Poggio Rock di alex carulli

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Proverbio

Let me forget about today until tomorrow

Mr. Tambourine Man Bob Dylan

2 Lato A

3 1

In cielo manco una stella. Buio pesto a ovest e timidi bagliori azzurri a est. Erano le 4:35 e Bob stava ancora guidando. Aveva gl’occhi rossi e stanchi, le gambe indolenzite, i tendini delle mani tesi, lo stomaco vuoto. Batticuore e agitazione. Bob prese l’uscita per Trani. Gli Appennini e Roma alle spalle. Casa e negozio, idem. Gli usurai… Speriamo. Sulla provinciale 238 un posto di blocco. Carabinieri. A quell’ora? Un brivido lungo la schiena e una domanda senza risposta: perché hai paura anche di loro? Anziché entrare a Trani e raggiungere la costa, Bob svoltò a destra verso Corato, verso le Murge. Elena dormiva accanto a lui, la faccia spalmata sul finestrino. Era appena finita Baby, please don’t go degli Amboy Dukes e ora erano le chitarre dei Kinks a riempire l’abitacolo. La canzone era I need you, il volume basso. Attorno a sé uliveti, uliveti e uliveti. Rettilinei dal manto dissestato, lunghi e stretti.

I need you I need you more than birds need the sky I need you It’s true little girl That you can lift the tears from my eyes

Senza nemmeno rendersene conto, superò Corato e superò Ruvo di Puglia, tagliando le Murge. Ecco un incrocio strano. Bob mise lo stereo in pausa e rimase indeciso per qualche istante, fissando il cartello. A sinistra, proseguendo sulla SP238, tre città che aveva già sentito nominare: Matera, Altamura, Gravina in Puglia; a destra, SP39, un nome sconosciuto: Poggiorsini. Guardò Elena come a chiederle un parere. Elena dormiva, stessa posizione, bella. Bob svoltò a destra, verso quel posto dal nome sconosciuto. Il giorno dopo, tanto, sarebbero tornati indietro, alla volta della costa pugliese. Gli uliveti erano scomparsi. Mandorli, ciliegi, roverelle, rocce e terra arida. I fiori delle ferule a catturare il pallore lunare. Muretti a secco e cespugli spinosi. Ecco le Murge, quelle vere.

  

Dopo un passaggio a livello e una svolta a destra, Bob si fermò in una piazzola. Da lontano osservò Poggiorsini. Il paese era poggiato su una collina. Il paese era una linea orizzontale di luci. Una strada di un paio di chilometri s’infilava perpendicolare al centro della linea di luci, formando una T.

4 Bob fece dei respiri profondi, cercando di calmare l’ansia. Sentì il cuore rallentare e una spinta di tranquillità salire dallo stomaco. Solo in quel momento ripartì e imboccò la strada che portava al paese. Un paesino deserto, silenzioso, vuoto. Bob fece il Corso. Arrivato alla fine, tornò indietro. Al penultimo incrocio svoltò a sinistra, senza sapere perché, e dopo cento metri parcheggiò accanto al primo di tre palazzi disabitati. Spense la macchina. Una Mondeo blu scuro del ’99. Una macchina coi controcoglioni che non aveva mai dato problemi. Scese e si stiracchiò, producendo suoni di piacere molto simili a ululati. Accese una sigaretta e si guardò intorno. Non c’era un cazzo. Niente di niente. Strade vuote, lampioni, e case amalgamate alla notte. Bob indossava un maglione rosso col collo a V; jeans chiari aderenti e delle Superga bianche quasi immacolate. La luce della luna si rifrangeva sul crocifisso d’oro che spuntava dalla V assieme a un fitto cespuglio di peli. In fondo allo stradone, all’altezza del terzo palazzo, una cagna camminava rasente le pareti. Una bastardina di stazza media, dal pelo medio-lungo. Testa piccola, zampe corte, coda lunga. Si sentiva il ticchettio delle unghie opache sul marciapiede. S’avvicinò a Bob a testa china, la coda frenetica. Si stese su un fianco e rotolò sulla schiena alla ricerca di coccole. «Sei randagia ma non ti fai mancare da mangiare,» Bob le carezzò la pancia abbondante. La cagna chiudeva e apriva le palpebre seguendo il ritmo delle coccole. Le zampe posteriori erano spalancate, mentre quelle anteriori formavano due L capovolte. Bob stringeva la sigaretta tra le labbra. Il fumo gl’accecava la vista e penetrava aspro e insidioso nelle narici. Massaggiato l’animale sentì i muscoli e il cervello rilassarsi. Si tirò su, strizzò gli occhi e prese la sigaretta tra le dita. Raccolse della saliva e la sputò con disgusto misto a sollievo. La cagna seguì lo sputo con lo sguardo, s’avvicinò alla bolla di saliva e la raccolse con la sua lingua rosa. Si voltò un attimo dopo verso Bob. «My God,» disse lui. «Che schifo.» Bob era nato in America, dov’era rimasto fino all’età di 9 anni. Il suo sogno era di ritornare ad Atlanta, Georgia, e vivere lì con Elena e i loro futuri bambini. Magari aprire un negozio di dischi lì. Un negozio cult, un rifugio per i rockettari. Diverso dal negozio di Roma, andato in fumo tre giorni prima. Lì, ad Atlanta, avrebbe gestito un posto unico e inimitabile: la nuova Mecca del rock. E se poi le cose andavano bene, chi lo sa, poteva pure provare a diventare una rockstar come aveva sempre sogna— La cagna abbaiò. Fissava Bob scodinzolando. «Massì,» disse lui. «Fermiamoci qui, stanotte.» Strusciò le nocche sulla testa della cagna, si voltò, aprì la portiera ed entrò in macchina. Elena dormiva, stessa posizione. Fece mezzo giro di chiave. Il quadro s’illuminò. Erano le 5:28.

No fun, my babe, no fun

Bob spense il quadro. L’eco della musica si perse nella notte. Prima di abbandonarsi, Bob guardò al cielo senza stelle: l’alba non era lontana.

Si risvegliò di soprassalto qualche minuto dopo. Un fremito gelido a rizzargli il cuoio capelluto, lo sguardo stravolto dal terrore. Si voltò verso Elena. Elena dormiva, stessa posizione. «È meglio se ci mettiamo qui dietro…»

5 Bob avviò la Mondeo senza accendere i fari e parcheggiò sul retro dei tre palazzi. Da lì sembrava cominciasse il nulla. Spense la macchina. Nella cunetta accanto, la cagna sedeva sulle zampe posteriori e guardava in alto verso di lui. “Se arriva qualcuno, almeno…” Bob non finì il pensiero. Nella testa presero forma gli usurai da cui stavano scappando. I lunghi ricci dell’Assessore e i suoi stivali da cowboy. Il dente d’oro e le mani scheletriche di Giorgino lo Zingaro. Giorgino e la sua voce calma. L’Assessore e i suoi nervi tesi. Ma nonostante quelle immagini terribili e i terribili ricordi da cui stava scappando, e nonostante la paura d’essere beccato, Bob s’addormentò sereno. Si sentiva al riparo lì, nascosto dietro i palazzi, sul ciglio del nulla, la cagna a fargli la guardia.

  

Prima i bidoni dell’immondizia sbattuti a terra, i trattori e le urla dei contadini, poi il latrato monotono della cagna lì vicino, Elena si svegliò. Lanciò un’occhiata a suo marito. Bob dormiva, imbronciato. Elena si stropicciò gl’occhi e uscì. Si stiracchiò guardandosi intorno. Vuoto e desolazione. Dove cazzo erano finiti? A perdita d’occhio si vedevano campi, campi e campi. Alcune masserie, dei recinti. Poi ancora campi e campi. Di tanto in tanto delle casupole in tufo: nèi sporadici su una schiena di velluto. Sguardo a est: le Murge, striate qua e là da muretti a secco, fitte di cespugli crespi alternati a rocce. Sguardo a ovest: una valle pezzata da tutte le sfumature del verde e, sullo sfondo, le vette opache dell’Appennino. Nord: campi, campi, campi. Sud: oltre i tre palazzi e qualche altra abitazione, campi, campi, campi. Elena si piegò e pisciò accanto alla portiera della macchina. Ripensò a Roma, la sua città. Ripensò alla loro casa, a tutte le cose che erano stati costretti a lasciarsi dietro. Il divano, il tavolino, la tv al plasma; la camera da letto, le lampade, i vestiti, le scarpe. Gli amici a cui non avevano detto nulla della loro fuga. Gli amici che forse non avrebbero capito. Elena trattenne le lacrime e rivide il cielo limpido della Capitale, e il negozio andato in fiamme. I vigili del fuoco. I curiosi raccolti attorno. Le pareti carbonizzate e le lacrime di Bob. Le domande degli sbirri e di quelli dell’assicurazione. Le risposte imbeccate dagli strozzini. La faccia di uno sbirro. Una faccia che sembrava volesse dire: “Vi capisco, ma perché non li denunciate?” L’impotenza a ricordarle la selezione naturale. Quello stronzo di Darwin—si chiamava così?—la spuntava ancora. Gli strozzini vincevano e loro perde— e loro… fuggivano. Selezione naturale. «Ehi Bob,» lo chiamò. Aprì la portiera e fece mezzo giro di chiave. Le 7:20. «Bo-ooob,» disse. Niente, non si svegliava. “Lasciamolo dormire,” pensò.

  

In fondo alla strada una folla marciava verso i tre palazzi. Sembravano dei manifestanti. Grida, schiamazzi, un mormorio indistinto, suole strisciate sull’asfalto. «Micidiale,» disse Elena, pensando a un quadro.

6 Avanti-avanti uomini vestiti di coppole e abiti logori, le spranghe in pugno. Più dietro, donne dai capelli scompigliati e ragazzini che ronzavano da una parte all’altra, fastidiosi come mosche. Quella folla era un quadro vivente. Elena l’aveva visto mille volte, quel quadro. Stava pure sulla copertina del libro di storia della prima media. Però non ricordava né il titolo né l’autore. Era convinta che Bob sapesse l’uno e l’altro, e come le capitava spesso, maledisse la sua pessima memoria e si vergognò della sua ignoranza. «Come cazzo si chiama quer quadro?» disse tra i denti. Niente, non le veniva niente. Solo i soliti pensieri deprimenti. Perché non riesco a ricordare le cose? Perché non provo vero interesse in niente? Perché non riesco a concentrarmi sulle cose e a impararle? Perché sono così stupida? Ora che la folla si faceva più vicina, le urla più forti e i volti più nitidi, l’inquietudine, in Elena, si fece più densa. Scosse Bob per svegliarlo. «Boooob,» lo chiamò. «Svegliati, su, ‘namooo.» Bob aprì gl’occhi. Erano rosso fuoco, minuscoli. «Ohu?» disse. «Guarda,» Elena indicò la folla, il ginocchio sinistro sul sedile del passeggero, la gamba destra fuori, penzoloni. Bob si voltò al rallentatore. Non capì quello che stava succedendo. «Ehi, Bob, non sembra come quer quadro, lì, come si chiama? Quello dove si vedono tanti contadini camminare ‘nsieme e c’è ‘na signora davanti co ‘n pupo. Capito? Come si chiama?» «Ma chi sono? Che fanno?» chiese Bob, senza volere una risposta e provando un brivido. «E che ne so io?!» disse Elena. «Non sembra come quer quadro?» «Sì, è vero.» «E com’è che se chiama? Il titolo…» «Il quarto stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo.» «Sì,» disse Elena, invidiosa e orgogliosa di suo marito. «Quello lì. Ma come cazzo fai a ricordarti certe cose?» Bob non rispose. Elena pensò a tutti i nomi dei gruppi rock che Bob le aveva nominato e fatto ascoltare. I nomi dei membri dei gruppi, i nomi dei produttori, di quelli che avevano disegnato la copertina, l’anno di uscita, i titoli degli album—tutto, Bob ricordava tutte quelle cose. Lei, invece, zero. Bob uscì dalla macchina. Si stiracchiò. Accese una sigaretta e si nascose dietro il primo dei tre palazzi per pisciare. «Ancora te devi svejà e già fumi?» disse Elena. Un rimprovero ingiusto. Un rimprovero che Bob era abituato a ignorare. «Chissà che cazzo stanno facendo questi,» disse Bob senza voltarsi, pisciando, la sigaretta in un angolo della bocca. «‘Ndò semo arivati?» chiese lei. «A Pog-gior-si-ni, un paesino nelle Murge. Le vedi laggiù?» «Le Murge? Fino qui?» «Sì. Tu hai dormito tutto il tempo.» «Davéro?» «A Caserta eri già crollata.» Bob chiuse la cerniera dei jeans. Elena si grattò le cosce. «Ma tu che dici, Bob, quelli ci stanno già a cercà?» «I don’t know,» disse lui. «Forse non sanno ancora che ce ne siamo andati. Però è meglio pensare di sì. Quelli magari c’hanno pure dei contatti qui. I mean, è probabile. Cioè, siamo in Puglia, mica in Svezia.» «E che facciamo, allora?» «Non lo so. Per ora tu aspettami qui, io vado a vedere che succede.»

7   

Bob fece di tutto per sembrare a proprio agio e cercò di non fissare nessuno. Sapeva che non sarebbe passato inosservato. Il maglione dal colore acceso, la capigliatura alla beatnik, l’essere un forestiero in un paesino di collina. Impossibile non attirare attenzione. La massa di gente era sparpagliata lungo lo stradone dei tre palazzi. Bob la vogò. Due uomini stavano scardinando il portone del primo palazzo con un piede di porco. Urla, spintoni, bestemmie. Ecco il portone spalancato. Un gruppetto entrò. Dopo gl’uomini, le donne; dopo le donne, i bambini. «’Giorno,» Bob salutò due uomini. I due risposero con uno scatto del mento. «Che succede?» chiese Bob. «Stiamo occupando le case popolari.» «In che senso?» «Nel senso che sfondiamo le porte e occupiamo,» rispose lo stesso uomo. Un uomo di poche parole. «Ma non è illegale?» disse Bob. «Perché a te ti sembra legale che i politici devono dare le case ai loro amici e parenti?» disse il secondo uomo. «Beh…» «O legale o illegale, noi occupiamo. Poi venissero come devono venire. Pure coi carri armati: noi non ci muoviamo.» «Ma quanti siete?» chiese Bob. «Buh,» rispose quello più loquace. «L’appartamìnde sò jòtte á palàzze, ca fèsce vendequàtte. Ma non penzo che siamo vendiquattro famiglie. Però, se sèpe cóme vònne chìsse cóse. Quelli magari ‘na casa se la prendono i genitori, é l’appartamendo di fronte lo danno ai figli, anghe se poi sono sempre la stessa famiglia, a capìte?» «Mmm…» Bob tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne accese una. «Ce l’hai ‘na sigaretta?» domandò l’uomo di poche parole. «E quelle che sono?» Bob indicò il pacchetto di MS che s’intravedeva nel taschino della camicia trasparente. «Ehm, no… quelle diciamo che, cioè… ce n’ho solo un paio… per dopo… sai…» disse l’uomo. Dagl’occhi si capiva che stava maledicendo quella cazzo di camicia trasparente. «Quand’hai finito quelle, vienimela a chiedere. Arrivederci,» Bob se ne andò. Il primo palazzo era stato occupato. Le tapparelle rosse tirate su. Dai balconcini spuntarono donne e bambine. Sventolavano fazzoletti, urlavano, ridevano, mentre i ragazzini schernivano quelli ancora senza casa. Davanti al portone del secondo palazzo un gruppetto di persone circondava l’uomo che—cacciavite nella sinistra, martello nella destra—stava per sfondare la serratura. «Con un trapano puoi bucare la serratura jìnde a nu secònde,» disse un giovane. L’uomo si voltò verso chi aveva parlato, il martello sospeso a mezz’aria, e disse: «Tu u tìne nu tràpene á battèrìe?» «Ji?» il giovane arretrò di un passo. «Ji, nòne.» «Allòre fàtte le càzze tòjie é stàtte cìtte!» Bob era accanto all’uomo. L’uomo lo guardò con sospetto, poggiò il cacciavite sul cilindretto, e si rivolse a lui: «A parole so’ tutti esperti,» diede un colpo. «Come dice quello della televisione?» Un altro colpo. «Col culo degli altri sono tutti ricchioni!» Sospinto dalle risate che aveva scatenato, diede un altro paio di colpi secchi e assettati. Il cilindretto cadde all’interno del palazzo.

8 Bob lo seguì rotolare. Il portone venne spalancato. Stridule grida di felicità e incitamento rimbombarono nella tromba delle scale prim’ancora che i corpi degli uomini e delle donne vi si riversassero. Bob era incerto, immobile, le braccia conserte. Approfittare di quella situazione propizia o lasciar perdere e cercare fortuna sulla costa pugliese? Pensò al sorriso luminoso di Elena. Il sorriso che avrebbe fatto se le avesse detto d’aver trovato una casa tutta per loro. Bastò quel pensiero a persuaderlo. Spintonò a destra e sinistra e s’intrufolò nel palazzo. Dai piani superiori si sentivano passi agitati, spranghe sbattute a terra, tapparelle tirate su con foga, grida in dialetto. Bob salì le scale due alla volta e in un niente fu al terzo piano. Sull’uscio dell’appartamento di sinistra, due gemelli di quattro o cinque anni, le braccia spalancate, barricavano l’ingresso. Sul viso l’espressione dura e adulta che richiedeva la situazione e che loro erano fieri di saper riprodurre. «Qui non puoi entrare,» dissero. «Questa è casa di nostro zio.» «Ok,» disse Bob e diede le spalle ai due. Raccolse da terra un piede di porco. Lo posizionò e diede un primo strattone. Niente. Dietro di lui il viavai della gente che saliva e scendeva. Provò ancora. Niente. Una terza e una quarta volta. Niente, non ci riusciva. I due gemelli ridevano perfidi alle sue spalle. Ridevano perché fieri di avere uno zio come il loro, che aveva aperto la porta al primo colpo, e perché i capelli di Bob tremavano come una parrucca a ogni scossone. «C’ha la parrucca,» disse un bimbo all’altro. Bob stava per fare il quinto tentativo, e dentro di sé credeva sarebbe stato quello decisivo, quando lo zio dei gemelli, un uomo troppo alto e troppo robusto, gli poggiò una mano sulla spalla con forza. «Ziiooooo!» urlarono i due. Bob si voltò e dovette piegare la testa indietro per guardare l’uomo in faccia. «Uè, nanètte,» disse l’uomo, «chéssa càse è già occupàte.» «Ma è ancora chiusa, non c’è nessuno,» disse Bob. «Tu non ti preoccupare se è chiusa o non g’è néssùne. Qui ci deve stare altra gente, altre persone. Prova al piano terra.» «Ma lì se le saranno già prese.» «E mica è un problema mio. Le case a piano terra non le vuole nessuno: i ladri endrano più facilmende; se vengono i carabinieri, vengono prima a te; il postino se non trova nessuno ai piani di sopra lascia tutto a te. E…» lanciò un’occhiata ai nipotini. «E poi il campanello è quello più in basso: ti conviene: non so se c’arrivi a suonare quelli degli altri piani.» Scoppiò a ridere. Una risata roca e arrogante. I gemellini gli fecero eco. Bob sentì l’impotenza invaderlo. «Ok,» disse. «Allora provo giù.» «Essì.» «Asshole,» disse Bob, e scese due scalini. «Ehi, nanètte,» lo chiamò l’uomo. «Quel piede di porco mica è tuo.» «Lo lascio giù,» disse Bob. «Aperta la porta, lo lascio giù.» «Sei un piede di porco,» disse uno dei gemelli. «No, tu sei un piede di porco,» ribatté l’altro.

Bob entrò nel terzo palazzo senza convinzione. In testa stava canticchiando Heart full of soul degli Yardbirds.

Sick at heart and lonely

9 Deep in dark despair Thinking one thought only Where is she tell me where

Seduto a una sedia di vimini, un vecchietto faceva la guardia sull’uscio di una porta spalancata. All’interno due donne indaffarate scartavano e svuotavano cartoni valigie e bauli. La porta dell’appartamento di fronte era socchiusa. Bob fece un cenno di saluto al vecchio. Il vecchio ricambiò. Bob corse al secondo piano.

And if she says to you She don’t love me Just give her my message Tell her of my plea

Entrambi gli appartamenti, anche lì, già occupati. Ripensò alle parole dello zio prepotente di poco prima e si convinse che quelli in alto sarebbero stati già presi. Volle salire lo stesso, per non lasciare niente d’intentato. Riprese a cantare dal ritornello.

And I know if she had me back again Well I would never make her sad I’ve got a heart full of soul

Tutti occupati. Dal primo all’ultimo. Scese sconsolato e allo stesso tempo contento d’averci provato. Sentiva le urla provenire dagli appartamenti in alto. Valigie e cartoni strisciati sul pavimento. Colpi di martello. Grida di bambini. Una radiolina trasmetteva musica house. Prima di ripartire Bob doveva dormire un paio d’ore o non ce l’avrebbe mai fatta. Gli scoppiava la testa e le gambe si muovevano per inerzia. Doveva riposare e dimenticare d’essere fuggiti. Abbassare la guardia e dimenticare Roma, Michelino, la casa, il negozio dato alle fiamme, i visi rudi e il dialetto di quei pugliesi. Arrivato a piano terra, mollò il piede di porco e s’immaginò all’aria aperta, lontano dall’illusione di non essere un miserabile. «Giovanòtte!» urlò il vecchio, stringendo gl’occhi per aguzzare la vista. «Ma tu á ce appartìne?» «In che senso?» si voltò Bob. «A chi sei figlio? A chi appartieni?» «No… a nessuno… Non sono di qua.» «Ahaa… dicevo, io, che non t’avève conosciùte. Ché io c’ho settandasett’ànne é mèzze, ma vedo angora bene,» il vecchio allungò la mano. «Piacere, Giò Casino.» «Piacere, Bob Cammeruomo. Ma qui, scusi, signor Casino, c’è qualcuno?» Bob indicò la porta alle sue spalle. «Non mi chiamare signor Casino. Chiamami Giò,» Giò Casino raccolse della saliva e deglutì. «E no, non c’è nessuno lì: l’abbiamo aperto noi e poi seccòme che lì il sole endra dalla camera da lètte—non dalla cucina —allora abbiamo cambiato e ci siamo messi qua.» «Allora la posso prendere io?!» «Sicuro che la puoi prendere,» disse Giò, lanciando piccole bolle di saliva nell’aria. «Però aspetta un minuto. Com’hai detto che ti chiami?» «Bob Cammeruomo.» «Rob?» «No, Bob, con la bi, non la erre.» «Ok, Rob. You are American?» «Yes, I am. Well, Italian-American to be precise.»

10 «Non si direbbe.» «What?» Bob scosse la testa. «Ma allora posso entrare e prenderlo io ‘st’appartamento?! È sicuro che non c’è nessuno?» «Ok, Rob!» disse Giò Casino col pollice all’insù. Bob sorrise. Aprì la porta e se la chiuse alle spalle. La casa era vuota e nell’aria c’era odore d’intonaco. Era provvista di porte e finestre, mattonelle e battiscopa, sanitari, cucina, frigorifero e lavatrice. Bob era incredulo e preoccupato, ma sentiva la felicità conquistarlo, come i raggi del sole stavano facendo con la sua nuova casa. «Grazie,» disse una volta fuori. «A me mi ringrazi?! Io sto qua a far la guardia ché mio figlio è andato a prendere le cóse dalla casa in cambàgne,» disse Giò Casino, dondolando sulla sedia. «Ché io abito in campagna. Questa casa non lo so… Io in paese non ci voglio venire. Però mio figlio dice che è meglio. In gambagna c’ho i cani, l’orto, le gallìne, i conìgle. E poi devi sapere che faccio anghe il vino. Il vino migliore del paese. Chiedi in giro! Chiedi del vino di Giò Casino. Chiedi, chiedi. A meno che non chiedi a quacche rimbambito invidioso—ché qui siamo pieni di rimbambiti invidiosi. Persone che senza né arte né parte si mettono a fare il vino, la schnapps, il cognac, e non sanno come si pota ‘na vite. Non so se mi capìsce á mmé?» «Sì, sì, capisco,» rispose Bob, che sentiva Giò ma non lo ascoltava. «Io sono innamorato dell’America,» disse Giò. «Non ci sono mai andato, ma è sempre stato il mio sogno. I miei quattro fratelli vivono tutti lì. Uno a Brooklyn, uno in Florida e gl’altri nel New Jersey. All’epoca, quando se ne andarono, me ne volevo andare pure io. Ma in quel periodo i miei genitori non stavano bene e qualcuno doveva restare con loro. E siccome che io ero il grande, mi sò sacrificàte per i fratelli più piccoli. Anche se non pensavo che poi sarei restato qui tutta la vita. Pensavo che stavo un poco qui e poi pure io me ne andavo. Ma poi, sai com’è?, ti fidanzi, ti sposi, ti nasce un figlio, e allora addio al sogno di andare in America. Ah,» sospirò, «U.S.A.» «Scusi, signor Casi—Giò; ma allora tutti quanti sono passati di qua e hanno pensato, come me, che la casa era già occupata.» «Eh sì,» disse Giò. «Anch’io l’ho penzata così.» «Ma perché non ha detto niente a nessuno?» «Nesciùne me l’è dumannéìte. Tu sei il primo.»

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Il vino di Giò Casino non era male. Persino Elena, che non beveva granché e se ne intendeva ancora meno, lo apprezzò. Passarono la giornata intera a pulire e sistemare la loro nuova casa. Elena era diffidente e temeva che nel giro di pochi giorni li avrebbero sfrattati; Bob, invece, era più fiducioso: «Mal che vada ce n’andiamo di nuovo.» Scaricarono quello che erano riusciti a portarsi da Roma. Bob accatastò i cartoni pieni di vinili in un angolo della cucina. Si perse a fissarli per qualche minuto. Incrociò lo sguardo degli Shadows of Knight sulla copertina di Back Door Men. Li fissò come si fissano dei talenti sprecati. Elena sistemò le sue valigie in camera da letto. Una accanto all’altra, aperte. Pensò che non avrebbe retto a lungo in quel modo: aveva bisogno di un armadio. «Forte però ‘sto vecchietto, no?» disse Bob. «Sì, è vero. È stato proprio gentile.» «E poi hai visto come ha insistito col figlio per farci cambiare la serratura?» «Sì,» disse Elena.

11 Il fabbro aveva fatto il suo dovere ma non era stato pagato. Bob disse di non avere soldi e promise che avrebbe saldato il debito appena trovato un lavoretto. «Non t’incaricare, figlio mio,» aveva detto Giò Casino al figlio, «quello un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro, il debito te lo pagherà. Te lo dico io da qui.»

Entrambi sfiniti, sedevano alle due sedie da campeggio che s’erano portati. Delle sedie di ghisa e tela plastificata. Piccole e scomode. «Dobbiamo assolutamente trovà ‘n tavolo e delle sedie,» disse Elena. «Se è per questo dobbiamo pure trovare un letto,» disse Bob prima di sfilare una sigaretta. «O almeno un materasso.» «Ma quanto fumi?» disse lei. «Il giusto.» «See…» Dalla finestra della cucina si vedevano scintillare gli ultimi rantoli rosso-arancio del tramonto. Una notte serena s’apprestava ad avvolgere Poggiorsini. «Madonna mia,» disse Elena, muovendo la testa come a udire un suono lontano che non c’era. «Non si sente proprio gnente. Questa è l’unica cosa che non mi mancherà di Roma: il casino der traffico.» «A me non mi dispiace, invece,» disse Bob. «Mi va bene anche il silenzio. Però…» Bob versò l’ultimo goccio del vino di Giò Casino nel suo bicchiere. «Tu non ne vuoi più, vero?» chiese, sapendo già la risposta. «No,» disse Elena. «Io mi faccio ‘na doccia ché so’ sudata che non ti dico.» «Ok. Poi me la faccio pure io.»

Srotolato il materassino da campeggio nella camera da letto, si stesero e si coprirono con delle lenzuola gialle. Il profumo dell’ammorbidente che usava Elena inebriò le narici di Bob. Si sentì tra le mura della casa di Roma e si lasciò cullare dal profumo che gli ricordava la vita di coppia. Si protese verso Elena. Dopo averle riempito di baci viso collo scapole e seni, si stese su di lei. Le spalancò le gambe. Le carezzò l’interno coscia con entrambe le mani. Affondò il muso tra i peli del pube e con la lingua cominciò a darci dentro. Le afferrò i glutei con una presa forte e passionale. La sollevò un po’ e, strusciato il cazzo sulla vulva, sentì le mani di Elena infilarlo con femminile disinvoltura.

Sfiorati dalla luce fioca della luna, in silenzio fissavano il soffitto. Bob respirava a fatica. Il rumore prodotto dal suo naso chiuso dava al momento un che di rude e noioso. Se ne vergognò. Ma pensando al ruggito smorzato che il leone ha dopo l’amplesso, si sentì un animale e se ne compiacque. Come il leone, anche lui aveva fatto il suo dovere e ora aveva il diritto di fare tutti i rumori che voleva! Elena, invece, sentiva i muscoli del corpo rilassati. Un piacevole sfrigolio bollente sulle pareti della vagina. Saliva secca agli angoli della bocca. Si voltò verso suo marito e ne seguì il profilo in controluce. Vedeva un uomo accanto a sé, un semplice uomo. Un uomo che l’aveva soddisfatta con premura e quel minimo di irruenza che non fa scadere una bella scopata in qualcosa di sdolcinato e patetico. «Ma non è che se vengono li sbirri,» disse Elena, ritornata alla realtà della casa nuova e al silenzio che li circondava, «non solo ce buttano fori ma ce mettono pure ‘n galera?!» «Galera?» disse Bob. «Come fanno a mettere in galera ventiquattro famiglie?» Le sue parole tuonarono nella stanza vuota, in cui l’odore d’intonaco misto a sudore misto a polvere s’era mescolato al fresco profumo delle lenzuola e insieme avevano creato una nuova fragranza che tanto richiamava l’indolenza.

12 2

A una settimana dal loro arrivo a Poggiorsini, era inizio giugno, Bob e Elena non avevano ancora amici. La casa arredata, quella sì. Arredata con i mobili ricevuti in regalo da Giò Casino, l’unica persona che conoscevano. Bob li aveva scartavetrati, piallati, rivestiti di vernice e sistemati dove gli aveva detto Elena. Elena era in estasi. Ore intere a contemplare i mobili. Li guardava e ci passava la mano sopra. Li osservava nei dettagli. Li osservava da lontano. Sembravano così nuovi. Così moderni. Così IKEA. I mobili che andavano di moda a Roma. I suoi mobili.

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Una domenica sera, Bob e Elena erano in camera da letto e si stavano preparando per uscire. Bob era davanti allo specchio e stava cercando le parole giuste per esortare sua moglie alla prudenza. Quel pomeriggio, al bar, Bob era stato invitato da più parti a mangiare una pizza. La pizza migliore della zona. «Porta pure la signora,» avevano detto. Qualche giorno prima Elena s’era lasciata scappare una mezza verità. Giò Casino le aveva chiesto come mai Bob avesse lasciato il negozio e lei aveva detto che era andato in fiamme. «Ma come?» aveva ribattuto Giò. «Mi sembra che Rob m’ha detto che non c’aveva più clienti, che le spese erano assai e che co’ le nuove tecnologie i ragazzi combrano altre cóse. Non ha parlato d’incendio. Ma, sai, mi posso pure sbagliarmi: c’ho settandasett’ànne é mèzze.» «Sì, no,» aveva detto Elena, «anche quelle cose. Poi però, per un corto circuito, ha preso fuoco tutto il negozio.» Per fortuna Elena aveva avvisato in tempo Bob, che era stato bravo a fondere le due versioni, rendendo la storia del corto circuito, dell’incendio e della concorrenza spietata degli mp3 un racconto verosimile e abbastanza triste da far desistere ogni ulteriore perplessità. Nello spiegare il motivo del loro trasferimento, andavano evitati riferimenti alla fuga e agli usurai. Non destare sospetti. Alimentare quel minimo di curiosità che rende le menzogne delle storie credibili. Non sbilanciarsi. Non dire troppo. Non dire troppo poco. Questa era l’idea di Bob. «Elena, senti qua,» disse Bob. «Stasera siamo in due e stiamo insieme. Se ci chiedono qualcosa, occhio a quello che dici. Non c’è bisogno di dire troppo, però non ci facciamo nemmeno vedere come qualcuno che nasconde qualcosa, se no così ci scaviamo la fossa da soli. You know I mean?» «Non ti preoccupare per me,» disse lei. «I know. È solo che se dobbiamo rispondere alla stessa domanda, dobbiamo fare—» «Ho capito,» disse lei, sedendosi all’angolo del letto. «Non sono così stupida.» Accavallò le gambe innervosita e, mordendosi il labbro inferiore, agganciò un braccialetto d’oro alla caviglia. «Si vede ancora la lampada,» disse lui, osservando le gambe lisce e abbronzate. «Boh se qui c’è ‘n solarium o ‘na cosa der genere. Non credo.» Elena sospirò rassegnata. Si tirò su e scosse il piede destro per assestare la posizione del braccialetto. «Stai bene così.» «Grazie. Pure tu. As usual,» Bob si protese verso di lei per un bacio.

13 «C’ho il rossetto,» si scostò lei. «Vuol dire che non ti posso baciare per tutta la sera?!» disse lui. «Come on!» «Almeno fammi uscire. Poi vediamo…» «Ok.» «Bravo, così mi piaci.» Spensero le luci e si chiusero la porta alle spalle. Attraverso la porta di Giò Casino si sentì la sigla del TG1. Inconfondibile. Inconfondibile e mediocre. Poi, a un volume più alto, le suppliche seducenti di una pubblicità. Bob ricordò il pezzo Retorika dei Disciplinatha, che cominciava con la sigla del TG1. Da uno degli appartamenti ai piani superiori giunsero le urla di una donna che rimproverava suo figlio. «Non so se te ne sei accorto, ma quella sta sempre a gridà,» disse Elena. «Però chissà che testa di cazzo è quel ragazzino,» disse Bob. «Davéro,» disse Elena. Appena sullo stradone, Bob e Elena incontrarono il figlio di Giò Casino, il fabbro. Era con una donna e due bambine. «’Sera,» disse l’uomo, lo sguardo ipnotizzato dalle forme di Elena. «Fate un giro?» «Essì,» disse Bob. «È domenica. Con questo caldo, poi…» «Questa è mia moglie Alessandra,» disse il fabbro. «E queste sono le mie principesse: Giovanna e Floriana.» Posò ancora una volta lo sguardo sulle tette di Elena pensando “Madonna benedetta”. «Piacere,» disse Bob, stringendo la mano della donna. «Bob.» «Piacere mio,» disse lei. Anche Elena e Alessandra si strinsero le mani. Bob si chinò verso le bambine e passò le sue mani tozze sulle teste delle due. «Ehi,» lo rimproverò Elena. «Sono delle signorine, mica dei maschiacci. Gli rovini tutti i capelli così.» Le bambine credettero d’essere davanti a una fata. La squadrarono tutta e amarono ogni suo dettaglio. Labbra occhi vestiti gambe. Sarebbe stato un sogno se anche loro, da grandi, fossero diventate come lei. E sorridendo ammaliate, pensarono che Bob fosse l’uomo sbagliato per lei e che l’unico difetto di quella donna incantevole fosse, appunto, il marito. «Ti posso parlare un minuto?» chiese il figlio di Giò a Bob. «Certo, dimmi.» «Magari lontano dalle signore.» «Ok.» Si spostarono qualche metro più là. Due donne li osservavano sfacciate e oziose dal terzo piano del secondo palazzo. «Niente, è per quella cóse de la sérratùre. Ti ricordi?» disse il fabbro. «Certo. Però, senti, dammi ancora qualche giorno. Ci stiamo sistemando. Poi appena trovo un lavoretto salderò il debito, non ti preoccupare.» «No, sai com’è? Non è che io navigo nell’oro. Eh poi, io non faccio credito mai a nessuno. Mai.» «Non ti preoccup—» «Sei l’unico di cui che ho mai fatto credito.» «Te li ridò al più presto, non ti preoccupare,» Bob poggiò una mano sulla spalla del fabbro. Si salutarono. Mentre andavano via, le bambine si voltarono e salutarono ancora una volta Elena. Alle bambine brillavano gl’occhi. «Che pezzo di merda,» disse Bob a Elena. «M’è venuto già a chiedere i soldi.» «È ‘na bella donna,» disse Alessandra prima di varcare il portone. «Più o meno,» disse il fabbro, subdolo. «Mamma, è bellissima!» disse la più piccola delle due bambine. «Dai, su, entriamo,» disse il fabbro, frustrato dal dover trattenere i commenti maschi e sinceri su Elena.

14 Bob e Elena camminavano a testa alta lungo il Corso. Visi contratti dall’imbarazzo. Visi contratti dalla pressione di sentirsi addosso gli sguardi dell’intero paese. Dagl’occhi era svanita la paura, però. L’attenzione non era più guidata dal timore di essere riconosciuti da qualcuno vicino agli strozzini. I muscoli erano ora rilassati e le menti libere. Non stavano più scappando. Erano dei forestieri, estranei in quella piccola comunità, ma ormai avevano una casa lì. Poco alla volta, con degli sforzi, a fatica, si sarebbero adattati, amalgamati a quel posto. I muscoli facciali s’irrigidivano a ogni saluto. I cuori battevano forti e insistenti. Quello era il prezzo da pagare per integrarsi. Il prezzo degli sguardi inquisitori delle donne dietro le persiane. La sfacciataggine con la quale la gente smetteva di parlare e li seguiva cavalcare la passerella del Corso in silenzio. I commenti bisbigliati alle loro spalle senza ritegno. Le braccia conserte delle donne invidiose. Le labbra degli scapoli aggrappate alle birre ghiacciate. Gl’indici impudenti che li additavano. Le bocche dei ragazzi attaccate alle orecchie degli amici a sussurrare ciò che le espressioni facciali urlavano già da un pezzo.

Quella sera di primavera Elena indossava un top di ciniglia leopardato, aderente scollato e corto; l’ombelico scoperto. Pantaloncini di jeans bianchi, tagliati molto corti da lei stessa per esaltare i glutei e mostrare le cosce in tutta la loro lunghezza. Zoccoli di legno con la fibbia leopardata. Le piaceva sentire il suono sordo dello zoccolo contro il tallone, seguito da quello piatto e forte del tacco contro l’asfalto. Tom - tà tom-tà. Un ritmo che faceva da colonna sonora al suo sculettare. Tom-tà tom-tà. Un ritmo che attirava l’attenzione. «Cazzo, ci guardano proprio tutti,» disse Bob. “Ci guardano?” pensò Elena, e non disse nulla. «Prendiamo un aperitivo?» disse Bob. «Poi andiamo a mangiarci ‘na pizza o qualcosa, eh?» «Ok,» disse Elena. Entrarono nel bar. Il brusio degli uomini seduti ai tavolini s’arrestò. Il barista squadrò Bob—che indossava jeans chiari aderenti, mocassini color mogano e camicia nera sbottonata fin sotto lo sterno, col crocifisso impantanato nei peli del petto come una barca dorata in una palude. «Carlo, due prosecchi, per favore,» disse Bob. «Questa è mia moglie Elena. Lui è Carlo.» Carlo strinse la mano di Elena, fissando le tette. «Dueee… prosecchi?» disse, lo sguardo in apnea nel top leopardato. «Ehi, Carlo,» disse qualcuno. «Quello che prendono il signore e la signora lo offro io.» Bob si voltò per vedere chi avesse parlato. Lo stesso fece Elena. L’uomo s’avvicinò e già da lontano tese il braccio verso di lei. Le prese la mano, stringendo con delicatezza solo le falangine, portò il dorso alle labbra e lo baciò. Poi strinse la mano di Bob con vigore. «Piacere,» disse l’uomo. «Nicola DeBellis.» «Piacere, Elena.» «Bob.» «Bob, eh?» disse DeBellis. «Non sei italiano?» «Sono nato in America—» «Americano, eh.» «Italo-americano,» disse Bob. «Ho la doppia cittadi—» «I wanna ge’! What’s ammericano!» «Alberto Sordi,» disse Bob. «Forte.» «Eh, bonàneme,» disse DeBellis, che non si trattenne più e affondò lo sguardo nella scollatura di Elena. «Mmm…» Nicola DeBellis era un quarantenne poco più alto di Bob. I capelli castano chiaro, ingelatinati. Naso adunco e denti perfetti. Troppo perfetti per essere i suoi. Il viso e il petto erano glabri, anche se aveva molti peli sulle braccia.

15 Strano. Elena notò lo spesso bracciale d’oro, gl’occhi di ghiaccio, le labbra carnose e deformi. «Ecco i due prosecchi,» Carlo il barista poggiò i bicchieri sul bancone. «Ma lei non beve niente?» chiese Bob. «Ehi, Bob, e diamoci del tu. Che è ‘sto lei?!» «Ok. Non bevi niente?» «Massì, dai, me lo prendo pure io un prosecco,» disse DeBellis. «Carlo, un altro prosecco, per favore.» «Arrivaaa…»

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Bob avrebbe voluto avere una cena romantica con sua moglie, ma non fu possibile. Dimostrando di essere del tutto privi di tatto, Nicola DeBellis e altri tre uomini si accodarono al loro tavolo per mangiare una pizza “in compagnia”. DeBellis insistette per pagare. DeBellis non riuscì a togliere gl’occhi di dosso da Elena. Tutta sera. Bob e Elena se n’accorsero. I suoi amici pure. Il cameriere idem. L’unico a non accorgersene fu lui. Durante la cena Bob accennò a DeBellis il suo sogno di aprire un negozio di dischi. Disse che se avesse avuto fondo & fondi l’avrebbe aperto anche lì a Poggiorsini. Disse che aveva già pensato al nome da dare al negozio: Poggio Rock. DeBellis rispondeva alle domande e richieste di Bob fissando Elena, come se fosse lei—o meglio, le sue tette—a parlare. «Io ce l’avrei pure un piccolo locale, lo sai?» disse DeBellis. «Nooo… Davvero?» «Sì. Eh, guarda, mi sa proprio che te lo posso affittare.» «Bisogna vedere a quanto, però. Io non è che mi posso permettere chissà cosa.» «Non ti puoi permettere chissà cosa, eh?» coi suoi occhi di ghiaccio Nicola percorse ogni curva del corpo di Elena. Erano fermi a fumare una sigaretta, appena fuori dalla pizzeria. Elena tremava dal freddo e aveva già chiesto a Bob di andare. Da qualche ora, difatti, s’era alzata una brezza pungente che senza troppi complimenti frustava il paese a intervalli regolari. Una folata e poi la quiete. Dopo la quiete, una nuova folata. «Ehi, Bob,» disse Elena. «Andiamo, per favore.» «Sì, è vero. Eh… Nicola, ci vediamo domani per parlare di questa cosa del negozio?» «Domani, eh? Certo. Passo da casa vostra?» «Vediamoci al bar così ci beviamo qualcosa.» «Al bar, eh?» «A domani. E grazie della cena.» «Grazie mille,» disse Elena. «A buon rendere,» disse DeBellis.

Bob e Elena ritornarono a casa. Lungo il Corso Elena si fermò davanti alla parrucchiera e controllò i prezzi. Tre volte più bassi di quelli di Roma. Il salone, trenta volte più vicino di quello di Roma. Erano tranquilli per aver passato una serata diversa e “in compagnia”, ma vibravano in loro sensazioni sentori e pensieri contrapposti. Il fatto di tornarsene a casa a piedi, per esempio, era qualcosa che li entusiasmava, al pari della generosità e disponibilità degli uomini di quella sera. Ma sotto-sotto sapevano che quella serata non era altro che la matrice con cui sarebbero state stampate le serate a venire, una dietro l’altra, sempre uguali. Stessi discorsi, stessi luoghi, stesse battute. Stesse facce, stesso cibo. Una copia dietro l’altra, giorno dopo giorno. Un millepiedi di noia.

16 Svoltarono nello stradone delle case popolari. La luce opaca del lampione all’angolo si stendeva sull’asfalto e veniva inghiottita dal vuoto dietro i palazzi. L’immagine delle tapparelle rosse tirate giù era un’ulteriore conferma di quelle preoccupazioni. Non perché fossero tutte tirate giù, ma perché a quell’ora lo sarebbero sempre state. Il silenzio della notte era maculato dalla eco degli zoccoli di Elena. Tom-tà tom-tà. «Ohoo! Look at youuuu!» disse Bob alla cagna conosciuta la prima sera. «Long time no see.» La cagna scodinzolava frenetica. Dondolava i fianchi e sbatteva le palpebre come una puttana da quattro soldi. Si avvicinò a Bob a testa china, cauta. «Non vòi mica toccà quer cane,» disse Elena. «Chissà ‘e malattie che c’ha?!» «Lo sai che questa è la cagna che m’ha convinto a restare qui?» Bob l’abbracciò e le scosse il collo a destra e sinistra, destra e sinistra, destra e sinistra. La cagna si liberò dalla sua morsa e cercò di annusare i piedi di Elena. Elena lanciò un grido stridulo da oca giuliva e saltellò indietro scalciando. «Non lo fare avvicinare!» «Vieni qua, bella,» Bob chiamò la cagna. «È femmina. E la cosa che non vuoi capire è che mi so’ sentito protetto da questa cagna qui, you know? Cioè, quando siamo arrivati qua—tu dormivi—io so’ sceso e mi so’ sentito solo, stanco, e non sapevo quasi dove cazzo eravamo finiti. Poi l’ho vista arrivare ed è stato come se mi sono sentito accettato. Capito? Poi, dopo, quando ho parcheggiato lì dietro, lei s’è accucciata vicino a noi e m’ha fatto sentire tranquillo, sicuro, protetto, come se lei stava lì per fare la guardia a noi. You know what I’m saying?» «E poi la mattina m’ha pure svegliato, ‘sta rompicojoni!» disse Elena, avvicinandosi. Tom-tà tom-tà. «C’ha svegliato e poi abbiamo trovato la casa. Questa qui,» Bob abbracciò la cagna di nuovo. «È la nostra portafortuna.» «Ma statte zitto, va’. Come s’amo trovato l’America. Ma l’hai visto ‘ndò stamo?! Che posto è, questo?» «Ehi, vedi che sei stata anche tu a dire di restare. E poi, Elena, non capisco perché devi essere così negativa, così pessimista.» Elena pensò che Bob avesse ragione. Non bisognava essere pessimisti. Non bisognava essere negativi. Quello di sentirsi positivi era un dovere. E aggrapparsi a questioni campate in aria come quello che aveva detto Bob sulla cagna, anche quello era un atto doveroso e indispensabile per la loro sopravvivenza. Cibare il loro ottimismo. Cibare i loro sogni. Nutrire la speranza che gli usurai li avrebbero lasciati in pace. La speranza che non sarebbero mai riusciti a trovarli in un posto sperduto del genere. La speranza che fatti un po’ di soldi si sarebbero trasferiti in America una volta per tutte. Ad Atlanta, Georgia. Elena fece queste riflessioni e si sentì in colpa per essere stata cinica e spocchiosa. Si sentì in colpa ma non disse niente a Bob: le seccava dargli ragione. Restò lì, immobile, le braccia incrociate, le mani a sfregare i tricipiti infreddoliti, mentre suo marito coccolava la cagna e rotolava incurante sull’asfalto. «Andiamo a letto?» riuscì a dire con un filo di voce.

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Quando verso le 2:00 Elena si addormentò, Bob uscì sul balcone a fumare una sigaretta, rompendo la promessa fatta alla moglie quella sera stessa. Stavano fumando con DeBellis e gli altri quando le aveva giurato che quella sarebbe stata l’ultima della giornata. “Va be’,” pensò Bob, aspirando con piacere il fumo acre, “ora sono le due: è già domani.” Un ululato lontano squarciò la quiete della notte. Un ululato che mise a tacere per qualche secondo il canto insistente dei grilli. Bob pensò che si trattasse della sua amica cagna. Credette che l’animale volesse dirgli qualcosa, ma non sapeva cosa.

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«Facciamo così: i lavori d’imbiancatura li faccio io e scontiamo un mese.» «Un mese, eh?» «Nicola, io ti sto chiedendo un favore. Se tu mi finanzi un po’, almeno all’inizio, dopo, quando le cose cominciano a girare, io ti restituisco tutto.» «Bob, ho capito,» disse DeBellis. «Ma qui non si tratta di cinquanta euro. Qui stiamo parlando che devo fare l’allacciamento alla corrente—e già quello costa più di trecento.» «Ma ti rimane a te,» disse Bob. «Anche se io dopo me ne vado, l’allacciamento ti rimane.» «Ho capito, però intanto devo sborsare ‘sti soldi. E poi vuoi le casse, gli scaffali, il bancone. E come fai col registratore di cassa?» Erano nel locale che DeBellis aveva proposto di affittare a Bob. Il locale per il suo negozio di dischi, all’inizio del Corso. Un locale di due vani e un bagnetto. Due vani separati da un muro di cartongesso che Bob pensava di abbattere. Si entrava scendendo un gradino. Bob già immaginava dove avrebbe sistemato i dischi e il banco della cassa. Gli altoparlanti negli angoli e qualche poster incorniciato sulle pareti. Lo vedeva coi suoi occhi, lì, davanti a sé, il suo negozio di dischi: Poggio Rock. Ma DeBellis era attaccato ai soldi, come ogni persona ricca. Difficile spillargli quattrini senza lasciar intravedere un tornaconto. E di tornaconti, in quel frangente, non ne vedeva. «Nicola, senti: investi in questa cosa e non te ne pentirai. Non si tratta di chissà quanto. Un paio di migliaia d’euro.» «Un paio, eh?» «Sì, un paio,» disse Bob. «E non ti preoccupare del registratore di cassa. Intanto posso comprare quei blocchetti per fare le ricevute su carta e poi, quando l’azienda è tutta in regola, allora si pensa al registratore.» «Come fai ad aprire senza essere in regola?» «Chi se ne frega. Tanto qui, a Poggiorsini, chi cazzo deve venire a controllare?» «Questo lo dici tu.» La trattativa andò avanti per un’altra mezz’ora. Bob convinse DeBellis che dei 1800 euro che avrebbe investito, solo 1000 sarebbero stati un prestito per lui—il resto serviva per rimettere a posto il locale. «Nicola, fidati di me,» disse Bob. «So come si gestisce un negozio. Cosa credi che facevo quando stavo a Roma? C’avevo un negozio di dischi. E sai quanti dischi introvabili mi—» «E perché l’hai lasciato, il negozio di Roma?» disse DeBellis. «Ehm…» titubò Bob. «Per colpa di un corto circuito che me l’ha bruciato tutto.» «E l’assicurazione?» «Eh, l’assicurazione. Sai quanto devi aspettare per l’assicurazione?!» Bob ricordò quello che gli aveva detto l’assicuratore: «Mi dispiace, ma noi non paghiamo se si tratta di incendio doloso.» Per qualche istante il viso di DeBellis si trasformò in quello di Giorgino lo Zingaro che mutò poi in quello dell’Assessore. Un orrore dietro l’altro. Bob si sentì scosso da un brivido e per cancellarlo tirò fuori il pacchetto di Pall Mall. Ne offrì una a DeBellis, che rifiutò dicendo di fumare solo Marlboro rosse, le sue. «Allora, affare fatto?» disse Bob una volta fuori dal locale. «Vediamo…» «Nicola, vedrai che non te ne pentirai.»

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18 Quello stesso giorno, Elena decise di darsi una sistemata alla capigliatura. Eliminare le doppie punte che le circondavano il capo come un’aureola semitrasparente e accorciare la frangetta che ormai copriva le sopracciglia. Se no, a che serviva passare ore davanti allo specchio a sfoltirle e modellarle con la pinzetta? E poi, cazzo, una spuntantina di tanto in tanto ci vuole. Dalla parrucchiera c’erano due donne sedute in attesa, più quella sotto e la parrucchiera. Elena salutò. Ricambiò solo la parrucchiera, con un sorriso sbarazzino. Una delle due sedute non era una faccia nuova. Elena l’aveva già vista. Non ricordava dove, ma l’aveva già vista. «Tu sei Elena la romana?» chiese la donna. «Sì.» «Piacere, R-rossana,» la donna porse la mano. «Abito nello s-s-stesso palazzo tuo. T’ho vista un paio di v- volte—» «Anch’io, sì…» «Però, guarda, a vederti da vicino s-s-si vede p-pro-proprio che sei bellissima.» «Grazie,» s’imbarazzò Elena. «Ma a Roma va di moda quel taglio là?» chiese la parrucchiera. «Mah, non lo so,» disse Elena. «A Roma le mode cambiano sempre.» «P-pure questo è v-vero,» disse Rossana. Rossana era mingherlina, il viso scarno e brutto. Piatta di seno e piatta di culo. Balbettava e aveva un tono di voce alto e stridulo. Come se non bastasse, si vestiva da sciattona. Rossana lasciò passare avanti la donna che c’era dopo di lei per continuare a chiacchierare con Elena. «Siete s-s-sposati, vero?» domandò Rossana. «Sì. Da sette anni.» «Sette anni?» disse la parrucchiera. «E ce conoscemo da più di dieci,» disse Elena. «Avevo vent’anni quando ce semo messi ‘nsieme.» La parrucchiera guardava Elena nel riflesso dello specchio. «Non è che ti voglio portare sfiga, però stai attenta: la sai, no?, la crisi del settimo anno?» «Che p-poi cogl’uomini n-n-non sei mai sicura, d-d-diciamo la verità,» disse Rossana. «Per quelli è sempre periodo d-di crisi, di g-g-guerra. E come si dice? In tempo di guerra, ogni buco è trincea.» «Ma Bob è diverso,» disse Elena. «Diverso? Non credo proprio,» disse Rossana. «Con t-tutto il rispetto, eh, Elena. Non voglio as-s- solutamente dire che lui è ‘no s-s-stronzo. Però, sai, gl’uomini so’ tùtte ùguèile. Tutte quante, q-quando ci mettiamo con q-q-qualcuno, all’inizio, tutte quante pensiamo che lui è d-diverso dagli altri e che non farà mai le cose che f-fanno gli altri. P-p-però poi, c-c-col tempo, le cose vengono fuori e s-si s-scoprono m-m- ma-magagne d’ogni tipo.» «Sì, però, l’ho detto prima: stamo ‘nsieme da più di diec’anni. Cioè, vojo dí, non è che, come dici tu, uno prima è diverso e poi si scopre… cioè, capito?» Rossana scosse la testa e aggrottò la fronte. Puttanate, diceva la sua espressione. Elena provò una strana stizza nel sentire quelle parole. Una stizza ambivalente. Da una parte era stupido parlare così di esseri umani diversi l’uno dall’altro anche se dello stesso sesso; dall’altra, però, un ronzio impertinente le sussurrava che, forse, soltanto forse, anche Bob aveva tradito. Forse anche Bob s’era abbandonato alla goduria del proibito, del segreto. E se era capitato, con chi era potuto capitare? Con una ragazzina rockettara nel bagno del negozio di Roma? Una di quelle bagasce minorenni di oggi che la danno via a gratis? O era capitato a uno dei festival di musica a cui Bob amava andare quand’erano fidanzati? E se quello stronzo di Bob l’aveva tradita dopo il matrimonio, magari intrattenendo una relazione con una puttana che lo andava a trovare in negozio? O con una—

19 Elena si dispiacque d’aver dato dello stronzo a Bob e si dispiacque d’essersi lasciata andare a quei pensieri. Allo stesso tempo, però, rimpianse di non aver avuto molte esperienze prima d’incontrare Bob. Prima di lui qualche altro. Poco più di un paio e meno di cinque. Solo uno importante. Poi Bob. Elena rimpianse la volta che aveva rifiutato la corte di uno ricco sfondato che le mandava fiori tutti i giorni, l’andava a prendere al convitto e la riaccompagnava. Quello che una sera l’aveva persino portata in un ristorante di lusso. Era stata una stupida a rifiutare; e solo perché credeva di amare un tipo che poi s’era rivelato essere uno di quelli di cui parlava Rossana, uno stronzo. Ormai un tarlo figlio di puttana s’era incuneato nella sua testa. Bob m’ha tradito, sì o no? Perché non riesco a rispondere a questa domanda con certezza? Perché non riuscirei a metterci la mano sul fuoco? Perché ricordo benissimo queste cose sentimentali e non ricordo, invece, i titoli dei quadri, i nomi degl’inventori, dei politici o delle capitali? Perché sono stupida e mi sono fatta incastrare con ‘sti discorsi da ‘ste donne di paese?

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Quando la sera Bob rientrò, dal volto di Elena capì che qualcosa non andava. Qualcosa di strano anche nella postura, nei movimenti. Lo sguardo che si perdeva nel vuoto. Bob sentì del gelo tra loro. Certo, non era la prima volta. Mille volte avevano litigato e serbato piccoli rancori. Nell’attrito di quella sera, però, c’era un che di razionale, di definitivo. Non la freddezza nata da un litigio —che non c’era nemmeno stato—ma quella che segue una presa di posizione. La lucida freddezza di una decisione irrevocabile. Bob pensò che tirare fuori il malloppo avuto in prestito da DeBellis avrebbe risollevato la moglie. Era certo che avrebbe sciolto un po’ di gelo ma era meglio lasciarselo come asso nella manica. S’avvicinò a Elena e le sollevò il grembiule a fiori. Le sfiorò la coscia destra e con le dita si aggrappò alle mutandine. La mano sinistra, nel frattempo, palpava il seno sinistro. Ansimando, Bob strusciò il cazzo barzotto tra le natiche di Elena, ma questa si ritrasse come se solo in quel momento si fosse risvegliata da un’ipnosi. «No, Bob, dai: non mi sento bene.» «Oh, puledrina, ma ch’è successo?» Elena amava essere chiamata “puledrina”, e adorava Bob per aver inventato quel vezzeggiativo per lei. Ma in quel momento, purtroppo, non poté non pensare a quante volte, forse, soltanto forse, Bob aveva usato quello stesso nomignolo con altre donne. «Niente, lasciame sta’. Mi fa male la testa.» «Ma ch’è successo, t’è venuto il mal di testa a stare dalla parrucchiera?» Bob sorrise e continuò con tono infantile. «Che t’ha fatto quella stronza della parrucchiera, eh? Ora vado e la picchio.» «Smettila Bob, per favore.» «Ok,» disse Bob, e infilò una mano in tasca. «E se tiro fuori ques—» «Ho detto no!» s’infuriò Elena. «Ohu, ma che hai capito?» disse Bob. «Questo, dico,» sbatté il rotolo di soldi sul tavolo e con le sue mani tozze stese le banconote a ventaglio. «E da dove li hai presi? Non li hai mica rubati?!» «Ma che rubati e rubati. Sono per il negozio. Me li ha dati Nicola DeBellis. C’ho pure il locale. Da domani comincio a fare dei lavori; sai, a imbiancare e sistemare i mobili—che devo ancora trovare—e poi in questi giorni verranno a fare l’allacciamento della corrente e tutte quelle cose. Amore, hai visto? Non sei contenta?» «Certo, Bob,» Elena sorrise per la prima volta da quando era tornata dalla parrucchiera. «Sono contentissima. Però, non lo so, sto un po’ così.»

20 «Ho capito, ma mi vuoi dire ch’è successo?!» disse Bob. «Gnente, dei discorsi…» «Dei discorsi?» «Eh, sì, dei discorsi fatti â parrucchiera co una che abita qui, e…» «E…?» «E… Gnente: discorsi.» «E che è, Elena, dobbiamo giocare all’Allegro chirurgo?» «Eh?» «Sai il gioco che devi fare il chirurgo e devi operare e tirare fuori le costole, gli organi, le cose senza far male al paziente? Sai, con la luce sul naso? Così mi sembra con te. Io dico le parole, le frasi e poi tu le completi. Dai, su, dimmi che c’è. Cazzo, ero così contento.» «Te posso fà ‘na domanda?» «Of course.» «Però devi esse sincero.» «Sicuro. Dimmi.» «Mi hai mai tradita?» «Io? Ma che dici?!» Bob distolse lo sguardo. «Certo che no! Mai!» disse, ricordando il suo unico tradimento, il giorno dell’addio al celibato. Quella serata di merda passata al night in compagnia dei suoi amici e di una spogliarellista dell’Est. Alcol a fiumi e musica di merda. Il privé e i divanetti di velluto rosso. I capezzoli a chiodo della tipa e gli shot uno dietro l’altro. Una serata di merda che avrebbe dimenticato volentieri. Elena capì che Bob mentiva e si sentì sollevata. Il tarlo che l’aveva tormentata, morto stecchito. Era lì, ora, ai suoi piedi, insignificante e innocuo. «Niente, era solo ‘na domanda,» disse lei. «Oggi, lì, abbiamo fatto dei discorsi sugli uomini e le donne, sur matrimonio, i tradimenti. E allora…» «Ma è per questo che non ti va di fare l’amore?» «No,» disse Elena. «È che c’ho ‘n mar de testa micidiale.» Bob capì che Elena mentiva e si sentì sollevato. Almeno in quanto a menzogne erano pari.

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Per provare il mixer di seconda mano, gl’altoparlanti e l’acustica del negozio, Bob mise su i Real Kids. Il volume a manetta. Non era riuscito a trovare dei piatti economici ma per fortuna aveva copiato i vinili nel computer portatile. Si congratulò con se stesso. Ripensò ai mesi trascorsi a fare quel lavoro, nel negozio di Roma. Ripensò al piacere provato nel riscoprire gruppi poco noti come gli Oblivians o i Real Kids o i Count Five. Molti curiosi, specie ragazzi, s’erano raccolti sul marciapiede opposto e aspettavano di essere invitati all’interno; altri sbirciavano sfacciati e se ne andavano parlottando. Bob aveva lavorato sodo per più di due settimane. Mattina e sera. Aveva imbiancato, aiutato i tipi dell’Enel a sistemare l’impianto elettrico, scartavetrato e verniciato di nero i mobili che aveva trasformato in scaffali; fissato mensole e altoparlanti, affisso quadri-poster, scrostato il pavimento dal grasso, ripulito a fondo i vetri della porta d’ingresso. Aveva anche ideato e realizzato un leggio in legno sul quale sistemare il vinile originale dell’album da suonare in mp3 col computer portatile. S’era persino preparato una frase da dire: “È ovvio che il suono del vinile è tutta un’altra cosa.” Alla fine di giugno l’unica cosa che mancava al negozio era l’insegna. Le catenine a cui appenderla erano pronte. Il piccolo faretto alogeno pure. Bob aveva dato a Elena un pannello di compensato e un pacco di Uniposca, e aveva abbozzato su un foglio come voleva la scritta: POGGIORock. Bob non stava nella pelle, era ansioso. E per calmare l’ansia, spese l’intera giornata a preparare una playlist per l’inaugurazione.

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Elena stava osservando l’insegna appena finita: non era niente male. Qualcuno bussò alla porta con insistenza. Elena aprì e si ritrovò davanti Giò Casino. «Elena, stanno venendo i carabinieri,» disse Giò. «Mo stònne o’ secònde palàzze. Dice che non mandano via a nessuno, ma fanno i condrolli e poi, tra quacche mese, arriveranno le decisioni: ché alcuni di quelli che stavano nelle liste ànne fàtte recòrse.» Elena non sapeva che dire. Aveva capito ogni parola, ma non capiva cosa avrebbe dovuto fare o dire. «Eh, Giò, e io cosa devo fare? Cosa devo rispondere?» «Niente,» disse Giò. «Se ti vuoi prendere un boco di tempo, allora io dico che non c’è nessuno e quelli non ti fanno nessuna domanda. Ma non ti devi preoccupare, figlia mia. Quello che vogliono sapere è la dichiarazione dei redditi e vedere se anghe tu e Bob c’avete diritto a stare qui. Non so se me capìsce á mmé?» «Tu cosa mi consigli di fare?» «Io dico che è meglio se non ti fai trovare.» Elena ascoltò il consiglio di Giò Casino. Uscì con l’insegna sottobraccio. Un sole brillante le accecava la vista e si spalmava sul viso con strafottenza. Davanti al secondo palazzo Elena vide la macchina dei carabinieri e si chiese ancora una volta se andarsene fosse la decisione più saggia.

22 “Certo,” pensò, “se me l’ha detto un vecchio di settant’anni che vive qui da sempre, è per forza la cosa migliore da fare.” Elena entrò nel negozio senza bussare. Bob era seduto dietro il bancone, le cuffie in testa. Stava ascoltando An ungly death di Jay Reatard e non l’aveva sentita entrare. Quando la vide, sorrise. Quando vide l’insegna, stoppò la musica, si sfilò le cuffie e protese le mani. Dammi qua, dicevano il sorriso e le braccia spalancate. «Wow!» disse Bob. «It’s perfect.» Elena s’inorgoglì. Durante gli ultimi giorni avevano ritrovato affiatamento. Era successo che un ragazzino del loro palazzo— abitava al terzo piano—aveva fatto un commento spinto nei confronti di Elena. «Ehi, Elena, li sai fare i pompini col culo?!» Non era una novità, quella. La novità stava nel fatto che Bob aveva sentito il ragazzino e l’aveva preso a calci in culo. Il ragazzo era andato a chiamare il padre e questo era sceso tutto furioso, la sigaretta tra le labbra, in canottiera, i pollici aggrappati alle bretelle. Prima s’era riempito la bocca con minacce da mafioso smargiasso, poi aveva continuato a ripetere come una lagna che suo figlio aveva solo 13 anni e come tale andava trattato. «Eh, ma non parla come un tredicenne,» aveva detto Bob. «Tu nan ta da permétte mé cchiù de tucqué á fìgghieme, a capìte?» «Guarda che se quello non la smette di rompere i coglioni, va a finire che tocco pure te.» Qualcuno era intervenuto e li aveva separati. Quest’evento aveva rafforzato il legame tra Bob e Elena. Elena s’era sentita ancora una volta protetta da suo marito e aveva accantonato la questione tradimento; Bob, invece, aveva provato la piacevole sensazione di meritarsi l’amore della moglie. Lei così bella e lui così brutto; ma lei così indifesa e lui così protettivo. «So’ venuti i carabinieri, lo sai?» disse Elena. Bob stava esaminando l’insegna. La voltava e rivoltava come un reperto archeologico. Per un momento gli sembrò di non aver capito le parole di Elena. Stava per chiederle di ripetere, quando tutto si fece chiaro. «Che t’hanno detto?» domandò. «Niente. Io me ne so’ uscita. Quelli stavano ancora ar secondo palazzo.» «Uscita?» «Sì, so’ venuta qui. È passato Giò ad avvisamme. M’ha detto che stavano ar secondo palazzo e che siccome quarcuno ha fatto ricorso stann’affà dei controlli, tipo dichiarazione dei redditi, quê cose là.» «Speriamo che non succede niente.» «No, m’ha detto Giò che non stanno a sfrattà a nessuno. Passano solo a fà domande.» «E allora perché te ne sei andata?» «Nô so. Me l’ha consigliato Giò e ho pensato che era mejo non rispondere a nessuna domanda. Sai, Giò dice che almeno così guadagnamo tempo.» «È vero,» disse Bob, ritornando ad ammirare l’insegna del suo nuovo negozio. «Brava puledrina, è proprio bella.» «La fissiamo?» domandò Elena. «Right now.»

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Il giorno dell’inaugurazione faceva caldo. Bob uscì di casa appena dopo pranzo. Per prima cosa andò al ristorante che avrebbe servito il catering ad assicurarsi che tutto filasse liscio. Passando davanti al suo negozio si compiacque sia dell’insegna sia della porta verniciata di nero, che insieme donavano al locale un che di professionale, di cittadino, di rock. Poi passò da casa di Nicola DeBellis.

23 La casa di DeBellis era una delle poche ricavate dal casale dei vecchi feudatari del paese. Un casale a ferro di cavallo, su due piani. Gli esterni bianchi di gesso alternati da archetti e colonne in tufo levigato. Si entrava dai grossi portoni del primo piano oppure dalle piccole porte in legno del secondo, raggiungibili dalle rampe di scale che partivano dalle estremità della U. Erano delle case dai soffitti alti e affrescati. Mura spesse, stanze ampie e luminose. «Oggi è il grande giorno, eh?» disse DeBellis, derisorio. «Essì,» disse Bob. «Ho invitato chiunque vedevo. Pure persone che non conosco e che non credo compreranno mai un disco. Però, sai, più persone ci sono e meglio è.» «Sicuro,» disse DeBellis. «Però, ricordati ‘na cosa: qui, la maggior parte delle persone va alle inaugurazioni solo per mangiare e bere gratis. Dopo non le vedi più.» «Lo so. Non solo qui, te lo dico io. Però un’inaugurazione senza persone non ti fa fare bella figura. I mean, se tante persone vengono a dirti che il giorno prima sono stati a un’inaugurazione, tu che pensi? Pensi che siccome non sei andato quel giorno, magari ci vuoi andare un altro gio—» «Però poi quando vengo e vedo che non c’è un cazzo né da bere né da mangiare, io me ne vado e non torno più!» scoppiò a ridere DeBellis. «Ma non è che ti voglio buttare giù, eh.» «Insomma…» «Su, Bob, dai…» «Però, Nicola, almeno tu vieni,» disse Bob. «E porta qualcuno. Poi chi se ne frega se non si fanno più vedere.» «Certo, Bob, non ti preoccupare. E tu, mi raccomando, porta Elena.» Bob lasciò casa di DeBellis. Mentre scendeva le scale notò il Mercedes Kompressor di Nicola. Notò i raggi del sole trasformare da grigio a bianco il colore della carrozzeria. Notò le chiavi inserite. Pensò alla serenità che governa la vita delle persone ricche come lui. Nicola non solo non si preoccupava che gli rubassero la macchina e la lasciava aperta con le chiavi inserite, ma di sicuro aveva una polizza furto & incendio a coprirlo. “La vita è proprio ingiusta,” pensò Bob. Si fermò al bar e bevve un caffè. Per sciogliere la tensione scolò due Padre Peppe uno dietro l’altro. Giò Casino gliene offrì un terzo. Bob sentì la mente rilassarsi. Non c’era da preoccuparsi più di tanto. Era un’inaugurazione, mica la fine del mondo. «Ehi, Rob, com’è che ti vesti per l’inaugurazione?» chiese Giò Casino. «Bob, Giò. Bob, non Rob.» «Ok. Bob. Allora?» «Non lo so ancora.» «Mi raccomando,» Giò gli diede una pacca sulla spalla e lasciò la mano lì. «Ché qui l’abito fa il monaco. Se non ti vesti adattàte, va a finire che quelli pure che li vogliono, i dischi, non li combrano, perché non ispiri. Non so se me capìsce a mmé?» Bob fumò una sigaretta, alternando una boccata a uno sguardo all’orologio. Era ansioso, e i tre Padre Peppe avevano già perso efficacia. Ne ordinò un altro. Lo scolò. Ne ordinò un altro ancora. Scolò anche quello. Sentì la testa girare per qualche istante e il battito cardiaco rallentare. Sentì delle gocce di sudore scivolare tra i peli del petto. «Giò, ci vediamo stasera lì, ok? Vado a casa a farmi ‘na doccia e a prepararmi.» Giò Casino non disse niente. Annuì e basta. Nello sguardo, l’apprensione scaramantica del padre che incrocia le dita prima che il figlio si presenti a un colloquio di lavoro.

Elena aveva pulito la casa, si sentiva odore di candeggina. Elena era in bagno quando Bob entrò. Era davanti allo specchio e, in reggiseno e mutandine, si stava truccando. Bob la fissò.

24 Era una figa stratosferica. Rimase immobile a guardarla. Era indeciso se buttarsi su di lei e fare l’amore oppure lasciarla vestire e mantenere la tensio— Buttarsi su di lei e fare l’amore. «No, dai, mi sto truccando…» Elena finse di ribellarsi. «Lasciami stare…» Bob le afferrò le braccia e le allontanò dal viso. Le scosse la mano destra affinché mollasse la matita. La matita cadde nel lavandino: una virgola celeste sulla ceramica bianca. Bob le morse il collo sul lato destro, leccando fin dietro l’orecchio. Le mani le stringevano i fianchi ora. Elena ansimò insoddisfatta. Voleva di più e lo voleva subito. Bob non se lo fece ripetere due volte.

Dopo il sesso, una doccia. La fecero insieme. Scoparono di nuovo, sotto l’acqua tiepida. Bob venne e lei no. Bob si sentì in dovere di farla venire. Elena in piedi, le gambe spalancate. Bob in ginocchio, una mano aggrappata alla vasca, l’altra a tenere aperte le labbra della vagina, la lingua a lavorarsi il clitoride. Venne anche Elena.

Si vestirono senza scambiarsi una parola. Temevano di rompere l’incantesimo erotico di quel pomeriggio. Si guardavano da una parte all’altra della camera e sorridevano maliziosi, compiaciuti della scelta comune di non aprire bocca. Elena non sapeva se indossare o no il reggiseno. Bob non sapeva se indossare o no il completo di lino.

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La playlist che aveva preparato Bob durava 2 ore e 52 minuti. L’inaugurazione era stata fissata per le 8. Finita la playlist, Bob avrebbe improvvisato. Alle 7:45 fece partire la musica, il volume a palla. L’intenzione era d’attirare quelli che non era riuscito a invitare.

1. Love me do, dei Beatles. 2’21’’ 2. Be my baby, delle Ronettes. 2’41’’ 3. From me to you, dei Beatles. 1’56’’ 4. Run, run, run, dei Third Rail. 1’56’’ 5. A public execution, dei Mouse and The Traps. 2’49’’ 6. Dirty water, degli Standells. 3’00’’ 7. Green circles, degli Small Faces. 2’44’’ 8. Tell her no, degli Zombies. 2’07’’ 9. Don’t let me be misunderstood, degli Animals. 2’28’’

Bob sapeva che molti avrebbero storto il muso nel sentire la versione degli Animals, affezionati com’erano a quella dei Santa Esmeralda, ma non se ne curò più di tanto. Non era forse quella la missione del suo negozio: infondere rock nelle menti della gente di Poggiorsini? Dopo Time of the season degli Zombies arrivarono le prime persone. Nicola DeBellis con due amici; Giò Casino, suo figlio il fabbro e la moglie; Carlo il barista e consorte. Qualche giovane che Bob aveva solo intravisto e poche, pochissime donne. Bob fece ripartire la playlist daccapo.

25 Elena era bellissima e attirava più attenzione di quanto non facesse Poggio Rock o i suoi dischi. Nicola DeBellis aveva salutato Bob con una stretta di mano e s’era diretto a sbavare su Elena. Assieme a lui i suoi amici. Uomini vestiti bene. Uomini di bell’aspetto. I loro sguardi distaccati ricordavano la ricchezza più arrogante. Bob era sull’uscio della porta. Bob era nervoso. Indossava un completo di lino bianco. Il bianco non era davvero bianco e le pieghe della giacca non erano davvero volute. Stava aspettando quelli del catering. Come aveva temuto, gli stronzi erano in ritardo. I primi invitati erano lì e non c’era nemmeno un vassoio di rustici o pizzette o stuzzichini. Né prosecco o succhi di frutta. Niente.

15. You gonna miss me, dei 13th Floor Elevators. 2’28’’ 16. Rock & Roll, dei Velvet Underground. 4’43’’ 17. Psychotic reaction, dei Count Five. 3’05’’

«Ci devi scusare per il ritardo,» disse il proprietario del ristorante quando arrivarono. «Cènzíne,» lo chiamò Giò Casino dall’interno. «Un paio di bottiglie per riparare le puoi buttare dendro.» «Vabbùne,» disse il ristoratore. «Grazie, Giò,» disse Bob. «Dov’è Elena?» «Non lo so. Ma quella fàcce de cazze di DeBellis non la lascia un minuto da sola. È incredibile.» Bob provò impotenza mista a rabbia. Si contenne però: i vassoi erano arrivati e ciò bastava a tenerlo occupato. Arrivarono altri invitati. Rossana, le sue sorelle e la parrucchiera; persone invitate da Giò Casino; uomini che Bob aveva incontrato al bar; sconosciuti attratti dalla musica e dalla piccola folla di gente che entrava e usciva da quel nuovo negozio. Bob si guardò intorno compiaciuto. Elena stava parlando con la parrucchiera. Aveva un vinile in mano e lo stava mostrando alla ragazza. Questa annuiva incuriosita. DeBellis era fuori, assieme ai suoi amici, e ridacchiava divertito. Bob pensò che fosse il momento opportuno per chiedere un parere al suo investitore. «Elena!» disse Bob. «Io sono fuori a fumare, se hai bisogno di qualcosa, chiamami.» «Ok,» disse lei. La playlist era alla traccia numero 36, We’ve gotta get out of this place degli Animals. Bob sorrise per l’ironia della sorte. Il titolo della canzone sembrava una sorta di suggerimento subliminale. Bob uscì. Erano le 9:50. La musica si perdeva nella notte senza luna. Bob si sentì fiero d’essere il fautore dell’atmosfera rock che aleggiava all’inizio del Corso di Poggiorsini. Un’atmosfera d’altri tempi. Un’atmosfera che strideva in qualche modo con quel paese, ma che s’adattava gloriosa al clima mite di quella serata di luglio.

We’ve gotta get out of this place If it’s the last thing we ever do We’ve gotta get out of this place Girl, there’s a better life for me and you

«Allora, Nicola, che te ne pare?» disse Bob. «Bene, bene. Anzi, benissimo!» disse DeBellis con un ghigno impertinente. «Anche i miei amici, qui, stanno apprezzando.» «Bene, mi fa piacere.» «Però, Bob, questo non toglie che alla fine del mese voglio i miei soldi.» «Alla fine del mese?!» disse Bob. «Fammi almeno avviare il negozio.» «Avviare il negozio, eh?» DeBellis fece un lungo tiro alla sigaretta fissando Bob. «No, Bob, i patti sono patti. Tu mi devi più di mille euro e io li voglio entro la fine di questo mese. Avviato o no.»

26 Bob odiò Nicola DeBellis. Non tanto per avergli chiesto i soldi così presto, quanto per averlo fatto davanti ai suoi amici, senza tatto, tracotante e perfido. «Ok,» disse Bob. «Però, Nicola, almeno tu e i tuoi amici mi potete aiutare comprando qualche vinile. Siete tutt’e tre degli uomini benestanti, a quanto pare.» «Benestanti, eh?!» disse DeBellis. «Tu non immagini quanti problemi c’abbiamo noi.» Una lamentela esagerata. Esagerata e falsa. Una lamentela che Bob finse di non aver sentito. «E dai,» disse Bob, «un vinile ciascuno.»

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Elena era brilla. Continuava a ripetere che le bollicine le davano alla testa. Che il suo gruppo preferito erano i Rolling Stones e che nessuno aveva il carisma di Mick Jagger o le doti di coso, lì, Keith Richards—si chiamava così? Rossana l’ascoltava fingendosi interessata. La parrucchiera l’ascoltava interessata, fingendosi competente. Le sorelle di Rossana guardavano Bob di traverso a ogni occasione. Erano affascinate da un uomo tanto originale, e allo stesso tempo ne erano respinte. Quando partì You got the silver Elena cominciò a ballare sconnessa, gli occhi chiusi, la testa che dondolava, sbraitando parole in un inglese inverosimile.

Hey baby, what’s in your eyes? Is that the diamonds from the mine? What’s that laughing in your smile? I don’t care, no, I don’t care

Bob la fissò da lontano e l’amò nonostante tutto. Non gl’importava della figura che avrebbero fatto. Anzi. In quel modo sarebbero apparsi più umani, più deboli. L’alone di sospetto che li circondava avrebbe perso spessore.

Oh babe, you got my soul You got the silver, you got the gold A flash of love, just made me blind I don’t care, no, that’s the big surprise

Mentre Elena ballava e sbandava, la gente attorno la guardava divertita. Bob era dietro il banco e stava compilando una ricevuta. Carlo il barista aveva comprato un vinile solo per essere cliente di un suo cliente. Difatti non aveva nemmeno il giradischi. Disse più volte di non volere la ricevuta, ma Bob insistette. Nicola DeBellis era sull’uscio. Stava fumando e sotto l’ascella destra stringeva Hai paura del buio? degli Afterhours. Aveva scelto quello per via della copertina. Nel negozio c’era ancora una dozzina di persone. Alcune erano davanti agli ultimi vassoi di pasticcini, altre scorrevano le dita sui vinili e di tanto in tanto ne tiravano su uno. Rossana non faceva che guardare l’orologio mentre le sorelle squadravano e criticavano chiunque. Elena perse l’equilibrio e dondolò all’indietro. La parrucchiera cercò di agguantarla ma non ce ne fu bisogno: Elena s’era tenuta in piedi da sola. Le si avvicinò DeBellis. Le mise una mano attorno alla vita. Accostò le labbra carnose e deformi a un orecchio di lei e, sfiorandola col respiro, le chiese se avesse bisogno d’aiuto. Elena disse di no continuando a barcollare. «Dai, Elena, ti do ‘na mano,» disse DeBellis, stringendola a sé, viscido. «Nicola!» disse Bob avvicinandosi. «E che è?» «E non lo vedi che questa mo cade?!» disse Nicola.

27 «Ma non mi sembra che sia un problema tuo,» lo afferrò per il polso e lo allontanò da Elena. «Tu pensa ai tuoi amici, che a mia moglie ci penso io.» «Ci pensi tu, eh?!» disse DeBellis. Elena dondolò ancora, instabile. «Sì,» disse. «È così…» «Ma non vedi che non si mantiene in piedi?!» disse DeBellis. «Uagliò!» disse Giò Casino, che aveva seguito la scena ingobbito sotto uno dei due altoparlanti. «T’ha già detto di farti i fatti tuoi. Pensa ad andartene e basta.» Giò strattonò Nicola DeBellis. Giò odiava Nicola DeBellis e aveva odiato anche il padre di Nicola, Anselmo DeBellis. «E tu chi sei, la guardia del corpo?» disse Nicola, divincolandosi dalla presa di Giò. «Ringrazia il cielo che sei vecchio, ché sennò…» «Sennò, cosa?» lo sfidò Giò. «Nùdde, nùdde. È meglio che me ne vado. Mi so’ mischiato già abbastanza con voi del CEP.» «M-m-ma-madònne!» disse Giò Casino, tremando e caricando il pugno destro. «Basta!» disse Bob. «Basta!» Era appena partita Rave on dei Real Kids. Una canzone che pareva voler distrarre la gente.

Little things that you say you do Make me wanna be with you Rave on is a crazy feeling And I know that you got me reeling When you say I love you, rave on

«Bob, mi raccomando,» disse DeBellis lanciando il disco sul bancone come un frisbee. «Alla fine del mese voglio tutti i soldi che mi devi; più l’affitto.» Disse queste parole ad alta voce, quasi urlando, in modo che tutti le sentissero. In modo che tutti sapessero che Bob gli doveva dei soldi. In modo che quella indiscrezione riempisse le bocche del paese nel giro di un paio di giorni, forse meno. «Fuck off!» disse Bob.

