Capitolo II PER UNA CRONISTORIA DEL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO I DATTILOSCRITTI DEL PREMIO NAZIONALE RICCIONE 1947

1. Romanzo e nevrosi: la riconquista delle cose

«Caro Marcello, scusa se son stato zitto tanto tempo. Figurati se metto superbia proprio io! A Riccione se partecipavi vincevi anche tu. Il verdetto della giuria fortunatamente i giornali non l’hanno pubblicato: diceva che non c’era nessun romanzo che valesse gran che, e quei due erano appena appena i meno peggio.»1 Così, in data 26 settembre 1947, quasi a ridosso dell’uscita del Sentiero dei nidi di ragno, l’incipit della lettera al sodale Venturi, l’amico scrittore col quale Calvino intrattiene in questi anni un fitto epistolario. Niente da celebrare, anzi: l’opinione della giuria del Premio Nazionale Riccione, che l’ha premiato ex-aequo con Fabrizio Onofri2, si aggiunge come ulte- riore nota dissonante al già contrastato concerto di giudizi espressi sull’ancora inedito scartafac- cio: «I pareri sul romanzo di chi l’ha letto finora sono molto vari: secondo Pavese è bellissimo, secondo Natalia anche, secondo Ferrata è sbagliato, senza fantasia, scritto in gergo, pieno di con- venzioni e non so cosa altro, secondo Vittorini così così, secondo Balbo il primo romanzo marxista, secondo i miei genitori un insieme di sconcezze che non capiscono come il loro figlio abbia potuto scrivere».3

1 I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., p. 203. (Le citazioni seguenti dal volume delle Lettere includeranno solo destinatario, data e pagina.) 2 «La giuria del Premio Nazionale Riccione per un romanzo, presieduta da Sibilla Aleramo e presenti i seguenti giudici: Mario Luzi, Guido Piovene, Cesare Zavattini, esaminati i ventotto manoscritti concorrenti non ha potuto riscontrare in nessuno di essi qualità artistiche tali da suscitare il suo deciso consenso. […] la giuria ha però constatato che un terzo delle opere sottoposte al suo esame erano degne di considerazione per la com- mossa partecipazione dimostrata dai concorrenti alle recenti vicende della nostra vita nazionale, e segnala […] tra questi per migliori qualità letterarie i romanzi di e di Fabrizio Onofri, tra i quali la giuria ha deliberato di dividere ex-aequo il premio.» (Archivio della Fondazione Premio Riccione, Collocazione: b 2 1947, fascicolo 2, Segreteria; citato per intero in A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947 cit.). Curiosamente, Calvino riecheggia le parole che Sibilla Aleramo aveva scritto sul proprio diario il 15 agosto, giorno della premiazione, in merito alla qualità letteraria del Sentiero, «libro che non è neppur esso un capolavoro, ma è indubbiamente assieme a quello di Onofri quanto di meno peggio è stato mandato al concorso» (S. ALERAMO, Diario di una donna. Inediti 1946-1960, cit., p. 152). 3 A Silvio Micheli, 20 giugno 1947, p. 194. D’altro canto, il romanzo era stato apposta concepito come «un bocco- ne un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti» e non certo come cosa da «passare sotto silenzio» (A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 177). Le reazioni discordanti finita la lettura era quasi date per scontato, per questo testo «molto scabroso e difficile» (A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947).

217 Dopo la bocciatura ottenuta nei primi mesi del ’47 al Premio Mondadori4, con il deciso niet di Giansiro Ferrata5, cui aveva fatto invece da pendant l’entusiasmo di che, lettore per Einaudi nel gennaio, lo aveva raccomandato per la collana «Narratori contemporanei»6, il Sentiero colleziona poi il tiepido assenso di Elio Vittorini in maggio7, per trovarsi di nuovo sotto mira a Riccione in agosto8, suo malgrado vincitore (ma alla pari). Consolazione postuma, un più veloce

4 «[…] Pavese lo incoraggia a scrivere un romanzo; lo stesso consiglio egli riceve a Milano da Giansiro Ferrata che è nella giuria d’un concorso per un romanzo inedito, indetto dalla casa Mondadori come primo sondaggio dei nuovi scrittori del dopoguerra. Il romanzo che Calvino finisce appena in tempo per la scadenza del 31 dicembre 1946 […] non piacerà né a Ferrata né a Vittorini e non entrerà nella rosa dei vincitori (Milena Milani, Oreste Del Buono, Luigi Santucci)» (I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, in Romanzi e racconti, t.2, cit., pp. 1282-1299. La citazione è a p. 1283). Un breve profilo della cronistoria del romanzo in merito alla genesi si trova in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., p. 1243-1250 e in F. SERRA, «Gli esordi difficili» cit. (in particolare le pp. 44-48: Serra fa meritoriamente ampio uso dell’episto- lario calviniano, generoso di scambi sui mesi successivi la scrittura, per cui si rimanda anche a I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., pp. 162-214 passim). 5 A Marcello Venturi, 23 aprile 1947, p. 188: «Ferrata me l’ha stroncato per M[ondadori]; mi ha scritto una lettera con una completa stroncatura del lavoro, definendolo mancante d’invenzione, troppo «tranche de vie», scritto in gergo. Tutte ragioni che non mi convincono affatto: posso benissimo capire che il mio romanzo sia da stron- care, ma le ragioni addotte da F[errata] mi sembrano quanto mai peregrine». A pubblicazione ottenuta, Calvi- no riannoderà il dialogo con una lettera del 6 dicembre: «Caro Giansiro, tanto che non ci scriviamo. […] Il sentiero si vende, c’è chi ne dice bene, chi così così, e chi lo stronca. Nessuno mi convince del tutto. La più fiera stroncatura rimane la tua, e non nego che tu possa aver ragione. Ma so anche che non c’intenderemmo mai in un romanzo e che per ora certo non riuscirò a scrivere meglio» (p. 207). Si cfr. anche la lettera a del 3 settembre 1948, p. 230: «[Ferrata] incoraggiò e lodò i primi racconti, poi stroncò il romanzo con ragioni che non m’hanno mai persuaso». 6 «È senz’altro da stampare nei N. C.» (C. PAVESE, in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», cit., p. 1244). Su questa collana, ecco quanto indica l’editore stesso: «Realizzata nel 1941 e confluita nel 1947 nei “Coralli’, que- sta iniziativa si proponeva di “raccogliere senza alcun pregiudizio di scuola, narrazioni autentiche e impegna- tive’» (Cinquant’anni di un editore. Le edizioni Einaudi degli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983, p. 567). Il romanzo non si sottrae comunque alle attente cure dello scrittore piemontese: lo spazio dei «Coralli», che lo accoglie, sarà altrettanto «fortemente segnato»dal suo impegno (Ibidem., p. 579). 7 «Caro Calvino, ho dato a Einaudi parere favorevole per il tuo libro. Però non sono del tutto d’accordo, tu sai già come e perché, ormai ci conosciamo […]» (E. VITTORINI, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, cit., p. 121.) Scelto anche come giudice per il concorso riccionese, Vittorini non partecipa ai lavori, anche se invia da Sarzana, il 16 agosto, un telegramma per la giuria in soccorso a Calvino («Voto pro Italo/ Calvino Saluti/ Vittorini») che non viene però menzionato dall’Aleramo o in altri documenti a Riccione come decisivo per l’ex- aequo. La riproduzione fotografica del telegramma appare nell’articolo di Pier Vittorio Tondelli, Cabine! Cabi- ne! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, in AA.VV. Ricordando fascinosa Riccione. Personaggi, spet- tacolo, mode e cultura di una capitale balneare, a c. di G. Capitta e R. Duiz, Bologna, Grafis Edizioni, 1990, p. 139, riprodotto ora in AA.VV., Pier Vittorio Tondelli. Riccione e la Riviera vent’anni dopo, a c. di Fulvio Panzeri, Guaral- di, Rimini, 2005, p. 122. Brevi notizie sulla cronaca del Premio si trovano anche in S. PIVATO, Provincia e non provincia. Le origini del Premio Riccione e la cultura in Romagna nel secondo dopoguerra, cit., pp. 9-21 (cfr. in partico- lare pp. 15-17). 8 Oltre al giudizio dell’Aleramo, riportato sul diario edito nel 1978 (cfr. qui n.2), l’unico altro parere scritto del Premio Riccione 1947 è un telegrafico appunto di Mario Luzi: «Italo Calvino / Il sentiero dei ragni [sic] / Segn[alato] da Aleramo. Abbastanza abil[mente] approfitta della tecnica oggi diffusa da Vitt[orini] a Pratolini. Non manca qualcosa di buono, di vivace. Ma il racconto risulta un po’ immobile» (in A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947 cit., p. 47)

218 approdo tipografico: «Il romanzo uscirà tra pochissimo. Il premio ha accellerato la pubblicazione. Sarà un “corallo”, collana che io odio, per come si presenta. Avrà un brutto disegno di Morlotti appiccicato sopra»9. Numero 11 della serie, il libro di Calvino è preceduto da Pavese con Il compa- gno e da di È stato così – che inaugura la serie; tra gli stranieri, al n. 9 da La disfatta di Fadeev, cioè dall’archetipo russo corrispettivo del Sentiero10 e da calibri come Hemingway (Ave- re e non avere) e Sartre del Muro (cui farà seguito al n. 13, nel 1948, La nausea). Il vincitore del Premio Viareggio 1946 Silvio Micheli 11 e Pier Quarantotti Gambini fanno anche parte del catalogo 1947, rispettivamente con Un figlio ella disse e L’onda dell’incrociatore. La collocazione di un esordiente in questa galleria di talenti, complice il (relativo) chiasso del Premio attribuitogli12, è una intuizione editoriale che il mercato non smentisce. Quanto la strada per arrivare alla pubblicazione è stata costellata da brusche frenate, tentennamenti e piccole ama- rezze, tanto la ricompensa giunge repentina. Accompagnato dalla laudatio pubblica di Pavese che lo colloca in evidenza nel panorama lette- rario («il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana», scrive l’amico-maestro),13

9 A Marcello Venturi, 26 settembre 1947, p. 203. L’antipatia per la collana era già stata ribadita nella lettera a Micheli del 27 luglio (p. 197): «Siamo tutti bravi, noi “coralli’. Però più me lo ripeto questo nome, meno mi va giù. Io non riesco a sentirmi “corallo’». Le 105 carte del dattiloscritto riccionese si convertono in 209 pagine di cm. 13x19.5, rilegate con una copertina rigida cartonata, senza corredi paratestuali. Da un riquadro della co- pertina spicca il temuto disegno a colori di Ennio Morlotti, pensato sulla falsariga di un dipinto infantile: in primo piano, due volti appena abbozzati, e case alte e strette sullo sfondo, separate da una ripida strada a gradini. Si anticipa l’ambientazione del romanzo nei carrugi liguri, e fors’anche il tema dell’infanzia, convo- gliatovi obliquamente tramite lo stile raffigurativo. 10 A La disfatta Calvino dedicherà un’importante recensione su «L’Unità» del 2 novembre 1947 (opportunamente intitolata L’Uomo Nuovo nel romanzo sovietico, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t. 1, cit., pp. 1309-1311), in cui sembra quasi riflettere sul suo stesso romanzo, in cui «lungi dall’esser rappresentati come modelli di discipli- na e di virtù, i partigiani sono studiati nella loro colorata vivezza, nei loro risentimenti ancora sordi e informi» (p. 1310). Torneremo in seguito su quest’interpretazione, specialmente per il linguaggio usato nella recensione, che riecheggia lettere, articoli e persino il Sentiero (col capitolo IX, cuore ideologico del testo) nella sua valuta- zione dei compiti dello scrittore alla prese col romanzo dell’“uomo nuovo’. 11 Con Pane duro (Torino, Einaudi, 1946) al quale Calvino aveva dedicato una entusiasta recensione su «L’Unità» il 12 maggio, prima dell’assegnazione del Premio (Adesso viene Micheli, l’uomo di massa –ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t.1, cit., p. 1170-1175). da cui aveva poi preso avvio il rapporto epistolare (al 22 maggio, si cfr. I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., p. 158-159) e di collaborazione alla rivista viareggina di Micheli, «Darsena Nuova». 12 «[…] questo è proprio un caso che Einaudi “s’impegnò” con un lancio pubblicitario-per il Sentiero- forse addi- rittura esagerato» (lettera a Geno Pampaloni, 2 novembre 1949, p. 257): Calvino smentisce qui le interferenze dell’editore sui premi letterari («noi non abbiamo mai avuto bisogno di dar spinte “prima”: ci siamo sempre limitati, come è usanza, a “sfruttare” pubblicitariamente i premi “dopo”» ivi, p. 256). Il diretto coinvolgimento di Vittorini nel Premio Riccione (colla raccomandazione a votare per Calvino) potrebbe, però, dar la corda a certe insinuazioni di Pampaloni. 13 C. PAVESE, «Il sentiero dei nidi di ragno», «L’Unità», Roma, a. IV, N.S., 26 ottobre 1947, p. 3 (ora in La letteratura americana e altri saggi, a c. di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1951, pp. 273-276). La recensione riechieggia la nota editoriale enaudiana del 23 gennaio («È senza dubbio il primo racconto che a mio parere faccia poesia del- l’esperienza partigiana», in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» cit., p. 1243), giudizio che Calvino,

219 il libro riceve l’attenzione critica immediata del difficile Enrico Emanuelli, di Franco Fortini (che l’appaia a Quarantotti Gambini nella sua recensione) e di Arrigo Cajumi (conquistandosi, con que- st’ultimo, addirittura una colonna sulla prima pagina della «Stampa»assieme a Se questo è un uomo di ), cui fa da contrasto la sola (ma sonora, e illuminante) stroncatura di Enzo Giachi- no14. Le recensioni tutto sommato benevoli si accrescono di numero nei mesi successivi, già nel dicembre con Ferrata15, seguìto, nel nuovo anno, da Giuseppe De Robertis, Goffredo Bellonci, Clau- dio Varese e, quasi riscontro obbligato per il soggetto del romanzo, dai giornalisti che scrivono per i fogli della sinistra (Caprara, Ronfani, Mazzocchi)16. A promuovere il libro contribuisce «Rinascita» (dello stesso agosto)17 e, dopo le congratulazioni in diretta a seguito del Premio Riccione il 17 agosto, «L’Unità» il 20 novembre, che ne pubblica il

ancora «sulle spine» per le decisioni relative al Mondadori, aveva comunicato al fido Venturi (il 7 febbraio, p. 181). 14 E. EMANUELLI, Il figlio dei botanici comincia a scrivere romanzi, «L’Europeo», Milano, a. III, n. 45, 9 novembre 1947 (Emanuelli tornerà su Calvino col suo pseudonimo IL PESCATORE, in un articolo intitolato «Il “recitativo secco”», «L’Umanità», Milano, a.I, n. 236, 4 dicembre 1947); F. FORTINI, Due storie di ragazzi, «Avanti!», Milano, a. III (N.S.), 16 novembre 1947 (cfr. la lettera di Calvino del 3 dicembre 1947, p. 206); A. CAJUMI, Immagini indimenticabili, «La Nuova Stampa» [già «»], Torino, a.III, N.S., n. 277, 26 novembre, p. 1 (che Calvi- no ringrazia per lettera il 23 dicembre 1947, p. 211) Di E. GIACHINO, Il primo della classe, «Mondo nuovo», Torino, a.I, n.247, 20 novembre 1947, p. 3. Si cfr. S. PERRELLA, Calvino, cit., pp. 220-222, che trascrive in parte la recensione e la discute. (Si cfr. anche l’appendice di questo saggio, per le recensioni coeve al Sentiero.) Calvino stesso tornò su Giachino nel 1956, in risposta a una domanda sulla ricezione critica della propria opera: «Tutti sono stati fin troppo favorevoli verso i miei libri, fin dal principio […]. I pochissimi critici sfavorevoli sono quelli che m’intrigano di più, quelli da cui mi aspetto di più: ma una critica negativa che sia seria e approfon- dita, che m’insegni cose utili, ancora non sono riuscito a averla. Ebbi un articolo di Enzo Giachino, quando uscì Il sentiero dei nidi di ragno, una stroncatura assoluta, totale, da togliere la pelle, spiritosissima, che è forse uno dei più begli articoli che siano stati mai scritti su miei libri, uno dei pochi che ogni tanto mi prendo il gusto di rileggere, ma servire non mi serviva a niente neanche quello: colpiva solo gli aspetti esteriori del libro, che avrei superato anche da solo» (in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t.2, cit., pp. 2710-2711, che riproduce un’inchie- sta originalmente apparsa su «Il Caffè», a.IV, n.1, gennaio 1956). Sarà necessario ritornare in seguito su questa importante recensione. 15 G. FERRATA, La Resistenza dà i primi frutti alla letteratura, «L’Unità», Milano, 16 dicembre 1947: assai tiepida, piena di riserve e di distinguo, non è totalmente negativa come gli scambi privati con Calvino e la bocciature al Mondadori (cfr. qui dietro, n. 5) lascerebbero presagire. Si tratta forse di un gesto (parziale) di riparazione, adesso che il volume è stato pubblicato? Si cfr, anche G. FERRATA, in «Libera Stampa» (Lugano), 9 gennaio 1948. 16 G. DE ROBERTIS, Le ragnatele di Calvino, «Tempo», Milano, a.X, n.4, 24-31 gennaio 1948, p. 15 (ora in Altro Nove- cento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 567-569; si cfr. la lettera di Calvino in data 6 febbraio 1948, p. 214); G. BELLONCI, Italo Calvino tra i contemporanei, «Mercurio», Roma, a.V, n. 35, febbraio 1948, pp. 103-108; M. CA- PRARA, [«Il sentiero dei nidi di ragno»] «Rinascita», Roma, a.V, n. 2, febbraio 1948, p. 86; U. RONFANI, [Italo Calvino: «Il sentiero dei nidi di ragno», Einaudi], «Socialismo», Milano, a.IV, n.3-4, marzo-aprile 1948; M. MAZZOCCHI, Ancora un neorealista, «L’Italia socialista», Roma, a.VI, N.S., n.94, 22 aprile 1948; C. VARESE, Scrit- tori d’oggi, «Nuova Antologia», Roma, a.LXXXIII, n.2, maggio-agosto, 1948, pp. 102-104, cui si aggiunga anche la recensione più regionale di M. MAGNI, Sentiero dei nidi di ragno, «Giornale del Popolo», Bergamo, a.IV, n.16, 19 gennaio 1948 e infine L. ANDERLINI, in «Quarto Stato», 30 gennaio 1949. 17 Due ragazzi in prigione [da Il sentiero dei nidi di ragno], in «Rinascita», a.IV, n.8, agosto 1947, p. 4.

220 sesto capitolo sulla terza pagina dell’edizione torinese di cui Calvino è collaboratore, sotto il titolo Se non ci credete datemi un’arma (il cui occhiello recita, appena fuori tiro, «Da un romanzo di guerra partigiana»). La discreta accoglienza di mercato fa assurgere il libro a piccolo cult resistenziale, tanto da rendere necessaria una ristampa fulminea per assicurarne copie per l’anno 194818. A causa dell’impiego nella casa editrice Einaudi19 i mesi dell’uscita del Sentiero sono per Calvi- no un periodo di assestamento e di ridefinizione dei propri obiettivi. Corrispondono ad un rallen- tamento nella produzione giornalistica20 e a una svolta nella narrativa (contagiato adesso, com’è lui, dal “mal di romanzo”).21 La “malattia” creativa, vis-a-vis alle discrepanze di giudizio sulla sua produzione, non è solo uno stato di febbrile attività, con cui saggiare i propri mezzi e possibilità; riguarda bensì anche una crisi compositiva interna da imbrigliare, causata da una possibile manie- rizzazione da lui stesso sentita alternativamente nella scrittura dei racconti o del romanzo, lo sca- dere cioè in modi ripetitivi di stilizzazione, in una temuta “cifra” di temi, stilemi e sintagmi auto- matici22, pericoli da lui stesso spiattellati in pubblico con la consueta baldanza autocritica23.

18 Il finito di stampare del volume, a Torino presso la tipografia Francesco Toso per l’editore Einaudi, è del 10 ottobre 1947. È già del mese successivo, il 10 novembre, il finito di stampare per la «seconda edizione» indicata sul foglio di guardia con il copyright 1948 (e l’indicazione «seconda edizione» è riportata in copertina). Il fatto è ricordato direttamente anche nella recensione di M. MAGNI sul «Giornale del Popolo» (Bergamo, a.IV, n.16, 19 gennaio 1948): «Non è difficile dissentire dal parere di una giuria, ma non si può restare indifferenti al fatto che un libro, appena premiato, esaurisca l’edizione». Nella prefezione anonima dell’edizione per la «Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria» (PBSL) Einaudi, in cui riappare nel 1954, Calvino indica come il libro «ebbe un largo successo di pubblico, esaurendo in breve volger di tempo due edizioni» (I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1954, p. 8). Secondo quanto ricorda pubblicamente Calvino, del Sentiero «se ne ven- dono seimila copie: un discreto successo, per quell’epoca» (I. CALVINO, Nota introduttiva cit., p. VI). Ma si cfr. F. SERRA, Calvino cit., p. 359, che sulle stime di Roberto Cerami fa scendere però il numero a tremila. Nella lettera del 25 luglio 1948, spedita al padre, Calvino indica il numero di copie vendute nel giro di dieci mesi: «Del libro sono state vendute 3832 copie: non molto» (p. 226). Verificato oggi, cifre alla mano, il successo sembra più decisamente stabilirsi sul versante critico che per numeri di lettori, a fronte di tirature editoriali tutto sommato prudenti 19 A Marcello Venturi, 26 settembre 1947, p. 203: «Adesso io lavoro da Einaudi. Rivedo bozze e manoscritti, leggo libri stranieri, compilo bollettini tutto il giorno. È brutto lavorare. Non resta più tempo di lavorare per sè». 20 A Giansiro Ferrata, 6 dicembre 1947, p. 207: «[…] Con “l’Unità” di qui ho litigato. Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine». 21 Si cfr. la lettera all’amico sanremese Enrico Ardù dell’11 dicembre 1947, p. 208: «ormai non trovo più il tempo di terzapaginizzare: faccio il travet tutto il giorno e il “mal del romanzo” ormai non mi lascia più e mi ruba i momenti liberi». 22 Si veda la lettera a Elsa Morante, del 2 marzo 1950, che sebbene assai posteriore al nostro periodo in esame si rivolge all’aborto di Bianco veliero (il romanzo dolorosamente sfumato tra il 1947 e il 1949) , punto di una crisi compositiva e gnoseologica: «Il fatto è che io mi sento già prigioniero d’una maniera e bisogna che ne esca ad ogni costo: sto cercando di scrivere un libro totalmente diverso, ma è maledettamente difficile; cerco di rompe- re le cadenze, gli echi in cui sento che le frasi che scrivo vanno a colare come in stampi preesistenti […]» (p. 272). 23 «[…]prima abitudine d’un comunista dev’essere quella dell’autocritica, senza puntigli d’ambizione o flase modestie, e poi perchè sono contrario al mito dello scrittore “ispirato” che non sa il perchè di come scrive, ma

221 L’epistolario edito rintraccia le contraddizioni e gli interrogativi che Calvino si pone (e pone ai propri interlocutori) sul mestiere di scrivere in questa contingenza post-pubblicazione, e lascia in- travedere il serio riesame, quasi ossessivo, col quale l’autore misura le proprie forze chiarendo a se stesso, progressivamente, i temi e i soggetti che più lo appassionano, che lo spingono a affabulare. All’apertura del 1947, nell’«abbozzare un giudizio critico» (e pubblico) su se stesso, scriveva:

Io […] faccio racconti di partigiani, di contadini, di contrabbandieri, in cui partigiani, contadini, con- trabbandieri non sono che pretesti a storie piene di colore, d’accorgimenti narrativi e d’acutezze psi- cologiche: in fondo non studio che me stesso, non cerco che di esprimere me stesso, non cerco di rappresentare che dei simboli di me stesso nei personaggi e nelle immagini e nella lingua e nella tecnica narrativa24.

Dovremo tornare su questo problema dell’“io” che scrive, e del suo camuffamento, anche per- chè, del resto, non poche recensioni avevano sottolineato delle riserve legate a un certo suo mondo poetico o al sistema dei personaggi da lui proposti e al suo linguaggio, legate, sembrerebbe, a esperienze autobiografiche e non affatto d’invenzione: «[…] al di là delle esperienze vissute, questi romanzieri sapranno fare altri romanzi?». Calvino esclusivo scrittore-partigiano? Uno per tutti, questo, il pesante interrogativo di Emmanuelli25. Se l’esperimento romanzesco era stato intrapreso con riluttanza («io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scrivere racconti per tutta la vita», sottolinea nel novembre 1946, puntando le sue carte migliori sulla misura breve)26, tra il gennaio e il febbraio del ’47, a apertura dell’anno, già invoca una tregua sul racconto partigiano che l’ha laureato scrittore («è bene che smettiamo di scrivere di partigia, se no cadiamo nella cifra. E cosa scriviamo poi?)27 fermamente (o quasi) limitando la natura del suo impegno col romanzo

intendo la letteratura come un impiego di mezzi tecnici al massimo cosciente e razionale» (Abbiamo vinto in molti, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t.1, cit., p. 1477). Fondamentale dichiarazione di poetica per questo periodo storico, l’articolo fu pubblicato su «L’Unità» il 5 gennaio 1947 a seguito della vittoria ex-aequo al Pre- mio Genova de «L’Unità» col racconto Campo di mine. Per questo episodio si veda il puntuale studio di L. SURDICH, Italo Calvino e il «Premio de “L’Unità”», cit., pp. 164-174). Inoltre, dallo stesso intervento: «Pericoli miei: diventare uno scrittore dal mestiere scaltrito», «individualista e analitico», «sentirmi spegnere a poco a poco assieme all’entusiasmo che accomuna sempre scrittori e popolo nei momenti rivoluzionari, il mordente dello stile e la necessità storica dell’invenzione di un nuovo linguaggio» (Ibidem, pp. 1478-1479). 24 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1478. 25 E. EMANUELLI, Il figlio dei botanici comincia a scrivere romanzi, cit. 26 A Silvio Micheli, 8 novembre 1946, p. 167. 27 A Marcello Venturi, 7 febbraio 1947, p. 181. Si cfr. però tutta la lettera a Venturi del 5 gennaio, p. 174-177.La lettera a Venturi si sofferma sul pericolo dell’«andatocomandite» – del racconto «col solito processo di stati d’animo […] che va a finire con uno sparo, uno scoppio di mina e qualcosa di simile» (p. 175), col proponimen- to invocato «di liberarci da quello che ormai non è più che uno schema» mentre l’articolo punta tra l’altro il dito ai pericoli insiti di una “maniera”, al possibile venir meno del «mordente dello stile e [del]la necessità storica d’invenzione d’un nuovo linguaggio» (adesso in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., t. 1, p. 1479). Per lo

222 («io col romanzo ho dato fondo all’esperienza partigiana. Tutto quello che avevo da dire l’ho detto. Ma non tornerò a batterci ancora con un altro romanzo?»)28 per confessare invece, nel dicembre 1947, al severo Ferrata, come «i racconti non lo soddisfino più», come si trovi intrappolato da un problema di linguaggio e di misura: «mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei», in cui l’enfasi non è tanto sui soggetti da raccontare (problema comunque non secondario, date alcune ipoteche della critica), bensì, pienamente, sulla “maniera”,sullo stile di essi 29. Comincia adesso uno dei periodi più convulsi, e delicati, della sua storia di scrittore, durante il quale gioca su più tavoli incrociati: il giornalismo (quale attività pragmatica, di riscontro immedia- to, con articoli di cronaca, inchieste, cronache letterarie, recensioni), l’attività editoriale all’Einaudi e la scrittura narrativa. Tuttavia, l’incipit vita nova tracciato per il compagno Scalfari il 3 gennaio 1947, alla conclusione del «Grande Anno» 1946 («un anno enorme»)30 si scontra dodici mesi più tardi con la realtà di una nevrosi scrittoria di crescita, fomentata dai fedeli consiglieri einaudiani (Pavese, Ginzburg, Balbo e Vittorini) che per tutto il biennio 1946-1947 lo hanno tirato da più parti (sia sui racconti che sul romanzo):

Vittorini m’ha scritto tutto contento d’un mio racconto In ultimo venne il corvo […]. È un racconto che stimavo dei miei più secondari: ma Vittorini s’entusiasma perchè è «tutto narrato». Siamo in polemica epistolare, io e V., perchè mi è preso il pallino del racconto-saggio, (mi sono stancato del solito raccontino con lo sparo finale) e V. dice che non ci sono tagliato31.

Il contrasto con Vittorini era emerso a proposito di un racconto paradigmatico (e infine scartato) quale Vento in una città32, del quale Vittorini scrive a Calvino l’11 dicembre 1946: «lo hai […] sciupa-

stilema «partigia» – e per appunto il pericolo insito della cristallizzazione del linguaggio e dei soggetti raccon- tati, si cfr. anche il racconto Amore lontano da casa (che porta in calce la data “gennaio 1947”) di cui il curatore Mario Barenghi trascrive, nelle notizie sul testo, un brano scartato in cui l’io narrante, alla ricerca della solida- rietà perduta tra “cose” e “parole”, insiste a raccontare «di quand’era nei partigia» che causa nell’interlocutore la domanda «Perchè mi racconti sempre storie di partigia?», con la subita risposta: «Perchè non ho fatto altro che il partigia, in vita mia […] Ci sono molti che non hanno fatto altro, d’importante, e continueranno a parlar- ne per tutta la vita. […] Guaio per noi, personalmente, il mondo ha ancora bisogno di partigia» (I. CALVINO, Romanzi e racconti t.3, cit., p. 1335). Torneremo in seguito su questo racconto. 28 A Marcello Venturi, 7 febbraio 1947, p. 181. 29 A Giansiro Ferrata, 6 dicembre 1947, p. 207. 30 A Eugenio Scalfari, 3 gennaio 1947, p. 172. 31 A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 178. Sottolineatura nostra. Come ben sappiamo, il racconto qui consi- derato “minore” finirà poi per dare il titolo (leggermente modificato) alla raccolta Ultimo viene il corvo (Torino, Einaudi, 1949). 32 Adesso in I. CALVINO, Romanzi e racconti, , t. 3, cit., pp. 952-959. Si cfr. anche B. FALCETTO «Racconti esclusi da “I racconti”», p. 1334. Il racconto risalirebbe al maggio 1946.

223 to, anzi, sconciato, in un senso che lo mette sul piano giornalistico. Cioè la polemica che vi introduci non riesce a diventare scritta (tanto meno narrata)», cui fa seguito la missiva a proposito del Corvo del 15 gennaio 1947, che riapre la polemica sui limiti di Vento in una città. Scrive Vittorini:

[…] La mia riserva non riguarda affatto la possibilità in generale di scrivere cose che siano ad un tempo racconto e saggio. Riguardava la possibilità tua di scriverle. Cioé mi sembra che per te, in questo momento, non esista la possibilità di realizzare contemporaneamente in senso di racconto e in senso di saggio. Ogni volta che passi dalla chiave di saggio alla chiave di racconto e viceversa non sei più padrone della materia. E infatti ti accade di tentare la realizzazione degli elementi saggistici con una finzione ancora narrativa»33.

Di fronte all’impegno giornalistico e di critica di cui Calvino sente l’urgente complementarietà sul piano della scrittura («due attività parallele»)34, e di cui il proprio recìt dovrebbe giovarsi schia- rendosi le idee nella teorizzazione («Narrativa come canto, narrativa come simbolo o narrativa come indagine?»si chiede nel luglio 1946)35

ciò che ancora restava per lui più incerta era la vocazione letteraria: dopo il primo romanzo pubblicato, tentò per anni di scriverne altri sulla stessa linea realistico-social-picaresca, che venivano stroncati e cestinati senza misericordia dai suoi maestri e consiglieri. Stanco di quei faticati fallimenti, s’abban- donò alla sua vena più spontanea d’affabulatore e scrisse di getto Il visconte dimezzato […],36

33 E. VITTORINI, Gli anni del «Politecnico cit., rispettivamente p. 93 (con sottolineatura nostra) e 121. Si cfr. la lettera a Marcello Venturi, 22 marzo 1947, p. 186: «Sono stato anche a trovare Vittorini che mi ha stroncato l’ennesimo racconto che gli avevo mandato. Lo sai che da quando m’han pubblicato Andato al comando non son più riuscito a farmi pubblicare un racconto su «Politecnico»? È più d’un anno che continuo a mandar racconti e a farmeli respingere. Il buon Elio ha gusti maledettamente difficili e strani e io mi ci litigo ogni volta, ma dopo un po’ riconosco sempre che ha ragione». In un certo senso Calvino ammette quest’influenza giornalistico-saggista: «Vittorini in un’intervista […] dice di noi giovani che studiamo poco, che leggiamo solo traduzioni di romanzi americani e che abbiamo solo un valore giornalistico. E ha ragione! E se non ci diamo dentro saremo fregati» (A Marcello Venturi, 27 luglio 1947, p. 198.) Nella ricerca di un linguaggio proprio, adesso che il mal di romanzo l’ha colpito, la crisi arriva al pettine nel maggio-giugno 1948: «Io ho scritto tre quarti d’un romanzo, ci ho perduto mesi e mesi, ma non lo finirò perchè non ci credo. Ho bisogno di stare qualche anno senza scrivere perchè sono in un momento che non so bene come scrivere. […] Schifoso mestiere». (A Graziana Pentich, 11 giugno 1948, p. 224.) 34 A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, p. 175: «[…] io ho il pallino di fare anche il critico, Micheli ci s’arrabbia e dice che o faccio una cosa o faccio l’altra, ma per me la critica mi spinge al lavoro creativo e il lav. creativo alla critica, sono due attività parallele, per me». Si cfr., a questo proposito, la recensione a Un figlio ella disse (del 17 agosto 1947, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., t.1, pp. 1176-1178): «[Micheli] dice che io devo fare o lo scrittore o il critico e non tutt’e due». 35 A Silvio Micheli, 29 luglio 1946 (p. 162 –in corsivo nel testo), per un progetto di «articolo […] il [cui] titolo spiega già di cosa si tratta» da scrivere per la rivista «Darsena Nuova», da Micheli diretta. Ma si veda anche tutto l’articolo Abbiamo vinto in molti (cfr. qui dietro, n.21), su cui torneremo anche in seguito. 36 I. CALVINO, Nota introduttiva cit., p. VII.

224 volume sul quale storce il naso Carlo Salinari (critico letterario, compagno di partito, e vestale di un certo tipo di realismo letterario)37, ma che si guadagna compattamente la stima e il plauso di chi già, fin dagli esordi, gli aveva additato la via della “fiaba” inorridendo non tanto per i «temi drammatici» o il «ritmo narrativo intenso e accelerato»38 da lui prediletto, ma per la «lingua dura e nuda, fatta di vocaboli chiusi e di ruvidi nessi sintattici»39 con cui le storie «di partigiani, di contadini, di contrabban- dieri»40 venivano raccontate. Insomma, che lo scrittore s’allontanasse, per bene suo (e del suo stile narrativo), da quel «terreno di cronaca e d’umanità» che egli stesso però sentiva «più che mai necessa- rio»41. Al riscontro con l’epistolario del dopoguerra, questa ricostruzione degli anni ’70 appare alquanto tendenziosa: qual è infatti, in quegli anni d’esordio, la «sua vena più spontanea d’affabulatore»? Si tratta veramente di una componente fiabesca innata (e quindi, si dedurrebbe, repressa per motivi con- tingenti, tale da fargli dubitare della vocazione stessa), o invece risulta progressivamente “costruita” e cercata come via d’uscita dal vicolo cieco imboccato del racconto-saggio, del racconto “sociale” o co- munque del racconto che prende di petto e non di sguincio, nella narrazione, «l’interesse morale, la ricerca d’una completa integrazione dell’uomo nel mondo»42 che, sebbene tema caro allo scrittore, per la modalità stilistica da lui stesso scelta, nell’acerbità della propria tecnica, non piace ai suoi maestri? L’interrogativo è legittimo. Già alla scrittura del Sentiero (come dei racconti coevi, primi tra tutti Vento in una città o Amore lontano da casa) divergenti modus operandi narrativi s’accampavano sulla pagina, pro- venienti da un tirocinio scrittorio fatto prima sui fogli partigiani come «La nostra lotta» o «La voce della democrazia» nel 1945, poi sulle terze pagine di quotidiani o sulle riviste («Il Politecnico», «L’Unità», «Aretusa», «Darsena Nuova», «Agorà») tra l’autunno del ’45 e il ’47 con anche reportage giornalistici su temi scottanti del giorno difficili da dimenticare all’atto pratico di prendere la penna per la composizio- ne romanzesca, il cui nucleo ideologico proponeva un’istanza polemica, una definizione della guerra partigiana in una congiuntura storica in cui il valore di essa era sotto attacco. Fin dagli inediti apologhi e raccontini43 – imbevuti d’istanze esistenziali o moralistiche, scritti in un periodo cruciale della dittatura fascista e all’inizio del secondo conflitto mondiale –, ai più compiuti

37 Che viene “giustificato” a Salinari come «una vacanza fantastica», rispetto «agli altri [libri, ndr.], quelli “veri”», i libri realistici, non “antistorici”, sebbene subito si rimarchi come l’«ideale sarebbe di riuscire a scrivere in pari misura […] cose “utili” e cose “divertenti”. E possibilmente “utili” e “divertenti” insieme» (A Carlo Salinari, 7 agosto 1952, pp. 354-355). 38 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1477. 39 Ibidem. 40 Ibidem, p. 1478. 41 Ibidem, p. 1477. 42 Nota introduttiva non firmata, I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1954, p. 10. 43 Pubblicati in parte prima in I. CALVINO, Prima che tu dica pronto, Milano, Mondadori, 1991e adesso, integral- mente, nelle sezioni «Racconti giovanili», in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., pp. 767-830. Sono 26 raccon-

225 esperimenti pre-(e post-) romanzo comunque scartati dalle raccolte successive, o anch’essi tenuti sotto chiave come il dramma del 1943 I fratelli di Capo Nero (di cui non si possono sottacere i fitti rapporti testuali col Sentiero, per le teorizzazioni saggistiche sul valore positivo del “fare”, della responsabilità dell’agire)44, il linguaggio calviniano dimostra un cospicuo interesse verso una forma di narrativa ibri- da, certo pseudo-saggistica, o cronachistica e memoriale di cui i pezzi per il volume L’epopea dell’esercito scalzo, dedicati a Le battaglie del comandante Erven o a Castelvittorio, paese delle nostre montagne, ne sono un esempio45. Altrimenti, sviluppata è una vena lirico-epica en travesti (come il notevole pezzo Ricordo dei partigiani vivi e morti attesta)46 fino al “racconto” vero e proprio Angoscia47 che, come altri testi del peri- odo, presenta peculiari strutture ritmico-sintattiche, vere clausole da poemetto in prosa). Non ultima viene l’“indagine” troppo esplicita (come Vittorini cerca di fargli capire respingendo Vento in una città, e come anche parti di Amore lontano da casa segnalano), in quanto l’invariabile, scoperta “polemica” politico-sociale introdotta non riesce, secondo l’amico scrittore, a farsi “scritta”, rimane troppo sul ver- sante astratto e non fa presa. Niente vieta, comunque, che questi tre filoni non appaiano anche contem- poraneamente all’interno di uno stesso testo, contendenosene il nucleo duro48. Insomma, Calvino non rimane affatto sul territorio piatto del racconto con sparo o esplosione finale (Andato al comando, Campo di mine, Ultimo viene il corvo) tutto oggettivo e tutto fatti, ma si assiste a un tentativo a angolo giro di

ti, di cui è necessario sottolineare almeno titoli come Passatempi (p. 767-768), Dieci soldi di plastilina (pp. 769- 771), Il lampo (pp. 777-778), Un dio sul pero (pp. 789-792), L’uomo delle palafitte (pp. 795-796), Fiume asciutto (pp. 797-801), Come non fui Noè (Buon a nulla) (pp. 826-830), dove ricorrono i motivi narrativi principali di alcuni racconti editi e in primo luogo del Sentiero (e dove si notano persistenti modi di caratterizzazione o di ricor- renza di sintagmi). Ancora relativamente trascurati dalle ricostruzioni critiche su Calvino, sono stati tuttavia inclusi con risultati persuasivi (che ne accrescono l’importanza) da A.M. JEANNET, Under the radiant sun and the crescent moon. Italo Calvino’s storytelling, Toronto, University of Toronto Press, 2000; F. PIERANGELI, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997 (si cfr. in particolare pp. 127-132) e M. MCLAU- GHLIN, Italo Calvino cit. (che li utilizza collettivamente per una complessa e puntuale ricostruzione degli inizi). 44 Adesso in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., pp. 443-496, cui si aggiunga la nota informativa di B. Falcetto, pp. 1262-1263, che li identifica in «un dattiloscritto di 44 pagine datato agosto-ottobre 1943». Scritti dunque dopo la caduta del regime fascista (25 luglio 1943) e durante le giornate dell’armistizio dell’8 settembre (e del caos ad esso seguito), I fratelli di Capo Nero sono un testo che, come vedremo, sarà “riletto” e tenuto presente dalla memoria lavorativa di Calvino alle prese col Sentiero. 45 I. CALVINO, Castelvittorio paese delle nostre montagne e Le battaglie del comandante Erven, in AA.VV., L’epopea del- l’esercito scalzo, cit., pp. 49-50 e 235-244. (Piero Ferrua, nel suo Italo Calvino a San Remo, Famija Sanremasca, Sanremo, 1991, attribuisce anche il racconto Vittò, a pp. 207-208). I due racconti sono citati –e sostanzialmente ridimensionati quanto a valore letterario intrinseco- da C. MILANINI, Calvino e la Resistenza: l’identità in gioco, cit., pp. 173-191. 46 I. CALVINO, Ricordo di partigiani vivi e morti, cit., apparso assieme all’articolo di fondo Primo maggio vittorioso. 47 I. CALVINO, Angoscia, «Aretusa», a.II, n. 16, dicembre 1945, pp. 58-65 (il cui titolo muterà in seguito in Angoscia in caserma, in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949, pp. 148-155). 48 Descrive bene questa situazione Enrico Falqui, esaminando i caratteri generali del “realismo” letterario nel- l’intervista con per il volume Inchiesta sul neorealismo, cit., pp. 105-107, passim: «Dopo il famoso 25 luglio fu subito chiaro che nella narrativa avremmo avuto, specialmente da parte dei giovani ossia dei più liberi, una forte ripresa di realismo, come conseguenza immediata della fiera polemica sociale alla quale si era potuto finalmente dare l’avvio. Ma fu anche chiaro che l’eccessiva, ostentata immediatezza avrebbe sottratto la

226 scrittura di temi e linguaggi diversi (tutti che prendono come contenuto la contemporaneità), che confla- gheranno al momento della stesura romanzesca, alla ricerca di un baricentro. Il cuore di questo periodo, impegnato nella scrittura del romanzo (dall’estate alla fine d’anno del 1946), torna però invariabilmente lì – allo spunto polemico, all’interrogazione sui compiti e sulla responsabilità della scrittura. Coinvolge il recupero di alcuni materiali (e dei relativi temi) su cui ci si era già esercitati, e aggiunge la fitta serie di riflessioni teoriche convogliate nelle recensioni militanti di letteratura contemporanea o nelle note di «Gente nel tempo» (la rubrica che tiene su «L’Unità»), le quali danno complessivamente l’idea della preoccupazione calviniana rivolta al tipo di narrativa praticabile (e, personalmente, da praticare) rispetto alla “nuova” realtà aperta prima dalla guerra civile, continuata dalla lotta partigiana e poi dall’immediata, amara lotta sociale del dopoguerra. Questi scritti mettono anche a nudo le proprie perplessità su cosa può essere veramente

maggioranza di quelle narrazioni al necessario filtro e decantamento dell’arte. Perchè tanta immediatezza? Per timore che un intervento letterario, risolvendosi in un abbellimento e in un compiacimento estetistico, potesse finire col raggelare il rinfocolato calore dell’«engagement» di quelle narrazioni. […] il cui principale se non unico valore era troppo spesso da limitare al suo contributo documentario […]. Eppoi non si è badato che, volendo attraverso il neorealismo combattere un certo lirismo e poeticismo – in quanto ritenuti colpevoli di degenerare in un accademismo del tutto evasivo e elusivo rispetto alla drammaticità dei sentimenti e degli avvenimenti all;ordine del giorno – si correva il rischio d’incappare in un altro non meno accademico accade- mismo. E in virtù del deciso intenzionalismo politico lasciatovi prevalere, ben si potrebbe aggiungere e preci- sare, che si tratta del conformismo dell’anticonformismo; dato e non concesso che lirismo e poeticismo siano da riguardare come le manifestazioni di non si sa quale conformismo. […] Nel presente neorealismo narrativo c’è anche un altro aspetto curioso, e deve certo derivare dalla frenetica e disastrosa specie di realtà nella quale ci troviamo ingolfati. Quante delle nostre odierne narrazioni neorealistiche non sono tali da meritar piuttosto l’appellativo di irrealistiche? Il bollore e il gonfiore del loro realismo sono tali da farlo diventare un surreali- smo. E ciò si verifica con modi che tengono sempre più e sempre peggio del manierismo. Sicchè non è del tutto sicuro ch codesto neorealismo sia proprio il toccasana invocato contro l’aborrito estetismo. […]a me sembra che, ad onta di tutti i neorealismi, dal fondersi del proseggiar lungo di certa poesia col poeticheggiare intenso di certa prosa, possa scaturire ed anzi stia gi“a scaturendo, in accorta mistura e misura di problemi attuali e di risonanze antiche, di istanze intime e di esigenze sociali, una nuova sorta di narrativa epico lirica». L’accenno ultimo alla narrativa epico-lirica, come si vedrà, non potrà essere taciuto per alcuni scritti di Calvino; inoltre, è capitale l’accenno al «conformismo dell’anticonformismo», dato che Enzo Giachino, nella famosa stroncatura del Sentiero, aveva accusato Calvino di machiavellismo, d’aver sostituito una retorica con un’altra (di segno negativo). Non ultimo, l’accenno falquiano alle caratteristiche “surreali” o manieriste di molta narrativa (neo)realista – in cui entrerebbero a piena cittadinanza, proprio per il tipo di stile scelto, molti dei racconti di Calvino del primo periodo, che si basano su allucinazioni, mali di simboli, esperienze estreme e “gonfie” di realismo. Enzo Giachino, annusando la novità del romanzo e riconoscendovi non solo l’onestà del dettato, la partecipazione alla vicenda narrata, ma pure l’astuzia di un “ostinato partito preso” avrebbe accusato lo scrit- tore di “inesorabile machiavellismo” – di un piano fatto a tavolino di rovesciamento di un linguaggio corrente, sostituito con una ‘retorica’ (del negativo) finita per diventare “una presa di posizione politica, un tipo di propaganda, certo ben più abile e a prima vista più efficace di quello abitualmente usato dai suoi compagni, che troppo spesso paion ricalcare gli schemi dei raccontini educativi di Cuore” (E. GIACHINO, Il primo della classe, cit. p. 3). L’osservazione del critico, oggi, sulla “bravura vigile”, sull”astuzia eccessiva” calviniana non ci pare peregrina, anche se non scalfisce minimamente il valore della mossa del cavallo operata da Calvino sulla scacchiera dei generi letterari, in cui, sostituita la negatività alla positività scontata della raffigurazione parti- giana, si riesce poi a far quadrare i conti e a comunicare comunque un messaggio edificante, di riscatto (teste le parole di Calvino stesse per il libro – del 3 gennaio 1947, nella sua lettera a Scalfari –, visto come “una rischiosa aspirazione di serenità”).

