Civitas

Rivista quadrimestrale di ricerca Registrazione storica e cultura politica Tribunale Civile di Roma • Fondata e diretta da Filippo Meda n. 152 dell’8.04.2004 (1919-1925) • Diretta da Guido Gonella (1947) Civitas è una pubblicazione • Diretta da Paolo Emilio Taviani dell’Istituto Luigi Sturzo (1950-1995) Quarta serie Presidente • Diretta da Gabriele De Rosa Roberto Mazzotta (2004-2007) • Diretta da Franco Nobili (2007-2008) «Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà Direttore Responsabile ed il rigore che l’hanno contraddistinta nei momenti Agostino Giovagnoli più travagliati e complessi. Coordinatore Editoriale I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive Amos Ciabattoni della politica internazionale con un particolare riguardo alla vita italiana ed all’unità europea. Comitato Redazione ... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia, Andrea Bixio in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e, Walter E. Crivellin per un certo verso, se non addirittura, da correggere, Mario Giro da meglio interpretare. Flavia Nardelli Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civi- Ernesto Preziosi tas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000] Giuseppe Sangiorgi Segreteria Redazione Costo di un numero 10,00 € Rita Proietti, Serena Torri Abbonamento a tre numeri €25,00 Abbonamento sostenitore €250,00 Sede (Equivalente a 10 abbonamenti) Via delle Coppelle, 35 00186 Roma C/c postale Tel. 06.68809223-6840421 15062888 intestato a Rubbettino Editore, Viale Rosario Fax 06.45471753 Rubbettino, 10 - 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) [email protected] www.rivistacivitas.it Bonifico bancario Banca Popolare di Crotone - Agenzia di Serrastretta Editore C/C 120418 ABI 05256 CAB 42750 Rubbettino Carte di credito Viale R. Rubbettino, 10 Visa - Mastercard - Cartasì 88049 Soveria Mannelli Tel. 0968/6664275 Pubblicità Fax 0968/662055 Pagina b/n €1.500,00 - Per tre numeri €3.500,00 [email protected]

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Indice

ÿ ICATTOLICI,STORIA E RAGIONI DI UNA PRESENZA

5 Presentazione – Roberto Mazzotta

9 Editoriale – Agostino Giovagnoli

ÿ I DIRITTI DELLA STORIA

17 I cattolici democratici nella storia politica italiana – di Francesco Malgeri

29 Capitalismo e democrazia nell’esperienza dei cattolici italiani in età contemporanea – di Mario Taccolini

45 I cattolici e le istituzioni – di Francesco Bonini

55 L’impegno dei cattolici per il futuro del Paese – di Ernesto Preziosi

69 Cattolicesimo politico per proseguire una storia – di Giuseppe Sangiorgi

ÿ CONTINUITÀ E NUOVA GENERAZIONE

85 Perché della crisi – Come superarla? – Interviste a cura di Ernesto Preziosi

85 Attilio Nicora (Card.)

88 Giuseppe Gervasio

90 Beppe Del Colle

95 Motivi di una assenza. Necessità di una presenza? – Interviste a cura di Maurizio Regosa

095 Giuliano Amato

100 Giuseppe De Rita

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 3 Indice

ÿ ICATTOLICI, L’UNITÀ D’ITALIA, L’EUROPA

107 I Cattolici “soci cofondatori” del Paese – di Angelo Bagnasco (Card.)

113 I nodi di 150 anni di storia – di Agostino Giovagnoli

125 Sul presente e sul futuro dell’Italia – di Lorenzo Ornaghi

135 Identità e “missione” – di Andrea Riccardi

145 I cattolici, la Chiesa e la costruzione dell’Europa unita – di Alfredo Canavero

163 Alle origini: Roma, l’Europa e la Chiesa – di Laura Balestra

ÿ UNO SGUARDO SUL MONDO

179 L’offensiva anticristiana: un fenomeno che va interpretato Analisi e scenari – di Amos Ciabattoni

187 Il Sinodo della Chiesa d’Africa – Una ecclesiologia sociale nel contesto africano – di Jean Mbarga (Mons.)

193 I cattolici: uno sguardo sul mondo – di Jean Dominique Durand

ÿ LA MEMORIA

205 Cossiga, un politico scomodo – di Giuseppe Sangiorgi

207 Dossetti: il profumo della politica – di Bartolo Ciccardini

ÿ APPENDICE

213 Carta d’Intesa per il coordinamento di soggetti sociali cattolici

219 Numeri precedenti Presentazione

• Le condizioni dell’Italia che celebra l’anniversario della sua unificazione in Stato nazionale non sono le più felici. Il passato non è vissuto da tutti come valore civile comune e il futuro è conside- rato con incertezza ed inquietudine. Civitas dedica questo numero all’argomento importante e nobilissimo dell’An- niversario, considerando in particolare alcune questioni che riguardano la comples- sa vicenda del rapporto tra la Chiesa, i cattolici e il processo unitario. La mia generazione ha ben chiaro il ricordo del clima politico e d’opinione che accompagnò le precedenti commemorazioni, quelle di Italia ’60. Allora i valori cul- turali e civili della nazione e dello Stato composti in unità e trasformati in libera e democratica Repubblica dalla Costituzione erano ben presenti e universalmente accolti. In aggiunta, la fiducia in una prospettiva possibile di sviluppo economico e di miglioramento delle condizioni di vita per tutti aiutava i sentimenti di unità e di coesione. Oggi le condizioni sono ben diverse e i cambiamenti sembrano destinati a ge- nerare effetti di lungo periodo. L’Italia stenta ad adattarsi al nuovo indebolita e confusa com’è a causa di una malattia morale e civile sempre più invasiva alla quale è stato impropriamente assegnato il nome di Seconda Repubblica. La società italiana ha smarrito i suoi punti di riferimento, si diffonde la paura per il futuro, l’ostilità nei confronti dei cambiamenti e delle diversità. La cultura dell’unità e della solidarietà tra categorie sociali e aree territoriali ha perso forza. Nelle aree forti aumentano le spinte a fare per sé, nelle aree deboli lo Stato perde autorità e l’illegalità si espande e si consolida. In una simile condizione i cattolici hanno un obbligo evidente e inderogabile di intervento. L’esame delle esperienze storiche è importante e deve essere utilizzato per com- prendere meglio quali possono essere le forme più adatte e gli strumenti politici più opportuni che dobbiamo mettere in campo per dare ancora alla società di cui sia- mo parte il nostro contributo. Siamo stati coinvolti nella formazione dello stato nazionale che fu, nonostante tutto, il necessario fattore di modernizzazione della nazione; abbiamo subito la dit- tatura, rinunciando forzatamente alla testimonianza civile di Luigi Sturzo; siamo

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 5 Presentazione stati il perno della ricostruzione morale, civile e sociale del Paese dotandolo di solidi valori di libertà e di democrazia; viviamo oggi un’esperienza di dispersione e margi- nalizzazione, quasi dovessimo subire gli effetti di un rinnovato non expedit. Nel frat- tempo succede tutto quello di cui si è fatto cenno. Urge una attenta, responsabile e unitaria riflessione che possa portare all’azione che il momento richiede.

Roberto Mazzotta

6 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 I Cattolici, Storia e Ragioni di una Presenza

Editoriale

• Civitas torna a parlare del contributo dei cattolici alla vita politica di ieri, di oggi e, auspicabilmente, anche di domani. Ma per uscire dal celebrativo e per evitare il generico, occorre riconoscere anzitutto che nell’attuale stagione storico- politica, i cattolici incontrano grandissimi ostacoli ad offrire un contributo signi- ficativo alla vita politica italiana. Il problema non sono solo loro: è la politica in quanto tale, quella vera o quella che dovrebbe essere, ad apparire oggi complessi- vamente assente dalla vita pubblica italiana. È il punto di arrivo, terribilmente negativo, di quella che il linguaggio giornalistico chiama la Seconda Repubblica, ma che forse è improprio chiamare così: in Italia, una Seconda Repubblica non è mai nata veramente e, probabilmente, gli ultimi anni saranno considerati, in sede storica, semplicemente una lunga appendice della prima fase della vicenda re- pubblicana. Per questo, affrontare il problema del contribuito dei cattolici alla vita politica impone anzitutto di interrogarsi sul nodo delle origini, proprio quel- lo che i protagonisti del cambiamento dei primi anni Novanta non hanno fatto nei confronti della stagione precedente, archiviata in modo affrettato e, anche per questo, senza riuscire ad aprire davvero una nuova fase della storia repubbli- cana.

• Com’è noto, la caduta del muro di Berlino ha innestato in Italia una forte spinta verso il definitivo superamento della lunga contrapposizione sistemica tra comunismo ed anticomunismo, radicata nello straordinario confronto elettorale del 18 aprile 1948. Ma gli sviluppi successivi hanno smentito che le conseguenze sulla politica italiana della caduta del muro di Berlino si limitassero al superamento della conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti, come molti allora cre- dettero. Questa illusione è durata fino al 1994, quando dalle elezioni politiche sca- turì un risultato molto diverso dalle attese ed ebbe inizio ciò che chiamiamo Secon- da Repubblica, imperniata sulla contrapposizione tra una forza politica variamente denominata – Forza Italia, Popolo della Libertà ecc. – e su un variegato schiera- mento ad essa alternativa. È questa la sostanza del bipolarismo affermatosi in Italia in quella che si può definire l’età berlusconiana, perché indubbiamente dominata dalla figura di Berlusconi e dalla sua capacità di condizionare non solo il suo schie- ramento ma anche i suoi avversari.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 9 Editoriale

• Tra il 1989 e il 1994, infatti, è accaduto qualcosa che pochi furono in grado di prevedere: la caduta del muro di Berlino non ha comportato la fine – oltre che del comunismo – anche dell’anticomunismo, ma al contrario il rilancio di quest’ulti- mo. Ovviamente, dopo il 1989 si sono definitivamente esaurite le ragioni interna- zionali che, per più di quaranta anni, hanno impedito l’ingresso di esponenti co- munisti nel governo italiano. Già da tempo, inoltre, era iniziato il progressivo esau- rimento delle motivazioni religiose e morali di un’opposizione specificamente cat- tolica al Partito comunista italiano. Ma l’anticomunismo si era intanto profonda- mente trasformato sotto l’influenza, dagli inizi degli anni Ottanta, di un individua- lismo consumista di massa sempre più diffuso. È soprattutto questo l’anticomuni- smo che è sopravvissuto al 1989. Si tratta di un anticomunismo che va ben oltre il comunismo e che ha manifestato una straordinaria vitalità come espressione, sul piano politico, di una serie di atteggiamenti e posizioni radicate anzitutto nel priva- to e nel quotidiano, nel prepolitico e nell’antipolitica. L’anticomunismo berlusco- niano ha strumentalmente cercato di nascondersi dietro ragioni più “nobili”, come i richiami alla tradizione liberale e l’antistatalismo, ma nella sostanza ha rappresen- tato soprattutto la traduzione sul piano politico di una spinta fortissima contro qualunque regola o ostacolo si frapponga tra me e l’oggetto del mio piacere.

• Nei primi anni Novanta, la sopravvivenza dell’anticomunismo, seppure radi- calmente diverso da quello degli anni Quaranta o Cinquanta, non è stata capita dal- le forze politiche eredi della Prima Repubblica che si sono perciò condannate ad un destino di subalternità. Sotto shock per il cambiamento “epocale” rappresentato dal- la dissoluzione del blocco sovietico, gran parte della classe politica di allora concen- trò la sua attenzione sulla fine della contrapposizione sistemica tra comunismo e an- ti-comunismo derivante dal “vincolo esterno”, sottovalutando le conseguenze di un più profondo processo di destrutturazione cui erano sottoposti altri e più importan- ti elementi del sistema politico, dietro la cortina fumogena di una generica contrap- posizione tra “vecchio” e “nuovo”. Si tratta degli elementi posti alla base del sistema politico democratico fondato negli anni Quaranta e idealmente riconducibili a tre momenti principali: la svolta di Salerno e la collaborazione tra i partiti del Cln tra 1943 e 1945; il passaggio della guida del governo nelle mani del leader del più im- portante partito di massa alla fine del ’45; la crisi del maggio 1947, scaturita dalle pressioni di quello che De Gasperi chiamava il “quarto partito”, che non ha milioni di elettori ma che controlla le leve dell’economia e della finanza. Sulla base dell’anti- fascismo, infatti, è stato realizzato un accordo tra i partiti antifascisti quale garanzia “istituzionale” del sistema politico post-fascista, poi formalizzato in sede di elabora- zione costituzionale. A partire dal dicembre 1945, inoltre, la guida della politica ita- liana, imperniata su una peculiare forma di governo parlamentare, è stata affidata ai grandi partiti di massa. Dopo il maggio 1947, infine, la mediazione tra i protagoni- sti della politica e gli interessi di importanti soggetti della vita economica italiana è

10 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Editoriale stata assunta prevalentemente da uno di questi partiti di massa, la Dc. Questi diver- si elementi si sono poi concentrati nella “centralità” democristiana e cioè nella fun- zione svolta molto a lungo dalla Dc, a livello istituzionale e politico, quale cardine dell’intera Repubblica dei partiti fino alla sua dissoluzione nel 1994. La centralità democristiana ha rappresentato, cioè, l’espressione, a livello politico-istituzionale, della fisionomia della Dc quale “partito nazionale” o “partito italiano”.

• Dopo il 1989, i cattolici democratici si sono sentiti finalmente liberi di rom- pere in modo definitivo con posizioni conservatrici sul piano economico, sociale e politico, cui la pregiudiziale anticomunista li aveva inevitabilmente legati. Molti si convinsero che la fine dell’anticomunismo mettesse in discussione la funzione principale e quindi l’esistenza stessa della Dc, mentre altri continuarono a ritenere opportuna l’esistenza di un partito cattolico, seppure profondamente rinnovato. Ma, in entrambi i casi, non venne sviluppata a fondo una riflessione sulla funzione nazionale svolta dalla Dc lungo l’arco dell’intera storia repubblicana. Dopo la fine dell’“anomalia italiana” – e cioè la dissoluzione di una democrazia bloccata dal vin- colo esterno – si svilupparono tentativi per realizzare finalmente un cambiamento politico-istituzionale a lungo rinviato e anche una parte significativa del mondo cattolico si impegnò nell’iniziativa dei referendum elettorali. Molti di loro si mos- sero nella prospettiva di uno sviluppo in senso bipolare della Repubblica dei parti- ti, imperniato sulle forze eredi dei partiti protagonisti della storia italiana fino a quel momento. Ma, intanto, si stava compiendo un mutamento profondo del si- stema politico.

• Indubbiamente, la fine della rendita anticomunista produsse effetti immedia- tamente evidenti e una parte dell’elettorato democristiano, soprattutto settentrio- nale, si rivolse in modo significativo verso altri partiti, tra cui la Lega. Ma nelle ele- zioni del 1992, la Dc fu ancora in grado di sfiorare il 30% dei consensi: malgrado la fine della tradizionale funzione di “diga anticomunista”, molti elettori continuaro- no a rivolgersi verso questo partito, ancora impegnato in molteplici funzioni di go- verno, sia a livello nazionale che locale. La situazione cambiò invece radicalmente nei mesi successivi, grazie all’iniziativa di soggetti diversi – dalla magistratura ai mass media, dai protagonisti della vita economica a quelli della società civile – che svilupparono azioni molto diversificate ma i cui effetti sono stati, alla fine, conver- genti. Processi per corruzione e processi per mafia si saldarono ad una sorta di pro- cesso morale e politico complessivo al cinquantennio democristiano. Giunse così al suo culmine un movimento iniziato, a livello di opinione pubblica e di società civi- le, negli anni Settanta, con la cosiddetta “questione democristiana” e, proseguito, negli anni Ottanta, intorno ad una “questione morale” che ha accentuato progressi- vamente la distanza della società civile dalla Dc. La centralità della Dc, infatti, non si basava soltanto sulla sua forza elettorale ma anche su una sorta di “primato mora-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 11 Editoriale le” che le veniva, implicitamente, riconosciuto – come osservava – per il suo collegamento con la tradizione cattolica, così profondamente radicata nel tes- suto nazionale. Mettere in discussione la sua capacità di esprimere quella tradizione morale o rompere il suo collegamento con la Chiesa cattolica significava dissolvere la funzione “nazionale” della Dc.

• Dall’interno di questo partito non è venuta una difesa ad oltranza della cen- tralità democristiana. L’ultimo segretario della Dc, Mino Martinazzoli, rilanciò la prospettiva di un sistema politico all’interno del quale la Dc non fosse più “obbli- gata a governare”, dichiarando in questo modo concluso il percorso iniziato nel maggio 1947. Contemporaneamente, egli riconobbe l’esistenza di un deficit di mo- ralità all’interno del partito, ma, a differenza di Zaccagnini, non ne incarnò un ri- lancio morale e, a differenza di Moro nel 1977, non si oppose ad un processo alla Dc “nelle piazze”. Entrambe queste scelte andavano implicitamente nella direzione di un abbandono della fisionomia nazionale della Dc, anche se non prefiguravano necessariamente un sistema bipolare. Com’è noto, Martinazzoli, pensava ad un nuovo partito cattolico, che si collegasse all’eredità del Partito popolare sturziano, collocandosi al centro dello scenario politico e che non fosse necessariamente lega- to ad una vocazione “maggioritaria”. Ciò significava mettere in discussione quel raccordo fra i tre grandi partiti di massa, avviato dalla svolta del dicembre 1945 e poi ribadita in sede di Assemblea costituente, anche dopo la rottura del maggio 1947. E la storia insegna che una forza cattolica di centro impossibilitata a svilup- pare convergenze con altre forze di centro o con forze di sinistra moderata, come è accaduto al Ppi nel primo dopoguerra, è condannata a subire l’affermazione di una destra che respinge i cattolici in sacrestia.

• Nel 1993 vari avvenimenti hanno preparato il ritorno a una parabola, per cer- ti aspetti simile a quella percorsa dal partito cattolico nel primo dopoguerra, anche se lo sbocco rappresentato dal regime fascista è, fortunatamente, irripetibile. Nel corso di quell’anno, non a caso, divenne evidente il declino anche del primo e più antico presupposto politico-istituzionale del ruolo svolto dalla Dc per quasi cin- quant’anni: l’accordo fra i partiti antifascisti quale garanzia fondamentale della de- mocrazia italiana. Gli schieramenti che, a destra e a sinistra, si stavano delineando nel nascente sistema bipolare, cominciarono a fronteggiarsi senza escludere le estre- me. Anche gli eredi del neofascismo, peraltro sempre più lontani dalle loro origini storiche e culturali, iniziarono ad entrare nell’area di governo, senza incorrere nella preclusione anti-fascista. Nelle elezioni amministrative di Roma dell’autunno 1993, la partita per il sindaco si giocò tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, se- gretario del Movimento sociale. Com’è noto, il leader del Msi fu “sdoganato” in quell’occasione da Silvio Berlusconi, che si attivò anche per questa via ad accelerare il cambiamento sistemico in atto. Si colloca in tale contesto pure il progressivo di-

12 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Editoriale stacco del mondo cattolico dalla nuova creatura che Martinazzoli stava fondando. La caduta della pregiudiziale antifascista coincise, infatti, con la fine dell’ultimo fondamento della centralità democristiana. Malgrado l’indubbia attrazione eserci- tata su molti cattolici dal rinnovamento morale avviato da Martinazzoli e dall’ap- peal rivestito da un simbolico “ritorno” alle radici del popolarismo, il cambiamento in atto incrinò radicalmente quella funzione sistematica della Dc quale “partito ita- liano”che aveva giustificato per tanti anni l’impegno della Chiesa per l’unità politi- ca dei cattolici.

• La Chiesa è rimasta complessivamente estranea alla fondazione della cosid- detta Seconda Repubblica, mentre aveva costituito un fondamentale garante della nascita dell’Italia Repubblicana dopo il crollo del fascismo e la tragedia bellica. E i cattolici hanno svolto un ruolo marginale nella politica italiana dopo il 1994. An- che per questo, gli ultimi anni rappresentano uno dei periodi più infelici della sto- ria unitaria. Ma ora qualcosa sembra cambiare. Lo hanno mostrato le celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia, che hanno visto una partecipazione degli italiani molto superiore alle attese, dopo tanti anni di predicazione non solo anticentralisti- ca, ma anche secessionista e anti-italiana. Tali celebrazioni, che si sono svolte nel più grande imbarazzo delle forze di governo – e non solo della Lega –, sono state inoltre caratterizzate dal convinto sostegno della Chiesa cattolica, come documen- tano diversi contributi riportati in questo numero, a cominciare da quello del card. Angelo Bagnasco. Molti sono stati sorpresi da tale sostegno: l’unificazione politico- istituzionale italiana si è infatti realizzata nel contesto di un grave dissidio con la Chiesa. Tale ricordo non può né deve essere cancellato. Ma, da una parte, ormai da molto tempo Chiesa e Stato si sono riconciliati e, dall’altra, sta emergendo sempre di più la consapevolezza che la costruzione unitaria italiana è stata il frutto di una storia molto lunga in cui la Chiesa e i cattolici hanno svolto un ruolo rilevante. È da questa consapevolezza che occorre ricominciare se vogliamo lavorare per ridare un futuro all’Italia.

Agostino Giovagnoli

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 13

I DIRITTI DELLA STORIA

ÿ I cattolici democratici nella storia politica italiana - di Francesco Malgeri

ÿ Capitalismo e democrazia nell’esperienza dei cattolici italiani in età contempo- ranea - di Mario Taccolini

ÿ I cattolici e le istituzioni - di Francesco Bonini

ÿ L’impegno dei cattolici per il futuro del Paese - di Ernesto Preziosi

ÿ Cattolicesimo politico per proseguire una storia - di Giuseppe Sangiorgi

ÿ E intanto da Todi un segnale del “nuovo” per contribuire a superare lo stallo delle buone intenzioni (Cronaca di un convegno) – di Giuseppe Sangiorgi

I cattolici democratici nella storia politica italiana

Il cammino che il cattolicesimo italiano ha compiuto, FRANCESCO MALGERI verso la progressiva acquisizione di una coscienza politi- ca e di una prospettiva democratica, è stato lento e Storico complesso. La cultura politica di ispirazione democrati- ca e liberale, che, nel sec. XIX in Europa e soprattutto in Francia, aveva trovato in uomini come Montalem- bert e Lacordaire l’espressione più significativa di un pensiero che intendeva coniugare il cristianesimo con la libertà, aveva incontrato profonde diffidenze. Insom- ma, il processo storico che, dalla rivoluzione francese si- ≈ no alla formazione degli Stati nazionali fondati sul si- «Una rilettura stema rappresentativo e sui modelli costituzionali d’i- della presenza del spirazione liberale, ha segnato l’emergere e l’affermarsi cattolicesimo dei moderni sistemi democratici, soprattutto in Europa democratico nella e nell’America settentrionale, non sempre ha incontrato storia politica e civile del nostro rispondenza e consenso nel cattolicesimo ufficiale e nel- paese, deve la gerarchia ecclesiastica. Vi si contrapponeva un catto- aiutarci a capire e licesimo chiuso ed ostile nei confronti del pensiero mo- a valutare cosa derno, contrario ai processi di democratizzazione e di questa storia e questa presenza laicizzazione dello Stato, assertore del ruolo centrale del hanno papato, con venature legittimistiche, nel quadro di un rappresentato nel accentuato tradizionalismo, che si ispirava al pensiero complesso e di de Maistre, Bonald e Donoso Cortés. La tradizione difficile cammino del nostro paese del pensiero cattolico liberale, che aveva avuto una forte in 150 anni di vita presenza politico-culturale anche in Italia, negli anni nazionale». del Risorgimento, con uomini quali Rosmini, Ventura, Manzoni, Gioberti e Balbo, e che, dopo l’unità si rico- ≈ nobbe nel gruppo che faceva capo alla Rassegna nazio- nale di Manfredi da Passano, non fu in grado di tradur- re in concrete proposte politiche e culturali la sua linea conciliatorista e le sue aperture verso il pensiero liberal- democratico e verso una moderna cultura politica.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 17 Francesco Malgeri

ÿ Le origini del cattolicesimo democratico

• Quel pensiero e le istanze da esso sostenute, che portavano all’accettazione delle libertà di pensiero, di stampa, d’associazione, di culto, suscitarono in molti il timore di vedere travolto l’antico equilibrio sociale e compromessi i valori religiosi e morali di cui la Chiesa era custode. L’enciclica Quanta Cura eilSillabo, seguiti dal Concilio vaticano I e dalla proclamazione dell’infallibilità pontificia, evidenzia- rono la preoccupazione delle gerarchie ecclesiastiche e l’assunzione di un atteggia- mento difensivo, che respingeva i risultati di quei processi che avevano modificato profondamente la storia dei paesi europei attorno alla metà dell’Ottocento. La miopia di questo atteggiamento venne sottolineata anche da alcuni uomini di Chiesa, da Bonomelli a Scalabrini e a padre Carlo Maria Curci, il quale, nel 1878, sottolineò che era stato «sbaglio capitalissimo» giudicare quei cambiamenti come «una tempesta passeggera», mentre si trattava dell’«ultimo compimento di una trasformazione delle società civili: la quale iniziata nel trattato di Westfalia, conseguenza naturale della Riforma, e recata in atto in tutti i paesi d’Europa, ed eziandio in quasi tutta l’Italia, ebbe la sua ultima mano nella breccia di Porta Pia». Quelle resistenze, che accompagnarono soprattutto il pontificato di Pio IX, vennero ad attenuarsi alla fine del XIX secolo, quando di fronte ai processi di svi- luppo economico capitalistico e all’emergere della cosiddetta “questione operaia”, l’impegno sociale e politico dei cattolici acquistò una dimensione nuova, che con- tribuì ad inserire l’azione dei cattolici nel contesto di una più incisiva partecipazio- ne alla vita sociale e politica. Questo passaggio prende corpo quando comincia a maturare una giovane generazione di cattolici, la quale, nutritasi alle istanze sociali contenute nell’enciclica Rerum novarum e nel magistero sociale della Chiesa, vi ag- giunse l’adesione piena e convinta alla democrazia politica e ai metodi che la rego- lano. Emerse, in altre parole, l’esigenza di misurarsi con i nuovi strumenti della lot- ta politica e sociale, adeguando il significato della presenza cristiana in una società che subiva grandi trasformazioni politiche, sociali ed economiche, che imponeva- no non solo una visione più moderna e più libera, ma un adeguamento dell’ispira- zione cristiana e degli indirizzi culturali ai moderni istituti della vita democratica.

ÿ Cristianesimo – democrazia

• L’accostamento tra cristianesimo e democrazia non era evento nuovo nella storia del cattolicesimo europeo. Si era manifestato in forme diverse soprattutto in Francia e in Belgio. In Francia, sin dal 1848 l’abbé Maret e Federico Ozanam con il loro giornale L’Ere Nuovelle avevano sostenuto la necessità della conciliazione tra fede cristiana e ideali democratici, ma si trattò di una esperienza molto breve. Qualche decennio dopo, all’inizio degli anni Novanta, sempre in Francia, emerse

18 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Malgeri un giovane clero (gli abbés démocrates), impegnato nella diffusione dei nuovi ideali sociali e politici e guidato da L. Harmel, P. Dabry e J. Lemire, che nel 1896 costi- tuirono la Ligue français du coin de terre e du foyer. Seguirono altre iniziative quali l’Action catholique de la Jeunesse Française,l’Action Populaire eilSillon, guidato da Marc Sangnier che, nel 1905, con l’opera L’esprit démocratique auspicò il rinnova- mento morale e religioso della società, attraverso un solido legame tra democrazia e cristianesimo, superando gli egoismi del capitalismo, e rifiutando il materialismo socialista1. In Italia questo processo avvenne grazie a Toniolo, che ne fu il maggior teorico, e al giovane movimento democratico cristiano, che ebbe in Romolo Murri il suo leader più significativo. La presenza dell’organizzazione democratico cristiana nac- que e mosse i suoi passi all’interno degli organismi ufficiali del movimento cattoli- co, con l’obiettivo di superare la subordinazione del laicato cattolico alle gerarchie ecclesiastiche, al fine di realizzare soluzioni non solo autonomistiche, ma ispirate all’esigenza di un rinnovamento culturale, sociale e religioso. Un rinnovamento che, in quel momento, appariva estraneo agli indirizzi pastorali di Pio X, ispirati non solo alla formula «instaurare omnia in Christo», ma anche al consolidamento dei «principi di dipendenza e di autorità», giudicati essenziali in una società come la Chiesa, concepita in modo gerarchico e ritenuti necessari anche per guidare i cattolici nelle loro scelte sociali e politiche. Le istanze democratiche cristiane si legavano quindi all’esigenza di un impegno autonomo del cristiano sul piano sociale e politico che non escludeva anche un rin- novamento culturale e religioso, sia pure fedele al pensiero scolastico. L’esigenza dell’incontro tra cristianesimo e democrazia e, come conseguenza, la rivendicazio- ne dell’autonomia politica e sociale del cristiano di fronte alla gerarchia, come ha sottolineato Pietro Scoppola, rappresenta un problema di «ordine culturale e psi- cologico» non meno grave dei problemi «posti dallo sviluppo della scienza moder- na e della critica storica». La Chiesa di Pio X mostrò sempre profonde riserve nei confronti dei nuovi indirizzi che stavano emergendo in seno ai gruppi e ai movi- menti di ispirazione democratico cristiana. Come ha sottolineato Luigi Sturzo, in seno alla gerarchia ecclesiastica avvenne un «trasferimento delle preoccupazioni antimoderniste dal campo delle scienze sa- cre a quelle dell’azione sociale», per due motivi fondamentali, il primo «tutto eccle- siastico e disciplinare» era il riflesso della concezione di Pio X «di sottoporre ogni iniziativa cattolica all’autorità diocesana». Questo orientamento si era già manife- stato con lo scioglimento dell’Opera dei congressi e con la riorganizzazione dell’a- zione cattolica sotto il diretto controllo dei vescovi. Il secondo motivo era “politi- co”, in quanto la «democrazia cristiana era apparsa in Francia, in Italia, nel Belgio e

1 Condannato da Pio X nel 1910, il movimento risorse poco dopo, prima con il nome di Sillon catholique e poi come Ligue de la Jeune République.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 19 Francesco Malgeri altrove, troppo a favore del popolo, aveva agitato idee sociali che venivano qualifi- cate come socialiste. I padroni dicevano: “meglio i rossi (i socialisti) che i bianchi (i democratici cristiani)”». Tutto questo portava al sospetto di modernismo per i cat- tolici democratici in Italia e per i cattolici repubblicani in Francia. Mentre il tenta- tivo di mantenere dipendenti dalla gerarchia ecclesiastica le iniziative politiche ed elettorali dei cattolici rifletteva, secondo Sturzo, «un’idea quasi parrocchiale della vita politica»2. L’esigenza dell’autonomia nasceva anche dal timore che emerse in ambienti de- mocratico cristiani di fronte alla soluzione clerico-moderata, che rischiava di di- sperdere le istanze sociali e le aspirazioni democratiche maturate nel clima di forte risveglio sociale, politico e culturale che attraversò il cattolicesimo militante a ca- vallo dei due secoli, con il rischio che tutto potesse annegare nel grande mare del trasformismo e del clientelismo giolittiano. Soprattutto Murri colse i limiti dei nuovi indirizzi della gerarchia ecclesiastica. Sentì l’immediata esigenza dell’autono- mia politica, la necessità di un movimento che sul piano delle scelte sociali e politi- che doveva sottrarsi dalla tutela ecclesiastica. Si trattava di una esigenza che era an- che dettata dalla necessità di non disperdere, abbandonare un patrimonio di idee, di organismi, di giornali, di energie che era maturato e si era affermato nel corso di pochi anni. «Il mio pensiero – scriveva Murri a Gallarati Scotti il 29 agosto 1906 – è che i cattolici italiani debbono conquistarsi il diritto di agire liberamente nella vi- ta pubblica italiana». Cominciava per lui il periodo della «disubbidienza» e delle condanne. La Lega democratica nazionale fu l’esito della sfida autonomistica di Murri, ma fu anche espressione vivace e significativa del tentativo di rivendicare un ruolo dei cattolici sul piano sociale e politico sulla base di un indirizzo ispirato ad una ade- sione piena ai valori delle libertà politiche e della giustizia sociale, senza trascurare l’esigenza di far penetrare in seno alla Chiesa un ampio dibattito sul problema del rapporto fra cattolicesimo e democrazia.

ÿ “L’intuizione cauta” di Sturzo

• Si deve a Luigi Sturzo il superamento di questo momento critico del cattoli- cesimo democratico. Egli intuì che forzare la mano dell’autorità ecclesiastica pote- va compromettere il lavoro di preparazione e di costruzione faticosamente avviato. Occorreva invece una politica più cauta, senza sfide, avendo però chiaro l’obietti- vo finale: un partito politico la cui fisionomia Sturzo delineò nel noto discorso pronunciato il 29 dicembre 1905 a Caltagirone. Un discorso destinato a segnare una svolta nel pensiero e nella cultura politica dei cattolici italiani, i quali doveva-

2 L. Sturzo, Chiesa e Stato. Studio sociologico-storico, Zanichelli, Bologna 1978, vol. II, p. 153.

20 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Malgeri no accettare la caratteristica della vita pubblica moderna, che era e resta civile. Do- vevano abbandonare la mentalità della contesa per la fede e accettare la condizione imposta «dalla natura dell’ambito di vita e dalle caratteristiche del pensiero mo- derno». Sturzo intendeva costruire, un partito autonomo dalla gerarchia ecclesiastica, con una chiara fisionomia democratica, che doveva maturare dal basso, alimentarsi ai problemi reali e concreti del paese, diventare il risultato di una presa di coscienza e di una maturazione civile e politica dei cattolici, che dovevano mettersi «a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione, ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale, nello sviluppo del vivere civile»3. Si trattò di un discorso che assunse il carattere di manifesto politico, di proget- to che, pur avendo ancora bisogno di preparazione e di attesa, andava comunque perseguito, attraverso una presenza attiva dei cattolici nelle amministrazioni comu- nali, nelle organizzazioni contadine ed operaie, nelle cooperative e nei sindacati, respingendo le collusioni con altre forze politiche e rifiutando le combinazioni elettorali clerico-moderate.

ÿ Il popolarismo

• Con la nascita del partito popolare italiano nel 1919, il cattolicesimo demo- cratico italiano riuscì ad esprimere una cultura e un pensiero politico, il popolari- smo, che, pur nutrito dei valori e della tradizione del movimento cattolico italiano, con particolare riferimento all’esperienza democratico cristiana, assunse una sua originale e peculiare fisionomia. Scrisse Sturzo, riferendosi alla cultura politica che stava alla base del pensiero popolare: «Il popolarismo è democratico ma differisce dalla democrazia liberale perché nega il sistema individualista e accentratore dello Stato e vuole lo Stato organico e decentrato; è liberale (nel senso sano della parola) perché si basa sulle libertà civili e politiche, che afferma uguali per tutti, senza mo- nopolio di partito e senza persecuzioni di religione, di razza, di classe; è sociale nel senso di una riforma a fondo del regime capitalista attuale, ma si distacca dal socia- lismo perché ammette la proprietà privata, pur rivendicandone la funzione sociale; afferma il carattere cristiano, perché non vi può oggi, essere etica e civiltà che non sia cristiana»4. Secondo Sturzo il movimento politico dei cattolici aveva attraversato tre fasi diverse. L’esperienza del cattolicesimo liberale francese ed europeo che costituiva il primo momento in cui prende corpo un movimento cattolico ispirato alla libertà e

3 Il testo del discorso in L. Sturzo, I discorsi politici, Roma 1951, pp. 351-380. 4 L. Sturzo, Chiesa e Stato, cit., II, p.168.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 21 Francesco Malgeri alla democrazia. Una prima fase che definisce «colorata da sentimenti romantici, da aspirazioni liberali con gli inizi dei movimenti democratici basati sulle nuove costituzioni degli stati continentali». Il secondo momento riguarda il periodo della Rerum Novarum e della democrazia cristiana, che si svolge principalmente sul pia- no sociale. Il terzo momento andava collocato alla fine della prima guerra mondia- le, con la nascita dei «partiti popolari o partiti democratici d’ispirazione cristiana», quando «il movimento politico fra i cattolici guadagnò un respiro e una responsa- bilità che non aveva mai posseduto in passato»5.

ÿ Le riforme

• Aggiunge Sturzo che mentre i cattolici liberali alla Montalembert «avevano accentuato la nota della libertà, che era il problema del giorno», i democratici cri- stiani avevano messo in valore le riforme sociali, i popolari mettevano in primo piano la riforma dello Stato: Precisa Sturzo: «Le libertà civili e politiche erano ac- quisite e allora nessuno le discuteva; le leggi sociali erano già iniziate e i movimenti operai ne sollecitavano l’attuazione; la crisi principale era quella istituzionale e fun- zionale dello Stato, che si ripercuoteva anche sulle libertà politiche e sulle riforme sociali»6. Il partito fu per Sturzo un fatto anzitutto di cultura. Il popolarismo non nasce, cioè, dalla pura visione dell’utile, non è la traduzione pratica, effettuale di una ideologia di massa, non nasce dall’odio classista contro la borghesia, i capitalisti, i grandi proprietari, ma è l’interprete delle esigenze di riscatto, di mutamento, di giustizia che provengono dalla società civile. È un grande fenomeno di cultura umanistico-cristiana, dove si coglie il richiamo ai grandi intellettuali italiani del li- beralismo di ispirazione cristiana, quali Rosmini, Ventura, Balbo e Manzoni. Sul piano dei rapporti fra fede e politica, si dava al popolarismo una operazione di grande significato. L’aconfessionalismo proclamato dal partito popolare a tutela della sua autonomia e libertà d’azione sul piano delle scelte politiche, segna il salto di qualità più significativo compiuto dalla cultura politica dei cattolici italiani dal- l’unità in poi. Con questa scelta venivano superate quelle posizioni ibride ed equi- voche che avevano caratterizzato l’esperienza dei cattolici intransigenti, soprattutto nell’Ottocento, e che avevano prodotto un integralismo che recava pregiudizio non solo alle istanze politiche dei cattolici ma agli stessi valori dalla fede di cui essi erano portatori.

5 L. Sturzo, Politica e morale (1938). Coscienza e politica (1953), Zanichelli, Bologna 1973, pp. 328- 339. Cfr. anche E. Guccione, La storia delle dottrine politiche nelle opere di Luigi Sturzo, in Aa.Vv, Luigi Sturzo e la democrazia nella prospettiva del terzo millennio, Leo S. Olschki, Firenze 2004, vol. I, p. 142. 6 L. Sturzo, Chiesa e Stato, cit., vol. II, p. 167.

22 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Malgeri

ÿ L’ostilità del fascismo

• L’emergere del fascismo nella vita politica italiana portò ad un lento ma ine- sorabile declino della forza e della incidenza politica che il partito popolare si era guadagnato tra il 1919 e il 1921. Perse consistenza il progetto politico di Sturzo che mirava ad indirizzare il cattolicesimo italiano verso una chiara adesione alla de- mocrazia, attraverso una forza politica capace di proporre un radicale rinnovamen- to delle strutture del vecchio Stato liberale, dando spazio alle autonomie locali, ad un nuovo equilibrio negli assetti sociali ed economici del paese, al recupero di un’I- talia rurale emarginata. Con l’avvento del fascismo si assiste ad un progressivo di- stacco di una parte del mondo cattolico dal popolarismo, all’emergere di un senso di sfiducia nei confronti di Sturzo e del suo partito. Il progetto di Sturzo non trovò più tra i cattolici quella base di ampio consenso che pur lo aveva sorretto al suo ap- parire sulla scena politica italiana. La promessa fascista di riportare tranquillità e ordine nel paese, nelle città e nelle campagne, non trovò insensibile una parte del mondo cattolico, tanto più che Mussolini sembrava voler cancellare definitivamente la vecchia politica laicista e anticlericale dello Stato liberale, per riconoscere alla Chiesa il suo ruolo e la sua dignità. Ma il fascismo rispettava la Chiesa purché fosse ben chiaro che non pote- vano essere tollerati atteggiamenti contrari al nuovo ordine politico. La liquidazio- ne del popolarismo rappresentava il sacrificio necessario che il regime imponeva per una nuova politica ecclesiastica in Italia. Gran parte dei cattolici giudicarono inutile, ormai, un partito ad ispirazione cristiana quando era lo stesso capo del fa- scismo a dichiararsi disposto a tutelare gli interessi della Chiesa. Meglio allora vol- tare le spalle a Sturzo e al suo partito, di cui non si era mai interamente accolto il progetto democratico e riformista. Era chiaro che il partito popolare e soprattutto Sturzo, con la sua intransigenza antifascista, con l’obiettivo di dare ai cattolici dignità politica e democratica, di- ventava il reale ostacolo all’affermazione del fascismo, l’ultimo impedimento alla definitiva affermazione del disegno egemonico di Mussolini. D’altro canto, in Va- ticano non piaceva quella intransigenza guidata da un sacerdote, nei confronti di un governo disponibile ad ascoltare le ragioni della santa Sede e a discutere l’anno- so problema dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. Le conseguenze non potevano non portare al lento declino del partito, un destino che lo accomunò alle altre forze democratiche italiane. Uomini come Sturzo, Ferrari e Donati tentarono dall’esilio, negli anni della dit- tatura e dell’affermazione dei totalitarismi in Europa, di mantenere vivi l’idea e il pa- trimonio del popolarismo, la sua visione politica e la ferma difesa delle istituzioni de- mocratiche. Si trattò di un impegno etico e politico sorretto da una intensa religio- sità, con il non nascosto obiettivo di svincolare gerarchia, clero e laicato cattolico da un atteggiamento conformistico o connivente nei confronti del regime fascista.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 23 Francesco Malgeri

ÿ Il ritorno del cattolicesimo democratico

• La seconda guerra mondiale, la crisi del fascismo, la partecipazione cattolica alla Resistenza tra il 1943 e il 1945, segnarono la ripresa del movimento politico dei cattolici. Fu Alcide De Gasperi a confrontarsi e misurarsi con la complessa e ar- ticolata realtà del cattolicesimo democratico italiano, nel quale confluirono non soltanto i vecchi esponenti del partito popolare, quali Spataro, Piccioni, Gronchi, Giordani, Cingolani, Cappi, Scelba, Zoli, Cassiani ed altri, ma anche i giovani cre- sciuti in seno all’Azione cattolica, nelle organizzazioni della Fuci e del Movimento dei laureati cattolici, sotto la guida di mons. Montini, tra i quali Moro, Andreotti, La Pira, Taviani, Gui. In questo quadro erano presenti anche uomini maturati nel clima degli studi dell’Università cattolica di Milano, come Dossetti, Fanfani e Laz- zati, e gli ex esponenti del Movimento guelfo d’azione, vissuto clandestinamente negli anni Trenta e che aveva avuto in Malvestiti e Malavasi i due leaders più signi- ficativi. Questa articolata composizione del mondo cattolico italiano, diversificata an- che sul piano regionale e locale, venne via via coagulandosi, attorno ad alcuni pro- grammi, tra i quali il più significativo, Idee ricostruttive della democrazia cristiana, venne redatto dallo stesso De Gasperi e diffuso nel luglio 1943. Le indicazione del programma degasperiano si basano sulla costruzione di «una democrazia rappre- sentativa espressa dal suffragio universale, fondata sulla eguaglianza dei diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità, che è fermento vitale della civiltà cri- stiana». Il documento riaffermava, poi, la dignità della persona e la libertà delle co- scienze, auspicando che, attraverso la missione spirituale della Chiesa, «il lievito cristiano fermenti in tutta la vita sociale». Si tratta di enunciazioni che si richiama- no alla tradizione liberal-democratica, mediata e corretta dalla influenza delle dot- trine personaliste. Sul piano economico-sociale si coglie un non trascurabile richia- mo alle istanze della scuola sociale cristiana. I temi ricorrenti sono infatti la parte- cipazione operaia agli utili e alla gestione delle imprese, la riforma agraria basata sulla piccola proprietà contadina, la rappresentanza professionale e l’interclassi- smo, il decentramento amministrativo con la concessione di ampie autonomie agli enti locali. Sul piano della elaborazione di un programma economico-sociale vanno tenuti presenti anche altri documenti che non mancarono di influenzare idee e indirizzi del nascente partito. In particolare, il Codice di Camaldoli, redatto nel luglio 1943, nel corso della “Settimana sociale” dei cattolici italiani, svoltasi nello storico centro toscano. Tra gli autori ed ispiratori del documento troviamo Sergio Paronetto, Pa- squale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi ed altri uomini che avevano attraversato la crisi economica negli anni Trenta, convincendosi che in una econo- mia capitalistica lo Stato avrebbe dovuto definire anche un suo ruolo imprendito- riale in quei settori ove il privato non poteva arrivare. Si tratta di un documento ri-

24 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Malgeri velatore di un intreccio di rapporti ed esperienze culturali diverse, l’una che prove- niva dalla tradizione popolare, l’altra dagli ambienti vicini al movimento laureati, di cui Paronetto fu tra le figure più rappresentative. • Non mancavano, nei mesi successivi alla liberazione anche altre espressioni politiche in campo cattolico, a cominciare dal Partito della sinistra cristiana di Os- sicini e Rodano, erede di quel movimento dei cattolici comunisti che era stato pre- sente nella lotta di liberazione, ma che non mancava di suscitare preoccupazione e riserve in ambienti cattolici e vaticani, soprattutto per la dichiarata disponibilità al confronto e alla collaborazione con il partito comunista. Altre proposte venivano dal Partito cristiano sociale di Gerardo Bruni, fautore di un progetto di profondo rinnovamento sociale, attraverso un socialismo personalista a base cooperativa. Ma anche sul fronte della destra non mancavano indicazioni e pressioni tendenti a condizionare l’atteggiamento politico dei cattolici. Emerse, infatti, in ambienti ec- clesiastici, un gruppo di pressione, una sorta di lobby che prese il nome di “partito romano” guidato da mons. Roberto Ronca, rettore del Seminario romano, che tentò di realizzare un vero e proprio disegno alternativo a quello di De Gasperi, ispirandosi ad una linea conservatrice, anticomunista, insofferente della democra- zia e dei partiti di massa riemersi nel clima della Resistenza. Nel complesso, appare chiara l’esigenza del superamento dello Stato individua- le e borghese, che porta la cultura sociale, politica e giuridica cattolica di quegli an- ni a riaffermare la subordinazione dello Stato alla società, o meglio la costruzione di uno Stato in funzione della società, come Capograssi aveva affermato sin dal 1922. La riscoperta dello Stato in funzione della società si legava ad altri e signifi- cativi aspetti della cultura cattolica e del pensiero sociale cristiano: dall’esigenza di uno Stato realizzatore del “bene comune” alla difesa e salvaguardia della persona umana. Una idea, peraltro, che trovava ampi riscontri nella pubblicistica cattolica di quegli anni e nei messaggi pronunciati da Pio XII durante la guerra e nell’imme- diato dopoguerra. Non a caso lo stesso pontefice nel radiomessaggio natalizio del 1944 aveva individuato nel sistema democratico il più rispondente ai valori cristia- ni, in quanto offriva al cittadino «la coscienza della sua personalità, dei suoi doveri e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col rispetto della libertà e della di- gnità altrui»7.

ÿ La Costituente

• Nonostante non si possa parlare di una diretta continuità tra popolarismo e democrazia cristiana, è indubbio che il ruolo svolto dai cattolici nella costruzione del nuovo Stato, attraverso la partecipazione alla elaborazione della nuova Carta

7 Pio XII, Discorsi per la comunità internazionale, Studium, Roma 1957, pp.135 e ss.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 25 Francesco Malgeri costituzionale, riprenda quella funzione che Sturzo aveva affidato ai popolari nel primo dopoguerra, vale a dire la riforma dello Stato, di quello Stato che era entrato in crisi profonda di fronte all’assalto del fascismo e che doveva essere rifatto su nuove basi e con nuovi strumenti istituzionali. Il lavoro dei cattolici alla costituen- te ebbe questo compito prioritario, riprendendo molte delle istanze che il popola- rismo aveva elaborato, a cominciare dal decentramento regionale, alle riforme eco- nomico-sociali, al rifiuto della guerra e così via. Siamo di fronte ad un progetto che è sostenuto da una forte tensione etica e ci- vile e da un impegno animato dalla volontà di costruire uno Stato al servizio del- l’uomo e della società. Dopo gli anni della guerra, dopo i duri mesi della occupa- zione nazista e della resistenza, quella parte del mondo cattolico che aveva matura- to le sue scelte democratiche, non poteva non coniugare l’idea della democrazia con quella della giustizia sociale. Al centro di questo disegno troviamo l’esigenza del riscatto dell’uomo, di quell’uomo che era stato la vittima predestinata di una barbarie senza nome, che aveva subito persecuzioni, deportazioni, lutti e distruzio- ni, che aveva assistito impotente ad ingiustizie e vessazioni e che ora chiedeva un mondo più giusto. Ma il progetto di uno Stato al servizio dell’uomo non era sol- tanto il riflesso di una sorta di empito evangelico. Quel progetto era anche il risul- tato di una attenta riflessione di natura sociale, giuridica ed economico. Fatto nuovo nella storia politica nazionale apparve il ruolo egemone che la Dc stava assumendo nella guida politica dei cattolici italiani. Nella costruzione del partito De Gasperi volle evitare spaccature fra i cattolici, per dar vita ad uno stru- mento unitario, in grado di favorire il passaggio dal fascismo alla democrazia senza traumi. Prevalse la linea del partito unico dei cattolici, che fu più il risultato delle contingenze politiche di quegli anni che una chiara scelta maturata in seno al cat- tolicesimo democratico italiano. Tu ttavia, la Dc degasperiana, nonostante sia stata espressione dell’unità politi- ca dei cattolici, raccogliendo i consensi di un elettorato composito e non omoge- neo, restò, nei suoi quadri e nelle sue istanze politiche e sociali, espressione diretta della tradizione del cattolicesimo democratico italiano.

ÿ La svolta del Concilio

• L’avvento di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, favorirono il definitivo superamento di alcune resistenze che non erano mancate in seno alla gerarchia ec- clesiastica di fronte all’impegno politico e democratico dei cattolici. Il Concilio se- gnò il superamento delle chiusure e delle condanne, aprendo un nuovo corso: la Chiesa non respingeva la realtà contemporanea ma la interpretava alla luce della evoluzione dell’umanità. Sul piano dei rapporti con la società e con il potere politi- co la Chiesa conciliare, nel sottolineare l’esigenza di una partecipazione solidale al-

26 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Malgeri la sofferenza di tutti, manifestava la sua incompetenza sulla scelta delle soluzioni di carattere sociale, economico e politico, giudicandosi impreparata e incompetente circa le tecniche da impiegare. In merito all’autonomia del piano temporale rispet- to al momento religioso, i documenti conciliari ed in particolare la Gaudium et spes, precisavano che la Chiesa si distanziava da qualsiasi tipo di teocratismo dei tempi passati, per annunciare non già il suo dominio bensì il dominio di Dio, che giudica e salva in tutti i settori della vita. Il cristiano doveva anche sapere che l’avvi- cinamento alla salvezza per mezzo della fede non allontanava l’uomo dai suoi dove- ri secolari, come cittadino di questo mondo, che aveva il compito di operare nel quadro degli ordinamenti civili. Il Vaticano II superava anche le proposizioni con- tenute nel Sillabo del 1864, affermando il rispetto della libertà religiosa, giudicata conseguenza della dignità dell’uomo, che Dio ha creato libero e arbitro del suo de- stino. Questa svolta offrì nuovi spazi e nuovo respiro al cattolicesimo democratico italiano, che ebbe in quegli anni in Aldo Moro la sua più significativa espressione. Moro venne, per molti aspetti, a completare l’opera di De Gasperi. Pur non trascu- rando i tempi e i problemi diversi che dovettero affrontare, non è difficile rintrac- ciare una sorta di filo rosso che da De Gasperi arriva a Moro. Se preoccupazione di De Gasperi fu di porre le basi di un assetto democratico del paese, educandolo al rispetto delle regole della democrazia, di una democrazia vissuta anche nei suoi aspetti formali, che egli definiva «certezze essenziali»: vale a dire la libertà della per- sona, la libertà degli organismi e degli enti intermedi, il libero giuoco dei partiti, il metodo democratico nelle consultazioni elettorali, il rispetto del Parlamento; se in De Gasperi fu prioritaria la necessità di riabituare gli italiani al metodo della de- mocrazia, condurre una parte non trascurabile di mondo cattolico fuori da sugge- stioni conservatrici, da richiami autoritari, reazionari o integralisti, in Moro sem- bra prevalere la necessità di ampliare le basi dello Stato, di far sentire partecipi della vita dello Stato e delle scelte politiche una massa di cittadini a lungo esclusa dalla gestione della cosa pubblica. È chiaro in Moro il convincimento che non era più possibile tenere in una sorta di ghetto politico forze che, garantendo il rispetto del metodo democratico, rappresentavano una realtà importante nella vita politica del nostro paese.

ÿ De Gasperi e Moro

• Se De Gasperi, quindi, mirò a garantire e rafforzare le basi della democrazia, ponendola come premessa indispensabile a qualsiasi possibilità di sviluppo della vita pubblica italiana e della crescita civile, sociale ed economica del paese, se in De Gasperi fu vivo il senso delle riforme sociali ed economiche, Moro intese gettare le basi di una democrazia sostanziale, allargando gli spazi di libertà e di partecipazio-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 27 Francesco Malgeri ne ed enunciando il progetto di uno Stato capace di cogliere e soddisfare antiche attese dei cittadini. Moro riuscì ad esprimere una sensibilità piena nei confronti di una umanità che appariva, ai suoi occhi, in attesa di vedere affrontate e risolte anti- che ingiustizie, che affondavano le loro radici nei mali della nostra società, rispon- dendo, così, anche alle esigenze nuove di un paese che stava cambiando volto, che stava subendo trasformazioni sociali, economiche e culturali di eccezionali propor- zioni, che stava modificando la sua mentalità, le sue abitudini e il suo costume. La crisi che la Democrazia cristiana ha vissuto tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ha segnato l’appannamento, se non l’eclisse della cultura cat- tolico democratica dalla scena politica italiana, nel quadro di un profondo cambia- mento, che ha visto emergere nuovi soggetti politici che vengono a coprire gli spazi lasciati liberi delle vecchie formazioni politiche uscite dall’antifascismo e dalla Re- sistenza, nel quadro di una transizione verso un modello istituzionale nuovo e ispi- rato all’idea di una democrazia dell’alternanza, di cui appaiono, ancora oggi, molto nebulosi i contorni. In questa fase, che Gabriele De Rosa ha efficacemente definito «transizione infi- nita», i cattolici democratici impegnati nella vita politica nazionale sono stati obbli- gati ad una scelta di campo imposta da nuove regole che consentono solo marginal- mente quelle mediazioni, quelle intese e quei compromessi che il sistema proporzio- nale aveva a lungo garantito alla Democrazia cristiana, come perno del quadro poli- tico. Questo passaggio se da un lato ha tolto ai cattolici democratici quella centralità che aveva conferito ad essi, per lunghi anni, un ruolo egemone nella vita politica na- zionale, anche alla luce della mancanza di alternative democratiche possibili, per al- tro verso è venuto a liberarli da molti equivoci, imponendo il superamento di una sorta di unità imposta dalle contingenze, e aprendo, invece, la strada alla chiarezza delle scelte e degli indirizzi politici. In questo quadro nuovo, si impone più che mai l’esigenza di rintracciare, anche nel passato, il fondamento di un impegno ispirato ad una tradizione e ad una cultura che ha lasciato un segno nella storia del nostro paese. Una rilettura della presenza del cattolicesimo democratico nella storia politica e civile del nostro paese, deve aiutarci a capire e a valutare cosa questa storia e que- sta presenza hanno rappresentato nel complesso e difficile cammino del nostro paese, in 150 anni di vita nazionale. Al di là di ricorrenti interpretazioni che tendo- no quasi a cancellarne o screditarne il ruolo, non va dimenticato che questa tradi- zione politico-culturale, pur con le sue debolezze e i suoi limiti, ha segnato, con i suoi uomini, le sue battaglie e le sue conquiste, significativi momenti di progresso civile, sociale, politico e istituzionale, portando il suo innegabile contributo alla storia d’Italia, dall’unità ad oggi. Una storia da non dimenticare, che resta patrimo- nio della cultura politica del nostro paese.

ÿ

28 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Capitalismo e democrazia nell’esperienza dei cattolici italiani in età contemporanea

Intervenendo a Milano nel marzo del 2004 ad un con- MARIO TACCOLINI vegno sul rapporto tra sacra doctrina e saperi politici tra Università Cattolica XVI e XVIII secolo, Cesare Mozzarelli volle individuare del Sacro Cuore nel processo di pluralizzazione di Dio la causa della crisi secentesca del fondamento religioso dell’ordine terreno. Da tale perturbazione sarebbe derivata una frattura profonda rispetto al precedente rapporto tra sacra dot- ≈ trina, giusto ordine e ordine politico, scissione che nel- l’opinione dello storico dell’Università Cattolica del Sa- «Se la qualità del contributo offerto cro Cuore sarebbe perdurata «fino a quando persisterà dai cattolici il progetto di una modernità, cioè il progetto di un or- italiani allo dine volontario che si giustifica per il fatto di essere un sviluppo del ordine progressivo, un ordine che garantisce sempre di capitalismo e della democrazia nella più. Oggi probabilmente la postmodernità è proprio la giovane Italia crisi di questo progetto»1. sembra infatti innegabile, nel tempo odierno v’è da interrogarsi su ÿ Sistemi e crisi di valori quale può essere, oggi, e quale potrà • La crisi di valori e di funzioni evocata dall’insigne e com- essere, domani, il pianto modernista, a ben vedere, oggi coinvolge anzitutto gli loro apporto al rinnovamento equilibri dei sistemi delle sorti di un democratici e le espressioni più avanzate dell’economia Paese giunto globale. Ernst-Wolfgang Bockenforde ha di recente rilevato ormai a quell’età come il capitalismo contemporaneo non soffra tanto dei che dovrebbe sancire una propri eccessi, ovvero della bramosia e dell’egoismo degli raggiunta uomini che agiscono in esso; il capitalismo, piuttosto, soffri- maturità». rebbe «del suo punto di partenza, della sua idea-guida in ≈ 1 C. Mozzarelli, Tra ragion di Stato e sociabilità. Ipotesi cattoliche di rifondazione del vivere associato, in F. Arici e F. Todescan (a cura di), Iustus ordo e ordine della natura. Sacra doctrina e saperi politici fra XVI e XVIII se- colo, Cedam, Padova 2004, p.71.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 29 Mario Taccolini quanto razionalità strumentale e della forza costruttiva del sistema. Pertanto la ma- lattia non si può debellare con rimedi palliativi, ma solo attraverso il rovesciamento del suo punto di partenza. Al posto di un invadente individualismo proprietario, che assume come punto di partenza e principio strutturante l’interesse acquisitivo dei singoli potenzialmente illimitato, dichiarato diritto naturale non sottoposto ad alcun orientamento sostanziale, devono subentrare un ordinamento normativo e una strategia d’azione che prende le mosse dall’idea che i beni della terra – ovvero la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime – non spetta- no ai primi che se ne impossessano e li sfruttano, ma sono riservati a tutti gli uomi- ni, per soddisfare i loro bisogni vitali e ottenere il benessere. Questa è un’idea-gui- da fondamentalmente diversa; ha quale punto di riferimento la solidarietà degli uomini nel loro vivere insieme»2. L’«ordine che garantisce sempre di più» sembra dunque racchiudere in sé la scaturigine stessa della propria crisi, riconducibile – in ultima analisi – alla debo- lezza della propria idea-guida fondativa.

ÿ «Progetto di modernità»

• In tale prospettiva epistemologica generale, quello che è stato sinteticamente indicato come «progetto di modernità», nel corso dell’età contemporanea è stato coltivato e declinato soprattutto negli alvei del capitalismo e della democrazia, che sono poi i due ambiti all’interno dei quali più assiduo e proficuo è stato l’impegno – e interpretativo, e costruttivo – prodigato dai cattolici italiani a vantaggio dell’in- tera nazione: un impegno in effetti fruttuoso, dedito, poliedrico, per molti versi non lineare, e tuttavia ineludibile al fine di una più ampia comprensione dei carat- teri anche prospettici della postmodernità, ch’è ormai incipiente. Tale diuturno impegno, d’altra parte, ha inevitabilmente condotto il cattolice- simo italiano a concorrere – dandovi un apporto non certo marginale – alla fatico- sa opera di formazione di una coscienza civile lentamente condivisa, che i credenti contribuirono a educare pure sui temi nodali di quella che si potrebbe ben definire la questione contemporanea nazionale, e vale dire il discontinuo e spesso traumatico affermarsi dello sviluppo economico moderno nel corso del secolo e mezzo trascorso dall’unificazione. Questa singolare partecipazione è avvenuta in tempi e modi dif- ferenti, con protagonisti di spicco assai dissomiglianti e con esiti altrettanto diver- sificati. Par dunque opportuno far cenno ad alcuni tra questi.

2 E-W Böckenförde, Di cosa soffre il capitalismo, E-W Böckenförde, G. Bazoli (a cura di), Chiesa e capitalismo, Morcelliana, Brescia 2010, pp. 27-28.

30 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini

ÿ Cattolici e coscienza civile

• La partecipazione attiva dei cattolici italiani alla pur macchinosa formazione, nella Penisola, di un’autentica coscienza civile in tema di democrazia edicapitali- smo, è avvenuta negli stessi anni della nascita e della prima affermazione del Regno d’Italia. Al tempo, com’è noto, i cattolici stessi erano esterni, benché non estranei, alla politica nazionale – la quale era peraltro sprovvista di effettivi contenuti sociali – e il capitalismo si esprimeva in maniera primordiale in forme prevalentemente cumulative e paternalistiche. In tale frangente emersero e andarono imponendosi il pensiero di Giuseppe Toniolo e l’azione di Giuseppe Tovini, di pari passo con la for- mulazione di una prima elaborazione magisteriale poi gradualmente confluita in una compiuta dottrina sociale della Chiesa. Toniolo: stando alle documentate analisi pubblicate in numerosi e pregevoli studi da Paolo Pecorari, Toniolo fu probabilmente il più insigne esponente del pensiero sociale cristiano tra XIX e XX secolo: «interprete e critico acuto sia del ca- pitalismo che del socialismo» – rilevò Pecorari – l’ispiratore della prima Settimana sociale dei Cattolici italiani andò in cerca di «forme di superamento del meccani- smo concorrenziale nelle sue espressioni più radicali, come pure dello schema de- terministico che soggiace all’ideologia marxista, prestando una nuova attenzione al momento economico inteso quale uno dei luoghi etico-sociali e, insieme, etico-po- litici privilegiati della storia»3.Uneconomista per la democrazia, dunque, soprattut- to quando si consideri che Toniolo ricercò lucidamente, e riuscì infine a delineare precocemente, un progetto di società organizzata in modo da perseguire l’autenti- co «bene comune, facendo leva sul solidarismo attivo e sulla cooperazione, raccor- dando la difesa dei diritti al richiamo dei doveri, salvaguardando il primato della persona e del lavoro umano nei processi produttivi, ribadendo la necessità di ispi- rare l’azione dei singoli e delle comunità a perenni valori morali»4. Un tema, quello del bene comune, che ancor oggi è di urgente se non drammatica attualità, data la sua deriva verso le sponde dell’ideologia. Tovini: parallelamente, e più in particolare durante la seconda metà del XIX se- colo, andò dispiegandosi la poliedrica azione del bresciano Giuseppe Tovini, inseri- ta nel contesto del movimento cattolico italiano, stagione tanto rilevante per la sto- ria dell’Italia del secondo Ottocento – e per i suoi successivi sviluppi – quanto in- dagata da un’ampia ed ormai matura storiografia. In effetti, intanto che il pensiero cristiano si articolava e si misurava con le dottrine liberale prima e marxista poi – adottando le felici locuzioni di Pietro Scoppola – «è giusto tuttavia sottolineare che

3 P. Pecorari, Toniolo. Un economista per la democrazia, Studium, Roma 1991; per approfondi- menti ulteriori sulla figura di Toniolo si veda il recente studio di P.Pecorari, Alle origini dell’anticapita- lismo cattolico. Due saggi e un bilancio storiografico su Giuseppe Toniolo, Vita e pensiero, Milano 2010. 4 P.Pecorari, Toniolo. Un economista per la democrazia, cit., passim.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 31 Mario Taccolini lo sviluppo delle idee dice ben poco di quello che è stato realmente il cattolicesimo sociale: la forza e l’incidenza storica del Movimento sono da ricercarsi nella somma innumerevole di iniziative assunte, che hanno profondamente segnato il volto del- la società del Novecento»5. Sin dalle sue origini, infatti, il vivace impegno sociale dei cattolici italiani s’inse- riva o, meglio, emblematicamente rappresentava la trasformazione della presenza cri- stiana in Italia, che si sarebbe concretizzata definitivamente negli ultimi due decenni del XIX secolo. Come ha sostenuto Sergio Zaninelli, il movimento – dopo aver feli- cemente compiuto il superamento della propria ragion d’essere iniziale, tradottasi tipicamente in un atteggiamento d’opposizione – sarebbe stato in grado di mutare gradualmente, facendo emergere «un’attenzione, un modo di vedere i problemi del Paese notevolmente diverso, tant’è vero che poi provocherà una spaccatura anche al- l’interno dello stesso movimento organizzato, cioè dell’Opera dei congressi»6. • Tale trasformazione sembra trovare adeguata interpretazione quando fosse correlata all’imponente crisi del sistema economico, sociale e politico del Regno d’Italia negli anni immediatamente successivi all’unificazione. Una volta trascorso un arduo primo ventennio di vita, fuoriusciti da una grave situazione di squilibrio della finanza pubblica, «con una espansione economica modesta ed alimentata in larga misura da capitali esteri, la rilevante fase recessiva di respiro internazionale denominata grande crisi agraria si abbatteva sull’Italia; per di più, la nostra econo- mia, ma in sostanza le nostre agricolture – ad eccezione dell’irriguo padano – si trovarono a dover affrontare l’accumularsi di una serie di calamità che si sviluppa- rono a catena: la guerra commerciale con la Francia, il fallimento della politica co- loniale, i grandi scandali bancari del ’93-’94»7.

ÿ Evoluzione della presenza organizzata dei cattolici

• Con l’andar del tempo, dall’età giolittiana al primo dopoguerra, dal confron- to col fascismo alla delicatissima fase successiva al secondo conflitto mondiale, la progressiva maturazione della presenza organizzata dei cattolici nella società italia- na condusse ad un graduale passaggio dal movimento di impegno genericamente sociale all’organizzazione sindacale cristianamente ispirata, per giungere poi all’as-

5 P. Scoppola, Chiesa e democrazia in Europa e in Italia, in E. Guerriero (a cura di), I cattolici e la questione sociale, San Paolo, Milano 2005, p. 157. 6 S. Zaninelli, Orientamenti, momenti, figure del cattolicesimo sociale italiano tra Ottocento e Nove- cento, in Cedoc «La voce del popolo» e il movimento cattolico bresciano. Un secolo di storia (1893-1993), Morcelliana, Brescia 1995, pp. 21-37. 7 S. Zaninelli, Cattolici e società italiana: una esperienza storica e un paradigma (da costruire) per una esperienza presente, in Cedoc, Giuseppe Tovini tra memoria storica e attualità, Brescia, Morcelliana, 1998, p. 33.