52. Talihina sky, dei Kings of Leon. 3’47’’ 53. Time to go, dei Supergrass. 1’57’’

Questi erano gl’ultimi due brani della playlist. Il testo dell’ultima canzone diceva “grazie a tutti, per tutto quello che avete fatto, ma adesso è ora di andare”, ma lo diceva in inglese e Bob non aveva considerato il fatto che nessuno avrebbe colto la sua sottile trovata per congedare gli invitati. Bob s’avvicinò a Elena, seduta a una sedia dietro il banco, sfinita. «Ehi, puledrina, come stai?» Elena non rispose. «Sai che l’ultima canzone dice Thanks to everyone for everything you’ve done but now it’s… time to go? Sai che significa?» «No,» disse Elena, «io non so ‘n cazzo de gnente.» «Dai, non dire così.» «No, è vero. Non so gnente. So’ ‘na stupida che non conosce gnente e la gente s’avvicina a me solo perché so’ bella, non perché so—» «Elena, su, non dire queste cose: lo sai che non sono vere.» «Ah no?» Elena si alzò. Afferrò una bottiglia di prosecco e bevve a canna. «E allora, dimmi, Bob, dimmi,» fece un altro sorso. «Come mai te sei ‘nnamorato di me? Perché so’ acculturata e ‘ntelligente, oppure perché so’ bella? ‘Namo, Bbob, dimmi la verità.» «Una non deve essere acculturata o intelligente per essere affascinante,» disse lui. «Nel senso, non è la cultura che rende affascinanti. A volte, sì, è vero, lo fa, però io in te, a parte la bellezza, che, ovviamente, mi ha attirato come prima cosa—»

28 «Hai visto che è come dico io?!» «Ma se mi lasci finire capisci che non è così,» Bob le strappò la bottiglia di mano e fece un sorso. Un sorso bello lungo. Ne fece un secondo e sentì le bollicine frizzare nel naso. «È chiaro che la bellezza è la prima cosa che uno vede, però io mi sono innamorato di te perché mi sei piaciuta dentro, per come sei fatta, per come parli, le cose che dici, la sensibilità che hai per certe cose.» «Perché devi mentire? ‘O sai che non fa gnente se dici ‘a verità. Ner senso, io ti amo e sto con te—semo sposati, no? Però voglio sentirti dire la verità pe’ ‘na bona vorta.» «E che vuol dire una buona volta? È come se stai dicendo che non dico mai la verità.» «Bob, io non lo so… Non so come fai a stare con me. Io che mi dimentico il nome di un gruppo dopo appena un minuto. Io che non so che differenza c’è tra rock e pop. Io che non so l’inglese! Io che ho a malapena finito la terza media.» Elena scoppiò a piangere e si lasciò cadere a terra. Bob si piegò verso di lei e cercò di sollevarla, in tutti i sensi. Niente, non voleva essere sollevata; e continuò a piangere. Bob la guardò. Elena era bellissima anche quando piangeva.

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A conti fatti, l’inaugurazione non era servita a un cazzo. Quanto guadagnato dai dischi venduti copriva appena i costi del catering. Certo, era da ingenui aspettarsi di fare dei profitti proprio all’inaugurazione, ma Bob era ingenuo. E, più di ogni cosa, era spaventato dai debiti. Bob ricordava ancora il giorno che aveva ceduto agli strozzini di Roma. Ricordava il sorriso che aveva fatto Michelino. Le parole rassicuranti e ruffiane che s’era sorbito. Ricordava il bagno di sudore che l’aveva inondato la prima volta che l’Assessore e lo Zingaro erano andati a riscuotere e Bob aveva detto di non aver guadagnato abbastanza quel mese. Ricordava la mano dell’Assessore stringergli la gola. Le minacce urlate a denti stretti. La nuca sbattuta contro gli scaffali. Ricordava persino che come sottofondo c’erano i Pogues. Bob sapeva che i debiti, almeno in linea di principio, sono più connessi al tempo che al denaro. Difatti i debiti hanno una scadenza. Hanno un inizio e dovrebbero avere una fine. È tutta una questione di tempo. E Bob aveva imparato che per guadagnare tempo bastava contrarre un debito con qualcun altro e passare il denaro dalle mani dal nuovo creditore a quelle del vecchio. L’unica persona a cui avrebbe potuto chiedere dei soldi era Giò Casino, nessun altro. «Elena, che dici, aspetto fino alla fine del mese per chiedere un prestito a Giò oppure dici che è meglio farglielo sapere il prima possibile?» «Prima glieli chiedi e meglio è.» «Sì, ma magari in questo mese faccio un po’ di soldi e non ho bisogno di chiede—» «Ok, ma quanto puoi fà?» «I don’t know…» «Bob, quello che voglio dire io è che, anche se fai tanto mica puoi coprire tutto ‘r debbito. So’ più di mille euro. Più l’affitto, e sono altri cento; e le bollette…» «Shit…» A complicare la situazione ci pensò il figlio di Giò Casino, il fabbro. Un pomeriggio si presentò al negozio. Bob stava spazzando e pensava che abbattere il muro tra i due vani era stata una buona idea. Era costata fatica ma ne era valsa la pena. «Ehi, Bob.» «Ciao,» Bob aprì la porta. «Vieni, entra.» «Ciao Bob. Come va?» «Eh, insomma.» «Gl’affari?» «Male.» «Senti. Per quella cosa lì della serratura—» «Lo so, lo so. Però, davvero, appena ce li ho te li do, davvero.» «Bob, sò passèite quèise dù mìse. E sò scechìtte cinguànd’èùre.» «Lo so, ma qui è difficile vendere. E cinquant’euro sono metà affitto di un mese, non credere.» Dall’impianto stereo si sentivano gli acuti delle chitarre distorte dei Black Lips. «Ho capito, però io non posso più aspettare,» il fabbro allargò le braccia. «O me li dai ora, oppure me li dai a fine mese con gl’interessi.» «E quanto sarebbe con gl’interessi?» «A fine mese mi devi dare settantacinque euro.» «Cazzo, il cinquanta percento. Nemmeno gl’usurai.» Detta quella parola, Bob si sentì perso. Gli sembrò d’aver svelato un segreto. Gli venne in mente la frase L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. «Ok,» disse Bob. «A fine mese ti ridò i soldi, con gl’interessi. Contento?»

30 Il fabbro annuì. Guardando il fabbro allontanarsi, Bob si ripromise di non saldare mai quel debito.

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Dal giorno dell’inaugurazione erano passate due settimane. Bob aveva venduto cinque dischi, per un totale di 75 euro. Meglio di niente. Ma non abbastanza. Nemmeno per l’affitto di un mese. Elena si chiedeva quanto avrebbe dovuto aspettare prima di potersi permettere vestiti nuovi, scarpe nuove, una lampada per la camera da letto. Quanto tempo ancora? La situazione stava precipitando. Erano sull’orlo di un abisso, Elena lo sapeva. Elena lo percepiva. Guardando in basso non riusciva a vedere il fondo ma sapeva che non era lontano. Per misurare quella distanza le sarebbe bastato urlare e attendere l’eco, che sarebbe stata immediata. E a spingerla verso il baratro non erano solo i debiti, ma la tragica e sgomenta sensazione d’essere di fronte a un dejà-vu. Con gli strozzini di Roma le cose erano cominciate così. Bob aveva voluto allargare il negozio. Aveva voluto assumere un commesso che lo sostituisse. Aveva voluto arricchire la collezione di vinili introvabili. Le spese s’erano fatte insostenibili. Poi un giorno un amico gli aveva detto che c’era un certo Michelino che poteva aiutarlo. Bob era andato a parlare con quel Michelino e aveva ricevuto un prestito a interessi disumani. Speranze alle stelle che si trasformarono presto in vane aspettative: nemmeno dopo il prestito il negozio andava bene. In più, Bob era sempre indietro coi pagamenti. Gli usurai, invece, erano sempre puntuali. Puntuali e disumani come i loro interessi. Gli usurai minacciavano, promettevano ritorsioni, e mantenevano le promesse. Così avevano dato il negozio alle fiamme, lasciando tracce inequivocabili della natura dolosa dell’incendio. Sapevano che in quel caso l’assicurazione non avrebbe risarcito. Anche Bob lo sapeva. Elena no. Ma nonostante i presentimenti che le affollavano la mente, Elena conservava sane speranze. I debiti contratti a Poggiorsini non erano della stessa entità di quelli di Roma. E i creditori non erano della stessa pasta. Presto avrebbero saldato quei debiti e se ne sarebbero andati in America. Ad Atlanta, Georgia. Lì le cose sarebbero state diverse. Lì avrebbero prosperato. Lì era l’America.

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Era metà luglio e il clima s’era fatto torrido. A pomeriggio non si poteva uscire. E quando Bob, dopo pranzo, se ne andava al negozio, Elena si rintanava in casa di Rossana. Passava il tempo a chiacchierare e a dare una mano alla sua amica, che viveva con i genitori e le sorelle. Ogni volta che stava lì, però, si sentiva opprimere dal peso dei debiti che aveva contratto con loro. Si sentiva sporca, colpevole, inadeguata. Soprattutto con la madre di Rossana, che s’era offerta di darle una mano come atto di carità cristiana, non tanto come prestito. Le sorelle di Rossana, poi, non erano certo d’aiuto. Due vipere acide e pettegole, i visi rattrappiti dall’acredine volgare e vendicativa delle zitelle, insinuavano, alludevano, sghignazzavano a ogni occasione. «Elena tu non ti puoi buttarti giù. Noi siamo donne. Non ci possiamo permettere di buttarci giù,» aveva detto la madre di Rossana per darle coraggio. «Noi donne portiamo avanti la famiglia e la società. Noi non ci possiamo permettere di abbatterci. La fede è importante. Io ho sempre avuto fede. E ora, hai visto? Il Signor’Iddio c’ha fatto trovare questa casa che noi aspettavamo da anni.» “La casa l’avete occupata,” pensò Elena.

31 «E poi ci vogliono sacrifici. Tanti sacrifici. Ché in questa vita non si ottiene niente senza nu poco di sacrifici.» «Eh, ma’,» s’era intromessa una delle due sorelle. «Al mondo d’oggi i sacrifici valgono fino a un certo punto. Tu vedi Elena quant’è bella? Be’, lei, se vuole, può fare quello che vuole. Al mondo d’oggi, purtroppo, fanno più fortuna le persone di bell’aspetto—specie le donne—e non quelle preparate che hanno studiato come noi e che, magari, diciamo così, magari…» «Magari sono un po’ più bruttine,» aveva concluso l’altra sorella. “Un po’ più bruttine?!” pensò Elena. “Ma se sete du’ racchie.” «Però, questa, figlie mie, non è na cosa nuova. Si sa che le donne si possono approfittarsi del loro corpo per arrivare dove vogliono: ma mica è la cosa giusta da fare.» I pomeriggi passavano così. Il caldo fuori a immobilizzare l’intero paese, Bob al negozio, Elena a covare speranze e a sorbirsi le chiacchiere della famiglia tutta al femminile—ma poco femminile—di Rossana. Dopo il terzo caffè freddo, Elena se ne tornò a casa. Era stanca di sentire la voce squillante di Rossana. Sfinita e turbata dalle strane insinuazioni delle sue sorelle. Le dispiaceva solo lasciare la madre di Rossana, una donna forte, determinata, compassionevole. Una credente—come tutti i credenti—felice. Felice perché tutto, anche le disgrazie, rientravano nel volere divino. Stava per aprire la porta quando Giò Casino la chiamò. Elena si voltò e sorrise. «Ciao Giò, come va?» «Bene Elena, grazie. Tu?» «Eh, insomma,» Elena scrollò le spalle. «Senti, Giò, ma Bob è venuto a parlarti?» «No. Sono stato in casa tutt’il giorno e non è venuto nessuno.» «Lui è ar negozio, ora. Non so, puoi andare tu, se vuoi. Ma non je dire che t’ho detto che ti vòle parlà.» «Non ti preoccupare, figlia mia.» «Ciao Giò.» «Ciao.» Varcando la soglia, Elena si compiacque dell’odore di casa sua. Quello in casa di Rossana era violento e acre. Una puzza, più che un odore. Si sedette al divano. Accese la tv. Solite facce, solite puttanate—spense la tv. La vita era strana. Strana e imprevedibile. Elena non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi lì dov’era. C’era stato un evento particolare che aveva determinato la svolta drastica delle loro vite? E qual era? Aver contratto debiti con degli usurai? O anche quello faceva parte del loro destino? Esisteva, il destino? E Atlanta? Era una chimera o l’orizzonte del loro destino? Elena s’addormentò. Venne svegliata qualche ora più tardi da schiamazzi che rimbombavano nelle scale. Aprì la porta e s’affacciò per capire che succedeva. Dai piani superiori sentì il ragazzino strigliato da Bob urlare contro la madre. Le dava della puttana, la mandava affanculo, giurava che se ne sarebbe andato una volta per tutte e che non l’avrebbero più rivisto. La madre si limitava a piangere e guaire. E tra un lamento e un singhiozzo prometteva che c’avrebbe pensato il padre a conciarlo per le feste. Sentito il ragazzino scendere le scale con furia, Elena rientrò in casa. Chiuse la porta e restò lì, spaventata, a mordersi il labbro inferiore.

Elena decise di sistemare la casa. Partì con le polveri. Partì dalla camera da letto. I campi di grano erano di un giallo accecante. Elena si chiese quale diverso panorama avrebbe visto una volta mietuto. Quanto tempo ancora? Cosa stavano aspettando i contadini? Spolverò salotto e cucina; spazzò e lavò i pavimenti. Le esalazioni di candeggina la stordirono per qualche secondo. Pensò di aprire le finestre ma sapeva che assieme all’aria sarebbe entrata la polvere. Niente da fare. Per ultimo si lasciò il bagno. Pulito il bagno, sudata, si spogliò. Una doccia era quello che ci voleva.

32 Mentre godeva sotto lo scroscio d’acqua, pensò a quello che avrebbe fatto il giorno dopo. Non avrebbe certo potuto pulire di nuovo la casa. Ma che fare? Come spezzare la monotonia e sfuggire alla pigrizia? Come aiutare Bob a saldare i debiti? Come fare a saldare i suoi debiti? Un modo per cominciare a risollevarsi era cancellare il debito col mini-market del paese. Una centinaia d’euro. E per cancellare il debito senza pagare il debito le sarebbe bastato depennare il suo nome dal quaderno dei crediti. Era sempre lì, a portata di mano, sotto la cassa. Un quaderno dalla copertina celeste ormai sbiadita, le pagine ingiallite, ondulate, fitte di nomi e cifre. Un quaderno tanto logoro quanto temuto. Era da quel quaderno che il proprietario del mini-market traeva la sua prepotenza, le sue frecciatine. Sarebbe stato molto rischioso prendere il quaderno da sotto la cassa, mentre Uccio il Rabbino era dietro il banco dei salumi, e con una penna cancellare il suo nome. Rischiava di farsi beccare in flagrante. E se fosse riuscita a non farsi beccare, depennare soltanto il suo nome avrebbe potuto destare sospetti. Uccio si sarebbe ricordato di non aver ricevuto soldi da lei. Infine, se doveva prendere il quaderno da sotto la cassa, impugnare una penna, cercare il suo nome nella lista e cancellarlo, allora valeva la pena infilarsi il quaderno in borsa e buonanotte. Avrebbe anche fatto un favore alla gente di Poggiorsini. Elena rivide suo padre davanti a sé. Tutte quelle volte che le aveva parlato di Robin Hood, degli eroi popolari, del rubare ai ricchi per dare ai poveri. Elena si fissò allo specchio. A parte il luccichio degli occhi verdi, si meravigliò del ghigno strafottente che le incrinava le labbra. Ebbrezza mista a tensione. La stessa sensazione che aveva provato quando erano scappati da Roma. Quello doveva essere lo stato d’animo e mentale in cui aveva vissuto suo padre. Ecco perché tutti parlavano bene di lui pur essendo stato un ladro. Perché lui rubava per un motivo. O meglio, per una causa. Elena aveva deciso. La sua missione sarebbe stata quella. Rubare il quaderno dal mini-market e cancellare i debiti dell’intero paese. Un modo per sentirsi una bandita, una fuorilegge. Un modo per sentirsi come suo padre.

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«Pensa che molti neri protestarono contro i Rolling Stones. Essì. Dicevano che avevano rubato la musica dei loro padri; che si stavano arricchendo alle loro spalle. È chiaro che i neri si ribellavano anche per altre cose, diciamo così, sociali, no?, economiche. Però non dimenticare che quelli erano gl’anni Sessanta e all’epoca ogni giorno esplodeva ‘na protesta nuova. E anche nel rock successe che—Ehi Giò!» Il giovane che stava ascoltando Bob maledisse Giò Casino. Era certo che Bob, finita la tiritera, gl’avrebbe regalato qualcosa, un disco, un cd, un poster. Ma con l’ingresso di Giò, il giovane disse addio alle sue speranze. «Ciao Rob. Tutt’apposto?» «Sì.» Si strinsero la mano. «E questo giovanotto chi è?» disse Giò avvicinandosi a lui. «A ce sì fìgghie?» «Sono il nipote di Gino del tabacchino, Antonio.» «Ah!» disse Giò. «Tua madre è calabrese, névvére?» «Sì.» «Ho capito, ho capito…» «Beh, Bob, io me ne vado, ci vediamo un’altra volta.» «Ok, dai. E ascoltati i primi due album dei Rolling Stones. Le canzoni sono quasi tutte cover di brani rhythm & blues. Così capisci quello che stavo dicendo e capisci pure da dove è cominciato tutto.» «Ma che stavi facendo, Rob, ‘na lezione?» chiese Giò. «No, è che lui è interessato e a me mi piace diffondere, capito?» «No, figurati. È un bene quello che fai. Ma almeno fatti pagare.» «See,» disse Bob. «Qui è un bordello, altrochè.»

33 Bob accese una sigaretta. Si sedette dietro il banco. Giò finse di scorrere dei vinili in attesa che Bob parlasse. «Ma si può fumare qui dentro?» chiese Giò. «No. Però chi deve venire?» «Non si sa mai.» «È vero, però, sai…» Bob non finì la frase. Non ce n’era bisogno. Bob non sapeva da dove cominciare. Non sapeva se dire a Giò dell’insistenza del figlio. Non sapeva che parole usare: “aiuto” o “prestito”? Doveva dirgli che non vendeva granché e che stare nel taschino di DeBellis lo faceva sentire un animale braccato? «Senti Giò,» si fece coraggio. «Io ti volevo chiedere un favore.» «Dimmi Rob, ciòcche è succìsse?» «Niente, è che le cose non vanno bene,» disse Bob. «Nel senso, so’ contento d’avere il negozio e forse se continuo a far conoscere ai giovani di Poggiorsini un po’ di rock, magari qualcosa si muove, nel senso che si sparge la voce e quelli s’interessano a comprare qualcosa, però sai com’è? Quelli, i giovani, preferiscono scaricare gratis centinaia di canzoni da internet invece di spendere quindici euro per un vinile di nove-dieci canzoni, che non sanno nemmeno dove ascoltare. Cioè, Giò, non ci sono giradischi nelle case di oggi, capito?» «Ma queste cose, Bob, le sapevi anghe prima di aprire, névvére?» «Sicuro. Però, Giò, questo è quello che voglio fare,» disse Bob. «Vendere rock—rock di qualità, non solo come gruppi eccetera, anche come qualità del suono, del prodotto in sé, del disco.» «Ho capito,» disse Giò. «Allora forse devi abbassare i prezzi.» «Abbassare? Ma se li sto svendendo. E se poi li abbasso vendo un disco in più ma guadagno meno soldi. E allora non serve a niente.» Bob spense la sigaretta. Si grattò il naso prima di riprendere a parlare. Giò lo guardava come tante volte aveva guardato suo figlio. «Giò, tu non è che mi puoi dare un aiuto? Non è che mi puoi prestare qualcosa almeno per pagare i debiti a DeBellis? Guarda, ti prometto che ti ridò tutto indietro il prima possibile.» «Rob, figlio mio, io ti darei ‘na mano più che volentieri,» disse Giò. «Ma però devi capire che io cambo co’ la penzione. Non sono mica Nicola DeBellis. Certo, quacche cosa ce l’ho, ma so’ cose che stanno lì per essere divise ‘na volta che consegno le targhe. Non so se me capìsce a mmé?» «Certo che ti capisco,» disse Bob. «E mi dispiace pure—mi vergogno a chiederti ‘na cosa del genere. Però io devo dare più di mille euro alla fine del mese a DeBellis. E poi c’è l’affitto, e so’ altri cento euro, e le bollette, che non so quanto sono, e ho paura che se non pago, quello mi toglie il negozio e magari mi fa pure causa. E poi, sai, c’è pure tuo figlio…» «Mio figlio?» «Sì, per quando c’ha cambiato la serratura.» «A mio figlio ci penso io, non ti preoccupare.» «No, Giò, non voglio che ci pensi tu. Se mi puoi prestare qualcosa, allora—» «Ji nàn le tènghe ‘sti sòlde—non ce li ho, come te lo devo dire? Ti posso imbrestare quaccosa e se vuoi posso parlare con mio figlio e vedere se riesco a farlo scendere. Magari da dargli quaranta vedo se riesco a—» «Ma che quaranta e quaranta. Giò, tuo figlio m’ha chiesto pure gl’interessi.» «Gl’interessi?» disse Giò. Com’era possibile? La carne della sua carne, il sangue del suo sangue, contagiato dall’avidità? «E che s’è messo a fare, lo strozzino?» Bob tremò sottocute. Le pupille si dilatarono. «Vuole settantacinque euro entro la fine del mese.» «Settantacinque euro pe’ ‘na serratura?!» «Giò, te l’ho detto,» disse Bob. «Ho proprio bisogno d’una mano.» «Sìnde a mmé, Bob,» disse Giò. «Visto che non vuoi che sistemo la situazione con mio figlio—e capisco che lo fai per orgoglio—facciamo che almeno gli chiedo d’aspettare nu poco di più. Tanto lui è sempre stato ritardatario. Sempre. E se ora ritardi tu, deve capire. Eh, che dici?» «Guarda, Giò, quello già sarebbe qualcosa.»

34 «Po crè matíne prelevo dalla banca quello che posso e te lo do. Ma non posso fare tanto, è meglio che lo sai da mo.» «Giò, sei un amico.» Bob abbracciò il vecchio Giò come non aveva mai abbracciato nemmeno suo padre.

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Elena entrò nel mini-market che erano le 7. Non c’era nessuno. Si guardò alle spalle. Si guardò intorno. Nessuno. Lanciò un’occhiata furtiva al quaderno. Era lì, celeste, sbiadito, gonfio. Fece una panoramica del negozio. A sinistra: scaffali di saponi ammorbidenti e detersivi. A destra: pacchi di cracker fette biscottate e patatine. Di fronte a lei lo scaffale lungo e largo che divideva il negozio in due. Un’altra occhiata al quaderno, sguardo a destra e sguardo a sinistra. Doveva prenderlo e doveva prenderlo ora. Si piegò silenziosa sulla cassa e allungò il braccio. Con la punta delle dita sfiorò il quaderno. Pensò all’eventualità che ci fosse un secondo quaderno, una copia. Era possibile, certo, ma molto improbabile. Lo prese e lo infilò in borsa. Non poteva uscire, ora. Non doveva uscire. Doveva restare. La missione era quasi compiuta. Il di più era fatto. In percentuali, il 90%. Si diresse verso il banco dei salumi. Respiri profondi, passi incerti. Uccio il Rabbino era lì che sgrassava il bordo di un prosciutto crudo. Quando la notò sorrise ammiccante. «’Sera signorina Elena.» «Signora,» disse lei. Elena tremava e sentiva il cuore sfondarle il torace. Il seno sinistro doveva apparire più gonfio del destro. «Scusi,» disse Uccio, «ma lei è così bella e giovane che mi riesce difficile—» «Ce l’hai la caciotta?» disse Elena. L’idea era di chiedere un formaggio tipico di Roma che forse lì a Poggiorsini non arrivava. Quando poi il tipo avrebbe detto no, Elena si sarebbe scusata dicendo d’aver bisogno proprio di quel formaggio. «Sì, eccome,» disse Uccio. «C’ho due qualità.» Cazzo, Elena non s’era preparata a ricevere quella risposta. «Ok… ehm… allora… Fammi duecento grammi di quella più morbida…» Cosa fare ora? Cosa inventarsi? Soldi per pagare il formaggio non ne aveva. Avrebbe dovuto chiedergli di segnare. Segnare nel quaderno celeste. In quel quaderno. Il quaderno che lei aveva in borsa. «Oh madonna che scema!» disse Elena colpendosi la fronte con la mano. «Ho lasciato l’acqua sul fuoco.» Il cuore batteva forte. Elena lo sentiva in gola. La tensione le pressava il petto. Era a un passo dal portare a termine la sua missione. Come una fuorilegge, una bandita. Come suo padre. Elena aveva rubato il quaderno. Era lì, nella sua borsa. Bastava andarsene, ora. «Scusa,» disse. Diede le spalle a Uccio e se ne andò frettolosa. L’uomo la seguì uscire. Le osservò bene il culo, le gambe, la soavità del suo incedere. Pensò alle gambe tozze di sua moglie. Al culo di sua moglie. Un culo che lei stessa chiamava “tribunale” per quanto era largo. Uccio pensò all’ultima volta che avevano scopato. Chiuse gl’occhi e vide Elena nuda davanti a sé. Riaprì gl’occhi, rimise a posto la caciotta e riprese a lavorare il prosciutto. Con un sorriso sardonico stampato in faccia, immaginò di sgrassare il culone della moglie. Scosse la testa con un brivido d’orrore.

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Il 20 luglio a mezzogiorno venne rilasciato dal carcere di Trani Renato Consuelo, di anni 38, conosciuto come “DDT”. Era stato condannato a otto anni. Traffico internazionale di stupefacenti con recidiva aggravata. Arrivò a casa dei genitori verso le 3. Faceva caldo. Sua madre svenne per il bene della sceneggiata; suo padre asciugò le lacrime dell’occhio buono mentre quello artificiale luccicò vitreo. Renato mangiò qualcosa e uscì. Voleva farsi vedere. Farsi vedere vivo. Ancora lì. Colpito ma non abbattuto. Piegato ma non spezzato. Pronto a ricominciare. L’asfalto era bollente. Con un’andatura strafottente—la sua—cavalcava il Corso in canottiera bianca. Ragnatele sui gomiti, una sirena giunonica sull’avambraccio destro, una pergamena sul sinistro con su scritto CHI MI AMA MI SEGUE, un Cristo qua e il volto di una tigre là. Due o tre Bruce Lee incazzati neri. Nomi scritti in corsivo. Nomi scritti in sanscrito. Le lettere DDT in forme e stili vari. Una geisha sulla schiena. Pistole, carte da poker, lupi mannari. Un anello d’oro, due bracciali d’argento e due collane. I gioielli tintinnavano e riflettevano i raggi del sole. POGGIORock. Un nome strano. Un negozio nuovo. L’unica vera novità in paese. Dopo tre anni tutto era rimasto uguale e identico. Solo quel negozio nuovo. Con quel nome strano. Renato rimase qualche istante sul marciapiede opposto a Poggio Rock. Osservava da lontano, cambiando il piede d’appoggio in continuazione come al solito. Rapido e nervoso. Voleva farsi un’idea prima di avvicinarsi. Era abituato a fare così. Anche quando viveva, DDT lavorava. Era sempre guardingo, diffidente, avveduto. Ma era anche irascibile e nevrastenico. Apprezzò la porta verniciata di nero. Lì in paese non c’era mai stato un negozio con le porte verniciate di nero. Osservò l’insegna a lungo. Doveva essere provvisoria. Un negozio non poteva avere un’insegna in compensato disegnata coi pennarelli. Iniziativa lodevole, però. Il negozio dava un tocco di modernità a Poggiorsini, non c’erano dubbi. Bob stava ascoltando e cantando She’s my best friend dei Velvet Underground.

If you want to see me Sorry but I’m not around If you want to be me Turn around I’m by the window where the light is

Portava il tempo: piede destro a terra, mano destra sulla coscia, mano sinistra sul bancone. Come la batterista. Come Maureen Tucker. Certo, lei era una donna. Ma a capigliatura c’eravamo. E anche a statura. Poi, per come si sballava all’epoca, Lou Reed non si sarebbe accorto di niente.

She’s my best friend Better than a dog or car She’s my best friend Understands me when I’m fallin’ down, down, do—

37 «È permesso?» disse Renato. Aveva aperto la porta e infilato la testa all’interno. «Prego, prego,» disse Bob, colto di sorpresa. «’Giorno.» «Prego,» disse Bob. «Prego.» «Bel negozio.» «Grazie.» «Questi qui sono i… Gun Club?» «No,» disse Bob. «Sono i Velvet Underground.» «Non li conosco.» «Però conosce i Gun Club. Wow!» «No, non conosco nemmeno quelli.» «Ah…» «È solo che ho visto ‘sto disco qua sopra,» Renato indicò il leggio e cambiò piede d’appoggio, «e ho pensato che erano loro.» «È vero, scusi,» disse Bob. «Infatti ‘sto leggio serve proprio a mostrare il disco che sto suonando. Però ero solo e stavo ascoltando altre cose, e mi so’ scordato di cambiarlo.» «Non è un problema,» disse Renato. Camminava lento. Il passo felpato. Pareva che stesse misurando la stanza o che non riuscisse a star fermo. Rasentò gli scaffali guardando in alto e negli angoli. «Hai aperto da poco?» «Sì e no ‘na ventina di giorni.» «Bene. Sì, sì.» «È ok, allora, se metto quel disco lì, dei Gun Club?» «E mi chiedi il permesso a me?!» «No, così. Ok. Questa è una delle canzoni punk-rock più belle del periodo post-punk.» Renato non capì. Renato sapeva che non erano informazioni rilevanti. Se una canzone è bella è bella. Chi se ne frega del genere o del periodo. Partì Sex Beat. Il volume a un quarto di giro. «È ovvio che il suono del vinile è tutta un’altra cosa,» disse Bob. Renato ascoltava con gli occhi al soffitto, senza capire le parole. Bob scuoteva il capo a ritmo e muoveva le labbra ripetendole a memoria. Renato lo notò e si sorprese. Quel tipo lì sapeva così bene l’inglese? «Non capisco quello che dice,» disse DDT. «Non so l’inglese.» «Senta qua,» disse Bob, e cantò assieme a Jeffrey Lee Pierce, scandendo bene le parole, convinto che Renato potesse intuirne qualcuna.

I, I know your reasons And I, I know your goals We can fuck forever But you will never get my soul

«Ha capito?» domandò Bob. «No.» «Ha detto So le tue ragioni e so i tuoi obiettivi. Possiamo scopare per sempre ma non avrai mai la mia anima.» «Bellissima,» disse Renato. «Mi devo fare un tatuaggio co’ ‘sta frase. Sai,» disegnò un arco sul pube, «proprio qui. Così appena una ti fa un pompino, quella legge e capisce come sei fatto. A meno che non te lo fai fare da un’analfabeta…» Renato scoppiò a ridere. Bob sorrise e per qualche secondo s’incantò a guardare i tatuaggi di Renato. «Ehi, dimmi un po’,» disse Renato quando la canzone finì. «Come mai sai così bene l’inglese?» «Sono nato in America,» disse Bob. «Ad Atlanta, Georgia, nel sud-est, sopra la Florida. Atlanta è la città della Coca-Cola. Nel ’96 hanno fatto le Olimpiadi lì. E, poi, a parte essere, appunto, la mia città natale, è la città dei Black Lips, uno dei miei gruppi contemporanei preferiti.»

38 «Ahaa. Eh allora, dai, consigliami qualche disco. Dai, mi voglio aggiornare un poco.» «Ehm… Io posso consigliare, però se ti piace—se le piace o no dipende anche da che musica ascolta di solito.» «Allora, facciamo così. Io sono Renato Consuelo, piacere.» «Piacere, Bob.» Si strinsero la mano. Renato strinse forte. Bob meno. «Bob. Ok Bob. Ora magari mi puoi anche dare del tu, che a me quel lei non mi piace. Mi sa di tribunale, d’avvocati.» «Ok.» «Allora, a me mi piacciono alcuni cantanti italiani, tipo Vasco, i Litfiba, i Nomadi. Di stranieri non sono un esperto, anche se qualcosa la conosco. Per dire, mi piacciono i Dire Straits, i Genesis, iii… i Supertramp, gli Yes. Non so se sono gruppi che conosci o che vendi, però diciamo che io non sono un patito di musica. Ascolto qualcosa, ma niente di che. Però mio padre c’ha un vecchio giradischi. Allora magari posso pure prendere delle cose nuove e farmi ‘na cultura.» Genesis, Yes, Supertramp. Gruppi progressive rock che Bob snobbava. Progressive shit, come diceva lui. «Guarda, Renato, secondo me potresti cominciare con gruppi molto conosciuti di cui però conosci solo le canzoni più famose.» Bob stoppò la musica e cambiò album. Non schiacciò play, però. «Potresti cominciare tipo coi Rolling Stones o gli Animals o gli Zombies. Non nomino i Beatles perché forse li conosci meglio e non ti va d’addentrarti di più. Anche se, secondo me, rimangono uno dei migliori gruppi di sempre. Pure con le canzonette dell’inizio. Ora, senti questa canzone e dimmi cosa ne pensi.» Bob prese il vinile di Hot Rocks 1964–1971 dallo scaffale e lo poggiò sul leggio. «Questo è un album doppio. Ci sono due dischi, ventuno canzoni. Spettacolare. Dura più di ottanta minuti. Con questo sì che—come dici tu—ti fai ‘na cultura.» «Eh, dimmi un po’, quant’è che viene?» domandò Renato. «Questo viene ventotto, ma te lo posso fare a venticinque.» «No, ventotto va bene,» disse DDT. «Voglio sostenere l’economia poggiorsinese.» Bob fece partire Get off of my cloud. Alzò il volume fino a metà. Renato sembrava apprezzare. Bob accese una sigaretta e ne offrì una a Renato. Fumarono senza parlare. Ascoltavano e basta. «La prossima canzone parla di droghe, di psicofarmaci,» disse Bob alla fine del pezzo. Mise in pausa il computer. «Del consumo di droghe delle madri. Diciamo che si riferiva e si riferisce di più a società come quella americana o inglese, dove tante, specie in America, tante persone—soprattutto madri e ragazzini— prendono ‘sto tipo di droghe. Sai, li chiamano psicofarmaci, ma quelle sempre droghe sono. Senti, senti…» Bob fece partire Mother’s little helper.

What a drag it is getting old “Kids are different today” I hear every mother say Mother needs something today to calm her down And though she’s not really ill There’s a little yellow pill She goes running for the shelter of a mother’s little helper And it helps her on her way, gets her through her busy day

Finita Let’s spend the night together Renato convinse Bob a prendersi una pausa. Lo convinse ad andare al bar con lui. Lì DDT venne salutato con tanto di pacche sulle spalle e felicitazioni. Un eroe di ritorno dalla guerra. Deferenza e ruffianeria. «Ehi, lo conoscete tutti Bob…?» chiese Renato.

39 «Sicuro,» dissero in molti. «Bob, tutt’apposto?» chiese Carlo. «Il negozio come va?» «Insomma, dai, non mi lamento,» rispose Bob. «Ehi, Carlo, dimmi un po’,» disse Renato. «Che birre hai?» «Le solite,» disse Carlo. «Le solite? Ma l’avete sentito? Carlo! Tu devi imparare qualcosa da Bob,» Renato cambiò piede d’appoggio un paio di volte. «Devi imparare da lui come si fa business. Devi vedere come m’ha rincoglionito! E io gl’ho comprato due dischi. E uno dei due è pure doppio, che costa di più. Altro che le solite. Questo sì che sa vendere!» DDT abbracciò Bob con un braccio solo e lo tirò a sé. Bob sorrideva imbarazzato. «In nemmeno mezz’ora m’ha detto la storia del rock e m’ha venduto ‘sti dischi qua,» sollevò la busta coi due dischi. «Jè nu chitèmmurte!»

«Sei stato fuori paese per parecchio?» chiese Bob quando erano in strada a fumare. «Sì, sono cinque-sei anni che non vengo qui,» disse Renato. «Cioè, so’ venuto tre anni fa quand’è morto mio fratello, ma, sai, in quei momenti è tutto diverso.» «M’immagino. Mi dispiace.» «E che ci puoi fare? È la vita.» «Però qui ti vogliono bene,» Bob cercò di cambiare discorso. «Tutti ti salutano. Cazzo, è bello, no?» «Sì, diciamo di sì.» «E dov’è che sei stato?» «A Trani.» «Ah, sulla costa. Dicono che è bella la costa della Puglia. Io non ci sono ancora stato.» «È bellissima,» disse Renato. «Poi un giorno di questi c’andiamo insieme. Conosco un sacco di gente. E quante fighe! Madonna mia, tu non hai idea.» «Ok, però io sono sposato.» «E che fa? Ogni uomo ha le sue debolezze.» Bob non era d’accordo. Bob non avrebbe mai voluto tradire Elena. Gli bastava averlo fatto il giorno dell’addio al celibato. Quella serata di merda in quel night di merda. Ubriaco con quella spogliarellista dell’Est. «E tu sei sposato?» Bob spense la sigaretta. «Io? Nooo…» disse Renato. «Allora è diverso.» «Mah, insomma. Tu puoi fare l’uno e l’altro; io posso fare solo uno.» «Comunque, dai, torno al negozio. Tu vieni quando vuoi. Io sto sempre lì,» disse Bob. «Grazie della birra e per aver comprato i dischi. E grazie pure della compagnia.» «Bob, tu ringrazi troppo,» disse Renato, intimidatorio, come se Bob gl’avesse fatto uno sgarro. «Tu mi puoi imparare tanto, di sicuro. Sulla musica, sull’inglese, sulla cultura. Ma io ti posso imparare a stare al mondo, non te lo scordare.»

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Bob guardava Elena attraverso la tenda della finestra. Era bellissima. Ogni volta che litigavano diventava persino più bella. La vedeva levitare, creatura speciale, donna unica. Quando s’arrabbiava acquistava un’indipendenza animalesca così arrapante. Una macchina imboccò lo stradone. Bob sentì i giri del motore salire, poi scendere, scendere, fino a fermarsi. Attraverso la tenda, ecco il muso aggressivo della Mercedes Kompressor di Nicola DeBellis. Kompressor. Della serie non c’era nome più aggressivo. Di sicuro Nicola era lì per riscuotere. Mancava una settimana alla fine del mese, però Bob i soldi per DeBellis non ce li aveva. Non tutti. Un contentino sì, ma non tutti. 300 ora, 300 a metà agosto, 300 a fine agosto, e così via fino a coprire l’intero debito. Questa era l’idea di Bob. Un’idea che non sarebbe piaciuta a Nicola. L’alternativa? Lasciare Poggio Rock. E in quel caso Nicola non avrebbe visto nulla, nemmeno i 300 di ora. DeBellis stava parlando con Elena. Forse stava facendo pressione su di lei affinché Bob pagasse. Di sicuro la stava corteggiando, gl’occhi incollati sulle sue curve. Elena scosse la testa e Nicola sorrise. Poi anche Elena sorrise, abbassò lo sguardo, e a Nicola si mosse qualcosa nei pantaloni. Elena lanciò uno sguardo alla finestra. Voleva essere certa che Bob non la stesse osservando. Lei non lo vide, lui sì. Bob avvertì un pungente brivido di gelosia corrergli lungo la schiena. Decise d’uscire e spalancò la por— «Jesus Christ!» si spaventò. «Giò…»—prese fiato—«Madonna mia…» Giò Casino era lì, una mano pronta per bussare, l’altra stretta al bastone. «Bob, scusa se t’ho spavèndàte. Stavo proprio venendo da te. Disturbo?» «No. Disturbare no. A momenti mi fai morire, però. Vieni, entra…» «Ma se stav’andando da quacche parte non ti preoccupare,» Giò fece un passo avanti. «Posso venire ‘n’altra volta.» «No, è che Elena è fuori con DeBellis e stavo andando a chiamarla,» disse Bob. «Ma non ti preoccupare, vieni, entra, siediti.» «Madonna benedetta! Ma quello a tua moglie non la lascia mai in pace. E che è! S’attacca come ‘na zecca. Vai, Rob, valla a chiamare.» «Aspetta,» Bob s’appostò accanto all’altra finestra. Da quella posizione li vedeva meglio. Giò Casino si sedette. Bob si passò una mano tra i capelli. Pensò a quando Elena glieli accarezzava. «Quello è venuto di sicuro per i soldi. Però io non glieli do fino a che non me li chiede a me di persona. Se esco, glieli devo dare.» «Ma scusa, Rob, e i soldi che t’ho prestato io?» «Ce li ho. Ma più tardi glieli do e meglio è.» Nicola parlava e rideva. Fumava e sorrideva. Squadrava Elena senza pudore e ammiccava. «Che gli sta a dire?» chiese Giò. «Non lo so,» disse Bob, fissando Elena e Nicola. Gelosia, nervosismo, frustrazione, disappunto. Passarono cinque minuti.

41 Giò Casino blaterava. Bob lo sentiva ma non lo ascoltava. Bob guardava fuori dalla finestra. Bob era fuori dalla finestra. Elena aveva le braccia conserte, ora. Fissava DeBellis che era entrato in macchina. DeBellis diede due colpi d’acceleratore. Il rombo della Kompressor risuonò aggressivo. Nicola aveva la mano destra sul volante e guardava Elena. Con la sinistra mimò la cornetta del telefono. «Fammi sapere,» disse. «Non te lo scordare.» «La questione è che—» Bob fece cenno a Giò di tacere. Elena si piegò sulle ginocchia e si sedette sui talloni. Stette lì a pensare, in lacrime. «Vai avanti va’,» Bob incitò Giò una volta accortosi che Elena stava rientrando. «Niente, stavo dicendo che diciamo che sono venuto anche per dirti che—» Elena lo interruppe bussando. «Ma oggi non si può proprio parlare!» disse Giò Casino. «Aspetta Giò, è Elena.» Appena in casa, Elena esplose in un singhiozzo e tirò su col naso. «Che succede?» chiese Bob. «Gnente,» disse lei. «Non sto tanto bene e devo andare in bagno. Ciao Giò. Scusa.» «Macché, figlia mia, e che ti scusi?! Sei in casa tua. Al massimo sono io che mi devo scusare. Anzi, tolgo il disturbo,» Giò s’aggrappò al tavolo cercando di sollevarsi dalla sedia. «No, Giò,» disse lei. «Ho bisogno di stare un po’ da sola, e se resti gli tieni compagnia.» «Come dici tu, figlia mia,» disse Giò. «Sei sicura che va tutto bene?» disse Bob. Elena gli passò una mano sulla guancia. «Sì,» disse, e se n’andò in bagno. «Che t’ha detto quello?» chiese Bob, non soddisfatto della carezza. «Niente, niente. Poi ne parliamo…» disse lei dal bagno. Alle orecchie di Bob la voce di Elena sembrò la voce di qualcun’altra. Quella casa, la casa di qualcun altro. Il vecchio davanti a sé, uno sconosciuto impiccione e decrepito. Si sentì perso e inadeguato in quel suo corpo tozzo. Il respiro pesante, il respiro di un polmone artificiale, di una macchina. In quel momento avrebbe fatto a meno di vivere. «Le donne sono strane,» ruppe il sortilegio Giò Casino. «Certe volte è proprio ‘mbossìbbele a capirle. E te lo dice un Don Giovanni di nome e di fatto! Chiedi in giro. Chiedi com’era Giò Casino quand’era giovane, senti che ti dicono. A meno che non lo chiedi a dei rimbambiti invidiosi. Che ce n’abbiamo tanti, noi, qui, di rimbambiti invidiosi. E quello che ti posso dire io è che le donne sono un mistero. Sono come un fiume. Sembre pieno d’acqua, ma l’acqua non è mai la stessa. Ehi Bob, e allora? Te ne stai lì com’un fesso. Prendi quaccosa da bere. Ce l’hai un po’ di vino mio?» «C’ho la damigiana che m’hai dato due settimane fa.» «Angòre ddé la tìne! E che è, lo vuoi fare invecchiare il vino? Prendi due bicchieri, mo,» Giò si passò il dorso rugoso della mano sulle labbra. Poi con la lingua le inumidì e ancora se le asciugò col dorso della mano. Bob ritornò dallo sgabuzzino con la damigiana in mano. La poggiò sul tavolo. Prese due bicchieri e li riempì. Giò Casino, il bicchiere in alto, brindò alle donne e al loro mistero. Ingollò il vino in un sorso solo e dondolò il bicchiere vuoto davanti agli occhi di Bob. Bob scolò il suo e riempì i bicchieri una seconda volta. «Rob. Sono venuto per dirti che ho parlato con mio figlio. L’ho convinto ad aspettare fino alla Festa della Madonna.» «E quando sarebbe?» domandò Bob. «Il nove e dieci agosto.» «Ok.» «Per quel giorno ce li avrai i soldi che devi dare a mio figlio?» «Penso di sì.» Giò scolò il bicchiere di vino. Bob fece altrettanto. Faceva caldo. Molto caldo. Il vino rosso aggiungeva calore interno a quello esterno.

42 «Figlio mio, tu ti sei andato a ‘mmischiare con la persona sbagliata,» disse Giò, fissando Bob mentre riempiva i bicchieri. «Quel DeBellis è mezzo matto. Mo ti racconto ‘na storia. Hai visto che c’ha tanti peli sulle braccia ma niente in faccia o sul petto? L’hai notato?» Bob annuì. «Eh. Dice che anni fa, era morto da poco il padre di Nicola—nu vetepèrie pèisce du fìgghie—e dice che lui stava in campagna a controllare gli operai che raccoglievano il tabacco—ché prima qui si piantava il tabacco, tanto tabacco—e siccome non c’ha mai avuto voglia di lavorare, proprio come il padre, allora se ne stava sul trattore a condrollare e a prendere il sóle. Lui, l’hai visto, c’ha la pelle bianga-bianga e non s’abbrònze facilmènde. Allora, al posto di mettere quelle creme che si vendono per quando si va al mare, no?, lui, invece delle creme, dice che si mette olio di rifiuto. Sai l’olio nero-nero che si cambia alle macchine? Beh, quello. Se lo spalma in faccia e sul petto. Olio di rifiuto. E dice che lo stava mettendo pure sulle braccia quando poi gl’è caduta la tanica e non se l’è messo più. Beh, il sole e l’olio gl’hanno bruciato tutto. Tutto! I peli non crescono più. Niente di niente. E lui va dicendo in giro che l’ha fatto così non si deve fare più la barba—ma vattìnne vè!» Giò si prese una pausa. Bevve il suo vino. Bob era confuso. Quella storia era tanto banale quanto assurda. Una tipica storia di paese. Bob rivide il volto glabro di Nicola DeBellis, i suoi occhi di ghiaccio, le labbra carnose e deformi. I suoi sorrisi sornioni. I capelli brizzolati. La sua faccia di merda. Quella storia doveva essere vera. Nicola DeBellis doveva essere stato tanto stupido da spalmarsi olio di rifiuto in faccia. Elena uscì dal bagno. I capelli bagnati e tirati indietro. Il viso era più disteso di qualche minuto prima. Un alone rossastro le ricopriva le palpebre con la brillantezza di un ombretto. «Bene,» disse Giò Casino, cercando di tirarsi su. «Io tolgo il disturbo.» «No, Giò, non te n’andare,» disse Elena, prendendo un bicchiere. «Bevo un goccio pure io.» «Come dici tu, Elena,» disse Giò. Per distogliere l’attenzione da sé, Elena si lamentò del caldo. Chiese a Giò se quelle erano le temperature massime del periodo e se e quando si sarebbero abbassate. «Eh, figlia mia, non hai ancora visto niente.» «In che senso?» «Nel senso che proprio domani, ventiquattro luglio, comincia il periodo della canicola. Dura fino alla fine di agosto, precisamende fino al vendisei, giorno di sant’Alessandro. Quest’è un periodo particolare e se volete vi racconto quaccosa in più, dato che questa storia della canicola è ‘na storia che mio padre mi raccontava sembre. Lui la sapeva benissimo perché l’aveva letta nei libri—ché lui non era ignorande come tutti quanti qui. No! Lui lavorava alla biblioteca comunale, che poi ‘na trendina d’anni fa crollò quasi completamente per il terremoto dell’Irpinia. E adesso, invece della biblioteca, hanno costruito un centro per anziani. Capito quello biango che sta lì, di fronte al palazzo del comune? Be’, lì c’era la biblioteca e mio padre lavorava lì.» Giò fece un sorso e strinse gl’occhi per arginare le lacrime. «Se volete ve la racconto.» «Sì, dai,» disse Elena, che voleva distrarsi in qualche modo. «Allora, intanto va detto che nell’universo le cose, stelle e pianeti, si muovono anno dopo anno. Mica rimangono sempre nello stesso punto; ed ecco perché forse le date della canicola oggi sono nu poco diverse da quelle che erano ‘na vòlte. Però a me mi piace rimanere con quelle date: uno perché non è detto che sono cambiate di molto; e due perché sono quelle che m’ha imparato mio padre.» Bob e Elena lo fissavano assorti. «Proprio come diceva mio padre,» disse Giò, «bisogna partire dall’origine della parola, da quella che si dice etimogia. Canicola deriva dal latino e significa piccolo cane. Ora voi mi dite Che c’entra un piccolo cane col caldo?, e io vi rispondo subito. Allora,» Giò fece un lungo respiro. Si schiarì la gola e scolò il suo bicchiere. «Però ci vuole nu poco di carburante per raccontare questa storia.» Come aveva fatto in precedenza, dondolò il bicchiere vuoto davanti agli occhi di Bob. Bob finì il suo, prese tra le mani la damigiana e attese che Elena scolasse il suo. Bob rimase immobile, fissandola. Quando anche Elena ebbe finito, le riempì il bicchiere, poi quello di Giò, infine il suo.

43 «Elena, tuo marito è un galantuomo,» disse Giò. «Ha aspettato a te e poi ha versato prima il tuo bicchiere, poi quello mio, e alla fine quello suo. Un vero galantuomo.» «Lo so, lo so,» disse Elena con un sorriso amaro. Le sue labbra erano i petali di una rosa di cristallo. Dei petali che potevano rovinare al suolo a ogni momento. «Salute,» disse Giò Casino. «Salute,» disse Bob. «Alla nostra,» disse Elena. «Allora, stavo dicendo…» Giò riprese il racconto. «Cosa c’entra un piccolo cane col caldo, névvére? C’entra perché in questo periodo—che appunto comingia domani—Sirio, la stella, sorge insieme al sole. Tutt’e due sorgono e tramontano inzieme. Levata eliaca si chiama. Allora, Sirio fa parte della costellazione del Cane Maggiore, che si chiama così perché dice che gl’egiziani quando vedevano quella stella sapevano che arrivavano le inondazioni. Quindi quella costellazione era com’un cane da guardia che avvisava in tempo. Questo non penso che lo sapevate. Ecco! Vìste le cóse ca s’embàrene da Giò Casíne. Allora, siccome che Sirio fa parte di quella costellazione, allora diciamo che i romani chiamavano quella stella la Stella Canicula, proprio perché, diciamo così, fa parte della costellazione del Cane Maggiore. Capito? Be’, penso che già sapete che Sirio è la stella più luminosa che c’abbiamo in cielo. Lo sapevate questo, m’immagino.» «No,» disse Elena, «io non lo sapevo.» «Ma a scuola non v’imparano più niente?!» «Ehm… purtroppo, io, Giò, mi so’ fermata ae medie,» disse Elena. «E tu?» chiese Giò a Bob. «Lo sapevo che era la stella più luminosa. Però non sapevo che stava in quella costellazione.» «Ecco, hai visto che quaccosa s’impara sempre da Giò Casino,» Giò ingollò il vino. «Stavo dicendo. Gl’antichi pensavano che quei giorni—che, ve l’ho detto, vanno da domani al giorno di sant’Alessandro— erano più caldi perché la stella Sirio aggiungeva calore a quello del sole. Ecco perché quel periodo si chiama il periodo della canicola.» «Micidiale,» disse Elena. Giò andò avanti a raccontare quella storia per un’altra ventina di minuti. Aggiunse dettagli e citazioni. Mascherò la sua ignoranza con delle menzogne e riuscì a donare alle menzogne un che di scientifico, di attendibile. E sarebbe andato avanti ancora per molto se il “carburante” non avesse smesso di scorrere dalla damigiana.

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«È incredibile pensare che, come ha detto Giò prima, se ‘na stella quando sorge è spumeggiante vuol dire che porta disgrazie, e se invece non è spumeggiante, allora le cose andranno bene.» Bob e Elena erano seduti al tavolo della cucina. Bob era alticcio. Elena appena-appena brilla. «È vero,» disse Bob, «però ci sono cose che funzionano davvero in base alle stelle e ai pianeti e alla luna. Prendi le maree o le mestruazioni. Oppure quando uno deve seminare qualcosa, no? Di solito dicono che uno aspetta la luna piena.» «Lo so,» disse Elena. «Pure quando ti devi tajà i capelli: mi ricordo che mia nonna diceva sempre che bisognava aspettare la luna. Però, buh, io nun ce credo.» «No, forse nemmeno io ci credo, ma, sai… I don’t know.» «Bob, queste so’ cose che dicevano persone di tanto tempo fa. Cioè, le stesse che credevano che la Terra era piatta. O mi sbaglio?» «No, è vero, c’hai ragione,» disse Bob. «Però, mettiamo che certe cose succedono proprio in coincidenza di queste cose delle stelle eccetera, no? Come fai, in quel caso, a negare che magari ‘na cosa ha un’influenza su un’altra?» «Buh,» disse Elena. «Non lo so. So solo ‘na cosa: quer Giò Casino è ‘n personaggio.» «Davvero. E quanto parla.»

44 «Quanto beve.» «È vero, m’ha fatto quasi ubriacare.» «Sei ubriaco?» «No, però mi sento la faccia calda. Ché già ‘sto caldo è allucinante, se poi c’aggiungi vino rosso tosto come quello, allora ciao.» «Madonna, però è vero che fa caldo. Sembra quasi come il caldo di Roma.» «No, dai, a Roma è più umido e non si respira. Qui un po’ di venticello, almeno la sera, c’è.» Andarono avanti ancora un po’. Stessi temi, stessa flemma, obiettivi diversi. Bob aspettava che Elena sputasse il rospo. Elena sperava di non doverlo mai fare. «Allora,» disse Bob, gli occhi due fessure lucide e rossastre, «che t’ha detto DeBellis? Voleva i soldi, vero?» «Sì.» «E cos’è che t’ha detto che t’ha fatto stare così male?» «Eheee,» disse Elena, «così male.» «Vedi che t’ho visto piangere. E quando sei entrata non eri la donna più felice di questo mondo. Che t’ha detto?» «Niente,» disse Elena. «M’ha detto… ehmmm…» «Che c’è, pure tu, come Giò, hai bisogno di carburante per raccontare?» Elena sorrise. Bob le allargò il sorriso coi pollici. «Sei spettacolare quando sorridi,» disse Bob. Elena abbassò lo sguardo. Bob le sollevò la testa dal mento. Elena scostò la testa, turbata. Anche Nicola DeBellis gliel’aveva sollevata in quel modo. «Puledrina, su, dimmi che t’ha detto.» «Niente, m’ha fatto dei discorsi su di te che non ti fai vedere, che quando avevi bisogno dei sordi pe’ aprì annavi a casa sua e ora nun ce vai mai. Poi m’ha detto che lui non è tanto stronzo da chiede l’interessi, ma che chiunque avrebbe fatto così—» «Seee, proprio chiunque.» «E allora io ho detto che per ora non stai vendendo tanto e che non ci so’ sordi e che c’abbiamo pure noi ê spese, pe’ mangiare, ‘e bollette, l’assicurazione dâ machina, e tutto il resto. E j’ho detto pure che sei ‘na persona che quando ha avuto dei debbiti li ha sempre pagati.» «E perché gl’hai detto ‘na cosa del genere?» «Così, per dire che non sei uno che non paga. Per dire che sei—» «Sì, ma non gli dovevi dire che ho già avuto dei debiti.» «Ahò, io l’ho detto pe’ fatte sembrà affidabbile, mica pe’ parlà male de te.» «I know, I know. E poi, allora, cosa t’ha detto che t’ha fatto stare così?» «Gnente, quando io ho detto che ora non ci so’ sordi e che però speriamo che il negozio va meglio così possiamo ripagare, lui mi fa Però, Elena, io sono stato puntuale e preciso nel dare i soldi, invece Bob sembra che si vuole nascondere, e io gl’ho detto No, dai, non è vero. Anche perché in questo paese è impossibile nascondersi. Lui ha detto che tu, però, se ti serviva più tempo, potevi pure andare a casa sua a chiedejelo.» «Hai capito?» disse Bob. «Vuole proprio che uno si deve umiliare. Deve essere super-chiaro che lui ti ha in pugno. Capito? Lui lavora di psicologia, lo stronzo.» Elena seguì uno stormo di uccelli zigzagare nel cielo limpido. Si morse il labbro inferiore. Voleva dire a Bob ciò che le aveva detto DeBellis. Doveva dire a Bob ciò che le aveva detto DeBellis. Ma che parole usare? Bisognava evitare di turbarlo e, allo stesso tempo, non essere ambigua. Le cose andavano dette per quelle che erano pur lasciando alle parole il potere di ammansire. Bob accese una sigaretta. Il posacenere era pieno. Bob lo prese e andò a svuotarlo in cucina. Tornò con due bicchieri d’acqua. «E il posacenere?» disse Elena. «Shit!» disse Bob e tornò in cucina.

45 Bob si risedette. Fece una lunga boccata fissando Elena. Con lo sguardo le disse d’aver intuito il discorso di DeBellis. Le disse che provava empatia e che l’amava. Bob bevve il bicchiere d’acqua in un sorso solo, e piegando la testa indietro permise alle lacrime di battere in ritirata. Elena colpì la superficie dell’acqua nel suo bicchiere con la punta dell’indice. Attese che i cerchi fossero scomparsi e colpì di nuovo l’acqua. Aveva sete ma non voleva bere. Come Bob, avrebbe sfruttato l’acqua al momento opportuno, per arginare le lacrime o per buttare giù un boccone amaro. Una luce arrendevole penetrava nel salotto attraverso le finestre. Il crepuscolo era vicino. «E poi, allora,» disse Bob, «che altro t’ha detto?» «Niente, m’ha detto Mille euro sono mille euro. Io non sono un benefattore. Io ho fatto un favore. Però rivoglio i soldi indietro al più presto possibile. Non posso più aspettare. Aspetto al massimo fino al giorno della Festa, poi chiudo il negozio, e se sarà il caso, chiamo qualcuno che è più bravo di me a riscuotere i debiti. A me, Bob, mi so’ tremate ‘e ginocchia. E allora io diciamo che l’ho pregato, j’ho detto Dai, Nicola, ti prego, capisci la nostra situazione. Non c’abbiamo sordi, come facciamo a pagare? E allora lui… lui…» Elena tremò sottocute. Si sentì scuotere dall’interno. Un brivido pungente. La pelle d’oca sulle braccia, le gambe, il cuoio capelluto. «Allora m’ha guardato dâ testa ai piedi, m’ha fatto proprio ‘na radiografia, ha fatto l’occhiolino e ha detto… Ma sai quanti modi ci sono per pagare?» «Son-of-a-bitch!» Bob sbatté le mani sul tavolo. Elena sbatté le palpebre. «Io je volevo dà ‘na pizza e mannarlo affanculo, però non ce l’ho fatta, non lo so,» disse, quasi in lacrime. «Mi so’ sentita senza alternative. E, non so perché, ti giuro Bob, non so perché, invece di mandarlo affanculo, gl’ho chiesto—» «Non me lo dire,» disse Bob a occhi chiusi, la testa china, le braccia tese verso Elena, le mani pronte a respingere le sue parole. «Io non volevo, te lo giuro…» disse Elena. «Shut up!» disse Bob. «Ti prego, Bob, credimi! M’è venuto così, solo per sapere—» «Elena, basta! Ma ti rendi conto?! Ti rendi conto di quello che stai dicendo? E ti rendi conto di quello che hai detto?! Cioè, tu hai già accettato.» «Non è vero! Io ho solo chiesto quanto vo—» «E facendo così gl’hai fatto capire che c’è la possibilità, che quella è ‘n’opzione possibile. Ti rendi conto?!» Elena pensò a tutte le volte che s’erano chiesti come avrebbero reagito davanti a una proposta del genere. Ricordò che la prima volta era capitata quando avevano visto Proposta indecente, il film con Demi Moore e Harrison Ford—erano loro gl’attori? Ricordò che quella volta il suo era stato un no categorico. Ricordò che Bob le aveva detto che la vita era imprevedibile e che certe cose bisognava viverle per poter giudicare. E la vita si dimostrava davvero imprevedibile. Bob aveva ragione. Le risposte date in passato impallidivano davanti al cinismo del presente. Il no di Elena? Un piccolo mucchio di polvere: bastava un soffio a farlo scomparire. Bob spense la sigaretta, si alzò e fissò Elena con uno sguardo sconsolato e risentito. Elena bevve d’un sorso il bicchiere d’acqua. Le tremavano le mani. Bob la fissò ancora. Raccolse portafoglio sigarette accendino e chiavi, e uscì di casa.

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Fuori il cielo tendeva al rosso ma il caldo resisteva. Nell’aria una strana sensazione di sospensione. Due merli gracchiavano lì vicino. Notato Bob, spiccarono il volo. Bob li seguì con lo sguardo. Li seguì senza curiosità. Era scosso e stralunato. Il vino di Giò Casino, il caldo, la proposta di DeBellis, la risposta di Elena, le parole di Elena, i merli che pareva l’avessero deriso.

46 Bob accese una sigaretta. I primi tiri furono terribili. Non avrebbe dovuto accenderla. Sentiva il fumo sfiorargli l’esofago e scendere nei polmoni. A ogni boccata nervosismo e rabbia crescevano. Nessuna risposta s’affacciava nella sua mente. Essere il solo uomo a poter avere Elena era il suo unico, personalissimo vanto. Si sentiva un privilegiato. Esplorare quella donna era il privilegio dell’uomo più fortunato del mondo. Però Elena non aveva rigettato d’istinto la proposta. Elena forse l’avrebbe accettata. Il suo ultimo brandello d’autostima gettato a terra e calpestato. Oltraggiato dalle mani le labbra la carne —il sesso di un altro uomo. Bob passò davanti al suo negozio. Si fermò a contemplarlo. Entrare e rotolare a terra in lacrime ascoltando Jealous guy di John Lennon. Questa era l’idea. Prima, però, ci voleva qualche bicchierino. S’avviò disilluso verso il bar. Da una traversa spuntò la solita cagna. Notato Bob, cominciò a scodinzolare. Scuoteva i fianchi frenetica. Era sorpresa, felice, devota. «Vattene!» urlò lui. «È tutta colpa tua!» La cagna continuò a scodinzolare, a scuotere i fianchi. Ansimava, la testa china, gli occhi sorridenti. La lingua penzoloni lanciava gocce di saliva sulla strada. «Te ne vuoi andare?!» disse Bob. «Fuck off!» Le sferrò un calcio nelle costole. La cagna guaì e s’allontanò. Non andò a nascondersi, però. Da lontano fissava Bob, la coda tra le zampe, il muso rasente l’asfalto. Turbata dalla confusione più che dal dolore.

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Verso l’una Carlo il barista afferrò Bob e lo sollevò da sotto le ascelle. Dopo averlo svegliato a suon di schiaffi, gli disse di andarsene a casa. Era ubriaco fradicio. Non si reggeva in piedi. Era ora di chiudere. Ormai non c’era più nessuno e, no!, non gl’avrebbe offerto un altro Padre Peppe. Bob s’incamminò barcollante verso il CEP. Il silenzio della notte tutt’intorno. Si fermò davanti alla fontana della piazza centrale. La sfidò biascicando minacce infantili. Cercò di colpirla con dei ganci e dei diretti maldestri. Tentò di bere e per un paio di volte mancò il getto. Si guardò attorno. Non c’era un cazzo. «Che siamo ve’uti a fare in quesso posto di medda?!» disse. Rischiava di cadere a ogni passo. «Why the fuck?!» A fatica entrò in casa. Chiusa la porta, iniziò a spogliarsi. Si sfilava i vestiti e li lasciava cadere sul pavimento. La muta di un serpente. Le scarpe in un angolo, i calzini in un altro assieme ai jeans; la magliettina grigia e le mutande celesti appallottolate ai piedi del tavolo. La luce della luna si posava sul corpo di Bob e spalmava l’ombra rotonda del suo capoccione sulla parete. Bob teneva gl’occhi chiusi. Vagava nella jungla etilica della sua mente alla disperata ricerca di una liana a cui aggrapparsi. Raggiunse la camera a tentoni. Nudo, cadde sul letto come svenuto.

47 8

Mancava poco meno di mezz’ora alle 6. Elena si svegliò di soprassalto. Le immagini del sogno appena fatto lampeggiavano nella sua mente. Ora erano sfumate e remote. Ora erano un sogno, non la realtà. Solo immagini, non esperienze. Elena aveva sognato d’essere stesa in un letto. Attorno a sé cinque o sei uomini. Nicola DeBellis, gli amici che s’era portato all’inaugurazione, e altri. Bob era poggiato a una parete, imbronciato. Poi gl’uomini s’erano spogliati. Elena rideva. Elena godeva e non si curava di Bob. Lo vedeva uscire dalla camera, un fiume di lacrime. Nel sogno Elena aveva tradito Bob in un’orgia perversa. Una cosa assurda. Cazzi di qua e cazzi di là. Assurdo. Ma non s’era sentita in colpa o in dovere di non godere di quelle fantasie. Tutt’altro! Dentro di sé aveva provato compiacimento e lussuria. Compiacimento e libertà. E più le mani sul suo corpo s’erano moltiplicate, più lei aveva goduto. Abbassò lo sguardo e fissò il corpo nudo di Bob. Per un momento avrebbe voluto non averlo mai incontrato. Per un momento avrebbe voluto continuare a vivere i suoi sogni libidinosi. Pensò alla proposta di DeBellis. Dentro di sé l’aveva già accettata, Bob aveva ragione. Si alzò e uscì sul balcone a piedi nudi. Indossava una camicia bianca di Bob e delle culottes nere. Poggiò i gomiti alla ringhiera e si lasciò rapire dall’alba. Elena preferiva l’alba al tramonto. L’alba è nascita, il tramonto è fine. L’alba possiede la grazia del risveglio; il tramonto la lentezza della morte. L’alba è lo splendore della rugiada, l’innocenza di un bambino. L’alba è il mondo che ha sconfitto le tenebre. Oh, dolce alba! Nuova, fresca, dolce alba! Sguardo a ovest: gli Appennini ancora sommersi da un buio sempre più fiacco. Sguardo a est: nascosto dalle Murge, il sole schiariva il cielo. Una stella luccicava con intensità, visibile poco più in alto della cresta delle colline. Quella stella era Sirio, la stella canicula. Elena ripensò alle storie raccontate da Giò Casino. Ricordò che o i greci o i romani offrivano in sacrificio un cane, una pecora e del vino, in modo che la stella canicula non portasse sventure. Puttanate. Puttanate grottesche di popoli che pensavano che la Terra fosse piatta. Elena osservò bene la stella. Giò aveva detto che una luce piatta e limpida era buon segno, mentre una luce spumeggiante era portatrice di disgrazie. Elena si fissò i piedi nudi. Si sentì turbata, confusa, impotente. Non credeva a quelle cose, ma si chiese come mai quella mattina Sirio fosse spumeggiante. Perché? Elena si sorprese del potere che certe piccole credenze hanno anche su chi non ci crede. La facilità a tratti ridicola con cui riescono a scombussolare l’animo.

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La canicola profetizzata da Giò Casino non si fece attendere. Non pioveva da un po’ e durante l’ultima settimana di luglio le temperature raggiunsero livelli insostenibili. Soprattutto nelle ore centrali della giornata: un caldo torrido e asfissiante. I campi s’inaridirono e le crepe del terreno divennero voragini. Le piante di ortaggi si colorarono prima di pallido, poi di giallo, infine di secco. Nemmeno la sera si respirava, nonostante a Poggiorsini fosse normale avere serate fresche e ventilate. Ma ora il vento era scomparso e nell’aria vagava solo il calore sprigionato da terra e asfalto. Come una minaccia perpetua, un cielo tempestato di stelle schiacciava il paese e non lasciava presagire niente di buono. Solo caldo e siccità.

Erano passati due giorni dalla proposta indecente di DeBellis e Elena non faceva che pensare a quello. E pensava alla proposta come alla loro unica alternativa. Come fare a dimenticarla? Come saldare il debito senza doversi concedere? Magari solo un pompino? Come aggirare la tattica del viscido DeBellis? Il quaderno del mini-market! Elena rovistò nella cassapanca dove l’aveva nascosto. Tirò fuori i vestiti, le lenzuola, le coperte, i cuscini. Trovato il quaderno, si sedette al tavolo della cucina. Lo sfogliava sperando di trovare il nome di DeBellis. L’avrebbe chiamato e gl’avrebbe detto che, rubando il quaderno, lei gl’aveva in qualche modo ridato dei soldi. DeBellis avrebbe potuto minacciare di sputtanarla. Elena, a quel punto, avrebbe sputtanato lui, raccontando ai quattro venti la sua proposta. Della serie chi la fa l’aspetti. Ad ogni Nicola che trovava, Elena sentiva il cuore battere più forte. Nicola Trezzano, 46.75 + 12.21. Nicola Sera Tardi, 113.40 €. Elena avrebbe potuto recarsi casa per casa a chiedere una piccola ricompensa. Però quello non era quello di cui aveva sempre parlato suo padre. Rubare ai ricchi per dare ai poveri non prevedeva una ricompensa. Era una questione di giustizia, no? Rossana del CEP, 78 €. Rossana. Elena aveva dato una mano anche a Rossana. Continuò a sfogliare le pagine e a leggere i nomi e le cifre di quel quaderno. Il cuore ebbe un sussulto—un altro Nicola. Nicola di zia Maria, 27 €. Anche se fosse stato DeBellis, la cifra era irrisoria, ridicola. Niente, non c’era niente da fare. Pensò a come sarebbe stato farlo con un altro uomo, dopo tutti quegli anni con Bob. Sarebbe mai riuscita a fare sesso senza sentimento? Certo, le era capitato di fare l’amore un po’ distratta, solo per il piacere di Bob. Certo, le era capitato di fingere un orgasmo o due. Certo. Ma quella era tutta un’altra cosa.

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49 «Tanto tu hai già deciso,» aveva detto Bob quella stessa mattina, quando Elena aveva provato a riaprire il discorso “proposta indecente”. «Lasciami in pace e vediamo di non parlarne più.» Bob era uscito alle 9 e s’era andato a rintanare nel negozio, l’animo triste e appesantito. Il paese era assediato dal caldo ma rallegrato dal sole. Un sole limpido e gioioso. Bob sentiva un distacco terribile tra sé e il mondo esterno. Il mondo esterno andava avanti spensierato e ignorava l’inferno che stava vivendo lui. Bob avrebbe voluto dormire per mille anni, senza più pensieri o preoccupazioni. Liberarsi della bile. Lasciarla colare sul cuscino come bava, in attesa che mille sogni lo svegliassero. Provava rabbia per DeBellis, disappunto per Elena. Rabbia e disappunto per se stesso, che ancora una volta s’era andato a impelagare nei debiti. «È permesso?» disse Renato Consuelo. «Vieni, vieni,» disse Bob. «E che è ‘sto mortorio?!» entrò DDT. «Bob, metti qualcosa.» «Ok. Aspetta.» Bob pensò di mettere Male di miele degli Afterhours. Un attimo dopo cambiò idea. Certo, la canzone era bella tosta e parlava del suo stato d’animo, ma quello era il disco che aveva comprato Nicola DeBellis il giorno dell’inaugurazione. Il disco che aveva lanciato sul bancone prima di andarsene. No, DeBellis no. Optò per Bob Dylan. Bringing it all back home. Il suo preferito. Un album unico, irripetibile. Un capolavoro dietro l’altro. Prima traccia, Subterranean Homesick Blues. Bob poggiò il vinile sul leggio. Renato fissò la copertina. «Che faccia di cazzo che c’ha Bob Dylan.» «Senti, senti,» Bob indicò il soffitto come se la musica venisse da lì. «Ma non capisco niente, Bob. Questo canta come quei negri che fanno musica rap.» «Lo sai che non hai tutti i torti. Nel senso, Bob Dylan ha scritto dei testi spettacolari, che giocano con le rime e i suoni come fanno le canzoni rap di oggi. Senti, senti…»

Look out kid Don’t matter what you did Walk on your tip toes Don’t try, “No Doz” Better stay away from those That carry around a fire hose Keep a clean nose Watch the plain clothes You don’t need a weather man To know which way the wind blows

«Non capisco un cazzo,» disse Renato. Tirò fuori una sigaretta. «Posso fumare?» «Sì.» «Dai, Bob, metti qualcosa d’italiano.» «Ok.» Bob pensò di nuovo agli Afterhours. Pensò di nuovo a DeBellis. L’olio di rifiuto e la sua stupidità. La sua pelle glabra. Pelle. Sì, Pelle degli Afterhours andava bene. O no? «Li conosci gli Afterhours?» «No. Però Bob, per favore,» Renato si sciolse i muscoli della schiena a piccoli scatti, la sigaretta in un angolo della bocca. «Metti qualcosa in italiano, così capisco—»

50 «Ma loro sono italiani. Il nome è in inglese—preso da una canzone dei Velvet Underground—ma cantano in italiano. All’inizio no, cantavano in inglese, ma poi hanno cambiato e deciso di cantare in italiano. Penso che si sono resi conto che conveniva puntare al mercato italiano e diventare qualcuno invece di cercare di sfondare in quello internazionale e non diventare nessuno. Diciamo che hanno abbassato il tiro, ecco.» «Vai, però, metti qualcosa.» «Ok.» Bob stoppò la musica senza sfumare. Non faceva mai cose del genere. Chiese scusa a Bob Dylan e subito dopo si sentì patetico per averlo fatto. «Bob, ma tu le fumi le canne?» chiese Renato. «No, cioè, sì. È da un po’ che non fumo, però non mi dispiace.» «Io ce l’ho, sai?» Bob guardò Renato. Gli fissò i tatuaggi sulle braccia. Quelli attorno al collo. «La fumiamo una?» disse Renato, infilando una mano in tasca. Pelle era partita. Più la canzone saliva più Bob si malediva per averla scelta. Quel “forse sei un congegno che si spegne da sé” lo tormentava. Parlava di Elena? Poteva forse spegnere le emozioni quando voleva? Quando la pelle di un altro—quel DeBellis di merda!—l’avrebbe sfiorata, Elena avrebbe pensato alla pelle di Bob? Le sarebbe mancata la sua pelle? O Elena era davvero un congegno che si spegne da sé? «Bob!» lo svegliò Renato. «Allora? La faccio ‘na canna, sì o no?» «Sì, ok.» «Ma che c’hai? Tutto bene? Sembri preoccupato.» Bob non voleva dividere le sue pene con Renato. Preferiva tenere le sue sofferenze chiuse dentro di sé, al buio. Preferiva mentire. «No, è che gli affari non vanno tanto bene,» disse. «Immagino. Qui chi cazzo capisce di musica? Nessuno. Io, in confronto, sono un esperto.» Bob abbozzò un sorriso. Renato pensò che fosse il momento giusto per tentare il primo affondo. I giorni passati con il Gallo di Corato a riflettere sulla strategia da mettere in atto per colpire la loro ex-cosca, avevano prodotto quell’idea: usare Bob e Poggio Rock. Bob era un po’ ingenuo, ma sotto-sotto si vedeva che era un giovane intelligente e sveglio. Bob aveva bisogno di soldi, poco ma sicuro. Inoltre non aveva legami di parentela o amicizia con nessuno. Se le cose fossero andate male, il rischio di ritorsioni da parte dalle persone vicine a Bob era bassissimo. In percentuali, il 4%. Il piano era perfetto. E il negozio era un’ottima copertura. Renato avrebbe dovuto introdurre Bob nella cosca di don Nicola di Trani. Tramite Bob, Renato e il Gallo sarebbero stati in grado di affrontare i tranesi senza rischiare di consegnare le targhe. «Ehi, Bob, senti qua,» disse Reanto. «Ma a te ti va se ti faccio ‘na specie di proposta d’affari? ‘Na proposta che tu c’hai solo da guadagnarci. Garantito al cento per cento.» «Di che si tratta?» «Magari ne parliamo da ‘n’altra parte, che dici?» «Perché, qui non va bene?» «Eh no. Se viene qualcuno poi dobbiamo interrompere, sai…» «Ma non posso chiudere il negozio, ho appena aperto.» «Metti un biglietto TORNO SUBITO.» Dea era cominciata e finita. Era stata come una saetta. Una saetta non in grado di carpire l’attenzione di Renato, troppo concentrato a lavorarsi Bob. Bob restò in silenzio. Chi cazzo sarebbe mai andato al negozio alle 10 di mattina? «Ok,» disse, «andiamo.» Bob pensò che Renato non fosse passato di lì per caso o per fargli una visita di cortesia o per ascoltare musica. Renato era passato di lì per fargli quella proposta. Dopo quella di DeBellis, eccone un’altra.

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DDT teneva le gambe accavallate. La canottiera che indossava spumeggiava di luce. Erano seduti alle panchine del belvedere, di spalle alla valle enorme che separava Poggiorsini dagli Appennini. Erano passati dal mini-market di Uccio e avevano comprato quattro Peroni da 33. Prima di sedersi, Bob aveva fissato il panorama e s’era meravigliato della sua bellezza. A perdita d’occhio, disegnati sulla valle ondeggiante, si vedevano solo campi, campi e campi. Un strada deserta che somigliava a un fiume prosciugato, e nient’altro. «Secondo me possiamo mettere su qualcosa di davvero importante,» disse Renato, la testa china, intento a sbriciolare l’erba con la mano destra nel palmo della sinistra. «E tu riuscirai a fare molti più soldi di quelli che fai al negozio.» «Sì, ma di che si tratta?» Bob buttò giù un sorso di birra. La birra era ghiacciata, gassata, amara— perfetta. «La prossima settimana andiamo a Trani insieme. C’ho un paio di blocchi da prendere. È tutto organizzato. Bisogna solo andare a prenderli. I blocchi—prima che me lo chiedi—sono dei pezzi grossi così di erba pressata. Sono come dei tufi da mezzo chilo l’uno.» «E io cosa devo fare?» «Niente, tu vieni con me e facciamo la spedizione insieme.» «E questa sarebbe la tua proposta?» disse Bob. «Venire con te per fare la spedizione e basta. Non è proprio qualcosa di davvero importante, come dici tu.» «Ah no? Tu, intanto, se vieni con me cominci a conoscere le persone con cui abbiamo a che fare e quali sono i rischi di que—» «No, Renato, grazie, ma non ne vale la pena. Cioè, io vengo lì solo per accompagnarti, ma se ci beccano poi la cosa è pure mia. No, guarda, c’ho abbastanza casini per i cazzi miei.» «Bob, te l’ho già detto: tu mi puoi imparare tante cose sulla musica eccetera, ma tu da me vedrai che t’impari a vivere.» Bob scolò la sua Peroni. La prima. Stappò la seconda sempre fissando Renato. Renato rollò la canna e leccò la cartina dal filtro verso l’alto. Poi l’accese. «Ma fumiamo qui, senza nasconderci?» «Bob, Bob. Tu non hai ancora capito chi sono io, vero? Tieni, tieni. Fatti due tiri così magari ti rilassi un poco.» Bob prese la canna. Fumò. Il fumo era denso e forte, a momenti lo faceva tossire. «Noi, l’erba, una volta che siamo tornati qui, la teniamo nel tuo negozio. Ci mettiamo insieme un pomeriggio a fare le bustine da venti e da cinquanta e poi io penso a spargere la voce e tu stai al negozio e quelli se la vengono a prendere lì. Quando vengono gli dai un disco o due e loro poi te li riportano indietro il giorno dopo. Se qualcuno vi vede che vi scambiate soldi, non c’è problema: stai vendendo dischi. Se qualcuno vede il viavai, non c’è problema: vengono ad ascoltare prima di comprare.» Il rombo di un aereo in lontananza distrasse Renato, che guardò al cielo schermandosi con una mano. «Jè pèrfètte,» disse, abbassato lo sguardo. «E come facciamo coi guadagni?» chiese Bob. «Io mi prendo il settanta percento e tu il trenta.» «E come mai tu il settanta e io il trenta?» «Io metto i soldi d’anticipo per comprarla; io metto la macchina per andarla a prendere; io metto l’idea, e poi, non te lo scordare, io metto conoscenze ed esperienza.» «Sì, però io la tengo nel mio negozio,» disse Bob. «E sono io quello che la vende. Se qualcuno mi becca sono io quello che se lo prende nel culo, non tu.» Renato scolò la sua prima Peroni. Stappò la seconda. «Ok, allora facciamo sessantacinque e trentacinque,» Renato protese la bottiglia verso quella di Bob per brindare. Bob ritrasse la sua. «Quaranta e sessanta, e non se ne parla più.»

52 “Hai capito,” pensò Renato, “li sa fare gl’affari ‘sto tappetto.” «Ok, affare fatto,» disse Renato, poggiando la birra e porgendo la mano. Bob gliela strinse. I due si guardarono negl’occhi. Bob pensò alla massima individualista che tante volte aveva sentito dire da suo padre: “Le società devono essere sempre di numero dispari e inferiori a tre”. Staccando le mani, Bob colpì e rovesciò la bottiglia di Renato. La bottiglia cadde sul pavimento e si frantumò. Schiuma e frammenti di vetro colpirono i piedi dei due. «Scusa,» disse Bob. «Per fortuna che non era olio,» disse Renato, «se no voleva dire sfortuna, disgrazia, e voleva dire che avevamo cominciato proprio male.» «Io non sono superstizioso,» disse Bob. «Dovresti,» lo fissò negli occhi DDT.

