LICEO SCIENTIFICO “G. BANZI BAZOLI” LECCE

SCUOLA E RICERCA

Nuova Serie Anno III - 2017

EDIZIONI GRIFO Comitato di redazione: Ennio De Simone Maria Francesca Giordano Massimo Stevanella

Coordinatore editoriale: Ennio De Simone

Hanno collaborato a questo numero: Lidia Caputo, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Samuele Calabrese, Studente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Ennio De Simone, già Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Fiorella Dimitri, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Andrea D’Urbano, già Studente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Maria Francesca Giordano, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Vito Lecci, Parco Astronomico “Sidereus” Salve Elisabetta Leonetti, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Adriano Maniglia, già Docente Università del Salento Fabio Minazzi, Università dell’Insubria Angelo Pellè, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Nicolò Pica, Studente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Giuliana Polo, Studente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Marcella Rizzo, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Antonella Rochira, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Federico Rossi, Studente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Livio Ruggiero, già Docente Università del Salento Luigi Spagnolo, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce Massimo Stevanella, Docente Liceo “G. Banzi Bazoli” Lecce

© Liceo Scientifico “G. Banzi Bazoli” Piazza Palio - Lecce - Italy Presidenza: tel. 0832/396534 Segreteria: tel. 0832/393473 Fax: 0832/317863

L’edizione on line della Rivista sul sito: www.liceobanzi.gov.it

Edizioni Grifo Via Sant’Ignazio di Loyola, 37 - Lecce Tel. 0832/454358 sito: www.edizionigrifo.it ISBN 9788869940996 Presentazione

Scuola e Ricerca (Nuova Serie), la Rivista del Liceo Scientifico “Giuliet- ta Banzi Bazoli”, giunge al suo terzo numero. Vuol dire che la sua sfida non è stata persa: rilanciare un’idea di scuola che sia centro di ricerca, a partire dall’impegno intellettuale dei docenti e dalle competenze culturali degli stu- denti. Un’idea che nelle intenzioni del Prof. Ennio De Simone – ideatore e coordinatore editoriale della Rivista nonché già docente di Scienze naturali del Liceo – ha l’intento di trattare temi appartenenti ad ambiti disciplinari e campi di indagine scientifica diversi, con l’obiettivo di svolgere attività di divulgazione culturale in stretto raccordo con il territorio. Ecco quindi spie- gati gli innesti con contributi provenienti da studiosi di riconosciuta fama, accademici e non, a voler alimentare un libero scambio culturale e costruire il sapere attraverso un lavoro collettivo. Altra sfida, collegata alla prima, è quella di valorizzare un’idea della pro- fessionalità docente come anche professionalità di ricerca, partendo dalla convinzione che la capacità di trasmettere agli studenti un gusto per il sapere cresce in proporzione al gusto che i docenti dimostrano per l’approfondi- mento e lo studio delle discipline di insegnamento. E in questo numero della Rivista, i docenti del “Banzi” mostrano un loro protagonismo e una loro apertura allo studio davvero ad ampio raggio, alternando interventi di ambito umanistico ad altri di ambito scientifico, ad altri ancora che si possono col- locare nell’area della ricerca didattica e delle strategie educative. Fruttuoso risulta il contagio rispetto all’attività di approfondimento svolta dagli studen- ti, che pure in questo numero danno un contributo considerevole in diversi campi di ricerca, muovendosi anche nell’ambito dell’indagine sperimentale. Per l’eccellente lavoro presentato in questo numero, ringrazio a nome di tutta la comunità del Liceo il Prof. Ennio De Simone e i Proff. Maria France- sca Giordano e Massimo Stevanella del Comitato di Redazione della Rivista.

Antonella Manca Dirigente scolastico

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Introduzione

Con la pubblicazione di questo terzo numero, «Scuola e Ricerca» inizia a consolidare la sua presenza nel panorama editoriale delle riviste culturali. L’ambizione è di presentarsi come un piccolo, ma non inutile, punto di riferi- mento per gli studiosi e per i cultori di discipline che afferiscono a molteplici ambiti di ricerca. Chiaramente, però, rimanendo ben consapevoli del primo obiettivo sul quale si fonda il suo piano editoriale, che è quello di proporre una buona divulgazione, accanto a contributi di studio di più alto livello. Al conseguimento di questo risultato hanno dato un contributo significa- tivo non solo studiosi di affermata esperienza, ma anche giovani studenti del Liceo «G. Banzi Bazoli», che hanno offerto la loro generosa partecipazione. Credo che questo sia da rimarcare con forte incisività, considerando alcu- ni aspetti particolari, e non certo di poco conto, del momento che attraversa la società nel suo insieme. Accanto al disorientamento indotto dalla messa in discussione o addirit- tura dal venir meno di alcuni Valori, civili e morali, fondanti ed identitari del nostro vivere sociale – perfino sostituiti da nuovi pseudo-valori fatti propri con inerte acquiescenza e spesso indotti o avallati da discutibili indirizzi po- litici – vacilla anche l’immagine che la Scuola offre di sé. Sono recenti le prese di posizione del mondo accademico, che lamenta un generale declino di capacità basilari, come quelle linguistico-espressive, da parte di neo-diplomati e perfino di neo-laureati. Complice in ciò, tra le altre cause, l’abuso dei noti mezzi di comunicazione attualmente utilizzati quasi universalmente, perfino ai più alti livelli istituzionali, che comportano la dra- stica semplificazione dei linguaggi e del pensiero. Cimentarsi con la scrittura di un saggio di studio costituisce allora un’in- coraggiante inversione di tendenza, soprattutto quando a farlo – insieme ai loro docenti – sono gli stessi giovani studenti, che mettono alla prova le loro capacità cognitive ed espressive. A loro, quindi, un particolare incoraggia- mento. Agli Autori, alla Dirigente del Liceo Antonella Manca, ai Colleghi del Comitato di Redazione Maria Francesca Giordano e Massimo Stevanella, a tutti coloro che hanno collaborato e a quanti vorranno leggere «Scuola e Ricerca» un sincero ringraziamento.

Ennio De Simone

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Studi

Il problema epistemologico dell’oggettività della conoscenza

Fabio Minazzi

«La verità è un mare di fili d’erba che si piegano al vento, vuol essere sentita come movimento, assorbita come respiro. È una roccia solo per chi non la sente e non la respira; quegli vi sbatterà sanguinosamente la testa» Elias Canetti, La provincia dell’uomo.

Oggetto ed oggettivo

Scrive José Ferrater Mora: «‘Objeto’ deriva da obiectum, que es el participio pasado del verbo objicio (infini- tivo, objicere), el cual significa “echar hacia adelante”, “ofrecerse”, “exponerse a algo», “presentarse a los ojos”. En sentido figuradoobjicio significa «proponer», “causar”, “inspirar” (un pensamiento o un sentimiento), “oponer” (algo en de- fensa propia), “interponer” (come cuando Lucrecio escribe objicere orbem radiis [interponer su disco entre los rayos del sol]. Se puede decir que ‘objecto’ (ob-jec- tum) significa, en general, “lo contrapuesto” (análogamente al vocablo alemán Gegenstand, que se traduce comúnmente por ‘objeto’). Los sentidos originario de objecio y, por derivación, de objectum son útiles para entender algunas de las significaciones que se han dado al término ‘objeto’ (y a los correspondientes términos en varios lenguajes) y a los términos ‘objetivo’, ‘objetivamente’, etc. (y a los correspondientes términos en varios lenguas). En la historia de la filosofía occidental estas significaciones pueden dividirse en dos grupos: el que puede lla- marse “tradicionalˮ, especialmente entre los escolásticos, y el que puede llamarse “modernoˮ, particolarmente desde Kant y Baugmarten»1 (italic in the text). Il termine Objective (italiano Oggettivo, francese Objectif, tedesco Objec- ktiv) rinvia, quindi, in prima istanza, a ciò che esiste come oggetto oppure a ciò che possiede un oggetto oppure, ancora, a ciò che appartiene ad un oggetto. Il campo semantico dell’aggettivo “oggettivo” appare pertanto molto più ampio, articolato e dilatato rispetto a quello che si riferisce, invece, al corrispondente sostantivo, proprio perché l’aggettivo, oltre a significare tutto ciò che si intende con il sostantivo, è stato ampliato onde indicare sia tutto ciò che risulta essere va-

1 J. Ferrater Mora, Diccionario de filosofía, Nueva edición revisada, aumentada y ac- tualizada por el professor Josep-Maria Terricabras, supervisión de la profesora Priscilla Cohn Ferrater Mora, Barcellona, Editorial Ariel S. A., 4 voll., 3, 2001, p. 2604.

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lido per tutti, sia ciò che risulta essere indipendente dal soggetto, sia anche tutto ciò che risulterebbe essere “esterno” rispetto alla coscienza oppure al pensiero, sia, last but not least, tutto ciò che risulta essere conforme rispetto a determinate regole o metodi2. Tuttavia, alla luce di questo stesso ampio spettro semantico, se si guarda alla tradizione del pensiero occidentale si possono individuare per- lomeno tre principali e differenti accezioni concettuali di questo termine, da cui conseguono tre differenti tradizioni di pensiero: 1. oggettivo inteso come ciò che esiste come oggetto in quanto tale; 2. oggettivo come ciò che possiede un oggetto; 3. oggettivo come ciò che risulta essere valido per tutti. Il primo significato rinvia all’oggettività come a qualcosa che esiste come limite o termine di una determinata operazione (sia essa attiva o passiva). Nella tradizione dell’ultima Scolastica – per esempio nella riflessione di un autore come il Doctoris subtilii John Duns Scotus, oppure in quella di Durand de Saint Pourçain oppure ancora in quella di Francesco Majrone – ‘oggettivo’ rinvia co- stantemente a ciò che esiste come oggetto dell’intelletto, nella misura in cui è pensato o immaginato, senza che tale esistenza implichi, di per sé, l’esistenza nella realtà, oppure al di fuori dell’intelletto. In questa accezione l’universale possiede allora una sua oggettività unicamente e solo nell’intelletto, proprio per- ché l’intelletto può intendere il leone nella sua universalità senza tuttavia riferirsi a questo o quel determinato e particolare leone, in carne ed ossa. Pertanto in que- sta accezione della tarda scolastica l’esistenza oggettiva coincide con la stessa possibilità di elaborare una rappresentazione o un idea, le quali ultime sono tutti oggetti del pensiero o della percezione. Questa accezione di ciò che costituirebbe ciò che è oggettivo è stata larga- mente accettata anche da diversi filosofi moderni come per esempio Descartes, il quale la riespone e la fa sua esplicitamente nelle sue Meditationes de prima philosophia (in particolare nella terza meditazione), sia da Spinoza nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata (I, 30; II 8 corollario), sia anche da un singolare pensatore come Berkeley il quale la illustra nel suo Siris. A Chain of Philosophical Reflexions and Inquiries Concerning the Virtues of Tar Water (§ 292). In particolare Descartes così scrive a proposito dell’oggettività delle idee: «Nunc autem ordo videtur exigere, ut prius omnes meas cogitatione in certa ge- nera distribuam, & in quibusnam ex illis veritas aut falsitas proprie consistat, inquiram. Quaendam ex his tanquam rerum imagines sunt, quibus solis proprie convenit idea nomen: ut cum hominem, vel Chimaeram, vel Coelum, vel An- gelus, vel Deum cogito. Aliae vero alias quasdam praeterea formas habent: ut, cum volo, cum timeo, cum affirmo, cum nego, sempre quidam aliquam rem ut

2 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Seconda edizione riveduta e accresciuta, Torino, Utet, 1971, pp. 631-632.

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subjectum meae cogitationis apprehendo, sed aliquid etiam amplius quam istius rei similitudinem cogitatione complector; & ex his aliae voluntates, sive affectus, aliae autem judicia appellantur. Jam quod ad ideas attinte, si solae in se spectentur, nec ad aliud quis illas referam, false proprie esse non possunt; nam sive capram, sive chimaeram imaginer, non mi- nus verum est me unam imaginari quam alteram. Nulla etima in ipsa voluntate, vel affectibus, falsitas est timenda; nam, quamvis prava, quamvis etiam ea quae nusquam sunt, passim optare, non tamen ideo non verum est illa me optare. Ac proinde sola supersunt judicia, in quibus mihi cavendum est ne fallar. Praecipuus autem error & frequentissimus qui possit in illis reperiri, consistit in eo quod ideas, quae in me sunt, judicem rebus quibusdam extra me positis similes esse sive conformes; nam profec- to, si tantum ideas ipsas ut cogitationis meae quondam modos considerarem, nec ad quidquam aliud referrem, vix mihi ullam errandi materia dare possent»3. Pertanto per Descartes le idee, se considerate in se stesse, non possono mai essere false, proprio perché sono sempre delle immagini; né, a suo avviso, biso- gna neppure temere le falsità nell’ambito delle volizioni e dei desideri, giacché anche se, per esempio, desideriamo cose cattive, tuttavia, appunto, le desideria- mo e le vogliamo. Per Descartes occorre invece prestare la massima attenzione ai giudizi in relazione ai quali dobbiamo stare attenti a non ingannarci. Secondo Descartes l’errore principale in questo ambito consiste proprio nel considerare le nostre idee, che sono in noi, come delle copie conformi, oppure simili, alle cose che sono fuori di noi. Insomma, a suo avviso, solo illudendosi di dominare concettualmente questo problematico rapporto tra le idee che sono in noi e ciò che esiste fuori di noi, si generano allora le premesse più valide (e metafisica- mente profonde) per produrre un vero e proprio errore. In tal modo il dualismo cartesiano – tra res cogitans e res extensa – si radica nella stessa immagine della conoscenza, dando luogo a quel classico dualismo gnoseologico che ha varia- mente contrassegnato la storia dell’epistemologia moderna. Sullo stesso orizzonte metafisico complessivo si colloca anche un pensatore come Spinoza, il quale, nel corollario precedentemente indicato della sua Ethica, riconosce quanto segue: «Hinc sequitur, quod, quamdiu res singulares non existunt, nisi quatenus in Dei attribuitis comrehenduntur, earum esse objectivum, sive ideae non existunt, nisi quatenus infinita Dei idea existit; & ubi res singulares dicuntur esistere, non tan- tum quatenus in Dei attributis comprehenduntur, sed quatenus etiam durare di- cuntur, earum ideae etiam existentiam, per quam durare dicuntur, involvent»4.

3 R. Descartes, Oeuvres de Descartes publiées par Charles Adam & Paul Tannery, Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 11 voll., 7, 1964-1974, pp. 36-37. 4 B. Spinoza, Tutte le opere, testi originali a fronte, saggio introduttivo, presentazioni, note e apparati di Andrea Sangiacomo, traduzioni di Autori Vari, Milano, Bompiani, 2010, II, 8, corollario, p. 1232.

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Anche per Spinoza, dunque, l’oggettività incide con le idee le quali ultime esistono solo in quanto sono comprese negli attributi della divinità. In ogni caso per tutti questi, pur assai diversi autori della modernità, “oggettivo” indica sem- pre e solo ciò che costituisce un oggetto dell’intelletto e non ha quindi a che fare, in prima istanza, né con ciò che è reale, né con ciò che risulta essere irreale. Il che, naturalmente, non vieta poi che, ad una seconda ed ulteriore considerazione, ciò che risulta oggetto dell’intelletto possa anche, essere, eventualmente, reale o irreale. Esplicitamente contro questa tradizionale concezione dell’oggettivo si è in- vece mosso Immanuel Kant per il quale oggettivo rinvia sempre a qualcosa che non esiste unicamente nell’intelletto soggettivo, ma che ha invece a che fare con qualcosa di reale ed oggettivo. Kant insiste infatti nel mettere in rilievo come l’oggetto della conoscenza sia, e non possa non essere, un oggetto “reale”, em- piricamente determinabile, nell’ambito di un’esperienza possibile. Pertanto per Kant “oggettivo” rinvia a ciò che possiede per oggetto una sua particolare e de- terminata realtà, empiricamente constatata, sperimentalmente data e circoscritta. Il che, naturalmente, è direttamente connesso con il problema del “limite” che contraddistingue, più in generale, tutta la nuova concezione kantiana della co- noscenza, giacché per Kant una conoscenza può istituirsi solo ed unicamente entro un ben determinato e preciso “confine” che dobbiamo saper tracciare,nor - mativamente, entro l’ambito delle esperienze possibili. Scrive infatti Kant, nella prima sezione del libro primo della Dialettica trascendentale nella Critica della ragion pura, «Eine P e r z e p t i o n, die sich lediglich auf das Subjekt, als die Modifikation sei- nes Zustandes bezieht, ist E m p f i n d u n g (sensatio), eine objektive Perzeption ist E r k e n n t n i s (cognitio). Diese ist entweder A n s c h a u u n g oder B e g r i f f (intuitis vel conceptus). Jene bezieht sich unmittelbar auf der Gegenstand und ist einzeln; dieser mittelbar, vermittelst eines Merkmals, was mehreren Dingen gemein sein kann. Der Begriff ist entweder ein e m p i i s c h e r oder r e i n e r be g r i f f, und der reine Begriff, so fern er lediglich im Verstande seinen Ursprung hat (nicht in reinen Bilde Sinnlichkeit) heisst Notio. Ein Begriff aus Notionen, der die Möglichkeit der Errfahrung übersteigt, ist die I d e e, oder der Vernunftbegriff»5. Per Kant, dunque, una percezione oggettiva costituisce una conoscenza solo se esiste una mediazione concettuale mediante la quale un concetto si può riferi- re a più realtà unificandole. Se infatti con la percezione ci riferiamo alla singola realtà è solo col giudizio che perveniamo ad una conoscenza oggettiva grazie alla quale il molteplice delle intuizioni viene sussulto entro un concetto in grado

5 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Zweirte hin un wieder verbesserte Auflage, Riga, Johan Friedric Hartknoch, 1787, p. 320.

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di individuare le note caratteristiche che risultano comuni a più realtà. In questa prospettiva l’idea, pretendendo di oltrepassare i limiti dell’esperienza possibile, si colloca, inevitabilmente, al di là del piano della conoscenza oggettiva, proprio perché quest’ultima costituisce sempre una sintesi mediante la quale la raziona- lità umana si configura come una funzione di unificazione critica di ciò che viene esperito sensibilmente. In ogni caso per Kant la mediazione concettuale con cui si unifica l’esperienza costituisce il terreno sul quale si costruisce un’oggettività che tiene sempre conto della dimensione altrettanto fondamentale dell’esperien- za possibile ed effettiva. In tal modo Kant ha introdotto una svolta epistemologica assai importante, perché per la sua innovativa prospettiva criticista la validità oggettiva coincide con la stessa realtà empiricamente conosciuta e testata, dove quest’ultima non è quindi più concepita metafisicamente come la realtà in sé o come il classico nou- meno (la Ding an sich), bensì, appunto, come una determinata realtà empirica effettivamente conosciuta, tramite la mediazione concettuale, sempre in modo obiettivo, sperimentalmente controllabile e verificabile. In altri termini per Kant l’oggettività coincide sempre con l’empiricamente reale (cfr. infra). Successivamente alla riflessione kantiana – ma, in parte, anche grazie ad essa – si è poi delineata una terza, diversa, accezione dell’oggettività, che la fa coincidere con ciò che risulta essere “valido per tutti” entro un preciso ambito di indagine nel quale svolgono un peculiare ruolo euristico alcune poche regole ed anche alcu- ni metodi condivisi dalla stragrande maggioranza degli esperti di un determinato settore di indagine. Henrì Poincaré è stato uno dei primi epistemologi che, ne La valeur de la science (del 1905), ha meglio espresso questo concetto: «Cette harmonie que l’intelligence humaine croit découvrir dans la nature, existe-t-elle en dehors de cette intelligence? Non, sans doute, une réalité com- plètement indépendante de l’esprit qui la conçoit, la voit ou la sent, c’est une impossibilité. Un monde si extérieur que cela, si même il existait, nous serait à jamais inaccessible. Mais ce que nous appelons la réalité objective, c’est, en dernière analyse, ce qui est commun à plusieurs êtres pensants, et pourrait être commun à touts: cette partie commune, nous le verrons, ce ne peut être que l’harmonie exprimée par des lois mathématiques. C’est donc cette harmonie qui est la seule réalité objective, la seule vérité que nous puissions atteindre; et si j’ajoute que l’harmonie universelle de monde est la source de toute beauté, on comprendra quel prix nous devons attacher aux lentes et pénibles progrès qui nous la font peu à peu mieux connaître»6. Se Poincaré nella sua riflessione epistemologica aveva come punto di rife- rimento soprattutto le scienze matematiche, ben presto questo suo concetto di

6 H. Poincaré, La valeur de la science, Paris, Ernest Flammarion Éditeur, 1905, (ed. 1948), pp. 11-12.

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oggettività, come condivisione di alcune regole all’interno di un determinato ambito di indagine, fu tuttavia largamente condiviso, fatto proprio e rivendicato anche da molti altri studiosi. Per esempio anche da uno studioso delle scienze so- ciali come Max Weber il quale rivendicava la validità dell’oggettività scientifica nell’ambito della metodologia delle scienze sociali ed anche nell’ambito della stessa politica sociale e avanzava questa rivendicazione proprio appellandosi al rilievo di Poincaré che la verità scientifica coincide sostanzialmente con tutto ciò che risulta essere valido e condiviso da tutti coloro che indagano un determinato ambito di studio. Questo tipo di oggettività si configura, dunque, come una forma di intersog- gettività giacché in questa accezione “valido per tutti” finisce per coincidere esclusivamente con ciò che risulta essere “intersoggettivamente valido” e che tale risulta essere proprio perché si configura come qualcosa che risulta essere “conforme ad un determinato e preciso metodo di indagine”. In questa particola- re accezione l’oggettività, quale intersoggettività condivisa da una determinata comunità di studiosi, ha quindi finito per assorbire anche i concetti tradizional- mente connessi con l’oggettività, ovvero sia la sua “indipendenza dal soggetto”, sia anche la sua caratteristica (di ascendenza cartesiana) di risultare “esterna alla coscienza” di chi indaga. Il valore intersoggettivo di una conoscenza si impone così a tutti i ricercatori indipendentemente dalla loro stessa soggettività ed anche dalle loro preferenze e dalle loro stesse, spesso assai differenti e contrastanti, valutazioni. D’altra parte questa accezione dell’oggettività quale mera intersog- gettività finisce però per presentare un evidente problema, perlomeno nella mi- sura in cui sembra essersi costituita come una sorta di autentico indebolimento epistemologico della seconda accezione dell’oggettività, ovvero della reale ca- pacità della conoscenza umana di saper e poter cogliere degli aspetti effettiva- mente oggettivi – e non solo intersoggettivi – della realtà che viene studiata ed indagata. Il che deve allora indurre a riprendere in seria e attenta considerazione epistemologica proprio la nozione di oggettività nella sua seconda accezione, onde stabilire l’effettiva natura di una conoscenza scientifica che risulta essere vera proprio perché è in grado di cogliere alcuni aspetti effettivi del mondo stu- diato dall’uomo.

Il problema della conoscenza nella tradizione occidentale

L’uomo nel corso della sua assai complessa ed articolata storia della cono- scenza, perlomeno così come si è dipanata nell’ambito della tradizione occiden- tale, ha in genere oscillato tra due polarità metafisiche antitetiche e specularmen- te rovesciate che si escludono reciprocamente. Da un lato l’uomo ha infatti pre- teso di poter senz’altro conoscere la realtà in modo assoluto e definitivo, come si

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evince già dalle considerazioni con cui Galileo introduce la sua nota distinzione tra sapere intensive e sapere extensive delineata nella conclusione della prima giornata del suo non meno celebre Dialogo sopra di due massimi sistemi del mondo del 1632, là dove si legge espressamente quanto segue: «[…] l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come zero; ma pigliando l’intendere intensi- ve, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’habbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle po- che intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore»7. Questa impostazione epistemologica spiega anche perché Galileo stesso avesse poi elaborato una concezione sostanzialmente “cumulativistica” della stessa storia della scienza, giacché a suo avviso ogni conoscenza non poteva che essere “assoluta” e costituire un risultato cui si sarebbero inevitabilmente sovrapposte poi le nuove conquiste e le nuove conoscenze, altrettanto assolute ed immodificabili. Il che spiega anche perché, nell’ultima fase della sua vita, dopo essere stato condannato dalla Chiesa cattolica al carcere a vita, lo scienzia- to pisano aveva comunque la certezza di non aver sprecato la sua vita. Se infatti il suo programma di ricerca aveva certamente subito col processo, l’abiura e la condanna dell’inquisizione cattolica una drammatica battuta d’arresto, tuttavia psicologicamente Galileo poteva pur appellarsi alla soddisfacente constatazione che nel corso della sua vita una «mezza dozzina di veri» li aveva comunque con- seguiti e che tali risultati sarebbero rimasti una conquista definitiva per l’intera umanità. Per questa ragione Galileo può così concludere il suo ragionamento: «Concludo per tanto, l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudi- ne delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo conside- rando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigare ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti»8.

7 G. Galilei, Le opere di Galileo Galilei, Edizione nazionale diretta da Antonio Favaro, Firenze, G. Barbèra Editore, 20 voll., 7, 1968, pp. 128-129. 8 Ivi, p. 130.

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Questa concezione relativa alla pretesa assolutezza della conoscenza umana (che, dal punto di vista teologico, costituisce del resto un’autentica blasfemia, perché pone comunque l’uomo sullo stesso piano della divinità, proprio tramite la scienza), è dunque emersa già con la stessa genesi della scienza moderna nel Seicento. Ma da allora non è affatto scomparsa poiché coincide ancora con lo stesso sogno positivista (e anche con quello neopositivista), rispettivamente del XIX e del XX secolo, in base al quale il gioco della conoscenza appare a questi movimenti come un sorta di puzzle sia pur molto complesso, rispetto al quale, tuttavia, l’uomo, nel corso del tempo e dei secoli, saprà infine conquistare tutti i pezzi. Mettendoli insieme l’uomo conseguirà così un quadro certamente defini- tivo e assoluto della conoscenza del mondo. A fronte di questa tradizione di pensiero metafisica, decisamente ottimistica sul risultato assoluto della conoscenza umana, si è subito configurato un ben diverso ed opposto movimento metafisico di pensiero che ha invece costante- mente insistito proprio sui limiti intrinseci della nostra stessa possibilità di co- noscere il mondo. Fin dalle origini greche del pensiero occidentale la stessa genesi della tradizione dello scetticismo ha infatti costantemente infranto, con indubbia acutezza ed originalità critica, proprio questo sogno metafisico della conoscenza assoluta, mostrandone tutte le sue molteplici crepe, le sue numerose contraddizioni, e le sue assunzioni indebite, spesso del tutto ingiustificate9. Ma proprio delineando, con indubbia acutezza ed assoluta originalità critica, questa sua meritoria pars denstruens, lo scetticismo ha però finito, spesso e volentieri, per cadere dalla padella della conoscenza metafisica assoluta, nella brace di un relativismo pragmatico ed ermenutico altrettanto assoluto e metafisico che nega, aprioricamente e pregiudizialmente, la possibilità stessa della conoscenza uma- na del mondo. In tal modo il sapere, come già affermavano i sofisti nel V secolo avanti Cristo e come fanno oggi gli esponenti dell’ermeneutica del XX secolo, sono pronti a ridurre la conoscenza a mera opinione, a vuoto gioco di parole, riducendo tutto ad una infinita semiosi, che sarebbe sempre priva di qualsiasi referente oggettivo, il che induce anche ad indebolire la stessa razionalità umana presentandola come uno strumento flebile ed inadeguato a farci conoscere og- gettivamente il mondo. Ma proprio tra queste due polarità metafisiche antitetiche, simmetriche e re- ciprocamente ribaltate si configura invece anche una terza possibilità teorica, quella inaugurata, fin dalle origini greche, dalla ricerca socratica, la quale vuole invece inseguire una diversa e ben più complessa immagine della conoscenza oggettiva, la quale non risulta essere metafisicamente assoluta anche se rivendi- ca la possibilità di delineare una conoscenza oggettiva pensata come coincidente

9 M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Roma-Bari, Laterza, 1989.

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con la stessa ricerca della verità: una ricerca, dunque, che, per sua intrinseca natura, non può mai aver fine. Esattamente entro questo complesso e labirintico gioco conoscitivo occorre dunque cambiare, à la Socrate, la nostra tradizionale immagine metafisica della conoscenza, sforzandosi di vedere i nessi profondi e pure inquietanti che sempre connettono la nostra conoscenza con la nostra stessa ignoranza. Infatti nella misura in cui sappiamo indubbiamente incrementare, nel corso della nostra stessa storia di uomini, il nostro patrimonio tecnico-cono- scitivo, inevitabilmente incrementiamo anche, come ha appunto puntualmente rilevato Socrate, la conoscenza della nostra stessa ignoranza. Conoscenza ed ignoranza non si collocano, pertanto, su orizzonti metafisici oppositivi e decisa- mente conflittuali, proprio perché invece coabitano e convivono, sempre intrec- ciandosi, nello stesso problematico orizzonte della nostra claudicante volontà di conoscere il mondo nel quale siamo stati catapultati. Per meglio comprende- re la sottigliezza critica della sofisticata prospettiva epistemologica inaugurata da Socrate, si consideri una sfera e si immagini che il suo contenuto coincida, complessivamente, con il nostro patrimonio tecnico-conoscitivo, mentre la sua superficie indichi la zona di confine, ovvero quello spazio sempre mobile e dina- mico, che separa le nostre conoscenze dall’ambito della nostra stessa ignoranza. Ebbene, l’incremento del volume complessivo della sfera implicherà, inevitabil- mente, l’incremento della nostra stessa ignoranza, proprio perché conoscenza ed ignoranza sono due facce della medesima medaglia, sono cioè due componenti entro le quali si sviluppa la possibilità stessa di incrementare eventualmente la nostra stessa, pur flebile, conoscenza oggettiva del mondo. Quindi non possiamo più pensare che sapere ed ignoranza costituiscono due mondi nettamente separa- ti ed antitetici, poiché il gioco nel quale siamo coinvolti è molto più complesso giacché conoscenza ed ignoranza si mescolano e si intrecciano costantemente mettendo capo ad una composita realtà del patrimonio tecnico-conoscitivo entro il quale la conoscenza fa capolino entro l’errore, mentre anche l’errore fa capoli- no entro la conoscenza. Pertanto occorre sempre essere costantemente vigili per saper cogliere criticamente questo complesso intreccio, senza assolutizzare mai il sapere in questo o quel corno metafisico del dilemma. Proprio perché, come insegnava Socrate, più cose sappiamo, più diventiamo consapevoli della nostra stessa ignoranza...

La conoscenza oggettiva secondo il criticismo kantiano

La “rivoluzione copernicana” di Kant scaturisce programmaticamente da una innovativa riflessione critica sulla natura, i limiti, il valore, l’articolazione e il significato della conoscenza che la scienza ha messo a disposizione dell’uomo a partire dalla nascita della scienza moderna. Proprio perché a suo avviso

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«als G a l i l e i seine Kugeln die schiefe Fläche mit einer von ihm selbst gewähl- ten Schwere herabrollen, oder T o r r i c e l l i die Luft ein Gewicht, was er sich zum voraus dem einer ihm bekannten Wassersäule gleich gedacht hatte, […] so ging allen Naturforschern ein Licht auf. Sie begriffen, dass die Vernunft nur das einsieht was sie selbst nach ihrem, dass die Vernunft nur das einsieht, was sie selbst nach ihren Entwurfe hervorbringt, dass sie mit Prinzipien ihrer Urteile nach beständigen Gesetzen vorangehen und die Natur nötigen müsse, auf ihre Fragen zu antworten, nicht aber sich von ihr allein gleichsam am Leitbande gängeln las- sen müsse»10. Kant ha insomma chiaramente inteso la natura sintetica della conoscenza scientifica, la quale non scaturisce mai da un’osservazione empirica condotta ca- sualmente e a casaccio, poiché scaturisce sempre, invece, da una precisa media- zione concettuale grazie alla quale si sa leggere in modo originale ed innovativo la realtà empirica che viene sempre “letta”, “ricostruita” e “normata” all’interno di un preciso paradigma teorico. D’altra parte Kant è anche ben consapevole come, entro questo quadro prospettico in cui dobbiamo sempre saper vedere il mondo alla luce di una determinata e circoscritta teoria, tuttavia anche la di- mensione empirica sperimentale svolge poi, a sua volta, un suo ruolo altrettanto fondamentale ed irrinunciabile, proprio perché solo la prova sperimentale di la- boratorio sa rispondere – positivamente o negativamente – alle nostre domande, fornendo in tal modo un contributo altrettanto decisivo ed insostituibile: «denn sonst hängen zufällige, nach keinem vorher entworfenen Plane gemacht Beobachtungen gar nicht in einem notwendigen Gesetze zusammen, welches doch die Vernunft sucht und bedarf. Der Vernunft muss mit ihren Prinzipien, nach denen allein übereinkommende Erscheinungen für Gesetze gelten können, in einer Hand, und mit dem Experiment, das sie nach jenen ausdachte, in der an- deren, an die Natur gehen, zwar um von ihr belehrt zu werden, aber nicht in der Qualität eines Schülers, der sich alles vorsagen lässt, was der Lehrer will, sodern eines bestallten Richters, der die Zeugen nötigt, auf die Fragen zu antworten, die er ihnen vorlegt»11. Per Kant la conoscenza scientifica cammina, dunque, “a passo di marinaio”, proprio perché si appoggia, alternativamente, da un lato alle “necessarie dimo- strazioni” (ovvero alle matematiche e alle inferenze deduttive) e, dall’altro lato, alle “certe esperienze” (ovvero alla dimensione sperimentale che si determina in un laboratorio scientifico), come del resto anche Galileo aveva chiaramente sostenuto ed illustrato ne Il Saggiatore (1623). Pertanto la conoscenza scientifica si instaura esattamente all’interno del delicato incrocio critico che si configura tra queste due opposte polarità della razionalità umana e della dimensione speri-

10 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, II ed., p. XIII. 11 Ivi, p. XIII.

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mentale: proprio la natura peculiare di questo decisivo “intreccio” critico tra una plastica razionalità e la dimensione sperimentazione determina la configurazio- ne specifica e particolare di ciascun, differente ed autonomo, sapere scientifico. «Und so hat sogar Physik die so vorteilhafte Revolution ihrer Denkart lediglich dem Einfalle zu verdanken, demjenigen, was die Vernunft selbst in die Natur hineinlegt, gemäss, dasjenige in ihr zu suchen (nicht ihr anzudichten), was sie von dieser lernen muss, und wovon sie für sich selbst nichts wissen würde. Hier- durch ist die Naturwissenschaft allererst in den sicheren Gang einer Wissenschaft gebracht worden, da sie so viel Jahrhunderte durch nichts weiter als ein blosses Herumtappen gewesen war»12. Questa sua capacità di indagare la natura in conformità di ciò che la ragione stessa vi pone, coincide esattamente con la scoperta del nuovo piano euristi- co della trascendentalità, mediante il quale Kant costruisce tutta l’impalcatura teoretica complessiva della sua stessa riflessione epistemologica meta-critica, innovando profondamente non solo l’immagine complessiva della conoscenza, ma anche lo stile e le stesse modalità della razionalità umana. L’esordio di questa complessa tradizione di pensiero razionalista può infatti essere individuata, del tutto correttamente, nella innovativa mossa critica socratica con cui la ragio- ne si trasforma in un privilegiato strumento di indagine critico-dialogico, dove, appunto, la razionalità si esplica nella capacità di saper intessere un confronto critico argomentato tra posizioni differenti e persino contrastanti – secondo il noto detto eracliteo secondo cui «polèmos è padre di tutte le cose e di tutte re»13. Rispetto a questa tradizione del razionalismo critico Kant introduce, tuttavia, una novità importante, individuando il piano della trascendentalità coincidente con ciò che opera a priori all’interno di ogni esperienza possibile. In tal modo la trascendentalità, con la sua carica normativa, rende effettiva l’esperienza, pro- prio perché per sua natura intrinseca la trascendentalità è aprioristicamente e formalmente costitutiva di ogni conoscenza possibile ed effettiva. La dimen- sione trascendentale non concerne infatti l’oggetto della conoscenza in quanto tale, bensì le modalità con cui la conoscenza viene costruita dall’uomo nel suo rapporto conoscitivo col mondo. Così riflettendo Kant mette pertanto in piena evidenza critica proprio la di- mensione concettuale della scienza, giacché a suo avviso la scienza è tale pro- prio perché – pace Heidegger! – è sempre in grado di pensare il proprio oggetto arrivando a costruirlo in un plastico gioco critico di continuo raffronto con la dimensione sperimentale. Se per Heidegger «die Wissenschaft denkt nicht», al

12 Ivi, pp. XIII-XIV. 13 H. Diels, W. Kranz, I Presocratici, Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di H. Diels e W. Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006, p. 353.

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contrario per Kant la scienza è, invece, sempre in grado di pensare, proprio per- ché senza pensiero scientifico non ci sarebbe alcuna nostra conoscenza oggettiva del mondo. Sul piano critico occorre tuttavia evitare ogni possibile anfibolia trascendentale, confondendo per esempio l’uso empirico dell’intelletto con il suo uso trascendentale, proprio perché per Kant solo ed unicamente l’uso tra- scendentale dell’intelletto ci permette di sottolineare la componente concettuale irrinunciabile di ogni conoscenza oggettiva. In questa precisa ed innovativa prospettiva critico-trascendentalista l’oggetto (Gegenstand/Objekt) per Kant coincide con ciò nel cui concetto viene unificato il molteplice di un’intuizione14. Naturalmente l’oggetto viene sempre offerto solo tramite la recettività delle impressioni sensibili, ma, occorre anche aggiungere, viene sempre pensato solo ed esclusivamente tramite la spontaneità dei concetti15. Pertanto per Kant gli oggetti si configurano come rappresentazioni determinabili entro i concetti di spazio e tempo secondo le leggi dell’unità dell’esperienza16. L’oggetto del conoscere coincide del resto con il fenomeno (ciò che appare, Er- scheinung, ovvero ciò che è sempre frutto di un’interazione) il quale ultimo è sem- pre concepito da Kant, in rigorosa sintonia con la sua impostazione trascendentali- sta, come una realtà di relazione, ovvero come quella specifica ed euristicamente preziosa realtà normativa e di confine entro la quale si costruisce l’oggettività della conoscenza. Per questo il fenomeno non è nulla in se stesso, proprio perché va sempre concepito come un insieme di rappresentazioni relazionali dell’appren- sione17, mentre l’oggetto empirico non può che coincidere, rigorosamente, con un fenomeno18. Nel rapporto reciproco che si instaura tra la nostra conoscenza e l’oggetto sono pertanto possibili perlomeno due diversi casi: in primo luogo quello in cui l’oggetto rende possibile la rappresentazione, nel qual caso la rappresenta- zione sarà meramente empirica, proprio perché non è possibile a priori. Oppure, in secondo luogo, sarà invece la rappresentazione che rende possibile l’oggetto, determinando normativamente quest’ultimo, secondo i dettami di un’epistemolo- gia prescrittivista. Naturalmente in questo secondo caso la rappresentazione non produce l’esistenza dell’oggetto in quanto tale, ma rende invece possibile la sua conoscenza apriorica, il che si realizza sempre sotto il vincolo di due condizioni: la presenza di un’intuizione sensibile mediante la quale viene offerto l’oggetto della conoscenza in quanto fenomeno, e il concetto, mediante il quale viene invece pensato un oggetto in grado di corrispondere all’intuizione sensibile19.

14 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, II ed., cit., p. 137. 15 Ivi, p. 74. 16 Ivi, p. 522. 17 Ivi, p. 236. 18 Ivi, p. 299. 19 Ivi, pp. 124-125.

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In tal modo riemerge, nuovamente, la struttura duale dell’immagine kantiana della conoscenza oggettiva, proprio perché i concetti degli oggetti in generale, stanno sempre a fondamento apriorico di ogni eventuale e possibile conoscen- za empirica20. Per Kant l’oggetto reale si configura pertanto quando il concetto risulta essere in connessione con la percezione e, attraverso quest’ultima, viene determinato e normato concettualmente tramite l’intelletto21, mentre l’oggetto necessario è determinato tramite una connessione delle percezioni attuata se- condo le strutture categoriali proprie dei concetti. Di contro, l’oggetto trascen- dentale si configura, invece, e necessariamente, come una causa meramente in- telleggibile, una sorta di x incognita, di cui non sappiamo, né possiamo sapere, nulla. Al massimo si può solo configurare come un correlato dell’unità dell’ap- percezione rispetto all’unità del molteplice, colta tramite l’intuizione sensibile, mediante il quale la funzione di integrazione critica svolta dal Verstand unifica, appunto, il molteplice delle intuizioni sensibili nel concetto di un oggetto. Per- tanto, kantianamente parlando, i due termini Gegenstand ed Objekt risultano essere perfettamente intercambiabili. Esattamente su questa base epistemologica Kant, già nella prima edizione della Critica della ragion pura, dichiara esplicitamente di aderire senz’altro ad una peculiare forma di idealismo critico trascendentale che configura uno spe- cifico realismo empirico: «Der transzendentale Idealist kann hingegen ein empirischer Realist, mithin, wie man ihn nennt, ein D u a l i s t sein, d. i. die Existenz der Materie einräumen, ohne aus dem blossen Selbstbewusstsein hinauszugehen, und etwas mehr, als die Ge- wissheit der Vorstellungen in mir, mithin dal cogito ergo sum, anzunehmen. Denn weil er diese Materie und sogar deren innere Möglichkeit bloss vor Erscheinung gelten lässt, die, von unserer Sinnlichkeit abgetrennt, nichts ist: so ist sie bei ihm nur eine Art Vorstellungen (Anschauung), welche äusserlich heissen, nicht, als ob sie sich auf a n s i c h selbst ä u s s e r e Gegenstände bezögen, sondern weil sie Wahrnehmungen auf den Raum beziehen, in welchem alles ausser einander, er selbst der Raum aber in uns ist»22. Con il che si delinea uno dei punti più importanti, innovativi ed anche contro- versi della prospettiva criticista, che, non a caso, è stata spesso misintepretata da numerosi interpreti. Il realismo empirico di cui parla Kant sembra infatti costi- tuire una prospettiva ambigua, tale da non riuscire a soddisfare né la tradizione del classico realismo metafisico, né, tantomeno, la tradizione dell’empirismo moderno (parimenti metafisico, per come si è delineato da Hume fino ai neo- positivisti del Wiener Kreis). Né basta: perché proprio questa rivendicazione di

20 Ivi, p. 126. 21 Ivi, p. 286. 22 Ivi, p. 370.

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una prospettiva di realismo empirico intrinseca al suo idealismo critico-trascen- dentale ha analogamente consentito agli esponenti della tradizionale metafisica classica di rimproverare Kant per essere rimasto imprigionato in una forma, pur complessa, del dualismo metafisico di matrice cartesiana. A questo proposito tutte le prese di posizione di distanza critica di Kant da queste pur assai differenti tradizioni di pensiero non sono valse a liberarlo da molteplici rilievi critici che riducono, variamente, la sua prospettiva a quella dell’idealismo oppure a quella, pur decisamente antitetica, del realismo metafisico. Malgrado tutte queste misin- tepretazioni del criticismo, Kant ha invece delineato un nuovo e assai fecondo orizzonte epistemologico che ci consente, ancor oggi, di meglio intendere la natura critica intrinseca della conoscenza umana, liberando la nozione stessa dell’oggettività da ogni assunto metafisico. Kant ha dichiarato con chiarezza come «Also ist der transzendentale Idealist ein empirischer Realist und gesteht der Ma- terie, als Erscheinung, eine Wirklichkeit zu, die nicht geschlossen werden darf, sondern unmittelbar wahrgenommen wird. Dagegen kommt der transzendentale Realismus notwendig in Verlegenheit, und sieht sich genötigt, dem empirischen Idealismus Platz einzuräumen, weil er die Gegenstände äusserer Sinne vor etwas von den Sinnen selbst Unterschiedenes, und blosse Erscheinungen vor selbstän- dige Wesen ansieht, die sich ausser uns befinden; da denn freilich, bei unserem besten Bewusstsein unserer Vorstellung von diesen Dingen, noch lange nicht gewiss ist, dass, wenn die Vorstellung existiert, ach der ihr korrespondierende Gegenstand existiere; dahingegen in unserem System diese äussere Dinge, die Materie nämlich, in allen ihren Gestalten und Veränderungen, nichts als blosse Erscheinungen, d. i. Vorstellungen in uns sind, deren Wirklichkeit wir uns unmit- telbar bewusst werden»23. Nel che è possibile cogliere tutto il carattere rivoluzionario della mossa epi- stemologica kantiana che ha delineato una nuova immagine della conoscenza oggettiva liberandola da tutti i tradizionali assunti metafisici che inducono, ap- punto, ad assolutizzare la conoscenza. L’obiettivo kantiano non è certamente agevole perché cerca di tener ferma l’oggettiva portata conoscitiva della scienza, liberandola, tuttavia, da ogni indebita – e tradizionale – assolutizzazione meta- fisica. Il che non è senza conseguenze anche nel suo complesso rapporto con la stessa tradizione dello scetticismo che viene criticato da Kant proprio per la sua pretesa di negare aprioristicamente la possibilità stessa della conoscenza, ma che viene tuttavia apprezzato nella misura in cui ci aiuta invece a liberarci da tutti i “crampi metafisici” della nostra ragione. Come ha giustamente sottolineato Jean Vouillemen

23 Ivi, I ed., pp. 371-372.

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«Avant Kant, la philosophie classique essaie, une fois ébranlés les systèmes théo- logiques du Moyen Age, de découvrir un absolu susceptible de fonder la vérité. Par exemple, les concepts de substance, de cause, de force, de nécessité reçoivent ce rôle de substituts de Dieu. L’acte révolutionnaire de Kant dans l’histoire de la pensée, sa «révolution copernicienne», a consisté, en reprenant l’analyse de ces différentes notions par rapport à la fonction qu’elles exercent dans la connais- sance objective, à montrer que, loin de monnayer l’absolu, elles ne conservaient de signification que dans les limites de l’expérience possible, c’est-à-dire si on les coupait de leur contexte théologique. A cet égard, la théorie kantienne de la connaissance est la première théorie conséquente et vraiment philosophique d’une connaissance sans Dieu. […] la génie critique a consisté à refuser de re- placer le problème de la vérité par celui de la convention ou de la commodité, à maintenir donc la question de la différence entre le réel et l’apparent, entre le nécessaire et le contingent, à l’intérieur d’une philosophie qui s’interdit de parler des choses en soi et qui fonde toute sa physique sur la relativité du mouvement»24. Su questo punto decisivo Kant stesso è del resto ritornato in diverse occa- sioni, soprattutto negli scritti dedicati al criticismo stesi nell’ultima parte della sua vita. Per esempio nei suoi preziosi appunti, rimasti inediti, predisposti per rispondere al celebre quesito bandito dalla Reale Accademia delle Scienze di Berlino negli ultimi anni del XVIII secolo, in merito a Welsches sind die wirk- lichen Fortschritte, die die Metaphysick seit Leibnizens und Wolf’s Zeiten in Deutschland gemach hat?, appunti che furono poi pubblicati da Rink nel 1804. In questo testo Kant insiste nel mostrare come il criticismo abbia fatto compie- re un passo decisivo alla metafisica, consentendo di passare dalla “critica della metafisica” alla delineazione di una “metafisica critica”, proprio perché a suo avviso una “vera metafisica” non può che riconoscere i limiti della ragione uma- na delineando la possibilità di una nuova ontologia critica, non più metafisica. Questa ontologia consiste proprio nell’elaborare una meta-riflessione critica si- stematica sulle differenti teorie elaborate nei vari ambiti disciplinari, onde poter infine individuare le strutture trascendentali costitutive delle varie discipline. Kant rivendica anche come un risultato positivo delle sue indagini consista pro- prio nell’aver stabilito che la conoscenza teoretica della ragion pura non può mai andare al di là degli oggetti dei sensi e, in questa, prospettiva insiste anche nel mettere in rilievo come esista sempre una stretta correlazione tra le intuizioni empiriche e le categorie dell’intelletto, giacché mediante l’intuizione confor- me ad un concetto, l’oggetto viene effettivamente dato, mentre se manca l’in- tuizione sensibile l’oggetto pensato risulta essere vuoto (proprio perché è solo

24 J. Vuillemen, Phisique et métaphysique kantiennes, Paris, Presses Universitaires de France, 1955, pp. 358-359. Cfr. anche H. Holzhey, Kant Erfahrungdsbegriff. Quellenge- schichtliche und bedeutungsanalytische Untersuchungen, Basel-Stuttgart, Schabe & Co – Verlag, 1970, passim.

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pensato). L’oggettività della conoscenza si costruisce esattamente entro questo intreccio critico tra concetti puri ed intuizioni sensibili, nel mentre Kant rivendi- ca come il suo criticismo consenta di sottrarsi sia al dispotismo dell’empirismo sia anche agli eccessi anarchici della filodossia priva di limiti. Non solo: Kant ha anche compreso come la sua prospettiva del criticismo ci consente di cogliere il preciso ruolo euristico che la “metafisica critica” esercita sempre all’interno del- le stesse teorie scientifiche, consentendoci di costruire appunto delle discipline scientifiche che per conoscere il mondo devono introdurre dei concetti episte- mologici normativi attraverso i quali siamo in grado di leggere ed interpretare conoscitivamente il mondo perlomeno nella misura in cui questi stessi concetti si intrecciano con i risultati delle differenti verifiche sperimentali. In tal modo il criticismo kantiano, che pure ha il limite di non aver mai indagato il ruolo della tecnica entro la dinamica di crescita del patrimonio conoscitivo messo a disposi- zione dalla ricerca scientifica, ha comunque avuto il merito storico di sottolinea- re come il problema decisivo della conoscenza scientifica si radichi proprio nella sua stessa oggettività. Pertanto il criticismo kantiano dona al dibattito successivo – ed anche a quello contemporaneo – il prezioso suggerimento di ripensare l’og- gettività della conoscenza scientifica liberandola sia dal tradizionale riduzioni- smo metafisico dell’empirismo, sia anche, all’opposto, da ogni assolutizzazione indebita propria anche della composita tradizione del positivismo. Certamente nella riflessione kantiana manca anche la consapevolezza critica che le strutture trascendentali non sono affatto da concepirsi come le “stelle fisse” del pensie- ro, proprio perché anche loro sono sempre storiche, relative e convenzionali. Tuttavia, questa nostra differente consapevolezza epistemologica non può che radicarsi sulla scoperta kantiana della “rivoluzione copernicana” che ci ricorda, costantemente, come l’oggettività conquistata dalla conoscenza scientifica non possa mai confondersi con una conoscenza assoluta. Ma allora, come concepire l’oggettività della conoscenza tenendo conto della sua relatività storica e degli stessi cambiamenti concettuali che contraddistinguono la storia della scienza?

Può esistere un’oggettività senza oggetti?

In ogni caso la posizione criticista kantiana, e la sua stessa rivoluzionaria epistemologia, in cui il suo idealismo critico-trascendentale si sposa, come si è visto, con una forma originale di realismo empirico, fu profondamente misinter- pretata, perlomeno secondo due differenti interpretazioni. Una prima interpreta- zione – sviluppata da Friedrich Heinrich Jacobi – imputa infatti, erroneamente, al criticismo kantiano di presupporre l’esistenza di oggetti che si collocherebbe- ro al di fuori di ogni esperienza possibile, con la nota conseguenza, paradossale, che «senza la cosa in sé non si può entrare nel criticismo kantiano, ma con la

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cosa in sé non si può restare in esso». Pertanto con la nozione della Ding an sich ci troveremmo di fronte ad un esito eminentemente antinomico, perché da un lato il concetto di fenomeno non può che rinviare a qualcosa che si situerebbe dietro l’oggetto fenomenico conosciuto; d’altra parte questo stesso oggetto nou- menico è però definito proprio come qualcosa che, per principio, va al di là di ogni esperienza possibile. Quindi, conclude Jacobi, la filosofia kantiana sfocia necessariamente nel noumeno, la cui affermazione costituisce una smentita com- plessiva dell’intero criticismo, giacché la nozione del fenomeno implica sempre un riferimento al noumeno il quale ultimo si colloca, però, al di fuori di ogni conoscenza possibile. Il kantismo metterebbe così capo ad una forma di sofisti- cato scetticismo che nega all’uomo di poter effettivamente conoscere la realtà. D’altra parte altri interpreti – soprattutto quelli di ascendenza metafisica – hanno invece letto nel criticismo kantiano la perpetuazione di quell’antitetico realismo della “gnoseologia dualista” metafisica introdotta da Descartes con il suocogito scaturente dalla contrapposizione, metafisica, tra res cogitans e res extensa. In tal modo Kant non avrebbe fatto altro che perpetuare una forma metafisica del tradizionale realismo dualista, impelagandosi, di conseguenza, in una problema che risulta essere irrisolvibile per la sua stessa impostazione concettuale di prin- cipio. Secondo questa interpretazione il fenomeno kantiano si ridurrebbe pertan- to a mera apparenza finendo addirittura per coincidere con lequalità secondarie di cui aveva già parlato Galileo, contrapponendole senz’altro alle qualità prima- rie misurabili su cui si fondava, invece, la conoscenza necessaria ed universale della scienza. Contro queste due tipiche e classiche misinterpretazioni del criticismo kantia- no si è invece visto come lo sforzo di Kant fosse proprio quella di salvaguardare la possibilità di delineare una nuova immagine dell’oggettività della conoscenza tale da non privarla affatto della capacità di poter parlare conoscitivamente degli ogget- ti reali cui le differenti discipline scientifiche si rivolgono con le loro indagini e i loro studi. In questo senso la posizione del criticismo kantiano risulta essere in pie- na sintonia con la posizione sostenuta da uno scienziato come Galileo il quale, pur negando che la scienza potesse cogliere l’essenza metafisica soggiacente del reale, tuttavia era parimenti sicuro che le conoscenze scientifiche fossero senz’altro in grado di parlarci delle passioni del mondo fisico, ovvero degli aspetti reali, effet- tivi ed intrinseci (sebbene non sostanziali, nell’accezione della tradizionale onto- logia metafisica) del mondo25. Ma proprio questa interessante e feconda sintonia realista tra Kant e Galileo fu invece sistematicamente negata da chi ha misinterpre- tato il criticismo ritenendo che nel pensatore di Königsberg “oggettivo” implichi unicamente un riferimento ad una nozione universale, necessaria e indipendente

25 Cfr. F. Minazzi, Galileo «filosofo geometra», Milano, Rusconi, 1992, passim e E. Agaz- zi, Was Galileo a realist?, in «Physis», 31, 1, pp. 273-296.

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dai soggetti individuali. Tuttavia da questo punto di vista la misintepretazione del criticismo kantiano risulta essere in profonda sintonia con l’evoluzione comples- siva del pensiero scientifico che, nel corso del XVIII e del XIX secolo, per non parlare dei primi anni del XX secolo, per ragioni profondamente connesse con lo sviluppo stesso delle differenti teorie scientifiche, ha progressivamente abbando- nato ogni forte pretesa “realista”, facendo così senz’altro slittare la stessa nozione dell’oggettività a quella, più debole, della mera intersoggettivià. Sono così emerse due differenti accezioni dell’oggettività: una concezione forte (o sostanziale) cui si è progressivamente e storicamente contrapposta una concezione debole (o forma- le). In tal modo le caratteristiche formali della conoscenza (universalità, necessità ed indipendenza dal soggetto) ha finito per fagocitare le caratteristiche sostanziali, appunto quelle che implicavano un preciso riferimento all’oggetto che in tal modo era colto conoscitivamente. La paradossale nozione di un’oggettività priva di oggetti si è così imposta, progressivamente, soprattutto nell’ambito stesso dello sviluppo delle scienze fi- siche – in particolare nella fase cruciale realizzatasi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, nel corso del trapasso dalla fisica newtoniana alla fisica relativistica e, ancor più, alla fisica quantistica – favorendo anche una misinterpretazione del criticismo kantiano che si è intrecciata con la deformazione idealista romantica del kantismo che, in nome delle esigenze dell’Ich Denke, ha finito per fagocitare il realismo empirico kantiano in una prospettiva decisamente idealista e metafi- sicamente assolutista. La misintepretazione complessiva del kantismo si radica esattamente entro questa convergenza tra lo sviluppo del pensiero scientifico e lo sviluppo del pensiero filosofico che ci ha infine donato l’immagine, alquanto paradossale, di un’oggettività priva di oggetti.

Agazzi: l’oggettività scientifica e i suoi contesti

Pur aderendo alla tradizionale lettura metafisica del kantismo (inteso qua- le frutto della “gnoseologia dualistica” cartesiana), Evandro Agazzi ha tuttavia sempre difeso, sul piano epistemologico e filosofico, nel corso della sua pro- duzione26, una concezione sostanziale (forte) dell’oggettività della conoscenza

26 E. Agazzi, Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano, Manfredi, 1969 (ristampato nel 1974, Roma, Abete); Id., Ragioni e limiti del formalismo. Saggi di filosofia della logica e della matematica, a cura e con una Prefazione di Fabio Minazzi, Milano, Franco Angeli, 2012; Id., Scientific Objectivity and Its Contexts, Cham-Heidelberg-New York-Dordrechte- London, Springer, 2014. Sull’opera di Agazzi cfr. il mio saggio Evandro Agazzi Philosopher. An Overview of His Thought apparso nel volume di più autori curato da Mario Alai, Marco Buzzoni e Gino Tarozzi, (eds.), Science Between Truth and Ethical Responsabilità. Evan-

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scientifica, che lo ha poi indotto ad elaborare una coerente forma di realismo scientifico27. Tenendo conto di alcune osservazioni sviluppate in molte sue opere precedenti28, nel suo più recente, sistematico e complessivo studio monografico consacrato alla Scientific Objectivity and Its Contexts del 2014, Agazzi sottolinea l’importanza della distinzione tra la natura dell’oggetto fisico e la suastruttura : «We must remember that, according to our view, operations determine the nature of the scientific object – or its ontological status as we shall call it later – (as they ‘clip it out’ of reality, and determine the basic attributes that constitue it), while logical and mathematical construction determine its structure (that is, the struc- ture of the set of operational and non-operational attributes involved)»29. Pertanto la delineazione del modello matematico di un determinato aspetto della realtà ci fornisce unicamente una struttura senza tuttavia fornirci ancora un ambito definito di oggetti cui si possa attribuire questa stessa struttura. D’altra parte se si utilizzano unicamente dei criteri operativi si può certamente ottene- re una specifica collezione di dati empirici, configurando così un materiale la cui natura è determinata, stabilendone anche l’appartenenza ad una determinata disciplina scientifica, senza tuttavia che sia ancora conosciuta la sua struttura specifica. Pertanto natura e struttura di un determinato oggetto scientifico pos- sono essere legittimamente distinte, giacché possiamo anche avere strutture ma- tematiche che si adattano a campi empirici differenti, mentre, d’altro lato, una determinata costellazione di dati empirici può essere compatibile con differenti modelli matematici. Questa interessante concezione epistemologica è del resto ricollegata da Agazzi ad una tradizionale e classica impostazione filosofica, che era maturata già all’interno della filosofia scolastica medievale: «To use a traditional distinction, the concretely existing things, which are imme- diately present to us in an intentio prima (knowledge by acquaintance), cannot be investigated without the elaboration of a conceptual picture of them which can be intellectual scrutinised and is universal and abstract (intentio secunda). However, the results of our scrutiny do not concern the conceptual picture, but the concrete referents of the intentio prima. In the case of modern science, the

dro Agazzi in the Contemporary Scientific and Philosophical Debite, Cham-Heidelberg-New York-Dordrecht-London-Springer 2015, alle pp. 1-17 e il volume di Fabio Minazzi, L’épi- stémologie comme herméneutique de la raison, Naples-Paris: La Città del Sole- J. Vrin 2006. 27 Id., Filosofia, scienza e verità (con Fabio Minazzi e Ludovico Geymonat), Milano: Rusconi, 1989; Id., Scientific Objectivity and Its Contexts, cit. 28 Cfr. F. Minazzi, a cura di, Sul bios theoretikós di Giulio Preti, Milano-Udine, Mimesis 2 voll., 2015; Id., a cura di, Filosofia, scienza e bioetica nel dibattito contemporaneo. Stu- di internazionali in onore di Evandro Agazzi, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2007. 29 E. Agazzi, Scientific Objectivity and Its Contexts, cit., p. 109.

27 Il problema epistemologico dell’oggettività della conoscenza

intentio prima does not properly consist in perpeptual acts, but in operational procedures, starting from which we elaborate a conceptual model which we then proceed to study (intentio secunda). As a result of our study we attribute to certain referents those properties which are compatible with the operational procedures constituting the real tools of our intentio prima, and which do not necessarily meet the usual requirements of the perceptual (typically, visual) structure of this intentio»30 (italics in the text). Per Agazzi è quindi indispensabile separare sempre con chiarezza la nozione della “cosa” da quella dell’“oggetto”, avendo la consapevolezza epistemologica che la seconda nozione è ottenuta, tramite determinate procedure operative, le quali ci consentono, appunto, di “ritagliare”, nell’ambito delle cose del mondo, una serie di “oggetti” appartenenti alle differenti discipline scientifiche. In que- sto senso l’“oggetto” si differenzia allora dalle “cose” proprio perché alcune proprietà specifiche degli “oggetti” non sono affatto “inerenti” alle “cose”. O, meglio ancora, per far emergere un “oggetto” scientifico occorre saper indivi- duare un determinato insieme di proprietà mediante il quale si costituisce una particolare oggettivizzazione conoscitiva del reale. Quindi per Agazzi l’ambito della realtà risulta essere molto più ampio dell’orizzonte dell’oggettività, perché tutto ciò che costituisce un “oggetto” è sempre reale, mentre non tutto ciò che è “reale” costituisce anche un “oggetto”. Anzi, la sfida della conoscenza si confi- gura proprio ed esattamente nella capacità di saper individuare, entro il mondo reale, dei nuovi aspetti del mondo degli oggetti. Questa impostazione epistemologica, oltre al suo merito intrinseco, consente di superare anche alcune diffuse misintepretazioni che sono spesso sostenute da non pochi epistemologi. Per esempio spesso si afferma che la meccanica classica sarebbe stata falsificata dalla meccanica quantistica, senza rendersi conto che le due meccaniche in questione in realtà non si riferiscono affatto allo stesso og- getto. Solo in questo caso si registrerebbe infatti un aperto contrasto antinomico tra le due teorie, mentre, in realtà, meccanica classica e meccanica quantistica hanno invece a che fare proprio con oggetti differenti e, quindi, la meccanica quantistica non opera alcuna falsificazione della meccanica classica, giacché le due teorie ci consentono di indagare aspetti differenti di oggetti diversi che si riferiscono tutte al mondo delle cose reali pur configurando delle differenti og- gettivizzazioni del mondo. Se poi ci si riferisce alla storia del pensiero filosofico, prestando attenzione specifica alle tematiche del realismo scaturite nel quadro del dualismo epistemo- logico di ascendenza cartesiana, è allora agevole rendersi conto di come Agazzi si sottragga al classico e dibattuto problema dualista (e metafisico) dell’episte- mologia moderna proprio recuperando, nuovamente, una prospettiva già discus-

30 Ivi, pp. 113-114.

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sa dalla scolastica medievale la quale da un lato risale addirittura alla lezione aristotelica, mentre dall’altro lato è stata invece ripresa e sviluppata, nel corso del dibattito filosofico del secolo scorso, soprattutto grazie alla genesi del pro- gramma di ricerca della fenomenologia delineato dal primo Husserl. Se infatti per l’epistemologia d’ascendenza cartesiana le cose sono conosciute solo ed uni- camente tramite la loro rappresentazione elaborata dalla nostra mente, Agazzi si riferisce, invece, all’impostazione classica (che, sia pur in forme differenziate, è presente sia nella riflessione greca sia in quella medievale), in base alla quale la conoscenza scaturisce proprio dal fatto che le cose sono presenti alla nostra mente. Tale presenza delle cose nella nostra mente si attua proprio attraverso un’identità intenzionale di pensiero e realtà. Rileva Agazzi «In a perception, or in own intellectual intuition, our cognitive capacities ‘identi- fy’ themselves with objects, thought remaining ontologically distinct from them. This ontological distinction furnishes the correct meaning of “the ‘external’ world”, which, otherwise, would mean everything ‘outside my skin’. The representation of modern epistemology, from this ‘classical’ point of view, is simply a thing’s ‘way of being present’ to our cognitive capacities, and is ontologically depend on both, though not produced by either. Modern epistemology, having lost the notion of the intentional identity, gives to representations the status of being direct objects of knowledge that we encounter in our mind»31 (italics in the text). Secondo la prospettiva di Agazzi l’affermazione della tradizione idealista, soprattutto nel corso degli ultimi secoli della modernità, deriva proprio dall’im- postazione gnoseologica del dualismo che ha indubbiamente favorito la ridu- zione del reale al pensiero, mentre, di contro, anche alla tradizione classica dell’identità intenzionale di pensiero e realtà può comunque essere imputato il fatto di non essere stata in grado di meglio precisar la natura specifica di questa stessa identità intenzionale. Questa situazione si è tuttavia modificata sia con la riscoperta della classica nozione dell’intenzionalità operata dalla fenomenologia husserliana, sia anche dalle svariate ricerche scaturite nell’ambito della filosofia della mente ed anche nell’ambito delle scienze cognitive, tutte «aiming at understanding in what this marvellous process (i. e. knowledge) con- sist, a process throught which certain beings are able to ‘interiorise’ the external world whithout destroyng it in order to ‘assimilate’ it»32. Certamente proprio sulla base di queste considerazioni Agazzi, come si è già accennato, inclina tuttavia a ritenere la riflessione kantiana come un frutto specifi- co della tradizione del dualismo epistemologico, proprio perché, a suo avviso, i fe- nomeni di cui parla il filosofo di Königsberg sarebbero senz’altro assimilabili alle

31 Ivi, p. 246. 32 Ivi, pp. 246-247.

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qualità secondarie di cui parlava Galileo, contrapponendole alle qualità primarie misurabili33. In tal modo viene persa di vista proprio la relazionalità costitutiva del fenomeno di cui parla Kant, una relazionalità, come si è visto, invero fondamenta- le, perché rinvia non solo alla normatività specifica degli oggetti della conoscenza scientifica, ma consente anche di comprendere le ragioni per le quali Kant ha sem- pre insistito sulla natura universale e necessaria delle conoscenze oggettive cui la scienza è effettivamente in grado di pervenire (come si è appunto sottolineato nel precedente terzo paragrafo). Da questo punto di vista Kant ha così costituito una significativa resistenza epistemologica (otre che filosofica tout court) alla deriva empirista, in base alla quale l’universalità e la necessità delle conoscenze scienti- fiche sono state invece sostituite da una sorta di generalità concepita secondo la classica e tradizionale concezione empirista dell’induzione. In ogni caso proprio questa sua originale impostazione filosofica ed episte- mologica anti-cartesiana consente ad Agazzi di formulare una presa di posizione epistemologica in virtù della quale il suo realismo scientifico si basa su una dif- ferente comprensione del ruolo e della funzione euristica delle teorie scientifiche che può essere ben sintetizzata dai seguenti assunti: «However, these sentences do not express the Gestalt simply as result of logical connections. Thus: (a) the aim of theories is far from that of telling a ‘literally true story’ concerning the world, but is rather of giving the most faithful depiction of a certain (partial) vision of the world under a specific point of view, usually in order to explain – often by indicating causal relations between the constituents of the pic- ture – certain empirically accessible features of the world; (b) theories are therefore neither true nor false, but only more or less ‘adequate’ or ‘tenable’: (c) nevertheless, certain singles sentences of a theory ma bed true or false, and this implies […] that the objects referred to in these sentences exist and have the properties ascribed to them (if sentence is true), or do not exist, or do not possess these properties (if the sentence is false). Clearly, we can agree that theories do not tell a ‘literally true sto- ry? About the constitution of the world, but this does not commit us to rejecting the several sentences in theories are true or false, nor that this has consequences for our appreciation of the real constitution of the world»34 (italics in the text). Secondo questa impostazione può quindi essere proposta una diversa ed in- novativa immagine delle teorie scientifiche proprio perché «Theories are proposed as hypothetical constructs intentionally directed towards the world (i. e. a domain of referents); and if we have good reason for accepting a theory, for the same good reason we must accept that their referents exist»35. Detto in altri termini si può allora sostenere che una teoria non può mai es-

33 Ivi, p. 249. 34 Ivi, pp. 256-257. 35 Ivi, p. 257.

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sere concepita, cartesianamente, come una mera rappresentazione in sé stessa, perché questa teoria può semmai essere unicamente una rappresentazione grazie ad una intenzionalità che rinvia direttamente al senso (quello che un logico come Gottlob Frege indicava come il Sinn) che si collega sempre, a sua volta, con un preciso Bedeutung36. In termini husserliani potremmo dire che è solo grazie ai noemata che la teoria può riferirsi, secondo una sua precisa intenzionalità, al mondo iletico che vogliamo conoscere e studiare. Infatti proprio questi costrutti teorici intenzionalmente orientati verso il mondo possono poi essere più o meno “riempiti” da una componente iletico-materiale, sussunta entro una determinata funzione, cioè entro una peculiare morfé. Pertanto tutte queste differenti teorie risultano essere comunque sempre orientate verso un determinato campo di ref- erenti: «their objects have a kind of intentional or noematic reality, and may at best be approximated by concrete objects which sufficiently accurately instanti- ate the properties these abstracts objects encode»37. In tal modo, anche in questo caso, Agazzi si mostra erede intelligente di una classica tradizione filosofica che, anche tramite la fenomenologia husserliana e la precedente riflessione logica di Gottlob Frege, risale direttamente anche all’Orga- non di Aristotele38 (1955), giacché in tal modo Agazzi recupera pienamente anche la fondamentale distinzione aristotelica tra logo semantico e logo apofantico. Il primo si limita infatti a “significare”, mentre il secondo “asserisce”, idest afferma o nega. Il logo semantico si limita pertanto ad affermare dei sensi, senza tuttavia mai porsi il problema della verità o della falsità dei propri enunciati, mentre il logo apofantico implica necessariamente e sempre l’affermare o il negare la verità di un determinato enunciato39. Così se il logo semantico ha a che fare unicamente col significato delle espressioni linguistiche e indaga quindi la precisa comprensione degli enunciati, al contrario il logo apofantico studia soprattutto il riferimento con- nesso con queste espressioni e si pone quindi un problema attinente la loro verità o falsità. Nella riflessione di Frege questa distinzione aristotelica torna a svolgere un suo preciso ruolo soprattutto nella misura in cui per ogni espressione linguistica o segno [Zeichen] il logico tedesco distingue, appunto, il senso [Sinn] dal referente [Bedeutung]. Frege intendeva studiare soprattutto i contenuti oggettivi del pen- sare [Gedanken], pertanto la sua semantica metteva in piena evidenza la portata oggettiva del senso che rinviava a contenuti concettuali oggettivi, mediante i quali ci si rivolge, secondo una determinata modalità concettuale, ai referenti. Meglio

36 G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, NF 100, 1892, pp. 25-50. 37 E. Agazzi, Scientific Objectivity and Its Contexts, cit., p. 259. 38 Aristotele, Organon, Introduzione traduzione e note di Giorgio Colli, Torino, Einaudi, 1955. 39 Id., Ragioni e limiti del formalismo. Saggi di filosofia della logica e della matematica, cit., pp. 109-130.

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ancora: per Frege i referenti possono essere colti solo ed esclusivamente tramite la fondamentale mediazione euristica del senso. Ma proprio questo fondamentale piano di mediazione concettuale è stato invece progressivamente perso di vista dalla semantica estensionale per i sistemi formali che, da Russell a Tarski, ha finito per ridurre il significato dei segni linguistici ai loro referenti o denotati, perdendo di vista proprio la fondamentale funzione di mediazione concettuale esercitata dal Sinn. In tal modo la semantica a tre livelli freghiana è stata progressivamente ridot- ta ad una semantica a due livelli che ha fatto perdere di vista proprio la componen- te concettuale fondamentale della conoscenza. E questo è avvenuto proprio perché mentre il problema semanticamente fondamentale concerne il significato in quanto tale, al contrario il problema del riferimento non si riduce alla dimensione seman- tica (pur avendo, naturalmente, dei nessi con la semantica) poiché implica proprio la capacità di cogliere il referente, una capacità che si svolge al di fuori dell’ambi- to semantico poiché implica l’accesso ad una dimensione operativa e pragmatica mediante il quale le teorie “catturano” il proprio referente. Quindi l’epistemologia di Agazzi scaturisce anche dalla necessità di ben comprendere il rapporto che si instaura tra il significato e il riferimento tenendo appunto presente che la semantica non è tanto connessa con il riferimento perché concerne, in primo luogo il senso40. Occorre pertanto studiare la correlazione tra tutti questi tre differenti livelli (segno, senso e riferimento), cogliendo anche l’autonomia relativa che contraddistingue tanto il momento del logo semantico, quanto quello del logo apofantico. Né basta: perché per Agazzi l’analisi semantica deve poi essere integrata con un’analisi epi- stemologica che si dilata infine ad un’analisi ontologica41, anche perché per il No- stro «the thesis of the referentiality of scientific language is the expression of the thesis of scientific realism when one moves from the epistemological level to that of the philosophy of language»42. In tal modo si possono criticare, motivatamente, sia le eccessive affermazioni del contestualismo epistemologico contemporaneo, prendendo anche una parallela distanza critica dalla cosiddetta “svolta linguistica” nell’analisi epistemologica che ha cercato, in genere, di ridurre unilateralmente le teorie scientifiche al solo logo semantico. Al contrario, scrive Agazzi, «we recognised then that any science necessarily studies abstract objects, but with the intention of knowing an extra mental reality to which it ‘refers’, and in which it intends to find ‘concrete objects’ that are ‘referents’ exemplifying its abstract objects»43.

40 F. Minazzi, Prefazione a E. Agazzi, Ragioni e limiti del formalismo. Saggi di filosofia della logica e della matematica, cit., pp. 11-34. 41 E. Agazzi Ragioni e limiti del formalismo. Saggi di filosofia della logica e della mate- matica, cit., pp. 243-264. 42 Id., Scientific Objectivity and Its Contexts, cit., p. 270. 43 Ivi, p. 279.