32 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini sunzione da parte dei cattolici di responsabilità in campo amministrativo e politi- co, locale come pure – ma solo al termine di una complessa vicenda – nazionale. Tovini, dal canto suo, può ben dirsi un protagonista emblematico di tale viva- cità sociale, a dimensione sia locale, sia nazionale: nello specifico, egli intendeva superare la mera ammortizzazione dei «costi accesi dal moderno» – per adottare una delle numerose, efficaci locuzioni coniate da Giorgio Rumi8 – nel lungimiran- te tentativo d’incidere significativamente sui meccanismi stessi di funzionamento del capitalismo incipiente. • Di qui lo schema di quello che è stato definito il sistema creditizio toviniano. Persuaso della necessità di assicurare piena autonomia economico-finanziaria alle istituzioni e alle iniziative cattoliche, e in particolar modo a quelle educative e del- l’informazione, da una parte promosse la costituzione di casse rurali – dei cui inte- ressi si fece strenuo difensore, patrocinando numerose cause civili e proponendo nel 1885 la nascita dell’Unione diocesana delle Società agricole e delle casse rurali – e dall’altra, nel 1872, contribuì alla nascita della Banca di Vallecamonica, nel 1888 fondò a Brescia la Banca San Paolo e nel 1896, a Milano, il Banco Ambrosiano. La ragione che muove, con Tovini, una parte del mondo cattolico non solamente bre- sciano ad avventurarsi nell’esercizio del credito, non corrisponde ad un generico im- pulso caritativo, ma alla consapevolezza dei vasti bisogni delle classi umili, alle quali mancava anzitutto il capitale necessario per dar principio al miglioramento delle proprie condizioni economiche, anche avviando iniziative imprenditoriali. Il realismo toviniano, peraltro, guarda ben oltre il localismo: i problemi di una singola comunità diventano quelli dell’intera valle ove la piccola comunità è inserita, così che la Banca di Vallecamonica è concepita proprio come strumento di sviluppo in sede locale. Allargando gli orizzonti, si giunge alla banca a dimensione provinciale – la San Paolo – e successivamente alla banca regionale per la Lombardia – l’Ambro- siano – sino a prevedere la costituzione di una banca cattolica di carattere nazionale. La visione di Tovini è complessa e organica, il suo orizzonte ampio ed articolato. Per parte sua, la riflessione morale della Chiesa non poteva a lungo ignorare le mutevoli, fiorenti espressioni del movimento cattolico nazionale, distribuite in maniera diffusa – sia pur con esiti diseguali – nella quasi totalità delle diocesi della Penisola.

ÿ Prende forma la dottrina sociale della Chiesa

• Sull’onda seguita alla promulgazione dell’enciclica sociale Rerum novarum da parte di Leone XIII (15 maggio 1891), nei decenni tra Ottocento e Novecento ini-

8 G. Rumi, Amici di Dio, amici dell’uomo, in Progetto culturale della Chiesa italiana (a cura di), Dopo 2000 anni di cristianesimo, Mondadori, Milano 2000, p. 49.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 33 Mario Taccolini ziò così a prendere forma il corpus dottrinale autonomo della dottrina sociale della Chiesa, che nell’arco di oltre un secolo ha rappresentato l’ambito di riflessione più solido e fecondo per la declinazione economica e sociale contemporanea del pen- siero ecclesiale, prevalentemente su temi quali, per l’appunto, capitalismo e demo- crazia. Può ben dirsi che i cattolici italiani, lungo tutto il corso del XX secolo, ab- biano contribuito al consolidamento di una coscienza civile nazionale, interpretan- do e cercando di operare alla luce degli stimoli generati dall’elaborazione di tale dottrina, rinnovati dalle successive encicliche sociali sino alla recente Caritas in ve- ritate di Benedetto XVI. Durante il Novecento, e sino al collasso socialista del 1989, la dottrina sociale della Chiesa si era soffermata con assiduità su principi generali quali, ad esempio, la tutela del lavoro, il primato della persona sulle esigenze della produzione, o l’attenua- zione dei drammatici divari sociali; come osservato da Giovanni Bazoli, «dall’affer- mazione di questi principi era derivata una presa di distanza, espressa con accenti pa- rimenti critici, sia dal sistema capitalistico sia da quello collettivistico. Con l’enciclica Centesimus annus, caduto il sistema comunista, veniva riconosciuta l’efficienza dimo- strata dal modello di libera economia di mercato e ricevevano pertanto piena legitti- mazione, oltre alla libertà d’iniziativa economica individuale, il ruolo del mercato e della concorrenza. Si apriva in tal modo la strada a una possibile riflessione critica sul sistema di mercato condotta, per così dire, al suo interno e quindi costruttivamente indirizzata alla sua correzione, più che alla sua confutazione. Ora, con la nuova enci- clica di papa Benedetto, vengono puntualmente individuate le insufficienze e le criti- cità del modello di sviluppo economico adottato negli ultimi decenni»9. Pertanto – anche e forse soprattutto in quest’ultimo caso – sull’esempio dell’ap- proccio storico-antropoligico dell’insegnamento sociale di Paolo VI, le coscienze ci- vili non soltanto italiane sono ancora una volta esortate apertis verbis – per citare le parole stesse di Ratzinger – ad «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’e- conomia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo sta- to di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo»10.

ÿ Il pensiero e l’azione di Sturzo

• Elementi di grave, apparentemente irreversibile crisi culturale e morale pote- vano riscontrarsi anche durante i primi decenni del Novecento, un tempo nel qua-

9 G. Bazoli, Chiesa e capitalismo, in E-W Böckenförde, G. Bazoli (a cura di), Chiesa e capitalismo, cit., pp. 41-44. 10 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 23.

34 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini le la crisi dell’Italia liberale giunse a generare il regime fascista, da un punto di vista politico ma anche e soprattutto economico-sociale, intanto che il capitalismo in- dustriale italiano tentava – senza riuscirvi – di isolarsi da un capitalismo mondiale sempre più instabile in quanto finanziario11. Gli esiti di tale equivoco coinvolgi- mento si riassunsero nei drammatici disastri delle due guerre mondiali, oltre che negli squilibri generati dalla Grande depressione del 1929-1932. In tale pericolante fase della storia contemporanea, il pensiero e l’azione di Luigi Sturzo lasciavano scorgere valori utili ad orientare la coscienza civile anzitutto dei cattolici italiani, e non solo, proprio sui temi centrali del capitalismo e della democra- zia,mentreladottrina sociale della Chiesa sottoponeva agli operatori economici cri- stiani alcune questioni con le quali confrontarsi pragmaticamente, quale ad esempio l’affermazione dell’economia mista; infine, gli spazi associazionistici e il carisma educativo della Chiesa italiana si manifestavano in tutta la loro efficacia nella forma- zione di un’intera generazione di giovani, ai quali sarebbe stato richiesto di assumere la responsabilità della resistenza alla dittatura e quella della ricostruzione materiale e morale del Paese, all’indomani del secondo conflitto mondiale. • Afronte della poliedrica attività e della complessità del pensiero del fondato- re del Partito Popolare Italiano, tra queste pagine giova richiamare – tra i tanti ci- menti ideali e materiali che lo videro impegnato, spesso con sofferenza – gli sforzi ininterrottamente profusi per ottenere un equilibrato rapporto tra morale, politica ed economia, correlazione fondamentale per la quotidiana costruzione di una coscien- za civile nazionale, anche e soprattutto nella fase primordiale di organizzazione dei cattolici all’interno di un unico partito politico. «Alla base di ogni comportamento politico, come alla base di ogni azione umana» – nell’opinione della sua autorevole biografa, Gabriella Fanello Marcucci – «Sturzo poneva il rispetto della moralità. Ed era proprio per il recupero della moralità che lottava contro la partitocrazia, contro lo statalismo e lo strapotere degli enti, perché tutte queste deviazioni indu- cevano la corruzione e dunque l’immoralità»12. • Al proposito, pare opportuno citare le acute, acri e profetiche espressioni adot- tate dallo stesso Sturzo per definire l’«immoralità pubblica», diffusa nel corso del primo dopoguerra come pure nel successivo: «l’immoralità pubblica non è caratte- rizzata solo dallo sperpero del denaro, dalle malversazioni e dai peculati. Applicare sistemi fiscali ingiusti o vessatori è immoralità; dare impieghi di Stato o di altri enti pubblici a persone incompetenti è immoralità; aumentare posti d’impiego senza ne- cessità è immoralità; abusare della propria influenza o del proprio posto di consi- gliere, deputato, ministro, dirigente sindacale, nella amministrazione della giustizia

11 R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963),il Mulino, Bologna 2002, pp. 79-111. 12 G. Fanello Marcucci, Luigi Sturzo. Vita e battaglie per la libertà del fondatore del Partito popolare italiano, Mondadori, Milano 2004, pp. 349-350.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 35 Mario Taccolini civile o penale, nell’esame dei concorsi pubblici, nelle assegnazioni di appalti o alte- rarne le decisioni, è immoralità. Non continuo in questa lista interminabile»13.La straordinaria novità del XX secolo politico, ovvero la nascita e l’affermazione del po- polarismo, doveva dunque per sua stessa natura confrontarsi con i risultati altalenan- ti, e raramente confortanti, della quotidiana sfida lanciata dalla politica e dall’eco- nomia alla moralità pubblica, fondamento ineliminabile del bene comune14.

ÿ Le scelte in economia

• D’altro canto, la Grande depressione degli anni 1929-1932 pose i cattolici italiani a vario titolo impegnati nel mondo dell’economia dinanzi al dilemma tra «Stato minimo» e «Stato massimo», per com’è stato lucidamente sintetizzato da Ada Ferrari. Già nella fase di declino del regime fascista, in effetti, si poneva la que- stione di dare miglior senso e più ampie prospettive ad alcune scelte compiute ne- gli anni a tutela degli equilibri dell’economia nazionale in fasi particolarmente cri- tiche, prima tra tutte quella appena citata. La storiografia italiana sul tema è matu- rata, sia sprovincializzandosi, sia deideologizzandosi, sino a scoprire «che il feno- meno dello Stato imprenditore non fu “invenzione” democristiana, così come già aveva scoperto che non era stata invenzione fascista. Guardando finalmente le cose nella prospettiva del lungo periodo e del ruolo giocato dall’Italia sullo scenario eco- nomico mondiale, ci si accorge che il potenziamento del sistema misto fu inelutta- bilità collegata all’evolversi della produzione capitalistica secondo dinamiche par- zialmente indipendenti da colore e identità ideologica di governi, regimi e ceti diri- genti. Non è di poco interesse, al riguardo, la crescente attenzione delle ricerche al clima culturale dell’IRI degli anni Quaranta e a peculiari posizioni di cui è emble- matica quella del cattolico di sinistra Franco Rodano, singolarmente ansioso (non diversamente però da Raffele Mattioli o da Sergio Paronetto) di sottrarre in tempo l’immagine pubblica dell’Istituto alla nefasta e scorretta identificazione con l’autar- chia e lo Stato corporativo fascista. Premeva, al contrario, dimostrare come si trat- tasse di un prezioso strumento tecnico, atto a produrre, a regime abbattuto, un più pieno compimento democratico degli assetti economici»15. • In tale prospettiva, dobbiamo anzitutto ad Agostino Giovagnoli e ai suoi stu- di sulla cultura democristiana la dimostrazione di «come la generazione dei “giova- ni” cresciuta durante il ventennio avesse preso a guadare in modo nuovo alla realtà

13 Citato in ibidem, p. 349. 14 Per approfondire alcuni degli aspetti indicati si veda l’importante saggio di G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ’900, il Margine, Trento 2008. 15 A. Ferrari, La cultura riformatrice. Uomini, tecniche, filosofie di fronte allo sviluppo (1945-1968), Studium, Roma 1995, pp. 8-9.

36 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini tecnica e amministrativa dello Stato, sentendone non solo il potere ma, più pro- priamente, certa legittima “auctoritas” in grado, se opportunamente interpretata, di indurre l’organizzazione sociale a più elevati livelli di vita morale». L’analisi dello storico dell’Università Cattolica non tralascia i più «interessanti percorsi culturali, di cui è per molti versi esemplare la confluenza fra i giuristi formati all’Università Cattolica di Milano e figure come Aldo Moro, entro un peculiare “statalismo” cri- stiano che lasciò poi fortissima impronta nel dettato costituzionale. Tali esperienze, coniugate in alcuni casi a ruoli di alta professionalità negli organismi dell’econo- mia pubblica, specie nell’IRI, divennero nell’Italia della ricostruzione il punto di riferimento culturale e tecnico per un’ipotesi di sviluppo e modernizzazione larga- mente affidata all’iniziativa centrale dello Stato»16.

ÿ Educazione delle coscienze

• A proposito del difficile frangente novecentesco, non pare possibile eludere il capitolo rappresentato dalla carità intellettuale e pedagogica – in ultima analisi, ca- rità valoriale – incarnata dai cattolici italiani in ogni angolo del Paese; una carità volta a mettere in discussione i fondamenti culturali del nazifascismo mediante un’opera capillare, diuturna e non raramente rischiosa di educazione delle coscienze, in una stagione di compressione se non di negazione delle libertà fondamentali, non da ultima quella di espressione. In tal senso, di fronte a prospettive democrati- che sempre più fosche, come pure agli sbilanciamenti dell’imprenditoria industria- le, sempre più favorevole alla politica economica del regime, la resistenza civile promossa da movimenti, associazioni – si pensi anzitutto all’Azione Cattolica e alla Fuci – ma pure da oratori e confraternite passava attraverso l’impegno formativo di moltissime figure luminose17, tra le quali sia consentito citare, in questa sede, quel- la del cardinale Giulio Bevilacqua. Come ha ben rilevato Fulvio De Giorgi, il religioso filippino attivo presso l’Ora- torio della Pace di Brescia, sin dai primi anni Venti fu promotore attivo di una mili- zia cristiana intesa quale «resistenza confessante anti-idolatrica»: più in particolare egli «considerava con preoccupazione gli sviluppi delle religioni politiche del suo tempo e gli effetti deleteri che potevano avere sui cristiani. Si poneva così il proble- ma di una proposta di apostolato adeguata alle sfide del tempo e, conseguentemen- te, di modelli educativi efficaci. Cruciale diveniva allora, sul piano proprio educati- vo, precisare un modello evangelico di “eroismo” della vita cristiana, per evitare de-

16 Ivi, pp.18-19: il riferimento è specialmente rivolto al volume di A. Giovagnoli, La cultura de- mocristiana, Laterza, Roma-Bari 1991. 17 Luciano Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia uni- ta, La Scuola, Brescia 2006.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 37 Mario Taccolini rive di eroismo profano superomistico. Il modello del sacrificio dell’eroe doveva es- sere il sacrificio di Cristo. In questo senso, Bevilacqua sottolineava alcune caratteri- stiche del vero eroismo che delineavano un modello in totale antitesi ad ogni dan- nunzianesimo e fascismo. La prima caratteristica, oltre la verità dell’ideale, doveva essere la carità: non bastava dare la vita, bisognava darla per amore, senza l’egocen- trismo che era solo assetato di notorietà. La seconda caratteristica era, dunque, l’u- miltà, perché il falso eroismo accetta la morte ma non l’ombra, l’oscurità. Infine, il vero eroismo non è un punto, un episodio, il gesto di un istante, ma la logica inin- terrotta di una vita che produce una vera grandezza, che dura e cresce. Attraverso queste caratteristiche Bevilacqua contrapponeva un modello di eroismo come san- tità cristiana al modello eroico pagano del totalitarismo. Da qui l’ideale militante di una resistenza nonviolenta anti-idolatrica, che non ha paura della persecuzione e del martirio. Nessuna resa, ma la resistenza di una Chiesa confessante. E questa resi- stenza, pronta al martirio, si poneva come suprema difesa non tanto del cristiano, tanto meno degli interessi cattolici, ma come difesa dell’uomo, della sua dignità, della sua libertà, a fronte dei totalitarismi idolatrici e anti-umani»18.

ÿ Il “carisma educativo” della Chiesa

• Giova senz’altro annotare che, di per sé, il carisma educativo della Chiesa ita- liana andò esprimendosi – in questi anni di «preparazione nell’astensione», forzata allora dai toni assunti dalla dittatura – anche nel mai sopito confronto tra istanze metodologiche mediante le quali affrontare la modernità, riconducibili al «proget- to progressivo» dal quale si sono preso le mosse. Anche tra le due guerre – come del resto è avvenuto in ogni fase delicata e trau- matica della storia italiana contemporanea – si riaffacciò in maniera lampante la questione di fondo della cultura cattolica nazionale nel XX secolo, ovvero quella del «rapporto col moderno», come scrisse oltre trent’anni fa Giorgio Rumi. Pro- prio lo storico della Statale di Milano volle individuare nell’approccio alla moder- nità una differenza «sostanziale fra quel che chiameremmo “rito ambrosiano”, fra il gruppo gemelliano, cioè, e la proposta che passa sul ponte ideale Brescia-Roma. Quello che Gemelli viveva in termini di conquista e quindi di egemonia, in una prospettiva di direzione politica del Paese, diventa, nel gruppo di Montini, verifica critica, quindi una concezione della cultura non strumentale ma di apporto, di ar- ricchimento, e non mai una critica fine a se stessa. Risale al ’30 un avvertimento di Montini: «Ruminare non basta; occorre assimilare, occorre verificare. La critica di- venta, in questa prospettiva, una specie di momento di passaggio fra l’ansia di ri-

18 F. de Giorgi, La figura e l’opera di padre Giulio Bevilacqua, in L. Ghisleri, R. Papetti (a cura di), Giulio Bevilacqua a quarant’anni dalla morte (1965-2005), Cedoc, Brescia 2006, p. 42.

38 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini cerca dell’uomo e la fede, diventa occasione, apertura, per una mutazione esisten- ziale e non per un’esercitazione di tipo storicistico. E qui nasce una diversa lettura, un diverso modo di vivere la grande tradizione tomista»19. Pare dunque evidente che le questioni di metodo educhino, nel senso che orientano la coscienza civile – non solo ecclesiale – ad una lettura più veridica dei segni dei tempi: a questo elevato impegno i cattolici italiani saranno chiamati an- che nel corso della seconda metà del Novecento.

ÿ Esperienza democratica e ricostruzione

• Nella stagione dell’ultimo dopoguerra l’avvio dell’esperienza democratica in Italia esigeva, da un lato, una purificazione morale e, dall’altro, di dotarsi pure di strumenti teorici per governare la ricostruzione del Paese e soprattutto progettare il suo sviluppo, che nelle aspirazioni dei cattolici italiani avrebbe dovuto portare ne- cessariamente ad un autentico coinvolgimento dei ceti popolari nella vita politica e ad un’offerta di un livello di welfare più elevato, tecnicamente ormai possibile e so- cialmente già rivendicato. In tale direzione si mossero in effetti le scelte iniziali del partito della Democra- zia Cristiana orientate in senso riformista, come pure quelle del sindacalismo re- sponsabile di Giulio Pastore e di Mario Romani, sino all’esperienza avanzata dei go- verni di centro-sinistra strategicamente costituiti e presieduti da Aldo Moro. Durante gli anni dell’affermazione politica nazionale della Dc, il connubio tra capitalismo e democrazia era affrontato alla luce di quella «cultura riformatrice» che avrebbe informato l’azione sociale ed economica dei governi centristi, alla diuturna e talora affannosa ricerca di una conciliazione tra cristianesimo e capitalismo – ine- vitabilmente pencolante ma, per quanto possibile, stabile – in nome, anzitutto, della necessità di costruire definitivamente un percorso di democrazia compiuta, sia politica che economica, nella penisola italiana20. • Dopo la tumultuosa come pure entusiasmante fase della ricostruzione, fu po- sto l’obiettivo principale di dar corso ad un progressivo miglioramento della qualità della vita degli italiani, riducendo prima di tutto i più rilevanti divari settoriali e ter- ritoriali, così che per dare nuovo impulso all’azione di governo fu inaugurato – co- me documentato negli studi di Piero Barucci21 – «il cosiddetto “terzo tempo” della

19 G. Rumi, La cultura cattolica italiana nel ’900,inId.,Perché la storia. Itinerari di ricerca (1963- 2006), vol.I, Led, Milano 2010, p. 198. 20 Riflessioni al riguardo si trovano anche in A. Ferrari, La civiltà industriale. Colpa e redenzione. Aspetto della cultura sociale in età degasperiana, Morcelliana, Brescia 1984. 21 Confluiti ad esempio in P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica eco- nomica in Italia dal 1943 al 1945, il Mulino, Bologna 1978.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 39 Mario Taccolini politica economica, quello delle riforme degli anni Cinquanta sollecitate dalle pres- sioni sociali e sorrette dai nuovi orientamenti maturati all’interno del partito di maggioranza. Tra i primi e più importanti atti con cui si era tradotta in pratica la nuova fase della politica economico-sociale va inserita a pieno titolo la riforma agra- ria, la cui attuazione era dettata sia dal ripetersi di drammatici eventi che avevano sconvolto le campagne meridionali in quegli anni del dopoguerra, sia dalla forte consistenza degli addetti al settore agricolo, che superavano gli 8,5 milioni, con una incidenza dei lavoratori dipendenti di oltre il 50 per cento (4,3 milioni)»22. • Nello stesso disegno complessivo andarono inserendosi ulteriori interventi pa- rimenti qualificati, quali la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno e, più in generale, la definitiva apertura degli scambi con l’estero – quale tappa obbligatoria per lo stesso definitivo sviluppo economico del Paese – come pure, e non da ulti- mo, l’adesione alla Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio sin dai suoi inizi. Di lì a poco sarebbe altresì sorto il fecondo ed acceso dibattito intorno allo «Sche- ma di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964», altrimenti noto come Piano Vanoni.

ÿ Il “Sindacato nuovo” della Cisl

• In tale multiforme e vivacissimo contesto, la proposta organizzativa sindacale di Pastore e Romani che portò a partire dagli anni Cinquanta alla nascita del sinda- cato nuovo della Cisl, si presentò innovativa e dinamica, tanto più quando si consi- deri l’estrema delicatezza ch’era richiesta nell’affrontare un ambito come quello del mondo del lavoro, ch’era stato storicamente trascurato dai cattolici italiani. In tale temperie, la coscienza civile nazionale poté davvero trovare uno stimolo efficace ed innovativo, che la condusse a ripensarsi e a ripensare al tema della rappresentanza degli interessi e delle relazioni industriali, in una fase risolutiva per lo sviluppo eco- nomico e sociale nazionale d’età contemporanea. In un frangente del genere s’imponeva un superamento senza esitazioni del- l’Ottocento sindacale; era insomma urgente modernizzare la cultura economica del sindacato in Italia, allo scopo di giungere il più rapidamente possibile al risultato di un sindacalismo ideologicamente e politicamente libero che agisse in una società sempre più democratica23. Lo stesso Mario Romani, intervenendo ad un convegno nazionale di studio promosso a Roma dalle Acli, nel 1964 volle ribadire a chiare lettere quello che gli pareva «il significato storico della nascita» della Cisl, e vale a

22 P.Galea, Tra ricostruzione e sviluppo, in A. Leonardi, A. Cova, P.Galea, Il Novecento economico ita- liano. Dalla grande guerra al “miracolo economico” (1914-1962), Monduzzi, Bologna 1997, pp.267-280. 23 S. Zaninelli, V. Saba, Mario Romani. La cultura al servizio del “sindacato nuovo”, Rusconi, Mila- no 1995.

40 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini dire il «tentativo di introdurre elementi innovativi nell’ambito della realtà sindaca- le italiana, nel quadro di una visione consapevole della necessità di non opporsi ma anzi di favorire ed orientare il passaggio del Paese ad un maturo equilibrio indu- striale, in regime di piena libertà»24.

ÿ I governi di “centro-sinistra”

• Senza alcuna esitazione, in tale prospettiva generale, va valorizzata – e andrà ancor più approfondita in senso storiografico – l’opera complessiva svolta dai go- verni di centro-sinistra guidati da Aldo Moro, in particolare tra il 1963 e il 1968. Seguendo le solide indicazioni offerte da Giorgio Campanini, tale azione di gover- no può essere considerata «sotto un duplice profilo: dal punto di vista del contri- buto di insieme fornito alla crescita della società italiana; dal punto di vista dell’ap- porto offerto al processo di ulteriore democratizzazione del Paese. Sotto il primo profilo, va ricordato che proprio negli anni del centro-sinistra viene definitivamen- te avviato il processo di decentramento, con l’istituzione delle regioni a statuto or- dinario. Si rimprovera a tale riforma una relativa timidezza e si constata che lo Sta- to centralistico non viene del tutto superato, anche dopo la concessione di più am- pi poteri agli enti locali; ma si tratta indubbiamente di un decisivo passo avanti ri- spetto al modello di Stato liberale dell’Ottocento che sotto questo aspetto il fasci- smo aveva ereditato e consolidato. Inoltre, negli anni in cui Moro è alla guida del governo viene avviata una serie di meccanismi di redistribuzione del reddito, così da estendere i benefici del “miracolo economico” anche a gruppi e ceti che ne era- no stati di fatto esclusi. Di particolare importanza e incidenza l’azione svolta a fa- vore del Mezzogiorno, anche se non riesce a impedire che permanga il tradizionale, e plurisecolare, divario fra Nord e Sud. Infine, l’esperienza di centro-sinistra si ca- ratterizza per il potenziamento e la diffusione in tutto il territorio nazionale delle strutture dello “Stato sociale”: non senza rischi di appesantimento burocratico, che si manifesteranno poi soprattutto negli anni ’80, ma con innovazioni che consen- tono di realizzare una più equa distribuzione delle risorse e dei benefici dell’emer- gente società industriale»25. • Quanto poi al rapporto tra esperienza di centro-sinistra e modernizzazione della società italiana, soprattutto nel senso di una crescente democratizzazione del Paese, in questi anni Aldo Moro si impegnò più di ogni altro per l’obiettivo del-

24 M. Romani, Il risorgimento sindacale in Italia. Scritti e discorsi (1951-1975), a cura di Sergio Zaninelli, Franco Angeli, Milano 1988, p.123; per ulteriori approfondimenti su questo tema di veda oggi anche il testo collettaneo Mario Romani. Il sindacalismo libero e la società democratica, a cura di A. Ciampani, edizioni Lavoro, Roma 2007. 25 G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Studium, Roma 1992, pp. 55-56.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 41 Mario Taccolini l’ampliamento a sinistra della partecipazione sia istituzionale che popolare alla vita democratica nazionale: «grande merito storico di Moro è stato quello di portare la Democrazia Cristiana prima e il “mondo cattolico” poi ad accettare la collabora- zione con il Partito socialista. Veniva così ripresa ed in qualche modo perfezionata la linea degasperiana della ricerca della collaborazione fra democratici cristiani e partiti “laici”, ma in una direzione – quella rappresentata dal Partito socialista – che era sembrata fino al 1960, anche per autorevoli interventi delle stesse gerarchie ecclesiastiche, non percorribile»26. Fu grande l’impresa di legittimare la collabora- zione con il Partito socialista, e fu resa possibile anzitutto dalle note abilità di me- diatore di Moro: il problema focale, tuttavia, non era tanto quello di giungere ad un compromesso tra tradizioni o ideologie storicamente inconciliabili, bensì quel- lo della ricerca delle mediazioni democratiche necessarie per delineare in Italia un progetto condiviso di sviluppo, uno sviluppo da governare nelle fasi di crescita come in quelle di crisi pure strutturale, ch’erano ormai alle porte27.

ÿ I cattolici e il tempo presente

• La pur breve disamina sin qui svolta – che ha il valore di semplice introduzio- ne al tema, ch’è meritevole di ben altri affondi – sembra dar modo di condividere alcune considerazioni conclusive non tanto riepilogative di quanto trattato, quan- to strumentali ad una più chiara decifrazione del tempo presente. Se la qualità del contributo offerto dai cattolici italiani allo sviluppo del capitalismo e della democra- zia nella giovane Italia sembra infatti innegabile, nel tempo odierno v’è da interro- garsi su quale può essere, oggi, e quale potrà essere, domani, il loro apporto al rin- novamento delle sorti di un Paese giunto ormai a quell’età che dovrebbe sancire una raggiunta maturità. La stagione corrente, a ben vedere, caratterizzata – come del resto tutte quelle che l’hanno preceduta – da drammatiche miserie e da glorie rifulgenti, pur presen- tando se stessa come il palcoscenico del trionfo dell’individuo, e dunque dell’unità per eccellenza, si mostra anzitutto all’osservatore sorprendentemente caotica,pro- prio per il progressivo venir meno delle reti di relazioni tipiche del nostro passato28, che innervavano la società come un reticolo cristallino rendendola infine solida,

26 Ivi, p.56-57; per approfondire questi temi risulta imprescindibile il confronto con gli interven- ti di Aldo Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Fondazione Aldo Moro (a cura di), Garzanti, Milano 1979. 27 Per alcuni elementi interpretativi riguardanti l’evoluzione del cattolicesimo democratico nelle stagioni successive si veda oggi lo studio di Agostino Giovagnoli dedicato al suo maestro: Chiesa e de- mocrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2011. 28 Alcune suggestive note sul tempo presente e sull’attuale, grave crisi economica e sociale, si rin- vengono nelle belle pagine di E. Berselli, L’economia giusta, Einaudi, Torino 2010.

42 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Mario Taccolini pur nelle sue molteplici contraddittorietà. Data la criticità del contesto attuale, ci si potrebbe dunque chiedere quali siano stati i limiti dell’apporto dato dai cattolici alla società italiana, soprattutto a confronto con la straordinariamente feconda de- clinazione del loro tipico carisma educativo durante i decenni centrali del Novecen- to, alla quale sopra s’è fatto brevemente cenno. Se con Benedetto XVI siamo persuasi che «dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale»29, al volgere di un franco, lungo e meticoloso vaglio di successi e sconfitte, attenzioni e trascuratezze antiche e recenti, sarà forse opportuno tornare ad alimentare – in tutte le sedi appropriate – quel confronto serrato tra istanze metodologiche con cui affrontare la postmodernità evocata in esordio, confronto che è stato chiave di volta di una presenza vitale, per non dir profetica, durante i primi centocinquant’anni di vita del Paese. Ciò, anzi- tutto, perché la parabola novecentesca di tale presenza dimostra che le questioni di metodo educano.

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29 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 21.

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I cattolici e le istituzioni

La circostanza di questo 150° suggerisce prospettive FRANCESCO BONINI ampie, anche se non è certo possibile svilupparle in mo- Università degli Studi do sistematico, su un tema non solo impegnativo, ma di Teramo anche troppo vasto. Mi limiterò alla proposta di un per- corso critico per arrivare a delineare, sulla base di una prospettiva lunga, le questioni oggi più pressanti. Que- sto breve intervento dovrebbe infatti avere come sotto- ≈ titolo: dopo la fine di quello che conveniamo di definire il movimento cattolico. «Cosa c’è dopo la fine del movimento cattolico – e del ÿ Uno schema passaggio suppletivo che l’ha • Lavoriamo su due lemmi e proporrei di partire dal se- caratterizzata? condo. La vicenda delle istituzioni politiche dell’Italia unita L’unica certezza è che la crisi deve ha al centro la questione dello Stato, la costruzione e poi la (ancora) essere “crisi e trasformazione” per usare la formula di un altro percorsa fino in grande professore dell’ateneo pisano, come Giuseppe Tonio- fondo, perché si lo, cioè Santi Romano, dello Stato unitario. possano disegnare nuove Stato unitario, appunto, perché, come già ho avuto mo- prospettive, nel do di sottolineare, l’alternativa federale è di fatto impropo- ricambio delle nibile dopo i preliminari di Villafranca (luglio 1859) fino al generazioni e più trattato di Maastricht (febbraio 1992). Si costruisce uno Sta- profondamente delle forme to unitario “moderno”, sull’esempio cioè degli altri stati-na- organizzative, in zione che si affermano sulla scena europea sul modello fran- particolare per cese, cioè laico, nel senso della separazione, fino al conflitto, quanto riguarda i con la Chiesa, e liberale, cioè rifondato su forme individua- rapporti tra i soggetti». li(ste) di rappresentanza, superando e rifiutando qualsiasi nesso organicistico. Alla francese, per dirla con Ruffilli, si af- ≈ ferma infatti il «rifiuto della liberalizzazione del rapporto fra lo Stato e le varie comunità locali». Questo contenitore Stato – di cui è stata teorizzata e studiata la “continuità” – è caratterizzato da due costituzio-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 45 Francesco Bonini ni, lo Statuto albertino (1848) e la Costituzione repubblicana (1948, elaborata dal 1946). All’interno dei due quadri costituzionali formali succedutisi nell’arco di quasi un secolo, il sistema politico evolve in diversi passaggi, che potremmo schematizza- re nel modo seguente: 1) Il “lungo governo provvisorio” seguito all’unificazione come “piemontesiz- zazione”, così da metabolizzarla il meglio possibile e rispondere alle diverse emer- genze che, fino al 1866, la mettevano concretamente in discussione. 2) Il “partito della maggioranza”, che, dopo un breve periodo di alternanza de- stra-sinistra il 1870 e il 1882, assicura governabilità e consolidamento, pur in for- me non congrue con la modellistica, producendo – e cito ancora Ruffilli – uno Stato che tiene, ma è «fragile sul piano della legittimazione». L’equilibrio entra in crisi con la guerra, che segna l’avvento di una società di massa e di moderni partiti. 3) La “dittatura fascista”, nelle sue diverse fasi, fino a forme di totalitarismo “im- perfetto”, che necessariamente porta a una nuova guerra (anche “civile”) e final- mente alla Costituente democratica. 4) La “Repubblica dei partiti”, fondata su partiti di massa organizzati, in un quadro proporzionalistico e centripeto, imperniato sulla Democrazia Cristiana. Entra in crisi con la fine della guerra fredda, che percorre anche l’Italia, ove opera il più forte partito comunista occidentale, ed è cancellata per via referendaria e giudi- ziaria. 5) La “Repubblica del maggioritario”, caratterizzata da un sistema elettorale bi- poralizzante che produce, ad ogni elezione, alternanze che ho definito “per dispera- zione”. In tutti questi quadri costituzionali e in tutte queste fasi della storia del sistema politico italiano, la presenza dei cattolici è stata certamente significativa, anche se evidentemente in modi e forme anche molto diverse. Ecco il secondo lemma, cattolici. È un termine complesso, che comprende la Chiesa nel senso stretto, ecclesiastico del termine, ma anche nel senso proprio di popolo di Dio, tanto i singoli cattolici che il movimento organizzato. La Chiesa-istituzione ha un percorso caratterizzato dal tema della Conciliazio- ne, attraverso le varie fasi della protesta, della “conciliazione silenziosa”, dei Patti Lateranensi (1929) e da cui si sviluppa il filo delle diverse dinamiche concordata- rie, recepite in Costituzione e riformate nel 1984. Ma più che questa vicenda, pure assai rilevante, perché determina il contesto, qui interessa piuttosto il percorso di partecipazione alle istituzioni, in cui con il termine “cattolici” si evoca l’endiadi “cattolicesimo e Chiesa”, un binomio con cui sono indicate non due entità separa- te, ma due dimensioni di una medesima realtà, come certificherà poi il Concilio nella Costituzione Lumen Gentium, anche nella corposa presenza nella realtà so- ciale, dunque anche politica ed istituzionale.

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Rispetto alla vicenda delle istituzioni qui la periodizzazione potrebbe essere più semplice. Possiamo distinguere “prima”, una presenza attiva e molecolare, quindi la vicenda corposa del movimento cattolico e infine un “dopo”, che ne segue prima la crisi e poi la fine nelle modalità otto-novecentesche. Una periodizzazione sem- plice per una questione assai complessa. Proviamo allora ad intrecciare i percorsi.

ÿ La presenza “molecolare”

• Ritorniamo ai passaggi costituenti, per cogliere i tratti di un personale di grandissimo rilievo e qualità, che la tradizionale storiografia sul “movimento catto- lico” non ha preso in considerazione, per motivi che diventeranno chiari. Tanto lo Statuto albertino che la Costituzione repubblicana sono stati scritti (anche e in misura rilevante) da cattolici. Un cattolico molto riconoscibile anche se oggi ignoto come Federigo Sclopis di Salerano ha scritto il preambolo dello Statuto così come il decreto sul tricolore di pochi giorni successivo, e giocato nel passaggio costituente subalpino un ruolo non certo inferiore a quello giocato un secolo più tardi ad esempio da un Dossetti. Per non parlare di , primo presidente del Consiglio costituzionale del Regno di Sardegna, che qualche anno prima aveva posto come epigrafe al suo libro Delle Speranze d’Italia (uscito a Parigi e subito tra- dotto in francese) il versetto 42 del capitolo X del Vangelo di Luca, nella traduzio- ne latina: «Porro unum est necessarium», riferendosi appunto al “risorgimento” dell’Italia. Sclopis rappresenta il convincente archetipo di un personale che attraversa tut- to il periodo del Risorgimento e dell’unificazione e ha il suo epilogo in un altro moderato cattolico, questa volta lombardo, Stefano Jacini, ministro nell’ultimo go- verno Cavour e lucidissimo analista dei nodi dell’unificazione. Tra il 1846-’48 e il 1861 fa la sua prova insomma un personale politico e intel- lettuale di grande spessore e di rilievo e cultura europei. Sono i protagonisti della grande stagione del risorgimento e dell’unificazione, caratterizzata da una presenza molecolare e fondamentale di cattolici nelle istituzioni e nel dibattito politico-co- stituzionale, che contribuiscono a istruire e a fare decollare, non a caso dapprima in forme (con)federaliste. Il volume di Cesare Balbo, che il suo autore definisce «manifesto di speranze moderate», fa eco ai due volumi Del primato morale e civile degli italiani, pubblicati l’anno prima da Vincenzo Gioberti. Si presentava con tutta evidenza la fede reli- giosa come collante, elemento di fusione per una unità nazionale da realizzarsi in armonia con questo che oggi definiremmo principio identitario. In realtà tutto il Risorgimento è percorso da una linea fondamentale di iniziati- va dei cattolici, clero e laici, a tutti i livelli, che culmina appunto nel 1848.

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La migliore sintesi è offerta da Manzoni, che nel 1848 può finalmente pubbli- care l’ode Marzo 1821, e da Rosmini, che sviluppa la contemporanea proposta di riforma politica ed ecclesiale. Proprio a Manzoni, come sappiamo, dobbiamo la più icastica definizione di una unità d’Italia che reclama forme statuali unite, nel momento in cui comincia- no a svilupparsi in tutta Europa gli Stati-nazione: «Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor».

ÿ Il conflitto

• Fino a che si produce il conflitto, reso irreversibile dalla breccia di Porta Pia, con la conseguente “traslocazione” della capitale. La dinamica della rottura era sta- ta annunciata già nella allocuzione di uno dei grandi protagonisti cattolici delle Speranze d’Italia, lo stesso Pontefice, Pio IX, che il 29 aprile 1848, prendeva atto della contraddizione del suo ruolo come capo della Chiesa universale ed allo stesso tempo capo di uno stato italiano, nel vivo della prima guerra di indipendenza. Alla fine dell’anno fatidico il processo di divaricazione (e dunque in prospettiva di con- flitto) è sancito. Acconsente infatti il Papa alla contestuale messa all’indice delle due opere pubblicante da Antonio Rosmini, pochi mesi prima, le Sette piaghe ela Costituzione secondo la giustizia sociale. La decisione – del segretario di Stato Anto- nelli – illustra l’impossibilità di sincronizzare, nel Risorgimento italiano, riforma politica e riforma nella Chiesa, cioè la sua transizione oltre l’Antico Regime. Questo ci avverte che c’è un problema in più, quello cioè relativo alla moder- nità. Occorreva fare i conti con la modernità (anche) istituzionale, fuoriuscire defi- nitivamente dall’Antico Regime, che in realtà teneva prigioniera la Chiesa, pur praticando formalmente la religione di stato. Ciò comportava trovare un sistema di relazioni che abbandonasse definitivamente ogni nostalgia di restaurazione: si trat- ta ovviamente di un processo lungo e complesso, che non regge all’accelerazione politica, sociale e istituzionale che si concentra nell’“anno dei portenti”. In questo quadro si può spiegare la fine del cosiddetto cattolicesimo liberale, cioè la grande stagione della presenza “molecolare” in istituzioni che, pur moder- nizzate, erano formalmente cattoliche. Da sottolineare – anche a rettifica dei classi- ci canoni storiografici che questa esperienza non è percepita come opposta al co- siddetto intransigentismo. La divaricazione è accentuata in prospettiva storico-po- litica: non a caso un classico massone come , regista delle leggi di secolarizzazione dell’Italia unita, commemorando, nella sua qualità di presiden- te del Senato, Federico Sclopis di Salerano, accomunava «i clerocratici e le ombre loro (i neo guelfi)». Si deve in ogni caso ad altro un classico esponente di questa presenza molecola- re, il già ricordato Stefano Jacini, la definizione del quadro entro cui si sviluppa il

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“movimento cattolico”, quello cioè della frattura tra “paese legale” e “paese reale”. Jacini aveva torto nel merito: infatti non si poteva contemplare, per la protesta della Santa Sede, la creazione di un partito moderato conservatore a propulsione cattolica, come proponeva, insieme ad altri “reduci”, negli incontri di Casa Cam- pello. Ha invece ragione in senso strategico, perché dal “paese reale”, si sviluppa, al riparo del cosiddetto intransigentismo, il “movimento cattolico”. Che variamente riprenderà, dopo trent’anni, le lucide intuizioni politiche degli ultimi “molecolari”.

ÿ Il movimento cattolico

• I cattolici in quanto tali, cioè organizzati ecclesialmente, si posizionano nella società, piuttosto che nello Stato. È il classico percorso che la storiografia ha rico- struito traguardando il suo esito nella Democrazia Cristiana, ma che merita di es- sere visto ormai in una prospettiva più larga. Questo lungo arco trova la sua espres- sione sintetica nella personalità di Luigi Sturzo, che, nelle varie fasi del suo impe- gno, di fatto ne esprime le diverse stagioni e le non facili e contraddittorie vicende. Due interventi, all’inizio ed alla conclusione della sua vita pubblica, ne danno con- to, intorno all’idea di democrazia cristiana. «Se la democrazia sarà cristiana farà un gran bene al mondo» è la consegna lasciatagli da papa Leone XIII, nella memorabi- le udienza dell’agosto 1900. Quasi cinquant’anni, due guerre e due partiti demo- cratico-cristiani dopo, in un articolo per «Vita e Pensiero» del 1947 Doveri del cit- tadino, che è ripubblicato nell’Opera Omnia con un significativo sottotitolo “scrit- to per i credenti”, afferma: «Io sostengo una tesi che è creduta azzardata e non pro- vata, ma che è provabile e molto ragionevole»: cioè «che non si dà né si può dare vera democrazia che in paesi di civiltà cristiana». Questa tesi, che peraltro echeggia una convinzione più volte riaffermata da Alexis de Tocqueville, anche in riferimen- to alla forma cattolica e non solo a quella riformata del cristianesimo, contro i pa- radigmi weberiani poi stranamente egemoni, anche in certa cultura cattolica italia- na, ha due corollari: 1° «che quanto più una civiltà si allontana dall’ideale cristiano la democrazia (se stabilita) tende a svuotarsi di sostanza anche se ne conserva la for- ma»; 2° «che quanto più la democrazia decade di moralità pubblica, tanto più per- de il suo carattere democratico e pende verso la oligarchia». In concreto poi: «in un paese con il sistema fisso dei due partiti, un terzo partito non può aver posto, a me- no che non miri, con grandi mezzi e con idee sociali avanzate, a scalzare uno dei partiti esistenti, così come il partito laburista in Inghilterra, che prese il posto del partito liberale. La democrazia cristiana promuove i partiti dove ce n’è il bisogno e la possibilità; altrimenti si contenta di portare, dentro la formazione di partiti esi- stenti, il flusso riformatore delle sue idee sociali e della sua funzione moralizzatri- ce». Il punto è ovviamente che il soggetto deve esserci. Si forma negli ultimi decen- ni dell’Ottocento e dura fino alla seconda metà del Novecento.

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• Ma non anticipiamo troppo. Il non expedit è la formula sintetica che defini- sce in Italia questa stagione di riposizionamento, che caratterizza i due ultimi de- cenni dell’Ottocento e comincia a dispiegare i suoi effetti sulla rappresentanza nei successivi primi due del Novecento. Il divieto di partecipare alle elezioni politiche (secondo la formula «né eletti, né elettori») per protestare contro l’«usurpazione», che comincia già con la sollevazione delle Legazioni, nel corso del 1859 e nell’arco di poco più di un decennio travolge lo Stato della Chiesa, stimola alla creazione di una organizzazione autonoma dei cattolici, per una partecipazione alla vita sociale e amministrativa. È un tessuto, fatto di persone, associazioni, iniziative, istituzio- ni, che accompagna la crescita dell’Italia, trasversalmente alle classi, dispiegandosi in una serie di opere che incidono efficacemente sulla società italiana nei settori più vari. Il cattolicesimo, la “nazione cattolica” è certamente il fatto unificante di questo Paese, ma la Chiesa non accetta l’Unità nelle forme che assume. Il conflitto istitu- zionale tuttavia non si avvita su se stesso, non crea una rottura, né fomenta “insor- genze”. Prevalgono le ragioni della realtà, della vita, della socialità. Nasce un movi- mento: lo spinge e lo motiva non l’esclusiva difesa degli interessi cattolici o del Pa- pa, ma una visione del bene generale, del bene comune del Paese. Le organizzazio- ni cattoliche anzi diventano veicolo per fare partecipare quelle masse escluse dal si- stema politico liberale negli anni che arrivano fino alla Grande Guerra. Il “patto Gentiloni” esprime una virtualità possibile di partecipazione, che viene però supe- rata dalla crisi del “partito della maggioranza”.

ÿ Sturzo e il Partito popolare

• Così quando si pone, nel primo dopoguerra, la questione della democrazia, Luigi Sturzo trae i frutti di un lungo impegno amministrativo e sociale nel nome della democrazia cristiana e fonda nel 1919 il Partito Popolare: nella commissione preparatoria, che firma l’appello al «liberi e forti» vi sono 11 nomi, che avranno poi una parabola diversa nel successivo ventennio (fascista). È un partito di cattolici, con un incisivo programma riformistico, radicato nell’operosità sociale di tanti dei suoi protagonisti, che ottiene subito un importante consenso. Ma questa esperienza è chiusa bruscamente: si afferma la dittatura e poi il regi- me fascista. È il terzo momento della storia del movimento cattolico e della presen- za dei cattolici nell’Italia unita, caratterizzato dalla conciliazione e dalla competi- zione. Il riavvicinamento tra Stato e Chiesa in atto da diversi anni giunge nel 1929 alla Conciliazione, presentata come il «provvidenziale» compimento dell’Unità. La Chiesa convive con il regime, di cui non accetta tuttavia la tendenza totalitaria: lo si misura nel conflitto relativo all’Azione Cattolica (1931), che resiste al tentativo fascista di assumere il monopolio di tutte le organizzazioni giovanili ed educative.

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Viene salvaguardato – quasi «in frigorifero», secondo l’immagine di De Felice che mi suggerisce Paolo Nello – uno spazio cruciale di autonoma iniziativa religiosa ed educativa. È la grande stagione dell’Azione cattolica, che prepara una classe diri- gente nuova. Sono le premesse per il quarto momento, della responsabilità “costituente”. I cattolici rientrano finalmente a pieno titolo e con responsabilità primarie nella vita pubblica e politica, attraverso il partito della Democrazia Cristiana, fondato intor- no alla personalità di Alcide De Gasperi. Fondamentale è il contributo di quello che diventa il partito di maggioranza relativa alla elaborazione della Costituzione e poi all’assetto della nuova democrazia italiana, nelle sue proiezioni atlantica ed eu- ropea. I cattolici lavorano per la ricostruzione, con una molteplicità di iniziative sociali, non solo assistenziali, ma promozionali, in vista di quello che poi sarà il boom economico italiano. Ruffilli ha parlato di «legge di reversibilità delle parti» a proposito della sostan- ziale accettazione dello statu quo nel senso della “continuità dello stato”. Mario Tac- colini ha efficacemente parlato di un «peculiare statualismo cattolico». La Dc, che peraltro non è solo “movimento cattolico”, si identifica con il “partito italiano”.

ÿ La fine del “movimento cattolico”

• La fine della Dc certifica la fine del “movimento cattolico” otto-novecente- sco. Ma ne è sintomo, o conseguenza, non causa. Più sottilmente, si può dire che il “movimento cattolico” non regge alla ristrut- turazione post-conciliare della Chiesa italiana. Il Concilio da un lato “chiude” o forse più esattamente “sistema” la questione della relazione con la modernità nei suoi indirizzi e nel magistero, dall’altro è il tempo della contestazione e della fram- mentazione. L’icona tragicamente espressiva è l’ultimo atto del pontificato di Paolo VI, in memoria di Aldo Moro. Paolo VI anche dal punto di vista biografico – dalla sua origine, a Brescia, alla vicenda della sua famiglia, alla sua carriera, in Segreteria di Stato prima, poi per un breve periodo a Milano e infine sul soglio pontificio – del movimento cattolico italiano era una delle espressioni più emblematiche. Paolo VI permette la tenuta e dunque la ripartenza della Chiesa, come certifica nell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi. Ma, per quanto riguarda la vicen- da italiana del “movimento cattolico”, non riesce a tenere insieme i due aspetti, quello ecclesiale e quello sociale e politico, che si divaricano. La fine del cosiddetto “collateralismo” è certificata dal nuovo statuto dell’Azione Cattolica del 1969, che assume in questo senso un valore periodizzante, anche se non nell’immediato. La vicenda del referendum sul divorzio del 1974, con la ufficializzazione di una posi- zione di cattolici per il “no”, certifica la discontinuità.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 51 Francesco Bonini

Ecco il percorso della crisi. Si sfrangia progressivamente quel tessuto unitario di opere e di presenza che nell’Azione Cattolica si riassumeva e poi si rispecchiava in politica. Si accentua la distanza dalla politica, durante la crisi della Dc. Tiene in- vece il tessuto “popolare” della fede, in un accentuato pluralismo di modelli e di soggetti, che permette di interloquire con una società sempre più articolata e in va- rio e complesso movimento. Il dopo-concilio italiano conosce una soluzione di continuità significativa a metà degli anni Ottanta, quando si traggono le conseguenze della “svolta” richiesta dal nuovo pontificato nella linea della radicata convinzione, affermata da Giovanni Paolo II, che un destino di secolarizzazione non sia inevitabile. Nel discorso al Convegno ecclesiale di Loreto, il papa detta una nuova linea a rafforzare «nella Chiesa italiana la fiducia di poter operare affinché la fede in Gesù Cristo continui ad offrire, anche agli uomini e alle donne del nostro tempo, il senso e l’orienta- mento dell’esistenza ed abbia così «un ruolo-guida e un’efficacia trainante» nel cammino della Nazione verso il suo futuro». Contravveniva così al «convincimen- to diffuso, anche se spesso sottaciuto piuttosto che apertamente dichiarato: la con- vinzione, cioè, che il processo di secolarizzazione fosse irreversibile e che l’unica strategia pastorale, e anche culturale e politica, che avesse speranza di ottenere ri- sultati non effimeri fosse quella di non contrastare tale processo, bensì di accompa- gnarlo, e, per così dire “evangelizzarlo”, evitando che esso degenerasse in un secola- rismo ostile alla fede cristiana». La sua attuazione viene affidata alla CEI, guidata da Camillo Ruini dal 1986, prima come segretario generale e poi, dal 1991 al 2007, come presidente. Il raffor- zamento dell’istituzione è segnato e favorito anche dai nuovi accordi concordatari, che porteranno tra l’altro al rinnovamento del sostegno pubblico alla Chiesa catto- lica ed alle altre confessione religiose con il sistema dell’“8 per mille”.

ÿ La fine della Dc e la “supplenza della Chiesa”

• Qui si certifica la divaricazione delle prospettive, anche se in modo sottile. Da un lato si sviluppa il tentativo di non omologare il caso italiano a quello degli altri paesi occidentali. Questo ha tanto più rilievo di fronte alle Chiese dell’Europa centrale ed orientale, reduci dal comunismo. Per quanto invece più direttamente ci riguarda, cioè la crisi del “movimento cattolico”, questa è oggetto diremmo di una “supplenza” dei vertici dell’istituzione ecclesiastica, grazie anche al peculiare tratto non clericale del cardinal Ruini. La “supplenza” si sviluppa in primo luogo nella fa- se della crisi e poi dissoluzione della Dc, con la conseguente fine dell’“unità politi- ca dei cattolici”. Fino a che se ne danno le condizioni, per la presenza di un sogget- to adeguato, la Dc è sempre sostenuta dalla gerarchia, sia pure come una opportu- nità storica e non un assioma pastorale. La “supplenza” si estende in secondo luogo

52 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Francesco Bonini nella vicenda della repubblica del maggioritario, trovando il più visibile (e vincen- te) esito nella mobilitazione astensionistica in occasione del referendum contro la legge per la fecondazione artificiale celebrato nel 2005. Cosa c’è dopo la fine del movimento cattolico e del passaggio suppletivo che l’ha caratterizzata? L’unica certezza è che la crisi deve (ancora) essere percorsa fino in fondo, per- ché si possano disegnare nuove prospettive, nel ricambio delle generazioni e più profondamente delle forme organizzative, in particolare per quanto riguarda i rap- porti tra i soggetti. La lunga stagione della consumazione si intreccia infatti con le biografie delle singole personalità, sottoposte ad un effetto trascinamento: sono ancora sulla scena gran parte dei protagonisti del movimento di frammentazione e di conflittualità che ha segnato gli ultimi decenni del XX secolo. Ad esempio due di questi, Rosy Bindi e Rocco Buttiglione, erano presenti alla recente Settimana so- ciale di Reggio Calabria. Distingueva giustamente Federico Chabod, nella premessa a quello che forse resta il miglior libro di storia politica italiana, il mestiere del politico – nel decidere – e dello storico – nel comprendere. Certamente in ogni caso c’è molto da fare per tutti, non solo sul piano dell’operatività, nel senso che potremmo sinteticamente dire di «vino nuovo in otri nuovi», ma anche della ricostruzione e propriamente della storia. Anche da questo punto di vista c’è non poco da innovare, adottando una prospettiva più “larga”, in ordine appunto alla vicenda complessiva del sistema italiano e più lunga, non cioè limitata alla prospettiva del movimento cattolico. Sotto entrambi i profili, politico e storico, aiuta comunque il riferimento al senso e al principio di realtà, che vaccina contro tutte le ideologie, non solo quelle forti dei secoli XIX e XX, ma anche quelle “deboli” e pervasive del XXI, caratteriz- zate, come ha giustamente ribadito anche di recente Francesco Botturi, dallo sgan- ciamento della riflessione morale dall’esperienza antropologica. Che poi è un mo- do filosofico per (ri) dire il grande tema del rapporto tra Italia legale (o formale) e Italia reale, da cui siamo partiti e cui necessariamente dobbiamo sempre ritornare.

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Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 53

L’impegno dei cattolici per il futuro del Paese

L’attuale fase sociale e politica attraversata dal Paese ERNESTO PREZIOSI chiede un supplemento di presenza dei credenti. Questa Presidente Centro considerazione è stata confermata in occasione della re- Studi Storici e Sociali cente Settimana sociale dei cattolici italiani, la 46ª tenu- tasi dal 14 al 17 ottobre 2010 a Reggio Calabria, su: “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”. Un appuntamento che ha segnato una ≈ tappa significativa nel cammino verso una nuova presa di coscienza della responsabilità dei credenti nella società «Non sembri marginale […] il italiana. L’esperienza delle Settimane sociali, infatti, ha sottolineare la oltre 100 anni di vita, essendo stata iniziata a Pistoia nel necessità di una 19071. Seguire questa storia può aiutare a rileggere il nuova percorso dei cattolici nella storia nazionale e favorire valorizzazione del laicato cattolico, un’utile riflessione per sostenerne l’impegno futuro. delle sue forme Un futuro non facile dove le convulsioni, i terribili im- organizzative e barbarimenti di una dinamica politica malata rischiano della sua di innescare una degenerazione progressiva che va ad articolazione; perché, accanto incidere nell’equilibrio del sistema istituzionale alimen- all’indiscusso tando sfiducia e disaffezione rispetto la stessa partecipa- ruolo giocato dalla zione democratica. Non è rischio da poco. Ed è proprio Chiesa […] è questa prospettiva che chiede un di più di responsabi- proprio il Movimento lità alla Chiesa, certo, ma soprattutto ai credenti, a quei cattolico […] che cittadini che, in quanto cattolici, hanno vissuto una ini- ha giovato alla ziale estraneità rispetto al processo di unificazione na- storia dell’Italia zionale, per divenire poi, gradualmente, un fattore deci- unita, specie nella sua dimensione sivo nel processo di unificazione fino ad assumere la popolare». guida del Paese. Cittadini consapevoli e promotori di cittadinanza specie nei ceti popolari contribuendo a ≈ “fare gli italiani”.

1 Mi permetto in proposito di rinviare al mio volume Tra storia e fu- turo. Cento anni di Settimane sociali dei cattolici italiani, Lev, Roma 2010.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 55 Ernesto Preziosi

ÿ Tra storia e futuro - Attraverso 150 anni di storia

• Alcune linee di lettura della presenza dei cattolici in questi 150 anni, ci ven- gono anche dall’esperienza ultra centenaria delle Settimane sociali. La situazione di partenza, all’inizio del XX secolo, era quella di una efferve- scenza accanto al magistero sociale della Chiesa (a partire dalla Rerum Novarum del 1891) di opere e di iniziative che rendevano concreto quel magistero tra la gente. Da qui la popolarità, assicurata anche attraverso un movimento cattolico che si an- dava allora radicando e diffondendo in tante diocesi. Nel Breve pontificio del 1907, con cui Pio X risponderà all’indirizzo di omaggio della prima Settimana sociale, sono contenuti alcuni importanti passaggi che de- scrivono il senso della nuova iniziativa cattolica: il Papa riconosce come «la novella Istituzione», che «per merito di valorosi cattolici» viene proposta in quei giorni, porti con sé «il germe di un apostolato rigeneratore del popolo», ed è considerata «foriera di salute e di vittoria», perché – prosegue − «atta ad infondere nelle masse, sotto forma sanamente ed opportunamente moderna, quei cristiani principii, che soli corrispondono agli odierni bisogni sociali». D’altra parte il magistero sociale, in tempi di analfabetismo (basti pensare che l’analfabetismo riguardava il 78 per cento della popolazione e che appena il 2,5 per cento, cioè 600.000 italiani su 25.000.000, era in grado di usare la lingua nazionale per leggere e scrivere. Statisti- che che miglioreranno nel tempo, ma fino a un certo punto, se si arriva alla vigilia della prima guerra mondiale con un analfabetismo superiore al 50 per cento e se 4 italiani su 10, il 37,9 per cento, possono dirsi estranei alla conoscenza e all’uso del- la lingua nazionale) veniva conosciuto soprattutto attraverso le opere. Guardando il cammino delle Settimane sociali e dell’Opera dei Congressi che l’ha preceduta, potrebbe essere così richiamato: si è trattato di una esperienza che ha offerto al cattolicesimo italiano una occasione, uno strumento per confrontarsi sui grandi temi della politica del Paese. Ed è per questo che, anche sul piano tema- tico, le Settimane hanno registrato accenti diversi a seconda della situazione politi- ca del Paese. I temi delle prime Settimane sociali ricalcano infatti quelli proposti dal magistero sociale e si rapportano “dall’esterno” all’azione di governo guidata dalla classe dirigente del Paese. Dopo il 1922 (in cui qualche mese prima dalla marcia su Roma si terrà una Settimana su “Lo stato secondo la concezione cristia- na”) si affronteranno tematiche meno politiche e più etico-religiose (ad es. “La fa- miglia cristiana”, 1926; “L’educazione cristiana”, 1927; “L’opera di S.S. Pio XI”, 1929; “La moralità professionale”, 1934). Dopo la guerra e la fine del fascismo ecco che le Settimane, interrotte nel 1934, ritornano e manifestano l’attenzione per la nuova stagione del Paese e, con esso, della partecipazione politica dei cattolici. La ripresa avverrà con la Settimana del 1945 a Firenze su “Costituzione e costituente”. I cattolici con le elezioni ammini- strative e per la costituente si riveleranno classe dirigente e, le Settimane affronte-

56 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi ranno temi che avranno a che fare con la scelte operate dai cattolici alla guida del governo del Paese, ponendosi non più in una visione antagonista, quanto prope- deutica. Le Settimane, nel secondo dopoguerra, accompagnano le grandi riforme (da quella agraria a quella della scuola secondaria) in un rapporto costruttivo verso i nuovi scenari. La lunga sospensione degli anni ’70 e ’80, ci parla delle difficoltà incontrate ri- spetto al movimento di rinnovamento ecclesiale che il Concilio aveva promosso. Un movimento che conoscerà anche nella realtà italiana tensioni e divisioni, che diverranno ancora più acute lungo gli anni ’80. La ripresa delle Settimane sul finire del decennio sarà anche un modo per superare difficoltà e incomprensioni.

ÿ La 46a Settimana a Reggio Calabria

• Dopo la Settimana di Pisa e Pistoia, tenutasi nell’ottobre 2007, a cento anni dalla prima, con la Settimana di Reggio Calabria si è avuto quello che potrebbe es- sere considerato un nuovo avvio alla luce di una situazione resa difficile dalla lunga transizione. L’esperienza dell’impegno sociale e politico del credente è sempre forte richia- mo ad una fede viva e operosa. È la radice spirituale di questo impegno che va col- tivata per sostenere il credente: «In quest’ora esigente», ha detto il cardinale Angelo Bagnasco nella omelia della Messa celebrata nella cattedrale di Reggio Calabria il 15 ottobre, un cattolico «non può tacere l’assoluta novità della fede» e neppure può mancare alla «duplice fedeltà a Dio e all’uomo». Solo così ogni cattolico sarà «capa- ce di segnare la storia» e costruire «una città dove l’uomo si sente veramente a ca- sa». Essere «trasparenza di Dio» cioè una «coerenza» che è «umiltà e coraggio»: que- sta è la testimonianza – ha concluso – che i cattolici, a motivo della loro fede, devo- no offrire al Paese. D’altra parte, nel contesto ecclesiale, richiamare la stagione del- le Settimane significa soprattutto fare i conti con il metodo che quella esperienza insegna: leggere la storia, i principali problemi del dibattito sociale e politico e ten- tare di offrire risposte adeguate alla luce del Vangelo e della Dottrina sociale cristia- na (DSC). Da questo punto di vista le Settimane, così come la stessa DSC, vanno considerate non solo in sé, per i temi affrontati, ma anche per la loro utilità rispetto la costruzione di una comunità cristiana matura, così come per le sollecitazioni che possono offrire ad un laicato che prenda sempre più coscienza della propria chia- mata nella vita della Chiesa e nell’animazione della città degli uomini. La 46a Settimana ha messo a tema un argomento che potrebbe apparire preten- zioso: “Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”. L’agenda politica è stata letta attraverso cinque temi visti non come esaustivi ma come riflettenti priorità esem- plificative su cui avviare il confronto. Tra le conclusioni provvisorie della Settimana sociale, in attesa che il consiglio permanente della CEI approvi un documento fi-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 57 Ernesto Preziosi nale2, possono essere considerati i non pochi spunti emersi nelle assemblee temati- che di cui nell’ultimo giorno si è dato pubblicamente conto.

ÿ Nelle assemblee tematiche

• Intraprendere. È in qualche misura un verbo nuovo nel linguaggio del catto- licesimo italiano e allo stesso tempo un verbo che sa di antico e che ci riporta alla stagione del Movimento cattolico. A Reggio Calabria se ne è parlato come questio- ne che riguarda i lavoratori e l’intera società «che è spaesata e guarda al futuro con preoccupazione», anche se allo stesso tempo si registrano nel territorio «tante op- portunità, tanti segni positivi, tante buone prassi». Durante i lavori l’attenzione è stata rivolta in particolare verso un innovativo sistema di intraprendere. È stato proposto ai giovani un modello d’impresa: il progetto Policoro, nato per intuizione e volontà di don Mario Operti, per realizzare solidarietà fra il Nord e il Sud del Paese. Vuol essere un’opportunità per le nuove generazioni per riscoprire con un impegno personale il lavoro, da imprenditori. Un imprenditore che si fa coinvolge- re nell’esperienza cooperativa, con le risposte e le esigenze del territorio che viene così valorizzato come da molti auspicato. Un nuovo scenario che offre ai giovani lo stimolo a vivere da costruttori di una nuova economia, e non solo per il Sud. Dalla 46a Settimana viene l’invito ai soggetti politici, al mondo dell’impresa e alle orga- nizzazioni sindacali, agli operatori sociali e a tutti i cittadini in quanto singoli e in forma associata, «a maturare una forte capacità di analisi, di lungimiranza e di par- tecipazione». Allo stesso tempo si è espresso forte consenso per una riforma dell’in- tero sistema fiscale e, prioritariamente, verso la famiglia e il lavoro. In particolare, per quanto riguarda la famiglia, in linea con quanto proposto dal Forum delle As- sociazioni Familiari, va sostenuto un sistema che rapporti il carico fiscale al nume- ro dei componenti. Tale riforma deve mirare anche ad una riduzione fiscale sul la- voro e sugli investimenti, recuperando risorse anche attraverso lo spostamento del- la tassazione dai redditi al loro utilizzo. Molti gli interventi di condanna dell’eva- sione fiscale arrivata a livelli insostenibili. Un’evasione definita «la rovina del nostro Paese», macigno che pesa sulla crescita, e condiziona un livello decoroso di welfare. • Educare. La tematica dell’educazione è stata percepita dai delegati come “emer- genza educativa”, intesa soprattutto come realtà che emerge, che provoca e che in- vita ad una risposta positiva alle sfide e ai problemi di oggi. Vi è una chiamata alla responsabilità educativa che è una realtà ampiamente condivisa all’interno della comunità cristiana, che sente la necessità dell’educazione come un’esigenza che at- traversa tutte le generazioni. Le voci ascoltate alla Settimana non hanno restituito

2 Il documento è in corso di pubblicazione. Si veda il Comunicato finale del Consiglio perma- nente CEI sul sito www.settimanesociali.it.

58 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi solo domande, bisogni, desideri o auspici, ma hanno incoraggiato con la passione e la determinazione, espressione della Speranza che è il tema fondamentale della Agenda, ad un rinnovato impegno. Al centro della riflessione è stato posto il ruolo dell’adulto, figura considerata particolarmente fragile nella società attuale sia in sé, sia nella figura genitoriale. Tra i campi presi maggiormente in considerazione, accanto alla famiglia, anche la scuola e l’associazionismo; così com’è stato considerato il ruolo dei media come luogo di educazione informale. Sottolineata, infine, «l’importanza degli spazi edu- cativi per i ragazzi e i giovani sui temi della cittadinanza attiva, della legalità, della giustizia, del rispetto delle regole, della mondialità, della salvaguardia del creato, affinché i giovani imparino a impegnarsi concretamente e a prendersi cura del Be- ne Comune. Inoltre è strategico rilanciare le scuole e i laboratori di formazione e cultura politica come spazi in cui appropriarsi delle competenze e in cui sviluppare le capacità per l’impegno politico dei cattolici, oggi percepito come particolarmen- te urgente e storicamente necessario». • Includere. Il tema dell’inclusione è stato approfondito e articolato attorno a sei nuclei: l’emigrazione, tema della Settimana sociale del 1960; l’immigrazione, uno dei temi della Settimana sociale 2010; la mobilità, che cambia il volto dell’Ita- lia; l’inclusione come processo storico legislativo progressivo, che chiede oggi, alla luce della mobilità, di cambiare la legge sulla cittadinanza, con particolare riferi- mento agli oltre 600.000 minori nati in Italia figli di stranieri; l’attenzione ai mi- nori stranieri, che richiede la necessaria tutela della famiglia immigrata, anche at- traverso lo strumento dei ricongiungimenti familiari; il percorso di inclusione, che necessariamente comporta un ripensamento della vita delle nostre città. Da diversi interventi è emersa la necessità di predisporre «specifici percorsi per l’inclusione e l’esercizio della cittadinanza (diritto di voto almeno alle Elezioni amministrative, servizio civile, coinvolgimento nelle associazioni ecclesiali e nelle aggregazioni gio- vanili, in particolare quelle sportive)». Di qui la necessità di un’inclusione dal bas- so, che passa attraverso il protagonismo degli stessi immigrati, sia in associazioni proprie, sia nel contesto di organizzazioni locali e nazionali. Sulla scorta dell’espe- rienza dell’emigrazione italiana nel mondo, è importante valorizzare le eccellenze garantendo pari opportunità sia nel riconoscimento dei titoli di studio, sia attra- verso strumenti di sostegno (borse di studio) per l’accesso a livelli di studio supe- riori e universitari. L’attenzione al tema della cittadinanza deriva dal fatto che l’im- migrazione in Italia è ormai un fenomeno strutturale del Paese e sta uscendo dalla fase emergenziale. Durante i lavori è emersa la consapevolezza che il percorso di tu- tela dei diritti fondamentali della persona immigrata – che prescindono dal ricono- scimento della cittadinanza – non è completo e presenta ancora punti deboli o problematici. La dichiarazione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie – si è af- fermato – attende ancora una ratifica da parte dell’Italia; «la giusta retribuzione e le

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 59 Ernesto Preziosi condizioni di lavoro degli immigrati, soprattutto in alcuni settori, non sono garan- tite; manca una specifica legge sul diritto d’asilo; è necessaria parimenti una revi- sione della legge sul rispetto delle minoranze; troppo debole è l’impegno per la protezione sociale per le vittime di tratta per sfruttamento sessuale e per lavoro ed il contrasto al traffico degli esseri umani, spesso gestito dalle mafie di diversi Paesi». Accanto a questi ambiti permane una forte discriminazione «tra cittadini regolari ed irregolari in riferimento alla tutela della salute e della maternità e alle pene alter- native al carcere». La tutela di questi diritti richiede anche la costruzione di una ef- fettiva esigibilità in una politica e legislazione migratoria rinnovata che vada oltre una lettura emergenziale del fenomeno, «evitando semplificazioni, pregiudizi, fal- sità che rischiano di connettere strettamente l’emigrazione a fenomeni di crimina- lità e aumentare la paura che i migranti possano indebolire le nostre sicurezze». In definitiva, l’inclusione delle nuove presenze chiede «la responsabilità di tutti nella costruzione della città, a partire dagli stessi immigrati». Nel processo sono coinvolte le istituzioni, tanto a livello nazionale quanto regionale e locale, le agen- zie educative, a partire dalla scuola, i cittadini e i migranti, singoli o associati, in un lavoro sempre più di rete. • La mobilità sociale. È emerso con chiarezza che i cattolici oggi nel nostro Paese sono particolarmente attenti alle dinamiche nuove della vita sociale, «aperti verso forme nuove di mobilità che sappiano tuttavia salvaguardare l’attenzione ai poveri e a coloro che hanno meno risorse, nella prospettiva di un nuovo di modello di sviluppo in cui siano coniugate crescita e solidarietà»3. In questo senso l’assem- blea tematica, dedicata all’approfondimento delle due questioni specifiche relative ad aspetti della vita universitaria e del mondo delle professioni, ha riflettuto in sen- so più ampio sulle caratteristiche della mobilità sociale nel nostro Paese, nella plu- ralità dei suoi aspetti problematici e insieme positivi, specie con il riferimento par- ticolarmente sentito alla vita delle famiglie, delle donne e dei giovani, alla delicatis- sima questione del lavoro, al rapporto Nord–Sud e all’unità dell’Italia. A partire dalla considerazione condivisa di un’idea di crescita che non può coincidere esclusivamente con l’aumento del Pil, ma ha a che fare con il desiderio di vita di ciascuno, ed è bene collettivo quando apre la possibilità a tutti di realizza- re le proprie aspirazioni, si sono indicati tre ambiti in cui si può declinare il bino- mio slegare-rilegare. a) “Slegare le capacità”, cioè favorire tutto ciò che valorizza il merito e la qualità del contributo di ciascuno nella stretta connessione al bene di tutti. “Rilegare” in- vece, legare nuovamente insieme le condizioni di base della vita comune e della vi- ta democratica: una cultura della legalità e delle regole, un senso vivo della giustizia sociale, una chiara opposizione ad ogni forma di corruzione e criminalità.