227 fatto da lui come scrittore (non tanto per i mezzi per descriverla, bensì per il modo possibile di “vedere” la realtà). L’interesse verso la forma pseudo-saggistica della narrativa nasce da una forte esigenza pedagogica scaturita dal rifiuto della letteratura come espressione di una «testimonianza interiore» e di una «confessione individuale49»; è il rigetto di una posizione intrinsicamente astorica, di difesa (dei privilegi dell’intellettualità) e non d’attacco (per una letteratura di denuncia, d’agitazione sociale, di responsabilizzazione). La scrittura diventa il veicolo personale di ricerca e comprensione del mondo, di una sua razionalizzazione, per dare forma (e quindi ordine) al processo conoscitivo che deve sempre avvenire nella storia, e da cui la letteratura non è esente: la scelta dello scrivere si rivolge alla compromissione con la realtà, non nell’evasione da essa, come nella lotta partigiana che aveva tangibilmente mostrato la possibilità di un cambiamento, di una responsabilità personale e collettiva. La tradizione letteraria italiana del ventennio, che lo aveva nutrito, e su cui si era formato, è identificata con «un bagaglio di cultura sbagliata o sfasata da smaltire»50 in quanto essa è stata cultura di classe e elitaria, per questo impotente di fronte alla società e ai bisogni dell’uomo. L’impegno letterario è chiaramente scelto (come scelto è l’impegno politico e civile, suo retroterra culturale necessario) per il valore eminentemente morale da cui deriva in parte anche l’approccio “dimostrativo”, o pedagogico-deduttivo, se si vuole chiamare così, di parti della sua narrativa. «Riaffondare i piedi nella realtà» («alla De Sanctis», come avrebbe chiarito Adriano Seroni nel 1950) non è però un obiettivo facilissimo da raggiungere, anche quando si concordi su cosa questa “realtà” veramente sia:

Non sono stati i nostri narratori a inventare la formula [...]; è stata l’epoca nella quale vivono o son vissuti a determinare la tendenza. Come a dire: la prosa d’arte s’era venuta isterilendo in un ambito chiuso, senza respiro [...]; bisognava, diremo alla De Sanctis, riaffondare i piedi nella realtà. La realtà che cammina, e che porta con sè, con la guerra, il risveglio della vita sociale, fa tornare alla luce del sole la lotta di classe, rimette in primo piano la questione sociale, torna a legare gli uomini alla vita attiva, alla lotta, alla politica. Per me oggi il realismo in letteratura è l’unica forma possibile; o si dovrebbe ammettere che lo scrittore viva in un cielo tanto alto da non esser toccato dalle lagrime delle cose? Da non vedere la gente che soffre, che lotta, che muore, che vince o perde? [...] Del resto va aggiunto che i vecchi lettori non esistono più, dico i lettori della classe borghese; c’è una nuova classe che produce i consumatori di cultura, la classe operaia e i contadini. È una classe, credi, alla quale le «storie private» non interessano, interessano le storie del loro mondo, del mondo di tutti, con le cose dette come stanno [...]51.

49 Sono entrambe espressioni usate da Calvino intervistato da Carlo Bo per l’Inchiesta sul neorealismo, cit., p. 47. 50 I. CALVINO, Umanesimo e marxismo, «L’Unità», Torino, 22 giugno 1946, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1, cit., p. 1472 51 A. SERONI, in Inchiesta sul neorealismo, cit., pp. 91-92. Corsivi nostri. 52 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit. Sul populismo del dopoguerra e di quello calviniano del Sentiero, si cfr. le pagine di A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contemporanea, Roma, Samonà e Savelli, 1965.

228 Come si narra la realtà, come si dicono le cose «come stanno» per questo nuovo pubblico, per questa nuova classe? È, questo, un corno non irrilevante del problema. Come farsi scrittore del popolo o per il popolo? Basterà davvero, come sembra indicare Calvino in un suo primo manifesto teorico, l’identificazione col popolo («mi sono riconosciuto nel popolo che lottava e ho deciso di lottare in mezzo ad esso», a causa dell’«entusiasmo che accomuna sempre scrittori e popolo nei momenti rivoluzionari»52)? Assieme alla preoccupazione sui modi di narrare, è appaiato spesso l’interrogativo relativo alla possibile identificazione (e quindi, alla possibile comunicazione) con la classe operaia e contadina, di cui non si fa parte, da cui ci si sente esclusi per provenienza sociale e di cui si intravede – grazie all’esperienza resistenziale e all’esempio macroscopico della rivoluzione russa – l’uomo “nuovo”, la “nuova” moralità, fino al riconoscimento necessario «che ancora abbiamo da imparare a “andare a scuola dalla classe operaia”»53.

Militare nel partito è il nostro modo di esistere; ma il posto di combattimento dei letterati, il loro banco di prova, è sulla carta bianca. Il nostro compito è saper trasformare in poesia la nuova moralità dell’uomo comunista che si va delineando chiaramente in milioni di uomini di tutto il mondo: e ci riusciremo nella misura in cui saremo anche noi parte di questi milioni54.

Calvino scrittore e comunista avverte sempre di più un disagio irriducibile, sempre più viene a porsi fra lui e il “popolo” di cui scrive la differenza originaria di classe, la sua non appartenenza alla classe operaia, tanto che questa condizione sentita lo porta a riconoscersi come «uno dei vecchi

53 I. CALVINO, Ingegneri e demolitori, «Rinascita», novembre 1948, p. 400, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1., cit., pp. 1480-1482. 54 I. CALVINO, Saremo come Omero! in «Rinascita», dicembre 1948, p. 448, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1, pp.1483- 1487. L’intervento è una risposta polemica a Emilio Sereni, responsabile della “linea” culturale degli intellettuali di partito. Questo scritto del ’48 si potrebbe esclusivamente leggere come valutazione (e difesa personale) data da CALVINO allo zdanovismo del PCI che, sentendosi assediato dopo la sconfitta del Fronte popolare in Italia e i mutamenti storici in atto in Europa occidentale, marginalizzanti il movimento operaio, si chiude su se stesso e chiede la fedeltà degli scrittori a una linea politica preordinata. Tuttavia, l’enfasi della lettura dovrebbe qui essere diretta all’accenno della «nuova moralità dell’uomo comunista» e alla necessità di “far parte” di quella nuova moralità (divenendo comunisti sul serio), che ricorre in vari scritti del periodo, specialmente, nella recensione (già citata) a La disfatta, di Alexandr Fadeev e il racconto Cinque dopodomani, guerra finita! (uscito sull’«Unità» del 7 novembre 1946, nel mezzo della composizione del Sentiero, adesso ripubblicato in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t. 3, cit. pp. 845-848. Si cfr. anche le importanti notizie sul testo e i brani tagliati, pp.1322- 1324), che pone l’accento sul diverso modo di essere uomini (e combattenti) dei bolscevichi partigiani in Italia, nonchè l’articolo Krasavcenko sereno (causato da una protesta di destra contro la delegazione sovietica in visita a Padova, pubblicato su «L’Unità» il 30 giugno 1946, adesso in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t. 3, cit. pp. 2102- 2104, con nota a p. 3015) che insiste sull’etica del mondo “nuovo”e sulla “nuova” moralità incarnata dai personaggi con cui Calvino si è incontrato. Per i due pezzi, si veda in seguito nella seconda parte di questo capitolo lo studio comparatistico col Sentiero (in cui questo articolo e il racconto saranno citati solo con la pagina di riferimento).

229 scrittori individualisti» dalla cui sterile impronta, però, si salva – come aggiunge subito – in quanto all’atto della scrittura egli «s’esteriorizza in “simboli” d’interesse attuale e collettivo»55. Il problema della propria collocazione sociale vis-à-vis l’inevitabile visione del mondo che da essa scaturisce (e che gli fornisce il materiale delle sue storie) è però sentito in maniera lancinante. Paragonandosi al sodale Venturi, in quell’esame di coscienza di letterato fatto in pubblico il 5 gennaio 1947 con Abbiamo vinto in molti, Calvino descrive da cosa derivi questa sua posizione più “arretrata”, che la sola militanza nel partito del popolo l’aiuta a combattere:

Ciò deriva in primo luogo dalle nostre diverse situazioni sociali e formazioni culturali: Venturi (a quanto credo) ha conosciuto fin da ragazzo lo stimolo dell’indigenza e l’aspirazione di riscatto delle classi sfruttate; mentre io ho avuto una solitaria e chiusa fanciullezza di ragazzo borghese e solo più adulto, spinto da un indeterminato anticonformismo che ha sempre accompagnato la mia formazione culturale individualistica, mi sono riconosciuto nel popolo che lottava e ho deciso di lottare in mezzo ad esso56.

L’accenno fatto alla supposta indigenza di Venturi e alla sua conseguente aspirazione di riscatto è notevole, perchè è messo in correlazione diretta con l’output narrativo dell’amico. Chi è, infatti, lo scrittore Venturi?

È il narratore che nasce dalla lotta di resistenza e che racconta, spesso con popolaresca ingenuità, le emozioni collettive, incarnate da un eroe impersonale e unico. Anche i suoi racconti non partigiani hanno questa spinta di patimento collettivo, per cui migliaia d’uomini si possono riconoscere nella sua voce57.

Calvino rimarrebbe invece fermo a una posizione più “vecchia”, perchè quel che a lui manca è l’esperienza di essere popolo. Per questo, nel raccontare la realtà, il filtro necessario sarà il simbolo, cioè il travestimento; la mancata appartenenza al proletariato impedisce la visione diretta, porta ai simboli della realtà ma non alla realtà stessa. Calvino sente insomma presente la sua nascita borghese, esorcizzata (forse) nell’avventura comunista e, principalmente, nell’avere combattuto fianco fianco col proletariato in una guerra di liberazione. Esauritasi quella spinta della storia, però, torna il dubbio, tornano gli interrogativi su quello che lui stesso, come individuo, come letterato d’estrazione borghese, può effettivamente arrivare a realizzare («è stata la presenza della Storia a portarmi avanti,e poi m’ha lasciato lì», ammetterà infatti desolato)58. La ricerca è di un linguaggio che scarichi i filtri individualisti con cui la realtà è vista e posseduta dall’irriducibile «io» borghese, affinchè

55 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit. 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 A Elsa Morante, 9 agosto 1950, p. 290.

230 emerga finalmente un «io» di grado zero, rifatto nuovo dall’esperienza collettiva in cui si è bagnato (la Resistenza). Questa coscienza di una possibile inadeguatezza costitutiva, originaria, però, può diventare anche un pericolo insidioso, che lo porti al tarlo dell’auto-riflessione come uno dei modi possibili di narrazione. L’«io» (della confessione individuale) cacciato dalla porta rispunterebbe comunque dalla finestra (dell’esame del ruolo dell’intellettuale hic et nunc), ma certo devierebbe dal “racconto”, dall’“incarnare” le emozioni collettive (per riprendere il lemma che Calvino aveva usato prima parlando di Venturi). Pavese, amico e tutore di Calvino, aveva già infatti indicato quale fosse la strada da non percorrere alla ricerca della verità oggettiva, dando proprio l’altolà a un tipo di narrazione in cui uno scrittore, «invece di narrare», prendesse ad esplicito «argomento del racconto stesso» le proprie «perplessità e velleità» verso «il reale». Se il «mondo di ieri» – quello della tradizione ermetica e del disimpegno – «tollerava un’equivoca figura d’intellettuale che [...] viveva in sostanza di teorie, giustificazioni e problemi» in una comoda relazione simbiotica con la scrittura che gli consentiva di stare sano e salvo «mimetizzato sotto il tessuto dello stile e faceva consistere tutta la sua dignità nell’essere quel tessuto, quello stile, quel mascheramento»59, i tempi sono cambiati.

Oggi va prendendo voga la teoria contraria, naturalmente giusta, che all’intellettuale, e specie al narratore, tocca rompere l’isolamento, prender parte alla vita attiva, trattare il reale. Ma, appunto, è una teoria. È un dovere che ci si impone «per necessità storica». E nessuno fa all’amore per teoria o per dovere. Il narratore che una volta, invece di narrare, si aggirava nei meandri del suo io schifiltoso in perpetua rivolta verso i bassi doveri di questo mondo contenutistico, adesso si logora i nervi e perde il tempo chiedendosi se il contenuto lo interessa quando dovrebbe, se il suo stile e i suoi gusti sono abbastanza proletari, se il problema o i problemi del tempo lo agitano quando è augurabile. E fin qui non c’è nulla da dire. Non è uno scherzo per nessuno l’impresa di vivere e vivere significa essere giovani e poi uomini, e anche dibattersi, darsi dei doveri, proporsi un contegno. Il malanno comincia quando quest’ossessione della fuga dall’io diventa essa stessa argomento del racconto, e il messaggio che il narratore ha da comunicare agli altri, al prossimo, al compagno uomo, si riduce a questa magra auscultazione delle proprie perplessità e velleità. Toccare il cuore delle cose per teoria o per dovere non è possibile. Ci si dibatte e ci si logora, questo sì. Accettare se stessi è difficile.

Calvino – nonostante le cadute o l’impotenza della sua stessa scrittura ad evitare che l’“io” autobiografico, o fittizio, prenda campo nel suo recit con i propri ragionamenti e le teorizzazioni esplicite – ha chiarissima coscienza del problema contro cui egli stesso combatte, e che analizzerà di lì a poco, in articolo su «Rinascita» del 1948, dal mezzo del suo stesso guado di scrittore in crisi, mangiato dal “mal di romanzo”:

59 C. PAVESE, Di una nuova letteratura, in «Rinascita», a.III, n. 5-6, maggio-giugno 1946, pp. 120-121. Lo stesso per la citazione seguente (di cui è nostro il corsivo).

231 Abbiamo ognuno di noi, dietro le spalle, un bagaglio di strumenti e modi per esprimere i nostri «contenuti», per avvicinarci alla realtà: ciò che delle nostre rispettive attività costituisce la tradizione. [...] Bene, tutti d’accordo che è sulla tradizione che dobbiamo lavorare e innovarci e innestare i nuovi contenuti. Ma è il modo «tradizionale» di muoverci su questa tradizione che ci condiziona; la scelta d’un linguaggio è un problema da cui non si può prescindere, perchè in Italia, adesso e sempre, i linguaggi letterari sono personali come fazzoletti da naso; e, legato a questo ma più pressante e importante, il problema di come sistemare quest’ingombrantissimo personaggio che per uno scrittore moderno è l’«io» (e che pure gli è indispensabile per avere esperienza del mondo intorno), se autobiograficamente, o simbolicamente, o trasfigurandolo in senso eroico, o riuscendo a far finta che non ci sia. Perchè bisogna sempre tener ben presente una cosa: che tra l’io che scrive e la realtà che dev’essere oggetto dei suoi scritti (realtà completa, quindi storica e in divenire, ecc.) c’è l’io che vive e vede e si trasforma e migliora a contatto con la storia e gli uomini, e i conti son sempre da fare con quest’ultimo, perchè se ci si limita a disciplinare l’«io che scrive» tutto rimane su un piano volontaristico, velleitario, e o non si riesce più a scrivere o si fanno gli aborti60.

Il problema dell’«io» e dell’impotenza a narrare la realtà appare sempre più pronunciato nel Calvino di questo primo periodo e, a conti fatti, del Calvino della scrittura del Sentiero. Una forbice sembra aprirsi tra «l’io che vive e vede» e «l’io che scrive», una “intercapedine” (come egli l’aveva chiamata già in Vento in una città, del maggio 1946) tra il sentire e vedere le cose e la loro possibile oggettivazione “viva” sulla pagina, priva cioè di un qualsiasi filtro di letteraturizzazione che la scelta di un linguaggio (di un’inevitabile tradizione, cioè) sempre comporta. Il pericolo che si vede dietro l’angolo è davvero quello del travestimento dell’«io che scrive», camuffato sì da proletario o da contadino, ma senza potere conquistare di quest’ultimo (e quindi, dire in parole) quella che si vede come la sua “semplicità” e la sua chiarezza dei modi di vedere la realtà, fors’anche la sanità ultima. Al contrario del mondo del letterato, fatto di linguaggi prestabiliti e inquinati dalla tradizione, di schemi filosofici, di simboli, il mondo vissuto e veduto dal popolo non sarebbe filtrato da nessun schermo bensì dalla semplice, unica, sola materialità dell’esistenza, da una aspirazione al riscatto (come veduta in Venturi, dunque) e quindi da una «moralità nuova» da conquistare: il compito sarebbe di ritrovare allora le “cose” e farle coincidere con il loro “linguaggio”. Calvino cerca con forza la sistemazione ideale dell’«ingombrantissimo personaggio che dice io»: la materia prima della sua esperienza di scrittore è autobiografica e, nella ricerca di disciplinare l’io “simbolicamente”, ha la coscienza del pericolo indicato da Pavese, di cominciare a fare diventare il problema dell’io e della «fuga» dall’io (condicio preliminare della scrittura oggettiva, distaccata, obiettiva) l’argomento stesso di alcuni dei suoi racconti61.

60 I. CALVINO, Saremo come Omero!, «Rinascita», a.V, n. 12, dicembre 1948, p. 448. 61 Narrare la crisi dell’«io» intellettuale (di quello formatosi sotto la dittatura fascista, col suo bagaglio d’idee sbagliate e con privilegi e pregiudizi di classe) diventa insomma più facile che percorrerne la “costruzione” in una società libera, ispirata a una moralità nuova (quella comunista). Si veda a questo proposito l’esame fattone

232 Il travaglio di quest’io-scrittore alla ricerca dell’equazione tra cose e linguaggio, sostanza ultima della realtà e sua immagine letteraturizzata, è al centro di Vento in una città, la cui labilissima storia è il dialogo tra un personaggio alquanto autobiografico che, appunto, dice io (è scrittore, vive a Torino, proviene dalla riviera, da una famiglia borghese) e l’alter ego popolano Ada Ida, creato per dare spazio agli interrogativi su cosa significhi narrare la realtà, saperla “catturare” e comunicarne quindi il senso ultimo. I dialoghi tra i due sono legati dall’apparente tema dell’infelicità (o felicità) esistenziale degli individui, esaminato con insistenza attraverso il motivo “spaziale” di un luogo che – preso a correlativo oggettivo – darebbe forma alle tensioni della gente e ne modellerebbe il carattere, il cesso: «io credo che il carattere della gente derivi anche dal cesso in cui son costretti a chiudersi ogni giorno». Questo motivo del cesso, tuttavia, per ammissione del narratore stesso, è un pretesto per parlare d’altro; viene cioè subito reso “simbolo” di una condizione d’inadeguatezza a raccontare, facendo virare l’oggetto presunto (e concreto) della storia (il cesso come oggettivizzazione delle infelicità esistenziali) nell’esame metanarrativo dell’incapacità di spiattellare le cose apertis verbis (il “come stanno” cui alludeva Seroni). Usato il simbolo del cesso, costruitovi in parte una storia, l’io narrante, nel suo dialogo con Ada Ida, si rende subito conto come «non sia chiaro quello che ha detto», di come le sue stesse analogie siano troppo intellettuali: «non è proprio come avevo pensato [..] ma a me i pensieri per convertirsi in parole pronunciate devono attraversare un’intercapedine vuota e ne escono falsati». Narrare, raccontare, parlare, comunicare direttamente portano qui a uno scacco, sintomo della più larga inabilità a stabilire relazioni sociali (in quanto il prodotto della scrittura, la parola, fallisce a raggiungere il pubblico che dovrebbe comprenderne il messaggio, cui essa è destinata). Un’«intercapedine» impedisce il racconto:

in Ingegneri e demolitori, cit., pp. 140-1482, passim: «Ci inseriamo nella storia solo con la “denuncia”, il “documento della crisi”; di fatto la subiamo, la storia, quasi per un’antica rassegnazione a non poterla dirigere, che diventa opportunistico rifiuto d’inserirsi creativamente nel processo che la cambia. La “letteratura di denuncia” ha detto ormai abbastanza. Insistervi limitandosi ad essa sarebbe ipocrisia. L’uomo della nuova società si delinea ormai con connotati morali così chiari, in tutto il mondo, che non prenderne atto, cioè non riconoscerlo come protagonista assoluto, equivale a rinnegarlo. [...] Ci vincola un’incapacità, una paura: costruire il personaggio positivo. Che il male sia più poeticamente rappresentabile del bene è un pregiudizio che comunemente viene detto romantico: in effetti deriva da ogni epoca in cui la morale corrente non è condivisa fino in fondo, e una nuova morale s’intravvede con limiti imprecisi. [...] questa la storia che ci ha portati a incontrare, ancora figura marginale per noi (come il personagio del “compagno cosciente” in quasi tutti i romanzi cosidetti “neorealisti” italiani), il proletariato. E bisognerà portarlo al centro dell’azione, metterlo bene a fuoco, farlo cioè veramente personaggio, non termine schematico, non mito moralistico; bisognerà far nascere [...] una gamma di personaggi positivi ma non legnosi e retorici, che sia possibile sempre anche criticare, canzonare e compatire come ammirare e esaltare, se si vuole che veramente siano di paradigma agli uomini nuovi, e che gli uomini nuovi possano criticarsi e migliorarsi riconoscendosi in loro. [...] E studiare e sforzarsi su questa via [...] (senza cioè nessuno dei nostri tradizionali vizi intellettuali, mascherati con linguaggio rivoluzionario) è quello che si può, che si deve fare oggi».

233 [...] storie non posso raccontartene [...] perchè ho l’intercapedine. C’è un precipizio vuoto tra me e tutti gli altri. Ci muovo le braccia dentro ma non afferro niente, getto dei gridi ma nessuno li sente: è il vuoto assoluto (p. 955).

L’argomento è dunque, quasi pirandellianamente, la nevrosi della comunicazione – il male, che ci portiamo dentro, delle parole – di Così è (se vi pare) o dei Sei personaggi in cerca di autore: il relativismo, o finanche il solipsismo, del contatto umano verbale. L’io narrante scrive perchè non ce la fa a parlare; però, lo scacco del fraintendimento, del non essersi spiegato bene, lo paralizza pure nell’oggettivazione nella scrittura:

Io sono uno di quelli che scrivono perchè non ce la fanno a parlare; scusatemi,cittadini. Una volta un giornale ha pubblicato una cosa che avevo scritto. È un giornale che esce alla mattina presto; lo comprano per di più gli operai andando a lavorare. Quel mattino sono salito per tempo sui tram e ho visto gente che leggeva le cose che avevo scritto, e guardavo le loro facce cercando di capire su quale riga erano posati i loro occhi. In ogni scritto c’è sempre un punto di cui poi ci si pente, o per paura d’esser fraintesi, o per vergogna. E sui tram quel mattino andavo spiando la faccia degli uomini finchè non giungevano a quel punto, e allora avrei voluto dire: «Guardate, forse non mi sono spiegato bene, è questo che intendevo», ma continuavo a star zitto ed arrossivo (p. 956).

Ada Ida, di cui si invidia la facilità dell’oggettivarsi in parole, è invece «una di quelle ragazze che [...] trovano parole [...] parole di tutti i giorni, germogliate senza sforzo, come se i loro pensieri nascessero già intessuti completamente di parole». Da una parte, l’intellettuale (che se la mena), dall’altra, la ragazza (del popolo) per cui pane è pane e vino è vino, e la realtà è vita, non astratte teorizzazioni. Una delle ragioni possibili dello scacco comunicativo è chiarita da Amore lontano da casa (complementare a Vento in una città: se sostituiamo Mariamirella a Ada Ida, abbiamo una variazione dello stesso racconto). Si recupera qui l’immagine dell’intercapedine, data come metafora principale dell’inettitudine del protagonista a socializzare e a rapportarsi agli altri. Tuttavia qui la forbice tra io e altri riporta non solo a un problema esistenziale (e individuale), bensì, più propriamente, di classe, che richiama da una parte gli accenni al legame di classe e scrittura (di provenienza sociale e di prodotto letterario) cui Calvino accennava parlando di Venturi in Abbiamo vinto in molti, e dall’altra, alle teorizzazioni del Sentiero, il cui nocciolo, il capitolo IX, propone non a caso la figura dell’intellettuale Kim, il commissario dalla «melanconica infanzia di bambino ricco» (IX 154) che vede la realtà della guerra come «una lotta di simboli» (IX 150) e di cui cerca una visione non mediata62.

62 Esattamente come il suo omonimo kipliniano, che a un certo punto, nonostante tutti gli interrogativi che gli affollano la mente, riesce a inserirsi nell’ordine dell’universo – per Calvino, la Storia –, cosicchè ogni cosa

234 Come Kim, anche il narratore di Amore lontano da casa incarna la sua angst in simboli perchè non può fare diversamente:

[...] io ho l’intercapedine. L’intercapedine è un residuo di antiche paure dell’infanzia, o di atavici isolamenti di classe, è uno spazio vuoto che mi tiene separato dal resto del mondo, una scorza che m’impedisce di comunicare con la vita degli altri, mi fa dire agli uomini: – bene, voi la pensate alla vostra maniera e io alla mia –, mentre sarei pronto a discutere fino all’indomani mattina per convincerli, che mi fa dire alle donne: – Cosa danno al cinema quest’oggi? – mentre vorrei chiedere loro se son vergini o con quanti uomini sono state (p. 1334).

Il problema è che «le cose pensate sono diverse dalle cose» (reali) e che è necessaria la riconquista diretta delle cose stesse. Amore lontano da casa recupera più esplicitamente, dunque, la teorizzazione che s’accamperà al centro del Sentiero: il coraggio del “fare”, e dell’agire, di conquistarsi la Storia, lasciando da parte i pensieri e i discorsi astratti, pensando “da operai”, come cioè chi vede la Storia per quello che essa è, non mondo (privato, solipsistico) di simboli, ma materiale lotta di classe, con condizioni e determinazioni economiche che si riversano sulle coscienze individuali, per cui è necessario partire dalla concretezza del singolo, dell’uomo, dall’infelicità individuale che è tangibile, nata dalle cose e nelle cose materiali:

Bisogna che la nostra generazione riconquisti le cose, Mariamirella, – dico. Che pensiamo e facciamo nello stesso momento. Non che facciamo senza pensare, però. Bisogna che tra le cose pensate e le cose non ci sia più differenza. Allora saremo felici. Perchè è così? – mi chiede Vedi, non per tutti è così, – dico. Io da bambino vivevo in una grande villa, tra balaustre alte come voli di mare. E io passavo i giorni dietro a queste balaustre, bambino solitario, e ogni cosa per me era uno strano simbolo, gli intervalli dei datteri appesi ai ciuffi dei gambi, le braccia deformi dei cereus, strani segni nella ghiaia dei viali. Poi c’erano i grandi, che avevano il compito di trattare le cose, con le vere cose. Io non dovevo far altro che scoprire nuovi simboli, nuovi significati. Così sono rimasto tutta la vita, mi

diventa chiara, “clicca” al suo posto, sparisce dallo stato di simbolo e s’identifica come unica realtà: «[...] the bigness of the world, seen between the forecourt gates, swept linked thought aside. Then he looked upon the trees and the broad fields, with the thatched huts hidden among crops – looked with strange eyes unable to take up the size and proportion and the use of things – stared for a still half hour. All that while he felt, though he could not put into words, that his soul was out of gear with its surroundings – a cog-wheel unconnected with any machinery, just like the idle cog-wheel of a cheap Beheea sugar crusher laid by in a corner. The breeezes fanned over him, the parrot shrieked at him, the noises of the populated house behind – squabbles, orders, and reproofs – hit on dead ears. “I am Kim. I am Kim. And what is Kim?” His soul repeated it again and again. He did not want to cry – had never felt less like crying in his life – but of a sudden easy, stupid tears trickled down his nose, and with an almost inaudible click he felt the wheels of his being lock up anew on the world without. Things that rode meaningless on the eyeball an instant before slid into proper proportion. Roads were meant to be walked upon, houses to be lived in, cattle to be driven, fields to be tilled, and men and women to be talked to. They were all real and true – solidly planted upon the feet – perfectly comprehensible¡ – clay of his clay, neither more or less» (R. KIPLING, Kim, New York, Penguin, 1987, p.331).

235 muovo ancora in un castello di significati, non di cose, dipendo sempre dagli altri, dai «grandi», da quelli che manovrano le cose. Invece c’è chi fin da bambino ha lavorato a un tornio. A un arnese per fare delle cose. Che non può avere un significato diverso dalle cose che fa. Io quando vedo una macchina la guardo come se fosse un castello magico, immagino omini piccolissimi che girano tra le ruote dentro. Un tornio. Chissa cos’e un tornio. [...] Dev’essere importantissimo, un tornio. Dovrebbero insegnare a tutti a usare un tornio, invece d’insegnare a usare un fucile, che è sempre un oggetto simbolico, senza un vero scopo. [...] Tu hai pochi miti di cui ti devi liberare; per me tutte le cose sono simboli. Ma questo è certo: dobbiamo riconquistare le cose (pp. 966-967).

La riconquista delle cose passa dall’abbandono degli schemi. La disgrazia ultima dell’intellettuale si avverte qui, è questo trasformare le cose in simboli, in continua interrogazione della realtà, e non vederle come espressione ultima della realtà stessa, delle basi materiali della vita, in una corrispondenza univoca di significati. La soluzione al dilemma era stata additata, in un certo senso, in Vento in una città, con l’invito a considerare non lo “schema” dell’umanità, ma la “pasta” dell’umanità stessa (kiplinianamente «clay of his clay»):

La gente sul tram era grigia e rugosa, tutta impastata come della medesima polvere. Ada Ida aveva la mania di fare le osservazioni: – E guarda che tic nervoso ha quell’uomo. E guarda come s’è data la cipria quella vecchia. A me faceva pena tutto e volevo che smettesse. – E ben? E ben? – dicevo. – Tutto ciò che è reale è razionale –. Ma non ero convinto fino in fondo. Anch’io sono reale e razionale, pensavo, io che non accetto, io che costruisco schemi, io che farò cambiare tutto. Ma per far cambiare tutto bisogna partire di lì, dall’uomo col tic nervoso, dalla vecchia con la cipria, non dagli schemi (p. 957).

Ada Ida e Mariamirella, che vedono le cose “semplici”, s’appaiano a Ferriera, il commissario che nel Sentiero discute con Kim dei significati della lotta partigiana, su cui Kim stesso vorrebbe modellarsi («il suo punto d’arrivo è poter ragionare come Ferriera, non aver altra realtà all’infuori di quella di Ferriera, tutto il resto non serve», IX 153). A differenza di Kim, Ferriera è un «operaio nato in montagna», sempre lucido, logico, e, infatti, “chiaro”, limpido come i suoi occhi63. La “limpidezza” dello sguardo come segnale della lucidità interiore, della chiarezza dell’analisi del mondo e della realtà proviene da un altro personaggio di Calvino, il Tito del dramma I fratelli di Capo Nero, che già proponeva nel 1943 il problema dell’interpretazione non intellettualistica del mondo:

63 Si cfr. il seguito del nostro studio per un’esame più approfondito del rapporto tra i due personaggi alla luce del raggiungimento della “chiarezza” interiore.

236 TITO [...] Ecco, è il mondo che, a studiarlo, è complicato, molto più complicato di quel che sembra; e noi, in fondo, abbiamo poche idee. È questo che cerco io; di fare tutto semplice, semplice come siamo, per capirlo, questo mondo che non abbiamo fatto noi, e per rifarlo, come l’avremmo fatto noi. MIRCO Da’ retta: il mondo conviene guardarlo come è, senza cambiarlo in testa. TITO Certo, a potere. Ma io credo di sì, che si possa. E che la vera sapienza sia nel mio sguardo limpido, nella terra su cui posano i miei piedi, nel giudicare le cose come sono e magari riderne, senza rompermi la testa dietro i rapporti dell’una con l’altra64.

La letteraturizzazione dell’esperienza della realtà riduce l’«io» alla carta, al falso, ne impedisce la conoscenza:

TITO Se guardi le cose e segui il filo dei perchè, sembra che tutto sia a posto, una cosa collegata con l’altra che non potrebbe andare altrimenti. Ma poi ti senti come offeso dentro, come se la vita stagnasse in mezzo alla carta e tu pure, dentro, fossi tutto di carta. Invece alla vita è bello starci in mezzo, senza intermediari, respirarsela, darle la forma che vuoi, ma sentirtela tra le mani, calda, come una bestia e guai se la stringi troppo che ti muore65.

Sarà il dramma della storia, con l’8 settembre 1943 e la necessità di decisioni irrevocabili, a mandare in frantumi le versioni simboliche del mondo. Sarà infatti l’agire, e non il teorizzare, a rendere pieno di significati il mondo, lasciando da parte i suoi significanti. All’altezza cronologica della scrittura del romanzo, questi temi e problematiche dei due racconti ancora inediti o del dramma occuperanno larga parte della concezione del romanzo della Resistenza – di cui si tenta di imbrigliare lo spirito liberatore in un linguaggio che porti all’esame della “semplicità” di una visione della vita, di comunicare un’esperienza che effettivamente era stata diretta, immediata, che aveva rivelato a scorza una realtà cruda, in cui l’individuo aveva riscoperto le “cose” facendone parte, “standoci in mezzo”, assumendone la responsabilità. La realtà del romanzo Il sentiero dei nidi di ragno è impastata da problematiche che riechieggiano consistentemente nella coeva opera calviniana, e che ne vanno a controllare i modi di scrittura, nella ricerca di una terza via possibile che svincoli la scrittura di un romanzo partigiano dal genere ora abusato del racconto di guerra, da convenzioni arcinote che Calvino sente come costrittive e che, con un’intelligente operazione strategica, pensata tutta a freddo, finisce per usare a suo vantaggio e a mutarne la natura. La nascita del Sentiero si porta dietro le stimmate di una laboriosa ricerca di un linguaggio che provochi, inciti al dibattito, “innesti” sulla struttura esternamente avventurosa del libro

64 I. CALVINO, I fratelli di Capo Nero, in ID., Romanzi e racconti, t.3, cit., p.477-478. 65 Ibidem, p.451.

237 un’indiscutibile vis polemica, «il problema della responsabilità dell’uomo di fronte alla storia, il problema che è quello vero di noi oggi [...] e arrivare all’enunciazione d’una moralità nell’impegno, d’una libertà nella responsabilità che [...] sembrano l’unica moralità, l’unica libertà possibili»66. L’amichevole e al contempo severo monito vittoriniano di tenere sotto controllo la «narrativa come indagine» esplicita, d’impianto saggistico, è veramente capitale per stabilire come le diverse sollecitazioni alla scrittura in cui si esaurisce Calvino nella ricerca di un linguaggio “suo” finiscano per condizionarne gli esiti, tra misura breve e lunga, in questo periodo cruciale. Per comprendere questo momento dinamico di sviluppo, è allora necessario portare sul banco dei testimoni tutti quei testi apparentemente periferici che rivelano però, a un secondo sguardo, una centralità strategica di materiali e tematiche abbozzate per il Sentiero. Significa, oggi – grazie all’edizione Mondadori delle opere – riportare in campo taluni scritti che mostrano parentele dirette, come il racconto Cinque dopodomani, guerra finita! o l’articolo Krasavcenko sereno al di là dei citati Vento in una città e Amore lontano da casa; pezzi, questi, illustratori di alcuni argomenti ricorrenti e tipizzati come l’exemplum degli “uomini nuovi” sovietici, o dei soldati sovietici ispiratori dei partigiani italiani; o il problema, non secondario, della moralità del fare e dell’agire (dell’impegno diretto come risoluzione qualificatrice dell’esistenza vs l’intellettualizzazione della vita) che porterà, nel romanzo, allo scontro di personaggi come Lupo Rosso e del cuoco Mancino e, anche assieme al IX, alle discussioni sul comunismo e sul suo significato esistenziale nel capitolo VIII. Non ultimo, il concorso dei pezzi scritti da Calvino nel 1945, che approdano sghembi o in pezzi nel romanzo a condizionarne taluni esiti. Significa anche ripercorrere la storia della ricezione critica del Sentiero e dell’opera seconda (ma fatta di moltissimi materiali ante-romanzo), Ultimo viene il corvo (1949), la cui interpretazione certo condizionò per molto tempo l’immagine dell’autore. Nel caso del Sentiero abbiamo fortunatamente, ancora oggi, dei materiali che ci mostrano con concretezza come il recit dello scrittore sia ancora condizionato da un certo tirocinio sui fogli partigiani, e come precise ipoteche ideologiche contribuiscano a orientarne la sua scrittura. In assenza di sopravviventi stesure manoscritte complete o parziali, l’esame dei dattiloscritti che furono inviati a Riccione, infatti, permettono, grazie a poche ma non secondarie correzioni manoscritte (nonostante l’avanzatissimo stadio redazionale dei testimoni), di cogliere proprio come certe interferenze di «genere» vengano risolte dallo scrittore, come insomma Calvino curi il trapasso tra racconto breve (e giornalistico) e racconto romanzesco, e come considerazioni di volta in volta squisitamente politiche o narrative ne muovano la penna verso la riscrittura (di cui il ricorso sistematico alla cassatura, come procedimento, è pure legittimo esempio, in quanto muta il recit dell’autore). Lo studio seguente, di cui questa è la prolusione, è diviso in quattro segmenti tra loro idealmente legati e tuttavia abbastanza indipendenti, materiali d’investigazione tutt’ora provvisori. Centrale

66 A Elio Vittorini, 12 dicembre 1947, in I. CALVINO, I libri degli altri, cit., p.7.

238 rimane la disamina dei dattiloscritti conservati presso l’Archivio del Premio Nazionale Riccione, che prende in considerazione la forma testuale del Sentiero cristallizzata tra il 12 giugno 1947 (termine ad quem, l’invio delle due copie) e l’uscita in volume l’ottobre successivo. Dalla descrizione dei dattiloscritti (e dalla discussione dei problemi che il loro assemblaggio pone al ricercatore) si passa all’esame delle varianti più cospicue, inevitabilmente incorniciate dall’interno della produzione coeva calviniana, che portano in campo la discussione dell’ideazione e esecuzione del Sentiero stesso, qui indagato attraverso il sistema dei personaggi e di quelle interferenze che, da altri racconti, condizionano a distanza l’esito di questo testo o ne spiegano la genesi. Preliminarmente all’indagine filologica, si è resa necessaria l’investigazione della ricezione critica dell’esordio, in quanto a partire della recensione di Cesare Pavese al libro si era finiti privilegiando le storie con punti di vista infantili e fanciulleschi e rendendole le uniche degne di cittadinanza nell’immaginario dello scrittore, scartando, nei fatti, i racconti partigiani del 1945 che sono però centrali per la comprensione del Sentiero, della scelta del suo punto di vista e dell’operazione tentata col capitolo IX. La storia della fortuna critica calviniana, alla sua nascita, è istruttiva per comprendere quali grandi e importanti ipoteche abbia imposto sulla ricezione dell’autore a scapito, tutto sommato, dei testi stessi67. Sebbene possa anche considerarsi segmento staccato dal nucleo del discorso sulla cronistoria riccionese del testo, esso ne prepara in parte la discussione “politica” (si licet), la quale è stata condotta con la lettura della pubblicistica coeva al romanzo. Lo stesso valga per il macro-segmento finale, che riesamina i racconti delle battaglie tra il 1945 e il 1946, alla luce dei numerosi prestiti intra e inter- testuali che si stabiliscono tra i generi di scrittura praticati dallo scrittore.