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Conseguentemente per questa impostazione epistemologica in ogni discipli- na scientifica gli oggetti non possono che coincidere con un insieme – più o meno strutturato, a seconda del grado di rigore di questa stessa disciplina – di attributi che vengono riconosciuti sempre in modo operazionale nell’ambito di una determinata realtà proprio perché risultano essere riferiti operazionalmente ad essi. Quindi questi attributi sono attribuiti a questi oggetti attraverso una me- diazione operativa (non sono quindi basati su una mera operazione di pensiero). Il che poi non esclude affatto che un determinato referente possieda anche altre e differenti proprietà che possono essere studiate da altre scienze o che possono essere oggetto di altri possibili discorsi. «This means that the referent one is reaching thought being ‘encountered’ by means of certain operational procedures, is much richer than the bundle of op- erationally defined characteristics or attributes that those procedures are able to demonstrate and ‘sum up’ in the objects. This does not mean, however, that this same referent cannot be further investigated by means of other criteria of referentiality and become in such a way the subject-matter (the object) of oth- er objectification procedures. Our position could be expressed by saying that there is a distinction(but not a separation) between the realm of objectivity and that of reality in this precise sense: the domain of objectivity is always much more restricted than the domain of reality (do not forget that, according to our definition, reality coincides with existence, and therefore encompasses the total domain of being), and it can never be brought coincide with it. Indeed any ob- jectification depends on a point of viewwithin another point of view (that is, the broader point of view in which ‘things’ are given, which is in itself ‘contingent’ upon a certain historical situation and never encompasses ‘the whole’ of reality). This must not be understood however, as if there were secluded parts of reality perpetually immune to any objectification. On the contrary, there is no part of reality which may be thought of as not being able in principle to undergo objecti- fication (such a claim would be a concealed form ofepistemological dualism)»44 (italics in the text). In altri termini si cade nuovamente nel dualismo epistemologico se si pensa che dietro l’elettrone – individuato dalle sue proprietà – esista una mitica so- stanza che non siamo mai in grado di conoscere proprio perché possiamo solo conoscere le sue proprietà specifiche. Non si può quindi più pensare l’elettrone come una cosa cui sono attribuite delle proprietà, perché occorre invece pensare all’elettrone come ad un oggetto che viene costruito proprio grazie e tramite queste proprietà. «An object is to be considered as the ‘structured’ totality of the objectively af- firmable properties and not as a mysterious substratum of these properties. This

44 Ivi, p. 282.

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might sound as a Humean positivism, but it is not, since we do not maintain that such properties are exclusively our perceptions: they are ontological aspects of reality, and may even be perceptually unattainable»45.

Il neo-realismo logico e il problema dell’oggettività, tra Husserl e Socrate

Alla luce delle considerazioni svolte nei precedenti paragrafi emerge tutta l’intrinseca complessità problematica dell’oggettività della conoscenza umana. Se poi si prende in più diretta considerazione soprattutto l’evoluzione esplosiva della conoscenza determinata dalla nascita della scienza moderna intrecciata- si, ab origine, con i sempre più incalzanti e sofisticati ritrovati tecnologici, si può meglio intendere come lo stesso problema dell’oggettività della conoscenza coincida con la comprensione della dinamica di crescita critico-concettuale del nostro stesso patrimonio tecnico-conoscitivo46. Proprio la comprensione critica adeguata della natura specifica della cono- scenza oggettiva messa a disposizione dalla scienza costituisce l’aspetto deci- sivo del nostro problema: hic Rhodus, hic salta (per dirla con Marx). Del resto per affrontare questo problema non sono ancor oggi prive di interesse le puntuali indicazioni che Galileo ha svolto ne Il Saggiatore (1623), in cui, da un punto di vista prettamente metodologico, lo scienziato pisano ha costantemente insistito nel ricordare come la conoscenza scientifica scaturisca sempre da un intreccio critico-problematico tra le “necessarie dimostrazioni” e le “sensate esperienze”. Matematica e dimensione sperimentale costituiscono così i poli opposti, e pure reciprocamente integrabili, di un nuovo stile di ricerca, appunto quello inaugura- to dall’approccio scientifico, in nome del quale queste due polarità contrastanti, che rinviano da un lato alla forza autonoma e creativa del pensiero matematico e, dall’altro lato ai vincoli posti dalla verificazione sperimentale, sanno tuttavia integrarsi in modo così felice e fecondo da consentirci di meglio conoscere il mondo per dirci come stanno effettivamente le cose. L’aspetto interessante della presa di posizione galileiana si radica esattamente nel suo rifiuto programmatico

45 Ivi, p. 283. 46 Per l’approfondimento del quale occorre tener presenti le puntuali considerazioni di L. Geymonat, Scienza e realismo, Milano, Feltrinelli, 1977, sulla cui opera sia anche lecito rinviare a F. Minazzi, La passione della ragione. Studi sul pensiero di L. Geymonat, Milano- Mendrisio, Thèlema-Università della Svizzera italiana, 2001; Id., Contestare e creare. La le- zione epistemologico-civile di L. Geymonat, Napoli, La Città del Sole, 2004; Id., Geymonat epistemologo. Con documenti inediti e rari (un inedito del 1936, il carteggio con Moritz Schlick, lettere con Antonio Banfi e Mario Dal Pra), Milano-Udine, Mimesis, 2010. Per la prospettiva filosofica e storiografica di Geymonat rimane fondamentale il riferimento alla sua monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Garzanti, 1970-1976, 7 voll.

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di sciogliere, con una formula algoritmica, la natura stessa di questo rapporto che può instaurarsi tra le inferenze rigorosamente deduttive della matematica e le molteplici prassi della sperimentazione tecnologica e scientifica di laborato- rio. In altri termini Galileo non vuole affatto compiere quel passo (metafisico) che ha invece delineato René Descartes nel suo celebre Discours de la méthode (1637). Per Descartes la scienza può e deve essere senz’altro ridotta al suo me- todo. In tal modo il pensatore francese ha contribuito a diffondere un’autentica “sindrome cartesiana”47 (cfr. Pera 1992), in virtù della quale, da Descartes fino a Popper, pressoché tutti gli epistemologi, per tre secoli, hanno discusso – e spesso litigato – su quale possa mai essere, effettivamente, il “vero” ed “autentico” me- todo della scienza. A questo fuorviante gioco metodologico si è invece sottratto Galileo il quale ha invece preferito indicare unicamente le polarità oppositive entro le quali si intesse continuamente e in forme sempre rinnovate ed originali il discorso scientifico più avanzato ed originale. Lo ha fatto perché non ha avuto un’adeguata consapevolezza critica del problema metodologico della scienza, oppure, all’opposto, proprio perché ha praticato differenti indagini scientifiche e, quindi, in corpore vili dell’attività dello scienziato militante, ha progressi- vamente sviluppato una più articolata e sofisticata consapevolezza critica della complessità dei metodi che ciascuna disciplina scientifica deve sempre mettere in campo e costruire, onde poter conseguire una conoscenza oggettiva del mon- do che intende indagare? Se si opta per questa seconda soluzione, le indicazioni metodologiche gali- leiane risultano essere in profonda sintonia con le più mature considerazioni di un altro grande fisico occidentale, ovvero con quelle di Albert Einstein. Infatti il grande fisico tedesco, riflettendo sulle differenti prospettive epistemologiche legittimamente suggerite dai suoi numerosi e fondamentali contributi scientifici, si è reso conto come l’attività dello scienziato militante possa apparire, perlome- no agli occhi dell’epistemologo sistematico, come il frutto di un atteggiamento proprio di un “opportunista senza scrupoli”48. Un “opportunista senza scrupoli” proprio perché lo scienziato militante può compiere delle mosse da realista, per- ché cerca di descrivere un mondo che esiste indipendentemente dagli atti della percezione, oppure da idealista, perché considera le teorie come il frutto della libera invenzione della fantasia umana, oppure ancora da positivista, perché ri- tiene che i suoi concetti siano giustificabili solo nella misura in cui forniscono una rappresentazione logica e rigorosa delle relazioni che si possono instaurare tra le esperienze sensoriali, oppure anche da platonico (o pitagoreo), perlomeno

47 M. Pera, Scienza e retorica, Roma-Bari, Laterza (trad. inglese), Chicago, Chicago Uni- versity Press, 1992. 48 A. Einstein, Albert Einstein: Philosopher-Scientist, Edited by Paul Arthur Schlipp, Il- linois, Evanston (The Library of Living Philosophers, VII), 1949.

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nella misura in cui considera il criterio della semplicità logica come lo strumen- to privilegiato della ricerca scientifica. Nell’azione militante di uno scienziato tutte queste pur assai differenti e contrastanti prese di posizioni epistemologiche sono effettivamente possibili, proprio perché lo scienziato è poco interessato a configurarsi come un epistemologo sistematico e coerente: il suo problema è infatti un altro, ovvero quello di poter conoscere aspetti rilevanti ed oggettivi del mondo. Quindi lo scienziato si sforza, per quanto più può, di aderire semmai al suo oggetto di studio, esattamente come una cozza si salda al proprio scoglio. O, se si preferisce un altro paragone, lo scienziato militante è forse assimilabile ad un innamorato (della conoscenza!) disposto a compiere qualunque mossa, anche la più spregiudicata (da realista, idealista, positivista, platonico, pitagorico, etc.), pur di poter catturare “l’oggetto del suo amore”, ovvero l’incremento, effettivo ed oggettivo, del nostro patrimonio tecnico-conoscitivo. Ergo, non si fa ricerca scientifica innovativa con un credo epistemologico in mano cui giurare eterna fedeltà, proprio perché lo scienziato militante, che in- nova in modo significativo la tradizione scientifica, deve sempre saper costruire ed intrecciare, caso per caso, disciplina per disciplina, quel particolare rapporto che può eventualmente strutturarsi tra la polarità del pensiero creativo e i rigidi vincoli della verificazione sperimentale. Esattamente come sosteneva Galileo nel 1623 che, evidentemente, aveva conosciuto, nel corso del suo stesso lavoro scientifico, la verità di questa flessibilità intrinseca della pratica scientifica. Del resto Galileo nel corso della sua vita si è occupato, non a caso, di discipline scientifiche molto diverse, passando dall’astronomia alla dinamica dei corpi ri- gidi, dalla realizzazione di alcune osservazioni biologiche alla discussione del problema del galleggiamento dei corpi solidi sui liquidi, dalla considerazione di problemi di analisi matematica allo studio della resistenza dei materiali, etc. etc. Proprio questa ampiezza e complessità della sue indagini deve aver indotto Galileo a prendere piena consapevolezza critica che la pretesa di voler ridurre arbitrariamente ed unilateralmente la scienza a questo o quel metodo specifico (induttivo, deduttivo, convenzionalista, abduttivo, verificazionista, falsificazio- nista, idoneista, etc.) configurava una mossa che risultava essere del tutto ina- deguata a rendere l’effettiva ed intrinseca complessità della ricerca scientifica. Con la conquista di questa più sofisticata consapevolezza metodologica, Galileo, contra Descartes (e anche contra l’infinita schiera degli epistemologi successivi che hanno invece in genere condiviso la “sindrome cartesiana”), lo scienziato pisano ha così aperto l’orizzonte per una nuova e assai differente va- lutazione epistemologica, metodologica e filosofica della conoscenza scientifica. Con la sua saggia cautela metodologica Galileo ci ricorda infatti, in negativo, che la conoscenza oggettiva cui possiamo realmente pervenire in differenti am- biti di indagine non può mai essere coartata in questo o quel metodo astratto, in quella o questa rigida regola metodologica che dovremmo poi limitarci ad ap-

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plicare sistematicamente come una sorta di stampino. In positivo, ci ricorda poi come la conoscenza sia sempre frutto di un libero gioco creativo ed oppositivo (con il mondo della natura che per sua natura è sempre “sordo e inesorabile”) entro il quale dobbiamo appunto saper utilizzare tutta la nostra intelligenza, tutta la nostra fantasia creativa, tutta la nostra capacità tecnica e anche tutta la nostra tenacia, onde poter infine conseguire – se siamo fortunati – un incremento og- gettivo della nostra conoscenza del mondo. Del resto lo stesso Galileo, perlomeno rispetto a questa apertura prospettica d’orizzonte, non ha comunque mancato di compiere anche dei passi indietro. Lo ha fatto, per esempio, come si è già accennato, quando ha creduto di poter comun- que attribuire alle conoscenze umane (intese come sapere intensive) una portata assoluta ed immodificabile, elaborando, di conseguenza, una coerente concezio- ne cumulativistica della conoscenza scientifica. Ma questa è oggi una concezione assolutistica del sapere scientifico che non può più essere condivisa per svariate ragioni. Semmai, sempre su questo terreno della conoscenza scientifica contempo- ranea, si avverte una maggior sintonia critica e filosofica con le diverse posizioni di Einstein il quale riconosce, apertamente, come l’oggettività della conoscenza si possa istituire solo nell’intreccio, effettivo e complesso, costruito compiendo dif- ferenti accentuazioni dei vari componenti che sempre sussistono tra la dimensione del Lebenswelt (il senso comune intessuto e costruito soprattutto dalle impressioni sensibili e dalle prassi di vita di tutti gli uomini) e quella delle pure idee, individua- te grazie ad uno sforzo di fantasia creativa, mediante il quale possiamo appunto poi costruire, deduttivamente, delle teorie le cui conseguenze, tramite la fondamentale mediazione pratica della tecnologia e delle prove sperimentali, ci consentono di ritornare nuovamente a quello stesso Lebenswelt in cui si vive, per eventualmente modificarlo alla luce delle nuove conoscenze e dei nuovi strumenti. Ma, ancora una volta, proprio questo complesso ed articolato gioco della conoscenza, delinea, allora, un intreccio particolare tra il mondo delle idee e quello della sensibilità, rifacendoci tornare, se si vuole, proprio a quella prospettiva criticista dalla quale ha preso le mosse Kant per delineare la sua “rivoluzione copernicana”. Semmai, rileva ancora Einstein, la nostra distanza dal sistema architettonico kantiano può essere meglio misurata nella nostra consapevolezza che le idee e le categorie del pensiero non costituiscono delle costellazioni di stelle fisse immodificabili, perché sono, al contrario, delle libere creazioni e, in quanto tali, delineano allora una strut- tura apriorica storica e relativa, ovvero convenzionale. La comprensione critica di questo assai complesso universo di discorso scien- tifico non è del resto mancata in alcuni autori e filosofi del Novecento appartenenti al razionalismo critico europeo i quali, pur apprezzando il rigore della lezione del neopositivismo, hanno tuttavia scorto anche i suoi limiti radicati nella sua incapa- cità (metafisica) nel saper comprendere il valore euristico della nozione della tra- scendentalità kantiana, rimanendo quindi vittima di un’impostazione radicalmente

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e rigidamente empirista. Una visione empirista radicale in nome della quale si pretendeva, invariabilmente, di poter effettivamente ridurre il piano astratto delle idee e delle teorie ai soli fatti empirici. Come è ben noto proprio nello sforzo di at- tuare questo impossibile ed utopico programma di ricerca epistemologico ridutti- vista, il neopositivismo ha però attraversato differenti fasi e forme grazie alle quali ha progressivamente e costantemente indebolito proprio il riduzionismo empirista radicale delle origini, espresso, nel modo forse più urticante, dalla prima e schema- tica formulazione del principio di verificazione viennese, figlio legittimo dell’im- postazione, parimenti metafisica, del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) di Ludwig Wittgenstein. In tal modo l’empirismo logico, nel corso della sua storia, è infine giunto a rendersi conto, soprattutto nella sua fase americana, come tra il piano astratto delle teorie e quello della sperimentazione esista sempre un rapporto di reciproca autonomia relativa. Ma proprio questa giusta presa di consapevolezza epistemologica ha naturalmente ed inevitabilmente coinciso con la stessa disso- luzione teorica dello stesso programma di ricerca neopositivista, così come ben emerge dai contributi di un autore come Carl Gustav Hempel. Chi invece non si è mai fatto irretire acriticamente dall’impostazione meta- fisica dei neopositivisti si è allora trovato nella migliore condizione per apprez- zare la fecondità delle loro ricerche, elaborando, al contempo, una riattivazione critica, sofisticata e consapevole della tradizione del trascendentalismo. Questa complessa e feconda operazione emerge per esempio, con indubbia chiarezza, nelle riflessioni di un filosofo come Giulio Preti il quale, non a caso, ha infine elaborato una interessante e assai feconda forma di trascendentalismo storico- oggettivo alla luce del quale ha prospettato un interessante e fecondo programma di ricerca neo-realista logico che permette di riconsiderare il problema dell’og- gettività della conoscenza tirando le fila di tutte le nostre precedenti considera- zioni. Per caratterizzare il proprio punto di partenza Preti scrive quanto segue:

«It is rather a historical-objective transcendentalism, which surveys the construc- tive forms of the various universes of discourse through a historical-critical analysis of rules of method that have been imposed historically and still apply in knowledge, etc. In short, it is a transcendental Ontology (or rather transcendental ontologies) which does not claim to understand the forms and structures of a Being in itself, but seeks to determine the way (or ways) in which the category of being is enacted in the historically mobile and logically conventional (arbitrary) construction of the on- tological regions by scientific knowledge (in particular) and culture (in general)»49.

49 G. Preti, Philosophical Essays. Critic Rationalism Historical-objective Transcenden- talism, Edited by Fabio Minazzi, translation from Italian by Richard Sadleir, Bruxelles - Bern - Berlin - Frankfurt am Main - New York - Oxford - Wien, P.I.E. Peter Lang, 2011, p. 297.

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Questo interessante programma nasce all’interno di un profondo, libero, ori- ginale e fecondo ripensamento critico, basato su varie contaminazioni costrutti- ve, di differenti e persino opposte tradizioni di pensiero, le quali spaziano dalla tradizione del neo-trascendentalismo kantiano a quella della prima fenomenolo- gia husserliana, dalla tradizione del pragmatismo deweyano e marxiano a quella dell’empirismo logico e della filosofia analitica. Ma Preti non si è limitato a dialogare con le principali tradizioni di pensiero a lui contemporanee, perché ha anche saputo intrecciare questo suo programma di ricerca – che ad un certo punto ha denominato con l’espressione emblematica di neo-realismo logico tra- scendentale – con alcuni delle principali tradizioni concettuali del pensiero clas- sico e medievale50. Ma cosa intende Preti per neo-realismo? Ecco la sua risposta: «“neo-realism” is a relatively new name for a very old doctrine. It is a position that in fact the author of these essays has derived from meditation on and dis- cussion of the more strictly philosophical (theoretical) problems of the contem- porary analytic philosophy, logic and epistemology (of Moore, Russell, Carnap, Ayer, etc. etc.) in the light of the doctrines of the early Husserl (of the Logische Untersuchungen and the Ideen). But it goes all the way back to fourteen-century scholasticism»51. Secondo questa prospettiva l’oggetto-della-conoscenza coincide, dunque, con la conoscenza stessa di cui dispone effettivamente il patrimonio tecnico- scientifico di una determinata società storica. Non si tratta quindi più di indaga- re una struttura “esterna” od “interna” alla conoscenza, proprio perché cambia il modo stesso di concepire la medesima conoscenza. La conoscenza non può quindi che prendere le mosse da se stessa proprio perché la giustificazione della conoscenza scientifica non può essere individuata né nella nozione di una pre- sunta superiore divinità (che garantirebbe appunto il sapere), né, tanto meno, nel riferirsi all’esperienza la quale, in quanto base fattuale e sperimentale, giustifi- cherebbe, di per sé, un determinato sapere. Al contrario, la prospettiva episte- mologica delineata da Preti ci ricorda come il fondamento e la giustificazione più autentica ed affidabile della scienza – nella sua stessa portata conoscitiva

50 Per la discussione complessiva del suo pensiero sia comunque lecito rinviare a F. Mi- nazzi, Giulio Preti: bibliografia, Milano, Franco Angeli, 1984; Id., L’onesto mestiere del fi- losofare, Milano, Franco Angeli, 1994; Il cacodémone neoilluminista. L’inquietudine pasca- liana di G. Preti, Milano: Franco Angeli, 2004; Id., Suppositio pro significato non ultimato. Giulio Preti neorealista logico, Milano-Udine, Mimesis, 2011, nonché a Id, a cura di, Il pen- siero di G. Preti nella cultura filosofica del Novecento, Milano, Franco Angeli, 1987; Id., Sous la direction de M. Brondino et F. Minazzi, Le mektoub tunisien de G. Preti. La vie et l’oeuvre d’un philosophe italien rationaliste, Paris, Édition Publisud, 2009 e Id., a cura di, Sul bios theoretikós di Giulio Preti, Milano-Udine, Mimesis 2 voll., 2015. 51 G. Preti, Philosophical Essays, cit., p. 37.

39 Il problema epistemologico dell’oggettività della conoscenza

oggettiva – si radichi proprio nel suo autonomo piano di trascendentalità entro il quale si istituisce un sapere relativamente autonomo che, in ultima analisi, può fondarsi solo su se stesso (sia in relazione agli aspetti teorici, sia in relazione a quelli inerenti, invece, il mondo della prassi e il suo stesso funzionamento tecno- logico, più o meno efficace). In questa prospettiva l’oggettività della conoscenza si radica allora proprio nei paradigmi oggettivi insaturi che pur non possedendo alcuna unità sostanziale e metafisica, ci consente, tuttavia, di cogliere alcuni fili di verità rispetto al mondo reale che si vuole studiare ed indagare. Facendo così un esempio, che trae spunto dalla celebre controversia medievale concernente gli universali e il loro significato, Preti sottolinea allora come l’innovativa solu- zione prospettata dai neo-realisti logici medievali consista proprio nel rifiutare tanto la soluzione del tradizionale realismo metafisico platonico (quella che ri- duce il cane al suo eidos immutabile, eterno e sostanziale), sia la soluzione del nominalismo radicale (quella che riduce invece il cane a mero flatus vocis, quale comoda sommatoria, ottenuta per induzione simplicem, dell’esperienza possibi- le di tutti i cani in carne ed ossa effettivamente conosciuti). Al contrario «For the neo-realist there instead returns the idea of the objective paradigm (and this is why we also call them “realists”), but not as a substantial unity “in itself”. The significatio (or concept) of “dog” is to dogs as, say, the project of a building designed by an architect is to building (or even the potentially unlimited class of buildings) which is actually built to that project. So signification and denotation are not hard direction of reference to different metaphysical realities: the ultimate reference is always to dogs (to buildings) in the flesh (in stones and mortar). This is expressed in the distinction (to which that between significatio and suppositio seems to be reduced) between suppositio pro significato non ultimato and suppo- sitio pro significato ultimato. The ultimatio is the complete intuitive fulfilment of that “project” that was the concept of meaning in the name (in the categorematic term), and when the term stands for the content of this type, it denotes. The mean- ing differs from the denotation not by genus but by species: it is an incomplete a denotation, one not completely fulfilled, and thereforein a certain sense, vague (it contains notes that remain indeterminate, and therefore variables)»52. In tal modo l’incompletezza semantica, sempre connessa con un determinato termine, consente allora, quando sia debitamente trasposta sul piano dell’obietti- vità linguistica, di comprendere proprio il problema epistemico della costituzio- ne dell’oggetto. Si ripresenta qui il problema – di chiara ascendenza cartesiana – del rapporto tra esse obiectivum ed esse formale sulla cui base si può impostare il problema della costituzione dell’oggetto della conoscenza. Ma per cogliere questo oggetto della conoscenza occorre allora seguire la mossa suggerita da Kant con la sua “rivoluzione copernicana” e comprendere che occorre in primo

52 Ivi, p. 42.

40 Fabio Minazzi

luogo sospendere proprio l’orientamento naturale e il suo ingenuo realismo per situarsi invece su un piano analitico di meta-riflessione delle differenti disci- pline, onde cogliere tutti i differenti elementi che strutturano l’oggetto-della- conoscenza. I trattini usati in questa espressione vogliono appunto indicare come questo oggetto-della-conoscenza non possa neppure essere compreso se non si è in grado di cogliere la precisa “ontologia regionale” (per usare nuovamente una categoria husserliana) entro la quale si costruisce la conoscenza propria di ciascuna disciplina. Duplici le conseguenze di questa mossa trascendentalistica: i concetti vengono infatti intesi come funzioni unificanti (o come il frutto di dif- ferenti funzioni unificanti), mentre l’oggetto-del-conoscere si configura come un compito continuo e un progetto aperto posto al conoscere prendendo sempre le mosse dal conoscere stesso, ovvero dal suo stesso patrimonio tecnico-scientifico e dalle sue differenti strutture concettuali. In sintonia con quanto attesta, del resto, la storia della scienza moderna dal Seicento ad oggi, una storia che appun- to ci testimonia che la giustificazione delle conoscenze scientifiche e delle sue stesse prassi tecnologiche non può mai essere fornita dal di fuori della scienza stessa. In tal modo come la scienza si è auto-giustificata grazie alla sua stessa storia, in modo analogo la nostra stessa conoscenza oggettiva del mondo si radi- ca esattamente entro gli universi di linguaggio, le categorie concettuali, i proble- mi, i metodi di verificazione e quelli di falsificazione che un determinato patri- monio tecnico-conoscitivo ha effettivamente elaborato in una determinata fase del suo sviluppo conoscitivo e pragmatico. In questa prospettiva la verità della conoscenza oggettiva non può allora più essere pensata come un “commisurarsi” o come una “corrispondenza” con un oggetto metafisicamente posto al di là del- la nostra stessa esperienza possibile (come ha appunto insegnato Kant) perché, semmai, l’oggettività della nostra conoscenza si configura come un programma di ricerca infinito e sempre aperto in cui la conoscenza si «configura come ‘un commisurarsi dell’attuazione del conoscere alla sua stessa direzione intenziona- le’»53 (Minazzi 2011, 161). Il che ci riporta, in primo luogo, alla più autentica prospettiva socratica, secondo la quale la ricerca non ha mai fine proprio perché la verità coincide con la ricerca della verità. Ma ora questa consapevolezza socratica sul nostro conoscere e la sua autonomia relativa si salda anche con la lezione del primo Husserl che ha scorto proprio la pluralità dei differenti livelli di trascendentalità entro i quali si istituiscono i differenti morfé entro i quali i dati iletici vengono sistematicamente sussunti, creando il mondo oggettivo entro il quale si svolge la nostra stessa vita.

53 F. Minazzi, Suppositio pro significato non ultimato, cit., p. 161.

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Il processo di costituzione del soggetto in Jacques Lacan

Elisabetta Leonetti

«La verità è quel che resiste al sapere» J. Lacan

«Spetta a voi essere lacaniani, se lo vorrete. Per quanto mi riguarda, sono freudiano»1. Nell’ultimo seminario Lacan ribadisce il suo intento, strenuamente difeso e più volte ripetuto: un ritorno a Freud; questo è l’assunto da cui vogliamo partire in queste brevi riflessioni che intendono evidenziare alcuni tratti peculiari del percorso teoretico di questo «genio della psicoanalisi», «che ha saputo aprire nuovi orizzonti alla psicologia del profondo», «un pensatore del disordine, del paradosso, del conflitto» come la sua allieva, Elisabeth Roudinesco, l’ha defini- to, nella sua monumentale biografia2. Questo ritorno allo “spirito” di Freud è un ritorno allo studio della funzione della parola e del significante nel soggetto che li nasconde. Il fondatore della psicoanalisi aveva infatti affermato che ci sono malattie che «parlano»3, com- piendo in tal modo una rivoluzione copernicana che aveva svelato come «il cen- tro vero dell’essere umano non è ormai più nello stesso posto che la tradizione umanista gli assegnava»4. Tale visione emancipava il soggetto «dalla ipoteca del cogito cartesiano che aveva stabilito una equivalenza ontologica tra il pensiero dell’Io e la certezza della sua identità»5. Si ritorna all’invenzione principale di Freud, quella dell’inconscio, che non si identifica più con il campo semantico che la tradizione gli aveva assegnato prima della nascita della psicoanalisi, una forza oscura dell’essere, il luogo dell’irrazionalità o del sottosuolo, per utilizza- re una metafora dostojevskiana, ma che lo pensa come una ragione, artefice di

1 N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV La filosofia contemporanea di Giovanni Forne- ro, Torino, Utet, 1991, p. 419. 2 E. Roudinesco, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un pensiero, Milano, Raffa- ello Cortina Editore, p. 24. 3 R. Armellino, Il concetto di transfert nel testo di Jacques Lacan “Intervento sul tran- sfert” del 1951, http://www.associazionelacanianadinapoli.it/, p. 4. L’autrice scrive inoltre: «La verità di fronte a cui, al contrario, Freud non è indietreggiato, assumendosene la respon- sabilità, è che ci sono malattie che parlano, e di farci intendere la verità di ciò che dicono». 4 N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV La filosofia contemporanea di Giovanni Forne- ro, cit., p. 421. 5 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, Milano, Raffael- lo Cortina Editore, 2012, p. 8.

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tutte quelle manifestazioni della realtà umana che sfuggono al dominio intenzio- nale della coscienza: sogni, sintomi, lapsus, sbadataggini, dimenticanze, motti di spirito. Essi danno alla «sofferenza sintomatica il carattere metaforico di un linguaggio cifrato»6 che può essere decifrato. L’inconscio appunto come luogo privilegiato della parola. Lacan si inserisce in un contesto, quello francese degli anni Trenta, colmo di sollecitazioni. Nel 1932 discute la sua tesi su La psicosi paranoica e frequenta le lezioni di Kojève sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, insieme ad altri intellettuali come G. Bataille, R. Aron e M. Merleau Ponty, che contribuirono a rendere quella stagione culturalmente assai vivace. Dal 1953 tenne dei seminari presso l’ospedale Saint-Anne di Parigi, che si protrassero fino agli anni Sessanta, e fondò la Società francese di Psicoanalisi (SFP). Nel settembre dello stesso anno pronunciò a Roma il suo famoso intervento: Funzione e Campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, nel quale l’inconscio era indagato come linguag- gio simbolico e non più come forma immaginaria e che collegò ufficialmente la teoria lacaniana a quella strutturalista. Richiamato dalla Associazione Psicoana- litica Internazionale, nel 1964 fondò la Scuola Freudiana di Parigi (EFP). Nel 1981, a causa di tensioni interne, sciolse la sua Scuola Freudiana e nello stesso anno morì, il 9 settembre 1981, a Parigi. Il giorno dopo, in una chiesa parigina, il fratello, un monaco benedettino, affermava rendendogli omaggio: «Quest’uomo ha cercato la verità; il cammino che ha aperto per cercarla era la parola»7. Il pensiero di Lacan si articola in tre fasi che esponiamo per sommi capi, per orientare chi si accosti alla indubbia complessità di questo autore. La prima fase è inaugurata da una conferenza del 1953 sul Mito individuale del nevrotico; in essa il tentativo dichiarato è un “ritorno a Freud” e l’attenzione viene posta sul registro dell’Immaginario a cui Lacan si collega elaborando la teoria dello “stadio dello specchio” e commentando prevalentemente l’opera di Freud Intro- duzione al narcisismo. Su questa parte della teoria di Lacan e sulla costituzione del soggetto, attraverso la fase dello specchio, ci soffermeremo in seguito, in maniera più articolata, perché costituisce l’oggetto del nostro interesse e delle nostre riflessioni. Nella seconda fase il registro che prevale è quello Simbolico; la concezione chiave di questo passaggio teorico è la formulazione dell’inconscio strutturato come linguaggio. Il concetto di inconscio è «forgiato sulla traccia di ciò che opera per costituire il soggetto»8 quindi serve a mettere in luce le dinamiche che lo costituiscono. Tra queste ricordiamo i rapporti sociali, traducibili, secondo

6 Id., L’uomo senza inconscio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010, p. X. 7 E. Roudinesco, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un pensiero, cit., p. 35. 8 U. Eco, R. Fedriga, Storia della Filosofia Ottocento e Novecento, Bari, Laterza, 2014, p. 383.

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lo strutturalismo, nel sistema dei segni o in simboli linguistici. Ogni individuo è dunque permeato da una trama impersonale di simboli e di significati che lo vanno costituendo e che egli non padroneggia, perché ne è, al contrario, l’esi- to9. Questo aspetto del pensiero lacaniano lo avvicina a Lévi-Strauss, che parla dell’uomo come il prodotto di un codice simbolico, iscritto nelle strutture della sua psiche. Il sintomo nevrotico, per Lacan, è la prova che non è il soggetto a parlare, quanto il sistema stesso del linguaggio. Il celeberrimo testo della Inter- pretazione dei sogni, che rivelerebbe proprio la grammatica di questo linguag- gio, non sarebbe che un trattato di linguistica: «Ciò è evidente a chiunque si prenda la briga di aprire un’opera di Freud: a qualunque livello, quando compie un’analisi dell’inconscio, Freud fa sempre un’analisi di tipo linguistico. Prima che la nuova linguistica nascesse, Freud l’aveva già inventata»10. Lacan rilegge Freud utilizzando proprio gli strumenti della linguistica strutturale, sostituendo alla “condensazione” ed allo “spostamento”, le due leggi che Freud espone nel VI capitolo della Interpretazione dei sogni, la “metafora” e la “metonimia”. La metafora indica la condensazione di più significati e la metonimia il passaggio da un significante ad un altro significante. L’ordine Simbolico, l’Altro, è proprio inteso come questa infinita catena di rimandi, al di fuori della quale non vi è che dispersione. Nella terza fase l’uomo accede alla dimensione della cultura, al mondo dei significati che gli impone la perdita del godimento o una “mancanza ad essere”. Questo comporta per l’individuo moderno una condizione di rinuncia pulsionale permanente perché ha perso quella dimensione totalizzante, caratteristica del- la condizione intrauterina, in cui non vi era un principio di individuazione, né separazione dalla realtà; l’uomo non gode più, piuttosto desidera. Il Reale che oltrepassa la simbolizzazione, si collega al corpo, alla pulsione, alla ripetitività per la quale il soggetto viene caratterizzato come «sostanza gaudente»11 ma non può essere vissuto, né detto. Questa assenza lascia delle tracce nell’ordine sim- bolico che Lacan chiama “oggetto piccolo-a” che è poi una traccia del desiderio, posto nell’individuo. Il nostro intento è proporre delle brevi riflessioni sulla prima fase del per- corso lacaniano; riteniamo infatti interessante mettere in luce il problema della

9 Abbagnano riporta, a tal proposito, una affermazione significativa di Lacan: «Tutti gli esseri umani partecipano all’universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo costituiscono: ne sono molto più i supporti che gli agenti»; da N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV La filosofia contemporanea di Giovanni Fornero, cit., p. 422. 10 P. Caruso, a cura di, Conversazioni con Lèvi-Strauss, Foucault, Lacan, Milano, Mursia, 1969, p. 163. 11 M. Pesare, Jacques Lacan spiegato dai Massimo Volume, Neviano (Lecce), Musicaos Editore, 2015, formato Kindle, pos. 180.

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costituzione del soggetto. Orientato dal “ritorno a Freud”, accolte le sollecitazio- ni del contesto culturale di riferimento, Lacan presenta in questa fase, la teoria dello “stadio dello specchio” che, di quella costituzione, è passaggio fondamen- tale. Le nostre riflessioni si avvalgono fondamentalmente della magistrale opera di divulgazione del pensiero di Lacan condotta in Italia da Massimo Recalcati, attraverso i suoi testi12. Egli parla apertamente di un neo-esistenzialismo di La- can ed evidenzia come lo sviluppo del pensiero del suo Maestro ruoti intorno al concetto di soggetto, mai ridotto ad una «teoria della vita psichica considerata come vita interiore raccolta attorno al polo dell’Ego»13 e riflette su come sia stato fondamentale, tra gli altri, l’apporto del filosofo J. P. Sartre, per costruire una teoria del soggetto. Lacan dunque, nel riappropriarsi del discorso freudiano, interpreta «la successiva storia della psicoanalisi come deviazionista»14, pole- mizzando soprattutto con le tendenze che emergevano negli Stati Uniti grazie alla Ego-psychology, la psicologia dell’Io, corrente dominante in campo interna- zionale, che avrebbe «tradito la rottura epistemologica di Freud»15. La “Iocrazia” di tale psicoanalisi avrebbe sovvertito il concetto di Io portato avanti da Freud, e questo avrebbe condizionato la pratica psicoanalitica, non più focalizzata sulla «parola del soggetto dell’inconscio, come parola aperta sul desiderio, ma sul rafforzamento dell’Io che deve avvenire a discapito della parola»16. Il soggetto dell’inconscio e la pulsione di morte, la irriducibilità della vita psichica alla coscienza, erano stati i cardini della visione freudiana, che aveva presentato l’Io come una povera cosa, sottoposto «a un triplice servaggio e che quindi pena sot- to le minacce di un triplice pericolo: il pericolo che incombe dal mondo esterno, dalla libido dell’Es e dal rigore del Super-Io»17. La psicologia contestuale a Lacan considerava l’Io come un centro compatto, unitario, una unità sintetica, l’Io penso kantiano che accompagna tutte le mie percezioni, «il fondamento ultimo dell’identità soggettiva»18, mentre, l’Io laca-

12 Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti italiani, membro analista dell’Associazio- ne lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di Ricerca di psicoanalisi applicata) insegna presso l’Università di Pavia. Ha scritto diverse pubblicazioni tra cui L’uo- mo senza inconscio (2010) per i tipi della Casa Editrice di Torino Raffaello Cortina Editore; Ritratti del desiderio (2012), per la medesima casa editrice ed il testo che per le nostre rifles- sioni è stato determinante, intitolato Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, Torino, Raffaello Cortina Editore, 2012. 13 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., p. 1. 14 S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, p. 378. 15 N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV La filosofia contemporanea, cit., p. 420. 16 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., p. 33. 17 Ivi, p. 20. 18 Ivi, p. 16.

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niano non è un oggetto compatto, ma piuttosto il risultato di una stratificazione, che non evidenzia un centro. Lacan ricorre ad una immagine: «L’Io è un oggetto fatto come una cipolla, lo si potrebbe pelare e si troverebbero tutte le identifi- cazioni successive che l’hanno costituito»19. E la “stoffa” di questo Io sarebbe costituita proprio dalla successione delle identificazioni. Il ritorno a Freud viene tuttavia integrato dall’evoluzione delle scienze uma- ne e degli strumenti che il panorama culturale mette a disposizione di Lacan. Tra questi ultimi ha molta importanza la rilettura di Hegel da parte di Kojève, l’antropologia di Lévi-Strauss ma soprattutto, negli anni Cinquanta, lo “struttu- ralismo”, una nuova metodologia di indagine delle scienze umane in cui un dato campo di conoscenza è osservato attraverso metodi che si rifanno al concetto di struttura20. «Jacques Lacan è stato il più grande pensatore del soggetto di tutto il Novecento»21 afferma Recalcati, nel testo fondamentale per le nostre riflessioni, dal titolo Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione e, d’altra parte, l’importanza di questa riflessione è stata evidenziata dallo stesso Lacan: «Qualcuno mi ha domandato: qual è il legame tra i suoi Scritti? Ho risposto in questi termini: ciò che mi è parso fungere da legame fra i miei Scritti è che ciò che chiamiamo identità, ognuno di noi fa affidamento per applicarla a se stesso. E questo dallo stadio dello specchio in avanti. Per esprimere la cosa in modo più chiaro, il punto di partenza che resta un legame fino alla fine della raccolta (…) si esprime nella seguente formula che viene in mente a tutti: Io sono Io (moi, je suis moi) (…). Questa è la sola questione importante»22. Nella prima fase del suo pensiero dunque, Lacan rimarca la differenza tra l’Io e il soggetto dell’inconscio che «non è tanto profondo, quanto piuttosto inac- cessibile all’approfondimento cosciente, c’è chi parla: un soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto»23. L’ipoteca del cogito cartesiano, che stabiliva un parallelo tra pensiero dell’Io e certezza della sua identità, viene eliminata da Freud per il quale non vi è pos- sibilità per il pensiero di identificarsi esaustivamente con ciò che crede di essere.

19 Ivi, p. 17. 20 S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, cit., p. 376. A tal proposito l’autrice scrive, continuando il passo citato: «In contrasto con l’umanesimo, esso afferma la priorità del si- stema sull’uomo: le strutture del linguaggio, della società, della organizzazione politica Lo strutturalismo si rivela anti-umanista in quanto esso afferma che le strutture del linguaggio, della società, della organizzazione economica e politica, precedono e determinano le scelte dell’individuo». 21 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., p. XV. 22 Ivi, p. 10. 23 Ivi, p. 6.

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Anzi Lacan sottolinea che Freud ha evidenziato una cesura impossibile da oltre- passare tra pensiero ed essere per cui: «Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»24. E questo comporta che: «Una scissione inaudita per la ragione filosofica classica attraversa il soggetto: non sono là dove penso perché il mio essere trascende costantemente il mio pen- siero e posso accedere al pensiero – dell’inconscio – solo se sospendo l’istan- za di padronanza dell’Io, solo se oltrepasso l’idea del pensiero come proprietà dell’Io»25. L’Io come istanza autonoma, intesa come funzione deliberativa dalla psico- analisi postfreudiana, viene scardinata da Lacan il quale afferma la strutturale differenza tra Io e soggetto che porterà, come conseguenza, ad una clinica ed ad una psicoanalisi che non sarà una “ortopedia dell’Io”, la ricerca di un’alleanza con l’Io per “colonizzare” i territori, ignoti e oscuri, dell’Es, perché l’Io non ha più contatto (“non ne sa nulla”) con il soggetto dell’inconscio in quanto soggetto del desiderio. Tale decostruzione lacaniana si avvale di due elaborazioni teoriche a lui contestuali: la lettura della Fenomenologia di Hegel e della dialettica del riconoscimento servo-padrone, portata avanti da Kojève, di cui, come abbiamo detto, Lacan frequentò le lezioni e, dall’altro lato, la fenomenologia husserliana e la teoria della intenzionalità della coscienza che porterà alla analitica esisten- ziale di Essere e Tempo di Heidegger e alla ontologia fenomenologica di Sartre in L’Essere e il Nulla. L’origine dell’autocoscienza dalla dialettica del riconoscimento, nella Feno- menologia dello Spirito di Hegel, dialettica caratterizzata dal conflitto, l’ inten- zionalità della coscienza di Husserl, il Dasein, e l’esistenza come “essere-nel- mondo” di Heidegger, sono un percorso che presenta un obiettivo unitario di «critica radicale al primato solipsistico dell’Io»26. Sartre, ne L’Essere e il Nulla, ribadisce che Hegel ha fatto una osservazione importante: «Infatti l’apparizione di altri non è più indispensabile per la costi- tuzione del mondo e del mio “ego” empirico, ma per l’esistenza stessa della mia coscienza come coscienza di sé»27, e aggiunge che Hegel spiana il terreno della relazione reciproca in quanto solo nell’opporsi all’altro ognuno è «assolu- tamente per sé»28. Inoltre «Il problema dell’altro non si pone a partire dal cogito, perché è piuttosto l’esistenza dell’altro che rende possibile il cogito, come il

24 Ivi, p. 8. Aggiunge Massimo Recalcati nella stessa pagina «È quella che Paul Ricoeur ha definito come epochè rovesciata di Freud che anziché ridurre l’essere alla coscienza – come avviene nella lezione di Husserl – riduce l’essere stesso della coscienza». 25 Ivi, p. 8. 26 Ivi, p. 20. 27 J. P. Sartre, L’Essere e il nulla, Firenze, il Saggiatore, 1965, p. 302. 28 Ivi, p. 302.

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momento astratto in cui l’io si coglie come oggetto»29. Il filosofo francese scrive: «Ma l’altro mi interessa solo in quanto è un altro Io, un Io-oggetto per Me, e inversamente in quanto riflette il mio Io, in quanto io sono oggetto per lui. Poi- ché io non posso essere oggetto per me, se non laggiù, nell’altro, devo ottenere dall’altro il riconoscimento del mio essere»30. Sartre condivide dunque l’intui- zione di Hegel, che intende far dipendere il soggetto dall’altro, nel suo essere. Ciascuno è un essere per sé «che non è per sé, se non per mezzo di un altro»31. E si consideri che grazie ad Hegel anche il concetto freudiano di desiderio, di libido entra nella dialettica del riconoscimento: il desiderio non è tanto desiderio di qualcosa di preciso; è innanzitutto desiderio del desiderio dell’altro, desiderio di ciò che l’altro desidera, desiderio di essere desiderato dall’altro, di essere riconosciuto dall’altro. L’impronta di Sartre e le riflessioni espresse nel saggio del 1938,La trascen- denza dell’Ego, sono lette attentamente da Lacan, secondo Massimo Recalcati. Soprattutto quando viene affermato che «L’Ego non è proprietario della coscien- za, ma ne è l’oggetto»32 e quindi non coinciderebbe con la vita del soggetto. Nel saggio sartriano viene inoltre ripreso e radicalizzato il concetto della intenzio- nalità della coscienza di Husserl, evidenziandone il carattere di «vita irriflessa o pre-riflessiva del cogito»33 in cui la coscienza non è costituita da alcun essere perché si manifesta come “coscienza di…”, strutturalmente rivolta verso «aper- ta, esplosa, in costante trascendimento»34. La frase di Rimbaud Je est an autre, che esprime questo continuo trascendimento dell’essere, viene mutuata da Sartre e sarà poi utilizzata dal Nostro. La prima fase e la relativa complessa riflessione sulla costituzione del sog- getto di Lacan, parte da una «meditazione profonda sul gesto di Narciso»35, per- ché proprio la teoria del narcisismo di Freud è lo snodo della costituzione della identità soggettiva. Per il padre della psicoanalisi essa è una sorta di teoria del confine, del confine tra l’interno e l’esterno e del confine che attraversa l’interno e lo articola in diverse parti. Il narcisismo, originato dal rapporto che il soggetto ha con l’immagine ideale di se stesso, introduce una teoria della identificazio- ne36 che sarà articolata successivamente da Lacan nella nota teoria dello stadio

29 Ivi, p. 302. 30 Ivi, p. 303. 31 Ivi, p. 304. 32 Ivi, p. 3. 33 Ivi, p. 3. 34 Ivi, p. 4. 35 Ivi, p. 10. 36 M. Recalcati scrive nel testo Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione a p. 11: «Si tratta di un programma teorico preciso: ridare alla teoria, cruciale in Freud, del narcisismo, la sua posizione dominante nella funzione dell’Io».

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dello specchio. Questa azione identificatoria dell’immagine, è definita «azione morfogena»37 perché rivela come «un Soggetto sia l’effetto determinato dall’a- zione inconscia dell’Imago e quanto quell’Io che crede di essere un “Io” non sia altro che il prodotto di una serie di immagini identificatorie che lo costituiscono come altro da se stesso»38. In questa fase opera il registro dell’Immaginario e in essa troviamo dunque il potere alienante dell’immagine “costituente” il sogget- to: l’Io si formerebbe per immagini, del proprio corpo, dei genitori, degli altri, l’Io sembrerebbe quasi «aspirato dall’immagine»39. L’Io di ciascuno di noi si caratterizza per l’identificazione con una immagine di sé ideale; a questo processo viene attribuito il nome di “stadio dello specchio”. Se si osserva un bambino di un’età compresa tra i sei mesi ed i diciotto, po- sto di fronte ad uno specchio, noteremo che il bambino sorride, è contento nel vedere la propria immagine riflessa nello specchio. Chiediamoci il motivo di tale gioia; il bambino da un lato si trova in una situazione di impotenza motrice, perché non è ancora del tutto in grado di coordinare i propri movimenti, è un corpo-in-frammenti (corp morcélé), in una situazione di incapacità motoria, che provoca frustrazione. Dall’altra parte egli è in grado di anticipare, attraverso la visione, l’unità del suo corpo, guardandolo appunto riflesso nello specchio. Il bambino vede se stesso come “uno”, come una unità di cui è lui il padrone, in una immagine idealizzata, unificata, che lo specchio gli rimanda, che suscita in lui gioia e nella quale si identifica. Questa operazione di riconoscimento si col- lega alle ricerche svolte dalla Gestalt-theorie per cui la “forma” di un qualsiasi evento mentale non è la somma degli elementi che la costituiscono, come affer- mava la psicologia associazionistica classica, ma assume una qualità peculiare che non può essere propria delle caratteristiche dei singoli elementi. Proprio questo essere un di più rispetto alle singole parti esercita una sorta di fascinazione sul soggetto. Si consideri inoltre che proprio nel momento in cui il soggetto raggiunge la coscienza di sé, raggiunge la consapevolezza di essere un Io separato dal mondo che lo circonda e dagli altri oggetti, un mondo appunto distinto dall’Io (moi). Con l’Io nasce quindi la coscienza dell’Io che a sua volta origina l’autocoscienza. L’Io è l’immagine riflessa dello specchio in cui si proietta la stessa coscienza. Questa è dunque l’immagine speculare e ideale del corpo è «la matrice simboli- ca, dove l’Io si precipita in una forma primordiale, prima che non si oggettivizzi nella dialettica dell’identificazione nell’Altro»40.

37 Ivi, p. 13. 38 Ivi, p. 15. 39 Ivi, p. 18. 40 D. Tarizzo, Introduzione a Lacan, Bari, Edizioni Laterza, 2003, formato Kindle, pos. 118.

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La dialettica che si viene ad instaurare tra il corpo in frammenti che si trova al di qua dello specchio e l’immagine riflessa al di là dello specchio origina e struttura ogni possibile rapporto tra il soggetto ed i suoi simili. Lo stadio dello specchio dunque è l’origine di ogni rapporto intersoggettivo mediante cui il sog- getto (je) si identifica come Io moi( ). La teorizzazione dello stadio dello specchio riprenderebbe, secondo Recal- cati, l’evoluzione dell’autocoscienza che Hegel aveva presentato nella sua Fe- nomenologia dello Spirito, in cui la costituzione del soggetto avviene grazie alla mediazione dell’Altro. L’identità non si costituisce per una innata inclinazione ma mediante «la fun- zione simbolica del riconoscimento dell’Altro»41. Per una vita che risulti autenti- camente umana il soggetto si deve relazionare con l’Altro anzi «con il desiderio dell’Altro, con l’Altro in quanto luogo che può riconoscere la domanda di rico- noscimento del soggetto»42 . Questa dialettica del riconoscimento viene realiz- zata appunto, nello stadio dello specchio, nel rapporto che il soggetto sperimenta con la propria immagine riflessa. Il bambino di fronte all’immagine dello specchio che riconosce come pro- pria, esprime giubilo perché tale immagine gli offre una padronanza sul corpo che percepiva frammentato. Prima di questo sdoppiamento non esisteva un Io. In questo iato, tra la esistenza al di qua dello specchio, dove la vita è informe, dove il corpo è disgregato, e la vita al di là dello specchio, dove viene acquisita una forma che mi rappresenta ma che non posso vivere come la mia perché è ideale, si incunea il potere di fascinazione dell’immagine «il soggetto trova nella sua immagine-oggetto una rappresentazione narcisistica di sé che compen- sa quello stato reale di discordia primordiale che marca originariamente la vita come impreparata a sopportare la sua stessa esistenza»43. E tale sintesi immaginaria assume la forma di un orizzonte di maturazione perché l’essere umano non vede la sua forma realizzata, totale e non ha «il mi- raggio di se stesso se non fuori di se stesso»44. Ma l’accoglimento della dialettica del riconoscimento, secondo la declina- zione di Hegel ne La Fenomenologia dello Spirito viene integrata da Lacan con una definizione del soggetto caratteristica della filosofia dell’esistenza che sem- bra introdurre un motivo tragico. Permangono infatti delle lacerazioni che si accentuano nella definizione di una struttura radicalmente frammentata del soggetto, che è un corpo in fram- menti appunto. Come nel mito di Narciso, la fascinazione prodotta dall’imma-

41 Ivi, p. 25. 42 Ivi, p. 26. 43 Ivi, p. 28. 44 Ivi, p. 28.

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gine si realizzerà come vocazione suicidaria, e proprio «in questi termini -nei termini della passione suicidaria che muove il gesto di Narciso- che Lacan in- terpreta inizialmente la pulsione di morte di Freud»45. L’immagine morfogena è accecante per l’Io in quanto nel momento stesso in cui io la osservo essa stessa mi guarda producendo contemporaneamente un effetto di fascinazione ed un effetto di divisione, dal momento che resta esterna a me stessa e cieca, perché non può vedersi vedere: «L’immagine non è mia eppure mi guarda, cioè, come ha mostrato Sartre in pagine insuperabili, mi svuota del mio stesso essere, mi metamorfosizza, mi rende oggetto, mi costituisce come fissato a quell’oggetto che sono»46. L’immagine dello specchio insomma mi spossessa del mio essere mi fa essere “derubato del mondo”, come affermava Sartre. Lacan affermerà che il soggetto guardato dalla sua immagine diventa il soggetto ridotto al suo essere soggetto piccolo. In conclusione da un lato lo stadio dello specchio permette al soggetto di costituirsi come Io, realizzando la costruzione della sua identità ma proprio tale costruzione è la fonte di una dimensione tragica del soggetto che si vive come soggetto alienato, diviso, perché l’immagine lo costituisce ma lo separa, rappre- sentandolo in altro da sé. Senso dell’identità e alienazione irreversibile sono le due facce della dialettica tra un soggetto e l’immagine ideale a cui mai potrà ar- rivare. Il registro dell’Immaginario si caratterizza per questa significazione mor- tale, che riprende la pulsione di morte di Freud, per cui l’immagine è morfogena per l’identità del soggetto e lo aliena irreversibilmente da sé in una immagine «sempre sottratta, marca di una lacerazione non rimarginabile»47, che originerà la scrittura di Lacan del soggetto barrato. In questa incrinatura, Recalcati intra- vede anche la categoria del Reale che emerge proprio in questo iato che divide il soggetto dalla sua rappresentazione idealizzata nella «spaccatura che impedisce al soggetto di coincidere con l’immagine narcisistica di se stesso»48. E questo spiega la polemica di Lacan, ripresa precedentemente, contro la Ie- rocrazia della psicoanalisi, che vuole operare una ortopedia dell’Io ripristinando l’Ego come istanza che governa. Al contrario il Nostro afferma che «la follia più grande per l’uomo, il sintomo umano per eccellenza è quello di credersi un Io»49. L’Io non è il luogo di una istanza che governa, non è «il cavaliere che go- verna l’animale pulsionale»50, con una immagine che riprende Platone, non può

45 Ivi, p. 29. 46 Ivi, p. 30. 47 Ivi, p. 31. 48 Ivi, p. 33. 49 Ivi, p. 35. 50 Ivi, p. 35.

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essere una «passione identitaria»51. È follia piuttosto il tentativo di ricostrui- re la lacerazione introdotta dallo specchio per restituire un Io indiviso, è follia quella di pensare un Io non frammentato quando l’Io è costitutivamente alie- nato. È follia pensare ad un Io autonomo, indipendente: «Il vero folle è colui che rifiuta la divisione e si pone come un Uno»52. Se l’Io è un «mero sintomo dell’inconscio»53 è follia pensare il soggetto come unitario, è follia credere di essere un Io. Noi pensiamo di poter accedere al significato dei nostri contenuti mentali che invece manifestano, come in un sintomo, in maniera criptata, il mes- saggio dell’inconscio di cui possiamo osservare solo i significanti (sintomi, lap- sus, sogni, dimenticanze, motti di spirito). Noi crediamo di vivere ed invece sia- mo vissuti, crediamo di parlare ed invece «siamo parlati»54. Se l’Io è un sintomo, il centro del soggetto deve essere cercato altrove, in un luogo diverso dal luogo analizzabile del discorso dell’Io. Qualsiasi tentativo di considerare l’Io come un soggetto autonomo, in grado di guidare se stesso, di essere autosufficiente, non tiene conto della lezione di Freud per il quale invece l’Io sembra essere il luogo di un’alterità, di un insieme di tratti che lo identificano senza tuttavia ingabbiar- lo. L’Io non può rappresentare, in sintesi, la soggettività perché il suo vero centro «appare attraversato da un’alterità che lo decentra costitutivamente»55. La verità parla solo dove il soggetto scompare, posso avvicinarmi ad essa solo «attraverso il cedimento dell’illusione del governo razionale e autocritico di me stesso»56 e, aggiungerà Lacan, la verità parla solo dove soffre, cioè nel sintomo57. In conclusione è necessario, secondo Lacan, pensare il soggetto in modo nuovo, a partire dall’Altro, cioè dalla sua «dipendenza significante»58 e definire l’inconscio come ciò che permette al soggetto di costituirsi «come il luogo dove si depositano le tracce dell’incidenza del significante»59. L’alternativa è l’esposi- zione «al rischio di estinzione del soggetto dell’inconscio»60 che conduce ad una clinica in cui il confronto è con «Soggetti spaesati, alla deriva, vuoti, privi di punti di riferimento ideali, ingessati in identificazioni conformistiche, indifferenti, chiusi monadicamente nelle loro nicchie narcisistiche, prigionieri delle loro pratiche di godimento dove l’Altro è

51 Ivi, p. 35. 52 Ivi, p. 35. 53 M. Pesare, Jacques Lacan spiegato dai Massimo Volume, cit., pos. 239. 54 D. Tarizzi, Introduzione a Lacan, cit., pos. 6. 55 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., p. 7. 56 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 4. 57 «La verità in psicoanalisi è il sintomo. Là dove c’è un sintomo c’è una verità che si fa strada» in P. Caruso, a cura di, Conversazioni con Lèvi-Strauss, Foucault, Lacan, cit., p. 170. 58 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., p. 340. 59 Ivi, p. 341. 60 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 3.

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assente; legami liquidi, sbriciolati dalla potenza idolatrica dell’oggetto di godi- mento offerto illimitatamente dal sistema globale del mercato, sempre a dispo- sizione, contiguo, adesivo, incalzante: legami morti, privi di desiderio, fragili, inconsistenti, legami che riducono la dimensione dell’Altro alla riproduzione monotona dello Stesso»61. Riteniamo di dover rimarcare che tale concezione lacaniana è l’esito di una integrazione della prospettiva hegeliana con le filosofie dell’esistenza62 e del recupero di una delle caratteristiche peculiari dell’inconscio freudiano, legata all’esperienza del desiderio. Desiderio che non è domabile, non è governabile, che si manifesta come «un movimento insistente di apertura verso l’Altro»63. Proprio questa esperienza di indistruttibilità del desiderio rigetta ogni idea solip- sistica del sistema psichico perché l’esperienza del desiderio inconscio è sempre una «invocazione dell’alterità come radice ultima dell’inconscio»64. Si può in- fine comprendere, crediamo, come non ci si possa esimere dalla frequentazione della complessità di questo autore perché «egli ha saputo mettere il vascello del suo pensiero in un’audace avanguardia; discussa, ma che non può essere ignora- ta, né trascurata da chi attualmente vuole parlare di filosofia dell’uomo»65.

61 Ivi, p. X. 62 M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., scrive a pag. 336 che Lacan adotta la prospettiva hegeliana ma, pur acquisendo la dialettica del rico- noscimento, «introduce un motivo tragico che spezza il circolo dialettico e ci introduce verso una nozione di soggetto più vicina a quella delle filosofie dell’esistenza che non a quella della filosofia dialettica». 63 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 5. 64 Ivi, p. 5. 65 N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV La filosofia contemporanea, cit., p. 419.

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Massimo Stevanella

«Niente accade in contrasto con la Natura» B. Spinoza

Introduzione

Alla fine del XIX secolo la maggior parte degli scienziati appariva convinta di essere vicino alla comprensione dei principi fondamentali della Natura. La meccanica newtoniana e la teoria maxwelliana sull’elettromagnetismo appari- vano in grado di spiegare tutta la realtà, dal movimento dei corpi nello spazio al comportamento delle cariche elettriche, e l’intero universo sembrava un grande “meccanismo” dal comportamento chiaro e deterministico. Eclatanti successi scientifici sembravano confermare questa impostazione: ad esempio, nel 1846 l’astronomo tedesco J. Galle aveva scoperto un nuovo pianeta del nostro sistema solare, Nettuno, utilizzando le previsioni e i calcoli di U. Le Verrier. Nel 1864 J.C. Maxwell aveva previsto l’esistenza delle onde elettromagnetiche, poi effet- tivamente rilevate da H. Hertz nel 1882. Insomma, la gran parte dei problemi scientifici sembravano risolti o in via di risoluzione e i filosofi del positivismo proponevano di estendere i procedimenti della scienza a tutti i campi del sapere. La comunità scientifica appariva sul punto di realizzare il grande ideale di P.S. Laplace, secondo cui se fosse stato possibile, in un dato istante, conoscere tutte le forze agenti in natura e la posizione di tutti i corpi che in essa si muovevano, allora avremmo potuto calcolare precisamente tutta l’evoluzione dell’universo da quel momento in poi, indefinitamente! In altri termini, le leggi della meccani- ca avrebbero potuto estendersi a tutti i fenomeni fisici, per interpretarli e preve- derli in modo assolutamente rigoroso, fino a trasformare gli enigmi della natura in semplici problemi di calcolo1. Tuttavia, a uno sguardo più attento non poteva sfuggire che all’interno del paradigma meccanicistico si stavano profilando difficoltà e contraddizioni diffi- cilmente razionalizzabili in ambito classico. Le questioni più rilevanti, in questo senso, provenivano dagli studi sui fenomeni termici, dalla termodinamica, dove

1 In un discorso del 1900 alla Royal Society di Londra, W. Thomson (Lord Kelvin) sosten- ne che la fisica ormai avevadimostrato tutto il dimostrabile, poteva solo misurare i fenomeni con più precisione!

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già S. Carnot e J. Fourier avevano messo in luce l’esistenza di comportamen- ti sorprendenti del calore: in particolare, il secondo principio della termodina- mica formulato da R. Clausius nel 1854 («È impossibile operare una qualsiasi trasformazione il cui unico risultato sia il trasferimento di energia termica da un corpo a temperatura inferiore ad un corpo a temperatura superiore») ap- pariva in netta contraddizione con la meccanica classica in quanto affermava l’esistenza di fenomeni irreversibili, mentre il concetto stesso di irreversibilità non rientrava affatto in una teoria meccanica classica. D’altro canto, anche gli studi sui fenomeni elettrici e magnetici creavano non poche difficoltà all’impostazione classica: gli studi di H. Oersted avevano mo- strato l’esistenza di una forza (elettromagnetica) di natura completamente diver- sa da quella meccanica; Maxwell poi, riprendendo gli studi di H. Oersted e M. Faraday, aveva elaborato una serie di equazioni che di fatto unificavano le teorie dell’elettricità, del magnetismo e della luce all’interno della nozione di campo elettromagnetico: la luce, in particolare, appariva come un fenomeno elettro- magnetico dalle caratteristiche ondulatorie. Tuttavia, le equazioni di Maxwell, legando la velocità della luce a costanti assolute, identiche per ogni osservatore, non si accordavano con la legge di composizione classica delle velocità: «Considerando infatti la misura della velocità della luce da parte di un osservato- re solidale alla sorgente luminosa e da parte di un osservatore in moto rispetto ad essa, utilizzando la legge di composizione galileiana delle velocità si perviene a due valori diversi, in accordo con la concezione secondo la quale la misura della velocità è relativa all’osservatore»2. Al fine di ovviare a tali difficoltà, molti fisici proposero di fondare la validi- tà della teoria elettromagnetica di Maxwell assumendo l’etere come sistema di riferimento assoluto: «A tutti i sistemi di riferimento in moto relativo uniforme rispetto all’etere, com- preso il riferimento terrestre, dovevano essere applicate le trasformazioni di Gali- leo per ottenere la descrizione corretta dei fenomeni elettromagnetici»3. In base al principio di relatività galileiana, lo stato di quiete e di moto di un corpo è sempre relativo al sistema di riferimento. Ma sarebbe stato possibile determinare il moto della Terra misurando gli effetti di tale moto sui fenome- ni luminosi, ovvero misurando le variazioni della velocità dei raggi luminosi dovute al moto terrestre? In questa direzione, nel 1887 A. Michelson e E. Mor- ley, attraverso un famoso esperimento, avevano ottenuto dati sperimentali che evidenziavano l’inesistenza di un “vento d’etere” capace di influenzare il moto

2 M. Macchioro, Relatività: dalle origini alle onde gravitazionali, in Liceo Scientifico “G. Banzi Bazoli” Lecce, «Scuola e Ricerca», N.S., II, 2016, p. 189. 3 Ivi, p. 189.

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della luce, quindi la propagazione della luce nel vuoto appariva costante e non dipendente dai sistemi di riferimento. Pertanto, per i fenomeni luminosi non va- leva la legge di composizione delle velocità di Galilei: in qualunque direzione si propagasse la luce rispetto al moto della Terra, la sua velocità rimaneva costante! Sarà A. Einstein a rielaborare tale concetto e a sistematizzarlo all’interno della teoria della relatività ristretta del 1905. Dimostrando il motivo profondo per cui la velocità della luce deve essere ritenuta come una costante assoluta dei feno- meni fisici e riaffermando un criterio di relatività in netta contraddizione con la concezione classica di spazio e tempo, Einstein sconvolse le fondamenta stesse della fisica classica newtoniana: l’idea di uno spazio e di un tempo assoluti en- trava in una crisi irreversibile. Sul finire dell’Ottocento, per spiegare l’interazione fra materia e radiazio- ne elettromagnetica, M. Planck aveva introdotto un concetto incomprensibile all’interno della prospettiva classica: l’energia si irradiava mediante quantità di- screte, i quanti di energia. In effetti, i suoi studi concernenti l’emissione della luce da parte di un corpo incandescente (corpo nero) lo avevano indotto, al fine di rendere esplicabili i dati sperimentali, a ipotizzare che gli atomi eccitati potes- sero emettere energia in maniera discontinua, ossia sotto forma di “pacchetti di energia” che definì “quanti”, ponendo così le fondamenta della futurameccanica quantistica. Tra l’altro, la teoria quantistica di Planck permise ad Einstein di risolvere un problema classicamente insolubile: l’effetto fotoelettrico, del quale accenneremo più sotto. Un importante stimolo verso il successo della fisica quantistica a livello di fenomeni microscopici arrivò dalle diverse teorie sulla struttura dell’atomo: sul finire dell’Ottocento J. Thomson, ad esempio, aveva dimostrato con - chiarez za che l’atomo non rappresentava il costituente elementare della materia, ma appariva, invece, come una struttura complessa di particelle subatomiche più semplici4. Le ulteriori ricerche sull’atomo e sulla sua modellizzazione conferma- rono l’incapacità della fisica classica di operare su scala atomica e subatomica, facendo emergere la necessità di un paradigma nuovo, il paradigma quantistico.

Il paradigma quantistico

Quando si parla di Meccanica quantistica ci si riferisce alla teoria fisica che, insieme alla Relatività generale, costituisce le fondamenta della fisica moderna. In particolare, la Meccanica quantistica appare incentrata sulla necessità di spie-

4 Gli studi di J. Thomson saranno brillantemente approfonditi dal suo allievo più impor- tante: E. Rutherford.

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gare le caratteristiche fondamentali della materia e della radiazione mediante lo studio delle loro interazioni a livello atomico e subatomico. In effetti, a livello microscopico la fisica classica sembra cedere il passo alla fisica quantistica, la quale risulta estremamente più efficace nel descrivere in termini scientificamen- te rigorosi i sorprendenti fenomeni che avvengono nel profondo della materia. Fino alla fine del XIX secolo la scienza nel suo complesso appariva basata su un’idea essenziale e intimamente connessa al concetto stesso di scienza, fin dalle sue origini greche: la natura, fondamentalmente, era governata da leggi rigorose e deterministiche, con valore universale. La scienza, pertanto, dove- va necessariamente puntare sull’obiettivo di ritrovare il determinismo insito nei fenomeni naturali, pur nella “complessità”, talvolta estrema, delle dinamiche fisico-naturali. Secondo tale prospettiva, le teorie fisiche dovevano essere conce- pite come schemi fisico-matematici cheinerivano al mondo: la scienza, per così dire, doveva limitarsi alla scoperta di tali schemi, nella forma di teorie e leggi scientifiche che governavanooggettivamente la natura stessa. La Meccanica quantistica, nel corso del Novecento, attraverso l’analisi e lo studio sempre più profondo dell’atomo e delle particelle subatomiche, ha reso molto più problematico (per certi versi impossibile!) questo determinismo e que- sta idea della natura come un cosmo ordinato, che erano rimasti saldi per secoli (e che ancora permeavano buona parte della fisica “classica” di fine Ottocento), introducendo nel cuore della fisica l’indeterminismo e la probabilità: gli oggetti di cui parla la fisica dei quanti non sembrano affatto governati da leggi rigorose e deterministiche! L’elaborazione della nuova fisica quantistica è avvenuta in stretto riferimento con i progressi delle ricerche sull’atomo ad opera di scienziati e fisici di enorme livello, come M. Planck, A. Einstein, N. Bohr, L. de Broglie, P. Dirac, E. Fermi, ecc., solo per citare i più noti. D’altro canto, occorre tenere presente che, ancora alla fine dell’Ottocento, molti scienziati, anche piuttosto importanti come E. Mach, consideravano l’esistenza degli atomi più una mera ipotesi utile per fini pratici di calcolo che una realtà oggettiva e comprovata. Tut- tavia, in circa un quindicennio (tra il 1895 e il 1910), tutto cambiò: i fisici, grazie a numerosi dati sperimentali, si resero progressivamente conto che la materia era realmente discontinua, “discreta”, ossia composta di atomi; e, come se non bastasse, gli atomi erano, a loro volta, costituiti da particelle più piccole, subato- miche, che presentavano caratteristiche inaspettate e sorprendenti. La crisi della fisica classica e l’affermazione del paradigma quantistico non fu soltanto un mutamento teorico; anzi, esso fu imposto da una serie massiccia di nuovi dati sperimentali provenienti dalle ricerche sugli spettri degli elementi e sui raggi catodici, dalla scoperta dei raggi x e della radiazione naturale, dagli studi sull’interazione tra radiazioni e atomi e sull’effetto fotoelettrico, ecc. Tutto ciò spinse gli scienziati a riconsiderare il concetto stesso di materia alla luce della teoria atomica, che presupponeva altresì particelle subatomiche, quali elettroni,

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protoni, neutroni. Occorreva pertanto pensare a un modello di atomo che rappre- sentasse in modo coerente questi elementi e, soprattutto, ne spiegasse le regole di comportamento. Nei primi anni del Novecento furono proposte diverse tipologie di modello atomico (si pensi a quello di J. Thomson o a quello di E. Rutherford) che cercavano di rappresentare e analizzare il mondo atomico senza contraddire i “dogmi” della Meccanica classica. Ciononostante andarono incontro a numerose difficoltà, come il modello di Rutherford, che paragonava l’atomo a un sistema planetario con gli elettroni ruotanti molto lontano dal nucleo, ma non riusciva a spiegare perché l’elettrone, perdendo energia elettromagnetica, non collassasse nel nucleo stesso. Se l’atomo risultava prevalentemente “vuoto”, come lasciava- no intendere gli esperimenti di Rutherford stesso, allora la naturale stabilità della materia appariva sostanzialmente inesplicabile. In effetti, il modello di Rutherford appariva incompatibile con le leggi della fisica classica: un elettrone che si muo- vesse su orbite circolari, emettendo energia avrebbe dovuto collassare nel nucleo (con un movimento a spirale) in un tempo molto breve (circa 10–11 secondi). In altri termini, tale modello appariva in contraddizione con le leggi dell’elettromagneti- smo classico, benché sostenuto da evidenze sperimentali. Nel 1913 N. Bohr elaborò un nuovo modello atomico che superava diffi- coltà di questo genere, ma che lo costrinse ad abbandonare il paradigma clas- sico: all’interno dell’atomo di Bohr gli elettroni non erano governati da tutte le leggi della Meccanica classica. Innanzi tutto l’elettrone non poteva occupare tutte le orbite possibili, o livelli energetici, secondo la prospettiva classica, ma solo quelle “permesse” dette orbite stazionarie. L’elettrone poi emetteva radia- zione elettromagnetica (luce) solo quando passava da un’orbita all’altra e non quando rimaneva su di un’orbita stazionaria (come prevedevano le equazioni di Maxwell), altrimenti, perdendo continuamente energia, il modello sarebbe risultato instabile e, infine, avrebbe collassato. Un’altra importante caratteristica dell’atomo di Bohr è che il passaggio da un’orbita a un’altra avviene secondo una regola di sostanziale discontinuità: non esistono orbite intermedie, l’elettrone scompare da un’orbita e riappare in un’altra, senza stadi intermedi. Pertanto, in accordo con Planck, l’energia degli elettroni varia in modo discontinuo, per “salti quantici”. L’idea della quantizzazione dell’energia era stata introdotta proprio da Planck nel 1900 a proposito dell’interazione fra la materia e la radiazione elettromagne- tica (esperimento del corpo nero), stabilendo che materia e radiazione potessero scambiare energia solo per “pacchetti discreti”, multipli interi di un’entità ele- mentare dipendente dalla frequenza della radiazione (ν) e da una costante picco- la ma finita (h). Questa entità elementare costituiva il quanto di energia E = hν, sicché i valori di energia permessi obbedivano alla legge En = nhν, con n = 1, 2, 3, … L’idea del quanto di energia, come vedremo, sarà poi ripresa e rielaborata da Einstein nel 1905 mediante gli studi sull’effetto fotoelettrico.