Bob tornò al negozio con la testa braccata dal caldo e dallo sballo. Erano mesi che non fumava una canna. I pensieri opprimenti e tristi che l’avevano accompagnato dal risveglio si trasformarono in pura paranoia. Bob pensò che Elena fosse andata a casa di DeBellis o che lui fosse andato a casa loro. Forse Renato Consuelo era un di DeBellis, mandato al negozio per tenerlo a bada. Forse la proposta di Renato non era che un modo per incastrarlo. Un modo per toglierselo dai piedi. Bob avrebbe dovuto tirarsi indietro. Affanculo l’orgoglio. Poteva cambiare idea. Doveva cambiare idea. Affanculo l’orgoglio. Bastava dire a Renato che delle sue “spedizioni” non ne voleva sapere niente. Che lui avrebbe continuato a portare avanti Poggio Rock, punto e basta. Il cuore batteva forte. Il cuore batteva sconnesso. Le palpebre pesavano quintali. Il sudore della fronte era arginato dalla frangia di capelli come da una diga. Bob chiuse la porta del negozio a chiave e riapplicò il biglietto TORNO SUBITO. Ascoltò Shoot your gun dei 22-20s, poi mise su Thirteen tales from urban Bohemia dei Dandy Warhols e si sedette dietro il bancone. I raggi del sole penetravano nel negozio e la polvere sfiorata dalla luce sembrava danzare. La tromba di Godless lo cullò assieme alla monotonia dell’intera sezione ritmica. Bob si sentì godless e perso. Si sentì sballato e solo. Poi si addormentò.

Nel sogno Bob entrava nella banca accanto al negozio di dischi di Roma. La banca, però, non era a Roma e non era accanto al suo negozio. Era a Poggiorsini, accanto al bar di Carlo. L’uomo dietro lo sportello somigliava al figlio di Giò Casino, il fabbro. Bob chiedeva un prestito per rinnovare il negozio. Diceva che voleva allargarsi. Diceva che gli affari stavano andando a gonfie vele. La banca doveva aver fiducia di un business così. Un business così promettente. Il commesso, però, si rifiutava di dargli il prestito. «Lei ha già molti debiti,» diceva, «noi non possiamo aiutarla.» «Ma i miei guadagni sono eccezionali,» diceva Bob. «D’accordo, ma lei non è una persona affidabile; e questo lo vedo da me, senza nemmeno dare un’occhiata al suo—» «Mi faccia parlare con un suo superiore. Voglio parlare col direttore. Ora!» «Come vuole,» diceva il commesso. «Ora!» Dal retro della banca spuntava il direttore. Il direttore ridacchiava. Faceva di no con la testa. Il direttore era Michelino, lo strozzino di Roma. Bob quasi sveniva.

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«VINUM ET MUSICA LÆTIFICANT COR,» disse Giò Casino quando vide Bob rientrare.

53 Mancava poco alle 8 e il sole resisteva, caldo e fiero. Giò era seduto alla sua vecchia sedia di vimini, indossava una paglietta e degli occhiali da sole a specchio. Una bottiglia di bianco era poggiata ai suoi piedi. «Rob, vieniti a bere un bicchiere, su,» lo invitò. «Come ho detto: il vino e la musica allietano il cuore. Tu mìtte la mùseche e ji mètteche ù mmìre.» Bob fece un sorso dalla bottiglia. Il vino era fresco e aromatico. «È tuo ‘sto vino?» domandò Bob. «È chiaro,» rispose Giò. «Ehi, Rob, com’è andata oggi al negozio?» «Zero, Giò, zero.» «Vedrai che domani andrà meglio. Mo cominciano a scendere i ciao-nè da Milano, Torino—dal Nord. Quelli c’hanno i soldi e vedrai che quaccosa la comprano. E poi c’è la Festa, non disperare.» «Senti, Giò, hai visto Elena?» chiese Bob, guardandosi nel riflesso degli occhiali di Giò. «Sì, sta dendro.» «Ma l’hai vista andare da qualche parte, oggi? Oppure qualcuno venire qui?» «No. Ma che ti metti a penzare, Rob? Dov’è che deve andare quella povera figlia?!» «No, così…» «Mi fa piacere che ti preoccupi, ma però non esagerare.» La cagna amica di Bob fece capolino in fondo allo stradone. Bob la fissò. La cagna era immobile e sembrava stesse ricambiando lo sguardo. Bob ricordò l’ultima volta che l’aveva vista, qualche giorno prima. Ricordò d’averle dato un calcio nelle costole e si sentì di merda per averlo fatto. «Ehi, Giò, la vedi quella cagna laggiù?» «Mm,» disse Giò Casino. «Quella cagna m’ha fatto restare qui la sera che siamo arrivati, lo sai? Non lo so, è come se in qualche modo mi segue. È come se mi fa la guardia e sta sempre attenta a quello che mi succede.» «I cani sono così,» Giò Casino fece una lunga sorsata e s’asciugò le labbra col dorso della mano. «So’ premurosi quando si affezionano. E se gli dai da mangiare, si affezionano alla svelta.» Bob fissava la cagna. Giò fissava Bob. «Arrivo,» disse Bob. Fece qualche passo verso la fine dello stradone, verso la cagna. Questa lo vide e se ne andò sul retro dei palazzi. Bob allora attraversò lo spazio di terra tra il secondo e il terzo palazzo, spuntò sul retro e guardò in lontananza. La cagna lo vide e scodinzolò. Bob corse verso di lei. La cagna se la svignò. Bob ne rimase deluso, ma non poté biasimare l’animale per quello. Era stato lui a sferrarle un calcione nelle costole. Era stato lui a mandarla affanculo. A creare diffidenza. A pregiudicare la fiducia che li univa. «Giò, tu lo conosci Renato Consuelo?» chiese Bob una volta ritornato dal vecchio. «Eccome.» «Beh, che tipo è? Diciamo, cosa fa? Di che famiglia è? Buh, non so, dimmi qualcosa.» «Ma perché, l’hai conosciuto?» «Sì.» «Senti a me, Rob—» «Bob.» «Bob, ok. Senti a mmé, Bob: lascialo perdere a quello. Se lo chiamano DDT un motivo ci deve essere, o no?» Bob rivide in mente le varie forme e colori coi quali quelle lettere erano tatuate sul corpo di Renato. DDT qua e DDT là. DDT sui lati del collo e DDT sul petto e l’avambraccio. «Lo chiamano così perché quello è come la peste,» disse Giò. «È come un diserbante: quello che tocca, muore. Ha già rovinato un paio di famiglie. Jè nu faràbbutte che s’approfitta dei ragazzi deboli. Li mette sulla cattiva strada e poi ci s’è vìste s’è vìste.» Bob accese una sigaretta. Il fumo era meno denso, meno forte, meno pizzicante di quello della canna. «Dicono che fa parte di una quacche cosca criminale, ma io non lo so se è vero. Però, o è vero o no, quello è ‘na persona da evitare. Sai quante volte è stato in galera? Puff! Se non mi sbaglio, da poco è tornato da Trani. Dal carcere di Trani. Mi sa che s’è fatto cinque o sei anni. Non un mese o ‘na settimana. Anni! Hai capito, Rob—Bob. Lascialo perdere a quello. Senti a Giò Casino.» Ecco cosa aveva fatto Renato a Trani! Ecco perché aveva delle “conoscenze” a Trani.

54 «La vedi a Sirio là?» Giò indicò il cielo col suo indice scheletrico. Bob guardò in alto. «Mo mo tramonta insieme al sole. La vedi che luccica? Non è un buon segno, lo sai, te l’ho già spiegato. Ora, Bob, senti a me. Con Sirio a quella maniera, non bisogna rischiare, imbarcarsi in cose strane e pericolose. Bisogna stare calmi e cercare di non—» «Giò, io non ci credo a queste cose.» «Non c’entra se ci credi o no,» disse Giò. «Le cose succedono lo stesso.»

55 10

Era la fine di luglio quando Elena andò a casa di Nicola DeBellis. Prima di salire le scale si fermò ad ammirare il vecchio casale. Si sentì minuscola, si sentì schiava di una forza più grande. Una forza che voleva che lei concedesse il suo corpo in cambio di denaro. Una forza che traeva la sua linfa vitale dalla Storia, dalla Storia che si ripete. Era primo pomeriggio. Il caldo era asfissiante. Elena si guardò intorno. Non c’era un cazzo. Non un’anima viva. Solo gli ulivi che circondavano la piazza, il caldo e il silenzio. Le cime degli alberi erano immobili: il vento non soffiava manco lì. Elena salì le scale. Il magone cresceva a ogni passo. All’apprensione, però, si mescolavano strane iniezioni adrenaliniche. Com’era successo quando aveva rubato il quaderno dal mini-market, Elena si sentì ancora una volta una fuorilegge. Sensazioni contraddittorie. Pulsioni in contrasto. La coscienza in affanno e in penombra. La coscienza annichilita dalla ragione e dai brividi emotivi del tradimento. Elena bussò. Elena tremava. Si voltò per essere certa che nessuno la vedesse. Alle sue spalle gli ulivi, la piazza vuota, il caldo, il silenzio. DeBellis aprì la porta. Elena lo fissò e provò schifo nell’osservare i suoi occhi di ghiaccio e le sue labbra carnose e deformi. Elena non avrebbe voluto essere lì. Avrebbe dato un occhio, un braccio, una gamba, pur di scomparire in quell’istante. «Ti sei decisa,» disse Nicola. I muscoli facciali si distesero e gl’occhi luccicarono. Qualcosa si mosse nei pantaloni e della saliva dolcissima scivolò nell’esofago. «Vieni, entra.» Elena entrò. Nicola le guardò il culo prima di chiudersi la porta alle spalle. Nicola pensò di non aver mai fatto miglior investimento dei soldi prestati a Bob. «Ti posso offrire qualcosa? Un succo di frutta, ‘na coca-cola, ‘na bi—» «Non lo faccio per la metà,» disse Elena. «Non per la metà, eh?» disse Nicola. «No. O cancelli tutto ‘r debbito o gnente.» «Ma mille euro sono mille euro,» disse DeBellis, banale. «Ti sembra che io valgo meno di mille euro?!» disse Elena, invitandolo a guardarla. Elena si sentì schifosa, meschina, ripugnante. Si vergognò d’essere così a suo agio nel ruolo di puttana. «Bob, però, mi deve pagare l’affitto dei mesi scorsi e quello del mese prossimo,» disse Nicola. «E poi quando arrivano le bollette mi deve pagare pure quelle. Quindi, diciamo che non sono solo mille i soldi che mi deve dare. Sono di più. A parte che poi, io, a lui, gl’ho dato mille e ottocento euro. Lui dice che una parte di quei soldi restano a me sottoforma, per esempio, dell’impianto elettrico e cose del—» «A me nun m’interessano ‘ste cose,» disse Elena. «Ai sordi che ti dovrà dare si pensa dopo. Ora, qui, si tratta di un’altra questione. Va bene quant’ho detto, sì o no? Dimmelo ora e basta. Nicola, questa è l’ultima vorta che tô chiedo.» «L’ultima volta, eh?» «Sì, l’ultima.»

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Mentre lo facevano, lui sopra lei sotto, Elena teneva gl’occhi spalancati e fissava il soffitto. Provò a distrarsi guardando gli affreschi sbiaditi della camera da letto. Provò a cancellare la fisionomia di DeBellis e a

56 sostituirla con quella di Bob. Provò a sentire le mani tozze ma delicate di Bob sul suo corpo. Provò a convincersi che tutto sarebbe finito presto. DeBellis cercò di baciarla, e lei si rifiutò. DeBellis le chiese di essere più partecipe, e lei si rifiutò. DeBellis sbuffò e prese a minacciarla con sottrazioni, percentuali e altri calcoli meschini. «Se non ti posso nemmeno baciare,» disse lui, «allora facciamo la metà.» «No! Hai detto tutto ‘r debbito e tutto dev’essere.» «Allora fatti baciare.» «E baciami, vaffanculo!»

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Uscita da casa di DeBellis Elena si sentì sporca e disperata. Camminava verso il CEP e sentiva i muscoli delle cosce tendersi. Credeva d’avere addosso uno stigma. Credeva di essersi lanciata in un abisso di desolazione. Sentiva l’alito di DeBellis. Sentiva le natiche strette dalle sue dita. Le tristi immagini di quello che ora considerava un grave errore le rigurgitavano nello stomaco. Il viso viscido di Nicola, le sue mani fameliche, il cazzo nerboruto. Le immagini salivano acide e crude nell’esofago. Lei con forza le spingeva giù ma quelle ritornavano con maggiore acidità. Poi rivide Nicola col sorriso ebete e i denti falsi, sull’uscio della porta, farle i complimenti per il fisico e la prestazione. Elena avvertì un conato di vomito. Giunta all’incrocio che portava alle case popolari non riuscì più a trattenersi. S’aggrappò a un reticolato, si piegò e vomitò.

57 11

Trani. Città millenaria. Città incantevole. Dal porto al centro storico. Dalle chiese ai palazzi. Le piazze e il lungomare. Il fortino e la cattedrale. «Sai che Trani è il più importante polo giudiziario della Puglia?» disse Renato, parcheggiando. «È troppo bello fare ‘ste storie in questa città. Capito? È bello fargliela proprio sotto il naso.» Renato spense la macchina. Una volta sceso, Bob si guardò intorno. Erano in via Statuti Marittimi. L’aria era diversa da quella di Poggiorsini. Qui si respirava. Si respirava il mare, la salsedine. Parole come aridità o siccità non appartenevano a queste zone. Bob accese una sigaretta. Oltre le barche che ondeggiavano nella baia del porto, a nord si vedeva la Cattedrale. Le strade erano lastricate. Le case, i marciapiedi e i muretti erano quasi tutti in pietra-di-Trani —ci mancherebbe. Palme nane dappertutto. Uomini dai visi grezzi come scogli seduti ai tavolini dei bar. Ragazze poco vestite e parecchio abbronzate sfilavano sul lungomare. Minigonne di jeans e occhiali da sole provvedevano ad omologarle. DDT s’avviò in via Fabiano. Si voltò verso Bob, rimasto a fissare delle cosce. «Andiamo, su, ché tu sei sposato.» Bob lo seguì pensando a quanto gli aveva detto Elena quella mattina, prima che Renato passasse a prenderlo. «Il debito con DeBellis è saldato,» Elena stava lavando i piatti e Bob sedeva al tavolo silenzioso. «Ho accettato la sua proposta.» «E brava la mia puttana!» aveva detto Bob, alzandosi e uscendo di casa. Come aveva potuto? Farsi scopare per saldare un debito. Una cosa squallida. Una cosa fino ad allora inimmaginabile. Elena, proprio lei. Come aveva potuto? Non l’aveva fatto solo per lui o per loro. Lei l’aveva fatto perché alle donne piace essere desiderate. L’aveva fatto perché s’inorgogliva nel sapere che un uomo, pur di averla, era disposto a pagare e pagare parecchio. Bob sentiva la morsa della gelosia, della rabbia, del disprezzo ostruirgli la gola. Avrebbe voluto sfogarsi con Renato, ma non ne era stato capace. Durante il viaggio Renato non aveva fatto altro che parlare della spedizione e della voglia di concludere quell’affare. DDT era ansioso di presentare Bob ai suoi amici e voleva a tutti i costi svezzarlo. E se gli aveva chiesto come stava, era solo per essere certo che Bob non si sarebbe tirato indietro. Erano in piazza Teatro ora. Una bella piazza. Ampia, circondata da palme, bianca, esotica. Il celeste acceso del cielo esaltava i palazzi che l’attorniavano. «Che facciamo qui?» chiese Bob. «Aspettiamo,» disse Renato, e cambiò piede d’appoggio. «Ora ci viene a prendere ‘na persona e ci porta dove dobbiamo prendere i blocchi.» «E chi è questa persona?» «Bob, non fare troppe domande,» disse DDT. «Guarda, osserva, impara, e stàtte cìtte.»

Dopo tre minuti arrivò un ciccione pelato sui quaranta. Indossava bermuda hawaiani, infradito e la maglia della Nazionale di calcio, aderente sulla pancia. Aveva baffi neri e la pelle abbronzata. Il sole si rifletteva sulla pelata e la faceva splendere. Sfregandosi le mani, Renato si voltò verso Bob e disse a bassa voce: «Questo va sempre in giro con la maglia della Nazionale. Incredibile, mai visto co’ ‘n’altra cosa addosso.»

58 L’uomo li raggiunse e strinse la mano di Renato. «É cùsse ci jàie?» chiese. «Lui è Bob, il mio socio.» «Piacere,» Bob porse la mano. Il tipo lo ignorò e scosse il capo. Renato si stiracchiò. «Andiamo?» disse. «Pure lui deve venire?» disse l’uomo. «È chiaro,» disse Renato. «E loro lo sanno?» «No. Ma che fa?» L’uomo storse il muso. Uscirono da piazza Teatro. Percorsero quasi tutta via Ognissanti. Erano nel centro storico, ora. Svoltarono in Vico Templari e in via La Giudea. Bob memorizzava ogni nome. Arrivati in via Leopardi il tipo disse di aspettare. Entrò in un bed-&-breakfast e dopo qualche minuto uscì assieme a un uomo sulla quarantina. «Ciao Renato,» disse il tipo. «Ma a te ti piace proprio Trani, eh? Manco il tempo di uscirtene che torni qua?!» I due si abbracciarono. «Come stai?» «Bene, grazie. Tu?» «Bene. Ehi, senti qua: la prossima volta avvisaci che ti porti dietro a qualcuno. Va bene? Non si sa mai. Magari uno lo prende per uno della madama e poi buh cosa succede.» «È vero, c’hai ragione, scusa,» disse DDT. «Comunque, Bob, questo qui è Tonino, detto Scacco-matto. Lui è Bob, il mio socio.» Bob allungò la mano. Tonino Scacco-matto gliela strinse. Aveva degli occhiali dalla montatura rossa e sottile. Le tempie brizzolate. Indossava una camicia sbottonata, bianca a maniche corte. Il petto glabro era coperto da un enorme tatuaggio sbiadito: una corona reale posata su una croce. «Andiamo, su.» S’inoltrarono in vicoli e stradine simili tra loro. Tonino e Renato davanti, Bob dietro. Cannavaro era rientrato nel bed-&-breakfast. «Lo vedi quel ragazzo che sta lì?» chiese Tonino a Bob, indicando un punto in fondo alla stradina che stavano percorrendo. «Sì.» «Loro sono i nostri pezzi più importanti,» Tonino si sistemò gl’occhiali. «Come a scacchi. Tu sai giocare a scacchi?» «No.» «Male, male. Gli scacchi sono importantissimi,» Tonino poggiò una mano sulla spalla di Bob. «Comunque, a scacchi c’hai tanti pezzi importanti: la regina, i cavalli, le torri; ma quelli che ti fanno vincere la partita sono i pedoni, quelli piccoli che stanno davanti, in prima linea. Tutto dipende da come muovi i pedoni. Quelli sono i pezzi che uno magari sacrifica e se uno li sacrifica, lo fa per un motivo solo: proteggere il re e vincere la partita. Il re—tu forse non lo sai—è il pezzo degli scacchi meno importante eppure è lui che devi proteggere dall’inizio alla fine. Gli scacchi sono come la vita, hai capito? Le cose che sembrano facili sono le più difficili e sono i dettagli, le piccolezze a rendere la vita bella. Non te lo scordare, Bob.» «Sì, ma che c’entra il ragazzino che sta là?» chiese Bob. Renato lo guardò storto. Ancora con quelle domande. «C’entra perché lui e quelli come lui ci permettono di essere al sicuro qui. Come i pedoni negli scacchi. Hai capito?» «Sì,» disse Bob. Giunsero in un vicolo. Una mezza dozzina di uomini erano seduti a delle sedie pieghevoli e formavano una C. Sedie da campeggio. Simili a quelle che Bob aveva portato da Roma quando se n’erano scappati. Un

59 uomo si alzò e andò a piantonarsi all’ingresso del vicolo. Non ci sarebbe stata via d’uscita in quel modo. Né gli sbirri sarebbero potuti sopraggiungere senza essere visti. «Renato, questa non è la prima volta che facciamo affari insieme, no?» disse uno degli uomini seduti. «Lo sai come funziona. Intanto devi pagare tutto ora, e poi non puoi pestare i piedi a quelli che stanno con noi. È chiaro, no? Penso che tu le sai come funzionano ‘ste cose.» «Sì, don Nicola, non ti preoccupare. Mica è la prima volta. Lo sai, no?, che la mia zona è quella di Gravina e Poggiorsini. Al massimo qualcosa arriva a Spinazzola, Palazzo, Minervino, ma niente più.» «E qualcosa scappa pure a Corato, névvére?» disse don Nicola. «E tu lo sai che lì non va bene, ché non mi piace che ti metti insieme al Gallo.» «No, ma stavolta è diverso. Promesso. Il Gallo non c’entra,» disse Renato. «Stavolta ho ‘na base di vendita, un appoggio, non devo fare le cose in mezzo alla strada o in macchina.» «Lo sappiamo che c’hai il negozio di dischi, ce l’hai detto. Però, Renato, le regole di come vanno queste cose le devi spiegare bene pure al socio tuo. Ché poi non ti voglio sentire che magari mi dici che non è stata colpa tua ma che è stato lui. Chiaro?» «Sì, don Nicola.» «Ché noi, se succede qualcosa, a te ti veniamo a cercare.» «Va bene.» «E tu, giovanotto, dimmi un po’, chi sei? come ti chiami? da dove vieni?» Don Nicola aveva tutta l’aria di un boss. Tutti i boss avevano l’aria di don Nicola. Sembravano fatti con lo stampino. Strafottenza e arroganza velate da saggezza. Sguardi inquisitori guidati dalla convinzione che più si sa più si va avanti. «Lui è Bob, il mio socio.» «Ma cos’è, non sei italiano?» «No, è italo-americano. Nato in America però po—» «Renato, non ho chiesto se non è italiano per il nome, ché uno se lo può pure inventare; l’ho chiesto perché stai rispondendo tu alle domande che faccio a lui.» «Chiedo scusa, don Nicola.» «Allora, Bob.» «Niente, sono italo-americano. Ho vissuto in America fino a nove anni e—» «E pure tu sei di Poggiorsini?» «Sì, no, cioè—No. Ho vissuto un po’ in giro e poi a Roma, ma ora vivo a Poggiorsini.» «E che ci fai, tu che sei nato in America e hai vissuto a Roma, che ci fai in un paesino sperduto come quello?» «Diciamo che è stato un caso. Io e Elena—mia moglie—abbiamo lasciato Roma e siamo finiti lì e lì abbiamo trovato una casa a pochi soldi e allora ci siamo fermati. Poi ho aperto il negozio di dis—» «Non ti fa niente, vero?, se ti faccio un po’ di domande,» don Nicola allargò le braccia. «Del resto, se tu sei in affari con Renato è come se sei in affari con me. O mi sbaglio?» Un alone di timore misto a tensione aleggiava sulla testa di Bob. Gli occhi degli uomini seduti erano tutti su di lui. «No, non c’è nessun problema,» Bob infilò le mani in tasca e si rimproverò d’aver svelato il nome di sua moglie. Gli uomini seduti non gli staccavano gl’occhi di dosso. «Toníne,» disse don Nicola. «Prendi il borsone per Renato.» Tonino entrò in una delle porte che circondavano il vicolo a ferro di cavallo. Ne venne fuori con un borsone di tela rosso. Lo passò a don Nicola. «Bob,» don Nicola passò il borsone a Renato. «Ti posso chiedere un’ultima cosa?» «Sì, come no.» «Posso sapere come vi siete accordati su questo affare, tu e DDT?» Renato fissò don Nicola. Cercò di non far trasparire quello che stava pensando e sperò che Bob dicesse qualcosa che non lo imbarazzasse. «Diciamo che lui è la mente e io il braccio,» disse Bob.

60 Renato sorrise con approvazione e passò i soldi a Tonino. Don Nicola apprezzò la risposta laconica di Bob. «E tu pensi che quello è un buon modo per mandare avanti ‘na società?» domandò il boss. «Beh, don Nicola, quello che penso sulle società è quello che diceva sempre mio padre. Ma non sempre si riesce a mettere in pratica i consigli dei genitori, però diciamo che uno ci prova e che è sempre meglio ri—» «Cos’è che diceva tuo padre?» disse don Nicola, curioso. «Lui diceva che le società devono sempre essere di numero dispari e inferiore al tre.» «Mm… Quindi uno. Bella questa,» don Nicola si voltò verso i suoi scagnozzi. «Avete sentito?» Gl’uomini fecero di sì con la testa. Renato guardò Bob di sbieco, celando la soddisfazione. Bob non l’aveva imbarazzato e aveva fatto colpo su don Nicola. Di lusso. «Andiamo, su,» disse Renato. «Arrivederci don Nicola,» disse Bob. «Piacere d’averti conosciuto,» disse don Nicola. «Hai capito al tappetto,» disse Tonino quando Bob e Renato erano ormai immersi nel groviglio di stradine del centro storico. «Sì, ma perché se l’è portato dietro e senza manco avvisarci?» domandò don Nicola, pensieroso, non aspettandosi una risposta.

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Durante il viaggio di ritorno Renato non disse una parola. Mise un cd nello stereo e guidò senza distrarsi. Il cd era una raccolta dei brani migliori dei Litfiba. Bob teneva il borsone con la marijuana sotto i piedi. Era stato Renato a dirgli di fare così. L’odore era forte benché i blocchi fossero avvolti da pellicola trasparente e chiusi nel borsone.

Dai fotti il tuo nemico Usa la lingua sua Regagli importanza Che se ne vanterà

«Bella ‘sta frase, vero?» disse Bob. Renato non rispose. «Ehi, Renato, tutto ok?» «Sì, tutto ok.» «Sei strano, però. Non parli, non dici niente.» «Voglio arrivare a Poggiorsini,» disse Renato. «Quando arriviamo lì comincerò a rilassarmi.» «Ehi, ti posso chiedere un favore?» disse Bob. «Sentiamo…» «Posso restare a dormire da te stasera?» «Come mai?» «Ho litigato con mia moglie.» «Per me non ci sono problemi,» disse Renato. «Anche se non so se è la cosa migliore da fare. Però, Bob, tu sei grande e vaccinato.»

La mansarda in cui viveva DDT era piccola e puzzava di piedi. Le pareti erano tappezzate di poster di Bruce Lee e donne nude. Tutti in posa. C’era anche un diploma incorniciato appeso al muro. Renato Consuelo – Perito meccanico. Aggrappate alla cornice, due medaglie. Una di bronzo, una d’argento. Giochi della Gioventù 1982. Su un mobile vecchio e tarlato c’era un giradischi.

61 Bob prese Hot Rocks 1964–1971 dei Rolling Stones—il disco doppio che aveva venduto a Renato—e lo mise su. Lato A, disco 1. Time is on my side. Mentre la musica andava, Bob chiese a Renato di chiamare Elena e dirle che non sarebbe rientrato a dormire quella sera. «Ma perché non chiami tu?» chiese Renato. «Non la voglio sentire. Per favore.» Renato chiamò. Elena continuò a chiedere a Renato di passarle Bob. Bob si rifiutò di parlare. Elena urlò e Bob poté sentire la sua voce. Una voce disperata e sofferente. Una voce che gli spezzò il cuore. «Bob, non sono cazzi miei, ma forse dovresti tornare a casa da tua moglie. Sai, magari riuscite a risolvere que—» «No, Renato. Non c’è niente da risolvere per ora. Se per te non è un problema, resto qui.» «No, figurati.» «Ok.» «Vai, fumiamoci una canna.» «Oh, yeah.»

Quando più tardi Bob si stese sul materasso da campeggio srotolato sul pavimento, pensò che quella era la prima volta, da quando stavano insieme, che lui e Elena dormivano separati. Non era mai capitato. Nemmeno quella volta dell’addio al celibato. Quella serata di merda. La prima e unica volta che aveva tradito Elena. Bob non riusciva a prendere sonno. Si voltava e rivoltava. Prima supino poi prono. Lato destro e lato sinistro. Dalla finestra sul tetto penetrava la luce della luna. Bob pressò la faccia contro il materasso, si coprì gli orecchi con le mani e cominciò a piangere. Perché Elena era andata con DeBellis? Perché? Come avrebbe mai potuto, lui, Bob, affrontare lo sguardo arrogante di quell’uomo? Nei suoi occhi di ghiaccio avrebbe sempre visto il corpo nudo di lei. Bob si addormentò sperando che quello fosse solo un brutto sogno e che al suo risveglio accanto a sé avrebbe trovato il corpo caldo e splendido di Elena.

62 12

Qualcuno bussò alla porta. Elena si svegliò. La luce del sole, calda e accecante, si posava sulle sue cosce. Un’altra giornata torrida. Erano le 8 e faceva un caldo bestiale. Figuriamoci a mezzogiorno. Elena si sedette, i gomiti sulle ginocchia, il mento incuneato nei palmi delle mani. Bussarono di nuovo. «Ariiiivooo!» disse Elena. Era la prima volta, da quando stavano insieme, che al suo risveglio non si ritrovava Bob accanto. Una sensazione strana, quella. Una sensazione opprimente, che si amalgamava ai sensi di colpa per aver accettato e consumato la proposta di DeBellis. L’assenza di Bob confermava che tra loro s’era aperta una voragine, e questa voragine sarebbe presto divenuta una discarica da riempire di colpe, rimorsi, litigi, ripicche. E pensando che la scelta unilaterale di accettare la proposta di DeBellis fosse stato un grave errore, Elena sprofondò nei soliti pensieri deprimenti: perché sono stupida e istintiva? Perché non ragiono sulle cose e non cerco delle alternative? Perché ogni volta che faccio qualcosa me ne pento un attimo dopo? Perché non sono come Bob? Perché la natura m’ha dato tanta bellezza e poco cervello? Avvicinandosi alla porta, sperò che si trattasse di Bob. Lui sarebbe riuscito a consolarla. Lui avrebbe detto di non ritenerla una stupida. Aprì la porta. Era Rossana, come al solito vestita senza gusto, i capelli scompigliati. «Ehi, Elena. C-c-ciao. S-s-scusa se t’ho di-di… disturbato. Stavi dormendo?» «Sì, ma non ti preoccupare, anzi. Mejo così.» «S-s-scu-scusa.» «Non fa niente,» disse Elena. «Dimmi, ch’è successo?» «Niente. T-ti volevo invitare a p-p-pranzo,» disse Rossana. «Tu e B-b-bob. È domenica, oggi. F-f-facciamo la pasta al forno. S-se vuoi p-p-puoi venire a darci ‘na m-mano.» «Ok,» disse Elena. «Il tempo di farmi ‘na doccia e vestirmi, e vengo.»

Carezzandosi il corpo sotto lo scroscio d’acqua, Elena si compiacque di non provare più il ribrezzo dei giorni passati. Nel massaggiarsi le tette non pensava più a quando Nicola gliele aveva strizzate, famelico e rude. Le mani di DeBellis erano ora un ricordo. Un ricordo penoso, certo. Un errore madornale. Ma erano delle mani lontane. Elena era sicura che avrebbe ricordato quell’evento per sempre, ma i dettagli e le particolarità che lo rendevano un ricordo amaro avevano già preso a rarefarsi, mischiandosi all’aria che respirava. Era convinta, lo viveva su di sé: il tempo cura ogni cosa.

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Bob rientrò verso le 11. Era imbronciato, due borse così sotto gl’occhi, i capelli in disordine. Come prima cosa Elena gli avrebbe detto di farsi una doccia, di darsi una sistemata. Non lo fece, però. Si trattenne e attese che fosse lui a rompere il ghiaccio, ma lui taceva. Il caldo sembrava comprimere le pareti della casa e il mutismo di Bob rendeva il caldo ancora più opprimente. «Andiamo a pranzo da Rossana,» disse Elena. «È venuta prima a invitarmi—a invitarci. Va bene per te?» «Why not?» disse Bob.

63 «Però puoi essere un po’ più sorridente,» disse lei. «Così magari nun ce famo sgamà che stamo de mmerda?» «Ma noi stiamo di merda.» «E mica lo dobbiamo raccontà per forza a tutti. O no?» «E perché no?» disse Bob. «Alla fine io non ho fatto niente di male.» «Ah, no? Perché ‘r debbito l’avevo fatto io, giusto?» «Ah, la metti così?!» «La metto così sì!» «Quindi il fatto che io ho fatto quei debiti per aprire il negozio e dare da mangiare pure a te, per te non conta un cazzo.» «È chiaro che conta,» disse Elena. «Però tu te ne sei uscito con quest’idea ‘mpossibile d’aprire un negozio di dischi qui. In questo paese de mmerda.» «Idea impossibile? Così la chiami?» Bob accese una sigaretta. Le sue labbra, che fino a quel momento s’erano tenute in perfetta posizione-broncio, s’incrinarono in un ghigno strafottente. Bob sapeva che con le sue parole l’avrebbe ferita. «Invece l’idea di farsi scopare per soldi, quella come la chiami? Di sicuro non la chiami impossibile.» «Ahò, che bastardo che sei.» Andarono avanti ancora un po’. Stessi toni, stesse frecciatine. Botta e risposta per altri dieci minuti. Poi Elena si stancò. «Ehi, fai come cazzo vòi, hai capito?! Lo so che ho fatto ‘n erore, però non mi sembra nemmeno ggiusto che me lo devi rinfaccià a ogni occasione.» «A ogni occasione? Ma se è la prima volta?!» Un trattore passò sullo stradone del CEP. Il rombo del motore fece tremare i vetri delle finestre. «Siamo alla deriva, vero?» disse Bob quando Elena si fu seduta al tavolo di fronte a lui. «Nô so,» disse lei. «Ma sembra che ê storie che c’ha raccontato Giò Casino se stanno a avverà pari-pari.» «E che è, credi a quelle cose, tu?» «No. Però è da quanno è cominciata ‘sta canicola de mmerda che ê cose vanno male.» «Non è vero,» disse Bob. «Ah no?» «No. Se ci pensi, a Roma abbiamo avuto grossi problemi. E la canicola non c’entrava un cazzo di niente.» «Questo è vero, però quello che stiamo vivendo ora tu nô sai com’andrà a finire. Magari quello che avemo vissuto a Roma era solo l’inizio.» «L’inizio? L’inizio di cosa?» «Nô so. L’inizio d’una vita de mmerda.»

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Bob era seduto a capotavola. All’altra estremità c’era il padre di Rossana. Alla destra di questo, sua moglie. Poi Rossana, e Elena, che si trovava alla sinistra di Bob. Di fronte a Elena, la nonna; e alla sua destra, le due sorelle vipere. «Oggi è il primo agosto,» disse il padre di Rossana, «e ‘sta siccità va avanti da troppo tempo. Se non piove, stiamo tutti inguaiati. Dal primo all’ultimo. E dalla Regione che aiuti arrivano? Niente di niente. Tanto quelli, lì, a Bari, mica sanno che significa vivere ‘na cosa del genere. Lì sul litorale non sanno nemmeno cosa significa siccità.» «Lì si respira, è vero. L’aria è proprio diversa. Sono stato ieri a Tra—» Bob si maledisse. Elena lo guardò con sospetto. «Buona ‘sta pasta,» disse la nonna. «È vero,» disse Bob, che voleva cambiare discorso. «Ma chi l’ha fatta?» «Noi,» disse la madre di Rossana. «Compresa Elena.» «Buona,» disse Bob.

64 «Bob, dove sei andato ieri?» chiese una delle due vipere. «Stavi parlando poi ti sei fermato.» «Niente, sono stato a Trani.» «Ah, Trani. Bella città,» disse il padre di Rossana. «Sì.» «A fare cosa?» chiese l’altra sorella. «A… a… vedere un negozio di dischi.» Le due sorelle fissarono Elena. «E con chi sei andato?» chiese la prima delle sorelle. «Ehi, e che è?» disse la madre. «L’interrogatorio gli state a fare?» Bob sorrise all’indirizzo della madre di Rossana. Abbassò lo sguardo e si fissò il crocifisso d’oro impantanato tra i peli del petto.

Bevuto il caffè, Bob si scusò dicendo di dover andare ad aprire il negozio. Ringraziò e uscì. Elena lo rincorse nella tromba delle scale. «What?» si voltò Bob. «Dove stai andando veramente?» «Al negozio. Perché?» «Non lo so.» «Ciao.» «Lasciami le chiavi,» disse Elena, «ché quê mie l’ho lasciate dentro.» «Te le prendo e te le do. Aspetta.» Quando Bob se ne uscì, Elena restò qualche minuto seduta al pianerottolo della casa di Rossana. Bob era stato a Trani. C’era andato con quel Renato Consuelo, sicuro. E cosa erano andati a fare? Di certo quella del negozio di dischi era una cazzata. E se erano andati a puttane? Magari Bob aveva deciso di prendersi una specie di rivincita in quel modo. Chi poteva saperlo. Gli uomini sono strani, non si sa mai come le prendono certe cose. «Ti possiamo parlare un minuto?» chiese una delle sorelle, spuntando alle spalle di Elena. «Sì, che c’è?» «Niente, è per quei soldi che t’ha prestato Rossana.» «I soldi che ancora gli devi dare,» aggiunse l’altra. «La prossima settimana,» disse Elena. «Seee… Tu dici sempre così, e poi non si vede mai ‘na lira.» «Ma, scusate, perché siete venute voi a chiedermi i sordi? Perché non è venuta Rossana a dirmi che c’ha bisogno?» «Perché lei si vergogna.» «Si vergogna? Ar massimo devo èsse io a vergognamme, non lei.» «Lei è fatta così. Se me li dovevi dare a me, i soldi, vedevi.» Elena sapeva che le due erano invidiose della sua bellezza. Sapeva che erano delle zitelle destinate a restarlo per il resto della vita. Ostilità, invidia e acredine screziavano le loro iridi. «Tra ‘na settimana è la Festa. I soldi li vogliamo vedere prima della Festa, ché Rossana c’ha pure da comprarsi il vestito, da andare alla parrucchiera, eccetera. E poi, Festa o non Festa, ‘sti soldi, tu, li devi restituire.» «E quand’è che lei restituisce i settantotto euro che deve dà al mini-market?» Elena si maledisse. Forse non era stato un passo falso fatale, ma di certo avrebbe attivato la loro indomita curiosità. Le due la fissarono in silenzio. Era mai possibile che fosse lei l’eroina che aveva sottratto dalla gogna dei debiti molti paesani? «E tu che cazzo ne sai dei debiti che c’ha lei?» «Lo so.» «Mica l’hai rubato tu il quaderno?» «No. Però so che lei c’aveva ‘n debbito. Settantotto euro.» «Quelli, però, non sono cazzi tuoi.»

65 «‘O so,» disse Elena. «Però, visto che hanno rubato ‘r quaderno e lei nun li deve pagà più quei sordi, allora, dico io, non può aspettà pe’ quelli ch’ha prestato a mme?» «Ma tu senti a questa?!»

Elena rientrò in casa dopo aver aiutato la madre di Rossana a spazzare e lavare i pavimenti. Dentro di sé non faceva che pensare alle parole che le avevano detto le due sorelle. Erano andate da lei di loro iniziativa o le aveva mandate Rossana? Mise su la moka. Aprì il frigorifero e fissò l’insalata di riso che ormai mangiavano da giorni. Dalla ghiacciaia tirò fuori del ghiaccio. Ci volevano 2-300 euro in una settimana. Senza pensare alla Festa. Ma soldi non ne avevano. Poggio Rock non andava e non c’erano altre entrate. Uscite e solo uscite. Da settimane non faceva una spesa decente. Persino la carta igienica che stavano usando gliel’aveva prestata Giò Casino. Per non parlare del vino. E ora Rossana rivoleva i suoi soldi. E i soldi che le aveva prestato la madre? Doveva ridare anche quelli. Elena non se la sarebbe sentita di ripagare solo Rossana. Il caffè era pronto. Lo versò in un bicchiere che aveva riempito di cubetti di ghiaccio. Elena sapeva di avere pochissime opzioni a disposizione. Due, in verità. La prima, triste e sinistra: rivolgersi a DeBellis e chiedergli dei soldi in cambio di sesso. La seconda, ridicola: bussare alla porta di Giò Casino e supplicarlo di darle una mano. Se n’era uscita con la seconda opzione solo per lasciarsi un ultimo dubbio, un ostacolo. Un modo per mentire a se stessa. Un modo per illudersi d’avere ancora una coscienza e una morale integre. Buttò giù il caffè, sbatté il bicchiere sul tavolo, si colpì le cosce con le mani, si alzò e disse ad alta voce: «Ormai il danno è fatto. Che cambia se succede una, due, o tre volte?» Rovistò nella borsa alla ricerca del telefonino. Lo prese. Lo stringeva e sentiva il sudore inondarle il palmo. Quel semplice oggetto ricoperto di tasti, una volta composto il numero, mutava nella luce in fondo al tunnel. Mutava in un anestetico che avrebbe intorpidito ogni sua preoccupazione ma che, finito l’effetto, l’avrebbe resa schiava, dipendente, soggiogata. «Pronto?» rispose DeBellis. «Sono Elena, ti devo vedere.» «Mi devi vedere, eh?» «Sì, sei a casa?» «Sì.» «Arrivo. Ehm… prepara i sordi.» «Solo i soldi?» «Che fijo de ‘na mignotta,» disse Elena, e pigiò il pulsante con la cornetta rossa. Rimasta in compagnia della eco delle sue parole, pensò di richiamarlo e disdire. Errare è umano ma perseverare—si dice così?—è diabolico. Elena stimolò la memoria. Rivide davanti a sé Bob che diceva di non averla mai tradita. Lo rivide mentire. Certo che l’aveva tradita! Ne era certa. Forse la tradiva ancora. Forse a Trani con quel Renato Consuelo andavano a puttane. Elena rimase immobile a fissare il vuoto. La sorte non poteva essere così cinica e ironica: Bob andava a puttane e lei sceglieva di diventarne una. Sentì una bolla gonfiarsi nel petto. Le pressava la gabbia toracica. Stava per scoppiare. Elena si fiondò in bagno e si sciacquò il viso più volte. Rinfrescarsi e riprendersi. Rinfrescarsi e svegliarsi da quell’incubo. Indossò una camicia rosa corta e stretta e dei jeans scuri aderenti che si allargavano a zampa d’elefante da metà polpaccio in giù. A tracolla portava una borsetta vintage qualche grado più scura della camicia. Elena preferì non indossare orecchini o collane o altri gioielli perché credeva che DeBellis non meritasse di averla al massimo dello splendore. Voleva sentirsi in qualche modo ordinaria e imperfetta. Colpevole e imperfetta. Una puttana qualunque.

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Prima di cominciare Elena chiese a DeBellis quanto le avrebbe dato. Elena sperava che le offrisse almeno 100 euro. Non l’avrebbe fatto per meno. «Io ti posso dare centocinquanta,» disse lui. «Facciamo duecento,» disse lei. «Duecento euro sono duecento euro,» disse Nicola, banale come la prima volta. «E cosa credi che io valgo meno di duecento euro?!» «Ok,» DeBellis le carezzò la guancia col pollice. «Però ti devi far baciare.» Elena sentì un brivido correrle lungo la schiena. Non era un brivido di ribrezzo per DeBellis o per se stessa o per quello che stava facendo. No. Il brivido nasceva dal compiacimento provato nel contrattare. La soddisfazione partorita dalla consapevolezza di avere quel potere.

Quella seconda volta le cose erano andate meglio. Elena non aveva avvertito lo stesso orrore trapassarle il cuore. Dallo stomaco non le era rigurgitato lo stesso schifo della volta prima. A letto era stata accondiscendente, conscia che solo in quel modo la cosa sarebbe durata poco. «Ora devo andare,» disse dopo essersi rivestita e aver bevuto un bicchier d’acqua. «Aspetta, senti, ti devo dire ‘na cosa.» «Che c’è?» «Siediti.» «No, dimmi, che c’è?» «Siediti,» disse DeBellis. «Senti.» «Veloce, eh,» Elena si sedette, «ché me ne devo andare da qui. Solo se me vede quarcuno…» «Sì, faccio veloce. Senti, diciamo che io, dopo quella volta, diciamo che… ehm… che…» «Che?» «Che… diciamo che l’ho detto a un amico.» «Mortacci túa!» disse Elena, alzandosi dopo aver sbattuto le mani sul tavolo. «Ma come te sei permesso?! Doveva rimanè tra noi.» «L’ho detto così, scusa. Però lui non lo dirà a nessuno, non ti preoccupare.» «Mannaggia…» «Comunque, il mio amico si chiama Tito. È alto, magro, un bell’uomo. L’hai visto il giorno dell’inaugurazione del negozio. Quello se n’è andato di testa per te.» «E chi se ne frega,» disse Elena. «Comunque, lui m’ha detto che sarebbe disposto a… hai capito, no?» «Ahò, ma pe’ chi m’hai preso, pe’ ‘na puttana?!»

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Elena camminava a passo spedito, la borsetta vintage stretta contro il fianco destro. Lì c’erano i 200 euro. I soldi da dare a Rossana e sua madre. I soldi che, almeno fino alla Festa, avrebbero rimesso a posto le cose. Elena sentiva la camicia incollata alla pelle. Sentiva il sudore scorrerle sotto le ascelle e solo in quel momento riuscì ad apprezzare in pieno la frescura di casa DeBellis. Non si sentiva sporca. Non aveva commesso un errore a recarsi da lui. Non questa volta. Stavolta provava un’appagante sensazione d’indipendenza e intraprendenza. E mentre procedeva sull’asfalto bollente del Corso, si compiacque del fatto che lei—con Bob o senza Bob, a Roma o a Poggiorsini, in Italia o negli Usa—lei se la sarebbe sempre cavata. E le andava bene anche che per fare ciò vendeva il suo corpo. Certo! Ognuno dispone dei propri mezzi come crede.

67 Elena si sentì ancora una volta infiammata dall’adrenalina e il brivido di chi agisce in segretezza. Come una bandita o una fuorilegge. Come suo padre.

68 13

I primi tre giorni, allucinanti. Il chilo d’erba, quasi finito. Bob non credeva ai suoi occhi. Renato era riuscito a vendere 400 grammi a un tipo di Spinazzola; 30 se li erano divisi tra loro e i restanti 570 li aveva venduti Bob al negozio. Avevano fatto 70 bustine da 20 e 45 da 50. Dei ragazzi avevano speso centinaia d’euro. Alcuni erano prima passati per un paio di bustine da 20, poi erano ritornati per altrettante da 50. Sembrava che fino ad allora ci fosse stata una carestia. Renato era la cura, altro che “diserbante”, come l’aveva chiamato Giò Casino. Era filato tutto liscio, tranne il tipo che aveva rotto un vinile: gl’era caduto dal motorino e s’era spezzato in due. Inside Out dei Miracle Workers. Un bell’album. «La prossima volta dagli solo la copertina,» aveva suggerito Renato. Avevano diviso i soldi. Bob poco meno di 2000 euro e Renato quasi il doppio. «Renato, scusa, ma se sapevi che l’avremmo venduta subito, perché non ne hai presa di più?» «Bob, tu c’hai ancora tante cose da imparare,» disse DDT. «Intanto, non c’avevo i contanti per prenderne di più; e poi, più importante, devi sapere che a me i soldi che abbiamo fatto mi servono. Io devo ricominciare. Io c’ho una reputazione. Hai visto come mi tratta don Nicola? Beh, anni fa non si sarebbe mai permesso. E sai perché? Perché anni fa DDT era conosciuto in mezza Puglia. Ora, però, mi tocca ricominciare. E insieme a te, forse, ce la posso fare. Bob, mi capisci?» «Sì, ma la Festa è tra cinque giorni e non c’è rimasto niente,» disse Bob. «L’hai detto pure tu che alla Festa tutti si vogliono sballare.» Erano a Poggio Rock, il loro quartiere generale. Fuori il caldo non lasciava scampo. Tra le pareti del negozio, invece, si stava freschi. Dopo I’m a man e A legal matter degli Who, Bob aveva messo su Jimi Hendrix. Highway Chile, Ain’t no telling, Little wing. Su richiesta di Renato, aveva rimesso Highway Chile—che ora riempiva il negozio. Renato aveva appena rollato una canna e sedeva dietro il bancone. «Bob, io non posso fare un’altra spedizione ora. E nemmeno tu. Ho bisogno del tuo aiuto, dei tuoi soldi. Vai, accendi,» Renato gli passò la canna. «Quello che abbiamo fatto con questo affare, diciamo che è già speso. Nel senso che ho una situazione in corso e ho bisogno di finanziarla. Una situazione importante. Se mi dai ‘na mano pure tu, allora posso davvero ricominciare, posso davvero fare vedere a tutti chi è DDT.» «Ma Renato,» Bob accese la canna. «Noi non possiamo perdere quest’occasione. La Festa ci farà fare ancora di più. E poi, scusa, cos’è questa situazione importante che dici tu?» Qualcuno bussò alla porta. I due si scambiarono sguardi perplessi. Chi sarà mai? Bob aprì gli scuri, la canna in un angolo della bocca. Come prima cosa vide il cappello. Poi la camicia celeste. Le bande rosse dei pantaloni. «Cazzo, i carabinieri!» Bob si voltò verso Renato. «Apri,» disse Renato. «Senti che vogliono.» «Un attimo solo,» disse Bob al carabiniere, «prendo le chiavi e arrivo.» Si precipitò dietro il bancone. Gli batteva forte il cuore. Aveva paura che qualcuno li avesse sputtanati. Su suggerimento di Renato fece un lungo respiro, infilò in tasca le ultime bustine d’erba e stoppò Jimi Hendrix. Lasciò la canna accesa in un posacenere e prese le chiavi della porta. «Scusi,» disse Bob. «M’ero dimenticato di lasciare le chiavi attaccate.» «Che stiamo facendo qui, eh, Consuelo?»

69 «Niente, marescia’, stiamo solo fumando.» «State solo fumando, eh?» disse il maresciallo. «Marescia’,» disse Renato. «Lei lo sa, ormai sono una persona pulita. Però ‘na canna di tanto in tanto non la riesco a rifiutare.» «E lei, Cammeruomo, non lo sa che nei luoghi aperti al pubblico non si può fumare? Sono anni che è così ormai. E le regole vanno rispettate pure qui a Poggiorsini.» «Ma, maresciallo, il negozio è chiuso,» disse Bob. «Stavamo fumando qui perché fuori si muore dal caldo.» «Non lo dite a me che devo girare per il paese in una Uno senza aria condizionata.» Renato e Bob sorrisero accondiscendenti. Il maresciallo si guardò intorno. Si tolse il capello e lo poggiò sul bancone. Diede le spalle ai due e iniziò a camminare a passo lento lungo il perimetro del locale. Si fermò davanti al poster di Johnny Thunders. Storse il muso: un tossicomane come altri. Proseguì, lanciando occhiate furtive e disinteressate alle copertine dei vinili. Toccava qualche disco come a sincerarsi che fossero veri. «E un poco di musica, qui, non si può sentire?» disse il maresciallo. «Italiana, per favore.» «Sicuro,» disse Bob. Il primo pensiero: Lucio Battisti. Gli stolti dicevano che era fascista. Gli stolti dicevano che tutti gli sbirri erano fascisti. Non c’era niente di male, per una volta, a darla vinta agli stolti.

Ho visto un uomo che moriva per amore Ne ho visto un altro che più lacrime non ha Nessun coltello mai ti può ferir di più Di un grande amore che ti stringe il cuor

«Dieci ragazze per me, non posson bastaaareee,» canticchiò il maresciallo. «Bella canzone. Bravo, Cammeruomo —voglio dimenticareeee. Capelli biondi d’accarezzare e labbra rosse sulle quali morire.» Il maresciallo continuò la sua ispezione senza smettere di canticchiare. Poi la canzone finì. «Beh, signori, vi lascio alle vostre cose,» il maresciallo raccolse il cappello. «Eh, Consuelo, mi raccomando, ché mo arriva la Festa e non voglio vedere nessun movimento strano. Ci siamo capiti?» «Sì, marescia’.» «E anche lei, Cammeruomo.» «Nessun movimento strano,» disse Bob. «Ho parlato con sua moglie,» disse il maresciallo. «Per la questione dell’assegnazione. Forse vi va bene.» «Ah, sì? Non m’ha detto niente.» «Glielo chieda. Il Tribunale di Bari deciderà prima della fine dell’anno. Se vi va bene—come sembra— potete restare; se no, dovete lasciare la casa ai legittimi assegnatari.» Il maresciallo si sporse oltre il bancone. Notò la canna fumante e guardò Renato di sbieco. Dopo un dietro-front impeccabile, calzò il cappello e s’avvicinò all’uscita. «Chi è quel cantante?» il maresciallo indicò Johnny Thunders. «Lui? Johnny Thunders,» disse Bob. «Il suo vero nome era John Anthony Genzale Junior. Italo-americano come me. È morto, purtroppo.» «Ah, è morto. E com’è morto?» «Non si sa ancora di sicuro,» disse Bob. «Ci sono tante versioni e tante cose contraddittorie nella storia. Però la voce più accreditata è che sia morto per overdose.» «Ti pareva,» disse il maresciallo e uscì.

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70 Bob restò al negozio fino alle 8, solo. Ascoltò Johnny Thunders e qualche pezzo dei New York Dolls. Contò e ricontò i soldi. Provava piacere nel contarli e, soprattutto, provava piacere all’idea di sbatterli in faccia a Elena. Per dimostrarle che non c’era bisogno di prostituirsi per guadagnare qualcosa e risollevarsi. Per dimostrarle che averlo fatto era stato un errore gravissimo dettato dalla sua impulsività. Bob avrebbe insinuato quello che credeva, e cioè che lei era andata con DeBellis anche per un intimo piacere personale. Un piacere tutto femminile. Contando per l’ennesima volta i soldi, Bob ripensò alla chiacchierata avuta con Renato. Il mistero dietro la sua situazione importante non lo convinceva per niente. Renato voleva usare i soldi di Bob senza dirgli di ciò che si trattava. E poi, a parte questo, Renato preferiva il mistero e l’incertezza della sua situazione, alla sicurezza di un altro paio di blocchi di marijuana. Bob ebbe un’idea. Doveva andare a Trani e investire i suoi soldi. Nel giro di due, tre giorni ne avrebbe tirati su il triplo, il quadruplo. Con quei soldi, poi, avrebbe aiutato Renato con la sua situazione e gli sarebbe pure avanzato qualcosa. Certo, questa sì che era una situazione da non lasciarsi sfuggire. E senza mettere in mezzo Renato. O, tutt’al più, dandogli un contentino per avergli presentato Tonino e don Nicola. In percentuali, il 10%.

71 14

Da giorni Bob e Elena non facevano l’amore. Non si sfioravano nemmeno. La camera da letto era ora un luogo tragico, inquietante, gelido. La cella frigorifero di una macelleria. Un luogo in cui meno tempo ci passavano e meglio era. Lì Elena si prostituiva. Lì Bob aveva sentito l’odore di altri uomini. L’odore della loro biancheria. Il profumo dolce e aggressivo di un dopobarba—che Elena aveva tentato invano di cancellare a colpi d’insetticida. Il dopobarba di Tito, l’amico di DeBellis. Elena aveva invitato i due in quella camera. Lì aveva consumato con loro. In quello stesso letto. Uno alla volta, però. Triangolo evitato con una battuta dotata di un’arguzia che Elena credeva di non possedere. «Però uno alla volta,» aveva detto, «anche perché non sono mai stata brava in geometria.» I volti dei due s’erano corrugati. Poi avevano capito la battuta. Allora avevano sorriso, e coi sorrisi s’erano rassegnati. Uno alla volta.

L’umore di Elena era un’insegna al neon. Da nero e inconsolabile ad appagato e solare. Da appagato e solare a nero-nero. Una volta credeva che si fosse concessa già troppo; un’altra sperava in sempre più clienti. Una volta Bob era l’unico uomo degno di averla; un’altra era colui che disseppelliva i sensi di colpa e le ricordava lo squallore di quella che ormai era la sua nuova vita. Alcuni giorni si svegliava con un groppo in gola, si chiudeva in bagno e piangeva, piangeva, piangeva; altri si svegliava senza degnare Bob d’uno sguardo, sorridente e fredda, e si convinceva che solo accantonando le emozioni sarebbe riuscita ad accogliere in quella stanza i clienti della giornata. Elena aveva ripensato alle storie di Giò Casino su Sirio, la canicola, i greci, i romani e gli egizi—si diceva “egizi” o “egiziani”? Era possibile che il suo umore fosse lo specchio di quanto accadeva a Sirio? Era possibile che le sue scelte fossero dettate dagli astri? Era possibile che la loro vita fosse condizionata da quelle cose? E se così fosse, lei si sarebbe stabilizzata soltanto il giorno di sant’Alessandro, il 26 agosto, il giorno della fine della canicola, quando Sirio sarebbe tramontata per l’ultima volta assieme al sole? Per ora c’era distacco, freddezza e due vite diverse. Per ora c’era la voragine spalancatasi tra loro. E quella voragine, che li teneva separati e distanti, si stava riempiendo di sguardi risentiti, di mutismo, d’indifferenza. Che Bob tornasse a dormire o no, non era più un problema. Che Bob passasse più tempo con Renato Consuelo che con lei, non era un problema. Che si stessero adattando alla grama condizione di separati-in-casa, non era importante. E non era importante nemmeno che il sogno di trasferirsi in America stesse svanendo.

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La mattina del primo giorno della festa patronale, il 9 agosto, Elena aveva in programma di vedere Tito a mezzogiorno. Di solito Bob rientrava verso l’una. Se rientrava. Quella sarebbe stata la terza volta che lo faceva con Tito. 200 euro per una ventina di minuti di sesso non erano male. Per giunta lui era poco esigente. Come con tanti uomini, bastava succhiarglielo un po’ all’inizio e poi mettersi a novanta.

72 Il palazzo era movimentato. E quello non era un bene. Ragazzini che salivano e scendevano; donne che entravano e uscivano dagli appartamenti in alto. Occhi intriganti. Bocche leste e mai dome. Insinuazioni e pettegolezzi pronti a spuntare come funghi. Alle 11:45 Elena sentì una macchina parcheggiare sotto casa. Da dietro la finestra vide che si trattava di Nicola DeBellis. Con lui c’era anche Tito. I due indossavano delle tute blu da metalmeccanici. Tito teneva in mano una cassetta degli attrezzi. Elena aprì il portone e spalancò la porta di casa. «Muovetevi!» disse. I due entrarono. «Beh, e allora?» Elena li invitò a guardarsi. «Allora cosa?» disse DeBellis. «Perché siete vestiti così e perché sei venuto pure tu?» «Elena, qui le persone parlano,» Nicola si sedette. «Lo sai, no? Oggi è pure il giorno della Festa. Nessuno va a lavorare e stanno tutti qui. Se vedono che lui viene a casa tua, cosa devono andare a pensare? Allora Tito ha avuto ‘st’idea: ci mettiamo queste tute e ci portiamo la cassetta, così se ci vede qualcuno, c’abbiamo la scusa che magari tu m’hai chiesto di sistemarti qualcosa in casa.» Ingegnosa come mossa, era innegabile. «Bene,» disse Elena. «Però muoviamoci.»

A mezzogiorno e venti Elena e Tito avevano già finito. «E a me, così mi lasci?» disse DeBellis, finto-offeso. Elena si portò anche Nicola in camera da letto. Temeva che Bob arrivasse da un momento all’altro. Dovevano sbrigarsi. Niente di più di una sveltina.

All’una meno un quarto la Kompressor di DeBellis lasciò lo stradone del CEP. Bob poteva arrivare da un momento all’altro. Sempre se. Forse una volta in casa avrebbe sentito l’odore di sesso. Forse sì, forse no. Forse l’avrebbe sentito e avrebbe fatto finta di niente. Chi se ne fregava? Tanto Bob l’aveva già capito. Elena si sentiva possente, indipendente. Governava le sue azioni. Teneva in pugno quei due uomini ricchi e generosi. In poco meno di quaranta minuti aveva raccolto 320 euro. Bob, invece, quanto tempo c’avrebbe messo per fare gli stessi soldi? Mesi, forse. E pensare che quel taccagno di DeBellis le aveva dato 120 anziché 150. «Una sveltina, come dici tu, non può costare lo stesso,» aveva sorriso mentre le passava i soldi. «Sei proprio ‘n fio de ‘na mignotta, tu.» «Fio de ‘na mignotta, eh?»

All’una Bob non era ancora rientrato. Elena s’era fatta una doccia e ora era in cucina. Stava affettando una cipolla quando fu distratta dalle urla che rimbombavano nella tromba delle scale. S’avvicinò alla porta. Diede un’occhiata attraverso lo spioncino. Niente. Aprì la porta, si sporse all’esterno e tese l’orecchio. «Jè venùte da dò càzze jè venùte pe fé nu burdèlle!» sentì urlare. «E tu, ma’, ti metti sempre a difenderla. Quella è ‘na puttana, lo vuoi capire o no?!» «Non bestemmiare!» sentì la madre di Rossana rispondere alle sorelle che urlavano. «Non bestemmiare? Io sto solo dicendo la verità,» continuò una delle due. «Quella è ‘na puttana di prima categoria.» «Elena-la-romana!» urlò l’altra sorella. «Mo fa finta di non sentire. Vieni fuori, la romana.»

73 Elena fece qualche passo sul pianerottolo. Guardò in alto. Le sorelle di Rossana, in piedi sulla rampa di scale, guardavano verso di lei. Una qualche gradino più in basso dell’altra. Quando la notarono, scesero risolute alla rampa successiva. «Ch’è successo?» domandò Elena. «Ch’ho fatto di male?» «Cos’hai fatto? Cosa ti credi, che non li abbiamo visti, noi, a quelli? E mica solo oggi. So’ giorni che si fanno vedere. Tu pensi che c’abbiamo le bende agl’occhi?» «Ma che ve state a ‘nventà?» Elena fece la finta tonta. «A te ti devono cambiare il soprannome: invece di Elena-la-romana ti devono chiamare Elena-la- puttana.» «Ma come ti permetti?!» disse Elena. «‘Sta vipera.» «Vipera a mia sorella?!» «Vipera pure a te!» disse Elena. Le due scesero qualche gradino. Elena fece un passo indietro. Elena sperò che Bob non rientrasse in quel momento. Non voleva dimostrargli di avere ancora bisogno di lui. «Ora lo so come hai fatto a pagare il debito che c’avevi. Ora lo so. A te ti basta aprire le gambe e t’arrivano i soldi. Ecco come fai. Puttana! Zoccola! Zoccola che non sei altro.» In quel momento Giò Casino uscì di casa. Con un cenno del capo e lo sguardo, chiese a Elena cosa stesse succedendo. «Gnente,» disse Elena, «non ti preoccupare.» «Dillo, dillo,» disse la più giovane delle due sorelle. «Dillo che ti sei messa a fare la puttana.» «Venitevene sopra!» urlò la madre. «Stàtte cìtte tu,» disse l’altra sorella. «Vattene dentro e pensa a difendere le tue figlie, e non na puttana che viene da Roma e vuole trasformare ‘sto palazzo in un bordello.» «Si può sapere che cacchio sta succedendo?!» domandò Giò. «‘Ste vipere me stanno a chiamà puttana perché so’ ‘nvidiose,» disse Elena. «Chissà da quando non c’hanno ‘n omo—se mai l’hanno avuto—e se la prendono con me e s’inventano che mi so’ messa a fà la puttana. Ma le puttane vere so’ loro.» Giò Casino guardò le sorelle: erano aggrappate alla ringhiera delle scale come due iene affamate; poi volse lo sguardo verso Elena: era sicura di sé, strafottente, bella. «Brutta zoccola maledetta,» disse una delle sorelle, scendendo tre gradini. Era ormai a un passo dal pianerottolo. Aveva Giò a un metro e Elena a due. «Come ti permetti di—» «Ma vaffanculo,» disse Elena. «Ehi, ehi, ehi!» cercò di calmare gl’animi Giò Casino. «Mo basta!» «Dillo a loro,» disse Elena. «No, pure tu,» disse Giò. «Mo basta.» «Allora, Elena, perché non ci spieghi cosa sono venuti a fare quei due, oggi?» disse la sorella che si manteneva più lontana. «E visto che ci sei, perché non ci dici cosa sono venuti a fare l’altro giorno e il giorno prima ancora? Dai, su, dicci come mai questi qui vengono, entrano a casa tua, stanno ‘na mezz’oretta e poi se ne vanno felici e contenti.» «E mica so’ cazzi vostri,» disse Elena. «Hai visto, Giò?» disse quella vicina a lui. «C’ha qualcosa da nascondere.» «Elena, figlia mia, la vogliamo fare finita ‘na volta per tutte?» Elena annuì, continuando a fissare le due. «E allora dimmi a mmé cosa so’ venuti a fare questi uomini e chi erano e poi vedrai—» «Uno era Nicola DeBellis. L’abbiamo visto coi nostri occhi.» «Va bene, va bene,» Giò cercò di calmare le due sorelle. «Allora, Elena, dimmi a mmé.» «Giò, Nicola DeBellis lo sai che è amico di Bob. Allora j’ho chiesto se mi poteva dà ‘na mano e quello ha portato ‘n amico suo che—» «E cosa so’ venuti a fare?» domandò Giò. «So’ venuti a sistemà ‘r… a sistemare il bagno,» disse Elena. «Loro scommetto che li hanno pure visti com’erano vestiti.»

74 Una mossa ingegnosa quella di Tito, senza ombra di dubbio. «E poi, non ho capito,» disse Elena. «Che cazzo ve ne frega a voi di chi viene a casa mia e quanto tempo ce sta e tutte ‘ste cose?! Ognuno fa quer cazzo che vòle. Io mica vi vengo a dí dove dovete annà o co chi.» «A sistemare il bagno? Questa sì che è da ridere.» «Ma non li hai visti com’erano ves—» «Ma a chi ti credi di prendere in giro? Quelli so’ venuti a scoparti. Punto e basta.» Elena sentì montare la rabbia. Elena strinse in denti. Sentì il cuore batterle forte, forte, forte. Le pulsava nella gola. Forte, forte, forte. Fatto un passo in avanti, soffiò come un gatto, allungò il braccio e afferrò per i capelli la sorella che le stava più vicina. Strattonò con violenza. Una, due, tre volte. Una ciocca riccia e sporca le rimase tra le dita. Scosse la mano: la ciocca fluttuò a mezz’aria e andò a posarsi sui piedi di Giò Casino, spinto spalle al muro dall’irruenza di Elena. Le due sorelle gridarono a squarciagola, una per il dolore, l’altra per solidarietà. Quella che s’era mantenuta più distante s’avventò contro Elena. Uno colpo dietro l’orecchio destro e uno schiaffo sulla guancia sinistra. Le unghie tracciarono due piccole linee sul naso di Elena. Elena sentì il bruciore dei graffi e per un momento—velocissimo e impalpabile—pensò che avrebbe potuto paragonare le due sorelle a dei graffi. Sì, erano proprio dei graffi quelle due. Irritanti e fastidiose. Insignificanti e fastidiose. Elena si lanciò agitando le braccia davanti a sé, la testa ritratta, gli occhi semichiusi. «Aaaaahhhhhaahahahha!» urlava a bocca spalancata. Sentiva le ossa delle mani, dei polsi, degl’avambracci scontrarsi con quelle delle due sorelle, che ora s’erano avvicinate l’una all’altra e si proteggevano il capo. Elena picchiava senza tregua e senza mira. Una spalla, un gomito, una gota, le dita di una mano. La testa, un orecchio, il mento. «Eeeeeehi!» gridò Giò Casino. «Àvaste mo! E che siete, animali?!» Strattonò Elena tirandola a sé. La separò dalle due. Un capello impigliato sotto un’unghia di Elena disegnò nell’aria la traiettoria del suo movimento all’indietro. In vita sua Giò non aveva mai assistito a una lite tra donne. Le aveva sentite urlare e sbraitare. Le aveva viste sbavare di rabbia. Ma non aveva mai assistito a una cosa del genere. «Zoccola e puttana,» disse una delle due sorelle, piangendo. «Mo non ricominciamo,» disse Giò Casino. «Andatevene a casa.» «Vipere!» disse Elena. «Pure tu, Elena,» Giò la spinse verso casa sua. «Andiamo dentro.» Prima di entrare, Giò scorse le due sorelle. Erano sedute a metà rampa e si leccavano le ferite.

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A parte un forte odore di dopobarba, Giò Casino fu impressionato dalla sporcizia, dal disordine, dall’incuria che regnava in casa. Quei due giovani belli e innamorati erano allo sbando. Perché—loro che potevano—non se n’andavano in America? Quale forza indecifrabile li tratteneva lì? La stessa che li stava amalgamando alle altre famiglie del CEP? La stessa che li avrebbe sputati al primo rigurgito? «Elena, figlia mia,» Giò si sedette al tavolo della cucina. «Ma cosa vi sta succedendo a voi?» «In che senso?» Giò disegnò un semicerchio con un braccio. «Nel senso che qui non si capisce niente. E poi, Elena, posso sapere dov’è Bob? È al negozio, m’immagino. Ma quando torna?» «E che ne so io?» disse Elena. «Di solito torna all’una, quanno torna. Ma, Giò, lo sai, è da un po’ che non ci parliamo e lui si fa i cazzi súa e io mi faccio i cazzi mía. Sta sempre co quer Renato Consuelo.» «Quello è da evitare,» disse Giò. «È come un diserbante: quello che tocca, muore. E te lo dice un agricoltore, un produttore di vino che di diserbanti ne capisce. E gliel’ho detto pure a Bob: Non t’andare a immischiare con quello!, ma lui niente, non la vuole sentire. Comunque,» Giò s’alzò dalla sedia. «Ho bisogno d’andare in bagno. Si può?»

75 «Sicuro.» Giò non aveva da pisciare. Tanto meno da cagare. Giò voleva controllare il bagno. Vedere se c’erano i segni di lavori fatti di recente. Un po’ di polvere, un pezzo di nastro isolante lasciato lì, un filo di lana di vetro, qualcosa. Guardò dietro la tazza del cesso. Niente. Passò la mano sui flessibili dietro il bidè e il lavandino. Niente. Il pavimento lucido, senza un filo di polvere. Non c’era stato nessun lavoro. Elena aveva mentito. Giò uscì dal bagno masticando saliva amara. «Elena, figlia mia, ora mi devi spiegare un poco di cose,» si sedette. «Intanto, ce l’hai un po’ di vino mio?» «Penso di sì. Aspetta ch’ô prendo.» Elena era nello sgabuzzino. Giò s’era alzato per vincere il nervosismo che lo braccava. Era vicino alla finestra e guardava fuori. La Mondeo di Bob era lì, come sempre. Le macchine degli altri del CEP erano parcheggiate a capocchia lungo lo stradone, come sempre. Cielo terso, sole alto accecante e caldo, e manco una nuvola. Una canicola coi controcazzi. In fondo allo stradone Giò vide Bob. S’era fermato a coccolare una cagna randagia. Ora era a terra e rotolava assieme all’animale. «Ecco il vino,» disse Elena, la damigiana in mano. «Ma un poco di bianco fresco non ce l’hai?» domandò Giò. «C’è ‘na bottijia a metà ‘n frigo, mi sa.» «Mezza bottiglia basta e avanza,» disse Giò Casino. «Come vuoi.» Bob aveva lasciato la cagna e si avvicinava a casa. Giò ritornò a sedersi. «Giò,» Elena poggiò bottiglia e bicchiere sul tavolo. «Grazie di essere intervenuto.» «So’ quelle due che mi devono ringraziàre.» «No. Grazie. Davéro.» «Elena, un altro bicchiere, per favore.» «Io non ne voglio, grazie,» disse Elena. «Ma penso che Bob lo beve un’o due prima di mangiare.» «Buh se viene, e a che ora.» «Sta arrivando,» disse Giò.

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A parte un forte odore di dopobarba—di quel dopobarba, Bob avvertì un senso di disagio nel vedere Giò Casino in casa sua, il viso accigliato, un bicchiere di bianco in mano—il suo bianco—e Elena in piedi, silenziosa. Sembrava come se Elena gli avesse appena svelato un segreto—il motivo della loro fuga da Roma?—e se ne stesse lì, in attesa che Giò lo mettesse alle corde con le sue domande impertinenti. «Ciao Giò,» disse Bob, «che ci fai qui a quest’ora?» «Io? Tu, piuttosto: che ci fai qui a quest’ora?» «In che senso, scusa?» «Nel senso che tua moglie ha bisogno di te,» disse Giò. «Tu non ci sei mai e non ti rendi conto di quello che succede.» «Perché, cos’è successo?» «È successo che ti devi combortare da uomo e a tua moglie la devi difendere tu.»

76 «Guarda che Elena se la sa cavare benissimo da sola, te l’assicuro.» Elena s’inorgoglì per quel commento, malgrado il velo di scherno. «Oggi ha litigato co’ quelle due ‘ntriganti che abitano sopra,» Giò indicò il soffitto. «Ma ‘na lite che io in vita mia non avevo mai visto. Due contro una. E quelle che la chiamavano puttana e lei che s’è difesa e le ha fatte piangere a tutt’e due. Ma questo non conta, non c’entra niente. Sei tu, il marito, l’uomo, che devi essere presente a difenderla dalle accuse della gente. E non solo col fisico, ma pure con la mente, col cuore, con lo spirito.» «Ehi, Giò, mi sa che mo ti stai facendo un po’ troppo i fatti nostri,» disse Bob. «Con tutto il rispetto, però non vedo perché mi devo giustificare con te. Nel senso, io stavo al negozio, a lavorare. O sto lì o sto qui. Non è che posso stare dappertutto.» «Lo so che forse non sono cazzi miei, Rob.» «Senza il forse, Giò.» «Che vuol dire?» «Niente, vai avanti.» Bob riempì il bicchiere ancora vuoto. Lo scolò in un sorso. Fissò Giò negli occhi. Nelle sue iridi lesse pietà e compassione. Ricambiò con uno sguardo freddo carico di sfida. Ti vuoi mettere contro di me?, dicevano i suoi occhi. «La cosa che voglio dire io, Rob,» disse Giò, «è che nel momento in cui delle persone chiamano a tua moglie puttana, zoccola, eccetera, allora penso che il tuo ruolo di marito non è solo difendere tua moglie da questi attacchi—che poi è stata lei a dargliele, altrochè—ma soprattutto farti vedere presente, farti vedere qui più spesso. Ché sennò le voci continueranno e poi, col tempo—qui penso che ormai lo sai com’è— diventeranno più grandi della realtà. E alla fine sarete voi due, e non gli altri, sarete voi a pagare le conseguenze.» «Giò, ti ringrazio della preoccupazione, però a me delle voci non me ne frega un cazzo. E anche di queste cose che dici tu del ruolo di marito. Davvero, non sono cose mi riguardano e, a maggior ragione, non sono cose che riguardano te.» Bob riempì di nuovo il suo bicchiere. Per la seconda volta non riempì quello di Giò, né brindò con lui prima di bere. «Bob, io ti sto solo cercando di darti una mano.» «Grazie, ma non ne abbiamo bisogno.» «Ah, no?» Giò si alzò dalla sedia. Trattenne la rabbia che montava. «Ma l’hai vista com’è messa ‘sta casa, sì o no?!» «Cosa vuoi dire?» «Cosa voglio dire?! Voglio dire ca jè nu porcìle!» «Ah sì?» «Tò, guarda lì, guarda la cassapanca che t’ho dato io com’è piena di polvere e sporca. Guarda!» Elena assisteva alla scena muta. I raggi del sole penetravano tra i radi capelli grigi di Giò e li facevano luccicare. Bob le dava le spalle. Bob sarebbe scoppiato da un momento all’altro, Elena lo sapeva. «E che è, Giò, siccome ce l’hai data tu, ora ci vuoi pure dire come la dobbiamo tenere?!» «Gnornò!» Giò perse la pazienza. «È solo che non si può vivere come animali.» «E mica ci sto io in casa,» disse Bob. «È lei, che si vede che ha altre cose da fare. Magari hanno ragione a chiamarla puttana.» Il dorso rugoso della mano di Giò Casino colpì il muso di Bob. Un manrovescio di quelli seri. Le dita del vecchio strusciarono sulle labbra da destra a sinistra e spinsero nell’aria della saliva. Bob abbassò la testa. Si trattenne. Poggiò una mano sulla bocca e fissò risentito il vecchio Giò. Tirò fuori una sigaretta e l’accese. Giò tremava sulle ginocchia, il cuore a tremila. L’ultima volta che aveva alzato le mani risaliva a una ventina d’anni prima. Si sentì vuoto e colpevole. La bocca secca, cercò il suo bicchiere. A fatica lo strinse nel palmo della mano, ingollò il vino e fece un respiro profondo. L’indice tremante puntato contro Bob, gli occhi lucidi, il sudore triplicato, instabile sulle ginocchia, Giò prese coraggio e disse: «Bob, figlio mio, voi vi state rovinando. E penso che tu quaccosa la puoi ancora fare per salvarvi. Lascia perdere quel Renato

77 Consuelo, lascia perder quel Nicola DeBellis. So’ tutte cattive influenze. Andatevene in America. Voi che potete, andatevene in America!» Bob si voltò verso Elena. Dov’erano finiti i loro sogni? Dov’era finita la loro armonia? E la loro capacità di riconciliarsi? Che fine aveva fatto l’amore? Perché Elena aveva rovinato tutto andando prima con DeBellis e ora portando altri uomini nel loro letto? E perché non metteva le cose in chiaro? Aspettava forse che fosse lui a fare il primo passo? Aspettava che fosse lui a dirle di aver capito quello che succedeva lì quando lui non c’era? Perché? «Ehi,» disse Bob, «io mi so’ rotto di stare a sentire ‘sto vecchio. E mi sono rotto di vedere che tu, Elena, cerchi di far finta di niente.» Buttò la sigaretta sul pavimento e la spense con la punta del piede. «Tanto, Giò, come dici tu, ‘sta casa è già un porcile.» Bob andò in camera da letto—ancora quel dopobarba!—e dal cassetto del comodino tirò fuori il malloppo di soldi che aveva nascosto in un barattolo di latta. Infilò i soldi in tasca e si guardò allo specchio. Per la prima volta dopo anni, odiò la sua frangetta. «Io me ne vado,» disse. Elena e Giò si erano riseduti al tavolo della cucina. Davanti a loro un tagliere di legno, un coltello e la cipolla che Elena non era riuscita ancora ad affettare. «Un’ultima cosa, Giò,» disse Bob. «Lo so io; lo sa lei—è ovvio!; lo sa l’intero palazzo e ora lo sai pure tu: Elena s’è messa a fare la puttana. Forse tra poco lo saprà l’intero paese. Ok. Chi se ne frega! Però, Giò, ricordati che non sono cazzi tuoi. E per favore, non ti fare più vedere in casa mia.» «Bob,» Giò gl’andò incontro. «Vedi che…» non riusciva a trovare le parole giuste per scusarsi dello schiaffo, per spiegare che s’era trattato di un errore, di un’esplosione d’ira, di un impulso incontrollabile. «Io, non…» Bob uscì sbattendo la porta. «Sss… s-scusa…» disse Giò Casino, ma nessuno poté sentirlo.

78 15

Nello stereo della Mondeo c’era ancora il cd che avevano ascoltato il giorno della fuga da Roma. Acceso il quadro, partì Shot down dei Sonics.

Hey little girl What’s the matter with you? Don’t you like the things I do You’re wearing a frown I’ve been shot down

Dopo la rullata finale, cominciò I’m waiting for the man. Bob alzò il volume. Delle canzoni dei Velvet Underground adorava la monotonia, la ripetitività. La monotonia, la ripetitività.

I’m waiting for my man 26 dollars in my hand Up to Lexington, 125 Feel sick and dirty, more dead than alive I’m waiting for my man

A parte il fatto che Bob non aveva 26 dollari ma 1700 euro e che non andava a Lexington ma a Trani—la canzone parlava di lui. Si fermò a fare benzina. I dubbi dei giorni passati erano svaniti. Gli auspici di Renato, idem. Tenersi quei soldi per il futuro—quale futuro?—non significava più niente. Aspettare la situazione di Renato era stupido. Bob doveva investirli ora. Doveva rischiare. Da solo, per sé, senza dar retta alle ragioni e i sentimenti delle persone che gli stavano attorno. Elena, Giò, Renato. Losers. Tutti, dal primo all’ultimo. Losers e nient’altro. S’addentrò nelle Murge. Sguardo a sinistra: colline aride ricoperte di sassi, cespugli spinosi, ferule in fiore e erba ingiallita maculata da papaveri rossi. Sguardo a destra: colline aride ricoperte di sassi, cespugli spinosi, ferule in fiore e erba ingiallita maculata da papaveri rossi. Solo esseri viventi davvero adattabili riuscivano a sopravvivere lì. Il sole era alto, caldo, indomabile. La strada ribolliva. Il vapore in lontananza e la desolazione attorno ricordavano il deserto. Ricordavano i miraggi, le illusioni. Bob pensò a quando suo padre l’aveva portato alla Death Valley. L’ultimo grande ricordo della sua vita negli USA. Con 1700 euro se ne sarebbe potuto andare in quel momento. Bastava prendere per Bari anziché per Trani. Lasciarsi Poggiorsini alle spalle. I debiti alle spalle. Elena— Bob ingoiò amaro. Elena… alle spalle. Bob immaginò il suo futuro. Il futuro di lei, di sua moglie, di Elena. La puttana in un paesino sperduto, in balia di allupati e isteriche—

79 Un morso di gelosia, di dolore, di pietà—un morso d’amore gli fece chiudere gl’occhi. Elena. Povera Elena! Buio per qualche secondo. Un tappeto di buio e rimorsi. La strada non esisteva più. Esisteva solo salvare Elena e andare negli USA con lei. Ad Atlanta, Georgia. La sua città natale. Una città che aveva dimenticato e che per questo amava. Niente, non c’era altro da fare. Bob doveva arrivare a Trani, trovare don Nicola e riuscire a investire i suoi 1700 euro. L’obiettivo? Tirarne su almeno 4000 e andarsene in America una volta per tutte. Lì avrebbero dimenticato tutto e ricominciato. Lì avrebbero prosperato. Lì era l’America.

