociali, politici, nazionali e sovranazionali. La crisi della finanza è sorta e perdura, perché la corrispondente attività umana è vissuta entro un quadro culturale mutilato, frammentato, che registra disarticolazione tra i beni-valori, anzi, ove a causa di uno scetticismo gnoseologico e di un relativismo etico assoluto non vige più una scala gerarchica. Viene in tal modo a mancare una razionalità capace di coordinare ed armonizzare i vari fini umani entro un télos che li ordini in relazione al vero e al bene perfetti, ossia a Dio. È così che persistono il politeismo dei valori e quegli atteggiamenti che assolutizzano il profitto, la

222 strumentalizzazione della politica alla finanza, provocando la destrutturazione del bene comune e della connessa giustizia sociale. L’economia e la finanza senza il riferimento al télos umano non riconoscono l’esistenza del bene comune, ossia di quell’insieme di condizioni sociali che facilitano il raggiungimento della pienezza umana. Diventano refrattarie nei suoi confronti, come anche rispetto ad un concetto di giustizia sociale avente come fondamento l’aspirazione al bene proprio e altrui ancor prima che il consenso sociale. Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica, dalla speculazione senza limiti che danneggia l’economia reale e che fa fallire gli stessi sistemi monetari e finanziari, erodendo i sistemi di sicurezza sociale e allo stesso tempo ai fini di una risemantizzazione, è necessario il recupero di una ragione integrale , premessa di un’ etica amica della persona, del suo bene globale, aperto alla trascendenza. Senza Dio, ricercato e desiderato come Bene sommo, facilmente viene meno quel punto di riferimento che consente la giusta collocazione della finanza tra i beni che debbono essere conseguiti secondo un ordine gerarchico.

La proposta di un’Autorità politica mondiale da realizzare con passi graduali Per quanto concerne l’aspetto progettuale , ossia l’indicazione di vie di soluzione , la Nota del Pontificio Consiglio, riallacciandosi al magistero sociale dei pontefici, suggerisce che la globalizzazione sia governata mediante la costituzione di un’ Autorità pubblica a competenza universale , non costituendo un altro polo a fianco dell’attuale ONU, ma muovendo dalla riforma di essa. Una prospettiva questa che, nel solco tracciato dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, è riproposta con determinazione e chiarezza da Benedetto XVI al n. 67 della CIV. Le riflessioni del Pontificio Consiglio intendono svilupparla, volendo così tratteggiare, sia pure per sommi capi, suggerimenti per la riforma delle attuali Istituzioni internazionali, al fine di renderle più autorevoli e democratiche. Queste devono essere espressione di un accordo libero e condiviso tra i popoli, più rappresentative, più partecipate, più legittimate, più coinvolgenti, per quanto possibile, tutte le società politiche e civili. Devono essere super partes , al servizio del bene di tutti, in grado di offrire una guida efficace e, al tempo stesso, di permettere a ciascun Paese di esprimere e di perseguire il proprio bene comune secondo il principio di sussidiarietà , nel contesto del bene comune mondiale. Solo così le Istituzioni internazionali riusciranno a favorire l’esistenza di sistemi

223 monetari e finanziari efficienti ed efficaci, ossia mercati liberi e stabili, disciplinati da un adeguato quadro giuridico, funzionali allo sviluppo sostenibile e al progresso sociale di tutti, ispirati ai valori della carità nella verità . L’Autorità mondiale non dovrà schiacciare o sfruttare i Governi nazionali o regionali. Essa dovrà intendere la sua facoltà di orientare, di decidere, di sanzionare sulla base del diritto, come un servizio ai vari Paesi membri, affinché crescano e posseggano mercati non iperprotetti da politiche nazionali paternalistiche, non indeboliti da deficit sistematici delle finanze pubbliche e dei Prodotti nazionali, che di fatto impediscono loro di operare in contesto mondiale come istituzioni aperte e concorrenziali 42 . Il breve testo del Pontificio Consiglio mostra forse la sua maggiore originalità , allorché cerca di delineare alcune tappe e caratteristiche del cammino da percorrere verso la costituzione di un’Autorità pubblica a competenza universale, specie con riferimento all’ambito economico e finanziario. In primo luogo, prospetta un processo di riforma, attuato «avendo come punto di riferimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite, in ragione dell’ampiezza mondiale delle sue responsabilità, della sua capacità di riunire le Nazioni della terra e della diversità dei suoi compiti e di quelli delle sue Agenzie specializzate 43 ». In secondo luogo, invoca un netto salto di qualità nelle istituzioni esistenti. Occorre innovare rispetto all’attuale ONU, alle istituzioni di Bretton Woods 44 , al G8 o al G20, ad altro ancora. Occorre, in particolare, il passaggio deciso da un sistema di governance , di semplice coordinamento orizzontale tra Stati senza un’Autorità superiore, a un sistema che, oltre al coordinamento orizzontale, disponga di un’Autorità super partes , con potestà di decidere con metodo democratico e di sanzionare in conformità al diritto. Un tale passaggio verso un Governo mondiale non può avvenire – spiega il Pontificio Consiglio – se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni e, quindi, senza

42 Cf Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale , pp. 24-25. 43 Cf ib ., pp. 26-27. 44 Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, se inizialmente hanno saputo rispondere allo scenario successivo alla Seconda Guerra Mondiale, sembrano avere progressivamente perso il mandato e la vocazione universale impliciti agli Accordi di Bretton Woods di cui erano il frutto. In definitiva, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale non sono stati capaci di garantire l’obiettivo della stabilità monetaria e finanziaria, nonché uno sviluppo economico adeguato, in modo da vincere o almeno da ridimensionare significativamente le situazioni di povertà e di disuguaglianza. Anzi, spesso le hanno aggravate, contribuendo peraltro a ridurre notevolmente la propria credibilità internazionale.

224 abbandonare la pratica del multilateralismo sia a livello diplomatico sia nell’ambito dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace 45 . Secondo le riflessioni del Pontificio Consiglio, l’allargamento attuale del G7 in G20, configurato anche secondo altre modalità che, negli orientamenti da dare all’economia e alla finanza globali, coinvolgono maggiormente la responsabilità dei Paesi con più elevata popolazione, in via di sviluppo ed emergenti, pur rappresentando un passo in avanti non coincide ancora con il traguardo auspicato. Si tratta di una soluzione ancora insoddisfacente ed inadeguata. In effetti, nonostante gli apprezzabili cambiamenti nella composizione e nel funzionamento, chiaramente riconosciuti dalla Nota 46 , il G20 non risponde pienamente alla logica di rappresentanza democratica dei popoli e degli Stati membri cui anche le Nazioni Unite sono chiamate a tendere sempre più. Gli Stati che compongono il G20 non possono considerarsi rappresentativi di tutti i popoli. Sebbene allargato, il G20, che come è ben noto non fa parte dell’ONU, è sempre un forum informale e limitato, che tra l’altro mostra di perdere tanto più di efficacia quanto più viene ampliato. Allo stato attuale delle cose, il G20 manca di una legittimazione e di un mandato politico da parte della Comunità internazionale. A ciò si deve aggiungere che, se la situazione dovesse permanere, il G20 rischia di delegittimare o di sostituirsi di fatto alle Istituzioni internazionali – come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale – le quali, sebbene necessitino di profonde riforme, appaiono in grado di rappresentare in maniera istituzionale tutti i Paesi e non soltanto un numero ristretto di essi. Ciò che, pertanto, andrebbe fatto al più presto, secondo anche quanto affermano gli stessi leader del G20 nella Dichiarazione finale di Pittsburgh del 2009, è che si dovrebbe disporre di un pensiero politico più adeguato, per poter finalmente mettere mano alla riforma dell’«architettura globale» e far fronte alle improcrastinabili esigenze del bene comune del XXI secolo. E ciò, percorrendo «vie creative e realistiche, tendenti a valorizzare gli aspetti positivi delle istituzioni e dei forum già esistenti» 47 , migliorandoli, in ordine all’assunzione di strutture e modalità tipiche di una competenza universale, secondo i principi della solidarietà e della sussidiarietà, oltre che della rappresentanza. Si pensi ad esempio che, rispetto ai problemi di natura economica e sociale che sono al centro delle riflessioni del Pontificio Consiglio, lo stesso Consiglio

45 Cf Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale , pp. 27-28. 46 Cf Ib ., pp. 30-31. 47 Ib ., pp. 31-32.

225 economico e sociale (ECOSOC), pur favorendo un attività di coordinamento - sotto l’egida dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite - non ha autorità e funzioni di governo. Certamente tali prospettive richiedono prudenza e gradualità . Al tempo stesso, occorre non rinunciare alla decisione che comporta il perseguimento di obiettivi, dalla cui realizzazione dipende quella del bene comune mondiale. Tra questi indichiamo: a) promuovere , nel contesto delle Istituzioni internazionali esistenti – in particolare nelle Nazioni Unite – in coerenza anche ai loro Statuti, la giunzione tra sfera politica e sfera economica e civile nelle relazioni mondiali; b) riformare le attuali Istituzioni internazionali 48 , come ad esempio il già citato Consiglio economico e sociale 49 , per dar vita ad un effettivo controllo monetario globale , mettendo in discussione i sistemi di cambi esistenti, coinvolgendo in tale processo anche i Paesi emergenti e in via di sviluppo, per definirne le tappe del processo. Ricercando, inoltre, le possibilità che permettano di giungere ad un Organismo che svolga le funzioni di una sorta di «Banca centrale mondiale» , per regolare il flusso e il sistema degli scambi monetari, alla stregua della Banche centrali nazionali, riscoprendo la logica di fondo – logica di pace, di coordinamento e di prosperità comune – che portò agli Accordi di Bretton Woods 50 ; c) sul piano regionale , occorre promuovere un processo analogo, valorizzando il

48 Le Nazioni Unite si sono più volte dichiarate pronte a riforme di grande ampiezza, a cominciare da quella del Consiglio di sicurezza . E, tuttavia, è chiaro che non esiste affatto un consenso mondiale a questo proposito. Bisogna, poi, osservare che, a fronte di problemi globali di enorme rilevanza, non esiste ancora un’Agenzia delle Nazioni Unite. Si pensi, ad esempio, al problema ambientale per il quale, a livello delle Nazioni Unite, è previsto soltanto un programma specifico, l’UNEP. Così, si pensi al problema del commercio internazionale per il quale disponiamo sì di un forum specifico, la WTO, che però non è una Agenzia delle Nazioni Unite, con cui intrattiene solo un rapporto di collaborazione. Inoltre, si pensi alle questioni del disarmo e del controllo degli armamenti e ai gravi problemi della Conferenza sul disarmo. Anche quest’ultima è un forum esterno alle Nazioni Unite. Si pensi, da ultimo, alla promozione e protezione dei diritti fondamentali dell’uomo, e alle difficoltà che incontra il Consiglio dei diritti dell’uomo.

49 Con riferimento al superamento dell’attuale sproporzione delle Istituzioni internazionali, vale la pena qui di segnalare, oltre ai vari appelli che hanno suggerito l’evoluzione dell’ECOSOC, anche la proposta formulata dalla Commissione internazionale di esperti nominata nel 2009 dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite e presieduta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, riguardante la riforma del sistema monetario e finanziario internazionale. Si tratta di una proposta che andrebbe oltre il G20, in quanto chiede di dar vita ad una nuova Istituzione rappresentativa globale che, nel rapporto della Commissione Stiglitz, viene chiamata « Consiglio per la Coordinazione Economica Globale» . Questa Istituzione dovrebbe non soltanto coordinare le Agenzie specializzate e i programmi della Nazioni Unite, ma anche svolgere un compito di coordinamento per quanto riguarda le strategie delle Istituzioni finanziarie internazionali (FMI e Banca Mondiale) e della WTO, Istituzioni che dovrebbero essere adeguatamente rappresentate nel Consiglio.

50 Nella prospettiva di riforme creative e realistiche, suggerita dalle riflessioni del Pontificio Consiglio, le Istituzioni esistenti (FMI e Banca Mondiale), aventi una vocazione di governo, non dovrebbero essere cancellate. Esse andrebbero profondamente riformate, secondo una prospettiva che assicuri il primato della politica e dell’autorità pubblica sull’economia e sui soggetti privati. Più in particolare, occorrerà una riforma che ne aumenti la legittimità, restringendo, ad esempio, il potere di veto delle grandi potenze e riconoscendo a tutti i Paesi – e non solo agli Stati Uniti e all’Europa – il diritto di eleggere i principali dirigenti del FMI e della Banca Mondiale. Bisognerà anche assicurare in queste

226 ruolo delle Istituzioni esistenti. A livello europeo, ad esempio, potrebbe costituire un riferimento la Banca Centrale Europea, facendovi però corrispondere Istituzioni politiche proporzionate, in vista di una maggior unità ed efficacia nelle decisioni. Ciò che, comunque sia, rispetto a quanto appena accennato, è pregiudiziale per la Nota ai fini della realizzazione di condizioni finanziarie e monetarie utili alla crescita globale di tutti i popoli, è soprattutto il recupero del primato della politica sull’economia e sulla finanza. Nelle brevi riflessioni qui presentate si può leggere: «Occorre recuperare il primato dello spirituale e dell’etica e, con essi, il primato della politica – responsabile del bene comune – sull’economia e sulla finanza. Occorre ricondurre quest’ultime entro i confini della loro reale vocazione e della loro funzione, compresa quella sociale, in considerazione delle loro evidenti responsabilità nei confronti della società, per dar vita a mercati ed istituzioni finanziarie che siano effettivamente a servizio della persona, che siano capaci, cioè, di rispondere alle esigenze del bene comune e della fratellanza universale, trascendendo ogni forma di piatto economicismo e di mercantilismo performativo 51 ». Coerentemente all’impegno della politica di orientare i sistemi finanziari e monetari alla realizzazione del bene comune, viene suggerito dal Pontificio Consiglio, a mò di esempio, di riflettere su tre possibili vie da percorrere: a) misure di tassazione lieve ed equa delle transazioni finanziarie; b) forme di ricapitalizzazione delle banche, a condizioni da stabilire; c) distinzione tra attività di credito ordinario e di Investment banking : quest’ultime ora avvengono senza limiti e senza controlli. Rispetto al punto b), proprio poco tempo fa l’Unione Europea ha espresso il suo parere positivo. Ecco, in breve, alcuni tratti della progettualità, elaborata dalla riflessioni in esame, che dovrebbe essere assunta oltre che dai più diretti responsabili del bene comune sul piano nazionale e sovranazionale, anche da coloro che, specie nelle Università e negli Istituti culturali, sono chiamati a formare le classi dirigenti di domani.

Conclusioni

Istituzioni una rappresentanza più appropriata delle Organizzazioni monetarie regionali che, in quanto tali, si sono moltiplicate nel corso degli ultimi anni.

51 Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale , pp. 33-34.

227 La Nota in oggetto, che indirizza alla riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva della costituzione di un’Autorità pubblica a competenza universale, per quanto sin qui detto non vuole proporre un superpotere monocratico e irresistibile, e nemmeno condanna gli aspetti positivi del pensiero liberale, dal momento che riconosce la libertà dei mercati e il loro valore di beni «pubblici» - la Nota , a differenza di quanto hanno insinuato alcuni commentatori, è su posizioni ben diverse rispetto a quelle del marxismo collettivista ! -, necessari alla realizzazione del bene comune mondiale. Non intende rafforzare quel burocraticismo e quelle gestioni strumentali in mano a pochi, che spesso sono invalse e persistono nelle attuali Istituzioni internazionali, e purtroppo svolgono una funzione di «deterrenza» rispetto all’ideale della costituzione di un’Autorità pubblica a competenza universale. Il fatto che le Istituzioni sovranazionali registrino simili difetti non deve scoraggiare e far desistere dal proposito di lavorare per la loro riforma in un senso più democratico e più partecipato sul piano della gestione. Così, non deve rallentare un simile processo il fatto che in varie aree, come ad esempio in quella asiatica, si incontrino notevoli difficoltà culturali, come anche interessi nazionali contrapposti, che consentono solo blande forme di integrazione tra gli Stati sul piano economico, davvero insufficienti a supportare una solida cooperazione sul piano politico. Occorre, allora, che i responsabili politici e le varie Istituzioni culturali e religiose si mobilitino maggiormente, concorrendo a formare una nuova visione delle cose, una nuova mentalità e una nuova coscienza tra i popoli della terra, investendo soprattutto sulla presa d’atto dell’esistenza di un bene comune mondiale e della fraternità che unisce tutti in un’unica famiglia. La proposta del governo della globalizzazione tramite un’Autorità pubblica a competenza universale, democratica e legittimata da tutti i popoli, si radica specialmente nelle esigenze del bene comune mondiale e della correlativa giustizia sociale. Quanto viene suggerito dalla Nota sul piano dell’articolazione delle strutture, delle Istituzioni e delle regole è, dunque, motivato precipuamente sul piano delle ragioni morali, oltre che sul piano delle opportunità storiche offerte dalla globalizzazione. L’aspetto tecnico e i profili più pratici sono appena accennati, nella consapevolezza che la loro configurazione è opera che attiene agli esperti di Istituzioni internazionali e dipende ultimamente dalla volontà dei popoli nonché dalla discussione pubblica.

228 La Nota non fa «futurologia», immaginando come possa essere il risultato finale. Semplicemente richiama le ragioni che domandano la riforma urgente dell’architettura istituzionale sovranazionale, peraltro già auspicata dallo stesso G20 a Pittsburgh. Si tratta di ridimensionare il Leviatano economico, che di fatto esiste già come un superpotere organizzato sul piano sovranazionale, e che spesso tiranneggia le Nazioni. In sostanza, la Nota mette in luce il fatto che, se si misconoscono le esigenze etiche del bene comune mondiale – che dev’essere particolarmente attento alle condizioni dei più diseredati –, come anche quelle della giustizia sociale globale e del principio della destinazione universale dei beni, difficilmente si possono comprendere le motivazioni per la costituzione di un’Autorità politica mondiale, nel senso proposto dalla Dottrina sociale della Chiesa.

10.4 Nuovi modelli di sostegno finanziario basati su modelli sociali

Crowdfunding Il crowd funding o crowdfunding (dall'inglese crowd , folla e funding , finanziamento) è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone ed organizzazioni. È un processo di finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il termine trae la propria origine dal crowdsourcing, processo di sviluppo collettivo di un prodotto. Il crowdfunding si può riferire a processi di qualsiasi genere, dall'aiuto in occasione di tragedie umanitarie al sostegno all'arte e ai beni culturali, al giornalismo partecipativo, fino all'imprenditoria innovativa e alla ricerca scientifica. Il web è solitamente la piattaforma che permette l'incontro e la collaborazione dei soggetti coinvolti in un progetto di crowd funding. Colui che ha portato alla notorietà il crowdfunding oltreoceano è Barack Obama, pagando parte della sua campagna elettorale per la presidenza con i soldi donati dai suoi elettori, i quali erano i primi portatori di interesse. Le iniziative di crowdfunding si possono distinguere in iniziative autonome, sviluppate ad hoc per sostenere cause o progetti singoli, e piattaforme di crowdfunding. Esempio di iniziativa autonoma di crowdfunding è la campagna che si chiamava “Tous Mecenes” (tutti mecenati) del Louvre. Il progetto prevedeva di raccogliere 1 milione di euro attraverso le donazioni delle web community per acquistare il capolavoro rinascimentale Le tre grazie di Cranach da un collezionista privato. I principi fondamentali del modello del

229 crowdfunding sono riuniti nel Kapipalist Manifesto, scritto dall'italiano Alberto Falossi (fondatore della piattaforma di crowdfunding Kapipal). Il meccanismo generale che regola il crowdfunding prevede che su una piattaforma web pubblicamente accessibile, gli ideatori pubblichino il proprio progetto, includendo una descrizione dei principali obiettivi, la durata prevista ed il contributo finanziario richiesto, permettendo a chiunque legga il progetto di donare una somma, anche irrisoria, per la sua realizzazione . Il modello più diffuso è il Reward Based , nella forma di All or Nothing , in base a cui il progetto viene finanziato dalla comunità solo se raggiunge il target prefissato. Negli ultimi anni la strategia del crowdfunding è stata adottata per sostenere diverse iniziative in molteplici ambiti, principalmente per finanziare progetti di ricerca, per supportare progetti creativi, per la produzione di album musicali, per la produzione di prodotti software, per progetti nei paesi in via di sviluppo, per finanziare cause benefiche, per il giornalismo, per finanziare campagne politiche. Di seguito si riportano gli esempi più noti ad oggi: Cancer Research UK – MyProjects È un'iniziativa che consente alle persone di donare un contributo a uno specifico progetto di ricerca sul cancro. I donatori possono seguire l'andamento del progetto ed essere aggiornati rispetto ai risultati conseguiti. YouTelethon Si propone come punto d’incontro virtuale della community di sostenitori della ricerca sulle malattie rare. Attraverso YouTelethon i donatori si possono organizzare in reti e attrarre altri donatori, diventando a loro volta fundraiser. Sciflies Su SciFlies il ricercatore realizza un profilo in cui non solo illustra sinteticamente il suo progetto di ricerca, ma racconta anche la propria vita, il suo curriculum e i suoi interessi. Per ogni progetto vengono raccolti tra i 5.000 e i 12.000 dollari. Kickstarter Kickstarter è un sistema di raccolta fondi online per finanziare progetti creativi di varia natura, dai film indipendenti, alla musica, al giornalismo e lo sfruttamento dell'energia solare. Sell a Band È un sito creato per permettere a gruppi musicali emergenti di accumulare il denaro necessario per registrare un album professionale. Con il supporto di professionisti dell'industria musicale, a tutti i gruppi che riescono ad attrarre abbastanza investitori è offerto un produttore uno studio di registrazione e altri servizi.

230 Cofundos Questa iniziativa ha come obiettivo cercare di aiutare a realizzare idee di software open source, fornendo una piattaforma condivisa per la loro discussione e il loro arricchimento e costruendo un processo per organizzare i contributi e gli interessi dei diversi attori coinvolti nell'idea stessa. Kiva Kiva e’ stata fondata nel 2005 a San Francisco da P. Shah e M. Flannery e fino ad oggi ha raccolto quasi $100 mln destinati a piccoli imprenditori dei Paesi in via di sviluppo. Crowdrise Crowdrise è una community di volontari e fundraiser che, facendo leva sul fenomeno del crowd-sourcing e la passione per i Social Network, sfrutta le potenzialità tecnologiche per sensibilizzare l’opinione pubblica e far diventare gli utenti della rete dei veri e propri donatori. Hope Equity Questo servizio consente di finanziare cause benefiche attraverso una parte degli interessi generati da una donazione iniziale, depositata su un conto remunerato. Il donatore ha la possibilità di scegliere quali cause supportare attraverso il sito web. Il modello supporta iniziative in diverse categorie, quali supporto agli orfani, fame nel mondo, educazione, prevenzione. Spot.us Spot.us è un'iniziativa del 26enne D. Cohn che ha potuto sperimentare la sua idea di giornalismo “finanziato dal basso” grazie ad un finanziamento biennale della Knight Foundation. Grazie a questo servizio non profit, chi ritiene importante raccontare una storia o realizzare un’inchiesta giornalistica d’interesse per la comunità, chiede alla medesima il finanziamento per realizzarla (community funded reporting). Composizione del mercato del crowdfunding in Italia52 Le piattaforme di crowdfunding attive al 15 novembre 2012 sono 16; ne sono state individuate altre 5 ancora in fase di lancio. Otto piattaforme italiane appartengono al modello reward-based e cinque al modello donazioni. Solo una piattaforma può essere inserita in qualche modo nel modello equity-based e 2 nel modello Social Lending. In totale, dodici piattaforme hanno risposto al nostro questionario online. Kapipal è stata fondata da Alberto Falossi nel 2009 e si definisce un sito per raccogliere soldi online. Si tratta di una piattaforma generalista che permette di finanziare qualsiasi progetto, in special modo progetti personali, come un compleanno o una lista nozze.

52 Analisi delle piattaforme di crowdfunding italiane – Novembre 2012 – Castrataro, Pais 3

231 Kapipal si definisce anche la prima piattaforma internazionale a supportare il crowdfunding personale. Non impone alcuna commissione sui progetti. Eppela è una piattaforma di reward-based crowdfunding fondata nella seconda metà del 2011 da Nicola Lencioni e gestita da Chiara Spinelli. Permette di finanziarie progetti innovativi e creativi nei campi di arte, tecnologia, cinema, design, musica, fumetto, innovazione sociale, scrittura, moda, no profit. Starteed è stata fondata a fine 2011 da Claudio Bedino. La piattaforma, lanciata a settembre 2012, è un sito di crowdfunding che aiuta le persone a finanziare le proprie idee grazie al supporto finanziario e sociale della Community di Starteed. La piattaforma integra la campagna di crowdfunding con tutte le fasi successive dello sviluppo e vendita del prodotto, offrendo al creatore la possibilità di vendere il proprio prodotto sulla piattaforma stessa. Produzioni dal Basso PdB è ritenuta la prima piattaforma di crowdfunding in Italia, fondata nel 2005 da Angelo Rindone, Lo scopo della piattaforma è quello di “offrire uno spazio a tutti coloro che vogliono proporre il proprio progetto attraverso il sistema delle produzioni dal basso.” Produzioni dal basso è gratuita ed ogni proposta viene gestita in modo autonomo e senza alcuna intermediazione. Boomstarter è una piattaforma generalista di crowdfunding, nata a settembre 2011 proponendosi come primo progetto con una raccolta fondi di 8000 Euro. È un esempio di piattaforma reward-based con modello ‘take-it-all’. Non è certo se la piattaforma sia ancora attiva. Crowdfunding-Italia è una piattaforma di crowdfunding generalista, nata a ottobre 2012. La registrazione a Crowdfunding-Italia è gratuita e c'è alcuna commissione sui fondi raccolti. De Revolutione è “una piattaforma che consente di trasformare le tue migliori idee in Rivoluzioni allo scopo di migliorare concretamente il mondo in cui viviamo”. Musicraiser è una piattaforma di crowdfunding reward-based esclusivamente dedicata alla musica. Fondata dal cantante dei Marta Sui Tubi, Giovanni Gulino, e dalla compagna dj e producer Tania Varuni, la piattaforma è stata lanciata a ottobre 2012 e accetta progetti di raccolta fondi per dischi, tour promozionali, videoclip, concerti, festival e tutto ciò che ha a che fare con la musica. Cineama è una piattaforma e una community dedicata al cinema aperta ai professionisti, ai creativi e agli appassionati di cinema e dintorni. La piattaforma - fondata nel 2011 da Tania

232 Innamorati, Federico Bo, Antonio Badalamenti, Fabrizio Mosca e Savina Neirotti – unisce crowdsourcing e crowdfunding, coinvolgendo direttamente i cineamatori nelle fasi di creazione, produzione, promozione e distribuzione di film, documentari, cortometraggi, web series. ShinyNote nasce nel 2009 da un’idea di Roberto Basso e Fabrizio Trentin, bresciani. Il via ufficiale della piattaforma avviene a marzo 2011. ShinyNote nasce con l’idea e il proposito di “soddisfare il bisogno degli individui di trovare uno spazio condiviso di espressione affettiva ed emotiva”. La piattaforma rappresenta uno spazio condiviso tra organizzazioni non profit e semplici cittadini-utenti, nel quale narrare storie più o meno positive di persone comuni e finanziare progetti di solidarietà. Iodono è un sito di personal fundraising nato nella prima parte del 2010 da un'idea di Direct Channel, società milanese leader nel database management nel settore editoriale e del non profit. L’obiettivo è di permettere alle persone di donare online e di raccogliere fondi per le ONP e per le cause a loro più vicine. BuonaCausa è “l'ethic network dedicato alle buone cause e ai progetti che richiedono sostegno.” La piattaforma consente ad associazioni, testimonial, aziende, donatori e attivisti di collaborare su iniziative e progetti di valore sociale. Retedeldono è una piattaforma web per la raccolta di donazioni a favore di progetti d’utilità sociale ideati e gestiti da organizzazioni non profit. Nata nel 2011 da un'idea di Anna Maria Siccardi e Valeria Vitali, ha l'obiettivo di diffondere in Italia la cultura e la pratica del personal fundraising. Fund For Culture è un sistema di raccolta fondi per la cultura, che vuole “favorire l’incontro tra chi vuole fare cultura in Italia e chi vuole sostenerla a partire da piccole donazioni.” Il progetto nasce a Napoli a ottobre 2010 da un’idea di Adriana Scuotto e Antonio Scarpati. La piattaforma serve “per finanziare iniziative culturali – come ad esempio mostre, restauri, archivi, pubblicazioni, spettacoli e film - promosse da artisti, associazioni no profit, fondazioni culturali, istituzioni pubbliche.” Fund For Culture è ancora in fase di lancio. Youcapital è una piattaforma per la gestione, la pubblicazione e la raccolta di fondi per progetti, inchieste giornalistiche ed altre attività nel mondo dell’informazione e della comunicazione. Nasce a marzo del 2010 su iniziativa dell’Associazione Culturale Pulitzer. Pubblico Bene è un progetto sperimentale di giornalismo d'inchiesta finanziato dai lettori e

233 basato sulla partecipazione di lettori e giornalisti, realizzato grazie al contributo del progetto GECO. La piattaforma, che promuove “un nuovo modello di informazione indipendente, su base locale, ispirato al modello del community funded reporting”, è tuttora in fase di lancio. Open Genius propone una nuova soluzione per aiutare a risolvere la mancanza di fondi per la ricerca: pubblicare i progetti di ricerca sul Web e permettere ai donatori di finanziarli direttamente attraverso il crowdfunding. La piattaforma non è ancora stata lanciata. SiamoSoci è un marketplace for startup, un “motore di ricerca che permette agli investitori di trovare aziende di cui comprendono il business”. Tramite la piattaforma, le aziende non quotate possono raccogliere capitali da investitori privati per finanziare la crescita, facilitando anche la creazione di "club deals" (investimenti di gruppo) tra investitori con diverse professionalità. Smartika approdata in Italia nel 2007 come Zopa Italia, dopo un periodo di pausa dovuto a problemi con la Banca d'Italia, Smartika è ripartita nella prima metà del 2012. Smartika, gestita da Maurizio Sella e dal resto del team che aveva portato Zopa in Italia, offre la possibilità di praticare il social lending in Italia, in modo regolamentato e vigilato da Banca d’Italia a tutela degli utenti. Prestiamoci, piattaforma italiane di prestiti tra persone, nasce nel 2010, fondata da Mariano Carozzi, Paolo Galvani e Giovanni Tarditi, imprenditori con importanti esperienze nazionali e internazionali nel mondo della banca e della finanza. “Prestiamoci si pone l’obiettivo di promuovere il più possibile lo scambio di denaro tra privati, senza l’intermediazione di banche o altri istituti di credito”.

Social lending Per social lending (in italiano prestito sociale ) si definisce un prestito da parte di privati ad altri privati su Internet a titolo di prestito personale. Viene anche chiamato prestito peer-to- peer o prestito tra persone, in analogia ai sistemi di diffusione dati tra utenti diretti. Con questa forma di prestito, chi presta denaro e chi lo riceve percepisce mediamente una quota di interessi più favorevole rispetto a quella proposta dal mercato bancario. Ciò è possibile perché i costi di intermediazione sono ridotti, in quanto il prestatore e il contraente del prestito vengono messi in comunicazione diretta. Questa forma di prestito è solitamente un servizio erogato da una società online, che predispone strumenti di sicurezza per evitare casi di morosità. Ad ogni utente che richiede un prestito viene assegnato un rating, cioè un

234 livello di affidabilità dell'utente, in modo del tutto simile a quello assegnato dalle banche. Più il livello è basso e più i tassi di interesse dovrebbero, in teoria, essere alti per compensare il rischio assunto dai prestatori. Comunque, in caso di morosità, la società intermediaria attiva velocemente un programma di recupero crediti. Si tratta di contratti conclusi a distanza per crediti non garantiti da specifici beni di proprietà del richiedente. Chi eroga il prestito non è qualificato e tutelato come creditore chirografario; l'accordo è una scrittura privata, che ha minore forza rispetto all'atto notarile di mutuo fondiario richiesto dagli istituti di credito per le somme più importanti. L'interesse medio dei prestiti, tuttavia, non incorpora un premio di rischio ed è inferiore a quello degli istituti di credito, che sono pure tutelati da ipoteche e credito chirografario. A questo contribuiscono i ridotti costi di intermediazione e il rendimento accessibile ai prestatori privati e non istituzionali con forme alternative di investimento.

Microcredito Il microcredito è uno strumento di sviluppo economico che permette l'accesso ai servizi finanziari alle persone in condizioni di povertà ed emarginazione. Il microcredito viene definito come " credito di piccolo ammontare finalizzato all’avvio di un’attività imprenditoriale o per far fronte a spese d’emergenza, nei confronti di soggetti vulnerabili dal punto di vista sociale ed economico, che generalmente sono esclusi dal settore finanziario formale ”. Nei paesi in via di sviluppo milioni di famiglie vivono con i proventi delle loro piccole imprese agricole e delle cooperative nell'ambito di quella che è stata definita economia informale. La difficoltà di accedere al prestito bancario a causa dell'inadeguatezza o della mancanza di garanzie reali e delle microdimensioni imprenditoriali, ritenute troppo piccole dalle banche tradizionali, non consente a queste attività produttive di avviarsi e svilupparsi libere dall'usura. I programmi di microcredito propongono soluzioni alternative per queste microimprese e in un certo senso sono paragonabili ai prestiti d'onore. In considerazione dell'efficienza dimostrata in moltissimi casi, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2005 l'Anno Internazionale del Microcredito. Negli ultimi anni, inoltre, sono in corso tentativi di diffusione del microcredito (con gli adattamenti opportuni) anche nelle economie avanzate a sostegno dei cosiddetti "nuovi poveri", cioè non solo coloro che nei paesi sviluppati vivono sulla soglia della sussistenza o

235 al di sotto di essa e che possono trovarsi in gravi difficoltà di fronte a spese improvvise anche di piccola entità; ma soprattutto per la piccola impresa e gli artigiani che dai canali tradizionali non possono accedere e si devono rivolgere quindi al social lending o prestiti peer-to-peer. Questa area del microcredito può essere definita come sostegno al fabbisogno finanziario indistinto (oltre il 70% delle attività e dei programmi promossi). Sempre nell'ambito dei paesi sviluppati, esistono altre dimensioni sostenute dal microcredito: avvio e sostegno di attività economiche (oltre il 20% dei programmi promossi in Italia nel 2006 con una probabilità di restituzione del credito relativamente alta), definibile come "lotta all'esclusione finanziaria" sostegno durante gli studi universitari (9,5% dei programmi promossi in Italia nel 2006). In Italia è stato istituito nel 2006 il Comitato nazionale italiano permanente per il microcredito con il decreto-legge 10 gennaio 2006 n. 2 convertito in legge con la Legge 11 marzo 2006 n. 81. Il Governo Italiano ha emesso la "Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 luglio 2010 - Attività del Comitato nazionale italiano permanente per il microcredito" pubblicata sulla GU n. 220 del 20-9-2010. Particolarmente importante, inoltre, risulta l'impegno delle Banche di Credito Cooperativo - Casse Rurali con numerosi progetti e la stipula di convenzioni con enti e associazioni locali, in tema di microcredito.

MicroFinance Network La MicroFinance Network (MFN), Rete di MicroFinanza in italiano, è una associazione internazionale di istituti bancari specializzati nel microcredito. Nata nel 1993 in Bolivia su iniziativa della BancoSol, oggi ha sede a Washington. I membri dell'MFN credono nella sostenibilità di istituti finanziari anche con una clientela da altri ignorata perché valutata insolvibile e sono tutti impegnati nel miglioramento della qualità della vita dei poveri attraverso l'erogazione di microcrediti, la gestione del risparmio ed altri servizi finanziari. Scopo dell'MFN è di facilitare il flusso di informazioni e lo scambio di esperienze tra i suoi membri e, quando le condizioni locali lo permettono, incoraggia i suoi membri a diventare delle istituzioni finanziarie riconosciute dagli stati dove operano. I membri dell'MFN sono divisi in 3 categorie: - istituti finanziari riconosciuti che erogano microcrediti, - organizzazioni non governative,

236 - istituzioni che forniscono supporto tecnico.