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Tradizionalmente, scienziati e filosofi avevano guardato alla natura e ai suoi processi in un’ottica di continuità, secondo il principio antico per cui “la natura non fa salti”. Tale principio, tuttavia, veniva evidentemente trasgredito dalla fi- sica atomica di Bohr, nella quale l’elettrone si comportava in modo discontinuo e sorprendente mediante repentini “salti quantici”. Cionondimeno, l’atomo di Bohr rendeva conto di numerosi fenomeni fisici (quelli legati alla spettrosco- pia, per esempio) che altrimenti, nella prospettiva classica, sarebbero rimasti inesplicabili. In effetti, già Planck si era occupato di analizzare gli spettri delle diverse sostanze. Lo “spettro” indica l’insieme di colori in cui si scompone la luce emessa da una certa sostanza: il colore evidenzia la frequenza della luce, in particolare delle cariche elettriche che danno luogo al fenomeno luminoso, ossia gli elettroni che si muovono intorno al nucleo degli atomi. In base alla Meccani- ca classica, un elettrone poteva ruotare intorno al nucleo a qualunque velocità e quindi emettere qualunque frequenza: «Ma allora – sottolinea C. Rovelli – perché la luce emessa da un atomo non con- tiene tutti i colori, ma solo pochi colori particolari? Perché gli spettri atomici non sono un continuo di colori ma sono composti da poche righe staccate? Perché, come si dice in gergo tecnico, sono “discreti” anziché continui? Per decenni i fisici sembravano incapaci di rispondere […]. Bohr comprende che tutto si spie- gherebbe se anche l’energia degli elettroni negli atomi potesse assumere solo certi valori quantizzati»5. Pertanto, andando decisamente oltre il paradigma classico, la “visione quan- tistica” veniva estesa fino a spiegare non solo il fenomeno della luce ma anche il comportamento e l’energia degli elettroni all’interno degli atomi. I quanti, in altri termini, cominciarono ad apparire sempre più come una proprietà generale della natura. Nel periodo compreso fra il 1924 e il 1927, ad opera di fisici quali W. Hei- senberg, L. de Broglie, E. Schrödinger, P. Dirac, ecc., la teoria quantistica fu rielaborata e approfondita fino a rivoluzionare completamente non solo le con- cezioni scientifiche del tempo, ma anche quelle filosofiche e del senso comune.

La natura indeterministica e probabilistica della nuova fisica

Con la teoria dei quanti assistiamo alla crisi irreversibile del determinismo e quindi dell’ideale classico di scienza. Il comportamento delle particelle subato- miche, in particolare dell’elettrone, non è descrivibile mediante regole rigorose

5 C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014, pp. 102-103.

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e deterministiche: al massimo sono possibili previsioni puramente probabilisti- che o statistiche. Tale concezione, che suscitò il biasimo di grandi fisici come M. Planck, A. Einstein, E. Schrödinger (che pure avevano fatto molto per dare avvio al nuovo approccio quantistico, ma poi erano rimasti legati ad un’idea più classica di scienza, realista e determinista) si fondò sulla visione indeterministi- ca dell’atomo elaborata da N. Bohr e, soprattutto, sviluppata da W. Heisenberg. Quest’ultimo aveva maturato la convinzione che l’ostilità nei confronti della Meccanica quantistica e dei suoi aspetti più sorprendenti (talvolta paradossali!) dipendesse dal fatto che la maggior parte dei fisici guardava ad essa attraver- so concetti che erano stati elaborati per il mondo macroscopico, senza rendersi conto che il mondo microscopico necessitava, invece, di concetti del tutto nuovi e contro-intuitivi. Per Heisenberg occorreva, ad esempio, rinunciare alla “vi- sualizzazione” dell’elettrone secondo l’analogia del satellite che ruota intorno ad un pianeta (il nucleo), per concentrarsi esclusivamente sui dati sperimentali: frequenze di radiazione, intensità luminosa, lunghezze d’onda, ecc. L’interpre- tazione della teoria quantistica da parte di Heisenberg si fonda, quindi, su un principio basilare di tutta la teoria: il principio di indeterminazione. «Basandosi su idee da capogiro, Heisenberg immagina che gli elettroni non esi- stano sempre ma solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità calco- labile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I “salti quantici” da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra. Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un luogo»6. Secondo il paradigma classico, si poteva prevedere il comportamento futuro di un corpo se in un dato istante eravamo in grado di conoscere le cosiddette “co- ordinate canoniche” (ad esempio, posizione e velocità). Tuttavia, se tale affer- mazione vale per il mondo macroscopico, e in effetti tutta la Meccanica classica l’aveva fatta propria; quando passiamo a considerare il mondo microscopico, il mondo atomico e subatomico, il discorso cambia radicalmente: in tale ambito non siamo mai in grado di conoscere e misurare con precisione le coordina- te canoniche. Quando, per esempio, andiamo a misurare posizione e velocità dell’elettrone, tutti i tentativi effettuati in questo senso ne alterano lo stato di moto, in quanto non siamo mai in grado di rendere trascurabile l’effetto “distur- bo” causato dall’interazione fra particella e apparato di misurazione. Quando cerchiamo di misurare con precisione una coordinata canonica (la posizione) ciò va a discapito dell’altra coordinata (la velocità), e viceversa. Tutto ciò portò Heisenberg a formulare un principio di indeterminazione,

6 C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014, pp. 26-27.

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per il quale non è mai possibile conoscere contemporaneamente con precisione assoluta i valori di due coordinate canoniche: «[…] se vogliamo studiare il comportamento dell’elettrone in un atomo, dobbia- mo in qualche modo “illuminarlo” e questa illuminazione sarà tanto più precisa quanto più piccola sarà la lunghezza d’onda della luce incidente sull’elettrone. Il problema è però che i raggi sono così penetranti che modificano la posizione e la velocità dell’elettrone. Quindi, usando raggi “non troppo potenti” avremo un’im- magine sbiadita sulla posizione e quantità di moto del nostro elettrone; usando raggi più penetranti modifichiamo posizione e quantità di moto. In ambo i casi si ha una indeterminazione del prodotto della posizione per la quantità di moto che è coerente con quanto prescritto teoricamente dal principio di indeterminazione»7. In questo senso, occorreva anche rielaborare il concetto di “orbita” che fisi- ci e chimici avevano usato fino a quel momento: appariva ormai evidente che l’elettrone non si muoveva lungo un’orbita. Alla luce della nuova impostazio- ne quantistica, in particolare quella di P. Dirac, risultava necessario sostituire il classico (ma ormai obsoleto) concetto di “orbita” con quello più cogente di orbi- tale, che andava ad indicare la parte di spazio intorno al nucleo in cui l’elettrone può trovarsi con elevata probabilità (superiore al 95%): «La meccanica quantistica porta la probabilità nel cuore dell’evoluzione delle cose […]. La probabilità di trovare un elettrone, o una qualunque altra particella, in un punto o nell’altro dello spazio, si può immaginare come una nuvola diffusa, più densa dove la probabilità di vedere l’elettrone è maggiore»8. Nel 1925 E. Schrödinger elaborò una famosa equazione in grado di determi- nare l’evoluzione nel tempo dello stato di un sistema, ad esempio un atomo o una particella subatomica (fu detta funzione d’onda ψ o funzione di Schrödinger, basata sull’ipotesi di de Broglie, secondo la quale tutte le particelle di materia, compreso l’elettrone, esibiscono un comportamento ondulatorio). In effetti, a de Broglie dobbiamo una chiara interpretazione ondulatoria della materia che favo- rì il consolidamento di una visione dualistica onda/corpuscolo e diede un forte impulso per l’affermazione della Meccanica quantistica. Classicamente, la fisica aveva sempre guardato alla materia come ad un insieme di corpuscoli; tuttavia, il processo di quantizzazione delle orbite atomiche operato da Bohr aveva rilancia- to la teoria ondulatoria in quanto si presentava come maggiormente efficace nel rendere conto dei comportamenti “sorprendenti” degli elettroni intorno al nucleo. Intorno al 1924, de Broglie propose di associare un’onda a ciascuna particella di materia. D’altronde la materia, quando le distanze in gioco erano molto piccole (di livello subatomico) sembrava esibire caratteri ondulatori e questo fatto era stato

7 W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Napoli, Guida, 1991, pp. 59-60. 8 C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, cit. pp. 108-109.

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poi confermato nel 1927 dall’esperimento di C. Davisson e L. Germer sulla dif- frazione degli elettroni, che aveva verificato puntualmente l’ipotesi di de Broglie: gli elettroni (e la materia) avevano effettivamente un comportamento ondulatorio. D’altro canto, occorre sottolineare che, se non riusciamo a reperire dati pre- cisi e univoci sullo stato di un oggetto (una particella), allora non siamo nem- meno in grado di fare previsioni attendibili sul suo comportamento futuro. Era la crisi dell’ideale classico di scienza che si fondava sulla “naturale” possibili- tà di ottenere informazioni rigorose sulle coordinate canoniche. La Meccanica quantistica, studiando la struttura profonda della materia, il mondo atomico e subatomico, giungeva alla scoperta di una realtà microscopica dove i fenomeni naturali presentavano una natura e un comportamento del tutto indeterministico e, quindi, esplicabili solo con gradi di approssimazione puramente probabilisti- ca. Tuttavia, secondo alcuni fisici, è possibile recuperare un senso “non proba- bilistico” del sapere concernente il contesto subatomico sviluppando in modo “deterministico” la funzione d’onda ψ proposta da Schrödinger9.

Il dualismo fra teoria corpuscolare e teoria ondulatoria

Intimamente legata al principio di indeterminazione è la seconda questione fondamentale della fisica quantistica e del dibattito filosofico intorno ad essa, della quale si è accennato più sopra: il dualismo tra onda e corpuscolo e la natura della luce e della materia. Sulla base della Meccanica classica un’onda (elettromagne- tica) era concepita come profondamente diversa rispetto ad un corpuscolo. J.C. Maxwell, alla fine dell’Ottocento, mediante una serie di “storiche” equazioni era riuscito ad unificare elettricità e magnetismo, e a spiegare la radiazione luminosa identificandola con un’onda che si propaga in un campo elettromagnetico10. Tutta- via, nel 1905 A. Einstein aveva rimesso tutto in discussione attraverso i suoi studi sull’effetto fotoelettrico, in cui la luce veniva determinata come un insieme di cor- puscoli luminosi, un fascio di particelle di luce dette poi fotoni. L’effetto fotoelettrico è un fenomeno fisico che comporta l’emissione di elet- troni (una corrente) da parte di una superficie di metallo (zinco) nel momento in cui questa è sottoposta a una radiazione elettromagnetica, per esempio un flusso di fotoni con una determinata lunghezza d’onda. Sulla base della fisica classica, in particolare dell’elettromagnetismo classico, ci si aspettava una relazione fra

9 Cfr. F. De Martini, Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’er- meneutica, «Micromega», 2, 2007, pp. 151-162. 10 Un’onda elettromagnetica risultava quindi essere una variazione del campo elettrico e del campo magnetico che non necessitava di un mezzo: poteva propagarsi nel vuoto. Nel 1864 Maxwell evidenziò che la luce stessa era da considerarsi un’onda elettromagnetica.

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radiazione e corrente, ossia: al crescere dell’intensità della radiazione avrebbe dovuto crescere anche il flusso di corrente. Inoltre, ci si attendeva che l’attiva- zione del flusso di corrente implicasse un certo lasso di tempo, richiesto affinché l’onda elettromagnetica si distribuisse pienamente sulla superficie metallica. Tali previsioni “classiche”, tuttavia, venivano sorprendentemente smenti- te dall’esperienza: il flusso di corrente sembrava non dipendere dall’intensità bensì dalla frequenza della radiazione; l’emissione degli elettroni poi risultava istantanea, come se l’elettrone urtasse contro qualcosa che lo scalzava dalla sua posizione. Come accennato più sopra, nel 1905 fu Einstein, attraverso un me- morabile studio sull’effetto fotoelettrico, a confermare e risolvere tali questioni, estendendo e approfondendo Planck (oltre Planck) e la sua teoria dei quanti di energia. Nell’introduzione al suo lavoro scriveva infatti: «Mi sembra che le osservazioni associate alla fluorescenza, alla produzione di raggi catodici, alla radiazione elettromagnetica che emerge da una scatola, e altri simili fenomeni connessi con l’emissione e la trasformazione della luce, siano meglio comprensibili se si assume che l’energia della luce sia distribuita nello spazio in maniera discontinua. Qui considero l’ipotesi che l’energia di un raggio di luce non sia distribuita in maniera continua nello spazio, ma consista invece in un numero finito di “quanti di energia” che sono localizzati in punti dello spazio, si muovono senza dividersi, e sono prodotti e assorbiti come unità singole»11. La rivoluzionaria soluzione di Einstein, dunque, si fondava sull’idea che la radiazione elettromagnetica (e la luce) fosse composta di “corpuscoli”, quanti di energia, una sorta di “gas di particelle” (fotoni o quanti di luce). I fotoni, arri- vando sulla lamina metallica, andavano a colpire gli elettroni, trasferendo loro l’energia cinetica di cui erano dotati e sbalzandoli fuori dal proprio sito. Questo innescava il flusso di corrente. Fu questa ricerca sull’effetto fotoelettrico, e non la teoria della relatività (come talvolta si crede), che valse ad Einstein il premio Nobel per la fisica nel 1921.

L’effetto fotoelettrico:

11 Id., Sette brevi lezioni di fisica, cit. p. 24.

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D’altro canto, come evidenziato più sopra, intorno al 1924 de Broglie aveva elaborato un approccio fisico-matematico che trattava i problemi insiti nell’ato- mo di Bohr mediante immagini e concetti ondulatori, come l’individuazione di onde associate all’elettrone che consentivano la spiegazione chiara e coerente del processo di quantizzazione delle orbite elettroniche operato da Bohr. Poi, nel 1925, Schrödinger espresse in forma matematicamente ancora più rigorosa la posizione di de Broglie, elaborando una famosa “equazione d’onda”, ancora oggi alla base della Meccanica quantistica, capace di chiarire gli aspetti appa- rentemente contraddittori del comportamento delle particelle (a volte onde, a volte corpuscoli!) in relazione all’influenza degli apparati di misurazione. Come sottolineato in precedenza, la funzione d’onda ψ di Schrödinger forniva, (a li- vello microscopico, in particolare), l’ampiezza di probabilità del verificarsi di un evento determinato, ossia la probabilità di trovare l’elettrone in una certa porzione di spazio intorno al nucleo atomico. Tutto ciò andò a costituire un vero e proprio “corpus” fisico-matematico del nuovo paradigma quantistico e anda- va chiaramente a porsi in connessione con il principio di indeterminazione di Heisenberg: la presenza di un apparato di misurazione e osservazione risultava essenziale nel modificare lo stato di una particella, di cui, pertanto, era necessa- rio tenere conto. Cionondimeno molti fisici si resero conto che una descrizioneesauriente del comportamento dell’elettrone richiedeva entrambe le teorie: quella ondulatoria e quella corpuscolare. Era ormai sempre più chiaro che l’elettrone in un deter- minato contesto sperimentale si comportava come un corpuscolo (si pensi all’ef- fetto fotoelettrico); in un altro contesto, invece, si comportava come un’onda, per esempio nei fenomeni di interferenza e diffrazione (si pensi all’esperimento della doppia fenditura, che riprendeva quello di T. Young del 1801). Di fronte all’imbarazzo della comunità scientifica, determinato dalla intrinseca contraddit- torietà di tale soluzione, nel 1927 Bohr enunciò il principio di complementarità, in base al quale la teoria ondulatoria e quella corpuscolare erano da considerarsi compatibili e, anzi, necessarie al fine di dare una spiegazionerealmente esausti- va di quanto avviene nella materia a livello microscopico. Ciò che contava, per Bohr, era tenere distinte le due prospettive: negli esperimenti dove dominavano gli aspetti ondulatori delle particelle quelli corpuscolari erano trascurabili, e vi- ceversa. In altri termini, secondo Bohr, le particelle atomiche non si presentano mai contemporaneamente come onde e corpuscoli. In accordo con la posizione espressa da Bohr, Heisenberg sottolineava il fatto che chiedersi se una particella subatomica fosse in realtà un’onda o un corpuscolo significava andare oltre le possibilità della scienza per cadere in una forma di “essenzialismo metafisico” che esulava dal concetto stesso di scienza, che invece doveva rimanere concen- trata sulle osservazioni e i dati sperimentali. In questa direzione, quando si interpreta la luce solamente come un fascio

65 Osservazioni storico-filosofiche intorno alla nascita della Meccanica quantistica

di fotoni, riducendo questi ultimi ad una sorta di “corpuscoli” in senso classico, allora si può arrivare a risultati smentiti dall’esperienza. Infatti, se immaginiamo di far passare un fascio di fotoni (luce) attraverso uno schermo, sul quale sono state praticate due fenditure parallele di larghezza adeguata, dietro al quale è sta- to posto un rilevatore di particelle, si otterrà un risultato sperimentale piuttosto sorprendente: il rilevatore non verrà impressionato in modo continuo, bensì si formeranno dapprima dei singoli punti luminosi (compatibili con un comporta- mento corpuscolare), ma poi, man mano che il flusso di fotoni aumenta, si an- dranno a costituire delle “frange di interferenza”, che invece sono proprie di un comportamento ondulatorio. L’esperimento della doppia fenditura ci riconduce direttamente al dualismo onda/corpuscolo insito nella radiazione elettromagne- tica ma anche nella materia stessa: «Occorre essere molto prudenti nella fraseologia di una qualunque affermazione concernente il comportamento delle particelle atomiche. Per molte esperienze è più comodo parlare di onde corpuscolari […]. Ecco perché Bohr ha sostenuto la necessità di utilizzare due immagini che ha chiamato “complementari”»12. Se i fotoni fossero dei corpuscoli, classicamente intesi, essi passerebbero at- traverso ciascuna fenditura in modo indipendente l’uno dall’altro. L’esperienza, invece, ci mostra l’esistenza di un fenomeno di reciproco “disturbo”: la luce, passando da una fenditura, è influenzata da ciò che avviene nell’altra fenditura, dando luogo a tipiche frange di interferenza. Questo fenomeno è, naturalmente, irriducibile a una teoria puramente corpuscolare della luce.

L’esperimento della doppia fenditura:

12 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 45.

66 Massimo Stevanella

A questo punto, a fisici e filosofi appariva ormai evidente che la nuova fisica dei quanti si poneva in netta contraddizione rispetto alla nozione fisica e filosofi- ca di “oggetto”, così come era stata pensata dalla Meccanica classica (e dal sen- so comune), che invece affermava una alternativa irriducibile fra onda e corpu- scolo. Questo “dualismo”, per certi versi paradossale, fu da Bohr ricondotto alla posizione di Heisenberg a proposito del principio di indeterminazione: quando si ha a che fare con oggetti atomici e subatomici, la strumentazione che impieghia- mo per studiarne e misurarne i caratteri perturba, altera inevitabilmente lo stato degli oggetti stessi. Questo spiega perché con certi apparati sperimentali sono messe in luce le caratteristiche ondulatorie della materia; mentre altri apparati ne fanno emergere le caratteristiche corpuscolari. Tale interpretazione della Meccanica quantistica, elaborata da Bohr e Hei- senberg, fu detta “interpretazione di Copenhagen”, e divenne presto maggiori- taria tra i fisici nella prima metà del Novecento, anche perché i suoi avversari (Planck, Einstein, Schrödinger) non seppero opporle alternative fisiche valide, se non critiche puramente “filosofiche”. Concetti fisici e filosofici ritenuti saldi e sicuri per secoli (si pensi alle nozioni di “oggetto”, di “traiettoria”, di “causa-effetto”, ma anche al meccanicismo, al determinismo della natura, ecc.) naufragavano e affondavano definitivamente di fronte all’essenza indeterministica e probabilistica della nuova fisica quantistica.

Conclusione

In meno di trent’anni, a partire dagli inizi del Novecento, la fisica è andata incontro a una profonda trasformazione che ne ha mutato radicalmente il vólto: all’unico modello interpretativo offerto dalla meccanica classica si sono affian- cate e, per certi versi, sostituite due teorie più generali e pervasive, la fisica quantistica e la fisica relativistica: la prima appare in grado di descrivere i fe- nomeni del mondo microscopico, a livello atomico e subatomico; la seconda risulta invece capace di affrontare tutti quei fenomeni nei quali sono in gioco velocità molto elevate, paragonabili a quella della luce. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione concettuale che ha provocato un profondo mutamento an- cora in corso, non solo a livello tecnico, ma anche e soprattutto sul piano del- la comprensione della natura. La Relatività generale einsteiniana ha sostituito la teoria della gravitazione universale di Newton, modificando radicalmente la nostra concezione dello spazio e del tempo; la Meccanica quantistica ha pro- fondamente trasformato e problematizzato il complesso rapporto fra materia ed energia. Eppure fra queste due teorie, sottolinea C. Rovelli:

67 Osservazioni storico-filosofiche intorno alla nascita della Meccanica quantistica

«[…] c’è qualcosa che stride. Le due teorie non possono essere entrambe giuste, almeno nella loro forma attuale, perché sembrano contraddirsi l’un l’altra. Il cam- po gravitazionale è descritto senza tener conto della meccanica quantistica, senza tener conto che i campi sono quantizzati; e la meccanica quantistica è formulata senza tener conto che lo spaziotempo si incurva ed è soggetto alle equazioni di Einstein […]. Il paradosso è che le teorie funzionano entrambe terribilmente bene»13. Oggigiorno buona parte dei ricercatori sono impegnati a tracciare un ponte tra queste due fondamentali teorie all’interno del campo delle piccole dimensio- ni e delle grandi velocità. In questo senso, nella fisica delle particelle elementari si è affermata una teoria di campo quantistica e relativistica (detta anche model- lo standard) che racchiude tutte le conoscenze attuali sulle proprietà e il modo di interagire delle particelle subatomiche. Si tratta, in altri termini, di un modello matematico che cerca di mettere insieme i costituenti fondamentali della mate- ria (quark, leptoni, bosoni) con quelle che sappiamo essere le quattro forze che governano tutte le interazioni della materia, dai nuclei atomici fino alla struttura delle stelle: elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte, nucleare debole. Nella stessa direzione si muovono altri modelli, come la teoria della gravi- tà quantistica a loop che cerca di descrivere le caratteristiche quantistiche del- lo spaziotempo (e dunque della gravità) presupponendo l’esistenza di “anelli” (loop) con dimensioni dell’ordine di 10–35 m, contenenti determinate quantità di energia e in grado di rendere conto del rapporto fra spazio, tempo e forza gravi- tazionale. Si pensi, d’altro canto, alla teoria delle stringhe che si pone l’obiettivo di sviluppare un approccio fisico unitario dove tutti i fenomeni conosciuti (mate- ria, energia, forze fondamentali) risultino come una manifestazione di un’unica entità fisica: lestringhe , ossia filamenti di energia che compongono le particelle più piccole della materia, i quark, e le cui vibrazioni sarebbero alla base della produzione di tutte le particelle che compongono il nostro universo14. Attualmente nella fisica teorica scienza e fantascienza sembrano mescolarsi a causa dell’alto livello di astrazione cui è giunta la ricerca, ma indubbiamente si sta facendo strada una teoria quantum-relativistica unificata, che è uno dei grandi obiettivi della scienza contemporanea.

13 Id., La realtà non è come ci appare, cit. p. 129. 14 Cfr. S. Hawking, L’universo in un guscio di noce, Milano, Mondadori, 2002, pp. 34-69.

68 Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

Adriano Maniglia, Antonella Rochira

Premessa

Sia uno spazio vettoriale sul campo . Nella teoria degli autovalori e autovettori si pone il problema di risolvere l’equazione: 𝑽𝑽 ω 𝑲𝑲 (ℝ 𝑜𝑜 ℂ)ω

con endomorfismo di ,𝑽𝑽 ω incognita scalare (cioè𝑽𝑽 ) e , incognita𝑓𝑓 𝒗𝒗 = ω𝒗𝒗 vett⇔oriale. 𝑓𝑓 𝒗𝒗 −L’equazione 𝑖𝑖 (𝒗𝒗) =0 ⇔ è (𝑓𝑓dunque − 𝑖𝑖 di) 𝒗𝒗tipo= 0misto scalare∗ - 𝑓𝑓 𝑽𝑽 ∈ 𝑲𝑲 𝒗𝒗 ∈𝑽𝑽 𝒗𝒗 ≠ vettoriale;5 fissando una base in , essa si può tradurre in termini matriciali 𝟎𝟎nella seguente: ∗ ωX 𝑩𝑩 𝑽𝑽 dove: = matrice di rispetto alla base ; 𝐴𝐴𝐴𝐴 = ⇔ 𝐴𝐴𝐴𝐴 = 𝜔𝜔𝐼𝐼;𝑋𝑋 ⇔ 𝐴𝐴; −𝜔𝜔𝐼𝐼 𝑋𝑋 = 0 ∗∗ 𝐴𝐴 = 𝑎𝑎=> =,>@A,B,…,; 𝑓𝑓 𝑩𝑩 𝑥𝑥A 𝑥𝑥B = matrice colonna delle componenti (incognite) di ; . 𝑋𝑋 = . 𝒗𝒗 . = matrice identica di ordine . 𝑥𝑥; L’equazione𝐼𝐼; = 𝛿𝛿=> =,>@A,B,…,; è di fatto un sistema lineare omogeneo𝑛𝑛 di equazioni in incognite; poiché cerchiamo vettori non nulli e cioè soluzioni non banali di esso, dev’essere: ∗∗ 𝑛𝑛 𝑛𝑛 E’ questa un’equazione di grado nell’incognita ω; il primo membro si ; dicedet polinomio𝐴𝐴 −𝜔𝜔𝐼𝐼 caratteristico= 0. di poiché(si dimostra)∗∗∗ non dipende dalla base scelta e le sue radici distinte:𝑛𝑛 si dicono, per questo, 𝑓𝑓 autovalori di ; sostituendo poi successivamenteA B gli K in e risolvendo i 𝑩𝑩 𝜔𝜔 autovettori, 𝜔𝜔 , … , 𝜔𝜔 sistemi lineari risultanti, si determinano gli di= (espressi nella base ) e si costruiscono𝑓𝑓 i sottospazi di del tipo: 𝜔𝜔 ∗∗ ; 𝑓𝑓 𝑩𝑩 per ogni è detto𝑽𝑽 autospazio di relativo ad e se 𝑉𝑉MN = 𝒗𝒗 ∈ 𝑽𝑽 𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡 𝑐𝑐ℎ𝑒𝑒 𝑓𝑓(𝒗𝒗) =𝜔𝜔 𝒗𝒗 risulta essere somma diretta degli autospazi di , allora si dice semplice(o 𝑖𝑖 = 1,2, … , 𝑝𝑝 𝑉𝑉MN 𝑓𝑓 𝜔𝜔= 𝑽𝑽 diagonalizzabile). Per quanto riguarda il polinomio caratteristico di , che è l’esplicitazione di , si trova che esso𝑓𝑓 ha: 𝑓𝑓 𝑓𝑓 det 𝐴𝐴; −𝜔𝜔𝐼𝐼

69 1

Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

a) coefficiente di uguale a ; b) “ ; “ (tr(A)(=traccia; di A)=( ; 𝜔𝜔;WA −1 c) termine noto . AA BB ;; Anche la forma 𝜔𝜔analitica di tutti gli altri coefficienti𝑎𝑎 è calcolabile+ 𝑎𝑎 + ⋯ (in + 𝑎𝑎modo) non proprio semplice)= det (cfr𝐴𝐴. 6). In questo lavoro si generalizza il concetto di autovalori e autospazi di un endomorfismo di ; si trovano in forma più generale i coefficienti del polinomio caratteristico, del quale si determinano gli autovalori generalizzati e successivamente gli𝑽𝑽 autospazi generalizzati di ritrovando i risultati classici come casi particolari; non solo; anche il concetto di diagonalizzabilità viene rivisto e ampliato in questo contesto. Infatti la nuova𝑓𝑓 formulazione della teoria comporta il presentarsi di eventualità che classicamente non hanno ragion d’essere. Sia dunque uno spazio vettoriale su un campo e sia ; si può dire che è detto autovalore di f ogni scalare ω tale che il sottospazio vettoriale di : 𝑽𝑽 𝑲𝑲 𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓(𝑽𝑽) ω 𝑽𝑽 autospazio f cioè 𝝎𝝎l’ di 𝑽𝑽relativo ad , sia non nullo. I vettori non nulli che appartengono𝑽𝑽 = 𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘 (𝑓𝑓a − sono 𝑖𝑖 ) detti autovettori di relativi ad Risulta evidente l’importanza del ruolo dell’endomorfismo𝜔𝜔 identico ; si può pensare, 𝑽𝑽𝝎𝝎 𝑓𝑓 𝜔𝜔. generalizzando, di assegnarne il ruolo ad un qualsiasi endomorfismo𝑽𝑽 g di . 𝑖𝑖 𝑽𝑽 Definizioni preliminari

Fissato dunque , sia g un altro endomorfismo di . Ogni scalare ω tale che ω sia non nullo lo diremo autovalore generalizzato tramite o valore𝑓𝑓𝑓𝑓 𝐸𝐸𝐸𝐸 di𝐸𝐸 (𝑽𝑽) ed il sottospazio vettoriale 𝑽𝑽 ω lo diremo 𝜖𝜖 𝑲𝑲 auto spazio𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘 (𝑓𝑓 generalizzato − 𝑔𝑔) tramite oppure a ; i suoi M vettori 𝑔𝑔non 𝑔𝑔nulli − li diremo𝑓𝑓 autovettori generalizzati𝑽𝑽 di= 𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘f tramite (𝑓𝑓 − 𝑔𝑔) o ω. E’ chiaro𝑔𝑔 che si possono𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝑠𝑠𝑠𝑠verificare𝑠𝑠 𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑓𝑓 due eventualità: 𝑔𝑔 𝑔𝑔1) − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 è𝑣𝑣 𝑣𝑣𝑣𝑣iniettivo; 𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑓𝑓 𝑟𝑟𝑟𝑟 𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟 𝑎𝑎𝑎𝑎 2) non è iniettivo. Il 𝑔𝑔caso 1) è quello che generalizza il caso classico. Esempio𝑔𝑔 : Sia e siano tre definiti, rispettivamente,B da: B 𝑽𝑽 ≡ℝ 𝑓𝑓, 𝑔𝑔, 𝑔𝑔′ 𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 𝑑𝑑𝑑𝑑 ℝ

𝑓𝑓 𝑥𝑥, 𝑦𝑦 = (𝑥𝑥 − 2𝑦𝑦, −𝑥𝑥−𝑦𝑦) j 𝑔𝑔 𝑥𝑥, 𝑦𝑦 = (3𝑥𝑥 − 𝑦𝑦, 𝑥𝑥+𝑦𝑦) 𝑔𝑔 𝑥𝑥, 𝑦𝑦 = 𝑥𝑥 − 2𝑦𝑦, −2𝑥𝑥+4𝑦𝑦 .

70 2

Adriano Maniglia, Antonella Rochira

Si trova, con semplicissimi calcoli, che: a) ha autovalori e con autospazi rispettivi: ) e ); 𝑓𝑓 𝜔𝜔A = − 3 𝜔𝜔B = 3 b) ha valoriMl e Mn con spazi rispettivi: 𝑽𝑽 = 𝑳𝑳(2,1o + 3 𝑽𝑽 = 𝑳𝑳(−2,1 − 3 ) e ); 𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝜔𝜔A = B 𝜔𝜔B = −1 𝑔𝑔 − c) ha un solo valore con spazio relativo: 𝑽𝑽Ml = 𝑳𝑳(1, −1 𝑽𝑽Mn = 𝑳𝑳(1,4) j . j Si 𝑓𝑓 osservi che 𝑔𝑔il caso− c) non𝜔𝜔 si verifica =1 mai𝑔𝑔 − nella trattazione classica in M quanto 𝑽𝑽 gli autovalori= 𝑳𝑳(4,1) di un endomorfismo sono sempre in numero di . Nel seguito si vedrà che, come accade nel caso c), adoperando al posto di un endomorfismo non automorfismo come invece è , si 𝑛𝑛 = dim (𝑽𝑽) verifica che𝑽𝑽 i di sono in numero minore di 𝑽𝑽 𝑖𝑖 𝑔𝑔 𝑖𝑖 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝑛𝑛. Una proprietà fondamentale dei spazi

Dimostriamo che: se 𝐠𝐠, − (se allora banalmente l’unico è oppure ) e se sono di a due a due distinti, allora𝑔𝑔 la𝜖𝜖𝜖𝜖𝜖𝜖𝜖𝜖 loro(𝑽𝑽) somma𝑔𝑔 ≠𝑓𝑓, 𝑔𝑔 =𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 ker (𝑓𝑓) 𝑽𝑽 𝜔𝜔A, 𝜔𝜔B, … , 𝜔𝜔K 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 è diretta. 𝑓𝑓 a a a Dim.l La ndimostrazionev ricalca quella del caso classico ; procediamo 𝑽𝑽M + 𝑽𝑽M + … + 𝑽𝑽M quindi per induzione. Sia ; siano poi due distinti di 1 e siano infine

i relativi A ; si Bha: a 𝑝𝑝a = 2 𝜔𝜔 𝑒𝑒 𝜔𝜔 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 l n 𝑽𝑽M e 𝑽𝑽M 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 a a 𝒖𝒖 𝜖𝜖( 𝑽𝑽Ml ∩ 𝑽𝑽Mn) ⟺ 𝒖𝒖 𝜖𝜖 𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘 (𝑓𝑓A −𝜔𝜔 𝑔𝑔) ∩ 𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘 (𝑓𝑓 −𝜔𝜔B 𝑔𝑔) ⟹ poiché . (𝑓𝑓A −𝜔𝜔 𝑔𝑔) 𝒖𝒖 = (𝑓𝑓A −𝜔𝜔 𝑔𝑔) 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⟹ ( 𝜔𝜔A 𝑔𝑔) 𝒖𝒖 = (𝜔𝜔B 𝑔𝑔) 𝒖𝒖 ⟹ QuindiA laB somma dei 𝑽𝑽due 𝑽𝑽 è diretta.A B Supponiamo(𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 ) 𝑔𝑔 ora𝒖𝒖 =ch 𝟎𝟎e la ⟹ proposizione 𝒖𝒖 =𝟎𝟎 sia vera𝜔𝜔 ≠ per 𝜔𝜔 e dimostriamola vera per . 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 Siano di a due a 𝑝𝑝due− 1 distinti e siano 𝑝𝑝 A B Ki relativi ; siano poi a a 𝜔𝜔 , 𝜔𝜔a , … , 𝜔𝜔 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 Ml Mn Mv tali che: 𝑽𝑽 , 𝑽𝑽a , … , 𝑽𝑽 a a 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 l n v . 𝒖𝒖A 𝜖𝜖 𝑽𝑽M , 𝒖𝒖B 𝜖𝜖 𝑽𝑽M , … , 𝒖𝒖𝒑𝒑 𝜖𝜖 𝑽𝑽M Applicando ad ambo i membri si ha: 𝒖𝒖A + 𝒖𝒖B + ⋯ 𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 1

𝑓𝑓

𝑓𝑓 𝒖𝒖A + 𝒖𝒖B + ⋯ 𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⟹ 𝑓𝑓 𝒖𝒖A + ⋯ + 𝑓𝑓 𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⟹ e dall’iniettività di si ha: 𝜔𝜔A𝑔𝑔 𝒖𝒖A + ⋯ + 𝜔𝜔K𝑔𝑔 𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⟹ 𝑔𝑔 𝜔𝜔A𝒖𝒖A + ⋯ 𝜔𝜔K𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 𝑔𝑔

71 3

Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

. Moltiplicando poi la per e sottraendola da si ha: 𝜔𝜔A𝒖𝒖A + ⋯ 𝜔𝜔K𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 2 . 1 𝜔𝜔A 2 Dall’ipotesi induttiva e poiché sono a due a due distinti segue 𝜔𝜔B − 𝜔𝜔A 𝒖𝒖B + ⋯ + 𝜔𝜔K − 𝜔𝜔A 𝒖𝒖K = 𝟎𝟎𝑽𝑽 che: A B K ; 𝜔𝜔 , 𝜔𝜔 , … , 𝜔𝜔

sostituendoB o infine nellaK 𝑽𝑽 si ottiene . Cvd. 𝒖𝒖 = 𝒖𝒖 = ⋯ = 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 A 𝑽𝑽 1 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 Determinazione dei e dei di un endomorfismo di uno spazio vettoriale di dimensione finita. 𝐠𝐠 − 𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯𝐯 𝒈𝒈 − 𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬𝐬 Sia uno spazio vettoriale sul campo con e sia una sua base; se e 𝑽𝑽 𝑲𝑲 dim 𝑽𝑽 = 𝑛𝑛 𝑩𝑩 = 𝒆𝒆A, 𝒆𝒆B, … , 𝒆𝒆; sono le matrici di 𝑀𝑀 e𝑩𝑩 (𝑓𝑓) relative a =𝐴𝐴 𝑎𝑎,=> rispettivamente,=,>@A,B, ; 𝑀𝑀𝑩𝑩 (𝑔𝑔)allora = 𝐵𝐵la matrice = 𝑏𝑏=> =,>@A,B, ; dell’endomorfismo 𝑓𝑓 𝑔𝑔sarà, sempre𝑩𝑩 relativamente alla base , . Quindi i di sono i 𝑓𝑓 − 𝜔𝜔𝜔𝜔 vettori 𝑩𝑩di le cui𝑩𝑩 componenti, rispetto alla base , sono le soluzioni del sistema𝑩𝑩 𝑀𝑀 omogeneo𝑓𝑓 − 𝜔𝜔𝑀𝑀 di𝑔𝑔 equazioni= ( 𝐴𝐴 in − 𝜔𝜔 𝜔𝜔 )incognite 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝑽𝑽 , 𝑩𝑩 (3) dove ovviamente 𝑛𝑛 𝑛𝑛 t è il vettore colonna delle (𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔)𝑋𝑋 =0 componenti, nella base , del genericoA B vettore; di ; soluzioni non nulle e quindi per 𝑋𝑋 ci saranno = 𝑥𝑥 , 𝑥𝑥 se,, … e , 𝑥𝑥solo se: 𝑩𝑩 𝑽𝑽 (4) e cioè𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 ( 𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔) = 0, det . (5) 𝑎𝑎AA − 𝜔𝜔𝑏𝑏AA … 𝑎𝑎A; − 𝜔𝜔𝑏𝑏A; Sviluppando il primo membro……… secondo gli addendi di= ogni 0 riga si trova che ;A ;A ;; ;; esso è un polinomio di grado𝑎𝑎 − 𝜔𝜔𝑏𝑏 nella… variabile 𝑎𝑎 − ω 𝜔𝜔𝑏𝑏 del tipo (6) ; ≤;WA 𝑛𝑛 > A e che (cfr: [5]); ;WA > A ã 𝑐𝑐 𝜔𝜔 + 𝑐𝑐 𝜔𝜔 + ⋯ + 𝑐𝑐 𝜔𝜔 + ⋯ + 𝑐𝑐 𝜔𝜔 + 𝑐𝑐 (7) ;W> ;W> å å A …å(>) dove si è indicato con𝑐𝑐 σ l’insieme= −1 delle permutazioni𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵 di e dove è la matrice in cui le righe di posto σ(1)…σ(j) sono sostituite dalle 1,2, … , 𝑗𝑗 omologhe righe di . In particolare si ha: 𝐵𝐵å A …å(>) 𝐵𝐵 a) 𝐴𝐴 ; b) ; dove 𝑐𝑐 = ;WA−1 𝑑𝑑 𝑑𝑑𝑣𝑣𝐵𝐵; 𝑐𝑐;WA = −1 (𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵A + ⋯ + 𝐵𝐵;)

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Adriano Maniglia, Antonella Rochira

matrice con la prima riga sostituita dalla prima riga di ;

A matrice con la seconda riga sostituita dalla seconda riga di ; 𝐵𝐵 = matrice 𝐵𝐵 con la sostituita dalla riga di 𝐴𝐴. 𝐵𝐵B = 𝐵𝐵 𝐴𝐴 c) ; dove 𝐵𝐵matrice= con𝐵𝐵 la prima𝑛𝑛;WB e − 𝑚𝑚𝑚𝑚seconda riga sostituite𝑛𝑛 −dalle𝑚𝑚𝑚𝑚 omologhe𝐴𝐴 di 𝑐𝑐;WB = −1 (𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵AB + 𝐵𝐵Aoè … + 𝐵𝐵;WA ;) AB matrice con la prima e terza riga sostituite dalle omologhe di ; 𝐵𝐵 = matrice𝐵𝐵 con la e riga sostituite dalle 𝐵𝐵Ao = 𝐵𝐵 𝐴𝐴 omologhe;WA,; righe di . 𝐵𝐵 = 𝐵𝐵 𝑛𝑛 −1 − 𝑚𝑚𝑚𝑚 𝑛𝑛 − 𝑚𝑚𝑚𝑚 d) 𝐴𝐴 dove ;Wo ;Wo ABo ABêè ;WB,;WA,; 𝑐𝑐 = −1 matrice(𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵 + con 𝐵𝐵 la prima,… + 𝐵𝐵 seconda )e terza riga sostituite dalle omologhe diABo ; 𝐵𝐵 = 𝐵𝐵 e) . 𝐴𝐴 Esempi: ã 𝑐𝑐 = det1)𝐴𝐴 Caso Siano e due endomorfismi di e siano 𝑛𝑛 =2. B 𝑓𝑓 𝑔𝑔 ℝe AA AB AA AB le rispettive matrici𝑎𝑎 rispetto𝑎𝑎 alla base canonica di𝑏𝑏 . 𝑏𝑏 𝐴𝐴 = BA BB 𝐵𝐵 = BA BB Si ha: 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑏𝑏 B 𝑏𝑏 ℝ det( 𝑎𝑎AA − 𝜔𝜔𝑏𝑏AA 𝑎𝑎AB − 𝜔𝜔𝑏𝑏AB 𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔) = det BA BA BB BB = B 𝑎𝑎 − 𝜔𝜔𝑏𝑏 𝑎𝑎 − 𝜔𝜔𝑏𝑏 AA BB AB BA AA BB AB BA BB AA BA AB . = (𝑏𝑏 𝑏𝑏 − 𝑏𝑏 𝑏𝑏 )𝜔𝜔 − B𝑎𝑎 𝑏𝑏 −B𝑎𝑎 𝑏𝑏 A+ 𝑎𝑎 𝑏𝑏 − 𝑎𝑎 𝑏𝑏 𝜔𝜔 + OsserviamoBB BB cheAB seBA è singolare il grado del polinomioA testè Bottenuto è minore+ 𝑎𝑎 di 𝑏𝑏 ; o−sserviamo𝑎𝑎 𝑏𝑏 =ancora −1 chedet se 𝐵𝐵𝜔𝜔 + il−1 polinomio(𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵 si+ riduce𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵 a:)𝜔𝜔 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝐵𝐵 2 𝑔𝑔 =𝑖𝑖5 che è proprio il polinomioB B caratteristicoA di . 2) Caso −1 𝜔𝜔 + −1 𝑡𝑡𝑡𝑡 𝐴𝐴 𝜔𝜔 + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 Siano e due endomorfismi di e siano𝑓𝑓 𝑛𝑛 =3. o 𝑓𝑓 𝑔𝑔 ℝ e 𝑎𝑎AA 𝑎𝑎AB 𝑎𝑎Ao 𝑏𝑏AA 𝑏𝑏AB 𝑏𝑏Ao BA BB Bo BA BB Bo 𝐴𝐴 = 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝐵𝐵 = 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑎𝑎oA 𝑎𝑎oB 𝑎𝑎oo oA oB oo le rispettive matrici rispetto alla base canonica𝑏𝑏 𝑏𝑏 di 𝑏𝑏 . Si ha: det( (det o o o B ℝ A , Bdove: B𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔) =A −1 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝜔𝜔 + −1 𝐵𝐵 + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝐵𝐵 + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝐵𝐵o)𝜔𝜔 + + −1 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵AB + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵Ao + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝐵𝐵Bo 𝜔𝜔 + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑

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Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

; ; 𝑎𝑎AA 𝑎𝑎AB 𝑎𝑎Ao 𝑏𝑏AA 𝑏𝑏AB 𝑏𝑏Ao 𝑏𝑏AA 𝑏𝑏AB 𝑏𝑏Ao A 𝑏𝑏BA 𝑏𝑏BB 𝑏𝑏Bo B BA BB Bo o BA BB Bo 𝐵𝐵e:= 𝐵𝐵 = 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝐵𝐵 = 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑏𝑏oA 𝑏𝑏oB 𝑏𝑏oo 𝑏𝑏oA 𝑏𝑏oB 𝑏𝑏oo 𝑎𝑎oA 𝑎𝑎oB 𝑎𝑎oo ; ; . 𝑎𝑎AA 𝑎𝑎AB 𝑎𝑎Ao 𝑏𝑏AA 𝑏𝑏AB 𝑏𝑏Ao 𝑎𝑎AA 𝑎𝑎AB 𝑎𝑎Ao AB BA BB Bo Bo BA BB Bo Ao BA BB Bo 𝐵𝐵 = 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝐵𝐵 = 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝐵𝐵 = 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑏𝑏 𝑏𝑏oA 𝑏𝑏oB 𝑏𝑏oo 𝑎𝑎oA 𝑎𝑎oB 𝑎𝑎oo 𝑎𝑎oA 𝑎𝑎oB 𝑎𝑎oo Anche in questo caso osserviamo che se è singolare il grado del polinomio testé ottenuto è minore di ; osserviamo ancora che se il polinomio si riduce a: 𝐵𝐵 5 3 𝑔𝑔 =𝑖𝑖

( AA AB Ao o o B 1 0 0 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 −1 𝜔𝜔 + −1 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑎𝑎BA 𝑎𝑎BB 𝑎𝑎Bo + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 0 1 0 + oA oB oo oA oB oo 𝑎𝑎 𝑎𝑎 ) 𝑎𝑎 ( 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 AA AB Ao AA AB Ao 𝑎𝑎 𝑎𝑎 𝑎𝑎 B A 1 0 0 𝑎𝑎 𝑎𝑎 1 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑎𝑎BA 𝑎𝑎BB 𝑎𝑎Bo 𝜔𝜔 + −1 0 1 0 + 0 1 0 + 0 0 1 . 𝑎𝑎oA 𝑎𝑎oB 𝑎𝑎oo 0 0 1 1 0 0 𝑎𝑎BA 𝑎𝑎BB 𝑎𝑎Bo )𝜔𝜔 + 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 Si0 può 0 constatare 1 facilmente che i coefficienti di questo polinomio sono quelli noti(cfr ). Dimostriamo ora che operando un cambiamento di base in l’equazione(6) o, che è lo stesso,6 il polinomio a I° membro della stessa non cambia. Sia dunque un’altra base di . Poniamo: 𝑽𝑽 j e ; í 𝑩𝑩 j í 𝑽𝑽 j se indichiamo𝑩𝑩 con la matrice𝑩𝑩 di passaggio dalla base alla base avremo: 𝑀𝑀 (𝑓𝑓) = 𝐴𝐴 𝑀𝑀 (𝑔𝑔) =𝐵𝐵 j j j. 𝑃𝑃 WA WA WA𝑩𝑩 𝑩𝑩 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑Dunque𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝐵𝐵 il polinomio= 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑃𝑃 𝐴𝐴𝐴𝐴le cui− 𝜔𝜔𝑃𝑃 radici𝐵𝐵 𝐵𝐵sono= 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 i 𝑃𝑃 𝐴𝐴 − 𝜔𝜔 𝜔𝜔di 𝑃𝑃 =e quindi l’equazione𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔 ad esso associata non dipendono dalla base scelta in per costruire le matrici di e ; per questa ragione li chiameremo,𝑔𝑔 − 𝑣𝑣come𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑣𝑣nel caso𝑓𝑓 classico, ancora e 𝑽𝑽 di , precisando però𝑓𝑓 𝑔𝑔rispetto alla stessa base scelta in Nel caso classico la precisazione𝑔𝑔 − 𝑝𝑝 non𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑝𝑝è 𝑝𝑝necessaria𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑐𝑐𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎 𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎in quanto𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎 l’applicazione𝑔𝑔 − 𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 𝑐𝑐è𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐 rappresentata𝑐𝑐𝑐𝑐 dalla𝑓𝑓 matrice rispetto ad ogni base; in questo caso, invece,𝑽𝑽. considerando due basi 𝑖𝑖𝑽𝑽 diverse e ;quindi due matrici qualsiasi e simili ad e , rispettivamente, 𝑰𝑰 j il e la A di A non restano invariati pur non cambiando nè il coefficiente di , nè𝐴𝐴 il termine𝐵𝐵 noto, com’è𝐴𝐴 𝐵𝐵 facile verificare. Osserviamo𝑔𝑔 − 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 ancora𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 che il𝑔𝑔 − 𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒;𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 ( 𝑓𝑓 ) di è di grado se, e solo se, il che si 𝜔𝜔verifica solo quando è iniettiva . Esempi: 𝑔𝑔 − 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐 𝑓𝑓 𝑛𝑛 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 ≠ 0 𝑔𝑔

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Adriano Maniglia, Antonella Rochira

Consideriamo i due endomorfismi di e definiti da: e B ; le matrici di e rispetto alla base ℝcanonica 𝑓𝑓 𝑔𝑔 di sono: 𝑓𝑓 𝑥𝑥, 𝑦𝑦 = (𝑥𝑥, −𝑥𝑥 +𝑦𝑦) 𝑔𝑔 𝑥𝑥, 𝑦𝑦 = (−2𝑥𝑥 + 𝑦𝑦,B 𝑦𝑦) 𝑓𝑓 𝑔𝑔 e 𝑪𝑪 . Si ha:ℝ 1 0 −2 1 a)𝑀𝑀𝑪𝑪 𝑓𝑓 =ha (nel senso classico𝑀𝑀𝑪𝑪) 𝑔𝑔il =solo autovalore (doppio) ; il corrispondente−1 1 autospazio è di0 dimensione 1 ( non è semplice). 𝑓𝑓 Il di (rispetto alla base canonica di 𝜆𝜆 ) =1è 𝐿𝐿(0,1) 1 le cui radici sono e B ; 𝑔𝑔 − 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑓𝑓 ℝ B A A i rispettivi𝑝𝑝 𝜔𝜔 = −2𝜔𝜔- spazi+ 1 (in questo caso) sono𝜔𝜔A = B 𝜔𝜔B = − Be . 𝑔𝑔 𝐿𝐿( 2 − 1, 2) b) Se fissiamo in la base , le matrici di e rispetto𝐿𝐿( ad 2essa+ 1,sono:B2) ℝ 𝑩𝑩 = 1, −1 , 1,2 𝑓𝑓 𝑔𝑔 ê A e ô B ; o o − o − o 𝑀𝑀𝑩𝑩 𝑓𝑓 = A B 𝑀𝑀𝑩𝑩 𝑔𝑔 = Wê B il di −, eo quindio i non cambianoo o ; i invece sono e ; ovviamente essi 𝑔𝑔 − 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 sono espressi nella base ; usando le loro componenti come coefficienti di combinazioni𝐿𝐿(2 lineari2 − dei 2, suoi2 − vettori 4) 𝐿𝐿(2si riottengono + 2, 1 + 2gli2 autospazi) trovati in b). 𝑩𝑩

Dimensione algebrica e geometrica dei g-valori; relazione fra esse

Sia un di , la sua molteplicità algebrica e ) la sua molteplicità geometrica secondo ; analogamente al caso classico𝜔𝜔 sussiste 𝑔𝑔 la − 𝑣𝑣𝑣𝑣relazione:𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝑚𝑚(𝜔𝜔) 𝜇𝜇 𝜔𝜔 = M dim (𝑽𝑽 . 𝑔𝑔 Ripercorrendo la dimostrazione classica osserviamo che poiché è un 1 ≤ 𝜇𝜇 𝜔𝜔 (di≤ 𝑚𝑚 ),(𝜔𝜔 ) è non banale per cui contiene non nulli e quindi: a 𝜔𝜔 M 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 . 𝑓𝑓 𝑽𝑽 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 Per dimostrare che poniamo , fissiamo in una1 base ≤ 𝜇𝜇 𝜔𝜔 a M 𝜇𝜇 𝜔𝜔 ≤ 𝑚𝑚(𝜔𝜔) 𝜇𝜇 𝜔𝜔 = 𝑠𝑠 𝑽𝑽 e la completiamo in ottenendo la base: A A õ 𝑩𝑩 = .𝒆𝒆 , 𝒆𝒆 , … , 𝒆𝒆 Risulta: 𝑽𝑽 A A õ õèA ; 𝑩𝑩 = 𝒆𝒆 , 𝒆𝒆 , … , 𝒆𝒆 , 𝒂𝒂 , … , 𝒂𝒂 ,

𝑓𝑓 𝒆𝒆A = 𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆A ⇔ 𝑓𝑓 −𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆A = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇔ 𝐴𝐴 −𝜔𝜔𝐵𝐵 𝑋𝑋A = 0;

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Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

, … B B B 𝑽𝑽 B ; 𝑓𝑓 𝒆𝒆 = 𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆 ⇔ 𝑓𝑓 −𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆 = 𝟎𝟎 ⇔ 𝐴𝐴 −𝜔𝜔𝐵𝐵 𝑋𝑋 = 0 , … õ õ õ 𝑽𝑽 õ ; 𝑓𝑓 𝒆𝒆 = 𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆 ⇔ 𝑓𝑓 −𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒆𝒆 = 𝟎𝟎 ⇔ 𝐴𝐴 −𝜔𝜔𝐵𝐵 𝑋𝑋 = 0 , … õèA õèA õèA 𝑽𝑽 õèA ; 𝑓𝑓 𝒂𝒂 = 𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒂𝒂 ⇔ 𝑓𝑓 −𝜔𝜔𝑔𝑔 𝒂𝒂 = 𝟎𝟎 ⇔ 𝐴𝐴 −𝜔𝜔𝐵𝐵 𝑌𝑌 , = 0

dove; ovviamente; sono; le matrici𝑽𝑽 colonna delle; componenti; di 𝑓𝑓 𝒂𝒂 = 𝜔𝜔rispetto𝑔𝑔 𝒂𝒂 alla⇔ base𝑓𝑓 −𝜔𝜔𝑔𝑔 rispettivamente.𝒂𝒂 = 𝟎𝟎 ⇔ 𝐴𝐴Se poniamo: −𝜔𝜔𝐵𝐵 𝑌𝑌 = 0 𝑋𝑋A, 𝑋𝑋B, … , 𝑋𝑋õ 𝒆𝒆A, 𝒆𝒆A, … , 𝒆𝒆õ 𝑩𝑩 𝑏𝑏AA𝑏𝑏AB … 𝑏𝑏Aõ𝑏𝑏A,õèA … 𝑏𝑏BA𝑏𝑏BB … 𝑏𝑏Bõ𝑏𝑏B,õèA … e 𝑀𝑀𝑩𝑩 𝑔𝑔 = … 𝑏𝑏õA𝑏𝑏õB … 𝑏𝑏õõ𝑏𝑏õ,õèA … … 𝑏𝑏;A𝑏𝑏;B … 𝑏𝑏;õ𝑏𝑏;,õèA …

𝑎𝑎AA = 𝜔𝜔𝑏𝑏AA𝑎𝑎AB = 𝜔𝜔𝑏𝑏AB … 𝑎𝑎Aõ = 𝜔𝜔𝑏𝑏Aõ … 𝑎𝑎BA = 𝜔𝜔𝑏𝑏BA𝑎𝑎BB = 𝜔𝜔𝑏𝑏BB … 𝑎𝑎Bõ = 𝜔𝜔𝑏𝑏Bõ … … 𝑀𝑀𝑩𝑩 𝑓𝑓 = 𝐴𝐴 =𝜔𝜔𝐵𝐵 = 𝑎𝑎õA = 𝜔𝜔𝑏𝑏õA𝑎𝑎õB = 𝜔𝜔𝑏𝑏õB … 𝑎𝑎õõ = 𝜔𝜔𝑏𝑏õõ … si ha che l’equazione caratteristica (secondo… ) di , cioè ;A ;A ;B ;B ;õ ;õ è: 𝑎𝑎 = 𝜔𝜔𝑏𝑏 𝑎𝑎 = 𝜔𝜔𝑏𝑏 … 𝑎𝑎 = 𝜔𝜔𝑏𝑏 … 𝑔𝑔 𝑓𝑓 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 ( 𝐴𝐴 − 𝜔𝜔𝜔𝜔) = 0,

𝜔𝜔𝑏𝑏AA − 𝜔𝜔𝑏𝑏AA 𝜔𝜔 𝑏𝑏AB − 𝜔𝜔𝜔𝜔AB … 𝜔𝜔𝑏𝑏BA − 𝜔𝜔𝑏𝑏BA 𝜔𝜔 𝑏𝑏BB − 𝜔𝜔𝜔𝜔BB … ovvero: … 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 = 0 𝜔𝜔𝑏𝑏õA − 𝜔𝜔𝑏𝑏õA 𝜔𝜔 𝑏𝑏õB − 𝜔𝜔𝑏𝑏õB … … 𝜔𝜔𝑏𝑏;A − 𝜔𝜔𝑏𝑏;A 𝜔𝜔 𝑏𝑏;B − 𝜔𝜔𝑏𝑏;B … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏AA 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏AB … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏Aõ … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏BA 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏BB … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏Bõ … e quindi: … 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 = 0 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏õA 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏õB … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏õõ … … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏;A 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏;B … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑏𝑏;õ …

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Adriano Maniglia, Antonella Rochira

𝑏𝑏AA𝑏𝑏AB … 𝑏𝑏Aõ … 𝑏𝑏BA𝑏𝑏BB … 𝑏𝑏Bõ … che è un’equazione del tipo: õ … 𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 = 0 𝑏𝑏õA𝑏𝑏õB … 𝑏𝑏õõ … …

𝑏𝑏;A𝑏𝑏;B … 𝑏𝑏;õ … che ha come radice di molteplicitàõ almeno ; ovviamente è un polinomio di grado minore o uguale𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 di 𝑄𝑄(𝜔𝜔) =0 𝜔𝜔 𝑠𝑠 𝑄𝑄 𝜔𝜔 𝑛𝑛 −𝑠𝑠. Endomorfismi semplici in senso generalizzato o

Ricordiamo che nel caso classico se è un 𝒈𝒈endomorfismo − 𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔𝒔 di , detti i suoi distinti e con i relativi 𝑓𝑓 a a a 𝑽𝑽 si possono presentare due eventualità: l n v 𝜔𝜔A, 𝜔𝜔A, … , 𝜔𝜔K 𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎 𝑽𝑽M , 𝑽𝑽M , … , 𝑽𝑽M 1) ; 𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎 a 2) N; 𝑽𝑽 =⊕=@A,…,K 𝑽𝑽M nel caso 1) è detto diagonalizzabile´ o semplice. Allora è immediato, nel 𝐕𝐕 ⊃⊕ß@A,…,® 𝐕𝐕©™ caso sia un dare la definizione di o di 𝑓𝑓 per . 𝑔𝑔 𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎, 𝑔𝑔 − 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑à; Ripercorrendo𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 poià dimostrazioni𝑓𝑓 note si può provare che: 𝑓𝑓 è 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑠𝑠𝑠𝑠 ⇔ ∃ 𝑖𝑖𝑛𝑛 𝑽𝑽 𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢 𝑏𝑏𝑏𝑏𝑏𝑏𝑏𝑏 𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓𝑓 𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑑𝑑𝑑𝑑 𝑓𝑓

a = dove ovviamente è il numeroMN dei 𝑎𝑎) 𝜔𝜔 ∈ 𝑲𝑲 ∀ distinti di𝑖𝑖 = 1,2,. Risulta … , 𝑝𝑝 𝑓𝑓 è 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑠𝑠𝑠𝑠 ⇔ 𝑽𝑽 =⊕𝑽𝑽 ⇔ = = evidente che se ha , essi risultano𝑏𝑏) 𝜇𝜇 𝜔𝜔 semplici= 𝑚𝑚 𝜔𝜔e quindi, ∀𝑖𝑖 = da 1,2, quanto … , 𝑝𝑝 precede, è sicuramente𝑝𝑝 . 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 Per ultimo osserviamo𝑓𝑓 𝑛𝑛 𝑔𝑔 che − 𝑣𝑣𝑎𝑎 𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎𝑎se è e se sono i 𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 distinti di , indicato con: A B K una base di 𝑓𝑓 formata𝑔𝑔 − 𝑠𝑠da𝑠𝑠 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 d𝜔𝜔i ,, 𝜔𝜔 , … , 𝜔𝜔 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 a A A ;l una base diM l formata da di , 𝑩𝑩 = 𝒗𝒗 , … , 𝒗𝒗 𝑽𝑽 a 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 l n 𝑩𝑩B = 𝒗𝒗; èA, … , 𝒗𝒗; una𝑽𝑽 baseMn di formata𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣 da𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 di allora: a K ;v∞lèA ;v ; Mv 𝑩𝑩 = 𝒗𝒗 , …è ,una 𝒗𝒗 base= 𝒗𝒗 di formata da𝑽𝑽 d𝑔𝑔i . − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓, Essendo poi: 𝑩𝑩 = 𝒗𝒗A,…, 𝑣𝑣; 𝑽𝑽 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 … … 𝑓𝑓 𝒗𝒗A = 𝜔𝜔A𝑔𝑔 𝒗𝒗A 𝑓𝑓 𝒗𝒗A = 𝜔𝜔A𝑔𝑔 𝒗𝒗A 𝑓𝑓 𝒗𝒗;lèA = 𝜔𝜔B𝑔𝑔 𝒗𝒗;lèA … 𝑓𝑓 𝒗𝒗;n = 𝜔𝜔B𝑔𝑔 𝒗𝒗;n si ha: v∞l v∞l 𝑓𝑓 𝒗𝒗; èA = 𝜔𝜔K𝑔𝑔 𝒗𝒗; èA 𝑓𝑓 𝒗𝒗; = 𝜔𝜔K𝑔𝑔 𝒗𝒗;

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Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

, 𝑀𝑀𝑩𝑩 𝑓𝑓 = 𝑓𝑓 𝒗𝒗A ,… 𝑓𝑓 𝒗𝒗;èA ,… 𝑓𝑓 𝒗𝒗; = dove stanno ad indicare le colonne delle componenti = 𝜔𝜔A 𝑔𝑔 𝒗𝒗A , … , 𝜔𝜔B 𝑔𝑔 𝒗𝒗;lèA , … , 𝜔𝜔; 𝑔𝑔 𝒗𝒗; dei vettori rispetto alla base . Le matrici e 𝑓𝑓 𝒗𝒗A , 𝑓𝑓 𝒗𝒗B ,… sono simili; se A è laB matrice di passaggio dalla base alla 𝑩𝑩base , allora𝑩𝑩 sussiste la relazione:𝑓𝑓 𝒗𝒗 , 𝑓𝑓 𝒗𝒗 ,… 𝑩𝑩 𝑀𝑀 𝑓𝑓 𝑀𝑀 𝑓𝑓 𝑃𝑃 . 𝑩𝑩 𝑩𝑩 WA 𝑩𝑩 𝑩𝑩 𝑀𝑀 𝑓𝑓 = 𝑃𝑃 𝑀𝑀 𝑓𝑓 𝑃𝑃 Caso in cui non è automorfismo di

Sia 𝒈𝒈 , non iniettivo; 𝑽𝑽in tal caso non è banale e dall’equazione vettoriale: 𝑔𝑔 ∈ 𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒 𝑽𝑽 𝑔𝑔 (8) ker (𝑔𝑔) segue : 𝑓𝑓 𝒖𝒖 = 𝜔𝜔𝜔𝜔(𝒖𝒖) ; 𝒖𝒖 ∈ ker 𝑔𝑔 ⇒ 𝑔𝑔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⟹ 𝜔𝜔𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ∀𝜔𝜔 ∈𝑲𝑲⟹ dunque 𝑽𝑽 , e quindi il problema della ricerca dei ⟹ 𝑓𝑓 𝒖𝒖 e= dei 𝟎𝟎 ⟹ 𝒖𝒖 ∈ ker (𝑓𝑓)di ha senso solo in questa eventualità. Sempre dalla (8) segueker che (𝑔𝑔) se ⊂ ker (𝑓𝑓) , allora , cioè 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝑓𝑓 e quindi è sottospazio di tutti𝑽𝑽 i 𝑢𝑢 ∈ ker 𝑔𝑔 𝑓𝑓 𝒖𝒖 = 𝜔𝜔𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 ∀𝜔𝜔 ∈𝑲𝑲 di . Osserviamo infin𝑽𝑽 e che, sempre se non è iniettivo, per ogni base di si𝑓𝑓 ha: − 𝜔𝜔𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 ∀𝜔𝜔 ∈𝑲𝑲 ker (𝑔𝑔) 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝑓𝑓 , 𝑔𝑔 𝑩𝑩 𝑽𝑽

e quindi il𝑩𝑩 grado del caratteristico di è minore di ; ne segue𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟𝑟 che (𝑀𝑀la somma𝑔𝑔 ) < delle𝑛𝑛 molteplicità dei di è anch’essa minore di , e così pure la somma𝑔𝑔 − 𝑝𝑝delle𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 dimensioni𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 dei 𝑓𝑓 . Ciò comporta𝑛𝑛 ovviamente che per non si può parlare più𝑔𝑔 di − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 nel senso già trattato𝑛𝑛 . Considerando però che nel discorso 𝑔𝑔 è − 𝑠𝑠𝑠𝑠possibile𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 fare alcune considerazioni che portano,𝑓𝑓 in alcuni casi, ad una𝑔𝑔 scomposizione − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠à di nella somma diretta di suoi sottospazi legati ad e a ker. (𝑔𝑔) Consideriamo i distinti di e i 𝑽𝑽relativi 𝑓𝑓 𝑔𝑔 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝜔𝜔A, 𝜔𝜔B, … , 𝜔𝜔K 𝑓𝑓 ; 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠a 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 a a poichéMl A Mn , indichiamoB conMv il sottospazioK 𝑽𝑽 = ker 𝑓𝑓a −𝜔𝜔 𝑔𝑔 , 𝑽𝑽 = ker 𝑓𝑓 −𝜔𝜔 𝑔𝑔 , … , 𝑽𝑽 = kera 𝑓𝑓 −𝜔𝜔 𝑔𝑔 supplementare di MN in , cioè poniamo: MN ker (𝑔𝑔) ⊂𝑽𝑽 ∀𝑖𝑖 = 1,2,a … , 𝑝𝑝 𝑾𝑾 MN . a ker (𝑔𝑔)a 𝑽𝑽 E’M evidenteN che MN è ancora un sottospazio di e che 𝑽𝑽 = 𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘𝑘(𝑔𝑔)a ⊕𝑾𝑾 ∀𝑖𝑖 =a 1,2, … , 𝑝𝑝a 𝑾𝑾Ml + 𝑾𝑾Mn + ⋯ 𝑾𝑾Mv . 𝑽𝑽 a a a 𝑾𝑾Ml + 𝑾𝑾Mn + ⋯ 𝑾𝑾Mv ∩ ker 𝑔𝑔 = 𝟎𝟎𝑽𝑽

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Adriano Maniglia, Antonella Rochira

Dimostriamo ora che la somma è diretta. a a a Procediamo per induzione. l n v 𝑾𝑾M + 𝑾𝑾M + ⋯ 𝑾𝑾M Sia e siano e ,con , due di , e a i relativi e sia ; si ha: l 𝑝𝑝 =2 𝜔𝜔A 𝜔𝜔B 𝜔𝜔A ≠ 𝜔𝜔B 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝑾𝑾M a e a a 𝑾𝑾Mn 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝒖𝒖 ∈ 𝑾𝑾Ml ∩ 𝑾𝑾Mn ; 𝑓𝑓 𝒖𝒖 = 𝜔𝜔A𝑔𝑔 𝒖𝒖 𝑓𝑓 𝒖𝒖 = 𝜔𝜔B𝑔𝑔 𝒖𝒖 ⇒ ( 𝜔𝜔A − 𝜔𝜔B) 𝑔𝑔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇒ ma è un vettore𝑽𝑽 sia di sia di che sono sottospazi supplementari 𝑔𝑔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 ⇒ 𝒖𝒖 ker (𝑔𝑔)a a di in e in , rispettivamentel ne quindi = . 𝒖𝒖 𝑾𝑾M 𝑾𝑾M Supponiamoa ora l’assertoa vero per ( ) e dimostriamolo per ker (𝑔𝑔) 𝑽𝑽Ml 𝑽𝑽Mn 𝒖𝒖 𝟎𝟎𝑽𝑽 . Siano e sia:𝑝𝑝 −1 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝑝𝑝 a a . (9) 𝒖𝒖A ∈ 𝑾𝑾Ml, … , 𝒖𝒖𝒑𝒑 ∈ 𝑾𝑾Ml Applicando (che è lineare) ad ambo i membri avremo: 𝒖𝒖A + 𝒖𝒖B + ⋯ + 𝒖𝒖K = 𝟎𝟎𝑽𝑽

𝑓𝑓

𝑓𝑓 𝒖𝒖A + 𝒖𝒖B + ⋯ + 𝒖𝒖K = 𝑓𝑓 𝟎𝟎𝑽𝑽 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇒ +…+ (10) 𝑓𝑓 𝒖𝒖A + … + 𝑓𝑓 𝒖𝒖K = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇒

𝜔𝜔A𝑔𝑔 𝒖𝒖𝟏𝟏 𝜔𝜔K𝑔𝑔 𝒖𝒖𝒑𝒑 = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇒ . (11) 𝑔𝑔(𝜔𝜔A𝒖𝒖A + ⋯ + 𝜔𝜔K𝒖𝒖K) = 𝟎𝟎𝑽𝑽 ⇒ Moltiplicando la (9)A perA si ha:K K 𝑽𝑽 𝜔𝜔 𝒖𝒖 + ⋯ + 𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 ; (12) 𝜔𝜔A Sottraendo (12)A daA ( 11)A si Bottiene: A K 𝑽𝑽 𝜔𝜔 𝒖𝒖 + 𝜔𝜔 𝒖𝒖 + ⋯ + 𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎

Da cui, per l’ipotesiB induttiva,A B si ottiene:K A) K 𝑽𝑽 (𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 )𝒖𝒖 + ⋯ + (𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 ⇒

e quindi: B A B K A) K 𝑽𝑽 (𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 )𝒖𝒖 = ⋯ = (𝜔𝜔 − 𝜔𝜔 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 sostituendo poi nella (9) siB ottieneo anche K 𝑽𝑽 ; la dimostrazione è così 𝒖𝒖 = 𝒖𝒖 = ⋯ = 𝒖𝒖 = 𝟎𝟎 criterio; completata. Possiamo dunque concludere dandoA un 𝑽𝑽 di per che in effetti generalizza quello del caso𝒖𝒖 non= 𝟎𝟎degenere enunciato nel n°7: è in una𝑔𝑔 base − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 di𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠à 𝑓𝑓 di 𝑽𝑽 𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 ⇔ ∃ (𝑽𝑽 − ker 𝑔𝑔 )⋃ 𝟎𝟎 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓) ⇔ a a a ⇔ 𝑽𝑽 = ker 𝑔𝑔 ⊕ 𝑾𝑾Ml ⊕ 𝑾𝑾Mn ⊕, … ⊕ 𝑾𝑾𝒑𝒑 ⇔ = 𝑎𝑎)𝜔𝜔j ∈ 𝑲𝑲 ∀𝑖𝑖 = 1, … , 𝑝𝑝 ⇔ = = dove si𝑏𝑏)𝜇𝜇 è indicato𝜔𝜔 = 𝑚𝑚con𝜔𝜔 ∀ la 𝑖𝑖dimensione= 1, … , 𝑝𝑝 di . Esempi: j a 𝜇𝜇 𝜔𝜔= 𝑾𝑾MN 1) Siano e gli endomorfismi di definito da: o 𝑓𝑓 𝑔𝑔 ℝ

79 11

Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori

e . 𝑓𝑓 𝑥𝑥, 𝑦𝑦,𝑧𝑧 = (𝑦𝑦 − 𝑧𝑧,si trova 2𝑥𝑥, 𝑥𝑥+2𝑧𝑧) che , che il 𝑔𝑔 𝑥𝑥, 𝑦𝑦,𝑧𝑧 = (−𝑥𝑥di è + 𝑦𝑦, 𝑥𝑥 −𝑦𝑦+𝑧𝑧,𝑧𝑧) , che i di sono: Con semplici calcoli ker 𝑔𝑔 = 𝐿𝐿( 1,1,0 ) 2- e 2+ e cheB i rispettivi sono 𝑔𝑔 − 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝 𝑓𝑓 (−2𝜔𝜔 + 8𝜔𝜔 −4) 𝑔𝑔 − 𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣𝑣 𝑓𝑓 𝜔𝜔A = e ; è dunque ( 2) 𝜔𝜔B = ( 2) 𝑔𝑔 − 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 𝐿𝐿A = 𝐿𝐿(2 2 − B in quanto: 2, 2 − 4, 2 − 2) 𝐿𝐿 = 𝐿𝐿(−2. −2 2, 4 − 2, − 2 − 2) 𝑓𝑓 𝑔𝑔 − 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑o 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 (𝑜𝑜 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠) 2) Consideriamo ancA oraA l’endomorfismo dell’esempio 1) ed un altro endomorfismoℝ = ker (𝑔𝑔) di ⊕𝐿𝐿 ⊕ definito 𝐿𝐿 da ; sempre con semplici calcoli osi trovaj che j 𝑓𝑓 , che il di è e cheℝ quindi𝑔𝑔 l’unico 𝑔𝑔j 𝑥𝑥, 𝑦𝑦,𝑧𝑧 = di (−𝑥𝑥 è +j 𝑧𝑧, 𝑥𝑥+𝑧𝑧,0) . Di conseguenza non è ker 𝑔𝑔 j = 𝐿𝐿(0,1,0) 𝑔𝑔, in− 𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝𝑝quanto non è possibile𝑓𝑓 (𝜔𝜔 trovare −4) in j una base 𝑔𝑔formata− 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠 da𝑧𝑧𝑝𝑝𝑝𝑝 vettori𝑓𝑓 di𝐿𝐿(2, −13, −1) e di 𝑓𝑓. 𝑔𝑔 o− 𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑𝑑 (𝑜𝑜 𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑠𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙) j ℝ ker 𝑔𝑔 𝐿𝐿(2,−13 , −1) Conclusioni

L’argomento degli autovalori ed autovettori generalizzati non si esaurisce con quanto esposto in questo lavoro; resta da trattare tutto ciò che riguarda la Forma canonica di Jordan di un endomorfismo con particolare riferimento al Polinomio minimo ed agli Endomorfismi Triangolabili, sia nel caso sia un automorfismo, sia nel caso esso sia un endomorfismo di rango non massimo. 𝑔𝑔

Riferimenti bibliografici

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Raggi cosmici ed esperimento EEE: storia e tomografia muonica

Andrea D’Urbano

Raggi cosmici

La scoperta dei raggi cosmici avvenne studiando fenomeni elettrostatici. Fin dagli studi di Faraday si sa- peva che un elettroscopio, anche se isolato e schermato, si scaricava senza nessuna causa apparente. Si suppose quindi che questo effetto fosse dovuto all’azione di una radiazione altamente penetrante e in grado di ionizzare l’aria. Gli ioni prodotti in prossimità dell’elettroscopio vi si depositerebbero, scaricandolo. Si attribuì quindi come causa dell’effetto la radioattività naturale della Terra, ma questa tesi doveva essere dimostrata sperimentalmente. Nel 1909 il gesuita tedesco Theodor Wulf progettò e co- struì un elettroscopio per misurare la quantità di particelle Elettroscopio cariche ed onde elettromagnetiche. Per verificare l’ipotesi della radioattività naturale portò il suo elettroscopio sulla Tour Eiffel1. Se la ra- diazione fosse dovuta solo ai decadimenti radioattivi sulla crosta, l’intensità del flusso di particelle si sarebbe dovuta dimezzare ad 80 m dalla superficie. Invece sulla cima, a ben 330 m l’intensità non si era ancora dimezzata. Questi risultati non furono inizialmente presi in considerazione dalla comunità scientifica. Pochi anni più tardi il fisico italiano Domenico Pacini condusse degli esperimenti utilizzan- do elettroscopi posti sott’acqua2, 3. Se la radiazione che scaricava gli elettroscopi era effettivamente emessa dagli elementi attivi nella crosta terrestre, eseguendo le misurazioni in un luogo schermato dal basso ci si dovrebbe aspettare uno scarica- mento più lento dell’elettroscopio. Eseguendo le sue misurazioni in barca quindi, per accreditare la tesi della radioattività naturale, Pacini avrebbe dovuto misurare

1 http://timeline.web.cern.ch/timelines/cosmic-rays. 2 D. Pacini La radiazione penetrante alla superficie ed in seno alle acque, in «Nuovo Cimento», 1, 1912, pp. 93-100. 3 Id., La radiazione penetrante sul mare, in «Annali dell’Ufficio Centrale di Meteorolo- gia», XXXII, 1910, pt. I, pp. 1-17; Id., La radiation pénétrante sur la mer, in «Le radium», VIII, 1911, pp. 307-312.