67 Tutte le citazioni dal Sentiero dei nidi di ragno sono tratte dalla princeps (Torino, Einaudi, 1947), e sono seguite, in parentesi tonda, dall’indicazione del capitolo in numero romano e della pagina in cui la citazione ha inizio in numero arabo. A causa dell’indagine storica sul romanzo, il testo-base necessario è stato quello della prima edizione (il volume mondadoriano riporta la terza, come ultima volontà dell’autore). Le citazioni dai dattiloscritti riccionesi sono date in parentesi tonda, con l’indicazione del capitolo in numero romano seguito dalla pagina in numero arabo e, dopo la virgola, dal rigo, in numero arabo, cui fanno riferimento. Si è pertanto evitato, grazie a questa differenza evidente, di ricordare in nota quando il testo di riferimento è la princeps o i dattiloscritti. Le citazioni dei racconti 1945-1947 sono tratte dalla princeps della raccolta in cui essi sono confluiti, Ultimo viene il corvo (Torino, Einaudi, 1949). Nel caso dei racconti non appartenenti al Corvo, un’apposita nota ne darà volta per volta gli estremi di citazione.

239 2. Il problema interpretativo degli esordi: il personaggio e il suo ubi consistam.

Il copione che accolse all’uscita, nel 1949, i racconti di Ultimo viene il corvo (come l’opera secon- da, e quindi la più attesa, di Italo Calvino, dopo uno iato di due anni), quasi ricalcò i passi a suo tempo percorsi dall’esordiente Sentiero: poca unanimità di giudizio (anche se di segno più general- mente positivo), molte riserve68. In cerca di risposte sull’autore, i recensori si trovarono di fronte a dei testi in spirito e scrittura per molti aspetti analoghi al romanzo del ’47: ma il carattere apparen- temente miscellaneo e squilibrato della raccolta («si restava perplessi, dovendo ogni momento sal- tare dal buono nel pessimo», fu ad esempio il tonante commento di Emilio Cecchi) impedì una ricon- ferma decisa dei pareri manifestati col Sentiero. Il libro di Calvino, con quella compresenza di fatto- ri diversissimi e mai prevalenti (il “naturalismo” di Alba sui rami nudi di fianco al «gogolismo scarnificato alla Grosz» di Visti alla mensa o allo «sfrenato charlottismo» di Furto in una pasticceria, come ebbe a dire Enrico Falqui, in una sua penetrante recensione, enumerando titoli a caso), non bastava a definire con chiarezza, una volta per tutte, la direzione presa. La cifra stilistica calviniana rimaneva troppo anodina, contrastante. Il «mazzo di racconti che in parte parvero spontanei e sel- vatici, dei fiori di campo, e in parte un po’ sforzati o comunque coltivati, dei fiori di serra»69, come

68 Il volume fu recensito da: G. PAMPALONI, Il secondo libro di Italo Calvino, «Comunità», Ivrea, a.III, n. 5, settem- bre-dicembre 1949, p. 57; R. DAL SASSO, Ultimo viene il corvo di Italo Calvino, in «L’Unità», Roma, a.V, 25 ottobre 1949; V. GERRATANA, I racconti di Calvino, «L’Unità», Torino, a. V, 27 ottobre 1949, p. 3; G. DE ROBERTIS, La politica di Calvino, «Tempo», Milano, a.XI, 31 dicembre 1949 (ora in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 569-571); E. FALQUI, L’insegna del corvo, «Tempo», Roma, a.VII, 10 gennaio 1950 (ora in Novecento letterario, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 195-198; P. SERGI, Un giovane narratore. Italo Calvino, «Il Nuovo Corriere», Firenze, a. VI, 17 gennaio 1950; L. GIGLI, Due che raccontano, «Nuova Gazzetta del Popolo», Torino, a.CIII, n.28, 2 febbraio 1950; R. FIORANI, Antipoesia di Calvino, «Il Caffè», Milano, a.II, n.2, marzo-aprile 1950, pp. 16-17; D. PUCCINI, [Ultimo viene il corvo], «L’Italia che scrive», Roma, a.XXXIII, n.3, marzo 1950, p. 29; A. LEVI, Ultimo viene il corvo di Italo Calvino, «Letture», Milano, a.V, marzo 1950, pp. 88-89; G. BOTTA, Sul corvo di Calvino splende il mito partigiano, «Il Giornale», Napoli, a. VII, n.198, 20 agosto 1950, p. 3; R. FRANCHINI, in «Lo Spettatore», marzo 1950. Menzione particolare ebbe poi da E. CECCHI, «Il Visconte dimezzato» [1952], in Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano, Garzanti, 1959, pp. 310-313 e da A. BANTI, Italo Calvino, «Paragone-Letteratura», Firenze, a. III, n.28, aprile 1952, pp. 75-76. I rimandi ai recensori si daranno tra parentesi nel corpus del testo. In una lettera al padre del 26 ottobre 1949 (p. 256, in nota a una lettera datata 1 ottobre), Calvino indica (oltre la recensione su «L’Unità» romana, di Dal Sasso), come sia anche apparsa «una breve stroncatura sul «Popolo» d.c. di Torino», che non abbiamo potuto reperire. Si cfr. anche le due lettere di ringraziamento a Geno Pampaloni, del 2 novembre 1949 (p. 256-257) e del 2 dicembre 1949, p. 259. In quest’ul- tima, Calvino ammette come «il mio problema è oggi di uscire dai limiti di questi libri, da questa definizione di scrittore d’avventura, di fiaba e di divertimento, in cui non riesco a esprimermi e ad esaurirmi fino in fondo. Questo vuol dire, per me, fare il secondo libro: tale non considero il Corvo, perchè è una raccolta di racconti e lavori marginali, per di più scritti in gran parte prima del Sentiero. […] la prova del secondo libro l’ho ancora da superare». Si cfr. anche la voce Ultimo viene il corvo in D. SCARPA, Italo Calvino, cit., pp. 246-249, e, nello stesso volume, Critica, pp.101-109. Utile a questo proposito anche la Breve storia della critica calviniana a uso degli stu- denti in S. PERRELLA, Calvino, cit., pp. 213-226 e il capitolo dedicato a La critica in A. PONTI, Come leggere Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, Milano, Mursia, 1991, pp. 117-154 (in particolare pp.117-134). 69 E. VITTORINI, Italo Calvino: L’entrata in guerra, in I risvolti dei «Gettoni», a c. di C. De Michelis, Milano, Schweiller, 1988, p. 81.

240 li appellò benevolmente Vittorini di lì a poco, si prestava ad essere tirato da una manica o dall’al- tra. Il che avvenne puntualmente. Il metro unificatore delle due esperienze di scrittura, da cui doveva per molto tempo dipanarsi l’immagine critica di Calvino, fu com’è ovvio cercato (e trovato) a partire dall’opera editorialmente primogenita. Ovvero, si finì col privilegiare arbitrariamente all’interno della raccolta i racconti che stabilivano un legame più o meno diretto con l’infanzia e la sua capacità acerba, istintuale, di analisi della realtà secondo il punto di vista ch’era stato una volta del protagonista del romanzo, Pin. A conti fatti, però, su trenta storie solo cinque (Un pomeriggio, Adamo; Un bastimento carico di granchi; Il giardino incantato; Paura sul sentiero: Ultimo viene il corvo) ricevevano l’imprimatur da un’ot- tica infantile o adolescenziale. L’eseguità del numero non impedì loro, tuttavia, di essere ricono- sciute come le vere rappresentanti del sistema immaginativo dello scrittore. (Una chiave di lettura, questa, che Calvino avrebbe anche confermato col seguito delle sue prove, orecchiando e a volte piegandosi alla critica, ma, s’è visto dal numero, adesso “costruita” su di un campione irrimedia- bilmente minoritario). Quest’interpretazione portò con sé dei corollari non indifferenti ché in primo luogo, con l’accu- sa di indebolire la raccolta, si isolarono dal sistema narrativo calviniano la maggior parte dei rac- conti composti secondo un metodo (e un punto di vista) affatto diverso. A farne le spese diretta- mente furono i pezzi partigiani di Calvino, le primissime prove. Angoscia in caserma, Attesa della morte in un albergo, La stessa cosa del sangue (i titoli più paradigmatici, con le loro componenti clau- strofobiche, violente e drammatiche), diventarono qualcosa di non criticamente connaturato allo scrittore. Nel tardo 1949, le situazioni descritte da questi pezzi sembrarono inoltre datate, poste a richieggiare modelli noti e invecchiati, già “visti”, stabilendo l’allineamento di Calvino al racconto di maniera. L’addebito, ancora, non si fermava soltanto a rilevare comparativamente le consonan- ze esterne, generiche, anche inevitabili, con i racconti resistenziali circolanti in quegli anni in Italia. Un punto critico riguardava il processo interno di composizione dei testi, il cortocircuito causato dal riversamento di personaggi e situazioni dal romanzo ai racconti, finito in un bozzettismo infe- lice, narrativamente debole. La sensazione del già visto, nell’esaminare questa cospicua sezione dei racconti (ben dieci, un terzo del totale) non scaturiva unicamente dalla riscoperta di temi e figure del romanzo di due anni prima. La riproposizione a tutto campo di stilemi e sintagmi noti non diventava il principale imputato critico, benché ci si tenesse a sottolineare – un punto a sfavore di Calvino – come dei caratteri proposti alcuni avrebbero potuto considerarsi «caduti dalle pagine del Sentiero» per co- modità di composizione, piombati giù dall’organismo romanzesco col fine esplicito di essere «riu- tilizzati per formare il libro nuovo» (come ben additò Lorenzo Gigli, con una intuizione acuta, lasciata poi cadere). I rapporti formali di parentela tra i racconti e il romanzo – comunque fonda- mentali – passavano subito in secondo piano.

241 Il giudizio negativo investiva più decisamente le corrispondenze concettuali dei due libri, l’idea di «un mondo confuso, popolato di personaggi cui l’autore rifiuta la consapevolezza delle proprie azioni» (come accusò Pino Sergi). Recensendo il Corvo si poneva dunque sotto accusa l’intero pro- cesso di drammatizzazione del Sentiero, basato su quell’istanza, e si aggiustava il mirino sul «com- plesso sbagliato delle lunghe pagine dedicate a Kim», il commissario chiamato nel romanzo a contrastare l’«insufficienza estetica» (Sergi) dei personaggi spiegandone a posteriori le mosse. Prendeva così forma il problema dello statuto ontologico dei personaggi calviniani, accusati della mancanza di un ubi consistam, di una vita interiore mai esplicitata se non tramite interventi esterni di commento e chiarificazione. Un’accusa che nelle sue diverse modalità aveva diviso la critica fin dalle recensioni iniziali. La piattezza dei personaggi calviniani, il loro status di «burattini» comandati da un tic, era stata salutata con favore dal primo lettore del romanzo, Pavese. «Calvino racconta dei fatti, e questi fatti hanno radici, consistenza, sono groppi di carne e di sangue»: l’oggettività narrativa (il “fatto”) stabiliva così il proprio primato sul personaggio, contrapponendosi ad un’idea e a una pratica della letteratura (quella ermetica, della testimonianza interiore) che finiva per fissare solo «incensi di parole».

A ventitrè anni Italo Calvino sa già che per raccontare non è necessario «creare i personaggi», bensì trasformare dei fatti in parole. […] Ormai di scrittori che puntino sui grossi personaggi come usava una volta, non ce n’è quasi più. Cambia il mondo. Poveretto chi è rimasto coi nonni. Ma poveraccio , disgraziato, chi dietro ai grossi personaggi «che facevano concorrenza allo stato civile» ha mollato anche i fatti, le cose di carne e sangue, e brucia incensi di parole in non si sa che cappella privata70.

Una recensione giocata tutta in attacco con spirito polemico per difendere preventivamente «il primo racconto» che faceva «poesia dell’esperienza partigiana». Il merito di Calvino era tutto ri- scontrato nella non – consistenza dei personaggi, determinata dal predominio della pura avventu- ra sui moventi psicologici; nella terza persona narrante, che riduce i fatti all’algebra di un ordine; nel punto di vista “inconsapevole” (il fanciullo Pin) che regge pertanto i rapporti con la realtà e gli restituisce sulla pagina con la «schietta e complicata ingenuità dei poemi» . Il flat character, mosso da un suo quid elementare, in balia degli eventi, rispondeva, secondo Pavese, all’appello «arioste- sco» della narrativa calviniana. Il correre e il rincorrersi dei fatti cui il personaggio si piegava ridu- cendosi a funzione, a meccansmo di uno schema combinatorio, aveva infatti consentito di ritrarre «la vita partigiana come una favola di bosco».

70 C. PAVESE, Il sentiero dei nidi di ragno, cit. La recensione è riportata quasi nella sua interezza da A. PONTI, Come leggere Il sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. 134-136.

242 Guai se Calvino avesse fatto personaggi. Un sicuro istinto gli ha fatto ridurre le sue figure, non direm- mo a macchiette che suona offensivo, ma a maschere, a «incontri», a burattini. Tutti hanno un ticchio, nel Sentiero. Tutti hanno una faccia precisa, come altrettanti soldatini di carta da fogli diversi. Non fanno un gesto che non sia veduto con nitore, con una parola corposa e insieme minuta, come appun- to nel mondo cavalleresco, dove il gesto è tutto ma insieme va sperduto tra i tanti.

Per Pavese l’unidimensionalità dei caratteri si giustificava quindi da sé, essendo una necessità intrinseca della struttura fiabesca, ergo “oggettiva”, del Sentiero. Ma come spiegare allora l’inseri- mento di un monologo interiore, la forma – principe della soggettività, al capitolo IX, con il conse- guente spostamento dell’asse ottico del romanzo? La recensione s’indeboliva proprio qui, quando si provava a fare i conti con quello che sarebbe stato per tutta la critica il famoso punctum dolens, le pagine di Kim, interruzione dell’unità stilistica del libro.Non è affatto vero che «anche il capitolo IX, dove Calvino mette in scena i veri “adulti”, il il commissario e il comandante, è tenuto su questo rasoio», il rasoio del fiabesco. Per riconoscimento dell’autore stesso, le riflessioni kipliniane di Kim giungono stringatissime alla fine di un capitolo impostato «in tutt’altra chiave»71 e soltanto dopo ch’egli ha esplicato la sua funzione di giudice che conosce per delega le motivazioni e le pulsioni dei personaggi, e retrospettivamente ce le spiega. Una recensione tendenziosa, quella di Pavese, ché lo spazio dedicato al problema (non sottovalutabile) del IX capitolo all’interno del romanzo si restringe a questo artificioso riallineamento con le ragioni della fiaba. Una rimozione pubblica, questa dell’articolo, dettata fors’anche da ragioni di scuderia (un libro Einaudi), che ap- punto contrasta col tono della lettura editoriale riservata al circolo interno degli einaudiani, in cui «il capitolo del commissario Kim» era chiamato a chiare lettere, invece, «una grande stonatura»: «Si rompe l’angolo visuale del ragazzo, e quello di Kim commissario non è ingranato nell’avventura, è un’esigenza intellettualistica»72. La recensione di Pavese rimuove insomma un dato che potrebbe far capitolare il suo castello argomentativo. Un dato che è stato soltanto ripreso di sguincio dalla critica successiva (di solito liquidatoria del periodo “neorealista” di Calvino), più persuasa e confortata dalle immagini di «scoiattolo della penna», di favolista, che Pavese aveva così felicemente coniato per lo scrittore. Un dato cui va invece concesso il primato della discussione, da cui è imprescindibile partire per com- prendere come e perchè si è potuto parlare di «insufficienza estetica» dei personaggi, quale ne sia la ragione “strutturale”. Sulla tecnica calviniana e sui personaggi, a Pavese rispondevano Giuseppe De Robertis e Clau- dio Varese, i due recensioni che colgono benissimo gli elementi di fondo della realizzazione del

71 I. CALVINO, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in ID. Romanzi e racconti, t.1, cit., p. 1189. 72 La scheda di Pavese è stata riportata da Falcetto in appendice a I. CALVINO Racconti e romanzi, t.1, cit., p. 1243.

243 Sentiero. De Roberis spiattella subito ciò che Pavese aveva tenuto nel cono d’ombra di una narrati- va di “fatti” basata sull’immediata comprensibilità del flat character.

Calvino non ritrarrà a tutto tondo, ma osserva e nota, e si ferma spesso a rifinire. Non solo. Ma usa anche qualche volta una tecnica diversa, vecchiotta per giunta, dove perfino idealizzza un poco, come fa Kim, lo studente, il commissario, l’interprete delle azioni degli uomini (un autoritratto?)73.

Kim diviene il personaggio irrinuciabile per la comprensione del romanzo («l’interprete delle azioni degli uomini»); e, si badi bene, non per una primaria adesione ideologica – ci si interroga se esso sia o no un autoritratto –, ma per vizio tecnico, o meglio, per un’alternanza di tecniche che convivono nel romanzo. Dal flat character allo pseudo – round (per usare la nota terminologia foste- riana), alla restituzione della roundness a tutti i personaggi retrospettivamente spiegati da Kim. Di questo tenore anche l’interpretazione di Varese. Se le pagine dedicate a Kim «non rientrano del tutto nell’ispirazione artistica del libro» per il loro valore di «analisi saggistica» (di contro alla volontà di “avventura” picaresca di Pin), «forse erano necessarie perché il libro fosse scritto, e senza dubbio, giovano alla comprensione intellettuale ed etica di esso, come giovano alla sua com- prensione estetica»74. La discontinuità del Sentiero risulta così connaturata al Sentiero stesso. Il libro dedicato a Kim («A Kim e a tutti gli altri» , recita Calvino sul limitare dell’edizione 1947 del romanzo) è il libro di Kim, l’esplicatore delle cause dei personaggi, lo strumento necessario a dotare di spessore perso- naggi costruiti su frammenti, su dialoghi, sempre colti (tranne alcune, significative eccezioni) nel loro momento dinamico di recitazione, nei loro rapporti relazionali ma non nell’intimità dei propri pensieri. Se per Pavese erano le leggi della fiaba a imporre i personaggi unidimensionale, per un altro recensore, Dal Sasso, era l’insufficienza costitutiva dei personaggi a richiedere tali soluzioni. Il limite del Calvino narratore, secondo Dal Sasso, non stava nel ricorso ai moduli fiabeschi, visto che «nella tendenza alla favola […] per suo mezzo, […] la vita può realmente narrarsi», ma «nella tendenza o, più precisamente, nella fuga verso il fiabesco», evocato «come una risorsa appena si vede che la penna non arriva fino alla vera natura, alla vera forza delle cose e degli uomini». Una spiegazione da inserire nel novero delle interpretazioni dei personaggi: Calvino non sa approfondire i caratteri. L’abbandono, da lui operato, della vecchia narrativa “psicologica” scivola poi in racconti appesan- titi dallo scopo dimostrativo, da una sovrastruttura di saggio, palesando come la ricerca calviniana non abbia trovato una soluzione felicemente coerente. Un Calvino in mezzo al guado, incerto, così

73 G. DE ROBERTIS, Le ragnatele di Calvino, «Tempo», Milano, a. X, n. 4, 24-31 gennaio 1948 (ora in Altro Novecento, cit., pp. 567-569). 74 C. VARESE, Scrittori d’oggi, «Nuova Antologia», Roma, a. LXXXIII, n. 2, maggio-agosto 1948, pp. 102-104.

244 come appare dall’epistolario. Chiamare Kim nel romanzo testimonia di quest’impasse. Il punto di vista diventa allora l’imputato critico principale. I nodi irrisolti della narrativa di Calvino stavano appuntati su Kim, tanto che lo stesso presunto protagonista Pin poteva venire criticato, disconoscendone la centralità: Pin nei fatti diventa solo un filo conduttore di tanti episodi. Un’aspetto che era stato subito riconosciuto da Enrico Ema- nuelli all’uscita del romanzo: «[…] il meglio non è nel tentativo di fare Pin il filo conduttore di tanti episodi che dopotutto sono al di fuori e al di sopra di lui; il meglio è in quell’aria e in quei senti- menti sotterranei che animano i tipi del racconto»75. “Tipi», ancora, come secondo Pavese; ma con «sentimenti sotterranei», con risonanze interiori, pseudo-round: anche Emanuelli appunta gli occhi sullo statuto speciale del personaggio. E sul personaggio insistevano pure le due recensioni a Ulti- mo viene il corvo apparse sul «Caffé» e sul «Nuovo corriere» (rispettivamente con Resy Fiorani e Pino Sergi), le quali esaminavano racconti e romanzo proprio attraverso di esso, ponendo in cam- po per Calvino, con decisione, il problema del bozzettismo. I caratteri dello scrittore, secondo Fiorani, erano la resultante della scelta del punto di vista (di Pin, dunque), un punto di vista che «portava il lettore attraverso una galleria di “ritratti” caratteri- stici, anche se un po’ statici». Il protagonista come mezzo per una “rassegna”, di nuovo, come per Emanuelli, il pretesto per la rappresentazioni di episodi al di sopra di lui (quindi anche qui «Pin è […] poco convincente, […] di tutta questa storia […] l’elemento più sfocato»). Fiorani proseguiva nella decifrazione del problema:

Innegabilmente Calvino sa far parlare i suoi personaggi con una varietà pittoresca di espressioni che inquadra mirabilmente le singole figure: esse sembrano passare su uno schermo di fotomontaggi isolati: sono ben disegnati e si esprimono nell’esatto modo richiesto dalla tratteggiatura iniziale, ma non agiscono, potrebbero costituire ciascuno un bel bozzetto isolato, bello almeno quanto lo è nel complesso del libro, tutti o quasi: il Dritto, Lupo Rosso, il Cugino, la Giglia, Ferriera, i quattro Cognati, e Giacinto…

Sergi, dal canto suo, individuava nel bozzetto il limite strutturale del libro, esaltando in contra- sto la forma-racconto di Ultimo viene il corvo,

…raccolta indubbiamente superiore […] al primo romanzo, anche perché una certa preferenza per il bozzetto facilita al Calvino il movimento nell’ambito ristretto del racconto breve ( e proprio l’amore per il bozzetto rende privo di una salda spina dorsale il Sentiero dei nidi di ragno).

Con diversità d’accenti ma in pieno concordi su questo punto, le voci togate indicavano al giovane Calvino la via maestra: che l’autore, pertanto, prendesse le distanze dal mondo narrativo

75 E. EMANUELLI, Il figlio dei botanici comincia a scrivere romanzi, cit.

245 ancora troppo ibrido del Sentiero, evitando quei vizi e gli intellettualismi facenti «il suono delle monete false» (Sergi). Ai racconti di Ultimo viene il corvo – «d’una mescolanza in verità troppo grezza» (Cecchi ipse dixit) – si riconosceva in fin dei conti un ripiegamento, non la cercata evoluzione. La «lucidità di favola» delle «prove più poetiche» (più calviniane, insomma: che quest’equazione di poesia e favo- la era subito diventata la patente dell’autore) veniva spazzata via dagli interventi forzosi della «polemica sociale» (Falqui), dalla retorica dei discorsi impegnati. Stando alle resultanze critiche, in una parola, l’esito dei racconti rimaneva segnato dagli squilibri del Sentiero. Su questa critica gravava però un errore metodologico meno innocente di quanto appaia oggi d’acchito: dall’analisi comparata del Sentiero coi racconti veniva trascurato il dato fondamentale che già una parte più che consistente dei pezzi partigiani, i più “compromessi”, aveva fatto il suo esordio su quotidiano o rivista prima della composizione del romanzo (termine ante quem, 31 di- cembre 1946), e che in ogni caso i rimanenti “incriminati”, editi o inediti che fossero, erano stati scritti entro la data in questione. Cronologia alla mano, moltissimi pezzi già risultavano all’attivo di Calvino alla scadenza del concorso che aveva visto la frettolosa nascita del Sentiero; e ben tredici di essi, con pecche e pregi, sarebbero entrati a far parte della silloge di Ultimo viene il corvo orientan- done gli esiti76. La direzione del tirocinio letterario dello scrittore (e i suoi soggetti) era stata dunque male interpretata: la valutazione della narrativa calviniana – le conferme, i mutamenti – riposava su di un grosso equivoco (e solo pochi recensori furono colti da qualche dubbio). Appare chiaro come il biasimato rapporto di derivazione dei racconti dal romanzo andasse in verità capovolto, con con- seguenze decisive. Innanzitutto il pedale sul fiabesco, per quanto discontinuo, si era pigiato a par- tire dal Sentiero dei nidi di ragno: e non è una precisazione da poco. Significa riconoscere alla narra- tiva di Calvino, a questa altezza cronologica, un carattere composito privo di direttrici prevalenti. La dote di “limpidezza”, schiettezza e «lucidità di favola» appartiene quindi a un momento (e a un mutamento) storicamente determinato della maniera stilistica dell’autore – il tardo ’46 –, una fase di composizione più recente nell’ambito ristretto del ristretto periodo in esame, che a posteriori sarà riconosciuta come più matura, di esiti più solidi e soddisfacenti, ma che ancora è numerica-

76 I racconti che portano la data del 1945 e del 1946 nella silloge sono: Alba sui rami nudi, Di padre in figlio, Uomo nei gerbidi, I fratelli Bagnasco, La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in un albergo, Angoscia in caserma, Paura sul sentiero, Andato al comando, Campo di mine, Ultimo viene il corvo, Visti alla mensa, Furto in una pasticceria. Per un essenziale approfondimento delle notizie relative alla composizione dei pezzi e, più generalmente, alla raccol- ta, si cfr. B. FALCETTO, «Ultimo viene il corvo» in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., pp. 1260-1305. Di Falcetto si veda altresì l’ottimo “Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere’. Sull’elaborazione di «Ultimo viene il corvo», cit. Oltre le citate voci di D. Scarpa, è utile aggiungere R. BERTONI, Tra Pin e Libereso, in ID., Int’abrigu int’ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell’opera di Italo Calvino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1993, pp. 9-56 e più in particolare pp. 29-45.

246 mente paritetica rispetto agli altri racconti. Le «fiabe nordiche» (Banti) tanto osannate nella loro completezza e varietà, alla prova dei primi racconti erano di là da venire. I modelli gotici di Ultimo viene il corvo o di Paura sul sentiero, coi loro ricami inquietanti alla Bosch o alla Bruegel, costituivano ancora un esperimento narrativo tra i tanti che Calvino aveva intrapreso alla ricerca di un suo linguaggio e di una grammatica personale, e non una strada narrativa energicamente imboccata. Al momento della composizione del romanzo, la comicità noir di Furto in una pasticceria, le prove pseudo-naturaliste di Alba sui rami nudi e Di padre in figlio (che nel 1949 avrebbero così tanto diso- rientato la critica), o gli apologhi di Ragionamento del cugino e di E il settimo si riposò – per citarne alcuni –, avevano pari dignità di cittadinanza (tecnica e immaginativa) nel mondo dello scrittore. Alla luce di questo capovolgimento cronologico nessuna patente di eccentricità rispetto al sistema può essere loro attribuita, non più. A questo punto, restaurate le precedenze tra i testi col ripristino della corretta cronologia inter- na, la chiamata all’involuzione presunta dei componimenti di guerra irti di drammi psicologici e di scenari a forti tinte cessa di esistere. Per essi , rispetto al Sentiero, non di “ripiegamento” stilistico si dovrà parlare, ma di consonanza invarita di motivi, visto che è la scrittura novellistica a culmi- nare nella sperimentazione romanzesca e ad esserne successivamente forzata. Per quanto ovvio possa essere oggi, non è il romanzo a fornire il materiale per i racconti, ma l’esatto contrario. I rapporti racconti-romanzo dovranno in primo luogo restringere l’orizzonte di indagine alla data di composizione del Sentiero, mettendo in gioco quei racconti fin lì scritti, e concentrarsi, per via interna, sul processo di gerarchizzazione dei motivi, di progressivo spostamento dei registri stili- stici e di tipizzazione della scrittura. Un rischio critico da evitare si annida infatti nella possibilità di leggere questo primissimo, limitato segmento della storia calviniana senza l’autonomia che gli spetta, sulla base, cioè, degli esiti futuri. E pure concesso che la “vena fiabesca” risalga «lontano, fino dagli inizi» (De Robertis), che sia insomma nata con Calvino stesso, rimasta latente e poi venuta en plein air, è chiaro come essa vada tenuta sotto controllo nel giudizio di lettura retrospettiva, affinché non se ne ingiganti- scano e sopravvalutino i sintomi, le presenze ammiccanti, i segni concreti ma statisticamente scarsi. Una volta ammesso l’immaginario fiabesco a unica discriminante critica , in quanto segnale di continuità, il corollario sarebbe fatale: molte prove andrebbero condotte di necessità al sicuro ripa- ro di esordi acerbi (che tutto scusano e tutto giustificano), agli altalenii narrativi di uno scrittore giovanissimo e incostante in cerca di una sua “vena”, di cui i prodotti partigiani o naturalisti sareb- bero incidenti di percorso. Un fiabesco recuperato nell’accezione sinonimica di oggettività, di piat- tezza del personaggio agente (le “figurine” citate da Pavese) o d’improbabilità strutturali ( i ritor- nelli di un racconto – più tardo – come Il bosco degli animali) in cui personaggi-burattini siano solo ingranaggi al servizio dell’intreccio. Questa chiave di lettura finirebbe col dare un’indicazione gra- vemente inesatta e disinvolta dell’iter calviniano, recuperato tutto col senno di poi: perché il Calvi-

247 no datato 1946, inesperto quanto si voglia, alle prese con una materia autobiograficamente incan- descente come la guerra partigiana, s’identifica totalmente in quei racconti di sangue, passioni, attese di morti violente ed esecuzioni. È un Calvino che si spinge sulla “via dei simboli” (Angoscia in caserma: dove l’architettura dell’edificio di per sé è il male), verso drammatici interrogativi inte- riori (il libero arbitrio umano vs il caso, come in Campo di mine) o l’emotività spinta e partecipe dei personaggi autobiograficamente esemplati di Attesa della morte in un albergo o La stessa cosa del sangue. È il Calvino, come abbiamo già visto, delle «storie piene di colore», «d’acutezze psicologi- che», dei «simboli» di se stesso77. L’incontro col romanzo andrà verificato più sul metro emotivo di Kim (il rappresentante delle “acutezze psicologiche”, per dirla con Calvino), che sull’oggettività delle strutture fiabesche, le volute legere e distaccate di vicende «a incastro, a ritornello narrativo» (Banti) dove l’intreccio prevale sul personaggio e le sue motivazioni : dunque negli choc di quei «racconti che tentano di rivivere drammaticamente la lotta partigiana, o la situazione nel periodo bellico o immediatamente successivo» (Sergi). Il giovane Calvino è quei racconti, spiacevoli a dir poco anche per le stesse costruzioni dietro- logiche dell’autore, preoccupato di cancellare certe tracce e ristabilire di sé un’immagine artistica a tutto tondo, più coerente con gli incensamenti della critica. È un dato noto come fu comunque Calvino, sensibilissimo ai consigli di alcune auctoritates, a farsi complice di questo equivoco anno dopo anno. Lo prova la vicenda delle variazioni dei pezzi dalla raccolta dei Racconti (1958) alla nuova edizione del Corvo (1969): nel 1969 scomparivano i componimenti fuori linea, troppo com- promessi, i primi, insomma i più «fuori stile»78, e veniva definitivamente sanzionata dalla scelta la figura del Calvino favolista, originariamente (e prevalentamente ) favolista. I peccati di gioventù sparivano dall’orizzonte editoriale amcora orecchiando le antiche ma autorevoli obiezioni (una fra tutte, quella di De Robertis, non persuaso da «certi “interni” o “studi”, che farebbero pensare a esperienze per narrazioni più vaste, o sondaggi per sperimentare le proprie forze»). In prima fila a farsi bocciare stavano i “cartoni” cosiddetti del Sentiero, quei «momenti ed episodi facilmente inse- ribili nelle sequenze del viaggio del piccolo protagonista» del romanzo. Siamo di fronte a un tipo di manomissione storica compiuta dall’autore a cui la critica ha prestato poca attenzione, e tutta in tempi relativamente recenti. Spariscono si è detto, i “cartoni”, vale a dire le controfigure, le prime sperimentazioni di perso- naggi, erroneamente individuati come prosecuzioni autonome di alcune parti del Sentiero. Spari-

77 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit. Si cfr. D.S. WATSON, The representation of reality in Italo Calvino’s racconti partigiani, in «Canadian Journal of Italian Studies», a.XIX, n. 52, 1996, pp. 1-18; V. FERME, From autobiography to fables: the ideological shift of the narrative voice in Italo Calvino’s Ultimo viene il corvo, in «Constructions», n. 9, 1994, pp. 71-88; F.G. PEDRIALI, “Più per paura che per gioco?”: three textual explorations of Calvino’s Il sentiero dei nidi di ragno, in «Modern Language Review», a.XCIII, n.1, January 1998, pp. 59-70. 78 Cfr. Nota alla nuova edizione di Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1969, p. 275.

248 scono, in verità, perché rivelano macroscopicamente, dal confronto col romanzo, il saccheggio cui si sono dovuti piegare. Il Sentiero, in un certo senso, nasce dai racconti come l’araba fenice dalle sue ceneri. La consonanza tematica e temporale di alcuni di essi ne ha di fatto incoraggiato il recupero per parti. Il lavorìo traspositivo si compie come opera di saccheggiamento metodico di dettagli fortemente limitati nel numero e già tipizzati quanto al carattere: la reiterazione dei tratti indivi- dua così una serie d’invarianti formali che palesano un preciso gusto stilistico e il senso di una prima, o primitiva, gerarchizzazione. Il riuso di temi, stilemi e sintagmi all’interno del limitato corpus calviniano attesta un procedimento di messa a punto espressiva, l’assetto e la disposizione di materiali secondo principi estetici via via in consolidamento: personaggi ambienti e situazioni segnano con la loro cadenza le prime coordinate del mondo immaginativo dell’autore; sottolinea- no, col loro unirsi e ricomporsi, la progressiva strutturazione tematica o formale dei motivi in gioco. Come già messo in evidenza da Falaschi, Falcetto, Milanini o McLaughlin, studiosi di questo primo periodo, va da sé che siano certe figure a sciamare nelle pagine del romanzo, a risaltare con insistenza, personaggi la cui fisionomia esteriore ha già superato un primo rodaggio e che così possono venire accolti per il rilievo che oramai posseggono: si pensi al ritratto di Pelle-di-biscia in Attesa della morte in un albergo, ideale figura di spia, e al suo omologo romanzesco Pelle, oppure al comunista di La stessa cosa del sangue e al suo legame con Mancino, il cuciniere della brigata parti- giana con ambizioni di leader; o a talune figure femminili come Mary la Toscana e la Nera di Carrugio Lungo, fatte con lo stampino; insomma alla selva dei personaggi del romanzo che sono i parenti stretti di quanti si trovano nei racconti. Percentualmente, le corrispondenze più stringenti rinviano a soli quattro racconti “resistenzia- li” (Angoscia in caserma, Attesa della morte in un albergo, La stessa cosa del sangue, Cinque dopodomani, guerra finita!), gli unici atti a fornire al Sentiero la necessaria contiguità tematica. I motivi e le solle- citazioni narrative messi a punto nel romanzo s’intersecano infatti all’interno di questi racconti in un giro di rimandi che si costituisce a corpo unico, in una tetralogia a sé dedicata alla diserzione, alla prigionia e al momento della scelta partigiana, col colpo di coda dell’esperienza sul campo e dei suoi eroi. Il rapporto complementare dei testi è ribadito in primo luogo dalle situazioni descritte, che pescano nel repertorio oramai ampiamente codificato da albi e almanacchi di guerra, romanzi cronachistici, memorie: ecco allora la centralità della brigata partigiana, l’attacco alle colonne nazi – fasciste, l’esecuzione delle spie, la prigionia in alberghi caserma, l’otto settembre, fughe e rastrel- lamenti e così via. Nel romanzo si assiste però ad una sorta di rovesciamento funzionale, al mutamento di segno dei temi, per cui esempi solitamente positivi o estesamente svolti nei racconti perdono di consi- stenza o assumono significati ambigui. Nel sistema comparato dei personaggi e delle situazioni

249 descritte è questa la prima notazione interessante. L’esecuzione delle spie fasciste (giustificata an- che in Andato al comando) assume ad esempio nel Sentiero i colori distorti di una rappresaglia priva- ta nell’episodio del Duca e cognati , che uccidono due fascisti per rappresaglia dopo la morte di uno di loro (al capitolo VII); oppure, l’eroismo indubbio della brigata partigiana, talvolta sbilancia- to, nella letteratura coeva, in agiografia con tanto d’ingenui santini, è rovesciato nella disorganiz- zazione, indolenza e atipicità del distaccamento del Dritto, fino alla deformazione dei caratteri positivi già presenti nei racconti in macchiette ridicole e estremiste (si pensi a Mancino, il cuoco «troschista»). Solo per pochissimi personaggi sarà riaffermato il ruolo d’impavidi cavalieri senza macchia, ma di contro a una sottrazione progressiva di spazio narrativo (si pensi al partigiano russo Aleksjei, e al cameo che si ritaglia sulla fine del capitolo IX, di contro a ad un racconto come Cinque dopodomani quasi interamente dedicatogli). Le apparizioni dei personaggi dai racconti avranno davanti a loro, nel romanzo, il segno della negatività; gli exempla saranno rovesciati, meccanicamente (e speditamente) travasati da un orga- nismo narrativo all’altro in virtù di questo capovolgimento. Un prestito, si badi bene, che ha anche ragioni extra-narrative: la fretta di comporre il romanzo, se si deve credere alla leggenda del libro scritto a rotta di collo (ma non pare, leggendo le lettere del periodo), imponeva di non andare troppo per il sottile, recuperare temi e situazioni già sperimentate con successo, e piegarle alla nuova narrazione. La degradazione del personaggio fino ad esiti grotteschi, tuttavia, può storicamente legarsi alla “furia polemica» scaturita dalla falsificazione su due fronti della lotta partigiana, all’imperativo morale di «lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata»79. Niente di più lontano dalla sacralità di maniera, allora, dello scassato distaccamento del Dritto e della «storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe». La guerra da combattere all’atto della scrittura è contro la funzione «cele- brativa e didascalica» della letteratura, contro il prodotto dall’appiccicosa etichetta di «romantici- smo rivoluzionario» che sfocia nella retorica delle «immagini mitizzate», facilmente attaccate dagli avversari che vedono negli «sbandamenti della gioventù postbellica», nella «recrudescenza della delinquenza» il fallimento degli ideali della Resistenza. La prima risposta di Calvino è diretta a questi «ben pensanti»:

D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una

79 I. CALVINO, Prefazione 1964, cit. Le citazioni successive provengono dalla stessa, le cui pagine si danno in pa- rentesi tonda.

250 spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere! (p. 1192).