3 Su questo tema l’Istituto Giuseppe Toniolo, ente fondatore dell’Università Cattolica ha promosso lo scorso anno alcuni seminari. Cfr. Per un nuovo modello di sviluppo, «Vita e Pensiero», Milano 2010.

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b) “Slegare il mercato” in quanto aiuta a moltiplicare le opportunità (per es. pensando a forme di accesso privilegiato al credito in date situazioni), ma “rilegare un nuovo patto sociale” quale condizione perché il rischio del cambiamento sia condiviso dalla collettività. c) “Slegare la vita”, creare le condizioni perché ciascuno possa scegliere come orientare la propria vita. “Rilegare”: rivitalizzare i luoghi dell’abitare, dell’accoglie- re e dell’accompagnare. A partire da queste sottolineature è emerso un secondo gruppo di considerazio- ni. Il quadro delle questioni legate alla mobilità sociale interpella direttamente la comunità ecclesiale a mettere in discussione se stessa e ritrovare quelle risorse più preziose che può attingere dal suo patrimonio di fede e di umanità. E la prima ri- sorsa sono le persone di cui prendersi cura a tutti i livelli affinché nei processi di mobilità sociale non vengano ad essere stritolate, bensì valorizzate. L’università va considerata come un luogo e un tempo decisivo, un’esperienza centrale insomma per favorire e orientare positivamente la mobilità sociale. Diffu- sa è stata la considerazione della necessità di prendersi cura dell’università italiana per sostenere con forza il suo contributo alla vita del Paese attraverso un’adeguata valorizzazione della ricerca, della mobilità della conoscenza stessa, una diversa inte- razione contemporaneamente con il territorio e con il mondo intero, una più si- gnificativa comunicazione fra docenti e studenti. In particolare si è sottolineata la necessità di ripensare l’idea stessa di università a partire dall’intero sistema Paese: «Ciò significa mettere in evidenza l’importanza di un legame diverso e comunque più stretto fra scuola (e anche formazione professionale) e università, e operare per- ché diminuisca la distanza fra università e mondo del lavoro». Altro ambito fondamentale in cui vengono messe alla prova le caratteristiche della mobilità sociale oggi è costituito dal mondo delle professioni, che vede la fati- ca dei giovani ad inserirsi al suo interno a causa di talune dinamiche corporative che ne rallentano l’accesso, e la difficoltà a che le nuove professioni trovino spazio e riconoscimento effettivi. • La transizione istituzionale. Per il primo punto dell’Agenda, “completare la transizione”, che non prevedeva la definizione di una soluzione praticabile di im- pianto istituzionale, è apparso chiaro che occorre completare la transizione con tutti, senza lasciare fuori nessuno: perché è un rischio veder transitare i ricchi e i ca- paci e lasciar indietro i poveri, i giovani o i non qualificati. È un momento delicato della vita del Paese in cui si percepisce che «i partiti da soli non riescono a salva- guardare una democrazia di tutti, che ora più che mai è una questione di popolo non di élite». Di qui l’interesse per le riforme e le finanziarie che non lascino fuori nessuno. Sulla scorta di questo fondamento della questione democratica, si sono indivi- duate alcune priorità su cui impegnarsi: una decisa spinta verso una maggior de- mocrazia nei partiti. Oggi, tutte le formazioni politiche sono apparse dotate di po-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 61 Ernesto Preziosi tenti respingenti verso chi vi si affaccia. Ed è uscita una proposta, avanzata a suo tempo da don Sturzo: farne delle associazioni di diritto pubblico, completando la dizione dell’art. 49 della Costituzione. Presidiare il Parlamento perché giunga ad approvare una legge di disciplina dei partiti che preveda un bilancio pubblico e re- gole certe di democrazia interna. Una altrettanto decisa spinta, presente in molti interventi, è venuta per la revi- sione della legge elettorale, in particolare per la modifica della modalità di scelta dei candidati: tornare cioè a dare all’elettore un reale potere di scelta per esercitare il proprio diritto di indirizzo e di controllo sull’eletto. Insieme, si è avuta una pro- posta di modifica sul numero dei mandati, a tutti i livelli, sull’ineleggibilità di chi ha problemi con la giustizia, su una maggior gratuità dell’impegno politico. Sullo sfondo il riferimento alla Costituzione, frutto di un’esperienza di incon- tro tra culture politiche del Paese che rimane esemplare e rispetto cui sono accetta- bili solo modifiche condivise da una larga maggioranza che non ne stravolgano l’impianto fondante. Si è manifestata inoltre l’esigenza di informazione e di partecipazione per “abi- tare” scelte che ormai fanno parte della storia nazionale. Il confronto ha individua- to un duplice bivio: a seconda delle scelte si può fare del federalismo una lotta agli sprechi, con una responsabilizzazione della spesa di chi ha potere decisionale e con una responsabilizzazione del cittadino per un controllo più deciso, oppure può far passare da un centralismo statale ad un nuovo centralismo a livello regionale, sem- plificando la presa dei poteri forti; secondo bivio a seconda delle scelte e dell’attua- zione, si può farne un modo diverso di pensare l’unità del Paese, una opportunità di una nuova unione, oppure una nuova frattura ancora più insanabile tra Nord e Sud. Come fare? La convergenza si è avuta sulle parole della Caritas in veritate significativamen- te citate nel documento “Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno” (del 2010) al punto 8: «Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connes- so con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la soli- darietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo»4. Occorre quindi qualificare il federalismo con due aggettivazioni: solidale e sus- sidiario, con una sussidiarietà verticale e orizzontale ugualmente sviluppate con corpi intermedi forti che controllino e collaborino. Per quest’ultimo aspetto, si è segnalata ad esempio la necessità di non togliere fondi agli enti locali “riconosciuti” dalla Costituzione come realtà addirittura pree- sistenti allo Stato perché i più rispondenti e vicini alla dimensione sociale della per- sona ed ai suoi bisogni.

4 Cfr. Caritas in veritate, n. 58.

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ÿ Le conclusioni e il cantiere che si apre

• Come si vede a Reggio Calabria si è avuto un ricco e articolato confronto che ora attende, alla luce anche del documento finale, di essere continuata sui territori. Al termine dei lavori sono state richiamate le parole del Papa che esprimevano: «... profonda gratitudine per il contributo di riflessione e di confronto che, a nome della Chiesa in Italia, volete offrire al Paese. Tale apporto è reso ancor più prezioso dall’ampio percorso preparatorio, che negli ultimi due anni ha coinvolto diocesi, aggregazioni ecclesiali e centri accademici [...]. Si tratta, indubbiamente, di un me- todo di lavoro innovativo, che assume come punto di partenza le esperienze in at- to, per riconoscere e valorizzare le potenzialità culturali, spirituali e morali inscritte nel nostro tempo, pur così complesso»5. Le parole del Papa richiamano ad una re- sponsabilità che chiede il necessario impegno politico dei credenti e in qualche modo la precede e ne garantisce la finalità: «Sarebbe illusorio delegare la ricerca di soluzioni soltanto alle pubbliche autorità: i soggetti politici, il mondo dell’impresa, le organizzazioni sindacali, gli operatori sociali e tutti i cittadini, in quanto singoli e in forma associata, sono chiamati a maturare una forte capacità di analisi, di lun- gimiranza e di partecipazione»6. Al fondamento del lavoro svolto e di quello che ora resta da svolgere sul territo- rio sta l’«alta misura di vita spirituale» cui si è riferito il cardinale Bagnasco. Cristo Logos è «la risposta piena e definitiva alle domande ultime della ragione aperta, al bisogno di non scivolare sulle cose e di usarle malamente, ma di “intus-legere”, di entrarci dentro per conoscere e capire il loro essere e il significato» (Prolusione). Non è condizione secondaria ma principale, perché «senza questo primato della vi- ta spirituale non esiste possibilità di presenza dei cattolici ovunque siano nella so- cietà». Solo questo – come ci ha ricordato al momento della conclusione il vicepre- sidente delle Settimane – ci consente di essere credenti «non arroganti, non preci- pitosi nei discorsi, non polemici, ben preparati, … che sanno cosa credono e cosa non credono» (Card. Newman). Ridurre precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, spostare la parte maggiore della pressione fiscale dal lavoro e dagli investimenti alla rendita, adottare politiche fiscali che riconoscano dignità e valore della famiglia, aiutare le imprese a crescere, rilegittimare con mezzi simbolici e materiali il ruolo di autorità educativa nella fa- miglia, nella scuola e nelle esperienze educative che vedono protagoniste associa- zionismo e comunità elettive, riconoscere la cittadinanza italiana ai figli nati nel nostro paese da coppie di cittadini stranieri, riconoscere il valore del merito nell’u- niversità e maggiore competizione nelle professioni e tra le professioni, chiudere la

5 Dal messaggio di Sua Santità Benedetto XVI al Venerato Fratello Card. Angelo Bagnasco, Presi- dente della Conferenza Episcopale Italiana, 12 Ottobre 2010. 6 Benedetto XVI, Messaggio per la 42° Settimana Sociale, 14 ottobre 2010.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 63 Ernesto Preziosi transizione istituzionale con leggi elettorali che rendano al cittadino – a tutti i li- velli – la possibilità di scegliere l’eletto e dando al federalismo una più rigorosa coe- renza ai principi della solidarietà e della sussidiarietà (tanto verticale quanto oriz- zontale). Sono problemi dai quali può cominciare – si è detto nelle conclusioni – la accumulazione di esperienze, di conoscenze e di azioni in vista del bene comune.

ÿ La continuità progettuale delle Settimane

• Dalla Settimana sociale di Reggio Calabria è possibile segnalare alcuni piccoli passi avanti: a) la concretezza dei temi proposti per quanto riguarda l’Agenda politica del Paese; non ci si è limitati cioè ad un riferimento alla Dottrina sociale in termini ge- nerali, di bene comune, ma attraverso il lavoro preparatorio si sono individuati dei temi che possono essere considerati come priorità esemplificative su cui confron- tarsi. b) La completezza dei temi proposti che non si appiattiscono sui pur rilevanti temi della vita, della bioetica, ecc., ma offrono una carrellata che riguarda l’intra- presa economica, la mobilità sociale, la questione educativa e quindi l’offerta for- mativa del Paese, l’inclusione nella nostra società, la necessità di concludere una difficile transizione istituzionale. c) È stato fatto in proposito un buon lavoro preparatorio con il coinvolgimento di molte realtà sociali e politiche, in uno sforzo di ascolto e di confronto, che ha avuto la sua continuità all’interno di lavori della Settimana sociale, dove a differenza delle ultime edizioni si è avuto uno spazio maggiore per gli interventi dei delegati. Accanto ai passi avanti si segnalano alcuni passi che vanno ancora fatti: a) una maggiore soggettività laicale (anche ma non solo fatta di fiducia / auto- nomia, che dia corpo ai molti insegnamenti magisteriali che coerentemente chie- dono ai laici di prendersi le loro responsabilità...), le Settimane debbono essere a tutti gli effetti “dei cattolici italiani”. b) Occorre fare i conti con “la nuova stagione delle aggregazioni laicali”. Va considerata l’importanza di luoghi e strumenti per alimentare una cultura politica ed evitare cortocircuiti integristi e oggi ancor più spesso fondamentalisti. Non può essere sufficiente a proposito il Progetto culturale, pur rimanendo un’intuizione valida, perché è insufficiente l’approccio elitario e si segnala come urgente la capa- cità di rinnovare a fondo con un orientamento efficace la cultura popolare. c) La formazione della classe dirigente (le nuove generazioni di cui parla il Pa- pa), non può che fare i conti con un duplice impegno: la formazione dell’élite e la cura della qualità di base della formazione sociale dei credenti. Senza quest’ultima è infatti tra l’altro impensabile attivare il circuito virtuoso del consenso democra- tico.

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ÿ Quale impegno politico per i cattolici

• L’aver richiamato brevemente i contenuti della 46a Settimana sociale assume il suo valore nel quadro, più volte evocato, della difficile transizione italiana e del- l’urgenza di un rinnovato apporto dei cattolici alla vita del Paese. Le Settimane so- ciali infatti possono essere uno strumento tra gli altri come lo sono le Scuole di Formazione sociale e politica, avviate in numerose diocesi e oggi in fase di ripensa- mento e di rilancio, per sollecitare, sostenere, l’impegno sociopolitico dei credenti. L’attuale situazione in proposito fa rilevare una difficoltà legata a quel pluralismo, riconosciuto già nell’intervento di Giovanni Paolo II al Convegno ecclesiale di Pa- lermo nel 1995, e oggi abbastanza “acquisito” nella realtà di base; dove permango- no tensioni, e rischi di divisione che hanno tra l’altro come conseguenza quella di costituire un ulteriore alibi verso il disimpegno. Quando infatti le divisioni politi- che rischiano di rifrangersi nella comunità cristiana, è facile scivolare nell’atteggia- mento che aumenta la distanza tra cattolici e politica, rendendoli estranei, o co- munque lasciando il discernimento fuori dalla porta della comunità. Dire “Settimane” è dire impegno politico dei cattolici in Italia. Il pluralismo è reso difficile anche perché va ad impattare nelle proposte politiche che riguardano temi di sensibilità etica e/o bioetica, laddove mancano progetti riconoscibili di una sintesi possibile, così come, dobbiamo dirlo, manca una riflessione e una catechesi efficace sugli stessi temi nella comunità cristiana. Senza una formazione qualificata infatti vi è il rischio di genericità. Bisogna ricordare che, accanto ad una minoranza che chiedeva e di fatto viveva il pluralismo politico già ai tempi della presenza democristiana, e accanto ad una minoranza qualificata che contribuiva ad elaborare la proposta politica attraverso un cattolicesimo democratico e sociale, corrispondeva una massa che non esercita- va alcuna riflessione circa l’unità politica dei cattolici ma l’accettava con una certa tranquillità, potendo così sentirsi rassicurata senza grande impegno, e magari aven- do ormai trasformato l’adesione al partito di ispirazione cristiana in una sorta di adesione al blocco moderato, rassicurante in quanto lontano e alternativo dagli estremismi. Nell’insieme si possono individuare tre livelli diversi di intervento: quello in- terno alla comunità cristiana con una formazione specifica sostenuta dalla Dottri- na sociale della Chiesa; una fase che è già politica, ma in veste di elaborazione cul- turale e che può già essere promossa sotto la diretta responsabilità dei laici come un elemento di quell’animazione delle realtà temporali cui il Concilio li spinge; e quella più propriamente riferita all’agire politico ovvero alle dinamiche di parteci- pazione e alle appartenenze a gruppi, a movimenti e partiti che, nelle diverse fasi della storia del Paese, contribuiscono ad animare la democrazia partecipativa. Difficile individuare delle priorità, in quanto si tratta di ambiti in cui si segnala nel presente un’urgenza che sarebbe grave eludere. Se nell’ambito ecclesiale si può

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 65 Ernesto Preziosi sottolineare la necessità di una formazione di base, rivolta cioè a tutte le compo- nenti della comunità cristiana nel livello ordinario della catechesi, della liturgia do- menicale, ecc.; nell’ambito culturale si segnala una debolezza. È evidente infatti come serva un’elaborazione di cultura politica, un progetto culturale laicamente elaborato – facendo riferimento ai valori cristianamente ispirati – che solo può offrire le utili occasioni di confronto e la possibilità di raccogliere il consenso. Chi può fare questo lavoro? Certo le istituzioni culturali: università7,cen- tri studi, ecc. In passato anche i partiti svolgevano al loro interno questa attività, con dipartimenti, uffici, convegni, ecc. e oggi? Tra i soggetti partitici a me pare urgente che si applichino a questa elaborazione quei soggetti partitici che si propongono co- me progetto di sintesi tra diverse culture. Ineludibile è infatti l’elaborazione di una nuova cultura politica che affronti i nodi problematici del Paese odierno. Un’ultima considerazione può essere svolta in margine alla 46a Settimana so- ciale e alla riflessione sulla situazione del Paese. Quale soggettività laicale è possibi- le oggi nel mondo cattolico e come è possibile immaginare forme di raccordo e di collaborazione che restituiscano, alla ricca vitalità del cattolicesimo italiano, quella necessaria organicità cui è inevitabilmente legata l’efficacia dell’azione?

ÿ Per un nuovo impegno dei cattolici

• Ci si può limitare solo a qualche accenno ma non si può prescindere dalla “questione laicale”. Sullo sfondo permangono alcune tensioni peraltro già presenti nella lunga sto- ria del cattolicesimo italiano: una dialettica tra un pensiero sociale aperto all’inclu- sione e, di contro, forme di ripiegamento della visione cristiana in chiave identita- ria con evocazione di un armamentario tradizionale (Dio, Patria e famiglia). Assi- stiamo anche ad una difficile soggettività del laicato cattolico che, proprio negli anni della transizione, ha visto prendere il sopravvento, magari per una necessaria supplenza, della gerarchia ecclesiastica che è andata ad occupare alcuni spazi all’in- terno della dialettica politica. Questo, più ancora che la difficile gestione del plura- lismo di opzioni, che talvolta ha creato dei contraccolpi nel contesto ecclesiale e pastorale, pare essere uno dei principali problemi con cui misurarsi. La situazione attuale presenta un Movimento cattolico ormai sfaldato nelle sue interconnessioni con il ruolo dell’ACI ancora incerto in una prassi pastorale, ormai

7 Si veda in proposito quanto detto dal Cardinale Angelo Bagnasco alla Pontificia Università Sale- siana (24 febbraio 2011): «In connessione con questa sfida sull’umano è auspicabile che tutti gli Isti- tuti accademici, che afferiscono alla Chiesa cattolica, entrino maggiormente nei circuiti del dibattito pubblico per offrire alla riflessione collettiva, ad ogni livello, i migliori contributi […] sulle grandi ca- tegorie dell’alfabeto umano, come la persona, l’anima, la vita, l’amore, la famiglia, la libertà la morte».

66 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi affidata per lo più ad uffici e a rischio di burocratizzazione, una serie di nuovi orga- nismi concepiti come strumenti di raccordo di secondo livello che non muovono dal basso e non riescono a coinvolgere le basi delle singole associazioni. La “nuova stagione” di un possibile incontro tra Associazioni e Movimenti (ad es. Retinopera, Scienza e Vita) corre il rischio di un coinvolgimento delle sole diri- genze, sollecitato nell’aspetto comunicativo in chiave di mobilitazione, senza ade- guato discernimento e coinvolgimento della base popolare. Dietro alla positiva ripresa di collaborazione operosa tra le varie forme del lai- cato organizzato, in qualche caso si segnala un’attenzione di tipo solo “funzionale”, che mira ad una nuova edizione di “laicato organico” alle dinamiche anguste a cui si riduce, talvolta, la nuova evangelizzazione. Di qui il rischio di sterilità, di un in- contrarsi pianificato dall’alto, su scadenze contingenti dell’Agenda sociopolitica e, soprattutto, senza lo stile sinodale e comunionale, lo stile di popolo che il Concilio ha messo in campo. Insieme ad una complessiva debolezza di soggettività laicale si registra un difetto di capacità educativa e formativa tale da far sì che le varie pasto- rali non riescano a colmare il vuoto lasciato dal rarefarsi del tessuto ecclesiale e dal- lo sradicamento, indotto, dell’ACI. L’apporto di un’associazione storica come l’AC è probabile, infatti, che risulte- rebbe utile anche oggi, oltre che nel contesto ecclesiale anche nel complesso impe- gno del laicato cattolico nello scenario sociale e politico. Tutto ciò comporta una riflessione ben più ampia sull’attuale momento che vi- ve la comunità cristiana e chiede di affrontare con uno sguardo prospettico la que- stione laicale e, in essa, la stessa “questione dell’Azione Cattolica” cui nel disegno montiniano postconciliare era affidata la capacità di rendere patrimonio comune del laicato l’azione della Conferenza Episcopale nella sua nuova soggettività. La ve- rifica della difficoltà con cui ad esempio il Progetto culturale ha raggiunto il livello di base, la comunità cristiana diffusa, fa pensare alla necessità di uno strumento che, accanto alla vitalità di gruppi e movimenti, operi secondo le note del numero 20 dell’Apostolicam Actuositatem, in stretta unione con l’azione pastorale della Conferenza Episcopale. Non sembri marginale, o eccessivamente legato a dinamiche intraecclesiali, il sottolineare la necessità di una nuova valorizzazione del laicato cattolico, delle sue forme organizzative e della sua articolazione; perché, accanto all’indiscusso ruolo giocato dalla Chiesa intesa nella suo aspetto istituzionale, è proprio il Movimento cattolico – nella sua dimensione ecclesiale e nella sua capacità di esprimere una presenza culturale, sociale e politica – che ha giovato alla storia dell’Italia unita, specie nella sua dimensione popolare.

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Cattolicesimo politico per proseguire una storia

Nel linguaggio cinematografico la dissolvenza indica il GIUSEPPE SANGIORGI momento in cui la scena di un film svanisce dallo scher- Saggista mo per dare luogo a quella successiva. Il cattolicesimo politico italiano sta attraversando esattamente questo passaggio. Finita l’esperienza della Democrazia Cristia- na, ad essa ancora non si è sostituita una nuova stagione. Si può recriminare sulla fine della Dc – quando Gesù ≈ trovò i mercanti nel tempio cacciò i mercanti, non chiu- se il tempio – ma essa ormai è un fatto, e la possibilità «Il mondo cattolico è alle prese con che la prosecuzione di quella esperienza fosse rappresen- questo insieme di tata dalla riedizione nel 1994 del Partito popolare si è problemi e di dimostrata presto un’illusione. La nuova stagione e i ca- sollecitazioni. ratteri che avrà, saranno il prodotto di ciò che il mondo Dentro l’immagine iniziale della cattolico sta maturando durante questa dissolvenza, du- dissolvenza, rante questa fase del suo passaggio da una scena all’altra dentro questa fase della vita del Paese. Perciò qui va portata l’attenzione del suo passaggio per una storia che voglia proseguire, senza ripetersi. da una stagione all’altra, accanto alle forme aggregative tradizionali si ÿ La persistenza degli ideali muovono iniziative di altro segno, • Negli ultimi vent’anni la fine dell’unità dei cattolici ha occasioni di riflessione, nuove disperso la visione d’insieme del Paese che quella esperienza esperienze conteneva. La Dc è stata a lungo il piatto forte della politica formative, di italiana, ne ha rappresentato una sorta di dieta mediterranea. apostolato e di Perché questo piatto forte si è ridotto a essere un semplice testimonianza». condimento di pietanze altrui? C’è tuttora una parte del Pae- ≈ se che mantiene i suoi riferimenti ideali in Luigi Sturzo e nella Dottrina Sociale della Chiesa; che ha i suoi miti in per- sonalità come Alcide De Gasperi; che ha i suoi eroi in figure come Aldo Moro. È una parte del Paese viva, impegnata, che guarda al futuro, che non ha chiusure nostalgiche, ma essa è

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 69 Giuseppe Sangiorgi rimasta priva di uno strumento attraverso cui far valere questa ricchezza di testimo- nianze, e di un luogo dove elaborare le proprie proposte e attrarre nuove energie. La conseguenza è stata la emarginazione della cultura e di una presenza politica di ispirazione cristiana. Quanti volevano continuare a impegnarsi sulla base di que- sti riferimenti e di questi valori si sono sentiti d’improvviso apolidi, altri si sono scoraggiati, altri ancora si sono dispersi: come un campo che si sia progressivamen- te inaridito e inselvatichito. In questi ultimi vent’anni il Magistero non ha fatto mancare i suoi orientamenti sui grandi temi del mondo contemporaneo. Dalla Centesimus Annus di Giovanni Paolo secondo alla Caritas in veritate di Benedetto XVI, la Dottrina Sociale della Chiesa ha offerto anzi come non mai analisi e indi- cazioni da tradurre in nuove opzioni di governo dell’economia e della società ri- spetto alla crisi del marxismo prima e del liberismo poi. Al tempo stesso, a partire dal distacco verso il Patto per l’Italia alle elezioni per la XII legislatura del marzo 1994, quelle che hanno segnato l’inizio della cosiddetta se- conda Repubblica, una sorta di nuovo non expedit posto dalla gerarchia ecclesiastica italiana collegato alle vicende scandalistiche di quegli anni, ha delegittimato a lungo la riproposizione di una partecipazione autonoma dei cattolici sulla scena politica del Paese. Questa situazione politica è iniziata a cambiare con il discorso tenuto in Sarde- gna nel settembre 2008 da Benedetto XVI quando il pontefice ha posto con una in- solita accentuazione la necessità, che poi ha ribadito più volte, “di una nuova genera- zione – una nuova generazione – di laici cristiani capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile nel mondo del lavoro, dell’economia e delle politica”. Nel gennaio del 2010 il presidente della Conferenza episcopale italia- na, il cardinale Angelo Bagnasco, con le sue dichiarazioni – “Sogno una nuova leva di politici cattolici” – è sembrato riconsiderare anche lui l’atteggiamento della gerarchia.

ÿ Una nuova unità politica?

• Un tale “sogno” implica il ritorno a una formazione politica unitaria? Secondo l’ex presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, non si tratta di questo: «Cattolici uniti in politica – ha ripetuto Ruini nel dicembre 2010 – non significa uniti in un so- lo partito, significa uniti intorno a una serie di valori non negoziabili». Ma che succe- de se questi valori non negoziabili non vengono presi in considerazione dal dibattito politico? Chi e in quale modo ne sarà portavoce? Chi sarà in grado di fare di essi non tanto l’oggetto di singole trattative ma il perno di una concezione generale dello svi- luppo basata sulla centralità della persona e il rispetto della sua dignità? La prima preoccupazione riguarda il contesto internazionale. Il Mediterraneo re- sta un grande lago di Tiberiade intorno al quale i rapporti e le tensioni fra i tre figli di Abramo, i cristiani, gli ebrei e i mussulmani sono all’origine di conflitti che si proiet- tano in tutto il resto del mondo. Anche il passaggio dal 2010 al 2011 è stato segnato

70 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Giuseppe Sangiorgi tragicamente dalle violenze tra ebrei e palestinesi, dalle stragi di cristiani, dall’ostilità tra le diverse famiglie mussulmane, dalle lotte fra sunniti e sciiti nel Nord Africa e in Medio Oriente. Poi è stata la volta della “primavera araba” con le sue drammatiche ri- volte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria... In Italia non sembrano esserci la percezione e la cultura necessarie a valutare il rilievo di questi avvenimenti. In Inghilterra la London School of Economics ne ha fatto il centro di uno studio che riguarda il futuro dei di- ritti umani e dei regimi democratici nel mondo. Ecco un tema centrale da imporre nell’agenda politica, raccordando ad esso l’i- niziativa diplomatica italiana in Europa, negli organismi sovranazionali e nei rap- porti bilaterali. Per il cattolicesimo politico non si tratta di una rivendicazione di carattere confessionale – il laicismo si fronteggia con una convinta laicità – ma di porre il problema generale della coesistenza pacifica tra nazioni con diversi modelli istituzionali, orientamenti culturali e credenze religiose. Il diritto alla libertà reli- giosa come il primo dei diritti umani, ha rimarcato Benedetto XVI il 10 gennaio 2011 nell’udienza agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede.

ÿ L’Italia al traguardo dei 150 anni

• Sul piano interno un ciclo e un modello di sviluppo italiano sono arrivati al ca- polinea ed è necessario da parte della politica mettere il Paese di fronte a questa realtà e ai cambiamenti che essa impone. L’anniversario dei centocinquanta anni dell’U- nità, nonostante il tentativo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di farne un’occasione condivisa è apparso più spesso ostaggio della contesa leghista fra unità e federalismo. Ma in Italia esiste uno squilibrio strutturale causato da fattori che non si risolvono con il solo richiamo alla bacchetta magica del federalismo. • Prendiamo due di questi fattori, la voragine della spesa pubblica nel settore dell’assistenza sociosanitaria e di contro il culmine dei mancati introiti a causa del- la evasione fiscale: essi rappresentano due fra le storture più rilevanti non solo dei conti economici del Paese ma ormai del suo assetto sociale e della sua stessa iden- tità come comunità nazionale che voglia svilupparsi e trovare una via d’uscita dai propri problemi in modo concorde e solidale. La loro analisi porta lontano, ai pro- cessi storici lungo i quali il Paese è cresciuto ma anche lungo i quali ha accumulato nel tempo le sue contraddizioni e i suoi contrasti. I centri di documentazione pubblici e privati concordano nello stimare un’eva- sione fiscale di 150 miliardi di euro l’anno, pari al 10 per cento del Pil. L’Italia è il Paese europeo con il tasso più alto di evasione tributaria. Basta andare su internet e si trovano mappe analitiche delle categorie degli evasori e di come sono distribuiti nelle diverse aree del Paese: c’è quasi l’individuazione fisica di questi soggetti. Uffi- cialmente però, secondo l’Agenzia delle entrate fiscali gli italiani che nel 2007 su- peravano un reddito di 200 mila euro erano lo 0,2 per cento della popolazione e

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 71 Giuseppe Sangiorgi quelli che superavano i 70 mila euro erano il 2,2 per cento: in tutto poche centi- naia di migliaia di persone. Oggi vale ancora di più quanto Federico Chabod an- notava negli anni Cinquanta nelle Lezioni di metodo storico: «È chiaro a tutti che a volersi basare per un calcolo del reddito complessivo degli italiani sui ruoli degli uffici delle imposte, si rischierebbe di restare molto, ma molto al di sotto della realtà…». Il federalismo fiscale consentirà la tracciabilità dell’impiego delle risorse fiscali e sarà un dato importante, ma questo avverrà a valle del prelievo. A monte, dove c’è l’evasione, che cosa accade? Sul ring del Paese gli italiani e il fisco sono due pugili che si combattono sotto la cintura: il fisco con le sue aliquote fuori ogni ra- gionevole misura, i cittadini con l’evasione e l’elusione. • Era il 1890 quando con la legge 6972 del 17 luglio di quell’anno, il governo presieduto da Francesco Crispi istituiva le Ipab, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Vale la pena di ricordare l’articolo uno di questa legge, ulteriormente elaborato nel 1923, perché poche volte un dettato normativo ha influito così pesan- temente sulla storia di un Paese mutandolo anche antropologicamente. Diventava- no istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, sottoposte al controllo dei pre- fetti e alle leggi dello Stato «le opere pie e ogni altro ente morale che abbia in tutto o in parte per fine: a) prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità che di malat- tia; b) promuoverne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione arte o mestiere, o in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico». • In un Paese storicamente caratterizzato dalla presenza nei settori della sanità e dell’assistenza di una quantità di iniziative attuate dai corpi intermedi, da associa- zioni religiose, dal volontariato, insomma da emanazioni della società civile, la legge Crispi istituiva traumaticamente una generale pubblicizzazione/statalizzazione di questi interventi. Bisognerà attendere l’articolo 38 della Costituzione repubblicana per vedere ripristinata la libertà dell’assistenza privata; poi la riforma sanitaria 833 del 1978 per vedere svincolata dalla legge Crispi l’assistenza ospedaliera e finalmen- te – un secolo esatto dopo la sua approvazione – bisognerà arrivare alla sentenza 396 del 1988 della Corte Costituzionale per vedere dichiarato incostituzionale l’articolo uno della legge Crispi. Ma intanto, in questo arco di cento anni si è prodotta nel Paese una mutazione di costumi e di attitudini con il progressivo passaggio, nelle si- tuazioni di bisogno, dall’intraprendenza individuale e dei corpi sociali come prima risposta dal basso ai problemi, all’attesa immediata della mano pubblica come riso- lutrice dall’alto dei problemi. I costi sono saliti alle stelle: esattamente i costi che og- gi non si riesce più a controllare a fronte di prestazioni spesso scadenti.

ÿ La “filosofia” sociale della Chiesa

• In modo antagonista a questa deriva risale al 1931, nell’enciclica Quadragesi- mo Anno, la prima concettualizzazione esplicita del principio di sussidiarietà, desti-

72 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Giuseppe Sangiorgi nato a diventare il principio cardine della filosofia sociale della Chiesa: «Non è leci- to togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria, per affidarlo alla comunità. Così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società ciò che in quelle minori si può fare». Sul piano istituzionale è il tema di un rapporto non di sudditanza tra società ci- vile e Stato, quello stesso sviluppato politicamente da Luigi Sturzo nel popolari- smo. Sul piano sociale ed economico è il tema della organizzazione dei servizi: se il loro rilievo pubblico debba perciò determinarne automaticamente la pubblicizza- zione, o possa condurre a modelli diversi, imperniati sulla sussidiarietà, muovendo da un ritrovato dinamismo spontaneo dei soggetti sociali con l’obiettivo di ridurre i costi e migliorare la qualità. L’assistenza sociosanitaria costa miliardi di euro, è in assoluto la maggiore voce delle spese e dei deficit regionali ma permette che all’inizio del 2011 in una capita- le del welfare come Bologna un bambino di poche settimane venga lasciato morire di freddo per la strada, nonostante la Caritas avesse chiesto insistentemente l’istitu- zione di un servizio di pronto soccorso sociale in quella città. Negli stessi giorni, a Palermo, un’anziana donna è stata lasciata per tre giorni su una sedia all’ospedale civico perché non c’era un posto letto disponibile. La voragine della spesa pubblica per assistenza e sanità, a fronte alle volte di una tragica inefficacia di questi servizi resterà inarrestabile finché non cambierà lo schema culturale che è dietro l’attuale organizzazione delle prestazioni sociosanita- rie, così come l’evasione fiscale non diminuirà se non all’interno di un nuovo patto di fiducia e di lealtà fra cittadini e Stato senza il quale nessuna reale riforma tribu- taria potrà compiersi. Perciò l’analisi di come l’assistenza e il fisco sono diventati due fra i maggiori fattori di squilibrio del Paese – ma ad essi numerosi altri se ne devono aggiungere – va trasformata in un punto di partenza per formulare un nuovo paradigma di sviluppo. • Una suggestione su questo paradigma l’ha offerta, nel corso di un convegno della fondazione Centesimus Annus del maggio 2010 all’università Gregoriana di Roma, il professor Alberto Quadrio Curzio. È la visione di un sistema basato insie- me sulla democrazia rappresentativa attraverso le istituzioni del Paese e sulla demo- crazia partecipativa attraverso i corpi sociali e le realtà intermedie del Paese.

ÿ La nuova prospettiva aperta della Caritas in veritate

• È qui, non nella contrapposizione e nel conflitto ma nella collaborazione tra questi soggetti la chiave di una nuova prospettiva che è lo stesso orientamento pro- posto dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI. Il concetto di una sussidiarietà an- tagonista ai regimi totalitari dell’epoca che era contenuto nella Quadragesimo Anno, diventa nella Caritas in veritate un criterio di collaborazione: nuovi tempi sono ma-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 73 Giuseppe Sangiorgi turi e il Magistero offre nuovi orientamenti sui quali lavorare nel campo istituziona- le, così come alla proposizione su scala planetaria di una economia sociale di merca- to viene affidato il compito di realizzare insieme profitto e solidarietà nei processi di sviluppo dei Paesi. Il caso Fiat, invece che essere l’esempio di un braccio di forza tra azienda e sindacato potrebbe essere trasformato nell’emblema di una logica nuova di relazioni industriali perseguendo insieme partecipazione e competitività. • Il mondo cattolico è alle prese con questo insieme di problemi e di sollecita- zioni. Dentro l’immagine iniziale della dissolvenza, dentro questa fase del suo pas- saggio da una stagione all’altra, accanto alle forme aggregative tradizionali si muo- vono iniziative di altro segno, occasioni di riflessione, nuove esperienze formative, di apostolato e di testimonianza. Nell’aprile 2010 a Roma il convegno nazionale “Testimoni digitali” ha segnato una svolta inedita nel rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione e il mondo internet. Nell’ottobre 2010, a Reggio Calabria, la 46° edizione delle Settimane sociali ha registrato numeri da Opera dei Congressi, anno- tati con scrupolo da padre Gian Paolo Salvini su Civiltà Cattolica: 1.213 partecipan- ti provenienti da 190 diocesi italiane, altre 300 richieste non accolte per mancanza di spazio, 180 rappresentanti di associazioni e movimenti laicali, 60 vescovi, 213 sa- cerdoti, 44 politici, quattro assemblee plenarie, cinque assemblee tematiche…

ÿ Il fervore partecipativo del mondo cattolico

• È difficile enumerare l’insieme di incontri e di iniziative sul territorio o per aree di interessi che affianco alla dimensione più strettamente religiosa stanno dan- do vita a una continua e spontanea trama partecipativa del mondo cattolico, come un magma alla ricerca di un corso da prendere. A partire dal 2003 un particolare spaccato viene offerto dai convegni della “Tre giorni di Toniolo” che si svolgono ogni anno nel mese di novembre a Pisa e a San Miniato. Giuseppe Toniolo, che sarà proclamato beato, è l’Abramo del cattolicesimo politico italiano. Il suo impe- gno di intellettuale e di instancabile organizzatore fu quello di fare uscire i cattolici dalla marginalità politica che derivava loro dalla questione romana. A lui si sono ispirati Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, i protagonisti delle due grandi stagioni del cattolicesimo democratico legate al Partito popolare e alla De- mocrazia Cristiana. Di lui De Gasperi diceva che rappresentava le mura maestre del cattolicesimo politico: e a Toniolo si guarda oggi per la capacità che aveva di es- sere insieme un grande uomo di studio e d’azione. Eppure Toniolo – nato nel 1845 e dunque formatosi nel pieno della questione romana – è una personalità datata circa l’aspetto dell’autonomia del laicato rispetto alla gerarchia. Romolo Murri in una testimonianza degli anni Quaranta ricorda come questo fosse stato decenni prima il motivo della loro rottura: «Il dissenso fra Toniolo e me era antico e grave. Io, prete, difendevo una giusta autonomia del lai-

74 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Giuseppe Sangiorgi cato nelle cose civili ed egli, laico, difendeva un rigido e totalitario intervento del- l’autorità religiosa». • Ma il rilievo di Toniolo è dato da altro. Oggi che la “mano invisibile” del mer- cato ha mostrato tutti i suoi limiti si chiede al mercato di avere un’anima. Toniolo teorizzava nella seconda metà dell’Ottocento «l’elemento etico quale fattore intrin- seco delle leggi economiche». Egualmente illuminante è la sua visione della demo- crazia: «La democrazia nel suo concetto essenziale può definirsi quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche nella pienezza del loro sviluppo gerarchico cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori». • Il rilievo di Toniolo è dato infine dalla idealità e dalla spiritualità come tratti propri ed elementi costitutivi di un politico di ispirazione cristiana. Significa qual- cosa – nel confronto con la moralità personale degli attuali protagonisti della vita pubblica italiana – la circostanza che la Chiesa ha aperto nei confronti di Toniolo, di Sturzo, di De Gasperi e di Giorgio La Pira altrettanti processi di beatificazione. Significa qualcosa a proposito di una concezione della politica come la forma più alta di carità, secondo l’insegnamento di Paolo VI. Oggi alla politica come carità si sono sostituiti quelli penali, alla politica come carità si è sostituito il degrado di comportamenti che la Conferenza episcopale italiana è tornata a stigmatizzare nel consiglio permanente tenuto ad Ancona il 24 gennaio 2011.

ÿ Il percorso della “Tre giorni Toniolo”

• Le otto edizioni della “Tre giorni” che si sono svolte finora disegnano un per- corso di particolare interesse del mondo cattolico di questi anni. Esse, come dimo- strano i temi scelti e i titoli delle relazioni introduttive hanno affrontato tutte le maggiori questioni politiche e sociali del Paese. L’interesse è nel verificare come le edizioni, con i dibattiti che hanno animato, siano iniziate nel segno del personali- smo e di un approccio prevalentemente storico e accademico alle questioni, per di- ventare gradualmente occasioni sempre più propositive e progettuali. L’ultima del novembre 2010 ha avuto per tema “Cattolici e coscienza civile in Italia dall’Unità a oggi”, e si è conclusa discutendo due proposte operative: dare vi- ta a un Forum permanente delle fondazioni e associazioni di orientamento cattoli- co, e costituire un’Accademia della cultura cattolica. Proposte delle quali si è fatto portatore Amos Ciabattoni a nome delle fondazioni raccolte nell’Associazione per la difesa della democrazia, e che si sono tradotte in una serie di iniziative e di pas- saggi successivi. • I cattolici hanno nella Dottrina Sociale della Chiesa la loro bussola orientati- va, ha ricordato nella relazione introduttiva Mario Taccolini. Occorre dunque ri- partire da qui per declinare nuovamente una visione economico sociale del Paese e

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 75 Giuseppe Sangiorgi aggiornare il modello di sviluppo. La Caritas in veritate offre in questo senso un ele- mento in più di valutazione rispetto al passato: pone la questione ecologica come ulteriore elemento dirimente delle politiche di sviluppo. L’altro aspetto è il rappor- to tra morale, politica ed economia. Ancora oggi è vivo in questo senso e va ripreso l’insegnamento di Sturzo con la sua battaglia contro i monopoli e lo statalismo. • Il percorso del cattolicesimo italiano lungo la storia del Paese è stato ricostrui- to da Francesco Malgeri, con un approccio non soltanto storiografico. È stata vera unità politica quella dei cattolici, si è chiesto Malgeri? O essa è stata più una circo- stanza originata da fattori esterni che non una reale scelta consapevole? La rilettura del cattolicesimo democratico rispetto al tema dell’unità diventa indispensabile per capire quali nuove prospettive di avanzamento democratico del Paese esso possa ancora oggi contribuire a determinare, attraverso quali forme organizzative nella attuale realtà dei partiti italiani. • La cultura cattolica “sta” dentro il processo unitario del Paese dai tempi dello Statuto Albertino, ha ricordato Francesco Bonini. Lo Statuto, così come la Costi- tuzione del ’48 ne sono anzi largamente influenzati. La Costituzione ha dato vita a una Repubblica dei partiti che ha visto protagonista la Democrazia Cristiana. La crisi politica degli anni Novanta ha generato a sua volta una Repubblica del mag- gioritario che ha visto cancellare l’esperienza democristiana e delle altre più antiche formazioni politiche. Adesso siamo di nuovo davanti a una svolta, ma non sappia- mo ancora verso quale forma di Repubblica, con quale legge elettorale e chi saran- no gli attori principali. • Luciano Pazzaglia ha posto il tema di come un nuovo concetto di cittadinan- za possa declinarsi nella scuola. Oggi un milione di studenti sono figli di immigra- ti. Questa presenza implica un diverso modello di istruzione; essa ripropone fra gli altri aspetti quello dell’insegnamento della religione, ciclicamente al centro di riforme e di polemiche dai tempi della questione romana. In forza di questo vissu- to si chiede ai cattolici di saper avanzare una proposta di equilibrio. Sull’altro ver- sante di polemiche tra pubblico e privato, la formula di un sistema scolastico pub- blico integrato è la risposta più avanzata che si è riusciti a dare finora al lungo con- trasto generato dalla formulazione dall’articolo 33 della Costituzione: «Enti e pri- vati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». • Alfredo Canavero ha esteso l’analisi della presenza cattolica alla dimensione internazionale della politica, a iniziare dalla scelta europea degasperiana. Gli atti della “Tre giorni” daranno conto di una ricostruzione di vicende, di iniziative e di uomini legati alla politica estera democristiana che poche volte è stata compiuta da uno studioso con tanta ampiezza e precisione di riferimenti, e che consegna all’at- tualità politica questioni cruciali a iniziare da che cosa debba intendersi quando si parla dei confini dell’Unione europea: la Russia, la Turchia, Israele vi sono ricom- presi? A quali condizioni e superando quali ostacoli la procedura per l’ingresso del-

76 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Giuseppe Sangiorgi la Turchia potrà concludersi positivamente? Il tema delle radici cristiane riguarda soltanto un suo riconoscimento formale nei documenti istitutivi dell’Unione? • La tavola rotonda conclusiva della “Tre giorni” ha rilevato l’inadeguatezza dell’attuale presenza di tipo molecolare dei cattolici nella vita pubblica del Paese ri- spetto a questa massa di interrogativi e di sollecitazioni che li chiamano in causa. Per Paolo Nello, il presidente della fondazione Toniolo, tutti sentiamo viva la no- stra identità cattolica, ma di essa paradossalmente avvertiamo anche la mancanza. Di qui la convinzione che sia necessaria una “ripartenza”. Amos Ciabattoni, Walter Crivellin, Ernesto Preziosi ne hanno sottolineato l’aspetto laico, monsignor Gasto- ne Simoni, vescovo di Prato, e don Enrico Giovacchini, segretario della fondazio- ne, l’ancoraggio all’ispirazione cristiana. Ha scritto Lev Tolstoj: «l’insegnamento di Cristo non concerne la politica, ma lui solo risolve tutte le questioni politiche».

ÿ Due iniziative in cantiere

• Tutto questo vuole avere un seguito in due direzioni. La prima è quella di da- re vita a un coordinamento delle iniziative esistenti. In questi anni c’è stato un grande fermento del mondo cattolico. Le esperienze compiute e le convinzioni maturate hanno avuto però una scarsa incidenza nella vita pubblica del Paese. Il lo- ro coordinamento nazionale attraverso la sottoscrizione di una Carta d’intesa vuole essere un passo oltre: la costituzione di una rete e di un raccordo permanente che dia forza e visibilità a queste posizioni e le renda capaci di influenzare le decisioni politiche e le scelte legislative. L’elaborazione di questa “Carta d’intesa per il coor- dinamento di soggetti sociali cattolici” si è conclusa intorno al vescovo Simoni con l’approvazione di un documento fondativo il 7 maggio 2011 a Prato, che viene pubblicato in Appendice. Come un incontro dei segni, lo stesso giorno Benedetto XVI, in visita nel , tornava a invocare ad Aquileia la necessità di una nuova generazione di cattolici impegnati nel sociale e nella politica. La seconda direzione è quella di elaborare una serie di schede e di analisi in analogia a quanto avvenne con il Codice di Camaldoli sui temi dell’attualità del Paese e della sua proiezione internazionale. Accenniamo soltanto a una serie di ar- gomenti che vanno dal modello istituzionale alla legge elettorale, dalla sussidiarietà all’immigrazione, dall’economia virtuale alla società dell’informazione, dall’emer- genza educativa alla bioetica... Una visione d’insieme e una proposta di governo da parte del cattolicesimo politico devono ripartire dalle fondamenta del rapporto tra cristianesimo e democrazia. Dentro queste fondamenta ci sono il popolarismo di Luigi Sturzo e la Dottrina Sociale della Chiesa, c’è la riaffermazione di una visione antropologica della politica contro una economicistica. È una scommessa duplice: culturale e organizzativa. Un primo incontro dopo la “Tre giorni” è stato a Prato nel dicembre 2010, un secondo incontro si è tenuto a

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 77 Giuseppe Sangiorgi

Roma, grazie all’ospitalità dell’Istituto Sturzo, nel gennaio 2011, un terzo incontro si è tenuto di nuovo a Prato il 4 aprile 2011, un quarto ancora a Prato il 7 maggio 2011 quando si è approvata la Carta d’Intesa. Adesioni sono venute dalle fondazio- ni Toniolo di Pisa e di Verona, dal Collegamento sociale cristiano, dai Gruppi di Dottrina Sociale della Chiesa, da tanti singoli esponenti cattolici e rappresentanti di movimenti e associazioni. Successive occasioni di confronto sono state indivi- duate in convegni di area cattolica come quello che si è svolto il 25-27 febbraio a Todi promosso da Argomenti 2000, mentre nel prossimo settembre si terrà a Vero- na il primo Festival della Dottrina sociale della Chiesa e a novembre la nona edi- zione della “Tre giorni Toniolo” diventerà l’annuale occasione di verifica di questo nuovo percorso di elaborazione culturale-politica, percorso che Civitas continuerà a seguire. Questo risveglio e questa consapevolezza di proseguire una storia sono diventa- ti una realtà e nel tempo se ne misureranno ampiezza e continuità. Ha scritto Die- trich Bonoeffer: «i cristiani che stanno con un solo piede sulla terra staranno con un solo piede in paradiso». La passione civile si lega al dovere della testimonianza.

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78 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 E intanto da Todi un segnale del “nuovo” per contribuire a superare lo stallo delle buone intenzioni (Cronaca di un convegno)

• Nello svolgersi del convegno organizzato a Todi a fine febbraio di quest’anno dall’associazione di amicizia politica Argomenti 2000, è apparso un altro passaggio si- gnificativo di quel tentativo in atto da parte di settori del movimento cattolico italiano di riappropriarsi di una nuova, autonoma dimensione politico-progettuale.Una riappropriazione non priva anche di spunti polemici ma sostanzialmente “morbida” rispetto agli avvenimenti di questi ultimi anni e al ruolo avuto in essi in prima perso- na dalla gerarchia ecclesiale: non uno strappo dunque rispetto a questo recente passato ma un suo superamento, un andare oltre, non un andare contro. In questo senso il se- minario di studi di Todi, che aveva per tema “Qui e adesso: radici e reti, il cattolice- simo democratico in ricerca”, va visto in continuità con quanto già era emerso all’ul- tima “Tre giorni di Toniolo” svoltasi a Pisa San Miniato nel novembre 2010, che ave- va avuto per titolo “Cattolici e coscienza civile in Italia dall’Unità a oggi”, incontro teso anch’esso ad andare “oltre” e, ancora, con i meeting dei circoli di mons. Simoni di Prato e con la funzione assunta dalla Rivista Civitas ormai punto di riferimento del dibattito in corso in questi settori del movimento cattolico. • L’espressione stessa di cattolicesimo democratico, ha chiesto Ernesto Preziosi nel- l’introdurre i lavori di Todi, resta tuttora valida o essa va consegnata alla storia e i cat- tolici devono ricercare una nuova locuzione che definisca la loro partecipazione alla vi- ta politica del Paese? La prima delle tre relazioni di base che hanno aperto il dibattito è stata affidata a Francesco Malgeri il quale ha ripercorso con una grande ampiezza di riferimenti l’atteggiamento della storiografia italiana, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, sul ruolo avuto nelle vicende del nostro Paese dal cattolicesimo politico. Vale la pena che Argomenti 2000, negli annunciati atti del convegno, fornisca tutti i riferimenti citati da Malgeri che costituiscono nel loro insieme una preziosa valutazio- ne critica d’insieme sul movimento cattolico. • Muovendo da questo quadro storiografico sono stati Guido Formigoni e Agostino Giovagnoli a completare in termini prospettici, nella prima sessione dei lavori, l’analisi di partenza del convegno. Formigoni ha proposto quattro punti di riflessione per arri- vare a un assestamento critico tra i due opposti poli – da un lato la damnatio memo- riae e dall’altro il rimpianto nella comparazione con l’oggi – in cui si muove il giudizio sul cattolicesimo politico. • Il primo punto riguarda la crisi della Democrazia Cristiana e la fine dell’u- nità politica dei cattolici. Formigoni ha invitato ad abbandonare le tesi complottisti-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 79 Giuseppe Sangiorgi che. La crisi non risale agli anni Novanta ma era precedente. Essa è dipesa per un verso dal successo delle posizioni della Dc che, diventando patrimonio comune, hanno fatto perdere a questo partito la sua specificità. Dall’altro lato si erano divaricate sempre più le affermazioni di principio di quel partito e le sue concrete prassi rispetto ai temi capo- saldo della originaria ispirazione, dalla famiglia al rapporto Stato-società, alla conce- zione delle autonomie locali. • La fine della Dc, ecco il secondo punto di riflessione, ha portato a una tenden- za centrifuga del mondo cattolico. Le ragioni del suo convergere verso una sola forma- zione politica si sono fortemente indebolite, è necessario riprendere la riflessione sul plu- ralismo delle opzioni tenendo presente l’attuale dato del bipolarismo. • L’istituzione ecclesiastica, terzo punto, con la presidenza della Cei del cardinale Camillo Ruini ha ripreso da parte sua una diretta dimensione politica superando la mediazione dei partiti, ed anche qui è tempo ormai di aprire una discussione sui succes- si e sui limiti di questa prospettiva. • Il quarto punto di riflessione riguarda la situazione generale della nostra co- me delle altre democrazie avanzate. Rispetto alle crisi economiche e sociali intorno a noi è auspicabile che si apra un ciclo di ripensamento sull’attuale debolezza della politi- ca. I segni della necessità di una politica forte ci sono, sta anche ai cattolici coglierli e svilupparli. Ma per fare questo – evitando il pericolo dei radicalismi – occorre ritrovare una grande capacità insieme intellettuale, progettuale e organizzativa. La potenzialità esiste ma dobbiamo anche essere consapevoli che in questa nuova stagione di impegno nulla è garantito. Agostino Giovagnoli ha raccolto il testimone da questa riflessione: la tradizione c’è, potenzialmente essa è in grado d proiettarsi di nuovo sulla scena politica ma nulla più è scontato. Perciò la risposta alla iniziale domanda di Ernesto Preziosi sulla sorte del cat- tolicesimo democratico non è nelle parole ma nei fatti, è nella sua concreta capacità di misurarsi con i problemi che sono oggi intorno a noi. Occorre ritrovare quella spinta unitiva proveniente dall’ispirazione cristiana che fa dei cattolici non una lobby o un comitato d’affari, ma una spinta morale. Nel secondo dopoguerra, gli italiani hanno fatto ricorso a un patrimonio di idealità edieticitàfruttodiunaispirazionelargamentepermeatadicristianesimo.PioVIIdi- ceva due secoli fa che la radice della democrazia è nel Vangelo. Agli inizi del Novecento gli ha fatto eco Leone Tolstoj: «L’insegnamento di Cristo non concerne la politica, ma lui solo risolve tutte le questioni politiche» (Diari, 29 maggio 1906). Gli ultimi vent’anni di vita del Paese sono stati anni di disagio per molti cattolici. Già prima, dalla fine degli anni Settanta una società progressivamente dominata dal vuoto etico si era indebolita. Negli ultimi tempi si è accentuata la separazione sempre più radicale tra etica e politica. A questa situazione è necessario porre fine. Anche l’eco- nomia, non solo la politica risente dell’etica. Nel ventennio fascista l’economia italiana fu di stagnazione. Negli ultimi 17 anni, da tanto dura la parabola berlusconiana, la condizione economica del Paese è analoga.

80 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Giuseppe Sangiorgi

• Qual è allora la prospettiva? La politica di Luigi Sturzo, ha ricordato Giova- gnoli, fu quella del popolarismo. La politica De Gasperi è stata quella della ricostruzio- ne del Paese entro un quadro di democrazia. La politica di oggi è l’uscita dal provincia- lesimo nel quale l’Italia è scivolata, un provincialesimo che va spazzato via nel nome di una nuova dimensione internazionale della politica. • Intervenendo nel dibattito che si è sviluppato sulle tre relazioni d’apertura, Pier- luigi Castagnetti ha posto il tema della rilevanza del cattolicesimo democratico. L’espe- rienza del passato ci dice che questa rilevanza è stata importante quando i cattolici ave- vano alle loro spalle l’unità politica e una produzione culturale che precedeva l’impegno politico. Oggi come riescono a tornare rilevanti non avendo più alle loro spalle il soste- gno della Chiesa e un bacino di elaborazione culturale? Il punto politico hanno replicato Formigoni e Giovagnoli è proprio questo: come su- perare l’insignificanza. Agli inizi del Novecento la cultura diffusa del cattolicesimo ita- liano non era congeniale a una traduzione politica del popolarismo, eppure Sturzo ci riuscì. De Gasperi riemerge nel secondo dopoguerra perché è passato per una sconfitta. E così oggi la minoranza che ha saputo resistere alle devianze della politica sarà la forza vincente di domani. Le minoranze, ha insistito Giovagnoli, vincono con la cultura. Rielaboriamo il tema della libertà per una strategia storica concreta. • Il convegno di Todi, così come l’ultima “Tre giorni” Toniolo mostrano un para- dosso. La situazione italiana dei nostri giorni è fatta di partiti che hanno un retroterra di cultura e di tradizione politica insignificante, e di grandi retroterra culturali e di principi ispiratori del tutto privi invece di proiezione partitica. Il seminario di Todi è stato una rappresentazione plastica di questa situazione, per la quantità di apporti cul- turali e scientifici venuti nel corso delle altre sezioni dei lavori: “Cattolicesimo demo- cratico, diritti e istituzioni” con gli interventi di Nicola Antonetti, storia delle dottrine politiche all’università di Parma, Gian Candido De Martin, diritto pubblico alla Luiss di Roma, Michele Nicoletti, filosofia politica all’università di Trento, Luigi Fran- cesco Pizzolato, letteratura cristiana antica alla università cattolica di Milano, e la se- zione intitolata “Cattolicesimo democratico oggi: visioni, domande e opportunità”, mo- derata da Omar Uberti, con la partecipazione di Andrea Olivero, presidente delle Acli, e Paolo Trionfini, vice presidente del settore adulti di Azione Cattolica. Al Seminario c’erano molti giovani amministratori impegnati negli enti locali, la grande palestra dal- la quale ricominciare. • Un convegno mirato a tale traguardo dovrebbe fare il punto sulle molteplici espe- rienze e sulla classe dirigente che in tal modo si sta selezionando. • Un nuovo appuntamento di rilievo sarà il festival della Dottrina Sociale della Chiesa che si svolgerà a settembre (dal 15 al 17) a Verona, su iniziativa dei circoli della DSC che si richiamano al circolo Toniolo di quella città ma che hanno ormai una proiezione di carattere nazionale. Il tentativo di dare vita a un’intesa, o a un coordina- mento cattolico che colleghi tra loro queste e altre iniziative è in corso, l’appuntamento per una sua prima verifica resta la “Tre giorni” di Toniolo di novembre prossimo, che si

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 81 Giuseppe Sangiorgi propone di esplorare la dinamica e le forze indispensabili per superare lo “stallo” e offri- re al movimento cattolico italiano il “progetto” di una nuova autonoma mobilitazione politico-progettuale.

G.S.

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82 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 CONTINUITÀ E NUOVA GENERAZIONE

ÿ Perché della crisi – Come superarla? – Interviste A cura di Ernesto Preziosi – Attilio Nicora (Card.) – Giuseppe Gervasio – Beppe Del Colle

ÿ Motivi di una assenza. Necessità di una presenza? – Interviste A cura di Maurizio Regosa – Giuliano Amato – Giuseppe De Rita

Perché della crisi – Come superarla? Interviste A cura di Ernesto Preziosi

Sulla lunga transizione italiana e in particolare sul rapporto cattolici e politica abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande a mons. Attilio Nicora, a Giuseppe Gervasio e a Beppe Del Colle che, a vario titolo, hanno vissuto la fase del passaggio da differenti punti di osservazione. Il cardinale Attilio Nicora, rettore del Seminario Maggiore di Milano dal 1970, ha firmato nel 1984 l’accordo di modifica del Concordato fra Stato ita- liano e Chiesa cattolica. Eletto vescovo titolare di Fornos minore da papa Paolo VI il 16 aprile 1977 con l’incarico di ausiliare dell’arcidiocesi di Mila- no, nel 1992 viene nominato vescovo di Verona; nel 1997 rientra a Roma presso la Cei. Nel 2000 assume la vicepresidenza della Commissione Episco- pale della Comunità Europea. Nello stesso anno è presidente dell’Ammini- strazione del Patrimonio della Sede Apostolica ed è nominato cardinale da papa Giovanni Paolo II. Il 19 gennaio 2011 papa Benedetto XVI lo nomina primo presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Giuseppe Gervasio, avvocato, docente di diritto canonico al seminario regio- nale dell’Emilia Romagna e consulente dell’Ente regionale, è stato presidente dell’Aci dal 1992 al 1998, attualmente è membro del consiglio di Ammini- strazione dell’Università Cattolica. Beppe Del Colle, giornalista, ha cominciato a scrivere su «Il nostro tempo», settimanale cattolico della sua città, Torino, ed è redattore di altre testate loca- li. Nel 1970 è redattore capo a «Famiglia Cristiana», di cui diviene vicediretto- re nel 1982 e dove firma gli editoriali. Fra il 1982 e il 2002 ha collaborato ad «Avvenire» come opinionista soprattutto in politica estera. E.P.

ÿ Intervista al Card. Attilio Nicora [Rettore del Seminario Maggiore di Milano]

«Civitas»: Come nasce quella crisi? Perché la presenza dei cattolici, che pur aveva “dato il passo” negli anni difficili della ricostruzione e della ripresa econo- mica, è andata in crisi?

Attilio Nicora: Tra gli elementi che hanno prima incubato e poi fatto esplodere la crisi ne vedo alcuni di tipo per di così “interno” alla cattolicità italiana: il venir

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 85 Ernesto Preziosi meno di un sentire comune, proprio di un mondo cattolico, come esito di una non sempre ben intesa nuova ecclesiologia; il serpeggiare del dubbio sulla stessa legitti- mazione teorica della dottrina sociale cristiana; la sparizione dello strumento ope- rativo, cioè del partito di riferimento; l’attutirsi della coscienza di una “causa” per cui val la pena spendersi, anche sfidando culture e impostazioni diverse; la crisi dei grandi soggetti formativi, a cominciare dall’Azione Cattolica, dalla FUCI e dal movimento scoutistico; la linea ingenuamente a-politica, se non anti-politica, dei nuovi movimenti ecclesiali, almeno nel momento delle origini. Ne vedo altri di tipo esterno, a tutti noti: il rapido mutare della società italiana e della scala di valori e dei modelli antropologici; gli effetti di un benessere improv- viso che ha eroso le tensioni etiche e solidaristiche; la richiesta rivolta alla politica di soddisfare i desideri più che i veri bisogni.

«C.»: Il Magistero della Chiesa ha continuato a sollecitare i credenti rispetto l’irrinunciabile impegno per il bene comune. Impegno reso difficile dalla situa- zione di frammentarietà, oltre che pluralità, che si è venuta a creare in questi an- ni. Se dovesse richiamare i motivi che stanno a fondamento di un rinnovato im- pegno politico dei credenti, quali indicherebbe?

A. N.: La convinzione che il Vangelo fonda e promuove una visione singola- re dell’uomo e delle fondamentali relazioni che egli vive; che questa è un bene per tutti; che occorre desiderarne con passione la realizzazione incisiva nella sto- ria; che la laicità non è attenuazione o messa tra parentesi dei valori umani puri- ficati e dilatati dal Vangelo ma è loro proposta in un confronto culturale e civi- le; che la salvezza degli uomini non dipende ultimamente dalla politica e che però questa può porre le condizioni per un’esistenza più degna dell’uomo nel cammino terreno come può creare ostacoli forte e guai terribili quando è distor- ta dal suo compito originario; che è un’urgenza di presenza operosa perché la scena mondiale presenta situazioni drammatiche e provoca scelte che incideran- no sul futuro.

«C.»: In che misura e a quali condizioni la ripresa della Dottrina Sociale della Chiesa, che ha visto l’uscita anche del Compendio, può essere una opportunità non solo formativa ma anche di azione per i cattolici?

A. N.: La ripresa della Dottrina sociale della Chiesa è indubbiamente una grande possibilità formativa. Per spingere all’azione essa presuppone peraltro una coscienza e uno stile di vita cristiani già in qualche modo formati, la presenza di sa- cerdoti che siano saggi accompagnatori, la pratica di momenti di verifica e di nu- trimento spirituale, la disponibilità a collegarsi con iniziative ed esperienze analo- ghe, l’elaborazione di qualche linea progettuale su cui chiamare consenso di là dal-

86 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi la semplice riflessione. Par di capire che non manca una diffusa attesa in queste di- rezioni; occorre però trovare uomini e strumenti per favorire le convergenze.

«C.»: Sempre nella fase di transizione, si sono registrati alcuni tentativi, anche nel campo prepartitico, di tessitura di una nuova presenza del cattolicesimo socia- le. Mi riferisco segnatamente al manifesto “Prendere il largo” e all’esperienza che va sotto il nome di “Retinopera”. Quale potenzialità conteneva questa iniziativa?

A. N.: Quella di ripartire dalla fondazione spirituale dell’impegno, ritrovando le originali radici bibliche e teologiche motivanti l’impegno. L’attenzione e l’appel- lo a uomini espressivi delle grandi associazioni del sociale, che nel nostro Paese hanno ancora una base effettiva. La libertà e la volontarietà piena dell’adesione, sti- molata anche da un’esperienza di amicizia cristiana. Il tentativo di rilanciare “dal basso”, senza attendere ordini o protezioni “dall’alto”, in spirito peraltro di sempli- cità, di fiducia e oltre ogni polemica. La speranza di suscitare e sostenere esperienze aggregative sul territorio, collegandole in una rete fondata non sugli interessi, nep- pure “ecclesiali”, ma sulla passione per la causa cattolica che è la causa dell’uomo.

«C.»: A suo avviso, con lo sguardo rivolto al panorama politico presente, quali sono i passaggi imprescindibili per il rinnovato impegno politico che dia corpo alla richiesta avanzata da Benedetto XVI di una nuova generazione di poli- tici cattolici?

A. N.: Ho l’impressione che le associazioni laicali stentino a prendere iniziative e che i movimenti siano irretiti da una logica autoreferenziale. Non so quanto pos- sa fare la CEI in quanto struttura istituzionale. Forse la via più agevolmente per- corribile è quella di riconoscere e collegare circoli, centri, esperienze formative già presenti in diversi territori e però prive per ora di un respiro più ampio e di una vi- sione comune. Ci vuole qualche Vescovo e qualche prete che creda alla possibilità di un’effettiva crescita laicale su questi campi; e v’è da sperare che il Signore faccia crescere da lì qualche figura di laico alla Giuseppe Toniolo capace di attrarre con- senso su iniziative comuni. «Non abbiamo più profeti e nessuno sa fino a quando» era il lamento del resto di Israele: si può però creare un tessuto fecondo di intelli- genze e di buone volontà perché si avvicini il tempo di una nuova fioritura di testi- moni credibili e trainanti.