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Bob non ricordava il punto preciso in cui aveva parcheggiato Renato. Ricordava il nome della strada, però. Via Statuti Marittimi. Un nome strano. Un nome che non si dimentica. Parcheggiò accanto a un’edicola in Piazza Plebiscito. Era appena cominciata Something against you dei Pixies. 1 minuto e 48 di carica adrenalinica. Proprio quello che ci voleva. Bob chiuse gl’occhi, il volume a manetta. Scuoteva la testa e suonava la chitarra. Quando il pezzo finì, Bob spense lo stereo, nascose il mascherino sotto il sedile e uscì. L’aria era la stessa dell’altra volta. Si respirava salsedine e mare. Lì si respirava, punto. La natura a Poggiorsini era più dura. La vita a Poggiorsini era più dura. Bob s’avviò verso la Cattedrale. Il sole era alto e il mare piatto. Se non fosse stato per le barche ormeggiate, non si sarebbe mossa un’onda. Degli uomini super-abbronzati sedevano a un angolo. Canottiere, pantaloncini, zoccoli di legno. Due secchi di plastica celeste ai loro piedi, delle reti da pesca stese, un cartello di cartone inchiodato al muro: PESCATO FRESCO. «’Giorno,» s’avvicinò Bob. «Posso chiedere un’informazione?» «Prego,» rispose un uomo, rimanendo seduto. «Sto cercando Piazza Teatro. Sapete dirmi dov’è?» «Mi stai prendendo per il culo?» domandò l’uomo. «No,» disse Bob. «Assolutamente. È che non sono di qua e—» «Ahaa!» sorrise l’uomo. «Ho capito. Lo vedi ‘sto parcheggio?» indicò la piazza alla sua destra. Bob annuì. «Sì? Lo vedi? Be’, non c’entra niente. Piazza Teatro è qui, la prima a sinistra.» Insieme ai suoi amici scoppiò a ridere. «Bella questa!» si complimentò uno. «Grazie,» disse Bob, lontano anni luce dal buonumore del gruppetto di pescatori. Arrivò nel punto preciso dell’altra volta. Vide via Fabiano. Oltre quella viuzza, Piazza Teatro. Da lì sarebbe stato in grado di raggiungere il bed-&-breakfast in via Leopardi. Bob indossava una polo celeste della MERC che gl’aveva regalato Elena quando erano andati in viaggio di nozze a Londra. Dei blue-jeans e le Superga bianche. Niente calzini. Percorse via Ognissanti. Una sensazione di tranquillità e autostima s’impossessò di lui. Riusciva a orientarsi alla perfezione. Ecco Vico Templari e via La Giudea. Era lì, mancava davvero poco.

80 In lontananza vide uno dei ragazzi che Tonino Scacco-matto aveva paragonato ai pedoni degli scacchi. Era biondo, il viso pallido. Il ragazzo lo fissò a lungo. Il ragazzo tirò fuori un cellulare e per qualche secondo non fece che annuire, il telefono appiccicato all’orecchio. Poi Bob lo vide dileguarsi. Bob si spinse nel groviglio angusto di stradine selciate che era il centro storico. Mura, volte e archi simili tra loro. Un labirinto di case pitturate di bianco o rivestite di pietra bianca—pietra di Trani. Svoltato un angolo, riconobbe il bed-&-breakfast che cercava. I vasi di gerani appese ai lati della porta. La facciata in mattoncini di cotto, ben distinta dal resto delle costruzioni. Le due lanterne accanto all’insegna in legno col nome inciso. Era quello, impossibile sbagliare. Prima di entrare fumò un paio di sigarette sul lato opposto della strada. Sperava che Tonino o qualcuno dei suoi lo vedesse, così da non doversi rivolgere alla reception del bed-&-breakfast. Bob ripercorse i pensieri di quel pomeriggio. Prima la voglia di andarsene in America da solo, lasciandosi tutto alle spalle, persino Elena; poi la convinzione che non sarebbe andato da nessuna parte senza di lei. Forse Giò Casino aveva ragione: doveva essere più presente, doveva fare più parte della vita di Elena. Forse solo così le cose sarebbero tornate a posto. Bob sentì le labbra prudergli. Lo schiaffo di Giò continuava a farle tremare. Che fare? Fumare un’altra sigaretta o farsi coraggio ed entr— Farsi coraggio ed entrare. «’Giorno,» disse appena dentro. «C’è nessuno?» Il posto era immerso nell’ombra. Solo nella sala ristorante, in fondo a sinistra, si vedevano dei fasci di luce posarsi sul pavimento. Bob si guardò intorno. Nessuno. «C’è nessuno?» disse. Il ciccione che era andato a prenderli in Piazza Teatro, spuntò da quella che doveva essere la cucina. Indossava la maglia della Nazionale di calcio. Di nuovo. «Sì, prego?» disse prima di riconoscerlo. «Ah!»—lo riconobbe—«sei tu, il socio di DDT. E Renato dov’è?» «DDT stavolta non c’entra,» disse una voce alle spalle di Bob. «O mi sbaglio?» Bob si voltò. Era Tonino Scacco-matto. «Come stai, Bob?» disse Tonino. Con un cenno del capo invitò Cannavaro a lasciarli soli. «Bene, grazie. Tu?» «Non c’è male. Anche se ‘sto caldo…» «Non me ne parlare,» disse Bob. «A Poggiorsini non si respira. Qui almeno c’avete il mare che rinfresca l’aria—lì zero.» «È vero.» «Senti, Tonino, io ho bisogno di un fa—» «Aspetta, Bob, aspetta. Non parliamo qui. Vieni.» Uscirono in strada. «Senti Bob, questa cosa non va bene.» «Cosa?» «Il fatto che sei venuto qui da solo, senza Renato e, soprattutto, senza avvisare nessuno. Renato ha sbagliato a dirti di venire. Lui dovrebbe sapere come vanno le cose qui.» «No, Tonino, Renato non c’entra davvero niente. Lui non sa che sono qui. Io gl’ho solo chiesto se secondo lui potevo venire da solo e lui mi ha detto di no, che dovevo contattarvi prima. Però, sai, siccome lui non voleva avere niente a che fare, allora non potevo chiamarvi: il numero di telefono dovevo per forza averlo avuto da lui, e se vi chiamavo era ovvio che me l’aveva dato lui.» «Sì, ma questo non cambia la sostanza. Nessuno—e lo dico in tutta onestà—nessuno viene qui senza avvisare.» «Scusa.» «Mo bisogna vedere come la prende don Nicola. Comunque, Bob, non fare mai più ‘na cosa del genere.» «Promesso,» disse Bob, la mano sul cuore. «Vieni, dai, andiamo.»

81 «Come facevi a sapere che—» Bob s’interruppe. «Ahaa! È stato il ragazzo che ho visto prima a chiamarti!» «Te l’ho detto che quelli sono i pezzi più importanti della scacchiera.»

Arrivarono nello stesso vicolo dell’altra volta. Stavolta, però, non c’era nessun uomo seduto e le sedie pieghevoli da campeggio erano ammassate una sull’altra contro il muro. «Aspetta,» Tonino poggiò una mano sul petto di Bob. «Devi sperare che don Nicola non sta incazzato e che la moglie non gl’ha rotto i coglioni, sennò so’ cazzi tuoi. Io ora vado dentro. Tu aspetta qui. Non ti muovere e non parlare con nessuno. Capito? Nessuno.» Tonino entrò nella stessa casa in cui era andato a prendere il borsone per Renato la volta prima. Bob restò fuori, in attesa.

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In un angolo della stanza c’era una sedia a rotelle. Al centro, due sedie di legno e un tavolo rotondo coperto da una tovaglia di plastica. Il motivo della tovaglia era agrumi & fogliame. Attorno al tavolo, al posto dei mobili, decine di cartoni accatastati: Merit, Marlboro Light, Camel, Chesterfield. Dalla porticina del bagno uscì don Nicola. Andò a sedersi sulla sedia a rotelle prima di parlare. «Be’, e ci jjàie mo?» «Don Necóle, è Bob l’Americano. È venuto qui senza avvisarci e—» «E che vuole?» Don Nicola si fissava le unghie della mano destra. «Scommetto che c’entra quel vilacchione di DDT.» «No, don Necóle. A quanto pare, non c’entra. Secondo me l’Americano vuole un altro blocco, punto e basta. Gl’è andata bene e se ne vuole approfittare.» «E come fai a essere sicuro che DDT non c’entra?» Tonino non sapeva mai quando il boss faceva domande a trabocchetto. Meglio non rischiare. «Non sono sicuro al cento per cento,» disse. «Però, quello, Renato, secondo me, sta pensando solo alla nove-nove-nove del tenente. E vedrai come sarà contento appena viene a sapere quello che gli abbiamo combinato…» «E tu che dici di fare, allora? Se l’Americano non sta con Renato, cosa vuoi fare, gliela vuoi dare lo stesso?» Don Nicola non si stava più fissando le unghie. Ora fissava Tonino, il suo braccio destro, e sperava che se n’uscisse con uno dei suoi colpi di genio. «Don Nicola, senti a me. Noi l’erba non gliela diamo. Lo intorto io, non t’incaricare. Niente erba; però magari lo mettiamo, diciamo così, sulla buona strada. Così, poi, quando arriva la rròbbe du tènènde, magari sfruttiamo all’Americano per arrivare a DDT.» Don Nicola sorrise, sfregandosi le mani. In bocca stava già assaporando un’altra piccola ma grande vittoria contro dei sovversivi. «Toníne, in Italia sté nu Scacco-màtte—e ssì tu!»

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Bob aveva prima passeggiato su e giù per il vicolo, poi s’era incantato a guardare un santo incastonato in una nicchia. Il santo aveva la mano sinistra sul petto, la destra a tenere una piccola croce, lo sguardo obliquo verso il cielo—uno sguardo penoso e pensieroso, quasi come quello di Bob. C’erano dei fiori e due ceroni consumati. Una placca d’ottone ai piedi della statuetta in gesso. Bob s’avvicinò e si mise sulle punte dei piedi per leggere l’iscrizione.

82 «San Nicola Pellegrino,» disse don Nicola, spaventando Bob. Era la seconda volta in meno di un’ora che quei delinquenti lo sorprendevano alle spalle. «Patrono di questa nostra città.» «Bella statua,» disse Bob. «Tu dici?» disse don Nicola. «Sì.» «Bah. A me, se non fosse che è del santo patrono della mia città e che io porto il suo nome, di quella statua non me ne fregherebbe niente. Però non penso che queste sono le questioni che Bob l’Americano è venuto a parlare qui. O mi sbaglio?» Bob avvertì un brivido di paura corrergli lungo la schiena. Il sudore tra i peli del petto si raffreddò. Bob deglutì e fissò don Nicola negli occhi. Anche gli strozzini di Roma lo chiamavano “Bob l’Americano”. «Che c’è, Bob?» disse il boss. «Qualcosa che non va?» «Niente, niente…» «Allora?» «Sì, no, è vero. Non sono venuto per parlare di San Nicola di Bari.» «Eh no, Bob!» disse don Nicola. «Questo non è San Nicola di Bari. Te l’ho detto: è San Nicola Pellegrino. Un altro. Non confondere le cose, per piacere.» «Chiedo scusa. È solo che quello di Bari è più conosciuto, credo…» «Su questo forse c’hai ragione. Però…» don Nicola storse il muso. Bob si sentì braccato. Non sarebbe mai dovuto andare lì da solo. Quelli erano dei criminali alla stessa stregua di Michelino & Co., se non peggiori. Quello era stato un errore madornale, dettato dall’impulsività. Ma ora era lì e non poteva tornare indietro. Desistere significava insospettire. Don Nicola lo fissava con protervia. Tonino si teneva a distanza, fissandolo anche lui. Bob posò la mano sul crocifisso nascosto dalla polo. Dentro di sé accennò una preghiera. «Allora, Bob,» disse don Nicola, «dimmi un po’: cos’è che ti porta a venire qui senza avvisare nessuno e senza DDT?» «Ho bisogno di un altro paio di blocchi. Quelli dell’altra volta sono finiti.» «Già finiti?» «Sì. E oggi e domani a Poggiorsini è la Festa patronale.» «Ah…» «Allora,» disse Bob, «ho pensato che questo era il momento per invest—per prenderne ancora. Ché quelli, i ragazzi, il giorno della Festa, si vogliono sballare: è normale.» «E si capisce,» sorrise don Nicola. «Però, Bob, tu devi capire che non va bene fare come hai fatto tu. Noi, qui, non siamo un supermercato, che vai quando vuoi e prendi quello che vuoi. Non so se mi segui?» Bob chinò la testa in segno di scusa, di sottomissione. «Però mi stai simpatico, tu, e quindi diciamo che stavolta chiudo un occhio. Lo sai, però, che io di occhi ce n’ho solo due, no? Non è che si può far finta di niente ogni vol—» «No, don Nicola, lo prometto: non succederà più.» «Sì, però non m’interrompere.» «Scusa.» «Bob, Bob, Bob,» disse don Nicola. «Le persone che chiedono scusa troppe volte non mi piacciono. Sembra come se non sono sincere. Come se dicono quello che dicono solo perché conviene. Però, lo ripeto, tu mi stai simpatico, e per ora mettiamo da parte quello che penso io e vediamo quello che possiamo fare noi.» Don Nicola si voltò verso Tonino. Bob non poté vedere l’espressione facciale o il segnale del boss, ma da come si mosse Scacco-matto, Bob capì che i due avevano già pensato a qualcosa, a un piano. Quelle chiacchiere servivano solo ad ammansirlo. I due sapevano già quello che avrebbero fatto. Come a scacchi. Non esistevano mosse orfane di una strategia. «Vieni, Bob, entriamo,» lo invitò Tonino. «Così stiamo più freschi.»

83   

In casa, era vero, si stava più freschi. Bob aveva temuto che quella di entrare fosse soltanto una mossa per incastrarlo. Ma varcata la soglia e scesi tre gradini, la frescura si sentiva davvero. Bob si guardò intorno. Una sedia a rotelle e cartoni di sigarette. Sigarette di contrabbando? Ancora? «Pensavo che le sigarette a contrabbando non esistevano più,» disse Bob. «E chi t’ha detto che sono sigarette?!» disse don Nicola. «Vedi, Bob, in questo business—fammi usare ‘na parola americana, va’—in questo business non ti devi mai fermare alle apparenze, alla superficie. È vero che certe volte le cose sono più semplici di quanto uno può pensare, ma però è anche vero che è un grave errore dare tutto per scontato.» Don Nicola parlava dando le spalle a Bob, le mani in uno di quei cartoni. «Devi capire, Bob, che la nostra organizzazione è come un organismo vivente, come il corpo umano. In un corpo che funziona, le mani fanno quello che dice il cervello; e così fa il fegato, lo stomaco, il cuore, la bocca e tutti gli altri organi, compreso il culo. Capito, Bob?» «Bob, noi erba non te ne possiamo dare,» Tonino andò dritto al sodo. Offrì una sedia a Bob—che si sedette—e continuò. «E mica solo perché non c’hai avvisato prima. Tu devi capire che noi non facciamo come te, che ne compriamo un po’, la vendiamo, facciamo un po’ di soldi e poi stiamo a posto; o come sta cercando di fare il tuo amico DDT, che ne vende un chiletto o due e poi pensa a mettersi in proprio, fregandosene di chi gl’ha dato una mano. Tu forse non lo sai, ma questo è quello che sta cercando di fare Renato—mettersi in proprio senza nemmeno chiederci il permesso. E come ha detto don Nicola, non è che la mano o le gambe o il fegato possono fare quello che gli pare e piace senza dar conto al cervello. Mi segui, Bob? Noi non è che compriamo e passiamo a voi, punto e basta. Noi non siamo dei semplici intermediari di questo mercato. Noi siamo il mercato. Come l’Enel o cose del genere. Come ‘na centrale elettrica, diciamo così. Senza di noi si sta al buio, punto. Mi segui?» Bob annuì. «P-p-posso fumare?» disse. «Sì,» disse Tonino. «Allora, Bob. Adesso per noi è il momento di fare la nostra mossa in questo mercato che noi stessi, in un modo o nell’altro, alimentiamo, gestiamo, controlliamo.» Tonino parlava come un vero stratega. Bob ascoltava come un vero pivello. Don Nicola, invece, era seduto sulla sedia a rotelle e seguiva appassionato lo stratega lavorarsi il pivello. «Arrivo al punto. In questo momento e per un periodo di tempo, l’erba deve scomparire dal mercato. Per un po’ non ci deve essere nessuno che la vende e tutti che la vogliono. Questo periodo di penuria indotta, diciamo così, ha due conseguenze. La prima, è che dopo, quando noi rimetteremo l’erba sul mercato, il suo prezzo sarà molto, molto più alto. Lo sai come funziona l’economia, no? All’aumentare della domanda aumenta il prezzo. Semplice, no? La seconda, è che—» Don Nicola si alzò. Si avvicinò a Bob e gli passò un posacenere. «Grazie don Nicola,» disse Bob. «Toníne,» disse il boss. «Continua.» «La seconda conseguenza è che senza erba, quelli, i ragazzi, i giovani, qualcosa la devono pure prendere. L’hai detto pure tu: c’è la Festa e quelli si vogliono sballare. Non si possono mica accontentare di un paio di birre o un bicchiere di vino o ‘na grappa o quei cosi, lì, com’è che si chiamano?, ehm… quei cocktail tipo Caipiroska, Caipirinha, Mojito—» «Sì, va be’,» disse don Nicola, stizzito. «Mo apriamo il bar. Toníne, vai avanti.» «Scùse don Necóle, c’hai ragione. Quindi quelli qualcosa la devono prendere per forza, diciamo così. E qui entri in gioco tu.» «Io?» «Sì, tu,» disse Scacco-matto. «Bob, ascoltami attentamente. Quello, Renato, è stato dentro un po’ di anni e s’aspettava chissà cosa da noi. Forse che ci prendevamo cura dei suoi genitori, della famiglia, ma noi non

84 possiamo aiutare chi da sempre fa il duro e dice che non ha bisogno di aiuti, che non ha bisogno di noi. Capito, Bob?» Bob annuì. «Lui, Renato, appena uscito, è stato contattato da un amico per concludere un’operazione. A noi DDT non c’ha detto niente e s’è organizzato da solo e per mettersi in proprio. Ora; questo contatto qui, abituato com’è a fare le cose con disciplina e rispetto per l’autorità—ché lui è un tenente dell’esercito—ha pensato di chiedere una conferma a don Nicola prima di andare avanti con Renato. C’ha contattati e c’ha raccontato tutto. Il tenente pensava che Renato stava con noi, tipo che gl’avevamo dato quello spazio per farlo ricominciare dopo essere uscito dal carcere, capito? Però non era così. Noi non sapevamo niente. Allora noi abbiamo fatto quello che voleva fare lui a noi e gl’abbiamo soffiato l’affare da sotto il naso. Noi a lui,» Tonino si sistemò gl’occhiali e accavallò le gambe. «E mo, Renato, a parte preoccuparsi per l’affare che non andrà in porto e dei soldi che non farà, si deve preoccupare di come ha mancato di rispetto, in primis, a don Nicola, e, in secundis, a un’organizzazione che lui conosce benissimo.» Renato aveva i giorni contati, questo era quello che voleva dire Tonino. Bob aveva il cuore a tremila, e questo era quello che voleva Tonino. Bob tremava e cercava di non darlo a vedere. Era teso, spaventato. Portò la sigaretta alle labbra e fece una lunga boccata nervosa. «Va bene che hai pagato pure quello,» si schifò don Nicola. «Però mo ti stai a fumare il filtro.» Bob spense la sigaretta e poggiò il posacenere sul tavolo, tra un limone e un’arancia. Aveva il cuore in gola. «Senti, Bob,» riprese Tonino. «Questa che ti diamo ora è eroina. Tu forse non ne sai niente e non hai mai avuto niente a che fare co’ ‘sta cosa, ma questo non è importante ai fini di quello che devi fare per noi. Ti spiego tutto io. Allora. Intanto, devi sapere che questa non è la roba di primissima qualità che DDT si voleva prendere alle nostre spalle. Questa è roba normale. Quella, invece, la nove-nove-nove, come si chiama, arriverà più in là, dopo Ferragosto, dall’Afghanistan.» Eroina?!?! Afghanistan?! Ma dove s’era andato a cacciare? In che razza di guaio s’era immischiato? Che ci faceva assieme a dei criminali veri che facevano spaccio internazionale vero in combutta con militari dell’esercito? Criminali che facevano sembrare gli strozzini di Roma dei poveri dilettanti. Che cazzo ci faceva lì? «No, Tonino, non pos—Don Nicola, con tutto il rispetto. Io non voglio avere niente a che fare con queste storie. Nel senso, un po’ d’erba va bene, ma ora mi state chiedendo di spacciare eroina. Cioè, dico: e-ro-i- na. No, non posso. Scusatemi, ma—» «Dove vai?» lo rimise a sedere Tonino. «Siediti e stai a sentire.» «Bob, devi capire che noi non ti stiamo chiedendo di fare questa cosa,» disse don Nicola, la voce calma, il tono paterno. «Tu la devi fare e basta. Ci guadagni anche tu, non credere, e alla grande. Noi tutto siamo tranne che comunisti. Noi vogliamo che tu ti fai i tuoi guadagni, che credi? Però le regole vanno rispettate. Non come il tuo amico DDT. Capito, Bob?» «L’eroina che ti diamo è già tagliata,» lo rassicurò Tonino. «Ed è stata già messa in bustine da quaranta. Tu non devi fare niente. All’inizio la puoi pure, diciamo così, regalare. Nel senso che la fai provare senza fartela pagare, e poi, non t’incaricare, vedrai che quelli ritornano.» «Ti prego, don Nicola,» disse Bob, «non mi chiedere questo. Davvero, non voglio avere niente a che fare co’ ‘ste cose. Posso aiutarvi in tanti modi, ma non questo.» «Bob, io pensavo che eri ‘na persona intelligente,» disse il boss. «Qui non ti stiamo chiedendo un favore. Còme te l’égghi’à déisce?!» L’impotenza lo sopraffece. Per qualche millesimo di secondo pensò di scappare—stupida velleità. Non c’era scampo. Bob doveva fare quello che gli chiedevano, punto. «Bob, facciamo così,» Tonino gli poggiò una mano sulla spalla. «Ora noi ti diamo ‘na decina di buste. Tu non ce le devi nemmeno pagare. Provi a farla girare lì a Poggiorsini, e ci fai sapere come vanno le cose. Ti do il mio numero di cellulare, così non ti presenti qui com’hai fatto oggi, e appena hai finito quello che c’hai, mi dici se lì si riesce o no. Va bene? Che dici?» «E se vendi qualcosa ti tieni i soldi. È roba tua.» «Non so…» disse Bob. Si morse il labbro e senza sapere perché pensò a Elena.

85 Don Nicola e Tonino si scambiarono uno sguardo d’intesa. Uno sguardo perfido. «Ehi, Toníne,» disse don Nicola. «Fagliela assaggiare a questo.» «Cosa?!» Bob s’alzò dalla sedia. «Stai seduto!» disse il boss. «Vedrai che non è così male come dicono,» disse Tonino. «Pure io l’ho provata, che credi? ‘Na sensazione di pace che tu non hai idea. E poi, mica basta una volta per rimanerci sotto. Non ti preoccupare, Bob, vedrai che ti piace.» Tonino e don Nicola si guardarono e sorrisero, complici. Il loro piano stava funzionando. Ordito in pochi minuti e portato a termine in ancor meno. «No!» sbraitò Bob. «Vi prego! Non voglio! Non voglio!» «Stàtte cìtte!» don Nicola gli mollò uno schiaffo. Due schiaffi in un giorno solo. Roba da record. «Statti calmo e non gridare,» disse Tonino. Da un cartone di Camel tirò fuori un astuccio di pelle, un laccio emostatico e un portagioie di latta. Bob fissò quegl’oggetti con una curiosità stuprata dal terrore. Guardò in alto, prima verso don Nicola— che con le mani lo teneva immobile—poi verso il soffitto, alla ricerca del cielo. Dentro di sé cominciò a pregare. Le preghiere, però, si confondevano con le imprecazioni. Imprecazioni contro quei due mafiosi di merda, contro Renato che glieli aveva presentati—contro se stesso. “Mamma…” ripeteva in mente. “Mamma…” Tonino strinse il laccio sul bicipite di Bob. Strinse forte. Bob guardò la vena nell’incavo del gomito pulsare e diventare più grossa. Immaginò quel liquido giallastro scorrergli nelle vene. Bob piangeva e frignava come una bambina. «Vi prego, vi prego! No, no, noooo…» «Dov’è che hai parcheggiato?» domandò don Nicola. «Please… please… Noo…» «T’ho chiesto dove hai parcheggiato?» «Perché?» chiese Bob, gl’occhi terrorizzati. «Rispondi e basta!» s’innervosì Tonino. «In Piazza Plebiscito, vicino all’edicola.» «E che macchina c’hai?» continuò don Nicola. «Una Mondeo blu scuro, targata AV—» «Non ti preoccupare della targa.» «Vi prego, no!» li supplicò un’ultima volta. «Please.» «Rilassati e statti zitto,» disse Tonino stendendogli il braccio. «Mica ti stiamo ammazzando.» Bob vide l’ago avvicinarsi e strinse i denti. Tremava. Con la mano destra s’aggrappò alla sedia. Col tallone sinistro batteva a terra. E poi… poi l’ago penetrò la vena. Tonino sciolse il laccio e un fiotto di sangue si mescolò all’eroina nella siringa. Tonino spinse lo stantuffo, e tutto—il giallo e il rosso, l’eroina e il sangue, il terrore e la pace—tutto prese a circolare nelle vene di Bob. «Ahaaaa…» disse lui. Sfilata la siringa dal braccio, Bob si lasciò andare. Dalla porta penetrarono le urla di un fruttivendolo ambulante. Bob, prima di scomparire, pensò di essere fortunato a non doversi preoccupare della frutta da comprare. Gli venne in mente una battuta stupida. Provò a dirla, ma niente. Ogni cosa stava sfumando. Tonino, don Nicola, il tavolo, la sedia, i cartoni di sigarette. Le parole erano anestetizzate. Le palpebre pesavano quintali. La saliva si prosciugò in un istante. Provò a lamentarsi. Provò a dire qualcosa. Ma le parole non uscivano di bocca. Bob rimase in silenzio, gl’occhi sbarrati dal piacere. Le pupille si rimpicciolirono. I criminali davanti a lui, pure. «Senti Bob, di’ a DDT che don Nicóle vuole fare due chiacchiere con lui, al più presto possibile. Hai capito?» le labbra di don Nicola sfioravano l’orecchio di Bob, ma le sue parole erano un ronzio

86 inconsistente. Lettere impastate l’una con l’altra, senza senso, senza ragione. Lettere annientate da una voce ipnotica che all’improvviso s’era fatta spazio nella mente sedata di Bob. La voce di Bob Dylan. La voce di Bob Dylan che canta Mr. Tambourine Man. E una strofa in particolare, l’ultima.

And take me disappearin’ through the smoke rings of my mind Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves The haunted, frightened trees, out to the windy beach Far from the twisted reach of crazy sorrow

Yes, to dance beneath the diamond sky with one hand waving free Silhouetted by the sea, circled by the circus sands With all memory and fate driven deep beneath the waves Let me forget about today until tomorrow

Bob si sentì sollevare da qualcuno. Cercò di aprire gl’occhi, ma niente. Tonino lo teneva da sotto le ascelle, don Nicola dai piedi. Lo portarono fuori. La luce, violenta e inaspettata, l’abbagliò. Bob sentì il sole carezzargli la pelle e sorrise dalla goduria. Con la coda dell’occhio scorse la sedia a rotelle che aveva visto prima. Che ci faceva lì fuori? I due lo adagiarono sulla carrozzella. Bob chiuse gl’occhi. Le labbra si contorsero in un sorriso ebete e sereno. Let me forget about today until tomorrow. Don Nicola gli sistemò i piedi sul poggiapiedi di plastica. Tonino, invece, cercava di tenergli la testa dritta e immobile. Niente da fare. Appena toglieva le mani, il capoccione di Bob cadeva penzoloni da una parte o dall’altra. Don Nicola scoppiò a ridere. Una risata grassa e contagiosa. Anche Tonino rise e provò ancora a tenere la testa di Bob dritta. Niente. Un’ultima volta. Niente. «Ehi,» s’arrese Scacco-matto, «vaffangùle va’!» e spinse la sedia.

87 16

Elena passò più di un’ora a decidere cosa indossare la sera della Festa. Essere provocante e raffinata. Dimostrarsi una spanna sopra le altre. Suscitare invidia. Questa era l’idea di Elena. Lei non era una paesana. Lei era una figa stratosferica e sapeva come vestirsi. Lei era di Roma, la capitale. Erano le 7 passate quando si convinse. Indossò un abito nero tipo-tubino. Aderente. Molto aderente. Una seconda pelle che andava messa senza intimo. Niente reggiseno. Niente mutandine. Elena c’aveva provato, ma si vedevano le cuciture. Le curve perfette da circuito di Formula Uno svilite a una malmessa pista di go- kart. Era inutile, andava messo senza niente, punto. Si specchiò. Si compiacque di ricordare Odrey Hepburn—si chiamava così?—e per crogiolarsi in quell’idea, sigaretta & bocchino immaginari in mano, assunse la stessa posa elegante e sbarazzina della locandina di Colazione da Tiffany. Scarpe di vernice nera. Tacchi a spillo. Una pochette bianca ricoperta di lustrini abbinata a una collana di finte perle bianche. Ombretto bianco sulle palpebre e contorno occhi nero e vistoso. Sulla labbra un rossetto rosso acceso. Un tocco di fondotinta sul naso. I graffi del giorno prima, scomparsi. I capelli a paggetto spuntati e sistemati in mattinata completavano l’opera d’arte in bianco e nero. Prima di uscire si specchiò un’ultima volta. Con quei tacchi sarebbe apparsa molto più alta di Bob, ma non se ne curò. Lei era una donna indipendente e incantevole. Una figa mozzafiato che avrebbe potuto avere tutto e tutti. E questa deliziosa consapevolezza le fece brillare gl’occhi e le curvò le labbra in un sorriso soave. Chi se ne fregava se sembrava più alta! Lei era più alta. Per giunta, quella sera non sarebbero nemmeno usciti insieme. Come la sera prima.

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La sera prima. La sera prima Bob era tornato nel tardo pomeriggio. Puzzava di un sudore acido che non gli era mai appartenuto. Era strano, dimesso, assente. Una specie di zombie. Non aveva fiatato—anche se quello non era così strano—e aveva mangiato senza appetito. Elena gli chiese dove era stato e lui non rispose. Elena gli chiese se voleva uscire a fare un giro sul Corso e lui non rispose. Elena urlò. Disse che non ce la faceva più. Bob la ignorò e uscì. Le cose tra loro andavano male. Molto male. Ormai lei e Bob erano due entità separate. Elena ricordò le parole che s’erano detti il giorno del matrimonio. Le ricordò alla perfezione e se ne compiacque. Alla fine non era così stupida o smemorata. “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.” Puttanate.

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La mattina della Festa Bob si svegliò tardi e uscì. Non una parola, non un saluto. Come la sera prima. Elena, invece, si svegliò presto, raggiante. Alle 9 si presentò dalla parrucchiera e riuscì a infilarsi nella lunga lista d’attesa. La ragazza disse che non c’era niente da fare, non c’era posto. Tutto il giorno occupato. Fino alle 7. Poi, dopo le 7, anche lei voleva godersi la Festa. Elena le allungò 20 euro. La ragazza accartocciò i soldi in tasca e la fissò. «Ok, vieni tra ‘na mezz’oretta,» disse. Elena si sentì come la fuorilegge che paga il proprio informatore.

Elena trascorse quella mezz’ora passeggiando lungo il Corso, epicentro della cuccagna. Balconi ricoperti di tappeti e lenzuola—pronti per la processione. Candele d’ogni forma e misura—pronte per la processione. Le illuminazioni a pieno regime nonostante la luce. Altoparlanti a tavoletta: musica house e musica strappalacrime. I primi aperitivi al bar. Lo sfoggio dei vestiti nuovi—i vestiti della Festa. Capigliature e occhiali da sole all’ultimo grido. Sull’intero paese una cappa di attesa, opprimente e deliziosa. Elena salutava gl’uomini che si toglievano il cappello al suo passaggio e ricambiava le loro tacite lusinghe sculettando senza ritegno. Nel vederla, gli scapoli seduti ai tavolini dei bar—sbarbati, in giacca e cravatta, le birre ghiacciate in mano—s’illusero che quella sarebbe stata l’ultima Festa senza amore. Elena era una folata di vento fresco in quella canicola. Era un fiume straripante in quella siccità. Elena era la scia di una stella cadente. Si fermò al bar. Dopo averla squadrata, Carlo il barista le offrì un aperitivo. Elena rifiutò. Carlo insistette. Elena ringraziò, e rifiutò. Carlo insistette una volta di più. Elena alla fine accettò. «Salute,» disse, timida. Era circondata da una mezza dozzina di uomini, tutti a radiografarla. «Alla tua bellezza!» disse qualcuno. «A Elena!» l’acclamò qualcun altro di rimbalzo. Elena si sentì una divinità. Una dea. Godette nel notare la brama che illuminava gl’occhi di quegl’uomini. Il desiderio represso che li faceva deglutire come davanti a una bistecca al sangue. Il magnetismo delle sue curve. Una goduria unica. Una sensazione di potenza ineguagliabile. Scolò il bicchiere di Crodino & vino bianco. «Buona continuazione,» disse con un sorriso, e uscì dal bar. «Fatti vedere più spesso!» disse qualcuno alle sue spalle. Era molto probabile che quegl’uomini sapessero delle sue avventure con DeBellis e l’amico Tito. Ed era altrettanto probabile che nei giorni a venire si sarebbero presentati a casa sua.

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89 Un po’ Audrey Hepburn, un po’ se stessa, verso le 8 Elena uscì. Con la mano destra si massaggiava il polso sinistro. Sentiva le ossa indolenzite. Le due vipere evocate da quel dolore. Le immagini della lite impresse nella memoria. Non pensava di doverne andare fiera, ma era una bella storia da raccontare. Camminava sullo stradone del CEP convinta che le sorelle di Rossana la stessero osservando dal balcone. Elena aveva ragione, ma non si voltò. Che guardassero pure! All’inizio del Corso incrociò il ragazzino che Bob aveva strigliato tempo prima. Il ragazzo la squadrò e quando le fu alle spalle urlò: «Ah booonaaaa!!!» Elena si voltò e sorrise. Il ragazzo fu turbato da quella reazione inaspettata e abbassò lo sguardo. Elena gli fece un occhiolino e continuò a camminare, contenta che non ci fosse Bob a proteggerla. Proteggerla da cosa? Da un complimento sincero e viscerale? Il complimento di un ragazzo i cui ormoni facevano il buono e cattivo tempo? Meglio così, pensò. «Alle otto e mezza davanti alla chiesa,» le aveva dato appuntamento la parrucchiera. «Così quando finisce la messa c’immischiamo a quelli che sono andati e sembra che siamo andate a messa pure noi.» «Vedi che io non devo dar conto a nessuno.» «Lo so. Ma, qui, in paese, sai come sono le cose, no? Alla gente gli piace a sparlare.» Prima di uscire Elena aveva sentito la processione sfiorare il CEP. I passi della gente. Il duetto lamentoso delle litanie. Le parole del prete rese metalliche dal microfono. Quelle dei fedeli, un belato monotono e snervante.

Santa Madre di Dio – Prega per noi Santa Vergine delle Vergini – Prega per noi Madre dolorosa – Prega per noi Madre lacrimosa – Prega per noi Madre afflitta – Prega per noi Madre derelitta – Prega per noi Madre del figlio privata – Prega per noi Madre dalla spada trafitta – Prega per noi Madre di angustie ripiena – Prega per noi

Silenzio. Immobilità. In una parola, raccoglimento. Elena attese che la processione ripartisse e solo quando la sentì allontanarsi, si vestì. Il Corso era semivuoto. Il paese in generale, idem. Tutti rintanati nel fresco della chiesa ad ascoltare l’omelia del prete. Tutti a fingere di ascoltare l’omelia del prete. I venditori stesi sotto i banconi di truciolato a torso nudo. Una pennichella prima del bordello. La quiete prima della tempesta. Elena camminava sotto gl’archi delle illuminazioni. Passando davanti a Poggio Rock provò un senso di desolazione. La desolazione che si prova nel veder smontare la tenda di un circo. I faretti erano accesi e puntavano l’insegna che aveva disegnato e colorato lei. La porta era chiusa ed erano chiusi anche gli scuri. Elena non riuscì a capire se Bob era dentro o no. Elena guardò in alto. Il cielo non era ancora buio del tutto, e il caldo continuava a essere insopportabile. Elena cercò Sirio e non la trovò. Poi ricordò quello che aveva detto Giò Casino: Sirio in quel periodo sorgeva e tramontava assieme al sole. Il periodo della canicola, no? Quel periodo di merda che sembrava stesse governando la loro esistenza. Doveva andare verso il vecchio casale, al belvedere, a ovest. Da lì avrebbe colto il sole tramontare e forse anche quella zoccola di Sirio. Il furgoncino azzurro del venditore di lupini era appostato di fronte alla Chiesa. Come la sera prima. Come ogni anno da anni. Elena arrivò all’appuntamento in anticipo. La parrucchiera aveva una busta di lupini in mano, anche lei in anticipo. Le due si abbracciarono e complimentarono a vicenda. Come stai bene!

90 Tu stai da dio! Cose del genere. «Andiamo al belvedere?» disse Elena, pelando un lupino con gl’incisivi, attenta a non sfiorare le labbra. «A fare cosa?» chiese la parrucchiera. «Voglio vedere una stella.» «Ah, ma è vero! Oggi è pure San Lorenzo. Ci sono le stelle cadenti.» Elena non c’aveva pensato. «È vero,» disse. «Non c’avevo pensato.» «Però mo è presto, non si vedono bene. Bisogna andare dopo, quando è scuro.» «Sì, però andiamo lo stesso.» Nella piazza del vecchio casale era stato allestito il palco per il concerto di quella sera. Come da sempre, era il secondo il giorno più importante della Festa: apogeo del sacro, con processione e messa; apogeo del profano, con concerto, giostre e fuochi d’artificio. Tradizione voleva che per il concerto si invitasse un cantante dalla popolarità in declino. Un cantante che era stato famoso. Qualcuno da riesumare che avrebbe riesumato nostalgie, ricordi. Qualcuno che non avrebbe preteso chissà quale cachet. Quell’anno si trattava di Spagna, la bionda veronese che aveva sfondato alla fine degli anni ‘80 con Easy Lady. La sua inconfondibile chioma bionda era sui manifesti che tappezzavano il paese. «La veniamo a vedere, stasera, no?» disse la parrucchiera, indicando una locandina. «È chiaro,» disse Elena. «A che ora comincia?» «Buh, verso le dieci, forse.» Dal belvedere si vedevano le luci dei paesi limitrofi. Paesi lontani almeno venti chilometri. La valle che separava Poggiorsini dagli Appennini era una coperta a quadri soffice e ondulata. Poche e rare le sporgenze aspre. Tutto sembrava morbido, modellato a colpi di carezze. In cielo un paio di nuvole assorbivano il rosso- arancio del tramonto. Elena cercò Sirio. Doveva essere lì, sulla cresta dei monti lucani. «A Roma, però, non ce l’avete ‘sti panorami,» disse la parrucchiera, accendendo una sigaretta. «Ci sono tante altre cose, però.» «Tipo?» «Va be’,» Elena accese una sigaretta. «Tante cose.» Elena si sentì una stupida, come le capitava spesso. Non era in grado di descrivere le bellezze della sua città? Avrebbe potuto accennare ai monumenti, al Colosseo, ai palazzi, alle chiese, a questo e quello, al Circo Massimo, al mercato di Porta Portese, ai panorami stupendi che si vedevano da Villa Borghese o dall’Aventino. Ma non era in grado di ricordare quei nomi al momento opportuno. Non era in grado di mettere quelle informazioni in una sequenza avvincente per chi ascoltava. Bob, ne era certa, sarebbe stato un perfetto Cicerone—si diceva così?—anche a distanza. Lui ricordava i nomi e di sicuro ricordava qualche evento storico abbinato a quei nomi. Lei no. «Eccola!» urlò la parrucchiera, guardando in alto. «L’ho vista.» «Cosa?» «Una stella cadente.» «Hai espresso ‘r desiderio?» «Sicuro. Non mi chiedere niente, però. Lo sai che non si può dire.» Esprimere desideri e sperare che si avverino. Puttanate. Come le storie che aveva raccontato Giò Casino su Sirio, i greci, la canicola, eccetera. Però, puttanate o no, Elena sperò di vedere una stella cadente ed esprimere il suo desiderio. Puttanate o no, che ci perdeva a chiedere di vedere l’America coi suoi occhi? Con o senza Bob, l’importante era andare lì e prosperare nella terra dell’abbondanza.

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Finita la messa e scomparsi gl’ultimi sfoghi del tramonto, il Corso, il belvedere, le piazze, il retro del CEP— tutto Poggiorsini si riempì di persone. Insieme, turisti e poggiorsinesi, assalirono i venditori di caramelle, zucchero filato, noccioline, arachidi, olive, semi di zucca e pop-corn; quelli coi palloni a forma di animali, quelli coi sandali in sughero; le bancarelle piene zeppe di robot, pistole ad acqua, macchine telecomandate e yo-yo démodé; i porchettari e i venditori di chilum, narghilé e dvd taroccati. Elena e la parrucchiera avevano bevuto qualche bicchiere e s’erano appostate sotto il casale in attesa che Spagna cominciasse il suo concerto. «Hai visto quanta gente?!» disse la parrucchiera. «Micidiale,» disse Elena. «Non pensavo che si riempiva così.» «Eh,» disse la parrucchiera. «Ma la Festa è la Festa.»

Il concerto cominciò. Spagna faticò non poco a riscaldare il pubblico coi suoi pezzi più recenti. Non li conosceva nessuno. Tutti aspettavano Easy Lady e urlavano quel titolo a ogni pausa, a ogni occasione. Elena seguiva i movimenti di Spagna sul palco. Seguiva gl’ordini che la cantante impartiva ai componenti del gruppo, a quelli che stavano dietro il mixer, al tipo che controllava le luci. Elena provò una piacevole sensazione di empatia. Anche lei, come Spagna, era una donna indipendente. Una donna capace di dimostrare autorità e autorevolezza senza perdere fascino. Una donna che sapeva il fatto suo. Alle prime note di Easy Lady la folla esplose. Non era gioia o trasporto emotivo. Più che altro era uno sfogo liberatorio. Elena e la parrucchiera saltarono per tutta la durata della canzone, abbracciandosi e urlando a squarciagola come adolescenti fanatiche.

‘Cause I’m a lady, lady, lady, easy lady!

Nicola DeBellis, in compagnia dei suoi soliti amici, guardava il concerto dall’alto della sua casa. Lontano dalla folla ammassata. Lui e i suoi amici seguivano il concerto da lì, poco più in alto del palco su cui si dimenava l’easy lady veronese. Elena incrociò il suo sguardo. Nicola sollevò il bicchiere di champagne e le fece un occhiolino. Elena ricambiò con un sorriso. Nicola la invitò a salire. Elena rifiutò. Nicola si strinse nelle spalle. Come vuoi, diceva il suo labiale. Le labbra deformi di Nicola fecero rabbrividire Elena per qualche secondo. «Che bello sarebbe vederlo da lassù,» disse la parrucchiera. «Io preferisco stare qui, però.» «La vuoi ‘na birra?» «Sì. E dove la prendiamo?» «Andiamo al bar di Carlo.» «E il concerto?» «E chi se ne frega,» disse la parrucchiera. «L’unica canzone che conoscevo l’ha fatta.» «È vero,» disse Elena, «chi se ne frega. Andiamo.» Elena diede un’ultima occhiata a DeBellis. Non sapeva come considerarlo: un farabutto che aveva approfittato della sua vulnerabilità o un uomo solingo disposto a pagare pur di assaporare un po’ d’amore? Non si rispose. «L’ho vista!» disse indicando il cielo. «Una stella cadente, l’ho vista!»

92 «Hai espresso il desiderio?» «No, porca miseria!» si maledisse Elena. «Ricordatelo alla prossima.» «Speriamo,» disse Elena, facendosi spazio tra la gente che fissava Spagna con insoddisfazione. Tutto qui?, dicevano i loro sguardi.

Bevute due birre al bar super-affollato di Carlo, Elena e la parrucchiera si diressero verso la chiesa. Il Corso era una fiumana di gente. Si camminava a stento. Spinte di qua e di là. Odori, profumi, tanfi. Giò Casino era seduto a una sedia pieghevole, sul marciapiede che circondava la chiesa. Attorno a lui c’erano il figlio, sua moglie Alessandra e le due bambine. «Ehi, andiamo lì,» Elena indicò il punto in lontananza. «E perché?» «C’è Giò Casino, quello che abita di fronte a casa mia. Andiamo due minuti a salutarlo e poi ce n’andiamo alle giostre. Che dici?» «Ok.» Fecero cento metri in dieci minuti. «Elenaaaaa!» urlarono le bambine quando la videro. «Ciao beeelle!» disse lei. «Madonna mia, Elena,» disse la moglie del fabbro, «come sei bella stasera.» «Sembri proprio ‘n’attrice,» disse Giò, squadrandola da capo a piedi. «Bellissima!» «A lei la conoscete tutti, no?» disse Elena, spingendo la parrucchiera qualche passo in avanti. «Sicuro,» disse il fabbro. «È di Poggiorsini.» «Elena,» disse sua moglie, «senti. Queste qua, le mie figlie, ti vogliono chiedere ‘na cosa. M’hanno fatto ‘na testa così! Ma la incontriamo a Elena?, E perché non andiamo a casa sua?, eccetera eccetera. Mo, dai,» si rivolse alle figlie, «chiedete quello che dovete chiedere. Avete visto che l’abbiamo incontrata? Su, m’avete fatto ‘na testa così, mo parlate!» Le due abbassarono la testa, timide. Si tenevano per mano. La madre strattonò la più grande. «Ehi, e allora?! Mo di botto facciamo le vergognose?!» Elena si sedette sui talloni e si grattò una coscia. Guardava le bambine, sorridendo. «Ditemi quello che vole—» «Elena,» disse la più piccola delle due, «ma tu… tu… come fai a essere così… speciale?» Elena sentì una bolla d’emozione gonfiarsi nel petto. Il mondo girava attorno a lei. Le lacrime le inondarono gl’occhi. «Tutte le donne so’ speciali,» disse, senza credere a ciò che aveva detto, ma pensando che quelle erano le parole da dire a due bambine. «Bisogna solo capire in che cosa una può essere più speciale dell’artre. Capito?» Le bimbe annuirono, poco convinte. Mamma era mamma, certo, ma lei non era affatto speciale. Elena sì, invece. Elena era bella, delicata, ipnotica. Elena aveva delle curve perfette, un sorriso raggiante, gambe lunghe e toniche, e si vestiva con sicurezza e stile. Elena sembrava una fata. «Lei, per esempio,» Elena s’alzò e cinse la vita della parrucchiera. «Lei è speciale a fare i capelli. Quando fate grandi andate da lei e vedete che vi fa i capelli più belli di quelli mía. Ogni donna è speciale in qualcosa. Lei è speciale come parrucchiera.» La parrucchiera sorrise, imbarazzata. Alessandra osservò Elena in lungo e in largo. Un impeto d’invidia la invase. Le sue figlie ammiravano più Elena che lei, la loro madre. Giò Casino stava mangiando semi di zucca e di tanto in tanto sputava qualcosa. Aveva gl’occhi rossi e umidi. Se non era ubriaco, ci mancava poco.

93 Osservava la massa di gente camminare lungo il Corso. Facce sconosciute, facce di forestieri. Puntò lo sguardo sulle luci colorate delle illuminazioni. Erano accecanti e sfocate. E nella nebbia della sua vista, Giò pensò a Bob e al fatto che non fosse lì con sua moglie. Lui, Giò, la moglie non ce l’aveva più, e da tanto. Dodici anni ch’era morta. Lui, Giò, non era mai andato a una Festa senza di lei. E loro forse non s’erano nemmeno mai amati come Bob e Elena. Ma prima le cose erano diverse. Non era sposare chi si amava davvero. Non era facile amare davvero. Ne incontravi una, ti faceva un’occhiata diversa, ti sfioravi la mano una volta o due, passavi una serata a passeggiare sul Corso, coi fratelli di lei a qualche metro a controllare, e poi, un mese dopo, non t’eri ancora baciato magari, andavi a chiedere la mano al padre. Si ufficializzava il tutto, e fine. Fidanzamento e dopo poco il matrimonio. Poi arrivavano i figli; i genitori s’ammalavano e avevano bisogno di cure. Ecco che il sogno di andarsene in America svaniva per sempre. «Che c’è, Giò?» s’avvicinò Elena. «Stai zitto-zitto. È successo qualcosa?» «No, Elena. Sto bene, grazie.» «Ti vedo strano. Mi dispiace per quello che t’ha detto Bob ieri, ma, sai, a volte si dicono anche cose che non si pensano davvero. Si dicono delle cose solo per dirle.» «Elena, figlia mia, grazie della premura, ma non ti preoccupare. Stavo solo pensando a certe cose. Non c’è niente.» «Elena, scusa,» disse il fabbro. «Ti posso parlare un minuto?» «Uagliò!» disse Giò. «Me raccomànde!» «Pa’, le sòlde sò sòlde,» rispose il fabbro. «Che c’è?» chiese Elena. «Niente,» disse il fabbro, prendendola per un gomito in modo da dare le spalle a Giò. «È che Bob mi deve ancora dei soldi. Io non so se tu te lo ricordi, ma però sono passati mesi e mesi da quando v’ho cambiato la serratura. Lui, Bob, non m’ha ancora pagato. Poi s’è messo in mezzo pure mio padre—che m’ha chiesto di aspettare ancora un po’—però ora non posso più aspettare.» Bob e i suoi debiti. Questo era il titolo del libro che Elena avrebbe potuto scrivere sulle loro disavventure. Bob e i suoi debiti. Come a Roma, come con DeBellis, come sempre. «Quant’è che ti deve?» chiese Elena. «Settantacinque euro.» «Settantacinque euro pe’ ‘na serratura?!» «Sono inclusi gl’interessi,» disse il fabbro. «Ah,» disse Elena, poi tacque. Mentre le facce degli strozzini di Roma svanivano dalla sua mente, Elena pensò a cosa dire. Giò era seduto di fronte a lei e la fissava. Aveva lo sguardo smorto, però. Non il solito sguardo attento e penetrante. «Senti qua,» disse Elena. «Un giorno di questi vieni a trovamme a casa. Porta cinquanta euro e saldiamo ‘r debbito. Però, mi raccomando, prima di venì passa da Poggio Rock e assicurati che Bob è lì.» Il fabbro sorrise e tremò dall’eccitazione. Qualcosa si mosse nei suoi pantaloni. Quella donna era davvero speciale, le sue bambine avevano ragione.

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Elena e la parrucchiera salutarono i Casino e andarono alle giostre. Elena era brilla e cercava di non darlo a vedere. Quando la parrucchiera le chiese di andare con lei sulle macchine da scontro, Elena si rifiutò dicendo che avrebbe vomitato al primo scontro. «Tu vai,» disse. «Aspettami qua, ok?» Elena annuì.

94 Si guardò intorno alla ricerca di Bob. Non avrebbe voluto provare la sensazione di vuoto che la dominava. Ma era più forte di lei. Non era abituata a fare le cose senza Bob. Non era abituata a stare tra la gente senza avere le mani di lui attorno al bacino. Sentire le sue mani stingerle una chiappa di tanto in tanto. Sentire il calore del suo corpo accanto al suo. Scandagliò con lo sguardo la folla che bazzicava sotto il tagadà. Le sembrò di vederlo. No, non era lui. S’era sbagliata. Continuò a cercarlo. Le sembrò di vederlo, ancora. No, non era lui. S’era sbagliata. Ancora. Era come quando si cercavano le stelle cadenti e si veniva illusi da un satellite o un aereo in movimento. Le stelle cadenti! Elena volse lo sguardo in alto. Il cielo era un manto di gelato stracciatella al negativo. Pianeti, nebulose, stelle morte da chissà quanto. Elena osservò i seggiolini del calcinculo girare in tondo. Andavano troppo veloce per riuscire a riconoscere qualcuno o qualcosa. “Il desiderio, il desiderio,” ripeteva dentro di sé. La parrucchiera la chiamò da lontano. «Non ti preoccupare,» disse Elena. «Tu pensa a divertitte.» Elena volse lo sguardo al cielo. Lo tenne fisso lì per cinque minuti. Niente, nessuna stella cadente. Abbassò il capo e lo roteò per rilassare i muscoli del collo. Guardò di nuovo il cielo. Passarono due minuti. Nel preciso istante in cui vide una stella cadente, Elena sentì un gruppo di ragazzi urlare «Bob! Bob! Bob! Bob! Bob! Bob!» Diresse lo sguardo verso quelle urla. Venivano dal tagadà. Sovrastavano la musica che pompava da due altoparlanti enormi. Elena scorse Bob e sentì battere forte il cuore, come quando s’era innamorata di lui, anni e anni prima. Bob indossava la maglietta rossa dei Ramones. Quella con le scritte bianche. Quella che le aveva regalato lei quando erano andati a Milano a vedere un concerto. Un concerto di chi? Il nome non lo ricordava proprio. Perché non aveva una buona memoria? Vide Bob salire sulla giostra, sul tagadà. Sembrava una persona diversa. I movimenti flemmatici. Il modo in cui barcollava. Bob non era ubriaco, ma era strano. Molto strano. «Cazzo,» disse Elena. «Non ho espresso il desiderio!»

95 17

Quando verso le 6 del 9 agosto Bob si svegliò nella sua Mondeo in Piazza Plebiscito a Trani, per prima cosa osservò il braccio sinistro con la speranza che la pera forzata di eroina fosse stata solo la fine di un incubo. No, non era stato un incubo. Nell’incavo del gomito il buco c’era, circondato da un piccolo ematoma. Forse la sua vita era ormai un incubo, ma non aveva sognato. D’istinto pensò di andare dai carabinieri—stupida velleità. Cosa avrebbe dovuto raccontare? Sono andato a comprare marijuana da poter spacciare come ho fatto la settimana scorsa, e loro— Naaa. Era inutile pensare a rappresaglie del genere. Bob tirò fuori il portafoglio e controllò che ci fossero ancora i soldi. C’erano. Infilò una mano nella tasca sinistra dei jeans, cercando le sigarette. Non erano lì. C’era un bigliettino con su scritto “T di T” e un numero di telefono. Bob infilò la mano nella tasca destra. Le sigarette non erano nemmeno lì. O meglio, il pacchetto di Pall Mall c’era, ma al posto delle sigarette, trovò una dozzina di bustine. Bustine di eroina. Bustine da 40, come aveva detto Tonino Scacco-matto. Stette qualche secondo a pensare, immobile; prese il mascherino dello stesso, lo agganciò e mise in moto la macchina. Lo stereo partì in automatico. Seven Nation Army dei White Stripes. Una canzone sublime che Bob non ascoltava da quando l’Italia aveva vinto i mondiali. I White Stripes? Il gruppo migliore dei primi anni del 2000. Senza dubbi. Jack White? Un genio. Rovistò nel portaoggetti alla ricerca del porta-cd. Trovò Is This It degli Strokes e lo mise su. L’album migliore di quegli stessi anni. Quello era l’album che aveva ascoltato come un ossesso nel periodo del matrimonio. L’album che gli ricordava il tradimento dell’addio al celibato. Quella serata di merda con la spogliarellista dell’Est. In quel night di merda. Un album irripetibile che gl’aveva parlato al cuore. Un album che sembrava aver colto lo stato d’animo di Bob. La voce, una lagna romantica e nichilista. Il basso onnipresente ma per niente dominante. Le chitarre ripetitive, ripetitive, ripetitive. E poi la produzione! Una produzione che ricordava il passato. Una produzione perfetta, artefice in buona parte del successo di quell’album. Bob lasciò Trani sospinto dalle carezze degli Strokes. Alone, Together.

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Prima di entrare in casa, quella sera, Bob si fermò a coccolare la cagna sua amica. «Aspetta qua,» le disse.

96 Entrò in casa, prese un pezzo di pane, ci spalmò su del burro, e uscì. Elena lo guardò con curiosità. Bob la vide spiarlo attraverso la tenda della finestra. La cagna divorò il pane con ingordigia. Leccandosi i baffi, fissava Bob seduta. I suoi occhi ne volevano ancora. «Basta,» disse Bob. «Un pezzo basta.» La cagna scodinzolava. «Vai, su,» Bob colpì la cagna con due pacche sui fianchi. La cagna si allontanò di qualche passo, poi si fermò. Fissava Bob, lo sguardo perplesso. Bob entrò nel portone e sentì una vampata di sudore pizzicargli le narici. Era il suo sudore ma non era il suo. Era acido e violento. Non aveva mai sentito un puzzo di sudore del genere. Davanti alla porta, sbottonò i bottoni della polo e passò una mano sui peli del petto che s’erano avvinghiati al crocifisso come edera.

Bob si sedette a mangiare senza dire una parola. Elena voleva parlargli, dirgli qualcosa, ma lui la ignorò. Voleva rimanere chiuso in quel silenzio triste e ottuso. Dimostrare a sua moglie e a se stesso d’essere disposto a pagare per gl’errori commessi. Forzarsi in uno stato d’animo prostrato era un modo per infliggere una punizione a entrambi. A Elena perché si prostituiva. A se stesso perché era un loser. Aveva promesso mille volte di portare Elena in America e aveva alimentato quel sogno in tutti i modi. Ma come avrebbe potuto badare a sé e a sua moglie in America, se non riusciva a farlo nemmeno in un paesino sperduto della Puglia? Altro che Elena, Giò Casino o Renato. Il vero loser era lui. Elena gli domandò dov’era stato quel pomeriggio e se voleva uscire con lei. Lui non rispose. Elena sbatté le mani sul tavolo e cominciò a urlare. Bob la ignorò e uscì. Andò al negozio e si chiuse all’interno. Non voleva rotture di coglioni. Che il mondo fuori continuasse a girare e girare senza di lui! Che il mondo fuori si crogiolasse tra lustrini e bancarelle di dolci! Che sua moglie soffrisse e si facesse la sua vita! Anche come puttana! A lui non int— Scoppiò a piangere. Poggiò il capoccione sul bancone e pianse. Bob vedeva le lacrime cadere sul pavimento. Una, due, tre lacrime. Dalla quarta in poi, cercò di farle cadere accanto a quelle già cadute. Si sforzò di piangere di più. Voleva più lacrime, più lacrime. Voleva prosciugarsi. Accese l’impianto stereo. “Cosa voglio ascoltare?” si chiese. I Beatles. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band o Rubber Soul? Non ricordava bene come erano andate le cose dopo la spada, ma non avrebbe mai dimenticato quello che aveva provato durante. Dal momento in cui Tonino aveva sfilato la siringa. Un’ammaliante sensazione di leggerezza. Il peso che gli comprimeva il cuore s’era sciolto. Da fiele a miele in pochi secondi. Le gambe, le braccia, la testa—tutto il corpo inutile e leggero. Non più muscoli e ossa, ma piume e ovatta. «Devo sentire Heroin,» disse Bob. «The Beatles can wait.» Mise su l’album dei Velvet Underground. Traccia numero 7, Heroin. Partirono le prime note. Prese le bustine di roba. Le osservò senza sapere che fare. Le tenne in mano, stringendole come a volerle distruggere.

97 I don’t know just where I’m going But I’m gonna try for the kingdom, if I can ‘Cause it makes me feel like I’m a man When I put a spike into my vein And I’ll tell ya, things aren’t quite the same When I’m rushing on my run And I feel just like Jesus son And I guess that I just don’t know And I guess that I just don’t know

Quelle parole erano così chiare, ora. Erano dei tesori che si svelavano ai suoi occhi. Heroin gl’era sempre piaciuta, certo, ma ora tutto aveva senso. Quella canzone era una perla. Una perla di saggezza. Ci sono cose che non si possono capire senza averle vissute. L’eroina era una di queste.

‘Cause when the smack begins to flow Then I really don’t care anymore Ah, when the heroin is in my blood And that blood is in my head Then thank God that I’m good as dead Then thank your God that I’m not aware And thank God that I just don’t care And I guess I just don’t know Ohoo, and I guess I just don’t know

Quel I guess I just don’t know spiegava al meglio ciò che si provava con l’eroina in corpo. Ok, però una volta poteva bastare. Doveva bastare. L’eroina? Lasciamola a Lou Reed. Sbatté le bustine sul bancone. Rovistò in un paio di cassetti, convinto di avere delle sigarette sparse qua e là. Ne trovò due. Una era spezzata. Accese la sigaretta buona e stoppò la musica. Fissò le bustine a lungo. Le fissò facendo respiri profondi. Si stava lasciando andare a un patetico melodramma solitario. S’avventò su uno degli scaffali cercando un disco. Non avrebbe voluto solo ascoltarlo; voleva tenerlo in mano, toccarlo, sentire al tatto che quella musica esisteva davvero. Lo trovò. Era un 45 giri rarissimo. Un singolo dei Kinks, Sunny Afternoon, 1966. Lo voltò e rivoltò prima di poggiarlo sul leggio in legno. La b-side era una delle sue canzoni preferite. I’m not like everybody else. Andò dietro il bancone e la cercò nel suo laptop. La fece partire, il volume a palla.

I won’t take all that they hand me down And make out a smile, though I wear a frown And I’m not gonna take it all lying down ‘Cause once I get started I go to town

‘Cause I’m not like everybody else I’m not like everybody else I’m not like everybody else I’m not like everybody else

And I don’t want to ball about like everybody else And I don’t want to live my life like everybody else And I won’t say that I feel fine like everybody else ‘Cause I’m not like everybody else I’m not like everybody else

98 Una sensazione di unicità s’impossessò di Bob. Come dicevano i Kinks, lui non era come tutti gl’altri. Lui non voleva vivere come tutti gl’altri. Non voleva dire di star bene come tutti gl’altri. Lui non era come tutti gl’altri. E aver provato l’eroina faceva parte di quella sua unicità. Lo rendeva diverso da tutti gli altri. Diverso da chi non l’aveva mai provata e diverso da chi, invece, ne era dipendente. Lui sarebbe sempre stato in grado di controllarsi e di non cadere nel giogo accattivante di quella droga. Lui non era come tutti gl’altri. Lui era Bob, Bob Cammeruomo.

But darling, you know that I love you true Do anything that you want me to Confess all my sins like you want me to There’s one thing that I will say to you

I’m not like everybody else I’m not like everybody else I’m not like everybody else I’m not like everybody else

Prese una bustina e la fissò. Era incerto sul da farsi. Era incerto sul farsi. Per dimenticare quelle brame insidiose, Bob aprì uno scuro e sbirciò all’esterno. Una massa di gente camminava sul Corso. Alcuni fissavano il negozio. Altri dicevano qualcosa puntando l’insegna. I loro volti cambiavano di colore in base al punto in cui si trovavano e al tipo di luci che avevano sulle loro teste. Bob notò una bella donna con metà viso verde, metà perlaceo. Chiuse lo scuro e ritornò a fissare le bustine d’eroina. Non aveva una siringa e quello era un bene. Non avrebbe potuto spararsela in vena o intramuscolo. E, forse, non sarebbe nemmeno mai stato capace di farlo. Poteva sniffarla o fumarla. Fumarla come? Non restava che sniffarla. Bob aprì una bustina. Bob rovesciò sul bancone una dose. Con una carta di credito scaduta stese la polvere biancastra—marroncino più che bianca. Infine arrotolò un biglietto da 20 euro. Osservò la linea di eroina che stava per tirare. Gli fece timore. Tremò per qualche frangente. Deglutì teso e a fatica. Tossì. Infilò la banconota arrotolata nella narice destra. Con l’indice sinistro si tappò la narice sinistra. Tiròòòòòòòòòòòòòòòòòò. Sentì la testa dondolare all’indietro, due o tre capogiri, un conato, due— Vomitò senza nemmeno avere il tempo di rendersene conto.

99 18

Un sogno di merda. Un vecchio amico di Roma gli passava un cd. «Mettilo su,» diceva. Aveva un gruppo, ora. Il cd era stato prodotto da Steve Albini. Bob non ci poteva credere. Com’era possibile che un chitarrista scarso come il suo amico avesse fatto un disco con Steve Albini? Com’era possibile che i suoi desideri erano realtà nelle vite degl’altri? L’amico gli faceva sentire un paio di canzoni. La produzione era eccellente, ma i brani erano banali, infantili, zero entusiasmanti. E in ogni canzone c’era un inutile sottofondo di campane. Come aveva potuto Steve Albini produrre una cosa del genere? La situazione peggiorava. L’amico gli chiedeva aiuto. S’era cagato addosso e Bob doveva togliergli la merda dai jeans. «E le tue mani?» diceva Bob. «Vedi?» Le mani tremavano. Tremavano forte. Bob gli puliva i pantaloni storcendo il muso. La merda sembrava non finire mai. L’intero rotolo di cart’igienica appallottolato ai suoi piedi. Una puzza soffocante. Una puzza che diventava sempre più acre. Da merda a qualcos’altro— Si svegliò, madido di sudore, il respiro pesante. Guardò l’orologio sul comodino. Le 11:26. Era la mattina della Festa. Elena non era in camera. Bob la sentì trafficare in cucina. Forse stava cucinando qualcosa di speciale. Non che gliene fregasse granché. Bob inspirò col naso per sturarlo. Ancora quell’odore. Ancora quel puzzo acre e violento e non suo. Ecco in cosa s’era trasformato l’odore di merda. Ecco perché s’era svegliato. Quell’odore non era un sogno. «Buongiorno,» disse Elena. La cucina era la loro terra di nessuno. Un luogo neutro. Lì la vita si atteneva al pratico, solo al pratico. Bob non rispose. Abbassò lo sguardo e si grattò la nuca. Bob guardò Elena attraverso la frangia come da dietro una tenda antimosche. Notò con piacere che s’era sistemata i capelli ma non disse niente. Prese la moka dal fornello, versò il caffè freddo in una tazza e ci aggiunse acqua calda. Ingollò il caffè tiepido e amaro e uscì senza dire una parola. Bob sentì lo sguardo di Elena sulle spalle. Pesava quintali ma era dolce, così dolce.

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Ecco da dove venivano le campane nella musica del suo amico! Poggiorsini era schiacciato da quei rintocchi monotoni e dal caldo torrido di mezzogiorno. Ma quello era il giorno della Festa, e niente avrebbe scalfito l’euforia che riempiva gl’animi dei poggiorsinesi. Le persiane tirate giù e i condizionatori a palla, le famiglie si sarebbero riunite come a Natale—meglio che a Natale. Terrazze e sale da pranzo gremite; tavolate esagerate stracolme di cibo—uno schiaffo alla fame. Canicola e siccità dimenticate per qualche ora. Gli assilli del lavoro annegati nella verdeca. Gli odi familiari rimarcati dalle assenze e addolciti dal limoncello fatto in casa.

100 Bob aveva le chiavi del negozio in mano. Stava per infilarle nella serratura quando ripensò al vomito della sera prima e all’odore che avrebbe respirato entrando. No, dopo la merda e il sudore, il vomito non ci voleva proprio. Lasciò perdere Poggio Rock e s’avviò verso il bar. Carlo il barista era indaffarato, la fronte ricoperta di sudore. Gli uomini erano in fibrillazione e sembravano ringiovaniti. Bob li guardava con stupore, stima, superiorità. A loro bastava davvero poco per essere felici. Bob ordinò un prosecco. Lo scolò e ne ordinò un altro. Uscì in strada a fumare. Si sentiva osservato. Anche deriso. Lo guardavano e sorridevano. Gli sguardi furtivi, i sorrisi falsi e ipocriti. Un cenno del capo, una coda dell’occhio. Bisbigli e risatine. Meschinità e villania. Bob notò Renato fermo davanti al telo colorato di un senegalese, nella sua solita canottiera bianca. Era con una brunetta alta e avvenente. La teneva stretta a sé dalla vita. Renato aveva dei pantaloncini militari mimetici. Tatuaggi anche sulle gambe. Gambe mai dome, come al solito. Bob finì il prosecco tenendo lo sguardo su DDT. Entrò nel bar e poggiò il bicchiere sul bancone. «Ciao, Carlo, e grazie.» «Ciao Bob, grazie a te.» Bob s’avviò verso Renato camminando al centro del Corso. Voleva farsi notare. Voleva parlare col suo socio. Raccontargli quello che era successo a Trani. Le minacce di don Nicola e Tonino. La pera d’eroina. Le bustine che gl’avevano infilato in tasca. L’accordo che era stato costretto ad accettare. La storia della roba che doveva arrivare dall’Afghanistan. Renato camminava dondolando una collanina di conchiglie. Notato Bob, lo indicò dicendo qualcosa alla brunetta che aveva accanto. Bob sorrise. Finite le presentazioni, Bob disse a Renato che aveva bisogno di parlargli. «Anch’io ti devo parlare, e urgente,» disse Renato. «Però facciamo oggi pomeriggio, ché ora sto con Marisa e non mi va di parlare d’affari davanti a lei. Sai,» Renato si rivolse a lei, «questo qua conosce tutto, ma proprio tutto del rock. Se gli fai ‘na domanda vedrai. Su, dai, fagliela, chiedigli qualcosa e vedi che sa tutto.» Marisa guardò in alto. Stava pensando e voleva darlo a vedere. «Dimmi, qual è il gruppo rock più sopravvalutato?» «Oh! Hai capito a Marisa!» disse Renato. «Il gruppo più sopravvalutato. Mica scema.» «E che credi?! Io c’ho il diploma in ragioneria.» «Ma tu dici un gruppo rock contemporaneo o in generale?» chiese Bob. «No, contemporaneo. Di oggi.» «Vediamo…» disse Bob. «Forse gli Oasis.» «Ah! A me non mi piacciono proprio gli Oasis.» «Qualche canzone buona l’hanno fatta,» disse Bob. «Ma secondo me sono sopravvalutati.» «È vero,» disse Marisa. «Ohu, Rena’, c’hai ragione: è proprio bravo.» «Ehi, Bob, senti qua,» Renato posò lo sguardo sul braccio di Bob e notò il piccolo ematoma e il buco della siringa. Sapeva di che si trattava. «Ci vediamo a pomeriggio. Passo dal negozio, se per te va bene. Vengo in macchina e ce n’andiamo a fare un giro da qualche parte. Che dici?» «Ok,» disse Bob. «E a me, dove mi lasci?» chiese Marisa. «Poi vediamo,» tagliò corto Renato.

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101 «Tutti stanno a festeggià insieme e noi siamo solo io e te,» disse Elena a pranzo, la bocca piena. «In tutte le case ci sono tavolate lunghe chilometri, con dieci, venti persone, e noi invece semo solo in due. In due, cazzo. È vero che noi due siamo la nostra famiglia, però…» Bob mangiava e teneva lo sguardo nel piatto. Le penne alla bolognese erano sciapite, ma non disse nulla. Elena continuò a parlare senza curarsi di essere ascoltata. «Non so, è che sarebbe stato bello se eravamo in tanti, co ‘na tavolata enorme pure noi. Però, quelli so’ j’amici ch’abbiamo. E… e da Rossana non ci possiamo annà ché io ho litigato con le sorelle; da Giò manco perché tu, ieri, j’hai fatto quâ scenata. Dobbiamo stare qua, io e te, e basta. In due. Soli, come sempre. Io e te.» Bob sollevò lo sguardo e guardò Elena. Era sempre bellissima, anche nella petulanza. I suoi occhi sembravano innocenti, profondi, ingenui. Bob si chiese per quanto ancora sarebbe riuscito a ignorare il richiamo d’amore che Elena esalava. «Io avevo pensato di chiedere a Nicola DeBellis se—» Bob spinse il piatto irritato, si alzò e uscì.

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Bob entrò nel negozio e si rammaricò. Aveva sempre voluto gestire un negozio di dischi che fosse la mecca dei rockettari. A Roma come a Poggiorsini come ad Atlanta. Sognava un negozio cult. Una meta obbligata degli amanti del rock. Ma Poggio Rock non era una mecca, era una merda. L’apice degli affari era arrivato con l’erba e grazie a Renato. Di dischi ne aveva venduti sì e no dieci. La porta spalancata e le narici turate, Bob ripulì il pavimento dal vomito della sera prima. Il volume dell’impianto stereo era a metà. Stava ascoltando la playlist che aveva masterizzato per Renato. Un regalo per fargli conoscere canzoni sentimentali lontane dalle lagne progressive rock dei gruppi che ascoltava lui.

One of us must know (Sooner or later), di Bob Dylan. 4’55’’

Sooner or later one of us must know That you just did what you were supposed to do

Quel you just did what you were supposed to do lo portò a pensare a Elena. Lei era quel “you”. Lei aveva fatto just ciò che avrebbe dovuto. Lei si concedeva ad altri per soldi. Lei scopava per soldi. Lei era una puttana. Questo era quello che lei aveva fatto.

Sooner or later one of us must know That I really did try to get close to you

Quel I really did try to get close to you, invece, lo sentiva appiccicato addosso. Lui era quel “I”. Lui era quello che aveva provato ad avvicinarsi a lei. O no? Rifletté per un minuto. Naaa. Non era lui. Affatto. Col suo mutismo non stava cercando di avvicinarsi. Al contrario. Stava ergendo un muro d’ostilità, uno stupido muro di gomma.

It’s not enough, di Johnny Thunders. 3’49’’

You can give me this You can give me that You can give me this You can give me that

102 It’s not enough

Solitary man, di Johnny Cash. 2’26’’

I’ve had it to here, being where, love’s a small word A part-time thing, a paper ring I know it’s been done, havin’ one girl who loved me Right or wrong, weak or strong

Don’t know that I will, but until, I can find me The girl who’ll stay, and won’t play games behind me I’ll be what I am A solitary man, a solitary man

Jelaous guy, di John Lennon. 3’48’’

Bob cantò questa dall’inizio alla fine. Non saltò nemmeno una strofa, una frase, una rima—niente. Gli venne da piangere ma si trattenne. Renato sarebbe arrivato da un momento all’altro. Stoppò la playlist e cercò qualcosa di meno triste. Qualcosa che l’aiutasse a riprendersi.

Town called Malice, dei Jam. 2’52’’

Bob fece andare il piede a ritmo per tutta la durata. Canticchiò persino il pa pa pa pa para-pà! centrale e per qualche secondo dimenticò i suoi tormenti. «Ehi Bob!» sentì urlare dall’esterno, finita la canzone. «Booob! Ehi!» Si sporse col capoccione, le mani arpionate ai lati della porta. Renato era in macchina, accostato al marciapiede di una traversa del Corso. «Bob! Andiamo, su!» disse DDT. «E parcheggiati qua,» disse Bob. «Non si può: il Corso è chiuso al traffico per la Festa. Dai, andiamo.» «Fammi chiudere e arrivo.» «Muoviti.»

I don’t need anyone Don’t need no mum and dad Don’t need no pretty face Don’t need no human race I got some news for you Don’t even need you, too I’ve got my—

Bob spense lo stereo, lasciando Stiv Bators dei Dead Boys con l’urlo strozzato in gola. «Sorry man,» disse. Fuori faceva un caldo bestiale e Bob non lo sopportava più. Da quando erano arrivati a Poggiorsini non aveva visto altro che cieli limpidi, caldo, caldo e ancora caldo. «Ehi,» disse appena in macchina, «per favore, Renato, andiamo da qualche parte fresca. Non ce la faccio più co’ ‘sto caldo.» «Ciao, intanto.» «Ciao, ciao. Davvero, non ce la faccio più.» «Ok. Dove vuoi andare, alla Diga o giù a Fontana Latrigna?» «Buh?» «Una è laggiù,» Renato indicò oltre il CEP. «E l’altra è da tutt’altra parte.» «Andiamo di là,» disse Bob. «Sono sempre stato curioso.»

103 «Ok,» Renato avviò la macchina. «Fontana Latrigna, allora.» «T’ho fatto un cd,» disse Bob. «Ti va di ascoltarlo?» «Come no.» «Non lo metto dall’inizio perché lo stavo sentendo prima al negozio. Parto dalla quinta o sesta canzone, va bene?» «Bob, tu sei l’esperto.» «Queste sono canzoni un po’ tristi, un po’ romantiche che volevo che tu conoscessi, perché, oltre ai gruppi più famosi e tutto il resto, ci sono canzoni stupende di gruppi meno conosciuti che secondo me meritano di essere conosciute. Poi, magari, le fai sentire pure alla tua ragazza, a Marisa.» «Ehi, ehi!» disse Renato. «Quella non è la mia ragazza e non voglio che la chiami così, ok?» «Ok, mammamia, scusa, va bene, non t’incazzare.»

So long, so long I’m better by myself So long, so long Don’t need nobody else

S’erano appena lasciati il CEP alle spalle. Stavano andando verso quello che Bob, al suo arrivo a Poggiorsini, aveva considerato come l’inizio del nulla. Le parole della canzone dei Kinks e la malinconia che suscitava ronzarono nella testa di Bob lungo l’intero tragitto. L’idea di lasciarsi tutto alle spalle era un languorino che riaffiorava con costante facilità. Finita una lunga discesa, Renato parcheggiò accanto a una vasca di pietra lunga una dozzina di metri e larga due. L’acqua era limpida, si vedeva il fondo. Muschio e melma. Una rana. Due bottiglie di Moretti da 66. «Da bambini venivamo a farci il bagno qui, lo sai?» Renato scese dalla macchina e salì sul bordo della vasca. «I nostri genitori non volevano perché i pastori portavano a bere le mucche, le pecore, gl’animali, però a noi non ce ne fregava niente, e venivamo di nascosto. Questo era il nostro mare.» A Renato gli brillavano gl’occhi. «Tu a Roma, anche se non andavi al mare, magari c’avevi ‘na palestra co’ ‘na piscina, che ne so. Ma qui… qui no.» «Bello,» disse Bob. Sguardo a sinistra: la valle ondulata che separava Poggiorsini dagli Appennini. Sguardo a destra: canneti alti due-tre metri e, oltre i canneti, fragni, roverelle, lecci. «Vedi,» Renato indicò l’inizio della discesa che avevano percorso per arrivare lì. «Se ti metti dove sto io riesci a vedere chi viene. E noi, da bambini, stavamo sempre attenti. Appena vedevamo qualcuno—‘na macchina, un cavallo, ‘na moto—ci nascondevamo dietro i canneti e aspettavano fino a che non se n’andavano. Una volta, mi ricordo, c’era pure mio fratello, siamo stati nascosti lì dietro per più di un’ora. Un tipo era sceso qui a lavare la macchina.» Bob pensò alla sua infanzia. Gli ritornarono in mente le passeggiate col padre mano nella mano a Piedmont Park e i grattacieli di Midtown che si stagliavano nel cielo di sud-ovest. Il sogno di avere un ufficio in uno di quei grattacieli. La mano ruvida del padre. La decisione del padre di tornare in Italia. I pianti, le proteste. Gl’amici che l’avevano salutato quando se n’erano andati. Il sogno di tornare lì, ad Atlanta, con Elena. Un sogno che gli stava sfuggendo dalle mani. O meglio: un sogno che lui si stava lasciando sfuggire dalle mani. Come erba strappata e affidata all’incuria del vento. «Raccontami cos’è successo a Trani,» disse Renato, sedendosi. «A Trani? E come fai a sapere che sono andato a Trani?» «Bob. Quante volte te lo devo dire? Tu sei un esperto di musica, ma io a te t’imparo a stare al mondo. Muoviti, su, dimmi com’è andata. E mi raccomànde,» Renato indicò il braccio di Bob. «Non mi nascondere niente.» DDT tirò fuori un astuccio d’argento e cominciò a sbriciolare un po’ di marijuana. L’idea partorita col Gallo di infiltrare Bob a sua insaputa nella cosca dei tranesi si stava rivelando geniale.

104 Bob si passò una mano sul braccio. Lo carezzò più volte. Si sedette accanto a Renato, sul bordo della vasca, le spalle al sole. Il sole era caldo, il cielo pallido. Il mondo attorno sovrastato dal silenzio. Di rado si sentivano dei fruscii tra le canne e l’erba secca. Serpenti, topi o lucertole.

Bob raccontò quello che era successo. Disse a Renato della pera d’eroina, dello schiaffo di don Nicola, della proposta che era stato costretto ad accettare e delle bustine che s’era ritrovato in tasca. Gli disse anche che il tenente l’aveva sputtanato e che il carico di eroina dall’Afghanistan sarebbe andato nelle mani di don Nicola. «Dice che arriverà dopo Ferragosto.» «Pezzo di merda!» sbottò Renato. «Quel figlio di puttana m’ha rovinato il piano.» «Il piano? Che piano?» domandò Bob. «Metterti in proprio?» «Scommetto che loro hanno detto così, vero?» Renato ri-accese la canna che, stretta tra le dita, s’era spenta. «E scommetto pure che t’hanno detto di dirmi che mi vogliono parlare, giusto?» «Non lo so,» disse Bob, «non me lo ricordo.» In mente gli rimbombava la voce di Bob Dylan. Let me forget about today until tomorrow. «Sicuro te l’hanno detto. E se non te l’hanno detto è solo perché hanno dato per scontato che tu me lo venivi a dire—jè normàle.» Renato passò la canna a Bob. Renato cominciò a valutare le rivelazioni ottenute. I tranesi gli avevano fatto la pera di eroina per metterselo sotto i piedi, poco ma sicuro. Un tossico è come un cane: fedele a chi gli dà da vivere. E, a proposito di cani, Tonino e don Nicola avevano capito che Bob era un cane sciolto, un tipo che preferiva stare da solo, facile da deviare e corrompere. Del resto, quello era ciò che aveva pensato lui, Renato, quando aveva fatto la sua proposta a Bob. Anche don Nicola, come Renato, aveva contato sul fatto che Bob fosse un cane sciolto senza nessun legame d’amicizia o parentela: bassissime le probabilità di ritorsioni. Certo, come lui, anche i tranesi stavano usando Bob per i loro obiettivi. Renato aveva tutte le qualità per essere un boss come don Nicola. Migliore di don Nicola. Se solo il mondo non fosse stato infestato da infami e doppiogiochisti come il tenente! Se solo le stelle l’avessero assistito! «Allora. Aspetta, aspetta. Qui bisogna ragionare con calma,» DDT si morse il labbro. Bisognava modificare i piani. Spacciare la 999 per farli imbestialire, per dimostrarsi una seria minaccia, per mettersi in proprio, non era più un’opzione praticabile. Quella merda del tenente aveva rovinato tutto. Bisognava adottare un piano- B che però non era stato ancora contemplato. Doveva parlare col Gallo, al più presto. Renato tossì, le gambe a tremare inquiete. Aveva paura delle sue stesse parole, ma quello era ciò che pensava, e lo disse: «Bob, è deciso: quelli mi vogliono morto.» «Morto?! Addirittura?» «Ma cosa credi, che sono criminali come quelli che vedi nei film? Questi non scherzano. Non l’hai capito che nessuno si mette in proprio. Tutti devono dipendere da loro, punto.» Renato guardò l’orizzonte. «Che pezzo di merda il tenente, però. Pensavo di potermi fidare. Ma me la pagherà, lo stronzo. Che fa, si mette contro a DDT?» «Scusa, Renato, ma magari se li incontri riuscite a sistemare le—» «Bob, allòre ssì babbiòne?! Se quelli m’invitano è perché mi vogliono fare fuori, punto. U capìsce, sì o no? È fatta. L’ordine è stato dato. Mo, guarda, te lo dico io da qui: massimo ‘na settimana e vedi che si presenta qualcuno a cercarmi.» «E tu?» «Io? Va be’, stasera non penso che s’azzardano: è la Festa, c’è un casino di gente, sbirri e tutto il resto. Ma da domani, ogni giorno è buono per loro. Però io, Bob, mìche sò scèìme. Io me ne vado domani matttina stessa.»