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tempi maggiori del normale. Invece le variazioni minime che osservò gli fecero supporre che questa radiazione non era di origine terrestre. Qualche tempo dopo, eseguì le sue misure sott’acqua, trovando che il tempo di scaricamento aumen- tava con la profondità. Di conseguenza questa radiazione doveva avere origine extraterrestre. Negli stessi anni un fisico austriaco, Victor Hesse4 (in figura a lato), stava studiando lo stesso fenomeno affrontandolo in modo complementare a Pa- cini. Invece di scendere sott’acqua, Hesse aveva portato su un pallone areostatico le sue strumentazioni ed aveva rilevato che l’intensità della radiazione aumentava con l’altezza. Hesse effettuò le misurazioni durante un’eclissi di sole quasi totale, in questo modo ridusse le radiazioni provenienti dal sole. Registrò comunque un aumento di flusso all’aumentare dell’altezza: la radiazione doveva necessariamen- te avere origine extraterrestre. Nel 1920 Millikan5 chiamò questa radiazione con il nome di “raggi cosmici” in quanto la sua ipotesi era che si trattasse di fotoni molto energetici creati nelle stelle durante la fusione nucleare. Successivamente questi fotoni primari sarebbero andati in contro ad un processo di scattering con le mo- lecole dell’atmosfera creando gli elettroni, ossia le particelle secondarie. Questa tesi fu confutata dopo pochi anni attraverso l’effetto est-ovest. Il flusso dei raggi cosmici infatti dipende dalla latitudine magnetica e c’è una lieve asimmetria tra est ed ovest. L’intensità è maggiore infatti dall’ovest, ciò dimostra che la maggior parte delle particelle secondarie sono positive. In oltre successivi esperimenti mo- strarono che i cosmici primari sono anch’essi in gran parte carichi elettricamente. Nei decenni successivi numerosi esperimenti sia in quota o con satelliti sia a terra o sott’acqua, furono condotti per studiare la composizione e le caratte- ristiche dei raggi cosmici. I raggi cosmici primari provengono uniformemente da tutte le direzioni a basse energie, mentre per energie più alte si possono ri- scontrare delle asimmetrie nella distribuzione dovuta alla forma discoidale della galassia. Sono studi molto complessi da condurre poiché durante il loro viaggio i cosmici primari vengono deviati dai campi magnetici delle stelle e delle ga- lassie. Infatti le proprietà dei raggi cosmici, come il flusso o la distribuzione energetica non sono uniformi in tutto l’universo (vicino alle stelle ad esempio si osservano proprietà drasticamente diverse). I cosmici primari sono costituiti per circa l’89% da protoni, per il 9% circa da nuclei di elio6. La restante parte è com- posta da nuclei più pesanti, elettroni, positroni e neutrini7. Le percentuali degli elementi più pesanti non rispecchia però quelle del sistema solare e delle stelle. In particolare si ha una considerevole abbondanza di Li, Be, B, Sc, V, Cr e Mn.

4 Nobel Prize in Physics 1936 - Presentation Speech, Nobelprize.org., 12 dicembre 1936. 5 C.D. Anderson, The Positive Electron, in «Physical Review», 43, 1933, pp. 491-494. 6 http://cds.cern.ch/record/1997421. 7 «What are cosmic rays?». NASA, Goddard Space Flight Center; https://web.archive.org/ web/20121028154200/http://imagine.gsfc.nasa.gov/docs/science/know_l1/cosmic_rays.html.

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Questi elementi sarebbero praticamente assenti nella fase finale della nucleo- sintesi stellare. L’abbondanza di questi elementi è dovuta all’interazione tra i raggi cosmici e il mezzo interstellare che producono reazioni di fissione (non si deve dimenticare che le velocità delle particelle in questione sono relativistiche). Infatti dall’ossigeno discendono Li, Be e B mentre dal ferro hanno origine Sc, V, Cr e Mn. Basando i calcoli sulle probabilità di interazione tra il mezzo inter- stellare e i CR, e sapendo la densità del mezzo interstellare e la velocità delle particelle in questione, si può ricavare il tempo di permanenza dei raggi cosmici nella galassia. Si scopre così che essi devono essere stati diffusi più volte dal campo magnetico della galassia. Tramite lo spettro energetico del raggi cosmici (che copre ben 14 ordini di grandezza), possiamo ipotizzare le sorgenti che li producono. I CR più energetici

provengono da altre galassie e sono dovuti a meccanismi di accelerazione come nuclei galattici attivi e quasar. L’interazione con il mezzo stellare e addirittura con la radiazione di fondo ha però fatto sorgere un problema: esiste un cut-off energetico dei raggi cosmici? Secondo le previsioni teoriche di Graisen-Zatse- pin-Kuz’min (effetto GZK)8, un protone che viaggia con un energia di circa 1020 eV, scontrandosi con un fotone della radiazione cosmica di fondo (≈10-3 eV),

8 G.T. Zatsepin, V.A. Kuz’min, Upper Limit of the Spectrum of Cosmic Rays, in «Journal of Experimental and Theoretical Physics Letters», Agosto 1966, http://www.jetpletters.ac.ru/ ps/1624/article_24846.pdf.

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perde rapidamente energia attraverso la produzione di pioni. Questo effetto vin- cola la distanza alla quale la sorgente di raggi cosmici deve trovarsi e l’energia massima che un raggio cosmico può avere, l’una a circa 50 Mpc (1 parsec ≈ 3,2 anni luce) dalla Terra, e l’altra a circa 1018 eV . Tuttavia evidenze sperimentali di- mostrano che esistono particelle con energia superiore a quella massima teorica- mente possibile. E inoltre non esistono sorgenti conosciute entro questo raggio, sufficientemente potenti da fornire alle particelle un’energia così elevata. Questo problema del cut-off è uno di quelli ai quali gli esperimenti odierni di fisica dei raggi cosmici stanno cercando di dare una risposta.

Flusso dei CR primari

I raggi cosmici primari provengono uniformemente da tutte le direzioni e la loro energia copre diversi ordini di grandezza. La componente carica dei raggi cosmici primari viene deviata dai campi magnetici presenti sul loro cammino, il campo magnetico galattico ad esempio, mentre la parte neutra mantiene quasi del tutto inalterata la direzione di della sorgente (a meno di effetti di lenti gravi- tazionali ad esempio). Il flusso in funzione dell’energia è rappresentato da una legge esponenziale. Il flusso misurato sperimentalmente con diversi esperimenti per unità di tempo, di superficie, di energia (1 GeV=109 eV) e di angolo solido è rappresentato in figura in un grafico con scale logaritmiche su entrambi gli assi:

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Come si può vedere il flusso decresce rapidamente in funzione dell’energia, fino ad arrivare addirittura ad una particella per secolo alle energie più eleva- te. Il grafico presenta due variazioni di pendenza chiamate ginocchio (a circa 3.1015eV) e caviglia (a circa 1018eV)9. Si ipotizza che i raggi cosmici con energie inferiori al ginocchio siano di origine galattica, a causa degli effetti di confina- mento dei raggi cosmici nella galassia. Tutte le galassie hanno un campo magne- tico che produce una curvatura delle particelle cariche secondo la legge di Lo- rentz. Le particelle che hanno un’energia tale da ottenere un raggio di curvatura superiore a quello del campo magnetico (approssimativamente a quello della ga- lassia) riescono a fuggire dalla galassia mentre tutti quelli ad energia inferiore vi restano confinati. Dopo il ginocchio una frazione sempre maggiore di CR riesce a fuggire dal campo magnetico della galassia fino ad arrivare alle energie della caviglia, oltre la quale i CR sono quasi esclusivamente di origine extragalattica. Ad energie superiori di 1020 eV, si osserva una rapida diminuzione dovuto all’ef- fetto GZK (interazione dei CR con il fondo di microonde). Per poter studiare i raggi cosmici si possono seguire diversi metodi: o studiare direttamente i CR primari da satelliti, oppure, ad energie superiori, quando cioè il flusso diventa poco significativo, si utilizzano array di telescopi a terra per rivelare gli sciami atmosferici prodotti dall’interazione di primari molto energetici con l’atmosfera.

CR secondari

Quando un raggio cosmico interagisce con una molecola dell’atmosfera produce un cosiddetto sciame atmosferico. Uno sciame atmosferico è formato approssimativamente da un disco sottile di particelle relativistiche, perpendicolare alla direzione di arrivo del primario. Uno sciame ha tre com- Coordinate sferiche Q f ponenti: adronica, muonica ed elettromagnetica. Gli adroni e nello spazio tridi- mensionale. di alta energia producono pioni carichi e neutri dalla colli- sione con altre particelle. I pioni generati decadono emettendo muoni e neutrini oppure fotoni. I fotoni più energetici producono sottosciami elettromagne- tici, creando coppie elettrone-positrone che si alter- nano a fenomeni di Bremsstrahlung (produzione di fotoni da parte di elettroni rallentati, ad esempio dal campo elettrico di un nucleo). Il flusso di CR secon- dari si può dividere in parte “soft” e parte “hard”. La

Rivelazione di un positrone. 9 http://cds.cern.ch/record/1997421.

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prima non riesce a penetrare i dieci centimetri di piombo mentre la seconda non ne viene schermata. Attraverso esperimenti condotti con camere a nebbia, si sco- prirono grazie ai raggi cosmici l’antimateria e molte nuove particelle. Per esempio il positrone10 (antiparticella dell’elettrone scoperto nel 1932 da Carl Anderson) venne rivelato per mezzo dei raggi cosmici. L’esperimento consisteva essenzial- mente in una camera a nebbia per rivelare le tracce delle particelle ed un campo magnetico per far curvare la traiettoria delle particelle e discriminare le particelle neutre da quelle cariche. Quando una particella lascia la traccia nella camera a nebbia non è possibile sapere a priori il verso del suo moto. Per ovviare a questo problema e discriminare il segno della carica si mise una lastra di piombo nella camera a nebbia. In questo modo, dal momento che il raggio di curvatura delle particelle dipende dalla loro velocità, andando ad esaminare la traccia si poteva capire il moto della particella nel campo magnetico ricavandone il segno (come in figura). Da successive misurazioni ed esperimenti si vide che la massa di questa nuova particella corrispondeva a quella di un elettrone. Si scoprirono con i raggi cosmici anche i muoni (i leptoni carichi di seconda famiglia) grazie alla misurazione della loro massa. La componente più penetran- te per eccellenza è quella muonica, che arriva a livello del mare quasi inalterata. I muoni data la loro vita media non potrebbero in condizioni normali percorrere per intero tutta l’atmosfera. Però, poiché viaggiano a velocità relativistiche, su- biscono una dilatazione temporale che permette loro di raggiungere la superficie terrestre senza decadere. Essi mantengono con poca deviazione la direzione del fascio e quindi per questi motivi sono le particelle studiate di più per ottenere informazione circa la direzione del fascio. La distribuzione del flusso di raggi cosmici secondari è essenzialmente iso- tropa rispetto all’angolo azimutale (indicato con φ), senza considerare un lievis- simo effetto est ovest, dovuto al campo magnetico terrestre. La distribuzione ri- spetto all’angolo zenitale invece dipende da una potenza del coseno dell’angolo (indicato per convenzione come θ). L’esponente dipende dalla componente dello sciame: j (θ,φ) = jcosⁿ (θ)

Nel caso della componente dura, e dei muoni in particolare, n=2. Quindi la distribuzione angolare dei CR al suolo dipende essenzialmente da theta e dal il flusso verticale11.

10 «What are cosmic rays?». NASA, Goddard Space Flight Center, cit. 11 D.E. Groom, N.V. Mokhov, S.I. Striganov, Muon stopping-power and range tables: 10 MeV–100 TeV, in «Atomic Data and Nuclear Data Tables», 1978, pp. 183-356 (2001).

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Conoscere l’andamento di queste distribuzioni è fondamentale. Per esempio se si vuole trovare un modo per correggere i dati ottenuti un rivelatore di un acceleratore si deve tenere conto dei raggi cosmici. Di solito questo tipo di espe- rimenti sono ben schermati (si trovano infatti spesso sotto terra), tuttavia una percentuale di raggi cosmici può penetrar fino a questi rivelatori. Conoscendo però le distribuzioni delle direzioni e del flusso dei raggi cosmici, si possono trovare metodi per correggere i dati ottenuti. Un altro metodo per il quale è indispensabile la conoscenza di queste distribuzioni è la caratterizzazione di ri- velatori quando non si possono usare fasci prodotti artificialmente. Basta infatti confrontare i flussi di CR misurati dal rivelatore che si vuole caratterizzare e da un altro con efficienza nota. Esistono poi dei metodi per fare delle tomografie muoniche, ossia per studiare il profilo e la densità di oggetti di dimensioni trop- po ampie da poter essere studiate con fasci prodotti artificialmente (ed esempio palazzi, edifici vulcanici, ecc.).

Sorgenti e meccanismi di accelerazione

Oltre agli studi sul flusso dei raggi cosmici, il campo di ricerca più interes- sante consiste nella ricerca, tanto sperimentale quanto teorica, di sorgenti e mec- canismi di produzione di raggi cosmici. I fisici si sono accorti che i CR proven- gono uniformemente da tutte le direzioni dello spazio, di conseguenza non può essere solo il Sole ad accelerare a produrre queste particelle. Studi approfonditi sul flusso e sull’origine dei raggi cosmici hanno individuato un’origine solare in quelli aventi energia circa fino a 1010 eV. Queste particelle vengono denominate vento solare. Per energie superiori, dell’ordine di 1017 eV, si ipotizza un’origine prevalentemente galattica, causata da meccanismi di accelerazione nelle super- nove. Per energie ancora maggiori invece si ipotizza un’origine extragalattica, ma esistono svariati problemi legati al limite massimo di energia raggiungibile, l’ubicazione e la tipologia di sorgenti in grado di produrre particelle con energie così elevate e l’interazione dei CR con la radiazione di fondo (effetto GZK). Esistono principalmente due meccanismi di accelerazione che vengono stu- diati e sono: l’accelerazione per mezzo di un campo elettromagnetico e accele- razione statistica. L’accelerazione mediante un campo elettrico avviene solita- mente in prossimità di corpi celesti con forti campi elettromagnetici come ad esempio pulsar o dischi di accrescimento di buchi neri. Per quanto riguarda i meccanismi di accelerazione elettromagnetici localiz- zati vicino a corpi celesti di piccole dimensioni ma con grandi campi elettro- magnetici oscillanti, si devono considerare le drastiche perdite di energia per collisioni, che non permettono di ottenere una legge di tipo esponenziale come osservato sperimentalmente.

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Il secondo meccanismo di accelerazione è di tipo statistico. Originariamente ipotizzato da Fermi, questo meccanismo permette di ottenere particelle con ener- gie elevatissime, che seguono l’andamento esponenziale. Il primo meccanismo di Fermi, è chiamato del secondo ordine poiché l’incremento di energia è pro- porzionale a b2, dove = bv/c. L’idea consiste nell’accelerazione dei raggi cosmici mediante successivi urti elastici con nubi di plasma in violenta espansione. In questo modo l’energia guadagnata è molto bassa dal momento che le nubi hanno velocità relativamente piccole rispetto a c, e gli andamenti del flusso teorico non combaciano con le osservazioni sperimentali. Negli anni seguenti è stato invece sviluppato un altro modello di accelerazione statistica, chiamato Fermi II o meccanismo di accelerazione di Fermi del primo ordine. In questo modello le particelle vengono accelerate tramite collisioni con uno shock del fluido, il getto di plasma di una supernova ad esempio. Le particelle scontrandosi con l’onda d’urto acquistano energia proporzionalmente a b. L’energia raggiunta da questo processo dipende sostanzialmente dal tempo di vita della sorgente, dato che le particelle possono attraversare diverse volte lo shock acquistando ogni volta energia12.

12 https://fermi.gsfc.nasa.gov/science/mtgs/summerschool/2012/week1/CR2_Blasi.pdf, pp. 5-20.

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Esistono però dei modelli teorici differenti da quelli di accelerazione, che consentono di ottenere particelle con le energie elevatissime. Essi sono i cosid- detti modelli “top-down”, che eliminano il problema del raggiungimento dell’e- nergia all’origine. Infatti invece di cercare dei meccanismi di accelerazione, si ipotizza che i CR di altissima energia siano in realtà i prodotti di decadimento di particelle supermassive sconosciute. Queste particelle potrebbero essere origina- te in “difetti topologici” ossia zone di spazio caratterizzate da condizioni simili a quelle dei primi istanti di vita dell’universo nelle quali esisteva una “simmetria” nelle equazioni che descrivevano un’ipotetica unica forza fondamentale. Op- pure potrebbero essere delle particelle createsi durante la liberazione di energia causata dalla scissione della forza forte dalle altre prima del periodo inflaziona- rio dell’espansione dell’universo (supponendo corrette quelle teorie). In questo caso dovrebbero avere una vita media confrontabile con la vita dell’universo ed essere in numero tale da generare un flusso apprezzabile. Non dovrebbero tro- varsi però a più di 100 Mpc dalla terra per non subire perdite di energia dovute all’effetto GZK. Queste teorie necessitano di una verifica sperimentale molto complessa data la difficoltà nell’investigare a queste energie.

Il progetto EEE

Il progetto EEE nasce con un duplice scopo: creare un array di telescopi di MRPC sul tutto il territorio nazionale per studiare i raggi cosmici di altissima energia, e contem- poraneamente far avvicinare i giovani delle scuole superio- ri al mondo della fisica delle particelle. L’esperimento na- sce da un’idea del prof. Antonino Zichichi, che nel Maggio del 2004 ha presentato il progetto all’allora Ministro dell’I- struzione, dell’Università e della Ricerca, L. Moratti, e al CERN. Dopo una fase preliminare di avvio che vedeva coinvolte 7 scuole pilota, tra cui il Liceo scientifico “G. Banzi Bazoli” di Lecce l’esperimento ha iniziato a coinvolgere circa quaranta scuole distribuite su tutto il territorio nazionale. Ogni edificio scolastico che aderisce al progetto deve dare la disponibilità di un vano nel quale alloggiare il telescopio MRPC. I telescopi usati in questo espe- rimento sono formati da tre camere rettangolari MRPC sovrapposte. Lo scopo del progetto è quello di ricostruire la direzione del fascio primario attraverso lo studio dei raggi cosmici secondari (ossia tutta la pioggia di particelle scaturite dall’intera- zione del fascio primario con le molecole dell’atmo- sfera). Per poter ricostruire la direzione del fascio in relazione alla posizione terrestre intorno al Sole, ogni

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evento deve essere sincronizzato con un sistema GPS, che permette di conoscere oltre alle varie informazioni sulla particella incidente anche esattamente l’orario (con precisione fino al μs) e la posizione terrestre. Le particelle che vengono studiate sono i muoni, poiché conservano con poche distorsioni la direzione del fascio primario dal momento che in linea di massima derivano da decadimenti nell’alta atmosfera e giungono fino al livello del mare quasi senza subire altre interazioni. Tramite la coincidenza di eventi in più rivelatori posti nella stessa città, si può risalire quindi sia alla direzione originale del fascio, sia e soprattutto alla grandezza del fronte dello sciame di particelle. Più è ampio il raggio del fascio maggiore è l’energia del raggio cosmico primario. Tutti i dati acquisiti dal rivelatore sono inviati al CNAF di Bologna, un centro di elaborazione dati che con diversi supercomputer analizza le informazioni ottenute in ogni evento e cerca coincidenze tra diversi telescopi ottenendo così le informazioni cercate sui fasci primari. Gli studenti possono invece analizzare gli eventi del proprio telescopio, attraverso software preinstallati insieme ai programmi necessari al controllo del rivelatore o alternativamente utilizzando altri programmi di analisi dati (come ad esempio root)13.

MRPC

I rivelatori utilizzati nel progetto E.E.E. sono dei telescopi di MRPC (multi- gap resistive plate chamber). Un MRPC è essenzialmente una camera formata da due pannelli di alluminio posti parallelamente, riempita di un gas particolare che si ionizza al passaggio di particelle cariche. Le camere multigap a piani resistivi utilizzate in questo esperimento sono ottimizzate per rivelare muoni derivanti dallo scontro del fascio primario con l’atmosfera (EAS, estensive air showers). Un complesso di tre o più rilevatori, è chiamato telescopio proprio perché ci permette di “guardare” al cielo, ossia di capire la direzione della parti- cella incidente e quindi di dedurre la direzione del CR che la ha prodotta. Questi tipi di rivelatori, a differenza degli scintillatori ad esempio, ci dicono il punto esatto di incidenza della particella sulla superficie attiva di rivelazione. Quindi per ricostruire la traccia della particella, basterà trovare la retta individuata dai punti sulle camere dai quali proviene il segnale. Sappiamo che per due punti pas- sa una e una sola retta, allora come mai si devono utilizzare minimo tre camere e di conseguenza tre punti per individuare la retta della direzione del muone? Le camere sono sottoposte ad una differenza di potenziale tale da poter innesca- re essa stessa delle ionizzazioni spontanee nel gas. Esse generano il così detto

13 http://www.centrofermi.it/docs/files/projects/EEE.pdf.

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rumore di fondo, ossia dei segnali dovuti all’apparato sperimentale. Per poter distinguere quindi un segnale “spontaneo” da uno provocato effettivamente da una particella carica, si utilizzano tre camere. Infatti mentre per ogni coppia di segnali (effettivo o no) in solo due camere si può tracciare una retta, per tre punti casuali non si può dire lo stesso. Infatti la probabilità che si generino tre segnali allineati spazialmente e in ordine temporale è minima. Tramite lo studio della correlazione temporale dei segnali nelle diverse camere, possiamo ricavare varie informazioni. Innanzi tutto la direzione della particella incidente: se ab- biamo tre segnali in ordine dall’alto il muone proverrà da uno sciame prodotto dalla collisione di un raggio primario con l’atmosfera. Se invece i segnali indi- cheranno che la particella proviene dal basso, si avrà effettivamente un muone proveniente dal basso. I muoni provenienti dal basso sono di gran lunga più rari di quelli originati nell’atmosfera. Essi sono prodotti dall’interazione debole di un neutrino con la materia. Un’altra informazione importantissima è il tempo di volo (TOF, time of flight). Esso, com’è intuibile dal nome stesso, è il tempo che intercorre durante il passaggio della particella da una camera alla successiva. Grazie al tempo e alla direzione possiamo ricavare la velocità della particella che ci fornisce informazione sull’energia del muone e di conseguenza su quella del raggio primario. Dopo aver analizzato il funzionamento generale del telescopio andiamo ad analizzare il funzionamento di una singola camera. I rivelatori a gas sfruttano, in generale, la ionizzazione di una molecola del gas da parte di una particella carica esterna che si vuole rivelare. Una volta ionizzata la molecola, essa tenderebbe a tornare al suo stato iniziale per le forze elettrostatiche che intercorrono tra gli ioni di carica opposta appena formati. Tuttavia è possibile, applicando una differenza di potenziale sufficientemente elevata, separare i due ioni. Una volta separati si potrà misurare la variazione di corrente che provocano su apposite strisce di rame (strips) o su unità separate di rame poste sempre in corrisponden- za dei due piani (pad)14. I rivelatori a gas possono lavorare a diversi regimi in base alla tensione e alla quantità di segnale che raccolgono. Se si analizza il comportamento di un gas al variare della tensione possiamo distinguere diverse zone di lavoro. Quando la ddp è sufficiente per separare tutti gli ioni prodotti da particelle ionizzanti, si parla di camere a ionizzazione. Esse sono in grado di rivelare le singole cop- pie ione-elettrone prodotte direttamente dalla particella. Se una volta raggiunto questo regime si prova ad aumentare ancora la tensione per un certo aumento di

14 http://aliceinfo.cern.ch/Public/en/Chapter2/Chap2_TOF.html;https://indico.cern. ch/event/517447/contributions/1197147/attachments/1254601/1851583/performan- ceEEE.pdf.

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differenza di potenziale, non otteniamo nessun aumento dei conteggi. Questo è il primo plateaux, parola che in francese indica un altopiano. Infatti in un grafico conteggi-tensione, utilizzato per studiare il comportamento del gas, troveremmo una zona piatta in questo intervallo di tensione. Il segnale prodotto dalle camere a ionizzazione però è molto basso e difficilmente maneggiabile. Se si prova ad aumentare ancora la tensione si può osservare un aumento dei conteggi. Gli elet- troni liberi provocati dalla ionizzazione della molecola da parte della particella incidente sono accelerati dal campo elettrico a velocità tali da ionizzare altre molecole del gas, che a loro volta saranno in grado di ionizzarne altre. Gli ioni assumono la caratteristica forma di goccia, determinata dalla diversa mobilità delle particelle. Gli elettroni sono raggruppati tutti vicino alla testa della goccia, e si spostano in direzione dell’anodo mentre gli ioni positivi sono più lenti e formano una struttura appuntita. Dal momento che gli elettroni sono più veloci degli ioni, si preferisce utilizzare il segnale che proviene dall’anodo. Anche se aumenta il conteggio ottenuto, sappiamo però che esso è direttamente propor- zionale alle coppie di ioni originari, quindi il segnale che noi raccogliamo è un’amplificazione proporzionale alla ionizzazione primaria. La proporzionalità varia al variare della tensione. Questi rivelatori sono detti camere proporzionali. Se si aumenta ancora la tensione si ottiene un segnale saturo, dovuto alla ioniz- zazione delle molecole del gas da parte di fotoni generati dalla diseccitazione delle molecole. Per poter aumentare ulteriormente la tensione tra gli elettrodi ed avere così un rivelatore più efficiente senza incorrere in questo problema, si introduce un gas con la funzione di assorbire i fotoni. Alcune di queste miscele sono chiamate “magic gas” poiché rispondono ad alcuni criteri specifici, come per esempio tempi di diseccitazione brevissimi, e capacità ottimali di lavoro in queste condizioni. Il gas utilizzato nel rivelatore del progetto E.E.E. è una mi- scela di freon ecologico ed esafloruro di zolfo. L’esafloruro è in percentuale del 2% circa ed è usato come “quencher” ossia per assorbire i fotoni prodotti dalla diseccitazione del freon. I tipi più semplici di rivelatori a gas sono le camere a piani paralleli (PPL). Esse sono formate da due elettrodi piani paralleli, tra i quali è fatto fluire il gas. L’intercapedine tra i due piani si chiama gap. Le strips o i pads sono attaccati dietro i piani, e captano le correnti indotte provocate dagli ioni. Anche se le PPC hanno una risposta veloce, non hanno una buona risoluzione temporale e generano segnali bassi, che necessitano di un’ottima elettronica di lettura per essere gestiti. Per ottenere una migliore risoluzione temporale e spaziale, sono stati sviluppati gli RPC, ossia le camere a piani resistivi. Quando nel gas, che fluisce a pressione atmosferica, si crea una valanga, la carica si depositerà su un’area ristretta degli elettrodi poiché sono molto resistivi, ottenendo così una maggiore precisione spaziale. La buonissima risoluzione temporale ( 1 ns per i primi test) è dovuta alle dimensioni del gap, 1.5 mm. Un problema rilevante

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però per gli RPC è la formazione di scariche nel volume di gas provocato dalle alte tensio- ni e dalla breve distanza tra gli elettrodi. Per ovviare alla formazione di queste scariche si è pensato di allontanare i due piani, ottenendo le wide gap RPC, con i piani distanti anche 7 o 8 mm. Anche se in questo modo si ha un notevo- le peggioramento della risoluzione temporale, il rilevatore presenta una capacità di accettare flussi maggiori di particelle, è meno sensibile a deformazioni rispetto alle RPC ed ha una maggiore efficienza di rivelazione. In- fine una maggiore distanza si traduce di solito in tensioni minori a parità di gua- dagno. Per poter avere tutti i vantaggi delle wide gap RPC ma una risoluzione temporale maggiore, si è pensato di suddividere il gap in tanti sottogap, creando così le MRPC ossia le multigap resistive plate chamber o camere a piani resistivi a gap multiplo. Ciò permette di avere una buonissima risoluzione temporale ed un segnale che è la somma di tutti quelli ottenuti nei vari gaps15. Gli MRPC presentano 6 gaps di spessore di 350 μm (1 μm = 10-6 m) inter- vallati da lastre di vetro spesse 2 mm (soda-lime usato per lo più per le finestre, facilmente reperibile). Le lastre di vetro sono tenute a quella distanza utilizzando del filo da pesca posto a trama e teso tra le viti laterali. Le strips di rame sono applicate ad un pannello di vetronite spesso 1.5 mm. Gli elettrodi sono posti alle estremità delle lastre di vetro. Il tutto è supportato da compensato oppure da materiali compositi a nido d’ape. La camera è chiusa poi da lastre di alluminio 2 x 1 m, perché facilmente reperibili. Le strips sono poste secondo la dimen- sione maggiore tutte parallele. A seconda della strip che riceve il segnale si può individuare una coordinata spaziale, la cui precisione è data essenzialmente dal- la larghezza delle strip. Quelle usate nell’esperimento sono larghe 25 mm. La seconda coordinata spaziale si trova dalla differenza temporale con cui arriva il segnale alle estremità di una strip. Per questo sono presenti due schede di lettura alle estremità delle camere saldate alle strips tramite cavi twisted-pairs, ossia un cavo doppio che invia un segnale differenziale. In poche parole il segnale analogico proveniente dalle strips viene sdoppiato e trasmesso in un cavo negato rispetto all’altro. Questa tecnica consente di eliminare tutte le interferenze sui segnali dal momento che tornando a sommare i due segnali le interferenze si annulleranno. Per prevenire problemi legati alla sicurezza, invece di maneggiare alte tensioni si utilizzeranno dei dispositivi, chiamati DC-DC converter in grado di regolare proporzionalmente alte tensioni in risposta a variazioni in circuiti che

15 http://www.pd.infn.it/~carlin/riv/Slides/parte5.pdf.

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lavorano a tensioni inferiori, maneggiabili dagli operatori. I motivi per cui come rivelatori si sono scelti gli MRPC sono molteplici. Innanzitutto dal momento che uno degli scopi principali è individuare la direzione del fascio primario, la pre- cisione spaziale è determinante per poter costruire la traiettoria delle particelle e si ha bisogno di un’ampia superficie di rivelazione. Inoltre è richiesta un’ottima risoluzione temporale, così da poter mettere in correlazione eventi distanti fra di loro. Per fare ciò è necessario che ogni rivelatore sia collegato ad un gps. Un altro motivo che ha influito sulla scelta dell’ uso degli MRPC è stato l’aspetto economico. Infatti rispetto ad altri tipi di rivelatori sono economici, in quanto costruibili a partire da materiali di facile reperibilità. Le camere a piani resistiti a multigap sono durature e non necessitano di una manutenzione troppo specia- listica da condurre, infatti essi devono essere monitorati dagli studenti stessi16.

Schema riassuntivo funzionamento telescopio MRPC.

16 http://www.centrofermi.it/docs/files/projects/EEE.pdf.

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Tomografia muonica

Parallelamente alla ricerca pura sui raggi cosmici (anisotropie, effetto For- bush, flares solari, meccanismi di accelerazione, sorgenti ecc.) si è sviluppato un interesse sulle potenzialità pratiche di questo fenomeno. Ad esempio è possibile sfruttare il flusso di muoni cosmici per fare una caratterizzazione iniziale di nuo- vi detector o per misurarne l’efficienza. Una nuova tecnologia che sembra essere promettente è la tomografia muonica. Questa tecnica, a livello rudimentale, con- siste nel misurare la variazione di flusso dei muoni a causa del loro assorbimento o deviazione da parte del materiale da analizzare. Può essere considerata simile a tecniche diagnostiche non invasive come ad esempio la TAC. A differenza di altre tecniche che sfruttano raggi X o positroni prodotti artificialmente, la tomo- grafia muonica sfrutta i muoni dei raggi cosmici che sono molto più penetranti delle altre particelle usate normalmente in radiologia, ma di più difficile analisi in quanto non è possibile conoscere con esattezza la caratteristiche del fascio. Sfruttando questa elevata capacità di penetrazione negli anni ’50 per primo E.P. George riuscì a mettere a punto una tecnica per stimare lo spessore del ghiaccio sopra la galleria della centrale idroelettrica di Guthega–Munyang in Australia17. Nella decade successiva Luis Alvarez, premio Nobel nel 1968, sfruttò i muoni cosmici per analizzare l’interno della piramide di Chefren alla ricerca di camere ancora nascoste18. Dimostrò così che non erano presenti altre stanze nascoste.

Tomografia muonica di un vulcano.

17 E.P. George, Cosmic rays measure overburden of tunnel, Commonwealth Engineer, 1955, pp. 455-457. 18 L.W. Alvarez, Search for hidden chambers in the pyramids, in «Science», 167, 1970, pp. 832-839.

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Un’altra piramide sottoposta a tomografia muonica in tempi più recenti è la “Pi- ramide del Sole” nel Teotihuacan, vicino a Città del Messico. L’analisi rivelò che non vi sono cavità interne ma un lato della piramide è meno denso degli altri e si teme, con il tempo, un crollo. Questa tecnica permette anche lo studio di edifici vulcanici, sfruttando la diversa densità del materiale contenuto nel bacino magmatico. Ad esempio il gruppo di Tanaka dell’università di Kyoto ha studiato con queste tecniche la parte superiore del vulcano Asama in Giappone, per pro- vare a prevedere un’eruzione vulcanica in base allo stato della camera magma- tica, mentre in Italia sono stati condotti studi simili sul Vesuvio19. Utilizzando la tomografia muonica è possibile analizzare il profilo di una costruzione come uno stabilimento industriale alla ricerca di difetti strutturali. Utilizzare tecniche che prevedono l’utilizzo di raggi X comporta una spesa maggiore e, anche se il risultato si ottiene in tempi nettamente minori, si deve bloccare l’area da analiz- zare a causa del livello di radiazione molto elevato. Con la tomografia muonica invece si sfrutta la radiazione naturale già presente in natura e quindi non ci sono assolutamente rischi da contaminazione. L’utilizzo della tomografia muonica può esse- re applicato in particolare agli altiforni industriali, controllando ad esempio l’omogeneità del materia- le al loro interno. Applicazione ancora più impor- tante però consiste nel controllo del materiale da fondere in entrata nelle fonderie. La necessità di un controllo deriva dalla possibile presenza di sorgen- ti orfane, ossia sorgenti radioattive prodotte molti anni fa e quindi non presenti nei registri ufficiali. Tomografia di un container. Una volta entrate nell’altoforno, se individuate, al- larmerebbero i sensori radiometrici portando allo spegnimento dell’impianto e provocan- do una notevole perdita economica (a causa della difficoltà e del tempo necessario a riav- viare un macchinario del genere)20. Se non ci si dovesse accorgere della presenza di queste sorgenti si avrebbe un prodotto ultimato ra- dioattivo. Basti pensare all’eventualità in cui del metallo riciclato e contaminato dovesse essere usato per inscatolare degli alimenti. Tomografia di un container.

19 F. David, Applications of Muography, in «Frontiers of Physics Lecture», University of Glasgow, 3 October 2014. 20 https://agenda.infn.it/getFile.py/access?contribId=11&sessionId=4&resId=0&material Id=slides&confId=7034.

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Nelle fonderie moderne esiste un controllo con strumenti radiometrici fissi e portatili che consentono di rilevare sorgenti orfane non schermate. Se queste sor- genti dovessero essere, come spesso accade, schermate da contenitori in piombo, le strumentazioni disponibili sarebbero del tutto inefficaci. La tomografia muo- nica permette, tramite lo studio degli angoli di scattering, di capire se è presente del materiale ad alto numero atomico tra i rottami destinati alla fonderia. Il pro- blema di sorgenti radioattive non si ferma ai casi accidentali. Non è raro l’uso di container marittimi per il trasporto di scorie radioattive da smaltire illegalmente o di materiale fissile, destinato ad esempio a paesi con ambizioni di sviluppo di armi nucleari o peggio ancora a gruppi terroristici. Si stima un certo rischio do- vuto alla possibilità di furto dai siti di stoccaggio di materiale nucleare esausto, che potrebbe essere usato per la produzione di ordigni. Dei circa 200 milioni di traffico annuale dicontainer , solo l’1% viene controllato. L’università di Catania ha ideato un portale, costruito con una tecnologia simile a quella dell’esperi- mento EEE, che permette una ricostruzione tridimensionale dell’interno di un container o di un camion. Al momento il più grande ostacolo è il costo di questi strumenti di analisi che per ora restano solo prototipi21.

Analisi dei dati

Utilizzando le informazioni ricavate dal telescopio MRPC è possibile con- durre diversi tipi di analisi dati. Per iniziare ad affrontare tecniche di tomografia muonica ho voluto provare a capire, studiando i grafici ottenuti, da quale direzio- ne provengono maggiori muoni, e quindi come vengono assorbiti dall’edificio scolastico. Per analizzare i dati forniti dal rivelatore MRPC è stato utilizzato root, un programma di analisi dati utilizzato in molti esperimenti di fisica delle particelle. Questo programma è stato sviluppato al CERN ed è basato su C++, un linguaggio di programmazione orientato ad oggetti. Una volta acquisiti gli eventi, vengono immagazzinati nel computer in file da diecimila eventi ognuno. Ogni file da cui si vanno a prendere i dati è composto da 11 colonne numeriche. Le prime colonne servono per identificare il numero del run (ossia il periodo di tempo durante il quale si decide di acquisire), il numero dell’evento e il tem- po, preciso fino al microsecondo, le componenti della traccia, il tempo di volo della particella, la lunghezza della traccia (dalle quali si risale alla velocità) e il chi quadro. Ogni singolo evento però non è necessariamente causato da una particella, può essere dovuto ad esempio alla ionizzazione del gas a causa delle forti tensioni in gioco, o ad un mal funzionamento momentaneo del sistema di

21 http://www.bo.infn.it/sminiato/sm13/abstract/p-larocca.pdf.

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Distribuzione angolare di theta, phi, cos x e controllo sui coseni direttori. acquisizione ecc. L’efficienza del rivelatore è il numero di tracce ricostruite, os- sia di particelle (sono necessari tre eventi allineati nei tre piani per ogni traccia) diviso gli eventi acquisiti. In questo caso si devono contare le tracce ricostruite in ogni file e dividerle per diecimila, cioè il numero di eventi per ogni file. Oltre all’efficienza un altro parametro per analizzare il funzionamento del rilevatore è il rate di acquisizione, ossia la frequenza con la quale acquisisce eventi. Per monitorare la bontà degli eventi la macro creava anche il grafico del chi2, che è una misura statistica che quantifica la “ripetibilità” dell’esperimento. Infatti cal- cola il distacco delle distribuzioni sperimentali da quelle toriche, permettendo di capire se le fluttuazioni sono casuali oppure dovute a malfunzionamenti. Le informazioni più interessanti per lo studio che si vuole condurre sono gli an- goli di arrivo della particella, ricavabili dalle componenti della traccia. Gli angoli da analizzare sono due: l’angolo zenitale e azimutale. Il primo, indicato con θ, è l’ampiezza tra la normale al terreno (che indica lo zenith) e la traccia. Il secondo, indicato con f, è l’ampiezza tra la direzione del nord e la proiezione della traccia sul piano parallelo al terreno. La distribuzione di θ deve essere piccata intorno a valori prossimi allo 0 poiché i muoni risentono del maggiore spessore dell’at- mosfera da attraversare e al contempo particelle perfettamente perpendicolari al terreno sono rare. Deve anche essere considerato che se sono così inclinati da non attraversare tutte le camere del telescopio vengono scartati. La distribuzione ri- spetto all’angolo f dovrebbe essere invece uniforme (senza considerare effetti est-

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Distribuzione angolare di theta e phi da diverse prospettive ovest). In realtà a causa della geometria del rivelatore si osservano due picchi che corrispondono ai lati lunghi delle camere. Per avere una distribuzione uniforme si potrebbe tenere conto dell’accettanza geometrica, un parametro che indica in base alla forma del rivelatore quante particelle vengono effettivamente rilevate e quante sono tralasciate, introducendo quindi un fattore correttivo in grado di normalizzare la distribuzione. Dal momento però che in corrispondenza dei lati lunghi (e quindi del massimo di accettanza geometrica) corrisponde il massimo e il minimo spesso- re di edificio da attraversare, è possibile vedere di quanto differiscono i 2 picchi per stimare grossolanamente quante particelle sono assorbite per metro di materiale. Infatti da una parte il rivelatore è vicino alla finestra mentre nell’altra direzione ci sono ben tre piani con le varie pareti da attraversare. La prima immagine mostra quattro differenti grafici relativi alla giornata del 20 Aprile 2014. I due in basso, meno importanti, riportano un valore di control- lo che deve essere unitario per controllare se tutto procede bene (la somma in quadratura delle componenti) e la distribuzione della proiezione sull’asse delle x, che deve seguire un andamento coseno. I primi due invece mostrano le distri- buzioni angolare di f e θ. Come si nota, la distribuzione di θ segue le aspettative teoriche. Lo stesso si può dire della distribuzione di f, si notano benissimo i due picchi in corrispondenza di 0 e π, ossia a ridosso della parete esterna e in dire- zione del resto della scuola. Il massimo relativo a 0 (o a 2π) è minore dell’altro a causa dell’assorbimento dei muoni da parte dell’edificio scolastico. Nel grafico successivo i due angoli sono messi in relazione per avere una visione completa di ciò che succede. Si apprezza meglio la differenza di altezza dei due picchi e si nota la dipendenza da θ. Prendendo le misure dello spessore dei muri e dei pavimenti, è stato possibile fare una media del materiale attraversato, conside- rando l’angolo di maggiore incidenza delle particelle. Da questa approssima- zione risulta una diminuzione dell’intensità di flusso di circa il 5% per metro di materiale attraversato. Nell’ultima immagine alla pagina seguente si vede com’è posizionato il rivelatore rispetto al resto dell’edificio scolastico.

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Piantina della scuola e sistema di riferimento angolare.

100 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato

Ennio De Simone, Livio Ruggiero

«Vedi: dal vasto grigio del ciel spunta affocato nell’estremo orizzonte gemmeo castel fatato qual tra le fredde tenebre l’aurora boreale!» G. Pascoli

Introduzione

La Terra è il pianeta più spettacolare del sistema solare, perché è l’unico che ospiti la vita come noi la conosciamo. Le intense ricerche degli astronomi mo- derni stanno indagando il cosmo per vedere se questa unicità sia tale anche nei confronti dei pianeti che sempre più numerosi vengono scoperti in sistemi che assomigliano a quello di cui noi facciamo parte. Le condizioni astronomiche, fisiche e chimiche che hanno dato origine alla vita sulla Terra, ad un certo punto della sua storia di oltre quattro miliardi di anni, consentendone il mantenimento e lo sviluppo fino ad oggi, sono tali che al loro ripetersi casualmente viene attribuita una probabilità molto prossima allo zero. L’Uomo, da quando ha preso coscienza della sua esistenza e acquisito le capacità intellettive necessarie, ha capito che la sua vita e quella degli animali e delle piante che lo circondano è strettamente dipendente dall’astro che diffonde luce e calore e quindi ha intrapreso un rapporto con il Sole fatto di ammirazione e amore frammisti anche ad una certa dose di timore reverenziale quando non proprio di paura. I do- cumenti più antichi che attestano lo svolgersi di questo rapporto sono certamente quelli che nelle varie forme di documentazione grafica o pittorica ci introducono nel mondo delle antiche attività cultuali, agricole e astronomiche, facendoci conoscere le varie civiltà cui tanto dobbiamo per la nostra storia. Dai popoli mesopotamici agli Egiziani e ai Greci, senza trascurare le altre popolazioni mediterranee e quelle dell’Europa del Nord, dalle civiltà centroamericane a quelle dell’Asia più lontana è stato tutto un fiorire di attività legate all’osservazione attenta e “timorosa” del Sole, cercando di scoprire i profondi significati, reali o supposti, del suo apparire nel gior- no e sparire nella notte. L’alba e il tramonto, i solstizi e gli equinozi, le “terribili” eclissi e i rapporti con la Luna e con le costellazioni, sono stati oggetto di osserva- zioni continue e di interpretazioni più o meno significative o fantasiose, che ci sono giunte in documenti scritti e in monumenti architettonici di vario tipo1.

1 M. Hack, W. Ferreri, G. Cossard, Il lungo racconto dell’origine, Milano, Baldini Ca- stoldi Dalai editore, 2013, pp. 17-105.

101 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato

Analoghe osservazioni e curiose interpretazioni sono state riservate ai fe- nomeni luminosi generati dall’interazione con l’atmosfera della luce diretta del Sole e di quella riflessa della Luna, come arcobaleni, aloni, luci crepuscolari e aurorali, pareli e paraseleni, il più spettacolare dei quali è senz’altro costituito dalle aurore polari. Ed è proprio l’aurora polare – denominata aurora boreale o australe a se- conda dell’emisfero dove si osserva – ad aver attirato la curiosità di filosofi e scienziati, ma di essa si hanno scarse indicazioni nei documenti molto antichi. Il motivo di questa scarsità di notizie risiede nel fatto che buona parte delle civiltà che ci hanno lasciato documentazioni grafiche sulle loro osservazioni “ambien- tali” non poteva avere la possibilità di osservare frequentemente questo fenome- no, per sua natura limitato a latitudini piuttosto alte. Dell’aurora boreale, della sua spettacolarità e grande variabilità, esistono in- vece, in epoca moderna, infinite descrizioni nella letteratura scientifica e non, accompagnate spesso da illustrazioni affascinanti anche nelle pubblicazioni an- teriori alla nascita della fotografia in cui non si può non apprezzare la bravura de- gli artigiani incisori. Oggi la spettacolarità dell’evento è a portata di tutti grazie a Internet, nella cui rete si trovano decine di siti dedicati a tutti gli aspetti di questa manifestazione della Natura, divenuta anche una specie di “specchietto per le allodole” attivato dalle agenzie turistiche per invogliarci ad andare ad osservarla nelle località circumpolari o in quelle prossime ad esse. Sulle cause delle aurore polari e sulle loro influenze sulla nostra vita esiste una copiosa letteratura databile fin dall’antichità, anche se per trovare delle spie- gazioni scientifiche nel senso moderno del termine si deve limitare la ricerca a partire dal XVII secolo, quando prendono corpo gli studi sui fenomeni generati dal magnetismo e dall’elettricità, soprattutto quando ci si accorge che la Terra ha un suo campo magnetico e che l’Atmosfera è sede di fenomeni elettrici. Chi volesse indagare lo sviluppo storico degli studi sulle aurore polari può trovare in rete molte fonti di notevole utilità, ma la ricerca diventa, a nostro parere, più affascinante andando a consultare le pubblicazioni dell’epoca, dai numerosi trattati per l’insegnamento della fisica alle riviste scientifiche o agli an- nuari scientifici, come il francese «L’Année scientifique et industrielle», redatto dal 1857 da quel grande divulgatore che fu Louis Figuier2, e l’italiano «Annuario Scientifico e Industriale», pubblicato a partire dal 1865 a cura di Francesco Gri- spigni e Luigi Trevellini3.

2 Louis Figuier (Montpellier 1819-Parigi 1894). 3 Può essere molto interessante, per comprendere lo spirito che muoveva i due promotori, ci- tare alcuni brani della prefazione al primo volume scritta da Michele Lessona, uno dei più auto- revoli biologi italiani dell’epoca: «Fra i vari segni, e son molti, per cui si conosce la civiltà di un popolo, uno è questo, dei libri che vengono regolarmente in luce in fine d’anno, a dare un sunto

102 Ennio De Simone, Livio Ruggiero

Gli annuari come i due citati costituiscono inoltre una preziosa fonte per tracciare la cronologia degli eventi di origine cosmica, meteorica e sismica e, in particolare, per il verificarsi delle aurore polari, di cui l’«Annuario Scientifico e Industriale» riporta le date degli eventi che hanno interessato le regioni italiane a partire dal 1865.

Le aurore polari: un mistero svelato

Una breve ma illuminante sintesi delle osservazioni e interpretazioni del fe- nomeno elaborate nel corso del tempo può desumersi da uno dei trattati di Fisica più completi pubblicato nella seconda metà dell’Ottocento, quello del francese P. A. Daguin4. Dopo aver descritto la successione delle varie fasi in cui si presen- ta l’aurora, le cui cause sono da attribuirsi all’elettricità atmosferica, e aver dato brevi cenni sull’altezza, l’orientazione del fenomeno e sul discusso prodursi di una specie di “sfrigolio” simile a quello delle scariche elettriche, non percepito però da tutti i testimoni dell’evento, Daguin traccia un breve excursus sulle cau- se dell’aurora secondo quanto tramandato nel corso dei tempi. Sono note, tra le altre, le descrizioni delle aurore polari di Aristotele, di Seneca e di Plinio il Vecchio, il quale le considerò come presagi funesti. Ecco come vie- ne riportata la sua descrizione dell’aurora boreale: «Si vedono – lui dice – delle torce, delle lampade ardenti, delle lance, delle travi incendiate lungo tutta la loro lunghezza. Si vedono ancora, e nulla è di un più terribile presagio, un incendio che sembra cadere sulla terra in pioggia di sangue, come si presentò il terzo anno della cento-settima olimpiade, quando Filippo lavorò per sottomettere la Grecia». In un altro passo Plinio dice: «che si sono viste delle armate nel cielo; che hanno

dei progressi fatti nell’anno trascorso intorno ad uno od a molti rami dell’umano sapere». Dopo aver citato alcuni degli annuari pubblicati in Germania a cura di eminenti scienziati, prosegue: «In Francia, c’è subito diversità: i maestri ufficiali, gli accademici, i grandi luminari, i baroni della scienza, come volentieri si fanno chiamare, crederebbero cosa indegna lo scendere dalla altezza dei loro seggioloni per fare annuarii». Riferendosi poi all’annuario pubblicato da Figuier, lamentando che la cura nella compilazione fosse andata scadendo nel tempo, così conclude: «E in Italia? In Italia due bravi giovani, l’ingegnere Trevellini e il professor Grispigni, si sono accin- ti a fare un annuario scientifico, e rivoltisi a parecchi corpi scientifici prima ed a parecchi editori poi, ebbero lo accoglimento dei cani in chiesa. Il dottor Treves, con nobile coraggio, fu solo a secondarli, ed è suo merito se questo annuario esce fuori». Nel seguito l’Annuario si avvalse della collaborazione di eminenti rappresentanti del mondo scientifico italiano. 4 P.A. Daguin, Traité élementaire de Physyque théorique et expérimentale, IV edizione, tomo III, Paris-De Lagrave, Toulouse-Paul Privat, 1878, pp. 300-306. Pierre Adolphe Daguin (Poitiers 1814-Toulouse 1884) fu direttore dell’Osservatorio di Tolosa dal 1866 al 1870 e si interessò in modo particolare di fenomeni atmosferici.

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sembrato scontrarsi, che si è sentito il cozzare delle armi e il suono delle trombe». Nel medioevo la brillante meteora fu considerata spaventevole e anche la fan- tasia popolare vide in esse delle torce, delle spade sanguinanti, delle orride teste con i capelli irti. Fu solo all’inizio del diciassettesimo secolo che i pregiudizi e l’i- gnoranza cominciarono a retrocedere davanti all’avanzare della scienza, e mentre qualcuno, nel 1615, parlava ancora di un’apparizione orribile di uomini di fuoco che combattevano con lance, Lamote Levoyer5, testimone dello stesso fenomeno, confuta questa descrizione riportando le cose al loro giusto significato. Gassendi6 è stato uno dei primi ad osservare scientificamente il fenomeno ed è stato probabilmente lui a chiamarlo aurora boreale. Da allora interi volumi potrebbero essere composti con le varie spiegazioni proposte per giustificare il fenomeno. Alcuni, per esempio, hanno fatto ricorso ad esalazioni generate dalle regioni polari, che produrrebbero luce per fermentazione; Muschenbroeck7 lo attribuisce allo scontro tra nubi e Lemonnier8 lo paragona alla materia delle co- mete. Eulero9 suppone che le particelle dell’aria siano spinte dai raggi solari ad una grande altezza divenendo luminose. Altri studiosi hanno attribuito l’evento a fenomeni di riflessione e rifrazione dei raggi solari sui ghiacci dei poli e poi su particelle di ghiaccio sospese nell’a- ria. Halley10, scopritore della cometa che porta il suo nome, ipotizzò una corrente di fluido magnetico uscente dalla terra dal polo Nord. De Mairan11 è l’autore di un Traité de l’aurore boreale in cui attribuisce il fenomeno ad un vapore lumino- so che avvolge il Sole arrivando fino alla Terra che ne trascina via una parte, una teoria tanto ben presentata che fu accettata in generale fino al 1740, quando Cel- sius12 e Hiorter13 osservarono che l’aurora boreale influenzava l’ago magnetico.

5 François de La Mothe Le Vayer (Parigi 1588-1672) scrittore francese, membro dell’Ac- cademia di Francia. 6 Pier Gassendi (Champtercier 1592-Parigi 1655) filosofo, matematico,astronomo. 7 Pieter van Musschenbroeck (Leida 1692-1761), fisico olandese , si interessò soprattutto di elettricità. A lui è attribuita l’invenzione del primo condensatore elettrico noto col nome di bottiglia di Leida. 8 Pierre Charles Lemonnier (o Le Monnier) (Parigi 1715-Bayeux 1799) scienziato france- se tra i più famosi, diede importanti contributi in astronomia e geofisica. 9 Leonard Euler (Basilea 1707-San Pietroburgo 1783), matematico e fisico tra i più rile- vanti di ogni tempo. 10 Edmond Halley (Londra 1656-Greenwich 1742), astronomo inglese di grande fama; notevoli i suoi contributi all’astronomia e alla conoscenza del campo magnetico terrestre. 11 Jean Jacques Dortous de Mairan (Béziers 1678-Parigi 1771) astronomo, Segretario Per- petuo dell’Accademia delle Scienze di Parigi. 12 Anders Celsius (Uppsala 1701-1744), astronomo e fisico svedese ideatore della scala centigrada per la misura della temperatura. Pubblicò importanti osservazioni sulle aurore bo- reali. 13 Olof Hiorter (1696-1750), collaboratore di Celsius.

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In seguito un notevole passo avanti venne fatto quando Eberhart14 a Hall e Paolo Frisi15 a Pisa confrontarono la luce dell’aurora boreale con quella prodotta da scariche elettriche nel vuoto. Questo fatto portò alla formulazione di varie te- orie elettriche dell’aurora da parte di studiosi quali Canton16, Beccaria17, Wilke18, Franklin19, Dalton20 e Bertholon21. Alessandro Volta22 suppose che la meteora avrebbe potuto essere prodotta dal bruciare del gas delle paludi, un fenomeno da lui stesso appena scoperto, e Biot23 cercò di spiegarla mediante nubi di ceneri ferruginose emesse da vulcani dell’area polare funzionanti come conduttori per l’elettricità atmosferica. Per Alexander von Humboldt24 l’aurora polare costitu-

14 Christian Eberhart Kindermann (Weiβenfels 1715- ?), matematico e astronomo tedesco. 15 Paolo Frisi (Melegnano 1728-Milano 1784), sacerdote, matematico e astronomo, svolse un’intensa attività scientifica e accademica. 16 John Canton (Stroud 1718-Londra 1772), fisico inglese membro della Royal Society, si interessò molto di elettricità atmosferica. 17 Giambatista (al secolo Francesco Ludovico) Beccaria (Mondovì 1716-Torino 1781), dell’ordine degli Scolopi, è stato senz’altro uno dei più autorevoli studiosi italiani dell’elet- tricità, autore di trattati che ebbero larga diffusione anche all’estero, tanto che il Beccaria fu nominato membro anche della Royal Society. 18 Johan Carl Wilke (Wismar 1732-Stoccolma 1796) fisico, studioso di calorimetria e ma- gnetismo. 19 Benjamin Franklin (Boston 1706-Filadelfia 1790), scienziato e politico americano di grande fama, fondamentali i suoi contributi allo sviluppo degli studi sull’elettricità. 20 John Dalton (Eaglesfield 1766-Manchester 1844), fisico e chimico inglese che ha dato fondamentali contributi alle due discipline. 21 Pierre Bertholon de Saint-Lazare (Montpellier 1741-1800) abate e fisico francese che si interessò di elettricità e di parafulmini. Ideò un apparecchio che avrebbe dovuto prevenire i terremoti, che Cosimo De Giorgi cita nella sua conferenza “La previsione dei terremoti”: «Il Douforcet crede che le scosse imminenti del suolo sieno preannunziate da alcuni suoni che sarebbero avvertiti dai fili telefonici; suoni prodotti dall’elettricità. Il Bertholon è andato anche più in là colla fantasia ed ha proposto un paraterremoti, che in fin dei conti non è che un parafulmine» da L. Ruggiero, “La previsione del tempo” e “La previsione dei terremoti”. Due conferenze popolari inedite e attuali di Cosimo De Giorgi, in E. De Simone, L. Ruggiero, M. Spedicato, Adversis obfirmor. Cosimo De Giorgi tra riletture e nuove scoperte. Galatina, EdiPan, 2012, p. 227. 22 Alessandro Volta (Como 1745-1827) fisico e chimico conosciuto soprattutto per la re- alizzazione del dispositivo noto come “pila di Volta” e per i suoi studi di elettrologia e la scoperta del gas metano. 23 Jean-Baptiste Biot (Parigi 1774-1862) studioso dell’elettromagnetismo, ha legato il suo nome a quello di Felix Savart nella famosa formula che fornisce l’intensità del campo magne- tico intorno ad un filo conduttore percorso da corrente elettrica. 24 Alexander von Humboldt (Berlino 1769-1859), il grande scienziato tedesco viaggiato- re, autore di Cosmos, saggio d’una descrizione fisica del Mondo, l’opera, tradotta nelle più importanti lingue europee, che sarebbe stata per lungo tempo il riferimento necessario di tutti gli studiosi.

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isce la fase terminale della tempesta magnetica che disturba l’ago magnetico, cosa che non spiega però il fenomeno, fornendo un’indicazione remota della sua causa. Infine C. A. Morlet, avvicinandosi secondo Daguin alla verità, chia- ma in causa l’elettricità atmosferica, resa luminosa dal suo spostarsi nell’aria molto rarefatta e respinta dal magnetismo terrestre e spiega l’arco aurorale come dovuto alla riflessione della “luce elettrica” sulle particelle di ghiaccio dell’alta atmosfera. Rientrano in quest’ambito di studio anche le Congetture esposte dal molfet- tese Giuseppe Saverio Poli a sostegno della pretesa consequenzialità osservata da Isaac L. Winn tra il manifestarsi dell’aurora polare e le violente tempeste in mare nelle ore successive all’evento25. Il Poli aveva costatato la coincidenza dei fenomeni al seguito dell’aurora osservata a Napoli il 3 dicembre 1777, le cui cause sarebbero riconducibili all’elettricità atmosferica, facilmente speri- mentabili con prove di laboratorio. La conseguente rarefazione dell’aria causata dall’accendersi del «fuoco elettrico» richiamerebbe di conseguenza altre masse d’aria molto veloci in direzione Sud-Nord per ripristinare l’equilibrio barico. Originerebbero così dei forti venti meridionali e conseguenti tempeste in mare26. La scoperta dell’influenza dell’aurora boreale sull’ago magnetico e la somi- glianza dei suoi effetti luminosi con quelli della luce prodotta nelle scariche elet- triche in gas rarefatti portarono alla formulazione di una teoria per allora molto soddisfacente, la cui formulazione più completa si deve ad Auguste de la Rive27. Una sintetica formulazione della teoria del de la Rive è riportata da Daguin nel suo già citato trattato di fisica elementare. L’origine elettrica dell’aurora po- lare è provata soprattutto dalla sua influenza esercitata sull’ago magnetico. Per de la Rive l’elettricità positiva delle alte regioni dell’atmosfera intertropicale si dirige verso i poli all’aumentare della tensione e va a congiungersi, per il tramite delle particelle di ghiaccio che fluttuano nell’aria, all’elettricità negativa della Terra, formando quindi nel suolo una corrente che si dirige dal polo all’equatore, corrente che influenza l’ago magnetico, come verificato da numerosi studiosi.

25 Giuseppe Saverio Poli (Molfetta 1746-Napoli 1825) naturalista, fisico, docente nell’Ac- cademia militare della Nunziatella a Napoli col grado di luogotenente e socio di molte ac- cademie italiane e straniere. Mise a frutto le sue esperienze di viaggio compilando, oltre a diversi scritti di fisica e meteorologia, un’importante opera sui Testacei del regno delle Due Sicilie. Su di lui si veda G. Catenacci, F.S. Poli, Il tenente colonnello Giuseppe Saverio Poli comandante della Reale Accademia Militare Nunziatella (1746-1825), Molfetta, Associazio- ne Nazionale Ex Allievi Nunziatella, Sez. Puglia, 1998. 26 Lo scritto del Poli, Congetture sulle tempeste, che sogliono succedere alle Aurore Bore- ali, nella versione pubblicata in «Avvisi Patrii», LXXII, 1778, è ristampata da R. Pedimonte, Meteorologia d’altri tempi, in «Rivista Ligure di Meteorologia», 24, 2007. 27 Auguste Arthur de La Rive (Ginevra 1801-Marsiglia 1862), fisico svizzero famoso per i suoi studi sulle caratteristiche della scarica elettrica nei gas rarefatti.

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In presenza di un grande accumulo di particelle di ghiaccio si scorge una nube oscura, che non è altro che il segmento oscuro dell’aurora, e dopo delle scariche luminose che costituiscono i raggi aurorali. Luigi Palmieri28, pur riconoscendo al de la Rive il merito di interpretare giu- stamente l’origine elettrica delle aurore polari, ne contesta, in base ai suoi studi dell’elettricità atmosferica, la conclusione che esse siano generate dalle correnti che nell’alta atmosfera vanno verso i poli per ridiscendere al suolo verso l’equatore. Daguin cita un’esperienza di laboratorio effettuata dal de la Rive per giustifica- re la sua teoria utilizzando un uovo elettrico, che Palmieri chiama uovo filosofico, un apparecchio impiegato per studiare gli effetti luminosi prodotti dalla scarica elettrica in gas rarefatti. Nell’uovo viene introdotto un cilindro metallico connesso a un estremo ad un elettromagnete per simulare i poli magnetici della Terra. Quan- do, dopo aver fatto il vuoto nell’uovo, il cilindro viene collegato ad un generatore di elettricità, come un rocchetto di Ruhmkorff, si genera coassialmente al cilindro un fascio di raggi luminosi. Se il cilindro viene magnetizzato il fascio di raggi si mette a ruotare intorno al suo asse simulando la rotazione dei raggi aurorali intorno al polo magnetico terrestre, come era stato più volte osservato29. Daguin conclude le sue osservazioni sulle aurore polari citando anche il pos- sibile collegamento della loro frequenza alla periodicità delle macchie solari, avvertendo però come questo legame fosse ben lontano dall’essere perfetto af- fermando che «tanto più che non si vede alcuna relazione probabile tra quello che avviene nel sole, e il fenomeno puramente terrestre dell’aurora polare». L’af- fermazione di Daguin, che esprime lo stato delle conoscenze dell’epoca sulle relazioni tra la Terra e il Sole, sarebbe stata dimostrata piuttosto ingenua dai successivi sviluppi della scienza, che avrebbero messo in evidenza lo strettissi- mo rapporto tra i due corpi. La conoscenza della reale struttura dei campi magnetici solare e terrestre e della loro interazione, resa ancora più complessa dal vento solare, ha consentito

28 Luigi Palmieri (Faicchio 1807-Napoli 1896), matematico e fisico, direttore dell’Osser- vatorio Vesuviano, socio di varie accademie italiane ed estere. Mise a punto diversi strumenti per rilevazioni geofisiche. 29 Può essere interessante notare che l’uovo elettrico è un apparecchio che si rinviene in alcuni gabinetti di fisica delle scuole salentine e che con esso furono effettuate alcune delle esperienze con cui Giuseppe Eugenio Balsamo, professore di Fisica e Chimica al Liceo “Giu- seppe Palmieri” e autore di alcune significative ricerche in campo scientifico, suscitò l’interes- se dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Ruggero Bonghi in visita a Lecce nel 1874. Sul Balsamo cfr. anche A. Rossi, L. Ruggiero, E. De Simone, Giuseppe Eugenio Balsamo’s Iron [and] Lead Pile, Giuseppe Candido’s Regulating Diaphragm Pile: two contribution from Lecce to the Development of Volta’s Battery, in «Nuova Voltiana», 5, 2003, pp. 133-141; in F. Bevilacqua, E. Giannetto (eds), Volta and the History of Electricity, Milano Hoepli, 2003, pp. 51-59. La versione in lingua italiana in «L’Idomeneo», 5, 2003, pp. 171-178.

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di individuare la causa reale delle aurore polari nell’interazione tra il vento solare e gli strati superiori dell’atmosfera. Gli elettroni e i protoni del vento solare ioniz- zano gli atomi e le molecole dei gas componenti l’alta atmosfera, che si diseccita- no emettendo onde elettromagnetiche. Le frequenze di queste onde che ricadono nello spettro visibile danno origine alle fantasmagoriche colorazioni di quello che può essere senz’altro considerato il più affascinante spettacolo offerto dalla natura. Il legame tra macchie solari ed energia emessa dal Sole e la struttura dei due campi magnetici esercitano sul clima e sulle attività umane profonde influenze, che possono anche assumere una particolare gravità allo scatenarsi delle tempe- ste solari, spesso correlate con le aurore polari, che potrebbero causare notevoli danni ad apparati e dispositivi elettromagnetici.

Osservare le aurore polari dal Salento: illusione o realtà?

Per quanto detto sinora, si comprende bene che il manifestarsi del fenomeno aurorale, quasi quotidiano nelle regioni circumpolari e molto frequente alle lati- tudini più settentrionale, sia estremamente raro al di sotto dei 45° di latitudine. Infatti, il cosiddetto “ovale aurorale”, che delimita la zona della ionosfera all’in- terno della quale l’andamento delle linee di forza del campo magnetico terrestre convoglia nel loro impatto con l’atmosfera le particelle del vento solare, ha un’e- stensione limitata ad un raggio di circa 5000 Km. Perciò, facendo perno attorno ai poli magnetici, che però, come è noto, non coincidono con i poli geografici, i fenomeni luminosi che si manifestano all’interno dell’ovale interessano aree della superficie terrestre che solo eccezionalmente raggiungono a Sud i 45° di latitudine. Ciò significa, con riferimento all’Italia che ha una notevole estensione in la- titudine, che un evento, per quanto raro, episodicamente osservato nelle regioni settentrionali, difficilmente interesserà anche il centro e meno ancora il meridione della Penisola. Solo per citare alcuni esempi, si ricordano per l’Italia centro-set- tentrionale almeno le aurore del 12 settembre 1621, 19 ottobre 1726, 16 dicembre 1737, 29 febbraio 1780, 12 ottobre 1859, 24 ottobre 1870, 4 febbraio 1872, fino alle più recenti del 22 gennaio 1957, 6 luglio 2000, 30 ottobre 2003. Ciò porta usualmente ad escludere che esista una possibilità, per quanto remota, di osservare un’aurora polare nelle regioni del Sud Italia e, nel caso specifico, dal Salento. L’assunto, tuttavia, è vero in parte, ma non del tutto. Prova ne siano le pochis- sime, ma oggettive, segnalazioni pervenuteci dai diretti testimoni che, a volte solo con rapidissimi cenni, ce ne hanno dato conto. Proprio l’estrema ecceziona- lità di tali osservazioni le rende oltremodo significative come documentazione storica di un evento assolutamente insolito, legato ad episodi parossistici dell’at- tività solare che, sebbene possibili nel corso del tempo, sono piuttosto infrequen-

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ti. In più, in considerazione proprio della bassa latitudine e quindi dell’altezza sul piano dell’orizzonte lungo il quale si osserva il fenomeno, certamente gli occasionali spettatori non avranno goduto della visione delle forme più spettaco- lari che le aurore possono offrire nelle regioni circumpolari, dove, peraltro, rag- giungono la massima intensità luminosa30. Né avranno potuto distinguere tutta la gamma dei colori che corrispondono alle diverse frequenze d’emissione degli atomi della ionosfera bersagliati dagli elettroni impattanti. Ciò perché, oltre alla rilevanza che rivestono fattori come l’energia posseduta dagli stessi elettroni, o come la maggiore o minore densità dei gas componenti quella regione dell’at- mosfera, in particolare l’azoto e l’ossigeno, e il comportamento peculiare di cia- scuno di essi nel processo di emissione, hanno un ruolo determinante gli usuali fenomeni ottici di diffusione e dispersione delle varie lunghezze d’onda della luce, come avviene all’alba ed al tramonto. Sono proprio le tonalità cromatiche calde della luminescenza aurorale che immancabilmente vengono confermate dalle testimonianze oculari che di seguito si riportano.

29 marzo 1739 «A’ 29 marzo 1739 ad ora una della notte comparve una meteora o sia aurora boreale o vespertina di color roscio infiammato e durò fino ad ore quattro». Così si esprime nella sua succinta annotazione il cronista leccese Emanuele Maria Buccarelli nelle sue cronache leccesi che, rimaste a lungo manoscritte, fu- rono stampate solo nel 193331. In esse il Buccarelli annota lo svolgimento degli avvenimenti più significativi, a suo giudizio, occorsi nella città a partire dall’anno 1711, proseguendo fino al 1807; al momento, la sua costituisce la prima testimo- nianza scritta dell’osservazione di un’aurora boreale nel Salento. C’è da dire, però, che egli non ne poté essere spettatore oculare per il semplice fatto che era nato nel 1742, come riferisce il Vacca, per cui evidentemente per il periodo considerato deve aver attinto a fonti verbali o scritte attribuibili ad altri. Fatto è che il 29 marzo, giorno di Pasqua, effettivamente l’aurora fu osservata in Italia; prova ne siano la descrizione di Eustachio Zanotti, astronomo bolognese, e i fatti accaduti in Sicilia, dove il popolo reagì all’inusuale accadimento con profondo sgomento32. Altro il

30 I giochi di luce notturna sono stati definiti, con immagine efficace, non una «pennellata, ma piuttosto una danza» da A. Grilli, Aurore polari ottava meraviglia del pianeta, Bergamo, Leading Edizioni, 2013, p. 79. 31 Iniziano in appendice al primo numero della rivista «Rinascenza Salentina» e si com- pletano nei numeri successivi. Cfr. N. Vacca, Le cronache leccesi di Emanuele M. Buccarelli, «Rinascenza Salentina», I, 1933, p. 5. 32 E. Zanotti, Osservazione di una aurora boreale fatta nella specula dell’istituto delle scienze di Bologna la sera del 29 marzo 1739, Bologna, nella Stamperia di L. Volpe, [1739]; S. Mazzarella, Dell’Isola Ferdinandea e di altre cose, Palermo, Sellerio Editore, 2012.

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Buccarelli non aggiunge, ma è facile arguire che l’inusitato spettacolo abbia su- scitato quantomeno un certo sconcerto o meraviglia, probabilmente sollecitando il popolo, anche qui, a ricorrere alle implorazioni dei propri santi protettori.

24 e 25 ottobre 1870 «Luce di sangue pel notturno cielo/splende da raggi lividi ricorsa»: sono le parole con le quali Aleardo Aleardi definiva lo spettacolo del cielo nelle notti del 24 e 25 ottobre 1870, le stesse durante le quali il giovane Giovanni Pascoli, da Urbino, dove si trovava, declamava: «E nella notte giovinetto insonne/vidi la luce postuma, lo spettro/dell’alba: tremole colonne/d’opale, andanti occhi d’elettro». In quegli stessi momenti, l’insolito spettacolo attraeva ed atterriva gl’increduli spettatori della città di Lecce che, levando gli occhi al cielo, vedevano ciò che nelle loro vite non avevano mai osservato. Spettò a Sigismondo Castromediano rassicu- rare i cittadini leccesi fornendo, attraverso un periodico locale, una sommaria giu- stificazione del fenomeno in base alle conoscenze del tempo; in quell’occasione, non disdegnò d’inserire una nota polemica in linea con gli eventi politici e militari italiani di qualche settimana prima, ma grazie al suo intervento disponiamo oggi di un preciso e gustoso ragguaglio di ciò che accadde in quelle notti33. «L’altra sera e la sera precedente, 24 e 25 ottobre, il cielo di Lecce si tinse in rosso sanguigno per una buona sua parte. Le genti allarmate correvan le vie, uscivano di città, s’affacciavano dalle finestre, salivan sulle altane, e perché strano il fenomeno, e perché calde di fantasia esse sono, e perché dice ancora la tradizione che ogni se- gno dei cieli appare per prognosticare, andavansi l’un l’altro domandando: è pace, è guerra? «È l’ira di Dio che si disvela» rispose un approfittatore maligno dell’altrui ignoranza, scottato nei propri interessi cogli ultimi romani avvenimenti. Non è vero: è un’aurora boreale, fenomeno assai bello e sorprendente, ma rarissi- mo in queste contrade, ma non tale da sorpassar quelle degli altri paesi, dove più lucide e frequenti la Provvidenza le manda per sopperire in certo modo il giorno fra quelle notti eterne delle latitudini boreali, da cui trasse il suo appellativo. Spettacolo nuovo agli occhi del nostro volgo, il quale non scontrandone esem- pio nella sua memoria, né spiegazioni colle sue cognizioni rimase stupefatto. Mi piace ripetergli in questo prodigio quel tanto, che altri ne disse, e calmare la sua immaginazione. È uno fra i tanti di cui si veste natura per abbellirsi, il quale, se questa volta in qualche significato contiene, è di cortesia verso i proprio ospiti del nord, usi a vederlo nei loro paesi, e che giunti a Brindisi colla famosa valigia per la prima volta, si recano alle Indie, o da quelle ritornano.