Banche dei poveri Le cosiddette banche dei poveri sono istituti bancari che operano, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, nel campo della microfinanza, ovvero nell'erogazione di servizi finanziari (quali, ad esempio prestiti, gestione del risparmio ed assicurazioni) caratterizzati da importi unitari molto bassi (equivalenti a pochi euro o decine di euro) a soggetti che il settore bancario tradizionale considera "non solvibili". Il primo di tale tipologia di istituti bancari è stato la Grameen Bank fondata nel 1976 da Muhammad Yunus in Bangladesh. Partendo dall'osservazione del fatto che, soprattutto in contesti economici quali spesso quelli riscontrabili nei Paesi in via di sviluppo, basterebbero piccolissime cifre per avviare o migliorare una attività autonoma e conquistare l'indipendenza economica, tali banche si rivolgono - storicamente - a quelle fasce di popolazione che, vivendo in regime di pura sussistenza (piccoli artigiani, piccoli commercianti, piccoli coltivatori, ...), sarebbero altrimenti costrette, per l'assenza di un sistema finanziario che offra loro un accesso equo al credito bancario, a rivolgersi al mercato nero del credito, cioè all'usura; spesso per far fronte ad una condizione povertà non serve, infatti, l'elemosina ma, anche al livello più basso, è necessario offrire un'occasione di riscatto ai singoli per promuovere la crescita dell'economia attraverso l'erogazione di piccoli prestiti, prestiti spesso troppo bassi per essere considerati dagli istituti di credito tradizionali dal momento che le sole spese burocratiche da questi sostenute ne farebbero lievitare il costo in modo da non renderli convenienti; le banche dei poveri nascono ed operano, invece, proprio con l'obiettivo di rendere remunerativo questo tipo di servizio. Per conseguire questo risultato tali tipi di istituti bancari operano nei Paesi in via di sviluppo basandosi, nella maggior parte dei casi, sui seguenti principi: 1.non si propongono come un ente burocratico a cui rivolgersi per ottenere un prestito, ma sono i funzionari della banca che si spostano di villaggio in villaggio per avvicinare i possibili clienti; 2.sia per abbattere i costi sia per andare incontro ad una clientela in maggioranza analfabeta, la maggior parte della documentazione cartacea viene abolita ed i prestiti vengono concessi sulla fiducia e senza alcuna garanzia bancaria;

237 3.per ridurre ulteriormente i costi e rendere più sicura la restituzione attraverso la mutua solidarietà, i crediti vengono normalmente concessi a piccoli gruppi di richiedenti che sono moralmente impegnati ad aiutarsi l'un l'altro in caso di difficoltà; 4.nel suo giro per i villaggi l'impiegato incontra i clienti, riscuote le rate dei pagamenti e raccoglie gli eventuali risparmi, anche se di valore modestissimo; 5.i prestiti, piccoli o grandi che siano, debbono essere restituiti dal momento che non si tratta di assistenzialismo, ma di un prestito dato da una banca ad un suo cliente; 6.la restituzione avviene sempre in forma rateale, spesso settimanale, in modo che eventuali difficoltà del contraente sono subito evidenziate e danno modo alla banca di intervenire in tempo (ad esempio concedendo delle dilazioni). Questi semplici meccanismi hanno dato, negli anni, risultati sorprendenti: le condizioni di vita dei beneficiari migliorano (ad es. grazie all'avvio di un'attività artigianale o al miglioramento di quella già praticata grazie all'acquisto di nuove attrezzature); il tasso di restituzione dei prestiti erogati è, in media, del 99%; con gli utili conseguiti la banca paga gli stipendi degli impiegati ed allarga ulteriormente il giro dei prestiti. Oggi diffuse in numerosi Paesi in via di sviluppo, alcune di queste banche si sono associate a livello internazionale creando il MicroFinance Network (vedi sopra): i componenti di tale organizzazione sono oltre 20 tra ONG, banche commerciali ed istituzioni di supporto che offrono consulenza tecnica. L'esperienza delle banche dei poveri è stata di recente importata, con i necessari adattamenti, anche nei paesi sviluppati per cercare di soccorrere i cosiddetti nuovi poveri, chi, cioè, può trovarsi in gravi difficoltà anche per pagare una semplice bolletta o per far fronte a spese improvvise: un esempio di tale tipo di organizzazioni è, in Italia, il fondo di aiuto sociale "Essere" al quale partecipano associazioni di quartiere, gruppi sportivi, associazioni cattoliche ed imprenditori di Firenze che, supportati da un istituto di credito locale, erogano prestiti dell'importo massimo di poche migliaia di euro. Le stesse condizioni di vita di pura sussistenza, in cui versano ancora oggi così tante persone nel terzo mondo, sono assimilabili a quelle sperimentate nell'Italia dell'Alto medioevo e del Rinascimento; anche in tale, diverso, contesto storico, la necessità di soccorrere gli indigenti aveva già ispirato soluzioni assimilabili alle moderne banche dei poveri portando alla creazione di Monti che elargivano semenze o prestiti in

238 denaro da restituire con tassi di interesse minimi: i Monti frumentari, i Monti pecuniari ed i Monti di pietà.

239 10.3 UNIONE EUROPEA

L’UE non è ascrivibile alle categorie concettuali degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Essa presenta una serie di elementi (soggettività,organizzazione,formazione) che ne attestano l’autonomia rispetto agli altri ordinamenti giuridici nazionali. L’ Unione europea infatti non ambisce a sostituirsi ad essi, ma li assorbe. La cittadinanza europea presuppone quella nazionale senza superarla. L’unione non si sostituisce agli Stati se non in ambiti limitati Ordina diversamente il potere, instaura un governo a più arene Non è l’organo parlamentare ad avere una posizione di preminenza, ma l’insieme di quelli che governano: il Consiglio europeo, il Consiglio dei ministri, la Commissione europea. Le istituzioni europee hanno ottenuto risultati preclusi agli Stati, senza mutuarne i principi di organizzazione e di azione. Solitamente le finalità dell’integrazione sono considerate in rapporto all’economia. Ordinate secondo una scala di intensità crescente, consistono nella previsione di clausole commerciali preferenziali. Solo nell’UE vi è un mercato unico ,al quale si aggiungono unione economica e monetaria, con la conseguente rinuncia degli Stati di batter moneta e alla sovranità di bilancio. Nell’UE sogliono distinguersi gli organi primari, qualificati come istituzioni, da quelli secondari come l’assemblea elettiva e la Banca centrale. Gli ordinamenti regionali hanno un ampia estensione geografica, nascono geneticamente da un Trattato stipulato fra Stati. La qualità di soggetto spetta solo agli Stati hanno stipulato l’accordo istitutivo o vi hanno aderito in seguito. L’appartenenza all’ordinamento è frutto della volontaria adesione dei soggetti che ne fanno parte: giuridicamente non vi è alcun vincolo di natura coercitiva imposto ai vari gruppi che decidono di associarsi. La cittadinanza è un requisito per l’esercizio di diritti e per l’assolvimento di doveri: va ben oltre il riconoscimento reciproco da parte degli Stati membri. Tuttavia è uno status di

240 secondo grado, nel senso che l’Unione non ha la potestà di disciplinare con proprie norme acquisizione e la perdita della cittadinanza. La storia dell’UE non è lineare e progressiva Essa è formata da pause, parziali regressi, conflitti, ma le caratteristiche dominanti sono : - comuni interessi economici - affinità di ordine storico, culturale, politico - rispetto dei diritti fondamentali (rule of law) - dovere di assicurarne il rispetto - essere dotata di uffici propri, giuridicamente autonomi, raccordati con gli uffici pubblici nazionali - avere un organo parlamentare eletto direttamente dai cittadini, al quale si aggiunge una sorta di collegamento ai parlamentari nazionali

Rilevante è anche la legittimazione processuale dei privati :l’idea stessa che un individuo in quanto tale sia autorizzato ad adire un tribunale internazionale è quasi rivoluzionario. L’ UE è dotata di giudici che hanno una giurisdizione generale ed esclusiva dotata di forza esecutiva all’interno dei sistemi processuali degli Stati membri. Per concludere L’UE incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana, sui rapporti interprivati, oltre che su quelli che concorrono tra i privati e i pubblici poteri.

Breve Cronologia Ragionata Nel 1986 è stato approvato l’Atto Unico Europeo e creato il mercato unico. Gli Stati dell’Europa centro orientale iniziano a presentare le richieste di adesione fra il 1990 e il 1996, con l’apertura degli accordi di associazione e con la fissazione a Copenaghen nel giugno del 1993 dei criteri per l’adesione. Nel 1992 il Trattato di Maastricht individua la necessità di una conferenza intergovernativa per approfondire i temi dell’Europa allargata. A questa conferenza faranno seguito: -il Trattato di Amsterdam 1997 -il Trattato di Nizza 2001 Nel 1993 a seguito del Trattato di Maastricht è nata l’Unione Economica e Monetaria.

241 Criteri per l’ingresso Il vertice di Copenaghen diede priorità a: 1) Condizioni politiche- stabilità istituzionale, garanzia di democrazia, legalità,rispetto dei diritti umani 2) Condizioni economiche – un’ economia di mercato funzionante 3) Capacità istituzionale - avere una democrazia sostanziale e un economia funzionante 4) Contesto generale di compatibilità - l’allargamento non poteva avvenire verso realtà statuali 5) Criterio di adesione - adozione dell’Acquis Comunantaire, cioe’ l’insieme delle regole e dei fini della Comunità/Unione Europea.

Il Parlamento Europeo Eletto la prima volta a suffragio universale diretto nel 1979, il Parlamento europeo è composto da 732 deputati europei. Con l’ingresso nel 2007 di Bulgaria e Romania, il numero è destinato ad aumentare fino a un totale massimo di 786 deputati. Le elezioni si tengono ogni 5 anni e si svolgono contemporaneamente in tutti gli Stati membri. Le sedute plenarie si svolgono a Strasburgo, mentre le riunioni delle commissioni e dei gruppi politici generalmente a Bruxelles. Nel Lussemburgo hanno sede gli uffici del Segretariato Generale. A partire dal 1993 è stato istituito l’elettorato attivo e passivo per l’elezione dell’Europarlamentari, che rappresenta uno dei diritti della cittadinanza europea.

Organizzazione L’organizzazione e il funzionamento interno sono disciplinati in base ai Trattati istitutivi e al regolamento interno, che viene adottato dal Parlamento stesso a maggioranza dei membri che lo compongono. Il regolamento determina anche le modalità con cui gli atti adottati dal Parlamento verranno pubblicati e resi noti all’esterno. Il Parlamento designa tra i propri membri un Presidente ed un ufficio di Presidenza.

242 Il Presidente viene eletto a maggioranza assoluta e rimane in carica per due anni e mezzo. Egli dirige le attività del Parlamento e presiede le sedute plenarie. nonché le riunioni dell’ Ufficio di Presidenza e delle Conferenza dei Presidenti. L’Ufficio di Presidenza è composto dal Presidente,da 14 vice presidenti nonché da 5 questori .Resta in carica due anni e mezzo. Il Parlamento europeo si riunisce e delibera in sedute aperta al pubblico. I deputati si riuniscono una settimana al mese in sessione plenaria a Strasburgo; in questa sede il Parlamento esamina la legislazione proposta,vota gli emendamenti e prende decisioni sul testo complessivo. Per le altre due settimane i deputati si riuniscono all’interno delle commissioni parlamentari, e si occupano di preparare i lavori per la sessione plenaria. L’ultima settimana del mese è dedicata alla riunioni dei gruppi politici.

I gruppi politici I gruppi politici sono sette: -PPE-DE Gruppo del partito popolare europeo -PSE Gruppo socialista al Parlamento Europeo -ALDE Gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei liberali per l’Europa -Vert/ALE Gruppo verde/Alleanza liberale europea -GUE/NGL Gruppo confederale della sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica -IND/DEM Gruppo Indipendenza/Democrazia UEN Gruppo Unione per l’Europa delle Nazioni

Funzioni e poteri Il Parlamento Europeo esercita 3 poteri fondamentali: 1) il potere legislativo Se l’iniziativa legislativa rimane una prerogativa della Commissione Europea,il Parlamento europeo può chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte per le quali reputi necessaria l’elaborazione di un atto di Comunità. Insomma il Parlamento esercita la funziona legislativa congiuntamente al Consiglio, partecipando alle procedure di adozione degli atti comunitari

243 (PROCEDURA DI CODECISIONE)

2) il potere di bilancio Al Parlamento spetta l’ultima parola sulla maggior parte delle spese,mentre il Consiglio decide in via definitiva sulle spese agricole. Il Parlamento ha tuttavia il potere di respingere il bilancio nel suo insieme,e in questo caso la procedura bi bilancio deve ricominciare da capo.

3) il potere di controllo democratico Al parlamento compete infine il potere di controllo democratico sull’intero attività comunitaria. La Commissione presenta annualmente al Parlamento una relazione generale sull’attività della Comunità che viene discussa in seduta pubblica, e verte non solo sulle attività svolte nell’anno procedente ma anche sulle linee progettuali per l’anno in corso.

Lo strumento di controllo più pregnante rimane quello della censura, che il Parlamento può adottare nei confronti della Commissione relativamente all’operato di quest’ultima. Per la censura è necessaria la maggioranza assoluta dei deputati e i 2/3 dei voti espressi :produce come effetto immediato quello delle dimissioni in blocco della Commissione.

Il Consiglio dell’Unione Europea E’ noto anche come Consiglio dei ministri europei ed ha sede a Bruxelles; è composto dai ministri degli Stati membri. Insieme al Parlamento europeo costituisce il ramo legislativo dell’Unione.

Composizione del Consiglio La presidenza del Consiglio è assunta a rotazione da uno Stato membro ogni sei mesi, secondo un ordine fisso. Attualmente le formazioni sono nove: -economia e finanza -cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni -occupazione,politica sociale. salute e consumatori

244 -competitività -trasporti,telecomunicazioni ed energia -agricoltura e pesca -ambiente -istruzione. gioventù e cultura

Funzioni Il Consiglio dell’Unione svolge le seguenti funzioni: 1) adotta le leggi solitamente congiuntamente al Consiglio europeo 2) coordina le politiche generali congiuntamente con gli Stati membri 3) definisce la politica estera e di sicurezza comune della UE 4) conclude accordi internazionali tra la UE e uno o più Stati o organizzazioni internazionali.

Funzionamento del Consiglio Il Consiglio “Affari generali”assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio:prepara infatti le riunioni e ne assicura il seguito. Un Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) dei governi degli Stati membri è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio. Gli atti del Consiglio possono assumere la forma di regolamenti,direttive e decisioni. Attualmente le decisioni vengono adottate a maggioranza semplice,qualificata o all’unanimità,e in caso di maggioranza mediante l’attribuzione dei voti stabiliti dal Trattato di Nizza.

Regolamenti Il regolamento è un atto vincolante a portata generale. Tutti gli elementi che lo compongono sono direttamente applicabili e devono essere rigorosamente osservati dagli Stati membri:sono obbligatori in ogni suo elemento (obbligatorietà integrale),senza deroghe o modifiche di sorta. Devono essere motivati ,firmati dal Presidente del Parlamento europeo e dal Presidente del Consiglio dell’UE.

245 I regolamenti vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità europea, ed entrano in vigore dopo un periodo di vacatio legis di venti giorni.

Direttive Si rivolgono esclusivamente agli Stati membri e li vincolano al raggiungimento di uno specifico risultato. Nella prassi comunitaria risulta sempre più frequente l’uso di direttive dettagliate,che lasciano allo Stato membro un ben ristretto margine di discrezionalità traducendosi un forme anomale di regolamento.

Decisioni Sono atti obbligatori a portata individuale ovvero vincolano in modo diretto i soli destinatari da esse designati siano questi soggetti privati o Stati membri. Le decisioni emanate ai privati vengono prese dalla Commissione in materia di concorrenza,mentre il Consiglio provvede a emanare decisioni indirizzate esclusivamente agli Stati.

Commissione Europea La Commissione Europea è il centro del processo di decisione politica dell’Unione Europea. È formata da 27 commissari ,inoltre altre 15000 persone che lavorano per essa. Compiti della Commissione - Ha l’iniziativa legislativa - Fa rispettare le direttive europee e l’integrità del mercato unico - Sostiene ,gestisce e sviluppa le politiche dell’agricoltura e dello sviluppo regionale - Organizza programmi di ricerca e di sviluppo tecnologico

I commissari Europei Essi sono tenuti ad un assoluta indipendenza nei confronti dei governi nazionali e ad agire esclusivamente nell’interesse dell’Unione Europea. Il Presidente è nominato dai Capi di Stato e di Governo riuniti in sede di Consiglio europeo previa consultazione del Parlamento europeo. Gli altri membri della Commissione sono nominati da 15 governi degli Stati membri, in consultazione con il nuovo Presidente.

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Lavori La Commissione si riunisce una volta alla settimana, per svolgere i suoi lavori che possono essere l’adozione di proposte, la messa a punto di documenti politici e l’esame della situazione nei principali settori interessati dalle politiche europee.

Responsabilità democratica La legittimità democratica della Commissione è sempre più rafforzata dal rigoroso e crescente controllo a cui il Presidente e i suoi colleghi sono sottoposti da parte del Parlamento. La Commissione prima di entrare in carica ,deve ricevere il voto di investitura del Parlamento Europeo. I membri del Parlamento possono essere costretti alle dimissioni collettive nel caso in cui il Parlamento approvi una mozione di censura nei confronti della Commissione.

Organizzazione Il funzionamento di questo organo è regolato dai Trattati istitutivi,dal regolamento interno e dal Presidente. Al vertice della struttura organizzativa si trova dunque il Presidente coadiuvato da uno o due vicepresidenti. L’apparato amministrativo è suddiviso in 23 direzioni generali e in vari servizi e uffici (giuridico, statistici, ecc) Direzioni generali della Commissione europea: Direzione generale Affari economici e finanziari Direzione generale Agricoltura Direzione generale Ambiente Direzione generale Concorrenza Direzione generale Energia e Trasporti Direzione generale Fiscalità e Unione doganale Direzione generale Giustizia e affari interni Direzione generale Imprese

247 Direzione generale Istruzione e cultura Direzione generale Mercato interno Direzione generale Occupazione e affari sociali Direzione generale Pesca Direzione generale Politica regionale Direzione generale Ricerca Direzione generale Salute e tutela dei consumatori Direzione generale Società dell’informazione Centro Comune di Ricerca Direzione generale Relazioni esterne Direzione generale Allargamento Direzione generale Sviluppo ECHO-Ufficio per gli aiuti umanitari Europe Aid-Ufficio di Cooperazione Direzione generale Commercio

Potere di iniziativa legislativa La Commissione è l’organo principale a cui i Trattati hanno delegato il potere di iniziativa legislativa. Una volta che la Commissione ha formalmente presentato una proposta al Consiglio e al Parlamento l’iter legislativo dipende in buona misura da una cooperazione efficace tra le tre istituzioni

Le sue principali funzioni principali - Potere di iniziativa legislativa - Custode dei trattati - Gestione ed esecuzione delle politiche della Unione europea e delle relazione commerciali ed internazionali La Commissione non ha il diritto esclusivo di iniziativa nei due settori della cooperazione intergovernativa contemplati con il trattato sull’ Unione europea: la politica estera e di sicurezza comune ,e la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.

248 Custode dei trattati La Commissione vigila sulla corretta applicazione della legislazione comunitaria da parte degli Stati membri ; in caso di inadempienza degli obblighi derivanti dai trattati,viene avviata una procedura di infrazione che può condurli a subire il giudizio della Corte di giustizia La Commissione ha il poter di prendere provvedimenti nei confronti di individui, imprese e organizzazioni per la violazione di norme comunitarie fermo restando il diritto di appello alla Corte di giustiza. Le pratiche legali di fissazione dei prezzi e gli accordi illeciti , sono stati oggetto della sua attenzione e sanzionati con ammende molto elevate. Essa vigila inoltre sulle sovvenzioni pubbliche alle imprese. Amministra il bilancio annuale dell’Unione europea.

La Corte di Giustizia Si compone di un giudice per ogni Stato membro dell’UE e otto avvocati generali. Sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri e restano in carica per sei anni rinnovabili. I giudici della Corte designano tra loro il Presidente della Corte con un mandato di tre anni. La Corte può riunirsi in sessione plenaria ,in gran seziona(13 giudici)o in sezione composta da cinque a tre giudici. La Corte si riunisce in sessione plenaria in casi eccezionali previsti dai Trattati .

Competenze e poteri I suoi poteri sono applicati in diverse forme. Ricorso per inadempimento La Corte controlla il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi sanciti dal diritto comunitario . Il ricorso alla Corte di giustizia è proceduto da un procedimento preliminare ( procedura di infrazione ) avviato dalla Commissione ,nel corso del quale lo Stato membro ha la possibilità di rispondere alle accuse . Se la Corte accerta l’inadempimento, lo Stato è tenuto a porvi fine immediatamente .

249 Qualora lo Stato non ottemperi alla sentenza della Corte ,la Commissione può avviare una nuova procedura di infrazione di fronte alla Corte di giustizia, che se accerta l’inadempimento condanna lo Stato al pagamento di un ammenda . Ricorso per annullamento Il ricorrente chiede alla Corte l’annullamento di un atto legislativo:il ricorso può essere fatto da uno Stato membro o da un privato se l’atto lo riguarda direttamente. La Corte segue grosso modo le procedure dei tribunali nazionali.

250 11. PROSPETTIVE

A conclusione di questa analisi sulla figura delle ONG, resta da esaminare quali siano le prospettive future di sviluppo di questi soggetti che operano a livello internazionale. Quando si è parlato dell’evoluzione storica delle ONG, si è visto che, le vere e proprie relazioni internazionali inter-statali sono sorte più come una conseguenza (o forse anche per timore) dello sviluppo improvviso ed imponente dei rapporti tra privati nel corso del XIX secolo. Tutto ciò dimostra quanto l’individuo, con la propria attività, sia parte inscindibile ed attiva delle relazioni internazionali: a testimonianza dell’importanza della sua iniziativa si sono portati alcuni esempi il più significativo dei quali è senza dubbio dato da Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa. La questione fondamentale, oggi, sta nel chiedersi se gli individui possano ancora incidere così significativamente sulle relazioni internazionali e sulla vita degli Stati. Certo, il successo dell’opera di Dunant è stato reso possibile grazie alla minore complessità delle relazioni tra gli Stati del suo tempo, mentre oggi ad un singolo sarebbe più difficile influenzare la condotta del governo ed ancora meno quello di uno Stato estero.

Tuttavia un’equivalente opera di pressione, può essere quella condotta da privati uniti tra loro; gli esempi sono ancora una volta la Croce Rossa, in quanto ONG, Amnesty International, la “Società Antischiavista”, l’Istituto di Diritto Internazionale e, negli anni della guerra del Vietnam, il cosiddetto “Tribunale Russell”, senza menzionare l’opera svolta dalle principali ONG presso il Consiglio Economico e Sociale delle N.U. Perciò, nonostante il crescente processo che prende avvio a partire dalla Pace di Westfalia del 1648, con la nascita del moderno Stato sovrano, di appropriazione e regolamentazione da parte dello Stato di tutte le attività una volta esclusivamente private, l’individuo unitosi ad altri in gruppi organizzati, può ancora svolgere all’interno del diritto internazionale, un compito attivo che diventa fondamentale in momenti di crisi e di emergenza. Risulta del resto quasi impossibile pensare al singolo cittadino senza un’organizzazione ove possa manifestare e cercare di concretizzare i propri ideali, poiché il risultato sarebbe pessimo: egli dipenderebbe esclusivamente dal diritto internazionale elaborato dai Governi e

251 non avrebbe alcuna ragione di sperare in un futuro che desse maggior sicurezza di quella offerta dallo Stato o dalla comunità internazionale statale. Il problema maggiore, la cui soluzione sembra ancora abbastanza lontana, è quello della ricerca di un equilibrio tra le attività delle ONG e gli interessi dei governi. Si è visto quanto questi due elementi siano d’ostacolo alla predisposizione di legislazioni uniformi che regolino lo status di residenti delle ONG, ma qui il conflitto è ancor più profondo ed è politico: si tratterebbe di una rinuncia degli Stati a determinati compiti che essi ritengono invece di propria esclusiva competenza. Ad esempio: in campo bancario e finanziario, gli Stati tendono a monopolizzare il controllo e la regolamentazione dei flussi di moneta in nome di non meglio definiti superiori interessi collettivi, mentre i privati, a loro volta, ritenendo di avere maggiore competenza, vorrebbero assumere la gestione di tali attività. Lador a conclusione del suo lavoro sulle ONG afferma che le ONG stesse sono gruppi di pressione più che una categoria di associazioni democratiche, con caratteristiche che, se non sono rivoluzionare, sono senza dubbio riformiste nel senso più estremo del termine, dato che sorgerebbero e troverebbero ragione di vita nel reclamare quel tipo di società che gli Stati sarebbero incapaci di promuovere proprio perché, per definizione, gelosi custodi dello “status quo”. Sembra che una interpretazione che voglia far apparire le ONG come strumenti di pressione dei singoli contro uno Stato incapace di qualsiasi cambiamento sia abbastanza eccessiva; è vero che vi sono state e vi sono ONG che nascono ed hanno ragione di esistere nel malcontento dei singoli, ma è necessario mettere in luce quale sia l’importanza delle ONG come strumenti di armonizzazione e mediazione delle opinioni e delle idee. Innanzitutto tra i singoli componenti di esse e ancor più tra queste e la comunità internazionale statale: prerogativa che nessun Stato sarà in grado di togliere loro, proprio perché fondate sull’adesione libera e volontaria dei singoli. A questo proposito è sufficiente portare ad esempio l’importanza dell’opera consultiva svolta da molte ONG presso il Consiglio Economico e Sociale delle N.U. o presso il Consiglio d’Europa, opera che certo non ha alcun carattere rivoluzionario. Ed è in questo campo che le ONG andranno via via assumendo sempre maggiore importanza, forse Lador guardando gli albori della vita delle ONG ha potuto correttamente

252 scorgere nel malcontento dei singoli il catalizzatore del fenomeno associativo, ma col tempo questo fattore è andato scemando a favore dell’attività collaborativi e di consulenza con gli Stati: opera che le ONG, proprio perché libere non solo nella struttura, ma anche nell’accettazione dei propri membri, sanno svolgere nel migliore dei modi. A loro favore depone inoltre anche la maggior competenza e la più approfondita conoscenza dei problemi: da quelli inerenti ai flussi bancari a quelli di diritti umani che esse possiedono in virtù della loro specifica ed esclusiva attività.

253 12. ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE

12.1 CROCE ROSSA E MEZZALUNA ROSSA Il Movimento della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa Internazionale, costituisce la più grande organizzazione umanitaria del mondo. Henry Dunant (Ginevra 08.05.1828 – Heiden 30.10.1910) viene considerato il fondatore della Croce Rossa. La sua opera la si può ricondurre alla battaglia di Solferino del 24.06.1859, durante la Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, che vide schierati gli esercito franco-piemontese ed austriaco ed ebbe come risultato circa 40.000 caduti e feriti. Egli arrivò sul campo di battaglia al termine del combattimento e si trovò di fronte al terribile scenario di migliaia di feriti di ambo le parti abbandonati con quasi nessuna cura. Dunant iniziò ad organizzare i primi soccorsi, anche acquistando con propri denari, i primi medicinali. Il principio della sua azione era quello di prestare soccorso ai soldati di entrambi gli schieramenti, senza alcuna distinzione. Tale esperienza lo segnò profondamente e rientrato in Svizzera nel 1862, pubblicò un libro dal titolo “Souvenir de Solferino” dove descrisse quanto era accaduto. Nello stesso anno, insieme ad altri quattro cittadini svizzeri, Gustave Moynier, un giurista, Henry Dufour, un generale e Louis Appia e Theodore Maunoir, due medici, creò il Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti, chiamato anche “Comitato dei cinque”, antenato del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Il 26 ottobre 1863 , lo stesso Dunant, organizzò a Ginevra una Conferenza internazionale con l’adesione di 18 rappresentanti di 14 nazioni che il 29 ottobre dello stesso anno sottoscriveranno la Prima Carta Fondamentale definendo le funzioni ed i mezzi dei Comitati di Soccorso. Nacque così il Movimento Internazionale della Croce Rossa. Nel 1864 scoppiò la guerra tra la Danimarca e la Prussia e questo fu il primo banco di prova per le società nazionali di soccorso che intervennero in aiuto dei feriti. L’8 agosto del 1864 il Governo Elvetico organizzò una conferenza diplomatica alla quale parteciparono i rappresentanti di 12 nazioni che si concluse con la ratifica della prima convenzione di Ginevra per il miglioramento della sorte dei feriti in campagna.

254 Nel 1919 un dirigente della Croce Rossa Statunitense, Henry P. Davidson, propose per la prima volta l’impiego delle risorse e delle strutture delle varie società nazionali della Croce Rossa anche in tempo di pace. Il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa rappresenta oggi una forza di circa 120 milioni di persone, dedite all’assistenza ai feriti e malati; il Movimento nacque nel 1928 a seguito della XIII Conferenza Internazionale dell’Aja. Questo Movimento opera sulla base di sette principi fondamentali, adottati dalla XX Conferenza Internazionale della Croce Rossa svoltasi a Vienna nel 1965, che costituiscono lo spirito e l’etica della stessa Croce Rossa. Essi sono:

UMANITA’ “Nata dalla preoccupazione di recare soccorso senza alcuna discriminazione ai feriti nei campi di battaglia, la Croce Rossa, sotto il suo aspetto internazionale e nazionale, si sforza di prevenire e di alleviare in ogni circostanza la sofferenza degli uomini. Essa tende a proteggere la vita e la salute e a far rispettare la persona umana, favorisce la comprensione reciproca, l’amicizia ed una pace duratura fra tutti i popoli”. Non è solo il soccorso il suo obiettivo primario, ma anche la prevenzione alla sofferenza ed è per questo che gli operatori si preoccupano di diffondere l’educazione alla salute e la conoscenza dei principi fondamentali del Diritto Umanitario Internazionale.

NEUTRALITA’ “Al fine di conservare la fiducia di tutti, si astiene dal prendere parte alle ostilità e, in ogni tempo, alle controversie di ordine politico, razziale, religioso e filosofico”. Essa quindi pone la propria struttura al servizio della collettività, senza appoggiare o favorire gli interessi di una parte; ciò gli permette di ottenere la fiducia di tutti.

IMPARZIALITA’ “La Croce Rossa non fa alcuna distinzione di nazionalità, di razza, di religione, di condizione sociale ed appartenenza politica. Si adopera solamente per soccorrere gli individui secondo le loro sofferenze dando la precedenza agli interventi più urgenti”. Si dà pari dignità ad ogni uomo.

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INDIPENDENZA “La Croce Rossa è indipendente. Le Società nazionali, ausiliarie dei poteri pubblici nella loro attività umanitaria e sottomesse alle leggi che reggono i loro rispettivi paesi, devono però conservare un’autonomia che permetta di agire sempre secondo i principi della Croce Rossa” La Croce Rossa deve mantenere la propria autonomia da ingerenze politiche, pur avendo sovvenzioni da parte dello stato cui appartiene.

VOLONTARIATO “La Croce Rossa è un’istituzione di soccorso volontaria e disinteressata” Vi sono infatti coloro che aderiscono spontaneamente al Movimento e prestano la loro opera gratuitamente, ma anche coloro che vengono regolarmente retribuiti e sono dei dipendenti della Croce Rossa.

UNITA’ “In uno stesso paese può esistere una ed una sola Società di Croce Rossa. Deve essere aperta a tutti ed estendere la sua azione umanitaria a tutto il territorio” Importante è la diffusione capillare della Croce Rossa su tutto il territorio; il principio di unità è rivolto a tutti coloro che operano all’interno del movimento.

UNIVERSALITA’ “La Croce Rossa è un’istituzione universale in seno alla quale tutte le Società hanno uguali diritti ed il dovere di aiutarsi reciprocamente” Necessaria quindi una visione globale dei bisogni.

I Membri del Movimento sono: Il Comitato Internazionale della Croce Rossa: viene finanziato dai contributi delle Società nazionali e può lanciare particolari appelli agli stati a fronte di particolari avvenimenti. E’ depositario dei principi fondamentali del Movimento ed è delegato al riconoscimento delle Società Nazionali nuove o al controllo delle modifiche apportate nei singoli statuti. Tra i

256 suoi compiti vi è quello di lavorare al perfezionamento del Diritto Internazionale Umanitario ed alla comprensione e diffusione delle Convenzioni di Ginevra. Nei conflitti esercita una funzione di intermediario tra le vittime dei medesimi e quindi fornisce assistenza alle vittime e può accertare le condizioni dei prigionieri di guerra, trasmettendo notizie ai familiari ed organizzando i soccorsi per le popolazioni civili. La Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa: è un’associazione privata internazionale non governativa. Suoi organi sono l’assemblea, il consiglio esecutivo, il tesoriere, la Commissione permanente di ripartizione delle quote e delle finanze. Essa agisce quale organo di coordinamento tra le società nazionali per portare soccorso con tutti i mezzi alle vittime di catastrofi ed favorendo la creazione di nuove società nazionali. Società nazionali come ad esempio la Croce Rossa Italiana (ved. più avanti). Gli Organi del Movimento Internazionale della Croce Rossa sono: La Conferenza Internazionale: è l’organo supremo che riunisce tutte le delegazioni delle società nazionali, del Comitato Internazionale e delle Federazione Internazionale. Si riunisce ogni quattro anni e assicura il coordinamento e l’unità degli sforzi di tutto il Movimento. Le sue decisioni vincolano gli organi della Croce Rossa in merito all’interpretazione e revisione degli statuti e per le controversie che possono sorgere tra gli stati firmatari. Il Consiglio dei Delegati: istituito nel 1884 durante la III Conferenza di Ginevra per assicurare l’organizzazione delle Conferenze e regolare i problemi di procedura. Commissione Permanente: l’organo preposto alla preparazione della Conferenza Internazionale e per assicurare il coordinamento degli sforzi del Comitato Internazionale.

L’emblema viene utilizzato per garantire neutralità e protezione al personale ed alle strutture atte alla cura dei feriti e malati anche delle forze armate e come previsto dalla Convenzione di Ginevra l’emblema può essere utilizzato solo per questo. In Italia l’uso del simbolo della Croce rossa è concesso alla 6 componenti che formano la Croce Rossa Italiana.

257 Il nome e l’emblema venne stabilito con la Convenzione di Ginevra del 1864 ed indipendentemente dalla natura religiosa venne adottato in omaggio alla Svizzera, che aveva organizzato la convenzione, invertendo i colori della bandiera nazionale elvetica.

Nel 1876, l’allora Impero Ottomano, dichiarò che tale emblema contrastava con le convinzioni religiose delle sue truppe e quindi venne adottato come simbolo la Mezzaluna Rossa in campo bianco. Tale emblema venne poi adottato da altri paesi musulmani. Nel 1923 la Persia (oggi Iran), adottò l’emblema del leone e sole rosso su fondo bianco, ma con la proclamazione della repubblica Islamica nel 1980, dopo la caduta dello Scià, venne ripristinata la Mezzaluna Rossa, anche se l’emblema con il leone ed il sole era stato riconosciuto. Anche Israele avanzò la richiesta di riconoscimento della Stella di David rossa in campo bianco, sostenendo che se erano stati riconosciuti la croce e la mezzaluna doveva esserlo anche la stella quale simbolo della religione ebraica. Tale simbolo non è però stato riconosciuto a livello internazionale proprio per il fatto che spesso si è ribadito che l’utilizzo dell’emblema della croce o della mezzaluna non riguarda convinzioni religiose. Il Movimento ha sviluppato un nuovo simbolo, il cristallo rosso in campo bianco che dovrebbe superare le varie problematiche, poiché all’interno del cristallo si potrà collocare il simbolo del paese; l’8 dicembre del 2005 è stato votato come il nuovo simbolo ufficiale della Croce E Mezzaluna Rossa. Le quattro Convenzioni di Ginevra più i due protocolli aggiuntivi forniscono la base per le leggi fondamentali del Diritto internazionale Umanitario; in particolare riguardano: I conv. “Per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti o malati in campagna” II conv. “Per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti, malati o naufraghi in mare” III conv. “Per il miglioramento delle condizioni dei prigionieri di guerra” IV conv. “Per la protezione dei civili in tempo di guerra”

La Croce Rossa italiana è oggi un Ente di diritto pubblico con prerogative di carattere internazionale, con lo scopo di assistenza sanitaria e sociale sia in tempo di guerra che in

258 pace. E’ posta sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e sottoposta alla vigilanza dello Stato e sotto il controllo del Ministero della Difesa e della Sanità. Il primo “Comitato dell’Associazione Italiana per il Soccorso ai feriti ed ai malati in guerra”, si costituisce a Milano ad opera del Comitato Medico Milanese, il 15 giugno del 1864, sotto la presidenza del Dott. Cesare Castiglioni. Sempre nello stesso anno, in dicembre, si approva il regolamento del Comitato di Milano che sarà il primo Comitato Italiano della futura Croce Rossa Italiana. Già nella guerra con l’Austria del 1866, vennero inviate al seguito delle truppe, le prime quattro squadre. Solo nel 1882 l’associazione viene inserita nella Raccolta Ufficiale delle Leggi e Decreti del Regno d’Italia; l’Associazione viene eretta in Corpo Morale; nel 1884 con il Regio Decreto n. 1243 del 7 febbraio viene riconosciuta formalmente ed assoggettata ai Ministeri della Guerra e della Marina, distinguendola così dalle opere pie e congregazioni religiose. Il Regio Decreto del 10.08.1928 n. 2034 provvede ad assicurarne il funzionamento; successivamente con Regio Decreto del 21.01.1929 n. 11 e Decreto Reale del 01.04.1930 viene approvato lo Statuto, con il quale si riconosce la funzione della Croce Rossa Italiana ad operare non solo in caso di conflitto, ma anche in tempo di pace per la prevenzione delle malattie e il soccorso in caso di calamità naturali. Nel 1947 con decreto legislativo vengono integrati i compiti della CRI, anche con la preparazione del personale ausiliario. Con la Legge del 20.03.1975 n. 70 la CRI viene classificata come Ente di assistenza generica ed assoggettata alla disciplina degli enti parastatali. L’organizzazione della CRI subisce poi delle modifiche con il trasferimento alle regioni delle competenze in ambito sanitario. Da ultimo, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 06.05.2005 n. 97 si approva il nuovo Statuto della CRI definendola appunto quale ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica. Nello stesso statuto vengono definiti i suoi compiti ed i rapporti con gli altri organi dello Stato.

259 12.2 ALTRE ONG

12.2.1 GREENPEACE Greenpeace viene definita come un’organizzazione non violenta che utilizza azioni dirette per denunciare in maniera creativa i problemi ambientali e promuovere delle soluzioni. Può oggi contare su circa tre milioni di sostenitori in tutto il mondo ed è indipendente da qualsiasi partito politico. Come data di fondazione dell’associazione, viene considerato il 15 settembre 1975, quando Jim Bohlen, Irving Stowe e Paul Cote noleggiano un peschereggio, il “Phyllis Cormack” e salpano verso il Pacifico Settentrionale, verso Amchitka, dove gli Stati Uniti stavano eseguendo dei test nucleari. La Guardia Costiera sequestra l’imbarcazione ed arresta le persone a bordo, ma la presenza della nave in quelle acque fa si che il test venga rinviato; la bomba viene fatta esplodere il 6 novembre ma l’eco di quanto è successo si è diffuso nel mondo e da allora tale località non verrà più utilizzata per i test nucleari. L’anno dopo l’associazione rivolge la sua attenzione verso l’arcipelago di Muroroa, dove la Francia sta eseguendo dei test nucleari. Con un imbarcazione partita dalla Nuova Zelanda, i membri di Greenpeace riescono a ritardare i test, finché una nave francese sperona l’imbarcazione di Greenpeace che è così costretta a farsi rimorchiare proprio a Muroroa per le riparazioni. I filmati presi fanno però il giro del mondo e la Francia nel 1974 annuncia la fine dei test atmosferici.