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105 Renato gli aveva consigliato di disfarsi delle bustine d’eroina dandole a lui. Le avrebbe vendute fuori Poggiorsini, a Spinazzola o a Corato, e gl’avrebbe dato i ricavi. Bob non era sicuro che Renato si sarebbe attenuto a quell’accordo. Certo, era un mezzo amico, ma prima di tutto era un mezzo delinquente. Bob decise di tenersi le bustine. Erano le 7:10 quando la processione s’avvicinò a Poggio Rock. Nell’aria torrida, l’odore di fiori cera e incenso scalzò quello abituale di paglia arsa. Bob spense luci e impianto stereo, si nascose dietro la porta e restò lì a osservare e ascoltare. Ecco la Patrona del paese. La Madonna dei Sette Dolori, vestita di nero e oro. Sette pugnali piantati nel petto. Uno per ogni dolore. Un fazzoletto bianco in una mano. Una madonna umana e materna. Una madonna sofferente. Ci mancherebbe. Sette volte sofferente. Eccolo lì, lo sguardo sofferente della Patrona portata a spalla da quattro uomini. Eccolo lì, lo sguardo sofferente dei quattro uomini… Bob ascoltò l’elenco dei sette dolori patiti dalla Madonna. Il primo, il secondo, il terzo… fino al settimo. Le citazioni dei versi del vangelo. Dal vangelo secondo Luca, dal vangelo secondo Matteo, secondo Giovanni. Solo Marco non ne parlava. Dolori su dolori. Profezie, fughe, affanni, calvari, morti. Bob ascoltò una litania. Il parroco recitava la prima parte nel microfono e la folla di fedeli rispondeva con un Prega per noi che zigzagò ossessivo nella testa di Bob fino a che non ebbe bevuto sette birre.

Madre mestissima – Prega per noi Fonte di lacrime – Prega per noi Cumulo di patimenti – Prega per noi Rupe di costanza – Prega per noi Àncora di confidenza – Prega per noi Rifugio dei derelitti – Prega per noi

Fonte di lacrime? Cumulo di patimenti? Rupe di costanza? Puttanate liturgico-poetiche. Bob sentì la processione fermarsi. Erano tutti lì ora, a pochi metri dal suo negozio, a pregare la fine di quella siccità maledetta. «Preghiamo,» disse il prete.

«O Dio, Tu che hai voluto che la vita della Vergine fosse segnata dal mistero del dolore, concedici, Ti preghiamo, di camminare con Lei sulla via della fede e di unire le nostre sofferenze alla passione di Cristo perché diventino occasione di grazia e strumento di salvezza. E a Te, Signore, Ti chiediamo di dare da bere a questa terra assetata. Per Cristo Nostro Signore. Amen.»

«AMEN!» risposero i fedeli. La processione ripartì, sospinta dall’invito del prete alla penitenza. La banda musicale intonò una marcia che sovrastò il tappeto sonoro dell’incedere dei poggiorsinesi e il mormorio di auspici, sogni, visioni e scommesse. Bob accese l’impianto stereo e alzò il volume. L’album d’esordio dei Supergrass, I should Coco, 1995. Un album completo, intenso; un album davvero rock.

106 Bob lo ascoltò tutto, e convinto anche dal titolo dell’ultimo pezzo dell’album, Time to go, decise di tornare a casa per una doccia e cambiarsi. Non voleva indossare niente di particolare, ma era il giorno della Festa e cambiarsi non guastava. Il Corso era deserto: il paese intero a sorbirsi la noia mortale della messa. Bob lanciò uno sguardo verso la chiesa e lì, ferma davanti al furgoncino azzurro dei lupini, riconobbe Elena, nel suo vestito nero. Bella, slanciata, sexy. Bob deglutì amaro pensando che non s’era vestita in quel modo per lui. Non s’era fatta bella per lui. Ormai non lo faceva più. Lo faceva per sé o, peggio, per qualcun altro—ma non per lui.

Bob si fece una doccia. L’acqua era come eroina. Gl’infondeva la stessa sensazione benefica di pace e tranquillità. Indossò jeans neri aderenti, Allstar nere di pelle e la T-shirt rossa dei Ramones, quella con le scritte bianche. Gliel’aveva regalata Elena, quella magliettina, quando erano andati a Milano al concerto di David Bowie. Era il 2003. Bob uscì sul balconcino che dava sullo stradone, i capelli bagnati, e fumò una sigaretta. Sul retro del CEP, i giostrai erano alle prese con gl’ultimi collaudi. Un calcinculo, una pista di autoscontro e un tagadà. Pugnometro, pesche verticali, tiri a bersaglio con palle di gomma, palle di stoffa, fucili ad aria compressa. I suoni, i rumori, la musica e gli schiamazzi vagavano nell’aria come polline, rendendo l’atmosfera gioiosa e spensierata. Come un’oasi felice. Bob odiava le oasi felici. Le odiava perché non rispecchiavano il suo animo, spesso velato da un senso di smarrimento. Perché gli ricordavano l’illusione. Perché quelle oasi erano dei miraggi, che esaltavano il carattere tragico della vita, della vita quella vera. Bob sputò. Con una doppietta stroncò la sigaretta e la lanciò in strada.

Alle 9 meno 10 Renato parcheggiò la sua Passat nera accanto alla Mondeo di Bob. In macchina con lui c’erano Marisa, seduta davanti, e due bionde sedute dietro. Le tre masticavano chewing-gum e sembravano delle vacche. Renato clacsonò due volte. «Boooob!» urlò dopo qualche secondo. Bob lo guardò attraverso la tenda della finestra. Chi erano quelle tipe? E perché le aveva portate con sé? Raccolse portafoglio sigarette accendino e chiavi, e uscì.

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«Ce l’hai un po’ di carta stagnola?» domandò Renato. Erano a Poggio Rock. Gli scuri chiusi, una sola luce accesa, lo stereo a un quarto del volume. The way I walk dei Cramps ondeggiava nell’aria. Semplice e gracchiante. «Carta stagnola? No.» «Non fa niente. Passami quello,» Renato indicò il pacco di Pall Mall poggiato sul bancone. «Ché ora ti faccio vedere.» Renato tolse la carta stagnola dal pacco di sigarette con cura, e con una cura persino maggiore separò il foglio d’alluminio da quello sottile di carta. «Se non lo separi, se non togli la carta, quando ci passi l’accendino sotto per riscaldare, la carta si brucia e fai un casino.» Bob e Renato erano dietro il bancone. Le tre donne erano sedute a terra in un angolo. Sopra di loro uno speaker e il poster della copertina di My Generation degli Who, con i quattro fotografati dall’alto che guardano dritto nell’obiettivo.

107 Avevano fumato tre o quattro canne, e bevuto cinque bottiglie di Peroni da 66 e una di vino bianco di Giò Casino. Renato convinse Bob a fumare l’eroina. Di bustine ne aveva ancora tante e farsi di qualcosa di diverso per il giorno della Festa non era una cattiva idea. «Ma queste?» disse Bob. «Sei sicuro che non ci sputtanano?» «Bob, tu non hai idea delle cose che fanno queste qua. Al massimo sono io quello che le può sputtanare.» DDT versò un po’ di roba al centro del rettangolo di carta stagnola. «Dammi l’accendino,» disse. Con un cartoncino aveva creato una cannuccia dalla bocca larga con la quale aspirare il fumo. Renato passò l’accendino sotto la carta stagnola, al centro, e Bob vide l’eroina frizzare in mille bollicine e sciogliersi in un liquido scuro che tendeva al marrone. Renato aspirò il fumo con la canna di cartone. «Una volta aspirato,» disse, trattenendo il fumo nei polmoni, «non lo buttare fuori. Tieni il fumo dentro il più possibile.» Renato gonfiò il petto. Bob vide i tatuaggi dilatarsi. Renato gli passò la carta stagnola e la cannuccia di cartone. Bob ripeté il procedimento fatto da DDT. Aspirò e trattenne il fumo. Come lui, anche Bob, quando respirò, cacciò fuori una piccolissima nuvola di fumo trasparente. Continuarono a bere e fumare per altre due ore.

Ora anche Bob e Renato erano a terra. Renato limonando e palpando Marisa, Bob steso, la testa poggiata sulle cosce della bionda meno bionda. Lei gli carezzava i capelli senza tregua, preda di una specie di trip. L’altra, ubriaca, fumava al cospetto di Johnny Thunders e lo guardava come se fosse reale. Bob pensò all’ultima volta che Elena gli aveva carezzato i capelli. Secoli! La tipa continuava a carezzarlo e ora era passata al volto. Gli passò le dite sulle labbra e rincorse la forma del naso e del mento. Un’aspirante pittrice alle prese col modello da ritrarre. Gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. Bob non capì e le chiese di ripetere. Lei ripeté, sfiorandogli i padiglioni con le labbra. «Non posso,» rispose Bob. «Sono sposato.» La donna lo baciò lo stesso e Bob non seppe resisterle. Mentre la baciava pensò a Elena. Da quanto non si baciavano così?

Finito il pompino, la bionda fece capolino da dietro il bancone e andò in bagno. Renato e Marisa si strusciavano baciandosi in un angolo; l’altra donna dormiva accanto alla porta d’ingresso, una bottiglia di birra in mano. Bob si alzò, si sistemò i pantaloni e accese una sigaretta. Era pervaso da un intenso senso di colpa. Aveva tradito Elena per la seconda volta. La loro storia era finita, non c’era più niente da fare. Niente che avrebbe potuto rimetterli in carreggiata. S’erano lasciati andare ai loro egoismi e il precipizio era lì, a un passo.

You ain’t no punk, you punk You wanna talk about the real junk?—

Bob stoppò Garbageman, sempre dei Cramps, appena cominciata, e mise Ever fallen in love (with someone you shouldn’t’ve) dei Buzzcocks. La sigaretta in un angolo della bocca, ascoltò la seconda strofa con gl’occhi chiusi.

I can’t see much of a future Unless we find out what’s to blame What a shame And we won’t be together much longer Unless we realize that we are the same

108 “Unless we realize that we are the same,” ripeteva in testa. “We are the same.” «Andiamo?» disse Marisa. «Voglio andare sulle macchine da scontro. Dai, andiamo.» «Sì…» si svegliò quella che stava dormendo. «Andiamo…» «Finiamo ‘ste birre prima,» disse Renato. Bob cambiò musica, mantenendosi sul punk/punk-rock. I will dare e Favorite thing dei Replacements, If the kids are united degli Sham 69, poi Pretty vacant e Holidays in the sun dei Sex Pistols, infine due brani degli MC5, Kick out the jams e Looking at you. Di Looking at you, Bob mimò ogni assolo, facendo danzare le dita come un vero chitarrista. Prima di uscire Bob e Renato fumarono altra eroina. «Quando la mischi con l’alcol non fa lo stesso effetto,» disse DDT. «È vero,» disse Bob. «Mi sento bene ma non troppo rilassato. Cioè, non ti butta giù come quando la tiri o la…» non finì la frase. Blitzkrieg bop e Beat on the brat dei Ramones. Era quasi mezzanotte quando s’avviarono verso le giostre. Le tre donne saltellavano esaltate e sbilenche; Bob e Renato camminavano a qualche metro di distanza. «Bob,» Renato lo prese sottobraccio. «Forse avrò bisogno di te per spuntarla con quelle persone.» «Chi?» chiese Bob. «Queste tre?» «No! Che cazzo dici?! I tranesi.» «Sì. No problem. Vedrai che si risolve tutto.» DDT lo fissò come si fissano gl’ingenui. «Hey! Ho! Let’s go! Hey! Ho! Let’s go!» Renato intonò l’ouverture di Blitzkrieg bop. «They’re forming in a straight line,» cantò Bob. «They’re going through a tight wind. The kids are losing their minds. The Blitzkrieg bop.» Una volta tra la massa di gente che andava e veniva dalle giostre, Bob si sentì solo. Si guardò attorno alla ricerca di Elena, ma non la trovò. S’imbambolò davanti a un pugnometro. L’idea era di sfogare la frustrazione che assieme ai sensi di colpa lo dominava. Stava per tirare fuori il portafoglio quando dai cancelli del tagadà sentì un gruppo di ragazzi urlare il suo nome, sollecitati da Renato: «Bob! Bob! Bob! Bob! Bob! Bob!» Bob s’avviò barcollante verso il tagadà. Bob salì, convinto che dall’alto della giostra sarebbe riuscito a vedere Elena.

109 Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by- nc-nd/3.0/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

110 Lato B

111 1

Nel primo pomeriggio dell’11 agosto, il giorno dopo la Festa, Renato Consuelo se ne andò da Poggiorsini. Che qualche scagnozzo di don Nicola l’andasse a cercare per accopparlo non era solo un’ipotesi, era una certezza. Caricò i bagagli in macchina, e mentre Marisa e le due bionde l’aspettavano nella Passat, rientrò in casa a salutare i genitori. Disse che andava all’estero per affari. Disse che gli dispiaceva andarsene così presto e così all’improvviso. Disse, però, che gl’affari erano affari. «Se viene qualcuno a chiedere di me, ditegli che sono andato all’estero—» fissò suo padre negli occhi e si passò una mano tra i capelli. «Dite la verità,» aggiunse. Sua madre pianse pianse e pianse. Un melodramma simile a quello messo in scena al suo ritorno dal carcere. «Apri gl’occhi!» disse il padre. A Renato gli fece specie sentir dire quella frase dal padre, che di occhi buoni ne aveva solo uno. «Vi chiamo presto,» disse una volta in strada.

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Ad aprire andò Elena. «Salve, c’è Bob?» chiese Renato. «Chi lo cerca?» Elena finse di non riconoscerlo. «Sono Renato Consuelo. Piacere,» tese la mano. «Finalmente ci conosciamo.» Elena la strinse senza vigore. Fissava i tatuaggi e i gioielli appesi al collo e ai polsi. Nei modi pacati di DDT Elena subodorò della paura. Le parve di vedere Bob quando erano fuggiti da Roma. «Sono passato dal negozio ma non c’era nessuno. Volevo solo salutarlo perché sto partendo e—» «Ora te lo chiamo.» Bob era ancora addormentato. L’odore del suo nuovo sudore riempiva la camera. Elena spalancò le finestre e lo chiamò un paio di volte. Niente, non si svegliava. Lo chiamò ancora, stavolta scuotendogli i piedi. Bob aprì gl’occhi. Stava per allungare le braccia e chiederle un abbraccio, quando si ricordò di dover fare l’offeso. Allora storse il muso e le chiese perché l’avesse svegliato. «C’è Renato qua fuori,» disse Elena. «Ti vuole salutare.» «Digli che arrivo.» «Bob, ma perché non dai retta a Giò? Te l’ha detto mille vorte che quer Renato è pericoloso e tu continui a uscì co lui e magari ‘n giorno di questi vedrai che succede quarche casino e poi io—» «Come se te ne frega qualcosa di me,» disse Bob, alzatosi dal letto. Se ne andò in bagno e si sciacquò il viso, le ascelle, il petto. Quella merda di canicola non cedeva. E quel sudore acido, che aveva sentito anche addosso a Renato la sera prima, pareva grasso impossibile da scrostare. Poteva lavarsi e lavarsi e mettersi chili e chili di sapone e deodorante—il sudore, alla prima ondata di caldo, riaffiorava. Erano le esalazioni dell’eroina, l’aveva capito, ma non capiva come mai fossero così ostinate e mordaci. «Muoviti,» disse Elena. Bob aprì la porta del bagno. Elena era lì, impalata, in attesa che lui uscisse. Bob la fissò, lo sguardo perplesso. Tutto d’un tratto ti preoccupi di me?, dicevano i suoi occhi.

112 Bob si vestì e uscì di casa, lasciando la porta aperta. Elena si appostò accanto alla finestra e guardò attraverso la tenda. Vide Renato seduto sul cofano della Passat e all’interno tre donne. Una bruna e due bionde. Vide Bob avvicinarsi a Renato e stringergli la mano. Elena alternava lo sguardo dai due che parlottavano alle tre che masticavano chewing-gum. Chi erano quelle donne? Bob e Renato avevano passato la sera della Festa con loro, forse? Ed era forse con loro che erano andati a vedere i fuochi d’artificio? Chi erano quelle tre puttane? Bob e Renato si abbracciarono. Si strinsero petto contro petto come due commilitoni prima del congedo. Pacche sulle spalle, promesse, raccomandazioni. Elena lesse il labiale di Renato. Non aprire bocca con nessuno. Ci sentiamo presto. Tieni gl’occhi aperti. Prima che Bob rientrasse, Elena scorse una delle due bionde mandare un bacio volante a suo marito. Notò il sorriso mesto e accondiscendente di Bob. Elena provò una strana sensazione di gelosia. Una sensazione dimenticata. «Se pò sapè che sta a succede?» disse appena Bob ebbe chiuso la porta. «Chi erano quelle tre?» Bob la ignorò. «Bob, sto a parlà co te,» disse Elena. «Fino a prova contraria sono ancora tua moglie e mi devi dì che—» «Mia moglie?» disse Bob. «Solo sulla carta, Elena. Nella realtà delle cose noi due non siamo più nessuno. Siamo finiti, morti e sepolti. Non c’è più niente tra noi e al più presto, appena le cose si sistemano—» «Perché parli così?» «Così come?» «Così. Sei freddo, senza speranze, triste. Perché mi fai questo?» «Io ti faccio questo?! Please, Elena, non continuare. Smettiamola di parlare ché stiamo meglio tutt’e due.» «Lo dici tu che stiamo meglio tutt’e due,» disse Elena. «Io voglio ‘r Bbob ch’ho conosciuto; il Bob che ho sposato. L’uomo che mi faceva sentì ‘na donna, che mi desiderava. Quello che cercava di spiegarmi le cose, che mi raccontava ‘n sacco di storie e non mi teneva nascosto gnente.» «Quel Bob è morto! Mettitelo in testa. E sai perché è morto? Lo sai? Te lo dico io. È morto perché sua moglie s’è messa a fare la puttana. Ecco perché. Perché sua moglie non ha trovato altra soluzione che scopare a pagamento. Ecco perché. E poi, lo sai, no?, che certe cose succedono sempre agli stessi.» «Come sei cattivo con me.» «Elena, ti prego, basta,» disse Bob. «Stop this shit. Preferisco starmene zitto piuttosto che parlare di queste cose, che so’ ovvie e assodate.» «Bob,» Elena si mordeva il labbro inferiore e teneva le braccia conserte, strette al petto, con le tette che a momenti straboccavano. «È inutile che fai il duro. Ce so’ cose che non si possono prevedere e che non si possono controllà. Non dico che io non ho colpe, però se ci succedono certe cose è perché, forse, è scritto così.» «Scritto dove?» «Che ne so, forse nelle stelle.»

113 2

Il 18 agosto, dopo tanto, si respirava. La canicola stava perdendo colpi. Il caldo non era svanito, ma era sopportabile. Spruzzi di nubi macchiavano il cielo. Il vento era tornato e spazzava le nuvole a piacimento. S’intrufolava nelle case dispensando sollievo. Un amico dimenticato che porta buone notizie. Bob aveva ancora due bustine di eroina. Le altre le aveva fumate, sniffate, iniettate. Qualche giorno prima aveva preso una siringa di vetro dalla farmacia e se n’era uscito senza pagare. Il farmacista l’aveva rincorso, urlando. Bob l’aveva azzittito ricordandogli gl’incontri con Elena. L’aveva visto più d’una volta. Se preferiva, Bob avrebbe condiviso quell’informazione con sua moglie. Per una siringa? Ma ci mancherebbe!

Prima di spararsi le pere in vena, Bob s’era dato ai muscoli. Ma non c’era paragone. In vena l’effetto era immediato e dolce. Bastava chiudere gl’occhi. Quella mattina uscì di casa presto. Non erano nemmeno le 8. Sul pianerottolo incrociò Giò Casino. Il vecchietto lo salutò, magnanimo e conciliante, ma Bob lo ignorò. Le mani di Giò tremavano e le labbra si mossero avanti e indietro come onde; la bocca intenta a masticare e rimasticare saliva mista ad alito cattivo. Bob andò a rintanarsi nel negozio. DeBellis non s’era fatto più vivo a chiedergli i soldi per l’affitto e le bollette. Anzi, non s’era fatto più vivo, punto. Il motivo era ovvio, però. Scontava tutto con Elena, col suo corpo, con la sua bellezz— A Bob gli si strinse il cuore. Chiuse gl’occhi e si produsse in una catena sincopata di respiri profondi. In quel modo sedò i rigurgiti di rabbia e impotenza che provenivano dal petto. Ma per sedare la mente e annichilirsi ci voleva ben altro. Ci voleva lei, l’eroina.

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Dal giorno dopo della Festa ad allora, Elena era stata super-impegnata. Gli appuntamenti, come aveva previsto, s’erano moltiplicati. Un incremento impressionante. In percentuali, il 450%. Nuovi clienti significava più soldi e più esposizione, ma significava anche maggior solidarietà tra gl’uomini adulteri. Significava anche, però, un numero maggiore di mogli tradite. Il che non era affatto un bene. Elena lo sapeva. Elena lo rammentava agli uomini che passavano a trovarla. «Nan te ssì pegghiànne velèìne,» dicevano in molti. «Tanto qui, quelle, se lo vengono a sapere, pure di non fare la figura—ché mica qui ti puoi separare o addirittura divorziare—si stanno zitte; magari fanno quacche scenata dentro a casa, però finisce lì.» A parte i novizi, Elena si vedeva con DeBellis e Tito—gli habitué, gli aficionados. Nicola era il solito marpione taccagno e meschino, ma aveva perso stimolo e quando scopavano andavano dritti al sodo. Tito, invece, si stava affezionando e, a parte insistere per i preliminari, cominciava a dare i primi segni di gelosia:

114 surrogato emotivo della tipica voglia maschile di possesso. Tipica e testarda convinzione che una donna, prima o poi, deve appartenere a qualcuno. A un uomo. Niente di più lontano dalla mai doma ed eccitante sensazione d’indipendenza di Elena. Tra i neofiti c’erano il proprietario del mini-market Uccio il Rabbino, il farmacista, Gino del tabacchino, Enzo il meccanico e altri uomini che Elena aveva solo intravisto al bar o in giro per Poggiorsini. Uomini di cui lei preferiva non conoscere i nomi veri. Uomini che si ricordavano di sfilare la fede dal dito sempre al momento d’infilare il preservativo. Bob era uscito presto e questo agevolava le cose. Elena aveva un appuntamento alle 11, uno a mezzogiorno e uno poco prima dell’una. Due nel pomeriggio e uno la sera, non più tardi delle 7. Elena chiamò Tito e gli chiese di anticipare. Tito si prodigò in suppliche e promesse dettate dalla gelosia. Non devi lavorare così tanto. Io ti posso dare di più. Lascia perdere gli altri uomini. Puttanate del genere. «Se puoi venire tra mezz’ora, va bene, se no rimaniamo d’accordo per le undici,» tagliò corto Elena. Dentro di sé provò una sensazione di potere dolce e avvolgente. «Ok,» disse Tito, «vengo tra un po’.»

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Dopo la pera, Bob s’era assopito dietro il bancone ascoltando gli Electric Prunes.

You gotta get me to the world on time You gotta get me to the world on time

Fu svegliato dallo squillo del cellulare. Quel telefono non squillava mai, ma quando lo faceva era sempre uno shock. Bob guardò lo schermo. NUMERO SCONOSCIUTO. «Pronto?» «Pronto, Bob, sono T di T.» «Renato?» «No. Non DDT. T di T, capito?» «Pronto? Ma chi parla?» «Porca puttana, Bob. Sono Tonino!» «Ah, ciao.» «Allora?» «Allora cosa?» «Madonna mia, Bob!—Ehi, non posso parlare troppo al telefono. Però ti devo parlare. Ché… ché… ché qui l’esercito sta per arrivare e noi ci dobbiamo organiz—» «Scusa un attimo Tonino, aspetta.» Qualcuno aveva bussato alla porta del negozio. Bob aprì uno scuro. Il sole non era forte, ma la luce piatta e grigia di quel pomeriggio fu comunque in grado di accecarlo. «Cammeruomo, apri, mo, ti devo parlare.» Cazzo, il maresciallo! «Tonino, ti richiamo io, c’ho il maresciallo dei carabinieri qui.» «Il maresciallo?»

115 «Sì, il maresciallo.» «Lo sai che fine fai se apri bocca.» «T’ho detto che ti richiamo, ciao.» «E ce l’hai il numero?» «Sì, ciao, ciao, a dopo.» Bob aprì la porta. Il maresciallo entrò. Il maresciallo lo fissò negli occhi. Le pupille a spillo, l’odore acre di sudore, la faccia stravolta, le borse sotto gl’occhi che più che borse erano sacchi. «’Giorno,» il maresciallo si tolse il cappello. «Buongiorno.» «Cammeruomo, che ti succede?» «Niente, marescia’. Perché?» «Niente, eh? Non mi sembra che stai tanto bene.» «No, marescia’, tutto a posto. Sono solo stanco.» «Stanco, eh? Senti, Cammeruomo, io lo so che tu, come tutti quanti, pensi che noi carabinieri siamo dei cretini. E non è nemmeno colpa tua. Vedi le barzellette, i proverbi e tutto il resto. Ora, diciamo così, mettiamo che sia vero. Mettiamo che i carabinieri sono come dite voi—» «Ma, maresciallo, non è ve—» «Fammi finire di parlare, per piacere. Stavo dicendo: mettiamo che è così. La cosa che ti voglio dire, Bob, è che come in tutte le cose della vita, anche per i carabinieri esistono delle eccezioni.» Il maresciallo poggiò il cappello sul bancone. Fece un giro attorno al locale. Passando davanti a Johnny Thunders lo salutò con un cenno del capo e uno sguardo ostile. Stesso cenno e sguardo che era abituato a elargire ai criminali incalliti. «E io, Bob, modestamente, sono una di quelle eccezioni. Non dico di essere un genio, però certe cose le capisco prima che succedono e, soprattutto, prima che sia troppo tardi.» Bob tirò fuori il pacchetto di sigarette. Ne sfilò una e l’accese. Poi porse il pacchetto aperto al maresciallo. «No, grazie,» disse il maresciallo, «non fumo.» Bob offrì una sedia al maresciallo. «No, grazie. Siediti tu, Bob, ché a me mi sembra che non stai bene.» Il maresciallo posò lo sguardo sul bancone. Vide il cellulare di Bob. Pensò alle intercettazioni telefoniche. Sarebbe stata una figata fare delle interecettazioni. Sì, ma su che base chiedere a un PM di mettere sotto controllo il telefono di un incensurato che viveva in un paesino sperduto delle Murge? Quale ipotesi di reato? Certo, aveva intuito che Bob faceva uso di droga. Ma quello non bastava. Certo, sapeva che frequentare Renato Consuelo non incitava a farsi prete… Certo, certo, certo. Ma come fare? «Caro Bob, io non so se tu e Renato Consuelo siete solo amici e se lui non t’ha immischiato in una delle sue imprese. Non lo so. La cosa che so è che la sua scomparsa mi puzza di losco. Uno come lui se si muove, se va da una parte o dall’altra, se cambia casa eccetera—uno come lui lo fa solo se c’ha da guadagnarci. E siccome io so in che tipo di attività investe il soggetto in questione, mi viene un dubbio. Non è che c’è qualcosa di grosso nell’aria e lui o se n’è andato per non farsi trovare—da noi o dai suoi nemici—oppure se n’è andato per farsi trovare da un’altra parte? Non so se mi stai seguendo, Bob? Per avere un alibi.» «Maresciallo, io non so niente. Non ho idea delle attività che ha il soggetto in questione e non ho nemmeno idea di dove se n’è andato e perché. So che è all’estero per affari, punt’e basta.» «Cammeruomo, Cammeruomo…» il maresciallo si spostò dietro il bancone. «Te l’ho già detto: anche se tu pensi che noi carabinieri siamo scemi—» smise di parlare per rovistare nei cassetti. «Anche se pensi che noi siamo scemi, sappi che io sono un’eccezione,» sollevò la siringa di vetro tenendola dallo stantuffo con la punta delle dita. «No, ma quella—» provò a difendersi Bob. «Bob, non peggiorare la situazione raccontandomi cazzate. Lo so cosa sta succedendo. T’ho visto le pupille, puzzi come tutti i tossici, e come tutti i tossici stai imparando a raccontare cazzate su cazzate.» «Maresciallo, io, però…» Bob non sapeva come continuare.

116 Spense la sigaretta, si alzò e diede le spalle al maresciallo, guardando fuori dalla porta, in alto, alla cappa di nuvole che riempiva il cielo. «Bob, io so quello che stai passando. E non mi riferisco solo a questa merda qua,» il maresciallo rimise la siringa dove l’aveva trovata. «Sto parlando di tua moglie. Lo sai, no?, com’è qui in paese. Sappiamo quello che fa e sappiamo che lo sai pure tu. Le voci girano. E quando le voci girano, noi carabinieri siamo quasi sempre i primi a sentirle, checché ne pensiate voi. Voi pensate a chiamarci stupidi e a dire le barzellette, ma alla fine, poi, nella realtà delle cose, chi sono i veri stupidi? Io ti voglio solo dire che puoi contare su di me. Se sai qualcosa su Consuelo o su chiunque altro, puoi venire da me, in caserma o a casa mia, e ne parliamo. E poi, per questa cosa di tua moglie…» Il maresciallo continuò a parlare. Bob non lo ascoltava. Lo sentiva, ma non lo ascoltava. Bob stava pensando agli usurai di Roma. Alla loro prepotenza e alla loro libertà d’azione. Dov’erano gli sbirri quando l’Assessore si presentava e t’attaccava al muro se mancava un solo euro? Dov’erano quando Michelino concordava i prestiti e gl’interessi? Dov’erano le “eccezioni”, come s’era definito il maresciallo, quando si trattava di trasportare eroina pura dall’Afghanistan? E come si permetteva, lui, un inutile maresciallo di paese, a dargli dello stupido e a presumere di sapere quello che stava passando e a parlare di sua moglie, di Elena, con quella strafottenza? «Maresciallo,» Bob si voltò e guardò lo sbirro dritto negl’occhi, «se non ho fatto niente di illegale, se non ha niente contro di me e se non ha un mandato di perquisizione, le chiedo di uscire dal mio negozio. E la prego di non disturbare la vita di gente onesta che sta vivendo situazioni che lei neanche s’immagina ma che si permette di giudicare.» «Ah,» disse il maresciallo, «la metti così, Cammeruomo?» «Sì, la metto così.» «Io sono venuto qui, di mia iniziativa, senza parlarne con nessuno, solo per darti una mano, per vedere d’aiutarti. E tu che fai? Te ne esci con queste frasi da saputello che magari hai sentito in un film, e mi parli di mandato di perquisizione e cazzate varie, quando si vede lontano un chilometro che ti stai a rovinare.» «Ha finito?» disse Bob. «Sì, ho finito.» Bob aprì la porta. Il maresciallo raccolse il cappello e lo calzò. Prima di uscire lanciò un’ultima occhiata a Johnny Thunders. «Cammeruomo, vedi di non fare la fine di quello là.» «Si ricordi che comunque non sono cazzi suoi.» «Va bene. Tu, invece, ricordati che ti tengo sottocchio. E appena sbagli—» il maresciallo diede tre colpi alle manette appese alla cintura. «Saranno davvero cazzi tuoi.»

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«Stavo venendo qui e ho visto il maresciallo dei carabinieri uscire dal negozio di tuo marito,» disse Tito appena in casa. «È successo qualcosa?» «Ehi, Tito, quando vieni qui non voglio che mi parli di mio marito, va bene?» Elena pensò a quello che poteva essere accaduto. Forse il Tribunale di Bari aveva assegnato le case ai legittimi assegnatari e il maresciallo era andato a dare la brutta notizia a Bob. Forse c’erano delle irregolarità nel suo negozio. Robe di permessi, autorizzazioni. Forse. Forse c’entrava qualcosa la partenza di Renato. Forse Bob s’era messo nei casini. Forse il maresciallo passava di lì e s’era fermato a fare due chiacchiere. Forse il maresciallo era un patito di musica rock pure lui e s’era messo ad ascoltare un disco di quei gruppi introvabili e sconosciuti che conosceva solo Bob. Troppi “forse” per tacere. «Ma t’è sembrato che c’era qualcosa di strano a te?» chiese Elena.

117 «No. Cioè, sì. Il maresciallo è uscito co’ ‘na faccia, tipo incazzato. Non lo so, nel senso, non ho visto con che faccia è entrato, però… insomma…» «Vai, muoviamoci.» «Elena, però, écchécàzze! M’hai fatto venire prima e ora mi dici pure muoviamoci?» «Tito, non t’ho mica chiesto di venire prima per durare di più.» «Ah no?» «No. Tu ti fai troppi film.» Elena lo prese per un polso e lo trascinò in camera. Non riusciva a togliersi dalla testa la divisa dei carabinieri. La camicia celeste, la banda rossa verticale sui fianchi, la fiamma dorata su quei cappelli più stilosi che pratici. Ricordò il volto paffuto del maresciallo, i suoi baffetti, la guance rosse. Se ci fosse stato un problema grave, Elena avrebbe potuto chiedere al maresciallo di risolvere la questione tra le lenzuola del suo letto. Chi avrebbe potuto resisterle?

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Le minacce e l’invadenza del maresciallo turbarono Bob. Lo turbarono al punto da convincerlo a lasciar perdere pensieri ed elucubrazioni, e dedicarsi all’azione. Non poteva più permettere che gl’eventi gli scivolassero addosso. Smettere con l’eroina, chiamare Tonino Scacco-matto, concludere l’affare, impegnarsi a vendere quella merda, raccogliere un po’ di soldi, liberarsi dal giogo di DeBellis, obbligare Elena a smettere di prostituirsi e mandare affanculo Poggio Rock, Poggiorsini, Trani, la Puglia e l’Italia intera. Questa era l’idea di Bob. L’obiettivo? Andare in America una volta per tutte. Prima cercò nel portafoglio, poi nelle tasche, infine nei cassetti del bancone. Niente, il bigliettino col numero di telefono di “T di T” non era lì. Doveva essere in casa, nel comodino accanto al letto. Uscì e chiuse la porta a chiave. Guardò il cielo che volgeva al plumbeo. Era la prima volta che vedeva un cielo così a Poggiorsini: poteva piovere da un momento all’altro. Svoltato nello stradone del CEP, Bob inseguì con lo sguardo le crepe e le chiazze di muffa che sfregiavano l’intonaco dei palazzi. Le robe stese ai balconi e le donne che fumavano immobili e sovrappensiero. Pensò al giorno del loro arrivo lì, quella notte senza stelle. Ricordò la cagna, l’occupazione, i due gemellini, l’incontro con Giò Casino. I mobili e il lavoro duro delle prime settimane. Si specchiò nei vetri del portone del secondo palazzo. Era ora di cambiare look. Rendersi più attraente agl’occhi di Elena. Cambiare e cercare di recuperare. Provò uno strano stimolo: il richiamo dell’eroina: il solletico dell’abbandono. Entrò nel portone del suo palazzo e si schifò della puzza che riempiva le scale. Aperta la porta di casa, un odore di dopobarba—di quel dopobarba. Poi i rumori di qualcuno che si muove in camera. Il cigolio inconfondibile della rete del letto. Lo struscio delle lenzuola. Il suono della fibbia di una cinta che sbatte a terra. La maniglia della porta-finestra. Le ante che si aprono. Dei bisbigli, dei sospiri. Bob si fiondò in camera da letto. Sapeva cosa avrebbe trovato e sapeva che non gli sarebbe piaciuto, ma non se ne curò. In camera Elena fremeva seduta sul bordo del letto, il corpo avvolto da un lenzuolo. Teneva lo sguardo fisso sulle spalle di un uomo che, in jeans e camicia sbottonata, si stava infilando le scarpe a un passo dalla porta-finestra spalancata. Stava cercando di svignarsela. «Figlio di puttana!» urlò Bob e s’avventò su di lui.

118 Lo afferrò dalla camicia e lo tirò a sé. La camicia si strappò. Tito cadde su un fianco e si ritrovò ai piedi di Bob. Bob gli sferrò un calcio e colpì la spina dorsale. Bob provò un leggero dolore al collo del piede. Calciò di nuovo, più forte. «Boooob!» urlò Elena. Tito teneva le mani sulla testa e le ginocchia strette al petto. Posizione fetale. Posizione fatale. Bob continuò a tirare calci. Sentiva i capelli ondeggiare e quelli della frangia sfiorargli la fronte. Delle gocce di sudore gli scivolarono tra i peli del petto e sul collo. Bob si piegò e prese a colpire Tito con dei pugni diretti al volto che, però, s’infrangevano sulle mani, sui polsi, sui gomiti. «Booob! Bastaaaa!» Elena si alzò. I suoi piedi a un metro da quelli di Tito. Il lenzuolo era scivolato sul pavimento e il pallore del corpo nudo di Elena riluceva nella penombra cinerea della camera. «Lascialo staaaareeee!» Bob la ignorò e continuò a colpire Tito. Pugni, calci, bestemmie. Le vampate di sudore acido erano intense e incontrollabili. Le ossa delle mani cominciavano a far male. Il respiro pesante, l’affanno. «Bob basta! Basta! Basta!» Bob fissò Elena con la schiuma alla bocca. «Alzati e vattene da casa mia!» urlò Bob. Tito si mosse di qualche metro, a carponi. Rivoli di sangue gli colavano sul viso. Dal naso, dalla fronte, dalle labbra. La camicia a brandelli e macchiata di sangue. Ecchimosi sul collo, ecchimosi sulle braccia. Una volta davanti alla porta d’ingresso, Tito si tirò su e senza guardarsi indietro uscì. «Bob, ma sei impazzito?!» Elena piangeva. «What?» «Che cazzo te sarta ‘n testa?! Ti rendi conto di come l’hai ridotto?!» «Elena,» Bob cercò di calmare l’affanno. «Tu m’hai detto che volevi—» non riuscì a finire la frase. «Siediti, va’,» disse lei. Elena raccolse il lenzuolo da terra e se lo avvolse attorno alle spalle. «Bob, io a te nun te capisco. Che cazzo sei venuto a fà qui?! Non mi dire che sei venuto apposta per fare ‘na scenata del genere?!» «No, so’ venuto a prendere ‘na cosa…» Bob ansimava guardando nel vuoto. Non credeva a quello che aveva fatto. Non che se lo rimproverasse. Ma non riusciva a crederci. Doveva essere un sogno. «Manco m’ha pagato…» disse Elena. Bob sentì quello che aveva detto sua moglie, ma finse di non aver capito. «Elena, tu m’hai detto che volevi il Bob di una volta»—respiro profondo—«quello che ti faceva sentire una donna, che ti desiderava, che ti raccontava le storie and all that.» Si passò una mano tra i capelli. Aspirò e respirò di nuovo. «Be’, quel Bob è morto, come t’ho già detto. E t’ho pure detto»—respiro profondo—«di che male è morto. Ma quello che non t’ho detto è che insieme a quel Bob, è morta anche la donna che ho sposato.» Bob fece una pausa. Il battito del cuore rallentò e riacquistò regolarità. «La donna di cui mi sono innamorato più di diec’anni fa. La Elena che avrebbe sempre e comunque preso le mie difese. Sempre e comunque. Anche nel torto. Always! E invece, vedi, ora? Ti metti a difendere quel pezzo di merda.» Bob si alzò, passò davanti a Elena, infilò la mano nel comodino e dopo qualche secondo speso a rovistare tra cd accendini fogli di carta e altro, tirò fuori il bigliettino col numero di telefono di Tonino Scacco-matto. «Vedi, Elena, io ci sto provando a cambiare le cose,» Bob scosse il bigliettino davanti agli occhi di lei. «Tu, invece, zero. Tu ormai te la godi a farti scopare da questi. Non so, forse dentro sei davvero una puttana.» Elena allungò il braccio e colpì Bob con uno schiaffo. Dopo Giò Casino e don Nicola, ora pure Elena. Roba da Guinness dei primati. Bob poggiò una mano sulla guancia e fissò Elena con rancore. Si strinse nelle spalle, sbuffò con un ghigno, si voltò e se ne andò, odiando ancora una volta e una volta di più l’odore dolce e aggressivo di quel dopobarba.

119 3

Dopo quattro squilli Renato rispose. «Pronto?» «Ciao Renato, sono Bob.» «Allora? Tutto bene?» «Eh, insomma…» «Ch’è successo? È venuto a cercarmi qualcuno?» «No. Che io sappia, no.» «E ch’è successo allora?» «Senti, m’ha chiamato Tonino Scacco-matto,» disse Bob. «M’ha chiesto d’incontrarci per quella cosa del tenente, capito?» «D’incontrarvi, quando?» «Ora, a Corato, a un distributore di benzina. Lui non voleva parlare al telefono.» «Ehi, Bob, mi raccomando: non ti far sfuggire quest’occasione. E non ti preoccupare per i soldi. Se non c’arrivi con quelli tuoi, ci penso io. Hai capito? E non gli dire che sai dove sto e che ci siamo sentiti—» «Che credi che sono scemo?» «No, lo so, però, sai…» «Renato, non ti preoccupare. Io di questa cosa c’ho bisogno. Ho bisogno di soldi per andarmene ‘na volta per tutte.» «L’America, eh?» disse Renato.

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Appena in macchina, Bob accese lo stereo. Mise su una compilation che serviva a farlo sbollire, a fargli dimenticare l’aggressione di poco prima. Ecco i Monks. Tanto grandi quanto sconosciuti. Oh, how to do now. Bob si fissò le mani strette attorno al volante. Esaminò le nocche indolenzite e arrossate. Rivide il volto insanguinato del tipo e la camicia ridotta a brandelli. Nella testa si confondevano immagini, suoni, odori. Le urla e lo sguardo distaccato di Elena. Lo schiaffo e il sibilo nell’orecchio. Non era possibile che gli stesse capitando tutto questo. Le cose non potevano accadere tutte a lui. E perché? Dove aveva sbagliato? Stava pagando per qualcosa? C’entrava davvero quella zoccola di Sirio? What do you want degli Yardbirds e Riot on sunset strip degli Standells. Bad little woman degli Shadows of Knight adesso.

You’re a bad little woman You’re a bad little woman You’re about to ruin me baby With your bad, bad ways

Inevitabile, il pensiero corse di nuovo a Elena. Forse era il caso di farle sapere quello che stava facendo. Senza allarmarla. Senza vantarsi troppo. Raccontarle dei traffici e degli intrighi coi tipi di Trani. Dirle cosa si provava a essere un criminale, un fuorilegge. Magari Elena avrebbe rivisto suo padre in lui. Magari!

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Corato. Città millenaria e città dell’olio. Di sicuro non dell’asfalto. Una buca ogni cento metri. Slalom continui che Bob si sarebbe risparmiato. Bob seguì le istruzioni di Tonino: prima di entrare in città svoltò a destra e poi di nuovo a destra. La strada era quella giusta: via Mangione. Una stradina fitta di palme, che portava dritto-dritto sulla neonata provinciale 2, ex provinciale 231, ex statale 98. La migliore alternativa all’autostrada e ottima via di fuga. Sguardo a sinistra: un parcheggio recintato, più in su un autolavaggio, poi il distributore Appia Antica e oltre le siepi, la ex 98. Sguardo a destra: Hotel Appia Antica, stesso nome del distributore—forse stesso proprietario; un hotel minuto dalle finestre a specchio, le pareti fucsia e bianco, campi incolti su un lato, un parcheggio sull’altro; e oltre il parcheggio, la ex 98. Alla pompa di benzina, parcheggiata in un angolo accanto all’autolavaggio, c’era una BMW X5 nera. Il sole era allo zenith. Lungo la carrozzeria lucida e metallizzata del SUV si stendeva il riflesso del cielo limpido. Bob accostò e si ritrovò faccia a faccia con Zambrotta. Tonino era seduto accanto a lui e, dopo un’occhiata furtiva all’interno della Mondeo, fece un cenno col capo e scese. Bob avanzò un paio di metri, quanto bastava per poter aprire lo sportello, spense il motore e scese anche lui. «Allora, Bob, come va?» Tonino gli porse la mano. Le luci posteriori del SUV si rifrangevano rosse sulla sua camicia grigia di seta. «Uagliò!» disse a Gattuso. «Spegni ‘sta macchina.» Gattuso eseguì e Tonino continuò: «Mòcche o’ fùme!»—due colpi di tosse—«Spero che non sei incazzato per quella cosa dell’altra volta.» «No. È acqua passata.» «Meglio così,»—un colpo di tosse—«ché i rancori fanno male agli affari.» «Allora?» «Dritto al sodo, eh? Ok,» Tonino si sistemò gli occhiali prima di tirare fuori un pacchetto di Marlboro rosse. «Vuoi?» «Grazie,» accettò Bob. «Allora. Intanto, com’è andata con le bustine dell’altra volta? Si riesce a vendere qualcosa, lì a Poggiorsini, sì o no?» «Sì,» disse Bob. «Le ho vendute quasi tutte. Un po’ l’ho provata pure io, è normale.» «È chiaro,» sorrise Tonino. «Però, Bob, noi ora qui stiamo parlando di qualcos’altro, non so se mi capisci cosa voglio dire?» «Sì. Cioè, no.» «Quello che voglio dire è che questa volta non si tratta di una decina di bustine di roba di bassa qualità. Qui stiamo parlando di nove-nove-nove. Non so se mi spiego?» No, per Bob non si spiegava. Inoltre Bob non vedeva l’ora di arrivare al punto. Luogo, data, soldi, quantità. Chi se ne fregava della qualità e tutte quelle cazzate lì. «Allora. Il tenente atterra il ventidue a Gioia del Co—» Tonino si bloccò, fingendo di esserselo fatto scappare. Bob aggrottò la fronte. “Ecco,” pensò Scacco-matto, “c’è cascato.” Tonino sapeva che Bob—Tonino voleva che Bob andasse a raccontare tutto a Renato, e fingere di farsi scappare qualcosa era la prima mossa della sua strategia. L’idea era di cominciare con piccolezze che DDT —a sentire il tenente—già conosceva, come data e luogo d’arrivo, per poi proseguire nella dissemina di bocconi avvelenati. «Ehee…» disse Bob. «Atterra, e quindi?» «E quindi ci porta la roba verso sera—» Tonino tossì dopo essersi interrotto—come previsto dalla sua farsa. Ecco qualcosa che Renato non poteva sapere. Ecco il primo dei bocconi avvelenati: l’ora della consegna. «Però, noi,» proseguì Tonino, «prima ci togliamo quella cosa dalle mani—ché lo sai, no?, noi siamo sempre nel mirino della madama—prima ce la togliamo, e meglio è.» «E quando me la potete dare a me, allora?»

121 «Quando, non lo so ancora,» disse Scacco-matto. «Prima il tenente ci deve portare la roba a noi e poi possiamo organizzarci.» Ora Tonino doveva rincarare la dose su quanto già detto, per poi “farsi scappare” l’ultima stoccata: il luogo della consegna. «Però penso che si può fare già il ventidue, il giorno dopo che ce l’ha passata a noi. Nel tardo pomeriggio o sera. Poi ti chiamo io per dirti tutto di preciso.» «E dove?» Bob aveva solo quei tre o quattro avverbi come domande. Quando, quanto, dove, come. «Qui,» disse Tonino. «In questa pompa di benzina.» «Qui?» si sorprese Bob. «Cazzo, Tonino, di tutti i posti, proprio qui lo vuoi fare?» «Meglio farlo in un luogo poco sospetto. Chi cazzo andrà mai a pensare che facciamo ‘ste cose proprio qui? E poi, Bob,»—“Vai,” pensò Tonino, “vai col colpo di grazia.”—«Se noi possiamo fare la consegna col tenente qua, la possiamo fare pure con te.» Tonino distolse lo sguardo per il bene della sceneggiata, ma continuò a scrutare Bob con la coda dell’occhio. Bob sembrava pensieroso. Le informazioni fornite da Tonino cominciavano a ronzare nella testa dell’Americano. In quella di Renato, però, non sarebbero rimaste dei semplici ronzii. Almeno, così si augurava Scacco-matto. «Dimmi un po’,» disse Bob. «Quanto vuoi d’anticipo e quanta me ne dai?» «Cazzo, Bob, e che è?» Tonino allargò le braccia. «Lo so che essere razionali e freddi è il modo migliore per fare ‘ste cose, ma un poco di emozioni, un poco di emotività ci vuole pure. Non troppa, ché il troppo guasta sempre. Però…» Tonino lasciò la frase lì, in sospeso. Dentro di sé si stava chiedendo se non fosse stato un azzardo pensare di sfruttare Bob per arrivare a DDT. Forse Bob l’Americano era più scaltro di quanto non sembrasse e usarlo come esca poteva rivelarsi una di quelle inculate che passano alla storia. Però era stato lo stesso don Nicola a insistere. Don Nicola aveva detto di volere DDT fuori dai coglioni. Lui e quel caino del Gallo. E l’Americano era perfetto. Se poi si ritrovava in mezzo… pace. «Senti, Tonino,» Bob sfiancò la sigaretta con un paio di boccate e la buttò oltre il recinto che circondava il parcheggio accanto al distributore Appia Antica. «Io non è che voglio fare il freddo o che; però voglio sapere che tipo di anticipo volete, quanto mi rimane, dove posso smerciarla—capito? Cioè, lo so che non posso insegnare niente a nessuno, però qui stiamo parlando di eroina, mica di caramelle. E quest’eroina me la devo tenere io e la devo smerciare io. Cioè, quello che corre tutti i rischi sono io, mica voi. E non è che—» «Ho capito, Bob, è inutile che continui. Però devi ricordarti che qui non ti stiamo chiedendo di fare questa cosa. Tu la devi fare, punt’e basta. E mi raccomando, fai attenzione a come parli. Nel senso, a me non me ne frega niente, però se parli così con don Nicola… Stàtte bùne.» Bob abbassò il capo. «Bob, senti qua. Noi non vogliamo che la smerci solo a Poggiorsini, anche perché con mezzo chilo fai andare in overdose all’intero paese,» Tonino rise cercando di contagiare Bob, che però rimase serio. «Noi ti diamo i contatti degli altri paesi: Spinazzola, Minervino, Palazzo, Gravina, e soprattutto Corato; e tu la smerci, non proprio all’ingrosso ma nemmeno al dettaglio. Mezzo panetto qui, un quarto lì, capito? Però, Bob, mi raccomando: l’interesse di don Nicola in questa operazione sta qui, in questa città. Corato deve rimanere di don Nicola, hai capito? Il Gallo sta cercando di fotterci, ma con la nove-nove-nove vedrai che gli togliamo quel poco di mercato che ha. Bob, tu devi essere sicuro che a lui non arriva niente di questa roba—zero. L’obiettivo è lasciarlo al secco fino a che non viene a chiedere scusa in ginocchio. A meno che non lo troviamo prima e…» Scacco-matto si fermò. Stava per sbilanciarsi troppo. «Ok. Quanta?» «Dieci sono i panetti che ti possiamo dare a te.» Ecco una mossa jazz, improvvisata. Una di quelle mosse che solo strateghi consumati come Tonino si potevano permettere. Era rischiosissimo fare in modo che DDT sapesse che il carico era aumentato e aumentato di brutto. Ma Scacco-matto amava flirtare col rischio. «Quelli che potete dare a me?» disse Bob. «Perché ve n’arriva di più?» Tonino sorrise e si strinse nelle spalle.

122 «Molto di più?» chiese Bob. «Bob, ma con chi credi di avere a che fare?» Tonino lo fissò da sopra gl’occhiali. «E quant’è un panetto?» «Duecentocinquanta grammi.» «Già tagliata e tutto?» «È nove-nove-nove t’ho detto,» Tonino portò il piede destro fin sul ginocchio sinistro e spense la sigaretta sulla suola; controllò che il mozzicone fosse estinto e se lo infilò in tasca. «Il rispetto dell’ambiente,» disse. «E che anticipo ti devo dare?» domandò Bob. Questa era la domanda che Tonino stava aspettando. Bob non poteva avere chissà quanto. La sua parte dei blocchi di erba venduti con DDT e forse qualche risparmio. Due, tremila euro al massimo. Se Bob accettava per una cifra superiore, di sicuro c’era lo zampino di Renato. Non che Tonino dubitasse del suo appoggio, ma ne cercava l’ultima, definitiva conferma. «Settemila e cinquecento.» «What?!» «Bob, te lo devo ripetere? È nove-nove-nove. E sono due chili e mezzo.» «Porca puttana,» disse Bob, pensando alle parole che gl’aveva detto Renato al telefono: “Se non c’arrivi coi soldi tuoi, non ti preoccupare, copro io il resto”. «E, senti, Tonino, voi volete settemila e cinque ora; e poi, come funziona?» Questa non era la domanda che Tonino stava aspettando. E se non se l’aspettava, il motivo era semplicissimo: la consegna a Bob era un’altra farsa. Se Renato e il Gallo non si presentavano alla consegna del tenente, Tonino avrebbe messo in atto la finta-consegna con Bob il giorno dopo. E se non si facevano vivi nemmeno allora, una volta passata la roba all’Americano, l’avrebbero pedinato per riprendersela e con la speranza d’essere portati dritti-dritti al nascondiglio di DDT. «Di questo si può parlare dopo che hai cominciato a smerciarla,» Tonino se la cavò così. «Ok,» disse Bob. «Ok?» domandò Tonino. «Settemila e cinque vanno bene?» «Sì,» disse Bob. «Eh… come?» «In che senso, come?» «Come si fa? Ce l’avrai ‘na strategia. Ti chiamano Scacco-matto per un motivo, no?» «Ah… Sì. È un trucchetto collaudato da anni. A dire la verità è da un po’ che non lo usiamo, però ha sempre funzionato.» Puttanate. Mai usato un trucchetto del genere. Collaudato da anni. Una frase da professionisti che suonava bene. Tonino se n’era venuto fuori con quel “trucchetto” un paio d’ore prima. Per testarlo, l’aveva raccontato a Del Piero, che aveva annuito con un sorriso affascinato. «Tu non ti devi preoccupare quasi di niente. L’unica cosa è che ti devi ricordare questa sequenza di domande-e-risposte.» Tonino passò a Bob un pezzo di carta e bussò due volte sul lunotto del SUV. Iaquinta sbloccò il bagagliaio dall’interno. Tonino aprì lo sportellone e tirò fuori un borsone della Alpitour di pelle, bianco a strisce blu. Nel bagagliaio ce n’era un altro, identico. «Memorizza quelle frasi in quell’ordine, brucia quel cazzo di foglietto, metti i soldi in questo borsone, insieme a ‘na magliettina o ‘na camicia, e tu sei più o meno apposto. Ora, stammi bene a sentire: la cosa funziona così. Quando arrivi qui, vai alla pompa numero due—non alla uno, non alla tre: alla numero due. Mi raccomando. Vai alla numero due e quando il nostro uomo s’avvicina, segui quello che c’è scritto là.» Tonino indicò il foglio di carta che Bob teneva in mano. «Il nostro uomo sa tutto. Basta.» «Ok,» disse Bob. «Ce l’hai ‘n’altra sigaretta?» Tonino ne tirò fuori due e andò avanti. «Dopo te ne vai nel bar. Quando sei nel bar, ordina un caffè, ‘na brioche, quello che vuoi, e chiedi di andare in bagno. Ah, me lo stavo quasi per scordare: è normale: prima di uscire dalla macchina devi prendere il borsone coi soldi. Vai in bagno, ti cambi la maglietta—così non desti sospetti—e butti il borsone fuori dalla finestrella del bagno.» «E la roba?»

123 «La roba te la passa il nostro uomo, in quest’altro borsone,» Tonino indicò il bagagliaio della sua X5. «Che è tale e quale a quello tuo. Tu esci dal bagno con una maglietta diversa e lo stesso borsone. Se ci sono telecamere si vede che sei andato in bagno a cambiarti. Se poi alla pompa ci sono pure delle cimici, si sente che hai chiesto dov’era il bagno perché ti volevi cambiare. Capito?» «Tutto qui?» disse Bob. «Sì,» rispose Tonino. «Impara a memoria quelle frasi e fai come t’ho detto.» Annuendo con la sigaretta in bocca, Bob aprì lo sportello della Mondeo. «Ah, Tonino,» disse, la gamba destra per metà già in macchina. «Ma il militare, lì, il tenente, ho capito che a loro non li controlla nessuno, però, non lo so, dico, come cazzo fa a portare la roba qui?» «L’eroina va con gli eroi—» Tonino si maledisse. Forse aveva esagerato con la sua idea di riempire la testa dell’Americano di piccoli indizi. Di sicuro a don Nicola non sarebbe piaciuta una battuta del genere: arrogante, superba, presuntuosa, tronfia. E, come se non bastasse, era una battuta troppo esplicita. Menomale che Camonaresi non aveva sentito niente. Cazzo, quella era una mossa falsa non da lui, che non aveva niente a che fare con la reputazione che lo precedeva ovunque andasse. Niente a che fare col suo nomignolo. Merda. E ora? Tonino rientrò in macchina circospetto, turbato, gl’occhi iniettati d’odio. Non avrebbe mai potuto permettere che una simile défaillance arrivasse alle orecchie di don Nicola—né, se era per quello, alle orecchie di anima viva. L’unica speranza risiedeva nella stupidità o nella cattiva memoria di Bob—se davvero era stupido e aveva una cattiva memoria.

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Stavolta, dopo a malapena uno squillo, Renato rispose. «Ehi, Bob. Dimmi tutto.» Bob era arrivato da pochissimi minuti a Poggiorsini. Era seduto dietro il bancone di Poggio Rock e stava ascoltando I never knew dei Fuzztones. Bob spiegò tutto, per filo e per segno. Non tralasciò nemmeno un dettaglio. Disse che gli era sembrato che a Tonino fossero scappate un paio di cose. Il giorno dell’arrivo del tenente, per esempio, il 22. Il luogo, Gioia del Colle— «Questo lo sapevo già,» lo interruppe Renato. «Che altro?» Bob continuò. Il carico doveva essere molto più importante di quanto immaginato, visto che i panetti che gl’aveva promesso Scacco-matto erano solo dieci, da 250 grammi l’uno, per un totale di due chili e mezzo. Bob disse che a Scacco-matto gli era scappato anche che il tenente avrebbe fatto la sua consegna lì, al distributore Appia Antica, a Corato, la sera stessa del suo arrivo. «Vai avanti,» disse Renato, in brodo di giuggiole. Bob gli disse dei due borsoni identici della Alpitour e dello scambio soldi-eroina attraverso la finestrella del bagno. Bob ripeté più volte—quasi come aveva fatto Scacco-matto—che la roba in questione era 999 e che la cosa più importante per i tranesi era mantenere la piazza di Corato e lasciare il Gallo a secco. «L’eroina va con gli eroi?» chiese Renato. «Ha detto proprio così?» «Sì,» disse Bob. «Parola per parola.» I due rimasero in silenzio per un minuto. «Ci devo pensare,» disse Renato. Riagganciò e lo richiamò dopo tre minuti.

«Scacco-màtte jè nu chitèmmùrte!» disse DDT. «Cosa?» disse Bob. «Non hai sentito in televisione che in Afghanistan è morto un militare di Lucera—» «Io la televisione non la guardo,» disse Bob.

124 «Fai male,» disse Renato. «Vedi che a guardarla io ho capito e tu no? L’eroina la portano col cadavere del militare morto, dell’eroe. Geniale, no?» Bob non rispose e andò avanti: l’incontro non era stato fissato, ma Tonino gl’avrebbe fatto sapere al più presto; assieme a Scacco-matto c’era il tipo con la maglia della Nazionale, che però era rimasto in macchina —una BMW X5 nera; di fronte al distributore c’era un albergo—stesso nome, forse stesso proprietario—con un parcheggio che poteva tornare utile. Quando Bob ebbe finito, Renato scoppiò a ridere. «Cazzo c’hai da ridere?» «Quella dei dieci panetti è ‘na trappola,» disse DDT, la voce intorbidita da scorie di risate. «Dici?» disse Bob. «Sicuro,» disse Renato. «Ti vogliono fottere, e pensano di fottere pure a me.» Tonino Scacco-matto aveva avuto più o meno la sua stessa idea: usare Bob come esca. «Dici?» «Fidati di DDT,» disse Renato, «e ti troverai di lusso. Ché noi, Bob, a quelli li fottiamo il giorno prima, quando arriva il tenente. Mica aspettiamo. Anche se è strano che Tonino… Mm… Strano. Però, sai com’è? Tutti c’hanno i loro giorni storti.» «Tell me about it,» disse Bob. Renato disse che doveva riflettere sul da farsi e che si sarebbe fatto sentire al più presto. DDT sapeva che Tonino sapeva che Bob sarebbe andato a raccontargli tutto. Come mai, allora, s’era lasciato scappare l’impossibile? E come mai se n’era uscito con un’idea che puzzava di tranello dalla testa ai piedi? Scacco- matto era tanto presuntuoso da sottovalutarlo così? Terminata la telefonata, Bob si preparò una spada. Prima di farsi mise su Let it bloom dei Black Lips, il suo album preferito. Il volume a manetta. Infilò l’ago nella breve pausa tra Can’t dance e Boomerang, poi si abbandonò.

If I had all my karma And it all came back to me Then I’d have it like a boomerang Thrown farther than eyes could see

If I had it like a boomerang Thrown farther than eyes could see I’d have all my karma comin’ back to me

Back to me Back to me Back to meeeeeee

125 4

Da qualche giorno dense nubi grigiastre riempivano il cielo di Poggiorsini minacciose. La pioggia era vicina. La pioggia era incombente. Però non arrivava. Bob e Elena erano seduti al tavolo della cucina, uno di fronte all’altra. Per l’ennesima volta, insalata di riso. Bob non se ne fregò, né si lamentò. Bob aveva altro a cui pensare. Quello era il giorno prima della consegna—per come l’aveva messa “T di T”. Il giorno dell’agguato—per come la vedeva DDT. Elena era tesa. Elena non vedeva l’ora che Bob se n’andasse. Aveva un sacco di appuntamenti quel pomeriggio e temeva che Bob avrebbe aggredito chiunque si fosse avvicinato a casa loro. Scenate, cattiva pubblicità, mancati guadagni. Tutte cose da evitare. «Ci sono delle fettine di carne,» disse Elena, «ma ho pensato che le possiamo fà stasera.» «Non penso che stasera cenerò a casa,» disse Bob. «Falle ora, dai. Mi va un po’ di carne.» Elena si maledisse. Perché non riusciva a tenere la bocca chiusa? Perché non possedeva una mente calcolatrice e strategica? Perché non era in grado di prevedere le risposte degli altri? Le risposte di suo marito! Perché era così stupida? «Ma non sei sazio?» «No,» disse Bob. «Se per te non è un problema farla, io la mangio volentieri.» «Ok,» rispose Elena e si fiondò ai fornelli. «Però io la mangio stasera.» Bob ripassò in mente il piano di Renato. Essere a Corato due ore prima delle otto, probabile orario d’arrivo del tenente al distributore. Prenotare una camera per una notte all’hotel Appia Antica e lasciare la macchina nel parcheggio. Aspettare lì, nascosto, fino all’arrivo del tenente. Poi, in un modo o nell’altro, fottere quella cazzo di eroina. «Giò ha detto che ti vuole parlare; vòle fà pace,» disse Elena, senza voltarsi, intenta a girare e rigirare la fetta di carne. «Ha lasciato ‘na damigiana di vino e m’ha chiesto de ditte di passà da lui. Se no, ha detto, passa lui. Bob, secondo me je devi chiede scusa tu. Quer vecchietto è sempre stato gentile co noi e—» «Quando lo vedo sistemo tutto,» Bob ingollò il vino. «È fatta?» «Sì,» rispose Elena. Spense il fuoco. Con una forchetta infilzò la fetta di carne e la poggiò nel piatto di Bob. «Lo sai che non mi piace troppo cotta,» disse lui. Qualcuno bussò alla porta. «Stai a vedere se questo non è Giò,» sorrise Bob. Il volto di Elena, invece, s’incupì. Lei sapeva che non era Giò. Lei sapeva che era il primo dei suoi clienti, Uccio, il proprietario del mini-market. Elena s’avviò verso la porta. Bob riempì il bicchiere. Lo tenne a mezz’aria e tese l’orecchio. Sentì Elena bisbigliare qualcosa che non capì. «Chi è?» disse Bob. «Giò?» «No,» rispose Elena. «Mangia.» Bob bevve il vino d’un sorso. Ricordò che Renato gl’aveva detto di non toccare niente—né alcol né eroina né niente. Mangiando quadratini di carne, Bob ripassò il piano, ancora una volta e una volta di più. Arrivare lì un paio d’ore prima delle otto, visto che il volo dell’esercito atterrava alle sei e da Gioia a Corato ci voleva un’oretta; parcheggiare nel parcheggio dell’hotel, entrare e prenotare una stanza per una

126 notte o due. Dopo di che, nascondersi, con un occhio al distributore, in attesa del tenente. Il tenente, in qualche modo, avrebbe dovuto consegnare la roba agli uomini di don Nicola e poi proseguire in direzione Lucera—sempre che l’intuizione di Renato si fosse rivelata vera. «Renato,» aveva chiesto Bob, «ma scusa, perché dovrei rischiare di mettermi contro dei criminali come loro—che tu dici che ti vogliono morto—e provare a fregargli la roba da sotto al naso, quando loro sono disposti a darmela senza troppe storie?» «Bob, Bob, Bob,» aveva detto Renato. «C’hai ancora da imparare un casino. Intanto, perché, come dici tu, loro sono disposti a dartela senza troppe storie, e questo è già un problema. Poi, perché ti ho promesso che ti pago i settemila e cinque che t’ha chiesto Tonino, più un qualche bonus: bastano e avanzano per andartene in America, no? E poi perché, come t’ho spiegato, quelli di te non se ne fregano un cazzo: te l’ho detto che quella del borsone Alpitour è una trappola. Quindi decidi tu cosa vuoi fare.» «Ma perché due ore pri—» «Ehi, Bob,» aveva detto Renato. «Quelle cose che t’ha detto Tonino—o gli sono scappate o no—ora lui sa che le so pure io. Sa che so del carico, della quantità, del luogo, eccetera. E siccome sa che io so che l’appuntamento è lì, vuol dire che il distributore Appia Antica sté tùtte sèquèstràte. Ecco perché devi andare lì prima, per non essere visto o per vedere loro come si muovono. Jè tànde fàcele.» «Ehi, Renato,» aveva detto Bob in quella loro telefonata, «io non ci voglio perdere la pelle, hai capito? Io voglio i soldi, ok, per andare in America, però non voglio rischiare di non rivedere mia moglie.» «Bob,» aveva riso DDT. «Tu fai come ti dico io: rispetta i modi e i tempi che ti dico io, e vedrai che riuscirai a mettere in salvo tutto—la rròbbe e la pèlle. Ah, e se non l’hai ancora capito: quando e se loro ti seguono, tu li porti dritti al Bowling: io e il Gallo saremo lì pronti a fare strike. L’accedìme a tùtte quànde!» Bob non credeva che Renato volesse ammazzarli davvero. Esagerava per dimostrare di essere un duro, uno che non scherzava. S’era voluto riempire la bocca con quelle parole per sembrare un criminale vero. E a parte l’esagerazione, quelle parole—saremo lì pronti a fare strike—puzzavano di romanzesco, come la via che Renato gl’aveva detto di percorrere per arrivare al Bowling: Strada Polvere delle Rose. «Elena,» disse Bob, allungando il collo verso la porta. «Sei ancora lì? Chi è? Che c’è?» Bob buttò giù l’ultimo boccone, si alzò e raggiunse Elena. Lei aveva appena chiuso la porta e col corpo ostruiva il passaggio. Teneva le mani dietro la schiena, sudate, aggrappate alla maniglia. «Chi era?» domandò Bob. «N-niente,» disse lei e abbassò lo sguardo. Se Bob si fosse affacciato alla finestra avrebbe visto Uccio il Rabbino darsela a gambe. «Era R-r-rossana.» Bob capì che Elena mentiva e non se ne curò più di tanto. «Ecco perché stai balbettando pure tu,» disse, senza nemmeno guardarla.

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Quando Uccio il Rabbino entrò in casa, Elena lo accolse con uno sbuffo. «Scusa per prima, ma sei stata tu a dirmi di venire all’una.» «’Namo, su.» Lo portò in camera da letto. Per un istante—malato e delizioso—immaginò Bob rientrare in casa e picchiare a sangue anche il negoziante. Si crogiolò nell’idea di vederlo a terra, il volto flaccido ridotto a un unico ematoma e la pelata macchiata di sangue come quella di quel russo, lì… come si chiamava? Gorbaciov? Elena era stesa sul letto in mutande e reggiseno. Dopo essersi spogliato, Uccio piegò i pantaloni e li poggiò su una sedia. Appese la camicia allo schienale e stese i calzini celesti sulle punte delle scarpe di cuoio. «Ti dai ‘na mossa?!» disse Elena.

127 Provò disgusto per se stessa. Insensibile persino davanti al fatto che Uccio le ricordasse suo padre. Anche suo padre era ordinato e meticoloso. Anche suo padre avrebbe piegato i pantaloni se fosse andato a puttane. Perché non smetteva di fare quello che faceva? Perché non diceva basta? S’era ormai assuefatta a quella condizione? Aveva superato la soglia di schifo e scopare a pagamento era diventato un lavoro come un altro? Cosa avrebbe detto a suo padre se fosse resuscitato e avesse chiesto spiegazioni? Come paragonare la voglia di giustizia del padre alle voglie ingiuste che appagava lei? E cosa avrebbe raccontato ai suoi figli? Come trasformare in favola una tragedia del genere? A Elena erano bastati due o tre incontri per imparare che al Rabbino piaceva solo una posizione. Niente pecorina, niente missionario. Smorzacandela e basta. Lei sopra e lui sotto, punto. Uccio si stendeva e lasciava fare tutto a lei. Elena credeva che facesse così perché così faceva sua moglie con lui. Seduta sul cazzo di Uccio, Elena guardò l’orologio sul comodino di Bob. Erano le 13:27. S’inarcò all’indietro e chiuse gl’occhi. Uccio aveva le braccia tese e con le mani cercava di afferrare le tette. Lei, però, si tese ancor più, lasciandosi sfiorare a malapena. Raggiunto l’amplesso, Uccio allargò le braccia come Cristo in croce e s’aggrappò con le mani alle lenzuola. Elena guadò l’orologio: 13:38. “Bene,” pensò. “Undici minuti.” Scese dal letto e indossò l’accappatoio di Bob. L’odore del marito penetrò evocatore nelle narici. Elena provò un brivido di ribrezzo. Pelle d’oca e pungoli vari. «Ti va bene se al posto di pagarti ti faccio credito al negozio?» domandò Uccio. «Così poi ti rubano di nuovo il quaderno e io posso dire ciao ai miei sordi?» Elena scosse la testa più volte. «No, Uccio, preferisco che mi paghi ora.» «Ma tu ti ricordi che c’avevi da darmi qualcosa. Lì dentro c’era pure il tuo nome.» «E che c’entra?» «C’entra. E poi, sappi che ora il quaderno non ce l’ho più a portata di mano. Lo tengo chiuso nella cassa.» «Come se ci vòle ‘a laurea per aprire la cassa quando tu stai ar banco dei salumi e—» Elena si fermò. Ancora una volta non era riuscita a tenere la bocca chiusa. «Eh, ma ora ho messo uno specchio in un angolo e dal bancone riesco a vedere la cassa.» «Allora non sai ancora chi è stato,» Elena lanciò uno sguardo alla cassapanca in cui teneva nascosto il quaderno. «No. Ma però un sospetto ce l’ho. E quella, secondo me, prima o poi, ‘na mossa falsa la fa. Te lo dico io da qui.» «Quella?» disse Elena. «Come fai a ddì che è stata ‘na donna?» «Be’, che è stata una donna è poco ma sicuro. È impossibile che è stato un uomo.» «Ma perché? Come fai a èsse così sicuro?» Elena si sentì per un istante indifesa, vulnerabile. «Non è che solo noi donne possiamo pensà a questo tipo di soluzioni se stiamo nella merda.» Troppo personale. Troppo accalorata. Elena si stava esponendo troppo. «Ma questo non c’entra niente,» disse Uccio, la fronte corrugata. «Io sono sicuro che è stata una donna. Per due semplicissimi motivi: primo, il novandacingue percento delle persone che vengono al negozio sono donne, quindi è più probabile che è una donna che un uomo; e secondo, il giorno che è stato rubato il quaderno, mi ricordo benissimo che ce l’avevo fino al pomeriggio tardi, quando poi—aspetta! aspetta!—mi sa che quel giorno sei venuta pure tu al negozio! O no? Ti ricordi? Mi sa che è proprio quel giorno!» “Li mortacci mía!”, pensò Elena. Gli diede le spalle, pronta per andare in bagno. «Buh, chi cazzo si ricorda. Ora, però, Uccio, te ne devi annà,» si voltò verso di lui. «C’ho altri clienti e non posso perde ttempo co ‘ste chiacchiere.» «Eh, ma non credere che ho perso le speranze. Seee! Se il quaderno spunta fuori, io mi metto e faccio il giro casa per casa e raccolgo quello che mi spetta. Ché qui se ne sono approfittati tutti. Nessuno, non una singola persona che è venuta al negozio e m’ha detto Tieni, Uccio, questo era il mio debito. Nessuno.» «E mica so’ scemi,» disse Elena.

128 «Lo so. Ma tu, allora, Elena, non lo vuoi il credito?» Uccio tentò l’ultimo affondo. «No. Lascia i soldi sul comodino e quando esci, per favore, vedi non ti farti beccà da nessuno.» Elena andò in bagno e s’infilò nella doccia. L’acqua le scorreva addosso tiepida quando sentì la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi. Uccio il Rabbino se n’era andato. Elena chiuse gl’occhi e sperò che il tipo incrociasse Bob sul pianerottolo e che Bob lo picchiasse con furore cieco, come aveva fatto con Tito. Elena sorrise di quella fantasia violenta. Poi si sciacquò bene la vagina e uscì, pronta per il cliente successivo.

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L’amico di Roma che suonava la chitarra e che Bob aveva sognato di recente, gli aveva passato il cd dei Nickel Eye, il gruppo parallelo del bassista degli Strokes. Bob aveva copiato l’album nel computer ma non l’aveva ancora ascoltato. Lo mise su. Il primo pezzo, Intro (Every time), era quello che diceva il titolo: un’intro. Il secondo, You and everyone else, era una canzone fatta bene, ritmica, melodica, che ricordava molto gli Strokes—forse fin troppo. Il testo del terzo brano, Back from exile, gli permise di perdersi in sogni e fantasie edulcorate dalla musica. Pensò al suo ritorno in America. Si vide ad Atlanta, nel suo negozio di dischi—Rock Shelter o Bob Rocks? —raccontare ai suoi nuovi amici le peripezie che l’avevano portato lì. Le peripezie vissute in Italia, a Roma, a Poggiorsini, in quello che poteva considerare il suo esilio.

Si preparò una pera pensando alla raccomandazione di Renato: «Non toccare niente. Niente alcol e soprattutto niente roba. Devi essere lucido, super-lucido.» «Tanto sono appena le due,» disse Bob. «Fino alle otto c’ho tempo per riprendermi.»

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Dopo il proprietario del mini-market, fu la volta di Sabatino. Sabatino. Un nome stupido. Un aggettivo. L’aggettivo di un giorno della settimana. Elena gl’aveva chiesto perché si chiamasse così e lui aveva detto: «È normale; perché sono nato di sabato.» Sabatino era un uomo di 50 anni che ne dimostrava 70. Un uomo che soffriva di eiaculazione precoce. Un uomo con le mani bucate. Se non avesse avuto la fissazione di leccargliela prima di cominciare, sarebbe stato uno dei clienti migliori. Stesa sul letto, le gambe spalancate, l’Aggettivo a leccargliela, Elena scorse l’orologio: 14:03. In meno di mezz’ora aveva un altro appuntamento. «Ehi, e mo basta!» Elena si ritrasse. «Vie’ qua.» Nel giro di tre minuti Sabatino venne. Nel giro di due si rivestì, pagò e uscì. «Sei ‘no spettacolo!» disse prima di chiudere la porta. Elena sorrise compiaciuta e, per la seconda volta in meno di un’ora, si fece una doccia.

Alle 2:30 precise si presentò Enzo il meccanico. Era il secondo appuntamento con lui. Quando Elena lo vide spogliarsi, ricordò il dolore patito la volta prima. Quell’Enzo lì aveva il cazzo troppo grosso. Un pistone d’acciaio persino più grande di quello già notevole e nerboruto di DeBellis. E per giunta il meccanico era un diesel: mezz’ora per venire. «Ti posso chiedere una cosa?» disse Elena quando Enzo se ne stava per andare.

129 «Sì, dimmi.» «Sei sposato?» «Sono vedovo,» disse Enzo il meccanico. Poi pagò e uscì. Elena si affacciò alla finestra e accese una sigaretta. Guardò al cielo coperto chiedendosi quando sarebbe arrivata la pioggia. Le temperature s’erano abbassate di qualche grado ma la cappa di nuvole amplificava la sensazione d’afa. Elena seguì le piroette di due rondini e si dispiacque che Enzo il meccanico fosse vedovo. Squillò il telefono. «Pronto?» «Pronto, Elena, sono Tito.» «Ciao, dimmi.» «Elena, vedi che non vengo.» «Come sarebbe a dire, non vengo.» «Non lo so, ma… non ce la faccio. Scusa.» Tito riattaccò. Il primo pensiero di Elena riguardò il benessere della sua vagina. Il secondo, Bob. Dov’era? Che faceva? Perché non le aveva detto niente del maresciallo? Cos’era successo quando era andato a trovarlo al negozio? Perché Bob non la prendeva a calci e pugni come aveva fatto con Tito e la obbligava a stare con lui e a smettere di vendersi? Che avrebbe fatto suo padre? Elena finì la sigaretta e la buttò in strada. Perché era così stupida? Perché un momento era fiera della sua indipendenza e il momento dopo avrebbe voluto essere maltrattata da suo marito? Perché vacillava tra considerare inopportuna la voglia di possesso degli uomini e bramare di essere sottomessa a quella voglia tutta maschile? Cos’avrebbe detto Froid—si chiamava così?—di quelle sue emozioni contraddittorie?

Dopo un novizio di nome Michele, toccava al farmacista. E dopo il farmacista, l’ultimo cliente di quella giornata all’insegna dell’arte & mestieri: il fabbro, il figlio di Giò Casino. Non era stata una giornata facile. Fino al farmacista Elena aveva assorbito ogni terremoto emotivo. Elena s’era dimostrata stoica, serena, professionale. Il farmacista, però, aveva sconvolto tutto. Il farmacista le aveva detto che Bob si faceva d’eroina. Che Bob s’era presentato alla farmacia e gl’aveva rubato una siringa di vetro. Che si vedeva dagl’occhi, dalla pelle secca. Pure un cieco se ne sarebbe accorto. «Io non mi so’ accorta di gnente,» aveva detto lei. «E com’è possibile?» «Non lo so. Ho sentito un sudore strano da un paio di settimane, però—» «E da cosa credi che viene quell’odore? Un sudore acido e sgradevole, névvére?» «Sì.» «Ma, Elena, in che mondo vivi?» Elena a quel punto aveva sbottato e cacciato il tipo a calci in culo. Non s’era nemmeno fatta pagare. Certo, il farmacista aveva ragione. Non poteva dire d’essere stata accorta nell’ultimo periodo. Ma le cose tra loro non andavano bene e quell’odore era stato trattato, come tante altre questioni, con la moneta corrente: l’indifferenza. Sì, il farmacista aveva ragione. In che mondo viveva, lei? Avrebbe dovuto capire tutto da quell’odore! E come avrebbe mai potuto? In vita sua aveva fumato solo qualche canna. Con Bob, con delle amiche, prima, quando stava a Roma, quand’era una ragazzina. Basta, niente più. «Ti vedo strana,» disse il fabbro una volta nel letto. «Come se co’ la testa stai da ‘n’altra parte.»

130 “Ora si mette a fare lo psicologo, questo?” pensò Elena. «Tu pensa a fà quello che devi fà,» disse, lapidaria. «Sì, ma però—» «Ssst!» disse lei. «Continua. Muoviti.» Il fabbro continuò e si mosse. Elena però era persa nei pensieri. Poca tensione dei muscoli. Una posa compassata e fiacca. La testa penzolante dal letto, le gambe spalancate solo per caso. Elena era svanita. Non esisteva in quel momento. C’era un corpo, sì, il suo, ma quel corpo faceva parte della terra, dell’acqua, dell’aria. Elena era scomparsa e vagava nel labirinto delle sue meditazioni, smaniosa e illusa come un’assetata nel deserto. Per la prima volta dopo tanto, Elena temette di perdere Bob sul serio. Come aveva potuto non accorgersi che Bob si stava rovinando? Come aveva potuto sottovalutare la scelta unilaterale di prostituirsi? Credeva, forse, che una cosa del genere non avrebbe avuto ripercussioni su suo marito? E come aveva potuto ignorare la fragilità emotiva di Bob? Era una stupida insensibile. Bob si stava lasciando morire e lei continuava a scopare coi suoi clienti. Oh, clienti! clienti! clienti! Quando odiava quella parola ora! Il fabbro ci diede dentro con la sensazione schifosa di essere un necrofilo. E abbandonatosi dopo l’amplesso, pensò alle sue bambine e all’idea che avevano di Elena. Loro la credevano speciale. Una donna meravigliosa e speciale. “Speciale come Babbo Natale,” pensò il fabbro. “Vale fino a che non scopri la verità.”

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Erano le 6:40 quando Bob lasciò Poggiorsini. Si sentiva ancora fuso, ma sapeva che guidando avrebbe riacquistato lucidità. Era un’oretta in ritardo, in base ai calcoli di Renato. Ma Renato e il suo piano non erano così rigidi. Quanto c’avrebbe impiegato a parcheggiare e a prenotare una camera? Cinque, dieci minuti massimo. Tra le Murge spiccavano le ferule dalle cime arse. Il sole in ritirata era nascosto dalle nuvole. Il crepuscolo la faceva da padrone. Si vedeva tutto, limpido e premonitore. Bob accese lo stereo convinto che tutto sarebbe andato bene. Dopo Creep in the cellar dei Butthole Surfers, The warlock in the woods degli Shannon and the Clams, When I get mad dei Reatards e It’s no fun until they see you cry dei Dirtbombs, ascoltò Gimme danger degli Stooges. Il volume a palla. L’arpeggio di chitarra era stupendo. Stupenda era la voce di Iggy Pop. Stupende erano le chitarre elettriche: sovrastavano l’arpeggio ma non lo annullavano. E stupendo, e soprattutto, a piccione, era il titolo di quel pezzo. Gimme danger. Dopotutto, Bob non s’era forse invischiato in quelle storie perché adorava il brivido del pericolo?

