Mitizzazione E Smitizzazione Del Guappo-Camorrista Nella Letteratura Napoletana Del Primo Novecento: Le Maschere Di Ferdinando Russo E Raffaele Viviani

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Mitizzazione E Smitizzazione Del Guappo-Camorrista Nella Letteratura Napoletana Del Primo Novecento: Le Maschere Di Ferdinando Russo E Raffaele Viviani Mitizzazione e smitizzazione del guappo-camorrista nella letteratura napoletana del primo Novecento: le maschere di Ferdinando Russo e Raffaele Viviani Paolino Nappi Abstract: In questo articolo si considerano due esponenti di spicco della letteratura napoletana della prima metà del Novecento, il poeta e scrittore Ferdinando Russo e il drammaturgo Raffaele Viviani, mettendo a confronto la rappresentazione mitica del guappo- camorrista del primo con la smitizzazione ironica del guappo che caratterizza invece alcune commedie del secondo. Si analizzeranno queste immagini contrapposte, insistendo in particolare sulla nozione di “maschera” applicabile, in maniera diversamente specifica, alle modalità rappresentative scelte dai due autori. Tra i discorsi che si intrecciano intorno alla cruciale vicenda Cuocolo che apre il Novecento della camorra,1 troviamo un fortunato libretto dal titolo La camorra. 1 L’epocale processo Cuocolo, che si apre a Napoli nel 1906 per concludersi nel 1912, per legittima suspicione, alla Corte d’Assise di Viterbo, rappresenta un caso giudiziario di inedita risonanza mediatica, che vedrà l’attuazione di una repressione vincente con la condanna dei supposti vertici della camorra napoletana. Nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1906, i coniugi Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli vengono assassinati: il corpo del primo è ritrovato su una spiaggia di Torre del Greco, mentre l’omicidio della donna avviene presumibilmente nell’elegante appartamento napoletano della coppia. Si tratta di un probabile regolamento di conti per uno sgarro commesso da Cuocolo nei confronti degli esecutori di un furto. L’uomo era infatti un “basista”, ovvero colui che si incaricava di individuare le case in cui realizzare i colpi. Grazie all’operato dell’indefesso ma poco ortodosso capitano dei Carabinieri Carlo Fabroni, il manovratore dei fili dell’indagine e poi dell’istruttoria — basate sulle dichiarazioni dell’ambiguo unus testis Gennaro Abbatemaggio, sorta di pentito ante litteram —, si scatena contro la camorra una vera e propria guerra con metodi decisamente antigarantisti. Corroborato da prove di dubbia provenienza fornite da Fabroni e dai suoi collaboratori e forte anche dell’ormai consolidato repertorio folclorico che non tarda a fare presa su un’opinione pubblica già allarmata — si parla di un fantomatico tribunale della camorra riunitosi per la condanna a morte di Cuocolo —, il racconto di Abbatemaggio allarga in maniera indiscriminata l’accusa di associazione a delinquere nei confronti di un numero via via crescente di indagati. Ad arricchire e complicare il quadro Quaderni d’italianistica, Volume XXXVI n. 2, 2015, 41–67 Paolino Nappi Origini, usi, costumi e riti dell’“annorata soggietà”, pubblicato nel 1907. Redatto a quattro mani da Ernesto Serao, corrispondente del quotidiano Il Mattino, e Ferdinando Russo, giornalista, scrittore e poeta, proclamato poi dalla critica come il grande cantore dell’“onorata società”, l’opera presenta una criminalità organizzata fortemente mutata rispetto a quella ottocentesca, in pericoloso contatto con gli ambienti della mondanità della Napoli della belle époque. È l’affermarsi di un discorso che avrà lunghissima vigenza nella rappresentazione della camorra, quello imperniato sull’opposizione dicotomica tra passato e presente, che intercetta e intercetterà immagini e discorsi più generali sulla città e sulla sua criminalità. In effetti, si va formando una vera e propria “tradizione inventata”, che si sussume sotto la categoria di guapparia, ampiamente circolante tanto nelle rappresentazioni letterarie e pubblicistiche quanto nell’immaginario dei napoletani, oltre a confluire in non poche interpretazioni storico-sociali del fenomeno criminale.2 Il guappo o il “vero camorrista” — come leggiamo in un articolo pubblicato da Matilde Serao sul quotidiano Il Giorno, esemplare fin dal titolo (“Vi è la camorra a Napoli?”) —, a differenza di quello “moderno”, era capace di slanci di generosità e nobiltà e rispondeva a un proprio codice morale: sarebbe questa la principale differenza tra la camorra d’antan e quella degradata, “abusiva”, dell’oggi. Rispetto alla rappresentazione ottocentesca della camorra, descritta come una consorteria criminale unitaria e rigidamente organata, si avverte ora un’en- fasi sulle singole figure, su una sorta di declinazione individualistica del potere territoriale. In termini generici, si può dire infatti che l’incontro tra letteratura e camorra nell’Ottocento, in un costante scambio intertestuale che coinvolgeva in parte anche opere di carattere scientifico come quelle dei criminologi lombrosiani, del grande “pasticciaccio” napoletano è la pubblicazione, accanto alla già fitta messe di cronache giornalistiche e di numerose altre dispense e fogli informativi destinati al pubblico popolare, di una sorta di studio “militante” sulla nuova camorra messa a giudizio apparso addirittura a firma della Real Corte d’Assise di Viterbo, con ampia presenza di immagini, toni, retoriche proprie del romanzo d’appendice. La condanna arriverà in un clima polemico, che vede colpevolisti e innocentisti confrontati nell’agone mediatico. Su tutta la vicenda, cfr. Marmo, “Processi indiziari non se ne dovrebbero mai fare”. 