«C.»: Non le chiedo certo di esprimersi sulle forme di certo bipolarismo…, ma vorrei chiederle in che misura i cattolici possono essere presenti in maniera indifferente, ma con pari efficacia, in contenitori partitici che si dichiarino espressamente di riferirsi al messaggio cristiano, o in contenitori che dichiarino il loro pluralismo interno.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 87 Ernesto Preziosi

A. N.: L’esperienza di questi anni non è certamente incoraggiante: la somma di due minoranze non ha fatto una maggioranza ma una minoranza al quadrato. Si è manifestata soprattutto la fatica a far entrare certi grandi valori nelle linee proposi- tive e programmatiche dei due poli, di là dalla semplice difesa, su alcuni punti par- ticolari, delle esigenze etiche invalicabili; si vedano, per esempio, le politiche per la famiglia e l’idea della famiglia come soggetto politico. Sarebbe necessario che al- l’interno dei poli i cattolici non soltanto rivendicassero con chiarezza la libertà di voto sui punti eticamente sensibili, ma si facessero più presenti e incisivi nei mo- menti di elaborazione culturale e programmatica, facessero avvertire la presenza di tensioni più positive nella società rispetto agli schemi interpretativi massmediatici, dialogassero veramente tra loro in vista di progettazioni concrete e condivise.

ÿ Intervista a Giuseppe Gervasio [Università Cattolica]

«Civitas»: La lunga transizione politica attraversata dal nostro Paese, accanto ad altri esiti, ha assistito al progressivo tramonto del partito di ispirazione cri- stiana, la Dc, che dal secondo dopoguerra aveva guidato il Paese. Qual è il ricor- do che Lei ha di questo passaggio?

Giuseppe Gervasio: Il tramonto del partito di ispirazione cristiana, il tramonto della Dc, è legato ad un intreccio di dinamiche diverse e distinte, ma fra di loro in qualche misura interagenti; possiamo ricordarne alcune: sul piano culturale, il ’68 e i movimenti che l’hanno caratterizzato, l’emergenza delle grandi problematiche della giustizia e della pace nell’assetto mondiale; sul piano più immediatamente politico: il progressivo indebolimento di un assetto imperniato sulla contrapposi- zione democrazie occidentali/democrazie popolari, Usa/Urss, Dc/Pci; da qui l’esi- genza di un profondo rinnovamento culturale e di una progettazione per una rin- novata dinamica politica che non ha trovato adeguate risposte.

«C.»: Il dissolvimento del soggetto politico di ispirazione cristiana all’inizio degli anni ’90 è avvenuto nel contesto di una crisi più generale: quali elementi segnalerebbe, vedendoli dall’osservatorio della presidenza nazionale, della princi- pale associazione laicale cattolica?

G.G.: Facendo riferimento all’“osservatorio della presidenza nazionale”, gli elementi emergenti da segnalare portano a tematiche più immediatamente eccle- siali: lo scenario è quello della riflessione e della ricerca per una pastorale, per un modo di essere e un modo di agire della comunità ecclesiale efficacemente rispon- denti al dono del Concilio; e in questo quadro il ritornare al tema della cultura, di

88 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi una “cultura diffusa” cristianamente ispirata; da qui, la necessità di sapersi misu- rare con una varietà di culture cristianamente ispirate e quindi con la dinamica del dialogo, del confronto, della pluralità di posizioni e di scelte che possono vi- talmente scaturire a partire dalla ricchezza della comune matrice di fede. Ricorde- rei il tema del “pluralismo” che fu affrontato nel Convegno Ecclesiale di Roma (1975) e il tema del “discernimento comunitario” che ci riporta al Convegno Ec- clesiale di Palermo.

«C.»: C’è stata una fase in cui, con il cambiamento del nome, è parso possibi- le avviare una nuova stagione della presenza politica dei cattolici con un richia- mo al popolarismo sturziano: cosa non ha funzionato?

G.G.: È certamente sempre necessario ritrovare le radici storiche e mettere in luce i grandi orientamenti e le scelte qualificanti che hanno fatto fiorire un quadro culturale e che hanno promosso una presenza politica: ma, da soli, questi riferi- menti non bastano per rispondere all’esigenza di misurarsi con le problematiche del presente e per contribuire a costruire il futuro: nella nostra realtà ecclesiale, cul- turale e politica si è intuito che la strada da percorrere poneva in primo piano l’esi- genza di rigenerare culture cristianamente ispirate, diffuse e vive nel tessuto del no- stro Paese, ma il percorso da compiere (non sempre chiaro e condiviso e, a volte, visto con preoccupazione) è certamente ancora lungo e impegnativo.

«C.»: In che misura il laicato cattolico organizzato viveva sul finire degli anni ’80 la partecipazione politica?

G.G.: La partecipazione politica alla fine degli anni Ottanta richiedeva proprio di misurarsi con la complessità e la incisività della transizione nella sua portata non solo politica, ma, come abbiamo già sottolineato, culturale: il così detto “laicato cattolico organizzato” ha vissuto questa fase di mutamento rendendosi conto di ciò che stava finendo – pensiamo alla esperienza del “collateralismo”, pensiamo alla te- matica della “unità politica dei cattolici” –, ha preso atto che quindi vi era una fase diversa da far nascere, da impostare, da costruire; ma su questa strada le reazioni sono state diverse: da un rinnovato impegno per una partecipazione politica (ma in un quadro diversificato e per rispondere a problematiche emergenti ritenute di maggior rilievo) fino ad un allontanamento dalla partecipazione politica, preferen- do altri ambiti di impegno pastorale, sociale, culturale.

«C.»: Da parte di alcuni si indica la “scelta religiosa” attuata dalla Chiesa, ed in essa dall’Azione Cattolica postconciliare, come una delle cause che hanno por- tato al dissolvimento della esperienza politica dei credenti: cosa si può dire per confutare questa tesi?

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 89 Ernesto Preziosi

G. G.: Riconsiderando la storia di questa lunga transizione che ormai da alcuni decenni segna la via del nostro Paese, la così detta “scelta religiosa” appare sempre di più nella sua essenza come una indicazione tempestiva ed essenziale per un cam- mino efficace di cambiamento: il terreno fertile dal quale possono scaturire rinno- vate forme per una significativa partecipazione democratica e solidale nella comu- nità civile da parte dei credenti è costituito proprio da culture vive e diffuse cristia- namente ispirate, radicate in una attenta condivisione della nostra storia, letta e vissuta con “sapienza cristiana”; coltivare e rendere fruttuoso questo terreno è cer- tamente il significato profondo della “scelta religiosa”.

«C.»: Se guarda in prospettiva la situazione presente, quali gli esiti di questa lunga transizione e quali i punti di forza che un laicato associato può offrire, in tema di partecipazione politica, alla comunità cristiana?

G. G.: In questo complesso e non facile cammino di transizione che nel nostro Paese coinvolge l’assetto e le forme di partecipazione politica, per il così detto “laica- to associato” (una realtà quindi che si sente espressione della esperienza cristiana nella storia) una concreta e costruttiva prospettiva di impegno può essere quella vol- ta essenzialmente a far crescere la comunità ecclesiale e a promuovere la sua vivacità: nella linea della partecipazione e della corresponsabilità, nella capacità di essere luo- go di comunione, di dialogo, di discernimento, luogo in cui possano emergere, svi- lupparsi, confrontarsi culture cristianamente ispirate, luogo in cui possano formarsi, esprimersi ed operare forme qualificate di presenze laicali aperte alla ricerca e alla promozione del bene comune storicamente possibile nel concreto del territorio e della situazione in cui si vive; da queste radici è possibile che si concretizzino e si svi- luppino significative esperienze politiche di credenti che sappiano contribuire a su- perare la transizione che sta segnando la vita politica del nostro Paese.

ÿ Intervista a Beppe Del Colle [giornalista]

«Civitas»: Nel passaggio di secolo il nostro Paese ha conosciuto una lunga fa- se di crisi. Le chiediamo: a) Come nasce quella crisi? Perché la presenza dei cattolici, che pur aveva “dato il passo” negli anni difficili della ricostruzione e della ripresa economica, è andata in crisi? b) La fine della Dc: un fatto subìto, rispetto al quale si è corsi ai ripari col cambio del nome ecc., o un fatto che poteva essere previsto e guidato con più lungimiranza?

90 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi

Beppe Del Colle: Quella crisi nasce per una molteplicità di motivi, ma sempli- ficando al massimo posso dire che la causa determinante fu la caduta del Muro di Berlino. Un avvenimento che provocò in tutto il mondo fenomeni politici, diplo- matici, economici, sociali, militari anche molto diversi fra loro, caratterizzati però tutti da un elemento comune: la fine della paura del comunismo. Il suo fascino su interi popoli era svanito da tempo, ma restava l’incubo della superpotenza nucleare dell’Unione sovietica, documentata anche dall’insistenza con cui il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan ne aveva cercato la riduzione e infine la dissoluzione nelle sue trattative con l’ultimo leader dell’Urss, Gorbaciov. Perché lego la fine della Dc in Italia con la fine del comunismo? Perché fin dal- l’immediato dopoguerra il partito erede del Ppi di don Luigi Sturzo aveva assunto il ruolo dell’argine al comunismo nel nostro Paese, in ciò sostenuto con molta effi- cacia dalla Chiesa e, dunque, dal mondo cattolico. Chi ha vissuto la campagna elettorale del 18 aprile 1948, e poi tutte quelle dei decenni successivi, almeno fino agli “autunni caldi” del ’70-’80, sa bene che il voto alla Dc era in un certo senso “obbligato” anche se, per molti, “turandosi il naso”. Uno degli effetti di questa regola elettorale è indicato oggi dagli storici (ma an- che allora eravamo in parecchi a dirlo e a scriverlo) nella identificazione dei cattoli- ci con i “moderati”, mentre fin dai tempi di De Gasperi si sapeva che la Dc era più “a sinistra” del suo elettorato, ma non faceva sconti al Pci. E questo bastava per tanti cittadini che, istintivamente, avrebbero votato diversamente.

• Naturalmente non bastò la caduta del Muro di Berlino, con la inevitabile im- plosione del Pci a cui era venuto a mancare tutto l’armamentario ideologico su cui si era retto per mezzo secolo, a determinare la scomparsa a tappe del “partito dei cattolici”. A cavallo degli anni ’80 e ’90 lo scandalo di Tangentopoli significò la de- nuncia di alcuni mali che anche fra i cattolici erano stati segnalati da tempo, a co- minciare dal correntismo democristiano, che aveva generato e portato con sé, au- mentandolo continuamente, un indesiderabile costo della politica, pagato con tan- genti offerte (spesso volentieri) dal mondo degli affari e delle imprese, pubbliche e private, al potere centrale e a quello locale, per averne in cambio commesse di lavo- ro, agevolazioni fiscali, inganni nella concorrenza e inevitabili compensi monetari a danno della finanza statale. Si aggiunga l’aumento della spesa pubblica, spesso motivata da un welfare dedito alla ricerca del favore popolare di singoli gruppi di cittadini piuttosto che al bene co- mune come lo intende la Dottrina sociale della Chiesa, e così via. Quando i processi di Manipulite travolsero l’ultima alleanza fra la Dc e il Psi, il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) si capì che presto tutto il castello democristiano sarebbe crollato. Invano si alzarono nel mondo cattolico voci anche autorevoli che invitavano a cam- biare registro dei comportamenti pubblici e privati dei politici. La Commissione del- la Cei “Giustizia e Pace” diffuse il 4 ottobre 1991 (festa di San Francesco d’Assisi) la

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 91 Ernesto Preziosi nota pastorale Educare alla legalità. Vi si denunciavano un’“eclissi della legalità”, la moltiplicazione della criminalità nei suoi vari aspetti e dimensioni (mafia, camorra, ’ndrangheta, ognuna con supporti politici), la “debolezza delle istituzioni chiamate a contrastare il fenomeno e l’oblio del bene comune”. Non servì a nulla.

«C.»: Con il discorso di Giovanni Paolo II a Palermo nel 1995 si è aperta la strada ad un pluralismo di posizioni politiche per i cattolici. Una realtà per molti versi già presente di fatto ma che in un contesto bipolare ha rischiato di aumen- tare la divaricazione tra i credenti. Quale pensa sia l’atteggiamento da coltivare nella comunità cristiana in proposito? Che influenza può aver avuto il pontificato di Giovanni Paolo II nella “cultu- ra” politica italiana, per esempio, con il sostegno dei Movimenti e con la pro- spettiva di una Chiesa (quella italiana) intesa come “forza sociale”, ecc.?

B. D. C.: Il pluralismo di posizioni politiche per i cattolici era “già presente di fatto” fin dai tempi del Concilio Vaticano II; e del resto anche don Luigi Sturzo, fondando nel 1919 il Partito popolare lo aveva ben chiaro, quando si rivolgeva “ai liberi e forti” e accettava che ci fossero cattolici “conservatori” e cattolici “progressi- sti”, sul modello degli “intransigenti”e dei “conciliatoristi”dell’Ottocento, ai tempi della “Questione romana”. L’unità politica dei cattolici non c’è mai stata, nei 150 anni dell’Unità nazionale. Fra l’altro, è quanto ho cercato di illustrare, risponden- do alle domande del collega Pasquale Pellegrini, nel libro Cattolici dal potere al si- lenzio edito dalla San Paolo qualche mese fa. Ciò non vuol dire che non si possa fa- re nulla per ottenere, se non altro, una comunione di intenti e di giudizi fra i cre- denti, almeno per quanto riguarda i temi ritenuti dalla Chiesa “non negoziabili”. Oggi, in particolare, chiederei almeno questo: che non si accetti più con tanta in- differenza l’attuale spaccatura del mondo cattolico nazionale sui comportamenti di un singolo personaggio pubblico. L’influenza del pontificato di Giovanni Paolo II sulla cultura politica italiana è stata a mio giudizio incalcolabile, soprattutto su due aspetti, rilevabili nelle sue en- cicliche Laborem exercens (del 1981) Sollicitudo rei socialis (del 1987) Centesimus annus (del 1991, in riferimento alla rivoluzionaria Rerum novarum di Leone XIII): quello del lavoro e quello della pace. Cito volentieri una frase della Centesimus an- nus che tocca problemi di strettissima, impressionante attualità anche adesso: «La mancanza di sicurezza, accompagnata dalla corruzione dei pubblici poteri e dalla diffusione di improprie fonti di arricchimento e di facili profitti, fondati su attività illegali o puramente speculative, è uno degli ostacoli principali per lo sviluppo e l’ordine economico».

«C.»: Nella lunga transizione, dentro cui ancora ci troviamo, ad un certo punto si è scelto di porre mano ad una riforma istituzionale. Poteva essere un

92 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Ernesto Preziosi modo per rinnovare il sistema e promuovere nuova partecipazione. Che cosa non ha funzionato?

B. Del Colle: Non ha funzionato un accordo serio e lungimirante fra il leader della maggioranza di allora, D’Alema, e l’allora leader dell’opposizione, Berlusco- ni: il conflitto d’interessi di quest’ultimo non fu nemmeno lontanamente insidiato e le istituzioni restarono quelle erano, destinate a quel conflitto spasmodico fra lo- ro a cui stiamo assistendo nella presente legislatura.

«C.»: I “contenitori plurali” hanno inteso interpretare la fine delle ideologie offrendo una risposta che non facesse più riferimento alle ideologie ottocentesche, ma tentasse di costruire una piattaforma capace di catalizzare risorse, per risolvere iproblemi sul tappeto: è il caso della Margherita, del Partito Democratico e del Popolo della Libertà. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di una formazione par- titica plurale rispetto a una identitaria? Vi è stato un punto di vista se non ufficia- le, in qualche modo prevalente, da parte della Chiesa su questo tema?

B. D. C.: I “contenitori plurali” mancano di un’anima e anche di una cultura comune, ma in compenso ne hanno troppe. Margherita e Partito Democratico so- no frutti di un sogno dimostratosi finora irrealizzabile (per non dire di un’illusio- ne): quello di uscire dalle ideologie ottocentesche, tenendone però in vita i valori umani e sociali, cristiani e laici insieme; il Popolo della Libertà tiene insieme ai ver- tici proprio tutto (ex comunisti, ex socialisti, ex democristiani, ex radicali, ex neo- fascisti, ex liberali, ex repubblicani) in nome di nessuna dottrina politica o econo- mica determinata, intorno a una sola persona che costituisce, nei fatti, una contro- versia vivente: il liberalismo politico e il libero mercato conclamati e il monopolio plutocratico realizzato (non solo nel campo dell’informazione, ma anche in quello assicurativo, bancario, persino sportivo). Se così stanno le cose, finora si sono visti solo gli svantaggi e non i vantaggi di una qualsiasi “formazione partitica plurale”: basti osservare quale scarsissima iden- tità si noti nel Partito Democratico fra cattolici e laici sui temi della vita, della mor- te, della fecondazione artificiale, della famiglia… La prova ne è il continuo richia- mo della Chiesa – dal Papa in giù – al rispetto delle norme “naturali” su cui essa fonda la sua antropologia e la sua etica.

«C.»: Vi è una crisi di classe politica, di classe dirigente, oppure è lo stesso pen- siero politico che fatica a rappresentare un’ispirazione cristiana in quegli anni?

B. D. C.: Difficile rispondere a queste due domande unite: la crisi della classe dirigente non si nota solo nella politica, ma anche in altri settori della vita sociale, dove antiche norme volte a organizzare le attività produttive, assistenziali, educati-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 93 Ernesto Preziosi ve sembrano dimenticate, travolte da un relativismo morale e una concezione indi- vidualistica dell’agire umano, a cui offre sempre nuove occasioni e motivazioni il fenomeno della globalizzazione, di cui le prime vittime, in Paesi evoluti ma non ricchi di risorse naturali come il nostro, sono gli “ultimi”, i poveri, gli immigrati (clandestini o no); ma non solo, anche i lavoratori dipendenti (che fine ha fatto la classe operaia, politicamente e socialmente “mitica” fino a tre decenni fa?) i giova- ni, le donne. L’“ispirazione cristiana” appare in ombra, nella “società liquida” de- scritta da Zygmunt Bauman, ma non tocca a noi cristiani descriverla come ormai inefficace: Lui ci ha promesso che “sarà sempre con noi”.

«C.»: Formazione della classe dirigente e formazione di base della comunità cristiana: quali priorità e quali suggerimenti?

B. D. C.: La priorità resta affidata alla costruzione della fede nei luoghi dove si è sperimentata per due millenni: la parrocchia, l’oratorio, la famiglia, la scuola cri- stiana, i gruppi, i movimenti, la comunicazione sociale nei suoi aspetti tradizionali e in quelli nuovi, come la “rete”. La fede, infatti, non cambia, sono i modi di diffon- derla, a cominciare dai giovani, che possono cambiare. E a questo punto non mi resta che concludere: torniamo al coraggio, a parlare chiaro, a dire “sì, sì”, “no, no”, a misurarsi di più con i don Mazzolari e i don Milani (e i don Bosco, andando in- dietro nel tempo) e meno con chi preferisce il silenzio davanti al potere.

ÿ

94 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Motivi di una assenza. Necessità di una presenza? Interviste A cura di Maurizio Regosa

Per uscire da questa, per molti aspetti mai nata e probabilmente già esaurita, seconda Repubblica che sta sfumando in un presente piatto e privo di pro- spettive, occorrerebbe tornare a pensare la politica, coltivando la cultura del- l’incontro di esigenze anche differenti, riprendendo in mano il bene comune su cui tanto ha riflettuto soprattutto la cultura politica cattolica. Un obiettivo strumentale al rilancio di un Paese che appare stanco e bloccato e che vicever- sa dovrebbe avvertire l’urgenza di una ripartenza. E dovrebbe perciò tornare a interrogarsi sugli obiettivi che intende raggiungere, sui valori che desidera condividere e in cui si riconosce, sul ruolo sociale della religione cattolica. Non questioni lontane dalla vita quotidiana, ma che toccano l’esistenza di ciascuno di noi. Riguardano il rapporto fra le generazioni, le prospettive di una crescita sostenibile per tutti, la costruzione di un futuro che non escluda. Colpisce da questo punto di vista che personalità della cultura e della politica italiana per molti aspetti diverse come Giuseppe De Rita, presidente del Cen- sis, e Giuliano Amato, per due volte presidente del Consiglio dei ministri, avanzino diagnosi e suggeriscano soluzioni per certi aspetti analoghe. Per fare finalmente i conti con il «secolo breve», in questo anno in cui celebriamo il 150° anniversario dell’Unità del Paese, il cattolico De Rita e il laico Amato invocano un ripensamento dell’etica e l’elaborazione (soprattutto da parte della cultura cattolica) di una visione organica della società.

ÿ Intervista a Giuliano Amato [già Presidente del Consiglio dei Ministri]

«Civitas»: L’Italia non appare oggi un Paese per giovani. È vero che la società italiana è una società stanca e bloccata?

Giuliano Amato: I dati che abbiamo sugli andamenti economici dimostrano che un giovane ha particolari difficoltà a vivere il suo presente. Ha difficoltà a tro- vare lavoro e in ragione anche di questo, avendo noi adottato da anni un sistema pre- videnziale contributivo, ha anche prospettive – sia pur lontane – di vecchiaia sprovvi- ste dei mezzi che dovrebbero assicurargli una vita libera e dignitosa, come scriveva una Costituzione tuttora vigente. Ora un tasso elevato di disoccupazione in parti-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 95 Maurizio Regosa colare giovanile è un dato che caratterizza anche altri paesi europei. Una connota- zione aggiuntiva tipicamente italiana è la difficoltà di collocamento dei giovani par- ticolarmente qualificati. Che sono proprio quelli che con più facilità e frequenza sono indotti a cercare fuori d’Italia una collocazione e la trovano. Questo a mio av- viso riflette proprio il punto al quale siamo arrivati con una struttura industriale fatta al 99 per cento di imprese molto piccole che in realtà non hanno le mansioni né le retribuzioni corrispondenti a quei livelli di preparazione. Quindi siamo arri- vati a una asimmetria fra un sistema formativo che con tutti i difetti che avrà tutta- via prepara i giovani per mansioni del nostro tempo e del futuro e un sistema pro- duttivo che quelle mansioni non le chiede. Questo porta a constatare una arretra- tezza oggettiva della nostra economia. Ora se si lascia il profilo strettamente econo- mico e si esaminano altri profili non meno importanti della nostra vicenda nazio- nale, in questo momento di riflessione quale è il 150° anniversario dell’Unità, e si riprende la domanda: «perché il nostro non è un paese per i giovani», allora la mia risposta diventa di un semplicismo spaventoso e temo inesorabilmente vero. I gio- vani in quanto tali sono più interessati al futuro che al presente, noi siamo un paese che sa vivere solo il presente perché il futuro si costruisce – come ci hanno insegna- to tutte le generazioni precedenti – sacrificando qualcosa del presente in vista del domani. Il sacrificio è frutto di etica, non di convenienza; questo è un paese a tasso di etica spaventosamente basso e quindi con questo tasso di etica vive il presente e non costruisce il futuro. Le prime vittime sono quelli che hanno davanti il futuro, non la mia generazione che ormai di futuro ne ha poco. I giovani si adattano; i gio- vani tunisini ed egiziani si sono adattati meno. Le condizioni lì sono state più strin- genti, più opprimenti. Indiscutibilmente. La fame a ribellarsi aiuta. Noi qui tra le pieghe di questa società fatta di redditi familiari, di redditi intermittenti, di occa- sioni di vita diversificate riusciamo ad avere degli anfratti nei quali anche i giovani possono vivere un lungo presente. Ma è responsabilità nostra se a questo finiscono per adattarsi. Perché io mi aspetto che prima o poi arrivino a protestare. Mi ha col- pito una ragazzina in televisione la quale diceva: «io non riesco più a capire perché noi giovani ci dobbiamo dividere tra destra e sinistra: la sostanza è che siamo preca- ri. Tu sei precario di destra, io di sinistra. Perché non ci mettiamo insieme?». È un argomento sotto il quale sta un ragionamento più sofisticato: c’è una diversità poli- tica che alla fine non riguarda la nostra dimensione di vita, e porta a ragioni di divi- sione fondamentalmente irrilevanti. D’altra parte il futuro lo costruiscono insieme le generazioni. Che i più interessati al futuro siano gli unici che se ne occupino, è impensabile. È la società nel suo insieme che deve non essere una società per vecchi. E forse è inutile evocare le responsabilità. Che sono molteplici. In buona parte della generazione dei 40-50enni. La mia generazione è cresciuta in un clima in cui la ten- sione verso il futuro c’era. Sono cresciuto negli anni Cinquanta, anni della ricostru- zione, che portarono al miracolo economico, post–degasperiano. Questo futuro lo si sentiva come una meta alla quale noi dovevamo arrivare. Io sono sempre stato un

96 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Maurizio Regosa difensore del ’68, come una vicenda liberatoria dalle gerarchie. L’etica delle vecchie gerarchie era diventata un’etica ipocrita e oppressiva, non autentica. Era bene uscir- ne. Ma caricando sulla propria coscienza la responsabilità non imposta aliunde.Le generazioni uscite dal ’68 ne acquisirono libertà ma forse non furono sufficiente- mente consapevoli o aiutate a essere consapevoli che libertà è responsabilità. Re- sponsabilità verso se stessi e verso l’insieme. Libertà non è il venir meno dell’etica. Ma il venir meno dell’etica imposta dall’esterno e che deve diventare una guida in- terna dei tuoi comportamenti. L’etica è in primo luogo responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Viceversa dal ’68 è uscito un individualismo estremo che poi è fon- te della caduta nel presente. L’individualismo estremo non porta il futuro. Porta a vivere ciascun giorno nel modo migliore possibile. Porta al più a ritenersi responsa- bili verso i propri figli. Ma non verso le generazioni future. Questo i sociologi lo ve- dono come un tratto nostro. Questa assenza di responsabilità verso il collettivo è qualcosa che discende da questi ultimi anni.

«C.»: La Seconda Repubblica forse non è mai nata e se c’è stata davvero sta andando verso la sua fine. Perché le speranze dei primi anni Novanta si sono dis- solte strada facendo? Che cosa non ha funzionato? Chi ha avuto maggiori re- sponsabilità?

G.A.: Tecnicamente la Seconda Repubblica non è mai nata. Le repubbliche so- no scandite dalle costituzioni. Due cose non hanno funzionato. Una nel substrato dello schema politico, ne abbiamo parlato sino ad ora e risale e a un tempo anterio- re al confine tra la Prima e la Seconda Repubblica cioè il futuro ce lo siamo perso prima del 1992-93. Via via che i grandi partiti, che erano stati custodi di futuro nel loro periodo di vigore e di salute, si sono progressivamente anchilosati e hanno co- minciato a vivere distribuendo o negando convenienze presenti. In pratica inter- mediari di risorse, più che veicoli di prospettive per il paese. Questo la letteratura politologica, sociologica lo aveva già segnalato. Che i partiti erano malati. Se furo- no spazzati via più o meno tutti per ragioni diverse nel 1992-93 è perché la società era cambiata, i grandi collettori non la contenevano più, le vite si erano individua- lizzate e quindi i partiti facevano la provvista del personale pubblico, non la prov- vista delle idee per il domani. E questo è un processo che è continuato. È una so- cietà che probabilmente ora ricomincia a riflettere sul proprio bisogno di etica. Da quando si parla di società post-secolare si è ricominciato a prendere atto che le reli- gioni anziché essere un affare privato possono essere un efficace propellente di fat- tori valoriali di cui questa società ha bisogno. La seconda cosa che non ha funzio- nato è chiaramente il bipolarismo. In un sistema politico nel quale le tensioni era- no e sono estreme, anziché aiutare ad assorbirle nel moderatismo di centro destra o centro sinistra, nella mediazione che è tipica dei sistemi bipolari che funzionano, il bipolarismo ha mantenuto loro un elevatissimo potere di ricatto. L’abbiamo vissu-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 97 Maurizio Regosa to: il centro sinistra finisce vittima sempre di estremismi che non riesce a biodegra- dare, il centro destra sembra felice di non farlo e anziché cadere per questo va su strade che ingenerano poi delle tensioni. Basti pensare all’immigrazione e all’unità nazionale e ad altri temi.

«C.»: Nonostante il tramonto del berlusconismo, la situazione politica italia- na continua ad apparire priva di alternative o con alternative deboli e incerte. Perché?

G.A.: Siamo probabilmente vicini alla conclusione del ciclo politico per ragio- ni, come dice Giuliano Ferrara, probabilmente anagrafiche. Ma in realtà il berlu- sconismo è un fenomeno che, per tutto quello che ho detto, precede la persona che ne è stata espressiva e potrebbe durare ancora a lungo. Berlusconi è stato un grande comunicatore che ha conservato il presente, ammaliando i suoi elettori con un fu- turo di sogno. Quindi non ha in realtà costruito un futuro. Ha prospettato dei bel- lissimi sogni per il futuro, tendenzialmente la possibilità di identificarsi con lui. Ha sostituito la bellezza di una vittoria all’Enalotto alla progressiva conquista di una vita migliore. In questo è stato un uomo del suo tempo, non è che il tempo è dive- nuto quello che è a causa di Berlusconi. Quando si è immersi nel presente, cosa di- venta il futuro? Un sogno. Lui è stato molto bravo, però probabilmente non era da solo. Quando si parla di un personaggio lo si vede da solo. Ma da solo non avrebbe potuto. Da qui il tema delle élite dirigenti, che nell’insieme, in effetti, sono venute progressivamente deteriorandosi. Credo molto all’etica come legame di una comu- nità e anche come premessa della spinta verso il cambiamento utile. L’etica non ri- guarda soltanto i comportamenti familiari e il modo con cui si vivono le feste ma ci ricordava Thomas Mann ne I Buddenbrook, riguarda anche il proprio rapporto con il futuro della propria impresa, con l’economia, con il come si fa il domani, quanto si destina al domani e quanto all’oggi. Il paese nel quale il numero dei Suv supera di gran lunga il numero delle persone con un reddito superiore fa capire la destina- zione delle risorse che priorità ha. Per far spazio a quel nuovo che vorremmo vedere all’orizzonte, oggi bisognerebbe lavorare con i giovani. Prospettando qualcosa che ne valga la pena secondo la loro percezione. Teniamo conto che i giovani crescono con un fortissimo senso dell’io. Devono farsi riconoscere dal mondo. Hanno anche però un forte sentimento di giustizia rispetto a quelli come loro. Si identificano con gli altri giovani. Se c’è un delitto che colpisce un bambino gli altri bambini per un misto di egoismo e di giustizia lo sentono come un male. C’è un terreno fertile per l’educazione. Uno può dire «mancano gli educatori», ma questo è vero fino a un certo punto.

«C.»: Negli ultimi vent’anni i cattolici hanno cercato una nuova collocazione nella vita pubblica italiana, senza trovarla. Quali sono i motivi?

98 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Maurizio Regosa

G.A.: Ho l’impressione che finita la Dc, con tutti i difetti che aveva, in qualche modo si sia attenuato l’esercizio, che la Dc aveva trasformato in propria cultura e propria prassi, della proiezione dei valori e dei principi del fedele cattolico sull’in- sieme dei temi attraverso i quali si forma il bene comune. Venuta meno la respon- sabilità dei partito, i singoli cattolici che sono rimasti in politica hanno sentito il ri- chiamo su alcuni temi definiti, la bio-etica, meno sul resto.

«C.»: C’è oggi un ruolo che i cattolici devono svolgere nella situazione attua- le? Possono favorire la transizione verso una nuova fase della storia italiana?

G.A.: È ritrovare nell’insieme delle tematiche il bene comune. Io vorrei che teoricamente sparisse la bioetica. So che non è possibile, ma intendo dire: non vi il- ludete di poter manifestare la vostra indole di fedeli in questo ambito, dove è più facile perché avete la Chiesa che vi dà istruzioni, a volte fin troppo dettagliate, su questi temi. In quanto cattolici dovete saper ritrovare questa visione complessiva nell’organizzazione del mercato del lavoro, nell’organizzazione dell’impresa, nelle attività bancarie, nel modo di organizzare il turismo, non andandola a cercare nei credenda. Non vi illudete: non troverete le istruzioni.

«C.»: L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stato duramente contra- stato da chi teme l’unità degli italiani. Ci sono ancora oggi motivi validi per “stare insieme”? O l’Italia è destinata a fare la fine del Belgio – o peggio – a disgregarsi?

G.A.: In grande sintesi, non essere uniti nel modo di celebrare l’Unità è uno straordinario paradosso che però gli storici da tempo avevano annotato come una caratteristica dell’incompiutezza dell’Unità italiana. Lucio Villari l’ha scritto in un suo recente libro. La Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti sono uniti nel cele- brare la loro unità. Gli italiani non lo sono mai stati. Abbiamo una lunga storia nella quale riuscimmo ad ottenere miracolosamente l’unificazione ma all’Italia che nacque fu subito contrapposta quella che avrebbe potuto nascere e che, ovviamen- te, sarebbe stata molto meglio. Questa divisione è stata un fattore che ha caratteriz- zato la storia ed è sintomatica del fatto che l’unificazione è rimasta incompiuta. Ba- sta pensare al rapporto Nord Sud. La Lega riflette un atteggiamento che trova ri- scontro anche in altri paesi. Un atteggiamento tendenzialmente localista, «anti-al- tri», con una qualche venatura separatista; al tempo stesso riflette una incompiu- tezza dell’unità nazionale, una percezione degli altri italiani come profondamente diversi da sé. Non solo caratterizzati dalle diversità che in ogni nazione ci sono. Il 150° dovrebbe servirci a capire due cose: la prima è che noi siamo un paese ricco di diversità e guai a non riconoscerle. Oggi forse siamo più maturi di quanto lo fossi- mo 150 anni fa per riconoscerlo. Lo stato centralista con qui l’Italia nacque era tale perché era debole. Oggi possiamo essere più forti. Ma abbiamo bisogno di esserlo.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 99 Maurizio Regosa

Se nel 150° sorgessero nostalgie di come eravamo prima, sarebbe davvero un ritor- no a un passato di arretratezza.

ÿ Intervista a Giuseppe De Rita [Presidente Censis]

«Civitas»: L’Italia non appare oggi un Paese per giovani. È vero che la società italiana è una società stanca e bloccata?

G. De Rita: Sono sempre portato alla contro-tendenza in questa storia della nostra società di vecchi. Che lo sia è chiarissimo: dal punto di vista demografico ci sono città come Venezia in cui l’età media è 49 anni. Una città con questa età me- dia è proprio spenta assai. Nello stesso tempo, la nostra non è ancora una società vecchia, nel senso che i vecchi hanno una loro capacità di innovazione, un loro modo di pensare, hanno delle idee per il futuro. Non si può chiamare vecchio un Enzo Bianchi o un Cesare Bazoli, che tra l’altro sono anche più giovani di me. Il meccanismo è forse anche perfido, proseguendo la vita dei vecchi, i vecchi restano giovani e i giovani non nascono, non crescono. Certamente però c’è nella cultura medio-alta italiana una vitalità che probabilmente non è di tutti i paesi. Dove sta il punto cruciale? Che questa vitalità culturale non fa catena generazionale. Nel sen- so che i giovani si sentono staccati. C’è un gap. Probabilmente è colpa dei 50- 60enni, colpa un po’ della generazione del ’68 che ha voluto fare meccanismi di rottura che politicamente erano la rivoluzione al potere, demograficamente era il salto generazionale. Quindi noi non facciamo catena generazionale. In qualche modo il salto ci sarà davvero. Non essendoci la possibilità di fare progressivamente un rimpiazzo delle leve anziani, ci ritroveremo con una classe dirigente che arriverà a 60 anni a posizioni di responsabilità senza aver fatto prima esperienze significati- ve. Questo è il punto. Però al tempo steso c’è da dire che i giovani, non i miei figli ma i miei nipoti, sono tutti portati all’innovazione virtuale di rete, di Facebook. Non so quanto sia innovazione quanto ulteriore aumento dei consumi. Può darsi che aiuterà i giovani a rimpiazzarci bene. Hanno una cultura moderna, sanno ra- gionare, sanno trovare il loro contraddittore in Malesia per dire... Quindi può dar- si che ci sia un meccanismo in cui il processo innovativo innovi anche la cultura. Può anche però darsi che non ci sia. I giovani d’oggi hanno questa doppia diffi- coltà. Da una parte dei vecchi che restano ancora tutto sommato validi, che hanno talvolta più idee di loro; dall’altra, stanno coltivando una innovazione, quella vir- tuale, che potrebbe dargli grande potere ma potrebbe anche risultare inutile.

«C.»: La Seconda Repubblica forse non è mai nata e se c’è stata davvero sta andando verso la sua fine. Perché le speranze dei primi anni Novanta si sono dis-

100 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Maurizio Regosa solte strada facendo? Che cosa non ha funzionato? Chi ha avuto maggiori re- sponsabilità?

G. D. R.: Può darsi che non sia solo colpa della politica. Ho l’impressione che quel discorso che facevamo prima di una frattura della catena generazionale sia un po’ generalizzato e abbia toccato tutto. Faccio un esempio banale. Perché non c’è stato un ambasciatore o un nunzio apostolico che abbia detto: «in Libia può succe- dere di tutto». Significa che certi meccanismi dell’esperienza non sono tramandati. L’esperienza è rimasta l’esperienza dei pochi. D’altra parte, la classe amministrativa italiana, da chi è formata? Una volta c’erano i grandi direttori generali. Quelli rap- presentavano il potere. Oggi niente. Hai il disfacimento della funzione pubblica. Ci sono ambasciatori di 45-50 anni, intelligenti bravi che non hanno quella di- mensione di una volta o non hanno quella responsabilità, quel sentimento di coe- sione e di partecipazione. Un discorso che vale per gli amministrativi. Il capo di- partimento adesso dovrebbe essere il sostituto dei grandi direttori. Due volte su quattro è mediocre, non si interessa. Il vero meccanismo che ha colpito la pubblica amministrazione, è lo spoil system di Bassanini. Non è che il ministro ti può im- porre o vietare di firmare un atto. Sai però che fra tre anni ti scade il contratto, cambia il ministro, devi organizzare un sistema di relazioni che è bipartisan, a di- versi livelli di età, di potere, magari con qualche aggancio a una loggia. Alla fine queste sono le cose di cui ti occupi. Non del tuo lavoro. Non ho mai visto un diret- tore generale che non avesse la possibilità di firmare anche un atto importante. Se non lo fa oggi mentre lo faceva una volta... Quanto alle responsabilità, sono di una cultura che è entrata nella cultura politica e probabilmente anche in quella colletti- va: dico sempre la Seconda Repubblica è stata il trionfo di Craxi senza Craxi. Ri- cordiamoci, alla fine degli anni ’70, primi anni ’80: questa è una palude, la Dc me- dia, aggiusta, galleggia. Occorre il decisionismo. Per fare decisionismo, ci vuole un po’ di verticalizzazione del potere. Per far verticalizzazione del potere, ci vuole la personalizzazione del potere. Per fare personalizzazione del potere, ci vuole la me- diatizzazione. E per fare tutto questo ci vogliono i soldi. È il ritratto senza nomi- narlo del premier attuale. Solo che Craxi non aveva i soldi e Berlusconi sì. Craxi ha pagato il fatto che i soldi se li andava a prendere da Gardini o dall’Eni... Però que- sta cosa è entrata pure nella testa di Mariotto Segni, di Franceschini, di Veltroni, è entrata dappertutto. Tutto il resto – l’elezione diretta del sindaco, del presidente del consiglio – è legato a questa cifra. Decisionismo, verticalizzazione, personaliz- zazione, mediatizzazione. È colpa solo di Craxi o di tutti quelli che l’hanno o sfrut- tata o accettata? Berlusconi l’ha sfruttata. Aveva le caratteristiche dell’uomo d’a- zienda. Ancora oggi: il «ghe pensi mi»... Altri l’hanno accettata e con convinzione. Basta con le deleghe, con il policentrismo, bisogna avere qualcuno che decida. Il senso di un riflusso verso la cultura democristiana dell’aggiustamento, della media- zione, la cultura della mediazione è stata la nemica. L’hanno fatto tutti. E natural-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 101 Maurizio Regosa mente tutti stanno dentro questo gioco. La Seconda Repubblica è fallita perché tutti l’abbiamo voluta far fallire: ci siamo innamorati di una cultura politica che era anche strumentale a Craxi per attaccare la Dc.

«C.»: Nonostante il tramonto del berlusconismo, la situazione politica italia- na continua ad apparire priva di alternative o con alternative deboli e incerte. Perché?

G. D. R.:Iltramonto del berlusconismo è lento, e non ha alternative perché Berlusconi è un genio del duello. Tutto quello che fa, lo riduce a un duello. L’ulti- mo è stato con Fini: aveva un problema politico e l’ha trasformato in duello. E lo vince sempre. Tranne i due duelli con Prodi, ma per ragioni un po’ particolari, an- che il secondo con Prodi lo stava vincendo. Era partito da meno 8 nei sondaggi. Questo meccanismo del duello ha ritardato la crisi del berlusconismo. Ogni volta che ha una crisi, lui la volge a duello e secondo me anche dopo aver fatto il duello con Fini, avendolo vinto, cercherà di far crescere un altro contraente per il duello. Meglio Vendola che Bersani. Se io fossi Bersani preparerei la squadra, per dire «sia- mo dieci non uno solo, il duello non lo accettiamo»...

«C.»: Negli ultimi vent’anni i cattolici hanno cercato una nuova collocazione nella vita pubblica italiana, senza trovarla. Quali sono i motivi?

G. D. R.: I cattolici dovrebbero non pensare al duello. Sottrarsi del tutto a que- sta dinamica e tornare a una cultura cattolica che è una cultura più policentrica, più poliarchica, con più persone, con più contrasti. La democrazia moderna, del resto, non è un uomo solo al comando. Soltanto che i cattolici finora si sono sempre fatti prendere dal duello. Rendiamoci conto che, a parte Occhetto, il primo errore, lo di- co con qualche tristezza perché l’ho sempre considerato un uomo intelligente, è sta- to di Andreatta, un cattolico vero, serio, bravo, ancora da rimpiangere, quando ha candidato Prodi. Chi è che può contrastare Berlusconi? Chi è il nostro campione? Prodi. Il papa straniero... I cattolici di oggi devono essere meno duellanti. Devono riproporre una dimensione collettiva del far politica. Non è il partito dell’unità dei cattolici. Qualcosa di più articolato, un gruppo anche in tre partiti diversi ma che non adotti quei metodi. Non la verticalizzazione, non il duello, non la mediatizza- zione. Questo non è far politica, non fa crescere classe dirigente, fa miscuglio fra po- tere e media, implicitamente si dice anche: con questa logica saremo sempre fuori. C’è una cosa fondamentale di Berlusconi, che lui dà un messaggio esplicito, come scrive Sandro Bondi nel libro che ha scritto sul paragone fra Olivetti e Berlusconi, un paragone del tutto assurdo. In tutte le dichiarazioni, in tutti i comizi, Berlusconi manda sempre un unico messaggio: è fondamentale per l’uomo la libertà di essere se stesso. Allora ciascuno di noi dice: «quello vuole essere libero di essere se stesso, an-

102 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Maurizio Regosa che io»... Questo messaggio poi a un certo punto mediaticamente diventa il Pala- sharp contro il Dal Verme, che alla fine si elidono a vicenda.

«C.»: C’è oggi un ruolo che i cattolici devono svolgere nella situazione attua- le? Possono favorire la transizione verso una nuova fase della storia italiana?

G. D. R: Il ritorno alla poliarchia. Non entrare nel duello.

«C.»: L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stato duramente con- trastato da chi teme l’unità degli italiani. Ci sono ancora oggi motivi validi per “stare insieme”? O l’Italia è destinata a fare la fine del Belgio – o peggio – a di- sgregarsi?

G. D. R.: L’Unità d’Italia è un processo lungo. Se pensa che per arrivare a una lingua nazionale che già c’era, ci abbiamo messo 600 anni con la scuola pubblica e la televisione. Se non avessimo avuto questi due strumenti così forti, la lingua ita- liana sarebbe stata ancora minoritaria. Pensiamo all’eguaglianza sociale, avvenuta attraverso il sommerso e la piccola impresa. Cento anni fa l’idea di avere 4,5 milio- ni di imprenditori ce la sognavamo. Ancora nel 1951 c’era il 50 per cento di agri- coltori in Italia. Il processo socio-economico, culturale e politico che io ho visto in questi 50 anni di lavoro, è stato intensissimo. Oggi l’Italia è più unita di 50 anni fa. La secessione vera sta nel Sud: lo Stato dove possiamo sfruttarlo lo sfruttiamo, le pensioni di invalidità, l’amministrazione pubblica, i forestali, lo sfruttiamo ma non siamo parte dello Stato. Uno sfruttamento che ha uno sbocco distruttivo, senza so- luzione. Il Nord pensa di separare, ma ha una possibilità di evoluzione istituzionale strutturata. Nel Sud è una specie di imbarbarimento. Il Nord è profondamente partecipe, nei consumi, nella cultura, nell’imprenditorialità, al processo di unifica- zione del sistema. Mentre il Sud sta fuori dal processo e la sua sarebbe una secessio- ne per distacco.

«C.»: L’Unità d’Italia nel 1861 è stata anzitutto una grande invenzione lette- raria: il discorso risorgimentale ha raccontato una storia che non c’era e l’ha fatta diventare realtà. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, gli italiani si sono riconosciuti nella narrazione di un Paese che usciva da una secolare miseria e in cui i figli avrebbero avuto un futuro migliore dei padri. C’è una nuova narrazio- ne in cui gli italiani possano oggi riconoscersi?

G. D. R.: Il problema vero è che l’Unità d’Italia è stata raccontata dalle élite. Giulio Bollati, ne L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, cita un padre risorgimentale secondo il quale l’Italia è fatta da due popoli. Un primo popolo che stanca la vita nel lavoro quotidiano, e un secondo popolo che pensa il

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 103 Maurizio Regosa sentimento del primo e quindi ne è il legittimo sovrano. Questa è l’élite dell’’Otto- cento e dell’era fascista. Dal dopoguerra in poi ha vinto il primo popolo. Si è rifat- to la casa, ha fatto i suoi consumi, ha fatto l’immigrazione interna, s’è fatta l’Italia come l’ha voluta il primo popolo, emigranti lavoratori sommersi piccolo popolo. Il secondo popolo almeno dovrebbe cantare questa vicenda, o narrarla. Invece le nar- razioni sono tutte per il secondo popolo: è il secondo popolo che parla a se stesso. Anche i due narratori fondamentali, Saviano e Vendola, a chi parlano? A Il Fatto quotidiano, al «Foglio». Vendola può infiammare una platea ma la infiamma su problemi di secondo popolo. Propongo la Bindi, le primarie non si toccano... Lo stesso Saviano oggi è un romanziere del Palasharp: con «Repubblica» si intende, ma credo non si intenderebbe con un contadino marchigiano. Dico anche scher- zando su me stesso: gli unici che hanno raccontato del primo popolo siamo stati noi del Censis con i quarantaquattro Rapporti. La verità è che manca il racconto del primo popolo. Perché stranamente è stato fatto solo nei periodi più brutti. La guerra ’15-’18 e, per certi aspetti, anche l’8 settembre. Il “tutti a casa” è stato un’e- popea nazionale. Cantato poi da Sordi, Gassman. Quel clima di farabutti sarcastici è, tutto sommato, narrato da loro, più che da Rossellini con Roma città aperta.O da De Sica con Umberto D.

«C.»: Davanti ai grandi rivolgimenti del mondo arabo, l’Europa appare anco- ra una volta scarsamente presente. L’Italia potrebbe far valere di più la sua pre- senza e i suoi interessi per un’iniziativa europea veramente efficace in queste aree e altrove? L’Italia non dovrebbe cercare di ricollocarsi più incisamente in un con- testo internazionale dove oggi contano davvero Paesi come Cina ed India?

G. D. R.:Qui bisogna vedere chi sono i soggetti: ci sono i diplomatici, i medi e grandi imprenditori, ci sono i politici per puntare a questo risultato? Ci sono i ser- vizi segreti? Se pensiamo alla Libia, ci siamo trovati del tutto impreparati. Non ab- biamo saputo capire. E poi pensiamo a un ruolo per l’Italia? Nessuno dei presenti ha fatto nulla. È come se mancasse l’antenna nazionale. Può esserci stato un im- prenditore che ha fiutato qualcosa, ma non ha detto nulla. Non c’è stato un amba- sciatore che abbia raccolto dieci sensori e abbia avvisato Roma dicendo «guardate che qui sta per succedere qualcosa. Non so cosa ma stiamo attenti». I servizi all’e- stero qualcosa sapevano. È notorio che quelli libici sono legati a quelli italiani. È notorio che il riavvicinamento fra libici e americani è avvenuto attraverso i servizi segreti italiani. Non si può affermare che c’è un ruolo per l’Italia senza dire chi lo possa svolgere.

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104 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 ICATTOLICI, L’UNITÀ D’ITALIA, L’EUROPA

ÿ I Cattolici “soci cofondatori” del Paese - di Angelo Bagnasco (Card.)*

ÿ I nodi di 150 anni di storia - di Agostino Giovagnoli*

ÿ Sul presente e sul futuro dell’Italia - di Lorenzo Ornaghi*

ÿ Identità e Missione - di Andrea Riccardi*

ÿ I cattolici, la Chiesa e la costruzione dell’Europa unita - di Alfredo Canavero

ÿ Alle origini: Roma, l’Europa e la Chiesa - di Laura Balestra

* Dal “X Forum del progetto Culturale Cei” (2 dicembre 2010).

I cattolici “soci cofondatori” del Paese

I “150 anni dell’unità d’Italia” costituiscono un invito ANGELO BAGNASCO a fare di questo importante anniversario non una circo- Arcivescovo stanza retorica, ma l’occasione per un ripensamento se- di Genova reno della nostra vicenda nazionale, così da ritrovare in Presidente essa una memoria condivisa e una prospettiva futura in della Conferenza grado di suscitare un “nuovo innamoramento dell’esse- Episcopale Italiana re italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale”. La ricorrenza vede la ≈ Chiesa unita a tutto il Paese nel festeggiare l’evento «L’anniversario fondativo dello Stato unitario, e già questa constatazio- che ci apprestiamo ne è sufficiente per misurare la distanza che ci separa a celebrare è, dalla “breccia di Porta Pia”, l’importanza del cammino dunque, rilevante comune percorso e la parzialità di talune letture che en- non tanto “perché l’Italia sia fatizzano contrapposizioni ormai remote. un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, maperchéinquel • Il contributo dei cattolici all’unità del Paese è – del re- momento, per una sto – ben noto e non si limita al periodo pre-unitario, ma si serie di allarga anche alla fase successiva del suo sviluppo, come è sta- combinazioni, veniva a compiersi to di recente autorevolmente sottolineato dal Presidente della anche Repubblica, nel telegramma a me inviato lo scorso 3 maggio: politicamente una «Anche dopo la formazione dello Stato unitario l’intero mon- nazione che da un do cattolico, sia pure non senza momenti di attrito e di diffi- punto di vista geografico, cile confronto, è stato protagonista di rilievo della vita pubbli- linguistico, ca, fino ad influenzare profondamente il processo di forma- religioso, culturale zione ed approvazione della costituzione repubblicana» (G. e artistico era già Napolitano). Vorrei dunque rileggere il contributo dei cattoli- da secoli in cammino”. In altre ci che, a giusto titolo, si sentono “soci fondatori” di questo parole, veniva Paese, alla luce delle sfide che siamo chiamati ad affrontare, generato un per consentire a ciascuno di sentirsi parte di un “noi” capace popolo». in ogni tempo di superare interessi particolaristici, e di spri- gionare energie insospettate e slanci di generosità. ≈ Angelo Bagnasco

ÿ L’Italia “prima” dell’Italia

• Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi. In effetti, ben prima del 1861 la nostra realtà italiana, per quanto frammentata in mille rivoli feudali, poi comunali, quindi statali, aveva conosciuto una profonda sintonia in virtù dell’ere- dità cristiana. Ne è prova assai significativa la persona di S. Francesco d’Assisi, cui si lega il ripetuto uso del termine Italia, ancora poco corrente nel Medioevo. Pro- prio in relazione a S. Francesco, all’irradiazione della sua presenza, invece comin- cia ad avere sostanza quella che pure per lunghi secoli resterà soltanto un’espressio- ne geografica, viva però di una corposissima identità culturale, spirituale e soprat- tutto religiosa. Accanto a S. Francesco sono innumerevoli le figure – anche femmi- nili, come S. Caterina da Siena – a dare un incisivo contributo alla crescita religio- sa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola. Da qui si rica- va la constatazione che l’unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero, era quello religioso e cattolico. Affermare questa origine dell’Italia non significa inge- nuamente rimarcare diritti di primogenitura, ma solo cogliere la segreta attrazione tra l’identità profonda di un popolo e quella che sarebbe diventata la sua forma storica unitaria, per altro non senza gravi turbamenti di coscienza e, per lungo tempo, irrisolti conflitti istituzionali. È qui sufficiente accennare che al fondo di tali vicende vi era anche la principale preoccupazione della Chiesa di garantire la piena libertà e l’indipendenza del Pontefice, necessarie per l’esercizio del suo su- premo ministero apostolico, e più in generale di scongiurare un “assoggettamento” della Chiesa allo Stato. L’anniversario che ci apprestiamo a celebrare è, dunque, rilevante non tanto «perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politica- mente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, cul- turale e artistico era già da secoli in cammino» (cfr. Prolusione all’Assemblea generale della CEI, 24 maggio 2010). In altre parole, veniva generato un popolo. È di tutta evidenza che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in for- za dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comu- nità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale. Ma se l’anima si corrompe, al- lora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura. Quando ciò può accadere? Quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale. Parlare di identità culturale non significa ripiegarsi o rinchiuder- si, ma si tratta di non sfigurare il proprio volto: senza volto infatti non ci si incon- tra, non si riesce a conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a camminare insieme, a la-

108 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Angelo Bagnasco vorare per gli stessi obiettivi, ad essere “popolo”. Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere atten- to e preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva.

ÿ L’unità del Paese si fa attorno al “retto vivere”

• A questo livello dunque – quello più profondo – si pone in primo luogo la presenza dinamica dei cattolici di ieri e di oggi. L’humus popolare nasce sul territo- rio e nella società civile, è il frutto delle relazioni delle varie famiglie spirituali di cui la società si compone. La religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e sono fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossi- mità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. Sono patrimonio che ispira un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comu- nità ecclesiale, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato. Non è forse vero che quanto più l’uomo si ripiega su se stesso, egocentrico o pauro- so, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano? Ma – in forma speculare – è anche vero che quan- to più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ri- trovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo. Si tratta di una circolarità da non per- dere mai di vista, da fiutare nei suoi movimenti profondi non per rincorrere le in- clinazioni del momento in modo demagogico e inutile, ma perché non si indeboli- sca quella unità di fondo che non è fare tutti le stesse cose, ma è un sentire comune circa le cose più importanti del vivere e del morire. È a questo livello di base – po- tremmo dire non ideologico ma ontologico – che si crea, resiste e cresce un popolo come anima dinamica dello Stato. Vorrei, a titolo esemplificativo, richiamare sommessamente quanto le comu- nità cristiane di ogni epoca esprimono nel variegato tessuto sociale, iniziative reli- giose, culturali, caritative e formative nei vari ambiti. E così ricordare con gratitu- dine la vasta rete di associazioni e aggregazioni cooperative sia a livello religioso che laicale. La fede certamente non può essere mai ridotta a “religione civile”, ma è in- negabile la sua ricaduta nella vita personale e pubblica. La religione però non è valorizzabile nella società civile solo per le sue attività assistenziali – orizzontalmente –, ma anche proprio in quanto religione, vertical- mente. L’esperienza universale, infatti, per un verso documenta che l’apertura ver- so la trascendenza non è né sovrastruttura né questione esclusivamente individuale e privata, e d’altro verso attesta che l’approccio al mistero di Dio dà origine a cultu- ra e civiltà. L’autocoscienza di una società – che si esprime anche nei suoi ordina-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 109 Angelo Bagnasco menti giuridici e statuali – è conseguenza dell’autocoscienza dell’uomo, cioè di co- me l’uomo si concepisce nel suo essere e nei suoi significati, e senza la prospettiva di una vita oltre la morte, la vita politica tenderà a farsi semplicemente organizza- zione delle cose materiali, equilibrio di interessi, freno di appetiti individuali o cor- porativi, amministrazione e burocrazia. A nessuno sfugge come la visione dell’uo- mo e della vita assuma, nella luce della fede cattolica, prospettive e criteri che crea- no uno specifico ethos del vivere: il Vangelo invita l’uomo a guardare al Cielo per poter meglio guardare alla terra, invita a rivolgersi a Dio per scoprire che gli altri non sono solamente dei simili ma anche dei fratelli, ricorda che il pane è necessa- rio, ma che non di solo pane l’uomo vive. Infine, la dignità della persona, che oggi le Carte internazionali riconoscono come un dato che precede la legislazione posi- tiva, trova la sua incondizionatezza solo nella trascendenza, cioè oltre l’individuo e ogni autorità umana. È questo riferimento creatore e ordinatore che origina, fonda e garantisce il valore dell’uomo e il suo agire morale. Ed è il rispetto e la promozio- ne di questa dignità che costituisce il nucleo dinamico e orientativo del “bene co- mune”, scopo di ogni vero Stato. E alla definizione teorica, nonché alla realizzazio- ne pratica del bene comune, il contributo dei cattolici non è stato certamente mo- desto.

ÿ Il Bene Comune

• Com’è noto, il Concilio Vaticano II definisce il bene comune come «l’insie- me di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (Gaudium et Spes, 26). Ma che cos’è la perfezione dei diversi soggetti, perfezione alla quale sono ordinate le condizioni della vita sociale? È “il vivere retto” sia dei cittadini che dei loro rappresentanti. È la comunione nel vivere bene, cioè retta- mente. Benedetto XVI è stato esplicito a questo proposito: «Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e imperso- nali,… Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomi- ni politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune.Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale» (Caritas in veri- tate, 71). Non sono le strutture in quanto tali né il semplice proceduralismo delle leggi a garantire ipso facto il «retto vivere», ma la vita di persone rette che intendono lasciarsi plasmare dalla giustizia: giustizia che già S. Tommaso (S. Th, II-II, q. 58, aa.5-6) definiva una «virtù generale» in quanto ha di mira l’attitudine sociale della persona, la quale non può essere circoscritta dai suoi bisogni e dalle sue esigenze particolari, ma è chiamata a farsi carico responsabilmente dell’insieme. Nella sollecitudine per il bene comune rientra l’impegno a favore dell’unità na- zionale, che resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile. In tale im-

110 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Angelo Bagnasco pegno, come sottolinea il Presidente Napolitano, «nessuna ombra pesa sull’unità d’Italia che venga dai rapporti tra laici e cattolici, tra istituzioni dello Stato repub- blicano e istituzioni della Chiesa Cattolica, venendone piuttosto conforto e soste- gno». È nel terreno fertile dello “stare insieme” che si impianta anche un federali- smo veramente solidale: uno stare insieme positivo che non è il trovarsi accanto se- lezionando gli uni o gli altri in modo interessato, ma che è fatto di stima e rispetto, di simpatia, di giustizia, di attenzione operosa e solidale verso tutti, in particolare verso chi è più povero, debole e indifeso. Attenzione d’amore di cui Cristo, il gran- de samaritano dell’umanità, è modello, maestro e sorgente. Lo sguardo fisso al Crocifisso, ovunque si trovi, richiama al senso della gratuità: il dono della sua vita, infatti, è la continua testimonianza del dono senza pretese. Quando in una società si mantiene la gioia diffusa dell’aiutarsi senza calcoli utilitaristici, allora lo Stato percepisce se stesso in modo non mercantile, e si costruisce aperto nel segno della solidarietà e della sussidiarietà. E da questo humus di base, che innerva i rapporti nei mondi vitali – famiglia, lavoro, tempo libero, fragilità, cittadinanza – che nasce quella realtà di volontariato cattolico e laico che fa respirare in grande e che è con- dizione di ogni sforzo comune, e di operosa speranza.

ÿ La Chiesa educa per il bene dell’Italia

• Di questo modo di pensare, accanto alla famiglia – incomparabile matrice dell’umano – la società intera è frutto, cattedra e palestra. E in questa gigantesca ed entusiasmante opera educativa la Chiesa non farà mai mancare il suo contributo in continuità con la sua storia millenaria, consapevole di partecipare – oggi come al- lora – alla costruzione del bene comune. A questo proposito, gli Orientamenti pastorali, recentemente pubblicati dalla nostra Conferenza Episcopale, rappresentano una opportunità per mantenere o ri- costituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post- moderno. L’annuncio integrale del Vangelo di Gesù Cristo, è ciò che di più caro e prezioso la Chiesa ha da offrire perché non si smarrisca l’identità personale e socia- le, e anche il miglior antidoto a certo individualismo che mette a dura prova la coe- sistenza e il raggiungimento del bene comune. «Educare alla vita buona del Vange- lo» si inserisce peraltro nel cammino della Chiesa italiana che continua nel tempo la sua opera che è sempre un intreccio fecondo di evangelizzazione e di cultura. La Chiesa del resto educa sempre e inseparabilmente ai valori umani e cristiani, e oggi rappresenta, nel concreto delle nostre città e dei nostri centri, un riferimento affi- dabile soprattutto per i ragazzi e i giovani. A questi soprattutto il mondo degli adulti deve poter offrire un esempio e una risposta credibili, contrastando quella “cultura del nulla” che è l’anticamera di una diffusa “tristezza”. Ma non dobbiamo dimenticare che la cultura non è una entità astratta, in qualche misura dipende da

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 111 Angelo Bagnasco ciascuno di noi, singoli e gruppi. Possiamo dire che la cultura siamo noi: se gli stili di vita, gli orientamenti complessivi, le leggi hanno un notevole influsso sulla for- mazione dei giovani – ma anche degli adulti! – sia in bene che in male, è anche ve- ro che se ogni persona di buona volontà pone in essere comportamenti virtuosi, e questi si allargano grazie a reti positive che si sostengono e si propongono, l’am- biente in generale può migliorare. All’interno di questa stagione di rinnovato impegno educativo, si colloca pure quello che mi ero permesso di confidare come “un sogno”, di quelli che si fanno a occhi aperti. Infatti, senza voler affatto disconoscere quanto di positivo c’è già e an- zi con la cooperazione scaturente dalle esperienze già presenti sul campo, formula- vo l’auspicio che possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono ferma- mente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il desti- no di tutti (cfr. Prolusione al Consiglio permanente, 25 gennaio 2010). Alla luce di quanto determinante sia stato il contributo dei cattolici nella storia del nostro Pae- se torno a sottolineare questa necessità. Puntuali e come sempre illuminanti risuonano le parole di Benedetto XVI nel- l’accommiatarsi dal Presidente della Repubblica durante l’ultima visita compiuta dal Pontefice il 4 ottobre 2008 al Palazzo del Quirinale: «Mi auguro […] che l’ap- porto della Comunità cattolica venga da tutti accolto con lo stesso spirito di dispo- nibilità con il quale viene offerto. Non vi è ragione di temere una prevaricazione ai danni della libertà da parte della Chiesa e dei suoi membri, i quali peraltro si atten- dono che venga loro riconosciuta la libertà di non tradire la propria coscienza illu- minata dal Vangelo. Ciò sarà ancor più agevole se mai verrà dimenticato che tutte le componenti della società devono impegnarsi, con rispetto reciproco, a consegui- re nella comunità quel vero bene dell’uomo di cui i cuori e le menti della gente ita- liana, nutriti da venti secoli di cultura impregnata di Cristianesimo, sono ben con- sapevoli».

ÿ

112 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 I nodi di 150 anni di storia

La storia d’Italia negli ultimi 150 anni è stata anzitutto AGOSTINO GIOVAGNOLI la storia dell’unità italiana, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, dei suoi slanci e delle sue crisi, in relazione ai Università Cattolica quali grande rilievo ha avuto il ruolo svolto dalla Chiesa del Sacro Cuore e dai cattolici. L’unità italiana non è mai stata scontata, Milano né prima né dopo il 1861, ma non si tratta di un caso unico. Tutte le nazioni moderne sono “comunità im- maginate” e, cioè, costruzioni culturali frutto di com- ≈ plesse “invenzioni” storiche, e la loro esistenza dipende «Il contributo della dalla volontà dei loro membri: la nazione, scriveva Re- Chiesa e dei nan, è il plebiscito di ogni giorno, perché ogni giorno cattolici al inglesi, francesi o tedeschi rinnovano, implicitamente, Risorgimento è la scelta di stare insieme. stato, insomma, tutt’altro che marginale. L’unità degli italiani deve ÿ Una vocazione europea a loro molto: un’eccessiva • Ciò vale, naturalmente, anche per gli italiani, seppure insistenza sullo scontro tra con peculiarità rilevanti. A partire dall’inizio degli anni No- cattolici e laici, che vanta del Novecento, però, si è cominciato a discutere in Italia indubbiamente c’è di che cosa può succedere «se cessiamo di essere una nazio- stato, non spiega i ne»1, prendendo coscienza che le nazioni non sono eterne e processi più profondi e decisivi che gli stati possono finire, provocando la disgregazione di ciò che hanno portato che a lungo è sembrato insostituibile. Si sono diffuse inquie- a tale unità. tudini in precedenza sconosciute: c’è chi ha cominciato a te- Questo contributo mere l’eventualità che l’Italia si disgregasse e chi, invece, ha è continuato nel corso di tutti i 150 iniziato a sperarlo; all’interno di tale orizzonte, si è sviluppato anni». anche, in modo spesso confuso, il dibattito sul federalismo2. ≈ 1 G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, il Mulino, Bologna 1993. 2 Si tratta di un “nodo” della storia italiana tra i più rilevanti, che però oggi si presenta in termini molto diversi dal passato. Sui motivi federalisti

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 113 Agostino Giovagnoli

Era inevitabile cominciare a guardare con occhi diversi anche l’unità italiana, scon- gelando un approccio storiografico a lungo pietrificato dalla retorica. In passato, i nodi italiani sono stati affrontati prevalentemente in chiave politica, ma l’unità ita- liana non è solo un fatto politico: essi si basa su radici più profonde e su elementi più decisivi. Ed è in questa direzione che si cerca oggi di volgere lo sguardo. Le forme che ha assunto l’unità italiana nel XIX secolo sono scaturite da un va- sto processo geopolitico. A partire dai primi anni dell’Ottocento, lo spazio politico europeo si è venuto ristrutturando profondamente: dopo l’offensiva napoleonica, le nazioni hanno preso in mano il loro destino e un nuovo modello di stato nazio- nale si è diffuso da Ovest ad Est, dall’Atlantico ai Balcani. Intanto, la Russia entra- va direttamente nella scena europea, si sviluppava una progressiva decadenza del- l’impero ottomano, ancora largamente influente sull’Europa Orientale, e si inne- stava una crisi del tradizionale baluardo verso Oriente: l’Austria. Gran parte del- l’Ottocento europeo potrebbe essere descritto come un grande movimento da Oc- cidente a Oriente. Dopo aver messo a fuoco un modello di modernizzazione eco- nomico-sociale e politico-istituzionale, l’Europa occidentale ha cominciato a pro- pagare tale modello prima nei paesi dell’Europa di mezzo, per così dire, come Italia eGermania, poi in quelli dell’Europa orientale e dei Balcani, per “esportarlo” infi- ne anche fuori dai suoi confini, in Asia e in Africa. L’Unità d’Italia si colloca in tale contesto. Come nel XV secolo, all’inizio dell’Ottocento si è tornati a guardare l’Ita- lia come spazio politico unitario: è stato Napoleone a concepire, per primo, un di- segno politico per tutta la penisola, evidenziando da un lato la debolezza dei tradi- zionali stati italiani e, dall’altra, un diverso interesse dello “straniero” – e cioè di francesi, inglesi, austriaci – per la realtà italiana. Gli stati, le classi dirigenti, le po- polazioni della penisola sono stati investiti da una domanda di modernizzazione sempre più pressante. L’unificazione nazionale, in altre parole, ha rappresentato il contributo italiano ad una complessiva costruzione europea: l’“invenzione” della nazione italiana è stata un’invenzione europea. Non a caso, la vocazione europea rappresenta, fin dagli inizi, un elemento costi- tutivo dello Stato italiano e il rapporto con l’Europa appare ancora oggi uno dei “nodi” fondamentali dell’identità italiana. La spinta delle origini impone, perciò, di continuare ad interrogarci sul ruolo dell’Italia in Europa, in collegamento con una più ampia riflessione sul ruolo dell’Europa nel mondo. Se, nel corso dell’Ottocento, l’Italia unita si è formata all’interno di quel vasto movimento da Occidente ad Oriente che ha segnato tutto l’Ottocento europeo, anche oggi le ragioni della sua unità sono strettamente connesse alla capacità dell’Europa di individuare la propria collocazione nelle dinamiche mondiali. C’è, oggi, un legame profondo tra il males- sere italiano e un più generale malessere europeo come quello che si manifesta at- nel dibattito preunitario, cfr. A. De Francesco, Ideologie e movimenti politici, in G. Sabbatucci e V. Vi- dotto (a cura di), Storia d’Italia,volI,Le premesse dell’Unità, Laterza, Roma Bari 1994, pp. 229-336.