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Giò Casino sentì la porta chiudersi. Curioso, s’avvicinò alla finestra, e attraverso le tende cercò di scoprire chi fosse stato l’ennesimo cliente di Elena. Riconobbe suo figlio. Com’era possibile? La carne della sua carne, il sangue del suo sangue! Giò avrebbe voluto prendere a schiaffi suo figlio, ma il medico gl’aveva detto di non sforzare il cuore e mantenere al minimo indispensabile le emozioni forti. Il medico sembrava non conoscere Giò Casino. Il suo mondo era fatto solo di emozioni forti.

131 Per una volta, però, Giò volle darla vinta alla medicina, e restò in casa. Ricordò le parole rassicuranti che aveva usato il giorno dell’occupazione, quando Bob aveva detto di non poter pagare la serratura. Ricordò di aver detto al figlio che “un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro, il debito te lo pagherà”. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata Elena, col suo corpo, a ripagare una serratura. Una ser-ra-tu-ra! Non sapeva perché ricordasse quelle parole alla perfezione, né si spiegava perché suo figlio—con moglie e figlie—avesse deciso di tuffarsi tra le calde gambe di Elena. La situazione era diventata insostenibile. Quei due, Bob e Elena, non meritavano ciò che stavano passando. Non meritavano di vivere in un paesino sterile e senza prospettive come Poggiorsini. Loro meritavano l’America! E se non si trattava di meriti, Giò Casino avrebbe voluto vedere il suo sogno realizzato nella vita di qualcun altro. Lui non aveva potuto, ma loro dovevano provare a prendere quella strada. L’America era l’America! Non c’era tempo da perdere. Giò doveva agire e doveva agire presto, senza temere d’imbarcarsi in avventure azzardate: le cose in quel periodo volgevano al meglio: Sirio stava perdendo il passo e la canicola era agli sgoccioli: tra meno di una settimana la levata eliaca sarebbe finita.

132 5

Tonino Scacco-matto e Gilardino s’erano appostati sul tetto dell’hotel Appia Antica—un hotel amico—e da lì avrebbero seguito le operazioni. Da quell’altezza si vedeva l’intero distributore, il parcheggio accanto e la statale 98 che tagliava la zona industriale. L’idea era quella di sovrintendere, alla lettera. Binocolo, cellulari, un paio di semiautomatiche e un canne-mozze. «Toníne,» disse Grosso. «La visuàle ch’abbiàme da qui jè pèrfètte.» Tonino annuì, aspirando la sua Marlboro rossa concentrato. Secondo il suo piano, il tenente e il becchino avrebbero dovuto parcheggiare il carro funebre accanto al bar-ristorante del distributore. Cenzino “Galeazzi” avrebbe aspettato nel bar dalle sei e una volta visti entrare il tenente e il becchino, sarebbe uscito, avrebbe preso il carro funebre e l’avrebbe portato nel garage sotterraneo dell’hotel. Lì Galeazzi sarebbe stato raggiunto da Totti e insieme avrebbero aperto la bara e scaricato la 999. Fatto ciò e richiusa la bara, Cenzino avrebbe riportato il carro funebre dove l’aveva trovato. Un’operazione semplice e rapida. Una decina di minuti massimo. Tonino guardò l’orologio. Erano le 7:15. Il tenente sarebbe arrivato da un momento all’altro. Tonino sapeva—Tonino sperava che DDT e il Gallo provassero a fotterlo quella sera stessa, senza aspettare la farsa dei borsoni Alpitour, anche per dimostrare a don Nicola che la sua strategia aveva senso. Per dimostrargli che fingere di farsi sfuggire informazioni importanti era stata una mossa sopraffina—una mossa delle sue. Anche se… Anche se a don Nicola non gliel’aveva raccontata tutta. «Se no DDT mica rischia,» aveva detto Tonino. «Se lo vogliamo prendere, e se vogliamo pure a quel pezzo di merda del Gallo, dobbiamo fargli credere che lui sa cose che noi pensiamo che lui non sa. Capito, don Nicola? Rendere la cosa appetibile, fattibile, intrigante, avvincente, rischio—» «Toníne,» aveva detto don Nicola. «E mo diciamo tutto il dizionario! Ho capito, c’hai ragione.»

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A Corato il cielo era coperto. Le nuvole erano colorate dal rosso fuoco del tramonto. Uno stormo di storni disegnava forme accattivanti a orizzonte. Bob ne fu rapito per qualche istante, poi si convinse a mantenere la concentrazione e lasciò perdere gl’uccelli. Era già in ritardo e non voleva rischiare di mandare tutto a puttane. Erano le 7:25 quando parcheggiò la Mondeo nel parcheggio dell’hotel Appia Antica. Prima di uscire infilò il crocifisso nella maglia, accennò una preghiera e si esaminò il viso nello specchietto retrovisore. Le pupille erano poco più grosse della capocchia di uno spillo. Le borse gonfie. Gl’occhi circondati da una sottile riga rossastra che sembrava trucco. Entrò nell’albergo e andò dritto alla reception. Prenotò una singola per una notte e s’impuntò per pagare in anticipo. «Non c’è bisogno,» disse la tipa dietro il banco. «Può pagare quando fa il check-out.» «Preferisco pagare ora.» Bene. Come aveva detto Renato. Bob uscì dall’hotel. Accese una sigaretta e s’incamminò. Si nascose dietro il tronco di un pino incastrato nell’angolo tra l’ingresso del parcheggio e la recinzione che lo separava dalla statale 98. Sentiva il cuore

133 battere a tremila, la tensione aumentare secondo dopo secondo, un brivido d’eccitazione sottocute. Stava per partecipare a un agguato! Come un vero criminale, un vero bandito. Se solo Elena l’avesse visto. Se solo Elena avesse saputo quello che stava facendo lui per coronare il loro sogno di andare in America…

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Renato era dietro le finestre dell’ufficio del Bowling, a piano terra, in attesa del Gallo. L’armamentario steso sulla scrivania: giubbotti antiproiettile, passamontagna, munizioni, fucile Breda Echo Bronze cal. 12—un regalo del Gallo—e un kalashnikov. Il Gallo si sarebbe trovato a Gioia del Colle già dal primo pomeriggio. Il Gallo avrebbe dovuto tallonare il tenente da quando toccava terra, fino al distributore Appia Antica di Corato. Un solo obiettivo: verificare che le informazioni raccolte sul piano di Scacco-matto fossero accurate. Bob poteva essersi sbagliato o aver detto delle cazzate. Oppure Bob poteva essere un doppiogiochista di mer— Naaa. Difficile. Quasi impossibile. «Tu appena vedi che il tenente è entrato nel distributore,» aveva detto Renato al Gallo, «vienitene qua. Senza aspettare e, soprattutto, senza farti sgamare—ché lì di sicuro c’è qualcuno a tenere la situazione sotto controllo. E poi, u Gàlle, ricordati ca tenìme á Bbob com’avanguàrdije.» Secondo il piano di Renato, dopo aver preso la roba, Bob avrebbe dovuto portarla al Bowling. In quel modo si sarebbe tirato dietro Scacco-matto e qualcuno dei suoi. Una volta avvistato Tonino, Renato e il Gallo avrebbero aperto il fuoco. Se l’agguato andava bene, Renato avrebbe dimostrato a don Nicola di essere un nemico da temere e ammirare. Uno da rispettare. Uno che era riuscito a farla al famoso Scacco-matto. Uno pronto a scalzare Scacco-matto.

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Il Gallo, alla guida di un’Audi A5 bianca, vide il carro funebre—Mercedes W210 nero—svoltare nel distributore Appia Antica e si sentì sollevato. Per lo meno non c’era bisogno di un piano-B. Svoltò anche lui. Invece di entrare al distributore, il Gallo proseguì su via Mangione e si diresse verso il Bowling, proprio secondo i piani. Passando davanti all’hotel Appia Antica, scorse Bob appostato dietro un albero. Tutto stava andando a meraviglia. Ora bastava che l’Americano rubasse il carro funebre, che lo portasse al Bowling e che Scacco-matto e i suoi lo seguissero, andando a finire giusti-giusti nella trappola di DDT.

Il tenente scese dal carro funebre e si stiracchiò. Dodici ore prima era ancora in Afghanistan. Ora era in Puglia, a casa, con una ventina di chili di eroina 999 da consegnare e un sacco di soldi ad aspettarlo. «Mangiamoci un panino prima di ripartire,» disse il tenente al becchino. Si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio, di un segnale, di qualcuno che gli dicesse che andava tutto bene. Niente. Non vide niente e nessuno. Poi squillò il cellulare. «Pronto?» Era Tonino Scacco-matto, dal tetto dell’hotel. Il tenente finse che si trattava di un superiore e dopo un paio di signorsì riattaccò e s’incamminò verso il bar del distributore. «C’ho ‘na fame,» disse il becchino. «Tu non hai idea della merda che mangiano in Afghanistan,» disse il tenente, mantenendo la porta aperta e lasciando che il becchino entrasse per primo.

134 Sguardo a destra: nell’angolo in fondo, la sala ristorante semi-vuota; due minipoker e un frigo-gelati nell’angolo più vicino. Sguardo a sinistra: il bancone del bar e quattro tavolini tondi. Seduto al tavolino più lontano, accanto alla porta del cesso, un uomo grasso e sudato sfogliava la Gazzetta del Mezzogiorno. «’Giorno,» disse il tenente ad alta voce. Il barista rispose con un movimento del capo, senza fiatare.

Cenzino Galeazzi lanciò la Gazzetta sul tavolino e si alzò. Era il suo momento, quello.

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A Scacco-matto sarebbe piaciuto seguire la scena col binocolo, ma il distributore era lì, a una cinquantina di metri massimo. Pazienza. Tonino era in apprensione; e più le cose sembrava che andassero bene, più l’ansia aumentava. «Ehi, Toníne,» disse De Rossi. «Che faccio, scendo?» «Sì, vai,» Tonino si passò una mano tra i capelli. «E fate vèlóce.» Mentre Inzaghi si allontanava, sorridendo compiaciuto, il cellulare di Scacco-matto squillò. Era il Biondo, il suo pedone preferito. «Ci jàie?» «Toníne,» disse il ragazzino, «ho visto al tappetto americano entrare nel parcheggio dell’hotel.» «Che hotel?» «Quello dove stai tu.» «Qui?» «Sì.» «Quando?» «Buh, cinque, dieci minuti fa.» «E mo me lo dici?» «Non c’avevo campo, prima—» «Le mùrte de l’Américàne!» disse Tonino. Riagganciò e saltellò verso il retro del tetto, per poi affacciarsi e vedere se la Mondeo di Bob era davvero lì. Era lì. «Mmm…» rifletté Scacco-matto, gl’occhi fissi sulla Mondeo. «E mmo?»

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Bob vide il tenente e il becchino entrare nel bar. Si strusciò le mani sulle cosce. Palpitazioni e adrenalina à gogo. Doveva uscire allo scoperto, ora, rischiando di diventare il facile bersaglio di un cecchino. Ma chi gliel’aveva fatto fare? Perché aveva ascoltato le parole di Renato? Come cazzo era andato a finire in quella situazione di merda? Perché? Per Elena? E perché lei s’era messa a— Ecco un uomo uscire dal bar e dirigersi verso il carro funebre. Quello doveva essere l’uomo di Tonino. Bob uscì dal parcheggio e corse dal tipo—un ciccione che somigliava a Galeazzi, il giornalista sportivo. Era a una decina di metri di distanza quando il tipo aprì lo sportello della Mercedes. «Ehi,» disse Bob. «La macchina la prendo io: Tonino ha cambiato i piani.» «Ma a me m’ha detto che—» «Ti vuoi muovere?! Te l’ho detto: Scacco-matto ha cambiato i piani. Muoviti!» Bob spalancò lo sportello e s’infilò nel carro funebre. «Vattene nel bar e stai attento che quei due non escono.»

135 Il tipo obbedì. Bob mise in moto. Aveva l’affanno, gli tremavano le mani, la bocca s’era rinsecchita nel giro di un secondo. Fece inversione, pestò sull’acceleratore e sfrecciò lungo via Mangione. All’incrocio svoltò a destra, come prevedeva il piano di DDT, e continuò per duecento metri prima d’imboccare Strada Polvere delle Rose—esisteva davvero—e arrivare al Bowling. Bob era davanti al cancello del Bowling. Suonò il clacson tre o quattro volte e, in attesa che qualcuno aprisse, accese l’autoradio. Psycho killer dei Talking Heads. Bob era voltato indietro, come se stesse facendo retromarcia. Lo sguardo gli cadde sulla bara e il lungo tricolore che la rivestiva.

I can’t seem to face up to the facts I’m tense and nervous and I can’t relax I can’t sleep ‘cause my bed’s on fire Don’t touch me I’m a real live wire

Psycho killer Qu’est que c’est Fa-fa-fa-fa fa-fa-fa-fa-fa far better Run, run, run, run, run, run, run away

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«Prendi la macchina e vieni davanti,» disse Tonino a Zaccardo, scendendo le scale. «Ché qui ci stanno inculando a sangue.» «Ehi, ma dove sta Galeazzi?» «T’ho detto prendi la macchina! Muoviti!» Tonino infilò il cellulare in tasca con la sinistra. Nella destra teneva il borsone con le semi-automatiche e il resto. Il cellulare squillò. «Puttana Eva,» disse Scacco-matto. «Pronto?» Era il Biondo, di nuovo. «C’ho il carro funebre sottocchio,» disse il ragazzino. «Dove sta?» «Al Bowling.» «Al Bowling?» «Sì.» «Ma sei sicuro che è lo stesso carro funebre?» disse Tonino, un bagno di sudore freddo. «Sì. Ma però il tavuto non c’è.» «Non ti muovere da lì e chiamami appena vedi qualcosa.» Le cose stavano andando storte. Troppo storte. Quel cazzo di Bob l’Americano era un virus maledetto che aveva infettato tutto. Tonino non poteva permettersi di perdere il carico di 999. Don Nicola non gl’avrebbe mai perdonato una cosa del genere. Una ventina di chili di eroina pura regalati a DDT e al Gallo? Proprio a DDT e al Gallo? Intollerabile. Inammissibile. Inaccettabile. Tutti i sinonimi di questo mondo andavano bene. Per non parlare, poi, della figura di merda che avrebbe fatto lui, Tonino Scacco-matto, il re delle strategie. Niente da fare. Costi quel che costi, Tonino doveva rimettere la situazione a posto. La X5 uscì dal garage sotterraneo sgommando. Tonino si lanciò in macchina e Pirlo partì senza nemmeno permettergli di chiudere lo sportello. «Toníne,» disse Pirlo. «Che càzze jè seccìsse?»

136 «Quel pezzo di merda dell’Americano,» disse Tonino. «A destra, e poi di nuovo a destra, fino al Bowling. È lì che stanno.» «Toníne, dìmme ‘na cóse,» disse Materazzi. «Ma come cazzo faceva Bob l’Americano o DDT a sapere che la rròbbe stava nel tavuto? Qualcheduno gliel’ha detto— á ffòrze. Se no, non si spiega.» Tonino si sfilò gl’occhiali e pulì le lenti con il lembo della camicia, finto-pensieroso. Perrotta, invece, stava riflettendo sul serio. «Non è che quello, il tenente, ha fatto il doppio gioco?» chiese. “Ottima idea,” pensò Scacco-matto. “Posso dare la colpa al tenente.” «Può essere,» disse Tonino. «Rallenta, rallenta.» Erano accanto al cancello del Bowling. Il carro funebre era lì, immobile e, soprattutto, vuoto. Il cellulare di Oddo squillò. Seven Nation Army rivisitata (a.k.a. Po poropo popo po). Oddo rispose. «Toníne,» disse, «è Galeazzi.» «Che cazzo vuole?» chiese Scacco-matto. «Dice che il tenente e il procamorto hanno finito e mo-mo escono. Vuole sapere cosa deve fare.» «Digli di darsi ‘na revolverata,» disse Scacco-matto. «E se non lo fa lui, quando abbiamo finito qua, lo faccio io di persona.»

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Seduto alla scrivania nell’ufficio del Bowling, lo sguardo fisso alla strada che portava lì, cellulare in mano, Bob faceva il palo per Renato e il Gallo, che erano ancora nella sala delle piste con la bara aperta e i panetti di 999 impilati accanto. «Appena vedi qualcosa, grida, fammi uno squillo,» aveva detto Renato. «Meglio lo squillo, ché forse da lì non si sente se gridi.» Il cellulare aveva squillato un paio di volte. Era Elena. Bob non aveva risposto. Che cazzo dirle? E poi, meglio non tenere la linea occupata. Il cuore batteva forte. Molto forte. Bob aveva sottovalutato l’effetto dell’eroina. In particolare aveva sottovalutato che spararsi una pera l’avrebbe portato a desiderarne un’altra. Difatti ora—muscoli tesi gola secca mani sudate—ne voleva una. E avere chili e chili di 999 a disposizione, di sicuro non aiutava a fargli passare la voglia. Squillò il telefono. Non era Elena stavolta. Era Scacco-matto. «Pronto?» «E bravo a Bob l’Americano,» disse Tonino. «Bràve, bràve.» Bob non fiatava. «Non mi piace ammetterlo, però tu e DDT m’avete fregato. Eh sì. E sai qual è stato il mio più grande errore? Essere troppo gentile con te.» Scacco-matto fece un pausa. «Per fortuna, però, voi siete degli imbecilli patentati e al posto di andarvene da Corato e andarvi a nascondere in un posto sicuro, lontano, magari pure a Poggiorsini, siete rimasti qui e vi siete andati a infilare in un cazzo di Bowling. E mo mi tocca fare strike.» Tonino e Renato parlavano allo stesso modo. Fare strike. Avevano le stesse idee, guardavano alle cose dalla stessa prospettiva. Peccato che si odiassero. Continuando a tacere, Bob uscì dall’ufficio per avvisare Renato, per dirgli che era al telefono con Scacco- matto, per dirgli che Scacco-matto sapeva dov’erano e che, forse, lui e i suoi uomini erano già appostati là fuori.

137 Tonino continuò: «Però, Bob, una cosa me la devi dire. Cosa t’ha promesso DDT per convincerti a metterti contro a me e don Nicola? Dico, la posta in gioco deve essere alta pure per te, se no, guarda, tutto ‘sto bordello non ha senso.» Bob avvertì delle ondate di calore partire dallo stomaco e inondargli il petto. Poi di colpo, brividi di freddo, i peli delle braccia ritti. Bob tremava. La frangia e le sopracciglia arginarono la slavina di sudore freddo che veniva giù dalla fronte. Delle gocce superarono gl’argini e s’impantanarono negl’angoli interni degl’occhi. Il cuore batteva forte. Molto forte. Renato e il Gallo avevano appena richiuso il feretro. Si voltarono verso Bob. Cazzo succede, dicevano i loro sguardi. «To-ni-no,» disse Bob, il cellulare contro il petto. «Bob, sei ancora lì?» disse Scacco-matto. «Pronto?» «Sì,» disse Bob. «Ti sento.» «Be’, i complimenti te li ho fatti. Mo preparatevi, ché so’ cazzi vostri.» Scacco-matto riagganciò. «Che t’ha detto?» domandò Renato. «C’ha fatto i complimenti,» disse Bob. «Dice che l’abbiamo fregato ma che ora, però, venendo al Bowling abbiamo sbagliato. Preparatevi ché so’ cazzi vostri, ha detto. Secondo me stanno là fuori.» «Rènàte, e se Toníne ha chiamato a quacche squadra sua da Trani?» disse il Gallo. «Se quelli ci circondano?» «U Gàlle, é ciòcche jè, ti stai cagando addosso?» «No, però… Rènàte: nú sìme tré—ànze, du—é lore sonde assé de cchiù.» Bob alternava lo sguardo da Renato al Gallo, dal Gallo a Renato. Per la prima volta, riconobbe del terrore negli occhi di DDT. «E mica lo sanno che siamo solo noi tre,» disse Renato, poco convinto e poco convincente. Bob si sentì perso. Come aveva potuto DDT pensare di farla a un mafioso come Scacco-matto? Con che cazzo di piano di merda se n’era uscito? Un piano partorito dal suo nervosismo cronico, ecco cos’era. Della serie prima si fa e meglio è. E poi, perché l’aveva messo in mezzo, lo stronzo? Bob cominciò a tremare. Paura mista a sfiducia mista ad astinenza.

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Elena era in pensiero per Bob e tremava dall’agitazione. Eroina? Siringa? Bob? Era uscita di casa e per prima cosa era passata da Poggio Rock. Gli scuri erano chiusi e non si sentiva nessun rumore provenire dall’interno. Bob non era lì. E lì non c’era l’ombra nemmeno della Mondeo. Preda dell’ansia, Elena batté il Corso guardando a destra e sinistra all’altezza di ogni traversa. Niente, la Mondeo non era da nessuna parte. Dove poteva essere andato? A Trani, forse? Da una di quelle puttane che s’era portato dietro Renato Consuelo? O era andato a farsi una dose in qualche campagna fuori paese? Nella piazza del vecchio casale, Elena guardò in alto alla casa di Nicola DeBellis. Era stato lui a dare inizio alle loro pene. E solo per assecondare il suo pene. Elena aveva sbagliato a dare la colpa a Bob. Non erano i suoi debiti il problema. Era l’avidità dei creditori, la loro impazienza, la loro insensibilità. Era la vita. Era la Storia che si ripete. La Storia che si ripete e vede i ricchi prepotenti godersela e i poveri cristi pagare per tutti. Salì su una panchina del belvedere e osservò la valle pezzata di giallo e marrone. Poco giallo e tanto marrone. Pochi campi ancora da mietere e tanti campi già arati. Ricordò le mille sfumature del verde che l’avevano pezzata nel periodo del loro arrivo a Poggiorsini, quasi tre mesi prima. Il cielo era coperto da nuvole imbottite dalla luce del crepuscolo. Elena guardò al sole che stava tramontando. Era un disco di luce e niente più. Dov’era quella zoccola di Sirio? Elena sentì il rombo scoppiettante di un motorino provenire dall’arco in fondo alla sua sinistra. Si voltò verso il rumore con la speranza—assurda e inconsistente—che Bob fosse alla guida del motorino. Non era così. Erano due ragazzi senza casco che quando la videro rallentarono. Elena diede loro le spalle. I due le guardarono bene il culo e dopo qualche smanettata fecero inversione e si allontanarono. Prima di scomparire sotto l’arco, uno dei due urlò: «Elena di Troia! Ce lo fai un bocchino?!» Elena si voltò. Vide la schiena del passeggero scomparire oltre l’arco assieme a uno sbuffo di fumo. I suoi pensieri si mescolarono allo scoppiettare della marmitta del motorino e si fecero insistenti, amari, pungenti. La memoria accorse in aiuto, sostituendo i pensieri coi ricordi. Elena ricordò quello che aveva detto suo padre a proposito di Elena di Troia. “La bellezza straordinaria di Elena le valse l’appellativo di donna più bella del mondo e moltissimi pretendenti. La sua bellezza fu la sua grazia e la sua rovina.” Elena si compiacque di ricordare quelle frasi a memoria. Non era poi così stupida. Si domandò se la sua mente e la sua memoria non funzionassero al meglio solo quando si trattava di questioni che la toccavano nel profondo. Elena di Troia non era stata una sgualdrina come molti volevano far credere. Piuttosto una disgraziata, una donna condannata dalla sua immensa bellezza. Ma l’appellativo usato dai ragazzi era chiaro e inequivocabile. Un prodotto tipico dei paesani, intriso di semplicità e crudeltà, di spietatezza poco originale e pungente sagacia. Lei non era Elena di Troia. Lei era Elena la troia. Quel soprannome, urlato in quel modo, da quegli adolescenti, era il suggello del suo fallimento.

139 Certo, in quanto individuo s’era sentita rinvigorire e aveva provato un senso d’indipendenza e libertà sconosciuto fino ad allora. Certo, in quanto donna s’era crogiolata nel piacere di piacere. Ma in quanto moglie e futura madre, era stata un puro e semplice fallimento. Che esempio avrebbe dato ai suoi figli se degli adolescenti si permettevano—a ragione—di darle della troia? Aveva sbagliato tutto. Tutto. S’era lasciata andare a richiami selvaggi e primordiali perché in fuga da una vita da dimenticare. Perché prona a reinventarsene una. Anche Bob era in quella situazione, eppure non s’era comportato così. O si sbagliava? O l’eroina era suppergiù la stessa cosa? Naaa. Non era la stessa cosa. E anche se fosse, lei non avrebbe dovuto perversare—si dice così?— nell’errore solo perché sbagliava lui. Decise che dal giorno dopo avrebbe smesso di prostituirsi. Basta, fine. Avrebbe considerato quel periodo come una parentesi mostruosa della sua vita. Una parentesi, punto. Ma qualcosa di più irruente della convinzione di voler cambiare, la scosse. Era la convinzione di dover pagare. Elena avrebbe voluto poter ripagare in un colpo solo il male procurato a Bob. Ma non c’era modo di annientare le immagini tremende che popolavano e avrebbero popolato la mente di suo marito. Fosse stato lui a farle una cosa del genere, lei non sarebbe mai riuscita a cancellare le immagini di lui con altre. Elena gl’aveva chiesto se l’avesse mai tradita e Bob aveva detto di no. Bob aveva mentito. Lei s’era sentita ferita, e quel dolore s’era trasformato nel viatico che l’aveva sostenuta nella scelta di prostituirsi. Non c’era verso. L’unico vero modo per espiare la pena era scomparire, annullarsi, morire. Elena si sorprese d’aver pensato una cosa del genere. Era la prima volta che una cosa simile le sfiorava la mente. Ma il lambire di quel pensiero era dolce e affettuoso. La carezza consolatoria di una madre malata. Non aver trovato Bob significava averlo perso per sempre. Non c’erano altre possibilità. Non c’era un modo diverso di guardare alle cose. Lui aveva bisogno di lei e lei non era nemmeno in grado di trovarlo. Guardò ai suoi piedi. Il terreno scosceso che separava il belvedere dalla valle era maculato da grossi massi levigati. Sembravano duri, solidi, mortali. Pensò di bendarsi con qualcosa e lanciarsi. Rotolando, prima o poi, sarebbe andata a impattare con la testa su una di quelle— Scoppiò in lacrime. I campi pezzati sfumarono l’uno nell’altro, si raddoppiarono acquosi. “Perché?” pensava. “Perché l’ho fatto?” «A li vàcche!» sentì urlare da qualcuno in lontananza. «Zzààh!» Si voltò, scese dalla panchina e s’asciugò le lacrime col dorso della mano. Un vecchietto stava rincorrendo un cane con una mazza in mano. Il cane aveva la coda tra le zampe, le orecchie in giù e correva correva correva. Si sentiva il ticchettio delle unghie sull’asfalto. L’animale si fermò a metà strada tra Elena e il vecchietto. Che fare? Fidarsi o no di quella donna? Elena riconobbe il cane—la cagna che Bob aveva abbracciato mille volte e alla quale aveva anche dato da mangiare. La cagna che lei s’era rifiutata di accarezzare. La cagna che, a sentire Bob, aveva fatto la guardia al loro arrivo a Poggiorsini. «Lasciala stare,» disse Elena, flettendo sulle ginocchia, le braccia tese verso l’animale. Il vecchio stava ancora bestemmiando quando la riconobbe. «Oh, Elena, sei tu,» disse, riverente e infantile. Gli tremavano le mani, la saliva impastata. Con gl’occhi perlustrò ogni curva del corpo di Elena. Deglutì e sentì qualcosa muoversi nei pantaloni. «Ma questo cane… è… è tuo?» «Sì,» disse Elena, carezzando la testa della cagna e lasciando che si nascondesse dietro di lei. «È mio e di Bob, mio marito.» «Scusa, Elena, non lo sapevo.»

140 «Va’, va’,» disse lei. L’uomo assestò il pacco e rimase immobile, indeciso e timido, di fronte a lei. «Elena, ma è possibile a farti ‘na visita un gio—» «No! Ho smesso. Dillo a tutti in giro. Niente più Elena, capito?!» Le labbra del vecchio vibrarono e si appiattirono per la delusione. Poi si mossero articolando parole che restarono impigliate tra le corde vocali. Il vecchio se ne andò, claudicante. Ecco un altro sogno andato a puttane. «Mi sa ch’è proprio vero che ci fai la guardia,» disse Elena alla cagna, abbracciandola sorridente come aveva visto fare a Bob. «M’hai salvato. E ora vedemo di sistemà ‘e cose.»

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All’inizio DeBellis s’era opposto. Cosa c’entro io? Se quello mi vede va a finire a rissa. Puttanate del genere. «Dopo tutto quello ch’ho fatto pe’ te,» disse Elena, «mi devi questo e altro.» «Ma io a te t’ho sempre pagato.» «Nicola,» disse Elena. «Tu mi devi dare ‘na mano, l’hai capito o no?! È inutile che ti metti a fare i soliti carcoli. Te sto a chiede ‘n favore e non ti puoi tirare indietro. Dopo che m’hai aiutato, non ti preoccupà, ti ridò tutti i sordi che m’hai dato, tanto io non li voglio più. Ecco, hai visto? Stavolta sono io a pagarti.» Si misero in macchina. Per prima cosa DeBellis suggerì di andare a Fontana Latrigna. Elena si guardava attorno. A sinistra: la valle enorme, la strada a serpentina male illuminata e gli Appennini sullo sfondo. A destra: il mattatoio dismesso, i bidoni della differenziata e la vecchia discarica. Sperò con tutta se stessa di non vedere la Mondeo accartocciata contro uno dei grossi alberi che costeggiavano la discesa tortuosa che stavano percorrendo. «Forse se n’è andato laggiù,» DeBellis indicò la strada che portava alla Diga del Basentello. «Che vuoi fare, andiamo fino alla Diga?» «È chiaro,» disse Elena. In meno di dieci minuti furono lì. Costeggiarono prima un lato, e niente. Poi attraversarono il ponte. A metà ponte c’era il confine tra Puglia e Basilicata. Elena non aveva mai pensato che Poggiorsini fosse così vicino al confine. Dall’altro lato c’erano delle macchine parcheggiate. Donne che raccoglievano l’armamentario da picnic, vecchi sonnolenti e bambini sfiniti. Giovani innamorati, illusi di essere in uno dei luoghi più romantici al mondo. Pescatori appena arrivati e irritati dalla presenza di quella gente. Elena e Nicola chiesero se qualcuno avesse visto una Mondeo blu scuro. O se avessero visto Bob, un uomo sulla trentina, non-alto, tozzo, i capelli neri con la frangia. Niente. Nessuno aveva visto niente. Né Bob, né una macchina così fuori moda. Continuarono a cercare e Elena continuò a sperare, fino a che il cielo non divenne una buia minaccia e DeBellis la convinse a tranquillizzarsi e ad abbandonare le ricerche. «Vedrai che non è successo niente,» disse Nicola, «e che torna a casa com’ha sempre fatto.» «Come se a te te ne frega qualcosa,» disse Elena. «Se non me ne frega niente di lui, sappi che di te m’interessa. Eccome se—» «Ma statte zitto sta’.»

141 Elena uscì dalla Mercedes Kompressor di DeBellis. «Grazie lo stesso,» disse, prima di chiudere lo sportello. «Bastardo figlio di puttana,» disse Giò Casino, spuntando alle spalle di Elena. «Li stai a rovinare a questi due. Vetepèrìe ca nan ssì jàlte! Sei peggio di tuo padre, sei. A mmùrte!» «No, Giò, lascialo stare, non è come credi.» «Elena, non lo difendere,» Giò le puntò un dito contro. «Io li conosco ai DeBellis. Bella ràzze! Se n’approfittano sempre. Ogni occasione è buona per loro. Vogliono fregare a tutti. È inutile, ce l’hanno nel sangue. Te lo dice Giò Casino. Quelli non hanno rispetto per niente e nessuno. E non riesc—» «Mo m’hai rotto,» Nicola uscì dalla macchina. «Devi dire grazie al cielo che sei vecchio e io non mi metto coi vecchi. Sennò vedevi.» «E vieni, vieni,» disse Giò Casino. «Vieni.» «Parla male dei morti, lui. Persone che non ci sono e non si possono difendere. Parla ancora e vedrai che ti faccio—» «Basta!» urlò Elena. «Nicola, Giò—basta! Giò, sono stata io a chiedergli di darmi ‘na mano ché non riesco a trovare Bob. Siamo andati a cercarlo anche alla Diga, ma gnente. La macchina non c’è da nessuna parte. Se n’è andato a pomeriggio e non so dov’è.» In quel momento Elena ricordò che Bob le aveva detto che forse non avrebbe cenato a casa. «C’ha il cellulare spento da un po’ e quando era acceso non rispondeva.» «T’aiuto io, figlia mia, non t’incaricare. Ma però a questo lascialo perdere. Ti scongiuro.» DeBellis rientrò in macchina con un ghigno impertinente disegnato in viso. Elena lo fissò come a scrutargli l’anima. Giò Casino fissò Nicola DeBellis in cagnesco, poi ammorbidì lo sguardo e lo spalmò sul volto di Elena. Dammi retta, dicevano i suoi occhi umidi.

142 7

«Toníne, secondo me è meglio se chiamiamo a qualcuno,» disse Cannavaro. «’Na squadra o due. Quelli, manco venti minuti e sono qua. Tanto il retro ce l’ha sottocchio il Biondo e qui davanti stiamo noi. Da dove cazzo se ne devono scappare?» Erano nella X5, appena fuori dal cancello del Bowling. L’orologio segnava le 8:17. «Non si può,» disse Scacco-matto. «Come sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che non possiamo chiamare a nessuno,» Tonino accese una sigaretta e abbassò il finestrino. «Ce la dobbiamo sbrigare noi. Tanto, quelli, tre sono. Tre con l’Americano.» «E chi t’ha detto che non c’è qualcun altro con loro? Possono pure avere dei rinforzi, lì, con loro.» «Rinforzi o non rinforzi,» disse Tonino, «sempre che ce la dobbiamo sbrigare noi, da soli.» «Ma perché? Se chiamiamo a Michèle U Rìzze—manco la bocca devi aprire—c’abbiamo il Bowling circondato.» «Puttana Eva,» s’innervosì Tonino. «Come te l’ègghj’á ddéisce?! Non possiamo chiamare a nessuno. Se chiamiamo a qualcuno, don Nicola lo viene a sapere. E se don Nicola lo viene a sapere, capisce pure che qualcosa è andata storta.» «E come facciamo?» domandò Toni. «Li dobbiamo fregare d’astuzia,» rispose Scacco-matto. «Tipo?» «Non lo so. Tipooo… Tipo cheeee…»—un’illuminazione!—«Tipo che bluffiamo.»

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Renato e il Gallo avevano i passamontagna in mano e i giubbotti antiproiettile addosso. Bob li stava fissando con curiosità. A che cazzo servivano i passamontagna? Solo per la scena? «Ehi, Renato,» disse Bob. «Come mai io non c’ho il giubbotto antiproiettile?» DDT lo ignorò. Il Gallo idem. «Non dico di volere un fucile o una pistola, ma almeno il giubbotto, così, per non rischia—» «Bob, stàtte cìtte,» disse Renato. Il Gallo guardò Bob di sbieco. Il Gallo era teso: sembrava essersi appena ripreso da un incubo. «Che succede?» domandò. «Niente,» Renato cambiò piede d’appoggio. «Non si vede anima viva. Però è impossibile che se ne sono andati.» «Perché non proviamo a uscire?» suggerì il Gallo. «Uscire?» disse Renato. «Ma ssì scèime?! Io qua posso stare tutta la notte e domani e tutta la settimana se è necessario. So’ loro che ci devono venire a prendere, mica noi che dobbiamo uscire. Lo so che non è bello a stare qui—pe l’ànsije ca te mànge le ‘ndrèime—però l’unica cosa che possiamo fare no i, ora, è aspettare.» «Rénàte,» disse il Gallo, «io non è che non mi fido di come la vedi tu e di come fai le cose tu—e manco potrei, visto come sono andate bene fino a mo. Però, dico io, non è che quelli hanno chiamato a qualcuno da Trani per circondare il Bowling e mettercelo nel culo?» Il Gallo deglutì. «Nel senso, non è che aspettare va solo a loro vantaggio?» «Tu sai giocare a scacchi?» domandò DDT.

143 «No,» disse il Gallo. «Be’, io sì. Quando giochi a scacchi non è mica come quando giochi a briscola o a tressette. A scacchi ogni mossa va ragionata, va pensata a lungo. E, quello, Tonino, com’è che lo chiamano? Scacco-matto. Scacco- matto perché le cose che fa, lui le pensa, le ragiona. Capito?» «Però,» disse Bob, «finora è lui quello che sta perdendo.» «C’ha ragione,» disse il Gallo. «Sì, ma perdere una battaglia non significa perdere la guerra,» disse Renato, lo sguardo fuori, verso l’ingresso del Bowling. «Bob, quante volte te lo devo dire? Con me tu t’impari a—Oh! Oh! Oh!» Tonino era uscito dalla jeep e assieme a lui quello con la maglia della Nazionale. Renato caricò il fucile con due cartucce magnum. Il Gallo infilò il caricatore nel kalashnikov. Bob a momenti si cagava addosso.

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Tonino si nascose dietro il muretto di cinta del Bowling. Zaccardo corse sul lato del passeggero e ora era lì, in piedi, il canne-mozze in mano, nascosto per metà dalla portiera aperta del SUV, e fissava le finestre del Bowling più vicine. Saranno stati trenta, quaranta metri di distanza. Barzagli si chiese che gittata avesse la sua lupara. «Ehi, Rénàte,» urlò Tonino. «Prima di farti il culo, facciamo due chiacchiere. Mi senti?» Punzecchiare DDT con qualche battuta per indurlo a parlare e quindi a svelare la sua posizione. Questa era l’idea di Tonino. «Tu sèmbe a chiàcchiere vé nnànde,» rispose Renato. Bene. Proprio come voleva Scacco-matto. «Stanno qui vicino,» disse Tonino a Camoranesi. «Dietro a quelle finestre, le prime, qua, quelle ad angolo. Allora mi senti,» urlò un attimo dopo. «Sì, muoviti,» disse DDT. «E il Gallo, mi sente pure lui?» «Tu non ti preoccupare del Gallo,» disse Renato. «Di’ quello che hai da dire, e mùvimene.» Ecco una buona mossa difensiva di Renato. Non dare a capire se il Gallo era con lui o no. «Ok,» riprese Tonino, la nuca poggiata al muretto, il pomo d’Adamo disteso. «Se ‘sta storia finisce male— male per me, dico—tu pensi davvero di riuscire a smerciare la rròbbe senza che don Nicola fa niente? Anzi. Tu pensi davvero di riuscire ancora a camminare, se questa storia finisce male? E poi, come fai a pensare che questa storia finirà bene per te? Come? Siete solo in tre e uno di voi tre è quel tappetto dell’Ameri—» «Noi tre vedrai che vi facciamo il mazzo!» urlò DDT. Ecco una mossa falsa di Renato e un secondo affondo di Scacco-matto. «A vìste?» disse Tonino a Perrotta. «Sono solo loro tre. Non c’è più nessuno. L’ha detto e manco se n’è accorto, il pollo.» «E che facciamo?» disse Nesta. «Aspetta, aspetta,» sorrise Scacco-matto. «Rénàte, facciàme così. Siccome io sono un uomo gènèróse, un uomo miséricordióse—uno che perdona, facciamo che ti faccio ‘na proposta. Senti qua. Dai a Bbob la rròbbe che hai rubato—e se vuoi tieniti un panetto o due per pagarti un viaggio di solo andata dove cazzo vuoi—dagli la rròbbe e fallo uscire qua fuori. Io farò finta che non è successo niente e chiamo le due squadre che stanno venendo da Trani e gli dico che era un falso allarme e che se ne possono tornare a casa. Ah, è vero, tu non lo sai. Sì, hai capito bene: due squadre stanno arrivando da Trani. In cinque minuti circondiamo ‘sto Bowling di merda e po so’ cazzi vostri.» Silenzio. A parte i grilli e qualche auto che sfrecciava sulla vicina statale 98, silenzio.

144 Tonino si sistemò gl’occhiali e strusciò i palmi delle mani sui fianchi. Gli batteva forte il cuore. Lanciò un’occhiata al Bowling e rimase incantato nel vedere il riflesso del tramonto spalmato sulle finestre come miele. Il suo cellulare squillò. Tonino si spaventò e tremò prima di tirare un sospiro di sollievo. «Mòcche a stu tèlèfene,» disse. «Pronto?» «Toníne, io sto dentro,» disse il Biondo. «E da qui vedo la rròbbe e u tavùte. Però a quelli non li vedo.» «E dove cazzo stai?» «Sto dove cadono i birilli. Sai, dove arriva la palla e cadono i birilli, capìte?» «Ho capito…» «Io non ci metto un cazzo a uscire.» «Ehi, Scacco-màtte,» urlò Renato. «Stammi a sentire.» «Aspe’,» disse Tonino al Biondo. «Come pensi che la prenderà don Nicola quando viene a sapere che ti sei fatto fregare il carico, eh?» Renato fece una pausa. «Secondo te, come la prenderà quando io e il Gallo, in segno di pace e rispetto, gli portiamo la rròbbe che Scacco-màtte—proprio lui, il suo uomo migliore, il suo braccio destro, il re delle strategie—s’è fatto fregare da sott’al nàse? Secondo te come la prenderà? Eh? Dimmi un po’. Dimmi, dimmi, non pensi che c’ho un futuro?» Tonino era diventato rosso in viso, imbarazzato, umiliato. Tonino si voltò verso De Rossi, che aveva la lupara stretta al petto, le canne verso l’alto, e lo fissava con apprensione, come se stesse seguendo dei calci di rigore. «U Biònde,» disse Tonino al telefono. «Fai ‘na cóse: entra zitto-zitto e comincia a prendere i panetti e a portarli fuori. Non ti caricare assai ancora non ce la fai e ti fai beccare. Io, da qui, continuo a parlare così quelli rimangono dove stanno, capito? Quando hai portato tutti i panetti fuori, prendili e vattene nel garage dell’hotel dove stavamo noi prima.» «Ok,» disse il Biondo. «Uagliò,» disse Scacco-matto. «Se senti qualcosa o pensi che t’hanno visto, spara. E non ti preoccupare: appena sentiamo qualcosa, cominciamo a sparàre pùre nú. Muoviti, va’.» «Ok,» disse il Biondo, e riagganciò. «Toníne,» disse Renato. «Non rispondi? E che è, da Scacco-matto mo sei Scacco-muto?» «Rénàte,» disse Tonino. «Dici che devi andare a farti bello davanti a don Nicola, allora è meglio se ti tieni le battute per lui. Io t’ho fatto la mia proposta. Se ti piace, fai come t’ho detto; se non ti piace, statti lì dove stai, e tra poco vedrai cosa succede a fare il pagliaccio come stai facendo tu.» Zambrotta venne distratto dal fragore di un tuono lontano e guardò a est, verso il mare. Lì stava già piovendo. Sopra di lui le nuvole si stavano addensando pesanti e livide, sospinte da un vento fresco. Un odore di pioggia aleggiava nell’aria come un presagio—un cattivo presagio.

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Il Biondo fece capolino dal suo nascondiglio: pista numero 7. Era la prima volta che vedeva una pista da bowling dal punto di vista dei birilli. In fondo, sull’approach, c’erano la bara e i panetti di eroina impilati. Un drappo tricolore era appallottolato ai piedi della bara. Il Biondo cominciò a strisciare carponi sulla pista, lo sguardo fisso all’angolo alla sua destra, oltre la sala del bar: da lì sarebbero potuti spuntare il Gallo o DDT. Aveva il cuore in gola e il respiro pesante. A un paio di metri dall’eroina, si tirò su e si guardò intorno, teso. Tonino aveva detto di non caricarsi troppo per non rischiare di far rumore. Ma i panetti erano tanti, una settantina, forse di più. Come cazzo fare? Il Biondo se ne caricò venti. Li teneva contro il petto. Ora non poteva strisciare, né poteva tenere sottocchio l’angolo oltre il bar. Ora si doveva dare una mossa. Arrivato al pin deck, rovesciò i panetti in una busta per l’immondizia.

145 Un altro viaggio—massimo due. Il Biondo strisciò di nuovo verso l’eroina. Si guardò attorno. Niente, non si vedeva o sentiva niente. Perfetto. Caricò un’altra ventina di panetti, e li scaricò. Terzo viaggio. Si caricò e gliene avanzarono sette. Proprio sette, il suo numero preferito. Che fare? “Pure se ne prendo un’o due,” pensò, “comunque devo venire per gli altri.” Scaricò quelli che aveva e tornò indietro. Era a metà pista quando gli parve di sentire un rumore, qualcosa. Andarsene all’istante o muoversi a prendere quei sette panetti di merda? Rischiare o no? Se provava a prenderli e gli andava male, rischiava la vita. Se li lasciava lì, rischiava di far credere a Tonino di esserseli imboscati lui. Una cosa imperdonabile. E poi, se voleva vantarsi con amici e fidanzate, doveva portare a termine il lavoro. Non poteva lasciarlo incompiuto. Le cose incompiute lasciano l’amaro in bo— Ecco dei passi. Di sicuro qualcuno stava andando alle piste. Il Biondo titubò. Che fare? Prendere i panetti e andarsene, o tirare fuori la Beretta e rischiare di— Prendere i panetti e andarsene.

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Da qualche minuto Tonino Scacco-matto aveva smesso di parlare. Il vento sibilava e gli spifferi riempivano l’ufficio del Bowling. «Che si fa?» chiese il Gallo. «Aspettiamo,» disse Renato. «Ma non hai sentito che stanno venendo due squadre da Trani?» «E che vuoi fare?» Renato accese una sigaretta. «Quando arrivano, vediamo.» «Ma non avete caldo con quei passamontagna?» disse Bob. «Io sto morendo.» Bob era seduto a terra, le gambe incrociate, preda di brividi freddi e caldane improvvise. Aveva ascoltato anche lui la tiritera di Scacco-matto e lo aveva detestato. Ricordando la pera forzata di eroina, s’era maledetto per non essersi ribellato o vendicato. Avrebbe voluto fargliela pagare—a lui e a don Nicola—ma gli mancava il coraggio. Perché era un vigliacco senza palle? Si nasceva vigliacchi o lo si diventava? Perché non s’era opposto alla scelta di Elena di prostituirsi? Perché non aveva mollato tutto e se n’era andato lontano da lei? E perché, appena saputo della proposta indecente di DeBellis, non era andato da lui e gl’aveva spaccato la faccia? Perché era un codardo. Che altra risposta poteva esserci? «Renato, please,» disse Bob. «Fammi fare solo un tiro, una cosa, ti prego, sto morendo.» «Ma che, ti sei fatto prima di venire?» «No.» «Cazzate,» disse il Gallo. «Si vede che ti sei fatto. Sicuro.» «Va be’, sì, cioè, solo una cosa piccola…» «Ehi, Renato,» disse il Gallo. «Ma com’è che chi tocca l’eroina diventa subito bugiardo? Cazzo, è ‘na cosa proprio automatica. Névvére Bob?» «Renato, solo un po’, almeno per calmarmi, ti prego.» DDT annuì: un vero boss doveva dimostrarsi anche magnanimo. Bob si alzò e si diresse felice verso le piste, verso l’eroina.

Bob era arrivato al bancone del bar quando notò il ragazzino che Tonino aveva definito pedone, quello che non mancava una volta di sgamarlo, in piedi vicino alla bara, dei panetti di 999 tra le braccia. La sua chioma bionda riluceva nella penombra della sala delle piste.

146 I due si fissarono, immobili e muti. Nei loro sguardi, empatia. Che cazzo ci facciamo qui? Chi cazzo ce l’ha fatto fare? «C’ho ‘na pistola,» disse il Biondo. «Renaaatooo!» urlò Bob. Il Biondo sbarrò gl’occhi e ricordò quello che gli aveva detto Tonino: “Se ti beccano, spara.” Per sparare, però, avrebbe dovuto mollare i panetti e tirar fuori la Beretta. “Vattìnne,” pensò. Fatto nemmeno un passo, si sentì trattenere la caviglia da qualcosa e cadde di faccia sul legno della pista. I panetti gli sfuggirono di mano e in bocca sentì il sapore del sangue. Si guardò i piedi. «Bandiera di merda,» disse, notato il tricolore attorcigliato alla caviglia. Il Biondo liberò il piede e si rialzò. Bob era ancora lì, impietrito, e lo fissava. Il Biondo raccolse i panetti e corse lungo la pista numero 7—il suo numero preferito. Bob urlò di nuovo, ma il nome di DDT venne sovrastato da una scarica di proiettili. Era il Gallo—gambe divaricate, denti stretti e kalashnikov. Bob non l’aveva nemmeno sentito arrivare. Il corpo del Biondo tremò come preda di una crisi epilettica per un paio di secondi, poi cadde a terra, sollevando una nuvola di polvere bianca che lo inghiottì, prima di ricadere come neve sul suo cadavere.

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«Porca puttana,» disse Tonino. «Hai sentito?» «Andiamo,» disse Gattuso. «Le finestre,» disse Tonino. «Prima le finestre.» Grosso imbracciò la lupara e sparò. Uno, due colpi. Le finestre dell’ufficio del Bowling esplosero all’istante. Il suono di vetri rotti fece eco a quello sordo della doppietta. I due corsero verso le finestre—Scacco-matto con la sua M9 ancora fredda, Materazzi con la lupara fumante—e si ripararono dietro il carro funebre parcheggiato lì vicino. Nesta caricò la lupara. «Mi piace assai l’odore di polvere da sparo,» disse. «Dobbiamo entrare da qui, dalle finestre,» disse Tonino. «Tu coprimi ché io provo a saltare dentro.» «Toníne,» disse Zambrotta. «Di’ la verità: un poco d’azione ci voleva.» «Muoviamoci,» disse Scacco-matto. Camoranesi spuntò da dietro il carro funebre ed esplose un colpo. Tonino corse sotto la prima finestra, si aggrappò al davanzale e, dopo il cenno d’assenso di Pirlo, saltò all’interno e si nascose dietro la scrivania. Silenzio. Trattenendo bestemmie e urla di dolore, Tonino si tolse qualche scheggia di vetro dai palmi delle mani.

Renato non fece in tempo a chiedersi che cazzo gl’era saltato in testa al Gallo, che si ritrovò sotto una pioggia di vetri. Si riparò spalle al muro fuori dall’ufficio. Sentiva il cuore andare a tremila e le mani sudate stringere il Breda. Piccoli e grandi pezzi di vetro erano impigliati al passamontagna. Ecco che l’agguato—come l’aveva chiamato lui—entrava nel vivo. Il Gallo raggiunse Renato, ancora immobile accanto all’ingresso dell’ufficio. «Ch’è successo?» chiese Renato. «Ci stavano per fottere la rròbbe,» disse il Gallo. «Tu, tùtte a ppòste?» «Sst,» Renato fece mezzo giro su se stesso e con le canne del fucile spalancò la porta semiaperta dell’ufficio. Una rapida panoramica all’interno: il muro perforato qua e là, vetri rotti ovunque: sul pavimento, sulla scrivania, sugli scaffa—

147 Ecco un’ombra avvicinarsi al davanzale della seconda finestra. DDT si voltò verso il Gallo e portò l’indice sulle labbra. Passarono tre secondi. Prima della pelata o dei baffi, Renato vide l’azzurro della maglia della Nazionale e premette il grilletto, centrando il bersaglio in pieno volto. Il rinculo del fucile lo spinse un passo indietro. Cannavaro, invece, cadde due metri indietro, la faccia spappolata. «Ah ah,» il Gallo entrò nell’ufficio. «Mo voglio vedere a Scacco-matto cosa pensa.» «U Gàlle,» disse Renato. «Ma ssì tùtte scèime?! Addò vé? Vieni qua, cazzo!» «Rénàte, lo scacco matto glielo stiamo facendo noi,» disse il Gallo. «Due a zero. Ah ah.» «Ride bene chi ride ultimo,» disse Tonino da dietro la scrivania. Puntò l’M9 alla testa del Gallo e lo freddò con tre colpi. Pam, pam, pam! Parti di cervello intrise di sangue schizzarono fuori dal cranio del Gallo e si spiaccicarono contro le pareti. Il cuore in gola, Renato si riparò all’esterno dell’ufficio. Il Gallo cadde sulle ginocchia, esanime, poi rovinò faccia a terra. Dal foro sulla nuca sbuffò una piccola spirale di fumo. «Due a uno,» disse Tonino. Poi si chiese che parole usare con la moglie di Gilardino.

Bob non ci capiva più un cazzo. In che casino s’era andato a cacciare? Come aveva fatto a sottovalutare Tonino, Renato e i loro tranelli? Bob s’avvicinò al cadavere del ragazzino. Mai visto un morto ammazzato in vita sua. Mai visto un corpo trucidato da una mitragliata. Osservando la pozza di sangue dipanarsi e assorbire l’eroina, Bob pensò agli scacchi e alle battute presuntuose di Scacco-matto. Battute presuntuose ma veritiere. La partita volgeva al termine ed ecco che saltavano le prime teste. Il sacrificio del pedone, mandato al macello in difesa del re. Bob tremava, un misto di ansia agitazione e astinenza. Fissò i panetti sventrati dalla scarica del Gallo. Notò che sul cellofan di ogni panetto c’erano scritti con un pennarello rosso i numeri 999. “Che cazzata,” pensò. S’inumidì l’indice destro, lo infilò in uno dei panetti e lo portò alla bocca. Succhiò la roba e la buttò giù. Ottima. Se solo avesse avuto una spada… Bob deglutì ancora e respirò. Prima un rigurgito, poi la calma. Gli si stavano per chiudere gl’occhi quando sentì uno sparo, seguito a breve distanza da tre colpi dal suono più acuto e piatto. Spaventato a morte, si andò a nascondere dietro la bara.

Renato si tolse il passamontagna e lo buttò a terra. Era un bagno di sudore. Aveva il respiro pesante e sentiva la vena del collo pulsare e i nervi dietro la nuca tesi, pronti a schizzare. Per far uscire Tonino allo scoperto, doveva allontanarsi dall’ufficio, magari andando a ripararsi dietro i divanetti del bar nella sala delle piste. «Scacco-màtte,» disse Renato. «Dove stanno le squadre? A me mi sa che tu ssì tùtte chiacchijere.» «Non ho bisógne delle squàdre,» disse Scacco-matto, strisciando carponi sul pavimento ricoperto di vetri, l’M9 puntata verso l’ingresso. «Io, a uno alla volta, vi faccio a tùtte quànde.» Tonino sparò due colpi e si tirò su, appiattendosi contro il muro. «DDT,» disse. «È inutile che ti nascondi: io ti trovo lo stesso. Vieni fuori! Vieni qua!» Silenzio. Renato s’era accovacciato dietro il divanetto di fronte alla pista numero 10, l’ultima. Lanciata un’occhiata alla bara, aveva notato Bob steso sul pavimento. «Bob,» lo chiamò. «Dove sta la rròbbe?» Bob aprì gl’occhi. «Bob! Bob, addò stè la rròbbe? Tonino sta arrivando. Muoviti, che cazzo fai? Alzati e vai vicino a lui. Capito? Digli scusa e avvicinati a lui, muovi—» «What?» disse Bob. «Quello m’ammazza se mi vede.»

148 «Bob,» Renato gli puntò il Breda contro. «Vedi se ti muovi, se no t’ammazzo io. Muoviti, alzati, e fatti vedere.» «Ma io…» Bob non finì la frase e si alzò. Nel vedere il fucile puntato contro, si sentì mancare. «Muoviti,» disse Renato, lo sguardo da invasato. Bob fissò DDT e si rimproverò di essersi fidato di lui. Era chiaro che non glien’era mai fottuto un cazzo. Renato e Scacco-matto l’avevano sfruttato per regolare i conti tra loro. Prima Renato lo presenta ai tranesi, e gli stronzi gli fanno la pera d’eroina; poi Tonino gli promette la roba del tenente, e Renato lo convince a rubarla. Che coglione era stato. Ingannato dall’astuzia di uno e dall’amicizia interessata dell’altro. Come aveva fatto a non capire? Bob superò la bara e ora era a metà strada tra Renato e l’ingresso della sala delle piste. «Ma perché non vi mettete d’accordo?» disse Bob. «Ci dev’essere un modo per—» «Non c’è nessun modo,» disse Tonino, emergendo dal buio con la pistola spianata. Tonino puntò la M9 contro Bob e sondò la scena. La bara chiusa, il tricolore a terra, i tavolini e i divanetti del bar. Sulla pista numero 7, il suo pedone preferito era riverso in una pozza di sangue. Trucidato senza pietà. C’era della polvere bianca attorno al cadavere, ma non troppa. Dov’era il resto? Ancora nella bara o il Biondo era riuscito a metterne un po’ in salvo? Scacco-matto ingoiò amaro. Bob aveva le mani in alto e non si teneva in piedi. Gli tremavano le labbra, la vescica pulsava. Scacco-matto si sistemò gl’occhiali e si passò una mano tra i capelli, alternando lo sguardo da Bob al vuoto della sala in penombra. Con una guancia sul pavimento, Renato fissava i piedi di Tonino, minuscoli da quella distanza. Delle gocce di sudore gli scivolarono dalla fronte sulla tempia e nell’orecchio. «DDT, se non esci faccio fuori all’Americano—te lo giuro,» Tonino doveva farlo parlare per capire dove cazzo s’era andato a nascondere. A quale altezza, di fronte a quale pista. «Esci e vieni a risolvere ‘sta situazione faccia-a-faccia, da uomo. Se no, davvero, non te lo dico più, faccio fuori a Bob—e poi pure a tté.» Tonino afferrò Bob dalle spalle e gli poggiò la pistola alla tempia destra. Bob sentì il gelo dell’arma sulla pelle e si pisciò addosso. «Rénàte,» disse Scacco-matto. «Se non mi vedi, sappi che c’ho la pistola alla testa di Bob. Se non esci, lo faccio; e sarà solo colpa tua.» DDT non parlava, non fiatava. DDT aveva imparato la lezione. «Dove cazzo sta?» chiese Tonino a Bob. «Dimmi dove cazzo sta, che forse ti salvi.» Bob tremava e sentiva le gambe bagnate di piscio e non riusciva ad aprir bocca, a parlare—non riusciva a respirare. Tonino gli fece la stessa domanda un’altra volta. Niente. Bob era paralizzato dalla paura. «Ma vaffangùle!» Scacco-matto colpì Bob col calcio della pistola. Bob cadde su un fianco e portò le mani alla nuca, urlando di dolore. Si guardò i palmi delle mani ricoperti di sangue scuro e caldo—del suo sangue. Bob pianse e singhiozzò. «Porca puttana, mo pure a piangere ci mettiamo— Nooo!» Scacco-matto scoppiò a ridere. «Ma quella è pipì! Ti sei pisciato addosso!» Anche Renato rise, ma silenzioso. Quel Bob l’Americano era proprio un personaggio. Tonino tirò su Bob—che mugugnava e teneva le mani sulla ferita—e gli disse: «Dimmi un numero, Bob. Lo so che lo sai dove sta: dimmi un numero. Non hai visto che non ha risposto? Quello non se ne fotte un cazzo di te. Sono io che per ora t’ho risparmiato; ma se era per lui—ciao!, tu avevi già consegnato le targhe. Un numero, su.» «L’ultima,» Bob fissò la bocca della canna della M9 di Scacco-matto e s’asciugò le lacrime col dorso della mano. Tonino osservò le piste e le tabelle numerate che le sovrastavano. «La dieci?» chiese. «L’ultima,» disse Bob.

149 Tonino lo spinse con uno strattone e Bob cadde di culo a terra. Tonino fece un paio di passi verso la pista numero 10. Bob lo seguiva con lo sguardo, strisciando per andarsi a riparare dietro la bara. Ecco il finimondo. Tonino aprì il fuoco e scaricò l’intero caricatore sui divanetti di fronte alla pista numero 10. Poi s’acquattò dietro un divano per ricaricare l’arma. Renato uscì allo scoperto, sparò due cartucce e si nascose. Tonino si tirò su, mirò e scaricò un altro caricatore, gl’occhiali che gli scivolavano sul naso. Poi toccò di nuovo a Renato. Continuarono così. Scariche di proiettili e il suono metallico dei bossoli sul pavimento. Fucilate e lampi di luce. Brevi pause e puro furore. Vetri, specchi e bottiglie di liquori in frantumi; sedie, tavolini e divani distrutti. Passi frenetici e cadute rovinose. L’eco grottesca dei le mùrte ca tìne e dei u pecciòune de màmete. Bob era piegato in due dietro la bara, le mani sugli orecchi. Il rumore dei proiettili era ovattato ma spaventoso. L’odore di polvere da sparo riempiva il Bowling, acre e intenso. Bob tremava e aveva la gola secca. Voleva una pera, per sedarsi e dimenticare quella sparatoria. Dimenticare d’essersi pisciato addosso dalla paura. Dimenticare che era colpa sua se il pedone biondo era morto. Voleva una pera per ritrovarsi tra le braccia di Elena e dimenticare tutto. Silenzio. Per un attimo Bob credette di essersi narcotizzato al solo pensiero di una spada. Attese qualche secondo e si tirò su, una mano alla nuca. Con lo sguardo cercò Tonino e Renato e non vide nessuno. Solo piccoli banchi di fumo sollevarsi dai divanetti, il pavimento ricoperto di pezzi di intonaco, schegge di vetro, cartucce vuote e bossoli; le pareti forate, gli schermi di un paio di televisori rotti, sedie e tavolini rovesciati. Silenzio. Un silenzio troppo lungo per non essere definitivo. «Ehi,» disse Bob. «C’è nessuno?» Bob s’avventurò tra quello che rimaneva del bar, trascinando i piedi come uno zoppo. S’era solo pisciato addosso ma gli pareva d’aver perso una gamba. Da lontano vide un corpo steso a terra, tra un tavolino e un divano. Era Scacco-matto, morto. Tonino aveva la gola tranciata sul lato sinistro, la testa in una posa innaturale. La spalla destra era una ferita aperta e pulsante. Bob notò il contrasto tra il rosso della carne e il pallore della clavicola che spuntava dallo squarcio. Prima di cercare Renato, Bob si chiese cosa potessero significare le lettere SCU scritte al posto di INRI sul grande crocifisso tatuato sul petto di Tonino. Sono Comunque Unico? Scacco-matto Criminale Unico? Bob s’avviò verso il fondo della sala, più o meno dove aveva visto Renato l’ultima volta. Non ci volle tanto a trovarlo. Renato era lì, seduto a un divano, la testa china, il fucile ancora tra le mani, gocce di sangue e cartucce vuote tra i piedi. Un paio di pallottole erano conficcate nel giubbotto antiproiettile. Bob si abbassò e guardò Renato in faccia. DDT aveva gli occhi spalancati, sbarrati, come se fosse riuscito a vedere il proiettile centrarlo sotto l’occhio sinistro, tra naso e zigomo. Persino da morto, DDT sembrava nervoso. Bob ricordò il primo incontro con Renato a Poggio Rock, secoli fa. «Proprio due strateghi di merda,» disse, scuotendo la testa. Fino a mezz’ora prima non aveva mai visto un morto ammazzato e ora era già a quota tre. Roba da record. Le sirene della polizia penetrarono nel Bowling da lontano. Bob si riprese dal torpore e s’incamminò lungo la pista 8, passando accanto al Biondo—che doveva aver lasciato l’eroina da qualche parte. Bob arrivò al pin deck della pista e vide la busta dell’immondizia coi panetti di 999. «Tra i due litiganti, il terzo gode,» disse. Si guardò indietro e pensò che quello che aveva vissuto e stava vivendo doveva essere un sogno. Il feretro di un militare caduto in guerra al centro di una pista da bowling con tre morti ammazzati e polvere bianca mescolata a sangue? Doveva essere un sogno, un incubo. Non poteva essere la vita. E se era la vita, allora non poteva c’entrare ancora una volta quella zoccola di Sirio. No, proprio no. Bob raccolse a fatica la busta con l’eroina e montò sullo scooter del Biondo, poggiato al muro esterno del retro del Bowling. L’aria era fresca e riabilitante. Il cielo plumbeo.

150 Bob respirò e inspirò, cercando di sciogliere la tensione. Le sirene della polizia si facevano più vicine e più assordanti. Doveva andarsene di lì e andarsene ora.

Nel parcheggio dell’hotel Appia Antica poggiò lo scooter contro il reticolato, scaricò l’eroina nel bagagliaio della Mondeo e si avviò verso Poggiorsini, svoltando appena fuori dal parcheggio nella ex statale 98. Bob era nervoso e teneva gl’occhi più sullo specchietto retrovisore che sulla strada. Morti ammazzati, eroe di guerra oltraggiato, chili e chili di eroina. Ma in che razza di casino s’era andato a cacciare? Appena nelle Murge, la tensione gli scivolò di dosso: era salvo. Nelle Murge si sentiva protetto come tra le mura di casa—il mondo esterno incapace di addentrarsi in quel territorio desolato e ostile. Accese lo stereo con le idee chiare: Paranoid dei Black Sabbath.

Finished with my woman ‘Cause she couldn’t help me with my mind People think I’m insane Because I am frowning all the time

All day long I think of things But nothing seems to satisfy Think I’ll lose my mind If I don’t find something to pacify

Can you help me occupy my brain? Oh yeah

Se mai avesse avuto un gruppo rock tutto suo, assieme a I gotta move dei Kinks, Paranoid sarebbe stata una delle cover che più gli sarebbe piaciuto suonare.

151 8

L’ululato di un cane ruppe il silenzio. Elena si svegliò di soprassalto. Era la cagna amica di Bob? Forse. Un sogno strano. Un sogno che non ricordava. Ricordava solo che qualcuno stava bussando alla porta. Qualcuno stava urlando il suo nome. La voce di questo qualcuno era quella di un ragazzo. Accanto a lei il vuoto. Bob non era rientrato a dormire. Le preoccupazioni di Elena s’amplificarono istantanee. Sentì una bolla d’ansia crescerle nel petto. Una bolla piena del vuoto che le stava accanto. S’alzò dal letto e andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua. «Elena! Elena!» sentì urlare. La stessa voce del sogno! Gli stessi colpi sulla porta! Aprì la porta. Era il ragazzino che abitava nel suo palazzo, al terzo piano. Quello che non mancava una volta di farle apprezzamenti spinti, il figlio di Cosimino. Il ragazzo aveva il fiatone, non riusciva a parlare, era agitato. Con la mano indicava il portone. Tra un respiro e l’altro Elena riuscì a cogliere delle parole: Poggio Rock, Giò Casino, ambulanza. «Non si capisce gnente,» disse lei. «Calmati e dimmi ch’è successo. Vieni, entra, bevi ‘n bicchier d’acqua.» Il ragazzino entrò. Entrando, malgrado l’agitazione, non poté non pensare che Elena era una figa stratosferica. «Allora, dimmi,» Elena era in piedi di fronte al ragazzino, seduto al tavolo della cucina. «Stavo tornando a casa, prima, ‘na mezz’oretta fa—» «E che fai tu in giro a quest’ora? È mezzanotte passata.» «Sì, ma questo non c’entra,» il ragazzino buttò giù un sorso d’acqua. «C’entra Bob.» «Bob? E ch’è successo? Dimmi, dimmi.» «È stato portato in ospedale da un’ambulanza.» «In ospedale?! Oh mio dio, e ch’è successo?!» «Non lo so. Stavo tornando a casa. So’ passato davanti a Poggio Rock e ho sentito la musica a tutto volume. Mi so’ avvicinato e ho provato a vedere se c’era Bob ché gli volevo chiedere ‘na sigaretta. Però non lo dire a mio padre—della sigaretta, dico.» «No. Muoviti, vai avanti.» «Mi so’ affacciato e ho visto Bob a terra. Proprio steso a terra, come se era caduto o qualcosa del genere. Ho bussato forte e lui non si svegliava. Non si muoveva proprio. Poi ho visto che in bocca c’aveva ‘na schiuma bianca e un po’ mi so’ cagato addosso. Cioè, nel senso…» Elena sentiva il cuore sfondarle il torace. Elena deglutì amaro. Com’era potuta accadere una cosa del genere proprio quel giorno? Proprio il giorno che aveva saputo di quello che faceva Bob, dell’eroina. Era una questione di telepatia? O erano le stelle e i pianeti a combinare certe coincidenze? C’era lo zampino di quella zoccola di Sirio anche in quello? «Allora sono venuto qui a chiamarti, ma tu non rispondevi. Ho bussato e bussato e ho gridato un sacco di volte, ma tu niente. Poi, siccome gridavo forte, coso, lì, Giò Casino è uscito e m’ha chiesto cos’era successo. Io gliel’ho detto e lui ha chiamato l’ambulanza. Poi è uscito e siamo andati al negozio. Dopo che si sono portati a Bob in ospedale—e Giò Casino se n’è andato con lui—so’ venuto qui per dirti cos’era successo.» «Bravo,» disse Elena con quel poco d’ossigeno rimastole. «Sei stato davvero bravo. Grazie.» «E non me lo dai un bacio? O na carezza?» Elena sorrise e lo baciò sulla guancia.

152 «Non sulla guancia,» disse il ragazzino. «Qui,» e indicò il pisello. Elena gli mollò uno schiaffo, lo cacciò e se n’andò in camera a vestirsi.

153 9

I medici dell’ospedale di Gravina avevano assicurato Giò Casino che Bob si sarebbe ripreso nel giro di poche ore. Il naloxone era rapido ed efficace. Non c’era bisogno di tenerlo ancora lì. Poteva tornare a casa senza problemi. I medici diedero a Giò sei fiale di naloxone. Una ogni due ore. Gli dissero che se ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto comprarlo in qualsiasi farmacia: era un medicinale da banco: non ci voleva la ricetta medica. Poteva somministrarglielo con delle iniezioni o per via nasale con un nebulizzatore, una macchina per aerosol. Una sola controindicazione: il naloxone fa precipitare le crisi d’astinenza.

Dopo le parole rassicuranti dei medici, Giò Casino chiamò Elena e la tranquillizzò. Le spiegò che Bob aveva avuto un’overdose e che ora stava bene. Il naloxone faceva miracoli. Poi le chiese il permesso di potersi occupare lui, in prima persona, della riabilitazione di Bob. «Non è che, figlia mia, credo che tu non sei capace, eh,» disse Giò. «È solo che c’ho ‘n amico che di queste cose se n’intende. C’ha ‘na bella villa in mezzo ai boschi di Monticchio, poco lontano da Poggiorsini, e avevo pensato che lo potevamo portare lì nu poco di giorni e vediamo d’addrizzargli la camminata. Non so se mi capìsce a mmé?» «E dov’è di preciso ‘sto posto qui, Monticchio?» domandò Elena. «Fammi contattare il mio amico, prima. Vediamo se ci può darci ‘na mano e poi ti faccio sapere. Ti do l’indirizzo e tutto, capito?» «Ok. Grazie Giò. Grazie infinite.» «Non mi ringraziare, Elena. Pensa solo a stare lontano da quel DeBellis e pensa a salvare la tua famiglia— ché siete giovani e c’avete tutta la vita davanti.» «Non ti preoccupare, Giò, ora voglio sistemare le cose.»

  

Giò Casino e l’amico Sante Basile si salutarono e abbracciarono come bambine sdolcinate. Si squadrano l’un l’altro e si riverirono. Non sei invecchiato per niente dall’ultima volta. Sembri ancora un giovanotto. Puttanate del genere. Bob li fissava sconcertato. Che ci faceva, lui, con quei due vecchietti? Quando s’era riappacificato con Giò Casino? Cos’era successo? E perché si sentiva stralunato e debole? In mente si accavallavano immagini e ricordi confusi. Gli occhi sbarrati di Renato e la chioma bionda del ragazzino ammazzato dal Gallo. Il suono dei proiettili e l’odore di polvere da sparo. La bara, il tricolore, il bordello nel Bowling. Gli occhiali rossi di Scacco-matto aperti in due e la busta con l’eroina. I numeri 999 scritti in rosso e il borsone dell’Alpitour. La necessità di rivendere la droga a don Nicola. Elena. Elena. Dov’era Elena? Perché non era lì con lui? Era davvero tutto finito tra loro? Dallo sgretolamento del loro rapporto non era avanzato nemmeno un briciolo di compassione? «Piacere di conoscerti, Bob. Sono Sante Basile, un vecchio amico di Giò.» «Piacere,» Bob gli strinse la mano.

154 Per essere un vecchio la stretta di mano era energica. Troppo energica. «Giò, ma Elena dov’è?» domandò Bob una volta entrato in macchina coi due. «Non ti preoccupare per Elena,» disse Giò. «Ora tu devi stare con noi. Lei ti viene a trovare presto, non ti prendere bile.» «Stare con voi?» disse Bob. «Che vuol dire? Io c’ho da fare.» «Bob, non so se te lo ricordi,» disse Giò, «ma tu hai avuto un’overdose. T’ha trovato il ragazzo che vive al terzo piano, il figlio di Cosimino. T’ha trovato a terra mezzo morto e ha dato l’allarme. T’abbiamo portato qui con l’ambulanza e i dottori t’hanno messo a posto.» «Però,» disse Sante Basile, «ora, per te, viene il peggio.» «In che senso?» «Nel senso che tu quella merda di droga non la tocchi più,» disse Giò Casino. «Uno. E due, ora t’aspettano le cosiddette crisi d’astinenza.» Bob fissava la strada. Bob ricordò d’aver sistemato i panetti d’eroina nel borsone Alpitour e di averlo lasciato dietro il bancone di Poggio Rock. Gli tornavano in mente le parole della prima strofa della prima canzone dell’album Travel with your mind dei Seeds.

I can satisfy you I can satisfy you If you got your radio Turn it on So I can satisfy you, girl So I can satisfy you

Ricordava di aver messo il volume a palla appena finito di preparare la spada. Poi se l’era sparata in vena e tutto era svanito. «Io, Giò, devo sbrigare delle faccende,» disse Bob. «Prometto che non tocco più quella merda, però mi dovete portare a casa, a Poggiorsini.» «Tu non hai capito niente,» rise Giò. Quante persone gl’avevano detto quella cosa? Renato, Tonino, don Nicola, il maresciallo, Giò Casino. Per fortuna che capivano tutto loro. «Senti qua, Bob,» disse Sante. «Mio figlio è morto per colpa di quella droga. Ormai sono ventun anni che se n’è andato, ma non credere che il dolore è passato. Macchè! Mio figlio lo sogno spesso e spesso mi chiedo dov’ho sbagliato. Diciamo così, dov’ho sbagliato come padre. Perché, mi chiedo, perché mio figlio s’è andato a buttare in quella cosa? Forse non gl’ho dato quello che dovevo e lui—Va be’, insomma, questo è per dirti che so di quello che sto parlando e Giò mi ha detto che sei com’un figlio per lui. E io non voglio che il mio amico commette lo stesso errore che ho commesso io. Ché io forse mi so’ accorto troppo tardi che lui mi stava chiedendo aiuto quando mi mandava a quel paese.» «Va bene, ho capito,» disse Bob. «E quale sarebbe il vostro piano?» «Il nostro piano? È semplice: tu stai con noi nella mia villa a Monticchio—con un paesaggio bellissimo in mezzo alla natura—e noi ci preoccupiamo che tu non te ne scappi, che tu non cerchi di andare a trovare i delinquenti che ti danno quel .» “Loro due fermarmi?” pensò Bob. “It must be a joke.” «Bob,» Giò Casino si voltò verso di lui. Bob era seduto al centro del sedile posteriore. «Tu non ti devi preoccupare. Ho già detto a Sante che sei un patito di musica e lui m’ha detto che c’ha ‘no stereo. Névvére?» «Sicuro,» disse Sante. «Sono un patito di musica, è vero,» disse Bob. «Ma non di mazurche o lisci da balera.» «Non t’incaricare,» Sante guardò Bob nello specchietto retrovisore. «Pure io c’ho un poco di rock e roll.»

Le strade si fecero tortuose. La natura rigogliosa. Stavano salendo quota e si sentiva.

155 Giò e Sante chiacchieravano senza sosta. I loro discorsi, valanghe di ricordi impreziositi dalla nostalgia. Le loro voci, una cantilena dolce e anestetica. Bob si addormentò ricurvo sul sedile, e ora russava.

156 10

Saputo della morte di Renato, Elena si precipitò a comprare La Gazzetta del Mezzogiorno. Nell’inchiesta non c’era ancora niente di definito e chiaro. La tragedia, del resto, era successa la sera prima. Di sicuro, però, c’erano i morti ammazzati—cinque, tra cui un ragazzo di 16 anni e quattro pregiudicati—e l’indignazione per l’inspiegabile coinvolgimento del feretro del militare caduto in Afghanistan. La “Tragedia del Bowling” veniva descritta come uno scambio finito male, anche se non erano stati trovati soldi, e la droga rinvenuta era troppo poca per giustificare un massacro del genere. Una cosa era certa: al puzzle mancavano due o tre pezzi fondamentali: i soldi, la droga, e forse una sesta persona, sfuggita alla tragedia e alla polizia. Elena sentiva che Bob—Elena temeva che Bob fosse quella sesta persona. Giò Casino l’aveva chiamata quella mattina e le aveva detto che Bob era finito in overdose. Allora forse la droga ce l’aveva lui? E forse aveva anche i soldi. Elena rifletté sul da farsi. Prima cosa, sbarazzarsi del quaderno del mini-market. Certo, quella era una roba da niente in confronto all’eventuale concorso di Bob alla “Tragedia del Bowling”. Ma se il maresciallo dei carabinieri di Poggiorsini andava a fare un controllo e trovava il quaderno, Elena poteva finire nei guai. Meglio non rischiare. Il quaderno non poteva restare nella cassapanca. Seconda cosa, andare a Poggio Rock. Perlustrarlo in lungo e in largo e far scomparire qualsiasi cosa che potesse collegare Bob a quella storia. Terza e ultima, portare in casa tutti i dischi, l’impianto stereo, le casse, i quadri e i poster del negozio. Poggio Rock andava chiuso, punto. Non si poteva rischiare che Bob continuasse ad avere un bunker in cui rintanarsi. Dovevano ritornare a condividere gli spazi. Dovevano ritornare a essere una coppia a tutti gli effetti. Per giunta, lasciando il negozio avrebbero reciso una volta per tutte il legame tra loro e DeBellis. Tanto gl’affari non andavano bene. Tanto i dischi non si vendevano. Tanto i poggiorsinesi preferivano Gigi d’Alessio ai Black Lips.

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Elena osservò l’insegna del negozio. L’insegna che aveva disegnato lei. Non era male. Lanciò un’occhiata alla Mondeo parcheggiata lì di fronte. La pioggia l’aveva lavata e sulla carrozzeria blu scuro si riflettevano bianche le nuvole. La porta del negozio era chiusa a chiave. Di sicuro era stato Giò Casino a chiuderla. Elena entrò usando la chiave di riserva, quella che Bob teneva nel suo comodino. Erano secoli che non metteva piede nel negozio. Forse dal giorno dell’inaugurazione. Le chiavi della macchina erano sul bancone. Sul pavimento Elena notò una piccola chiazza biancastra. La saliva di Bob. Lo immaginò per terra, privo di sensi, perso in chissà quali mondi—i mondi in cui ti spingeva l’eroina. Lo immaginò lì, solo, moribondo, indifeso. Si sentì in colpa per non essergli stata d’aiuto. Si sentì in colpa per aver deriso le parole di fiducia eterna che s’erano scambiati sposandosi. «Bob, vedrai che ora sistemamo tutto,» disse, incrociando lo sguardo inespressivo di Johnny Thunders.

157 Tirò fuori dalla borsetta il quaderno del mini-market. Per il momento era meglio lasciarlo lì. Cercò dietro il bancone un posto in cui nasconderlo. Gl’occhi caddero su un borsone di pelle della Alpitour, bianco a strisce blu. Lo prese e lo poggiò sul bancone. Prima di aprire la cerniera si guardò alle spalle per sincerarsi che gli scuri fossero chiusi. Elena aprì il borsone e si morse il labbro inferiore. Guardò all’interno. C’erano una cinquantina di panetti avvolti da pellicola trasparente. Su ogni panetto, scritto con un pennarello rosso, c’era il numero 999. Un panetto era stato aperto e si vedeva un po’ di polvere bianca luccicare come neve. Elena chiuse di colpo il borsone. Elena lo chiuse rabbrividendo. Quella era la merda che aveva mandato Bob all’ospedale. Quella era la merda che a momenti lo ammazzava. La merce di scambio che la polizia di Corato non aveva trovato sul luogo della strage. Bob c’entrava davvero con quella storia. Che fare? Consegnarla agli sbirri significava incastrare Bob. Tenerla lì significava rischiare di essere fregati dagli sbirri. Che fare? Sventrare i panetti e rovesciare quella merda nella tazza del cesso? Elena infilò il quaderno del mini-market nel borsone. “Se lo trovano,” pensò, nascondendo il borsone dietro la tazza del cesso, “il quaderno passa in secondo piano.” Rovistò nei cassetti dietro il bancone alla ricerca di qualcos’altro. Alla ricerca dei soldi. O di un’agenda in cui Bob aveva potuto appuntare nomi, numeri di telefono. Alla ricerca di qualcosa. Qualcosa da dare alla polizia in cambio dell’immunità. Elena provò sensazioni contrastanti. Si sentiva una fuorilegge braccata, messa alle strette, ma insieme a tensione e ansia, sentì un’ebbrezza bollente riempirle il petto. Era il dolce brivido del pericolo. Era il richiamo di suo marito. Se s’era innamorata di Bob era anche per quello, perché sembrava che Bob attirasse a sé le avventure più pericolose e assurde. Un po’ come suo padre. Cercò e rovistò senza trovare niente. Solo fogli di carta con nomi di gruppi rock e canzoni, sigarette, accendini, qualche cd graffiato e opaco. Il laptop era in stand by. Elena lo risvegliò e sfogliò la libreria virtuale di musica. Non finiva più. Copertine su copertine. Rock su rock. Trovò un album che non le pareva del tutto sconosciuto, ma che non ricordava. Il gruppo si chiamava Love e il titolo dell’album era Da capo. Schiacciò il play. Primo brano, Stephanie knows who. Un arpeggio di clavicembalo—si chiamava così?—apriva la canzone. Un inizio niente male per un album. Traccia 2, Orange skies. Un pezzo più dolce nella ritmica. Con un flauto traverso. Elena saltò al terzo brano. Di nuovo il flauto traverso. Non le pareva di aver mai sentito quell’album. Ma il flauto profumava di ricordi. Andò avanti, convincendosi che quella era la prima volta che ascoltava i Love. Arrivata a The castle, però, dovette ricredersi. Certo che conosceva quell’album! Quanti pomeriggi passati a fare l’amore ascoltando i Love! Ora ricordava, certo. Ricordava che prima di tuffarsi su di lei e fare l’amore, un giorno, avevano da poco aperto il negozio a Roma, Bob le aveva cantato la canzone She comes in colors, quella che stava ascoltando in quel momento, e le aveva detto che ogni volta che l’ascoltava pensava a lei.