33 Sigismondo Castromediano (Cavallino 1811-1895), il “Duca Bianco”, come veniva ap- pellato dai contemporanei anche in segno di stima e rispetto per le sofferenze patite per motivi politici per i suoi ideali liberali. Fu uomo di profonda cultura ed erudizione; partecipò al VII Congresso degli Scienziati Italiani a Napoli nel 1845 e fu eletto al primo Parlamento italiano.

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L’aurora boreale adunque è un fascio di luce, che partendo dalla estrema linea boreale s’innalza verso l’alto dei cieli, e si rende visibile a noi sol quando il sole trovasi otto o nove gradi sotto il tramonto. Il suo primo apparire è di nebbia poi s’accalora rossigno a guisa di sangue, si parte con raggi bianchi che spiccansi in alto, ed ondolano e svolazzano come panneggi scintillanti e mossi lievemente dall’aure. Ecco perché cotali aurore furono dette pure capre danzanti: È tale una delle sue forme, quella appunto che vedemmo. L’altra è di arco bianco e brillante, che passa talvolta all’azzurro, e al giallognolo con gradazioni al verde. Il suo estremo lembo superiore confondesi gradatamente coi chiarori del cielo, l’inferiore è più tagliato e deciso, e sollevasi dall’orizzonte per vie d’un segmento assai fosco. E l’ultima prende apparenza di corona di vaghi colori, da cui i raggi si staccano e si diffondono. Talvolta poi sono accompagnate come da sibili, da mormorii, da rumori e schiop- pettii come se così si volesse manifestare l’armonia dei cieli. L’aurora boreale dipende da un fenomeno elettrico, e ciò viene addimostrata dalla sua influenza sull’ago magnetico, il quale tosto devia col suo apparire. Il passag- gio della elettricità nelle regioni superiore dell’atmosfera la produce, e i diversi colori di cui si adorna son figli della diversa densità degli strati atmosferici dove il fluido elettrico passa, i quali se rarefatti offrono bianca la luce, gialla se umidi, e rossa se asciutti. Si calmino adunque gl’ignoranti e i profittatori dell’ignoranza, e più tosto ringrazi- no Dio d’aver loro concesso d’osservare una volta la scena del fenomeno stupendo, il quale chi sa quando di nuovo si benignerà di visitare le nostre contrade!»34. L’insolito spettacolo fu altrettanto ben visibile dalla città di Bari, dove in quel periodo si trovava l’agronomo Achille Bruni, che da circa due anni si era dimesso dall’incarico di direttore dell’Orto Botanico di Lecce, per accettare l’insegnamen- to presso l’istituto tecnico barese35. Fin dal suo soggiorno in Lecce, Bruni aveva intrapreso la stesura di un diario in cui appuntava, tra note botaniche, agronomiche e personali, gli eventi meteorologici più rilevanti. Così descrive l’aurora: «La sera del 24 Ottobre 1870 in Bari, dalle 9 alle 10 vi fu una magnifica Auro- ra Boreale tutta rosso porpora. Coloro che la videro in sul nascere, dicono che s’innalzavano per mare due colonne rosse, che si congiunsero ad arco, e poi for-

34 «Il Cittadino Leccese», 27 ottobre 1870. Particolarmente interessante potrebbe essere il dettaglio segnalato dal Castromediano relativo agli effetti sonori percepiti nel corso del veri- ficarsi dell’aurora. Al riguardo esistono tra gli studiosi opinioni non sempre coincidenti, per cui sono in corso studi specifici per la determinazione dei presunti o effettivi suoni da taluni associati con la manifestazione del fenomeno. 35 Sul Bruni, oltre a F. Di Battista, Bruni Achille, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. XIV, pp. 592-596, si rinvia a E. De Simone, L’Orto Botanico di Lecce nell’800: gli uomini, le loro storie, in Liceo Scientifico “G. Banzi Bazoli” Lecce, «Scuola e Ricerca», N. S., II, 2016, pp. 223-246.

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marono l’intero fascione dell’Aurora sformato di tante colonne rosse, tra le quali scintillavano di tanto in tanto colonne bianche. Noi le osservammo nel suo pieno sviluppo alle 9 e mezzo della sera fino alle otto»36. L’eccezionalità dell’osservazione lo convinse anche ad inviarne un resocon- to a Luigi Palmieri, il quale lo presentò all’Accademia delle Scienze di Napoli nell’adunanza del 5 novembre 1870, sottolineando come in Puglia probabilmen- te il fenomeno «fosse apparso più splendido» che non a Napoli:

«Bari, 25 ottobre 1870. Gentilissimo Professore, Ieri sera, 24 ottobre, verso le nove apparve una superba Aurora boreale. Io non vidi la sua origine, ben vero il suo pieno sviluppo verso le nove e mezzo della sera. L’Aurora boreale era a forma di raggi tutti di un magnifico rosso porpora. Al di sotto dei raggi un segmento di cerchio che quasi rasentava il mare. Questo compariva tutto rosso per riverbero dei raggi dell’Aurora boreale. A traverso dei raggi rossi io vedeva di tanto in tanto dei raggi bianchi che si agitavano, ed avevano la durata di pochi minuti secondi, sfavillando di tratto in tratto. Detti raggi rossi non impedivano che si vedessero, a traverso, le stelle. Molti avvertirono un sibilo ripetuto durante la meteora, la quale appariva sul mare non più distante di un miglio dalla terra. Durante la meteora vidi in lontananza, verso il monte Gargano, un lampeggiare di tratto in tratto. La durata della vera Aurora boreale a forma di raggi, distinti ed assai belli, fu di un’ora e minuti; cioè, dalle nove alle dieci. Dopo di che, a gradi a gradi scomparvero i raggi, e restò per lungo tempo un crepuscolo rosso assai denso. Coloro che ne videro l’origine, osservarono dapprima due grandi raggi rossi, che elevandosi dal mare, si congiunsero a forma di arco, e poi diedero origine alla totale meteora. La notte ci fu pioggia con vento Nord. Oggi 25 ottobre lo stesso vento, e tempo variabile per tutto il giorno. Ora che scrivo, sei e mezzo pomeridiane, è apparso lo stesso crepuscolo rosso assai denso, su vasta scala, e della durata di circa mezz’ora, siccome ho costantemente osservato, sino alle sette, per farvi questa piccola relazione, ora che scrivo, ore 6 e mezzo p. m. L’Aurora boreale vista da me in Napoli nel 1860, era a forma di arco a più colori. Questa di Bari era superbissima!! Con sentimenti di stima Vostro devotissimo Achille Bruni

Seconda Aurora Boreale rossa Bari, 25 ottobre 1870 Ore 7 ed un quarto p. m. Gentilissimo Professore, Ecco la seconda Aurora boreale. Ieri sera 24 l’aria era calma; stasera spira il Nord alquanto sostenuto. La stessa forma di raggi, rosso porpora, tendenti al bianca-

36 Archivio Storico Osservatorio Astronomico di Brera (= ASOBr), Quaderno di Achil- le Bruni (1868-1872), D046/001 MET. Un particolare ringraziamento alla dott.ssa Letizia Buffoni, dell’Osservatorio Astronomico di Brera, per aver trascritto e messo a disposizione il testo del manoscritto.

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stro. Minore intensità di colorito. I raggi più elevati di quelli della sera del 24; quindi il sottostante segmento di cerchio più grande di quello di ieri sera. Però alla estremità occidentale la densità dei raggi rosso-biancastri è stata sorprenden- te: poi è finita al lato occidentale, ed è comparsa al lato orientale assai rilevante e superba per la lunghezza degli stessi raggi. Attendo adesso ad osservare, per notare la durata...: sono le sette e 35 minuti... Attendiamo: vado al balcone ad osservare ...: Sono le otto della sera. L’intensità della meteora comincia a man- care come quella della sera del 24 ottobre. Però, tale mancanza è più pronunziata al lato occidentale, mentre al lato orientale il crepuscolo è assai rilevante, ed il rossoporpora si mantiene nella sua piena vivacità. Parmi, se la memoria non mi fallisce, che l’Abate Giovene da Molfelta nel passato secolo, e l’Abate Cagnazzi, suo compagno di osservazioni meteorologiche pugliesi, non riferiscono nelle loro opere nessun caso di due Aurore boreali consecutive in questi paraggi. Con sentimenti di stima. Vostro devotissimo Achille Bruni». Il Palmieri ebbe anche cura di riportare i dati relativi alle misurazioni magne- tiche da lui eseguite e di annotare che, tra le segnalazioni ricevute, in Calabria il fenomeno «egualmente si ammirava con ispavento delle popolazioni atterrite già atterrite dal terremoto»37. L’aurora, che era stata osservata in molte regioni d’Italia ed in altri Paesi del mondo, meritò quindi un’interpretazione scientifica che in base alle conoscenze del tempo fu proposta sulle pagine della «Gazzetta Ufficiale» del Regno da Gil- berto Govi38.

4 febbraio 1872

«Le Aurore Boreali di questi ultimi anni le abbiamo osservate insieme [a Cosimo De Giorgi]; ed una, nel 4 febbraro 1872, col magnifico telescopio del nostro ami- co ch. Abate Giuseppe Candido». La conferma di quest’altro episodio osservato a Lecce viene da un testimone molto attendibile, Luigi Giuseppe De Simone, il magistrato che con le sue ricerche

37 «Rendiconti dell’Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche», a. IX, Novembre 1870, pp. 190-193. Da notare che anche nella testimonianza di Bruni si riferisce di «un sibilo» percepito durante il manifestarsi dell’aurora e che lo stesso autore segnala un’altra sua osser- vazione in Napoli nel 1860. 38 Cfr. «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 28 ottobre 1870. Gilberto Govi (Mantova 1826-Roma 1889), matematico, fisico, storico della scienza, partecipò alle lotte risorgimentali e ricoprì diversi incarichi pubblici, tra cui la carica di ministro.

113 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato

ha contribuito a riformare gli studi storici nel Salento39. Su altri aspetti dell’inusuale fenomeno nulla però lascia trapelare la laconica annotazione del De Simone, per cui, mentre altre fonti documentali allo stato attuale non sono note, non rimane che ricorrere ad un’altra testimonianza, ancora una volta dovuta ad Achille Bruni. L’au- rora, infatti, come è naturale attendersi, fu visibile anche dalla città di Bari e l’attenta osservazione di Bruni ci restituisce una dettagliata e preziosa descrizione del suo manifestarsi, momento dopo momento, nonché un confronto con le precedenti: «Stasera 4 Febbraro in Bari 1872 alle sei e mezzo si è avverato un brillante chia- rore di colore fuoco vivo che si distendeva dal Nord-Ovest al Nord-Est. La sua durata è stata per una mezz’ora circa. Il suo aspetto era il seguente. 1°. Un fondo di chiarori rosso fuoco assai densi, di tanto in tanto lacerati, e che lasciavano vedere dietro di essi il cielo chiarissimo e bianco, simile al colore dell’aurora mattutina, precisamente al Nord-Nord-Ovest. 2°. Avanti al fondo dei vapori rosso-fuoco erano qua e là sparsi nuvoloni neri e piombigni. 3°. In lontano sul mare, sul basso orizzonte il cielo era scuro e nuvoloso. E ciò alle sette meno un quarto. Dopo il diradarsi delle nubi nere e piombine ha lasciato vedere delle larghissime fascie dei detti vapori rosso-fuoco estendersi fino allo Zenit, e nella direzione di Nord-Nord-Ovest il cielo puro bianco come l’aurora rischiarava più brillante di prima, e rifletteva sul mare. Quindi a gradi a gradi si sono dissipati i fascioni di vapori rosso-fuoco, ed il chiarore dell’Aurora si è gradatamente impallidito. Aria placida. R. [=Réaumur] a +6. 7 e quarto della sera 1° Al Nord-Ovest infra le nubi nere apparisce gran fascione di vapori bianchi in linea verticale. 2°. Riapparisce la massa dei vapori densi rosso fuoco, una […] colore più gentile. 3°. Questa massa è più densa nel colorito verso Nord-Est. 4°. Essa si dispone perfettamente in segmento di cerchio, il quale, sotto la sua volta fa scorgere il cielo netto e chiaro al Nord, ed in fondo, al basso orizzonte sul lontano ammasso di nubi. 5°. Due globi di vapori bianchi vicini fra loro e paralleli si veggono al Nord-Est in mezzo ai vapori rosso-fuoco. Questi globi hanno al di sopra una specie di fiocco aper- to simili a due granate pronte a scoppiare. (un terzo globo bianco all’Est-Nord-Est). 7 e mezzo Al Nord-Ovest i vapori rosso fuoco si sono fatti assai densi. Il rosso è assai vivo e brillante, rappresenta una delle basi del segmento di cerchio con una quantità di raggi biancastri che verticalmente risaltano sul rosso fuoco, a traverso del quale si

39 L.G. De Simone, Note di climatologia salentina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1875, p. 10. Luigi G. De Simone (Lecce 1835- Arnesano 1902), figura d’intellettuale di spicco nel pano- rama culturale del Salento, s’interessò di arte, storia, folklore ed è autore di molte pubblicazioni in questi settori. In merito alla bibliografia su di lui basta qui rinviare a E. Imbriani, a cura di, Luigi Giuseppe De Simone cent’anni dopo, Castrignano dei Greci, Amaltea Edizioni, 2004.

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veggono le stelle pallide. Contemporaneamente il rosso riprende al Nord-Ovest, ma con una tinta gentile porporina. Manca il tempo materiale per distendere mi- nutamente in carta ciò che la meteora cangia a minuti secondi. 8 meno un quarto Il rosso fuoco al Nord-Est ingagliardisce, e dà l’aspetto di una spaventevole eru- zione vulcanica. Dinanzi alla sua base, ammassi di nuvoloni neri accrescono sin- golarità alla meteora rossa, dalla quale si elevano altri raggi luminosi bianchi, le di cui estremità giungono fino allo Zenit. Continua l’aria calma e la stessa temperatura. 8 meno dieci minuti Il rosso fuoco dal Nord-Est si avanza verso il Nord-Ovest. Al Nord il cielo è chiarissimo come l’Aurora, e sul mare si vede di bel nuovo il segmento di cerchio con raggi porporini. Otto meno sette minuti Ecco Aurora Boreale completa. Al Nord un raggio luminoso rosso bianco parte dal segmento di cerchio, e si eleva moltissimo. Altri raggi numerosi bianchi rag- giungono lo Zenit. Il mare tutto illuminato a rosso. La meteora è brillantissima!! Otto meno quattro minuti. La meteora continua nel suo splendore, ma sempre più densa al Nord-Est. In fra i raggi luminosi di rado si veggono scintille. In su lontano mare, al Nord, gli ammassi di nuvoloni neri risaltano sotto l’arco di raggi luminosi, deboli al Nord-Ovest, densissimi e brillanti a Nord-Est. Otto e due minuti. Bel chiarore arancio porporino al Nord-Ovest. I raggi rossi cominciano a indebolirsi al Nord-Est. Fra di essi ve n’ha taluni obliqui, assai lar- ghi, biancastri, e che raggiungono l’estremo levante. Al Nord si eleva un fascione rosso vivo, che spacca, per così dire, il segmento di cerchio, reso poco visibile. La durata di questa aurora boreale è stata assai più lunga di quelle dell’Ottobre 1870. Otto e cinque minuti. Tutto si va dileguando, più al Nord-Ovest che al Nord-Est. Otto e quarto. Tutto è quasi oscurato. Otto e mezzo. Di bel nuovo l’aurora Boreale. Innanzi al manto rosso fuoco vi è un ventaglio di piccole nubi nere che fa un singolare dall’Ovest all’Est contrasto. I raggi biancastri si estendono sino allo Zenit. Nove meno un quarto. Spicca il rosso su tutta la linea dall’Ovest all’Est. L’arco raggiato è sempre lo stesso. Il rosso si fa più denso al Nord-Ovest. Nove precise. Aria calma. Cielo variabile con molte nubi. Reaumur è sceso a +5. Continua l’Aurora Boreale con rosso meno denso. Al Nord si sostiene il chiarore dell’Alba, interrotto da nubi nere. Nove ed un quarto. S’indebolisce l’aurora Boreale in tutti i punti. La riflessione del rosso invade tutto lo zenit. Nove e un terzo. Decadenza avanza. Leggiero colore porporino. Nove e mezzo. Tutto è finito, tranne il chiarore dell’Alba al Nord. La durata dell’Aurora Boreale è stata più di tre ore, a più riprese. Meno brillante di quella del 1870, ma di una durata assai maggiore. Sin dalle sei della sera aveva cominciato; ma io l’ho vista dalle sei e mezzo sino alle nove e mezzo»40.

40 ASOBr, Quaderno di Achille Bruni (1868-1872), cit.

115 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato

Anche in questo caso, l’aver potuto osservare alle latitudini meridionali dell’Italia l’aurora boreale indica che essa fu visibile al Nord ed al centro, e di essa furono compilate diverse descrizioni che occuparono le pagine di specifiche pubblicazioni41. L’interesse sempre crescente per questo fenomeno si ricolle- gava, come si è accennato, all’esigenza sentita dal mondo scientifico di quel periodo per la ricerca di un’interpretazione oggettiva di esso, che chiamava in causa, come determinanti, l’attività solare, le sue fluttuazioni e l’interazione con il campo magnetico della Terra. Ma per tornare all’annotazione di Luigi Giuseppe De Simone, è significativo notare che nella sua testimonianza indica come suoi compagni nell’osservazione dell’aurora boreale due illustri scienziati leccesi: Cosimo De Giorgi e Giuseppe Candido42. Entrambi, tra i numerosi interessi scientifici coltivati, erano cultori anche dell’astronomia, come attestano, per il Candido, la sua nota abilità nella costruzione delle meridiane e per il De Giorgi, fondatore e direttore dell’Osser- vatorio meteorologico e geodinamico di lecce, la corrispondenza epistolare con molti accreditati scienziati ed astronomi italiani, interessati, tra l’altro, allo stu- dio dei fenomeni legati al magnetismo: tra questi Luigi Palazzo, Ciro Chistoni, Luigi Palmieri e anche Angelo Secchi e Pietro Tacchini, gli studiosi che, in un nutrito scambio epistolare tra loro, discutevano e commentavano le rispettive osservazioni sull’attività del Sole, responsabile, appunto, nella produzione delle aurore boreali43. Ma pure l’ambiente scientifico legato alle istituzioni napoletane, con Macedonio Melloni prima e con i citati Ciro Chistoni e Luigi Palmieri, era

41 Cfr. Aurora boreale del 4 febbrajo 1872 a Mondovì, in «Rendiconti del Real Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», 5, 1872; Sull’aurora boreale del 4 febbraio 1872: osser- vazioni fatte al Convitto alla Querce presso Firenze, in «Atti dell’Accademia Pontificia de’ Nuovi Lincei», 26, 1873; «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 2 marzo 1872. 42 Cosimo De Giorgi (Lizzanello 1842-Lecce 1922) è stato il più attivo scienziato salen- tino, interessandosi di geologia, paleontologia, sismologia, meteorologia, arte e storia. Sulla sua figura e sulla sua poliedrica produzione sono stati pubblicati numerosi studi, tra cui E. De Simone, L. Ruggiero, M. Spedicato, a cura di, Adversis obfirmor, Cosimo De Giorgi tra riletture e nuove scoperte, cit. Gli interventi più recenti su di lui sono in Liceo Scientifico “G. Banzi Bazoli” Lecce, «Scuola e Ricerca», N. S., I, 2015, a firma di E. De Simone e L. Ruggiero. Su Giuseppe Candido (Lecce 1837-Ischia 1906), vescovo, inventore di numerosi strumenti per la didattica della fisica, di un innovativo modello di pila e realizzatore della rete di orologi elettrici da torre nella città di Lecce, si rinvia, tra le altre fonti, a L. Ruggiero, M. Spedicato (Eds), Giuseppe Candido tra pastorale e scienza, Galatina, EdiPan, 2007 e E. De Simone, L. Ruggiero, Giuseppe Candido vescovo e scienziato, Lecce, Edizioni Grifo, 2009. 43 Cfr. L. Buffoni, E. Proverbio, P. Tucci, a cura di, Pietro Tacchini. Lettere al Padre Angelo Secchi (1861-1877), Milano, Università degli Studi, Pontificia Università Gregoriana, 2000. Per la corrispondenza intercorsa tra Cosimo De Giorgi e numerose personalità italiane e straniere si rinvia a E. De Simone, L. Ingrosso (Eds), Epistolario di Cosimo De Giorgi. Regesti, Galatina, EdiPan, 2003 e E. De Simone, Carteggi di Cosimo De Giorgi. Regesti e lettere scelte, Galatina, EdiPan, 2007.

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impegnato da anni in operazioni di studio e rilevazione del campo magnetico ter- restre, fondamentale cofattore nella formazione delle aurore polari44. Sorprende, quindi, che soprattutto De Giorgi, che nei lunghi decenni della sua attività come geofisico e meteorologo ha lasciato una mole notevole di dati desunti dalle sue quotidiane osservazioni, non abbia riferito, stando alle fonti consultate, in merito alle aurore boreali manifestatesi sia nel 1870, che nel 1872. Lo stesso studioso, però, avvertì anni dopo, nel 1883, l’opportunità di chiarire, con un suo intervento sul periodico leccese «L’Ordine», come il «bellissimo spettacolo» cui per giorni si era potuto assistere sotto il cielo di Lecce e di tutt’Italia45, sebbene simulasse una nuova aurora boreale, fosse stato in realtà qualcosa di molto diverso: «Da cinque giorni assistiamo al bellissimo spettacolo della luce crepuscolare, la quale nella nostra latitudine si è manifestata un’ora e mezzo prima del sorgere del sole ed altrettanto dopo il tramonto, tingendo la nostra atmosfera, di un colore rosso intenso e fiammeggiante fino a 60 gradi sopra l’orizzonte. Questo fenome- no è in relazione col movimento diurno del sole e segue perfettamente le fasi dei crepuscoli. Il momento più bello per osservarlo è un’ora dopo il tramonto, quando le tenebre involgono la terra e le stelle scintillano nel cielo: allora quella luce di fuoco diviene più intensa nel contrasto col buio della notte, e sembra prodotta da un vasto incendio in un punto molto lontano del nostro orizzonte. Questa luce crepuscolare è stata osservata in questi giorni in quasi tutta l’Europa fino alle più alte latitudini. Falsamente si è creduto trattarsi di un’aureola boreale; ed io ho dovuto dissuade- re moltissimi dall’erroneo giudizio ripetuto anche in parecchi giornali del Regno. L’aurora boreale si osserva sulla linea del meridiano magnetico, non a ponente o a levante; è indipendente dalla posizione del sole; la sua luce ha diversa natura, e quindi disturba potentemente tutti gli apparati magnetici dei nostri osservatori e talvolta anche le linee telegrafiche che irretiscono il globo terrestre. Nulla di ciò si è verificato in questi giorni. La luce crepuscolare è un fenomeno conosciuto e descritto dai meteorologi, e si deve alla riflessione e rifrazione dei raggi solari sull’acqua allo stato solido o liquido contenuto nell’atmosfera, ed anche allo stato di vapore nei crepuscoli quotidiani. Nel caso nostro – molto raro ed eccezionale – ci rivela una condizione speciale degli strati atmosferici più elevati – ordinariamente secchissimi – per la quale l’acqua nuotante in questi stati assorbe tutti i raghi [raggi] dello spettro solare riserbando a noi la sola luce rossa ch’è quella che vediamo quando il sole è già disceso da 15 a 18 gradi sotto l’orizzonte»46.

44 Cfr. P. Gasparini, D. Pierattini, Magnetic measurements at Naples in the XIX century, in «Annali di Geofisica», vol. 40, 2, 1997, pp. 563-568. 45 Ne parla anche «La Croce Pisana», 8 dicembre 1883 e «Il Friuli», 8 dicembre 1883 per i rispettivi territori di riferimento. 46 «L’Ordine», 8 dicembre 1883.

117 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato

«Il ritorno della Grande Aurora»

Le fonti documentali ad oggi esplorate non riportano, per quanto si è potuto appurare per il Salento, ulteriori testimonianze relative ad altre osservazioni, ne- anche riconducibili agli eventi di entità più ragguardevole. Sarebbe, ad esempio, il caso della “Grande aurora” che si manifestò nella notte del 28 agosto 1859 accendendo per alcuni giorni il cielo notturno fino alle latitudini tropicali. Fu osservata, fra le altre località italiane, a Roma47, mentre a Napoli il resoconto scientifico che fu redatto riporta un’osservazione relativa alla sera del 12 ottobre successivo48. Eppure è accertato, da fonti a stampa locali, che rimase vivo nel pubblico l’interesse e la curiosità verso questi straordinari fenomeni49. In tempi più recenti, sembrerebbe che anche la cosiddetta “Tempesta di Fatima”, vale a dire la forte perturbazione solare da cui originò l’aurora polare del 25 gennaio 1938, ammirata da gran parte della superficie terrestre in entrambi gli emisferi e che fu interpretata come una delle tragiche “profezie” legate al culto della Ma- donna di Fatima, pare non abbia trovato in questa parte d’Italia alcun testimone. Lo attesterebbe anche, a dispetto del risalto che la notizia ebbe sulle copertine dei popolari settimanali «La Domenica del Corriere» e «Il Mattino illustrato», la succinta cronaca giornalistica riportata sul più diffuso quotidiano regionale pugliese, la «Gazzetta del Mezzogiorno», che si limitò ad indicare alcune del- le città nelle quali essa si manifestò: tra queste, Berlino ed Atene per l’estero, Trieste e Gorizia per l’Italia50. Fu proprio però un astronomo salentino, Eugenio Guerrieri, a fornire una descrizione molto dettagliata dell’avvenimento, ripor- tando le osservazioni registrate in Italia, particolarmente a Napoli e a Bologna, e presso diversi osservatori astronomici d’Europa e di altri continenti, soffer- mandosi anche nel discutere le cause e le caratteristiche salienti del fenomeno51.

47 A. Secchi, Intorno alla corrispondenza che passa tra i fenomeni meteorologici e le variazioni d’intensità del magnetismo terrestre, in «Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei», tomo XIV, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1861, pp. 195-210. 48 «Annali Civili del Regno delle due Sicilie», vol. LXVII, Napoli, Stabilimento tipogra- fico del R. Ministero dell’Interno, 1859, p. 158. 49 Cfr. gli articoli a firma di Antonio Ungaro apparsi su «La Città di Brindisi», 27 novem- bre 1903 e 12 dicembre 1903 nei quali, prendendo come spunto le notizie dell’interruzione delle comunicazioni avvenuta in Francia nei giorni precedenti, si discute delle tempeste ma- gnetiche, collegandole con l’origine delle aurore polari, tra le quali quella osservata , oltre che negli Stati Uniti d’America, anche nell’Europa centrale il 31 ottobre 1903. 50 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 gennaio 1938. 51 E. Guerrieri, La Grande Aurora Boreale del 25-26 gennaio 1938-XVI. Connessione tra aurore polari, macchie solari e perturbazioni elettro magnetiche, Napoli, Tipografia Arturo Nappa, 1938. Eugenio Giuseppe Guerrieri (Novoli 1874-Bagnoli 1957) aveva conseguito la laurea in Matematica e Fisica a Napoli nel 1896. Entrato a far parte come secondo assistente dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte nel 1900, ne divenne astronomo aggiunto e

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In tempi ancora più recenti, nel 1957, ancora la «Gazzetta del Mezzogiorno» annunciava con un titolo ad effetto le «apocalittiche eruzioni solari» segnalate dagli osservatori astronomici il 2 luglio di quell’anno, che lasciavano prevedere «inevitabili ripercussioni sulla propagazione delle onde radio» ed aurore boreali come probabili conseguenze dell’intensa attività solare. Nessun’altra notizia in merito, però, fu riportata nei giorni che seguirono ed anche qualche anno dopo, lo stesso periodico, si limitava ad annotare un’aurora boreale di breve durata, osservata solo nell’Italia del nord ed in Francia il 12 novembre 196052. C’è però da chiedersi quali effetti avrebbero potuto avere le tempeste magneti- che registrate nel corso dell’evento del 1957, ma soprattutto, la “Super tempesta” del 28 agosto 1859 che generò la “Grande Aurora” di quell’anno. Perché «l’impat- to della tempesta del 1859 non fu molto pesante: la civiltà tecnologica era ancora agli albori. Ma se un evento simile si ripetesse oggi, potrebbe danneggiare grave- mente i satelliti, interrompere le comunicazioni radio e provocare blackout elettri- ci su interi continenti che richiederebbero diverse settimane per essere riparati»53. Non è quindi difficile prevedere gli scenari e le conseguenze che la ripetizione di un evento simile avrebbe su scala mondiale, con danni ingenti per le economie di ogni Paese e ripercussioni molto severe su ogni attività umana. Sono scenari che non possono essere esclusi o sottovalutati e quindi richie- derebbero un’adeguata strategia di previsione e controllo ed un piano finanziario di investimenti per una ricerca mirata. Tutto ciò, tuttavia, senza nulla togliere alle emozionanti suggestioni che lo spettacolo di un’aurora polare può offrire all’ammirazione di quanti hanno la possibilità di goderlo nelle lontane terre cir- cumpolari e, più ancora, se mai tornasse ad illuminare coi suoi bagliori di fuoco il cielo delle regioni più meridionali. Compreso il Salento.

quindi primo astronomo fino al 1947. I suoi studi ebbero interessi diversi, orientandosi pre- valentemente su misurazioni geomagnetiche, fotometria e catalogazione delle stelle variabili, calcolo delle orbite dei pianetini, studio delle macchie solari. 52 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 luglio 1957 e 13 novembre 1960. 53 S.F. Odenwald, J.L. Green, Il ritorno della Grande Aurora, in «Le Scienze», 482, pp. 52-59; citazione pp. 52-53.

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CRISPR-Cas9: il bisturi molecolare

Federico Rossi

Prima del CRISPR

James Watson e Francis Crick sono due nomi scolpiti nella storia: tutti li conoscono, tutti sanno chi sono da quando nel lontano 1953 fu pubblicato sulla rivista scientificaNature un articolo di genetica, forse il più importante del seco- lo. Veniva presentato al mondo l’acido desossiribonucleico, meglio conosciuto come DNA, un lungo polimero: zucchero, gruppi fosfato e basi azotate uniti a formare una sinuosa e perfetta doppia elica, l’elica della vita. Non ci volle molto a capire che la carta di identità biologica è scritta sotto forma di sequenze di lettere: A, T, C, G, e ci volle ancora meno a capire che que- ste sequenze si possono alterare, formando le cosiddette “mutazioni”. Nel 1970, Werner Arber1 intuì che, se il DNA poteva essere mutato “in nega- tivo”, poteva anche essere modificato in “positivo” e sintetizzò degli straordinari enzimi chiamati “enzimi di restrizione”, capaci di effettuare tagli nel genoma in punti precisi. Tale scoperta trovò poi seguito grazie all’invenzione della tec- nica di laboratorio chiamata “reazione a catena della polimerasi”, o PCR, che permette di moltiplicare le sequenze di DNA in vitro. Fu infine nel 1989 che i premi Nobel M.R. Capecchi, M.J. Evans e O. Smithies introdussero con successo uno specifico gene modificato nel topo usando cellule staminali embrionali. Jennifer Doudna2 ed Emmanuelle Charpen- tier3, altri due nomi che rimarranno scolpiti nel- la storia – per ora solo in pochi sanno chi sono – sono state presentate al mondo in un articolo della rivista scientifica Science nel 2012 come inven- trici del sistema CRISPR-Cas9. Una scoperta che Jennifer Doudna, coinventrice del rivoluziona il mondo dell’ingegneria genetica, un sistema CRISPR-Cas9.

1 Werner Arber ottenne il Premio Nobel per la Medicina nel 1978. 2 Professoressa di Biochimica e Biologia molecolare presso l’Università di California, Berkley. 3 Professoressa presso l’Università di Umeå, in Svezia, presso la Scuola di medicina a Han- nover, in Germania, e all’Helmholtz Centre for Infection Research di Braunschweig, sempre in Germania, dove è inoltre direttrice del Max-Planck-Institut für Infektionsbiologie di Berlino.

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“bisturi molecolare” facilissimo da usare e da costruire, insomma un accesso immediato, semplice e veloce all’universo delle modificazioni del genoma, il sogno che diventa realtà per i biotecnologi e i genetisti.

Che cos’è e come funziona

CRISPR-Cas9 è l’acronimo di Clustered Regularly interspaced Short Palin- dromic Repeats, ossia “brevi ripetizioni palindromiche raggruppate e separate a intervalli regolari”. Un nome molto lungo per uno strumento molto potente. Il sistema è formato da due sequenze di RNA – un RNA batterico, chiamato tracrRNA, e un RNA specifico del DNA bersaglio – e una nucleasi, cioè un enzima che taglia il DNA, chiamato “Cas” (cioè CRISPR-associato). Esistono vari tipi di Cas, ma quello utilizzato nelle ricerche da Doudna e Charpentier è il Cas9 che permette di effettuare rotture di entrambi i filamenti del DNA senza dispersione casuale di nucleotidi. Il dispositivo CRISPR-Cas9, una volta sintetizzato, è introdotto nel nucleo della cellula di cui si vuole modificare il genoma. A questo punto la sequenze di RNA specifica per il DNA bersaglio si lega ad un filamento del DNA cellulare secondo il principio della complementarietà fra basi in precisi punti del genoma. Qui la nucleasi agisce applicando tagli double-strand a tre nucleotidi di distanza dal sito di attacco dell’ RNA specifico.

Come funziona il sistema CRISPR-Cas9.

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Il DNA cellulare è ora stato tagliato in due specifici punti. Questa modificazione permette, per esempio, di rimuovere una porzione del genoma, magari un gene che non si vuole fare esprimere. Oppure si può agire inserendo nuove sequenze di DNA. Nelle cellule, infatti, il DNA che viene tagliato si separa secondo due processi. Se non sono disponibili sequenze omologhe avviene una giunzione con inserzione o de- lezione aleatoria di qualche nucleotide. Se c’è DNA omologo, avviene uno scambio con la sequenza rimossa. I biotecnologi usano già da tempo sintetizzare sequenze di DNA omologhe e il CRISPR permette ora di sfruttare questa possibilità.

Come è stato scoperto?

Come tutte le grandi innovazioni si è giunti allo sviluppo della tecnologia in un contesto che non aveva niente a che vedere con l’editing genomico. In verità il CRISPR-Cas9 non è nemmeno un’invenzione, bensì una scoperta fatta dal gruppo di ricerca di Charpentier che investigava i metodi di autovacci- nazione di alcuni batteri. Queste cellule procariote, se sopravvivevano all’attac- co del batteriofago, sembravano conservare il ricordo dell’avvenimento in una memoria situata in una specifica zona del proprio DNA. Più nello specifico il DNA virale è dotato di corte sequenze (chiamate PAM) situate di fianco a speci- fici geni bersaglio. Quando il batterio riesce a sventare l’attacco del batteriofago taglia i geni bersaglio del DNA virale, ne fa una copia e li inserisce in una zona del proprio genoma chiamata CRISPR. Se sopraggiunge un secondo attacco, quando il virus inserisce il proprio DNA nel batterio, la zona CRISPR e una zona ad esso adiacente si attivano sin- tetizzando una copia in RNA complementare ai geni di origine virale preceden- temente immagazzinati, insieme all’endonucleasi Cas9 e al tracrRNA. Il com- plesso CRISPR-Cas9 a questo punto si lega, grazie ai geni bersaglio, al DNA del fago rompendolo in corrispondenza dei PAM e neutralizzandolo.

Qual è la novità del sistema CRISPR-Cas9?

Gli enzimi di restrizione sono un’invenzione precedente al sistema CRISPR, e già permettevano di eseguire tagli precisi al genoma procariotico ed eucario- tico. Qual è allora la vera innovazione del CRISPR? Perché esso è così impor- tante? Sostanzialmente la novità nel CRISPR risiede nella sua relativa semplicità. A dispetto del suo nome complesso, infatti, questa tecnologia ha un meccanismo fisiologico elementare, si basa sul concetto di complementarietà fra le basi azo-

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tate degli acidi nucleici e sulla sin- tesi di sequenze di DNA omologhe. Inoltre il sistema CRISPR è for- mato da semplice RNA e da una proteina, l’enzima Cas9, che è ugua- le in ogni esperimento. Nelle precedenti tecnologie, come le “dita di zinco”4, erano usati complessi motivi proteici in grado di legarsi a gruppi di tre nucleotidi sulla sequenza di DNA bersaglio. Perciò erano necessarie un numero enorme di molecole complesse per effettuare pochi tagli sul genoma; queste molecole erano difficili da Struttura molecolare del CRISPR-Cas9 in 3D. sintetizzare, con il risultato che un esperimento comportava un’ingente spesa pecuniaria e un importante spreco di tempo. Il CRISPR-Cas9, invece, presenta numerosi vantaggi in questo senso: «Per ottenere un topo portatore di una mutazione responsabile di una malattia umana servivano mesi, se non anni. Con il meccanismo batterico CRISPR-Cas9 bastano poche settimane. Per la prima volta i laboratori possono accedere in modo diretto, facile e preciso al DNA contenuto nelle cellule viventi»5.

Un esempio dell’uso del CRISPR

È forse proprio per questa relativa semplicità che dalla pubblicazione dell’ar- ticolo su Science nel 2012 una miriade di laboratori hanno intrapreso ricerche che implicano l’utilizzo del sistema CRISPR (ci sono state addirittura cinquanta pubblicazioni in dieci mesi). Il numero del Gennaio 2017 della rivista «Le Scienze» riporta a p. 47 un ar- ticolo su un progetto in sviluppo presso il Gene Expression Laboratory del Salk Institutefor Biological Studies che adopera il CRISPR. Un problema della moderna Chirurgia è la carenza di organi a disposizione

4 Questo strumento ha permesso nel 2002 al gruppo statunitense di Dana Carroll, all’u- niversità dello Utha, di ottenere per la prima volta una mutazione mirata in un gene del mo- scerino. 5 E. Charpentier, P. Kaldy, L’enzima che rivoluziona la genetica, in «Le Scienze», 572, Aprile 2016, p. 29.

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per i trapianti: in America muoiono in media 22 persone al giorno e in Europa circa 16 sono nell’attesa di un donatore. I biotecnologi hanno forse trovato una soluzione a tale questione. Il loro pro- getto consiste nel modificare embrioni di animali come il suino in modo che sviluppino organi interni umani. In un embrione singoli geni, come il Pdx1 o il Six2, codificano per la sintesi di proteine che portano allo sviluppo di interi organi. È possibile dunque prelevare l’o- vocita animale appena fecondato ed eseguire i cosiddetto “svuotamento di nicchia”; cioè attraverso il CRISPR-Cas9 si silenziano i geni Pdx1 o Six2. A uno stadio più avanzato dell’embriogenesi (precisamente allo stato di “blastocisti”) si inoculano iPS umane (cellule staminali pluripotenti indotte) che contengono i geni Pdx1 e Six2 della specie umana. Si prosegue impiantando la blastocisti “chimerica” in una madre surrogata e si consente all’embrione di terminare il suo sviluppo. Chiaramente gli scienziati devono alterare alcuni parametri biochimici in modo da velocizzare lo svi- luppo degli organi umani (il tempo di gestazione dell’uomo è nettamente superiore a quello del suino), tuttavia esperimenti eseguiti in America e in Giappone sembrano confermare che sul piano teorico il progetto dovrebbe funzionare. Questa è solo una delle tantissime applicazioni del sistema CRISPR-Cas9. Bisogna sempre tenere a mete che questa tecnologia permette di modificare il DNA e di conseguenza di curare potenzialmente ogni mutazione conoscendo il punto del genoma in cui essa si verifica. Si potrebbero debellare malattie coma la fibrosi cistica, la distrofia muscolare di Duchenne, l’emofilia, l’anemia, la fenilchetonuria, vere piaghe della società moderna. Il sistema CRISPR apre strade inimmaginabili: come fa notare la stessa Doudna durante la conferenza TED nel Settembre 2015, il DNA è la chiave della vita e modificarlo significa potenzialmente creare un esser umano a nostro piacimento. Sapendo quali geni codificano per determinate proteine si potrebbe- ro decidere il colore degli occhi di una persona, la sua predisposizione al cancro al seno, la qualità della sua vista, il suo punteggio IQ e molto altro. La tecnologia CRISPR-Cas9 è un portale verso un mondo di luce tutto da esplorare.

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Le moto del futuro: meccanica o elettricità?

Giuliana Polo

Le riviste specializzate non fanno altro che scriverne a proposito, i program- mi televisivi interessati non fanno altro che spiegarlo, i tecnici non fanno altro che studiarlo e gli appassionati non possono fare altro che parlarne: si tratta dell’avvento del motore elettrico, un fenomeno temuto dagli amanti degli ottani¹ e ammirato dagli amanti dell’ecologia, un ingegno in via di sviluppo che aspetta solo di diventare uno stile di vita a cui ci si deve abituare. L’origine di questa innovazione che sembra moderna va ricercata in realtà in- torno alla metà dell’800. Infatti in questo periodo la trazione ferroviaria e quella tranviaria² erano alimentate da un motore elettrico a corrente continua³ (usato fino al 1970 circa) che compiva un lavoro compreso tra i 1300 e i 1500 volt nel primo caso e tra i 600 e i 1000 volt4 nel secondo. Il motore di queste prime locomotive “ecologiche” era di grandi dimensioni e spesso unico all’interno del mezzo. Nei treni moderni, invece, l’alimentatore utilizzato è un più semplice motore asincrono trifase5, che ora è il dominatore dei mezzi a rotaie. All’interno delle lo- comotive attuali, viene applicato un motore di trazione per ogni asse o carrello6 della locomotiva (a seconda della configurazione di questa). Purtroppo i mezzi stradali non sono altrettanto attenti ai bisogni della natura.

1 Un Ottano, definito anche come numero di ottano, è l’unità di misura convenzionalmente usata in gergo stradale per definire la qualità di un carburante. 2 Si definisce trazione ferroviaria l’insieme dei vari sistemi meccanici con lo scopo di trai- nare i veicoli sulle ferrovie; si definisce trazione tranviaria l’insieme di sistemi con lo scopo di fornire la capacità di movimento ad un treno. 3 Il motore a corrente continua è il primo motore elettrico realizzato, è chiamato così perché per funzionare deve essere alimentato con tensione e corrente costante. L’energia che produce questo tipo di Macchina fisica è reversibile e questa può essere usata sia da motore che da generatore. 4 Il volt è l’unità di misura del potenziale elettrico posseduto da un corpo. 5 Il motore asincrono trifase è un tipo di motore alimentato da un sistema di tre bobine rotanti spostate di 120° tra loro che generano tensione elettrica, la parte fissa di questa strut- tura è detta statore, quella mobile rotore. L’energia del motore è data dalla generazione di tre differenti campi magnetici variabili che si creano all’interno di questa struttura. 6 Il carrello è la struttura portante di un veicolo ferroviario, indicato come “carrello moto- re” se si tratta di quello munito del motore di trazione. Gli assi sono le parti che compongono il carrello, possono essere due o più a seconda della funziona che devono svolgere e del peso che devono sopportare.

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I veicoli, con cui ci si muove ogni giorno, producono gas di scarico nocivi, in- quinando l’ambiente. Non ci si deve sbagliare, imputando tutta la colpa dello smog alle auto e alle moto che circolano per le strade; i gas di scarico nocivi sono, infatti, una minima parte dei gas emessi alla fine del processo di combustione, tipico dei motori a scoppio. I suddetti gas rappresentano l,1% delle emissioni di un motore moderno a benzina e lo 0,2% di un motore diesel; tali gas, contenenti sostanze pericolose per l’uomo, sono: il monossido di carbonio (CO), gli idrocarburi incombusti durante lo scoppio (HC) e gli ossidi di azoto (NO), i restanti gas prodotti sono anidride carbonica (CO2) e azoto (N). Per ridurre ulteriormente questi gas nocivi è stato introdotto il catalizzatore a tre vie7 all’interno della marmitta. Nel mondo delle quattro e delle due ruote il problema si fa sentire con l’avven- to delle nuove normative europee (per ultime Euro6 per le automobili ed Euro4 per i motoveicoli8) sui limiti dei consumi. Tali normative hanno creato problemi alle case produttrici, che hanno dovuto ingegnarsi per ridurre i consumi mantenendo la potenza. Il risultato del 2017 risulta eccellente: case come BMW, Honda e Aprilia sono riuscite persino ad aumentare i cavalli9 delle loro supersportive. Gli amanti dello scarico rumoroso, i disprezzatori del DB-Killer10 che montano scarichi da pista sulle loro moto stradali, sono i più desolati dalla consapevolezza che presto o tardi il ruggito delle loro moto sarà costretto ad un timido miagolio. Quando il mondo sarà domato dai motori elettrici, l’inquinamento acustico non sarà più un problema, le Harley Davidson non saranno inconfondibili e il rombo della valvola a farfalla11, che lascia entrate l’aria nella camera di scoppio, sarà inesistente.

7 I catalizzatori a tre vie sono così denominati in quanto svolgono simultaneamente tre funzioni: (a) la riduzione degli ossidi di azoto (NOx) ad azoto (N2); (b) l’ossidazione del mo- nossido di carbonio (CO) a biossido di carbonio (CO2); (c) l’ossidazione degli idrocarburi in- combusti (HC) e dei loro prodotti di combustione parziale (quali le aldeidi, HCO) a biossido di carbonio e acqua. Da Enciclopedia Treccani, Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2008). 8 Le normative Europee sulle emissioni nocive dei veicoli stradali vengono indicate con il prefisso “Euro-” seguito da un numero arabo se si tratta di veicoli leggeri o da un numero romano se si tratta di veicoli industriali. Tali normative sono gradualmente introdotte dalla Comunità Europea al fine di ridurre al minimo le emissioni inquinanti. 9 I Cavalli (Cv) indicano la potenza di un motore paragonato alla potenza prodotta da un cavallo che solleva 33 000 lb (libbre forza) con la velocità di un piede al minuto, questa unità di misura venne coniata e usata per la prima volta da James Watt. 10 Il DB-Killer è un dispositivo meccanico montato nella parte finale di un silenziatore, in ambito motociclistico montato al termine del tubo di scarico. Questo dispositivo è formato da diverse reti metalliche sovrapposte tra loro. 11 La valvola a farfalla è un tipo di valvola meccanica impiegata come regolatrice, consiste in un disco che ruota su se stesso e fisso su un asse verticale rispetto al tubo del quale deve regolare la portata.

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Anche gli adolescenti la cui priorità è quella di “sfrangiare”12 il proprio scooter 50cc appena conseguita la patente AM, dovranno rassegnarsi al non potersi più vantare con l’amico della propria marmitta modificata, primo elemento da rivisi- tare per far diventare il ronzio del loro piccolo due ruote un rumore udibile a due isolati di distanza. Il mercato motociclistico si evolve a favore dell’ambiente in tutti i suoi campi, dalle minimoto alle moto da turismo, dagli scooter più piccoli ai più ingombranti a tre ruote, un cambiamento omogeneo che presto diventerà “total green”. Duro colpo per il classico e fedele motore a scoppio, che già vedeva il pro- prio posto sulle piccole cilindrate “rubato” dai motori a iniezione13, come accade nei nuovi modelli della Piaggio, quale il Liberty 4Tempi, e ora, silenziosamente, accetta l’avanzare dell’innovazione elettrica. Non è però del tutto persa la partita, il problema, che affligge questo tipo di motore e che tutti cercano di risolvere, è quello del carburante necessario per questo famoso scoppio: carburanti “in via d’estinzione”, carburanti che inquina- no, carburanti non adatti; il motore ha bisogno di soluzioni concrete per soprav- vivere all’attacco elettrico. Ma come funziona precisamente questo motore? Il motore a combustione interna è il più usato dalla data del suo brevetto (1853), in fisica è considerato una macchina motrice endo-termica, ovvero che rilascia calore, e quindi energia, al suo interno. La principale funzione di questa macchina è quella di convertire l’energia chimica posseduta dalla miscela di aria e combustibile, che si crea all’interno del carburatore, in lavoro meccanico da distribuire all’albero motore e all’intero sistema di trasmissione. La trasformazione di questa energia in lavoro avviene tramite una reazione chimica di combustione: la miscela di acqua e combustibile prende fuoco all’in- terno del cilindro durante la fase di scoppio, rilasciando l’energia, dando vita al lavoro meccanico e i gas di scarto sopracitati. 1. Compressione: in questa fase le valvole mantengono chiusa la camera di combustione e il cilindro si solleva comprimendo la miscela, aumenta la pres- sione e diminuisce il volume. Ciò implica un aumento di temperatura tale da incendiare il combustibile. 2. Accensione: avviene lo scoppio, il cilindro continua a comprimere l’aria e la candela accende la miscela.

12 Il termine indica la pratica, applicata frequentemente sui motorini, di rimuovere dallo scarico una strozzatura che limita la rapidità di fuoriuscita degli scarti e quindi la velocità del mezzo; questa strozzatura, che consiste in un anello metallico di piccole dimensioni, è chia- mata “frangia”, da qui deriva il termine “sfrangiare”. 13 L’iniezione è un tipo di alimentazione interna che consiste nella polverizzazione del combustibile per poi iniettarlo all’interno della camera di scoppio.

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3. Espansione: in questo momento la miscela si espande spingendo verso il basso il cilindro, la valvola collegata al resto del motore si apre, lasciando pas- sare i gas di scarico e trasmettendo energia. Il carburante è quindi essenziale all’interno di un veicolo con questo tipo di motore, per questo la questione dell’inquinamento è particolarmente grave. Si tende, infatti, all’avvento dei veicoli elettrici, data l’attuale mancanza di carbu- ranti alternativi efficaci e insediabili nel commercio. Le fasi descritte avvengono all’interno della camera di combustione, essen- ziale nella struttura del motore e sua componente centrale, attorno alla quale ruota il corretto svolgersi delle attività di ogni sua singola parte. La composizione del motore a scoppio è particolarmente complessa e ricca di elementi differenti e dipendenti l’uno dall’altro: - Serbatoio: il carburante viene inserito all’interno di un contenitore che poco a poco lo rilascia all’interno del motore. - Carburatore: questo componente controlla la quantità di aria e combustibile da miscelare insieme e introdurre nella camera di scoppio. Il carburante entra al suo interno tramite un tubo collegato al serbatoio chiamato “spruzzatore”, l’aria entra tramite il filtro apposito; la quantità d’aria in entrata (che implica la quantità di combustibile in entrata) è controllata da una valvola, a farfalla o a saracinesca14, che si apre in proporzione all’ accelerazione controllata dal pilota tramite la manopola destra del manubrio. - Camera di combustione: formata dal cilindro e dal pistone che si muove al suo interno. La superficie superiore del cilindro è occupata dalle due valvole e dal- la candela, rivolte all’interno della camera. Il cilindro ruota grazie all’azione di un pezzo meccanico chiamato “biella”, collegato agli ingranaggi dell’albero motore. - Albero motore: composto da manovelle collegate ognuna ad una biella, che ruota liberamente attorno ad un perno e spinge le manovelle verso il basso, facendo ruotare l’albero. L’albero motore ruota attorno al proprio asse, perpen- dicolare rispetto alla verticale del cilindro, in modo da trasferire il moto. Questo movimento circolare viene trasferito agli ingranaggi del cambio. - Albero di trasmissione: Collegato agli ingranaggi del cambio, trasferisce il lavoro al differenziale15 e, tramite la trasmissione16, alla ruota di trazione (quella

14 La valvola a saracinesca è un tipo di valvola meccanica il cui otturatore funziona come una saracinesca, se posizionata in verticale è chiamata “ghigliottina”, se posizionata in manie- ra inclinata è “chiamata cuneo”. 15 In meccanica, il differenziale è un particolare tipo di rotismo che consente ad una coppia rotante di compiere un moto a due velocità differenti contemporaneamente. 16 In meccanica, la trasmissione è l’insieme di elementi che hanno il compito di trasferire l’energia creata all’interno del motore alle ruote motrici o in generale ad altre parti del motore stesso.

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posteriore); la trasmissione varia di mezzo in mezzo, può essere la catena, la cinghia o il cardano17 (ulteriore albero che trasmette il moto tramite un altro sistema di ingranaggi). - Impianto di scarico: espelle i gas di scarico prodotti dalla combustione dopo il loro passaggio attraverso i collettori18 e il catalizzatore, quest’ultimo abbatte le emissioni nocive favorendo la reazione di ossidazione e riduzione dei gas, inoltre contribuisce, assieme al terminale, a ridurre il rumore di quest’ultima componente principale. Il precursore del motore elettrico è un impianto studiato nei minimi dettagli, risultato meccanico del corretto funzionamento di centinaia di ingranaggi sin- cronizzati; esso necessita solo di un’alternativa per poter continuare a funzionare a lungo. Il motore elettrico non è più una novità assoluta nel mondo delle quattro ruote, che già ha introdotto nel mercato veicoli elettrici o persino a propulsione ibrida, ovvero capaci di trarre energia da due differenti motori in sinergia tra loro, motore elettrico e termico ad esempio. La prima fonte di energia necessaria per un veicolo elettrico è una centrale esterna, ovvero le apposite colonnine con funzionamento simile a quello del caricabatteria del nostro smartphone, il tempo di ricarica dipende dalla capacità della sorgente esterna: nel caso i cui tale capacità fosse di 44 Kwatt/h, un auto- veicolo cittadino sarebbe carico all’80% in 45 min. L’autonomia che un’auto cittadina al massimo della batteria garantisce è di 200 Km circa. Tale dato è riportato ad esempio dalla Renault Zoe. L’energia assorbita durante la ricarica viene trasferita nell’accumulatore del- la batteria di trazione, che funziona in maniera simile al serbatoio di un motore a combustione, rilascia l’energia a seconda delle quantità che ne richiede il motore per il proprio processo di locomozione. L’energia elettrica assorbita diventa meccanica tramite i componenti a in- granaggi del motore e il loro movimento meccanico. L’energia in questione è molto violenta, siccome non regolata da valvole che misurano lo scorrimento del carburante (come nel motore a scoppio), tanto che i tecnici sono stati costretti a studiare un sistema interno capace di controllare elettronicamente la spinta della vettura in maniera proporzionale alla forza applicata all’acceleratore.

17 La catena, la cinghia e il cardano sono tre tipi differenti di trasmissione di energia alle ruote. La catena a la cinghia funzionano secondo le stesso principio: sono collegate all’albero motore da una parte e alla ruota dall’altra e grazie al movimento di uno consentono il movi- mento all’altra; il cardano funziona grazie il movimento di un ulteriore albero, perpendicolare a quello motore, che ne trasferisce il movimento. 18 I collettori sono i tubi che portano i gas di scarto della reazione di combustione allo scarico.

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Tale sistema elettronico si basa unicamente sull’inclinazione del pedale dell’acceleratore, esclude quindi la presenza di un cambio manuale o automatico che sia, nella vettura: più si preme sull’acceleratore, più forza viene consentita dal sistema di controllo. Data l’inesistenza del cambio sequenziale, la retromarcia è data da un inver- titore di energia, regolato anch’esso dalla forza applicata sul pedale: paradossal- mente si potrebbe andare a 100 Km/h in retromarcia, ma il problema è risolto da un ulteriore controllo elettronico che limita la velocità ai 5 Km/h. Un sistema piuttosto semplice, che si controlla da se e facile da utilizzare per il guidatore, ma il mondo motociclistico è comunque più restio nei suoi con- fronti, il funzionamento delle moto elettriche segue gli stessi principi assodati e funzionanti delle autovetture, ma purtroppo non convince le case produttrici. Esiste un solo vero modello di supersportiva che corona questo “sogno gre- en”, si chiama Energica Ego ed è prodotta in Italia. Funzionando tramite il principio già descritto, questa moto non presenta né cambio né frizione. Il pilota controlla la moto solo tramite l’acceleratore; il si- stema che controlla la forza del motore in proporzione alla manopola destra è chiamato “ride-by-wire” e permette di dosare la coppia erogata dal motore in accelerazione e in decelerazione di dosare la coppia rigenerativa19, ovvero il freno motore, un’ulteriore forma di rilascio di acceleratore permette di mettere la moto in folle. Il motore di questa moto è sincrono a Magneti Permanenti raffreddato a olio, inoltre questa moto (come la maggior parte dei prototipi elettrici) possiede una sola centralina elettronica, a differenza delle moto ordinarie, che controlla tutti i sistemi quali batteria, inverter20 e ABS21. La velocità massima che questa supersportiva ecologica può raggiungere è limitata a 240 Km/h, la coppia varia in 195 Nm da 0 a 4700 rpm; la batteria ha una capacità di 11.7 Kw/h22. Nonostante le principali case produttrici ancora non cerchino realmente di inserire in maniera scrupolosa delle moto elettriche in commercio, il listino delle moto elettriche non è povero, le moto in questione hanno un’autonomia di mi- nimo 100 Km, meno rispetto alle automobili, ma comunque ottimo se si tiene conto dello sviluppo che questo tipo di motore deve ancora compiere.

19 La coppia è il momento meccanico applicato da un motore alla sua trasmissione. 20 Gli inverter sono i dispositivi che hanno la funzione di modificare la velocità di un mo- tore elettrico modulandone la frequenza di alimentazione; questi adattano il funzionamento del motore alle necessità richieste dalla guida, evitando sovradimensionamenti. 21 Sigla di Anti Blockier System, nome commerciale del un sistema frenante elettronico antibloccaggio. 22 Le informazioni tecniche sono tratte dalla scheda tecnica online di Energica Ego.

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Per quale motivo lo sviluppo elettrico risulta maggiore nel mondo delle quat- troruote rispetto a quello delle due ruote? Ci sono tante varianti che a questo punto entrano nel discorso, varianti eco- nomiche, umane o anche solo di disponibilità organizzative, le idee per un reale cambiamento ci sono, in alcuni casi anche le possibilità e allora cosa manca? Perché non tutti i motociclisti sono d’accordo? La prima risposta a questa domanda è una preoccupazione di tipo logistico: le centraline della batteria. Si evolvono i veicoli ma non le strade: come si può pensare di affrontare un lungo tragitto in moto, sapendo di avere un certo nu- mero di chilometri e la consapevolezza di poter ricaricare il veicolo raramente fuori casa? I centauri non hanno tutti i torti, gli appassionati abituati all’uscita domenica- le “macina chilometri” non potranno mai arrendersi alla costrizione di dover fare retromarcia intorno ai 150 Km nella maggior parte dei casi. Il ragionamento vale anche per le autovetture elettriche, il mercato non può evolversi pienamente, se la strada rimane configurata per i borbottanti motori tradizionali. L’ideale sarebbe un’evoluzione che parte dalla strada per arrivare poi al vei- colo, ma senza veicoli diffusi sarebbe inutile riformare una strada, e allora ci si ritrova nello stallo nel quale è immerso ora il mondo del motore. E la seconda risposta a questa domanda? La dimensione. I vari componenti di un motore elettrico assemblati risultano essere molto più grandi e pesanti di quelli di un motore tradizionale; montare un motore del genere sulle moto odierne che tendono alla maneggevolezza, sarebbe un grosso rischio per i produttori, significherebbe aumentare il rischio di un motoveicolo, diminuire le sue prestazioni e contraddire il punto di arrivo verso il quale si sta sviluppando il settore motociclistico odierno. Sicuramente, anche il motore elettrico, col tempo, riuscirà a compattarsi in una dimensione compatibile con la ciclistica delle moto moderne; quando verrà raggiunto tale scopo il motore elettrico potrà silenziosamente insidiarsi tra i chi- lometri di tutti i giorni. Nel futuro silenzioso che si prospetta sulle nostre strade, ciò che potranno fare i centauri accaniti sarà ben poco: abituarsi alla soluzione che gli ingegneri di tutto il mondo hanno trovato per la mobilità ecologica. Siccome, però, la speranza è l’ultima a morire, per ora gli appassionati degli ottani hanno da sperare nel ritrovamento di un carburante alternativo, che favo- risca la sopravvivenza della camera di scoppio.

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Un’Europa sotto processo. Riflessioni ad alta voce di uno studente

Nicolò Pica

Il testo è stato scritto in previsione di una sua lettura il giorno 20 gennaio 2017 in occasione della visita della Presidente della Camera Laura Boldrini a Lecce, per siglare la conclusione del progetto “Oltre le Nuvole. A scuola di Eu- ropa e di legalità”. A seguito di un cambio nella programmazione dell’evento, questa riflessione personale non è stata condivisa perché sostituita da un inter- vento di natura simile, realizzato insieme ad una studentessa del Liceo Classico Statale “G. Palmieri” con il fondamentale supporto della compagnia Cantieri Te- atrali Koreja. Il progetto è nato e si è concluso sotto la supervisione del senatore Alberto Maritati, che ringrazio personalmente per tutte le possibilità offerte agli studenti di conoscere e comprendere meglio l’Europa, anche con la partecipa- zione al convegno finale, a coronamento di un lungo lavoro. A titolo puramente informativo ricordo la rappresentazione teatrale del 25 maggio 2016 dal titolo “Processo all’Europa”, avvenuta presso i Cantieri Teatrali Koreja (Lecce); essa è stata la messa in scena conclusiva di un minuzioso training teatrale e di una serie di convegni tenuti da professori universitari. Tutte le attività e le esperienze vis- sute sono state finalizzate ovviamente ad una migliore comprensione personale del funzionamento e delle origini della controversa Unione Europea. Avviando le riflessioni ad alta voce sulla questione proviamo ad osservare una moneta da 1 Euro: sappiamo esattamente cos’è questo oggetto? Questo cerchietto di rame, nichel ed ottone è il motivo per cui noi ci troviamo qui. In questa mone- tina che entra comodamente nella nostra tasca non ci sono solo metalli, ci sono i sogni di milioni di persone. E questo è un grande vantaggio perché sin dalla fine del Neolitico l’uomo si è ingegnato per non far degradare i suoi oggettini luccicanti, ma i sogni… sono inossidabili. Tuttavia per quanto romantica questa introduzione possa essere il discorso resta ancora generico e vago. L’Europa con cui io, in quanto studente, e noi tutti, poiché cittadini, abbiamo a che fare è fatta esclusivamente di metallo. Ma prima di tutto chiediamoci: sappiamo veramente quanti anni ha l’Unione Europea? Una cinquantina? Di più, se si considerano le primissime organizzazioni? Una generazione? Sbagliato. La nostra carissima UE ha poco più di sette anni1. Già! Sette anni ed è arrugginita al punto che c’è chi la

1 Fonte: europa.eu/scadplus/constitution/introduction_it.htm. «Soppressione della struttura a pilastri: il secondo (politica estera e di sicurezza comune) e il terzo (giustizia e affari interni)

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vuole smantellare. Casca a fagiolo un aneddoto, sempre parlando di metalli. Nel 1967 a Montreal, in Québec, si svolse l’esposizione universale abbastanza me- diocre e poco interessante. Sapete invece quale fu una buona Expo? Mi dispiace per i sostenitori di Milano 2015 ma il titolo va senza dubbio a quella di Parigi per il Centenario della Rivoluzione nel 1889, rimasto famoso in eterno grazie alla costruzione della Torre Eiffel. Il sindaco della città quebecchese, noto universal- mente per i suoi illuminati investimenti nel turismo, contattò il presidente francese Charles de Gaulle2. Il padiglione francese non aveva pagato l’affitto? No, no, i canadesi volevano smantellare la torre, rimontarla all’Expo ed infine riportarla di nuovo a Parigi; tutto sarebbe stato pagato dal comitato organizzativo. Gli accordi ovviamente saltarono, ma la motivazione non è delle più ovvie: si temeva che i Francesi non avrebbero più voluto la torre indietro. Ci si può di nuovo chiedere: cosa c’entra questo con l’Europa? Abbiamo detto che l’Unione Europea è fatta solo di metallo. Con questa espressione non dobbiamo certo affermare scherzosa- mente che siamo governati da androidi, ma semplicemente sottolineare le logiche strette del materialismo di “questa” Europa che ci ritroviamo. Eppure essa è come un meraviglioso “monumento”, orgoglio della nostra ci- viltà, costruito malgrado le incertezze e le opposizioni per celebrare la fine di un periodo di “mattanza” scriteriata e indiscriminata. Ecco, la nostra “torre ferrea” fin quando è servita alla sua funzione originaria, come è successo per la Torre Eiffel durante l’Expo del 1889, è stata sotto ai riflettori. Essa è stata celebrata e invidiata soprattutto al di fuori del nostro piccolo mondo. Ma dopo che la festa è finita sono iniziati i mormorii: «L’Europa ha fatto questo, ma non poteva fare di più?». «Questa organizzazione ha tenuto splendidamente in questo periodo di prosperità, ma reggerà alle sfide del futuro?». «Solo noi dobbiamo salire sulla torre?». Piccole critiche legittime, fino ad un certo punto, che però di certo non minano la stabilità della struttura stessa. Potranno influire minimamente sul flus- so di turisti alla torre e con loro non diminuiranno i profitti (e gli oneri) legati al monumento stesso. Tuttavia quando simili bisbigli iniziano a diventare pettego- lezzi, poi discorsi ed infine urla in piazza, i responsabili di questa bella nostra “torre”, gli uomini al potere non potranno rimanere sordi a queste grida (grazie alla democrazia), anzi se ci sarà abbastanza impeto cavalcheranno quest’onda, come David Cameron ha fatto per la Brexit in Inghilterra. I governanti iniziano

pilastro precedentemente regolati dal metodo intergovernativo, sono ora “comunitarizzati”». Il testo fa riferimento al progetto della Costituzione Europea, accantonato nel 2005, so- stituito dal Trattato di Lisbona che lascia sostanzialmente valida la citazione qui presentata. L’Unione Europea smette di essere un organo politico formale e riunisce in sé tutte le funzioni precedentemente effettuate dai tre “pilastri”, organizzazioni de facto autonome. 2 N. Auf Der Maur, How this city nearly got the Eiffel Tower in «The Montreal Gazette», 15 Settembre 1980, pp. 3.

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a diminuire i fondi, la “torre” si deteriora, i turisti la evitano e non portano più profitto. La gente si arrabbia ancora di più ed alla fine di questo circolo vizioso ci ritroviamo con un enorme ammasso di ferraglia in centro città. Questa è la me- tafora. Quello che un tempo era il simbolo della nostra gloria e dei nostri valori trionfanti rimane scorticato e privato della sua dignità. Ma tornando all’aneddoto proviamo una certa curiosità: perché i Francesi non avrebbero voluto indietro il monumento? Beh questo non è noto, certamente l’exemplum serviva solo per introdurre l’idea della torre; forse è solo una storiella inventata per riscattare quell’evento disastroso che fu l’Expo 1967. Possiamo però spiegare perché a Parigi la Torre Eiffel è ancora lì e probabilmente mai si muoverà prima che la città venga rasa al suolo. Il genio dei Parigini sta nell’aver riposto la fiducia in ciò che va ben oltre la materia, il semplice ferro. I Francesi non vedono sul loro orizzonte una grande costruzione metallica nello stile di 2001 Odissea nello Spazio; loro vedono rap- presentata in quella imponente opera architettonica la proiezione dello spirito artistico, innovatore e avveniristico della società. La torre era sì nata per un periodo di celebrazione, di benessere generale e prosperità come le prime co- munità europee ai tempi del Miracolo Economico, ma essa è rimasta e durerà per sempre. La nostra “Torre” Europa invece è in sofferenza: perché? Proviamo a guardarci intorno. Basta andare in un qualsiasi negozietto, un punto vendita qualsiasi di prodotti della casa, di stoviglie e cose del genere. Spesso in questi luoghi, per qualche arcana ragione, si trovano articoli legati alle grandi città del mondo. Quale località non manca mai? La capitale parigina con la Torre Eif- fel. Con grande difficoltà si riuscirebbe a trovare oggettistica domestica a tema parigino priva di Torre. Il segreto di questa immagine sta nel suo profilo che non risulta triste, opprimente o imbarazzante; essa si è diffusa nell’immagina- rio collettivo in modo tale da essere “IL” simbolo parigino. Si stabilisce subito un’identità: la torre è la città e viceversa; se si apprezza una si apprezza l’altra e se non piace Parigi, non piace la Torre Eiffel. Essa non veicola un’opinione, ma diventa fatto, dato certo, presenza incontestabile. Si può giudicare solo ciò che orbita intorno ad essa. Se l’Europa fosse così salda e ferma, simbolo di un grande sogno, non esisterebbero filoeuropeisti o antieuropeisti: ci sarebbero solo fazioni normalissime o partiti impegnati ad orientare le azioni dell’Unione. Tut- tavia questo attualmente non avviene o se capita è solo in modo parziale, per una politica della condivisione che si potrebbe definire “distratta”. Il segreto della resistenza della Torre Eiffel è dunque la presenza del fattore “sogno” che si fonde col metallo e da sostanza crea l’oggetto, una sorta di “si- nolo” aristotelico, unione di materia e forma. Tornando alla moneta da un Euro possiamo dire che essa di per sé è semplicemente una piccola quantità di metalli e leghe versate in uno stampo e poi distribuita. Ciò che importa è il suo valo- re. Con l’inflazione, la deflazione e tanti altri processi questo “valore assoluto”

137 Un’Europa sotto processo. Riflessioni ad alta voce di uno studente

può variare ma la moneta da 1 euro avrà sempre lo stesso “peso” economico. “1 Euro” è solo il nome che diamo al nostro metro fondamentale, che però si allunga e si accorcia come le rotaie del treno con le variazioni di temperatura. La lunghezza varierà ma quello sarà sempre il nostro metro, il nostro Euro. Ma ragioniamo per paradossi e poniamoci una domanda assurda: 1 “etto” di Europa oggi pesa quanto 1 “etto” di Europa del 1992? La risposta ovviamente è no…n si ragiona in questo modo. Prima di tutto perché l’Unione Europea non è un alimento da quantificare a peso; in secondo luogo perché l’organizzazione che abbiamo adesso non ha praticamente nulla in comune con le comunità prece- denti. Secondo i trattati l’Europa è esattamente la fusione di tali organismi, ma stando alla realtà dei fatti l’Unione sembra comportarsi come un serpente che cambia pelle o un bruco che prova a diventare farfalla: è più simile ad un fiore che sboccia dal polline del genitore, di cui non è tuttavia un clone. Secondo me non si può ridurre un concetto vasto e altamente ideologico come questo a pole- miche tese a “svalutare” o “snaturare” l’idea di Europa; la questione resta aperta per altre riflessioni personali. Nel maggio dell’anno scorso ho portato a termine un lungo percorso di ri- flessione su tali tematiche fino al momento intenso dello spettacolo “Processo all’Europa”, presso i Cantieri Teatrali Koreja Lo sviluppo e la conclusione di quell’esperienza vissuta prima degli sconquassamenti politici del 2016 mi hanno permesso di chiarire la mia idea di Europa, immaginandola come una torre. Talvolta di essa giunge un’immagine sfocata, altre volte sembra una sorta di umiliante concorso di bellezza in cui piccole e grandi nazioni sono alla mercé di giudici spietati e parziali. Ogni volta che un dato negativo sull’Italia appare sulle bacheche virtuali io mi vergogno e mi sento umiliato come nel caso in cui una persona rifiuta di continuare il suo percorso di formazione e d’istruzione di base. Mi colpisce molto l’intervento di Jean-Claude Junker che ha lodato ed elo- giato la Spagna3, paese fortemente svantaggiato come l’Italia, per i grandi sforzi sul piano economico che finalmente stanno dando i loro frutti. Inevitabilmente spunta una nuova domanda: perché l’Italia non riceve questi complimenti? Non piacciamo ai poteri forti? Con molta probabilità il profilo tracciato sarà errato ma frequentemente l’Eu- ropa è ferma ai dati e ai numeri con il disappunto degli euroscettici. Non si può pensare che “cacciando via” l’Euro si possano celare sotto il tappeto l’inflazione, la crisi economica e tutte le altre problematiche; al contrario, mentre prima con- dividevamo questo peso con altre nazioni, con l’uscita fuori dall’area dell’euro dovremmo portare tutto sul nostro groppone. L’idea della cooperazione non con-

3 Fonte: ec.europa.eu/italy/news/20160915_discorso_juncker_it. «Altre 8 milioni circa di persone hanno trovato lavoro negli ultimi tre anni. 1 milione nella sola Spagna, un paese che continua a registrare un’impressionante ripresa».

138 Nicolò Pica

vince? Non convincono gli investimenti? Non convince la libertà di movimento? Non convincono i diritti garantiti? Non convincono i decenni di pace inviolata? Si possono proporre decine di forme diverse di Europa, mille aneddoti per spiegarla e mille esperienze per dimostrare il suo funzionamento, tuttavia il dog- matismo opportunista va combattuto non con la demagogia o con enfasi oratoria ma con la semplice e diretta conoscenza. È facile per il bambino dire che il giocattolo è rotto se non lo sa usare, ma il dovere del genitore è mostrare come funziona per permettere così al figlio di utilizzarlo appieno; poi potrà decidere se vorrà divertirsi. Essere membro della classe politica che sia nazionale o europea è una responsabilità. Una società responsabile ha il dovere di eleggere rappresentanti altrettanto responsabili; una società che non conosce questo aspetto, perché ha sempre il paracadute pronto, perché pensa di ricorrere alla strategia del “si può sempre rinviare o delegare”, o perché reputa che nessuno debba dar conto delle proprie azioni, è destinata a crollare. L’Unione Europea attualmente, come organismo in azione, è incredibilmente responsabile, anche se certamente rallentata da una mastodontica burocrazia; purtroppo più della metà di questi intoppi nascono da- gli stop imposti dagli Stati che ora si comportano come “bisbigliatori” ma che col tempo, così come abbiamo visto con il Regno Unito, potrebbero diventare denigratori o detrattori. Da europeista convintissimo, non esiterei ad accettare una Unione Europea centralizzata ma capace di portare avanti una politica unitaria fondata sui prin- cipi democratici. L’Europeismo non è un’ideologia, è una responsabilità sia del singolo individuo sia di tutti.