114 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Agostino Giovagnoli tualmente in Belgio. E, viceversa, il rischio che l’Europa prenda congedo dalla sto- ria, come ha osservato acutamente Benedetto XVI, è un problema anche italiano.

ÿ Il dissidio tra Stato e Chiesa, il legame tra Papa e l’Italia

• Creando le condizioni per l’unificazione italiana, di fatto l’Europa ha affidato all’Italia anche la soluzione di un problema che oltrepassava i confini europei: la collocazione della Chiesa cattolica e, in particolare, del papato nel mondo contem- poraneo. Nella ristrutturazione ottocentesca dello spazio europeo, gli Stati della Chiesa e il potere temporale del Papa apparivano a molti anacronistici. Anche in questo caso è stato Napoleone ad aprire la strada, impadronendosi dello Stato della Chiesa e portando il Papa prigioniero a Fontainebleau. Napoleone, però, liquidan- do la Chiesa gallicana ha anche, involontariamente, posto le premesse dell’ultra- montanesimo e, cioè, di un inedito rafforzamento della giurisdizione universale del vescovo di Roma. Mentre la sorte del potere temporale del Papa appariva a molti inevitabilmente segnata, una parte dell’opinione pubblica europea pensava che dovesse finire anche il papato e un’altra parte pensava, all’opposto, che il pote- re spirituale del Papa dovesse ampliarsi come non era mai accaduto in precedenza. È stata poi l’unificazione politica italiana ad imporre definitivamente la dissolu- zione del dominio territoriale del Papa, favorendo una radicale trasformazione del suo potere temporale e contribuendo, indirettamente, all’ampliamento del suo mini- stero spirituale, in Italia e nel mondo. Com’è noto, Pio IX che ha sempre continuato a protestare contro i “fatti compiuti”, ma la “questione romana” è stata poi risolta in tempi relativamente brevi. A distanza di circa di sessant’anni dalla presa di Roma, il Trattato Lateranense realizzò la Conciliazione tra la Chiesa e l’Italia, portando così il Risorgimento – secondo Giovanni XXIII – al suo pieno compimento. Anche dopo il 1929, la questione romana è rimasta al centro di una vastissima letteratura: da parte laica, si è insistito sul carattere anacronistico e controproducente, anche sotto il profi- lo spirituale, del potere temporale del Papa; da parte cattolica, sulla necessità del Pon- tefice di difendere la propria libertà e indipendenza. Dopo che Paolo VI ha ricono- sciuto che la fine del potere temporale ha avuto un effetto positivo per la Chiesa, da parte cattolica la questione della perdita dello Stato pontificio appare sostanzialmente archiviata, mentre, da parte laica, sono relativamente rare le voci che contestano il di- ritto del Papa alla libertà e all’indipendenza. Ma, sotto il profilo storico, meritano an- cora di essere riconsiderate le ragioni che indussero Pio IX ad una difesa intransigente del potere temporale, anche quando la sorte di questo era ormai segnata. Indubbiamente, egli avversò le idee liberali e contrastò il nuovo stato naziona- le: il Papa pronunciò parole durissime quando nacque il nuovo stato il 17 marzo 1861. Ma tali parole riguardano soprattutto la condanna della “rivoluzione” e il ri- fiuto di “conciliarsi con la civiltà liberale”, piuttosto che la questione del potere

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 115 Agostino Giovagnoli temporale. Come ha scritto Giacomo Martina, da una parte Pio IX non mise mai radicalmente in discussione un atteggiamento di difesa intransigente di tale potere e, dall’altra, lo motivò in molti modi diversi3. Per questo Papa sarebbe stato molto difficile compiere una scelta differente dopo aver assistito, giovanissimo, all’umilia- zione, all’esilio e alla prigionia subite da Pio VII proprio perché si era rifiutato di acconsentire alla dissoluzione dello Stato pontificio imposta da Napoleone. Ma le diverse motivazioni assunte di volta in volta da Pio IX – nel travaglio della sua co- scienza, prima ancora che nel discorso pubblico – riflettono la natura composita del potere temporale, frutto di una storia lunga e tormentata. Va ricordato, in par- ticolare, che per diversi secoli il potere temporale del Papa si era sviluppato non in contrasto ma in armonia con gli interessi politici italiani e che, a partire dal Rina- scimento, il papato ha sviluppato un accentuato carattere di italianità grazie al col- legamento con il potere temporale, contribuendo non poco alla formazione di una forte identità culturale italiana4. È noto che Machiavelli sperava che lo Stato ponti- ficio potesse costituire il nucleo fondante di un grande Stato italiano e che rimpro- verò aspramente i Papi del suo tempo per non aver compiuto quest’opera5. Pio IX, in altre parole, ha ereditato un potere temporale che, per secoli, non ha giocato contro l’unità culturale e politica italiana ma a favore di tale unità.

• Le sue scelte sono state in linea con tale eredità. Nel 1848, egli si rifiutò di guidare la guerra contro l’Austria, provocando una grande delusione tra i patrioti italiani. Si ritirò perché il Papa non poteva sostenere la guerra di una parte dei suoi fedeli contro un’altra parte del suo gregge6. Fu una scelta espressiva del ruolo del Papa quale «padre comune di tutte le genti»7, emerso nel corso del XVII e del

3 “Sulla difesa del potere temporale Pio IX non ebbe mai dubbi, e seguì sempre una ferma intran- sigenza”, G. Martina, Pio IX (1851-1866), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, p. 106. 4 Cfr. M. Pellegrini, Il Papato nel Rinascimento, il Mulino, Bologna 2010. 5 A partire da Machiavelli, le critiche all’influenza negativa della Chiesa cattolica sul carattere degli italiani si sono legate all’insofferenza per il ruolo degli Stati pontifici nello spazio politico italiano. «La Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa [...] E la cagione che l’Italia non abbia o una repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché avendovi abitato e tenuto imperio tempora- le, non è stata sì potente né di tale virtù che l’abbia potuta occupare la tirannide d’Italia e farsene princi- pe; non è stata d’altra parte sì debole che per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali la non abbia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato trop- po potente [...] è stata cagione che non la è potuto venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori: da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda non solamente de’ barbari potenti, ma di chiunque l’assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri». N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12, in S. Bertelli (a cura di), Il principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano 1960, pp. 156-166. 6 P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita,acuradiG.To- gnon, Laterza, Roma Bari 2005, p. 52. 7 A. Riccardi, Giovanni XXIII e la “diplomazia della pace”, in A. Giovagnoli (a cura di), Pacem in terris tra azione diplomatica e guerra globale, Guerini, Milano 2003, pp. 15 ss.

116 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Agostino Giovagnoli

XVIII secolo nel contesto di una progressiva trasformazione del sistema internazio- nale e assunta vigorosamente da Pio VII in periodo napoleonico. Ma la scelta di non partecipare alla guerra contro l’Austria non fu una scelta anti-italiana: il ruolo di mediatore nei conflitti e di promotore della pace rappresentava un’evoluzione del potere temporale di cui, come si è detto, un altro aspetto caratterizzante era sta- to quello dell’italianità8. Ritirandosi dalla guerra contro l’Austria egli contribuì in modo decisivo a far fallire il progetto neoguelfo di Gioberti, Rosmini ed altri9, che, se si fosse realizzato, avrebbe inserito lo Stato della Chiesa in un assetto nazionale compatibile con i tempi10: era forse l’unica possibilità concreta di salvare il domi- nio temporale del Papa. In questo modo, nel 1848, Pio IX interpretò il potere tem- porale del Papa come ruolo di mediazione e di pace del «padre comune di tutte le genti», ma colpì indirettamente l’ultima possibilità realistica di salvare il suo domi- nio territoriale. Egli si avviò così verso un atteggiamento solo apparentemente pa- radossale: difendere intransigentemente il potere temporale sul piano dei principi, senza però compiere nessuna scelta politica efficace per conservare concretamente il suo stato. Ai contemporanei e agli storici Pio IX è apparso fatalisticamente rasse- gnato alla perdita di tale potere, ma in realtà egli cercò di realizzare una difficile composizione tra un’eredità cui non si sentiva in coscienza di poter rinunciare e una situazione storica profondamente cambiata rispetto ai secoli precedenti. Nella sua difesa del potere temporale era inclusa anche una difesa dell’italianità del papa- to: nei drammatici mesi a cavallo tra il 1860 e il 1861 molte voci consigliarono al Papa di lasciare Roma, fuggendo in Francia o in Spagna, ma egli respinse questi consigli. Sono scelte indicative della complessità di questo pontificato, all’interno del cui orizzonte i cattolici italiani si divisero – com’è noto – tra conciliatoristi e in- transigenti, restando però in gran parte accomunati sia da un sentimento fi- lo–italiano sia dalla preoccupazione per le sorti del papato. E, sia pure attraverso un percorso tormentato, la Chiesa di Pio IX ha contribuito al collegare il nascente stato unitario all’universalità del cattolicesimo: sono stati i cattolici a trasmettere

8 Subito dopo l’Allocuzione del 29 aprile 1849, non a caso, Pio IX si preoccupò di manifestare la sua simpatia per la causa italiana, indicando una via di mediazione pacifica per realizzare l’unità nazio- nale. 9 Secondo Giacomo Martina, fu una sorta di “suicidio politico”, che avviò la fine del suo potere temporale. Da un lato, il Papa mostrò che non poteva porsi alla guida di una federazione di Stati ita- liani, distruggendo il cardine del disegno neoguelfo e l’unico motivo ancora valido per far sopravvive- re il suo potere temporale; dall’altra rivelò di avere scarso potere sui suoi sudditi, che continuarono a partecipare come volontari alla guerra contro l’Austria. G. Martina, Pio IX, cit, pp. 225 ss. e F.Traniel- lo, La sconfitta del neoguelfismo,inId,Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, il Mulino, Bologna 2007, pp. 157 ss. 10 Anche dopo il 1848, Napoleone III continuò a sostenere questa soluzione fino al febbraio 1861, fino all’ultimo momento prima della nascita dello Stato unitario. Per salvare il potere tempora- le, infatti, la politica e la diplomazia europea non riuscirono ad elaborare altra soluzione che quella – derivata dall’esperienza dell’età rinascimentale e moderna – della federazione di stati italiani.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 117 Agostino Giovagnoli una fisionomia della nazione italiana quale “nazione universale”, un altro nodo delle origini che influisce ancora oggi sul ruolo dell’Italia nel mondo. Il profondo travaglio di Pio IX fu intuito – seppure solo parzialmente – da un politico abile come Camillo Cavour. È nota la dura politica anticlericale da questi attuata mentre era alla guida del governo piemontese, negli anni Cinquanta del- l’Ottocento. Ma quando iniziò a perseguire un più ampio disegno italiano, Cavour cominciò anche a prendere coscienza del valore universale di Roma e del papato11. Nelle trattative con la S. Sede da lui promosse nel 1860-’6112, egli cercò tenace- mente di ottenere il consenso del Papa all’acquisizione italiana di Roma, suscitan- do le reazioni negative e sconcertate dei democratici, dei radicali e dei massoni13. L’insistenza cavouriana per la proclamazione di Roma capitale nel 1861 esprime la consapevolezza che le sorti del nuovo stato passavano necessariamente attraverso una riconciliazione con la S. Sede e che le future vicende italiane sarebbero state le- gate alla collocazione internazionale del papato. Malgrado l’asprezza dello scontro, perciò, si può dire che fin dagli inizi siano state presenti le premesse di una riconci- liazione che, non a caso, è poi venuta in tempi – sotto il profilo storico – relativa- mente brevi. Ancora oggi, la presenza del Papa a Roma rappresenta una realtà di cui l’Italia non può disinteressarsi, mentre la tensione tra l’universalità della Chiesa e la particolarità italiana continua a proiettare sollecitazioni feconde sulla colloca- zione italiana nel mondo, contrastando tentazioni provincialistiche.

ÿ Progetto culturale e progetto politico del Risorgimento

• Se l’impulso fondamentale verso l’unificazione nazionale è venuto dall’ester- no, la risposta italiana non è stata totalmente passiva e subalterna, come sosteneva Gramsci. Le classi dirigenti dei diversi Stati preunitari, infatti, svilupparono in mo- do originale due iniziative strettamente collegate ma distinte: la costruzione di un’identità nazionale e l’unificazione politico-istituzionale. Per lungo tempo, è sembrato naturale sovrapporre nazione e stato, ma, come hanno evidenziato, a vol-

11 In questa direzione Cavour fu mosso anzitutto da motivazioni politiche, nella convinzione che la conciliazione con Roma costituisse una questione decisiva per la stessa esistenza del nuovo stato ita- liano. Influirono però su di lui anche una sensibilità verso i temi religiosi, acquisita durante la sua gio- vinezza, e l’influenza di cattolici a lui vicini, in particolare il fratello Gustavo assai legato a Rosmini. Cfr. E. Passerin d’Entreves, Religione e politica nell’ottocento europeo, a cura di F.Traniello, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1993 e Id, La formazione dello stato unitario,acuradiN. Raponi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1993. 12 Egli cercò, infatti, di offrire al Papa tutte le garanzie di cui avrebbe avuto bisogno, dopo che Roma fosse diventata italiana, per svolgere il suo “altissimo ministero”. Cfr. La questione romana negli anni 1860-1961. Carteggio del conte di Cavour con D, Pantaleoni, C. Passaglia, O. Vimercati,acura della Commissione reale editrice, Zanichelli, Bologna 1929, 2 voll. 13 Cfr. P.Scoppola (a cura di), Il discorso di Cavour per Roma capitale, Istituto di Studi Romani, 1971.

118 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Agostino Giovagnoli te in modo drammatico, molti eventi degli ultimi decenni, comunità etniche e isti- tuzioni politiche, identità nazionali e strutture amministrative non coincidono sempre, automaticamente e interamente e le loro influenze reciproche si sviluppa- no attraverso dinamiche complesse e variegate14. È cominciato ad emergere in modo più chiaro il progetto culturale, prima an- cora che politico-istituzionale, su cui si è fondata l’unità italiana15. In questo caso, naturalmente, il termine cultura non va inteso in chiave strettamente accademica, ma con una valenza più ampia, in un senso non lontano da quello utilizzato, in questi anni, anche in sede di Progetto culturale della Chiesa italiana, per indicare un importante elemento identitario, un fattore rilevante di aggregazione e di di- sgregazione sociale, la causa di processi storici profondi ecc. È stato ricostruito, in particolare, come, rielaborando elementi della tradizione letteraria, artistica e mu- sicale italiana16, tale progetto ha diffuso tra le classi colte degli stati preunitari una serie di contenuti storici e antropologici, fondando una nuova identità: l’identità italiana. Si è sviluppata così un’ampia riflessione sulle espressioni, i simboli, le tra- dizioni della cultura italiana, come mostrano i volumi – ormai più di quaranta – della collana sull’identità italiana diretta da Ernesto Galli della Loggia17. Il progetto culturale del Risorgimento italiano si è trovato davanti a molte sfide impegnative. La nuova costruzione italiana si inseriva infatti in un orizzonte euro- peo densamente popolato di nazioni già formate o in via di formazione. Lo stato nazionale italiano è arrivato tardi al tavolo delle grandi potenze, senza potersi fon- dare su una solida costruzione istituzionale e amministrativa, come quella dei grandi stati assoluti dell’Europa occidentale. Non ha, inoltre, potuto avvalersi di una omogeneità etnico-culturale consolidata nei secoli, come in Francia e altrove.

14 Nel corso del XIX secolo si parlava di nazione legale e di nazione reale: c’erano, da una parte, le elites liberali che guidavano lo Stato e, dall’altra, le masse che ne erano escluse, in gran parte cattoli- che. Oggi, invece, si cerca di mettere a fuoco soprattutto le differenze tra lo stato, inteso come sogget- to politico-istituzionale, e la nazione, intesa come comunità culturale. Indubbiamente, nel linguaggio comune si continua spesso ad utilizzare in modo indifferenziato i due termini; sotto il profilo politico, inoltre, l’esistenza di una nazione viene ancora oggi considerata la legittimazione fondamentale di uno stato indipendente; gli stati nazionali, infine, continuano ancora a costituire il principale soggetto di riferimento nel sistema delle relazioni internazionali, E. Gentile, Né stato né nazione. Italiani senza me- ta, Laterza, Roma Bari 2010, p. VII. 15 A questo tema ha dedicato una specifica attenzione anzitutto A. M. Banti, con La nazione nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000, Id, La nazio- ne nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000 e Id, Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma Bari 2004. Cfr anche A. M. Banti e P. Ginsborg, Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007. 16 Cfr. F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, il Mulino, Bologna 2010. 17 Cfr. E. Galli della Loggia, L’identità italiana, il Mulino, Bologna 1998. Anche il processo di unificazione politico-istituzionale viene oggi ripercorso con particolare attenzione al rapporto con tale identità e in questa direzione si rivolge oggi gran parte dell’attenzione di libri ed esposizioni, docu- mentari e fiction per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 119 Agostino Giovagnoli

L’unità italiana non si è neanche fondata sulla preesistenza di una “nazione econo- mica”, come la intendeva Sieyès. Sono problemi che potrebbero essere identificati con altrettanti “nodi negativi” della storia italiana, con elementi cioè di cui la co- struzione dell’unità italiana non ha potuto avvalersi. A tali problemi ha cercato di rispondere un progetto risorgimentale, che ha sviluppato intorno ad altri elementi, una serie di “nodi positivi”, l’iniziativa unitaria. È un progetto a cui la Chiesa e i cattolici hanno dato un contributo rilevante. Era infatti necessario, per il discorso risorgimentale, ricorrere largamente al principale pa- trimonio culturale condiviso da tutta la popolazione italiana, senza distinzione di aree geografiche o di classi sociali. Non è casuale che il movimento nazionale italiano abbia preso il nome di Risorgimento, che significa, letteralmente, Resurrezione. A questo nome corrisponde un discorso patriottico incentrato su una narrazione che ri- calca, in modo indiretto ma ravvicinato, la narrazione cristiana, presentando la fram- mentazione politica e la conflittualità municipalistica dei secoli precedenti come una condizione di estremo degrado paragonabile alla morte, da cui non solo è possibile uscire attraverso una Resurrezione che riporti l’Italia e gli italiani alla vera vita.

ÿ Universalismo e idea di Nazione

• Il contributo cattolico ha influito, in modo rilevante, anche su nodi specifici affrontati dal discorso risorgimentale. È il caso, anzitutto, dell’elemento base di questo progetto: l’idea di nazione. L’istanza universalistica, di cui si è già parlato, ha infatti ispirato un’idea di nazione alternativa ai modelli su base etnica o natura- listica, economica o politica ecc.18. Per Gioberti – ma il suo caso non è isolato nel

18 Questa istanza universalistica ha contrastato in Gioberti descrizioni etniche e definizioni natu- ralistiche che pure non sono state, inizialmente, del tutto assenti nel suo pensiero. Egli si è infatti spo- stato progressivamente da un’idea naturalistica ad una concezione storico-spirituale, interpretando le radici etrusco-pelasgiche della popolazione italiana (A. M. Banti, La nazione nel Risorgimento cit., p. 65) nel senso di «un genio particolare […] animato da un fortissimo senso religioso, cioè cattolico-ro- mano» (G. Rumi, Gioberti, il Mulino, Bologna 1999, p. 27). Gioberti indicava nella religione sia la radice delle diverse comunità particolari sia quella dell’intero genere umano e a tale approccio corri- sponde un modello di unità nazionale non conflittuale o antagonista rispetto ad altre identità nazio- nali, ma piuttosto complementare e convergente verso una futura unità di tutti i popoli. Proprio alle nazioni egli affidava il compito di superare la contraddizione tra particolare e universale: nella sua vi- sione, infatti, esse hanno natura storica e dinamica (F.Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull’idea di nazione,inId,Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica,Franco Angeli, Milano 1990 p. 61). A differenza dell’impero medievale, infatti, le nazioni moderne avevano il merito – a suo avviso – di costituire realtà vive e dinamiche, passaggi cruciali nel cammino dell’umanità verso la sua piena unità. «Gli statisti ghibellini [...] miravano ad abolire la potenza civile del pontificato cattolico, ch’era un’istituzione viva [...] e a supplirvi rinnovando l’impero romano, che da un lato era un’istituzione morta, contraria alle idee cristiane [...] e dall’altro era un istituto barbarico», V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1925, I, p. 56.

120 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Agostino Giovagnoli contesto risorgimentale – per le nazioni moderne e in particolare per l’Italia il mo- dello da assumere è quello dell’antico Israele19, la cui esistenza non scaturisce da ra- dici etniche o da peculiarità antropologiche, da tradizioni e da costumi, da istitu- zioni o da un territorio. L’esistenza di Israele deriva un annuncio ricevuto ed è ali- mentata dalla fede in un futuro promesso, la sua unità si costruisce nell’ascolto del- la Parola di Dio e nel percorso comune che ne scaturisce: l’identità di Israele è un’i- dentità essenzialmente storica, è una “comunità di destino” che si riconosce in una narrazione condivisa. Per tutto questo Israele è una «nazione universale»20: universale, infatti, non si- gnifica solo abbracciare realtà lontane nello spazio, ma anche raccogliere diversità profonde tra chi vive vicino. E nella funzione che ha svolto al servizio dell’intero genere umano, pur trattandosi di un piccolo popolo, ha superato i limiti della pro- pria particolarità per diventare una sorta di nazione universale. Il richiamo giober- tiano al modello di Israele è indicativo del tentativo di attribuire all’identità italia- na una tensione universalistica più marcata che in altre identità nazionali. I cattolici, inoltre, hanno contribuito in modo rilevante anche ad affrontare un secondo nodo: come fondare un nuovo senso di convivenza civile. È indicativo, in questo senso, il caso di Manzoni, la cui riflessione sull’unità politica degli italiani21,si è misurata intensamente con l’opera di Sismonde de Sismondi, protestante gine- vrino di origini toscane, che attribuiva alla Chiesa cattolica la principale responsa- bilità della decadenza italiana dal XVI e nel XVIII secolo22.LeOsservazioni sulla

19 V. Gioberti, Il gesuita moderno, Capolago 1847, VII, p. 402.Cfr. F.Traniello, Religione nazione e sovranità nel Risorgimento,inId,Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 78-83. 20 Per Gioberti, nel tenace nazionalismo di Israele si esprime una radice cosmopolitica. L’identità di Israele, infatti, non solo non è etnica, culturale, nazionale, non è neanche religiosa, nel senso stretto del termine, non è cioè basata sulla condivisione di un insieme di credenze, simboli o valori, ma su un’identità radicalmente storica. 21 Cfr. G. Langella, Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, Interlinea, Nova- ra 2005, pp. 71 ss. La sua esistenza fu segnata da un evento: il Proclama di Rimini, lanciato da Gioac- chino Murat nel 1815, ad un anno dal ritorno degli austriaci in Italia e della tragica fine del decennio bonapartista, per chiamare a raccolta tutti gli italiani contro l’Austria. Si tratta forse del primo proget- to di esplicita rivendicazione dell’indipendenza italiana, cui Manzoni dedicò uno specifico componi- mento poetico e che fu all’origine di un percorso di produzione letteraria cui appartengono l’Adelchi, il Carmagnola e Fermo e Lucia. Tale percorso si intrecciò con una svolta rilevante sul piano personale – il ritorno alla fede cattolica – e con una riflessione sempre più esplicita sul rapporto tra Chiesa cattoli- ca ed unità nazionale. La sua riflessione iniziò nel 1815 e cioè dopo la fine del decennio bonapartista, in coincidenza con il Congresso di Vienna e l’inizio della Restaurazione, quando tutti i sogni rivolu- zionari sembrarono crollare definitivamente. Questa circostanza è uno dei segni la profonda cesura che separa il retroterra del Risorgimento italiano dalla Rivoluzione Francese e che non vale solo per Manzoni, ma anche per molti altri protagonisti della stagione risorgimentale, a cominciare dal princi- pale, Camillo Cavour, il regista dell’unificazione politico-istituzionale, cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo,volI,1810-1842, Laterza, Roma Bari 1977, pp. 278 ss. 22 S. de Sismondi, Histoire des Republique Italiennes du Moyen Age, VIII voll,. Parigi 1807-1809.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 121 Agostino Giovagnoli morale cattolica costituiscono una puntuale confutazione delle tesi che attribuisco- no all’istituzione ecclesiastica e al formalismo cattolico la carenza di senso civico degli italiani, lungo una linea che da Machiavelli arriva ai nostri giorni. È il proble- ma del «carattere degli italiani»23, che torna periodicamente di attualità – per esempio quando si leggono i fenomeni politici del passato o del presente come “au- tobiografia” della nazione oppure quando si discute di mafia, corruzione e illegalità come elementi costitutivi della società italiana – e che spinge molti a rimpiangere l’assenza di una più ampia penetrazione della Riforma protestante o di una mag- giore influenza laica. Nelle Osservazioni Manzoni, rispose alle denunce di Sismon- di senza negare l’esistenza di molti dei problemi da questi denunciati, ma sostenen- do che l’antidoto storicamente più efficace si trovava nella morale evangelica custo- dito dalla Chiesa cattolica24. La tradizione cattolica, infine, ha influito anche sul modello politico-istituzio- nale italiano. Questo progetto si è differenziato da progetti analoghi che circola- vano nella cultura europea in quegli anni. Gran parte del pensiero politico del Ri- sorgimento prese infatti le distanze dalla Rivoluzione francese – fu, piuttosto, in- fluenzato dalla rivoluzione orleanista del 1830 e dall’ideale del juste milieu –e, grazie l’unificazione italiana ebbe, com’è noto, un carattere moderato, malgrado i tentativi in altra direzione di protagonisti come Mazzini e Garibaldi. Tuttavia, la più profonda presa di distanza dalla Rivoluzione Francese e, in particolare, dai suoi eccessi, non fu opera dei liberali moderati, ma di cattolici che pure condivise- ro il sogno risorgimentale, come Rosmini e Manzoni25. A partire dalle vicissitudi- ni della Chiesa durante la Rivoluzione francese, dalla prigionia del Papa alla Co- stituzione civile del clero, essi denunciarono il carattere autoritario del giacobini- smo rivoluzionario. Solo rispettando fino in fondo la libertà della Chiesa e dei credenti, sostennero, il movimento rivoluzionario poteva liberarsi dalla violenza e affermare in modo autentico il principio di libertà. Trasmettendo attraverso i se- coli l’insegnamento evangelico, infatti, la Chiesa opera da sempre per la libertà dei popoli ed è, perciò, naturale alleata di questi, contro il dispotismo sia dei prin- cipi sia dei rivoluzionari. Questa convinzione di Rosmini e Manzoni è all’origine

23 S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma Bari 2010. 24 Manzoni continuò a riflettere su queste critiche fino a dare, con i Promessi sposi, la sua risposta più compiuta. Il romanzo, infatti, riconosce la decadenza italiana in età moderna e descrive negativa- mente il contesto storico seicentesco, indicando però nella conversione dei protagonisti, da fra Cri- stoforo all’Innominato, la risposta più efficace ai problemi storici posti da tale decadenza. In questo modo, insomma, egli capovolse le critiche di Sismondi presentando la Chiesa cattolica come la custo- de di una risorsa preziosa per diffondere tra gli italiani rigore morale, senso civico e responsabilità so- ciale. 25 Cfr. A. Manzoni, La Rivoluzione Francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, vol 15, Centro nazionale studi manzoniani, Milano 2000.

122 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Agostino Giovagnoli di una peculiare tradizione politico-culturale italiana, che ha poi avuto in Alcide De Gasperi il suo più noto sostenitore e che ha largamente influenzato la storia politico-istituzionale italiana.

ÿ Un’eredità e una responsabilità

• Il contributo della Chiesa e dei cattolici al Risorgimento è stato, insomma, tutt’altro che marginale. L’unità degli italiani deve a loro molto: un’eccessiva insi- stenza sullo scontro tra cattolici e laici, che indubbiamente c’è stato, non spiega i processi più profondi e decisivi che hanno portato a tale unità. Questo contributo è continuato nel corso di tutti i 150 anni. È noto, ad esempio, quanto hanno fatto i cattolici, a partire dalla prima guerra mondiale e dall’immediato dopoguerra, per avvicinare larghe masse, soprattutto contadine, ad uno Stato che risentiva ancora del carattere fortemente elitario degli inizi. E non può essere sottovalutata l’impor- tanza della presenza sotterranea e molecolare di tante forme di solidarietà o della rete di iniziative sociali e politiche del cattolicesimo italiano per affrontare squilibri economici e disuguaglianze sociali. Il contributo dei cattolici, inoltre, è emerso in particolare nei momenti di diffi- coltà o in situazioni di crisi. Tra questi momenti rientrano, indubbiamente, le guer- re. Il rapporto degli italiani con la guerra è stato spesso problematico, sia nel caso di vittoria sia di sconfitta. La prima e la seconda guerra mondiale, malgrado l’esito op- posto, hanno innestato una crisi gravissima, che ha sconvolto le stesse basi del siste- ma politico-istituzionale. L’armistizio dell’8 settembre 1943, la fuga del re e del go- verno, il “tutti a casa” dell’esercito italiano avrebbero rivelato, secondo alcuni, una fondamentale e inguaribile debolezza etico-politica. Questi giudizi, però, non spie- gano le straordinarie capacità di ripresa dimostrate dopo i momenti di crisi, che sca- turiscono da risorse profonde della società italiana. Nel vuoto politico-istituzionale emerso nel 1943, la Chiesa è diventata un fondamentale punto di riferimento per tutti. Al di là dello scontro tra fascisti e antifascisti, ossessivamente enfatizzato dalla storiografia, non c’è stata solo una grande zona grigia e gli italiani hanno cominciato a ricostruire la loro unità intorno all’istituzione ecclesiastica. Si radica in questa im- portante premessa l’assunzione, da parte dei cattolici, della guida dello Stato e, più complessivamente, del paese, nel secondo dopoguerra. Fino agli anni Settanta, la società italiana è stata animata da un grande slancio collettivo, che si riconosceva in una comune ispirazione cristiana, cui ha corrisposto un cambiamento epocale. L’I- talia non è mai cambiata tanto come tra il 1945 e il 1975, passando da società agri- cola a società industriale, con vaste migrazioni da Sud a Nord e da Est ad Ovest e un’intensa urbanizzazione, anche se forse in questo trentennio, l’impegnativa pre- senza pubblica verso cui i cattolici si sono proiettati li ha distratti dall’elaborazione di un progetto culturale adeguato alle trasformazioni in atto.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 123 Agostino Giovagnoli

• Non un momento specifico di crisi ma un elemento di costante problemati- cità è stato inoltre rappresentato dalle profonde diversità storiche, sociali ed econo- miche tra le diverse aree italiane. È cruciale, in questo senso, la questione del Mez- zogiorno che, malgrado un intenso dibattito e molteplici interventi, continua ad apparire aperta. Non si deve però dimenticare che molte cose sono cambiate nel tempo e che ora la fisionomia dei diversi Mezzogiorni italiani appare profonda- mente mutata, anche grazie al contribuito della Chiesa e dei cattolici, come hanno messo in luce le acute analisi di mons. Cataldo Naro. Ciò accaduto, ad esempio, a seguito del profondo cambiamento delle strutture ecclesiastiche avvenuto nelle re- gioni meridionali, dopo l’Unità. Ancora più evidente è stato il contributo dell’azio- ne congiunta svolta dall’episcopato, dall’associazionismo cattolico e dalla Dc negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento: in molte aree, quest’azione ha disartico- lato un blocco sociale ereditato da prima dell’Unità, spezzando una continuità – economica, politica, culturale – secolare. Ciò però, va riconosciuto, non ha impe- dito che proprio nel Mezzogiorno si affermasse una secolarizzazione di basso profi- lo di cui oggi si vedono gli effetti. Molti altri esempi potrebbero essere richiamati per evidenziare il profondo le- game che ha unito la Chiesa e i cattolici all’avventura dell’unità degli italiani co- minciata da 150 anni. Si discute spesso del ruolo riconosciuto ai cattolici o che i cattolici riescono a conquistare nella politica o, più in generale, nei diversi settori della società italiana. Ma c’è anche un altro punto di vista che merita di essere con- siderato: l’Italia ha bisogno di loro, anzi non può farne a meno. Il percorso unita- rio, non a caso, ha sofferto quando non ha potuto valersi del loro contributo, nei primi decenni della sua storia, e ha conosciuto invece una delle sue stagioni più co- struttive quanto essi sono stati pienamente coinvolti, nei primi decenni del secon- do dopoguerra. Negli ultimi anni, invece, questo rapporto è apparso nuovamente più problematico e non sono stati anni particolarmente felici. È il contesto in cui si è inserito il Progetto culturale della Chiesa italiana, che ha promosso una riflessio- ne sul rapporto tra cattolici e società italiana in modi adeguati ad una situazione profondamente mutata. Lo stretto legame tra i cattolici e l’unità italiana, per con- cludere, rappresenta un’eredità storica che interroga anche il presente. È una re- sponsabilità su cui riflettere e una vocazione cui continuare a rispondere.

ÿ

124 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Sul presente e sul futuro dell’Italia

I 150 anni dell’Italia unita, quando volgendosi all’in- LORENZO ORNAGHI dietro e pur tra tante difficoltà si vogliano raccogliere e Rettore comprendere con un’occhiata sola dal loro inizio a dell’Università questo nostro presente, sembrano presentare più persi- Cattolica del stenze che fratture o discontinuità, più nodi ancora da Sacro Cuore sciogliere che questioni risolte una volta per tutte, più Milano tendenze sotterraneamente orientate a una profittevo- le incompiutezza che decise propensioni a una unità la ≈ quale, incontrovertibile e sostanziale, non sia sempre «Abbiamo sempre costretta a ridiscutere il proprio passato per cercare di più bisogno di una offrire non solo e non tanto una spiegazione plausibile visione politica al proprio oggi, quanto e soprattutto una direzione dalle radici e dalle non troppo aleatoria o inquietante verso il proprio do- qualità genuinamente e mani. coerentemente Quel passato storico (né troppo distante nei secoli, né ‘cattoliche’ […] E così vicino da essere ancora avvolto nei fumi delle ine- abbiamo bisogno vitabili partigianerie politiche o faziosità ideologiche), di una simile visione – aggiungo che per la maggior parte dei Paesi è suggello di iden- ora – soprattutto tità oltre che fattore di rassicurazione riguardo al sem- per stare pre più incerto futuro, in Italia pare condannato a es- attivamente sere un tempo inconcluso o mai da considerare defini- ‘dentro’ la vita presente del tivamente chiuso: solo così, infatti, può protrarsi senza Paese, portando ulteriori traumi l’armistizio tra i “vincitori” e i nume- come nostro rosi, differenti “vinti” della vicenda unitaria nelle sue contributo principali scansioni. O – per dire con maggiore preci- peculiare e impareggiabile un sione e attenzione all’attualità – può perpetuarsi la po- disegno preciso, sizione di incontrastabile “assolutezza” della politica, oltre che il più proprio col preservare, quali che ne siano gli alterni possibile protagonisti, quella vita politico-statale la cui base più condivisibile e aggregante, per il profonda e delicata di legittimazione sta appunto nella futuro». sua capacità di “tenere insieme” come totalità le tanti “parti” della nostra società. ≈

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 125 Lorenzo Ornaghi

ÿ Una storia sempre inconclusa e senza termine?

• È possibile che ciò che sto cercando di sintetizzare sia il frutto di un’impres- sione semplice e superficiale. Anche in questo caso, tuttavia, resterebbe la doman- da sul perché tale impressione inevitabilmente affiori e sotto mille spoglie si diffon- da, ogniqualvolta l’urto del presente si fa più forte e sembra in grado di scompagi- nare radicalmente quella che – al fine di tenerla distinta dal più circoscritto (e fred- do) “sistema” dei partiti e delle istituzioni statali – ho chiamato la vita politico-sta- tale. Anche la ricorrenza dei grandi anniversari risente della fase del ciclo in cui una tale vita si trova o ritiene di trovarsi a essere. A tale proposito – lo aggiungo solo per curiosità scientifica – sarebbe assai interessante, oltre che istruttivo, se qualche stu- dio confrontasse il 150° che ci apprestiamo a festeggiare con il centenario di cui non pochi di noi conservano il ricordo. E, mediante una rigorosa comparazione, ci mostrasse consonanze e dissonanze, ripetizioni e volute o impreviste difformità, non solo sul piano delle celebrazioni, delle loro principali modalità pubbliche, dei loro tentativi culturali e politici di penetrare nelle più consolidate rappresentazioni sociali, ma anche e in particolare nel campo delle interpretazioni e valutazioni sto- riografiche di quella complessa vicenda di eterna incompiutezza, di fratture ricom- poste in modo mai definitivo, di nodi ancora da sciogliere piuttosto che questioni risolte una volta per sempre, a cui mi richiamavo all’inizio. Rispetto a cinquant’anni fa, è più fragile e decomposta la Nazione italiana (e, con essa e magari indipendentemente da essa, la società), o si è invece progressiva- mente indebolito il sistema politico-statale? O, piuttosto, quel sistema partitico, che si è equiparato al sistema politico-statale e frequentemente si è assiso sopra di esso, incontra sempre maggiori difficoltà nell’adempiere la funzione di esclusivo tessuto connettivo, di insostituibile sintesi dell’intera società? Non avrò la pretesa, con le considerazioni che seguono, di abbozzare una pur parziale risposta a tali quesiti. Sti- mo indispensabile, tuttavia, almeno il formularli. Se infatti teniamo a mente questi interrogativi, ci rendiamo agevolmente conto del fatto che il più pesante e meno pe- netrabile cono d’ombra da cui sono avvolti, insieme, presente e futuro dell’Italia è costituito da ciò che semplicisticamente siamo soliti chiamare “crisi della politica”, o che, semplificando eccessivamente, definiamo crisi partitica (sia essa quella della co- siddetta Prima Repubblica, o la crisi che, in atto nella Seconda, all’altra direttamen- te consegue, ne amplifica alcune cause e aggiunge fattori nuovi).

• A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, lo “stabile squilibrio” tra sistema politico-statale e società – uno squilibrio stabilizzatosi proprio in ragione delle tan- te fratture che lo rendevano necessario e non sostituibile – rischia ora di spezzarsi. E può spezzarsi per cause del tutto interne al sistema politico-statale, anche (o pro- prio) in forza della sostanziale equiparazione di quest’ultimo al sistema dei partiti. È questo il dato che, realmente nuovo, occorre cercare e osservare con particolare

126 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Lorenzo Ornaghi attenzione, in mezzo ai nodi storici ancora non sciolti e tra le antiche fratture ria- pertesi o allargatesi con intensità e forme differenti. Tenterò di considerare tale da- to nuovo, soffermandomi su tre temi. Che, secondo un ordine non casuale, sono: il grado di innovabilità del sistema politico-statale, il federalismo, il ruolo e la for- mazione della classe dirigente. La pur breve illustrazione di ognuno dei tre temi vorrebbe riuscire a mostrare, anche se solo in filigrana, la crescente forza e attualità – almeno, credo, per gran parte dei partecipanti a questo Forum – di una questio- ne su cui tornerò alla fine del mio intervento, e che per ora anticipo formulandola così: si è aperto il tempo, per i cattolici, di tornare a essere con decisione “guelfi”?

ÿ Riformare ciò che appare sempre meno riformabile

• Il primo tema che mi appresto a considerare (e che ho posto sotto il titolo per nulla paradossale «riformare ciò che appare sempre meno riformabile») necessita di un’osservazione preliminare. Se non falsificata, certamente è stata più volte vanifi- cata – in quel campo dai confini sempre scarsamente rispettati, che è la politica – l’enunciazione di Albert O. Hirschman, secondo cui in ogni condizione c’è sempre una riforma possibile. Più resistente è invece quest’altra constatazione dello studio- so tedesco esule negli Stati Uniti, e cioè che «colui che ha di mira il mutamento so- ciale su grande scala dev’esser posseduto, per dirla con Kierkegaard, dalla “passione per ciò ch’è possibile”, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certifi- cato come probabile». Anno dopo anno, da almeno tre decenni a oggi, nel nostro Paese le riforme co- stituzionali sono rapidamente sprofondate nelle sabbie mobili di un paradosso: più risultano necessarie, più diventano a tal punto impossibili da apparire ormai inuti- li. Ed in effetti, ora, sembrerebbe di essere già pienamente nella condizione in cui – fatta salva un’ennesima riforma elettorale, che propriamente riforma costituzionale non è – nessuna parte o frazione partitica abbia un qualche interesse e veda per sé un vantaggio, né di medio periodo né (tantomeno) di brevissimo raggio, nell’im- pugnare il vessillo di grandi o più minuscole riforme istituzionali. Si potrebbe ipotizzare che, nelle fasi in cui la situazione politica viene avvertita come straordinaria e altamente rischiosa per i suoi stessi attori principali, le riforme appaiano inevitabilmente ridondanti o superflue rispetto all’impiego di altri stru- menti di competizione e lotta partitica, mentre risulta più agevole immaginare la lo- ro possibile (e utile) realizzazione nei momenti in cui l’eccezionalità della situazione contingente cederà il passo alla “ordinarietà” del tempo della politica. In realtà, nes- suna riforma istituzionale può essere disgiunta dal gioco delle parti politiche e dai disegni o dalle ambizioni di questo o quel leader di vertice. Di più: quand’anche una riforma istituzionale abbia alla sua base – in vista del bene del Paese, com’è pur auspicabile – la maggior condivisione spontanea o l’obbligata convergenza delle

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 127 Lorenzo Ornaghi molteplici e differenti parti politiche, ciascuna di queste ultime è del tutto avvertita del fatto che, una volta attuata, ogni riforma inevitabilmente toccherà e muterà non solo i rapporti tra le forze partitiche, ma anche il rispettivo peso specifico.

• Dopo i progetti di “grande riforma” degli anni Ottanta, la questione delle riforme istituzionali è interamente rifluita dentro il riformattato sistema partitico dagli anni Novanta sino a oggi, comprensibilmente passando in second’ordine ri- spetto ai più impellenti sforzi di solidificazione dei due poli e al necessitato schiera- mento, al loro interno, anche dei nuovi partiti o gruppi partitici. Ma sarebbe inge- nuo e rischioso pensare che una tale questione possa avere ancora a lungo il suo storico andamento carsico, in cui la lunghezza del corso sotterraneo compensa le intermittenti erosioni di superficie. Infatti, quanto più si appesantisse e si croniciz- zasse l’odierna situazione politica, tanto più diventerebbe probabile che nelle rap- presentazioni sociali dei cittadini le riforme, anziché il prodotto (magari scarsa- mente efficace) di una estesa o ridotta parte di classe politica, vengano considerate e più o meno ingannevolmente immaginate come la levatrice di un nuovo ceto po- litico. Analogamente ad alcuni ambiti di attività economico-industriale, anche in politica – come già intuivano Montesquieu e Steuart – il margine di tolleranza per le prestazioni scadenti può essere assai ristretto. Diversamente dall’economia, però, quasi mai resiste vantaggioso e favorevole per troppo tempo. In effetti, «riformare ciò che appare sempre meno riformabile», e così cercare di impedire che si oltrepassi senza limiti la soglia di tolleranza per le prestazioni del si- stema politico-statale ritenute più scadenti, vede intrecciate e tra loro strettamente interdipendenti tre linee fondamentali di riforma. La prima è quella delle riforme propriamente costituzionali; la seconda, più ampia, è scandita dalle riforme istitu- zionali; la terza è la riforma (o – per essere più precisi, guardando alle condizioni del presente senza peraltro considerarle perpetue – la pur difficile e magari poco probabile “autoriforma”) dei partiti, quale condizione necessaria per l’incremento di rappresentatività e di qualità complessiva del ceto politico.

ÿ Inodidelleriforme

•Lungo la prima linea di riforme ritroviamo pressoché tutti i nodi o le incoe- renze presenti nell’attuale fase storica dello Stato, quale svolgimento e coronamen- to del “tipo” della longeva organizzazione del potere nata e fatta crescere dalla mo- dernità europea (ossia, appunto, l’assetto istituzionale-organizzativo dello “Stato moderno”). Sono i nodi o le incoerenze che – sempre in una prospettiva rigorosa- mente storica – i regimi democratici occidentali si sono trovati in grandissima par- te a ereditare, dopo che la democrazia, finita la fase di contrapposizione alle incar- nazioni assolutiste (e alle rappresentanze politiche o di interessi) dello Stato d’An-

128 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Lorenzo Ornaghi cien Régime, ha dapprima “usato” le antiche istituzioni statali e poi si è in esse pro- gressivamente immedesimata. Richiamo due soli esempi di siffatti nodi. Il primo è offerto dalla concreta meccanica di funzionamento dei tre “classici” poteri che – fondati sulla “impersonalità” del potere, oltre che distinti, separabili e ciascuno in grado di “arrestare” l’altrui straripamento – dovrebbe garantire per intero il libero e ordinato svolgimento della vita politica. Il secondo esempio (che, più intricato e forse anche più rilevante dell’altro, avrebbe bisogno di una lunga argomentazione) consiste nella ricerca di una perfetta e ormai impossibile coincidenza fra “legitti- mazione a rappresentare” e “legittimazione a governare”: la quale coincidenza, sempre più illusoria, è forse il principale fattore di quei vistosi fenomeni odierni per cui, in molte democrazie, la vita politica manifesta tendenze plebiscitarie e po- puliste, in stridente e crescente contrasto con un assetto istituzionale che si vorreb- be ancora governato interamente secondo la logica del primato “parlamentare”.

• Ma, sovrapposte od ormai del tutto mescolate a quelle attinenti al tipo gene- rale di “moderna” organizzazione statale del potere, ritroviamo – nel campo ampio delle riforme costituzionali – anche le irrisolte o mai sino in fondo risolte questioni specifiche della nostra vicenda unitaria: sotto lo svolgimento formale-costituziona- le dello Stato – dal nuovo Stato unitario e accentratore, allo Stato di diritto e libe- rale poi scalzato dall’ordinamento fascista e dalla “diarchia” tra Re e Capo del go- verno (che è simultaneamente capo di partito e “duce” del popolo), sino allo Stato repubblicano e alla sua immedesimazione in un particolare sistema pluralistico di partiti – non è infatti difficile individuare una dopo l’altra tutte quelle persistenze profonde o di superficie della nostra storia, che a loro volta ci riconducono ai gran- di problemi dei rapporti fra società e Stato, dell’identità del popolo italiano, delle peculiari qualità e del grado di intensità del nostro sentimento di appartenenza alla Nazione. E sono questi più grandi, generali problemi a riempire – ben più di quanto non succeda lungo la linea di riforme costituzionali – le altre due linee da seguire per riformare ciò che lo scorrere del tempo tende a rendere sempre meno riformabile in modo tranquillo e ordinato: vale a dire, come le sintetizzavo poco fa, la linea delle riforme istituzionali e quella della riforma dei partiti. Anche per questo motivo il federalismo, che appartiene a pieno titolo alle rifor- me istituzionali e non solo a quelle strettamente costituzionali, sembra portare con sé e inestricabilmente attorcigliare pressoché tutte le antiche e nuove questioni del- la storia italiana, a partire dalla frattura tra Nord e Sud.

ÿ Federalismo, classe dirigente e formazione del ceto politico

• Si potrebbe temere, per più di un motivo, che anche la riforma istituzionale del federalismo, non diversamente dai passati progetti di riforme costituzionali, sia

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 129 Lorenzo Ornaghi purtroppo affetta dal micidiale “paradosso dell’impossibilità”. Non pochi studiosi e commentatori politici hanno sottolineato come risulti del tutto inutile (e spesso controproducente) varare leggi, quando manca l’essenziale per dare a queste con- creto ed efficace compimento. E in qualche osservatore disincantato cresce la sen- sazione che per il federalismo stia ormai scadendo (o già sia scaduto) il limite mas- simo di tempo concesso dai duri fatti della storia e della politica. Dentro il grovi- glio di antiche e nuove questioni da cui il federalismo è avvolto, d’altro canto, la se- colare lacerazione tra Nord e Sud non solo è venuta rafforzando la sua collocazione centrale, ma sempre più spesso tende anche a farsi coincidente con l’intero tema. Anziché strumento possibile (pur se, di necessità, imperfetto) di ricomposizione o riaggiustamento di una tale lacerazione, il federalismo ne diventa l’espressione estrema, il suggello definitivo. In tal modo, però, quanto più le (comprensibilmen- te) differenti concezioni politiche intorno al federalismo tendono a ideologizzarsi, tanto più si diffonde l’erronea convinzione che il federalismo sia tutt’uno con la questione Nord-Sud. E tanto più tende a radicalizzarsi, simultaneamente, la per- suasione dell’illusorietà di voler riformare ciò che non può o non intende essere utilmente e finalmente riformato. Della percezione – collettivamente sempre più ampia – che il Paese sia malato di una sostanziale irriformabilità, studiosi e opinionisti anticipano per ora le conse- guenze possibili o probabili. Resta invece sullo sfondo l’alternativa, secca e temibi- le, tra due esiti: o la capacità dell’intero sistema politico di non scivolare ulterior- mente lungo il piano inclinato di una crescente stagnazione, o la rottura traumati- ca di alcuni (o molti) degli elementi costitutivamente strutturali del sistema politi- co-statale dell’età repubblicana. Le spie di allarme, che a tal proposito si stanno ac- cendendo, non vanno tuttavia trascurate o sottovalutate. All’immagine – evocata qualche tempo fa – di una «secessione dolce», la cui natura più propriamente psi- cologica attiene alle rappresentazioni sociali, si vanno affiancando quelle di una «secessione silenziosa», praticabile o già praticata nella sfera dei comportamenti o degli intendimenti economico-industriali, e – come ha argomentato nelle scorse settimane Angelo Panebianco – di un «secessionismo culturale», politicamente for- se più rischioso al Sud che non al Nord. Eppure il federalismo ha dalla sua, come elementi principali di sostegno, alme- no due fattori storici (o due processi di lungo periodo), di cui l’uno attraversa l’inte- ra storia unitaria sino a oggi e l’altro, già in atto, determinerà o comunque influen- zerà il domani della nostra comunità nazionale. Se bene inteso, il federalismo – ap- punto nei suoi termini più ampiamente istituzionali – non è soltanto un modo di riorganizzare e riequilibrare i poteri “costituzionali” ai vari livelli, o di spostare com- petenze e funzioni dello Stato pur rilevantissime quali quelle di natura fiscale, ma è anche e soprattutto la “costruzione” di corrispondenze funzionali (o le più funzio- nali possibile) tra centri politici e territorio, tra i gruppi in cui scalarmente si strut- tura la classe politica e le istituzioni di governo e di rappresentanza, tra le politiche

130 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Lorenzo Ornaghi pubbliche nei differenti snodi della loro decisione e attuazione e le aspettative dei cittadini, tra – infine, e per adoperare ancora una volta formule ipersintetiche, forse più allusive che esplicative – politica, economia e società. In questo primo senso, il federalismo è (potrebbe essere) l’indispensabile “ammodernamento” dello Stato e delle sue più tradizionali istituzioni, dopo la fase lunga – dai primi del Novecento in poi – dello Stato-provvidenza (o del welfare statalmente assicurato, che ha anche ali- mentato, per finalità di consenso elettorale, vaste e difficilmente estirpabili aree di rendite parassitarie), e dopo quella – di poco più breve – della incontrastata pervasi- vità della politica e dei partiti dentro la vita della società. Se bene inteso e intelligen- temente attuato, il federalismo – ecco la seconda tendenza, destinata a consolidarsi nel futuro – è (potrebbe essere) quell’assetto non solo politico-istituzionale, ma an- che economico-sociale, maggiormente in grado di identificare e rafforzare il contri- buto dell’Italia all’ancora incerta definizione del ruolo dell’Unione Europea dentro il sistema globale. E maggiormente in grado, al tempo stesso, di contrastare il ri- schio di essere trasformati in un Paese sostanzialmente insignificante (o eccezional- mente significativo – lo aggiungo senza un briciolo di celia – solo in quanto conten- ga lo Stato del Vaticano e abbracci la Santa Sede), per effetto di quegli spostamenti degli assi geo-politici e geo-economici che stanno ridisegnando il sistema globale, pur secondo i ritmi dei cambiamenti autenticamente epocali le cui accelerazioni più forti o violente si manifestano solo all’improvviso e pressoché inaspettatamente.

ÿ Federalismo solidale

• Un federalismo bene inteso e intelligentemente applicato – è questo un pun- to essenziale e irrinunciabile – non può che essere un «federalismo solidale», basato integralmente sul principio di sussidiarietà e via via costruito col ricorso a un tale principio, come sua applicazione del tutto conseguente e coerente, oltre che inno- vativa perché adeguata alle urgenze del presente e previdente rispetto al domani. Un federalismo solidale, quando nel suo orizzonte mostrasse con chiarezza l’inscin- dibile nesso tra il necessario ammodernamento delle istituzioni e l’altrettanto ne- cessaria (e realistica) prospettiva di ciò che sarà il futuro welfare per la cittadinanza, richiamerebbe sia il Nord sia il Sud (concretamente: i loro abitanti, i loro ceti più rappresentativi, le loro classi dirigenti) a far crescere e praticare la troppo spesso evocata e troppo raramente praticata virtù della “responsabilità”: nei confronti del- l’intero Paese, a partire dalla responsabilità rispetto a se stessi. E di necessità com- porterebbe, questo federalismo solidale, il radicamento di un ceto politico “territo- riale”, che, saldamente raccordato alle rappresentanze sociali, con esse lavori fianco a fianco, operando insieme per finalità comuni e per obiettivi condivisi. Ceto politico e rappresentanze sociali: da qui, con ogni probabilità, si deve inco- minciare a cercare le più funzionali corrispondenze tra la legittimazione a governare

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 131 Lorenzo Ornaghi

(e il concreto esercizio dell’attività di “governo”) e la legittimazione a rappresentare (e il suo grado effettivo di rappresentatività, vale a dire quanto una rappresentanza viene “sentita” davvero come tale da coloro che sono rappresentati). Nella formazio- ne di chi sarà chiamato a costituire la classe dirigente di domani, conoscenza e prati- ca del rapporto tra politica e rappresentanze sociali si riveleranno almeno altrettanto importanti di quanto lo saranno le competenze tecniche nei rispettivi ambiti di atti- vità o l’abilità nel rispondere con successo alle sfide dell’internazionalizzazione. Una reale capacità e un’effettiva, continua manifestazione di leadership risulteranno de- cisive per entrare a comporre la classe dirigente. E – se posso concludere con un’im- magine queste osservazioni sul ruolo e sulla formazione della classe dirigente, che avevo anticipato sarebbero state assai brevi – il “movimento”, e non già la conserva- zione statica della propria collocazione, dovrà caratterizzare vita e funzioni della classe dirigente. “Movimento” (o “circolazione”, se si preferisce) tra politica e rap- presentanze sociali. Ma anche attitudine al “movimento”, poi e soprattutto, proprio rispetto a quei più ampi campi in cui verrà richiesta e sarà chiamata a esercitarsi la leadership di una classe dirigente. Il domani che ci sta venendo incontro vedrà in- tensificarsi e moltiplicarsi, con ogni probabilità, le richieste di essere e sentirsi parte- cipi di forme di idem sentire, di essere e sentirsi appartenenti ad associazioni pubbli- che in grado di agire nella vita politica il più direttamente possibile, o, almeno, sen- za dover essere sottoposte alla “mediazione” in via esclusiva dei partiti. La leadership di quote larghe della classe dirigente dovrà allora essere pronta, con la propria capacità di movimento, a svolgere un’azione al tempo stesso aggre- gativa, rappresentativa e stabilmente orientativa delle decisioni collettive, oltre che delle politiche pubbliche. E una tale azione sarà tanto più indispensabile, quanto più si consoliderà la tendenza già in atto in pressoché tutte le democrazie, sotto la spinta della quale la politica – anche nei momenti più puntuali di regolazione della competizione partitica attraverso la verifica del consenso elettorale – più che dai “valori”, quali cose desiderate o attese dall’individuo o da gruppi per il proprio ma- teriale bene essere, viene scossa da quegli autentici valori che danno senso alla vita di ogni singola persona e dell’intera collettività. Integrando senza eccessive forzatu- re il titolo di un saggio assai letto di un autorevole studioso, si potrebbe dire che, se ivoti continueranno a contare, saranno soprattutto i “valori” – i valori in quanto, anche, risorsa politica – a decidere della politica dell’incombente domani.

ÿ Progetto culturale e opere

• Sono così giunto alle osservazioni conclusive. Che saranno anch’esse rapide, pur dovendo io assolvere l’impegno di esplicitare perché sembri essersi aperto il tempo, per il cattolicesimo italiano, di manifestarsi con decisione “guelfo”, se non già di originare da subito un nuovo, energico guelfismo.

132 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Lorenzo Ornaghi

Nella relazione che ho recentemente tenuto alla 46a Settimana sociale dei Cat- tolici italiani di Reggio Calabria, mi è sembrato opportuno sottolineare come la straordinaria storia e l’altrettanto straordinaria capacità di pensiero e azione del “cattolicesimo politico” italiano abbiano conosciuto i loro momenti più alti, quan- do – dentro lo svolgersi delle vicende, non di rado drammatiche, dei centocin- quant’anni del Paese – il vigore e il rigore dell’aggettivo “politico” hanno saputo at- tingere il loro più vitale alimento dai valori fondamentali e dai caratteri essenziali del cattolicesimo. Riprendo e ripeto qui le considerazioni svolte in quella circo- stanza. Abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente “cattoliche”. Ne abbiamo bisogno perché, quando difettassimo di una simile visione, ogni pur rinnovata forma della nostra presenza pubblica o politico-partitica facilmente si ridurrebbe a quella di una mera “parte” tra la pluralità delle parti, destinata più a essere contata che a “contare”, più ad attendere di essere variamente riconosciuta come rilevante che a “rilevare” non solo in modo sempre diretto, ma anche – nelle circostanze necessarie – in misura decisiva. E abbiamo bisogno di una simile visione – aggiungo ora – soprattutto per stare attivamente “dentro” la vita presente del Paese, portando come nostro contri- buto peculiare e impareggiabile un disegno preciso, oltre che il più possibile condi- visibile e aggregante, per il futuro.

ÿ Tornare al “Guelfismo”

• Il futuro dell’Italia, temo, sarà ancora a lungo segnato dalle persistenze della sua storia specifica e da alcuni dei nodi che la vicenda unitaria non è riuscita a scio- gliere definitivamente e che in qualche occasione ha ulteriormente arruffato. Ma il futuro verrà soprattutto scandito dai grandi cambiamenti che stanno percorrendo il mondo intero e l’Occidente in modo del tutto particolare. All’avanzare della tec- nica e all’ampliarsi smisurato dei suoi campi di applicazione, occorre chiedersi quale sarà la propensione del nostro Paese all’innovazione tecnologica. Dentro le nuove onde lunghe dell’evoluzione storica del capitalismo, c’è da domandarsi quali rapporti legheranno i regimi politici (e il loro sistema internazionale) alle dinami- che e al potere di mercati sempre più globali. Di fronte a rappresentazioni sociali plasmate senza sosta dai mezzi antichi e recentissimi di comunicazione di massa, è necessario interrogarsi su quali siano i valori culturali e le pratiche educative mag- giormente in grado di orientare positivamente pensieri, convinzioni, azioni. Tornare a essere con decisione “guelfi” comporta affermare l’idea e la realtà di “italianità” quale dato storico (insieme, culturale e popolare), di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici. E soprattutto richiede – diversamen- te, in questo caso, dal guelfismo ottocentesco – la consapevolezza che la “peren- nità” dell’Italia cattolica e la sua “esemplarità” nei confronti di altre nazioni, assai

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 133 Lorenzo Ornaghi più che da una disposizione naturale, dipendono dall’energia e dal successo dell’a- zione dei cattolici di oggi. Rispetto ad altre (per dire sinteticamente così) “identità” culturali che sono sta- te protagoniste della storia unitaria o di alcune sue fondamentali fasi, disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati. Ma anche una tale posi- zione, che questi nostri tempi fanno sentire nella comparazione con altre identità migliore e più vantaggiosa, non può essere considerata per sua natura un bene pe- renne. Né potrebbe restare a lungo una risorsa inesauribile, quando la visione cat- tolica della realtà stemperasse i propri elementi costitutivi, mischiandoli e omolo- gandoli a quelli delle concezioni ideologiche del Novecento o dei loro scampoli at- tuali. Essere “guelfi”, oggi, implica la consapevolezza che la nostra posizione di van- taggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove “opere” che – soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente – il futuro prossimo già ci domanda.

ÿ

134 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Identità e “missione”

«Nelle elezioni trionfa danaro, il favore, l’imbroglio; ma ANDREA RICCARDI non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità Università imperdonabile… Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I di Roma Tre partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e cliente- le. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d’unione». Di quale Italia si parla? Di quella di oggi? In realtà si trat- ta di un testo di Giuseppe Prezzolini di cento anni fa, alla ≈ vigilia del cinquantenario dell’Unità del 1911. Allora, la monarchia e il governo di Giolitti investirono molto sul «La missione è col- “giubileo della patria”, culmine del processo di costruzio- locarsi nel mondo. ne nazionale del Risorgimento. Ma anche allora, come si C’è un ritardo. Un ordine sparso nel è visto, il paese e la politica sembravano in acque torbide procedere. C’è secondo un illustre osservatore, come Prezzolini. C’erano l’Europa: i cattolici due Italie – scriveva il meridionalista Giustino Fortuna- ne hanno timore to: quella europea e quella africana (il tema delle due Ita- con giusti motivi, ma senza Europa lie è una costante nazionale). Ma anche due possenti for- la nostra civiltà ze sociali esterne alla costruzione nazionale: il forte movi- non reggerà il con- mento socialista, realtà politica nuova nel paese, aggre- fronto con il mon- gante un mondo marginale attorno all’idea di redenzione do nei prossimi sociale; l’antico mondo della Chiesa che, con l’Unità, trent’anni». aveva perso gli Stati pontifici e il quadro tradizionale del- ≈ la cristianità, ma si era ristrutturato come movimento cattolico e con un episcopato unito attorno al papa.

ÿ Giubileo del 1911: festa e difficoltà

• Il Risorgimento, stagione travagliata per la Chiesa, era stata però un’occasione in cui il cattolicesimo naziona- le si era ristrutturato, nonostante la secolarizzazione e lai-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 135 Andrea Riccardi cizzazione della società. Mai, nella storia religiosa italiana, il papa aveva potuto nominare direttamente, come fa con il Regno, i vescovi italiani. La sua figura, da Pio IX ai suoi successori, appare come il gran riferimento per il popolo catto- lico, vero primate d’Italia (come recita uno dei suoi titoli). Il generale de Gaulle, con la consueta perspicacia, avrebbe parlato del papa come un sovrano morale in Italia. Con una storicizzazione epica del primo cinquantenario, si rivestiva quella che era stata la rivoluzione diplomatica di Cavour, sorretta dai mutati equilibri euro- pei, invece che una rivoluzione nazionale: la storia – diceva Cavour «a l’habitude d’improvviser». Del resto l’Unità era avvenuta unendo mondi divisi da ben più di un millennio: un matrimonio – scrive Cafagna – tra una piacente vedova con mol- ti figli e debiti con un impiegato onesto e agiato, che vede come gli altri paesi euro- pei siano unitari e pensa che sia il suo momento. Storia di un dualismo tra un Nord gravitante verso l’Europa centrosettentrionale e un Sud antropologicamente mediterraneo, ma con la presenza di tanti altri elementi che sfumano il dualismo in una multipolarità. Tanti antagonismi interni – giudicano alcuni studiosi – han- no reso l’Italia flessibile. Ma non sempre gestibile. Nel 1911, si espresse l’epopea risorgimentale, costruita in sede storico-lettera- ria dopo l’Unità, con la creazione di un Olimpo di grandi, Vittorio Emanuele, Ca- vour, Mazzini, Garibaldi. Era la costruzione di una storia sacra con il modello di religione civile, utilizzando moduli secolarizzati dello stesso cristianesimo. L’iden- tità risorgimentale, così costruita, aveva come riferimento un partito della nazione, quello liberale, che aveva come missione fare l’Italia e gli italiani, e di collocare il paese nel Mediterraneo e tra i grandi d’Europa. Del resto non era facile fondare un’identità di massa quando, all’unificazione, seicentomila parlavano italiano su 25 milioni (il 2,5 per cento, mentre – si noti – l’1 per cento erano alloglotti) e tanti si sentivano solo parte di un ambiente locale. Nel 1911, nonostante cinquant’anni di ferreo centralismo, l’Italia sembrava ancora disunita. Cattolici e socialisti erano estranei alla festa dell’Unità del 1911, considerati minacciosi dal partito liberale, in realtà grandi riserve di energie. Per loro l’identità italiana non era quella dei padri del Risorgimento. Il nazionalismo risorgimentale, ancor vivo nel 1911, doveva risolversi in breve nel monopolio fa- scista e nella militarizzazione della nazione. Un nuovo partito della nazione sor- geva, quello fascista, che sarebbe stato in guerra con i nemici esterni e interni, tra cui gli ebrei. Il nazionalismo risorgimentale si fascistizzava con un nuovo patriot- tismo, mentre la missione nazionale veniva prospettata come quella di una po- tenza imperiale e imperialista. Dopo il giubileo del 1911 e la grande guerra, con il fascismo gli italiani si nazionalizzavano, per usare la classica espressione di Mosse.

136 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Andrea Riccardi

ÿ Dal giubileo dello sviluppo nel 1961 alla crisi

• Nel 1943, con la morte della patria nella sconfitta (naufragio della nazione fa- scista e dei resti di quella risorgimentale, incarnata dai Savoia), emersero le forze ai margini del processo unitario: cattolici, socialisti, comunisti. Nella crisi grandeggiò la Chiesa, come «madre della nazione», quando il potere civile era dissolto e la brutalità dominava. Da Pio XII, defensor civitatis a Roma, a Siri a Genova, a Monterisi arcive- scovo di Salerno. Questi replica a Badoglio (che lo aveva aggredito nel 1943 con la domanda: «ma lei è italiano?»): «Quando il popolo è rimasto solo e stremato dalle sofferenze della guerra io vecchio di 76 anni, col mio clero, sono rimasto al mio posto a conforto e sollievo della popolazione, il maresciallo Badoglio è scappato a Pescara». «Sono rimasto» – non è orgoglio personale, ma coscienza generale della Chiesa: la permanenza nella storia nel paese attraverso le cangianti stagioni della sua vita. È il paesaggio delle campagne, delle città storiche, ma anche delle nuove periferie: se- gnato dagli edifici e da uomini e donne della Chiesa. Questa permanenza è fatto multiforme, antico e contemporaneo, costante dal Nord al Sud. «Sono rimasto» – dice Monterisi – nell’ora della morte della patria. Così Paolo VI c’è in Laterano nel 1978, quando la Repubblica trema con l’assassinio di Moro. Così il piccolo prete nella periferia mafiosa di Palermo, come don Puglisi. Così Giovanni Paolo II di fronte al terrorismo o alla crisi nazionale degli anni Novanta. Tutto crolla e la patria liberale e fascista muore nel 1943. Dopo la guerra, cat- tolici e socialisti entrano come le “forze” dell’Italia nuova. Nasce una terza Italia, dopo quella risorgimentale e fascista, con più fratture che il Regno Unito di allora, abitato da una continuità istituzionale e rituale, o la Francia, che conosce tre Re- pubbliche nello stesso periodo, ma ha uno Stato forte e sa dire cosa sia l’identité française. La fondazione dell’Italia democratica avviene nel quadro del discredito del nazionalismo dopo la catastrofe. Patria e nazione non sono termini popolari. L’identità italiana si fa piuttosto sulla scommessa di un futuro migliore, come sta- tuisce l’art. 3 della Costituzione, che impegna a rimuovere gli ostacoli economici e sociali per il pieno sviluppo della persona e l’eguaglianza dei cittadini. L’identità italiana, lanciata sullo sviluppo, ha un nuovo partito nazionale, quel- lo dei cattolici, i quali hanno idee sul futuro diverse da comunisti e socialisti. Ai partiti spesso il compito di mediare l’identità nazionale. Progresso economico e so- ciale, sviluppo del Mezzogiorno, per un’Italia pensata in Occidente e nella piccola Europa: un’idea di nazione, dove gli accenti patriottici scemano, ma con un orgo- glio del lavoro e di un futuro. Un’Italia in cui il partito al potere cura poco la cultu- ra e, in parte, la lascia alle opposizioni. Un’Italia che sente di avere alle spalle una tradizione, senza appassionarsi ai temi risorgimentali.