A thought in my head, I think Of something to do Expressions tell everything

158 I see one on you

Whoa-oh-oh-oh, my love she comes in colors You can tell her from the clothes she wears

When I was invisible I needed no light You saw right through me, you said Was I out of sight?

Ecco perché ricordava quel flauto traverso! Peccato che non capiva le parole. Peccato che era una stupida che non sapeva l’inglese e non poteva godersi in pieno quella canzone romantica. “Devo imparare l’inglese al più presto,” pensò, “sennò come cazzo faccio in America?” Mise in pausa la musica e accese una sigaretta. Si stava così bene nel negozio. Era come stare in una chiesa. Una chiesa per niente religiosa. Un posto in cui rifugiarsi quando le cose andavano male. Quando si voleva lasciare il mondo esterno fuori dalla propria esistenza. Come biasimare Bob? Per quello che gl’aveva fatto lei, prostituendosi e trattandolo di merda, andarsi a nascondere tra quelle mura, avvolto dalla musica, da quella musica, era il minimo che uno potesse fare. Il minimo. Elena si odiò. Elena si sentì frustrata. Non sarebbe potuta tornare indietro ormai. La ferita c’era e faceva male. Una cicatrice urticante che solo il tempo, forse, avrebbe potuto rimarginare. «Stupida! Stupida! Stupida!» urlò contro se stessa.

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Elena uscì dal negozio con due cartoni pieni di vinili. «Andiamo da qualche parte?» le chiese qualcuno alle spalle. Elena si voltò. La Fiat Uno dei carabinieri era ferma a centro strada. Dal finestrino spuntava la testa del maresciallo. Il rosso delle sue guance riluceva sotto il cielo carico di pioggia. «Buongiorno, maresciallo.» «Buongiorno Elena. Andiamo da qualche parte? Traslochiamo?» «No,» Elena poggiò a terra la scatola di vinili. «Solo che mi sa che ‘r negozio lo chiudemo.» «Ah sì?» «Sì.» «Che peccato. E come mai?» «Be’, maresciallo, se devo dire la verità, qui, ‘n questo paese, quasi nessuno s’intende di musica—di buona musica. Ché se ce n’era quarcuno ‘n più…» «Ma Bob dov’è? La macchina è qui e a casa vostra non c’è nessuno.» Il maresciallo la fissava, posato e vigile. «Marescià, Bob è stato in ospedale ché ieri notte ha avuto un malore; e ora se sta a riprende nella villa d’un amico.» Elena si domandò se non si fosse sbilanciata troppo. Ma ormai era tardi per ritrattare. «Qui, nel negozio, non c’è. Giusto?» «Gliel’ho già detto: è in una villa di—» «Elena, noi volevamo fare due chiacchiere con lui—niente di grave, non si preoccupi—solo due chiacchiere. Si può sapere si trova di preciso questa villa?» «Maresciallo, io dov’è non lo so.» «Non lo sa?» si sorprese il carabiniere.

159 «No. Ieri notte all’ospedale l’ha portato Giò Casino—er signore che àbbita—» «Lo conosciamo, lo conosciamo. E allora?» «E allora… È lui che l’ha portato all’ospedale; e quando l’hanno dimesso se l’è portato da questo amico suo che dice che c’ha ‘na villa ‘n mezzo alla natura. Però nun m’ha detto dov’è ‘sta villa. E anche se me lo diceva, non penso che mô ricordavo: non ho una buona memoria.» Per la prima volta, avere una memoria di merda le tornava comodo. «D’accordo,» disse il maresciallo. «Appena sente qualcosa da suo marito, appena gli parla, gli dica, per favore, che il maresciallo vuole fare due chiacchiere. E per favore, signora Elena, se vi salta in mente di lasciare Poggiorsini, fatemelo sapere. Ha sentito della Tragedia del Bowling? Ha sentito che Renato Consuelo è stato ammazzato? Allora capisce bene che noi dobbiamo parlare con Bob: loro fino a ‘na decina di giorni fa erano papp’e ciccia… Non so se mi spiego.» Elena rimase immobile e annuì. «Appena lo sento, jô dico,» disse. «Perfetto,» disse il maresciallo. «Grazie.» Elena chiuse la porta del negozio a chiave e si avviò verso il CEP. Una goccia di poggia le cadde sul naso. Un’altra in testa. Le gocce aumentavano. Allungò il passo per evitare di bagnare i vinili. Una volta in casa si godette il secondo acquazzone della giornata. La canicola era davvero agli sgoccioli.

160 11

La villa di Sante Basile era enorme. Circondata da boscaglia, faggi, roveri. Dal terrazzo si vedeva l’abbazia di San Michele Arcangelo, bianca e imponente. Si vedevano anche i laghi di Monticchio. Uno vicino all’altro. Quello grande verde intenso, quello piccolo verde-giallo. Strani. Sconcertanti. Come lo sguardo di chi ha gl’occhi di due colori diversi. Come David Bowie o il padre di Renato. «Bob, la stanza dove starai tu è spaziosa e luminosa,» Sante Basile gli fece strada sulle scale. «E c’ha pure un bagno. Sai, era la stanza di mio figlio, quella.» «Ma mica mi volete tenere chiuso lì dentro?!» «Non c’è altro modo.» «Ma dài…» «Alle finestre ci sono delle grate che non si possono aprire, te lo dico già da ora.» Una villa in mezzo ai boschi. Una stanza chiusa a chiave. Le finestre barricate. Ridicolo. Prima di lasciarlo lì, Sante gli iniettò una fiala di naloxone. Giò Casino seguì la scena battendo i denti. «Bob, noi stiamo nella stanza accanto. Se succede qualcosa, se ti senti male, sbatti i pugni contro il muro del bagno.» «Be’, fatti ‘na bella dormita ora,» disse Giò. «Non ho sonno.» «Stenditi che t’arriva,» disse Sante Basile.

Le prime ore passarono più o meno tranquille. Bob provò a dormire senza riuscirci. Fumò una sigaretta dietro l’altra, nervoso, fissando il panorama striato dalla pioggia battente di quel pomeriggio. Rifletté sul da farsi e, soprattutto, su come darsela a gambe. Doveva trovare una scusa per uscire di lì. Fingere di sentirsi male, molto male, e costringere i due vecchietti a portarlo da un medico, in un ospedale. E una volta lì—via!

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Arrivò la sera e arrivò la prima vera crisi d’astinenza. Freddo. Molto freddo. Bob s’infilò sotto le lenzuola vestito. Tremava. Respirava a fatica e sbadigliava. Sulle labbra una patina di saliva secca. Il naso cominciò a colare. Di colpo sentì un’ondata di caldo riempirgli il petto. Si tolse il lenzuolo di dosso e lo lanciò a terra. Tremava. Sudava e sbadigliava. Il naso gli colava. La frangetta impregnata di sudore. I capelli incollati alla fronte. Pelle d’oca. Nel cervello, immagini sovrapposte. Immagini terribili.

161 Vetri che scoppiano. Renato che gli ride in faccia. Il ragazzino con la gola fatta a spirale. La sua testa che ruota a 360°. «Noooooo!» urlò Bob. «Giò! Giò! Basta! Vi prego, bastaaaaa!» Ecco il caldo. Poi uno sbadiglio. Uno sbadiglio dietro l’altro. Sbadigli duraturi. Tanto duraturi da fargli avvertire un leggero dolore alla mandibola. Ecco il freddo e la pelle d’oca. Bob vedeva il volto senza collo di Tonino a una spanna dal suo. Denti affilati e bava colante dalla bocca. «Tonino, lasciami stare. Lasciami stare!» Si colpì la testa coi pugni. Più volte. Colpi forti, molto forti. Le immagini si diradarono. Freddo—caldo—freddo. Uno sbadiglio. Due. Uno spasmo. I muscoli in tensione. Il freddo, la pelle d’oca. Il corpo trema e il respiro accelera. «Giò! Santeeeee! Bastaaaaa!» Uno sbadiglio. Lungo, sfiancante. Il caldo. Caldane sempre più violente e prolungate. Bob sentiva lo stomaco contorcersi. Passavano i minuti e i conati di vomito si facevano acidi e persistenti. I muscoli tesi. Portò una mano alla fronte: bollente. S’alzò con uno scatto e corse in bagno. Abbassò i pantaloni ma non fece in tempo a togliersi le mutande. Si liberò una scarica di diarrea. «Ohooooo…» L’intestino doleva, e la diarrea continuava. Lo stomaco si attorcigliava, e la diarrea riprendeva. Il viso ricoperto di sudore freddo. Mano alla fronte: gelida. Il caldo proveniva dall’interno. Gli riempiva il petto. Assieme al caldo c’era il cuore che batteva forte ed era sempre più difficile controllare il respiro. Irregolare e sfrenato—aritmico. I muscoli in tensione. Spasmi violenti e incontrollabili lo contorcevano tut— «Aaaaaaaahhhrr!» Mani aggrappate ai capelli, bocca spalancata dal dolore. Un’espressione di terrore misto a incredulità. Come potevano esistere dei sintomi così distinti e feroci? Fuori dal bagno si spogliò. Era nudo, ora. Crollò sulle ginocchia e assisté con orrore allo spasmo dell’intero corpo. Travolgente. Furioso. Un movimento simile a quello di una frusta. Dall’inguine alla testa, per poi tornare indietro fino a contorcergli le budella e a farlo vomitare. «Aaaaaahhhhhh!» sbraitò. «Aahrr!» Vomitava perlopiù acqua. Acqua e aria. Poi solo aria. Poi ancora, solo anima. Credette che pezzo per pezzo l’avrebbe vomitata tutta—acida e codarda. «Mmmmmmmm!» si lamentò.

162 Tornò in bagno. Riempì la vasca e vi s’immerse. Una volta nell’acqua, si calmò. Gli sembrò che tutto fosse finito e che si fosse ripreso. Quella stupida crisi d’astinenza era ormai un ricordo, parte del passato; un’esperienza utile per il futuro. Bussò contro la parete per chiamare Giò e Sante Basile. «Ehi,» disse. «È finita. Giò! Sante! Venite, aiutatemi. Riportatemi a casa.» Bob s’immaginò dentro Poggio Rock. Ecco il borsone bianco a strisce blu. Ecco l’eroina, la sua salvezza. Peccato che quello era solo un sogno ad occhi aperti. Peccato che le crisi d’astinenza erano tutt’altro che finite.

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La mattina dopo. Alle 8:30 Sante e Giò bussarono alla porta della stanza di Bob. Sante aveva preparato la colazione e l’aveva portata su con un vassoio. Una tazza di latte, dei biscotti e un bicchiere di succo d’arancia che traballava instabile. Bob era raggomitolato sul pavimento, nudo, e ostruiva l’ingresso, con le ginocchia al petto e le braccia a braccarle. Giò Casino aprì la porta a fatica e a fatica trattenne il vomito. La puzza era impossibile. Un misto di vomito sudore e merda. Ai piedi del letto una chiazza di vomito trasparente e liquido. In bagno, nella vasca, vomito e merda liquida. Le mutande impregnate di diarrea appallottolate nel lavandino. Gocce di saliva o muco o vomito sparse per tutta la stanza. Bob tremava e aveva le pupille enormi. Il muco che aveva continuato a colare colare colare era ora secco e gli macchiava la guancia destra. I peli del corpo erano tutti ritti. Nonostante il freddo, Bob continuava a sudare e a non volersi mettere niente addosso. Sante poggiò il vassoio sul tavolo e spalancò le finestre. Un’aria fresca di pioggia invase la stanza. Il cinguettio degli uccelli risuonò insistente e fastidioso come una sveglia. Giò e Sante sollevarono Bob di peso. Lo stesero nella vasca che Sante aveva sciacquato. «‘Na bella doccia, ora, ti farà bene,» disse Sante. Bob sentì l’acqua scorrergli sul viso e scivolare dalle spalle sul petto. L’acqua lo stava ripulendo dalle fatiche e l’orrore di quella notte terribile. I pensieri erano rarefatti e non avevano consistenza. Finita la doccia, Bob si sentì meglio. Si specchiò a lungo e si compiacque di sembrare una rockstar. Uscito da quello che non era un bagno ma un camerino, non avrebbe incontrato Giò Casino e Sante Basile, ma una dozzina di groupies mezze nude disposte a tutto. Bob rise di quella sua fantasia. Con la mano sulla maniglia della porta, si fermò ad ascoltare ciò che Sante stava dicendo a Giò Casino. «Se una persona è in salute, diciamo così, con un corpo che non ha problemi, è difficile, quasi impossibile morire o stare male sul serio per delle crisi d’astinenza. Però, Giò, vedi com’è la stanza? È difficile credere che un essere umano si può ridurre a questo. È come se un animale—anche se questa cosa non la vedrai mai in natura—è come se un animale dopo che ha provato del veleno, ritorna dove l’ha trovato e ne prende ancora, per poi stare ore e ore a vomitare, a sudare, a sentirsi morire, ad avere dei crampi fuori dal normale. Capito, Giò? Cioè, quello che voglio dire, è che noi esseri umani siamo complessi e le nostre debolezze ci fanno fare cose che magari gli animali non farebbero mai. Cose che ci fanno sembrare a noi degli animali senza cervello.» «E mo che si fa?» domandò Giò.

163 «Gli facciamo sentire un po’ di musica e gli facciamo compagnia,» disse Sante. «Appena poi riprende a stare male, lo lasciamo solo.»

Bob passò due ore con Sante e Giò. Ascoltarono Celentano, il Quartetto Cetra, Little Tony, e la versione dei Ribelli di Ob-la-di, Ob-la-da dei Beatles. Quando Sante mise una cassetta originale di un best of dei Byrds, Bob chiese ai due di andare. Voleva restare solo e riflettere. Non dovevano preoccuparsi, ormai sapeva come affrontare una crisi d’astinenza. Ascoltò la cover di Mr.Tambourine Man di Bob Dylan e rimase deluso nel constatare che, nella loro versione, i Byrds avevano omesso l’ultima strofa, la più bella. La strofa che gl’era risuonata in testa quando Tonino e don Nicola gl’avevano fatto la pera d’eroina. Let me forget about today until tomorrow. Passò in rassegna la libreria del figlio di Sante. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, un dizionario di latino, uno di italiano, I malavoglia di Verga, un libro illustrato: Flora & Faura del Vulture; cinque romanzi Harmony, un atlante, un sussidiario e due volumi di un’enciclopedia economica. Sulla mensola sottostante erano allineate con ordine delle musicassette—esemplari più unici che rari. Bob sorrise nel leggere i nomi dei gruppi. Erano tutti complessi italiani nati come funghi sulla scia del successo dei più famosi gruppi inglesi o americani degli anni ’60–’70. In prima fila c’erano, in ordine alfabetico: I Camaleonti, Dik Dik, Equipe 84, Formula Tre, I Giganti, Matia Bazar, New Trolls, Nomadi, I Nuovi Angeli, Le Orme, PFM, I Ribelli e I Teppisti dei Sogni. «No way,» disse Bob. Continuò a scorrere. Seconda fila. Tra gl’altri, Collage, I Cugini di campagna, Lucio Battisti, Mina, Rino Gaetano. Rino Gaetano, Aida. Prese la cassetta e la mise nel mangianastri. Un album che Bob conosceva a memoria. Un album del 1977. Bob si sedette ai piedi del letto, lo sguardo fuori dalla finestra, la musica ad alto volume. Giò e Sante gli avevano lasciato una bottiglia di vino. Il vino di Giò Casino—ci mancherebbe. «VINUM ET MUSICA LÆTIFICANT COR,» aveva detto Giò poggiando la bottiglia sul tavolo. Mentre Bob ascoltava Rino Gaetano e fumava, e di tanto in tanto faceva dei lunghi sorsi alla bottiglia, pensava a com’era stato possibile che le cose fossero andate in quel modo. Com’aveva fatto la sua vita a prendere quella piega triste e dolorosa? Com’era possibile che stesse vivendo una vita da cani come quelle che si leggevano nei romanzi o si vedevano nei film? Perché era successo proprio a lui? Perché, dove, quando, cosa aveva sbagliato? Non potevano essere solo i debiti il problema. Com’era potuto succedere? Sua moglie puttana e lui—

Chi mi dice “Ti amo” Chi mi dice “Ti amo” Ma togli il cane Escluso il cane Tutti gl’altri son cattivi Pressoché poco disponibili—

Pensò alla cagna sua amica. Lei, come diceva Rino Gaetano, lei, un cane, era l’unica a stargli vicino dalla prima sera. La cagna era l’unica a soffrire quanto lui. Solo lei avrebbe potuto capirlo e solo lui poteva capirla. Ma la cagna era un animale indolente e sereno. Le amarezze dalla vita, a lei, alla cagna, le scivolavano addosso. “If that bitch can take care of herself—so can I!” pensò Bob. «Perché non torni, qui da meee?! La-eh!» cantò a squarciagola trattenendo le lacrime.

164 Elena non s’era ancora fatta viva. Giò l’aveva tranquillizzato dicendo che sarebbe andata a trovarlo presto, ma Bob si fidava di quelle parole solo in parte. Perché Elena se ne fregava di come stava lui? Perché se ne stava lì a Poggiorsini a coccolare i suoi clienti di merda? Bob avvertì un crampo pungente al polpaccio. Cercò di annientarlo piegando la caviglia in su e in giù un paio di volte. Su e giù. Su e giù. Niente, il crampo si fece più acuto e doloroso. Stese la gamba e fece pressione sulle dita dei piedi, piegandole. Il crampo scomparve e i tendini si distesero. «Porca puttana,» disse, schioccando l’osso del collo.

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Il pomeriggio. Finito Aida di Rino Gaetano, Bob s’addormentò. Quando un’ora dopo riaprì gl’occhi, si fiondò in bagno per non cagarsi addosso. La diarrea era continua. I brividi di freddo idem. I conati di vomito sapevano di vino misto a latte. Dalla stanza accanto provenivano le voci di Sante e Giò. Bob poggiò l’orecchio al muro e ascoltò i due vecchi dialogare. Le loro frasi possedevano il tono pedante della senilità. «Sante, a Poggiorsini non ci sono prospettive per i giovani. Quello è un paese non adatto a chi ha dei sogni. È un paese per vecchi. Tu pensa che lui, Bob, ha aperto un negozio di dischi, Poggio Rock l’ha chiamato, e da quando l’ha aperto—io non lo so di preciso—ma avrà venduto sì e no ‘na ventina di dischi. Ti rendi conto? I soldi non gli bastano nemmeno a pagare l’affitto. E allora s’è ingrafagnato nei debiti. E questo perché a Poggiorsini siamo tutti vecchi che non capiamo niente di musica e non c’abbiamo più sogni.» «Hai ragione, Giò, però anche tu sei sempre stato un uomo con tanti sogni, eppure sei riuscito a vivere bene e in pace in quel paese, anche prima di diventare vecchio. Cioè, voglio dire—» «Sì, Sante, ma io ho dovuto rinunciare ai miei sogni. Tu lo sai che io volevo andare in America. Quando i miei fratelli se ne sono andati e assieme a loro pure i miei cugini, io so’ rimasto a casa coi miei genitori perché ero il più grande e quaccuno doveva rimanere; ma se era per me io me n’andavo. Capito? E per resistere lì, diciamo che io sono dovuto diventare saggio, e ho imparato che un uomo deve sapere quand’è ora d’abbandonare un sogno. Le donne le imbarano prima queste cose, ma però loro sono meno spericolate. Loro, essendo più pratiche, diciamo che è come se c’hanno meno sogni proprio in partenza—come dotazione di partenza.» «Sì, è vero,» disse Sante. «Loro sono più pratiche. Pure mia moglie, in confronto a me, era come dici tu.» Bob pensò a come erano andati i suoi sogni. Bob pensò alla loro dissoluzione. Diventare una rockstar—sogno morto e sepolto. Essere il proprietario di un negozio di dischi cult—sogno messo in pratica già due volte con risultati disastrosi. Anzi, forse aprire quei negozi era stata la sua maledizione. Forse erano i negozi a portargli sfiga. Le stelle, gli astri, come aveva detto Giò, potevano c’entrare o no, ma ogni volta che aveva aperto un cazzo di negozio di dischi, le cose erano andate male. Le cose s’erano rivelate un dis-astro. Bob si sciacquò il viso. Si fissò negl’occhi e non riconobbe nessuno. Chi era? Cosa sapeva di quel volto sfigurato dall’astinenza? Cosa si nascondeva in quegl’occhi scuri e in quelle borse livide? Cosa significava vive— Basta. Basta! Meglio ascoltare i due nella stanza accanto che perdersi nella filosofia più superficiale.

165 «Pensa a come è andata a me,» era Sante Basile a parlare. «Da vent’anni non mi succede un cazzo di niente. Però dai quarantacinque ai cinquanta m’è successo di tutto. Nel bene e nel male, di tutto. Prima muore mio padre e mi lascia i soldi, la villa, i terreni, il ristorante—tutto. Tu pensi, Almeno nella disgrazia qualcosa di positivo. Poi, nel giro di due anni, il finimondo. A un anno dalla morte di papà, perdo mio figlio Antonio per un’overdose, proprio nella stanza dove sta Bob. Due mesi dopo è toccato a mia moglie. Leucemia fulminante. Io non lo so se l’ha scatenata la morte di Antonio, però, nemmeno il tempo di fare le analisi, e mia moglie è morta. Incredibile. Passano nemmeno sei mesi e mi diagnosticano ‘sto cazzo di tumore alla prostata. Un anno e mezzo dopo ero guarito, grazie alla chemio e a tutt’il resto. Poi, da quando ho fatto cinquant’anni, non è successo un cazzo. Niente di niente. Va be’, lo sai com’è quando s’invecchia, i dolori, gl’acciacchi, i problemi non mancano. Ma però non m’è successo più niente d’importante. Dico io, no?, non mi potevano succedere un po’ alla volta le cose? No. Tutte insieme.» «Lo so,» disse Giò. «E poi, Sante, certe volte sembra che le cose succedono sempre agli stessi.» «Come si dice, Giò: Piove sempre sul bagnato.» «Davvero. Tu pensa a ‘sto povero cristo di Bob. Te l’ho detto cosa s’è messa a fare la moglie, no? ‘Na donna bellissima, Sante. Bel-lis-si-ma! Una cosa dell’altro mondo. Eccezionale. E s’è messa a fare la pu—» Bob si coprì gl’orecchi con le mani. Non voleva sentire. Non voleva sentire la conferma del suo fallimento. «Bastaaaaaa!» sbatté i pugni contro il muro. «Bastaaaa!» I due vecchi tacquero. Bob uscì dal bagno e scolò mezza bottiglia di vino. La seconda vera crisi d’astinenza lo stese qualche minuto più tardi.

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La sera. «Bob,» lo chiamò Giò Casino attraverso la porta. «Apri, mo, ché ti devo dire ‘na cosa.» «Lasciatemi in pace,» disse Bob, nudo sul pavimento, il corpo un unico brivido. «C’ho ‘na buona notizia da darti,» disse Giò. «Muoviti, apri ‘sta porta.» «Tanto lo sai che se vogliamo l’apriamo noi,» disse Sante. «Però è meglio se ti dai da fare un po’ anche tu. Così, per riprenderti da solo.» «Andate affanculo!» disse Bob. «Lo senti?» disse Sante a Giò. «Ti mandano a quel paese, ma in verità ti stanno chiedendo aiuto. Me l’ha confermato anche uno psicologo.» «Senti, Bob, se non apri tu, apriamo noi. Su, fai il bravo.» «Fuck off!» «Vai, entriamo,» disse Sante. «Aspetta,» disse Giò. «Gli do la notizia e vediamo se apre o se continua a fare il cocciuto.» «Vai, vediamo.» «Bob, ho sentito Elena e m’ha detto che domani riesce a venire qui con la macchina,» Giò attese una risposta, una reazione che non arrivò. «Dice che ha chiesto un favore all’amica parrucchiera e quella la può accompagnare domani.» Bob si alzò a fatica. Bob s’avvicinò alla porta e s’aggrappò alla maniglia. «Andatevene affanculo!» urlò. «Tu, Sante, Elena, e pure la parrucchiera!»

166 12

Più che chiedere un favore alla parrucchiera, Elena le promise un compenso. «La macchina la metto io, ‘a benzina pure. Tu devi solo guidà.» «Solo guidare? Come se non è niente guidare per cento chilometri.» «So’ ottanta.» «Ottanta, cento. Sempre lì stiamo.» «Allora facciamo così: quando torniamo vengo ar negozio, mi faccio i capelli e ti do pure i sordi pe’ ‘sto favore. Ok?» «E perché mi devi dare i soldi quando torniamo e non prima?» «E se famo ‘n incidente e mi sfasci la machina o mi mandi al pronto soccorso? Mica ti pago se succede ‘na cosa der genere. Ti pago solo se va tutto bene.» Elena si sentì fiera di se stessa. Contrattava come una bandita e pagava a fine lavoro come fanno i professionisti.

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Si persero un paio di volte e un paio di volte contattarono Giò Casino per avere delle dritte. Elena era tesa. Elena era ansiosa di dire a Bob che aveva smesso di prostituirsi e che aveva deciso che la loro storia non poteva finire così, in nessun modo. Loro erano forti. Loro potevano sopportare di tutto. Loro dovevano andarsene in America e ricominciare. Quella era la meta, l’America. Il luogo che avrebbe cancellato le amarezze di quel periodo a colpi di felicità. Elena indossava un vestito di seta marrone a pois bianchi. Le bretelle erano sottili e spesso le scivolavano dalle spalle. Niente reggiseno e niente mutandine. Ai piedi delle paperine. Aveva con sé un giubbottino di renna. All’inizio della salita che portava alla villa di Sante, Elena e la parrucchiera si ritrovarono Giò Casino ad aspettarle. Era seduto su un masso di pietra e teneva le mani poggiate sui ginocchi. Lo sguardo provato e perso in qualche posto. «Ehi Giò,» lo chiamò Elena. «Oh, benedetto il cielo,» disse lui, sollevandosi. Entrò nella Mondeo. Salutò la parrucchiera guardandola nello specchietto retrovisore e poggiò una mano sulla spalla sinistra di Elena. «Alla fine ce l’avete fatta,» disse Giò. «Be’,» disse la parrucchiera, «non è proprio facile arrivare fino qui.» «C’hai ragione, figlia mia.» Elena scese dalla macchina e si stiracchiò. Altrettanto fece la parrucchiera. «Dov’è Bob?» domandò Elena. «Sta sopra, in camera sua.» «Allora andiamo, accompagnami.»

167 «Elena, io avevo pensato ch’era meglio se magari vi facevate due passi qua attorno,» disse Giò. «Ché quello, Bob, non è uscito per niente. Sempre chiuso lì. Certo, siamo stati noi a tenerlo lì, ma sgranchire le gambe nu poco non gli farà male, anzi. Tu che dici?» «Ok,» disse Elena. «Aspetta che lo chiamo.»

Bob scese accompagnato da Sante Basile. Bob aveva addosso un accappatoio bianco. Lo sguardo assente e gli occhi rossi e lucidi. Sembrava avesse pianto per anni. Camminava a stento, la testa china, e una volta al cospetto di Elena non sollevò nemmeno lo sguardo. «Piacere,» disse Sante porgendo la mano. «Sono Sante Basile, un amico di Giò; e da ora anche amico di Bob.» «Piacere, Elena.» «Elena. Giò aveva proprio ragione: sei una bellezza dell’altro mondo.» «Grazie,» arrossì lei. Lanciò uno sguardo a Giò Casino che si tratteneva a una certa distanza. «Invece tu, signorina,» disse Sante, «devi essere la parrucchiera del paese. Bene, bene. Vieni in casa che ti offro un caffè, qualcosa, così lasciamo Bob e Elena da soli.» «Ok,» disse lei. Sante, Giò e la parrucchiera si avviarono all’interno della villa. Elena li seguì con lo sguardo finché non furono scomparsi. Bob si fissava in piedi. Le unghie lunghe e nere. «A Poggiorsini, ieri, ha piovuto tutto il giorno,» disse Elena. «Qui?» Bob non rispose. «Oggi, invece, hai visto che bella giornata? Con questo bel sole che però non è tanto caldo. Poi qui si respira di più.» Bob non disse nulla. Continuò a fissarsi i piedi. «Ti va di fare una passeggiata nel bosco?» chiese Elena, dolce, calma, apprensiva. Bob non rispose. «Come ti senti?» Bob si strinse nelle spalle e sbuffò. «Amore, ti prego, me lo dai un abbraccio?» disse lei. «Ti prego.» «A che serve?» «A che serve? A sentirti di nuovo.» «A sentirmi di nuovo?» «Sì. Io ti amo, Bob. Io voglio che torniamo a vivere felici come prima.» «Non ti sembra troppo tardi, ormai?» «No, Bob, che dici?! Non è troppo tardi. Io ti amo. Lo sai questo?» «Buh, io non so più niente.»

  

S’avventurarono su dei sentieri di terra battuta. Camminarono in silenzio per quasi mezz’ora. Poi notarono i due laghi in lontananza, e su proposta di Elena, li raggiunsero. Ora erano sul bordo del Lago Grande. Elena era aggrappata al braccio di Bob. Bob s’era sfilato il cappuccio dell’accappatoio e faticava a contenere i brividi di freddo e gli spasmi che si rifacevano vivi di tanto in tanto. Si specchiarono nell’acqua piatta. Bob sembrava un fantasma. Elena era la solita figa stratosferica. «Hai notato che l’altro lago è di un colore diverso?» chiese Elena.

168 «Sì,» disse Bob. «E hai notato quanto siamo belli in questo riflesso?» «Elena, tu sei bella. Non io.» Elena sorrise. Elena prese il viso di Bob tra le mani e lo voltò verso di lei. Si fissarono. Cercarono la ragione delle loro sofferenze tra i mille colori delle iridi. «Noi siamo così,» disse Elena. «Io mi vedo riflessa nei tuoi occhi e tu nei miei. Siamo così.» «Uno lo specchio dell’altra,» disse Bob, pensando a I’ll be your mirror dei Velvet Underground. «Sì,» disse Elena. Dopo secoli si baciarono. Dopo secoli Bob strinse Elena a sé e la sentì sua e solo sua. «Bob, dobbiamo ricominciare,» disse lei appena scollate le labbra. «Insieme.» «Ma tu devi smettere di—» «Sssst!» Elena gli poggiò l’indice sulle labbra. «Non lo dire, ti prego. Non dire quella parola. Sì, Bob. Già fatto. Niente più—fine—basta. Però ci so’ tante altre cose che dobbiamo discutere.» «È vero. Anch’io ti devo dire tante cose.» In lacrime, si sedettero a una panchina di legno. Un cigno reale galleggiava nel lago. Il bianco delle sue piume faceva pendant con l’accappatoio di Bob. Elena glielo fece notare. «Il bianco va bene,» disse lui. «Ma il cigno è bellissimo e io no. E quel cigno, bello quantunque, si può scordare di essere più bello di te. Cioè, non ci sono proprio paragoni!» Oh, quanto le erano mancati quei discorsi sdolcinati e melensi. Oh, quant’era amabile sentirsi degli innamorati. Persino rasentare lo stucchevole aveva un che di appagante. «Bob, dimentichiamo quello ch’è successo e ricominciamo. Annamosene in America ‘na bona vorta. Lì ci riprendiamo e le cose vedrai ch’andranno bene. Lì apri un negozio di dischi com’hai sempre voluto e—» «No, Elena,» disse Bob. «Questa è una delle cose che volevo dirti. Non so, ma ho pensato che aprire un negozio di dischi non è quello che voglio. Nel senso, lo so che è sempre stato un mio sogno eccetera, però forse un uomo deve essere in grado di riconoscere quand’è il momento di smettere di sognare.» «Ma, Bob, tu c’hai ‘n sacco de dischi introvabili che in America magari—» «Sì, ma ho pensato che ‘sti cazzo di negozi di dischi mi portano sfiga. Nel senso, hai visto com’è andata? Sempre disastri. E poi, ho pensato che nella vita ho fatto pochi, pochissimi gesti altruistici. Nel senso, ho sempre e solo pensato a me—a noi. Ma non ho mai fatto niente per gli altri, capito?» «E che intenzione hai?» Elena era perplessa e curiosa di sentire che strada voleva prendere Bob per il loro nuovo inizio. «Ho pensato che posso dare tutti i dischi a quel ragazzino che ho picchiato l’altra volta, ti ricordi? Quello che abita nel nostro palazzo, al terzo piano. Capito chi è?» Elena annuì, e ricordò quando il ragazzino le aveva chiesto se sapeva fare i pompini col culo. «Sai che è stato lui a salvarmi? È stato lui a chiamare Giò Casino.» «Lo so,» disse Elena. «È venuto a bussare a casa. Però, Bob, come fa quer ragazzino ad aprire un negozio di dischi lì a Poggiorsini? Hai visto com’è andata a te? Cioè, l’idea è bellissima e me piace ‘sta voglia che hai de… Come si dice quando tu diciamo che vòi ripagà un torto fatto?» «Espiare?» «Espiare? Buh, forse. Comunque, mi piace che vuoi fà quarcosa pe’ quarcuno. Però non penso che quella è la cosa migliore. Il ragazzo deve annà a scuola. Se gli dai la musica, è vero che magari diventa ‘n esperto, però è vero anche che magari decide di non continuà ‘e scuole e rimane ‘gnorante come me, che non so né l’inglese né certe parole in italiano come quella, lì… Espiare?» Elena abbassò lo sguardo. «Forse hai ragione,» disse Bob. «Però, sai, ho pensato che ‘sta storia dei negozi di dischi è ‘na specie di malocchio, di maledizione che mi porto dietro.» «Non so,» disse Elena. «Tu non sei mai stato superstizioso.» «Sì, è vero. Ma co’ tutte le cose che ci so’ successe da quando Giò c’ha detto della canicola e di Sirio e quelle storie là, non mi sento più così sicuro.»

169 «A proposito,» disse Elena. «Sai che domani è l’ultimo giorno della canicola? È sant’Alessandro.» «Vero,» sorrise Bob. «Buh, speriamo. È che m’è venuta in mente ‘na canzone degli Afterhours, Tutto fa un po’ male. C’è ‘na frase che dice Sai che la fortuna è una religione, o ci credi oppure no. E non so, ho pensato che non si può sperare nella fortuna se poi non si crede anche alla sfortuna. Capito?» Elena sbatté le palpebre e arricciò le labbra.

Il cigno non si vedeva più. Sul lago si rifletteva il cielo spolverato di nuvole. Due barche vogavano lasciandosi dietro delle scie che scomparivano dopo pochi secondi. Uno scoiattolo fissava Bob e Elena da debita distanza. «Bello qua,» disse lei. «Sì, hai visto?» «Stare qui è rilassante. E tu come te senti ora? Non t’ho chiesto ancora gnente. È passato tutto? Stai bene? Giò m’ha detto che—» «Sì, sto bene,» disse Bob. «Senti, Elena, facciamo che non parliamo di queste cose. Ormai fanno parte del passato. Un passato di merda, ok, ma sempre passato. Va bene?» A Bob venne in mente Bob Dylan. Let me forget about today until tomorrow. «Sì, però, nô so…» Elena si strinse nelle spalle. «La storia di Renato e der Bowling va risolta in quarche modo.» «Che storia?» «Bob,» Elena lo fissò. «Per ricominciare dobbiamo iniziare ora, in questo momento, a smette di mentire e farci le cose alle spalle. Ho trovato il borsone di pelle ar negozio e ho visto cosa c’è dentro. E la prima cosa che dobbiamo fare è liberarci di quella merda.» «Va bene, hai ragione, è vero: basta bugie. Scusa.» Bob le spiegò quello che avrebbe fatto con l’eroina e le promise che appena lasciato Poggiorsini, le avrebbe raccontato quello che era successo con Renato. Per il momento era più sicuro per lei rimanere nell’ignoranza. Elena fece di sì con la testa e gli raccontò d’aver incontrato il maresciallo. Elena disse che il maresciallo voleva vederlo. Che secondo lei i carabinieri sospettavano qualcosa. «Fuck them,» disse Bob.

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All’ombra di un rovere e circondati da cespugli, Bob e Elena fecero l’amore. Quando lui, baciandola, le sollevò il vestito, lei disse: «Non mi sono messa niente perché speravo in questo momento.» «Hai fatto bene, puledrina,» disse Bob penetrandola. Erano secoli che non lo facevano, e a tutt’e due sembrò come la prima volta.

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«Elena, ti devo confessare una cosa,» disse Bob. Stavano fumando stesi sull’erba. «Dimmi.» «Io… Non so come dirtelo, però, io… io… ti ho tradito.»

170 Il viso di Elena si rabbuiò. Elena si morse il labbro e ripensò a quando Bob aveva mentito a riguardo. Lei sapeva che stavolta non avrebbe sofferto. E sapeva che quello era il prezzo da pagare per ritrovarsi. Se volevano mettere le cose a posto, se volevano tornare a essere quelli di una volta, andavano affrontati questi e altri argomenti spiacevoli. «Quando? Con chi?» «La prima volta è successo prima di sposarci.» Bob valutò l’idea di raccontare tutta la verità. Di dirle che era successo proprio il giorno dell’addio al celibato. Quella serata di merda in quel night di merda. Valeva la pena addentrarsi in dettagli umilianti e svantaggiosi, oppure era meglio sorvolare e— Meglio sorvolare. «Ero ubriaco e non mi ricordo nemmeno com’ho fatto,» disse Bob. «La seconda volta, invece, è successo il giorno della Festa di Poggiorsini. Però non è stato sesso nel vero senso della parola.» «Co una di quelle vacche bionde, vero?» «Sì. Però non c’ho scopato, davvero.» «E cosa?» «Mm… niente, diciamo così… solo sesso orale.» «Si vedeva che erano du’ vacche.» «Amore, mi dispiace. Perdonami.» Restarono in silenzio per due minuti. Si sentiva il fruscio delle foglie, lo sciabordare del lago e il cinguettio assordante degl’uccelli. Di tanti uccelli. «Anch’io ti devo dire una cosa,» disse Elena, mettendosi seduta. «Ti ricordi la storia del quaderno dei crediti del mini-market? Sai che l’avevano rubato e—» «Non me lo dire!» «Sì,» sorrise lei. «Ce l’ho ancora.» «No way!» Bob si tuffò su di lei. «Puledrina mia, ti amo quando fai ‘ste cose così. Sei unica stupenda bella splendida.» Si baciarono appassionati e rifecero l’amore tra i cespugli.

171 13

Sant’Alessandro. Un martire come tanti. E tanti martiri con quel nome. Almeno una trentina. Elena non ne sapeva un cazzo di martiri né se ne fregava. Quello era il giorno che sanciva la fine della canicola e il loro nuovo inizio, punto. Bob sarebbe tornato quella sera stessa. Insieme avrebbero ricominciato. Il sogno di andare in America non era mai stato così tangibile. La sera prima, quando s’erano salutati, Elena aveva visto negl’occhi di Bob la stessa luce che l’aveva stregata anni prima. La luce del sognatore. La luce dell’ambizione. E s’era commossa nel sentire il tono di supplica che Bob aveva impiegato nel chiedere a Sante Basile di lasciarlo andare via con lei. Ma il vecchio era stato inamovibile. Bob doveva restare lì con lui almeno un altro giorno. Elena, Giò e la parrucchiera se ne potevano andare —se ne dovevano andare. Invece lui, Bob, doveva restare: un solo giorno poteva fare la differenza. Non c’era da preoccuparsi, a Poggiorsini ce l’avrebbe riportato Sante stesso. Elena non s’era opposta e aveva accettato quelle che le erano sembrate le raccomandazioni di un medico. Le raccomandazioni di un padre.

Appena sveglia, quella mattina, la mattina del 26 agosto, Elena corse al mini-market. Erano le 8:45 quando entrò. Alle 8:55 il carrello era già pieno. Tra le altre cose, comprò una tovaglia a quadri rossi & bianchi e una bottiglia di Verdicchio di Jesi. Con la bottiglia, in omaggio, c’erano due tulipani da quattro soldi. «Sei allegra, oggi,» disse Uccio da dietro il banco dei salumi. «Ora che t’ho visto so’ già più triste,» rispose Elena, acida. «Fammi du’ etti di Parma e dimmi dov’hai messo i meloni.» «Elena, scusa, ma t’ho fatto qualcosa?» «No. Però non mi dà troppa confidenza. Fai ‘r tu’ lavoro e basta.» «Cacchio che professionista,» la punzecchiò il Rabbino. «La vòi finì?!» disse Elena. «Ok. Scusa.» Uccio si prodigò ad affettare il prosciutto crudo. «È due etti e cinquanta,» disse. «Va bene lo stesso?» «Essì, tanto voi commercianti siete tutti uguali. Una chiede due etti e sono sempre de ppiù. Coi resti, però, nun ve sbajate mai.» Elena prese il prosciutto che Uccio aveva incartato e poggiato sul banco. Lo lanciò nel carrello e gli diede le spalle. «Ehi, Elena,» bisbigliò lui. «Ma quand’è che posso venire a—» «Scordatelo. Quella Elena non esiste più. Basta, fine. Dove stanno i meloni?» Uccio le fissò le tette, imbecille e imbambolato. «I meloni…» «See, bonanotte!» disse Elena, e andò a chiedere alla cassa. Tornata a casa decise di preparare la tavola prima d’andare dalla parrucchiera. Doveva darle qualcosa per la trasferta a Monticchio e darsi una spuntatina ai capelli. La sera prima, con l’aiuto di Giò, aveva smontato impianto e casse da Poggio Rock e rimontato il tutto in salotto. Al negozio non aveva lasciato niente. Computer, dischi, quadri, poster—s’era portata via ogni cosa.

172 Tranne gli scaffali vuoti, il leggio in legno e il borsone con la droga, lasciato lì dov’era, dietro la tazza del cesso. Mise Odessey and Oracle degli Zombies.

Good morning to you I hope you’re feeling better, baby Thinking of me while you are far away

Che piacere avere in casa la musica che tanto amava e che tanto le ricordava Bob! Che piacere sentirla ben definita e ad alto volume! Canticchiando, spostò il tavolo dalla cucina al salotto. Lo pulì e ci stese su la tovaglia nuova. Lavò i tulipani, li asciugò e li posizionò sul tavolo uno di fronte all’altro. Prese tovaglioli, forchette e coltelli e apparecchiò. Un cesto con della frutta al centro. Pesche, albicocche, pere, mele, un casco di banane. Affettò il pane, lo mise in un vassoio, lo coprì con uno strofinaccio e lo poggiò accanto alla frutta. Ammirò la tavola imbandita dalla porta d’ingresso. Immaginò quello che avrebbe pensato Bob al suo arrivo. In cucina tagliò il melone. Avvolse ogni fetta con una di Parma e mise il tutto in frigo. Si fermò ad ascoltare il pezzo degli Zombies che riempiva la casa in quel momento. This will be our year. Le piaceva la delicatezza del pianoforte. La delicatezza della voce.

And I won’t forget The way you held me up when I was down And I won’t forget the way you said “Darling I love you” You gave me faith to go on

Now we’re there and we’ve only just begun This will be our year Took a long time to come

Ricordò d’aver chiesto a Bob come mai un gruppo che faceva musica così dolce avesse un nome così tetro. Bob disse che quello era un esempio di “contraddizione fascinosa”. Elena era rimasta meravigliata dall’acume di suo marito.

Per altre due ore si dedicò a preparare la cena. Orecchiette e polpettine al forno—un suggerimento di Giò Casino. Costolette d’agnello con patate al rosmarino e un’insalata di pomodori e carusìdde. Frutta, e una Viennetta Algida. Il vino rosso di Giò travasato in bottiglie da litro e la bottiglia di Verdicchio messa in frigo. Erano secoli che non cucinava con tanta passione.

Alle 12:15 s’infilò sotto la doccia. Dalla finestrella del bagno osservò la pioggia battente. Sembrava che non avrebbe mai smesso. Finita la doccia, restò in silenzio qualche minuto ad ascoltare il tamburellare della pioggia. Un suono semplice e soporifero. Un suono quasi dimenticato. Ancora in vestaglia, Elena stese ai piedi degli altoparlanti i dischi che avrebbe messo durante la cena. Un modo per tenere a mente le idee avute in bagno. Un modo per decorare il pavimento. Bob Dylan. Lou Reed. The Kinks. The Ronettes. Jimi Hendrix. Non ricordava il titolo, ma era sicura d’aver ascoltato una canzone dei Doors che cominciava con la pioggia. Dei tuoni, la pioggia, le tastiere, la batteria. Poi la voce e la chitarra. Non sarebbe stata male come ouverture.

173 Ma qual era? Come s’intitolava? Perché non riusciva a ricordare quel tipo di cose? Perché legava i ricordi alle emozioni e non ai nomi? Perché non era come Bob? Scorse la libreria virtuale del laptop. Ecco i Doors. Undici album. Qualcuno bussò alla porta. Elena sperò con tutta se stessa che fosse Bob. Sperò che Sante l’avesse accompagnato prima di pranzo anziché all’ora di cena come concordato. «Arrivoooo,» disse, prima di correre in bagno a darsi un’occhiata.

174 14

Giò Casino stava aspettando suo figlio all’inizio del Corso. Dovevano andare a pranzo dai consuoceri, a Genzano di Lucania. Era sant’Alessandro, l’onomastico della nuora. Erano le 12:20 e suo figlio era in ritardo di venti minuti. Come al solito. Ritardatario nato. Giò s’era riparato dalla pioggia sotto un balcone. Teneva un piede poggiato al muro e le mani incrociate sul bastone. In quel momento stava fissando l’insegna di Poggio Rock. L’insegna che Elena non aveva voluto rimuovere. «Per ora non la togliamo,» aveva detto. «Così lasciamo a Bob l’ultima parola.» Giò voltò lo sguardo verso le Murge. Per quello che poteva vedere, pioveva anche laggiù. Venne distratto da un puntino bianco che aveva appena imboccato il rettilineo che portava in paese. Era una macchina ma sembrava la pinna di uno squalo. Una pinna che da piccola e sfocata emergeva nitida e minacciosa tra gli spruzzi d’acqua. La macchina sfrecciò davanti a Giò Casino. Un’Alfa Romeo 147 bianca ribassata. Minigonna e parafanghi bombati. Cerchi in lega e marmitta potenziata. Il rombo suadente. Giò la seguì con lo sguardo ma non riuscì a riconoscere nessuno all’interno. Pensò si trattasse di forestieri alla ricerca di un agriturismo. E c’aveva azzeccato. Anche se non in toto. In percentuali, al 75%. I tipi in macchina erano, sì, dei forestieri. I tipi in macchina erano, sì, alla ricerca di qualcosa. Non si trattava di un agriturismo, però.

  

Nell’Alfa 147 suonava ad alto volume Blue Dress dei Depeche Mode. Degli scapoli fumavano sotto la tenda del bar di Carlo, le birre ghiacciate in mano. La pioggia non cambiava i loro gusti. La birra doveva essere ghiacciata sempre. Sentirono il riverbero della musica; poi, il rombo della macchina calare di giri. I forestieri parcheggiarono. I forestieri scesero. «’Giorno,» salutarono. «’Giorno,» risposero gl’uomini. E questi chi sono?, dicevano le loro espressioni ebeti. Davanti, un tipo sui cinquanta. Basso, pochi capelli grigi, magro da far schifo. Rayban a goccia. Era Giorgino lo Zingaro, vestito come al solito: camicia nera, jeans neri, scarpe e cinta marrone. Dietro di lui, un omone con gli stivali da cowboy, capelli ricci lunghi, dei blue-jeans che aderivano al culo come la magliettina bianca aderiva al petto. «Due caffè, per favore,» disse lo Zingaro. «Arrivano,» disse Carlo il barista. L’Assessore si guardava intorno, finto-curioso. «Senta, per piacere—» disse Giorgino. «Acqua?» disse Carlo. «Naturale, frizzante…?» «Naturale,» disse lo Zingaro. «Io frizzante,» disse l’Assessore. Da quando in qua beveva acqua frizzante?

175 Erano anni che lavoravano insieme. Mai visto l’Assessore bere acqua frizzante. «Senta, un’informazione,» Giorgino poggiò un 5 euro sul bancone. «E mica mi deve pagare per un’informazione,» disse Carlo, la mente annebbiata dal timore: non capitava tutti i giorni di vedere delle facce così. «E chi vuole pagare?!» disse lo Zingaro. «Questi sono per i caffè.» Giorgino si voltò verso l’Assessore. I due sorrisero. Gente di paese. Appena vedono un forestiero coi capelli lunghi e l’orecchino, vanno nel panico. Ridicoli. «Volevo sapere se mi può dire dove posso trovà Bob l’Americano.» «Bob?» ripeté Carlo. «Sì, Bob l’Americano,» disse Giorgino, calmo. «Quello câ moje bbona,» disse l’Assessore. «Ma è facile,» un uomo spuntò alle spalle dei due. «Abita al terzo palazzo del CEP. Carlo, dàmme n’alda bbìrre.» «Pure qua c’avete er CEP?» chiese lo Zingaro. «È certo,» l’uomo afferrò la bottiglia dal collo. «Centro Elementi Pericolosi.» Fece un lungo sorso. Carlo sorrise fissando i forestieri. Giorgino rise e poggiò la tazzina sul piattino. L’Assessore scolò il bicchiere d’acqua frizzante, il mignolo all’insù. «Per andare al CEP,» l’uomo fece qualche passo verso l’uscita, «dovete tornare indietro.» Giorgino raccolse il resto e seguì l’uomo all’esterno. «Andate indietro, qui, sul Corso,» disse il tipo. «All’incrocio in fondo, lì, dove sta quella macchina verde ora, girate a sinistra.» «Ok.» «Dopo ch’avete girato a sinistra, la prima a destra—non botete sbagliare.» «Ok. Allora: in fondo, a sinistra; poi la prima a destra. Terzo palazzo.» «Giusto. Terzo palazzo, a piano terra.» «Ok.» «Se poi non sta a casa, lo potete trovare al negozio. Lì, proprio all’inizio del Corso, sulla destra.» «Grazie,» disse lo Zingaro. «Assessó, annamo, va’.» Giorgino e l’Assessore si misero in macchina. Gli scapoli continuarono a guardarli, convinti di non darlo a vedere. Convinti di non lasciar trasparire la loro agitazione. Gente di paese. Ridicoli. L’Assessore girò la chiave. I Depeche Mode ripresero a cantare. Un piccione maschio stava inseguendo una femmina sul marciapiede opposto. Impettito, le piume della coda spalancata a strusciare sulle mattonelle umide. «Vai,» lo incitò l’Assessore. «Falla nova a quella.»

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Nella Punto verde del figlio, Giò Casino si voltò a guardare l’Alfa Romeo bianca che era tornata indietro e aveva imboccato lo stradone del CEP. Senza sapere a chi si stesse rivolgendo, Giò pregò che quei forestieri non portassero guai. Pregò che quell’apprensione fosse il semplice prodotto della sua provincialità. Il prodotto di una chiusura mentale per cui nuovo e sconosciuto sono sinonimi di pericolo.

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«È lì,» disse Giorgino lo Zingaro, puntando il dito. «‘A vedi ‘a Mondeo der tappetto?» Parcheggiarono all’altezza del secondo palazzo. Non c’era niente da temere, ma la prudenza non è mai troppa. «Anvedi che schifo,» disse l’Assessore appena sceso. «Muoviti, annamo,» disse lo Zingaro, corso sotto un balcone per proteggersi dalla pioggia. Il portone del terzo palazzo era aperto. Come al solito. Giorgino stava per bussare quando lesse il nome GIÒ CASINO intagliato appena sotto lo spioncino della porta. «Non è questa,» disse. «È quella. Metti ‘n dito sur coso, lì, così nun ce vedeno.» Si voltò pensando che gli sarebbe piaciuto chiamarsi Giorgino Casino. L’Assessore bussò, un ghigno d’eccitazione sul viso. «Arrivoooo,» disse Elena. Passò un minuto. La porta venne spalancata. «Aiuu—» disse Elena, ma non riuscì a finire la parola. L’Assessore le aveva messo una mano sulla bocca e stringeva forte, una morsa umana. Con la stessa mano la spinse all’interno. «Chi non muore si rivede,» disse lo Zingaro, chiudendo la porta. L’Assessore teneva Elena stretta a sé, ora. Le spalle di lei forzate contro il petto muscoloso. La mano sinistra sulla bocca, la destra arpionata attorno al bacino. «Assessó, tappaje ‘a fogna a quella,» ordinò Giorgino. L’Assessore afferrò uno tovagliolo dal tavolo, lo spiegò e l’infilò adagio nella bocca di Elena. «Ce l’hai ‘n rotolo di scotch?» chiese lo Zingaro. Elena annuì. «E dov’è?» «Mmm…» Elena indicò con mento e occhi. «Qui? Qui?» Giorgino apriva e chiudeva sportelli in cucina. «Qui?» «Mmm…» Ecco lo scotch. Giorgino lo passò al compare. L’Assessore fece due giri attorno alla testa di Elena. Poi la mise a sedere. Lo Zingaro perlustrò il salotto. Si fermò davanti all’impianto stereo. «Ve siete sistemati bene,» disse. L’Assessore sollevò lo strofinaccio che copriva il pane e prese una fetta. «C’ho ‘na fame,» disse. «Tu, Giorgí?» «Assessó. Prima il dovere e dopo il piacere. Quante volte tô devo dí?» L’Assessore diede un morso alla fetta di pane fissando il compare. C’aveva sempre ragione lui. Sempre. «’Ndò sta tu’ marito?» chiese Giorgino a Elena. «Sta ar negozio?» «Mmm…» disse Elena. «Armeno quarcosa da magnà cor pane,» l’Assessore si passò la mano libera tra i capelli. «Assessó, e nu’ mme fà ‘nnervosí,» disse Giorgino. «Fatte ‘n giro pâ casa, forza. Vedemo se er tappetto se sta a nasconne da quarche pparte.» L’Assessore finì la fetta di pane in un boccone. «Mettiamo un po’ di musica,» sorrise lo Zingaro. Senza sapere come c’era riuscito, fece partire l’impianto dal laptop! Like a rolling stone di Bob Dylan.

177 Once upon a time you dressed so fine You threw the bums a dime in your prime, didn’t you? People’d call, say, “Beware doll, you’re bound to fall” You thought they were all kiddin’ you You used to laugh about Everybody that was hangin’ out Now you don’t talk so loud Now you don’t seem so proud About having to be scrounging for your next meal

How does it feel How does it feel To be without a home Like a complete unknown Like a rolling stone?

Giorgino non sapeva l’inglese e nemmeno se ne fregava. Aveva bisogno di musica che coprisse i loro rumori. E poi quella canzone era un classico. La conoscevano anche le pietre. «Allora, Elena,» Giorgino si sedette accanto a lei. «Ora possiamo parlare.» L’Assessore controllava la casa alla ricerca di Bob. In bagno non c’era. Nello sgabuzzino non c’era. In camera, nemmeno. L’Assessore fletté sulle ginocchia e guardò sotto il letto. Niente. Bob l’americano non era in casa. «Nun c’è nessuno,» disse l’Assessore. «Elena,» disse lo Zingaro. «’Ndò cazzo sta tu’ marito?» «Mmm…» Elena scosse la testa. «Certo che Bob è ‘n fregnone,» disse Giorgino. «Davéro ve credevate de fregacce? Scommetto che pensevate che in un posto così nun ve trovevamo mai, eh? Ma tu ‘o sai che noi ‘o famo come lavoro a cercà ‘a ggente. E chi scappa, ricordatelo, se lascia dietro ‘a puzza de paura. E ‘a puzza de paura attira i cani. E noi semo così,» lo Zingaro si protese verso Elena e le annusò il collo. «Noi seguimo j’odori.» Elena sentì il suo respiro sfiorarla. Elena ebbe un brivido ma non si mosse. Lo Zingaro aprì la vestaglia con una mano sola. Elena strinse le spalle, richiuse la vestaglia e incrociò le braccia sul petto. Un lampo illuminò la faccia scheletrica dello Zingaro. I suoi occhi cerulei divennero trasparenti per qualche istante. Poi un tuono fece tremare i vetri delle finestre. Elena respirava dal naso e lo sentiva colare. Si passò una mano per pulirsi. «Abbassa ‘ste mani,» Giorgino le colpì la mano con uno schiaffo. «Mmm…» disse Elena. «Mi sa che bisogna legatte ‘e mani a tté,» lo Zingaro affondò lo sguardo tra le tette nascoste per metà dalla vestaglia. «Mmm…» si lamentò lei. «Mmmmmm…» «Assessó, viè qua viè.» Like a rolling stone era finita. Il pavimento della camera da letto era ricoperto di mutandine, reggiseni, canottiere e top vari. Calzini, asciugamani, lenzuola pulite. Tutto rovesciato a terra come spazzatura. Una volta svuotati, l’Assessore lanciava i cassetti sul materasso. La rete del letto cigolava a ogni atterraggio. Poi toccò alla gioielleria. L’Assessore afferrava orecchini collane braccialetti anelli e li sbatteva a terra o li lanciava contro il muro. I tintinnii si rincorrevano. Una collana di finte perle bianche si spezzò. Elena seguì con lo sguardo le perle

178 rimbalzare e rotolare fuori dalla camera da letto, in corridoio. Ricordò d’averla indossata il giorno della Festa. Ma quant’era figa quel giorno! «Mmm…» si lamentò. «Nun te move,» lo Zingaro la minacciò con l’indice destro. «Assessó!» Era cominciata Tombstone Blues.

The sweet pretty things are in bed now of course The city fathers they’re trying to endorse The reincarnation of Paul Revere’s horse But the town has no need to be nervous

Lo Zingaro abbassò il volume. «‘Sto pezzo me piace,» disse l’Assessore, tornato in salotto. «Bello ritmato.» «Hai finito, lì?» «Sì. Nun c’è ‘n cazzo de gnente qua.» Elena si sentì fiera di se stessa. Tenere i soldi nel frigorifero era stata una mossa astuta. Una mossa da vera fuorilegge. Suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei. «Assessó, famo ‘na cosa,» disse Giorgino. «‘Ntanto, legamo ‘sta mignotta e io vedo de falla parlà; tu, ‘nvece, vai a dà ‘n’occhiata ar negozio de Bbob. Magari quello sta là.» «Ma, Giorgí, quanno semo passati se vedeva che nun c’era nessuno. L’hai detto pure tu.» «Ma che te sei scordato de don Nicó?!» «No. Però—» «Però gnente,» Giorgino si voltò verso Elena. Lei fissava la porta d’ingresso, le braccia strette al petto. «Se lì ar negozio nun trovi gnente, sapemo che questa o ce dice tutto o so cazzi súa.» L’Assessore si convinse. Era chiaro che lo Zingaro voleva restare solo con Elena. Ed era chiaro che al ritorno dal negozio, sarebbe toccato all’Assessore spassarsela con lei. Lo Zingaro faceva il capo. Lo Zingaro era più bravo a fare il capo. Che se la facesse prima lui. Legarono Elena alla sedia. «’Ndò stanno ‘e chiavi?» le chiese l’Assessore. «‘E chiavi der negozio.» «Mmm…» Elena scosse la testa. «Pijà tutte quê che trovi,» disse Giorgino. «C’è ‘n mazzo pure ‘n cucina.» «Mmm…» si lamentò Elena. «Mmmm…» «Statte zitta,» la colpì con un manrovescio l’Assessore. Un taglio al labbro inferiore. Il sangue assorbito dal tovagliolo bianco. «Assessó, sei ‘n animale,» gli strizzò l’occhio Giorgino. «Vattene!» Ecco che cominciava la farsa. La vecchia storia sbirro buono/sbirro cattivo. Lo Zingaro finse d’incazzarsi col compare. Finse d’essere indignato dai suoi modi e se lo portò in cucina. Passarono tre minuti. Elena si chiedeva come fare a liberarsi. Come chiedere aiuto.

Rimasto solo con Elena, lo Zingaro continuò con la commedia. «Elena, mi dispiace,» disse, «ma quello è fatto così. Nun sa come se trattano ‘e donne.» Le passò l’altro tovagliolo sulle labbra. Tamponava con cura e delicatezza. «Se me prometti che nun gridi e nun fai cazzate, te levo ‘sto coso. Però ‘e mani devono sta’—» «Mmm…» si lamentò Elena. «Mmmm…» «’Spetta, ’spetta.» Giorgino le tolse il tovagliolo dalla bocca e le chiese scusa quando lo scotch le strappò dei capelli. «Elena, nun te mette a gridà però, sennò me fai ‘ncazzà come ‘na bbestia.» Elena aveva le mani dietro la schiena. Un canovaccio legava i polsi allo schienale della sedia. Elena respirò a lungo. Dei respiri profondi—la fine dell’apnea. «Va mejo, ora?» chiese Giorgino.

179 «Sì. Grazie.» «Elena,» lo Zingaro le si avvicinò. «Tu ‘o sai che nun te volemo fà male. ‘O sai, no?» Lo Zingaro le aprì la vestaglia. Le labbra di Elena tremavano. Le tette spuntarono floride e opulente. Gli occhi si riempirono di lacrime. Giorgino s’inumidì le labbra e guardò le tette. Con lo sguardo scese fino alle cosce. Le mutandine di pizzo erano arrapanti e Giorgino sentì qualcosa muoversi nei pantaloni. Prese le tette tra le mani. Elena si scostò all’indietro e si morse il labbro inferiore. Sentì il sapore del sangue. Passò più volte la lingua sul taglio, e ogni volta lo sentì bruciare. Giorgino si piegò per baciarle i capezzoli. Prima di fare ciò, la guardò negl’occhi e sorrise. Elena vide il suo dente d’oro luccicare e un ghigno diabolico impossessarsi della faccia minuscola. La lingua dello Zingaro le sfiorò un capezzolo. Elena si sentì scuotere da un brivido di schifo e impotenza. Lo Zingaro strinse la presa delle mani sulle tette e affondò il volto tra la loro morbidezza. Elena lo colpì con una ginocchiata nei coglioni. Un colpo solo. Assettato e netto. «Brutta fija de ‘na mignotta,» disse Giorgino, la voce strozzata, cadendo di schiena a terra. Elena provò a liberarsi. Elena provò ad alzarsi. Una volta, due. Niente. Era complicato. Provò ancora. Niente. A terra Giorgino si lamentava e bestemmiava, le mani a massaggiare i testicoli, gl’occhi incollati su Elena, che ora non era più bella e arrapante. Ora era una baldracca insolente da prendere a schiaffi. Le sue curve non erano più da accarezzare, lambire, afferrare con ingordigia. Le sue curve erano da appiattire a suon di cazzotti. La sua pelle pallida, da illividire. Il suo viso, da marchiare. Le ultime note d’armonica di Queen Jane approximately sfumarono assieme al resto. Dalle casse dell’impianto, un ronzio monotono prima che Highway 61 Revisited partisse. Dall’esterno, il tamburellare della pioggia e il fragore di tuoni lontani. «Elena,» si sollevò lo Zingaro. «Mo so’ cazzi túa.»

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L’Assessore non stava nella pelle: aveva trovato il borsone con l’eroina. Nascosto dietro la tazza del cesso. Un nascondiglio stupido. Uno anche se non va per rubare, magari una pisciata la fa lo stesso. Prima di aprirlo, notò il logo della Alpitour e gli venne in mente una vecchia pubblicità con coso, lì, Pino Ammendola, vestito da messicano. Turistas fai da te? No Alpitour? Ai ai ai ai aiiii! Bob l’Americano? Un turista fai da te. Quando Michelino aveva detto d’aver ricevuto una chiamata dai tipi di Trani, l’Assessore aveva storto il muso contrariato. Cazzo vogliono ‘sti pugliesi? Di tutti quanti, proprio a noi ci chiamano? Michelino aveva detto di essere in debito col boss dei tranesi, don Nicola. Michelino aveva anche spiegato che gli uomini di don Nicola non potevano esporsi in quel momento, e aveva buttato sul tavolo un giornale, La Gazzetta del Mezzogiorno. Il titolone, PROSEGUONO LE INDAGINI TRA TRANI E CORATO PER LA “TRAGEDIA DEL BOWLING”, parlava chiaro. Poi era venuto fuori il nome di Bob, Bob l’Americano. Il tappetto rockettaro del negozio di dischi. Quello con la moglie super-bona che non si vedeva da mesi. Scomparsi dalla circolazione. Fuggiti come conigli. Ecco che la cosa s’era fatta eccitante.

180 «Se famo ‘n ber viaggetto,» aveva detto lo Zingaro dopo l’incontro con Michelino. «Famo ‘n favore a dej’amici ‘mportanti e damo ‘na lezione ar tappetto americano. Tutto in uno.» L’Assessore non era mai stato più d’accordo. L’Assessore, però, non avrebbe mai pensato che sarebbe stato tutto così facile. Raggiungere quel paesino sperduto, un gioco da ragazzi. Appena arrivati, trovata la moglie di Bob. E ora, ecco la rròbbe per don Nicola. In un borsone di pelle della Alpitour. Un borsone nascosto dietro la tazza del cesso. Tutto troppo facile. Il borsone era pieno di panetti di 999. Eroina di prima qualità, come non se ne vedeva da un po’. Dentro c’era anche un quaderno con nomi e cifre. Forse don Nicola non sapeva dell’esistenza di quel quaderno. Della serie due piccioni con una fava. Di quei panetti l’Assessore se ne sarebbe presi due per sé. Chissà quanto avrebbe tirato su. Dieci, ventimila? Nemmeno una parola allo Zingaro, però. Zero. Tanto un po’ di cresta l’avrebbe voluta fare anche lui. E se don Nicola si fosse incazzato? Chi se ne frega! Tanto la colpa era di Bob l’Americano. Lui, Bob, mancava solo lui. Se l’avessero trovato, quella sarebbe stata una giornata storica, memorabile. Una giornata epica.

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Il primo schiaffo le fece voltare la testa da un lato. Il manrovescio di un attimo dopo, invece, la sbatté a terra sedia e tutto. Elena provava dolore, ma sentiva che almeno non si sarebbe trattato più di stupro. Lo Zingaro era imbestialito e non pensava più a toccarla o scoparla. La libidine stroncata dalla ginocchiata. Accecato dalla rabbia, non vedeva bellezza davanti a sé. Non vedeva una donna legata facile da possedere. Giorgino non vedeva un cazzo. Era solo fuori di sé. «Tu te metti a fà ‘a stronza?» disse. «Allora vedemo. Vedemo chi è più stronzo dei due.» Giorgino rimise Elena in piedi afferrandola dai capelli. Tirò fuori una sigaretta e l’accese. «Nun me vòi fà leccà i capezzoli? E ora provamo co ‘na sigaretta.» Giorgino avvicinò la sigaretta al corpo di Elena. Elena si dimenava e urlava. Giorgino le tappò la bocca. Lei provò a morderlo. Lui la schiaffeggiò—due schiaffi secchi e sonori. Giorgino avvicinò di nuovo la sigaretta. Elena sentì il calore della brace sfiorarle la pelle. Elena dondolò sulla sedia. Destra e sinistra. Destra e sinistra. «Statte ferma,» disse lo Zingaro, piegandosi per raccogliere la sigaretta che gl’era sfuggita di mano. Elena provò a colpirlo con un calcio ma andò a vuoto. Giorgino l’afferrò dalla caviglia. Giorgino le spense la sigaretta sulla pianta del piede. «Aaaaaahhhh!» urlò lei. «Aiuto! Aiutooooo!» Poi il cellulare dello Zingaro si fece spazio tra la note di Bob Dylan. «Zitta!» la spinse all’indietro. «Te devi sta’ zitta.» Elena cadde—un colpo forte alla nuca. Il cellulare continuava a squillare. Elena piangeva riversa sul fianco sinistro. Giorgino la teneva ferma con le ginocchia, la mano sinistra a tapparle la bocca. «Pronto?» rispose. «Mmm…» ansimava Elena. «Pronto?» ripeté Giorgino. «Giorgino?»

181 «Sì, chi parla?» «Sono don Nicóle.» «Ah, don Nicola.» «Be’, l’avete trovata?» «No, non ancora. Ma nun te preoccupà: ‘a trovamo.» «E che cazz—» «Mo’ sto a parlà câ moje de Bbob. Ce l’ho qua, sott’a mmé.» «Nemmeno a lui avete trovato?!» «Non ancora, don Nicó.» «E che state aspettando?» «Niente, è che…» «Giorgino. Stammi bene a sentire. Io capisco che voi c’avete i cazzi vostri con Bob. Però, prima, dico: prima dovete risolvere i cazzi miei.» Giorgino guardò Elena. «’Ndò sta tu’ marito?» disse tra i denti. «Voi date conto a Michelino,» disse don Nicola, «e Michelino deve dar conto a me. Allora, per il momento lasciate perdere le cose vostre e vediamo di sistemare le cose mie.» «Ma, don Nicó, noi potemo fà ‘e cose túa ê cose nostre. Nun me sembra ‘na—» «Ehi Giorgìne!» disse il boss. «Voi fate come dico io. Pùnt’é bbàste.» «Ma scusa, don Nicó, co tutto ‘r rispetto, ma perché—» «Niente scuse e niente perché. Michelino mi deve un favore. Lui a me. Ecco il perché. Trovate la rròbbe, portatemela qua, e poi vediamo di organizzarci per come sistemare a Bob l’Americano. Ma per ora—non lo voglio ripetere più—per ora, la cosa più importante è la rròbbe. Se quello la passa a qualcuno che non deve, poi sarò io di persona a sistemare a tté, al combare tuo e pure a Michèlìne! Chiaro?» «Chiaro. Te chiamo appena ‘a trovamo.» «Non c’è bisogno che chiami,» disse don Nicola. «Appena la trovate, portatela qui, e poi pensiamo all’Americano. Tanto quello c’ha i giorni contati, te lo dico io da qui. Ciao.» «Ciao.» «E muovetevi!» «Ok, ho capito.» «Ciao.» «Ciao.» Giorgino riagganciò e infilò il cellulare nella tasca dei pantaloni. Eleno lo fissava. Allora non sei tu il grande capo, diceva il suo sguardo. «Che cazzo te guardi?!» Giorgino strinse la presa sul muso. «Eh?!» Le sue dita scheletriche lasciarono il segno. Impronte rosa e longilinee che partivano dagl’angoli della bocca e sfumavano sulle guance.

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«Li mortacci, Giorgí,» disse l’Assessore appena rientrato. «Te sei dato â pazza ggioia. Anvedi che macello.» Sul pavimento del salotto c’erano vetri rotti, posate, il vassoio del pane capovolto in un angolo, la frutta sparpagliata e ammaccata. Giorgino aveva continuato a picchiare Elena e a farle una sola domanda. ’Ndò sta tu’ marito? Ma quella niente, ripeteva sempre le stesse cose. Non è in paese. È in una clinica a disintossicarsi. Lo giuro—

182 Puttanate. Giorgino aveva sbattuto la testa di Elena sul tavolo. Una, due, tre volte, ripetendo sempre la stessa domanda. «’Ndò sta tu’ marito? ’Ndò cazzo sta?!» Un disco rotto. Due bernoccoli luccicavano rossi e gonfi sulla fronte di Elena, che ora era seduta accanto a uno speaker, sofferente e sfinita, e ascoltava la cantilena soave che è Desolation row. Elena aveva continuato a piangere e a ripetere le stesse cose. Un disco rotto pure lei. «Comunque, Giorgí, è tutto a posto,» disse l’Assessore. «‘A robba de don Nicola l’ho trovata. È già nell’Alfa.» «Davéro?» «Sì. Nove-nove-nove. A posto.» «Bravo. E lui?» «Lui chi, Bbob? No, lui nun c’è.» «Mortacci súa,» lo Zingaro sbatté un pugno sul tavolo sgombro. «Allora,» disse l’Assessore. «Tâ sei fatta?» «Ehi, lascia perde, va’,» disse Giorgino. «M’ha chiamato don Nicola.» «E allora?» «Quello vole la rròbbe ar più presto possibbile. Appena l’avete trovata portatemela qui, ha detto.» «E mica ce ne potemo annà senza fà du’ chiacchiere co Bbob.» «Bob dice che sta fòri paese,» disse lo Zingaro. «In una clinica, ha detto.» «‘Na clinica?» disse l’Assessore. «Dice ch’avuto ‘n’overdose.» L’Assessore raggiunse Elena in fondo alla stanza. «Questa te sta a ddì ‘n sacco de fregnacce,» disse, calpestando i vinili stesi sul pavimento. Coi suoi stivali da cowboy spezzò in due Transfor mer di Lou Reed e Affinità-Divergenze dei CCCP. «’N’overdose, eh?» Il pensiero dell’Assessore corse ai panetti di 999 che aveva trovato nel cesso di Poggio Rock. Elena aveva la testa china. Elena non aveva più forze. Se l’Assessore avesse provato a violentarla, lei non avrebbe opposto resistenza. Sentiva la testa esplodere e le escoriazioni sul corpo frizzare. Gl’occhi chiusi e irritati dalle lacrime, Elena sperava di risvegliarsi da quell’incubo. Risvegliarsi e trovarsi tra le braccia di Bob, stesi in un letto dalle lenzuola profumate, in un mondo d’ovatta e pace. L’Assessore si sedette sui talloni e le sollevò il capo dal mento. Scosso dai lividi e i gonfiori sul bel viso di Elena, l’Assessore lanciò uno sguardo confuso al compare. «Mortacci,» disse. Lo Zingaro aveva perso la pazienza. Lo Zingaro aveva esagerato. Ecco. Quella era la differenza tra loro. Lui, l’Assessore, aveva i nervi tesi e gli bastava poco per dare in escandescenze; non ponderava le cose e andava a naso. Giorgino, invece, era calmo e compassato. Non si lasciava andare agl’istinti. Giorgino tratteneva, tratteneva, tratteneva. Ma c’è un limite a tutto. E quando gl’argini della diga non reggevano più, lo Zingaro diventava un invasato spietato e violento. Saturo di sopportazione, mutava nella sua antitesi. «Giorgí,» si sollevò l’Assessore. «Se pò sapè che cazzo è successo?» «Gnente. M’ha fatto girà li cojoni, basta.» «Ma almeno t’ha detto ‘ndò cazzo è ‘sta clinica?» «No. Dice che nô sa.» «Che cazzo famo, ora?» L’Assessore calpestò altri vinili, incurante e pensieroso. Lo Zingaro se ne stava fermo poggiato al tavolo, i nervi tesi. I ruoli s’erano invertiti.

183 «Giorgí,» disse l’Assessore. «Allora che famo? Se ce n’annamo questa chiama ‘r marito e je racconta tutto. Quello, poi, appena ariva, prenne e se ne scappa com’ha fatto a Roma. Se stiamo ancora qui, invece, don Nicola ce fa du’ palle così. E assieme a lui Michelino.» «Fatte dà ‘r cellulare,» disse lo Zingaro, indicando Elena. «Come se senza telefono nô pò chiamà.» «Sì, ma armeno je complicamo ‘a vita.» Nonostante tutto, lo Zingaro rimaneva quello più astuto. «Vai. L’hai sentito?» l’Assessore si rivolse a Elena. «’Ndò ce l’hai er telefonino?» «Mmm…» si lamentò Elena. «Prova a vede ‘n camera da letto,» disse lo Zingaro. L’Assessore esaminò ancora una volta il viso tumefatto di Elena. I tagli sulle labbra. I rivoli di sangue che le macchiavano il collo. Gli occhi gonfi e lividi. La voglia di scoparsela, in caduta libera. In percentuali, –60%. Una volta nella camera da letto, l’Assessore venne raggiunto dal compare. «Assessó, famo così,» disse Giorgino. «Ce pijamo ‘r cellulare, legamo ‘sta mignotta, ce portamo ‘a machina der tappetto—così pure s’ariva nun se pò mòve—e ce n’annamo a Trani. Damo ‘a rrobba a don Nicó e tornamo qua. Quanto ce mettèmo? Più o meno tre ore? Massimo quattro.» «Ok,» disse l’Assessore. «Che ora è?» «So’ ‘e due e dieci. Massimo a ‘e sei semo qua.» «Movemose, allora.» «Ok. Ma prima d’annà devo fà ‘n’urtima cosa.» «Cosa?» «Je vojo sfregià ‘a faccia, a quâ mignotta.» «No, Giorgí, hai già—» «E che te metti a fà, ora, er bon samaritano?» «No. Però nun vojo nemmeno esagerà,» disse l’Assessore. «A lui, a Bbob, je dovemo fà ‘ste cose. Io mâ volevo pure fà mâ volevo—ma mo’ nun ce ‘a faccio nemmeno a pensacce. ‘Namo, su.» I due uscirono dalla camera da letto. La luce grigia che proveniva dall’esterno s’aggrovigliò ai lunghi boccoli dell’Assessore. I capelli luccicarono oleosi. Elena era sempre lì, rannicchiata in un angolo. Piangeva senza lacrime. Le labbra ricoperte di una patina rossastra. In bocca una poltiglia di bile mista a sangue misto a saliva. Il collo striato da strisce rosse e bianche. Le dita longilinee e ossute dello Zingaro impresse sulla sua carne pallida. «Nun ve fate venì idee strane,» disse Giorgino prima d’uscire. «Hai visto quanto c’è voluto a beccavve? Gnente. Nun fate i cretini. Tanto, Elena, ‘o sai che prima o poi ve beccamo ‘o stesso. Famo questo come lavoro, capito?» Elena non rispose. «Capito?» ripeté lo Zingaro. Elena non rispose e continuò a fissarlo inespressiva. Giorgino le mollò uno schiaffo. Shpà! Elena guaì e sputò sangue sul pavimento. L’Assessore sbuffò e scosse la testa. Aridaje, diceva il suo viso.

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«Non ti voglio vedere più lì, a capìte?» disse Giò Casino al figlio. Erano seduti nel giardino della casa dei consuoceri, a Genzano di Lucania. «Se ti vedo ‘n’altra volta lì, giuro che glielo dico a tua moglie.» «Lì, dove?» il fabbro fece il finto tonto.

184 «Da Elena. Ciòcche te pìnze ca nan te sò vìste?» «Ma ji—» «Bàste,» lo interruppe Giò. Si alzò e s’avvicinò alla porta. «Nan ne vogghije parlé. Te l’ho detto: non lo fare più. ‘Na volta può capitare. Ma però ‘na volta basta e avanza. Come dice quella frase latina? ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE AUTEM DIABOLICUM.» Il fabbro si chiese come cazzo faceva suo padre a sapere il latino. E che cazzo voleva dire quella frase? Era davvero latino?

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Appena sullo stradone del CEP, lo Zingaro chiese all’Assessore di passargli le chiavi dell’Alfa. Voleva controllare con mano la rròbbe di don Nicola. «Nun te preoccupà,» disse l’Assessore. «Ho controllato già io.» «Assessó, tu ‘o sai: nun è che nun me fido de te. Però certe cose vanno fatte di persona.» L’Assessore annuì ad occhi chiusi. Lo Zingaro aprì il borsone di pelle e tirò fuori il quaderno celeste. «Assessó, e che cazzo è ‘sto quaderno? ‘Ndo l’hai trovato?» «Stava lì, ner borsone. Magari a don Nicola je può tornà utile.» «Utile ‘n cazzo,» lo Zingaro lanciò il quaderno alla sua destra. «Nun lo vedi che è ‘n quaderno de crediti de ‘n alimentari?» Il quaderno roteò su se stesso e andò a finire nello spazio di terra tra il secondo e il terzo palazzo. La poggia cadeva su nomi e cifre. L’inchiostro prese a dipanarsi. «’Namo, su,» disse lo Zingaro. «Ok,» disse l’Assessore. La pioggia era fitta. Il CEP immerso in un’atmosfera lugubre e deprimente. Lo Zingaro prese il borsone e chiuse il bagagliaio dell’Alfa. L’Assessore seguì il suo compare dallo specchietto retrovisore. Lo vide fare il giro e incurante della pioggia poggiare la mano libera sulla capotte dell’Alfa, portando il viso a un centimetro dal finestrino del lato del passeggero. L’Assessore abbassò il finestrino. «Giorgí, eh dai, movemose.» «Assessó,» Giorgino infilò la testa e nascose due panetti nel portaoggetti. «Quer pezzo de merda de Bbob s’è pijato qualcosa. Capito, Assessó?» Ecco la cresta dello Zingaro. «Sì,» disse l’Assessore. «Armeno ‘n paio de panetti,» sorrise Giorgino. La cagna amica di Bob spuntò dal retro dei palazzi. Era fradicia e infreddolita. I peli del muso gocciolavano. L’Assessore mise in moto l’Alfa e lo Zingaro s’infilò nella Mondeo. La cagna fissò la Mondeo. Era un rombo familiare quello. Poi le macchine s’avviarono. L’Assessore davanti, con la sua cresta sotto il sedile e quella dello Zingaro nel portaoggetti; lo Zingaro dietro, col borsone da dare a don Nicola. La cagna inseguì la Mondeo. Correva, abbaiava e ringhiava come una forsennata. Era sul lato destro della macchina e i denti puntavano la ruota anteriore. Lo Zingaro la notò e non ci pensò due volte: una sterzata leggera e la colpì. La cagna guaì e rotolò sull’asfalto bagnato. Il ghigno soddisfatto di Giorgino si allargò fino a svelare il dente d’oro. Finita in una pozzanghera, la cagna si tirò su e continuò ad abbaiare all’indirizzo delle macchine che lasciavano il paese, senza però muovere una zampa. Elena seguì la scena da dietro la tenda della finestra, in piedi, curva, la sedia legata ai polsi. Elena guardò in alto al cielo coperto dalle nuvole. Dove s’era nascosta quella zoccola di Sirio?