Di qui la scelta “forzata” degli elementi più emarginati, il sottoprodotto della società, «il lum- pen-proletariat». Ma la reazione investe di petto anche gli officianti del realismo socialista, impe- gnati nella fabbricazione dell’homo novus, l’eroe “positivo” integralmente militante: «Che ce ne importa di chi già è un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!». L’attenzione capillare alle motivazioni dei personaggi, come svela nel romanzo il deus ex-machi- na Kim, nel capitolo che raccomoda tutto (il famigerato IX), nasce proprio da qui, da quest’inclina- zione eziologica che presiede al processo stesso del raccontare storie. Del resto, se si pone attenzio- ne alle prime prove, al citatissimo quartetto resistenziale, unico vero antecedente del Sentiero , i capisaldi erano già tutti lì, specialmente distribuiti tra Angoscia in caserma e La stessa cosa del sangue: pur conservando cristallino e in sovraimpressione il disfacimento, l’agonìa, la spinta esizìale infer- ta al fascismo dalla lotta partigiana e dai suoi protagonisti, la pagina calviniana se ne distacca per mostrarci un faticoso e contraddittorio calvario di liberazione interiore, lo svolgimento di un dramma storico ed esistenziale. Non il momento della risoluzione vittoriosa (che rimane sullo sfondo, im- plicita), magari immersa nelle prospettive certe e indiscutibili comuni a tanta letteratura dell’epo- ca; non l’epopea partigiana (che sarà, tra alti e bassi e non pochi compromessi, tentata nel roman- zo, vista di sguincio dagli occhi di un bambino); ma ciò che Calvino chiamerà, molti anni dopo, un «rovello», la coscienza lacerante dell’importanza, unicità e fondamentalità della scelta di campo, una “scelta privata” di moralità. Questa, a nostro avviso, è la causa cogente e storicamente rilevante per indagare le ragioni della degradazione narrativa del personaggio del Sentiero. Si segna qui il punto d’avvio: raccontare la Resistenza significa in primo luogo esaltarne il valore catartico, il «segno irrevocabile» di riscat- to che l’atto stesso dell’impegno comporta, tramite l’esaltazione del «senso storico delle azioni di ciascuno di noi». L’itinerario descritto tra il quartetto e il Sentiero assume le forme ellittiche di un micro-Bildungsroman, in cui è proprio il “processo” per arrivare alla “coscienza” che la fa da padro- ne, in fogge più o meno esplicite. Nel punto di prendere la penna ed iniziare a tracciare le sembian- ze dei personaggi, l’autore si trova a fare i conti con le proprie premesse, gli scopi e i mezzi per costruire il romanzo. Soggetto, ambientazione, meta finale: tutto congiura per l’abiezione fisiognomica, nonché psichica, dei personaggi. Dato tale preambolo, la singolarità ideologica del dettato calviniano mette in campo il proprio peso, brandendo pesanti ipoteche e condizionando d’acchito, com’é logico, «il modo di figurare la persona umana: tratti esasperati e grotteschi, smorfie contorte, oscuri drammi visceral-collettivi» L’anima si specchia nel volto: nel sistema dello scrittore tout se tient.

251 Le deformazioni della lente espressionistica si proiettano in questo libro sui volti che erano stati di miei cari compagni. Mi studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, «negativi», perché solo nella «negatività» trovavo un senso poetico (p. 1190).

Così ragionavo, e in questa furia polemica [contro la «direzione politica» della letteratura, ndr.] mi buttavo a scrivere e scomponevo i tratti del viso e del carattere di persone che avevo tenuto per carissimi compagni […] e ne facevo maschere contratte da perpetue smorfie, macchiette grottesche, addensavo torbidi chiaroscuri […] sulle loro storie… (pp. 1193-1994).

La schedatura degli imprestiti chiama subito in causa tre dei quattro racconti, Angoscia in caser- ma, La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in un albergo: in una parola, i racconti più immediata- mente autobiografici e i primi, datati 1945. Ma l’esordio narrativo di Calvino, anche se avviene su temi di guerra e vita vissuta, poco si presta alle tentazioni del diario privato. Calvino anzi rifiuta consapevolmente il cronachismo esasperato della letteratura del tempo, pur avvertendo del pari la spinta, l’ansia fisiologica del narrare. Il sottobosco biografico dei testi coincide assai di rado col personaggio Calvino; quando questo avviene, è nei tratti più esterni che servono da pretesto alla narrazione, da suo fondale: il palinsesto personale evita la cronaca del racconto in prima persona, angolo privilegiato del soggetto. Il personaggio scelto evita di dire “io”: il recit calviniano è trasposizione simbolica, non imme- desimazione; invenzione, non documento. Del resto, la disamina della propria parabola all’interno della storia degli uomini non può che compiersi sotto mentite spoglie: è necessario che l’“io” indi- viduale si faccia “altro”, acquisti diverso peso, una dimensione più romanzesca e oggettiva per poter essere analizzato in tutte le sue valenze, nel flusso liberato della coscienza. Di qui la terza persona come veicolo stilistico: l’oggettività, dunque, nasce anche da un bisogno psicologico, non solo da esigenze strettamente formali o da dittature letterarie alla rovescia (il rifiuto “obbligato” della «confessione» ermetica, pedagogicamente sterile). Ma il trapasso non è indolore. Il pericolo di Calvino – come all’epoca fu ben avvertito da Vitto- rini, uno dei suoi lettori più attenti – si annida semmai nella misura del racconto-saggio, nei pas- saggi esplicativi sui perchè e i ma dei personaggi, a cui l’autore presta la propria vis argomentativa. L’ingrandimento abnorme delle risorse oggettive dello scrivere poteva portare Calvino ad una narrativa pseudo-saggistica, distaccata, polemica o comunque evidentemente preoccupata di una tesi da dimostrare e controllare sulla pagina. O s’allunga sul resoconto pretestuosamente tutto – fatti il salmodiare insinuante e maligno delle sirene dell’agit-prop, il deprecato spettro della predi- cazione; o si estende il rischio della scarsa drammatizzazione, altrettanto nociva, di contro a un malcelato eccesso di emotività che rimette in gioco la bistrattata osmosi tra narratore e personag- gio, giusto all’interno del mezzo che avrebbe dovuto garantire oggettività e impersonalità, la terza persona appunto.

252 Il problema di Calvino è come conciliare l’urgenza della testimonianza con il massimo dell’og- gettività, di modo tale da staccare i temi svolti dalle insidei di un troppo ravvicinato coinvolgimen- to personale. I tre racconti e Cinque dopodomani non sfuggono a questa tensione. Da quest’angolazione, l’interesse per il quartetto si accresce al momento della resa dei conti col romanzo. La cernita non si esaurisce nell’esercizio si scelta e di scavo dei materiali: interessa spesso le zone più controverse, laddove infuria la battaglia tra dimensione di saggio e di racconto, tra spiegazione e recita. Tra i testi oggetto del ripescaggio calviniano, in effetti, è questo quartetto particolare che si distingue per l’assidua presenza del commento “esplicativo” del narratore, il proconsole in avan- scoperta che indaga passo passo il lavorìo della coscienza del personaggio, le sue esitazioni, con- quiste e certezze, sotto una luce straordinariamente emotiva. I soggetti dei racconti si prestano del resto con naturalezza a questo trattamento “dal di dentro’. Il disagio estremo che coglie i protago- nisti obbligati alla scelta tra una rischiosa, compromissoria libertà o una schiavitù di comodo (An- goscia in caserma); l’angoscia della detenzione e l’attesa della morte (Angoscia in caserma, ancora, e Attesa della morte in un albergo); la riflessione sui perché della lotta partigiana e il coinvolgimento tout court in essa, nel precipitare degli eventi (La stessa cosa del sangue e Cinque dopodomani, guerra finita!): temi, questi, che ben si adattano all’analiticità. Calvino, giunto al crocevia professionale, al momento di compiere il gran balzo verso i lidi del romanzo tenta di guadagnarsi all’istantanea oggettiva, senza chiose, priva delle retrospettive psi- cologiche che si agitano al di qua in quei racconti.

Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo provato a raccontare l’esperienza partigiana in prima persona, o con un protagonista simile a me. Scrissi qualche racconto che pubblicai, altri che buttai nel cestino; mi muovevo a disagio; non riuscivo mai a smorzare del tutto le vibrazioni sentimentali e moralistiche; veniva fuori sempre qualche stonatura; la mia storia personale mi pareva umile, meschina; ero pieno di complesi, d’inibizioni di fronte a tutto quel che più mi stava a cuore. Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione […]. Cominciai a capire che un racconto, quanto più era oggettivo e anonimo, tanto più era mio (pp. 1198-1199).

Ogni storia si muoveva con perfetta sicurezza in un mondo che conoscevo così bene: era questa la mia esperienza, la mia esperienza moltiplicata per le esperienze degli altri. E il senso storico, la morale, il sentimento, erano presenti proprio perché gli lasciavo impliciti, nascosti (p. 1199).

Il recupero strenue di motivi e personaggi dell’esordio, tuttavia, lungi dal costitire un fattore stabilizzante, condiziona a distanza lo sviluppo stesso del testo. Nell’attimo del riporto dei mate- riali, infatti, l’autore dovrà fare i conti con personaggi impastati di spiegazioni e postille: i criteri modali che regolano i prestiti dovranno giocoforza scontrarsi con questa caratteristica di base che

253 rende difficoltoso qualsiasi procedimento di transfert o di repentina lobotomizzazione. Recuperare significherà insomma scegliere tra il puro e semplice espianto linguistico (preleva- re, cioè, i tratti formali del personaggio indipendentemente dalle motivazioni che li hanno creati) e il convogliamento globale nel romanzo delle individualità, le quali, però, essendo talmente tipiz- zate ed organiche ai racconti causerebbero il riversamento d’interi pezzi. La soluzione calviniana è di scardinamento: procedura che non esiteremmo a chiamare schi- zoide, perché in definitiva scinde azione epersonalità del personaggio. Consapevole dei limiti del- la propria impostazione narrativa, Calvino cerca il riscontro oggettivo attraverso le sole azioni e dizioni dei caratteri in gioco, sfrondati per quanto si può dal fardello dell’esplicazione. Ma fin qui niente di strano: la figura è recuperata dai racconti, l’identità parzialmente modificata d’accordo colla nuova prospettiva stabilita dall’intreccio, l’oggettività guadagnata facendo recitare il più pos- sibile il personaggio in presa diretta. Inoltre, a farsi garante dell’esigenza di oggettività del roman- zo, ecco assegnare ad un occhio semplificatore ed estraneo il punto di vista delle vicende narrate. Perchè Calvino stesso si rende conto che affrontare un tema scivoloso come la guerra partigiana, seppure ammaestrato e corretto da uno sciame di avventure picaresche, può essere fatale: gli stere- otipi retorici possono davvero essere dietro l’angolo. Niente di meglio che portare al centro del racconto la figura di un bambino, Pin, con la sua storia che si muove ai bordi delle brigate nere e partigiane, al di qua e al di là di ogni comprensione e conoscenza. Un’infante che fa comodo alla tesi oggettiva, essendo chiamato a muoversi nel mondo adulto senza sapere, senza capire, attribu- endo manicheamente ragioni e torti. La guerra di Pin diviene subito ben altra cosa della guerra di Lupo Rosso e di Kim, o anche dei lazzaroni del distaccamento del Dritto. Ma con Pin nascono anche i guai. Calvino si trova stretto tra i due fuochi della soggettività debordante in cronaca, cui rifugge, e l’oggettività dello spettatore freddo e distaccato, disincanta- to, cui tende istintivamente per sottrarre le storie raccontate all’accusa di arbitrio e di idealizzazio- ne, Questa tensione antinomica sembra risolversi nel romanzo con l’apparente rinuncia alla dida- scalìa: ci sono sì timidi tentativi d’intrusione, ma si perdono nel disegno dell’intreccio, e, in fondo, il protagonismo di Pin è a bella posta l’agente preventivo di un qualsiasi spostamento dalla linea di neutralità narrativa. A partire dal capitolo VIII, invece, e per tutto il capitolo IX, si accende la di- scussione ideologica; di fatto, Pin esce dalla scena. Il punto di vista centrale, per definizione estra- neo agli avvenimenti, infatti non è in grado (per insufficienza costitutiva) di cogliere le motivazio- ni esistenziali che animano i personaggi. La scissione pilotata tra moventi e azione finisce per non reggere: e Calvino, per trarsi d’impac- cio dai vicoli ciechi che la scelta di quel punto di vista e della brigata “negativa” comporta, non può che affidare ad un fattore esterno, diverso da Pin, il compito di districare la matassa imbroglia- ta, attribuendo a ciascuno il suo. Kim entra in ballo con intento scopertamente didascalico. Per

254 ironia della sorte, le didascalìe accuratamente espunte dai racconti col passaggio dei personaggi al romanzo tornano a svelare i giochi affetta da gigantismo, concentrate e trionfanti nel capitolo IX, che rende servizio di chiosa. La scissione si ricompone così a distanza. La nuova macchina narrati- va mostra tutte le sue pecche e l’esperimento calviniano (d’oggettività, di recit induttivo, ergo pie- namente “narrato”) si conclude in un fallimento strutturale. Tenendo di conto queste osservazioni, si comprenderanno meglio i ruoli apparentemente mar- ginali che tre personaggi rivestono nell’economia del romanzo. Marginali in apparenza, s’è detto: perché senza Kim, Ferriera e Aleksjei verrebbe a mancare al Sentiero un supporto ideologico fonda- mentale, e cioè la campionatura degli eroi da contrapporre alla brigata “negativa”. È dall’osserva- zione dei tre che si comprende il carattere artificiosamente costruito della vicenda romanzesca, la necessità della stilizzazione monocorde dei caratteri dovuta alla vis polemica che la sorregge, e di cui nel capitolo IX ci viene svelata la consistenza. Da questo punto di vista, le vicende che occupano ben sei capitoli del romanzo – dal V all’XI, dall’entrata in scena di Cugino alla fuga di Pin dal distaccamento, dopo il litigio col Dritto –, altro non sarebbero che l’enunciazione (ergo, la visualizzazione narrativa) di un esperimento politico. Il distaccamento del Dritto – in cui, come avverte Lupo Rosso «ci mandano le carogne, i più scalcina- ti della brigata» (VI 96) – risulta, dai fatti narrati, da quel che ci dice Ferriera nel capitolo IX, l’espe- rimento azzardato da un apprendista psichiatra (Kim), la verifica “pratica” di uno scienziato stret- to tra l’interesse a capire come le pulsioni individuali si facciano Storia e l’aspirazione alle certezze che la Storia offre, a quella serenità di un mondo nuovo sovietico già apparso all’orizzonte, il luogo in cui l’Utopia si è fatta Realtà, in cui può realizzarsi l’uomo integrale (l’uomo “nuovo”) una volta compiuta una decisa scelta etica, avendo assunto in pieno, cioè, le proprie responsabilità sociali.

Kim è studente […]: ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s’affolla a ogni istante d’interrogativi irrisolti. C’è un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina, perché sa che la spiegazione di tutto è in quella macina di cellule in moto, non nelle categorie della filosofia. Il medico dei cervelli, sarà: uno psichiatra: non è simpatico agli uomini perchè li guarda sempre fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e a un tratto esce con domande che non c’entrano niente, sulla loro infanzia e sui loro amori. Poi, dietro agli uomini, la grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia: la storia. Tutto dev’esser logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali, con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti (IX 142).

L’«idea» da cui scaturisce direttamente la trama romanzesca partigiana proviene lui, come obietta un perplesso Ferriera:

255 – È stata un’idea sbagliata la tua, di fare un distaccamento tutto di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora. Vedi quello che rendono (IX 147).

– Per me, – dice [Kim], – questo è il distaccamento di cui sono più contento (IX 147).

– Ma Kim, quando la capirai che questa è una brigata d’assalto, non un laboratorio d’esperimenti? Capisco che avrai le tue soddisfazioni scientifiche a controllare le reazioni di questi uomini, tutti in ordine come li hai voluti mettere, proletariato da una parte, contadini dall’altra, poi sottoproletari come li chiami tu… Il lavoro politico che dovresti fare, mi sembra, sarebbe di metterli tutti mischiati e dare coscienza di classe a chi non l’ha e raggiungere questa benedetta unità… Senza contare il rendimento militare, poi… (IX 147)

Se la brigata è un esperimento, essa ha bisogno di alcuni parametri di verifica, affinché se ne possa stabilire la riuscita. I parametri che Calvino mette a disposizione del lettore sono appunto Kim, Ferriera e Aleksjei. Personaggi che non hanno niente del romanzesco, come invece Mancino, il cuoco-gnomo, o Cugino, il giustiziere errante, o l’instancabile Lupo Rosso, educato a forza di album di avventure rocambolesche che egli applica, ad esempio, per fuggire da una prigione (tan- to «la vita finora non gli ha dato smentite», IV 62). Il personaggio positivo viene ripreso con attri- buti immutati dalla realtà, per questo ha degli antecedenti precisi che è bene richiamare, anche per studiare come essi interferiscano nella creazione di questi personaggi del Sentiero:

Verso Rezzo era salito un uomo alto e flemmatico, dall’occhio allucinante e dal vestito trasandato: il Curto. Verso Langàn vagava un uomo tarchiato e biondo, dallo sguardo azzurro e freddo, magnetico e impassibile: Vittò. Intorno a ognuno d’essi si ingrossò la schiera.

L’articolo da cui la citazione è tratta, il Ricordo dei partigiani vivi e morti apparso su «La Voce della Democrazia» il primo maggio 1945 appartiene a un’epoca relativamente preistorica rispetto alla stesura del romanzo, e costituisce la prima fonte documentaria, di genere non narrativo, da cui Calvino abbia mutuato i particolari stilemi che ritroviamo pressoché intatti in Kim e Ferriera. Ma non è rilevante il fatto che ci si sia ispirati al “vero”, quanto che Calvino, nel Sentiero, rimanga fedele ai suoi consueti mezzi espressivi e li amplifichi soltanto, li riproponga a modo di passacaglia, di ritmo ostinato, non sfrutti cioè l’estensione spaziale del romanzo che permetterebbe approfondi- menti dei profili psico-morfologici dei personaggi con meno approssimazioni. La prima conclusio- ne indotta da questo raffronto è che il ritratto fisiognomico del personaggio (il «bozzetto»), di per sé, interessa a Calvino solo come rivelatore di qualità psicologiche, con la psicologia del personag- gio (e le sue mansioni narrative) palesata proprio dall’insistenza su determinate caratteristiche. Si esaminino in dettaglio i casi di questi personaggi esemplari.

256 Nell’adattamento di Vittò a Ferriera l’esercizio si concentra sul particolare leitmotiv dello sguar- do d’acciaio, il segno della dura tempra e dell’impassibilità dell’eroe che non si piega né si spezza. La secca caratterizzazione di Vittò non va oltre la fotografia della sua forma fisica, che indugia (come per il Curto) sulle virtù di occhi ipnotizzatori, capaci di far schiere di discepoli («Intorno ad ognuno d’essi s’ingrossò la schiera»). La forma commemorativa dell’articolo non permette indugi descrittivi: il ritratto seleziona dunque l’emblema, il dettaglio cui ridurre la specificità del perso- naggio. Ma anche la forma distesa del romanzo (di un organismo cioè non costretto alle economie perentorie della forma-articolo) insiste sui medesimi stilemi. Ciò significa che l’insistenza lingui- stica di Calvino nasconde un procedimento cosciente di caratterizzazione, in cui il ritratto funziona da controparte dell’anima, da propulsore dell’azione narrativa. Nel romanzo, in effetti, a parità di descrizione (anche «Ferriera è tarchiato, con la barbetta bionda e il cappello alpino; ha due grandi occhi chiari e freddi che alza sempre a mezzo guardando di sottecchi», IX 141; e «Di Ferriera, al buio, si vedono l’azzurro degli occhi e il biondo della barba», IX 153), il motivo insistito dello sguardo di ghiaccio (»alza gli occhi freddissimi», IX 147) si sbilancia tutto sull’interiorità del sogget- to estendendosi fino a rivelarne gli impulsi comportamentali. Trasferiti sul piano psicologico, limpidezza e trasparenza diventano sinonimi di precisione, estrema razionalità e, per l’appunto, distacco, “freddezza”: Ferriera «è preciso come un meccanico e pratico come un montanaro, la lotta è una macchina esatta per lui, una macchina di cui sa il funzionamento e lo scopo» (IX 153). Le metafore a lui applicate rinviano tutte ad un’idea schematica e geometricamente nitida della guerra e dei suoi perché; la lotta partigiana diventa un congegno smontabile, dalle linee essenziali, il cui funzionamento è noto e le componenti assiomatiche (Ferriera, a paragone delle esita- zioni e problematizzazioni di Kim, vede «le cose più semplici», IX 148). Non si lasciano margini al dubbio o ai tentennamenti: «La guerra partigiana è una cosa esatta, perfetta per lui come una macchina» (IX 141). «Ferriera sa perché combatte, tutto è perfettamente chiaro in lui» (IX 149): se questo primato di coscienza è la nozione su cui prende a ruotare il personaggio, costruitovi tutt’attorno, esso si ritrova e si legge nello specchio degli occhi, magnetici e impassibili come in Vittò, su cui si calamita l’attenzione del narratore; occhi «chiari e freddi» e ordinati come le idee che si muovono con determinazione granitica nella sua testa di «operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido» (IX 141) ( tanto che «sta a sentire tutti con un lieve sorriso d’assenso e intanto ha già deciso per conto suo: come si schiererà la brigata, come s’ha da disporre le pesanti, quando dovranno entrare in azione i mortai», IX 141). Personaggio trascurato a causa di Kim, più famoso, Ferriera è tuttavia il modello cui lo stesso Kim tende («il suo punto d’arrivo è poter ragionare come Ferriera, non aver altra realtà all’infuori di quella di Ferriera», IX 153); Ferriera con le sue certezze e le sue analisi logiche, Ferriera come personaggio ideologicamente più rilevante del romanzo, l’eroe integralmente positivo, «operaio» conoscitore delle classi e della dinamica di classe, non un outcast come Kim, ragazzo borghese («studente» con un passa- to da «bambino ricco»). È Ferriera, nei rapporti con la Storia, a proporre l’unica corretta etica comporta-

257 mentale, cui Kim tenta di adeguarsi. Ferriera che ha già conquistato quella “serenità” propria dei solda- ti sovietici, punto centrale della teorizzazione del libro. Una “serenità” da mondo nuovo, di chi ha coscienza di classe, la coscienza del proprio ruolo progressivo e dei suoi duri compiti, senza incertezze o ipocrisie80. Il commissario Kim, invece, quasi non possiede consistenza fisica. Portavoce con Ferriera del- l’ideologia dell’autore, esso è, fisicamente evanescente, voce “fuori campo”. Un protagonista forse difficile, per Calvino, da fermare sul foglio: e anche per questo per Kim il gioco delle identificazio- ni si fa molteplice. Kim è in prima istanza Calvino medesimo, visto che senza dubbio la ricerca di serenità del personaggio s’identifica con quella dell’autore del Sentiero (si pensi ancora alla lettera a Scalfari del 3 gennaio 1947, la ricerca ansiosa di una tangibile «serenità»); Kim, infine, è il com- missario partigiano Curto, che presta parte della propria fisionomia al personaggio (e rivendica a tal modo una connessione). Ma hanno valore (o che valore hanno) queste conferme? Per quest’ul- tima annotazione in particolare l’appello alla storicità del personaggio ispiratore è interessante, perché i tratti stilematici di Kim ricalcano una tipologia nota (i tic, l’allampanatezza, come descritti in Ricordo di partigiani vivi e morti) che ora travalica la “verità” storica e si fa stile, risorsa interna allo scrivere. Nel Sentiero si ha la definitiva cristallizzazione del personaggio. «Kim è allampanato, con una lunga faccia rossiccia, e si mordicchia i baffi» (IX 141); anche l’espressione spiritata dell’occhio (il Curto dall’«occhio allucinante») si fa lente del carattere assillato, afflitto e turbato del commissario in fieri Kim. La reiterazione indicativa del suo disagio psichico (quel mordicchiarsi i baffi a modo di tic; «Kim lo guarda mordendosi i baffi’, IX 147; « Kim continua a mordersi i baffi» , IX 147; «Kim si soffia nei baffi», IX 148), precede di solito una presa di posizione, un tentativo di spiegazione, un intervento esplicito. L’irrequietezza labiale diviene la rappresentazione mimata del lavorìo neuro- nico, del ritmo frenetico delle cellule grigie reso impulso nervoso; è la traduzione automatica, so- matizzata, di quanto si dice più volte di lui: «la sua mente s’affolla a ogni istante d’interrogativi irrisolti» (IX 142); «Kim ha difficoltà a esprimersi, scuote il capo […]. Quando discute con gli uomini, quando analizza la situazione, Kim è terribilmente chiaro, dialettico. Ma a parlargli così, a quat- tr’occhi, per fargli esporre le sue idee, c’è da farsi venire le vertigini» (IX 148).

80 Ma allora, perché non dare il ruolo di portavoce a Ferriera, non affidare a Ferriera il monologo del capitolo IX? L’importanza di Kim si rivela nell’identificazione con Calvino, precedentemente annotata: il Sentiero come romanzo della ricerca, come narrazione del processo per arrivare alla “coscienza” della scelta etica, la rischiosa “aspirazione” di serenità non ancora realizzata (a volere riecheggiare le parole della lettera di Calvino a Scalfa- ri del 3 gennaio 1947, fondamentale per l’interpretazione del romanzo. Si cfr. a questo proposito (e per le pagine successive della nostra proposta d’analisi) le voci Romanzo, pp. 214-217, Il sentiero dei nidi di ragno, pp. 219-224 e Storia, pp. 236-239 in D. SCARPA, Italo Calvino, cit. Importanti le pagine di R. DEIDIER, L’ethos della Storia, in ID., Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Milano, Guerini, 1995, pp. 13-38 (in particolare, pp. 13- 22). Dello stesso studioso, Le forme di Calvino, in Dall’alto, da lontano. Scritture dell’adolescenza, della fiaba, Roma, Editori Riuniti, 2000, pp. 89-97.

258 La corrispondenza tratti-carattere è piena: la limpidezza di Ferriera (gli «occhi chiari», «freddi», vs l’«occhio allucinante») è l’obiettivo da conquistare. Aleksjei, la giovane sentinella russa che appare a chiusura del capitolo IX come suggello al- l’apoteosi della disciplina e della virtù, proviene da Cinque dopodomani, guerra finita! Il racconto propone un sommario incompleto delle situazioni trattate nel romanzo, con un’attenuata ma non meno significativa contestualità di base: spigola attorno ad un distaccamento partigiano pigro ed indisciplinato, agli ordini di un commissario inerte e di un comandante privo d’autorità; affronta impegnati paragoni con distaccamenti formati da russi, ex-prigionieri di guerra, in cui metodo, entusiasmo e dovere non vengono mai meno; punta infine le carte sull’esemplificazione vivente di quest’ammirevoli attitudini, il buon soldato Aleksjei. All’interno del sistema disegnato dai racconti, Cinque dopodomani, guerra finita! si offre come prova generale (e concettuale) dei motivi-base del romanzo. Più della triade autobiografica en tra- vesti esso costituisce il tentativo diretto di collaudo narrativo dei temi, la tappa semi-conclusiva prima del Sentiero (e non soltanto, si badi bene, per l’implicita contiguità della sua cronologia). Al romanzo fornisce il cuore duro, l’ossatura ideologica da cui estrapolare retrospettivamente il senso di una vicenda che altrimenti vedrebbe per protagonisti dei disadattati e degli emarginati su cui svettano, come episodici campioni di virtù, i quattro moschettieri del realismo socialista Lupo Rosso, Kim, Ferriera e lo stesso Aleksjei. La fonte del “famigerato” capitolo IX sta racchiusa i questi pochi paragrafi. I riferimenti al romanzo (compiuti mentre il romanzo veniva effettimente scritto, tra il novem- bre e il dicembre 1946) sono numerosi. Ma al di là dei si affronta qui per la prima volta, in maniera esplicita, lo scottante argomento delle ragioni alla base della lotta partigiana, le stesse che ritrove- remo ampliate e discusse capillarmente nei dialoghi di Kim e Ferriera. È il solo racconto pubblicato da Calvino in cui la distanza tra l’«io» e la materia è completamente abolita (eccetto Vento in una città e Amore lontano da casa, entrambi inediti fino a dopo la morte dello scrittore): senza mediazioni o controfigure l’autore partecipa e svela la “sua” esperienza, il bagaglio d’idee e convinzioni. È questo il suo primo (e unico) “memoriale”, allineato (quasi) ortodossamente ai resoconti cronachi- stici del tempo, i diari, le storie di vita vissuta, finora scansati volontariamente. L’occasione del racconto, non dimentichiamo, è fornita da una precisa ricorrenza: il panegirico dei personaggi bolscevichi coincide con l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre (il nostro 7 novembre). Ma Calvino, ben attento ai pericoli di magnificazione retorica, non si smarrisce nei meandri a senso unico delle giaculatorie: l’orazione sulla Russia vista attraverso i partigiani sovietici si fa sghemba, serve piuttosto ad affermare, per bocca dell’autore, la sostanziale identità del contributo umano alla guerra di liberazione dato dai partigiani italiani, sporchi, litigiosi e disorganizzati, talvolta anche dubbiosi, eppure mossi e guidati da una furia esistenziale che li riscatta da ogni miseria e debolezza passata.

259 I russi erano scappati da Briga dove i tedeschi li tenevano a lavorare nelle fortificazioni, e per un po’ avevano girato nei paraggi, spaventando le donne sole in casa la notte che non li capivano e li credevano tedeschi. Poi erano riusciti a raggiungerci, e, insieme a qualche alsaziano o lorenese che aveva disertato dall’esercito tedesco, costituivano la Squadra Internazionale e avevano in dotazione l’arma più bella del battaglione, il Mayerling sputafuoco. Subito, come succede, si creò intorno alla Squadra Internazionale la leggenda che fosse la squadra più affiatata, più sfegatata, più disciplinata del battaglione. Non che in effetti non fosse così, ma c’era in quella ammirazione per loro, in quel portar loro ad esempio da parte dei comandanti, un qualcosa di leggendario, di dato per irraggiungibile. Noi ci sentivamo gli italiani, gente che non si lava, non si spidocchia, che va stracciata, che litiga tra sé, che urla e spara per nulla, che non sa bene perché è da questa parte e non dall’altra pure si batte a morte, carica di furore; loro i russi, un mondo sereno, che ha già deciso tutto, e ora sa di far la guerra, e continua a farla, con entusiasmo e odio e metodo, ma senz’abbandonarcisi, tenendo le armi pulite come specchi, non barando sui turni di guardia, non litigandosi sull’andare a legna, come continuassero una naja per conto loro, senz’ufficiali né consegne (in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.3, cit. p. 846).

Le conquiste morali sovietiche, la Russia “mondo sereno”, «che ha già deciso tutto», sono i termini di riferimento, di un’ammirazione quasi dovuta nel giorno che celebra la sua Rivoluzione. Aleksjei fa parte del materiale di un racconto dai toni epici. Nel romanzo, invece, l’irreprensibile soldato Aleksjei, nonostante la sua aureola positiva se in- serito nella galleria d’insubordinazione e lassismo della brigata del Dritto, è ben lungi dai connota- ti di una figura epica; risalta anzi sulla pagina per l’elemento che lo disereoicizza, che lo rende una presenza certo positiva per collocazione ma non altera nella sua superiorità.

– Chi va là! È la sentinella: un russo. Kim dice il suo nome. – Portare novità, commissario? È Aleksjei, figlio d’un mugik, studente in ingegneria. – Domani c’è battaglia, Aleksjei. – Battaglia? Cento fascisti kaput? – Non so quanti kaput, Aleksjei. Non so bene neanche quanti vivi. – Sali e tabacchi, commissario. Sali e tabacchi è la frase italiana che ha fatto più impressione su Aleksjei, la ripete sempre come un intercalare, un augurio. – Sali e tabacchi, Aleksjei (IX 159).

Il ritornello dei «Sali e tabacchi», lontano anni luce dalle parole d’ordine della politica, è qui assunto ad intercalare augurale, a chiusa degna della ricerca di serenità e di ottimismo che spirano sul capitolo del trionfo delle ragioni umane e delle sorti progressive. L’incontro di Kim con Aleksjei

260 è il suggello finale del percorso del commissario: dai dubbi alle certezze, all’esempio vivente, al- l’impegno concretamente incarnatosi, a chi sa perché combatte. Un percorso di cui ci è svelato linguisticamente l’approdo. Kim si appropria del linguaggio e delle certezze di Ferriera, sebbene, rispetto all’“operaio nato in montagna”, indulga a problematizzare la realtà, a considerarla in una più vasta fenomenologìa (si pensi all’aspetto magico, intravisto nelle nebbie, nelle sagome degli alberi, di quando cammina pensieroso per i boschi). Ma la poesia di Kim si scioglie sulla realtà della Storia, che quella poesia comunque non esclude, ma riassorbe in sé. Per tutto il capitolo, come si diceva, si assiste alla ricer- ca di serenità, e l’incontro con Aleksjei ne svela il felice approdo. Le parole-chiave (e le attribuzio- ni) di Ferriera – cioè logica, chiarezza, analisi – che si vogliono per se stessi (diventare come l’ope- raio, pensare come l’operaio, non come il borghese) diventano finalmente le parole-chiave di Kim stesso, entrano nel suo dominio linguistico, «lui […] uomo che analizza», lui «bolscevico», lui «uomo che domina le situazioni» (IX 158).

[…] i suoi pensieri sono logici, può analizzare ogni cosa con perfetta chiarezza. Ma non è un uomo sereno. Sereni erano i suoi padri, i grandi padri borghesi che crevano la ricchezza. Sereni sono i proletari che sanno quel che vogliono, i contadini che ora vegliano di sentinella ai loro paesi, sereni sono i sovietici che hanno deciso tutto e ora fanno la guerra con accanimento e metodo, non perché sia bello, ma perché bisogna. Sarà mai sereno, lui, Kim? Forse un giorno si arriverà ad essere tutti sereni, e non capiremo più tante cose perché capiremo tutto. Ora diamo ancora tanto peso a cose che non esistono. I bolscevichi! L’Unione Sovietica forse è già un paese sereno. Forse non c’è più miseria umana, laggiù (IX 154).

Un giorno forse io non capirò più queste cose, pensa Kim, tutto sarà sereno in me e capirò gli uomini in tutt’altro modo, più giusto, forse. Perché: forse? Bene, io allora non dirò più forse, non ci saranno più forse in me (IX 156).

Kim un giorno sarà sereno. Tutto è ormai chiaro in lui: il Dritto, Pin, i cognati calabresi. Sa come comportarsi con l’uno e con l’altro, senza paura nè pietà. Alle volte camminando nella notte le nebbie degli animi gli si condensano intorno, come le nebbie dell’aria, ma lui è un uomo che analizza, un bolscevico, «a, bi, ci», dirà ai commissari, è un uomo che domina le situazioni (IX 158).

Domani sarà una grande battaglia. Kim è sereno (IX 159).

Sul chiudere del capitolo si ha il raggiungimento di una condizione interiore che è valida, come conclusione, per tutto il romanzo. Dall’affermazione «Kim un giorno sarà sereno» (IX 158), alla più perentoria «Kim è sereno» (IX 159), svelata da quella cartina di tornasole che è la presenza straor- dinariamente umile, umana, di Aleksjei, di un personaggio che ha scelto di fare la Storia, che è parte della Storia.

261 I personaggi bolscevichi, in Calvino, non fanno solo parte della sua narrativa. La teorizzazione del libro, con appresso stilemi-chiave riconoscibili in quello, aveva già avuto un risvolto giornali- stico diversi mesi prima che il romanzo fosse iniziato, in un articolo per «l’Unità» torinese del 30 giugno 1946, dal titolo Krasavcenko sereno (adesso in I. Calvino, Saggi 1945-1985, t.2 cit., 2102-2104):

[…] I giovani sovietici sono abituati a distinguere il bene e il male nel vecchio tronco delle nazioni europee. Essi hanno capito le due facce dell’Italia, l’ieri e il domani dell’Italia, e sono stati tra noi in un momento quanto mai interessante per studiare queste due facce; la campagna per la Costituente. C’era nelle loro parole un atteggiamento di mondo nuovo e sereno in confronto del mondo vecchio ed esacerbato, un atteggiamento talora un po’ ingenuo, da popolo giovane, senza tradizioni, quale forse non potrà mai essere il nostro, talora comprensivo, quasi paterno, da popolo che ha passato le esperienze più dure. È lo stesso atteggiamento che abbiamo conosciuto nei nostri compagni sovietici che, evasi dai campi di concentramento, hanno combattuto con noi sulle nostre montagne, nei discorsi che facevamo insieme attorno al fuoco, della nostra vita e della loro; è lo stesso atteggiamento che abbiamo trovato, in tono più ironico e smaliziato, nelle pagine del Viaggio nella giungla d’Europa d’Ilia Ehrenburg. Un mondo che ha superato i nostri aspri contrasti, ma che non s’è ridotto per questo a una caserma o a un formicaio; abbiamo conosciuto nei sette della delegazione sette persone diverse, sette tipi di uomini e di donne nuovi; Krasavcenko, il gigantesco quadro del partito, cocciuto come tutti i quadri di partito ma limpido e sereno, terribilmente logico; la Riabova, una matematica che in guerra ha fatto l’aviatrice da bombardamento eppure aveva un modo di parlare modesto, quasi timido, da donna che ha combattuto non perché era bello combattere ma perché era necessario farlo; Scevliaghin, il sindacalista scaltro e versatile; la Demisceva, tipo della donna nuova: madre e insegnante al medesimo tempo; la letterata Popova, tipo della intellettuale di un mondo in cui la cultura non è più i contrasto con la vita; gli ufficiali Marinov e Rigigov che, sì, avevano le spalline come gli ufficiali di un qualsiasi esercito borghese […] ma non hanno affatto l’atteggiamento militarista dei loro colleghi in grado colonnelli e maggiori e dei loro coetani ufficialetti di nostra conoscenza.

Il monologo di Kim deriva dall’espansione dei concetti già all’opera in questo articolo e dalla combinazione con il racconto Cinque dopodomani, guerra finita! Si confronti il linguaggio usato a partire da questo articolo, e si ritroveranno intatti gli stilemi-chiave del discorso del commissario: il «mondo sereno», l’«atteggiamento» nei confronti della realtà, la figura di Krasavcenko «limpido e sereno, terribilmente logico», così come appaiono i personaggi di Ferriera e di Kim, nelle loro rispettive certezze e ricerche; la figura della donna sovietica che si è impegnata nel combattimento, penetrata come attributo del mondo sovietico prima nel racconto di Aleksjei, poi nel romanzo («[…] i russi, un mondo sereno, che ha già deciso tutto, e or sa di far la guerra, e continua a farla, con entusiasmo e odio e metodo, ma senz’abbandonarcisi», e «…i sovietici che hanno deciso tutto e ora fanno la guerra con accanimento e metodo, non perché sia bello, ma perché bisogna», IX 154). È chiaro, a questo punto, come nel sistema narrativo di Calvino tout se tient.

262 3. I dattiloscritti riccionesi del Sentiero dei nidi di ragno: le testimonianze

Presso l’Archivio della Fondazione Premio Riccione, a Villa Lodi Fè (Viale delle Magnolie 2, Riccione) sono conservate le due copie dattiloscritte del Sentiero che furono inviate al concorso per un romanzo inedito di «contenuto sociale» (collocazione: COP b.7 c n.l8, N. titolo: 2752, N. inv.: 2730). Dei due testimoni81, che chiameremo convenzionalmente R1 ed R2, diamo qui di seguito la descrizione.

R1:

Rilegato con un cartoncino bianco sottile tipo bristol, ingiallito e rotto ai margini in più punti (proveniente da un inserto cui sono stati asportati i risvolti), senza indicazione di data, il fascicolo composto da Calvino è di 106 carte bianche di mm.213x300 o di mm. 224x285 dattiloscritte in inchiostro nero solo sul recto, divise in dodici capitoli preceduti da un frontespizio. Sul recto della copertina è riportato a mano in stampatello a lettere maiuscole e minuscole alternate, con matita rosso-blu, il titolo del romanzo e il nome dell’autore: IL SENTIERO/ DEI/ NIDI DI RAGNO/ romanzo/ di/ITALO CALVINO. Segue l’annotazione corsiva autografa Premio Genova dell’Unità, riferita tramite una freccia al nome dell’autore e cassata parzialmente a matita; seguono anche un’indicazione illeggibile cassata da matita rossa ed il nome Tofanelli in corsivo, cassato a matita. Al centro della copertina, sul margine destro, si riporta a matita blu il numero del dattiloscritto catalogato per il Premio, 18; in basso a destra si trova la firma autografa, in corsivo, a matita blu, di uno dei commissari destinatari del testo (Luzi). Il cartoncino porta impresso al fondo due circonferenze concentriche contenenti l’una – nella corona più esterna – il marchio di fabbrica RESISTO seguito dal fregio, una stella tra due mezze curve; l’altra, le lettere ASF, con la S intersecata alle precedenti. Il verso della copertina reca l’indicazione corsiva autografa del nome e domicilio dell’autore: Italo Calvino/ Villa Meridiana/ Sanremo. Le carte sono unite da una pinza metallica arrugginita, incollata sul recto della controcopertina, una clip formata da due listelle e due linguette: per comporre il dattiloscritto le carte dall’ultima alla prima, bucate, sono state fatte scorrere attraverso le linguette poste sulla listella di controcopertina,

81 Nell’apparato di «Note e notizie sui testi» del primo volume mondadoriano dedicato a Calvino, si indica solo «un dattiloscritto» riccionese per Il sentiero dei nidi ragno invece dei due esistenti, non identici quanto a corre- zioni autografe sebbene l’uno sia fotocopia dell’altro (B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» cit., p. 1247 e cfr. infra la discussione della fattura dei dss.). La descrizione del primo dattiloscritto (il più autorevole) era già apparsa in appendice a A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947 cit., alle pp. 56-57.

263 infine vi è stata applicata sopra l’altra listella, su cui si sono piegate le linguette assicurando la tenuta del fascicolo. Le carte sono divise in dodici capitoli: I, cc.l-6; II, cc.7-14; III, cc.15-22; IV, cc.23-31; V, cc.32-36; VI, cc.37-45; VII, cc.46-57; VIII, cc.58-65; IX, cc. 66-76; X, cc. 77-86; XI, cc. 87-98; XII, cc.99-105. Le carte sono di due diverse qualità, leggermente più spessa e migliore quella di dimensioni 213x300 (corrispondente ai capitoli IV-V, IX-XII fino alla c.100); scadente l’altra di mm. 224x285 (corrispondente ai capitoli1-111, Vl-VIII, XII dalla c.101). Le carte sono state dattiloscritte da due diverse macchine e con due diverse interlinee: interlinea I e lettera 32, con righe che variano tra le 48 e le 50, le carte corrispondenti ai capitoli I-III, Vl-VIII, XII dalla c.101; interlinea 2 e lettera 35, con righe che variano tra le 38 e le 40, le carte corrispondenti ai capitoli IV-V, IX-XII fino alla c. 100. La numerazione, sul margine superiore destro, è ora manoscritta ora dattiloscritta: hanno una regolare numerazione dattiloscritta le carte di dimensioni 224x285; le altre o ne sono sprovviste o hanno il numero scritto a matita. La c.1 coincide con l’inizio del capitolo 1. La precede il frontespizio non numerato (mm. 224x285) su cui è dattiloscritta in maiuscolo la stessa intestazione di copertina: IL SENTIERO DEI/ NIDI DI RAGNO/ [spazio bianco]/ ROMANZO DI ITALO CALVINO. Il testo presenta numerose piccole emendazioni dattiloscritte, legate alla meccanica di lettura- trascrizione (salti, ripetizioni, errori di battitura) e varianti dattiloscritte per lo più lineari, qualche volta interlineari. Le cassature sono prodotte dalla sovrapposizione continuata della lettera x, o della barra /. Il testo presenta anche poche ma importanti varianti manoscritte, come correzioni, integrazioni e cassature, eseguite in inchiostro nero con una penna stilografica. Le correzioni sono spesso soprascritte, eccetto in quei pochi luoghi estesi in cui è stato necessario ricorrere all’interlinea o, addirittura, caso-limite, al verso della carta che precede (come per la c.86v, che riporta una cospicua variante della c.87). Le integrazioni sono interlineari o a margine. Le cassature sono date da tratti orizzontali od obliqui sulle parti da espungere.