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Rivoluzione Siriana: la resistenza Araba

Samuele Calabrese

«Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le ri- voluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli»1. Klemens von Metternich

La Siria vive da marzo del 2011 una sanguinosa guerra civile. L’attuale pre- sidente Bashar al-Assad definisce continuamente la rivoluzione: «complotto straniero», elevandosi a difensore della patria dal terrorismo e dall’imperiali- smo occidentale. Per comprendere meglio questa improvvisa implosione contro le contraddizioni di un discutibile «governo democratico» è necessaria tuttavia un’introduzione di carattere storico.

Dalle origini al mandato Francese

Il termine “” apparve per la prima volta nel Deuteronomio (3:9) per indicare una zona oggi compresa tra Libano, Israele e Siria. Nel periodo Elleni- stico si distinse la “Syria Coele” dall’aramaico kul: “Tutta”, tra il Mediterraneo e l’Eufrate, dalla “Syria” mesopotamica. Questa distinzione venne ribadita poi in epoca Romana. Prima dell’arrivo degli arabi, gli abitanti della “Syria” erano detti “Siri” e parlavano l’aramaico. Nel VII secolo, dopo la conquista araba, venne istituita la provincia di Bilad ash Sham, la quale comprendeva gli attuali Libano, Iraq, Siria, Palestina, Israele e Giordania2. Quando, nella seconda metà del ’400, l’impero ottomano sconfisse il sul- tano di Siria ed Egitto, esso conquistò tutti i territori appartenuti una volta alla provincia romana di Syria, denominando questo territorio: “Grande Siria” e di- videndolo in province amministrative. Le province erano governate da un go- vernatore (wali) eletto ad Istanbul. Esse comprendevano comunità di diverse etnie e religioni, diversità ancora presente nella Siria contemporanea. Durante la prima guerra mondiale, tuttavia, l’impero ottomano, nonostante avesse ottenuto una grande vittoria a Gallipoli, venne infine sconfitto rovinosamente. Si dissolse,

1 Citato in G. Nicolò, Duecento anni fa si chiudeva il Congresso di Vienna, «L’Osserva- tore Romano», 9 giugno 2015. 2 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, Milano, Mondadori, 2013, p. 54.

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perdendo tutti i territori del Vicino Oriente. In questo momento della storia si ebbe il primo intervento europeo in “Syria”, probabile causa di decenni di insta- bilità politica e odio verso l’occidente. François Georges-Picot e Mark Sykes, un diplomatico francese e un generale inglese, negoziarono segretamente la spartizione dei territori arabi. L’attuale Siria spettava alla Francia, e un generale di fanteria francese Henri Gouraud dichiarò: «Siamo i discendenti dei crociati». Le intese segrete, rese ufficiali poi dalla Società delle Nazioni, furono rivelate al mondo solo grazie al neonato governo dell’Unione Sovietica. Con la conferenza di Sanremo, nell’aprile del 1920, infatti, si formaliz- zarono gli accordi: alla Francia spettava la Siria del Nord (attuali Siria e Libano) e alla Gran Bretagna la Siria del Sud (Israele, Giordania e parte della Palestina). Gli invasori Francesi decisero di puntare sul separatismo, per evitare eventuali rivolte interne; la Siria fu divisa in: Governatorato autonomo degli alawiti, Gebel Druso, Libano, Governatorati di Damasco e (uniti) e il Sangiaccato di Alessandret- ta3. Gli alawiti, riuniti in un governatorato autonomo, sono una minoranza religiosa sciita che deve il suo nome alla dominazione straniera; furono infatti i Francesi a riconoscere il termine «Alawī», il quale indica Ali, cugino e genero di Maometto, ritenuto dagli alawiti legittimo successore del profeta. La minoranza alawita, spesso perseguitata nel corso della storia, salì poi al potere in Siria con Hafiz al-Assad e Bashar al-Assad. Anche i Drusi, gli abitanti del Gebel Druso, professavano una reli- gione monoteistica derivante dallo sciismo. Considerati da sempre eretici, si dovet- tero rifugiare nella Siria Meridionale, convivendo sulle pendici delle montagne con piccole comunità cristiane. Fu proprio in queste montagne che nacque la Grande Ri- voluzione Siriana contro il governo Francese. Rivendicando l’indipendenza, Sultan al-Atrash dichiarò guerra alla Francia e immediatamente le città di Homs, Damasco e Hama si armarono contro l’invasore. Le cause della rivolta furono il pessimo modo con cui i Francesi trattavano la popolazione locale e la totale mancanza di rispetto per le tradizioni. Al-Atrash vinse molte battaglie, ma i Francesi, con l’aiuto di truppe inviate dal Marocco e dal Senegal, equipaggiate con armi moderne, ricorsero a una violenta e incontrastabile repressione. Al-Atrash fu condannato a morte, ma riuscì a fuggire in Transgiordania, lasciando nell’animo dei Siriani un ambizioso e profondo sogno: l’indipendenza della Siria. In Gebel Druso molti monumenti furono innalzati in suo nome; ammirevole era il suo stile di vita semplice, il suo forte patriottismo e le sue parole laiche, intente a unire qualsiasi confessione religiosa: «La religione è per Dio, la patria è per tutti»4. Fu un condottiero che per i Siriani, e specialmente per i Drusi, assunse un’importanza simbolicamente paragonabile a quella che ha Giuseppe Garibaldi per un qualsiasi patriota italiano.

3 S. Hamady, La felicità araba, Torino, add editore, 2016, p. 28. 4 Ivi, p. 29.

142 Samuele Calabrese

Dall’indipendenza Siriana alla Rau

Mentre l’Iraq ottenne l’indipendenza nel 1932, seppur con pesanti restrizioni politiche ed economiche, la Siria dovette ancora attendere una decina d’anni. Solo nel 1942, infatti, grazie all’interferenza britannica, essa divenne indipen- dente e unita. I Francesi, tuttavia, provocarono ancora violenti scontri; sui libri di storia siriani5 la data esatta dell’indipendenza è il 17 aprile del 1946. Le trat- tative con il governo francese furono tenute da al-Quwwatli, presidente della Repubblica di origine curda. Quello che sembrava un sogno sfumò però nel disordine di un paese perso, politicamente instabile. Dal 1946 al 1970, infatti, gli unici presidenti eletti regolarmente furono al-Quwwatli e al-Atasi, gli altri si impadronirono del potere grazie a golpe militari. Nel 1949 le truppe entrarono a Damasco: fu il primo colpo di stato. Al-Za’im, un militare di origine curda, im- prigionò al-Quwwatli, esiliandolo in Egitto. Alcuni storici ritengono che egli sia stato sostenuto economicamente dal Partito Nazionalista Sociale Siriano, altri che abbia ricevuto aiuto direttamente dagli Stati Uniti d’America. Il suo colpo di stato fu il primo nel mondo arabo; il ministro Faris al Khuri, comprendendone la gravità, disse: «Che iddio vi perdoni… avete aperto una porta che la storia faticherà a chiudere»6. Le sue parole si riveleranno profetiche, nonostante al-Za’im non utilizzasse metodi violenti o repressivi. Propose inoltre di togliere l’obbligo di indossare il velo e concesse il voto alle donne. Tuttavia il progetto statunitense di Za’im durò solo 137 giorni: Sami al-Hinnawi, nello stesso anno, lo uccise, impadronendosi del potere. Hinnawi consegnò il ruolo di suprema carica a Hashim Atasi, del partito del Popolo, sostenitore dell’Iraq. Siria, Iraq e Giordania si riavvicinarono ma nel dicembre dello stesso anno, al-Shishakli guidò il terzo colpo di stato, por- tando al potere il Partito Nazionalista Sociale Siriano. Shishakli aiutò el-Atassi a ottenere la carica, ma fu sempre lui a controllare le manovre politiche siriane. Essendo contrario a un eventuale governo della dinastia hashemita (dinastia del re iracheno, sostenuta da el-Atassi) nel 1951 costrinse il presidente alle dimissio- ni, eleggendo alla presidenza un suo conoscente: Salu. Quest’ultimo, come el- Atassi, è stato probabilmente manipolato da Shishakli, il quale aveva intenzione di centralizzare il potere su di sé. Nel 1952, infatti, egli vietò la pubblicazione e la diffusione di quasi tutti i giornali, nel 1953 indisse delle elezioni presidenziali che vinse con il 99,98% (risultato simile a quelli ottenuti in futuro dalla fami- glia Assad), e successivamente proibì, con una nuova costituzione, tutti i partiti politici, proclamando un’incontrastabile dittatura di stampo nazista. Fu nuova-

5 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, cit., p. 80. 6 S.M. Moubayed, Steel & Silk: Men and Women Who Shaped Syria, Seattle, Cune press, 2006, p. 280.

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mente Al-Atrash a guidare le rivolte popolari, dalle montagne del Gebel Druso dopo una serie di bombardamenti dell’aviazione governativa. La rivolta si estese a Homs e a Latakia fino a raggiungere Aleppo. Molti ufficiali abbandonarono Shishakli, il quale commise il grande errore di non creare un esercito realmente fedele al regime, errore che non sarà ripetuto da Hafiz al-Assad7. Al-Quwwatli, il presidente che aveva contrattato l’indipendenza con i francesi, fu rieletto: è il periodo della Rau (Repubblica Araba Unita), in cui si unificarono Siria, Arabia Saudita e l’Egitto di Nasser. Sarà Nasser a guidare gli arabi contro le invasioni d’Israele. Si diffuse nella Repubblica l’odio per gli Stati Uniti d’America, spesso intervenuti nelle politiche d’Oriente e sostenitori dello stato israeliano. Presto però, nel 1961, la Rau cadde, tra la delusione dei nazionalisti siriani. Dopo il suo scioglimento governarono Ma’mun al-Kuzbari (indipendente), ’Izzat al-Nuss (militare) e Nazim al-Qudsi del Partito del Popolo. Nel solito clima d’instabilità salì al potere, con l’ennesimo colpo di stato, il partito che governerà indisturba- tamente fino ai giorni nostri: il Ba’th8.

La svolta socialista del Ba’th e l’avvicinamento all’Unione Sovietica

Il Ba’th è un partito d’idee socialiste e panarabe (lo stesso di cui fece parte Saddam Hussein) che impose il monopartitismo in Siria. Nel 1966 il partito si divise in due fazioni: una metà siriana, favorevole al socialismo arabo e un’altra, appunto, irachena, tendente a una forma araba di fascismo. In Siria salì, dunque, nel 1963 al-Atassi, il quale, avendo poteri limitati, decise di dimettersi dopo soli quattro mesi. Sarà Amin al-Hafiz a prendere il controllo, insediando un Consi- glio del comando Rivoluzionario di cui assunse la guida e avvicinando la Siria al blocco orientale. La sua politica fu repressiva, tanto da far impiccare il ministro della difesa Cohen, sospettato di essere una spia. Presto però la famiglia al- Atassi tornò al potere con Nur al-Din al-Atassi, a causa di un altro colpo di stato guidato dalla parte più radicale del partito. Egli governò con Jadid, coltivando il sogno della «Grande Siria» e avvicinandosi sempre più all’Unione Sovietica. Ja- did mandò in esilio i fondatori del partito, eliminando con loro tutti i “moderati”. Nominò invece Hafiz al-Assad ministro della difesa. Sotto il governo di Jadid la Siria combatté al fianco dell’Egitto nella Guerra dei Sei Giorni9.

7 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, cit., p. 90. 8 S. Hamady, La felicità araba, cit., p. 32. 9 Ivi, p. 36.

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La Guerra dei Sei Giorni

La Guerra dei Sei Giorni vide contrapposti due schieramenti: da una parte lo Stato d’Israele, dall’altra Egitto, Siria e Giordania. L’Onu intervenne pre- sto nel conflitto, con forze di pace inviate nel Sinai. Nasser chiese, con animo provocatore, di rimuovere le forze di pace, in quanto capace, senza nessun tipo d’aiuto, di fronteggiare Israele. Egli non immaginava che l’Onu accettasse la provocazione, e una volta rimasto scoperto e indifeso, chiese aiuto al re Hussein di Giordania. Egli però, accusando Nasser di non averlo difeso, abbandonerà poi l’alleanza con Egitto e Siria. Nasser, credendo di ricevere informazioni segrete (in realtà fasulle) dall’Unione Sovietica, si mosse goffamente nel conflitto, per- mettendo a Israele di vincere facilmente. Gli Stati Uniti, i quali avevano sempre appoggiato Israele, chiesero questa volta allo Stato ebraico il ritiro dai territori occupati. Si cercò il compromesso nella risoluzione 242, ma questa non fu accet- tata da alcuni palestinesi, i quali provocarono scontri e disordine e si riunirono nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Questa fu soste- nuta da Jadid, che permise ad alcuni membri di rifugiarsi in Siria portando Hafiz al-Assad, contrario all’accoglienza, a progettare nuovamente un colpo di Stato10.

Hafiz al-Assad e il dominio alawita

«Dal Qasiyun mi affaccio, o patria, e vedo Damasco abbracciare le nuvole, Marzo si espande nelle sue terre e il Ba’th semina stelle cadenti»11. Dal primo momento in cui Hafiz al-Assad salì al potere egli si impegnò nel curare il culto della propria personalità e nell’instaurare un potere incontrover- tibile. Nel referendum confermativo, indetto pochi giorni dopo il suo colpo di stato, ottenne il 99,2% dei voti. I bambini, nelle scuole, lo pregavano come fosse un Dio immortale, il suo volto era stampato sui libri di testo, nessuno poteva mettere in dubbio la sua autorità. I “cuccioli di Assad” indossavano le divise del- le avanguardie, si sarebbero dovuti iscrivere al partito Ba’th, avrebbero dovuto obbedire senza porre alcuna domanda. Nel 1792, per presentarsi come fautore del pluralismo politico, diede vita al Fronte Nazionale Progressista; esso com- prendeva sia il partito comunista che il partito nazional-socialista, come partiti minori sostenitori di Ba’th. Nel 1973 fu emanata anche una nuova costituzione di cui vengono qui riportati i seguenti articoli:

10 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, cit., p. 96. 11 Versi di «Min Qasiyun», la canzone che la radio nazionale trasmise dopo il colpo di stato di Assad.

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«Art. 1: 1 – La Repubblica Araba Siriana è uno Stato democratico, popolare, socialista e sovrano. Nessuna parte del territorio può essere ceduta. La Siria è un membro dell’Unione delle Repubbliche Arabe», «Art. 3: 1 – La religione del Presidente della Repubblica deve essere l’Islam; 2 – La giurisprudenza islamica è la principale fonte legislativa». Per consolidare e centralizzare il potere, Assad favorì la propria famiglia e la propria minoranza religiosa. Tra il 1970 e il 1997 gli esponenti nel cerchio di potere più vicino al presidente furono per il 60% alawiti12. Temendo la composi- zione dell’esercito Hafiz decise di riformarlo. I sunniti, nell’istituzione militare, occupavano posti di solo apparente prestigio. Per assicurarsi assoluta fedeltà, Assad contava sui membri dei clan alawiti, vicini alla sua famiglia. All’inizio degli anni ’80 un terzo delle province furono affidate a governatori alawiti. Le nuove élite d’imprenditori, vicine agli Assad, venivano favorite da corrotte rifor- me economiche. Nel 1990, ad esempio, fu consentita per la prima volta l’entrata di capitali stranieri nell’industria manifatturiera. Gli investitori però diffidavano del sistema siriano prediligendo le banche libanesi. La riforma era evidentemen- te richiesta da “potenti” nascosti, vicini al regime. Durante il governo di Assad si possono riconoscere, infatti, un “potere nascosto” costituito dall’Apparato di Sicurezza e dai potentati affaristici e un “potere visibile”. Tra gli anni ’80 e ’90 sorsero delle reti clientelari strutturate attorno a tre cerchi. Il primo cerchio formato da una rete di alawiti, i quali essendo legati alla famiglia presidenziale, controllavano tutta l’economia. Il secondo da personaggi di spicco dell’esercito o dell’apparato di sicurezza, i quali fungevano da garanti (di cui un esempio fu il generale Muhamad Makhluf, cugino di Hafiz al-Assad). Il terzo composto da funzionari sunniti, i quali si occupavano della burocrazia nelle reti clientelari. Un altro strumento di potere, nelle mani di Assad, furono le organizzazioni paramilitari speciali comandate da suoi parenti. Le forze speciali (al Quwwat al khassa) furono comandate da ‘Ali Haydar, generale alawita. La Guardia Repub- blicana (al Haras al jumhuri), pagata per proteggere la famiglia presidenziale, fu diretta da ‘Adnan Makhluf, cugino della moglie di Assad. Il comando fu poi as- sunto, dopo la morte del primogenito Basil, da Bashar al-Assad, secondogenito e futuro presidente. Le Compagnie della Lotta (Saraya as sira’) furono comandate dalla famiglia, in particolare dal generale ‘Adnan al-Assad, a cui successe suo figlio Muhammad. Le Compagnie di difesa della Rivoluzione (Saraya difa’a ‘an ath thawra) furono invece fondate da Rif’at al-Assad, fratello del presidente, resosi colpevole poi del Massacro di Hama13.

12 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, cit., 131. 13 Ivi, p. 116.

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Massacro di Hama

«Fratelli e figli miei, morte ai Fratelli musulmani criminali! Morte ai Fratelli musulmani corrotti che hanno cercato di portare il caos nella nostra patria! Morte ai Fratelli musulmani assoldati dalle spie americane, dal fronte reazionario e dal sionismo!» Hafiz al-Assad 14. La maggioranza sunnita, indignata dal preponderante governo alawita e dalle corruzioni della famiglia presidenziale, espresse il proprio dissenso. I Fratelli musulmani, un’organizzazione di destra conservatrice e fortemente religiosa, protestò contro la costituzione del 1973. Quest’ultima non specificava che la religione del presidente della Repubblica dovesse essere l’Islam, riconoscendolo solamente come: «Fonte del diritto». Assad però, temendo l’instabilità e il ter- rorismo, rielaborò la costituzione, accontentando l’organizzazione panislamica. Dato che le riforme economiche favorirono specialmente gli alawiti, lasciando in miseria gli ambienti della piccola e media borghesia sunnita, crebbe il dis- senso. Il 16 febbraio 1976 un gruppo di terroristi sparò ad Hama al maggio- re Muhamad al Ghurra, accusato di aver torturato a morte due attivisti locali. La parte moderata dei Fratelli Musulmani si discostò dagli attacchi terroristici dell’Avanguardia, Assad tuttavia attaccò sempre indistintamente i “Fratelli cri- minali”. Nonostante l’inasprimento del conflitto, il presidente tentò di correre ai ripari liberando prigionieri politici e aumentando la percentuale di sunniti al go- verno. Gli apparenti e falsi cambiamenti inscenati da Assad non impedirono una ribellione generale in alcuni quartieri di Aleppo e nella parte nord-occidentale di Idlib. Il regime reagì prontamente arrestando decine di oppositori. Nel 1980 Assad rischiò la vita: nel corso di un ricevimento di stato in onore del presidente del Mali, un gruppo di terroristi gli sparò con delle mitraglie. Accorgendosi di avere una granata di fronte a lui, Assad l’allontanò con un calcio, salvandosi per miracolo. Per salvarlo da un’altra granata un uomo della sicurezza si frappose tra il presidente ed essa, perdendo la vita. Per vendicarsi degli attentati egli giustiziò centinaia di militanti appartenenti ai Fratelli Musulmani nel carcere di Tadmur. Temendo che i sunniti iracheni avessero contatti con i terroristi, Assad sostenne Khomeyni nella guerra contro Saddam Hussein. Durante una perquisizione il 2 febbraio 1982 a Hama fu scovata una cellula armata, i ribelli allora reagendo presero il controllo della città. Hafiz quindi applicò una strategia che sarà ripresa da Bashar, privando i vari settori della città dell’elettricità e dell’acqua. Bom- bardò Hama per 27 giorni, fino a raderla al suolo. Alcune fonti, tra cui Amnesty International, stimarono tra le 10.000 e le 25.000 vittime15. I dati risultano incerti

14 P. S eale, Asad: The Struggle for the Middle East, Londra, I. B. Tauris, 1995, p. 385. 15 «Report from Amnesty International to the Government of the Syrian Arab Republic», http://www.amnesty.org/en/documents/MDE24/004/1983/en/.

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poiché il governo proibì di menzionare la strage e la rimosse dai libri di storia. Il massacro di Hama fu guidato da Rif’at al-Assad e le Compagnie di Difesa, men- tre il generale Fayyad si occupò di «ripulire» Aleppo con bombardamenti. «Sono pronto ad uccidere anche mille uomini al giorno se sarà necessario per ripulire la città dalla peste dei Fratelli Musulmani»16, affermò prima di bombardarla. I Fratelli Musulmani furono accusati di ricevere finanziamenti dalle «potenze reazionarie alleate dell’imperialismo», scandendo uno dei ritornelli del futuro presidente Bashar.

Bashar al-Assad e il finto riformismo

I bambini dai 6 ai 12 anni, prima e dopo la ricreazione, urlavano in coro: «Distruggeremo i Fratelli Musulmani». L’11 luglio 2000 Bashar salì al potere in seguito ad un referendum per la nomina presidenziale. Lo stesso Bashar aveva dichiarato impossibile la sua candidatura, in quanto troppo giovane. La costitu- zione del 1973 stabiliva, infatti, che l’età minima del presidente dovesse essere 40 anni. Perciò, pur di prolungare il potere della famiglia Assad, il Parlamento ricorse ad una riforma costituzionale, abbassando il margine a 35. Bashar salì al potere nonostante ne avesse 34, egli conosceva bene gli esponenti politici della generazione di Hafiz e gli risultò semplice insediarsi con il 97,2% dei voti. La sua politica si basò sul concetto di “modernità” e “rinnovamento” in quanto, avendo studiato in Inghilterra, si proponeva come il fautore di un cambiamento che avvicinasse la Siria all’Occidente. Il potere del partito Ba’th era solo appa- rentemente messo in discussione, qualsiasi oppositore veniva emarginato trami- te potenti campagne anti-corruzione. Molti esponenti dei Fratelli Musulmani e dei comunisti furono liberati, con una manovra politica probabilmente ripresa dal padre. Per la prima volta si importarono film stranieri, dando inizio ad un’il- lusoria svolta liberale. Assad ridisegnò il corpo dello Stato inserendo più giova- ni, 50.000 impiegati statali furono sostituiti dal 2000 al 2002. I nuovi esponenti dovevano conoscere le lingue straniere, in particolare l’inglese, ed essere aperti all’Occidente e alle nuove tecnologie. Rispondendo alla continua richiesta di modernità del presidente, 99 attivisti e intellettuali firmarono il «Manifesto dei 99» in cui si chiedeva: 1. La fine dello stato di emergenza e delle leggi marziali; 2. La liberazione di tutti i prigionieri politici e il rimpatrio dei dissidenti; 3. La libertà di stampa, di espressione e riunione non violenta; 4. La liberazione dalle opprimenti forme di controllo del regime.

16 P. S eale, Asad: The Struggle for the Middle East, cit., p. 375.

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In un primo momento le autorità sembrarono impegnarsi a realizzare questi quattro punti fondamentali. Tuttavia quando Riyad Sayf chiese di dar vita a un partito politico contrapposto al Ba’th il regime temette di perdere la sicurezza- stabilità. Il tribunale speciale emise un mandato di arresto contro Riyad poiché egli aveva «attentato alla costituzione». 1.000 siriani trascrissero la “Carta dei mille” in cui le richieste passarono da 4 a 8: 1. Assicurare una legge sul multipartitismo; 2. Promulgare una nuova legge sull’editoria per la libertà d’informazione; 3. Rendere indipendente il potere giudiziario; 4. Mettere fine allo stato d’emergenza; 5. Garantire diritti economici; 6. Ridimensionare il ruolo del Ba’th; 7. Abolire le discriminazioni contro la donna; 8. Promulgare una nuova legge elettorale che assicuri trasparenza. Il regime accusò gli oppositori di essere servi dell’imperialismo e ad agosto si tornò alla repressione. Molti oppositori furono arrestati mentre erano a casa di Riyad; i circoli furono chiusi. Il partito controllava 18 ministeri, tre in più rispetto al governo di Hafiz. Nel 2005 gli organi decisionali del partito vennero ridimensionati. Nell’ottobre dello stesso anno alcuni intellettuali firmano la Di- chiarazione di Damasco, in cui definirono il governo “autoritario” richiedendo una svolta pacifica e graduale. Il documento chiedeva anche una soluzione alla questione curda, molto sentita dopo la rivolta di Qamishli del 2004, in cui, du- rante una partita di calcio, i tifosi ospiti, con una bandiera di Saddam Hussein, sfidarono con pietre e violenza i tifosi curdi. L’esercito intervenne uccidendo fino a 100 curdi. 12 membri della Dichiarazione di Damasco su 250 intellettuali furono imprigionati nell’Ottobre 200817.

La rivolta pacifica

Un gesto cambiò il mondo: Mohamed Bouazizi, venditore ambulante tunisino, maltrattato e schiaffeggiato dalla polizia locale, disperato per la sua situazione economica, decise di darsi fuoco. Bruciò, cosparso di gasolio, dando una spinta alle Primavere Arabe e alle proteste tunisine. Hasan Ali Akleh, il 26 Gennaio 2011, emulò il gesto di Mohamed, bruciandosi vivo anche lui per la libertà siriana. Due giorni dopo la sua morte, nella città di Al Raqqah scoppiarono proteste contro gli

17 F. Roueiha, Siria, condannati 12 attivisti della Dichiarazione di Damasco, «Osservatorio Iraq», 30 ottobre 2008, http://osservatorioiraq.it/siria-condannati-12-attivisti-della-dichiara- zione-di-damasco.

149 Rivoluzione Siriana: la resistenza Araba

arresti e gli omicidi del governo siriano. A partire dalla primavera del 2011, stu- denti e liberi professionisti attivi nelle periferie di Aleppo e Damasco diedero vita a una mobilitazione generale. La ribellione pacifica iniziò a Daraya, sobborgo di Damasco, e nel 2012 morì in un violento soffocamento. Le fonti parlano di 655 morti tra il 20 e il 31 agosto18. Il governo, non negando lo sterminio, lo attribuì ad un misterioso gruppo di terroristi subentrati dall’estero. I giovani di Daraya erano sempre stati dei ribelli non-violenti, sapevano che la Costituzione permetteva la manifestazione pacifica, avevano più volte protestato contro la guerra in Iraq, boi- cottando il commercio di sigarette americane, e contro il massacro di palestinesi a Jenin. Il governo, tuttavia, abusava dello stato d’emergenza per reprimere nel sangue i canti di libertà. Il primo aprile 2011 anche le donne parteciparono alle manifestazioni in cui i manifestanti donarono fiori e bottiglie d’acqua agli agenti, che risposero con i manganelli. Ai residenti a Daraya fu proibito uscire dalla città. Fu l’Esercito Siriano Libero a restituire ai cittadini la corrente elettrica, seque- strando due tecnici fedeli al regime e costringendoli a riparare il guasto alla centra- lina. L’Esercito Siriano Libero era un esercito composto da disertori dell’esercito lealista, fondato nel Luglio del 2011. La “Rivoluzione senza fucili”, invece, iniziò a Marzo, a causa dell’arresto di una decina di ragazzi, in media quattordicenni. Gli adolescenti avevano scritto sul muro di un’abitazione: «Il popolo vuole la caduta del regime». Pagarono un prezzo altissimo, vennero detenuti per parecchi giorni e infine vennero strappate loro le unghie delle mani. Fu questa la scintilla che causò l’esplosione, questo il culmine degli abusi che generarono la rivoluzione. Le rivol- te si estesero a Damasco, a Homs, a Dar’a, ad Aleppo, a Latakia e ad Hama. Presto però la rivoluzione impugnò i fucili, forse nell’apparente assenza di un’alternativa. Il 29 Aprile 2011 Hamza, un ragazzino tredicenne, partecipò ad una manifestazio- ne pacifica con la sua famiglia, contestando l’assedio di Dar’a. Improvvisamente sparì nel corteo. I suoi genitori lo rividero soltanto il 25 Maggio, o meglio, rividero il suo cadavere con segni di tortura. Alcuni video del corpo circolarono sul web, era stato sparato e castrato. Al-Shaar, capo dell’associazione di ispettori medici della Siria, negò che il bambino fosse stato vittima di qualsiasi tipo di violenza. Hamza fu solo uno tra i tanti condannati all’ingiustizia del regime. Un’altra ribel- lione dimenticata fu quella di Ibrahim Qashoush, pompiere e poeta, autore di una canzone evidentemente scomoda al regime, poiché recitava: «Quando chiediamo la libertà ci chiamano terroristi» e: «Bashar ha tradito la nazione». L’affronto al governo gli costò caro: fu ritrovato senza il pomo d’Adamo, con la gola tagliata e sanguinante, in segno d’ammonimento. Erano questi i terroristi da cui il governo doveva «ripulire le città»? Ghayath Mattar, “il Ghandi Siriano”, rifiutava l’uso delle armi e regalava fiori ai soldati. Catturato mentre soccorreva

18 VDC, Centro di documentazione per le violazioni di diritti umani in Siria. Http://goo. gl/78BXX.

150 Samuele Calabrese

Yahiya Sharbaji, leader dell’opposizione, morì sotto custodia. Il suo cadavere fu gettato ai piedi dei suoi genitori con le corde vocali resecate. Il messaggio fu chiarissimo: nessuno doveva permettersi di pronunciare una sola parola contro il governo. Nel luglio 2011 una ribellione, ad Hama, venne sedata dai carri armati: le cannonate uccisero circa 136 civili. La comunità internazionale manifestò il suo dissenso ma, nello stesso giorno, a Damasco, 42 persone furono ferite dalle truppe lealiste. Altri 6 morti si contarono a Harak, e 19 civili uccisi da cecchini a Deir Ezzor. Anche diversi membri del Consiglio di cooperazione degli Stati del Golfo criticarono aspramente le scelte del governo siriano. La rivoluzione non poté che prendere una piega violenta. Fadil, trentenne di Homs, dichiarò, nell’ot- tobre 2011, a Lorenzo Trombetta: «Le proteste pacifiche non hanno più senso. Per combattere questo regime servono le armi. Troppo sangue è stato versato. A Homs rischia la vita anche chi non è mai sceso in strada a manifestare: se non vieni ucciso, molto probabilmente finirai in carcere»19. Assad, in un discorso al nuovo parlamento siriano, per giustificare le innume- revoli morti dichiarò: «Quando un chirurgo, in sala operatoria, taglia, pulisce e amputa, e la ferita sanguina, gli diciamo: «Le tue mani sono sporche di sangue?» oppure lo ringraziamo per aver salvato il paziente?»20. Persino Ali Ferzat, il famoso vignettista siriano, venne aggredito dalle forze governative: l’aver ironizzato su Assad con delle caricature gli costò la perdita delle mani e la chiusura del suo giornale. Non fu tuttavia l’unico caso di mani- polazione mediatica: nel gennaio del 2001 le autorità smantellarono le antenne paraboliche per la televisione satellitare sostituendole con impianti via cavo. L’obiettivo era impedire che i civili guardassero le tv panarabe: al Jazira e al ‘Arabiyya, di proprietà del Qatar e dell’Arabia Saudita. L’informazione in Si- ria, infatti, era – ed è tuttora – strettamente controllata dal regime: ad esempio quando Amnesty o Hrw hanno fornito informazioni su crimini commessi dalle truppe lealiste, sono state accusate di essere serve dell’imperialismo occidentale; quando, invece, le due organizzazioni si sono schierate contro i ribelli, sono state immediatamente pubblicate dai media governativi.

L’Isi sfrutta il clima di violenza

Al-Baghdadi, califfo dello stato islamico, riconobbe la Siria come territorio ideale in cui espandersi. L’Iraq, infatti, era un paese troppo piccolo per realizzare gli ambiziosi progetti di un nuovo califfato. Egli intuì che, tra la guerra civile

19 L. Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, cit., 265. 20 S. Hamady, La felicità araba, cit., p. 68.

151 Rivoluzione Siriana: la resistenza Araba

e la devastazione, l’Isi (Islamic State of Iraq) si sarebbe accresciuto senza al- cun tipo di difficoltà e soprattutto indisturbato nel mancato intervento dei paesi occidentali. Nell’Agosto del 2011, dunque, Al-Baghdadi inviò alcuni miliziani in Siria per fondare un’organizzazione ribelle e sfruttare i fondi investiti dagli sponsor (Kuwait, Qatar e Arabia Saudita) per destituire Assad. L’organizzazione fu guidata da al-Jawlani e nel Gennaio 2012 prese il nome di Fronte «al-Nusra». Al-Nusra, di cui i combattenti furono certamente addestrati meglio dei comuni ribelli, fu dichiarata «organizzazione terroristica» dagli Stati Uniti nel Dicembre 2012. Successivamente Al-Baghdadi dichiarò che l’Isi e il fronte al-Nusra si sarebbero fusi nell’Isis (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-̔Irāq wa l-Shām) in cui wa l-Shām indicava Damasco e le vicine province. Al-Zawahiri (capo di al-Qaida) e al-Jawlani però si dichiararono contrari all’unificazione. Al-Baghdadi decise di continuare incontrastato a guidare le lotte in Siria, combattendo, talvolta, anche l’Esercito Siriano Libero e i suoi stessi, in apparenza, alleati. Lo Stato Islamico, dunque, non puntava alla caduta del regime, ma a un puro e spietato espansionismo. Nel Marzo del 2012, infatti, l’Isis attaccò Azaz (cittadina a circa 30 chilometri da Aleppo), nonostante fosse già controllata dai ribelli. Al-Qaida nel febbraio 2014 rinnegò qualsiasi legame con l’Isis. Dopo frequenti scontri tra Isis e al-Nusra, al-Jawlani ordinò al fronte di sospendere gli attacchi. Il 29 Giugno 2014 l’Isis dichiarò la rinascita del califfato islamico. L’8 Agosto del 2014 Obama autorizzò i primi bombardamenti mirati per contrastare la diffusione del terrorismo. L’incursione americana permise la fuga degli yazidi, una minoranza perseguitata e torturata dai militanti dello stato islamico. Quest’ultimo infatti si rese colpevole di innumerevoli stermini nei confronti di minoranze eretiche o gruppi sunniti che si ribellavano all’incontestabile autorità. Quello che oggi sembra un progetto frutto di pazzia e violenza nasconde però da sempre radici più profonde. Il califfato rap- presenta il riscatto dei musulmani sunniti, discriminati dal regime alawita di Assad. Esso è stato capace di ridisegnare i confini stabiliti dall’accordo Sykes-Picot, sim- boleggiando la rivalsa musulmana sull’invasore occidentale. Inoltre ha offerto alle tribù sunnite servizi fondamentali come una mensa dei poveri a Raqqa, l’elettricità (spesso negata dal regime) e la sistemazione delle strade. I radicali islamici dunque si presentarono come un’alternativa moderna, fonte di sicurezza e benessere, con delle propagande simili alle classiche dittature di estrema destra. Quando il 10 Settembre Obama ufficializzò l’avvio dei bombardamenti, Assad – con l’appoggio della Russia – dichiarò questo un attacco imperialista.

«Assad o bruciamo la Siria»

Il presidente Assad, sfruttando l’effettiva spaccatura nell’intervento inter- nazionale dichiarò: «Nel mio paese la guerra è tra Stati Uniti e Russia». Nel

152 Samuele Calabrese

2015, intanto, la coalizione USA, con l’appoggio dei curdi (a loro volta attaccati dall’ISIS a Kobane), riuscì a conquistare vari territori e ad avvicinarsi a Raqqa, capitale del Califfato. Mentre la Francia, per rispondere agli attacchi terroristici, bombardò – con appoggio Usa – negli ultimi mesi del 2015, proprio Raqqa, la Russia aiutava il regime di Assad a liberare Aleppo. Nel 2016 dunque, Aleppo, capitale economica della Siria, era divisa in due: la parte est controllata dai ri- belli e la parte ovest controllata dalle truppe lealiste. I bombardamenti si intensi- ficarono finché nel dicembre 2016 trionfarono le truppe di Assad. Il massacro di Aleppo si aggiunge ai crimini di guerra che hanno portato questa rivoluzione alla morte di 300.000 uomini e all’espatrio di almeno 10 milioni di siriani. Durante l’assedio 250.000 civili vivevano rinchiusi nella parte di Aleppo controllata dai jihadisti. La mancanza di cibo, medicinali, acqua, combustibile, energia elettrica ha portato la popolazione a una vera e propria età della pietra. Per dare un’idea della tragica situazione, un pacco di sigarette ad Aleppo est costava circa 147 euro21. Durante tutto l’assedio l’umanità è stata ferma a guardare, nel totale si- lenzio mediatico.

Luoghi comuni da affrontare

L’evidente confusione provocata dai media ha portato all’inevitabile sorge- re di teorie complottiste e luoghi comuni: non è vero che la guerra in Siria è combattuta da Assad contro i terroristi, in quanto i ribelli si dividono in diversi schieramenti. Oltre allo Stato Islamico e al-Nusra, infatti, combattono contro Assad l’Esercito Siriano Libero e la Coalizione Nazionale Siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione. Si deve ricordare infatti che la rivoluzione è iniziata nel 2011 da manifestazioni di matrice pacifista, e solo in un secondo momento le frange estremiste hanno saputo cogliere l’occasione per diffondersi come un virus. E’ vero infatti che, molto probabilmente, se cadesse Assad, le forze jihadiste avrebbero il via libera. Ma è opportuno ricordare che le cause economiche, politiche e religiose che hanno scatenato la rivoluzione sono ben altre e che non sono stati i terroristi ad iniziare la guerra in Siria. La guerra è scoppiata a causa dei metodi repressivi applicati dal regime. Nel conflitto poi, sono coinvolte anche, direttamente o indirettamente, le unità curde, come il PDK e l’UPK. Nessuno può attribuirsi il ruolo del giusto in una rivoluzione, nessuno può effettivamente apparire come il buono, avere ragione, nell’ambito di una guerra. Perciò, se da una parte si può attribuire ad Assad e Putin onorevoli tito-

21 F. Roueiha, Siria. Fiato sospeso ad Aleppo, in «Osservatorio Iraq», 04/11/16, http:// osservatorioiraq.it/approfondimenti/siria-fiato-sospeso-ad-aleppo.

153 Rivoluzione Siriana: la resistenza Araba

li di: «difensori della patria dal terrorismo e dall’invasore imperialista» d’altra parte possono essere definiti dal popolo siriano come nient’altro che assassini. Nelle manifestazioni per la Siria Libera, infatti, si può leggere negli striscioni accompagnati dalla bandiera della rivoluzione: «Assad, Russia, Stati Uniti, ba- sta bombardare!». Non si deve dimenticare che la vera volontà dei Siriani è la pace. Non si deve dimenticare la vera ragione della protesta: un popolo che si è sentito tradito dal suo stesso governo, dal suo stesso esercito, ed ora, infine, da tutto il mondo. Conoscere la storia e la cultura significa non lasciare un popolo nella solitudine, oltre qualsiasi cinismo sperare ancora, con coraggio, nella pace. Riuscirà mai il genere umano ad imparare dalla storia?

154 Guido Gozzano poeta post moderno

Marcella Rizzo

È ormai un dato incontrovertibile che Gozzano è il poeta che ha dato la svolta decisiva alla poesia italiana nel primo Novecento. Abbandonando la retorica che aveva intriso le pagine della poesia precedente soprattutto quella di D’Annunzio, ha aperto la strada a tutti i poeti successivi da Montale ai post montaliani, per arrivare sino a Pagliarani, Bertolucci o Sereni che in lui vedevano un maestro di poesia. Per molto tempo considerato, riduttivamente, il cantore delle “buone cose di pessimo gusto”, la rivalutazione di Gozzano è partita proprio grazie a Edoar- do Sanguineti, curatore dell’edizione commentata di tutte le poesie nella Nuova Universale Einaudi (1973) poi aggiornata negli Struzzi (1984) e oggi ripubblicata dall’editore Einaudi per il centenario della morte del poeta avvenuta il 9 Agosto 1916. È dunque importante, per ridare a Gozzano il suo giusto posto nella lettera- tura italiana del Novecento, rileggerne l’opera alla luce delle acquisizioni critiche più recenti, evidenziandone l’originalità rispetto agli altri poeti suoi compagni di strada in quel movimento che è stato definito “Crepuscolarismo”. La modernità di Gozzano sta proprio nell’uso del linguaggio, dal tono col- loquiale e dimesso, che spesso vede la prosa prendere il sopravvento sul verso. Consapevole che è ormai finito il tempo della poesia alta e sublime e che arte e vita sono separate, è convinto che la letteratura deve essere guardata da una certa distanza se si vuole continuare a produrla, ma quella distanza non può che essere ironica. Ed è proprio l’ironia che permette di «attraversare D’Annunzio»1, per usare un’espressione di Montale e di dare un nuovo corso alla scrittura poetica. Ed è sempre l’ironia a differenziarlo dagli altri poeti crepuscolari. Il primo a comprendere che l’ironia giocava un ruolo importante nella poesia di Gozzano fu il Di Frenzi il quale affermava: «[…] si diverte a guardarsi dentro […], spet- tatore discreto e benevolo delle proprie emozioni»; e ancora «un curioso strava- gante che si interessa di tante cose futili per la maggior parte degli altri uomini, e che sa scoprirvi ciò che gli altri neppure sospettano»2. Poco crepuscolare quindi, aperto al mondo, ripiegato su se stesso, ma non chiuso in sé, con nostalgia per lo spazio raccolto e ordinato della casa borghese, cui però si oppone, o da cui nasce assieme un desiderio di evasione e fuga. Sempre in bilico tra

1 E. Montale, Gozzano, dopo trent’anni, in Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 62. 2 G. Di Frenzi, Ironia sentimentale, in «Il Resto del Carlino», Bologna, 10 giugno 1907.

155 Guido Gozzano poeta post moderno

ironia e nostalgia, in Gozzano l’io lirico diventa un io minuscolo, marginale. Di col- po viene rovesciato il ruolo «sacro del poeta», la crisi esistenziale incrina nell’uomo e quindi nel poeta ogni certezza. Infatti a Gozzano non rimane altro che sogghignare di fronte a sé e alla sconcertante realtà contemporanea: «[…] Solo, gelido, in dispar- te,/ sorrido e guardo vivere me stesso»3. Gozzano mette in atto un processo di desu- blimazione della poesia, attraverso il quale viene salutato il passato. Inevitabilmente chi nei primi anni del Novecento si imbatte nella scrittura poetica deve fare i conti con Pascoli e in particolare con D’Annunzio, subendone in principio il fascino per poi rovesciare quel modo di poetare. Gozzano riesce a lasciarsi alle spalle il vate, in- fatti ringrazia Dio perché, se invece di farlo «gozzano / un po’ scimunito ma greggio / farmi gabrieldannunziano: / sarebbe stato ben peggio!»4. Il post modernismo della poesia di Gozzano sta proprio in questo, nella ri- presa in chiave ironica dei canoni classici superando le sperimentazioni forzate inevitabilmente distruttive. «Gozzano, cosciente dell’obsolescenza, non finge entusiasmi, e non si getta den- tro: è il suo vero esilio. La sua linea di condotta è gustosamente paradossale: anziché fabbricare il moderno destinato all’invecchiamento, come accade per i vini di buona annata e per ogni neue Dichtung, cioè l’obsolescenza, fabbrica di- rettamente l’obsoleto, in perfetta coscienza e serietà. Ciò che è di moda è da lui contemplato e assunto come già démodé: il tocco da fantino è subito percepito come esotico nel tempo, esattamente al modo in cui (rovesciato il procedimento) la fotografia è una “novissima cosa” […] E si ottiene questo Gozzano che cono- sciamo, “sempre ventenne” sì, ma “come in un ritratto”, poeta parodico per ec- cellenza, e per emergenza di situazione, che rimaneggia e lima, o impavidamente cita, “i versi delicati / d’una musa del tempo che fu già”»5. Due sono le raccolte poetiche fondamentali per capire a pieno il pensiero di Gozzano: La via del rifugio (1907) e soprattutto I colloqui (1911), uno dei più celebri ‘canzonieri’ della poesia italiana del XX secolo. Nelle sue liriche Gozzano tende a fare continui riferimenti alla letteratura precedente: da Dante a Petrarca, da Ariosto a Tasso, da Leopardi all’amato e insieme odiato D’Annunzio. Ed è lui, nel nostro Novecento, l’iniziatore di quella linea della contaminazione e della ripresa in una chiave sostanzialmente depotenziata, che noi chiamiamo “poetica del post- moderno”. Umberto Eco dà una chiara definizione del temine post moderno che ci può far capire perché la poesia di Gozzano può essere considerata tale:

3 G. Gozzano, I Colloqui, vv. 40-41, in Le poesie, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2016, p. 88. 4 G. Gozzano, L’altro, vv. 9-12, cit., p. 343. 5 E. Sanguineti, Introduzione a Guido Gozzano, Le poesie, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2016, p. VII.

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«Malauguratamente “post-moderno” è un termine buono à tout faire. Ho l’impres- sione che oggi lo si applichi a tutto ciò che piace a chi lo usa. D’altra parte sembra ci sia un tentativo di farlo slittare all’indietro: prima sembrava adattarsi ad alcuni scrittori o artisti operanti negli ultimi vent’anni, poi via via è arrivato sino a inizio secolo, poi più indietro, e la marcia continua, tra poco la categoria del postmoderno arriverà a Omero. Credo tuttavia che il post-moderno non sia una tendenza circo- scrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il suo post-moderno»6. Tale postmodernità si esprime, secondo Giuseppe Zaccaria, nell’usare la let- teratura come schermo tra l’io poetante e la forma dell’espressione, letteratura «intesa come gioco ironico, calco o riuso, riscrittura»7. Nella sua poesia si afferma così per la prima volta l’atteggiamento del poe- ta disilluso di ogni cosa, sentimentalmente inaridito, ironicamente perplesso di fronte ai casi della vita, alla retorica, all’attivismo. Elementi del suo mondo po- etico sono argomenti provinciali e infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, fiori finti, frutti di marmo, pappagalli impagliati. Da una parte ricorda ed elenca tutti quegli oggetti che sono costitutivi dell’identità familiare e, dall’altra, li apostrofa come «buone cose di pessimo gusto», quasi volesse estraniarsi da tutto ciò che lo circonda: Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!) il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, 1 i dagherottipi: figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto […]8 Gozzano, attraverso i suoi versi ironici, esprime i suoi dubbi e le sue perplessità sulla desolante realtà che lo circonda. Per questo la sua opera diventa lo specchio

6 U. Eco, Postille a “Il nome della rosa”, in Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1983, p. 528. 7 G. Zaccaria, Gozzano postmoderno: un poeta alle soglie del Novecento, Novara, Inter- linea edizioni, 2005, p. 34. 8 G. Gozzano, L’amica di nonna Speranza, vv. 1-14, cit., p. 160.

157 Guido Gozzano poeta post moderno di una profonda crisi. Tuttavia la vera modernità sta nell’uso della parola poetica, e anche in questo caso l’ironia gioca un ruolo fondamentale per lasciarsi alle spalle il passato. L’autore imprime al linguaggio un abbassamento di tono prima impensa- bile dando così vita in poesia ad una linea del quotidiano. Si allargano i confini del poetabile – non solo argomenti e contenuti alti, sublimi, bensì una nuova centralità delle situazioni comuni e quotidiane – e di conseguenza si allarga il campo lessicale della poesia. In tal senso Gozzano porta alle estreme conseguenze la rivoluzione pascoliana che, accogliendo nella poesia oggetti, presenze, temi prima esclusi, aveva dovuto consentire, per forza di cose, un ampliamento delle basi lessicali del lin- guaggio poetico. Ecco quindi le onomatopee, le interiezioni, le reticenze (la figura retorica delle sospensioni e dei sospiri), che accompagnano i vocaboli “nuovi”, tratti dalla scienza, dalla tecnica, dalle lingue straniere, insomma dalle parole usate da tutti ogni. Egli ironizzò sugli epigoni del romanticismo, i dilettanti dei versi, il lessico trito del petrarchismo. Come nella poesia-racconto “Il commesso farmacista” dove un commesso (e non un farmacista in proprio), si diletta a comporre versi: Ho per amico un bell’originale commesso farmacista. Mi conforta col ragionarmi della sposa, morta priva di nozze del mio stesso male. […] Imaginate con che rime rozze, con che nefandità da melodramma il poveretto cingerà di fiamma la sposa che morì priva di nozze! Il cor... l’amor... l’ardor... la fera vista... il vel... il ciel... l’augel... la sorte infida... Ma non si rida, amici, non si rida del povero commesso farmacista9. Il lessico diventa comune, basso: «topaie, materassi, vasellame, / lucerne, ce- ste, mobili: ciarpame / reietto, così caro alla mia Musa!»10. E attraverso il linguag- gio comune la prosa irrompe nella poesia e la contamina: il linguaggio colloquiale, il racconto, il dialogo fanno dell’opera di Gozzano il primo vero cambiamento poetico del ’900. Il linguaggio di Gozzano rompe così gli schemi della tradizione precedente e introduce la parola realistica laddove il linguaggio poetico del primo e del secondo Ottocento si era mantenuto immune da forme popolari. Nei suo componimenti, il linguaggio aulico e quello prosastico si presentano entrambi for-

9 Id., Il commesso farmacista, cit., vv. 1-4; 41-48, pp. 347-348. 10 Id., La Signorina Felicita ovvero la Felicità, cit., vv. 154-56, p. 133.

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temente caratterizzati ed entrambi sottoposti a un processo di corrosione ironica. Sono inoltre continuamente accostati e mescolati, senza in realtà produrre forti scontri e tensioni, ma piuttosto combinazioni ironiche, ossimoriche: «l’iridi since- re / azzurre d’un azzurro di stoviglia»11. Le rime spesso sono imperfette e, quando non lo sono, se sottolineano veramente le parole rimanti, sono spesso in funzione ironica a creare abbinamenti dissacranti. Tutta la sua poesia risente, come è natura- le, dei classici soprattutto italiani: Dante e Petrarca. Forse nessun altro poeta è stato tanto abile nella terzina dantesca, così come nella impeccabilità dell’endecasilla- bo. Pier Paolo Pasolini è assolutamente convinto che pochi poeti italiani hanno la capacità di versi sintetici che afferrano, condensano, materializzano e fissano tanta realtà sia fisica che di pensiero come Gozzano; e pochi, nel tempo stesso possie- dono la sua discorsività divagatoria e così fertile di dettagli; egli è un poeta dalla lingua lucida, piatta, concreta, fatta tutta di cultura12. Infallibile nella scelta delle parole, Gozzano è il primo che abbia giustapposto l’aulico con il profano; egli è: «un esteta provinciale, a fondo parnasiano, un giovane piemontese malato, dan- nunziano, borghese, ma davvero piemontese e davvero borghese anche nel suo mondo [...] e fondó la sua poesia sullo choc che nasce tra una materia psicologi- camente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, e una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé»13. Temi e miti vengono quindi rovesciati; dimentichiamo la femme fatale di tutta la poesia decadente, la donna-vampiro, la Nemica di dannunziana memoria. Le donne di Gozzano sono umili e amabili ragazze di provincia con «i visi len- tigginosi, le azzurre iridi domestiche, e signorine arcigne, visucci grami, donne quasi brutte e prive di lusinghe, dal volto quadro»14. Non c’è più la passione per donne sublimi, fatali, spietate, ma come accade a Totò Merumeni dell’omonima poesia dei Colloqui, una specie di alter ego del poeta «egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne»15. Non a caso Elogio degli amori ancillari è il titolo di un altro celebre componimento: Gaie figure di decamerone le cameriste dan, senza tormento, più sana voluttà che le padrone.

11 Ivi, vv. 83-84. 12 P.P. Pasolini, Introduzione, in Guido Gozzano. Poesie e Prose, Milano, Feltrinelli, 1995, p. VIII. 13 E. Montale , Gozzano dopo trent’anni, Poesia, Milano, Mondadori, 1997, p. 52. 14 G.L. Beccaria, Italiano. Antico e nuovo, Milano, Garzanti, 2002, p. 38. 15 G. Gozzano, Totò Merumeni, vv. 38-40, cit., p. 181.

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Non la scaltrezza del martirio lento, non da morbosità polsi riarsi, e non il tedioso sentimento che fa le notti lunghe e i sonni scarsi, non dopo voluttà l’anima triste: ma un più sereno e maschio sollazzarsi. Lodo l’amore delle cameriste!16 Oppure gli amori possono essere impossibili, per la distanza temporale. Goz- zano, da adulto, indica nella cocotte, la “cattiva signorina” della sua infanzia, o in Carlotta, l’amica di nonna Speranza, giovane collegiale nel 1850, o ancora in Graziella, la giovane ciclista delle Due strade, le uniche donne che avrebbe potuto amare davvero. Al punto da ritrovarsi a esclamare amaramente: «Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto/ Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state...»17. Questa sua aridità sentimentale o impossibilità di amare si ricollega alla consapevolezza di essere condannato a una fine imminente, dovuta alla turbecolosi, per cui non riesce a lasciarsi andare al vitalismo del sentimento e della passione, che dun- que tende a rimuovere dal proprio orizzonte di vita. Il confronto serrato con «la Signora vestita di nulla» lo induce a una serie di riflessioni profonde, la cui urgenza l’ironia riesce solo in parte ad attenuare: Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, se già la Signora vestita di nulla non fosse per via... E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie, se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie18. Non manca comunque un’apertura alla sessualità, indice pure questo della modernità della poesia gozzaniana: in Cocotte vi è la prostituta con la quale Gozzano bambino ha scambiato qualche parola e gesti affettuosi: Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto di quel suo volto tra le sbarre quadre! La nuca mi serrò con mani ladre; ed io stupivo di vedermi accanto al viso, quella bocca tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre!19.

16 Id., Elogio degli amori ancillari, vv. 11-20, cit., p. 98. 17 Id., Cocotte, vv. 67-71, cit., p. 174. 18 Id., L’ipotesi, cit., vv.1-4, p. 360. 19 Id., Cocotte, cit., vv.7-12, p.171.

160 Marcella Rizzo

Poi c’è Ketty, emblema di sesso ed emancipazione: Bel fiore del carbone e dell’acciaio Miss Ketty fuma e zufola giuliva altoriversa nella sedia a sdraio. Sputa. Nell’arco della sua saliva m’irroro di freschezza: ha puri i denti, pura la bocca, pura la genciva. Cerulo-bionda, le mammelle assenti, ma forte come un giovinetto forte, vergine folle da gli error prudenti, ma signora di sé della sua sorte sola giunse a Ceylon da Baltimora dove un cugino le sarà consorte. Ma prima delle nozze, in tempo ancora esplora il mondo ignoto che le avanza e qualche amico esplora che l’esplora20. Per Gozzano poeta il tempo non è altro che l’alveo capace di contenere il tut- to e questo tutto senza condizioni di tempo. Il passato e il futuro diventano sogno e il presente non esiste. Il quotidiano si cristallizza nella memoria del passato che non è soltanto rimpianto del passato. Allo stesso modo cambiano le ambientazioni: non troviamo più le dimore estetizzanti o i parchi popolati da una preziosa vegetazione esotica, così cari alla poesia decadente, ma cucine, solai, vecchi e polverosi salotti piccolo-borghesi con i mobili ricoperti da fodere messe lì, ma inutilmente, a contrastare l’azione del tempo. Villa Amarena ne è l’esempio più chiaro: «Bell’edificio triste inabi- tato! / Grate panciute, logore, contorte! / Silenzio! Fuga dalle stanze morte! / Odore d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato! / Fiabe defun- te delle sovrapporte!»21. I giardini diventano scenari per situazioni sentimentali, mai del tutto veri, o veri solo in parte. Anche lo stesso Gozzano diviene «ogget- to» visto in modo narcisistico da un se stesso poeta e certamente il «se stesso» è uno degli oggetti preferiti della sua poesia. Il colloquio, reiterato e continuo in tutta la sua opera, è soprattutto con se stesso. Esemplari sono questi versi: Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto, mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

20 Id., Ketty, cit., vv. 4-16, p. 393-394. 21 Id., La Signorina Felicita, cit., vv. 24-30, p. 135.

161 Guido Gozzano poeta post moderno

mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora – che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte. (Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.) È una Signora vestita di nulla e che non ha forma. Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma. Tu senti un benessere come un incubo senza dolori; ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome. Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano; né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano. Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio, sereno come uno sposo e placido come un novizio22. Se l’ ironia è la chiave centrale del procedimento di abbassamento, temati- co e stilistico, la malinconia lo rende più pregnante; anzi, entrambe appaiono spesso indistricabilmente intrecciate, quali schermi che impediscono al poeta un’adesione autentica alla realtà della vita e ai sentimenti. Tutto nella poesia di Gozzano è molto soft e provinciale e in questa attenuazione di vita si svela il segreto della sua poesia e anche tutta la sua modernità, dopo la stagione roboante di Gabriele D’Annunzio. Il confronto con i grandi del passato e con le epoche gloriose procura un forte senso di sconforto e impotenza, unito al rimpianto di non essere nato prima, in un tempo in cui la poesia era tenuta ancora in grande considerazione. Si chiede chi sia, quale è il suo ruolo, cosa può cantare che non sia già stato cantato. Non ha più voce, si sente piccolo, minuto; è il crepuscolo della grande Poesia che ripiega su toni più dimessi, ma contemporaneamente l’aurora di una nuova stagione letteraria. Gozzano fu quindi «maestro del con- trocanto prosaico e nella conseguente banalizzazione del linguaggio aulico, non lo fu meno nell’indicare la via di una sistematica rimotivazione tonale, e quasi specializzazione poetica, del lessico quotidiano, strategia che i poeti del Nove- cento hanno appreso soprattutto da lui»23.

22 Id., Alle soglie, cit., vv. 23-34, p. 116. 23 P.V. Mengaldo, Caratteristiche psicologiche e formali in Gozzano, da Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 94.

162 La scrittura dell’esodo in tre racconti di Nelida Milani

Maria Francesca Giordano

«Il ricordo lavora come un baco da seta, e poi, dopo un sonno profondo, sbuca fuori all’improvviso»1.

Storie di umili e di anti-eroi ispirati a individui e vicende reali si muovono nelle narrazioni dense e coinvolgenti di Nelida Milani2, linguista nata a Pola, scrittrice poliedrica e voce significativa della letteratura istro-quarnerina con- temporanea. La sua è pagina della memoria dell’esodo, degli “andati” e dei “ri- masti”, degli Italiani in Istria e di quelli partiti, espressione della letteratura di una minoranza autoctona che si muove in uno scenario di confine. L’esodo è il punto cardine, elemento discriminante delle storie, del prima e del dopo, della separazione e dell’allontanamento, «traumatica emorragia»3 e punto di non ritorno. Storicamente il dramma si consuma il 10 febbraio 1947: a Parigi l’Italia e le Potenze Alleate sottoscrivono il Trattato di Pace. Negli accordi stipulati si stabi- lisce che la zona a nord del fiume Quieto diventerà parte del Territorio libero di Trieste e che una Zona A passerà sotto il controllo degli Alleati, mentre una Zona B (comprendente Capodistria, Pirano e Umago) passerà sotto l’amministrazione degli Jugoslavi, che si vedono inoltre assegnare Zara, Fiume, le isole di Làgosta e di Pelagosa, quasi tutta la restante parte dell’Istria, oltre che del Carso triestino

1 N. Milani, A.M. Mori, Bora, Milano, Frassinelli, 1998, p. 55. 2 Nelida Milani in Kruljac è nata a Pola (Istria) nel 1939. Ha ricoperto per anni l’incarico di vicepreside e responsabile della Sezione Italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Pola. Nel periodo 1989-1999 è stata redattore responsabile della rivista trimestrale di cultura «La Battana» pubblicata da Edit a Fiume. Nel 1991 con Sellerio ha pubblicato Una valigia di cartone (Premio Mondello 1992). La raccolta di racconti L’ovo slosso-Trulo jaje, è stata pubblicata a Zagabria per la Durieux (1996) con traduzione in lingua croata. Nel 1998 è uscito presso l’editore Frassinelli Bora, redatto insieme ad Anna Maria Mori, giornalista de «La Repubblica». Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di racconti Impercettibili passaggi nella collana L’Istria attraverso i secoli. Nel 2007 la casa editrice Edit di Fiume le ha pubblicato Crinale estremo, una raccolta di racconti; nel 2008 sono usciti i Racconti di guerra nella col- lana Passaggi de Il Ramo d’Oro di Trieste. Ha pubblicato libri, saggi ed articoli di carattere sociolinguistico incentrando i suoi interessi sull’apprendimento della seconda lingua e sui problemi legati alle identità culturali; ha condotto ricerche interdisciplinari sulle lingue e sulle culture in contatto nella società multietnica istriana. Nel 2004 è stata nominata dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi commendatore con stella della solidarietà. 3 L’espressione è stata utilizzata dalla scrittrice in alcune interviste.

163 La scrittura dell’esodo in tre racconti di Nelida Milani

e goriziano e dell’alta valle dell’Isonzo. Dal 15 settembre 1947 anche la città di Pola con l’allontanamento degli ultimi soldati inglesi è sottoposta alla sovra- nità jugoslava. La cessione determina la diaspora di circa 350.000 persone; la comunità si divide in due blocchi: chi parte e chi resta. Il gruppo che decide di restare raccoglie una sfida: mantenere salda un’identità, una lingua, i costumi, le tradizioni e la cultura italiana. La legge n. 92 del 30 marzo 2004 istituisce il Giorno del Ricordo e così re- cita nel primo comma dell’art. 1: «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli Italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La riflessione letteraria sull’esodo, caduta per molto tempo nel cono d’ombra per il rischio o per il timore che l’argomento si prestasse a facili strumentaliz- zazioni politiche di vario senso, può rappresentare un segmento di letteratura italiana prodotta in paesi e regioni di confine, crocevia di popoli e di culture. Se- condo Christian Eccher proprio in queste zone si possono sviluppare idee nuove, capaci di declinare in maniera costruttiva la caoticità della post-modernità: la periferia può diventare nodo nevralgico in cui l’umanità mette in gioco il pro- prio futuro. C’è una letteratura in cui la componente italiana “dialoga con quella slava”. E dal dialogo nasce una consapevolezza socio-politica nuova, idonea ad offrire molti elementi che sarebbero utili nell’Europa attuale4. Lo sviluppo della ricca letteratura di “frontiera” ha avuto una storia comples- sa e, come indicato nel volume Le parole rimaste. Storia della letteratura ita- liana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, a cura di Nelida Milani e di Roberto Dobran5, nei decenni intercorsi dagli eventi ha seguito le direttrici riconducibili schematicamente a più aree:

• il filone neorealista • il filone mimetico-realista • il filone espressionista dell’avanguardia • il filone moderno (della memoria) • il filone postmoderno.

4 C. Eccher è autore del volume La letteratura degli Italiani d’Istria e di Fiume dal 1945 ad oggi, EDIT, Fiume, 2012, con Prefazione di Tullio De Mauro. 5 La pubblicazione è il risultato della ricerca La Letteratura della Comunità Italiana, fi- nanziata dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana per il tramite dell’Unione Italiana (Fiume/Capodistria) nel quadro della convenzione MAE-UI del 20 dicembre 2001, Articolo 1, in applicazione alla Legge del Parlamento italiano del 21 marzo 2001, N° 73.

164 Maria Francesca Giordano

Esistono però confini molto fluidi perché succede che due linee di tendenza coesistano. Nella produzione scritta storicamente meglio delineata si può co- munque intravedere una bipartizione: da un lato il filone che privilegia le forme classiche della tradizione e dall’altro quello di scrittori che seguono le forme della sperimentazione. Secondo Nelida Milani a tutti deve essere riconosciuto «il merito di aver combattuto l’annichilimento della parola scritta»6. Negli anni 1989-90 la scrittura memorialistica si presenta come il genere più consono ad accogliere ricordi, testimonianze sbiadite, informazioni riaffio- rate dopo un «sonno profondo» dal passato di tanti protagonisti di quelle vicen- de. La componente autobiografica è forte e nel 1991 sulla rivista culturale «La Battana»7, fondata nel 1964, vengono pubblicate le Pagine scelte di Letteratura dell’esodo. I redattori tentano di «aprire un dialogo» nutrendo la speranza di un possibile percorso condiviso. I temi prevalenti della narrativa sono quelli scaturiti dalla ferita profonda del cambiamento, dallo smarrimento, della crisi di identità perché «le circostanze hanno il loro peso. Le condizioni sfavorevo- li ti segnano, la storia entra dentro di te e fa sì che tu non sia più padrone di te stesso»8. Spaesamento, sradicamento, svuotamento sono, quindi, sentimenti

6 «La voce del popolo», 5 luglio 2009, Intervista di Gianfranco Miksa. 7 Il nome della rivista è voce veneta e romagnola di origine incerta, utilizzata per indicare una «piccola imbarcazione a fondo piatto e sponde basse, mossa da un remo a due pale» (in G. Devoto, G. Oli, Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2014, pag. 299). Sul sito della EDIT, casa editrice degli Italiani di Croazia e di Slovenia, si legge: «La rivista lette- raria “La battana”, fondata nel 1964, è una delle più longeve nel suo genere. Non solo è stata uno dei rari ponti di comunicazione culturale tra le due sponde dell’Adriatico e una delle vetrine privilegiate della produzione letteraria degli italiani ad est di Trieste, ma è stata anche strumento di partecipazione civile, luogo di dibattito e palestra di pensiero, barometro dei tempi. Si deve a “La battana” la detabuizzazione di temi che erano stati off limits per quasi cinquant’anni quali l’esodo […] e la triste vicenda del lager di Goli Otok – Isola Calva (con la pubblicazione dello splendido romanzo “Martin Muma” di Ligio Zanini). Sin dai suoi inizi, con al timone Eros Sequi e Sergio Turconi, “La battana” ha puntato sulla grande qualità. Prova ne sia che le sue pagine hanno ospitato interventi di grandissimi autori tra i quali: Salvatore Quasimodo (Premio Nobel per la letteratura, 1959), Ivo Andrić (Premio Nobel per la letteratura, 1961), Italo Calvino, Al- berto Moravia, Claudio Magris, Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti, Ugo Casiraghi, Guido Aristarco, Bruno Maier, Ciril Zlobec, Tonko Maroević, Predrag Matvejević, Nedeljko Fabrio, Žarko Puhovski e Igor Mrduljaš. Attualmente “La battana” fa parte del programma d’insegna- mento e del programma d’esame sia nello studio della lingua italiana del Corso di Laurea in Lingua e Letteratura italiana, sia del corso di Laurea in Studi culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Fiume, favorendo così l’avvicinamento degli studenti di italianistica al mondo della letteratura, della cultura e dell’editoria CNI quale presupposto di una più profonda conoscenza della presenza italiana nell’Istria e nel Quarnero, funzionale tra l’altro all’affermazione di un atteggiamento positivo nei confronti della convivenza interetnica». 8 N. Milani, La bacchetta del direttore, collana Edeia, Genova, Oltre edizioni, 2013, ebook, p. 4.

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della separazione forzata che approdano nei racconti e nei romanzi di autori che cercano di riannodare i fili di una trama esistenziale intricata poiché, come ama- ramente commenta un personaggio del racconto di Nelida Milani intitolato La neve, «la Storia procedeva in senso inverso a quello dei nostri affetti»9. La scrit- tura in lingua, dunque, offre con il conforto della materna locutio la possibilità di raccontare le sofferenze di chi “è rimasto”, lo sforzo dei non-esodati; è la forma per resistere alla discontinuità storica. In un’intervista rilasciata in occasione del Premio al Concorso d’Arte e Cultura “Istria Nobilissima” del 2009 l’autrice così spiega il suo rapporto con la pagina scritta: «Narrare è, in fin dei conti, una que- stione di intimità, oltre che un desiderio di rendere accondiscendente la lingua a una mia “visione” del mondo»10. Pagine di scrittura evocativa e colloquiale si presentano al lettore del volume La bacchetta del direttore, pubblicato nel 2013. Confusione, tumulti dell’animo e ambiguità s’intrecciano e si inseguono nelle immagini dolenti che si ricompon- gono con progressiva intensità nei tre racconti intitolati La neve, La bacchetta, Il triciclo. Nel primo racconto il protagonista, voce narrante con focalizzazione interna, ricostruisce giochi e sfide della sua comitiva d’un tempo formata da bambini italia- ni e jugoslavi: Pino, Sergio, Liliana, Ljubo, Giorgio, Silvio, Sonja, Bosiljka, Rade, Lauretta, Biserka, Mirko, Branko, Cesco ed altri. Tutto scorre serenamente con simulazioni di scenari di guerra, con sfide e agguati tra “tedeschi” e “partigiani” organizzati per strada, nei cortili dopo la scuola. L’inferno, il precipizio delle esi- stenze ha inizio con un triste incidente, la morte accidentale di Niso, il “partigiano” «biondo come una spiga»11 colpito da un sasso durante una battaglia ingaggiata tra le “postazioni nemiche” a palle di neve. A questo punto la narrazione sembra virare verso i toni del genere poliziesco perché si tenta di individuare il responsa- bile del misfatto: i genitori provano a tenere separati e lontani i ragazzi mentre le indagini vanno avanti con gli interrogatori. Ma il gruppo resta unito: tutti offrono la stessa versione dei fatti secondo le indicazioni di uno di loro, Pino. Col passare del tempo e con il precipitare degli eventi giunge il momento dell’allontanamento: alcuni partono, altri si fermano. Complicità, prime simpatie e amicizie s’infrango- no. La percezione è di incolmabile solitudine, di frattura netta e di annichilimento: «La catena che si spezza, i nomi che si perdono, ci dissolviamo tutti nel nulla»12. Emblematica sullo stato delle cose al momento dell’esodo è la sequenza de- scrittiva che traccia il profilo di una città svuotata, spettrale, nella quale diventa difficile vivere:

9 Ivi, p. 14. 10 Intervista di lunedì 6 luglio 2009, pubblicata su www.coordinamentoadriatico.it. 11 N. Milani, La bacchetta del direttore, cit., p. 6. 12 Ivi, p. 14.

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«Porte sprangate, imposte serrate, saracinesche dei negozi abbassate, carri cari- chi di masserizie, viveri razionati, cappotti rivoltati, personalità polverizzate, riti compiuti per perdersi, gesti inceppati, addii e promesse di ritorno, cani muti di giorno e di notte per non turbare il perfetto silenzio in cui si compiva la separa- zione dei destini, l’amputazione degli innamorati»13.