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Monticchio. Stessi frangenti. Bob s’era appena ripreso dall’ultima crisi d’astinenza. Ormai sapeva come gestirle. Ormai era più forte di loro. Sante Basile gl’aveva parlato del figlio Antonio. Com’erano andate le cose. Com’erano andate le cose in quella stessa stanza. L’overdose e la morte. L’idea che quell’evento avesse stravolto la moglie al punto da ucciderla con una leucemia fulminante. Bob era stato colpito da quel racconto. Turbato dalla ferocia del destino e allibito dalla conoscenza vastissima di Sante. Quel vecchio sapeva tutto! Termini medici astrusi impossibili da ricordare; cure e farmaci, leggi e procedure. Droghe vecchie e droghe nuove: la bianca tailandese, la rosa birmana, la brown sugar, il cobret. Conosceva anche la 999, quella che aveva provato Bob. Quella che rimaneva, un panetto sull’altro, nel borsone di pelle all’interno di Poggio Rock. L’eroina che Bob avrebbe rivenduto a don Nicola. Il suo ultimo azzardo. L’ultimo tentativo per beffare la sorte. «Bob, per liberarti ‘na volta per tutte da quella merda, ti serve tanta, tanta, ma veramente tanta forza di volontà.» Sante era al capezzale di Bob. Gli teneva una mano sui piedi. Bob era sudato e di tanto in tanto provava dei brividi di freddo. Ma il peggio era passato. «Non ora,» disse Sante. «Ora diciamo che hai un motivo per non volerla. Lo stesso motivo che te la fa volere. Stai male co’ ‘ste crisi e sai che potresti prenderla e non soffrire. Però, visto che ora sai cosa significa l’astinenza, forse la voglia di prenderla t’è passata. Quello che voglio dire, Bob, è che la forza di volontà non si vede solo nei momenti di bisogno, ma soprattutto nella vita quotidiana, nei gesti di tutti i giorni.» Bob ascoltava ipnotizzato. Bob teneva gl’occhi fissi sulle rughe che riempivano il volto di Sante. Un volto uguale a una cartina stradale. «Noi italiani siamo così. Ci diamo da fare solo nel momento del bisogno. Solo dopo una catastrofe capiamo che certe cose andavano fatte prima e meglio; e magari, dopo una catastrofe, le cose le facciamo bene, persino meglio di chiunque altro. Come nel calcio, no?» Sante si schiarì la gola. «Quando l’Italia gioca ‘n’amichevole co’ ‘na squadra debole, oppure quando giochiamo una partita poco importante o non decisiva—giochiamo sempre male e magari facciamo pure delle figuracce. Poi, però, quando arriva la partita importante, quella decisiva, allora non ci so’ cazzi che tengono! Possiamo battere chiunque. Questa è una nostra caratteristica, Bob. Però, visto che tu sei mezzo italiano e mezzo americano, magari tu puoi fare le cose in modo diverso. Non aspettare che le cose vadano male per fare delle scelte. Non aspettare il terremoto per sistemare le fondamenta della casa. Perché, poi, quando il terremoto arriva, è sempre troppo tardi.» «Sante,» disse Bob. «Mi porti a casa? Devo tornare a casa. Da mia moglie. Ora. Subito.» «Ma tu, Bob—» «Sante, ti prego. Devo tornare ora.» «D’accordo,» disse Sante. «Tanto un paio d’ore non cambiano niente.» Si alzò dal letto e s’asciugò le mani sudate sui fianchi. «Tu intanto fatti ‘na doccia, preparati. Io mi sistemo e poi andiamo.»

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La sera prima, tra le cose del figlio di Sante, Bob aveva trovato una cassetta di Leonard Cohen. Il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, 1967. Bob aveva il vinile di quel disco indimenticabile.

187 L’aveva ascoltato una prima e una seconda volta. Leonard Cohen. Un poeta che riusciva a fare apprezzare persino l’idea di suicidarsi. Quando Bob aveva ascoltato One of us cannot be wrong non aveva smesso un momento di rivedere sé e Elena. Non aveva smesso un momento di pensare che Leonard Cohen fosse un genio per aver scritto qualcosa di così universale.

I lit a thin green candle To make you jealous of me But the room just filled up with mosquitoes They heard that my body was free Then I took the dust of a long sleepless night And I put it in your little shoe And then I confessed that I tortured the dress That you wore for the world to look through

Era lui quello che le aveva confessato di aver torturato l’abito che lei, Elena, aveva indossato per farsi guardare attraverso. Era lui quello che era quasi morto dalla gelosia. E che in realtà non si trattasse di un abito di stoffa ma di un abito mentale e che lui, Bob, non avesse sfiorato né l’uno né l’altro, era una banalità pratica annichilita dalla poesia. Leonard Cohen voleva dire quello, no? Che lui, Bob, era stremato dalla gelosia.

I showed my heart to the doctor He said I just have to quit Then he wrote himself a prescription And your name was mentioned in it

Spettacolare. Un verso spettacolare. La bellezza di Elena incantava. La bellezza di Elena era la ricetta. Qualsiasi dottore se la sarebbe prescritta. Una bellezza raggelante persino per un eschimese, come recitava l’ultima, dolcissima strofa.

An Eskimo showed me a movie He’d recently taken of you The poor man could hardly stop shivering His lips and his fingers were blue I suppose that he froze When the wind took your clothes And I guess he just never got warm But you stand there so nice In your blizzard of ice Oh, please, let me come into the storm

Oh, la tempesta di ghiaccio che era stata Elena in quel periodo! Nel periodo più caldo dell’anno, il periodo della canicola. Una tempesta ammaliante nella quale Bob, come diceva Leonard Cohen, voleva entrare. Appena a casa avrebbe ascoltato quella canzone e spiegato a Elena ogni singola parola. Le avrebbe detto quanto rivedeva di loro due in quel testo meraviglioso. Le avrebbe detto che l’amava e che era disposto a dimenticare tutto, tutto.

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Era la prima volta che Bob vedeva Poggiorsini da quell’angolazione. Erano sulla provinciale 9, in macchina, a qualche chilometro dal paese, immersi nella valle che spesso Bob aveva ammirato dal belvedere.

188 Sul colle su cui s’ergeva Poggiorsini, attraverso la tenda grigia di pioggia, si vedevano gli alberi che circondavano la vecchia chiesa sconsacrata, alcune case decrepite aggrappate al terreno con le unghie, e il muretto di mattoni del belvedere. Bob ricordò quando Renato gl’aveva fatto la sua proposta. Bob s’immaginò seduto lì con lui, le bottiglie di Peroni in mano. Ebbe un piccolo mancamento. Deglutì amaro e scosse la testa per arginare i brividi. «Tutto bene?» disse Sante. «Sì,» disse Bob. «È solo che, anche se sto da poco in questo paese, me ne so’ successe di tutti i colori. E sai com’è…» Le immagini dell’agguato riaffiorarono in mente con la velocità e la freddezza dei proiettili. I volti dei morti ammazzati. Il ragazzino, Renato, Tonino. Il colpo ricevuto alla testa e i rumori di quella sera. I vetri che scoppiano, i colpi di pistola, di fucile, quelli assordanti del kalashnikov. La puzza acre e suadente di polvere da sparo. La bara del militare e i numeri 999 in rosso. Le sirene della polizia che avevano fatto da colonna sonora alla sua fuga in scooter. «La parrucchiera c’ha raccontato di quel tuo amico che è stato ammazzato,» disse Sante. «Renato Consuelo,» disse Bob. «Lo so. Ma non era un mio amico.» «Il paese sarà shockato per una cosa del genere.» «Penso di sì. Anche se era un mezzo delinquente, quindi…» «Eh, ma sai com’è? Un compaesano è sempre un compaesano.» Bob ripensò a Renato. I suoi tatuaggi e le sue canottiere bianche; il nervosismo cronico e i modi da spaccone—come quando diceva che da lui si imparava a vivere. I modi erano quelli che erano, certo, ma Bob aveva davvero imparato tanto da Renato: aveva imparato che non si scherza col fuoco, che non bisogna approfittare della sorte, e che, dopotutto, non ci vuole tanto a morire. «’Sta pioggia farà più danni che altro,» disse Sante. «No,» disse Bob. «Qui la pioggia ci vuole: non ha piovuto per niente.» «Appunto. Ora vedrai,» disse Sante. «Vedrai che l’acqua annegherà le ultime piante rimaste. E poi, Bob, quando la terra è troppo arida si fanno delle crepe, no? E quando piove così, l’acqua s’infila in quelle crepe e va giù, senza abbeverare le radici. Capito?» Bob restò in silenzio. Con una mano si scosse la frangia. Andavano piano. Molto piano. Massimo 80 all’ora. Per come era vestito, Bob ricordava Bob Dylan sulla copertina di Highway 61 Revisited. I jeans erano di Sante Basile. La magliettina bianca con un chopper e la scritta nera HARLEY DAVIDSON era del figlio di Sante. La camicia di seta viola nera e rossa, idem. Una camicia scovata nel cassetto di un armadio. Una camicia che Bob non aveva voluto indossare per rispetto ma che Sante aveva voluto regalargli a tutti i costi. «Sante, perché non ti fermi a cena da noi?» disse Bob appena entrati in paese. «Sarebbe un onore.» «No, Bob,» Sante scosse il capo, «è meglio se me ne vado. Devo andare a Gravina a trovare mio fratello. E poi, sai, penso che è più giusto se tu stai un poco con Elena. Sarà in pensiero.» «No, Sante, non ti preoccupare. Non è un problema, anzi.» «No, Bob, davvero. Ti ringrazio, ma preferisco lasciarti e avviarmi prima che fa notte.» «Ma almeno vieni a salutarla,» disse Bob quando avevano imboccato lo stradone del CEP. «No, Bob,» disse Sante. «Un giorno di questi magari vengo a trovare Giò e ci vediamo. Oggi, però, è meglio se vado. Ti ringrazio.» «Come vuoi. Però ricordati che sono in debito con te.» Bob scese dalla macchina. «Bob,» Sante s’affacciò dal finestrino. «Senti a me: lascia perdere i debiti. So che sembra strano dirlo, ma a me non mi piace avere debiti così come non mi piace avere crediti. Non sono un uomo che gode nell’avere in pugno un altro uomo. L’unico debito che ho è con la vita, che è stata tutto sommato buona con me. M’ha tolto le persone che amavo, ma però m’ha permesso di migliorarmi come essere umano. E mi permette,

189 ancora, com’è successo con te, di rendere le vite degli altri un pizzico migliori. Non entrare nella mentalità del dare-per-avere. Se si dà per avere è meglio non dare.» Fatte un paio di manovre, Sante Basile se ne andò. Tenne la mano alzata fino a che non fu arrivato all’incrocio. Bob restò in mezzo allo stradone, anche lui col braccio teso in segno di saluto. La pioggia veniva giù fitta. Bob la vedeva scorrere davanti agli occhi. Bob la sentiva scivolare tra i capelli e sul viso. Un effetto benefico benché inafferrabile. «Home sweet home,» disse Bob, voltandosi verso il balconcino di casa sua. Pensò alle strane avventure passate fino a quel momento. Strane? Impossibili!, altro che strane. “Manco ‘na rockstar vive le cose che ho vissuto io,” pensò. “E come una rockstar dura a morire, come Keith Richards o Iggy Pop, così anch’io, alla fine, l’ho spuntata.” I pensieri corsero rapidi e intermittenti al ciclone che aveva investito Renato; a quello che aveva fatto Elena; al Bowling, all’eroina, l’overdose, le crisi d’astinenza. “After all,” pensò, “sono stato fortunato.” Peccato che ignorasse il colpo di coda che l’attendeva.

190 16

Bob bussò alla porta. Si spostò sul lato in modo che Elena non lo vedesse dallo spioncino. Passarono venti secondi. Niente. Provò di nuovo. Toc! Toc! Trenta secondi. Niente. Bob tirò fuori le chiavi. Forse Elena non era in casa. Forse era uscita a fare delle compere. “Meglio così,” pensò Bob. “Le faccio una sorpresa quando torna.” La sorpresa, però, la ebbe lui. Una sorpresa di merda. Un colpo al cuore che gli succhiò l’aria dai polmoni. Bob aprì la porta. Sguardo al centro del salotto: il tavolo della cucina sgombro, una sedia rovesciata a terra. Sguardo sul pavimento: una tovaglia a quadri appallottolata, frutta e fette di pane sparse qua e là, un tovagliolo macchiato di rosso—macchiato di sangue! «Elena!» disse con un groppo in gola. «Elena, dove sei? Elenaaaaa!» Fece qualche passo. Lanciò un’occhiata in cucina e notò gli sportelli spalancati e i cassetti aperti. Una volta accanto al tavolo, nell’angolo alla sua destra, vide le copertine degli album sparsi per terra e alcuni frammenti di vinile. Incrociò lo sguardo perso nel nulla di Lou Reed sulla copertina di Transfor mer e gli sembrò che Lou Reed volesse avvertirlo, dirgli qualcosa. Notò gli speaker di Poggio Rock e il laptop. Una macchia di sangue misto a saliva. «Elenaaa!» urlò, tremando. Si fiondò in camera da letto. Elena era lì, addormentata sul pavimento, mezza nuda, il volto tumefatto, gli occhi lividi, sangue raggrumato agli angoli della bocca, le mani legate a una sedia che giaceva miserabile alle spalle di lei—come lei. «Oh madonna!» le si stese accanto. «Ch’è successo, amore? Come stai? Chi è stato?» Elena aprì gl’occhi: fessure umide al centro di due cerchi rossastri. «C’hanno trovato,» disse. «Chi? Come?» Bob era confuso, scosso, spaventato. «C’hanno trovato,» ripeté Elena, la voce fievole e roca. «Chi c’ha trovato?» chiese Bob, mentre le scioglieva i polsi. «Quelli di Roma.» «Shiiiit,» disse Bob. «E che t’hanno fatto? T’hanno picchiato… e…?» «No,» rispose Elena. Bob la tirò su con cautela, prendendola da sotto le ascelle. La sedette sul letto, si riempì le mani col suo viso e, in ginocchio davanti a lei, cominciò a piangere. «Amore,» disse Elena, «non piangere. Dobbiamo andarcene. Ora, subito, ‘r prima possibbile.» «No,» disse Bob. «Prima dobbiamo chiamare il dottore e ve—» «No,» disse lei. «Non ti preoccupà per me. Sto bene. Ora ci sei tu con me. Ora sto bene. Lascia perdere ‘r dottore. Ce ne dobbiamo andare ché quelli ritornano. Li ho sentiti parlare.» «Ma come cazzo hanno fatto a trovarci?»

191 «Nô so.» «E dove sono andati ora?» «A Trani.» «A Trani?» «Così ho sentito. Vanno e tornano.» A fatica ma con precisione, Elena spiegò quello che era successo e quello che aveva sentito dire dai due strozzini romani. Disse che dopo averla picchiata e aver rovistato la casa, le avevano rubato il cellulare e s’erano presi la Mondeo. Disse che lo Zingaro aveva parlato al telefono con un certo don Nicola e che di sicuro lavoravano per lui. “Prima la rròbbe e poi l’Americano,” era stato il refrain di don Nicola. «L’Assessore, come si chiama?, quello coi capelli lunghi, è andato a Poggio Rock e quanno è tornato ha detto che era tutto a posto, ch’aveva trovato la rròbbe di don Nicola.» «Noooo!» Bob tirò un cazzotto contro il muro. «Fucking bastards! Quella la dovevo vendere a don Nicola. Erano i soldi che ci servivano per andarcene in America ‘na volta per tutte. E mo?!» «Non fa niente, Bob,» disse Elena. «Io un po’ di soldi ce li ho.» Si vergognava della provenienza di quel denaro, ma ormai era troppo tardi per fissarsi con l’etica, i risentimenti o il sentimentalismo. Bisognava fare di necessità virtù. Quei soldi li avrebbero portati lontano da lì, lontano da quei ricordi. Con quei soldi avrebbero comprato i biglietti per coronare il loro sogno. Incubi passati al servizio di sogni futuri. «Ma Giò non ha sentito niente?» chiese Bob. «Non ha visto niente?» «Non penso,» Elena si strinse nelle spalle. «Sennò me dava ‘na mano.» Bob andò a bussare alla sua porta ma non ebbe nessuna risposta.

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Odore di pioggia. Un forte odore di terreno e polvere aggrappato a ogni molecola d’aria. Erano le 5:20 e da qualche minuto aveva smesso di piovere. Bob aveva detto a Elena di farsi una doccia e curarsi le ferite. Lui, nel frattempo, avrebbe cercato un passaggio per l’aeroporto di Bari. Un aereo per l’America ci doveva essere. Se non la sera stessa, almeno la mattina dopo. Se non diretto, almeno con scalo a Parigi o Roma o Londra. «Elena, prendi lo stretto necessario,» disse Bob prima d’uscire. «In massimo mezz’ora torno e ce n’andiamo.» «E che famo co tutti ‘sti dischi?» domandò lei. «Non lo so,» rispose Bob. «‘Na soluzione la troviamo.» Arrivato alla fine dello stradone del CEP, Bob si voltò a guardare quella che era stata casa sua in quei mesi. Ricordò la notte del loro arrivo e l’occupazione della mattina dopo. Pensò che la desolazione che avvertiva in quel momento era la stessa che aveva sempre regnato su quella zona del paese. Pensò alla cagna e gli dispiacque di dover lasciare anche lei. La cappa di nuvole era piatta, bianca, alta: il fazzoletto misterioso di un illusionista: nasconde qualcosa, è ovvio. Sì, ma cosa? Bob rincorse con lo sguardo delle rondini e rimase affascinato dal loro volo radente. “Quant’è semplice la vita degli uccelli,” pensò. Era quasi sul Corso quando sentì il rombo di una macchina. Un brivido lungo la schiena. Uno scatto del capo verso il rumore. La macchina gli passò accanto. La riconobbe: era la macchina di un impiegato comunale. Il tipo sollevò una mano e Bob ricambiò il saluto. Sospiro di sollievo. I muscoli di nuovo rilassati. Bob si passò una mano dietro il collo e se lo massaggiò. La tensione si dissolse e un’ondata di calore amico gli avvolse il cuoio capelluto.

192 Come altre volte prima di allora, si rifugiò nel suo negozio. Appena dentro, s’imbambolò a guardare le pareti spoglie. Il vuoto di Poggio Rock era il vuoto del suo animo. L’assenza di poster quadri dischi e casse, l’emblema del suo fallimento. L’emblema della dissoluzione delle sue ambizioni. Rappresentava la fine delle aspettative che l’avevano animato e sostenuto il giorno dell’inaugurazione. Un giorno indimenticabile. Un giorno denso di speranza e fiducia nel futuro. Un abbaglio come altri. Il negozio vuoto e spoglio era la fine, punto. Una fine ineluttabile e umiliante. Una fine amica benché indesiderata. L’arpeggio di chitarra di The end dei Doors si fece spazio tra i pensieri di Bob.

This is the end Beautiful friend This is the end My only friend, the end Of our elaborate plans, the end Of everything that stands, the end No safety or surprise, the end I’ll never look into your eyes again Can you picture what will be So limitless and free Desperately in need of some stranger’s hand In a desperate land

Bob chiuse gl’occhi e scosse la testa. Cancellare quei pensieri. Cancellare quelle parole. Annientare qualsiasi tentativo di caduta in sentimentalismi. Gl’era successo da bambino quando aveva lasciato l’America. Poi quando aveva lasciato Roma assieme a Elena. E ora, di nuovo. Niente. Niente rimorsi e niente lacrime. Ora era il momento di essere razionali, guardinghi, calcolatori, strategici. Freddi e concentrati sul da farsi. Concentrati sulle azioni. Azioni, non emozioni. Ardire, non ardore. Nostalgia pianti e rimpianti l’avrebbero attanagliato prima o poi, questo Bob lo sapeva. Sapeva che si sarebbe rivisto lì, in quel paese, in quel negozio, in piedi su quella stessa mattonella. Ma sapeva anche che non era quello il momento. Basta! Doveva uscire e lasciarsi alle spalle anche Poggio Rock. The end, appunto.

This is the end Beautiful friend This is the end My only friend, the end It hurts to set you free But you’ll never follow me The end of laughter and soft lies The end of nights we tried to die This is the eeeeeeeeeeeend

Bob uscì dal negozio e lanciò un’occhiata all’insegna fatta da Elena. “La lascio o la prendo?” si chiese. Toglierla significava cancellare ogni traccia della loro presenza lì; lasciarla, invece, significava lasciare il segno.

193 “Dopo, dopo,” pensò. “Ci penso dopo.” Il tempo scorreva inesorabile. Lo Zingaro e l’Assessore potevano tornare da un momento all’altro. E stavolta sarebbe toccato a lui subire le loro rappresaglie. Bob chiuse a chiave la porta di Poggio Rock e s’avviò verso il bar di Carlo. Camminando lungo il Corso deserto si sentì vulnerabile. Avrebbe voluto essere trasparente. Gli sguardi dietro le persiane e le tende potevano essere al soldo dei tipi di Roma. Bob provò le stesse sensazioni provate al loro arrivo a Poggiorsini, quando la minaccia degli strozzini era fresca e palpabile. E come una ruota che gira, ora si ritrovava nella stessa condizione. La minaccia era fresca come le ferite di Elena e palpabile come carne scossa da tremori. «Guarda chi c’è?!» disse Carlo il barista. «Bob, come stai?» Forse sapevano quello che gl’era successo. Qualcuno doveva aver sentito l’ambulanza. Non se ne vedevano mai di ambulanze a Poggiorsini. La volta che ne arrivava una, era un evento. Questo voleva dire che avrebbero potuto collegarlo agli eventi del Bowling. Il che non era solo scomodo o rischioso, era una vera e propria minaccia. «In che senso?» Bob fece lo gnorri. «Tutto bene? Ti sei ripreso?» Il volto di Carlo era rilassato come al solito. «Tutto bene, grazie,» Bob tagliò corto. «Mi fai un caffè, Carlo, per favore.» «Arriva.» «Ehi, Carlo, hai visto Giò Casino, per caso?» «E ciòcche jè,» Carlo allargò le braccia. «M’avete preso per un centro informazioni a mmé?! A mezzogiorno quelli che—a proposito, t’hanno trovato, poi, quei tipi strani tipo romani?» «Romani?» «Sì, quelli che so’ venuti oggi a chiedere di te,» Carlo poggiò la tazzina sul piattino. «Uno coi capelli lunghi e ricci, ‘na bestia, e l’altro basso col dente d’oro. I tuoi amici.» «Ahaa, quelli…» Bob poggiò una moneta da 2 euro sul bancone. «Sì, grazie.» Bob ingollò il caffè. Caldo, cremoso, intenso. Un caffè perfetto. Le probabilità di bere un caffè così in America erano bassissime. Prima di tutto, però, bisognava arrivarci in America; e poi il resto: un lavoro, una casa, degli amici e, perché no, un bar o un pub di fiducia. «Allora, Carlo, l’hai visto Giò Casino o no?» «Sta dietro a giocare a carte,» col pollice Carlo indicò la stanza alle sue spalle. «Ah, è qui?!» «Te l’ho detto: sta a giocare.»

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«Hai visto che bel vento s’è alzato?» disse Giò Casino quando erano seduti a una panchina del belvedere. «Domani sarà ‘na bella giornata, te lo dico io. L’aria s’è rinfrescata con l’acqua che ha fatto e ora il vento spazza via le nuvole e domani vedrai che sarà ‘na bella giornata col cielo chiaro e limpido. ‘Na giornata calda ma non caldissima. Anche perché il vento è di tramontana.» Bob tirò fuori il pacchetto di Pall Mall. Ne sfilò una e l’accese. «Vedi là?» Giò indicò un punto lontano sui monti oltre la valle. «Lì è Genzano, dove stavo fino a poco fa co’ mio figlio e la famiglia della moglie. Sai, oggi è sant’Alessandro, e mia nuora si chiama Alessandra e festeggia l’onomastico oggi.» «E sant’Alessandro è pure la fine del periodo della canicola, no?» «Sì. Bravo Bob,» sorrise Giò. «Ti ricordi.» «Come cazzo faccio a dimenticarmelo dopo quello che m’è successo?!» Il sorriso di Giò s’incrinò, gl’occhi s’inumidirono.

194 «Da quelle parti, invece,» Giò indicò un punto più a nord, «è Monticchio, dove stavi tu. Lo vedi quel monte, lì? Quello è il Vulture. A proposito, e Sante?» «Ha detto che un giorno di questi passa a salutarti,» disse Bob. «Ma oggi c’aveva da fare. Doveva andare a Gravina a salutare suo fratello.» «Suo fratello, eh? Quelli è da ‘na vita che non si parlano. Visto com’è strana la vita, Rob?! Ci volevi tu per spingerlo ad andare dal fratello e vedere di sistemare le cose tra loro.» Bob abbassò lo sguardo e fece un paio di tiri. Inspirò il fumo a pieni polmoni e lo cacciò fuori dal naso. «Sai, Giò, per venire abbiamo fatto quella strada,» Bob indicò la provinciale 9 che serpeggiava timida nella valle. «E da lì Poggiorsini sembra diverso, sembra di più quello che è poi in realtà. Nel senso, quando arrivi dalle Murge, no?, e imbocchi la strada che porta qua, Poggiorsini sembra come uno di quei paesi sperduti dell’America dell’ovest; un paese come quelli dei film Western, con una strada che taglia il paese in due e basta. Sembra strano come posto, davvero, però non sembra un paese chiuso su se stesso. Invece quando lo vedi da questa strada, aggrappato alla collina, sembra davvero quello che è: un paesino chiuso e vecchio dentro; un posto che vive di vita propria e ha pochissimi legami col resto del mondo. Non so se mi capisci a me?» Bob fu sorpreso d’aver usato un modo di dire di Giò. Il vecchio contaminava. «C’hai ragione,» disse Giò, che aveva capito che Bob stava divagando. «Bob, ch’è successo?» «Un casino.» «E proprio a mmé me lo vieni a dire?» «Eh?» «Bob, è ‘na battuta. Il mio cognome, no? Casino.» «Ahaa,» Bob gettò la sigaretta ai suoi piedi e la spense. «Scusa, ma so’ un po’ agitato.» «Vai, dimmi ch’è successo.» Bob si chiese se era il caso di raccontare tutto e dall’inizio. La fuga da Roma, gli usurai, il negozio dato alle fiamme, le sue menzogne, le menzogne di Elena, don Nicola e Tonino Scacco-matto, lo spaccio di marijuana, l’agguato del Bowling, l’eroina—tutto. «Giò, ci sono fatti che non t’abbiamo mai detto. Però ora è il momento di dirti la verità. Di dirti come sono andate le cose.» Bob fece un pausa e scambiò uno sguardo silenzioso con Giò. «Devi sapere, Giò, che io e Elena ce ne siamo andati da Roma perché io m’ero infognato con degli usurai. Tu non hai idea di quanti soldi gli dovevo dare a quelli. E siccome non pagavo—perché non ce li avevo, non perché non volevo —quelli hanno dato fuoco al mio negozio di dischi. Sai, t’avevo detto che era stato un corto circuito eccetera, ma non era vero. Allora una sera, pochi giorni dopo l’incendio, io e Elena abbiamo deciso di scapparcene. Senza dire niente a nessuno. Abbiamo lasciato tutto, la casa, i mobili, i vestiti, gli amici—tutto. Sono riuscito a portarmi solo i dischi che tenevo in casa.» Giò Casino guardava Bob come davanti a un figliol prodigo. «Ora, però,» Bob accese un’altra sigaretta, «gli strozzini di Roma c’hanno trovato. Sono venuti qui, oggi, e hanno picchiato Elena. Poverina, la devi vede—» Bob scoppiò a piangere. «La macchina bianca…» disse Giò Casino. «Ecco chi erano.» «Cosa?» chiese Bob con un singhiozzo. «Niente. È che oggi, prima di andarcene a Genzano, ho visto ‘na macchina bianca di forestieri e… e lo sapevo che quelli portavano rogne. Lo sapevo!» «Hanno fatto un bordello in casa, e si so’ presi pure la Mondeo,» Bob tirò su col naso e s’asciugò le lacrime. «Dice Elena che li ha sentiti che dicevano che tornavano stasera stessa. E quelli, Giò, le promesse le mantengono, te lo dico io.» Bob pensò alla Mondeo. Quante ne aveva passate quella macchina. E ora era nelle mani di quei criminali. «E cosa avete intenzione di fare?» chiese Giò. «Ce ne dobbiamo andare. Stasera, ora, adesso, al più presto possibile.» «Ma, figlio mio,» Giò s’alzò. «E sempre a scappare dovete stare?! Non si può vivere ‘na vita sempre a scappare da ‘na parte all’altra. Non riuscirete mai a costruire ‘na famiglia, se fate così; non riuscirete mai a —»

195 «Questa è l’ultima volta,» Bob poggiò una mano sulla spalla di Giò. «Abbiamo deciso, Giò: ce ne andiamo in America e basta. Stavolta è sul serio.» «Ah, l’America,» disse Giò con la voce del sogno. «Quasi-quasi me ne vengo con voi.» «Giò, però abbiamo bisogno di un passaggio per arrivare a Bari. Oppure, non so, sai se ci sono dei treni?» «No, Bob, treni diretti per arrivare a Bari non ce ne sono. Potete vedere di arrivare a Gravina e poi, magari, andate a Bari da lì. Ci vuole un po’, ma a Bari c’arrivate.» «Sì, è solo che col treno ci possiamo portare poco e niente,» disse Bob. «Come bagagli, dico. Ma, scusa, Giò, non è che ci può accompagnare tuo figlio?» «Impossibile, Bob. Quello sta a Genzano,» Giò indicò gl’Appennini. «Oggi ha già fatto avanti e dietro per andare lì e per portarmi qui; e poi è tornato lì. Mo dovrei chiedergli di venire qui e di portarvi a Bari e poi lui dovrebbe andarsene lì ‘n’altra volta. È impossibile, non lo farà mai. Non lo farebbe nemmeno per suo padre, quello. E poi, Bob, se dobbiamo aspettare a lui, qui si fa notte. Quello è ritardatario di natura.» «Cazzo, devo trovà ‘na soluzione.» «Senti a mmé,» disse Giò. «Per ora andiamocene a casa così vi preparate. È inutile che stiamo qua. Poi lì ci pensiamo insieme.» I due s’avviarono verso il CEP. Giò si teneva aggrappato al braccio di Bob. Giò camminava a passo lento e dentro di sé si chiedeva come mai le stelle fossero così ingiuste. A lui gl’era andata di lusso, tranne qualche piccolo incidente di percorso; con quei due, lì, invece, con Bob e Elena, le stelle s’erano accanite ostinate e dispettose. Una tragedia dietro l’altra. Non facevano in tempo a rialzarsi che un nuovo gancio li sbatteva al tappeto. Nella piazza del vecchio casale Bob notò la Mercedes Kompressor di DeBellis. Lanciò uno sguardo alla porta di casa sua. Quella poteva essere una soluzione. Umiliarsi un’ultima volta davanti a quell’uomo meschino e chiedergli di accompagnarli all’aeroporto. Certo, l’idea di fargli respirare l’aria che respirava Elena lo infastidiva, ma era meglio che condividerla con lo Zingaro e l’Assessore. «Ma, Bob, dimmi un po’,» Giò Casino interruppe i suoi pensieri. «Come hanno fatto a trovarvi?» Cercando di non tralasciare niente, Bob gli raccontò com’erano andate le cose. Un racconto condito da lacrime, singhiozzi e rimorsi. Respiri profondi, imprecazioni e scusanti. Il carro funebre, l’agguato, il Bowling, la sparatoria, i morti ammazzati, la possibilità che, tra criminali, quelli di Trani e quelli di Roma si conoscessero. Giò elargì parole di conforto, pacche sulle spalle, incoraggiamenti. «Sai una cosa, Giò?» disse Bob in lacrime, davanti al portone del loro palazzo. «Quelle storie che c’hai raccontato sulla canicola, sulle disgrazie, sui romani eccetera, si sono avverate pari-pari. Io non ho mai creduto a queste cose; però, come si dice?, non si finisce mai d’imparare.» Giò Casino guardò al cielo ormai privo di nuvole. Cercò d’individuare Sirio, la stella canicula. A quell’ora doveva essere già visibile. Non la trovò. E dopo aver maledetto la sua pessima vista, maledisse l’intero universo.

196 17

Erano le 6:10 ed era tardi. Bob aveva accennato a Giò l’idea di chiedere un ultimo favore a DeBellis e il vecchio s’era detto contrario. L’aveva detta a Elena e lei aveva scosso la testa: fare il viaggio con lui sarebbe stata una tortura, ma bisognava tener conto delle priorità. E la loro priorità era arrivare a Bari prima che gli strozzini tornassero a Poggiorsini. Bob uscì di casa domandandosi se fosse il caso di lasciare i dischi al ragazzino maleducato che gli aveva salvato la vita. Non si diede una risposta e rinviò a dopo quel problema. Per arrivare al vecchio casale, a casa di DeBellis, Bob evitò di fare il Corso. Non voleva rischiare di perdersi in chiacchiere con qualcuno. Incrociò un paio di macchine e sollevò il capo in segno di saluto. Dei giovani lo salutarono sporgendo le braccia fuori dai finestrini. Al posto della mano aperta, i tipi fecero il segno delle corna. Bob li ignorò. Anche loro avrebbero patito le amarezze della vita, un giorno. Sotto il vecchio casale c’era un silenzio di tomba. Il vento portava con sé il canto malinconico di uccelli lontani e l’odore di paglia arsa. Un classico. La Mercedes era lì, grigia e aggressiva. Un gatto nero si leccava i cuscinetti a un angolo della piazza. Bob guardò l’orologio. Il tempo scorreva menefreghista. Il cuore batteva sincopato e l’ansia cresceva cresceva cresceva, amplificata dalla frustrazione di doversi umiliare a chiedere un favore a quell’uomo. Un uomo che aveva sfregiato la sua vita con cicatrici che avrebbero continuato a prudere per molto tempo a venire. Un uomo senza scrupoli che aveva approfittato della loro vulnerabilità. Un uomo di merda, punto. Bob s’avvicinò alla Mercedes e osservò il suo riflesso nel finestrino. Forse doveva liberarsi della frangia per camuffarsi un po’. Forse i lividi e le escoriazioni di Elena avrebbero destato sospetti all’aeroporto. Bob si guardò attorno alla ricerca di risposte. Niente. Solo silenzio e la piazza vuota. Non c’era più nemmeno il gatto, e il vento sembrava essersi spostato a quote più alte. Le nubi s’erano diradate e ora un azzurro vivo si stava impadronendo del cielo. Bob accese una sigaretta con l’intento di calmarsi. Fumava fissando la brace e trattenendo il fumo nei polmoni. Le immagini di Nicola e Elena a letto insieme lo tormentavano. I loro corpi nudi, un film horror. I ringhi di piacere di lui, un’orchestra cacofonica. Basta! Basta pensieri urla e immagini. Basta! Doveva bussare alla porta di DeBellis, chiedergli un passaggio per Bari e andarsene via di lì. Per quanto ne sapeva lui, lo Zingaro e l’Assessore potevano essere già a casa ad aspettarlo. Prima di buttare la sigaretta, Bob spiaccicò il viso contro il finestrino della Mercedes e guardò attraverso. Ma certo! Non c’aveva pensato! La sigaretta gli scivolò di mano. Un pensiero pericoloso e accattivante gli trafisse il cervello. Le chiavi della macchina erano inserite nel quadro. Erano lì, appese. Come d’abitudine, DeBellis credeva che nessuno avrebbe provato a rubargli la macchina. Non a Poggiorsini. E soprattutto, non a lui. L’arroganza e la sicurezza di sé si dimostravano lame a doppio taglio. Ora toccava a Bob trarre vantaggio. Ora sarebbe stato lui ad approfittarne, facendo propria qualcosa che sua non era. Come aveva fatto DeBellis con Elena. Forse le tragedie partorite dalla stella canicula erano davvero finite.

197 Bob aprì lo sportello guardandosi alle spalle. Infilò un piede in macchina e lanciò un’occhiata in alto, alla porta della casa di DeBellis. «Tranquillo,» disse chiudendo la portiera. «Everything’s gonna be all right, me lo sento.»

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Elena vide la macchina di DeBellis accostare al marciapiede. Poi vide Bob uscire di fretta e di fretta varcare il portone. Elena si fece trovare sull’uscio, la porta aperta a metà. «E lui dov’è?» chiese. «Lui stavolta se lo prende nel culo,» disse Bob. «Muoviamoci.» Caricarono le valigie nel bagagliaio. Un bagagliaio piccolo. Niente a che fare con quello della Mondeo. «In questa macchina non ci sta un cazzo,» disse Bob. «Tu hai preso tutto?» «Sì, poca robba.» «Elena, non ti preoccupare. Vedrai che in America troveremo una casa più bella di questa. E compreremo i mobili e tutto il resto,» Bob aveva il cuore in gola. «Te lo prometto,» le carezzò una guancia e trattenne le lacrime. Bob uscì e bussò alla porta di Giò Casino. Elena si guardò intorno prima di uscire. Le si spezzava il cuore a dover abbandonare ancora una volta le sue cose, i suoi mobili, la sua casa. «E i dischi?» disse lei, fissando i cartoni pieni di vinili. Bob non la sentì. Bob era già entrato da Giò. Elena restò in piedi, immobile, imbambolata. Lo sguardo perso nel nulla, accese una sigaretta e si fermò a fumarla lì, sul pianerottolo. Sentiva i lividi pulsare e un bruciore continuo le infiammava il viso. Da un occhio non ci vedeva bene e quando lo apriva lo sentiva esplodere. Era tesa e guardinga: al primo rumore avrebbe fatto un passo indietro e si sarebbe nascosta in casa. Non voleva farsi vedere da nessuno conciata in quel modo. Bob e Giò uscirono. Elena ebbe un sussulto ma si calmò subito. «Ehi, puledrina,» disse Bob. «Io corro un attimo su. Poi ce n’andiamo.» Bob salì le scale a grandi falcate. Due, tre alla volta. Elena lo vide scomparire oltre la prima rampa. «Dove va?» chiese Elena a Giò. «Da quello screanzato che gl’ha salvato la vita,» disse Giò, massaggiandosi il mento. «M’ha detto che gli voleva regalare i dischi e io gl’ho detto No, quei dischi ve li dovete portare voi. Possono tornare utili ‘na volta in America. Ché poi, eh, sono sicuro: se gli dà i dischi a quel ragazzo, tempo nemmeno ‘na settimana, e li ha venduti tutti senza sentirne uno. Secùre. Bob però dice che forse sono stati i dischi a portargli sfortuna. Da ridere… Non so chi gliel’ha messa in testa ‘sta cosa qua. Ma però io gl’ho risposto subito. Gl’ho detto Ma secondo te, Bob, è più probabile che a condizionare la tua vita è stata ‘na stella, o meglio, mi correggo, l’Universo, che da milioni e milioni di anni sta sopra di noi e che tanti studiosi hanno studiato e che ha il potere che ha?, oppure un poco di dischi che ti porti avanti e dietro da qualche anno? Mi sa che l’ho convinto.» Giò era prolisso e fatuo. Chiaro sintomo di tensione. Elena sorrise e si guardò attorno per spegnere la sigaretta. «Buttala a terra,» disse Giò. «Tanto, ormai…» Giò poggiò una mano sulla fronte di Elena e con lo sguardo le analizzò lividi tagli e bozzi. «Ma tu vedi come t’hanno ridotto quei vigliacchi,» disse. «Passeranno,» Elena abbassò la testa. «C’hai ragione, figlia mia,» disse Giò. «Bisogna essere positivi. Questi lividi ti passeranno, questi dolori ti passeranno—tutto passerà!, e sarai più bella di prima.»

198 Elena sorrise. Elena sentì il taglio sulle labbra aprirsi. Un dolore pungente che le fece stringere i denti. Rivide davanti a sé lo sguardo di Giorgino lo Zingaro e si chiese per quanto ancora quelle immagini l’avrebbero perseguitata. «Elena, prima che ve n’andate vi voglio dare ‘na cosa. Entriamo,» Giò si mise di lato in modo che Elena potesse entrare per prima. «In camera da letto.» Elena entrò, seguita da Giò. Ecco la camera da letto, in fondo a sinistra, dopo la porta del bagno. Elena si sedette sul lettone. Giò aprì un cassetto del comò. Sul comodino accanto al letto c’erano delle fotografie. Elena ne prese una in mano e la osservò. Era una foto in bianco e nero. Di spalle al vecchio casale di Poggiorsini, in ghingheri, c’erano Giò, una donna e un bambino. «Questa era tua moglie?» chiese Elena. «Sì,» disse Giò. «E il bambino è quel filibustiere di mio figlio,» Giò chiuse il cassetto. «Sai, prima non era così normale farsi le fotografie. E quella, me lo ricordo, l’abbiamo fatta il giorno della Festa. Più di quarant’anni fa. Prima, tutti quanti aspettavamo la Festa per farci le foto.» Elena prese un’altra foto. «Questa, ‘nvece?» «Quella siamo io e mia moglie, in viaggio di nozze a Napoli. Quanto tempo è passato…» «Era una bella donna,» disse Elena. «E pure tu non scherzavi da giovane.» «Lo so, lo so,» disse Giò. «Elena, senti. Voi siete giovani e c’avete tutta la vita davanti. Le stelle non sono state proprio buone con voi fino a mo, ma vedrai che le cose cambieranno. Ora che ve ne andate in America, tutto si sistemerà. L’America è l’America! Ricordati solanto che certe cose succedono anche se uno non ci crede. Nel senso, ci sono cose più grandi e potenti di noi. E sono queste le cose che governano il mondo. Non so se me capìsce a mmé?» Elena fece di sì con la testa. Elena fissava Giò come si fissa un profeta. «Lo so che voi non siete superstiziosi e non credete a certe cose,» disse Giò. «Lo so, i giovani di oggi non credono a niente. Però, visto che vi aspettano ancora tante avventure, io ho pensato di regalarvi questi,» Giò diede a Elena un piccolo astuccio quadrato. «Ho notato che tu e Bob non portate le fedi—» «Ce le hanno rubate una volta a Ostia e da allora—» «Non fa niente,» disse Giò. «Lì dentro ci sono le fedi che ci siamo scambiati io e la buonanima di mia moglie. Quella sua io non l’ho voluta mettere nella tomba. E oggi mi rendo conto che ho fatto bene. Ora sono vostre. Spero che vi vanno bene. Se le volete portare, portatele. Sennò, non fa niente, ma però almeno c’avrete un ricordo di quel vècchije rimbambíte di Giò Casino.» Gli occhi di Giò furono inondati dalle lacrime. Un paio di gocce scivolarono a fatica sul viso rugoso. Gli tremavano le mani. Gli tremavano le labbra. In bocca un cumulo di saliva amara intrappolava parole e pensieri formati solo a metà. E più Giò guardava il volto tumefatto di Elena, più sentiva il cuore creparsi. Com’era stata cattiva la vita con quei giovani innamorati. Com’era stata ingiusta e sprezzante. «Non posso accettare,» disse Elena. Scollò gl’occhi dalle fedi e richiuse l’astuccio. «No,» disse Giò. «Niente storie. Quelle fedi sono vostre. E ora, muovetevi. Andatevene da qui.»

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La soluzione per i dischi la trovò Elena. Giò aveva detto di caricarli in macchina al posto dei bagagli. «Tanto i vestiti li ricomprate.» Bob, invece, aveva insistito nel volerli regalare a Giò. «Perché non facciamo così?» disse Elena. «Ti lasciamo i dischi a te, Giò; poi, quando ce semo sistemati ‘n America, ti mandiamo ‘na lettera e ti diamo l’indirizzo. Tu, allora, prendi i dischi e ce li spedisci. Eh? Li spedisci a carico nostro, è ovvio. Come se dice? Ad assegno?» «Contro assegno,» disse Bob.

199 «Ecco, sì. Quelli ce li portano e noi pagamo quello che c’è da pagà. Tu, Giò, ti devi solo prende ‘r fastidio di tenelli fino a quer momento e chiamà ‘r corriere per spedilli. È ‘n problema, pe’ te?» «Assolutamende. Non gi sono problemi. Gl’unici problemi che ha Giò Casino sono problemi risolvibili.» Giò allargò le labbra in un sorriso paterno. «Va bene,» disse, «‘sta soluzione mi piace.»

I tre si salutarono. Si abbracciarono forte e a lungo. Elena scoppiò in lacrime. Bob idem. Giò si trattenne ma non smise di tremare. «Giò, grazie infinite per tutto quello che hai fatto per noi,» disse Bob. «Non lo dimenticherò mai.» «Muovetevi,» Giò stava per esplodere. «Giò, tu sei l’uomo più rock che abbia mai incontrato,» Bob lo abbracciò un’ultima volta. «Basta ora, muovetevi!» disse Giò Casino. «Ti voglio bene,» disse Elena in lacrime. «Scétavìnne!» Giò si liberò dell’abbraccio di Elena con impeto. «Basta! Andatevene!» Bob entrò in macchina. Girò la chiave e diede due colpi d’acceleratore. Il rombo echeggiò contro le pareti del palazzo. «Ciao Giò.» «Ciao Giò,» Elena si tamponò gl’occhi con un fazzoletto. «Buona fortuna,» disse Giò Casino, lacrimando. «Via! Via! Andate!» La Mercedes partì. Elena aveva la testa girata e muoveva la mano. Bob mise fuori il braccio sinistro e lo tenne sollevato fino all’incrocio in fondo allo stradone del CEP. Giò li vide scomparire. Giò fece un respiro profondo. Il sogno di andare in America viveva in loro, in Bob e Elena. Sarebbero stati loro a realizzarlo per lui. Un senso di pace lo invase.

200 18

La cagna amica di Bob vide Bob e Elena entrare in macchina e andarsene. La cagna seguì con lo sguardo la Mercedes, trottando nel piccolo uliveto lì vicino. Non la seguì a lungo, giusto il tempo di vederla scomparire; poi raggiunse lo spazio tra il secondo e il terzo palazzo e s’accovacciò rasente una parete. Fece un lungo sbadiglio e si grattò un lato del collo con la zampa posteriore, la sinistra. Leccò il dorso del piede destro, affondò gli incisivi tra il primo e il secondo dito e grattò con foga. La gola veniva gonfiata a intermittenza da sbuffi di piacere misto a sforzo. La cagna sollevò la testa e puntò il naso alla sua sinistra—un suono! un sibilo! qualcosa! Erano le pagine del quaderno del mini-market. Il vento le sfogliava e le faceva ruotare come le pale di una ventola. La cagna s’avvicinò al quaderno e l’annusò. Niente di che. Affondò le unghie del piede destro in quelle pagine ingiallite e impregnate d’acqua e raschiò come se stesse scavando. Le pagine si strappavano con una facilità ridicola. La cagna si guardò alle spalle, la zampa destra a tenere fermo il quaderno. Non c’era niente e nessuno. Solo la vita che scorreva inesorabile. Si voltò e annusò il quaderno un’ultima volta prima di ridurlo in coriandoli deformi. «Aaahhhuuuuuuu!!» ululò a lavoro finito.

201 19

Giò Casino era seduto alla sua vecchia sedia di vimini davanti al portone del terzo palazzo quando la Uno dei carabinieri gli si accostò. «’Sera,» salutò il maresciallo appena sceso. «Maresciallo, buonasera.» «Giò, dimmi ‘na cosa: quella che hanno visto uscire da Poggiorsini ‘n’oretta fa era la Mercedes di Nicola DeBellis?» «E che ne so io,» rispose Giò. «Era quella. Ma, dimmi un po’, come mai DeBellis l’ha data a Bob Cammeruomo?» «E che ne so io,» disse Giò. «Chiedilo a DeBellis.» «E dove stanno andando Bob e la moglie?» «Marescia’,» Giò si strinse nelle spalle. «Io non so niente.» «Dai, Giò, non fare così. Dimmi cosa sta succedendo.» «Niente, marescia’, non sta succedendo niente.» Il maresciallo incrociò le braccia sul petto, fissando Giò Casino. Di sicuro nascondeva qualcosa. Si capiva dalla postura, dalla strafottenza dello sguardo, dalle risposte schive e telegrafiche. «Giò, sono venuto qua perché volevo fare due chiacchiere con Bob. So’ giorni che non si vede in giro e nessuno sa che fine ha fatto. So che qualche giorno fa tu l’hai aiutato.» Giò rimase in silenzio. Diede un’occhiata furtiva al carabiniere rimasto in macchina, poi ritornò a guardare il maresciallo. Il maresciallo spiegò il motivo delle sue domande. Si trattava della “Tragedia del Bowling”, una cosa seria. Come avevano detto i giornali, forse c’era un sesto uomo e non s’erano ancora trovati né soldi né droga. Se Bob non era quel sesto uomo e non aveva soldi e droga, magari poteva aiutare a capire o, almeno, aiutare a far abbandonare delle piste senza via d’uscita. Non era uno scherzo, quello. Lì, a Corato, c’erano stati dei morti ammazzati. Pure un ragazzino di 16 anni. «Ho capito, ma che c’entra Bob?» chiese Giò. «Che c’entra?» disse il maresciallo. «Secondo te, Giò, è normale che di Bob non si sa niente—tranne che oggi era qui e che l’hanno visto alla guida di una macchina non sua—non si sa niente precisamente dal giorno della tragedia? Secondo te non c’entra niente che lui e Consuelo erano culo e camicia fino a quel giorno e poi, uno muore ammazzato e l’altro scompare?» «Coincidenze, marescia’, sono solo coincidenze,» Giò non aveva mai detto una cosa più falsa di quella. «Ehi, Giò, non provare a prendermi per il culo!» Il maresciallo si tolse il cappello, lo infilò sotto l’ascella sinistra e diede le spalle a Giò. «Marescia’,» disse Giò. «Quei due, Bob e Elena, coi morti ammazzati non c’entrano niente. Tu sai cos’hanno fatto e in che guai si so’ andati a cacciare. Sai cosa faceva lei e sai cosa faceva lui. Con la storia del Bowling, però, non c’entrano niente. E poi, lì a Corato, come si dice?, si so’ ammazzati tra di loro. Meglio così. Meno delinquenti in giro. Non credi, marescia’?» «E questo sarebbe quello che diresti tu alla madre di quel ragazzino? Eh? Che si sono ammazzati tra di loro?» «No, maresciallo, lo sai cosa volevo dire. Mi dispiace per quel ragazzo, ma però Bob e Elena nan g’èndrene nùdde. Loro hanno fatto i loro errori, è vero; però è anche vero che hanno già pagato. Hanno sofferto, e non poco.» «Sì, ma la legge—» «La legge,» disse Giò. «La legge è fatta dagli uomini per gl’uomini. È inutile cercare di farla diventare ‘na cóse divìne.»

202 «Ma che divina e divina,» disse il maresciallo. «Qui non stiamo parlando di peccati, ma di reati.» «Marescia’, di’ la verità,» disse Giò. «Quante volte hai chiuso ‘n occhio? Eh? Quanda vòlte jè succìsse? Magari quacche vòlte ne hai chiusi pure due. E mo, asàtte-asàtte co’ quei disgraziati dobbiamo rispettare la legge? E invece, di quell’Alfa bianca che è venuta stamattina? Non sapete niente, vero? Quelli sono i veri criminali che dovete fermare.» Il maresciallo fissò Giò circospetto. Alfa bianca? Criminali veri? Ma che si stava inventando? «Per favore, marescia’,» disse Giò. «Te lo chiedo come favore personale: lasciali perdere.» «Giò, se hanno commesso dei reati, devono pagare davanti a un giudice, non con le sofferenze che dici tu,» il maresciallo calzò di nuovo il cappello. «Ehm… dimmi un po’. Cos’è ‘sta storia dell’Alfa bianca? C’entra qualcosa col Bowling?» «Maresciallo, ti do la mia parola che domani saprai tutto quello che c’è da sapere,» Giò si mise una mano sul cuore. «Domani. Parola d’onore. E Giò Casino è uomo di parola, tu u sé.»

203 20

La fuga. L’ennesima. Forse l’ultima. Finito il rettilineo che da Poggiorsini portava sulla statale 97, Bob svoltò a destra e subito a sinistra. Oltrepassò i binari e dopo la prima curva cercò di scorgere Poggiorsini nello specchietto retrovisore. Il paese era lì. Ancora lì. Le case e i palazzi stesi a orizzonte si perdevano nei colori del crepuscolo. Dopo un paio di curve, penetrando nelle Murge, Poggiorsini sarebbe scomparso per sempre. La luna splendeva timida e romantica. Il suo alone era appena accennato. Poche nuvole persino in alta quota. Oltre le Murge, l’imbrunire inghiottiva il chiarore di quella giornata indimenticabile. In cielo si stavano schierando eserciti di stelle luminose. Eserciti che avrebbero mortificato quella zoccola di Sirio. «Sentiamo un po’ di musica?» Bob ruppe il silenzio. «Ok,» disse Elena. «Passami il porta-cd.» Elena indossava una gonna nera che le sfiorava le ginocchia, delle paperine nere e una camicia bianca, sbottonata in modo da far scorgere il reggiseno viola di pizzo. Ironia della sorte, il reggiseno faceva pendant coi lividi. Bob, invece, era vestito ancora coi vestiti di Sante e figlio. Ai piedi le Superga con cui era arrivato in paese. Non più linde e immacolate, ma sporche, invecchiate, corrotte. Come lui. «Va bene qualcosa di Bob Dylan?» chiese Bob. «Sì,» disse Elena. «Perché no.» She belongs to me.

She’s got everything she needs She’s an artist, she don’t look back She’s got everything she needs She’s an artist, she don’t look back She can take the dark out of the nighttime And paint the daytime black

«Bellissima ‘sta frase,» disse Bob. «Dice: Lei può togliere il buio dalla notte e dipingere il giorno di nero. Spettacolare, no?» «Mm…» disse Elena. «Che palle che non so l’inglese.» «Qualcosa la sai, su. E poi, amore,» Bob voltò la testa verso di lei, «ora che andiamo in America non ci metterai niente a impararlo. L’inglese non è difficile.» Elena apprezzò le parole di conforto di Bob, ma dentro di sé non ci credeva. Poi ricordò ciò che le aveva detto Giò prima di darle le fedi. “Certe cose succedono anche se uno non ci crede.”

She never stumbles She’s got no place to fall She never stumbles She’s got no place to fall She’s nobody’s child The Law can’t touch her at all

204 «Sai, Elena, a parte il fatto che ai miei genitori piaceva da impazzire—tanto che mi hanno chiamato come lui—a me Bob Dylan mi piace per diversi motivi. Cioè, la sua voce è assurda. Solo uno pieno di talento poteva avere successo con ‘na voce del genere. E poi lui ha contribuito a cambiare il rock. Poco ma sicuro. Sai, il rock è una musica senza troppe pretese. Non è come il jazz o altri generi. Per esempio, nei testi, il rock non è come il country o il blues o la musica folk. Questi sono generi che con le parole che cantano vogliono davvero dire qualcosa, esprimere un messaggio. Il rock non è così. Il rock ha il dono della semplicità, dell’immediatezza. E Bob Dylan ha elevato i testi rock tipo dei primi Beatles—che parlavano di amore, di I want to hold your hand, di lei ti ama e tu devi esserne orgoglioso, eccetera—mettendoci poesia, surrealismo, come un vero artista.» Elena s’era addormentata. I lividi sul suo viso erano un oltraggio. Un oltraggio alla vita. Come un bambino con un fucile in mano o una foresta rasa al suolo. «Elena?» la chiamò Bob. «Mm…» si risvegliò lei. «Lo sai che ti amo?» «Mm…» Elena cominciò a piangere. La salsedine delle lacrime era irritante e irritante era l’odore di DeBellis che riempiva la sua macchina. Un odore che Elena non avrebbe mai dimenticato e che, in quel momento, le penetrava le narici portandola ad immaginare d’avere quell’uomo viscido ancora una volta sul suo corpo—nel suo corpo. «Giò m’ha dato queste,» Elena prese l’astuccio con le fedi e lo aprì. «Sono le fedi di matrimonio. Ce le ha regalate.» «Nooo…» disse Bob. «Ce le mettiamo?» Elena tirò su col naso. «Sì.» Elena infilò l’anello più piccolo e passò l’altro a Bob. Bob mise l’anello al dito. Un po’ stretto, ma non troppo. «Ecco, Elena,» disse Bob. «Per un nuovo inizio. Sposati di nuovo e di nuovo per sempre.» «Per sempre,» gli fece eco Elena. Love minus zero/No limit. Bob alzò il volume. Bob poggiò una mano sulla coscia di Elena. Elena trattenne altre lacrime e coprì la mano di suo marito con la sua.

My love she speaks like silence Without ideals or violence She doesn’t have to say she’s faithful Yet she’s true, like ice, like fire People carry roses And make promises by the hours My love she laughs like the flowers Valentines can’t buy her

In the dime stores and bus stations People talk of situations Read books, repeat quotations Draw conclusions on the wall Some speak of the future My love she speaks softly She knows there’s no success like failure And that failure’s no success at all

205 Elena osservava il paesaggio attorno. Piccole distese di pini e abeti. Ferule dalle cime arse e i fusti violacei. Peri selvatici e roverelle. Nell’aridità e desolazione delle Murge rivedeva sé stessa. Un territorio di sconfinata incertezza. Uno spazio pieno di vuoto. «Questa canzone mi fa pensare sempre a te,» Bob abbassò il volume. «È così poetica e dolce, non so, che non riesco a non pensare a te. Forse sono un po’ troppo romantico certe volte, però sono fatto così.» «E io ti amo perché sei fatto così,» disse Elena. «Sei rock.»

The wind howls like a hammer The night blows rainy My love she’s like some raven At my window with a broken wing

Con lo sguardo Elena rincorse un lunghissimo muretto a secco che si perdeva nelle colline alla destra della strada. «Ci siamo dimenticati l’insegna,» disse Bob, raggiunto da quel pensiero. «E mica te la volevi portà? Dove la volevi mette?» «Non me la volevo portare,» disse Bob. «Forse la potevamo staccare. Così, non so, per chiudere un ciclo.» «No, è stato meglio lasciarla lì. Intanto, così,» Elena cercò di guardare Bob negl’occhi, «rimane un nostro ricordo. E poi, ancora più ‘mportante, lasciandola non facciamo venì sospetti. Se quelli ritornano e passano davanti ar negozio, almeno non capiscono subito che ce ne siamo andati. Stessa cosa se DeBellis si fa ‘n giro ner Corso per cercà ‘a machina sua.» Elena s’inorgoglì della sua fredda lucidità. Si sentì riempire dall’ebbrezza romantica di essere di nuovo in fuga. Per qualche minuto, ansia paura e agitazione scomparvero, risucchiate dal brivido e della fierezza di essere una fuggiasca, una fuorilegge. Come suo padre—come Bob. «Ehi, amore,» disse lei. «Se non ne vòi parlà, va bene; però ti volevo chiede ‘na cosa. Sai, su Renato Consuelo e quel don Nicola di Trani.» Il viso di Bob s’incupì. «Ok,» disse. «Niente, ti volevo chiedere: ma quelli erano proprio dei criminali? Dei veri mafiosi? Cioè, vojo dí, hai avuto a che fà co ‘sta ggente, no? E come sono? Sono come fanno vedere nei film oppure no?» Elena era sovreccitata e curiosa. Sulle orme del padre defunto, sembrava avesse dimenticato che erano morte cinque persone e che Bob l’aveva scampata per un pelo. «Elena,» Bob fece una lunga pausa. «La cosa è che non importa se so’ uguali o no a quelli dei film. Nei film li rendono dei personaggi e diventano cool, però devi sempre ricordarti che queste persone—affascinanti quanto vuoi—queste persone sono violente, arroganti, evil. Sfruttano le debolezze degli altri per accumulare denaro e per far crescere il loro potere, così, poi, come ‘na palla di neve che rotola, le cose s’ingigantiscono. Più aumenta il loro potere più aumenta la loro arroganza e più aumenta la paura in chi ce li ha contro e quindi, di nuovo, aumenta l’impatto che loro hanno sui più deboli. Capito, Elena?» Come parlava bene Bob! S’esprimeva con chiarezza e precisione! E con parole sue! Perché lei non era come lui? Perché? «Sia Renato che il braccio destro di don Nicola, Tonino Scacco-matto, hanno provato a farsi la guerra e a togliersi di mezzo usando me,» disse Bob. «Renato, appena uscito di prigione, voleva tornare a essere la persona importante che era prima di entrare; e quello, Tonino, voleva eliminarlo per non avere nessun tipo di concorrenza. E che hanno fatto? Hanno sfruttato me come esca, capito? Secondo me erano tutt’e due disposti a farmi morire pur di ottenere quello che volevano. Però gl’è andata male. A tutt’e due.» Bob rivide i volti senza vita di Renato e Tonino. Bob si guardò nello specchietto retrovisore. Lui era ancora vivo. In fuga, ma vivo. «Hai capito come giocano con le vite degl’altri, quelli?» disse Bob. «Ehi,» disse Elena. «Ma com’è che se chiama la mafia pugliese? Quella della Sicilia è Mafia, giusto? A Napoli c’è ‘a Camorra. In Calabria ‘a cosa lì, ‘a ‘Ndrangheta. E in Puglia? Sai che non me lo ricordo.» «Sacra Corona Unita,» disse Bob.

206 Un’immagine, un flash, un lampo. Il tatuaggio di Tonino Scacco-matto. Quelle tre lettere ambigue sul crocifisso, SCU. Ecco cos’erano! Le iniziali di Sacra Corona Unita! «Che razza de nome, però,» disse Elena. «Nun sembra ‘n nome serio.» «Ti assicuro io che sono seri. Eccome.» Bob ripensò all’agguato e a come erano andate le cose. Prima i rumori dei proiettili esplosi e dei vetri in frantumi, le urla, l’odore di polvere da sparo e i volti dei morti ammazzati che s’era lasciato alle spalle; poi un dolce fremito di desiderio lungo la schiena. Davanti agl’occhi gli apparvero i panetti di 999 e il bianco-neve di quella polvere magica. Eroina. Che droga impareggiabile! Bob stoppò la musica. Chiese a Elena di passargli il porta-cd e cambiò disco. Mise su una compilation. Lou Reed, Velvet Underground, Doors, Jimi Hendrix, Johnny Thunders, Gun Club, Stooges e altri gruppi capeggiati da tossicomani. Il primo brano, The crystal ship dei Doors.

Before you slip into unconsciousness I’d like to have another kiss Another flashing chance at bliss Another kiss, another kiss

Lo ascoltarono in silenzio, Elena con gl’occhi socchiusi, Bob immaginandosi in un mare di pace, a bordo di una nave di cristallo, piena di thousand girls and thousand thrills, desiderando anche lui, come Jim Morrison, another kiss. «Tu dici che DeBellis s’incazza o ci denuncia quanno s’accorge dâ machina?» «Penso di no,» rispose Bob. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per lui…» “Abbiamo?” pensò Elena, ma non disse niente.

  

Più calava l’altitudine più aumentavano le roverelle e i frutteti. Poi le prime abitazioni e la sensazione di essere prossimi alla civiltà. E con la civiltà finivano le piante spontanee e la terra si ricopriva di uliveti fruttuosi e ben curati. Solo ulivi, ulivi e ulivi. Costeggiarono Ruvo di Puglia, direzione Bari. Bob ricordò il dopo-agguato, quando aveva fatto quella stessa strada al contrario. Dallo stereo partirono le chitarre gracchianti di Hangin’ ‘round di Lou Reed. Bob alzò il volume e scosse la testa a ritmo, il sorriso sornione. «Che grande Lou Reed,» disse. «Di che parlano le sue canzoni?» chiese Elena. «Mammamia! Di droga, prostitute, travestiti, spacciatori, tossici, e tutta la feccia che frequentava lui a New York.» «Non si direbbe.» «Cosa?» «Che parla di queste cose. Per come canta, dico.» «Eh, insomma…» «Non è male, però.» «Non è male?! È spettacolare! Ma lo senti?!»

207 Jeanie was a spoiled young brat She thought she knew it all She smoked mentholated cigarettes And she had sex in the hall

But she was not my kind Or even of my sign The kind of animal That I would be about

Woh-woh-woh, you keep hangin’ ‘round me And I’m not so glad you found me You’re still doing things that I gave up years ago Oh-woh-woh-woh, you keep hangin’ ‘round me and I’m not so glad you found me You’re still doing things that I gave up years ago

Bob continuò a scuotere la testa e a tamburellare sul volante. Elena tacque e per qualche secondo si riaddormentò. Bob abbassò il volume. Ascoltare Lou Reed gli ricordava l’eroina. Era lo stile musicale, era il modo in cui cantava, erano le avventure che raccontava. Ecco un brivido d’eccitazione. Un attimo, un pensiero: ad Atlanta ne avrebbe trovata ancora, di eroina. «Sai cos’ho pensato?» disse Elena. «Che quê stronze dê sorelle di Rossana saranno contente che siamo partiti.» «Non lo so,» disse Bob, lo sguardo fisso alla strada. «Fino a che c’eravamo noi avevano qualcosa di cui sparlare. Ora che ce n’andiamo, non so. Sai, no?, è come i ladri per i poliziotti o i malati per i medici. Senza uno non esiste nemmeno l’altro.» Quant’era intelligente Bob! Come faceva andare il cervello! E lei, invece? Lei no. Lei era una stupida smemorata che faceva solo discorsi banali. Anche se lei, dalla sua, aveva la bellezza. Della serie non si può avere tutto nella vita. «Invece, io, Elena, sembra ‘na cazzata dirlo, però, sai chi non dimenticherò mai?» «Chi?» «La nostra guardiana, la cagna. Sai quella che—» «Hai ragione,» Elena si grattò un polpaccio. «Anch’io mâ ricorderò. E oggi, quando quelli se ne so’ annati, s’è messa a rincorre ‘a Mondeo. Forse perché pensava che eri tu.» «Oppure perché aveva capito che non ero io.» «Mm…» sorrise Elena. «Comunque, sai che quei bastardi l’hanno investita?!» «Nooo…» «Ma lei non s’è fatta gnente, l’ho vista io.» Dallo stereo partì You can’t put your arms around a memory di Johnny Thunders. Un rimprovero della sorte? Il colpo di coda di quella zoccola di Sirio? Era sant’Alessandro, 26 agosto, la fine della canicola. Dal giorno dopo Sirio non sarebbe sorta più assieme al sole. Fine di disgrazie e sciagure. Bob pensò a Giò Casino. Bob alzò il volume per annientare i ricordi.

It doesn’t pay to try All the smart boys know why It doesn’t mean I didn’t try I just never know why

208 Feel so cold and all alone Cause baby you’re not at home And when I’m home Big deal, I’m still alone

Feel so restless, I am Beat my head against a pole Try to knock some sense Down in my bones And even though they don’t show The scars aren’t so old And when they go They’ll let you know

You can’t put your arms around a memory You can’t put your arms around a memory You can’t put your arms around a memory Don’t try, don’t try

  

Ecco il mare all’orizzonte. Piatto come una tavola e scuro come il futuro. «Lo vedi il mare?» disse Bob. «Sì,» disse Elena. «Micidiale.» Le Murge alle spalle. Poggiorsini e Poggio Rock alle spalle. La canicola, idem. La vita da cani… speriamo.

Perfect day di Lou Reed. Una canzone-miracolo. Straziante. Inimitabile. Perfect.

Just a perfect day Problems all left alone Weekenders on our own It’s such fun Just a perfect day You made me forget myself I thought I was someone else Someone good

Oh it’s such a perfect day I’m glad I spent it with you Oh such a perfect day You just keep me hanging on You just keep me hanging on

Bob piangeva. Elena si voltò a guardarlo e seguì una lacrima scivolargli sulla guancia destra e cadere sui suoi jeans neri. La vide lì, la lacrima, luccicosa per qualche secondo, poi parte dei jeans. Elena sentì l’occhio livido pulsare e bruciare. Erano lacrime solidali che si facevano spazio tra il gonfiore.

You’re going to reap just what you sow You’re going to reap just what you sow You’re going to reap just what you sow You’re going to reap just what you sow

209 «Che significa ‘sta frase?» chiese Elena, l’occhio livido sedato in qualche modo. «Significa Raccoglierai solo quello che semini. È un proverbio.» I due pensarono a quella frase a lungo. Una frase semplice e perfida. Proprio come la vita.

  

«Cosa sei andato a fare dal ragazzino sopra?» chiese Elena. «Sono andato a salutarlo e gl’ho lasciato la mia collana.» «Cosa?!» disse Elena. «Cor crocifisso e tutto?» «Sì.» «E perché?» «Perché non ne ho bisogno. Io volevo dargli i dischi perché sono convinto—non troppo, però un po’— sono convinto che quelli mi hanno portato sfiga; poi però Giò m’ha detto di lasciar perdere, ché quello non li avrebbe mai ascoltati eccetera, allora ho deciso di dargli il crocifisso. Tanto anche la religione, se è per questo, mi ha portato sfiga. È da sempre che porto quella collana, no?, lo sai. E che razza d’aiuto m’ha dato Cristo? Zero.» «Bob, non capisco,» disse Elena. «Proprio da te ‘ste cose superstiziose nun me l’aspettavo.» «Ma non è tanto superstizione. Forse, anche. Però, ricordati, amore, che quel ragazzino—stronzo quanto vuoi —però quel ragazzino m’ha salvato la vita. ‘Na cosa gliela dovevo dare.» Elena poggiò la testa al finestrino, un sorriso enigmatico stampato in faccia, lo sguardo perso all’esterno. Avevano superato Bitonto da poco. Ora erano nella zona industriale di Bari, a Modugno. Fabbriche, capannoni malmessi e insegne di grandi magazzini d’ogni tipo. Ogni tre nomi italiani, un ideogramma cinese. Bob svoltò verso l’aeroporto di Bari-Palese. Qualche curva dall’asfalto dissestato e un paio di lunghi rettilinei. Un ponte, una rotonda, un semaforo, un altro rettilineo. In lontananza si vedeva la torre di controllo. Un aereo stava atterrando. Bob ritirò il tagliando del parcheggio. Fatti cento metri, si poteva scegliere in quale parcheggio andare. A sinistra, LENTO; a destra, ROCK. Una scelta troppo facile per Bob. Trovato un posto, spense la macchina e scosse Elena che si era addormentata. «Puledrina, dai, su, andiamo: siamo arrivati.» Presero i pochi bagagli e si diressero verso le Partenze. Prima di entrare Bob si voltò per commiatarsi da quella terra. “Let me forget about today until tomorrow,” cantò tra sé e sé, lanciando un’occhiata al cielo stellato e maledicendo un’ultima volta quella zoccola di Sirio.

210 Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by- nc-nd/3.0/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

211 COLONNA SONORA

LATO A

1 Baby, Please Don’t Go (cover), THE AMBOY DUKES, The Amboy Dukes, Mainstream Records, 1967. I Need You, THE KINKS, (B-side di) Set Me Free (singolo), Pye Records, 1965. No Fun, THE STOOGES, The Stooges, Elektra Records, 1969. Heart Full of Soul, THE YARDBIRDS, Heart Full Of Soul (singolo), Columbia Records, 1965. Back Door Men (album), THE SHADOWS OF KNIGHT, Sundazed, 1966.

2 Retorika, DISCIPLINATHA, Abbiamo Pazientato 40 Anni. Ora Basta!, Attack Punk Records, 1988.

4 An Ugly Death, JAY REATARD, Matador Singles ’08, Matador Records, 2008. Love Me Do, THE BEATLES, Love Me Do (singolo), Parlophone, 1962. Be My Baby, THE RONETTES, Be My Baby (singolo), Philles Records, 1963. From Me To You, THE BEATLES, From Me To You (singolo), Parlophone, 1963. Run, Run, Run, THIRD RAIL, Run, Run, Run (singolo), Epic Records, 1967. A Public Execution, MOUSE AND THE TRAPS, A Public Execution (singolo), Fraternity Records, 1966. Dirty Water, THE STANDELLS, Dirty Water (singolo), Tower Records, 1966. Green Circles, THE SMALL FACES, Small Faces, Immediate Records, 1967. Tell Her No, THE ZOMBIES, Tell Her No (singolo), Decca Records, 1965. Don’t Let Me Be Misunderstood (cover), THE ANIMALS, Don’t Let Me Be Misunderstood (singolo), Columbia Graphophone, 1965. Don’t Let Me Be Misunderstood (cover), SANTA ESMERALDA, Don’t Let Me Be Misunderstood, Hot Production Records, 1977. Time Of The Season, THE ZOMBIES, Odessey And Oracle, CBS Records, 1968. You’re Gonna Miss Me, 13TH FLOOR ELEVATORS, You’re Gonna Miss Me (singolo), International Artists, 1966. Rock & Roll, THE VELVET UNDERGROUND, Loaded, Cotillion Records, 1970. Psychotic Reaction, COUNT FIVE, Psychotic Reaction (singolo), Double Shot Records, 1966. We’ve Gotta Get Out Of This Place (cover), THE ANIMALS, We’ve Gotta Get Out Of This Place (singolo), Graphophone Records, 1965. You Got The Silver, THE ROLLING STONES, Let It Bleed, Decca Records, 1969. Hai Paura Del Buio? (album), AFTERHOURS, Mescal Records, 1997. Rave On (cover), THE REAL KIDS, The Real Kids, Red Star Records, 1978. Talihina Sky, KINGS OF LEON, Youth And Young Manhood, RCA Records, 2003. Time To Go, SUPERGRASS, I Should Coco, Parlophone, 1995.

6 She’s My Best Friend, THE VELVET UNDERGROUND, VU, Verve Records, 1985. Sex Beat, THE GUN CLUB, Fire Of Love, Ruby Records, 1981. Hot Rocks 1964-1971 (album), THE ROLLING STONES, ABKCO Records, 1971. Get Off Of My Cloud, THE ROLLING STONES, Get Off Of My Cloud (singolo), London Records, 1965. Mother’s Little Helper, THE ROLLING STONES, Aftermath, Decca Records, 1966.

212 Let’s Spend The Night Together, THE ROLLING STONES, Let’s Spend The Night Together (singolo), Decca Records, 1967.

7 Jealous Guy, JOHN LENNON, Imagine, Apple Records, 1971.

9 Male Di Miele, AFTERHOURS, Hai Paura Del Buio?, op. cit. Bringing It All Back Home (album), BOB DYLAN, Columbia Records, 1965. Subterranean Homesick Blues, BOB DYLAN, Bringing It All Back Home, op. cit. Pelle, AFTERHOURS, Hai Paura Del Buio?, op. cit. Dea, AFTERHOURS, Hai Paura Del Buio?, op. cit. Shoot Your Gun, 22-20S, 22-20s, Heavenly Records, 2004. Thirteen Tales From Urban Bohemia (album), THE DANDY WARHOLS, Capitol Records, 2000. Godless, THE DANDY WARHOLS, Thirteen Tales From Urban Bohemia, op. cit.

11 Siamo Umani, LITFIBA, El Diablo, CGD, 1990. Time Is On My Side (cover), THE ROLLING STONES, The Rolling Stones No. 2, Decca Records, 1965.

13 Inside Out (album), THE MIRACLE WORKERS, Voxx Records/Bomp Records, 1985. I’m A Man (cover), THE WHO, My Generation, Brunswick Records, 1965. A Legal Matter, THE WHO, My Generation, op. cit. Highway Chile, THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE, (B-side di) The Wind Cries Mary (singolo), Track Records, 1967. Ain’t No Telling, THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE, Axis: Bold As Love, Track Records, 1967. Little Wing, THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE, Axis: Bold As Love, op. cit. Dieci Ragazze, LUCIO BATTISTI, (B-side di) Acqua Azzurra, Acqua Chiara (singolo), Dischi Ricordi, 1969.

15 Shot Down, THE SONICS, Boom, Etiquette Records, 1966. I’m Waiting For The Man, THE VELVET UNDERGROUND, The Velvet Underground & Nico, Verve Records, 1967. Something Against You, PIXIES, Surfer Rosa, 4AD, 1988. Mr. Tambourine Man, BOB DYLAN, Bringing It All Back Home, op. cit.

16 Easy Lady, SPAGNA, Easy Lady (singolo), CBS, 1986.

17 Seven Nation Army, THE WHITE STRIPES, Seven Nation Army (singolo), XL Recordings, 2003. Is This It (album), THE STROKES, RCA Records, 2001. Alone, Together, THE STROKES, Is This It, op. cit. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (album), THE BEATLES, Parlophone, 1967. Rubber Soul (album), THE BEATLES, Parlophone, 1965. Heroin, THE VELVET UNDERGROUND, The Velvet Underground & Nico, op. cit. Sunny Afternoon (singolo), THE KINKS, Pye Records, 1966. I’m Not Like Everybody Else, THE KINKS, (B-side di) Sunny Afternoon (singolo), op. cit.

213 18 One Of Us Must Know (Sooner Or Later), BOB DYLAN, One Of Us Must Know (Sooner Or Later) (singolo), CBS Records, 1966. It’s Not Enough, JOHNNY THUNDERS & THE HEARTBREAKERS, L.A.M.F., Track Records, 1977. Solitary Man (cover), JOHNNY CASH, American III: Solitary Man, American Recordings, 2000. Jealous Guy, JOHN LENNON, Imagine, op. cit. Town Called Malice, THE JAM, Town Called Malice (singolo), Polydor, 1982. Sonic Reducer, DEAD BOYS, Young Loud And Snotty, Sire Records, 1977. So Long, THE KINKS, Kinda Kinks, Pye Records, 1965. I Should Coco (album), SUPERGRASS, op. cit. Time To Go, SUPERGRASS, I Should Coco, op. cit. The Way I Walk (cover), THE CRAMPS, Gravest Hits, Illegal Records, 1979. My Generation (album), THE WHO, op. cit. Garbageman, THE CRAMPS, Songs The Lord Tought Us, Illegal Records, 1980. Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve), BUZZCOCKS, Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn’t’ve) (singolo), United Artists, 1978. I Will Dare, THE REPLACEMENTS, I Will Dare (singolo), Twin/Tone Records, 1984. Favorite Thing, THE REPLACEMENTS, Let It Be, Twin/Tone Records, 1984. If The Kids Are United, SHAM 69, If The Kids Are United (singolo), Polydor, 1978. Pretty Vacant, THE SEX PISTOLS, Pretty Vacant (singolo), Virgin Records, 1977. Holidays In The Sun, THE SEX PISTOLS, Holidays In The Sun (singolo), Virgin Records, 1977. Kick Out The Jams, MC5, Kick Out The Jams, Elektra Records, 1969. Looking At You, MC5, Back In The U.S.A., Atlantic Records, 1970. Blitzkrieg Bop, THE RAMONES, Ramones, Sire Records, 1976. Beat On The Brat, THE RAMONES, Ramones, op. cit.

LATO B

2 Get Me To World On Time, THE ELECTRIC PRUNES, The Electric Prunes, Reprise Records, 1967.

3 Oh, How To Do Now, THE MONKS, Black Monk Time, Polydor, 1966. What Do You Want, THE YARDBIRDS, Ultimate!, Rhino Records, 2001. Riot On Sunset Strip, THE STANDELLS, Riot On Sunset Strip (soundtrack), Tower Records, 1967. Bad Little Woman, THE SHADOWS OF KNIGHT, Back Door Men, op. cit. I Never Knew, THE FUZZTONES, Action (singolo), Situation Two Records, 1990. Let It Bloom (album), BLACK LIPS, In The Red Records, 2005. Can’t Dance, BLACK LIPS, Let It Bloom, op. cit. Boomerang, BLACK LIPS, Let It Bloom, op. cit.

4 Intro (Every time), NICKEL EYE, The Time Of The Assassins, Rykodisc Records, 2009. You And Everyone Else, NICKEL EYE, The Time Of The Assassins, op. cit. Back From Exile, NICKEL EYE, The Time Of The Assassins, op. cit.

214 Creep In The Cellar, BUTTHOLE SURFERS, Rembrandt Pussyhorse, Touch And Go Records, 1986. The Warlock In The Woods, SHANNON AND THE CLAMS, I Wanna Go Home, 1-2-3-4 Go! Records, 2009. When I Get Mad, REATARDS, Teenage Hate, Goner Records, 1998. It’s No Fun Until They See You Cry, THE DIRTBOMBS, We Have You Surrounded, In The Red Records, 2008. Gimme Danger, THE STOOGES, Raw Power, Columbia Records, 1973.

5 Psycho Killer, TALKING HEADS, Talking Head: 77, Sire Records, 1977.

7 Paranoid, BLACK SABBATH, Paranoid (singolo), Vertigo Records, 1970. I Gotta Move, THE KINKS, (B-side di) All Day And All Of The Night (singolo), Pye Records, 1964.

9 Travel With Your Mind (album), THE SEEDS, GNP Crescendo Records, 1993. Satisfy You, THE SEEDS, Travel With Your Mind, op. cit.

10 Da Capo (album), LOVE, Elektra Records, 1967. Stephanie Knows Who, LOVE, Da Capo, op. cit. Orange Skies, LOVE, Da Capo, op. cit. The Castle, LOVE, Da Capo, op. cit. She Comes In Colors, LOVE, Da Capo, op. cit.

11 Obladì Obladà (cover), I RIBELLI, Obladì Obladà (singolo), Dischi Ricordi, 1969. Mr. Tambourine Man (cover), THE BYRDS, Mr. Tambourine Man (singolo), Columbia Records, 1965. Aida (album), RINO GAETANO, IT, 1977. Escluso Il Cane, RINO GAETANO, Aida, op. cit.

12 I’ll Be Your Mirror, THE VELVET UNDERGROUND, The Velvet Underground & Nico, op. cit. Tutto Fa Un Po’ Male, AFTERHOURS, Non È Per Sempre, Mescal Records, 1999.

13 Odessey And Oracle (album), THE ZOMBIES, op. cit. Care Of Cell 44, THE ZOMBIES, Odessey And Oracle, op. cit. This Will Be Our Year, THE ZOMBIES, Odessey And Oracle, op. cit.

14 Blue Dress, DEPECHE MODE, Violator, Mute Records, 1990. Like A Rolling Stone, BOB DYLAN, Highway 61 Revisited, Columbia Records, 1965. Tombstone Blues, BOB DYLAN, Highway 61 Revisited, op. cit. Queen Jane Approximately, BOB DYLAN, Highway 61 Revisited, op. cit. Highway 61 Revisited, BOB DYLAN, Highway 61 Revisited, op. cit. Desolation Row, BOB DYLAN, Highway 61 Revisited, op. cit. Transfor mer (album), LOU REED, RCA Records, 1972. 1964-1985 Affinità-Diveregenze Fra Il Compagno Togliatti E Noi – Del Conseguimento Della Maggiore Età (album), CCCP – FEDELI ALLA LINEA, Attack Punk Records, 1985.

215 15 Songs Of Leonard Cohen (album), LEONARD COHEN, Columbia Records, 1967. One Of Us Cannot Be Wrong, LEONARD COHEN, Songs Of Leonard Cohen, op. cit.

16 The End, THE DOORS, The Doors, Elektra Records, 1967.

20 She Belongs To Me, BOB DYLAN, Bringing It All Back Home, op. cit. Love Minus Zero/No Limit, BOB DYLAN, Bringing It All Back Home, op. cit. The Crystal Ship, THE DOORS, The Doors, op. cit. Hangin’ ‘Round, LOU REED, Transfor mer, op. cit. You Can’t Put Your Arms Around A Memory, JOHNNY THUNDERS, So Alone, Sire Records, 1978. Perfect Day, LOU REED, Transfor mer, op. cit.

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