• Il centenario dell’Unità, celebrato a Torino con l’Esposizione di “Italia ’61” (dopo le Olimpiadi di Roma del 1960 che dettero un’immagine di paese moder-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 137 Andrea Riccardi no), esprime questa identità: come simbolo la monorotaia, un treno avveniristico, espressione di un paese che corre veloce verso il futuro. L’identità italiana si dà su basi sentite come solide e antiche, non troppo discusse: gravita sul futuro. Così fu il centenario del 1961, il secondo giubileo nazionale. Del resto, nel mondo della ri- cerca storica, si esce in quegli anni dalla tradizionale disciplina di storia del Risorgi- mento, la storia d’Italia per eccellenza, per entrare in una nuova disciplina, la storia contemporanea, segno che si è ormai in un mondo postrisorgimentale. Gli anni Sessanta e Settanta cambiano in profondità la struttura dinamica del- l’identità nazionale: lo sviluppo non appare assicurato e si manifesta la crisi econo- mica. Dal ’68, una grande rivoluzione culturale ridiscute le basi, fino ad allora con- siderate solide e di comune acquisizione: scuola, università (quindi il sapere), la fa- miglia, la Chiesa, le forze armate, lo Stato (di cui sono rilevati aspetti oscuri). L’u- topia sembra prevalere. Il legame con la tradizione, poco coltivato, si sfilaccia e ap- pare desueto. L’identità nazionale non è più così scontata e tutto viene messo in di- scussione, mentre si incrina un canone letterario tradizionale, che aveva narrato il paese. Ben altro impatto ha avuto il ’68, pur forte in Francia: in Italia c’era una de- bolezza della struttura identitaria. Peraltro si sviluppa una ventata utopica per cui l’identità era nell’altrove, nei miti rivoluzionari che compensano il calore di una patria perduta: «dì là dall’Alpi e il mare, un’altra patria c’è» – cantano i contestatori alludendo alla Cina. La patria è in un domani utopico o in un altrove paradisiaco. Tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta si era sentito poco il bisogno di dire che cosa fosse l’Italia. Ma nel ventennio successivo lo si dice ancor meno, mentre si discute di crisi politica, di transizione infinita e via dicendo. Del resto l’Italia esiste e tutti la incontrano nella quotidianità, ben identificata e protetta dalle frontiere della guerra fredda, inquadrata nella NATO, parte dell’Europa. Ci sono vincoli esterni, legati alla guerra fredda, che contengono la crisi italiana. È tra la fine degli anni Ot- tanta e la metà degli anni Novanta, si rivela la fragilità dell’identità nazionale, quan- do finisce la divisione del mondo e ci si trova all’alba della globalizzazione.

ÿ Spaesamento nel vortice della globalizzazione

• L’Italia è senza vincoli esterni che le dicano dove essere (e quindi chi essere), tanto che piomba in una crisi di introversione interna, quali sono stati gli anni No- vanta, percorsa da differenti idee di catarsi, ma caratterizzata dal distacco generale dalla politica (come si vede con il crollo della tradizionale altissima partecipazione al voto). Entra in crisi la Dc, che era il partito della nazione, garanzia d’identità. Il mondo cambia con la globalizzazione, si spalanca a dimensioni nuove e più larghe. Occorrerebbe ridefinirsi in questo quadro. Infatti, tutte le identità (nazionali, etni- che, religiose e di gruppo), con l’aprirsi degli scenari della globalizzazione, sono in- vestite da un processo che le spinge a ridefinirsi.

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Talvolta questo avviene in modo antagonistico. Nell’Est europeo risorge il na- zionalismo. Le religioni si ristrutturano da un punto di vista identitario. Si svilup- pa, in vari mondi religiosi, il fondamentalismo. Un mondo vasto, complesso e di- sordinato appare abitato da conflitti di religione e di civiltà. L’11 settembre 2001, dieci anni fa, sembra l’epifania dello scontro di civiltà. L’11 novembre 2001, con l’ingresso della Cina nel WTO, completa la globalizzazione del mercato-mondo con l’entrata di un miliardo e trecento milioni di consumatori. Il mondo è sconfi- nato, ma non realizza un nuovo ordine internazionale, come si sperava dopo l’’89. L’uomo di fine secolo o del nuovo secolo – come scrive Todorov – è spaesato. Non sa dire chi è in un mondo sconfinato. Da qui sorge il bisogno di ricostruire le identità collettive. Tutte le identità, nel nuovo quadro della globalizzazione, si deb- bono ridefinire e si agguerriscono. L’Italia ci prova, ma non può farlo in termini di nazionalismo est-europeo (il patriottismo stenta in Europa occidentale, come si ve- de anche in Spagna, Regno Unito, Belgio). L’identità non trova a disposizione, nel nuovo quadro politico bipolare, un partito della nazione. Inoltre, nel nuovo clima politico, si allentano i rapporti tra cultura e politica, mentre si sviluppano intensa- mente quelli tra la politica e i media. Uomini e donne spaesati, nel quadro di una globalizzazione che avvicina il lon- tano al vicino e temono la dissoluzione del proprio mondo, riscoprono il territorio come il proprio mondo. L’effetto della globalizzazione, in tutta Europa, con diver- se intensità è quello il localismo o il regionalismo o l’emersione delle nazioni som- merse. In Italia, già da prima era sviluppato il senso della Heimat. L’Italia delle cen- to città e dei mille campanili che non si è mai spenta. Si è detto qualcosa della sua multipolarità. Si comincia anche a narrare una storia del territorio che è antirisor- gimentale, costruendo un’altra epica.

ÿ Il terzo giubileo del 2011: sfilacciamento nazionale e bisogno di Italia

• L’esperienza culturale e morale del terzo giubileo dell’Unità, dopo il 1911 e il 1961, è – va detto onestamente – l’incertezza del dire parole sull’identità naziona- le. Non c’è un partito della nazione, che le ispiri, né una cultura di riferimento. Ci sono incertezze, spaesamenti, rivendicazioni locali, delusioni… Anche questo stato d’animo è ricorrente nella storia nazionale: nel 1911 – lo si è visto – si avevano sen- timenti analoghi, ma quella era ancora un’Italia di pochi, stretta in maglie gerarchi- che, con un grosso mondo contadino. La presidenza Ciampi ha tentato la riscoper- ta dei simboli nazionali nel quadro dell’Europa. Il 1 gennaio 1999, con l’introdu- zione dell’euro, rappresenta forse l’evento che offre ai cittadini il senso di un insie- me europeo in cui si inquadra l’identità italiana. Ma i grandi temi dell’Unità non scaldano i cuori, se non quelli trattati dal revi- sionismo. Come potrebbero spuntare frutti di coscienza appassionati dal tronco

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 139 Andrea Riccardi del pensiero identitario nazionale, tante volte rivisitato, rinnestato, potato, taglia- to? Non si potevano aspettare in modo miracolistico nuove emozioni patriottiche in occasione di questo 2011. Il Risorgimento è nostra storia, ma non così fondan- te. Eppure, in altri paesi, come la Francia, un pensiero critico sulla storia nazionale non ha indebolito un senso comune di appartenenza. D’altra parte gli Stati muoio- no, come si sta vedendo in Belgio. Ma la nazione è oggi una necessità? Il centro nazionale appare talvolta lontano. Tuttavia il territorio senza nazione o Stato come può andare al confronto con il gran gioco di un mondo e di un mercato globalizzato? Definirsi rispetto agli immi- grati, ai vicini, alla capitale, non basta: occorre collocarsi non solo nella comunità delle nazioni, ma nel mondo globalizzato. Gli antagonismi con i vicini o con il centro offrono materia per i dibattiti quotidiani, ma non rispondono all’esigenza di un’ossatura della società per affrontare le temperie della globalizzazione. L’appartenenza europea richiede la forma nazionale, mentre l’Unione stenta già in un’Europa di tanti o troppi Stati. C’è bisogno di parole condivise sull’Italia, che non siano retoriche o autolesioniste. Saluto l’idea di questo convegno perché pone il problema del progetto-paese. Non è un esercizio funambolistico dettato dalla ne- cessità contingente, ma viene da lontano, dall’humus del radicamento storico della Chiesa in Italia. C’è bisogno, di fronte a gente spaesata, di fronte all’educazione da dare ai giovani, di provare a chiedersi se quest’Italia ha ancora una missione. Verso se stessa e i suoi cittadini. Verso la comunità internazionale o parte di essa. A che serve l’Italia? – si chiedeva Lucio Caracciolo, quando lanciò l’impresa della rivista di geopolitica «Limes», nata allo scoppio della globalizzazione, per rispondere alla necessità di leggere un mondo poco decifrabile. Ma c’è un’altra necessità che viene dalle esigenze del mondo contemporaneo: come vivere, non solo in Europa, ma tra i marosi della globalizzazione senza una forma-Stato e senza una realtà-nazione? *La debolezza della ristrutturazione nazionale italiana degli anni Novanta e Due- mila è divenuta una debolezza profonda della società italiana, sotto il tiro di nuove sfide, economiche, migratorie, politiche, internazionali.

• Non è la celebrazione dei 150 anni ad imporre un ripensamento, bensì sono le grandi sfide di un mondo fattosi largo, l’emergenza dei giganti asiatici (economi- ca e di civiltà) che non può essere affrontata in ordine sparso, quelle di un panora- ma internazionale in cui gli Stati Uniti non sono più il padrino a cui affidare la propria tutela, anzi sollecitano azioni militari all’estero. Mai l’Italia è stata così im- pegnata militarmente dalla seconda guerra mondiale con più di 9.000 militari in 21 paesi, tra cui Balcani, Libano e Afghanistan. C’è un bisogno di Italia nel mon- do. Per chi visita vari paesi del mondo in Africa e in America Latina, come faccio, l’Italia è un nome significativo. Ma non basta. Ripensarsi nel mondo della globaliz- zazione, senza vincoli esterni come quelli della guerra fredda, con un Occidente in difficoltà, richiede uno sforzo di volontà culturale – se posso usare questo termine

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– e politica, capace di utilizzare i materiali della tradizione e di coniugarli con i se- gni dei tempi per un progetto. Scrive Caracciolo: «progettare l’avvenire a partire dalla spietata ricognizione dell’Italia d’oggi, implica due movimenti geopolitici paralleli: ricompattarci e riag- ganciarci al resto del mondo. Due pilastri della medesima strategia, che staranno o cadranno insieme». La sua tesi è «Esiste l’Italia?: dipende da noi». Un’Italia, senza i vincoli della guerra fredda, lungo questi ultimi due decenni, si è sganciata dagli al- tri e introvertita nella spirale di una divisione profonda. Ma, al di là dell’onnipre- sente primato dell’economico, un respiro ideale, un realismo carico di speranza, un senso geopolitico altrettanto realista, un sano senso della tradizione, un’aspirazione al futuro, possano contribuire a far crescere la politica. In un mondo con poche idee, con un forte disprezzo delle idee, le idee contano.

ÿ Una risorsa nazionale: il cristianesimo italiano

•«Sono rimasto al mio posto a conforto e sollievo della popolazione, il mare- sciallo Badoglio è scappato a Pescara» – dice il vecchio mons. Monterisi a Badoglio, simbolo di uno Stato che crolla. La permanenza della Chiesa nella storia nazionale e nell’ultimo secolo e mezzo è un aspetto decisivo della realtà del paese, caratterizzan- te rispetto ad altri paesi europei: «per gli italiani, fu molto, molto di più che per chiunque altro nell’arco della storia europea». Nei momenti di crisi si è rivelata cru- ciale. La secolarizzazione l’ha trasformata, ma non l’ha ridotta a un pezzo del patri- monio museale italiano. Giovanni Paolo II, nel 1994, la definì: «Una forza che ha superato le prove della storia». Nel 1994, quando esplosero i conflitti etnici nei Bal- cani e in Ruanda, egli guardò preoccupato la crisi italiana, con la fine della prima Repubblica e la questione settentrionale. Chiese una grande preghiera per l’Italia e espresse, la sua visione del paese, una teologia della nazione. Segnalò tre eredità na- zionali da non disperdere, la fede, la cultura e l’unità: «Si tratta, infine, dell’eredità dell’unità, che, anche al di là della specifica configurazione politica, maturata nel corso del secolo XIX, è profondamente radicata nella coscienza degli italiani…». Per Giovanni Paolo II l’Italia è in profondità una nazione, al di là della configu- razione politica. Tale nazione ha una missione in Europa: «occorre – dice – una ge- nerale mobilitazione di tutte le forze, perché l’Europa sappia progredire alla ricerca della sua unità guardando, nello stesso tempo, al di là dei propri confini e dei pro- pri interessi…». L’Europa va intesa in senso largo, spirituale, cristianamente fonda- to, mentre si rischia di ridurla a «una dimensione puramente economica e secolari- stica». In questo quadro – conclude – «All’Italia, in conformità alla sua storia, è af- fidato in modo speciale di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo…». Mi sono soffermato su Giovanni Paolo II, perché ritengo che esprima il sentire dei predecessori (come

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 141 Andrea Riccardi

Paolo VI), ma anche quello del bisecolare cammino del cattolicesimo italiano, a partire dal neoguelfismo, che, per l’indimenticabile Giorgio Rumi, è una costante nazionale. In questa linea ha parlato Benedetto XVI durante la sua visita al Quiri- nale nel 2005 e successivamente.

• L’Italia, per Wojtyla, ha una missione, che viene dalla storia, dalla cultura e dalla fede: la compenetrazione delle tre realtà è essenziale. Tale missione può essere realizzata nel quadro dell’unità della nazione (pur non discutendo il papa le forme politiche). Decisiva è la fedeltà alla tradizione religiosa, che richiama anche al senso di Roma, sede del papa e luogo dove tale patrimonio è stato innestato dagli aposto- li, perché il cattolicesimo italiano è romano e papale. La missione si sviluppa nella costruzione dell’Europa, un appuntamento che non si può evitare, ma da affronta- re in modo consapevole delle difficoltà. Nel 2003, ai vescovi polacchi perplessi sul- l’ingresso in Europa, per il carattere secolare delle sue istituzioni, il papa dice: «la cultura cristiana polacca, l’ethos religioso e nazionale sono una preziosa riserva di energie di cui oggi l’Europa ha bisogno…». Qualcosa di più forte pensava per il ruolo dell’Italia in Europa. La visione di Giovanni Paolo II sulla missione dell’Italia ritorna in un tempo in cui, come diceva Wojtyla in una poesia del periodo cracoviense, si soffre per man- canza di visione: «io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di “visione”». Credo che l’apofatismo, il silenzio, con cui viviamo questi 150 anni di Unità, sia rivelatore di una diffusa mancanza di visione del futuro che attanaglia la classe politica e la cultura. La visione non è solo l’erudizione, ma la capacità di co- niugare senso del passato e indicazione per il futuro. Sono convinto che, nel patri- monio storico e culturale del cattolicesimo italiano, ci siano materiali per una vi- sione – certo di complessa elaborazione – del futuro.

ÿ Una missione, un’identità essenziale per un’Italia al plurale

• Sottolineare, come faccio, che il patrimonio cristiano (storico e attuale) rap- presenta una risorsa identitaria per il paese, può far pensare a una volontà di con- fessionalizzarlo. Ci sono invece segnali di una ripresa di polarizzazione tra cattolici e laici, anche per la diversa visione sulle questioni antropologiche, così vitali. Ri- tengo che il Risorgimento sia davvero finito, con le categorie di anticlericalismo, clericalismo, temporalismo e via dicendo. Nessuno vuole fare dell’Italia il regno della Chiesa. Spesso, parlando del presente, utilizziamo categorie inattuali e davve- ro datate. In ogni parte del mondo – si veda la visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna, cominciata in Scozia, la terra più secessionista – si riscopre che la religio- ne è nei fatti – come dice l’etimo – legame: un legame prezioso al di là dell’econo- mico in società sfilacciate o disgregate.

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C’è da considerare – in modo laico e realista – come il cristianesimo italiano rappresenti una risorsa ideale e reale per l’Italia. Del resto è una parte considerevole dell’immagine italiana nel mondo, mentre l’italiano – grazie alla Chiesa – resta lin- gua veicolare internazionale. E tant’altro. In questo senso lo statuto storico – non parlo in senso giuridico – della Chiesa in Italia è differente dalla Francia o dalla Spagna o dalla mista Germania. La differenza fa la storia d’Italia. Davvero il con- trario delle convinzioni espresse da Machiavelli sulla Chiesa come origine della di- sunione italiana. L’esaurirsi dei motivi risorgimentali porta a un ripensamento della laicità italia- na, come patrimonio comune: Benedetto XVI ha parlato come di «sana laicità». Lavorare a questa grande costruzione è appassionante per un umanesimo cristiano, che non ami la sconfitta; dovrebbe interessare chi comprende come dalle vertebre del paese non si può escludere (fosse solo un fatto di fede privata di alcuni) il catto- licesimo. L’Italia non si può permettere di perdere un pezzo – il cattolicesimo – della sua identità. Ma questa è anche una grande occasione per i cattolici per fare l’Italia. La grande risorsa del cattolicesimo ha realizzato un tessuto di vivere in co- mune, che passa nel quotidiano e nei cuori. Il cattolicesimo è oggi esperienza di identità e di unità per tanti italiani. È stata famiglia degli italiani, trasmettendo quei valori che richiamano l’unità, il non vivere per sé e tant’altro che non richia- mo. L’Italia – nota Ilvo Diamanti – si sente poco in modo istituzionale e molto con un lessico familiare (la famiglia è una realtà il cui consenso è cresciuto, mentre tutti gli altri, Europa compresa, sono in calo). Renan diceva che la nazione è il plebiscito di tutti i giorni. Ma la nazione non si può negoziare ogni giorno, pena l’instabilità, l’assenza di imprese e di obbiettivi. La rissosità quotidiana nasce da una politica senza visione e da un paese che gira avvitato attorno a sé con un moto circolare, come una trottola, perché non sa dove andare. Ma le visioni sono impossibili o miracoli in un paese che ha consumato le sue culture politiche recenti, quelle storiche più remote. Solo un investimento di cultura può bonificare un parlare e un litigare senza substrato di significati. Abbiamo poco in comune, ma anche tanto. Siamo diversi dagli altri paesi eu- ropei. Quest’Italia è carica di una storia più lunga del suo Stato unitario, come è espresso dall’incredibile concentrazione di patrimonio artistico, che ne fa un riferi- mento imprescindibile di umanesimo nella cultura mondiale. La storia comune è una mescolanza di esistenze, una comunione di sacrifici, insomma un vivere insie- me nelle difficoltà. Ci si accorge di come la storia comune ci sia penetrata dentro, quando arrivano i divorzi. I divorzi possono arrivano quando alla pazienza del vi- vere insieme sopraggiunge la demonizzazione dell’altro. Questo non possiamo per- mettercelo. Questo non ci piace e non ci crediamo come cristiani.

• La missione è forse indicata da due necessità immediate. Quella di dire agli immigrati, ai nuovi italiani in che famiglia entrano. Non discuto ora di politiche

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 143 Andrea Riccardi migratorie, ma siamo in un’ora storica in cui l’emigrazione in Europa non si ferma (il politico non lo dice, perché sa che sugli immigrati si vincono le elezioni, ma lo storico lo sa). Lo ius sanguinis non dà più identità e dovremo andare a modelli di integrazione capaci di allargare le maglie, ma anche di comunicare un’identità. Senza un’identità si è invasi: bastano pochi e giovani. Grandi paesi cristiani hanno realizzato processi integrativi importanti. Ma bisogna sapere chi si è. La missione è collocarsi nel mondo. C’è un ritardo. Un ordine sparso nel pro- cedere. C’è l’Europa: i cattolici ne hanno timore con giusti motivi, ma senza Euro- pa la nostra civiltà non reggerà il confronto con il mondo nei prossimi trent’anni. Questa Europa, troppo grande e istituzionale, non basta. Si chiede meno Europa, ma forse è un modo anche per dire che la sia vuole di più e in modo diverso. Ci so- no alcune grandi piste da ripercorrere nel mondo (per la politica, l’impresa, l’eco- nomia, la finanza e via dicendo), mentre siamo assenti da troppo tempo da vari scenari. Basta pensare che l’area euromediterranea vale sette volte il pil della Cina, ma andrebbero profilate «le nervature commerciali» del paese. In questo la neces- sità di quel “fare sistema”, la cui mancanza è male cronico della nostra società ita- liana, ma condizione necessaria per l’estroversione di un paese. Come nel mondo globalizzato, ogni grande gruppo economico non può vivere solo in una dimensio- ne nazionale ma deve internazionalizzarsi conservando le radici domestiche; così ogni Stato deve investire su una missione internazionale. L’Italia era un Paese importante nel mondo piccolo della guerra fredda; ora è un piccolo Paese nel mondo della globalizzazione. Siamo la generazione della tran- sizione. Questo cambiamento non è la fine del paese, ma quella di un tipo di paese. Da qui bisogna realisticamente ripartire con una visione.

ÿ

144 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 I cattolici, la Chiesa e la costruzione dell’Europa unita

La storiografia si è solo episodicamente dedicata a stu- ALFREDO CANAVERO diare il rapporto tra le religioni, in particolare la religio- Università Cattolica ne cattolica, e la costruzione dell’Europa. Eppure sareb- del Sacro Cuore be difficile pensare a una Europa unita senza considera- Milano re il peso del fattore religioso, senza ricordare il valore unificante del cristianesimo nella formazione della ci- viltà occidentale, senza contare il ruolo determinante avuto, specie agli esordi del processo di integrazione eu- ≈ ropea, da uomini politici cattolici o senza riflettere sul- «È pur vero l’importanza di alcune prese di posizione dei romani […] pontefici ed in particolare di Pio XII. Come ha detto il che in Italia non teologo domenicano francese Yves Congar: «L’Europa è esiste più da stata fatta dal cristianesimo. Se si vuole fare l’Europa tempo alcuna opposizione moderna senza il cristianesimo non funzionerà». all’unità europea […] marestada ÿ I primi passi della costruzione europea verificare l’adesione effettiva, convinta • Anche in Italia il tema non è stato ancora sufficientemen- degli italiani. 1 te approfondito, nonostante qualche contributo recente . Forse il punto L’impressione che emerge da una prima analisi degli studi esi- fondamentale sta stenti è quella di una dicotomia tra «opportunismo e profezia», proprio qui. Gli italiani accettano vale a dire tra una «carica universalistica» che spingeva i cattolici l’Europa, ma a occuparsi, talvolta un po’ astrattamente, dell’universo mon- hanno mai do, e un «tenace particolarismo» che induceva molti uomini davvero riflettuto politici cattolici a cercare nella politica estera o nell’Europa una su quale Europa vogliono?» legittimazione per meglio affermarsi nella politica interna2. ≈ 1 Cfr. A. Canavero, I cattolici e l’Europa, in M. Impagliazzo (a cura di), La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, Guerini, Milano 2004, pp. 457- 479. 2 Cfr. G. Rumi, Opportunismo e profezia. Cultura cattolica e politica estera italiana 1946-1963, in «Storia contemporanea», 1981, n. 4-5, pp. 811-828.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 145 Alfredo Canavero

Alle origini del processo di integrazione europea si poteva notare anche all’interno della Chiesa italiana un distacco tra le decise prese di posizione europeiste di Pio XII e una certa indifferenza da parte dei vescovi, molto più impegnati a seguire la vita delle loro diocesi in un momento difficile della storia del paese. Pio XII aveva compreso la necessità che l’ordine internazionale così come l’ordine sociale interno degli Stati mu- tasse. Egli fu tra i primi a capire la nuova realtà internazionale del dopoguerra, che la- sciava sulla scena solo due superpotenze. «Le grandi nazioni del continente», anche quelle che fino a poco tempo prima erano state ricche, gloriose e potenti, dovevano prenderne atto. Esse non potevano più misurarsi «con il metro del proprio passato», ma fare i conti con le «realtà del presente» e le «previsioni dell’avvenire»3. Nessuno Stato europeo era più in grado di fare da sé, sia dal punto di vista militare che da quel- lo politico o economico. Occorreva quindi che i paesi europei si allineassero «in una unità politica ed economica superiore», per evitare di trovarsi indifesi nei confronti di «ogni politica di violenza aperta o larvata»4. Senza una qualche forma di unione gli Stati europei che ancora non erano finiti nell’orbita sovietica rischiavano di essere sopraffatti, di perdere la libertà e di veder travolgere la stessa civiltà occidentale basa- ta sul cristianesimo. Per evitare questo destino i paesi europei dovevano unirsi, ma soprattutto restituire alla religione il posto che le competeva, ristabilendo il tradizio- nale legame tra fede e civiltà europea. Pio XII vagheggiava una Europa geografica- mente coincidente, grosso modo, con l’Europa evangelizzata da San Benedetto, non a caso proclamato nel 1947 «padre dell’Europa»5, un’Europa che si estendeva «dal Mare del Nord al Mediterraneo, dall’Atlantico alle verdi distese della Polonia»6.Ma la situazione internazionale era profondamente mutata dopo il 1945. La guerra fredda aveva aggiunto nuove divisioni politiche alle antiche divisioni tra le diverse confessioni cristiane. Si doveva dunque realisticamente ripiegare su un’Europa più ristretta, sull’Europa occidentale, escludendo, per di più, Stati a regime dittatoriale come la Spagna o il Portogallo. Pio XII era ben consapevole delle difficoltà per giun- gere all’unione dell’Europa. Invitava quindi a rispettare i «caratteri culturali di cia- scun popolo» evitando, «per esagerato amore di uniformità», un forzato livellamen- to. Ma ancora una volta il pontefice non perdeva occasione per riaffermare che «per mantenersi in equilibrio e per appianare le vertenze», l’Europa doveva reggersi «su un fondamento morale incrollabile». E tale fondamento non poteva essere altro che la religione «che impregnava in profondità tutta la società di fede cristiana»7.

3 Pio XII, L’Unione europea: già troppo tardi?, 11 novembre 1948, in P.Conte (a cura di), I papi e l’Europa. Documenti (Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI), Elledici, Torino 1978, p.64. 4 Ivi, p. 63. 5 Cfr. B. Delpal, San Benedetto un patrono per l’Europa, in A. Canavero, J.-D. Durand (a cura di), Il fattore religioso nell’integrazione europea, Unicopli, Milano 1999, pp. 55-68. 6 Pio XII, San Benedetto, “padre” e “fondatore” dell’Europa, 18 settembre 1947, in I papi e l’Europa, cit., p. 58. 7 Ivi, p. 64.

146 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero

• Sul piano più strettamente politico è ben nota e conosciuta l’azione di Alcide De Gasperi a favore dell’integrazione europea, che si può qui soltanto accennare8. Il suo ruolo fu determinante a partire dalle fine degli anni Quaranta. Collocata stabilmente l’Italia nella sfera occidentale, iniziato il processo di ricostruzione mo- rale e materiale del paese, De Gasperi poté dedicarsi alla prospettiva europea. Non si trattava certo di trascurare gli interessi nazionali dell’Italia, ma di trovarne la so- luzione in un ambito più vasto. De Gasperi entrò anche in contatto con le orga- nizzazioni europeiste e in particolare, superate alcune perplessità iniziali, con il Movimento federalista europeo di , che lo indusse ad accettare sen- za riserve la soluzione federale. A conclusione di questo percorso De Gasperi firmò, il 4 novembre 1950 a Roma, la petizione popolare per uno Stato federale europeo promossa dall’Unione Europea dei Federalisti. Fu questa la base ideale su cui il presidente del Consiglio condusse l’Italia a firmare i trattati che istituivano la CECA e la CED. Pio XII, come si è accennato, era decisamente favorevole ad una soluzione fe- derale per l’unità europea9. Al momento del fallimento della CED usò toni molto duri, condannando la ripresa di una politica nazionalistica, «germe d’infiniti mali»10 e accusando lo Stato «nazionalistico» di essere «un principio di dissoluzio- ne della comunità dei popoli», «germe di rivalità e fomite di discordie»11.Nel 1957, all’indomani della firma dei Trattati di Roma, prese posizione sull’organizza- zione della CEE, lamentando la minore dose di sopranazionalità del suo esecutivo rispetto a quello della CECA e parlando di un vero e proprio «regresso»12. La simpatia del pontefice per l’Europa dei Sei, un’Europa prevalentemente cat- tolica e a guida democratico cristiana fece nascere e prosperare il mito dell’«Europa vaticana» con la conseguenza di rendere sospetta l’idea europea al mondo prote- stante e a partiti e sindacati di ispirazione socialdemocratica13. Desta un certo stupore, di fronte all’appassionata partecipazione di Pio XII, il sostanziale silenzio dell’episcopato italiano sul tema europeo almeno fino alla firma dei Trattati di Roma. Il tema non è stato ancora affrontato con uno studio d’insie-

8 Tra gli studi sul tema cfr. in particolare D. Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, il Muli- no, Bologna 2004 e S. Lorenzini, L’impegno di De Gasperi per una Europa unita,inE.Conze,G. Corni, P. Pombeni (a cura di), Alcide De Gasperi: un percorso europeo, il Mulino, Bologna 2005, pp.195-230. 9 Cfr. A. Canavero, Chiesa e cattolici italiani di fronte all’Europa. Fra cultura e politica, in A. Acer- bi (a cura di), La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, «Vita e Pensie- ro», Milano 2003, pp. 406-409. 10 Pio XII, Messaggio Ecce ego declinabo al mondo intero nella vigilia del santo Natale, in Enchiri- dion della pace,1,Pio X-Giovanni XXIII, EDB, Bologna 2004, p. 1375. 11 Ibidem. 12 Pio XII, Allocuzione al Congresso d’Europa, 13 giugno 1957, in I papi e l’Europa, cit., p. 104. 13 Sul mito dell’Europa vaticana è d’obbligo il rimando a P.Chenaux, Une Europe vaticane? Entre le plan Marshall et les traités de Rome, Editions Ciaco, Bruxelles 1990.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 147 Alfredo Canavero me, ma le prime ricerche tenderebbero a confermare le impressioni di alcuni con- temporanei14, vale a dire l’assenza di prese di posizione significative15, quasi che la voce del papa o qualche più o meno sporadico articolo su quotidiani o riviste cat- toliche esaurisse l’interesse dell’episcopato per l’argomento. Qualcosa di analogo avveniva all’interno della Dc, dove a manifestare lo stesso entusiasmo per l’Europa di De Gasperi erano alcuni personaggi minori, come Giacchero, Bastianetto, Benvenuti o Montini, mentre gli esponenti più influenti si ritenevano paghi degli interventi del presidente del Consiglio. Morto De Gasperi, tuttavia, altri uomini politici democristiani si adoperarono perché il disegno euro- peista dei padri fondatori non andasse perduto o si limitasse ai soli aspetti econo- mici. È un capitolo ancora in gran parte da scrivere, ma di cui si possono ricordare alcuni fatti e personaggi salienti.

ÿ Dopo De Gasperi: luci e ombre

non era certamente un federalista, ma seguì attentamente la vicenda europea, di cui comprendeva la fondamentale importanza per permette- re all’Italia di giocare un ruolo sulla scena internazionale e consolidarne la ripresa economica. Fanfani era interessato soprattutto agli aspetti economici dell’integra- zione ed in particolare ai progetti di messa in comune dell’energia atomica. Da Se- gretario del partito fece aderire immediatamente la Dc al Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa, costituito ufficialmente il 13 ottobre 1955 da Jean Mon- net, e che aveva tra i suoi scopi proprio quello di favorire un tale risultato. Negli anni Sessanta Fanfani fu in prima fila per cercare una soluzione al dissi- dio franco-britannico, favorendo l’ingresso della Gran Bretagna nel MEC. Suo scopo era quello di equilibrare l’asse Parigi-Berlino, reso più saldo dai rapporti di amicizia tra De Gaulle e Adenauer, con un asse Roma-Londra. Si possono poi ricordare Paolo Emilio Taviani, a lungo ministro della Difesa, che ebbe un ruolo significativo nella vicenda dell’atomica europea16, o Emilio Co- lombo, presidente del Parlamento europeo dal 1977 al 1979, fautore deciso dell’e- lezione diretta dell’assemblea17, autore, assieme al tedesco Hans-Dietrich Gen- scher, di un progetto per la modifica dei trattati europei in modo da rendere più

14 Cfr. I. Murgia, Principi ed attuazioni federali,inI cattolici ed il federalismo, Atti del IV Conve- gno di studi del Centro di Azione Europea, Roma 1961. 15 Cfr. W.E. Crivellin, L’episcopato del triangolo industriale italiano di fronte ai temi europei,inA. Canavero, J.D. Durand (a cura di), Il fattore religioso nell’integrazione europea, cit., pp. 119-123. 16 Cfr. P. Cacace. L’atomica europea, Fazi Editore, Roma 2004. Qualche accenno in P.E Taviani, Politica a memoria d’uomo, il Mulino, Bologna 2002, pp. 215-217. 17 Cfr. la prefazione di a Elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale di- retto, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità europea, Lussemburgo 1977.

148 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero agevole il funzionamento delle istituzioni, progetto presentato al Consiglio Euro- peo di Londra del 26-27 novembre 198118. Giulio Andreotti19, a lungo Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, si mantenne sovente a stretto contatto coi federalisti italiani20. Alla Conferenza al vertice di Parigi (19-21 ottobre 1972), sulle ali dell’entusiasmo per il primo allar- gamento della Comunità, propose l’istituzione della cittadinanza europea, che avrebbe avuto come conseguenza la possibilità per tutti gli appartenenti alla Co- munità europea di partecipare alle elezioni comunali dello Stato in cui risiedevano, ancorché non ne avessero la cittadinanza. Soltanto il Belgio e il presidente della Commissione, , lo appoggiarono e la proposta fu ritirata21. Decisi- vo fu poi il ruolo di Andreotti al Consiglio Europeo di Milano del 28 e 29 giugno 1985, quando si decise di convocare una conferenza intergovernativa per la rifor- ma dei Trattati di Roma, prima tappa di un percorso che avrebbe poi portato al- l’Atto Unico europeo. Furono proprio Craxi e Andreotti a forzare la situazione con una votazione a maggioranza, procedura prevista dai Trattati, ma mai in preceden- za adottata, mettendo in minoranza Danimarca, Grecia e soprattutto la Gran Bre- tagna della signora Thatcher, che ne fu particolarmente irritata22.

• Se alcuni politici cattolici furono protagonisti dello sviluppo dell’integrazio- ne europea operando da Roma, molto pochi furono quelli che vollero impegnarsi nelle istituzioni europee a Bruxelles o a Strasburgo. Le cariche istituzionali europee erano infatti viste in modo ambivalente. Potevano certo dare prestigio, ma spesso risultavano un handicap per il proseguimento della carriera politica in Italia, come dimostrò il caso di , il quale, dopo aver ricoperto la carica di presi- dente dell’Alta Autorità della CECA dal 1959 al 1963, non fu rieletto al parlamen- to italiano nelle elezioni del 28 aprile 1963. Nonostante le frasi ad effetto dedicate all’integrazione europea da questo o quel personaggio politico di spicco, era pur sempre la politica interna a restare al

18 Anche se un federalista convinto come Altiero Spinelli giudicò il piano presentato dai ministri degli esteri italiano e tedesco «il nulla scritto in 20 pagine». Citato da F. Zucca, Il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa, in A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970- 1986, il Mulino, Bologna 2000, p. 887, n.83. 19 Anche Jacques Delors nelle sue recenti Memorie ha riconosciuto che Andreotti «a fait beaucoup pour l’Europe». J. Delors, Mémoires, Plon, Paris 2004, p.213. 20 Cfr. S. Pistone, I movimenti per l’unità europea in Italia, in A. Landuyt e D. Preda (a cura di), Imo- vimenti per l’unità europea, cit., pp. 74, 97-98, 112 e 116. Cfr. anche, ivi, C. Rognoni Vercelli, L’Europa a Milano. La manifestazione federalista del 28 e 29 giugno 1985, pp. 618-619. Un esponente “storico” del fe- deralismo italiano, Umberto Serafini, ha parlato a proposito di Andreotti di «vecchio impegno federali- sta». U. Serafini, Storia del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa (1974-1986), ivi, p.1081. 21 Cfr. A. Landuyt, I movimenti per l’unità europea e la dimensione sociale (1948-1984), in A. Lan- duyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, cit., p.483. 22 Cfr. M. Thatcher, The Downing Street Years 1979-1990, Harper Perennial, New York 1993, p. 551.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 149 Alfredo Canavero centro dell’attenzione dei più. È noto il caso di Franco Maria Malfatti23, che pre- ferì dimettersi dalla prestigiosa carica di presidente della Commissione europea nel marzo 1972 (a cui era stato nominato meno di due anni prima) per presentarsi alle elezioni politiche italiane di quell’anno24. L’effetto sul prestigio dell’Italia nelle isti- tuzioni comunitarie, come si può ben immaginare, fu disastroso. Nessun altro ita- liano, fino alla recente nomina di a presidente della Commissione nel settembre 1999, ebbe più da allora incarichi di primo piano. In altri casi la nomina a cariche europee era vista come una sorta di “pensione dorata” per uomini politici al termine della loro carriera nazionale. Mario Scelba fu nominato presidente del Parlamento europeo nel 1969, quando, come lui stesso ha scritto, fu «libero da impegni nazionali»25. Scelba mantenne la carica fino al 1971, conseguendo peraltro buoni risultati e contribuendo a dare maggior prestigio e pe- so politico all’Assemblea. Dopo l’introduzione nel 1979 del suffragio diretto per l’elezione del Parlamen- to europeo, i partiti politici italiani considerarono abitualmente le elezioni europee come una specie di sondaggio d’opinione particolarmente sicuro per verificare la propria consistenza. La campagna elettorale europea era (ed è tuttora) combattuta su problemi di politica interna, spesso senza alcun collegamento con pur impor- tanti scelte a livello comunitario. Il fenomeno, presente fin dall’inizio, si è accen- tuato dopo il passaggio ad un sistema in buona parte maggioritario per le elezioni parlamentari italiane. Per di più, al fine di conseguire risultati migliori, la Demo- crazia Cristiana, imitata d’altra parte da tutti gli altri partiti, mise sempre come ca- pilista esponenti di primo piano, che in molti casi ricoprivano già cariche istituzio- nali nazionali di rilievo e che di conseguenza avrebbero avuto ben poco tempo da dedicare all’attività del Parlamento europeo una volta eletti. Il risultato poteva esse- re positivo in termini di consenso elettorale, ma negli ambienti europei era la con- ferma della scarsa affidabilità degli italiani. La scomparsa dei partiti tradizionali non ha certo fatto venir meno questo malvezzo.

• Benché pochi (e poco conosciuti), alcuni uomini politici cattolici italiani eb- bero ruoli di rilievo negli organismi esecutivi comunitari. Si è già detto di Piero Malvestiti, vicepresidente della Comunità Economica Europea dal 1958 al 1959 e

23 Su cui cfr. C. Franceschini, Malfatti, Franco Maria, in F. Traniello, G. Campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Genova 1995, pp. 355-356. 24 Anche se alla sua scelta non furono estranee altre ragioni, come le difficoltà incontrate, specie da parte dei francesi, nel tentativo di rafforzare le competenze della Commissione. Cfr. A. Varsori, La cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 279. 25 M. Scelba, Per l’Italia e per l’Europa, Cinque Lune, Roma 1990, p.143. I ricordi del periodo passato da Scelba al Parlamento europeo ivi, pp.143-150.

150 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero poi presidente dell’Alta Autorità della Comunità Europea del Carbone e dell’Ac- ciaio dal 1959 al 1963. Malvestiti era consapevole che solo un’Europa unita avreb- be potuto avere un peso nell’economia mondiale. Il risultato finale doveva essere un’Europa federale, ma per arrivarci bisognava necessariamente passare attraverso successive tappe settoriali. (1922-1989) percorse un cammino opposto a quello di Malfat- ti. Egli aveva iniziato una brillante carriera ministeriale e aveva una posizione poli- tica che gli avrebbe permesso di restare al governo per gli anni a venire. Abbandonò invece la politica interna per entrare come vicepresidente nella Commissione CEE presieduta da Roy Jenkins nel 1977, rimanendovi poi con Gaston Thorn e Jacques Delors fino al gennaio 1989. Ebbe un ruolo importante nei negoziati per l’allarga- mento della Comunità Europea a Grecia, Spagna e Portogallo e coordinò gli aiuti straordinari ai paesi africani aderenti alla Convenzione di Lomé26. In precedenza, nella sua veste di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, aveva sovrainteso al- la firma dei Trattati di Roma e, come ministro dell’agricoltura dal 1969 al 1973, aveva negoziato la revisione della politica agricola comunitaria. Eppure di lui e della sua attività europea si conosce ancora poco, così come po- co si conosce dell’attività di altri rappresentanti democristiani nelle istituzioni eu- ropee, da Enrico Medi (1911-1974)27, vicepresidente dell’Euratom dal 1958 al 1965, a Dino Del Bo, successore di Malvestiti alla presidenza dell’Alta Autorità della CECA, in carica dal 1963 al 1967, a Giuseppe Caron, vicepresidente della Commissione CEE dal 1959 al 1963, a Carlo Scarascia Mugnozza, vicepresidente della Commissione CEE dal 1972 al 1977. Opportune ricerche potrebbero forse modificare il giudizio comune sulla scarsa incisività dei rappresentanti italiani in seno agli organismi comunitari.

ÿ L’internazionalismo bianco

• Recentemente sono stati intrapresi studi sui contatti europei e internazionali della Democrazia Cristiana, che si sono aggiunti ai lavori di Roberto Papini, risa- lenti alla seconda metà degli anni Ottanta28. La Dc fu tra i fondatori di quella che può essere considerata la prima internazionale democratico cristiana del dopoguer-

26 Su Natali si veda la voce di O. Di Stanislao, Natali, Lorenzo, in F. Traniello, G. Campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, cit., pp. 385-387. 27 Cfr. L. Musci, Medi, Enrico,inDizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, III, 2, Le figure rappresentative, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 542-543. 28 Cfr. R. Papini, L’Internazionale Dc. La cooperazione tra i partiti democratici cristiani dal 1925 al 1985, Franco Angeli, Milano 1986, e l’edizione francese aggiornata dello stesso testo L’Internationale démocrate chrétienne: la coopération internationale entre les partis démocrates-chrétiens de 1925 à 1986, Cerf, Paris 1988.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 151 Alfredo Canavero ra, la NEI (Nouvelles Équipes Internationales)29. Istituita nel 1947 per iniziativa del francese Robert Bichet, la NEI favorì l’incontro delle personalità democristiane d’Europa e creò un clima d’apertura e di cordiale collaborazione tra di loro e tra i partiti d’ispirazione cristiana dei diversi paesi europei, grazie ai periodici congressi organizzati. Nel 1965 la NEI si trasformò nell’Unione Europea della Democrazia Cristiana (UEDC), di cui fu primo Presidente , allora segretario della Dc italiana. Subito dopo la fondazione dell’UEDC i tedeschi chiesero che i conservatori britannici e scandinavi vi potessero aderire, incontrando però le resistenze dei de- mocristiani italiani e belgi. «La controversia – ha scritto Jean–Marie Mayeur – fa capire che c’era da scegliere tra due possibili tendenze dei partiti democristiani: o la via conservatrice, accompagnata da una deconfessionalizzazione di fatto, o la via “autonoma”, che si sforza di salvaguardare la specificità democristiana mantenen- dosi al centro»30. A differenza di quanto avverrà in seguito nel Partito Popolare Eu- ropeo, fu scelta allora la seconda ipotesi. Avvicinandosi la prima elezione diretta del Parlamento europeo, il 29 aprile 1976 fu fondato il Partito Popolare Europeo (PPE), a cui la Dc italiana aderì im- mediatamente. Con il passare del tempo, tuttavia, il PPE da federazione dei partiti di ispirazione cristiana si è trasformato profondamente, con l’accoglimento di par- titi liberal-conservatori (a cominciare da Nea Demokratia greca nel 1981, dai con- servatori danesi nel 1992, fino ai partiti di destra dei paesi già appartenenti al siste- ma sovietico e al Popolo della Libertà italiano), che hanno molto diluito l’ispirazio- ne cristiana originaria31.

ÿ Il laicato cattolico e l’Europa

• Il laicato cattolico organizzato si avvicinò tardi alle problematiche europee, quasi che l’azione di De Gasperi e i richiami di Pio XII esaurissero la questione. Tra le poche eccezioni degli anni Cinquanta si può ricordare la costituzione del Centro di Azione Europeistica, fondato nel 1950 per impulso di Vittorino Veronese e di monsignor Montini nell’ambito dell’Istituto Cattolico di Attività Sociale per pro- pagandare l’idea europea nelle organizzazioni cattoliche. Fu questo uno dei rari

29 Cfr. J.D. Durand (a cura di), Le Nouvelles Équipes Internationales. Un movimento cristiano per una nuova Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. Cfr. Anche N. Bacharan–Gressel, Les organi- sations et les associations pro-européennes, in S. Bernstein, J.-M. Mayeur, P.Milza (a cura di), Le MRP et la construction européenne, Editions Complexe, Bruxelles 1993, pp. 45-49. 30 J.M. Mayeur, Partiti cattolici e democrazia cristiana in Europa. Ottocento–Novecento, trad. it., Jaca Book, Milano 1983, p. 297. 31 Cfr. J.D. Durand, Storia della Democrazia cristiana in Europa. Dalla Rivoluzione francese al po- stcomunismo, Guerini e associati, Milano 2002, pp. 281-285.

152 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero tentativi da parte del laicato cattolico organizzato di coinvolgere maggiormente il “popolo cattolico” nei temi europei. Veronese favorì anche l’adesione del Centro al Secrétariat Catholique d’Information et de Liaison pour tous les Problèmes Eu- ropéens (SCPE), fondato a Strasburgo nel novembre 1949 per agevolare gli incon- tri tra i cattolici europei. Dopo l’approvazione dei trattati di Roma il Centro di Azione Europeistica aumentò le sue iniziative, approfondendo in particolare i pro- blemi dell’agricoltura. Se, come si è visto, in questa prima fase risulta difficile individuare un impegno europeista particolare da parte delle organizzazioni cattoliche, si deve però sottoli- neare, d’altro canto, che pochissimi tra i cattolici italiani si opposero all’idea euro- pea. Vi erano piuttosto cattolici che avrebbero auspicato un maggior impegno eu- ropeista dell’Italia o che si preoccupavano del prevalere delle motivazioni economi- che o diplomatiche su quelle spirituali, religiose o culturali nella costruzione del- l’Europa. Al momento della firma dei Trattati di Roma su alcuni giornali e periodi- ci cattolici si manifestò il timore che l’Europa dei “mercanti” stesse prendendo il sopravvento e mettesse in secondo piano un’Europa che doveva realizzare pace, so- lidarietà e fraternità fra i popoli del continente alla luce della civiltà cristiana. L’u- nità economica sembrava realizzarsi prima e a scapito dell’unità politica, deluden- do le attese di molti, non solo cattolici. Don Primo Mazzolari, convinto che «lo Stato Nazionale Sovrano è l’ostacolo primo all’attuazione del primo precetto di Gesù “Ama Dio con tutto il tuo cuore e il prossimo tuo come te stesso”32, e i suoi collaboratori Franco Bernstein e Mario Vittorio Rossi non nascondevano sulle pagine di «Adesso» la loro delusione per una Europa poco federale e che privilegiava gli aspetti economici33. Nello stesso senso si esprimevano i gesuiti milanesi di «Aggiornamenti sociali»34. Ma, dopo tut- to, il processo di integrazione europea proseguiva e ciò faceva passare in secondo piano parecchie perplessità e apriva l’animo alla speranza. «L’Osservatore Romano» poteva allora scrivere, con una certa enfasi, che la firma dei Trattati di Roma era l’«avvenimento politico internazionale più illustre e significativo che la storia mo- derna dell’Urbe ricordi»35. Riviste come «Studium», «Civitas» o «Humanitas»36 non hanno mancato di in- tervenire in diversi momenti nel dibattito culturale sull’Europa, come pure le rivi-

32 A. Bergamaschi, La «Rivoluzione cristiana» di don Primo, in G. Campanini e M. Truffelli (a cu- ra di), Mazzolari e «Adesso». Cinquant’anni dopo, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 342-343. 33 Per questi temi mi permetto di rinviare a A. Canavero, “Perché l’Europa viva”. «Adesso» e il pro- cesso di integrazione europea, in «Impegno», n.1, aprile 2004, pp.61-78. 34 Cfr. G. Rumi, L’Europa malgrado tutto. Ambienti cattolici e Trattati di Roma, in E. Serra (a cura di), Il rilancio dell’Europa e i Trattati di Roma, Bruylant-Giuffré-LGDJ-Nomos Verlag, Bruxelles-Mila- no-Paris-Baden-Baden 1989, pp. 605-606. 35 Ivi, p. 614. 36 Di «Humanitas» si può ricordare l’inchiesta condotta nel 1950 sul tema “Che cosa è l’Europa”.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 153 Alfredo Canavero ste dell’Università Cattolica di Milano, da «Vita e Pensiero» alla «Rivista Interna- zionale di Scienze Sociali». L’interesse per l’Europa sembra poi essersi accentuato dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della divisione dell’Europa in due bloc- chi contrapposti. In una delle sue profetiche Lettere alle claustrali,Giorgio La Pira aveva paragonato la «cortina di ferro» alle mura di Gerico, scrivendo che anche questa, come le mura della città conquistata da Giosué, sarebbe crollata pacifica- mente «per virtù di forze spirituali interiori», permettendo così la ripresa della pre- dicazione religiosa nei paesi dell’orbita sovietica37. A molti cattolici, effettivamen- te, il crollo del muro di Berlino apparve come un miracolo, che rendeva possibile la realizzazione di una Europa unita dall’Atlantico agli Urali.

• Quando nell’aprile 1991 si tenne la prima delle rinnovate Settimane sociali dei cattolici italiani, che erano state interrotte nel 1970, il tema scelto fu «I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa»38. Nel clima euforico per il fallimento dell’ideologia comunista mons. Fernando Charrier, presidente del comitato orga- nizzatore, rilevò come finalmente fosse possibile «superare i dualismi e le contrap- posizioni ideologiche che hanno caratterizzato i percorsi della storia europea»39. «Solo due anni fa – veniva detto nel documento preparatorio alla Settimana – sa- rebbe parso inverosimile parlare di una nuova vitalità dell’Europa»40. Ora invece la situazione era radicalmente mutata grazie a tre fatti nuovi: il crollo del modello po- litico comunista, la prevalenza del modello occidentale e l’unificazione progressiva dell’Europa occidentale. Restavano tuttavia alcuni problemi aperti, come conclu- deva Charrier; primi fra tutti la determinazione dei confini dell’Europa e la defini- zione degli assetti istituzionali della futura Comunità allargata41. Ma era il piano sociale che preoccupava maggiormente Charrier. «La tentazione di giocare al ribas- so nelle spese sociali per rilanciare gli investimenti nel mercato»42 era da respinge- re. Al contrario occorreva ribadire il principio di solidarietà nei confronti dei più poveri, tra i quali un posto importante spettava agli immigrati «dai tanti Sud del mondo»43. L’Italia, in particolare, già terra di emigranti, diveniva ora una delle ter- re promesse dei nuovi poveri del mondo, a cui si doveva dare una risposta «spiri- tuale, civile e culturale» prima ancora che in termini economici e sociali44. Ancora

37 G.La Pira, Lettere alle claustrali, Vita e Pensiero, Milano 1978, p. 54. 38 I cattolici e la nuova giovinezza dell’Europa. XLI Settimana sociale dei cattolici italiani, Roma, 2-5 aprile 1991, Editrice AVE, Roma 1992. 39 F. Charrier, Conclusioni, ivi, p. 399. 40 Comitato Scientifico Organizzatore, I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa. Docu- mento preparatorio, ibidem, p. 29. 41 Ivi, p. 412. 42 F. Charrier, Conclusioni, cit., p. 414. 43 Ivi, p. 405. 44 Ibidem.

154 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero una volta la Chiesa cattolica auspicava l’unificazione europea come strumento per affrontare e risolvere problemi sociali alla luce del cristianesimo, base comune del vecchio continente45. Qualche mese prima della Settimana sociale anche l’XI Convegno Vittorio Ba- chelet era stato dedicato all’Europa46. Da allora i convegni, gli incontri, i numeri speciali di riviste cattoliche dedicati all’Europa si sono moltiplicati47, con dei picchi rilevanti in occasione di particolari eventi, come il Trattato di Maastricht o l’introdu- zione dell’Euro. Da tutta questa serie di interventi non sembra però siano scaturite una chiara visione e un progetto unitario per l’Europa del laicato cattolico italiano.

ÿ Dopo Pio XII: Giovanni XXIII e Paolo VI

• Sull’atteggiamento di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II di fronte all’Europa molto è stato scritto, ma molto resta ancora da dire. È stata giustamente rilevata la maggiore apertura internazionale, dall’Europa al mondo, dei pontificati giovanneo e paolino. Anche per questa fase storica resta tuttavia da verificare con opportuni studi l’efficacia concreta degli interventi magisteriali sul resto della Chie- sa, in particolare quella italiana. Anche in mancanza di lavori specifici, credo si pos- sa però azzardare l’ipotesi che la maggiore apertura internazionale della Chiesa con Giovanni XXIII e il Concilio, che portò anche alla costituzione di appositi organi- smi ecclesiali per i rapporti con le istituzioni europee, abbia indotto l’episcopato ita- liano a prestare una maggiore attenzione verso i temi europei rispetto al passato. Papa Roncalli non prese posizione su come l’unificazione europea si andava sviluppando, ma piuttosto intese sottolinearne la necessità dell’apertura al resto del mondo. Una Europa ricca dal punto di vista economico doveva dare un aiuto con- sistente ai paesi in via di sviluppo, beninteso dopo che avesse «soddisfatte le legitti- me aspirazioni dei popoli alla libertà e all’indipendenza»48. Giovanni XXIII volle anche che la Chiesa partecipasse, nei modi suoi propri, allo sviluppo dell’integra- zione europea. Nel 1962 nominò un osservatore della Santa Sede presso il Consi-

45 Si veda a questo proposito il Saluto dell’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, all’epoca presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, ivi, pp. 419-421. 46 Gli orizzonti della nuova Europa. Atti dell’XI Convegno Vittorio Bachelet, Roma, 9-10 febbraio 1991, Editrice AVE, Roma 1991. 47 Tra i tanti, segnalo il convegno tenutosi dal 21 al 23 maggio 1994 a Villa Cagnola di Gazzada e gli atti relativi: F. Citterio, L. Vaccaro (a cura di), Quale federalismo per quale Europa? Il contributo della tradizione cristiana, Morcelliana, Brescia 1996. 48 Giovanni XXIII, Allocuzione ai delegati dell’Assemblea parlamentare europea e Paesi d’oltremare associati alla CEE, 26 gennaio 1961, in IPapiel’Europa, cit., p. 131. In generale sull’atteggiamento di Giovanni XXIII verso l’Europa cfr. P. Pflimlin, Jean XXII et l’Europe, in J. Chelini (a cura di), Jean XXIII et l’ordre du monde, Nouvelle Cité et Presses Universitaires d’Aix-Marseille, Paris et Aix-Marseil- le 1989, pp. 135-143.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 155 Alfredo Canavero glio d’Europa, e volle fortemente la presenza dei vescovi dell’Europa centro-orien- tale al Concilio Vaticano II, prima tappa per ricostruire l’unità dell’episcopato eu- ropeo e iniziare una nuova politica verso i paesi dell’Europa comunista, tutti e non soltanto quelli a maggioranza cattolica. Paolo VI proseguì nel cammino del suo predecessore, accentuando l’attenzione della Chiesa per l’Europa e le sue istituzioni49. Poco dopo la sua elezione, il 9 no- vembre 1963, accolse i partecipanti alla Conferenza organizzata dal Consiglio In- ternazionale del Movimento Europeo con la frase: «Anche noi siamo per l’Europa unita!», aggiungendo subito dopo che il sostegno della Chiesa cattolica era di ordi- ne spirituale e religioso e volto alla «carità universale»50. Non si doveva quindi co- struire la «fortezza Europa», ma edificare una Europa che fosse aperta agli altri nel- la carità. Nel dicembre del 1965, ricevendo i partecipanti alla Conferenza parla- mentare tra gli Stati della CEE e quelli africani associati alla CEE, ribadì la neces- sità della «intesa fraterna» e della «attiva cooperazione» tra tutti i paesi del mon- do51. In una fase della politica mondiale caratterizzata dalla decolonizzazione, Pao- lo VI sottolineava così l’apporto positivo che l’Europa unita avrebbe potuto e do- vuto fornire al resto del mondo. La situazione dell’Europa non angosciava papa Montini meno dei problemi del cosiddetto “Terzo mondo”, a cui nel 1967 dedicò l’enciclica Populorum progressio. Quando la Francia inaugurò la politica della «sedia vuota», rifiutandosi di partecipare alle riunioni del Consiglio dei Ministri della CEE, Paolo VI fece voti perché le diffi- coltà fossero presto superate, perché la Chiesa, disse, incoraggiava «quanto può con- tribuire a ridurre le barriere tra gli uomini e le nazioni»52. Costruire l’Europa, affermò ancora il 3 aprile 1965, voleva dire contribuire anche ad edificare la pace nel mondo. E cinque giorni dopo, di fronte all’ipotesi di dover rinviare a tempi migliori una unio- ne «più profonda e più organica» tra gli Stati d’Europa esclamò: «Dio non voglia!»53. Schiaritosi l’orizzonte europeo, nel 1970 Paolo VI nominò un nunzio apostoli- co presso la Comunità europea e l’anno successivo, sollecitato da Roger Etchega-

49 Cfr. A. Giovagnoli, Paolo VI e l’Europa. Sulle orme di Pio XII e Giovanni XXIII, in A. Canavero, J.D. Durand (a cura di), Il fattore religioso nell’integrazione europea, cit., pp. 105-117 e A. Canavero, L’en- gagement pour l’Europe de Giovanni Battista Montini, aumônier de la FUCI, substitut secrétaire d’État, ar- chevêque et pape, in Inventer l’Europe. Histoire nouvelle des groupes d’influence et des acteurs de l’unité eu- ropéenne, dirigé par G. Bossuat, avec la collaboration de G. Saunier, Peter Lang, Bruxelles 2003, pp. 257- 272. Cfr. anche F. Citterio, L. Vaccaro (a cura di), Montini e l’Europa, Morcelliana, Brescia 2000. 50 Paolo VI, Allocuzione alla Conferenza del Movimento Europeo, 9 novembre 1963, in I papi e l’Europa, cit., pp. 151-153. 51 Paolo VI, Allocuzione alla Conferenza parlamentare dell’Associazione della CEE e degli Stati afri- cani e malgascio associati a tale comunità, 9 dicembre 1965, in I papi e l’Europa, cit., p. 202. 52 Paolo VI, Allocuzione alla Sezione agricola del Comitato economico e sociale della CEE, 3 aprile 1965, in I papi e l’Europa, cit., p. 181. 53 Paolo VI, Allocuzione al gruppo di lavoro per i rapporti con i Parlamenti nazionali e con l’opinione pubblica dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, 8 aprile 1965, in I papi e l’Europa, cit., p. 184.

156 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero ray, allora segretario dell’episcopato francese, istituì il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE)54, dove erano rappresentati episcopati di 17 paesi, in- clusi alcuni dell’Europa comunista, come la Polonia, l’Ungheria e la Jugoslavia. Nello stesso tempo sviluppò il dialogo ecumenico con la Conferenza delle Chiese Europee (KEK), che raggruppava le chiese protestanti e ortodosse del continente e nel 1976 istituì il Service d’Information Pastorale Européenne Catholique (SIPE- CA), con sede a Strasburgo e a Bruxelles55, per seguire i lavori delle istituzioni eu- ropee e riferirne alla Santa Sede e agli episcopati europei. Alla politica di contrapposizione tanto verso il blocco sovietico che verso le al- tre confessioni cristiane seguita da Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI sostituirono la pratica del dialogo diplomatico coi paesi comunisti (Ostpolitik) e dell’ecumeni- smo. La decisione, non da tutti condivisa in Vaticano, di far partecipare la Santa Sede alla Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa, a pieno titolo e non solamente con il rango di osservatore, fu uno dei frutti della Ost- politik voluta da Paolo VI. Alla vigilia dell’ultima fase della Conferenza, il pontefi- ce, in una lettera a mons. Casaroli, sottolineava che il papato «pur investito d’una missione religiosa aperta all’universale, ha tuttavia la sua sede in Europa, risultando in tal modo legato ancora più strettamente alla storia del continente»56. Era quindi particolarmente interessato a che fossero garantiti in Europa i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, tra cui, principalmente, la libertà religiosa. Pur consapevole dello scarso credito che si poteva fare ai paesi dell’Europa comunista in merito al rispetto degli accordi sottoscritti, Paolo VI era tuttavia convinto che qualche ele- mento positivo potesse nascere dal processo iniziato ad Helsinki. Alla metà degli anni Settanta la Comunità europea non era più la piccola Euro- pa dei Sei, l’Europa prevalentemente cattolica di Pio XII, ma una Europa che com- prendeva ormai un buon numero di protestanti e anglicani e si apprestava ad acco- gliere la Grecia ortodossa, modificando il quadro complessivo anche dal punto di vista religioso.

ÿ Lo shock Wojtyła

• Nel 1978 Karol Wojtyła, allora ancora arcivescovo di Cracovia, a qualche me- se dalla sua elezione al soglio pontificio, scrivendo sulla rivista dell’Università Cat- tolica, «Vita e Pensiero», in un momento in cui la divisione del mondo in due

54 Sull’attività della CCEE cfr. H. Steindl, Le Conseil des Conférences Épiscopales d’Europe (CCEE), in Religions et transformation de l’Europe, sous la direction de G. Vincent– J.P. Willaime, Presses Uni- versitaires de Strasbourg, Strasbourg 1993, pp. 285-291. Il Consiglio ha sede a San Gallo in Svizzera. 55 Per altre iniziative europeistiche degli episcopati nazionali, cfr. I papi e l’Europa, cit., pp. 395-396. 56 Paolo VI, Lettera a mons. Agostino Casaroli, 25 luglio 1975, in I papi e l’Europa, cit., p. 296.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 157 Alfredo Canavero blocchi sembrava un fatto comunemente accettato e destinato a durare, vagheggiò una Europa geograficamente estesa dall’Atlantico agli Urali57. Poteva parere un’utopia, un sogno. Invece Karol Wojtyła, divenuto papa, agì co- me se tale divisione non esistesse già più. Vi è chi ha visto nella politica europea di Giovanni Paolo II una svolta rispetto ai pontificati precedenti. Sembra più esatto parlare dello sviluppo di temi e motivi già presenti nella politica dei suoi predecesso- ri, ma che la nuova situazione internazionale permetteva di far emergere più chiara- mente. L’Europa diveniva il mezzo principale, forse l’unico possibile, per uscire dal- la logica della guerra fredda. L’attenzione per l’Europa come istituzione si manifestò chiaramente all’indomani della prima elezione diretta del Parlamento europeo, con la creazione, il 3 marzo 1980, della Commissione degli Episcopati della CEE (CO- MECE), che sostituì il SIPECA nel compito di accompagnare e analizzare il proces- so politico dell’integrazione europea, informare le Chiese locali sugli sviluppi della legislazione e delle politiche europee e incoraggiare la riflessione sulle sfide portate dall’unificazione europea alla luce della dottrina sociale della Chiesa58. Nello stesso tempo Giovanni Paolo II cercò di ricucire i rapporti con le Chiese ortodosse, considerando con occhi diversi la tradizione cristiana orientale e rilevan- done la complementarietà rispetto a quella latina. Con felice metafora, ha parlato spesso dei “due polmoni” della Chiesa e alla fine del 1980 ha proclamato i santi Ci- rillo e Metodio compatroni d’Europa, affiancandoli a San Benedetto. La proclama- zione fu fatta alla vigilia dell’ingresso della Grecia ortodossa nella Comunità euro- pea, ma andava al di là dell’evento politico contingente. Giovanni Paolo II intende- va infatti rilanciare il dialogo ecumenico con le chiese cristiane orientali, anche se poi le reazioni degli ortodossi a tale proclamazione non furono certo positive.

• La caduta del muro di Berlino indusse Giovanni Paolo II ad annunziare il 22 aprile 1990 a Velehrad l’indizione della prima Assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei vescovi, che si tenne poi a Roma tra il 28 novembre e il 14 dicembre 199159. Fu un momento di grande speranza, un momento che pareva «propizio per raccogliere le pietre dei muri abbattuti e costruire insieme la casa comune»60.Le

57 K. Wojtyła, Una frontiera per l’Europa: dove?, in «Vita e Pensiero», 1978, n.4-5-6, pp. 160-168. 58 Attualmente il COMECE comprende delegati delle Conferenze episcopali di Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Galles, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Ro- mania, Scandinavia (Danimarca, Finlandia e Svezia), Scozia, Slovacchia, Spagna e Ungheria. Le con- ferenze episcopali di Slovenia e Svizzera hanno il rango di osservatori. 59 Se ne vedano le conclusioni in Sinodo dei Vescovi, Assemblea Speciale per l’Europa, Declaratio “Ut testes simus Christi qui nos liberavit”, supplemento a «L’Osservatore Romano», 15 dicembre1991. 60 Giovanni Paolo II, Rinasce sotto i nostri occhi una “Europa dello spirito”, Discorso al Corpo di- plomatico accreditato presso la Santa Sede, 14 gennaio 1990, in T. Stenico, Giovanni Paolo II Padre dell’Europa, Editrice Shalom, Camerata Picena 2003, p. 242.

158 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero speranze di una rapida unificazione del continente vennero però presto meno di fronte al risorgere dei nazionalismi e alla debolezza politica e alla disunione della Comunità Europea, manifestatasi in particolare di fronte al processo di dissoluzione della Jugoslavia. La Seconda Assemblea speciale per l’Europa, che si tenne a Roma dal 1° al 23 ottobre 1999, rilevò molti più rischi e preoccupazioni che opportunità e motivi di speranza. Un confronto tra i documenti delle due Assemblee speciali per l’Europa fa ben percepire la delusione provata dalla Chiesa europea per il passaggio dalla «unità ritrovata» all’«unità minacciata»61 nel volgere di un decennio. Se il vertice della Chiesa cattolica ha sempre preso posizioni nette in favore del- l’integrazione politica ed economica dell’Europa e se in tempi recenti anche l’epi- scopato italiano ha moltiplicato il suo interesse per i temi europei, resta pur sempre il dubbio di un accoglimento un po’ apatico da parte di quella che si usa definire “la base” del mondo cattolico della penisola. Lo rilevava il cardinal Camillo Ruini, introducendo i lavori del Secondo Forum del progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, svoltosi a Roma dal 4 al 5 dicembre 1998. Dopo aver ricordato l’attenzione e il sostegno dato alla causa dell’unità europea dalla Chiesa e da alcuni uomini politici cattolici, Ruini osservava «che le tematiche europee non sempre hanno ottenuto, in questi decenni, un’analoga attenzione da parte della nostra base ecclesiale»62. È pur vero, come sottolineava lo stesso Ruini, che in Italia non esiste più da tempo alcuna opposizione all’unità europea (fatta salva qualche presa di po- sizione da parte della Lega), ma resta da verificare l’adesione effettiva, convinta de- gli italiani.