L’io narrante, segretamente innamorato dell’amica d’infanzia Bosiljka, nella sua ricostruzione aggiunge: «Io credo che la separazione definitiva sia l’espe- rienza umana più vicina alla morte»14. Molto tempo dopo, in estate, i ragazzi organizzano una rimpatriata e s’incon- trano in barca nelle splendide acque dell’Adriatico. Ma anche questa circostanza si chiude con una tragedia dai risvolti misteriosi. Infatti uno dei giovani, Pino, ragazzo alto e aitante con i capelli lunghi e con «sguardo e fronte schietti e luminosi»15, tornato per portarsi via Bosiljka, rimane intrappolato nelle lamiere di un relitto adagiato sul fondale e, dopo inutili tentativi di salvataggio, muore «nel ventre materno del ritorno»16. La bacchetta, il secondo racconto da cui l’intera raccolta di Nelida Milani prende il nome, si configura come lo scambio epistolare tra Ines, io narrante che vive a Lucca e Michele, un anziano signore ex vicino di casa, emigrato da Pola a New York. La donna dopo aver appreso la notizia della morte di Gemma Ca- poralin, moglie dell’uomo, sente il bisogno di esprimergli il suo cordoglio. Tra missive, foto e ricordi si ricompone «una fetta di piccolo mondo»17. Con la pro- spettiva rovesciata dell’esiliato la narrazione si sviluppa intorno alla storia della bacchetta del direttore d’orchestra, costruita da Egidio, uomo eclettico e padre di Ines, abile nel fondere e filare l’oro e scolpire l’avorio. Il prezioso manufatto è stato utilizzato da Michele che racconta gli interessi e le occupazioni durante la sua presenza a Pola, la passione per la musica e la preparazione dei concerti organizzati con grande impegno in paese prima dell’allontanamento. Nel ricordo epistolare di quei momenti vissuti con forte intensità l’uomo rammenta: «susci- tavo colori, fraseggi, emozioni sempre soggette a regole perché la musica è una scienza esatta che esprime il mistero dell’esistenza umana»18. Dopo l’esodo e l’abbandono doloroso dell’incarico di direttore d’orchestra, il maestro ricorda: negli Stati Uniti «dovetti deporre la bacchetta da mago che aveva perso ogni potere magico»19, perché, spiega con mestizia alla donna, «tut-

13 Ivi, p. 13. 14 Ivi. 15 Ivi, p. 16. 16 Ivi, p. 24. 17 Ivi, p. 46. 18 Ivi, p. 48. 19 Ivi, p. 53.

167 La scrittura dell’esodo in tre racconti di Nelida Milani

te le mie creature, trasportate bruscamente in un altro mondo, la Turandot, la Traviata, Lucia di Lammermoor, Rigoletto, Aida, Ernani, private di identità e di voce, si trasformarono in fantasmi, spettri di note. Impossibile farle rivivere»20. Ma anche in questa storia è sottesa una sventura, una disgrazia che Ines igno- ra. Alla morte del sig. Michele le vengono recapitate dal figlio del maestro alcu- ne foto numerate, una lunga lettera e un quaderno, una sorta di diario. Dopo la lettura dei documenti ogni tessera del mosaico si ricompone: molti episodi han- no cambiato la vita dei rispettivi parenti. Suo padre Egidio, preso dalla sua irre- sponsabile passionalità, ha avuto una relazione clandestina con Jole, promettente pianista sorella della signora Gemma e ne ha causato per delusione inobliabile la tragica fine. Nell’involucro, avvolta con garbo, c’è la bacchetta «sopravvissuta all’esodo e a tanti traslochi»21. Ne Il triciclo, ultimo struggente racconto del trittico, una voce narrante in terza persona ripercorre la storia di un eccidio compiuto in un piccolo borgo dell’entroterra istriano. L’incipit delinea i contorni di un bozzetto idillico: solare e quieta l’esistenza si svolge nell’armonia e nel lavoro nei campi, al ritmo delle stagioni che segna il passo al tempo dei semplici abitanti: «Una vita messa alla fatica, dalla quale escono lavoro e canto»22. Poi un genocidio, inatteso ed efferato, decima i residenti senza risparmia- re donne e bambini, rinchiusi in chiesa. «Scende il grande silenzio di asfissia e di morte»23. Tra i trucidati c’è Jean, figlio di Jorg, un liutaio fatalmente so- pravvissuto alla tragedia. Il piccolo, sporco e scarmigliato, schizzato dal fuoco dell’inferno della sacrestia «come una falena impazzita» è andato incontro al suo assassino «pedalando in sella al suo triciclo»24, sotto lo sguardo del fotografo di guerra che ha fermato sulla pellicola quell’attimo di follia. Jorg con la «pietra di vulcano nel cuore»25 a lungo fronteggia un mondo vuoto ma non si rassegna al dolore e, spinto dall’odio, pianifica lentamente e mette in atto implacabilmente la sua vendetta: «Non è mai uscito dalla rabbia repressa, inconfessabile e letale che sente dentro»26. Nelida Milani nell’ultima pagina del volume esprime la sua aperta condanna per le persecuzioni, per i massacri, per tutte le guerre del mondo e per ogni forma di violenza. Attraverso la tecnica del racconto che, secondo Michela Rusi, per

20 Ivi. 21 Ivi, p. 61. 22 Ivi, p. 73. 23 Ivi, p. 88. 24 Ivi, p. 86. 25 Ivi, p. 102. 26 Ivi, p. 91.

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brevità e concisione si presta bene alla scrittura autobiografica27 e l’«impasto linguistico» la scrittrice «distilla gli umori più terragni dell’ambiente che pre- serva il dolore di una memoria, di un’origine, ma, nello stesso tempo, fa della lingua il nuovo paese in cui la rappresentazione incontra il lettore, entra in dia- logo con lui»28. I suoi personaggi tormentati vivono un rivolgimento assoluto, si ritrovano spesso a percorrere strade di città prima radiose e seducenti e poi rese pericolose e mortali e si inseriscono in un reticolo di vite che in questa rac- colta trova la sua compiutezza nei toni crescenti e sinistri del Male. Nel primo racconto è presente il dolore suscitato da un male involontariamente procurato: la morte del piccolo Niso è causata per tragica fatalità da Pino che, a sua vol- ta, diventa vittima nell’immersione. Nella seconda storia è il comportamento troppo disinvolto di Egidio, padre di Ines, a spingere verso un gesto insano la bella Jole, distrutta e incredula di fronte alla fuga dell’amato, mentre i parenti continuano a portare il peso di una colpa per una tragedia che avrebbero potuto scongiurare. Ma la deflagrazione del male assoluto trova la sua raccapricciante manifestazione ne Il triciclo ove gli orrori della guerra hanno le tinte fosche di una strage di vittime innocenti, i bambini, e la legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente»29 diventa il motto per riorientare un frammento insen- sato di vita. Un dolore infinito, cupo e sordo, strozzato nell’urlo incalzante di una domanda ossessiva, come un «ritornello ipnotico» prorompe verso il cielo muto: «Perché? Perché? Perché?»30. Unica via d’uscita nel groviglio inestrica- bile dell’esistenza resta un’accorata e vibrante litania: «A peste, fame et bello, libera nos Domine»31.

27 M. Rusi, Il linguaggio dell’esodo nella scrittura di Nelida Milani, L’esodo giuliano- dalmata nella letteratura. Atti del Convegno Internazionale, (Trieste, 28 febbraio - 1 marzo 2013), Biblioteca della “Rivista di Letteratura Italiana”, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, vol. 22, pp. 256-261. 28 N. Milani, R. Dobran, Le parole rimaste, cit., Introduzione. 29 N. Milani, La bacchetta del direttore, cit., p. 93. 30 Ivi, p. 90. 31 Ivi, p. 91.

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Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo

Lidia Caputo

Una volta venne chiesto al drammaturgo inglese George Bernard Shaw se pensasse che veramente la Bibbia fosse Opera dello Spirito Santo. Egli rispose: «Credo che lo Spirito Santo abbia scritto non solo la Bibbia, ma tutti i libri»1. Tale affermazione viene ad assumere un valore ermeneutico fondamentale nell’ambito della storia del pensiero occidentale e del dibattito culturale con- temporaneo. Alla ricerca di senso dell’uomo contemporaneo non sono in grado di rispondere né la ricerca filosofica dominata da nichilismo o scetticismo, né il pensiero scientifico che registra i fenomeni, ma è incapace di interpretarli e di evidenziare le connessioni profonde tra i molteplici ambiti della realtà. Nel saggio del 1936 su L’origine dell’opera d’arte2 Martin Heidegger sostiene che l’opera d’arte «è messa in opera della verità» e fa sì che il mondo si costituisca in quanto tale in rapporto all’Essere. La scrittura poetica di Don Franco Lupo, secondo la chiosa di Donato Valli nella Storia della Poesia dialettale nel Salento, è caratterizzata da un’intensa dimensione corale e trascendente sostenuta da «l’appassionata partecipazione alle vicende dei fedeli, dalla pienezza di una pietà illuminata dall’invisibile pre- senza di Dio»3. Anche secondo il mio punto di vista, l’opera del Nostro non è una nostalgica laudatio temporis acti, bensì essa è Poesia della complessità e del divenire in cui l’angoscia trascende nella speranza, il dolore nella consola- zione, la fine di un amore terreno nella ricerca di un amore infinito4. Anche la sofferenza e la morte terrena si trasfigurano nella partecipazione al mistero della morte e Resurrezione del Cristo. Difatti è in questo snodo esistenziale e mistico che accade l’“Evento”: la realtà immanente si congiunge indissolubilmente alla trascendenza nel superamento dei limiti e delle aporie dell’esistenza mondana. Anche nell’heideggeriano Dasein, la poesia si manifesta come rivelazione della verità, cioè del significato ultimo di ogni evento storico, socio-economico, etico-religioso, non solo di carattere positivo, ma anche negativo.

1 Cit. da J.L. Borges, L’invenzione della poesia, Le lezioni americane, a cura di C. Amia- lescu, Milano, A. Mondadori, 2001, p. 12. 2 M. Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia 1968, pp. 56 e 61. 3 D. Valli, Storia della poesia dialettale nel Salento, Galatina, Congedo Editore, 2003, p. 202. 4 Cfr. F. Lupo, Gente Bona, Galatina, Editrice Salentina, 1980, «Camillo», pp. 47-69.

171 Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo

Questa duplice dimensione immanente e trascendente costituisce una sin- tesi armonica in ogni silloge di Don Franco Lupo, in poesia, come in prosa: i vari componimenti, coesi tra di loro, sono orchestrati sinfonicamente come momenti diversi di un’unica partitura. I toni sono sapientemente modulati: si va dal pianissimo de Le rose de la nonna5 all’allegro di Lu tata6, all’andante di Lu piccinnu7, al vivace con brio di Li cunfietti de Carnuale8. All’armonia formale fa da contrappunto una polifonica varietà di contenuti e personaggi. Nell’opera poetica di Lupo, da Lecce mia del 19769 a Cose de Ddiu10, inclusa la silloge di racconti Gènte bòna11, pervasa di intenso lirismo, i ricordi non sono cristallizzati come simulacri di pietra, ma sono palpitanti come carne viva, ferita da piaghe secolari o fresca e profumata come quella delle giovani leccesi, dolci e pensose come le icone delle Madonne, che dagli angoli dei vicoli, esortavano alla pre- ghiera i viandanti. Un filo conduttore lega sia i vicoli miseri popolati da un’uma- nità che vive di espedienti, sia botteghe e osterie frequentate da personaggi tipici come Lu scarparu12, Lu barbieri13, Lu posapianu14, Lu mbriacu15, L’avvucatu16. Vizi e virtù del popolo leccese sono osservati con bonaria ironia, non sce- vra dalla comicità tipica della commedia in vernacolo, come ad esempio quella dell’illustre salentino Raffaele Protopapa. Un’umanità oramai in estinzione, fa- gocitata dalla società dei consumi di massa che ha stravolto non solo il nostro modus vivendi, ma anche quello scrigno di ricordi e testimonianze preziose rac- chiuse nel centro storico leccese. Il cuore della Firenze delle Puglie è invaso, so- prattutto di sera, da giovani alticci o da turisti alla ricerca del pub meno costoso, tra quelli che si affacciano a decine su strade e vicoli dell’antico borgo. Turbati da questi segni di degrado spirituale, ci chiediamo: è ancora vivo l’amore e il rispetto per le testimonianze della civiltà salentina? Abitano ancora qui l’arte e la poesia? Forse se ci addentriamo nel dedalo di viuzze, in quei vicoli solitari che dall’antico convitto “Palmieri” conducono fino al “Vescovado” o al Monastero delle Benedettine o alla Chiesa greca, possiamo ancora riscoprire qualche traccia

5 Cfr. F. Lupo, Lecce mia, poesie dialettali, Galatina, Editrice Salentina, 1976, pp. 67-68. 6 Ivi, p. 51. 7 Ivi, p. 53. 8 Ivi, p. 141. 9 F. Lupo, Lecce mia, cit. 10 Id., Cose de Ddiu, …un po’ di Bibbia in dialetto leccese, Galatina, Editrice Salenti- na,1984. 11 Id., Gènte bòna, cit. 12 Id., Lecce mia, cit. p. 95. 13 Ivi, p. 93. 14 Ivi, p. 97. 15 Ivi, p. 99. 16 Ivi, p. 101.

172 Lidia Caputo

di una civiltà in via di estinzione. Svoltando in una delle cosiddette “curti” ci im- battiamo in un’edicola dedicata alla Vergine Maria, con l’icona e la cornice an- nerite, sulla mensola di pietra consunta un portafiori da cui occhieggiano alcune violette dal profumo penetrante. Inebriati, con gli occhi chiusi per custodire l’in- tensa emozione, è come se in quell’attimo varcassimo spazio e tempo e tornas- simo a sentire sapori, profumi, canti della nostra infanzia. Sono sensazioni vive e palpitanti, come quelle che avvertiamo leggendo i versi di Don Franco Lupo, i quali, come in un caleidoscopio rifrangono i molteplici aspetti della “Capitale del Barocco”: la miseria, la disoccupazione, il rimpianto per una civiltà decadu- ta, ma pronta a risorgere nel segno dell’amore per le proprie radici e della fede millenaria. Nella poesia di Lupo l’immanenza si coniuga con la trascendenza, anche quando non vi è un esplicito riferimento ad una dimensione oltremondana. Ogni essere, ogni accadimento, ogni stato d’animo, sono permeati da una ten- sione verso il senso primigenio e ultimo della realtà. Impercettibilmente il poeta fa trasparire in filigrana una dimensione indicibile e inafferrabile, in cui finito e infinito, cielo e terra, tempo ed eternità si incontrano anche nella quotidianità dell’esistenza terrena. Accade così che durante la lettura delle composizioni di Don Franco, avvertiamo un senso di pace e di cosmica armonia. Nella poesia di Don Franco Lupo anche l’essere più misero o emarginato conserva l’anelito verso la giustizia e la speranza nell’aiuto divino17. Leggiamo ne La cambiale: Fènca nci su’ cambiali, còre miu, ulámunde a llu ièntu muti wai, nu nci pensare, ca ni juta Ddiu, teramu òšce, pòi pensamu a craj. L’abbandono fiducioso alla Provvidenza divina, evidenzia il distacco dalle preoccupazioni quotidiane, rafforzato dall’espressione ulámunde a llu ièntu. Anche il piccolo universo degli affetti familiari costituito dalle icastiche figure de La mamma18, Lu tata (Il papà)19, Lu piccinnu (Il bambino)20, La figghia se sposa21, non costituisce un hortus conclusus, gelosamente e nostalgicamente custodito, un rifugio in cui ritrovare i sogni e la tenerezza di un passato ormai remoto, ma è ancora vivo al centro del pensiero poetante, si fa carne e sangue che vivifica il passato, rendendolo presente. Così attuale è ancora nella com- posizione Lu tata la narrazione in prima persona del figlio che, rientrato dopo

17 Ivi: Lu capellone, p. 103; ivi, La bizzoca, pp. 117-118; ivi, La cambiale, pp. 127-128. 18 Ivi, pp. 45-47. 19 Ivi, pp. 51-52. 20 Ivi, pp. 53-56. 21 Ivi, pp. 59-60.

173 Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo

molti anni a casa per riabbracciare il padre, lo trova cambiato e invecchiato: Sta bbègnu de luntanu, e doppu tantu tiempu te sta bbisciu… comu t’á šciú cangiatu!... Ca tie si’ bbècchiu jèu num bògghiu crisciu. Eppure, il rammarico per il decadimento fisico del padre viene subito ri- mosso dalla constatazione che il cuore del vecchio genitore è ancora giovane e palpita d’amore per il figlio ritrovato: Ma nc’è nna cosa sula ca nu se cangia, tata, e bbè lu còre… Lu bene ca me uei. Se tie sí bècchiu, è giovane l’amore22. Dal ritratto di un evento contingente, la fantasia del Nostro vola talvolta ver- so la dimensione ultraterrena come nella lirica L’angelu de petra. L’essenza im- mortale dello spirito pervade anche le pietre che si animano e sembrano parlare con gli stessi accenti teneri e soavi della figlia morta: Ma wárda wárda ḑḑ’angelu de petra, me pare la piccinna mia carusa, me pare ca me parla e ca se spetra Ulia me parla e cu me tica: “Tata, essimu ansièmi pe nna spassíáta, è bèḑḑa sta šciurnata… sciamu fore… sta petra è fridda fridda… senza còre…23 Lo stupore del poeta dinanzi alla pietra che si anima e assume le leggiadre sembianze della bambina viene evidenziato dall’iterazione dell’imperativo war- da e nei due versi successivi dall’anafora me pare. Vigoroso come un neologi- smo dantesco è il verbo se spetra in rima alternata con petra. La potenza icastica del verso è corroborata dall’allitterazione della consonante “r” che sembra fran- tumare la durezza della pietra e liberare la vita celata in essa. Il tenero dialogo tra la figlia-angelo e il padre nei versi finali, dopo la tensio- ne e lo sforzo iniziali, sottolineati dall’assonanza della “u” e della “i”, nonché dall’allitterazione della “t”, si attenua nei versi seguenti in un sussurro eviden- ziato dalla lettera “s” ricorrente nove volte. Quest’ultima preannuncia anche il silenzio incombente che avvolgerà il padre e la figlia ormai ritornata «fridda fridda… senza còre…» come la pietra.

22 Ivi, p. 51. 23 Ivi, pp. 55-56.

174 Lidia Caputo

Un afflato di tenerezza pervade altresì la poesia Sunettu a llu mmamminu24, affine tematicamente ad una poesia di Erminio Giulio Caputo, dall’identico tito- lo25. Nella lirica di Lupo, come in quella di Caputo le piaghe della società umana trovano sollievo e conforto nella misericordia divina. Il tono colloquiale con cui entrambi si rivolgono al fanciullo divino segna l’intimo legame tra la religiosità popolare e la dimensione cosmica della salvezza: Essa è incarnata nella poesia di Lupo dal pargoletto che stende la sua manina per sollevare verso Dio tutti gli uomini, anche i malvagi: O mmamminièḑḑu, tie te sai rranciare, scárfanni tutti de l’amore tòu, mparani ntòrna comu s’a preáre, dinne a ci è riccu ca nu tuttu è sòu… Stièndi la manicèdda, mmamminièḑḑu, nnanzi la rutta tutti nnui mentimu, lu tristu, lu lardusu e lu perièḑḑu… sta chiangi ncòra e ncòra te sentimu. L’eco del pianto divino diviene simbolo di una pena universale, destinata, però a purificare l’Umanità dal peccato e renderla degna della redenzione. La tensione agonica dall’Immanenza alla Trascendenza nella scrittura poe- tica di Franco Lupo perviene alla sua pienezza nella Bibbia popolare in dialetto leccese, Cose de Ddiu, che ha la struttura di una sinfonia il cui Leitmotiv è la luce che vince le tenebre26. Gli episodi biblici, nonostante presentino eventi e personaggi differenti, sono ugualmente pervasi da una grazia soprannaturale, da un sentimento del sacro che li eleva, nonostante gli errori ed i limiti umani, verso la redenzione. Questa dimensione teleologica è evidente nelle composizioni Lu ddeluviu27, La petra28, La Legge29, Fermate, sule!...30. Don Franco possiede quella capacità straordinaria di far parlare donne e uo- mini della Bibbia nel nativo dialetto salentino, dischiudendo anche alla gente umile e incolta della sua città un patrimonio religioso universale, senza mai tra- dire il senso del messaggio divino. Pertanto non condivido l’osservazione di Salvatore Colonna, prefatore del

24 Ivi, Sunettu allu Mmamminu, pp. 159-160. 25 E.G. Caputo, Biancata, tomo II, pp. 46-48, Galatina, Congedo, 2001. 26 F. Lupo, Cose de Diu …un po’ di Bibbia in dialetto leccese, Galatina, Editrice Salentina, 1984. 27 Ivi, p. 17. 28 Ivi, p. 26. 29 Ivi, pp. 29-30. 30 Ivi, pp. 32-33.

175 Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo

volume, il quale sostiene che «L’autore è identico sempre, sia che si tratti delle “cose di Lecce” sia che si tratti delle “cose de Ddiu”. Le une e le altre sono vi- ste sempre in chiave umana […]. Non si tratta delle “cose de Ddiu”, ma delle “cose dell’uomo”, di quell’uomo di ogni giorno, che durante la sua storia fa i conti anche con Dio»31. A mio modesto avviso, invece, Franco Lupo non riduce l’esperienza spirituale ad aspetti contingenti legati all’hic et nunc del suo tempo e della sua terra natia. Mediante il potere trasfigurante della sua arte il poeta eleva le miserie, le lacrime e i momenti di felicità terrena a simboli di una sof- ferenza e di una redenzione ultramondana. Sulla soglia della disperazione e del “nulla”, come possiamo leggere nella poesia Isaccu, l’inatteso intervento divino rappresenta la vicinanza di Dio alle vicende umane, così da tramutare l’angoscia della morte in esultanza per la vita32. Già ne Lu primu giurnu33, composizione proemiale della silloge Cose de Ddiu, il verbo divino fiat lux E« ssía la luce!..» irrompe e fa risplendere tutto il creato che eleva a Dio una lode corale simile al Cantico delle creature del poverello di Assisi. A differenza però dell’inno francescano, in questa composizione sono le stesse creature che, in un ritmo ana- pestico, scandito dalle frequenti anafore, intonano per il loro Signore un canto armonioso: «…E ssía la luce!...» disse lu Signòre «…la luce de nnu sule a mmenzatía…». E lluce fòi sull’acqua …cce spiandòre!… Ncignáa la vita còmu sinfunía…34 L’anafora della “luce”, ripetuta tre volte viene ulteriormente rafforzata dall’e- sclamazione in dialetto cce spiandòre!… in cui traspare lo stupore popolare per la rifrazione della luce sull’acqua che diviene essa stessa splendore. Quella ar- moniosa corrispondenza costituisce l’inizio della sinfonia, intonata pe tutte le criature de la tèrra35. Talvolta le tenebre sembrano prevalere come nelle composizioni Lu primu wai36, Lu primu sangu 37, All’urmu de la vita38, Se fice scuru39, che rappresentano non solo la sconfitta dell’uomo, ma anche la sconfitta divina. Eppure la luce prevale nella maggior parte delle liriche, insieme al fuoco,

31 Ivi, p. 8. 32 Ivi, p. 18. 33 Ivi, p. 13. 34 Ivi. 35 Ivi. 36 Ivi, p. 14. 37 Ivi, p. 16. 38 Ivi, p. 48. 39 Ivi, p. 110.

176 Lidia Caputo

simbolo in primis della potenza infinita di Dio40, ma anche della forza vivifica- trice dello Spirito Santo41. Don Franco Lupo ha saputo coniugare magistralmente in quest’opera la fra- gilità umana con la misericordia divina, evidenziando, tuttavia, che le miserie e le cadute sono tappe della Storia della Salvezza e che gli eventi umani hanno un senso non racchiuso nell’orizzonte terreno, bensì illuminato dalla prospetti- va oltremondana. Pertanto la densità teologica ed escatologica dei versi di Don Franco viene testimoniata sia dalle composizioni ispirate all’Antico Testamento come ne La Legge42, Signure miu43, potente rilettura del Salmo 33,3 o nella vi- sione profetica di Isaia, Sta bbisciu44, sia dalle poesie che ci presentano in uno stile vivace e limpido alcuni degli episodi più pregnanti del Nuovo Testamento. Nella seconda parte della silloge di Franco Lupo l’incontro con Cristo ab- braccia tutte le componenti dell’uomo: il suo ambiente, i parenti, gli amici, le sofferenze della carne e dello spirito, colmandoli di grazia soprannaturale, come nei versi di Miraculu! (Lc. 5. 18-20): E llu purtara nnanzi llu Signòre subbra nnu lièttu fattu de pagghiara, intru nna casa china fènca ffore, de su la lámia, chianu, lu calara. […] An fundu a ll’ècchi Cristu lu wardàu, ni tisse: “Lu peccatu è perdunatu!” E ppe nnu razzu, forte, lu zzeccàu. Meráculu!...Meráculu!... nc’è statu!...45. Lo sguardo penetrante del Signore non solo ha una straordinaria capacità co- municativa, ma anche performativa, poiché scende fin negli abissi dello spirito e della carne, liberandoli contemporaneamente dal peccato e dalla malattia. Questo sinolo tra salvezza materiale e spirituale è stato di recente approfondito da uno studioso come Raimon Panikkar il quale sottolinea che l’incontro con il Signore coinvolge tutte le componenti dell’uomo: corpo, anima, razionalità e inconscio, fini- to e infinito. Dall’unione mistica tra il Cristo e l’uomo si genera il Cristo Cosmico, in cui materia e spirito, cielo e terra, tempo ed eternità sono una cosa sola46.

40 Ivi, pp. 27-28. 41 Ivi, Chini de fuecu, pp. 149-150. 42 Ivi, pp. 29-30. 43 Ivi, p. 54. 44 Ivi, p. 67. 45 Ivi, p. 87. 46 R. Panikkar, La pienezza dell’uomo, una Cristofania, Milano, Jaka Book, 2008, p. 226.

177 Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo

Soprattutto nei testi poetici di Don Franco, ispirati ai passi del Nuovo Testa- mento, l’io individuale cede il passo ad una dimensione intersoggettiva e tra- scendentale, che proietta i singoli ego in un Noi Trinitario che abbraccia tutta l’Umanità. L’immanenza, pertanto, cede il posto alla trascendenza, il peccato è vinto dalla Grazia redentrice, la storia è inghiottita dall’Eternità, come viene profetizzato nella Seconda lettera ai Corinzi di San Paolo. Le pène de stu mundu ca a mmurire am paraísu ccògghienu la cròria, ‘gne ccòsa de sta tèrra a sci’ffinire quandu l’eternità gnutte la stòria47.

47 F. Lupo, Cose de Diu …un po’ di Bibbia in dialetto leccese, cit., p. 160.

178 Canti nel periodo dell’occupazione dell’Arneo

Luigi Spagnolo

A metà del Novecento, un periodo interessante dal punto di vista sociale è quello delle lotte contadine nelle diverse zone del Salento. In molti comuni, da Trepuzzi a Squinzano, da Scorrano a Maglie, da Ugento a Melissano, da Nardò a Porto Cesareo (non ancora autonomo da Nardò) i contadini si attivarono per dare vita a occupazioni di terre incolte e da bonificare. Nella lunga fascia di terre alle spalle delle ben conosciute località turistiche di Santa Caterina, Sant’Isidoro, Porto Cesareo e Torre Lapillo, la lotta fu abba- stanza cruenta e la repressione vide l’intervento persino dell’esercito. Il poeta e giornalista salentino Vittorio Bodini così descrive il comprensorio dell’Arneo, in un suo celebre articolo sulla rivista milanese Omnibus1: «L’Arneo è un grosso bubbone sull’incrocio delle tre province che formano il Salento: Lecce, Brindisi e Taranto. Ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni la parte maggiore, e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva d’acqua, di comunicazioni e di ogni altro segno umano che non si- ano i cartelli di caccia riservata, rientra nella provincia di Lecce: 28.000 ettari, di proprietà quasi tutti del senatore Tamborino. La popolazione del Leccese è tutta ammucchiata e compressa dal lato dell’Adriatico; sul versante ionico, da Nardò fino a Taranto non c’è nulla, c’è l’Arneo, un’espressione vagamente favolosa, come nelle antiche carte geografiche quei vuoti improvvisi che s’aprivano nel cuore di terre raggiunte dalla civiltà. Da notare che Tamborino, e ora i suoi figli a cui le ha intestate, non pagano tasse per queste terre considerate improduttive»2.

Siamo quindi nel comprensorio dell’Arneo verso la fine del 1949: i contadini ed i braccianti chiedevano di lavorare e coltivare quelle terre abbandonate dai latifondisti per cercare di garantire alle proprie famiglie un futuro dignitoso, senza disoccupazione e povertà. L’occupazione delle terre dell’Arneo si protrae dal 3 dicembre 1949 al 3 gen- naio 1950 ma la limitatezza delle concessioni, legata alla reazione degli agrari, e la lentezza delle procedure burocratiche per l’assegnazione spinsero i lavoratori e i contadini a scendere in lotta, nuovamente, l’anno successivo. La seconda fase

1 Omnibus nacque nel 1937 a Milano, come settimanale da Leo Longanesi ed edito da Rizzoli. Era costituito da dodici pagine di politica e cultura correlate da importanti fotografie. Soppresso nel 1939, riprese la pubblicazione nel 1946. 2 V. Bodini, L’aeroplano fa la guerra ai contadini, in «Omnibus», 4 febbraio 1951.

179 Canti nel periodo dell’occupazione dell’Arneo

dura circa una settimana, dal 28 dicembre 1950 al 3 gennaio del 1951. A questa protesta, lo Sta- to risponde con una repressione spesso brutale e indiscriminata, arrivando ad impegnare, per lo sgombero, numerosi reparti dell’esercito e utilizzando addirittura un aeroplano. Di forte valore simbolico è la distruzione delle numerose biciclette di cui i contadini si servivano per i loro spostamenti quotidiani. Apparentemente insignificante e di scarso va- lore commerciale, diremmo oggi, la bicicletta rappresentava un bene prezioso e per la qua- si totalità dei braccianti, sicuramente l’unico mezzo di locomozione. «È la cosa più atroce che si poteva fare a un figlio di mamma! Un figlio lo si sostituisce fin troppo presto, ma la L’occupazione delle terre. bicicletta distrutta significherà migliaia di chi- lometri a piedi e notti passate nella nuda cam- pagna, anche d’inverno»3 diceva un contadino sul posto. Una vasta produzione letteraria, costituita da saggi ma anche da romanzi, ha poi fatto conoscere i fatti e le vicende relati- ve a tale momento storico. Quella che forse è meno conosciuta è la produzione dei canti di lotta legati a quel pe- riodo. Tra questi, tre in particolare sono con- tenuti nella raccolta Canti di Terra a cura di Alessandro De Blasi e Luigi Spagnolo4. Chi volesse ascoltare le registrazioni originali dei brani si può rivolgere all’autore del pre- sente articolo. Una particolarità di questi tre canti è che sono stati scritti tutti in lingua Salvatore Rizzo. italiana e non in dialetto salentino e ciò fa- rebbe pensare come gli autori fossero coscienti dell’importanza storica di ciò che stava accadendo nell’Arneo e quindi della necessità, quasi un dovere morale, di affidare alle future generazioni di tutta la penisola italica, e non solo di quelle salentine, la memoria di quei giorni.

3 G. Prontera, Una memoria interrotta, Lecce, Edizioni Aramirè, 2004, p. 95. 4 A. De Blasi, L. Spagnolo, Canti di terra (raccolta di canti della tradizione orale tra le province di Lecce e Brindisi), Veglie, Arti Grafiche, 2011.

180 Luigi Spagnolo

La prima, dalla melodia abbastanza semplice e facilmente cantabile, si chia- ma Arneo. Come dice Salvatore Rizzo, di Salice Salentino, «l’abbiamo fatta là sul posto, durante l’occupazione, e la cantavamo»5. In relazione a questi canti di protesta, Salvatore Rizzo (Totò Rizzo), nato a Salice Salentino (Le) il 21/12/1929, è stato l’informatore principale. Bracciante agricolo, attivista del Partito Comunista di Salice Salentino, è stato segretario della F.G.C.I. di Salice dal 1951 al 1961. Attualmente, da pensionato, dopo una vita passata a lavorare, si dedica, quando possibile, ai suoi adorabili nipotini.

Arneo

Sulle terre incolte d’Arneo noi porteremo la vita ed il lavoro, darem le terre a tutti coloro a cui l’agrario per anni negò. Per anni e anni noi fummo derisi dai governi, dai preti e signori che con i mitra ci tennero divisi negando a noi il pane e il lavor. Sulle terre incolte d’Arneo noi porteremo la vita ed il lavoro, darem le terre a tutti coloro a cui l’agrario per anni negò. Or nella lotta più forti noi siamo Più con i mitra fermarci non potranno Le terre incolte che noi conquistiamo Noi contadini fruttarle farem. Sulle terre incolte d’Arneo noi porteremo la vita ed il lavoro, darem le terre a tutti coloro a cui l’agrario per anni negò. E forte in faccia noi tutti gridiamo e d’Arneo una voce innalziamo non più cannoni, trattori vogliamo e non più guerra ma pace e lavor.

5 G. Prontera, Una memoria interrotta, cit., p. 79.

181 Canti nel periodo dell’occupazione dell’Arneo

La seconda canzone, Cantiamo al sole, il cui nome ri- chiama in modo evidente una certa simbologia socialista, venne probabilmente composta tra la prima e la seconda occupazione. Arneo e Cantiamo al sole sono state registrate a più ri- prese da Luigi Lanza tra il 1999 e il 2006 e sono interpreta- te da una protagonista di quel periodo, la vegliese Cosima Frassanito (vedova Carrozzo)6. Cosima ricopriva, in quei mesi di occupazione poco più che ventenne, un ruolo di Cosima Frassanito. supporto e solidarietà. Nei giorni di occupazione il freddo era intenso e vivere all’addiaccio non era facile. Ancora Salvatore Rizzo ci ricorda: «Nei paesi si era creato un comitato di solidarietà. Cosa facevano questi comitati? Giravano negli alimentari, nelle famiglie e raccoglievano della roba da mangiare per mantenere l’occupazione. […] Avevo fatto una casa di legno e tutto quello che portavano si metteva lì dentro e poi durante il mezzogiorno si prendeva quella roba e si dava alle persone per poter mangiare, c’era del vino, c’era un mondo di roba»7.

Cantiamo al sole Cantiamo al sole il canto della vita e del lavor ma la speranza porterà nel cuore come si porta su l’uccello un fior Ma i campi ci daranno spighe d’oro l’acciaio incandescente per noi splenderà compagna per i tuoi figli anche lavoro lottiamo insieme per l’umanità Splenderà la prima stella con la certezza d’ogni cuor per noi domani la vita è bella e sorriderà nelle conquiste del lavor Compagna che lavori duramente col braccio e con la mente e con ferma volontà uniti andiamo incontro all’avvenire più fulgido del sole per noi dovrà apparir. Splenderà la prima stella con la certezza d’ogni cuor Per noi domani la vita è bella E sorriderà nelle conquiste del lavor.

6 A. De Blasi, L. Spagnolo, Canti di terra (raccolta di canti della tradizione orale tra le province di Lecce e Brindisi), cit., p. 11. 7 G. Prontera, Una memoria interrotta, cit., p. 65.

182 Luigi Spagnolo

Subito dopo l’occupazione, sem- pre Salvatore Rizzo compone Nel cielo tutto azzurro. Questo canto poli- tico abbraccia tematiche più generali, come la guerra e il lavoro, e ci ricorda la passione con cui si partecipava alla vita politica della giovane Repubblica italiana. Ad interpretare tale brano è Cosimo Palazzo, di Salice Salentino. Cosimo Palazzo appartiene invece, ad una famiglia di musicisti-intratte- Cosimo Palazzo. nitori. Musicisti, perché tutti i fratelli Palazzo (e spesso anche i loro figli) posseggono una chitarra o comunque uno strumento musicale; intrattenitori perché, nelle calde serate estive, solevano in- trattenere quanti, spossati dal caldo e dal lavoro nei campi, si concedevano un meritato riposo serale, seduti sull’uscio della propria abitazione.

Nel cielo tutto azzurro

Nel cielo tutto azzurro un pò brillante c’è una falce e un martello scintillante un panno rosso sopra la sostiene tutta la gente aspetta che essa viene Vola canzone diglielo tutti quaggiù ti aspettano ma se il governo non vuol tutti quanti uniti sarem per affrontar l’oppressor L’american la guerra voglion fare noi tutti quanti la dobbiam impedire la guerra che arricchisce il capitale e fa morir ogni lavorator Vola canzone diglielo tutti quaggiù ti aspettano ma se il governo non vuol tutti quanti uniti sarem per affrontar l’oppressor.

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Eros e Priapo: la Mussolineide di Carlo Emilio Gadda

Marcella Rizzo

«Vorrei, e sarebbe il mio debito, essere frenòlogo e psichiatra da poter indagare e conoscere con più partita perizia/la follia tetra d’un gaglioffo ipocalcico dalle gambe a roncola, autoerotòmane, eredoalcoolico ed eredoluetico: e luetico in pro- prio. Dal descrivere e pingere in aula magna que’ due mascelloni del teratocèfalo e rachitide babbeo, e l’esoftalmo dello spirito basedòwico, le sue finte furie di scacarcione sifoloso […]»1.

Ci sono libri che hanno un effetto deflagrante per temi, ricerca e innovazione linguistica. Eros e Priapo è uno di questi. La sua vicenda è quanto mai complicata. Tormentato nella stesura e complicato nella sua vicende editoriale, fu pubblicato nel 1967 in una versione sforbiciata e di compromesso da Garzanti. L’edizione garzantiana mostra come il lavoro di correzione si sia concentrato soprattutto sul- la resecazione dell’osceno, sull’attenuazione dell’invettiva, sull’occultamento di luoghi, fatti o persone e sull’eliminazione di ogni riferimento personale e autobio- grafico. Oggi viene pubblicata la versione originale di Eros e Priapo datata 1944- 1945, grazie all’autografo trovato nell’Archivio Liberati di Villafranca in provin- cia di Verona, che restituisce il testo alla propria chiarezza, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti per Adelphi. Eros e Priapo è un feroce libello anti-mussoliniano, un «libello solforoso», scritto più in risposta ad una tardiva delusione delle spe- ranze giovanili riposte nel Fascismo, che ad una convinta repulsione nei confronti dello stesso movimento. Notoriamente attratto dal fascismo come buona parte dei giovani di allora, Gadda è forse altrettanto precocemente antimussoliniano, o al- meno così arriverà a credere e a far credere ai suoi lettori, se il suo antimussolini- smo è ben presente nel Quer pasticciaccio brutto de via Merulana la cui azione è datata 1927. Peter Hainsworth a proposito afferma: «Il fascismo di Gadda era certo anticonformista, ma non era un elemento inci- dentale o accidentale della sua esperienza e della sua opera durante il Ventennio. Sebbene possa sembrare oggi ingenuo o illuso, egli era convinto di dare al regime un appoggio misurato e meditato. Il fascismo rispondeva al suo bisogno di ordine e di dignità in un mondo che, secondo la sua traumatica esperienza durante e dopo la prima guerra mondiale, era stato privato di entrambi. Esso offriva la possibilità di armonizzare le differenze politiche e sociali, anche se le disarmonie fonda- mentali della vita e dell’io non avrebbero potuto essere cancellate, e di restituire

1 C.E. Gadda, Eros e Priapo, Milano, Adelphi, 2016, p. 16.

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ordine e dignità all’Italia dopo il caos del liberalismo, il cui culmine era stato, per lontano che fosse il collegamento, la disfatta di Caporetto»2. Il libro è quindi un atto di accusa violento e oltraggioso destinato a suscitare «scandalo non piccolo nei cuori pudibondi», come confessa Gadda a Falqui3. E come se a libro ormai delineato, Gadda si rendesse conto che il testo cui sta lavorando è una bomba che minaccia di esplodergli fra le mani. E cerca di caute- larsi quasi cominciasse a chiedersi se sia davvero pubblicabile. Tanto che pensa a delle contromisure in perfetto stile Gadda (come nell’Adalgisa) cioè a «note filologiche scherzose riguardanti il costume, la memoria dei fatti di costume o semplicemente di alcuni fatti, magari minimi, a delucidazione del testo»4. In Eros e Priapo Gadda ripercorre il ventennio in chiave satirica, attraverso un’ana- lisi psicoanalitica del fenomeno. Protagonista indiscusso è Mussolini, mai citato direttamente nel corso dell’opera se non attraverso una vasta quantità di appel- lativi e nomignoli dispregiativi: appestato, batrace, bombetta, maramaldo, fava, farabutto, impestato, Gran Somaro, Gran Pernacchia, merda, Fottuto di Predap- pio, Provolone, Finto Cesare. Secondo lo scrittore, il Duce riuscì ad ottenere il consenso spostando l’attenzione della popolazione dal piano politico-ammini- strativo al piano emozionale, producendo una fascinazione collettiva non basata su atti pratici, ma su immagini suggestive. Con un tono spesso violento e con un linguaggio decisamente complesso e straniante per via di quello sperimenta- lismo linguistico che sfocia nel «plurilinguismo», lo scrittore si scaglia contro il regime fascista, passando in rassegna i disastri del ventennio: le inutili guerre colonialistiche in Africa, l’assenza di libertà di stampa, di pensiero, di culto, il disastroso assetto economico per via della rigida politica autarchica, l’alleanza con il governo nazista e la conseguente entrata in guerra, distruzione e povertà estrema negli anni del post-guerra. Ciò che sta alla base dell’opera è dare una spiegazione alla nascita e alla legittimazione del fascismo da parte del popolo italiano, spiegazione che si rifà alle teorie psicanalitiche e darwiniane di cui Gadda era un discreto conoscitore. Ecco che allora il narcisismo degenerato in psicosi di Mussolini si intreccia con il masochismo e l’idolatria perversa degli italiani a cui sono attribuiti caratte- ri femminili in senso dispregiativo. Sappiamo che Gadda era un omosessuale e che non stimasse particolarmente il gentil sesso, contro cui usa una serie di stereotipi misogini. Gadda realizza una nuova filosofia della storia finalizzata

2 P. Hainsworth, Gadda fascista, sito http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/archi- ve/fascism/hainswfasc.php. 3 C.E. Gadda, Lettere a Falqui e Gianna Manzini (1944-1957), a cura di A. Mastropa- squa, in «I quaderni dell’ingegnere», 5 (Nuova Serie), Milano, Fondazione P. Bembo/Guanda, 2014, p. 103. 4 Ivi, p. 103.

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allo smascheramento della falsità del fascismo, descritto come un mito d’ac- catto, una grande e grossa bugia. Per questo la storia usata dallo scrittore è una controstoria, ben lontana dall’apologia, attraverso la quale si possono conoscere elementi positivi e negativi, tutti che ribollono in un metaforico calderone. Non è una storia del Logos ma dell’Eros, mossa continuamente da pulsioni erotiche che condizionano freudianamente il genere umano. Così, come Virgilio, citato diverse volte, si fa celebratore del filoimperialismo augusteo, Gadda diviene un celebratore dell’antifascismo, parodiando sarcasticamente e grottescamente il Duce. Eros e Priapo è quindi non solo uno dei testi più estremi della nostra lette- ratura, ma alla luce della versione originale si rivela molto di più di un pamphlet antifascista e una deflagrazione di rabbia contro il «kuce [...] un gradasso, uno scacarcione e ladro: faccia ‘e malu culori, capo- camorra che distribuisce le coltella a’ ragazzi, pronto sempre da issù poggiuolo a dismenire ogni cosa, a rimentire ogni volta. Questo, ventun’anno! Ventun anni di boce e di urli soli del luetico, come ululati di un bieco lupo in tagliola: e di sinistri berci de’ sua complici, in ogni piazza d’Italia, e de’ sua servi acclamanti: e ‘l rimanente… muto e scancellato di vita. Ventun’anno: il tempo migliore d’una generazione, ch’è pervenuta a vecchiezza a traverso il silenzio. Per silentium ad senectutem »5. Eros e Priapo è quindi un atto di denuncia e di auto denuncia e insieme un’au- tobiografia nazionale che indaga le ragioni profonde della storia recente di un intero popolo, dopo aver mostrato lo strazio della sua distruzione morale e ma- teriale. Nell’ottobre del 1922, quando l’Italia si sveglia sotto il fascismo, Gadda stava organizzando il suo viaggio da emigrante in Argentina. A Buenos Aires si iscrive e partecipa alle riunioni e iniziative della comunità italiana legata al fascismo. C’è da sottolineare che per Gadda fascismo e patriottismo sono una cosa sola; in questo senso il fascismo è per Gadda un atto mancato, legato al nazionalismo. Anche dopo il delitto Matteotti Gadda continua a «simpatizzare», così come dopo le leggi fascistissime del 1925. Nel 1934 si tessera al partito e nel 1935 è in contatto con i GUF (Gruppi Universitari Fascisti). I rapporti con il fascismo sono però un viluppo di ambiguità, e nel 1944 comincia la svolta. Dalla campagna toscana in cui si è rifugiato, fuggendo le bombe, scrive delle lettere, ora perdute, all’amico Lulù Semenza, nelle quali esprime la sua angoscia per i bombardamenti, per la mancanza di notizie della sorella e si aggiunge un nuovo tormento, un senso di colpa che l’amico contribuisce ad istillare. In una lettera del 16 marzo del 1944 Semenza scrive a Gadda: «Anche se nella tua ultima lettera non vi fosse un accenno esplicito alle tue condi- zioni di nervi, le avrei indovinate dalla crisi di “mea culpa” in cui ti abbandoni in

5 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 243.

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modo aberrante. Rimorsi, pentimenti: e chi non ne ha? Quanti, guardando indie- tro, non vorrebbero aver agito diversamente? Questo è il destino della vita [...]»6. Tornato a Roma inizia subito a scrivere. Non solo una requisitoria contro il fascismo e il suo duce, ma, utilizzando la psicoanalisi come chiave di decifrazio- ne, un trattato che metta in luce i comportamento del «popolo, delirante d’amore per il suo duce»7. La verità che Gadda vuole mettere a nudo, quindi, non è tanto e non solo il delirio esibitivo, il priapismo narcisistico di Mussolini, ma l’eroti- smo «naturale» di ciascuno dei suoi quarantaquattro milioni di sostenitori. Ma se l’intento di Gadda fosse stato solo quello di scrivere un libello antimussoliniano «il titolo più adatto sarebbe stato Eros e Logos, che avrebbe polarizzato la di- cotomia su cui poggiava la sua personale ricostruzione del ventennio fascista»8, mentre in Eros e Priapo il priapismo del «Kuce è posto in alternativa ad un Eros liberato che […] agisce sotterraneamente come motore delle azioni umane»9. Quindi il libro è sì un atto di accusa contro le nefandezze del regime e la sotto- missione di un intero popolo al delirio narcisistico del Duce, ma è insieme uno strumento di autocoscienza collettiva, una messa a nudo del rapporto tra pulsio- ni erotiche, la loro degenerazione priapica e la loro sublimazione. In sostanza, si tratta di un trattato sul carattere «narcissico» degli italiani, carattere che in Mussolini ha avuto il suo esempio più violento mettendo in luce il rapporto tra narcisismo individuale e l’incapacità delle masse a frenare la loro propensione all’idolatria narcisistica (narcissico/narcissica è forma letteraria di «narciso» con l’aggiunta del suffisso -ico, termine con un elevato numero di occorrenze in tutta la produzione letteraria gaddiana). Nel capitolo III intitolato «Erotia narcissi- ca o autoerotica», Gadda fa una attenta analisi dell’evoluzione narcissica del fascismo e di tutte le sue componenti. Qui l’aggettivo ritorna costantemente: carica «narcissica o autoerotica», «schizofrenia e follia narcissica, «follia nar- cissica», ecc. La tematica del narcisismo rimanda chiaramente all’esibizionismo del Duce, riscontrabile nelle parate sfarzose, nelle sue imprese belliche, nella centralità e nell’importanza occupata da Mussolini nelle adunate a piazza Vene- zia davanti al pubblico italiano. Da notare come l’aggettivo «narcissico» viene spesso accompagnato da «folle», evidenziando il carattere «psicotico» e patolo- gico del narcisismo mussoliniano. Di pari passo il «priapismo» mussoliniano è stato quindi reso possibile dall’ Eros di quaranta e passa milioni di italiani. La fragile virilità di Gadda si confronta con la prepotente virilità di Mussolini, l’uno e l’altro soffrono della stessa sindrome “narcissica”. Gadda qui è come Musso-

6 Archivio Bonsanti, 615.325. 7 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 83. 8 Ivi, Note al testo a cura di P. Italia e G. Pinotti, p. 411. 9 Ivi, Note al testo a cura di P. Italia e G. Pinotti, p. 412.

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lini: esibizionista, innamorato di se stesso, sprezzante, voglioso di stupire e di essere ammirato. La rabbia certamente non nasce da questo, ma l’improperio ha anche una motivazione psichica oltre che storica. Il narcisismo degenerato in psicosi di Mussolini si intreccia con il masochismo e l’idolatria perversa degli italiani a cui sono attribuiti caratteri femminili in senso dispregiativo. Nel capi- tolo II, Gadda spiega «la causale del delitto» cioè: «i torbidi moventi che hanno costituito la banda assassina l’impulso primo verso una serie di azioni criminali, è una causale non esclusivamente ma prevalente- mente “erotica” (nel senso lato che, come avrete avvertito, io conferisco al voca- bolo) nel suo complesso: segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi del Logos […] il pragma della banda di ladri e di assassini e del loro capintesta è un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una turpe lubido di posses- so, di comando, di cibo, di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozi non sublimata da nessun movente etico-politico, da umanità o da carità vera, da nessun senso artistico umanistico. Si tratta per lo più di poltroni, di gingilloni, di senza-mestiere, dotati soltanto d’un prurito e d’un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il cortocircuito della carriere attraverso la “politica”: inten- dendo essi per politica i loro di portamenti camorristici»10. La furia contro il fascismo è inscrivibile all’interno di una forte volontà di co- noscenza della realtà empirica, analizzata nei suoi vari aspetti e concepita come dinamica ed in continua evoluzione. Ed il reale diviene oggetto di conoscenza all’interno della letteratura e la scrittura letteraria è per Gadda l’unica capace di riformulare conoscitivamente il mondo: è tramite la sua mediazione che la «pluralità sconcia» del reale può farsi accessibile al soggetto. È il mondo umano il bersaglio di questa virulente critica: così come ne La cognizione del dolore bersaglio è il mondo dei nuovi ricchi che per darsi importanza utilizzava tutto il ventaglio di «fronzoli, olivette di corniolo o di osso lucidato, passamanerie assortite», «adorni di bottoni di straordinaria lucentezza»11 con un orologio d’o- ro a braccialetto. O nel Pasticciaccio dove Gadda dà sfogo alla sua decantata misoginia nelle presentazioni della Menegazzi e di Zamira, donne-streghe, che fanno, stilisticamente, da contrappeso alla figura liricizzata di Liliana, e che sono l’immagine sintetizzata di quello che si può trovare, fisicamente e moralmente, di più ripugnante nella figura femminile. L’indagine critica dell’autore si pone quindi come fine ultimo quello di risalire all’origine del male e analizzare l’o- stentata esibizione narcisistica di cui sarebbe affetto Mussolini, concepita come una psicosi:

10 Ivi, pp. 35-36. 11 C.E. Gadda, La Cognizione del dolore, in Opere, Milano, Garzanti, 1994, vol. I (Ro- manzi e racconti I), p. 696.

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«Qualunque si affacci alla vita presumendo occupare di sé solo la scena turpis- sima dell’agorà e istrioneggiarvi per lungo e per largo da gran ciuco, e di pelo- sissima orecchia, e tanta burbanza sospinto da ismodata autoerotica, quello, da ultimo, torna di danno a’ suoi e talora a sé medesimo. E se Dio voglia, finisce appeso come Cola, con rivoltate coglia… Devo concedere, è vero, che l’impulso narcissico è “molla prima” dell’agire: che senza carica narcissica, senza “amor proprio”, te una aggregazione civica, una società di buoni omini e nemmeno un destino individuo tu non te li puoi nemmeno figurare»12. Il richiamo a Cola di Rienzo, già presente nel Pasticciaccio, quasi pronostica la fine di Mussolini a piazzale Loreto. Un’immagine questa di forte incisività anche linguistica con richiami a parole gergali. La follia narcisistica del Duce fa presa sul popolo perché l’esibizionismo affascina chiunque coltivi in se stesso una vocazione esibizionistica latente. Ciò richiama perfettamente il titolo dell’o- pera, laddove Eros è il dio dell’amore che scaturisce da una serie di istinti vitali volti al congiungimento carnale e Priapo, dio romano della fecondità, spesso rappresentato con ostentata esibizione degli attributi sessuali. La libidine esi- bizionistica di Mussolini toglie via ogni pudore. Riguardo al tema dell’esibi- zione, si noti un’evidente critica maschilista e misogina da parte di Gadda, il quale distingue nettamente l’esibizione femminile da quella maschile. Mentre la donna esibisce la sua figura, i movimenti del bacino e del deretano, il seno protuberante, l’uomo esibisce la sua forza, potenza e virilità, per mezzo delle varie manifestazioni sportive. Alle “patriottesse” dà un nome: Marie Luise (in un passo Marie Terese): «La scempia ocaggine delle spiritate Marie Terese 1922-1944 è stata caratteriz- zata dal cumulo, dallo intrufolarsi dei trefoli di latenze multiple (una più balorda dell’altra), in un unico patriottoso e verboso canapone, che ha servito ad impiccare la patria reale e la società reale in pro della patria uterina e della società uterina»13. E ancora: «come si può contrastare in casa sua una signora Maria Luisa Pizzigotti, che ti rovescia addosso il fiotto della patriotteria pomposa e verbosa, il molino a vento dei “nostri valorosi aviatori”, che urla di gioia coventrizzante per i bombarda- menti londinesi?»14. Chi sono dunque le Marie Luise? «Un’astrazione misogina dell’idiozia pa- triottarda, la quintessenza dell’abdicazione al principio, al Logos, dell’idolatria nei confronti del kuce»15.

12 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit, p. 157. 13 Ivi, p. 322. 14 Ivi, pp. 323-324. 15 Ivi, p. 387.

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Gadda dà fondo a tutta la sua fantasia e ironia per costruire una fenomeno- logia delle donne divenute strumento del delirio narcissico del kuce pronte ad offrirsi e ad offrire fratelli e figli alla propaganda fascista: «Pronte e spedite in gridi, venuti di vulva, a sospingere ‘l sangue loro fraterno o filiale a la mortuaria medaglia o quel muto e disconciato cadavero di carne loro debbendo porgerlo al Kuce, e alla gloria e a le balconali vantardige del Predap- piofava, a i’ Kuce grasso e Culone in Cavallo: e appiattato Scacarcione a dugento miglia da battaglia co’ sua cochi, e co’ l’ulcera pestiferata sua»16. Se i maschi italiani quindi, soprattutto i giovani, vedevano nel Duce un alter ego, le donne avevano scoperto una passione inestinguibile; tutte, indistintamen- te, avevano vissuto nella speranza di sperimentare la leggendaria virilità di Mus- solini. Gadda quindi afferma che il Duce ha usato le donne come instrumentum regni, raddoppiando il numero dei suoi consensi e rafforzandoli grazie al ruolo di coesione che le donne svolgono all’interno della famiglia e della società. E ne seppe catturare la simpatia e il favore con l’esibizione spudorata della propria maschilità e del proprio potere. Per questo, la virulenza della polemica anti- femminile di Gadda non va attribuita per intero ai risvolti più o meno patologici della sua misoginia piuttosto va ricercata nella cultura del dopo-guerra all’inter- no della quale l’idea che il fascismo andava spiegato, tra l’altro, con la passione delle donne per il corpo del duce: le donne sono sedotte dalla falsa virilità di Mussolini, provano una certa eccitazione durante le sue parate esibizionistiche. Gadda non fa che ricondurre il fascismo e il «mussolinismo» a una continua esibizione di corpi virili riconoscendo nel Duce un istrione ed un buffone, autore di una grande e tragica farsa di cui gli italiani ne sono stati spettatori, sia attivi che passivi. Ed proprio questa tragedia dai tratti farseschi che lo scrittore vuole rendere nota, attraverso un atto di conoscenza che è anche un’autogiustificazione ed un’autoespressione. L’aspetto linguistico di Eros e Priapo è stato oggetto di studio per molti critici, fra cui Luigi Matt, secondo cui tale opera sarebbe «il più ardito degli esperimenti gaddiani»17, in quanto propone una lingua «artificiale», comples- sa, straniante, inventiva, sperimentale, nuova ed arcaica allo stesso tempo, una lingua mimetica della realtà. La caratteristica peculiare di quest’opera è l’uso del fiorentino cinquecentesco accostato con forme arcaiche dell’italiano lette- rario e poetico. Punti di riferimento per la sua prosa sono Cellini, e Machiavelli ma anche Dante, Petrarca, Boccaccio, dai quali prende soprattutto arcaismo ed espressioni tipiche del linguaggio lirico. La mescolanza di dialetto e lingua let-

16 Ivi, p. 108. 17 L. Matt, Invenzioni lessicali gaddiane, Glossarietto di Eros e Priapo, Milano, Guanda, 2010, p. 131.

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teraria, tono poetico e tono popolare, sarcasmo e ironia, forme arcaiche e forme moderne, neologismi e costrutti latini classici, dà vita ad un impasto linguistico squisitamente artificiale e variegato, in nome della varietas su cui si fonda la realtà, fonte primaria della ricerca gnoseologica gaddiana. Questo pastiche lin- guistico permette all’autore di allontanarsi da un sistema chiuso e rigido della lingua, realizzando al massimo quell’apertura conoscitiva che sempre stato il suo obiettivo prioritario. Ma la sperimentazione gaddiana non si ferma solo sul piano lessicale con l’uso di dialetti, arcaismi, locuzioni latine, neologismi, ma ingloba e coinvolge anche l’aspetto tematico e testuale. In questa prospettiva ri- entrano tutta una serie di citazioni extra-testuali e intertestuali, provenienti dalla letteratura classica e moderna (Orazio, Petrarca e Pascoli per quanto concerne le pagine prese in esame, ma più in generale Virgilio, Tacito e Svetonio, Dante, Shakespeare, Carducci, Manzoni, Leopardi, Saint Simon, D’Annunzio, Shelley) e dal mondo tecnico-scientifico (psicanalisi, architettura, medicina, chimica, ar- cheologia). Arcaismi e neologismi, locuzioni latine e invenzioni lessicali, re- gistro poetico e basso, italiano e dialetto, riferimenti extra testuali e tecnicismi rientrano nella volontà dell’autore di allontanarsi dalla realtà quotidiana. La scrittura gaddiana si muove fra plurilinguismo (per via della pluralità di dialetti e di registri stilistici), pluridiscorsività (data dal pastiche linguistico che sussume diversi generi letterari: il romanzo, la poesia, il poema epico, le opere storiche) e intertestualità (sussunzione di altri testi letterari del mondo classico e moder- no). A buon diritto il pastiche gaddiano si inscrive all’interno di quella speri- mentazione stilistica e linguistica che caratterizza buona parte degli scrittori del Novecento, in particolare quelli inseriti in un contesto avanguardistico. La plu- ridiscorsività e l’intertestualità gaddiana rispondono a varie funzioni; prima di tutto ad una funzione espressamente mimetica di imitazione delle varie realtà fe- nomeniche; in secondo luogo ad un personale bisogno di espressività che spesso coincide con la deformazione innovativa e con l’espressionismo caricaturale. Sicuramente Gadda è spinto anche da un atteggiamento di contrasto con la realtà contemporanea messo in pratica per mezzo della patina arcaica cinquecentesca e dell’uso dei dialetti, messi al bando dal regime fascista. Così come la storia è come un calderone in cui ribollono vari ingredienti, il linguaggio è un pastiche in cui si mescolano diversi registri linguistici, dialetti, riferimenti intertestuali e generi letterari. Allo stesso modo della storia e del linguaggio, anche l’uomo è un insieme di diversi elementi aggrovigliati: conscio ed inconscio, razionalità e passioni, istinti e pulsioni che lo dominano. Il testo di Gadda è, innanzitutto, una testimonianza critica dell’essenza irrazionalistica del Fascismo, sviluppata con una eccezionale capacità di lettura dei segni e resa con mezzi linguistici di straordinaria pertinenza ed efficacia, anche se non aliena da una buona dose di risentimento, che, tuttavia, forse pregiudica la catarsi artistica complessiva, ma non sminuisce il vigore e la congruenza delle analisi. Ed è, insieme, il disvela-

192 Marcella Rizzo

mento della “parte oscura” che si nasconde nei recessi dell’animo umano e trova nelle dittature e nei regimi autocratici il terreno più adatto per manifestarsi nei modi irriflessi e nelle forme barbariche, grossolane e crudeli riconducibili ad esso. Spinto dal bisogno di comprendere il Fascismo al di là delle interpretazioni storiche, sociologiche e politiche, che solo in parte riescono a coglierne l’ inter- na dinamica distruttiva ed autodistruttiva, Gadda punta la sua attenzione sulle forme della comunicazione pubblica in cui il regime si espresse (a partire dalle “adunate oceaniche” e dal dialogo diretto tra il leader e il suo popolo) nonché sulla teatralità dei gesti del Duce che comunicava con la folla non tanto e non solo con frasi fatte, formule vuote, tirate retoriche, ma con una gestualità e una fisicità allusive ,dalla frequente protrusione delle labbra, agli slanci con cui si ergeva in avanti dal balcone, al dondolamento dei fianchi ottenuto col levarsi sulla punta dei piedi che suscitavano gli ululati ritmicamente scanditi della mol- titudine stipata nella piazza, quasi un delirio amoroso: «Di colassù i berci, i grugniti, lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza priapesca: dopo la esibizione del dittatorio mento e del ventre, dopo lo sporgimento di quel suo prolassato e in cinturato ventrone, dopo il dondolamento, in sui tacchi, e ginocchi, di quel culone suo goffo e inappetibile a chicchessia, ecco ecco ecco eja eja eja»18. Eros è Priapo è quindi un libro in cui è versato lo sdegno di un animo ferito, straziato dalla stupidità umana elevata a sistema di governo ed un atto di cono- scenza: «Il mio discorso non è che un minimo contributo a quel conoscere» (novi novisse)»19. La spietata analisi gaddiana del “ventennio”, attraverso una narrazio- ne incisiva e profonda di atteggiamenti, cause e concause, postula non solo una prevalenza dell’Eros nelle sue forme inconsce e animalesche, ma progressivamen- te, una totale uscita di scena del Logos, e infine, attraverso il “narcisismo” mussoli- niano, una chiara degenerazione dell’Eros in Priapo. Gadda alla fine esprime delle perplessità, è poco convinto che le generazioni future potranno capire a pieno la portata di ciò che è accaduto, le «dimensioni della turpitudine»: «Le genti del domani (“le future generazioni”, come lui le chiamava, in una ver- bosa maieutica, e ne’ suoi necroforici auspici di flamine diale dell’Ufficio Monta) potrà stentatamente imaginare, nonché valutare, le “dimensioni” della turpitu- dine. Io già me li vedo: faranno spallucce: nessuno vorrà credere: “Svetonio! Il solito Svetonio!”: nessuno ci capirà un’acca: tutti ci perderanno la testa»20. E così come fecero Svetonio o Tacito per svelare i retroscena dell’Impero, anche lui si affida all’intuito riuscendo a dare un senso ai dettagli apparentemen-

18 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 33. 19 Ivi, p. 31. 20 Ivi, p. 307.

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te più insignificanti e portando alla luce l’intreccio di pulsioni elementari che, meglio di ogni interpretazione storica, serve a spiegare la follia collettiva degli italiani durante il Ventennio. La sua analisi, pur restando strettamente aderente al contesto prescelto, assume, così, un carattere esemplare quale diagnosi tipica di una malattia storica pandemica, che in tutte le dittature, di qualsiasi forma e natura, ma anche dove si instauri un rapporto deviato tra i cittadini e il potere, si manifesta in modo particolarmente virulento e insidioso. Per questo possia- mo dire che Eros e Priapo può essere considerato nel suo complesso come un palcoscenico dove tutto è rappresentato e dove al centro domina, “illuminato” dalla violenza della satira, dall’invettiva e dall’arguta ironia lui, l’istrione, Be- nito Mussolini.

194 Didattica

Successo formativo e disturbi specifici di apprendimento

Fiorella Dimitri

186.803 unità

Tanti sono gli alunni che frequentano le scuole italiane (di ogni ordine e grado, statali e non statali) e che presentano disturbi specifici di apprendimento (DSA). In percentuale, il 2,1% della popolazione scolastica totale1. In modo dettagliato:

Totale % Ripartizione alunni Totale DSA/ Dislessia Disgrafia Disortografia Discalculia territoriale con alunni tot. DSA* Alunni

Italia 108.844 38.028 46.979 41.819 186.803 8.845.984 2,1

Nord-Ovest 43.408 16.347 21.032 18.204 76.321 2.259.767 3,4

Nord-Est 25.656 6.713 9.272 8.608 40.724 1.572.987 2,6

Centro 21.869 8.846 9.531 8.822 41.318 1.685.509 2,5

Mezzogiorno 17.911 6.122 7.144 6.185 28.440 3.327.721 0,9

I dati relativi alla provincia di Bolzano non sono disponibili. * Il totale alunni con DSA non coincide con la somma degli alunni per tipologia di disturbo perché spesso si riscontra una condizione di comorbilità dei disturbi stessi.

1 MIUR, Ufficio di Statistica, L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità a.s. 2014/2015 (novembre 2015), p. 26, in http://www.istruzione.it.

197 Successo formativo e disturbi specifici di apprendimento

E ancora…

Le tabulazioni, elaborate dall’Ufficio di Statistica del MIUR in riferimento all’a.s. 2014/2015, evidenziano come la presenza di alunni con DSA nella scuola dell’infanzia sia contenuta (appena lo 0,03% del totale degli alunni frequentan- ti), si attesti all’1,6% nella scuola primaria, per raggiungere il 4,2% nella scuola secondaria di primo grado e fermarsi al 2,5% nella secondaria di secondo grado2. Si tratta di numeri… asciutti e rigorosi. Nella loro essenzialità sono, però, in grado di raccontare l’urgenza didattica di bisogni educativi definiti speciali. Il ridursi della percentuale di presenze nel passaggio dalla scuola seconda- ria di primo grado a quella di secondo grado segnala quanto l’incidenza della dispersione diventi più insistita quando si tratta di alunni con DSA. Nonostante l’impegno della scuola dell’autonomia a promuovere non un generico diritto allo studio ma il successo formativo per tutti gli studenti, il percorso scolastico di quanti sono caratterizzati da dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia risulta accidentato e in alcuni casi del tutto compromesso. Tra le pagine di “Let- tera a una professoressa”, don Lorenzo Milani ebbe modo di sottolineare come il problema della scuola fossero allora (e lo sono tuttora) i ragazzi che vengono smarriti lungo il percorso e come una scuola distratta nei loro confronti sia para- gonabile ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati3.

2 MIUR, Ufficio di Statistica. L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità a.s. 2014/2015, cit., p. 27. 3 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libera Editrice Fiorentina, 1976, p. 24.

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Per i ragazzi con DSA che decidono di proseguire gli studi la scelta della scuola adatta apre scenari di criticità perché ad orientare non sono tanto le attitu- dini personali o la progettualità rispetto al futuro quanto il bisogno di individuare una scuola che si mostri avvicinabile, accessibile. «Sono troppi i dislessici che si iscrivono a una scuola professionale e pochissimi quelli che si iscrivono a un liceo e di solito i pochi che fanno questo tipo di scelta sono quelli che alle medie hanno avuto un’esperienza meno frustrante e/o hanno da sempre una famiglia più supportante»4. Le difficoltà emergono perché la scuola si avvale in modo pri- vilegiato dei codici della letto-scrittura e la società nel suo complesso utilizza il codice scritto quale principale mezzo di interpretazione del mondo5. Quanti non padroneggiano le competenze di letto-scrittura sperimentano una condizione di svantaggio (con tutte le necessarie implicazioni) perché non possono agevol- mente accedere ai messaggi del mondo in cui sono inseriti6. Quali sono, dunque, le prospettive di successo per un alunno con DSA? Lavorare nell’ottica del successo formativo non significa applicare la politica del “6 dislessico”7 e garantire indiscriminatamente voti di profitto sufficienti. La stra- tegia del pietismo, che porta ad essere genericamente benevoli nei confronti di una categoria ritenuta (in modo pregiudizievole) debole, non può certo essere una rispo- sta professionalmente seria. E non è certo corretto destinare gli alunni con DSA ad un percorso di formazione in istituti professionali solo in virtù della loro specialità. La legge n. 170 del 2010 delinea con chiarezza l’identità dell’alunno con di- sturbi specifici di apprendimento. Si tratta di una preziosa intelaiatura normativa che deve, però, trovare applicazione nell’agire armonioso di quanti afferiscono ad un alunno con tali disturbi: la scuola, la famiglia, la ASL e gli enti del territorio. Sul setting operativo si muovono molteplici interpreti, ognuno di essi ha ruolo e compiti specifici, che si qualificano solo in una prospettiva di coordinamento dell’azione del singolo con quella dei partner. La sinergia degli interventi diventa, allora, presupposto irrinunciabile nella promozione del successo formativo. In ambito scolastico l’obiettivo diventa realistico se il sistema si caratterizza per essere inclusivo, se cioè persegue la valorizzazione delle differenze, se è in grado di superare il nozionismo a favore di un apprendimento attraverso le di- scipline e non delle discipline8.

4 C. Frassineti, Il pomeriggio dello studente dislessico alle superiori: il ragazzo, la fami- glia, lo studio, i compiti, in http://www.istcompmss.it. 5 L. Trisciuzzi, T. Zappaterra, Dislessia, disgrafia e didattica inclusiva, Annali della Pub- blica Istruzione, 2, 2010, p. 54. 6 Ivi, p. 52. 7 Cfr. http://www.dislessiaioticonosco.it/2012/07/dislessia-e-voti-scolastici. 8 Cfr. L. Ventriglia, F. Storace, A. Capuano, La didattica inclusiva. Proposte metodo- logiche e didattiche per l’apprendimento, «I Quaderni della Ricerca», 25, Loescher editore, settembre 2015.

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La straordinaria portata della didattica inclusiva è nella sua trasversalità, nel- la sua ordinarietà, nel suo essere, insomma, opportunità per tutti gli studenti. Il professor Bocci, docente di Pedagogia Speciale presso l’Università Roma Tre, amaramente sottolinea che: «si continua (erroneamente) a pensare all’inclusione come a un’azione finalizzata a includere qualcuno (il caso) che altrimenti reste- rebbe (in barba ai dettati costituzionali) fuori dalla opportunità di vivere una pie- na vita scolastica. Per costui/costoro (comunque inteso/i come entità singola/e) si adottano strategie di riadattamento per la normalizzazione»9. La reale inclu- sione passa, invece, attraverso un cambiamento di prospettiva, attraverso una prassi didattica strutturata non solo per alcuni ma per tutti, passa attraverso il superamento del “paradigma della scuola selettiva”, centrata su meritocrazia e competitività e finalizzata alla produttività10. Se nel consiglio di classe le strategie operative non sono univoche, non sono centrate sull’individuo e restano ancorate a pratiche didattiche superate, l’intero processo formativo viene inficiato11 e l’impegno a garantire risultati ottimali (a cui la scuola è chiamata dal Regolamento dell’autonomia scolastica - D.P.R. 275/1998) viene disatteso. La scuola pensata per essere inclusiva deve investire in termini di: - «rinnovamento didattico; - gestione della classe; - unitarietà d’intenti; - competenze sulle questioni pedagogiche speciali; - appoggio di una dirigenza capace di governare le novità. Soprattutto occorre una condizione imprescindibile: la relazione educativa»12. L’insegnante-regista, con competenza e destrezza, deve definire l’impianto di questa relazione, assolvendo ad un compito quanto mai delicato. Senza relazio- ne la gestione della classe si trasforma in sterile esercizio di disciplina, mentre l’alunno ha bisogno di presenze efficaci, di vicinanza. Senza una sana relazione educativa non può essere definito un clima inclusivo13. In un contesto inclusivo il gap tra capacità e performance del soggetto vie- ne considerevolmente ridotto. «Un ambiente con barriere, o senza facilitatori,

9 F. Bocci, Dalla didattica speciale per l’inclusione alla didattica inclusiva. L’approccio cooperativo e metacognitivo, in L. D’Alonzo, F. Bocci, S. Pinnelli, a cura di, Didattica spe- ciale per l’inclusione, Brescia, Editrice La Scuola, 2015, p. 93. 10 Ivi. 11 Cfr. C. Marra, Complessità sociale e successo formativo nella scuola dell’autono- mia, Supplemento alla rivista «ELLE», giugno 2008. 12 L. D’Alonzo, La didattica speciale e le sue problematiche, in L. D’Alonzo, F. Bocci, S. Pinnelli, a cura di, Didattica speciale per l’inclusione, cit., p. 36. 13 Ivi, pp. 45-46.

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limiterà la performance dell’individuo; altri ambienti più facilitanti potranno invece favorirla»14. La riflessione deriva dai disability studies e attiene, quindi, in modo specifico all’ambito della disabilità e perciò dei deficit, ma nel suo as- sunto generale può essere ricondotta anche all’area dello svantaggio scolastico e dei disturbi specifici di apprendimento. Sulla scorta dei qualificatori dei fattori ambientali individuati nella Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, (“ICF”, promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2001), è possibile guardare agli insegnanti come a facilitatori o barriere perché in grado di influenzare in modo positivo o negativo il percorso formativo. Per usare un’immagine cara a Canevaro, gli insegnanti dovrebbero essere “pietre che affiorano”15, pietre che fungono da sostegno e in grado di far emergere, non pietre che zavorrano e ostacolano. Alla scuola che si qualifica come ambiente facilitatore il legislatore demanda l’elaborazione del PDP, un piano didattico personalizzato, appositamente predi- sposto, tarato sulla specificità dell’alunno con DSA e collegialmente condiviso dai docenti della classe e dalla famiglia. La C.M. n. 8 del 2013 chiarisce che il Piano Didattico Personalizzato «ha lo scopo di definire, monitorare e docu- mentare – secondo un’elaborazione collegiale, corresponsabile e partecipata – le strategie di intervento più idonee e i criteri di valutazione degli apprendimenti»16. Secondo alcuni autori, l’interpretazione della normativa vigente ha «veico- lato l’idea che esistesse un percorso didattico per tutti – o, più correttamente, per la maggior parte degli alunni – e poi una serie di individualizzazioni e per- sonalizzazioni per alunni che, per motivi differenti, vivono una condizione di difficoltà. A differenza di quel che propone la riflessione pedagogico-didattica, individualizzazione e personalizzazione non sono qui proposti come dispositivi didattici per tutti gli alunni, ma per alunni con disabilità, un DSA o più in gene- rale un bisogno educativo speciale»17. Si tratta di un’interpretazione impropria e fuorviante, in netto contrasto con la grammatica della didattica inclusiva. L’efficacia del PDP risiede nel suo impegno a riconoscere lo stile di apprendi- mento dell’alunno e i suoi bisogni educativi e a predisporre, quindi, un percorso didattico adeguato. La congruità del percorso rispetto ai bisogni risponde ad un principio di equità e, se è importante per il successo formativo di tutti gli alunni, diventa essenziale in presenza di disturbi specifici di apprendimento. Niente di

14 Cfr. ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Versione breve, Trento, Erickson, 2008, p. 32. 15 Cfr. A. Canevaro, Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la “logica del domino”, Trento, Erickson, 2008. 16 MIUR, C.M. n. 8/2013, p. 2. 17 H. Demo, Didattica delle differenze: un’introduzione. Proposte metodologiche per una classe inclusiva, Trento, Erickson, 2015, p. 21.

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più ingiusto che «far parti uguali fra disuguali»18. Ce lo rammenta, ancora una volta, Don Milani. L’art. 5 della legge 107/2010 prevede che la scuola introduca misure educative e didattiche di supporto attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione. Individualizzare significa porre obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe, adattando le metodologie in funzione delle carat- teristiche individuali, con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento delle competenze fondamentali del curricolo. Personalizzare significa selezionare gli obiettivi formativi perché siano adatti e significativi per quel singolo alunno19. Il PDP, dunque, è un «documento essenziale, in quanto stabilisce le modalità dell’erogazione del servizio didattico, da una parte avvalorandone la significati- vità, dall’altra dando un senso pedagogico e didattico alle deroghe che, rispetto al normale corso di istruzione, intervengono a favore degli alunni con DSA»20. Strumenti compensativi e dispensativi sono risorse messe a disposizione dell’alunno e dei docenti per l’attuazione del piano didattico21. «Nel corso degli ultimi cinquant’anni gli psicologi e i ricercatori nel campo dell’istruzione, basan- dosi sull’opera pionieristica di Jean Piaget, sono arrivati a capire che l’apprendi- mento non è un semplice fatto di trasmissione dell’informazione. Gli insegnanti non possono semplicemente versare le informazioni nelle teste degli studenti, ma invece l’apprendimento è un processo attivo, in cui le persone costruiscono nuove conoscenze del mondo attorno a loro, attraverso un’attiva esplorazione, sperimen- tazione, discussione e riflessione. In sintesi: le persone non ricevono delle idee, ma le costruiscono»22. Diventa fondamentale, allora, disporre non solo di strumenti ma anche di strategie e la scuola è chiamata a guidare gli alunni con DSA nell’e- laborazione di strategie atte a compensare il disturbo che li caratterizza. In questa direzione si muove la didattica metacognitiva, finalizzata non solo e non tanto a far apprendere specifici contenuti, ma «orientata a rendere l’alunno capace di darsi obiettivi e di affrontare nuovi compiti autonomamente»23. La metacognizione invi- ta ad andare oltre la cognizione e «andare oltre la cognizione significa innanzitutto sviluppare nell’alunno la consapevolezza di quello che sta facendo, del perché lo

18 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 55. 19 MIUR, Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento allegate al decreto ministeriale 12 luglio 2011, pp. 6-7. 20 Ivi, pp. 90-91. 21 Cfr. Strumenti compensativi e misure dispensative previste dalle disposizioni attuative della Legge n. 170/2010 (D.M. 12 luglio/2011), meglio descritte nelle linee-guida. 22 M. Resnick, Ripensare l’apprendimento nell’era digitale, Laboratory Massachusetts Institute of Technology, p. 2. Testo originale in http://llk.media.mit.edu/papers/mres-wef.pdf. Pubblicato nel volume The Global Information Technology Report: Readiness for the Networked World, Oxford University Press, 2002. 23 A. Calvani, Come fare una lezione efficace, Roma, Carocci, 2014, p. 141.