Nel 1975 Greenpeace lancia la sua campagna più famosa in difesa delle balene che rischiano l’estinzione per la caccia indiscriminata. L’idea è quella di affrontare le baleniere sul posto e tramite gommoni di porsi tra le balene e le baleniere per impedire il lancio di arpioni; le foto degli arpioni che sfiorano i gommoni degli attivisti di Greenpeace fanno il giro del mondo e contribuiranno a far si che si decida una moratoria nella caccia alle balene. Greenpeace continua a crescere sempre più impegnata nelle sue campagne a difesa della flora e della fauna; nel 1985 viene affondata una sua nave, la Raimbow Warrior mentre è in porto in Nuova Zelanda; nell’esplosione rimane ucciso un fotografo che si trovava sulla barca.

260 Dell’azione, da più parti viene data la responsabilità ai servizi segreti francesi, ma l’inchiesta ufficiale non attribuisce responsabilità dirette al Governo di Parigi, anche se due mesi dopo il sabotaggio si dimette il ministro della difesa francese. Da allora l’associazione ha sempre utilizzato delle navi per le proprie attività , basando la propria azione su delle manifestazioni dirette non violente, manifestando appunto nei luoghi direttamente interessati da quell’evento in particolare; Greenpeace si basa sempre su una ricerca scientifica molto particolareggiata, proprio al fine di ottenere delle prove inconfutabili di quanto sta accadendo. Per il fatto di non accettare finanziamenti da enti governativi, riesce a mantenere una certa indipendenza ed autonomia. Oggi esistono uffici nazionali nei singoli paesi, tra cui l’Italia e vi è poi una sede ad Amsterdam con carattere internazionale. L’associazione italiana di Greenpeace ha un proprio statuto che stabilisce l’organizzazione interna dell’associazione. Molte sono state le campagne promosse dall’associazione in varie direzioni, quali: − campagna energia e clima; − campagna mare; − campagna foreste; − campagna OGM; − campagna inquinamento.

261 12.2.2 UNESCO É un’agenzia delle Nazioni Unite fondata nel 1945. Esso è stato proposto per contribuire alla pace, alla sicurezza, attraverso la scienza, la cultura e il rispetto della giustizia, delle regole di legge, e dei diritti umani. L’Unesco è composto da 193 Stati membri, ha sede a Parigi, ed ha varie filiali nel mondo intero. I progetti sponsorizzati dall’Unesco includono: -promozione di diversità culturali; -accordi internazionali di cooperazione per la sicurezza delle culture mondiali e per preservare i diritti umani; -programmi internazionali scientifici; -programmi di tecniche e training per insegnanti.

Struttura L’Unesco è formato da: -Conferenza Generale. È una riunione di Stati membri, in cui ognuno ha un voto. Viene svolto un meeting ogni due anni, per definire le linee di programma dell’organizzazione. -Executive Board In essi vi sono 58 membri eletti dalla Conferenza Generale, che prepara la sessione di quest’ultima. Anche il CRE rientra in questa fascia (di cui si parlerà in seguito). -Segretariato È formato dal Direttore Generale più il suo staff. Attività L’ Unesco svolge varie attività tra cui: -Educazione Crea opportunità di educazione per tutti i popoli. Per questo ha creato l’IIEP(International Institute for Educational Planning). Utilizza anche rapporti, come il Rapporto sulla Violenza del 1989, in cui rifiuta la teoria che gli esseri umani sono predisposti alla violenza. Il diritto all’educazione è uno dei diritti fondamentali proclamati dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (art.26). Una

262 delle principali missioni dell’Organizzazione è promuovere l’educazione come diritto fondamentale dell’uomo. -Progetti di rilevanza culturale e scientifica (L’uomo e la biosfera; le risorse idriche attraverso programmi internazionali idrologi …) -Incoraggia il libero flusso di idee attraverso immagini e parole (Programma di sviluppo delle Comunicazioni;programma di promozione delle diversità culturali) -Promuove eventi (Decade internazionale della promozione di una cultura di pace e non violenza) Insomma è un laboratorio internazionale di idee che forgiano accordi universali basati su principi etici.

Principi fondamentali dell’Unesco I principi fondamentali adottati dall’Unesco sono: 1) Principio di non discriminazione 2) Trattamento di uguaglianza e pari opportunità 3) Acceso universale all’educazione 4) Principio di solidarietà

Breve cronologia ragionata Prima della seconda guerra mondiale, la funzione dell’educazione era riservata a insegnare, trasmettere valori che cambiavano poco da generazione a generazione in società relativamente stabili. - Nel 1942 ci fu una Conferenza dei ministri dell’ educazione a Londra, un organo che conseguentemente diede vita all’Unesco. - Nel 1946 ci fu l’adozione della Costituzione dell’Unesco. - Nel 1959 fu adottata la dichiarazione dei diritti del bambino nel novembre 1959. - Nel 1960 ci fu la Convenzione contro la discriminazione nell’Educazione adottata dalla Conferenza generala dell’Unesco,14 dicembre 1960. - Nel 1965 ci fu una convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, adottata dalla Assemblea Generale.

263 -Nel 1974 nacquero le Raccomandazioni sull’educazione per la cooperazione internazionale, la pace e l’educazione relativa ai diritti umani e alle libertà fondamentali adottata dalla Conferenza Generale dell’Unesco, Parigi 19 Novembre 1974. - Nel 1978 fu fatta la Carta internazionale dell’Educazione Fisica e dello Sport, adottata dalla Conferenza Generale dell’Unesco, 21 Novembre 1978. - Nel 1979 ci fu la Conferenza sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro la donna, adottata dalla Assemblea Generale delle NU, New York 18 Dicembre 1979. - Nel 1989 ci fu la Convenzione sulla educazione tecnica adottata dalla Conferenza Generale dell’Unesco, Parigi 10 Novembre 1989. - Nel 1990 ci fu la Dichiarazione sull’apprendimento degli adulti, Amburgo 18 luglio 1997. - Nel 2000 ci fu il Forum sull’educazione mondiale per tutti, meeting adottato dalla Conferenza mondiale sull’educazione, Dakar 2000.

Strumenti adottati dall’Unesco Gli strumenti adottati dall’Unesco sono: -Conferenze -Raccomandazioni -Piani di lavoro Essi vengono adottati dall’Unesco e dalle NU per provvedere a una normativa sul diritto all’educazione.

Funzione di controllo Il CRE (Committee on Conventions and Recommendations in Education) esamina rapporti periodici che gli Stati membri dell’Unesco le devono inviare relativamente all’educazione, alle istituzioni scientifiche e culturali, insomma a tutto ciò che è stato fatto a riguardo. Si tratta di un organo sussidiario dell’Unesco.

Responsabilità degli Stati al rispetto delle regole La responsabilità degli Stati al rispetto delle regole è patrocinato dalla Conferenza mondiale sull’educazione per tutti (1990); poi nel 2000 dal Forum sull’Educazione mondiale a Dakar.

264 Relazioni tra gli Stati membri Il settore delle relazioni esterne e delle cooperazioni (ERC) e il dipartimento Africa (AFR), mantengono la relazioni con gli Stati membri. Attraverso l’ AFR si mantengono le relazioni con gli Stati africani, invece l’ERC è responsabile delle relazioni con gli Stati membri. Le relazioni con gli Stati membri sono assicurate dal Direttore e dagli uffici nazionali dell’Unesco. Molti Stati membri hanno costituito delegazioni permanenti dell’Unesco, guidate da ambasciatori. Inoltre molti degli Stati membri hanno formato una Commissione nazionale per l’Unesco, che è un organo di cooperazione per l’Unesco. Altri Stati hanno nominato dei ministri responsabili a mantenere i rapporti con l’Unesco.

265 12.2.3 W.W.F. È la più grande organizzazione mondiale per la conservazione della natura. Sta per World Wild Fund, acronimo modificato in World Wide Fund For Nature. Fu fondato l’11 settembre 1961 in Svizzera (Principe Bernardo d’Olanda, Principe Filippo d’Edimburgo, Ser Peter Scott che disegnò il logo originale….). Ha uffici in 60 paesi, la sede è a Glaad (Svizzera). La missione del WWF è di bloccare la distruzione dell’ambiente naturale del pianeta, e contribuire alla costruzione di un pianeta in cui l’uomo possa vivere in armonia con la natura. Per cui si batte per: -conservare la biodiversità del pianeta; -assicurare che l’uso di risorse naturali sia sostenibile; -promuovere misure per la riduzione dell’inquinamento e degli sprechi di risorse. L’approccio del WWF è focalizzato su sei temi prioritari di interesse globale: - le foreste - gli oceani - le coste - l’acqua - le specie in pericolo - pericoli legati a agenti chimici tossici e al cambiamento del clima. Gestisce 1200 progetti di conservazione all’anno in tutto il mondo che coinvolgono la popolazione locale. Inoltre il WWF per raggiungere il suo scopo non trascura il ruolo delle imprese; giunge anche a stipulare accordi di partnership con quelle che si impegnano, secondo un protocollo concordato, a ridurre il proprio impatto.

Collegio dei probiviri Composizione e nomina Il Collegio dei Probiviri é previsto all’art. 24 dello Statuto dell’Associazione Italiana per il WWF ed è composto da tre membri effettivi e due supplenti. Almeno un componente del Collegio deve avere competenze professionali in campo giuridico. I componenti non possono ricoprire contemporaneamente altre cariche associative.

266 I membri del Collegio dei Probiviri vengono eletti dall'Assemblea Nazionale e durano in carica tre anni. In occasione della riunione di insediamento e con modalità autonomamente definite, i membri effettivi del Collegio eleggono al proprio interno un Presidente che può rimanere in carica per l’intero mandato o per una frazione di esso, in accordo con gli altri membri effettivi. A discrezione del Presidente i due membri supplenti possono essere invitati alle riunioni, cui assistono senza diritto di voto; essi debbono invece essere convocati in sostituzione dei membri effettivi in caso di dimissioni o decadenza dalla carica degli stessi o di loro indisponibilità a svolgere le funzioni per un periodo superiore a tre mesi. Inoltre, in caso di dimissioni o decadenza il membro del Collegio dimissionario o decaduto deve essere reintegrato con apposita elezione nella prima Assemblea Nazionale utile. L’operato del Collegio non è sindacabile da parte di altri Organi Istituzionali dell’Associazione. I membri del Collegio decadono anticipatamente dal mandato solo in caso di volontaria cessazione della qualità di Socio o di dimissioni dal Collegio stesso, che vanno comunicate in forma scritta agli altri membri, al Presidente e al segretario Generale dell’Associazione.

Competenze Il Collegio esamina i casi disciplinari interni all’Associazione che gli vengono deferiti dai Soci e dagli organi istituzionali e Sociali e decide sugli stessi. Il Collegio inoltre ha competenza nelle controversie inerenti l’applicazione ed interpretazione di Statuto e Regolamenti, nonché nei conflitti interni all’Associazione; in questi casi il Collegio, fermo restando quanto di sua specifica competenza rispetto ai casi disciplinari, esamina i casi che gli sono deferiti rinviandoli agli Organi Istituzionali competenti o formulando un parere motivato per il Consiglio Nazionale o per i Consigli regionali di riferimento. Il Consiglio Nazionale può richiedere al Collegio dei Probiviri di esprimere parere su altre materie inerenti il funzionamento dell’Associazione.

267 Funzionamento Il Collegio si riunisce su convocazione del suo Presidente quando lo stesso o altro membro del Collegio lo ritenga opportuno, ovvero quando ne sia richiesto dal Presidente dell’Associazione o dal Segretario Generale. Per l’insediamento del Collegio il Presidente dell’Associazione provvede alla prima convocazione accertandosi in quella occasione della disponibilità degli eletti a ricoprire l’incarico e ad intervenire. Le convocazioni ordinarie devono pervenire per lettera raccomandata, telegramma, o fax almeno dieci giorni prima della data fissata per la riunione; in caso di particolare urgenza il termine può essere abbreviato avendo la segreteria verificato preventivamente la disponibilità dei membri del Collegio a partecipare alla riunione. Le riunioni non sono pubbliche ed i membri del Collegio sono tenuti a mettere in atto tutti i comportamenti necessari a garantire la necessaria riservatezza in merito ai dati e alle notizie raccolte, anche in osservanza delle normative vigenti sulla tutela dei dati personali. Le riunioni sono valide con la presenza di almeno due membri effettivi e un supplente o dei tre membri effettivi, e sono presiedute dal Presidente del Collegio o, in caso di sua assenza, dal membro più anziano di età. Il Presidente cura che venga redatto e sottoscritto il verbale delle riunioni, che va trasmesso in copia per opportuna documentazione al Comitato Direttivo e al Segretario Generale. I componenti del Collegio, in quanto Organo Istituzionale dell’Associazione, prestano la loro opera a titolo gratuito salvo il rimborso delle spese vive sostenute per l’espletamento dell’incarico. Per ciascuno dei singoli casi deferiti al Collegio dai Soci e dagli organi istituzionali e Sociali, oppure ritenuti dallo stesso Collegio meritevoli di esame, il Presidente nomina un relatore. Il relatore ha il compito di raccogliere la documentazione specifica, curare la necessaria istruttoria e redigere la relazione con la proposta di decisione sul caso, sia che si tratti di rinvio agli Organi Istituzionali competenti che di parere motivato al Consiglio Nazionale, o di provvedimento disciplinare. I casi vengono esaminati nell’ordine in cui sono posti all’esame del Collegio, come registrati su apposito protocollo della corrispondenza; fatta salva la necessità, accertata con

268 propria autonoma decisione e verbalizzata dal Presidente del Collegio, di anticipare la discussione di questioni di particolare rilevanza e urgenza per l’Associazione. Qualora il Collegio sia chiamato a pronunziarsi su questioni disciplinari debbono essere convocati per essere sentiti il Socio o i Soci interessati. Il Collegio può altresì autonomamente decidere di convocare e consultare persone informate sulle questioni da esaminare e acquisire la documentazione ritenuta necessaria. I provvedimenti disciplinari devono essere emessi entro novanta giorni dall’avvio dell’istruttoria con la nomina del relatore. Tutti i provvedimenti sono emessi per iscritto e devono essere motivati adeguatamente; devono essere comunicati ai Soci interessati e trasmessi al Consiglio Nazionale, al Segretario Generale ed al Consiglio della Sezione regionale di riferimento. Le deliberazioni sono valide con il voto unanime dei partecipanti alla riunione. Provvedimenti disciplinari I provvedimenti disciplinari che il Collegio dei Probiviri può adottare sono i seguenti: ammonimento, censura, sospensione dalla carica associativa, esclusione dall’Associazione; l’esclusione dall’Associazione viene proposta dal Collegio dei Probiviri all'Assemblea Nazionale, cui spetta la decisione. L’ammonimento viene adottato nei confronti di Soci che abbiano commesso lievi mancanze nell’applicazione dello Statuto e dei Regolamenti dell’Associazione, o abbiano contravvenuto a direttive degli Organi Istituzionali legittimamente emanate, senza che ciò abbia leso il prestigio della stessa ovvero arrecato danno patrimoniali o di immagine al WWF. La censura viene adottata nei confronti di Soci che abbiano commesso gravi mancanze nell’applicazione dello Statuto e dei Regolamenti dell’Associazione, o abbiano contravvenuto deliberatamente a direttive degli Organi Istituzionali legittimamente emanate, o abbiano tenuto comportamenti contrari all’etica del WWF ed ai principi ispiratori dell’Associazione; viene adottata inoltre nel caso in cui le discussioni interne all’Associazione siano scadute ad atti ingiuriosi o abbiano coinvolto Organi Istituzionali e parti dell’Associazione estranei alla questione di cui si discute, od anche nel caso in cui le discussioni interne al WWF siano state deliberatamente portate all’attenzione dei mezzi di

269 comunicazione. Al provvedimento di censura si aggiunge di norma la richiesta di dimissioni dalle eventuali cariche interne dell’Associazione. La sospensione della carica associativa viene adottata per le stesse violazioni previste per la censura, qualora le mancanze siano ripetute o aggravate da comportamenti violenti; ed in tutti i casi, anche di mancanze di lieve entità, per i quali esista il rischio di danni patrimoniali e di immagine per l’Associazione dalla permanenza del Socio nell’ambito delle attività del WWF. La sospensione comporta la contestuale decadenza dalle eventuali cariche interne all’Associazione. La sospensione dalla carica associativa ha una durata massima di dodici mesi; al termine di questo periodo il Socio deve essere reintegrato in tutte le funzioni salvo la sua sospensione fino alla prima Assemblea Nazionale utile nel caso in cui il Collegio intenda proporre il provvedimento di esclusione. In questo caso la proposta deve essere deliberata entro la scadenza del periodo di sospensione. L’esclusione dall’Associazione viene proposta all’Assemblea dal Collegio dei Probiviri in tutti i casi in cui le violazioni delle norme di convivenza interne all’Associazione sopra richiamate abbiano assunto caratteristiche di particolare gravità, e quando il Socio abbia arrecato pregiudizio all’immagine dell’Associazione, o l’abbia danneggiata intenzionalmente con i suoi comportamenti; può essere proposta immediatamente o durante una sospensione dalla carica associativa. Il Collegio ha la più ampia autonomia nell’applicazione delle sanzioni, con l’obbligo di motivazione.

Custodia degli atti e dei documenti, funzioni di segreteria Gli originali delle decisioni e dei documenti inerenti le attività del Collegio sono custoditi presso la sede dell’Associazione, ed il Segretario Generale ne assicura la riservatezza in osservanza delle normative sulla tutela dei dati personali. Per l’assolvimento dei propri compiti il Collegio dei Probiviri si avvale del supporto organizzativo dello staff del WWF Italia disposto dal Segretario Generale dell’Associazione.

270 12.2.4 AMNESTY INTERNATIONAL Amnesty International è un'organizzazione non governativa a livello internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani. Il simbolo di Amnesty International è una candela nel filo spinato. L’organizzazione è stata fondata dall’avvocato inglese Peter Benenson che, sembrerebbe aver seguito il suggerimento di un suo amico, impegnato come lui in un’organizzazione comunista, di fondare una nuova organizzazione che doveva occuparsi di promuovere campagne richiedendo l’amnistia dei prigionieri in Spagna (nel periodo della guerra civile spagnola). Benenson ha evitato potenziali critiche del movimento comunista raccontando la storia dei due studenti portoghesi che sono stati condannati per aver brindato alla libertà. La campagna è stata avviata nel maggio del 1961 e nel mese di luglio è stato deciso che il manifesto avrebbe assunto la forma di un organizzazione permanente. Inizialmente il movimento era conosciuto come “Appeal for Amnesty 1961” e solo nel settembre 1962 è stato adottato l’attuale denominazione “Amnesty International”. L’organizzazione ha ricevuto, nel 1977 il Premio Nobel per la pace e nel 1978 il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani. La visione di Amnesty International è quella di un mondo in cui ad ogni persona sono riconosciuti tutti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e da altri atti sulla protezione internazionale dei diritti umani. La missione di Amnesty International è, pertanto, quella di promuovere, in maniera indipendente e imparziale, il rispetto dei diritti umani sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e quello di prevenirne gravi abusi dei diritti all'integrità fisica e mentale, alla libertà di coscienza e di espressione e alla libertà dalla discriminazione, nell'ambito della propria opera di promozione di tutti i diritti umani. Al fine di garantire la propria indipendenza ed imparzialità Amnesty International non accetta fondi provenienti da governi od enti governativi, oppure da organizzazioni intergovernative.

Aree di attività Le principali aree di attività di Amnesty International riguardano i diritti delle donne, il diritto dei bambini, la fine della tortura e della pena di morte, i diritti dei rifugiati e i diritti

271 dei prigionieri di coscienza. Alcuni degli obiettivi dell’organizzazione sono l’abolizione della pena di morte e delle esecuzioni extragiudiziali, assicurare condizioni dignitose ai prigionieri, assicurare un processo giusto ai prigionieri politici, assicurare l’educazione libera dei bambini a livello globale, combattere il reclutamento ed uso dei bambini soldati, liberare i prigionieri di coscienza, promuovere diritti economici, sociali e culturali per comunità emarginate, proteggere i difensori dei diritti umani, promuovere la tolleranza religiosa, combattere l’uso della tortura, e garantire i diritti degli immigrati dei rifugiati politici.

Metodi Amnesty International persegue i propri obiettivi utilizzando diverse tecniche per informare e mobilitare l’opinione pubblica. Uno dei punti di forza dell’organizzazione consiste nella pubblicazione di dossier dettagliati ed imparziali. Le campagne per mobilitare l’opinione pubblica possono essere svolte relativamente ad un singolo individuo, ad un paese, o per tematica. Una campagna su un paese o su un tema coinvolge a tutti i livelli il movimento e prevede l'utilizzo delle più diverse tecniche per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica e la pressione verso i governi violatori: invio di appelli, contatti con le ambasciate, organizzazione di eventi pubblici, attività di lobby presso i governi e le organizzazioni internazionali. I singoli individui possono partecipare sottoscrivendo gli appelli mondiali. Le azioni urgenti sono utilizzate quando è fondamentale agire immediatamente. Quando il Segretariato ha notizia di imminenti violazioni dei diritti umani lancia un'azione urgente. Nelle successive 48 ore gli aderenti alla rete che ricevono i casi si attivano inviando fax, telegrammi e messaggi di posta elettronica. Gli action files sono dossier d’azione assegnati direttamente dal Segretariato Internazionale ai Gruppi locali. L'obiettivo è quello di far rilasciare un prigioniero di coscienza, di scoprire le circostanze inerenti a "sparizioni" o esecuzioni extragiudiziali, di promuovere l'introduzione in un determinato paese di una salvaguardia legale o l'abrogazione di leggi, della tortura, della pena di morte. Un’altra modalità di azione utilizzata da Amnesty è quella della crisi, che viene attivata quando in un paese si verifica un aggravamento delle violazioni dei diritti umani a causa di

272 guerre, conflitti interni, catastrofi ambientali o altre situazioni di emergenza. Il meccanismo della "crisis-response" consiste in tante attività fortemente concentrate per fermare gli abusi sui civili e per contribuire a porre i diritti umani al centro di ogni azione della comunità internazionale. Parte del lavoro di Amnesty consiste anche nel fare richieste e pressione sui governi, rendere pubbliche le loro violazioni e inviare raccomandazioni sul rispetto dei diritti umani, con una delicata attività di rapporti con le istituzioni. Amnesty chiede alle istituzioni di proporre e sostenere disegni di legge volti a promuovere e a difendere i diritti umani, affinché i diritti umani ne costituiscano il parametro di valutazione ineludibile. Altro aspetto fondamentale dell’impegno di Amnesty è quello dell’educazione ai diritti umani.

Struttura Amnesty International è un organizzazione fatta sopratutto di volontari che donano un po' del loro tempo e delle loro risorse personali ed, in particolare, donano il loro lavoro, la loro energia e creatività al fine del conseguimento dello scopo dell’organizzazione. Solo un gruppo ridotto di professionisti viene pagato per svolgere le proprie mansioni. A livello globale, il Segretariato Internazionale, con sede a Londra, si occupa di coordinare le attività delle Sezioni nazionali, di svolgere ricerche ed elaborare rapporti, nonché diffondere i documenti su cui si basa l’azione dell’organizzazione stessa. Il Segretario Generale di Amnesty è responsabile della conduzione quotidiana degli affari generali del movimento ed è primo portavoce di Amnesty in tutto il mondo. L’attuale Segretaria Generale di Amnesty International è Irene Khan, cittadina del Bangladesh. Nei paesi in cui Amnesty International ha una presenza di rilievo i suoi membri si organizzano come sezioni le quali organizzano le attività di base dell’organizzazione e partecipano alle campagne su singoli paesi o regioni o su temi che il Segretariato Internazionale ritiene in quel momento necessarie. Le reti di azione regionale sono invece reti di Gruppi Amnesty appartenenti a diverse Sezioni nazionali che si occupano di una particolare regione del mondo. La base di Amnesty International è rappresentato dal gruppo locale i quali ricevono indicazioni riguardo le azioni da compiere sia dai coordinamenti nazionali sia dal segretariato internazionale. I

273 gruppi Amnesty svolgono inoltre l’attività di raccolta fondi, ricerca e addestramento dei nuovi soci, diffusione degli appelli allo svolgimento delle campagne e collaborazione con gli enti locali, La Sezione Italiana di Amnesty è stata costituita nel 1975, sotto la forma di associazione, con sede a Roma, ed attualmente conta oltre 80.000 soci. La Sezione Italiana ha adottato uno Statuto che può essere rivisto nell’ambito dell’Assemblea Generale annuale (alla quale posso partecipare tutti i soci). Alcune delle attività della sezione nazionale sono: la gestione dell'archivio soci, l’organizzazione delle campagne, i rapporti con la stampa, le iniziative nazionali di raccolta fondi, la produzione di materiale promozionale, le attività editoriali dell’associazione. Il lavoro sui vari paesi viene organizzato da strutture di volontari specializzati su determinate aree geografiche o temi. A livello regionale operano le Circoscrizioni che hanno il compito di raccordare l'attività dei Gruppi locali con le linee strategiche d'azione formulate dal Comitato Direttivo e dal Consiglio delle Circoscrizioni.

274 13. GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA E COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

Premessa Dal 2004 al 2007, prima dello scoppio della crisi economica, l’economia mondiale ha conosciuto cinque anni di progressi eccezionali del PIL – più del 5% annuo di crescita – ma allo stesso tempo una formidabile crescita delle disuguaglianze. Il fondatore della ONG umanitaria ACTED 53 , Frédéric Roussel si è rallegrato di tale crescita, indice che la macchina va sempre più veloce; tuttavia la macchina è una centrifuga e più va veloce, più la ricchezza è redistribuita verso il centro. La crescita porta con sé, inoltre, l’illusione del modello delle economie emergenti: illusione che ha fatto della Tunisia, per esempio, il modello di sviluppo agli occhi delle istituzioni internazionali o degli Stati occidentali, finché il paese non è caduto in una rivolta democratica e sociale. Di fronte a tale cinismo, sono sempre più numerose le iniziative per uscire da una logica economica schizofrenica e riconciliare le istanze dei consumatori, dei produttori e dei cittadini.

In questo contesto, il commercio equo e solidale guadagna importanza: non si tratta di uno slancio egoistico al fine di proteggere l’industria locale dalla concorrenza straniera, ma al contrario un’importante movimento al fine di promuovere un consumo responsabile di tutti i beni, in particolare di quelli che abbiamo sempre importato, come cacao e caffè. Il commercio equo e solidale cerca anche di promuovere una migliore ripartizione della ricchezza, il rispetto dei diritti umani fondamentali dell’individuo e dell’ambiente, basandosi infatti sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il cui articolo 23 54 recita che “Ogni lavoratore ha diritto ad una remunerazione equa che assicuri a lui e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana”.

53 Vedi www.acted.org 54 Articolo 23: “ 1) Ogni persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta del suo lavoro, a condizioni eque e soddisfacenti di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione; 2) Tutti hanno diritto, senza discriminazione, ad un salario uguale per lavoro uguale; 3) Chi lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui ed alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se opportuno, da ogni altro mezzo di protezione sociale; 4) Ogni persona ha diritto di fondare con altri dei sindacati e affiliarsi a dei sindacati per la difesa dei suoi interessi.”

275 Il commercio equo e solidale si basa sull’attività delle imprese e delle ONG che sviluppano partenariati 55 economici o commerciali con l’obiettivo di trovare un accordo sul giusto prezzo, per coprire i costi di produzione integrando però anche i costi sociali ed ambientali. Gli acquirenti, come i produttori, si obbligano pertanto a rispettare tutte le convenzioni fondamentali (es. OIL 56 ) che prevedono, ad esempio, il divieto del lavoro minorile o il riconoscimento della libertà sindacale. Altri criteri sono ugualmente tenuti in considerazione, in particolare la durata degli accordi commerciali tra le parti tiene conto delle tempistiche atte a garantire ai produttori una programmazione a lungo termine. Il movimento del commercio equo e solidale è completato con altre iniziative che lo completano, come quelle relative alla Responsabilità sociale d’impresa o Investimento socialmente responsabile o ancora la Global Compact Initiative. Il programma “Better factories Cambodia 57 ” è un esempio di come un accordo bilaterale tra Cambogia e USA nel settore tessile abbia condizionato gli scambi al rispetto delle norme sociali, alla luce del principio di condizionalità.

55 "Il Commercio Equo è un partenariato commerciale basato sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira ad una maggiore equità; nel commercio internazionale. Contribuisce allo sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali a produttori svantaggiati e lavoratori, particolarmente nel Sud, e garantendone i diritti. Le organizzazioni di Commercio Equo, col sostegno dei consumatori, sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in azioni di sensibilizzazione e in campagne per cambiare le regole e pratiche del commercio internazionale convenzionale" (F.I.N.E., 2001). Il commercio equo e solidale (conosciuto internazionalmente come Fair Trade) contribuisce quindi ad uno sviluppo sostenibile complessivo attraverso l'offerta di migliori condizioni economiche e assicurando i diritti per produttori marginalizzati dal mercato e per i lavoratori, nel Sud del mondo. Inoltre, le organizzazioni del commercio equo e solidale (FTOs - Fair Trading Organisations) sono coinvolte attivamente nell'assistenza tecnica dei produttori, nell'azione di sensibilizzazione dell'opinione pubblica e delle istituzioni e nello sviluppo di campagne volte al cambiamento delle regole e delle pratiche del commercio internazionale. La loro attività; si sviluppa attraverso criteri generali ben definiti. 56 L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne. I suoi principali obiettivi sono: promuovere i diritti dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro. L’OIL è l’unica agenzia delle Nazioni Unite con una struttura tripartita: i rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori determinano congiuntamente le politiche ed i programmi dell’Organizzazione. L’OIL è l’organismo internazionale responsabile dell’adozione e dell’attuazione delle norme internazionali del lavoro. Forte dei suoi 183 Stati membri, l’OIL si prefigge di assicurare che le norme del lavoro siano rispettate sia nei principi che nella pratica. 57 Vedi www.betterfactories.org

276 Al di là degli esempi, ciò che veramente serve è una chiara e seria volontà politica; l’applicazione di norme sociali ed ambientali concrete che condizionino gli scambi commerciali dei principali paesi, quali USA ed Europa, non possono infatti più accontentarsi di esigere da paesi vulnerabili di ratificare le convenzioni: dovrebbero invece ispirarsi all’ampiezza del commercio equo per imporre regole coercitive, controllarne l'applicazione e sanzionarne il mancato rispetto.

277 13.1 IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

Introduzione

Nel periodo successivo al crollo dell’Unione Sovietica, le politiche realizzate dai diversi stati e i profondi mutamenti avvenuti in campo tecnologico, sociale e finanziario hanno aggravato le disuguaglianze tra Paesi del Nord e del Sud del mondo, portando a quella che Perna definisce “una fase contrassegnata da una crescente polarizzazione sociale,” 58 accompagnata “da una ghettizzazione/esclusione della grande maggioranza degli umani.” 59 Con l’emergere di questa nuova fase della globalizzazione, la società civile ha chiesto il riconoscimento delle responsabilità che le istituzioni nazionali e internazionali hanno di fronte alle nuove problematiche mondiali. Un progetto che ha influenzato, anche se in maniera limitata, i vertici delle Nazioni Unite sui diritti umani, sull’ambiente, sulle donne e sullo sviluppo sociale, senza però ottenere una risposta adeguata dalla maggior parte delle istituzioni politiche. Per questo motivo, la società civile ha cercato una strada diversa, espandendo le proprie attività oltre i confini nazionali, attraverso la creazione di una rete di “relazioni e azioni collettive senza frontiere, indipendenti dall’operato degli stati e dei mercati.” 60 All’interno della società civile, gli attori che si stanno dimostrando sempre più attenti e sensibili a temi come la globalizzazione e l’impatto ambientale, sono le organizzazioni e i movimenti sociali, che sono riusciti a portare avanti le loro rivendicazioni, attraverso la costruzione di solide reti d’informazioni e l’organizzazione di campagne e azioni comuni, scavalcando le istituzioni politiche. I movimenti per i diritti umani, delle donne e dei bambini, i movimenti per la pace e contro la pena di morte e i gruppi ecologisti e antinucleari, grazie all’indebolimento degli stati nazionali, sono riusciti a occupare, secondo Falk, “gli spazi democratici disponibili per resistere alla globalizzazione dall’alto,” 61 rendendo la cosiddetta globalizzazione dal basso “il veicolo per la promozione a livello

58 Tonino Perna, “Fair Trade. La sfida etica al mercato mondiale”, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 60; 59 ivi, p. 60; 60 Mario Pianta, “Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali”, Manifestolibri, Roma, 2001, p. 31; 61 Richard Falk, “Predatory Globalization. A Critique”, Cambridge Polity Press, 1999, p. 134;

278 transnazionale di una democrazia sostanziale come contrappeso al neoliberismo.” 62 Negli ultimi anni, infatti, questi movimenti si sono rafforzati e hanno contestato con determinazione il potere delle multinazionali e degli stati più influenti, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il WTO, attraverso campagne e iniziative, realizzate a livello nazionale e internazionale, con l’obiettivo di realizzare in maniera concreta un’economia globale più democratica, responsabile e sostenibile. Quello che rivendicano è, quindi, un “nuovo modello di democrazia sovranazionale, di rispetto per le autonomie degli stati, di coinvolgimento della società civile nel prendere le decisioni che riguardano i cittadini del mondo.” 63 Questa nuova organizzazione concepisce un nuovo modo di rapportarsi al potere in quanto si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini, che, attraverso la creazione di reti di relazioni, si propongono di soddisfare quelle esigenze sociali cui gli stati nazionali non sono in grado di provvedere. Emerge, quindi, la consapevolezza di una forza che auspica l’assunzione di responsabilità degli attori coinvolti e che vede nel conflitto sociale lo strumento attraverso cui opporsi alle regole del mercato liberista. All’interno di questi nuovi movimenti sociali, Pianta 64 individua cinque diverse matrici ideologiche, ognuna delle quali caratterizzata da un proprio progetto politico e di azione. In primo luogo i riformatori, di cui fanno parte alcune ONG degli Stati Uniti e dell’Europa settentrionale e quelle attive nel campo della cooperazione allo sviluppo e della tutela ambientale, rilevano la necessità di riforme procedurali, senza escludere la possibilità di una collaborazione con i governi e le istituzioni. I radicali, invece, mettono in discussione i centri di potere attuali e tentano di sviluppare nuove strutture politiche attraverso cui fronteggiare i problemi globali. Gli alternativi, nonostante rifiutino le istituzioni esistenti, propongono la costruzione di reti autonome parallele a quelle ufficiali, mentre i resistenti, rifiutando ogni prospettiva di globalizzazione, sviluppano reti a livello internazionale esclusivamente per attuare più efficacemente la contestazione. Infine, i reazionari idealizzano le comunità locali e nazionali, rifiutando “l’altro” a favore di un’utopica omogeneità culturale e sociale. Nonostante le loro profonde diversità, i vari gruppi sono

62 Ibidem, p. 150; 63 Mario Pianta, “Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali”, Manifestolibri, Roma, 2001, p. 7; 64 Ibidem, p. 111-112

279 accomunati dal linguaggio e dalle forme di comunicazione grazie alle quali sono stati in grado di integrare istanze differenti e costruire una risposta alternativa all’omologazione degli standard di vita, ma anche della produzione e del consumo, messa in atto dal mercato liberale. La loro unione ha dato vita ad un nuovo tipo di globalizzazione, che parte dal basso e che richiede “una combinazione di capacità di resistenza, visioni radicali, strumenti di riforma e pratiche alternative.” 65 Il nuovo organismo sociale mostra al mondo la sua forza nel 1999, in occasione del G7 a Seattle: durante il vertice cui partecipano centotrentacinque rappresentanti dei paesi affiliati all’Organizzazione Mondiale per il Commercio, migliaia di cittadini comuni, rappresentanti di diversi gruppi, tra cui il movimento del commercio equo e solidale, della finanza etica, dei GAS e del consumo critico, con lo slogan fair trade, not free trade (scambio equo, non libero scambio), formano un grande corteo di protesta per bloccare i lavori. Le agitazioni, che provocano scontri tra la polizia e i manifestanti, fanno saltare l’inizio del summit e i rappresentanti dei paesi membri non riescono a trovare un accordo per la liberalizzazione dei flussi di capitale e degli investimenti economici. Da quel momento in poi il cosiddetto “Popolo di Seattle”, evidenziando l'inadeguatezza del sistema economico internazionale nel fronteggiare i problemi globali in modo legittimo, democratico ed efficace, è diventato il principale attore nella lotta contro il processo apparentemente inarrestabile di trasformazione del mondo a beneficio di una ristretta minoranza.