2 Di “tradizione inventata” a proposito della camorra ottocentesca ribattezzata “onorata società”, ovvero della camorra storica come guapparia, parla in termini storici Marmo (Il coltello e il mercato 85, 246) alludendo al classico di Hobsbawm e Ranger. Per un interessante sguardo socio-antropologico sul fenomeno guapparia, cfr. Gribaudi (57–86), in cui si analizzano rappresentazioni sociali e letterarie di guappi, camorristi e killer fino agli ultimi anni del secolo scorso, confrontandole con alcuni casi giudiziari reali e con fonti orali. — 42 — Mitizzazione e smitizzazione del guappo-camorrista nella letteratura napoletana del primo Novecento aveva costruito l’immagine di una camorra-setta fortemente coesa, emanazione delle “classi pericolose” e dotata di un proprio linguaggio e di una propria ritualità, con un repertorio rappresentativo da riproporre continuamente (lo troviamo in autori come Francesco Mastriani, Alexandre Dumas, nonché in un grande poeta qual è Salvatore Di Giacomo). Accanto a questa immagine se ne riscontra un’altra, a essa complementare (presente, ad esempio, ancora in Mastriani), quella di una “camorra alta”, che fa da specchio a quella infima e bassa e che talvolta si confon- de, in una nebulosa dai confini indistinti, con la corruzione, il clientelismo, le tante e parcellizzate “camorre” attive in molti ambienti, dal giornalismo alle classi dirigenti locali. Sui poli opposti e complementari dell’esaltazione idealizzante e del ridi- mensionamento parodistico della guapparia è possibile situare due personalità letterarie a loro modo paradigmatiche, in maniera appunto antitetica, del modo di intendere quel “mito” letterario e sociale che è il guappo.3 Da una parte, le rap- presentazioni del poeta Ferdinando Russo, sedicente frequentatore degli ambienti malavitosi nei suoi giochi di apparenza e autorappresentazione, nonché “teorizza- tore”, insieme con Ernesto Serao, dell’opposizione tra guappo e camorrista eroico di un tempo e le degenerazioni dei criminali “moderni”. Dall’altra, le parodie di un acuto demistificatore della guapparia come Raffaele Viviani, nome di punta del teatro napoletano della prima metà del secolo scorso, che prima situa la figura del guappo in una rappresentazione corale della città marginale e poi la inserisce in un contesto drammaturgico più convenzionale, esplicitandone la natura di maschera grottesca e al contempo umana. Nelle pagine che seguono si confronteranno queste rappresentazioni con- trapposte, insistendo sulle immagini della città e della sua specifica criminalità che esse veicolano e ricorrendo proprio alla nozione di “maschera”, applicabile, con specificità diverse, ai due autori. In particolare, nel primo paragrafo si prenderan- no in considerazione alcuni estratti del testo di Russo e Serao per poi metterli in relazione con altre prove del Russo narratore — come Memorie di un ladro (1907) e il racconto coevo “Come divenni guappo” — in cui si trova una rappresenta- zione ambiguamente mimetica ed empatica della criminalità napoletana, accolta in maniera non problematica da una parte della critica. Nel secondo paragrafo, 3 Per il termine “mito” applicato alla rappresentazione della camorra letteraria si intende qui “un’immagine che non trova rispondenza nei fatti”, o anche un “inganno” (Jesi 647), che possiede al contempo la capacità di esprimere simbolicamente le rappresentazioni, i valori e le credenze di una data società. Si vedano ancora le pagine citate di Gribaudi. — 43 — Paolino Nappi si vedrà invece come nei testi teatrali di Viviani la figura del guappo sia prima distanziata e parodiata negli atti unici degli anni Dieci — in particolare in ’O vico (1917) — e come poi, in due commedie successive, Putiferio (1927) e ’O guappo ’e cartone (1931), emerga un discorso critico sulla guapparia come “scelta di vita” inautentica, il cui svelamento prelude a un processo di riscatto esistenziale e sociale. 1. La camorra-guapparia di Ferdinando Russo La camorra. Origini, usi, costumi e riti dell’“annorata soggietà”,4 firmato dall’alacre giornalista de Il Mattino Ernesto Serao — lo stesso che sarà di lì a poco inviato speciale del giornale al dibattimento di Viterbo5 — e da Ferdinando Russo, allinea in molte pagine vecchie immagini e topici ormai canonici, tra letteratura folclorica e studi lombrosiani. L’opuscolo ratifica
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