R2:

Rilegato al medesimo modo di R1, anch’esso senza indicazione di data, R2 è composto da 105 carte bianche di mm .213x300 dattiloscritte in inchiostro nero solo sul recto, divise in dodici capitoli meno leggibili di R1, da cui provengono come evidente fotocopia. Sul recto della copertina è riportato a mano in stampatello, con matita rosso-blu a lettere maiuscole e minuscole alternate, il titolo del romanzo e il nome dell’autore: IL SENTIERO/ DEI NIDI DI/ RAGNO/ romanzo/di/ ITALO CALVINO. In cima alla copertina, subito prima del titolo, si trova l’annotazione corsiva autografa Prernio Genova dell’Unità, cassata a matita, e una scritta indecifrabile cassata da matita blu.

264 Al centro della copertina, sul margine destro, si riporta a matita blu il numero del dattiloscritto catalogato per il Premio,18. Sul fondo, accanto al marchio di fabbrica, il nome in corsivo Tofanelli cassato da matita blu. Il cartoncino ha il medesimo marchio di fabbrica di R1. R2 ha attaccato al fondo della copertina, con un fermaglio, un cartoncino rettangolare con su scritto in corsivo Premio Riccione 1947/ copioni romanzo. Il verso della copertina presenta un disegno a matita di un rettangolo su cui sono tracciati dei quadratini e delle righe verticali, oltre alla scritta maiuscola DOMANDA. Il recto della controcopertina reca l’indicazione corsiva autografa del nome e domicilio dell’autore: Italo Calvino/ Villa Meridiana/ Sanremo. Come per R1, le carte sono tenute assieme da una pinza. Le carte sono di un’unica qualità e dimensione, ottenute dalla fotocopia di R1. Per tale motive il contrasto d’interlinee e di caratteri, come di numerazione, che caratterizzava R1 si trasferisce su R2 (per cui si rimanda alla descrizione di R1). La c.1 coincide con l’inizio del capitolo 1. Diversamente da R1, R2 è mancante del frontespizio. Tra la c.7 e la c.8 è inserita per sbaglio la c.l05 (il dattiloscritto termina difatti con la c. 104). Fotocopia di R1, R2 è stata eseguita prima che intervenissero su R1 le correzioni manoscritte. R2 infatti presenta le stesse correzioni dattiloscritte di R1, ma una drastica riduzione del già pur esiguo numero di correzioni manoscritte in inchiostro nero ivi presenti. R2 presenta più volte un indizio di paragrafatura manoscritta tracciata in inchiostro nero, assente in R1. Pochissime correzioni manoscritte sono innovative rispetto a R182. L’indagine filologica è stata pertanto condotta su R1, cioè sull’autografo più autorevole, potendosi considerare R2, a tutti gli effetti, un testimone descritto. L’esame esterno dei dattiloscritti suggerisce una serie di problemi fattuali cui non è possibile sottrarsi: consistenza grafica (le scritte e cancellazioni della copertina); assemblaggio del testo (i due gruppi cartacei ripartiti secondo due diverse macchine da scrivere); datazione delle correzioni manoscritte e della costituzione di un dattiloscritto cosi meccanicamente squilibrato. L’esame grafico di R1 non fa pervenire a conclusioni certe od univoche. Nonostante il dattiloscritto sia autografo, le scritte sulla copertina lasciano aperto più di un dubbio di attribuzione su chi (e quando) abbia proceduto alla loro scrittura e alla successiva cassatura. L’indicazione di Luzi come commissario è di pugno dello scrittore stesso, mentre il numero di riferimento di R1 appartiene verosimilmente alla mano del segretario del Premio, Paolo Bignami, che catalogava i dattiloscritti inviati al concorso (e col numero 18 esso appare, infatti, nei fogli sparsi di catalogazione). Le cassature eseguite a matita sulla dicitura «Premio Genova dell’Unità» sono congetturalmente da attribuire ad una mano (ancora Bignami?) diversa da quella dell’autore, impegnato in una sorta di captatio benevolentiae nei confronti della giuria riccionese; è altresi possibile che Calvino stesso abbia poi

82 Si cfr. ad esempio, dal capitolo II, 8, 48: «in seno»> «sotto il maglione», a fronte della correzione di R 1 «sotto la giacca». Oppure, al capitolo IV, 28,28: «loro si trovano immersi in»> davati ai loro occhi ecco aprirsi», a fronte della lezione invariata di R 1.

265 cassato l’annotazione coniugata al suo nome, perchè si sarebbe potuto equivocare che il romanzo fosse già stato premiato e non fosse quindi inedito come richiesto dal bando. Senza paternità rimane la numerazione manoscritta posta nel margine superiore destro delle carte di dimensioni 213x300. Il cognome Tofanelli, che si trova cassato su entrambi i dattiloscritti, lascerebbe invece intravedere scenari complessi, che legherebbero oggettivamente i due esemplari a un possibile (ma improvabile) transito mondadoriano. Arturo Tofanelli, scrittore, giornalista e redattore per Mondadori, curava assieme a Alberto Mondadori stesso «Il Tesoretto», l’almanacco della collana «Lo Specchio», e rivestiva funzioni di consulente editoriale presso la casa editrice. Purtroppo non c’è notizia della composizione della giuria del Premio Mondadori per un inedito 1946, cui Calvino aveva spedito il Sentiero: a parte la certezza di Giansiro Ferrata, che però gli affosserà il romanzo, l’epistolario di Calvino affaccia soltanto i nomi di Salvatore Gotta (romanziere di successo durante in ventennio e autore, assieme a Giuseppe Blanc della versione ufficiale dell’inno fascista «Giovinezza») e di Virgilio Brocchi83. Ignoriamo quindi se questi copioni riccionesi fossero i due effettivamente scartati a Milano (di cui però attesterebbe solo la copertina, congetturalmente unico elemento “riciclato” per Riccione); certo quest’apparizione del nome del collaboratore mondadoriano sui dattiloscritti inviterebbe a ipotesi affascinanti, fors’anche legate a una dimensione testuale evolutiva del romanzo. Più interessante per la comprensione della storia del romanzo sembra l’esame ravvicinato della fattura del dattiloscritto, quest’ippogrifo cartaceo risultato dalla congiunzione di due gruppi distinti di fogli e di due distinte macchine da scrivere.

Vediamone il prospetto completo:

Capp. I-II-III (cc. 1-22): lettera 32, interlinea 1, carte numerate a macchina, 48-50 righe per c., dimensio- ne c.mm .224x285. Molte piccole correzioni dattiloscritte lineari o interlineari, poche le manoscritte.

Capp. IV-V (cc .23-36): lettera 35, interlinea 2, carte non numerate o numerate a mano, 38-40 righe per c., dimensione c. mm .213x300. Correzioni dattiloscritte o manoscritte quasi inesistenti.

Capp.VI-VII-VIII (cc.37-65): lettera 32, interlinea 1, carte numerate a macchina, 48-50 righe per c., dimensione c. mm .224x285. Molte correzioni lineari o interlineari dattiloscritte, di piccola entità; po- che correzioni manoscritte, per lo più cassature.

Capp.IX-X-XI-XII (cc.66-100): lettera 35, interlinea 2, carte non numerate o numerate a mano, 38-40 righe per c., dimensione c. mm.213x300. Poche correzioni dattiloscritte, per lo più interlineari; alcune correzioni manoscritte più estese, concentrate sul cap. IX e XI.

83 A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, p. 176: «C’è Ferrata nella prima commissione, ma adesso ho saputo che ci sono anche tipi come Gotta, Brocchi e se è vero lo ritiro».

266 Cap.XII (c. 101-105):lettera 32, interlineare 1, carte numerate a macchina, 48-50 righe per c., dimensio- ni c. mm. 224x285. Piccole correzioni dattiloscritte lineari, due correzioni manoscritte.

La natura duplice dello scartafaccio suggerisce direttamente l’ipotesi di due diverse fasi di ste- sura dattiloscritta composte poi in un unico fascicolo. In particolare, essa sembra svelare il trapian- to di capitoli cronologicamente più recenti, riscritti in bella copia, su di un dattiloscritto pre-esi- stente, testualmente stabilizzato (nel senso di “definitivo” e soddisfacente per l’autore). L’ipotesi è che R1 sia stato allestito utilizzando parti di un dattiloscritto originalmente omogeneo sia nelle sue caratteristiche meccaniche (interlinea 1 e lettera 32) che di qualità e dimensioni della carta (pasta di legno scadente, mm .224x285). I capitoli redatti in interlinea 1 e lettera 32 sembrano infatti apparte- nere a una fase di trascrizione anteriore. In primo luogo, rimanendo alla ricognizione esterna, sono i capitoli che pur staccati tra loro possiedono una numerazione regolare e progressiva delle carte, un elemento a nostro giudizio decisivo per stabilirne l’omogeneita trascrittiva, vale a dire la carat- teristica di essere state battute tutte consequenzialmente senza prescindere le une dalle altre. Per la composizione di R1 si sarebbe dunque operato su un dattiloscritto già disponibile all’autore, il quale avrebbe inserito i capitoli per così dire “rifatti” nell’accezione più larga del termine (anche soltanto battuti su una nuova carta e con una nuova macchina) al posto dei rispettivi capitoli pre- esistenti. È prudentemente da rifiutare, come anti-economica, l’eventualità di una trascrittura pa- rallela dei capitoli che hanno formato R1 con due macchine diverse e due diversi tipi di carta contemporaneamente (e alternativamente) a disposizione dell’autore. La numerazione mancante alle carte di mm .213x300, la decisione di inserirvi 38-40 righe invece di 48-50 e, a maggior ragione, l’ibrido costituito dal cap. XII rappresentano le più grosse aporie sulla strada dell’accettazione della trascrittura parallela.Per quale motivo, infatti, in caso di detto procedimento, Calvino avreb- be dovuto squilibrare il dattiloscritto attenendosi a un diverso criterio di battitura (interlinea 2) per i capitoli centrali del romanzo? E pure ammesso che il gruppo di capitoli di dimensione 213x300 fosse stato battuto a parte (prima o dopo), indipendentemente dagli altri, rimane il problema del perchè non si procedette per i restanti alla trascrittura ornogenea con l’interlinea 1 fin lì usata (o con l’interlinea 2 per gli altri capitoli, se si devono capovolgere le priorita) e, ancora, perchè non si procedette alla numerazione globale delle pagine dopo avere completato l’assemblaggio del testo. Infine, nel caso di una procedura parallela, per quale motivo far nascere ibrido il capitolo XII, quando solo quattro/cinque pagine in più battute in interlinea 2 sarebbero bastate a trascriverne la fine col medesimo criterio meccanico? La logica imporrebbe d’individuare quindi due fasi compo- sitive cronologicamente distinte. Ma una soluzione netta al problema continua a sfuggire84.

84 Se le ipotesi che possiamo formulare sulla fattura del dattiloscritto sono diversamente difendibili, ad un più attento esame esse sembrano rimanere ugualmente antieconomiche. Torniamo ad esempio alla nostra ricostru-

267 Complica le cose anche la datazione possibile degli interventi.A quando risale l’assemblaggio di R1? Per il dattiloscritto riccionese l’ante quem è il 12 giugno, data d’invio dei dattiloscritti85. Ma quando è stato approntato materialmente il fascicolo, e a quando risalgono gli interventi di corre- zione manoscritta? Gli interventi sulla c.87 (una versione del testo interlineare, abbozzata, e l’im- possibilità di procedere con una pagina a pulito) indicherebbero l’estemporaneità della correzione, all’ultimo minuto. Riguardo alle modalità d’intervento sui propri testi, Calvino ci ha lasciato una testimonianza preziosa, sebbene tarda (in un’intervista del 1982 con il suo traduttore per l’inglese William Wea- ver), che però s’accorda ancora e fa da riscontro con le abitudini fisiche di scrittura che vediamo già all’opera nel dattiloscritto riccionese di più di trent’anni prima:

I write by hand, making many, many corrections. I would say I cross out more than I write. Then I also make a number of additions, interpolations, which I write in a very tiny hand. There comes a moment when I myself can’t read my hand, so I have to use a magnifying glass to figure out what I’ve written. I have to hunt for words when I speak, and I have the same difficulty when I’m writing. My pages are very laborious, covered with cancelling lines and revisions. Then I type them up, deciphering as I go. When I reread the typescript finally, I discover an entirely different text, which I often have to revise further. Then I make more corrections. On each page, I try first to make the corrections with the typewriter;

zione, e accettiamo per valido il montaggio diacronico del testo, l’innesto di parti cronologicamente posteriori su di un impianto stabilizzato. I corollari che ne discendono sono oltre modo interessanti. L’ipotesi del re- intervento sul testo e della ribattitura porta dritti a supporre una fisionomia inedita del testo. Riducendo il numero delle righe sulle nuove carte dattiloscritte - cosi come avviene per i capitoli IV-V, IX-XII fino alla c.100 - individuerebbe infatti una riduzione del dattiloscritto originale (a conti fatti, una sottrazione di almeno 10 pagine), lasciando intravedere un’inedita (e irricostruibile) fisionomia del testo. La sottrazione pare certa, e questo perchè il numero delle pagine in interlinea 2 coincide sempre con la numerazione progressiva a macchi- na dei capitoli in interlinea 1. Ma anche in questa ipotesi pressante vi sono delle difficoltà. II reintervento, cosi delineato, nasconderebbe una grave macchinosità, il calcolo duplicemente faticoso di far coincidere prima le carte interessate ai cambiamenti per numero di righe a testa (le carte hanno tutte 38-40 righe) e poi, in R1, con la preesistente numerazione progressiva, in modo tale da fare incuneare perfettamente i nuovi capitoli laddo- ve le altre carte erano state tolte. Una soluzione che definiamo antieconomica perchè Calvino avrebbe potuto intervenire lo stesso sui capitoli in questione, operare le riduzioni o amplificazioni necessarie, infine batterle come le precedenti in interlinea 1; a seguito della differenza nel numero delle pagine, egli avrebbe potuto mutare poi a mano o con la macchina la loro numerazione. È questa eccessiva macchinosità richiesta che porta a mettere in dubbio la ricostruzione, sebbene sia lasciata intatta la forte impressione di assistere con R1 alla congiunzione tra due parti di testi. Come si vede, per ogni soluzione adottata, sia essa più plausibile di altre, subito scaturiscono nuovi interrogativi, nuove difficoltà. R1 è un ibrido che solleva e elude le domande che gli vengono poste. 85 Una lettera di Calvino contenuta nell’Archivio del Premio Riccione, indica l’invio del romanzo: «12-6-47. Alla Segreteria del Premio Naz. Riccione. Spett. Segreteria, Vi invio 2 copie dattiloscritte del mio romanzo inedito «Il sentiero dei nidi di ragno» per concorrere al Vostro Premio per un’opera narrativa di carattere sociale. Vi prego di comunicarmi i nominativi della giuria, che non sono riuscito ancora a sapere, malgrado ve l’abbia ripetutamente chiesto. In attesa di un Vs. cortese segno di ricevuta vi saluto cordialmente. Italo Calvino» (ri- prodotta in AA.VV., Pier Vittorio Tondelli. Riccione e la Riviera vent’anni dopo cit. p. 120).

268 then I correct some more by hand. Often the page becomes so unintelligible that I type it over a second time86.

Su R1, dove si testimoniano le fasi della stesura dattiloscritta, s’individuano, assieme a dei pic- coli errori di trascrizione subito emendati, correzioni causate probabilmente dai tentativi dell’au- tore di decifrare la lezione del testo manoscritto («I type… deciphering as I go»): gli abbozzi assai elaborati, pieni di cancellature, revisioni, impongono non solo una vera e propria decifrazione della scrittura col rischio dell’errore trascrittivo, ma costringono talvolta anche alla scelta tra piu lezioni. D’accordo con le affermazioni di Calvino, l’intervento correttorio sul testo si esercita quin- di in due fasi distinte. Una sincrona alla stesura dattiloscritta («I try first to make the corrections with the typewriter…»), in cui si ha appunto l’emendazione dei refusi o la proposta di varianti (per questo lineari o, più rararmente, interlineari); l’altra di revisione manoscritta posteriore al comple- tamento dattiloscritto del testo («…then I correct some more by hand»), in cui prevalgono le inte- grazioni e le cassature, insomma i ripensamenti più consistenti che per talune sezioni del testo possono dar luogo a rifacimenti anche multipli, come attestato dalle cc. 86-87, un caso limite per R1 (dove però, sebbene la pagina fosse diventata «unintelligible», non è stato possibile procedere alla riscrittura dattiloscritta – un intervento dell’ultimo minuto?). Le domande, però, si accavallano: quanti testimoni circolavano (o erano circolati) del romanzo? Il testo che Pavese legge prima del 23 gennaio, data della sua recensione interna per Einaudi (senz’al- tro identico al testo che Ferrata avrebbe letto per il Mondadori) è il medesimo di cui Vittorini avrebbe discusso con Calvino, per via epistolare, la seconda-terza settimana di maggio? O si tratta, per quest’ultimo, di un testo su cui sono già spuntate delle varianti e avvenute delle correzioni, magari sulla scorta dei consigli puntuali di Pavese? Di più: è possibile che il testo del Sentiero sia rimasto completamente intatto, nonostante i noti rilievi critici (e l’usuale prassi di editing prima di una pubblicazione), tra il gennaio e il maggio- giugno? La nota editoriale pavesiana segnala passi specifici: «[…] sovente il mondo del ragazzo è rotto da evocazioni che sanno di sintesi lirica adulta (I passi segnati delle pagg. 18, 38, 48, 58, 85) – qui si

86 [«Scrivo a mano, facendo molte, molte correzioni. Direi che elimino più di quanto non scriva. Poi faccio pure un certo numero di aggiunte e interpolazioni, che scrivo in una calligrafia piccolissima. Arriva il momento in cui io stesso non posso leggere più la mia calligrafia e devo usare una lente d’ingrandimento pr capire cosa ho scritto. Devo cercare le parole quando parlo, e ho la stessa difficoltà quando scrivo. Le mie pagine sono assai elaborate, coperte di freghi e revisioni. Poi le batto a macchina, decifrandole mentre batto. Quando rileggo il dattiloscritto alla fine, scopro un testo completamente diverso, che spesso devo ulteriormente rivedere. Poi correggo di più. Su ogni pagina, cerco prima di fare le correzioni con la macchina da scrivere; poi correggo di più a mano. Spesso la pagina diventa così incomprensibile che devo ribatterla una seconda volta.»] (W. WEA- VER, Calvino: an interview and its story, in AA.VV., Calvino revisited, a c. di F. Ricci, Toronto, Dovehouse Editions Inc., 1989, p. 23).

269 sostituisce al ragazzo l’autore. Non che la familiarità del ragazzo con donne, brutture, guerre ecc. sia stonata: è stonato il linguaggio che la esprime. […] l’episodio dell’uccisione di Pelle, – p.90 – non ha stile, è semplice materiale»87. Il confronto delle pagine indicate da Pavese col testo di R 1 rispecchia infatti delle zone proble- matiche, che verranno o emendate direttamente pre-pubblicazione (correzioni manoscritte già ap- paiono sul dattiloscritto riccionese) o in altre edizioni. Di preciso, il rimando di pagina 18 riguarda senza’altro, per il capitolo III, la descrizione della villa-prigione cui è portato il protagonista del romanzo Pin, cui s’innesta la fantasticheria della «vita solitaria e rinchiusa» dei padroni, «per le grandi sale dai pavimenti di legno, col vento che faceva girare i camini cigolanti: e avere grandi cani che giravano per le sale e servi che li odiavano e forse una figlia che s’alzava da tavola scop- piando a piangere, non si capiva perchè» (pericope eliminata solo col passaggio dalla prima alla seconda edizione Einaudi, nel 1954)88. Pagina 38 propone invece il cuciniere “trozkista” Mancino, mezza calzetta dall’apparizione legata decisamente al mondo fiabesco degli gnomi, che parla con «una vocetta chioccia» (riferimento eliminato nella terza edizione del 1964), mentre pagina 47-48, coll’apertura del capitolo VII, ci porta al racconto iterativo con la vita di Pin nel distaccamento partigiano, in cui all’eccitamento corrisponde una «voglia d’uccidere», «una voglia remota in lui come la voglia di donna [>amore, soprascritto], un sapore sgradevole e eccitante come il fumo e il vino, una voglia che non si capisce bene perchè tutti gli uomini l’abbiano» (concretamente, uno spostamento che implica una riflessione più “adulta”, come indicava Pavese). Pagina 58 contiene l’incipit del capitolo VIII, e una serie d’elementi lirici descrittivi della vita nel «nuovo accampa- mento», i quali, indugiando sulla reminescenza (il «richiamo fuggevole e improvviso» di un pen- siero) riportano Pin al «contagio del peloso e ambiguo carnaio del genere umano» – in linea con quanto si vedeva a p. 47-48. Pagina 58, tuttavia, non viene ritoccata dall’autore, come non viene toccata pagina 85, l’ampia descrizione della solitudine di Pin mandato a seppellire Babeuf , il fal- chetto del cuoco tacciato di portar scalogna, cui il proprietario stesso, esasperato dagli uomini del distaccamento, ha tirato il collo. Quanto a pagina 90, con Pelle che da partigiano s’è fatto spia e ha causato rastrellamenti e una battaglia a campo aperto contro i partigiani sulla montagna, la trasfor- mazione autografa del testo coinvolgerebbe semplicemente un discorso diretto originale che di- venta una mise en abyme indiretta.

87 Nota inedita di C. PAVESE in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» cit., p. 1243. 88 Che richiama forse un’altra immagine di insensatezza, o isterismo, comunque di disagio esistenziale profon- do, anch’essa legata a un’altra figlia (della padrona di Vento in una città –racconto percorso dalla costante interrogazione sulle motivazioni dei personaggi): «La figlia della padrona è una impiegata grassa e isterica: un giorno ruppe un piatto di piselli nel corridoio e si chiuse in camera gridando» (I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.3, cit., p. 953). L’apparizione apparentemente gratuita di questa “figlia” incornicia il racconto, che si conclude col ritorno del protagonista «a casa» per trovarvi «piselli e cocci di piatti per il corridoio, l’impiegata grassa s’è chiusa a chiave nella sua stanza, e grida» (p. 959).

270 Tenendo conto che il testo della princeps è in pratica il testimone riccionese con delle correzioni (ma non tutte), ci dobbiamo chiedere quali testimoni lessero Pavese e Vittorini, quando siano inter- venute le correzioni manoscritte e se, precedentemente alla consegna degli scartafacci per Riccio- ne, sia lecito ipotizzare sostanziali varianti dattiloscritte a noi sconosciute (capitoli rifatti, riscritti, o comunque su cui si è ri-intervenuti sostanzialmente, come cioe sembrano indicare i capp. di dimensione 213x300 – che, a rigore, potrebbero anche essere stati fatti per la presentazione del romanzo entro la scadenza del concorso Mondadori). Reintepretare la storia del dattiloscritto, seppure congetturalmente, è comunque un’operazione che il dattiloscritto stesso sollecita, come il nome di Tofanelli, agente mondadoriano, ci invita a fare oggi dallo sciupato cartoncino bristol. I capitoli in interlinea 2 e lettera 35 sono stati forse i piu “problematici”, le zone del testo dove con più accanimento si è esercitato l’autore. I capp.lV-V presentano il personaggio del partigiano senza macchia e senza paura Lupo Rosso, criticato da Pavese per il suo linguaggio «schematico e sforzato», e il IX e I’XI rispettivamente l’intellettuale Kim («grande stonatura il capitolo del com- missario Kim») e, appunto, l’esecuzione di Pelle («L’episodio dell’uccisione di Pelle[…] non ha stile, è semplice materiale»). È possibile che il discepolo – sempre cosi pronto ad accogliere i sugge- rimenti dei maestri («finivo un racconto e correvo da lui [Pavese] a farglielo leggere», oppure: «At thattime I was writing a lot of short stories, and I showed them to Pavese, to Natalia Ginzburg […] or else I took them to Elio Vittorini […]. And, I must say, I paid attention to their opinions»)89 non sia intervenuto affatto con correzioni? L’epistolario edito non ne fa parola. La laudatio pubblica di Pavese al libro, dieci mesi più tardi90, specie per l’episodio prima stroncato di Kim, risponde dav- vero e soltanto a ragioni di scuderia (si pubblicizza d’altronde un volume einaudiano) oppure è il segnale che il giudizio del recensore è nel frattempo mutato perche sono intervenute delle corre- zioni sostanziali? E che dire, in conclusione, dell’episodio di Pelle, il racconto serrato, cinemato- grafico, da “supergiallo”, della sua esecuzione fatta da sei uomini in impermeabile, nella princeps così come si legge anche in R1, pendente dalle labbra di Lupo Rosso (che, coerentemente col suo personaggio, «esagera un po’ le cose che racconta, ma racconta molto bene» XI 185)? È ancora «semplice materiale» o è stato modificato, reso più appetibile91? La storia del Sentiero nasconde molte zone d’ombra.

89 W. WEAVER, Calvino: an interview and its story cit., p. 23. 90 C. PAVESE, Il sentiero dei nidi di ragno cit., pp. 273-276. 91 Si veda anche, per quest’episodio, lo studio di G.P. BIASIN Seis hombres con impermeable (nel volume collettaneo Italo Calvino: Nuevas Visiones, coordinatores Maria J.Calvo Montoro y Franco Ricci, Ciudad Real, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 1997, pp. 19-29), che vi rintraccia invece l’inizio del metodo seriale e combinatorio del raccontar storie calviniano, e che quindi ne mette in evidenza la novità e il valore narrativo entro il romanzo cui appartiene. L’intervento di Biasin si legge anche in italiano, Sei uomini con l’impermeabile, in “Rivista di letterature moderne e comparate”, a.XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 467-477.

271 4. I dattiloscritti riccionesi del Sentiero dei nidi di ragno: il sistema delle varianti

Le correzioni dattiloscritte e manoscritte che vengono apportate sui testimoni riccionesi sono, con qualche notevole eccezione, secondarie, di caratura locale, e si muovono secondo una direttri- ce analoga di rifinitura formale, di lavoro di lima. Come riportato da Bruno Falcetto nell’apparato al primo volume dei Romanzi e racconti di Calvino, in cui si affronta il problema della variantistica al Sentiero, e a cui si rimanda per un prospetto più ampio (per le tre edizioni del testo, 1947, 1954, e 1964)92, R1 è un testimone vicinissimo alla princeps, uno stadio redazionale pressochè definitivo93. L’attività di revisione si concentra statisticamente sulla seconda parte del romanzo, in ispecie sui capitoli IX, XI, XII, nei passaggi forse tecnicamente più difficili, che sono: 1) l’illustrazione, da parte di Kim, delle motivazioni della lotta partigiana (capitolo IX); 2) il racconto della battaglia al capitolo XI (topos resistenziale, banco di prova per la capacita di Calvino a mantenere sotto control- lo il tono anti-eroico e anti-retorico della sua narrazione); 3) il finale del romanzo, il suggello defi- nitivo dell’opera (anche l’incipit del capitolo I viene comunque mutato: inizio e fine si corrispondo- no quanto a problemi di scrittura). Nella prima parte di R1 prevalgono invece le cassature di singoli lemmi o frasi intere. Le corre- zioni più rilevanti per estensione sono le manoscritte. Possono essere vere riscritture (come per il capitolo XI, c.87 14-23), oppure, più facilmente, cassature, anche minime, i cui effetti però vanno ben al di là dell’apparente (e minimale) soppressione di una frase, di qualche battuta di dialogo: è il caso delle correzioni che riguardano da vicino alcuni personaggi (cfr. infra). Per collocare al suo posto la tipologia dell’intervento correttorio su R1 definendone le linee generali, occorre prendere in prestito da un Calvino di quasi vent’anni posteriore l’enunciazione dell’ideale linguistico che, come rivendica lo scrittore, ha sempre guidato la sua attività: «Il mio

92 B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» , in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1243-1260 e in particolare per le tre edizioni, pp. 1250-1257. Il testo base scelto è quello dell’ultima edizione 1964, cui le altre varianti vengono rapportate, divise in tre gruppi: «il primo relativo agli interventi operati […] per la seconda edizione […], il secondo a quelli apportati in occasione della terza […], l’ultimo e le correzioni e varianti che si notano sul dattiloscritto» (p. 1250). Questo criterio porta a delle distorsioni significative nel- l’apparato, che invece di privilegiare l’edizione princeps (come testo base) e mostrare l’evoluzione delle lezioni, porta a una frammentazione piuttosto confusa. Per tacere del fatto che in merito al terzo gruppo che raccoglie le varianti del dattiloscritto, si avrebbe l’impressione che brani notevoli dal dattiloscritto siano stati cassati, mentre invece si trovano nella prima edizione del romanzo (cassati poi tra la seconda e terza edizione). Un esempio per tutti, a p. 1258-1259, si riporta la discussione di Cugino, dal capitolo VIII 138-139, sulla «causa» della guerra mondiale (attribuita alle sorelle Petacci, a Mussolini e al Papa). Il lettore dell’apparato ha l’impres- sione che questo brano sia solo nel dattiloscritto (indicato con Ds 64), mentre invece lo riporta verbatim anche la princeps (ed è ridotto solo con la seconda edizione fino alla rimozione completa con la terza). 93 Ibidem, pp. 1257-1260. Mancano, nella ricognizione mondadoriana, le varianti (certo minime, e per la maggior parte interpuntive o di variatio lessicale) tra i dattiloscritti riccionesi e la princeps. Non tutte le varianti (mano- scritte o dattiloscritte) dei testimoni riccionesi sono comunque riportate, ma le principali (non essendo il volu- me un’edizione critica delle opere calviniane).

272 ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche»94. “Concretezza” e “pre- cisione” sono dunque i solchi entro cui si possono ascrivere anche gli esordi, testimoniate minuzio- samente da R1 tramite il lavorio in apparenza marginale che Calvino compie sul testo del Sentiero. La traiettoria degli interventi di Calvino è rivolta alle approssimazioni verbali e lessicali, alla sosti- tuzione di quei vocaboli e di quei sintagmi ancora mal definiti che sopravvivono nel testo, all’eli- minazione (o trasformazione) di ridondanze e zeppe. È una forma di revisione che con le sue inno- vazioni o soppressioni interessa più capillarmente il livello lessicale del testo di quello sintattico. È anche la traduzione di quello che Calvino chiama, in una lettera a Silvio Micheli dell’8 novembre 1946, lo scrivere mangiandosi le unghie, l’applicazione nevrotica, al testo del romanzo, alla sua scrittura, dei principi di composizione dei racconti, «che se gli togli o gli aggiungi una parola tutto va a pezzi»:

[…] Io speravo di fare un librettino di raccontini, tutto bello pulito stringato, ma Pavese ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo. Ora io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scriverei racconti per tutta la vita. Racconti belli stringati, che li cominci così li porti a fondo, li scrivi e li leggi senza tirare il fiato, pieni e perfetti come tante uova, che se gli togli o gli aggiungi una parola tutto va in pezzi. Il romanzo invece ha sempre dei punti morti, dei punti per attaccare un pezzo all’altro, dei personaggi che non senti. Ci vuole un altro respiro per il romanzo, più riposato, non trattenuto e a denti stretti come il mio. Io scrivo mangiandomi le unghie. Tu scrivi mangiandoti le unghie? Ora non devi credere che io non abbia idee per romanzi in testa. Io ho idee per dieci romanzi in testa. Ma ogni idea io vedo già gli sbagli del romanzo che scriverei, perché io ho anche delle idee critiche in testa, ci ho tutta una teoria sul perfetto romanzo, e quella mi frega. […] Anche Natalia scrive un romanzo. Anche Pavese scrive un romanzo. Anch’io ho cominciato un romanzo: ne ho scritto 4 pagine in una settimana. Passano le giornate che non riesco a aggiungerci una virgola, delle giornate in cui penso se in quella frase ci sta meglio salito o montato95.

Fatto salva l’integrità del dettato narrativo globale (oramai definito nelle sue proporzioni e nei suoi rapporti), la penna dello scrittore interviene per i ritocchi, gli stucchi, la lucidatura, e per riparare le piccole incrinature di un discorso stilistico assai sorvegliato («mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere»96). A un livello microscopico, la revisione viene governata dal criterio di

94 I. CALVINO, L’italiano, una lingua tra le altre lingue, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 121, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1, cit., p. 153. Sul percorso stilistico di Calvino e sulla varian- tistica nella sua opera, si cfr. M. MCLAUGHLIN, Calvino’s style, in ID. Italo Calvino, cit., pp. 145-160 e P.V. MENGAL- DO, La lingua dello scrittore, in AA.VV., Italo Calvino. Atti del convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici- Riccardi, 26-28 febbraio 1987), cit., pp. 203-224. 95 A Silvio Micheli, 8 novembre 1946, p. 167. 96 I. CALVINO, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 8.

273 una varietas che elimini ogni ripetizione ravvicinata, ogni gratuita ridondanza. Per questo motivo conta molto il carattere locale della correzione. A questo proposito – e cioè come esempi tipici della strategia correttiva – si prendano gli inter- venti sulle pagine d’apertura del romanzo, che possiamo elevare a paradigma per l’intero testo97. Le correzioni dattiloscritte che vertono sullo scenario dell’osteria del Carrugio Lungo da cui si di- partono le vicende del Sentiero, centro e circonferenza del mondo del protagonista Pin, punto di vista fanciullesco sulla realtà in tempo di guerra, si attengono tutte alla ricerca della varietas nella ricorrenza situazionale. L’intervento di Calvino, nella prima fase di trascrizione dattiloscritta, si esercita in special modo sui luoghi ricorrenti del testo, sulla voluta passacaglia dei medesimi scena- ri narrativi. La memoria “interna” del testo che l’autore porta con sè durante l’auto-dettatura lo porta evidentemente a insistere sugli aspetti che la contestualità delle situazioni proposte gli offre naturalmente. Le cassature dattiloscritte attestano allora il tentativo di eliminazione delle interfe- renze causate dall’autodettatura (o fors’anche dal tentativo della “cifra” stessa, del cadere nei me- desimi giri di frase). Ad esempio, nel caso dei vizi dei “grandi” imitati da Pin (Bacco, tabacco e Venere, di cui si discute a ogni piè sospinto nell’osteria), si presentano su R1 stilemi troppo omogenei per sopravvi- vere intatti. La dittologia aspro e ruvido, ad esempio, detta per il fumo di cui s’ingozza Pin (1 2,16 «ingozzandosi di fumo gola e naso, fumo ancora aspro e ruvido contro la sua gola») è quasi ribadita per il vino, che è aspro contro la gola (I 2,34): la correzione ha eliminate la “ruvidezza” della situazio- ne originale («aspro >, ruvido< contro la gola» I2,34) evitando una ripetizione troppo ravvicinata. La ricorrenza è alterata di proposito: appena più sotto – a testimonianza del valore speciale dello stilema per l’autore – l’aggettivazione si ripresenta98. Dopo i vizi del fumo e del vino, cose da “gran- di”, ecco il sesso: lo spiare la sorella-prostituta nuda a letto col soldato tedesco è una «carezza ruvida sotto la pelle, un gusto aspro come tutte le cose degli uomini: fumo, vino, donne» (I 2,38). La ricorren- za sottolinea volutamente la somiglianza delle situazioni. Si confronti infatti un altro luogo, VII 47,47: «Ecco la voglia d’uccidere anche in lui aspra e ruvida […]. È una voglia remota in lui come la voglia di donna, un sapore sgradevole e eccitante come il fumo e il vino, una voglia che non si

97 Per l’elenco completo delle correzioni al dattiloscritto riccionese si rimanda all’Appendice di questo saggio (Le varianti di R1, seguito anche da una breve discussione dei cambiamenti tra i dattiloscritti e la princeps). 98 Ricorre anche in Attesa della morte in un albergo, per i protagonisti Diego e Michele, rastrellati e scampati all’ese- cuzione: «E i due compagni compresero che qualunque fosse il loro destino da allora in poi, di sangue, d’urli, di sfinimento, pure avrebbero sentito il gusto sanguigno dell’essere vivi e del dividere il dolore come il pane. Un ruvido sapore di vita li avrebbe accompagnati da allora in poi» (I. CALVINO, Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949, p. 117.) Nel racconto scartato Amore lontano da casa la ruvidezza e l’asprezza determinano invece la qualità dell’amore (e entrano in risonanza col contesto in cui questi lemmi riappaiono nel Sentiero): «in noi c’era quello che si dice l’amore, quel ruvido scoprirsi e cercarsi, quell’aspro sapore uno dell’altro, tu sai, l’amo- re» (ora in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., p. 963. Ivi si cfr. anche la nota di Falcetto ai «Racconti esclusi da “I racconti”», pp. 1335-1336, che riporta la datazione della seconda stesura del racconto al gennaio 1947).

274 capisce bene perchè tutti gli uomini l’abbiano, e che deve racchiudere, a soddisfarla, piaceri segreti e misteriosi». I richiami per situazioni, per analogia, s’impongono anche a proposito delle “voglie” appena enunciate. La correzione contestuale subita da VII 48,2, la «voglia di donna» che diventa «voglia d’amore», segue la logica del bisogno d’affetto sentito dal personaggio, cui è estranea l’espe- rienza diretta della componente sessuale adulta (i grandi «con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri» di cui si era discorso in I 4,38). Una voglia “di donna” che Pin può immagi- narsi, ma che rimarrebbe in palese contrasto con ciò che il personaggio può provare o capire: «La spiegazione di tutte le cose del mondo è li dietro quel tramezzo; […] tutto quel che succede là dentro lui lo sa, pure ancora la spiegazione del perchè gli sfugge»(II 7,24). La voglia “d’amore” riprende invece la «voglia indistinta di carezze» di III 16,17 (scaturita quando Pin soffre le busse dell’interrogatorio), a sua volta mutata in «voglia lontana», desiderata ma irrealizzabile, perchè corrispondente all’immagine materna, cioè al «richiamo lontanissimo di felicità dimenticata» che ci è descritto nel capitolo II colla rivelazione della storia familiare di Pin e della sua infanzia infelice. D’altro canto, a riprova dei richiami interni che regolano (o impongono) l’intervento variantistico, la «voglia d’amore» suggellata nel capitolo VII è una «voglia remota», altrettanto remota «come il fumo e il vino», come le cose da grandi che Pin non comprende in quell’osteria del carrugio che è anche la sua casa, lo scenario solito e familiare della sua vita di busse, cattiverie e solitudine. Nella rete linguistica che caratterizza Pin, tutto si tiene99. La correzione dell’incipit del romanzo risponde anch’essa a precisione del dettato, all’essenziali- tà: l’apertura semi-litotica «Non un’intercapedine: una strada. Ma stretta e fonda» etc., viene sosti- tuita dal più lineare (e logico) «Per arrivare fino in fondo al vicolo», dove, a parità d’esordio in medias res, si elimina almeno la gratuità metaforica dell’intercapedine (un’anticipazione della fessu-

99 Ancora per l’osteria: a I 2, 24 si ha quello che a prima vista può sembrare un errore rimediato, la sostituzione dell’aggettivo sostantivato «il viola» (in fondo ai bicchieri) con un attributo tout court «l’ombra viola» (in fondo ai bicchieri). Anche qui l’autodettatura può aver interferito: a I 3, 16 infatti gli avventori dell’osteria «guardano nel viola dei bicchieri». Il viola sta metonimicamente per vino: l’osteria è infatti «fumosa e viola» (I 4, 41). Fumo e vino eccitano gli avventori, che cantano canzonacce e battono il tempo «imbestialiti» (I 3, 33), attribuzione questa cassata da Calvino perchè sproporzionata tra causa (una canzonaccia) e effetto (l’andare in bestia). È mantenuta invece qualche passo dopo, perchè è il risultato delle offese che Pin lancerà ad personam agli uomini: «Ora Pin entrerà nell’osteria fumosa e viola, e dirà cose oscene, improperi mai uditi a quegli uomini fino a farli imbestialire» (I 4, 41). Sempre a proposito del rapporto travagliato di Pin con il mondo adulto, s’inserisce la correzione del lemma «uomini»> «grandi», secondo l’uso infantile, che sottolinea la diffe- renza di qualità tra Pin e gli esseri con cui è a tu-per-tu, i “cresciuti”, coloro che stanno al di là della “linea d’ombra” della fanciulezza con una diversa psicologia e visione delle cose inconoscibile, a lui “incomprensibi- le”. La correzione ha luogo a II 8, 17 («Ma invece lui deve muoversi nella notte solo e attraverso l’odio (degli uomini>) dei grandi») e si allinea agli altri contesti in cui tale lemma era spuntato regolarmente: I 4, 35-36 «E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti»; II 8, 1-4: «Pure, a Pin piacerebbe essere sempre amico (dei>) con i grandi, e che i grandi scherzassero sempre con lui e gli dessero confidenza. Pin ama i grandi, ama fare dispetto ai grandi, ai grandi forti e sciocchi di cui (lui>) conosce tutti i segreti».

