Poggio Rock Di Alex Carulli
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Poggio Rock di alex carulli Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by- nc-nd/3.0/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA. La carna trìste nan la vòle né u diàule é mmànghe Crìste Proverbio Let me forget about today until tomorrow Mr. Tambourine Man Bob Dylan 2 Lato A 3 1 In cielo manco una stella. Buio pesto a ovest e timidi bagliori azzurri a est. Erano le 4:35 e Bob stava ancora guidando. Aveva gl’occhi rossi e stanchi, le gambe indolenzite, i tendini delle mani tesi, lo stomaco vuoto. Batticuore e agitazione. Bob prese l’uscita per Trani. Gli Appennini e Roma alle spalle. Casa e negozio, idem. Gli usurai… Speriamo. Sulla provinciale 238 un posto di blocco. Carabinieri. A quell’ora? Un brivido lungo la schiena e una domanda senza risposta: perché hai paura anche di loro? Anziché entrare a Trani e raggiungere la costa, Bob svoltò a destra verso Corato, verso le Murge. Elena dormiva accanto a lui, la faccia spalmata sul finestrino. Era appena finita Baby, please don’t go degli Amboy Dukes e ora erano le chitarre dei Kinks a riempire l’abitacolo. La canzone era I need you, il volume basso. Attorno a sé uliveti, uliveti e uliveti. Rettilinei dal manto dissestato, lunghi e stretti. I need you I need you more than birds need the sky I need you It’s true little girl That you can lift the tears from my eyes Senza nemmeno rendersene conto, superò Corato e superò Ruvo di Puglia, tagliando le Murge. Ecco un incrocio strano. Bob mise lo stereo in pausa e rimase indeciso per qualche istante, fissando il cartello. A sinistra, proseguendo sulla SP238, tre città che aveva già sentito nominare: Matera, Altamura, Gravina in Puglia; a destra, SP39, un nome sconosciuto: Poggiorsini. Guardò Elena come a chiederle un parere. Elena dormiva, stessa posizione, bella. Bob svoltò a destra, verso quel posto dal nome sconosciuto. Il giorno dopo, tanto, sarebbero tornati indietro, alla volta della costa pugliese. Gli uliveti erano scomparsi. Mandorli, ciliegi, roverelle, rocce e terra arida. I fiori delle ferule a catturare il pallore lunare. Muretti a secco e cespugli spinosi. Ecco le Murge, quelle vere. Dopo un passaggio a livello e una svolta a destra, Bob si fermò in una piazzola. Da lontano osservò Poggiorsini. Il paese era poggiato su una collina. Il paese era una linea orizzontale di luci. Una strada di un paio di chilometri s’infilava perpendicolare al centro della linea di luci, formando una T. 4 Bob fece dei respiri profondi, cercando di calmare l’ansia. Sentì il cuore rallentare e una spinta di tranquillità salire dallo stomaco. Solo in quel momento ripartì e imboccò la strada che portava al paese. Un paesino deserto, silenzioso, vuoto. Bob fece il Corso. Arrivato alla fine, tornò indietro. Al penultimo incrocio svoltò a sinistra, senza sapere perché, e dopo cento metri parcheggiò accanto al primo di tre palazzi disabitati. Spense la macchina. Una Mondeo blu scuro del ’99. Una macchina coi controcoglioni che non aveva mai dato problemi. Scese e si stiracchiò, producendo suoni di piacere molto simili a ululati. Accese una sigaretta e si guardò intorno. Non c’era un cazzo. Niente di niente. Strade vuote, lampioni, e case amalgamate alla notte. Bob indossava un maglione rosso col collo a V; jeans chiari aderenti e delle Superga bianche quasi immacolate. La luce della luna si rifrangeva sul crocifisso d’oro che spuntava dalla V assieme a un fitto cespuglio di peli. In fondo allo stradone, all’altezza del terzo palazzo, una cagna camminava rasente le pareti. Una bastardina di stazza media, dal pelo medio-lungo. Testa piccola, zampe corte, coda lunga. Si sentiva il ticchettio delle unghie opache sul marciapiede. S’avvicinò a Bob a testa china, la coda frenetica. Si stese su un fianco e rotolò sulla schiena alla ricerca di coccole. «Sei randagia ma non ti fai mancare da mangiare,» Bob le carezzò la pancia abbondante. La cagna chiudeva e apriva le palpebre seguendo il ritmo delle coccole. Le zampe posteriori erano spalancate, mentre quelle anteriori formavano due L capovolte. Bob stringeva la sigaretta tra le labbra. Il fumo gl’accecava la vista e penetrava aspro e insidioso nelle narici. Massaggiato l’animale sentì i muscoli e il cervello rilassarsi. Si tirò su, strizzò gli occhi e prese la sigaretta tra le dita. Raccolse della saliva e la sputò con disgusto misto a sollievo. La cagna seguì lo sputo con lo sguardo, s’avvicinò alla bolla di saliva e la raccolse con la sua lingua rosa. Si voltò un attimo dopo verso Bob. «My God,» disse lui. «Che schifo.» Bob era nato in