Nel corso degli ultimi decenni le numerose realtà sociali che hanno mostrato interesse per le problematiche della povertà, sfruttamento dei diritti umani e dell’ambiente hanno suggerito diverse proposte indirizzate a promuovere un cambio di rotta e una trasformazione sostanziale dei rapporti economici e sociali. Un mutamento che esige una presa di coscienza da parte della popolazione mondiale in direzione di una sua riappropriazione del potere decisionale tale da favorire un mercato fondato maggiormente su valori etici e morali e non solo economici. Come ha evidenziato Pianta, “l’economia dipende sempre dalle scelte degli individui come lavoratori, produttori, consumatori, risparmiatori e se è sempre vera l’asimmetria dei rapporti di produzione tra capitale e lavoro, non è necessariamente vero che

65 Ibidem, p. 113;

280 le grandi imprese non possano essere mai sconfitte.” 66 È fondamentale, quindi, che la società civile comprenda l’entità dei danni che certi processi produttivi e distributivi possono causare: le risorse della Terra sono limitate e non consentono a tutti di vivere con il tenore di vita dei paesi del Nord del mondo. Nei paesi ricchi di risorse naturali i dittatori ricorrono alla forza per mantenere il potere e permettono il controllo delle loro risorse da parte dei paesi occidentali in cambio di armi, contribuendo a innescare un circolo vizioso: in queste società i cittadini non hanno alcuno strumento per evitare l’abuso di potere delle istituzioni e le politiche attuate dallo Stato a favore del depauperamento dell'ambiente determinano elevati livelli di disuguaglianza. Ma, secondo Stiglitz, “la maledizione delle risorse naturali non è ineluttabile: è questione di scelte.” 67 La possibilità di nuova impostazione economica e di una crescita produttiva del Sud del Mondo può verificarsi solamente in seguito a un ridimensionamento dello sfruttamento delle risorse e a una forte riduzione dei consumi da parte del Nord. In questo modo i paesi industrializzati garantirebbero alle generazioni future un pianeta pulito e ricco di risorse, soddisfacendo allo stesso tempo le richieste di equità provenienti dal Sud. La riduzione dei consumi impone una scelta basata sulla qualità e la quantità, ovvero richiede uno stile di vita sobrio che permette di “ripristinare i meccanismi che consentono di riconoscere quali sono i nostri bisogni reali e che ci fanno capire quando abbiamo consumato abbastanza da averli soddisfatti.” 68 La pratica della sobrietà si costruisce su quattro imperativi: ridurre i consumi all’essenziale, tenendo in considerazione la riproducibilità delle risorse; recuperare , utilizzando finché possibile un oggetto e riciclando tutto il materiale recuperabile; riparare un oggetto, senza buttarlo al primo danno; e rispettare il lavoro dei produttori. Seguendo tali principi ogni cittadino è in grado di riconoscere i propri bisogni fondamentali e garantirli a tutti con il minor dispendio di energia, assicurando così processi, produttivi e di consumo, maggiormente sostenibili. Il mutamento invocato da più parti può quindi essere innescato dai singoli cittadini, i cui comportamenti possono mettere in discussione il successo delle multinazionali e i meccanismi del mercato neoliberista. In questo concetto va ricercato il significato ultimo

66 Ibidem, p. 120-121; 67 Joseph E. Stiglitz, “La globalizzazione che funziona”, Einaudi Editore, Torino, 2006, p. 170; 68 Francesco Gesualdi, “Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale.”, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, p. 153;

281 delle azioni di resistenza attuate negli ultimi anni dai movimenti sociali: attraverso i boicottaggi, azioni di pressione, investimenti etici e i comportamenti individuali, i cittadini fanno valere il loro ritrovato potere di consumatori con il fine di influenzare l’economia globale. Tra gli strumenti di resistenza sociale utilizzati per favorire il mutamento della produzione e, a lungo termine, incidere sui processi economici internazionali, la pratica del consumo sembra essere il mezzo più efficace attraverso cui la società civile può far sentire la propria voce. Attraverso il consumo, infatti, i singoli consumatori hanno a disposizione una concreta e valida alternativa al tradizionale sistema economico mondiale e favoriscono, inoltre, la diffusione di queste stesse pratiche sia presso strati sempre più ampi della popolazione sia nelle imprese.

Le forme di consumo si sono evolute parallelamente alle profonde mutazioni economiche, politiche e sociali, avvenute in Europa e negli Stati Uniti nell’ultimo secolo e hanno assunto significati e valenze diverse a seconda dei modelli di comportamento caratteristici di un dato periodo. Il consumo, dunque, rivendica una sua centralità all’interno della filiera produttiva, rappresentando l’azione ultima cui sono indirizzate le strategie di produzione, distribuzione e marketing e la pratica su cui le aziende stesse fondano i propri profitti. Già dal diciannovesimo secolo gli studiosi avevano ipotizzato un legame tra la condotta di consumo e la strutturazione degli stili di vita. La veloce industrializzazione, parallelamente all’emergere di una nuova classe borghese, aveva messo in moto una sostanziale trasformazione degli stili di vita, determinando una stratificazione della società e una conseguente differenziazione dei comportamenti sociali, tra cui la pratica del consumo. Esso ha, quindi, la funzione di soddisfacimento dei bisogni ma è anche uno strumento per ostentare la propria ricchezza e un simbolo distintivo all’interno dei gruppi sociali. Fino agli anni Sessanta la logica anticonsumistica imposta da cattolicesimo e marxismo limita la pratica del consumo, ma parallelamente i beni assumono un valore simbolico e diventano un criterio di valutazione e d’identificazione sociale. In pratica le classi produttive sperimentano un nuovo benessere, ottenuto da modelli di consumo proposti dai nascenti mass-media. Grazie al boom economico, l’aumento del potere d’acquisto e l’avanzata delle classi medie comportano il passaggio da una società di produzione a una dei consumi, in cui la stratificazione sociale si manifesta attraverso specifici modelli di comportamento

282 omologanti. La televisione fa entrare nuove categorie di beni nelle case dei consumatori attraverso la pubblicità romanzata, proponendo acquisti alla portata di tutti. Negli anni Settanta la contestazione dei valori borghesi colpisce anche il consumo, che viene effettuato attraverso forme alternative e di resistenza. Si va consolidandosi, quindi, un modello che “non si definisce più in rapporto alla dimensione sociale, ma diviene un elemento di distinzione interindividuale.” 69 Dopo le crisi petrolifere e la conseguente compressione dei consumi, gli anni Ottanta sono testimoni di un boom economico senza precedenti. Al centro delle esigenze non c’è più la famiglia o la società, ma la soddisfazione del piacere individuale mentre la graduale scomparsa dei legami tradizionali si sovrappone a una nuova condivisione di modelli di comportamento, basati su semplici rappresentazioni del sociale. Negli anni della televisione commerciale e delle prime serie televisive americane, sono le merci stesse a esprimere lo status sociale: grazie all’analisi degli stili di vita, vengono definiti i segmenti di mercati cui indirizzare specifiche strategie di marketing e messaggi pubblicitari adeguati. Il passaggio agli anni Novanta segna una vera e propria svolta nella pratica del consumo: si passa da un modello di consumo ostentato tipico degli anni Ottanta ad una richiesta di maggiore etica. La recessione economica che ha colpito la comunità internazionale, compresa quella italiana, ridimensiona le esigenze di consumo, favorendo la nascita di nuovi comportamenti, più maturi e ragionati. Inoltre, la diffusione del mercato globale e la facilità di accesso alle informazioni hanno condotto una parte di consumatori verso la riscoperta dei prodotti tipici: “una ricerca di salute, autenticità, tradizione e gusto che si è espressa in un vasto movimento di recupero delle produzioni locali e artigianali e che ha assunto talvolta connotati ecologici e solidali stimolando forme di alleanza tra consumatori e (piccoli) produttori contro la standardizzazione (…).” 70 Esempi di questo movimento sono la nascita delle associazioni di Slow Food, dedicate alla tutela della produzione locale. In un simile clima culturale si è affermata una forte diversificazione degli acquisti, secondo cui il consumatore compie scelte di consumo in base a differenti criteri. La varietà di parametri utilizzati è attribuibile non solo al crescere delle occasioni di utilizzo dei beni e

69 Gaetano Iannello e Salvatore Polito, “Il commercio equo e solidale. Riflessioni minime di sociologie dei consumi”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007, p. 7; 70 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 11;

283 all’aumento dei luoghi di acquisto ma è dovuta anche alla notevole importanza assunta dalla rete Internet. Le imprese si trovano quindi a fronteggiare una situazione di estrema complessità in cui i consumatori, mostrandosi maggiormente sensibili e attenti ai temi dell’etica e dell’equità, diventano sempre più consci della non indifferenza dei propri acquisti rispetto ai processi produttivi e distributivi. All’interno della società civile è maturata la consapevolezza che le imprese si trovano in una condizione di dipendenza tale che questi ultimi sono in grado di influenzare il ciclo produttivo con le loro scelte e i loro comportamenti. L’atto del consumo non si limita alla semplice soddisfazione dei bisogni personali di chi acquista, ma, sostiene Gesualdi, “è un fatto che riguarda tutta l’umanità perché dietro a questo nostro gesto quotidiano si nascondono problemi di portata planetaria di natura sociale, politica e ambientale.” 71 Grazie alla sua capacità di scegliere i prodotti in modo responsabile, il consumatore di oggi fa coincidere la propria realizzazione personale con l’attenzione verso il bene sociale: infatti, “la soddisfazione dei propri bisogni e desideri passa attraverso il consumo di prodotti buoni non solo per la qualità ma anche per come sono stati prodotti, per l’attenzione all’ambiente e ai lavoratori.” 72 I beni assumono nuovi significati grazie al passaggio d’informazioni che si attua tramite le piccole scelte quotidiane di consumo: mediante la conoscenza dei metodi di produzione, il consumatore ha la possibilità di scegliere un prodotto anziché un altro giudicandolo non solo in base al prezzo e alla qualità ma anche secondo i valori dell’equità, della giustizia sociale e dell’ambiente, contribuendo così al senso di soddisfazione sia della dimensione individuale che di quella collettiva. Tali scelte di consumo, quindi, sono in grado di mettere in crisi le regole del mercato globale, in quanto costringono le aziende produttrici ad adeguarsi alle esigenze del nuovo tipo di consumatore e rivedere i loro criteri di produzione in favore di comportamenti più giusti sia dal punto di vista sociale che di quello ambientale. “Scegliendo cosa comprare e cosa scartare, non solo segnaliamo alle imprese i comportamenti che approviamo e quelli che condanniamo, ma sosteniamo le forme produttive corrette mentre ostacoliamo le altre.” 73

71 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, “Guida al consumo critico”, Emi, Bologna, 2003, p. 13; 72 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 172; 73 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, “Guida al consumo critico”, Emi, Bologna, 2003, p. 24;

284 Mettendo in discussione i modelli di consumo tradizionali, i vari movimenti di resistenza civile denunciano l’insostenibilità ambientale delle imprese, accusate di aggravare, con la loro condotta poco responsabile, i problemi legati all’inquinamento e della deforestazione e chiedono di ridurre l’impatto che i loro cicli di produzione hanno sull’ambiente e sulle popolazioni del Sud del mondo. Il consumo diventa uno strumento di mutamento sociale, attraverso cui i movimenti rivendicano i propri diritti di consumatori-cittadini e promuovono la formazione di una collettività in grado di influenzare i processi economici globali. Riappropriarsi del potere di consumo sembra essere il primo passo per conseguire importarti risultati verso la definitiva eliminazione della disuguaglianza economica e per garantire un’economia sostenibile per le generazioni future. Dotarsi degli strumenti di consumo alternativo e responsabile significa favorire importanti cambiamenti del sistema economico, un organismo che non può ignorare i modelli di comportamento al consumo assunti dai singoli cittadini. È questo il senso politico che i movimenti sociali stanno promuovendo attraverso numerose campagne di sensibilizzazione e protesta: rendere consapevoli i cittadini della loro responsabilità individuale di fronte alle grandi problematiche mondiali.

Nel corso dei secoli il consumo ha subito profondi mutamenti, acquistando sempre più un ruolo centrale all’interno del vissuto quotidiano. Questi cambiamenti hanno riguardato non solo le modalità e la qualità del consumo, ma, soprattutto, il suo significato all’interno delle relazioni sociali: con le sue scelte di acquisto il consumatore di oggi produce la sua identità e comunica i suoi valori, senza lasciarsi facilmente influenzare dalla pubblicità. In un’epoca, quindi, in cui sembra diffondersi l’individualismo e dove l’etica sembra essere stata relegata ai margini, “(…) l’elemento nuovo e realmente dirompente è dato dallo sviluppo di una cultura altra ,” 74 che getta le basi per una presa di coscienza di nuovi doveri. I consumatori si sentono chiamati in prima persona nelle lotte contro lo sfruttamento delle donne e dei bambini, la corruzione e la distruzione del pianeta. I consumi, dunque, diventano lo strumento attraverso cui influenzare la sensibilità dell’opinione pubblica, convincendo le aziende a ridurre le loro esternalità negative. Infatti, grazie al forte e ritrovato interesse dei

74 Fabio Mostaccio, “Il patrimonio etico dei consumatori. Le radici culturali del commercio equo e solidale”, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 124;

285 consumatori verso i temi dell’etica, dell’ecologia e del rispetto dei diritti umani, sempre più aziende stanno mutando i loro comportamenti, rispondendo alla richiesta di prodotti di qualità ma che garantiscano allo stesso tempo determinati valori sociali: numerose sono ormai le imprese che investono nelle “linee verdi” e si mostrano attente alla questione della responsabilità sociale. Si può allora affermare che i consumatori critici sono diventati gli attori di un inedito campo della politica, entro cui possono dare vita a nuove forme di partecipazione con l’obiettivo di incidere significativamente sull’economia. Boicottaggi, azioni di protesta simbolica, acquisti equi e solidale sono ormai considerati i mezzi mediante i quali il consumatore- cittadino può trasformarsi in un nuovo interlocutore per le istituzioni politiche, nazionali e internazionali. Egli è stato investito di un ruolo politico, basato sull’assunzione in prima persona delle responsabilità sociali: “ogni volta che le persone vanno al supermercato, ogni volta che scelgono un prodotto, stanno dando un voto, esprimono una preferenza, alla stregua di quanto avviene in seno ad una cabina elettorale; senza clamore, senza baccano, aggiungono un piccolo tassello a quella che, ormai, viene definita la rivoluzione silenziosa.” 75 Il cosiddetto consumerismo politico , ossia la partecipazione attiva dei cittadini ai processi economici e politici, può essere visto come una forma di azione che, partendo dal singolo consumatore, diventa collettiva in quanto “trasforma il potere individuale del carrello (…) in uno strumento politico, particolarmente adatto a popolazioni riflessive (…) deluse dalle tradizionali forme di partecipazione politica.” 76 Le scelte di consumo hanno, quindi, una valenza politica che si fonda su una responsabilità sociale che si traduce nella capacità di progettare gli acquisti e saper scegliere non solo in base al prezzo e alla qualità ma considerando tutti quei costi, ambientali e sociali, che il sistema economico ha sempre ignorato.

Gli strumenti per un’economia alternativa

Nelle cosiddette forme di partecipazione sociale si individuano una serie di pratiche che si possono definire come strumento di consumo alternativo che, seguendo i valori della solidarietà, della pace, del rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, promuovono la

75 Ibidem, p. 127 76 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 172;

286 realizzazione di un’economia più giusta. Nonostante siano nate in luoghi e tempi diversi, sono accomunate dal fatto di essersi originate dall’insoddisfazione verso l’operato delle istituzioni politiche, accusate di non essere in grado di rappresentare in modo adeguato le parti più basse della società, e di assumere un atteggiamento di critica nei confronti delle regole dell’attuale sistema economico globale. Dalla diffusione dell’esigenza di maggiore libertà e giustizia sociale si configurano varie forme di azione collettiva che prendono piede a livello locale, nazionale e globale: i gruppi di acquisto solidale, il consumo critico, il boicottaggio, il commercio equo e solidale, la finanza etica hanno attivato una rete di relazioni che tra diversi soggetti sociali e agenti economici al fine di porre fine alla disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo, dando inoltre la possibilità ai cittadini di diventare consapevoli dell’impatto negativo che le loro scelte hanno sull’ambiente e sulle popolazioni più svantaggiate. Negli ultimi anni queste pratiche stanno vedendo crescere la loro importanza presso l’opinione pubblica, grazie anche al successo ottenuto dalle loro campagne di protesta e di sensibilizzazione, che coinvolgono quegli attori politici maggiormente sensibili ai temi promossi da questi movimenti. Analizzando le singole forme di consumo alternativo si possono distinguere due tipi di pratiche in base alle modalità d’azione: le iniziative negative, come il boicottaggio, si basano sulla negazione e il rifiuto di alcune logiche, mentre quelle positive, chiamate in inglese buycott (dal verbo to buy , comprare), come il commercio equo e solidale e il consumo critico, forniscono un’alternativa concreta alle tradizionali pratiche di consumo.

Il boicottaggio

All’interno delle pratiche negative d’azione il boicottaggio rappresenta una forma antica di non collaborazione, che “consiste nella sospensione organizzata dell’acquisto dei prodotti di un’impresa o di una nazione,” 77 con il fine di ottenere la cessazione del suo comportamento scorretto. Il termine “boicottaggio” viene dal nome del capitano Charles Cunningham Boycott, un amministratore terriero vissuto nel diciannovesimo secolo in Irlanda, noto per le vessazioni

77 Francesco Gesualdi, “Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale.”, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, p. 36;

287 verso i suoi dipendenti. Nell’agosto del 1880 la Lega della terra, che tutelava i contadini dai soprusi subiti dai proprietari, lanciò una campagna d’isolamento e non cooperazione nei confronti di Boycott e della sua famiglia. L’azione provocò la risposta delle autorità statali che, non tollerando la sommossa irlandese, inviarono un contingente militare per proteggere il capitano, che fu comunque costretto a lasciare l’Irlanda nel dicembre dello stesso anno. Venne così coniato il termine “boicottare”, che formulava il modo in cui “fin dall’antichità la gente comune aveva espresso la sua protesta con forme di non collaborazione.” 78 Attraverso il boicottaggio, il consumatore decide di non acquistare più prodotti da una determinata azienda, uscendo così dal mercato e minaccia di non rientrarvi se l’impresa non si impegna a rinunciare a certi comportamenti. La non collaborazione diventa così uno strumento potente in quanto basta una piccola percentuale di consumatori a infliggere ai produttori gravi perdite in termini di guadagno. Per avere successo, deve essere pianificato attraverso accurate strategie organizzative, che permettano di ottenere importanti risultati senza arrivare allo scontro diretto. Prima di iniziare la vera e propria campagna di boicottaggio, infatti, i gruppi promotori instaurano un dialogo con la ditta interessata, alla quale si mostra la documentazione che attesta le violazioni di cui è accusata. L’azienda è quindi invitata ad accogliere le richieste del gruppo e, se fallisce la minaccia di boicottaggio, si passa l’azione. “Naturalmente,” sottolinea Gesualdi, “questa strada può avere buone possibilità di successo soprattutto se è tentata da gruppi affermati.” 79 Una volta avviata la campagna, è fondamentale coinvolgere il maggior numero di persone, sensibilizzando l’opinione pubblica sul problema attraverso eventi che siano in grado di attirare l’attenzione dei media. Inoltre, la creazione di forte rete di alleanze tra associazioni, sindacati e gruppi sociali, politici ed ecclesiastici può contribuire al successo della campagna e può arrecare un danno maggiore all’impresa, convincendola a cambiare condotta. Le ragioni che portano un’azienda a capitolare di fronte alle azioni di boicottaggio sono legate a calcoli di natura strettamente economica, definiti in base alle perdite che subirebbero se accettassero o no le richieste dei gruppi di pressione. Alla fine scelgono la via meno costosa. Una delle campagne di boicottaggio maggiormente interessanti è stata quella intrapresa nel 1997 contro la Del Monte Fresh Produce, accusare di violare il diritto dei lavoratori di avere

78 Ibidem, p. 37; 79 Ibidem, p. 41;

288 una propria rappresentanza sindacale all’interno delle sue piantagioni di banane in Costa Rica. Grazie alla collaborazione con i consumatori del Nord che hanno inviato volantini di denuncia alla compagnia e hanno minacciato di boicottare i suoi prodotti, la Del Monte ha ceduto alle richieste e ha aperto un dialogo con il sindacato per stabile nuove relazioni. I diritti dei lavoratori sono un tema ricorrente nelle azioni di denuncia e ciò è dovuto al processo di globalizzazione che ha trasformato il mondo in uno spazio unico dove le multinazionali, come Nike e Levi’s, alla continua ricerca di prezzi sempre più bassi per la manodopera, si contendono il mercato attraverso una concorrenza spietata, a scapito dei lavoratori del Sud del mondo cui non è garantito alcun diritto. In particolare la Nike, negli ultimi anni, è stata accusata di far lavorare i propri dipendenti, spesso ragazzi e bambini, all’interno di fabbriche malsane, senza riposo, né indennità di malattia, con paghe passe e assenza di libertà sindacale. A metà degli anni Novanta, grazie al coordinamento di diverse organizzazioni nazionali, è stata avviata un’intensa campagna di denuncia contro la multinazionale, ma, nonostante i tentativi dell’azienda di convincere i consumatori della loro buona fede, la Nike è ancora oggi boicottata da chi ha a cuore i diritti dei lavoratori. In ogni caso nessuna campagna, anche quando non conquista gli obiettivi prestabiliti, deve essere considerata un fallimento: in primo luogo, qualsiasi cambiamento anche se parziale può costituire l’inizio di un percorso verso l’abbandono di pratiche scorrette; inoltre, il boicottaggio mobilita l’opinione pubblica, sensibilizzandola su argomenti che altrimenti sarebbero ignorati. Citando le parole di Todd Puttnam, ex direttore del periodico statunitense “National Boycott News”, in Manuale per un consumo responsabile , vengono sottolineate le sue funzioni di denuncia e di educazione: “il boicottaggio) educa ad agire, a non assistere passivamente alle ingiustizie e ai soprusi che avvengono sotto gli occhi di tutti. Il boicottaggio abitua la gente a riprendere il potere nelle proprie mani.” 80

Il consumo critico

Mentre il boicottaggio è un’iniziativa straordinaria che si concentra su una singola impresa, isolandola all’interno del suo mercato ricorrendo a un enorme sforzo organizzativo, il consumo critico è un atteggiamento di scelta quotidiana che, attraverso l’acquisto o il non acquisto di certi beni, favorisce le forme produttive sostenibili, ostacolando le altre.

80 Ibidem, p. 65;

289 Il consumo critico mira a un profondo cambiamento delle aziende in favore di una maggiore responsabilità sociale e ambientale e, per perseguire tale fine, utilizza i meccanismi di domanda e offerta su cui si fonda il mercato. La pratica del consumo critico, dunque, “si esprime come capacità di organizzare le nostre abitudini di acquisto e le nostre scelte di consumo così da accordare la preferenza ai prodotti che posseggono determinati requisiti, differenti da quelli comunemente riconosciuti dal consumatore.” 81 Per individuare quali sono i prodotti acquistabili, è necessario analizzare con attenzione la condotta delle aziende, ponendo domande sulla tecnologia utilizzata per la produzione, sulle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti e sull’eventuale impiego di risorse provenienti dalle foreste tropicali. Affinché il consumatore sia in grado di compiere scelte di acquisto consapevoli e ragionate, egli deve essere messo nelle condizioni di accedere a una quantità enorme d’informazioni che “non si riferiscono più soltanto alla qualità e all’estetica dei prodotti, ma ai dati dettagliati inerenti ai rapporti di produzione e al relativo impatto sociale e ambientale.” 82 Data la difficoltà a recuperare le notizie necessarie a ridurre l’asimmetria informativa dei consumatori, sono stati creati, nel corso degli anni, vari centri di osservazione, slegati dagli interessi dei soggetti interessati, per studiare la condotta delle imprese, in termini d’impatto ecologico e sociale, pubblicando periodicamente i loro risultati in modo da aiutare i consumatori nelle loro valutazioni. L’attività di raccolta informazioni inizia negli Stati Uniti, durante gli anni della mobilitazione contro la guerra in Vietnam, quando vari gruppi, tra cui alcune organizzazioni ecclesiastiche, iniziarono a raccogliere informazioni su quali imprese fossero coinvolte nell’industria degli armamenti. Nacque così il Counsil on Economic Priorities (CEP), diventato un’associazione leader in tutto il mondo nell’analisi del comportamento sociale delle aziende. In seguito le attività del CEP si diffusero in Europa e in particolare in Inghilterra, dove il gruppo New Consumer pubblicò una ricerca su circa duecento imprese e una guida pratica, contribuendo, così, a diffondere la cultura del consumo critico su tutto il territorio europeo.

81 Gaetano Iannello e Salvatore Polito, “Il commercio equo e solidale. Riflessioni minime di sociologie dei consumi”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007, p. 68; 82 Fabio Mostaccio, “Il patrimonio etico dei consumatori. Le radici culturali del commercio equo e solidale”, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 116;

290 In Italia l’organizzazione che ha avviato la riflessione sul consumo responsabile è il Centro nuovo modello di sviluppo, nato nel 1985 su iniziativa di un gruppo di famiglie pisane per studiare i processi di impoverimento. Dopo l’incontro con gli inglesi di New Consumer, cominciò la realizzazione della prima guida italiana al consumo critico, che fu pubblicata nel 1996. La Guida analizza il comportamento di aziende sia nazionali sia multinazionali sulla base del loro impatto economico, ambientale e sociale. In particolare sono riportate informazioni riguardanti la trasparenza, l’abuso di potere, la presenza nel Terzo mondo, l’ambiente, la sicurezza e i diritti dei lavoratori, il rispetto dei consumatori e della legge, la produzione di armi e la vendita all’esercito dei prodotti, il rapporto con i regimi oppressivi, il rifugio in paradisi fiscali, il maltrattamento degli animali e la segnalazione di eventuali azioni di boicottaggio. Vista la non coincidenza dei parametri analizzati dalle diverse guide pubblicate nel mondo, da qualche tempo, è stata creata una rete di collaborazione tra i vari centri di ricerca al fine di elaborare metodologie e valutazioni uniformi. Il primo passo in questa direzione è stato compiuto da un gruppo di associazioni, di matrice religiosa, che nel 1998 ha elaborato un documento intitolato Linee guida per la responsabilità socio-ambientale delle imprese e criteri di valutazione che indica “i principi a cui le imprese devono ispirarsi, per definire le politiche e le scelte concrete da compiere rispetto all’ambiente, alle comunità nazionali, alle comunità locali, alle comunità indigene, ai dipendenti (con particolare riferimento alle donne alle minoranze sociali, ai disabili, ai minori, ai forzati al lavoro), ai fornitori, agli azionisti, alle società controllate e ai consumatori.” 83

I Gruppi di acquisto solidale (GAS)

All’interno delle forme di consumerismo politico, i Gruppi di acquisto solidale o GAS sono un fenomeno che si sta rapidamente diffondendo anche nelle aree urbane non solo nei piccoli centri rurali, vicini geograficamente ai produttori. Si configurano come organizzazioni informali di consumatori che funzionano con regole completamente diverse

83 Francesco Gesualdi, “Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale.”, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, p. 92-93;

291 rispetto a quelle della grande distribuzione, in quanto si fondano sull’obiettivo di rendere la filiera produttiva il più possibile diretta e trasparente. Un Gruppo di acquisto nasce come aggregazione spontanea di consumatori che si uniscono per ottenere vantaggi dai prodotti, alimentari e di uso quotidiano, acquistati all’ingrosso e ridistribuiti tra i membri del gruppo. Tali associazioni si distinguono dai semplici Gruppi d’acquisto per la decisione di utilizzare il principio di solidarietà, nei confronti dell’ambiente, dei produttori e del Sud del mondo, come criterio guida nella scelta dei prodotti da acquistare. Queste organizzazioni hanno origini e percorsi diversi: possono essere formati da amici o conoscenti, oppure possono nascere da altre esperienze di attivismo sociale, come il commercio equo e solidale, le comunità parrocchiali, i gruppi di volontariato, i movimenti ambientalisti o le cooperative sociali. Solitamente i membri di questi gruppi sono persone particolarmente attente alla qualità della vita, alla salute dell’ambiente e alle condizioni di vita dei lavoratori e “si percepiscono come protagonisti in prima persona di forme di resistenza personali, creative, alle quali viene spesso attribuita anche una valenza di critica e /o sociale.” 84 Il nucleo primario, composto dai singoli consumatori, sviluppa una rete più ampia di contatti con una serie di produttori diretti di beni, alimentari e artigianali, cui viene garantito un acquisto minimo periodico. Questi rapporti economici sono caratterizzati dal fatto di essere stabili e continuativi e testimoniano il riconoscimento dei rispettivi bisogni: “di autonomia per il produttore, di qualità e di convenienza per il consumatore, il tutto all’interno di rapporti di conoscenza diretta che il modello economico e globalizzato ha completamente dimenticato.” 85 L’obiettivo dei GAS è di costruire una filiera sempre più corta e solida e sottrarsi progressivamente ai circuiti della grande distribuzione attraverso il costante ampliamento della gamma di prodotti di alta qualità acquistati: dai beni alimentari o di prima necessità ai vestiti, ma anche prodotti per l’igiene della casa e cosmetici. Il tema della qualità del prodotto è legato a una ricerca di benessere dato dal consumo di prodotti che non solo non devono inquinare ma che devono rispondere al valore della naturalità: “affinché fidarsi delle certificazioni più diffuse molti GAS preferiscono affidarsi

84 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 173; 85 Ibidem, p. 35;

292 a piccoli produttori che permettono all’acquirente di verificare personalmente le varie fasi della produzione” 86 . Inoltre, la possibilità di poter acquistare beni stagionali direttamente dal produttore è ritenuta garanzia di qualità. Più che il risparmio, l’elemento fondamentale per i GAS è la creazione della rete di relazioni di fiducia che vengono stabilite in primo luogo tra i membri del gruppo e in seguito tra gli associati e i produttori. Relazioni che devono essere basate sulla trasparenza, l’elasticità e la reciproca disponibilità. I GAS, consapevoli delle difficoltà dei piccoli produttori, riconoscono nella cooperazione il principale strumento per aggirare la logica della grande distribuzione e garantire la soddisfazione dei bisogni di tutti i soggetti coinvolti. Il Gruppo di acquisto solidale rappresenta, quindi, un’esperienza di economia alternativa in quanto è finalizzato alla riduzione degli sprechi facendo ricorso alla spesa collettiva, più ragionata e autonoma. Questo richiamo alla sobrietà non solo comporta un cambiamento delle abitudini ma induce una riflessione sulle scelte di acquisto. Una riflessione che, in alcuni casi, può determinare un avvicinamento ad altre forme di consumo alternativo, come il commercio equo solidale, la finanza etica o il turismo responsabile. In generale, costruendo circuiti alternativi alla distribuzione organizzata, i GAS propongono uno stile di vita diverso, che sia in grado di conciliare i temi dell’etica e della responsabilità sociale con i ritmi della vita di tutti i giorni. Una logica che non solo favorisce la partecipazione attiva, ma rappresenta anche un atto di pressione verso i meccanismi del mercato neoliberista.

I Bilanci di Giustizia

I Bilanci di Giustizia possono essere considerati come un’esperienza parallela e in molti aspetti simile al progetto dei Gruppi di acquisto; pongono un accento più evidente sulla cultura della sobrietà, sul tema delle relazioni basate sulla reciproca fiducia e su quello della responsabilità etica verso una maggiore giustizia sociale e tutela ambientale. In Italia, la campagna dei Bilanci di Giustizia nacque ufficialmente nel 1993, quasi in contemporanea con la creazione dei primi Gruppi di acquisto solidale, in occasione di un incontro nazionale organizzato dall’associazione Beati i Costruttori di Pace, durante il quale

86 Ibidem, p. 44;

293 venne accertato che l’ingiustizia e il degrado ambientale passavano attraverso i consumi. Venne quindi lanciato l’idea di redigere all’interno di ogni famiglia un bilancio periodico delle spese con lo scopo di monitorare l’andamento dei propri consumi e ridurre gli eventuali sprechi: la compilazione del bilancio serve, infatti, a compiere progressivi cambiamenti delle abitudini e verificare il graduale raggiungimento degli obiettivi prefissati. Una volta compilati, i bilanci vengono inviati a una segreteria di coordinamento nazionale che li elabora e stila un rapporto annuale riguardante le adesioni e l’ammontare della spesa spostata verso i consumi alternativi. Come afferma Gesualdi, “la proposta di Bilanci di Giustizia può sembrare faticosa anche perché certe scelte (…) si scontrano con i nostri ritmi di vita piuttosto frettolosi.” 87 Per questo è fondamentale procedere per gradi e ricercare il sostegno di altri nuclei famigliari che hanno fatto la stessa scelta, nel contesto di un gruppo locale, all’interno del quale è possibile confrontarsi sulle difficoltà riscontrate e i risultati raggiunti. I Bilanci di Giustizia hanno, quindi, una struttura informale, simile a quella dei GAS, è bene comunque chiarire che “rispetto al Gruppo di acquisto, che implica un’organizzazione interna, la pratica dei Bilanci si configura come un esercizio etico di autocontrollo,” 88 compiuto all’interno del proprio ambito famigliare; la campagna, “pur contando su una segreteria ed un gruppo di promotori a livello nazionale, non si costruisce con un passaggio di direttive dal centro alle realtà locali, ma si caratterizza piuttosto per essere un coordinamento delle esperienze e dei diversi gruppi.” 89 I gruppi locali si configurano come una piccola realtà di persone che monitora e riduce i propri acquisti in base a una logica diretta non al risparmio, ma “alla costruzione di uno stile di vita realmente sobrio e quindi in qualche modo improntato a una sorta di rettitudine morale.” 90 Nonostante mostrino tutte particolare interesse per i temi dell’equità sociale e dell’aspetto ecologico, le famiglie impegnate nella campagna possono provenire da realtà differenti: ci sono gruppi d’ispirazione cattolica, spesso di matrice ascetico-francescana, gruppi vicini al movimento ambientalista che sono generalmente orientati al risparmio delle risorse

87 Francesco Gesualdi, “Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale.”, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, p. 160; 88 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 48; 89 cit. http://www.bilancidigiustizia.it/index.php?module=pagesetter&tid=2; 90 Luisa Leonini e Roberta Sassatelli, a cura di, “Il consumo critico”, Edizioni Laterza, Roma, 2008, p. 50;

294 energetiche, ma anche semplici gruppi di amici che si organizzano, decidendo di rivedere e analizzare con più attenzione i propri bisogni. Data la loro compatibilità, spesso l’adesione a un GAS coincide con la partecipazione a Bilanci di Giustizia, permettendo così a questi gruppi di adottare uno stile di vita diverso, opponendosi alla logica iperconsumistica su cui si fonda l’economia globale: “acquistare insieme e pianificare con altri i propri bisogni diventa un modo per dare senso e significato sia ai beni acquistati – o a cui si è deciso di rinunciare – sia alla pratica del consumo, al di là della sua necessità e banalità.” 91

Le banche del tempo

La necessità di relazioni di scambio basate su rapporti reciprocità e di fiducia e non più sui meccanismi del mercato tradizionale ha dato vita alle esperienze della banche del tempo, luoghi dove i servizi vengono scambiati usando il tempo come unità di misura. Il principio regolatore è lo scambio di tempo, dare/avere: chiunque possa mettere a disposizione parte del proprio tempo e abbia bisogno di ricevere in cambio aiuto e sostegno dagli altri è un potenziale socio correntista delle banche del tempo. I servizi scambiati sono i più svariati: dalle semplici attività quotidiane a vere e proprie prestazioni di tipo professionale, dai lavori domestici e alla custodia dei bambini fino al disbrigo di pratiche burocratiche e all’organizzazione di feste. Le prime iniziative di banca del tempo nacquero a Parma e a Santarcangelo di Romagna agli inizi degli anni Novanta, diffondendosi più tardi su tutto il territorio nazionale, con lo scopo di mettere in contatto persone disponibili a scambiarsi servizi e prestazioni. Oggi in Italia si possono contare almeno 320 banche del tempo, che solo a Roma coinvolgono 7500 persone.

La finanza etica

Fino a qualche decennio fa la finanza mondiale e gli investimenti erano basati sul rendiconto, sul capitale e sugli interessi economici di alcuni gruppi commerciali. Negli ultimi anni, però, si sta sempre di più diffondendo una nuova cultura che sostiene la possibilità di una sinergia tra economia ed etica, riprendendo il concetto di finanza vigente nelle prime forme di economia bancaria, per cui il prestito era concesso sulla base delle

91 Ibidem, p. 53;

295 conoscenze personali e della fiducia. Grazie a questa nuova logica, l’investimento non guarda più al semplice guadagno ma pone l’attenzione su quelle attività che rispondono a determinati criteri di responsabilità sociale e ambientale. Il concetto di finanza etica è stato ispirato dall’economista, premio Nobel, Amartya Kumar Sen, che sostiene che la ricchezza di una persona non si misura dal denaro che possiede ma dal suo livello di felicità. La qualità della vita diventa una variabile all’interno dei calcoli economici: l’investitore non sceglie più l’azienda solamente in base ai profitti che può trarre da quell’investimento, ma prende in considerazione i valori di eticità e di equità da essa perseguiti dall’azienda. I cosiddetti socially responsabile investiments o ethical investiments consentono di destinare il proprio denaro, sotto forma di prestiti, azioni e obbligazioni, a quelle imprese che non riescono ad accedere alle forme di credito tradizionale e che hanno mostrato una particolare sensibilità ai temi della giustizia sociale e della tutela ambientale, rifiutando qualsiasi comportamento immorale. L'investitore etico è quindi colui che non è più unicamente interessato al rendimento dei propri investimenti, ma vuole conoscere le modalità di produzione, le condizioni in cui l’azienda opera e l’impatto che i beni prodotti hanno sull’ambiente. Le prime significative esperienze di finanza etica sono riscontrabili negli Stati Uniti, in occasione della guerra del Vietnam, quando fu istituito un fondo comune etico che finanziava gli istituti religiosi impegnati in attività d’interesse sociale. Da quel momento in poi il concetto di finanza etica si è evoluto e si è organizzato grazie alla fondazione di vere e proprie banche. La più grande è la Grameen Bank, nata in Bangladesh nel 1976, che eroga prestiti a favore di chi non ha mezzi di sussistenza, garantendo così il miglioramento della situazione socioeconomica di quasi due milioni di famiglie. In Europa le prime banche etiche aprirono a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, operando nei settori dell’ecologia, del non-profit e della cooperazione internazionale. In Italia, durante gli anni Ottanta, nacquero le MAG, Mutua Auto Gestione, cooperative finalizzate alla raccolta di fondi a sostegno dei soggetti più svantaggiati o per il finanziamento di progetti legati ai temi dell’ambiente, della giustizia sociale e della cooperazione internazionale. Ben presto la legge antiriciclaggio, che vietava la raccolta di risparmio alle cooperative finanziarie, impose la necessità di creare un vero e proprio istituto finanziario. Nel 1998 nacque la Banca Etica Italiana, che si caratterizza per la

296 trasparenza delle sue attività. In qualunque momento l’investitore può conoscere come vengono usati i suoi risparmi, a chi vanno a finire e quali progetti sostengono. In quattordici anni di attività, Banca Etica ha raggiunto una raccolta di capitale sociale di circa quaranta milioni di euro, conferito da oltre trentasettemila soci, di cui quasi seimila sono persone giuridiche. L’Istituto raccoglie oltre settecentocinquanta milioni di euro di depositi e sta finanziando più di seimila progetti dell’economia solidale per un valore superiore agli ottocento milioni di euro 92 .