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fa, di quando è opportuno farlo e in quali condizioni; l’approccio metacognitivo forma la capacità di essere il più possibile “gestori” dei propri processi cognitivi, dirigendoli attivamente con proprie valutazioni e indicazioni operative»24 A detta di A. Calvani, «dalla combinazione di cooperazione e metacognizione si possono ottenere risultati di alta efficacia»25, perciò la didattica metacognitiva va proposta in associazione a quella cooperativa, che consente di definire l’ambiente di ap- prendimento in una dimensione relazionale priva dei meccanismi competitivi e individualistici tipici della didattica tradizionale26. Una didattica così strutturata ri- sulterà per tutti gli studenti più stimolante e coinvolgente e offrirà all’insegnante la possibilità di incidere positivamente sulla motivazione, presupposto fondamentale per ogni apprendimento. In modo particolare, nell’alunno con DSA la motivazio- ne, in quanto connessa al meccanismo dell’autostima, può risultare un elemento di particolare fragilità e, pertanto, andrà sostenuta con intenzionalità. In un ambiente accuratamente predisposto, anche le TIC (tecnologie dell’infor- mazione e della comunicazione, il cui impiego è promosso nella legge 170/2010) trovano un contesto in grado di renderle effettivamente produttive, perché (va ricor- dato!) la presenza di software e computer nelle classi non implica automaticamente un miglior apprendimento né un miglior insegnamento e non è garanzia di successo formativo27. «Come dimostrato dalle ricerche internazionali […], sono le prassi me- todologiche, i modelli di progettazione, le capacità di organizzazione e pianificazio- ne dell’intervento da parte del docente a definire l’uso produttivo della didattica, con o senza media»28. Se, però, la didattica inclusiva deve essere multimodale, allora la multimedialità può venire in soccorso, rendendo l’intervento dei docenti più dinami- co e versatile, più accessibile. Fra gli strumenti compensativi la normativa vigente contempla anche i supporti tecnologici, sottolineando come realmente possano of- frire un valido sostegno agli alunni con DSA e prevedendone l’uso anche durante le prove di verifica (si pensi, ad esempio, alla sintesi vocale, all’impiego del correttore ortografico o alla fruizione di vocabolari digitali). Tuttavia, l’utilizzo di questi stru- menti presuppone una fase di alfabetizzazione tecnologica dell’alunno che deve av- valersene e, potenzialmente, un pericolo di discriminazione perché la loro efficacia risiede nella possibilità di essere usati con continuità, a scuola come a casa e, quindi, la presenza di un PC in entrambi gli ambienti.

24 D. Ianes, V. Macchia, La didattica per i Bisogni Educativi Speciali. Strategie e buone prassi di sostegno inclusivo, Trento, Erickson, 2008, p. 207. 25 Ivi, p. 168. 26 F. Bocci, Dalla didattica speciale per l’inclusione alla didattica inclusiva. L’approccio cooperativo e metacognitivo, in L. D’Alonzo, F. Bocci, S. Pinnelli, a cura di, Didattica spe- ciale per l’inclusione, cit., p. 112. 27 S. Pinnelli, Tecnologie didattiche e apprendimento, in L. D’Alonzo, F. Bocci, S. Pin- nelli, a cura di, Didattica speciale per l’inclusione, cit., p. 174. 28 Ivi, p. 218.

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Il percorso scolastico progettato nel PDP deve trovare un ulteriore rinforzo nelle modalità di valutazione, giacché «l’adozione di strumenti compensativi e di misure dispensative senza una connessa valutazione, con criteri determinati ad hoc sulla base delle specificità del soggetto, risulta manchevole ed incompleta»29. Nell’art. 6 del DM n. 5669 del 12 luglio 2011, commi 1 e 2, si legge: «1. La valutazione scolastica, periodica e finale, degli alunni e degli studenti con DSA deve essere coerente con gli interventi pedagogico-didattici […]. 2. Le Istituzioni scolastiche adottano modalità valutative che consentono all’alunno o allo studente con DSA di dimostrare effettivamente il livello di apprendimento raggiunto, mediante l’applicazione di misure che determinino le condizioni ottimali per l’espletamento della prestazione da valutare – relati- vamente ai tempi di effettuazione e alle modalità di strutturazione delle prove – riservando particolare attenzione alla padronanza dei contenuti disciplinari, a prescindere dagli aspetti legati all’abilità deficitaria»30. Si tratta di forme di tutela che preservano l’alunno con DSA dallo sperimen- tare frustrazione e avvilimento di fronte a prove di verifica inadeguate, ma la valutazione non può fermarsi agli esiti delle prove. Verifica e valutazione non sono termini sovrapponibili. Quando la scuola era trasmissiva la verifica era l’atto conclusivo di un percorso, ma oggi la scuola non dà più un valore solo alle conoscenze31. «Oggetto della valutazione è l’intero processo educativo, rispetto al quale il rendimento degli allievi è l’indice di cui ci serviamo come criterio (Porcelli, 1992). Per rendimento si intende il rapporto tra le potenzialità degli scolari ed il profitto che esprimono globalmente e in ciascuna materia (Porcelli, ibidem). Si deduce, quindi, che resta centrale la figura di chi apprende, dello studente, nel suo complesso e in tutte le specificità della sua identità»32. In questo modo la valutazione sostanzia autenticamente la formazione perché riconosce la specificità di ogni alunno e diventa realmente strumento di inclusione. Garantire ad uno studente con DSA la possibilità di sperimentare il successo formativo è un dovere verso la persona. Per il mondo della scuola è un imperati- vo che chiama docenti e dirigenti ad un impegno di formazione. L’orizzonte pedagogico e quello normativo sono stati definiti, il processo è avviato… la didattica speciale cementerà la cultura dell’inclusione.

29 K. Pitino, Valutazione alunni con disturbi specifici di apprendimento. Compiti Collegio dei docenti, in http://www.orizzontescuola.it/valutazione-alunni-disturbi-specifici-apprendi- mento-compiti-collegio-dei-docenti. 30 MIUR, Decreto N. 5669 del 12 luglio 2011, in http://www.istruzione.it. 31 B. D’Annunzio, G. Serragiotto, La valutazione e l’analisi dell’errore, Laboratorio ITALS - Dipartimento di Scienze del Linguaggio Università Ca’ Foscari - Venezia, in http:// venus.unive.it/filim/materiali, p. 4. 32 Ivi, p. 5.

204 Dialogo sul senso della vita Tratto da un Laboratorio svolto all’interno delle attività di Didattica alternativa nel dicembre del 2016

Angelo Pellè

Angelo: - Qual è il senso della vita? Prima di tutto, dovremmo definire, accor- darci sul significato di senso della vita, per cui è necessario rispondere prima alla domanda: qual è il senso del senso? Bisogna, a tal fine, innanzitutto distinguere tra senso della vita come causa iniziale e senso della vita come causa finale: quindi senso della vita in che senso? Perché se noi andiamo alla ricerca della causa inizia- le, cioè del perché sono venuto al mondo inteso come il fattore che ha permesso di comparire nel mondo, la possiamo anche trovare e spiegare con la scienza, con la volontà dei genitori, con l’amore, con il sesso e arriviamo, grosso modo ad una conclusione: siamo qui per questo, giusto? (Anche se è sempre logico chiedersi la causa della causa…) Ma la nostra intenzione è, più che altro, quella di andare alla ricerca del senso finale: che senso ultimo ha? Alla fine, perché ci troviamo qui? A quale scopo c’è la vita? Che finalità ha la vita: punto primo. Punto secondo: dob- biamo fare una ricerca a livello soggettivo: perché Vito ora esiste o perché la vita esiste e, dicendo vita, dobbiamo introdurre tutti gli esseri umani, tutti gli animali e tutte le piante…vita o Vito: dobbiamo scegliere. Se scegliamo tutta la vita stiamo attenti perché essa include non solo quella attuale ma quella di ogni tempo (tutta la vita che è esistita, tutta quella che esiste e tutta quella che esisterà). Che senso ha? - Vito: - Non ne ha! - Voce femminile: - Sì, perché poi moriamo, quindi? - Vito: - Esatto! Se io vado a pensare che non ci sia niente dopo la morte…e non ha senso la mia vita perché qualsiasi cosa io faccia non ha fine dopo la mor- te, non c’è un obiettivo: questa è la mia riflessione, se noi poniamo il fatto che non ci sia niente dopo la morte. Secondo me la vita non ha fine, tanto saremo tutti destinati, prima o poi a morire, quindi qualsiasi sensazione, qualsiasi cosa, qualsiasi pensiero proviamo, pensiamo durante la nostra vita non ha senso per- ché tanto dovremo morire - Voce femminile: - Sì, perché facciamo tutto però poi moriamo! - Massimo: - Il senso della vita se non c’è niente dopo la morte sarebbe quello di godersela - Vito: - Sarebbe quello sì …com’è che ci godiamo la vita noi? Attraverso la felicità in un certo modo…quindi il senso della vita, a quel punto, sarebbe godersela, come dice Massimo, quindi cercare la felicità. -

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Angelo: - E perché allora esiste tutta l’umanità? Perché ci sono tutti questi animali? Perché le piante? Le piante inseguono la loro felicità? E gli animali non agiscono d’istinto? Se noi ci stiamo ponendo la questione della vita in genere: perché c’è la vita sulla Terra? A che fine? - Vece maschile: - Per accontentarci finché non moriamo! - Angelo: - Questa è una posizione antropocentrica, però, e non possiamo am- metterla se stiamo indagando sul senso della vita in generale, anche perché noi po- tremmo scomparire, l’umanità si può estinguere…anzi, dirò di più: noi non c’era- vamo quando c’erano i dinosauri ma la vita c’era anche prima. Che senso aveva? - Vito (sorridendo): - Non ha senso! Non c’è senso! - Angelo: - Perché dici che non ha senso? Su che basi? - Voce maschile: - Ma quando non c’era l’uomo non c’era nessuno che potesse pensare che la vita avesse un senso… - Angelo: - Ecco, questo è interessante…forse io condivido, in un certo senso, il non senso della vita che sostiene Vito, in che senso, però? Chiariamo: come dicevamo prima, è solo l’essere umano a porsi il problema del senso della vita quindi può darsi che sia il funzionamento della nostra ragione, che va alla ricerca del perché, a cercare questo senso, ecco perché, appunto, gli animali e le piante non se lo chiedono e non lo ricercano. Anche perché, chiedendosi il perché, io posso dire: “Vivo perché voglio essere felice!”, “Vivo perché voglio migliorare il mondo!”, “Vivo perché…!” ma posso aggiungere sempre un altro perché, in avanti: “Vivo perché voglio migliorare il mondo, ma perché voglio migliorare il mondo? Perché ritengo sia giusto migliorare il mondo. E perché ritengo sia giusto migliorare il mondo? Perché tutti saremo contenti in un mondo migliore. E perché tutti siamo contenti in un mondo migliore? Cioè il pensiero umano, la ragione umana ha un limite o, per lo meno, non avendo un limite ha un limite in se stessa perché non si risponde così definitivamente ad una domanda! - Vito: - Ci sarebbe sempre da porsi delle domande… - Angelo: - E quindi indagando su questo non arriviamo ad una conclusione! - Vito: - …quindi attraverso il ragionamento dell’uomo, pur l’uomo volendosi porre… avendo la possibilità di porsi la domanda: “che senso ha la vita?”, attra- verso il ragionamento non può arrivare a darsi una risposta! - Angelo: - …allora mi permetto di aggiungere che forse non ha senso chieder- si il senso della vita perché è solo un artifizio della ragione. Ora non voglio dire che la ragione fallisce sempre perché, dal punto di vista scientifico, concreto, tecnico la ragione è un ottimo strumento… - Mario: - …e se fallisse sempre? - Angelo: - Non sempre: in molti casi è efficiente: per fare la LIM abbiamo avuto bisogno della ragione… per costruirci le case… per volare pure... - Mario: - Efficiente dal nostro punto di vista, però! - Angelo: - A livello strumentale! A livello strumentale sì, è efficiente: noi

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abbiamo costruito la scuola, realizzato i vestiti, riusciamo a sostenerci in manie- ra sufficientemente ragionevole senza ucciderci, a livello strumentale, anche se questo non vale per molti nel senso che poi non tutti godono dei risultati della tecnica e della scienza, che sono regolate dalla ragione … nel momento in cui la ragione va a indagare sul senso, sulla felicità, sulla libertà, sulla democrazia… cioè su concetti che non sono più concreti fallisce e non dà una risposta: per- ché… perché… perché… perché… perché… - Mario: - …perché non le serve, in realtà! - Angelo: - In che senso? - Mario: - Nel senso che non è necessario alla sopravvivenza della specie dell’uomo che l’uomo sappia il senso dell’esistenza e tutto ciò che ne consegue. Dato per scontato che il fine della vita sia la vita stessa l’uomo non ha bisogno di avere un senso definito ma gli basta continuare a sopravvivere, continuare a respirare, a riprodursi… - Angelo (indicando Massimo, davanti, che era intervenuto prima): - Lui dice- va che bisogna vivere per godersela, tu dici di vivere per sopravvivere… - Mario: - No! Ma non è un fine… la vita si risolve in se stessa! - Angelo: - Io ho fatto alcune osservazioni, interessanti arrivati a questo punto: spesso viviamo non vivendo cioè viviamo nell’inconsapevolezza della vita, non la sentiamo, non ce la godiamo tra virgolette, non parliamo esclusivamente di goduria dei sensi, di piacere del cibo, ecc... ma di sentire proprio di essere vivi… io vedo, per la maggior parte del tempo, per primo me stesso, essere fuori da me stesso, io vivo fuori da me stesso… - Vito: - In che senso? - Angelo: - Molto spesso siamo proiettati all’esterno, ci occupiamo del mondo, ci preoccupiamo dell’altro perdendo di vista l’interiorità, noi stessi. Con questo non voglio dire che non va bene l’esterno ma che per l’esterno perdiamo l’in- terno…quindi dovremmo cercare di attivare una doppia attenzione, rivolta sia verso l’esterno che verso l’interno…non sto dicendo di escludere l’esterno… - Vito: - …quindi nelle condizioni in cui stiamo vivendo tutti quanti siamo vivendo all’esterno? - Angelo: - Invece che vivere per vivere…anche se non ha senso, p erò, biso- gna vivere! - Mario: -Non sono d’accordo perché…perché è molto meglio l’inconsapevo- lezza della propria natura, della natura ultima dell’uomo che la consapevolezza! È molto meglio non sapere… non pensare troppo… non farsi troppe domande… - Angelo: - ...ma questo non è pensiero! - Mario: - …diciamo…io parlo di consapevolezza di ciò che effettivamente si è. Secondo me non è necessariamente positivo sapere o comunque arrivare alla conclusione che un senso non ci sia perché appunto ti può lasciare smarrito nei confronti della vita stessa... -

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Angelo: - …ma tu a vivere devi dare un senso? - Mario: - Io non posso farne a meno, nel senso che sono portato… per come sono fatto io, almeno, sono portato ad interrogarmi anche se non volessi farlo lo farei lo stesso: cioè non è qualcosa che riguarda la mia volontà. È, semplicemen- te, che mi pongo delle domande e cerco di trovare delle risposte… - Angelo: - Vivere nell’inconsapevolezza, però, non te la fa godere questa esi- stenza! Non te la fa sentire! - Mario: - Perché? - Angelo: - Perché non sei consapevole di quello che fai! - Mario: - Serve essere consapevoli per godersi la vita? Nella natura intima dell’uomo? - Angelo: - Fammi un esempio concreto! - Mario: - Penso a tutte quelle persone che vivono una vita…estetica, ossia la ricerca del piacere corporeo…quindi…non lo so…come gli artisti… - Angelo: - …ma lo devi sentire! - Mario: - Sì, ma se tu poi ti vai a domandare qual è la spiegazione razionale… - Angelo: - ...no! - Mario: - …da questo, secondo me, giungi ad apprezzare che in realtà è tutto un’illusione, cioè anche questa vita alla ricerca del piacere, quel piacere che cos’è se non nulla! - Angelo: - Ci mancherebbe! - Mario: - Raggiunta questa consapevolezza di ciò che è il piacere, il piacere stesso perde di significato e quindi non era meglio l’inconsapevolezza? - Angelo: - Facciamo un esempio concreto, di nuovo! Semplice semplice: il cibo: quando mangiamo… nell’inconsapevolezza, tu stai introducendo qualcosa dall’esterno dentro di te…magari qualcosa di molto saporito…ma non te lo stai godendo…con gusto…perché stai pensando agli orrori proposti dal telegiornale. Quello che io volevo dire è che senti…sei consapevole di mangiare…che poi può essere anche un gusto spiacevole però lo stai vivendo con tutto te stesso: è questo che intendo per consapevolezza! - Voce esterna: - Cioè vivere ogni attimo e sapere che lo stai vivendo: carpe diem… - Angelo: - …qualsiasi cosa, sì! …io sto muovendo questo braccio ma lo sen- to? o posso dire qualcosa senza sapere cosa sto dicendo…non devo sapere cosa devo andare a dire ma semplicemente rendermi conto di quello che sto dicendo… cambia soltanto la prospettiva: io mi osservo, mi ascolto mentre sto parlando…- Mario: - …è sufficiente? - Angelo: - Per vivere intensamente sì! Il problema sai qual è, è che adesso lo sto facendo perché ne sto parlando ma appena uscirò da quest’aula starò camminando pensando a mia sorella e quindi perdo il piacere il gusto dei passi! -

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Mario: - C’è una frase che riassume quello che dice lei: Si è felici quando si è presenti in quello che si fa. - Angelo: - Certo! E quindi il senso dell’esistenza è quello di dare un senso a tutta l’esistenza, singolarmente, puntualmente, essendo consapevoli di ogni singolo momento, atto, pensiero. - Mario: - Però nell’attimo non si rischia così di perdere la consapevolezza in generale? - Angelo: - In che senso? - Mario: - Cioè non ti fermi a riflettere su…perché riflettere ampliando mano a mano lo sguardo, pensando al prima e al dopo… - Angelo: - Il prima e il dopo non esistono in realtà… - Mario: - A livello percettivo? - Angelo: - Anche a livello esistenziale, concreto: il futuro posso immaginarlo ma è semplice immaginazione. Il passato non c’è più, è nella tua testa. Ti può influenzare ma è stato, purtroppo o per fortuna…chi lo sa! - Vito: - Sono considerazioni proprio del vivere il presente che… in realtà esiste solamente il presente… mi sta facendo riflettere di più sulla sua teoria che, alla fine, il senso dell’esistenza consiste nell’essere consapevoli di se stessi in ogni momento… - Angelo: - …con questo però non voglio dire che voi non dovete pensare al futuro…voi sarete il futuro dell’umanità…ci mancherebbe che non dobbiate pensare al vostro futuro, però, pensandoci bene, adesso, è irreale, bisogna essere consapevoli che state pensando a qualcosa che non esiste, che è irreale. È chia- ro che bisogna tenerne conto per programmare… per prendere il diploma… la laurea… lavorare… costruirsi una casa… è evidente, quindi, che occorre tenerlo in considerazione solo per crearlo e non per farsi creare: sappiate, in effetti, che può anche non realizzarsi. - Mario: - È come dire che il sapiens, il saggio è colui che è consapevole che può controllare solo il tempo presente e quindi vive nel tempo presente. - Angelo: - È chiaro che nel tempo presente tu devi anche progettare per rea- lizzare dei tuoi obiettivi: se vuoi fare l’ingegnere aerospaziale è evidente che tu debba programmare i tuoi studi e attivarti per farlo ma questo progetto futuro, per qualsiasi motivo, può anche non realizzarsi per cui tu non puoi metterci tutta la tua vita in questo progetto, non puoi far dipendere tutta la tua vita presente da questo progetto futuro, tutto qua! Perché nel momento in cui non si realizza tu sarai distrutto: ecco perché poi questo tassello è importante per la felicità. - Federico: - Se uno stabilisce che è sinceramente convinto che la sua felicità è diventare quella persona progetta e imposta tutta la sua vita per quel fine nel mo- mento in cui non ci riesce chiaramente ha fallito però è un rischio che una persona deve correre. Io credo che… io penso che sia meglio prendersi il rischio di finire poi distrutti in questo modo rispetto a non porsi un obiettivo e vivere una vita senza… -

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Angelo: - Io ho forse detto di non porsi obiettivi? Io intendo dire di non farsi dominare dagli obiettivi! - Mario: - Nel momento in cui lo raggiungi quell’obiettivo che succede? - Angelo: - …e se una volta raggiunto quell’obiettivo non ti soddisfa? - Vito: -…ma tu non sei felice finché non raggiungi quell’obiettivo? - Federico: - Non volevo dire questo. Non volevo dire di raggiungere la massi- ma felicità. Tu puoi essere felice anche mentre persegui quell’obiettivo. - Voce femminile: - Non si deve basare tutta la vita su quell’obiettivo! - Angelo: - …il dubbio… il dubbio… il dubbio: tu ci scommetti sapendo che può non andare come credi! - Vito: - Tu, Federico, quando tu ti sei posto quell’obiettivo… una volta che lo hai raggiunto sarai felice…Vuoi fare l’astronauta, una volta che diventi astro- nauta ti devi porre un altro obiettivo… - Federico: - Certo, ma intanto sono felice di fare l’astronauta… - Mario: - Schopenhauer… - Angelo: - Lascia stare Schopenhauer! Voglio sapere cosa ne pensi tu di que- sto! - Mario: - Schopenhauer dice che la vita è come un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia…- Vito: - …era molto ottimista! - Mario: - Schopenhauer era un pessimista… io non sono d’accordo però la- sciamo perdere l’uomo per una serie di motivazioni che stanno all’inizio delle speculazioni filosofiche che non vi spiegherò vive di desideri, cioè passa da un desiderio ad un altro. Che succede? L’uomo si pone un obiettivo che è, appunto, il soddisfacimento di questo desiderio. Nel momento in cui cerca di raggiunger- lo soffre perché non lo ha ancora raggiunto e soffre finché non lo raggiunge, lo raggiunge e il pendolo passa in mezzo e vi è un momento di appagamento, che non so quanto possa durare, questo penso dipende da persona a persona. Poi ricomincia un’altra oscillazione, l’uomo si pone un altro obiettivo e ricomincia a soffrire. Nel momento in cui viene meno il desiderio, cosa che può succedere, magari andando avanti con l’età, subentra la noia esistenziale, cioè la mancanza di desiderio che, secondo Schopenhauer è ancora peggio. Ora vivere di un obiet- tivo, dire: “nella mia vita io voglio diventare questo!”, sia che poi effettivamente si raggiunga quest’obiettivo sia che non si raggiunga, dal punto di vista di Scho- penhauer, anche dal mio in realtà, è sbagliato perché non puoi vivere in funzione di qualcosa che non sai se effettivamente ti rappresenta... - Voce maschile: - Non vivi in funzione di ciò che vuoi ma vivi in funzione di te stesso. - Voce femminile: - …ma è impossibile non avere un obiettivo nella vita! - Mario: - Non sto dicendo questo! - Vito: - Non devi puntare tutta la tua vita su quell’obiettivo! -

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Angelo: - La volontà…dov’è la mia volontà? Che ci sto a fare qua? Perché mi ritrovo qui a vivere questa vita? Perché mi trovo qui sulla Terra? Perché i miei genitori mi hanno fatto nascere? Perché mi hanno messo al mondo? Che devo fare di questa vita? Qual è il mio obiettivo, il mio scopo? Se ce ne fossero… Vi siete data una risposta? - Federico: - Ognuno dà un proprio senso alla vita! Quello che io ho pensato in questi miei anni è questo: noi tentiamo sempre di dare continuità, per noi la perfezione corrisponde, secondo me, alla continuazione, cerchiamo sempre di continuare, anche dopo la morte… infatti il fatto che abbiamo bisogno di credere ad una vita dopo la morte significa che abbiamo bisogno di continuare la nostra esistenza. Allora ammettendo che… siccome è evidente che non abbiamo prove della vita dopo la morte, l’unico modo in cui, ho pensato, si può vivere dopo la morte fisica è la memoria: le persone che ci ricorderanno dopo di noi. Io perso- nalmente vivo per diventare…, sembra una cosa stupida, famoso! - Angelo: - Scusa, perdonami… prima abbiamo parlato di Schopenhauer, che è morto, poverino! (Risa) Stiamo parlando adesso di Schopenhauer ma adesso, dove sta Schopenhauer? È solo una parola… un nome. Io, Angelo Pellè, adesso sono una persona, in carne e ossa, un domani che muoio, anche se diventassi fa- moso, non ci sarò più sarò solo un nome e cognome, un ricordo o qualche opera o idea bistrattata e tradita. - Federico: - Qualsiasi senso dia alla vita ci sarà questa distruzione fisica. - Angelo: - Sì, però io adesso sono concreto, mi vedi, mi tocchi, possiamo parlare, confrontarci, condividere esperienze. - Voce femminile: - Qualsiasi obiettivo ci si pone un giorno, comunque, non esisterà più! - Angelo: - Noi parliamo ancora di Platone, di duemila e cinquecento anni fa, sì, si parla, ma è un nome, una statua, un pensiero… - Voce femminile: - Platone si sarà posto degli obiettivi nella sua vita come noi ci poniamo altri obiettivi ma tutto finirà… - Angelo: - La vita sulla Terra, da quanto sostiene la scienza, è destinata a scomparire perché la Terra è destinata a scomparire… a meno che non popolere- mo un nuovo pianeta. Muore il sole o ci sarà un big crash, comunque la vita non è necessaria per l’universo. E non ci sarà più memoria… - Federico: - Davanti a questa dissoluzione del tutto propone d’improntare la propria vita, la propria esistenza concentrandosi sul momento in cui siamo vivi, siamo vivi corporalmente. - Angelo: - Va bene fare progetti per il futuro ma non possiamo mettere la mano sul fuoco che questi si realizzino perché potresti esserne deluso… non sto dicendo che non li devi fare: falli! Progetta! Immagina il tuo futuro ma sappi che è un’im- maginazione. Ambisci a diventare famoso! …a fare il bene dell’umanità! …può darsi che si realizzi, però, attento! Nel momento in cui non si verifica tu stai male! -

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Voce femminile: - Ci hanno sempre detto che, in realtà, il senso della nostra vita è vivere la vita… ci hanno dato l’opportunità per poter realizzare ciò che vogliano fare, ciò che vogliamo realizzare… - Vito: - …a livello spirituale, intendi forse dire, … Perché, alla fine, quello che concretizziamo… cioè il senso della vita come qualcosa per concretizzare quello che vogliamo.- Angelo: - Vedi se dico bene: secondo te c’è in ognuno di noi un seme che deve germogliare.- Voce femminile: - …Sì, esatto! - Angelo: - Come se noi avessimo personalmente qualcosa da realizzare però bisogna conoscersi… e cambiamo… Come fai a conoscerti veramente? Ma chi si conosce realmente? È possibile! Puoi conoscere te stesso realmente e sarebbe un miracolo! - Voce femminile: - Per riuscire a conoscersi veramente bisognerebbe affron- tare determinate situazioni per capire realmente come prendi le decisioni della tua vita. - Angelo: - Io, infatti, invidio chi sa precisamente cosa vuole fare nella vita, chi nasce, ad esempio, artista e non sarebbe capace di fare altro nella vita. Purtroppo a me piacciono tante cose e sono disperso in tante cose che non sono riuscito ancora ad individuare qual è il mio obiettivo, qual è lo scopo per cui sono nato! - Voce femminile: - Quindi, a quanto ho capito, perseguendo questa convinzio- ne secondo cui la vita dev’essere vissuta attualmente, in questo momento, Lei, quindi, escluderebbe a piè pari la possibilità di razionalizzare un sentimento? Perché, secondo me, non è sempre sbagliato: per esempio, quando un uomo soffre e si vede dal punto di vista esterno e vede i pro e i contro di quello che gli è accaduto, dovrebbe sentirsi meglio e, di conseguenza, non lasciarsi andare finché il dolore non se ne va da solo ma trovare una soluzione. - Vito: - Attraverso la ragione e la logica, diciamo, eliminare un sentimento che può esser quello del dolore ma non solo. - Angelo: - No, perché? È giusto anche quello: io ho sofferto tanto e me lo sono goduto: si può anche godere della sofferenza! Non voglio dire che mi autoinflig- go la sofferenza, non sono masochista ma il dolore fa parte della vita come il piacere e quando c’è è meglio sentirlo che negarlo. Io ho provato questa cosa: se tu sei consapevole nel dolore il dolore passa, nel momento in cui lo razionalizzi diventa ancora più doloroso. Perché tu ci pensi! Pensi perché e i perché non si risolvono! Perché non ne trovi e ti auto-maceri! - Mario: - C’è chi soffre molto di più nel non riuscire a darsi una spiegazione e che non poi nel trovarla perché trovandola dice “basta è chiuso”! - Vito: - Nel momento in cui dici: “Basta, è chiuso!” prendi consapevolezza della causa del dolore non lo hai risolto razionalmente lo hai vissuto... quindi si rifà a quello che dicevamo prima… -

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Mario: - Sì, ma lo devi pensare… - Angelo: - Comunque il segreto sarebbe unire le cose: noi tendiamo sempre a dividere mentre la realtà e tutta insieme. Nel senso della vita la ragione entra sempre però non possiamo escludere il sentimento: se uniamo le due cose, forse, ci avviciniamo alla realtà. Se le separiamo ci allontaniamo dalla realtà, cosa che facciamo sempre: vivisezioniamo la realtà, operazione che non è legittima se non per fini didattici forse, o di studio ma, nonostante ciò, dimentichiamo poi di ricondurre tutto all’unità, come è nella realtà. Anche noi ci consideriamo di- stinti, essere differenti l’uno dall’altro, però condividiamo lo stesso spazio, no? Siamo inseriti in un contesto che unisce tutto… pure se c’è aria tra me e te… se c’è pensiero tra me e te… pure se ci definiamo distinti non lo siamo, in realtà, completamente, abbiamo sempre in comune qualcosa… anche solo atomi ma qualcosa ci unisce. Cosa ha a che fare questo, ora, con il senso della vita? - Voce femminile: - Niente! - Angelo: - Consideriamo, appunto, la vita tutta, interamente, come dicevamo prima: tutti gli esseri viventi, di tutte le epoche non solo del passato ma anche del futuro (fino a quando non scomparirà la vita sulla Terra, se ciò accadrà, con la morte del Sole per esempio) oltre ai presenti adesso, logicamente. Prendiamo in considerazione tutta, in toto, avrà un senso? - Vito: - Se la morte è intesa come fine della vita non ha senso! - Voce maschile: - Tu muori ma puoi vivere nel ricordo di altre persone o lasciare opere, idee, puoi cambiare per sempre alcune cose… - Vito: - Prima o poi si dimenticheranno, moriranno… - Angelo: - Perché c’è stata la vita, allora, per scomparire? - Mario: - Anche se ci fosse effettivamente una ragione l’uomo non la cono- scerebbe - Angelo: - Se ci fosse una ragione mi fa pensare che sarebbe esclusiva dell’uo- mo: è solo l’uomo, dotato di ragione, a pensare a una ragione. Chi può pensare con la ragione oltre all’uomo? - Mario: - Un essere… - Angelo: - Eh un essere… - Mario: - …un essere nell’Universo che è più evoluto dell’uomo e ha sfiora- to questo punto… non possiamo saperlo: bisogna mettere in discussione tutto! Questo è un problema di tutta la filosofia: è convinta… convinta che pensando si possa risolvere qualsiasi cosa! - Angelo: - …e questo è un limite della ragione! - Voce femminile: - …ma l’individuo non ha voluto la vita! - Angelo: - Sì, ma si ritrova a viverla! - Voce femminile: - Il punto è questo: io ho sempre creduto che siamo il pro- dotto dell’egoismo di chi ci ha creati. Perché, in fondo, io non ho chiesto la vita però mi ci sono ritrovata... non so se questo significhi altro… -

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Angelo: - Come proponeva prima Mario, mettiamo tutto in discussione: in un’ipotesi iperbolica chi ci dice che non ci sia una vita precedente e abbiamo deciso noi dove e da quali genitori nascere? Se tu avessi scelto di vivere qui, in questo periodo, con questa tua famiglia, se tu lo hai scelto perché lo hai scelto? - Voce femminile: - Non saprei… - Angelo: - Comunque ormai ci sei! Perché ci sei? - Voce femminile: - Il non lo so il senso! Vito: - Quello che emerge da tutta questa discussione è che con il ragiona- mento non riusciamo a trovare un senso alla vita. - Angelo: - Perché la ragione, tendenzialmente, va sempre all’infinito: …per- ché? …perché? …perché? - Vito: - E se l’uomo utilizzasse per trovare un senso alla vita di una facoltà diversa dalla ragione? - Angelo: - Ecco: questo è il punto! Torniamo ad integrare l’uso della ragione con l’auto-osservazione, l’auto-consapevolezza e, rivolgendoci al nostro inter- no, vedere se c’è veramente quel seme che dev’essere fatto germogliare per dare un senso alla vita. - Federico: - Cosa c’è oltre la ragione? - Angelo: - I cinque sensi, un sesto senso, i sentimenti, le emozioni, l’auto- osservazione senza giudizio, la consapevolezza. Io, adesso, posso essere consa- pevole… - Vito: - Io ho una tale fede… ho tanta fiducia in me che prima o poi troverò il senso della vita! - Mario: - Magari attraverso la morte! - Angelo: - Allora ci fai una promessa: quando lo trovi ci chiami e ci dici qual è. - Mario: - Io vorrei trovarmi, dopo, magari dopo la morte se sarà possibile, e farci una risata.- Angelo: - Resta, comunque, il fatto che la vita è sempre bella, va vissuta e, con una certa intensità, è bellissima. Sia nella complessità dei ragionamenti che potrebbe indurci alla disperazione mentale… invece, è bello anche quello… an- che quando, magari, stai soffrendo, se vuoi, riesci a trovare dentro di te qualcosa che ti fa sentire vivo… non dico essere felice che è troppo sebbene possibile. - Voce femminile: - Perché è necessario trovare il senso della vita? - Angelo: - Non stiamo dicendo che è necessario… stiamo andando alla ricer- ca… del senso della vita! - Vito: - Questa domanda mi piace: ‘perché è necessario trovare il senso della vita?’ - Voce femminile: - Non ce n’è! - Vito: - A quanto pare non ce n’è. Io, personalmente, più che pormi la doman- da sul senso della vita mi pongo la questione di come raggiungere la felicità… che è qualcosa di più tangibile… un piacere personale…anche se poi abbiamo

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diverse opinioni sulla felicità. Ma è proprio quello il punto, il fatto che, secondo me, la felicità è, davvero, qualcosa di relativo che varia per ogni singolo indi- viduo. Se io voglio percorrere la felicità la posso trovare veramente in qualsiasi azione, anche se mi succede qualcosa di negativo… la cosa più brutta… un tradimento orribile… io sono contento, sono felice perché so che dopo che sarà passato quel periodo starò meglio! - Voce maschile: - Quindi potenzialmente siamo sempre felici... - Voce femminile: - Seguendo il tuo discorso tu stai dicendo che magari anche subendo un tradimento sarai felice perché dopo starai meglio… non sei felice del tradimento… stai pensando al futuro… - Vito: - Sto pensando ad un’illusione! Non è sicuro che sarò felice dopo! - Angelo: - Puoi essere felice se sai come non diventare infelice…. - Voce maschile: - …se muore un tuo parente: tua madre… tua nonna… non puoi essere felice! - Mario: - Chi, tra di voi, si è fermato un giorno pensando: ‘Io sono felice? - Voci sparse: - Io! Io! Io! - Mario: - E per quanto è durata questa condizione di felicità? - Voci sparse: - Poco! Un po’. Qualche ora… - Voce femminile: - Poniamo il caso che io abbia un oggetto e quest’oggetto si è rotto. Ne invento un altro per riparare quello che si è rotto: ho inventato quest’oggetto per uno scopo, appunto per riparare ciò che ho rotto…però la vita non ho scelto io di darmela, quindi il senso della vita non lo dovremmo porre noi ma chi ha creato la vita. Mi sto ponendo allora la questione di chi ha creato la vita: un dio? ma io non credo in Dio… - Angelo: - Avevamo stabilito però d’indagare il fine ultimo della vita non la causa iniziale, ricordate? Va bene comunque… - Voce maschile - Noi ci stiamo ponendo il problema per qualcun altro, nel senso che ci stiamo ponendo il problema che si sarebbe dovuto porre chi ci ha dato la vita… - Vito: - …però io non credo in Dio quindi quel qualcuno non dovrebbe esi- stere! - Angelo: - Siamo scientifici? La vita da dove nasce? Dall’acqua…? Portata dalle stelle, a cavallo delle comete? Questo possiamo saperlo con relativa ap- prossimazione al vero ma il fine è più difficile da trovare… forse meglio dare un senso alla vita essendo felici di vivere la vita…- Voce femminile: - A proposito del tradimento e della felicità: se qualcuno ti tradisce nel momento in cui lo scopri e lo affronti ci stai male però dopo, quando lo superi, apprezzi di più quel momento di felicità perché senza tristezza non ci sarebbe la felicità! - Angelo: - Nel momento in cui qualcuno ti tradisce e nel momento in cui sco- pri il tradimento e stai male, sei tu che tradisci te stesso: perché tu hai risposto

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troppa fiducia nell’altro, hai dato una fiducia che non potevi riporre nell’altro. - Voce femminile: - …ma lei crede di poter vivere una vita di sola felicità, non si annoierebbe?- Angelo: - Non credo, intendiamoci sul significato che diamo alla felicità. - Voce femminile: - Non ci serve la felicità senza la tristezza prima? Come puoi essere felice mentre sei triste? - Angelo: - Sentimenti di malinconia o tristezza possono rendermi felice nel modo in cui li avverto: l’intensità con cui vivo ogni emozione e sentimento mi rendono felice nel senso che essere felice è godere pienamente ogni momento… in un vissuto simile ogni situazione, esteriore o interiore, assume un valore di- verso che rende un senso di felicità. La felicità è uno stato d’animo di questo tipo più che un’adrenalinica vita vissuta a tutta velocità. Per non diventare infelice senti, con tutto te stesso, tutto ciò che ti accade, sia che tu sia entusiasta sia che tu sia depresso. - Voce femminile: - …ma io non potrei essere felice se muore mia madre! - Altra voce femminile: - Felicità e tristezza sono due facce della stessa meda- glia non posso decidere di viverne una senza vivere anche l’altra. - Angelo: - Certo, perché la medaglia sei tu. L’infelicità è come se non esi- stesse: sei tu che la crei. Muore tua madre? Sei triste anzi addolorata direi! È naturale, sia la morte sia il dolore e se non li accetti diventi infelice. Se li accetti e scendi in profondità in quelle sensazioni, emozioni e sentimenti che provi non dico che sarai felice nel senso di esser contento e gioioso ma sarai contento e felice di quello che provi e senti di provare, di te stesso interamente e non darai spazio alla disperazione io infelicità. - Voce femminile: - Secondo me è impossibile trovare la felicità nello stesso posto… cioè per la stessa ragione per cui sei stato triste. Può passare il dolore però non puoi gioire… - Angelo: - Avete un concetto strano di felicità! - Voce femminile: - Secondo lei cos’è la felicità? - Angelo: - Sentire la via, semplicemente… in tutte le sue forme. - (Vociare) Angelo: - Il male psicologico… mentale, sociale te lo crei tu, anche se non lo vuoi. -

…e se lo scopo della vita fosse semplicemente vivere, visto che la maggior parte vive da morto, cioè non vive o vive morendo, sarebbe vivere veramente, intensamente, nella realtà, consapevolmente. Chiedersi il perché per come fun- ziona la ragione andrebbe all’infinito. Non si trova il senso. Ovvero solo l’uomo si chiede il senso…per cui non ha senso chiedersi il senso. Bisogna a questo punto concludere che cercare il senso della vita non ha senso!

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Conclusioni:

Il senso della vita causale si risolve scientificamente …e, sebbene si possa fornire una ipotesi sull’origine con buona approssimazione al reale, questa ri- manda sempre ad un’ulteriore causa per cui il senso della vita causale appare casuale e rimane tuttavia incompiuto. …Allora il senso potrebbe essere quello di sviluppare ciascuno il proprio talento, seguire la propria inclinazione naturale, scoprire la propria natura. Come se fossimo nati ciascuno con un compito, con un obiettivo da perseguire, qual- cosa da realizzare, sviluppare… ciascuno dovrebbe individuare, dentro di sé, un quid allora …sarebbe, comunque, un senso soggettivo, individuale di una vita non della vita in generale. Sì ma così sarebbe anche lo stesso della sopravvivenza della specie: nel senso che se ciascuno deve seguire il proprio compito vitale lo farebbe comunque in funzione del mantenimento della propria specie e in generale quindi della vita. In questo modo stiamo tornando alla spiegazione scientifica dell’esistenza della vita: conosciamo le cause iniziali della vita e sappiamo che prima non c’era, che è comparsa sulla Terra in un certo modo e periodo. Potremmo allora ipotizzare anche l’inesistenza di un senso della vita in quanto la sua (della vita) esistenza pare essere casuale e potrebbe anche non essere più. «Qual è il senso della vita?» Può darsi che sia una domanda che deriva dalla costituzione stessa della for- ma mentis umana o meglio del cervello umano abituato a chiedersi il perché delle cose a livello strumentale per cui io sono abituato, come persona uomo dotato di ragione, a cercare un perché delle cose (mi costruisco uno strumento perché mi serve a…, ora questo modo di funzionare del cervello o per lo meno questo modo di porsi delle domande, dei perché da parte della ragione può fun- zionare nell’uso strumentale della ragione stessa e quindi la ricerca del perché delle cose dei fenomeni naturali però a livello di esistenza, di un senso dell’esi- stenza fallisca la ragione …anche perché i ‘perché’ appunto, così come funziona la stessa ragione umana vanno all’infinito, sia a ritroso che in avanti: cercare un senso, perché…? perché…? si va a finire sempre ad un altro perché e, alla fine al perché del perché. Senza riuscire a trovare risposta ma più che altro cercando di fare sempre domande per cui potendo sempre chiedere un perché, così come funziona la nostra ragione, con la ragione stessa non riusciamo a rispondere alla domanda come se nella domanda ci fosse già la risposta: io chiedo perché il senso della vita e il senso non c’è, è solo nella mia domanda, nella nostra testa, nella nostra ragione, nel modo di funzionare del nostro cervello. Con questo, potremmo, concludere che il senso della vita non corrisponde ad alcunché di re- ale e di senso insito nella natura o nell’esistenza stessa di tutti gli esseri viventi. Ora se un senso della vita universale, cioè riguardante tutti gli esseri viventi,

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non è possibile trovarlo oppure non c’è, possiamo rivolgere l’indagine sul senso della vita individuale, soggettivo: io sono qui, mi ritrovo qui, sono nato, sono su questa Terra, in questa parte della Terra, in quest’ambiente, società, con questi miei simili, che senso posso dare, allora, io come uomo? Io, come singolo, posso assegnare un senso o più sensi alla mia vita. Ora anche questo è difficile da indi- viduare o per lo meno qualcuno può trovarlo facilmente qualcun altro di meno: qualcuno può nascere con una inclinazione così forte d sapere già da sé, subito, che senso ha la sua vita (come quando qualcuno afferma: senza … la mia vita non avrebbe senso!). Per chi, come me, non ha ancora individuato un proprio univoco senso la cosa migliore da fare è dare un senso, dare un senso cioè, in questo senso, fare del meglio per essere quanto più possibile se stessi nella for- ma più autentica e quindi forse si potrebbe parlare di realizzazione di se stessi, anche questo talvolta difficile da individuare, però fare le cose per cui si ritiene in fondo di essere portati e farle nel miglior modo possibile, ossia con tutto se stesso anche se questo pone dei problemi e delle questioni di notevole importan- za quale l’individuazione di queste priorità: cosa siamo noi? Siamo l’insieme di tutte le nostre esperienze, ricordi, le nostre parole, sentimenti, tutto quello che abbiamo sentito, studiato, letto, …ci sono dentro di noi tutti i nostri insegnanti, tutti i nostri maestri, amici, i genitori, tutti coloro con cui siamo entrati in con- tatto… allora chi ci dice che non si esprimono in me tutte queste voci e dov’è la mia voce? Reale, concreta, unica, personale, vera e propria? Anche questo è un lavoro di sfoltimento che occorre fare per individuare il proprio senso della vita.

218 “Ut Sol in medio Universo”: la ‘meridiana’ del Liceo “G. Banzi Bazoli” a Lecce per la didattica dell’astronomia

Ennio De Simone, Vito Lecci

La gnomonica

Col termine “gnomonica” o “sciaterica” ci si riferisce a quella disciplina il cui scopo, attraverso lo studio del movimento delle ombre, è quello di progettare e realizzare ogni tipologia di Quadrante Solare (meridiane, orologi solari, calen- dari astronomici, ecc…). Sebbene le prime notizie relative all’utilizzo di questo termine risalgano al V secolo a.C., tuttavia essa affonda le sue radici in tempi molto più remoti, alcuni millenni fa, quando le sempre crescenti attività umane resero irrinunciabile la necessità di misurare, in qualche modo, il fluire del tempo. Alla prima, più ovvia e rudimentale, suddivisione tra “giorno chiaro” e “not- te”, scandita dalla presenza o meno del Sole nel cielo, si sono affiancate suddi- visioni in intervalli di 29 giorni (circa), grazie alla Luna ed alle sue fasi che si ripetono ciclicamente, e in intervalli ancora più estesi, pari ad un anno, grazie sia alle differenti altezze angolari del Sole sopra l’orizzonte, sia alla presenza nel cielo notturno di stelle e costellazioni occidue che, su scala umana (quindi trascurando gli effetti della precessione degli equinozi), si ripresentano puntual- mente ognuna nella propria stagione. Ma anche lo stesso giorno viene suddiviso in intervalli più brevi, chiamando in causa alcune stelle di riferimento, per la gestione delle ore della notte, e del Sole per la determinazione dell’ora durante il giorno chiaro, grazie alla progetta- zione e realizzazione di sempre più ricchi ed elaborati Quadranti Solari.

Gli orologi solari

Volendo passare in rassegna alcune delle più importanti tipologie di Qua- dranti Solari, si potrebbe iniziare proprio dalla Meridiana, nel senso più stretto del termine, strumento il cui scopo è unicamente quello di individuare l’istante del mezzogiorno solare. Un bellissimo esemplare è rappresentato dalla meridiana a camera oscura della Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma. Al suo interno, attraversando

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il foro gnomonico praticato su una sua parete, la luce del Sole si staglia sul pavi- mento, dove toccherà la linea meridiana esattamente nell’istante del mezzogior- no solare. Questo, come decine di altri strumenti simili in Italia, erano utilizzati per scopi religiosi, civili e astronomici. Ben più ampia diffusione hanno conosciuto invece gli Orologi Solari, conce- piti al fine di indicare le ore del giorno, o anche le frazioni di ore. Sono caratte- rizzati dalla presenza di “linee orarie”, una per ognuna delle ore che il quadrante sarà in grado di rappresentare, compatibilmente con le sue caratteristiche tecni- che (tipologia, dimensione, inclinazione, declinazione gnomonica, ecc…). Sarà l’ombra proiettata dallo stilo (o gnomone) che, posandosi sulle linee, rivelerà la corrispondente ora solare. Un ulteriore arricchimento degli orologi solari è rappresentato dalla presenza delle “linee diurne”, in grado di fornire l’indicazione di alcuni particolari giorni dell’anno. Queste linee attribuiscono quindi al semplice orologio solare anche funzioni di Calendario Astronomico. Sebbene sia teoricamente possibile rappre- sentare le linee diurne di ogni singolo giorno dell’anno, tuttavia, per ragioni di chiarezza e semplicità, solitamente vengono rappresentate le linee equinoziali e solstiziali, che scandiscono l’ingresso del Sole in ognuna delle stagioni dell’anno. Grazie alla loro estrema versatilità, ogni quadrante solare può essere realiz- zato in qualsiasi materiale, dimensione e forma, permettendo di ricercare ogni volta la combinazione che più si adatta al contesto in cui lo strumento sarà in- serito. Il più delle volte impreziosiscono muri e facciate di molti edifici – sono i quadranti verticali – ma ne sono stati realizzati su supporti variamente inclinati o anche orizzontali; non mancano infatti bellissimi esemplari di grandi dimensioni (solitamente calpestabili) realizzati su piazze e marciapiedi. Ogni quadrante solare è poi strettamente legato al suo proprio stilo (o gno- mone), opportunamente calcolato al fine di una corretta collocazione, direzione e lunghezza. Potrà essere un Ortostilo, quindi ortogonale al piano del quadrante, oppure uno Stilo Polare, perfettamente parallelo all’asse di rotazione terrestre, che punta quindi verso il Polo Nord Celeste (in prossimità della Stella Polare).

Meridiane in Italia e nel Salento

Esaurito il loro compito di fedeli osservatori del trascorrere del tempo, gli orologi solari e le meridiane mantengono oggi quello di testimoni di un passato, più o meno lontano, in cui le vicende giornaliere – con tutti i loro risvolti legati alle alterne fortune della vita e a ogni atto quotidiano – si susseguivano gior- no dopo giorno, anno dopo anno. Essi, dall’alto della loro posizione dominante sulle torri, sui campanili, sulle facciate dei palazzi o all’interno di imponenti basiliche, come sul pavimento della basilica di S. Petronio a Bologna o nella

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cattedrale di Modica, hanno assistito imperturbabili ad eventi di ogni genere, limitandosi ad assolvere il loro ufficio di silenziosi spettatori del movimento apparente del Sole nel cielo delle città, dispensando, con la pacata saggezza dei loro motti, moniti e auspici beneauguranti. Con ciò richiamavano gli abitanti delle città agli impegni giornalieri col semplice incedere dell’ombra dello gno- mone sul quadrante orario. Questo, talvolta, assume dimensioni considerevoli, addirittura imponenti– come quello posto sul Palazzo del Governatore a Parma – per cui si è ritenuto opportuno abbellirne lo sfondo incaricando allo scopo, dopo l’esperto gnomonista, qualche affidabile artista, capace di aggiungere una nota di arte alle fredde linee orarie della meridiana. Se ne lasciano ammirare così, in giro per l’Italia, alcune che catturano l’attenzione non soltanto per l’oggetto in sé, ma per l’originalità della raffigurazione iconografica che le caratterizza e distingue, trasformandole in oggetti d’arte di peculiare bellezza. Primeggiano in ciò gli abitanti del paesino di Monclassico, piccolo centro del Trentino, che hanno voluto arricchire le facciate delle loro case con gli artistici quadranti di orologi solari realizzati negli ultimi lustri da valenti artisti. Si è ve- nuta a creare così una vera galleria d’arte all’aperto del tutto fuori dal comune, che si può visitare seguendo il percorso delle stradine del paese, per ammirare decine di meridiane che gareggiano, l’una con l’altra, sfidandosi per originalità e raffinatezza d’esecuzione. Straordinario pure il “Museo del Tempo” realizza- to nel borgo di Saracinesco, vicino Roma, costituito da particolarissimi orologi solari e meridiane distribuiti per le viuzze del piccolo centro. Tuttavia, anche i quadranti più semplici ed essenziali nella loro composizione, privi di ogni orpel- lo ed ornamento, riescono a mantenere, senza alcuna ostentazione, un proprio fascino, che deriva, per quelli più antichi, dalla loro stessa vetustà, testimoniata talvolta dall’aspetto sbiadito a causa del passare del tempo. Le meridiane s’incontrano, benché raramente, in ogni angolo d’Italia, da Nord a Sud, e anche il Salento leccese ne annovera alcune, antiche – anche antichissime – e moderne. Sarà l’occhio attento del visitatore dei nostri paesi a svelarle, spesso sconosciute agli stessi abitanti del luogo, poco accorti a fissare lo sguardo e la mente sui dettagli del paesaggio urbano del luogo natio, magari immersi nell’assillante e dilagante mondo virtuale che si apre sullo schermo del proprio Smartphone. Sono – le nostre – meridiane delle quali non è stata ancora scritta la storia, l’epoca della loro realizzazione, l’artefice, il committente. Né è disponibile un ag- giornato catalogo che ne faccia un elenco esaustivo1. Oggetti ancora misteriosi

1 Tra i cataloghi disponibili si segnala E. De Favero, C. Garetti, a cura di, Meridiane dei comuni d’Italia. Catalogo guida dei quadranti solari italiani, Pomezia, Società tipografica, 2001; per la Puglia F. Azzarita, Quadranti solari in Puglia, in «Miscellanea di studi puglie- si», 1, 1984, pp. 59-72.

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finché non sarà condotta un’apposita indagine che ne sveli i segreti. Ne scorgiamo, per esempio, una seminascosta e poco leggibile sulla parete laterale della chiesa di S. Pietro a Galatina; ben due, ma anch’esse appena leggibili, sul lato Sud-Ovest e Sud-Est della chiesa matrice di S. Pietro in Lama. Recentemente rimessa a nuovo quella collocata sulla torre dell’orologio che svetta al lato della cattedrale di Gal- lipoli, città nella quale se ne osservano altre due, in Piazza della Repubblica e in Corso Roma, stabilendo così, per quanto se ne sappia, un piccolo record locale superato però dalla città di Lecce, che ne conta tre sulla loggia dell’ex Monastero degli Olivetani – di cui una probabilmente medievale – altre presso l’Istituto Sco- lastico titolato a G. Presta e il complesso universitario Ecotekne, oltre la meridiana posta sul prospetto del Liceo “G. Banzi Bazoli” della quale qui si parlerà. E poi ancora a Galatone, Piazza A. Costadura, a Salice Salentino, Piazza Plebiscito, a Matino, Chiesa di S. Giorgio, a Taurisano, Chiesa di S. Maria della Strada, a Ug- giano la Chiesa sulla chiesa matrice, a Santa Maria di Leuca, Villa La Meridiana, a Maglie, Liceo “F. Capece”, a Tricase, Liceo “G. Stampacchia”, sia su edifici di edilizia pubblica o religiosa, sia sui prospetti di palazzi e ville private. Se il quadrante solare non deve essere necessariamente un oggetto d’arte, esso deve invece assolutamente possedere una qualità: essere preciso, altrimenti sarà uno strumento ingannevole. La precisione richiede a sua volta competenza e abilità: competenza scientifica, per determinare tutti i parametri necessari perché la proiezione dell’ombra dello gnomone corrisponda esattamente all’ora ed alla stagione segnata sul quadrante. Abilità per la messa in opera della meridiana, per la scelta dei materiali con cui viene costruita, per la sua migliore fruibilità durante le ore del giorno2. Come detto, però, una ricerca specifica sull’epoca e sugli artefici della costruzione delle nostre meridiane attende ancora di essere condotta. Al momento si dispone solo di notizie relative a qualche provetto pro- gettista del passato la cui maestria, ben inteso, va alquanto oltre, spaziando in un ambito di competenze tecniche o scientifiche più ampio. Giuseppe De Luca (1839-1909) è uno di loro3. Egli fin dagli anni ’60 insegnava Fisica presso il seminario di Molfetta, ma essendo dotato di molteplici interessi scientifici, s’in- teressò anche allo studio della preistoria del territorio, conducendo ricerche che Ulderigo Botti volle citare in una sua pubblicazione4. Il settore di studi che più lo coinvolse riguardava però la chimica e la fisica, con le proprietà e la struttura

2 Non a caso si sono cimentati con la loro costruzione anche astronomi famosi, come Gio- vanni Schiaparelli (1835-1910) che ne realizzò una nel 1855 per la Chiesa di S. Maria della Pieve a Savigliano (Cuneo). 3 «L’Araldo. Almanacco nobiliare del Napoletano», 31, 1908, p. 200, lo vuole nato a Melpignano (Lecce) il 15 marzo 1839 dal nobile Francesco Saverio e da Anna Risolo. 4 Cfr. U. Botti, Sul congresso internazionale di antropologia ed archeologia preistoriche, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, pp. 55-56.

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della materia, ambito in cui si cimentò pubblicando studi specifici5. Che fosse in grado di progettare meridiane lo si evince da un breve passaggio pubblicato sul periodico «La Voce del Salento» dove l’articolista, con dichiarato disappunto, lamentava lo stato di degrado in cui versava proprio la meridiana, «splendido lavoro d’arte», da lui realizzata con la massima precisione a Melpignano, che aveva visto scomparire col tempo la «vivacità dei colori» del suo quadrante6. Anche Raffaele Gentile (1830-1904) coltivò gl’interessi per l’astronomia in generale e per la divisione e la misura del tempo7. Ciò gli consentì di sviluppa- re ottime capacità di calcolo per la previsione del verificarsi delle eclissi e per la determinazione della differenza tra tempo medio e tempo vero della città di Roma in raffronto ai comuni salentini8. La sua perizia fu messa alla prova con la costruzione di una particolare meridiana, nel giardino privato della dimora dello scienziato Cosimo De Giorgi a Lecce, dotata di uno gnomone di ben nove metri, realizzata appositamente per la regolazione oraria della rete di orologi elettrici da torre impiantati nella città a partire dal 1868 dal vescovo-scienziato Giuseppe Candido (1837-1906)9. Proprio quest’ultimo fu un altro capacissimo gnomonista,

5 Cfr. G. De Luca, Prime nozioni di chimica, Molfetta, Tipografia V. A. Picca, 1895; Id., Che cos’è la temperatura dei corpi ed il calorico che la produce, Molfetta, Tipografia Can- dida, 1897; Id., Della inesistenza del calorico specifico come quantità di calorico dei corpi, Molfetta, Tipografia Candida, 1897;I d., Della ragione del diverso calorico specifico dei vari corpi e conseguenze importanti che ne derivano, Molfetta, Tipografia Candida, 1899; Id., Sguardo generale sulla gravitazione riguardata anche quale mezzo di nostra custodia sulla Terra, Molfetta, Tipografia De Bari, 1900. Testimonianza di tali interessi si riscontra anche dalle lettere scambiate con lo scienziato Cosimo De Giorgi, dove ricorrono spesso riferimenti agli studi riguardanti la fisica e la chimica. Cfr. E. De Simone, L. Ingrosso, Epistolario di Cosimo De Giorgi. Regesti, Galatina, EdiPan, 2003, pp. 64-66, 106-107. 6 «La Voce del Salento», 19, 1932. L’articolista proponeva anche di affidarne il restauro ad un artista del luogo, Realino Elia. 7 Il primo biografo del Gentile fu Cosimo De Giorgi, che ne scrisse il sentito ricordo sulla base della sua conoscenza personale e su quanto riferitogli da Serafino Giannelli in una comu- nicazione epistolare. Cfr. «Corriere meridionale», 24 marzo 1904; E. De Simone, L. Ingrosso, Epistolario di Cosimo De Giorgi. Regesti, cit., p. 308. Sul Gentile si veda pure A. Bello, a cura di, Raffaele Gentile: 1830-1904, Matino, Tipografia di Matino, 1973. L’epigrafe posta sulla sua casa a Matino, dove era nato il 26 febbraio 1830, lo ricorda come «delle scienze matematiche ed astronomiche insigne cultore e maestro». 8 Cfr. R. Gentile, Tavole del tempo medio di Roma a mezzodì vero dei 130 comuni della pro- vincia di Lecce. Aggiunto il metodo per determinare la meridiana con la stella polare, Matino, Provenzano e Carra, 1887. Da valente matematico e fisico, nonché come provetto ingegnere, pub- blicò anche una Regola per misurare le botti, Napoli, Tipografia di F. Vitale, 1855;I d., Misura del- le volte teorico-pratica, Napoli, Tipografia di F. Vitale, 1856;I d., Teoremi e problemi di geometria elementare ordinati alla quadratura dei poligoni, [Montecassino], Tipografia di Monte-Cassino, 1864; Id., Misura teorico-praticadelle volte, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1878. 9 Ironizzando proprio sulle dimensioni straordinarie dello gnomone, lo stesso Candido in

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oltre che valente fisico ed inventore, tanto che tra i motivi per i quali gli fu attribu- ita la cittadinanza onoraria del Comune di Sambiase ci fu quello d’aver realizzato la meridiana del paese. Testimonianze ulteriori di questa sua competenza sono costituite da un suo manoscritto inedito nel quale sono riportate le procedure per la costruzione di un «orologio Astronomico» con relativo analemma e la meri- diana posta sulla parete laterale di Villa Fanny, nel territorio di Lequile (Lecce). Si deve ancora a lui l’invenzione di un apposito strumento per tracciare la linea meridiana con un innovativo metodo10. Del tutto speciale l’orologio solare ideato da Giuseppe Epstein, un ingegnere che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fu autore di alcuni interventi urbanistici a Maglie, dove risiedeva, ed altri centri del Salento meridionale. La peculiarità di questo strumento, chiamato col nome di Tropon, risiedeva nella possibilità di leggere sul suo particolare qua- drante l’ora locale, ottenendone contemporaneamente la comparazione col tempo medio di Roma per tutti i giorni dell’anno, senza dover far ricorso all’equazione del tempo. Si dimostrava quindi molto utile per gli utenti del servizio ferroviario che rispettava, chiaramente, l’ora media della Capitale e non quella del luogo; per tale motivo era definito come «cronometro solareda ferrovia». Ne fu installato un modello presso la villa di Domenico Daniele a Lecce, altri a Galatina negli stabi- limenti di Francesco Mongiò ed a Maglie nel villino di Antonio Palma-Modoni11.

La ‘meridiana’ del Liceo “G. Banzi Bazoli”

Risale al 15 marzo 2004 la prima richiesta inoltrata da parte dell’allora docente di Scienze Ennio De Simone al Dirigente Scolastico del tempo perché si provve- desse all’installazione di un orologio solare sulla facciata principale dell’edificio

una lettera al De Giorgi chiede: «[…] sarà un obelisco? O qualche altra opera alla Sisto V?». Cfr. E. De Simone, Giuseppe Candido: carteggi (1868-1901), pp. 87, 89, in L. Ruggiero, M. Spedicato, a cura di, Giuseppe Candido tra pastorale e scienza, Galatina, EdiPan, 2000. Sul Candido, alla precedente bibliografia, si sono aggiunte le pubblicazioni realizzate per le cele- brazioni tenutesi a Lecce nel corso del 2006, in occasione del centenario della sua morte. Si rinvia pertanto solo a A. Calabrese, A. Laporta, L. Ruggiero, a cura di, Giuseppe Candido. Edizione anastatica degli scritti, Lecce, Edizioni del Grifo, 2007; L. Ruggiero, M. Spedicato, a cura di, Giuseppe Candido tra pastorale e scienza, cit.; E. De Simone, L. Ruggiero, a cura di, Giuseppe Candido vescovo e scienziato, Lecce, Edizioni Grifo, 2009. 10 Cfr. S. D’Amico, Monsignor Candido, gnomonista salentino, XVI Seminario Nazionale di Gnomonica, San Felice Circeo, 9-10-11 Ottobre 2009. Id., Due manoscritti gnomonici inediti (o quasi) dal Salento, XVII Seminario Nazionale di Gnomonica, Pescia, 15-16-17 Aprile 2011. Potrebbe anche essere un salentino Luigi Grassi, autore di un opuscolo su La gnomonica ossia del metodo teorico-pratico di costruire i quadranti solari, contemporaneo del Candido. Ivi. 11 «La Provincia di Lecce», 27 aprile 1902.

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scolastico che ospita il Liceo “G. Banzi Bazoli” a Lecce. La proposta – che si accompagnava ad un’altra per l’istituzione di un Giardino Botanico negli spazi a verde di pertinenza del Liceo, realizzata nel corso del 2005 con la presidenza del prof. Antonio Attanasi – rimase però inevasa. Una successiva richiesta fu avanzata il 27 novembre del 2008 al nuovo dirigente, prof. Giuseppe Elia, e formalizzata con la presentazione di un apposito progetto il successivo 1 dicembre 2008. In quest’ultimo documento si precisava che «L’opera […] risponde all’esigenza di dotare la scuola di un manufatto utile per la dimostrazione didattica delle conse- guenze astronomiche derivanti dai movimenti di rotazione e rivoluzione della Terra nonché dalle leggi matematiche che ne sono alla base. Essa, inoltre, con aspetti non meno rilevanti, concorrerà alla valorizzazione estetica dell’edificio». Le fasi del successivo accoglimento del progetto definitivo stilato da Vito Lecci e l’inizio delle operazioni di costruzione e messa in opera della meridiana, richiesero però altri tre anni di tempo, prima di giungere al giorno dell’inaugu- razione ufficiale svoltasi il 14 dicembre 2011 alla presenza dell’allora Ministro dell’Istruzione prof. Francesco Profumo. Il Quadrante Solare, inciso su supporto lapideo delle dimensioni di m 1,5 x 2, è stato installato su una parete con declinazione orientale; questo permette allo strumento di funzionare sin dalle primissime ore dell’alba, in quanto vede il Sole sorgere, e continua ad essere illuminato fino alle 13:00 (circa). Riporta in alto a destra un pregevole intarsio, che riproduce il logo del Liceo ed il motto “UT SOL IN MEDIO UNIVERSO DISCIPULUS HIC EST”. Ad arricchire il quadrante concorrono una linea equinoziale (la retta penden- te a destra) e le linee solstiziali estiva ed invernale (le iperboli con la concavità rivolta rispettivamente in basso a sinistra e in alto a destra). Per ciò che concerne lo gnomone, data la particolarità di questo quadrante, si è optato per un ortostilo di acciaio inox sormontato da una sferetta di ottone, che ne facilita la lettura. Sarà quindi unicamente il centro geometrico dell’ombra prodotta dalla sferetta a fornire indicazione dell’Ora Solare Vera, oltre che delle stagioni dell’anno.

L’uso didattico della meridiana

I programmi di studio delle Scienze della Terra, nella Scuola Secondaria, prevedono l’insegnamento delle nozioni di base dell’astronomia, anche con ri- ferimento alle leggi della meccanica celeste ed alle loro conseguenze. Rientra in quest’ambito lo studio del Sistema Solare nel suo insieme e quindi quello del movimento dei pianeti attorno al Sole, governato dalle leggi di Johannes von Kepler (1571-1630) – il Keplero dei testi scolastici – dalle quali derivano fondamentali effetti per tutti i pianeti. Esse rendono conto di ciò che, in partico-

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lar modo per il pianeta Terra, porta all’alternarsi delle stagioni astronomiche e meteorologiche e del dì con la notte. Tali fenomeni vanno interpretati e compresi facendo ricorso a particolari definizioni il cui concreto significato, dal punto di vista di ciò che in sostanza ne deriva, non sempre è d’immediata acquisizione: anno sidereo, anno tropico (o solare) ed anno civile; giorno sidereo, giorno so- lare e giorno solare medio sono soltanto alcuni esempi. La scansione convenzionale del tempo e la compilazione dei calendari sono dunque strettamente connessi ai movimenti della Terra, sebbene siano anche altri i sistemi di riferimento oggi in adozione. Questo ha determinato necessariamen- te l’introduzione di alcuni concetti correlati, come quello di Tempo Universale, Tempo Vero e Tempo Universale Coordinato, nonché la suddivisione convenzio- nale della superficie terrestre nei rispettivifusi orari. Tutto ciò senza prescindere dall’influenza che la forma della Terra ha rispetto all’angolo d’incidenza dei raggi solari su di essa, connessa con i parametri delle coordinate geografiche della longitudine e della latitudine di ogni punto della superficie preso in con- siderazione e riferibili, a loro volta, ai paralleli e meridiani che costituiscono il reticolato geografico, ivi compresi quelli notevoli: tropici, circoli polari, il me- ridiano fondamentale ed il suo antimeridiano. Questo anche in rapporto all’indi- viduazione delle fasi stagionali che culminano nei rispettivi solstizi ed equinozi. Chiaramente altre possibili conseguenze vanno individuate ancora nella dif- ferente altezza del Sole sul piano dell’orizzonte, nella diversa lunghezza dell’ar- co della sua traiettoria diurna nel cielo, il modificarsi del punto in cui esso sorge e tramonta. Risulta altresì fondamentale la lettura del grafico risultante dalla equazione del tempo, per il confronto tra l’ora locale e l’ora che segna il tempo medio del fuso di riferimento, in modo da ottenere l’immediata correzione della differenza tra le due, a seconda del periodo dell’anno preso in considerazione. Questo lungo elenco di riferimenti e di termini è opportuno per mettere in risalto la quantità di concetti e definizioni che si correlano all’apparentemente semplice funzione di una meridiana, se la si considera soltanto un espediente tecnico per la rilevazione del tempo. Al contrario, essa può svolgere un ruolo di fondamentale sostegno a supporto della parte teorica su cui poggia l’in- segnamento di tali nozioni di astronomia, alle quali in questa sede si è solo accennato. È ovvio che un approccio didattico minimo a questi argomenti può eseguirsi semplicemente ricorrendo ad un’asta infissa verticalmente nel terre- no. Ma l’esperienza condotta con gli studenti messi direttamente al cospetto della meridiana si dimostra particolarmente efficace grazie all’effetto che le linee orarie e delle stagioni producono individuando chiaramente la proiezio- ne dell’ombra dello gnomone sul quadrante e il variare del suo percorso col passare dei giorni. Un utile contributo può anche essere offerto allo studio di discipline correla- te, soprattutto la fisica che è alla base della comprensione delle leggi della mec-

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canica dalle quali dipende l’ordine dell’Universo, insieme alla matematica che ne offre il sostegno e contribuisce alla determinazione dell’equazione del tempo ed al relativo grafico che la rappresenta. A questo punto, dopo una ripetuta serie di osservazioni e raccolta di dati in loco, supportati dallo studio delle nozioni di base, può programmarsi profi- cuamente una visita guidata ad un parco astronomico, le cui strutture e sussidi, opportunamente messi a disposizione da personale specializzato, completano e rendono più efficace il percorso d’insegnamento-apprendimento intrapreso. Qui infatti sarà possibile vedere in funzione diversi altri quadranti solari, ognu- no dotato di una sua propria peculiarità, ognuno adatto ad una particolare esigenza. Il planetario poi sarà in grado mettere facilmente in evidenza il complesso lega- me dei moti reciproci Terra-Sole, la cui comprensione altrimenti richiederebbe un grande sforzo di astrazione. Al suo interno, la fedele ricostruzione del movimento apparente del Sole nel cielo, permette una immediata ed efficace comprensione anche del funzionamento di ogni tipologia di quadrante solare. Ad affiancare queste attività, si aggiunge la possibilità di cimentarsi nell’os- servazione della nostra stella attraverso il telescopio solare che, equipaggiato di opportuni filtri, sarà in grado di evidenziarne macchie, protuberanze, granula- zione fotosferica, ecc. Inoltre, proseguendo in un percorso a più ampio respiro, l’utilizzo del radio- telescopio permetterà di scrutare la nostra stella sotto un profilo insolito, cattu- randone le emissioni elettromagnetiche fuori dallo spettro visibile. Approccio applicabile anche ad altri corpi celesti caratterizzati da emissioni radio (Pulsar, Giove, Via Lattea, ecc.). Ma queste sono solo alcune delle tantissime attività percorribili all’interno di un parco astronomico.

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INDICE

Presentazione Antonella Manca...... p. 3

Introduzione Ennio De Simone...... “ 5

STUDI Il problema epistemologico dell’oggettività della conoscenza Fabio Minazzi...... “ 9 Il processo di costituzione del soggetto in Jacques Lacan Elisabetta Leonetti...... “ 43 Osservazioni storico-filosofiche intorno alla nascita della Meccanica quantistica Massimo Stevanella...... “ 55 Una generalizzazione della teoria degli autovalori e degli autovettori Adriano Maniglia, Antonella Rochira...... “ 69 Raggi cosmici ed esperimento EEE: storia e tomografia muonica Andrea D’Urbano...... “ 81 L’Aurora Boreale e il Salento: lo spettacolo (quasi) negato Ennio De Simone, Livio Ruggiero...... “ 101 CRISPR-Cas9: il bisturi molecolare Federico Rossi...... “ 121 Le moto del futuro: meccanica o elettricità? Giuliana Polo...... “ 127 Un’Europa sotto processo. Riflessioni ad alta voce di uno studente Nicolò Pica...... “ 135 Rivoluzione Siriana: la resistenza Araba Samuele Calabrese...... “ 141 Guido Gozzano poeta post moderno Marcella Rizzo...... “ 155 La scrittura dell’esodo in tre racconti di Nelida Milani Maria Francesca Giordano...... “ 163 Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo Lidia Caputo...... “ 171 Canti nel periodo dell’occupazione dell’Arneo Luigi Spagnolo...... “ 179 Eros e Priapo: la Mussolineide di Carlo Emilio Gadda Marcella Rizzo...... “ 185

DIDATTICA Successo formativo e disturbi specifici di apprendimento Fiorella Dimitri...... “ 197 Dialogo sul senso della vita Angelo Pellè...... “ 205 “Ut Sol in medio Universo”: la ‘meridiana’ del Liceo “G. Banzi Bazoli” a Lecce per la didattica dell’astronomia Ennio De Simone, Vito Lecci...... “ 219

Finito di stampare nel mese di aprile 2017 dalle Arti Grafiche Favia - Bari per conto delle Edizioni Grifo via Sant’Ignazio di Loyola - Lecce