275 ra da cui Pin spia la sorella?100) introducendo invece l’oggetto del discorso, il «fondo» del vicolo, l’angiporto angusto e maleodorante che fa da primo ed essenziale scenario alla storia. Non sempre la correzione può essere risolta in termini esclusivamente stilistici, cioè di una varietas che eviti l’ingorgo di un’iterazione ravvicinata. Un esempio significativo è l’intervento sui funerali del partigiano Marchese, fatto dai suoi cognati che obbligano i fascisti loro prigionieri a seppellirlo (storia culminante poi con l’esecuzione dei prigionieri stessi per rappresaglia). Nella pericope dedicata ai funerali si attua una sostituzione incrociata dei lemmi caratterizzanti il parti- giano morto (VII 54,6 cadavere> morto; VII 54,7 morto seppellito> cadavere sotterrato). Prescin- dendo dalla correzione, a VII 54,3 avremmo avuto «I fascisti adagiano il cadavere di Marchese in mezzo alla fossa» e tre righe più sotto «I fascisti fanno cadere palate di terra solo sopra il cadavere e rimangono in due fosse separate ai lati del morto seppellito»: senz’altro la nuova sequenza alter- nata “cadavere-morto-cadavere” (VII 54,3-6-7) può essere sembrata preferibile alla zeppa di una replica (“cadavere-cadavere-morto”) per indicare pur sempre la medesima cosa, il corpo ucciso, senza vita, di Marchese. Ma tutto l’episodio mostra come la scelta dei lemmi per segnalare la mor- te, i corpi, i cadaveri, insomma la salma dell’uomo, sia usata implicitamente a fini psicologici. Ci sarebbe troppo sapore di morgue in un rituale linguistico che privilegia la parola “cadavere”: una spersonalizzazione, un azzeramento del soggetto, il primato del corpo sull’identità. Nei funerali del partigiano calabrese (che nel romanzo è sempre presentato con i cognati) invece prevale la carica affettiva: anche quando ne fa annunciare la morte e ne introduce le spoglie sulla scena, Calvino non smette di ritrarre l’uomo unito ai cognati, ancora tutt’uno con loro, e versa in petto ai personaggi una sorta di pudore linguistico che il narratore assume soggettivamente. Il quartetto, del resto, è stato sempre ritratto unito: «Spesso partono, i quattro cognati, e vanno a valle verso le coltivazioni di garofani dove vivono le sorelle loro spose. Là hanno duelli misteriosi con le brigate nere, appostamenti e vendette, come facessero una guerra per conto proprio, per antiche rivalità familiari» (VII 50, 43). La morte di Marchese gli ha colti assieme: «Un giorno torna all’accampa- mento Duca; era stato via con i suoi tre cognati per una delle loro spedizioni misteriose. […] –

100 È il collegamente che proponeva B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», cit., p. 1249: «a descrivere il carrugio si anticipa l’immagine dell’intercapedine che separa la stanza di Pin da quella dove la sorella riceve i suoi clienti». L’immagine dell’intercapedine si stacca netta (ma come risvolto di un’incapacità alla comunica- zione, di uno “stacco” tra la realtà e la nostra immagine di essa) nel racconto scartato del 1946 Vento in una città (ora in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., pp. 952-959, di cui abbiamo discorso nel primo capitoletto di questo studio. Ivi si cfr. anche la nota di Falcetto ai «Racconti esclusi da “I racconti”», p. 1334, che ne riporta le varianti –in cui ques’intercapedine viene descritta da Calvino come «un residuo di antiche paure d’infanzia o di atavici isolamenti di classe, […] uno spazio vuoto che […] tiene separato dal resto del mondo». Il supera- mento delle paure d’infanzia e dell’isolamento di classe è del resto anche un tema del Sentiero; l’uso di taluni lemmi nel Calvino esordiente sembra portarsi sempre dietro contesti precisi, da cui lo scrittore non sa staccar- si. Il romanzo funziona anche da distillato del suo mondo poetico, vera summa dei temi e dei vari stili con cui si era tentato l’avvicinamento al mondo dei racconti.

276 Compagni – dice – Hanno ammazzato mio cognato Marchese» (VII 53,9). La «barella di pali da vigna e rami d’olivo» che appare sulla scena sintomaticamente contiene il «cognato Marchese», non il suo “cadavere”. Si va a «seppellire il cognato» (VII 53,25), non il “cadavere” del cognato; si porta «il morto» sulle spalle (VII 53,26), non “il cadavere di Marchese”. E «morto» sta qui per “cognato morto”, termine di riferimento inseparabile, come in VII 54,9 («Duca vuole che continui- no a buttare terra sul cognato morto»), in modo tale da rendere inseparabile l’identità dal corpo. L’uso di «cadavere» sancirebbe l’avvenuta separazione, il distacco dall’oggetto, la sola carcassa, privilegerebbe il dato esterno (la salma) sull’identità (e tale lemma viene usato in effetti quando oramai Marchese è nella fossa, è stato «seppellito», sparisce dalla vista). Il vocabolario resta sfuma- to: «corpo», usato in VII 54,10 (la terra «che già forma un’alta tomba sul suo corpo»), è pur sempre l’equivalente di cadavere, ma meno crudo di un termine da obitorio. Il rituale dei funerali di Marchese si trasforma in un rituale linguistico.

Concretezza e precisione linguistica diventano doti particolarmente importanti quando il di- scorso si fa teorico. Un capitolo dove Calvino ha riposto penna è il IX, lo snodo teorico del testo, dove estremo è lo sforzo dell’elementarità nell’esposizione, la ricerca della massima chiarezza e della minima astrattezza, ma sempre all’interno di un registro stilistico meno giornalistico possibile. Il capitolo che presenta i custodi ideologici del romanzo, Kim e Ferriera, discute le concezioni della guerra partigiana. La prima correzione (riportata qui sotto in corsivo) interviene a precisare proprio la visione “concreta” che Ferriera ha dell’impegno:

La guerra partigiana è una cosa esatta, perfetta per lui come una macchina, è 1’aspirazione rivoluzionaria maturatagli nelle officine, portata sullo scenario delle sue montagne, conosciute palmo a palmo, dove può giocare d’ardire e d’astuzia.

La guerra partigiana è una cosa esatta, perfetta per lui come una macchina, è il vecchio sogno della rivoluzione maturato ai banchi delle officine, diventato vero sullo scenario delle sue montagne, nei posti conosciuti palmo a palmo, dove può giocare d’ardire e d’astuzia (IX 66,15).

Il carattere accentuato di avvenimento straordinario che la guerra partigiana riveste nella vita del personaggio si concretizza nel passaggio da «aspirazione rivoluzionaria» al «vecchio sogno» della rivoluzione che è «diventato vero». L’Utopia (il «vecchio sogno») si invera con naturalezza in «rivoluzione», per contingenza, senza applicazioni volontaristiche, sullo scenario di casa, grazie all’avvenimento epocale della Resistenza, identificata ora con l’Utopia rivoluzionaria che in un luogo specifico si è avverata. L’introduzione di «vecchio sogno» concorre a una nota sentimentale assente nell’impersonale «aspirazione rivoluzionaria» – sentito forse come termine troppo tecnico o teorico. L’attenuazione è dunque del linguaggio politico esplicito.

277 Il secondo intervento correttivo ha per oggetto Kim. Kim non discute l’impegno partigiano a livello personale, ma tenta di analizzare le motivazioni collettive che spingono avanti gli uomini che combattono, i modi in cui incarnano le idee della lotta di liberazione. Il suo discorso, più com- plesso, ha bisogno di particolare risorse argomentative, e si allinea a quanto abbiamo visto all’ope- ra nei racconti Vento in una città e Amore lontano da casa, in cui ritornava espresso il bisogno del matrimonio tra parole e cose, la necessità della tangibilità dell’esperienza (così da poter essere comunicata). Più che un’astratta teoria, allora, sarà necessario partire dalla materialità dell’esisten- za, dalle cause anche economiche delle loro motivazioni, per arrivare al percorso inverso: dalla concretezza (quotidiana, dei dati dell’esistenza) alla comprensione di un ideale, alla sintesi intel- lettuale di che cosa quell’esistenza effettivamente coinvolga:

Questo non e un esercito, vedi, da dir loro: questo è il dovere. […] Domani ci saranno dei morti, dei feriti. Loro lo sanno. Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere, dimmi? Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne, per loro è già più facile. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della patria, i contadini hanno una patria. Cosi li vedi con noialtri, vecchi e giovani, con i loro fucilacci e le cacciatore di fustagno, paesi interi che prendono le armi; noi difendiamo la loro patria, loro sono con noi. E la patria diventa un ideale sul serio per loro, li trascende, diventa la stessa cosa della lotta: loro sacrificano anche le case, anche le mucche pur di continuare a combattere.

Qui non siamo in un esercito, vedi, da dir loro: questo è il dovere. […] Domani ci saranno dei morti, dei feriti. Loro lo sanno. lo alle volte mi domando cosa li spinga a questa vita da cani. Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne, per loro è gia più facile. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della patria, i contadini hanno mucche, case, campi:una patria. Così li vedi con noialtri, vecchi e giovani, con i loro fucilacci e le cacciatore di fustagno, paesi interi che prendono le armi; noi difendiamo la loro patria, loro sono con noi. E la patria da cosa concreta che era: mucche, case, campi, finisce per diventare un ideale, una cosa astratta, la stessa cosa della lotta: loro ci rimettono anche le case, anche le mucche pur di continuare a combattere (IX 70,19).

Il richiamo obliquo è a un altro racconto di Calvino, La stessa cosa del sangue (o, in altre parole, «la stessa cosa della lotta», come qui enunciato). Nel racconto (al momento della scrittura del libro ancora inedito, scritto nel 1945 – e che verrà pubblicato in Ultimo viene il corvo del 1949), la decisio- ne del protagonista di entrare nella lotta armata e reclamare il proprio destino deriva infatti dalla concretezza drammatica della prigionia dei genitori (appunto «cosa concreta», per riprendere i moduli appena mostrati). La necessità (personale) della loro liberazione si fa «cosa astratta» – ne- cessità di liberazione tout court (dalle proprie incapacità, meschinità, paure e, ovviamente, dai torti subiti, e, più largamente, liberazione dalla dittatura che soffoca anime e coscienze). La lotta, quin- di, diventa la «stessa cosa del sangue» – come qui il riconoscimento contadino della propria situa-

278 zione, dell’avere «una patria» che li porta a identificarsi nella lotta per riaffermare quella patria. Nella nuova versione, allora, Calvino rinuncia ai moduli da discorso filosofico più astratto (specie linguistico: la patria che per i contadini diventa «un ideale sul serio per loro» e che «li trascende»). Il discorso viene frammentato, elementarizzato, tutti i passaggi di logica dimostrativa sono illu- strati con le loro connessioni più elementari e più immediatamente oggettive. Solo precisando che significato ha per un contadino avere una patria (avere cioè case, mucche, campi), si può compren- dere il salto, il valore “astratto” della lotta che può portare a perdere gli elementi che costituiscono quella patria: è la difesa di un proprio diritto, della propria libertà, del diritto a essere proprietario. Il discorso di Kim diventa piu colloquiale (il «sacrificano» che diventa «ci rimettono»; il «combat- tere» reso esplicitamente una «vita da cani», dura e disagiata). La correzione segue l’ideale della massima chiarezza e leggibilità101.

La revisione manoscritta si esercita in prevalenza con diversi interventi cassatori, rivolti al siste- ma dei personaggi: riguardano da vicino il cuoco del distaccamento, l’estremista («troschista») Mancino, e la sua controparte ortodossa, il ragazzo partigiano Lupo Rosso (che incontra Pin in prigione, si fa aiutare da lui per la fuga e poi l’abbandona); secondariamente il lone-ranger vendica- tore Cugino, che s’imbatte in Pin piangente nel folto del bosco e lo porta al distaccamento. È oppor- tuno notare come la penna calviniana, a quest’altezza cronologica, bersagli gli aspetti politici del romanzo che hanno più bisogno di ridefinizione e pulitura. (Cassature e riscritture minime, come appena visto, avevan interessato anche i discorsi del commissario politico Kim, nel capitolo IX: Calvino esercita il suo bisturi su aspetti concorrenti della difficile, complessa spiegazione delle ragioni della lotta resistenziale.) Un’innegabile «linea di smorzatura dei toni»102 ha senz’altro portato Calvino a depennare sia i tratti più ridondanti del trio (sparisce il riferimento al mancinismo fisico del cuoco, colto «a pelar le patate tenendo il coltello con la sinistra», che ne giustificherebbe il soprannome, VI 42,32 ), che quelli troppo espliciti (il luccichìo negli occhi di Cugino: «ha una luce nuova negli occhi, mai vista prima, cattiva», XII 103,47, che preannuncia l’esecuzione della sorella di Pin, fattasi spia per le SS nei rastrellamenti contro i partigiani) o finanche ideologicamente brutali (la battuta di Lupo Rosso: «io ci starei a farli fuori tutti!», VI 45,9, sull’eliminazione fisica dei turbatori trozkisti nei gruppi garibaldini, causata dalla presenza del radicale Mancino, ossessionato dalla rivoluzione).

101 Tuttavia, nel passaggio alla princeps, ogni correzione manoscritta del capitolo IX altrimenti fatta per i dattilo- scritti viene sistematicamente lasciata cadere, privilegiando il linguaggio in fondo più saggistico delle pericopi prima mostrate. Resta da vedere sel’editore lavorasse su un dattiloscritto senza le correzioni (che poi non furono sentite essenziali da Calvino) o se Calvino stesso le abbia ricassate in un secondo tempo. 102 B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» cit., p. 1249.

279 Attribuire taluni mutamenti a una semplificazione dei personaggi, a un’opera insomma di con- tenimento stilistico senza indagare invece le possibili ragioni storiche che di quell’intervento sono la causa, se formalmente corretto, sarebbe però riduttivo: nei casi di Mancino e Lupo Rosso le cassature, pur limitate, corrispondono alla decisione di eliminare i punti di aggancio più pericolosi della polemica ideologica interna allo schieramento partigiano di cui i due personaggi sono i por- tatori per tutta la parte del romanzo che a loro compete (capitoli VI-XI). L’esasperazione dei toni competerebbe di regola a personaggi esasperanti o esasperati, come possono essere i due sopradetti, filtrati dalla prospettiva infantile di Pin (che regge il punto di vista); ma nel Sentiero non è soltanto in gioco la coerenza interna del personaggio, l’omologia di carattere e linguaggio. Il personaggio calviniano, flat character, svolge in questo romanzo una fun- zione predeterminata, incarnatosi in una posizione apodittica, destinata ad essere spiegata da Kim, l’inventore narrativo del distaccamento fatto di personaggi storti, equivoci, senza coscienza di classe, che, come visto precedentemente, costituisce il suo “esperimento”. Lo schematismo dei personag- gi tuttavia può anche rivelarsi a doppio taglio, qualora la posizione dell’autore debba scaturire dal complesso dell’interazione dei singoli punti di vista. Il personaggio calviniano rivestito di un “mo- tivo” polemico può dunque venire frainteso, e il pensiero di cui si fa contingentemente portatore scambiato per un assunto definitivo dell’ideologia di chi al personaggio sta dietro, lo scrittore. Il caso dei due – uno portavoce dell’ortodossìa, l’altro eterodosso – è delicato103. L’eliminazione della battuta di Lupo Rosso a proposito di Mancino e dei trozkisti suoi pari dissipa l’alone sinistro che finiva per avvolgerlo rendendolo singolarmente disumano e fanatico, così estremizzato da diventare quasi la caricatura della positività stessa. La posizione ideologica calviniana convogliata in questo personaggio (come con Mancino, raf- figurato negativamente) è complessa: deve far capire l’impraticabilità dei colpi di testa politici e delle retoriche senza cadere in polemiche dirette, o peggio fare apparire eterodossi i portatori dei valori espliciti del romanzo (l’avventuroso Lupo Rosso è, nonostante tutto, uno di questi, con la sentinella sovietica Aleksjei e i commissari Ferriera e Kim). Coi suoi giudizi lapidari, però, Lupo Rosso sembra soffrire della medesima malattia di cui è affetto Mancino. Il ragazzo è eroico, leggen- dario («Lupo Rosso! e chi non ha sentito parlare?» III 49 ) ma narrativamente meccanico nelle sue uscite, da Calvino fatte di frasi preconfezionate (prima nell’invito a Pin a non mescolarsi con i detenuti comuni in prigione, perchè «proletari senza coscienza di classe»; poi negli slogan leninia- ni gettati contro Mancino, il cui estremismo è, appunto, «malattia infantile del comunismo»; o infine con la necessità di «inchiodare la borghesia alle sue responsabilita» finita la guerra ) di cui

103 Nelle pagine che seguono vedremo più da vicino la strategia correttiva per i personaggi e infine analizzeremo la possibile “storia” di Mancino stesso, la sua involuzione da carattere vagamente già presentato nel racconto La stessa cosa del sangue, ancora inedito al momento della composizione del Sentiero.

280 non sa spiegare i significati metaforici (per lui, fors’anche, letterali: «– Come? – dice Pin. – Così. Inchiodiamo la borghesia alle sue responsabilità. Me l’ha spiegato il commissario di brigata»). Diventa assai simile – sul versante eroico, e retorico – al cuoco. Tuttavia, per quanto Calvino per- metta che le schermaglie tra Pin e Lupo Rosso possano aver un valore quasi da parodia formale dell’eroe positivo, e che apparentemente risultino in una provvisoria parificazione dei due perso- naggi (gli unici non adulti), tutti appunto storti ma “attivi”, dedicati al combattimento per la causa resistenziale, esse non mettono mai in questione i contenuti. Il diretto antagonismo ideologico di Lupo Rosso e Mancino è capitale per il tipo di fruizione che si vuol del Sentiero, per il pubblico dei suoi lettori nel 1947, per le posizioni storiche, cioè, di ancor viva attualità di cui il romanzo si fa raffiguratore. Coi suoi discorsi e i suoi slogan, Lupo Rosso, al contrario di Mancino, si concentra ortodossamente sul valore e sull’importanza primaria della lotta anti-tedesca della guerriglia par- tigiana, lasciando in controluce i suoi pensieri sul dopoguerra (che saranno svolti tra interrogativi e qualche proposta soluzione da Kim nel IX capitolo). Lanciato il macigno (narrativo) del trozkismo come portatore di divisione nei distaccamenti garibaldini, Calvino prova poi a ritirare la mano (con certe cassature). La cancellazione della battu- ta sull’eliminazione fisica dei trozkisti diviene necessaria. Nel ritratto delle discussioni tra parti- giani, nonostante la presenza dell’occhio infantile (e infantilizzatore) di Pin, Calvino punta il dito su un aspetto lacerante, di divisione interna, dell’esperienza garibaldina. Mancino, dal canto suo, con i suoi discorsi poco pragmatici di lotta anticlericale e di rivoluzione proletaria, viene conseguentemente depennato:

– Senti, Babeuf? t’han paragonato a un prete – dice Mancino – Gli insegnerò a beccargli i preti, quando scenderemo. – Insegnagli a beccare i tedeschi ora, piuttosto – fa il Cugino. – Perchè, che credi? Che una volta cacciati i tedeschi sia finita? È allora che comincia, caro mio! – Ben, intanto finiamola con questi al piu presto, poi ne riparleremo (VI 39,31).

Per bocca di Lupo Rosso prima e qui di Cugino, Calvino punta il dito conto un pericoloso dibattito (contemporneo alla scrittura del libro), il sentimento che dopo la sconfitta tedesca inizi la “vera” guerra, la guerra di classe. Con l’eliminazione dei due lacerti si eliminano assieme le possi- bilità di scivolare nelle polemiche attuali, in cui da una parte lo schieramento comunista (di cui Calvino fa parte) viene attaccato in quanto “traditore” della causa rivoluzionaria perchè adesso al governo coi moderati, mentre dall’altra è considerato inaffidabile perchè al suo interno sono anco- ra presenti posizioni massimaliste. Un’articolo su «La Rinascita» di Felice Platone, Il trotziskmo contro la democrazia, del 9 settembre 1946, riassume benissimo questo “scoglio”:

281 […] che cosa propongono di sostituire i trotzkisti, alla lotta per la democrazia e contro il fascismo? Nulla, all’infuori di una ipotetica e attualmente impossibile insurrezione proletaria. […] Vi sono […] gruppi trotkisti che non rinnegano la lotta partigiana e l’insurrezione nazionale, che distinguono tra fascismo e democrazia, che prendono posizione nelle lotte elettorali, che non si pronunciano apertamente contro l’unità e contro le lotte sindacali, che non diffamano apertamente l’Unione Sovietica, ma concentrano il fuoco sul punto più delicato della nostra azione politica, sulla nostra partecipazione al governo, sulla nostra collaborazione con gli altri partiti democratici e cioè sullo sforzo di assicurare alla classe operaia l’alleanza di tutti gli strati progressivi della popolazione, e quindi sul carattere nazionale della nostra politica. […[ I tentativi di far ricadere la classe operaia nell’infantilismo estremista devono essere sventati. L’esperienza del passato deve insegnare che l’estremismo è sinonimo di impotenza e di sconfitta (p. 214).

Il problema del trozkismo (leggi: dell’estremismo politico tra le fila dei membri del Partito co- munista, cui Calvino appartiene) è ancora vivo quando Calvino scrive il libro ed è vivissimo quan- do opera le correzioni (se la datazione ad quern del 12 giugno 1947 può risultare attendibile). Nei mesi tra la conclusione del romanzo e il Riccione giungeva al pettine quello che è ben descritto nel libro, fuori dai denti: il nodo dell’ambiguità, sentita durante la lotta partigiana, nelle formazioni garibaldine, tra l’inchiodare la borghesia alle sue responsabilità, tra il fare i soviet (come annuncia Mancino a ogni piè sospinto), e la lotta parlamentare pragmatica senza impennate rivoluzionarie per una democrazia progressiva popolare, con la partecipazione dei partiti della sinistra (del PCI, in primo luogo), al governo boghese. Nei mesi dell’estate del ’46, inoltre, si assiste anche al ritorno dei partigiani in montagna, a seguito delle amnistie concesse (da Togliatti, ministro della Giustizia) e dall’involuzione in senso antipopolare delle politiche economiche di Epicarmo Corbino, che com- primono la capacità d’acquisto e di rinnovato benessere delle «masse lavoratrici». Il pericolo di «opposizione aprioristica», di «convulsioni disordinate» (illegali) è di nuovo sottolineato da Felice Platone, che conviene rileggere per dare un senso a questa difficile congiuntura storica. Platone ripercorre il problema nato dalle file partigiane e tradotto adesso nell’agitazione verso forme insurrezionali, che egli imputa alla sinistra radicale, la quale, «approfittando delle difficili condizioni delle masse lavoratrici» nel «quadro dell’attuale situazione politica italiana» rifiutereb- be inevitabili compromessi, «le forze che si muovono fuori dell’orbita della democrazia, sul terre- no di una opposizione aprioristica a ogni tentativo di edificare una nuova democrazia»:

[…] ci sarebbe da stupirsi se non si tentasse da varie parti e con tutti i mezzi di spingere alla disperazione la grande massa dei lavoratori italiani, di creare per i lavoratori condizioni di vita insopportabili, di offenderne senza ritegno i più profondi sentimenti di giustizia, di eccitarli a convulsioni disordinate, sterili e demoralizzanti, – in una parola, di allontanarli dalla via della lotta organizzata, disciplinata e costruttiva, dell’azione unitaria. […] non può sorprendere che sotto l’assillo dei problemi della vita quotidiana, di fronte agli ostacoli che si frappongono alla soluzione dei problemi economici fondamentali

282 e di fronte a ingiustizie che gridano vendetta e sono altrettante sfide lanciate al popolo e altrettanti incitamenti alla ribellione, si sviluppino tendenze ad abbandonare le forme della lotta organizzata e a ricorrere invece a forme di lotta più elementari, a un ribellismo spontaneo e primitivo» «la prima grande lotta del popolo italiano […] è stata la lotta partigiana, nella quale i problemi si risolvevano con le armi in pugno e con l’insurrezione armata e nella quale il popolo sentiva di poter appagare direttamente il proprio bisogno di giustizia e libertà. Tale è il terreno sul quale il trotzkismo e altre forme di provocazione organizzano le loro macchinazioni (p. 212).

Si palesava, insomma, col puntare al problema nato in ambito partigiano, l’ambiguità del PCI della Resistenza, quella “doppiezza” mantenuta tatticamente tra la speranza della rivoluzione co- munista (che aveva guidato, entusiasmato e fatto partecipi vasti strati popolari alla lotta partigia- na) e l’inevitabile svolta più moderata, la “cooptazione” ai valori delle democrazie occidentali borghesi. La scelta di campo operata dal Sentiero è inequivocabile, e legalitaria, pur nella comples- sità delle posizioni dei personaggi, ed è enunciata dal commissario politico Kim, che si fa portavo- ce delle irrequietudini del ’46: «Cosa faranno i partigiani “dopo”, per esempio? Riconosceranno nell’ltalia del dopoguerra qualcosa fatta per loro? Capiranno il sistema che si dovrà usare allora per continuare la nostra lotta, la lunga lotta sempre diversa del riscatto umano? (IX157, sottolineatu- ra nostra)». Il discorso di Kim riechieggia le note preoccupate di Platone, il quale, nonostante l’at- tacco alla sinistra radicale, spina nel fianco del PCI, ribadisce il (necessario) sentimento dell’utilità e dell’imprescindibilità della lotta avvenuta, di cui ricorda punto per punto le conquiste:

[…] non si pùo escludere che sotto il peso delle loro miserie e delle loro sofferenze, davanti allo spettacolo dell’impunità e dei privilegi di cui continuano a godere molti responsabili della nostra rovina, nell’incertezza del domani, molti lavoratori incomincino a chiedersi: «Valeva la pena di combattere? Valeva la pena di sacrificarsi?». A poco a poco la memoria delle terribili sofferenze di ieri si attenua sotto la cocente impressione delle sofferenze di oggi ed appunto in questo sperano i trotzkisti […]. Nella guerra di liberazione, se non altro, i lavoratori hanno conquistato con la loro battaglia la possibilità di organizzarsi, di lottare, di sostenere pubblicamente le loro rivendicazioni, di riunirsi, di sviluppare la loro coscienza politica e il loro spirito di organizzazione, di solidarietà e di disciplina, di addestrarsi a misurare le loro forze e quelle dell’avversario, di eleggere i loro dirigenti e i loro rappresentanti e di controllarne l’operato, di difendersi, di attaccare; in una parola si sono salvati dal pericolo mortale di ricadere nella schiavitù fascista, nell’impotenza, nell’impossibilità di difendere anche quel poco pane che è loro concesso. Per quanto grandi siano gli ostacoli che essi incontrano sul loro cammino, per quanto dolorosa sia la lentezza con la quale evolve la situazione, oggi, gli operai, i lavoratori hanno nelle loro mani gli strumenti della loro salvezza (p. 213).

La «lunga lotta sempre diversa» richiamata da Kim passa attraverso vie parlamentari e appun- to legaritarie, secondo la strategia delineata con la “svolta di Salerno” del 1944 dal PCI di Togliatti, in cui l’obiettivo primario di lotta è la vittoria militare e morale sulle forze nazifasciste e l’accanto-

283 namento degli obiettivi di lotta di classe rivoluzionaria, per l’unità delle forze antifasciste. Alla stesura del romanzo (agosto – dicembre 1946), in un momento storico, cioè, in cui c’erano i prodro- mi della rottura dello schieramento antifascista al governo (fine 1946) o quando già la rottura si era consumata (al maggio 1947), anche solo “raccontare” la presenza nello schieramento comunista (purchè fittizio, purchè narrativo) di elementi centrifughi e destabilizzanti, riconosciuti dagli av- versari come la vera “base” popolare del partito, significava squalificare il PCI come il partito della legalità e della ricostruzione, partito della responsabilità come descritto da Togliatti:

Noi siamo il partito dell’unità. Unità della classe operaia, unità delle forze antifasciste, unità di tutta la nazione nella guerra contro la Germania hitleriana e contro i traditori al suo servizio. Noi siamo il partito a cui spetta in prima linea sventare le manovre, da qualunque parte esse vengano, per spezzare l’unità, di cui abbiamo bisogno per poterci salvare. Contro i nemici dell “unità mettiamo in guardia i partiti, le organizzazioni, tutto il paese».104

E ancora:

L’offensiva contro di noi […] tendeva a ridurci a un gruppo di scalmanati, che si buttasse sulla strada per protestare, o per conquistare con azioni dirette chi lo sa quali vantaggi. Noi resistemmo […]. Cadere nell’opportunismo sarebbe stata una capitolazione; cadere in un estremismo di parole sarebbe stato rinunciare a quella lotta che noi prevedevamo lunga e faticosa, per trasfomare il tessuto dello Stato e della società italiana, per far accedere alla direzione di questa societa una nuova c1asse dirigente».105

La “svolta” della partecipazione al governo aveva infatti sorpreso «i gruppi estremisti e settari che, per le condizioni stesse in cui si era svolta la lotta clandestina in Italia, non mancavano certa- mente. Dinanzi all’accusa di “non essere rivoluzionari” perche si partecipava al governo, Togliatti fece rilevare [… ] che “rivoluzionario non è colui che grida e si agita di più, ma colui che concretamente si adopra per risolvere i compiti che la storia pone ai popoli e alle classi, e che essi devono assolvere se vogliono aprire il cammino allo sviluppo della civiltà umana “« [corsivo nostro].106 Il commento

104 P. T OGLIATTI, Che cosa deve essere il Partito Comunista, «La Rinascita», a. I, n. 1, giugno 1944, p. 21. 105 P. T OGLIATTI, in C. PILLON, I comunisti nella storia d’Italia, II, Roma, Edizioni del Calendario, 1961, pp. 945-946. 106 P. T OGLIATTI, in AA.VV., Palmiro Togliatti. Cinquant’anni nella storia delll “Italia e del mondo, Roma, Editrice L’Uni- ta, 1965 s. n. p. , edizione fuori commercio). A questo proposito, su Togliatti vi è un’importante testimonianza di Calvino (nello stesso volume citato): «La presenza di Togliatti ha contato molto nella formazione della no- stra generazione. Quando avevamo vent’anni, l’idea di rivoluzione si è legata al suo stile argomentato, alla sua saggezza, alla sua forza equilibrata, al suo appartenere a una tradizione culturale vasta e antica. Questo incon- tro ha marcato profondamente il nostro rapporto con la storia». Si cfr. anche la voce PCI, pp. 207-210, in D. SCARPA, Italo Calvino, cit., e P. SPRIANO, Un Calvino rivoluzionario, in ID., Le passioni di un decennio (1946-1956), cit. L’analisi più penetrante per i dibattiti politico-culturali di questo periodo è però in B. PISCHEDDA, Due modernità. Le pagine culturali dell’«Unità»: 1945-1956, Milano, Franco Angeli, 1995, in ispecie il capitolo Una finestra sul mondo di ieri, pp. 15-27 e Dopo la Resistenza, prima della guerra fredda, pp. 29-56. Ma si cfr. anche pp. 69- 70, su Ferrata lettore di Calvino.

284 togliattiano – a testimonianza della sintonia ideologica di Calvino potrebbe essere applicato alla figura del cuoco estremista. E sulla sintonia delle posizioni espresse (e condannate) nel romanzo, si confronti ancora la pubblicistica dell’epoca, in ispecie per l’atteggiamento linguistico, che Calvino sintetizza nei personaggi: «Costoro [i troschisti, ndr.] strillano che bisogna far1a finita con 1a demo- crazia, che la democrazia è la stessa cosa del fascismo. Costoro dicono che bisogna fare 1a rivolu- zione proletaria, che ci vuole la dittatura del proletariato»107. L’«arma della demagogia», il «tradi- mento più infame», il «frasario pseudo-rivoluzionario, massimalista, estremista» è imputato da Secchia alla pubblicistica troschista e bordighiana (fogli propagandistici come «Prometeo» e «Stel- la Rossa»). Il linguaggio usato da Mancino è all’altezza di queste accuse108. A rigore, l’accanimento anti-trozkista dello scrittore si rileva anche nella recensione al volume anti-stalinista Lo yoghi e il commissario di Arthur Koestler, pubblicato da Bompiani nel 1947, di cui Calvino si occupa sulla sua rubrica fissa «Gente nel tempo», su «L’Unità». Tra le selezioni riappar- se nei volumi di Saggi che riprendono anche la prima produzione su riviste, periodici e quotidiani, questa recensione non viene accolta, omettendo un esempio linguisticamente lampante dello “sta- linismo” giornalistico calviniano . Riportiamo qui il brano anti-trozkista della recensione 1947 [sot- tolinature nostre]:

Ma si sa che il modo migliore per criticare i comunisti è quello di inventarsi un determinato tipo di comunista con tutti i difetti immaginabili e possibili e sfogarsi a dir di lui tutto il male che si può. […] Certo sui comunisti Koestler dovrebbe saperla lunga perchè è stato nell’URSS, è diventato comunista, poi ha avuto una crisi spirituale ed è passato al trotzkismo e alla propaganda antisovietica: tutte le carte in regola insomma. Però non ha capito niente, nè prima nè dopo. Va bene che i comunisti che ha conosciuti si chiamavano Bucharin e compagni, e non eran certo i più adatti a schiarirgli le idee, ma è veramente curioso vedere come un intellettuale della decadenza borghese, di fronte alla manifestazione di moralità nuova, pretenda di comprenderla con gli strumenti della propria moralità in disgregazione. Koestler ha preteso di spiegare la moralità comunista con un pasticcio di psicanalisi maldigerita e di misticismi irrazionalistici di seconda mano: ne è uscito fuori che i comunisti sono «senza cordone ombelicale», «senza senso oceanico», e che han fatto loro il principio machiavellico del «fine che giustifica i mezzi». (Proprio i comunisti che sanno che non c’è scelta di mezzi e che in ogni occasione si presenta un solo mezzo per operare nell’interesse dell’umanità).

Il Sentiero, dunque, quando letto nel quadro dei fogli partigiani e dei giornali comunisti dell’epoca, riverbera di voci e di posizioni politiche e di dibattiti che il testo prende di petto, apparentemente

107 P. S ECCHIA, Il “sinistrismo”, maschera della Gestapo, da «La nostra lotta», n.6, dicembre 1943, ora in ID. I comunisti e l’insurrezione (1943-1945), Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1952 pp. 56-66. 108 «L’Unità», a.XXIV, n. 300, 23 dicembre 1947 che sarà poi discusso da Calvino stesso nell’articolo di «La Repub- blica» Sono stato stalinista anch’io? del 1979, ora a pp. 2835-2842 dei Saggi citati, in cui il nome di Koestler pure fa capolino e positivo: «perfino Koestler che aveva scritto il libro più impressionante sull’argomento peccava d’ottimismo», p. 2838).

285 nascosti sotto la copertura del punto di vista di Pin, e di cui talune correzioni cambiano la natura. La congiuntura storica della scrittura del libro (estate-dicembre1946) e gli argomenti trattati si riallacciano ad un quadro d’attualità sempre piu bruciante. II Sentiero, pur con la sua durezza gridata, le sue mac- chiette, etc., voleva davvero restituire la discussione sul significato della Resistenza, di cos’erano state le molte “resistenze” in pericolo nelle congiunture dell’oggi, dell’hic e nunc di una ricostruzione economi- ca e morale del paese lenta e tormentata; ma il pericoloso versante della polemica interna allo schiera- mento comunista poteva porgere il destro a letture distorte, strumentali. Per questo spariscono nel Sentiero gli accenni alle istanze estremiste della base comunista, altrimenti presenti, indubitabili e, per lo stesso partito, preoccupanti, che in quei mesi potevano essere assai male interpretate pur nel fittizio “ritratto” retrospettivo di un romanzo di guerra partigiana. Per la situazione politica al maggio 1947, si veda infatti il documento firmato dal Comitato centrale comunista il 31 maggio, all’indomani cioè della costituzione del IV ministero De Gasperi, il primo a spezzare la solida- rietà nazionale postbellica, con il PCI costretto all’opposizione politica:

Ad opera di determinati organi del ministero degli Interni sono state diffuse voci allarmistiche circa pretesi e assurdi propositi di ricorso alla violenza e di forme di lotta insurrezionale che esisterebbero nel partito comunista a seguito alla soluzione antidemocratica che è stata data alla crisi di governo. […] I comunisti respingono quelle forme di lotta che creerebbero nel corpo della nazione fratture insuperabili e denunciano come una provocazione l’azione di tutti coloro i quali contribuiscono in qualsiasi modo a dar loro anche solo una parvenza di giustificazione.109

L’analisi del personaggio di Mancino, via le correzioni riccionesi, ci porta sul territorio dei racconti, e in particolare su La stessa cosa del sangue, da cui la figura viene ritagliata e adattata al nuovo contesto. Il ruolo del «troschista» (dell’agitatore di “parole”), come vedremo, servirà da catalizzatore narrativo di alcuni temi del Sentiero discussi tra il capitolo VIII e IX, e si ritaglia quindi una parte non inessenziale, sia dal punto di vista strutturale (per gli snodi del testo) che ideologico. Rivela apertamente, inoltre, la strategia di riutilizzazione dei materiali coevi (o comunque già scritti e per ora inediti) da parte di un Calvino alle prese con la scrittura del romanzo, e quindi vale la pena di seguirne gli addentellati110. Mancino trova la sua matrice nel racconto La stessa cosa del sangue111, nel personaggio di un anonimo «comunista» che con la propria saggezza e il proprio esempio provvede lo scatto all’“impegno” nella

109 C. PILLON, I comunisti nella storia d’Italia, cit., p. 945. Si cfr. anche S. MORGAN, War, civil war and the problem of violence in Calvino and Pavese, in AA.VV., European memories of the Second World war, a c. di H. Peitsch, C.Burdett, C.Gorrara, New York, Berghahn, 1999, p. 67-77. 110 Di questi imprestiti interni aveva già accennato G. FALASCHI nell’importante capitolo dedicato a Italo Calvino degli esordi, in La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., pp. 109-110. 111 Le citazioni tratte da questo racconto (di cui si darà il numero di pagina a seguito della citazione) provengono da Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949.

286 lotta armata del protagonista (autobiografico) disertore (e imboscato). È, insomma, per la narrativa calviniana, uno dei pochi personaggi “positivi”, che all’atto di scrivere il romanzo, per partito preso, viene rovesciato in una figura polemicamente inattendibile112. Nello scambio dei due si assiste a un

112 La provenienza di Mancino dall’anonimo comunista si regge sul ritratto fisico, anche se appena accennato («Il comunista era un uomo basso, con una grossa testa calva», p. 102), complicato da richiami al partigiano comu- nista Michele di Attesa della morte in un albergo (in Ultimo viene il corvo, cit., di cui si dà la pagina citata a seguito della citazione) anche lui dalla «grossa testa calva» «un povero uomo basso e calvo» (p. 115), con l’accompa- gnamento e la prosecuzione nel romanzo, armi e bagagli, degli attributi emblematici dei due, vale a dire, da una parte, la moglie e il falchetto, dall’altra il carattere difficile, spigoloso («un compagno anziano, Michele, un brav’uomo, pur con tutti i suoi difetti; non molto coraggioso, non molto in linea col partito. Spesso avevano litigato, per quella mania di sputar sentenze e di voler sempre ragione, con la sua prosopopea d’autodidatta», p. 114). Il ritratto di Mancino è già stato abbozzato. La virata manichea a cui il comunista soggiace nella riela- borazione romanzesca è lampante, e indica come il rovesciamento, l’estremizzazione degli attributi e delle funzioni dei personaggi originali sia fatto per partito preso, come metodo pregiudiziale. Al degradamento si arriva anche per vie più traverse e apparentemente innocenti, immergendo la storia in alone magici che tramu- tano gli uomini in gnomi ridicoli, in elfi o folletti dei boschi. D’accordo col più tipico ricettario fiabesco Calvino mette in fila l’immancabile «casetta» isolata, dimora di chi sa quale eremita o orco o misteriosa confraternita, e un «omino» non meglio identificato, che balla attorno attorno al fuoco e cantilena con una «vocetta chioccia»: «Intanto sono arrivati a una radura del bosco, dov’è un casolare di quelli in cui s’affumicano le castagne. […]dal casolare esce un omino con un sacco. Vede loro che arrivano, butta il sacco per terra e comincia a battere le mani: -Olà! Ciao, Cugino! Quest’oggi è giornata di musica!- esclama con una vocetta chioccia. (V 81)»; «È un omino col giubotto da marinaio e con un cappuccio di pelo di coniglio sul cranio calvo; Pin pensa che sia uno gnomo che abita in quella casetta in mezzo al bosco (V 82)»; «Dev’essere bello anche starsene qui con questi due: a Pin piacerebbe fossero uno gnomo e sua moglie che vivono soli in quella casetta in mezzo al bosco e lui essere il loro figlio adottivo e parlare con le fate (V 87)». Il campionario fiabesco è vasto, ma chi non ricorda come esempi standard, assai vicini al nostro, il nano di Biancaneve e Rosarossa, o Tremotino, entrambe dei fratelli Grimm? Sulla soglia del capitolo V, all’incipit dell’avventura partigiana, si affastellano numerosissimi, fors’an- che troppo espliciti (nota sulle cassature), riferimenti fiabeschi, ma il contesto denso di topoi classici è ben presto travolto dalla piega straniante che prende la narrazione. Il linguaggio dello gnomo ha da essere un linguaggio da iniziati, misterioso; ebbene, Mancino segue la regola e contemporaneamente la trasgredisce: invece che incantamenti lancia proclami politici, che per Pin, tuttavia, hanno il medesimo effetto di formule magiche: «Pin se la gode un mondo: qui si trova nel suo. […] Qui è tutto molto più bello: in mezzo al bosco, coll’accompagnamento degli spari, e con parole nuove e colorate: troschista, menscevica» (V 89). La trasforma- zione magica di Mancino visto da Pin chiude il cerchio involutivo del personaggio del comunista: se ne rimpic- cioliscono i connotati fino al grottesco, fino all’identificazione caricaturale con un’inoffensiva e spaccona crea- tura dei boschi, immersa in un’atmosfera maligna e cattiva, tutta ghigni e risatine agre. La raffigurazione saltellante, la «vocetta chioccia», segue la volontà di ridicolizzazione del cuoco fin dal suo mostrarsi in scena. L’“omino” poi si mostra qual è, inaffidabile, dall’aria «maligna e gracchiante». Il comunista di La stessa cosa del sangue, è vero, niente era più che «un ometto calvo con un vestito nero tutto stropicciato» (p. 103), ma là il contrasto andava a tutto guadagno del personaggio, che risaltava per la saggezza e le scelte di vita. Per Man- cino, ruolo e apparenze sono inscindibili. Il cuoco viene umiliato, strapazzato dall’autore sul piano umano in primis: Mancino «non sa ridere senza sghignazzare sempre più agro», «non va mai in azione e resta sempre accanto alle sue marmitte parlando della rivoluzione, con il falchetto tarpato e incattivito che starnazza sulla sua spalla» (VIII 126); è anche servile: «Mancino fa le feste come fosse un cane» (V 93) E il repertorio d’offese può continuare ad libitum: «-Va’a fare il cuoco!- gli gridano. –Sta attento che il riso non s’appiccichi anche stavolta! Ma Mancino è in piedi in mezzo a loro, piccolo e insaccato in quel suo giubbotto marinaio sporco sulle spalle di cacca di falchetto, e agita i pugni in un discorso che non finisce mai […]. E gli uomini mettono in mezzo il cuciniere, gli saltano a cavallina sulle piccole spalle curve, gli danno manate sulla grossa testa calva, mentre il falchetto Babeuf s’incattivisce e rotea gli occhi gialli» (VIII 133). L’offesa può giungere fino allo scon- tro fisico: «-Brucia il riso, vai che brucia il riso, non lo senti l’odore?- gridano gli uomini a Mancino mandando-

287 vero e proprio volontario contrappasso. Il “buon” comunista viene annichilito dalla carica estremi- sta del cuoco, in odore di trozkismo (pestilenza, questa, che già lo squalifica di per sé); in più, l’unico machine-gun di cui il nuovo personaggio si serve a ogni piè sospinto, la bocca, lo cala nel ruolo d’inviso sputasentenze (»Mancino è antipatico a tutti loro perchè sfoga la sua rabbia a parole e ragionamenti che non servono a nulla perché parla di nemici che non si conoscono, capitalisti, finanzieri», VIII 134), che lo sospinge alla squalifica e all’espulsione dal campo. La centralità didattica del personaggio del racconto, il quale ha la carica di un exemplum persua- sivo (»Era uno che conosceva il male e il bene della vita, vedeva tutto andar male ma sapeva che un giorno andrebbe meglio, era un operaio che aveva letto dei libri, un comunista», p.102)113 si rove- scia hic et simpliciter nell’inattendibilità di Mancino: ogni attributo altrimenti positivo, una volta recuperato nel romanzo, viene messo alla berlina dalla recitazione agitata del cuoco (il quale «si tormenta», «grida», «sbraita», «si torce le mani» mentre lancia i suoi slogans e fa comizi inascoltati). La fase didascalica di cui il comunista si fa portavoce nel racconto deve necessariamente essere capovolta nel Sentiero, una volta bandito ogni indizio di agiografica indulgenza su temi e eroi. Punto per punto sono controbattuti i temi “forti” da lui impersonati. Se in La stessa cosa del sangue veniva ribadita la possibilità di una conoscenza storica priva d’ambiguità in cui torti e ragioni fossero assegnati senza tentennamenti e la parte giusta, a lume della Storia, discernibile con evi- denza («conosceva il male e il bene della vita»), ottimisticamente orientata nella fiducia del sol del- l’avvenire («sapeva che un giorno andrebbe meglio»), cala adesso, per partito preso, implacabile, la cappa del dubbio e dell’inutilità dei ragionamenti. Valori resistenziali e comunismo diventano frasi vuote e gridate da un imbonitore. I ragionamenti «non servono a nulla». Il degradamento del personaggio originario è davvero profondo: la funzione pedagogica è spaz- zata via. Dalle discussioni su Lenin e Gorki (p.103 ) all’accusa di eterodossìa o peggio di tradimen- to, «l’operaio che aveva letto dei libri» (p.102), l’uomo che «si interessa a tutte le cose, al male e al bene del mondo, e ci ragiona sopra» (p.102) è ridotto alla caricatura. Il concentrato di propedeutica marxista-leninista che Mancino strilla nel corso del capitolo VIII, riveduto e corretto dall’eresia della rivoluzione permanente, sarebbe formalmente ineccepibile con la sua analisi della guerra se non fosse per il modo in cui ogni elemento proposto s’inserisce nella discussione: capitalismo bor-

lo via a spintoni» (VIII 134); «[…] s’ode un rombo e tutto il cielo è invaso da aeroplani. […] Si sentono dei tonfi cupi, a sud. –Niente paura!- grida il cuciniere. –Tanto peggio, tanto meglio! I ricchi saranno rovinati e i poveri faranno la rivoluzione! –Fotturo troschista!- gli gridano i compagni e lo mettono in mezzo seppellendolo di pugni» (VIII 139). 113 Del comunista si dice anche che «gli piaceva starsene seduto sui muri a parlare delle cose che si perdono nel mondo, del caffè che si brucia nel Brasile, dello zucchero che si butta in mare a Cuba, delle scatole di carne che marciscono nei docks di Chicago», discorsi che ritornano all’osso, come notato da Falaschi (cfr. pp. 109-110), nel Sentiero stesso –e che saranno poi eliminati da Calvino, dopo la pubblicazione di Ultimo viene il corvo, dalle edizioni successive del romanzo.