ÿ Alcuni problemi aperti

• Forse il punto fondamentale sta proprio qui. Gli italiani accettano l’Europa, ma hanno mai davvero riflettuto su quale Europa vogliono? Quali sono, ad esem- pio, i confini dell’Europa63? Fino a dove si spinge l’Europa e dove cominciano gli altri? Certo, all’epoca della guerra fredda i confini erano più facilmente tracciati. L’Europa era l’Europa occidentale, l’Europa delle democrazie, anche se così resta- vano fuori paesi più o meno forzatamente neutrali come l’Austria o la Finlandia, senza parlare dei paesi retti da regimi autoritari, come la Spagna e il Portogallo fino

61 Gesù Cristo vivente nella sua Chiesa sorgente di speranza per l’Europa. Instrumentum laboris,Pao- line Editoriale Libri, Milano 1999, pp. 11-13. 62 C. Ruini, Riflessione introduttiva, in Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della Confe- renza episcopale italiana, l’Europa sfida e problema per i cattolici. II Forum del Progetto Culturale,Edi- zioni Dehoniane, Bologna 1999, p. 10. 63 Si vedano comunque le riflessioni di Luciano Tosi in Europe, its Borders and the Others, Introdu- zione, a edited by L. Tosi, ESI, Napoli 200, pp. XI-XXVIII. Cfr. anche le osservazioni di R. Minnerath, Saint-Siège et problème institutionnel européen,inQuale federalismo per quale Europa?, cit., pp. 295-312.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 159 Alfredo Canavero alla metà degli anni Settanta o la Grecia dei colonnelli. Dopo la caduta del muro di Berlino il quadro è radicalmente mutato e i confini dell’Europa si sono dilatati e con gli allargamenti del 2004 e del 2007 si è arrivati a 27 paesi. La candidatura della Turchia, paese musulmano, i rapporti con la Russia, l’ipo- tesi avanzata da taluni di associare all’Unione Europea anche Israele o i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo sono tutti problemi che l’Europa dovrà pri- ma o poi affrontare. Le eventuali conseguenze sul piano politico, economico, mili- tare e religioso non sono state ancora studiate in profondità. Pio XII aveva parlato di una Europa che si estendeva fino a dove era arrivata la predicazione di San Bene- detto, Giovanni Paolo II aveva vagheggiato una Europa dall’Atlantico agli Urali. Ora sembra che la questione dei confini sia lasciata in ombra, preferendosi parlare di una Europa aperta al mondo. Un altro aspetto che meriterebbe una adeguata riflessione da parte dei cattolici italiani (ma non solo da loro) è la forma istituzionale che dovrebbe assumere l’Eu- ropa. Molto spesso si percepisce, anche in discorsi di politici di alto livello, una certa confusione tra federazione e confederazione, Europa federale ed Europa delle patrie, tra una Europa economicamente integrata e una semplice unione doganale. Non si tratta di una mera questione nominalistica. Essa sottende al contrario profonde differenze tra chi preferisce il rapporto tra gli Stati, desiderando mante- nere intatte tutte le loro prerogative sovrane, e chi le vorrebbe trasferire ad un sog- getto sopranazionale.

• Quando si discusse del progetto di Trattato costituzionale europeo pochi so- no stati gli interventi di intellettuali cattolici su questo tema64, specie a confronto dell’attenzione prestata alla questione delle “radici cristiane” dell’Europa. Questo è parso essere il punto fondamentale degli interventi dei cattolici, a co- minciare dal pontefice, che nell’Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa ha rivolto un appello agli estensori della carta costituzionale europea per- ché in essa figurasse «un riferimento al patrimonio religioso e specialmente cristia- no dell’Europa»65. Come è noto gli appelli del pontefice non furono recepiti dalla Convenzione, che si è limitata a citare nel preambolo le «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa» e i «valori della dignità umana, della libertà, della de- mocrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani» al- l’articolo 2. È stata però accettata una richiesta avanzata dagli episcopati europei già alla Conferenza intergovernativa di Amsterdam (1997) per il rispetto dello «sta-

64 Cfr., tra le eccezioni, il lucido intervento di P. Ferrara, Costituzione e governo dell’Europa,in«Il Regno», 15 giugno 2001, pp. 385-388. Dello stesso si veda anche Non di solo Euro. La filosofia politica dell’Unione Europea, Città Nuova, Roma 2002. 65 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa, 28 giugno 2003, in T. Stenico, Giovanni Paolo II, cit., p. 504.

160 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Alfredo Canavero tus previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità re- ligiose degli Stati membri» (art. 51). Si è anche precisato che l’Unione Europea in- tende mantenere «un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e orga- nizzazioni, riconoscendone l’identità e il contributo specifico» (ibidem). La manca- ta ratifica del Trattato Costituzionale ha semplicemente rinviato il problema senza risolverlo. È abbastanza ovvio che l’Europa secolarizzata e multiconfessionale di oggi è molto diversa dall’Europa dell’immediato dopoguerra. Qualcuno teme che dietro il richiamo alle radici cristiane si nasconda un desiderio di imporre una precisa identità confessionale. Altri temono che tale richiamo potrebbe in prospettiva di- ventare una pietra d’inciampo per l’allargamento della Unione Europea alla Tur- chia o a paesi europei con forti minoranze musulmane. D’altra parte, se si conside- ra la storia dell’Europa, è impossibile non riconoscere l’importanza della civiltà cri- stiana nella formazione dell’identità europea. Ma forse il problema è un altro. Co- me ha sottolineato alcuni anni fa padre Sorge, molto più di un generico richiamo alle radici cristiane, è importante che nella elaborazione del processo di integrazio- ne europea siano accolti di fatto i valori che a quelle radici si ispirano66.

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66 B. Sorge, Le “radici cristiane” dell’Europa, in «Aggioranemti sociali», n.4, aprile 2003, p. 273.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 161

Alle origini Roma, l’Europa, la Chiesa

Questo breve saggio tenta di delineare una visione sto- LAURA BALESTRA rico-filosofica circa la definizione del concetto di iden- Ricercatrice storica tità e di Europa, quest’ultima intesa come una sorta di “sinecismo o sincretismo” di nozioni o entità variabili che, da una forma mentis antica tracciano soluzioni nuove per il futuro, riattualizzabili dall’antichità classi- ca greca e romana e dall’ebraismo. Ponendo il concetto di Europa, inteso in senso filosofi- co e spirituale, tra Roma e la Chiesa si manifesta la vo- ≈ lontà di individuarne il comune denominatore che af- «[…] il richiamo al- fratelli e definisca il proprium di ognuna di esse. Stabi- l’umanità europea lire l’identità di qualcosa pone sempre dinanzi a un pa- è significativo e in- radosso, che definisce il Sé identitario solo distinguen- troduce a riflessio- ni più intime su dolo in relazione al suo non-essere o al suo essere-altro- quell’idealità iden- da-sé. Il paradosso risiede proprio nella tensione esi- titaria e universa- stente tra forze discordi unite in concordia. le verso il cui per- Qual è l’identità d’Europa? Cos’è l’Europa filosofica- seguimento hanno lavorato e lavora- mente intesa? Cosa Roma? E la Chiesa? no spiriti magni, da secoli».

ÿ Rémi Brague e la “voie romaine” ≈ «L’identità dell’Europa non è né greca, né cristiana, né araba, né germanica. La sua unità è Roma, ma solo nel sen- so che essere europei significa essere come i Romani, i quali con suprema umiltà si sono adattati ad essere una struttura di trasmissione culturale, accettando di porsi dopo i Greci e dopo gli Ebrei, rassegnandosi ad occupare solo il secondo posto: che vuol dire romanità? Significa secondarietà, attitu- dine del ricevere e del trasmettere, del sapersi se stessi rico- noscendo la propria identità nella tensione tra un classici- smo da assimilare e una barbarie (interiore) da sottomettere: significa poter accedere a ciò che è proprio soltanto attraver-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 163 Laura Balestra so ciò che è a noi straniero. La romanità così intesa – come Secondarietà – non è di per sé una identità, ma è la disponibilità a costruirla, è l’attitudine che rende capaci – come dice Kant – di “pensarci al posto di un altro” di essere cattolici nel senso non confessionale, ma greco del termine: cioè “universali”»

• È riassunta qui, in breve, attraverso le parole stesse dell’autore, Rémi Brague, filosofo e studioso del mondo arabo, greco, ebraico e medievale all’Università di Parigi e Monaco, una delle teorie più straordinarie e penetranti sul modus operan- di dell’impero romano e, in seguito, del Cristianesimo: la teoria della secondarietà o “voie romaine”, contenuta nel saggio Il futuro dell’Occidente. Nel modello ro- mano la salvezza dell’Europa. Cosa si intende con il concetto di Romanitas quale substratum fondativo del Cristianesimo e dell’Europa stessa? Lungo quale cammino conduce la “via roma- na”? Perché Roma è “seconda” rispetto ai popoli di cui deteneva il dominio e in che senso lo era? E, successivamente, quale riverbero significativo e paradigmatico essa andò a riflettere sulla susseguente nascente Ecclesia? “Romanità” è, per Brague, «la situazione di secondarietà rispetto a una cultura precedente»1. Ogni impero tende all’espansione e al controllo assoluto in campo militare, politico e religioso dei ter- ritori assoggettati e, seppure Roma non si sottraeva a questo standard operativo, ciò che la svincola da giudizi negativi circa il suo eventuale dominio dispotico fra le colonne d’Ercole e la Parthia, è la relazione organica e secondaria stabilita fra il centro e la periferia. Scrisse il poeta latino Orazio all’indomani della conquista ro- mana dell’Achaia:«Graecia capta ferum victorem cepit»3. La Grecia conquistata con- quistò il fiero vincitore. Che vincitore è un conquistatore che si lascia conquistare dalla sua conquista? Un saggio vincitore di certo, che seppe riconoscere con umiltà la propria inferiorità, rendendosi disponibile alla ricezione di quanto di buono provenisse dalle altre culture con cui entrava in contatto.

• L’impero di Roma era un impero globale, senza connotazioni governative ascri- vibili a uno Stato nazionale, a una monarchia assoluta, a una dittatura o a un regime totalitario. Poteva essere tutto questo, ma era anche altro. Un impero di sincretismi in cui spagnoli, dalmati, illirici, siriaci, africani occuparono il trono di Augusto, sen- za distinzioni di razze, etnie, religione. Oggi sarebbe forse impensabile, o desterebbe quanto meno perplessità, magari disorientamento, almeno nello Stato italiano, che un civis d’Europa, non italiano, o un extra-comunitario di cittadinanza italiana, di-

1 R. Brague, Europe, la voie romaine, Criterion, Paris 1992, tr. it. A. Soldati, Il futuro dell’Occiden- te. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi Libri, Milano 1998, passim. Il corsivo “secon- darietà” è mio. 2 Ivi, p. 53. 3 Hor., Epist., II, 1, 156.

164 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Laura Balestra venti Presidente del Consiglio. Non così per la presidenza della Comunità europea, non così per il soglio pontificio. La politica europea non è qui in discussione, inte- ressa maggiormente osservare in che modo l’“eredità secondaria romana” costituì suo epigono la Chiesa. Roma amministrava differenze, alterità e, nel riconoscersi fie- ra vincitrice conquistata, essa imponeva sì le sue leggi, ma era aperta alla ricezione, all’assimilazione e alla trasmissione di una cultura non propria, Altra, rispetto ad un’identità che non si costituiva se non nel processo indefinito di diffusione di sé, ri- cezione e assimilazione dell’altro, trasmissione del nuovo, di quel sincretismo orga- nico creatosi. In tal senso Roma è molto diversa dalla Grecia, dalla quale pure si sentì capta. L’identità greca si delinea potentemente nel corso delle guerre persiane, quan- do l’Altro, il persiano, disvelò alle poleis la loro reale essenza: l’eleutheria. L’alieno, l’e- straneo, ciò che è Altro rispetto a un Sé definito o in via di definizione, in genere crea turbamento ed è fonte di spavento, in quanto in esso «un tratto familiare viene riconosciuto per negationem»4. L’Altro è ciò che minaccia la totalità della nostra iden- tità, perché nella relazione negativa che stabilisce, dimostra la parzialità, la non-auto- nomia, la dipendenza di ciò che, prima del contatto alteritario, era ritenuto assoluto e totalizzante: l’Io sono.Ladifferenziazione è dunque la prima categoria declinante la definizione del Sé identitario, così come sostenne Federico Chabod nel saggio Storia dell’idea di Europa laddove, nel rintracciare l’origo prima e la genesi della “coscienza d’essere europei” da parte dei nostri avi, ascrisse alla contrapposizione operata dal pensiero greco fra “Europa” e “Asia” nel corso delle guerre persiane e nell’età di Ales- sandro Magno, il canone primo d’interpretazione coscienziale di quell’antica “Euro- pa” libera da ogni asservito dispotismo asiatico5. E, in tal senso, le successive relazio- ni oppositive fra romano-barbaro, pagano-cristiano costituirono le vie di un proces- so identificativo e definitivo di una realtà in divenire. In una situazione di reciprocità tra l’identità e l’alterità può tuttavia emergere anche un fattore positivo che, nella fattispecie, fu raccolto e custodito da Roma, la quale in una dimensione culturale in fieri, quale era quella di un popolo di pastori, guerrieri, ingegneri sanza lettere,non accusò timore di alcun genere nel suo rendersi victa e victrix.

• I Romani seppero accogliere l’alterità, depotenziandola, per il tramite dell’ho- spitalitas anticamente intesa, della sua matrice ostile e avversa in quanto di-versa. Le componenti straniere, ospitate e diminuite nella loro hostilitas-diversitas, mani- festavano i loro benefici effetti, la loro philia a coloro che, victores philoxenoi,le avevano accolte nell’alveo della secondarietà sapiente. Dominare lasciandosi domi- nare, accrescere la propria potenza non celando le proprie debolezze, questo speri- mentò Roma e, successivamente, la Chiesa stessa raccolse la secondarietà della Ro-

4 Cfr. A. Preti, Il terzo escluso. Psicopatologia del rapporto con l’altro,inAnnali della Facoltà di Scienze della Formazione. Università di Cagliari. Nuova Serie, 2006, XXIX, pp. 303-327. 5 F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1961, passim.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 165 Laura Balestra manitas, “battezzando” quanto del mondo antico a lei precedente fosse stato utile a realizzare la facies universale, cattolica, che ne costituisce tuttora l’identità6. Come sostiene Brague, al pari dell’Impero romano, la Chiesa conservò il meglio della cul- tura con cui entrò in contatto. Pensiamo al diritto, alla filosofia, alla letteratura antica, non solo romana, ma anche ebraica e greca, che sono alla base dello sviluppo ideologico del Cristianesi- mo, che le offrirono quell’integumentum deittico intuibile al mondo nel quale si stava presentando e diffondendo: «la Chiesa cattolica ha funzionato storicamente come luogo di conservazione del paganesimo nella cultura europea»7. Se, dunque, per “romanità” si intende la capacità di farsi secondi riconoscendo la superiorità culturale di chi precede, una superiorità da accogliere, non distrugge- re o soffocare, va da sé che la successiva cattolicità della Chiesa non poté che strut- turarsi su basi secondarie. Secondarietà dell’umano al divino, secondarietà della ter- ra al cielo, secondarietà del temporale allo spirituale, secondarietà del tempo all’e- terno. Forse anche secondarietà ideale dell’Ecclesia all’Imperium, intesi rispettiva- mente come categorie spirituali? Se la cronologia e l’impianto della Chiesa sulle ve- stigia di Roma manifestano perentorie la loro realtà, le teorie teocratiche del Me- dioevo fecero poi il resto.

ÿ Respublica Christiana o Respublica Romana?

• La parola d’ordine che campeggia sui vessilli spirituali delle genti d’Europa è: “coscienza d’essere europei”. Ma entro quali fondamenti si definisce una cosciente percezione d’essere ciò che si è? Considerati gli sviluppi “politicamente corretti” della redazione della Costituzione Europea, va da sé che, al fine di non urtare la sensibilità “spirituale” o la fede di nessuno si possa comunque rintracciare, una co- mune identità storico-culturale, se non nella Respublica Christiana8, in quell’ormai innocuo Impero romano, che da un capo all’altro dell’allora mondo conosciuto aveva reso concordi popoli discordi. Roma, dall’VIII secolo a.C. fino alla caduta dell’Impero nel 476 d.C., andando ad estendere il suo dominio progressivamente

6 J. Ratzinger-M. Pera, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2004, p. 104 «[…] Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessu- na comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali.» È innegabile rintracciare nelle parole di Ratzinger lo stesso tipo di universalità sovranazionale che era tipica dell’impero di Roma, benché qui si parli di so- vranazionalità religiosa, che ben poco ha a che fare con l’idea politica di nazione e nazionalità e molto più è attinente allo spirito universale dell’umanità intera. 7 R. Brague, op. cit., p. 180. 8 Cfr. F. Chabod, op. cit., passim.

166 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Laura Balestra dall’Italia all’Europa, unì sotto un unico sistema governativo popoli di tradizioni diverse. Dopo la fine della Seconda guerra punica e le vittorie sulle grandi monar- chie ellenistiche, l’Urbs sviluppò fattivamente il progetto di un impero ecumenico del quale essa fosse garante e sovrintendente in termini di unità9. La compattezza e l’uniformità raggiunte in ambito territoriale, andavano, tuttavia, ben oltre la sfera politica ed economica, contribuendo a creare una koinè culturale che trovava la sua massima concretizzazione nell’adozione di un unico diritto, di un’unica lingua, di un’unica espressione artistica ed architettonica e di un’unica religione per tutto l’Impero. Roma, come già comprese Dante, ebbe ab aeterno la vocazione all’impe- ro universale, katholikos, provvidenziale10. L’Europa di oggi, al di là delle attuali ed evidenti diversità politiche, culturali, economiche e linguistiche, quindi, potrebbe continuamente riscoprire la sua origi- ne fondativa in un passato “laico” rappresentato da Roma. Il fine ultimo sarebbe quello di favorire la comprensione di come ogni particolarismo attuale sia conse- guenza del riemergere dei singoli sostrati culturali di ogni nazione rimasti latenti a seguito del processo di romanizzazione, precursore, peraltro, del successivo feno- meno di “cristianizzazione”. E se circa quest’ultima affermazione la politica e il di- ritto invitano a tacere per evitar polemiche, la filosofia tuttavia può liberamente esprimersi in pensieri e parole, in concetti e teorie, ri-pensando l’Europa della “se- condarietà romana” forse o l’Europa «società degli spiriti e grande repubblica di Stati» di Voltaire11.

• La questione è complessa, molto complessa. L’Europa è unità politica, ammi- nistrativa, economica, ma al di sopra di tutto, è unità spirituale, non geografica. La spiritualità s-confinata di quelle unioni che Greci e Romani tanto amavano con- cordare dal nuovo all’antico, rintracciando sottili linee rosse originarie e originanti le tradizioni di popoli così distanti tra loro per quanto massimamente vicini, isole diverse di un comune immenso mare che tutte le divide e affratella in un medesi- mo, universale arcipelago12. L’Impero romanizzò l’Oriente e questo, a sua volta, el- lenizzò ed orientalizzò Roma e l’Occidente, fondendo insieme il proprio e l’altrui a che si costituisse l’unicum, il Sé, l’Identità. Simile traditio, intesa come meccani- smo o via di trasmissione dinamica, in perenne tensione tra l’acquisire, l’essere e il tramandare, costituisce da sempre l’ego sum dei popoli antichi: Ebrei, Greci, Ro- mani e Cristiani, intesi questi ultimi come popolo in senso lato, popolo di Dio. «Il cristianesimo non ha sentito il bisogno di rifare daccapo ciò che era già ben fatto nel mondo pagano, come il diritto o le istituzioni politiche. […] si è sovrap-

9 M. Sordi, L’eredità politica del mondo classico,inId.,Alle radici dell’Occidente, Marietti 1820, Genova 2002, p. 13. 10 Dante, Mon., II, 3, 17. 11 Voltaire, Le siècle de Louis XIV, cap. II.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 167 Laura Balestra posto a ciò che esisteva già», innestandosi «su una civiltà già organizzata secondo leggi proprie»13. Se la questione dell’eredità romana della Chiesa viene posta in ter- mini di assimilazione, cristianamente rivisitata, dei modelli pagani chiediamoci co- sa fosse cambiato dal memento mori al sic transit gloria mundi14. Cos’era il vescovo di Roma se non il successore dell’imperator? Un nuovo Signore sopraggiunto nelle dissimulate, antiche vesti dell’antico dominatore. E il suo regno? Nient’altro che una sovrana autorità legittimata da una donazione illegittima15, nonché storica- mente falsa, capace di resuscitare un nuovo dominio sulle ceneri di un impero sva- nito e sopravvissuto lontano, nelle terre d’Oriente. Un nuovo pastore di genti chia- mato a governare uomini e anime, popoli e tribù disperse, privo di armi e di eserci- ti, inerme oppositore alla ferocia straniera delle stirpi d’Oltralpe. Geniale profeta della koinè spirituale e politica, il vescovo di Roma seppe sottomettere ed alleare senza sangue, con lo spirito: la conversione dei barbari. Fedeli. Al suo servizio. Ro- ma di nuovo al centro del potere. E quando al vetusto trionfalismo di un impero in crisi subentrò un senso incombente di dissoluzione e morte, all’attivismo delle ar- caiche ideologie politiche successe una torbida passività nei confronti dei grandi e drammatici eventi della storia. Fu in quell’istante che la Roma imperiale venne tra- sformata, attraverso la Croce e la Chiesa, nella celeste Roma aeterna, degna patria di Cristo e dell’umanità. Il senso preparatorio e provvidenziale del paganesimo e del- l’impero divenne prodromo della Provvidenza cristiana. La storicità del nuovo dio, del Dio vero predilesse la propria incarnazione nella pienezza di quel tempo scandi- to da consoli e imperatori. Dio decise di far incarnare suo Figlio nell’Impero e del- l’Impero la Chiesa acquisì l’Esse, la propensione alla cattolicità lato sensu, lo spirito universale di Roma antica. La Christianitas si erge e si edifica sulla Romanitas, agli eroi classici fanno seguito i martiri, ai templa le cattedrali e la vittoriosa gloria del- l’impero permane, ma mutata, grazie al sangue delle legioni cristiane.

ÿ Il viaggio, lo straniero, la radice

• Forse il punto fondamentale sta proprio qui. Gli italiani accettano l’Europa, ma hanno mai davvero riflettuto su quale Europa vogliono? Quali sono, ad esem- pio, i confini dell’Europa? La dimensione itinerante, la “stranieritudine”, l’apparte- nenza salda alle origini possono forse costituire le declinazioni dell’anima antica e dello spirito moderno? Consideriamo i grandi paradigmi filosofico-cognitivi del-

12 Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997. 13 R. Brague, op. cit., p. 169. 14 H. Fuhrmann, Einladung ins Mittelalter, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung (Oscar Beck), München 1987, tr. it. P.Vasconi, Guida al Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2004, p.157. 15 Il riferimento è alla Donatio Constantini.

168 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Laura Balestra l’Occidente incarnati in Enea, Abramo e Ulisse, ebbene, ognuno di essi, nella sua tipicità, è archetipo originario e originante l’anima propria d’Europa. Il pius Enea, profugo da Troia all’Italia per volere del Fato, il padre della fede e il polymetis pre- cursore della Grecità quale madre della filosofia sono a fondamento dell’identità razionale e spirituale dell’Occidente. L’amor patrio, l’amore per la conoscenza, l’a- more per Dio fondano il contenuto proprio della missione dei tre. Il Fato, gli dei e Dio sospingono i moti degli eroi e nel viaggio verso il Lazio o Canaan o Itaca, la metafora itinerante dell’uomo quaerens conduce e sospinge lungo la via che dispie- ga la conoscenza di sé: gnothi seauton. Enea, eroe virtuoso della pietas, vir ante litte- ram, che cerca patria ai Penati di Troia è emblema del dovere e del rispetto verso gli dei e verso gli uomini; Ulisse, re della terra di nessuno, sospinto al largo dal non do- mato spirito, vivrà su di sé l’identità di molti e nessuno, il peso e l’onore d’essere xe- nos in terre lontane e straniero mendicante in patria. Abramo, patriarca di tre fedi, intraprende consapevolmente l’odòs della conoscenza spirituale, che lo porterà al- l’abbandono dell’idolatria per abbracciare la fede in un solo Dio vero. Egli conqui- sterà più di una terra, più di un popolo, più di una legge, conoscerà se stesso in Dio; Ulisse si troverà a intraprendere la via della conoscenza umana in virtù di un capriccio divino, ma attraverso la mètis, come qualcuno ha scritto, riuscirà a muta- re il suo destino di condanna in un privilegio di conoscenza. La conseguenza di tutte le sorti è, in sostanza, quella di divenire viandanti e stranieri. Abramo si met- terà in cammino sollecitato da una voce divina che lo inviterà ad abbandonare se stesso e la sua identità per farsi altro da ciò che è, altro da sé in una terra promessa che sarà patria dell’universale umano e non confine del solipsismo nazionalista di Israele16; Ulisse intraprenderà il nostos indefinito che mai approderà a meta ultima, ma sempre si costituirà come una deriva «per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Inf. XXVI, v.120)17. Il mare azzurro sempre lo sospingerà oltre e mai terra alcuna calcherà stabilmente il piede suo, sicché sempre un’ultima onda lo sommoverà ad altri lidi e mari altri18. Nel farsi straniero Abramo diviene il “padre dei popoli”, il viandante nel deserto che conquisterà per tutta l’umanità la dignità di una relazio- ne etica con la terra; Enea, l’inquieto fuggiasco virgiliano, fa del suo “male di vive- re”, del suo essere peregrino virtus, stemma di humanitas ideale, ricerca esistenziale del bello e del buono, del valore e del costume, della pietà e dell’onore che a meta ultima e provvidenziale approda a fondare l’eterno, Roma; Ulisse, nel suo peregri- nare, vivrà le vite di molti, vivrà esistenze altre, ma mai un’esistenza propria e iden- titaria. Ulisse tornerà ad Itaca da straniero, sotto le spoglie di un mendicante e ri- conquisterà il suo status di basilèus, ma è la condizione di errante, di viandante stra-

16 Cfr. M. Ovadia, L’esempio di Abramo, in «La Repubblica» (30 maggio 2007). 17 Vd. U. Saba, Ulisse: «Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e della vita il doloroso amore». 18 Cfr. G. Pascoli, Poesie, Calypso, passim.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 169 Laura Balestra niero a costituire il senso del suo essere umano, del suo essere Ulisse, il paradigma cognitivo razionale dell’Occidente. Allo stesso modo quando in Gn 23, 4 Abramo afferma: «sono Straniero e abito (risiedo) con voi», connota il proprio essere come un essere residente e straniero. Deve risiedere per dar luogo all’altro e allo stesso tempo deve essere straniero a se stesso per conoscersi e mostrare il proprio volto al- l’altro. Abramo è pàroikos kai parepìdemos19 e la terra che abita è paroikia,èilluogo in cui si peregrina come ospiti.

• Il viaggio e la condizione di straniero sono le dimensioni fondative dell’Occi- dente: solo il viandante straniero ha la dignità di risiedere nella terra dell’universale umano20. Se il viaggio e la “stranieritudine” stabiliscono una segreta corrispondenza o philia fatale fra il “pietoso” eroe, il padre dell’Alleanza e l’ondivago re senza meta, ciò che li separa sostanzialmente è la loro relazione ad un genos, una stirpe che possa- no chiamare propria. Se Ulisse vaga fra l’onde di mari e di terre, di popoli e di im- mortali, il suo non-dove, la sua meta non-ultima resta costante in Itaca: la reggia as- sediata, il tripudio turpe dei pretendenti, il figlio erede e l’operosa Penelope. La ricer- ca di se stesso permane in Ulisse salda alla propria stirpe, che intona richiami amorosi all’eroe, l’eroe del nostos,delritornoalàondeeglieravenuto.Algenos antico mai ab- bandonato, si oppone una radice diversa che lacera se stessa e si divelle dalla terra pa- tria per fondare una nazione altra, in cui di nuovo si nasca di-versi. Canaan come Ro- ma, Abramo come Enea, pellegrini per volere del divino. Il Dio di Abramo diede al suo popolo una terra che non avevano lavorato, abitazioni in città che non avevano costruito e frutti di vigne e oliveti che non avevano piantato21. La radice nuova di Israele fa esperienza della propria identità come straniera, non-autoctona, secondaria. Similmente Enea e l’Impero. Le radici si s-radicano e rifondano perennemente novae, alterae, dall’antico al nuovo, dal nuovo all’antico. Ebrei, Greci, Romani, Troiani, Cri- stiani: «la questione dell’identità culturale dell’Europa […] è indissolubilmente lega- ta alla questione del rapporto dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne a essa. Per l’Europa, il rapporto con sé passa attraverso il rapporto con l’altro»22.

ÿ Le radici dell’Occidente

• L’Europa è un continente, continens, «un contenitore aperto all’universale»23, essa non ha una cultura ma è una cultura.

19 LXX; Sal. 39, 13. 20 M. Ovadia, cit., passim. 21 Cfr. Giosuè 24, 13. 22 R. Brague, op. cit., p. 149. 23 Ivi, p. 151.

170 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Laura Balestra

Le sue radici? Risponde Brague: «Che immagine strana... Perché considerarsi come una pianta? In gergo france- se, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore… Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, co- me il cielo, non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di cono- scere il messaggio cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano»24. Senza radici, dunque, in senso missionario o epigenetico, come hanno sostenu- to J. C. Passeron e P. Veyne25. Lettura prediletta, se così possiamo definirla, del Cardinal Angelo Scola, l’opera di Rémi Brague, con la sua teoria della secondarietà romana e cristiana, ha offerto una pluralità di riflessioni che, dall’antico al moder- no, procedono nell’unica direzione dell’avvenire. Nelle opere Il valore dell’uomo e Una nuova laicità Scola cita il pensiero di Bra- gue, mentre riflette sui concetti di identità e unità dell’Europa. L’Europa, questo «meticciato di civiltà e culture», come l’ha definita il patriarca di Venezia, ha le sue radici tanto in Occidente quanto in Oriente, anzi forse sarebbe storicamente più corretto invertire la primazialità dei termini e rintracciare i germogli culturali del- l’Europa in Oriente e successivamente, in continuità ideale, trapiantati in Occi- dente per essere ricreati, rifondati dall’antico sul nuovo e dal nuovo sopra l’antico. «[…] oggi l’Europa ha smarrito il senso della secondarietà che a me piace rappre- sentare – dice Scola – con la figura di Enea quando lascia Troia in fiamme portan- do sulle spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Julo». Cara è que- st’immagine virgiliana al cardinale, il quale la considera icona figurativa di una re- novatio. «Enea prende l’antico e lo innesta sul nuovo», mediante una consecutio ininterrotta di generazioni: Anchise, il passato; Enea, il presente; Julo, il futuro. Una triade temporale, una “trinità” fondativa, a cui l’arte ha dato aspetto e volto, basti pensare all’Enea in fuga del Barocci o al gruppo scultoreo del Bernini, in cui il principe troiano fuggitivo verso non-dove, sorregge virtuoso il mos maiorum eiPe- nati di Anchise, la cui memoria è rivolta al passato. Fisso nel vuoto, senz’altra dire- zione che la presente, lo sguardo di Enea procede indistinto. Tre sguardi di-versi quelli del gruppo scultoreo, in cui l’unico timido accenno futuro è dato dalla fiam-

24 Tratto dall’intervista di G. Valente a Rémi Brague, «30Giorni» (ottobre 2004). 25 P.Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Albin Michel, Paris 2008, tr. it. E. Lana (a cura di), Quando l’Europa è diventata Cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti, Milano 2008, p. 165 «[…] L’Europa non ha radici, né cristiane né di altro tipo, si è formata attraverso stadi imprevedibili, infatti non ha una componente originale in particolare. Non è prefor- mata nel cristianesimo, non è lo sviluppo di un germe, piuttosto è il risultato di un’epigenesi […]». Cfr. J.-C. Passeron, Le raisonnement sociologique, un espace non poppérien de l’argumentation, Albin Mi- chel, Paris 2006.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 171 Laura Balestra mella tra le mani del piccolo Julo, speranza accesa su ciò che sarà. Enea, si sa, fuggi- va da Troia, quell’odierna Truva di Turchia (sulle colline di Hissarlik?), in Oriente, e a lui Roma demandò la fortuna e la gloria dei suoi Augusti e del suo Impero.

• Viene da Oriente dunque la radice dell’Urbe? Sì. E se con la mente corriamo nei secoli fino a Paolo, apostolo delle genti, sarebbe lecito domandarci: ma il Cri- stianesimo è d’Oriente o d’Occidente? Ex oriente viene la Parola che, tuttavia, uni- versale, si fa seconda e si fonde all’Impero di Roma ad occidentem. Un Impero già in sé katholikos prima di Cristo e che al cattolicesimo cristiano dà sostrato e volto. Che senso ha un’affermazione di tal genere? Chiarisco i termini del discorso, rin- graziando una illustre studiosa, la professoressa Marta Sordi, per aver saggiamente illuminato i percorsi conoscitivi del sapere storico, relativo al mondo classico, lun- go quella miriade di affermazioni distorte, omissive e poco chiare, se non confuse, che caoticamente inebriano pulpiti e menti. Con una limpidezza disarmante e tec- nicamente indiscutibile, in un’intervista pubblicata su «Avvenire» il 30 ottobre 2004, in quel turbinoso tumulto di dibattiti e recriminazioni su laicismo o cristia- nità dell’Europa, alla domanda «Radici romane o radici cristiane?», la Sordi diede forse l’unica risposta storicamente e spiritualmente corretta: «Non c’è contraddi- zione: c’è innesto e reciproca, cordiale integrazione. Si ricordi che Roma è già ‘cat- tolica’ prima di diventare cristiana […] Nel senso letterale: “cattolico” vuol dire universale, e l’antica Roma fu proprio questo, l’integrazione di ogni popolo entro il diritto universale. […] Roma, dice Sallustio, fa di popoli diversi per sangue, lingua e costumi una concordis civitas»26. Nell’affrontare l’annoso problema dell’Europa e dei suoi rapporti con il Cristianesimo, anche Scola ha proposto una riflessione non dissimile, tratta da uno stralcio del pensiero di T.S. Eliot su eredità culturale e de- stino d’Europa: «Il mondo occidentale ha la sua unità in questa eredità, nel Cristia- nesimo e nelle antiche civiltà della Grecia, di Roma e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo, noi riconduciamo la nostra origine. […] Se noi di- sperdiamo o gettiamo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le organizza- zioni e i progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad unirci». L’idea di Eliot, che vede il presente come memoria attuale del passato, in cui vita può esserci perché c’è morte e in cui Dante può esistere perché a lui pre- vennero Omero, Enea, Virgilio, Paolo non fa altro che inventar la novità futura e gettar lume alla memoria già essente. Ripercorriamo per un istante nella memoria quella modesta recusatio dantesca, ritrosia artificiosa del sommo poeta dinanzi alla missione sua, che rimembra con timore l’inadeguatezza di chi eroe non è eppure viene vocato a sostenere un cammino secondario, epigonale a eminenti figure a lui precedenti:

26 Tratto dall’intervista di M. Blondet a Marta Sordi, «Avvenire» (30 ottobre 2004).

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Io non Enëa, io non Paulo sono27

Apparecchiato a sostener la guerra del cammino e della pietate, Dante, con reve- renzial timore e senso di inadeguatezza propone al suo maestro una titubante e re- stia volontà o possibilità d’esser viaggiatore nei regni eterni come il parente di Silvio agli Inferi e come il vas d’elezione nei Cieli. Eppure, al di là della fictio letteraria, Dante si pone terzo in continuità storica col troiano Enea e l’alto effetto imperiale e col cristiano di Tarso e di Roma, apostolo del Cristo risorto e la sua predicazione della fede «ch’è principio a la via di salvazione»28. L’Oriente che si innesta sull’Occi- dente nel primo caso; di nuovo l’Oriente delle province di Roma che veicola il pro- prio Credo lungo le vie dell’impero d’Occidente, nel secondo29. Sintesi dialogica tra mondi e culture, tradizioni e lettere, filosofia e storia da un capo all’altro della nostra antica-attuale Europa in fieri: anche la Commedia di Dante reca in sé i germi di una secondarietà ante tempus, matrice dell’identità europea, romanamente inte- sa. Nella terra del tramonto, la vis dantesca esalta il nerbo della cultura dei popoli senza distinguere fra Virgilio pagano e Paolo cristiano o tra Omero «poeta sovra- no» e i musulmani Saladino, Avicenna, Averroè del Limbo30. Chi è superiore tra essi? Tutti! Chi eliminare tra gli spiriti sapienti che hanno reso grande l’humanitas? Nessuno! Il cantore fiorentino ragiona con la mente di un genio cattolico, nel senso di “universale”, di un genio romano, nel senso di “secondario”. Non c’è il Medioevo nelle sue parole, c’è già l’Umanesimo, il Rinascimento, il futuro attuale, politico e spirituale dell’Europa stessa. L’Europa della contraddizione non-contraddittoria, della concordia discors, l’Europa del meticciato di Scola, l’Europa romano-cristiana di Brague e Sordi, l’Europa della croce e del minareto, l’Europa che afferma «Io so- no» perché «Tu sei», l’Europa di Enea e Paolo, di Dante e Virgilio, l’Europa del- l’Humanitas.

• Nel 1924 Paul Valéry, nel suo saggio La crisi del pensiero, scrisse: «Ovunque i nomi di Cesare, di Gaio, di Traiano e di Virgilio, ovunque i nomi di Mosé e di San Paolo, ovunque i nomi di Aristotele, di Platone e di Euclide hanno avuto un signi- ficato e un’autorità simultanei, ebbene proprio lì si trova l’Europa»31. Non occorre, tuttavia, andar così in là negli anni per sentir pronunciate tanto belle e motivate af- fermazioni, torniamo, anzi partiamo dai primi del Trecento e, senza troppo stupo- re, scopriremo che il Limbo di Dante è già l’Europa. Il nobile castello, che si erge

27 Inf. II, 32. 28 Inf. II, 30. 29 Cfr. Peter Partner, Duemila anni di Cristianesimo, Einaudi, Torino 2001 e 2003. 30 Cfr. Inf. IV, 88-144. 31 Cfr. P.Valéry, La crise de l’esprit,inOeuvres, Pléiade, t. 1, pp. 988-1014, tr. it. S. Agostini (a cu- ra di), La crisi del pensiero e altri saggi “quasi politici”, il Mulino, Bologna 1994, p. 55.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 173 Laura Balestra maestoso è la “regione degli Eguali” di Hugo, è la perfetta dimora di quello «spirito culturale generale, che attrae nella sua orbita l’umanità intera», l’umanità storica che dalla filosofia e nella filosofia, attraverso la filosofia modella la propria facies spirituale ed esistenziale. In quel nobile castello impèra la «conoscenza teoretica in- finita» della grecità filosofica di Husserl. Pensiero teologico e filosofia si avvolgono e avvicendano dall’Inferno al Purgatorio fino in Paradiso, manifestandosi in volti e spiriti di femmine e viri possenti, che grande hanno reso il mondo. Se il futuro di ciò che chiamiamo Occidente è, secondo Brague, in quella via romana della “seconda- rietà”, così per il genio Dante, già nel Trecento, è così evidente riconoscersi non se- condo, ma addirittura “sesto”, dopo il senno di quanti avanti a lui furono poeti so- vrani, signori de l’altissimo canto e maestri di color che sanno. Dante china il pro- prio possente ingegno alla maestria autorevole della sua guida oltremondana, vis- suta sub Julo, sotto il dominio di dei falsi e bugiardi, eppure la sua Weltanschaaung così moderna, così attuale, così europea, in senso spirituale, non misconosce in al- cun modo né il peripato o il ginnasio, né il pagano o il musulmano, ideandosi pro- secutore morale, in spirito e verità, di quell’universale afflato d’anima europeo, che tutti li ricomprende e nessuno esclude. Cosa vuol dire “essere europeo”? Cosa vuol dire “essere romano”? Cosa vuol dire “essere cristiano”? Il senso è l’universale, il katholikos,ildialogos, l’identità e l’alterità, l’identità nell’alterità e la dialogicità quale essenza dell’essere Sé in Altro e Altro nei Sé dialoganti. L’Europa è un patrimonio di diversità, consapevolezza che ogni singola identità non è legittimata ad imporsi come universalità, se non nella misura in cui accolga in se stessa quel non-identico, quell’alterità che ne costituisce il fondamento iden- titario: essa è una peregrina societas. «I popoli sono unità spirituali» scriveva Husserl, «per quanto le nazioni euro- pee possano essere nemiche, tuttavia esse hanno una particolare affinità spirituale, che le accomuna e che travalica tutte le diversità nazionali. [...] noi sentiamo che nella nostra umanità europea è innata un’entelechia che permane attraverso tutti i mutamenti delle forme di vita europee e conferisce ad essi il senso di uno sviluppo verso quella forma di vita e di essere che costituisce il suo eterno polo ideale»32. Proseguiva il filosofo chiedendosi «[…] come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa? Europa qui non va intesa geograficamente, in conformità cioè alla carta geografica, come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli uomini che vivono sul territorio europeo e considerarli l’umanità europea. […] Il termine Eu- ropa allude evidentemente all’unità di una vita, di un’azione, di un lavoro spiritua- le, con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi, con le sue confor- mazioni finali, i suoi istituti, le sue organizzazioni. Entro questa unità gli uomini agiscono raccolti in multiformi società di grado diverso, nella famiglia, nella tribù,

32 Cfr. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia,inId.,Crisi e rinascita della cultura europea, R. Cristin (a cura di), pp. 54-55.

174 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Laura Balestra nelle nazioni, in una comunione interiore e spirituale, e […] nell’unità di una for- ma spirituale»33.

• Ebbene, proprio il richiamo all’umanità europea è significativo e introduce a riflessioni più intime su quell’idealità identitaria e universale verso il cui persegui- mento hanno lavorato e lavorano spiriti magni, da secoli. «Oggi le vecchie nazioni europee sono impegnate a realizzare una nuova e più grande nazione, che le com- prenda tutte e, senza annullare la fisionomia di ciascuna, le confederi in un’unità fondata sulle comuni radici culturali non meno che sui comuni interessi»34, così Mario Scotti definiva il processo di europeizzazione in atto nel mondo moderno. Tralasciando i “comuni interessi” che possono essere politici ed economici, ma non spirituali, voglio richiamarmi invece alla questione delle radici culturali. S’è già chiarito sopra, grazie all’intervento della prof.ssa Sordi, come non ci sia disaccordo fra romanitas e christianitas, così come discordia non ha motivo d’esserci sull’isti- tuire una costituzione d’Europa richiamandosi alla Grecia, a Roma e al Cristianesi- mo, sebbene quest’ultimo crei una disaffezione maggiore tra gli strenui fautori del laicismo incontaminato. Quando si parla di unione di Stati non ha più senso, quasi, il definirsi in ma- niera autarchica, autoctona, laica o atea, pur di rendersi idealmente aperti alla mi- riade di Altri che con questo Sé definito/in-definito possano venire in contatto. Un’esistenza in-creata, radici ex-nihilo non hanno ragione d’esistere nella Storia, pertengono piuttosto alla teologia e a Dio. Il Dio dei Cristiani veniva dall’Oriente, era un ebreo di Nazareth; le lingue dei popoli europei hanno una derivazione latina e latino è l’alfabeto delle scritture d’Europa; il nostro sistema numerico è arabo e persino il nostro cibo non è solo nostro ma ha provenienza altra, straniera. Siamo ciò che siamo perché abbiamo edificato la nostra identità sull’alterità, il nostro ego sum sul tu es: essere stranieri a noi stessi, canone riflessivo del Sé che si apre ad ac- cogliere l’Altro e, nel suo accipere alium, noscit se ipsum.

ÿ Conclusione

• Il genio della Romanità e della Cristianità comprende la sua radice essere nata in altro, e così come Roma è germoglio di Troia, Gerusalemme, Atene, Pietro è successor di Roma e Cristo. Siamo ciò che siamo stati e saremo, nello specchio del- l’Altro, di ciò che non siamo, del di-verso, vasi eletti a contenere il nostro e l’Altrui

33 Ivi, p. 53. 34 M. Scotti, L’Europa nel pensiero e nella poesia di Dante: motivi attuali della sua concezione politi- ca,dawww.indire.it, pubblicato per concessione degli eredi, lo scritto risale al luglio del 2003 ed è inedito, p. 3.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 175 Laura Balestra per versare ad Altro eredità e memoria di un passato nel presente al futuro. «L’ar- monia europea è dià-logos e pòlemos: dialettica tragica», come ha fatto notare Mas- simo Cacciari ne L’Arcipelago35. Il binomio dialettico Identità-Alterità elaSeconda- rietà teorizzata da Brague costituiscono la matrice dell’Infinito culturale dell’anima d’Europa: concordia discors, unitas-humanitas spirituale. È in questa coincidenza re- lativa di opposti, av-versi/di-versi, in una superiore riaffermazione dell’identità eu- ropea come consapevolezza dialogica che la Chiesa, erede dello spirito secondario che fece di Roma un impero katholikos, è chiamata e chiama se stessa a divenire ga- rante di un futuro orientato alla ricomprensione universale dell’anima europea co- me complessità e sintesi di entità storico, religiose e politiche sostanzialmente di- verse e idealmente identiche. È in tale direzione che la “voie romaine” conduce lun- go quel ponte fra Occidente ed Oriente, che forse l’entrata nell’UE della Turchia potrà rappresentare, al di là del veto di Ratzinger non ancora papa, che pure, nel considerare anomalo un paese di fede islamica come membro di un Ideale,l’Euro- pa, a forte connotazione storico-radicale cristiana, ora lo benedice, da pontefice, e benedice l’Islam, nella consapevolezza della dia-logicità intrinseca al Cristianesimo stesso, fin dalle parole di Giovanni, cantore di quel Logos, Parola e Ragione che è Verità unificante, prospettiva di un ecumenismo civile dei popoli, al pari dell’anti- ca oikoumene greco-romana. Verità che, in termini di relazioni, porta a riconsidera- re i rapporti tra Europa orientale e Europa occidentale, fra Europa e non-Europa, fra Cristianesimo ed Islam, radici complesse e non univoche, le quali esigono una più alta comprehensio, accoglienza e comprensione, contro il rischio di diffondere la creazione di una “religione civile” d’Europa di matrice cristiana, un presunto “ca- posaldo etico” totalizzante, esclusivo di quel “meticciato” culturale, storico, religio- so e sociale che l’Idea-Europa è, nel suo concepire, nel suo cum-capere sotto un uni- co blasone universale Ebrei, Cristiani, Musulmani. Il respiro ampio di un’idea ne- cessita di due polmoni, come scrisse Giovanni Paolo II: «On ne peut pas respirer en chrétien – je dirais plus: en catholique – avec un seul poumon; il faut avoir deux pou- mons, c’est-à-dire oriental et occidental»36.

ÿ

35 M. Cacciari, op. cit, p. 21. 36 Giovanni Paolo II, Discorso alla nunziatura di Parigi, «La documentation catholique», n. 1789, 6/7/1980, p. 634.

176 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 UNO SGUARDO SUL MONDO

ÿ L’offensiva anticristiana: un fenomeno che va interpretato. Analisi e scenari - di Amos Ciabattoni

ÿ Il Sinodo della Chiesa d’Africa – Una ecclesiologia sociale nel contesto africano -diJean Mbarga (Mons.)

ÿ I cattolici: uno sguardo sul mondo - di Jean Dominique Durand

L’offensiva anticristiana: un fenomeno che va interpretato Analisi e scenari di Amos Ciabattoni

ÿ Si allargano sempre di più le aree del mondo dove i cristiani, i cattolici in particolare, subiscono violenze al limite della persecuzione. Il fenomeno assume aspetti e dimensioni tali da alimentare un “esodo” crescente dalle “patrie” di intere comunità cristiane. Il fatto che tale esodo è più numeroso e manifesto in Paesi co- me la Turchia, il Libano la Siria, l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, il Sudan, la Nigeria, il Paki- stan e perfino la Terra Santa e la Giordania, carica il fenomeno di una crescente contrapposizione “Cristianesimo – Islam” e, in senso più politico che culturale, “Occidente – (Europa) – mondo Musulmano”.

ÿ Da più parti si è sottolineato che i fatti persecutori e in particolare le stragi di Nigeria e Pakistan, dei cristiani assiri in Iraq e dei copti in Egitto sono segnali di crescente intolleranza soprattutto verso i cristiani, ma che riguarda più religioni anche se non con identiche radici. In tale contesto la libertà dei cristiani è conside- rata la cartina di “tornasole”, il segnale più preoccupante della libertà di tutti, com- presa quella dei seguaci del Corano che dilagano in Europa.

ÿ Commentava Giacomo Galeazzi su la Stampa del 26 novembre del 2010: In questo mondo non si può più pregare. E valutava in 5 miliardi le persone al mondo senza questa libertà e vittime di violazioni e soprusi a causa della loro religione. Fatti più recenti segnalano che il fenomeno della persecuzione dei cristiani ha assunto proporzioni tali da superare il semplice stato di allarme: ultime le aggres- sioni contro i Copti in Egitto e gli assalti alle Chiese cristiane in Indonesia.

ÿ La Chiesa è intenzionata a far sentire il suo peso e rafforza il potenziale diplo- matico di cui dispone, badando a non proclamare crociate contro i Paesi che servi- rebbero ad aggiungere solo altre vittime e gettare benzina sul fuoco coranico dal quale sembra partire l’incendio. Di recente, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha chiesto alle Nazioni Unite di non fermarsi a risoluzioni contro “l’islamofobia” in Occidente, ma di prendere posizione anche di fronte alla “cristianofobia” nel mondo islamico, passando dalla lotta alla “diffamazione delle religioni” alla promozione della piena libertà per tutti.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 179 Amos Ciabattoni

ÿ Davanti a tali eventi l’Europa appare ancora una volta scarsamente sensibile e presente. Nel documento approvato prima dai Ministri degli Esteri e poi dal Parla- mento, si esprime «preoccupazione e condanna» per «gli atti di intolleranza religio- sa» e si offre ai Paesi coinvolti «la cooperazione della UE per promuovere la libertà religiosa». Un atteggiamento ritenuto da molti “tiepido”, che dimostra un eccesso patologico di “politically correct”, cioè una volontà di essere prudenti che annulla la forza della posizione presa.

ÿ Il giudizio sulla posizione assunta dall’Europa riapre la questione del ricono- scimento delle sue radici culturali-religiose che hanno alimentato nei secoli le Na- zioni che oggi danno sostanza alla sua unità. È vero – scrive Vittorio Messori (Corriere della Sera, 21 Gennaio 2011) che «la storia è sempre complicata per chi – da una parte e dall’altra – voglia partire in cro- ciata», ma è pur vero che «Venti secoli di storia stanno alle nostre spalle: e che met- teremmo in questa nostra storia se rimuovessimo ciò che li ha riempiti a tal punto che anche chi ha cercato di liberarsene ha dovuto rifarsi ai suoi valori?» Ipiùritengono che l’Europa debba scendere in campo con più decisione tenendo conto che gli “scenari” in evoluzione delle rivolte che infiammano il Nord Africa e il Medio Oriente fanno prevedere un grande ruolo delle religio- ni negli assestamenti possibili.

ÿ Il dialogo tra le religioni, che ha avuto un posto di primo piano nell’azione di Papa Wojtyla e che l’attuale Papa intende riprendere con iniziative previste a breve, assume una importanza del tutto nuova per gli auspicati benefici effetti sulle situa- zioni in atto per ridare spazio alle religioni a prescindere dall’influenza delle politi- che di area.

ÿ I fenomeni anticristiani che si moltiplicano in varie parti del mondo si co- niugano quasi sempre con situazioni politiche delle quali più che conseguenze ap- paiono l’esca: per cui religione e politica difficilmente possono essere distinti. Appare esatto giudicare questo aspetto, fisiologico e quindi inscindibile.

ÿ Negli avvenimenti ci sono prospettive epocali ed elementi che non possono sfuggire a profonde riflessioni. Ad esempio la stretta connessione tra le rivendica- zioni di diritti umani, sociali e democratici e l’impulso fornito dalla religione Isla- mica. Non a caso le grandi manifestazioni in Tunisia, Egitto si sono svolte il ve- nerdì, giorno della preghiera, guidate dalle Moschee che hanno funzionato da cas- se di risonanza. Altro elemento è la quasi simultaneità delle rivolte nei vari Paesi del Nord Africa e Medio Oriente, per effetto di un sincronismo acceso dai siti del- la rete telematica, che ormai avvolge l’intero pianeta: i Facebook, Google, le e- mail, mentre la funzione di Internet è stata quella di informare all’estero di ciò

180 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Amos Ciabattoni che stava avvenendo e dunque creare e aumentare la pressione dei governi sui capi contestati.

ÿ Alle due riflessioni si possono aggiungere ulteriori considerazioni: che ormai la Comunicazione tra le varie parti del mondo non ha più ostacoli; che la verità non può essere più nascosta entro confini ritenuti inviolabili; che la voglia di democrazia e di partecipazione dei popoli non consente più ostacoli. Ma soprattutto, che sono i giovani che scendono in piazza e si immolano per riprendersi il loro futuro. «È una rivolta in buona parte di giovani», scrive Andrea Riccardi sul Corriere della Sera del 25 febbraio 2011: «il 61% degli egiziani, il 58% dei libici, e il 74% degli yemeniti, hanno meno di trentanni. I giovani non si sono rassegnati all’inti- midazione che ha trattenuto i loro padri per anni». E così per la rivolta in Libia.

ÿ Fareed Zakaria, del Washington Post Writes Group, aggiunge che si è ormai capito fin troppo bene che uno dei motivi cruciali della crisi in Medio Oriente è da ricercarsi nel malcontento dei giovani. «I Paesi arabi si sono dimostrati incapaci, o impreparati, a fornire occupazione, istruzione, opportunità e diritti per la loro gio- ventù finché questa, alla fine, si è ribellata».

ÿ Nel contesto di ciò che avviene nei quadranti dell’Africa e del Medio Orien- te, ma soprattutto di ciò che avverrà (che secondo le previsioni più accreditate e preoccupate assumerà aspetti “epocali”) è innegabile che il continente africano è quello che ribolle maggiormente di fermenti ai quali la “globalizzazione” della co- municazione e dei rapporti tra i popoli, fornisce un propellente di inarrestabile for- za. L’Europa, e in generale l’intero Occidente, non hanno finora mostrato partico- lare e adeguato interesse per l’evolversi di tali scenari. Sperando che sia ancora in tempo, è ora di recuperare quanto si è perduto: ed in fretta. Tale sensibilità ha invece mostrato la Chiesa cattolica nei due recenti Sinodi dei Vescovi africani e Medio Orientali. Alcuni aspetti della preoccupazione che da tempo la Chiesa fa registrare in tali direzioni, sono segnalati nell’articolo che segue: Una ecclesiologia sociale nel contesto africano di Monsignor Jean Mbarga, Vescovo di Ebolowa, Camerun, che ringraziamo per la collaborazione.

ÿ Sugli argomenti segnaliamo:

Le radici dell’odio contro i cristiani di Vittorio Messori «Corriere della Sera», 7 gennaio 2011

«L’attentato criminale ad Alessandria non è un attacco ai cristiani ma all’Egit- to intero. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio ad un panislami-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 181 Amos Ciabattoni smo che intende demolire frontiere e regimi attuali per giungere ad un blocco co- mune e ferreo di fedeli nel Corano» […] Se in Egitto, e altrove, si attaccano i cri- stiani, in Iraq si ammazzano gli sciiti che, per i panislamisti, non sono veri musul- mani e dunque non possono far parte del Grande Fronte. I cristiani vanno messi in fuga, alla pari di ogni altro che non faccia parte della sacra Umma. Se la dia- gnosi è questa, ci sono “cure”, come quelle alla Bush, che aggravano ed esasperano il male. Onore ai cristiani uccisi, memoria sincera alla loro testimonianza: ma proclamare crociate contro i Paesi, come l’Egitto, vittime anch’esse di un disegno imperiale, significherebbe [...] aggiungere solo altre vittime e gettare benzina sul fuoco coranico».

Perché la UE parla di cristiani senza nominare mai i cristiani di Alberto Melloni «Corriere della Sera», 30 gennaio 2011

«Qualcuno – fare i duri con la pelle altrui costa poco – rivendicherà un atteg- giamento più esplicito o meccanismi per punire governi la cui corrotta brutalità era sempre stata sopportata; anche a costo di fornire alla propaganda islamica l’oc- corrente per dipingere i cristiani d’Oriente (che pregano Dio in aramaico come Gesù o in arabo come il Profeta) come intrusi occidentali da espellere. Altri difen- deranno le attuali formule pastello, piene di sentimenti così “buonini” da essere inutili o corroboranti per chi pianifica nuove azioni. Chiunque alla fine la spunterà potrà trarre dal futuro la conferma di aver avuto ragione oggi. Ma questo non cam- bia il problema dell’Europa davanti alla libertà religiosa: che non è un oggetto che si mette sotto scorta, ma una “cultura” dell’altro che richiede una rinuncia castissi- ma all’opportunismo, di qualsiasi segno esso sia [...]».

Nel testo antiviolenze mai una parola Cristiani di Luigi Offreddu «Corriere della Sera», 30 gennaio 2011

«L’Europarlamento aveva chiesto al Consiglio dei Ministri UE [...] di ricordare ai Paesi islamici che la concessione di aiuti economici da parte della UE non può essere svincolata da garanzie sul rispetto dei diritti umani. Nel documento si for- mulano invece “condoglianze alle vittime individuali [...], si dice che il Consiglio è profondamente preoccupato per gli atti di intolleranza religiosa” che “hanno preso per obiettivo pellegrini e luoghi di preghiera”; si esprime una “forte condanna” e si offre ai Paesi coinvolti “la cooperazione della UE per promuovere la libertà religio- sa”. “Ma ci attendevamo molto di più da lady Ashton – dice Mario Mauro, promo- tore della risoluzione ed eurodeputato del Partito Popolare – per esempio l’orga- nizzazione di un organismo per il monitoraggio degli atti di persecuzione. E so-

182 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Amos Ciabattoni prattutto l’affermazione che la libertà dei cristiani è la cartina di tornasole della li- bertà di tutti, a 360 gradi [...]».

La Chiesa modello Amnesty – Niente sconti alle dittature di Giacomo Galeazzi «La Stampa», 20 dicembre 2011

«[...] La Santa sede ha protestato per l’assemblea imposta a Pechino ai cattolici ci- nesi e per il “secolarismo aggressivo” nell’UE. Nei fronti caldi il Pontefice e il Segreta- rio di Stato Bertone varano un “piano d’attacco” chiamando le “cose con il loro nome” [...] “Il Papa difende il diritto delle libertà di coscienza per tutti, anche nei confronti di potenze emergenti come la Cina, dove cristiani e buddisti sono oppressi insieme” puntualizza il teologo Gianni Gennari. È un annuncio rivolto a Pechino, Teheran e agli Stati in cui le minoranze religiose, non solo cristiane, sono discriminate e perse- guitate. Non è “meno diplomazia” bensì autentica memoria di quel Gesù che ha rifiu- tato ogni potere mondano e ogni scelta violenta e oppressiva”. Un “balzo in avanti” coerente con il Concilio e la sua dottrina della libertà reli- giosa [...]».

Radici cristiane e storia rimossa – Un fantasma si aggira per l’Europa di Vittorio Messori «Corriere della Sera», 31 gennaio 2011

«[...] Alla fine – in linea con l’ideologia egemone nell’europarlamento, la political correctness – nobili appelli alla tolleranza e toccanti esortazioni alla libertà di culto. Insomma, molte parole. Tranne una: “cristiani”, mai usata nel testo. Le imme- diate voci cattoliche di protesta hanno affermato che nulla di diverso ci si poteva aspettare da un’Europa che non vuole riconoscere le sue radici, preferendo essere figlia di nessuno che della Chiesa. Qualcuno ha detto che negare quelle radici non è un peccato contro la religione, bensì contro la storia. Ma è davvero così? [...]».

Vera libertà religiosa per fermare l’esodo cristiano di Gianni Cardinali «Avvenire», 16 ottobre 2010

«Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente. Il Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: chiediamo alle Nazioni Unite di non fermarsi a risolu- zioni contro l’islamofobia in Occidente, ma di prendere posizione anche di fronte alla cristianofobia nel mondo islamico. La sfida: passare dalla lotta alla diffamazio- ne delle religioni alla promozione della piena libertà di fede».

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 183 Amos Ciabattoni

I cristiani e il risveglio arabo – Le ragioni della convivenza di Andrea Riccardi «La Stampa», 25 febbraio 2011

«[...] Poca simpatia è spirata da noi verso il “vento di libertà” di piazza Tahrir. Si tratta di un nuovo ’68, di un ’89 o che altro? Per il “vento della libertà”, laddove è vittorioso, comincia ora una delicato viaggio verso la domocrazia attraverso le isti- tuzioni e la politica. L’entusiasmo per la libertà riuscirà a fondare un senso della cit- tadinanza che superi il fondamentalismo delle identità? In ogni caso mi pare dovuta un’apertura di credito da parte di chi crede nei va- lori democratici e nella libertà. La paura è un cattivo consigliere. Ha bloccato la politica occidentale verso gli arabi con il timore dell’Urss e poi del fondamentali- smo. Certo si capiscono gli interessi economici (come in Libia). Ma c’è un limite, già da tempo oltrepassato da Gheddafi. E mille morti pesano. La radicalizzazione repressiva poi fa il gioco degli estremisti. Il Ministro Frattini, reduce dall’Egitto, ha indicato una prospettiva nuova al convegno tra cristiani e musulmani sulle ragioni della convivenza, tenutosi mercoledì a Sant’Egidio: «Bisogna passare dalla partner- ship della convenienza a quella della convivenza» – ha detto. La convivenza è rico- noscimento del pluralismo. Un simile riconoscimento da parte musulmana è soli- da garanzia alle minoranze cristiane, del cui valore l’Europa comincia ad accorger- si. Dopo tanta retorica mediterranea, oggi le due rive sono più vicine e il mondo arabo meno lontano da noi. Il futuro è nelle mani di tutti, arabi ed europei, in un mondo più globale».

Cattolici schiacciati in Medio Oriente – Un problema per cristiani e Islam di Andrea Riccardi «Corriere della Sera», 16 ottobre 2010

«[...] Nella polarizzazione degli odi, con il fondamentalismo, i cristiani sono schiacciati in tante nicchie. In Libano oggi sono 1.600.000 su 4.200.000, anche se ufficialmente si dice ancora siano la metà degli abitanti. Altrove sono piccole o pic- colissime minoranze, eccetto che in Egitto con circa il 10% degli abitanti (i copti) e la Siria con il 5%. Si tratta di comunità con tradizioni differenti, unite a Roma o indipendenti. Non svolgono una missione tra i concittadini, perché considerata proselitismo. Il loro ruolo sociale è ridotto e non serve più la loro mediazione con l’Occidente. È la fine di queste antichissime Chiese? È un problema per il Cristia- nesimo. Ma lo è pure per un Islam privato dell’unica alterità religiosa. Ormai alcu- ni musulmani riconoscono il valore della presenza cristiana, come garanzia di plu- ralismo per evitare un totalitarismo islamico. Forse gli occidentali dovrebbero co- glierne meglio il ruolo. I cristiani hanno bisogno di spazio e diritti per non soffoca-

184 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Amos Ciabattoni re. Ma è necessario pure che si rianimino. È la sfida del sinodo. Hanno sofferto molto nella storia. Ma debbono maturare una visione del futuro [...]».

L’UE sferza l’Iraq: Difenda i cristiani – “Risoluzione all’Europarlamento, business le- gato all’impegno sui diritti di Baghdad” di Marco Zatterin «La Stampa», 26 novembre 2010

«[...] Il Parlamento Europeo mette d’imperio il nodo delle persecuzioni ai cri- stiani nell’agenda della trattativa commerciale fra UE e Iraq. L’assemblea di Stra- sburgo, con ranghi ridotti dal fuggi-fuggi di fine sessione, ha approvato ieri una ri- soluzione che invita il Consiglio, la Commissione e il rappresentante UE per la Po- litica estera Catherine Ashton ad “affrontare come questione prioritaria il proble- ma della sicurezza dei cristiani all’interno del territorio iracheno[...]».

Il cristianesimo semplice del pakistano Bhatti di Enzo Bianchi «La Stampa», 6 marzo 2011

«[...] Se potessimo chiedere a persone come Bhatti dove hanno torvato la forza e il coraggio per andare avanti in mezzo a tanti rischi e ostilità, chi gliel’ha fatto fa- re di esporsi a tal punto, come hanno potuto sfidare anche la morte per amore del- la vita e del prossimo, forse li vedremmo restare un attimo silenziosi, stupiti di fronte alla nostra domanda, per poi risponderci con disarmante semplicità: “Per- ché tu cosa avresti fatto?”. Già cosa faremmo se davvero fossimo convinti della no- stra fede? Forse balbetteremmo parole come quelle di Bhatti che invece ci sembra- no stonate nel nostro mondo pur così permeato di riferimenti cristiani: “Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto se- guendo Gesù Cristo”. Sì, seguire Gesù Cristo con la propria vita: in fondo, la sem- plice popolarità del cristianesimo, la fede dei piccoli è tutta qui».

• Sull’argomento dell’uccisione del pakistano Bhatti, cattolico impegnato, molti sono i commenti, le rievocazioni, i collegamenti dell’omicidio con l’odio fra le religioni nei Paesi dell’estremo Oriente.

In particolare: Francesco Paci, Ucciso Bhatti, il Ministro cristiano del Pakistan – «La Stampa», 3 Marzo 2011; Cecilia Zecchinelli, Pakistan, il martirio del Ministro cristiano – Difendeva gli accusati di Blasfemia;MarcoImpagliazzo; Il sogno di Shahbaz Bhatti, uguali diritti per tutti, «Avvenire», 3 marzo 2011.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 185 Amos Ciabattoni

In questo mondo non si può più pregare – Dai Copti in Egitto ai buddisti: quando la fede è perseguitata di Giacomo Galeazzi «La Stampa», 26 novembre 2010

«[...] Non sono solo i cristiani a vedere calpestata la libertà religiosa. È indub- bio che soprattutto dopo la prima guerra in Iraq l’errata equazione tra cristianesi- mo e interessi dell’Occidente ha preso piede soprattutto nei Paesi islamici [...]. In base alle stime riferite da Renè Guitton, scrittore, impegnato nel dialogo tra Oriente e Occidente, sono oltre 50 milioni i cristiani vittime nel mondo di perse- cuzioni, disprezzo, discriminazioni. In Iraq una delle situazioni più difficili negli ultimi mesi circa 1.700 famiglie sono fuggite da Mosul e a Baghdad interi quartieri sono stati abbandonati dai cristiani [...]. A Cuba, cattolici e protestanti hanno il marchio governativo di “parassiti socia- li”. […] In Eritrea, ex colonia italiana, i missionari stranieri sono nel mirino dei fondamentalisti islamici, mentre in India gli indù radicali moltiplicano gli episodi di violenza contro i cristiani e molti Stati hanno varato leggi “anti conversione”. Ahmadinejad in Iran ha deciso di impedire le conversioni con misure rigide: le Chiese non osano più accogliere gli (ex) musulmani per paura di spie e ritorsioni. In Pakistan dal 1986 a oggi si calcola che oltre mille persone siano state incri- minate [...]. In Nigeria la maggioranza musulmana del Nord nega i diritti civili ai cristiani. La Siria non consente l’evangelizzazione aperta e per i missionari stranieri la residen- za è impossibile. In Somalia la “Sharia” viene applicata da giudici autocostituiti: i non musulmani subiscono fustigazioni, lapidazioni e sono costretti a emigrare. Non va meglio con il nazionalismo buddhista. Nello Stato himalayano del Bhutan il cri- stianesimo è ufficialmente vietato dal 1969 e perseguitato dal ’96: i cristiani non possono mandare i figli a scuola, ottenere un impiego governativo, creare un’azien- da, tenere riunioni in casa. Vengono incarcerati, torturati, e, se non rinnegano la fe- de, espulsi. Le autorità dello Sri Lanka associano il cristianesimo al colonialismo, agli stranieri. L’intolleranza religiosa non conosce confini e non ha copyright».