Il commercio equo e solidale

Il commercio alternativo rappresenta uno degli strumenti più importanti per riequilibrare le disparità dei rapporti tra Nord e Sud del mondo. La creazione di reti commerciali al di fuori dei canali tradizionali ha due scopi principali: in primo luogo offre alle popolazioni più emarginate la possibilità di entrare nei circuiti del mercato globale; inoltre, sperimenta nuovi modelli di sviluppo, dimostrando che esiste un’alternativa alla logica capitalista. A differenza delle altre forme di resistenza sociale, il punto di partenza del commercio equo e sociale non è il consumatore, ma il produttore. Questo movimento si prefigge di rimodellare i rapporti tra i paesi industrializzati e quelli più poveri, favorendo una filiera produttiva e distributiva più sostenibile, in grado di assicurare lo sviluppo economico e sociale dei paesi del Terzo Mondo attraverso lo scambio di beni. Oltre a instaurare durature relazioni commerciali, con le quali i produttori del Sud e i distributori del Nord si impegnano a rispettare gli accordi presi, il commercio equo e solidale si adopera per la costruzione e valorizzazione del capitale sociale. Attraverso la concessione di micro-crediti, permette ai produttori di investire in procedure che rispettano l’ambiente, soddisfacendo la domanda di un numero crescente di consumatori per prodotti provenienti da agricoltura biologica; inoltre, attraverso specifici progetti di cooperazione allo sviluppo, contribuisce a creare condizioni di lavoro e di vita dignitose, favorisce l’accesso all’istruzione e incentiva le pratiche non discriminatorie, garantendo il rispetto dei diritti umani sui luoghi di lavoro. In generale, “il commercio equo e solidale garantisce che il profitto ricavato attraverso la sua rete venga distribuito tra i produttori equamente, in modo da sostenerli quali

92 dati reperibili dal sito di Banca Etica Italiana, aggiornati al 31 luglio 2012;

297 protagonisti del proprio sviluppo economico” 93 . La filosofia di fondo del commercio equo e solidale si basa sulla convinzione che “a uno sviluppo di tipo quantitativo corrisponda in modo direttamente proporzionale una crescita qualitativa dell’intero aggregato sociale nel quale si opera.” 94 Il surplus ricavato dai produttori viene quindi investito per migliorare la qualità della vita delle comunità in cui i produttori abitano, attraverso il potenziamento di scuole, ospedali, centri di formazione lavoro, ecc. Il commercio equo e solidale rappresenta per il consumatore lo strumento attraverso cui ribellarsi alle logiche di un mercato che si fonda sulla concorrenza brutale e il conseguente sfruttamento dei paesi più ricchi di risorse naturali. L’acquisto di prodotto equo e solidale non deve essere inteso come un semplice gesto pietistico e caritatevole nel tentativo di “fare del bene”, ma come un modo per prendere coscienza dei propri consumi e agire verso una revisione delle regole che governano l’economia globale, rispondendo, allo stesso tempo, all’esigenza di equità sociale e di una maggiore partecipazione attiva.

Evoluzione storica Il Commercio Equo è oggi un movimento globale che raggruppa oltre un milione di piccoli produttori e lavoratori, organizzati in più di 3.000 organizzazioni di base con le loro strutture principali in più di 50 Paesi nel Sud del mondo. I loro prodotti sono venduti in migliaia di Fair Trade Shops, in supermercati e in molti altri punti vendita nell’emisfero Sud. Il movimento è impegnato in dibattiti con i politici delle istituzioni europee e in forum internazionali affinché il commercio internazionale diventi più equo. E in effetti il Commercio Equo ha reso il commercio tradizionale più attento alle responsabilità sociali e ambientali. I precursori del commercio equo e solidale furono gli americani, con Ten Thousand Villages (allora Self Help Crafts ) che comprò tessuti lavorati da Puerto Rico nel 1946 e con SERVV che iniziò a commerciare con comunità povere del Sud verso la fine degli anni ’40. Il primo negozio di Commercio Equo aprì nel 1958 negli USA. Le prime tracce di Commercio Equo

93 Gaetano Iannello e Salvatore Polito, “Il commercio equo e solidale. Riflessioni minime di sociologie dei consumi”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007, p. 51; 94 Fabio Mostaccio, “Il patrimonio etico dei consumatori. Le radici culturali del commercio equo e solidale”, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 116;

298 in Europa risalgono alla fine degli anni ’50, quando Oxfam GB cominciò a vendere nei suoi punti vendita manufatti prodotti da rifugiati cinesi, creando nel 1964 la prima Organizzazione di Commercio Equo. Iniziative parallele iniziarono nei Paesi Bassi e nel 1967 venne istituita Fair Trade Organisatie , l’organizzazione di importazione olandese. Allo stesso tempo, gruppi olandesi per il terzo mondo iniziarono a vendere zucchero di canna con il messaggio “comprando zucchero di canna dai alle persone dei Paesi poveri un posto nel sole della prosperità”. Questi gruppi passarono poi a vendere prodotti di artigianato del Sud e nel 1969 venne aperto il primo “Third World Shop”. Le Botteghe del Mondo, o World Shops, ebbero un ruolo fondamentale nel movimento del Commercio Equo, essendo non solo dei punti vendita, ma anche molto attive in campagne e nella diffusione di una nuova consapevolezza. Durante gli anni ’60 e ’70, organizzazioni non-governative (ONG) e individui socialmente motivati in Asia, Africa e America Latina sentirono la necessità di fare commercio equo per dare consigli, assistenza e supporto ai produttori svantaggiati. Vennero così create organizzazioni di Commercio Equo nel Sud collegate alle nuove organizzazioni del Nord. Alla base dei loro rapporti: la partnership, il dialogo, la trasparenza e il rispetto. L’obiettivo: una grande equità nel commercio internazionale. Parallelamente a questi movimenti cittadini, i Paesi in via di sviluppo indirizzavano forum politici internazionali, come la seconda conferenza UNCTAD ( United Nations Conference on Trade and Development ) a Delhi nel 1968, per comunicare il messaggio “Trade not Aid” (“Commercio, non aiuti”). Questo approccio sottolinea l’intenzione di stabilire relazioni commerciali con il Sud del mondo, invece di appropriarsi dei benefici al Nord per poi far tornare una piccola parte di essi al Sud sotto forma di aiuti per lo sviluppo. La crescita del Commercio Equo (o Commercio Alternativo, come viene chiamato negli ultimi tempi) dalla fine degli anni ’60 in poi è stata associata anzitutto al commercio per lo sviluppo, che nacque come risposta alla povertà o, a volte, alle calamità nel Sud, concentrandosi nella promozione dei prodotti artigianali. I fondatori del movimento furono spesso attori del largo sviluppo o associazioni religiose nei Paesi europei. Queste ONG, collaborando con le loro controparti nel Sud, favorirono la creazione di organizzazioni di Commercio Equo nel Sud, che organizzano produttori e prodotti ed esportano al Nord. Accanto al commercio di sviluppo vi era anche una parte di commercio di solidarietà.

299 Organizzazioni furono create per importare beni dai Paesi del Sud politicamente ed economicamente emarginati. Inizialmente le organizzazioni di Commercio Equo trattavano più che altro con produttori di artigianato, soprattutto per i contatti instaurati dai missionari. Spesso l’artigianato costituisce un reddito supplementare per le famiglie ed è di fondamentale importanza soprattutto per le donne, che hanno poche opportunità di lavoro. La maggior parte delle organizzazioni di Commercio Equo al Nord si basano sull’acquisto e la vendita di questi prodotti attraverso le Botteghe del Mondo. Il mercato dell’artigianato attraverso le Botteghe è ampiamente aperto e per molte organizzazioni le vendite continuano ad aumentare. Nel 1973 l’olandese Fair Trade Organisatie importava il primo caffè “equo” da cooperative di piccoli coltivatori del Guatemala. Oggi, a distanza di 30 anni, il caffè equo è diventato un concetto. Centinaia di migliaia di coltivatori di caffè hanno già tratto benefici dal Commercio Equo in questo settore, e in Europa si consuma sempre più caffè equo. Attualmente il 25-50% del fatturato delle organizzazioni di Commercio Equo deriva da questo prodotto. Dopo il caffè, la gamma di prodotti alimentari si è espansa fino a includere tè, cacao, zucchero, vino, succhi di frutta, noci, spezie, riso, ecc. I prodotti alimentari danno la possibilità alle organizzazioni di commercio equo di aprirsi nuovi canali di mercato, come per esempio le istituzioni, i supermercati, i negozi biologici. Durante gli anni ’80 si sviluppò un modo per raggiungere un pubblico più vasto. Un prete che lavorava con piccoli proprietari terrieri e coltivatori di caffè in Messico e che collaborava con una Ong cattolica olandese, concepì l’idea di un marchio (“label”) per il Commercio Equo. I prodotti comprati, commerciati e venduti nel rispetto delle condizioni del Commercio Equo, sarebbero stati certificati con un marchio che li avrebbe differenziati dai prodotti comuni e che avrebbe permesso ad ogni compagnia di entrare in contatto con il Commercio Equo. Nel 1988 si creò in Olanda il marchio “Max Havelaar”. Il concetto prese piede: nel giro di un anno il caffè con questo marchio raggiunse una quota di mercato del 3%. Negli anni successivi nacquero altre organizzazioni di certificazione Fair Trade in altri Paesi europei e in America del Nord. Nel 1997 venne creata la Fairtrade Labelling International (FLO), l’associazione mondiale di marchio per il Commercio Equo. Oggi FLO è

300 responsabile di stabilire gli standard di commercio equo internazionale, di certificare e verificare la produzione e il commercio in accordo con tali standard, e di porre il marchio sui prodotti. La gamma di prodotti certificati, 12 ad oggi, si espanderà presto. Il marchio Fair Trade ha di fatto aiutato il Commercio Equo a entrare nel commercio tradizionale: attualmente più di due terzi dei prodotti del Commercio Equo vengono venduti a catering e dettaglianti tradizionali. Parallelamente allo creazione di un marchio per i prodotti, WFTO ha sviluppato un sistema di monitoraggio per le organizzazioni di Commercio Equo che dovrebbe rafforzare la credibilità di queste organizzazioni di fronte ai politici, al mercato tradizionale e ai consumatori. Il marchio Fair Trade Organization di WFTO è stato lanciato nel gennaio 2004 per i membri WFTO che soddisfano le richieste e gli standard del sistema di monitoraggio, identificandoli come organizzazioni di Eommercio Equo registrate. WFTO lavora con FLO per trovare il modo di fornire anche i prodotti di artigianato di un marchio. Fin dall’inizio il movimento del Commercio Equo ha mirato alla crescita della consapevolezza dei consumatori sui problemi causati dal commercio tradizionale e ha cercato di introdurre modifiche alle sue regole. La vendita di prodotti è sempre stata accompagnata da informazioni relative ai prodotti, ai produttori e alle loro condizioni di vita. È diventato compito delle Botteghe e dei Fair Trade Shops mobilizzare i consumatori nella partecipazione in campagne per una giustizia globale. La prima conferenza europea dei World Shops si ebbe nel 1984 e stabilì la stretta cooperazione tra i volontari delle Botteghe di tutta Europa. La rete europea delle Botteghe (NEWS!) venne ufficialmente stabilita nel 1994 e rappresenta approssimativamente 3.000 Botteghe in 15 Paesi europei. NEWS! coordina le attività di campagna europee e promuove lo scambio di informazioni e di esperienze riguardo allo sviluppo delle vendite e al compito di informazione. Nel 1996 NEWS! stabilì la giornata europea delle Botteghe del Mondo come un’ampia giornata di campagna su una tematica particolare, spesso con obiettivi su scala europea. L’iniziativa è stata avanzata da WFTO - allora si chiamava IFAT - che la diffuse su scala mondiale: la prima giornata del Commercio Equo, che ne coinvolge il movimento mondiale, si celebrò il 4 maggio del 2002. Nel corso degli anni il movimento di Commercio Equo è diventato più professionale nella diffusione dell’informazione e nell’attività politica. Si pubblicano documenti, materiale attrattivo su campagne ed eventi pubblici. Il movimento ha

301 inoltre beneficiato dell’istituzione di strutture europee che favoriscono l’armonia e la centralità delle sue campagne e attività politiche. Uno strumento importante è stato l’istituzione dell’ufficio di attività politica di EFTA a Bruxelles, che mira a influenzare i dirigenti politici ed è supportato dall’intero movimento e rappresentato in FLO, IFAT, NEWS! e la stessa EFTA – da questo l’acronimo FINE. Il Fair Trade e le organizzazioni Fair Trade sono stati riconosciuti dalle Istituzioni europee e dagli enti governativi nazionali e regionali per il loro contributo alla riduzione della povertà, lo sviluppo sostenibile e per la crescita di consapevolezza per i consumatori sui problemi del commercio. Il Parlamento europeo ha approvato parecchie risoluzioni sul Fair Trade (nel 1994, 1998 e nel 2006) e molti ministri europei e primi ministri hanno pubblicamente dato il loro appoggio al Fair Trade. Un numero sempre maggiore di istituzioni sta utilizzando i prodotti Fair Trade e le autorità locali stanno inserendo i criteri di equità e sostenibilità nella loro offerta pubblica. Migliaia di città, università e chiese si sono adoperate per il Fair Trade, impegnandosi nella sua promozione e contribuendo alla riduzione della povertà e dell’emarginazione. I rappresentanti dei paesi poveri promuovono con sempre maggior impegno il Fair Trade per consentire ai produttori più piccoli e marginalizzati dei propri paesi di vivere e lavorare con dignità. Dalla metà degli anni ’70 le organizzazioni di Commercio Equo nel mondo iniziarono a incontrarsi in modo informale ogni due anni. A metà degli anni ’80 c’era il desiderio di incontrarsi più formalmente e a fine decennio vennero fondate EFTA (European Fair Trade Association) nel 1987 e IFAT (oggi WFTO) nel 1989. Sono queste due organizzazioni molto diverse: EFTA riunisce gli 11 principali importatori di Commercio Equo d’Europa; WFTO è una rete globale di 250 organizzazioni (numero crescente) dirette a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni economicamente svantaggiate attraverso il commercio e organizzando un forum per lo scambio di informazioni e di idee. La collaborazione tra le organizzazioni di Commercio Equo è di fondamentale importanza. In tutto il mondo si sono stabilite reti di associazioni, come i Fair Trade Forum in Asia e in Bangladesh, Fair Trade Group Nepal (AFTF), Co-operation for Fair Trade in Africa (COFTA), l’Association Latino Americana de Commercio Justo (IFAT LA), IFAT Europe, Ecota Fair Trade Forum in Bangladesh, Fair Trade Group Nepal, Associated Partners for

302 Fairer Trade Philippines, Fair Trade Forum India, Kenya Federation for Alternative Trade (KEFAT) ecc. FLO, IFAT, EFAT e NEWS! si incontrarono per la prima volta nel 1998 e la loro unione prende il nome di FINE. L’obiettivo di FINE è di rendere possibile la cooperazione tra queste reti e i loro membri in settori importanti, quali l’attività politica e le campagne, gli standard e il monitoraggio del Commercio Equo. Durante i suoi 60 anni di storia, il Commercio Equo si è sviluppato in un movimento ampiamente diffuso e riconosciuto a livello politico e commerciale. Grazie al supporto delle organizzazioni Fair Trade, i commercio equo e solidale ha guadagnato il riconoscimento dei politici e del grande circuito commerciale.

Il prezzo equo Secondo i criteri IFAT (International Fair Trade Association ) per le organizzazioni fair trade, " è considerato equo un prezzo concordato fra le parti tramite il dialogo e la partecipazione, che garantisca una retribuzione equa per i produttori ma che allo stesso tempo sia sostenibile dal mercato. Laddove esistono prezzi equi minimi (fair minimum price and premium) stabiliti a livello internazionale, questi sono rispettati ". Inoltre, gli importatori garantiscono ai propri produttori partner il prefinanziamento della produzione e il pagamento tempestivo. Al prezzo equo, come per altro anche agli altri criteri del commercio equo e solidale, si arriva attraverso un confronto. Il prezzo deve coprire l'intero costo della produzione del bene, incluse le spese sociali ed ambientali. Questo prezzo deve essere tale da fornire ai produttori uno stile di vita accettabile ed un margine per gli investimenti futuri. Generalmente, le organizzazioni impegnate nell'importazione dei prodotti accettano i calcoli proposti dai produttori e in ogni caso viene garantito un prezzo minimo. La considerazione dei costi sociali ed ambientali nel prezzo di un prodotto è un'idea che è stata da sempre condivisa da organizzazioni internazionali quali l'ONU e l'Unione Europea ed è alla base del concetto di "ecotassa" sostenuto dai movimenti ambientalisti. È un errore credere che un prezzo giusto per i produttori comporti necessariamente prezzi superiori alla media per i consumatori: circa la metà dei prodotti del commercio equo ha un prezzo superiore a quello di mercato e l'altra metà ha un prezzo addirittura inferiore. Molti

303 prodotti sono altamente concorrenziali grazie all'assenza di intermediari nella catena di distribuzione e al contributo prezioso dei volontari.

Il codice di condotta WFTO Il seguente codice etico, cui tutte le Organizzazioni Fair Trade che aderiscono a WFTO (World Fair Trade Organization) devono attenersi, è stato elaborato per la prima volta alla Conferenza WFTO del 1995 tenutasi nel Meryland (USA).

1. Obiettivi delle Organizzazioni di Fair Trade: il movimento del commercio equo e solidale è un processo di sviluppo mediante il quale i produttori passano da una posizione di esclusione sociale ed economica ad una di autonomia ed efficienza, dalla vulnerabilità alla sicurezza e dalla povertà materiale alla capacità di generare reddito e capitale. Mission istituzionale delle organizzazioni di commercio equo deve essere la riduzione della povertà attraverso il commercio. L’organizzazione deve promuovere e favorire lo sviluppo dei produttori poveri, svantaggiati, marginalizzati e le associazioni e le cooperative di queste realtà produttive.

2. Trasparenza e responsabilità: le organizzazioni di commercio equo sono trasparenti in tutte le fasi dei processi organizzativi e produttivi, e responsabili del proprio operato verso tutti i portatori di interesse, compreso WFTO. La trasparenza e la responsabilità inoltre sono le direttrici principali dei rapporti commerciali con le altre organizzazioni appartenenti a WFTO. L’organizzazione elabora appropriate modalità partecipative per coinvolgere i lavoratori e i gruppi di produttori nel proprio processo decisionale.

3. Pagamento di un giusto prezzo: i prezzi dovrebbero essere definiti per massimizzare il benessere dei produttori e delle loro famiglie e non il margine economico positivo, tenendo conto dei vincoli imposti dalle situazioni di mercato. I produttori del Sud legati al commercio equo dovrebbero ricevere un reddito che è socialmente accettabile, tenendo conto di:

304 a. i costi necessari per soddisfare i bisogni di base (alimentazione, vestiario , alloggio, accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria); b. i prezzi pagati ai produttori dovrebbero essere uguali o maggiori a quelli pagati per prodotti equivalenti nei mercati tradizionali; c. necessità di fornire un reddito che è uguale o maggiore al salario minimo ( o ai salari locali per mansioni equivalenti); d. corrispondere uguali salari a donne e uomini qualora questi svolgano mansioni equivalenti. Le centrali di importazione del commercio equo pagano i partners del Sud immediatamente.

4. Protezione dei minori: le organizzazioni di commercio equo che lavorano direttamente con strutture produttive del Sud poco strutturate forniscono analisi sul coinvolgimento dei minori nel processo produttivo e organizzano meetings per discutere le questioni legate al loro benessere fisico e mentale e incontri per analizzare i bisogni educativi e ricreativi. L’eventuale partecipazione di minori al processo produttivo non deve influire negativamente sulla loro salute e crescita. L’eventuale partecipazione deve essere in linea con il rispetto della Convenzione ONU sui diritti del bambino e con le leggi e le norme sociali del contesto locale.

5. Migliorare la situazione delle donne: le organizzazioni di commercio equo forniscono opportunità formative a donne e uomini per migliorare le loro abilità e competenze, e supportano attivamente le donne nella ricerca di lavoro. Alle lavoratrici vengono forniti percorsi di crescita professionale; le donne sono incoraggiate ad assumere ruoli da leadership. Le organizzazioni che lavorano direttamente con i produttori devono assicurare che il lavoro delle donne venga valutato e remunerato adeguatamente. Le donne sono sempre remunerate per il loro contributo al processo produttivo.

6. Condizioni lavorative: le organizzazioni di commercio equo elaborano progetti e strumenti per i produttori partners affinchè questi possano lavorare in ambienti sicuri e salutari, tenendo conto inoltre dei particolari bisogni ed esigenze delle lavoratrici in

305 stato di gravidanza. Ogni organizzazione che collabora direttamente con i produttori lavora affinchè questi ultimi siano forniti sui luoghi di lavoro di acqua potabile, idonee condizioni igienico-sanitarie e strumenti di primo soccorso. Le ore lavorative giornaliere sono in linea con il massimo stabilito dalla normativa nazionale e dalla convenzione ILO (International Labour Organization).

7. Difesa ambientale: qualora disponibili, le organizzazioni dei produttori utilizzano materie prime e imballaggi con il minor impatto ambientale possibile. Parallelamente, le centrali di importazione del commercio equo promuovono l’acquisto di prodotti fatti con materie prime e imballaggi a basso impatto ambientale, e incoraggiano i loro partners all’uso di tali materiali. Le organizzazioni promuovono il rispetto dell’ambiente e l’uso di tecnologie eco compatibili.

8. Relazioni di lungo termine e accesso al mercato: le organizzazioni promuovono lo sviluppo delle competenze dei produttori. Esse sviluppano specifiche attività di assistenza tecnica ai produttori e si impegnano a instaurare rapporti commerciali durature con i loro partners del Sud e del Nord. Le organizzazioni si impegnano ad assistere i produttori per migliorare il loro accesso al mercato, estero, locale, del commercio equo e di quello tradizionale.

9. Attività di lobbing e di sensibilizzazone: le organizzazioni membri di WFTO promuovono la conoscenza del Fair Trade e la necessità di una maggiore giustizia nel commercio mondiale in particolare nei confronti dei produttori, dei lavoratori e dei consumatori. Le organizzazioni partecipano nell’attività di lobbing a livello locale, nazionale e internazionale.

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306 14. L’epoca del web 2.0 95 : un nuovo ruolo per le ONG?

Introduzione Per riflettere sull’influenza politica e sociale esercitata dal web 2.0. nelle sue declinazioni di Wiki 96 , Social Network e Virtual Communities e come cambia, alla luce di tale nuova dimensione, l’approccio paradigmatico e aggregativo tipico delle organizzazioni e dei movimenti politici intorno alle istanze etiche, sociali, ambientali che si prefissano di perseguire, introduciamo il tema riportando un articolo apparso sull’Economist del 5 gennaio 2013 (che si riporta di seguito) dal titolo: “The new politics of the internet: Everything is connected. Can internet activism turn into a real political movement? ”97 e un intervista riportata su Repubblica.it il 6 novembre 2012 98 a Manuel Castells 99 , sociologo esperto dei fenomeni del web e autore del saggio “ Networks of Outrage and Hope: Social Movements in the Internet Age” 100 .

95 Web 2.0 Il termine, apparso nel 2005, indica genericamente la seconda fase di sviluppo e diffusione di Internet, caratterizzata da un forte incremento dell’interazione tra sito e utente: maggiore partecipazione dei fruitori, che spesso diventano anche autori (blog, chat, forum, wiki); più efficiente condivisione delle informazioni, che possono essere più facilmente recuperate e scambiate con strumenti peer to peer o con sistemi di diffusione di contenuti multimediali come Youtube; affermazione dei social network. Nuovi linguaggi di programmazione consentono un rapido e costante aggiornamento dei siti web anche per chi non possieda una preparazione tecnica specifica. Il fenomeno è ancora in fortissima evoluzione. 96 Termine di origine hawaiana che significa “veloce”, con cui si identifica un tipo di sito internet che permette la creazione e la modifica di pagine multimediali attraverso un’interfaccia semplice, spesso utilizzabile anche senza possedere nozioni di programmazione. Tale caratteristica ha rivoluzionato il mondo di Internet e il passaggio al Web 2.0, favorendo la nascita di siti i cui contenuti vengono gestiti da un alto numero di persone che collaborano all’aggiornamento e all’aggiunta di pagine o che possono modificare anche ciò che è stato inserito da altri utenti. W. ha quindi il pregio di costituire un formidabile strumento di aggregazione di contenuti creati dagli appassionati di un dato tema. Le critiche al modello riguardano proprio la difficoltà di controllo delle modifiche apportate: un sistema così aperto all’intervento degli utenti deve necessariamente fare affidamento da un lato sulla competenza di chi interviene, dall’altro sulle sue intenzioni di apportare al sito un contributo migliorativo. Per la propria configurazione, W. è infatti esposto al fenomeno del vandalismo. Per ovviare a queste vulnerabilità, alcuni sistemi hanno introdotto restrizioni, come l’identificazione o la limitazione del numero di persone abilitate a intervenire sui contenuti. L’esempio più rilevante di impiego del modello W. è il sito dell’enciclopedia online Wikipedia, formato da milioni di pagine e continuamente aggiornato e accresciuto da altrettanti utenti. 97 http://www.economist.com/news/briefing/21569041-can-internet-activism-turn-real-p; 98 'La Rete regala conoscenza ma non può sostituire la forza delle esperienze' http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/11/06/news/manuel_castells- 46006238/ 99 Manuel Castells (Hellín, 9 febbraio 1942) è un sociologo spagnolo naturalizzato statunitense. Dopo i suoi studi a Barcellona e alla Sorbona di Parigi, ha iniziato la carriera accademica. Dal 1979 al 2003 è stato professore di sociologia presso l'Università della California, Berkeley. Oggi è Professore in Comunicazione all'Annenberg Center, presso l'University of Southern California (USC). Ha scritto circa venti libri, tradotti in più lingue. La sua opera più nota è la trilogia intitolata L'età dell'informazione : La nascita della società in rete ; Il potere delle identità ; Volgere di millennio . In italiano, oltre alla trilogia, sono stati pubblicati "Galassia Internet" nel 2002 e "La città delle reti" nel 2004; 100 Cambridge: Polity Press, 2012;

307 The new politics of the internet Everything is connected: Can internet activism turn into a real political movement?

WHEN dozens of countries refused to sign a new global treaty on internet governance in late 2012, a wide range of activists rejoiced. They saw the treaty, crafted under the auspices of the International Telecommunication Union (ITU), as giving governments pernicious powers to meddle with and censor the internet. For months groups with names like Access Now and Fight for the Future had campaigned against the treaty. Their lobbying was sometimes hyperbolic. But it was also part of the reason the treaty was rejected by many countries, including America, and thus in effect rendered void. The success at the ITU conference in Dubai capped a big year for online activists. In January they helped defeat Hollywood-sponsored anti-piracy legislation, best known by the acronym SOPA, in America’s Congress. A month later, in Europe, they took on ACTA, an obscure international treaty which, in seeking to enforce intellectual-property rights, paid little heed to free speech and privacy. In Brazil they got closer than many would have believed possible to securing a ground-breaking internet bill of rights, the “Marco Civil da Internet”. In Pakistan they helped to delay, perhaps permanently, plans for a national firewall, and in the Philippines they campaigned against a cybercrime law the Supreme Court later put on hold. “It feels like when ‘Silent Spring’ was published,” says James Boyle, an intellectualproperty expert at Duke University, North Carolina. The publication of Rachel Carson’s jeremiad on the effects of pesticides in 1962 is widely seen as marking the appearance of modern environmental awareness, and of the politics that goes along with it. Fifty years on, might the world really be witnessing another such moment, and the creation of another such movement—this one built around the potential for new information technology to foster free speech and innovation, and the threats that governments and companies pose to it? The new green Debate and dissent over the issues raised by the spread of information technology are not new. In the 1990s civil-liberties groups, including the pioneering Electronic Frontier Foundation (EFF), campaigned against the Communications Decency Act, part of which was eventually overturned by America’s Supreme Court. Today every corner of the digital universe has its own interest group: consumer groups defend online privacy; hackers reject far-reaching software patents; researchers push for to scientific journals online; defenders of transparency call on governments to open their data vaults—or take the opening into their own hands. As Mr Boyle’s analogy suggests, there was a similar diversity in early 1960s environmentalism. Some sought to clean the Hudson river, some to stop logging in Tasmania, some to ban nuclear tests. But as the late American

308 environmentalist Barry Commoner put it: “The first law of ecology is that everything is connected to everything else.” As it was with the environment, so it became with environmentalism. Over the course of the 1960s and 1970s disparate concerns were tied together into a single, if far from seamless, movement that went on to wield real power. The internet is nothing if not an exercise in interconnection. Its politics thus seems to call out for a similar convergence, and connections between the disparate interest groups that make up the net movement are indeed getting stronger. Beyond specific links, they also share what Manuel Castells, a Spanish sociologist, calls the “culture of the internet”, a contemporary equivalent of the 1960s counter-culture (in which much of the environmental movement grew up). Its members believe in technological progress, the free flow of information, virtual communities and entrepreneurialism. They meet at “unconferences” (where delegates make up their own agenda) and “hackerspaces” (originally opportunities to tinker with electronics); their online forum of choice will typically be something such as a wiki that all can contribute to and help to shape. In some countries the nascent net movement has spawned “pirate parties” that focus on net-policy issues; the first, in Sweden, was descended from the Pirate Bay, a site created to aid file sharing after Napster, a successful music-sharing scofflaw, was shut down. International, an umbrella group, already counts 28 national organisations as members. Most are small, but Germany’s Piratenpartei, founded in 2006, has captured seats in four regional parliaments. The green movement had intellectual leadership from within academia, such as that of Commoner and his sometime sparring partner, Paul Ehrlich. So does the net movement. One leading light is Lawrence Lessig, whose most influential book, “Code and Other Laws of Cyberspace”, argues that computer code is just as important in regulating behaviour as legal code. Another is Yochai Benkler, whose “The Wealth of Networks” extols the virtues of “commons-based peer production” like that seen in open-source software communities, where volunteers write and debug code as a gift to the community at large. And as the environmental movement had a radical wing in organisations such as Earth First! and the Earth Liberation Army, its digital successor has also developed a directaction arm. In early October Anonymous, a “hacktivist” collective, took down a bunch websites in Sweden as a protest against efforts to extradite Julian Assange, the founder of WikiLeaks, from Britain. It is hard to imagine people getting as worked up about a leak of personal data or a tightening of copyright laws as they would over a nuclear disaster or global warming. The ITU does not seem to matter in the same way as the health of the planet. “Most [internet issues] have the electoral sex appeal of a transport-infrastructure plan,” jokes Stephan Klecha, who studies pirate parties at Göttingen University. But it is plausible that people who spend much of their lives online may come

309 to feel strongly about the technological and ideological infrastructure that they depend on. “If they see it threatened, they will fight back,” insists Tiffiniy Cheng of Fight for the Future, one of the advocacy groups that organised the anti-SOPA campaign. According to a study by the Boston Consulting Group, which surveyed consumers in 13 countries, on average 75% would give up alcohol, 27% sex and 22% daily showers to secure internet access for a year if forced to choose. Like environmental issues, the issues that this new movement cares about can be cast as economic ones; and when put that way they look somewhat similar. Since Garrett Hardin’s 1968 essay “The Tragedy of the Commons”, environmental issues have increasingly come to be seen in terms of “negative externalities”. Hardin argued that common properties would be overexploited because the benefits of the exploitation would be appropriated by the people doing the exploiting, whereas the costs fall on all equally. Common causes In part because of this economic logic, the principle of making polluters pay—of internalising the externalities, as the economists put it—is fundamental to the carbon taxes and cap-and-trade regimes for pollutants pushed by pragmatic environmentalists (for all that their more radical brethren seethe at reducing everything to calculable financial costs and benefits). Network politics are also often concerned with the issues raised by commons. The internet—means and motive for much activism—is a clear example of such a digital resource: anyone can access it under the same conditions and all traffic can, at least theoretically, be treated equally (a state which is known as “network neutrality”, and a great rallying cry). But here the externalities not captured by the market are more positive than negative. Often, the more people share and use such a commons, the more they all benefit.

310

When externalities do harm, internalising them makes a lot of sense. When they do good, things are a bit more complex. Some level of internalising may be needed: this is, indeed, the basic argument for intellectual-property rights. Without them, innovators may not benefit enough from sharing their creations, reducing the incentive to create. But a system set to maximise private returns will not necessarily maximise total returns. Brett Frischmann, a professor at the Cardozo School of Law in New York, provides a thorough look at the issues in his book “Infrastructure: The Social Value of Shared Resources”. Infrastructure—both digital and otherwise—is used by many for all kinds of activities, and is often to some extent “non-rival”, meaning one person’s use does not forestall another’s. Limiting their use, for instance by pricing them depending on who uses them and for what, can limit their value and slow innovation. To get the most benefit, Mr Frischmann argues, “We should share infrastructure resources in an open, non-discriminatory manner when it is feasible to do so.” This does not necessarily rule out property rights; but it does mean avoiding the temptation to treat everything as if it were a physical bauble in which only a single owner had an interest. History shows that custom and practice, social norms and other non-market mechanisms can keep commons from becoming tragic under a wide range of circumstances. Mr Boyle makes similar points when he writes, in his book “The Public Domain” that societies need to strike “a balance between open and closed, owned and free.” It is his contention, and that of the rest of the net movement, that governments are systematically getting this balance wrong. They are stuck in the physical world where most goods are rival and cannot be easily shared, he argues. Their critics contend that the activists make the same mistake in reverse, thinking everything can be shared and ownership need not matter at all. Such thinking explains what drives many net activists: they prize an ideal of because they fear turning the internet into a toll road that limits both

311 expression and experimentation; they fear overbroad patents will hamper research; they think making government data freely available stimulates new uses. This insight helps explain the seeming grab-bag of issues that passes for a political programme in Germany’s Pirate Party— including demands for free public transport, the right to vote for foreigners living in Germany and a state-funded basic income for all. These proposals apply the idea of an information commons to what the Pirates see as “platforms” of all sorts: public transport, elections and society as a whole. The degree to which the internet is new and different is also reflected in the net movement’s practicalities. “The internet fundamentally lowers the barriers to organisation,” says Kevin Werbach, who teaches at the University of Pennsylvania’s Wharton School. Like-minded souls no longer need painstakingly to build an organisational structure; a mailing-list is often enough to band together online. Dissolving democracy The anti-SOPA protest started with discussions on blogs and elsewhere, according to Harvard’s Mr Benkler, whose research team has analysed the content of online publications and links between activist websites. Techdirt, a blog, and other specialized online publications wrote about the new legislation. As people got interested, the more established advocacy groups such as the EFF and Public Knowledge came to serve as clearing-houses for information. Groups such as Avaaz, Fight For The Future and Demand Progress, whose aim is to mobilise netizens, started offering tools to help people signal their displeasure, including by writing to members of Congress: millions ended up using them. Internet firms such as Reddit and Tumblr provided organisational support, and larger companies were part of the lobbying effort: net-activists are less likely than Greens to shun corporate interests that coincide with their own. After fierce debate among its peer-producers, Wikipedia joined the campaign, greatly increasing its impact. Germany’s Pirate Party flashed into existence with similar speed. A few weeks before the 2011 elections in Berlin pollsters gave it only a few percentage points. But with a minimum of resources, it managed to mount an efficient campaign using social media to mobilise voters and crowdsourcing to come up with slogans. With 8.9% of the vote, it won 15 seats on the regional assembly. Getting it together quickly, though, is no proof of long-term commitment. Some have criticised the anti-SOPA and other online campaigns as mere “clicktivism”, requiring no more commitment than the twitch of a gamer’s finger. The anti- SOPA coalition is trying to show its staying power by becoming the Internet Defense League, essentially an online phone tree. People sign up by giving their e-mail address; websites can add a logo that signals their membership. If the league’s leaders see a threat to their conception of the internet, they send out an alert. More intriguingly, technology may come to have a role in formulating policy, as well as disseminating calls for action. Germany’s Pirate Party runs a

312 perpetual party conference on an online platform, called “Liquid Feedback”, designed to dissolve the distinction between direct and representative democracy. Rather than voting on an issue directly or electing representatives, party members can delegate their votes on given issues to another member whose opinion they trust—and take them back if they do not agree with the delegate’s decisions. Delegates can in turn pass the votes they collect to another member, thus putting together long and fluid “delegation chains”. The system does not create a democratic paradise: most of the Pirates don’t use it. But it allows for very transparent decision making, argues , perhaps the most influential member of Germany’s Pirate Party, judging by the fact that 237 of the nearly 5000 registered users active on Liquid Feedback have delegated their votes to him. “There’s no dealing in smoky back rooms,” he explains, “you can always tell who has supported what.” Interesting internal infrastructure, though, is no guarantee of further political gains. Germany’s political system makes creating a new party relatively easy, one reason why the Greens succeeded there in the 1980s. Yet the Pirates lack the political nous and broad appeal of the Greens. Almost two-thirds of Pirate supporters are men. Although the ideals of the net movement are often egalitarian its practice can be macho and elitist. The thousands of new members attracted by the Pirates’ Berlin success included a fair share of blowhards, troublemakers and worse On the party’s e-mail lists, discussions of whether users of Liquid Feedback should be allowed to remain anonymous or how much Pirates in parliaments should be allowed to earn routinely blow up into bad-tempered “shitstorms”. Some of its leaders have resigned in disgust and exhaustion. In national polls the party has dropped from over 13% of the vote in May 2012 to around 3% now, below the threshold needed to enter state or national parliaments in this year’s elections. A hack or an operating system? New parties are not the only way to political success. In most of the world the green movement’s victories came from applying pressure to established parties, and spurring the creation of new institutions—ministries of the environment, environmental protection agencies, international treaty organisations and the like. It is still early days, but such institution building is hard to imagine for the net movement. Net politics is about freeing people to experiment rather than controlling their effluents. Although the state can guarantee freedoms, policy by policy it tends to do better, these days, on the shackling front. Moreover net activists, many of whom are libertarian, are unlikely to call for the creation of “net ministries”. Many want to hack politics—to find a way to get the system to an outcome they desire through cleverness and force majeure applied from outside—much more than they want to play politics. It is possible that the lasting influence of the net movement will be in providing new tools and tactics for people with other political aims. All political protest and novelty now has asocial-media face, whether it be that of the tea party, the Occupy movement or the

313 Muslim Brotherhood in Egypt; all seek the fast-multiplying effect that the internet can add to activism and uprisings. Experiments in “delegative democracy” like Liquid Feedback may rewire the way politics works from the inside, as well as speed things up. In Germany other parties are experimenting with such systems; something similar powers Italy’s populist Five Star Movement. When asked about why her organisation does not have a fully fledged political platform, Marina Weisband, one of the leaders of Germany’s Pirate Party, once replied: “We don’t offer a ready- made programme, but an entire operating system.” The true potential of internet politics, in other words, is to reshape what people can do, rather than to campaign for particular benefits. It is not obvious that the sort of people who think of the world in terms of operating systems will prove to be the best at using that new potential, or find in it the power to protect the freedom and openness of all the infrastructure that they care about. But many of them are increasingly serious about trying.