America, dov’era rimasto fino all’età di 9 anni. Il suo sogno era di ritornare ad Atlanta, Georgia, e vivere lì con Elena e i loro futuri bambini. Magari aprire un negozio di dischi lì. Un negozio cult, un rifugio per i rockettari. Diverso dal negozio di Roma, andato in fumo tre giorni prima. Lì, ad Atlanta, avrebbe gestito un posto unico e inimitabile: la nuova Mecca del rock. E se poi le cose andavano bene, chi lo sa, poteva pure provare a diventare una rockstar come aveva sempre sogna— La cagna abbaiò. Fissava Bob scodinzolando. «Massì,» disse lui. «Fermiamoci qui, stanotte.» Strusciò le nocche sulla testa della cagna, si voltò, aprì la portiera ed entrò in macchina. Elena dormiva, stessa posizione. Fece mezzo giro di chiave. Il quadro s’illuminò. Erano le 5:28. No fun, my babe, no fun Bob spense il quadro. L’eco della musica si perse nella notte. Prima di abbandonarsi, Bob guardò al cielo senza stelle: l’alba non era lontana. Si risvegliò di soprassalto qualche minuto dopo. Un fremito gelido a rizzargli il cuoio capelluto, lo sguardo stravolto dal terrore. Si voltò verso Elena. Elena dormiva, stessa posizione. «È meglio se ci mettiamo qui dietro…» 5 Bob avviò la Mondeo senza accendere i fari e parcheggiò sul retro dei tre palazzi. Da lì sembrava cominciasse il nulla. Spense la macchina. Nella cunetta accanto, la cagna sedeva sulle zampe posteriori e guardava in alto verso di lui. “Se arriva qualcuno, almeno…” Bob non finì il pensiero. Nella testa presero forma gli usurai da cui stavano scappando. I lunghi ricci dell’Assessore e i suoi stivali da cowboy. Il dente d’oro e le mani scheletriche di Giorgino lo Zingaro. Giorgino e la sua voce calma. L’Assessore e i suoi nervi tesi. Ma nonostante quelle immagini terribili e i terribili ricordi da cui stava scappando, e nonostante la paura d’essere beccato, Bob s’addormentò sereno. Si sentiva al riparo lì, nascosto dietro i palazzi, sul ciglio del nulla, la cagna a fargli la guardia. Prima i bidoni dell’immondizia sbattuti a terra, i trattori e le urla dei contadini, poi il latrato monotono della cagna lì vicino, Elena si svegliò. Lanciò un’occhiata a suo marito. Bob dormiva, imbronciato. Elena si stropicciò gl’occhi e uscì. Si stiracchiò guardandosi intorno. Vuoto e desolazione. Dove cazzo erano finiti? A perdita d’occhio si vedevano campi, campi e campi. Alcune masserie, dei recinti. Poi ancora campi e campi. Di tanto in tanto delle casupole in tufo: nèi sporadici su una schiena di velluto. Sguardo a est: le Murge, striate qua e là da muretti a secco, fitte di cespugli crespi alternati a rocce. Sguardo a ovest: una valle pezzata da tutte le sfumature del verde e, sullo sfondo, le vette opache dell’Appennino. Nord: campi, campi, campi. Sud: oltre i tre palazzi e qualche altra abitazione, campi, campi, campi. Elena si piegò e pisciò accanto alla portiera della macchina. Ripensò a Roma, la sua città. Ripensò alla loro casa, a tutte le cose che erano stati costretti a lasciarsi dietro. Il divano, il tavolino, la tv al plasma; la camera da letto, le lampade, i vestiti, le scarpe. Gli amici a cui non avevano detto nulla della loro fuga. Gli amici che forse non avrebbero capito. Elena trattenne le lacrime e rivide il cielo limpido della Capitale, e il negozio andato in fiamme. I vigili del fuoco. I curiosi raccolti attorno. Le pareti carbonizzate e le lacrime di Bob. Le domande degli sbirri e di quelli dell’assicurazione. Le risposte imbeccate dagli strozzini. La faccia di uno sbirro. Una faccia che sembrava volesse dire: “Vi capisco, ma perché non li denunciate?” L’impotenza a ricordarle la selezione naturale. Quello stronzo di Darwin—si chiamava così?—la spuntava ancora. Gli strozzini vincevano e loro perde— e loro… fuggivano. Selezione naturale. «Ehi Bob,» lo chiamò. Aprì la portiera e fece mezzo giro di chiave. Le 7:20. «Bo-ooob,» disse. Niente, non si svegliava. “Lasciamolo dormire,” pensò. In fondo alla strada una folla marciava verso i tre palazzi. Sembravano dei manifestanti. Grida, schiamazzi, un mormorio indistinto, suole strisciate sull’asfalto. «Micidiale,» disse Elena, pensando a un quadro. 6 Avanti-avanti uomini vestiti di coppole e abiti logori, le spranghe in pugno. Più dietro, donne dai capelli scompigliati e ragazzini che ronzavano da una parte all’altra, fastidiosi come mosche. Quella folla era un quadro vivente. Elena l’aveva visto mille volte, quel quadro. Stava pure sulla copertina del libro di storia della prima media. Però non ricordava né il titolo né l’autore. Era convinta che Bob sapesse l’uno e l’altro, e come le capitava spesso, maledisse la sua pessima memoria e si vergognò della sua ignoranza.