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186 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Il Sinodo della Chiesa d’Africa Una ecclesiologia sociale nel contesto africano

L’idea che avevamo intenzione di proporre all’Assemblea JEAN MBARGA sinodale, cioè di approfondire la visione di una ecclesio- Vescovo di Ebolowa logia sociale nel contesto africano, è apparsa nel corso di Cameroun questa stessa Assemblea come il contesto principe che ≈ riassume il ricco raggio delle questioni che la Chiesa può «“La Chiesa in e deve affrontare in Africa, ancora prima della proposta Africa al servizio di salvezza che può portare in quel contesto. della giustizia e della pace […]” è È dunque in base a questa ecclesiologia sociale che mi risultata in effetti ripropongo di fare un rapporto, certo con dei limiti, di una riflessione che quelli che amo chiamare i frutti del Sinodo prima dell’e- guarda alla sortazione post sinodale; poiché la riflessione sui frutti missione globale della Chiesa in del sinodo troverà pieno compimento dopo la pubblica- Africa insistendo in zione dell’Esortazione Apostolica post sinodale del San- modo particolare to Padre, come nel caso di Ecclesia in Africa. Lo scopo sul rinnovamento di questo breve resoconto è raccogliere già ora qualche dell’ordine temporale. […] acquis, soprattutto per permettere di comprendere le Conoscendo le basi dell’orientamento del sinodo, la visione sottesa e il grandi aspirazioni progetto che ne consegue. del sinodo per l’Africa e gli africani, questa ecclesiologia sociale è dunque la ÿ Africa, rialzati risposta pastorale della Chiesa al • Questo sinodo ha posto le basi di un progetto ecclesia- servizio di questa le; mettiamo in evidenza qui due tematiche: Africa che si vuole – Quale Africa e quali africani vuole promuovere il sinodo? costruire, vuole vivere – Quale Chiesa e quali fedeli di Cristo vuole il sinodo per dignitosamente, ed l’Africa? imporre la propria L’Assemblea sinodale vuole promuovere un’Africa nuo- dignità nel concerto va, un’Africa in piedi! Un’Africa consapevole dei propri va- delle nazioni». lori, su tutti i livelli. ≈ Un’Africa spirituale, cristiana ecumenica e interreligiosa perché «essa rappresenta un immenso polmone spirituale

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 187 Jean Mbarga per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza». Omelia della Messa d’a- pertura del Papa Benedetto XVI. Un’Africa consapevole della propria storia, dell’urgenza della propria liberazio- ne “dall’alienazione e dalla schiavitù politica”, della sua “integrazione continentale” e del proprio impegno per l’indipendenza economica e per il buon governo. Un’Africa avviata sulla strada di un’autentica democrazia, della prevenzione e risoluzione dei conflitti che dividono i popoli e che saccheggiano il continente, creando zone di non-diritto. Un’Africa che valorizzi il suo ricco patrimonio culturale e i valori della famiglia africana, della dignità della persona umana e delle sue aspirazioni alla riconciliazio- ne, alla giustizia e alla pace. Un’Africa che aspiri “a garantire ai propri figli delle giuste condizioni di vita” (messaggio n. 34), «a offrire ai più bisognosi il minimo necessario come frutto del- la giusta distribuzione dei benefici della crescita» (prop. 15), a dare ai suoi figli la sicurezza nella società. Un’Africa senza cervelli in fuga, dove regni la giustizia sociale, l’eradicamento della povertà; la protezione dell’ambiente, l’abolizione del traffico di armi, elezioni libere e trasparenti, il processo democratico, la libertà religiosa, il dialogo interetni- co e interreligioso, in breve un’Africa della dignità umana e del vivere insieme. Un’Africa del benessere, della dignità umana e del vivere insieme che l’umane- simo e la fede dei cristiani contribuiscano a battezzare.

• Si può dire che il sinodo abbia fatto una radiografia rigorosa, avendo non solo analizzato in modo franco i mali che affliggono l’Africa, ma soprattutto avendo for- mulato il progetto per una nuova Africa. Tale approccio, che si appoggia alla storia, alla geopolitica e alla geoeconomia dell’Africa, è una possibilità di cambiamento della società. Il concatenamento dei multipli asservimenti, così come la schiavitù, la colonizzazione, il neocolonialismo e l’emarginazione, sono tutto prodotti tossici dell’imperialismo globale che continua tutt’oggi: «l’imperialismo che continua sul piano politico, non è mai del tutto terminato» (Benedetto XVI, omelia della Messa di apertura). Questa Africa asservita ed emarginata, martirizzata ed avvilita dovrà morire affinché nasca un’Africa riconciliata, viva nella giustizia e nella pace. Il discorso del Sinodo sull’Africa, a nostro avviso, rende omaggio al lavoro di tutti i figli e le figlie d’Africa che hanno combattuto e ancora combattono a tutti i livelli, per la dignità dell’Africa e degli africani nel concerto delle nazioni.

ÿ L’ecclesiologia sociale

• Per mettere in opera le nobili aspirazioni per l’Africa e gli africani, il sinodo conta su quello che noi chiamiamo l’ecclesiologia sociale specializzata nelle relazio-

188 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Mbarga ni tra Chiesa e società. «Per la sua azione di evangelizzazione e di promozione uma- na, la Chiesa può certamente portare in Africa un importante contributo a tutta la società che sfortunatamente conosce la povertà, le ingiustizie, le violenze e le guer- re». (Papa Benedetto XVI, omelia della Messa di apertura). L’ecclesiologia sociale nel contesto africano così come appare nella volontà del sinodo, ha come fondamento la Chiesa famiglia di Dio, che è in Africa. Tale Chiesa è innanzitutto universale. «I Padri sinodali sono dunque stati onorati di affermare il carattere universale di questa assemblea tramite la presenza del Santo Padre e dei suoi più stretti collaboratori, oltre a quella dei rappresentanti della Chiesa degli altri continenti» (prop n.2). C’è visibilità e esigenza di universalità ecclesiale. Questa Chiesa è apostolica per il suo legame con tutta la tradizione degli apo- stoli e per la sua azione missionaria condotta da tutti gli agenti e le strutture di evangelizzazione. I Padri sinodali hanno pregato che «lo Spirito della Pentecoste possa rinnovare i nostri voti apostolici per far prevalere la riconciliazione, la giusti- zia e la pace, in Africa e nel resto del mondo» (prop n. 2). Questa Chiesa è una. I Padri sinodali hanno visto questa unità come un pro- gramma, attualizzato dalla stessa assemblea sinodale, e hanno pregato perché «que- sto esercizio di comunione ecclesiale e di responsabilità collegiale ispiri altre struttu- re e forme di ministeri in collaborazione nella Chiesa famiglia di Dio» (prop n. 2). Questa comunione che genera la solidarietà pastorale organica «è collegialità episcopale, collaborazione nell’apostolato della Chiesa a tutti i livelli: regionale, continentale»; il rafforzamento della SCEAM, l’unione delle conferenze episcopali, la diversità delle collaborazioni diocesane, la partecipazione più forte dei laici e del- le donne, dei giovani e dei bambini alla missione della Chiesa, sono la capacità di creare e rinforzare il battesimo di questa unione di natura e azione ecclesiale. Questa Chiesa è santa, la sua santità è apparsa nel corso dell’assemblea, ben più forte di una aspirazione alla beatificazione o alla canonizzazione, soprattutto come chiave dell’efficacia dell’azione evangelica e della promozione umana della Chiesa in Africa; in altri termini si potrebbe dire: «se diverremo perfetti come il Padre ce- leste, battezzeremo quest’Africa del benessere, della dignità e del vivere insieme». È questo che significa «essere il sale della terra, essere la luce del mondo», qua- lità di santità che possiamo comprendere come una dimensione importante della nostra vocazione battesimale. L’apertura alla santità è stata largamente espressa in quella che è la natura sacra- mentale della Chiesa; i sacramenti della Chiesa hanno una innegabile vocazione sociale. La riconciliazione, la comunione, la famiglia, il servizio... sono altrettanti effetti sociali dei sacramenti. La questione della santità e della sacramentalità della Chiesa si rivolge al cuore della società.

• Su questi fondamenti ecclesiali si basa l’ecclesiologia sociale che anima la rela- zione Chiesa-società nel contesto africano, di cui i tratti salienti sono:

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 189 Jean Mbarga

Per concretizzare le sue nobili aspirazioni per l’Africa, l’ecclesiologia sociale de- ve aprire lo spirito del cristianesimo al rinnovamento delle realtà africane alla luce del Vangelo. – Questa ecclesiologia sociale, conscia delle sfide attuali e della necessità di pro- teggere l’Africa dalle varie forme di imperialismo, deve essere una Chiesa madre e educatrice. L’insegnamento dei valori morali rispetto alla dottrina sociale della Chiesa de- vono seguire il messaggio del sinodo «il compendio della Dottrina della Chiesa co- stituisce un vademecum e una risorsa materiale che qui noi raccomandiamo calo- rosamente...» (Messaggio n° 9). Deve divenire la base teologica dell’ecclesiologia sociale della Chiesa che è in Africa. – Questa ecclesiologia sociale deve raccogliere in una forza di storia e di spiri- tualità non solo i suoi figli e le sue figlie, preti, religiosi, religiose e laici per un im- pegno in sinodalità che costruisca l’Africa dei valori umani e sociali; essa deve rac- cogliere allo stesso modo tutte le forze religiose per servire le stesse aspirazioni, da cui l’urgenza dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso; tutto perché la religione costruisca la riconciliazione, la giustizia e la pace. – Questa stessa ecclesiologia sociale deve assumersi anche delle missioni extra- ecclesiali. Quella della mediazione sociale per la pace, quella della predica sociale per una società giusta e riconciliata, quella di una vigilanza profetica nei confronti delle decisioni politiche, economiche e sociali di fronte alle diverse istanze del con- tinente, della regione e della nazione. – Tale ecclesiologia deve dare alle comunicazioni sociali i veicoli indispensabili delle correnti di pensiero e dei modelli di comportamento umani e cristiani; poi- ché l’evangelizzazione mediatica è divenuta necessaria e non procrastinabile. – Questa ecclesiologia sociale dovrà creare o far funzionare strutture ecclesiali a tutti i livelli: panafricano, regionale, nazionale, provinciale, diocesano e parroc- chiale, che possano realizzare davvero le aspirazioni del sinodo. La commissione “giustizia e pace” va impiantata a tutti i livelli, consigli laici e altri gruppi…

• Conoscendo ed approvando le grandi aspirazioni del sinodo per l’Africa e gli africani, questa ecclesiologia sociale è dunque la risposta pastorale della Chiesa al servizio di questa Africa che si vuole costruire, vuole vivere dignitosamente, ed im- porre la propria dignità nel concerto delle nazioni. In effetti, il Sinodo ha aperto un nuovo avvenire per l’Africa; partendo dalla realtà africana, ha indicato il cammino da seguire per essere una Chiesa nell’Africa di oggi. Ampie parti sono dunque dedicate alla riflessione e all’azione fondate sul vangelo in Africa. Ogni proposta dovrà derivare da un progetto pastorale preciso e da una riflessione pluridisciplinare. Questo sinodo ha scritto per l’Africa delle belle pagine, ispirate dal Concilio Vaticano II; è stato l’accettazione africana del progetto pastorale della costituzione pastorale Gaudium et Spes. Per la Chiesa in Africa, gli

190 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Mbarga obiettivi sono chiari: affermare la dignità africana, valorizzare le capacità e le po- tenzialità umane e spirituali, sociali ed economiche dell’Africa. Come lo definisce il sinodo «l’Africa è in movimento e la Chiesa che le procura la luce del Vangelo cammina con lei». «Africa, alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina» JN 5,8.

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I cattolici: uno sguardo sul mondo

La visione dei cattolici sul mondo si nutre in perma- JEAN DOMINIQUE DURAND nenza della parola di Cristo secondo il vangelo di Mat- teo (5, 3-12), il passaggio delle Beatitudini: Università di Lione «Beati gli afflitti, perché saranno consolati; Beati i miti, ≈ perché erediterrano la terra; Beati quelli che hanno fa- « Il tema della me e sete della giustizia, perché saranno saziati; Beati i seconda misericordiosi, perché troveranno misericordia; Beati i Assemblea per l’Africa del Sinodo puri di cuore perché vedranno Dio; Beati gli operatori dei Vescovi: è di pace, perché saranno chiamati figli di Dio; Beati i risultato in effetti perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il re- una riflessione che gno dei cieli; Beati voi quando vi insulteranno, vi perse- guarda alla missione globale guiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male della Chiesa in contro di voi per causa mia». Africa insistendo in Tutto parte dalle parole di Gesù Cristo: «Questo è il modo particolare mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, co- sul rinnovamento dell’ordine me io vi ho amati» (Gv 15, 12). Parole centrali che fon- temporale. […] dano un certo sguardo sul mondo. Benedetto XVI scri- Conoscendo ed ve nell’enciclica Deux caritas est del 25 dicembre 2005: approvando le «L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio […] è grandi aspirazioni del sinodo per anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e l’Africa e gli questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla africani, questa Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua ecclesiologia globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve sociale è dunque la risposta pastorale praticare l’amore. Conseguenza di ciò è che l’amore ha della Chiesa al bisogno anche di organizzazione quale presupposto per servizio di questa un servizio comunitario ordinato» (n. 20). Africa che si vuole costruire, vuole vivere dignitosamente, ed • Lo sguardo dei cristiani sul mondo, in particolare nel- imporre la propria dignità nel concerto la seconda metà del Novecento e nel primo decennio del delle nazioni». XXI secolo, può essere riassunto attraverso tre parole: Ca- ≈ rità, Alterità, Internazionalismo.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 193 Jean Dominique Durand

ÿ Carità è una delle parole basilari del vocabolario cristiano, una delle virtù teo- logali con la fede e la speranza, che lega amore di Dio e amore del prossimo, e quin- di, esige concretamente delle opere di misericordia. Una dottrina della carità è stata elaborata a partire da Giovanni e da Paolo, e dai Padri della Chiesa, lungo i secoli. I teologi, san Tommaso d’Aquino e le grandi scuole di teologia, le congregazioni reli- giose, hanno costruito non soltanto una base dottrinale, ma soprattutto una pratica sociale della carità con una straordinaria capacità di adattamento ai luoghi, ai tempi, alle circostanze e alle necessità più diverse. È l’attività che caratterizza ogni credente, prefigura la Città delle «pietre vive» secondo Origene ripreso da Henri de Lubac nel suo grande libro Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme (1938)1, nel quale mostra che il cristiano non può essere preoccupato soltanto della sua salvezza personale, ma deve dedicarsi all’altro, agli altri. La carità prende tutto l’uomo, il credente e la per- sona sociale, che dà o che riceve. Ignora i confini, ignora le differenze religiose, è una necessità dappertutto e di ogni tempo.

• La carità può pensarsi senza il suo legame intrinseco con la preghiera, cioè tra azione e contemplazione. Lo storico Pietro Borzomati ha molto lavorato su questo tema suscitando dei lavori molto impegnativi, pubblicati nelle collane I contempla- tivi nel mondo presso la Società Editrice Internazionale, l’editrice dei salesiani (To- rino)2 e a partire dal 1998 presso Rubbettino Editore a Soveria Mannelli, con il ti- tolo Spiritualità e promozione umana. Tali libri permettono di sottolineare la dop- pia dimensione sopranaturale e temporale della presenza cristiana al mondo in una tensione tra la contemplazione, che rinvia alla meditazione, alla preghiera, e l’azio- ne che porta all’azione, alla carità in atti. La preghiera è il motore della carità. Non c’è carità se non poggia sulla preghiera. Ozanam l’ha dimostrato. In un messaggio alla Comunità di Sant’Egidio, Giovanni Paolo II, disse che «gli uomini e le donne di preghiera, i credenti, sono, per loro intima vocazione, cercatori di pace: essi sentono il legame intrinseco che unisce un autentico atteggiamento religioso e il grande bene della pace», e sottolineava l’importanza per il mondo dell’«uomo spirituale» che «matura nella preghiera, nella meditazione»3.Èl’e- nergia della preghiera che Giorgio La Pira definiva come «energia atomica»4.

1 Riedizione dalle Éditions du Cerf, 2003, pp. 292-293. 2 Diciasette volumi pubblicati tra 1994 e 1996. Per una visione generale della collana, Jean-Do- minique Durand, La collection I contemplativi nel mondo, in «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 1998, pp. 87-95. 3 Giovanni Paolo II, Messaggio ai rappresentanti delle religioni mondiali partecipanti al II Incontro “Uomini e Religioni” per la Pace a Roma, 29 ottobre 1998, in Jean-Dominique Durand, Lo «Spirito di Assisi». Discorsi e messaggi di Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant’Egidio: un contributo alla storia della pace, Leonardo International, Milano 2004, pp. 93-97. 4 Jean-Dominique Durand, Giorgio La Pira, politico e cristiano, in Vittorio Possenti (a cura di), No- stalgia dell’altro. La spiritualità di Giorgio La Pira, Marietti 1820, Genova-Milano 2005, pp. 229-239.

194 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Dominique Durand

• Interessante è su questo tema, la testimonianza di un prete francese, Emma- nuel Lafont, che fu al tempo dell’Apartheid in Africa del Sud, parroco di Soweto, tra le Township più dure, vicino Johannesburg, conosciuta per la sua povertà e per la sommossa del 16 giugno 1976. Oggi vescovo di Cayenne, in Guiana francese, ha scritto in una lettera del 1996: «J’ai rencontré une communauté qui croit et vit la dimension spirituelle de l’exi- stence. L’Esprit est la grandeur de l’Homme. Dieu est présent dans tous les moments de la vie et pas seulement le dimanche, comme trop d’Églises chrétiennes en donnent l’im- pression […]. Ici, l’Église toute simple des gens de Soweto, elle me rappelle ma mère: elle fut malade si longtemps et si douloureusement que je ne pouvais rien faire d’autre que l’aimer, la faire sourire, la rendre fière de moi […]. C’est ainsi que je souhaite revenir en France. Je veux partager avec les miens ce que l’on m’a donné. J’ai un souhait profond, presque brûlant de les aider à s’ouvrir davantage aux autres cultures, aux au- tres religions. J’ai le secret désir de chercher avec eux le moyen d’accueillir les immigrés comme des frères et des sœurs, une chance et un défi, non une menace […]. Je souhaite partager ma passion pour la liberté et l’Évangile que je crois inséparables, et cette con- viction que l’homme est spirituel. Si se préoccuper de son pain est un souci matériel, se soucier de celui des autres est un devoir spirituel»5.

• La carità cristiana è caratterizzata da una straordinaria capacità di adattamen- to ai problemi del tempo, alle loro evoluzioni, alle circostanze. La carità ha saputo sempre svolgere attività, far nascere energie, adattandosi alle necessità mutevoli delle società e dei tempi. Dall’alto Medioevo ad oggi, dalle foresterie dei monasteri destinate all’accoglienza dei poveri, dai primi ospedali alla distribuzione di cibo ai barboni nelle stazioni delle grandi città contemporanee, in tempi di pace o in tem- pi di guerra, nell’Europa cristiana o nei mondi non cristiani, nei tempi di cristia- nità come nei tempi di secolarizzazione, di fronte alla malattia, alla vecchiaia, o alla miseria, nelle città e nelle campagne, tra i prigionieri o tra le prostitute, la creatività nel campo della carità non sembra avere nessun confine. Si tratta sempre di vedere nell’altro, in quello che è marginalizzato dalla società perché è anziano, o malato, o disabile, o prigioniero, o perseguitato, o semplicemente povero, senza educazione, il viso di Gesù come nella parabola del buon samaritano. Quindi bisogna sempre trovare la soluzione necessaria, adatta alle circostanze, alle persone da aiutare. Co- me dice Giovanni, la carità si fa atti.

• La diversità proviene anche dalla diversità delle personalità, uomini e donne, religiosi o laici, conosciuti o sconosciuti, nobili, borghesi o contadini, riconosciuti come beati o santi dalla Chiesa cattolica, che promuovono la carità. Attraverso i

5 Documento citato da Isabelle Marque, Emmanuel Lafont, un prêtre à Soweto, Éditions de l’Ate- lier, Paris 1997, pp. 123-125.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 195 Jean Dominique Durand tempi, c’è una catena senza fine di persone di ogni origine sociale e geografico, che si svolge fino ad oggi: grandi figure del monachesimo dei primi secoli della cristia- nizzazione dell’Europa, che hanno voluto fare dei monasteri spazi di pace, di lavo- ro, di cultura, di accoglienza: ecclesiastici Vincent de Paul, vescovi come Carlo Borromeo o Oscar Romero, poveri con Giovanni di Dio, e tanti, tanti altri, Fran- cesco di Assisi, Filippo Neri, Camillo de Lellis fondatore dei camilliani, l’Abbé de l’Épée impegnato a Parigi presso i sordomuti, Jean Eudes, Jean-Baptiste de La Sal- le, Frédéric Ozanam, Giovanni Bosco, Pauline Jaricot, Antoine Chevrier, Jeanne Lugan, Dorothy Day, Giorgio La Pira, padre Werenfried van Straaten, Joseph Wre- sinski, l’Abbé Pierre, Madre Teresa da Calcutta, Suor Emmanuelle, Luigi Di Lie- gro, Jean Vanier, ecc. Tra gli ultimi canonizzati, padre Damien De Veuster6, prete missionario della Congregazione di Picpus, mandato in Oceania, a Hawaï in parti- colare, che si sacrificò per aiutare i lebbrosi, cacciati dappertutto, rinchiusi sull’iso- la di Molokaï, abbandonati tra gli abbandonati, poveri tra i più poveri che si pote- va pensare, fino a prendere lui stesso la malattia. Scrisse il 25 novembre 1873 que- sta lettera molto significativa: «Eccomi in mezzo ai miei cari lebbrosi. Sono assai orribili da vedere, ma hanno un’anima redimessa al prezzo del sangue adorabile del nostro Divino Salvatore. Anche Lui nella sua divina carità consolò i lebbrosi. Se non posso guarirli come Lui, al meno posso consolarli. Mi faccio lebbro tra i lebbrosi».

• La capacità di adattamento si traduce anche nella diversità delle strutture, delle organizzazioni che sviluppano le attività di carità: ospedali, congregazioni re- ligiose, confraternite, ordini ospedalieri, opere di pietà, fino ad oggi con organiz- zazioni di laici e organizzazioni non governative. Oggi, la crisi dello Welfare State con lo sviluppo di nuove forme di marginalità e di povertà da una parte, e dall’al- tra parte il confronto con la questione dell’immigrazione, dell’arrivo sui territori europei di persone che hanno attraversato le prove peggiori per trovare semplice- mente un luogo dove vivere meglio, impongono la ricerca di nuove soluzioni di fronte a una nuova miseria sociale. Nello stesso tempo la secolarizzazione della so- cietà, e il ruolo nuovo riconosciuto ai laici nella Chiesa cattolica, dal concilio Vati- cano II, hanno impegnato i laici in movimenti umanitari che a volte prendono le distanze nei confronti della religione. Però nel contesto di crisi, la vitalità delle as- sociazioni caritative confessionali o di origine religiosa, è legata a questa lunga e antica esperienza, e alla loro capacità di rinnovamento e di innovazione che le ca- ratterizzano. Difatti l’arco di mobilitazione delle forze della carità è molto ampio. Sono for- ze deboli, ma capaci di sollevare montagne. Investono tutti i settori della società: bambini, anziani, donne, uomini, giovani, operai, contadini, abitanti delle città,

6 Jan De Volder, De geest van Damiaan. Een heilige voor onze tijd, Lannoo, Tielt 2009.

196 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Dominique Durand malati, prigionieri, vittime dei conflitti armati, vittime di cataclismi naturali, ecc. L’elenco dei metodi è anche lui senza limiti: elemosina, distribuzione di cibo, di ve- stiti, accoglienza, asili, case di riposo, scuole, formazione, ospedali, assistenza tec- nica (in particolare per i contadini), ecc. Anche i luoghi dove la carità è attiva sono innumerevoli: città e campi, borgate, fabbriche, ecc. Sopratutto, una delle princi- pali caratteristiche della carità cristiana è di non fermarsi alle terre cristiane, ma di considerare il mondo intero e tutti i popoli chiamati a accogliere la solidarietà a nome della fraternità universale, come diceva Charles de Foucauld, portatrice del- l’amore universale. È il senso di tante congregazioni missionarie, che hanno voluto portare dappertutto e a tutti gli uomini l’amore, la carità di Cristo. Alcune l’hanno fatto in uno spirito di proselitismo, nella speranza della conversione dei popoli aiu- tati; altre come testimonianza, sepolte tra i popoli, per amore gratuito per loro, co- me le Piccole sorelle di Gesù, che con la piccola sorella Magdeleine, o con soeur Emmanuelle, hanno adottato la spiritualità di frère Charles de Foucauld, «il fratel- lo universale». Andare verso l’Altro, senza richiedere niente, è certamente il colmo della carità.

ÿ L’Alterità: Andrea Riccardi dice che una grande parte del mondo è altro, e sottolinea in questo modo una problematica che è fondamentalmente, essenzial- mente, quella del nostro tempo segnato in un modo particolare dalla sfida del con- vivere, cioè del vivere insieme, gli uni con gli altri, e non più gli uni al di sopra de- gli altri o gli uni contro gli altri, per riprendere le categorie usate da papa Paolo VI nel suo famoso discorso all’ONU il 4 ottobre 1965. Il nostro mondo odierno è confrontato al rischio di entrare nel vicolo cieco delle conflitto tra le culture, le ci- viltà, le religioni. Già settant’anni fa, come ricorda Andrea Riccardi, nel 1936, la Semaine Sociale des Catholiques français, a Versailles, è stata dedicata al concetto di conflitto di civiltà, espressione chiamata recentemente a un grande successo me- diatico7. Perché il carattere centrale di questi temi? Perché la questione dell’alterità è la grande questione del nostro mondo anche quando, forse sopratutto siamo testimo- ni indiretti di operazioni di pulizia etnica o religiosa. I problemi di convivenza che conosciamo oggi sono il frutto di tutta una evoluzione secolare. Infatti la scoperta dell’Altro è stata il grande evento del Novecento, in particolare nella sua seconda parte. L’alterità è diventata di casa. Possiamo prendere alcuni esempi. Uno tra i più interessanti è la scoperta dell’ortodossia dal cattolicesimo occidentale attraverso i profughi venuti dalla Russia vittima della rivoluzione bolscevica. Esemplare fu l’a- zione di padre Couturier per accogliere queste persone, che avevano perduto tutti i loro beni, che avevano lasciato tutto, salvo la preziosissima icona familiare. Per

7 Andrea Riccardi, Le Chiese e gli altri. Culture, religioni, ideologie, e Chiese cristiane nel Novecento, Guerini e associati, Milano 2008, pp. 11-25; Id., Convivere, Laterza, Roma-Bari 2006.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 197 Jean Dominique Durand questo prete di Lyon, che poi diventò il propagandista dell’ecumenismo e l’orga- nizzatore della Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, l’incontro con i russi nella periferia di Lyon, fu una scoperta: allora questi ortodossi, presentati finora nella Chiesa cattolica come degli scismatici, pregavano, erano dei cristiani, che ave- vano rischiato tutto per portare con sé la santa icona! L’Altro era venuto e aveva sconvolto tutti i pregiudizi. L’icona, simbolo dell’espressione della fede dei cristiani di Oriente è ormai nel patrimonio religioso culturale dell’Occidente. Più recente- mente tutti i cristiani hanno preso una forte coscienza del martirologio ortodosso sotto i regimi comunisti, molto importante per capire la Russia di oggi.

• Altro esempio di scoperta dell’Altro è la nuova visione cristiana dell’ebraismo e dell’ebreo; purtroppo è successa la Shoah cioè il Crimine per eccellenza, è stata necessaria la terribile lezione della storia, come scrisse Jules Isaac quando chiese ai cattolici di portare precisamente un’altro sguardo sul popolo di Israele. La Shoah ha pesato molto a favore della revisione delle mentalità all’interno della Chiesa cat- tolica, secondo un movimento lento ma inesorabile, dall’antico antigiudaismo alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate, dai pregiudizi secolari al dialogo, alla frater- nità, al riconoscimento del fratello maggiore avanzato da Giovanni Paolo II.

• Altra scoperta dell’Altro, ma in un contesto tutto differente: quella dell’Islam sopratutto a partire dal Novecento, dopo secoli di confronti (Crociate, battaglia di Lepanto) nel contesto particolarmente ambiguo della colonizzazione che è stata sfruttamento e disprezzo, ma anche scoperta ed amore. Un esempio notevole è dato da Charles de Foucauld, che non è soltanto l’ex ufficiale francese diventato l’eremita del Sahara, ma fu anche l’appassionato conoscitore della civiltà degli uomini del de- serto, autore di un libro assai importante sulla geografia del Marocco e di un famoso dizionario francese-touareg nonché di numerose traduzioni. Bisognerebbe evocare anche il ruolo di diverse congregazioni religiose dai Padri bianchi alle Piccole sorelle di Gesù, e il paradosso del nuovo incontro in Europa stessa, dove l’islam, la religio- ne del colonizzato, è ormai, sotto l’effetto dell’immigrazione, la seconda religione in numero di addetti, dell’ex colonizzatore: le difficoltà non mancano, si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, che tocca la vecchia Europa.

• Per la Chiesa, gli Altri sono anche i laici nella delicata dialettica tra laicità, lai- cismo, anticlericalismo, storia di uno scontro diventato poi un incontro ma sem- pre fragile, e con contesti nazionali molto differenti da un paese all’altro. Benedet- to Croce faceva la domanda «Perché non possiamo non dirci cristiani?»; ormai è possibile trasformare la questione: «perché non possiamo non dirci laici?». Su que- sto i partiti della Democrazia cristiana hanno fatto molto per riconciliare i cattolici con una laicità che non sia più di combattimento, ma di cooperazione con le Chie- se nel rispetto delle fedi.

198 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Dominique Durand

Il Novecento resta segnato anche dall’apertura della Chiesa sui mondi lontani, i mondi asiatici e africani in particolare, nel contesto ambiguo di una missione le- gata alle potenze coloniali, ma anche nello stesso tempo, in uno spirito di amore par gli Altri, con la curiosità, la volontà di conoscere per meglio capire le differen- ze. Numerosi missionari si sono fatti etnologi e salvatori delle culture locali. Poi ci fu l’effetto di ritorno della colonizzazione con l’immigrazione in Europa, cioè in direzione della culla del cristianesimo, dei figli dei colonizzati. L’Altro sta ormai in Europa, con uno choc di tipo psicologico senza precedenti: per esempio l’Italia, che ha prodotto milioni di emigranti, dove gli stranieri erano pochissimi, è diven- tata nell’arco di alcuni decenni, fino ad oggi, terra di immigrazione, con spesso rea- zioni di paura, di incomprensione.

ÿ Internazionalismo: la parola caratterizza il rapporto tra cristiani e mondo, al livello della pratica della solidarietà internazionale, come nelle ambizioni politiche. La carità non conosce nessun limite, né i limiti dei continenti, né i confini de- gli Stati, né gli ostacoli delle lingue. Quasi tutte le organizzazioni dedicate alla ca- rità, prendono appena create, o dopo alcuni anni di vita, una dimensione interna- zionale. Osservazione di questo tipo può essere fatta per quasi tutte le fondazioni passate (come le congregazioni più antiche dai benedettini ai francescani) alle nuo- ve comunità come Sant’Egidio presente ormai in sessanta paesi. La dimensione internazionale della carità è sottolineata dal magistero pontifi- cio al livello dell’insegnamento sociale, e al livello delle strutture. Sul primo pun- to8, la dottrina sociale della Chiesa è stata regolarmente aggiornata da Leone XIII con l’enciclica Rerum novarum del 15 maggio 1891, a Benedetto XVI con Caritas in veritate del 29 giugno 2009. Se Rerum novarum era dedicata soprattutto alla si- tuazione degli operai confrontati alla rivoluzione industriale in Europa, i docu- menti successivi hanno preso una dimensione globale, come Quadragesimo anno (15 maggio 1931) scritta da Pio XI nel contesto della grande crisi del 1929, o Po- pulorum progressio (26 marzo 1967) nella quale Paolo VI denunciava la povertà del Sud del mondo. Tutti i pontefici del Novecento hanno sottolineato la necessità di una giustizia sociale internazionale, da Benedetto XV dopo la Prima Guerra mon- diale, fino a Pio XII con il suo radiomessaggio del Natale 1944 e a Giovanni Paolo II. Non c’è pace durevole senza giustizia nei rapporti tra le nazioni. Per rispondere ai bisogni, la Santa Sede ha creato delle strutture organizzative come il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace voluto da Paolo VI per promuovere la dottri-

8 Per una visione d’insieme, vedere il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004. Molto ricco è il Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e magistero, curato dal Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Vita e Pensiero, Milano 2004.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 199 Jean Dominique Durand na sociale della Chiesa, la pace e la giustizia e i diritti umani; il Pontificio Consiglio Cor Unum fu istituito anche da Paolo VI nel 1971 come istanza della Santa Sede responsabile dell’orientamento e della coordinazione tra le organizzazioni e le atti- vità caritative promosse dalla Chiesa: «Promuovere la catechesi della Carità e stimolare i fedeli a dare testimonianza di carità evangelica; favorire e coordinare le iniziative delle istituzioni cattoliche che attendono ad aiutare i popoli che sono nell’indigenza; seguire attentamente e promuovere i progetti e le opere di solidale premura e di fraterno aiuto finalizzati al progresso umano»9.

• La Caritas internationalis è una confederazione di associazioni, in genere le Caritas nazionali (la prima fu fondata a Friburgo nel 1897, il Deutsche Caritasver- band), una delle Organizzazioni non governative (ONG) più importanti. La strut- tura internazionale fu voluta da Pio XII nel 1951, come Conferenza internazionale della Carità. L’internazionalismo ha anche la sua traduzione politica. I cristiani sono attac- cati alla nazione, ma non è la nazione di Charles Maurras e dei nazionalisti, denun- ciata da Pio XI come l’espressione dell’egoismo, ma quella di Giovanni Paolo II che ci vedeva innanzitutto, come lo dimostrò nel suo discorso all’UNESCO nel 1980, la culla della cultura personale, e il punto di partenza per la costruzione di entità più ampie in un rapporto di rispetto tra i popoli, ed è anche diversa da quel- la degli europeisti come Alcide De Gasperi. L’internazionalismo: un elemento cen- trale dell’identità democratica cristiana. Il movimento democratico cristiano, nato nell’Ottocento in un contesto di affermazione degli Stati nazioni, si pensò molto presto in una prospettiva internazionale. Sotto la spinta delle riflessioni che porta- rono all’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa (Union de Fribourg), a un rinnovamento del pensiero cattolico sulla guerra e sulle relazioni tra le nazioni (Luigi Taparelli d’Azeglio, Yves de La Brière), a una presa di coscienza con il magi- stero di Benedetto XV e di Pio XI delle implicazioni internazionali della fede, i de- mocratici cristiani hanno avuto un’attenzione particolare per l’internazionalità. Su- bito dopo la Grande Guerra, Marc Sangnier, fondatore del Sillon e don Luigi Stur- zo, fondatore del Partito Popolare Italiano, hanno cercato di stabilire contatti, di organizzare degli incontri (Bierville 1926, creazione delle Auberges pour la Jeunes- se) e le prime strutture organizzative tra i partiti (Secrétariat international des Par- tis d’inspiration chrétienne – SIPDIC, 1925). L’affermazione dei totalitarismi in Europa e la nuova guerra mondiale, non impedirono il mantenimento dei contatti. Al contrario, il periodo dell’esilio e della Resistenza per tante personalità, come ad esempio Luigi Sturzo, fu un momento di approfondimento del proprio pensiero. Subito dopo la Seconda Guerra mondiale, si svilupparono in tutta Europa nuovi

9 Annuario Pontificio 2008, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, p. 1901.

200 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Jean Dominique Durand partiti di ispirazione cristiana, che ebbero risultati elettorali notevoli al punto di partecipare al governo di tanti paesi. Ma l’esperienza fu rapidamente fermata dalla dittatura comunista nella parte centrale ed orientale dell’Europa. Nello stesso tem- po la preoccupazione per una cooperazione internazionale si affermò di nuovo con la creazione delle Nouvelles Équipes Internationales (NEI), con l’evidenza della necessità di aiutare i partiti esiliati dai paesi collocati sotto il controllo dell’Unione Sovietica, e di creare nuovi legami con partiti e movimenti nati anche in America Latina. Furono create diverse strutture: l’Unione Europea Democratica Cristiana (UEDC), l’Unione Democratica Cristiana dell’Europa Centrale (UDCEC), l’Or- ganizzazione democratica cristiana di America (ODCA), l’Internazionale demo- cratica cristiana (IDC), fino al Partito popolare europeo (PPE) fondato nel 1976 per rispondere all’evoluzione della costruzione europea segnata in particolare dal- l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale (1979). Dalla fondazione delle NEI ad oggi, il movimento della Democrazia cristiana nel mondo resta caratterizzato dalla sua dimensione internazionale, dalla sua preoccupazione di mantenere e istituzionalizzare i rapporti tra i partiti, i movimen- ti, senza dimenticare i sindacati cristiani, e da un insieme di organizzazioni regio- nali. Queste strutture, che possono lasciare l’impressione di una relativa confusio- ne, testimoniano invece la triplice attenzione permanente nel pensiero democrati- co cristiano ai livelli regionale, nazionale e internazionale della riflessione dottrina- le e dell’azione. D’altra parte, al di là delle strutture, i rapporti personali, tra i re- sponsabili e i militanti, sono assai importanti per capire le scelte e le poste in gioco. La visione internazionale è chiaramente un aspetto centrale della vita di questi par- titi e organizzazioni di ispirazione cristiana nel mondo.

• L’autore anonimo della famosa lettera a Diogneto definisce i cristiani come fedeli alla loro città e rispettosi delle sue leggi, e sopratutto, dice, «amano tutti, e da tutti vengono perseguitati», anche quelli che li disprezzano e ingiuriano. Il ruolo del cristiano nel mondo viene da questa coscienza del fatto di essere cristiano. Può essere forte e potente se ne ha davvero coscienza, se non dimentica la sua propria identità e se non ha paura.

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Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 201

LA MEMORIA

ÿ Cossiga, un politico scomodo - di Giuseppe Sangiorgi

ÿ Dossetti: il profumo della politica - di Bartolo Ciccardini

Cossiga, un politico scomodo di Giuseppe Sangiorgi

• Erano le nove di sera di domenica 23 giugno 1985, e fu davvero una sera me- morabile. Al termine di una lunga assemblea che riuniva insieme i deputati e i se- natori della Democrazia Cristiana in una grande aula adiacente a Montecitorio si votò, e raccolse il 90 per cento dei consensi. Il candidato della Dc al Quirinale era lui, e a lui sarebbe spettato il compito di non far rimpiangere Sandro Pertini, il popolarissimo presidente della Repubblica uscente. Quella vota- zione era il sigillo finale della vittoria del “metodo De Mita”, il modo con cui il se- gretario del partito Ciriaco De Mita aveva condotto nelle settimane precedenti le trattative con le altre forze politiche per la successione a Pertini. Al termine della votazione di quella domenica sera, i giornalisti esclamavano sorpresi: «la Dc unita, come è possibile?». Il giorno dopo, lunedì 24 giugno, Cossiga veniva eletto presi- dente della Repubblica con 732 voti. Mai un’elezione al Quirinale era avvenuta così facilmente e con una somma così plebiscitaria di voti. Francesco Cossiga, già ministro dell’Interno durante la tragedia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle brigate rosse, già due volte presidente del Consiglio, era dal 1983 presidente del Senato. Appena varcata la soglia del Quirina- le diffuse una nobile lettera nella quale annunciava di dimettersi dal partito della Democrazia Cristiana per diventare il rappresentante di tutti gli italiani, pur van- tando pubblicamente la sua fede di cattolico convinto, e l’importanza che l’ispira- zione cristiana aveva avuto nella sua vita di politico. In quei giorni, un alto prelato della Santa Sede confidò a Flaminio Piccoli: «abbiamo sentito di nuovo la parola Dio sulla bocca di un presidente della Repubblica italiana». Quello di Cossiga al Quirinale è stato un importante settennato, concluso da “picconatore” contro ciò che a suo giudizio non andava nel sistema politico e istitu- zionale del Paese, intuendo quello che rovinosamente sarebbe accaduto di lì a pochi anni con la cosiddetta fine della prima Repubblica. Un settennato anche controver- so, dominato sul piano politico dallo scontro fra una ritrovata egemonia della Dc di Ciriaco De Mita e le mira ambiziose del Partito Socialista di Bettino Craxi a cui sta- va troppo stretto il ruolo di alleato minore della coalizione di governo. Non fu facile per Cossiga districarsi in questa rete di rivalità e di polemiche, anche a costo in più occasioni di entrare in urto proprio con i dirigenti del partito dal quale egli proveniva. Per mesi nel 1986 De Mita fu in rotta con lui per come il Quirinale aveva gestito una crisi del governo Craxi, favorendo di fatto un reincari-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 205 Giuseppe Sangiorgi co al leader socialista che lasciò infine palazzo Chigi soltanto nel marzo dell’anno successivo, in seguito ai duri contrasti suscitati dal “patto della staffetta”. Concluso nel 1992 il mandato di presidente, Cossiga non uscì affatto di scena dalla vita politica e istituzionale del Paese esercitando fino alla sua morte un ruolo di provocatore e di coscienza critica che lo ha consacrato come uno dei grandi pro- tagonisti della storia italiana degli ultimi decenni. Tra l’altro, la sua particolare in- clinazione verso i temi della sicurezza e delle alleanze internazionali, lo avevano re- so un attore indiscusso non solo del palcoscenico della politica, ma anche dei suoi retroscena più segreti e sensibili: un riferimento per tutti è quello storico di “Gla- dio”. Ma per Cossiga fu quasi una civetteria restare sempre collegato agli apparati della sicurezza del Paese. Chi lo andava a trovare nella sua abitazione vicino piazza Cavour, a Roma, lo trovava seduto su una poltrona dello studio accanto alla quale c’era una grande consolle telefonica che gli permetteva i collegamenti più disparati e privilegiati con i terminali delle più diverse istituzioni, servizi segreti compresi. Legato alla sua Sardegna, coltissimo, riservato nella vita privata, conoscitore di diverse lingue quando girava per il mondo si definiva “cittadino europeo”. Quando era in vena – perché con una certa frequenza soffriva di dolorose crisi depressive durante le quali si isolava anche dagli amici più cari – faceva la fortuna dei giorna- listi che lo incontravano: brillante conversatore, poteva dispensare non solo giudizi “ad alzo zero” su tanti protagonisti della vita pubblica del Paese, ma anche fram- menti di verità sui retroscena della vita del Paese che incuriosivano e finivano spes- so col suscitare le più accese polemiche. Francesco Cossiga è stato una figura davvero di spicco del cattolicesimo politi- co italiano. Mai neppure sfiorato dal dubbio di interessi personali negli altissimi ruoli pubblici che ha esercitato, ha lasciato un enorme patrimonio di ricordi, di carte e di documenti che confluiranno in una fondazione e costituiranno certa- mente un riferimento essenziale per una compiuta comprensione degli avvenimen- ti politici e istituzionali del nostro Paese nella seconda metà del Novecento, e della parte più nobile che in tali avvenimenti hanno avuto tanti militanti e i dirigenti della Democrazia Cristiana.

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206 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Dossetti: il profumo della politica di Bartolo Ciccardini

• Negli anni della costituente, un gruppo di deputati chiamati “i professorini”, si accamparono in una Roma ancora affamata e disagiata in un ospitale appartamento situato presso la Chiesa nuova di San Filippo Neri. In questa casa e poi successiva- mente in un altro appartamento (e contemporaneamente in un rifugio studentesco ospitato dai Padri dell’Oratorio) si formò una comunità di studio e di politica che ebbe una certa importanza sia nella formulazione della costituzione, sia nel dibattito intorno ai problemi politici del mondo e sulla vita definizione della politica della na- scente democrazia cristiana. Telemaco Portoghesi Tuzi, nipote di una donna straor- dinaria, la Signorina Laura Portoghesi, che esercitava la virtù dell’ospitalità, ci rac- conta la storia di questa casa e gli avvenimenti di questa stagione. Ci rivela un aspet- to familiare, curioso e quotidiano di un «sodalizio di convivenza» (così lo chiamava Dossetti). Il fatto straordinario è che da questa cronaca casalinga e quotidiana esce con prepotenza e sorpresa un profumo della politica che avevamo dimenticato. Tuttavia nella sua semplicità questo libro è importante per capire il “dossetti- smo”. Ormai sappiamo che Dossetti aveva un’identità complessa, difficile a essere ca- talogata. In lui si incontrano due alte concezioni, che potremmo definire profetiche. Sono da un lato la coscienza della catastrofica crisi dell’umanità, e dall’altro la ri- cerca di uno strumento storico, adatto ai tempi, e quindi anche politico che ren- desse presente e utile e quindi salvifica, l’azione dei cattolici. Dossetti è l’uomo della crisi. La cultura della crisi è un dato essenziale della cultura del secolo XX. Ne sono impregnate tutte le scuole e le ideologie. L’espe- rienza di due guerre mondiali, la dimensione e l’orrore delle stragi, la forza irrazio- nale del “male assoluto”, le ideologie dei campi di sterminio, la bomba atomica, l’olocausto, segnano la prima parte del secolo. Ma già oggi, a distanza di pochi an- ni, le culture della crisi ci appaiono deboli di fonte a tanta tragedia. In Dossetti, e con lui in molti che in quel periodo sentirono la consacrazione alla vita di “discepoli di Cristo”, questa vocazione era la risposta all’olocausto pre- sente e prossimo venturo. C’era in questo atteggiamento una dimensione impor- tante e nuova, profetica nell’interpretazione di Isaia, attiva nell’accettazione dei tempi apocalittici, in consonanza con la cultura francese dell’“Umanesimo inte- grale” e del “Cuore aperto ai presagi”.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 207 Bartolo Ciccardini

Lo strumento storico cresciuto sotto l’oppressione del fascismo era l’Azione Cattolica, che aveva raccolto l’eredità dispersa di 50 anni di azione sociale sfociata nella breve esperienza di un partito politico singolare: il Partito popolare. Nell’A- zione Cattolica si era conservato il vecchio lievito e si era ammassata nuova farina. Ma tutte le intelligenze della cultura cattolica erano tese a capire di che pasta sareb- be fatto il nuovo pane. È su questo terreno che avvenne lo scontro, prima con Gedda e poi con De Gasperi. La coscienza tragica della immensità delle crisi non poteva accettare la versione volontaristica e militante della organizzazione geddiana che imitava, sep- pure in forme migliorative, l’azione massificante di regimi totalitari. E fu forte l’ac- cusa di quasi pelegianesimo. L’incontro-scontro con De Gasperi, fu diverso e forse più drammatico. De Gaspe- ri aveva dalla sua la legge della necessità. Qualunque fosse l’esito finale del contributo dei cattolici, bisognava comunque trovare il pane per superare l’inverno, ricostruire il paese e l’economia, saldare la debolezza italiana con la debolezza europea e conquista- re la fiducia e l’aiuto dei vincitori, e soprattutto del vincitore della guerra. Erano ragio- ni che nella sua intelligenza politica Dossetti ammetteva (con una rara capacità opera- tiva che De Gasperi gli riconosceva). Ma la sua intelligenza politica non si acquetava di fronte alla necessità quotidiana. La cultura della crisi lo sospingeva verso un model- lo che De Gasperi definiva: «Allucinazioni e presunte divinazioni suggestive, oltre che un calore di sentimento e un’abilità di espressione e di manovra non comune». Noi sappiamo (e qui non ne parleremo) che Dossetti riconobbe la debolezza di questo modello di fronte alla Ananchè, la legge della necessità, e cercò di modifica- re alla sorgente, nel concilio, il nucleo della coscienza cristiana della crisi apocalitti- ca. Ma questa è un’altra storia. Del modello politico che Dossetti tentò di costruire risultano poche testimonian- ze, quasi dei ruderi di una costruzione immane non portata a termine. Uno di questi è «Cronache sociali» che oggi appare una rivista strana per la sua capacità di dare giudizi ancora validi dopo sessant’anni. Un altro è il concetto di “Comune Democratico” che forgiò nella sua straordinaria e strana battaglia per il Comune di Bologna, dove in- ventò il “Comune dei Servizi”, moderno strumento della sussidiarietà, che resta una tappa fondamentale nella storia della società italiana. In questa scoperta si ispirava alla realizzazione sociale del “corpo mistico”. Inventò per primo le primarie, non rifacen- dosi tanto all’esperienza americana, quanto ad un concetto di democrazia diretta che veniva dalle primitive comunità cristiane, dalla nascita popolare delle città italiane. Più imponente di tutti resta il monumento della Costituzione e dopo cin- quant’anni quella sua inaspettata “discesa in campo” dettata dalla necessità di di- fenderla. Dossetti pensava che dai cattolici dovesse venire una risposta definitiva ai problemi della crisi. Per rispondere a questo compito dovevano rinnovare le fonti spirituali della loro ispirazione e da laici in politica svolgere una funzione creativa di costruzione della pace nella giustizia.

208 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Bartolo Ciccardini

Nell’uno e nell’altro campo dovette segnare il passo di fronte alla Ananchè, alla necessità di provvedere ad un quotidiano importante, che non era possibile abban- donare e che non era facile a gestire. Ma i segni di questa direzione non solo sono grandi ed evidenti, ma son anche significativamente attuali.

• La cultura della crisi è oggi fonte di ispirazione e di preoccupazione negli alti documenti pontifici. Si può senz’altro affermare che la Chiesa dopo il concilio è stata attenta a denunciare i mali della globalizzazione selvaggia e ad invocare un governo giusto dell’economia globale per difendere i più deboli dalla fame e dallo sterminio previsti. Ed, in alcuni casi, questa è stata l’unica voce, che si sia levata. Me non è apparsa pronta invece la risposta sui mezzi e sull’azione. In Italia poi, diventata provincia non importante della lectio orbi, appare disar- mante la distanza dell’azione dei cattolici, impaludata in un collateralismo irrile- vante ad un regime inetto, dai messaggi alti della dottrina delle encicliche. Dove è il profumo della politica che questo libro ci ripropone? Dove l’austera e nobilepovertàdelMinistrodelLavorocheabitavainunastanzaconlasuanumerosa famiglia? Dove è finita, la preveggenza dei compilatori dell’articolo 3 della costituzio- ne? Dove ritrovare la nobiltà del discutere, che c’era fra Dossetti e De Gasperi? Ma non è solo una crisi morale. È ancor prima una crisi culturale. Dove è la co- scienza che a noi spetta il compito di salvare l’umanità? Dove è l’impegno morale che da ciò deriva a coloro che fanno politica, la più alta azione di carità che si possa mai compiere? Dove è il compito dell’Italia? Dossetti pensava ad un Italia fuori dei blocchi per promuovere la pace. Non era missione impossibile se, in mancanza dell’Italia che non poteva rinunciare allo scudo atlantico, ha potuto essere la Yugoslavia di Tito ad assumere, seppur in maniera largamente insufficiente quel ruolo? Ma anche nel Patto Atlantico il ruolo dell’Italia che costruisce l’Europa è stato abbastanza importante per preparare gli strumenti atti a risolvere i problemi della crisi europea. Dove è oggi il nostro europeismo? Senza una vocazione si obnubila l’esistenza della Nazione italiana, il risorgimento portò l’Italia dall’irrilevanza a una funzione politica mondiale, assolta talvolta bene, talvolta male. La mancanza della cultura della crisi e della vocazione italiana, porta l’Italia a tornare dalla sua missione mon- diale all’irrilevanza di un’espressione geografica. Questi i pensieri e gli interrogativi che un libro curioso può ispirare ricordando il profumo della politica. • – Commento di Bartolo Ciccardini al volume di Telemaco Portoghesi Tuzi, Grazia Tu- zi, Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del Porcellino,il Saggiatore, Milano 2010. ÿ

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 209

APPENDICE

ÿ Carta d’Intesa per il coordinamento di soggetti sociali cattolici

Carta d’intesa per il coordinamento di soggetti sociali cattolici

Un insieme di gruppi, di centri e di organismi variamente impegnati nella società e nella cultura e interessati alla presenza e all’azione politica di ispirazione cristiana, intendono mettersi in rete e cooperare fra di loro secondo le idee e i propositi conte- nuti in questa carta d’intesa.

1. Nuove risposte a nuovi problemi

Quanti aderiscono al presente documento tramite i gruppi ai quali apparten- gono condividono anzitutto il senso cristiano della persona e della società; riten- gono necessaria la testimonianza e l’attività di ispirazione cristiana a livello sociale, economico, culturale e politico; concepiscono il bene comune locale e globale alla luce della dottrina sociale della Chiesa, nella prospettiva di una civiltà fondata sul- la difesa e lo sviluppo “di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.” Nonostante i grandi progressi avvenuti nell’età moderna e contemporanea, oggi viviamo in un tempo di acuta e generale crisi ideale, morale, economica e politica in Italia e in Europa. Questo momento è più carico di interrogativi che di sicurezze e di ottimismo, e nell’orizzonte mondiale – sempre doverosamente presente al nostro sguardo – sono cresciute le incertezze circa i rapporti e gli assestamenti tra le nazioni e le grandi aree geografiche mentre perdurano immense miserie, oppressioni e sofferenze, delle quali i fenomeni migratori sono la più visibile e drammatica testimonianza. Tut- tavia, più forti sono le difficoltà e più vive devono essere la speranza e la responsabilità nei confronti del bene comune e del massimo sviluppo sostenibile di oggi e di domani. Lo stesso anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia spinge a chiederci quale sia lo stato della democrazia e delle istituzioni anzitutto nazionali ma anche euro- pee e mondiali e quali siano le vie più giuste e utili per offrire, da cristiani, un con- tributo di sapienza, di giustizia e di solidarietà nel contesto del mondo.

2. Le caratteristiche di un impegno

Su questa base vogliamo ribadire il nostro impegno: un impegno coerente, unitario ed efficace.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 213 Appendice

Un impegno coerente: in armonia col Vangelo e l’intero complesso della dottrina sociale della Chiesa e dei suoi orientamenti etico - sociali da tradurre in progetti, programmi, azioni e comportamenti negli ambiti culturali, economici e istituzio- nali attraverso l’esercizio di un’autentica laicità cristiana, frutto di fedeltà e di re- sponsabilità. Un impegno unitario: attuato a partire dalla nostra coerenza dottrinale e morale nella pratica del discernimento personale e comunitario, e in una conseguente azione sociale e politica propria di persone libere e al tempo stesso non dimentiche della loro fraternità e del loro comune e irrinunciabile patrimonio ideale: un patri- monio più grande delle diverse sensibilità, opinioni e appartenenze. Solo così è possibile neutralizzare la deriva individualistica e relativistica che insidia e compro- mette l’autentico sviluppo e il destino degli esseri umani. Un impegno efficace: affinché tramite la mediazione sociale e politica, la più al- ta, coerente ed esigente possibile, possiamo cogliere tutte le opportunità e superare al meglio le resistenze e i condizionamenti negativi che si oppongono all’incarna- zione storica dei nostri ideali. Tutto ciò senza nutrire l’illusione che si possa realiz- zare in terra la perfezione, ma al tempo stesso senza abdicare al dovere di testimo- nianza civile che l’ispirazione cristiana comporta.

3. Il movimento cattolico oggi

In questi anni è in atto nell’ambito delle comunità cristiane un’ampia, conti- nua e spontanea trama di iniziative, di occasioni e momenti di riflessione, di pro- getti formativi, di animazione culturale e sociale, di attività economico-sociali, di impegni di cooperazione e perfino di intermediazione internazionale. Molteplici sono anche le pubblicazioni e diversi i mass media antichi e nuovi a servizio della visione cristiana della vita, dell’educazione e della stessa democrazia economica e politica. Tutto ciò rappresenta senza dubbio un dato positivo che dimostra l’esistenza di un reale movimento cattolico, per quanto multiforme e articolato, nella cultura e nella società. Queste esperienze costituiscono una grande ricchezza nell’ambito del più generale dibattito culturale e politico del Paese e della sua proiezione europea e internazionale. Esse però appaiono spesso troppo disperse, elitarie e poco cono- sciute a livello popolare. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di favorirne la crescita, la diffusione e il radicamento territoriale specialmente nel mondo giovani- le, e un più ampio e solido coordinamento. Tale esigenza è stata riproposta con forza dalla 46° edizione delle Settimane So- ciali svoltasi nell’ottobre 2010 a Reggio Calabria, che ha incoraggiato l’impegno a far sì che il contributo offerto dai cattolici per risolvere i problemi posti dalle ur- genze del Paese sia reso, come è stato affermato, comprensibile e politicamente rea-

214 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Appendice lizzabile. Per raggiungere questi obiettivi, felicemente riproposti nella “agenda di speranza per il futuro dell’Italia” (cfr. il documento conclusivo dei lavori), è neces- saria una continuità di intenti e di azione e una ramificazione di esperienze e di opere. Tale continuità passa certamente per le Settimane Sociali, che rappresentano un incontro e un riferimento di grande rilievo; passa per analoghe iniziative locali e nazionali su specifici temi; e passa particolarmente per la concreta capacità di “mettere in rete” e collegare ancora di più, a livello di vertice e anzitutto a livello di base, le tante iniziative esistenti nel cattolicesimo italiano ed europeo. Ecco il senso di questa “Carta di intesa” sottoscritta da diversi soggetti sociali cattolici.

4. Per una nuova progettualità

Il coordinamento che ne deriva, concepito come sede permanente di una tale riflessione ed azione sociale – politico - culturale, oltre a favorire una più larga co- noscenza e la reciproca fraternità tra quanti si interessano a queste tematiche, è an- che finalizzato a elaborare un’idea di sviluppo complessivo della società e del bene comune che corrisponda alle esigenze e alle condizioni del mondo d’oggi. Resta esemplare a questo riguardo il metodo seguito nella elaborazione del Codice di Ca- maldoli durante la tragedia della seconda guerra mondiale. A proposito di un simile impegno progettuale e formativo illuminato dalle en- cicliche sociali, esso richiama l’esperienza del popolarismo sturziano, il valore sem- pre attuale dei principi della Costituzione italiana e lo stretto rapporto che lega la dimensione nazionale a quella europea e internazionale. Ancora di più bisogna ricordare che questi propositi richiedono idealità e spiri- tualità: senza un’autentica esperienza cristiana delle persone non può esserci un reale impegno a pensare, a vivere e a servire l’ispirazione cristiana nella vita pubbli- ca del Paese. Un’attenzione speciale va ai problemi sociali ed economici e a quelli del lavoro, che più direttamente segnano la vita quotidiana dei cittadini e rendono incerte le prospettive dei più giovani. Dopo le illusioni del collettivismo e di un liberismo di- venuto fine a se stesso, siamo chiamati a dare il nostro contributo a un nuovo para- digma di crescita e alla concreta realizzazione di una economia sociale di mercato in grado di raccordare profitto e solidarietà, secondo l’insegnamento della Caritas in veritate. In tale spirito, quanti sottoscrivono questo documento si impegnano a dare vi- ta a un luogo di elaborazione culturale, anche attraverso la redazione e la diffusione di schede tematiche nelle quali si riassuma un progetto di società – tra la lunga prospettiva e la contingenza socio-politica – che a partire dalla dottrina sociale del-

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 215 Appendice la Chiesa applicata all’oggi, sappia avanzare proposte per la soluzione dei problemi del nostro tempo. Non mancano tra noi persone competenti al riguardo. Semmai dobbiamo im- pegnare anche i nostri giovani a farsi esperti e a “pensare in grande”.

5. Un ambito pre-partitico

L’intesa a cui questa Carta ci lega riguarda l’ambito pre-partitico. Il coordina- mento ad essa ispirato ha lo scopo di costruire e offrire occasioni di formazione, di incontro, di confronto e di dialogo tra credenti impegnati a pensare e a edificare la città sul piano culturale, economico-sociale e politico. Tutto ciò vincola gli aderen- ti – singole persone e gruppi – a un duplice impegno. Primo: misurare le proprie opzioni e appartenenze politiche sul metro dell’intero messaggio sociale cattolico, e contribuire al tempo stesso a che i cattolici trovino il modo di ragionare insieme anche allo scopo di individuare le modalità concrete più adatte a favorire un’incar- nazione coerente ed efficace dei loro ideali storici nella situazione contemporanea. Secondo impegno: evitare ogni forma di strumentalizzazione di parte – o comun- que di uso politico-partitico – di questo coordinamento.

6. Un percorso che continua

La proposta qui illustrata si inserisce in un percorso culturale già iniziato negli anni passati dal Collegamento Sociale Cristiano nato in Toscana dall’associazione Amici di Supplemento d’anima; dai Gruppi per la Dottrina Sociale della Chiesa le- gati alla Fondazione Toniolo di Verona; dall’Istituto Sturzo di Roma unitamente ad altre organizzazioni ad esso collegate; dal Forum delle Fondazioni per la cultu- ra della democrazia; dal Movimento Studenti Cattolici nato a Roma; da Argo- menti 2000–Associazione di amicizia politica; da quei gruppi che si richiamano allo spirito del Codice di Camaldoli; dalla Fondazione Opera dei Santi Medici di Bitonto. Realtà che a vario titolo e con varie modalità sono presenti sul territorio nazionale. Auspichiamo che altri si uniscano a questa proposta la quale – nel rico- noscimento dei soggetti nazionali ben più grandi di noi – ha l’unico scopo di favo- rire la ripresa, il valore e l’incidenza del vasto e articolato movimento cattolico non solo italiano. A tal fine i convegni della “Tre giorni di Toniolo” di Pisa sono l’occasione an- nuale della verifica del percorso compiuto.

Prato, villa del Palco, 7 maggio 2011

216 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 ÿ Numeri precedenti della IV serie di Civitas

ISTITUTO “LUIGI STURZO” CIVITAS - (IV Serie) NUMERI PRECEDENTI

ANNO I - N. 1/2004

EUROPA SENZA CONFINI Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - Luigi Giraldi - Giorgio Tupini - Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli - Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese

ANNO II

N. 1/2005

LA DEMOCRAZIA MALATA Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mon- gardini - Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia -

N. 2/2005

LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci - Agostino Giovagnoli

RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia

N. 3/2005

ECONOMIA E DEMOCRAZIA Piero Barucci - Andrea Bixio - Giampiero Cantoni - Innocenzo Cipoletta - Emmanuele Emanuele - Piero Giarda - Giovanni Marseguerra - Franco Nobili - Giuseppe Sangiorgi - Mario Sarcinelli - Bruno Tabacci - Antonio Zurzolo

ANNO III

N. 1/2006

CHIESA E STATO IN ITALIA - IERI E OGGI Franco Nobili - Andrea Riccardi - Romeo Astorri - Maurizio Punzo - Giuseppe Dalla

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 219 Torre - Francesca Margiotta Broglio - Giovanni Battista Varnier - Carlo Cardia - Camillo Ruini - Pietro Scoppola - Agostino Giovagnoli - Silvio Ferrari - Stefano Semplici - Fran- cesco Totaro - Luciano Eusebi

NUMERO SPECIALE – AFRICA: UN CONTINENTE TRA ABBANDONO E SPERANZA Franco Nobili - Mario Giro - Jean Leonard Touadi - Jean Mbarga - Stefano Picciaredda - Gianpaolo Cadalanu - Leonardo Palombi - Daniela Pompei - Robert Sarah - Boniface Mongo Mboussa - Éloi Messi Metodo - Robert Dussey

N. 2-3/2006

BIPOLARISMO IMPERFETTO Antonio Agosta - Andrea Bixio - Fedele Cuculo - Gianfranco D’Alessio - Giuseppe De Rita - Emmanuele F.M.Emanuele - Marco Follini - Enrico Letta - Franco Nobili - Andrea Riccardi - Mario Rusciano - Giuseppe Sangiorgi - Paolo Segatti - Pietro Scoppola - Bruno Tabacci

ANNO IV

N. 1/2007

OLTRE IL WELFARE: LA SFIDA DELLE NUOVE POVERTÀ Card. Tarcisio Bertone - Stefano Bartolini - Leonardo Becchetti - Corrado Beguinot - Luigino Bruni - Giuseppe De Rita - Franco Nobili - Renato Palma - Pierluigi Porta - Franco Riva - Giuseppe Sangiorgi - Silvio Scanagatta

N. 2/2007

ISLAM Lahouari Addi - Mustapha Cherif - Bahey El-Din Hassan - Mohamed Haddad - Hassan Hanafi - Kone Idriss Koudouss - Ahmad Syafii Maarif - Chandra Muzaffar - Paul Matar Mohammad Sammak - Ghassan Tueni - Mohamed Tozy - Abdul Magid - A. Karim Vakil

N. 3/2007

DOVE VANNO I CATTOLICI

Franco Nobili - Andrea Riccardi - Mauro Magatti - Savino Pezzotta - Pierluigi Castagnet- ti - Gennnaro Acquaviva - Gianni Baget Bozzo - Paolo Corsini - Carlo Giunipero - Paola Bignardi - Lucia Fronza Crepaz

RICORDO DI PIETRO SCOPPOLA

Franco Nobili - Achille Card. Silvestrini - Andrea Riccardi - Eugenio Scalfari - Agostino Giovagnoli - Giuliano Ferrara - Francesco Malgeri - Alberto Melloni - Emma Fattorini

220 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 ANNO V

N. 1/2008

PERSONA E COSTITUZIONALISMO DIRITTI, DOVERI, SPERANZE

Franco Nobili - Ugo De Siervo - Paolo Doni -Vittorio Possenti - Andrea Simoncini - An- tonio Magliulo - Stefano Martelli - Valerio Onida - Franco Riva

N. 2/3-2008

LA CITTÀ URBS, CIVITAS... DIVERSITAS

Franco Nobili - Corrado Beguinot - Gabriella Esposito De Vita - Giuseppe Limone - An- tonella Greco - P. Gianfranco Berbenni - Massimo Clemente - Manuel Ferrer Regales - Vincenzo Scotti - Giuseppe Imbesi - Gianluigi Sartorio - Angela Poletti - Gianluca Gian- nini - Giuliana Quattrone - Franco Montanari - Filippo Barbera - Bianca Petrella - Fran- cesco Alessandria - Franco Maceri - Francesco Forte - Carla Quartarone - Gabriella Pado- vano - Sergio Mattia - Alessandra Pandolfi - Giancarlo Nuti - Maria Venturini - Mirilia Bonnes - Vincenzo Cabianca - Giampiero Vigliano - Franco Riva

ANNO VI

N. 1/2009

L’UNIONE PER IL MEDITERRANEO

Giulio Andreotti - Jean-Dominique Durand - Claire Durand - Jaques Huntzinger - Em- manuel Dupuy - Jean Michel Debrat - Mohamed Bechari - Mostafa Cherif - Jean Claude Petit - Michele Zanzucchi - Bernard Sabella - Enric Olivé Serret - Emmanuele F.M. Ema- nuele - Apostolides Costas - Vincenzo Conso - Peter Seideneck - Arben Xhaferi -Enrico Salza - Giuseppe Cuccurese - Vittorio Ianari

N. 2/3-2009

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA IL VENTO LUNGO DELLE ENCICLICHE

Roberto Mazzotta - Storia: Bartolomeo Sorge - Franco Appi - Giuseppe Sangiorgi - Em- manuele F.M. Emanuele - Vincenzo Paglia- Giorgio Campanini - Angelo Sindoni - Erne- sto Preziosi. Società: Luigi Campiglio - Giuliana Martirani - Sergio Parenti - Francesco Maietta - Franco Riva. Europa: Flavio Mondello. Mondo: Michel Camdessus - Antonio Tomassini. Il personaggio: Mario Giro.

Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 221 ANNO VII

N. 1/2010

LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ Opinioni a Confronto

Roberto Mazzotta - Gian Paolo Brizzi - Andrea Graziosi - Andrea Bixio - Walter Tocci - Agostino Giovagnoli - Gennaro Carotenuto - Stefano Bancaleri - Enrico Decleva - Fulvio Cammarano - Documenti

N.2/2010

IL MONDO NELLA RETE. LIBERTÀ PRESUNTA?

Roberto Mazzotta - Agostino Giovagnoli - Franco Riva - Andrea Granelli - Massimo Rus- so - Giorgio Zanchini-Mario Morcellini - Diana Gianola - Piero Dorfles - Claudio Maria Celli (Mons.) - Vittorio Sabadin - Amos Ciabattoni - Angelo Bagnasco (Card.) - Claudio Giuliodori (Mons.) - Chiara Giaccardi - Patrizia Severi - Opinioni a confronto

Richieste e informazioni a: Fax. 06.45471753 E-mail: [email protected] www.rivistacivitas.it

222 Civitas / Anno VII-VIII - n. 3 - Settembre-Dicembre 2010 – n. 1 - Gennaio-Aprile 2011 Finito di stampare nel mese di giugno 2011 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)