'La Rete regala conoscenza ma non può sostituire la forza delle esperienze 101 ' Parla Manuel Castells il sociologo esperto dei fenomeni del web: il suo nuovo saggio analizza la politica e i movimenti.

"Quando cambia il modo di comunicare, cambia anche la natura delle rivoluzioni. Internet certo non elimina gli abusi di potere ma aiuta a renderli più difficili" "Io non faccio previsioni. Racconto quello che osservo. E la realtà è che i grandi movimenti sociali di questi dieci anni, quelli che sono nati su Internet e sono arrivati sulle piazze d'America, d'Europa e del Nord Africa, stanno cambiando il mondo. Come è sempre accaduto nella storia, i movimenti possono essere repressi, strumentalizzati, traditi. E possono morire. Ma il vero punto è come scompaiono: se lasciandoci una eredità di speranza e di progresso umano o meno. Io credo che i movimenti di questi anni abbiano lasciato un segno molto forte: per esempio hanno terremotato la nostra fiducia nelle banche e nei politici. Non è poco". Manuel Castells è a Milano per una conferenza: ha 70 anni e dalla pubblicazione di L'età dell'informazione, nel 1996, fino all'ultimo, Reti di indignazione e speranza, appena pubblicato in Italia (Università Bocconi Editore, pagg. 304, euro 25), si è dedicato come nessun altro a indagare il rapporto fra Internet e movimenti politici. A quelli come Eugeny Morovoz che hanno messo in evidenza "il lato oscuro della rete" come strumento di sorveglianza e repressione politica, Castells risponde: "Internet non elimina automaticamente i dittatori, ma rende la loro vita più difficile. Il potere ha sempre spiato i cittadini. La differenza è che adesso noi possiamo sorvegliare il potere. Chiedete conferma a tutti quei

101 Articolo a firma di Riccardo Luna

314 politici che si devono travestire per fare i loro affari sporchi senza essere ripresi dai nostri telefonini". Quanto alla accusa, mossa tra gli altri da Malcom Gladwell, di sopravvalutare il ruolo di Facebook e Twitter nelle recenti rivoluzioni, dice: "La questione non è se Internet abbia o meno provocato delle rivoluzioni. La questione è che tutte le rivoluzioni dipendono dalla comunicazione fra le persone. E quando si verifica un cambiamento fondamentale del modo di comunicare, che con Internet diventa orizzontale, multimodale, interattivo e immediato, allora cambia la natura dei movimenti politici. Così Internet non ne è la causa, ma non possiamo davvero capire i movimenti sociali di questi anni senza capire il ruolo della rete". Cosa resta di tante piazze occupate, di tante speranze? Ha davvero l'impressione che oggi viviamo in un mondo migliore di dieci anni fa? "Se guardiamo a valori come l'eguaglianza, la dignità delle donne, l'importanza della conservazione del pianeta, o anche i diritti umani fino alla sfide ai dittatori e agli autori di autentici genocidi; se guardiamo a tutto questo non possiamo negare il ruolo dei movimenti. Nella primavera araba per esempio sono stati rovesciati dittatori sanguinari e il potere è passato al popolo. E chi dice che le rivoluzioni sono fallite per l'ascesa dei partiti islamici dimentica che negli ultimi dieci anni tutte le elezioni democratiche in ogni paese arabo hanno avuto gli stessi risultati. Purtroppo noi occidentali siamo abituati a considerare democrazia solo quello che coincide con i nostri interessi. Altrimenti preferiamo i dittatori". Prendiamo Occupy Wall Street che ha coinvolto centinaia di città americane. O gli Indignados, che dalla Spagna hanno contagiato l'Europa. Cosa hanno ottenuto? "Ottenere il supporto della maggioranza della popolazione per denunciare l'ingiustizia sociale e la complicità fra élites politiche e finanziarie non è poco. Il fatto è che oggi molte democrazie non sono più democratiche, nel senso che la classe politica si è arroccata al potere escludendo i cittadini i quali a loro volta sono disinformati dai media controllati dai grandi gruppi economici. Ma la coscienza delle persone sta cambiando: è come l'acqua, se trova un canale ostruito ne cerca un altro. Non puoi fermarla". L'impressione è piuttosto che solo l'Islanda abbia vissuto un cambiamento visibile, con la wiki-costituzione redatta con il contributo di tutti i cittadini attraverso i social network. Perché lì ha funzionato? "L'Islanda non è l'unico posto però c'è una verità: un pieno cambiamento democratico e pacifico è avvenuto solo in Islanda. Forse perché ha una democrazia molto antica e anche perché il 96 per cento della popolazione è connessa ad Internet e molti di loro sono esperti di rete". A prescindere da dove siano nati, i movimenti sociali che descrive hanno in comune un rifiuto del sistema politico. E la astensione elettorale. Questo spesso ha avuto come conseguenza una vittoria dei partiti conservatori. È questo che vogliono? Tanto peggio, tanto meglio? "È un ragionamento sbagliato. Tutti pensano ai nazisti in Grecia ma Syriza ha tre volte i voti dei nazisti e oggi vincerebbe le elezioni se la coalizione conservatori-socialisti non governasse grazie ad un trucco della legge

315 elettorale. Quello che c'è di vero è che tutti i movimenti sfidano la legittimità del sistema politico, ma non la democrazia in sé. In tutto il mondo eccetto la Scandinavia la maggioranza dei cittadini non si sente più rappresentata dai partiti. E così questi hanno chiuso tutte le vie d'uscita per un cambiamento reale. Ma così si ignora la Storia. Guardate a quel che è accaduto con il MoVimento 5 Stelle in Sicilia: io non ho abbastanza elementi per giudicare Beppe Grillo, ma è evidente che il suo successo elettorale dimostra che tutte le volte che i cittadini possono scappare dall'attuale sistema, lo fanno all'istante". Nella sua visione la democrazia rappresentativa è in crisi irreversibile: l'approdo è una democrazia liquida, imperniata sulla trasparenza e gli strumenti di partecipazione dal basso del web? "Viviamo una fase costituente. È empiricamente chiaro che gli attuali sistemi politici non rappresentano più i valori e gli interessi dei cittadini. Ma non c'è nessun progetto chiaro di una democrazia diversa. Come potrebbe esserci? I popoli sono in lotta, il modello arriverà dal basso non come elucubrazione di qualche aspirante leader. Quello che si può già dire è che le reti di Internet e le reti sociali consentono alle persone di mobilitarsi senza leader e organizzazioni. Siamo nel mezzo di un grande processo di trasformazione con un finale aperto. Ci sono molti rischi, è vero, ma arriveremo a costruire nuove forme di rappresentanza. Io non credo che capiterà presto. Per questo gli Indignados spagnoli dicono: andiamo piano perché andiamo lontano". C'è ancora bisogno di andare in piazza per cambiare le cose? In fondo Internet dimostra il contrario. "Assolutamente sì. Perché abbiamo bisogno di sentirci parte di una comunità, di condividere esperienze, toccarci, abbracciarci. Persino essere picchiati dalla polizia assieme. Se i movimenti esistessero soltanto su Internet sarebbero un videogioco. Viviamo e combattiamo con Internet non dentro Internet".

316 Il diritto fondamentale all’identità al tempo di internet e della globalizzazione

“Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso”. Luigi Pirandello “Uno, nessuno e centomila”, 1925

La persona e le sue identità Fino a qualche decennio fa, l’“identità” non era neppure lontanamente considerata una “questione sociale”, ma unicamente oggetto di meditazione filosofica. Nelle società contemporanee invece l’identità si pone, secondo il sociologo Bauman, come problema e come compito: è la questione “all’ordine del giorno” e attorno alla quale c’è grande fermento. In epoca pre-moderna, la maggior parte delle persone e quindi il concetto stesso di "società", coincideva con il proprio immediato circondario. Il sociologo americano Robert Merton, la definiva una “società di conoscenza reciproca”, e all’interno di questa rete di familiarità “dalla culla alla bara”, il posto occupato da ciascuno era troppo evidente per essere valutato, tantomeno negoziato. L’affievolirsi e la lenta disintegrazione della tenuta delle comunità locali, sommata alla rivoluzione dei trasporti, è stata all’origine, secondo Bauman, della nascita del concetto moderno di identità 102 . La persona, il singolo, ricerca dunque una propria identità e l’identità diviene qualcosa che è necessario costruire e selezionare fra opzioni alternative: “chi sono io?”. Il senso di questa domanda trova il suo fondamento solo se l'individuo sa di poter essere qualcuno di diverso da ciò che realmente è, se deve fare qualcosa per consolidare e rendere “reale” una scelta e la risposta a tale domanda. Etimologicamente il termine persona deriva dal latino, che a sua volta si riferisce ad un termine etrusco, che indicava "personaggi mascherati", forse un adattamento del greco πρόσωπον ( prós ōpon ) dove si indicava il volto dell'individuo, ma anche la maschera dell'attore e il personaggio da esso rappresentato. Secondo Bauman, la costruzione dell’identità è uno dei fenomeni della “modernità liquida” . Così come i fluidi non sono in grado di mantenere a lungo una forma, ma si modificano continuamente, così l’individuo contemporaneo compone la propria identità in maniera frammentaria, partendo dai pezzi di un puzzle del quale però non si conosce in anticipo il

102 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità , Laterza Ed., 2009

317 disegno finale, un’opera in continuo divenire che per questa ragione non porta in sé una definizione di significato. L’individuo cerca di comprendere come ordinare e riordinare questi “pezzi” per ottenere delle immagini di sé soddisfacenti nella contingenza in relazione agli obiettivi momentanei. La costruzione dell’identità ha quindi assunto la forma di un’inarrestabile sperimentazione. Internet è per eccellenza lo strumento odierno elettronico, comodo e utile, che ci consente di modellare le nostre identità senza rimanere legati a una di esse: ci consente di poter offrire una pluralità di identità, facendo esperienza di una "extraterritorialità virtuale", che si sostituisce a una extraterritorialità reale. L’individuo, nella costruzione della propria identità e quindi nel confronto con l’altro, si avvale della rete che offre il vantaggio di poter consentire di connettersi e disconnettersi con la stessa facilità, e attratto dalla “libertà” di movimento consentita, il soggetto sostituisce le RELAZIONI con i CONTATTI. Sherry Turkle, psicologa e docente del Massachusetts Institute of Technology, definisce identità virtuale " il sé frammentato che emerge dal rapporto vissuto all'interno della rete ". Il virtuale, cioè, sarebbe il luogo dove noi sperimentiamo la pluralità degli aspetti del nostro io frammentato 103 . La psicologa vede la realtà virtuale come potenzialità di nuove esperienze e relazioni che ci consentono di entrare in rapporto ed in rapporti nuovi con personalità diverse e con diversi aspetti della nostra personalità. Una personalità che quindi diventa multipla, ibrida, creativa e in continua trasformazione. La formazione delle identità, o meglio la loro “riformazione” è un compito che non arriva mai a conclusione e che dura “tutta una vita”: c’è sempre da svolgere un lavoro di ridefinizione e aggiustamento, poiché le condizioni di vita, il ventaglio delle opportunità e la natura delle minacce cambiano continuamente nella “modernità liquida”. Gli sforzi di “formazione dell’identità” oscillano precariamente tra due valori umani, ugualmente indispensabili per una vita umana decente: la libertà e la sicurezza, il cui equilibrio non è facile da ottenere poiché concettualmente la libertà tende ad accompagnarsi all’insicurezza, e la sicurezza tende per definizione ad accompagnarsi al concetto di limitazione della libertà.

103 S. Turkle, " La vita sullo schermo: Nuove identità e relazioni sociali nell' epoca di Internet ", Apogeo Ed., 1997

318 Il progresso che caratterizza la nostra epoca, anziché veder crescere insieme sicurezza e libertà, oscilla in un movimento a pendolo che tende verso l’una a discapito dell’altra: il progresso e la maggiore libertà di movimento "virtuale" consentito da internet, la possibilità di proporre sulla rete vari frammenti di sé nella continua costruzione della propria identità, che come detto, è in continuo mutamento e ridefinizione, pone anche la questione della sicurezza e della possibilità di ridefinizione di tale identità, questione che travalica gli aspetti sociologici, aprendo il dibattito ad aspetti di carattere giuridico,etico, tecnologico quali la protezione dei dati personali e il diritto all’oblio.

Il diritto all’oblio nell’era del Web 2.0 La Direttiva del 95/46/CE del 24 ottobre 1995 104 rappresenta una pietra miliare nella storia della protezione dei dati personali nell'Unione Europea, sancendo di fatto due antiche ambizioni egualmente essenziali al processo di integrazione comunitaria, ossia la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, ivi compreso il diritto fondamentale alla protezione dei dati, e la realizzazione del mercato unico, ossia, nello specifico, la libera circolazione dei dati personali. A diciassette anni di distanza, tale duplice obiettivo ha mantenuto la sua validità e i princìpi che hanno trovato espressione nella Direttiva restano saldi, nonostante la rapidità dell’evoluzione tecnologica, estremizzata dalla globalizzazione, abbiano mutato profondamente il nostro approccio quotidiano al mondo in cui viviamo, ponendo nuove sfide al trattamento – e quindi alla protezione – dei dati personali. La tecnologia odierna consente, infatti, di condividere agevolmente informazioni sui comportamenti e sulle preferenze, e di rendere pubblici a livello mondiale quantità di dati attraverso modalità senza precedenti (le statistiche vedono circa centomila tweet al minuto e un milione di commenti su Facebook ogni due minuti). I Social Network , con centinaia di milioni di membri in tutto il mondo, sono forse la più evidente – ma di certo non l'unica – manifestazione di questo fenomeno: anche il cosiddetto Cloud Computing – utilizzo di risorse software distribuite su server remoti – costituisce una sfida per la protezione dei dati in quanto comporta il rischio che l’utente perda il controllo

104 Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GU L 281 del 23.11.1995, pag. 31);

319 delle informazioni potenzialmente sensibili che abbia salvato su programmi ospitati nell’hardware di terzi. Secondo uno studio recente, le autorità di protezione dei dati, le organizzazioni professionali e le associazioni di consumatori sembrano concordare sul fatto che i rischi per la privacy e la protezione dei dati personali associati alle attività on line sono in aumento 105 . Nell’era del Web 2.0 e delle multiple identità online, delle quali anche noi stessi perdiamo il conto, il dibattito verte quindi sulla regolamentazione delle modalità con le quali i nostri dati vengono gestiti, soprattutto nel momento in cui dovessimo avere voglia di compiere il cosiddetto “ suicidio online ”, cancellando, cioè, tutti i nostri dati da Internet. Se il ruolo storico del giurista è, in senso lato, quello della comprensione, della classificazione e della sistematizzazione dell’agire dell’individuo, alla luce dell’ampliamento dei concetti di “ memoria ” e di “ identità ” in una realtà virtuale dai contorni infiniti, sembra oggi quanto mai opportuno interrogarsi e riflettere se sullo scenario dipinto dalla Rete sia sufficiente applicare il diritto all’oblio e il diritto alla protezione dei dati personali, così come si sono consolidati nel mondo fisico o se sia invece necessario introdurre nuove regole, legittimando un nuovo significato giuridico del diritto all’oblio 106 .

La persona tra identità e memoria Il concetto di persona, filosoficamente inteso, è una sintesi di ciò che fonda l’identità personale, ossia l’estrinsecazione dell’io, e ciò che ne viene percepito e ricordato dalla collettività, in un dato contesto temporale o spaziale. Con internet, dove la quantità di informazioni non solo sono moltissime , ma spesso prive di contesto e di fonte, per cui diventano in qualche modo “appiattite” e rese disponibili sempre, i frammenti di identità dell’individuo pèrdono il loro aspetto “rinegoziabile” e si sommano l’un l’altro, entrando a far parte di una grande memoria collettiva e digitale, limitando e condizionando fortemente la libertà di costruire nel tempo la propria identità. L’era virtuale del Web mina, infatt, tale definizione di persona, togliendo la verità propria del mondo fisico – in Rete posso essere chi voglio – e decontestualizzandola – il mondo

105 Cfr. uno studio del luglio 2010 sui vantaggi economici delle tecnologie di rafforzamento della tutela della vita privata ( Study on the economic benefits of privacy enhancing technologies, London Economics, July 2010)(http://ec.europa.eu/justice/policies/privacy/docs/studies/final_report_pets_16_07_10_en.pdf), pag. 14; 106 Il riferimento va all’opera di Mayer-Shonberger: “Delete. The virtue of fergetting in the digital age”, Egea, 2010; nonché al saggio di Giusella Finocchiaro “La memoria della rete e il diritto all’oblio”.

320 virtuale non ha tempo e non ha luogo – . Con riguardo alle informazioni, esse appaiono tutte al medesimo livello, appiattite 107 [concetto di “ world is flat” ] e prive di contestualizzazione: il pagerank dei motori di ricerca indica solo quanto una pagina sia linkata , non a quali informazioni essa debba essere correlata, né fornisce alcun dato sulla qualità dell’informazione. Alla luce di tutto ciò, possiamo affermare che i problemi sollevati dalla memorizzazione di informazioni sul Web, sollevano essenzialmente le seguenti problematiche: - incertezza circa le fonti delle informazioni; - incertezza circa la veridicità e la qualità delle informazioni; - incertezza del contesto in cui hanno origine e si sviluppano le informazioni. Usando una metafora, “ ci troviamo spesso davanti a pagine isolate di libri custoditi in mille diverse biblioteche 108 ”. Declinando tali problematiche dal punto di vista del diritto, il giurista è quindi chiamato a confrontarsi con almeno due problematiche principali: a) la prima, ha a che vedere con il concetto di garanzia delle informazioni, sotto il profilo della loro qualità, della loro correttezza e della loro veridicità; b) la seconda riguarda quali strumenti possiede, o debba possedere, un soggetto atti a salvaguardare gli eventuali pregiudizi causati dalla pubblicazione in Rete di informazioni lesive (o perché l’informazione si riferisce a vicende rispetto alle quali è trascorso un notevole lasso di tempo, che non sono più attuali e che lo ostacolano nell’esplicazione della sua personalità attuale o perché l’informazione doveva rimanere in una sfera limitata e la sua circolazione lede la sua sfera personale). Si aggiunge a tali problematiche anche l’interrogativo che ci porta a riflettere sulla necessità che debba esistere o meno un diritto a cancellare i dati dalla Rete, in senso più ampio rispetto ai diritti già riconosciuti alla protezione dei dati sensibili: ci si chiede, cioè, se debba prospettarsi un diritto assoluto all’autodeterminanzione informativa , mediante la cancellazione o l’oblio.

Il “diritto ad essere dimenticati”

107 ZENO-ZENCOVICH, Comunicazione, reputazione, sanzione, in DII, 2007, in particolare p. 266. 108 “La memoria della rete e il diritto all’oblio ”, Giusella Finocchiario;

321 La selezione della memoria nel mondo fisico è operata dal trascorrere del tempo: il problema è ricordare o farsi ricordare. Nel web, invece, tutte le informazioni permangono. Non vi sono esigenze di selezione: la memoria è illimitata. L’esigenza può divenire, piuttosto quella di farsi dimenticare. La definizione del diritto all’oblio 109 fa tradizionalmente riferimento al “ diritto di un soggetto a non vedere pubblicate alcune notizie relative a vicende, già legittimamente pubblicate, rispetto all’accadimento delle quali è trascorso un notevole lasso di tempo ”. Tale diritto emana dal più ampio diritto all’identità personale, visto come il diritto a determinare la propria immagine sociale, che, appunto, può giungere fino a pretendere che alcuni eventi siano dimenticati, obliandosi, cioè ciò che non fa più parte dell’identità personale di un soggetto. La tecnologia, appiattendo la rete illimitata di Internet in una dimensione atemporale, modifica i parametri applicativi di tale diritto, accentuandone al contempo anche le declinazioni: in condizioni di “atemporalità” non si tratta più solo del diritto di essere dimenticati quanto piuttosto del diritto di cancellare. Quali caratteristiche dovrà avere questo diritto? Vi è – o vi dovrebbe essere – un diritto di controllo assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo, del soggetto cui le informazioni si riferiscono? A tale soggetto compete l’onere di dimostrare che vi è una lesione della sua identità personale o che le regole per la tutela per la protezione dei suoi dati personali non siano state rispettate? A questi interrogativi, il giurista si deve avvicinare con cautela, avendo come scopo principale sempre la tutela della persona . Una prima questione da affrontare si riferisce, infatti, al diritto all’identità personale e si chiede quali siano i criteri di determinazione dell’immagine sociale per consentire il concreto esercizio del diritto.

109 In dottrina, sul diritto all’oblio si vedano: AA.VV., Il diritto all ’oblio. Atti del Convegno di Studi del 17 maggio 1997 , GABRIELLI (a cura di), Napoli, 1999; AULETTA, Diritto alla riservatezza e “droit à l ’oubli ”, in ALPA- BESSONE-BONESCHI-CAIAZZA (a cura di), L’informazione e i diritti della persona , Napoli, 1983, p. 127 e ss.; FERRI, Diritto all ’informazione e diritto all ’oblio , in RDC , 1990, p. 801 e ss.; MORELLI, voce Oblio (diritto all ’), in Enc. dir. Agg ., VI, Milano, 2002; da ultimo, MEZZANOTTE, Il diritto all ’oblio. Contributo allo studio della privacy storica , Napoli, 2009; in giurisprudenza fra le pronunce che si sono occupate più specificamente del diritto all’oblio si segnalano: Cass. civ., 18-10-1984, n. 5259, in GI , 1985, c. 762; Cass. civ., 9-4-1998, n. 3679, in FI , 1998, c. 123 e nel merito Trib. Roma, 15-5-1995, in DII , 1996, p. 427; Trib. Roma 27-11-1996, in GC , 1997, p. 1979 e ss. e Trib. Roma, ord. 20.21.27-11-1996, in DA , 1997, p. 372 e ss.

322 In tale senso, “l’identità personale, rispetto alla quale si vanta un diritto, non è né l’immagine che il soggetto ha di sé ( verità personale ), che può in ipotesi estreme anche essere scorredata dalla realtà, né l’insieme dei dati oggettivi riferibili al soggetto ( verità storica ), quanto piuttosto l’immagine, socialmente mediata o oggettivata 110 , del soggetto stesso”. L’altra prospettiva necessaria per fondare il diritto a cancellare è quella del confronto con il regime della protezione dei dati personali: un soggetto ha infatti il diritto, sancito dall’art. 7 del Codice, alla cancellazione dei dati che siano stati illecitamente trattati. Tale concezione, rafforza, infatti, una configurazione dell’oblio come diritto necessariamente vincolato, dal momento che non prevede una cancellazione tout court, ma bensì solo in determinate circostanze (cioè l’illiceità del trattamento). È necessario un bilanciamento con altri diritti?

Il valore del “diritto ad essere dimenticati” Quanto detto finora deve confrontarsi con un ulteriore problematica, ossia quella relativa all’effettività dell’esercizio del diritto di cancellazione dalla Rete, quando l’informazione sia già circolata. La revoca del consenso, sancita dalla direttiva 96/45, ha ad oggetto la diffusione dei dati. Nel caso, infatti, della pubblicazione di un’informazione sul web, il soggetto mantiene il diritto di revocare il consenso alla diffusione e richiede che il dato pubblicato sia oscurato. In tale caso, l’esercizio del diritto è puntuale e riferito ad una determinata informazione: l’autodeterminazione informativa consente al soggetto di disporre e determinare un proprio profilo personale, fino a revocare il consenso già prestato. Tale diritto però cancella il presente, non il passato. La direttiva 96/45 si riferisce a un modello “statico” di trattamento dei dati personali, un modello essenzialmente one-to-one , dove il soggetto interessato e il titolare del trattamento hanno ruoli definiti e fissi. La realtà dei social network e dei motori di ricerca, invece, si basa su un modello di condivisione e di cogestione di dati e informazioni one-to-all , destinati fin dall’origine ad una circolazione globale. Allora, spostare l’accento delle responsabilità dal soggetto che fornisce il dato (che comunque è chiamato a prestare un

110 RICCIUTO, Diritto di rettifica, identità personale e danno patrimoniale all’uomo politico , nota a Trib. Roma, 7-11- 1984, in DII , 1985, p. 225.

323 consenso) a chi lo fa circolare – come ad esempio i social network come Facebook, MySpace, Google, Yahoo – forse è necessario.

Il dibattito sul diritto ad essere dimenticati In occasione della conferenza “Digital Life Design”, tenutasi a Monaco il 22 gennaio 2012, il capo della Commissione UE per la società dell’informazione e dei media Viviane Reding ha annunciato che “ Le persone devono avere il diritto ad essere dimenticati, quando le informazioni non sono più necessarie o quando vogliono che i dati siano cancellati ”, dichiarando quindi la volontà europea di garantire tale diritto come assoluto (“ quando vogliono che i dati siano cancellati ”). Sebbene le reazioni a seguito di tale annuncio siano state favorevoli, tra le reazioni alternative, è interessante quella di Jeffrey Rosen su Stanford Law Review, che vede di fatto il diritto a essere dimenticati come “ la più grande minaccia alla libertà di parola su Internet nel decennio che verrà ”. Queste le sue parole: “Il diritto a essere dimenticati potrebbe privare per esempio Facebook e Google fino al due percento dei loro ricavi globali, nel caso di fallimento nel rimuovere foto che le persone postano e di cui poi si pentono, anche se tali foto sono state distribuite ampiamente via rete. A meno che il diritto non sia definito in modo più preciso quando sarà promulgato nei prossimi tempi, potrebbe causare un drammatico scontro tra i concetti europei e americani di bilanciamento tra privacy e libertà di parola, portando a un’Internet molto meno aperta”. Il problema, secondo Rosen, starebbe nel fatto che le richieste di “suicidio virtuale” tratterebbero le informazioni postate da terzi in modo identico a quelle postate in prima persona, includendo entrambe nella definizione “qualsiasi dato riguardante la persona” indipendentemente dalla sorgente dalla quale il dato proviene. “Se io posto qualcosa, e qualcun altro lo copia e lo riposta sul proprio sito, ho diritto a cancellarlo? Immaginate un adolescente che si pente di aver postato una foto di sé stesso con una bottiglia di birra sul proprio sito e, dopo averla cancellata, scopre che alcuni suoi amici hanno copiato e ripostato la foto sui loro siti. Se chiede loro di rimuovere le foto, e i suoi amici rifiutano o risultano non rintracciabili, si può obbligare Facebook a cancellare la foto dagli album senza il consenso dei proprietari basandosi solo sull’obiezione dell’adolescente?”

324 Secondo il diritto a essere dimenticati, la risposta sarebbe sì. Il problema diventa a questo punto un altro, quello legato alla responsabilità di terzi indipendentemente da chi mette la foto online: possiamo ritenere Google, Facebook o chi per loro responsabili? Possiamo soprattutto obbligarli a diventare un’autorità di censura, in molti casi preventiva visto che è facile immaginare una serie di contromisure drastiche di fronte a eventuali leggi che vadano in tale direzione? Senza ombra di dubbio, il diritto a essere dimenticati è un argomento che va dibattuto in un epoca in cui ormai chiunque può finire sulla rete nel giro di qualche istante, ma occorrerà fare molta attenzione sulle responsabilità individuate e sui soggetti ai quali queste verranno addossate.

Il nuovo scenario normativo europeo Gli interrogativi posti dall’avvento di un diritto all’oblio, hanno come risposta due complessi di norme principi presentati da Vivianne Reading nel corso della conferenza Digital Life Design, dove erano presenti i giganti del web, da Facebook a Google che sono tuttora in ansiosa attesa di conoscere la nuova disciplina che li coinvolge direttamente e che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui noi tutti usiamo Internet. Il primo provvedimento è una direttiva, vuol dire che dopo l'approvazione andrà quindi recepita da ciascun paese, e riguarda la protezione dei dati dei cittadini per provvedimenti giudiziari, misure di sicurezza e polizia e prevede obblighi di comunicazione del trattamento dei dati molto tutelanti per chi è stato oggetto di attenzioni da parte delle autorità. Il secondo provvedimento è un regolamento e riguarda tutti gli altri casi, in particolare Internet. Si tratta di una semplificazione che consentirà a chi vuole operare in Europa di avere un quadro di riferimento chiaro, e che al tempo stesso impedirà di scegliersi il paese europeo con la legislazione più morbida per aggirare i divieti. Le cose più notevoli del regolamento, sono: 1) non toccherà più al cittadino dimostrare illiceità dell'uso dei propri dati ma al titolare dei dati dimostrare la liceità; 2) il consenso all'utilizzo dei propri dati dovrà essere esplicito; 3) l'eventuale perdita dei dati per un attacco informatico dovrà essere comunicato subito (24 ore, secondo la Reding);

325 4) la pubblica amministrazione e le imprese con più di 50 dipendenti dovranno dotarsi di un "data protection officer" (nuova professione in arrivo); 5) se viene fatto un uso illecito dei dati di qualcuno, il responsabile ne risponderà comunque; 6) ogni nuovo strumento tecnologico ma anche semplice applicazione dovrà valutare l'impatto che il suo utilizzo avrà sulla privacy (Pia, privacy impact assessment); 7) dovrà essere possibile avere la "data portability": ovvero così come possiamo portarci dietro il numero di telefono cambiando gestore, dobbiamo poterci portare gli amici di Facebook su un altro social network (bel principio ma di impervia attuazione). Si tratta di norme importanti, che prevedono tra l'altro sanzioni notevoli: fino all'un per cento del fatturato, che nei casi di Google e Facebook sono somme gigantesche (per questo l'originaria previsione del cinque per cento è stata attenuata). Va detto però che su molte cose il web ha giocato d'anticipo. Facebook per esempio, che in passato ha avuto furiose polemiche per un atteggiamento molto disinvolto sui dati personali, oggi consente all'utente di verificare tutti i dati che ciascuno ha caricato; di modificare facilmente le previsioni di privacy e anche di cancellare il proprio profilo con due clic (dopo il primo appare una schermata struggente dove ti avvisano che i tuoi amici, evidenziati con nomi e foto, sentiranno la tua mancanza...). Quanto a Google, che pure è stato coinvolto in polemiche per il fatto di tenere traccia di tutte il nostre ricerche e navigazioni in rete, oggi mette a disposizione dell'utente un pannello per cancellare i propri dati e una modalità di navigazione completamente anonima. Ora intervengono le norme della Reding che sul punto ha chiarito: " Gli archivi dei giornali sono una eccezione, il diritto a essere dimenticati non può significare il diritto a cancellare la storia ". Questa eccezione, secondo alcuni, potrebbe non bastare, visto che oggi molta informazione non sta nei giornali ufficiali, ma nei blog e nei siti di citizen journalism . Il rischio di una strada simile sarebbe grosso. Spiega Guido Scorza, uno dei più noti giuristi della rete: " La disciplina europea unica proposta dalla Reding è apprezzabilissima, ma sul diritto all'oblio non ci siamo. Se consentiamo a chiunque di pretendere la rimozione di un contenuto sgradito che lo riguarda, tra cento anni quando guarderanno a questa epoca attraverso Internet sembreremo tutti bravi e buoni. Le storie di corrotti e delinquenti saranno sparite ".

326 Dall'1 febbraio i due provvedimenti iniziano il loro cammino parlamentare che si annuncia problematico. Non solo per le reazioni di attesa diffidente del mondo del web: Google e Yahoo si sono astenute dal commentare, da Microsoft filtra il timore che si tratti di norme troppo restrittive, mentre Facebook ha scelto la strada dell'ironia lodando l'auspicio della Reding sulla creazione di nuovi posti di lavoro e chiedendosi in che modo verranno davvero tutelati i diritti degli utenti di Internet.

Conclusioni Confondere privacy e diritto all’oblio è un rischio, soprattutto se fatto con lo spirito di promuovere un tema importante: quello della consapevolezza di come i nostri dati vengono utilizzati dagli attori che gestiscono i servizi che quotidianamente sfruttiamo. La prima infatti rappresenta il nostro diritto alla riservatezza che si esprime nella possibilità di scegliere se condividere o meno le proprie informazioni personali, il secondo interviene invece quando una volta aver condiviso le informazioni, quelle informazioni prima o poi debbano scomparire. Ma mentre la privacy è un diritto assoluto, può dirsi lo stesso del diritto all’oblio? Forse il punto è che la rete, i social network ci trasformano tutti in personaggi pubblici, o meglio in personaggi le cui informazioni pubbliche sono disponibili in rete. E decidere quali siano le informazioni da rendere pubbliche – o condivise – è diventato un problema da conoscere e saper gestire. Forse la base da cui partire è proprio la consapevolezza , ossia non solo la necessità di diffondere con trasparenza il regime di trattamento dei dati e delle informazioni sui social network, o meglio una classificazione/selezione di tali informazioni che passa alla luce di una trasparente attività dei gestori. Oltre all’individuazione di nuovi modelli normativi e di nuove tecnologie che permettano di far progredire e superare i limiti rappresentati dalla tecnologia attuale, è necessario immaginare anche una nuova virtù, che affonda le proprie radici in un concetto contemporaneo di responsabilità morale da parte dell’individuo: un uso più responsabile e consapevole dei mezzi che si hanno a disposizione. Davis 111 , nel considerare le dimensioni e i dilemmi di una nuova virtù, scrive che non è più possibile parlare di un unico concetto di responsabilità, ma che è necessario distinguere tra un modello semplice ed uno complesso.

111 W. Davis, Afterword. Responsibility in a Postmodern World , in Id. (ed.), Taking Responsibility, University Press of Virginia, Charlottesville and London 2001

327 Nella società contemporanea, osserva Davis, la responsabilità sembra assumere il suo significato più adeguato quando va oltre il dovere, quando si spinge nel territorio sconosciuto privo dei cartelli indicatori dell’etica comune. Una responsabilità complessa non è ricavata da un insieme prestabilito di valori, interessi e doveri e da un'autorità cui rendere conto, ma essere responsabili in tal senso significa essere capaci di prevedere le conseguenze dei propri atti e avere la volontà di dare un resoconto veritiero delle proprie azioni. La responsabilità, l’essere morali, è in tal caso una virtù, ma come ricorda lo stesso Bauman: “Non c’è nulla di necessario nell’essere morali. Essere morali è un’opportunità che può essere colta” 112 . A titolo conclusivo, una riflessione legata ad un paradosso di natura storica: dall’oblio come pena massima dell’antica Roma, tramite la damnatio memoriae , all’oblio come diritto invocato dalle persone ad essere dimenticate da Internet.