288 ghesia sfuttatrice imperialismo e sovrapproduzione sono gettati nel dibattito come nozioni morte, senza capo né coda, parole d’ordine per un indottrinamento astratto a presa rapida, senza la forza necessaria, però, di persuasione.

Mancino è poco discosto e si tormenta: sta girando il riso nella marmitta […]. Intanto a tratti gli arrivano frasi dei discorsi degli uomini: lui si vorrebbe trovare sempre in mezzo a loro quando parlano di politica perché non sanno niente e bisogna che lui spieghi loro tutto. Ma adesso non può lasciare la marmitta e si torce le mani facendo piccoli balzi: – Il capitalismo! – grida ogni tanto. – La borghesia sfruttatrice! – come per suggerirlo agli uomini che non vogliono starlo a sentire (VIII 131).

Dalla cucina arrivano i gridi di Mancino che sbraita: – Mussolini! La borghesia imperialista! […] Mancino, combattuto tra il dovere che lo trattiene alla marmitta e la voglia d’andare a parlare di rivoluzione, sbraita finchè non attira l’attenzione di Zena il Lungo […]. Mancino fa: – La borghesia imperialista, digli che è la borghesia che fa la guerra per la spartizione dei mercati! – Merda! – gli fa Zena e gli volta le spalle. I discorsi di Mancino l’annoiano sempre: non capisce quello che lui dice, non sa niente di borghesia e di comunismo […] (VIII 132).

Il rigetto politico assume forme peculiari in quanto i soggetti ideologici di per sè rimangono invariati e non subiscono attacchi sul campo. Non si entra mai nel merito delle argomentazioni storico-politiche di Mancino: esse vengono aprioristicamente rifiutate. Condivisibili o meno, è l’ef- fetto che esse producono sull’uditorio il punto rilevante. Non sono i contenuti quanto le forme, i modi in cui quei contenuti sono affrontati a gettare discredito sul cuoco. Mancino, burattino calviniano, esercita quindi la funzione del provocatore; provocatore squisi- tamente narrativo, s’intende. Calvino se ne serve per amplificare il meccanismo di straniamento che sta alla base della sua concezione del Sentiero come epica rovesciata eppure valida, dettata da personaggi negativi e spregevoli, i quali nonostante tutto, e con loro furore mirato a un bersaglio, e con le loro debolezze e contraddizioni irrisolte, combattono al pari degli eroi positivi della propa- ganda, con la medesima dignità, per costruirsi un nuovo domani. Nell’anticamera del capitolo IX l’accento deve essere posto sulle reazioni del “proletariato senza coscienza di classe”, sugli aspetti centrifughi delle analisi individuali dei personaggi. Mancino provoca, commenta, cerca d’interfe- rire nella discussione con un punto di vista di classe: inutile. Ma, strattagemma ideologico-struttu- rale, reclama la discussione teorica e l’ottiene.

Mancino chiama in causa il commissario: – Giacinto, commissario, non dici niente? Cosa ci stai a fare? Hanno ragione a dire che questo è il distaccamento dei fascisti, non si può nemmeno parlare di politica! […] Mancino si lagna con Giacinto che nel distaccamento nessuno parli mai agli uomini del perchè fanno il partigiano e di cos’è il comunismo (VIII 135).

289 Sono i suoi interventi a cuore aperto a far prendere una piega speciale a tutta la vicenda, a fare da cappello introduttivo alle speculazioni di Kim. Gli innesti ideologici accusati nel capitolo IX trova- no nell’VIII causa e cominciamento. Qui si attua la prima svolta esplicita della storia raccontata nel Sentiero, o meglio, la prima spiegazione della “cornice” che contiene Pin e le sue avventure:

A un certo punto cominciano i discorsi sulla guerra, su quando è cominciata e su chi l’ha voluta, e su quando finirà e se si starà meglio o peggio di prima. Sono discorsi che non durano a lungo perchè a pochi degli uomini piace discutere e ragionare: tanto non si risolve mai niente ed è meglio stare attenti a non farsi sparare e a procurarsi delle armi e cercare di sparare agli altri, senza tanti ragionamenti (VIII 129, corsivo nostro).

Viene introdotta la dicotomia tra il “fare” e “il ragionare”, tra teoria e prassi, che già era stata argomento centrale dei Fratelli di Capo Nero e che sarà recuperata da Amore lontano da casa, come discusso precedentemente. La persuasione troppo intellettuale – ergo, non concreta – del marmitto- ne saputello non può agire sui suoi compagni (giustamente, Zena «gli volta le spalle», dal momento che «non capisce» le parole del cuoco, «non sa niente di borghesia» e, fondamentale, non sa niente neppure «di comunismo»). A conferma della centralità di La stessa cosa del sangue per lo sviluppo ideologico del romanzo, anche la happy family del comunista del racconto non si sottrae alla degradazione. Il rifugio collinare quieto e sicuro di La stessa cosa del sangue viene bruscamente capovolto nell’inferno domestico di Mancino, alle prese con i tradimenti della moglie114 e l’agitazione starnazzante del falco, odiatissi- mo dal distaccamento. La simbologia del falco s’accampa al centro della scena: la mascotte che nel racconto costituiva la garanzia dell’epicità della guerra («Il falco del comunista, Langàn, preso sui monti in primavera, ricordo del grande accampamento di Langan, favoloso nella memoria dei vecchi partigiani, della grande battaglia perduta nel luglio» p.102), è ora trasformata in «un uccellaccio» di nome Babeuf, «che starnazza con le ali tarpate, tenuto con una catenella per una zampa, come fosse un pappagallo», «una mascotte che porta scarogna più d’un prete» (V 84). Dall’epico nome-monu- mento di una battaglia, il falco passa alla più prosaica e unilaterale indicazione di militanza politica, l’estremismo di un Caio Gracco Babeuf protagonista indimenticato della «Congiura degli Eguali». La battesimazione del falchetto risponde sintomaticamente agli auspici del padrone, tutto preso dalla visione esclusivista della storia come lotta di classe, approdante per necessità alla dittatura del proletariato. La degradazione narrativa in “falco-pappagallo” è la diretta conseguenza di questo

114 Anch’essa presa dal racconto, e rovesciata a centoottanta gradi per il romanzo. Si cfr. G. FALASCHI, La resistenza armata nella letteratura italiana, cit., pp. 109-110.

290 furore ideologico: squalificato il cuoco coi suoi estremismi, sono squalificati di rimando i suoi em- blemi115. Del resto, le caratteristiche metonimiche del falchetto (i reiterati “starnazzamenti”, il dare «in ismanie», il muso «triste e incattivito», i “gridi”, i quali costituiscono il correlativo delle tiritere e degli atteggiamenti di Mancino) lo preparano a raccogliere gli sfoghi degli uomini del distacca- mento; diventa, come il padrone, ricettacolo del loro odio: «Babeuf! Devo dare da mangiare a Ba- beuf! – fa Mancino […]. Allora tutti gli uomini si rivoltano contro di lui e contro la bestia, sembra che vogliano riversare tutto il loro rancore contro qualcosa di determinato» (X 164). La concretezza del loro bersaglio misura ancora una volta lo scarto tra chi «sfoga la sua rabbia» astrattamente, «a parole», contro «nemici che non si conoscono» (VIII 134) e chi individua in perso- naggi reali, quotidiani, vicini, pericolosamente vicini, l’obiettivo da combattere. Adessono servono i fatti, i fatti delle armi, servono gli spari contro un nemico che si vede e che si conosce. Gli estremi- smi, le fumisterie non pagano, vanno rifiutati e condannati. Con Mancino (e Babeuf, che ne rappresenta l’interposta persona e, più d’una volta, fornisce il casus belli al distaccamento) si dà l’affondo al personaggio “positivo” propositore d’ideali: «Non puoi parlare di ideali: patria, libertà, comunismo. Non ne vogliono sentier parlare di ideali, gli ideali son tutti buoni ad averli, anche dall’altra parte ne hanno di ideali. Vedi cosa succede quando quel cuoco estremista comincia le sue prediche? Gli gridano contro, lo prendono a botte. Non hanno bisogno di ideali, di miti, di evviva da gridare» (IX 148), spiegherà il deus ex-machina Kim al perplesso Ferriera. Il riscatto individuale si conquista sul campo, impegnandosi sul piano dell’azione e non del- l’idealità. È tempo di uccidere o essere uccisi, non d’imboscarsi nei discorsi, siano essi giusti o no. E «la democrazia, il comunismo», le «storie di rivoluzioni» sono «cose utili anche a sapersi», ma che c’è «tempo a imparare dopo, finita la guerra» (p.104).

115 Babeuf corrisponde a Mancino anche sul piano strettamente simbolico. Si pensi alla sua liquidazione “visiva”, oltre che fisica, perentoriamente chiesta (e ottenuta) da Dritto, sul punto di conquistarsi i favori di Giglia : «Su un roveto, a pochi passi da loro, c’è il falchetto stecchito, impigliato per le ali. -Via. Via quella carogna,- dice, - non lo voglio più vedere! / Lo prende per un’ala e lo tira lontano, nei rododendri: Babeuf plana come forse non ha mai fatto in vita. Giglia gli ha fermato il braccio: -No, povero Babeuf! /-Via!- / Il Dritto è pallido d’ira, -Non voglio più vederlo! vallo a sotterrare! Pin: vallo a sotterrare, prendi la vanga e sotterralo, Pin!» (X 174). La presenza di Babeuf, da sola, ne evoca il proprietario.

291 5. Le varianti alla battaglia del Sentiero (c.86v-87r.)

5.1. Una riscrittura complicata La variante più significativa sul testo riccionese si trova alla c.87, il breve flashback della batta- glia che apre il capitolo XI. L’intervento correttorio prende di mira una delle funzioni narrative più presenti della letteratura resistenziale, il topos della battaglia e dell’assalto partigiano, che ne costi- tuisce il nucleo epico, e che Calvino sente come potenzialmente pericoloso per l’integrità anti- retorica e anti-eroica del romanzo. Non si tratta soltanto di operare una irrelata «riscrittura in chia- ve piu marcatamente lirica»116, come se essa, nell’organismo testuale, facesse parte a se (o se qui Calvino indulgesse in quel lirismo o psicologismo tanto rinnegato in seguito nella sua opera). L’episodio non è mai stato un riempitivo, nemmeno allo stato più grezzo, una concessione “di genere” ad un genere come quello del racconto resistenziale troppo spesso tradito da Calvino nei suoi codici convenzionali di scrittura. La correzione risponde ad un’esigenza interna di consequenzialità e di adeguamento stilistico (che subito, come si vedrà, diventa ideologico) che il testo reclama per sua coerenza: è un rifaci- mento che scardina in tutto le sue coordinate d’origine e non un semplice restauro accentuativo degli elementi “lirici”. Si tratta, innanzitutto, dell’intervento piu cospicuo dell’intero dattiloscritto; non solo per ragio- ni d’estensione (occupa dieci righe), ma perchè multiplo. A partire dalla riga 14 fino alla 23 di c.87 si assiste ad un tentativo manoscritto di riscrittura interlineare del brano. La riscrittura presenta a sua volta alcune correzioni che la rendono a tratti poco leggibile e, allungandosi nella nuova ver- sione, finisce per occupare piu spazio della corrispondente lezione originale, causando uno scom- penso tra le parti da mutare coll’interlineare e il testo successivo e ancor valido. Per necessità di chiarezza (il dattiloscritto doveva essere una copia in pulito), Calvino è stato costretto a sospende- re la riscrittura interlineare e ha cassato il brano sottoposto ai cambiamenti nella sua interezza, con barratura obliqua. Un asterisco posto nel punto coincidente con l’inizio delle correzioni, alla riga 14, rimanda il lettore alla pagina a fronte, la c.86v, su cui e riportata la versione definitiva, con ancora qualche minimo ripensamento, ma di lettura ben più agevole. Il raffronto di queste due lezioni (l’interlineare di c.87 e la c.86v) mostra però una sostanziale divergenza stilistico-narrativa. Il testo a fronte non è la semplice copia (la bella copia) dell’interline- are. Il dattiloscritto permette allora di seguire un interessantissimo work in progress che investe pienamente l’aspetto tecnico di sistemazione e rielaborazione dei materiali narrativi.

116 B. FALCETTO, Il sentiero dei nidi di ragni, in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., p. 1249.

292 Tre le fasi di stesura da discutere: 1) l’originale dattiloscritta di c.87, non turbata al momento della trascrizione da varianti esse stesse dattiloscritte (testimone pertanto di una sua compiutezza e accettabilita interne al sistema narrativo calviniano, la cui correzione è indice di un ripensamento tardivo); 2) la manoscritta interlineare di c.87, incompiuta, determinata dalla ri-lettura, che rove- scia profondamente la strategia narrativa del brano; 3) la manoscritta di c.86v che muta di nuovo la prospettiva dell “episodio, palesando sincronicamente l’insoddisfazione creativa dell’autore nei confronti della precedente interlineare. Secondo il disegno della trama, la battaglia annunciata fin dal capitolo IX deve rimanere quasi fuori scena, sullo sfondo (cosi come accadrà nel X), vissuta da un personaggio il cui punto di vista sia per definizione esterno agli avvenimenti, tale che l’elemento epico (o sentimentale, spesso con- siderato “retorico”) resti in sordina, confinato ai margini. La totale eliminazione del flash-back sa- rebbe stata la scelta più drastica per evitare qualsiasi pericolo. Il suo inserimento di sguincio all’in- terno del romanzo, tuttavia, risponde soltanto a una concessione che Calvino fa ai codici del rac- conto di guerra. come vedremo in seguito. La scelta di procedere con un resoconto riassuntivo della battaglia (oggettivo, cronachistico, distaccato) fallisce sin dall’inizio: la lezione dattiloscritta originale che apre la c.87 rappresenta una zeppa, una forte cesura nell’organizzazione formale dell’episodio di ritirata. Dalla concitazione conclusiva del X capitolo che, dopo aver indugiato sugli amori illeciti del comandare partigiano imboscato Dritto e di Giglia, la moglie del cuciniere, aveva annunciato l’at- tacco per bocca di Pin (« – La battaglia! Dritto! Sparano! La battaglia!»), I’XI era passato ai silenzio («la ritirata, zitta e in ordine», XI 179) e alla sospensione spazio-temporale. Il capitolo si era aperto sull’immagine statica del distaccamento partigiano in attesa, in una sosta singolarmente irreale su di «un prato concavo dai contorni svaniti, tra due elevamenti di roccia circondati da anelli di neb- bia», su di un valico che appare «nella penombra della notte nuvolosa» (XI 178), un’atmosfera scura e fissa che è scelta da Calvino come il correlativo ambientale dell’incertezza e cautela della ritirata. Una descrizione di staticità che s’accompagna però all’adrenalina che ancora serpeggia tra i parti- giani e che ne costituisce il rovescio: «Da quando sono partiti per la battaglia gli uomini non hanno avuto riposo: pure il morale non subisce uno di quei pericolosi tracolli che accompagnano le lun- ghe fatiche: l’entusiasmo del combattimento fa valere ancora la sua spinta» (XI 178). La scena immo- bile è chiaramente preparatoria, un artificio narrativo che giustifica lo spostamento del punto di vista dall’ambiente esterno, che sui personaggi agisce (gli agenti atmosferici che fiaccano i parti- giani, il valico irreale che schiude le zone libere a confronto col presente incerto e di fuga), all’inte- riorità dei personaggi stessi, che rivivono in serie le fasi del combattimento. Il richiamo interiorizzato alla battaglia, rivissuta dalla memoria dei partigiani, diventa il natu- rale compimento dello “stacco” sulla brigata in ritirata. L’apertura del capitolo offre un’immagine doppia di contrasti: il silenzio della marcia spiana il campo ai pensieri intermittenti e rumorosi

293 della battaglia, richiama i flash back del caos, degli spari e delle raffiche già uditi di lontano nel X capitolo. Il racconto della battaglia diventa anche l’inevitabile corrispettivo visivo della «spinta» che ancora muove avanti gli uomini, nella convinzione che essa, pure «sanguinosa», pure «termi- nata con una «ritirata», «non è stata una battaglia perduta» (XI 178). Il recit originale di c.87 si pone come cesura forte al tipo di ottica narrativa delineata dall’artico- lazione complessa dell’incipit del capitolo. Il campo predisposto dalla soggettiva della ritirata cede il passo a un riassunto in cui la strumentazione linguistica, cambiando bruscamente di registro, rimane staccata dalle immagini dello scontro; privo di spessore narrativo a favore di una antieroica (e malintesa) immediatezza discorsiva scadente nel cronachistico, il racconto resta rigidamente fuori portata dalla percezione degli avvenimenti da parte dei personaggi. La volontà di controllo del tono epico porta Calvino su di una traccia denotativa. Lo spaccato della battaglia perde di necessità e virtualità, degradandosi a resoconto militare. :

Dopo un successo iniziale dovuto alla sorpresa in cui i partigiani hanno inferto duri colpi ai nemici, catturando armi ed eliminando uomini e mezzi, il sopravvenire dei rinforzi da parte fascista ha mutato le sorti e molti partigiani sono caduti. Ma i comandanti, informati in tempo dell’affluire di nuove colonne nemiche, profittando d’una pausa della battaglia, hanno deliberato di ritirarsi spontaneamente, sganciandosi dai nemici ed evitando l’accerchiamento. Certo, i tedeschi dopo un così sanguinoso fallimento dei loro piani, non desisteranno dal cercare con ogni mezzo una rivincita: perciò Ferriera decide di far abbandonare alla brigata la zona che ormai può trasformarsi in una trappola e di farla passare in altre vallate allora non presidiate da partigiani e più facilmente difendibili. La ritirata condotta in ordine, col favore della notte, si snoda per la mulattiera che porta al passo della Mezzaluna (XI 87r, 14-23).

Il linguaggio rimane inchiodato al piano cronachistico: scandisce in successione ordinata le fasi dello scontro («Dopo un successo iniziale…»; «il sopravvenire dei rinforzi», «l’affluire di nuove co- lonne nemiche», etc. – in cui l’uso dei sostantivi verbali neutralizza la possibilità di rappresentare gli avvenimenti nella loro articolazione), o peggio si fa convenzionale («i partigiani hanno inferto duri colpi ai nemici» ), appropriandosi infine di quei moduli lessicali strettamente legati al gergo delle operazioni militari («i comandanti… hanno deliberato»; “sganciarsi” – detto di formazioni partigiane; «accerchiamento»; poco piu sotto avremo anche «vallate… presidiate» e una «ritirata condotta in ordine»). Non ultima si accompagna la genericità della descrizione causata dall’uso seriale del gerundio, il quale, in quanto segnale linguistico di azione indeterminata («catturando… ed eliminando»; «profittando»; «sganciandosi») rimuove le modalità di come avvengono cattura e eliminazioni, vantaggi e ritirate). Tutti elementi, questi, che fanno del brano uno pseudo-bollettino di guerra, uno spezzone tratto dai tipici comunicati stampa giornalistici (o persino radiofonici, comunque essenziali e assolutamente denotativi) in cui l’enumerazione delle fasi della battaglia, le

294 tattiche e i risultati sono l’obiettivo primario di descrizione, in quanto informativi. Collegato di fila con l’inizio del capitolo, questo passaggio salta subito agli occhi come inserito per sbaglio nel rit- mo e nella trama del romanzo. Riportiamo qui di seguito le due versioni correttive:

I tedeschi, passando da una gola, hanno visto valanghe umane traboccare a valle dalle creste e voli di fuoco alzarsi dai ciglioni; molti dei loro >rimasero< rimasti freddi nelle cunette dello stradale e da qualche camion >s’alzò< s’è alzata una fiamma enorme e non >rimase< rimasto che rottami. Poi >sopravvennero< son venuti rinforzi d’in giù, e gli ultimi partigiani rimasti sui camion a far bottino se li >[+++]< >videro< son visti arrivare a una svolta e >non riuscirono a scamparla< pochi sono riusciti a scamparla. Ma erano solo gli ultimi, perchè i comandanti, avvertiti in tempo che arrivavano i rinforzi dei nemici, >[+++]< non son gente da fermarsi così dopo uno smacco c.87 interl.

I tedeschi, passando per una gola, hanno visto le creste traboccare uomini urlanti e voli di fuoco alzarsi dai ciglioni: [+++] molti dei loro son rotolati nelle cunette dello stradale, e >da< qualche camion s’è messo a fare fumo come una caldaia e dopo un po’ non era che un rottame nero. Poi son venuti i rinforzi, ma han potuto far poco: eliminare qualche partigiano isolato rimasto sulla strada a dispetto degli ordini o tagliato fuori nella mischia. Perchè i comandanti, avvertiti in tempo della nuova autocolonna che arrivava, hanno >[+++]< sganciato in tempo le formazioni e han ripreso la via dei monti evitando di restare >in trappola< accerchiati. Certo i tedeschi non son gente da fermarsi così dopo uno smacco, perciò Ferriera decide di far abbandonare alla brigata la zona che ormai può trasformarsi in una trappola e di farla passare in altre vallate allora non tenute dai partigiani e più facilmente difendibili. La ritirata, zitta e in ordine, si lascia dietro il buio della notte, per la mulattiera che porta al passo della Mezzaluna. c.86 v

L’interlineare di c.87 già sposta l’angolatura narrativa sul fronte interno dei personaggi del rac- conto, assumendone il punto di vista. Nella sostanza, la correzione non fa che estendere quanto già annunciato al capitolo IX, quando si era delineata la battaglia, e mantenersi sul medesimo piano: «i tedeschi si vedranno sotto una pioggia di ferro e fuoco, seminati per lo stradale e dovranno battere in ritirata» (IX 143). L’attacco partigiano, di conseguenza, è vissuto in prima persona dai nemici; «I tedeschi, passan- do da una gola, hanno visto valanghe umane traboccare a valle dalle create e voli di fuoco alzarsi dai ciglioni»(XI 87,14-16). L’impatto della valanga e dei voli di fuoco sostituisce il linguaggio semi-buro- cratico e da clichè convenzionale fin li usato (i partigiani che hanno «inferto duri colpi ai nemici»). La storia viene riscritta in un codice chiaramente narrativo: Calvino ri-allinea la battaglia al tipo di recitativo che sosteneva la descrizione della ritirata ad apertura di capitolo, dove svincolati dai referto cronachistico tutti gli elementi del vissuto dei personaggi emergevano in primo piano: la spossatezza (comunicata dalle «infinite ore di marcia»), il disagio fisico e le avversità atmosferiche

295 (il «sudore» del tanto camminare che «gela» «nelle ossa» a causa del «freddo vento»), «gli uomini troppo stanchi per dormire», le«lunghe fatiche» del cammino. Ogni connotazione psicologica – pure quella mediata dal paesaggio – spariva di colpo nel richiamo della battaglia, creando un grave scompenso alle coerenza stilistica dell’intero episodio. Il cambiamento della c.86v risponde al pieno richiamo soggettivo (emotivo) degli avvenimenti abbozzati con l’interlineare, e colloca alfine l’azione su di un solco più o meno titanico. I tedeschi addirittura qui vedono «le creste» stesse partorire l’attacco, «traboccare uomini urlanti» a segno della nemesi di un paesaggio che punisce gli invasori e di una battaglia che s’impone anche nel suo versante immediatamente uditivo, frastornante. Nella versione definitiva Calvino fa agire la natu- ra in prima persona: è il paesaggio violato che crea i suoi anticorpi e espelle gli organismi estranei. Lo scontro diviene grandiosamente apocalittico, in linea con la strategia di un racconto epico che, mortificato nel protagonismo dei personaggi, ritorna ora tramite gli elementi naturali. La sostanza dell’adeguamento è confermata dalla metamorfosi prospettica dei fatti narrati. Le variazioni consecutive dalla lezione dattiloscritta al testo a fronte rovesciano il nocciolo dell’episo- dio, il quale ruotava originariamente sulla battaglia «sanguinosa» per i partigiani, dai numerosi morti. I «molti partigiani caduti» lasciano visivamente il posto alla strage di tedeschi («molti dei loro rimasti freddi nelle cunette dello stradale» ), che nella versione dattiloscritta si poteva solo dedurre per l’allusione a certi «duri colpi» loro sferrati e mandati a segno. Le perdite partigiane vengono drasticamente ridotte in quanto la strage tedesca diventa il corollario necessario della potenza di fuoco dispiegata dai partigiani; in una parola, l’eruzione abbattutasi sui nemici, che apre lo scon- tro, non poteva rimanere narrativamente ineffettuale. La decisione di procedere alla riscrittura risponde anche a un bisogno ideologico. La scelta per partito preso di raccontare una battaglia culminante in una ritirata (elemento anti eroico, quanto a soggetto), non puo infatti mutarsi nella cronaca di una disfatta. Che Calvino tormenti la pagina a questo proposito è evidente dalla lettura consecutiva delle correzioni, laddove l’autore tenta con ogni mezzo di attenuare l’impatto distruttivo sui partigiani (le cassature son qui indicate con la doppia forcella):

c.87 il sopravvenire dei rinforzi da parte fascista ha mutato le sorti e molti partigiani sono caduti. Ma i comandanti, informati in tempo

c.87 int. Molti dei loro >rimasero< rimasti freddi nelle cunette dello stradale e da qualche camion >s’alzorimase< rimasto che rottami. Poi >sopravvennero< son venuti rinforzi d’in giu, e gli ultimi partigiani rimasti sui camion a far bottino se li >[+++)< son visti arrivare a una svolta e >non riuscirono a scamparla< pochi son riusciti a scamparla. Ma erano solo gli ultimi, perchè i comandanti, avvertiti in tempo

296 c.86v Molti dei loro son rotolati nelle cunette dello stradale, e >da< qualche camion s’e messo a far fumo e fiamme come una caldaia e dopo un po’ non era che un rottame nero. Poi son venuti i rinforzi,e han potuto far poco: eliminare qualche partigiano isolato rimasto sulla strada a dispetto degli ordini o tagliato fuori nella mischia. Perchè i comandanti, avvertiti in tempo

L’efficacia del rinforzo fascista si riduce progressivamente alle briciole già con l’interlineare. Solo la retroguardia partigiana subisce ora gli effetti dell’improvviso arrivo nemico. Gli «ultimi partigiani» che da sè comunicano l’esiguità, la pochezza del numero – in un primo momento ven- gono annientati («non riuscirono a scamparla»), poi riescono a strappare qualche sopravvissuto, arginando le perdite (>» pochi son riusciti a scamparla»). II pudore di Calvino di picchiare troppo duro e rovesciare in una rotta cruenta la ritirata strate- gica si manifesta nell’insistenza sul numero ristretto dei morti, nella rassicurazione esplicita di un esito confortante, sintatticamente spianato dall’avversativa e dall’avverbio di limitazione: «Ma erano solo gli ultimi, perche i comandanti, avvertiti in tempo etc.».In c.86v i rinforzi nazifascisti quasi diventano inutili, «han potuto far poco». Chi viene ucciso, dei partigiani, è o uno sbandato per cui l’accaduto è una fatalità o qualcuno che non ha rispettato gli ordini: la responsabilita dei coman- danti rimane comunque fuori questione. È quest’ultima la notazione piu interessante di c.86v e, forse, dell’intera strategia correttiva. La macchina da guerra partigiana – di cui si è avuto qualche cenno con Kim e Ferriera nel capitolo IX – si dimostra un “congegno’ben oliato, le cui mosse sono calcolate accuratamente, senza azzardi, in cui ogni uomo, ogni singolo conta per se e per gli altri. La conclusione obbligatoria è che l’irrisorietà delle perdite partigiane subite nell’imboscata non ha valore fortuito, non esclusivamente: essa è invece il risultato concreto di un complesso impegno comunitario, della perizia e della disciplina degli uomini dei distaccamenti, dello sforzo congiunto di staffette e comandanti come Kim o Ferriera, ognuno col suo ruolo, ognuno dipendente dall’al- tro. Con c.86v si completa allora il capovolgimento della situazione originale, in cui al «sopravve- nire fascista» faceva seguito il crollo delle «sorti» partigiane. L’approdo all’ultima correzione si svolge anch’esso secondo le premesse date nell’incipit dell’intero episodio, che viene depurato da qualsiasi immagine negativa sui partigiani e sull’esito dell’attacco: solo così può rimanere coeren- te, con queste perdite limitate, l’immagine che sopravvive, negli uomini in ritirata, dell’entusiasmo (XI 178) del combattimento. Ma la sopravvivenza di c.87 è preziosa per motivi che superano il carattere localmente (e stret- tamente) sincronico degli interventi suddetti. Abbiamo riconosciuto come la riscrittura non risponda soltanto alla logica dell’adeguamento del recit, e cioè a considerazioni esclusive di unita stilistica; essa porta con sè i segni di un contem- poraneo rovesciamento ideologico, che dall’adozione di una nuova prospettiva stilistica discende. Adozione di un angolo visuale soggettivo di respiro epico, di contro all’oggettiva cronaca della

297 concatenazione degli avvenimenti; impiego conseguente di un linguaggio più connotativo e meno da resoconto tecnico-militare: sono questi i tratti che si fronteggiano su R1 per c.87 e che permetto- no di studiare secondo quali regole Calvino affronti la sistemazione dei materiali narrativi e come attui lo spostamento dei codici linguistici. Per comprendere appieno questa metamorfosi insita nel Sentiero vi è un altro punto privilegiato di osservazione, sempre interno al sistema narrativo dello scrittore: la battaglia del Sentiero trova nel repertorio calviniano almeno due antecedenti che le fanno da archetipo. Si tratta di due racconti scritti nel 1945, Le battaglie del comandante Erven e Angoscia in caserma, i quali contengono la descrizione – tipo dell’assalto partigiano, in un pattern fisso che ricorrerà a influenzare le scelte future di Calvino sull’argomento. I tratti pertinenti della battaglia rimangono infatti strutturati da luogo a luogo (da racconto a racconto) secondo uno schema rigidamente pre- ordinato. L’analogia tematica impone all’autore convergenti soluzioni linguistiche, che sfiorano in alcuni punti la citazione letterale. Nei passaggi del topos dell’assalto da Erven ad Angoscia al Sentiero si compie un interessante itinerario stilistico che copre vari campi d’applicazione: il documento – racconto, il racconto, il romanzo. Il Sentiero è per Calvino un approdo importante, che il romanzo assomma in sè e sintetiz- za – limitatamente al settore descrittivo – le spinte contrastanti scaturite dalle prime due prove.

5. 2. Ricordo di partigiani vivi e morti. La memoria operativa dello scrittore, all’atto di riconfrontarsi direttamente con una materia incandescente come battaglie e assalti, torna a recuperare anche più indietro dal suo tirocinio scrit- torio. Complica il quadro, infatti, un altro pezzo poco conosciuto, Ricordo di partigiani vivi e morti, a rigore il primissimo testo narrativo “partigiano” di Calvino scrittore. L’articolo ripercorre la storia del partigianesimo ligure occidentale attraverso i suoi protagonisti, con uno stile in cui la prospet- tiva del necrologio e quella della cronaca memoriale, fondendosi, si fanno poemetto in prosa, assu- mono su di sè clausole e ritmi di pura narratività con l’obiettivo del commosso, certo sentimentale, ricordo. Il nodo del controllo del tono epico nel Sentiero si estende quindi al racconto lirico del Ricordo, su cui l’autore si era fatto le ossa, dato che nelle correzioni riccionesi stesse si farà ricorso a elementi da Calvino già sfruttati in questa prima prova partigiana (ad esempio, la presenza perso- nificata dei luoghi e della natura che, metaforicamente, stanno dalla parte dei partigiani). Diventa quindi necessario ripercorrere le tappe interne del distacco calviniano dal registro “emotivo” della scrittura, fino al ritorno pieno di esso con le (limitate) varianti della battaglia, passando in rassegna le peculiarità del Ricordo, di Erven e di Angoscia, per poi riesaminare le correzioni al dattiloscritto del Sentiero. Se il Calvino conosciuto è quello che mette tra l’io che narra e la materia narrata il filtro della distanza, quello sceso dai monti della sua Sanremo e ritrovatosi nelle febbricitanti sedi dei fogli

298 partigiani come «La Voce della Democrazia» o «La nostra lotta» – di cui presto diventa condiretto- re –, prende per le corna, invece, il problema di come narrare l’incredibile storia di cui ha fatto parte, nella fondazione di una letteratura di “fatti straordinari”, di gesta e imprese. Il modulo scelto è, scontatamente, di registro epico117:

Chi canterà le gesta della armata errante, l’epopea dei laceri eroi, le imprese dell’esercito scalzo,

chi canterà l’anno di gloria e sangue trascorso sui monti?

Chi enumererà la schiera di quelli che non scesero, dei tanti morti lasciati lassù, con nello spento sguardo l’ultimo bagliore del combattimento o l’ultimo spasimo della tortura?

Chi tramanderà la lunga storia di imboscate e guerriglie, di battaglie e sbandamenti, di raffiche e cespugli, di fughe e assalti?

Sin dall’incipit declamativo («Chi canterà») immediatamente anaforico, la struttura del testo calviniano segue un chiaro modello retorico che sottolinea l’esigenza del “canto” – quindi, della poesia epica insita nelle gesta dei combattenti e del recupero memoriale, nonchè di una certa forma “metrica” (se così si può chiamare), cioè di una “melodia” (il contenuto, le imprese narrate) che s’incarni in artificio letterario, in un tipo specifico di recit alquanto sorvegliato. Apparentemente forma di necrologio (dal titolo che privilegia il «ricordo» in cui compaiono i morti), si trasforma in celebrazione, seguendo tre parole d’ordine: 1) il cantare: appunto il celebrare, il mettere per iscritto o per “parola”, come i bardi, ovvero tramandare oralmente o per iscritto gli eroismi (le gesta), fissarle nella memoria collettiva col contributo dei partigiani alla liberazione; 2) l’enumerare: con- tare i morti, uno ad uno, nome e cognome, dandogli volti e effigi affinchè quei loro nomi risuonin e si iscrivano nelle coscienze della gente, a esempio concretizzato in sangue e carne, al di là del- l’astrazioni; 3) il tramandare: raccontare una storia che non venga dimenticata nel tempo, e, di

117 L’apertura di tono epico e la peculiare struttura ritmata si mostrano a una ricomposizione più accorta sullo spazio della pagina (rispetto alle colonne del foglio su cui era apparsa), che abbiamo scelto di evidenziare direttamente.

299 quella storia, narrare le peripezie, le avventure, gli esempi («gesta», «epopea», «imprese») del va- lore dell’armata e degli eroi, nei momenti più disparati della lotta (in attacco o ritirata). Il documento calviniano s’apre già letterariamente calcolato al millimetro in questa sua prima pericope, tradendo una penna lucidamente tenuta, una pagina accuratamente calibrata e non solo per assonanza, ma per struttura e per sintassi (in cui ricorrenze ritmiche-figurative compongono la storia a modo dei poemi epici e ne favoriscono quasi la memorizzazione orale). Fin dall’apertura del brano, ad esempio, s’impone una variatio lessicale notevole, la ricerca di moduli sinonimici in cui non pare si cerchi la quickness (per anticipare un aspetto capitale del suo stile118) quanto invece si gusti la combinatoria poetica di ogni possibile aspetto dell’azione parti- giana – di nuovo, «gesta», certo «epopea», collettivamente «impresa», facta, di un esercito alla ricerca di una meta, stracciato e con le scarpe rotte, senza scelta se sostare o no («scarpe rotte e pur bisogna andare», come in Fischia il vento). La dispositio retorica non è indifferente: la narrazione della storia guerresca già s’impone per lo stile d’assonanza sinonimica e per i chiasmi interni, per cui alle «imboscate» corrispondono «i cespugli», alle «battaglie» gli «assalti», alle «raffiche» le «guer- riglie», alle «fughe» gli «sbandamenti», con l’ultima sottolineatura oppositiva «fughe» vs «assalti». Le ricorrenze ritmiche, le bipartizione o tripartizioni del discorso declamativo, quasi per favorirne la memorizzione orale (come si vedrà meglio più sotto), compongono questo ricordo a modo della chanson de geste, con effetti apparentemente spontanei che celano un oculato calcolo compositivo. È all’opera non un Calvino “scrivente” (come secondo Milanini), forse neppure scrittore, ma acerbo e volenteroso apprendista-bardo che fa virtù della limitatezza dei propri mezzi, e che va senz’altro letto entro le convenzioni del mezzo scelto, che rimane qui il dettato epico, costruito anche scolasti- camente sui ricordi ariosteschi119 e, ci pare, principalmente omerici.

118 Si cfr. C. MILANINI, Calvino e la Resistenza: l’identità in gioco, cit., p. 178. 119 Già con Castelvittorio, paese delle nostre montagne (annunciato come in fieri, ai genitori, in una lettera del 22 ottobre 1945), rimane evidente la commistione intenzionale, nel registro stilistico di Calvino, di cronaca e, formalmente, di romanzo epico che domina il pezzo coi suoi richiami letterari ariosteschi: «Aggrappato in cima ad un altura che domina Pigna, Castelvittorio, col suo aspetto di antica fortezza, sembra ancora attendere gli assalti dei corsari saraceni. Ma se la guerra moderna, tecnica e meccanizzata, disdegna questa vestigia medioevali, la guerriglia fa rinascere in pieno secolo XX lo spirito avventuroso e cavalleresco dei secoli andati (p. )» Assalti e guerriglie, per il narratore Calvino, richiamerebbero, tra «queste vestigia medievali», le incarna- zioni dello spirito cavalleresco dei secoli andati, regolate dal codice d’onore degli scontri e da regole d’eticità, cui purtroppo si è invece subito contrapposta la guerra «moderna, tecnica e meccanizzata», che, dato il conte- sto, richiama la lamentazione dell’Ariosto per la disgrazia della «scelerata e brutta/invenzion» dell’arma da fuoco (XI, 26) l’archibugio: «Per te la militar gloria è distrutta,/ per te il mestier de l’arme è senza onore;/ per è il valore e la virtù ridutta,/ che spesso par del buono il reo migliore:/ non più la gagliardìa, non più l’ardire/ per te può in campo al paragon venire» (XI, 26). (L’archibugio diviene quindi «arma micidiale, l’arma del futuro, destinata a trasformare le guerre in carneficine e a metter fine alle gentili imprese della cavalleria», come chioserà Calvino stesso nel suo racconto del Furioso. La meccanicizzazione dello scontro segna il discrimine tra la «battaglia del glorioso passato contro il fosco presente»: si cfr. Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una scelta del poema, Torino, Einaudi, 1970, pp. 37-44. Il breve resoconto di Castelvittorio è tutto un pro- gramma: segue la trasformazione dei «tenaci “castellusi”» in «guerrieri» gagliardi e arditi, in «figure […] battaglie-

300 L’incipit («Chi canterà»…»Chi enumererà»…»Chi tramanderà»…) diventa anche contenutisti- camente preterizione, in quanto l’interrogativo multiplo è retorico (sarà Calvino, sarà l’autore che qui scrive, a farsi cantore, narratore epico) e elenco già diventa un decalogo inglobante i valori e i “doveri” della nuova narrativa che faccia giustizia a queste storie di fatti straordinari.