L’ITU e gli altri Organismi internazionali dell’Internet Governance

L'Unione internazionale delle telecomunicazioni, in acronimo ITU (dall'inglese International Telecommunication Union ) è un'organizzazione internazionale che si occupa di definire gli standard nelle telecomunicazioni e nell'uso delle onde radio. È stata fondata il 17 maggio 1865 a Parigi da 20 membri con il nome di International Telegraph Union , cambia con il nome attuale nel 1932. Dal 1947 è una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite e l'attuale sede è a Ginevra. L’ITU fino a ora ha avuto poco a che fare con il sistema dei domini Internet, che serve per organizzare e rendere reperibili i siti a partire dai loro domini di primo livello (“.it”, “.com”, “.org” e altri). Nel 1996 fece parte di una prima iniziativa per gestire il sistema chiamata IAHC, che fu presto accantonata perché ritenuta poco aperta e trasparente. Gli Stati Uniti suggerirono di affidare il compito a una istituzione esterna, un ente privato senza scopo di lucro che si sarebbe occupato di questi aspetti fondamentali per l’organizzazione di Internet. Nel 1998 la proposta si concretizzò nell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names

112 Z. Bauman, Le sfide dell’etica , Feltrinelli, 1996

328 and Numbers), che ancora oggi si occupa di gestire i domini e molti altri aspetti del funzionamento della Rete. In oltre 14 anni di funzionamento, l’ICANN ha dimostrato di avere le capacità per gestire il sistemae trovare regole condivise da buona parte di chi opera in Rete, soprattutto sul fronte delle società private. L’organizzazione è tuttavia spesso criticata da chi ritiene che sia molto esposta all’influenza degli Stati Uniti. In effetti, il contratto all’ICANN fu assegnato dal ministero per il Commercio statunitense e da quando esiste ha dimostrato di essere molto attenta agli interessi del governo degli Stati Uniti, cosa che non piace agli altri governi, soprattutto orientali. Al centro del dibattito della 2012 World Conference on International Communications (WCIT) svoltasi Dubai, c’è stato l’aggiornamento delle Regole internazionali per le telecomunicazioni (ITRs) dell’ITU, un documento che risale al 1988 e che stabilisce come le reti dovrebbero funzionare a livello nazionale e internazionale. Il mondo dalla fine degli anni Ottanta è cambiato notevolmente, soprattutto sul piano di come si comunica, e per questo motivo l’ITU si propone di mettere mano alle regole per introdurne di nuove, che diventeranno comunque effettive solo se saranno recepite dai singoli ordinamenti nazionali, un meccanismo tipico delle agenzie ONU. Il problema è che a oggi non sono ancora note le proposte, che saranno tra l’altro discusse dai rappresentanti dei governi a porte chiuse e senza le principali aziende che su Internet ci lavorano, a partire da Google. L’ITU ha messo online una prima bozza dei nuovi accordi, ma senza dare dettagli sulle richieste formulate dai singoli paesi. La scelta è stata criticata dall’Unione Europea, che ha chiesto più apertura e trasparenza. Una delle proposte è rendere l’ITU un’agenzia che si occupa specificamente di Internet e non solo di telecomunicazioni, strappando quindi alcuni poteri fino a ora gestiti dall’ICANN. Tra i paesi più interessati alla modifica c’è la Russia, che cerca da tempo una soluzione per allontanare l’influenza sui domini degli Stati Uniti, così da permettere ai singoli stati di avere un controllo maggiore sulle Reti e sulle loro infrastrutture. Molti osservatori fanno comunque notare che le regole che ora dovrebbero essere aggiornate, e che sono in vigore dal 1988, sono generiche e di fatto se applicate rigidamente potrebbero già attribuire particolari poteri di controllo su Internet all’ITU.

329 A Dubai si è discusso anche di altre proposte, come un sistema di compensazione tra gli operatori nelle telecomunicazioni dei diversi paesi, che potrebbe minacciare la cosiddetta “net neutrality ” (“neutralità della rete”), cioè la libera circolazione di informazioni a prescindere dai dispositivi e dai siti sui quali vengono generate. Unione Europea e Stati Uniti dicono di essere impegnati per la massima tutela della neutralità della rete, ma non si può dire altrettanto di molti altri governi e istituzioni che partecipano alla conferenza dell’ITU. Un altro aspetto che preoccupa osservatori e attivisti riguarda le proposte formulate da alcuni paesi per avere più strumenti di controllo su Internet. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, propongono di inserire alcune regole che diano agli stati più poteri per filtrare le cose che circolano online, anche senza grandi giustificazioni. E sempre la Russia propone l’adozione di nuovi sistemi per limitare l’accesso ad alcuni contenuti, sulla base della propria posizione geografica. Anche in questo caso va ricordato che a oggi gli stati possono già limitare l’accesso a Internet su base nazionale. Avviene, per esempio, in Cina e di recente è successo in Siria, dove il regime di Bashar al Assad ha sostanzialmente scollegato il suo paese dal resto del mondo. Se però la possibilità di attuare simili politiche fosse formalizzata nelle nuove regole dell’ITU, molti altri paesi si potrebbero sentire legittimati (se non incentivati) a filtrare la circolazione dei contenuti, dicono gli oppositori. Tra i principali oppositori delle proposte in discussione a Dubai ci sono grandi società attive su Internet, a partire da Google che ha realizzato un sito apposta con lo slogan “Una Rete libera e aperta per un mondo libero e aperto”. Nel sito viene spiegato perché le iniziative dell’ITU potrebbero rendere Internet meno libera e viene riportato un invito, diretto ai singoli utenti, a partecipare alla protesta tramite la sottoscrizione di una petizione. Google come società è naturalmente interessata alla libera circolazione delle informazioni online non solo per il bene dell’umanità, ma anche per un proprio tornaconto: i suoi affari si basano quasi del tutto sulla possibilità di trovare e accedere a qualsiasi contenuto pubblicato online nel mondo attraverso il suo motore di ricerca, limiti e confini virtuali potrebbero ridurre l’efficacia dei suoi sistemi e ridurre i suoi guadagni pubblicitari.

330 Gli altri organismi che operano, a vario titolo, nell’ambito dell’Internet Governance possono essere suddivisi in tre settori: organismi governativi e intergovernativi; organismi privati; organismi Società civile.

ORGANISMI PRINCIPALI EU: European Union L'Unione Europea ha adottato una serie completa di norme e regole atte a garantire la concorrenza nell'ambito delle telecomunicazioni. Gli aspetti relativi ad Internet vengono trattati in ambito della Commissione Europea, Società dell’Informazione, programma i2010 “A European Information Society for growth and employment”. High Level Group on Internet Governance: la Commissione ha istituito un gruppo di consultivo di rappresentanti ad alto livello degli Stati membri con il compito di coordinare le posizioni della Commissione UE in materia di Interne tGovernance. ICANN: Internet Corporation For Assigned Names and Numbers (Marina del Rey, CA, USA) L'ICANN è un ente no-profit, organizzato con modalità internazionale, che ha la responsabilità di assegnare gli indirizzi IP e gli identificatori di protocollo e di gestire il sistema dei nomi a dominio di primo livello (Top-Level Domain) generico (gTLD) e del codice internazionale (ccTLD) nonché il sistema dei root server. GAC (Governmental Advisory Committee): è il comitato consultivo del Board di ICANN composto da rappresentanti governativi ed è aperto a tutti gli stati del mondo. Anche se la sua funzione è esclusivamente di consulenza su questioni di politiche pubbliche inerenti la gestione ed amministrazione del DNS, il Board di ICANN prende puntualmente in considerazione il parere del GAC sia nella formulazione sia nell'adozione di politiche. IGF: Internet Governance Forum

331 L'Internet Governance Forum rappresenta un significativo momento di incontro per la discussione e l’approfondimento delle tematiche più salienti e critiche della rete per tutti i potenziali interessati. Sono di seguito riportati gli organismi principali, con l’indicazione del relativo sito, al fine di permettere un approfondimento tecnico sull’argomento (fonte: Collana Internet Governance - Futuro della gestione Internazionale di Internet).

ORGANISMI GOVERNATIVI ED INTERGOVERNATIVI ENISA: European Network and Information Security Agency (Eraklion, Creta, Grecia) La missione dell'ENISA, costituita nel 2004, è quella di assistere la Commissione nel compito di assicurare un livello di sicurezza particolarmente elevato alle reti ed all'informazione. L'Agenzia svolge attività di sensibilizzazione e di promozione dei metodi di valutazione dei rischi e delle migliori pratiche in materia di soluzioni interoperabili di gestione dei rischi e segue l'evoluzione delle norme sulla sicurezza delle reti e dell'informazione per prodotti e servizi. ETSI: European Telecommunications Standardization Institute (Sophia-Antipolis, Francia) Organizzazione no-profit costituita dal Consiglio dei Ministri Europeo con Direttiva 83/189 nel 1988. L'ETSI è l'istituto europeo incaricato di standardizzare il settore delle telecomunicazioni. OECD: Organization for Economic Cooperation and Development (Parigi, Francia) L'OECD è stata definita come una struttura di monitoraggio, una università "non accademica". Nessuna di queste determinazioni, tuttavia, riesce a catturare la vera essenza dell'OECD. L'OECD raggruppa 29 Stati membri e fornisce ai Governi una piattaforma di discussione sullo sviluppo e sul perfezionamento della politica economica e sociale. APEC: Asia-Pacific Economic Cooperation (Singapore) Nata nel 1989, L'APEC è un'organizzazione intergovernativa composta dai paesi leader della regione Asia-Pacifico che opera in tre grandi aree: per la liberalizzazione del commercio e degli investimenti, per favorire gli scambi e le attività commerciali e per migliorare la cooperazione economica e tecnologica. La sua missione è quella di favorire lo sviluppo economico, la cooperazione, il libero commercio e gli investimenti nei paesi della regione Asia-Pacifico. APEC è l'unico raggruppamento intergovernativo al mondo che

332 opera sulla base di raccomandazioni, dialogo aperto ed uguale rispetto per i punti di vista di tutti i propri membri. DOT Force: Digital Opportuniy Task Force La Digital Opportuniy Task Force (DOT Force) è stata costituita dai Capi di Stato dei paesi del G8 in occasione del Vertice di Kyushu-Okinawa del luglio 2000. Riunisce i rappresentanti di governi, del settore privato, di organizzazioni no-profit e di organizzazioni internazionali dei paesi industrializzati e in via di sviluppo, che si sono uniti in uno sforzo comune volto ad individuare gli interventi necessari per fare in modo che la rivoluzione digitale possa generare benefici per tutti i cittadini del pianeta, soprattutto i più poveri ed emarginati. ISO: International Organization for Standardization L'ISO è una rete degli istituti nazionali di standardizzazione di 153 paesi, con un segretariato centrale a Ginevra, Svizzera, che coordina il sistema. L'ISO è un'organizzazione non governativa: i relativi membri non sono, come è il caso del sistema delle Nazioni Unite, delegazioni dei governi nazionali. Tuttavia, l'ISO occupa una posizione speciale fra i settori pubblici e privati in quanto, da una parte, molti dei relativi istituti membri fanno parte della struttura governativa dei loro paesi, o sono incaricati dai loro governi; dall'altra parte, altri membri hanno le loro radici unicamente nel settore privato. Di conseguenza, l'ISO può fungere da organizzazione ponte per raggiungere consenso e soddisfare sia i requisiti del commercio, sia le più vaste esigenze della società. UNESCO: United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization L'UNESCO è l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza, la Cultura e la Comunicazione, fondata a Parigi il 16 novembre 1945. Più di 180 nazioni sono membri dell'UNESCO. Gli stati membri dell'UNESCO hanno elaborato un progetto intersettoriale sulla società dell'informazione nell'ambito dei loro programmi 1998-1999 e del relativo budget. UNCITRAL: United Nations Commission on International Trade Law La Commissione delle Nazioni Unite per il Diritto Commerciale Internazionale (UNCITRAL) è stata istituita nel 1966 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Commissione si pone come organo giuridico centrale nel sistema ONU per le questioni di

333 diritto commerciale internazionale e come principale strumento attraverso il quale l'ONU può svolgere un ruolo più attivo nel ridurre o eliminare gli ostacoli al flusso degli scambi. UN ICT TF: United Nations ICT Task Force Nel marzo 2001, il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite ha invitato il Segretario Generale a formare un gruppo di esperti di tecnologie della comunicazione e dell'informazione, che ha preso il nome di "Information and Communication Technologies (ICT) Task Force". WIPO: World Intellectual Property Organization La WIPO si occupa dal 1970 dei problemi della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le organizzazioni già presenti nel settore, partecipando ad accordi, fornendo assistenza tecnica e legale agli stati, ecc. WSIS: World Summit on the Information Society (Ginevra, Svizzera) Il WSIS, summit mondiale sulla società delle informazioni dell'ONU, è articolato in due fasi. La prima fase si è tenuta a Ginevra, ospitata dal governo della Svizzera, dal 10 al 12 dicembre 2003.

ORGANISMI PRIVATI IANA: Internet Assigned Numbers Authority (Marina del Rey, CA, USA) La IANA è l'autorità originariamente responsabile della supervisione sull'assegnazione degli indirizzi IP, del coordinamento dell'assegnazione dei parametri di protocollo previsti dagli standard tecnici di Internet, dell'amministrazione del DNS, ivi compresa la delegazione dei domini di primo livello, ed anche la supervisione sul sistema dei "root name server". Sotto il controllo di ICANN, la IANA continua a distribuire gli indirizzi ai RIR, a coordinarsi con IETF ed altri per assegnare i parametri di protocollo e a sorvegliare sull'operatività del DNS. NRO: Number Resources Organization Creata dai RIRs (Regional Internet Registries) per formalizzare i loro sforzi cooperativi, l'NRO è nata per gestire l'insieme delle risorse IP non ancora assegnate del "Number Resource pool", per promuovere il processo bottom-up dello sviluppo delle policy e per fungere da punto di raccolta per i suggerimenti della comunità Internet, all'interno del sistema dei RIRs. NRO opera anche come Address Supporting Organization di ICANN. RIRs: Regional Internet-address Registries

334 I RIR sono responsabili della distribuzione degli Internet Number, inclusi quelli degli Autonomous System, gli indirizzi IPv4 ed IPv6. CENTR: Council of European National Top-Level Domain Registries (Bruxelles, Belgio) Il CENTR è la più grande associazione esistente nel campo dei nomi a dominio e rappresenta oltre 40 Registry (registri) ed il 95% dei nomi a dominio registrati a livello mondiale. CORE: Internet Council of Registrars (Ginevra, Svizzera) Il CORE è un'associazione senza fini di lucro tra Registrar di nomi a dominio. Uno degli scopi principali dell'associazione è quello di offriire ai CORE members l'accesso ad un sistema di registrazione dei nomi a dominio Internet condiviso (Shared Registry System - SRS). Il CORE è nato nel 1997 a fronte del "Generic Top-Level Domains Memorandum of Understanding" (gTLD MoU) con il proposito di attivare nuove estensioni dei nomi a dominio. CRADA: Cooperative Research and Development Agreement CRADA è la sigla dell'accordo siglato fra il Department of Commerce americano - rappresentato dal National Institute of Standards and Technology (NIST) e dal National Telecommunications and Information Administration (NTIA) - ed ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). L'accordo stabilisce come le parti coinvolte nello studio e nella gestione del "Internet (DNS) root server system" si debbano adoperare per rendere il sistema sempre più robusto e sicuro. ICC: International Chamber of Commerce L'ICC è stato fondato nel 1919 con una finalità che è rimasta sostanzialmente immutata: essere al servizio degli affari nel mondo, promuovere il commercio e gli investimenti, l'apertura dei mercati per beni e servizi ed il libero flusso dei capitali. Le attività svolte oggi coprono un ampio spettro che va dall'arbitrato e risoluzione delle dispute, alla promozione del libero mercato, all'autoregolamentazione del mondo degli affari ed al contrasto alla corruzione ed ai reati nel commercio. L'ICC è leader nell'autoregolamentazione del mondo degli affari e nel commercio elettronico; i codici predisposti per la pubblicità e per il marketing sono stati replicati, in molti casi, sia nelle regolamentazioni nazionali che nei codici delle associazioni professionali. L'ICC è più volte intervenuto nelle discussioni sulla Internet Governance in ambito ITU e WSIS/WGIG.

335 ICTSD: International Centre for Trade and Sustainable Development (Ginevra, Svizzera) L'ICTSD è stato fondato a Ginevra nel 1996 allo scopo di contribuire a comprendere meglio i problemi per l'ambiente e per lo sviluppo nel contesto del commercio internazionale. Nella sua forma indipendente di organizzazione senza scopo di lucro e non governativa, l'ICTSD coinvolge una vasta gamma di attori nel dialogo continuo sul commercio e sullo sviluppo sostenibile. Con una fitta rete di soci governativi, non governativi ed inter-governativi, l'ICTSD svolge un ruolo sistematico unico come fornitore di rapporti e di servizi originali ed al di sopra delle parti per facilitare l'intersezione tra il commercio internazionale e lo sviluppo sostenibile. IEEE: Institute of Electrical and Electronics Engineers L'IEEE è un'associazione tecnica e professionale, senza fini di lucro, che conta oltre 360.000 membri individuali, provenienti da 175 nazioni. Attraverso i propri membri, l'IEEE è un'autorità riconosciuta nel propri campi di interesse. IETF: Internet Engeneering Task Force / IAB: Internet Architecture Board IAB (Internet Architecture Board), IESG (Internet Engineering Steering Group), IETF (Internet Engineering Task Force), IRTF (Internet Research Task Force), IRSG (Internet Research Steering Group) progettano gli standard ed i protocolli Internet necessari al funzionamento, alla manutenzione, alla distribuzione ed allo sviluppo della Rete. Tutti questi organismi sono ospitati funzionalmente dall'ISOC. W3C: World Wide Web Consortium (Cambridge, MA, USA) Il W3C nasce nell'ottobre 1994 per portare il Web al suo massimo potenziale, mediante lo sviluppo di tecnologie (specifiche, linee guida, software e strumenti di verifica) al fine di creare un forum per informazioni, commercio, ispirazioni, pensiero indipendente e comprensione collettiva. ORGANISMI SOCIETÀ CIVILE APC: Association for Progressive Communications (Sudafrica) L'APC è una rete globale di organizzazioni della società civile la cui missione è quella di rafforzare e sostenere organizzazioni, movimenti e singoli individui attraverso l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per creare comunità ed iniziative strategiche al fine di produrre contributi significativi all'equo sviluppo umano, alla giustizia sociale, ai processi politici partecipativi ed allo sviluppo ambientale sostenibile.

336 CDT: Center for Democracy and Technology (Washington, DC, USA) Il Centro per la Democrazia e la Tecnologia (CDT) lavora per promuovere i valori democratici e le libertà costituzionali nell'era digitale. Attraverso l'ottima conoscenza di leggi, tecnologie e regole, il CDT cerca soluzioni pratiche per difendere la libera espressione ed il diritto alla privacy nelle tecnologie di comunicazione globale. EFF: Electronic Frontier Foundation (San Francisco, CA, USA) La Electronic Frontier Foundation (EFF) è stata creata per difendere il diritto di pensare e parlare liberamente, condividere le proprie idee, i propri pensieri e le proprie necessità utilizzando le nuove tecnologie quali Internet ed il World Wide Web. EFF è stata la prima organizzazione ad identificare le minacce ai diritti fondamentali degli utenti di Internet ed a difendere il diritto alla libera espressione nell'era digitale. IGP: Internet Governance Project L'IGP è un consorzio interdisciplinare di accademici con esperienze teoriche e pratiche di politica internazionale, di politica di Internet e di tecnologie della comunicazione e delle informazioni. L'IGP sta conducendo alcune ricerche e pubblicando le relative analisi sull'Internet Governance. Parte del lavoro è volta a contribuire al Summit del WSIS, al gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sull'Internet Governance ed a tutti i relativi dibattiti a livello internazionale, regionale e nazionale. ISOC: Internet Society (Reston, VA, USA) La ISOC, associazione not-for-profit, è riconosciuta dalle Nazioni Unite come Non- Governmental Organization (NGO) ed è articolata in delegazioni nazionali (chapter). ISOC ospita funzionalmente IETF/IAB. La ISOC Italia (http://www.isoc.it), chapter italiano della Internet Society, promuove la conoscenza, l'uso e lo sviluppo tecnologico, culturale, sociale ed economico di Internet in Italia.

337 Esempi

Occupy Wall Street Occupy Wall Street è un movimento di contestazione pacifica, nato il 17 settembre 2011 per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario, che si è concretizzato in una serie di dimostrazioni nella città di New York presso Zuccotti Park. Il nome del movimento assume Wall Street quale obiettivo simbolico, in quanto sede della Borsa di New York ed epicentro della finanza mondiale. I partecipanti alla dimostrazione manifestano principalmente contro l'iniquità economica e sociale sviluppatasi a seguito della crisi economica mondiale, ispirandosi alle Proteste nel Nordafrica e Medio Oriente del 2010-2011, in particolare alle proteste tunisine. Dimostrazioni simili si sono svolte in altre 70 città degli Stati Uniti e di seguito anche in Canada, Australia, Regno Unito a Londra e in Italia.

Movimiento 15-M Il Movimiento 15-M[1], noto anche come movimento degli indignadosè un movimento sociale di cittadini che ha dato vita ad una larga mobilitazione di protesta pacifica dal basso contro il governo spagnolo di fronte alla grave situazione economica in cui versa il Paese. Le proteste sono iniziate il 15 maggio 2011 in occasione delle elezioni amministrative. L'obiettivo del movimento è promuovere una democrazia più partecipativa, superando il dualismo Partito Socialista Operaio Spagnolo – Partito Popolare che dagli anni '80 caratterizza la politica spagnola. Il movimento è composto da cittadini in generale, disoccupati, mileuristas, casalinghe, immigrati, uniti dallo slogan: “ Noi non siamo marionette nelle mani di politici e banchieri.” È stato ispirato in particolare dalle proteste nel Nordafrica e nel Medio Oriente ed è stato essenzialmente pacifico e privo di interferenze politiche. Le proteste degli indignados hanno poi ispirato analoghe proteste in varie nazioni europee, tra cui l'Italia. Il movimento ha protestato anche durante la Giornata Mondiale della Gioventù svoltasi a Madrid. A 5 mesi di distanza, il 15 ottobre 2011, nel nome comune degli Indignados, decine di proteste hanno scosso il mondo intero, interessando gran parte delle capitali occidentali e molti centri asiatici, quali Tokyo, Sydney o Hong Kong. Si pensa che

338 l'ispiratore di questo movimento sia Stéphane Hessel, soldato della resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, che pubblicò un libro dal titolo "indignez-vous", "indignatevi".

Primavera araba “Primavera araba” è un termine di origine giornalistica utilizzato dai media occidentali per indicare una serie di proteste ed agitazioni cominciate alcune già durante l'inverno 2010/2011 e in parte tuttora in corso nelle regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. I paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono l'Algeria, il Bahrein, l'Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, il Gibuti, la Libia e la Siria, mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, Arabia Saudita, Oman, Sudan, Somalia, Iraq, Marocco e Kuwait. Le proteste che hanno colpito paesi riconducibili in vario modo all'universo arabo ma anche esterni a tale circoscrizione come nel caso della Repubblica Islamica dell'Iran, hanno in comune l'uso di tecniche di resistenza civili, comprendente scioperi, manifestazioni, marce e cortei, talvolta anche atti estremi come suicidi (divenuti noti tra i media come "auto- immolazioni") e l'autolesionismo, così come l'uso di social network come Facebook e Twitter per organizzare, comunicare e divulgare gli eventi a dispetto dei tentativi di repressione statale. I social network tuttavia non sarebbero il vero motore della rivolta, secondo alcuni osservatori, per i quali "il network della moschea, o del bazar, conta assai più dì Facebook, Google o delle email". Alcuni di questi moti, in particolare in Tunisia ed Egitto, hanno portato ad un cambiamento di governo, e sono stati denominati rivoluzioni. I fattori che hanno portato alle proteste sono numerosi e comprendono, tra le maggiori cause, la corruzione, l'assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e le condizioni di vita molto dure, che in molti casi riguardano o rasentano la povertà estrema. Il crescere del prezzo dei generi alimentari e della fame sono anche considerati una delle ragioni principali del malcontento, che hanno comportato minacce all'equilibrio mondiale in ordine all'alimentazione di larghe fasce della popolazione nei paesi più poveri nei quali si sono svolte le proteste, ai limiti di una crisi paragonabile a quella osservata nella crisi alimentare mondiale nel 2007-2008. Tra le cause dell'aumento dei costi, secondo Abdolreza Abbassian, capo economista alla FAO,

339 la "siccità in Russia e Kazakistan accompagnata dalle inondazioni in Europa, Canada e Australia, associate a incertezza sulla produzione in Argentina", a causa di cui i governi dei paesi del Maghreb, costretti ad importare i generi commestibili, hanno scelto l'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di largo consumo. Altri analisti hanno messo in risalto il ruolo della speculazione finanziaria nel determinare la crescita del prezzo dei generi alimentari in tutto il mondo. Prezzi più alti si sono registrati anche in Asia: in India dove ci sono stati rialzi nell'ordine del 18%, mentre in Cina dell'11,7% in un anno. Le proteste sono cominciate il 18 dicembre 2010 in seguito alla protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco in seguito a maltrattamenti da parte della polizia, il cui gesto è servito da scintilla per l'intero moto di rivolta che si è poi tramutato nella cosiddetta "rivoluzione dei gelsomini". Per le stesse ragioni, un effetto domino si è propagato ad altri paesi del mondo arabo e della regione del Nordafrica, in seguito alla protesta tunisina. In molti casi i giorni più accesi, o quelli dai quali ha preso avvio la rivolta, sono stati chiamati "giorno della rabbia" o con nomi simili. Ad oggi, quattro capi di stato sono stati costretti alle dimissioni o alla fuga: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali il 14 gennaio 2011, in Egitto Hosni Mubarak l'11 febbraio 2011, in Libia Muammar Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, è stato catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011e in Yemen Ali Abdullah Saleh il 27 febbraio 2012. I sommovimenti in Tunisia hanno portato il presidente Ben Ali, alla fine di 25 anni di dittatura, alla fuga in Arabia Saudita. In Egitto, le imponenti proteste iniziate il 25 gennaio 2011, dopo 18 giorni di continue dimostrazioni accompagnate da vari episodi di violenza, hanno costretto alle dimissioni, complici anche le pressioni esercitate da Washington, il presidente Mubarak dopo trent'anni di potere. Nello stesso periodo, il re di Giordania Abdullah attua un rimpasto ministeriale e nomina un nuovo primo ministro, con l’incarico di preparare un piano di "vere riforme politiche". Sia l'instabilità portata dalle proteste nella regione mediorientale e nordafricana che le loro profonde implicazioni geopolitiche hanno attirato grande attenzione e preoccupazione in tutto il mondo.

La prima Wiki-Costituzione in Islanda Negli ultimi anni l’Islanda è stata più volte al centro della cronaca internazionale: nel 2008 per la crisi economica che ha travolto il paese, successivamente per le eruzioni dei vulcani

340 Eyjafjoell, nel 2010, e Grimsvötn, lo scorso maggio, che hanno compromesso per giorni il traffico aereo europeo. Adesso il piccolo stato europeo si segnala per un importante primato: è il primo ad avere permesso ai cittadini di contribuire alla stesura della nuova Costituzione attraverso la Rete. Sul modello islandese, sono in fase di elaborazione anche altri progetti di democrazia partecipativa, finalizzati all’elaborazione di nuove carte costituzionali L’Islanda è una repubblica parlamentare, indipendente dalla Danimarca dal 1944. Dopo una fase di dominio norvegese, passa sotto il controllo dello stato danese a cavallo tra il 1300 e il 1400. Nel 1918 nasce il Regno d’Islanda, che, pur consentendole l’autonomia, manteneva comunque l’unione personale con la corona danese. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti, che avevano occupato l’isola in soccorso delle truppe britanniche indebolite dalla battaglia d’Inghilterra, decidono con gli islandesi il distacco dalla Danimarca, occupata dalla Germania di Hitler. Pur adottando la forma di governo repubblicana, l’Islanda mantiene la carta costituzionale danese. Solo di recente Jóhanna Sigurdardottir, primo ministro islandese dal febbraio 2009, avvia il processo di revisione della Costituzione. L’iter che ha portato alla bozza parte nel corso dell’estate 2010, quando 950 cittadini islandesi, selezionati casualmente, sono convocati per costituire il National forum, in cui vengono discusse le linee guida del nuovo documento. A novembre dello stesso anno, sono eletti i 25 cittadini dell’Assemblea costituente, selezionati tra 522 candidati. Requisiti indispensabili per partecipare sono la non appartenenza a nessun partito politico, la maggiore età e il sostegno di almeno 30 firmatari. L’Assemblea è incaricata di elaborare la prima stesura della nuova Costituzione, partendo da un documento di 700 pagine che raccoglie i punti salienti del dibattito del National forum. Il lavoro dell’Assemblea viene di volta in volta pubblicato su un sito e sottoposto al giudizio dei cittadini islandesi, che possono esprimere pareri e dare suggerimenti. A disposizione degli utenti anche una pagina Facebook e un profilo Twitter dedicati, un canale YouTube e un album di foto su Flickr. Una partecipazione sicuramente facilitata dall’enorme sviluppo della banda larga nell’isola: in Islanda l’80% delle case ha una connessione ADSL. La Costituzione “wiki”, come è stata ribattezzata, punta a ricostruire il legame tra Stato e cittadini, dopo la sfiducia causata dalla crisi economica. I punti salienti della Magna Carta riguardano proprio i temi che più stanno “a cuore” agli islandesi: innanzitutto economia e finanza, messe duramente alla prova dal fallimento delle principali banche nazionali, in

341 seguito alla crisi americana dei mutui subprime. Anche per le risorse naturali, di cui l’Islanda è ricchissima, sono previste delle specifiche disposizioni, tra cui il diritto a un ambiente salubre e a una salute incontaminata. Un altro tema di primo piano è quello della libertà d’espressione e della tutela del diritto d’accesso alla Rete, che deve essere garantito a tutti. Da un punto di vista istituzionale, la bozza prevede, tra le varie disposizioni, il limite di tre mandati per il presidente della Repubblica e la possibilità per l’elettorato di inviare proposte di legge al Parlamento. L’esempio islandese di una Costituzione scritta in crowdsourcing, ossia attraverso il contributo degli utenti, potrebbe essere presto seguito da altri paesi, come l’Egitto: all’università di Stanford è stato elaborato il progetto di una piattaforma online che consenta agli utenti egiziani di discutere testi ed elaborare proposte per la nuova Carta. Alla piattaforma si affianca un wiki, EgyptConstitution, aperto a tutti coloro che intendono fare proposte per la nuova riforma istituzionale. In Tunisia, il blogger ha lanciato un’iniziativa simile, servendosi di PiratePad, un programma di elaborazione di testi online. Non è da escludere, quindi, che presto anche altri stati adottino modelli di democrazia partecipativa come quello dell’Islanda. Per quanto riguarda l’Egitto, che dopo la “primavera araba” e la fine dell’era di Mubarak attraversa tuttora una fase di transizione, il progetto potrebbe non essere di facile e immediata attuazione. Un discorso simile può essere fatto per la Tunisia, una realtà estremamente diversa da quella islandese. In questi casi, l’intento è sfruttare il ruolo di primo piano che Internet e i social media hanno avuto in tutta l’area nordafricana per l’organizzazione delle rivolte, in modo da permettere anche in futuro la partecipazione dei cittadini alla vita politica dei propri paesi. I suggerimenti raccolti fra oltre 1600 commenti pervenuti sul sito dell'Althingi, l'organo legislativo islandese, sono i più disparati e spaziano dal modello di sviluppo economico più appropriato per il Paese, alle procedure di elezione dei rappresentanti del popolo. Il primo riguarda la libertà di espressione e la tutela del diritto di accesso alla Rete. “E’ proibito tagliare la connessione a Internet – recita il testo – se non dietro ordine di un giudice e alle stesse condizioni che regolano le limitazioni della libertà di espressione”. In questo modo si pensa di scongiurare leggi anti-pirateria come quelle presentate in Francia. Il successivo articolo 15 sul diritto all'informazione stabilisce poi che dati e provvedimenti del governo debbano essere accessibili a tutti e la loro consultazione possa essere inibita solo

342 per ragioni di sicurezza nazionale o privacy. Un passo avanti nella logica degli Open Data, che va diffondendosi in un numero crescente di nazioni al mondo. L'altro grande filone scaturito dalla partecipazione dei cittadini, è quello che pone l'accento sulla tutela delle risorse naturali del Paese: l'articolo 33 inserisce fra i diritti costituzionalmente garantiti, quello a un ambiente salubre e a una natura incontaminata. Per la prima volta in un testo di questo livello, viene posto l'accento sui diritti della generazioni future, a cui deve essere consegnato un mondo in cui sia possibile vivere un'esistenza dignitosa e in armonia con l'ambiente. Il tema è molto sentito in Islanda, un paradiso naturale che negli ultimi anni ha dovuto subire alcune ingiurie, come la distruzione nel 2006 di un vasto spazio incontaminato a seguito della costruzione di un grande complesso idroelettrico voluto dalla multinazionale dell'acciaio Alcoa per alimentare la sua fonderia. Durante il grande sviluppo economico di inizio millennio, queste e altre concessioni erano viste come un male necessario per portare lavoro e occupazione; la recessione degli ultimi anni sembra però aver convinto gli islandesi della necessità di un approccio più sostenibile nel lungo termine.

Il dibattito 113 in Italia sulla modifica dell’Art. 21 della Costituzione All'Internet Governance Forum 2010, si è materializzata la proposta che da anni si rincorre in Europa sostenuta da Stefano Rodotà: abbandonata per una volta la "Internet Bill Of Rights", la carta dei diritti di Internet, il professore ed ex-garante per la protezione dei dati personali ha lanciato una nuova iniziativa. Questa volta, in luogo di un approccio parallelo, si è scelta la via costituzionale: un articolo 21 bis da sommare alla carta del 1947, un articolo scritto apposta per trasformare Internet in un diritto sancito dalla Costituzione italiana. Una scelta che, per diverse ragioni, presta il fianco ad alcune critiche. Innanzi tutto è bene chiarire quale sia il testo proposto. In aggiunta alle disposizioni dell'articolo 21 (quello dedicato alla libertà di stampa e d'espressione), secondo il professor Rodotà andrebbe specificato che: Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale.

113 Campagna di emendamento lanciata da Stefano Rodotà

343 Analizzando il testo si possono cogliere i seguenti punti fondamentali: il nuovo articolo bis si concentra essenzialmente sulla problematica del digital divide quando dice "con modalità tecnologicamente adeguate", e pone sulle spalle dello Stato il suo superamento. Tutti i cittadini, "in condizione di parità" devono avere accesso a Internet: devono farlo "con modalità tecnologicamente adeguate", ovvero bando alle connessioni dialup e spazio a un ADSL quantomeno decente, senza che il costo di questa connessione ricada sulle spalle dei cittadini stessi ("che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale"). In un certo senso, l'articolo è stato scritto per designare Internet come "servizio universale" (senza tuttavia definirlo tale in modo rigoroso): questo significa che lo Stato dovrebbe intervenire per colmare eventuali carenze infrastrutturali, laddove gli operatori dovessero decidere di non ritenere economicamente conveniente investire, che lo Stato dovrebbe preoccuparsi di garantire un mercato "calmierato" per evitare distorsioni anticompetitive, che lo Stato dovrebbe decidere in anticipo i limiti di questo servizio e quali siano i soggetti coinvolti nel garantire la fornitura dello stesso agli utenti finali. Come le polemiche che hanno circondato negli ultimi mesi la questione negli Stati Uniti dimostrano, si tratta di un passo tutt'altro che scontato: se oggi il servizio telefonico è ritenuto in maniera pressoché universale un servizio universale, lo stesso non si può dire e non è mai stato per Internet. Lo sviluppo impressionante che ha attraversato la Rete negli ultimi 15 anni ha posto sulle spalle degli operatori (incumbent e non) un peso notevole sotto il profilo degli investimenti in infrastruttura: qualunque sia l'opinione che si abbia sulla condotta e sugli obiettivi degli operatori, va riconosciuto che il percorso che ha portato il telefono in tutte le case è stato decisamente più graduale e progressivo rispetto alla fame incessante di megabit che contraddistingue il mondo occidentale. Soprattutto, la nomina di Internet a "servizio universale" giungerebbe oggi in un mercato che (almeno formalmente) è libero e liberalizzato: mancando un monopolista effettivo, dovendo garantire la libera competizione, qualunque tentativo normativo in questo senso si scontrerebbe con la legislazione nazionale e continentale vigente. Senza dimenticare che già la Commissione europea è intervenuta, ad esempio, nella questione della banda ultra-larga (NGN o NGA che dir si voglia), suggerendo agli stati membri di adottare per l'appunto un approccio di sostegno alle zone a fallimento di mercato, allo scopo di garantire a tutti i cittadini l'arrivo della fibra nelle case e nelle aziende. Per quanto attiene la definizione di Internet come

344 diritto costituzionale, dunque, appare difficile che si riesca a incastonare questi concetti nel quadro attuale. È pur vero che la Costituzione venne promulgata nel 1947, dunque quando Internet non esisteva, ma è altrettanto vero che proprio per questo motivo l'inserimento nella stessa di elementi estranei al contesto storico in cui venne redatta appare complesso. Inoltre, vale la pena ricordare il testo di almeno altri due articoli già presenti nella Carta. L'articolo 3 recita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Va da sé che tra "gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" ci sia per esempio il digital divide. Senza Internet a casa o in azienda, oggi, appare difficile che un cittadino possa informarsi, dialogare con le istituzioni, relazionarsi con il suo prossimo, appare improbabile che un imprenditore possa interfacciarsi con fornitori e appaltatori, inoltrare documentazione, fare affari. L'articolo 21, quello emendato dalla proposta Rodotà, ha invece questo incipit: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Anche in questo caso, evidentemente la saggezza dei costituenti ha fatto sì che sotto l'ombrello di "ogni altro mezzo di diffusione" potessero ricadere tutte le successive forme di comunicazione sviluppatesi negli ultimi 50 anni: la televisione, la radio (che pure non è menzionata esplicitamente) e oggi Internet. In definitiva, la Costituzione italiana già oggi sembra garantire il diritto di accesso a Internet ai suoi cittadini: il rafforzamento di questo principio, seppure meritorio, appare dunque forse eccessivo o pleonastico. Se, fino ad oggi, le garanzie della Carta non hanno consentito allo Stato di mettere in campo un programma economico, legislativo, normativo per consentire il superamento del digital divide, l'alfabetizzazione digitale, la digitalizzazione delle PA, l'ammodernamento e lo sviluppo della infrastruttura delle telecomunicazioni, non si vede come tre righe aggiunte alla Costituzione potrebbero sancire l'inizio di un cambiamento. Allo stesso modo in cui l'articolo 21 bis pone Internet al

345 centro di un diritto del cittadino, l'articolo 32 già oggi garantisce l'assistenza sanitaria in Italia, e l'articolo 33 istituisce il diritto all'istruzione: sono entrambi temi da tempo al centro del dibattito politico, spesso finiti nella cronaca anche per la carenza del primo e per il ridimensionamento del secondo. Nonostante la garanzia costituzionale, dunque, non ci sarebbe garanzia effettiva di un accesso a Internet per tutti a meno di una precisa volontà politica di attuare questa disposizione. Evidentemente la strategia del professor Rodotà, che sa il fatto suo, non è volta ad affermare che Internet debba essere un diritto costituzionale, attendendosi un effetto cascata che da un giorno all'altro porti la connettività a banda larga in tutte le case. È un tema che lo stesso professore ammette deve servire a porre in agenda la questione del digital divide e l'attenzione verso le nuove tecnologie: il vero rischio in questo caso, tuttavia, è che il fervore legislativo possa spingersi troppo oltre, arrivando a determinare sovranità, limitazioni, normazioni che mal si sposano col carattere sovranazionale e antilimitante di Internet. L'accesso a Internet non ha bisogno di essere un diritto costituzionale: Internet non ha bisogno di essere "regalata" dalla politica ai cittadini, sono i cittadini che vogliono Internet, hanno bisogno di Internet, chiedono Internet al proprio governo e alle proprie istituzioni per completare il percorso di socializzazione e relazione. Non occorre firmare petizioni o indire crociate parlamentari (ricordiamo che una legge costituzionale richiede la doppia lettura nei due rami del Parlamento, e ammesso che venga calendarizzata subito richiederebbe almeno 6-9 mesi per essere approvata: nel quadro politico attuale appare improbabile, senza contare l'eventuale referendum confermativo): la domanda per la banda larga, l'NGN e le infrastrutture tecnologiche nel nostro Paese c'è già, la politica deve solo prenderne atto e provvedere, come fa quando delibera la costruzione di un'autostrada o di una tratta ferroviaria. È importante porre in evidenza la centralità di Internet, la sua diffusione e la sua promozione in Italia, rispetto al futuro economico del Paese: un paese che si prefigge di essere un economia prospera oggi non può ignorare la Rete.

346 14. RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA E GLOBAL COMPAC INITIATIVE

Operatori economici quali attori sociali: il progetto delle Nazioni Unite ed il Global Compact

La nascita della riflessione in seno alle Nazioni Unite del ruolo delle imprese coinvolte nelle sfide della globalizzazione Sin dal secondo dopoguerra il dibattito in seno alla Comunità Internazionale si è distinto lungo due differenti ma parallele direttive: da un lato, l’elaborazione di principi atti a costruire le basi di un diritto internazionale che tenesse in debita considerazione l’esperienza tragica del conflitto bellico appena conclusosi, dall’altro, l’individuazione di strumenti idonei a dare effettivo corso ai principi internazionali individuati.

Si è così assistito al proliferare di Organizzazioni Internazionali e di corpi intergovernativi in grado di divenire il perno attorno al quale convogliare gli sforzi degli stati aderenti verso le questioni ritenute di importanza vitale dalla Comunità Internazionale. In particolare, le Organizzazioni Internazionali hanno orientato i propri sforzi nell’individuazione di strumenti e mezzi in grado di tradurre i principi che ne costituivano la ratio istitutrice all’interno della vita di relazione dei cittadini, cercando di definirne e assicurarne l’effettività.

All’interno di tale cammino, particolare attenzione è stata rivolta al ruolo delle imprese quali potenziali soggetti attivi ed influenti nella politica sociale degli Stati. Si possono quindi identificare due fasi della riflessione in seno alla Comunità Internazionale. La prima, sviluppatasi sin dai primi anni settanta, attraverso la promulgazione della Dichiarazione Tripartita dell’OIL i (che costituisce il primo strumento di verifica e di inquadramento del ruolo assunto dalle imprese in quanto soggetti in grado di assicurare la dialettica e soprattutto la ricaduta dell’azione interstatale condotta a livello delle Organizzazioni Internazionali nella dimensione umana del progresso economico e sociale), risulta fondata sulla considerazione che l’utilizzo efficace del capitale, della tecnologia, della manodopera, nel quadro di investimenti internazionali diretti, fosse in grado di costituire il presupposto per la promozione del benessere economico e sociale verso il miglioramento delle

347 condizioni di vita ed il soddisfacimento dei bisogni primari soprattutto nei confronti dei Paesi di “accoglimento” ii . In tale ottica, l’azione delle imprese, quali strumenti aggregati dell’azione umana e per questo in grado, attraverso la rilevanza economica delle proprie azioni, di fondare le basi per uno sviluppo dei principi dettati dalla Comunità Internazionale, ha ulteriormente interessato altre Organizzazioni Internazionali le quali, rispettivamente per la propria area di competenza, hanno provveduto a codificare i principi della good corporate governance pratice quale traduzione dei good corporate governance principles iii .

Considerata in tale accezione l’impresa è stata assunta, però, ad oggetto di riflessione solo per l’impatto potenziale delle attività economiche da essa condotte nel più ampio quadro del dialogo economico tra gli stati cui veniva comunque demandato il compito di regolare, attraverso la promulgazione di norme giuridiche, e catalizzare, mediante incentivi all’investimento, l’azione economica delle imprese. iv

La crescita della consapevolezza all’interno del mondo economico dell’importanza rivestita da temi come lo sviluppo sostenibile e, soprattutto, un management interprete di una responsabilità sociale dell’impresa, nel quadro del progresso economico, ha portato gli operatori internazionali a concepire diversamente l’impresa non più come semplice strumento aggregato dell’azione dei singoli, bensì come autonomo soggetto dotato di una individualità propria. Sul presupposto di tale riflessione, si è quindi sviluppata la seconda fase del dibattito in seno alla Comunità Internazionale del ruolo dell’impresa che ha trovato nell’opera di Kofi Annan, lo strumento e la traduzione a livello internazionale del contesto idoneo ad assistere le imprese nello sviluppo e nella promozione di un management values based v.

Tale intuizione è quindi confluita nella “sfida” lanciata dallo stesso Segretario delle Nazioni Unite nel corso del World Economic Forum di Davos (CH) nel 1999 in occasione del quale Kofi Annan, nel discorso di apertura, promosse l’iniziativa denominata Global Compact, attraverso la quale viene definitivamente stabilito il ruolo dell’impresa all’interno della scena internazionale quale soggetto portatore di know-how e di risorse idonee a tradurre i principi delle Nazioni Unite, differentemente destinati a risultare “evasivi”, verso la creazione di una “cittadinanza d’impresa” vi .

348 La cittadinanza d’impresa: il Global Compact Il concetto di “cittadinanza di impresa” costituisce il nucleo attorno al quale si articola l’iniziativa del Global Compact che, parafrasando le parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite, può essere definita quale dialogo tra le Nazioni Unite e gli operatori economici attorno a valori e principi condivisi nell’intento di dare un volto umano al mercato globale vii . Pertanto, dall’idea di impresa quale aggregato economico utile a produrre effetti positivi sui mercati di approccio, la stessa assume, nell’ottica delle Nazioni Unite, una propria individualità capace di radicalizzare ed al tempo stesso promuovere i principi condivisi all’interno della Comunità Internazionale. Sebbene infatti la globalizzazione sia una realtà inevitabile e connaturata allo sviluppo dei rapporti economici, essa risulta al tempo stesso portatrice di una intrinseca fragilità derivante dall’inequilibrio esistente tra la repentina crescita dei mercati e la capacità delle società e dei loro sistemi politici di conformarsi ed adattarsi ad essi, senza la possibilità di descriverne un indirizzo di lungo periodo. I Paesi industrializzati hanno sperimentato, attraverso la Grande Depressione, che la chiave risolutiva di un progresso economico giace nella restaurazione dell’armonia sociale e della stabilità politica quali misure, all’interno delle quali procedere all’identificazione dei mezzi idonei a limitare la volatilità dei mercati compensandone i cedimenti. viii Pertanto, procedendo dall’individuazione di principi comunemente accettati e opportunamente codificati all’interno del diritto internazionale, l’azione congiunta degli operatori economici può assicurare e coadiuvare l’operato delle Nazioni Unite verso la promozione degli ideali condivisi all’interno della Comunità Internazionale. Per far questo vengono quindi identificate tre aree di intervento e precisamente, la tutela dei diritti umani, i diritti fondamentali nel lavoro e il rispetto dell’ambiente, all’interno delle quali definire, sulla scorta dei trattati internazionali, una serie di principi attraverso cui orientare gli sforzi delle imprese. E’ bene comunque evidenziare che il Global Compact non vuole essere un corpo normativo né divenire uno strumento di controllo dell’operato delle imprese, quanto, piuttosto, esso vuole risultare un’iniziativa su base volontaria della cittadinanza di impresa volta a promuovere e condividere gli sforzi posti in essere dagli operatori economici, dalla società

349 civile e dalle organizzazioni del lavoro che ne costituiscono il network nell’intento di perseguire i principi sui quali il Global Compact risulta fondato quale complemento dell’azione posta in essere dai corpi normativi e regolamentari. Di conseguenza, pur inquadrandosi all’interno delle Nazioni Unite, il Global Compact non si può definire una tradizionale agenzia delle Nazioni Unite, quanto piuttosto un network per promuovere un’iniziativa che prende le mosse dalla volontà degli operatori economici e, grazie all’apporto delle agenzie afferenti alle aree di intervento previste dal Global Compact, intende costituire l’ambiente in cui le diverse esperienze delle imprese possano confluire e trovare un’occasione di confronto. Al centro di tale rete si pone quindi, oltre al Global Compact Office, l’Alto Commissariato per i diritti umani (OHCHR), L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente oltre al Programma di sviluppo (UNDP). Inoltre, fermo restando il ruolo delle Nazioni Unite, quale convogliatore e facilitatore dell’iniziativa, sono parte della stessa tutti gli attori sociali e, quindi: a) le imprese, le cui azioni si cerca di influenzare, b) gli esponenti del mondo del lavoro, nelle cui mani prende forma il concreto processo di produzione globale, c) i rappresentanti della società civile, quali testimoni della più grande comunità di stakeholders, ed infine d) i rappresentanti dei governi, il cui compito è di definire i principi sui quali l’iniziativa si basa come rappresenta lo schema qui di seguito riportato.

350

Il network del Global Compact ix

Operatori economici quali soggetti di promozione internazionale nel progetto di Kofi Annan La concezione di impresa, all’interno dello scenario internazionale, subisce, in forza dell’impulso offrerto dal Global Compact un profondo cambiamento. Come sopra evidenziato, infatti, le dichiarazioni e le azioni delle Organizzazioni Internazionali (tra cui in primis l’OIL e l’OCSE) venute alla luce sin dai primi anni settanta, erano in realtà focalizzate esclusivamente sulle grandi multinazionali che venivano elevate ad interlocutori privilegiati dei corpi interstatali al fine di assicurare un’efficacia ai principi dei quali si intendevano promotrici. Differentemente, il messaggio che sottende il Global Compact, nell’accezione più ampia di cittadinanza di impresa, è quello di richiedere alle imprese di compiere lo sforzo nel tradurre ed attualizzare i principi che formano la mission dell’iniziativa, all’interno della propria organizzazione, sia nella visione strategica dell’impresa, come pure nella cultura di gestione e nell’attività quotidiana. Solo infatti dopo

351 aver compiuto questo primo passo, è possibile tradurre e concretizzare i principi condivisi all’interno del Global Compact verso l’esterno e quindi verso la comunità e la realtà sociale cui l’impresa appartiene e a cui la medesima si orienta. x Di conseguenza, attraverso il Global Compact, la stessa concezione del ruolo dell’impresa risulta profondamente modificata nella direzione di una compiuta personificazione della stessa. In quanto soggetto quindi, l’impresa assume all’interno della dimensione dell’iniziativa promossa da Kofi Annan un ruolo centrale, capace di divenire oggetto di riflessione quale veicolo di trasformazione sociale ed in quanto tale passibile di una responsabilità verso la comunità.

La portata e l’estensione dei principi del Global Compact Il Global Compact, nella sua originaria formulazione, contemplava nove principi articolati in tre distinte aree di intervento, ovvero, dritti umani, lavoro ed ambiente. Pur non potendo esser considerati quali strumenti di diritto ma derivanti da un consenso su base volontaristica, detti principi derivano in realtà da tre atti internazionali di primaria importanza che ne costituiscono il sostrato giuridico: 1. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo xi ; 2. La Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro xii ; 3. La Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppoxiii .

Scelte economiche e diritti umani I. Alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell'ambito delle rispettive sfere di influenza; e II. di assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani.

Il primo ed il secondo principio del Global Compact affondano le proprie radici nella Dichiarazione Uiversale dei diritti dell’Uomo promulgata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948 ed in tale testo trovano la propria consacrazione a principi universali ed universalmente riconosciuti, in grado quindi di trovare spazio

352 all’interno del diritto internazionale che ad essi deve riferirsi, senza alcuna necessità di ratifica o l’emanazione di altro provvedimento statale. E’ opportuno a questo punto sottolineare brevemente che il concetto di diritti umani, cui i principi sopra indicati fanno riferimento, non deve semplicisticamente essere ridotto all’esperienza diretta della violenza a danno della persona umana, quanto è da riferirsi alle tre diverse aree di interazione, ovvero la vita e la sicurezza, le libertà personali, le libertà economiche, sociali e culturali come sancite dalla stessa Dichiarazione. Secondo tale classificazione, pertanto, esso deve assumere un significato molto più ampio procedendo dalla tutela della dignità umana e della sicurezza, attraverso il rifiuto di qualsiasi forma di schiavitù, tortura, trattamento inumano o degradante, fino all’affermazione ed al rispetto della libertà personale, nella duplice accezione della libertà di espressione della propria soggettività, e quindi diritto alla partecipazione all’interno della comunità, nonché diritto alla determinazione della propria personalità, come pure all’affermazione delle libertà economiche, sociali e culturali. In tale prospettiva, conseguentemente, appare chiaro come l’azione che l’impresa deve perseguire al fine di farsi promotrice di tali diritti non possa ridursi ad una semplice presa di posizione passiva. Il rispetto e la promozione dei diritti umani, nella visione delle Nazioni Unite, non può interessare esclusivamente le autorità statali ed i corpi giuridici da queste creati, ma deve trovare nelle imprese, espressioni della società civile organizzata, lo strumento per essere tradotte ed attualizzate all’interno della società, nella convinzione che la salvaguardia dei diritti umani migliori le prestazioni dell’impresa stessa. Allo stesso modo, il secondo principio richiede che l’impresa non risulti complice nella perpetuazione di abusi a danno dei diritti umani, dovendosi intendere sotto tale principio, sia l’astensione dal risultare consapevolmente spettatori di violazioni di tali diritti (c.d. complicità diretta), sia il rifiuto di beneficiare direttamente dei comportamenti lesivi dei diritti umani perpetrati da altri soggetti (c.d. complicità indiretta), sia, infine, l’astensione dal mantenersi su posizioni neutrali nell’evenienza di dette violazioni (c.d. complicità tacita) xiv . Di conseguenza, l’impresa risulta depositaria di un ampio potere di azione nel contesto sociale che compone lo sfondo della propria azione economica, sia in una prospettiva di organizzazione interna e di politica aziendale, sia in una prospettiva di effettività esterna nei

353 confronti della comunità destinataria dei propri interventi economici. La sfida lanciata dalla globalizzazione, attraverso cui i soggetti economici risultano in grado di entrare in contatto con paesi in precedenza solo sfiorati dalla strategia di crescita economica, può risultare inoltre in grado di far assumere all’impresa un duplice ruolo: da un lato farsi promotrice del rispetto dei diritti umani laddove le autorità locali non siano in grado o non siano capaci di prestare un’attenzione di tale specie, dimostrandosi capace, al contempo, di farsi artefice di una crescita sociale in rimedio all’alienazione sofferta da alcune popolazioni nel momento in cui le autorità civili risultano deficitarie nel perseguire il rispetto dei diritti umani. Essa si dimostra così soggetto economico virtuoso, ed in quanto tale, testimone attraverso l’adozione di policy di trasparenza e correttezza nella conduzione degli affari, di un’immagine positiva, capace di costituire un vantaggio competitivo in considerazione alla crescente attenzione prestata dai media verso la buona pratica aziendale.

Politiche di impresa e lavoro III. Alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva; IV. l'eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio; V. l'effettiva eliminazione del lavoro minorile; e VI. l'eliminazione di ogni forma di discriminazione in materia di impiego e professione;

I principi dettati in materia di lavoro, prendono spunto diretto dalla Dichiarazione dei Principi e dei diritti fondamentali del lavoro adottata in seno all’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel corso dell’ 86-esima Conferenza Internazionale del 1998. La particolarità e l’importanza fondamentale di tali disposizioni risiede da un lato nella caratteristica fondamentale dell’OIL derivante dalla sua costituzione tripartita xv , e, dall’altro dalla rilevanza discendente dal fatto che la stessa sia l’unica agenzia in seno alle Nazioni Unite che contempli al proprio interno la presenza paritetica sia delle autorità statali, che dei rappresentanti del mondo imprenditoriale. In materia di lavoro l’impresa può svolgere un ruolo diretto nei processi di sviluppo e di promozione sia a livello nazionale che internazionale. La salvaguardia del diritto di associazione come il rispetto del diritto alla contrattazione collettiva, all’interno

354 dell’azienda, rappresentano il presupposto essenziale attorno al quale costruire un “dialogo genuino” idoneo ad individuare le soluzioni ottimali per la crescita aziendale, sia in termini di profitti, che in termini di produttività, a tutto vantaggio degli stakeholders come dell’intera comunità. In tale direzione, il Global Compact richiede un duplice impegno alle imprese; da un lato farsi garanti della libertà di associazione, dall’altro assicurare il rispetto del diritto alla contrattazione collettiva. La libertà di associazione, infatti, implica il rispetto del diritto per i lavoratori di divenire soggetti attivi all’interno della dimensione aziendale senza che vi sia qualche vincolo o pressione in tal senso da parte dell’impresa, che si deve inoltre astenere dal porre in essere comportamenti discriminatori atti ad influenzare l’esercizio di tale diritto da parte dei lavoratori, come da parte di tutti i soggetti aziendali, verso l’instaurazione di un clima di dialogo costruttivo tra i corpi aziendali in grado di porre le basi per l’instaurarsi di proficue relazioni intra-aziendali. Così, il rispetto del diritto alla contrattazione collettiva, intesa quale insieme dei processi e delle attività atte a condurre alla stipula di contratti collettivi, non può prescindere dal “principio di buona fede xvi ”, ovvero dell’assunto secondo cui lo spirito che deve animare tutti gli attori sociali coinvolti nella contrattazione sia quello di lavorare insieme nell’intento di raggiungere un accordo attraverso trattative chiare e costruttive, astenendosi, ad esempio, dall’adottare atteggiamenti dilatori. Poste le condizioni per l’instaurarsi di un dialogo tra i differenti corpi aziendali, viene richiesto alle imprese di divenire promotrici esse stesse dell’eliminazione di qualsiasi forma di lavoro forzato od obbligatorio che, seppur non comune laddove le stesse operino in un contesto di legalità, assume tuttavia un peso ed un’importanza non indifferenti avuta considerazione alle moderne dimensioni della filiera produttiva in grado di coinvolgere molteplici soggetti economici appartenenti a Paesi in Via di Sviluppo. Il lavoro deve rappresentare infatti un diritto della persona umana e non può essere “estorto” sotto la minaccia di una punizione. Il lavoro forzato risulta inoltre in grado di minare la capacità stessa di una società di formare le risorse umane per il moderno mercato del lavoro e di sviluppare le competenze e le abilità necessarie per assicurare un livello di produttività tale da garantire una crescita economica. Le conseguenze del lavoro forzato non investono unicamente la sfera personale dei lavoratori, ma affliggono e compromettono al contempo il sistema economico: la degradazione del capitale umano e della stabilità sociale si traduce

355 infatti in investimenti insicuri. Il concetto di “lavoro forzato” assume però molteplici forme scevre non sempre di un’immediata individuazione; in tal senso il management di un’azienda deve porre la massima attenzione alle diversificazioni attraverso cui tale condizione può manifestarsi xvii . Fra le forme attraverso cui si verifica il lavoro forzato, particolare importanza riveste il problema del lavoro minorile che si presenta, seppur con diverse incidenze, sia nei Paesi in via di sviluppo che nei Paesi economicamente più sviluppati, basti pensare alle problematiche connesse alla presenza di alcune comunità di immigrati. Senza voler entrare nel merito delle molteplici implicazioni che tale fenomeno risulta in grado di produrre, è bene tuttavia porre in evidenza la particolare valenza del quinto principio del Global Compact che, come sopra evidenziato, prende le mosse dalle dichiarazioni promulgate in seno all’OIL. Abolire il lavoro minorile non significa infatti negare il diritto per il minore di accedere ad un lavoro, quanto piuttosto agire al fine di vedere rispettate alcune necessarie prerogative che l’attività lavorativa che si richiede al ragazzo deve rispettare in base all’età del medesimo ed alle necessità di crescita dello stesso. xviii In ciò le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo primario all’interno della filiera produttiva al fine di reprimere attraverso l’adozione di chiare politiche aziendali l’insorgere del fenomeno in teatri particolarmente disagiati. Da ultimo, il Global Compact richiama l’attenzione delle imprese alla problematica della discriminazione all’interno dell’ambiente di lavoro, nell’intento di reprimere qualsiasi “distinzione, esclusione o preferenza che produca l’effetto di annullare, o affliggere la pari opportunità o il trattamento nel lavoro e nell’impiego” xix . In tal senso, fatta eccezione per quelle particolari attitudini e abilità richieste dalla mansione affidata, viene richiesto alle imprese di astenersi, nella valutazione del lavoratore, dal prendere in considerazione fattori quali la razza, il sesso, la nazionalità, o l’estrazione sociale del lavoratore. Sono a tal proposito dal prendere in considerazione non solo le manifestazioni dirette di discriminazione, quali, ad esempio quelle perpetrate in forza di leggi, disposizioni regolamentari o norme consuetudinarie, ma anche le variopinte forme attraverso cui l’adozione di una norma astrattamente egualitaria registra all’atto pratico il verificarsi di comportamenti e prassi discriminatorie. Alla base di tale principio, fatto salvo quanto richiamato dal rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona umana, la

356 discriminazione, in qualsiasi manifestazione essa si presenti, rappresenta un semplice non sense ai fini della politica di impresa in quanto riduce la disponibilità di personale capace, sempre più fattore chiave per assicurare la competitività nel mercato con il risultato di rallentare la crescita economica oltre a produrre un effetto dirompente sul lavoratore che ne risulta colpito e, conseguentemente, isolato dalla comunità.

Economia ed ambiente VII. Alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali; VIII. di intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabilità ambientale; e IX. di incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l'ambiente

La terza sezione dei principi del Global Compact declina gli impegni che le imprese si devono assumere nei confronti delle problematiche inerenti l’ambiente. Tali principi derivano direttamente dalla Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo che si pone, rispetto ai medesimi, un testo fondamentale di riferimento. Differentemente dalla Dichiarazione dei Diritti Umani e la Dichiarazione sui Principi Fondamentali e i diritti nel lavoro, il quadro che compone lo sfondo da cui sono stati enucleati i principi del Global Compact in materia, vede la confluenza di altri importanti atti internazionali tra cui la Dichiarazione di Stoccolma. Promulgata nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente del 1972, ha il merito di aver sancito il profondo legame esistente tra la tutela dei diritti umani (sia per quanto attiene ai diritti della persona che ai diritti economici, sociali e culturali) e la tutela dell’ambiente nei confronti del quale le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo chiave. Il concetto di tutela ambientale risulta inoltre strettamente connesso al concetto di sviluppo sostenibile come sancito nella Dichiarazione di Rio, in seno alla quale viene chiarito che le due questioni compongono, in realtà, due facce della medesima medaglia. Il primo principio sancito dal Global Compact per quanto attiene l’ambiente, richiede alle imprese di adottare e sostenere un approccio preventivo xx al problema ambientale. L’identificazione della misura in cui l’azione umana può influenzare e, se del caso, danneggiare l’ambiente e l’ecosistema terrestre dipende infatti in larga misura, dalle scoperte scientifiche in materia le quali tuttavia registrano un cronico ritardo

357 rispetto allo sviluppo dei materiali e delle tecniche produttive impiegate dalle imprese. A fronte di tale condizione, gli operatori economici non possono però esimersi dal porre in essere comportamenti virtuosi a tutela dell’ambiente in tutte quelle situazioni in cui il fondato sospetto della lesione ambientale può non godere dell’avvallo scientifico. In tal senso si è diffusa all’interno della Comunità Internazionale, la prassi di adottare un atteggiamento preventivo da parte degli Stati a tutela dell’ambiente che trova attuazione oggigiorno, nella miriade di studi in materia di impatto e rischio ambientale previsti dalla normativa tecnica. Durante la conferenza tenutasi a Rio nel 1992, vennero inoltre identificate tre questioni fondamentali attorno alle quali convogliare l’attenzione sia degli Stati che degli operatori economici, ovvero: a) i danni prodotti nei confronti dei diversi ecosistemi naturali, b) la possibilità per il pianeta ormai in pericolo di sostenere la vita in futuro e, c) la capacità dell’uomo di sostenere lo sviluppo economico e sociale nel lungo periodo. Le imprese sono quindi chiamate, secondo quanto previsto dall’ottavo principio, a sviluppare una particolare sensibilità verso tali problematiche attraverso iniziative auto-regolamentari in grado di far fronte alle responsabilità ambientali che su di esse gravano. Il ruolo primario delle imprese rispetto alle sfide ambientali viene quindi proposto dal nono principio il quale richiede alle stesse di adottare e sviluppare tecnologie [ESTs] xxi che possano tradurre l’impegno e la responsabilità assunta dagli operatori economici verso l’ambiente, ovvero di realizzare tecniche e procedimenti che “ proteggono l’ambiente, sono meno inquinanti, usano tutte le risorse in modo più sostenibile, riciclano i loro rifiuti e prodotti e gestiscono i rifiuti residui in un modo più accettabile rispetto a quanto facessero le tecnologie che esse sostituiscono. Non si tratta di singole tecnologie ma di sistemi generali che includono know-how, procedure beni e servizi, attrezzature così come processi organizzativi e gestionali xxii ”. L’adozione di tali tecnologie è in grado di assicurare infatti oltre che un risparmio in termini di impiego di risorse esauribili, anche un notevole vantaggio in riferimento ai costi da sopportare ad esempio per quanto attiene lo smaltimento ed il riciclaggio dei rifiuti e degli scarti industriali. Ovviamente tale obiettivo si pone in una prospettiva di lungo periodo ma non per questo esso deve essere considerato quale semplice impegno programmatico.

358 Responsabilità delle imprese e l’impegno contro la corruzione X. Le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l'estorsione e le tangenti

Recentemente nel corso del mese di giugno, è stato adottato un decimo principio cui le imprese aderenti all’iniziativa del Global Compact intendono dare attuazione all’interno delle proprie sfere di competenza xxiii . L’adozione di tale principio era già emersa nel corso del Policy Dialogue tenutosi a Parigi il 26 e 27 gennaio di quest’anno xxiv , in cui era stata palesata l’intenzione di promuovere l’inserimento di un ulteriore impegno al corpo del Global Compact che affermasse la necessità di porre l’attenzione da parte degli operatori economici rispetto al problema della corruzione e della trasparenza intra-aziendale in ogni sua forma.

La traduzione dei principi del Global Compact all’interno della politica di impresa

L’assenza di chiari modelli di azione Nonostante abbia costituito un decisivo passo avanti all’interno del dibattito sul ruolo dell’impresa in seno alla Comunità Internazionale, è agevole intuire che, su di un piano prettamente operativo, il Global Compact assume maggiore importanza nella misura in cui registra la partecipazione di un più vasto numero di imprese oltre che le modalità di attuazione all’interno della politica aziendale dei principi anzidetti. Seppure quindi il volume ed il calibro delle imprese coinvolte non possa essere posto in discussione xxv , al fine di definire la reale incidenza dell’iniziativa assumeranno fondamentale importanza le attività ed i progetti posti in essere dalle aziende aderenti, alle quali viene lasciata la più ampia libertà di individuare i criteri di approccio ai principi del Global Compact come pure le iniziative appropriate a concretizzare i medesimi all’interno della propria dimensione aziendale. L’esperienza maturata sino ad ora all’interno del network ha quindi dimostrato che uno degli elementi fondamentali per assicurare un costruttivo percorso aziendale verso la completa realizzazione dei principi sottesi all’idea di cittadinanza di impresa, risiede nel

359 pieno appoggio e nella collaborazione offerta dal management dell’impresa e, ove possibile, dello stesso consiglio di amministrazione. L’amministratore delegato assume di conseguenza su di sé un ruolo cruciale sia verso l’esterno che verso tutti i livelli ad esso sottoposti, stante l’unico reale adempimento che viene richiesto alle imprese che consiste nel presentare un report annuale che illustri i progetti, i risultati, i programmi e le azioni intraprese nell’intento di assicurare l’attuazione dei principi del Global Compact. Le strade che le imprese hanno saputo individuare per perseguire gli obiettivi previsti dal Global Compact hanno inoltre evidenziato che, oltre al necessario coinvolgimento della dirigenza aziendale, costituisce valido presupposto per la realizzazione ed il successo di qualsiasi azione all’interno dell’impresa, la trasparenza e la corretta e puntuale informazione del personale della stessa. La maturazione della consapevolezza dell’impegno aziendale nell’iniziativa da parte dei lavoratori può costituire infatti il volano attraverso cui diffondere i principi della cittadinanza di impresa all’interno della stessa organizzazione aziendale. La trasparenza nell’informazione non riveste un ruolo privilegiato solo verso la dimensione intra-aziendale, ma deve anche animare i rapporti con l’esterno, ed in particolare verso gli stakeholders, attraverso la comunicazione degli obiettivi perseguiti, dello stato di attuazione dei medesimi, dei progressi registrati e delle prospettive di miglioramento nel quadro di un incremento dell’affidabilità pubblica dell’impresa. Seppur a distanza di qualche anno dal lancio dell’iniziativa si possano registrare notevoli sviluppi ed evoluzioni per quanto riguarda l’adozione di modelli di comportamento aziendali volti al perseguimento degli obiettivi dettati dal Global Compact. E’ tuttavia da evidenziare che esso si può definire un unico approccio o modello di azione cui le imprese devono ispirarsi stante l’idea sottesa alla creazione dello stesso network di non costituire un corpo normativo, quanto rappresentare, come sopra sottolineato, il luogo privilegiato ove far confluire le esperienze aziendali.

Dalla Corporate reponsibility alla good governance Il dibattito sulla responsabilità delle imprese ed in particolare sul ruolo da esse assunto all’interno della comunità internazionale, in aggiunta ai progetti ed alle azioni che gli operatori economici pongono in essere per vedere assicurata l’efficacia dei principi del Global Compact, non può che essere considerato un buon punto di partenza nell’ottica della

360 realizzazione di un compiuta cittadinanza d’impresa, ma non può ridursi ad una semplicistica affermazione di principio. Le imprese, le autorità statali nonché le Organizzazioni Internazionali e le Organizzazioni Non Governative, sono infatti chiamate a compiere un consistente passo in avanti che conduca all’affermazione dei principi di good governance . Sebbene infatti il concetto stesso di responsabilità delle imprese sia divenuto un fattore fondamentale di riflessione per gli operatori economici, si rilevano tuttavia delle anomalie importanti connesse all’attuazione dei principi dettati dal Global Compact soprattutto per quanto attiene la produzione di risultati qualificanti in merito alla “dimensione chiave dello sviluppo sostenibile” xxvi . Una delle lacune attualmente riscontrabili all’interno del network è l’assenza di legami costruttivi con i quadri ed i processi di governance su larga scala, la quale risulta infatti in grado di produrre limitate “isole di influenza” xxvii che permettono, in realtà, alla maggioranza delle imprese di agire come da consueto nella propria attività commerciale, non risultando, di fatto, modificato l’atteggiamento delle stesse nei confronti dei principi dettati in seno al Global Compact. Ma pur riscontrando il ruolo fondamentale assunto dalle imprese all’interno delle sfide poste dalla globalizzazione, è bene rilevare come la società civile e gli operatori economici debbano svolgere una funzione chiave di supporto alle autorità statali, le quali restano comunque le uniche depositarie della “funzione critica” di definire le priorità, attuare gli incentivi nonché adottare le politiche idonee allo sviluppo di una dimensione sostenibile dello sviluppo economico. All’interno di tale processo deve risultare comunque ben chiaro che il fine dell’azione condotta attraverso l’iniziativa delle Nazioni Unite non può consistere nel deresponsabilizzare le autorità statali quanto nel porre le stesse in grado di far fronte alle proprie responsabilità. Da ultimo, è utile sottolineare che, seppur le imprese siano gli unici soggetti in grado di apportare sostanziali innovazioni all’interno del quadro della discussione in atto, attraverso la sperimentazione in prima persona di procedure e modelli in grado di sviluppare nuovi approcci al problema, in assenza di una maggiore trasparenza nell’adozione di tali politiche, che ineriscano direttamente al core business della stessa, risulta pericolosamente minata la stessa credibilità delle azioni da esse poste in essere. A livello micro (ovvero all’interno della dimensione aziendale) si verifica spesso che le iniziative in materia di responsabilità dell’impresa non sono in realtà connesse alle core

361 business activities con il risultato che le professionalità coinvolte siano maggiormente interessate a fronteggiare le sfide derivanti dalle pubbliche relazioni che a sviluppare nuovi modelli di azione. A livello macro, i sistemi governativi, economici e politici non risultano coinvolti negli sforzi realizzati nel quadro della responsabilità delle imprese. La reale traduzione in termini di good governance dei principi posti dal Global Compact non può di conseguenza limitarsi ad affinare gli attuali modelli e sistemi, senza aver cura di forgiare nuovi modelli radicalmente differenti da questi.

[N.d.a.] ove non meglio specificato nelle note, tutti i materiali e i documenti citati nel presente scritto sono reperibili on line al sito www.globalcompact.org i Dichiarazione Tripartita di Principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale, adottata dal Consiglio di amministrazione ddell’Ufficio Internazionale del Lavoro alla 204° sessione (Ginevra, novembre 1977) ed emendata dal Consiglio alla 279s sessione (Ginevra, novembre 2000) in Bollettino Ufficiale 1 (Ginevra, BIT), vol. LXXXXIII, 2000, serie A, N.3, m.3 ii Ibidem, p. 1, 2, iii Linee Guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali, Consiglio, 27 giugno 2000, versione ufficiale, Parte I. iv Ibidem, Parte I v Guide to the Global Compact: A pratical understanding of the Vision and Nine Principles, vi UN Press Release SG/SM/6881, Secretary-General proposes Global Compact on human rights, labour, environment, in address to World Economic Forum in Davos, 1 Febbraio 1999 vii Ibidem, “[…] I propose that you, the business leaders gathered in Davos, and we, the United Nations, initiate a global compact of shared values and principles, which will give a human face to the global market […]” viii Ibidem ix The Global Compact Network, in www.unglobalcompact.org x Global Compact Primer, mettendo i principi in pratica in www.globalcompact.org xi Adottata e proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 xii Ut supra, nota I xiii Rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro, 3-14 giugno 1992 alla Relazione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente umano, Stoccolma, 5-16 giugno 1972 (Pubblicazioni delle Nazioni Unite, N. di ord. E.73.II.A.14 e corrigendum), cap. I. xiv Ut supra nota V, pagg. 15 e ss. xv L’OIL è infatti l’unica agenzia nel quadro delle Nazioni Unite che veda al proprio interno la compresenza di rappresentanti delle autorità statali, degli imprenditori e dei lavoratori. xvi Ut supra, nota V, pagg. 29 e ss. xvii In tal senso non solo come riduzione in schiavitù ma anche il bonded labour, ovvero lavoro “in compensazione “ di debiti contratti dallo stesso lavoratore in condizioni assimilabili alla schiavitù, il lavoro minorile, l’opera di detenuti offerta ai privati senza alcun controllo dell’autorità statale, il lavoro per esigenze di sviluppo, imposto dalle stesse autorità statali ad es. per la realizzazione di opere pubbliche, il lavoro forzato quale forma di punizione e repressione della libertà di espressione e di pensiero. xviii L’età minima lavorativa varia molto a seconda che si consideri la posizione assunta dai Paesi Sviluppati o dei Paesi in Via di Sviluppo nei quali l’età richiesta per il lavoro c.d. “Leggero” è solitamente prossima ai 12 anni (14 peril lavoro regolare, 18anni per i lavori pericolosi). xix Così in Guide to the Global Compact: pag. 43 xx Vedi T. Jackson, 1996, The precautionary principle. xxi i.e. Environmentally sound technologies in Agenda 21, cap. 34, United Nation Environment Programme xxii Ibidem xxiii Cfr. Preliminary report of the Global Compact leaders summit del 24 giugno 2004. xxiv Meeting report, Policy dialogue “Transparency and the fight against corruption” 26-27 gennaio 2004, in www.globalcompact.org

362 xxv Vedasi ad es. McKinsey & Company report sugli effetti del Global Compact all’interno della comunità economica a partire dal 2001, reso noto dall’Ufficio Centrale del Global Compact di New York in data 9 giugno 2004 xxvi Così in Gearing Up, From Corporate Responsabilità to Good Governance and scalable solutions, Sustainability, 2004 xxvii Ibidem, cap. 7, Next Step: it’s time to shift gear, pag. 34.

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