I primi morirono. Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera.

A seguito degli interrogativi declamativi, ecco la pausa, che introduce la narrazione, con il salto temporale all’indietro, flash back all’inizio dell’esperienza partigiana. Anche qui la struttura sintat- tica segue una frammentazione poetica in cui prevalgono le anafore, come si nota dal costante rilancio interno («primi»/»primo», «più»…» «più») e dalle sottolineature per assonanza (primi/ primo/più/più/partigiani), e la ripresa a distanza di taluni elementi (qui, l’aggettivo possessivo «tuo»/»tua») che lega il «sangue» del primo caduto al suo «nome» leggendario, finito per farsi «esempio» e dunque capace di raccogliere, ispirare come una «bandiera». I nuovi paladini sono chiamati per nome e cognome, specialmente quando il resoconto diventa nei fatti necrologio (o

re», cavalieri che non esitano a impugnare le armi «solo per la difesa» ma che si spingono «al contrattacco» guidati dall’«odio mortale che dopo le stragi […] essi nutrono verso l’oppressore». Calvino appunta subito l’attenzione su due exempla da menzionare, su due «figure tra essi» come «l’Acidu e il Sociu», che egli riveste - nonostante il dovere d’oggettivo cronista- di «indole avventurosa», trasfigurando l’uno in «sembianze da San- cio Pancia» con «un’anima da Don Chisciotte», e l’altro («il miglior tiratore del paese») in un eroe senza mac- chia e senza paura che va «a rincorrere i tedeschi» dopo essersi fatto «prestare il mitra da un compagno». L’annotazione cronachistica, in cui subito s’innesta uno spunto narrativo e romanzesco, si ferma ai dati ogget- tivi più esterni (il numero dei caduti nel paese, le date dei saccheggi fascisti, i tipi di fucili usati o il numero dei cannoni); da reportage si volge volontaristicamente in appello epico, da consegnare alla memoria attraverso le gesta dei personaggi: chi si è reso protagonista, chi ha operato disinteressatamente per il bene della comunità («i 40 e più caduti della popolazione ed il molto maggior numero dei tedeschi uccisi testimoniano il loro valore»), guerrieri guidati da una loro etica, da una forza morale quando «l’invasione tedesca o fascista minac- cia il loro paese», sì che «Castelvittorio più di ogni altro paese d’Italia ha il diritto di dire che non ha aspettato la liberazione da terzi, ma ha saputo meritarsela e conquistarsela da sè». L’intero racconto è governato da una scansione narrativa diseguale, con frequenti salti dei tempi verbali tra il presente storico (che racconta le fasi della lotta come se si stessero svolgendo sotto i nostri occhi) e il perfetto, per dare l’idea dell’avvenimento effettivamente svoltosi e delle sue ripercussioni sull’oggi.

301 meglio, commemorazione oratoria): «E pure morì sotto il martirio nazista l’animatore d’una delle prime bande a Baiardo: Brunati, il partigiano poeta./E la trista Germania inghiottì Lina Meiffret, prima partigiana» (in cui si noti non solo il parallelismo delle frasi, entrambe aperte dalla congiun- zione «E», quanto di nuovo lo scambio a chiasmo dei nomi e degli attributi dei personaggi: al Brunati «partigiano poeta» fa rimando la Meiffret «prima partigiana»). La narrazione continua con sottolineature parallele e dittologie insistite, artifici per una memo- rizzazione forse più agevole ma anche per l’introduzione di personaggi che tra loro si legano vi- cendevolmente (e, come abbiamo visto, sono i due personaggi fondamentali dell’esperienza del Sentiero, Kim e Ferriera):

S’approssimava la primavera.

Verso Rezzo era salito un uomo alto e flemmatico, dall’occhio allucinante e dal vestire trasandato: il Curto.

Verso Langan vagava un uomo tarchiato e biondo, dallo sguardo azzurro e freddo, magnetico e impassibile: Vittò.

Intorno a ognuno d’essi si ingrossò la schiera.

La struttura di tutta la prima parte dell’incipit viene a questo punto ripetuta (con variazioni minime) come ritornello («Chi canterà», «Chi canterà», «Chi canterà»), quasi ripresa a modo di coblas capfinidas dal richiamo all’“ingrossarsi delle schiere”, qui unite dalla descrizione di un luo- go, introdotto nella “stanza” (si licet) precedente.Si ha la personificazione del luogo, che soggetti- vamente risponde al richiamo delle gesta partigiane, e vi partecipa; si ha anche il primo elenco (la prima “mappatura”) delle zone in cui le battaglie da ricordare si sono combattute e (quasi a pre- monizione per lo scrittore), l’interrogativo denso su chi canterà Carpenosa o Sella Carpi, battaglie nella storia del comandante Herven, ferito e nascosto tra i cespugli (che saranno storie non a caso narrate da Calvino stesso, di lì a pochi mesi, ne Le battaglie del comandante Erven per un volume opportunamente intitolato L’epopea dell’esercito scalzo):

Chi canterà la spensierata audacia degli inizi, in cui ogni azione era una beffa, ogni arma conquistata un trofeo?

Langan, glorioso, vedesti ingrossarsi le schiere, urlare l’entusiasmo,

302 salire e scendere i camions gremiti ad ogni nuova azione, tra canti e sventolare di bandiere nella gloriosa primavera.

Chi canterà la battaglia di Carpenosa, di come trenta uomini fermarono quattro camions tedeschi,

chi canterà come Herven si coprì di ferite e di gloria a Sella Carpi e sfuggì per miracolo la morte riverso in un cespuglio?

È il momento dell’esaltazione, dell’«entusiasmo» (parole – chiave per la morale partigiana), per cui Langan è «glorioso» nella «gloriosa primavera», controbattuto dalla battaglia di Sella Carpi, in cui fa mostra del suo coraggio Herven, copertosi sì di ferite, ma anche di «gloria». Cui segue di nuovo l’appello all’onore e alla celebrazione: «Chi canterà la gloriosa popolazione di Castelvitto- rio,/i vecchi cacciatori di cinghiali insorti alla difesa del loro paese, che resistettero con tanto valo- re?», dati come complemento necessario (e reazione immediata, nella loro insurrezione) all’anno- tazione cronachistica «Poi venne, giorno infausto, il tre luglio. I tedeschi ebbero il sopravvento sulle bande, i paesi furono invasi e saccheggiati». La costruzione è binaria: gloria e valore non sono che l’esito della volontà all’azione collettiva, socialmente utile. La responsabilità di fare la storia è nelle mani degli uomini. L’epicità del dettato ha sempre, però, come contraltare l’elemento eroico interiore, la saldezza modale di chi soccombe sacrificando consapevolmente la propria vita a un interesse comune; essa non rimane alla celebra- zione esterna del guerriero, ma sottolinea la sua interiorità. L’eroismo omerico dell’Iliade, cui que- sto modello calviniano s’avvicina, aveva proposto un modello d’interiorità nella saldezza morale con cui l’uomo si oppone al destino. Qui l’uomo si oppone, nella sua libertà, alla Storia, che recla- ma a sè, e che libera. Il partigiano ripropone il modello di lotta contro le avversità, che avviene nonstante tutto. La sua raffigurazione, dunque, è alla pari:

Marco cade in un’imboscata della trista Baiardo,

ma un nuovo capo si è fatto avanti, un ragazzo dal coraggio di leone, dal corpo tarchiato, dalle prominenti ganasce: è Gino.

Il suo distaccamento quasi inerme agli inizi in meno di un mese è il più armato della Divisione. I vili bersaglieri – carne venduta – cominciano a temere il suo nome.

303 Anche la descrizione fisica del partigiano insiste sull’immagine solida (Gino è «tarchiato»), vo- litiva (ha «prominenti ganasce») e vincente (agisce «col coraggio da leone»), a maggior ragione contrastante con la viltà dei bersaglieri fascisti («vili» in quanto carne venduta – nello sfascio delle istituzioni e del Regio esercito, hanno scelto il soldo repubblichino per convenienza immediata). La viltà corrisponde infatti alla sola non – qualità dell’eroe omerico, alla sua sola debolezza e carat- teristica non eroica: essa è l’incapacità di perseguire fini superiori (eroici, dunque) o il rifuggire lo scontro. La viltà nell’accezione calviniana invece si riferisce qui, pienamente, a chi non affronta il nemico con “onore”. I fascisti vili perchè si danno alle rappresaglie contro la popolazione inerme invece che affrontare i partigiani in campo aperto, usano la rappresaglia (sleale) contro lo scontro leale. Altro aspetto epico, la prodezza, l’audacia, le scorribande che avvengono sul campo avversario – che rimandano alla tradizione letteraria:

Gino gareggia in audacia coi suoi uomini, Figaro e il francese Pierre primeggiano: una divisa tedesca basta per portarli in campo nemico a compiere le più audaci imprese.

Anche se Milanini ridimensiona il valore della clausola semi-ariostesca, essa non rimane isolata nel racconto de geste: e trasparente rimane la volontà calviniana dell’allusione a altre imprese «le più audaci», come si dirà anche in seguito («Upega vede la morte gloriosa del più leggendario di tutti i partigiani, del cavaliere senza macchia e senza paura, dell’eroe di mille imprese le più audaci: il Cion»), stabilendo un richiamo alla leggenda, alla cavalleria, ma principalmente, come nell’ottava di Gino, il gareggiare e il primeggiare e il travestirsi riportano la memoria (scolastica) alle scorri- bande in campo nemico dell’Iliade, con le spedizioni notturne di Odisseo e Diomede, o i travesti- menti di Patroclo con le armi d’Achille (per tacere dell’epica virgiliana nella coppia d’Eurialo e Niso, o finanche rinascimentale, con Cloridano e Medoro nel Furioso o Argante e Clorinda nella Liberata), certo situazioni da antologia della scuola gentiliana. Il racconto procede per moduli ripetuti, che alla descrizione della situazione in un tempo preci- so («L’attesa primavera s’avvicina a poco a poco») oppone l’interrogativo di come si debba com- portare o no le brigate, creando una suspence («è il momento dell’attacco? Potremo snidare dalla trista Baiardo i vili bersaglieri?» ) invariabilmente smentita («No, il momento non è ancora giunto, occorre ritornare») per concludersi con l’annotazione a sorpresa di una perdita («Ma non ritornerai tu, Cardù, caduto serenamente con la fronte al nemico, per le vie del paese»120). Il Ricordo si conclu-

120 Lo stesso per il brano precedente: alla domanda (retorica) «Il partigianesimo in Liguria è dunque stroncato?» si oppone un fermo diniego «No, continua negli attentati ai fascisti per le vie cittadine», seguito dall’episodio di

304 de in elegia, in un movimento musicale che dall’allegro con fuoco della descrizione degli ultimi assalti, ritmati da Calvino con una sintassi franta e coordinata a colpi di virgole («Ancora una volta i partigiani prendono la via del Piemonte, per armarsi, vestirsi, rinforzarsi questa volta; poi scen- deranno e allora sarà un succedersi d’imboscate, di colpi, di sparatorie in tutte le valli») si fa im- provvisamente adagio, l’appello rivolto direttamente a chi non può più raccontare la sua storia e la sua sorte, e su cui progressivamente si restringe il cerchio della descrizione:

Fu proprio quando mancavano pochi giorni al traguardo, che ti presero e ti uccisero, ultimo dei caduti nostri, Tenore.

La chiusa è struggente, e lascia aleggiare il fantasma «dei tanti morti lasciati lassù», la malinco- nia della morte nella speranza di una primavera, una vicenda individuale che parla per tutte quel- le che voce più non hanno, a perpetua memoria121:

E dovette essere triste morire in un mattino d’aprile, mentre nell’aria era un presagio della prossima vittoria.

una perdita – che indugia sul momento della morte e del luogo del trapasso, a segnare come monumento verbale lo spazio di commemorazione: «È allora che avvampa il tuo generoso furore, /indimenticabile Aldo Baggioli, /eroe bello e spietato,/e ti porta sfidando ogni pericolo a scaricare il tuo revolver nel petto dei tradi- tori./Dietro a te Riccardo schiude l’occhio mefistofelico:/i fascisti hanno paura, sanno che a uno a uno cadran- no sotto il tuo piombo giustiziere./Ma purtroppo presto sospireranno di sollievo sapendoti caduto crivellato dalle raffiche sul prato di S. Romolo». 121 Sono questi i nomi e le identità dei partigiani menzionati da Calvino nella «Voce della Democrazia» (elenco fornitomi dal Prof. Francesco Biga, direttore dell’Istituto della Resistenza di Imperia): Renato Brunati, arresta- to il 6 gennaio 1944, deportato a Genova e fucilato dalle SS il 19 maggio 1944 sul Turchino (Genova); Lina Meiffret, ritornata dai campi di concentramento della Germania; Curto, nome di battaglia di Nino Siccardi, comandante della I Zona Liguria (il comandante supremo); Herven (o Erven), al secolo Prof. Bruno Luppi, protagonista del racconto «Le battaglie del comandante Erven» in L’epopea dell’esercito scalzo; Marco, nome di battaglia di Candido Queirolo, partigiano caduto della V Brigata «L. Nuvoloni»; Vittò, nome di battaglia di Vittorio Guglielmo, comandante della II Divisione d’assalto garibaldi «Felice Cascione»; Gino, nome di batta- glia di Gino Napolitano, Vice Comandante della V Brigata «L. Nuvoloni»; Artù, nome di battaglia di Arturo Secondo, comandante del III Battaglione della V Brigata «E. Guarrini»; Figaro, nome di battaglia di Orengo Vincenzo, comandante di Battaglione della V Brigata «L. Nuvoloni»; Fragola, nome di battaglia di Armando Izzo, Comandante della V Brigata «Luigi Nuvoloni»; Cion, nome di battaglia di Silvio Bonfante, Vice Coman- dante della Divisione Cascione, caduto a Upega il 17 ottobre 1944; Aldo Baggioli (Cichito), caduto nel novem- bre 1944 a Poggio di Sanremo; Cardù, nome di battaglia di Riccardo Vitali, Commissario del distaccamento mortaisti della V Brigata «L. Nuvoloni», caduto a Baiardo il 10 marzo 1945; Tenore, nome di battaglia di Zan- derighi Gualtiero, caduto il 22 aprile 1945 a Poggio di Sanremo, appartenente alla V Brigata «L. Nuvoloni».

305 5.3. Le battaglie del comandante Erven e Angoscia in caserma In Erven l’assalto di cui ci occuperemo è solo una parte di una storia cui non interessa l’aspetto immediatamente narrativo (soggettivo) delle battaglie in sè, quanto la loro ricostruzione storica che ponga in risalto l’efficacia e la valorosa guida del comandante partigiano. Questo racconto-testimonianza, vero resoconto biografico per il comandante Erven (il cui clou narrativo si trova qui nella descrizione delle battaglie), è accompagnato, accanto al titolo, da una serie di rubriche che accennano ai suoi contenuti più drammatici122, mentre il testo possiede delle scansioni interne che isolano in parti principali gli episodi di cui si tratta. Come secondo il piano complessivo del libro L’epopea dell’esercito scalzo, i suoi singoli pezzi puntano a essere «nè un ro- manzo nè una storia romanzata», ma «semplice relazione», resoconto fedele, e sono raccontati affinchè essi, «sebbene molti degli avvenimenti […] narrati possano apparire, a chi non li ha vissu- ti, una creazione della fantasia», si fermino nella memoria, diventino propriamente “storia”: «un volume che si propone di esaltare, in un tutto unitario – pur nella sua completa aderenza alla verità dei fatti, le gesta di coloro che lottarono e cospirarono per riscattare l’onore della Patria tradita e vinta»123. Tuttavia il filtro di molti di questi articoli, lontano dall’immediatezza della cronaca o dell’intervista (su cui pure si basano), è letterario. Gli scrittori stessi si sentono investiti da necessi- tà di «cantare», di “esaltare” gli eroismi cui hanno assistito («Chi potrà cantare le gesta di questa guerra fantastica? Quale bardo saprà levarsi ad esaltarne le sofferenze inaudite, gl’infiniti eroismi, le tragedie sconosciute?»124) in quanto vi è l’urgenza di una testimonanza corale, e individuale, che faccia da contralto all’ora di restaurazione post-resistenziale di una storia ufficiale che invece sem- bra voglia cancellare le vicende dell’insurrezione partigiana:

Grandi e terribili avvenimenti: nel momento in cui, come purtroppo ora avviene, si tenta con ogni mezzo di sminuire, se non di annullare addirittura, l’importanza della grande insurrezione popolare italiana contro le forze del nazi-fascismo […] è doveroso anzi che tutti gli uomini e tutte le donne di questo martoriato paese sappiano e soprattutto ricordino che cosa ha significato la lotta partigiana Nè si venga a parlare od a scrivere, oggi, di errori od eccessi per infirmare l’importanza veramente capitale per i destini d’Italia di questa nostra guerra.125

122 A prescindere dall’ordine in cui la narrazione effettivamente si svolge, queste sono le rubriche che annunciano i “contenuti” del racconto – e che creano la necessaria suspence: «La nebbia salvatrice – Agonia in mezzo al bosco- La «via crucis» in barella – Il mortaio sconquassato- -Come il campo minato saltò in aria – L’assalto ai camions», mentre all’interno del testo sono sottolineate, in linea col titolo generale che annuncia battaglie, «La battaglia di Carpenosa» e «La battaglia di Sella Carpe», continuando con «Sangue nei cespugli» e «L’odissea del bandito ferito» (I. CALVINO, Le battaglie del comandante Erven, cit., p. 235). 123 Presentazione, in AA.VV., L’epopea dell’esercito scalzo, cit., p. 9 124 Introduzione, in AA.VV., L’epopea dell’esercito scalzo, cit. p. 14. 125 Ibidem, passim pp. 11-14.

306 Alla ricerca del significato della lotta, si delinea un percorso agiografico (e pedagogico) in cui è costruita la figura del partigiano-martire, secondo i canoni subito divulgati dalla pubblicistica d’epo- ca, cui Calvino s’adegua. La narrazione vorrebbe essere «una semplice relazione, il più possibile esatta e fedele, dei grandi e terribili avvenimenti» della guerra civile – come si preoccupa di sotto- lineare l’Introduzione al volume; tuttavia immediato è il collegamento di genere tra le vite dei santi (e dei martiri) e quelle dei partigiani caduti o feriti, come Erven. Fac eas de morte transire ad vitam: lo scopo commemorativo e d’emulazione, lo stato d’exemplum e la necessità quasi trascendente che la memoria assicuri (epicamente) la loro fama, sono questi i caratteri del libro, in cui si tratta di «ri- cordare tutti i martiri della guerra partigiana il cui sangue ha riscattato l’Italia ed il cui calvario sarà il nostro viatico nelle civili lotte future che tutti, i vivi col loro intelletto ed il loro braccio, i caduti col loro spirito che sopravvive alla morte ed aleggia intorno a noi, dovremo combattere affinchè il segno dell’odio sparisca dal cuore degli uomini e l’amore regni in una società parificata dal martirio»126. Un laicismo che porta forti i segni di archetipi cristologici, usati letterariamene per narrare i sacri- fici partigiani e le loro vicende. Erven non si sottrae a questo modo narrativo: all’apertura della sua biografia, colta nel momento del presente, nell’Italia liberata (e ingrata verso parte dei suoi libera- tori), Erven ha un «viso quasi da asceta», che si muove nel «dolore» dei postumi delle sue ferite, e nel suo volto «brilla sempre la stessa fede» (del sol dell’avvenir, dell’Italia democratica) che l’ha sostenuto negli strazi fisici:

Quell’Erven che un anno fa correva coi suoi uomini all’assalto dei camions tedeschi che tentavano la via dei monti, quell’Erven che comandò uno dei distaccamenti più attivi e micidiali della nostra zona, ora si muove a fatica sulle stampelle e il suo viso quasi di asceta si contrae spesso in una smorfia di dolore. Ma nei suoi occhi brilla sempre la stessa fede che l’animò nei giorni di battaglia, che lo sostenne nei lunghi mesi d’atroci sofferenze. 127

Nella storia di Erven e delle sue battaglie, infatti, si nascondono numerosi riferimenti “miraco- losi” o cristologici (le nebbie che nascondo il suo corpo ai tedeschi che cercano tra i cespugli del bosco i partigiani feriti, la preghiera alla madre morta affinchè non l’abbandoni – che fa giungere la nebbia salvatrice –, la “flagellazione” indiretta con spine e pietre aguzze, che si trasforma in stim- mate per le mani, in un percorso detto esplicitamente “calvario” e “via Crucis”):

Comincia il calvario del povero corpo straziato: ai dolori delle ferite si aggiunge quello delle mani, subito lesionate dalle spine e dalle pietre aguzze che si incontrano sul terreno asperrimo. […] Con un’altra via Crucis, il ferito è trasportato in posto più sicuro.128

126 Ibidem, p. 15. 127 I. CALVINO, Le battaglie del comandante Erven, cit., p. 235. 128 Ibidem, p. 242.

307 Il primo racconto, che ha per oggetto la battaglia di Carpenosa del 17 giugno 1944, costituisce la prova più appariscente della volontà calviniana di unire il resoconto cronachistico, fedele e vero ai fatti della realtà (nomi, circostanze, numeri di partigiani, distaccamenti e di nemici tedeschi, persi- no orari precisi – come da mandato del libro) alla narratività, a un modus narrandi che tenga viva nel lettore la suspence degli avvenimenti, che vengono difatti restituiti al lettore con flash back e flash forward, che combinano tempi verbali e danno la cronaca minuto per minuto, ripiena di annotazio- ni anche dialogiche e di scoperte meccaniche narrative, quasi da sceneggiatura di un film – notevo- le è infatti la qualità visiva, appunto filmica, delle scene raccontate. I trapassi tra il presente storico e l’imperfetto, o il perfetto, si esauriscono in questa volontà di documento costruito secondo le regole del racconto orale. Ne diamo qui di seguito un campione esteso:

Gli uomini di Vittò si preparano velocemente le armi per l’azione. Il distaccamento possedeva allora un mortaio da 81 […]. […] le squadre mortai e mitraglieri, al comando di Erven, scendono in camion […]. Cosa succede intanto a Carpenosa? I tedeschi, con quattro o cinque cannoni e lanciabombe, tirano sulla parte superiore del costone […]. Fu allora che cadde, ferito dalle scheggie, il garibaldino Petrin di Creppo. Le sorti della battaglia arridono ai nazisti […]. Alle nostre mitraglie non resta che ritirarsi. Solo una, la più avanzata, […] tra i cespugli rimane isolata: era la mitragliatrice del futuro eroe garibaldino Luigi Nuvoloni. […] i tedeschi riguadagnano i camions e stanno per prendere la via del ritorno, quando, a un dato momento, il mortaio tace. Cosa era successo? Facciamo un passo indietro e torniamo ad Erven […]. Che cosa è successo? […] Una fila di uomini stracciati, vestiti delle divise più disparate, i partigiani insomma che scendono verso Carpenosa. Marco e Erven si precipitano per unirsi a loro e avanzare insieme. Sulla strada si imbattono in un camion sfasciato in mezzo a pozze di sangue, brandelli di carne umana, scheggie di mortai, mitragliatori, elmetti, fucili.[…] La grande esplosione era dovuta alla strada saltata in aria […] La sera vede il trionfo dei garibaldini vincitori tributato loro dalla popolazione d’Agaggio. Suggestivo è il ritorno: nella notte la fila dei partigiani si snoda verso gli accampamenti al canto dei loro inni. Fu questa una delle più cruenti sconfitte tedesche nella nostra zona. Settantadue morti e un numero imprecisato di feriti ne segnano il sanguinoso bilancio.

In Angoscia in caserma, al contrario, è rilevante l’aspetto avventuroso dell’esperienza partigiana, il suo nucleo immaginoso. L’intermezzo descrittivo della battaglia raccontata in Angoscia ha la funzione di “liberare” il protagonista, un ragazzo renitente alla leva, proprio dalla sua cattività inerte e rassegnata, dall’instupidimento di rastrellato («Gli altri rastrellati si facevano sempre più

308 torpidi e piu grigi anch’essi, pieni d’accettazione, d’indifferenza…»; «I partigiani svaporavano nel- la sua memoria come un mito…»,129 etc.). Causa l’effetto dirompente richiesto, essa dev’essere vissuta dal soggetto, svelare in tal modo lo scarto decisivo tra la vita partigiana e quella passiva di coscritto. Ed epica sarà la chiave di narrazione richiesta. L’adesione alla causa partigiana diventa in primo luogo emotiva, stilistica- mente preparata da Calvino con rimandi insistiti agli elementi piu avventurosi della vita di fuori- legge (gli agguati, le fughe, le attese, i racconti truculenti attorno al fuoco), anaforicamente presen- tati a sottolineatura di un’esperienza capitale e irrepetibile:

Il suo ricordo andava ad altri uomini, ad altri discorsi, discorsi di uomini seduti intorno a fuochi, di uomini con suole legate col fil di ferro, con strappi ai calzoni cuciti col fil di ferro, con facce ispide di fil di ferro nelle barbe,

uomini con arnesi di ferro nelle mani: uomini con sten, uomini con mitra, uomini con machine.

Ogni tanto un nome di quegli uomini risuonava nei discorsi dei soldati, con accento di mistero, di leggenda, di paura.

L’oppressione della caserma sul personaggio diviene un dato dell’istinto prima che della ragio- ne («Questo avrebbe voluto gridare. lo sono uno dei loro.Ma allora, se era uno dei loro, cosa faceva li in mezzo? E con slanci violenti la memoria si riproponeva freneticamente scene e sensazioni per risvegliare un qualcosa sopito in lui, forzarlo a uscire dal torpore»)130; ed è la scelta di una vita

129 I. CALVINO, Angoscia in caserma, cit., p. 126. 130 I. CALVINO, Angoscia in caserma, cit., p. 124

309 pericolosa ma libera, piuttosto che protetta e rassegnata a guidare la decisione finale della fuga, la conquista della libertà, in cui cose e parole diventano ancora, e finalmente, grazie al “fare” (alla scelta irrevocabile), una cosa unica, e non solo simboli di una condizione. All’atto della scrittura della battaglia nel Sentiero le due prospettive stilistiche di Erven e di Angoscia si scontreranno. Per la piena comprensione dell’intervento correttorio calviniano su c.87 occorre ripercorrere, a parità di referenti, le tappe della trasformazione dei registri. Lo scarto tra Erven e Angoscia si misura fin dalla scena dell’appostamento:

Verso le undici antimeridiane del 27 giugno, una vedetta arriva trafelata all’accampamento con l’annuncio che quattro grossi camions tedeschi stanno risalendo la strada proveniente da Baiardo. Erven raduna tutti i presenti; sono ventisette, li divide in due squadre: una al comando di Argo, l’altra al comando di Assalto e con essa si dirige al bivio di Sella Carpe a circa un quarto d’ora dall’accampamento. Al bivio di Sella Carpe la strada proveniente da Baiardo si biforca in due direzioni: un ramo sale verso monte Ceppo, l’altro verso Vignai e Badalucco. È nell’intenzione di Erven appostarsi prima del bivio; ma quando egli, con i suoi uomini, giunge, è già troppo tardi: gli autocarri si stanno avvicinando. Erven sale allora per la strada di monte Ceppo e fa appostare i suoi garibaldini in un punto adatto, a circa centocinquanta metri dal bivio. Prima del bivio lascia la squadra di Argo per proteggere le spalle della postazione dell’arrivo di altri camions. Gli uomini si sono appena appostati, quando sulla strada appaiono i primi due autocarri stracarichi di tedeschi. Sono le undici e mezzo. Il momento è emozionante: non c’e tempo di attendere: un copioso getto di bombe a mano, un fitto rafficare di mitragliatrici investe i malcapitati invasori che, stipati nei camions, parte soccombono massacrati o feriti, parte tentano un’estrema resistenza e parte saltano giù e si danno alla fuga. Allora i garibaldini si arrampicano sui camions grondanti sangue per fare bottino. La conquista delle armi era il principale obbiettivo dei combattimenti, e i garibaldini della zona possono vantarsi di non avere atteso l’armamento come manna che piove dal cielo, ma d’esserselo saputo guadagnare in combattimento. Sette machine-pistole, tre sputafuoco, un Tompson e un numero imprecisato di Ta-Pum formano il bottino di quella azione. Ma, mentre i partigiani sono sui camions, intenti al rastrellamento delle armi, odono crepitare raffiche di mitraglia provenienti dal bivio. Gli altri autocarri tedeschi, che anziché due erano cinque, vinta la resistenza di Argo, battono con le loro mitragliatrici la strada di monte Ceppo, tagliando ai garibaldini le vie di ritirata. Argo, al secolo Arduino Jassone, è caduto da eroe alla testa dei suoi uomini. La situazione è grave: non resta che appostarsi nel fossatello che segue la strada dalla parte a monte e puntare i mitragliatori in modo da battere il bivio. I garibaldini che già avevano dato prova, durante l’attacco agli autocarri, di un coraggio e di un entusiasmo senza limiti, continuano a combattere con un valore difficilmente riscontrabile in un esercito regolare e militarmente addestrato. L’ardimento di Assalto, di Aldo Baggioli, di Marx, di Gigi, di Max, di Loré, di Sanremo, di Fiorista, di Maliacoff, di tutti insomma gli uomini di Erven, è quello degli uomini che sanno perchè combattono. […] Bisogna ad ogni costo eliminare le mitragliatrici che bloccano ogni via di scampo ai partigiani. […] Le sorti della battaglia sono ormai decise. Non resta ad Erven che dare ordine ai suoi uomini di ritirarsi individualmente (Erven 239)

310 La carrozzabile, in basso, con la fila dei tedeschi che sale guardinga, e il battito del cuore contro il calcio del mitragliatore, attendendo, e ogni cespuglio che fiorisce d’occhi in agguato. Poi un crepitare fitto che dà il via, un polverone dorato che s’alza sulla carrozzabile, sui tedeschi che s’abbattono, che si gettano fuori strada, comandi urlati dalle voci rauche dei capibanda che s’incrociano con quelli bestemmiati in tedesco, con le voci venete e lombarde dei bersaglieri, raffiche, ta-pum, bombe a mano, partigiani stracciati che dilagano sulla strada a far bottino verso gli autocarri grondanti di sangue (Angoscia 104)

In Erven l’individuazione esterna della tensione dei protagonisti («Il momento è emozionante») diventa cronaca («sono le undici e mezzo»). L’angolo visuale oggettivo riduce l’appostamento alla descrizione fattuale, denotativa (il lessico qui è esplicito: gli uomini «appostati», i due autocarri, l’ora dell’evento), dettata dal discrimine della veridicità. La scansione stessa delle fasi si ripromet- te chiarezza e precisione: “prima” i partigiani che si dispongono per il tiro, “poi” l’arrivo dei tede- schi, quindi la registrazione dell’ora del fatto, il commento sull’emozione dell’attacco. Con Angoscia il resoconto cede il passo all’immagine narrativa. L’appostamento non è enuncia- to, ma rappresentato. Il tam-tam di un cuore che batte contro uno strumento di morte e un bosco di occhi nascosti sostituiscono il fotogramma scoperto degli uomini in agguato. L’angolo visuale è soggettivo. La tensione si rivela per vie interne (la fila «guardinga», «il battito del cuore»). Pure l’imboscata è suggerita per immagini spezzate: prima la fila che sale con la circospezione di chi teme l’assalto, poi l’enunciazione preparatoria di un calcio di mitragliatore in attesa, infine la fiori- tura d’occhi segnale di presenze occulte, «in agguato». Sono i cespugli a raccontare l’avvenimento imminente. Gli elementi descritti sono compresenti, e il predominio dello stile nominale fa manca- re di una struttura salda il periodo, che ha appunto al centro il modo dell’indeterminazione, il gerundio «attendendo». La sintassi franta (elementi raccolti per asindeto nella scansione delle virgole, o per il ricorso alla congiunzione e ripetuta) sgrana le immagini ad una ad una, ma – a causa della mancanza di un nucleo principale – non le ingabbia in un ordinamento gerarchico. Esse sono restituite in blocco al lettore, a mimesi della sospensione, dell’attesa, della tensione che sale. Il contrasto voluto tra il battito del cuore e la fila guardinga, silenziosa, prepara l’esplosione della scena. Si verifichi allora la distanza profonda che gia separa Angoscia da Erven per lo svolgimento dell’imboscata:

Poi un crepitare fitto che da il via, un polverone dorato che s’alza sulla carrozzabile, sui tedeschi che s’abbattono, che si gettano fuori strada,comandi urlati dalle voci rauche dei capibanda che s’incrociano con quelli bestemmiati in tedesco, con le voci venete e lombarde dei bersaglieri, raffiche, ta-pum, bombe a mano, partigiani stracciati che dilagano sulla strada a far bottino verso gli autocarri grondanti di sangue131.

131 I. CALVINO, Angoscia in caserma, cit., p. 124.

311 II momento è emozionante: non c’e tempo di attendere; un copioso getto di bombe a mano, un fitto rafficare di mitragliatrici investe i malcapitati invasori che, stipati nei camions, un’estrei»a resistenza e parte saltano giù e si danno alla fuga. Allora i garibaldini si arrampicano sui camions grondanti sangue per fare bottino132.

In Angoscia l’impatto emotivo della battaglia (in Erven esplicitamente citato) si gioca tutto sul ver- sante uditivo. Un preciso effetto fonico e indotto sulla rappresentazione dai lemmi scelti a descriverla. Le consonanti esplosive o fricative (il preparatorio «BaTTiTodel cuore», il «CRePiTaRe FiTTo», i tede- schi che «s’aBBaTTono», la sequenza di «RaFFiche, Ta-Pum, BomBe a mano») stendono sull’insieme una patina onomatopeica, e infine si scambiano, almeno sul piano psicologico, con altre spie lessicali di forte impatto sonoro: i comandi uriati, le voci rauche, le bestemmie in tedesco e in generale il contrappun- to di voci dai timbri diversi, – venete e lombarde, in una babele di suoni. La strutturazione medesima dell’episodio concorre all’esito. All’altezza del modello stilistico in pre- cedenza utilizzato per l’appostamento, si procede per nuclei, per approssimazioni visuali successive, per frammenti dati da una enumerazione parallela sintatticamente sganciata da una proposizione prin- cipale. Gli elementi sono tra loro logicamente legati da schemi metonimici di causa-effetto. Al crepitare (della mitraglia) segue il polverone (determinato dai getto delle bombe): si mostra l’effetto senza nomi- nare la causa. Prevale la propagginazione descrittiva delle relative («che da»,«che s’alza», «che s’abbat- tono», «che si gettano») e delle preposizioni articolate («sulla carrozzabile», «sui tedeschi»; «con quelli bestemmiati», «con le voci etc»), il ricorso alle quali e una sottolineatura, un porre un nuovo tassello alla scena ed espanderla visivamente e uditivamente:

un crepitare fitto che dà il via un polverone dorato che s’alza sulla carrozzabile sui tedeschi che s’abbattono che si gettano fuori e i comandi urlati [… che s’incrociano con quelli bestemmiati [… ] con le voci. venete e lombarde raffiche ta-pum bombe a mano partigiani stracciati che dilagano in strada a far bottino […]

Si ritorni ad Erven per il confronto.

132 I. CALVINO, Le battaglie del comandante Erven, cit., p. 239.

312 La scansione meccanica delle fasi d’attacco, tutte esplicitate (il getto di bombe, le mitragliatrici…), l’articolazione cronachistica dell’esito, che si fa palese col computo ordinato, ragionieriaticamente tripartite di morti, fuggiaschi e feriti («parte… parte… parte…»); la scarsità connotante dell’aggetti- vazione, tengono sotto controllo, di proposito, la drammaticità potenziale della scena. Il resoconto tecnico delle fasi scavalca di necessita il racconto emotivo. L’azione resta pietrificatasul piano lette- rale dei segni. Le bombe, le raffiche o la carneficina non escono dalla routine dell’enumerazione seriale e referenziale. Il tono rimane neutro; ed è sul tono che si è esercitato il controllo dell’autore, preoccupato di salvaguardare in primis la storicità dei fatti nella loro successione, senza sviare l’attenzione su ricostruzioni che fuoriescono dal racconto orale, di testimonianza, che all’esistenza di Erven sta alla base. Il rigore cronachistico è cosi marcato che si introduce una voce esterna, fuori campo, ad annunciare giunto il «momento […] emozionante» di cui ci viene impedita la visione soggettiva. L’impatto emotivo dell’imboscata sui protagonisti viene enunciato, non rappresentato. Solo un ultimo dettaglio strappato alla cronaca dalla violenza dell’azione concede qualcosa all’im- magine connotata: e sono i «camions grondanti sangue», i quali colorano assai parzialmente uno scritto tutto votato all’istanza documentaria. La struttura di Erven trova dunque una corrispondenza precisa con Angoscia per l’ordinamento delle fasi dell’assalto. Ma laddove gli elementi rimanevano sottintesi per il procedimento metoni- mico usato, con Erven si ha una esplicitazione dettagliata. La sintassi fa inoltre scarso uso della subordinazione o delle strutture parallele “sganciate” che renderebbero compresente, e quindi meno giornalisticamente evidente, la successione dei fatti. Le espansioni descrittive si dipartono dalla proposizione reggente seguendo un disegno preciso e ordinato, rigido. Si noti lo schema:

Un copioso getto di bombe a mano un fitto rafficare di mitragliatrici investe i malcapitati invasori che…parte… parte… parte… Allora i garibaldini si arrampicano sui camion…

In Erven, poi, i partigiani (i «garibaldini», anche questo per un’esattezza cronachistica), verbal- mente poco connotati, si arrampicano sui camions; in Angoscia essi invece dilagano sulla strada, verso i camions, con un’impressione di forza numerica. In base alle regole adottate per Angoscia possiamo ora osservare la trasformazione successiva della c.87 del Sentiero nella c.86v. La c.87 parte con l’enunciazione di un «successo iniziale dovuto alla sorpresa in cui i partigiani hann’inferto duri colpi ai nemici» (XI 87,14). Il fattore-sorpresa dell’attacco deve ora venire reso implicito. I «cespugli che fioriscono di occhi in agguato di Angoscia (manifestazione narrativa e

313 soggettiva della “sorpresa”), sono mantenuti adeguatamente dallo scatto delle «valanghe umane» che traboccano «a valle dalle creste» e dai «voli di fuoco» che si alzano «dai ciglioni». È ancora il paesaggio a partecipare all’agguato. In più risulta sottolineata la componente visiva (nel racconto c’era il «polverone dorato» effetto delle bombe), che in c.87 era assente. Dall’“infliggere gravi ma generiche perdite ai tedeschi (in c.87) si è passati, secondo la lezione di Angoscia, a una descrizione piu articolata (per l’interlineare e la c.86v: «molti dei loro rimasti freddi nelle cunette dello strada- le»/»molti dei loro son rotolati nellecunette dello stradale»). A questa si accompagna la rovina dei «mezzi» di trasporto tedeschi, attuata descrivendo qualche camion in fiamme, ridotto in rottame; nel racconto si citavano esplicitamente le perdite, i «tedeschi che s’abbattono». Infine l’amplifica- zione dell’episodio del bottino, comune al racconto e alla sola versione interlineare, il quale rispon- de piu analiticamente al secco «catturando armi» del recit originale. Ma vi è un’altra zona del testo dattiloscritto che testimonia dell’influenza sotterranea di Erven sulle soluzioni stilistiche e referenziali fatte proprie da Calvino con la battaglia. Un luogo che di- mostra come certe soluzioni a portata di mano, ancora interferenti, non soddisfino più lo scrittore. Si confrontino le coordinate dell’episodio di Erven con la versione data nell’interlineare di c.87, poi espunta.

[…] i garibaldini si arrampicano sui camion grondanti sangue per fare bottino. […] Ma, mentre i partigiani sono sui camions, intenti al rastrellamento delle armi, odono crepitare raffiche di mitraglia provenienti dal bivio. Gli altri autocarri tedeschi […] battono con le loro mitraglie la strada […] tagliando ai garibaldini le vie di ritirata.

Poi >sopravvennero< son venuti rinforzi d’in giu, e gli ultimi partigiani rimasti sui camion a far bottino se li >[+++]< [videro] son visti arrivare a una svolta e >non riuscirono a scamparla< pochi son riusciti a scamparla. Ma erano solo gli ultimi,perchè i comandanti, avvertiti in tempo che arrivavano i rinforzi dei nemici (c.87 interl.)

I punti di contatto sono numerosi, tali da far considerare Erven come la matrice del relativo episodio del romanzo. Rimane canonica la situazione dei partigiani cui è preclusa la via di scampo, colti «su camion a far bottino» dai rinforzi nemici. Corrispondono per entrambi le coordinate spa- ziali del contrattacco fascista: in Erven i rinforzi provengono da un bivio, da un lato visivamente nascosto; nel romanzo i partigiani se li vedono arrivare «a una svolta», con la conseguenza di rimanere intrappolati e non “scamparla” (in Erven si tagliano loro «le vie di ritirata»). L’interlineare di c.87 dunque ripropone, ancora del 1947, uno scenario sedimentato nella me- moria operativa di Calvino, il quale continua a correggere fino alla versione di c.86v, dove spari- scono sia «il far bottino», «la svolta» e la strage di partigiani, approdando a uno scenario che final- mente s’allontana da quelli obsoletamente (almeno per lui) consueti.

314